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GABRIELE D'ANNUNZIO

 

GIOVANNI EPISCOPO

 

 

 

 

 

 

AMatilde Serao.

 

Illustresignoramia cara amicaquesto piccolo libro che io vi dedico non ha per meimportanza di arte; ma è un semplice documento letterario publicato a indicareil primo sforzo istintivo di un artefice inquieto verso una finale rinnovazione.

Fuscritto a Roma nel gennaio del 1891dopo quindici mesi di completo riposointellettuale trascorsi in gran parte fra ozii torpidi ed esercizii violentidentro una caserma di cavalleria. La persona di Giovanni Episcopo era già statada me osservata e studiata con intensa curiositàdue anni innanzi. Il filosofoAngelo Conti l'aveva conosciuta per la prima volta nel gabinetto d'un medicoall'ospedale di San Giacomo. Ioquel nobile filosofo e il pittore simbolicoMarius de Maria avevamo poi frequentato una mortuaria taverna della viaAlessandrina per incontrarci col doloroso bevitore. Alcune circostanze bizzarreavevano favorito il nostro studio. (Angelo Conti appunto aveva provveduto lasiringa e la morfina pel povero Battista!) Ma il raro materialeraccolto con lamaggior possibile esattezzaera rimasto grezzo in alcune pagine di note.

Voicosì costante e così fiera lavoratricenon conoscete forse i gravi turbamentiche porta nella conscienza dell'artefice una lunga interruzione del lavoro.Uscito dalla servitù militareio durai fatica a riprendere le anticheconsuetudini dello spiritoad acquistare una nozione precisa del mio nuovostato interiorea raccogliermiquasi direi a ripossedermi. Compresi alloracome sia profonda e inevitabile su noi l'azione pur degli estranei da cui tantediversità ci separanoe come sia più difficile preservare la nostra personamorale che il nostro corpo dai rudi contatti delle moltitudini per mezzo a cuiviviamo o passiamo. Nullamia cara amicanulla di quanto crediamo nostro ciappartiene.

Ilcavalleggere abituato a restare in sella dieci ore di séguito e a sciabolare incorsa il vento aveva una specie di ripugnanza fisica contro l'immobilità dellasediacontro l'irritante esercizio della scrittura. Alcune settimane plumbeepassarono su un malessere indefinibile nel quale spuntavano e si dissolvevano dicontinuo piccole energie fatuecome le piccole bolle nell'acqua mantenuta in unbollore leggero ma costante da un lento fuoco.

Mipareva che tutte le mie facoltà di scrittore si fossero oscurateindebolitedisperse. Mi sentivo in certe ore così profondamente distaccato dall'Artecosìestraneo al mondo ideale in cui un tempo avevo vissutocosì aridoche nessunainstigazione valeva a scuotermi dall'inerzia pesante e triste in cui midistendevo. Qualunque tentativo riescì vano: nessuna lettura valse afecondarmi. Le pagine prediletteche un tempo avevano provocato nel miocervello le più alte ebrezzeora mi lasciavano freddo. Di tutta la mia operapassata provavo quasi disgustocome d'una compagine senza vitalitàla qualenon avesse più alcun legame col mio spirito e pure mi premesse d'unintollerabile peso. Certi brani di stilein qualche mio libro di prosamifacevano ira e vergogna. Mi parevano vacue e false le più lucide forme verbaliin cui m'ero compiaciuto.

Maiartefice ripudiò la sua opera passata con maggior sincerità di disdegnopurnon avendo ancóra in sé l'agitazione dell'opera futura né la conscienza delnuovo potere.

Main noi esseri d'intelletto un lavorio occulto si compiele cui fasi lente nonsono percettibili talvolta neppure in parte dai più vigili e dai piùperspicaci. Se sul nostro intelletto pende di continuo la minaccia spaventevoleo d'una improvvisa lesione o d'una progressiva degenerazione degli organiincompenso questi medesimi fragili mutevoli organi sono mossi al serviziodell'Arte da attività misteriose e prodigiose che a poco a poco elaborano lamateria quasi amorfa ricevuta dall'esterno e la riducono a una forma e a unavita superiori. E l'una e l'altra possibilitàla tragica e la felicehannocomune il campo oscuro ed immensurabile della nostra inconscienza bruta.

Unasera di gennaiostando solo in una grande stanza un poco lugubreio sfogliavoalcune raccolte di note: materiale narrativo in parte già adoperato e in parteancóra vergine. Una singolare inquietudine mi teneva. Se bene io fossi occupatoalla letturala mia sensibilità era straordinariamente vigilante nel silenzio;e io potei osservarenel corso della letturache il mio cervello aveva unafacilità insolita alla formazione e alla associazione delle imagini piùdiverse. Non era quella la prima volta che accadeva in me il fenomenoma mipareva che mai avesse raggiunto un tal grado d'intensità. Incominciavo a vederein sensazione visiva realele apparenze imaginate. E l'inquietudine sifacevadi minuto in minutopiù forte.

Quandolessi sul frontespizio di un fascicolo il nome di Giovanni Episcopoin unattimocome nel bagliore d'un lampovidi la figura dell'uomo: non la figuracorporea soltanto ma quella moraleprima di aver sotto gli occhi le notepernon so qual comprensiva intuizione che non mi parve promossa soltanto dalrisveglio repentino d'uno strato della memoria ma dal segreto concorso dielementi psichici non riconoscibili ad alcun lume d'analisi immediata.

Alloraquell'uomo dolce e miserabilequel Christus patienssi mise a vivere (innanzi a me? dentro di me?)d'una vita così profonda che la mia vita stessa ne restò quasi assorbita.

Maisignoramai da creatura terrestre avevo ricevuta una più violenta commozione.Mai avevo assistito a un più alto e più spontaneo miracolo dell'intelligenza:alla perfetta ricostituzione d'un essere vitale nello spirito di un arteficerepentinamente invaso dalla forza creatrice. Mai Giovanni Episcopo era stato piùvivo.

Econ lui Giulio WanzerGinevraCiroil vecchiorespiravanopalpitavano:avevano i loro sguardii loro gestile loro vociun odore umanoqualche cosadi miserevolmente umano che doveva rendere indimenticabili i loro aspetti. Eciascun episodio del dramma doveva aver la potenza di suscitare un brivido nonsomigliante ad alcun altro. E quella corsa del padre e del figliosotto il soleferocenel silenzionel desertoa traverso i terreni ingombri di maceriefrale pozze di calce abbacinanti; e quel loro entrare nella casa mutaluminosa evacua; e quell'aspettazione misurata mortalmente dai palpiti delle loro arterie;e il grido selvaggioe il fanciullo avviticchiato al gran corpo di quel brutoe i colpi di coltello in quella schiena possentee lo schiantoe il gorgogliodel sangue; e l'agonia di Ciroin quella stanzanel crepuscoloal conspettodell'ucciso; e poinell'ore che seguironoil padre solo con quei duecadaveri... Ahmia cara amicaperché ebbi una sì fiera visione e feci una sìdebole opera? Perché su la pagina quel gran tutto di forza si attenuò e sispense?

Lamattina dopomi misi al lavoro. Lavorai con una strana energiaper alcunigiornisenza altra interruzione che quella del sonno e dei pasti. E avevosempre d'innanzi agli occhi vivaspecialmente nella nottela figura diGiovanni.

Eccomia cara amicala genesi di questo piccolo libro che io vi dedico. Penso chetroverete qui i primi elementi di una rinnovazione proseguita poi nell'Innocentecon più rigore di metodoesattezza di analisisemplicità di stile.

Tuttoil metodo sta in questa formula schietta: - Bisogna studiare gli uomini e le cose DIRETTAMENTEsenzatransposizione alcuna.

Machi vorrà studiare? Quanti ancóra in Italia intendono il significato di un talverbo? Quanti sentono la necessità di rinnovarsi? Quanti hanno fede nella loroforza e sicurezza nella loro sincerità?

Purenon mai come oggi fu imperioso il dilemma: - O rinnovarsi o morire.

Avoisignoraa voi che ricercando il meglio date in Italia l'esempio di unaoperosità così virilededico dunque un documento publicato a indicare ilprimo sforzo istintivo di un artefice inquieto; il quale tanto è appassionatodell'Arte che non può rassegnarsi a morire.

 

G.d'A.

 

Napoli:nell'Epifania del 1892.

 


 

Ego autemsum vermiset non homo;

opprobriumhominumet abjecto

plebis.Omnes videntes mederisunt me...

 

PSALMXXI78.

 

 

Judica mesecundum justitiam tuam.

 

PSALMXXXIV24.

 

Dunquevoi volete sapere... Che cosa volete saperesignore? Che cosa vi debbo dire?Che cosa? - Ahtutto! - Bisognerà dunque che io vi racconti tuttofindal principio.

Tuttofin dal principio! Come farò? Io non so più nulla; non mi ricordo più dinullaveramente. Come faròsignore? Come farò?

OhDio! Ecco... - Aspettatevi pregoaspettate. Abbiate pazienza. Abbiate un pocodi pazienza; perché io non so parlare. Se pure mi ricorderò di qualche cosanon ve la saprò raccontare. Quando ero tra gli uominiero taciturno. Erotaciturnoanche dopo che avevo bevuto: sempre.

Nonon sempre. Con luiparlavo; soltanto con lui. Certe sered'estatefuori di portao nelle piazzenei giardini publici... Metteva il suobraccio sotto il mioquel povero braccio scarnocosì esile che quasi non losentivo. E andavamo insiemeragionando.

Undicianni - pensatesignore - aveva soli undici anni; e ragionava come un uomoeratriste come un uomo. Pareva che sapesse già tutta la vitache soffrisse tuttele sofferenze. La sua bocca conosceva già le parole amarequelle che fannotanto male e che non si dimenticano!

Chidimentica qualche cosa? Chi?

Iovi dicevo: non so più nullanon mi ricordo più nulla... Ohnon è vero.

Miricordo di tuttodi tuttodi tutto. Capite? Mi ricordo delle sue paroledeisuoi gestidei suoi sguardidelle sue lacrimedei suoi sospiridei suoigridid'ogni atto della sua esistenzadall'ora che è nato all'ora che èmorto.

Èmorto. Sono già sedici giorni che è morto. E io vivo ancóra! Ma io debbomorire; quanto più presto è possibileio debbo morire. Il mio figliuolo vuoleche io vada. Tutte le notti vienesi siedemi guarda. È scalzopovero Ciro!Bisogna che io stia con gli orecchi tesi per accorgermi del suo passo.Continuamenteda che si fa buiosto in ascolto; continuamente. Quando mette ilpiede su la sogliaè come se lo mettesse sul mio cuore; ma piano pianosenzafarmi maleohtanto leggero... Povera anima!

Èscalzooratutte le notti. Macredetemimai mai nella sua vitamai èandato scalzo. Ve lo giuro: mai.

Vidirò una cosa. State bene attento. Se vi morisse una persona carafate chenella cassa non le manchi nulla. Vestitela voise potetecon le vostre mani.Vestitela tutta quantaminutamentecome se dovesse riviverelevarsiuscire.Nulla deve mancare a chi se ne va dal mondo; nulla. Ricordatevene.

Eccoguardate queste scarpette. - Avete figliuoli? - No. Ebbenevoi non potetesaperevoi non potete intendere che cosa sieno per me queste due scarpettelogore che hanno contenuto i suoi piediche hanno conservata la formadei suoi piedi. Io non saprò dirvelo mainessun padre ve lo saprà maidire; nessuno.

Inquel momentoquando entrarono nella stanzaquando vennero per portarmi viatutti i suoi abiti non erano làsu la sediaaccanto al letto? Perchéio non cercai altro che le scarpeansiosamentesotto il lettosentendomiscoppiare il cuore al pensiero di non trovarle; e le nascosicome se dentro cifosse rimasto un poco della sua vita? Ahvoi non potete intendere.

Certemattine fredded'invernoall'ora della scuola... Soffriva di gelonipoverobambino! D'inverno aveva i piedi tutti piagatisanguinanti. Io gli mettevo lecalzeio gli mettevo le scarpe. Sapevo fare tanto bene. Poinell'allacciarechino a terrasentivo che le sue mani appoggiate su le miespalle tremavano già di freddo. E io mi indugiavo... Voi non potete intendere.

Alloraquando morìera questo l'unico paio; questo che vedete. E io glielo tolsi. Ecertoegli fu seppellito cosìcome un poverello. Chi gli voleva benefuoriche il padre?

Oratutte le sereio prendo queste due scarpette e le poso l'una accanto all'altrasu la sogliaper lui. S'egli le vedessepassando? Le vede forsema non letocca. Sa forse che io diventerei pazzose la mattina non le ritrovassi làalloro postol'una accanto all'altra...

Micredete pazzo? Ahno? Mi pareva di leggere ne' vostri occhi... Nosignore; nonsono ancóra pazzo. Questo che vi raccontoè vero. Tutto è vero. Imorti ritornano.

Ritornaanche l'altroqualche volta. Orribile! Ohohohorribile!

Vedete:intere notti ho tremato cosìho battuto i dentisenza potermi frenare; hocreduto che per il terrore mi si staccassero le ossaalle giunture; ho sentitoi capelli su la fronte come aghisino alla mattinaduridiritti. Non ho tuttii capelli bianchi? Dite: non sono bianchi?

Graziesignore. Vedete: non tremo più. Sono malatomolto malato. Quanti giorni divita mi dareste ancóraa giudicarmi dall'aspetto? Voi lo sapete: io debbomorirequanto più presto è possibile.

Masìsìeccosono calmoperfettamente calmo. Vi racconterò tuttofin dalprincipiocome vorrete: tuttoper ordine. La ragione non m'ha abbandonato ancóra.Credetemi.

Eccodunque. Fu in una casa dei quartieri nuovi; in una specie di pensioneprivatadodici o tredici anni fa. Eravamo una ventina d'impiegatitra vecchi egiovani. Andavamo là a desinarela serainsiemea una stessa oraa unastessa tavola. Ci conoscevamo tuttipiù o menobenché non fossimo tuttidello stesso ufficio. Là conobbi WanzerGiulio Wanzerdodici o tredici annifa.

Voi...vedeste... il cadavere? - Non vi parve che ci fosse qualche cosa distraordinario in quel visonegli occhi? - Ahma gli occhi erano chiusi... Nontutt'e dueperò; non tutt'e due. Io lo so. Debbo morirealmeno per levarmidalle dita l'impressione di quella palpebra che resisteva... La sentola sentoquisempre; come se mi si fosse attaccata qui un poco di quella pelle.Guardate. Questa non è una mano che ha già incominciato a morire? Guardatela.

 

Sì;è vero. Non bisogna pensarci. Perdonatemi. Ora andrò dritto alla fine. Doveeravamo rimasti? Avevo incominciato tanto bene; esùbitomi sono smarrito!Deve essere l'effetto del digiuno; non altrocertonon altro. Da quasi duegiorni non prendo nulla.

Primami ricordoquando ero a stomaco vuotoavevo una specie di delirio leggerotanto strano. Pareva che vaneggiassi: vedevo delle cose...

Aheccomi. Avete ragione. Dicevo dunque che là conobbi Wanzer.

Dominavatuttilà dentro; soverchiava tutti; non soffriva contradizioni. Alzava semprela voce; qualche voltale mani. Non passava seraquasich'egli non avesse unalterco. Era odiato e temutolà dentrocome un tiranno. Tutti parlavano maledi luimormoravanocongiuravano; a pena egli apparivaanche i più rabbiositacevano. I più timidi gli sorridevanolo accarezzavano. Che aveva quell'uomo?

Ionon so. A tavolagli stavo quasi di contro. Non volendogli tenevo gli occhiaddossocontinuamente. Provavo una sensazione stranache io non vi soesprimere: un misto di repulsione e di attrazioneindefinibile. Era qualchecosa come un fascino cattivoassai cattivoche quell'uomo forte sanguigno eviolento mandava verso di me tanto deboleanche allorae malaticcioeirresoluto; everamenteun poco vile.

Unaserasu la fine del desinaresorse una discussione tra Wanzer e un certoIngletti che stava di posto accanto a me. Secondo il solitoWanzer alzava lavoce e s'adirava. Inglettiforse reso audace dal vinogli teneva testa. Iorimanevo quasi immobilecon gli occhi fissi sul mio piattonon osando levarli;e lo stomaco mi s'era chiusoorribilmente. Partì qualche parola ingiuriosa.D'un trattoWanzer afferrò un bicchiere e lo scagliò contro l'avversario. Ilcolpo fallì; e il bicchiere venne a spezzarsi su la mia frontequidovevedete la cicatrice.

Comemi sentii per la faccia il sangue caldopersi la conoscenza. Quando la ripresiavevo già il capo fasciato. Wanzer era làcon un'aria dolente; mi dissequalche parola di scusa. Mi riaccompagnò a casacol dottore; assistette allaseconda medicatura; volle rimanere nella mia stanza fino a tardi. La mattinadopotornò. Tornò spesso. E incominciò allora la mia schiavitù.

Ionon potevo avere verso di lui altra attitudine che quella di un cane impaurito.Quando entrava nella mia stanzaegli pareva il padrone. Apriva i miei cassettisi pettinava col mio pettinesi lavava le mani nella mia catinellafumavanella mia pipafrugava tra le mie carteleggeva le mie lettereportava viagli oggetti che gli piacevano. Di giorno in giornola sua prepotenza divenivapiù incalzantee di giorno in giorno la mia anima si avvilivasirimpiccioliva. Non ebbi più volontà. Mi sottomisi pienamentesenza proteste.Colui mi levò ogni senso di dignità umanacosìd'un trattocon la stessafacilità con cui mi avrebbe strappato un capello.

Eio non ero istupiditono. Avevo conscienza di tutto ciò che facevounaconscienza lucidissima di tutto: della mia debolezza e della mia abiezione; especialmentedell'impossibilità assolutain cui erodi sottrarmi alpotere di quell'uomo.

Ionon vi so definireper esempioil sentimento profondo e oscuro che mi venivadalla cicatrice. E non vi so spiegare il gran turbamento che m'invasequandoun giornoil mio carnefice mi prese la testa fra le mani per guardare questacicatrice che era ancóra tenera e tutta accesa; e sopra ci passò le dita piùvolte; e poi disse:

-È chiusa perfettamente. Fra un mese non si vedrà più nulla. Puoi ringraziareIddio.

Miparve in veceda quel minutodi avere in fronte non una cicatrice ma un bolloservileun segno vergognoso e visibilissimoper tutta l'esistenza.

Iolo seguii dovunque egli volle; lo aspettai per ore intere su la stradadavantia una porta; vegliai le notti a ricopiare per lui le carte del suo ufficio;andai a portare le sue lettere da un capo all'altro di Roma; cento voltesaliile scale del Monte di Pietàcorsi di usuraio in usuraiotrafelatopertrovargli una somma che lo doveva salvare; cento volterimasi dietro la suasediain una biscafino all'albamorto di stanchezza e di nauseatenutodesto dagli scoppii delle sue bestemmie e dal fumo acre che mi mordeva la gola;ed egli s'impazientiva della mia tossee m'accusava della sua sfortuna; e poise aveva perdutouscendoper i vicoli desertiin mezzo alla nebbiamitrascinava come uno stracciogesticolando e imprecandofinché non sorgeva auna svolta un'ombra che ci offriva l'acquavite.

Ahsignorechi saprà svelarmi questo misteroprima ch'io muoia? Ci sono dunquesu la terra uomini cheincontrando altri uominipossono farne quel chevoglionopossono farli schiavi? Si può dunque togliere a uno la volontà comegli si può togliere di tra le dita un filo di paglia? Si può fare questosignore? Ma perché?

Davantial mio carneficenon ho mai potuto volere. E pure avevo l'intelligenza;e pure avevo il cervello pieno di pensieri; e avevo letto molti librie sapevomolte cosee comprendevo molte cose. Una cosauna cosasopra tuttecomprendevo: - che io ero perdutoirremissibilmente. Avevo di continuoin fondo a meuno sbigottimentoun tremore; eda quella sera della feritam'era rimasta la paura del sanguela visione del sangue. Le cronache deigiornali mi turbavanomi toglievano il sonno. Certe nottiquando rientrandocon Wanzer passavo per un andito buioper una scala buiae i fiammiferistentavano ad accendersimi sentivo un brivido nella schiena e i capellicominciavano a diventarmi sensibili. Il mio pensiero fisso era cheuna notte ol'altracolui mi avrebbe trucidato.

Nonfu così. Fuin vecequel che non poteva essere. Io pensavo: - morireper quelle maniuna notteatrocemente- ecco il mio destinosicuro. Invece...

Maascoltatemi. Sequella seraWanzer non fosse venuto a cercare nella stanza diCiro; se io non avessi veduto sul tavolo il coltello; se qualcuno nonfosse entrato dentro di meall'improvvisoper darmi quel terribile impeto;se...

Ahè vero. Avete ragione. Siamo ancóra al principio e io vi parlo della fine! Voinon potrete capire se prima io non vi racconterò tutto. E puresono giàstanco; mi confondo già. Non ho più nulla da diresignore. Ho la testaleggera leggeracome una vescica piena d'aria. Non ho più nulla da dire: Amenamen.

 

Eccoè passato. Basta. Grazie. Voi siete molto buono; avete pietà di me. Nessuno hamai avuto pietà di mesu la terra.

Misento meglio; posso seguitare. Vi dirò di leidi Ginevra.

Dopoil fatto del bicchierealcuni dei nostri compagni abbandonarono la pensionealtri dichiararono che sarebbero rimasti se fosse stato escluso Giulio Wanzer.Così Wanzer ebbelàdalla padrona di casa una specie di congedo. Dopo averestrepitato contro tuttisecondo il solitosi ritirò. E quando io fui in gradodi uscireegli volle condurmi seco; pretese che io lo seguissi.

Permolto tempoandammo vagando di trattoria in trattoriasvogliatamente. Nullaera più tristeper medi quell'ora che per gli altri affaticati è unsollievo e qualche volta un oblio. Mangiavo a penasforzandomiprovando undisgusto crescente nell'udire il romore che facevano le mascelle del miocommensale: mascelle da mastinoformidabiliche avrebbero stritolatol'acciaio. E a poco a poco incominciava ad accendersi in me la setequella sete cheuna volta accesadura fino alla morte.

Mauna sera Wanzer mi lasciò libero. E il giorno dopo mi annunziò di averescoperto un luogo piacevolissimodove egli voleva sùbito condurmi.

-Ho trovato. Vedrai. Sarai contento.

Lanuova pensionein fattiera forse migliore dell'antica. Le condizionimi convenivano. C'erano là alcuni de' miei compagni d'ufficio. Parecchi altrianchenon m'erano ignoti. Rimasi. Né avrei potutovoi lo sapetenonrimanere.

Quellaprima seracome fu portata la minestra in tavoladue o tre insiemedomandaronocon una vivacità singolare:

-E Ginevra? Dov'è Ginevra?

Furisposto che Ginevra era malata. Allora tutti s'informarono della malattiatutti mostrarono un gran rincrescimento. Ma si trattava di cosa leggera. Nellaconversazioneil nome della assente passò su tutte le boccheproferito inmezzo a frasi ambigue che tradivano un desiderio sensuale da cui tutti quegliuominivecchi e giovanierano turbati. Io cercavo di cogliere quelle parole daun capo all'altro della tavola. Un giovine libertinodi contro a meparlòdella bocca di Ginevraa lungoaccalorandosi; e guardava menel parlareperché io l'ascoltavo con un'attenzione straordinaria. Mi ricordo che allora misi formò nell'imaginazione la figura dell'assentepoco diversa da quella chein realtà poi vidi. Mi ricordo sempre del gesto espressivo che fece Wanzer edell'atteggiamentoquasi direi d'ingordigiache presero le sue labbra nelpronunziare una frase oscena in dialetto. E mi ricordo cheuscendo di làiogià mi sentivo addosso il contagio del desiderio per quella donna non vedutaeuna leggera inquietudineuna certa esaltazione molto stranaquasi profetica.

Uscimmodi là insiemeioWanzer e un amico di Wanzerun tal Dobertiquello stessoche aveva parlato della bocca. Camminandoi due seguitavano a discorrere divoluttà grossolane; e si fermavano di tratto in tratto per prolungare le risa.Io rimanevo un poco indietro. Una malinconia quasi affannosaun'abondanza dicose oscure e confuse mi gonfiava il cuore già tanto avvilito e stretto.

Ancóradopo circa dodici anniio mi ricordo di quella sera. Non ho dimenticato nulla;neppure la particolarità più insignificante. Io so oracome sentiiallorache in quella sera fu decisa la mia sorte. Da chi mi veniva dunquel'avviso?

Èpossibile? È possibile? Un semplice nome di donnatre sillabe sonore apronod'innanzi a voi un abisso inevitabileche voi vedeteche voi sapeteinevitabile. È possibile questo?

Presentimentochiaroveggenzavista interiore... Parole! Parole! Io ho letto nei libri. Non ècosìnon è così. Vi siete mai guardato dentro? Avete mai sorvegliata lavostra anima?

Voisoffrite. La vostra sofferenza vi pare nuovanon mai provata? Voigioite. La vostra gioia vi pare nuovanon mai provata? Erroreillusione. Tutto è stato provatotutto è accaduto. La vostra anima si componedi milledi centomila frammenti d'anime che hanno vissuta tutta la vitachehanno prodotto tutti i fenomeni ed hanno assistito a tutti i fenomeni. Capitedove voglio giungere? Ascoltatemi beneperché questa che vi dico è la verità;la verità scoperta da uno che ha passato anni ed anni a guardare dentro di sécontinuamentesolo in mezzo agli uominisolo. Ascoltatemi beneperché questaè una verità assai più importante dei fatti che volete conoscere. Quando...

Un'altravolta? Domani? Perché domani? Non volete dunque che io vi spieghi il miopensiero?

Ahi fattii fattisempre i fatti! - I fatti non sono nullanon significanonulla. C'è qualche cosa al mondosignoreche vale assai più.

 

Ebbene:un altro enigma. Perché Ginevra in realtà somigliava quasi fedelmente allafigura che m'era balenata dentro? Lasciamo stare. - Dopo tre o quattro giornid'assenzaella rientrò nella sala portando una zuppiera che le velava di fumola faccia.

Sìsignore: era una camerieraserviva una mensa d'impiegati.

L'avetevista? L'avete conosciuta? Le avete parlato? Ed ella vi ha parlato? Anche voicertoavete provato quel turbamento improvviso ed inesplicabilese ella vi hatoccato una mano.

Tuttigli uomini l'hanno desideratatutti la desideranola vogliono; la vorranno ancóra.Wanzer è morto; ella avrà ancóra un amantecento amantifinché non saràvecchiafinché non le cadranno di bocca i denti. Quando ella passava per laviail principe nella sua carrozza si voltava indietroil pezzente si fermavaa guardarla. In tutti gli occhi ho sorpreso lo stesso lampoho letto lo stessopensiero.

Edè mutatamolto mutata. Allora aveva vent'anni. Mi sono sforzato sempreinutilmente di rivederladentro di metale quale la vidi la primavolta. Là sta il segreto. Non avete mai notato questo? Un uomoun animaleunapiantauna qualunque cosa vi dà il suo vero aspetto una volta solaossia nelmomento fugace della prima percezione. È come se vi desse la sua verginità. Sùbitodoponon è più quella; è un'altra cosa. La vostra animai vostri nervi latrasformanola falsanola oscurano. Addio.

Ebbeneio ho sempre invidiato l'uomo che vedeva per la prima volta quellacreatura. M'intendete? Forse nonon m'intendete. Voi pensate che io vaneggioche mi confondo e che mi contraddico. È inutile. Lasciamo stare. Torniamo aifatti.

...Unastanza illuminata dal gastroppo caldad'un calore aridoche dissecca lapelle; e l'odore e il vapore delle vivande; e un romore confuso di vocie sututte le voci quella aspra di Wanzerche rende cruda ogni parola. Poiditratto in trattouna interruzioneun silenzio che mi sembra spaventevole. Euna mano mi sfioraprende il piatto davanti a mene posa un altro; mi suscitaun brividocome se mi accarezzasse. Tuttiintorno alla tavolasuccessivamenteprovano il medesimo brivido: visibile. E il calore divienesoffocante; gli orecchi si accendonogli occhi luccicano. Un'espressione bassaquasi bestialeappare nelle facce di quegli uomini che hanno mangiato e bevutoche hanno raggiunto l'unico scopo della loro vita quotidiana. L'emanazione dellaloro impurità mi ferisce così acutamente che io credo di venir meno. Miraccolgo nella mia sediaritiro i gomiti per aumentare la distanza tra me e imiei vicini. Una voce gridatra lo schiamazzo:

-Episcopo ha i dolori di ventre.

Un'altragrida:

-No; Episcopo è in sentimento. Non avete veduto che viso fa quandoGinevra gli muta il piatto?

Iotento di ridere. Alzo gli occhie incontro quelli di Ginevra fissi su di me conun'espressione ambigua.

Ellaesce dalla stanza. Allora Filippo Doberti fa una proposta buffonesca.

-Cari mieinon c'è altro scioglimento che questo. Uno di noi la sposa... perconto degli altri.

Nondice precisamente così. Dice la parola brutale; indica l'attola funzionedegli altri.

-Ai vóti! Ai vóti! Bisogna eleggere il marito.

Wanzergrida:

-Episcopo!

-Ditta Episcopo e C.

Loschiamazzo cresce. Rientra Ginevrache forse ha udito. Sorrided'un sorrisocalmo e sicuroche la fa sembrare intangibile.

Wanzergrida:

-Episcopofa la tua domanda.

Duealtricon gravità studiatasi avanzano e domandano in mio nome a Ginevra lamano.

Ellarispondecon il solito sorriso:

-Ci penserò.

Edi nuovo io incontro il suo sguardo. E non so veramente se si tratta di mesesi parla di mese io sono quel tale Episcopo di cui si ride. E non riesco aimaginare l'espressione del mio viso...

 

Unsognoun sogno. Tutto quel periodo della mia vita è come un sogno. Èimpossibile che voi possiate comprendere o imaginare qual senso io avessi delmio essere e qual conscienza degli atti che io andava compiendo. Rivivevoinsognouna parte di vita già vissuta; assistevo alla ripetizione inevitabiled'una serie di avvenimenti già avvenuti. Quando? Chi lo sa? Aggiungete che ionon era sicuro di essere io. Spesso mi pareva come di avere smarrita la miapersonalità; talvoltadi averne una artificiale. Che misteroi nervidell'uomo!

Abbrevio.Una seraGinevra si licenziò; disse che lasciava il servizio; che ci lasciava;disse che non si sentiva beneche sarebbe andata a Tivoliche sarebbe rimastalà qualche mese da sua sorella. Tuttiall'addiole diedero la mano. Ellaripeteva a tuttisorridendo:

-A rivederci! A rivederci!

Ea meridendo:

-Noi siamo promessisignor Episcopo. Se ne ricordi.

Fuquella la prima volta ch'io la toccai; e fu quella la prima volta ch'io laguardai negli occhi con l'intenzione di penetrarla. Ella rimase per me unsegreto.

Lasera dopoil pranzo fu quasi tetro. Tutti parevano come delusi. Wanzer disse:

-E purel'idea di Doberti non era cattiva.

Alcuniallorasi volsero a me e prolungarono stupidamente le derisioni.

Lacompagnia di quegli idioti mi diveniva insopportabile; ma io non cercai diallontanarmi. Seguitai a frequentar la casa dovein mezzo alle ciarle e allerisapotevo alimentare le mie imaginazioni oscure e dolci. Per molte settimanetra le peggiori angustie materialitra le umiliazionile inquietudini e iterrori della mia vita schiavaio provai tutte le angosce dell'amore piùdelicate e più violente. A ventotto annimi si schiudeva nell'animaall'improvviso una specie di adolescenza tardivacon tutti i languoricontutte le tenerezzecon tutte le lacrime dell'adolescenza...

Ahsignoreimaginate questo miracolo in un essere come il miogià vecchioinariditodisseccato fino al fondo. Imaginate un fiore impreveduto che spuntiin cima a uno stecco.

Unaltro avvenimentostraordinarioinaspettatomi stupì e mi sconvolse. Già daalcuni giorni Wanzer mi pareva più duropiù irascibile del solito. Avevapassato le cinque o sei ultime notti in una bisca. Una mattina era salito nellamia stanza livido come un cadaveres'era gittato su una sedia; due o tre volteaveva mostrato di voler parlare; poid'un trattorinunziandose n'era uscitosenza rivolgermi neppure una parolasenza rispondermisenza guardarmi.

Inquel giorno medesimonon lo vidi più. A pranzo non lo vidi. Il giorno seguentenon lo vidi.

Eravamoa tavolaquando entrò un certo Questoriun collega di Wanzer; e disse:

-Non sapete? Wanzer è fuggito.

Daprincipionon compresi bene o non credetti; ma il cuore mi saltò alla gola.

Alcunidomandarono:

-Che dici? Chi è fuggito?

-WanzerGiulio Wanzer.

Nonsoveramente; quel che provai; ma certo quella mia prima agitazione in granparte fu di gioia. Feci uno sforzo per contenermi. E udii allora tutti irisentimentitutti i rancoritutti gli odii repressi erompere contro l'uomoche era stato il mio padrone.

- E tu? - mi gridò uno dei feroci. - E tu nonparli? Non eri il domestico di Wanzertu? Non gli hai portate le valigie alla

stazione?

Unaltro mi disse:

-Sei stato marcato in fronte da un ladro. Farai carriera.

Eun altro:

-Al servizio di chi ti mettiora? Passi alla questura?

Cosìm'insultavanoper il piacere di farmi maleperché mi sapevano vile.

Mialzaime ne andai. Me ne andai per le stradevagandoalla ventura: liberoliberolibero al fine!

Erauna notte di marzotutta serenaquasi tiepida. Salii per le Quattro Fontanevoltai verso il Quirinale. Cercavo i luoghi larghi; volevo bere in un solorespiro una immensità d'ariaguardare le stelleascoltare il rumoredell'acquafare qualche cosa di poeticosognare un avvenire. Continuamenteripetevo dentro di me: - Liberolibero; io sono un uomo libero. - Mi teneva unaspecie di ebrezza. Non potevo ancóra riflettereraccogliere i miei pensieriesaminare il mio stato. Mi venivano delle voglie puerili. Avrei voluto compieremille atti in una volta per constatare la mia libertà. Passando d'innanzi a uncaffèmi giunse un'ondata di musica e mi rimescolò sino in fondo. Entrai atesta alta. Mi pareva di avere un'aria fiera. Ordinai del cognac; fecilasciare la bottiglia sul tavolone bevvi due o tre bicchierini.

Sisoffocavain quel caffè. L'atto del levarmi il cappello mi rammentò lacicatricemi risvegliò nella memoria la frase crudele: - Sei marcato in fronteda un ladro. - Come mi pareva che tutti mi guardassero in fronte e notassero ilsegnopensai: - Che crederanno? Crederanno forse che sia una ferita ricevuta induello. - E ioche non mi sarei mai battutomi compiacqui in questo pensiero.Se qualcuno fosse venuto a sedersi accanto a me e avesse attaccato discorsoiocerto avrei trovato il modo di raccontargli il duello. Ma non venne nessuno.Dopo qualche tempovenne un signore a prendersi la sedia ch'era di contro a medall'altra parte del tavolo. Non mi guardònon mi chiese il permesso; non badònel tirarlase io ci poggiavo i piedi. Fu uno sgarbo; è vero?

Usciimi rimisi per le stradealla ventura. L'ebrezza cadded'un tratto. Mi sentiiprofondamente infelicesenza sapere bene perché. A poco a pocounainquietudine vaga spuntò da quello smarrimento; e l'inquietudine crebbesi acuìmi suggerì un pensiero: - Se egli fosse ancóra a Romanascosto? Se egliandasse in giro per le stradetravestito? Se m'aspettassedavanti alla portaper parlarmi? Se m'aspettasseal buioper le scale? - Ebbi paura; mi voltaidue o tre volte indietroper accertarmi di non essere seguìto; entrai in unaltro caffècome in un rifugio.

Tardiassai tardimi risolsi ad avviarmi verso la mia casa. Tutte le apparenzetuttii rumori m'erano causa di sbigottimento. Un uomo disteso sul marciapiedinell'ombrami diede la visione di un cadavere. - Ahperché non si è ucciso?- pensai. - Perché non ha avuto il coraggio di uccidersi? E pureera la solacosa ch'egli doveva fare. - M'accorsi allora che la notizia della mortemeglioche quella della fugami avrebbe pacificato.

Dormiipoco e d'un sonno inquieto. Ma la mattinaa pena aperte le imposteun senso disollievo incominciò di nuovo a diffondermisi per tutto l'essere: un sensoparticolareche voi non potete comprendereperché non siete mai statoschiavo.

Ebbiall'ufficiominute informazioni su la fuga di Wanzer. Si trattava d'irregolaritàgravissime e d'una sottrazione di valori alla Tesoreria centraledov'egli eraimpiegato da qualche anno. Era stato spiccato contro di lui un mandato dicatturama senza effetto. Qualcuno credeva di sapere ch'egli aveva potutomettersi già in salvo.

Allorasicuramente liberoio non vissi che pel mio amorepel mio segreto. Mi parevaquasi di essere in convalescenza; avevo del mio corpo un senso più leggeromeno increscioso; avevo una facilità quasi infantile alle lacrime. Gli ultimigiorni di marzoi primi giorni d'aprile ebbero per me dolcezze e tristezze ilcui solo ricordoora che muoiomi consola dell'esser nato.

Perquel solo ricordosignoreio perdono alla madre di Ciroalla donna che ci hafatto tanto male. Voi non potete intenderesignoreche cosa siaper un uomoindurito e pervertito dal patimento e dall'ingiustiziala rivelazione dellapropria bontà nascostala scoperta d'una vena di tenerezza nell'intimo dellapropria sostanza. Voi non potete intendere; e forse neppur credere quel chedico. Ebbeneio lo dico. In certi momentiDio mi perdoniio ho sentito in mequalcosa di Gesù. Io sono stato il più vile e il più buono degli uomini.

Vialasciatemi piangere un poco. Vedete come scorrono le mie lacrime? In tanti annidi martirio ho imparato a piangere cosìsenza singhiozzisenza sospiripernon essere uditoper non affliggere la persona che mi amavaper non tediare lapersona che mi faceva soffrire. Pochial mondosanno piangere così. Ebbenesignorequesto almeno mi sia contatonella vostra memoria. Diretequando saròmortoche il povero Giovanni Episcopo seppe almeno piangere in silenziotuttala sua vita.

 

Comefu che quella mattina di domenica (domenica delle Palme) io mi trovai su la viadi Tivolinel tramway? Veramentene ho un ricordo incerto. Fu unaccesso di demenza? Fu l'atto di un sonnambulo? Veramentenon so.

Andaiverso l'ignotomi lasciai trascinare dall'ignoto. Ancóra una voltail sensodella realtà mi sfuggiva. Mi pareva d'essere circondato come d'un'atmosferaparticolare che m'isolasse dal mondo esterno. E questa mia sensazione era nonsoltanto visualema cutanea. Io non so esprimermi. La campagnaper esempiolacampagna che attraversavomi pareva indefinitamente lontanaseparata da me perun intervallo incalcolabile...

Comepotreste voi rappresentarvi uno stato mentale così straordinario? Quanto io videscrivo deve sembrarvi necessariamente assurdoinammissibileinnaturale.Ebbenepensate che io ho vissuto fino ad oggi in questi disordiniin questidisturbiin queste alterazioniquasi di continuo! Parestesiedisestesie... Mihanno anche detto i nomi dei miei mali. Nessuno però mi ha potuto guarire. Sonorimasto per tutta la vita su l'orlo della pazziaconsapevolecome un uomochinato su un abissoaspettando da un minuto all'altro la vertigine estremalagrande oscurità.

Voiche pensate? Perderò la ragioneprima di chiudere gli occhi? C'è qualchesegno nella mia facciain quello che dico? Vi siete accorto di nulla?Rispondetemi sinceramentecaro signore; rispondetemi.

Ese non dovessi morire! Se dovessi sopravvivere a lungoin un manicomiomentecatto!

No;vi confesso che non è questo il mio timore vero. Voi sapete... che essivengonola notteambedue. Una nottesicuramenteCiro si rincontrerà con l'altro:io lo solo prevedo. E... allora? - Lo scoppio della furiala pazzia furiosanel buio... - Mio Diomio Dio! Questa sarà la mia fine?

 

Allucinazionesì; niente altro. Dite bene. Ohsìsìdite bene: basterà un lume perchéio sia tranquilloperché io dorma profondo; sìsìun lumesemplicementeun lume. Graziecaro signore.

Dov'eravamo?- Ahgiàa Tivoli.

...Unlezzo acuto d'acque sulfuree; e poi da per tuttointornoolivi oliviboschidi olivi; e in me la strana sensazione primitiva che si disperde a poco a pocoquasi nel vento della corsa. Discendo. La gente è per le vie; le palmeluccicano al sole: le campane suonano. Io so che la incontrerò.

-Oh! signor Episcopo! Come qua?

Èla voce di Ginevra; è Ginevracon le mani tesedavanti a me sconvolto.

-Perché tanto pallido? È stato male?

Ellami guarda e sorrideaspettando che io riesca a parlare. È questa la donna chegirava intorno alla tavolanella stanza piena di fumosotto la luce del gas?è possibile che sia questa?

Iobalbettoin finequalche parola.

Ellainsiste:

-Ma come qua? Che sorpresa!

-Qua per vederla.

-Dunque si ricorda che siamo promessi?

Ellaride e soggiunge:

-Ecco mia sorella. Venga con noi alla chiesa. Starà con noioggi; non è vero?Farà il fidanzato. Dica di sì.

Ègaialoquacepiena di cose imprevedutepiena di seduzioni nuove. È vestitasemplicementesenza pretesama con graziaquasi con eleganza. Mi domandanotizia degli amici.

-E quel Wanzer!

Ellaha saputo tutto da un giornaleper caso.

-Loro due erano molto amici. No?

Ionon rispondo. Succede un breve silenzio; ed ella pare pensierosa. Entriamo nellachiesa fiorita di palme benedette. Ella s'inginocchia accanto alla sorellaedapre un libro di preghiere. Iodi dietroin piedile guardo il collo; e lascoperta di un piccolo segno bruno mi dà un fremito ineffabile. Nel momentomedesimoella si volge un poco e mi manda dall'angolo dell'occhio unascintilla.

Lamemoria del passato è abolital'inquietudine del futuro è sopita. Non c'èche l'ora presente; non c'è su la terraper meche quella donna. Senza dileinon è più possibile altro che morire.

Uscendosenza parlare ella mi offre una palma. Io la guardosenza parlare; e mi sembrache per quello sguardo ella abbia tutto compreso. C'incamminiamo verso la casadella sorella. Sono invitato a salire. Ginevra mi diceandando verso unbalcone:

-Vengavenga un poco quia godere il sole.

Siamosul balconel'uno accanto all'altra. Il sole c'investe; il rombo delle campaneci passa sul capo. Ella dice pianocome parlando a sé stessa:

-Chi l'avrebbe mai pensato!

Ilcuore mi si gonfia d'una tenerezza smisurata. Non reggo più. Le domandoconuna voce irriconoscibile:

-Siamo dunque promessi?

Ellataceper un poco. Poi rispondepianoarrossendo a pena a penaabbassando gliocchi:

-Vuole? Ebbenesìsiamo.

Cichiamanodi dentro. C'è il cognato; c'è qualche altro parente; ci sono lebambine. Io facciodavveroil fidanzato! A tavolaio e Ginevra siamo vicini.A un certo punto ci prendiamo le manisotto la tovaglia; e io credo di venirmenotanto la voluttà mi pare acuta. Il cognatola sorellai parentiditratto in trattomi guardano con una curiosità mista di stupore.

-Ma come mai nessuno ne sapeva niente?

-Ma come mai tuGinevranon ce ne avevi ancóra detto niente?

Sorridiamoimbarazzaticonfusistupiti anche noi di quel che va accadendo con la facilitàe l'assurdità d'un sogno...

Sìassurdoincredibileridicolo; sopra tuttoridicolo. Ma è accadutoin questomondotra un uomo e una donna di questo mondotra me Giovanni Episcopo e lavivente Ginevra Canalecosìper l'appunto come io ve l'ho raccontato.

 

Ahsignorevoi potete riderese volete. Non mi offenderò.

Lafarsa tragica... Dov'è che ho letto questo? - Veramentenulla di piùridicolonulla di più ignobile e nulla di più atroce.

Ioandai dalla madreandai a casa della madre; in una vecchia casa di viaMontanarasu per certe scale strette umide e sdrucciolevoli come quelle di unacisternadove trapelava da uno spiraglio una luce dubbiaverdognolaquasisepolcrale: indimenticabile. Ho tutto nella memoria! Salendomi soffermavoquasi ad ogni gradino; perché mi pareva di perdere ad ogni momentol'equilibriocome se posassi i piedi su un ghiaccio mobile. Più salivo e piùquella scala in quella luce mi pareva fantasticapiena d'un misterod'unsilenzio cupodove venivano a morire certe voci lontanissimeincomprensibili.A un trattoudii aprire una porta con violenzanel pianerottolo di sopra; euno scoppio d'improperii urlati da una voce feminile risonò per tutta la scala;e poi la porta si richiuse con un gran colpo che fece tremare la casa da cima afondo. Anch'io tremaiintimidito; e rimasi làesitante. Un uomo scendeva apoco a pocoanzi pareva strisciasse lungo il muro come una cosa floscia.Brontolava e piagnucolavasotto la falda d'un cappello biancastro; ma quando miurtòlevò il capo. E io intravidi un paio di occhiali scuridi quellicerchiati da una reteenormiche sporgevano da una faccia rossastra come unpezzo di carne cruda.

L'uomocredendo di riconoscere in me qualcunochiamò:

-Pietro!

Emi afferrò un bracciomettendomi in viso il suo fiato vinoso. Ma s'accorsedello sbaglio e seguitò a discendere. Io allora ripresi a saliremacchinalmente; ed ero sicuronon so perchéd'avere incontrato una persona dellafamiglia. Mi trovai davanti a una porta su cui lessi: “Emilia Canalesensala al Monte di Pietàautorizzata dalla R. Questura”. Per fermarel'ambascia dell'esitazionefeci uno sforzo e tirai la corda; masenza volerecosì forte che il campanello si mise a squillare furiosamente. Una voce iratarispose di dentrola stessa voce degli improperii; la porta s'aprì; e ioinpreda a una specie di pànicosenza vederesenza aspettare altrodissiansandomangiandomi le parole:

-Sono EpiscopoGiovanni Episcopol'impiegato... Sono venutocome già sa...per sua figlia... come già sa... Mi scusimi scusi. Ho tirato troppo forte.

Erodavanti alla madre di Ginevraa una donna ancóra bella e floridaalla sensalache portava una collana d'orodue grosse buccole d'oroanelli d'oro in tuttele dita. E facevo timidamente una domanda di matrimonio- vi ricordate? - lafamosa domanda proposta da Filippo Doberti!

Ahsignorevoi potete riderese volete. Non mi offenderò.

Debboraccontarvi tuttominutamentegiorno per giornoora per ora? Volete tutte lepiccole scenetutti i piccoli fattitutta la vita mia di quel tempocosìbizzarracosì insensatacosì comica e miserevolefino al grandeavvenimento? Volete ridere? Volete piangere? Io posso dirvi tutto. Leggo nelmio passato come in un libro aperto. Questa gran chiarezza viene in chi èprossimo alla sua fine.

Maio mi stancosono debole. E voianchedovete essere un poco stanco. È meglioabbreviare.

Abbrevio.Ottenni il consensofacilmente.

Lasensala pareva già informata del mio impiegodel mio stipendiodellamia condizione. Ella aveva una voce sonorail gesto risolutouno sguardomalignoquasi rapaceche certe volte diventava carezzevolequasi lascivosomigliando un poco a quello di Ginevra. Quando mi parlavain piedimi siavvicinava troppomi toccava continuamente: ora mi dava una piccola spintaorami tirava per un bottone dell'abitoora mi scoteva un grano di polvere da unaspallaora mi levava d'addosso un capelloun filo. Era per me una inquietudinedi tutti i nerviuna torturaquella manomessione continua da parte di quelladonna che avevo veduta più di una volta alzare i pugni in viso al marito.

Eil marito era proprio l'uomo della scalal'uomo dagli occhiali verdiun poveroidiota.

Avevafatto il tipografoquest'uomo. Una malattia degli occhi gli impediva ora dilavorare. E viveva a carico della mogliedel figlio e della nuoramaltrattatoda tuttimartoriatocome un intruso. Aveva il vizio del vinol'abitudinedella ubriachezzala setela terribile sete. Nessunoa casa suaglidava un soldo per bere; ma certoper guadagnare un po' di denaroegli dovevafare di nascostochi sa in quale stradachi sa in quale bottegachi sa perquale genteun piccolo mestiere ignobileun servizio basso e facileallagiornata. Quando gli si presentava l'occasionemetteva le unghie su la roba dicasa e correva a venderlaper poter bereper potersi abbandonare alla suapassione irrefrenabile; e non lo tratteneva la paura degli improperii e dellepercosse. Almeno una volta la settimanala moglie lo scacciavasenza pietà.Per due o tre giorniegli non aveva il coraggio di tornaredi battere allaporta. Dove andava? Dove dormiva? Come viveva?

Iogli piacquifin dal primo giornodal giorno che lo conobbi. Mentre ero sedutoe sostenevo le ciarle della mia suocera futuraegli stava rivolto verso di mesorridentecon un sorriso continuo che gli faceva tremolare il labbro inferioreun po' pendentema che non traspariva da quella specie di gabbie in cui eranorinchiusi i due poveri occhi malati. Quando mi levai per andarmeneegli disse abassa vocecon un timore manifesto:

-Vengo fuori anch'io.

Uscimmoinsieme. Le gambe lo reggevano poco. Giù per le scalevedendolo esitare ebarcollareio gli dissi:

-Volete appoggiarvi?

Egliaccettòs'appoggiò. Quando fummo su la stradaseguitò a tenere il suobraccio sotto il miobenché io avessi tentato un movimento per liberarmene.Tacque per un tratto; ma di tanto in tanto si volgeva e mi metteva il viso cosìvicino che mi toccava con la falda del cappello. Sorrideva ancóraaccompagnando il sorriso con un suono particolare della gola per rompere ilsilenzio.

Miricordo: era su l'imbrunire; una sera dolcissima. La gente era per le strade.Due sonatoriflauto e chitarrasonavano un'aria della Normadavanti aun caffè. Mi ricordo: passò una vettura che portava un ferito accompagnato dadue guardie.

Eglidissealla finestringendomi il braccio:

-Sono contento; sai? Sono proprio contento. Che buon figliuolo devi essere tu! Tivoglio già bene; sai?

Dissequeste cose con una specie di orgasmoavendo un solo pensiero fissoun solodesiderioe peritandosi di esprimerlo. Poi si mise a riderecome un melenso.Successe un altro intervallo. Di nuovodisse:

-Sono contento.

Dinuovorise ma convulso. M'accorsi che un'agitazione nervosa lo scoteva e lofaceva soffrire. Come fummo davanti a una vetrata con le tendine rosse chesplendevano illuminate da dentroegli disseall'improvvisorapidamente:

-Beviamo un bicchiereinsieme?

Esi fermòe mi trattennedavanti a quella portanel riflesso rossastro chemacchiava il lastrico. Sentii che tremava; e la luce mi fece scorgere a traversole lenti quei poveri occhi infiammati.

Iorisposi:

-Entriamo pure.

Entrammonell'osteria. C'erano pochi bevitori; giocavano a cartein un gruppo. Cimettemmo in un angolo. Canale ordinò:

-Un litrorosso.

Parevapreso da una raucedine subitanea. Versò il vino nei bicchieritremando come unparalitico; bevve d'un fiato; mentre si succhiava le labbrasi versò altrovino. Poi riseposando la bottiglia sul tavolo; e confessò ingenuamente:

-Da tre giorninon avevo bevuto.

-Da tre giorni?

- Già; da tre giorni. Non ho soldiio. A casanessuno mi dà un soldo. Capisci? Capisci? E non posso più lavorarecon questi

occhi...Guardafiglio mio.

Sollevògli occhiali: e mi parve quasi che avesse sollevata una mascheratanto mutòl'espressione del suo viso. Le palpebre erano ulcerategonfiesenza ciglicariche di marciaorribili; e in mezzo a quel rossore e a quel gonfiore siaprivano a stento due pupille lacrimoseinfinitamente tristidi quellatristezza profonda e incomprensibile che hanno nello sguardo le bestie quandosoffrono. Un misto di ribrezzo e di pietà mi commossedavanti a quellarivelazione. Domandai:

-Vi dolgono? Vi dolgono molto?

-Ahfigùratifiglio mio. Gli aghigli aghile schegge di legnoi pezzi divetrogli spini velenosi... Se mi ci ficcassero tutto questonon sarebbenullain confrontofiglio mio.

Forseegli esagerò la sua sofferenzaperché si vide compassionato da mecompassionato da una creatura umanachi sa dopo quanto tempo! Chi sa dopoquanto tempoegli riudiva un accento pietoso! Esageròforseper aumentare lamia compassioneper sentirsi una volta consolare da un uomo.

-Tanto vi dolgono?

-Tanto.

Eglisi passò su le palpebrepiano pianouna specie di straccio che non aveva piùné colore né forma. Poi riabbassò gli occhiali; e vuotò il secondobicchiered'un fiato. Anch'io bevvi. Egli toccò la bottigliae disse:

-Non c'è altroal mondofiglio mio.

Iolo guardavo. Nulla in luiveramentenulla ricordava Ginevra: non una lineanon un'arianon un gestonulla. Pensai:

-Non è il padre.

Eglibevve ancóra; ordinò altro vino; poi riprese a dire con un tono di voce chepareva un falsetto:

-Sono contento che tu sposi Ginevra. E anche tu puoi essere contento... Famigliaonestai Canale! Se non fossimo onesti... a quest'ora...

Alzandoil bicchiereebbe un sorriso equivoco che mi inquietò. Poi riprese:

-EhGinevra... Ginevra avrebbe potuto essere un tesoro per noise avessimovoluto. Capisci? A te queste cose si possono dire. Non unanon duema diecima venti offerte... E che offertefiglio mio!

Iosentivo d'essere diventato verde.

-Il principe Altiniper esempio... Da quanto tempo mi sta sopra! mi volleperfino al palazzouna seraqualche mese faprima che Ginevra se n'andasse aTivoli. Capisci? Dava tremila lire sùbito; e apriva poi una casa per leieccetera eccetera... Ahnono. Emilia l'ha sempre detto: “Non convienenonconviene. Abbiamo maritata la primamariteremo la seconda. Un impiegatoconuna bella carrieracon un discreto stipendio... Lo troveremo. Vedi? Vedi? Seivenuto tu. Ti chiami Episcopo; è vero? Che nome! La signora Episcopodunque;la signora Episcopo...

S'erafatto loquace. Si mise a ridere.

-Come l'hai veduta? Come l'hai conosciuta? Lassùe vero?alla pensione.Raccontaracconta. Ti sto a sentire.

Entròin quel punto un uomo con un aspetto ambiguoripugnantetra di cameriere e diparrucchierepallidocon la faccia sparsa di pustole rossastre. SalutòCanale.

-Con saluteBattista!

Battistalo chiamògli offerse un bicchiere di vino.

-BeveteTeodoroalla salute nostra. Ecco qua il mio futuro generoil fidanzatodi Ginevra.

Losconosciutosorpresomormoròguardandomi con certi occhi bianchicci che mifecero rabbrividire come se avessi sentito su la pelle un contatto viscido efreddo; mormorò:

-Ahdunqueil signore...

-Sìsì- interruppe il ciarlone - il signor Episcopo.

-Ahil signor Episcopo. Tanto piacere... Mi congratulo... Io non aprii bocca. MaBattista ridevacol mento sul pettodandosi un'aria maliziosa. L'altrodopoun pocosi accomiatò.

-AddioBattista. Al bene di rivederlasignor Episcopo.

Emi porse la mano; e io gli diedi la mia mano.

Comecolui si allontanòBattista mi disse a bassa voce:

-Sai chi è? Teodoroil... fido del marchese Agutidel vecchioche hail palazzo qui accanto. È un anno che mi sta attorno per Ginevra. Capisci? Ilvecchio la vuolela vuole e la vuole; piangestrilla e pesta i piedicome unbambinoperché la vuole. Il marchese Agutiquello che si faceva legare alferro del letto e si faceva frustare a sangue dalle sue donne... Abbiamo sentitonoi gli urlidalla nostra casa... Poi se ne occupò la Questura... Ahahahpovero Teodorocom'è rimasto! Hai visto com'è rimasto? Non se l'aspettavanon se l'aspettavapovero Teodoro!

Egliseguitava a ridere stupidamentedavanti a me che morivo d'angoscia. D'un trattosi arrestòe gittò un'imprecazione. Di sotto alla rete degli occhialiglicolavano giù per le guance due rivi di lacrime impure.

-Ah questi occhi! Quando bevoche spasimo!

Edi nuovo sollevò quei terribili occhiali verdi; e di nuovo io vidi tutta interaquella faccia deformatache pareva quasi spellatarossa come il dietro dicerte scimmiesapete?nei serragli. E vidi quelle due pupille dolorose inmezzo a quelle due piaghe. E vidi lui che si premeva su le palpebre quellostraccio.

-Bisogna che io vada. È già oraper me - dissi.

-Beneandiamocene. Aspetta.

Esi mise a cercare nelle sue taschecome per metter fuori il denarobuffonescamente. Io pagai; e ci alzammoed uscimmo. Egli mise di nuovo il suobraccio sotto il mio. Pareva che non mi volesse più lasciareper quella sera.Ogni tantorideva come un mentecatto. E io sentii che gli tornava l'orgasmo diprimal'agitazionela smania interna come di chi vuol dire una cosa e nonardisce e si vergogna.

-Che bella sera! - disse; ed ebbe il medesimo riso convulso dell'altra volta.

D'untrattocon lo stesso sforzo che fa un balbuziente quando s'impuntaa testabassanascondendosi tutto sotto la falda del cappellosoggiunse:

-Dammi cinque lire. Te le renderò.

Cisoffermammo. Io gli misi le cinque lire nella mano che tremava forte.Immediatamente egli si volsefuggìsi perse nell'ombra.

Ahsignoreche pietà! L'uomo divorato dal viziol'uomo che si dibatte nellebranche del vizio e si sente divorare e si vede perduto e non vuolenon puòsalvarsi... Che pietàsignoreche pietà! Conoscete voi qualche cosa di piùprofondodi più attirantedi più oscuro? Ditedite: che cosafra tutte lecose umaneè più triste del tremito che vi prende d'innanzi all'oggetto dellavostra passione disperata? Che cosa è più triste delle mani che tremanodelleginocchia che vacillanodelle labbra che si torconodi tutto un essere chespasima nel bisogno implacabile d'una sola sensazione? Ditedite: che cosa èpiù triste su la terra? Che cosa?

Evedere da per tutto intorno a voi questo nemicovederlo con una luciditàprodigiosascoprirne tutte le tracceindovinarne tutte le corrosioniledevastazioni nascoste. Vedereintendete?vedere in ciascun uomo lasofferenzae comprenderecomprendere sempree avere una misericordia fraternaper ogni traviatoper ogni addoloratoe sentire nell'intimo della propriasostanza la voce di questa grande fraternità umanae non considerare su la vianessun uomo come uno sconosciuto... Intendete? Potete voi intendere questo inmein me che voi stimate pusillanime e abietto e quasi idiota?

Novoi non potete intendere. Pureè così. C'è chi cammina in mezzo a un popolocome in mezzo a una foresta d'alberi tutti egualiindifferente; ma c'èqualcunocontinuamente ansiosoche cerca in ogni volto la muta risposta a unamuta domanda. Per costui non ci sono su la terra stranieri.

Ahimèil suo cuore è per tuttinessun cuore è per lui.

Losolo so. Chi si cura di lui? Chi si cura della sua bontà e del suo amore?Ogni uomo alimenta in sé un sogno segreto che non è la bontà e non èl'amorema un desiderio sfrenato di piacere e d'egoismo. Lo so. Nessunacreatura umana ama un'altra creatura umanaè stata mai amata da un'altracreatura umana. Io non ho mai osato di confessare a me stesso l'orrenda veritàper paura di morirne.

Ebbenesignoreda quella sera io mi sentii legato a quel miserabileio gli divenniamico. Perché? Per quale affinità misteriosa? Per quale antiveggenzaistintiva? Forse per l'attrazione del suo vizio che incominciava a impadronirsiirresistibilmente anche di me? O per l'attrazione della sua infelicità senzasperanza e senza scampo come la mia?

Dopoquella seralo rividi quasi ogni sera. Egli veniva a cercarmi dovunque; miaspettava alla porta dell'ufficio; mi aspettavadi nottesu per le scale dellamia casa. Non mi chiedeva nulla; né poteva egli far parlare i suoi occhiperchéerano coperti. Ma bastava che io lo guardassiper capire. Egli sorrideva diquel suo solito sorriso melenso o convulso; e non chiedeva nullaaspettando. Ionon sapevo resisterglinon sapevo licenziarloumiliarlomostrargli un visoseverorivolgergli una parola dura. - M'ero io dunque sottomesso a un'altratirannia? Giulio Wanzer aveva dunque un successore? - Spesso io soffrivo dellasua presenzaacutamente; e pure non facevo nulla per liberarmene. Egli avevatalvolta per me effusioni di amorevolezza ridicole e attristantiche mistringevano il cuore. Una volta mi disse raggrinzando la bocca come fanno ibambini quando vogliono cominciare a piangere:

-Perché non mi chiami papà?

Iosapevo ch'egli non era padre; sapevo che i figli di sua moglie non erano figlisuoi. Forseanch'egli sapeva questo. E io lo chiamavo papàquandonessuno mi udivaquando eravamo soliquando egli aveva bisogno d'esserconsolato. Spessoper commuovermimi mostrava qualche lividurail segno d'unapercossacon lo stesso atto dei mendicanti che mostrano la loro deformità o illoro male per strappare un'elemosina.

Scopersiper casoche certe sere egli si metteva nei punti meno illuminati su le vieechiedeva a bassa voce l'elemosinaabilmentesenza farsi scorgerecamminandoper un tratto a fianco del passante. Una serasu l'angolo del Foro Traianomividi avvicinato da un uomo che balbettava:

-Sono un operaio senza lavoro. Sono quasi cieco. Ho cinque figliuoli che nonmangiano da quarantott'ore. Mi dia qualche cosa per comprare un pezzo di pane aquelle povere creature di Dio...

Riconobbisùbito la voce. Ma egli nell'ombraveramente quasi cieconon mi riconobbe. Eio m'allontanai rapidamente; fuggiiper paura d'essere riconosciuto.

Eglinon aveva ripugnanza a nessuna bassezzapur di soddisfare la sua sete atroce.Una voltasi trovava nella mia stanza; pareva inquieto. Io ero tornato alloradall'ufficio; e mi stavo lavando. Avevo posato sul letto la giacca e ilpanciotto; e avevo lasciato nel taschino del panciotto l'orologioun piccoloorologio d'argentoun ricordo di mio padre morto. Mi stavo lavandodietro unparavento. Sentivo Battista muoversi per la stanza in un modo insolitocomefosse inquieto. Gli chiesi:

-Che fate?

Risposetroppo prontamentecon una voce un po' alterata:

-Nulla. Perché?

Evenne sùbito dietro al paraventocon troppa premura.

Mivestii. Uscimmo. A piè della scalami cercai l'orologio nel taschino per vederl'ora. Non lo trovai.

-Per Bacco! Ho lasciato l'orologio su in camera. Mi tocca risalire. Aspettatemiqui. Faccio in un momento.

Risalii;accesi una candela; cercai l'orologio da per tuttosenza riuscire a trovarlo.Dopo qualche minuto di ricerca inutileudii la voce di Battista che chiedeva:

-Ebbenel'hai trovato?

Egliera venuto su; s'era fermato su la soglia; vacillava un poco.

-No. È strano. E pure mi pareva d'averlo lasciato nel taschino. Voi non l'aveteveduto?

-Non l'ho veduto.

-Proprio?

-Non l'ho veduto.

Mibalenava già il sospetto. Battista era rimasto su la sogliain piedicon lemani in tasca. Ricominciai a cercarecon impazienzaquasi con ira.

-È impossibile ch'io l'abbia smarrito. L'avevodianziprima di svestirmi; soche l'avevo. Qui dev'essere; si deve trovare.

Battistas'era mosso finalmente. Io mi voltaiall'improvviso; e gli lessi il peccato sula faccia. Mi cadde il cuore.

Eglibalbettòconfuso:

-Qui dev'essere; si deve trovare.

Eprese la candelae si chinò a cercare intorno al letto; s'inginocchiòbarcollando; sollevò le coperteguardò sotto il letto. Si affannavaansava;e la candela gli sgocciolava su la mano malferma.

Quellacommedia m'irritò. Gli gridai con asprezza:

-Basta! Alzatevi; non v'affannate tanto. So io dove bisognerebbe cercare...

Egliposò la candela sul pavimento; rimase un poco in ginocchiotutto curvotremando come uno che sia sul punto di confessare un fallo. Ma non confessò. Sialzò a faticasenza parlare. ancóra una voltagli lessi il peccato su lafaccia; e provai una fitta acuta. Pensai: “Certoha l'orologio in tasca.Bisogna costringerlo a confessarea rendere la cosa rubataa pentirsi. Bisognach'io lo veda piangere di pentimento”. Ma non ebbi forza. Dissi:

-Andiamo.

Uscimmo.Per le scaleil colpevole mi veniva dietropiano pianoreggendosi allaringhiera. Che pietà! Che tristezza!

Quandofummo nella stradami domandò con un filo di voce:

-Dunque tu credi che l'abbia preso io?

-Nono - risposi. - Non ne parliamo più.

Soggiunsidopo un poco:

-Mi dispiaceperché era un ricordo di mio padre morto.

Notaiin lui un piccolo moto repressocome un'intenzione di metter fuori qualche cosadalla tasca. Ma non fu nulla. Seguitammo a camminare.

Dopoun pocoegli mi dissequasi bruscamente:

-Mi vuoi frugare?

-Nono. Non ne parliamo più. Addio. Ora vi lascioperché ho qualche faccendastasera.

Elo lasciaisenza guardarlo. Che tristezza!

Neigiorni seguentinon lo vidi. La sera del quinto giornomi si presentò a casa.Io feciserio:

-Ohsiete voi?

Emi rimisi a scrivere certe carte d'ufficiosenz'altro. Dopo un intervallo disilenzioegli osò chiedermi:

-L'hai ritrovato?

Iofinsi di ridere; e seguitai a scrivere. Dopo un altro lungo intervalloeglisoggiunse:

-Io non l'ho preso.

-Sìsìva bene; lo so. Ci pensate ancóra?

Vedendoche io rimanevo seduto al tavolinodopo un altro intervallodisse:

-Buona sera!

-Buona serabuona sera!

Lolasciai andare così; non lo trattenni. Ma mi pentii; volli richiamarlo. Troppotardi: si era già allontanato.

Pertre o quattro giorni ancóranon si mostrò. Mentre stavo per rientrare a casasul tardipoco prima della mezza notteme lo trovai davantisotto un fanale.Piovigginava.

-Ohsiete voi? A quest'ora!

Nonsi reggeva in piedi; mi parve ubriaco. Macome lo guardai benem'accorsich'era in uno stato miserevole: coperto di fango come se si fosse avvoltolato inuna pozzangherasmuntodisfattocon una faccia quasi violetta.

-Che v'è accaduto? Parlate.

Egliscoppiò in un gran piantoe mi s'appressò come per cadermi fra le braccia; ecosìda vicinosinghiozzava e cercava di raccontare fra i singhiozzi che losoffocavanofra le lacrime che gli colavano nella bocca.

Ahsignoresotto quel fanalein mezzo alla pioggiache cosa terribile! Che cosaterribileil singhiozzo di quell'uomo che non aveva mangiato da tre giorni!

Conoscetevoi la fame? Avete mai guardato un uomo mezzo morto di fameche si siede a unatavola e si porta alla bocca un pezzo di paneun pezzo di carnee mastica ilprimo boccone con i poveri denti indeboliti che vacillano nelle gengive? L'avetemai guardato? E non vi s'è strutto il cuoredi tristezzadi tenerezza?

 

Veramenteio non volevo parlarvi tanto di quel poveretto. Mi son lasciato trascinare; hodimenticato tutto il resto: non so perché. Maveramentequel poveretto èstato l'unico mio amico ed io sono stato l'unico amico suonella vita. Io l'hoveduto piangere ed egli ha veduto piangere mepiù di una volta. Ed io horimirato il mio vizio nel suo vizio. Ed anche abbiamo avuto comune qualchepatimentoabbiamo sofferta una stessa ingiuriaabbiamo portata una stessavergogna.

Nonera il padre di Ginevrano; non aveva dato il suo sangue alle vene dellacreatura che mi ha fatto tanto male.

Ioho pensato semprecon una curiosità inquieta e inappagabileal padre veroallo sconosciutoall'innominato. Chi era mai? Non certo un plebeo. Alcunefinezze fisichealcune movenze naturalmente elegantialcune crudeltàalcuneperfidie troppo complicatee poi l'istinto del lussoil disgusto facileunmodo particolarissimo di ferire e di straziare col risotutte queste cose edaltre rivelavano qualche goccia di sangue aristocratico. Chi era dunque ilpadre? Forse un vecchio osceno come il marchese Aguti? O forse un preteuno diquei cardinali galanti che seminavano figli in tutte le case di Roma?

Ciho pensato sempre. E qualche volta anche mi s'è presentata all'imaginazione unafigura d'uomonon vaga né mutevolema ben definitacon una fisonomiaspecialecon un'espressione specialeche pareva vivere d'una vitastraordinariamente intensa.

CertoGinevra doveva sapere o almeno sentire di non avere alcuna comunanza disangue col marito di sua madre. In fattiio non ho mai potuto sorprendere negliocchi di leiquando erano rivolti sul disgraziatoun lampo d'affetto o almenodi pietà.

Invecel'indifferenza e spesso il ribrezzoil disprezzol'avversioneanchel'odiosi mostravano negli occhi di leiquando erano rivolti sul disgraziato.

Ahquegli occhi! Dicevano tutto; dicevano troppe cose in un attimotroppe cosediverse; e mi facevano smarrire. S'incontravano con i mieiper caso; e parevanod'acciaiod'un acciaio lucido e impenetrabile. Eccoa un trattosi coprivanocome d'un velo pallidoperdevano ogni acutezza. Pensatesignorea una lamaappannata da un alito...

Manoio non posso parlarvi del mio amore; non possonon posso parlare del mioamore. Nessuno saprà mai quanto l'ho amata; nessuno. Ella non l'ha mai saputo;non lo sa. Ioio so ch'ella non mi ha mai amato neppure per un giornoneppureper un'oraneppure per un momento.

Sapevoquesto fin da principio; sapevo questo anche quando ella mi guardava con gliocchi velati. Non m'illudevo. Le mie labbra non osarono mai proferire la domandatenerala domanda che ripetono tutti gli amanti: “Mi vuoi bene?” E miricordo chestandole vicinosentendomi invadere dal desiderioio pensai piùd'una volta: “Ohse potessi baciarle la faccia ed ella non s'accorgessedei miei baci!”

Nono; io non posso parlarvi del mio amore. Vi dirò ancóra dei fattidei piccolifatti ridicolidelle piccole miseriedelle piccole vergogne.

Ilmatrimonio fu stabilito. Ginevra rimase ancóra a Tivoli per qualche settimana;e io andavo spesso a Tivolicol tramway; mi trattenevo qualche mezzagiornataqualche ora. Mi piaceva ch'ella fosse lontana da Roma. La miapreoccupazione costante era che qualcuno dei miei compagni d'ufficio potessegiungere a scoprire il mio segreto. Usavo una quantità di cauteledisotterfugidi pretestidi bugieper nascondere quel che avevo fattoquel chefacevoquel che stavo per fare. Non frequentavo più i luoghi soliti;rispondevo sempre evasivamente a qualunque domanda; mi salvavo in una bottegain un portonein una via traversa quando riconoscevo di lontano qualcuno degliantichi commensali.

Maun giorno non potei salvarmi da Filippo Doberti. Costui mi raggiunsemi fermò;anzimegliomi abbrancò.

-OhEpiscopoquanto tempo è che non ci vediamo! Che hai fatto? Sei statomalato?

Ionon riuscivo a vincere la mia agitazione irragionevole. Risposisenzariflettere:

-Sìsono stato malato.

-Si vedesei verde. Ma orache vita fai? Dove pranzi? Dove passi la sera?

Risposiqualche altra bugiaevitando di guardarlo in viso.

-Si parlava di tel'altra notte - egli riprese. - C'era Efrati che raccontavad'averti vedutoin via Alessandrinaa braccetto con un ubriaco.

-Con un ubriaco? - feci io. - Ma Efrati sogna.

Dobertiscoppiò in una risata.

-Ahahah! E ci diventi rosso? Sempre bella compagnia ti vai cercandotu... Apropositonon hai notizie di Wanzer?

-Nonon so nulla.

-Come! Non sai che è a Buenos-Ayres?

-Non so nulla.

-Ahpovero Episcopo! Addio; ti lascio. CùratiCùratisai. Ti vedo molto giùmolto molto giù. Addio.

Voltòper un'altra stradalasciandomi in un'agitazione che non riescivo a reprimere.Tutte le parole di quella sera lontana in cui egli aveva parlato della bocca diGinevratutte mi tornarono alla memoriaprecisevive. E mi tornarono allamemoria altre parole più crudepiu brutali. E rividinella stanza illuminatadal gasla lunga tavola intorno a cui sedevano tutti quegli uomini giàpasciutiaccesi dal vinoun poco intorpiditiaccomunati da una stessapreoccupazione oscena. E riudii le risalo schiamazzoil mio nome gridato daWanzeracclamato dagli altri; e poi il motto atroce: “Ditta Episcopo e C.”.E pensai che l'orribile cosa avrebbe potuto avverarsi...

Avverarsi!Avverarsi! - Ma è possibile dunque un'ignominia simile? È possibile che unuomoalmeno apparentemente non follenon ebetenon mentecattosi lascitrarre a un'ignominia simile?

Ginevratornò a Roma. Il giorno del matrimonio fu stabilito.

Andammoin girocon la sensaladentro una botteper cercare un piccoloappartamentoper comprare il letto nuzialeper comprare gli altri mobilinecessariiper tutti in somma i preparativi soliti. Io avevo ritirato un certodeposito di quindicimila lireche era tutta la mia fortuna di orfano.

Andammoin girodunquedentro una botteper tutta Romatrionfalmente: iorannicchiato sul predellinoe le due donne sedute davanti a mecon leginocchia contro le mie ginocchia. Chi non c'incontrò? Chi non ci riconobbe? Piùd'una volta iobenché tenessi la testa chinascorsi con la coda dell'occhioqualcuno che dal marciapiede gestiva verso di noi. Ginevra si rallegravasporgendosivolgendosidicendo ogni volta:

-Guarda Questori! Guarda Micheli! Guarda Palumbocon Doberti!

Labotte era una berlina.

Ela notizia si sparse. Fuper i miei compagni d'ufficioper gli antichicommensaliper tutti i conoscentiuna baldoria senza fine. Io leggevo in tuttigli sguardi l'ironial'irrisionel'ilarità malignaqualche volta anche unaspecie di compassione insultante. Nessuno mi risparmiava la sua puntura; e iotanto per fare qualche cosaad ogni puntura sorridevo con una contrazionesempre egualecome un automa impeccabile. Che altra cosa avrei dovuto fare?Offendermi? Adirarmi? Inferocirmi? Abbandonarmi alle violenze? Dare qualcheschiaffo? Scagliare qualche calamaio? Brandire una sedia? Battermi in duello? -Ma tutte queste altre cose non sarebbero state anche ridicolesignore?

Ungiornonell'ufficiodue “giovani di spirito” simularono un interrogatorio.Il dialogo era tra un giudice e Giovanni Episcopo. Alla domanda del giudice:“Di professione?”Giovanni Episcopo rispondeva: “Uomo a cui si manca dirispetto.”

Unaltro giorno mi giunsero all'orecchio queste parole:

-Non ha sangue nelle vene; non ha una goccia di sangue. Quel poco che avevaglielo cavò dalla fronte Giulio Wanzer. Propriosi vede che non gliene èrimasta una goccia...

Eraveroera vero.

 

Macome fu che io mi risolsid'un trattoa scrivere una lettera a Ginevra persciogliermi dalla promessa? Sìio scrissi una lettera a Ginevrapersconcludere il matrimonio; ioio la scrissicon questa mano! E la portai allaPosta io stesso.

Eradi sera: mi ricordo. Passai più volte davanti alla Postaagitato come un uomoche sia sul punto di risolversi al suicidio. Mi fermai finalmentee misi nellabuca la lettera; ma mi parve di non poter disgiungere le dita. Rimasi moltotempo in quell'attitudine? Non so. Una guardia mi toccò una spallachiedendomi:

-Che fa?

Ioapersi le dita; lasciai cadere la lettera. E per poco non venni menotra lebraccia della guardia!

-Mi dica- balbettaiquasi piagnucolando - come potrei fare per riaverla?

Ela nottele angosce della notte! Ela mattina dopola visita alla casa nuovaalla casa coniugale già pronta per ricevere gli sposi e a un tratto diventatainutilediventata una casa morta! - Oh quel solequelle strisce di solequasitaglientisu tutta quella roba nuovalucidaintattache mandava un odore dimagazzinoun odore insopportabile!...

Nelpomeriggioalle cinqueuscendo dall'ufficiotrovai su la strada Battista chemi disse:

-Ti voglionoa casasùbito.

Ciavviammo. Io tremavocome un malfattore catturato. A un certo punto domandaiper prepararmi:

-Che vorranno?

Battistanon sapeva nulla. Alzò le spalle. Quando giungemmo alla portami lasciò.Salii le scale a poco a pocopentendomi di aver obbeditopensando con unapaura folle alle mani della sensalaa quelle terribili mani. E quandoalzai gli occhi al pianerottolo e vidi l'uscio aperto e su la soglia la sensalagià pronta a slanciarsidissi sùbito:

-È stato uno scherzo; è stato uno scherzo.

Euna settimana dopoil matrimonio fu celebrato. I miei testimoni furono EnricoEfrati e Filippo Doberti. E Ginevra e la madre vollero che fossero invitati alpranzo i miei colleghi nel maggior numero possibileper abbagliare la plebe divia Montanara e dei dintorni. Tutti i commensali della pens¡onecredoerano presenti.

Houn ricordo confusovagointerrottodella cerimoniadella festadi quellafolladi quelle vocidi quel rumore. Mi parvea un certo puntoche passassesu quella tavola qualche cosa di simile al soffio ardente e impuro che passavaun tempo su l'altra tavola. Ginevra era tutt'accesa in viso e aveva gliocchi straordinariamente lucidi. Molti altri occhid'intornoluccicavano;molti sorrisi luccicavano.

Hoil ricordo come d'una tristezza pesante che mi piombò soprami occupò e miottuse la conscienza. E vedo ancóralaggiùin fondo alla tavolamolto infondoin una lontananza incredibilequel povero Battista che beveche beveche beve...

 

Almenouna settimana! Non dico un announ mese; ma una settimana: almeno la primasettimana! - Nonulla; senza misericordia. Ella non aspettò neppure un giorno;cominciò sùbitonella stessa notte delle nozzea incrudelire.

Sevivessi un secolonon potrei dimenticare quello scoppio di risa inaspettato chemi agghiacciò nel buio della stanzae umiliò la mia timidezza e la miagoffaggine. Io non vedevo la sua faccianel buio; ma sentii per la prima voltatutta la sua malvagità in quella risata acrebeffardaimpudicanon maiuditairriconoscibile. Sentii che accanto a me respirava una creatura velenosa.

Ahsignoreella aveva il riso nei denti come le vipere hanno il veleno.

Nullanulla valse a impietosirla: non la mia muta sommessionenon la mia mutaadorazionenon il mio dolorenon il mio pianto; nulla. Tutto io tentai pertoccarle il cuoree inutilmente. Ella mi ascoltavacerte volteseriacon gliocchi gravicome sul punto di comprendere; ed'un trattosi metteva a rideredi quel riso spaventevoledi quel riso inumano che le luccicava più nei dentiche negli occhi. E io rimanevo là annientato...

Nononon è possibile. Lasciatesignoreche io taccia; lasciatemi passar oltre.Non posso parlarvi di lei. È come se voi mi costringeste a masticare una cosaamarad'un'amarezza mortaleinsopportabile. Non vedete che mi si torce laboccamentre parlo?

Unasera (circa due mesi dopo gli sponsali)me presenteella ebbe un disturbounaspecie di deliquio... Voi sapete; - la solita scena... E ioche aspettavo insegretotremandoquella rivelazionequell'indizioquel compimento d'un vòtosupremoquell'immensa gioia nella mia sciaguraio caddi in ginocchio comedavanti a un miracolo. - Era vero? Era vero? - Sìella me lo disseme loconfermò. Ella aveva dentro di sé un'altra vita.

Voinon potete comprendere. Anche se foste padrenon potreste comprendere ilsentimento straordinario che allora s'impadronì di tutta la mia anima. Pensatesignorepensate a un uomo che ha patito tutto ciò che sotto il cielo si puòpatirea un uomo su cui tutta la ferocia degli altri uomini s'è accanita senzamai treguaa un uomo che non è mai stato amato da nessuno e che pure ha infondo a sé tesori di tenerezza e di bontàtesori da spandereinesauribili;pensatesignorealla speranza di quest'uomo che aspetta una creatura del suosangueun figliuoloun piccolo essere delicato e dolceoh infinitamentedolcedal quale egli potrà farsi amare... potrà farsi amare...comprendete?... farsi amare!

Eradi settembre: mi ricordo. Erano di quelle giornate calmedorateun poco meste- voi sapete bene - quando muore l'estate. Io sognavo sempre sempre di luidi Ciroindicibilmente.

Unadomenicaal Pincioincontrammo Doberti e Questori. Ambedue fecero molte festea Ginevra; si unirono a noiper passeggiare. Ginevra e Doberti andarono avantiio e l'altro rimanemmo indietro. Ma quei due davantiad ogni passopareva chemi calpestassero il cuore. Parlavano moltoridevano insieme; e la gente sivoltava a guardarli. Le parole mi giungevano indistintetra le ondate dellamusicabenché tendessi l'orecchio per afferrarne qualcuna. La mia pena eratanto visibile che Questori richiamò la coppia dicendo:

-Pianopiano! Non v'allontanate troppo. C'è Episcopoquiche ora scoppia digelosia.

Scherzaronomi burlarono. Doberti e Ginevra seguitarono ad andare avantia ridere e aparlaretra la musica fragorosa che forse li esaltava e li inebriavamentre iomi sentivo così infelice checamminando lungo il parapettoebbi il pensierofolle di precipitarmi giùall'improvvisoper troncare immediatamente quellasofferenza. Anche Questoria un certo puntotacque. M'accorsi ch'egli seguivacon uno sguardo attento la figura di Ginevrae che il desiderio lo turbava.Altri uominivenendo incontrosi volsero due o tre volte a guardarla; eavevano negli occhi lo stesso baleno. Sempre cosìsempre cosìquando ellapassava tra la gentequasi in un solco d'impurità. Mi parve che tutta l'ariaintorno fosse contaminata da quella impurità; mi parve che tutti desiderasseroquella donnae credessero facile ottenerlae avessero fissa nel cervello unasola imagine oscena. Le ondate della musica si allargavano in una luce densa;tutte le foglie degli alberi luccicavano; le ruote delle carrozzeai mieiorecchifacevano un rumore assordante. E in mezzo a quella lucea quel suonoa quella follain mezzo a quello spettacolo confusovedendo davanti a mequella donna che si lasciava prendere a poco a poco da quell'uomosentendo daper tutto intorno a me l'impuritàio pensai con una terribile angosciaconuno spasimo di tutte quante le mie più tènere fibrealla piccola creatura cheincominciava a vivereal piccolo essere informe che pativa forse in quelmomento le contrazioni della matrice ove incominciava a vivere...

MioDiomio Diocome quel pensiero mi fece soffrire! Quante volte quel pensiero mistraziò prima ch'egli nascesse! Comprendete? Il pensiero dellacontaminazione... Comprendete? Non tanto l'infedeltàla colpa mi affliggevaper mequanto per il figliuolo non ancóra nato. Mi pareva che qualche cosa diquell'ontadi quella bruttura gli si dovesse attaccarelo dovesse macchiare.Comprendete il mio orrore?

Eun giorno io ebbi un coraggio inaudito. Un giornoin cui il sospetto era piùtormentosoebbi il coraggio di parlare.

Ginevrastava alla finestra. Mi ricordo: era l'Ognissanti; sonavano le campane; il solebatteva sul davanzale. Il soleveramenteè la cosa più triste dell'universo.Non vi sembra? Il sole mi ha fatto sempre dolere il cuore. In tutti i mieiricordi più dolorosi c'è un po' di solequalche riga giallacome intornoalle coltri mortuarie. Quando ero bambinouna voltami lasciarono per alcuniminuti nella stanza dove il cadavere d'una mia sorella giaceva esposto sullettotra corone di fiori. Mi pare ancóra di vederloquel povero viso biancotutto incavato d'ombre turchinicceal quale doveva poi tanto somigliare negliultimi momenti il viso di Ciro...

 

Ahche dicevo? Mia sorellagiàmia sorella giaceva sul lettotra i fiori. Bene;dicevo questo. Ma perché? Lasciatemi pensare un poco... Ahecco: io m'accostaialla finestrasbigottito; a una piccola finestra che stava su un cortile. Lacasa di contro pareva disabitata; non si udivano voci umane; tutto eratranquillo. Ma sul tetto una gran moltitudine di passeri faceva un cinguettìoaccorantecontinuosenza fine; e sotto il tettosotto la grondaiasul murogrigionell'ombra grigiauna striscia di soleuna riga gialladirittaacutissimasplendeva sinistramentecon una intensità incredibile. Io nonosavo più voltarmie guardavo fisso la riga giallacome preso da unafascinazione; e sentivo dietro di me (comprendete?) mentre i miei orecchierano pieni di quell'immenso cinguettìosentivo dietro di me ilsilenzio spaventevole della stanzaquel silenzio freddo che è intorno aicadaveri...

Ahsignorequante volte nella vita ho riveduto la tragica striscia di sole! Quantevolte!

Ebbenea proposito di che? Era Ginevradunqueche stava alla finestra; le campanesonavano; il sole entrava nella stanza. C'era anchesopra una sediauna coronadi semprevivi con un nastro neroche Ginevra e la madre dovevano portare alCampo Veranoper una tomba di parenti... - Che memoria! - voi pensate. Sìoraho una memoria terribile.

Ascoltatemi.Ella mangiava un fruttocon quella sensualità provocante ch'ella metteva intutti i suoi atti. Non badava a menon s'accorgeva di me che la guardavo. E maiquella sua noncuranza profonda mi aveva afflitto come in quel giorno; mai avevocompreso con tanta chiarezza che ella non mi appartenevache ella poteva esserdi tuttiche ella anzi sarebbe stata di tuttiinevitabilmentee che io nonavrei mai saputo far valere nessun diritto d'amorenessun diritto di forza. Ela guardavoe la guardavo.

Nonvi accade maiguardando a lungo una donnadi smarrire d'un tratto ogni nozionedella sua umanitàdel suo stato socialedei legami sentimentali che viavvincono a lei e di vederecon una evidenza che vi atterriscelabestiala femminal'aperta brutalità del sesso?

Questoio vidiguardandola; e compresi ch'ella non era atta che a un'operacarnalea una funzione ignobile. E un'altra orrenda verità mi si presentòallo spirito: - Il fondo dell'esistenza umanail fondo di tutte lepreoccupazioni umane è una laidezza. - Orrendaorrenda verità!

Ebbeneche cosa poteva io fare? Nulla. Ma quella donna portava nel suo ventre un'altravitanutriva del suo sangue la creatura misteriosa che era il mio sognocontinuo e la mia suprema speranza e la mia adorazione...

Sìsìprima ch'egli vedesse la luceio l'adoraiio piansi per lui ditenerezzaio gli dissi nel mio cuore le parole indicibili. Pensatepensatesignorea questo martirio: - non poter disgiungere da un'imagine ignominiosaun'imagine innocente; sapere che l'oggetto della vostra adorazione ideale èlegato a un essere di cui temete le infamie. Che proverebbe un fanatico sedovesse vedere sul suo altare il Sacramento coperto d'un cencio immondo? Cheproverebbe se non potesse baciare la cosa divina in altro modo che a traverso unvelo bruttato? Che proverebbe?

Ionon mi so esprimere. Le nostre parolei nostri atti sono sempre volgaristupidiinsignificantiqualunque sia la grandezza dei sentimenti da cuiderivano. Io avevo dentro di mequel giornouna immensità di cose dolorosesoffocateche si mescolavano; e tutto si risolse in un piccolo dialogo cinicoin una ridicolaggine e in una viltà. Volete il fatto? Volete il dialogo? Eccoli.

Elladunquestava alla finestra; e io mi accostai. Rimasi un poco in silenzio. Poicon uno sforzo enormele presi una mano e le chiesi:

-Ginevrami hai già ingannato?

Ellami guardòstupita; e fece:

-Ingannato? Come?

Iole chiesi:

-Hai già un amante? Forse... Doberti?

Ellami guardòancóraperché io tremavo tuttoorribilmente.

-Ma che scena è questa? Ma che cosa ti prendeora? Impazzisci?

-RispondimiGinevra.

-Impazzisci?

Ementre io cercavo di prenderle ancóra le maniella mi gridòsottraendosi:

-Non m'annoiare. Basta!

Maiocome un forsennatomi gittai in ginocchiola trattenni per un lembo dellaveste.

-Ti pregoti pregoGinevra! Abbi pietàun poco di pietà! Aspetta almeno chenasca... la povera creatura... il mio povero figliuolo... Mio; è vero? Aspettache nasca. Dopofarai tutto quello che vorrai; e io taceròe io soffriròtutto. Quando verranno i tuoi amantiio me n'andrò. Se tu me lo comanderaimimetterò a pulire le loro scarpenell'altra stanza... Sarò il tuo servosaròil loro servo; tutto soffrirò. Ma aspettaaspetta! Ma dammi prima il miofigliuolo! Abbi pietà...

Nullanulla! Nel suo sguardo non c'era che una curiosità quasi ilare. Ellaindietreggiavaripetendo:

-Impazzisci?

Poicome io seguitavo a supplicareella mi voltò le spalleuscìchiuse l'usciodietro di sé; mi lasciò làin ginocchio sul pavimento.

C'erail solesul pavimento; e c'era quella corona mortuariasu quella sediae ilmio singhiozzo non mutava nessuna cosa...

Checosa possiamo mutare noi? Pesano forse le nostre lacrime? - Ciascun uomo è unoqualunquea cui accade una cosa qualunque. Ecco tutto; non c'èaltro. Amen.

 

Siamostanchimio caro signore: iodi raccontare; voidi ascoltare. In fondoio houn po' divagato. Ho divagato un po' troppoforse; perchévoi sapete benenonsi tratta di questo. Il punto è un altro. Ci sono dieci anni ancóraper arrivare al punto: - dieci annidieci secoli di doloridi miseriedi vergogne.

Epuretutto era ancóra rimediabile. Sìquella nottequando udii gli urlidella partorienteurli non umaniirriconoscibiliurli di bestia al macelloio pensaicon una convulsione di tutto il mio essere: - S'ella morisseohs'ella morisse lasciandomi la creatura viva! - Urlava ella così orribilmentech'io pensai: - Chi urla cosìnon può non morire. - Ebbi questo pensiero;ebbenesìebbi questa speranza. Ma ella non morì; ella rimaseper ladannazione mia e del mio figliuolo.

Mioera veramente miodel mio sangue. Aveva su la spalla sinistra la stessamacchia particolare che io ho fin dalla nascita. Dio sia benedetto per quellamacchia che mi fece riconoscere il mio figliuolo!

Oravi racconterò io il nostro martirio di dieci anni? Vi dirò ancóra tutto?Noè impossibile. Non arriverei alla fine. E poiforsevoi non micredereste; perché quel che noi abbiamo sofferto è incredibile.

Eccoin poche parolei fatti. La mia casa diventò un lupanare. Certe volteio m'incontravosu la mia portacon uomini sconosciuti. Io non giunsi a farequel che avevo dettonon mi misi a pulire le loro scarpe nella stanza vicina;ma nella mia casa non altro fui che una specie di basso servitore. Battista erameno infelice di me; Battista era meno umiliato. Nessuna umiliazione umana potràmai essere paragonata alla mia. Gesù avrebbe pianto su me tutte le sue lacrime;perché iotra tutti gli uominiho toccato il fondol'ultimo fondodell'umiliazione. Battistavoi m'intendeteil miserabilepoteva aver pietàdel mio stato.

Enon fu nullanei primi anniquando Ciro non comprendeva ancóra. Ma quandom'accorsi che la sua intelligenza si svegliavaquando m'accorsi che inquell'essere debole e fragile l'intelligenza si sviluppava con una rapiditàprodigiosaquando udii dalle sue labbra la prima domanda crudeleoh allora iomi vidi perduto.

Comefare? Come nascondergli la verità? Come salvarmi? Io mi vidi perduto.

Lamadre non ne aveva cura; lo dimenticava per giornate intere; qualche voltaglifaceva mancare il necessario; lo batteva anchequalche volta. E io per lungheore dovevo starne lontano; io non potevo coprirlo continuamente con la miatenerezza; non potevo rendergli dolce la vitacome avevo sognatocome avreivoluto. La povera creatura passava quasi tutto il suo tempo in compagnia di unaservanella cucina.

Iolo misi in una scuola. La mattinalo accompagnavo io stesso; nel pomeriggioalle cinqueandavo a riprenderlo; e non lo lasciavo piùfinché non s'eraaddormentato. In breve seppe leggerescrivere; superò tutti i suoi compagni;fece progressi straordinarii. Aveva l'intelligenza negli occhi. Quando miguardava con quei larghi occhi neriche gli illuminavano la facciaprofondi emalinconiciio provavo qualche volta dentro di me una specie d'inquietudine; enon sostenevo a lungo lo sguardo. Ohla seraa tavolaqualche voltaquandoc'era la madre e su noi tre piombava il silenzio... Tutta la mia angoscia mutasi rifletteva in quegli occhi puri.

Mai giorni veramente terribili dovevano ancóra venire. La mia vergogna era troppodivulgatalo scandalo era troppo gravela signora Episcopo era troppofamosa. Inoltreio trascuravo i miei doveri d'ufficio; commettevo errorifrequenti nelle carte; certi giorniil polso mi tremava così forte che nonpotevo scrivere. Io ero ritenuto dai miei colleghi e dai miei superiori come unuomo disonoratodegradatoabbrutitoinebetitovilissimo. Ebbi due o treammonizioni; poi fui sospeso dall'impiego; poi fui destituitoin nome dellamoralità oltraggiata.

Finoa quel giornoio avevo almeno rappresentato il valore del mio stipendio. Daquel giornoio non valsi nemmeno quanto un cencioquanto la buccia che sitrova per la strada. Nulla può darvi un'idea della ferociadell'accanimentoche mia moglie e mia suocera dimostrarono nel torturarmi. E puremi avevanotolte quelle poche migliaia di lire che mi rimanevano; e la sensala avevaaperta una bottega di merceriaa mie spese; e con quel piccolo commercio lafamiglia poteva ancóra vivere.

Fuiconsiderato come un mangiapane odioso; fui messo a paro con Battista. Anch'ioqualche nottetrovai chiusa la porta di casa; anch'io patii la fame. Em'adattai a tutti i mestieria tutte le fatichea tutti i servizi più vili epiù minuti; per strappare un soldomi diedi attorno dalla mattina alla sera;feci lo scritturalefeci il galoppinofeci il suggeritore in una compagniad'operettefeci l'usciere nell'ufficio di un giornalefeci il commesso inun'agenzia di collocamentofeci tutto ciò che mi capitò di faremi strisciaiad ogni specie di personeraccolsi ogni specie di untumepiegai il collo atutti i gioghi.

Oraditemi: dopo tutto questo travaglionelle giornate interminabilinon meritavoqualche piccola treguaun poco di oblio? La seraquando potevoa pena Ciroaveva chiuso gli occhiuscivo. M'aspettava Battistanella strada. E andavamoinsieme in una cantinaa bere.

Chetregua? Che oblio? Chi ha mai saputo il significato di queste parole:“affogare la tristezza nel vino”? Ahsignoreio ho sempre bevuto perchémi son sentito sempre riardere da una sete inestinguibile; ma il vino non mi hamai dato un attimo di gioia. Sedevamo l'uno in contro all'altroe non avevamovoglia di parlare. Nessunoveramenteparlava là dentro. Siete mai entrato inuna di queste cantine silenziose? I bevitori sono solitariihanno la facciastancasi reggono una tempia con la palma della mano; e d'innanzi a loro sta ilbicchieree i loro occhi fissano il bicchiere ma forse non lo vedono. È vino?È sangue? Sìsignore: l'una e l'altra cosa.

Battistaera diventato quasi cieco. Una nottementre camminavamo insiemesi soffermòsotto un fanale; epalpandosi il ventremi disse:

-Vedi com'è gonfio?

Poiprendendomi una mano per farmi sentire la durezza di quel gonfioremi disse conuna voce alterata dalla paura:

-Che sarà?

Damolte settimane si trovava in quello statoe non aveva rivelato il suo male.Alcuni giorni dopoio lo condussi all'ospedale per farlo visitare dai dottori.Si trattava d'un tumoreanzi d'un gruppo di tumori che crescevano rapidamente.Si poteva tentare un'operazione. Ma Battista non vollequantunque nonrassegnato a morire.

Eglitrascinò il suo maleancóra per qualche mese; poi fu costretto a mettersi inletto; e non si levò più.

Chelungo e che atroce morire! La sensala aveva chiuso il disgraziato in unaspecie di ripostiglioin un bugigattolo oscuro e soffocanteremotoper nonudire i lagni. E io tutti i giorni entravo là dentro; e Ciro voleva venire conmevoleva aiutarmi... Ahse lo aveste vedutoil mio povero bambino! Com'eracoraggiosoin quell'opera di caritàa fianco del padre!

Accendevoun pezzo di candelaper vederci un po' meglio; e Ciro mi faceva lume. Escoprivamo allora quel gran corpo deforme che gemevache non voleva morire. Nonon era un uomo invaso da una malattia; era piuttostocome esprimermi?erapiuttostonon souna figura di malattiauna cosa fuor di naturaun esseremostruosovivente di per séa cui stavano congiunte due misere braccia umanedue misere gambe umane e una piccola testa scarnarossicciaributtante.Orribile! Orribile! - E Ciro mi faceva lume; e in quella pelle tesalucentecome un marmo giallognoloio iniettavo la morfina con una siringa arrugginita.

Mabastabasta. Sia pace a quella povera anima. Si trattaoradi venire al punto.Non bisogna più divagare.

 

Ildestino! - Erano passati dieci annidieci anni di vita disperatadieci secolid'inferno. E una seraa tavolain presenza di CiroGinevra mi disseinaspettatamente:

-Sai? E tornato Wanzer.

Ionon impallidiicerto: perchévedeteda molto tempo ho la faccia di questocoloreimmutabileche neanche la morte muteràche porterò cosìtale equalesotto terra. Ma mi ricordo che non mi riuscì di muovere la lingua perproferire una parola.

Ellami fissava con quello sguardo acutoanzi taglienteche mi dava sempre lastessa apprensione che la vista di un'arme affilata dà al pusillanime.M'accorsi ch'ella mi guardava la frontela cicatrice. Sorrideva d'un sorrisoirritanteintollerabile. E mi disseaccennando allo sfregiosapendo di farmimale:

-Te ne sei dimenticatodi Wanzer? E pureti ha lasciato in fronte un belricordo...

Alloraanche gli occhi di Ciro si fissarono su la mia cicatrice. E io gli lessi involto le domande ch'egli avrebbe voluto rivolgermi. Avrebbe voluto chiedermi:

-Come? Non mi raccontasti una volta che t'eri ferito cadendo? Perché mentisti? Echi è quest'uomo che t'ha sfregiato?

Mariabbassò gli occhie tacque.

Ginevrariprese:

-L'ho incontrato stamani. M'ha riconosciuta sùbito. Ioda principionon loriconoscevoperché s'è fatta crescere tutta la barba. Non sapeva nulla dinoi. M'ha detto che ti va cercando da tre o quattro giorni. Ti vuol rivederel'amico. Deve aver fatto fortuna in Americaalmeno a giudicarnedall'apparenza...

Parlandoella continuava a tenermi gli occhi addosso e continuava a sorridereinesplicabilmente. Ciro di tratto in tratto mi gittava uno sguardo; ed iosentivo che egli mi sentiva soffrire.

Dopouna pausaGinevra soggiunse:

-Verrà qui staserafra poco.

Fuoripioveva forte. E mi parve che quel continuo romore monotono non venisse di fuorima si producesse dentro di mecome se io avessi inghiottito una gran quantitàdi chinino. E persid'un trattoil senso della realtà; e fui circondato daquell'atmosfera isolante di cui vi ho già discorso una voltae riebbiprofondissimo il sentimento dell'anteriorità di ciò che accadeva e stavaper accadere. Mi comprendete? Credevo ancóra di assistere alla ripetizioneinevitabile d'una serie di avvenimenti già avvenuti. Erano nuove leparole di Ginevra? Era nuova quell'ansietà dell'attesa? Era nuovoquel malessere che mi davano gli occhi di mio figlio rivolti troppo spessoinvolontariamente forsealla mia frontea questa maledetta cicatrice? Nullaera nuovo.

Tutt'etreintorno alla tavolatacevamo. Il volto di Ciro esprimeva un'inquietudineinsolita. Quel silenzio aveva in sé qualche cosa di straordinario: unsignificato profondo e oscurissimoche la mia anima non riuscì a penetrare.

Aun trattoil campanello squillò.

Ciguardammoio e mio figlio. Ginevra mi disse:

-È Wanzer. Va tu ad aprire.

Andaiad aprire. L'atto era nella mia personama la volontà era fuori della miapersona.

Wanzerentrò.

Debbodescrivervi la scena? Debbo ridirvi le sue parole? Nulla di straordinario inquel che fece e in quel che dissein quel che facemmo e in quel che dicemmo.Due antichi amici si rivedonosi abbraccianosi scambiano le solite domande ele solite risposte: - ecco l'apparenza.

Portavaun gran mantello impermeabile con un cappucciotutto molle di pioggialuccicante. Sembrava più altopiù grossopiù fiero. Aveva tre o quattroanelli alle ditauno spillo alla cravattauna catena di oro. Parlava senzaimbarazzocome un uomo sicuro di sé. Era egli forse il ladro tornato in patriadopo la prescrizione?

Midissetra le altre coserimirandomi:

-Tu sei molto invecchiato. La signora Ginevrain veceè più fresca diprima...

RimiròGinevrasocchiudendo un poco le palpebrecon un sorriso sensuale. Egli ladesiderava già e pensava che l'avrebbe posseduta.

-Ma di' la verità - soggiunse. - Non sono stato io che ho combinato questomatrimonio? Sono stato proprio io. Ti ricordi? Ahahah! Ti ricordi?

Simise a rideree Ginevra anche si mise a ridere; e io anche cercai di ridere.Rifacevo assai bene il verso di Battistacredo. Quel povero Battista (paceall'anima sua!) mi aveva lasciato in eredità la sua maniera di ridere convulsae melensa. Pace all'anima sua!

MaCiro guardava me e la madre e l'estraneoincessantemente. E il suo sguardoquando si posava su Wanzerprendeva una espressione di durezza che io non gliavevo mai veduta.

-Ti somiglia abbastanzaquesto figliuolo - seguitò colui. - Somiglia più a teche alla madre.

Estese la mano per accarezzargli i capelli. Ma Ciro diede un guizzoevitòquella mano con una mossa del capo così fiera e così violenta che Wanzerrimase interdetto.

-Tieni! - gridò la madre. - Screanzato!

Loschiaffo risonò forte.

-Portalo viaportalo via sùbito! - ella mi comandòpallida di collera.

Iomi alzai: obbedii. Ciro teneva il mento sul pettoma non piangeva. Sentii apena a pena stridere i suoi denti serrati.

Quandofummo nella nostra cameraio gli sollevai la testa con l'atto più dolce chepotei trovare; e gli vidi su la povera guancia scarna l'impronta delle ditalatraccia rossa dello schiaffo. Le lacrime mi accecarono.

-Ti duole? Di': ti duole molto? CiroCirorispondi! Ti fa molto dolore? - iogli chiedevochinandomi con una disperata tenerezza su quella povera guanciaoffesa che avrei voluto aspergere non delle mie lacrime ma di non so qualebalsamo.

Eglinon rispondevanon piangeva. Mai mai mai gli avevo veduta quell'espressioneduraostilequasi selvaggia: quella fronte corrugataquella bocca gonfiaquella tinta livida.

-CiroCirofiglio miorispondi!

Nonrispondeva. Si scostò da meandò verso il suo lettosi cominciò aspogliarein silenzio. Io mi misi ad aiutarlocon gesti quasi timidiquasiumilisentendomi morire al pensiero ch'egli avesse qualche cosa anche contro dime. Io m'inginocchiai davanti a lui per slacciargli le scarpe; e m'indugiai làsul pavimentotutto curvo ai suoi pieditenendo il mio cuore ai suoi piediuncuore che mi pesava come un masso di piomboche mi pareva di non poter piùsollevare.

-Papàpapà - ruppe egli all'improvvisoafferrandomi alle tempie. E avevanella bocca la domanda angosciosa.

-Ma parladunque! Ma parla! - io lo supplicaiancóra làai suoi piedi.

Eglis'arrestò; non disse più nulla. Salì sul lettosi cacciò sotto le coperteaffondò la testa nel guanciale. Edopo un pocoincominciò a battere i denticome faceva certe mattine d'inverno quando agghiacciava. Le mie carezze non localmavanole mie parole non gli facevano alcun bene.

Ahsignorechi ha provato quel che io provai in quell'oraha meritato il cielo.

Passòun'ora sola? - Mi parve finalmente che Ciro si acquietasse. Egli chiuse gliocchi come per dormire: il volto gli si ricomposea poco a poco; il tremitocessò. Io rimasi accanto al lettoimmobile.

Fuoriseguitava a piovere. Ad intervalliuno scroscio di pioggia più impetuososcoteva i vetri; e Ciro spalancava gli occhipoi li richiudeva.

-Dormidormi! Sono io qua - gli ripetevo ogni volta. - Dormifigliuolo caro!

Maioio avevo paura; non potevo soffocare la mia paura. Sentivo sopra di meintorno a meuna minaccia terribile. E ripetevo ogni volta:

-Dormidormi!

Ungrido acutissimolacerantescoppiò sul nostro capo. E Ciro balzò a sederesul lettosi attaccò a un mio bracciosbigottitoansante.

-Papàpapàhai inteso?

Etutt'e duestretti l'uno contro l'altrotenuti dallo stesso terroreascoltammoaspettammo.

Unaltro gridopiù lungocome d'una persona assassinataci giunsea traversoil soffitto; e poi un altro gridopiù lungopiù straziante ancórache ioriconobbiche io avevo già udito in una notte lontana...

-Càlmaticàlmati. Non aver paura. È una donna che partorisceal piano disopra: sai?la Bedetti... CàlmatiCiro. Non è nulla.

Magli urli continuavanotraversavano il muroci trafiggevano i timpanidivenivano sempre più brutali. Era come l'agonia d'una bestia male sgozzata. Ioebbi la visione del sangue.

Alloraistintivamentetutt'e due ci turammo gli orecchi con le maniaspettando chel'agonia terminasse.

Gliurli cessarono; incominciò lo scroscio della pioggia. Ciro si ritirò sotto lecoperte; chiuse di nuovo gli occhi. Io gli ripetei:

-Dormidormi. Non mi muovo di qua.

Passòun tempo indefinito. Io ero in balìa del mio destinocome un vinto in balìad'un vincitore inesorabile. Ero ormai perdutoperdutoinesorabilmente.

-Giovannivieni. Wanzer se ne va.

Lavoce di Ginevra! Mi scossi; mi avvidi che anche Ciro aveva sussultato ma senzamuovere le palpebre. Non dormiva dunque? - Esitaiprima d'obbedire. Ginevra aprìl'uscio della camerae ripeté:

-Vieni Wanzer se ne va.

Alloram'alzaiuscii dalla camera piano pianosperando che Ciro non se n'accorgesse.

Quandoricomparvi al conspetto di quell'uomogli lessi chiara negli occhil'impressione che io gli feci. Dovetti sembrargli un morentetenuto ancóra inpiedi da una forza non naturale. Ma non gli feci pietà.

Miguardavami parlava alla stessa maniera d'un tempo. Egli era un padrone cheaveva ritrovato il suo servo. Io pensai: “In queste oreche cosa avrannodettoche cosa avranno fattoche cosa avranno congiurato?” Notainell'uno e nell'altra un mutamento. La voce di Ginevraquando rivolgeva laparola a luiaveva un accento diverso da quel di prima. L'occhio di Ginevraquando si posava su luisi copriva di quel velo.

-Piove troppo- ella disse - bisognerebbe che tu andassi a cercare una vettura.

Capite?Era un ordine dato a me. Wanzer non si oppose. Gli sembrava naturalissimo che ioandassi a cercargli una vettura. Non m'aveva egli già richiamato al suoservizio? - E a pena a pena mi reggevo in piedi! Ed ambeduecertovedevano chea pena a pena mi reggevo.

Crudeltàinconcepibile. Ma che dovevo fare? Rifiutarmi? Cominciare proprio in quelmomento una ribellione? Avrei potuto dire: - Mi sento male. - In vece tacqui;presi il cappellopresi un ombrelloe uscii.

Perla scala i lumi erano già spenti. Ma io vedevo nel buio una moltitudine dibagliori; e nel mio cervello si succedevanocon la rapidità dei balenipensieri straniassurdisenza nesso. Rimasi un minuto sul pianerottolocredendo di sentir giungere la demenza nel buio. Ma non accadde nulla. Udiidistintamente ridere Ginevra; udii rumori degli inquilini di sopra. Accesi unfiammifero; discesi.

Mentreero sul punto di uscire nella stradaudii la voce di Ciro che mi chiamava. Ebbiproprio una sensazione realecome dalla risatacome dai rumori. Mivoltairifeci le scale in un attimocon una facilità inesplicabile.

-Così presto? - esclamò Ginevravedendomi ricomparire.

Ionon potevo parlareper il grande affanno. Balbettai alla fine disperatamente:

-Non posso... Bisogna che vada di là... Mi sento male.

Ecorsi da mio figlio.

-Mi hai chiamato? - gli domandai sùbitoentrando.

Lotrovai che s'era alzato a sedere sul lettocome per stare in ascolto. Mirispose:

-Nonon t'ho chiamato.

Maio credo che non disse la verità.

-Forsem'hai chiamato in sogno. Non dormividianzi?

-Nonon dormivo.

Miguardavainquietosospettoso.

-E tu che hai? - mi domandò. - Perché sei affannato? Che hai fatto?

-Viasii tranquilloCiro - pregaievitando di rispondereaccarezzandolo. -Sto qui con te; non mi muovo più. Dormiora; dormi!

Silasciò ricadere sul guancialecon un sospiro. Poi chiuse gli occhipercontentarmifingendo di addormentarsi. Ma li riaprìdopo qualche minutomeli spalancò in viso. E dissecon un accento indefinibile:

-Non se n'è andato ancóra.

 

Daquella notteil presentimento tragico non mi lasciò più. Era una specie diorrore vagomisteriosissimoche s'addensava nell'estremo fondo del mio esserelà dove il lume della conscienza non poteva arrivare. Fra tanti abissi che ioaveva scoperti dentro di mequello rimaneva inescrutabile ed appariva fra tantiil più spaventoso. Continuamente lo sorvegliavoquasi direi mi ci affacciavocon un'ansietà tremendasperando che un lampo improvviso me lo illuminassemelo rivelasse intero. Qualche volta mi pareva di sentir sorgere a poco a pocoquesto inconoscibile ed avvicinarsi alla zona della conscienzaquasitoccarlarasentarlapoi d'un tratto ritirarsi al fondoripiombare d'un colponel buiolasciandomi un turbamento straordinarionon mai sofferto. Micomprendete? Imaginatesignoreper comprendermiimaginate di stare all'orlod'un pozzo del quale non possiate calcolare la profondità. Il pozzo èilluminatofino a un certo puntodalla luce naturale; ma voi sapete che nellatenebra inferiore si nasconde una cosa ignota e terribile. Voi non la vedetemala sentite muovere confusamente. E questa cosa a poco a poco salegiungesino al confine della penombradove voi non potete ancóra distinguerla. Ancóraun pocoancóra un pocoe voi la vedrete. Ma la cosa si arrestasi ritraesisottrae; vi lascia ansiosodelusoatterrito...

Nono... Puerilitàpuerilità... Voi non potete comprendere.

Ifattieccoli. Dopo alcuni giorniWanzer aveva preso possesso della miacasaera alloggiato nella mia casa in qualità di dozzinante! Ed ioperconseguenzaseguitavo ad essere un servo e a tremare. C'è bisognoormaid'esporvi lo svolgimento di questi fatti? C'è bisogno di spiegarveli? Vi paionostraniforse? E debbo numerarvi tutte le sofferenze di Ciro? - le sue colleremute e verdi le sue parole amare a cui avrei preferito qualunque tossico; e isuoi gridi e i suoi singulti improvvisi nella notteche mi facevano drizzare icapelli; e le immobilità cadaveriche del suo corpo nel lettospaventevoli; ele sue lacrimele sue lacrimequelle lacrime che certe volte si mettevano acolare d'improvvisoa una a unadagli occhi che rimanevano aperti e purichenon si infiammavanoche non si arrossavano... Ahsignorebisogna aver vedutopiangere quel bambino per sapere come l'anima pianga.

Abbiamomeritato il cielo. GesùGesùnon abbiamo meritato il tuo cielo?

 

Graziesignore; grazie. Posso seguitare. Lasciatemi seguitare sùbitoaltrimenti nongiungerò a dirvi la fine.

Ciavviciniamointendete?ci avviciniamo; ci siamo già. Oggi che giorno è? Ilventisei di luglio. Ebbenefu il nove di lugliodi questo mese! Pare un secolofa; par ieri.

Iostavo nella retrobottega d'una drogheriacurvo su lo scrittoio a lavorar dicontiaffannato di stanchezza e di caldodivorato dalle moschenauseatodell'odore delle droghe. Potevan essere le tre del pomeriggio. Spessointerrompevo il lavoroper pensare a Ciro che in quei giorni si sentiva piùmale del solito. Contemplavodentro il mio cuorela sua figura consunta dalpatimentoesile e pallida come un cero.

Notatesignoreuna cosa. Da uno spiraglio (aperto nella parete a cui volgevo lespalledunque sopra il mio capo) scendeva la striscia di sole.

Notatesignorequeste altre cose. Un garzoneun giovane corpulentodormiva sdraiatosu i sacchiinerte; e le mosche ronzavano sopra di lui innumerevoli come soprauna carogna. Il padroneil droghiereentrò e andò verso un angolo dov'erauna catinella. Gli usciva il sangue dal naso: ecome egli camminava curvo pernon macchiarsi la camiciail sangue gocciolava a terra.

Seguironoalcuni minuti di un silenzio così profondo che pareva una sospensione dellavita. Non capitava un cliente; non passava una vettura; il garzone non russavapiù.

D'untrattoudii la voce di Ciro.

-C'è papà?

Melo vidi comparire d'innanzi - in quel luogo bassotra quei sacchitra queibarilitra quei mucchi di saponelui così finequasi diafanoconl'apparenza d'uno spirito! - me lo vidi comparire d'innanzi come in unaallucinazione. La fronte gli grondava di sudorele labbra gli tremavano; ma miparve animato da una energia quasi selvaggia.

-Come quitu? - gli chiesi. - A quest'ora? Che è successo?

-Vienipapà; vieni.

-Ma che è successo?

-Vienivieni con me.

Avevala voce rauca ma risoluta.

Iolasciai là tuttodicendo:

-Tornerò fra poco.

Euscii con luisconvoltovacillando su le gambe che mi si piegavano.

Eravamonella via del Tritone. Volgemmo in suverso la piazza Barberini che era un lagodi fuoco biancodeserta. Non so se era desertama io non vidi che il fuoco.Ciro mi afferrò una mano.

-Ebbenenon parli? Che è successo? - gli chiesi per la terza voltapur avendopaura di ciò che egli stava per dire.

-Vienivieni con me. Wanzer l'ha battuta... l'ha battuta.

Ilfurore gli strozzava la voce nella gola.

Parevach'egli non potesse dire di più. Affrettava il passomi trascinava.

-L'ho veduto io - riprese. - Dalla mia cameraho sentito che gridavano; hosentito le parole... Wanzer l'ha coperta di vituperiil'ha chiamata con tutti inomi... Ahcon tutti i nomi... Intendi? E io l'ho veduto quando le si ègettato addosso con le mani alzateurlando... “Prendi! Prendi! Prendi!” Sula facciasul pettosu le spalleda per tuttoma fortema forte...“Prendi! Prendi!” E la chiamava con tutti i nomi... Ahtu li sai.

Irriconoscibilequella voce: raucastridulasibilanterotta da soffocazioni d'odio cosìfuriose che io pensai con raccapriccio: “Eccoora mi cade; ora mi resta quidi schiantosul selciato.”

Maegli non cadde; seguitò ad affrettare il passoa trascinarmisotto quel soleferoce.

-Credi tu che io mi sia nascosto? Credi tu che io sia stato fermoche io abbiaavuto paura? Nono; non ho avuto paura. Mi sono fatto innanziio; mi sonomesso a gridargli contro; l'ho afferrato per le gambegli ho dato un morso auna mano... Non ho potuto far altro... M'ha sbattuto per terra; poi s'è gettatoancóra addosso a mammà; l'ha presa per i capelli... Ah che vileche vile!

S'interruppesoffocato.

-Che vile! L'ha presa per i capellil'ha tirata verso la finestra... La volevagettare di sotto... Ma poi l'ha lasciata... “Fuggo via; se noti uccido.”Ha detto così. Ed è fuggito; è fuggito via dalla casa... Ahse avessi avutoun coltello!

S'interruppedi nuovosoffocato. Eravamo nella strada di San Basiliodeserta. Io losupplicai temendo di caderedi vederlo cadere:

-Férmatiférmati un poco. Ciro! Fermiamoci un poco quiall'ombra. Tu non nepuoi più.

-Nobisogna far prestobisogna arrivare in tempo... Se Wanzer ritornasse acasaper ucciderla?... Aveva pauramammàaveva paura di vederlo ritornared'essere uccisa. L'ho sentita io che diceva a Maria di prendere la valigiadimetterci la roba dentroper andarsene sùbitofuori di Roma... a Tivolicredo... da zia Amalia... Bisogna arrivare in tempo. La lascerai partiretu?

Eglisi soffermòsoltanto per guardarmi in bene in faccia e per ottenere la miarisposta. Io balbettai:

-No... no...

-E lui lo lascerai rientrare a casa? Non gli dirai nulla? Non gli farai nulla?

Ionon risposi. Ed egli non s'accorse che stavo per morire di vergogna e di dolore.Non se n'accorse; perchédopo un intervallo di silenziomi gridòall'improvvisocon una voce diversa da quella di primatremante d'unacommozione profonda:

-Papàpapàtu non hai paura... tu non hai paura di lui; è vero?

Iobalbettai:

-No... no...

Eseguitammo a camminare verso la casanel gran solesu per i terreni devastatidella villa Ludovisifra i tronchi abbattutifra i mucchi di mattonifra lepozze di calceche mi abbarbagliavano e mi attiravano. - Megliomeglio morirebruciato vivo in una di queste pozze - io pensavo - che affrontare l'avvenimentoignoto. Ma Ciro mi aveva ripreso ancóra per la mano e mi trascinava con séciecamenteverso il destino.

Giungemmo;salimmo.

-Hai la chiave? - mi domandò Ciro.

L'avevo.Aprii la porta. Ciro entrò per il primo; chiamò:

-Mammà! Mammà!

Nessunorispose.

-Maria!

Nessunorispose. La casa era vuotapiena di luce e d'un silenzio sospetto.

-Già partita! - disse Ciro. - Che farai?

Entròin una stanza. Disse:

-È successo qui.

Unasedia era ancóra rovesciata. Io scorsi sul pavimento una forcina torta e unfiocco rosso. Ciroche guardava dove io guardavosi chinòraccolse alcunicapellimolto lunghie me li mostrò.

-Vedi?

Glitremavano le dita e le labbra; ma la sua energia era caduta. Le forze glimancavano. Lo vidi vacillareme lo vidi svenire tra le braccia. Lo chiamai.

-CiroCirofiglio mio!

Erainerte. Non so come feci a vincere la debolezza che stava per prendere anche me.Un pensiero mi balenò: “Se Wanzer ora entrasse?” Non so come feci asostenere la povera creaturaa portarla fino al suo letto.

Rinvenne.Io gli dissi:

-Bisogna che tu ti riposi. Vuoi che ti spogli? Hai la febbre. Farò venire ilmedico. Ora ti spoglio iopiano piano. Vuoi?

Iodicevo quelle parolecompivo quegli atticome se non dovesse accadere altrocome se le cose comuni della vitale cure pel mio figliuolo mi dovesserooccupare nel resto di quel giorno. Ma sentivoma sapevoma ero certo che nonsarebbe stato cosìche non poteva essere così. Ma un pensiero unicoveramentemi scavava il cervello; ma l'ansia d'un'aspettazione unicaveramentemi torceva le viscere. L'orroreaccumulato già nell'estremo fondosi propagava ora per tutta la mia sostanzafaceva vivere i miei capelli dalleradici alle cime.

Ioripetei:

-Làsciati spogliare e mettere nel lettoda me.

Cirodisse:

-No; voglio rimanere vestito.

Lasua voce nuovale sue nuove paroleche pure erano gravinon interrupperodentro di me la ripetizione incessante della sua domanda semplice e terribile:“Che farai?”.

Chefarai? Che farai?

Qualunqueazione era per me inconcepibile.

M'eraimpossibile di determinare un propositodi imaginare uno scioglimentodimeditare un'offesauna difesa. Il tempo passavae nulla accadeva. - Io avreidovuto andare a chiamare il medicoper Ciro. Ma Ciro avrebbe consentito alasciarmi uscire? Consentendoloegli sarebbe rimasto solo. Io avrei potutoincontrare Wanzer per le scale. E allora? O Wanzer avrebbe potutorientrare nella mia assenza. E allora?

Secondole imposizioni di Ciroio non dovevo lasciarlo rientraregli dovevo dire e glidovevo fare una qualche cosa. Ebbeneio avrei potuto chiudere la porta dadentrocol chiavistello. Wanzernon potendo aprire con la chiaveavrebbetirato il campanelloavrebbe bussatoavrebbe strepitatofuriosamente. E allora?

Noiaspettammo.

Cirostava supino sul suo letto: io gli stavo seduto accanto e gli tenevo una manopremendogli col mio pollice il polso. I battiti crescevano con una rapiditàvertiginosa.

Nonparlavamo; credevamo ascoltare tutti i rumori e non ascoltavamo che il rumoredel nostro sangue. Nel vano della finestra si sprofondava l'azzurro; le rondinivolavano rasentecome per venir dentro; le cortine si gonfiavano come per unrespiro; su l'ammattonato il sole disegnava esattamente il rettangolo dellafinestrae l'ombre delle rondini ci giocavano. Tutte queste cose per me nonavevano più realtànon ne conservavano che una parvenza; non erano più lavitama simulavano la vita. Perfino la mia angoscia era imaginaria. - Quantotempo passò?

Ciromi disse:

-Ho tanta sete. Dammi un poco d'acqua.

Iomi alzai per dargli da bere. Ma la bottiglia sul tavolo era vuota. Io la presi;e dissi:

-Vado in cucina a empirla.

Usciidalla stanzaandai in cucinamisi la bottiglia sotto la cannella dell'acquamarcia.

Lacucina era attigua alla saletta d'ingresso. Mi giunse all'orecchiodistintoilrumore d'una chiave girata in una serratura. Rimasi impietritonell'impossibilitàassoluta di muovermi. Ma udii aprire la portariconobbi il passo di Wanzer.

Costuichiamò:

-Ginevra!

Silenzio.Fece altri passi. Di nuovo chiamò:

-Ginevra!

Silenzio.Altri passi. Evidentementeegli ora la cercava per le stanze. Impossibilitàassoluta di muovermi.

D'improvvisoudii il grido di mio figlioun grido selvaggioche disciolse immediatamente lamia rigidità. Gli occhi mi corsero a un lungo coltello che luccicava su lamadia; enel tempo medesimola destra mi corse ad afferrarloe una forzaprodigiosa m'investì il braccio; e mi sentii trasportato su la soglia dellastanza di mio figliocome da un turbine; e vidi mio figlio avviticchiato conuna furia felina al gran corpo di Wanzere vidi su mio figlio le mani dicostui...

Duetrequattro volte gli confissi il coltello nella schienasino al manico.

 

Ahsignoreper caritàper caritànon mi lasciatenon mi lasciate solo! Primadi seramorirò; vi prometto che morirò. Allora ve n'andretemi chiuderetegli occhi e ve n'andrete. Noneanche questo vi chiedo; ioio stessoprima dispirareli chiuderò.

Vedetela mia mano. Ha toccato quelle palpebre; e s'è ingiallita... Ma io le volevoabbassareperché Ciro ogni tanto si drizzava sul letto e gridava:

-Papàpapàmi guarda.

Macome poteva fare a guardarlose era coperto? I morti guardano a traverso ilenzuoliforse?

Ela palpebra sinistra resistevafredda fredda...

 

Quantosangue! Può un uomo contenere un mare di sangue? Le vene si vedono a penasonotanto sottili che a pena a pena si vedono. E pure... Non sapevo dove mettere ilpiede; le scarpe mi s'inzuppavano come due spugne- è stranoeh? - come duespugne.

Unotanto sangue; e l'altroneanche una goccia: - un giglio...

 

Ohmio Dioun giglio! Ci sono dunque ancóra delle cose biancheal mondo?

Quantigigli!

Mavedetevedetesignoreche cosa mi prende? Che è questo bene che mi prende?

Primadi seraohprima di sera.

 

Entròuna rondine...

Lasciateentrare... quella rondine...

 

Romagennaio 1891.

 

- FINE -