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Chi sa

storie di Pescocostanzo

di

Giuseppe Sabatini

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Japadre editore - L'AquilaRoma


 

 

 

 

 

 

A mia moglie

e ai miei figli


PREFAZIONE

 

 

Trale innumerevoli fonti d'ispirazione letteraria i critici registrano ai primiposti (se non al primo in assoluto) i luoghigli ambienti noti allo scrittorei cari borghi natiidove più intensamente si avverte quel senso diappartenenza che è componente precipua dell'identità personale. E quandocodesti luoghi conservano (oggisi può ben diregrazie soltanto ad un veromiracolo della vicenda storica) il volto del passatosì da sembrare fermi neltempopur continuando ad essere abitatipercorsi"usati" dallegenerazioni che vi si succedonoè più facile che offrano tracce e spunti discrittura a chivivendo in essi o rapportandosi spiritualmente ad essiabbiauna particolare sensibilità creativa.

Daqueste scarne considerazioni si evince agevolmente quale sia la potenzialitàevocativa di un luogo come Pescocostanzocosì onusta di storia e di artecosìviva per tradizioni e attività artigianecosì ricca di peculiaritàambientali. Ma è scontato che un tale nodo di suggestioni resterebbe inerte esilente se non vi fosse un animo pronto a recepirle e a tradurle in fattoletterarioun'intelligenza disponibile alla costruzione narrativa ed allaricreazione artistica.

Lapersonalità di Giuseppe Sabatiniquale emerge anche da questi raccontiècontesta di una straordinaria sensibilità e di una grande capacità diriflessione: due doti rare a trovarsi insiemema che quando si accoppianopossono produrre risultati di notevole validità sul piano umano ed anche suquello della poiesis. Nel caso specificopoiil fermento che falievitare la creazione narrativa è la memoria familiareserbatoio di aneddotie profili di personaggidi situazioni ancorate a certe peculiarità d'ambientee vicende trasfigurate nella mitologia localeuna memoria che è come addensataintorno alla figura paternaquella luminosaserena figura di studiosodicittadinodi pater familias che l'autore evoca con amorevole dedizionenelle belle pagine di Padre.

Daquesto processo nascono le "storie di Pescocostanzo"distinte traquelle recepite per tradizione orale e le altre direttamente vissute dalloscrittore (main realtàla distinzione tende a dissolversi nell'unitarietàdella cifra evocativasempre soffusa di una tenue velatura ironica e insieme diun' impalpabile malinconiala malinconia di chi riguarda da lontano un oggettod'amore); sono "storie" che investono poveri artigiani e agiatipossidentiriflessi locali di eventi a dimensione nazionale e momenti dellavita abitudinaria del borgoe ognuna di esse ha un tratto distintivoun quidpeculiarenel fondo racchiude pure una sua moralitàcome "sugo di tuttala storia" (direbbe Manzoni) e implicitodiscreto monito al lettore.

Lestorie si sgranano nell'arco di tempo che prende avvio dall'iniziodell'Ottocento per concludersi ai tempi attuali: se costumicomportamentimentalità si susseguono variandoc'è tuttavia una modalità specifica cheinveste gran parte di esseconferendo omogeneità d'ispirazione temetica aidiversi raccontied è il divario tra le premesse e gli esititra le attesedei personaggi e i risultati delle loro azioniinsomma il latodell'imprevedibilità che condiziona il destino dei singoli così come quellodelle comunità.

Giustamentel'autore parla in premessa della"contrad-dizione" come "stranaregola di vita imposta all'uomo"soggetto al capriccio del caso che sidiverte a rovesciare progettisperanzeabitudini radicate. Ma la suacostatazione resterebbe un semplice dichiarazione autocriticase non sitraducessenel vivo corpo della scritturain una compartecipazione alledelusioniagli sconcertialle afflizioni dei personaggise non siconvertissecome in effetti accadein una profonda presa di coscienza e inun'affettuosa adesione a quelle sofferte vicende. E' proprio questo sotterraneolegame col piccolo mondo immaginato –un legame che appunto il distacco ironicoinconsapevolmente tende a dissimulare– che costituisce il nucleo vitale deiracconti di Giuseppe Sabatini.

Nelletrame delle "Storie di Pescocostanzo"narrate con tanta limpidezza distile e sobrietà arguta di linguaggiotraspare in filigrana la vicenda di un'intera comunità che si evolve dai "tempi di Franceschiello" all'epocacosì detta postmodernaaffacciata al Duemila; pur nell'adesione costante a unluogo e ad un tempo definitiesse contengono una valenza più ampiaunsignificato universalesono il cordiale messaggio tratto dall'esperienzavissutadalle memorie domestiche e dagli affetti più cari dell'autore.

Egliha scritto nel racconto conclusivo che dà il titolo al volume: "il giocodella vita e della mortedella gioia e del dolore è antico quanto l'uomolasua essenza resta invariata; solo le regole mutano col volgere del tempo.Avrebbe scolpito anche lui 'CHI SA' nell'architrave del suo pensiero espalancato nell'anima una finestra più ampia verso il mondo".

 

               Umberto Russo


PREMESSA

 

 

Ricordiche il tempo leviga e l'esperienza vissuta rischiarasì che pare rechino unattualesapiente messaggio.

 

Aneddotiantichipiccole storie ambientate a Pescocostanzo –paese nativo– insieme aepisodi dei Promessi Sposi o del Don Chisciottenarrati come favole a mefanciullo di quattro-cinque anni da mio padre .

Lesue parolesemplici e colteristabilivano allora la distanza cronologicaesistente tra noiche era di sessant'annie gli facevano assumere sembianze dinonno amoroso più che di padre intento a intrattenere il figlio o a distrarloda un capriccio; intanto un mondo vario e reale s'andava svelando allo sguardoinfantile. Quando poiper la sua eccezionale longevità e validitàfisica eintellettualetale distanza sembrò accorciarsi (per un trentennio ancoraavemmo un felice rapporto padre-figlio) notai semprenella sua narrazione difatti storici o di altre vicendel'amalgama di uno spirito critico e di un fine umorismomediante i quali l'elemento umano dei fatticomefiltrato da una superiore semplicità e saggezzaappariva fuori dalparticolarenel suo valore autenticosempre attuale.

Sonocerto che molti di quegli aneddoti erano stati narratiquesta volta direi diprima manoa lui bambinonella stessa nostra casa di Pescocostanzonon moltianni dopo l'unità d'Italiaquando andavano dissolvendosi nella mutata emutevole cronaca orale cittadina per entrare nella storia del quotidiano e dellementalitàin gran parte ancora da scrivere. Per queste insolite circostanzenotizie di fatti accaduti quasi due secoli addietro e richiamati in questepagine (come i moti carbonari del 1821) mi sono giunte mediate unicamente dallavoce di mio padre che alla fine del secolo diciannovesimo conobbe glispettatorise non gli attoridi quegli avvenimenti.

Leggendafamiliare quindi? Forse. Ma il senso di quelle narrazionilo spirito col qualei personaggi erano fatti vivere alla fine del XVIII e nel XIX secoloildipanarsi di quei racconti nella cornice domesticaepoiil ricordo el'interpretazione di vicende collettive e fatti miei personali (seppur maiaccaduti) che pure mettono capo a Pescocostanzotutti questi fattori insommacostituiscono di certo una particolare sequenza storica. Essadivisa in questepagine in due partiscandite dal passaggio dalle narrazioni udite al vissutomi pare che renda in certo modo leggibile il destino e mostri l'anima di uncampione piccoloma significativo di umanità; così come quella piccolacittadinascrigno riposto di cultura e di artesi offre allo studioso qualesorta di modello per l'analisi di più ampie problematiche storicheartistichee sociali.

 

Sicoglie allorae si avveraun messaggio di consapevolezza che la contraddizioneè una strana regola di vita imposta all'uomocostante unica tra le millevariabili della quotidianitàidentica nella sostanza pur nel mutare delleepochedelle culture e dei temperamenti degli uomini che quella regola devonosubire. Contraddizione di fattidi destinidi pensieri e spesso di desideri.

Diqui l'incertezza e il dubbioi timori e la speranza che esprime il motto"CHI SA"scolpito nella pietra di Pescocostanzo da una mano antica.

 

Roma19 luglio 1993

 

               Giuseppe Sabatini


PARTE PRIMA

 

 

 

ILDISPETTO DI DON ARCANGELO

 

 

Comedallo strappo di una vecchia coltreormai tutta toppel'abitato diPescocostanzo emergeva dalla distesa policroma dei lembi di terra coltivata:bruni quelli arati di frescogiallo-oro quelli con le stoppie di grano o diavenaverdi i medicai; le siepi e i bassi muri di cinta il lavoro diligente efitto delle cuciture. Le case e gli orti disposti in schiere ordinateconvergendo verso la chiesasembravano volerle affidare gli aneliti di speranzae di fede degli abitantidei quali s'ergeva solitario messaggero al cielo ilcampanile con l'alta cuspidela banderuolala palla e la croce. A valleperòla coltre non aveva e ancora oggi non ha più toppe e si slarga in un grandemantoverde e pianosteso tra la cerchia dei monti.

Soloda queste immagini Don Arcangelo era indotto a pensieri sereni: l'affezione peril luogo nativo aveva sostituito in lui da molto tempo l'amore per gli uomini eper le cose. Gli scorci del panoramale gobbe dei montii ciuffi di bosco ches'insinuavano nei canaloniin certo senso avevano acquistato nell'animo suo ilsignificato e il valore perduto da altre sembianze più intimesbiadite ormaidal tempo. Quei luoghi erano lìfedelia confortarlo col loro aspettoimmutato. Perciò soleva fare lunghe passeggiate scendendo nella valleinquella pianuraspecie nella tarda estate e nelle belle giornate d'autunno. Loaffascinava la solitudine silenziosa e possentepropria del posto in quellastagioneche quietava i timori e gli spasimi che accompagnano la solitudinedell'uomo tra gli altri uomini.

Quandoraggiungeva uno dei colli che sovrastano appena la piatta distesa erbosa el'abbracciava con lo sguardoDon Arcangelo non avvertiva più il fastidio el'asprezza che lo tenevano durante la permanenza in paese. Percepiva solo ilbelato lontano di qualche gregge sperduto nel vasto pascoloil colore violaceodei colchici che spuntavano tra l'erba ormai ingiallita e lo snodarsi lento deisuoi pensieri e dei suoi ricordi.

Quasia voler ampliare quel piccolo mondo nel quale s'era ristretto e consolidarne unasorta di personaleinteriore dominiorichiamava alla mente le immagini dellemetamorfosi che quella valle subiva nelle altre stagioni. D'invernonelle nottidi pleniluniocol cielo sereno e il candore della neve che riflette la luminosità lunaregli pareva di vivere un giorno con unsole piccolo e freddo in via di spegnersi. Allo scioglimento delle nevi lapianura assumeva un aspetto palustre con stormi di uccelli acquatici di passo.Amava menoforsel'aspetto di quella campagna nella tarda primavera quandoimprovvisamente fiorivano miriadi di primuledi ranuncoli e soprattutto dinarcisichiamati in paese rosesughe perché i bambini succhiavano la goccia di nettare contenuta nel calice di questi fioridividendo a metà le corolle; il polline giallo restava attaccato ai lati della bocca e sulle guance paffute. Tutti in paese necoglievano grossi fasci per adornare le icone e gli altari nelle chiese etenerne mazzolini a rallegrare la casa. Ma a lui l'odore penetrante e dolciastrodi quei fiori non piaceva e procurava mal di testa. Solo una volta fu feliceattraversando in quella stagione la prateria: dai monti erano scese velocigonfie nubi che gli si erano ricongiunte intorno e d'un tratto s'era trovatosolotra le nuvolein un prato fiorito. Quella prateria subiva un'altrametamorfosi all'epoca della falciatura e della raccolta del fienoquandobrulicava di uominidi attrezzi e di animali. Allora a Don Arcangelo piacevaosservarla da lontano affinché le voci e i rumori restassero muti. Le file deicavalli carichi di tre grosse reti di fienoil procedere lento dei carritrainati dai buoi e delle slitte che scivolavano sull'erbai piccoli uomini chesi muovevano nei bizzarri riquadri delle minuscole proprietàpettinati invario verso dalla falciatura e dai rastrelligli sembravano formiche partoritedalla terra chedopo la raccolta delle provvistealla terra sarebbero tornatenelle loro tane; parte naturale di quella prateria e del suo ciclo vitale.

DonArcangelo perpetuava così nella memoria ricordi e immagini di fatti dei qualiera stato in quei luoghi quasi sempre protagonista solitario: una giornata dicaccia fortunata per la bravura di una sua coppia di segugi; le sensazioniprovate durante una "posta alla lepre" quando di seraimmobile evigile nell'attesa della selvaggina udiva i rumori del bosco che s'addormentavacome quelli di un corpo che si prepari per il sonno. Una voltanella penombradella notte incipienteun grosso animale si avventò su una lepre che lui avevaappena abbattutosparò ancora in quella direzione e corse a vedere di che cosasi trattasse. Trovò un'aquila reale che teneva ancora artigliata la piccolapreda. Fece imbalsamare così i due animali e conservò il trofeo in una stanzadel suo palazzo. Un'altra voltaormai non più giovanementre riposava sedutosu un sasso tra i primi cespugli del boscovide sbucare dalla macchia uominisconosciutivestiti in foggia forestiera ed armatii quali vedendolo urlarono:"muso a terra!" Don Arcangelo capì che si trattava di brigantiinpaese ne aveva anche sentito parlare. Fingendo di obbedire all'ordine ricevutosi avventòinvecein una corsa a rompicollo giù per le ultime balze delpendio e poi attraverso la prateria. I briganti lo rincorsero urlandoma nongli spararonosicuri che il fiumicciattolo che era di fronte in ogni casoavrebbe fermato il fuggiasco. Don Arcangeloinvecearrivato al torrente spiccòun saltocerto il più lungo della sua vitae fu dall'altra parte; continuò acorreresentì dietro a sé urla e colpi di fucile poi più nulla. Corseancorarallentòsi voltò e non vide nessuno. I brigantiritenutoimpossibile ripetere il suo saltoscaricate contro di lui armi e ingiurieerano tornati alla macchia. La sua proverbiale magrezza e lo spavento lo avevanosalvato. Da allora gli agrimensorinel tracciare le mappe delle proprietà inquella contradavi ritrasserocon ingenue ma espressive immaginiun uomo infuga inseguito dai briganti. Gustosa cronaca paesana e utile indicazionetopografica.

DonArcangelo tornava da queste sue passeggiate camminando sul tappeto dei fili difieno caduto dai carri carichi sull'acciottolato delle vie campestri e davantiai fienili. Si fermava spesso a guardare questi antichi fabbricati con la scalaa pioli appoggiata alla porta del pagliaio posta in alto sulla facciata incompagnia di una o due strabiche finestrelle e la porta della stallaabitualmente spalancata di giorno; gli sembravano agresti lari in paziente eprotettiva attesa del ritorno dai campi dei loro quadrupedi abitatori.

Arrivatoin paese percorreva le strade meno frequentate e raggiunto il suo palazzo neapriva il portone e rapidamente se lo chiudeva dietrocome a respingere glisguardi e i pensieri dei suoi concittadini che sentiva contro di sé. Sapeva diessere oggetto di critiche astiose. Se l'era dovute sentire con le sue stesseorecchiesebbene ammantate da buone maniere e celate da un esteriore sorrisodai conoscenti nei qualisuo malgrados'imbatteva e per averle ravvisate piùcrudeanche se meno esplicitenel comportamento e nei modi di altri a lui menovicini. Teneva ormai per certo di essere oggetto di una sorta di pubblica accusaper quella che l'innata malvagità umana ha sempre considerato una colpa:l'essere vecchioricco e solo.Tutto ciò per lui era ingiusto e amaro. Chiusoin casa ripercorreva il cammino della sua vita: gli sembrava che si fosse sempresvolto su un percorso obbligato dalle circostanze; sul quale poco o nullaavevano potuto influire la sua volontà e le sue decisioni. Dall'età matura glianni erano rotolati subdolamente l'uno sull'altro; gli eventi che sembravano nondover lasciare tracce nel momento in cui accadevanoin seguitocon una catenafitta di cause ed effetti (talora remote le primema attuali e inevitabili glialtri) lo avevano costretto ad una accettazione supina del suo destino. La suaricchezzache in realtà a lui non sembrava tale e invece appariva opulenta aimiserabili e agli avidi che lo circondavanoera solo il risultato di tantilutti e  della sua longevità che loavevano reso erede unico del patrimonio familiare. Nell'arco di un decenniomentre lui frequentava a Napoli il ginnasio e il liceola sua casa venivalentamente vuotata dalla tisi. Uno a uno fratelli e sorellecolpiti dal malediventavano delle larve umane e si spegnevano. Spesso era un isolato sputo disangueal quale le prime volte nessuno aveva dato importanza ma che poigenerava immediata l'angosciaa dare l'avvio alla malattia; la quale seguivapoi il suo decorso lento e inesorabile. Così in casa era rimasto solocon unozio iroso e decrepito che rendeva testimonianza di sé unicamente con regolaricolpi di tosse. Allora fu costretto a interrompere gli studi e a interessarsidell'amministrazione del patrimonio familiare; avvertì le difficoltà e la noiadi tali incombenze e ben presto il panico di sentirsi incapace ad affrontarle.

Neglianni felici e spensierati dei suoi studi aveva sognatoinvecedi diventare ungrande avvocato o un medico famosocome quei professionisti affermati che avevaconosciuto a Napolidei qualiin virtù delle sue origini signoriliavevapotuto talvolta frequentare i salotti. Allora aveva fatto fermo proposito diconseguire anche lui una laurea e di rimanere ad esercitare nella capitale lasua professione. I proventi del lavoroche immaginava lautiai quali sisarebbe aggiunta la rendita della sua quota di patrimonio familiaregliavrebbero consentito di condurre una vita piena e agiataproprio come quelladella buona società che aveva conosciuto e che aveva acceso la sua giovanefantasia. L'ossessione della "roba" e del risparmiodel fare ad ognicosto e sempre "economia"l'avariziaunici criteri che regolavanol'andamento della casa paternadovevano rimanere per sempre esclusi dalla suavita. Ricordava con disgusto il continuo lesinare dei suoi genitori: ogni spesaancorché modestaera considerata sempre uno sperpero e subita come un salasso;i pagamentiquelli inevitabilivenivano ritardati il più possibileanchequando il danaro era lì pronto nel cassetto come se a tenervelo custoditoqualche giorno ancora avesse potuto germogliarvi. Le renditeinveceeranostimate sempre magre eper principiosistematicamente decurtate dall'abilitàtruffaldina di fittavoli e amministratori. Questa mentalitàdominatadall'ossessione della "roba"che rendeva grama la vita e che forseera stata responsabile delle maggiori disgrazie occorse alla sua famigliaaveva rattristato l'infanzia e l'adolescenza di DonArcangelo e dei suoi fratelli. Se da bambini rifiutavano una pietanza per uncapriccioo avevano rovesciato per sbadataggine una ciotola di latteai severirimproveri s'aggiungevano strani commenti e adagi che allora gli erano parsi solo noiosi atteggiamenti degli adultima poi gliavevano rivelato quale gretta concezione della proprietà e del benessereavessero i suoi familiari. Così li avevano tante volte ammoniti che c'eranostati periodi nei quali in casa per risparmiare s'era "mangiato pane esaliva"che "pane secco e vino aceto fanno l'economia dellacasa" e a smorzare gli entusiasmi e le illusioni per i loro futuriprogrammigli avevano ripetuto fino alla noia la massima: "Pianomerliché la via è petrosa!". Quando adolescente aveva chiesto un vestito nuovoche assecondasse la sua vanità giovanileera stato oggetto di amari rimproverie gli erano state fatte profezie di un futuro buio: ché di quel passo sarebbefinito sul lastrico a chiedere l'elemosina come era accaduto a tanti altrisignori scialacquatori del paese ( e qui giù filastrocche di nomi e cognomi digente finita malemorta e sepolta da almeno un secolo); che "Homo sinepecunia imago mortis[1]"e che si sarebbe reso conto troppo tardi della sua sconsideratezzae soloquando dei futuri creditori si sarebbero avventati sul suo patrimonio e gliavrebbero tolto tutto"perfino la carne sotto la lingua". L'immaginedi questa sorta di operazione chirurgica e del suo esecutoreche certamente avrebbe dovuto avere qualcosa di rapace e grifagno nell'aspettos'erapoi fissata nella mente dell'adolescente Arcangelo. Ed ecco che oravarcata giàda un pezzo la soglia della vecchiaiaproprio quando avrebbe voluto avere unrapporto più franco e immediato col mondo che lo circondavadoveva accorgersiche per lui tale rapporto era costantemente mediato dalla "roba". Enon solo perché per viverecontro ogni suo antico desiderionon poteva faraltro affidamento che sulla sua roba (e doveva tenerla ben salda tra le manichéla proprietà quanto più è vasta tanto più pare inconsistente e sembrasgretolarsi da una parte mentre si tenta di reggerla e di pararla dall'altra!)ma soprattutto perché chiunque lo avvicinasse aveva sempre da fargli richiestadi qualche cosa: lui era solo il tramite inevitabilee perciò odiosoperpoter accedere a quella sorta di deposito di beniquale evidentemente gliestranei consideravano la sua proprietà. Erainsommal'unico ostacolo che sifrapponeva tra tali beni e i loro futuri possessori. Eppure non aveva figlinipotiné altri parenti prossimiche sono quelli che aspirano con impazienzaa tale possesso. E a mostrare cupidigia non erano i diseredatii veri poveridel paese; questi sembravano paghi della carità che lui aveva dato ordine fosseregolarmente elargita.

Adesiderare con evidente ingordigia i suoi beni in generaleo uno di essi inparticolareerano individui del ceto che più gli riusciva odioso: quello deinuovi ricchi e dei pubblici faccendieriai quali si aggiungeva lo stuolo dicompari e di comari che quasi ogni giorno spuntavano come funghi. Questi ultimia dargliene il destroevocavano con sorprendente vivezza di particolaricomefossero accaduti ierile cresime e i battesimi ai quali metteva capo il legamedi affinitàche invece erano lontani nel tempo e nelle generazioniseppur maiesistiti. E dovevano anche tenerlo per rimbambito perchéanche quando avrebbepotuto facilmente smentire una loro bugia o confutare una narrazionecontraddittorialuial colmo della noia e del fastidio taceva o profferiva dei"sì... sì..."distaccati e astrattiprima di trovare il modo dicongedare l'importuno interlocutore.

Datempoinsommaera comparsa gente che con sfrontatezza mostrava con lui unafamiliarità che mai era esistitadalla quale traeva presupposto per avere ineredità una casa o un terreno confinante col proprio o un qualsiasi altro benea suo piacere"per ricordo". A suscitare i desideri di un modestoimpiegato comunale era un violino di gran pregio che il più grande dei suoifratelli aveva comprato a Napoli menandopoivanto del prezioso acquistoquando era tornato in paese. L'impiegato in vari modi aveva cercato di venirnein possessofoss'anche a titolo di prestito. In occasione di feste nuziali e diricevimentiquando v'era invitato come musicorinnovava con garbo la richiestaa Don Arcangeloadducendo anche la buona ragione che un simile strumento dovevaessere suonato per evitare che si deteriorasse irrimediabilmente. Le suerichiesteperònon furono mai esaudite e Don Arcangelo continuò a tenerechiuso nella custodia il violino. Quelli che non avevano alcun motivo persperare in qualche fetta della sua ereditàtrovavano anch'essi modo di farsivivi con lui con un immancabile riferimento alla roba e per ricordargli cheprima o poi gli sarebbe sfuggita di mano. Anzi che già una parte glienesfuggiva. Così andavano a riferirglifingendo affettuosa comprensione delladebolezza e dell'impotenza proprie della sua età avanzatache intanto gliricordavanoche durante la notte avevano sentito dei rumori nel suo granaio onella sua dispensa e che poi avevano visto con i propri occhi i ladri cheportavano via sacchi di grano e sporte intere di provviste. A questi non graditiinformatori Don Arcangelo non dava il tempo di finire il racconto. Senzamostrare sorpresa  interrompeva le loro querimonie con un freddo"Certamente!" che li lasciava interdettiaggiungendo poi subito:"Chi volete che i ladri derubinose non chi la roba ce l'ha?" e altrevolte più spiccio: "Certoda te che non possiedi niente i ladri che civerrebbero a fare?"

Pertali motivi aveva anche ordinato ai domestici di non dare in prestito alcunutensile di casacome nei paesi suol farsi col vicinatoperché non potevasopportarne la mancata restituzione; la ragione di tale omissione la intuivachiara e netta come se avesse sentito profferire le parole: "tanto a luiquesta cosa ormai non serve più!" Un oggetto di irrilevante valoreintrinseco era motivo per considerarlo già mortofacendolo sentire come undefunto che trascorreva in quella casa una provvisoria licenza dall'aldilà.

Ladifesa della "roba"insommaper Don Arcangelo era diventataancorpiù che una questione di principiol'ultima sua molla vitalela provatangibile della sua esistenza. Gli tornavano alla mente con l'aura dellaprofezia quelle antiche parole: "Quando vi toglieranno perfino la carnesotto la lingua!" Egli doveva opporsi a questo destinoimpedire che sicompisse il desiderio di quantiignorando la sua umanità e valutando alcentesimo la sua sostanzavolevano spogliarlo di tutti i suoi beni e ridurlo inun ospizio di mendicitàmorto a tutti gli effetti civili.

Inquesto stato d'animo lo trovò Don Giancrisostomogiovane e facoltoso signoresuo vicino di casaquando gli andò a far visita. Questo gentiluomocontinuando l'opera già iniziata dal  padrestava ampliando il palazzo di famigliache era posto tra due vicoli dirupaticon l'acquisto e la demolizioneuna dopo l'altradelle casipole confinanti.Impresa che aveva lo scopo di raggiungere con il corpo della fabbrica una delledue strade principali che correvano a monte e a valle dei due vicoli. Allora sisarebbe costruita una facciata di bella architetturanobilitata da un ampioportaleche avrebbe in certo senso concluso e conferito un aspetto armonico allungo fabbricato. Altrimenti questo sarebbe apparso incompiuto e monco. A valleDon Giancrisostomo non potè acquistare l'ultima casa perché il proprietarioun osteci aveva il suo negozio e non aveva voluto cederla a nessun patto. Amontetra il palazzo in ampliamento e la strada principaleal punto in cuierano i lavori rimaneva solo un minuscolo fienileche era proprio di fronte alpalazzo di Don Arcangelo e di sua proprietà.

Trala famiglia di Don Giancrisostomo e quella di Don Arcangelo v'erano state inaltri tempi accese liti per questioni di eredità e un'antica ruggine era poisempre rimastaanche se i motivi originari delle contese s'erano perduti neltempo. Negli ultimi decenni l'indifferenza aveva preso il posto della lite e ledue famiglie si erano semplicemente ignorate. Al punto in cui si trovava con ilavoriperòDon Giancrisostomo per l'acquisto del piccolo fabbricato eracostretto a rivolgersi a Don Arcangelo. Cercò di vincere la riluttanza cheprovava al pensiero di recarsi da lui; quelle antiche questioni avrebberoaumentatoe non di pocola già nota difficoltà d'intrattenerci rapporti acausa del suo carattere scorbutico; ma ne considerò l'età avanzatariflettéche tra loro duepersonalmentein fondonon era mai corsa parola offensiva oirriguardosa e si rincuorò. Non c'era davvero alcun motivo perché tra lorodurasse ancora tanta freddezza! Inoltrequalunque somma di danaro Don Arcangelogli avesse chiesto per quel piccolomalridotto edificio lui l'avrebbe pagata.

Sirecòquindia far visita a Don Arcangelo. Al suo cospetto mostrò deferenzaprese conto con garbo della salute e si congratulò per la verde vecchiezza cheprometteva ancora una vita lunga e sana. Parlò poi delle immancabili noie che ilavori in corso e gli operai gli procuravano. Disse checomunqueriteneva difar opera che aggiungeva decoro alla contrada eliminando tante difformicatapecchie e allontanando in tal modo anche i poveri e talvolta inquietiabitanti di esse. Avrebbe gradito anche il consiglio di Don Arcangelo sullosviluppo dei lavorise avesse voluto avere la compiacenza di darglieneconoscendo la sua esperienza e il suo gusto signorile!

Mentreil visitatore perorava con abilità la sua causaDon Arcangeloche benimmaginava il motivo della visitaandava considerando con crescente amarezzache costui spinto dall'interesseaveva voluto dimenticare d'un tratto centoanni di litidi cause nei tribunalidi dispetti reciproci e di pettegolezzi eora veniva a tendergli la mano come fossero due vecchi amici che nons'incontravano da un qualche tempo. Ancora una volta ci si rivolgeva a lui perla sua roba e solamente per essa: lui era vissuto più del tempo occorso perchéla fabbrica raggiungesse il suo fienile; quello era il solo motivodell'interesse per la sua persona! Attese che gli fosse fatta la richiesta divendita tenendo fisse sul visitatore le sue iridi cerchiate dalla vecchiaiasenza tradire in alcun modo i suoi sentimenti. Don Giancrisostomo nellainespressività di quel volto lesse una condizione di debolezzadi inerziasenile che le sue parole avevano già vinto e si rammaricò di aver temuto tantoquell'incontrodi averlo così a lungo rinviato senza un valido motivo; fuperciò più franco ed esplicito nel formulare la richiesta di una sollecitacompravendita.

DonArcangelo non gli rispose subito; rimase ancora con le mani appoggiate sulleginocchiacosì come era stato dall'inizio del colloquioinspiròprofondamente ariaspinse alquanto il busto verso la spalliera della seggiolaaiutandosi con le braccia come se le sue spalle avessero dovuto reggere un nuovoe più gravoso caricopoi disse calmo e amaro: "Sei venuto da me soloperché vuoi il mio fienile. Ti serve per potertene uscire in carrozzaeproprio davanti a casa mia! Io non te lo permetterò. Non lo vendo!"

Ilpiccolo fabbricato è ancora lìai nostri giornia testimoniare il dispettodi Don Arcangelo.

Qualchetempo dopo alcuni operai che di buon mattino si recavano al lavoropassandodavanti al palazzo di Don Arcangelotrovarono a terra l'archetto di un violino.Capirono che ormai non poteva essere più restituito al suo proprietario.

Ilviolino fu il primo dei beni di Don Arcangelo ad andar disperso con la suamorte.


ZEFERINO

 

 

Lacavalcatura di don Tommaso precedeva di pochi passi quella di Zeferino sulripido sentiero delle Pendinelle[2].Il mulo conosceva la strada che dopo alcune miglia lo avrebbe ricondotto allastallapercorsa tante volte ora con la sella come cavalcatura del canonicoquando questi si recava a Sulmona per la cura dei suoi interessiora col bastocome bestia da soma diretta ai mercati ed alle fiere di quella città.

DonTommasolo sguardo fisso al sentiero che si snodava in salita tra le orecchiedel mulonotava solo il ritmico alzarsi e abbassarsi del capo dell'animalesincrono con il moto delle zampeche gli dava una sensazione di incederediscontinuo sul terrenomentre il movimento continuo e cullante che attraversola spina dorsale gli si trasmetteva a tutto il corpo lo invitava a pensare.Erano frammenti di pensiero quelli cheormai da tempoturbavano la serenitàdi don Tommaso; serenità invero mai raggiunta appieno sebbene l'avesse sempreagognata come uno stato se non di vera e propria graziaalmeno di raccoglimentospirituale e di tranquillità. Da quando era divenuto parroco ne aveva avvertitoancor più acuto il bisogno per poter rivolgere tutte intere le sue energie allacura delle anime nella parrocchia. Aveva cercatoperciòdi costruirselalavorando a comporre con infinita pazienzacome fossero le tessere di unmosaicole contraddizioni e i paradossi che la vita quotidianamente gli mettevasotto gli occhigli opposti pensieri che ne scaturivano e i sentimenti e leemozioni che a tratti gli ribollivano nell'animo. In realtà al sacerdozio nonlo aveva condotto una sua originaria vocazioneché anzi in gioventù le sueinclinazioni erano ben diverse e per farsi prete aveva fatto rinunce taloraaspre e sopportato profondi turbamenti  maa indossare l'abito talare lo destinava la sua condizione di ultimogenito nellanumerosa compagine familiare e la necessità di evitare che alcuni beneficiecclesiastici passassero in godimento ad un altro ramo del ceppo. Ad accettarequel suo destinocomunquelo avevano aiutato il desiderio di non tradire leaspettative dei genitoriimplicite in tanti loro discorsi e la consuetudinedella famiglia con le funzioni religiosecosì spesso ricorrenti nelle varieepoche del calendario e scandite  ognigiornodal mattutino all'avemmariadalle campane della vicina chiesaparrocchiale. D'altra parte in casa v'era una tale quantità di libriecclesiasticidi vite di santidi raccolte di omelie famose appartenuti aprecedenti generazioni di prelatiche le giovanili letture di don Tommaso sierano svolte quasi esclusivamente su simili temi di edificazione morale ereligiosa. I volumi con le opere dei classici e quelli di dirittoscritti perlo più in latino o in grecoessendo in minor numero non avevano potutoforseattrarre l'attenzione del giovane lettore. I pochi libri di matematica che glierano capitati tra le manipoierano sembrati subito a Tommaso astrusi ecabalisticitanto che si era domandato (non sapremmo dire se in perfetta buonafede) perché non fossero considerati libri di magia e come tali annoverati traquelli vietati dalla Chiesa e messi definitivamente all'Indice dei libriproibiti.

L'insufficienzadi informazionila povertà di idee che ne era la conseguenza e la mitezza delcarattere avevano mantenutocosìnei suoi propositi uno stato di inerzia chefu vinto facilmente quando giunse il momento di ricevere gli Ordini Sacri.

Quandopoinell'adempimento del sacerdozio e specie nell'ufficio di confessore avevadovuto constatare che la  scarsacultura lo rendeva impacciatodon Tommasoaccanto a quel paziente lavorìo diricomposizione dei contrasti interiori

percolmare le proprie lacunesi era applicato in letturesi era immerso inmeditazioni e aveva cercato di cavar costrutti di valore generaledall'esperienza quotidianavivendola con spirito critico. Tutto ciòper uncerto tempoampliando l'orizzonte del suo pensieroera valso a dargli unamaggior sicurezza e talvoltanel quotidiano esercizio del suo ministerounagratificante sensazione di appagamento . Ma adesso che era avanti negli anniavvertiva a volte piùa volte meno nettauna mancanza d'interesse perfaccende e incombenze di cui prima s'occupava con lena e per le quali a voltegli era capitato anche di angustiarsi. Da qualche tempo uomini e cose gliapparivano sotto una luce diversain formeespressioni e significati diversi.Nei momenti di ozioche il canonico prima evitavae che invece ora cercavaspessoquesto nuovo mondo interiore gli pareva che germogliasse da antiche eprofonde essenze dell'animo suo. Allora lo pervadeva un bisogno imperioso dipossedere qualcosa che fosse pure di percezione meno immediata ai suoi sensimapiù concreta nella sua mente; un bisogno di afferrare concetti chevivificassero in lui una fede meno formale e più ascetica; che gli rendesseropiù chiare certe intuizioni che intravvedeva presenti e profonde nel pensierodegli autori di alcuni libri (ora ne leggeva anche di profani) e nelle stessesacre scritture.

Talvoltaera un evento all'apparenza del tutto insignificante a mettere in risalto ladiscordanza tra il suo stato d'animo di astrazione e le realtà quotidianeequando la vecchia e la nuova percezione di un fattoormai entrambe incerte sisovrapponevanodon Tommaso era colto da una trepidazione e da un'ansia cheprima gli erano ignote.

Sisentiva diverso dagli stessi colleghi del Capitolo della Collegiata; di alcuniaveva sempre ammirato la vita austera e la grande dottrinae con essi mantenevarapporti di timida cortesia e di rispetto senza sentirsene per ciò umiliato; dialtri invece non poteva sopportare la crassa e ben pasciuta ignoranza. Non raripoia contrariarlo erano avvenimenti che in paese suscitavano mormoriimaldicenze o "scandalo"come chiaro e tondo spiattellavano ibenpensantidei quali era protagonista un prete. Proprio qualche domenicaprimaalla messa cantatalo aveva stizzito uno di tali fattianche perchénon era riuscito a trattenere un sorriso di partecipazione al mormorio ironicoche d'un tratto s'era levato tra i fedeli. Questi stavano ascoltando unpanegirico che con gran fervore recitava dal pulpitocondannando la lussuria edesaltando la purezzaun canonico checome tutti sapevanoaveva avuto unfiglio da una donna conosciuta come "Pasqua dei tre ducati". Nessunomostrava di meravigliarsi udendo da quale pulpito veniva la predica. La genteconosceva bene il proverbioallora spesso ricorrente: "Fa quel che ilprete dice e non quello che fa!" Ma le cose presero una piega diversaquando Pasquacerto contravvenendo a precisi ordini del suo amantepensò dinon perdere la messa quella domenica e proprio durante la predica (a quel puntoil popolo ritiene che la messa sia "ancora buona") entrò in chiesacon il bambino in collo. Chi vide la donna ammiccò e diede di gomito al vicinochi non comprese subito il motivo del tramestio tosto se ne informò; mal'oratore che dall'alto del pulpito aveva notato Pasqua tra i primisi resesubito conto della causa del mormorio e divenuto rosso in voltos'impappinòperse il filo del suo dire forbito e per concludere in qualche modo la fraseiniziatache tra l'altro esaltava la fedeltà coniugaleuscì con undialettale ma esplicito "...Insommafigliuoli mieialmeno... almeno... ognunocon quella sé![3]"Espressione che da allora entrò nel gergo paesano.

Unpiù recente e personale motivo di cruccio era stato per don Tommaso quello diaver assunto come domestico e mulattiere Zeferino. Costui in paese aveva fama dimago e fattucchierecomunque di corrispondentefoss'anche di quart'ordinedelle forze occulte del maligno. Quanto bastavae ve n'era d'avanzoperchégli altri servitori della famigliail vicinato e persino semplici conoscenti didon Tommaso si sentissero in dovere di criticare la sua decisione e diironizzare addirittura su quella sorta di strano sodalizio tra due rappresentanti delle opposte potenze dell'aldilà. Don Tommaso dalcanto suo aveva solo inteso dar lavoro onesto a un pover'uomo che glielo avevachiesto mostrando una preventiva rassegnazione al probabile rifiuto. Avevapensato cheseppure Zeferino consigliava a qualcuno pratiche contro ilmalocchioquesti erano credenze e usi abituali a quei tempi presso la poveragente e in fin dei conti del tutto innocui. Luidon Tommasonon aveva maiavuto modo di lamentarsi del servizio che Zeferino prestava: altoallampanatocon le brache strette alla cintola da una fascia che un tempo era stata di colorrossola giacca corta ed il berretto a cono dei contadiniera sempre puntualee sollecito nel lavoro. Mulattiere da sempreaveva grande dimestichezza con glianimali: si avvicinava come non visto a un puledro ombroso e mentre lo rabbonivacon la voce gli aveva già stretto intorno al capo la cavezza; con pochisemplici gesti poneva il basto ad un mulo e ne bilanciava la soma o attaccava ilcavallo alla carretta. Mentre sembrava che riposassein un canto della stallaesaminava e riparava  finimenti. DonTommaso non lo aveva mai colto in pratiche o atteggiamenti sospetti distregoneria edopo i ripetuti dinieghi di Zeferino alle esplicite domande chegli aveva rivolto in propositonon gli aveva chiesto più nulla. Tuttavia ditanto in tanto doveva ancora rimbeccare qualcuno che non mancava di fare con luiallusioni ai poteri occulti del nuovo domestico.

Adistogliere don Tommaso dai pensieri nei quali era assortosul sentiero dellePendinellequesta volta fu proprio Zeferino che vociando dalla sua cavalcaturagli raccomandava di tenere corta la briglia al muloperché poteva spaventarsiper le brusche folate del vento che s'era levato e cheassieme all'inicipientenevischionon prometteva nulla di buono per il resto del viaggio. Infatti iltempo s'andò mettendo al peggio equando i due viandanti ebbero raggiunta unaquota più alta del loro itinerariola neve aveva già coperto il terreno e ilvento infilava aghi di ghiaccio nelle pieghe dei loro mantelli. Al piano diSant'Antonio furono colti dalla tormenta che a tratti toglieva la vista e ilfiato. Zeferino affiancò la sua cavalcatura a quella di don Tommaso ecamminando di conserva cercò di evitare che gli animali sprofondassero neifossi che la neve aveva colmato o che s'ingolfassero nei cumuli prodotti daimulinelli di vento.

Eranoancora molto distanti dal paese. Col bel tempo e un'andatura spedita non loavrebbero raggiunto prima di due ore; così era una meta irraggiungibile.L'unico posto in cui rifugiarsi e trovare riparoa quel puntoera l'Eremo diSant'Antonio che tra un turbine e l'altro si intravvedeva circondato dai suoialberi secolari. Lo raggiunsero. Il piccolo vano aperto ai viandantigelido espoglioconsentiva solo il riparo dal vento e dalla neve. Don Tommaso erascosso da brividi di freddole mani e i piedi intirizziti; tentò di camminaresu e giù per lo stambugioma le gambe si muovevano a scattiquasiindipendentemente dalla sua volontàe i piedi non percepivano il contatto colsuolo. I racconti di compaesani colti da bufere di neve gli tornarono alla mentevivi e attuali. Non pochi avendo smarrito la strada anche a breve distanza dalpaeseavevano passato la notte all'addiaccio e c'era chi in tali circostanzeaveva perso addirittura la vita! Gli tornò in mente il racconto dei tre oreficiche colti dalla tormentauna seramentre tornavano da un viaggio d'affarierano riusciti a sopravvivere fino al mattino istituendo una sorta di staffettatra loro: l'andare avanti e dietro a turno tra due punti di riferimento aportata di voce gli aveva impedito di smarrirsi e di rimanere assiderati. Adogni buon conto lui era tra quattro mura! Le bufere di neve tra quei montiperòpossono durare a volte anche più giorni!

Mentrequesti pensieri si volgevano nella sua mentee prima che la recita dellepreghiere alleviasse l'angoscia che li accompagnavaZeferino gli si avvicinòguardandolo attento come a scrutare i suoi pensieri con quei suoi occhi celestie fanciulleschi proprio fuor di posto in quel volto scurosegnato dalle fatichee dal sole più che dall'età. Don Tommaso pensò che avesse qualcosa diimportante da dire: "Che c'è?" fece. Zeferinocome avesseimprovvisamente mutato parererispose:"...Ho legato qui dietro l'Eremo imuli...".

"Quantopiù la bufera è fortetanto prima cessa o ci sono delle schiarite; alla primaschiarita ripartiamo!" disse don Tommasocome per rassicurarsi erassicurarloin realtà per tagliar corto ed evitare atteggiamenti troppoconfidenziali del suo compagno di viaggio in quel frangente. Zeferino non proferìparola e tornò sui suoi passi rimanendo ritto in piedi appoggiato al muro delpiccolo vano avvolto nel mantello. Ma dopo alcuni minuti e dopo aver apertol'usciodal quale entrò un turbinio di neve e averlo tosto richiusocome secon quel gesto avesse preso improvvisamente coraggiosi rivolse a don Tommasodicendo: "Vossignoriadon Toma'sapete che in paese dicono che io...cheinsomma certe volte...se necessariamente..." Don Tommaso istintivamentefiutò il pericolo ma rifiutò di intendere il senso delle parole di Zeferino;sperò di non aver ben compreso. Dette così al domestico il tempo di concluderein qualche modo la frase incominciata:"...se io dico...tre parole turchinedentro il cappello..." Ma Zeferino dovette interrompersidon Tommaso lofulminava con lo sguardo mentre si segnava con tre crocisulla frontesullelabbra e sul cuore. Urlò poi subito: "No! Mai!" e le altre parole didiniego e di condanna che gli uscirono di boccapoifurono così pronte eperentorie che gli parvero pronunciate da un'altra personaben più decisa evolitiva di lui. Attese quindi che l'ira gli sbollissesi impose calma con unenorme sforzo di volontà e quindiper prevenirne altre propostespiegò aZeferino che tutto ciò era peccato mortale solo pensarlo; che ben più dellamisera vita del corpoera quella dell'anima da tenersi da conto e chein ognicasomai lui avrebbe preso  parte apratiche di magia. Zeferino tornò al suo cantuccio e rimase a lungo silenziosocon un volto inespressivo da idiota. "Da idiota" cominciò a ripeteredentro di sé don Tommaso quando ritenne di aver respinto ogni iniziativa delsuo domestico. "Avere come aiutante in simili circostanze un fatuo checrede anche di essere dotato di poteri soprannaturali!..." Poisenzarivolgersi direttamente a luiespresse ad alta voce il suo convincimento chenon c'era altro da fare che aspettare una schiarita e apparve fermo in questoproposito: si era nelle ore antimeridianela famiglia lo aspettavavedendo iltempo brutto gli avrebbe  mandatoincontro una slitta trainata dai buoi come si faceva sempre in quellecircostanze. Bisognava aspettare!

Zeferinosi mostrò assolutamente incredulo sulla possibilità che tali evenienze siverificasseroedopo qualche minutosenza muoversi dal suo cantuccioazzardò:"Non dicevo tanto per noi...Noi potremmo anche aspettare domani...ma per lebestie; sono digiunefuori della stalla...in mezzo alla bufera!" Poicominciò a ripeterecol fare di chi parla tra sécome un bambino capricciosoche abbia smesso di aver paura della punizione minacciata: "Se dicessi letre parole turchine dentro il cappello!... se le dicessi le tre parole!...Sennò...sennòdon Toma'noi al Peschio[4]non ci torniamo!..." Don Tommaso dall'altro capo della stanza interrompevaogni tanto le sue preghiere con degli stizziti: "Stai zitto! Non dire altresciocchezze! Ti proibisco!" Edopo alcuni minutidi rimando al sempre piùfitto mormorio di Zeferino: "Pensa alla tua anima se ne sei capace; cosìDio non vogliavai diritto all'inferno!" Poicon un gemito"...inmanus tuas..." Don Tommaso si raccomandava l'anima. Era prostrato;quella era forse la sua ultima orainattesa in veritàanche se tante volteimmaginata! Aveva sempre pensato che vi si sarebbe preparato con raccoglimento eumiltà...Ma forse la volontà di Dio... Sentì l'aura di grande mistero cheaccompagna l'idea della morte quando essa è presente nel pensiero più chenella realtà immanente. Cominciò ad avvertire alloracon sgomentouna stranasensazione di possibilità nei confronti del soprannaturale e del magico di cuiforseproprio lì accanto a lui era un elemento tangibile; in qualicircostanze! Questa ennesima contraddizione della sua vita lo terrorizzò; sentìun bisogno imperioso di allontanarsi da quel luogo. Zeferino dovette indovinarnei pensieri. "Forse una schiarita sta iniziando –disse– ora porto quidavanti le cavalcature". Andò fuoritornò subitoaiutò don Tommaso amontare in sella. Ed ecco che un vento ancor più impetuosoma né freddonécaldoavvolge per un attimo i viaggiatori e...don Tommaso non crede ai suoiocchi "...Gesùsiamo alle porte del paesesiamo al Colle di Santa Maria–esclama– davanti alla chiesa delle Grazie! ...Siamo arrivati!" GuardaZeferino: costui era a capo scoperto con il cappello in manosotto la neve cheora cadeva rada e leggera. "Don Toma' –fece questi in tono di scusa– leso' ditte![5]"

Ilracconto di questo soprannaturale e diabolico salvataggioche nel paese corsedi bocca in bocca arricchendosi sempre più di particolari prodigiosiavvelenògli ultimi anni di vita a don Tommaso: le sue recise smentite di cosìfantasiosa ed assurda dicerianon valsero a rintuzzare e annullare nellapubblica opinione l'effetto dei furbeschi ammiccamenti di Zeferino; il qualequando si parlava di quel fattodoveva pur difendere il suo buon nome di mago efattucchiere.


LETERRE DI PUGLIA

 

 

Lenozze di Don Croceil primogenitoavrebbero avuto il fasto e la pompa che lacircostanza richiedeva. La ricchezza opulenta della famiglia sarebbe stataostentata secondo l'antica tradizione. Le terre di Pugliafertili latifondi nelTavolieregrondavano ancora oliogranovinoarmentilaneformaggi. E anchese i fattori avevano parlato spesso di raccolti magridi morie del bestiamesedi tanto in tanto avevano portatocon rispettosa soggezioneobbligazioni dafirmare al Padrone e qualche volta s'era dovuta tagliare e vendere qualche fettadi quella pingue proprietà ("solo per poter disporre al momento di danaroliquido") tutto ciò non modificava il tenore di quella opulenzachepareva avesse fissato stabile dimora tra le mura di casa Colajanni.

Ivecchi ricordavano spesso i festini dati all'epoca della loro gioventù e quelliancor più antichisplendidiregistrati negli annali della cronaca familiare.Se ne narravano mirabilia per il numero degli invitatiper lo splendore deigioielli e degli abiti che le signore avevano ordinato a Napoli o addirittura agrandi sartorie fuori del Reameper il numero delle botticine di vini pregiatie le enormi quantità di cibi e di dolciumi preparati per l'occasione: neigiorni che precedevano la festanon solo nelle dispensema anche su vastitavoli in molte camere del palazzoerano approntate ceste di pizzelle edi amarettitorte di pan di Spagna e creme ea seconda della ricorrenzacolustrea carnevalezeppole a s. Giuseppe e scarselle[6]a Pasqua. La durata di tali festepoivariava a seconda dell'epoca in cui sisvolgevano: se capitavano nei mesi invernalinel corso di una nevicatapotevano protrarsi per un'intera notteo una notte un giorno ed un'altra nottequando i cavalieri erano attenti a serrar bene gli scuri delle finestre durantela breve e buia giornata. Il tempo in allegria passava presto. Era ancorainebriante il ricordo delle polche e delle quadriglie danzate al suono delleorchestre  chiamate dai paesi vicini!

Cosìdi ricordo in ricordodai raccontidall'osservanza di usi e consuetudini dicui s'erano perse le motivazioni originariedalla cronaca familiare deiColajanni non si cavavano altre memorie che di dissolutezze e sperperispecialmentein occasione di nozzebattesimi e funerali. Anche questi ultimiinfattierano un buon pretesto per sfoggiare pompa e innalzare alla famigliaelogi sperticati orali e scritti su grandi tabelle affisse tra nere cortine sulportone del palazzo e sul portale della chiesa. Né minore spreco di danaro siaveva in occasione delle festività di santi dei quali la famiglia si ritenevala rappresentante e mandataria speciale per i loro uffici terreni.

Atestimoniare il diritto a tale tenore di vitache era ritenuto senz'altronaturalea renderne pubblica ragionese mai ve ne fosse stato bisognononsolo c'erano le terre di Pugliama era lì il palazzo gentiliziouno dei piùbelli del paesee lo stemmadipinto sulla volta dell'andronesugli sportellidella carrozza e scolpito sull'altare di patronato in chiesa. Proveinequivocabili di un antico lignaggio. In veritàsarebbe stata cosa gradita sesi fosse potuto dimostrarecarte alla manoil possesso di un autentico titolonobiliareo almeno che i Colajanni erano il ramo cadettotrapiantato qualchesecolo prima in paesedi una delle grandi e nobili casate del Reame. Ciòavrebbe aumentato di gran lunga il loro prestigio nei confronti delle altrefamiglie ricche del paese con le quali la gara di ostentazione della maggiorricchezza erae rimase poisempre aperta e pendente. Quel titolo nobiliareavrebbe finalmente sostituito quello generico di "barone" del qualeveniva insignitoper popolare decretoil personaggio principale di quellefamiglie benestanticon tanto maggior consenso quanto più prepotentebislaccoe sperperatore fosse.

Sidava per certo che i documenti di tale nobile origine dovessero trovarsinell'archivio di famiglia cheintantonei vari ammodernamenti del palazzo erastato relegato in soffitta. Lì giacevano casse e sporte di libri di ogni tipo eformato; pile di volumacci in folio rilegati in pergamenapasto dei topinei loro giorni di magra; "carte pecore" intere che tornavano utili airagazzi per far colla e palloncini aerostatici in occasione delle sullodatefestee tanti fasci di "carte vecchie" che nessuno più era in gradodi leggere quand'anche gliene fosse venuta la voglia.

Sequei gentiluomini le avessero letteinveceavrebbero scoperto con quantafaticaparsimonia ed accortezza quei loro patrimoni erano stati accumulati econ quanta saggezzapoiamministrati. Avrebbero saputo che quegli antenatiartefici della loro ricchezzaerano in genere agenti o rappresentanti localidei signori feudali contro i quali avevano dovuto lottare duramentecon ricorsialla Regia Camera della Sommaria e lunghe cause nei tribunaliper affrancare dagravami e balzelli le loro iniziali proprietà. I processile memorie forensigli atti notarilile lettere e i minuti resoconti delle renditeerano in queifasci di vecchie carte gettate in soffittaa loro tempo piegatelegate eriposte con cura; le quali recavano a margine del plicocon parole abbreviatein un occhiellol'indicazione del contenuto. Avrebbero trovato anche in tondiastucci metallici le lauree di coloro (avvocatimedicinotai) che avevanoacquistato quei vecchi e reietti libriascendendo cosìprimi della stirpeilgradino basilare della scala sociale che è quello della cultura. Fu questa chein felice unione con il benessere economicoaveva conferito alla famiglia percirca due secoli un'autentica patente di nobiltà che prescindeva dagli smaltiaraldici. Metterebbe conto studiare le cause della rovina che nell'arco di mezzosecolotra la fine del XVIII e il primo quarto del XIXcoinvolse molte dellericche famiglie di Pescocostanzoma questo non è compito nostro.

Qualchespiegazione di quei fattituttaviace le darannoper lo meno per la famigliaColajanniDon Ignazio e sua zia Donna Rosina. La quale era rimasta in casazitella perché la famiglia le aveva impedito il matrimonio con un magistrato diNapoli. Costui l'aveva chiesta in sposa con tanto amore e pari dignitàeproprio perciò del matrimonio non se ne era fatto nulla. Neppure a parlarneanziperché con simile matrimonio si sarebbero scesi alquanti gradini dellascala sociale e la famiglia si sarebbe  imparentatacon un impiegatuccioun suga-gnostro[7].Terre al sole ci volevanoe molteper i pretendenti alle donne della famigliaColajanni; o almeno un titolo nobiliare autenticoe meglio ancora l'uno e lealtre! Sudditi modello del Borboneche apostrofava pennaruli gliintellettuali del suo regnoi Colajanni estendevano la loro avversione anche alcalamaio e all'inchiostro simboli delle attività intellettuali e della culturaacquisita con lo studiocose superfluee persino disonorevoliper possessoridi tanta ricchezza!

Madobbiamo occuparci delle nozze di Don Croceche urgono. Nel fervore deipreparativi fu rinnovato l'addobbo delle sale e della cappella che erano alpiano nobile del palazzo dove le nozze sarebbero state celebrate; furonorinnovate le vesti della servitù e raddoppiate le luminarie. Ma per quantosfarzosi si programmassero i festeggiamenti non sembrava che si riuscisse asuperarealmeno in originalitàil cerimoniale dei matrimoni avvenuti negliultimi tempi nelle famiglie degli altri ricchi signori del paese. Prima delgiorno delle nozzeperòl'idea nacque! Eaffinché l'effetto desideratofosse raggiunto appienosi fece sapere alla servitù che per gli spettatori delcorteo nuziale era in serbo una ricca sorpresa. Tanto bastò perché sidiffondessero in un baleno voci diverse ma tutte ugualmente certe: Le cantinedel palazzo ...macché le dispensesarebbero state aperte al pubblico nonappena fosse uscita di casa la carrozza degli sposi! Anzisarebbero stati glistessi sposi a distribuire manciate di monete d'argento...E via di questo passo.Così la folla che solitamente faceva ala ai cortei nuziali dei signori questavolta fu doppia o tripla e s'assiepò ansiosa ai lati del portonetrattenuta astento dai servitori. Quandospalancati i battentiapparve la carrozza deglisposi con un maestoso tiro a quattrola gente trattenne il fiato stupefatta datanta magnificenzamasoprattuttoper esser pronta ad afferrare l'occasionedell'ignotoma certo e ricco dono che stava per ricevere. I cavalli retti dalcocchiere avanzarono al passo finchépoco oltre il portonenon ebberoraggiunto un tratto di strada in salitacon l'acciottolato più che altrovesconnesso. Qui il cocchiere improvvisamente sferzò e incitò con la voce icavalli; questiche pareva non attendessero altrocon uno scarto ed uno scattoimprovviso partirono di carriera. Dai loro zoccoli schizzarono viaalloragrossi ferri luccicanti d'argentoopportunamente fissati con un solo chiodoanch'esso d'argento. La folla capìurlò e s'accapigliò ruzzolando a terranella contesa del ferro e del chiodo. Così alle nozze di Don Croce fuassicurata fama duratura nella cronaca cittadina e del circondario.

Matostosugli sposi in viaggio di nozze a Napolicorsero voci malevole es'innescò un pettegolìo che coinvolse in breve tutti i benpensanti dellacittadina. Si disse che le cose fin dalla prima notte non eranopoiandateproprio bene tra gli sposi; che un'altra voltaanziché dormire contentoaccanto alla fresca moglieDon Croce l'aveva destata nel cuor della nottepretendendo che l'accompagnasse a fare un giro di Napoli in carrozza mentre luisuonava il mandolino e cheal categorico rifiuto di lei"il gallinaccio–andasse urlando per tutta casa– lo farò accompagnato dalgallinaccio!" In realtà il volatile era l'unico disposto ad accompagnarlointendendo forse di diver  rendereanche quel servizio al suo padrone prima di finire in brodo. Il cocchiereinfattiche pure alle stranezze del suo padrone era abituatoin questo casonon si sentì disposto a perdere la faccia nei confronti dei suoi colleghi e aoffendere con simili ospiti a bordo l'onore e l'amor proprio della categoria.

Questecronache richiamarono presto alla memoria dei familiari altre stramberie delgiovane Don Croceconsiderate fino ad allora scherzi e spiritosaggininarrate(forse con l'intenzione di mettere sull'avviso i genitori) da Felice che era ilsuo cameriere e accompagnatore durante i viaggi. Una mattina a Napoli –avevaraccontato Felice– affacciandosi alla finestra della camera dell'albergo doveavevano preso alloggioDon Croceavendo visto lì di fronte un barbiere nellasua bottega in attesa di clientiaveva detto di voler andare a farsi radere. Maqualche istante dopo Don Croce era tornato in camera contrariato"Felì–gli aveva detto– il barbiere è scomparso!" "Un po' di pazienza–gli aveva risposto Felice– si sarà allontanato un momento per qualche suoservizio". Ma così dicendo Feliceaccostatosi alla finestravede che ilbarbiere era al suo posto; "Don Crò –dice– il barbiere ètornato". "Allora vado" risponde Don Croce e scende in strada perla seconda volta. Un attimo dopoperòFelice lo vede tornare in cameraimprecando: "PersancristoFelìil barbiere è scomparso un'altravolta!" Felice rimane perplessos'affaccia alla finestravede che ilbarbiere è al suo posto e lo mostra a Don Croce. "Persancristoèricomparso ancora!" esclama Don Croce. A Felice s'apre la mente: "DonCro' –dice– ma quando uscite dall'albergogirate o no l'angolo dellastrada? perché questa barbieria non sta di fronte al portone dell'albergomain una strada laterale!" "PersancristoFelìhai ragione –ribatteDon Croce– ma questo a me il barbiere non me lo doveva fare! Andrò da unaltro barbiere".

Néal ritorno dal viaggio di nozze le cose andarono meglio; le stranezze sisuccedevano alle stranezzeaccessi di furoretalora effetto di abbondantilibagioniinterrompevano la monotonia di uno stato di confusione mentalee lamoglieche dapprima lo aveva allontanato da sé pur rimanendo in casaritennemiglior partito quello di tornarsene dai genitori nel paese vicino.

Capofamigliasenza consiglise non di quelli che videro giunto il momento di dar la strettafinale al processo di spoliazionedel resto già ben avviatodel patrimoniodei ColajanniDon Croce firmò cambialiobbligazioniatti di venditagaranziefino a far comparire sull'uscio di casa gli araldi della miseria:creditori che reclamavano danarouscieri che pignoravano mobiliperiti che stimavano i residui lembi della proprietà. A questo punto Don Ignaziofratello minore di Don Croceche come cadetto era stato sempre tenuto fuori daogni decisione familiare e da qualsiasi programma (se mai in quella famiglia vene furono di costruttivi) e che dal canto suo non si era lasciata sfuggirel'occasione d'oro del vivere spensierato offertagli da tale condizionefustrappato ai suoi passatempi preferiti e costretto a prendere decisioniinveritàmolto superiori alle sue capacità di giudizio. A scuoterlopiù chelo spettro della miseria incombentefurono i consigli decisi della zia Rosina che si preoccupava di luiil più piccolo dei nipoti ed unico componentedella famiglia al qualetra tanti mattis'era potuta affezionare. Ora lovedeva restare "senza arte né parte"come si sarebbe detto se DonIgnazio anziché appartenere ad una famiglia di signori fosse stato uno delpopolo; madato il rango che escludeva "l'arte"per lui diremo soloche stava rimanendo del tutto privo di "parte".

DonIgnazio sentiva l'affetto che questa zia nutriva per lui ed era l'unico acomprendere che lo sdegnoso isolamento in cui lei s'era ridotta non era dovutoad un suo carattere scorbutico né all'età avanzatacome tutti gli altrimostravano di ritenerema alla sua impotenza a ricondurre alla ragione ilcapofamiglia. Infattial punto in cui erano le cosequando Donna Rosina era inpresenza di Don Crocesi limitava a sottolinearne la follia pressoché completacon una mimica silenziosa: picchiandosi sulla fronte con un dito e indicando poiil nipotefaceva segno di "no" con l'indice teso; il che valeva unbel dir chiaro che di cervello in quel cranio non ve n'era punto. Stimolato eincitato dalla ziaDon Ignazio s'indussealfinea chiamare un medico; ilqualedopo un breve colloquio con Don Crocerilasciò la certificazioneoccorrente perché fosse ricoverato in una clinica di Napoli. Da doveessendoinefficaci le cure ed insostenibile il loro costofu rapidamente trasferito nelmanicomio di Aversa e di lui non si seppe più nulla essendo rimasta incertaanche la data della sua morte.

DonIgnazio allora dovette prima di tutto andare in Puglia; da quelle terre ormai datempo non giungeva più alcuna renditama solo lettere di massari e fattori chechiedevano pagamenti o reclamavano stipendi e rimborsi di somme che dicevano diaver anticipato per conto del padrone o addirittura di avergliele prestate. Nés'erano più visti Nicola (o Nicolacchiocome qualche volta era parso disentirlo chiamare dai suoi stessi accompagnatori) il fattore capo delle Puglie ei suoi accoliti che nei tempi della spensieratezza portavano rendiconticarteda firmare e donativi al padrone. L'arrivo di questi personaggi in casaColajanni era rimasto vivo nel ricordo di Don Ignazio per la novità cherappresentava agli occhi dei piccoli e perché il fattore aveva sempre in serboper loro qualche piccolospeciale dono. Ma ciò che più li divertiva era ilsuo strano dialettoi differenti nomi che dava agli oggetti di uso domesticoititoli altisonanti di eccellenzaillustrissimoeccetera e i profondi inchiniche elargiva a tutti i membri della famiglia e anche (i ragazzi ne erano certi)a qualche mobile o drappeggio particolarmente sfarzoso della casaquando vipassava accanto. Il lessico di quei visitatoriancor più che di rito o serbatoper la circostanzaera formulato ed accozzato al momento per l'emozione e lostupore che in loro provocava la visione delle ampie specchieredei broccatidelle dorature e delle rilucenti cristallerie profuse nelle stanze del palazzo.Probabilmente anche per il rapido calcoloforse esageratoche quei rozziindividuiavidi e astutifacevano mentalmente del valore venale di queglioggetti.

Alsuo arrivo in Puglianella principale masseria dei ColajanniDon Ignaziosebbene avesse preannunciato con una lettera la sua visitanon ebbe accoglienzecordialiné successivamente i fatti si svolsero secondo le sue aspettative.Quando il vetturino della carrozza che aveva noleggiato per raggiungere la suaproprietà gli aveva detto che stavano varcando il confine delle terre deiColajannilui aveva notato che i cavalli avevano trottato ancora a lungo primadi condurlo alla meta; fu allora certo che avrebbe avuto ricche rendite dariscuotere da tutto quel ben di Diosenza considerarepoigli arretrati!Rimase quindi a guardare la piatta distesa di stoppie che pareva continuarsi epenetrare nella linea dell'orizzonte indefinita e tremula per l'afa estiva.L'arsura della terra e delle rareminuscole case che si scorgevanobianche dicalceera interrotta solo dai rettangoli di oliveto posti dove una piega delterreno creava un lieve pendìo.

Comeera diverso il paesaggio da quello del suo paese! Piatto l'unoquanto sinuoso eaccidentato l'altro pel groviglio degli Appennini; d'estate questo brulloquando quello era verde; e d'invernobianchi di neve i suoi monti e verdi dipascoli le Puglie. Tra le due regioni le greggi transumanti a far la spola peitratturia tessere la trama vitale delle pasture e a tener fede al lucrosopatto millenario con l'uomo.

Quandogiunse alla masseria Don Ignazio notò subito che era molto diversa da come laricordava per esserci stato una volta da bambino con suo padre: erano stateabbattute le vecchie querce che superavano in altezza il fabbricatoc'eranorecinti di nuova costruzionealberi da frutta piantati intorno e piccoli corpidi fabbrica aggiunti che snaturavano l'antico aspetto di fortiliziodell'edificio. Una donna scalzaintenta a dare mangime ai polliquando videDon Ignazio scendere dal postalesenza interrompere il suo da faregli disseche in casa  non c'era nessuno e cheDon Nicola sarebbe tornato molto più tardi. Posata poi in terra con malagraziala sporta che aveva in manolo condusse senza dir altro nel grosso vano disopra. Lì Don Ignazio ricordava che suo padreseduto su un seggiolone dietroun lungo tavoloriceveva massari e fittavoli; allora sul tavolo siammonticchiavano doni che il fattore togliendoli dinanzi al padrone spingeva manmano da una parte e faceva mettere da una donna in alcune ceste. Tavolo eseggiolone c'erano ancora. Don Ignazio sedette allora al posto che avevaoccupato il padrementre la donna con manifesta riluttanza portava in casa lasua valigia.

L'incontrocol fattoreche per Don Ignazio sarebbe rimasto come uno dei suoi più penosiricordiavvenne alcune ore dopo. Nicola giunse nel tardo pomeriggio di ritornoda una fieraa cavalloseguito da un carro carico di sacchimasserizie eattrezzi agricoli. La sua voce nasaleche impartiva ordini e istruzioni nel piùstretto dialetto pugliesegiungeva alle orecchie di Don Ignazio dalle finestreche davano sull'aia. Poi Nicola salì da luilo salutò chiamandolo signorinogli chiese come stesse in saluteprese una delle sedie che erano appoggiatealle pareti della stanza e si sedette dall'altra parte del tavolo di fronte alui;si tolse finalmente il cappello di feltro neroscolorito e unto e lo posòsul tavolo davanti a sé. La figura del fattore era goffa per bassa e massicciastatura con una testa piccola e lineamenti del volto dominati e quasi cancellatida due enormi baffi grigi spioventi che nascondevano le labbra e gran parte delmento. Ma ciò che più di tutto a Don Ignazio dava un senso di disagiose nondi vera e propria angosciaera l'aver di fronte i suoi occhi piccolifurbi esfuggenti e la sua voce sgradevole che non si sapeva di dove uscisse.

Nicoladisse chiaro che di rendite da quelle proprietà non era nemmeno il caso diparlare; cheinvece... purtroppo... la stessa proprietà non era bastata apagare tutte le ipoteche di cui era gravata; che se il baronebuon'animaavesse ascoltato i suoi consigli di trasformazioni e investimenti invece dichiedere semprele cose sarebbero andate per un altro verso...Cheinsommaquel che il Signorino vedeva intornoper evitare che andasse in malora econservarlo (non alla famiglia Colajannima a sé stesso) luiNicolaavevadovuto metterci tutto il suo e non era bastato e s'era dovuto gravare di pesiche ora stava sostenendo Dio solo sa con quanti e quali sacrifici!

ADon Ignazio sarebbero occorse altre capacità di giudizio e di critica sia perribattere quelle affermazioni del fattore che erano manifestamente tendenziosesia per cogliere il senso e prevenire l'effetto dei giri di paroledellesentenze e dei proverbi popolari sulla "roba"con i quali Nicolainfarciva impietosamente il discorso; che certo s'era preparato da tempo e oraconduceva con grande abilità per giungere a levar di testa a Don Ignaziounabuona volta per sempreogni residua idea di rendita eaddiritturadi proprietà.Frastornato del suostanco del viaggio e dell'attesacontrariato dalle novitàche neppur lontanamente immaginava così crude quando era partito alla voltadelle Puglie (tanto in famiglia si era lontani dalla percezione della realtà)il malcapitato intese benetuttavianon solo che quelle terre nonappartenevano più alla sua famigliama chese il posto e la seggiola cheoccupava si confacevano al ruolo di padronebeh!.. quel posto era di Nicolaanzi di Don Nicola come pareva che ora tutti lo chiamassero. Costui poifino ache non fu certo che Don Ignazio aveva ben compreso la situazione quale eranella realtà che gli aveva ammannitoassunse sempre più il contegno di unuomo d'affari che ha molti pensieri e preoccupazioni e poco tempoe quel pocodeve dedicarlo completamente a tali affari e non sciuparlo per cose che non loriguardino direttamente. Sicchése mai all'inizio dell'incontronell'atteggiamento di Nicola v'erano state tracce dell'antico rapporto didipendenzaesse erano in ultimo completamente scomparse man mano che andavaillustrando il panorama dei suoi molteplici e gravosi impegni.

DonIgnazio a questo punto si alzò dal seggiolonechiese informazioni per ilritorno in Abruzzo epoiché riteneva proprio di poterne aver bisognochieseanche a Nicola una piccola somma di danaro per il viaggio. Sarebbe statacomputatapoinel più grande e generale conto del dare e dell'avere. DonNicola per quest'ultima richiesta si mostrò in certa ristrettezza di danaroliquido; comunque disse che in qualche modo avrebbe provveduto. Pel resto mutòregistro e non intese sottrarsi agli elementari doveri dell'ospitalità finchéil signorino non fu ripartito.

Nonmolto tempo dopo la rovina raggiunse più da vicino la famiglia Colajanni:carrozzacavalliquadrimobiliscuderiefienili e lo stesso palazzofuronovenduti all'asta e per poco prezzo (e lo sfacelo mostrò ancora una volta lavastità e la ricchezza di quel patrimoniocome un cumulo di rovine dà ideadella mole dell'edificio crollato). Don Ignazio non credeva ai suoi occhi néalle sue orecchie; confusoistupidito (più del solitovorremmo aggiungere) siandava chiedendonel generale coro di querimonieche ne fosse di quella chelui e gli altri del suo rango ritenevano una sorta di legge di natura: quellache sanciva il diritto all'agiatezza e all'ozio per chicome luiera natosignore. Legge per la qualenell'ordinamento dell'umana società creato da Dio(e qui si giungeva ad invocare la Sua volontà) dovevano esservi accanto aisignorii poveri e coloro che per sopperire ai propri bisogni dovevano piegarsial duro lavoro. Ritenne alloratra il consenso unanime e ipocrita di quanti locircondavanoche si stava compiendo un destino già scritto ed ineluttabile; unfato avverso che faceva strumento di sé uomini malvagi e ladri e gente dasempre invidiosa della ricchezza e della fortuna della sua famiglia. Assunsequindicon amara ma dignitosa rassegnazione il ruolo del "nobiledecaduto"; figura che in quei tempi s'andava diffondendo ed acquisiva perciòuna sorta di propria fisionomia sociale.

DonIgnazio sebbene non fosse molto avanti negli anniappariva precocementeinvecchiato anche per la mancanza di quanto la cura minuziosa della persona el'abbigliamento elegante di solito aggiungonomigliorandolaa una scialbafigurama non fu mai trasandato. I suoi modi erano signorilipur se la suaistruzione era andata ben poco oltre quella elementaresalvo che per quel pocoappreso durante l'adolescenza e la gioventù da letture sporadiche edisordinate. Queste concernevano soprattutto nozioni di ingegneria navale daquando aveva avuto notizianon sapremmo dire per quale viadegli esperimentidi navigazione sottomarina e della costruzione del Nautilus avvenuta in Franciatra la fine del Settecento e i primi anni dell'Ottocento.

Graziead un minuscolo lascito della zia RosinaDon Ignazio poteva disporre di unacasipola e di un misero vitalizio sufficiente appena per un piatto di minestra:tanta e non di più era la fetta di proprietà che spettava alle femmine in casadei Colajanni. In tale ambientenella solitudineprovò sensazioni nuove esentì come stringerglisi intorno il piccolo mondo domestico (la casipolaconstava di un vano al pianterreno e di un unico vano con il camino al primopianoal quale si accedeva da una scala esterna a ballatoio). Presero contornidefiniti e nuovi persone e cose che pur gli erano note da tempo: la spazzola perabitisuo unico oggetto personale salvato dal naufragio che avesse un qualchevalore per il massiccio dorso d'argentoil piccolo caldaio in cui scaldaval'acquala concail mestoloebbero un'importanza ed una collocazione nellasua vita mai immaginate prima. Alla donna che gli portava il parco vitto (il piatto di "minestra calda"qualche uovouna ciotolina dilatte) s'accorse di rivolgere un'attenzione ed un sorriso che mai nei tempiandati aveva avuto per alcuno. Man mano che passava il tempo e lo scambioquotidiano sulla porta di casa della scodella vuota con quella piena scandiva legiornate di Don Ignaziogli interrogativi sui vari aspetti della sua disgraziale soluzioni migliori che retrospettivamente immaginava per problemi ormaimalamente risoltiandavano occupando sempre meno i suoi pensieri. Gli balenavatalvolta il ricordo degli sconfinati panorami di Puglia e delle sue arse terreriassorbite e svanite per sempre nella caliginosarovente linea di quegliorizzonti lontani. I diritti di nascita e di casta cominciavano a mostrarglisidel tutto privi di un loro valore effettualedi una intrinseca consistenzaquando non fossero sostenuti dal danaro. Non così l'orgoglio delle sue originisignorili. Per troppo tempo se ne era nutrito e a volte pareva gli ribollissedentro; allora gonfiando d'aria il petto ed ergendosi nella persona "sonoun signore"ripeteva a sé stesso; quasi checosì facendoristabilissepur dalla sua umile condizioneuna distanza sociale non più esistente neifatti.

Lavita di Don Ignazio fu ancora lungacome la durata del suo "abito dapasseggio" per i rammendi fini e sapienti che vi faceva; delle sue scarpesempre lustre del nerofumo raschiato al camino; del colore biondo cenere deisuoi capelli curato con tintura ai malli di noci e dei suoi misteriosi lavorinel vano terraneo della casipoladi dove venivano sovente rumori di lamierebattute e ribattute. Don Ignazio vide estinguersi altre famiglie di signorinella cittadinacon parabole che ripetevano quella dei Colajanni. Egli peròera stato meno sfortunato dei superstiti di tali famigliei quali nella maggiorparte dei casi dovettero essere accolti nella casa comunale dei poveridove indue grossi vani numerosi giacigli erano allineati contro le pareti e ciascunmendìco aveva il suo minuscolo focolaretra due sassisotto la cappa di ununico grande camino. Ciò che più sollevava lo spirito di Don Ignazioera ilfatto di aver conservatopur nelle sue misere condizioniquello checonsiderava il privilegio irrinunciabile della sua casta: vivere senza lavoraree senza chiedere l'elemosina. Quando negli ultimi anniscambiando con minorriserbo chiacchiere e convenevoli col vicinatoapprendeva le novità del luogole notizie sui nuovi ricchi e sulla costituzione di patrimoni fatti conl'esercizio delle arti liberali o col commercio e lo spirito d'impresarimanevadubbioso e perplesso. Rientrato in casa sia d'estate che d'inverno sedevaaccanto al camino; caricata e accesa la pipa fumava con rare boccate tornandocol pensiero ai momenti felici e fastosi della sua giovinezzaalla pompa deiricevimential rispetto puntiglioso della forma secondo i gusti dell'epoca.Considerava che tutto ciò sarebbe rimasto per sempre ignoto ed estraneo ainuovi ricchii quali all'occasione sarebbero apparsi impacciati e ridicoli nelnuovo ruolo sociale e sorrideva di genuina commiserazione per loro. Spenta lapipa la puliva con curascalzava il tabacco bruciato dal fornello e lo vuotavapicchiando lievemente su una mensola che gli era accanto. Rimanevapoicon lebraccia conserte e la pipa spenta in manoa seguire il filo dei suoi pensieri.A questi il tempo aveva conferito una patina di pacatezzaforse di indifferenzae tra gli altri aveva insinuatonaturalel'idea della morte. Che Don Ignaziopiù volte immaginò nei particolari esteriorivista e commentata dalle unichepersone che l'avrebbero notata: le comari del vicinato che per due o tre giornine avrebbero fatto argomento del loro cicalìo. Le immaginò alla porta chepicchiavano e luimortorecchie rifredde[8]come si diceva in paeseche non rispondeva. Toc-toc "Don Ignazio! DonIgnazio la minestra!" e Don Ignazio Colajannirecchie rifreddenonrisponde. Vociare di persone che si consultanociarrciarr...Colpi piùforti all'uscio..."Don IgnazioDon Ignazio!..." Poi la decisione dientrare comunque in casa: "Può star male... macchésarà morto!" Ciarr...ciarr...

Infinel'entrata in casa dalla finestra: "E' mortoè morto Don Ignazio!" Ela stura ai commenti e ai pettegolezzi delle comarientrate finalmente dallaporta spalancata dal di dentroalla scoperta del suo piccolomisero mondoprivatocustodito gelosamente per tanti anni: "Uhquante cogne d'ova!...Quantescalzature di pipa! –Ciarr e ciarr; quelle ciaraffe[9]di femmine non terranno un momento la lingua ferma– Quanta cenere nel caminouh!...–Ciarr e ciarr... E Don Ignazio Colajanni recchie rifredde!–"

Cosìproprio accadde. E quando fu aperto il vano a pianterrenovi si rinvenne ungrande scafo fatto di lamierebandoni e tubidalla forma di un grosso uovo incui un uomo poteva entrare e chiudervisi: era la ricostruzione del Nautiluspensata da Don Ignazio. Per liberare il vano si dovette fare a pezzi questoprogenitore del sottomarino.


DONDONATO

 

 

Laventata rivoluzionaria del milleottocentoquarantottocome già quella delventunoaveva coinvolto vari cittadini di Pescocostanzo. Di alcuni per lapartecipazione attiva che ebbero a quei moti si fa menzione nei libri di storiapatria. E' solo l'umile cronaca oraleperòa narrare le vicende di queigalantuomini che gli stessi eventi chiamarono in una sorta di appellotogliendoliloro malgradoalla quiete delle occupazioni domestiche. La storiainfattiquella con la esse maiuscolasuol relegare questi uomini nell'oblio per dedicare tutte intere le sue pagine all'agiografia dei ree degli eroiai nomi dei trattati e delle battaglie.

Cosìfrugando nella memoria delle voci e delle narrazioni uditetroviamo don Donatoche alla vigilia delle festività natalizie di quell'anno si arrovella allaricerca di una soluzione per un suo personale problema quarantottesco. DonDonato è un pretené primo né ultimo a comparire in questi racconti; saràopportuno perciò dir subito che nei secoli scorsi di preti in Pescocostanzo sene contarono anche trentaquasi tutti canonici col loro stallo in chiesadettaperciò Collegiatae che di chiese nella cittadinaper le sue duemila anime(ché mai furono di più) ve ne erano una dozzinaquasi tutte esistenti eofficiate ancora oggi. Non sarà fuor di luogo far cenno anche di quelReverendissimo Capitolo di Canonici che teneva alto il suo prestigio con ladottrina di molti suoi componenti e con  ilrigorosopuntiglioso rispetto degli antichi riti e tradizioni cui eranoimprontati gli uffici religiosi.

Giungonofino a noiseppur sbiaditele immagini del fasto di quelle cerimonie: nelleprocessioni i canonici sfilano in cappamagnad'inverno con la mozzetta dibianco ermellino e d'estate con quella di seta color viola. Quando leprocessioni si svolgono all'interno della Collegiatanei vespri solenni dellefestivitàal lume di mille candeletra due siepi di fedelipare si siaanimato il quadro di un pittore barocco napoletano: il Rettore del Capitolo e idiaconi che lo affiancanopaludati negli antichi piviali ricamati con filid'oro e d'argentoportano sotto il drappo del baldacchino il Santissimonell'ostensorioquello grande che pare un sole. Volute di fumo odorosod'incenso s'alzano dai turiboli tra i grandi archi verso i soffitti aurei dellenavate. Echeggiano robuste le note dell'organoal quale sono annessi tutti glistrumenti di un'orchestra (tamburograncassapiatti) che l'organista azionaquando vuol spingere all'acme e rendere compiuto il fervore religioso delconsesso. Il Te Deumcol canto amebeo delle strofe tra le voci femminili equelle virilipare una strenua gara di fede tra i due gruppi di cantori e maisi può cogliere sui volti più schietta e profonda espressione di fede. Cosìle cerimonie della Settimana Santa: il Passio cantato dai Canonici congli assolo in basso profondo di don Gregorio che fa il Cristo: "Quemquaeritis?..." e le voci in contralto della turba: "Crucifigecrucifige eum...". Tutti i fedeli sono lìpoiad aspettare che donPietro faccia il gallo: "Gallus cantavit chichirrichiii!..." Che pure il chicchirichì interpolato daquel canonico nel Vangelo pare detto in latino! C'èpoiil sepolcro con gli 'stutafferro'[10](così il popolo chiama i due giovanotti che indossano un'armatura medievalecon elmo chiuso e piumato) che vogliono rappresentare le guardie messe da Pilatoattorno al sepolcro di Cristo: quando Cristo risorge cadono a terra comefolgorati. La gente viene dai paesi vicini ad assistere a questa sacrarappresentazione equando i due armigeri rovinano a terra con fragore diferragliaun brivido di spavento corre tra le donnette che pregano econtemplano l'austero sepolcro. Buffa e tipica è l'esclamazione dialettale disbigottimento delle donne di Rivisondoli: "Nairenaire ru muarracine![11]"Ripresa poi dai giovanotti che le attendono all'uscita dalla chiesa.

Diquesto Reverendissimo Capitolo faceva parte don Donato. Ma al contrario di altridue suoi fratelli maggioripure canoniciche avevano meritata fama di grandedottrina e tenevano lezioni di teologia e di filosofialui il latino lo avevasempre digerito male e così pure le altre materie che in seminario avevanotentato di fargli apprendere. Prete era diventato per volontà dei genitori eperchél'abbiamo già detto in altra occasionequello era l'interesse dellafamiglia. L'autorità e forse qualche "raccomandazione" dei dottifratelli gli avevano ridotto le difficoltà degli studi in Seminario; poicoltempoera anche diventato canonico. Ma il suo temperamento sanguignoil fisicorobustoil senso pratico della vitai suoi modi spicci ed energicilospingevano più che alla preghiera e alla meditazionea coltivare passioni edinteressi terreni e primo fra tutti il sentimento dell'amicizia e del vincolofamiliare; che poi nell'età anziana si manifestò come tenero affetto per inipotivisto che a lui moglie e figli erano stati negati.

Pertali motiviavvalendosi anche di quella sorta di protezione che il prestigiodei fratelli gli assicuravaogni volta che era possibile marinava –oseremmodire– le più lunghe e impegnative funzioni religiose. A cavallofucile adarmacollosorvegliava i lavori agricoli dell'azienda familiare e andava acaccia. Gli accadde cosìuna voltadi essere colto in fallo dallo stessoPadre Abate che era andato in paese per la consueta visita pastorale[12].Don Donato aveva fatto giustificare la sua assenza tra il clero che avevaaccolto il vescovo e aveva celebrato con lui in chiesa le solenni funzioni dellacircostanzaadducendo a motivo una sua lieve indisposizione (ché invece avevala trebbiatura in corso e doveva sorvegliarne l'andamento). L'Abateperòcolse don Donato in faccende durante la passeggiata che faceva per digerire illauto pranzo che il Capitolo gli aveva offerto al termine delle funzionireligiose. Il canonico era presso un carro dal quale due garzoni scaricavano deisacchi di grano: ne portava il conto su un suo taccuino etra un viaggio el'altro degli operaiesaminava con l'occhio del padrone il paio di buoiaggiogato al carrosuo recente acquisto alla fiera dell'Annunziata. L'Abateritenne di non potersi esimere dal fare una paternale a quell'indisciplinatoprete e gli si avvicinò con fare deciso. Ma don Donatocome se lo vide avantilo prevenne edopo aver baciato l'anello pastorale con un rapido inchino:"Padr'Abate –disse allargando le braccia– quando non oremusaramus!"

DonDonatodunqueall'approssimarsi delle funzioni religiose del Natale del 1848era in preda all'angoscia. Quando s'era sparsa in paese la voce di imminenti indagini poliziesche e di perquisizioni per la repressione dellecospirazioni e dei moti rivoluzionari di quell'annoalcuni amici liberalis'erano rivolti a lui perché li aiutasse a cavarsi d'impiccio. Loro s'eranopreparati a partecipare all'insurrezione e perciò si erano muniti di armi e diun barile di polverema l'andamento delle cose aveva preso una diversa piega ela notizia delle perquisizioni ora li aveva colti di sorpresa. Erano riusciti anascondere le armi e i documentima non sapevano proprio dove mettere un bariledi polvereche peròvolevano conservare ad ogni costo. Forse lui potevaaiutarli!

Anchein quella circostanza don Donato non smentì la fama della sua generosità.Tranquillizzò gli amici in ansia e disse che avrebbe pur trovato il modo didargli una mano. Intanto loro dovevano portare nottetempo in casa sua il barile.Il nascondiglio lo aveva già in mente: nel coro della chiesa del Suffragioattigua alla sua abitazionesotto lo stallo del Priore della Confraternita diS. Mariac'era un ripostiglio che ben pochi potevano conoscerelì avrebbepotuto nasconderlo e star tranquillo per tutto il tempo delle perquisizioni.Altra scelta non l'aveva per dare tempestivo e valido aiuto ai suoi amici. Cosìpoi aveva fatto. Ma all'approssimarsi delle festività natalizieseguite inbreve volgere di tempo dalle funzioni delle Quarantòreil barile era ancora lì.Era cessato il timore delle perquisizionida quei giorni era trascorso moltotempoma nessuno gli aveva più detto di volerselo riprendere. Quelli chepersonalmente s'erano rivolti a lui per chiedergli aiuto non erano in paese eaquel che gli era stato dettone sarebbero rimasti fuori a lungo; ad altrepersone pure coinvolte in quella faccendadon Donato non riteneva prudente eopportuno parlarnesicchécome era stato solo nel mettersi nei pasticcicosìora da solo doveva tirarsene fuori. Ciò che più di tutto lo rendeva inquietoera il pensiero della lunga permanenza dei confratelli negli stalli del corodurante le salmodìe che in quella chiesa si svolgono in tali ricorrenze e dellaluminaria di candele che s'accendeva alla sera. C'era ben ragione di temere chequalche candela potesse diventare la miccia di quel barile di polvere."Allora addio Prioreconfratelli e chiesa!" si andava ripetendomentre rimuginava in che modo avrebbe potuto disfarsi del barile quando l'avessetolto dal nascondiglio. Meditò e rimeditò ogni possibile soluzione; lamiglioredopo tanto rovellogli parve quella di andarlo a gettare in un fossoai margini dell'abitato che assolveva le funzioni di pubblico immondezzaio. Lìlo avrebbe ricoperto la neve che già da qualche giorno cadeva abbondantemente.Al disgeloa primaverala polvere sarebbe stata bell'e dissolta. Portare ilbarile in spalla per tre o quattrocento metriché tanto distava quel luogodalla chiesanon era per don Donato gran fatica; si sarebbe tolto cosìdefinitivamente il pensieroe quale pensiero!

Anotte fondamentre il paese era dominio solo del gelo e della tormentacertodi non incontrare nessuno per stradadon Donatobarile in spallaesce furtivodal portone della chiesa. Doveva scendere la gradinata sulla quale essaprospettaattraversare il sagrato che ha l'antico nome di "Largo Avanti LaChiesa" e che ora tutti dicono "Capocroce"quindidopo un altrobreve tratto di stradaavrebbe raggiunto la meta. Ma il peso di quel fardelloil ghiaccio incrostato sui gradinile raffiche di vento congiurano tutt'insiemeai suoi danni e don Donato al primo gradino della rampa scivola e con unagiravolta su se stesso cade a terra. Il barilecome lanciato appostavieneproiettato lontano e picchiando e rimbalzando di gradino in gradino con rumoresempre più fesso si schianta sul sagrato spargendo la polvere a terra. A donDonato si gela il sangue; l'istinto della fuga e il panico soverchiano il doloreacuto dell'urto improvviso e violento contro gli spigoli; si rialza da terra ecorre a chiudersi in casa tremando dalla paura. Passa il resto della notte apregare e a invocare il buon Dio che mandi giù la più abbondante dellenevicate che a memoria d'uomo si ricordi.

IntantoAgatuccia di Benildala fornaiagià al lavoro da tempoera in giro nellanotte a "dar l'ammassata". Essainfattidopo aver acceso ilforno e calcolato l'ora in cui sarebbe stato a punto per la cottura del panesirecava di casa in casa ad avvisare quelli che si erano prenotati perché neiniziassero l'impasto. Nelle notti buie la buona donna si rischiarava la stradaagitando un tizzo ardente tolto dal forno. Cosìnon molto tempo dopol'infortunio occorso a don Donatola donnastretta nello scialleattraversail "Largo Avanti la Chiesa" e scorge nel candore della neve la macchiascura della polvere sparsa a terra: "Ecco il mantello caduto al solitoubriacone nottambulo!" pensa eper discernere meglioavvicina il tizzoalla macchia scura. La vampa è istantaneail buio diventa luce accecante cheavvolge e bruciacchia la donna. L'urlo che le esce dal petto si ripete ancor piùalto ed acuto quando quellaparendogli di sentire odore di zolfopensa chefosse stato il diavolo in persona a tenderle quel tremendo agguato. Cosìurlando e segnandosicorre anche lei a rinchiudersi in bottega.

Laneve che già era in terra e quella caduta sulla polvere dopo la rottura delbarile le avevano salvato la vita; quella che poi cadde ancora per le preghieredel canonicomai così fervidecoprendo tutto salvò la sua buona pace.

DonDonato ebbe notiziapoicome tutti in paesedella visita notturna del diavoloe ne fece oggetto alla messa della domenica successiva di una delle sue rare ebrevi prediche: fossero tutti più pii e buonichécome avevano potuto benudireil diavolo teneva loro addosso i suoi occhi porcini.


RISORGIMENTO

 

 

L'avvocatosi accomiatò da Don Giuseppe Andreasuo facoltoso e affezionato clienteetornò a sedersi alla scrivania; mentre riuniva in un fascicolo le carte cheaveva esaminato con luirisuonarono per le scale e nell'androne i latrati deidue spocchiosi alani di quel signoresegno dell'ultimo proditorio attacco mossocontro di loro dal gatto di casa. Legò con un nastro il fascicolo e prese da uncassetto la borsa da tabacco che Giuditta aveva ricamato per lui. Non attendevala visita di altre persone per quel giorno ecaricando la pipavolse ilpensiero ai preparativi delle sue nozze. Le avevano fissate per l'autunnoormaiprossimodi quell'anno 1849. In quel momento bussaronocon insolita energiaalla porta dello studio. "Avanti!" ordinòma non aveva ancorapronunciato la parola che già nella stanza era entrato Bastoneil suo uomo difiducia. "Cosa c'è? –disse scrutandolo– ti sei sbrigato presto oggi aSulmona!".

"Gnorsìavvocato! –confermò Bastone ansante– perché al Tribunale ho incontratoquel giudice amico vostro...il cavalier Alippioche mi ha chiamatosi è fattoda parte con me e mi ha dato per voi un biglietto urgenteriservato...–neldir così Bastone s'andava frugando sotto la camicia– E ha detto che dopo chelo avete lettoVossignoria lo dev'abbruciare!..." Dalla camicia di Bastonevenne fuori allora un piccolo plicofermato con un minuscolo sigillo diceralaccache l'avvocato prese e aprì subito. Bastone lo vide abbuiarsi involtoalzarsi di scatto dalla sedia e uscire lesto dalla stanza chiamando:"Francescodon Francesco!...mio fratello dov'è?"

Trovòil canonico di sopra nella sua stanza; presso il balconealla luce incerta deltramontostava sfogliando un libro che non gli parve il breviario. "Tienileggi! –proruppe– che hai fatto? perché mi arriva questo biglietto?"

Ilcanonico posò il libro su un tavoloprese il foglio che il fratello glitendevas'avvicinò al lume che era sullo scrittoio e lesse: "Indagini suF. Possibile arresto".

"Perchéqueste indagini? che hai fatto per provocarle? che farai ora?" cominciò aincalzare l'avvocato.

"Domattinapresto partirò per gli esercizi spirituali. Ne ho già avvisato il Rettore delCapitolo." Rispose il canonicoostentando la tranquillità di chi ha giàla soluzione di un difficile problema.

"Mati troveranno...dimmi piuttosto che cosa è successo!"

Ilcanonico alloraabbassando il tono di vocecon un fare circospetto che alfratello risultò nuovo nel suo contegno e ancor più allarmante di tutto quelche gli stava accadendo intornodisse: "Io non andrò per questi eserciziné a Montecassinoné negli altri luoghi soliti... Andrò invece a Popolidaiparenti Zecca; lì hanno la possibilità di tenermi nascosto!" Poiallealtre insistenti domande del fratelloil canonico rispose cercando soprattuttodi calmarne l'evidente stato di ansia al fondo del quale scorgeva il grandeaffetto che li univa. Tentò di rassicurarlo dicendogli che poteva esser certoche lui non aveva mai fatto del male ad alcuno (e questo poteva giurarglielo)che forse in tutta la faccenda c'era qualche errorequalche malinteso. Infinedisse che l'arresto non era ancora avvenuto e non era poi certoanche se eranotempi nei quali la polizia ne faceva uso largo e disinvolto.

"Inogni caso –concluse– il fatto riguarda solo me e io sono pur sempre unsacerdote!"

L'avvocatoper nulla rassicurato da quelle paroleinsisteva per conoscere i particolaridella vicenda. "Se tu partiper gli esercizi o no –disse– non potremocerto comunicare tra noi con facilitàe ioignorando fatti e circostanzepreciseben poco potrò fare in tua difesa!"

DonFrancesco alloracome avesse d'un tratto mutato parere"Beh sì!..–ammise– non si può trattare di altro che di qualcosa in rapporto con imiei sentimenti liberalianche se sono sicuro che non sono trapelati fuoridalla cerchia delle mie amicizienella quale entrano solo persone intime efidate. Il motivo di queste indagini –aggiunse dopo una lieve esitazione–deve essere il fatto della benedizione..."

"Cioè?"

"E'successo qualche settimana addietromentre eri a Napoli per le udienze delletue cause; ma già in paese non se ne parla più..."

"Madi quale benedizione si tratta?"

"Io–riprese il canonico– m'ero lasciato crescere i baffi e il pizzo allaVittorio Emanuelecome ora si dicee così senza neppure farlo proprioappostaho impartito la benedizione serale nel mio giorno di turno; che poi ècapitato di domenicacon la chiesa gremita".

"Ibaffi alla Vittorio Emanuele! E ti pare poco? non sapevi forse che i Borbonifanno da tempo la guerra ai peli?"

L'avvocatonon voleva credere alle sue orecchie. Ma ora gli si era aperta la mente; iltenue filo di speranza della estraneità di suo fratello al movente di quelleindagini si era spezzatoe vedeva d'un trattorealechiaroimminente ilpericolo: l'arresto del fratello e il coinvolgimento di tutta la famiglia neisospetti polizieschi. Si sentì improvvisamente nelle vesti scomode delperseguitato politico proprio alla vigilia delle nozze. Fu sul punto diesplodere in un aspro rimprovero per la sconsideratezza di cui aveva dato provail fratelloa lui maggiore di età e per di più sacerdotenel palesare cosìimprudentemente i suoi sentimenti politicima si trattenne: una lite tra loroin quel momento avrebbe potuto spingere suo fratello ad azioni avventate. Luiaquel puntodoveva cercare di conoscerne a fondo i propositi per l'immediatofuturo; cercare di ragionarci con calmaalmeno con quella calma che sarebberiuscito a imporsi in quel frangente; indurlo a più meditato consiglio! Presetempoperciòdicendo che a quel punto urgeva dare disposizioni perché fossepronto il cavallo per il viaggio del mattino successivo e che sarebbe andato luia provvedervi prima che si facesse troppo tardi. S'avviò per uscire dallastanza; sulla porta peròcome preso da un ribollire improvviso di una collerarepressaproruppe: "Ma non ti bastava il ricordo dei guai del '21?"poicome se un nuovo pensiero gli si fosse fatto strada nella mente inquell'istanteesclamò: "Ora stai a vedere se non verrà fuori qualchestrascico anche di quella vecchia storia!" Chiuse dietro di sé la porta esi allontanò.

 

** *

 

L'avvocatosi riferiva alle vicendeanch'esse accompagnate da patemi d'animo e da ansieoccorse alla sua famiglia nel 1821 quando il padreDon Giancarlonella vestedi pubblico amministratoreaveva dovuto provvedere a ché si risolvesse con iminori danni possibili per la cittadinanza l'indagine poliziesca che undistaccamento di gendarmi austriaci doveva compiere in paese. Don Giancarlouomo di buon senso e di buona culturaconsiderò che i tedeschi (così alloravenivano comunemente chiamati anche gli austriaci) in quel caso non agivano perproprio contoma pel Borbone spergiuro a Lubiana[13]come a dire in conto terzi. Pensòdunqueche se si fossero potuti evitareincidenti di rilievo durante la permanenza di quei militari in paesealla finenon si sarebbero lamentati grossi danni. Curò quindi che la municipalitàadempisse a tutti gli obblighi formali che le circostanze imponevano; stabilìgli alloggi della truppa evitando che fossero in prossimità delle case di donnesole o di famiglie particolarmente indifese e decise poi di tenere gli ufficialiaustriaci in casa propria. Avrebbe potuto così rilevare per tempo i loro umoriese possibileorientarli verso il sereno.

Intale circostanza ritenne norma di elementare prudenza quella di sbarazzarsidelle armi che erano in casa e gettò le sue pistole da arcione nel pozzo cheera nella corte del suo palazzo. Avvisò poi con circospezione gli amicidell'indagine imminentesoprattutto coloro che avevano fama di esserecarbonari. Venne allora a conoscenza di fatti che forse neppure immaginava:costoroavendo stabilito contatti con cospiratori di altri paesi e cittàvicinetenevano elenchi di affiliaticifrariformule e altri documenti dellaloro attività segreta; tutte "carte"come essi le chiamavanochedovevano essere assolutamente conservate con cura enaturalmentesottrattealle perquisizioni; chése la polizia avesse messo le mani su quel materialealcuni concittadini sarebbero finiti nelle galere napoletane e qualcunoaddirittura sulla forca. A questo puntocol tempo che urgevaDon Giancarlopensò di agire da solo eper trarsi d'impaccio e salvare i congiuratiritennemiglior partito quello di nascondere lui stesso i fascicoli delle"carte". Prima dell'arrivo degli austriaci in casa suatolse il pianodi uno dei gradini della scala che conduceva proprio all'appartamento destinatoad alloggio degli ufficialinascose le carte dei carbonari nel vuoto delgradino e rimise a posto il piano.

Itedeschi venneroeffettuarono indagini e perquisizioni dappertuttoma nontrovarono nulla che destasse i loro sospetti. Don Giancarlo e i suoi familiaripur durando faticariuscirono a dissimulare la loro apprensione nel vedere ognigiorno gli ufficiali salire e scendere sulle prove della congiura che avrebberodovuto scoprire. La prima ispezione della giornatacomunquequegli ufficialila compivano nella cantina di Don Giancarlo dove avevano scoperto una botte dibuon vino e il lardo di cui erano ghiottissimi. Sguainate le sciabolenetagliavano grosse fette dai pezzi appesi ai ganci per la stagionatura e così lemangiavanoaccompagnando i bocconi con lunghe sorsate del vino spillatopassandosi il boccale.

Quandoi tedeschi ripartironoil lardo dei quattro maiali ammazzati quell'inverno perle provviste di famiglia era finito e la bottepercossarisuonò vuota.Scampato il pericolo l'attività dei carbonariperònon riprese come prima;quel che allora più urgevaché s'era ancora a capo dell'invernoera diricostituire le provviste. La soldataglia affamata e ladranon solo in casa diDon Giancarloma in tutto il paese aveva fatto man bassa del ben di Dio trovatonelle dispense eforsese ne era andata al buon viaggio solo quando questeerano state vuotate. Trascorse così del tempoanzi a dire il vero trascorserodegli annie alle carte celate nel gradino di Don Giancarlo non pensò piùnessuno. Queste antiche vicendeaccadute quando il canonico e suo fratelloerano fanciullisi erano poi narrate le mille volte in famiglia; talora comenota di colore della cronaca domestica per quelle uniformi che ora sembravanoridicoleper le parole e i nomi stranieri che i bambini avevano orecchiatointerpretato e ripetuto a modo loro; ma più spesso il racconto aveva avutoaccenti di dolore e di sgomento ea chi narravapareva di udire ancora iltintinnio delle sciabole e il tonfo di quei passi pesanti e stranieri in casapropria.

Ilricordo di quegli eventi era stato fatto dall'avvocato al fratello per ilsignificatoche sempre s'era colto nel tono della narrazione familiarediammaestramento ad essere più prudenti e avveduti in futuro nello scansaresimili pericoli. Quel ricordoinvecemostrò –come accade sempre per ognimemoria di eventi passati– la sua ambivalenza e la contraddittorietà dellepossibili interpretazioni e dei giudizi che se ne possono trarre quando sivoglia cavare dai ricordi un esempiouna lezione di vitao se ne voglia faresostegno di una specifica tesi. Il canonicoinfattiritenne quella l'occasionegiusta per esprimere il suo punto di vista e le sue convinzioni politicheacominciare proprio da quegli antichi eventi. Sicchéquando il fratello tornòa dirgli che il cavallo sarebbe stato pronto per il mattino successivoprimaancora che suonasse il mattutinoringraziatolo in modo spicciodell'interessamentocome se cedesse ad un impeto interioreproruppe dicendo:

"Seper l'innanzi ho lasciato ripetere la storia dei fatti del '21 come quella di unguaio capitato tra capo e collo a nostro padre è stato solo perché non avevovogliao non m'era parso opportunoattaccare discussioni e battibecchi infamiglia su cose passate da tempo e per rispetto a nostra madre. Ora però tudevi sapere che io intendo appunto seguire l'esempio di nostro padre che fuattivo e partecipe degli eventi politici di quel tempo. I rischi ai quali esposesé e la sua famigliada uomo avveduto quale notoriamente eradovevacertamente averli ben valutati e tuttavia accettati!"

"Maquei guai nostro padre non era andati a cercarseli di proposito!" lointerruppe l'avvocatotentando di frenare l'entusiasmo che stava scoprendo insuo fratello. Il canonicocome non lo avesse uditocontinuò con ironia:

"Ese quei moti fallirono è proprio perché c'è troppa gente ad aver paura ochemi sembra peggiotroppi individui eccessivamente cauti e inerti di fronte aqualsiasi avvenimento che sia appena fuori dell'ordinariospecie se di naturapolitica!"

Primache l'avvocato avesse tempo di rispondergli una domestica avvisò che la cenaera pronta e che la signora madre era già seduta a tavola. I fratelli sirecarono allora senza più discutere nella sala da pranzo. Quidopo aversalutato la madre e preso conto delle sue condizioni di saluteche negli ultimitempi erano parse meno buoneil canonico recitò la breve preghiera diringraziamento e fu consumato il pasto serale. Mentre cenavano in silenziol'avvocatorimuginando le parole del fratello se ne dispiacquesi urtòsentìaccendersi d'ira pensando alla tempesta che gli si era andata addensando sulcapo mentreignaroattendeva ai preparativi delle nozze e curava anche queiparticolari di secondaria importanza che gli parevano graditi a Giuditta. Ora ladata del matrimonio si sarebbe dovuta rinviare a chissà quando e per colpaproprio di suo fratello che lo avrebbe dovuto celebrare in segno di reciprocoaffetto! Quale passione aveva irretito la sua mente tanto da renderlo dimenticodei sentimenti che sempre li avevano uniti? davveropoiriteneva inerte il suosenso civicospenta la sua sensibilità per i problemi politici? non erapiuttosto lui ad esser  fuori dellarealtàa giudicare da quello che poco prima aveva detto? bel cospiratore èpoiquello che indossa il distintivo della sua attivitàcome il fratelloaveva fatto con la storia dei baffi!

L'avvocatosentiva la sua mente aperta e pronta a ogni nuova cognizione che in tutte leattività umane e in tutti i campi del sapere significasse progresso; ma lariteneva valida solo se gli pareva idonea a superare la prova dei fattisemostrava una sua intrinseca consistenza. I programmi dell'ala più radicale deiliberaliai quali ormai era certo che si ispirava il pensiero di suo fratellogli parevano privi di concretezzautopisticiavventati; il cambiamentodinastico nel regno o la sua trasformazione in repubblica sull'esempio del '99 ela stessa unificazione d'Italia (che l'avvocato considerava remota se nonimpossibile) non erano condizioni indispensabili per dare avvio alla soluzionedi quei complessi problemi sociali ai quali si riferivano le parole"democrazia" e "fratellanza"così spesso ripetute. Durantegli studi universitari compiuti a Napoli egli aveva appreso e sentito piùcongeniali al suo animo pragmatico le idee e le aspirazioni dei liberali piùmoderati: il ritorno della monarchia alla forma costituzionale e l'avvio di ungraduale processo di riforme economiche e sociali di cuiperaltrolo stessoFerdinando II aveva dato qualche cauto saggio. Si era propostoalloradiapprofondire prima di tutto concettualmente quei problemi e di scegliere poi lepersone giuste con cui discuterne ed eventualmente operare; naturalmente contutta la cautela che le circostanze richiedevano. Tanto più impulsivo e fuor diluogoquindigli era parso il modo di agire del canonico proprio in quelmomento in cui la repressione del Borbone stava infuriando su quantidirettamente o indirettamente avevano manifestato idee liberali. Restò comunquefermo nel proposito di non mostrare chiaro e netto al fratello il biasimo perl'atteggiamento arrogante che aveva assunto nei suoi confronti.

Dall'altraparteper una delle leggi fondamentali della natura che vuole gli uominidiversispecie nell'intellettotanto l'avvocato era analitico e riflessivo neigiudizi quanto suo fratello era intuitivo e sintetico nel pensiero. DonFrancescoinfattigiovane e brillante canonicoin seno al Capitolo dellaCollegiata aveva stretto amicizia con la fazione degli elementi piùspregiudicatidella quale facevano parte anche alcuni sacerdoti anziani ma dispirito apertoche si erano formati nel clima culturale del decennio francesee ne aveva assimilato le dominanti idee liberali. Essi formavano una sorta dimanipolo che si opponeva al più consistente gruppo di canonici conservatori eleggittimisti. Dottori in teologiapoeticultori di scienze filosofiche eletterarielatinistierano soliti riunirsi con amici laici della stessa ideain circoli conviviali; nelle lunghe serate invernalial calore dei ciocchi difaggio ardenti nei grandi camini delle antiche case pescolane e dei calici dibuon vino levati nei brindisiscorrevano torrenti di eloquenzadi poesiadibuon umore eper l'appuntodi fervore liberale. Ma queste runionipur fattecon certo riserbo e con le apparenze di accademie filosofiche e letterarienonerano passate inosservate all'occhio vigile degli avversari e qualcuno di essidoveva averne dato notizia alla polizia.

 

** *

 

Dopocena e dopo aver augurato la buona notte alla madre i due fratelliciascuno coni suoi pensieri in testa e le labbra serrate dal malumoresentendo che in ognicaso avrebbero avuto di che parlaresedettero nei seggioloni posti innanzi alcamino.

Arompere il silenzio fu l'avvocato: "Per fortuna –disse– il tempo èasciutto; se per la pioggia fossi dovuto partire in carrozza sarebbe statodifficile tener segreta la destinazione del tuo viaggio!"

"Vediche non tutto va male?"

"Sima devo ugualmente dirti con franchezza che non riesco a capire i motivi che tispingono a essere partecipe con tanto ardore delle confuse idee e dei programmicontraddittori che diffondono democraticiradicali e repubblicani in perennedisaccordo tra loro; concordi solo nell'ostacolare l'opera degli elementimoderati. E' necessario cercare tanto lontano e con trasformazioni politicheaddirittura rivoluzionarie le regole del buon governo e della saggiaamministrazione? Non si sarebbe fatto già un grande passo avanti se si fosseottenuto dal re il rispetto della costituzioneinvece di provocarlo e dioffrirgli il destro di calpestarla innalzando un anno fa le barricate diNapoli?"

"Maallora ti stanno bene i Borboni!" scattò il canonico.

"Perniente affatto! Mettiti in testa che io non nutro sentimenti reazionari e aborrola violenza e il nuovo tentativo di restaurazione che è in atto."

"Eallora devi ammettere che è necessario che le larvei fantasmi di tempi ormaiandati tornino nel regno delle ombre e non pensino più di poter governare glistati!" fece spazientito il canonico.

"Maanche Vittorio Emanuele è un re e la sua dinastia..."

"Unre che ha conservato lo statutol'unico principe italiano che ha mostratocoerenza con le nuove idee e coraggio nel sostenerle!"

"Macerchiamo di rimanere con i piedi sulla terra –riprese l'avvocato– perdivenire suoi sudditi bisognerebbe arrivare all'unificazione dell'Italia; te laimmagini? così lunga com'è questa penisoladiversa da regione a regionedivisa per secoli in tanti stati con leggiabitudini e perfino linguaggi tantodifferenti! Comunque mi sembra la strada più lunga e tortuosa perché il popoloraggiunga quel benessere che invece i movimenti politici che a tutto antepongonol'idea unitaria sbandierano come un frutto maturoormai solo da cogliere(naturalmente subito dopo la vittoria della loro parte)!"

"Lasaggia amministrazioneil benessere della societàe io aggiungo finalmente lapari dignità giuridica e l'uguaglianza politica dei cittadini –ribatté ilcanonicoche allora sembrò al fratello più agguerrito e pronto alladialettica politica di quanto lui non credesse– non possono essere scissi daun'idea. Non si può ignorare il fermento che oggi pervade la mente e l'opera ditanti pensatori italiani e stranieri: non hai letto il Primato delGioberti[14]?non sai che anche un altro sacerdoteil Rosminiin un'opera di recentepubblicazione propone riforme giuridiche e religiose addirittura in seno allaChiesa? sto cercando in tutti i modi di procurami una copia di questolibro!"

L'avvocatovoleva interrompere quel monologoma il canonicomostrando un fervore e unaconvinzione ancora più piena continuò: "Mapoiperché andare tantolontano col discorso? hai forse già dimenticato don Ottaviano[15]?lui ci educava prima di tutto alla libertà di opinionee non solo con leparolema con l'esempio: sai bene quante persecuzioni e angherie sopportò perle sue idee senza mai piegarsi. Non sono neppure due anni che è morto!"

Alnome del concittadino amato e rispettato da entrambi come un maestrol'avvocatosi sentì in difficoltà: come esprimere a suo fratellonel corso di un dialogoche sembrava dovesse ad ogni poco trasformarsi in liteil suo basilare concettodell'uso indispensabile del buonsenso nel difficile tentativo di conciliare leteorie con la concretezza dei fattisoprattutto in un campo così vasto ecomplesso come quello del progresso e del benessere della collettività?

"Ilricordo di don Ottaviano è sacro anche per me! –rispose– Ma una cosa èteorizzarealtro è tradurre in realtà il pensiero. Occorrono gradualità eaccortezza nel procedere..."

"Alcontrarioi fatti dell'anno scorso dimostranocome per la rivolta di Palermoche con due giorni di insurrezione si può ottenere più che con due anni dipetizioni e di manifestazioni pacifiche. Ormai è chiaro che gi italiani debbonofare da sé; e con la rivoluzionese sarà necessario!"

"Sicerto –ammise l'avvocato– la rivolta di Milano contro gli austriacilerepubbliche di Roma e di Veneziasono esempi di popolo che fa da sé: 'Dio ePopolo'come dice Mazzini. Ma i risultati sono deludenti... quanti sacrificiquanti morti! Come indursi a proseguire su questa strada?"

Ilcanonicocome se avesse voluto a sua volta esser persuasivomoderò a quelpunto il tono deciso delle parole e ammise che forse alcune riflessioni delfratello potevano esser giuste; ma aggiunse che un uomo non deve arrivare mai aduna attesa passiva degli eventiperché quando questi si sono compiutinon gliresta che adattarsi ad essi alla meno peggioper quanto scomodi ed avversisiano.

"Bisognaesser ben conscicaro fratello –disse poi– che ogni cosa di questo mondocambia nel tempoanche se in modo impercettibile per la maggior parte degliuomini; ma chi ha una sensibilità fineun intuito prontoquesto cambiamentolo avverte e allora non può e non deve star quieto; ma deve rifletterepartecipare e agire di conseguenza."

"Eh!Quante sarebbero allora le persone dotate di così elevato ingegno –esclamòl'avvocato– se possedessero doti tanto elette tutti quelli che si diconoseguaci delle idee liberali!"

"Cene sonoce ne sono di queste persone più di quante tu voglia ammettere!"lo interruppe il canonico.

"Ameinvecesembra che i seguaci più accesi di ogni ideologia politica sianoindividui insicurisenza il coraggio di affrontare le difficoltà della vitache per nascondere anche a se stessi questa debolezza si costruiscono un mondoimmaginariorispondente alle personali concezioni di ordinee di giustizia.Colorano questo mondo fittizio con le tinte più forti delle ideologie politichedel momento e poi ne divengono ferventi sostenitori!"

"Questapuò anche essere una delle facce della verità –assentì il canonico– mal'altra è che resta un dovere naturaleal quale nessuno si deve sottrarrequello di mostrare dissenso e fare opposizione al cosiddetto potere legittimoquando è male esercitato. E se non c'è libertà di esprimere le proprieopinionise c'è la polizia che arresta e perseguita chi dissenteallora ègiustoanzi è doveroso ordire congiurearmarsipreparare e fare larivoluzione!"

"Ionon credo che le rivoluzioni assecondino sempre il progresso umano –ribattél'avvocato– Rivoluzione! Senza andare molto addietro nel tempo ne abbiamo unesempio in quella francese: veragrande e vittoriosama poi ci sono stati igiacobinila ghigliottinale guerree quindi Napoleonepoi... larestaurazione e di nuovo i re! "

"Daallora è passato mezzo secoloti pare poco?" disse il canonico consufficienza.

"Enon è cambiato quasi niente! –ribadì l'avvocato– E se da ultimo in Franciaè tornata la repubblicail suo presidente manda truppe francesi ad abbatterela repubblica romana! Vedrai se non farà onore al suo cognome! E sì che era unrivoluzionario autentico! In propositoho saputo proprio di recente che nel '31il Bonaparte in fuga negli Stati Pontificibraccato dalla polizia nellacampagna viterbese perché andava fomentando l'insurrezionetrovò scampo soloperché a Viterbo il conte Caprini lo tenne nascosto nel suo palazzo[16].Più rivoluzionario di così ? eppure ora...".

Ilcanonico questa volta non gli rispose subitoparve astrarsi alquantocome perriflettere su un pensiero che andava rivedendo o formulando e organizzando inquel momento. L'avvocato non insistetteattese che suo fratello parlasse.

"Ilcaso della repubblica romana che tuper due voltehai ricordato –ripresedopo quella pausa il canonico– è bene chiarirloè un caso assolutamenteparticolareanzi unico: Roma è la culla della cristianitàè la sede dellaCattedra di Pietro e dei suoi successori. Tale deve rimanerenon si tocca. Ilpresidente Bonaparterivoluzionario autentico come tu dicirestituendo Roma alPapa ha dato la prova che anche un rivoluzionario può ben valutare le singolecircostanze nelle quali si trova a operare e che la repubblica non è per suanatura sempre giacobina". Poicome avesse deciso di avviare a conclusionequel colloquio: "Fratello! –proruppe con rinnovata energia– è ora didire basta agli stati composti da plebi diseredate governate da despoti! Bastacon la miseria squallida di intere popolazioni. So ben io dal confessionale aquali turpitudinia quanti peccati inducano la miseria e l'ingiustizia!"

"Soanch'io..." –tentò di interromperlo l'avvocatoil quale avrebbe volutodirgli che la sua parte di mondo l'aveva ben conosciuta anche lui e tutti igiorni l'aveva sotto gli occhi nelle aule dei tribunalidoveaccanto aldesiderio di giustizia vengono allo scoperto l'egoismol'odio degli uomini etalora anche la somma ingiustizia– ma non insisté. L'apetto ispirato di suofratello glielo fece vedere sul pulpitoinfervorato in un'omelia.

Ilcanonicocome se avesse letto nel suo pensiero e volesse tentare di trascinarlonella sua avventuracontinuò con maggior calore: "In quale altro modosenon con la rivoltaci si può opporre ai Borboni? sarà proprio il vento dellarivoluzione a spiegare e spingere tutte nello stesso senso le vele delle barchedisorientate dei vari movimenti politici che ora seguono rotte incerte; mossedall'intima forza del pensiero liberale le tessere sconnesse del mosaicopolitico nazionale torneranno all'istante al loro posto a configurar l'Italiaunalibera e indipendente! In noi la fede è salda. L'idea liberale è unafiamma che non si spegne! Che sarebbe poi la storia dell'umanità senza i fruttidelle passioni ardenti e nobilisenza l'impulso che riceve da questisentimenti?" Si alzò dal seggiolonemosse con l'attizzatoio le braci nelcaminodove la legna si era ormai consumatae come per scuotere l'amor propriodi suo fratello anche col gestoaggiunse: "Non voglio dire con questomiocaroche nel tuo animo sia spento il fuoco vitale del sentimentoma saròfranconon vi scorgo la fiamma!" Dai suoi occhi traluceva un sentimentoprofondo e genuino.

"Ionon trovo da gettare nel mio fuoco legna che sprigioni quella fiamma vivida eduratura che vorrei! S'è fatto tardiva' a riposaredomattina devi partirepresto; buonanotte!" con-chiuse l'avvocato.

"Buonanotte!"rispose il canonico e s'avviò verso la sua camera.

L'avvocatoera riuscito a parlare col fratello con un grande sforzo di volontà; ma dopoche quello era andato via dette sfogo al suo malumore. Passeggiando su e giùnella sala davanti al camino sentì l'ansia esplodergli in petto e trasformarsiin angoscia. Lo opprimeva un turbamento profondoun indefinito disagiointeriorenon solo per i pericoli che immaginava gravi e imminenti e per ilrapido succedersi dei fatti in quelle ultime ore: egli avvertivaseppureindistintamenteche quel suo travaglio aveva una più vasta e complessaorigine. Alcuni fondali dello scenario della sua vita stavano bruscamentecambiandoalcune aree di sereno e di quiete venivano scosse e turbate. Ne eraun chiaro esempio quell'apparirgli improvviso di suo fratello nelle vesti dirivoluzionarioquel suo voler enfatizzare d'un tratto l'immagine e ilsignificato di eventi familiariche sembravano certi e assodati da tempofinoa dare ad essi i colori di un'epopea patriottica. Gli stessi ricordi dei fattidel '21che s'erano andati sbiadendo in quegli ultimi annii primi per lui dilavorodi amoredi impegni sociali e di programmi dell'età adultaqueiricordi orasotto l'impeto di quelle emozioni improvvisebalzavano allamemoria con una vivezza insolita provocando una sorta di sdoppiamento delle suepercezioni; un sentire il presente come tale e come già vissuto; un senso diirrealtàcome quando al risveglio i particolari di un incuboresistendo allapercezione del reale prima di dissolversiincutono ancora terrore. Qui però ilprocedimento era inverso ed erano realtà attuali e pensieri lucidi a evocarepaure ed emozioni antiche. Assieme a tanti altri ricordi del mondo infantilecon i quali erano ormai confusele immagini di quegli sbirri austriaciemergevano nella memoria come ombre minacciosepur se frammiste a quelle mitima allora cariche di tanta suggestioneche proiettava la "lanternamagica" durante i suoi giochi.

Quandol'impeto dell'emozione e dell'ira sbollirono un pocol'avvocato si sentìcostretto  a più concreti pensierie ad azioni tese a parare i guai; e se li andava enumerando questi come perriunirli in capitoli da vagliarepoiuno per uno: il fratello fuggiasco; lospavento della madre vecchia e malata e della sposacosì mite e gentilequando avrebbero saputo tutto; gli sbirri a perquisirgli la casa... "Già!E quelle carte dei carbonariche sono ancora lìsotto il gradino!"Esclamò d'un tratto portandosi la mano alla fronte e alzando il tono del suosoliloquio. Senza por tempo in mezzo si precipitò per le scalecercò ilgradinotolse via il fascicolo dal nascondiglio dove aveva dormito per quasitrent'anniravvivò le braci nel camino e ve lo gettò. Le vecchie carte siannerironofumigarono e da ultimo arsero con una fiammata. "Ecco lafiamma!" sogghignò con amarezza. Poimentre la casa era immersa nelsilenzio gettò nel pozzoche già conosciamofucili e pistole di casa (chedato il precedentechiameremo di seconda generazionevisto che dopo quasi unsecolodurante l'occupazione nazista dell'Italiave ne fu una terza a subirela stessa sorte!). L'avvocato tentò poi di immaginare nei particolari l'arrivodella polizia e le fasi del futuro giudizio: come sarà formulata l'imputazione?"perché portava i baffi alla Vittorio Emanuele?" e chi lo dice cheerano proprio di quella forma? suo fratello non poteva aver avuto un eczema dellabbro per cui non s'era potuto radere? Ben sapeva però che il controllo dellaforma delle barbe e la foggia delle capigliature faceva parte degli affari distato del Borbone. Dopo i fatti del quarantotto lui aveva visto nei tribunali (elo aveva ben riferito in casa!) condannare e menare in prigione senza pietàfior di galantuomini per motivi politici altrettanto banali.

Eraimmerso in questi pensieri quando udì nella strada silenziosa risuonare sulselciato gli zoccoli di un cavallo e il fratello scendere dalla sua stanza. Loraggiunse sul portonelo aiutò a sistemare le bisacce ai lati della sellaloabbracciò raccomandandogli la massima cautelaché era inutile ripetergliquale dolore avrebbero avuto tutti e specialmente la madre se a quella partenzaavessero fatto seguito altri guai.

Duegiorni dopopuntualiarrivarono i gendarmi con il mandato d'arresto per ilcanonico e l'ordine di perquisire la casa. L'avvocato disse che il fratello erapartito per gli esercizi spirituali; mostrò di cadere dalle nuvole udendoquelle novità; avanzò l'ipotesi che potesse esservi qualche errore in quellaproceduraperché era certo che suo fratello non aveva commesso reati;comunquepotevano ben accomodarsi per la perquisizione. Al termine di essachenaturalmente fu del tutto infruttuosal'avvocato chiese con garbo al comandantese poteva sapere di quale reato fosse sospettato suo fratello. Con un moto diinteriore ironia s'aspettava che spuntassero fuori dal mandato i baffoni del repiemontesema gli sbirri gli dissero secco che lui non solo non poteva faredomande ma chein mancanza del fratellodoveva seguirli e in stato di arrestoa Sulmona!

Laprigionia dell'avvocato durò solo poche oresia per la manifesta infondatezzadell'atto arbitrario di quegli sgherriai quali doveva esser parso disonorevoletornare dai loro capi a mani vuote dopo una battuta di caccia tra i montisiaperché il magistrato di Sulmona che lo conosceva ne ordinò seduta stante ilrilascio. Il canonicoinveceaccolto dai parenti di Popolifu subito nascostoin una casipola che era in una loro proprietà presso "Le Svolte"tortuoso tratto della strada che da Popoli conduce a Navelli e ad Aquilaperchéin paese avrebbe dato nell'occhio e sarebbe stato pericoloso per sé e per glialtri. In quel rifugionella solitudineprivo di ogni confortorifornito solodi vettovaglieil canonico ebbe modo di compiere con tutto il raccoglimentonecessario i suoi esercizi spirituali e le sue meditazioni. Sul tenore dellequali non abbiamo elementi per formulare ipotesi. Quando tornò a casadopoun'assenza che si era protratta molto più di quanto non comportasse la duratadegli esercizi spirituali (a causadissedi una malattia che stava percondurlo al Creatore) parve al fratello ben più prudente che per l'innanzi.

 

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Colpassare del tempo gli strascichi del '48 si andarono esaurendo anche in casadell'avvocatosicché le nozze con Giuditta furono celebrate nel dicembre del'49solo con lieve ritardo rispetto alla data prevista. Dopo un anno nacque ilprimo figlio; poi la prole crebbe al ritmo di un figlio ogni due anni circa eper tre lustri non vi furono eventi di rilievospecie politicoa turbare laquiete della vita familiare. Essa poté svolgersi cosìcon i ritmi ordinatiche all'avvocato erano congeniali: erano le campane del mattutino a destareFrancescala camerierache poi con il caffé svegliava i padroni; ma già datempo i  garzoni erano andati a farlegna nel boscoi vaccari mungevano le vacche nelle stalle al lume dellelucerne a olio e il più piccolo di essi conduceva gli animali al pascolo colsuo bucco[17]a tracollanel quale era la sua razione quotidiana di pane e ricotta. Una sortadi azienda agricola e zootecnicainfattifaceva solitamente parte delpatrimonio familiare della borghesia locale in quell'epoca e rappresentava unabuona fonte di redditooltre a soddisfare i consumi alimentari della famiglia.Poiché il marito era sempre più preso dall'attività professionaleGiudittacon consapevole atto di amoreaveva man mano abbandonato il ricamo e la musicasuoi giovanili passatempi e aveva assunto la direzione di tutto l'andamentofamiliare. Un'ala della vasta casa era destinata alla gestione di questa sortadi azienda: v'era il granaiouna grande dispensaun vano con i telai dove perlunghi periodi dell'anno le tessitrici confezionavano il panno destinato a variusi domestici e al pianterreno la cantinala legnaiail locale di deposito diattrezzi e altri  magazzini. Ilresto della casa era distribuito su due piani: in quello superiore erano isalottila bibliotecala cappellina e la camera dello zio prete o Pepè come ipiccoli chiamavano il canonico; al piano inferiore era l'appartamento cheabitava la famiglia dell'avvocato. Centro di questo appartamento e cuore ditutta la casa era un grande vanocon il camino che conosciamo perché v'eranostate bruciate le carte dei carbonarinel quale si aprivano le porte della salada pranzo e dello studio. Ad esclusione del piano superioreil cui accesso eraloro vietatotutto il resto della casai cortili e i giardini che lacircondavano erano il regno della nidiata di ragazzi. Maschietti e femminuccenon appena terminate le severe lezioni che a seconda dell'età gli impartiva lozio prete –dai primi rudimenti del leggere e dello scrivere alle primetraduzioni latine– sciamavano e si rincorrevano ovunqueorganizzando i lorosemplici giochi; cercando di ampliare il margine tra permessi e divieti diun'educazione che seguiva severi principi anche di ordine formale e di austeraeconomia. La famigliaad esempio mangiava di rado caciocavallipurproducendone grandi quantitàperché era un formaggio tipico del posto cheaveva uno smercio vantaggioso e doveva per l'appunto esser serbato per lavendita. Sicché il canonico insinuava che se ne mangiasse solo quando un toporodendo il cordone col quale in coppie erano appesi a cavallo delle pertichelifaceva cadere in terra. Aveva compostoperciòuno scherzoso oremus peril signor topoche recitava quando quel formaggio veniva servito in tavola.D'altro canto la carità era sentita come un dovere ed ogni sabato a mezzogiornoDonna Giudittaaccompagnata da una domesticaserviva personalmente unascodella di minestra calda ai poveri che nell'androne del palazzoseduti su unlungo sedile di pietraattendevano quel ristoro. La capacità di condurre unregime di vita parsimoniososenza che ciò costituisse una sofferenza ogenerasse un senso di frustrazioneera considerata dall'avvocato e da suamoglie una garanzia nei confronti degli imprevisti della sortecosì come oggipuò esserlo una polizza di assicurazione contro gli infortuni. Inoltre essiconsideravano che ciò fosse indispensabile per dare ai giovani il senso e lamisura dei valori autentici della vita umanache ritenevano essere quelli dellospirito e della culturain una parola quelli della civiltà. Per conseguire ibenefici dei qualiinvecenon si doveva essere avari nello spendere danaro.Sul filo di tale logica l'avvocato aveva una attenta cura di tutto quantovalesse a far progredire l'istruzione dei figli e a confermare il culto per imodi del vivere civile. Così i numerosi battesimigli onomastici dei padronidi casa ed altre ricorrenze familiarierano occasione di ricevimenti per iquali si aprivano i salotti del secondo piano. Allora si ammannivano cibiricercatidolciumi eaccanto a quelli locali e tradizionali per la particolarecircostanzav'erano più raffinate leccornieconfetti di Sulmona e vinipregiati che l'avvocato aveva ricevuto in dono o aveva acquistato nelle cittàdove si era recato per i suoi impegni professionali. Particolare cura luiponevapoinell'inserire nella lista degli invitati qualche nome cui desselustro una superiore cultura o un particolare talento artisticoriservando atale personaggio il posto di maggior riguardo a tavola e in salotto. A causa ditali criteri organizzativiperòqueste feste non riuscivano particolarmentebriose e non ottenevano la risonanza nella cittadina di quelle bandite daglialtri signori. Naturalmente questo era motivo di dispiacere per Donna Giudittadal quale si riprendeva quando era invitata a partecipare con il marito airicevimenti delle famiglie nobili o benestanti di Sulmona e degli altri paesidel circondario. Allora s'informava dei cambiamenti della moda e rinnovava ilsuo guardarobamentre l'avvocato pensava alle discussioni e agli scambi divedute che avrebbe avuto con gli eventuali interlocutoriper portare ildiscorso su quegli argomenti culturali e professionali che a lui stavano tanto acuore enello stesso tempoallontanarlo dalle congetture politiche salottieredi cui non faceva gran conto.

Anchel'unità d'Italia che nel frattempo si era venuta realizzando non modificòquesto regime di vita familiareealmeno nei primi tempi e nella praticaquotidianaper l'avvocato si risolse solo nel cambio dell'emblema sui fogli dicarta da bollodove lo scudo sabaudo aveva preso il posto dei tre gigliborbonici. Pochi giorni prima del passaggio dell'esercito piemontese in quellecontradeperòessendo corsa voce di una sconfitta di Garibaldi durante labattaglia del Volturnola plebe reazionaria si sollevò ed inscenò unatumultuosa manifestazione. L'avvocatoavendo avuto da un suo cliente unainformazione confidenziale secondo la quale Paparuolo e Chiavone intendevanoprovocare una sommossa anche a Pescocostanzo per farla pagar cara ai liberalicome stava accadendo a Iserniaprovvide a passare tempestivamentel'informazione agli interessati. Poche ore dopoinfattiun gruppo difacinorosi percorse il paese al grido di "Viva Francesco secondo!" trail fracasso di tamburi e di barattoli percossi. Arrivati sotto il palazzodell'avvocatocostoro cominciarono a chiamarlo: "Avvoca'... Avvoca'...Avvocatooo!... Viva Francesco secondo! Viva Franciscoooo!" intendendo cosìdi ingiungergli un assenso ai loro evviva. L'avvocatoalloradette ordine aidomestici di dar subito da bere a quegli scalmanati; poiquando i boccali divino cominciarono a circolare tra quella piccola follarispose da dietro ivetri di un balcone alle urla che lo chiamavano fuori con un pacato salutotogliendosi due o tre volte la berretta che soleva portare in casa nei mesifreddi. Berretta che aumentava ancor più la sua straordinaria somiglianza colDuce dei Mille. Ma quegli individui non conoscevano l'effigie di Garibaldi epaghi del saluto e più ancora del vinoandarono oltre brandendo uncoltellaccio e rotolando una tinozzaperché dicevano di dover andare a "cacciarela panza" a Porcograssoun obeso commerciante che aveva fama di essereliberale.

Quantoal canonicose l'eco delle leggi siccardiane[18]del '50 era giunta fioca e forse estranea alle sue orecchiequattordici annidopoil Sillabo di Pio IX scosse ben più vivamente l'animo suo con la condannasistematica degli "errori del nostro tempo" (tra essi v'era lalibertà di coscienzala libertà di dialogo e il tentativo di conciliazionedel Papa con il "progressoil liberalesimo e la civiltà moderna").Quel brusco richiamo alla piena obbedienza al Capo della Chiesa e al dettatodella religioneagì sul suo temperamento emotivo provocando un radicalecambiamento di umoreinfondendogli una carica ascetica che lo indusse ainiziare un regime di vita austerodi preghiera e di penitenza: indossò alloraun ciliciofece quotidiano uso della disciplinaosservò lunghi e frequentiperiodi di digiuno.

Intantoai primi bagliori del nuovo regnoseguivano ombre e delusioni: tasselegginuove e confuseuna improvvisa diffusione di carta moneta falsailbrigantaggiola mancata presa di coscienza da parte del nuovo governo dei graviproblemi e dei mali sociali del Regno di Napolie altri cattivi auspici per ilfuturo della giovane nazione. Non mancò allora tra i conoscenti del canonico chi facesse carico anche a lui di avercontribuito per la sua parte all'avvento di ogni reale o paventata sventura. Ciòse non valse ad indurgli un senso di colpaper l'assoluta infondatezza delleaccuselo spinse però a schierarsi decisamente contro tutto ciò che in queglianni si andava affermando che avesse carattere laico ed anticlericale.

Irapporti tra il canonico e l'avvocato divennero quindi nuovamente tesi a seguitodelle leggi di esproprio dei beni ecclesiastici e della vendita di essi aicittadini; leggi promulgate nel 1866 con lo scopo dichiarato (e poi regolarmentefallito) di ristorare l'Erario e promuovere l'agricoltura intensiva. Nel corsodi tali operazioniche nel linguaggio comune furono dette di"incameramento e devoluzione" dei beni ecclesiasticil'avvocatointendeva acquistare almeno quei fondi che ab antiquo i suoi antenatiavevano legato a Enti religiosi. Il canonicocome ebbe sentore di talepropositofu subito di parere fermamente contrario. L'avvocato con la"ricompra" di tali fondicome soleva direintendeva fare solo operarispettosa di una buona tradizione di conservazione e custodia della resfamiliarisevitando che antiche proprietà della famiglia fosseroacquistate da altri. Nello stesso tempocon senso di realismoavrebbeprovveduto agli interessi della sua numerosa prole. Il canonico non intendevaragioni e si opponeva con tutte le sue forze e con l'autorità morale del suoabito affinché la famiglia non fosse pertecipe in alcun modo dello spiritoanticlericale dei tempi. Tanto più la sua opposizione fu accesa e strenuaquando seppe che sugli acquirenti di quei beni avrebbe potuto gravareaddirittura la scomunica papale.

Chipiù di tutti ebbe a soffrire di tale scontro fu naturalmente Giudittacheaveva in petto il contrasto tra gli scrupoli che v'insinuavano le parole delcognato e le buone ragioni del marito. Le terre furono comunque acquistatedall'avvocato e quandoqualche tempo doposi seppe che la scomunica potevaesser tolta col versamento di un obolo alla Santa Sedea pagarloper lasalvezza dell'anima dei suoi familiarifu il canonico.

Perchési compisse il ciclo risorgimentaleormai non mancava che la presa di Roma.Questo eventoperònon ebbe una concreta influenza nei rapporti familiari.Sebbene il canonico lo biasimasse (anche con parole provocatorie nei confrontidel fratello) quale ultima e conclusiva catastrofe dei suoi tempil'avvocato atale evento non mostrava di interessarsi; e contro le schiere di angeli armatidi spade infuocate messe in campo dal canonico a difesa di Roma e del Papanonopponeva milizie avverse di sorta. Ma qualche volta rifletteva tra sé che lecose poi erano andate in gran parte per loro conto lasciando come al solitotutti insoddisfattisia quelli che all'unità d'Italia anteponevano unsostanziale progresso delle condizioni di vita delle popolazioni meridionalisia quelli checome suo fratelloa ogni altra considerazione avevano antepostol'idea unitaria.

 

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Quasidieci anni dopola morte prematura del fratello amatissimo doveva segnare unasvolta nelle abitudini e nello stile di vita di del canonico. Accantoall'immenso dolore per quella perdita egli aveva sentito subito un forte impegnomorale ad aiutare la cognata nella guida della numerosa famigliaormai orfanadel padre. Solo i primi due figli avevano conseguito la laurea e muovevano iprimi incerti passi delle loro carriere; gli altri erano adolescenti oaddirittura bambini. Col suo sprito lo spiritoacuto e vigile nonostante l'etàavanzatail canonico capì che quell'impegno avrebbe provocato ilsopraggiungere e forse l'incalzare nella sua vita di realtà nuoveper luiinconsuetee dapprima ne temette l'urto. Il suo animo era temprato dalleillusioni e delusioni dei tempi andati; da quei conflitti interiori era maturataesperienzauna particolare esperienzaperònon di fatti e di operemaastrattaperché s'era svolta nello spazio apparentemente vuoto che circonda ifatti e le opere; nello spazio occupato dalle ideologie e dalla criticataloradai tentativi di materializzare delle speranze. Era soprattutto in quel campoche la mente si era applicata in letturestudi e polemiche di contrappunto aglieventi sociali eda ultimoin profonde meditazioni ascetiche. Orainveceinteressandosi all'istruzione dei nipoti più piccolial bilancio familiareall'amministrazione del patrimoniocose alle quali aveva sempre provvedutoanche per lui ( e con quanta saggezza!) il fratellosi rendeva conto che stavacambiando campo; che da allora in poi si sarebbe dovuto impegnare a fondo nelconcreto e nel positivo.

Glisi svelòcosìun mondo nuovo; ebbe differenti emozionialtre ansie; maassieme ad essenuovi concetti da penetrare e nuove idee da maturare e sentìrisorgere nell' animo suo un'antica passione: quella della partecipazione attivaagli eventi innovatori della vita. Passione che la carica emotiva insita neltumultuoso svolgersi degli eventi nei lustri trascorsi aveva soverchiatoma nonspenta.

Lasua attenzione si volgeva allora con sorprendente spontaneità a quantoforseper la prima voltasentiva con certezza vero ed effettualeprogresso concretodell'umanità. E in più occasioni si trovò a pensare che ciò era quelche.immaginava e sopra ogni cosa desiderava suo fratellociò per cui avrebbegioitoper cui si sarebbe entusiasmato ed avrebbe lottato a viso aperto. Glisembrava che questo progressospinto dalle invenzioni e dalle scopertescientifiche di quegli anniavanzasse velocecome mai per l'innanzisincronocol crescere ed il progredire negli studi dei giovani nipoti. All'ultimo diessiche studiava medicina a Napolicommissionava frequenti acquisti di libriche trattavano argomenti scientifici equando tornava in paese per le vacanzechiedeva minute informazioni sull'oggetto dei suoi studisulle novità nelcampo della medicina chedopo le scoperte di Koch e di Pasteur e i progressicontinui della batteriologiaveniva rinnovata nelle sue concezioni dallefondamenta. Quale sarebbe stato il destino dei tisici ora che si conosceva lacausa principale della malattia? la grande industria che s'andava sempre piùespandendocome avrebbe modificato la società? S'interessò tanto alladiffusione del vapore che il nipote dovette condurloottuagenarioa fare unbreve viaggio in treno e volle avere notizie dettagliate delle prime automobiliche chiamava anche lui carrozze senza cavalli.

Ilnipoteormai medicoche a lui era particolarmente affezionatoera incuriositoda un fatto: lo zioquando aveva avuto sufficienti notizie delle nuovescopertecosì come era accaduto in occasione di quel suo unico viaggio intrenonon mostrava lo stuporené l'incredulitàse non addirittural'avversioneche costantemente in tali situazioni mostravano gli anziani. Ungiorno volle chiedergli quale fosse il motivo di quella apparente contraddizionetra la grande curiosità e ansia che aveva nel voler apprendere ogni novità edil modo tiepido con cui la commentavae solo se gli si chiedevanoesplicitamente le sue impressioni. Glielo disse una sera andando a salutarlonella sua stanzadi dove il canonico ormai usciva di rado e dove il nipote erasempre festosamente accolto. Lo zio era seduto nella sua poltrona e recitava ilrosario non riuscendo più a leggere alla luce fioca del lume a petrolio. Alladomanda del nipote intrecciò la corona nelle dita scarne di vecchio e risposecon ritrosiacome chi teme di esser frainteso nel rivelare un suo intimopensiero: "Il Signore ha voluto che io avessi una vita lunga e chegiungessi addirittura  a viverel'alba del nuovo secolo; credo perciò di poter avere una sorta di intuizionesul divenire dell'umanità. Questi progressi della scienzache sono ilrisultato di uno sforzo estremo di analisi e di sintesiin un circuitosuperiore di sentimenti e di pensieri pur sempre umani e terrenicondurranno adun lontano ma affascinante obiettivo: quello della Grande Armonia. Di essal'uomo non ha saputo concepire altra immagine che quella radiosa di Dio. Tra nonmoltofiglioloio potrò averne certezza".


BENVENUTO...DECIMO!

 

 

"Cheadessoper la venuta del Decimo Reggimento dei Granatierinon si faccia il bisdell'arrivo a Pescocostanzo  delgenerale Bava!" blaterava Cicco Tòmolo scendendo le scale del Municipio.Luiin Consigliol'aveva cantato chiaro e tondo al Sindaco: per il paeseposto in cima alle montagnemalridotto dall'incuria delle vecchieamministrazionil'arrivo di forestieri –e di un personaggio importante comeil generale Bavapoi!– doveva essere considerato una fortuna; avrebbe potutorappresentare davvero la manna piovuta dal cielo. C'era bisogno di tante cose!Occorreva forse parlarne ancora? l'acquedottola bonifica della prateria... Einvece!

PoiCicco Tòmolocon aria di finta rassegnazioneche avrebbe dovuto suscitare unmoto rassicurante  di solidarietàda parte di quelli che gli erano intornoalzando il tono di voce esclamava:"Vabbe' che in paese non ci sta rimanendo più nessuno; tutti in Americatutti in America se ne vanno; ma noinoi ci stiamo ancora!"

"Esi dice che dopo un po' incominciano a mandare soldi alle mogliperché quandotornano dall'America vogliono essere tutti proprietari di casa e di terre!"commentò Mingo Lupesceal quale regolarmente sfuggiva il senso recondito deidiscorsi del capo del suo partito.

"Tuttiproprietari! –gli si rivolse acido Cicco– e i vaccarii garzoni per ararela terra dove li andremo a prendere? già prima dell'emigrazione se ne trovavanopochiché nessuno vuole far più questo lavoro; di questo passotra qualcheannonon se ne troverà più nessuno; non si riuscirà a far arare più neppure un tòmolo di terra!"

Schioppettaun buontempone che campava alla giornatabighellonando nella piazza passòaccanto al capannello di consiglieri e di curiosi che si andava raccogliendointorno a Cicco Tòmolo man mano che uscivano dal Municipio; udite quelleparoleintonò a mezza voce:

               "E la moglie dell'ammericano

               va alla chiesa con sette sottane

               s'inginocchia e prega Dio:

               manda quattrini marito mio

               che i quattrini c'hai già mandato

               l'ho frusciati coll'innammoratooo!"

"Beatolui che non ha pensieri –commentò Cicco– come si dice? Tre so' liputiende: lu papalu re e chi non tiene niende!"

Perultimo uscì dal Municipio il Segretario comunaleche chiuse a chiave ilportone. "Lavoratore e precisoil nuovo segretario –commentò MingoLupesce– così mi piacerebbe avere un commesso nel mio negozio!"

"Vedremovedremo se non è solo 'fruscìo di scopa nuova' e poi col tempo..." ribattéCicco Tòmolo accendendo un mezzo sigarocon l'aria di chiessendo uomo dimondonon si lascia ingannare dalle apparenze.

"Segretariovenite a bere un bicchiere di marsala con noi? Venitevenite con noi!"dissero delle voci dal crocchio.

"Graziegrazie...No! Veramente io bevo solo durante i pasti e la vostra compagnia l'hogoduta fino ad ora. Devo andare a casa ad aiutare mia moglie perché ci stiamosistemando nella nuova  abitazionedopo il trasloco. Volevo solo domandare qui a Don Ciccocos'è questa storiadell'arrivo del generale Bava che non si deve ripetere quando arriverà ilDecimo Reggimentocome ha più volte detto in Consiglio. Volevo chiederlo alSindacoma appena terminata la sedutasi è alzato ed è andato via perprimo...."

"Ehsì certo! Voi dovete conoscere un po' della storiaper così diredel nostropaese; perché ora siete anche voi dei nostri. Anzi siete una delle autorità!"aggiunse Cicco con ironia mal celata che non sfuggì al Segretario. "Ilfatto si è che anche nella passata Amministrazione noi eravamo in minoranza epoco o niente siamo riusciti a far fare di buono al vecchio sindaco; che poi eraanche malatotant'è vero che mò fa l'anno è morto –iniziò a dire Cicco Tòmolocon certa sua aria di sufficienzacon la quale di solito celava l'interesse cheaveva a mostrare una completa padronanza delle faccende pubbliche–. Dunque ilfatto del generale è questo: Il generale Bavache come sapete è un generaledi corpo d'armataun'eccellenzaun pezzo grosso anche nella politicatre annifaandando alle grandi manovre che si facevano giù nell'Italia meridionale ealle quali assisteva anche il Repassava per il Piano delle Cinque Miglia.Quelli del suo stato maggiore avevano deciso che facesse tappa e pernottasse quia Pesco. Infatti una decina di giorni prima del passaggio del generale eranovenuti degli ufficiali per scegliergli l'alloggio e predisporre gli altriparticolari di questa tappa. L'alloggio era stato fissato nella casa diTirlittappoche però non sta in una via principale...."

"Puntoindietropunto indietro[19]...–lointerruppe Mingo Lupesce– Devi anche dire al segretario perché si dovettericorrere alla casa di Tirlittappocon tanti bei palazzi che ci sono in paesesennò il Segretario si fa una cattiva idea di tutti quanti noi!"

"Eccobeh...stavo dicendo –riprese Cicco Tòmolo alquanto irritato da questainterruzione– la casa di Tirlittappoche è pure una bella palazzinamagiust'appuntonon si può mettere a paragone con nessuno dei palazzi deisignori che stanno in paese. Però in otto giorni non si faceva in tempo apreparare l'alloggio in uno di questi palazziperché di questi signorichinon c'erachi non voleva estranei in casachi non faceva in tempo a preparareil ricevimento al generale....E tutto questo perchéprimale autoritàvenivano sempre ospitate nella casa di Don Giovanni...... che nel suo palazzo ciha un quartiere proprio per gli ospiti di riguardosempre pronto. Lui ci tienea trattarli a modo; anche per il nome della famigliache è di gran signori.Solo che da un po' di tempo a Don Giovanni ...qualche rotelluccia in testa gligira storto...Insommaspecie se stura qualche bottiglia di più di un certovino suo di Puglia...allora vattelo a riacchiappare dietro ai suoi grilli eghiribizzi! E di bottiglie negli ultimi tempi ne stura sempre di più!..."

"Comequella volta che si dice che aveva fatto preparare il fuoco per arrostire ilfiglio..." –interruppe di nuovo Mingo– ma Cicco gli dette sulla voce:"Bastarimaniamo al fattosennò il Segretario non va più ad aiutare lamoglie! Insommaproprio pochi giorni prima dell'arrivo del generaleDonGiovanni aveva ospitato l'onorevole Mansueti che faceva il giro del suo collegioper le elezioni. Dopo una giornata di discorsidi incontri con gli elettoridistrette di manodi promesse e chiacchierecome fanno i deputati in tempo dielezionie dopo un gran ricevimento e cena a casa di Don Giovanni con parecchiamici e tanti brindisil'onorevole se ne va a dormire. Ma s'era appena messo aletto e girato di quarto per pigliare sonno che sente dietro la porta unamusicacome fosse una serenata. L'onorevole si alzasi rimette i calzoni eapre la porta. Chi vede? Don Giovanni che con alcuni degli altri invitati facevamusica con la cassetta armonica e gli augurava buon riposo. L'onorevoleringrazia di tanta cortesia: "Anche la serenatacome fossi unasposa!...Che ospitalità completa di tutto. Graziegrazie!" Li congeda ese ne torna a lettoché stava proprio stracco. Ma aveva appena preso sonno chela musica ricomincia e l'onorevoleche aveva capito che Don Giovanni erabrillosi alza di nuovo e cerca di calmarloringraziando ancora e dicendo chelo scherzo era di gustoma che lui aveva bisogno assolutamente di dormire  perché la mattina dopo doveva alzarsi presto e proseguire ilgiro del suo collegio. Sembrava che Don Giovanni si fosse fatto capace e se nefosse andato a letto pure lui; ma l'onorevole stava al primo sonno quando lamusica e il baccano dietro la porta ricominciano più forti di prima. Il poveroonorevole riapre la porta della stanza e cerca di far capire a Don Giovanni eagli altri che lui si stava a sentir male; che per favore dovevano propriosmettere...Ma non fa a tempo a dire due parole che Don Giovanni passa dalloscherzo e l'allegria all'incazzatura e alle brutte e comincia con le male parolee le minacce all'onorevole: 'Imbroglionebugiardoladrolazzarone! Fuorifuori di casa mia!...' Insommain poche parole lo caccia fuori di casa! E senon ci avesse pensato Luritoil fattore di Don Giovanniil qualevista lamala parata per l'onorevoleaveva già fatto avvisare a casa sua –ché abitaproprio di fronte al palazzo di Don Giovanni– che preparassero un lettoperchépoteva servire per l'onorevolequello passava la notte in mezzo alla strada; edera primavera e faceva ancora freddo. Ecco perché per il generaleall'ultimomomentosi dovette ricorrere alla casa di Tirlittappo".

"Vabeneva benefu scelta la casa di questo signor Tirli...comesichiamalui–disse il Segretario spazientito– ma all'arrivo del generale che cosa ésuccesso?"

"Nienteproprio niente –riprese Cicco con aria sarcastica e misteriosa– perché a riceverlo non c'era nessuno! Né sindaconégiuntané popolazione! Le staffette a cavallo che precedevano  il generalequando arrivano in paese per annunciare che la carrozza del generale ormai è quiche è arrivata all'Albero diCocconon vedono nessuno in giro e credono addirittura di non essere ancoraarrivate alla piazza principale; vanno avanti e così escono dall'altro capo delpaese. Allora s'accorgono che il paese lo avevano già oltrepassatotornanoindietro e capiscono che la piazza del paese è questache quello è ilMunicipio e capiscono pure che a riceverli non c'è nessuno! Si guardano attornoe vedono solo un uomo sdraiato su quel gradino di pietra che sta lì; eraNardone che prendeva il sole e sonnecchiava nella piazza desertacome stesse aletto a casa sua. Le staffette allora gli si avvicinano e quello quando sente icavalli che gli scalpitano vicino si sveglia e s'alza in piedi. Nardone è unpezzo d'uomo che ha fatto il portinaio a Napoli e va sempre in giro con unacamiciola turchina sulla quale ha appuntato tante medaglie e medagliettediquelle che di solito i preti dànno in chiesa ai ragazzini e di quelle prese perricordo nei santuari –Nardone accompagna sempre i paesani che vanno neipellegrinaggi!– Immaginiamoci quello che dovettero pensare le staffettepiemontesi vedendo Nardone; anche perché le sorprese del suo strano modo divestire non erano finite. Prestosegretarioconoscerete anche voi questonostro originale concittadino. Dunque le staffette gli chiedono se lui sa dovesi trova il sindaco e quale è l'alloggio del generale. 'Dove sta adesso ilsindaco non lo so –risponde Nardone– ma so quale è l'alloggio: è a casa diTirlittappo (stavolta il segretario fece coro alla pronuncia di quel nome buffo)e se volete vi ci posso accompagnare!' Così dicendo raccoglie da una parte ilsuo cappello e se lo mette in testa. Adesso la maraviglia delle staffette ècompleta perché il cappello di Nardone è un'alta tuba alla quale luioltre adappendere altre medaglieha appuntato intorno intorno lunghe penne di ognisorta di uccello. In quel momentocon gran fracasso di ruote sul selciato e discalpitare di cavalliarriva in piazza la carrozza del generale col suoseguito. Un ufficiale si affaccia al finestrino della carrozza: Che èche nonè?... Le staffette spiegano di aver trovato solo quell'uomo che poteva indicaredov'era l'alloggio del generale..."

"Hocapito" interruppe a quel punto il segretario che aveva fretta.

"Ehma stiastia a sentire la fineché ne vale la pena –disse Cicco che s'erainfervorato nel racconto– Nardone a quel puntodopo aver fatto un rispettosoinchino ai nuovi arrivatisi mette alla testa del corteo e si avvia verso lacasa di Tirlittappo. Qualcuno di quei signoriallorasembrandogli certosconveniente che una carovana tanto nobile fosse preceduta e guidata da unindividuo così comicodice a Nardone di salire a cassetta accanto alpostiglione e di guidarli da lì. Cosa che Nardone fece indicando la strada conlarghi gesti delle maniperché quei galantuomini non capivano bene la suaparlata abruzzese-napoletanacosì come lui poco intendeva il loro piemontese.Si seppepoiche il generale aveva dato ordine alla sentinella messa diguardia al suo portone di impedire l'ingresso a qualunque cittadino che volesseandare a fargli visitaad eccezione di quel buon uomo che con grande cortesiali aveva guidatie chepoineppure aveva voluto accettare la moneta che unufficiale gli voleva dare quando furono a destinazione. Avete capitoorasegretario perché in Consiglio ho detto e ripetuto di non fare la stessaaccoglienza fatta al generaleadessoall'arrivo del Decimo Reggimento deiGranatieri che viene per il campo estivo e le manovre? Capisco che un reggimentodi soldati non è cosa della stessa importanza dell'altraché un'occasione diquelle chi te la ridà più? Comunque è sempre una questione di decoro per ilpaese ed anche di conoscenza da parte del colonnello e degli altri ufficiali diquesto posto isolato!"

Ilsegretario assicurò che per parte sua avrebbe compiuto scrupolosamente il suodovere in ossequio alle disposizioni che avrebbe ricevuto dal Sindaco; salutò ese ne andò.

 

** *

 

"Chialtro dispetto non te pò fainnanzi a casa ti vié a cacà!" ripeteva convoce amara Peppe Farfugliail Sindacopasseggiando su e giù per il suoufficio. Quella mattina si era recato in Comune prima del solito. Dopo l'ultimoConsiglio la faccenda dell'accoglienzadel "benvenuto"come dicevaCicco Tòmoloda dare al Reggimento che di lì a due giorni sarebbe arrivato inpaesegli aveva guastato la digestione e il sonno. Quel Tòmolo! La suamalignità gli pareva di toccarla con le mani! Con quale astuzia in Consiglio sitrascinava dietro non solo il consenso di quei suoi quattro inetti caudatarimaquasi riusciva a convincere della bontà delle sue proposte i dubbiosi e idisattenti della parte avversa; tale era l'ambiguità dei suoi discorsi!

PeppeFarfuglia si sentiva ora più che mai vittima di una congiura ordita contro dilui dal Tòmolo. "Il capo dell'opposizione –ringhiava a denti strettiquando la bile gli traboccava di corpo e pareva gli portasse alle labbra leparole di quel suo rimuginare– come lui definisce la combriccola che capeggia;come se stessimo in Parlamento con la sinistra e la destra!" E quanto s'eradato da fare il Tòmolo"Don Cicco"come teneva a farsi chiamaredurante le elezioni per contendergli la carica di Sindaco! "Giàperchélui non solo ci avrebbe i fatti suoi da aggiustarsi facendo il sindacocome iodel resto ho i mieima è anche un ambizioso! Don Cicco quaDon Cicco là!..."Se non avesse avuto la necessità di assicurare nelle aste comunali il buonpascolo della montagna di Mazzamora alle sue pecoredella carica di Sindaco luise ne sarebbe altamente stropicciato; se ne sarebbe andato a caccia dallamattina alla serache era la sua passione. Orapoiche aveva un nuovo fucilea due colpi! A che gli servivaa luidi mettersi in mostra? "Benevixit qui bene latuit[20]"diceva lo zio prete; il latino Peppe non lo aveva studiatoma da quando lo ziogli aveva spiegato quel mottonon se l'era mai scordatoe più passava iltempo più aveva imparato a farsi quietamente i fatti suoi. Quella storia deifesteggiamenti per l'arrivo dei soldati era solo un dispetto che Cicco Tòmologli voleva fare! Che glie ne andava in tasca al Tòmolo da una buona o da unacattiva accoglienza fatta ai soldati? a lui interessava solo la terra. Un tòmoloquauno làacquistati tutti per un tozzo di pane da chi aveva il chiappoin canna[21]come si dice in paese per esprimere l'urgenza di danaro. Lui sì che se la stavafacendo una bella proprietàaltro che gli americani!

"Unabella accoglienzaun benvenuto al Reggimentodue parole dette bene dalSindaco..." Ecco dov'era il veleno! Sapeva bene il Tòmolo che lui aparlarespecie in pubbliconon ci si trovava; era morto pure lo zio canonicochi glielo avrebbe scritto ora un discorso?

"Chici saràpoicon me a ricevere i soldati? –s'arrovellava Farfuglia– CiccoTòmolocertoche verrà per vedereper sfottere e per poter raccontare poi ai quattro venti tutte le malignità che gli verranno in testa; e poi? sequalcuno va al negozio di Mingo a comperare una libbra di salacchelui lo mandavia e chiude il negozio per venire a far buona accoglienza ai soldati? Va a chiedere a Guiduccioil sartoperché non era presente alricevimento! Dirà che proprio allora era andato Don Chissachì a farsi prenderele misure per un vestito nuovo!  Bottegaifedeli al motto loro: alla fiera vacci e al negozio stacci. Mi ci troverò iosolo in piazza e la parte di Nardone questa volta la farò io!"

Aquel punto s'era fatto tardi e gli impiegati del Comune (che poi erano tre intutto)  dovevano essere ai loroposti. Il Sindaco chiamò il messo comunale: "Dì al Segretario chescrivesse e facesse iettare il bando per avvisare la cittadinanza cheposdomani arrivano i soldati e...e che bisogna dargli il benvenuto!"

Pocopiù tardinella quiete delle strade del paesedopo il nasale peee... delcorno del banditoreveniva recitato il bando come una poesia non compresasecondo la cadenza delle righe scritte dal segretario sul foglietto di carta.

Chequel bando valesse a radunare gente per una festosa accoglienza al DecimoReggimento Granatieri del Regio EsercitoPeppe Farfuglia non lo credetteaffatto. "Qualche curioso –pensò– qualche sfaccendato che resterà col culo incollato alla cantonata piùlontana della piazzacon aria assente per paura che gli si comandi qualchecosa; i soliti monelli che saranno riusciti a sgusciare tra le gambe deigenitori che volevano chiuderli in casa per tenerli lontano dallaconfusione!"

Gliunici su cui il Sindaco pensava di poter contare altri non erano che i treimpiegati comunaliZibono e Pitolla le due guardie campestriil netturbino eil becchinosui quali ultimi sentiva di avere autorità indiscussa."Meglio che trovarsi solo come Nardone!" rifletté. (Giàperchéc'era sempre l'ipoteca di quel fatto precedente). In realtà sulle due guardiecampestri non era poi tanto sicuro di poter contare perché pensava chetenessero più per il Tòmolo che per lui; a parte il fatto che eranosufficientemente indisciplinate del loro per aver bisogno di esser istigate intal senso da chicchessia. Soprattutto Pitollail qualeda quando avevaammazzato un orso era diventato –o si sentiva– un eroe popolare! Invece difare il suo lavoropassava la maggior parte del tempo nelle osterie a farsipagare da bere per raccontare –ogni volta con particolari inediti– la suaavventura con l'orso: era solo che stava tornando in paese dopo la giornatatrascorsa a vigilare sui campi e i boschi comunali della Valle della Canalaquando da un macchione sbuca e gli si para davantiin piediun orso. Era altoquanto una volta e mezzo luiringhiava e urlava come fosse un lupo mannaro epoi si rimetteva di nuovo nel folto della macchia; si nascondeva dietro itronchi degli alberi più grossi e cercava di prenderlo alle spalle. Lui dovevatrovare il tempo per caricare il fucile perché proprio poco primapersicurezzalo aveva scaricato; poi doveva cercare di fare un buon tiro percolpirlo a prima bottaperché un colpo solo aveva il suo fucile e la pelledell'orso è dura e quello non gli dava certo il tempo di ricaricare. Cosìfacendo fronte all'orso pure lui con urla e sassatequand'ebbe caricato ilfucileun momento che l'orso tira fuori la testa da dietro a un troncoprontaparte la schioppettatadritta in un occhio. E l'orso eccolo lì!

PeppeFarfugliaper richiamare all'ordine questo indisciplinato dipendentepensò diricorrere alla moglie chea detta di tuttialmeno entro le mura domesticheriusciva a farlo rigare diritto. Ordinò allora al messo comunale di andare allafonte e di fargli venire subito innanzi Annina la lavandaiamoglie di Pitolla.

Ladonna si precipitò dal Sindaco sicura che quella chiamata avesse attinenza collicenziamento di quel fannullone di suo maritoché già da tempo lei sel'aspettava. Avrebbe cercato di perorare al Sindaco la causa della sua famigliae dei tre bambini che aveva messo al mondo con quell'uomo; avrebbe cercato dirabbonire il sindacoavrebbe fatto tutto il possibile per difendere suo marito;ma se le cose andavano a malora...behallora lei avrebbe parlato chiaro! Perchéin paese fosse salva almeno la sua reputazione di grande lavoratrice a fronte diquella del marito che era già bella e rovinata.

Anninagiunse ansante al cospetto del Sindacotenendo con una mano il grembiuleavvolto su un fiancogesto che voleva essere di rispetto e di decenza per illuogo e le persone che aveva davanti e chefacendole ergere il busto erimarcando la curva ben modellata dei fianchile conferiva un aspetto dibattagliera fierezza corrispondente al suo vero stato d'animo. "Suria[22]'gnor Sindacom'hai da scusà –disse– se mi presento senz'essermi cambiatainnanzi a lorsignorima stavo alla fonte...e m'hanno detto di venire subitodifuria..."

IlSindaco voleva esser brusco e deciso nel parlare con leima non trovò subitola formulasicché quella ebbe il tempo di proseguire il suo discorso:

"Perchése io non mi alzo la mattina alle quattro e non vado per legna al boscoa casamia il fuoco non si accende!...Qui s'accorse di aver iniziato alla rovescia ildiscorso che voleva fare al sindaco; le sue carte personali avrebbe dovutometterle in tavola solo dopo che fosse fallita una prima difesadiciamod'ufficiodi suo marito; ma ormai il discorso era avviatola faccia delSindacodi solito inespressiva e melensastavolta era buiasicché continuò:"E se poi non mi  spicciolestaad andare alla fonte a lavare i cofani[23]di panni dei signorinon si mangerebbe... –qui trovò modo di riprendersi–Ma senza quel poco di stipendio di mio marito fino alla fine del mese i figlimiei il pane non lo terrebbero..."

Ladonna pareva non volesse finirla piùma a quel punto il sindaco ebbe proprioda lei l'idea giusta per  tenerPitolla in pugno. "Beh –la interruppe– se tuo marito non sarà inpiazzae con la divisa in ordineposdomani all'arrivo dei soldatiti assicuroche su due piedi lo licenzio; ché c'è un altro giovane volenteroso da mettereal posto suo! Con la storia di questo orso tuo marito non si raccapezza. Io nonne voglio più sentir parlare; è stato coraggiosoè un tiratore sceltooramai lo sa tutto il paese che gli ha pagato da bere; adesso basta!" AdAnninaalla quale la lingua per la storia dell'orso già prudeva da tempononparve vero di poter vuotare una buona volta il sacco; anche perché così potevadimostrare al Sindaco che il marito era in suo potere e che d'ora in poi potevastare tranquillo. D'altro cantoora avrebbe avuto un buon motivo da addurre asuo marito per giustificarsi di aver rotto la promessa solenne fattagli di nonraccontare a nessuno la vera storia dell'orso. Sicché proruppe: "Glieladico io mòa Suriala verità dell'orso ammazzato da mio marito!...Quella sera mio marito tardava a tornare a casa come fa quando va a bere allacantina con gli amici e io già ero pronta a fargli l'accoglienza che si merita(ché a furia di cazzotti gliela faccio passare io la voglia di bere) quando melo sono visto arrivare davanti con la faccia spalliditagli occhi sbarratilegambe che avevano la tremarella e una puzzauna puzza che appestava. Che t'èsuccessoche hai fatto? Basta! Allora m'ha raccontato che mentre tornava inpaese s'era visto avanti all'improvviso un orsoche gli era preso un accidentitanto era brutto e grosso; gli ha tirato subito una schioppettata e poi senzavoltarsi addietro è scappato e con tre salti s'è arrampicato su un albero lìvicino. Da lì soprachiama e chiama aiutonessuno lo ha sentitosicché c'èrimasto fino a notte fatta per paura che l'orso gli stesse a fare le poste.Solamente quando non riusciva più a reggersi su quei ramiche ci si eraintisichitoè sceso ed è scappato più di furia che di carriera a casa; e sel'era fatta sotto. Lo so io che stomaco c'è voluto per lavargli le brache contutta quella merda!....Innanzi alla faccia di lorsignori...uh... questeparole!.. Solo la mattina appressoquando prima di giorno è andato araccogliere il fucileche per correre più svelto aveva buttato dopo che avevatirato il colpos'è accorto che vicino al fucile ci stava l'orso stecchito conla schioppettata in un occhio! Allora ha cominciato a fare lo smargiasso. Mapotete star tranquillo che d'ora innanzi deve rigar dritto se no lo svergognoio! E deve smettere di bereperché se il vino..." ma s'interruppe perchés'accorse che stava per ripetere al Sindaco la frase salace che soleva dire–non senza un certo compiacimento e ostentazione-– alle compagne in fontana:che se il vino avesse guastato al marito l'unica cosa che aveva di buonoquellaera la volta che lei lo avrebbe cacciato di casa a pedate.

 

** *

 

Chefosse stato l'effetto del bando o delle ritorsioni minacciate dal Sindaco a quanti potevano temerle tra i suoi concittadini o chepiuttostoa muoverli fosse stata la curiosità serpeggiante in paeseistigatae ravvivata dalle parole di Cicco Tòmolola mattina dell'arrivo dei soldati inpiazza era adunata una piccola folla. Primi ad arrivare erano stati i dipendenticomunali; Zibono e Pitollasulle cui uniformi erano ricomparsi i bottoniabitualmente mancanti e alcuni consiglieriad eccezione di quelli che eranobottegai; poi erano venuti gli sfaccendatiquei cittadini che si trovavano inquel momento liberi dai loro impegni e Schioppetta col suo buonumore. Manco adirlo c'era Cicco Tòmoloche agli occhi di uno spettatore ignaro dei fatti delpaese pareva certo il personaggio più importante della comitiva. Si muovevaspedito tra i gruppi di persone; parlava con tutti accompagnando il discorso con rotondi gesti delle sue tozze mani ed unsolenne alzare e abbassar del capo come chibontà suaconceda udienza eprometta con sussiego all'interlocutore favori e appoggi. E tanto quello eraspigliato e arzilloquanto invece il Sindaco era impacciato e sovrappensiero; néera facile per un estraneo accorgersi che il Sindaco era luiperché la fasciatricolore l'aveva cinta con riluttanza sotto la giacca e se ne scorgevano appenai tre colori di sotto le falde. Cicco Tòmolointantogli stava preparando unaltro dei suoi tiri birboni. Poco prima dell'arrivo dei soldati aveva fattoportare dal bidello delle scuole elementari la pedana di una cattedra e l'avevafatta disporre al centro della piazzadavanti al gruppo dei consiglieri e delSindaco. Costui intuì l'uso perfido che quello voleva farne e fu sul punto disentirsi male. Non era riuscito che a pensare quattro parole da dire alcolonnello e agli ufficiali in tono colloquialein un crocchio in cui ci sisarebbero strette le mani e scambiati sorrisi stereotipati e quei convenevolinei quali lui doveva stare solo attento a non commettere gaffes. Oraunavolta su quella pedanache cosa mai avrebbe detto?

Mancavapoco a mezzogiorno quando si udirono le note della fanfara del Reggimento. D'untratto la piazza fu piena di soldaticon bandiera e colonnello sul suo cavalloin testa al corteo. Le note echeggiarono ancora un momento tra gli edificipoiimprovvisamente cessarono. Il Sindaco venne spinto sulla pedana da maniimpietosetra le quali gli parve di riconoscere per la spinta più decisaquelle di Cicco Tòmolo; si voltò verso i consiglieri con un gesto che volevaessere di cortesia e di invito affinché salissero anche loro su quellaminuscola tribuna; in realtà era una implorazione estrema di soccorso. Inutileperòperché quelli proprio allora guardavano tutti da un'altra parte e moltiavevano gli occhi alzati al cielo come a scrutaresenonostante il bel temponon stesse per venir giù un improvviso rovescio di pioggia a guastare lasolennità della cerimonia. Peppe Farfugliacome mai più in vita suasi sentesolo e smarrito. Ora deve inevitabilmente parlare; dare il benvenuto a queimilitari che sono lì apposta per ascoltarlonon aspettano altro!

Il colonnello lo guarda dall'alto del cavallopoismonta lesto e gli si pianta innanzi impettito nella divisa luccicante dialamariappoggiato in fiero cipiglio alla sciabola con tutt'e due le mani. Ilviso dell'ufficialeche gli sta proprio di frontealla stessa altezza del suosebbene egli sia sulla pedanacon i due mustacchi e lo sguardo chiaro e severodi sotto la visieragli dà la sensazione di avere di fronte il Requello delritratto appeso nella sala del Consigliosceso di lì a sentire tutt'orec-chiil suo discorso. Non aveva scampoora doveva aprire bocca! Ma questa eraasciuttala lingua paralizzata tra i denti. "Benvenuto..." balbetta.Poi silenzioun interminabile silenzio. Quindi con un impeto di volontàconvoce un po' più forte ma strozzatanon suache lui stesso ode estranea:"Benvenuto Decimo!" dice ancora. La favella però è smarrita; Peppenon trova le parole! Nulla pensa e sente che lo accomuni a tutte quelle personeche gli stanno innanzial motivo della loro venuta in paeseniente che glisuggerisca un'ideauna frase qualsiasi che lo tragga d'ipaccio! Il suo sguardosvincolatosi infine da quello freddo del Colonnelloerra sui chepì e tra lecanne dei fucili che assiepano la piazza; pensa al


[1]L'uomo senza danaro è l'immagine della morte.

[2]Sentiero medioevale che in parte segue il percorso della via romana Minucianel tratto da Sulmona a Pescocostanzo.

[3]Ognuno con la sua donna!

[4]Localedialettale abbreviazione di Pescocostanzo. Il Peschio è anche ilroccioneora comunemente chia­mato "Castello"da cui deriva laprima

 parte del nome del paese.

[5]Le ho dette![le tre parole].

[6]Pizzellecolustrezeppolescarsellenomi di dolci tipici diPescocostanzo.

[7]Letteralmente: succhia-inchiostro.

[8]Orecchie fredde per la morte.

[9]Pettegole.

[10]Vestiti di ferro.

[11]Nel dialetto di Rivisondoli naire è interiezione di stizza omeraviglia e ru muarracine significa il saraceno.

[12]Pescocostanzo ha fatto parte della Diocesi di Montecassino fino al 1977.

[13]Ferdinando I di BorboneRe delle Due Sicilieincontrandosi nel gen­naio1821 con i rappresentanti della Santa Alleanza a Lubianane chiesel'intervento militare per ristabilire nel regno la monarchia assoluta eabolire la costituzione chea se­guito dei moti carbonari del 1820erastato costretto a con­cedere e alla qualepureaveva giurato fedeltà.

[14]"Primato degli Italiani" di V. Gioberti (1842-43).

[15]Ottavio Colecchifilosofo e matematiconato a Pescocostanzo il 19settembre 1773morto a Napoli il 25 agosto 1847.

[16]Luigi Bonapartedapprima Presidente della Repubblica Francese epoidal1852imperatore dei francesi col nome di Napoleone III. L'episodio citatoè ricordato in una lapide nel palazzo dei conti Caprini in Viterbo

[17]Sacco.

[18]Leggi emanate in Piemonte per limitare i privilegi giuridici ed economicidel Clero.

[19]Fai un passo indietro nel racconto.

[20]Visse bene chi non si mise in mostra.

[21]L'asta in gola

[22]Vossignoria.

[23]Cesta ricolma di biancheria.

suofucile nuovo... Ecco l'idea! Con più naturalezzacon l'ombra di un sorrisosulle labbra: "Benvenuto Decimo –dice– io sono cacciatore!" E fututto.


LAPASSATELLA

 

 

"Lataverna nostra è la Tutullanon ci sta niende da fa'!" intervenneperentorio Panatella. Nel gruppo la contesa cessò e degli smozzicati:"No... perché diceva isse[1]..."e "Veramende io..." si persero nell'aria invernale fredda ebianca della piazzetta.

"Allorapoche chiacchiere! –riprese Panatella con un volger d'occhi che gli guizzòbeffardo di sotto le folte sopracciglia– Per la passatellaa staserac'ètempo! Mò Giannamico e Arturoognuno con la traglia sé[2]vanno in giro per la cerca della legna e Carluccio e Matté spalano la neve efanno il posto per accannarla[3]quando s'è raccolta."

"Eio e Tummasino che facciamo?" disse Zamirro.

"Giratelo stesso per le case a cercare legna; poi portatela sulle spallevisto che nontenete né una slittané un asino per caricarcela! Oppure fatevi imprestare daqualcuno una tragliuccia e tiratela voi al posto dell'asino mentre girateper il paese. Insomma datevi da fare tutti e portate qui quanta più legnapotete. Ce ne vuole tantasennò all'asta non si fanno i soldi per pagare lafesta a S. Antoniola festa non riesce e io ci faccio una figura dimerda!" conchiuse Panatella con aria sprezzantee i suoi sottili baffi siprolungarono nelle pieghe tirate degli angoli della bocca.

"Lafigura di merda ce la facciamo anche noi; tutta la Commissione ce la fanonsolo tu!" replicò Zamirro; ma Panatella era già andato via imprecando.

"Avetesentito? dobbiamo darci da fare –continuò Zamirro rivolgendosi ai compagni–intanto lui sen'è ito per i fatti suoi".

"Ifatti suoise non lo sai –disse Tummasino– sono che oggi il cognato fale nozze col porco[4]e lui va a casa della sorella giusto in tempo per il pranzoquando la fatica èfatta e il porco lo hanno già appeso e spaccato!"

"Ifatti suoi sono pure quelli che non sono i suoi!" mugugnò Zamirro.

"Che?"fece interrogativo qualcuno.

"Niende!"conchiuse Zamirro.

Siavviarono tutti per la questua della legna.

Quandotornarono ciascuno posò in terra il suo carico e nella piazzetta si formò ungrosso mucchio di legna da ardere. Allora gli uomini cominciarono a far le cannenello spiazzo liberato dalla neve.

Panatellatornò allora accaldato e trafelato come se fino a quel momento fosse statoimpegnato in un lavoro faticosoe certo voleva farlo crederema odorava divino e di porco spaccato di fresco.

"E'sempre una bella festa quando s'accide il porco!" disse qualcunodegli uomini.

Panatellanon rispose. Fulminando tutti con lo sguardo mugugnò in sordinacome per nonessere udito da passanti che in quel momento non c'erano: "che fiàchefiàche facete; belli azzeccati ciocchi e ramorelle[5]eh! Saiquante canne di legna vengono fuori così? a malapena unauna e mezza!

Lecajolele cajole[6]le capannelle ci dovete fare. Se non le fate sottonella catastale faretesopra che si vedono?

L'hosempre da fare con i quatrali io; quatrali di coccia[7]ché di anniinvece ne avete quanti il cucco!..."

 

** *

 

Quandole cataste furono fattePanatella le guardò con disgusto: "Pocaunamiseria di legna avete raccolto –e fissando Zamirro– non siete buoni a niende!"conchiuse.

Zamirrosostenne con fermezza quello sguardo.

Erascesa la sera.

"Stanottenevica!" disse Tummasino.

Mentresi recavano alla cantina Zamirro disse piano a Tummasino: "Ricordati cheGiannamico e Arturo jettano[8]cinque e quattro alla conta e che Padrone deve essere Panatellaio Sottoe tu Donna![9]Lui vuole essere sempre Padronee 'sta volta Padrone sia finoall'ultimo bicchiere di vino. Ioinvecenon ne bevo nemmeno uno!"

"Vabeneva benequesto piacere te lo faccioma dimmi perché!"

"Sonofatti miei. E' un piacereno? fallo!"

E'un vero uomo e regge il vino –si disse in cuore Zamirro– vediamo se reggequello delle nozze col porco e quello della passatella di questa sera!

"Staserabevi e scaldati –gli disse Panatellapoco dopomentre entravano nellacantina– Stai pallido di freddo."

Zamirronon rispose. Lo odiò.

Unmammoccio[10]cosìdeve averci quella bella moglie! pensò ancora una volta Panatella. Ma unaltro paio di volte che lo riaccompagno a casa ubriaco...Questa serapoidicoche il marito ha bisogno di un caffè forte e lo accetto pure io; me lo offriràse lo dà al marito! Anzi.... può essere pure che la aiuto a farloil caffè...La fantasia di Panatella correva.

Nellacantina c'era un'aria densa di fumo e di vino; degli sguardi opachi incrociaronoquelli della comitiva che entrava e cercava un tavolo libero. Taglienti"cinque!""tre!""tutta!" di due giocatori dimorra sovrastarono i rochi saluti.

"Allorafacciamo la conta per chi è Padrone: Pe' Tummasino!" disseforte Panatella quando furono intorno al tavolo. Le mani scattarono con le ditatese nel numero volutodisegnando sul piano del tavolo una bizzarra geometria astella.

"Venticinque"disse Panatella. Contò. Padrone era lui. Gli faceva piacere; inspiròaria. "Per il  Sotto!"disse ancora. Iniziò la nuova conta: ventino è ventuno: le dita furonocontate di nuovo: Ventuno. Zamirro è Sotto.

"Bene–commentò Panatella– stasera puoi bere!"

Poici fu la conta per la Donna: toccò a Tummasino.

Ilvino era arrivato sul tavolo e i bicchieri erano in un vassoio di metallo pienodi ammaccature. Arturo li riempì fino all'orlo stando attento a non versarefuori il vino.

"Allasalute!" –disse Panatella– alzando e tracannando d'un fiato il primobicchiere.

"Prosit!"dissero i compagni quasi all'unisonosecondo una sorta di responsorio di rito.

"Questobicchiere adesso lo beve il Sotto!" disse poi Panatellaprendendo un altro bicchiere e tendendolo a Zamirro.

Zamirrodisse che avrebbe cominciato a bere dopo. I primi bicchiericol permesso della Donnalui poteva darli da bere a chi voleva. Ci fu un contrasto: il Sottodoveva decidere di volta in volta se lui voleva bere o no; non poteva dire cheavrebbe saltato le passate di vino tre o cinque o quante ne volesse!

Zamirroad un certo punto troncò la discussione e si disse d'accordo col punto di vistadi Panatella. Ciò non modificava il suo proposito; fu quindi attento a far sìche la maggior parte dei bicchieri di vino li bevesse il Padrone tantoche Panatella pensò che Zamirro volesse ingraziarselo. Quanto agli altribicchieri poteva berli chiunquelui nella comitiva non aveva né preferenzenéantipatie. In realtà avrebbe anche bevuto qualche bicchiere per non destaresospettima assolutamente non voleva che il suo fiato odorasse di vino. QuandoPanatella cominciò a insistere che il Sotto è Sotto pure perchédeve bereuno sguardo d'intesa di Tummasino lo aiutò a superare la strettoia:al successivo invito del Padrone a bere un bicchiereZamirro tese ilbraccio per prenderlo; ma proprio allora la Donna aveva un impellentevoglia di bere e il bicchiere passò di mano. Risero tutti a lungo sul grugno diZamirro per quella che era parsa una beffa e lui aiutò il gioco fingendosicontrariato.

Lavoce di Panatella era diventata impastata e roca quando tornò sull'obbligo diZamirro di bere; allora Zamirro prese Panatella sulla parola: "Un uomo nonè uomo se non regge il vino! L'hai sempre detto e stasera che t'è successo?proprio ora che vogliamo incominciare a bere davvero per scaldarciché conquella legna ci siamo ammazzatiti contraddici e non vuoi bere quello che perregola del gioco ti tocca? e poi è prestoc'è tempo per bere tutti. Nonancora suona la campana ...[11]"

"Noè suonata!"

Mentrei bicchieri di vino passavano di mano e venivano tracannatio centellinati concerta riverenza schioccando la lingua sul palato alla fine del bicchiere (equesto era musica alle orecchie dell'osteché in tutto il paese non c'era vinoche reggesse il paragone col suo) Zamirro andava rimuginando il concetto delvinoe che non è uomo chi non lo regge.

Ilvino –pensava– può essere genuino o traditore come tutte le altre cosedella vitadel restoche possono essere buone o cattivevere o false. Tuttosta a saperload accorgersene! Prendi questo Panatella: fuori è come vuolparere luiamico o nemico; ma dentrodentro è sicuramente marciocattivo.Però senza di lui non ci sarebbe la comitivanon ci sarebbe la Commissione eforse a S. Antonio non si farebbe nemmeno la festa ea dir la veritànon cisarebbero nemmeno quei lavori che nei periodi magri lui riesce a prendere acottimo e poi spartisce con noi. E' come il cacio pecorino quando ci sono ivermi: fuori sembra normale e ha un buon odorelo apri e fa schifo con queivermi che brulicano e saltanopoise lo prepari benelo mangi ed è unasquisitezza! Perciòuna lezione devo dargliela: lui il gallo lo va a fare acasa sua! Questo lo so che è vino traditore; sarei proprio scemo a berlo!

 

** *

 

S'erafatto tardinella cantina erano rimasti i due giocatori di morra che fissavanomuti una bottiglia vuota e un bevitore solitario che dormiva con le bracciaconserte sul tavolo. L'oste aspettava che andasse via la comitiva di Panatellaper scuoterlo dal sonnoprenderlo per un braccio e trascinarlo fuori dallacantina. Panatellaimmerso nella meditazione ebete dell'ubriachezza tristeaveva ora le pieghe del volto distese. Giannamico e Arturoormai convinti didover andar viaavevano iniziato le trattative per vedere chi dei due dovesseaccompagnare l'altro a casa e quindi salir su a bere un ultimo bicchiere persuggellare una così fraterna e profonda amicizia. Zamirro guardò Panatella:gli sarebbe bastato spostare con la punta del piede lo sgabello su cui eraseduto per farlo scivolare lungo disteso sotto il tavolo. Ma fu solo unpensiero. Disse a Tummasino chevisto lo stato in cui s'era ridotto Panatellatoccava a loro due riaccompagnarlo a casa; anche perché Carluccio e Mattéabitando rispettivamente uno alla Covatta e l'altro a Sante Cantinoi due capiopposti del paesese n'erano andati via ognuno per conto suo; sicchépresosottobraccio Panatellas'incamminarono. Lungo la strada l'ubriaco continuò avoce alta il soliloquio triste che svolgeva nella sua mente e ogni tantoformulavaall'uno o all'altro dei due accompagnatoriinterrogativi chepresupponevano l'assenso incondizionato e convinto chenaturalmentesubitoriceveva.

Quandofurono nei pressi della casa di PanatellaZamirro disse a Tummasino che orapoteva cavarsela da solo a portar su l'amico (che fossero stati in due a doverloriaccompagnare l'indomaniormailo avrebbe saputo tutto il paese). Lo ringraziòdel favore che gli aveva fatto durante la passatellagli augurò la buona nottee si diresse con passo veloce verso casa sua.

L'ariaera rigidasi era levata la tramontana che aveva spazzato le nubi basse dellasera e la luna stendeva pennellate chiare sul paesaggio. Ormai non nevica piùpensò Zamirrosta gelando! Al 'Giro del Paese'[12]incontrò Giannamico e Arturo i quali reggendosi l'un l'altro procedevano perstrada zigzagando; li vide staccarsi dal portone del palazzo Grillidove sierano appoggiati in una pausa del loro camminoe con passi incertisempre piùaccelerati per la pendenza della stradaandare a fermarsi contro uno deipilastri dell'Arco del Macellodopo aver evitato in modo fortunoso la ceca[13]antistante.

Arrivatosotto casa sua guardò la finestra: era buia; sua moglie non lo aveva aspettatoaveva spento il lume ed era andata a letto. Naturalmente di umore nero! Nonaveva assolutamente creduto che lui avrebbe smesso di ubriacarsi quando era conquella razza di amici; tanto menopoise Panatella faceva parte dellacomitiva. Eper la veritàfino ad allora aveva sempre avuto ragione a noncredergli. Quella volta lui glielo aveva promesso in modo solenne maevidentementenon era riuscito a convincerla: per la faccenda del bere lafiducia di sua moglie l'aveva proprio perduta!

Entròin casa senza far rumore; voleva sapere se sua moglie dormiva veramente o no. Sitolse di dosso cautamente i panni e li poggiò su una sedia lontana dal letto.Quelli puzzavano sicuramente di vinoanche se il vento per strada li avevaincessantemente sbattuti. Si fermòpoiad ascoltare il respiro della moglie;sentì che era sveglia e intuì che da quando era rientrato lei aveva acuitol'olfatto e l'udito. Allora si accostò al letto in silenziofacendole credereche riteneva che lei dormisse e vi entrò piano. La moglie smise di fingereannusò forte l'ariapoi si avvicinò di più a lui ed annusò ancora mentrelui respirava forte.

"Nonhai bevuto questa sera –disse– non hai bevuto davvero!" E si strinse alui.


PARTESECONDA

 

 

 

PADRE

 

Pergamenebozze di stampastetoscopiobisturiincunabuloapplicazione di forcipe... leparole sono nel lessico familiareperfettamente assimilate dai due bambini chefrequentano le prime classi delle elementari; così come i concetti di appuntobibliografico e di ricerca archivistica: cose da fare con grande attenzione emeticolosità; di polmonite: malattia grave con la "crisi" al settimoo al nono giorno; di  setticemia:malattia quasi sempre mortale.

Laporta della biblioteca non ha una maniglia per aprirla come le altre; si apresolo con la chiave che ha il Dottoreo la apre lui da dentro con un pulsante.Luilìtra pareti completamente rivestite da scaffali pieni di libri e libriammonticchiati dappertuttoè sempre curvo su vecchie carte e non rispondemaseguita a scrivere.

"Dotto'c'è 'na bonafemmena[14]chevi cerca..."

Silenzio.

"Pareche vuole una visita..." azzarda la domestica.

"Oravengo" e scrive ancora con evidente disappunto.

"Chisei tu?"

"So'la figlia di Benedetta...mbe...gli dicono 'la Ntramata' per soprannome....Mammaci ha 'na pena..."

"Enon c'è il medico condotto?"

"Scibbenedittovole a surìa!..[15]"

"Vabeneva bene ora vengo!"

Duranteil pranzo la moglie chiede al Dottore che "pena" avesse ladonna che l'aveva chiamato al mattino. "Penapena...–risponde ilmarito– qualunque malessere più o meno acuto quia Pescocostanzolochiamano 'pena'; di febbre puerperale si trattae non è più una donnagiovanissima. Iddio gliela mandi buona!"

"Diomiopoveretta! Assistilatorna ad osservarla!..."

Eranoi primi anni trenta e il Dottore aveva deciso di ridurre sempre di più la suaattività professionale. Decisione che non rappresentava per lui la fine di unacarrierané una definitivaobbligatoria rinuncia al lavorocome di solitoaccade a chi è trasformato in un sol giornoper un legale limite di età o unbiologico limite di forzeda individuo attivo e socialmente utile in oziosopensionato. Il Dottore soleva ripetereinfattisemel medicussempermedicus[16]adattando alla sua professione quel motto sul sacerdozio. E medicoinfattisarebbe rimasto fino all'ultimo istante della sua lunga vita. Quale fosse ilmotivo preminente a indurlo nella decisione di abbandonare la professioneattivail Dottore non lo precisò mai a nessunoné forse lui stesso se lo eramai chiesto. Certamente una grande passione per gli studi storici e le relativericerche archivistiche aveva sempre più conquistato l'animo suo. La sua innatainsaziabile curiosità trovava in tale disciplina un appagamento che la relativalimitatezza delle cognizioni mediche di quei tempi e la quotidiana ripetitivitàdegli atti professionali non potevano compensare. L'etàpoisui sessantaerauna vetta che gli consentiva di abbracciare un ampio panorama di mondoattraverso il quale s'era snodato il cammino della sua vita. Che parevabrevissimo se gli si presentava di scorciofatto da tanti ieri fittamentestipati a formare un solo giorno appena trascorso; ma ben lungo se di propositosi impegnava a ricordare in successione cronologica luoghiuomini e fattivissuti. Da quel suo osservatorio credeva di poter scrutare con buonaapprossimazione il cammino ancora da compiere e che non doveva sembrargliparticolarmente accidentato.

Inveritàeventi assolutamente imprevedibili quattro o cinque anni primasierano verificati nella sua vita in quell'ultimo lasso di tempo e avevanoaggiunto quello che comunemente si ritiene debba far parte integrante della vitadi un uomose vissuta con pienezza: una moglie e dei figli. Era accadutoinfattiche alla fine degli anni ventiquattro suoi fratelli di età molto piùavanzata della suaavevano riflettuto che il loro casato si sarebbe prestoestinto. Infattii nipoti ancora in età di prender moglie non mostravano diaverne alcuna intenzione e coloro che l'avevano presa non erano stati prolifici.Questi quattro fratelli (il maggiore era stato un altoaustero magistrato econservava intatta l'autorevolezza del suo grado nell'ambito familiare) tutti dietà tra i settanta e gli ottanta si erano rivolti a luiche era l'ultimoperchiedergli se avesse avuto l'intenzione di prendere moglie. In caso affermativolo avrebbero nominato loro erede universale. Cosa li inducesse a pensare chequesto matrimonio avrebbe assicurato una continuità alla loro stirpe non èdato saperené poi perché tale continuità gli stesse tanto a cuore; fattosta che essi poi vinseroper così direla posta in gioco.

IlDottorea quel punto della sua vital'idea di accasarsi riteneva di averlaabbandonata; invece ora gli si riproponeva e in un modo certamente insolito:quasi come invito a partecipare ad un gioco a premi. E poipur se le ereditànel suo caso non erano condizionate alla nascita di un figlio maschiodall'eventuale matrimoniolui si sarebbe in certo modo sentito un usurpatore ditali donazioni se la prole desiderata non fosse venuta. Inoltre i fratelliavevano detto: "Se te le senti di prender moglie..."; quella premessacosa significavaa che si riferiva? alludeva all'impegno morale che ilmatrimonio e quel suo matrimonio comportava o non piuttosto a quello fisicoconchiaro riferimento alla sua età non più giovane? Era quella dei suoi fratelliuna provocazioneun rimprovero per la sua vita di scapoloche essi forsebiasimavanoo piuttosto una loro indebita ingerenza in fatti suoidel tuttoprivati? Poteva anche essere una richiesta di aiutodi conforto che i fratelliafflitti da solitudine nell'estrema vecchiezza gli rivolgevano. Benelui accettòl'invito: se la sentiva!

IlDottore aveva varie conoscenze femminili e avrebbe potuto trovare moglie traqueste; ma una nobildonna di Sulmona sua amicaspregiudicata e gaudente ingioventùquanto pia e penitente in vecchiaiagli aveva parlato qualche tempoprima di tre mitigraziose e non più giovanissime sorelle nubili viventi inquella cittàfiglie di suoi conoscenti. Quella signoraquando capitaval'occasione svolgeva compiaciuta le mansioni di pronuba; nostalgica sequelaforseo sottile trama sensuale che riallacciava la solitudine delle suegiornate ai piaceri della gioventù. Quando il Dottore le chiese notizie piùprecise delle tre sorelleorganizzò subito un ricevimento nel suo palazzo perfargliele incontrare e conoscere; poi... avrebbe scelto!

Letre sorelletra i ventotto e i trentacinque annierano rimaste nubili fino aquell'età perché i genitoriprimaavevano impedito i loro matrimoni. Questisarebbero potuti avvenire solo dopo che una sorella maggiorenon molto carinaavesse trovato marito. Chése incominciavano a sposarsi "lepiccole"nessuno avrebbe più chiesto la mano della grande! Ogni loropretendenteperciòveniva pretestuosamente respintoa meno che non spostassesulla prima figlia la sua attenzione. La disciplina e la mitezza delle tresorelle resero vani i loro tentativiche pure vi furonodi resistenza a taleimposizionesì che l'autorità dei genitori ebbe in questo campo una assolutaaffermazione. Dopo il matrimonio della sorella maggioreche finalmente eraavvenuto l'anno precedentel'ordine di priorità nei matrimoni a secondadell'età poteva non esser più rispettato.

IlDottore incontrò al ricevimento della nobildonna le sorelleignare che quelgiorno si sarebbe compiuto per una di loro il gioco del destino. Tuttemostravano meno della loro effettiva età e la sorella minorepur ventottenneconservava gli atteggiamenti che il ruolo di piccola della famiglia le avevasempre assegnato. Esse erano ben fatteslanciatecon occhi e capelli scuri;nei loro modi c'era spontaneità velata solo da una nota di lieve mestizia. IlDottoreforse per la prima volta nella sua vita incontrando una donnaavvenentesubì non solo il fascino femminilema avvertì una più profonda ecomplessa sensazione: quella derivante dalla sacralità d'immagine della coppiagenitrice che stava per formare. Nella maggiore delle tre sorelle intuì una piùmatura dolcezzauna disponibilità più consapevole al rapporto matrimonialeche di per sé complessoavrebbe certamente avuto nel suo caso un particolareintreccio di sentimentidi pensieridi abitudini nuove da acquisire e anticheda modificare e perdere. Il suo intuito non lo ingannò. Il matrimonio fucelebrato nella casa della sposa nell'estate del ventinove e il viaggio di nozzesi svolse nella penisola sorrentina ed a Napoli. Qui il Dottore fece una lungavisita all'Archivio di Statodi cui era assiduo frequentatorefacendosiaccompagnare dalla sposa dopo averla munita di giornali e di rivisteche leiebbe tempo di sfogliare più volte mentre il marito conduceva le sue metodichericercheconfermando così fedeltà ad un suo scherzoso motto: "Cartevecchie e donne giovani".

Dopo un anno nacque il primogenito e il Dottore dovette esser medico per suamoglie e per suo figlio: il travaglio del parto durava da due giorni e v'eral'indicazione di necessità per una applicazione di forcipe alla partoriente.Questa operazione ostetrica gli era familiare: l'orologio Longines d'acciaio cheaveva sempre in tasca era il dono cheai primi tempi della sua professione inuna condotta della Marsicaaveva voluto fargli un ferroviere della ReteAdriatica per dimostrargli  la suagratitudine alla quinta applicazione di forcipe che aveva praticato alla moglieuna per ciascuno dei suoi difficoltosi parti. Il Dottore non aveva mai pensatoperòdi dover compiere un giorno quell'operazione su sua moglie e suo figlio!Ma non mostrò di vivere questo evento emotivamente; la lunga consuetudine conla realtà dell'uomo malato che attende soccorso fermò ancora una voltasentimenti ed emozioni e suscitò vivo ed acuto il senso dell'impegno e deldovere professionale. "Pensa prima a tuo figlio!" gli ripeteva lamoglietra i dolori del parto. Ma lui doveva pensare ad entrambi secondo irigidi canoni dell'ostetricia. Al lume di candelaperché un temporale quellanotte aveva lasciato al buio il paeseaiutato solo dalla levatrice e dallasuocera che aveva voluto essere accanto alla figlia partorientefu medicoattento e abile ostetrico. Quindici mesi dopo nasceva un altro bambino. Tra lemura di quella casadopo oltre cinquant'anni durante i quali s'era svolta unavita silenziosa e metodicasi udivano i vagiti dei piccoli e le ninnenannecantate dalla madre e dalle altre donne di casa. Alle orecchie del Dottorechino sui suoi librigiungevano attraverso le stanze del palazzo i vagiti e lefilastrocche:

Dietro a SantoVito

ci sta unafontanella

piena pienad'acqua bella

mi ci lavai lemani

ci trovai unanello d'oro

lo portai amonsignore

monsignore non cistava

ci stavandu'zitelle

che facevanfrittatelle

me ne dieder'unboccone

che sapeva tantobone

me ne dieder' unaltro boccone

io lo misi sulbancone.

La banca cupacupa

sotto c'era lalupa

col lupo vecchiovecchio

che non sapevarifarsi il letto.

La gatta incamicia

crepava dallerisa

l'asino nellastalla

suonava lachitarra

il sorcio sopraal tetto

suonava ilciufoletto

i buoi in PrimoCampo

fanno ndung endang

ndung e ndang!...

Glieleavevano recitate sessant'anni prima voci di cui ricordava il timbro e levenature. Lo pervadeva allora la sensazione della presenza fisica di una tramadi una continuità biologica che procede autonomaattraverso uomini egenerazioni; palpabile come un filo che si dipanava da un capo sconosciuto e cheora lui aveva teso verso un ignotoinimmaginabile futuro. Forse non era statoaltro che un più sottile filamento di questa trama a svolgersi attraverso queldesiderio di continuità familiaresia pure indirettamanifestato dai suoifratelli.

Ilpresenteil quotidiano per il Dottore era apparentemente tranquilloaddirittura semplice da vivere. Ad una condizione di benessere economico siaggiungeva la stima di quanti lo circondavano e l'amicizia di uomini colti con iquali era in corrispondenza per i suoi studi storici.

Ilsuo impegno in questo campo stava allora divenendo pressoché assoluto con lacollaborazioneprestata gratuitamentealla compilazione dell'indice di unponderoso Corpus di antichi cronistiper conto dell'Istituto StoricoItaliano per Il Medioevo. Lavoro che lo aveva impegnato per circa otto anni conricerche d'archivio in tutta l'Italia. Intanto andava redigendo note epubblicando altri documenti di storia patria e uno di questi lavori lo dedicòai piccoli figli. Le interruzioni di tale studioche abitualmente durava dallamattina alla seraerano dovute solo a quelle prestazioni professionali che nonpoteva evitare e al non molto tempo che dedicava ai due bambini anarrargliargute e istruttive storielle. Ben poco lo interessavano gli eventi politici; alfascismo che in quegli anni celebrava i suoi fasti tra il consenso dei piùprestava poca o punta attenzione. Mussolini sarebbe passatoforse prestosenzalasciar tracce durature nella storia e nemmeno nella fantasia dei semplici chepure in quel momento aveva acceso; così come era passato in automobile sullastatale e la gente era corsa a vederlo e raccontava poi che Viàsciocon lacamicia nera e la medaglia d'argento appuntata sul pettos'era fatto valere es'era issato sullo staffone della macchina presidenziale; che v'era rimasto unpezzo ritto nel saluto fascista e che Mussolini se n'era compiaciuto. La stampala radio che in quegli anni s'andava sempre più diffondendoenfatizzavanofenomeni non nuovi nella storia; ma la radio bastava non acquistarla e daigiornali bisognava saper leggere tra le righe le poche notizie attendibili. Egliriteneva che la storia fosse maestra di vita: pure se la visione dello storicoè retrospettiva e non consente alcuna previsione certa nemmeno dell'immediatofuturola coscienza storica vale comunque ad evitare l'abbaglio di molteillusioni del presente.

Colcrescere dei figliperònuovi rapporti anche formali mettevano capo a lui edoveva prenderne atto. Sebbene fosse naturalmente portato a riproporrenell'educazione dei figli gli stessi modelli austeri dei suoi tempil'intervento della moglie che a ciò si opponeva e il suo stesso ripensamentogliene andavano rivelando l'inadeguatezza. Un giornovolendo mantenere lapromessa di portare dei regalini ai figli al ritorno da uno dei suoi viaggi distudio a Romaaveva acquistato dei giocattoli in un negozio. Si era fattoaiutare nella scelta dalla commessa alla quale aveva detto l'età dei bambini.Mentre quella confezionava il pacco il Dottore vide tra gli altri giocattoli uncappello da bersagliere. Nella sua mente affiorò vivo il ricordo di una suagrande gioia infantile e della dura punizione che l'aveva seguita: il padre gliaveva portato da Napoli uno di quei cappelli; era ancora fresca l'epopea diPorta Pia e lui si era subito sentito bersagliere. Pochi giorni dopoin unaradiosa giornata di primavera i suoi fratelli e le sue sorellein allegracomitivaerano andati in gita campestre al bosco di Primo Campolì dove nelsilenzio della valle risuonano i campanacci dei buoiquelli della filastrocca.Lui non aveva potuto partecipare alla gita: era un gruppo di giovanotti e disignorine e lui un bambino che si sarebbe stancatoavrebbe fatto capricci e sisarebbe dovuto portare in braccio. Inutile insistere; la mamma era statad'accordo con i grandi. Sarebbe rimasto in casa a farle compagnia e lei avrebbefatto cuocere nel forno assieme al pane delle pupattole di pandolce. Invece luinon si sarebbe stancato mai; avrebbe corso sempreda vero bersagliere! S'aggiròper casa; la madre era affaccendata in cucina e non gli prestava attenzionesicura che non sarebbe potuto uscir fuori. Il portone era chiuso e la catena conla quale si toglieva il saliscendi per aprirlo era stata per l'appuntosganciata. Per sollevare il saliscendi bisognava esser altiessere grandi. Lui non poteva raggiungere in alcun modo ilchiavistello. Si sentì disperato. Ma ebbe un'idea come un lampo. Sgusciò nellalegnaiaprese un ramo a forcinacon quello il saliscendi s'alzava! Corse suprese il cappello da bersaglieretornò da bassoaprì il portone e via dicorsa  senza rispondere a quellichevedendololo chiamavano e gli chiedevano dove andasse. Conosceva la stradaperché l'aveva percorsa tante volte in calesse col babbo. La fece di corsa eraggiunse la comitiva mentre cuoceva in un paiolo all'aperto i maccheroni. Pochibadarono a lui e solo per annunciargli la solenne punizione che lo attendeva alritorno. S'arrampicò sugli albericorse instancabilmente sui pratitiròsassi in gara con i contadinelli del luogo. Obbedì di malavoglia alle chiamatedei fratelli che s'incamminavano per il ritorno. Per strada un violentoacquazzone colse la comitiva; il cappello da bersagliereche i contadinelli gliavevano invidiato e che lui gli aveva fatto provare con sussiego solo per pochimomentiera divenuto una poltiglia informe e la visiera di cartone gli siattaccava alle gote. Disperatoavvertì appena i due schiaffi che il padre glidette quando giunse a casa; restòinvecea piangere a dirotto per il doloredi quella perdita nello stanzino dove per punizione fu rinchiusozuppo d'acquacom'erafino a quando fu spedito a lettodigiuno. Quella sorta di punizioni ilDottore sentiva bene che non avrebbe potuto infliggerle ai suoi figli.

Lacommessa del negozio vedendolo assorto nei suoi pensieri aveva detto: "Ilpacco per i suoi nipotini è pronto; che nonno premuroso hanno!"

Quellungo arco di tempo da lui già vissuto prima di diventare padregiocavainevitabilmente il suo ruolo  ponendoloin una simultaneaparadossale condizione di padre e di nonno. Del restodopoil matrimoniotutta la sua vita aveva incominciato a scorrere come su undoppiodivergente binario: di giovinezzaper le responsabilità nuove di capodi una nascente famiglia –cui s'accordava la sua eccezionale validitàfisica– e di vecchiaiaper il cumulo di anni e di esperienza già vissuti. Ilprisma affettivo dell'animo umano gli mostrava altre facce e la ragione cercavadi formulare nuove idee e nuovi pensieri.  Larealtà sociale in quegli anni era divenuta (o quel matrimonio e quei figligliela stavano mostrando) diversa dagli schemi antichi. Pareva certopoiperle contraddittorie ma sempre più incalzanti voci di guerrache una nuova ondalunga della vicenda umana fosse prossima a frangersi  in un gorgo che avrebbe risucchiato e travolto il vecchioordine di cose e le vecchie idee. I sintomi di una prossimaforse immanecatastrofe a volte erano chiari agli occhi del Dottore come quelli di unamalattia gravedi una infezione di cui era impossibile la prognosi; nonvalevano a mimetizzarli ed a confonderli le voci roche degli altoparlanti e lenote stridule delle fanfare.

ARoma aveva visto esposte nella vetrina di un negozio maschere antigas per adultie bambini. Il Dottore si chiedeva come avrebbe potuto proteggere la sua famigliadalle calamità imminenti. Seppure l'età di tutti i membri di essa  escludeva il richiamo alle armiquello era solo uno deitanti pericoli incombenti sulle famiglie. V'era il timore di carestiedisommossedi violenzedi invasioni da parte di eserciti stranieri come quelleche stavano travolgendo gli stati dell'Europa centrale. Dopo la guerra nonsarebbe mancata l'inflazione monetaria. Speculatori e interessati consiglierid'ogni genere erano già all'opera e tentavano di convincere chi ritenevanopossessore di danaroad acquistare orooppure terre. Sconsigliabileinvecel'acquisto di case che potevano esser bombardate... V'eraper un galantuomoabituato ad una vita di lavorodi risparmio e di parsimoniosa amministrazionedi una piccola proprietàmotivo di perdere la testa e con essa l'intero suopeculio. Il Dottore decise solo di aver disponibile per l'immediato futuro unaforte somma di danaro liquidoquale in tempi normali la sua famiglia avrebbespeso in quindici o vent'anni; pel resto non prestò orecchio a consiglifinanziari di sorta.

Eraquell'oscuro velo steso sulla ragione degli uominiquella grave crisi dellaciviltà che lo angosciava. Avendo avuto figliintendeva assicurare non solo lacontituità biologica ma anche la continuità civile e culturale della suafamiglia. Conoscitore profondo di tutte le principali biblioteche ed archivid'Italialo era anche delle cittàdegli antichi quartieri e dei monumenti diesse. S'era proposto di condurvi i figli in viaggi di istruzionedi educarlicosì al culto dell'arte e del bellodi quanto è espressione del genio umano.Voleva che fin da adolescenti imparassero ad apprezzare le bellezze dellanatura. Anticipando la gioia di tali viaggi e preparandoli ad essidescrivevaai figli le luci e la poesia di una passeggiata nelle ville di Ravellola vitadei feudatari in un turrito maniero medievalelo splendore e lo sfarzo di unacorte principesca del rinascimento e le meraviglie dei codici miniati custoditinelle tante biblioteche d'Italia. Una voltadurante un viaggio a Romaapprofittando della consuetudine con cui frequentava la Biblioteca Vaticanavolle condurvi i due ragazzi perché vedessero quelle sale splendideaccessibili solo a pochi ed eletti studiosidelle quali aveva parlato tantevolte. La visita ebbe luogoma fu breve perché il Prefetto della Bibliotecaun monsignore suo amicos'accompagnò subito a lui tenendo costantemented'occhio i ragazzi nel timor panico chedata la vastità dell'aulaviorganizzassero seduta stante un acchiappino. Quindi mostrò loro un libro conbelle e colorate figure e pregò l'amico di condur via presto i due bravifiglioli; i quali dal canto loroguardati con tanto d'occhi quei professoronichini sui libri che non s'erano neppure accorti della loro presenzabaciata lamano al monsignorein punta di piedi come erano entratise ne andaronoseguendo il padre.

Nelgiugno del quaranta la dichiarazione di guerra aveva spento nell'animo delDottore ogni pur debole speranza che gli italiani potessero restare estraneialla convulsione mondiale. Tuttavia per un triennio la guerra per lui fu solo unsuccedersi di bollettini dal significato dubbio e soprattutto di notizie dilutti morali e materiali. Nel luglio del '43 invece la bufera investì in pienola sua famiglia.

IlDottore si accingeva in quei giorni ad andare a Roma con la moglie percommissioni familiariquando una giovanespiritata contessa che villeggiava inpaese e che da pochi giorni aveva conosciuto la sua famigliaappresa la notiziadi quel viaggiochiamò i due figli del medico. Presili in dispartedissetestualmente: "Impedite assolutamente il viaggio dei vostri genitori aRoma; domani Roma sarà bombardata e voi potreste rimanere orfani!"

"Checosa può saperne quella matta?" sbraitò il Dottore quandoterrorizzatii figli corsero a riferirgli la notizia. Né le invocazioni e i pianti dei figliormai adolescentiné un suo colloquio con la veggente contessa (la quale nonpoté o non volle offrirgli elementi di credibilità) valsero a distogliere ilDottore dal proposito del viaggio. Puntualmenteinvecea mezzodì del giornosuccessivo il treno col quale i coniugi viaggiavano fu investito da un uraganodi esplosioni mentre stava entrando nella stazione Termini. Era il primobombardamento anglo-americano di Roma che colpiva il quartiere e lo scaloferroviario di San Lorenzo. Le ondate dei bombardieri si succedevano impetuose ei due coniugidivincolandosi tra bagaglicorpi e lamiereaccecati edasfissiati dal fumocercarono riparo tra le siepi della scarpata ferroviaria enei cunicoli che l'attraversavano. Solo dopo due angosciose giornate i figliche avevano appreso la notizia del bombardamento mentre era ancora in corso dalbollettino di guerra trasmesso nel comunicato radio dell'una pomeridianaricevettero un telegramma che li informava che entrambipadre e madreeranovivi e incolumi; telegramma cheappena giuntol'ufficiale di posta fecerecapitare subitoaffettuosamente apertoai ragazzi.

Il25 lugliopoicadde il fascismo. Quietamentecome fosse stata girata connoncuranza una pagina poco importante del libro di storia nazionale. Mussoliniera scomparso nel nullacaduto in un trabocchetto come vi precipitava l'ospitesgradito durante un ricevimento a palazzo in una corte feudale. Una certatradizione era statacosìrispettata dai Savoia.

Anchequesto eventoquasi fosse una trama ordita per aumentare il senso di irrealtàche ora di tanto in tanto lo pervadevaera stato preannunciato al Dottore oltresei mesi prima. Una sua ricca paziente dei quartieri alti di Romanel corso diuna visitagli aveva detto con affettata noncuranza: "Faccia i suoi contiDottorequesti a luglio cascano!" Quali conti doveva farsilui che nonera mai stato uomo di partita doppia?

 

** *

 

Unapioggia fine e gelida cadeva da più giorni. Il Dottore dietro i vetri dellafinestra guardava i camini che alitavano tenui volute di fumo sui vecchi tettizuppi e lustrie più oltrein fondo alla vallele nuvole basse saldate aineri boschi autunnali fino alle pendici dei monti. In strada passavano lunghefile di uomini silenziosifradici di acquacon zappe e badili in spallaguardati tutt'intornocome le pecore dai canida soldati tedeschi armati dilunghi fucili. Erano forestieri rastrellati chissà dove e messi a scavaredall'alba al tramonto trincee e fossati anticarro nelle campagne.

Ilfronte aveva raggiunto Pescocostanzo e il paese doveva essere evacuato entroquarantott'ore. Il Dottore volgeva lo sguardo ai suoi libri stipati nei massicciscaffali della biblioteca. Esaminava i dorsi delle rilegature: quelle antiche inpergamenaquelle delle edizioni rare e pregiatequelle dei volumi fatti rilegare da luimunendoli del suo ex libris; le pile deilibri consultati per ultimi ancora sui tavoli e sulle sedie. Il suo sguardovagava nell'ampio vano dalla scrivania col grosso calamaio e lo sfogliacarteconsumato dall'usoalla sua poltrona col cuscino sdrucito ai bordi da tempo.Quegli oggetti parlavano un linguaggio nuovoche non gli riusciva d'intenderebene. Tuttotutto ciò stava per essere rubato o distrutto; così come i mobilidi casaquelli di uso comune e quelli che arredavano le sale del pianosuperiore: arazzispecchieretappetilampadari. Oggetti antichidi valorequestisempre stati da generazioni in quei postiguardati ed usati; ma nonfedeliintimi compagni della sua vita come i suoi librile sue carte. Queiplichi di vecchie carte bambagine rosicchiate in parti uguali dal tempo e daitopiancora da aprire da quando una mano due o tre secoli prima li avevaconfezionati e riposti con cura. Neppure immaginarle quelle mani sacrileghe cheavrebbero violentati e scaraventati frettolosamente a terra i volumi dagliscaffali per vedere che cosa vi fosse stato nascosto dietro. Quell'idea erainsopportabile. Fosse stato solosarebbe rimasto lì al suo scrittoioa moriretra i suoi libri. Ma sua moglie lo chiamava perché l'aiutasse a legare duematerassi; ad ogni costo li avrebbe fatti caricare sul camion che dovevaportarli viae qualche coperta. "Ricordati di indossare una doppia magliaanche tucome farò fare ai figli...Pensa ad un nascondiglio per un po' diprovviste...un sacchetto di farinail prosciutto... Ora non possiamo portarealtro con noi che questi pochi fagotti  mapuò essere che ci riesca di tornarli a  prendere!"

Fuoridella biblioteca la casa era irriconoscibile; sua moglie e i suoi figli avevanofrugato dappertutto come alla ricerca di oggetti che avessero la capacità diproteggerli dalle incognite della vita randagia di sfollati che li attendeva.Tutto ciò che non sembrava utile a tale bisogna veniva lasciato dove era venutotra mano; a che sarebbe servito rimetterlo a posto?

IlDottore sentì il suo animo tendersi allo spasimoma si proibì di porvi mente.Aiutò a confezionare i pochi bagagli che speravano di portare viaentrò eduscì di casa più volte per piccole commissioni e intese col vicinato; rincasòche era già calato il coprifuoco. Il termine ultimo e improrogabile per lo"sfollamento" della cittadina era per la mattina successiva. All'albadi quel 3 novembre 1943 vi sarebbe stato l'ultimo camion diretto a Sulmona e poi al Nord.

 

** *

 

Ilcamion militare tedesco partì dalla piazza del paese che appena si facevagiornocarico di uomini e di fagotti. Il cielo era sereno e una luce pallida sirifletteva sui muri delle case vuotecon i punti neri delle porte e dellefinestre spalancateche tosto scomparvero agli sguardi sbigottiti dei partenti.Giunti a Sulmona il Dottore picchiò forte sulla cabina del camion mentreattraversava la città: "All'ospedale... à l'hopitalàl'hopital!" L'autista rallentòpoi fermò il camion e scese pervedere di che cosa si trattasse. "C'è un vecchio che si sente male;dev'essere portato in ospedalenon può proseguire il viaggio! Io sonomedico!" dissemostrando al tedesco un bracciale bianco con croce rossa ecroce di Malta e un distintivo con simboli analoghi che aveva appuntato sulbavero della giacca. Erano cimeli della Grande Guerranella quale era andatovolontario come medico dell'Ordine di Malta. Il soldato tedesco biascicòqualche parola... kommandantur... "Certocertoandate a prendereordini al comandokommandanturjaja kommandantur!" Il tedesconon fece in tempo ad allontanarsi di quattro passi dal camionche questo era giàvuoto di uomini e di bagagliscomparsi in un baleno nei vicoli del quartiere.

ASulmona il Dottore si rifugiò con la famiglia nell'appartamento dei suoceri chevivevano lì. La moglie e i suoi genitori ebbero allora un gran da fare perorganizzare i particolari logistici della nuova convivenza: il salotto fusmontatofurono acconciati dei letti di fortunai materassi legati in frettatornarono di grande utilitàanzi furono indispensabili. Ma il Dottore avvoltoin un mantello rimaneva tutto il giorno immobile in silenzioseduto in un cantodel divanounico mobile del salotto lasciato al suo posto perché di notteserviva da letto per uno dei figli.

Nonaveva trascorso nella sua vita neppure un giorno in simili condizioni diinattività fisica e intellettuale. Ma ora nel panorama che lo circondava nonscorgeva un solo punto al quale riferire i suoi pensieriquando nella tempestadelle emozioni e dei sentimenti fosse pure riuscito a formularne alcuno. Glipareva di essere uno di quei malati ai quali una paralisi lega le membra e lafavella lasciando integro l'intelletto e il loro spirito traluce solo dallosguardo. Ma per essi il mondo che li circonda è presente e attivo nelle cureche in genere ricevono dai parenti; interrottoper quanto importanteè soloil filo della propria comunicazione diretta e immediata. Per il Dottoreinvecenon la favellanon le funzioni vitaliche erano integrema l'intera suapossibilità di relazione col mondo era interrotta; perché era il mondo delraziocinioil suo mondo della cultura e dell'intelligenza a essere vittima diuna paralisi totale. Tra gli altri assilliuno gli folgorava a tratti la mente:la cognizione della sua età. Aveva già compiuto settantacinque anniquantotempo da vivere poteva essergli rimasto ancora? come non capire che era in quelmodo misero che avrebbe finito i suoi giorni? avesse potuto immaginarlo quindicianni primaquando invece aveva messo su famiglia! Cosa poteva far più lui peressaormaioltre ad avergli offerto quel gruzzolo di danaro dal quale moglie efigli al mattino attingevano prima di avventurarsi alla ricerca del ciboquotidiano nelle campagne della Valle Peligna?

Nellamente del Dottoredunquenon nasceva pensiero che non fosse buiodi doloreforse di morte. Né i familiari avrebbero potuto serbare il ricordo di una suadiversa immagine in quei giornise quasi mezzo secolo dopol'uomo mutoavvolto nel mantello non fosse tornato tra loro (se per una volta è concesso ilsenso figurato delle parole) nell'abitoa lui più congeniale dello storico austero. Così appare dagli scrittivergati in quei giornie trovati or non è moltoquando i figliappreso il ritrovamento in Germaniadi una parte di quei suoi librihanno frugato tra le carte di quel tempo. Sonofascicoli di fogli protocollo nei quali con calligrafia chiara e minutaconaggiunte e precisazioni il Dottore redigeman mano che ripercorre con la mentel'itinerario familiare tra i suoi scaffaliuna sorta di catalogo dellabiblioteca e dell'archivio. Ne enumera le sezioni in ordine alfabeticoneprecisa la consistenzale edizioni delle opereil formato dei volumilerilegaturela rarità degli esemplaril'esistenza di quelli analoghi pressoaltre biblioteche; indica le testimonianze degli studiosi che da ultimi avevanoconsultato i suoi libri. (Queste carte serviranno poi per il recupero dallaGermania di quel nucleo di libri). Ebbe il Dottore una sorta di premonizione ditale evento? o fu la coscienza dello storicoche soverchiando sentimentiemozioni e la muta disperazionelo spinse di nottementre i suoi familiaridormivanoa vergare al lume di candela in un angolo di una scrivaniaimprovvisataquelle memorie; a rendere per il futuro una testimonianza distoria lucidamente vissuta?

IlDottore aveva appena datato "5 dicembre 1943" (ad un mese dal giornodell'evacuazione del paese) e firmato quelle noteche circostanze del tuttoimprevedibili dovevano dare una nuova e duratura impronta alla sua vita.

Tornatadal mercato (era il nome che ancora si dava alle poche sporte di verdura invendita in un canto della grande piazza di Sulmonadove in altri tempi siteneva due volte alla settimana una pittoresca e rumorosa fiera)la moglienonappena fu sull'uscio di casacominciò a chiamare concitatamente il Dottore; maquestiche pure non s'era di certo mosso dalla loro cameranon rispondeva."Non mi senti? Sei diventato sordo? –esclamò la moglie entrando nellastanza– in piazza ho incontrato un vecchio dipendente di mio padredi quandoaveva delle proprietà in...... e da quel che lui mi ha detto devo pensareanzisono certache molti nostri mobili sono stati portati dai tedeschi proprio inquel paese!" Ma il marito pareva realmente sordo e continuava a rigiraretra le mani un rotolo di carta.

"Mache hai in mano? mi senti o no?...che ti è successo?"

"Unapergamena! –esclamò luicome parlando a sé stesso– una delle miepergamene del secolo undicesimo! Un tedescoun ufficiale tedesco è venuto quia portarmelaa restituirmela!"

"Ahallora è certo che la nostra roba è qui!" Esclamò ancor più agitata diprima la moglie. Riferìpoialtri particolari appresi dal buon uomo almercato. Costuiuna volta sollecitato a parlare delle gran belle cose che itedeschi stavano portando nel suo paesesi era profuso in descrizioni minute ditutto quello che aveva vistosentendo di far cosa gradita alla preoccupatasignora che lo interrogava e che lui ricordava spensierata e fiorente ragazza.

Eranodegli autocarri pieni di mobili che arrivavano a ......dove si diceva cheprovenissero dal palazzo di un arcivescovoperché molte poltrone somigliavanoalla sedia che in chiesa era riservata al vescovoquando vi giungeva per ipontificali. Quella mobilia era destinata ad arredare la villa in cui avevastabilito la residenza il generale comandante in capo di tutta la regione.Quando ce n'era troppa per tale bisognaallora la roba finiva distribuita adestra e a manca alle persone che con i soldati tedeschi avevano confidenza.V'erano grandi specchiere con cornici intagliate e dorateun tappeto tantogrande che nella sala del generale era stato ripiegato ai bordicandelabri etant'altre cose da gran signori. A quelle descrizioni lei s'era sentita venirmeno. "...E la tappezzeria delle poltroncine è color crema con mazzolinidi fiori di campo in ricamo?" aveva chiesto.

"Siproprio cosi!"

"Enel tappeto sono raffigurati grossi mazzi di rose?"

"Propriocosi! Ma che li ha visti anche lei questi mobiliconosce l'arcivescovo?

"Bisognaandar subito a ..... –la moglie cominciò a incalzare il Dottore– Rintracceròvecchi conoscenti...il notaioil parroco..."

"Andròal comando tedescoè in un palazzo qui vicino!" esclamò il Dottore.

"Peri mobili?..."

"Noper la pergamena! Quel tedesco m'ha fatto intendere che la pergamena l'avevapresa o comunque avuta nel kommandantur di questa città".

Lamoglie si rese conto che in quel momento non avrebbe avuto la collaborazione delmarito per formulare un piano di recupero dei suoi arredi. Recupero chedifficilmentepoipoteva essere immediato perché si sarebbe trattato ditogliere l'osso di bocca al cane. Pensòinveceche le informazioni che suomarito fosse riuscito ad ottenere sui suoi libri potevano completarsi a vicendacon quelle che nel frattempo lei avrebbe acquisito per suo conto sugli altrioggetti rubati dai tedeschi.

Quinon potendo seguire tutte le vicende della famigliaper quanto riguarda lasorte dei mobili cui tanto teneva la moglie del Dottorebasterà per tuttoriferire un solo episodio. Alcuni giorni dopo il Dottore e sua moglie sirecarono a ..... per accertarsi se fosse lì almeno una parte della loro roba.Scesiappena fuori del paesedal calesse che li aveva portati chiesero ad undistinto signore che passeggiava appoggiandosi per vezzo ad un elegante bastonese sapesse indicargli la villa del generale tedesco. Costui fu cortese e glielaindicò subito; era a un mezzo chilometro di distanza e già di lì si scorgevacinta da un basso muro e da un giardino. A guidare meglio il loro sguardo ilgalantuomo indicava la villa puntando in direzione di essa il suo bastone. IlDottore e sua moglie ebbero così sotto i loro occhi esterrefatti una dellecanne d'India che faceva parte di una loro piccola collezione di bastoniantichi.

IlDottoreadessoaccompagnava la moglie e l'aiutava nelle indagini prima e poinei tentativi di recupero degli arredi della loro casa perché il suo statod'animo era radicalmente mutato da quando il tedesco gli aveva restituito lapergamena. Da quel momento non aveva avuto più requie; forse era in tempo persalvare almeno una parte della sua biblioteca. Dopo aver rimuginato se gliriusciva di trovare qualcuno che frequentasse il comando tedesco e potessefargli da interpretenon trovando alcuna soluzione per lui soddisfacentesirisolse d'andar da solo. Dovette vincere la ritrosiaanzi la vera e propriaripugnanza che provava a trattare con gli ufficiali tedeschii qualiadeccezione di quello che gli aveva reso la pergamenache gli era sembratopersona bene educataavevano tutti un modo di fare burbero e altezzoso quandonon francamente ostile. Si fece animocomunquee un pomeriggio si recò alcomando; chiese ai piantoni di poter parlare con il comandantedisse il suonome e dette loro una sua carta da visita. Mentre attendeva cercò di calmarsi;troppo lo interessava il fine ultimo di quell'incontro per lasciarsi coinvolgereda un eventuale atteggiamento ostile del comandante. Avrebbe detto in tal casoche era lì per ringraziare ("addirittura io ringraziare loro!" ghignò)per la restituzione della pergamena. Fu ricevutoinvececon militarescacortesia da un ufficiale cheper aver combattuto in Franciaparlava uncomprensibile francese. Da costui seppe che l'importanza della sua bibliotecaera nota all'amministrazione tedesca la qualeperciòs'era fatto doverosocarico di far prelevare tutto quanto era stato ritenuto di maggiore interessedagli esperti che l'avevano appositamente ispezionata. Per i libri e per glialtri documenti prelevati si erano fatte costruire delle casse da un falegname(il qualerintracciato poi dal Dottoreconfermò tale circostanza) ed eranostate spedite e messe al sicuro in Germania. Era rimasta fuoriper unadeprecabile svistasolo quella pergamenae alloraper evitarne il probabilesmarrimentolui s'era personalmente interessato a fargliela restituire!

IlDottore chiese subito che gli fosse rilasciata una attestazione del"prelievo" subitoma ottenne solo un secco "Nein!"dal tedescoil cui volto immediatamenteanche se per un attimosi accigliò eincattivì. Si rese contoallorache in quella circostanza poteva tentare solodi impegnare l'ufficialequale rappresentante lì e per la sua partedell'amore del popolo tedesco per l'arte e la culturaa fargli avere la disponiblitàdi un camion e di un lasciapassare per tornare a Pescocostanzoa casa sua emettere in salvo quanti libri potesse di quelli che ancora erano rimasti. Iltedesco promise che avrebbe cercato di accontentarlo. Dopo qualche giornoanchein grazia di pressioni esercitate da altri studiosi amici sui comandi superiorila richiesta fu soddisfatta.

Ilviaggio fu compiuto dall'anziano Dottore insieme ad uno di quegli amici che intale circostanza aveva voluto essergli vicinocon un camion militare tedescodi notteperché quella zona era sotto il tiro delle artiglierie Alleate.

Tornatoil giorno dopo da quella gitaalla moglie che gli chiedeva minuti particolaridelle condizioni in cui aveva trovato la casaegli dette solo notizie sommariee non volle dir altro se non chenel disordine caotico che c'era e col pocotempo a disposiziones'era dovuto applicare soprattutto a indicare ai soldatiche lo aiutavano a empire casse quali librifossero da portar via e a farattenzione che quei militari con i loro modi rozzi non rovinassero ulteriormentequei libri che per esser stati anche sotto l'acquaerano diventatifragilissimi. Raccolti quanti piùvolumi e carte aveva potutosollecitato a farpresto dai soldati che temevano la ripresa del cannoneggiamentoil Dottores'era voluto recare anche a vedere in quali condizioni fosse la Collegiatacheaveva cara quanto la sua stessa casa. Lì danni gravissimia uno sguardosommarionon ne rilevò; sebbene l'uso della chiesa come dormitorio e depositodi materiali di ogni genere ne avesse stravolto l'aspetto familiare. Videinveceche le due antiche aquile di bronzo che erano messe come a sorreggere involo le acquasantieretolte dal loro postostavano in terra accanto alla portadella chiesa. Forse era in tempo per impedire che esse compissero un volo troppolungo perché potessero poi tornarne. Chiamò i due soldati che erano rimastifuorinel camion con il motore acceso: "Venireprendere –disse loroindicando le pesanti aquile– portare a Sulmona!" L'ordine era risoluto ei soldati obbedirono. Le aquile subito dopo la fine della guerra tornarono alloro posto e sono lì certamente memori di quel loro unico e salutare volo.

 

** *

 

Spostatosial nord dell'Italia il fronteil Dottoresenza por tempo in mezzotornò inpaese con la famiglia. Poiché tra i molti edifici gravemente danneggiati c'eraanche il suo palazzoper alloggiare  dovetteprendere in fitto una delle poche case ancora abitabili. Giunse a Pescocostanzoin un pomeriggio dell'estate incipiente con un camion delle truppe Alleateguidato da un canadese che aveva nonni abruzzesi. Il paese aveva l'aspettodesolato e sconvolto proprio delle immediate retrovie di una prima linea dovegli eserciti si siano fronteggiati per mesi. Nelle campagne incolteserpeggiavano cavalli di frisia e lunghe file di portedi ante di armadi ancoramunite di specchiodi sportelli e tavolamepiantati in terra a far da riparoai camminamenti. Dappertutto crateri di esplosionicasemattecarogne dianimali. I crani dei bovini sparsi nella prateria piattacon le corna rivolteal cieloavevano un che di arcaico e solenne. Le strade del paeseattraversateda rari e frettolosi passantierano ingombre di frammenti di mobiliadioggetti di uso domesticodi straccidi bossoli e di proiettili inesplosid'ogni tipo. Tacevano le voci consuete della vita paesana.

Sistemataquella sera la famiglia nella nuova e modesta abitazionedopo una notteinsonneil Dottorealle prime luci dell'alba si recò a casa sua. Lecondizioni di essadopo la spedizione fattavi con il camion tedescoeranoulteriormente peggiorate. Il tetto era stato incendiatogli infissi totalmenteasportatiin tutti i vani c'era uno spesso strato di libri e di cartechecommisti a paglia e a pattume di varia naturaerano stati strame persoldateschefuggiaschi e prigionieri. Quella visione lo sgomentòrespinsealtre immagini e ricordi che pure gli urgevano al cuore; avrebbe avuto forzesufficienti per compiere l'immane lavoro che lo attendeva? s'aggirò per quellecamere irriconoscibili. Erano solo una vecchia crepa in un muroun brandello ditappezzeriaun'antica macchia d'umido a fargli riconoscere il vano nel quale sitrovava; a dargli un riferimento che sentiva indispensabile per rientrare nellasua stessa personale identità. Vagò nelle stanze per un giorno interoperdendo e ritrovando sé stesso. A seramentre era seduto attonito in un cantoudì le voci dei figli che lo chiamavano dall'altro capo della casa. Quellagiovane famiglia era la sua unica consolazione! S'accorse di aver gli occhiumidi di piantosi asciugò le lacrime e rispose ai figli. Tornò a casa conloro. I figli lo videro per la prima volta camminare curvo.

"Houn po' di mal di renisono stato l'intera giornata chino su quei mucchi dicarte" spiegò.

"Dadomani ti aiuteremo anche noi" dissero insieme i figli.

"Noperché c'è polveresudiciumec'è umido e ci sono correnti d'aria da tuttele parti."

"Mase ci stai tu!..." ribatterono i ragazzi.

"Noè impossibile...Finireste di rovinare quei poveri libri!"

"Piùrovinati di così?" ribatté il più piccoloma si accorse che il viso delpadre era divenuto buio e severo e allora zittì.

"Aiutatevostra madreinveceche ne ha davvero bisogno!"

Findai mesi trascorsi a Sulmona il Dottore aveva notato la sagacia e la grandeenergia con la quale sua moglie s'era impegnata nel salvataggio di ciò cheancora era possibile recuperare del patrimonio familiare e nella ricostruzionedi esso; con quella dedizione e spirito di sacrificio di cui solo una donnamadre e moglie può esser capace. Questa constatazione gli era di particolareconfortoperché sentiva alleggerito il peso dei problemi logistici edeconomici della vita familiare che temeva di non poter d'ora innanzi sopportareda solo.

Neigiorni successivi sbarrò tutte le entrate del suo palazzo affinché nessunopotesse più camminare su quei cumuli di libri e allestì in uno dei vani menoingombri una sorta di laboratorio di restauro: in esso dispose ampi ripianitese corde per appenderci come panni di bucato i fogli zuppi d'acqua; si munìquindi di ferri da stirodi spazzolerealizzò presse con dei pesi e iniziòil suo lavoro. Chi lo raggiungeva in quella stanza (ma le visite non erano quasimai gradite) in un rudimentale cartello affisso sull'architrave della portapoteva leggere: "COLLIGITE QUAE SUPERAVERUNT FRAGMENTA NE PEREANT[17]S. GiovanniEvangeloCap. VI12"

Lesue manilievi come palpassero un corpo dolentes'insinuavano nei mucchi dicarte evitando di provocare ancora uno strappoancora un danno. Mentre quellamanciata veniva portata sul tavolol'occhio frugava attento a riconoscere fogligià noti. Man mano che i libri e le carte venivano spiegate sui pianiilDottore ricomponeva frammentiricostruiva immaginimemorizzava lacune dacompletare. Si andavano così ricostituendo i nuovi fascicoli dell'archiviosi riunivano i quinterni spaginati deisingoli volumi. Veniva presa nota dei  volumimancanti in ciascun'opera e della pagine mancanti a ciascun volume. A volte ilDottore coglieva in sé un moto di gioia quasi infantile quando era riuscito aricomporre interi un volume o un'opera.

Parvealloraspecie a chi non aveva dimestichezza con luiche volesse isolarsi in unculto sterile di ogni cimelio dell'umano sapere e chiudersi in un mondo diricordi. Il suo costume di vitasempre sobrioera divenuto austero; i suoibisogni materialimeramente essenziali. A tali apparenze corrispondeva ineffetti un suo stato d'animo mutato. Da quel lavoro solitarioin quella casatrasfigurata dagli eventi fino ad essere irriconoscibilema che non poteva inalcun modo esser separata da nettiperentoriinfiniti ricordi personali; daquelle rovine di ciò che per un'intera vita era stato al sommo dei suoipensieri e delle sue curegli pareva prendesse stranamente origine un sensoindefinito di serenità; pensieri e perfino idee nuove. "E' possibile ciòalla mia età?" si chiedeva talvolta nelle brevi pause del suo lavororaddrizzando le reni e volgendo in alto lo sguardo come a fissare un puntoestremamente lontano della sua vita. La storiaparadossalmenteaveva forsevoluto impartirgli in quel modo una più altaanche se duralezione? era forseuna sorta di sfida all'uomo che voleva ritenersi colto? Certo mainegli archivipiù segreti ed esclusivi frequentati nella sua vitacome ora tra quellerovinegli era parso di essere a diretto contatto con le viscere della storia.Tali gli parevano le pagine dei libri lacere e imbrattate dal passaggio deglistivali stranieriche tuttavia dalle righe leggibili stillavano il pensiero diun uomo coltodi un poeta vissuti duetrequattro o più secoli prima. Aquell'ora della sua vitase la mente gli si era serbata lucidase una culturala possedeva davverol'ancora della propria identità spirituale doveva esserein più sicuri approdi di quelli mossi e sbattuti dalle tempeste politiche esociali che avevano imperversatoe che certamente avrebbero continuato aimperversare in futuro. Sentiva chiaro nella sua mente che d'allora in poi lasua esistenza non poteva realizzarsi in altro modo se non come intimo rapportocon le testimonianze della civiltà. Questa era un'indagine interiore cherichiedeva rigore intellettuale nella ricerca dei valori essenziali e autenticidella vita umana; spoglio ed eliminazione dai propri interessi delle scorieinutilidi ciò che gli risultava forma vuota di contenutiespressione di meraricchezza materiale o di fatua gloria mondana. Da tali pensieri originava unavisione disincantata e pessimistica della società che lo spingeva a ravvisaresolo nella ricerca e nella cultura il filo principale di cui è intessuta lalabile tela della dignità dell'uomo. Ma tale concezione non spegneva sulle suelabbra il sorriso che esprime solidarietà a chi soffrebuon auspicio esperanza al cospetto di un fanciullo; né sminuiva la sua innata curiosità e lasua partecipazione intellettuale alle novità del tempo. Ma di positive e buonenon ne vedeva al di fuori dei campi tecnico e scientifico; all'orizzonte siandavano profilando ideologie altrettanto totalitarie e aberranti di quelleappena abbattuteche avrebbero spinto ancora una volta all'estremo la corsapendolare dell'umore dei popoli. Sicché soleva ripetere spessorivolgendosi aifigli: "Videbis fili mi qua parva sapientia regitur mundus![18]".

 Avrebbe voluto infondere in loro un sereno distacco dalleillusioni e delusioni che inevitabilmente accompagnano la vita dell'uomo. Maquestoche pure riteneva una sostanziale conquista dello spiritoera stataforse possibile (e ben ardua) a luialla sua età e dopo tante traversie; cometrasferirlocome inculcarne l'idea in quei giovani senza spegnere in loro lesperanze e le illusioni che sono alimento del giovanile entusiasmo per la vita?Decise di raggiungere il suo scopo con l'esempiopiù che con le paroletroppospesso fraintese. Non si mostròquindimai sconsolato e la sua attivitàfisica ed intellettuale rimase incessante nel tempo. Era solo il tempo chepoteva mancargli. "Ars longavita brevis[19]"commentava tra sé.

Incredibilmenteinveceper un ventennio ancora dopo la devastazione della sua bibliotecapotéimpegnarsi nella ricostruzione di essa. Nei mesi estivi e d'autunno lavorava nelsuo palazzo al recupero dei documenti danneggiatiprendendo nota delle lacune edei danni che avevano subìto e negli altri mesi cercava di colmare quei vuotidi completare le testate mancanti ai volumi con assidue ricerche nelle libreriee biblioteche di Roma. In esse rimaneva assorto nello studio per l'intero orariodi aperturadimenticando spesso il pasto di mezzogiorno. Prese di nuovo fittiappunticompì quasi senza volerlo nuove ricerche e nuovi studi e li pubblicò.Superstite di più di una generazione di studiosi ne incontrò e conobbe dinuovi.

Allontanatisigli anni foschi della guerra e del dopoguerranel clima quieto e laborioso perla sua famiglia degli anni cinquantavide i figli cresceredivenire adulti elaurearsi; sentì allora per la prima voltadopo tanto tempomeno incerto ilfuturo. Il suo nomenoto nei circoli della cultura storicaspecie in Abruzzoattirava giovani studiosiassistenti e laureandi delle facoltà umanistiche chegli chiedevano consigli per i loro studi. Lui li accoglieva volentierisorridendocon lo stesso animo col quale tante volte si fermava a narrare aglioperai che avevano terminato la giornata di lavoro nel suo palazzo in restaurole vicende storiche del paesel'origine e il valore dei tanti monumenti che inesso erano ancora racchiusi. Avvinceva l'attenzione di quegli uomini con unanarrazione aneddotica ed elementare e cercava intanto di inculcare in lorol'amore e la cura per quel comune patrimonio di civiltà. Agli studiosi che loconsultavano offriva il frutto delle sue ricerchepur se non ancora pubblicatein lunghe conversazioni che il Dottore non gradiva che fossero interrotte; Cosacheinveceaccadeva quando il protrarsi del colloquio nel volgere di oreinterferiva con i ritmi e gli imprevisti della vita familiare. Alloral'interlocutorealquanto a disagiolo vedeva chesenza interrompere il suodire e senza perdere il filo del discorsorespingeva con un gesto della mano ilmessaggio che qualche domestica o un figlio cercavano di trasmettergli. Parevatemere che una notiziaun concetto storico frutto di una sua lunga indaginenon venisse ben riposto e affidato a un'altra mente aperta a quella cultura;trapiantato in essa perché quel seme potesse germogliarvi e fruttificare per lacontinuità di quegli studi.

Lasua memoria lasciava stupefatti gli ascoltatori: dateluoghiindicazionibibliografichenotizie d'archivio e di studi di antica o di recentepubblicazione erano precise e circostanziate. Spesso gli ascoltatori chiedevanodi poter registrare su nastro quelle vere e proprie lezioninelle quali anchearidi dati archivistici assumevano il calore e i toni delle vicende umane allequali si riferivano.

"Tisfruttano!" insinuava a volte stizzita la moglieche da tanta sapienza edenergia del marito avrebbe voluto tornasse alla famiglia qualche beneficio"concreto"; ma lui si era pressoché estraniato dalla gestione degliinteressi economici familiari e la moglie otteneva in risposta solo uno sguardosevero.

Allafine degli anni cinquanta vide i figli prendere moglie. S'accese allora in luiuna speranza assolutamente inimmaginabile prima: quella di diventare nonno. Isentimentii desideri che trent'anni prima avevano pervaso i suoi fratelli chelo avevano spinto al matrimonioquelle leggiquella trama biologica sicaricavano in lui di nuovedolci e trepide emozioni.

Ilriserbo e la ritrosia per la quale di rado esternava i suoi sentimenti e i suoiaffettinon contennero l'empito di gioia e di vera esultanza quando nacque ilprimo nipotino. Voleva allora che crescesse in fretta per potergli narrare luialmeno una favola. Sicché in occasione del primo compleanno del bimbononessendogli vicinonon bastandogli le affettuosità e gli auguri espressi pertelefono ai genitori che gli avevano fatto udire anche la voce del piccolo chebalbettava "nnonno"preso un foglio volle scrivergli questa lettera:

"Miocarissimo nipotino

  tra due giorni tu compirai un annoio ti sarò vicino colpensieronon potendolo personalmente e col pensiero ti dirò tutte le cose piùbelle e gioiose per te. Vorrei che la vita ti sorridesse sempre per molti moltiannilieto di tutto ciò che è bellobuonogiustoonesto. Ora voglio peròdirti che qui ogni mattina non appena apro le imposte un bel galletto fachicchirichi e mi chiede quando verrai tu quiperché vuol conoscerti esalutarti. Poi quando vado in biblioteca dal giardino adiacente un bellissimocardellinoche canta divinamentemi domanda anch'esso quando verrai; vuolfarti sentire le sue melodie. Anche un ciuchino fa sentir da lontano i suoi aiai! E anche lui domanda quando verrai; anzi mi ha detto di scriverti (giacchénon può farlo lui che da bambino non volle andare a scuola e così non imparòa leggere ed a scrivere e vide invece crescergli le orecchie e la coda) chequando verraiti porterà a cavallo come fanno i suoi fratelli di VillaBorghese.

Arivedercidunquepresto carocaro e nonno ti racconterà tante altre bellefavolette. Ricevi intanto  il piùaffettuoso bacio sulla fronte e sulle mani dal tuo vecchio

               Nonno

 

** *

 

Quellamattina aveva concluso con successo la ricerca dell'autore e del titolo di unvolumetto mutilo di poesie secentesche. Era riuscitodopo molte ricercheatrovarne una copia nella biblioteca di un grande abbazia nei dintorni di Romadoveormai novantacinquennes'era fatto accompagnare in automobile. Se fossestato ugualmente fortunato il giorno dopo avrebbe potuto completare un'altraricerca nella biblioteca di Villa Malta; per andarci aveva già fissato unappuntamento con uno studioso suo amico. Nella notte fu destato da un atrocedolore al petto. La moglie chiamò il figlio medico: "Tuo padre sta maleda mezz'ora si lamentalui che non si lagna mai di nulla! Fino ad ora non havoluto che ti chiamassi..."

Eraun grave infarto al cuore; il dolore resisteva alla morfina e la sua forte fibraresisteva al dolore. Dopo le prime quarantotto oresedato il dolorelenito ilmalessere che lo accompagnava il Dottore voleva spiegazioni dal figlio: qualifarmaci intendeva somministrargli ancora; quale era la loro composizione e qualigli effetti; esattamente di che cosa si era trattato e che cosa rilevavadall'elettrocardiogramma che gli faceva così spessoanche ora che stavameglio.

Ilfiglio riusciva solo in parte a celargli la natura del malema qualunque essafosseil Dottore aveva detto con tono che non ammetteva discussioneche mai sisarebbe mosso da casa sua. Nei giorni successivisentendosi megliocominciò apreoccuparsi degli appuntamenti di studio che aveva perduto. Bisognavatelefonare agli amici con i quali si sarebbe dovuto incontrarescusarsi a suonome e intanto fissare i nuovi appuntamenti. Voleva che queste telefonatefossero fatte in sua presenza ad evitare che i figli impegnati nelle loroattività se ne dimenticassero o fossero imprecisi. Gli si portasse il telefonovicino al lettopoise non doveva alzarsi! 

Sembravache in quella mente lucida non s'affacciasse mai l'idea della morte. Solo unavolta aveva espressocon la decisione di un ordinela volontàda molto tempomaturatadi esser sepolto nel cimitero di Pescocostanzo: "Senza pompa–disse– bastano il prete e la croce!" Certo nella sua mente rivideallora la bella croce d'argento e d'oro che da bambino aveva portato tante voltenelle processioni con lo zio canonicobisticciando con gli altri chierichettiper esser lui il crocifero.

Alfiglio medico tutto ciò sembrava impossibile; l'età del malato el'elettrocardiogramma non  consentivanodi far buone previsioni. Otto giorni dopola crisi fatale. "Una nuova crisi!" disse lo stesso Dottore scuotendo il figlio medico che gli era accanto. Poi lo seguì convigile attenzione mentre s'affannava nei soccorsi: una iniezione endovenosaun'altrauna fleboclisil'ossigenol'aumento della velocità di infusionedella flebo...Ma il malore aumentava; un freddo intensoun gelo gli invadevadalle estremità tutto il corpo. Il vecchio medico formulò allora una diagnosil'ultima della sua vita: "Questi sono sintomi di shock; alla mia età unoshock è irreversibile. Togli quelle medicine –disse– non servono piùsonoinutili! Chiama tuo fratelloinvecesennò non arriva in tempo."

Ladiagnosi era esatta. Prima che uno struggente commiatoil loroparadossalmenteera stato il consulto di due medici al capezzale di un malatograve. Restavano pochi minuti di vita.

Mentreil figlio gli stringeva le mani e avvicinava al suo viso le labbrail padrecome avesse vinto per la prima volta innanzi ai familiari il pudore dei suoisentimenticon l'espressione nel volto di chi è ansioso di trasmettere unultimoimportante messaggiodisse: "Ricordatese non ve lo avessi saputodimostrare primache io vi ho voluto sempre tantotantissimo bene!"

"Matutu sei stato il Padre più straordinario e dolce che mai si potessedesiderare!" proruppe il figlio.

Ilvolto del padre tornò sereno e la morte fissò quel mesto sorriso che gli eraabituale.


VITTORIO

 

 

Ilsuo nome è Melina. Vittorio è riuscito a saperlo e ora attende la liberauscita. Intorno c'è guerra; ma è fuorinel petto c'è amore. Non conosce lalingua italianaMelinama non serve: lei parla con gli occhi. InsiemeVittorio e Melina la ragazza più bella di Samos; la più bella per tutta lavita! Tramonti sublimile rocce a strapiombo sul mare e quegli occhi neri ebianchi che rubano il cuore! La risacca accompagna e scandisce i baci e isospiri. L'onda narra anche altre storie di amori e di guerre in quellecontradema anticheignote a lorociottoli marmorei nei musei.

 

"RaccontaVittorio! Dicci tutta la tua storia; ti crediamo senza le prove di attestati emedaglie. Sul tuo viso si legge la verità dei ricordi e dei fattiche essisiano scritti o taciuti nei documenti e nel tuo lungo foglio matricolare."

Vittorioaveva accettato di farci quel racconto con ordineun pomeriggiosorbendo uncaffè. Conoscevamo alcuni episodi di quella storiaappresi occasionalmentedurante qualche gita in montagnaquando luiconoscitore di ogni sentiero einfaticabile raccoglitore di funghiguidava la nostra comitiva. Ci era parsauna storia straordinaria per i fatti e per l'uomo agile di mente e di corpo cheli aveva vissutigiovane reclutadurante la seconda guerra mondiale.

"Avevogiusto vent'anni... Non ero mai uscito dal paese...–inizia Vittorio con unalieve esitazionemettendo da una parte i documenti che aveva portato con séper esser più precisodopo quarant'anninella narrazione dei fatti– quandonel settembre del '42 partii per Bressanonearruolato nel IX reggimento diArtiglieria...."

Cominciadi lì un lungo viaggio chedopo una breve tappa al Pireolo conduce nelleisole del Dodecanneso. E' a Samos già da alcuni mesi quandol'otto settembredel '43arriva la notizia dell'armistizio e del proclama di Badoglio; partecipaanche lui all'arresto dei pochi tedeschi che sono sull'isola. Subito doposbarcano gli inglesi: nemiciamicicomunque padroni! Ma si sparge voce chel'isola stia per cadere in mano ai tedeschi. Fuggire! Bisogna fuggire inTurchia; lì di fronte c'è la costa: ottocento metri di mareun isolotto e leacque turchela riva e la libertà.

Ottocompagni e una zattera: è lì a pochi metri dalla riva. Chi sa nuotare e laprende? Vittorio si tuffa e l'aggancia ad un filo. Chi l'avrà costruita? Sonopochi bidoni vuotilegati con cavo telefonico e per tolda un pezzo di parquetpreso chissà dove. Avantiprestosututti spingete! Frasche e mani per remi.L'isolotto è doppiato.

Unmotore e una raffica: una corvettai tedeschi! Ferma! Nodaiforzaarranca...Un'altra raffica e spruzzi di acqua. Fermaferma!...Non si può; lazattera va da solala corrente ci trascina!...Una raffica ancora e sulla toldaè morte per cinque di lorodue sono feriti gravemente e Vittorio è illeso.

Prigionierodei tedeschi: 'Italiani traditorikaput!' Sono duemila come luimilitari sbandati di tutte le armi dell'esercito italianosulla nave per Atene;attaccata in mare da due aerei inglesi ma mancata dalle loro bombe. Poi il campodi concentramento di Jacodina presso Nis in Jugoslavia. Otto mesi. Lavoropercossestracci che bollono dentro i bidoni mentre uomini nudi si spidocchianoil pube. E tre tentativi di fuga. Il primo dura poco: Vittorio si affianca a unacolonna di soldati bulgari che torna indisturbata in patriane indossa ladivisa e dopo una notte di marcia raggiunge con loro il confine della Bulgaria.Ma lì viene scoperto dai tedeschimalmenato e minacciato di morte. Anzitemeche l'esecuzione sia imminente quando in un prugneto viene spinto avanti dai duetedeschi che lo scortanocome a dirgli: "corrivattene!" Lui non sivolterà indietro per vedere che succede alle sue spalle e non scapperà:sarebbe stata la scorciatoia per la morte. Cammina lento ("se questo è ildestino!..." pensa) e va avanti; i due tedeschi non gli sparano ma siaffiancano di nuovo a luiin silenzio.

Ancheil secondo tentativo di fuga falliscema il terzo ha successo: mentre lavoraalla costruzione di una ferrovia con altri prigionierivigilati dai tedeschicol mitra spianatoc'è un'incursione aerea. Vittorio getta il badile e fugge.Si confonde con la popolazioneraggiunge la campagna e un vecchio che ara ilsuo campo. "Se lo aveste visto non gli davate un soldo!...." diceVittorio che forse rivive quell'incontro; inveceè un partigiano che lorifocilla e gli mostra il suo mitragliatore nascosto in una siepe. 'Sveslobodan!'[20]dice; lacontrada è liberaè interamente controllata dai partigiani. A un suo fischiocompaiono due donne che Vittorio seguirà per ore su impervi sentieri dimontagna fino a raggiungerein una valleun enorme edificio dove è il comandodella brigata partigiana. E' anche un campo di smistamento. Ci sono due otremila uomini; molti i marinai italiani. Vittorio deve decidere se vuole andarea lavorare o a combattere con i partigiani di Tito. Lui sceglie di combattere eattende l'assegnazione ad una compagnia.

Allasera si apparta in un canto; è sfinito. Un groppo gli stringe la gola: pensaalla famiglia lontanaa una distanza incommensurabile; a casa suaal suopaeseagli amicia Melina! Un groviglio di sentimenti è nel fondo del cuore.E se anche a Pescocostanzo stesse succedendo quel che succede qui? Dopo quellodella libertàil desiderio più forte è quello di tornare a casa.

PrimaArmataseconda divisioneterzo battaglionequinta compagnia italiana!Arruolato. La comandano due italiani: Carlo di Bresciacommissario politico el'altro del paese di Mussolini ("mi pare dicesse Forlìnonricordo").

"Siamoandati a combattere...ho preso parte ai combattimenti per la liberazione didiverse cittadinetra cui UziceCacakBajina BastaDrenSarajevo. VersoBajina Basta ho incontrato due italiani che portavano le munizioni appresso aicannoni russi –racconta Vittorio– Pure tu italiano? mi dissero. Eh! pure ioe da dove venite? Dal Don mi risposero. Da allora non li ho visti più".

E'una vita senza requiedi spostamenti continui e di imboscate. Spesso tornandoda una missione non si ritrova la compagnia dove si è lasciata: è stataattaccata e si è trasferita in un altro posto. Il contatto è perso e Vittoriorimane isolatodeve cavarsela da solo. Vi sono continui malintesi: comericordare una parola d'ordine di una lingua sconosciutadella quale sicominciano appena ad apprendere le primeelementari parole? "Capitava dispararci contro tra combattenti della stessa parte!"

Oradurante il raccontopare di scorgere nel suo volto un antico entusiasmo perl'avventura; vi fu? non glielo chiediamosarebbe una domanda sciocca.

Appresala vicinanza dell'Armata RossaVittorio decide di arruolarcisi: "Mò me nevado con l'armata rossa e sto meglio; al posto di stare con questi quiche unavolta stai con unouna volta stai con un altro.... Mò mi arruolo e me ne vadocon questi...E  invece!... Lì finiidi passare i guai mieiperché pure loroi russimi portarono in un campo diconcentramento assieme ai tedeschi. Lìdàgli a interrogarmi e a perquisirmidalla mattina alla sera per tre giorni!" Lo interrogava una donna e qualcheufficiale comandantema i comandanti non si riconoscevano dai soldatichéerano tutti vestiti allo stesso modo. Ce l'avevano con gli italiani perchéerano andati sulla terra loroa Stalingradoa bombardarli...Poi si ubriacavanoe minacciavano di ucciderlo. Bevevano vodkama una vodka speciale col pepe.

Andòa liberarlo un maggiore jugoslavo che disse ai russi che luie anche altri chesi trovavano lìerano partigiani e dovevano essere rilasciati.

Vittorioriprende la montagna e l'avventura: "Portaordiniero. In verità ne avevoviste tante e non avevo paura più di niente e di nessuno e neppure dellamorte!...Quando arrivavo in un paese spianavo il mitra sul primo che mi capitavae gli chiedevo se c'erano i tedeschie se non c'erano che mi portasse dalsindaco o da quello dal quale dovevo andareo che me lo portasse subitoinnanzi; io intanto m'appostavo... Quando dovevo raggiungere un posto che nonconoscevo (e io non ero di lìche ne potevo sapere dei postidi quei paesi?)mettevo sotto col mitra qualcuno che incontravo e quello mi doveva guidare; unavolta toccò a una donna gravida di sette mesimi faceva pena: 'oštar'gli dissi'è duro'; trovami qualcun altro al posto tuoche ti lascio andare;ma mi rispose 'sve otici[21]'che eranoandati via tuttiche non c'era rimasto nessuno; e camminò per quattro o cinqueore innanzi a me!"

Iricordi si moltiplicano: il puzzo ammorbante dell'Armata Rossail valore e laferocia della moltitudine di donne che ne fanno parte; il flusso inesauribiledelle truppe di rincalzoanch'esse prevalentemente costituite da repartifemminiliche colmano subito i vuoti fatti dalla battaglia; l'avanzareimpetuoso dei carri russi che schiacciano chiunque –amico o nemico– sitrovino avanti: "mettevano tutto sottoe via!..." La traversata dellaDrinache i russi effettuano aggrappati alle code di mucche che spingono avantie che poiquasi fossero addestratetornano indietro e traghettano altrisoldati infagottatiil mitra sulla testa"che parevano bufali". Egli stracci e i brandelli di pelle di vacca preziosi per fare ciociee l'unicopaio di scarpe possedutopreso a un soldato russo mortoe il suo berretto. Gliscontri tra bande diverse –partigiani di TitoCetniciUstaciaTraciNedici– creano il caos. Una condizione di guerra di tutti contro tutti."Anche le religioni cristiane sono duecattolica e ortodossaeraddoppiano le festività: due Pasquedue Capodanni!.."

Laconfusione è completa. "Certe volte non capivo più niente; né se stavocon uno né se stavo con un altro. Tiravo avanti! –continua Vittorioil qualeormai ha una sola meta: il suo paesel'Italia– Andavo dove capitava; mòdovevo seguire uno e mò un altro; e certe voltepoilasciavo tutti ebuonanotte!" La voce metallica di Vittorioil suo discorrere scioltochedenunciano la vivezza di quei ricordisono ora accompagnati da un'espressioneesitante dello sguardoda un volger d'occhi come di chi debba orientarsi;riemergonoforsein lui l'incertezza e l'ansia del giovane uomo di allorastraniato dal suo ambientetravolto da eventi spesse volte a lui del tuttooscuri.

Maora è tra amicinella camera si spande l'aroma del caffè; lo sorbisce piano eci guarda. Forse vorrebbe chiederci le nostre impressioni sul suo raccontomanon lo fa e continua con i ricordi; meno crudiquestiperché gli chiediamo semai nessuno lo avesse aiutato."L'aiuto io l'ho anche avutosì. Mi hannodato da mangiarecerte volte. A una Pasquapassò un treno mentre noilavoravamo a riparare la ferrovia e la gente ci gettò dai finestrini dellepagnottee dentro c'erano le uova. Un'altra volta che ero affamato vidi passarealcuni soldati russi che portavano dei bidoni di roba caldadeve essere qualchebuona zuppapensai; mi avvicinai con una mezza zucca vuotaché altrorecipiente non ce lo avevo: 'Ja san gladan' gli dissi'io ho fame'; loroaffondarono la mezza zucca nel bidone e me la ridettero piena; era polenta"kacamak" la chiamano. Una donnauna sera –una ragazza– stavafacendo la calzalavorò tutta la notte per finire il paio e darmelo almattino."

Ilricordo di episodi di solidarietà umana attenua la tensione narratival'espressione del suo volto torna quella abituale: serena e aperta. Poiincalzano altri ricordii più amari: "A Belgradoche ormai era stataliberata ed era in mano alle truppe di Titomentre attraversavo una strada eportavo un dispaccio (ché iocome ho dettoil portaordini ho fatto nella miavita partigiana) fui colpito da un cecchino: una raffica di mitra alle gambe miatterrò. Fui raccolto e portato al comando russolì mi interrogarono pertanto tempo: chi erochi non eroche facevo in quel postoda dove mi avevanosparato....e io mi stavo dissanguandoma a loro non gliene importava niente.Finchénon avendo altro da chiedermimi portarono in un ospedale di Belgrado.Dei medici russi mi hanno operato e curato. Poi fui trasferito all'ospedale diPancevo e ci sono rimasto sette mesi. Lì c'erano anche dei maestri e ciinsegnavano la lingua e io incominciai a parlarla benequasi megliodell'italiano. Ma pure questo fatto finì per riuscirmi dannoso! Inquell'ospedale si facevano delle conferenze e io ci andavo ben volentierianzimi ci portavano in bracciocome un bambinovisto che le gambe erano fuori usoper le ferite e c'era una specie di griglia che le reggeva. Quelli che parlavanodicevano tutti i giorni che Trieste era stata occupata dai fascisti. Un mioamico di Bitonto mi spiegò allora (perché io di scuole non ne ho fatte) chequando fu occupata Trieste i fascisti non esistevano. Lui la lingua la capiva manon riusciva a parlarla bene. Il giorno appresso quando alla conferenza chieserochi voleva parlareparlo iodissi subitoe al commissario politico dissi: nonè vero quello che avete dettoche i fascisti hanno occupato Triesteperché aquell'epoca i fascisti non esistevano!"

Vittoriomaledice ancora quel momento: dopo pochi minuti che era stato riportato a lettoalla fine dell'assembleaarrivano due soldati al suo capezzale e gli ordinanodi seguirli; lui non capisce e pensa in un primo momento ad uno scherzomaquelli insistono: 'mora''per forza'dicono; deve per forza andare conloro! Esiccome lui non può camminarelo portano in braccio in un edificiovicinodovesenza nessuna spiegazione lo scaraventano in un cella sotterranea.E' un pozzo di un metro per un metro e mezzo di superficieprofondo tre oquattro metri. Lì rimane per tre giorni e gli calano solo del pane e dell'acquacon una corda. Ne esce con i vermi nelle ferite. Vittorio ricorda l'ammonimentoo piuttosto l'avvertimento affettuosoche quando uscì da quel buco gli detteuna professoressamoglie di un medico di Ancona: "Italianocosa haifatto?!" Esenza ascoltare le ragioni che Vittorio voleva esporrefatteallontanare le persone presenti con un pretesto: "Zitto: cutati!"gli ordinòe ancoraquando gli parve che Vittorio volesse in qualche modogiustificarsi: "cutati! –ripeté categorica– non parlare piùsennò tu finisci un'altra volta nel pozzo!"

Quandoè in grado di camminare Vittorio dovrebbe raggiungere il suo reparto che è aiconfini con l'Ungheria. Ma il desiderio di tornare a casa è ormai impellente.Incontrerà ancora ostacoli insormontabili e piccoli slanci di generosità chesaranno però determinanti per la realizzazione del suo piano; entrerà ingiochi clandestini di cui ignora il meccanismo. Una busta gialla vuotacon unpiccolo contrassegnoavuta con fare misterioso e recapitata senza dir parola a'Giovanna'darà l'avvio alla procedura di rimpatrio. Per tornare in Italiavorrebbe avere una divisa più decentee si reca a chiederla ad unarappresentanza anglo-americana che è a Belgradoma non riesce ad averla esalito nell'aeroporto di quella città su un aereo militareraggiunge Bari conuna divisa iugoslava  di tela disaccolacerae un berretto con la stella rossa in fronte. E' l'agosto del1945.

Vittoriotermina il suo racconto. Non pare né orgoglioso di quel suo passatonel qualecerto vi furono audacia e coraggioné compiaciuto dell'attenzione che gliascoltatori gli hanno prestato. Quell'avventura per lui resta tale; non èepopea. Se meraviglia v'èè quella che esprime a sé stesso durante lanarrazione dei fatti con involontarie esclamazioni: "Mannaggia Giudaccioio ne dovevo vedere di tutti i colori!" Lietosecondo la sua naturaleinnata disponibilità verso gli altridi aver fatto con quella narrazioneunacosa gradita agli amiciraccoglie i documenti che aveva portato con sé e limette in una busta. Tra essi c'è un attestato e una medaglia che nel 1971 ilmaresciallo Tito gli conferisce per aver partecipato alla lotta di liberazionedel popolo jugoslavo.

Ilgiorno appresso ci manda un cestino di funghi.

 

Diecianni dopo questo racconto Vittorioche è sempre il primo a raggiungere lavetta di un monte e il più gioviale nella compagniaè in un pullman che portaa casa delle comitive abruzzesi che tornano da un pellegrinaggio; anche il Papac'era stato. Nel torpedone le luci sono azzurratemolti dormono; coppie dicomari parlano fitto ed ogni tanto ridonochetamenteper non disturbare; duefidanzati si guardano negli occhi e dei ragazzi nel sedile di fondo cavano dauna chitarra note in sordina e intonano sommessi motivi di canzoni. Il pullmansupera il Piano delle Cinque Miglia e si ferma; oltre la strada c'è ilparcheggio. Delle auto attendono la comitiva di Pescocostanzo. Vittorio scendecon gli altri e attraversa la strada. Il rombo di un motore e un cozzo. Un corpoè sull'asfalto. Il filo della vita per Vittorio è reciso.

 

Noiricordiamo il suo volto ridenteancora mezzo secolo dopoal pensiero diMelinala ragazza più bella di Samos.


CHI SA

 

 

"C'èuna malata nuova che ha voluto il primo appuntamento della giornata" dissel'infermiera a Giulio cheindossato con gesto rapido il camicestava formandoun numero al telefono"e ci sono delle telefonate prima delle altrevisite; adesso però faccio passare questa signora.E' accompagnata dal marito emi sembra che stia veramente male...(Lui invece pare un tipo scorbutico!)"Commentò l'infermiera. Giulio posò il ricevitore. "Va benefallipassare"risposesi fidava del suo giudizio; a volte gli erano capitatinello studio individui addirittura con un infarto in atto; d'altra parte pertelefonare a Clelia aveva bisogno di un momento di quiete.

Nellastanza entrò una coppia attempata che mostrava di appartenere ad uno stratosociale ed economico elevato; il marito volse lo sguardo intorno scrutandol'arredo lindo e funzionale di quello studio che nullaperòconcedeva allusso. Quasi avesse voluto far rilevare di aver valutato la semplicitàdell'ambientedisse che loro erano lì per consiglio di una amica della moglie.Le aveva parlato tanto bene del suo medicoe disse il nome di una affezionatapaziente di Giulioche la moglie aveva voluto consultarlo. Lei comunque erastata già sottoposta ad approfonditi controlli ("veri e propri check up"ribadì) in varie cliniche di prestigio; avevano con loro i risultati degliesami più recenti. Nel dir cosi mostrò una busta rigonfia di referti e diradiografie.

"VedeProfessore..." iniziò la mogliela quale mostrava di avere a noia ipreamboli del marito e di voler venire subito al sodo dei suoi disturbi.

"Dottore!"corresse Giulio che andava già esaminando con lo sguardo l'aspetto sofferentedella donna. "Dottore..." riprese leima fu l'unica volta che lochiamò così; il titolo di professore le era evidentemente divenuto abitualenei suoi incontri con i medici. La storia della malattia che la signora andavanarrando  all'inizio fucontinuamente interrotta dal marito che riteneva di doverne rettificare deiparticolaricon stizza reciproca dei coniugi. Poi Giulio pregò il marito dilasciar parlare la moglieavrebbe ascoltato dopo le sue precisazioni. Avevafretta di sbrigarsi per via di quella telefonata a Clelia ed anche per togliersid'innanzi l'odioso marito; ma doveva dare alla malata il tempo che le occorrevaperché fosse certa di aver fatto al medico una narrazione completa dei suoidisturbi. Quando quella terminòle chiese conferma di uno o due particolariche erano gli unici a interessarlole fece delle domande che esigevano unarisposta precisa e le disse di spogliarsi e di adagiarsi sul lettino. Si eraconvinto che un minuto esame obiettivo della paziente gli avrebbe consentito diorientarsi nella sua malattia eforsedi individuarne il punto critico. Quelloera il momento più bello del suo lavoro: la natura poneva davanti ai suoi occhiun fenomenodei sintomidegli indizi spesso contraddittori e ingannevoli e luidoveva intuire gli intimi meccanismigli intrichi fisiopatologici che siconcludevano nella malattia; doveva trovarne la causa ese possibileilrimedio. Allora acuiva i suoi cinque sensitastava a lungo il polso del malatoil suo orecchio selezionava tonisoffirantoli con i loro infiniti caratteriacustici. Gli accertamentile analisil'impiego delle tecnologie più avanzatee sofisticatevenivano dopoguidate da quel suo esamecome prolungamento deisuoi sensiin risposta a tappe del suo ragionamento clinico; a conferma osmentita delle sue intuizioni diagnostiche. Quel lavoro gli era piaciuto findall'inizio proprio perché fatto di cultura e di artedi pensiero critico e dimanualitàcostantemente arricchito dal progresso scientifico e dallaspiritualità del rapporto col dolore umano; talora non privo del raro fruttodella gratitudine genuina. Era orgoglioso di rispettare cosìpur dopo moltianni di esercizio professionalei canoni della metodologia clinica proclamatanelle aule universitarie agli studenti di medicina fin dai primi anni dei lorocorsi. Ma proprio per questo cominciava  asentirsi un isolatoun solitario. Ormai la maggior parte dei suoi colleghiquando aveva di fronte un nuovo malatovoleva innanzitutto veder gli esamileanalisi e limitava il più possibilee spesso evitava addiritturail diretto epersonale contatto con esso. Prestopensava Giulio"tastare ilpolso" rimarrà solo un modo di dire più o meno arcaico e il rapportodella locuzione con la medicina si troverà solo nei dizionari etimologici.Tuttavia per nulla al mondo avrebbe cambiato il suo metodo di lavoro. La nuovapaziente fu quindi minuziosamente osservata; Giulio le ordinò di tossiredirespirare profondamentedi far dei movimenti a occhi chiusievocò ed esaminòriflessi. Alla fine della visitaquando ritenne di aver formulato un suoorientamento diagnosticodisse alla signora di rivestirsi e prese visione degliesami che il marito aveva mostrati all'inizio; non vi trovòperaltropur trai tanti eseguitil'unico che a lui interessava. Udìintanto che la signorafaceva notare al marito che quella era stata la prima volta che l'avevanosottoposta ad una visita completa  eche le era stata data la possibilità di raccontare "quasi" tutta lastoria della sua malattia. Giulio prescrisse l'esame che riteneva necessario ein attesa del risultatoprecisò quali norme igieniche la signora dovevarispettare; perchédata la natura della malattiaera più da quelle che dallaingestione di farmaci che la signora avrebbe potuto trarre giovamento. A questopunto il maritoquasi avesse voluto prendersi una sorta di rivincita neiconfronti del medico e della moglie esclamò: "Ma io m'aspettavo laprescrizione di una terapia che avesse reso subito le forze a mia mogliemigliorato il suo stato fisico!...Costi quel che costi!" aggiunse. Giuliogli rispose con freddezza che non sempre le leggi biologiche fanno distinzionetra ricchi e poveri e congedò la coppia.  Suonòquindiall'infermiera per dirle di attendere la fine di una sua telefonataprima di far entrare il successivo paziente; ma quando quella venne gli riferìche aveva telefonato due volte per lui la signora Clelia e la seconda per dirglichedovendo uscir di casa in frettal'appuntamento telefonico che avevano erarinviato. "Allora avanti l'altro paziente!" ordinò contrariato.

 

** *

 

Cleliadominava da molti giorni i pensieri di Giulio; la vedeva costantemente innanzi asé in quella stranasurreale corporeità che la memoria dei sensi puòrenderci di una persona lontana: gli pareva di poterle stringere la manoavvertendo il contatto della sua pelle morbida e fresca; ne udiva la voce chiaraed a momenti appoggiata a venature  dicomplicità e di mistero; ne sentiva il tenuissimo profumo. Chi erache cosarappresentava già per lui quella donna chene era certoper prima lo avevacercatoper prima gli aveva lanciato un impercettibilema sicuro segnaled'intesa quando si erano appena conosciuti durante un affollato e anonimoricevimento? Quella donnache nelle forme racchiudeva il suo ideale di bellezzafemminileaveva evocato subito un ricordo lontano ma non perso nella suamemoria: quello di una giovane ed elegante signora che molti anni primaquandolavorava in una clinica di un nuovo quartiere della sua cittàaveva più volte osservato; soave nota di colore nel grigiodella periferia metropolitana. Allora non aveva potutoné forse volutoconoscerlaquasi per non rompere una sorta di lieve incantesimo; poi il tempoera passato e lui non era più andato in quella clinica. Ma il ricordo di unosguardo incrociato con lei durante la sosta ad un semaforogli era rimasto vivoed attuale. Forse era stata la perfetta somiglianza tra quelle due figure adaver acceso la sua fantasia; o quella donna affascinante che aveva da pococonosciuto era la stessa di allora? Sette o otto anni cosa possono togliere aduna giovane e bella donnao non piuttosto aggiungerle di fascino e di mistero?Forse una ascesa sociale l'aveva condotta dal suburbio ai salotti dei quartierialtiforse anche lei aveva in quel quartiere un lavoro o un amante. Ma diquestooracosa gli importava? Lo interessavainvecequel che in lui stavaaccadendo! La trascorsa vita sentimentale gli era parsa d'un tratto vuota escialbafatta di innammoramenti tiepididi brevi interludidi schermaglieamorose nelle quali s'era perso nel render colpo su colponel ferire edumiliare per vendicarsi quando una sorta di crudeltà si sostituisce al rapportod'amore in declino. Tutto ciò con Clelia era semplicemente inimmaginabile! Oraaveva innanzi un labirinto di pensieri e di emozioni chese non vi si fossesmarrito dentrometteva capo solo a due opposte uscite: quella di una cocentedelusioneche alla sua età forse non avrebbe sopportato e quella della gioiaradiosadella unione completa tante volte pensataagognata e mai raggiunta. Inessa nulla sarebbe esistito senza amore e solo nell'idillio di un amoreappassionato sarebbero arsi desiderio e sensualità. E neppure il tempo passatoprima di quell'unione sarebbe stato del tutto perso per loroché nell'intimitàdegli amplessi avrebbero rivissuto e congiunto anche gli antichipersonaliricordi.

Nelleprecedenti fugaci occasioni d'incontro l'emozione aveva impedito a Giulio diesprimere a Cleliacon frasi concisela piena dei suoi sentimenti e l'urgenzache aveva; ma si era sentito partecipe con lei di un'intesa esclusiva e profondache avvolgeva entrambi in una sorta di spirale vertiginosalieve e struggente.Doveva incontrarla di nuovopresto! Invece aveva di fronte a se quattro ocinque giorni durante i quali sarebbe stato difficile far coincidere il propriotempo libero da impegni già presi con quello di Clelia. Tra l'altrogli eraparsa anche lei molto occupata. Per il giorno successivo era fissata una dellesedute conclusive dei lavori della Commissione di cui lui faceva parte e per ilfine settimana doveva recarsi a Pescocostanzo; l'aveva promesso al suo amicoGregorio quando aveva ricevuto una sua strana telefonata.

 

** *

 

ICommissari erano seduti nei seggioloni messi tutt'intorno ad un immenso tavoloovale di legno scuro e lustro con la rosa dei venti intarsiata al centro; a capodel tavolo il Presidente assiso sul seggiolone d'onoredalla spallieraimponente di cuoio con impressioni d'oro. Giulioche di solito occupava uno deiposti che rimanevano vuoti dopo che gli altri Commissari si erano seduticercando ognuno di essere vicino il più possibile al Presidentequella voltafu attento ad occupare lui uno di quegli ambìti scranni. In veritàin unprimo momento aveva pensato di infischiarsene di quella Commissione. Costituitaa quanto era scritto nella lettera di convocazione"per studiare forme diprevenzione e cura" di alcune malattie di cosiddetta rilevanza socialeglisi era tosto rivelata per quel che era: un pretesto per creare e distribuireDirezioni e Primariati. Poimalgrado la perdita di tempo che gliene sarebbecertamente derivatabando all'egoismoaveva deciso di rimanere: forse potevariuscirgli di far qualcosa che tornasse di concreta utilità anche per gliammalati. Non disperavainfattidi ottenere il consenso del Presidente quandoavrebbe enunciato le proposte degli interventi che con grande impegno avevaelaborato.

L'autoritàdel Presidente sugli altri membri della Commissione era evidente: senza alterarel'espressione composita del suo voltosempre atteggiato a severaconsapevolezzamoderava con efficacia immediata i toni della contese chesorgevano tra i Commissari per la spartizione dei futuri incarichi e trovavasoluzioni di compromesso accettate senza riserve dai contendenti. Egli eramembro di un Alto Granconsiglio Sanitarioera al culmine della carrieraaccademicadella fama aurifera di grande clinico ed anche della sua vita peruna malattia mortale di cui pure aveva coscienza. Per questi motivi Giulioriteneva di poter suscitare in lui almeno un moto postremo di umana solidarietàperorando non un suo personale interessema quello di anonimi ammalati.

Durantela riunione chiese la parola nel momento che gli parve più opportuno e parlòrivolgendosi direttamente a lui; enunciò in modo schematico e chiaro le sueproposte e fu anche esplicito nel dimostrare l'inefficacia per gli ammalati deiprovvedimenti fin lì previsti se tal quali fossero andati ad effetto. Attesequindinel silenzio ostile che gli si era creato intornola risposta delPresidente.

Videallora il suo sguardo glaucoche all'inizio s'era posato su di lui benevoloappannarsi per una nube di sospettoseguita tosto da un'espressione diincredulità e di stupore: "Ma lei è un idealista!" esclamò infinee non aggiunse altro. Nella sua voce Giulio colse una nota di malcelata ironia.Il Presidente lo fissò ancora un momentoincuriositocome per accertarsidell'esattezza del suo giudizio; quindidi nuovo consapevole e severo tornò amoderare la contesa che era sorta nel frattempo per l'assegnazione di unprimariato all'una o all'altra di due aree territoriali limitroferispettivamente di diversa influenza dei due contendenti.

All'esclamazionedel PresidenteGiulio aveva avvertito dentro di sé un urto violentocomefosse andato a dar di cozzo contro un muro; una sensazione fisica di doloredimalessere. Si alzò e uscì dall'aula in silenzio come uno chedurante unbanchettocolto da improvvisa nauseacerchi di allontanarsene senza esservisto.

 

** *

 

Latelefonata che aveva ricevuto da Gregorio tre giorni prima era stata laconica:"Vieni a trovarmi –gli aveva detto– mi servi come medico e forse ancoradi più come cura!" Non aveva voluto aggiungere altro; la sfumatura diansia che Giulio aveva colto nella sua voce era scomparsa quando aveva promessodi andarlo a trovare presto. "Allora d'accordo –aveva conchiusoGregorio– d'altro canto sono sei mesi che non ti si vede qui a Pesco!"Poi aveva riagganciato.

OraGiulio si stava recando a quell'appuntamento. Guidava nell'autostrada desertaper la partita giocata dalla 'nazionale'; immaginava i milioni di occhi fissisugli schermi televisivii nervi tesipronto l'urlo di goooal! Poiincaso di vittoriala delirante esplosione di un nazionalismo che lo facevasentire d'un tratto stranieroapolide. Aveva una guida distesaquasimeccanica; il suo pensiero era altrove. S'era accomiatato da poco dall'ultimopaziente di quella giornatail cavalier Rossatti Antonio ("quarant'anni dionorato servizio nella Pubblica Amministrazione!") al quale s'era risolto aprescrivere un difficile intervento chirurgico. Lo aveva fatto con suadentedecisionema le parole del malato gli tornavano insistenti all'orecchio:"Eh giàquelli sono chirurghi e vogliono sempre tagliare!...Ma io sentoprima Leimi consiglio con Lei e farò solo quello che Lei mi dice. Sennò nonmi faccio neanche toccare! Anche mia figliasa'la pensa cosi!"

Eccoancora una volta il bandolo di una vita che stava per smarrirsi era nelle suemani. Una vita di nervi e di sangue nella quale ora si incarnava la figuraallampanata del cavalierecon le sue quattro sigarette fumate di nascostocolsuo impegno a non impensierire la figlia"... che poverina lavora e mandaavanti da sola la casaeppure in ufficio la portano tutti in palmo dimano..." e con quant'altropoco in veritàrendeva concreta  la sua presenza in questo mondo.

CheluiGiulioavesse fatto quanto di meglio non avrebbe potuto per la salute diquell'uomopoco serviva a rasserenargli lo spirito lìchiuso nell'abitacolodella sua auto. La diagnosi giusta e tempestivala prescrizione di sottoporsial rischioso intervento chirurgico fatta solo dopo averla meditata e rimeditataaver preso consiglioaver dovuto ammettere che non vi era nessun'altrapossibilità di cura per quel malannopotevano valere a soddisfarlo quando eracon il camice bianco indossodietro la sua scrivaniatra diagrammi eradiografie che parlavano chiaro. Ora non riusciva ad allontanare il pensierochein caso di insuccesso dell'interventonon sarebbero state certo le parolecon le quali il chirurgo gliene avrebbe spiegate la cause tecniche acancellargli l'idea che quell'uomo lasciato al suo destino avrebbe potuto vivereancora chissà quanti altri anni. Nel caso contrarioeccola immaginava comese la stesse vivendola scena dell'improvviso malesseredel dolore atroceall'addome del cavaliere e della inutile chiamata d'urgenza.

Quelcasoinsommanel quale stavolta sul crinale in bilico era la vita di un uomopur definito ai suoi occhi in ogni particolare e in ogni premessadel quale luistesso era stato uno degli elementi determinantidi lì a poco si sarebberisolto in una delle due opposte probabilità e di esse rimaneva solo arbitro ilfato! A che cosa erano serviti il suo impegnoil suo affanno per la sorte diquell'uomo?  Quasi tutto inutile:come nella Commissione?

Quelladomanda che Giulio s'era rivolto quasi inconsapevolmentedette l'avvio nellasua mente ad una vera cascata di interrogativi e di dubbi. In questo casopoia cominciare proprio da quelli più astratti e sterili: quelli metafisicisuldestino degli uominicome il "chi siamodonde veniamodoveandiamo"e così via. Interrogativi e dubbi ai quali lui aveva deciso datempo che dovessero risponderedovessero scioglierli o annodarcisi insiemeifilosofinon certo lui che aveva sempre inteso e intendeva rimanere con i piedisulla terra; non era affar suo quello. Anche il cavalierealloraal suodestino!

Maquesto era solo un bel dire!  Ormaiquell'incauta domanda aveva inferto un altro colpo di ariete alla diga che luicercava ogni giorno di erigere nella sua mente contro il dilagare dei dubbiimpiegando i blocchi solidi e in genere irremovibili del rinvio a miglior tempodi decisioni e giudizi definitivi e la malta tenace delle buone intenzioni.

Inveritàera da tempo che Giulio ravvisava dappertutto motivi di perplessità edi dubbioanche se la maggior parte di essi prendeva origine dall'ambiente delsuo lavoroda quella sua particolare professione. A volte sentiva il mondointerotutta la società che gli era intornocome una sinuosa matassa diambiguità nella quale lui era impigliato e non riusciva a districarsi. In queimomenti anche le novità di natura scientificatecnologicai mutamenti socialiche parevano un autentico progresso del genere umano sulla strada della civiltàe del benesseregli mostravanoquasi fosse un sonoro sberleffo della storiail rovescio della medagliala loro doppia faccia quali probabili cause non giàattualidi catastrofi di ogni genere: ecologichesocialimoralipotenzialmentedi dimensioni planetarie. La vicenda storica contemporanea gli apparivaalloracome la fase intermedia di una reazione biochimica che avrebbe dovuto condurrealla sintesi di nuove e più progredite forme di socialità se in essain quelmomentonon fossero stati per prevalere gli enzimii catalizzatori dellaputrefazione. Perché scandagliare gli abissisi chiedeva alloraperché nonrespingere e allontanare da sé quelle preoccupazioni chein fondopersonalmente ora non lo incalzavano? Ma sarebbe poi riuscito a munireoltreche i suoi benianche la sua mente e la sua anima di gratedi cancellidiporte blindate e di sistemi d'allarme?

Forseavrebbe potuto distrarre la propria attenzionesopire la curiosità istintiva e le nuove passioni nascenti nell'animo suo; questacondotta poteva lasciarlo tranquillo ancora a lungo; ma era quella chelentamenteinavvertitamente lo avrebbe condotto alla rinuncia di quanto èdiveniremovimentovita. Quando quel Professorecon ironiagli aveva datodell'idealistanon aveva voluto forse dirgli che era uno scioccounsemplicione che non avrebbe mai imparato a vivere; perchése solo ne fossestato capaceavrebbe preso ad esempio luiche aveva attraversato la vita dadominatore e neppure l'idea della morte ora affievoliva il suo spirito diconquista; anzi aumentava il valore del tempo che gli restava innanzi ed ilsapore delle prede che ancora avrebbe strappato alla vita! Sarebbe stato capaceluiperòdi indossare quella maschera di indifferenzao di vero cinismopervivere senza scrupolisenza affannosenza guardare più in alto esoprattuttosenza guardare più in basso? Proprio lui che pensava di coglierenell'assenza costante di un qualsiasi riflesso di gioia pura nello sguardo di unuomoil sintomo della malattia del suo animo socialedella quale cinismo edisimpegno non erano che sequele morbose? Lui che aveva sempre rifiutato l'ideache l'ago della sua bussola spirituale restasse fermo su un solo puntocardinalequello posto al centro di un Io immiseritogretto e spaurito?

Chiera luiperòper giudicare gli altri? da quali certezze muovevano i suoipensieri? Quando si fosse tolto di dosso l'abito del professionistaquelloborghese delle convenzioni socialiquando fosse rimasto nudo al suo stessosguardo indagatoreGiulio non scorgeva nell'animo suo una pur iniziale certezzainterioreun minuscolo lembo di terra ferma emergente dalle sabbie mobili deldubbio sul quale costruire un suo edificio di propositi e di speranze. Unedificio da rimaneggiare e adattare alle mutevoli circostanze della vitadaabbattere e riedificarese occorressema che aveva sempre bisogno difondamenta stabili da cui innalzarsi. Proprio perché gli mancava questainiziale certezza il suo comportamento di fronte alla realtà quotidiana eraincerto; per questo motivo gli rimaneva a volte incompiuta una frase sullelabbrasospeso il giudizio anche su un evento banale! A fermarlo e dissuaderloerano le due opposteantitetiche visioni che di esso nascevano in lui; entrambebuie o luminoseentusiasmanti o deprimentientrambe vere o piuttosto false.

Maora v'era un punto sul quale doveva far chiarezza: era e intendeva restare un "idealista"; quel sentimento aveva profonde radici nell'animosuoo quella era una maschera di ipocrisia che indossava per una recita con sestesso? forse lui era soltanto un pusillanime; forse avrebbe voluto anche luicarpire comunque i suoi attimi di piacere senza scrupolipurché gli altri nonlo vedesseronon lo cogliessero sul fatto; soprattutto non lo giudicassero! Aquesto pensieroche ormai dominava la mente di Giuliouna caleidoscopicavisione della sua vita prendeva il posto di quello spiraglio di luce che luiavrebbe voluto si aprisse nella sua interiorità; essa rimaneva invece al buioal fondoben riparata da ogni sguardo indagatore. Un moto ondoso di percezioni  contraddittorie gli lambiva le circonvoluzioni del cervello egli pareva eroso il filo che teneva insieme i grani del suo pensieroi qualicome chicchi di un monile spezzato su di un piano inegualegli parevarotolassero secondo le diverse inclinazioni del suo umore instabile.

 

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"Ascoltaprima mepoi parlerai tu. Ti prego lasciami dire tutto fino alla fine!"disse Gregorio sedendosi dall'altra parte della scrivaniaquando furono solinel suo studio. Giulioappena arrivato a Pescocostanzoera andato a casa diGregorio. Ricordava l'amicoprofessore di latino e greco da poco in pensioneabitualmente serenodi buon umore. Anche se molto più anziano di lui era unottimo camminatore; avevano in comune la passione per la montagna e facevanovolentieri insieme delle escursioni sulle vette più alte di quelle contrade.Cercavano di raggiungerle all'alba per godere lo spettacolo che chiamavano"la creazione del mondo"quando la luce guadagna lentamente sempre piùampi orizzontirade i promontori e si riflette in mille iridescenze sullarugiada che imperla i fili dell'erba e il lavoro notturno dei ragni teso suquegli steli; penetra nelle gole boscose ritmando la diversa vita del falco edell'allocco e si ode distinto il canto mattutino delle coturnici tra le rocce.Ora sebbene il volto di Gregorio fosse oltre il cerchio luminoso della lampadada tavoloGiulio vi lesse un'espressione insolita di austera tristezza.

"Dopoaver avvertito per un certo tempo strani disturbi –riprese Gregorio– hofatto gli esami che ora intendo mostrarti..." Giulio stava istintivamenteper chiedergli quali fossero questi disturbi non riuscendo a sottrarsi a quellasua necessità di precisionequando era in campo il suo lavoroma sitrattenneaveva appena promesso all'amico di lasciarlo parlare. Quello infatticome gli avesse letto nel pensierodisse: "Non sono i disturbi attuali chemi interessano; di essise vuoiparleremo dopo. Guarda invece questi referti epoi ascoltami ancorati pregoin silenzio".

Giulioguardò controluce una radiografia e lesse un esame istologico; lasciavano pocoadito a dubbi sulla gravità della malattia del suo amico. Sentì diimpallidire. Sebbene fosse abituato a dissimulare i propri sentimenti in similicircostanzedovette sforzarsi per controllare l'espressione del volto. Quandovolse lo sguardo a Gregorioquello continuò: "Prognosi infaustaforse abreve termine..." Ripete una frase letta in qualche libro di medicinapensòGiulio. "Ma nemmeno questo mi interessa –aggiunse Gregorio– miinteressainvecequel che è scritto qui!" Aprì un libro ad un segnalefatto con una strisciolina di carta e lesse poche righe: descrivevano il quadroterminale della sua malattia nella quale figurava tra l'altro la possibilità diatroci dolori.

"Nonmi ero mai interessato al problema dell'eutanasiama ora come vedi ci sonocostretto! Voglio il tuo pareredi medico e di amico. Io non intendo sopportareinutili sofferenzementre non ho nessun timore della morte. Non ricordo piùquante volte essa mi è stata vicina in guerra. Non te ne ho mai parlato primaanche se ci conosciamo da tanti anniperché non mi piace parlare di questecosema ora consentimelo; devi esser ben certo di questa mia affermazione. Tirenderai anche conto chein un certo sensosono già vissuto quasi mezzosecolo di più di quanto dovevo!" Concise frasi di Gregorio fecero scorrereallora  innanzi agli occhi diGiulioil film di un naufragio durante il quale il suo amico fu sul punto diessere accoltellato mentre con la pistola in pugno cercava di regolare ilcaotico abbandono della nave silurata; le immagini di uomini in preda al terroreche gettandosi in mare restavano trafitti lungo le murate dalle lamiere contortee squarciate dalle esplosioni; quelle di gente colpita mentre tentava di saliresu un battello già gremito di naufraghi; quelle della intera notte trascorsa dalui aggrappato ad un relittotra chiazze di nafta in fiammenelle acque gelideche gli avevano intirizzito le membrasicchéallo stremo delle forze –volleprecisargli l'amico– poté farsi il segno della croce solo con la linguacomeraccomandava sua nonna a chiin punto di mortenon potesse segnarsi in altromodo. E ancora altri fattiriferì Gregorionei quali la morte lo avevalambitocome quando una voce disse ai barellieri che lo stavano raccogliendo daun mucchio di feriti e di cadaveri: "Quello è inutile prenderloè giàmorto!" Poi Gregorio tacquefissò intensamente Giulio"Miaiuterai?" disse e si alzò in piediil busto eretto e fermocome inattesa di un verdetto.

Quelbreve racconto aveva dato a Giulio il tempo di trovare le paroleo megliodi far sì che il suo sentimento diprofonda amicizia  e la suacommozione si trasformassero in parole.

               "Divinum est humanum sedare dolorem![22]–disse con studiata calma– Tulatinistami capisci. E' dal tempo diIppocrate che il medico sa che questo è il suo primo dovere. Se non puòguarire la malattia deve lenirne le sofferenze. Lascia alla televisione lediatribe e le querimonie sull'eutanasia e l'accanimento terapeutico; sonoproblemi per i tecnici della salutenon per il medico della persona umana! Sesarà necessario ti sarò vicinote lo prometto". Gli occhi di Gregorio siilluminarono di autentica gioiacome fosse guarito da un male peggiore diquello che gli minava il corpo; andò incontro all'amico e lo abbracciò. Giuliopoi disse a Gregorio che la "prognosi" è solo un pronostico che puòessere errato sia nel bene che nel male; che ha un mero valore statisticononapplicabile acriticamente al singolo casotanto più che di malati non ve nesono due ugualianche quando hanno la stessa malattia. Ma Gregorio parveascoltarlo solo per cortesia; il suo volto era tornato quello di sempre.

 

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Quell'incontrocon Gregorio aveva turbato l'animo di Giulioeppure in un certo senso lo aveva sollevato da una interiore gravezza; s'era sentito d'un trattodall'altra parte del muro oltre il quale erano il Presidente della Commissione ei suoi accoliti. Andando a casa sua attraversò il paese immerso nel silenzioassoluto della notte; le sagome dei bassi edifici con le gronde sporgenti degliantichi tetti disegnavano squarci di cielo profondo e stellato: la solidarietàumana era parte di quella eterna armonia e mai fu in lui così risonante comenel silenzio di quella notte. Vennero allora alla sua memoria fatti che avevanolasciato un'impronta nel suo animo e nella sua personalitàsensazioni netteeppure estranee ad ogni raziociniolontane soprattutto da ogni logica dicalcolo e di profitto; emozionimessaggi umani non esprimibili col nudosignificato della parolené con la sintassi delle frasi scritte: quei messaggiche da sempre esprimono tutto l'odio e tutto l'amore degli uomini. Gli tornavanocosì alla mentecome sequenze di un film surreale di Bunuelpersone edambienti che aveva conosciuto nei primi anni della sua professione: la penombradegli interminabili corridoi del Policlinico durante le sue prime notti dimedico di guardia; le corsie dei vecchi ospedali romani che parevano stive dienormi navi col loro carico di lettucci di dolore e la prua volta all'ignoto; losguardo di terrore e di ansia del malato grave giacente e quello severo delleieratiche figure di santi e di papi che lo sovrastavano dagli affreschi spessoesistenti su quelle antiche mura. Pareva volessero rammentargli la sua pochezzadi fronte all'immensità del dolore umano e lo smisurato impegno da lui ormai giàassunto. Riavvolgendo ora la matassa del tempocosa restava di quelle speranzee di quei timoris'erano dilavati e cancellati come inchiostro su un foglio dicarta bagnata? Quando fu a casa la catena dei ricordimaglia dopo maglia siallungò nel tempo recando ancor più antichi messaggi. Dentro ogni uomo c'èuna storiapersonaleunita a lui come la sua ombranon scritta da luimascritta in lui a sua insaputafin da bambino; riga o pagina della storiauniversale che leggeranno i posteri. La sua storiaquesto Giulio lo sapevainiziava in quella grande casain quella cittadina silenziosa tra i montid'Abruzzo. Quel paesegli anni della prima fanciullezza che vi aveva trascorsoerano in fondo alla sua anima come la sinopia di un affrescoincompiuto percontinue esitazioni dell'affreschistama sulle cui linee essenziali sarebberostati stesipoii colori man mano che quelle incertezze fossero state vinte.La parte primigenia della sua personalità era intessuta del profilo di queimonti che pareva gli si muovessero incontro quando in auto percorreva i tornantidella superstrada che ne guadagna i contrafforti; monti che aveva scrutato dabambinoquando in braccio alla madre o alle zie glieli avevano mostrati dallefinestreverdeggianti di pascoli e di boschi o incappucciati di neve e dighiacci rilucenti al sole. Intessuta delle ore e dei giorni trascorsi in quellacasa tra le vicende domestiche che l'avevano riempita e vissuta; dell'atmosferafamiliare di quella cittadina dalle tante pietre dorate dal tempo nelle strade enei muri che sembrano una continuazione delle pareti domestiche. Su quella tramaindelebile di ricordi e di emozioni s'erano stratificatipoigli studileconoscenzei viaggii più recenti impegnisenza mai sommergerla eannullarla. In quella casanel silenzio delle sere e delle nottiriposando losguardo su forme consueteGiulio sentì che forse avrebbe potuto collocare comein una nicchia scavata nei secoli gli sconvolgimenti tecnologiciambientalisocialieconomici che erompevano dai titoli dei giornali e strepitavano dallatelevisionee quelli più subdoli e tormentosi della coscienza dei singoli edella collettività. Quel piccolo mondo poteva forse aiutarlo a risolvere alcunidubbia far ordine tra  quelle ideee quei pensieri che sentiva fermentare nella mente e che non riusciva a maturare nella vita febbrile e convulsa di lavoro nella grande città; che gliparevano ora fotogrammi istantanei e nitidi della sua vita e della realtà chegli era intornoora immagini e rappresentazioni confuse e approssimative diorizzonti lontani.

 

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Lecampane del Convento dei francescani suonarono il mattutinoseguite tosto dairintocchi piovuti dal campanile della Basilica. Per un'antica abitudine Giulioli contò: prima trepoi quattropoi cinquepoi uno. Balzò dal letto. Quelfluire di ricordi e di sensazioni antichetra fantasia e realtà che la seraprima lo avevano tenuto desto a lungos'era poi risolto in una sorta di quieteinteriorein uno stato di crepuscolare vitalitànel quale sorridente gli eraapparsa Clelia nella sua intima bellezza. Ora avvertiva un bisogno urgente dimoto fisico.

Aprìle imposte; il sole posato sulle nebbie sprimacciate tra le cime dei montisembrava volervi indugiare alquanto prima dell'ascesa in un cielo vasto esereno. Giulio si vestì in frettavoleva rivedere e rivivere quel suo paese inun personaleimmediatoesclusivo rapporto; in solitudineprima che le orelaboriose del mattino schiudessero i negozi e riempissero di passanti le strade.Qualcosaper lui essenzialesi celava in quel luogo da afferrare ed acquisirenell'anima e nell'intelletto.

Primadi tutto l'immagine del "mio paese"pensò; di quello che non servivadefinire "centro storico" perché era l'unica Pescocostanzo cheesistesse! Sapeva dove l'avrebbe ritrovatadi dove con un sol colpo d'occhiol'avrebbe posseduta tutta interauguale al ricordo. Uscì di casa e corse super le ripide vie Colle dei Corvi e Colle Jadunitagliò le curve della nuovastrada delle pineteripercorrendo i superstiti tratti dell'antico sentieropietroso. Il fiato era grossoma Giulio riusciva ancora a far le salite dicorsa; l'entusiasmoforsegli attutiva la percezione della fatica dei muscolinon allenati. Raggiunse il suo osservatorio: una roccia protesa nel vuoto tra ipini. Una cornice di verde toglieva allo sguardo le nuove costruzioni e cingeval'antico abitato steso tra il roccione del Castello e la Basilica di Santa Mariadel Colle. Tornò a cercarvi le singole vie e i palazzi. Nel silenzio scanditodall'alitare dei pini guardò a lungo la distesa monocroma dei tetti embricati atestuggine. Gli parvero un grande scudo retto sul cuore da un nobileanticoguerriero. Erano i battiti di quel cuore che ora lui voleva ascoltare! Scese daquel suo osservatorio per un altro sentierodi corsa come ai tempi deipantaloncini corti e del prezioso coltellino in tasca. Entrò nella cittadinadalla dirupata via delle Pretaracol suo lembo di case in ascesa delle primebalze del monte Rotella e fu a uno dei gomiti del 'Giro del Paese'. Le stradeerano ancora vuote. Questa volta si sarebbe tuffato nei vicoliavrebbe percorsole vie meno importanti: Campo dei FioriValle GelataVico dell'OcaCarbonarelloVia delle DeeLa PreceLa Marella... La sua attenzione non sisarebbe posata sui monumenti maggioricome quando accompagnava gli amici nellavisita della cittadina. I palazzi pubblici e quelli delle antiche e ricchefamigliele numerose chiese con le loro opere d'arteprogettate ed eseguiteanche da artisti di grande famala Basilica di Santa Maria del Colleche asommo di un'ampia scalinata spalanca ai fedeli le arcate concentriche del suoportale romanico in un amplesso maternoerano gli assologli acuti dellamelodia corale che s'eleva dalla perfetta armonia dell'intero ambiente e dellesue architetture. Le piazzele stradei larghile scalinatecon i loro ampispazi e misurati volumi  disvelanoun'anima sociale che con sorprendente saggezza aveva improntato la prima ideaurbanisticacontinuata e sviluppata poi con amoredi generazione ingenerazionenell'arco di tre-quattro secoli. Anche le più umili dimore dellacittadina sono in perfetta armonia con lo stile del luogo e ciascuna di esserecaquasi in proporzione al ruolo svolto nel contesto urbanoil propriocontributo al decoro cittadino con una fine opera di artigianato posta sullafacciata: una mensolaun pilastrinoun capitello.

Uncosì rigoroso rispetto del comune decoro cittadino attraverso i secoli el'evidente concorso dei singoli ad accrescerlo e migliorarlodovevano avereprofonde radici nello spirito degli abitanti. Il tessuto urbano di Pescocostanzoe il complesso di quelle antiche opere d'arte e di artigianato artistico eranoun documento di specifico valore umano e sociale della vita di quella comunitàdell'immagine che essa ebbe e volle dar di sédella sua culturadella suamentalità e del momento psicologico collettivo che ne fu alla base.

Quegliantichi abitantipensava Giulioerano uomini con pregi e difetti come noichecosa accrebbe di tanto il loro senso della socialità dei rapporti e dellaconvivenza? Attribuire solo a fattori casuali e strutturali valore di unicadeterminante delle caratteristiche civili ed 'umane' di quella cittadinaequivale a privare gli abitantiche così la fecero e visserodi intelletto edi animaassimilandoli ad api o a formiche. L'interesse di Giulio per questasua indagine psicologica retrospettiva era diventato acuto e sottendeva il suostato d'animo inquieto.

Camminandoper quelle strade giunse dinanzi ad una bottega di fabbri chiusa da non moltianni. Sui battenti erano i marchi per il bestiame e per i formaggi che appenaforgiatiroventilì venivano impressi come sorta di elementare reclame.Tornò allora vivo nella sua menteaccompagnato da un insolito senso di paceforse di sicurezzail ricordo delle botteghe degli artigiani che aPescocostanzo aveva frequentato da ragazzo per piccole commissioni e per ilgusto di vedere i mastri all'operachiedere spiegazioni e averle. Eranoantichissimeposte al pianterreno delle abitazionibuierischiarate solodalla luce che entrava dalla porta d'ingressomura polverose ed affumicate;ciascuna col proprio odore caratteristico: di colla cerviona fusa e di legnosegato di fresco quelle dei falegnami; di fuliggine e di fucina quelle deifabbri e così via. In tali vani da duetre o più secoli si svolgeva lo stessolavorosi esercitava lo stesso mestierecosa che a lui era parsaaquell'epocadel tutto naturale: quella bottega era stata costruita per quellafamiglia di fabbril'altra per quella famiglia di mastri di scalpello; glisarebbe parsa allora una violazione dell'ordine naturale delle cose se una di tali botteghe avesse cambiato la suadestinazione originaria. Ma non solo i vani erano antichi; salvo qualche modestoacquisto dovuto ai progressi della meccanicaanche i ferri del mestiere eranoantichi: "Questa incudine era di mio nonno... abbada..." e giùcolpi sul ferro incandescente "...due al caldo e uno al freddo..."Sotto i colpi sordiil ferro rovente si torceva e sagomava provocando zampillidi scintille in tutta la gamma dei rossi (era ad esse che bisognava abbadare)e i colpi sull'incudine risuonavano acuti e lunghi nelle orecchie e segnalavanoda lontano la presenza del fabbro al lavoro. Così dal falegname o dalloscalpellino: "Questa pialla era di mio padrequesta mazza del miobisnonno..." I mastri nelle bottegheGiulio li ricordava beneeranoargutiun po' preziosima attenti nel ricevere le commissioni e nelconsigliare rettifiche e miglioramenti alle opere: "...Qui le cerniere èmeglio farcele a coda di rondine...Meglio fissarle a piombo queste tenute nellapietrasaranno eterne..." Anche quando il lavoro era di maggior impegno–scolpire un nuovo portaleun cornicione che ripetesse il motivo di unbassorilievo vicinocostruire una grande libreria o una cancellata– non v'eradi solito bisogno dell'architetto. A sera con riga e compasso l'artigianopreparava il disegno interpretando il gusto del cliente e infondendovi il suo;v'annotava poi il nome del committente e apponeva la firma. La figura eraarmonicala calligrafia e la firma nitide. Non esisteva analfabetismo tra gliartigiani del paese.

Giulioricordava l'evidente compiacimento di quei maestri quando avevano ben compiutoun'opera: lo scatto delle mandate della serratura che aveva forgiato e munito dicomplicati riscontrio che aveva riparato da rotta e rugginosa che eragratificava mastro Giovanni; la precisione dell'incastro tra fusti e specchidell'infisso che stava costruendoi quali sotto misurati colpi di martello siandavano combinando esatti sì che a fine corsa il manufatto risuonava come unsol bloccorendeva mastr'Andrea fiero della perfezione del suo lavoro. Maproprio questi s'ebbe in ospedaledove un giorno lo portarono d'urgenzaunadiagnosi di emorragia cerebrale e relativa curaquando invece il suo problemaera una ritenzione acuta di orina che aveva reso la sua vescica grossa quanto unutero gravido al settimo mese (ed era un omino magroche educatamente ripetevadi non poter fare pipì!) E quando questa circostanza fu imposta all'attenzionedei mediciancora peggio fu per lui! Al mastro furono conficcati cateteri eminugie con la malagrazia che lui mai avrebbe usato col più storto e nodoso deisuoi legni e così rese la sua buona anima a Dio. Che cosa aveva impedito a queimedici di far del loro meglio per i casi di mastr'Andrea e a fine dell'operaprovare anche loro la stessa soddisfazione che quello provava quando s'eraimpegnato nel suo lavoro? quando poi tra mano avevano un uomo e non un legno oun ferro!

Giuliopensò che la lunga frequentazione di quella cittadinala conoscenza deidiretti discendenti di quegli antichi maestrilo avrebbero forse aiutato acogliere aspetti particolari della  lorovitasintomi e segni di conflitti interiori per tanti versi analoghi a quellisuoi e del suo tempo. Conflitti che essiperòcon le loro opereconl'atmosfera creata in quel luogoper il profondo senso di solidarietà che daquelle mura traspiravadimostravano di averse non sempre risolti e vinti personalmentedi certo superati e controllaticome collettività.

Arendere meno arbitrario ed unilaterale tale suo colloqio erano lì una sorta dibizzarrioriginali documenti che avevano direttoimmediato riferimento con ilpensiero di quegli antichi concittadini: i mottiscolpiti in gran numero nellapietra degli architravi delle porte e delle finestresoprattutto nelle case deipopolaniche a lui erano sempre parsi uno degli elementi più caratteristici diPescocostanzo. Non epigrafi magniloquenti e celebrativema semplici memorie difatti della vita quotidianadi moti dell'animo che gli autorispesse volteanche personali artefici di quelle iscrizionivollero esternare aicontemporanei e ai discendenti. Non sembrava a Giulio impossibile analizzarne eresuscitarne l'anima.

Eccolì nell'epigrafe PregiariaJesus Maria[23]il lamento e lo scongiuro di colui chemalaccortodovette scontare la suamalleveria per l'amico insolventee il Cedat unus multitudini[24]che ti richiama all'osservanza di una norma di civile convivenzae Obliviocontumeliae medela datato 1564 e Iniustum capient in mala morte virum[25]che ti coinvolgono nei problemi morali che travagliarono gli antichi padroni diquelle case. Di amaro monito èsull'architrave della cinquecentesca portadella casa dei poveriil Neutri fortunae sed soli deo confidendum[26].Ma Etenim non potuerunt mihi[27]che tra le parole chiude un'incudine ed un braccio che vi batte con un martelloè il grido di esultanza e di trionfo di un fabbro: dell'artefice del fastosocancello in ferro battuto che è nella Basilica. Su un pilastro della fontanaprincipale della cittadinapoidove in una antica scultura tritoni e centauririsolvono la loro contesa tra un fitto intreccio di foglie di acantodirigendonelle vasche copiosi getti d'acquaGiulio rilesse il motto: "Avverti cheDio ti vede"; quante maldicenze delle comari che lì si incontravano eindugiavano con la conca vuota sotto il braccioo piena in bilico sulla testaavrà moderato quel motto? Ora l'acqua sgorga dai rubinetti di tutte le case equel mottoche un'antica sapienza aveva dettatoparve a Giulio aver perso ilsuo ufficiocome un manifesto rimasto attaccato al muro nei giorni seguentil'evento che annunciava. Cosìnell'orto adiacenteanche un noce secolare chefa ombrello alla fonte con la sua immensa chiomaoffriva invano i suoi fruttimaturi; nessuno li raccoglieva; anche i monelli che una volta erano i suoi piùaffezionati amici e rubavano le nocierano scomparsi. Giulio si chiese sequesti fossero pur tenui riflessi di sostanziali cambiamenti avvenuti nellastoria dell'uomosegni della rottura di un equilibrio basilare consolidato neltempo. La sapienza che aveva inciso quel mottocosì come la scienza che avevavinto la tubercolosila malariala povertà dei tempi antichinon potevanoessere decadute e perse! Che cosa ne appannava oggi la luce e lasciava lecoscienze in ombra? Come attenuare quel senso d'angosciad'irrealtà che diconseguenza lo teneva? Lui doveva superare quella sorta di vuoto affettivo dicui si sentiva circondato e che lo isolava nel dubbio. Lui e le sue tenuisperanzelui ed il suo presunto granello di umanità erano la parteinfinitesimale (eppure a lui pareva il suo tutto) di una superiore essenzabiologica se non spirituale dell'uomoo gli altri erano realtà e lui sognodelirio?

Pocopiù oltre Giulio fu di fronte a un motto dal quale gli era sempre parso cheemanasse un'aura di mistero. E' il motto "CHI SA"scolpitosull'architrave di una delle semplici finestre di una casa che non presenta peril resto altre particolarità di distinzionesita nel Largo Avanti la Chiesanel quartiere sorto dopo che un terremoto nel 1456 aveva distrutto il primitivonucleo abitato del paese appollaiato sul roccionesul "Peschio". Quelmotto poteva esprimere il dubbio scettico dei filosofi grecio quellometodologico e sistematico di Cartesio contemporaneoforsedel proprietario diquella casa; ma Giulio sentiva che il dubbio che v'era espresso aveva un'altranatura; lo avvertiva psicologicamente ben più vicino a sé: espressione delcontinuo fluire nella mente di opposte ideesenso della dispersione dell'Io nellimbo in cui vaga la quotidiana esistenza dell'uomo al quale è concessa unasolaovviacertezza. Quel CHI SA doveva valere anch'essodunquead acuire lesue incertezze e le sue ambascea martellargliele e ribadirgliele in testaasostenere ancora quel subitaneo dilagare e retrarsi delle sue sensazioni inquella sfibrante altalena di chiarezza e di caliginosa percezione degli eventiche così spesso lo teneva? E se quel mottoinvecefosse stato la tracciaammiccante di un segreto equilibrio interioredi una felice condizione dellospirito che  aveva possedutochi lovolle scolpito nella sua casa?

Chifualloraquell'uomoe cosa davvero aveva voluto dire ai suoi concittadinicon quel CHI SA ben in vista sulla sua finestra. Come visse; fu assillato daldubbio? come visse malgrado il dubbioconobbe un segreto? Giulio sentì che unaprofonda affinità di pensieri e di sentimenti poteva esserci tra lui equell'ignoto presoforsedalle sue stesse ambasce. Doveva cercare diconoscerlodi immaginarselo.

Quellache gli era di fronte poteva esser stata la casa di uno dei tanti artigiani cheallora costituivano gran parte della popolazione di Pescocostanzo; di unoscultoreforsevisto che il motto è ben scolpito nella pietra. Lo chiameròAmbrogiodecise Giulioperché probabilmente sarà stato nipote o pronipote diuno di quei mastri che la storia del paese narra siano scesi in quell'epocadalle valli bergamaschein vere e proprie compagniecercando lavoro. Se quellecon ogni probabilità furono le sue originila personalità irrequietapungolata dall'assillo del dubbio e la fantasia spronata dall'ansia di penetrarel'ignotolo spingevano certo verso livelli via via più alti di pensiero e diopere.

Giuliopoteva immaginarne la vita: lo vedeva giovanenella bottegacavare spigoli epiani dai blocchi di pietra freschi di cava con colpi secchi e sicurioscegliere tra gli altri uno scalpello più piccoloverificarne il taglio e contocco leggero e veloce rifinire le volute di una foglia di acanto o levigare legote del volto di un angelo; lo vedeva studiare disegni e scegliere massi dallagrana più fine per le delicate sculture che sarebbero poi germogliate nellapietra dei portalidegli altaridelle finestre in tutto il paese. Lo vedevanella sua vita familiarecon la essenziale economia dell'epocai bisogni dellanumerosa prolele richieste e querele della moglie che al telaio tesse il pannoper le vesti di tutta la famiglia: "L'indaco per la tintura...una tinozzanuova!..." E lo vedeva in chiesa cantare con voce d'organo -come altri luine aveva udito- le lodi al Signore nelle funzioni serali. Gli orile luciicolori rutilanti delle tele e dei marmi policromi degli altari s'imprimono nellasua mente e tengono desta la sua fantasia anche quandoa casala fiamma delcamino e la piccola lucerna rischiarano appena la notte. Come quei contrasticromaticidi luci e di ombredi silenzio e di cantocosì quelli traricchezza e povertàsalute e malattiaamore e odioaltruismo e invidiacolpiscono la sua mentestimolano il suo senso dell'arteacuiscono il suosenso della giustizia. Lui stessoAmbrogioscolpiva e contrapponeva voltifanciulleschi di angeli e volti farneticanti di mostri e di diavoli; la suastessa arte serviva di edificazioneispirava letizia oinveceangoscia eterrore ai suoi concittadini. Come a lui da bambino le immagini dei draghiinfernalidelle anime purganti tra le fiamme e il volo dei cherubini intornoalla dolce immagine di Mariaavevano ispirato speranze e inquietudiniincubi egioiae da adulto il dubbio. La contraddizione era nella maggior parte di ciòche lo circondava e nei suoi stessi pensierisicché essa dovette sembrargliuna condizione singolareuna strana regola di vita. Generatrice di statid'animo oppostidi scoramento e di sfiducia così come di desiderio di azioned'avventura e di scoperta del nuovo; giacché v'era sicuramente dell'ignoto cheattendeva di esser conosciutoda lui stesso o da altri come lui. Allora alcunecontraddizioni sarebbero cadute e ne sarebbero nate di nuove e nuovi dubbimanuovi! A questo punto Giulio vedeva Ambrogiomaestro Ambrogio ormainella suabottega sospendere il lavoro–mazzuolo nella destrascalpello nellasinistrai primi fili bianchi a stemperare il bruno della sua capigliatura– erestare assortoincerto dei suoi stessi sentimenti; lo vedeva osservareesitante la sua opera prossima al compimento e le pietre ancora da scolpire:perché continuare? quante volte un lavoro cui aveva dedicato ogni curanon erapiaciuto o era stato disprezzato da un committente riccoma ignorante? Quantevolte gli era stato preferito un rivale meno capace? valeva la pena dicontinuarese a volte non riusciva neppure a sopperire ai bisogni dellafamiglia?

Maquando era all'operaquando studiava e preparava i suoi lavori osservando lanaturai fiorii fruttila fauna e l'uomo come parte di essanelle suefattezze esteriorinei pensieri e nell'animoche pure traspaionodall'involucro corporeoavvertiva in sé una forza creatrice immensaunpotereun dominio della materia quasi illimitatiche lo rendevano tutt'uno conla sua creazionecon la sua creatura. Scalpellinofabbrointagliatoreorafoquel maestro era un abile disegnatore: creava nelle volute dei capitellinellesagome e nei fregi dei cancellidei cornicioni e nei moniliforme semprenuove; giochi di linee intrecciate come quelle delle trine di cui a serapreparava i modelli per le donne di casa. Linee che si annodano e risolvonosiperdono e riemergono in grovigli e labirinti e che in un'antica trinaracchiudono nel grovigliocerto emblematicamentele figurine di un uomo e diuna donna. Il paragone con il filo della sua vita sarà stato per il maestrospontaneo ed immediato. Trasfigurando quelle linee nella sua mentecon le formedei suoi schemi e del suo lessico concettualeavrà immaginato lo svolgersidell'esistenza umana come una sorta di diagramma dalle infinitebizzarrevariabili. Isolare il corso delle singole componenti era impossibilese non perla parte già svolta e in quei soli punti nodali corrispondenti ai principalimacroscopici eventi della sua vita. Ma per l'altra partequella ancora davenirerestava l'ignotociò che tutt'al più é probabilenel quale soloall'intuitoalla speculazionealla ricercaè possibile tracciare incerti eforse perciò appassionanti sentieri: gli itinerari dell'avventura umana. Allorail maestro dovette sentire più acuto il desiderio e l'ansia di partecipare ecomprese che per tale partecipazione erano elementi insostituibili il lavorolesue capacità creativeil confronto con i colleghi e i rivalilacollaborazione. Certamente scoprì pure nel suo mondo interiore l'emergere dilivelli diversi di pensiero e di raziociniodi sentimenti molteplici incombinazioni talora contraddittorie; percepì i limiti angusti del razionale ela sicura esistenza di una parte di errore a lui ignota anche nei suoi piùmeditati giudizi; avvertì innato nell'animo suo un moto spontaneo didisponibilità e simpatia verso il prossimocui s'opponeva istintivo eprepotente l'egoismo.

Madovette avvertire questo di falsa utilitàperché spingendolo ad una miope erozza tutela dei suoi esclusiviprimordiali interessilo privava invece diaffettilo isolava e relegava in una solitudine angosciosa fuori dal circuitodell'umana solidarietà. Allora certo intuì l'esistenzaquale parte integrantedelle funzioni e delle capacità dell'intelletto umanodi un animussociale che per esprimersi abbisogna di una condizione di civile convivenza. Eforse proprio a questa svolta del pensiero maestro Ambrogio sentì che avrebbetrovato in sé la forza per sopportare l'ansia generata da tante incertezze econtraddizionidal carattere di relatività e temporaneità dei propriconcettidal dubbio.

Consimili idee in testaun giorno che aveva lì pronti i pezzi della finestranuovache sua moglie desiderava da tempo ("...che quella che c'è è unpertugiodà poca lucenon ci cape nemmeno la testa ad affacciarsi...Eppure tune fai tantebelle e grandiper tutti...")finestra che le avevapreparato come dono a sorpresamaestro Ambrogio scolpì sull'architrave CHI SApoi riprese il lavoro.

Ebbesuccesso nella vita Ambrogioattinse le vette della ricchezza e della famacome i più illustri artisti suoi concittadini? fu uno di essi? o nonostante lasua raffinata sensibilitài suoi meriti artisticila sua sapienzarimasesconosciutonell'ombraignorato dalla dea fortuna?

L'anticoimmaginario maestrodurante quel particolare colloquioaveva acquistato perGiulio una sorta di trascendente corporeità; gli parve vincitore delle sueangosce; lui e molti dei suoi antichi concittadini dovevano conoscere il segretoper vivere con pienezza la vita malgrado il dubbio. Quel segreto era riposto trale case e le piazze di Pescocostanzo. Sentì che avrebbe potuto penetrarlo: ilgioco della vita e della mortedella gioia e del dolore è antico quantol'uomola sua essenza resta invariata; solo le regole mutano col volgere deltempo. Avrebbe scolpito anche lui "CHI SA" nell'architrave del suopensiero e spalancato nell'anima una finestra più ampia verso il mondo.

 

** *

 

Aseraquando salì in macchina per tornare in cittàGiulio si sentìrasserenatocon nuova lena per affrontare le difficoltà ed anche i piaceridella vita. Fece il proposito di recarsi più spesso a Pescocostanzosoprattutto quando si fosse trovato a dubitare di sé. Appena giunto a casaintantoavrebbe telefonato a Clelia  ese non l'avesse trovata sarebbe andato ad attenderla al suo portone. Era ora divederladi stringerla a sédi averla! Questo pensiero ridusse la noia dellaguida negli ultimi affollati chilometri di autostrada. Quando fu a casaprimadi formare il numero di Clelia ascoltò i messaggi registrati nella segreteriatelefonica. Tra gli squilli seguiti solo dallo scatto della comunicazioneinterrottac'erano i messaggi dei suoi pazienti e i saluti di alcuni amici; poiGiulio trasalìera la voce di Clelia:  "Giuliosono Cleliaso che mi hai cercato tanto..." la voce gli parve venata e atratti rotta dall'emozione; il cuore cominciò a battergli forte nel pettomentre il messaggio continuava. Ad un certo punto si rese conto di noncomprendere più il significato delle parole. Le pareti della camera gli sistrinsero addosso a opprimerlo e soffocarlo; poi tutto si dileguò e fu sospesonel vuoto. Meccanicamente riavvolseascoltò e riascoltò la voce che gli erainnanzi: "Giuliosono Cleliaso che mi hai cercato tanto. Credimicarotu non sai quanto avrei voluto farmi trovare da te....essere con te! Ma cosìnon è statoné sarà. Spiegartene il motivo nulla toglierebbe a questa realtàamara ... e mi farebbe male. Vado via dall'Italia per fermarmi non so dovenonso quando. Tutto ora mi è tolto e davanti a me c'è solo il buiofittototale! Forsea volte un minuscolotremulo filo di luce m'appare in fondoall'anima e mi colgo a spiarlo; con gli occhi del cuoreperònon della mente.Chi sa!"

 

 

 

FINE


INDICE

 

 

PartePrima

 

Il dispetto diDon Arcangelo

 

Zeferino

 

Le terre diPuglia

 

Don Donato

 

Risorgimento

 

Benvenuto...Decimo!

 

La Passatella

 

ParteSeconda

 

Padre

 

Vittorio

 

Chi sa



[1]Lui.

[2]Con la sua slitta.

[3]Disporre la legna da ardere in cataste secondo una misura locale detta canna.

[4]Modo di dire popolare per indicare l'atmosfera festosa che accompagnal'uccisione del maiale.

[5]"Che faiche faiche state facendo; tutti così ben accostati ciocchie tronchi sottili!"

[6]Trappole.

[7]Bambini di testa (di cervello).

[8]Gettano.

[9] Nella passatellagioco daosteriaPadroneSotto e Donna (gravidache può avere voglieimprovvise) sono i personaggi estratti a sorte che regolano a loro piacerela distribuzione del vino nel gruppo dei giocatori.

[10] Bamboccio.

[11] La campana dell'AveMaria.

[12] Seria di ampie strade chesi susseguono formando un anello.

[13] Grosso tombino di unafogna.

[14] Una brava donna.

[15] Siate benedettovuolevossignoria!

[16] Una volta diventatomedicomedico si resta in ogni circostanza.

[17] Raccogliete i frammentirimasti affinché non periscano.

[18] Vedraifiglio mioconquanta poca sapienza è governato il mondo!

[19] Il mestiere è lungolavita è breve.

[20] "Tutto libero"(in lingua serbo-croata)

[21]"Tutti andati"

[22]E' opera divina lenire il dolore dell' uomo.

[23]Dalla malleveria mi scampino Gesù e Maria (sono stati propostiperòanche altri signifi­cati per la parola 'pregiaria' e quindi perl'intero motto).

[24]L'individuo ceda alla moltitudine.

[25]L'uomo ingiusto incoglie in una cattiva morte.

[26]Non c'è da sperare né nella propiziané nell'avversa fortunama solo inDio.

[27]Eppure non mi superarono.