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Stendhal
Cronache romane
2
VANINA VANINI
Ovvero
Particolari sull'ultima vendita
di carbonari scoperta
negli Stati del Papa
Era una sera della primavera del 182... Tutta Roma era in fermento: il ducadi B***il noto banchieredava un
ballo nel suo nuovo palazzo di Piazza Venezia. Tutto quello che le artid'Italia e il lusso di Parigi e Londra possono
offrire di più splendido era stato riunito per rendere magnifico quelpalazzo. L'affluenza di persone era enorme. Le
bionde e riservate bellezze della nobile Inghilterra si erano date da fareper avere l'onore di partecipare al balloed ora
stavano arrivando a frotte. Le più belle donne di Roma contendevano loro lapalma della bellezza. Una ragazza
senz'altro romana per gli occhi ardenti e i capelli d'ebanoentròaccompagnata dal padreseguita dagli sguardi di tutti.
Una singolare fierezza traspariva da ogni suo movimento.
Gli stranieri che entravano rimanevano visibilmente colpiti dallamagnificenza di quel ballo. «Nessuna festa di
nessun re d'Europa» dicevano«può reggere il confronto con questa.»
I re non hanno un palazzo in stile romano e sono costretti a invitare le grandame della corte; il duca di B***
invece invita solo le belle donne. Quella sera era stato particolarmentefelice nei suoi invitie gli uomini sembravano
abbagliati. Tra tante donne notevolisorse il problema di decidere qualefosse la più bella: per un po' la scelta rimase
incerta; ma alla fine fu proclamata regina del ballo la principessa VaninaVaninila ragazza dai capelli neri e dagli occhi
di fuoco. Subito gli stranieri e i giovani romaniabbandonando le altresalesi affollarono in quella dove lei si trovava.
Suo padreil principe Asdrubale Vaniniaveva voluto che prima danzasse condue o tre sovrani tedeschi. Poi
lei accettò gli inviti di alcuni inglesi molto belli e molto nobili; ma illoro contegno compassato la annoiò.
Sembrò che si divertisse di più a tormentare il giovane Livio Savellichepareva proprio innamorato. Era il
giovane più brillante di Romae per di più anche lui era un principe; mase gli avessero dato un romanzo da leggere
dopo venti pagine lo avrebbe gettato via dicendo che gli faceva venire il maldi testa. Agli occhi di Vaninaquesto era
un grave difetto.
Verso la mezzanotte si diffuse per le sale una notizia che fece moltaimpressione. Un giovane carbonaro
prigioniero nel forte di Sant'Angelo era fuggito quella sera stessagrazie aun travestimento eper un eccesso di audacia
romanzescagiunto all'ultimo corpo di guardia del carcerecon un pugnaleaveva attaccato i soldati; a sua volta era stato
feritogli sbirri gli stavano dando la caccia per le strade seguendo letracce del suo sanguee si sperava di riprenderlo.
Mentre raccontavano l'episodiodon Livio Savelliconquistato dalla grazia edal successo di Vaninacon cui
aveva appena ballatoriaccompagnandola al suo posto le dissequasi folled'amore:
«Madi graziachi dunque potrà mai piacervi?»
«Quel giovane carbonaro che è appena evaso» gli rispose Vanina; «almenoha fatto qualcosa di più che darsi
la pena di venire al mondo.»
Il principe don Asdrubale si avvicinò alla figlia. È un uomo ricchissimoche da vent'anni non fa i conti con il
suo intendenteche gli va prestando le sue stesse rendite a un interessemolto alto. Se lo incontrate per la stradapotrete
prenderlo per un vecchio attore; non vi accorgerete che le sue mani sonocariche di cinque o sei anelli enormicon
diamanti giganteschi.
I suoi due figli si sono fatti gesuitie poi sono morti pazzi. Li hadimenticati; ma lo infastidisce che la sua unica
figliaVaninanon voglia sposarsi. Ha già diciannove annied ha rifiutatoi migliori partiti.
Per quale ragione? La stessa per cui Silla abdicò: il suo disprezzo per iRomani.
Il giorno dopo quel balloVanina notò che suo padrel'uomo più distrattodel mondo e che in vita sua non si
era mai preoccupato di prendere con sé una chiavecon molta attenzionechiudeva la porta di una scaletta che portava
ad un appartamento al terzo piano del palazzo. Alcune finestredell'appartamento davano su una terrazza adorna di
piante d'arancio. Vanina andò a fare qualche visita in città; al suoritornola vettura rientrò attraverso un cortile del
retroperché il portone del palazzo era ingombro per i preparativi di unaluminaria. Vanina alzò gli occhie con stupore
vide che una delle finestre dell'appartamento che suo padre aveva chiuso contanta cura era aperta.
Si liberò della dama di compagniasalì nelle soffitte del palazzo efinalmente riuscì a trovare una piccola
finestra a grata che dava sulla terrazza degli aranci.
La finestra aperta che aveva notato era a due passi da lei. Senza dubbioquella camera era abitata; ma da chi?
Il giorno dopoVanina riuscì a procurarsi la chiave di una porticina chedava sulla terrazza degli aranci.
Piano piano si avvicinò alla finestra che era ancora aperta. Si nascosedietro una persiana. In fondo alla stanza
c'era un lettoe nel letto c'era qualcuno. Il suo primo impulso fu diritrarsi; ma scorse un abito femminile gettato su una
sedia. Guardando meglio la persona distesa sul lettovide che era biondaemolto giovane. Non dubitò più che fosse
una donna. Il vestito sulla sedia era insanguinato; c'era sangue anche sullescarpe da donna appoggiate su un tavolo. La
sconosciuta fece un movimento; Vanina vide che era ferita. Un grande pannomacchiato di sangue le fasciava il petto
legato solo da nastried era chiaro che quella fasciatura non era opera diun chirurgo. Vanina notò che ogni giorno
verso le quattrosuo padre si chiudeva nel proprio appartamentoe poiandava dalla sconosciuta; ridiscendeva ben3
prestoe saliva in carrozza per andare dalla contessa Vitelleschi. Appenaera uscitoVanina saliva sulla piccola terrazza
da dove poteva scorgere la sconosciuta. La sua sensibilità era eccitata edattratta da quella giovane donna così
sfortunata; cercava di indovinarne la vicenda. Il vestito insanguinato sullasedia sembrava lacerato da colpi di pugnale.
Vanina poteva contarne gli strappi. Un giorno vide la sconosciuta piùdistintamente; i suoi occhi azzurri erano fissi al
cielo; sembrava che stesse pregando. Quei begli occhi si riempirono presto dilacrime; la giovane principessa dovette
fare uno sforzo su se stessa per non parlarle. Il giorno dopo Vanina osònascondersi sulla terrazza prima che arrivasse
suo padre. Vide don Asdrubale che entrava dalla sconosciuta: portava unpiccolo paniere con delle provviste.
Il principe sembrava inquieto e quasi non parlò. Parlava così piano cheVanina non riuscì a sentire le sue
parolesebbene la porta-finestra fosse aperta. Se ne andò quasi subito.«Questa povera donna deve avere dei nemici
terribili» pensò Vanina«se mio padredi solito così disattentononosa confidarsi con nessuno e si preoccupa di salire
ogni giorno centoventi scalini.»
Una seramentre Vanina sporgeva pian piano la testa verso la finestra dellasconosciutaincontrò i suoi occhi
e fu così scoperta. Vanina si gettò in ginocchio ed esclamò:
«Vi voglio benevi sono amica.»
La sconosciuta le fece cenno di entrare.
«Vi devo delle scuse» esclamò Vanina«la mia stupida curiosità vi hacerto offeso! Vi giuro che manterrò il
segretoese lo vorretenon tornerò mai più.»
«E chi potrebbe non essere felice di vedervi?» disse la sconosciuta.«Abitate in questo palazzo?»
«Certo» rispose Vanina. «Ma vedo che non mi conoscete: sono Vaninafiglia di don Asdrubale.»
La sconosciuta la guardò stupitaarrossìe aggiunse:
«Degnatevi di farmi sperare che tornerete ogni giorno; ma preferirei che ilprincipe non sapesse delle vostre
visite.»
Il cuore di Vanina batteva forte; i modi della sconosciuta le sembravanomolto distinti. Questa povera giovane
aveva certo offeso qualche potente; forse in un momento di gelosia avevaucciso l'amante? Vanina non riusciva a
trovare una causa volgare alla sua disgrazia. La sconosciuta le disse che erastata ferita alla spalla da un colpo di
pugnale penetrato fino al pettoche la faceva soffrire molto. Spesso sitrovava la bocca piena di sangue.
«E non avete un chirurgo!» esclamò Vanina.
«Sapete bene che a Roma» disse la sconosciuta«i chirurghi sonocostretti a fare alla polizia un rapporto esatto
su tutte le ferite che curano. Il principe stesso si degna di fasciarmi leferite con questa benda.»
Con una grazia perfetta la sconosciuta evitava di commuoversi per la propriadisgrazia; Vanina la amava alla
follia. Una cosa tuttavia stupì molto la giovane principessae cioè chedurante una conversazione tanto seria la
sconosciuta trattenesse a fatica un'improvvisa voglia di ridere.
«Sarei felice» le disse Vanina«di conoscere il vostro nome. »
«Mi chiamo Clementina.»
«Ebbenecara Clementinatornerò a trovarvi domani alle cinque. »
L'indomani Vanina trovò la sua nuova amica che stava molto male.
«Vado a chiamare un chirurgo» disse Vanina abbracciandola.
«Preferirei morire» disse la sconosciuta. «Come potrei compromettere imiei benefattori?»
«Il chirurgo di monsignor Savelli-Catanzarail governatore di Romaèfiglio di un nostro domestico» insisté
Vanina; «ci è fedele e per la sua posizione non teme nessuno. Mio padre nontiene conto della sua fedeltà; vado a farlo
chiamare.»
«Non voglio nessun chirurgo» gridò la sconosciuta con una vivacità chestupì Vanina. «Venite a trovarmie se
Dio deve chiamarmi a sé morirò felice tra le vostre braccia.»
Il giorno dopo la sconosciuta stava ancora peggio.
«Se mi volete bene» disse Vanina lasciandola«accettate un chirurgo.»
«Se vienela mia felicità svanisce.»
«Vado a farlo chiamare» ribatté Vanina.
Senza dire nientela sconosciuta la trattennee le prese la mano che coprìdi baci. Seguì un lungo silenziola
sconosciuta aveva le lacrime agli occhi. Poi lasciò la mano di Vaninae conl'aria di chi sta per morire le disse:
«Devo farvi una confessione. L'altro ieri ho mentito quando ho detto che michiamavo Clementina; sono uno
sventurato carbonaro...»
Vaninastupitaspinse indietro la sedia e si alzò.
«Sento» continuò il carbonaro«che questa confessione mi farà perdereil solo bene che mi tiene attaccato alla
vitama ingannarvi è indegno di me. Mi chiamo Pietro Missirillihodiciannove anni; mio padre è un povero chirurgo di
Sant'Angelo in Vadoe io sono carbonaro. Hanno scoperto la nostra vendita;in catenedalla Romagna sono stato
portato a Roma. Sepolto in una segreta illuminata giorno e notte da unalampadavi ho passato tredici mesi. Un'anima
caritatevole ha avuto l'idea di salvarmi. Mi hanno vestito da donna. Mentrestavo uscendo dalla prigione e passavo
davanti alle guardie dell'ultimo portoneuna di loro ha insultato icarbonarie io gli ho dato uno schiaffo. Vi assicuro
che non è stata una vana bravatama solo un gesto impulsivo. Inseguitonella notte per le strade di Romadopo questa
imprudenzaferito da colpi di baionettaormai quasi privo di forzesalgoin una casa la cui porta era aperta; sento i
soldati dietro di mesalto in un giardino; cado a pochi passi da una donnache stava passeggiando.»
«La contessa Vitelleschi! l'amica di mio padre» disse Vanina.4
«Come! Lei ve lo ha detto?» esclamò Missirilli. «Comunque siaquestasignorail cui nome non deve essere
mai pronunciatomi salvò la vita. Mentre i soldati entravano in casa suaper prendermivostro padre mi faceva uscire
nella sua carrozza. Mi sento molto male. Da qualche giorno questo colpo dibaionetta alla spalla mi impedisce di
respirare. Sto per moriree disperatoperché non vi vedrò più.»
Vanina aveva ascoltato con impazienzauscì rapidamente: Missirilli nonscorse nessuna pietà in quegli occhi
così bellima solo l'espressione di un carattere altero che era statoferito.
Nella notte giunse un chirurgo; era soloMissirilli si sentiva disperato;temeva di non rivedere più Vanina.
Fece qualche domanda al chirurgoche lo curò senza rispondere. Lo stessosilenzio nei giorni seguenti. Gli
occhi di Pietro non lasciavano la finestra della terrazza da cui Vanina erasolita entrare; si sentiva molto infelice. Una
voltaverso mezzanottegli sembrò di scorgere qualcuno nell'ombra dellaterrazza: era Vanina?
Ogni notte Vanina andava ad appoggiare la guancia contro i vetri dellafinestra del giovane carbonaro.
«Se gli parlo» si diceva«sono perduta! nonon devo rivederlo maipiù!»
Presa questa decisionericordava suo malgrado l'affetto per quel giovanequando così stupidamente lo credeva
una donna. Dopo un'intimità così dolcebisognava dunque dimenticarlo! Neisuoi momenti più ragionevoliVanina era
spaventata dal cambiamento delle proprie idee. Da quando Missirilli si erarivelatotutte le cose cui aveva l'abitudine di
pensare si erano come ricoperte di un velo ed apparivano solo in lontananza.
Una settimana non era ancora passata che Vaninapallida e tremanteentrònella stanza del giovane carbonaro
insieme con il chirurgo. Veniva a dirgli che era opportuno convincere ilprincipe a farsi sostituire da un domestico.
Rimase pochi secondi; ma qualche giorno dopo tornò ancora con il chirurgoper umanità. Una serabenché Missirilli
stesse molto meglio e Vanina non avesse più da temere per la sua vitaosòandarci sola. VedendolaMissirilli si sentì al
colmo della felicitàma si preoccupò di nascondere il proprio amore; primadi tuttonon voleva venire meno alla dignità
che si conviene a un uomo. Vaninache era entrata da lui con il voltocoperto di rossoree temendo dichiarazioni
d'amorerimase sconcertata dal tono di amicizia nobile e devotama assaipoco teneracon cui lui la accolse. Se ne andò
senza che egli cercasse di trattenerla.
Qualche giorno dopoquando ritornòstesso comportamentostesseassicurazioni di devozione rispettosa e di
riconoscenza eterna. Non dovendosi più preoccupare di porre un freno aitrasporti del giovane carbonaroVanina si
chiese se non fosse lei sola ad amarlo. Questa ragazzafino ad allora cosìsuperbasentì con amarezza tutta la forza
della propria follia. Ostentò allegria ed anche freddezzadiradò le suevisitema non riuscì a non vedere del tutto il
giovane malato.
Missirilliardendo d'amore ma pensando alla propria nascita oscura e allapropria dignitàsi era ripromesso di
evitare di parlare d'amorea meno che Vanina non rimanesse otto giorni senzavederlo. L'orgoglio della giovane
principessa lottò palmo a palmo.
«Ebbene!» si disse infine«se lo vedo è per meper il mio piacereemai gli confesserò il sentimento che mi
ispira.» Faceva lunghe visite a Missirilliche le parlava come in presenzadi venti persone. Una seradopo aver passato
la giornata a detestarlo ed a ripromettersi di essere con lui ancora piùfredda e severa del solitoVanina gli disse che lo
amava. Presto non ebbe più nulla da rifiutargli.
Se la sua follia fu grandebisogna però riconoscere che Vanina si sentìimmensamente felice. Missirilli non
pensò più a ciò che credeva di dovere alla propria dignità di uomo; amòcome si ama per la prima volta a diciannove
anni e in Italia. Provò tutti gli scrupoli dell'amore-passionefino aconfessare alla giovane principessa così fiera la
tattica che aveva impiegato per farsi amare. Era stupito della propriaimmensa felicità. Quattro mesi passarono molto in
fretta. Un giornoil chirurgo restituì la libertà al suo malato. «Eadesso cosa faccio?» pensò Missirilli; «restare nascosto
nella casa di una delle più belle ragazze di Roma? E i vili tiranni che mihanno tenuto in prigione per tredici mesi senza
lasciarmi vedere la luce del giorno crederanno di avermi piegato! O Italiasei davvero sventurata se i tuoi figli ti
abbandonano per così poco!»
Vanina non dubitava che la più grande fortuna di Pietro fosse di starlesempre accanto; lo vedeva troppo felice;
ma una frase del generale Bonaparte risuonava amaramente nell'animo delgiovanee influiva su tutta la sua condotta
nei confronti delle donne. Nel 1796mentre il generale Bonaparte stavalasciando Bresciale autorità municipali che lo
accompagnavano alla porta della città gli dissero che i bresciani amavano lalibertà più di tutti gli altri italiani.
«Sì» rispose lui«amano parlarne alle loro amanti.»
Assai imbarazzatoMissirilli disse a Vanina:
«Appena sarà nottedovrò uscire.»
«Cerca di rientrare nel palazzo prima dell'alba; ti aspetterò.»
«All'alba sarò a molte miglia da Roma.»
«Benissimo» disse Vanina con freddezza«e dove andrai?»
«In Romagnaa vendicarmi.»
«Poiché sono ricca» continuò Vanina con estrema calma«spero cheaccetterai da me armi e denaro.»
Missirilli la guardò per qualche istante senza battere ciglio poigettandosi nelle sue braccia:
«Anima della mia vita» le disse« mi farai dimenticare tuttoanche ilmio dovere. Ma più il tuo animo è nobile
e più devi capirmi.»
Vanina pianse moltoe rimasero d'accordo che lui avrebbe lasciato Roma solodue giorni dopo5
«Pietro» gli disse l'indomani«mi hai detto spesso che un uomo moltonotoun principe romano per esempio
che potesse disporre di molto denarosarebbe in grado di rendere i piùgrandi servigi alla causa della libertàqualora
l'Austria si trovasse impegnata lontano da noiin qualche grande guerra. »
«Certamente» disse Pietrostupito.
«Bene! sei un uomo coraggioso; ti manca soltanto un'alta posizione; ti offrola mia mano e duecentomila lire di
rendita. Ci penso io ad ottenere il consenso di mio padre.»
Pietro si gettò ai suoi piedi; Vanina era raggiante di gioia.
«Ti amo appassionatamente» le disse«ma io sono un povero servitoredella mia patria; e più l'Italia è
sventuratapiù devo rimanerle fedele. Per ottenere il consenso di donAsdrubaledovrei recitare per molti anni una
commedia vergognosa. Non posso accettareVanina.»
Missirilli si affrettò ad impegnarsi con queste parole. Il coraggio glistava venendo meno.
«La mia sventura» esclamò«è che ti amo più della vitae per melasciare Roma è il peggiore dei supplizi. Ah!
Perché l'Italia non è libera dai barbari! Con quale gioia mi imbarchereicon te per andare a vivere in America.»
Vanina era raggelata. Il rifiuto della sua mano aveva sorpreso il suoorgoglio; ma presto si gettò nelle braccia
di Missirilli.
«Non mi sei mai piaciuto tanto» esclamò. «Sìmio piccolo chirurgo dicampagnasarò tua per sempre. Sei un
grande uomocome i nostri antichi Romani.»
Tutte le preoccupazioni per il futurotutti i tristi suggerimenti del buonsenso scomparvero; fu un momento di
amore perfetto. Quando furono in condizione di ragionare:
«Sarò in Romagna subito dopo di te» disse Vanina. «Mi farò prescriverei bagni della Porretta. Mi fermerò nel
castello che abbiamo a San Nicolòvicino a Forlì...»
«Lì passerò la vita con te!» esclamò Missirilli.
«Il mio destino ormai è osare tutto» rispose Vanina con un sospiro. «Miperderò per tema non importa... Ma
tupotrai amare una donna disonorata?»
«Non sei forse la mia donna?» disse Missirilli«una donna adorata persempre? Saprò amarti e proteggerti.»
Bisognava che Vanina si mostrasse in società. Si erano appena lasciati cheMissirilli cominciò a trovare
barbara la propria condotta. «Che cosa è poi la patria?» si diceva.«Non è una creatura cui dobbiamo riconoscenza per
qualche beneficioe che diventa infelice e può maledirci se manchiamo inqualcosa. La patria e la libertàsono come il
mio mantello; sono qualcosa che mi è utileche devo acquistareè verosenon l'ho avuta in eredità da mio padre; ma
in fin dei contiamo la patria e la libertà perché mi sono utili. Se nonmi servonose per me diventano come un mantello
in agosto perché comprarlee ad un prezzo così alto? Vanina è cosìbella! ha un carattere talmente singolare!
Cercheranno di piacerlee lei mi dimenticherà. Quale donna ha avuto un soloamante? Questi principi romaniche come
cittadini disprezzohanno tali vantaggi su di me! Devono essere cosìamabili! E certo che se parto lei mi dimenticheràe
la perderò per sempre. »
Vanina venne a trovarlo in piena nottelui le parlò dell'incertezza in cuiera sprofondato e la discussione alla
qualeper amor suoaveva sottoposto quella grande parola patria.Vanina era felice. «Se fosse costretto a scegliere tra
la patria e me» si diceva«io sarei la preferita.»
L'orologio della chiesa vicina suonò le treera il momento degli ultimiaddii. Pietro si sciolse dalle braccia
della sua amica. Stava già scendendo la scaletta quando Vaninatrattenendole lacrimegli disse sorridendo:
«Se fossi stato curato da una povera donna di campagnanon faresti nienteper ricompensarla? Non cercheresti
di pagarla? Il futuro è incertostai per andare tra i tuoi nemici:concedimi tre giorni per riconoscenzacome se fossi una
povera donnaper pagare le mie cure.»
Missirilli rimase. Finalmente lasciò Roma. Grazie ad un passaporto compratopresso un'ambasciata straniera
raggiunse la sua famiglia. Fu una grande gioia: lo credevano morto. I suoiamici vollero celebrare il suo ritorno
ammazzando uno o due carabinieri (è il nome dei gendarmi negli Stati delPapa).
«Non dobbiamo uccideresenza che sia necessarioun italiano che sa usarele armi» disse Missirilli«la nostra
patria non è un'isola come la felice Inghilterra: ci mancano soldatiperresistere all'intervento dei re d'Europa.»
Qualche tempo dopoMissirillimesso alle strette dai carabinierine uccisedue con le pistole che Vanina gli
aveva dato. Sulla sua testa fu posta una taglia.
Vanina non si vedeva ancora in Romagna: Missirilli si credette dimenticato.Il suo orgoglio ne fu ferito:
cominciava a pensare molto alla differenza di condizione sociale che loseparava dalla sua amante. In un momento di
tenerezza e di rimpianto per la felicità passatapensò di tornare a Romaper vedere cosa stava facendo Vanina. Questa
folle idea stava per sottrarlo a quello che considerava il proprio doverequando una sera la campana di una chiesa della
montagna suonò l'Angelus in modo stranocome se il campanaro fossedistratto.
Era un segnale di riunione per la vendita carbonara a cui Missirillisi era affiliato appena arrivato in Romagna.
Quella notte si ritrovarono tutti presso un eremo nella foresta. I dueeremitiaddormentati con l'oppionon si accorsero
affatto dell'uso che si faceva della loro piccola dimora. Missirilliche viera arrivato tristissimoseppe che il capo della
vendita era stato arrestato e che luigiovane di appena vent'annistavaper essere eletto capo di una vendita che
comprendeva uomini di più di cinquant'anni e che erano nelle cospirazionidalla spedizione di Murat del 1815.
Ricevendo questo onore insperatoPietro si sentì battere il cuore.
Appena fu solodecise di non pensare più alla giovane romana che l'avevadimenticatoe di consacrare ogni
suo pensiero al dovere di liberare l'Italia dai barbari..6
Due giorni dopoMissirilli vide sul rapporto degli arrivi e delle partenzeche gli procuravano in quanto capo
della venditache la principessa Vanina era arrivata nel suo castellodi San Nicolò. La lettura di quel nome lo turbòpiù
che rallegrarlo. Invano pensò di garantire la propria fedeltà alla patriaimpegnandosi a non volare quella sera stessa al
castello di San Nicolò: il timore di trascurare Vanina gli impedì dicompiere con calma i suoi doveri.
La vide il giorno dopo; lo amava come a Roma. Suo padreche voleva che sisposasseaveva ritardato la sua
partenza.
Portava con sé 2000 zecchini. Questo aiuto imprevisto servìmeravigliosamente ad accrescere il credito di
Missirilli nella sua nuova carica. Si ordinarono dei pugnali a Corfù; fucomprato il segretario privato del legatoche
aveva il compito di perseguitare i carbonari. Fu ottenuta anche la lista deiparroci che facevano la spia per il governo.
In quel periodo fu organizzata una delle cospirazioni meno folli che maisiano state tentate nella sventurata
Italia. Non entrerò qui in particolari che sarebbero fuori luogo. Milimiterò a dire che se il successo avesse coronato
l'impresaMissirilli avrebbe potuto rivendicare buona parte della gloria.Grazie a luiparecchie migliaia di insorti si
sarebbero mossi ad un segnale convenutoin armi avrebbero atteso l'arrivodei capi superiori. Il momento decisivo si
stava avvicinando quandocome sempre accadela cospirazione fu paralizzatadall'arresto dei capi.
Appena giunta in RomagnaVanina credette di capire che l'amor di patriaavrebbe fatto dimenticare al suo
amante ogni altro amore. L'orgoglio della giovane romana ne rimase ferito.Tentò invano di farsene una ragione; cadde
in preda a un cupo dolore; si sorprese a maledire la libertà.
Un giorno che era venuta a Forlì per incontrare Missirillinon riuscì adominare il proprio doloreche fino ad
allora era stato controllato dal suo orgoglio.
«Mi ami come un marito» gli disse«questo non fa per me.»
E si mise a piangere; ma era per la vergogna di essersi abbassata a dellerecriminazioni. Missirilli rispose alle
sue lacrime col contegno di un uomo preoccupato. Di colpo Vanina pensò dilasciarlo e di tornare a Roma. Provò una
gioia crudele nel punirsi della debolezza che l'aveva spinta a parlare. Dopoqualche istante di silenziola sua decisione
fu presa; si sarebbe ritenuta indegna di Missirilli se non lo avesselasciato. Già godeva della dolorosa sorpresa di lui
quando l'avrebbe cercata invano accanto a sé. Poi l'idea di non essereriuscita ad ottenere l'amore dell'uomo per il quale
aveva fatto tante folliela intenerì profondamente. Allora ruppe ilsilenzioe fece di tutto per strappargli una parola
d'amore. Lui le disse con tono distratto delle parole molto tenerema fu conun tono ben diversamente profondo che
parlando dei suoi progetti politiciesclamò con dolore:
«Ah! se l'impresa falliscese il governo la scopre ancora una voltaioabbandono la partita.»
Vanina rimase immobile. Da un'ora sentiva che stava vedendo il suo amante perl'ultima volta. La frase che lui
aveva appena dettogettò una luce sinistra nel suo animo. Si disse: «Icarbonari hanno ricevuto da me molte migliaia di
zecchini. È impossibile dubitare della mia fedeltà alla cospirazione.»
Vanina uscì dai propri pensieri solo per dire a Pietro: «Vuoi venire apassare ventiquattr'ore con me nel castello
di San Nicolò? La vostra riunione di stasera non ha bisogno della tuapresenza. Domattinaa San Nicolòpotremo fare
una passeggiata; ciò ti calmerà e ti restituirà tutto il sangue freddo dicui hai bisogno in questa importante circostanza.»
Pietro acconsentì.
Vanina lo lasciò per i preparativi del viaggiochiudendo a chiavecome diconsuetola cameretta dove l'aveva
nascosto.
Corse da una delle sue cameriereche l'aveva lasciata per sposarsi e avviareun piccolo commercio a Forlì.
Giunta nella casa di questa donnain fretta scrisse sul margine di un librodi preghieretrovato nella camera
l'indicazione esatta del luogo dove quella notte stessa si sarebbe riunita lavendita dei carbonari. Concluse la sua
denuncia con queste parole: «La vendita è composta di diciannovemembri; ecco i nomi e gli indirizzi.» Scritta la lista
esatta tranne che vi era omesso il nome di Missirillidisse alla donnadicui si fidava:
«Porta questo libro al cardinale legato; che legga quanto c'è scrittoe telo restituisca. Eccoti dieci zecchinise
il legato fa il tuo nomela tua morte è certa; ma tu mi salvi la vitasegli fai leggere la pagina che ho scritto.»
Tutto andò meravigliosamente bene. Il legatoper pauranon si comportò dagran signore. Permise alla
popolana che chiedeva di parlarglidi apparirgli davanti con il voltocopertoma a condizione che avesse le mani legate.
In questo stato la negoziante fu introdotta alla presenza del grandepersonaggioche trovò trincerato dietro un immenso
tavolo ricoperto di un tappeto verde.
Il legato lesse le pagine del libro di preghieretenendolo a debitadistanzaper paura di qualche sottile veleno.
Lo restituì alla negoziantee non la fece seguire. Meno di quaranta minutidopo aver lasciato il suo amanteVaninache
aveva visto tornare la sua ex camerierariapparve davanti a Missirilliconvinta che ormai sarebbe stato tutto per lei. Gli
disse che in città c'era un movimento eccezionalesi vedevano pattuglie dicarabinieri in strade dove non andavano mai.
«Credimi» aggiunse«ci conviene partire subito per San Nicolò. »
Missirilli acconsentì. A piedi raggiunsero la carrozza della giovaneprincipessa checon la sua dama di
compagniaconfidente discreta e ben pagatala stava aspettando a mezza legadalla città.
Giunta al castello di San NicoloVaninainquieta per la propria condottadivenne ancora più tenera con il suo
amante. Ma mentre gli parlava d'amorele sembrava di recitare una commedia.Nel momento del tradimento non aveva
pensato al rimorso. Stringendo il suo amante tra le bracciasi diceva:«C'è una parola che potrebbero dirglie se questa
parola venisse pronunciata lui avrebbe orrore di mesubito e per sempre.»
In piena notteuno dei domestici di Vanina entrò all'improvviso nellacamera. Quest'uomosenza che lei lo
sapesseera un carbonaro. Missirilli aveva dunque dei segreti per leianchesu cose di così poco conto. Vanina fremé.7
L'uomo veniva ad avvertire Missirilli che durante la nottea Forlìle casedi diciannove carbonari erano state
circondatee loro stessi arrestati mentre ritornavano dalla vendita.Nonostante fossero stati colti di sorpresanove erano
fuggiti. I carabinieri avevano potuto condurne dieci nella prigione dellacittadella. Mentre vi stavano entrandouno di
loro si era gettato nel pozzocosì profondoe si era ucciso.
Vanina ne fu sconvolta; per fortuna Pietro non se ne accorse: avrebbe potutoleggerle il crimine negli occhi.
«...In questo momento» aggiunse il domestico«la guarnigione di Forlìè disposta in fila lungo tutte le strade. I
soldati sono così vicini l'uno all'altro da potersi parlare. Gli abitantipossono attraversare la strada solo dove c'è un
ufficiale. »
Uscito l'uomoPietro rimase pensieroso per un attimo:
«Per il momento non c'è niente da fare» disse infine.
Vanina si sentiva morire; tremava sotto lo sguardo del suo amante.
«Ma cos'è che hai?» le disse luipoi pensò ad altroe smise diguardarla. Verso la metà del giorno seguentelei
si azzardò a dirgli:
«Ecco un'altra vendita scoperta; immagino che rimarrai tranquillo perun po'.»
«Molto tranquillo» rispose Missirilli con un sorriso che la fecefremere.
Vanina andò a fare una visita di dovere al curato del villaggio di SanNicolòche forse era una spia dei gesuiti.
Rientrando per cenaalle settetrovò deserta la stanzetta in cui il suoamante stava nascosto. Fuori di sécorse a cercarlo
per tutta la casanon c'era proprio.
Disperataritornò nella stanzettae solo allora vide un biglietto; lolesse:
«Vado a costituirmi al legato; non ho più speranza nella nostra causa; ilcielo è contro di noi. Chi ci ha traditi?
apparentemente quello sciagurato che si è gettato nel pozzo. Poiché la miavita non serve alla povera Italianon voglio
che i miei compagnivedendo che io solo non sono stato arrestatopossanocredere che li ho venduti. Addio; se mi ami
pensa a vendicarmi. Rovinaannienta l'infame che ci ha traditianche sefosse mio padre.»
Vanina cadde su una sediasemisvenuta e in preda ad un dolore immenso. Nonriusciva a pronunciar parola; i
suoi occhi erano asciutti e le bruciavano.
«Oh Dio!» esclamò«accogliete il mio voto; sìpunirò l'infame che hatradito; ma prima bisogna restituire la
libertà a Pietro.»
Un'ora dopoera in viaggio per Roma. Da molto temposuo padre insistevaperché tornasse. Durante la sua
assenzaaveva combinato il suo matrimonio con il principe Livio Savelli.Appena Vanina fu arrivataegli gliene parlò
con trepidazione. Con suo grande stuporelei acconsentì alla prima parola.La sera stessain casa della contessa
Vitelleschisuo padre le presentò quasi ufficialmente don Livio; lei parlòa lungo con lui. Era il giovane più elegante e
aveva i cavalli più belli; maanche se tutti dicevano che era di spiritovivaceil suo carattere era ritenuto talmente
leggero che non era minimamente sospettato dal governo. Vanina pensò chefacendogli perdere la testaavrebbe potuto
farne un utile agente. Dal momento che era nipote di MonsignorSavelli-Catanzaragovernatore di Roma e ministro
della poliziaVanina pensava che le spie non avrebbero osato seguirlo.
Dopo aver trattato molto beneper qualche giornol'amabile don LivioVanina gli annunciò che non avrebbe
mai potuto diventare il suo sposo; era troppo leggerosecondo lei.
«Se non foste un ragazzo» gli disse«gli agenti di vostro zio nonavrebbero segreti per voi. Per esempiocosa
si sta decidendo nei confronti dei carbonari scoperti ultimamente a Forlì?»
Due giorni dopodon Livio venne a dirle che tutti i carbonari catturati aForlì erano evasi. Vanina fissò su di lui
i suoi grandi occhi neri con un amaro sorriso carico di disprezzoe non lodegnò più di una parola per tutta la sera. Due
giorni dopodon Livio venne a confessarlearrossendoche la prima voltal'avevano ingannato.
«Ma» le disse«mi sono procurato una chiave dell'ufficio di mio zio; daidocumenti che vi ho trovatoho visto
che una congregazione (o commissione) composta dei cardinali e deiprelati più accreditati si riunisce nel più grande
segreto e delibera sul fatto se convenga processare questi carbonari aRavenna o a Roma. I nove carbonari presi a Forlì
e il loro capoun certo Missirilliche ha commesso la sciocchezza dicostituirsiin questo momento si trovano nel
castello di San Leo.»
Alla parola sciocchezzaVanina strinse con forza il braccio del principe.
«Anch'io» gli disse«voglio vedere i rapporti ufficiali ed entrare convoi nell'ufficio di vostro zio; avrete letto
male.»
A queste paroledon Livio rabbrividì; Vanina gli chiedeva una cosa quasiimpossibile; ma il carattere bizzarro
di quella ragazza raddoppiava il suo amore. Pochi giorni dopoVaninatravestita da uomocon una graziosa livrea di
casa Savellipoté trascorrere una mezz'ora tra le carte più segrete delministro della polizia. Provò un impulso di grande
gioia quando scoprì il rapporto giornaliero sull'imputato PietroMissirilli. Le tremavano le mani tenendo quella carta.
Rileggendo quel nome fu sul punto di sentirsi male. Uscita dal palazzo delgovernatore di RomaVanina permise a don
Livio di abbracciarla.
«Superate bene» gli disse«le prove a cui vi sottopongo.»
Dopo questa fraseil giovane principe avrebbe dato fuoco al Vaticano per farpiacere a Vanina. Quella sera
c'era un ballo all'ambasciata di Francia; lei danzò molto e quasi sempre conlui. Don Livio era ubriaco di felicità
bisognava impedirgli di pensare.8
«Mio padre qualche volta è strano» gli disse un giorno Vanina; «stamaniha licenziato due suoi domestici che
sono venuti a piangere da me. Uno mi ha chiesto di essere sistemato da vostrozio il governatore di Roma; l'altroche è
stato soldato d'artiglieria sotto i Francesivorrebbe essere impiegato aCastel San'Angelo.»
«Li prendo tutti e due al mio servizio» disse subito il principe.
«Vi ho forse chiesto questo?» replicò Vanina con fierezza. «Vi ripetotestualmente la preghiera di quei due
poveretti; devono ottenere ciò che hanno chiestoe nient'altro.»
Niente di più difficile. Monsignor Catanzara era tutt'altro che unuomo leggeroe in casa sua ammetteva solo
persone a lui ben note. Immersa in una vita apparentemente piena di piaceriVaninatormentata dai rimorsiera molto
infelice. La lentezza degli avvenimenti la uccideva. L'uomo d'affari di suopadre le aveva procurato del denaro. Doveva
fuggire dalla casa paterna e andare in Romagnaper tentare di far evadere ilsuo amante? Anche se quest'idea era
assurdastava per attuarlaquando il caso ebbe pietà di lei. Don Livio ledisse:
«I dieci carbonari della vendita Missirilli stanno per esseretrasferiti a Romae dopo la condanna verranno poi
giustiziati in Romagna. Ecco cosa ha ottenuto stasera mio zio dal Papa. Intutta Romanoi due soltanto conosciamo
questo segreto. Siete contenta?»
«State diventando un uomo» rispose Vanina«regalatemi il vostroritratto.»
Il giorno prima dell'arrivo di Missirilli a RomaVanina trovò un pretestoper andare a Civita Castellana. È nella
prigione di quella città che di solito vengono fatti sostareper la nottei carbonari trasferiti dalla Romagna a Roma. Il
mattinovide Missirilli mentre stava uscendo dalla prigione; era in catenesu una carretta; le sembrò molto pallidoma
per niente scoraggiato. Una vecchia gli gettò un mazzolino di viole;Missirilli sorriseringraziandola.
Vanina aveva visto il suo amante. I suoi pensieri ripresero vigore; un nuovocoraggio la animò. Da molto
tempo aveva fatto ottenere un buon avanzamento all'abate Carielemosinieredi Castel San'Angelodove il suo amante
sarebbe stato rinchiuso; aveva preso come confessore quel buon prete. A Romanon è cosa da nulla essere confessore di
una principessanipote del governatore.
Il processo contro i carbonari di Forlì non durò a lungo. Per vendicarsidel loro arrivo a Romache non aveva
saputo impedireil partito ultra ottenne che la commissione dei giudicifosse composta dei prelati più ambiziosi. La
commissione fu presieduta dal ministro della polizia.
La legge contro i carbonari è chiara: quelli di Forlì non potevano nutrirealcuna speranza; tuttavia difesero lo
stesso le loro vite con tutti i sotterfugi possibili. Non solo i loro giudicili condannarono a mortema molti proposero
supplizi atrocicome il taglio della manoecc. Il ministro della poliziala cui carriera era ormai assicurata (perché si
lascia quel posto solo per prendere il cappello cardinalizio)non avevaaffatto bisogno di mani mozzate: portando la
sentenza al Papafece commutare la pena di tutti i condannati in qualcheanno di carcere. Ad eccezione di Pietro
Missirilli. In questo giovane il ministro vedeva un fanatico pericolosoed'altra parte era già stato condannato a morte
per l'uccisione dei due carabinieri di cui abbiamo parlato. Vanina seppedella sentenza e della commutazione pochi
istanti dopo che il ministro era uscito dall'udienza con il Papa.
Il giorno dopoMonsignor Catanzara rientrò nel suo palazzo verso lamezzanottee non trovò il suo cameriere
privato; stupitoil ministro suonò più volte; finalmente apparve unvecchio domestico rimbecillito: spazientitoil
ministro decise di spogliarsi da solo.
Chiuse la porta a chiave; faceva molto caldo: prese il suo abito e lo gettòripiegato su una sedia. Lanciato con
troppa forzal'abito oltrepassò la sedia e andò a colpire la tenda dimussola della finestradisegnando la forma di un
uomo. Il ministro si precipitò verso il letto ed afferrò la pistola. Stavatornando verso la finestraquando un giovane in
livrea gli si avvicinò con la pistola in pugno. A quella vistail ministroprese la mira; stava per tirare. Il giovane gli
disse ridendo:
«ComeMonsignore! non riconoscete Vanina Vanini?»
«Che significa questo scherzo di cattivo gusto?» replicò il ministroinfuriato.
«Ragioniamo con calma» disse la ragazza. «Intanto la vostra pistola èscarica.»
Il ministrostupitoconstatò che era vero; quindi estrasse un pugnaledalla tasca del gilet.
Con un delizioso tono autoritarioVanina gli disse:
«SediamociMonsignore.»
E si sedette tranquillamente su un divano.
«Almeno siete sola?» disse il ministro.
«Assolutamente solave lo giuro!» esclamò Vanina.
Il ministro si preoccupò di verificarlo: fece il giro della stanza e guardòdappertutto; quindi si sedette su una
sedia a tre passi da Vanina.
«Quale interesse avrei» disse Vanina con tono dolce e tranquillo«adattentare alla vita di un uomo moderato
che probabilmente verrebbe sostituito da qualche uomo debole dalla testacaldacapace di perdere se stesso e gli altri?»
«Insommache cosa voletesignorina?» disse il ministro irritato. «Questascena non mi si addiceed è ora che
finisca.»
«Quello che sto per dire» riprese Vanina con alterigia e dimenticando dicolpo la sua cortesia«interessa voi
più che me. C'è chi vuole che il carbonaro Missirilli abbia salva la vita;se viene giustiziatonon gli sopravviverete di
una settimana. Non ho alcun interesse in questa storia; la follia di cui vilamentatel'ho fatta prima di tutto per
divertirmie poi per fare un piacere a una mia amica. Ho voluto» continuòVaninariprendendo il suo tono amabile9
«ho voluto rendere un servizio a un uomo d'ingegnoche presto sarà mio zioed è destinatosecondo ogni apparenzaa
portare molto in alto la fortuna della sua casata.»
Il ministro si rasserenò: la bellezza di Vanina contribuì senz'altro aquesto rapido cambiamento. Era ben nota a
Roma l'inclinazione di Monsignor Catanzara per le belle donne enel suotravestimento da valletto di casa Savellicon
le calze di seta aderentila giubba rossai calzoni azzurri gallonatid'argentoe la pistola in manoVanina era
incantevole.
«Mia cara futura nipote» disse il ministro quasi sorridendo«la vostraè una grande pazziae non sarà
l'ultima.»
«Spero che un personaggio tanto saggio» rispose Vanina«saprà mantenereil segretosoprattutto con don
Livio; e per impegnarvicaro ziose mi accordate la vita del protetto dellamia amicavi darò un bacio.»
Continuando la conversazione su questo tono leggermente scherzosocon cui ledame romane sanno trattare
anche gli affari più importantiVanina riuscì a dare a questo colloquioiniziato con la pistola in pugnoil tono di una
visita fatta dalla giovane principessa Savelli allo zio governatore di Roma.
Ben presto Monsignor Catanzarapur respingendo con alterigia l'idea di averceduto alla paurasi mise ad
esporre alla nipote tutte le difficoltà che avrebbe incontrato nel tentativodi salvare la vita di Missirilli. Mentre parlava
il ministro passeggiava per la stanza con Vanina; prese una caraffa dilimonata che era sul caminetto e ne riempì un
bicchiere di cristallo. Lo stava portando alle labbra quando Vanina loafferrò edopo averlo tenuto in mano per un po'
come per distrazione lo lasciò cadere nel giardino. Un attimo dopoilministro prese un cioccolatino da una bomboniera
Vanina glielo tolse di mano e gli disse sorridendo:
«Attentoqui tutto è avvelenato; volevano uccidervi. Io ho ottenuto lagrazia per il mio futuro zioper non
entrare a mani vuote nella famiglia Savelli.»
Monsignor Catanzaramolto stupitoringraziò la nipotee le dette grandisperanze per la vita di Missirilli.
«Il nostro accordo è concluso!» esclamò Vanina«e come provaecco laricompensa» disseabbracciandolo.
Il ministro accettò la ricompensa.
«Dovete saperemia cara Vanina» aggiunse«che io non amo il sangue.D'altra partesono ancora giovane
anche se a voi posso forse sembrare molto vecchioe può capitarmi di viverein un tempo in cui il sangue versato oggi
potrebbe costituire una colpa.»
Suonavano le due quando Monsignor Catanzara accompagnò Vanina alla porta delsuo giardino.
Due giorni dopoquando il ministro si presentò al Papaassai imbarazzatoper il passo che doveva fareSua
Santità gli disse:
«Prima di tuttodevo chiedervi una grazia. Tra quei carbonari di Forlìcen'è uno che è rimasto condannato a
morte; quest'idea mi impedisce di dormire: bisogna salvare quell'uomo.»
Il ministrovedendo il Papa già decisofece molte obiezionie solo allafine scrisse un decreto o motu proprio
che il Papa siglòcontrariamente alla consuetudine.
Vanina aveva pensato che probabilmente avrebbe ottenuto la grazia per il suoamantema che avrebbero
tentato di avvelenarlo. Fin dalla vigiliaMissirilli aveva ricevutodall'abate Cariil suo confessorealcuni pacchetti di
gallettecon la raccomandazione di non toccare il cibo passato dallo Stato.
Vaninaavendo poi saputo che i carbonari di Forlì sarebbero statitrasferiti nel castello di San Leovolle
cercare di vedere Missirilli al suo passaggio da Civita Castellana; giunse inquesta città ventiquattro ore prima dei
prigionieri; vi trovò l'abate Cariche l'aveva preceduta di parecchigiorni.
Aveva ottenuto dal carceriere che Missirilli potesse ascoltare la messaamezzanottenella cappella della
prigione. Si giunse più in là: se Missirilli avesse consentito a lasciarsilegare le braccia e le gambe con una catenail
carceriere si sarebbe ritirato verso la porta della cappellain modo davedere sempre il prigioniero di cui era
responsabilema senza poterne udire i discorsi.
Giunse finalmente il giorno che doveva decidere della sorte di Vanina. Findal mattinolei si chiuse nella
cappella della prigione. Chi potrebbe dire i pensieri che la agitaronodurante quella lunga giornata? Era stata lei a
denunciare la sua venditaed era stata ancora lei a salvargli lavita. Quando la ragione prendeva il sopravvento in
quell'anima tormentataVanina sperava ch'egli avrebbe accettato di lasciarel'Italia insieme con lei: se aveva peccatolo
aveva fatto per eccesso d'amore. Quando suonarono le quattrosentì dalontanosul selciatoil passo dei cavalli dei
carabinieri. Il rumore di ognuno di quei passi sembrava rimbombarle nelcuore. Ben presto distinse il rotolio delle
carrette che trasportavano i prigionieri. Si fermarono sulla piazzettadavanti alla prigione; vide due carabinieri sollevare
Missirillisolo su una carrettatalmente carico di catene da non potersimuovere. «Almeno è vivo» si disse con le
lacrime agli occhi«non l'hanno ancora avvelenato!». La sera fu crudele;solo la lampada dell'altareposta molto in alto
e per la quale il carceriere risparmiava l'olioilluminava la tetracappella. Lo sguardo di Vanina errava sulle tombe di
certi gran signori del medioevo morti nella vicina prigione. Le loro statueavevano un aspetto feroce.
Ogni rumore era cessato da tempo; Vanina era immersa nei suoi neri pensieri.Poco dopo i rintocchi della
mezzanottecredette di udire un rumore leggero come il volo di unpipistrello. Volle muoversie cadde semisvenuta
sulla balaustra dell'altare. In quello stesso istantedue fantasmi leapparvero accantosenza che li avesse sentiti entrare.
Erano il carceriere e Missirillicosì carico di catene da sembrarefasciato. Il carceriere scoprì una lanterna e la appoggiò
sulla balaustra dell'altaredi fianco a Vaninain modo da poter vedere beneil suo prigioniero. Poi si ritirò sul fondo
vicino alla porta. Appena il carceriere si fu allontanatoVanina si gettòal collo di Missirilli.10
Stringendolo tra le sue braccianon sentì altro che le sue catene fredde epungenti. «Chi gli ha messo queste
catene?» pensò. Non provò alcun piacere ad abbracciare il suo amante. Aquel dolore ne seguì un altro più acuto; per un
attimo credette che Missirilli conoscesse il suo criminetanto glaciale erala sua accoglienza.
«Mia cara amica» le disse finalmente«mi addolora l'amore che avete perme; invano cerco di capire che cosa
in me abbia potuto ispirarvelo. Credetemitorniamo a sentimenti piùcristianidimentichiamo le illusioni che un tempo
ci hanno travolto; non posso appartenervi. La costante sventura che haaccompagnato le mie imprese deriva forse dallo
stato di peccato mortale in cui mi sono sempre trovato. Eanche ad ascoltarei soli consigli della prudenzaperché non
sono stato arrestato con i miei amicinella fatale notte di Forlì? Perchénel momento del pericolonon ero al mio posto?
Perché la mia assenza ha potuto autorizzare i sospetti più crudeli? Avevoun'altra passioneche non era quella della
libertà dell'Italia.»
Vanina non si riaveva dalla sorpresa che le provocava il cambiamento diMissirilli. Pur non essendo molto
dimagritosembrava che avesse trent'anni. Vanina attribuì questocambiamento ai maltrattamenti che aveva subito in
carcere; scoppiò in singhiozzi.
«Ah!» gli disse«i carcerieri avevano assicurato che ti avrebberotrattato umanamente.»
Il fatto è cheall'avvicinarsi della mortetutti i principi religiosi chepotevano accordarsi con la passione per la
libertà dell'Italia erano riapparsi nel cuore del giovane carbonaro. Poco apoco Vanina si accorse che il sorprendente
cambiamento che notava nel suo amante era tutto moralee niente affatto unaconseguenza di maltrattamenti fisici. Il
suo doloreche credeva già insopportabileaumentò ancora.
Missirilli taceva; Vanina si sentiva soffocare dai singhiozzi. Anch'egli unpo' commossodisse:
«Se amassi qualcosa in questo mondosareste voiVanina; magrazie a Dionon ho più che uno scopo nella
vita: morirò in prigione o nel tentativo di dare la libertà all'Italia.»
Ci fu ancora silenzio; Vanina non riusciva proprio a parlare: invano tentòdi farlo. Missirilli continuò:
«Il dovere è crudeleamica mia; ma se non si soffrisse nel compierloincosa consisterebbe l'eroismo? Datemi
la vostra parola che non cercherete più di vedermi.»
Per quanto glielo permetteva la sua catena così strettafece un piccolomovimento con la manoe tese le dita a
Vanina.
«Se permettete a un uomo che vi fu caro di darvi un consigliosiateragionevole e sposate l'uomo perbene che
vostro padre vi ha scelto. Non fategli nessuna confidenza spiacevole; e noncercate più di rivedermi; ormai siamo
estranei l'uno all'altra. Avete prestato una somma considerevole per servirela patria; se mai essa sarà liberata dai suoi
tiranniquella somma vi sarà regolarmente restituita in beni nazionali.»
Vanina era sconvolta. Mentre le parlavalo sguardo di Pietro si era accesosolo nel momento in cui aveva
pronunciato la parola patria.
Finalmente l'orgoglio venne in aiuto della giovane principessa; aveva portatocon sé diamanti e piccole lime.
Senza rispondere a Missirilliglieli offrì.
«Accetto per dovere» le disse«perché devo tentare la fuga; ma non vivedrò mai piùlo giuro di fronte a
questi vostri nuovi favori. AddioVanina; promettetemi di non scrivermi maidi non cercare mai di vedermi; lasciatemi
tutto alla patriaio sono morto per voi; addio.»
«No» rispose Vanina con furore«voglio che tu sappia che cosa ho fattospinta dall'amore che provavo per
te.»
Allora gli raccontò tutto quello che aveva fatto da quando Missirilli avevalasciato il castello di San Nicolòper
andare a costituirsi al legato.
Finito il racconto:
«E tutto questo è niente» disse Vanina«ho fatto ben altroper amortuo.»
Allora gli parlò del suo tradimento.
«Ahmostro!» gridò Pietro furibondogettandosi su di leie cercava dicolpirla con le sue catene.
Ci sarebbe riuscito se il carceriere non fosse accorso alle prime gridaafferrando Missirilli.
«Tienimostronon voglio doverti niente» disse Missirilli a Vaninagettandole controper quanto le catene
glielo permettevanole lime e i diamantie rapidamente si allontanò.
Vanina rimase inebetita. Tornò a Roma; il giornale oggi annuncia che si èsposata con il principe don Livio
Savelli.
SAN FRANCESCO A RIPA
Ariste e Dorante hanno trattato
quest'argomentoe ciò ha dato a
Erasto l'idea di trattarlo anche lui.
30 settembre
Traduco da un cronista italiano il racconto particolareggiato degli amori diuna principessa romana con un
Francese. Si era nel 1726ai primi del secolo scorso. Tutti gli abusi delnepotismo fiorivano allora a Roma. Mai la corte11
era stata più brillante. Regnava Benedetto XIII (Orsini)o meglio suonipoteil principe Campobassodirigeva in suo
nome tutti gli affari grandi e piccoli. Da ogni partegli stranieriaffluivano a Roma; i principi italianii nobili di Spagna
ancora ricchi dell'oro del Nuovo Mondovi accorrevano a schiere. Qui tutti iricchi e i potenti vivevano al di sopra delle
leggi. La galanteria e la magnificenza sembravano la sola occupazione ditanti stranieri e italiani riuniti.
Le due nipoti del papala contessa Orsini e la principessa Campobassosidividevano la potenza dello zio e gli
omaggi della corte. La loro bellezza le avrebbe fatte notare anche nelleclassi più infime della società. La Orsinicome
si dice familiarmente a Romaera allegra e disinvoltala Campobassotenera e pia; ma quest'anima delicata era capace
degl'impeti più violenti. Senza essere nemiche dichiaratepur incontrandosiogni giorno dal papa e vedendosi spesso a
casa loroqueste dame erano rivali in tutto: beltàascendentericchezza.
La contessa Orsinimeno bellama brillantefrivolaattivaintriganteaveva degli amanti di cui non si curava
affattoe che duravano un giorno soltanto. Era felice quando poteva vedereduecento persone riunite nelle sue salee
regnar su di esse. Si burlava altamente della cuginala Campobassochedopo essersi fatta vedere dappertuttoper tre
anni di seguitocon un duca spagnoloaveva finito per ordinargli dilasciare Roma entro ventiquattr'oree sotto pena di
morte. «Dopo quella grande impresa» diceva l'Orsini«la mia sublimecugina non ha più sorriso. Soprattutto da
qualche mese è evidente che la povera donna muore di noia o d'amoree suomaritoche non è uno scioccofa passare
questa noia agli occhi del papanostro zioper profonda devozione. Prevedoche questa devozione la spingerà a
compiere un pellegrinaggio in Spagna».
La Campobasso non rimpiangeva affatto il suo Spagnoloche per almeno dueanni l'aveva mortalmente
annoiata. Se l'avesse rimpiantol'avrebbe mandato a cercareperché era unodi quei temperamenti naturali e
appassionaticome non è raro incontrarne a Roma. Piena di esaltato fervorereligiososebbene di ventitré anni appena e
nel pieno fiore della bellezzatalvolta si gettava in ginocchio davanti allozio supplicandolo di darle la benedizione
papalechecome troppo pochi sannoassolveanche senza confessioneda ogni peccatoeccetto due o tre
particolarmente atroci. Il buon Benedetto XIII piangeva di commozione.«Alzatinipote mia» le diceva«tu non hai
bisogno della benedizionetu vali più di me agli occhi di Dio.»
In questobenché infallibilesi sbagliavaal pari di tutta Roma. LaCampobasso era perdutamente innamorata
il suo amante corrispondeva alla sua passione e tuttavia ella era moltoinfelice. Da parecchi mesi ormai vedeva quasi
tutti i giorni il cavaliere di Sénecénipote del duca di Saint-Aignanaquel tempo ambasciatore di Luigi XV a Roma.
Figlio di una delle amanti del reggente Filippo d'Orléansil giovaneSénecé godeva in Francia del più alto
favore: per quanto avesse appena ventidue anniera da molto tempocolonnello; aveva i modi abituali dell'uomo fatuoe
quanto può giustificarlisenza però averne il carattere. L'allegrialavoglia di divertirsi di tutto e semprela sventatezza
il coraggiola bontàcostituivano i tratti salienti di quel caratteresingolaree si poteva ben direa lode della sua patria
che egli ne era un campione perfetto. La principessa di Campobasso l'avevanotato a prima vista. «Ma» gli aveva detto
«non mi fido di voisiete un Francese; però vi avverto: il giorno in cui aRoma si saprà che vi vedo qualche volta in
segretosarò sicura che l'avrete detto voie non vi amerò più.»
Giocando con l'amorela Campobasso era stata presa da vera passione. AncheSénecé l'aveva amatama la loro
relazione durava già da otto mesie il tempoche raddoppia la passione diun'Italianauccide quella di un Francese. La
vanità del cavaliere lo consolava un po' della sua noia; aveva già mandatoa Parigi due o tre ritratti della Campobasso.
Del restocolmato d'ogni sorta di beni e di privilegiper così dire findall'infanziadimostrava la spensieratezza del suo
carattere persino quando si trattava degli interessi della vanitàche disolito stanno così a cuore ai suoi connazionali.
Sénecé non comprendeva affatto il carattere della sua amantee perciòqualche voltala sua bizzarria lo
divertiva. Già molto spessoil giorno della festa di santa Balbinadi cuiella portava il nomeaveva dovuto vincere gli
impeti e i rimorsi d'una pietà ardente e sincera. Sénecé non le avevafatto dimenticare la religionecome accade con le
Italiane del volgo; l'aveva vinta a viva forzae la lotta si rinnovavaspesso.
Quest'ostacoloil primo che questo giovane viziato dalla sorte avesseincontrato in vita sualo divertiva e
manteneva viva in lui l'abitudine di mostrarsi tenero e premuroso con laprincipessa; ogni tantosentiva il dovere di
amarla. C'era un'altra ragione assai poco romantica: Sénecé aveva un unicoconfidenteed era il suo ambasciatoreil
duca di Saint-Aignancui rendeva qualche servigio per mezzo dellaCampobassoche era informata di tutto. E
l'importanza che acquistava così agli occhi dell'ambasciatore lo lusingavaparticolarmente.
La Campobassoben diversa da Sénecénon era affatto sensibile allacondizione sociale del suo amante. Essere
amatao non esserloera tutto per lei. «Gli sacrifico la mia salvezzaeterna» si diceva; «lui che è un ereticoun
Francesenon può sacrificarmi nulla di simile.» Ma poi il cavalierecomparivae la sua gaiezzacosì amabilecosì
inesauribileeppur così spontaneastupiva la Campobasso e l'affascinava.Al suo cospettotutto ciò che aveva
progettato di dirglitutti i pensieri tetri svanivano. Tale statocosìnuovo per quell'animo alterodurava ancora a lungo
dopo che Sénecé se n'era andato. Alla fine le parve di non poter pensaredi non poter vivere lontano da Sénecé.
La modache a Romaper due secolis'era ispirata agli Spagnolicominciavaa seguire un po' i Francesi. Si
cominciava a capire il loro carattereche porta il piacere e la felicitàdovunque arriva. Quel carattereallorasi trovava
solo in Franciae dopo la rivoluzione del 1789 non si trova più in nessunluogo. Il fatto è che un'allegria così costante
ha bisogno di spensieratezzae in Francia non esiste più un avvenire sicuroper nessunoneppure per gli uomini di
geniose pure esistono.
C'è guerra aperta fra gli uomini della classe di Sénecé e il resto dellanazione. Anche la Roma di allora era ben
diversa da come la si vede oggi. Non s'immaginava affattonel 1726ciò chesarebbe accaduto sessantasette anni dopo12
quando il popolopagato da qualche pretesgozzò il giacobino Bassevilleche diceva di voler incivilire la capitale del
mondo cristiano.
Per la prima voltaaccanto a Sénecéla Campobasso aveva perduto laragionesi era sentita ora in paradisoora
terribilmente infelice per cose che la sua ragione non poteva approvare. Inquell'animo austero e sincerouna volta che
Sénecé ebbe vinto la religionela quale per lei era ben al di sopra dellaragionequest'amore si sarebbe innalzato
rapidamente fino alla passione più sfrenata.
La principessa proteggeva monsignor Ferraterradi cui aveva iniziato lafortuna. Che cosa provò quando
Ferraterra le annunciò che non solo Sénecé andava più spesso del solitodall'Orsinima anche che per causa sua la
contessa aveva appena congedato un famoso castratosuo amante ufficiale davarie settimane!
La nostra storia comincia la sera del giorno in cui la Campobasso avevaricevuto quest'annuncio fatale.
Se ne stava immobile in un'immensa poltrona di cuoio dorato. Posate accanto alei su un tavolino di marmo
nerodue grandi lampade d'argento dal lungo stelocapolavori del celebreBenvenuto Cellinirischiaravano o meglio
rivelavano le tenebre di un'immensa salaal pianterreno del suo palazzoornata di quadri anneriti dal tempo; perchégià
a quell'epocail regno dei grandi pittori poteva dirsi lontano.
Vi fronte alla principessa quasi ai suoi piedisu una seggiolina di legnod'ebano guarnita di ornamenti d'oro
massiccioil giovane Sénecé aveva appena adagiato la sua elegante persona.La principessa lo guardavae da quando
era entrato nella salainvece di volargli incontro e gettarsi nelle suebraccianon gli aveva rivolto neppure una parola.
Nel 1726Parigi era già la regina delle eleganze nella vita e nella moda.Sénecé si taceva venire regolarmente
per corriere tutto ciò che poteva dar risalto alle grazie di urlo dei piùbegli uomini di Francia.
Nonostante la sicurezza di sécosì naturale in un uomo del suo rangocheaveva fatto le sue prime esperienze
con le bellezze della corte del reggente e sotto la guida del famoso Canillacsuo ziouno dei roués del principeben
presto fu facile leggere un certo imbarazzo nella fisionomia di Sénecé. Ibei capelli biondi della principessa erano un po'
in disordine; i suoi grandi occhi azzurro cupo erano fissi su di lui: la loroespressione era ambigua. Si trattava di una
vendetta mortale? era soltanto la profonda serietà dell'amore appassionato?
«Così non mi amate più» ella disse infine con voce soffocata.
Un lungo silenzio seguì questa dichiarazione di guerra.
Costava molto alla principessa privarsi della grazia affascinante di Sénecéchese lei non gli avesse fatto scene
era sul punto di dirle cento amorose follie; ma era troppo orgogliosa perdifferire la spiegazione. Una civetta è gelosa
per amor proprio; una donna galante lo è per abitudine; una donna che amacon sincerità e passione ha coscienza dei
suoi diritti. Quel modo di guardarecaratteristico della passione romanadivertiva molto Sénecéche vi scorgeva
profondità e incertezza; vi si vedevaper così direl'anima a nudo. L'Orsininon aveva la stessa grazia.
Tuttaviasiccome stavolta il silenzio si prolungava oltre misurail giovaneFranceseche non era molto abile
nell'arte di penetrare i sentimenti nascosti d'un cuore italianovi trovòun'aria di tranquillità e ragionevolezza che lo
mise a suo agio. Del restoin quel momentoaveva un dispiacere:attraversando le cantine e i sotterranei cheda una
casa vicina al palazzo Campobassolo conducevano in quella sala a terrenoil freschissimo ricamo del suo magnifico
abitoarrivato da Parigi il giorno primas'era riempito di ragnatele. Lapresenza delle ragnatele lo metteva a disagio
anche perché aveva orrore di quell'insetto.
Sénecécredendo di scorgere una certa calma nell'occhio della principessapensava a come evitare la scenataa
come eludere il rimprovero invece di rispondergli; maindotto alla serietàdalla stizza che provava: «Non sarebbe
questa un'occasione favorevole» si diceva«per farle intravvedere laverità? È stata lei stessa a porre la domanda; ecco
già evitata metà della seccatura. Dev'essere proprio vero che non sonofatto per l'amore. Non ho mai visto niente di così
bello come questa donna dagli occhi strani. Ha cattive manieremi fa passareper sotterranei disgustosi; ma è la nipote
del sovrano presso il quale il re mi ha inviato. Inoltreè bionda in unpaese dove tutte le donne sono brune: è una grande
singolarità. Tutti i giorni sento portare alle stelle la sua bellezza dapersone la cui testimonianza non è sospetta e che
sono a mille miglia dal pensare che stanno parlando al fortunato possessoredi tante grazie. In quanto al potere che un
uomo deve avere sulla sua amantenon ho alcuna preoccupazione a taleriguardo. Se volessi prendermi la pena di dire
una parolala strapperei al suo palazzoai suoi mobili d'oroal suozio-ree tutto ciò per condurla in Franciain una
provincia sperdutaa vivacchiare tristemente in una delle mie terre... Infede miala prospettiva di simile devozione
m'ispira soltanto la più ferma decisione di non chiedergliela mai. L'Orsiniè assai meno graziosa: mi amase mi ama
solo un pochino di più del castrato Butofaco che ieri le ho fatto mandarvia; ma ha pratica del mondosa vivereda lei si
può andare in carrozza. E sono ben sicuro che non mi farà mai scenate; nonmi ama abbastanza per questo.»
Durante quel lungo silenziolo sguardo fisso della principessa non avevapiù lasciato la bella fronte del
giovane Francese.
«Non lo vedrò più» si disse. E d'un tratto si gettò nelle sue braccia ecoprì di baci quella fronte e quegli occhi
che non si arrossavano più di gioia nel rivederla. Il cavaliere si sarebbedisprezzatose non avesse dimenticato all'istante
tutti i progetti di rottura; ma la sua amante era troppo profondamentecommossa per dimenticare la sua gelosia. Pochi
momenti dopoSénecé la guardò con stupore; lacrime di rabbia le cadevanorapide sulle guance. «Come! diceva a
mezza vocemi umilio fino a parlargli del suo cambiamento: glielorimproveroioche mi era giurata di non
accorgermene mai! E questa bassezza non è sufficientebisogna pure che cedaalla passione che il suo bel volto
m'ispira! Ah! Vilevilevile principessa!... Bisogna finirla.»
Si asciugò le lacrime e parve riacquistare un po' di calma.13
«Cavalierebisogna finirla» gli disse abbastanza tranquillamente. Vi fatevedere spesso dalla contessa...» Qui
si fece estremamente pallida. «Se l'amivacci tutti i giornisia pure; manon tornare più qui...». S'interruppe come suo
malgrado. Aspettava una parola dal cavaliere; questa parola non fupronunciata. Continuò con un piccolo movimento
convulso e quasi stringendo i denti: «Sarà la mia sentenza di morte e lavostra. »
Questa minaccia pose fine all'incertezza del cavaliereche fino allora erarimasto semplicemente stupito della
burrasca inaspettata dopo tanto abbandono. Si mise a ridere.
Un rossore improvviso coprì le gote della principessache divenneroscarlatte. «La collera sta per soffocarla»
pensò il cavaliere; «le verrà un colpo apoplettico. » Si avvicinò perslacciarle la veste; ella lo respinse con una
risolutezza e una forza cui non era abituato. Più tardi Sénecé si ricordòchementre cercava di prenderla fra le braccia
l'aveva sentita parlare fra sé. Indietreggiò un poco: discrezione inutileperché sembrava che lei non lo vedesse più. Con
voce bassa e concentratacome se parlasse al suo confessorediceva a sestessa: «M'insultami sfida. Certoalla sua età
e con la naturale indiscrezione del suo paeseracconterà all'Orsini tuttele indegnità cui mi abbasso... Non sono sicura di
me; non posso neppure impormi di restare insensibile davanti a questo belviso...» Qui vi fu un altro silenzioche
sembrò assai uggioso al cavaliere. Infine la principessa si alzò ripetendoin tono più cupo: «Bisogna finirla.»
Sénecécui la riconciliazione aveva fatto smettere l'idea d'unaspiegazione seriale rivolse due o tre frasi
spiritose Sti un'avventura di cui si parlava molto a Roma...
«Lasciatemicavaliere» gli disse la principessa interrompendolo; «non misento bene...»
«Questa donna si annoia» si disse Sénecé affrettandosi ad obbedire«enulla è contagioso come la noia.» La
principessa l'aveva seguito con gli occhi fino in fondo alla sala... «Estavo per decidere con tanta leggerezza il mio
destino!» ella disse con un sorriso amaro. «Per fortunale suespiritosaggini fuori posto mi hanno aperto gli occhi.
Quanta fatuità in quest'uomo! Come posso amare un essere che mi comprendecosì poco! Vuol divertirmi con una
faceziaquando si tratta della mia vita e della sua!... Ah! Come riconoscobene l'inclinazione sinistra e cupa che è la mia
disgrazia!» E si alzò dalla poltrona con furia. «Com'erano belli i suoiocchi quando mi ha detto quella frase!... E
bisogna ammetterlol'intenzione del povero cavaliere era gentile. Conosce ilmio carattere infelice; voleva farmi
dimenticare il tetro dolore che mi agitavainvece di chiedermene il motivo.Amabile Francese! In realtàho mai
conosciuto la felicità prima di amarlo?»
Si mise a pensaredeliziataa tutti i pregi del suo amante. A poco a pocofu indotta a contemplare le grazie
della contessa Orsini. Il suo animo cominciò a veder tutto nero. I tormentidella più atroce gelosia s'impadronirono del
suo cuore. Realmenteun presagio funesto l'agitava da due mesi; gli unicimomenti tollerabili erano quelli che passava
vicino al cavaliereeppure quasi semprequando non era fra le sue bracciagli parlava in tono acido.
La serata fu tremenda per lei. Sfinita e quasi un po' calmata dal doloreebbe l'idea di parlare al cavaliere:
«Perché insomma mi ha vista irritatama ignora il motivo delle mielagnanze. Forse non ama la contessa. Forse va da
lei soltanto perché un forestiero deve conoscere la società del paese incui si trovae soprattutto la famiglia del sovrano.
Forse se mi faccio presentare Sénecése può venire apertamente a casamiavi passerà ore e ore come dall'Orsini.»
«No» esclamò con rabbia«mi umilierei parlando; mi disprezzeràedecco tutto quel che ci avrò guadagnato.
Il carattere svaporato dell'Orsini che ho tanto spesso disprezzatopazza chenon ero altroin realtà è più gradevole del
mioe soprattutto agli occhi di un Francese. Io sono fatta per annoiarmi conuno Spagnolo. Che c'è di più assurdo
dell'essere sempre sericome se i fatti della vita non lo fossero giàabbastanza di per sé!... Che sarà di me quando non
avrò più il mio cavaliere per darmi un po' di vitaper infondere nel miocuore quel fuoco che gli manca?»
Aveva fatto chiudere l'ingresso; ma quest'ordine non valeva per monsignorFerraterrache venne a raccontarle
che cosa si era fatto dall'Orsini fino all'una del mattino. Fino allora ilprelato aveva secondato in buona fede gli amori
della principessa; mada quella seranon aveva più dubbi che prestoSénecé se la sarebbe intesa con la contessa Orsini
se pure non era già cosa ratta.
«La principessatutta dedita alla religione» egli pensava«mi sarebbepiù utile che nei salotti. Vi sarà sempre
qualcuno che ella mi preferirà: e sarà il suo amante; e se un giornoquest'amante sarà romanoavrà magari uno zio da
crear cardinale. Se la convertopenserà prima di tuttoe con tuttol'ardore del suo temperamentoal suo direttore
spirituale... Che cosa non potrò sperare da lei presso suo zio!» El'ambizioso prelato si perdeva in deliziose congetture
vedeva la principessa gettarsi in ginocchio davanti allo zio per fargli dareil cappello cardinalizio. Il papa gli sarebbe
stato assai riconoscente di quel che stava per fare... Appena convertita laprincipessaavrebbe fatto giungere sotto gli
occhi del papa le prove irrefragabili del suo intrigo col giovane Francese.Piosincero e ostile ai Francesiqual è Sua
Santitàavrà un'eterna gratitudine per chi avrà fatto finire un intrigocosì spiacevole per lui. Ferraterra apparteneva
all'alta nobilità di Ferrara; era riccoaveva più di cinquant'anni...Animato dalla prospettiva così vicina della porpora
fece meraviglie; osò mutare bruscamente tattica con la principessa. Da duemesi Sénecé la trascuravama avrebbe
potuto essere pericoloso attaccarlo pensava il prelatoperché a sua voltamal comprendendo Sénecélo credeva
ambizioso.
Il lettore troverebbe troppo lungo il dialogo tra la giovane principessafolle d'amore e di gelosiae l'ambizioso
prelato. Ferraterra aveva esordito con un resoconto particolareggiato dellatriste verità. Dopo un inizio così
sorprendentenon fu difficile risvegliare tutti i sentimenti di religione edi appassionata pietà che erano soltanto assopiti
in fondo al cuore della giovane Romana; la sua fede era sincera.
«Ogni passione peccaminosa finisce nella sciagura e nel disonore» lediceva il prelato.14
Era giorno fatto quando uscì dal palazzo Campobasso. Aveva preteso dalla neoconvertita la promessa di non
ricevere Sénecé quel giorno. Questa promessa non era costata molto allaprincipessa; credeva d'essere piaein realtà
aveva paura di rendersi spregevole con la sua debolezza agli occhi delcavaliere.
Questa decisione si mantenne salda fino alle quattro: era il momento dellaprobabile visita del cavaliere. Egli
passò nella viadietro il giardino del palazzo Campobassovide il segnaleche annunciava l'impossibilità di una visitae
tutto contentose ne andò dalla contessa Orsini.
A poco a poco la Campobasso si sentì come impazzire. Le idee e lerisoluzioni più strane si succedevano
rapidamente. D'un tratto scese la scalinata del suo palazzo come unaforsennatae salì in carrozza gridando al cocchiere:
«Palazzo Orsini.»
L'eccesso della sua infelicità la spingeva quasi suo malgrado a vedere lacugina. La trovò in mezzo a cinquanta
persone. Tutta la gente di spiritotutti gli ambiziosi di Romanon potendoaccedere a palazzo Campobassoaffluivano a
palazzo Orsini. L'arrivo della principessa fece scalporetutti siallontanarono in segno di rispetto; ella non degnò
accorgersene: guardava la sua rivalel'ammirava. Ogni qualità della cuginaera una pugnalata per il suo cuore. Dopo i
primi complimenti l'Orsinivedendola silenziosa e preoccupatariprese unaconversazione brillante e disinvolta.
«Come la sua gaiezza si adatta al cavaliere più della mia folle e noiosapassione!» si diceva la Campobasso.
In un inspiegabile trasporto d'odio e di ammirazionesi gettò al collodella contessa. Non vedeva che le grazie
della cugina; sia da vicino che da lontano le sembravano egualmenteadorabili. Paragonava i propri capelli a quelli di
leigli occhila pelle. Dopo questo strano esameebbe orrore e disgusto dise stessa. Tutto le sembrava adorabile
superiorenella rivale.
Immobile e cupala Campobasso era come una statua di marmo in mezzo allafolla gesticolante e rumorosa. Si
entravasi usciva; tutto quel chiasso la importunavala offendeva. Ma comerimase quando d'un tratto sentì annunciare
il signor de Sénecé! Avevano convenutoall'inizio della loro relazioneche in società egli le avrebbe parlato molto
pocoe come si addice a un diplomatico straniero che incontra appena due otre volte al mese la nipote del sovrano
presso il quale è accreditato.
Sénecé la salutò col rispetto e la serietà abituali; poitornando dallacontessa Orsiniriprese il tono di gaiezza
quasi intima che si tiene con una donna di spirito da cui si è ben ricevutie che s'incontra tutti i giorni. La Campobasso
ne fu costernata. «La contessa mi mostra ciò che avrei dovuto essere» sidiceva. «Ecco come bisogna esserema come
io non sarò mai!» Uscì in preda alla più estrema infelicità cui possagiungere una creatura umanaquasi decisa ad
avvelenarsi. Tutte le gioie che l'amore di Sénecé le aveva dato nonavrebbero potuto compensare il terribile dolore in
cui rimase sprofondata per tutta una lunga notte. Si direbbe che queste animeromane abbiano per la sofferenza tesori
d'energia sconosciuti alle altre donne.
Il giorno seguenteSénecé ripassò e vide il segnale negativo. Già se neandava tutto allegroeppure era un po'
piccato. «Sicché l'altro giorno mi avrebbe dato il congedo? Voglio vederlapiangere» disse la sua vanità. Provava una
lieve sfumatura d'amore nel perdere per sempre una donna così bellanipotedel papa. Lasciò la carrozzas'inoltrò nei
sotterranei sudici che tanto gli dispiacevanoe spinse la porta della grandesala a pianterreno dove la principessa lo
riceveva.
«Come! osate comparire qui!» disse attonita la principessa.
«Questo stupore manca di sincerità» pensò il giovane Francese; «lei sitrattiene in questa stanza solo quando
mi aspetta. »
Il cavaliere le prese la mano; ella fremette. I suoi occhi si riempirono dilacrime; il cavaliere la trovò così bella
che ebbe un istante d'amore. Ellada parte suadimenticò tutti igiuramenti che per due giorni aveva fatto alla religione;
e si gettò nelle sue bracciapienamente felice: «Ecco la felicità di cuid'ora in poi godrà l'Orsini!» Sénecémal
comprendendocome al solitol'anima romanacredette che volesse separarsida lui amichevolmenterompere con tatto.
«Non mi convienevisto che sono addetto all'ambasciata del reavere pernemica mortale (perché tale sarebbe) la nipote
del sovrano presso il quale sono impiegato.» Tutto fiero del felicerisultato cui credeva di giungereSénecé si mise a
ragionare. Avrebbero vissuto nella più piacevole unione; perché nonsarebbero stati molto felici? In realtàcosa si
poteva rimproverargli? L'amore avrebbe ceduto il posto a una buona e teneraamicizia. Reclamò con insistenza il
privilegio di tornare ogni tanto là dove si trovavano; i loro rapportiavrebbero sempre mantenuto una dolce intimità...
Sulle prime la principessa non lo capì. Quandocon orrorel'ebbe capitorestò in piediimmobilegli occhi
fissi. Infinea quell'ultima uscita sulla dolce intimità dei lororapportil'interruppe con una voce che sembrava venirle
dal profondo del pettoe parlando lentamente:
«In altre parole mi trovatedopotuttoabbastanza graziosa da potermitenere come una sgualdrina a vostro
servizio!»
«Macara e buona amical'amor proprio non è forse salvo?» replicòSénecéa sua volta veramente sorpreso.
«Come potrebbe passarvi per la testa di lamentarvi? Per fortuna la nostrarelazione non è mai stata sospettata da
nessuno. Sono uomo d'onore; vi do di nuovo la mia parola che nessun esserevivente sospetterà della gioia di cui ho
goduto.»
«Neanche l'Orsini?» aggiunse ella in tono gelidoche ingannò ancora ilcavaliere.
«Vi ho mai nominato» disse ingenuamente il cavaliere«le persone che hopotuto amare prima d'essere vostro
schiavo?»15
«Con tutto il rispetto per la vostra parola d'onorequesto è un rischioche non voglio correre» disse la
principessa con aria risolutache infine cominciò a sorprendere un po' ilgiovane Francese. «Addio! cavaliere...» Edato
che egli si allontanava piuttosto indeciso: «Vienidammi un bacio» glidisse.
Era visibilmente commossa; poi gli disse in tono fermo: «Addiocavaliere...»
La principessa mandò a cercare Ferraterra. «È per vendicarmi» gli disse.Il prelato ne fu contentissimo. «Si
comprometterà; è mia per sempre.»
Due giorni doposiccome il caldo era opprimenteSénecé andò a prenderearia al Corsoverso mezzanotte. Vi
trovò tutto il bel mondo di Roma. Quando volle riprendere la vetturail suolacchè gli rispose a fatica: era ubriaco; il
cocchiere era scomparso; il lacchè gli disseparlando stentatamenteche ilcocchiere aveva attaccato briga con un
nemico.
«Ah! Il mio cocchiere ha dei nemici!» disse Sénecé ridendo.
Mentre tornava a casaera appena a due o tre strade oltre il Corsosiaccorse che lo seguivano. Erano quattro o
cinque uominiche si fermavano quando lui si fermavaricominciavano acamminare quando lui camminava. «Potrei
scantonare e tornare al Corso per un'altra strada» pensò Sénecé. «Bah!questi tangheri non ne valgono la pena; sono
bene armato.» Aveva in mano il pugnale snudato.
Percorsetra questi pensieridue o tre vie appartate e sempre piùsolitarie. Sentiva quegli uomini affrettare il
passo. In quel momentoalzando gli occhinotò dritto davanti a sé unapiccola chiesa officiata da frati dell'ordine di San
Francescodalle cui vetrate usciva un singolare splendore. Si precipitòverso la portae bussò molto forte col manico
del suo pugnale. Gli uomini che sembravano inseguirlo erano a cinquantapassi. Si misero a correre nella sua direzione.
Un frate aprì la porta; Sénecé si precipitò in chiesa; il frate richiusela sbarra di ferro. Nello stesso momentogli
assassini presero a calci la porta. «Empi!» disse il frate. Sénecé glidiede uno zecchino. «Decisamente ce l'avevano con
me» disse.
La chiesa era illuminata da almeno un migliaio di ceri.
«Come! Un servizio a quest'ora!» egli disse al frate.
«Eccellenzac'è una dispensa dell'eminentissimo cardinal vicario. »
Tutta l'angusta navata della piccola chiesa di San Francesco a Ripa eraoccupata da un catafalco sontuoso; si
cantava l'ufficio dei morti.
«Chi è morto? qualche principe?» disse Sénecé.
«Senza dubbio» rispose il prete«perché non si è badato a spese: mason tutti denari e cera perduti: il signor
decano ci ha detto che il defunto è morto in peccato.»
Sénecé si avvicinò: vide stemmi di forma francese; la sua curiositàraddoppiò; si avvicinò ancora e riconobbe
le proprie armi! C'era un'iscrizione latina:
Nobilis homo Johannes Norbertus Senece eques decessit Romae.
«Nobile e potente signore Giovanni Norberto di Sénecécavalieredecedutoa Roma.»
«Sono il primo uomo» pensò Sénecé«che abbia avuto l'onore diassistere alle proprie esequie. A quanto ne
sosoltanto l'imperatore Carlo V si è concesso questo piacere... Ma nontira buon vento per me in questa chiesa.»
Diede un altro zecchino al sagrestano.
«Padre» gli disse«fatemi uscire da una porta posteriore del convento.»
«Molto volentieri» disse il frate.
Appena in stradaSénecéche aveva una pistola in ciascuna manosi mise acorrere a perdifiato. Ben presto
sentì dietro di sé della gente che lo inseguiva. Arrivando vicino al suopalazzovide la porta chiusa e un uomo fermo lì
davanti. «Ecco il momento dell'assalto»pensò il giovane Francese; giàsi preparava a uccidere l'uomo con una
pistolettataquando riconobbe il suo cameriere.
«Aprite la porta» gli gridò.
Era aperta; entrarono in fretta e la richiusero.
«Ah! signorevi ho cercato dappertutto; ci sono tristissime notizie: ilpovero Giovanniil vostro cocchiereè
stato ucciso a coltellate. Gli uomini che l'hanno ucciso vomitavanoimprecazioni contro di voi. Signorevogliono
attentare alla vostra vita...»
Mentre il cameriere parlavaotto colpi di trombone partiti insieme da unafinestra che dava sul giardino
stesero morto Sénecé accanto al suo cameriere; ciascuno era trapassato dapiù di venti pallottole.
Due anni dopola principessa Campobasso era venerata a Roma come modellodella più profonda pietà
religiosae da molto tempo monsignor Ferraterra era cardinale.
Perdonate gli errori dell'autore.
VITTORIA ACCORAMBONI
Duchessa di Bracciano
Sfortunatamente per me e per il lettorequesto non è un romanzoma lafedele traduzione di un racconto assai
serio scritto a Padova nel dicembre 1585.16
Qualche anno fa mi trovavo a Mantova; cercavo degli schizzi e dei quadrettialla portata dei miei modesti
mezzi ma li volevo solo di pittori anteriori al 1600; intorno a quei periodosi spense definitivamente l'originalità italiana
già compromessa dalla caduta di Firenze nel 1530.
Invece di quadriun vecchio patrizio molto ricco e molto avaro mi feceoffrirea caro prezzodei vecchi
manoscritti ingialliti dal tempo; chiesi di scorrerli. Egli acconsentìaggiungendo che si fidava della mia onestàche non
avrei ricordato gli aneddoti piccanti che avrei lettoqualora non avessiacquistato i manoscritti.
A questa condizioneche accettaiscorsicon grave danno per la mia vistatre o quattrocento volumi in cui
erano stati raccoltidue o tre secoli primaracconti di tragiche avventurelettere di sfida relative a duellitrattati di pace
tra nobili confinantimemorie su ogni sorta di soggettoecc. Per questimanoscritti il vecchio proprietario chiedeva una
cifra enorme. Dopo una lunga trattativaacquistai a caro prezzo il dirittodi far copiare certe brevi storie che mi
piacevano e che mostravano i costumi dell'Italia nel 1500. Ne ho ventiduevolumi in folioe il lettore sta per leggere
proprio una di quelle storie fedelmente tradottasempre che ne abbia lapazienza. Conosco la storia del secolo XVI in
Italia e credo all'autenticità di ciò che segue. Ho faticato assai per farein modo che la traduzione di quell'antico stile
italianogravedirettosovranamente oscuro e pieno di allusioni ai fatti ealle idee correnti durante il pontificato di Sisto
V (nel 1585)non presentasse i riflessi della maniera letteraria moderna edelle idee del nostro secolo spregiudicato.
L'ignoto autore del manoscritto è un personaggio circospettonon giudicamai un fattomai lo anticipa; sua
unica preoccupazione è la verità del racconto. Se talvolta è pittorescosenza volerlociò accade perché intorno al 1585
la vanità non avvolgeva ancora ogni azione umana di un'aureola diaffettazione; si riteneva di non poter agire sul
prossimo a meno di non essere estremamente chiari. Intorno al 1585 nessunopensava a rendersi amabile attraverso la
parolaad eccezione dei buffoni di corte e dei poeti. Non si diceva ancora:«Morirò ai piedi di Vostra Maestà» quando
si erano appena fatti preparare i cavalli per scappare; era un genere ditradimento che non era stato ancora inventato. Si
parlava pocoe ognuno ascoltava con estrema attenzione quello che gli venivadetto.
Cosìo benevolo lettorenon cercare qui uno stile piccanterapidobrillante di fresche allusioni ai sentimenti in
voga; non attenderti soprattutto le travolgenti emozioni di un romanzo allaGeorge Sand; questa grande scrittrice
avrebbe fatto un capolavoro con la vita e le sventure di VittoriaAccoramboni. Il racconto veritiero che vi presento può
offrire solo i vantaggi più modesti della storia. Quando per casotrovandoci in viaggio sul far della notteci accade di
riflettere sulla grande arte di conoscere il cuore umanole circostanzedella storia che segue potranno costituire la base
di molti giudizi. L'autore dice tuttospiega tuttonon lascia spazioall'immaginazione del lettore; scriveva dodici giorni
dopo la morte dell'eroina.
Vittoria Accoramboni nacque da una famiglia molto nobilein una piccolacittà del ducato di Urbinochiamata
Gubbio. Fin dall'infanzia fu notata da tutti per la sua rara e straordinariabellezza; ma la bellezza era l'ultima delle sue
grazie: non le mancava niente di quanto può fare ammirare una fanciulla dinobile nascita; ma niente fu così degno di
nota in leie - possiamo dirlo - niente fu tanto prodigioso tra le sue moltequalità straordinarie quanto un certo fascino
che fin dal primo momento conquistava il cuore e l'animo di ognuno. Questasemplicitàche dava un grande valore alle
sue più piccole parolenon era turbata da alcun sospetto di artificio;subito si provava fiducia in questa dama dotata di
una bellezza tanto straordinaria. A vederla soltantosarebbe stato possibileresisterecon grande sforzoa un tale
incanto; ma se poi la si sentiva parlaree soprattutto se capitava diconversare con leiera assolutamente impossibile
sottrarsi ad un fascino talmente straordinario.
Molti giovani cavalieri della città di Romadove abitava suo padre e dovesi può vedere il suo palazzoin
piazza dei Rusticuccipresso San Pietrodesiderarono ottenere la sua mano.Ci furono molte gelosie e rivalità; alla fine i
genitori di Vittoria preferirono Felice Perettinipote del cardinaleMontaltoche fu poi papa Sisto Vfelicemente
regnante.
Felicefiglio di Camilla Perettisorella del cardinaleprima si erachiamato Francesco Mignucci; prese il nome
di Felice Peretti quando fu solennemente adottato dallo zio.
Vittoriafacendo il suo ingresso in casa Perettivi portòsenzasospettarloquella superiorità che possiamo
definire fatalee che la accompagnava in ogni luogo; e possiamo certo direche per non adorarla bisognava non averla
mai vista. L'amore che suo marito provava per lei rasentava la follia; lasuocera Camilla e lo stesso cardinale Montalto
sembravano non avere altra preoccupazione al mondo che quella di indovinare igusti di Vittoriaper cercare subito di
soddisfarli. Tutta Roma si stupì che quel cardinalenoto per l'esiguitàdel suo patrimonio e per il suo orrore nei
confronti di ogni genere di lussoprovasse un tale piacere nel prevenireogni desiderio di Vittoria. Giovanesplendente
di bellezzaamata da tuttile sue fantasie erano talvolta molto costose.Dai suoi nuovi parenti Vittoria riceveva gioielli
di grandissimo valoreperleinsomma tutto quanto si potesse trovare di piùraro presso gli orefici di Romache in quel
tempo erano assai ben forniti.
Per amore di quest'amabile nipoteil cardinale Montaltocosì noto per lasua severitàtrattò i fratelli di Vittoria
come se fossero suoi nipoti. Ottavio Accoramboniappena compiuti itrent'anniper suo intervento fu nominato vescovo
di Fossombronedesignato dal duca di Urbino e incaricato dal papa GregorioXIII; Marcello Accorambonigiovane di
carattere focosoaccusato di molti criminie attivamente ricercato dalla cortea fatica era sfuggito a processi che
potevano costargli la morte. Protetto dal cardinalepoté riacquistare unacerta tranquillità.
Un terzo fratello di VittoriaGiulio Accoramboninon appena il cardinale nefece richiestafu ammesso dal
cardinale Alessandro Sforza ai primi onori della sua corte.17
In una parolase gli uomini potessero misurare la propria felicità nonsecondo l'infinita insaziabilità dei
desiderima secondo il godimento reale dei benefici che già possiedonoilmatrimonio di Vittoria con il nipote del
cardinale Montalto sarebbe potuto sembrare agli Accoramboni il massimo dellafelicità umana. Ma il desiderio
insensato di profitti immensi ed incerti può volgere gli uomini piùfavoriti dalla fortuna verso idee strane e piene di
pericoli.
È vero che se qualcuno dei parenti di Vittoriacome molti a Romasospettaronocontribuì a liberarla di suo
marito per il desiderio d'una più grande fortunaebbe modo di riconoscereben presto quanto sarebbe stato più saggio
contentarsi dei vantaggi moderati di una situazione gradevolee che eradestinata a raggiungere presto il vertice di
quanto possa desiderare l'ambizione umana.
Mentre Vittoria viveva da regina nella sua casauna sera che Felice Perettisi era appena messo a letto con sua
mogliegli fu consegnata una lettera da una certa Caterinanata a Bologna ecameriera di Vittoria. La lettera era stata
portata da un fratello di CaterinaDomenico d'Acquavivasoprannominato il Mancino.Quell'uomo era bandito da
Roma per molti crimini; masu preghiera di CaterinaFelice gli avevaprocurato la potente protezione dello zio
cardinalee il Mancino veniva spesso nella casa di Feliceche se nefidava pienamente.
La lettera di cui parliamo portava la firma di Marcello Accoramboniquelloche fra tutti i fratelli di Vittoria era
più caro a suo marito. Viveva per lo più nascosto fuori Roma; peròtalvolta si azzardava ad entrare in cittàe allora
trovava rifugio nella casa di Felice.
Con la lettera consegnata a quell'ora insolitaMarcello chiedeva aiuto alcognato Felice Peretti; lo scongiurava
di soccorrerloe aggiungeva che lo stava aspettando presso il palazzo diMontecavalloper una cosa della massima
urgenza.
Felice informò la moglie della strana lettera che gli avevano consegnatopoi si vestìprendendo come arma
solo la spada. Accompagnato da un solo domestico che portava una torciaaccesastava per uscire quando si imbatté
nella madre Camillae in tutte le donne della casa - tra loro anche Vittoria-; tutte lo scongiuravano di non uscire ad
un'ora così tarda. Siccome non cedeva alle loro preghiere si gettarono inginocchio econ le lacrime agli occhilo
supplicarono di ascoltarle. Quelle donnee soprattutto Camillaeranoterrorizzate dai racconti dei fatti strani che
capitavano ogni giorno e rimanevano impuniti in quei tempi del pontificato diGregorio XIIIpieni di disordini e delitti
inauditi. Inoltre erano colpite da un'idea: quando Marcello Accoramboni siazzardava a entrare in Romanon aveva
l'abitudine di far chiamare Felicee un tale passo - a quell'ora di notte -sembrava loro assolutamente strano.
Con tutto l'ardore della sua etàFelice non si arrese a questi timori;quando poi seppe che la lettera era stata
portata dal Mancinoche amava molto e che aveva aiutatoniente potépiù trattenerlo e uscì di casa.
Come si è dettoera preceduto da un solo domestico che portava una torciaaccesa; ma il povero giovane aveva
appena fatto qualche passo sulla salita di Montecavallo che cadde colpito datre colpi di archibugio. Gli assassini
vedendolo a terragli si gettarono soprae lo crivellarono di pugnalatefino a che non furono sicuri che fosse proprio
morto. La fatale notizia fu subito portata alla madre e alla moglie diFelicee attraverso loro giunse allo zio cardinale.
Il cardinalesenza mutare espressionesenza manifestare la minima emozionesi fece subito rivestiree poi
raccomandò a Dio se stesso e quella povera anima (presa così allasprovvista). Si recò quindi dalla nipote econ una
gravità ammirevole e un'aria di profonda pacefrenò le grida e i piantifemminili che cominciavano a risuonare in tutta
la casa. Il suo potere su quelle donne fu talmente efficace cheda quelmomento e anche quando il cadavere fu portato
fuori della casanon si vide né si udì da parte loro niente che andasse aldi là di ciò che accade nelle famiglie più
controllateper le morti più previste. Quanto al cardinale Montaltonessuno poté sorprendere in lui i segnianche
moderatidel dolore più semplice; niente parve cambiato nell'ordine enell'apparenza esteriore della sua vita. Roma ne
fu presto convintamentre scrutava con la solita curiosità i più piccolimovimenti di un uomo così profondamente
offeso.
Accadde per caso chel'indomani stesso della morte violenta di Felicevenisse convocato in Vaticano il
concistoro (dei cardinali). In tutta la città non ci fu un uomo che nonpensasse chealmeno in quel primo giornoil
cardinale Montalto si sarebbe esentato da quella pubblica funzione. Infattilà sarebbe dovuto comparire sotto gli occhi
di tanti e così curiosi testimoni! Sarebbero stati spiati i più piccolimovimenti di quella debolezza naturale ma che è così
opportuno nascondere da parte di un personaggio che da un posto eminenteaspira ad un altro più eminente ancora; tutti
ammetteranno che non è conveniente che un uomo che ha l'ambizione dielevarsi sopra tutti gli altri uomini si dimostri
poi simile a loro.
Ma le persone che la pensavano così si ingannarono due volteperchéinnanzitutto il cardinale Montalto fu tra i
primi a comparire nella sala del concistoroe poi perché riuscìimpossibile anche ai più attenti scoprire in lui un
qualsiasi segno di sensibilità umana. Al contrariocon le sue risposte aquei colleghi chea proposito di un avvenimento
così crudelecercarono di offrirgli parole di consolazioneseppe stupirechiunque. La fermezza e l'apparente
impassibilità della sua anima in una così atroce circostanza divennerosubito l'argomento di cui tutta la città parlava.
È anche vero che in quello stesso concistoro alcunipiù esperti nell'artedelle cortiattribuirono quell'apparente
insensibilità non a una mancanza di sentimento ma ad una grande dose disimulazione; e quel punto di vista fu presto
condiviso dalla folla dei cortigianiconvinti che fosse utile non mostrarsieccessivamente colpito da un'offesa il cui
autore era senz'altro potente e avrebbe potuto forsepiù tardiostacolargli l'ascesa alla dignità suprema.
Quale che fosse la causa di quella totale apparente insensibilitàè certoche ciò provocò stupore nell'intera
Roma e nella corte di Gregorio XIII. Maper tornare al concistoroquandoriuniti tutti i cardinaliil papa entrò nella18
salaegli volse subito gli occhi verso il cardinale Montaltoe si vide SuaSantità piangere; in quanto al cardinalei suoi
tratti non persero la loro abituale impassibilità.
Lo stupore raddoppiò quandonello stesso concistoroil cardinale Montaltoandò secondo il suo turno ad
inginocchiarsi davanti al trono di Sua Santitàper rendergli conto degliaffari di cui era incaricatoe il papaprima di
dargli la parolanon poté trattenere i singhiozzi. Quando Sua Santità fuin grado di parlarecercò di consolare il
cardinale promettendogli che sarebbe stata fatta pronta e severa giustizia diun così grave delitto. Ma il cardinaledopo
aver ringraziato molto umilmente Sua Santitàlo supplicò di non ordinareinchieste su quanto era accadutoaffermando
che per parte sua perdonava di cuore al responsabilechiunque fosse. Esubito dopo questa preghieraespressa in poche
paroleil cardinale passò ad esaminare gli affari di cui era incaricatocome se non fosse accaduto niente di
straordinario.
Gli occhi di tutti i cardinali presenti al concistoro erano fissi sul papa esu Montalto; esebbene sia certamente
assai difficile ingannare l'occhio esperto dei cortigianinessuno osò direche il volto del cardinale Montalto avesse
tradito la minima emozione assistendo così da vicino ai singhiozzi di SuaSantità chea dire il veroera completamente
sconvolto. Questa insensibilità stupefacente del cardinale Montalto non sismentì mai durante tutto il tempo della sua
relazione a Sua Santità. Al punto che il papa stesso ne rimase colpito eterminato il concistoronon poté fare a meno di
dire al cardinale di San Sistoil nipote favorito:
«Veramentecostui è un gran frate!»
Il comportamento del cardinale Montalto rimase lo stesso nei giornisuccessivi. Ricevettesecondo l'usole
visite di condoglianza dei cardinalidei prelati e dei principi romaniecon nessuno di loroquali che fossero i suoi
rapporti con luisi lasciò andare alla minima parola di dolore o dilamento. Con tuttidopo un breve ragionamento
sull'instabilità delle cose umaneconfortato ed avvalorato da sentenze ecitazioni tratte dalle Sacre Scritture o dai testi
dei Padripresto cambiava discorso e si metteva a parlare delle notiziedella vita cittadina o degli affari particolari del
personaggio con cui si trovavaproprio come se avesse voluto consolare isuoi consolatori.
Roma era soprattutto curiosa di quello che sarebbe accaduto durante la visitache doveva fargli il principe
Paolo Giordano Orsiniduca di Braccianoal quale la voce pubblicaattribuiva la morte di Felice Peretti. Il popolo
pensava che il cardinale Montalto non avrebbe potuto stare così vicino alprincipee parlargli faccia a facciasenza
lasciar trasparire qualche indizio dei propri sentimenti.
Quando il principe si recò dal cardinalec'era una folla enorme in strada epresso la porta; un grande numero di
cortigiani riempiva tutte le stanze della casatanto grande era lacuriosità di osservare in volto i due interlocutori. Ma
né nell'uno né nell'altronessuno poté notare qualcosa di particolare. Ilcardinale Montalto si uniformò a quanto
prescrivevano le regole della corte; il suo volto assunse un'espressione diviva cordialitàe il suo modo di rivolgere la
parola al principe fu estremamente affabile.
Un attimo doporisalendo in carrozzail principe Paolosolo con i suoicortigiani intiminon poté fare a meno
di direridendo: «In fatto è vero che costui è un gran frate!»come se avesse voluto confermare la verità della frase
sfuggita al papa qualche giorno prima.
I saggi hanno pensato che la condotta tenuta in quella circostanza dalcardinale Montalto gli abbia aperto la via
del trono; molti infatti si fecero di lui quest'idea: chesia per natura siaper virtùnon potesse o non volesse nuocere a
nessunobenché avesse molti motivi di essere irritato.
Felice Peretti non aveva lasciato niente di scritto a proposito di suamoglie; perciò essa fu costretta a tornare
nella casa dei genitori. Il cardinale Montalto le fece consegnareprimadella partenzai vestitii gioiellie in genere tutti
i regali che lei aveva ricevuto durante il matrimonio con suo nipote.
Tre giorni dopo la morte di Felice PerettiVittoriaaccompagnata dallamadreandò a stabilirsi nel palazzo del
principe Orsini. Alcuni dissero che le due donne furono spinte a questo passodalla preoccupazione per la loro sicurezza
personaleperché la corte sembrava ritenerle come colpevoli dicomplicità con l'omicidio commessoo almeno di
esserne state a conoscenza prima dell'esecuzione; altri pensarono (e ciò cheaccadde più tardi sembrò confermare
quest'idea) che fossero state indotte a questo per concludere il matrimoniocol principeche aveva promesso a Vittoria
di sposarla non appena non avesse più marito.
Tuttaviané allora né più tardinon si è mai saputo niente di chiarosull'autore della morte di Felicebenché
tutti sospettassero di tutti. Ma i più attribuivano quella morte al principeOrsini; tutti sapevano che era stato innamorato
di Vittoriane aveva dato segni inequivocabili; e il matrimonio che seguìne fu una grande provaperché la donna era di
una condizione talmente inferiore che soltanto la passione d'amore potevaelevarla fino alla parità matrimoniale. Il
popolo non fu affatto sviato da questi suoi pensieri da una letteraindirizzata al governatore di Romae che fu divulgata
pochi giorni dopo il fatto. La lettera era scritta a nome di CesarePalantieriun giovane di carattere focoso e che era
stato bandito dalla città.
Nella letteraPalantieri diceva che non era necessario che sua signoriaillustrissima si desse la pena di cercare
altrove l'autore della morte di Felice Perettidal momento che l'aveva fattouccidere proprio luiin seguito a certe
controversie intercorse tra loro qualche tempo prima.
Molti pensarono che quell'assassinio non era stato commesso senza il consensodella famiglia Accorambonie i
fratelli di Vittoria furono accusati di essere stati sedotti dall'ambizionedella parentela con un principe così ricco e
potente. Fu accusato soprattutto Marcelloa causa dell'indizio fornito dallalettera che aveva fatto uscire di casa lo
sventurato Felice. Si parlò male anche di Vittoriaquando la si videaccettare di andare ad abitare nel palazzo Orsini
come futura sposaproprio subito dopo la morte del marito. Si sosteneva cheera assai improbabile che una persona19
arrivasse cosìin un batter d'occhioa servirsi delle armi cortesenzaaver mai fatto usoalmeno per un po'delle armi
lunghe.
L'istruttoria sul delitto fu condotta da monsignor Porticigovernatore diRomaper ordine di Gregorio XIII. Ci
si trova soltanto che quel Domenicosoprannominato Mancinoarrestatodalla corteconfessae senza aver subito la
tortura (tormentato)nel secondo interrogatorioin data 24 febbraio1582:
«Che la madre di Vittoria fu la causa di tuttoe che fu assecondata dalla camerieradi Bologna chesubito dopo
il delittosi rifugiò nella cittadella di Bracciano (appartenente alprincipe Orsini e in cui la corte non osò entrare)e che
gli esecutori del crimine furono Marchione di Gubbio e Paolo Barca diBraccianolancie spezzate (soldati) di un signore
del qualeper degne ragioninon si è inserito il nome.»
A queste degne ragioni si aggiunserocredole preghiere delcardinale Montaltoche chiese con insistenza che
le ricerche non procedessero oltree in effetti del processo non si parlòneanche più. Il Mancino fu messo fuori di
prigione con il precetto (ordine) di tornare immediatamente al suopaesepena la vitae di non allontanarsene mai senza
un apposito permesso. La scarcerazione di quest'uomo avvenne nel 1583ilgiorno di San Luigie poiché quel giorno
era anche quello della nascita del cardinale Montaltoquella circostanza miconferma l'idea che la faccenda si sia
conclusa così per suo intervento. Sotto un governo debole come quello diGregorio XIIIun tale processo poteva avere
conseguenze molto spiacevoli e senza contropartita.
Le ricerche della corte furono così sospesema il papa Gregorio XIIInon volle acconsentire a che il principe
Paolo Orsiniduca di Braccianosposasse la vedova Accoramboni. SuaSantitàdopo aver inflitto a quest'ultima una
specie di prigioneal principe e alla vedova dette il precetto di noncontrarre matrimonio senza un apposito permesso
suo O dei suoi successori.
Gregorio XIII morì (all'inizio del 1585)e poiché alcuni dottori in leggeconsultati dal principe Paolo Orsini
avevano risposto che secondo loro il precetto era annullato dallamorte di chi l'aveva impostoegli decise di sposare
Vittoria prima dell'elezione del nuovo papa. Ma il matrimonio non potéessere celebrato così presto come il principe
desideravain parte perché egli voleva il consenso dei fratelli di Vittoria(e avvenne che Ottavio Accorambonivescovo
di Fossombronenon volle mai concedere il suo)e in parte perché non siriteneva che l'elezione del successore di
Gregorio XIII potesse avvenire tanto rapidamente. Il fatto è che ilmatrimonio si fece nello stessogiorno in cui venne
eletto papa il cardinale Montaltocosì interessato a questa vicendacioèil 24 aprile 1585sia per effetto del casosia
che il principe volesse dimostrare che non temeva la corte sotto ilnuovo papacome non l'aveva temuta sotto Gregorio
XIII. Quel matrimonio offese profondamente l'animo di Sisto V (questo fu ilnome scelto dal cardinale Montalto); egli
aveva già abbandonato il modo di pensare che si conviene a un monacoedaveva elevato il suo spirito all'altezza del
grado nel quale Dio l'aveva appena collocato.
Il papa tuttavia non manifestò alcun segno di collera; solo chequando ilprincipe Orsiniquel giorno stessosi
presentò con la folla dei signori romani per baciargli il piedee conl'intenzione segreta di leggere nel volto del Santo
Padre che cosa potesse aspettarsi o temere da quell'uomo fino ad allora cosìpoco conosciutosi accorse che non era più
il tempo di scherzare. Dopo che il nuovo papa ebbe fissato il principe in unmodo singolaresenza rispondere una sola
parola ai complimenti che gli aveva rivoltodecise di indagareimmediatamente quali fossero le intenzioni di Sua
Santità nei suoi confronti.
Attraverso Ferdinandocardinale de' Medici (fratello della sua primamoglie)e dell'ambasciatore cattolico
chiese ed ottenne dal papa un'udienza nella sua camera: lì rivolse a SuaSantità un discorso ben calcolato esenza
neanche accennare alle cose passatesi rallegrò con lui per la sua nuovadignitàe gli offrìda fedelissimo vassallo e
servitoreogni suo avere ed ogni sua forza.
Il papa lo ascoltò con la massima serietàed alla fine gli rispose chenessuno più di lui desiderava che la vita e
le azioni di Paolo Giordano Orsini fossero nel futuro degne del sangue Orsinie di un vero cavaliere cristiano; che
quanto al suo rapporto passato con la Santa Sede e con la persona di luipapanessuno poteva dirglielo meglio della sua
stessa coscienza; che tuttavia luiprincipepoteva essere certo di unacosacioè che nello stesso modo in cui gli
perdonava volentieri ciò che aveva potuto fare contro Felice Peretti econtro lui stesso cardinale Montaltocosì non gli
avrebbe perdonato mai quanto avrebbe potuto fare in avvenire contro il papaSisto; e che perciò lo impegnava a cacciare
immediatamente dalla sua casa e dai suoi Stati tutti i banditi (esiliati) e imalfattori ai quali fino ad allora aveva
concesso asilo.
Qualunque tono usasseSisto V era sempre di una singolare efficaciamaquando era irritato e minacciososi
sarebbe detto che i suoi occhi lanciassero folgori. Sta di fatto che ilprincipe Orsinida sempre abituato ad essere temuto
dai papida questo modo di parlare del papatale che non ne aveva mai uditouno simile nel corso di tredici annifu
costretto a pensare così seriamente ai propri affari cheappena uscito dalpalazzo di Sua Santitàcorse dal cardinale de'
Medici a raccontargli cosa era accaduto. Poisu consiglio del cardinaledecise di congedare - senza il minimo indugio -
tutti quegli uomini ricercati dalla giustizia ai quali offriva asilo nel suopalazzo e nei suoi Statie pensò di trovare al più
presto un pretesto credibile per uscire immediatamente dai territoricontrollati dal potere di un pontefice così risoluto.
Bisogna sapere che il principe Paolo Orsini era diventato straordinariamentegrasso; le sue gambe erano più
grosse del corpo di un uomo normaleed una di queste gambe enormi eracolpita dalla malattia chiamata la lupa
chiamata così perché bisogna nutrirla con una grande quantità di carnefrescache viene applicata sulla parte malata;
altrimenti l'umore malignonon trovando carne morta da divorareaggredirebbe le carni vive che circondano la piaga.20
Il principe prese a pretesto questa malattia per recarsi ai celebri bagni diAbanopresso Padovapaese
dipendente dalla repubblica di Venezia; partì con la sua nuova sposa versola metà di giugno. Abano era per lui un porto
molto sicuro; infattida molti anni la casata Orsini era legata allarepubblica di Venezia da favori reciproci.
Giunto in quel paese sicuroil principe non pensò più ad altro che agodere dei piaceri di diversi soggiorni; a
questo scopo affittò tre magnifici palazzi: uno a Veneziail palazzoDandolonella via della Zecca; il secondo a Padova
e fu il palazzo Foscarinisulla magnifica piazza chiamata l'Arena; scelse ilterzo a Salòsulla deliziosa riva del lago di
Garda: quest'ultimo era appartenuto in altri tempi alla famigliaSforza-Pallavicini.
I signori di Venezia (il governo della repubblica) appresero con piacerel'arrivo di un tale principe nei loro
Statie gli offrirono subito una nobilissima condotta (cioè unasomma considerevole da pagarsi annualmentee che
doveva essere usata dal principe per organizzare un corpo di due o tremilauomini al servizio della Repubblicadi cui
avrebbe avuto il comando). Il principe respinse molto in frettaquell'offerta; fece rispondere ai senatori chepur
sentendosi portato di cuore a servire la Serenissima Repubblicaperinclinazione naturale e per tradizione di famiglia
tuttaviatrovandosi attualmente alle dipendenze del re cattolico non glisembrava opportuno accettare un altro ingaggio.
Una risposta così decisa raffreddò alquanto l'animo dei senatori:inizialmente avevano pensato di riservarglial suo
arrivo a Veneziaaccoglienze pubbliche molto onorevoli; dopo la sua rispostadecisero di lasciarlo arrivare come un
semplice privato.
Il principe Orsiniinformato di tuttodecise di non andarci neppureaVenezia. Era già nei dintorni di Padova:
fece un giro per quella splendida contradae con tutto il suo seguito sirecò nella casa che gli era stata preparata a Salò
sulle rive del lago di Garda. Vi passò l'intera estatetra gli svaghi piùgradevoli e svariati.
Quando giunse il momento di cambiare (soggiorno)il principe fece qualchebreve viaggiodopo di che gli
sembrò di non sopportar più la fatica come in altri tempitemette per lapropria salute; infine pensò di andare a passare
qualche giorno a Veneziama ne fu sconsigliato da sua moglieVittoriachelo convinse a rimanere ancora a Salò.
Ci fu chi pensò che Vittoria Accoramboni si rendesse conto del pericolo chestava correndo il principe suo
maritoe che lo abbia convinto a rimanere a Salò con l'idea di portarlopiù tardi fuori d'Italiaper esempio in qualche
libera cittàtra gli Svizzeri; in questo modoin caso di morte delprincipeessa avrebbe posto in salvo se stessa e i suoi
beni personali.
Che questa congettura fosse fondata o noil fatto è che non accadde nientedi tutto ciòperché il principe
trovandosi nuovamente indisposto a Salòil 10 novembre ebbe un chiaropresentimento di quanto stava per accadere.
Ebbe pietà della sua sventurata moglie: la vedevanel più bel fiore dellagioventùrestare priva di reputazione e
di mezziodiata dai principi che regnavano in Italiapoco amata dagliOrsini e senza la speranza di un nuovo
matrimonio dopo la sua morte. Da signore generoso e lealedi sua iniziativafece un testamentocon cui volle garantire
la fortuna di quella sventurata. Le lasciò la notevole somma di 100.000piastreoltre a tutti i cavallicarrozze e mobili di
cui si serviva in quel viaggio. Il resto del patrimonio lo lasciò a VirginioOrsinisuo figlio unicoche aveva avuto dalla
prima mogliesorella di Francesco Igranduca di Toscana (la stessa che feceuccidere per infedeltàcon il consenso dei
fratelli di lei).
Ma quanto sono incerte le previsioni umane! Le disposizioni che Paolo Orsinicredeva dovessero garantire una
perfetta sicurezza a quella sventurata giovane donna si trasformarono per leiin precipizi e rovina.
Firmato il testamentoil principe si sentì un po' meglio il 12 novembre. Lamattina del 13 gli fecero un salasso
e i medicisperando soltanto in una dieta severaprescrissero nella manierapiù decisa che assolutamente non doveva
mangiare.
Ma erano appena usciti dalla camera che il principe pretese che gli venisseservito il pranzo; nessuno osò
contraddirloed egli mangiò e bevve come d'abitudine. Appena terminato ilpastoperse conoscenza e due ore prima del
tramonto era morto.
Dopo questa morte così rapidaVittoria Accoramboniaccompagnata da suofratello Marcello e da tutta la
corte del principe defuntosi recò a Padovanel palazzo Foscarinipressol'Arenalo stesso che il principe Orsini aveva
affittato.
Poco dopo il suo arrivofu raggiunta dal fratello Flaminioche godeva delpieno favore del cardinale Farnese.
Si occupò allora dei passi necessari per ottenere il pagamento dei lascitidel maritoche ammontavano a 60.000 piastre
effettiveda pagarsi entro due annie ciò indipendentemente dalla dotedalla contro-doteda rutti i gioielli e mobili che
erano già nelle sue mani. Nel suo testamento il principe Orsini avevaordinato che venisse comprato alla duchessaa
Roma o in qualunque altra cittàa sua sceltaun palazzo del valore di10.000 piastre ed una vigna (casa di campagna)
del valore di 6.000; aveva inoltre prescritto che si provvedesse alla suatavola e a tutto il suo servizio come si conveniva
ad una donna del suo rango. Il servizio doveva essere di quaranta domesticicon un corrispondente numero di cavalli.
La signora Vittoria riponeva molte speranze nei favori dei principi diFerraradi Firenze e di Urbinoe in quelli
del cardinale Farnese e de' Medici nominati esecutori testamentari daldefunto principe.
È da notare che il testamento era stato redatto a Padova e sottoposto ailumi degli eccellentissimi Parrizolo e
Menocchioprimi professori di quell'università ed oggi giureconsulti cosìfamosi.
Il principe Luigi Orsini arrivò a Padova per sbrigare tutto quello che c'erada fare nei riguardi del duca defunto
e della sua vedovae recarsi quindi ad assumere il governo dell'isola diCorfùcui era stato nominato dalla repubblica
serenissima.
Tra la signora Vittoria e il principe Luigi sorse subito una difficoltà aproposito dei cavalli del duca defunto; il
duca diceva che non erano propriamente dei mobilinel senso comune dellaparola; ma la duchessa dimostrò che21
dovevano essere considerati dei veri e propri mobilie fu convenuto che neavrebbe mantenuto l'uso fino ad una
decisione ulteriore; essa dette per garante il signor Soardi di Bergamocondottiero della Signoria di Venezia
gentiluomo molto ricco e tra i primi della sua patria.
Sorse un'altra difficoltà a proposito di una certa quantità di vasellamed'argento che il duca defunto aveva
consegnato al principe Luigi come pegno di una somma d'argento che questi gliaveva prestato. Tutto fu risolto per via
di giustiziaperché il serenissimo (duca) di Ferrara si adoperava affinchéle ultime volontà del defunto principe Orsini
fossero interamente eseguite.
Questo secondo affare fu discusso il 23 dicembreche era una domenica.
La notte seguentequaranta uomini entrarono nella casa della suddettasignora Accoramboni. Erano vestiti di
abiti di tela di foggia stravagantee combinati in modo da non poter esserericonosciuti se non dalla voce; quando si
chiamavano tra lororicorrevano a nomi di gergo.
Cercarono subito la duchessa etrovatalauno di loro le disse: «Orabisogna morire.»
E senza concederle un solo istante malgrado che lei chiedesse di potersiraccomandare a Diocon un pugnale
sottile la trafisse sopra il seno sinistroe - muovendo il pugnale in ognidirezione - quel crudele chiese più volte alla
sventurata di dirgli se le toccava il cuore; finalmente essa esalò l'ultimorespiro. Intanto gli altri cercavano i fratelli della
duchessa; unoMarcelloebbe salva la vita perché non fu trovato in casa;l'altro fu trafitto da cento colpi. Gli assassini
lasciarono i morti per terratutta la casa piena di pianti e grida; edopoessersi impadroniti della cassetta che conteneva i
gioielli e il denarose ne andarono. La notizia giunse rapidamente aimagistrati di Padova; essi fecero riconoscere i
corpie riferirono a Venezia.
Durante tutta la giornata di lunedìimmensa fu l'affluenza al suddettopalazzo e alla chiesa degli Eremiti per
vedere i cadaveri. I curiosi erano mossi a pietàsoprattutto vedendo laduchessa così bella; piangevano la sua sventura
et dentibus fremebant (e digrignavano i denti) contro gli assassini; manon si conoscevano ancora i loro nomi.
La cortesospettando - sulla base di indizi chiari - che la cosafosse avvenuta su ordineo almeno con il
consensodel suddetto principe Luigilo fece chiamaree poiché lui volevaentrare in corte (nel tribunale)
dell'illustrissimo capitano con un seguito di quaranta uomini armatiglivennero chiuse le porte in facciae gli fu detto
che sarebbe potuto entrare soltanto con tre o quattro uomini. Manel momentoin cui questi passavanogli altri si
precipitarono dietro di lorospinsero le guardie ed entrarono tutti.
Il principe Luigigiunto di fronte all'illustrissimo capitanosi lamentòdi un tale affrontoaggiungendo che non
era mai stato trattato così da nessun principe sovrano. L'illustrissimocapitano gli chiese se sapeva qualcosa sulla morte
della signora Vittoriae cosa era accaduto la notte primalui rispose disìche aveva fatto avvisare la giustizia. Si volle
mettere per iscritto la sua risposta; lui rispose che gli uomini del suorango non erano tenuti a questa formula e cheper
la stessa ragionenon dovevano essere interrogati.
Il principe Luigi chiese il permesso di inviare un corriere a Firenze con unalettera per il principe Virginio
Orsiniin cui informarlo del processo e del delitto intervenuto. Mostrò unalettera falsache non era quella veraed
ottenne quanto chiedeva.
Ma l'uomo da lui inviato fu arrestato fuori città e accuratamenteperquisito; fu trovata la lettera che il principe
Luigi aveva mostratoed una seconda nascosta in uno stivale del corrieredel seguente tenore:
«AL SIGNORE VIRGINIO ORSINI
Illustrissimo Signore
Abbiamo eseguito quanto era stato convenuto tra noie in tal modo cheabbiamo ingannato l'illustrissimo
Tondini (evidentemente il nome del capo della corte che avevainterrogato il principe)tanto che qui vengo considerato
l'uomo più onesto del mondo. Ho fatto la cosa di personacosì non mancatedi inviare immediatamente la gente che
sapete.»
La lettera impressionò i magistratiche si affrettarono ad inviarla aVenezia; su loro ordinele porte della città
furono chiusee le mura guernite di soldati giorno e notte. Fu pubblicato unavviso che sanzionava pene severe per
chiunque - sapendo qualcosa degli assassini - non comunicasse alla giustiziaquello che sapeva. Quegli tra gli assassini
che avessero testimoniato contro uno di loro non avrebbero avuto fastidianzi avrebbero ricevuto una somma in denaro.
Maverso le sette di nottela vigilia di Natale (il 24 dicembreversomezzanotte)Alvise Bragadin giunse da Venezia
con ampi poteri da parte del Senatoe l'ordine di arrestare vivi o mortiaqualunque costoil suddetto principe e tutti i
suoi.
Il suddetto signor avogador Bragadinil signor capitano e il signor podestàsi riunirono nella fortezza.
Pena il patibolo (della forca)si ordinò a tutta la milizia a piedie a cavallo di recarsi bene armata intorno alla
casa del suddetto principe Luigiche era vicina alla fortezza e attigua allachiesa di Sant'Agostino sull'Arena.
Giunto il giorno (che era quello di Natale)in città fu pubblicato uneditto che esortava i figli di San Marco a
correre in armi alla casa del signor Luigi; coloro che non avessero armi sirecassero alla fortezzadove ne avrebbero
ricevute a volontà; l'editto prometteva una ricompensa di 2000 ducati a chiavesse consegnato alla corte il suddetto
signor Luigivivo o mortoe 500 ducati per ognuno dei suoi. Inoltresiordinava a chiunque fosse sprovvisto di armi di
non avvicinarsi alla casa del principeper non essere di ostacolo a chicombattesse nel caso che il principe ritenesse
opportuno fare qualche sortita.22
Nello stesso tempofurono piazzati fucili da posizionemortai e artiglieriapiù pesante sulle vecchie muradi
fronte alla casa occupata dal principee altrettanto si fece sulle murenuovesulle quali dava la parte posteriore della
casa. Su quel lato era stata disposta la cavalleriain modo che potessemuoversi liberamente in caso di necessità. Sulle
rive del fiumetutti erano impegnati a disporre banchiarmadicarri ealtri mobili adatti a costituire ripari. In questo
modo si pensava di ostacolare i movimenti degli assediatiqualoraprendessero l'iniziativa di marciare in ordine serrato
contro il popolo. Quei ripari dovevano inoltre proteggere gli artiglieri e isoldati dai colpi di archibugio degli assediati.
Poi furono piazzate delle barche sulla rivadi fronte e sui fianchi dellacasa del principecariche di uomini
armati di moschetti e di altre armi adatte a disturbare il nemico qualoratentasse una sortita: contemporaneamente
vennero erette barricate in tutte le strade.
Durante quei preparativiarrivò una letterascritta in termini assaicorrettiin cui il principe si lamentava di
essere giudicato colpevole e di vedersi trattato da nemicoanzi da ribelleprima che si fosse tenuto il processo. La
lettera era stata stilata da Liverotto.
Il 27 dicembretre gentiluominitra i principali della cittàfuronoinviati dai magistrati al signor Luigi che
aveva con sénella casaquaranta uominitutti vecchi soldati espertinell'uso delle armi.
I tre gentiluomini dichiararono al principe che i magistrati erano decisi acatturarlo; lo esortarono ad arrendersi
aggiungendo checomportandosi in quel modoprima si passasse alle vie difattopoteva sperare nella loro
misericordia. Il signor Luigi rispose che seinnanzituttofossero statetolte le guardie schierate intorno alla sua casasi
sarebbe recato dai magistrati per trattare la cosaaccompagnato da due o tredei suoi ed a condizione di essere libero di
rientrare nella sua casa.
Gli ambasciatori raccolsero quelle proposte scritte di suo pugnoe tornaronodai magistrati che rifiutarono le
sue condizionispecialmente su consiglio dell'illustrissimo Pio Enea edi altri nobili presenti. Gli ambasciatori
tornarono dal principe e gli annunciarono chese non si fosse semplicementearresogli avrebbero raso al suolo la casa
con l'artiglieriaal che lui rispose che preferiva la morte a quell'atto disottomissione.
I magistrati dettero il segnale della battaglia esebbene fosse possibiledistruggere quasi interamente la casa
con una sola scaricasi preferì agire all'inizio con una certa cautelapervedere se gli assediati avrebbero accettato di
arrendersi.
Questo piano ha avuto successorisparmiando a San Marco molto denaro chesarebbe stato speso per
ricostruire le parti distrutte del palazzo attaccato; tuttavia non è statoapprovato da tutti. Se gli uomini del signor Luigi si
fossero decisi senza esitare e si fossero lanciati fuori dalla casailsuccesso sarebbe stato molto incerto. Erano vecchi
soldati; non mancavano di munizioniné di arminé di coraggioesoprattutto un interesse enorme a vincere; non era
forse meglio per lorose le cose si fossero messe malemorire per un colpodi archibugio piuttosto che per mano del
boia? E poicon chi avevano a che fare? con dei poveri assedianti pocopratici di armie i signori in questo caso si
sarebbero pentiti della propria clemenza e della propria naturale bontà.
Si cominciò dunque col tirare sul colonnato di fronte alla casa; poitirando sempre più in altofu distrutto il
muro della facciata posteriore. Intanto quelli di dentro tirarono molti colpidi archibugiosenza altro risultato che ferire
alle spalle un popolano.
Il signor Luigi gridava con grande impeto: «Battaglia! battaglia! guerra!guerra!» Era occupatissimo a far
fondere palle con lo stagno dei piatti ed il piombo dei vetri delle finestre.
Minacciava di fare una sortitama gli assedianti presero delle nuove misuree venne fatta avanzare artiglieria
più pesante.
Al primo colpo che questa tiròfece crollare un grande pezzo della casaeun certo Pandolfo Leupratti da
Camerino cadde tra le rovine. Era un uomo molto coraggioso ed un banditoassai importante. Era bandito dagli Stati
della Santa Chiesae sulla sua testa era stata posta una taglia di 400piastre dall'illustrissimo signor Vitelli in seguito
alla morte di Vincenzo Vitelliche era stato attaccato nella sua carrozza eucciso a colpi di archibugio e di pugnalead
opera del principe Luigi Orsini con l'aiuto del suddetto Pandolfo e dei suoicompagni. Completamente stordito per la
cadutaPandolfo non poteva muoversi; un servitore dei signori Ca' di Listagli si avvicinò armato di pistolae molto
coraggiosamente gli tagliò la testa che si affrettò a portare alla fortezzae a consegnare ai magistrati.
Poco dopoun altro colpo di artiglieria fece cadere un'ala della casaeinsieme con quella il conte
Montemelinoda Perugiache morì tra le rovinecompletamente maciullatodal proiettile.
Si vide poi uscire dalla casa un personaggio chiamato il colonnello Lorenzonobile di Camerinouomo molto
ricco e che in numerose occasioni aveva dato prove di valore ed era moltostimato dal principe. Egli decise di non
morire del tutto invendicato; volle sparare col suo fucilema nonostante larotella girasseaccadde cheforse per
intervento divinola polvere non prese fuocoe in quell'istante egli ebbeil corpo trapassato da una palla. Il colpo era
stato sparato da un povero diavoloripetitore nelle scuole di San Michele. Ementreper guadagnarsi la ricompensa
promessaquesti si avvicinava per tagliargli la testafu preceduto da altripiù svelti e soprattutto più forti di luiche
presero la borsail fucileil denaro e gli anelli del colonnelloe glitagliarono la testa.
Morti costoronei quali il principe Luigi riponeva la maggiore fiduciaeglirestò molto turbatoe non lo si vide
più compiere alcun gesto.
Il signor Filelfisuo maestro di casa e segretario in abiti civilida un balcone con un fazzoletto bianco fece
segno che si arrendeva. Uscì e fu condotto alla cittadellacondottosottobracciocome dicono si usi in guerrada
Anselmo Suardoluogotenente dei signori (magistrati). Interrogatoimmediatamentedisse che non aveva nessuna colpa23
di quanto era accadutoperché era giunto solo alla vigilia di Natale daVeneziadove si era fermato molti giorni per gli
affari del principe.
Gli chiesero quanta gente avesse con sé il principe; rispose: venti o trentapersone.
Gli chiesero i loro nomied egli rispose che ce n'erano otto o dieci cheessendo persone di qualitàcome lui
mangiavano alla tavola del principee di questi conosceva i nomima quantoagli altrivagabondi e da poco al servizio
del principenon li conosceva particolarmente.
Fece i nomi di tredici personecompreso il fratello di Liverotto.
Poco dopol'artiglieria piazzata sulle mura della città cominciò asparare. I soldati si appostarono nelle case
adiacenti a quella del principe per impedire la fuga dei suoi uomini. Ilsuddetto principeche aveva corso gli stessi
pericoli dei due di cui abbiamo raccontato la mortedisse a quanti glistavano intorno di resistere fino a quando non
vedessero uno scritto di suo pugno accompagnato da un certo segnale; quindisi arrese a quell'Anselmo Suardo già
nominato. E poiché non fu possibile condurlo in carrozza - come eraprescritto - a causa della gran folla di popolo e
delle barricate nelle stradefu deciso che andasse a piedi.
Camminò in mezzo agli uomini di Marcello Accoramboni: era circondato daisignori condottieriil
luogotenente Suardoaltri capitani e gentiluomini della cittàtutti benearmati. Dietro a lorouna buona compagnia di
uomini d'arme e soldati della città. Il principe Luigi camminava vestito dibrunolo stiletto alla cinturail mantello
rialzato su un braccio con aria molto elegante; con un sorriso pieno disdegno disse: «Se avessi combattuto!» volendo
più o meno far capire che avrebbe vinto. Condotto davanti ai signorisubitoli salutò e disse:
«Signorisono prigioniero di questo gentiluomo» e indicò il signorAnselmo«e sono molto dispiaciuto di
quanto è successo e che non è dipeso da me.»
Il capitano ordinò che gli fosse tolto lo stiletto che aveva al fianco;allora si appoggiò ad un balconee
cominciò a tagliarsi le unghie con un paio di forbicine che vi trovò.
Gli chiesero quali persone si trovavano nella sua casa; tra gli altri nominòil colonnello Liverotto e il conte
Montemelino di cui si è parlato primaaggiungendo che avrebbe dato 10.000piastre per riscattare l'unoe che per l'altro
avrebbe dato il suo stesso sangue. Chiese di essere messo in un luogoconveniente ad un uomo della sua condizione.
Definito l'accordodi suo pugno scrisse ai suoiordinando loro diarrendersie dette il proprio anello come segno di
riconoscimento. Al signor Anselmo disse che gli donava la sua spada e il suofucilepregandoloquando si sarebbero
trovate le sue armi nella casadi servirsene per amor suotrattandole comearmi di un gentiluomo e non di un qualunque
volgare soldato.
I soldati entrarono nella casala perquisirono con curae immediatamente sifece l'appello degli uomini del
principetrentaquattroche poi furono condotti a due a due nella prigionedel palazzo. I morti furono lasciati in preda ai
canie ci si affrettò a render conto di tutto a Venezia.
Ci si accorse che molti uomini del principe Luigicomplici del fattonon sitrovavano; fu proibito di dar loro
asilopena - per chi contravvenisse - la demolizione della casa e laconfisca dei beni; chi li avesse denunciati avrebbe
ricevuto cinquanta piastre.
In questo modose ne trovarono molti.
Da Venezia fu inviata una fregata a Candiaportando al signor Latino Orsinil'ordine di tornare
immediatamente per un affare di grande importanzae si ritiene che perderàil suo incarico.
Ieri mattinagiorno di Santo Stefanotutti si aspettavano di veder morireil suddetto principe Luigio di sentir
raccontare che era stato strangolato in prigione; si fu generalmente stupitiche non fosse andata cosìvisto che non è un
uccello da tenere in gabbia troppo a lungo. Ma la notte seguente fu fatto ilprocessoe il giorno di San Giovanniun po'
prima dell'albasi seppe che il suddetto signore era stato strangolato edera morto molto ben disposto. Senza perdere
tempo il suo corpo fu trasportato nella cattedraleaccompagnato dal clero diquella chiesa e dai padri gesuiti. Per tutto il
giorno fu lasciato su una tavola al centro della chiesaper servire daspettacolo al popolo e da esempio agli inesperti.
L'indomani il suo corpo fu portato a Veneziacome egli aveva ordinato nelsuo testamentoe lì fu sepolto.
Il sabato furono impiccati due dei suoi uomini; il primo e più importante fuFurio Savornianol'altro un
individuo di poco conto.
Il lunedìil penultimo giorno dell'anno suddettone furono impiccatitredici tra cui parecchi che erano
nobilissimi; altri dueuno detto il capitano Splendiano e l'altro il contePaganellofurono condotti per la piazza e
leggermente attanagliati; arrivati sul luogo del suppliziofurono percossicon le mazzeebbero la testa rotta e furono
squartati quando erano ancora quasi vivi. Quegli uomini erano nobili eprimadi darsi al maleerano molto ricchi. Si
dice che il conte Paganello sia stato quello che ammazzò la signoraVittoriacon la crudeltà che è stata raccontata. A ciò
si obietta che il principe Luiginella lettera succitatadichiara di averfatto la cosa di sua mano; ma forse fu per
vanagloriacome quella che mostrò a Roma facendo assassinare il Vitellioppure per meritare ancora di più il favore
del principe Virginio Orsini.
Il conte Paganelloprima di ricevere il colpo mortalefu trafitto a piùriprese con un coltello nella parte sinistra
del pettoper toccargli il cuore come lui aveva fatto a quella poverasignora. Perdeva dal petto un fiume di sangue.
Visse così per più di una mezzoracon grande stupore di tutti. Era un uomodi quarantacinque anni che mostrava una
grande forza.
Le forche dei patiboli sono ancora in piedi per sbrigare i diciannove cherestanoil primo giorno che non sarà
di festa. Ma poiché il boia è molto stancoe il popolo è come in agoniaper aver visto tanti mortidurante questi due
giorni l'esecuzione è rinviata. Non si ritiene che qualcuno venga lasciatoin vita. Forsetra le persone del seguito del24
principe Luigifarà eccezione il solo signor Filelfisuo maestro di casache si dà un gran da fareper dimostrare che
non ha preso parte al fattoe in effetti la cosa è importante per lui.
Anche tra i più anziani di questa città di Padovanessuno ricorda che maicon sentenza più giustasi sia
proceduto contro la vita di tante persone in una volta sola. E i signori (diVenezia) si sono procurati fama e reputazione
presso le nazioni più civili.
(Aggiunto da un'altra mano)
Francesco Filelfisegretario e maestro di casafu condannato aquindici anni di prigione. Il coppiere Onorio
Adami da Fermocome altri duead un anno di prigione; altri sette furonocondannati alle galere coi ferri ai piedi; e
sette infine furono rimessi in libertà.
I CENCI
1599
Il don Giovanni di Molière è senza dubbio galantema innanzi tutto uomo dimondo; prima di abbandonarsi
all'inclinazione irresistibile che lo spinge verso le belle donnetiene aconformarsi a un certo modello idealevuol essere
fra tutti il più ammirato alla corte di un giovane re galante e spiritoso.
Il don Giovanni di Mozart è già più vicino alla naturae meno francesepensa di meno all'opinione altrui; non
si preoccupaprima di tuttodi parestredi far bella figuracomedice il barone di Foeneste del d'Aubigné. Abbiamo
solo due ritratti del don Giovanni italianoquale dovette mostrarsi in quelbel paese nel XVI secoloall'alba della
rinascente civiltà.
Di questi due ritrattice n'è uno che non posso assolutamente farconoscereil nostro secolo è troppo
formalista; gioverà ricordare le famose parole che ho sentito ripetere tantevolte da lord Byron: This age of cant.
Quest'ipocrisia così noiosa e che non inganna nessuno ha l'immenso vantaggiodi offrire qualche argomento di
conversazione agli sciocchi: si scandalizzano perché si è osato dire la talcosa; perché si è osato ridere della talaltraecc.
Il suo svantaggio è di restringere infinitamente il campo della storia.
Se il lettore ha la bontà di permettermelogli presenteròin tuttaumiltàuna notizia storica sul secondo dei don
Giovanni di cui è possibile parlare nel 1837; si chiamava Francesco Cenci.
Perché il don Giovanni possa esisterebisogna che nel mondo vi sial'ipocrisia. Don Giovanni sarebbe stato un
effetto senza causa nell'antichità; la religione era una festaesortava gliuomini al piacere; come avrebbe potuto
condannare degli esseri dediti unicamente ad un certo piacere? Solo ilgoverno invitava ad astenersi; proibiva quanto
poteva nuocere alla patriacioè al beninteso interesse di tuttie non quelche può nuocere all'individuo che agisce.
Ad Atenechiunque avesse la passione delle donne e molto denaro potevaquindi essere un don Giovanni
nessuno ci trovava da ridire; nessuno pensava che questa vita è una valle dilacrimee che è cosa meritoria infliggersi
delle sofferenze.
Non credo che il don Giovanni ateniese potesse arrivare fino al delitto cosìrapidamente come il don Giovanni
delle monarchie moderne; gran parte del suo piacere consiste nello sfidarel'opinione pubblicamentreda giovaneha
esordito immaginando di sfidare soltanto l'ipocrisia.
Violare le legginella monarchia tipo Luigi XVtirare una fucilata a uncarpentiere e farlo ruzzolare giù dal
tettonon è forse una dimostrazione che si vive nella familiarità delprincipeche si ha un'ottima educazionee ci si
burla altamente del giudice? Burlarsi del giudice non è forse ilprimo passola prima prova del piccolo don Giovanni al
suo debutto?0
Da noile donne non sono più di modaper questo i don Giovanni sono rari;ma quando ce n'erano
cominciavano sempre col cercar piaceri molto naturalipur vantandosi disfidare quelle chenella religione dei
contemporaneisembravano loro delle idee non fondate sulla ragione. Soltantopiù tardiquando comincia a pervertirsi
il don Giovanni trova una squisita voluttà nello sfidare le opinioni chesembrano anche a lui giuste e ragionevoli.
Questo passaggio doveva essere molto difficile nell'antichitàe solo aitempi degli imperatori romanidopo
Tiberio e Caprisi trovano dei libertini che amano la corruzione per sestessacioè per il piacere di sfidare le ragionevoli
opinioni dei loro contemporanei.
Sicché è alla religione cristiana che va attribuitaa mio avvisolapossibilità del personaggio satanico di don
Giovanni. Fu senza dubbio questa religione a insegnare al mondo che un poveroschiavoun gladiatoreaveva un'anima
assolutamente egualein potenzaa quella dello stesso Cesare; si deve adessaperciòla comparsa dei sentimenti più
delicati; io non dubitodel restoche presto o tardi questi sentimenti sisarebbero fatti strada in seno ai popoli. L'Eneide
è già molto più tenera dell'Iliade.
La dottrina di Gesù era quella dei filosofi arabi suoi contemporanei;l'unica novità che sia comparsa nel mondo
in seguito ai principi predicati da san Paoloè un corpo sacerdotaleassolutamente separato dal resto dei cittadinianzi
con opposti interessi.
Questo corpo si dedicò in modo esclusivo a coltivare e rafforzare il sentimentoreligioso; inventò illusioni e
abitudini per commuovere gli spiriti d'ogni classe socialedal rozzo pastoreal vecchio cortigiano navigato; seppe legare25
il suo ricordo alle dolci impressioni della prima infanzia; non lasciòpassare la più piccola epidemia o la più piccola
catastrofe senza approfittarne per raddoppiare la paura e il sentimentoreligiosoo almeno per costruire una bella chiesa
come la Salute a Venezia.
L'esistenza di questo corpo produsse un mirabile evento: san Leone papacheresistette senza forza fisica al
feroce Attila e alle sue schiere di barbari che avevano già atterrito laCinala Persia e le Gallie.
Cosìla religionecome quel potere assoluto temperato da canzonette chesi chiamava «monarchia francese»
ha prodotto fenomeni singolari che il mondoforsenon avrebbe mai veduto sefosse stato privato di queste due
istituzioni.
Fra questi fenomeni buoni o cattivima sempre singolari e curiosie cheavrebbero stupito AristotelePolibio
Augusto e gli altri grandi ingegni dell'antichitàpongo senza esitare ilcarattere tipicamente moderno di don Giovanni.
Èsecondo meun prodotto delle istituzioni ascetiche dei papivenuti dopo Lutero; perché Leone X e la sua corte (1506)
seguivano press'a poco gli stessi principi della religione ateniese.
Il Don Giovanni di Molière fu rappresentato all'inizio del regno diLuigi XIVil 15 febbraio 1665; questo
sovrano non era ancora bigottoe tuttavia la censura ecclesiastica fecesopprimere la scena del povero nella foresta. La
censuraper rafforzarsi un po'voleva persuadere il giovane recosìprodigiosamente ignoranteche la parola
giansenista era sinonimo di repubblicano.
L'originale è di uno SpagnoloTirso de Molina; una compagnia italiana nerecitava un'imitazione a Parigi verso
il 1004e faceva furore. È probabilmente la commedia più rappresentata nelmondo. Il fatto è che vi compaiono il
diavolo e l'amorel'inferno e l'esaltata passione per una donnacioèquanto vi è di più terribile e di più dolce per tutti gli
uomini che siano appena un po' al di sopra dello stato selvaggio.
Non sorprende che la figura di don Giovanni sia stata introdotta nellaletteratura da un poeta spagnolo. L'amore
occupa un gran posto nella vita di quel popolo; laggiùè una passioneverache si fa sacrificared'imperiotutte le altre
e perfinochi l'avrebbe detto? la vanità! Lo stesso avviene inGermania e in Italia. A ben vederesolo la Francia si è
completamente liberata da tale passioneche fa commettere tante follie aglistranieri: per esempiosposare una ragazza
poveracol pretesto che è bella e se ne è innamorati. In Francia leragazze prive di bellezza non sono prive di
ammiratori; siamo gente avveduta. Altrovesono ridotte a farsi monacheeper questo i conventi sono indispensabili in
Spagna. Le ragazze non hanno dote in quel paeselegge che ha mantenuto iltrionfo dell'amore. In Francial'amore non
si è forse rifugiato al quinto pianocioè tra le ragazze che non sisposano con la mediazione del notaio di famiglia?
Non è il caso di parlare del don Giovanni di lord Byronè soltanto un Faublasun bel giovane insignificante
sul quale piovono inverosimili fortune di tutti i generi.
È in Italiaquindie solo nel XVI secoloche dovette apparireper laprima voltaquesto carattere singolare. In
Italiadove nel XVI secolo una principessa dicevaassaporando con deliziaun gelatola sera di una giornata molto
calda: Peccato che non sia un peccato!
Questo sentimento costituiscesecondo mela base del carattere di donGiovanniecome si vedela religione
cristiana gli è necessaria.
A questo proposito un autore napoletano esclama: «È forse una cosa da nullasfidare il cieloe credere che in
quello stesso momento il cielo può ridurvi in cenere? Da qui l'estremavoluttàa quanto si dicedi avere un'amante
religiosadi una religiosità ardenteche sa benissimo di far maleechiede perdono a Dio con passionecosì come pecca
con passione».
Immaginiamo un cristiano estremamente perversonato a Roma nel momento incui il severo Pio V aveva
appena ripristinato o inventato una serie di pratiche minuziose assolutamenteestranee alla semplice morale che chiama
virtù solo ciò che è utile agli nomini. Un'inquisizioneinesorabiletalmente inesorabile che in Italia durò pocoe dovette
rifugiarsi in Spagnaera stata proprio allora rafforzata e faceva paura atutti. Per qualche annosi comminarono
gravissime pene per l'inosservanza o il vilipendio pubblico di quelle piccolepratiche minuzioseinnalzate al rango dei
doveri più sacri della religione; quel perverso Romano avrà alzato lespalle vedendo la massa dei cittadini tremare
davanti alle terribili leggi dell'inquisizione.
«Ebbene!» si sarà detto«sono l'uomo più ricco di Romacapitale delmondo; sarò anche il più coraggioso;
sbeffeggerò pubblicamente tutto ciò che la gente rispettae che è cosìlontano da quel che si deve rispettare.»
Perché un don Giovanniper essere taledev'essere uomo di coraggio epossedere lo spirito lucido e vivo che fa
veder chiaro nel moventi delle azioni umane.
Francesco Cenci si sarà detto: «Con quali azioni eloquentiio Romanonatoa Roma nel 1527proprio nei sei
mesi in cui i soldati luterani del conestabile di Borbone vi commiserocontro le cose santele più atroci profanazioni;
con quali azioni potrei far risaltare il mio coraggioe procurarminel modopiù completoil piacere di sfidare l'opinione
pubblica? Come potrei stupire i miei sciocchi contemporanei? Come potreiprocurarmi il vivissimo piacere di sentirmi
diverso da tutto questo volgo?»
Non era neppur concepibile per un Romanoe un Romano del medioevolimitarsia semplici parole. In nessun
paese le fanfaronate sono più disprezzate che in Italia.
L'uomo che poteva parlar così a se stesso si chiamava Francesco Cenci: fuucciso sotto gli occhi di sua figlia e
di sua moglieil 15 settembre 1598. Nulla di amabile ci resta di questo donGiovanniil suo carattere non fu affatto
addolcito e sminuito dal proposito di essereprima di tuttouomo dimondocome il don Giovanni di Molière.
Pensava agli altri uomini solo per affermare la sua superiorità su di essiservirsene per i suoi disegni o odiarli.
Il don Giovanni non ricava mai piacere dalle simpatiedalle dolcifantasticherie o illusioni di un cuore tenero. Ha26
bisognoprima di tuttodi piaceri che siano trionfiche possano esserveduti dagli altriche non possano essere negati;
gli ci vuole la lista spiegata dall'insolente Leporello davanti agli occhidella triste Elvira.
Il don Giovanni romano si è ben guardato dall'insigne goffaggine di fornirela chiave del suo caratteree di far
confidenze a un lacchècome il don Giovanni di Molière; è vissuto senzaconfidentie ha pronunciato soltanto le parole
utili per la realizzazione dei suoi progetti. Nessuno poté vedere inlui quei momenti di autentica tenerezza e di
seducente allegria che ci fanno perdonare al don Giovanni di Mozart; in unaparolail ritratto che ora vi presenterò è
atroce.
Per mia sceltanon avrei descritto questo carattere: mi sarei accontentatodi studiarloperché è più orribile che
bizzarro; ma confesso che mi è stato chiesto da certi compagni di viaggio aiquali non potevo rifiutare nulla. Nel 1823
ebbi la fortuna di visitare l'Italia con persone amabilie che nondimenticherò mai; come loro fui affascinato dal
meraviglioso ritratto di Beatrice Cenciche si vede a Romaa palazzoBarberini.
La galleria del palazzo è ora ridotta a sette o otto quadri; ma quattro sonodei capolavori: prima di tutto il
ritratto della celebre Fornarinal'amante di Raffaelloopera diRaffaello stesso. Questo ritrattosulla cui autenticità non
può elevarsi alcun dubbioperché ne esistono delle copie contemporaneeètutto diverso dalla figura chealla
pinacoteca di Firenzeè presentata come il ritratto dell'amante diRaffaelloed è stata incisasotto questo nomeda
Morghen. Il ritratto fiorentino non è nemmeno di Raffaello. In grazia diquesto grande nomeil lettore vorrà perdonare
la piccola digressione?
Il secondoprezioso ritratto della galleria Barberini è di Guido; è ilritratto di Beatrice Cencidi cui si vedono
tante cattive incisioni. Il grande pittore ha drappeggiato sul collo diBeatrice un lembo di panno insignificante: le ha
avvolto intorno al capo un turbante; avrebbe temuto di spingere la veritàfino all'orrorese avesse riprodotto con
esattezza l'abito che si era fatta fare per presentarsi all'esecuzionee icapelli in disordine di una povera ragazza di sedici
anni che si è appena abbandonata alla disperazione. La testa è soave ebellalo sguardo dolcissimo e gli occhi molto
grandi: hanno l'aria stupita d'una persona che sia stata sorpresa nel momentoin cui piangeva a calde lacrime. I capelli
sono biondi e molto belli. Questa testa non ha nulla della fierezza romana edella coscienza delle proprie forzequale si
scorge spesso nello sguardo sicuro «di una figlia del Tevere» comesi autodefiniscono con orgoglio le Romane.
Purtroppo le mezzetinte hanno dato nel rosso mattone durante il lungointervallo di duecentotrentotto anniche ci separa
dalla catastrofe di cui si leggerà ora il racconto.
Il terzo ritratto della galleria Barberini è quello di Lucrezia Petronimatrigna di Beatriceche fu giustiziata con
lei. È il tipo della matrona romana in tutta la sua bellezza e fierezzanaturale. I lineamenti sono grandi e la carnagione di
smagliante candorele sopracciglia nere e assai marcatelo sguardo èimperioso e nello stesso tempo carico di voluttà. E
un bel contrasto con la figura così dolcecosì semplicequasi germanicadella figliastra.
Il quarto ritrattobrillante per la verità e lo splendore dei colorièuno dei capolavori di Tiziano; è una schiava
greca che fu l'amante del famoso doge Barbarigo.
Quasi tutti gli stranieri che arrivano a Roma si fanno condurrefindall'inizio del loro giroalla galleria
Barberini; sono attiratisoprattutto le donnedai ritratti di BeatriceCenci e della sua matrigna. Ho condiviso la curiosità
comune; poicome tutti quantiho cercato di ottenere visione degli atti diquel celebre processo. Se si ha tanto credito
da ottenerlisi resterà stupefattiio credoleggendo quei documentichesono tutti in latino eccetto le risposte degli
accusatidi non trovare quasi la spiegazione degli avvenimenti. Il fatto èche a Romanel 1599nessuno li ignorava. Ho
acquistato il permesso di copiare un resoconto contemporaneo; ho creduto dipoterlo tradurre senza trasgredire nessuna
regola di convenienza; perlomeno questa traduzione poté essere letta ad altavoce davanti alle signorenel 1823.
Benintesoil traduttore cessa di essere fedele quando non può più esserlo:l'orrore avrebbe facilmente il sopravvento
sulla semplice curiosità.
Il tristo personaggio del don Giovanni puro (quello che non cerca diconformarsi a nessun modello idealee
che s'interessa all'opinione del mondo solo per oltraggiarla) è esposto quiin tutto il suo orrore. L'atrocità dei suoi delitti
costringe due donne sventurate a farlo uccidere sotto i loro occhi; questedue donne erano sua moglie e sua figliae il
lettore non oserà decidere se furono colpevoli. I loro contemporaneipensarono che non dovevano morire.
Sono convinto che la tragedia di Galeotto Manfredi (che fu ucciso da suamogliesoggetto trattato dal grande
poeta Monti) e tante altre tragedie familiari del XV secolomeno conosciutee appena ricordate nelle storie locali delle
città d'Italiafinirono con una scena simile a quella della rocca diPetrella.
Ecco la traduzione del racconto contemporaneo; è in italiano di Romae fu scritto il 14 settembre 1599.
VERIDICA STORIA
della morte di Giacomo e Beatrice Cencie di Lucrezia Petroni Cenciloromatrignagiustiziati per delitto di
parricidiosabato scorso il settembre 1599sotto il regno del nostro santopadrepapa Clemente VIII Aldobrandini.
La vita esecrabile che sempre condusse Francesco Cencinato a Romauno deinostri più ricchi concittadini
ha finito per portarlo alla rovina. Ha trascinato a morte prematura i suoifigligiovani forti e coraggiosie sua figlia
Beatricechesebbene portata al supplizio all'età di soli sedici anni(oggi sono passati quattro giorni)pure era
considerata una delle più belle donne degli Stati pontifici e dell'Italiaintera. Si è sparsa la voce che il signor Guido
Reniun allievo della magnifica scuola bologneseha voluto fare il ritrattodella povera Beatricevenerdì scorsocioè la
vigilia stessa dell'esecuzione. Se questo grande pittore ha svolto il suocompito come ha fatto per gli altri dipinti eseguiti
nella capitalei posteri potranno farsi un'idea della bellezza di quellamirabile giovinetta. Affinché possano anche27
conservare il ricordo delle sue inaudite sventuree della forza sorprendentecon cui quest'anima veramente romana
seppe combatterleho deciso di scrivere ciò che ho appreso sul fatto chel'ha condotta a mortee ciò che ho visto il
giorno della sua gloriosa tragedia.
Le persone che mi hanno dato tali informazioni erano in posizione tale daconoscere le circostanze più segrete
che sono ignorate a Roma ancor oggibenché da sei settimane non si parlid'altro che del processo dei Cenci. Scriverò
con una certa libertàsicuro come sono di poter depositare il mio commentarioin archivi rispettabilidonde sarà tratto
certamentesolo dopo la mia morte. Il mio unico dispiacere è di doverparlarema così vuole la veritàcontro
l'innocenza della povera Beatrice Cenciadorata e rispettata da tutti coloroche l'hanno conosciutaquanto il suo orribile
padre era odiato ed esecrato.
Quest'uomochenon si può negarloaveva ricevuto in sorte una sagacia euna bizzarria sorprendentiera figlio
di monsignor Cenciil qualesotto Pio V Ghislierisi era innalzato allacarica di tesoriere (ministro delle finanze).
Questo santo papatutto presocom'è notodal suo giusto odio control'eresia e dal rafforzamento della sua mirabile
inquisizioneebbe solo disprezzo per l'amministrazione temporale del suoStatodi modo che monsignor Cenciche fu
tesoriere per qualche anno prima del 1572poté lasciare a quell'uomoorribile che fu suo figlio e padre di Beatriceuna
rendita netta di 160.000 piastre (circa 2.500.000 franchi del 1837).
Francesco Cencioltre a questo grande patrimonioaveva una fama di coraggioe di prudenza chequando era
giovanenessun altro Romano poté eguagliare; e questa fama gli dava tantopiù credito alla corte del papa e presso tutto
il popoloin quanto le azioni criminali che cominciavano ad essergliimputate erano solo del genere che il mondo
perdona facilmente. Molti Romani ricordavano ancoracon amaro rimpiantolalibertà di pensiero e d'azione di cui si
era goduto al tempo di Leone Xche ci fu tolto nel 1513e di Paolo IIImorto nel 1549. Si cominciò a parlaresotto
quest'ultimo papadel giovane Francesco Cenci a causa di certi strani amoriportati a buon fine con mezzi ancora più
strani.
Sotto Paolo IIItempo in cui si poteva ancora parlare con una certalibertàmolti dicevano che Francesco Cenci
era avido soprattutto di stravaganzeche potessero dargli peripezie dinuova ideasensazioni nuove e inquietantiessi si
basano sul fatto chenei suoi libri contabilisono state trovate voci comequesta:
«Per le avventure e peripezie di Toscanella3.500 piastre (circa60.000 franchi del 1837) e non fu caro.»
Forsenelle altre città d'Italiasi ignora che la nostra sorte e la nostraesistenzaa Romacambiano secondo il
carattere del papa regnante. Cosìper tredici annisotto il buon papaGregorio XIII Buoncompagnitutto era permesso a
Roma; chi voleva faceva pugnalare il suo nemicoe non era affattoperseguitopurché si comportasse in modo da non
dare nell'occhio. A quest'eccesso d'indulgenza seguì un eccesso di severitàdurante i cinque anni di regno del grande
Sisto Vdi cui è stato dettocome dell'imperatore Augustoche bisognavanon venisse mai o restasse per sempre. Allora
si videro giustiziare dei disgraziati per assassinii o avvelenamentidimenticati da dieci annima che essi avevano avuto
la sfortuna di confessare al cardinal Montaltopoi Sisto v.
Fu soprattutto sotto Gregorio XIII che si cominciò a parlare molto diFrancesco Cenci; aveva sposato una
donna ricchissimae quale si conveniva a un signore così accreditato; ellamorì dopo avergli dato sette figli. Poco dopo
la sua morteCenci sposò in seconde nozze Lucrezia Petronidi rarabellezza e celebre soprattutto per la smagliante
bianchezza della sua carnagionema un po' troppo pinguedifetto comune allenostre Romane. Da Lucrezia non ebbe
figli.
La colpa minore che si potesse addebitare a Francesco Cencifu lapropensione a un amore infame; la più
grande fu quella di non credere in Dio. In vita sua non fu mai visto entrarein una chiesa.
Messo tre volte in prigione per i suoi amori illecitise la cavò dando200.000 piastre ai favoriti dei dodici papi
sotto i quali visse successivamente (200.000 piastre fanno circa 5.000.000del 1837).
Ho visto Francesco Cenci solo quando aveva già i capelli brizzolatisottoil regno di papa Buoncompagni
quando tutto era consentito a chi osava. Era un uomo alto circa cinque piedie quattro polliciassai ben fattobenché
troppo magro; aveva fama di essere estremamente forteforse era lui stesso afar correre questa voce; aveva gli occhi
grandi ed espressivima la palpebra superiore era un po' troppo cascante;aveva il naso troppo pronunciato e troppo
grossole labbra sottili e un sorriso pieno di fascino. Questo sorrisodiventava terribile quando fissava lo sguardo sui
suoi nemici; appena era commosso o irritatotremava in un modo eccessivotale da disturbarlo. L'ho visto quando ero
giovanesotto il papa Buoncompagniandare a cavallo da Roma a Napolisenzadubbio per qualche suo amoretto;
attraversava i boschi di San Germano e della Faggiola senza preoccuparsiaffatto dei brigantie dicevano che ci
mettesse meno di venti ore. Viaggiava sempre soloe senza avvertire nessuno;quando il suo primo cavallo era stanco
ne comprava o ne rubava un altro. Appena gli facevano qualche difficoltànon faceva nessuna difficoltàluia dare una
pugnalata. Ma è anche vero che al tempo della mia giovinezzacioè quandoegli aveva quarantotto o cinquant'anni
nessuno era abbastanza ardito da resistergli. Il suo più grande piacere eraquello di sfidare i nemici
Era molto conosciuto su tutte le strade degli Stati di Sua Santità; pagavacon generositàma era anche capace
due o tre mesi dopo aver subito un affrontodi spedire uno dei suoi sicariper uccidere la persona che l'aveva offeso.
L'unica azione virtuosa che abbia compiuto in tutta la sua lunga vitaèstata quella di costruirenel cortile del
suo vasto palazzo presso il Tevereuna chiesa dedicata a san Tommaso e pergiunta fu spinto a questa bella azione dallo
strano desiderio di avere sotto gli occhi le tombe di tutti i suoi figliperi quali nutrì un odio eccessivo e contro natura
fin dalla loro più tenera infanziaquando ancora non potevano averlo offesoin alcun modo.
È là che voglio metterli tuttidiceva spessocon un sorriso amaroaglioperai che impiegava per costruire la
sua chiesa. Mandò i tre figli più grandiGiacomoCristoíoro e Roccoastudiare all'università di Salamanca in Spagna.28
Una volta che furono in quel paese lontanoprese un gusto maligno a nonrifornirli mai di denarodi modo che quei
poveri giovanidopo aver indirizzato al padre una quantità di letterecherestarono tutte senza rispostafurono ridotti
alla miserabile necessità di tornare in patria facendosi prestare piccolesomme di denaro o mendicando lungo la strada.
A Romatrovarono un padre più rigido e severopiù aspro che maichenonostante le sue immense ricchezze
non volle né vestirli né dar loro i soldi necessari per acquistare i cibipiù grossolani. Quegli sventurati furono costretti a
ricorrere al papache obbligò Francesco Cenci ad assegnar loro una piccolapensione. Con questo modestissimo aiuto si
separarono da lui.
Poco dopoa causa dei suoi amori illecitiFrancesco fu messo in prigioneper la terza e ultima volta; allora i tre
fratelli chiesero udienza al santo padreil papa attualmente regnantee lopregarono tutti Insieme di far morire
Francesco Cenciloro padrechedisserodisonorava la loro casata.Clemente VIII ne aveva una gran vogliama non
volle seguire il suo primo impulsoper non dar soddisfazione a quei figlisnaturatie li cacciò con ignominia dalla sua
presenza.
Il padrecome abbiamo detto primauscì di prigione dando una grossa sommadi denaro a chi poteva
proteggerlo. È comprensibile che l'insolita iniziativa dei tre figlimaggiori dovesse accrescere ancora l'odio che nutriva
per i suoi figli. Li malediva ad ogni momentograndi e piccolie tutti igiorni riempiva di bastonate le sue due povere
figlieche abitavano con lui nel palazzo.
La più grandebenché strettamente sorvegliatasi diede tanto da farecheriuscì a far presentare una supplica al
papa; scongiurò Sua Santità di darle maritoo di metterla in un monastero.Clemente VIII ebbe pietà delle sue sventure
e la sposò a Carlo Gabrielliappartenente alla più nobile famiglia diGubbio; Sua Santità obbligò il padre a darle una
grossa dote.
A questo colpo imprevistoFrancesco Cenci andò su tutte le furiee perimpedire che Beatricediventando più
grandeavesse l'idea di seguire l'esempio della sorellala sequestrò in unappartamento del suo immenso palazzo. Là
nessuno ebbe il permesso di vedere Beatriceche a quel tempo aveva appenaquattordici annied era già in tutto lo
splendore di una meravigliosa bellezza. Possedeva soprattutto una gaiezzauncandoree un senso comico che non ho
mai visto in nessun altro. Francesco Cenci le portava egli stesso damangiare. Probabilmente fu allora che il mostro se
ne innamoròo finse d'innamorarseneper tormentare la sua disgraziatafiglia. Le parlava spesso del perfido tiro che la
sorella maggiore gli aveva giocatoeandando in collera al suono delleproprie parolefiniva col coprire di botte
Beatrice.
Nel frattempoRocco Cencisuo figliofu ucciso da un norcinoe l'annoseguente Cristoforo Cenci fu ucciso
da Paolo Corsodi Massa. In tale occasioneegli mostrò la sua neraempietàperché ai funerali dei suoi figli non volle
spendere nemmeno un baiocco per i ceri. Nell'apprendere la sorte del figlioCristoforoesclamò che avrebbe potuto
gustare un po' di gioia solo quando tutti i suoi figli fossero statiseppellitie chequando l'ultimo fosse mortovolevain
segno di esultanzadar fuoco al suo palazzo. Roma si stupì di questeparolema si aspettava qualunque cosa da un tale
uomoche si gloriava di sfidare tutti e perfino il papa.
(Qui diventa assolutamente impossibile seguire il narratore romano nelracconto assai oscuro delle stranezze
con cui Francesco Cenci cercò di stupire i suoi contemporanei. Sua moglie ela sua sventurata figlia furonosecondo
ogni apparenzavittime delle sue idee abominevoli).
Tutte queste cose non gli bastarono; tentò con le minaccee ricorrendo allaforzadi violentare la propria figlia
Beatriceche era già grande e bella; non si vergognò d'infilarsi nel suolettocompletamente nudo. Passeggiava con lei
nelle sale del suo palazzotutto nudo; poila conduceva nel letto di suamoglieaffinché alla luce delle lampade la
povera Lucrezia potesse vedere ciò che faceva con Beatrice.
Dava ad intendere a quella povera ragazza una tremenda eresiache oso astento riferirecioè chequando un
padre conosce la propria figliai figli che nascono sono necessariamente deisantie che tutti i più grandi santi venerati
dalla Chiesa sono nati in questo modovale a dire il nonno materno è statoanche il loro padre.
Quando Beatrice resisteva ai suoi esecrabili volerila picchiavacrudelmentedi modo che la povera ragazza
non potendo reggere a una vita così infeliceebbe l'idea di seguirel'esempio datole da sua sorella. Indirizzò al nostro
santo padre il papa una supplica molto dettagliata; ma a quanto sembraFrancesco Cenci aveva preso le sue precauzioni
perché non risulta che questa supplica sia mai giunta nelle mani di SuaSantità; almeno è stato impossibile ritrovarla
nella segreteria dei Memorialiquando Beatrice era in prigione e ilsuo difensore aveva assoluta necessità di questo
documento; avrebbe potuto provare in qualche modo gli inauditi eccessi chefurono commessi nella rocca di Petrella.
Non sarebbe stato evidente a tutti che Beatrice Cenci si era trovatacostretta alla legittima difesa? Questo memoriale
parlava anche in nome di Lucreziamatrigna di Beatrice.
Francesco Cenci venne a conoscenza di questo tentativoe si può immaginarecon che collera raddoppiò i
maltrattamenti contro quelle due sventurate.
La vita divenne per loro assolutamente insopportabilee alloravedendo beneche non avevano niente da
sperare dalla giustizia del sovranoi cui cortigiani erano corrotti dairicchi doni di Francescoebbero l'idea di prendere
l'estrema decisione che le ha portate alla rovinama che pure ha avuto ilvantaggio di por fine alle loro sofferenze in
questo mondo.
Bisogna sapere che il famoso monsignor Guerra andava spesso a palazzoCenci; era di alta staturaun gran
bell'uomoe aveva avuto in sorte la singolare capacità di sapersi trard'impaccio con un garbo tutto specialea
qualunque cosa volesse applicarsi. Si è supposto che amasse Beatrice eprogettasse di lasciare la mantelletta e di
sposarla; ma per quanto fosse estremamente attento a celare i suoisentimentiera aborrito da Francesco Cenciche gli29
rimproverava d'essere stato molto legato con tutti i suoi figli. Quandomonsignor Guerra veniva a sapere che il signor
Cenci era uscito dal suo palazzosaliva nell'appartamento delle signore epassava molte ore a discorrere con loro e ad
ascoltare le loro lagnanze contro gli incredibili maltrattamenti cui entrambeerano esposte. Sembra che Beatriceper
primaosò parlare a viva voce a monsignor Guerra del progetto che avevanoformulato. Col tempoanch'egli vi diede
mano; esollecitato con insistenza a varie riprese da Beatriceconsentìinfine a comunicare questo strano disegno a
Giacomo Cencisenza il cui consenso non si poteva far nullaperché era ilfratello maggiore e il capofamiglia dopo
Francesco.
Fu facilissimo attirarlo nel complotto; era molto maltrattato da suo padreche non gli dava alcun aiutocosa
tanto più grave per Giacomo in quanto era sposato e aveva sei figli.Scelseroper riunirsi e parlare del modo di uccidere
Francescol'appartamento di monsignor Guerra. L'affare fu trattato con tuttele debite formee in tutto si sentì il parere
della matrigna e della ragazza. Quando infine la decisione fu presasiscelsero due vassalli di Francesco Cenciche
avevano concepito contro di lui un odio mortale. Uno si chiamava Marzio; eraun uomo coraggiosomolto attaccato agli
sventurati figli di Francescoeper far qualcosa che riuscisse lorograditoacconsentì a partecipare al parricidio.
Olimpioil secondoera stato scelto come castellano della rocca diPetrellanel regno di Napolidal principe Colonna;
magodendo di un credito onnipotente presso il principeFrancesco Cencil'aveva fatto cacciare.
Si presero tutti gli accordi con questi due; siccome Francesco Cenci avevaannunciato cheper evitare l'aria
cattiva di Romasarebbe andato a trascorrere l'estate successiva nella roccadi Petrellasi pensò di riunire una dozzina di
banditi napoletani. Olimpio s'incaricò di trovarli. Si decise di farlinascondere nelle foreste vicine alla Petrellae di
avvertirli del momento in cui Francesco Cenci si sarebbe messo in cammino;essi l'avrebbero rapito sulla strada
annunciando poi alla famiglia che l'avrebbero liberato dietro forte riscatto.Allora i figli sarebbero stati obbligati a
tornare a Roma per raccogliere la somma chiesta dai briganti; avrebbero fintodi non poter trovare subito tale sommae i
briganticome avevano minacciatonon vedendo arrivare il denaroavrebberoucciso Francesco Cenci. In tal modo
nessuno sarebbe stato indotto a sospettare i veri autori della sua morte.
Ma giunta l'estatequando Francesco Cenci partì da Roma per la Petrellalaspia che doveva avvisare della sua
partenza avvertì troppo tardi i banditi appostati nel boscoe questi nonebbero il tempo di scendere sulla strada maestra.
Cenci arrivò senza inconvenienti alla Petrella; i brigantistanchi diaspettare una preda incertaandarono a rubare
altrove per conto proprio.
Da parte suaCencivecchio avveduto e sospettosonon si azzardava mai aduscire dalla fortezza. E poiché il
suo cattivo umore aumentava con gli acciacchi dell'etàche gli eranoinsopportabilirincarava gli atroci maltrattamenti
che faceva subire alle due povere donne. Sosteneva che esse si rallegravanodella sua debolezza.
Beatricespinta agli estremi dalle cose orribili che doveva sopportarefecechiamare sotto le mura della rocca
Marzio e Olimpio. Durante la nottementre suo padre dormivaparlò con loroda una finestra bassa e buttò giù delle
lettere indirizzate a monsignor Guerra. Per mezzo di queste lettereconvennero che monsignor Guerra avrebbe
promesso a Marzio e Olimpio mille piastre se si fossero incaricatipersonalmente di uccidere Francesco Cenci. Un terzo
della somma doveva esser pagato a Romaprima del fattoda monsignor Guerrae gli altri due terzi da Lucrezia e
Beatricequandoa cose fattesarebbero state padrone della cassaforte diCenci.
Si accordaronoinoltreperché la cosa avesse luogo il giorno dellanatività della Verginee a questo scopo gli
uomini furono abilmente introdotti nella fortezza. Ma Lucrezia fu trattenutadal rispetto dovuto a una festa della
Madonnae costrinse Beatrice a differire di un giornoper non commettere undoppio peccato.
Fu dunque il 9 settembre 1598in seratache madre e figlia somministraronocon grande destrezza dell'oppio a
Francesco Cencie quell'uomocosì difficile da ingannarecadde in unsonno profondo.
Verso mezzanotteBeatrice introdusse di persona nella fortezza Marzio eOlimpio; poi Lucrezia e Beatrice li
condussero nella camera del vecchioche dormiva profondamente. Qui lilasciaronoperché portassero a termine ciò era
stato convenutoe andarono ad aspettare in una camera attigua. Ad un trattovidero tornare i duepallidi e come fuori di
sé.
«Che c'è di nuovo?» esclamarono le donne.
«Che è una bassezza e una vergogna» risposero quelli«uccidere unpovero vecchio addormentato! la pietà ci
ha impedito di agire.»
Sentendo questa scusaBeatrice s'indignò e cominciò ad ingiuriarlidicendo:
«Dunquevoialtri uominiben preparati a quest'azionenon avete ilcoraggio di uccidere uno che dorme! Tanto
meno osereste guardarlo in faccia se fosse sveglio! Ed è per questorisultato che osate prendere del denaro! Ebbene!
poiché la vostra viltà lo richiedeio stessa ucciderò mio padre; equanto a voinon vivrete a lungo!
Incoraggiati da queste poche parole fulminantie temendo una diminuzione delprezzo convenutogli assassini
rientrarono risolutamente nella stanzaseguiti dalle donne. Uno di essiaveva un grande chiodo che posò verticalmente
sull'occhio del vecchio addormentato; l'altroche aveva un martelloglifece entrare il chiodo nella testa. Fecero entrare
allo stesso modo un altro grande chiodo nella golasicché quella poveraanimacarica di tanti peccati recentifu portata
via dai diavoli; il corpo si dibattéma invano.
A cose fattela giovane diede ad Olimpio una grossa borsa piena di denaro;diede a Marzio un mantello di
panno guarnito di un gallone d'oroche era appartenuto a suo padree licongedò.
Le donnerimaste solecominciarono col tirar via il grande chiodo infilatonella testa del cadavere e quello che
era nel collo; poiavviluppato il corpo in un lenzuololo trascinaronoattraverso una lunga serie di camere fino a una
galleria che dava su un giardinetto abbandonato. Di làgettarono il corposu un grande sambuco che cresceva in quel30
luogo solitario. Siccome c'erano dei gabinetti all'estremità della piccolagalleriasperarono chequando il giorno
seguente si fosse trovato il corpo del vecchio caduto fra i rami del sambucosi sarebbe pensato che gli era scivolato un
piedee che era caduto andando al gabinetto.
La cosa andò precisamente come avevano previsto. La mattinaquando ilcadavere fu scopertosi levò un gran
clamore nella rocca; esse non mancarono di gettare alte gridae di piangerela morte tristissima di un padre e di uno
sposo. Ma la giovane Beatrice aveva il coraggio del pudore offesoe non laprudenza necessaria nella vita; già al
mattinoaveva dato a una donna che lavava la biancheria nella rocca unlenzuolo macchiato di sanguedicendole di non
stupirsi di tanto sangueperchétutta la notteaveva sofferto di unagrande perditadi modo cheper il momentotutto
andò bene.
Fu data onorevole sepoltura a Francesco Cencie le donne tornarono a Roma agodere di quella tranquillità che
per tanto tempo avevano desiderato invano. Si credevano felici per sempreperché non sapevano cosa stava succedendo
a Napoli.
La giustizia di Dionon volendo che un parricidio così atroce restasseimpunitofece sì cheappena in quella
capitale si seppe quanto era avvenuto nella rocca di Petrellail giudiceprincipale avesse dei dubbie mandasse un
commissario reale per ispezionare il corpo e far arrestare i sospetti.
Il commissario reale fece arrestare tutti quelli che abitavano nellafortezza. Tutta quella genta fu condotta a
Napoli in catene; e nulla parve sospetto nelle deposizionise non che lalavandaia disse d'aver ricevuto da Beatrice un
lenzuolo o più lenzuola insanguinati. Le chiesero se Beatrice avesse cercatodi spiegare quelle grandi macchie di
sangue: ella rispose che Beatrice aveva parlato di un un'indisposizionenaturale. Le domandarono se macchie di tale
grandezza potevano essere causate da un'indisposizione del genere; ellarispose di nole macchie sul lenzuolo erano di
un rosso troppo vivo.
Si mandò immediatamente quest'informazione alla giustizia di Romaetuttavia passarono molti mesi prima
che si pensassequi da noia far arrestare i figli di Francesco Cenci.LucreziaBeatrice e Giacomo avrebbero potuto
fuggire mille voltesia andando a Firenze col pretesto di qualchepellegrinaggiosia imbarcandosi a Civitavecchia; ma
Dio negò loro questa salutare ispirazione.
Monsignor Guerraavvertito di ciò che avveniva a Napolimise subito inmoto degli uominiincaricandoli di
uccidere Marzio e Olimpio; ma solo Olimpio poté essere ucciso a Terni. Lagiustizia napoletana aveva fatto arrestare
Marzioche fu condotto a Napolidove all'istante confessò ogni cosa.
Questa terribile deposizione fu mandata immediatamente alla giustizia diRomala quale infine si decise a far
arrestare e condurre alla prigione di Corte Savella Giacomo e Bernardo Cencigli unici figli maschi sopravvissuti di
Francescocome pure Lucreziala sua vedova. Beatrice rimase nel palazzo disuo padrecustodita da una grossa
squadra di sbirri. Marzio fu fatto venire da Napolie chiuso anche lui nellaprigione Savella; qui fu messo a confronto
con le due donneche negarono tutto tenacementee Beatrice in particolarenon volle mai riconoscere il mantello
gallonato che aveva donato a Marzio. Questientusiasmato dalla meravigliosabellezza e dalla stupefacente eloquenza
della giovane mentre rispondeva al giudicenegò tutto quello che avevaconfessato a Napoli. Fu messo alla torturanon
confessò nullae preferì morire fra i tormenti; giusto omaggio allabellezza di Beatrice!
Dopo la morte di quell'uomosiccome il delitto non era stato provatoigiudici ritennero che non vi fossero
ragioni sufficienti per mettere alla tortura né i due figli di Cenciné ledue donne. Furono condotti tutti e quattro a
Castel Sant'Angelodove passarono vari mesi molto tranquillamente.
Tutto sembrava finitoe nessuno a Roma dubitava più che quella ragazzacosì bellacosì coraggiosae che
aveva suscitato un così vivo interessenon sarebbe stata messa ben prestoin libertàquando disgraziatamente la
giustizia riuscì ad arrestare il brigante che a Terni aveva ucciso Olimpio;condotto a Romal'uomo confessò tutto.
Monsignor Guerracosì stranamente compromesso dalla confessione delbrigantefu invitato a comparire nel
più breve termine; la prigione era certae probabilmente la morte. Maquell'uomo straordinariocui il destino aveva
concesso il dono di saper fare bene ogni cosariuscì a salvarsi in un modoche ha del miracoloso. Era considerato il più
bell'uomo della corte papaleed era troppo conosciuto a Roma per potersperare di fuggire; del restole porte erano ben
guardatee probabilmente fin dal momento della citazione la sua casa erastata sorvegliata. Bisogna sapere che era
molto altoaveva il viso di perfetta bianchezzauna bella barba bionda esplendidi capelli dello stesso colore.
Con rapidità incredibilecorruppe un carbonaioprese i suoi abitisi fecerasare la testa e la barbasi tinse il
visocomprò due asinie si mise a battere le strade di Romae a venderecarbone zoppicando. Seppe prenderecon
meravigliosa abilitàuna cert'aria grossolana ed ebetee andava gridandodappertutto la sua mercanzia con la bocca
piena di pane e cipollamentre centinaia di sbirri lo cercavano non soltantoa Romama anche su tutte le strade. Infine
quando la sua faccia fu ben nota alla maggior parte degli sbirriosò uscireda Romaspingendo sempre davanti a sé i
due asini carichi di carbone. Incontrò parecchi drappelli di guardie che nonsi sognarono di fermarlo. Da allorasi è
avuta da lui una sola lettera; sua madre gli ha mandato del denaro aMarsigliae si suppone che faccia la guerra in
Franciacome soldato.
La confessione dell'assassino di Terni e la fuga di monsignor Guerrachesuscitò a Roma uno straordinario
scalporerinfocolarono talmente i sospetti e anche gli indizi contro iCenciche essi furono fatti uscire da Castel
Sant'Angelo e riportati nella prigione Savella.
I due fratellimessi alla torturafurono ben lontani dall'imitare lagrandezza d'animo del brigante Marzio;
ebbero la pusillanimità di confessare tutto. La signora Lucrezia Petroni eracosì abituata alla mollezza e agli agi del gran31
lussoe del resto era di corporatura così pesanteche non poté sopportarela tortura della corda; disse tutto ciò che
sapeva.
Ma non fu lo stesso per Beatrice Cencigiovane donna piena di vivacità e dicoraggio. Né le buone parole né le
minacce del giudice Moscati riuscirono a piegarla. Ella sopportò ilsupplizio della corda senza scomporsi nemmeno per
un momentoe con perfetto coraggio. Mai il giudice poté indurla a unarisposta che la compromettesse minimamente;
anzicon la sua vivacità piena di spiritosconcertò del tutto il celebreUlisse Moscatiil giudice incaricato d'interrogarla.
Egli fu tanto sorpreso dal comportamento della ragazzache credetteopportuno fare un completo rapporto a Sua Santità
Clemente VIIIfelicemente regnante.
Sua Santità volle vedere gli atti del processo e studiarlo. Temeva che ilgiudice Ulisse Moscaticosì celebre per
la profonda dottrina e la superiore sagacia della sua mentefosse statosoggiogato dalla bellezza di Beatricee la
risparmiasse negli interrogatori. Per questa ragione Sua Santità gli tolsela direzione del processoe la diede a un altro
giudice più severo. Infattiquesto barbaro ebbe il coraggio di tormentaresenza pietà un così bel corpo ad torturam
capillorum (cioè Beatrice Cenci fu sottoposta alla tortura d'essersospesa per i capelli).
Mentre era attaccata alla cordail nuovo giudice fece comparire davanti aBeatrice la sua matrigna e i fratelli.
Appena Giacomo e la signora Lucrezia la videro:
«Il peccato è stato commesso» le gridarono; «bisogna fare anche lapenitenzae non lasciarsi straziare il corpo
per una vana ostinazione.»
«Dunque volete coprire di vergogna la nostra casa» rispose la ragazza«emorire con ignominia? Siete in
grande errore; mapoiché lo voletecosì sia.»
Evoltandosi verso gli sbirri:
«Staccatemi» disse«e mi sia letto l'interrogatorio di mia madreapproverò quel che dev'essere approvatoe
negherò quel che dev'essere negato.»
Così fu fatto; ella confessò tutto quel che era vero. Subito furono toltele catene a tuttie siccome erano cinque
mesi che non vedeva i suoi fratelliella volle pranzare con loroe tutti equattro trascorsero una lietissima giornata.
Ma il giorno dopo furono separati di nuovo; i due fratelli furono portatialla prigione di Tordinonae le donne
restarono nella prigione Savella. Il nostro santo padrevisto il documentoautentico che conteneva le confessioni di tutti
ordinò che fossero immediatamente attaccati alla coda di cavalli selvaggiecosì messi a morte.
Tutta Roma fremette nell'apprendere questa severa sentenza. Un gran numero dicardinali e di principi
andarono a inginocchiarsi davanti al papasupplicandolo di permettere aquegli sventurati di presentare la loro difesa.
«E lorohanno dato al vecchio padre il tempo di presentare la sua?»rispose il papa indignato.
Infineper grazia specialeconcesse una dilazione di venticinque giorni.Subito i primi avvocati di Roma si
misero a scrivere per questa causache aveva riempito la città dipietà e di commozione. Il venticinquesimo giorno
comparvero tutti insieme davanti a Sua Santità. Nicolò De' Angelis parlòper primoma aveva appena letto due righe
della sua difesache Clemente VIII l'interruppe:
«A Romadunque» esclamò«si trovano degli uomini che uccidono ilproprio padree poi degli avvocati che
li difendono!»
Tutti ammutolironoquando Farinacci osò prendere la parola.
«Santissimo Padre» egli disse«non siamo qui per difendere il criminema per provarese possiamoche uno
o più di questi sventurati sono innocenti del crimine.»
Il papa gli fece segno di parlareed egli parlò per tre lunghe oredopo diche il papa prese le scritture di tutti e
li congedò. Mentre se ne andavanol'Altieri era l'ultimo della fila; ebbepaura di essersi compromessoe andò a
inginocchiarsi davanti al papadicendo: «Non potevo esimermi dal comparirein questa causapoiché sono avvocato dei
poveri.» Il papa gli rispose: «Non ci meravigliamo di voima deglialtri.»
Il papa non volle andare a lettoma passò tutta la notte a leggere learringhe degli avvocatifacendosi aiutare in
questo lavoro del cardinale di San Marcello; Sua Santità parve talmentecommossoche molti concepirono qualche
speranza per la vita in quegli infelici. Per salvare i figli maschigliavvocati gettavano tutta la colpa su Beatrice.
Siccome al processo era stato provato che parecchie volte suo padre avevaimpiegato la forza nei suoi disegni criminali
gli avvocati speravano che l'assassinio le sarebbe stato perdonatotrovandosi in un caso di legittima difesa; se era cosìe
l'autore principale del crimine aveva salva la vitacome avrebbero potutoessere puniti con la morte i suoi fratelliche
erano stati istigati da lei?
Dopo quella notte dedicata ai suoi doveri di giudiceClemente VIII ordinòche gli accusati fossero ricondotti in
prigionee messi in segreta. Questa circostanza diede grandi speranzea Romache in tutto il processo non vedeva che
Beatrice. Si era accertato che ella aveva amato monsignor Guerrama senzamai trasgredire le regole della più rigida
virtù: non si poteva quindiper amore di giustiziaimputarle i crimini diun mostro; e si voleva punirla perché aveva
esercitato il diritto di difendersi! Che si sarebbe fatto se avesseacconsentito? Bisognava che la giustizia umana venisse
ancora ad accrescere la sventura di una creatura così amabile così degna dipietà e già così infelice? Dopo una vita tanto
tristeche aveva accumulato su di lei ogni genere di disgrazia prima checompisse sedici anninon aveva infine diritto a
giorni meno atroci? Tuttia Romasembravano incaricati della sua difesa.Non sarebbe stata perdonata sela prima
volta che Francesco Cenci aveva tentato il criminelo avesse pugnalato?
Papa Clemente VIII era mite e misericordioso. Cominciavamo a sperare chevergognandosi un po'
dell'impulso che gli aveva fatto interrompere la difesa degli avvocatiavrebbe perdonato a chi aveva respinto la forza
con la forzanona dire il veroal momento del primo delittoma quando sitentava di commetterlo di nuovo. Tutta32
Roma era in ansia quando il papa fu informato della morte violenta dellamarchesa Costanza Santa Croce. Suo figlio
Paolo Santa Croce aveva ucciso a pugnalate quella dama di sessant'anniperché non voleva promettere di lasciargli in
eredità tutti i suoi beni. Il rapporto aggiungeva che Santa Croce si eradato alla fugae che non c'era speranza di
arrestarlo. Il papa si ricordò del fratricidio dei Massimi commesso pocotempo prima. Desolato per la frequenza degli
assassini commessi su parenti stretti Sua Santità pensò che non gli fosseconsentito il perdono. Quando ricevette quel
fatale rapporto su Santa Croceil papa si trovava nel palazzo di MonteCavalloil 6 settembreper essere più vicinola
mattina dopoalla chiesa di Santa Maria degli Angelidove doveva consacrarevescovo un cardinale tedesco.
Il venerdì alle 22 (4 della sera) fece chiamare Ferrante Tavernagovernatore di Romae gli disse queste precise
parole:
«Vi rimettiamo l'affare dei Cenciaffinché giustizia sia fatta per vostracura e senza alcun indugio.»
Il governatore tornò al suo palazzo molto turbato dall'ordine che avevaricevuto; stilò subito la sentenza di
mortee riunì una congregazione per deliberare sulle modalitàdell'esecuzione.
Sabato mattina11 settembre 1599i primi signori di Romamembri dellaconfraternita dei confortatorisi
recarono alle due prigionia Corte Savelladov'erano Beatrice e la suamatrignae a Tordinonadove si trovavano
Giacomo e Bernardo Cenci. Per tutta la notte dal venerdì al sabatoisignori romani che avevano saputo quel che stava
accadendo non fecero altro che correre dal palazzo di Monte Cavallo a quellidei più autorevoli cardinaliper ottenere
almeno che le donne fossero giustiziate all'interno della prigionee non suun infame patibolo; e che si facesse grazia al
giovane Bernardo Cencicheappena quindicennenon poteva aver partecipatoa nessun complotto. Soprattutto il nobile
cardinale Sforza si è distinto per il suo zelo durante quella notte fatalemabenché principe così potentenon ha potuto
ottenere nulla. Il delitto di Santa Croce era un delitto vilecommesso perdenaromentre il crimine di Beatrice fu
commesso per salvare l'onore.
Mentre i cardinali più potenti facevano tanti passi inutiliFarinacciilnostro grande giuristaebbe l'audacia di
farsi strada fino al papa; arrivato davanti a Sua Santitàquest'uomosorprendente fu così abile da toccare la sua
coscienzae infinea furia di insisteregli strappò la vita di BernardoCenci.
Quando il papa pronunciò questa grande parolapotevano essere le quattrodel mattino (del sabato 11
settembre). Tutta la notte si era lavoratosulla piazza di ponteSant'Angeloai preparativi della crudele tragedia. Però
tutte le copie necessarie della sentenza di morte non poterono esserterminate che alle cinque del mattinodi modo che
soltanto alle sei fu dato il fatale annuncio a quei poveri sventurati chedormivano tranquillamente.
La ragazzasulle primenon riusciva nemmeno a trovare la forza di vestirsi.Gettava grida acute e continuee
si abbandonava senza ritegno alla più atroce disperazione.
«Com'è possibileah! mio Dio!» esclamava«che così all'improvviso iodebba morire?»
Lucrezia Petroniinvecedisse solo parole molto dignitose; prima pregò inginocchiopoi esortò
tranquillamente sua figlia a recarsi con lei nella cappelladove entrambedovevano prepararsi al grande passaggio dalla
vita alla morte.
Quelle parole resero a Beatrice tutta la sua tranquillità; tanto si eramostrata eccitata e furiosa nel primo
momentoaltrettanto fu calma e ragionevole non appena la matrigna richiamòquella grande anima a se stessa. Da allora
in poifu uno specchio di coraggio che tutta Roma ammirò.
Chiese un notaio per fare testamentoe ciò le fu accordato. Dispose perchéil suo corpo fosse seppellito a San
Pietro in Montorio; lasciò 300.000 franchi alle Stimmatine (religiosedelle Stimmate di San Francesco); questa somma
deve servire alla dote di cinquanta ragazze povere. Tale esempio commosse lasignora Lucreziacheanche leifece
testamento e ordinò che il suo corpo fosse portato a San Giorgio; lasciò500.000 franchi in elemosina a questa chiesae
dispose altri pii legati.
Alle ottosi confessaronoascoltarono la messae ricevettero la santacomunione. Ma prima di andare a messa
la signora Beatrice pensò che non fosse conveniente comparire sulpatibolodavanti a tutto il popolocon i ricchi abiti
che portavano. Ordinò due vestiuna per leil'altra per sua madre. Questevesti furono fatte come quelle delle monache
senza ornamenti sul petto e sulle spallesoltanto pieghettate con larghemaniche. La veste della matrigna era di tela di
cotone nera; quella della giovane di taffetà azzurro con una grossa cordache stringeva la cintura.
Quando portarono i vestitila signora Beatriceche era in ginocchiosi alzò e disse alla signora Lucrezia:
«Signora madrel'ora della nostra passione si avvicina; sarà bene che ciprepariamoche mettiamo questi altri
abitie che ci aiutiamo per l'ultima volta a vestirci l'un l'altra.»
Sulla piazza di ponte Sant'Angelo era stato innalzato un grande patibolo conun ceppo e una mannaja (specie di
ghigliottina). Verso le tredici (le otto del mattino)la compagnia dellaMisericordia recò il suo grande crocifisso alla
porta della prigione. Giacomo Cenci uscì per primo dalla prigione;s'inginocchiò devotamente sulla sogliadisse le sue
preghieree baciò le sante piaghe del crocefisso. Era seguito da BernardoCenciil suo giovane fratelloche aveva anche
lui le mani legate e una tavoletta davanti agli occhi. La folla era enormeevi fu un tumulto a causa di un vaso che cadde
da una finestraquasi sulla testa di uno dei penitenti che teneva una torciaaccesa accanto allo stendardo.
Tutti guardavano i due fratelliquando all'improvviso si fece avanti ilfiscale di Romae disse:
«Signor BernardoNostro Signore vi fa grazia della vita; sottometteteviad accompagnare i vostri parenti e
pregate Dio per loro.»
Subito i suoi due confortatori gli tolsero la tavoletta che avevadavanti agli occhi. Il carnefice stava sistemando
sul carretto Giacomo Cencie gli aveva tolto l'abito per poterlo attanagliare.Quando il carnefice arrivò a Bernardo
verificò la firma dell'atto di grazialo slegòepoiché era senz'abitodovendo essere suppliziatoil carnefice lo mise sul33
carretto e lo avvolse nel ricco mantello di panno gallonato d'oro. (Si èdetto che era lo stesso dato da Beatrice a Marzio
dopo l'azione nella rocca di Petrella). L'immensa folla che era in stradaalle finestre e sui tettid'un tratto si commosse;
si sentiva un rumore sordo e profondosi cominciava a dire che il ragazzoera stato graziato.
I canti dei salmi iniziarono e la processione si avviò lentamente attraversopiazza Navona verso la prigione
Savella. Giunta che fu alla porta della prigionelo stendardo si fermòledue donne uscironofecero l'atto di adorazione
ai piedi del crocefissoe poi s'incamminarono a piedi l'una dopo l'altra.Erano vestite come si è dettola testa coperta da
un gran velo di taffetà che arrivava fin quasi alla vita.
La signora Lucrezianella sua qualità di vedovaportava un velo neroebabbucce di velluto nero senza tacco
secondo l'usanza.
Il velo della giovane era di taffetà azzurrocome la sua veste; aveva poiun gran velo di drappo d'argento sulle
spalleuna gonna di drappo violae babbucce di velluto biancoallacciatecon eleganza e chiuse da cordoncini color
cremisi. Nell'incedere in questo costumeaveva una grazia singolaree atutti salivano le lacrime agli occhi man mano
che la vedevano avanzarsi lentamente nelle ultime file della processione.
Le donne avevano entrambe le mani liberema le braccia legate al corpodimodo che ciascuna di loro poteva
portare un crocefisso; lo tenevano vicinissimo agli occhi. Le maniche delleloro vesti erano molto larghelasciando
scorgere le bracciache erano coperte da una camicia stretta ai polsicomesi usa qui.
La signora Lucreziache aveva il cuore meno saldopiangeva quasi incontinuazione; la giovane Beatrice
invecemostrava un grande coraggio; e levando gli occhi verso tutte lechiese davanti a cui passava la processione
s'inginocchiava per un istantee diceva con voce ferma: «Adoramus teChriste!»
Nel frattempoil povero Giacomo Cenci veniva suppliziato sul carrettoemostrava molta costanza.
La processione poté attraversare a stento la parte inferiore della piazza diponte Sant'Angelotanto grande era il
numero delle carrozze e la folla del popolo. Si condussero senza indugio ledue donne nella cappella che era stata
preparata; in seguito vi si condusse Giacomo Cenci.
Il giovane Bernardocoperto del suo mantello gallonatofu portatodirettamente sul patibolo; allora tutti
credettero che sarebbe stato uccisoe che non avesse ricevuto la grazia. Ilpovero ragazzo ebbe una tale paurache
cadde svenuto al secondo passo che fece sul patibolo. Lo si fece rinvenirecon dell'acqua frescacollocandolo poi di
fronte alla mannaja.
Il carnefice andò a prendere la signora Lucrezia Petroni; le sue manierano legate dietro la schienanon aveva
più il velo sulle spalle. Apparve sulla piazza accompagnata dallo stendardocon la testa avvolta nel velo di taffetà nero;
là si riconciliò con Dio e baciò le sante piaghe. Le dissero di lasciarele babbucce sul lastricato; poiché era molto
corpulentafece un po' fatica a salire. Quando fu sul patibolo e le fu toltoil velo di taffetà nerosoffrì molto d'esser
veduta con le spalle e il petto scoperti; si guardòpoi guardò la mannajaein segno di rassegnazionealzò lentamente
le spalle; le vennero le lacrime agli occhie disse:
«O mio Dio!... E voifratelli miei. pregate per la mia anima!»
Non sapendo cosa dovesse farechiese ad Alessandroprimo carneficecomedoveva comportarsi. Egli le disse
di mettersi a cavalcioni sull'asse del ceppo. Ma questo movimento le parveoffensivo per il pudoree ci mise molto
tempo a farlo. (I particolari che seguono sono tollerabili per il pubblicoitalianoche tiene a sapere ogni cosa con la
massima esattezza; al lettore francese basti sapere che il pudore dellapovera donna fece sì che si ferisse al petto; il
carnefice mostrò la testa al popolo e poi l'avvolse nel velo di taffetànero).
Mentre si metteva in ordine la mannaja per la ragazzaun'impalcaturacarica di curiosi caddee molta gente
restò uccisa. Così comparvero dinanzi a Dio prima di Beatrice.
Quando Beatrice vide lo stendardo tornare verso la cappella per prenderladisse con vivacità:
«La mia signora madre è davvero morta?»
Le risposero di sì; ella si gettò in ginocchio davanti al crocefissoepregò con fervore per la sua anima. Poi
parlò a voce alta e a lungo al crocefisso.
«Signoresei ritornato per mee io ti seguirò di buon gradonondisperando della tua misericordia per il mio
enorme peccatoecc.»
In seguito recitò diversi salmi e orazionisempre in lode di Dio. Quandoinfine il carnefice le comparve davanti
con una cordadisse:
«Lega questo corpo che dev'essere castigatoe libera quest'anima che devearrivare all'immortalità e alla gloria
eterna. »
Allora si levòdisse le sue preghierelasciò le babbucce in fondo allascalae salita sul patibolo passò lesta la
gamba sopra l'asseposò il collo sotto la mannajae si sistemò dasola alla perfezione per evitare d'esser toccata dal
carnefice. Con la rapidità dei suoi movimentievitò chenel momento incui le fu tolto il suo velo di taffetàil pubblico
le vedesse le spalle e il petto. Ci volle molto prima che il colpo fossevibratoperché sopravvenne un inconveniente. Nel
frattempoella invocava ad alta voce il nome di Gesù Cristo e dellasantissima Vergine.
Il corpo ebbe un grande sussulto al momento fatale. Il povero Bernardo Cenciche era sempre rimasto seduto
sul patibolocadde di nuovo svenutoe ai suoi confortatori occorseben più di mezz'ora per rianimarlo. Allora comparve
sul patibolo Giacomo Cenci; ma anche qui bisogna sorvolare su particolaritroppo atroci. Giacomo Cenci fu mazzolato.
Bernardo fu ricondotto subito in prigioneaveva la febbre altagli fu fattoun salasso.34
In quanto alle povere donneciascuna fu accomodata nella sua barae depostaa qualche passo dal patibolo
presso la statua di san Paolo che è la prima a destra sul ponte Sant'Angelo.Restarono lì fino alle quattro e un quarto
dopo mezzogiorno. Intorno ad ogni bara ardevano quattro candele di cerabianca.
In seguitocon quel che restava di Giacomo Cencifurono portate al palazzodel console di Firenze. Alle nove
e un quarto di serail corpo della giovanevestito dei suoi abiti eincoronato di fiori a profusionefu portato a San Pietro
in Montorio. Era di un'incantevole bellezza; sembrava che dormisse. Fusepolta davanti all'altar maggiore e alla
Trasfigurazione di Raffaello da Urbino. Era accompagnata da cinquantagrandi ceri accesi e da tutti i frati francescani di
Roma.
Lucrezia Petroni fu portataalle dieci di seraalla chiesa di San Giorgio.Durante questa tragediala folla era
innumerevole; fìn dove poteva spingersi lo sguardosi vedevano le stradepiene di carrozze e di gentele impalcaturele
finestre e i tetti coperti di curiosi. Il sole era tanto ardente quel giornoche molte persone perdettero conoscenza. Un
numero infinito prese la febbre; e quando tutto fu terminatoalle diciannove(le due meno un quarto)e la folla si
dispersemolte persone furono soffocatealtre schiacciate dai cavalli. Ilnumero dei morti tu molto considerevole.
La signora Lucrezia Petroni era piuttosto piccola di staturaebenché avesse cinquant'anniera ancora molto
ben portante. Aveva bellissimi lineamentiil naso piccologli occhi neriil viso molto bianco dal bel colorito; aveva
pochi capelli ed erano castani.
Beatrice Cenciche ispirerà un eterno rimpiantoaveva sedici anni giusti;era piccola; era piacevolmente
grassottella e aveva delle fossette in mezzo alle guancedi modo chemortae incoronata di fiorisi sarebbe detto che
dormissee anzi che ridessecome le accadeva spesso quando era in vita.Aveva la bocca piccolai capelli biondi e
naturalmente ricci. Andando alla morte questi capelli biondi e inanellati lericadevano sugli occhie ciò le dava una
certa grazia e induceva alla compassione.
Giacomo Cenci era di piccola staturagrossocol viso bianco e la barbanera; aveva press'a poco ventisei anni
quando morì.
Bernardo Cenci assomigliava in tutto a sua sorellaesiccome portava icapelli lunghi come leimolta gente
quando comparve sul patibololo scambiò per Beatrice.
Il sole era stato così ardenteche molti spettatori di questa tragediamorirono durante la nottee fra loro
Ubaldino Ubaldinigiovane di rara bellezzache prima godeva di perfettasalute. Era fratello del signor Renzimolto
conosciuto a Roma. Così le ombre dei Cenci se ne andarono in buonacompagnia.
Ierimartedì 14 settembre 1599i penitenti di San Marcelloin occasionedella festa della Santa Croce
usufruirono del loro privilegio per liberare dalla prigione il signorBernardo Cenciche si è obbligato a pagare entro un
anno 400.000 franchi alla Santissima Trinità di ponte Sisto.
(Aggiunta di altra mano)
Da lui discendono Francesco e Bernardo Cenciche vivono attualmente.
Il celebre Farinaccichecon la sua ostinazionesalvò la vita al giovaneCenciha pubblicato le sue arringhe.
Dà soltanto un estratto dell'arringa n. 66che pronunciò davanti aClemente VIII in favore dei Cenci. Quest'arringain
lingua latinariempirebbe sei grandi paginee non posso inserirla quiconmio rincrescimento; riproduce il modo di
pensare del 1599; mi sembra molto ragionevole. Molti anni dopo il 1599Farinaccidando alle stampe le sue arringhe
aggiunse una nota a quella che aveva pronunciato in favore dei Cenci: Omnesfuerunt ultimo supplicio affectiexcepto
Bernardo qui ad triremes cum bonorum confiscatione condemnatus fuitac etiamad interessendum aliorum morti prout
interfuit. La fine di questa nota latina è commoventema suppongo cheil lettore sia stanco di una sì lunga storia.
LA DUCHESSA DI PALLIANO
Palermo22 luglio 1838
Non sono un naturalistae la mia conoscenza del greco è assai mediocre; loscopo principale del mio viaggio in
Sicilia non era quello di osservare i fenomeni dell'Etnané di far luceper me o per gli altrisu tutto ciò che gli antichi
autori greci hanno detto dell'isola. Cercavo innanzi tutto il piacere degliocchiche è grande in questo singolare paese.
Dicono che somigli all'Africa; maper meè certo che somiglia all'Italiasolo per le sue divoranti passioni. Dei Siciliani
si può ben dire che la parola impossibile non esiste per lorononappena sono infiammati dall'amore o dall'odioe l'odio
in questo bel paesenon sorge mai da motivi d'interesse.
Ho notato che in Inghilterrae soprattutto in Franciasi parla spesso dellapassione italianadella passione
sfrenata che esisteva in Italia nei secoli XVI e XVII. Ai giorni nostriquesta bella passione è mortadefinitivamente
nelle classi che hanno subito l'influenza delle usanze francesi e delle modedi Parigi o di Londra.
Si potrebbe osservare chedall'epoca di Carlo V (1530)NapoliFirenzeeanche Romaimitarono un po' i
costumi spagnoli; ma quelle abitudini sociali così nobili non erano forsefondate sul profondo rispetto che ogni uomo
degno di questo nome deve ai propri sentimenti? Lungi dal bandire l'energiaesse l'accentuavanomentre la prima
regola dei fatui imitatori del duca di Richelieuverso il 1760era di nonsembrar commossi di nulla. La massima dei35
dandies inglesiche oggi vengono copiati a Napoli a preferenza dei damerinifrancesinon è quella di sembrare annoiati
di tuttosuperiori a tutto?
Sicché la passione italianada un secolo a questa partenon esistepiù nella buona società di quel paese.
Per farmi un'idea di questa passione italianadi cui i nostriromanzieri parlano con tanta sicurezzasono stato
obbligato a interrogare la storia; ma la grande storiascritta da uomini ditalentoe spesso troppo maestosanon dice
quasi nulla di questi dettagli. Essa non si degna di annotare certe follieameno che siano commesse da re o da principi.
Ho dovuto ricorrere alla storia locale di ogni città; ma sono rimastospaventato dall'abbondanza dei materiali. Certe
piccole città vi presentano con fierezza la loro storia in tre o quattrovolumi stampati in 4°e in sette o otto volumi
manoscritti; questiquasi indecifrabilicostellati di abbreviazioniconcaratteri di forma strananei momenti più
interessanti sono pieni di modi dire dialettaliinintelligibili venti leghepiù in là. Perché in tutta questa bella Italiadove
l'amore ha disseminato tanti avvenimenti tragicisolo in tre cittàFirenzeSiena e Romasi parla press'a poco come si
scrive; dappertutto altrove la lingua scritta è a mille miglia dalla linguaparlata.
La cosiddetta passione italianacioè la passione che cerca disoddisfarsie non già di dare al vicino un'idea
magnifica della nostra personacomincia con la rinascita della societànel XII secoloe si estinguealmeno nelle classi
più elevateverso il 1734. A quell'epocai Borboni vengono a regnare aNapoli nella persona di don Carlosfiglio di
una Farnesesposatain seconde nozzea Filippo Vil triste nipote diLuigi XIVcosì intrepido sul campo di battaglia
così annoiatoe così appassionato di musica. È noto che per ventiquattroanni il sublime castrato Farinelli gli cantò tutti
i giorni le sue tre arie predilettesempre le stesse.
Uno spirito filosofico potrebbe trovare curiosi i particolari di una passionevissuta a Roma o a Napolima
confesserò che nulla mi pare più assurdo di quei romanzi che danno nomiitaliani ai loro personaggi. Non è convenuto
che le passioni mutano ogni volta che ci si avvicina di cento leghe al Nord?L'amore è forse lo stesso a Marsiglia e a
Parigi? Tutt'al più si può dire che i paesi soggetti da lungo tempo allostesso governomostrano nelle abitudini sociali
una specie di somiglianza esteriore.
I paesaggicome le passionicome la musicacambiano anch'essi appena ci sispinge di tre o quattro gradi
verso il Nord. Un paesaggio napoletano sembrerebbe assurdo a Veneziase nonfosse cosa convenutaanche in Italia
ammirare le bellezze naturali di Napoli. A Parigifacciamo di meglio:crediamo che l'aspetto delle foreste e delle
pianure coltivate sia lo stesso a Napoli e a Veneziae vorremmo che ilCanalettoper esempioadoprasse assolutamente
gli stessi colori di Salvator Rosa.
Il colmo del ridicolo non è forse una dama inglese dotata di tutte leperfezioni della sua isolama considerata
incapace di dipingere l'odio e l'amore di quell'isola stessa:la signora Ann Radcliffeche dà nomi italiani e grandi
passioni ai personaggi del suo celebre romanzo Il confessionale deipenitenti neri?
Non cercherò affatto di abbellire la semplicitàla rudezza talora urtantidel racconto fin troppo realistico che
sottopongo all'indulgenza del lettore; per esempiotradurrò esattamente larisposta della duchessa di Palliano alla
dichiarazione d'amore di suo cugino Marcello Capece. Questa monografia dellafamiglia si trovanon so perchéalla
fine del secondo volume di una storia manoscritta di Palermosulla quale nonposso dare nessuna precisazione.
Il raccontoche ho molto abbreviatoa malincuore (ho soppresso unaquantità di particolari caratteristici)
comprende le ultime vicende della disgraziata famiglia Carafapiù che lastoria avvincente di una sola passione. La
vanità letteraria mi dice che forse non mi sarebbe stato impossibileaccrescere l'interesse di varie situazionisviluppando
di piùcioè indovinando e raccontando al lettorenei particolariisentimenti dei personaggi. Ma iogiovane Francese
nato a nord di Parigisono ben certo d'indovinare ciò che sentivano quelleanime italiane dell'anno 1559? Tutt'al più
posso sperare d'indovinare quel che può apparire elegante e piccante ailettori francesi del 1838.
Questo modo appassionato di sentire che regnava in Italia verso il 1559voleva azioni e non parole. Si
troveranno quindi pochissimi dialoghi nei racconti che seguono. È unosvantaggio per questa traduzioneabituati come
siamo alle lunghe conversazioni dei nostri personaggi romanzeschi; per lorouna conversazione è una battaglia. La
storia per cui reclamo tutta l'indulgenza del lettore mostra una singolareparticolarità introdotta dagli Spagnoli nei
costumi italiani.
Non sono mai uscito dal mio ruolo di traduttore. Il calco fedele dei modi disentire del XVI secoloe anche dei
modi di raccontare dello storico chesecondo ogni apparenzaera ungentiluomo appartenente al seguito della
sventurata duchessa di Pallianorappresentaa mio avvisoil pregioprincipale di questa storia tragicase mai essa ne ha
uno.
La più rigida etichetta spagnola regnava alla corte del duca diPalliano. Notate che ogni cardinaleogni
principe romano aveva una corte similee potrete farvi un'idea dellospettacolo che presentava nel 1559 l'alta società
della città di Roma. Non dimenticate che era il tempo in cui il re FilippoII avendo bisogno per un suo intrigo del
suffragio di due cardinalidiede a ciascuno di essi 200.000 franchi direndita in benefici ecclesiastici. Romabenché
priva di un esercito temibileera la capitale del mondo. Pariginel 1559era una città di barbari abbastanza inciviliti.
TRADUZIONE FEDELE DI UNA VECCHIA CRONACA SCRITTA VERSO IL 1566
Giampietro Carafasebbene appartenente a una delle più nobili famiglie delregno di Napoliera di modi aspri
rudiviolenti e in tutto degni di un pecoraio. Prese l'abito lungo (talare)e in giovane età se ne andò a Romadove
godette del favore di suo cugino Oliviero Carafacardinale e arcivescovo diNapoli. Alessandro VIquel grand'uomo36
che sapeva tutto e poteva tuttolo fece suo cameriere (press'a pocoquel che noi chiameremmonel linguaggio attuale
un ufficiale d'ordinanza). Giulio II lo nominò arcivescovo di Chieti; papaPaolo lo fece cardinalee infineil 23 maggio
1555dopo contese e dispute tremende fra i cardinali rinchiusi in conclavefu creato papa col nome di Paolo IV: aveva
allora settantotto anni. Gli stessi che l'avevano appena chiamato al trono disan Pietro fremettero ben prestopensando
alla durezza e alla fede indomitainesorabiledel padrone che si eranodati.
La notizia di questa elezione inattesa rivoluzionò Napoli e Palermo. Inpochi giorni Roma vide arrivare un gran
numero di membri dell'illustre famiglia Carafa. Tutti furono sistemati; macom'è naturaleil papa favorì in modo
particolare i suoi tre nipotifigli del conte di Montoriosuo fratello.
Don Juanil primogenitogià sposatofu fatto duca di Palliano. Questoducatostrappato a Marcantonio
Colonnacui appartenevacomprendeva molti villaggi e cittadine. Don Carlosil secondo dei nipoti di Sua Santitàera
cavaliere di Malta e aveva fatto la guerra; fu creato cardinalelegato diBologna e primo ministro. Era un uomo molto
risoluto fedele alle tradizioni della sua famigliaosò odiare il re piùpotente del mondo (Filippo IIre di Spagna e delle
Indie)e gli diede prova del suo odio. In quanto al terzo nipote del nuovopapadon Antonio Caratasiccome era
sposatoil papa lo fece marchese di Montebello. Infinevolle dare in mogliea Francescodelfino di Francia e figlio del
re Enrico II una figlia avuta da suo fratello in seconde nozze; Paolo IVpretendeva di assegnarle in dote il regno di
Napoli. togliendolo a Filippo IIre di Spagna. La famiglia Carafa odiavaquel potente sovranoil qualeapprofittando
dei suoi erroririuscì a sterminarlacome vedrete.
Da quando era salito al trono di san Pietroil più potente del mondoche aquell'epoca eclissava perfino
l'illustre monarca della SpagnaPaolo IVcome si è visto poi anche nellamaggior parte dei suoi successoridava
l'esempio di tutte le virtù. Fu un gran papa e un gran santo; si sforzò diriformare gli abusi nella Chiesa e di evitare in tal
modo il concilio generaleche da ogni parte veniva richiesto alla corte diRomae che una saggia politica non
consentiva di accordare.
Secondo l'usanza di quel tempo oggi troppo dimenticatoche non permetteva aun sovrano di fidarsi di gente
che poteva avere interessi diversi dai suoigli Stati di Sua Santità eranogovernati dispoticamente dai suoi tre nipoti. Il
cardinale era primo ministro e disponeva delle volontà dello zio; il duca diPalliano era stato creato generale delle
truppe della Santa Chiesae il marchese di Montebellocapitano delleguardie di palazzovi lasciava entrare solo le
persone a lui gradite. Ben presto quei giovani commisero i maggiori eccessi;cominciarono con l'appropriarsi dei beni
delle famiglie contrarie al loro governo. Le popolazioni non sapevano a chiricorrere per ottenere giustizia. Non solo
dovevano temere per i loro benimaorribile a dirsi nella patria dellacasta Lucrezial'onore delle loro mogli e delle loro
figlie non era al sicuro. Il duca di Palliano e i suoi fratelli rapivano ledonne più belle; bastava che avessero la disgrazia
di piacere a quei signori. Si videcon stuporeche non avevano alcunriguardo per la nobiltà del sangueepeggio
ancorala sacra clausura dei santi monasteri non era affatto un ostacolo perloro. Le popolazioniridotte alla
disperazionenon sapevano a chi far giungere le loro lagnanzetanto grandeera il terrore che i tre fratelli avevano
ispirato a tutti quelli che si avvicinavano al papa; erano insolenti perfinocon gli ambasciatori.
Il duca aveva sposatoprima dell'elezione di suo zioViolante di Cardonadi una famiglia originaria della
Spagnae chea Napoliapparteneva alla più alta nobiltà.
Essa era iscritta al Seggio di nido.
Violantecelebre per la sua rara bellezza e per le grazie che sapevasfoderare quando voleva piacerelo era
ancora di più per il suo orgoglio insensato. Maad esser giustisarebbestato difficile avere un carattere più fortecome
dimostrò bene al mondo non rivelando nullaprima di morireal fratecappuccino che la confessò. Sapeva a memoria e
recitava con grazia infinita il meraviglioso Orlando di messer Ariostola maggior parte dei sonetti del divino Petrarca
le novelle del Pecoroneecc.ecc. Ma era ancor più seducente quandodegnava intrattenere gli interlocutori con le idee
singolari che il suo spirito le suggeriva.
Ebbe un figlio che fu chiamato il duca di Cavi. Suo fratellodon Ferranteconte d'Alifeandò a Romaattratto
dalla fortunata carriera dei suoi cognati.
Il duca di Palliano teneva una corte splendida; i giovani delle primefamiglie di Napoli si disputavano l'onore di
farne parte. Fra quelli che gli erano più cariRoma assegnò un postoparticolarecon la sua ammirazionea Marcello
Capece (del Seggio di nido)giovane cavaliere celebre a Napoli per ilsuo spiritononché per la divina bellezza che
aveva ricevuto dal cielo.
La duchessa aveva come favorita Diana Brancaccioche a quel tempo era suitrent'anniparente prossima della
marchesa di Montebellosua cognata. A Roma si diceva chedavanti a questafavoritanon aveva più orgoglio; le
confidava tutti i suoi segreti. Ma tali segreti riguardavano solo lapolitica; la duchessa suscitava molte passionima non
ne condivideva nessuna.
Seguendo i consigli del cardinal Carafail papa fece la guerra al re diSpagnae il re di Francia mandò in
soccorso del papa un esercito comandato dal duca di Guisa.
Ma dobbiamo attenerci agli avvenimenti interni della corte del duca diPalliano.
Da molto tempo Capece sembrava impazzito; lo si vedeva commettere le azionipiù stravaganti; il fatto è che il
povero giovane si era appassionatamente innamorato della duchessa sua signorama non osava dichiararsi a lei. Però
non disperava del tutto di ottenere il suo scopovedeva la duchessaprofondamente irritata contro un marito che la
trascurava. Il duca di Palliano era onnipotente a Romae la duchessa sapevasenza alcun dubbioche quasi tutti i giorni
le dame romane più celebri per la loro bellezza andavano a trovare suomarito nel suo stesso palazzoed era un affronto
cui ella non poteva abituarsi.37
Fra i cappellani del santo papa Paolo IV c'era un degno religioso con cuiegli recitava il breviario. Questo
personaggioa rischio di rovinarsie forse spinto dall'ambasciatore diSpagnaun giorno osò rivelare al papa tutte le
scelleratezze dei suoi nipoti. Il santo pontefice si ammalò dal dispiacere;volle dubitare; ma prove schiaccianti gli
arrivavano da ogni parte. Il primo giorno dell'anno 1559 ebbe luogol'avvenimento che confermò il papa in tutti i suoi
sospettie forse fece decidere Sua Santità. Proprio il giorno dellaCirconcisione di Nostro Signorecircostanza che
aggravò di molto la colpa agli occhi di un sovrano così pioAndreaLanfranchisegretario del duca di Pallianodiede
una magnifica cena in onore del cardinal Carafae volendo che oltre aglistimoli della gola non mancassero quelli della
lussuriafece venire a cena la Martucciauna delle più belledellepiù celebri e ricche cortigiane della nobile città di
Roma. Fatalità volle che Capeceil favorito del ducalo stesso che insegreto era innamorato della duchessae che era
ritenuto il più bell'uomo della capitale del mondoda qualche tempo avesseuna relazione con la Martuccia. Quella sera
la cercò in tutti i luoghi dove poteva sperare d'incontrarla. Non trovandolada nessuna partee avendo appreso che in
casa Lanfranchi si teneva una cenaebbe il sospetto di quanto stavaavvenendoe verso mezzanotte si presentò da
Lanfranchiaccompagnato da molti uomini armati.
La porta gli fu apertafu invitato a sedersi e a partecipare al festinomadopo qualche parola assai sforzataegli
fece segno alla Martuccia di alzarsi e di uscire con lui. Mentre ellaesitava tutta confusaprevedendo quel che sarebbe
accadutoCapece si alzò dal suo postoe avvicinandosi alla giovane laprese per manocercando di trascinarla con sé. Il
cardinalein onore del quale la donna era venutasi oppose vivamente allasua partenza; Capece insisté cercando di
trascinarla fuori dalla sala.
Il cardinale primo ministroche quella sera portava un abito tutto diversoda quello conforme alla sua alta
dignitàpose mano alla spadae si oppose col vigore e il coraggio chetutta Roma gli conosceva alla partenza della
giovane. Marcelloebbro di collerafece entrare i suoi uominima erano inmaggioranza Napoletanie quando
riconobbero prima il segretario del duca e poi il cardinaleche il singolareabito aveva loro nascosto sulle prime
rinfoderarono le spadenon vollero battersie s'interposero per appianareil litigio.
Durante questo tumultoMartucciache era circondata e che MarcelloCapece tratteneva con la sinistrafu
abbastanza svelta da svignarsela. Appena Marcello si avvide della suaassenzale corse appressoe tutti i suoi lo
seguirono.
Ma l'oscurità della notte autorizzava i racconti più stranie la mattinadel 2 gennaio nella capitale dilagarono le
voci sul rischioso combattimento che avrebbe avuto luogosi dicevafra ilcardinal nipote e Marcello Capece. Il duca di
Pallianocomandante supremo dell'esercito della Chiesacredette la faccendaassai più grave di quanto non fossee
poiché non era in buoni rapporti con suo fratello il ministrola nottestessa fece arrestare Lanfranchie il giorno dopodi
buonoraanche Marcello fu messo in prigione. Poi ci si accorse che nessunoaveva perduto la vitae che quegli arresti
non facevano che aumentare lo scandaloa tutto danno del cardinale. Ci siaffrettò a rilasciare i prigionierie l'immenso
potere dei tre fratelli si concentrò per cercar di mettere a tacere lafaccenda. Dapprima sperarono di riuscirvi; mail
terzo giornotutta la storia arrivò alle orecchie del papa. Egli fecechiamare i due nipotie parlò loro come poteva farlo
un principe tanto pio e così profondamente offeso.
Il quinto giorno di gennaioin cui un gran numero di cardinali si riunivanella congregazione del Sant'Uffizioil
santo papa parlò per primo di quell'orribile faccenda; domandò ai cardinalipresenti come mai avevano osato non
portarla a sua conoscenza:
«Voi tacete! eppure lo scandalo riguarda la dignità sublime di cui sieterivestiti! Il cardinal Carafa ha osato
mostrarsi sulla pubblica via vestito di un abito secolare e con la spadasguainata in mano. E a quale scopo? Per
impadronirsi di un'infame cortigiana?»
Ci si può immaginare il silenzio di morte che regnava fra tutti i cortigianidurante quest'invettiva contro il
primo ministro. Era un vegliardo di ottant'anni che si adirava contro unnipote predilettofino allora arbitro di tutte le
sue volontà. Nella sua indignazione il papa parlò di togliere al nipote ilcappello cardinalizio.
La collera del papa fu fomentata dall'ambasciatore del granduca di Toscanache andò a lagnarsi con lui di una
recente insolenza del cardinale primo ministro. Questo cardinalecosìpotente fino allorasi presentò da Sua Santità per
il solito lavoro. Il papa lo lasciò quattro ore di fila in anticameraadaspettare sotto gli occhi di tuttipoi lo mandò via
senza volerlo ammettere all'udienza. Figurarsi come ne soffrì lo smoderatoorgoglio del ministro. Il cardinale era
irritatoma non sottomesso; pensava che un vecchio prostrato dall'etàdominato per tutta la vita dall'amore che portava
alla famigliae che infine era poco abituato a sbrigare gli affaritemporalisarebbe stato obbligato a ricorrere alle sue
prestazioni. La virtù del santo papa ebbe la meglioegli convocò icardinali edopo averli guardati a lungo senza
parlarealla fine scoppiò in lacrime e non esitò a fare una specie diammenda onorevole:
«La debolezza dell'età» disse loro«e le cure che rivolgo alle cosedella religionenelle qualicome sapete
intendo distruggere tutti gli abusimi hanno indotto ad affidare la miaautorità temporale ai miei tre nipoti; ne hanno
abusato ed io li scaccio per sempre.»
In seguito fu data lettura di un breve per cui i nipoti erano spogliati ditutte le loro dignitàe confinati in
miserabili villaggi. Il cardinale primo ministro fu esiliato a CivitaLaviniail duca di Palliano a Sorianoe il marchese a
Montebello; con questo breveil duca era privato dei suoi emolumenticheammontavano a 72.000 piastre (più di un
milione del 1838).
Non era possibile disobbedire a questi ordini severi: i Carafa avevano pernemico e sorvegliante tutto quanto il
popolo di Romache li detestava38
Il duca di Pallianoseguito dal conte d'Alifesuo cognatoe da Leonardodel Cardineandò a stabilirsi nel
piccolo villaggio di Sorianomentre la duchessa e sua suocera andarono adabitare a Gallesemisera borgata a due leghe
appena da Soriano.
Queste località sono amene; ma si trattava di un esilioed essi sitrovavano cacciati via da Roma dove fino
allora avevano regnato con arroganza.
Marcello Capece aveva seguito la sua signora con gli altri cortigianinel povero villaggio dov'era stata esiliata.
Invece di ricevere gli omaggi di tutta Romaquesta donnacosì potentepochi giorni primae che godeva del proprio
rango con tutta l'esaltazione dell'orgoglioormai si vedeva circondatasoltanto da semplici contadiniil cui stesso
stupore le rammentava la sua caduta. Non aveva alcuna consolazione; suo zioera così vecchio che probabilmente
sarebbe stato sorpreso dalla morte prima di richiamare i nipotie per colmodi disgrazia i tre fratelli si detestavano fra
loro. Si arrivava perfino a dire che il duca e il marcheseche noncondividevano affatto le focose passioni del cardinale
spaventati dai suoi eccessifossero arrivati al punto di denunciarlo al papaloro zio.
In mezzo all'orrore di questa profonda disgraziaaccadde un fatto chepersfortuna della duchessa e dello
stesso Capecedimostrò bene chea Romanon era stata una vera passione aspingerlo dietro alla Martuccia.
Un giorno che la duchessa l'aveva fatto chiamare per dargli un ordinesitrovò solo con leicosa che non
succedeva forse neppure due volte in un anno. Quando vide che non c'eranessuno nella sala dove la duchessa lo
ricevevaCapece restò immobile e silenzioso. Andò verso la porta pervedere se c'era qualcuno che potesse ascoltarli
nella stanza vicinapoi ardì parlare così:
«Signoranon v'inquietate e non andate in collera per le parole insoliteche avrò la temerità di pronunciare. Da
molto tempo vi amo più della vita. Secon troppa imprudenzaho osatocontemplare da innamorato le vostre divine
bellezze non dovete darne la colpa a mebensì alla forza soprannaturale chemi spinge e mi agita. Sono alla tortura
brucio; non chiedo ristoro dalla fiamma che mi consumama soltanto che lavostra generosità abbia pietà d'un servitore
pieno di deferenza e di umiltà.»
La duchessa parve sorpresa e soprattutto irritata:
«Marcelloche cosa mai hai visto in me» gli disse«che ti dia l'ardiredi chiedermi amore? Forse che la mia
vitala mia conversazione si sono talmente allontanate dalle regole delladecenzache tu abbia potuto sentirti
autorizzato a simile sfrontatezza? Come hai potuto avere la temerità dicredere ch'io potessi darmi a te o a chiunque
altroeccettuato il mio sposo e signore? Ti perdono quel che mi hai dettoperché penso che tu sia fuor di senno; ma
guardati bene dal ricadere in un simile erroreo ti giuro che ti faròpunire insieme per la prima e per la seconda
insolenza.»
La duchessa si allontanòpresa dalla collerae in effetti Capece eravenuto meno alle leggi della prudenza;
bisognava lasciar indovinaree non parlare. Egli restò sconcertatotemendomolto che la duchessa raccontasse la cosa a
suo marito.
Ma il seguito fu ben diverso da quel che temeva. Nell'isolamento di quelvillaggiola fiera duchessa di Palliano
non poté impedirsi di confidare quel che Capece aveva osato dirle alla suadama d'onore predilettaDiana Brancaccio.
Era una donna di trent'annidivorata da ardenti passioni. Aveva i capellirossi (lo storico torna parecchie volte su questa
circostanzache gli sembra spiegare tutte le follie di Diana Brancaccio).Amava con furore Domiziano Fornari
gentiluomo al seguito del marchese di Montebello. Voleva prenderlo permarito; ma il marchese e sua moglieal quali
aveva l'onore d'esser legata da vincoli di sangueavrebbero mai consentito avederla sposare un uomo attualmente al
loro servizio? Quest'ostacolo era insormontabilealmeno in apparenza.
Non c'era che una probabilità di successo: ottenere una valida protezione daparte del duca di Pallianofratello
maggiore del marchesee Diana non era priva di speranze a tale proposito. Ilduca la trattava da parente più che da
domestica. Era un uomo dotato di un certa semplicità di cuore e di una certabontàe teneva infinitamente meno dei suoi
fratelli alle regole dell'etichetta. Benché il duca approfittasse come ungiovanotto di tutti i privilegi della sua alta
posizionee non fosse per nulla fedele alla moglietuttavia la amavateneramenteestando alle apparenzenon avrebbe
potuto rifiutarle una grazia se ella gliel'avesse chiesta con una certainsistenza.
La confessione che Capece aveva osato fare alla duchessa parve una fortunainaspettata alla tenebrosa Diana.
La sua padrona era stata fino allora di una virtù esasperante; ma se potevaprovare una passionese commetteva un
errorein ogni momento avrebbe avuto bisogno di Dianae questa avrebbepotuto sperare tutto da una donna di cui
conoscesse i segreti.
Invece di ricordare alla duchessa innanzi tutto ciò che doveva a se stessae poi i pericoli tremendi cui si
sarebbe esposta in mezzo a cortigiani così perspicaciDianatrascinatadalla foga della propria passioneparlò alla sua
signora di Marcello Capececome parlava a se stessa di Domiziano Fornari.Nei lunghi colloqui di quell'isolamento
ella trovava modoogni giornodi rammentare alla duchessa le grazie e labellezza di quel povero Marcello che
sembrava così triste; appartenevacome la duchessaalle prime famiglie diNapolile sue maniere erano nobili come il
suo sanguee gli mancavano solo le ricchezzeche un capriccio della fortunaavrebbe potuto dargli da un giorno
all'altroper essere in tutto eguale alla donna che osava amare.
Diana si accorse con gioia che il primo effetto di questi discorsi era quellodi raddoppiare la fiducia che la
duchessa le accordava.
Non mancò di informare Marcello Capece di quanto avveniva. Durante il caldotorrido di quell'estatela
duchessa passeggiava spesso nei boschi che circondano Gallese. Al cadere delsolesi recava ad attendere la brezza di.39
mare sulle ridenti colline che s'innalzano in mezzo a quei boschidalla cuisommità si scorge il mare a meno di due
leghe di distanza.
Senza contravvenire alle rigide leggi dell'etichettaMarcello poteva bentrovarsi in quei boschi: dicono che vi
si nascondessee avesse cura di mostrarsi agli sguardi della duchessa soloquando era ben disposta dai discorsi di Diana
Brancaccio. Questa faceva un segnale a Marcello.
Dianavedendo che la sua padrona stava per dare ascolto alla fatale passioneche lei stessa aveva suscitato nel
suo cuorecedette da parte sua all'amore violento ispiratole da DomizianoFornari. Ormai si credeva sicura di poterlo
sposare. Ma Domiziano era un giovane saggiodi carattere freddo e riservato;gli impeti della sua focosa amante
anziché farlo attaccare di piùgli sembrarono ben presto sgradevoli. DianaBrancaccio era parente prossima dei Carafa;
egli era sicuro che l'avrebbero pugnalatoalla minima voce che fosse giuntasui suoi amori al terribile cardinal Carafa
chesebbene fratello minore del duca di Pallianoerain realtàil verocapo della famiglia.
La duchessa aveva ceduto da qualche tempo alla passione di Capecequando unbel giorno Domiziano Fornari
non fu più ritrovato nel villaggio dov'era relegata la corte del marchese diMontebello. Era scomparso: si seppe più tardi
che s'era imbarcato nel piccolo porto di Nettuno; senza dubbio aveva cambiatonomee da allora non si ebbero più sue
notizie.
Chi potrebbe descrivere la disperazione di Diana? Dopo aver ascoltato conbontà i suoi lamenti contro il
destinoun giorno la duchessa di Palliano le lasciò capire chequest'argomento le sembrava esaurito. Diana si vedeva
disprezzata dal suo amanteil suo cuore era in preda alle più crudelisofferenzee trasse la più strana conclusione da
quel momento di noia che la duchessa aveva provato ascoltando il ripetersidei suoi lamenti. Diana si persuase che
proprio la duchessa avesse obbligato Domiziano Fornari a lasciarla persempree in più gli avesse fornito i mezzi per il
viaggio. Questa folle idea era fondata solo su qualche lieve rimprovero cheun tempo la duchessa le aveva rivolto. Il
sospetto fu ben presto seguito dalla vendetta. Ella chiese un'udienza al ducae gli raccontò tutto quel che avveniva tra
sua moglie e Marcello. Il duca rifiutò di prestarvi fede. «Pensate» ledisse«che da quindici anni non ho avuto il
minimo rimprovero da fare alla duchessaella ha resistito alle lusinghedella corte e alle attrattive della brillante
posizione che avevamo a Roma; i principi più amabilie il duca di Guisa inpersonagenerale dell'esercito francese
hanno perso il loro tempo con leie volete che ceda a un semplicescudiero?»
Disgrazia volle chesiccome il duca si annoiava molto a Sorianoilvillaggio in cui era relegatoad appena due
leghe da quello dove abitava sua moglieDiana potesse ottenere da lui ungran numero di udienzesenza che la
duchessa ne venisse a conoscenza. Diana aveva un talento straordinario; lapassione la rendeva eloquente. Diede al duca
una quantità di dettagli; la vendetta era diventata il suo unico piacere.Gli ripeteva chequasi tutte le sereCapece
s'introduceva in camera della duchessa verso le undicie non ne usciva chealle due o alle tre del mattino. Questi
discorsi sulle prime fecero così poca impressione al ducache non volledarsi la pena di percorrere due leghe a
mezzanotte per andare a Galleseed entrare di sorpresa in camera di suamoglie.
Ma una sera che si trovava a Gallesee il sole era tramontato ma facevaancora chiaroDiana entrò tutta
scarmigliata nel salone dov'era il duca. Tutti si allontanarono; ella glidisse che Marcello Capece era appena entrato
nella stanza della duchessa. Il ducacerto maldisposto in quel momentoprese il pugnale e corse alla camera di sua
mogliedove entrò per una porta segreta. Vi trovò Marcello Capece. Inveritài due amanti cambiarono colore
vedendolo entrare; maper il restonon c'era nulla di reprensibile nellaposizione in cui si trovavano. La duchessa era
nel suo lettooccupata ad annotare una piccola spesa che aveva fatto; unacameriera era nella stanza; Marcello stava in
piedi a tre passi dal letto.
Il duca furibondo afferrò Marcello alla golalo trascinò in un gabinettovicinoe gli ordinò di gettare in terra la
daga e il pugnale di cui era armato. Dopodiché chiamò alcuni uomini dellasua guardiada cui Marcello fu
immediatamente condotto nelle prigioni di Soriano.
La duchessa fu lasciata nel suo palazzoma sotto stretta sorveglianza.
Il duca non era crudele; a quanto sembra ebbe l'idea di nasconderel'ignominiosa faccendaper non essere
obbligato a prendere le misure estreme che l'onore esigeva da lui. Volle farcredere che Marcello era trattenuto in
carcere per tutt'altro motivoe prendendo pretesto da certi enormi rospi cheMarcello aveva comprato a caro prezzo due
o tre mesi primafece dire che il giovane aveva tentato di avvelenarlo. Mail vero delitto era troppo ben conosciutoe il
cardinalesuo fratellogli fece chiedere quando avrebbe lavato nel sanguedei colpevoli l'affronto che si era osato fare
alla loro famiglia.
Il duca chiamò al suo fianco il conte d'Alifefratello di sua moglieeAntonio Torandoamico di casa. Tutti e
treformando una specie di tribunalesottoposero a giudizio MarcelloCapeceaccusato di adulterio con la duchessa.
L'instabilità delle cose umane volle che il papa Pio IVsucceduto a PaoloIVappartenesse alla fazione
spagnola. Non poteva rifiutare nulla al re Filippo IIche esigeva da lui lamorte del cardinale e del duca di Palliano. I
due fratelli furono accusati davanti ai tribunali del paesee le minute delprocesso che dovettero subire ci informano su
tutte le circostanze della morte di Marcello Capece.
Uno dei numerosi testimoni ascoltati depone in questi termini:
«Eravamo a Soriano; il ducamio signoreebbe un lungo colloquio con ilconte d'Alife... La seramolto tardi
scendemmo in un magazzino a pianterrenodove il duca aveva fatto prepararele corde necessarie per mettere alla
tortura il colpevole. Eravamo il ducail conte d'Alifemesser AntonioTorando ed io.»
Il primo testimonio citato fu il capitano Camillo Grifoneamico intimo econfidente di Capece. Il duca gli parlò
così:40
«Dì la veritàamico mio. Che cosa sai di quel che Marcello ha fatto nellacamera della duchessa?»
«Non so nulla; da più di venti giorni sono in urto con Marcello.»
Siccome si ostinava a non dire altroil signor duca chiamò da fuori alcunedelle sue guardie. Grifone fu legato
alla corda dal podestà di Soriano. Le guardie tirarono le cordeein talmodosollevarono il colpevole a quattro dita da
terra. Dopo che il capitano fu rimasto così appeso per un buon quarto d'oradisse:
«Calatemi giùdirò quello che so.»
Quando fu rimesso a terrale guardie si allontanarono e restammo soli conlui.
«È vero che parecchie volte ho accompagnato Marcello fino alla camera delladuchessa» disse il capitano«ma
non so niente di piùperché lo aspettavo in un cortile lì accanto finverso l'una del mattino.»
Subito furono richiamate le guardiecheper ordine del ducalo sollevaronodi nuovoin modo che i suoi piedi
non toccavano terra. Ben presto il capitano esclamò:
«Calatemi giù; voglio dire la verità. È vero» continuò«cheda varimesimi sono accorto che Marcello fa
l'amore con la duchessae volevo avvertire Vostra Eccellenza o don Leonardo.La duchessa mandava tutte le mattina a
chieder notizie di Marcello; gli faceva avere dei regaliniefra l'altrodelle confetture preparate con molta cura e assai
costose; ho veduto a Marcello delle catenine d'oro di mirabile fatturacheaveva ricevutoevidentementedalla
duchessa.»
Dopo questa deposizioneil capitano fu rispedito in prigione. Si feceentrare il portiere della duchessache
disse di non sapere nulla; fu legato alla cordae sollevato in aria. Dopouna mezz'oradisse:
«Calatemi giùdirò quello che so.»
Una volta a terrasostenne di non sapere niente; fu sollevato di nuovo. Dopouna mezz'ora lo rimisero giù;
spiegò che solo da poco tempo era addetto al servizio particolare delladuchessa. Poiché era possibile che quell'uomo
non sapesse nullafu rimandato in prigione. Tutte queste faccende avevanopreso molto tempo a causa delle guardie che
venivano fatte uscire ogni volta. Si voleva che le guardie credessero che sitrattava di un tentativo di avvelenamento col
veleno estratto dai rospi.
La notte era già molto inoltrata quando il duca fece venire Marcello Capece.Uscite le guardiee la porta
debitamente chiusa a chiave:
«Che cosa avete da fare» gli disse«nella camera della duchessaperrestarvi fino all'unaalle due e talvolta
fino alle quattro del mattino?»
Marcello negò tutto; furono chiamate le guardieche lo sollevarono; lacorda gli slogava le braccia; non
potendo sopportare il dolorechiese di essere calato; lo misero su unasedia; ma una volta lìsi imbrogliò nel discorsoe
in realtà non sapeva quel che diceva. Furono chiamate le guardie che losospesero di nuovo; dopo molto tempo
domandò di essere calato.
«È vero» disse«che sono entrato nell'appartamento della duchessa aquelle ore indebite; ma facevo l'amore
con la signora Diana Brancacciouna delle dame di Sua Eccellenzacui avevofatto promessa di matrimonioe che mi
ha concesso tuttoeccetto le cose contrarie all'onore.»
Marcello fu ricondotto alla sua prigionedove fu posto a confronto con ilcapitano e con Dianache negò tutto.
In seguito Marcello fu riportato nella sala bassa; quando fummo vicino allaporta:
«Signor duca» disse Marcello«Vostra Eccellenza ricorderà che mi hapromesso salva la vita se dico tutta la
verità. Non è necessario rimettermi alla tortura; vi dirò tutto.»
Allora si avvicinò al ducaecon voce tremante e articolata a stentoglidisse che era vero che aveva ottenuto i
favori della duchessa. A queste paroleil duca si gettò su Marcello e lomorse alla guancia; poi snudò il suo pugnale e
vidi che stava per trafiggere il colpevole. Allora dissi che era opportunoche Marcello scrivesse di suo pugno quanto
aveva confessato poco prima; questo documento sarebbe servito a giustificareSua Eccellenza. Entrammo nella sala
bassadove c'era tutto l'occorrente per scrivere; ma la corda aveva talmenteferito Marcello al braccio e alla manoche
poté scrivere soltanto queste poche parole: «Sìho tradito il miosignore; sìgli ho rubato l'onore!»
Il duca leggeva man mano che Marcello scriveva. A quel puntosi lanciò suMarcello e gli diede tre pugnalate
che gli tolsero la vita. Diana Brancaccio era lìa tre passipiù mortache vivasenza dubbio pentendosi mille e mille
volte di quel che aveva fatto.
«Donna indegna d'esser nata da nobile famiglia» esclamò il duca«eunica causa del mio disonorecui hai
lavorato per servire i tuoi disonesti piaceribisogna che ti ricompensi ditutti i tuoi tradimenti.» Dicendo queste parole
la prese per i capelli e le segò il collo con un coltello. La sventurataversò un mare di sangue e infine cadde morta.
Il duca fece gettare i due cadaveri in una cloaca vicino alla prigione.
Il giovane cardinale Alfonso Carafafiglio del marchese di Montebellol'unico di tutta la famiglia che Paolo IV
avesse tenuto presso di sécredette di dovergli raccontarequest'avvenimento. Il papa rispose solo con queste parole:
«E della duchessacosa ne hanno fatto?»
Tutti pensaronoa Romache queste parole dovessero comportare la mortedella sventurata donna. Ma il duca
non poteva risolversi a questo grande sacrificiosia perché ella eraincintasia a causa dell'immenso affetto che un
tempo aveva nutrito per lei.
Tre mesi dopo il grande atto di virtù che il santo papa Paolo IV avevacompiuto separandosi da tutta la sua
famigliaegli cadde malato; edopo altri tre mesi di malattiaspirò il 18agosto 1559.41
Il cardinale scriveva lettere su lettere al duca di Pallianoripetendogli dicontinuo che il loro onore esigeva la
morte della duchessa. Vedendo che il loro zio era mortoe non sapendo qualesarebbe stato il pensiero del nuovo papa
voleva che tutto fosse finito al più presto.
Il ducauomo semplicebuono e assai meno scrupoloso del cardinale nellequestioni d'onorenon poteva
decidersi all'estremoterribile passo che si esigeva da lui. Ricordava cheanche lui aveva commesso molte infedeltà
verso la duchessasenza darsi la minima pena di nasconderglielee che taliinfedeltà potevano aver spinto alla vendetta
una donna così altera. Al momento stesso di entrare in conclavedopo averascoltato la messa e ricevuto la santa
comunioneil cardinale gli scrisse ancora che si sentiva tormentato perquesti continui rinviie chese il duca non si
decideva finalmente a ciò che l'onore della casata esigevaegli non sisarebbe più occupato dei suoi affarie non
avrebbe mai cercato di essergli utilené nel conclavené presso il nuovopapa. Un motivo estraneo al punto d'onore
contribuì forse a far decidere il duca. Benché la duchessa fossestrettamente sorvegliatatrovòa quanto diconoil modo
di far sapere a Marcantonio Colonnanemico mortale del duca cui era statodato il ducato di Pallianoche se
Marcantonio avesse trovato il mezzo di salvarle la vita e di liberarlaleida parte suagli avrebbe reso il possesso della
fortezza di Pallianocomandata da un uomo che le era devoto.
Il 28 agosto 1559il duca mandò a Gallese due compagnie di soldati. Il 30don Leonardo del Cardineparente
del ducae don Ferranteconte d'Alifefratello della duchessaarrivaronoa Gallesee si recarono negli appartamenti
della duchessa per toglierle la vita. Le annunciarono la morte; ella appresela notizia senza il minimo turbamento. Volle
innanzi tutto confessarsi e ascoltare la santa messa. Poimentre i duesignori le si avvicinavanoosservò che non erano
d'accordo fra loro. Chiese se avessero un ordine del duca suo marito permetterla a morte.
«Sìsignora» rispose don Leonardo.
La duchessa chiese di vederlo; don Ferrante glielo mostrò.
(Trovo nel processo del duca di Palliano la deposizione dei monaci cheassisterono a questo terribile
avvenimento. Tali deposizioni sono molto superiori a quelle degli altritestimoniil che derivami sembradal fatto che
i monaci erano privi di timore parlando davanti al tribunalementre tuttigli altri testi erano stati più o meno complici
del loro padrone.)
Frate Antonio da Paviacappuccinodepone in questi termini:
«Dopo la messa in cui aveva ricevuto devotamente la santa comunioneementre noi la confortavamoil conte
d'Alifefratello della signora duchessaentrò nella stanza con una corda euna bacchetta di nocciolo grossa come un
pollicelunga circa mezzo braccio. Coprì gli occhi della duchessa con unfazzolettoe leicon gran sangue freddose lo
tirò di più sugli occhiper non vederlo. Il conte le mise la corda alcollo; masiccome non andava benegliela tolse e si
allontanò di qualche passo; la duchessasentendolo muoversisi tolse ilfazzoletto dagli occhie disse:
«"Ebbene! che facciamo?"
«Il conte rispose:
«"La corda non andava benevado a prenderne un'altra per non farvisoffrire."
«Dicendo queste paroleuscì; poco dopo tornò nella stanza con un'altracordale sistemò di nuovo il fazzoletto
sugli occhile rimise la corda al colloe facendo penetrare la bacchettanel nodola fece giraree strangolò la sorella.
Tutto si svolseda parte della duchessaassolutamente sul tono di unanormale conversazione».
Frate Antonio di Salazaraltro cappuccinotermina la sua deposizione conqueste parole:
«Volevo allontanarmi dal baldacchino per scrupolo di coscienzaper nonvederla morire; ma la duchessa mi
disse: "Non andar via da qui per amor di Dio."»
(Qui il monaco racconta le circostanze della morteproprio come le abbiamoriferite or ora.) E aggiunge: «Ella
morì da buona cristianaripetendo spesso: Credocredo.»
I due monaciche a quanto sembra avevano ottenuto dai loro superiori lanecessaria autorizzazioneripetono
nelle loro deposizioni che la duchessa protestò sempre la sua perfettainnocenzain tutti i colloqui con loroin tutte le
sue confessionie particolarmente in quella che precedette la messa in cuiella ricevette la santa comunione. Se fosse
stata colpevolecon quell'atto d'orgoglio si sarebbe dannata all'inferno.
Durante il confronto di frate Antonio da Paviacappuccinocon don Leonardodel Cardineil frate dichiarò:
«Il mio compagno disse al conte che sarebbe stato bene attendere che laduchessa partorisse; è incinta di sei
mesi» aggiunse«non bisogna perdere l'anima del povero piccolo sventuratoche porta in senobisogna poterlo
battezzare.»
Al che il conte d'Alife rispose:
«Sapete che debbo andare a Romae non voglio comparirvi con questa mascherasul viso (con quest'affronto
invendicato).»
Appena la duchessa morìi due cappuccini insistettero perché fosse apertaimmediatamenteper poter impartire
il battesimo al bambino; ma il conte e don Leonardo non ascoltarono le loropreghiere.
Il giorno seguentela duchessa fu sepolta nella chiesa localecon unaspecie di cerimonia funebre (ho letto il
processo verbale). Quest'avvenimentoche si venne subito a risaperefecepoca impressioneperché era atteso da molto
tempo; più volte la notizia della sua morte era stata annunciata a Gallese ea Romae del resto un assassinio fuori città e
in un periodo di sede vacante non aveva niente di straordinario. Il conclaveche seguì la morte di Paolo IV fu molto
tempestosonon durò meno di quattro mesi.42
Il 26 dicembre 1559il povero cardinale Carlo Carafa fu obbligato aconcorrere all'elezione di un cardinale
sostenuto dalla Spagna e che di conseguenza non avrebbe potuto rifiutarenessuna delle sanzioni che Filippo II avrebbe
richiesto contro di luicardinal Carafa. Il neo eletto assunse il nome diPio IV.
Se il cardinale non fosse stato in esilio al momento della morte di suo ziosarebbe stato l'arbitro dell'elezioneo
almeno in grado d'impedire la nomina di un nemico.
Poco dopo il cardinale fu arrestatoe così pure il duca; l'ordine diFilippo II era evidentemente di farli morire.
Dovettero rispondere a quattordici capi d'accusa. Furono interrogati tutticoloro che potevano far luce su questi
quattordici capi. Il processomolto ben fattoè composto da due volumiin-folioche ho letto con molto interesse perché
ad ogni pagina vi si incontrano particolari di costume che gli storici nonhanno ritenuto degni della maestà della storia.
Ho notato dettagli molto pittoreschi su un tentato assassinio direttodallafazione spagnolacontro il cardinal Carafa
allora ministro onnipotente.
Del restolui e suo fratello furono condannati per delitti che non sarebberostati tali per nessun altroad
esempioaver dato la morte all'amante di una donna infedele e alla donnastessa. Qualche anno dopoil principe Orsini
sposò la sorella del granduca di Toscanala credette infedele e la feceavvelenarecon il consenso del granduca suo
fratelloproprio in Toscanae mai la cosa gli fu imputata a delitto. Molteprincipesse di casa de' Medici sono morte
così.
Quando il processo dei due Carafa fu terminatone fu fatto un lungoriassuntochea varie ripresefu
esaminato da congregazioni di cardinali. È troppo evidente cheuna voltaconvenuto di punire con la morte l'omicidio
che vendicava l'adulterioun genere di delitto di cui la giustizia non sioccupava maiil cardinale era colpevole d'aver
perseguitato suo fratello perché commettesse il criminecosì come il ducaera colpevole d'averlo fatto eseguire.
Il 3 marzo 1561papa Pio IV tenne un concistoro che durò otto oreallafine del quale pronunciò la sentenza
contro i Carafa in questi termini: Prout in schedula. (Sia fatto comeè richiesto.)
La notte del giorno seguenteil giudice fiscale mandò a Castel Sant'Angeloil bargello per far eseguire la
sentenza di morte contro i due fratelliCarlocardinal Carafae Giovanniduca di Palliano. Così fu fatto. Ci si occupò
prima del duca. Egli fu trasferito da Castel Sant'Angelo alle prigioni diTordinonadove tutto era pronto; e fu là che il
ducail conte d Alife e don Leonardo del Cardine ebbero mozzata la testa.
Il duca affrontò quel terribile momento non solo come un cavaliere di nobilenascitama anche come un
cristiano pronto a sopportare ogni cosa per amore di Dio. Rivolse belleparole ai suoi due compagni per esortarli alla
morte; poi scrisse a suo figlio.
Il bargello tornò a Castel Sant'Angeloe annunciò la morte al cardinalCaratadandogli soltanto un'ora per
prepararsi. Il cardinale mostrò una grandezza d'animo superiore a quella disuo fratelloin quanto parlò di meno; le
parole sono sempre una forza che si cerca fuori di se stessi. Fu sentitopronunciare a bassa voce solo queste paroleal
terribile annuncio:
«Io morire! O papa Pio! o re Filippo!»
Si confessò; recitò i sette salmi della penitenzapoi si sedette su unasediae disse al carnefice:
«Fate.»
Il carnefice lo strangolò con un cordone di seta che si ruppe; bisognòricominciare due volte. Il cardinale
guardò il carnefice senza degnarsi di pronunciare una parola.
(Nota aggiunta)
Pochi anni dopo il santo papa Pio V fece rivedere il processoche vennecassato; il cardinale e suo fratello
furono reintegrati in tutti gli onorie il procuratore generaleche piùd'ogni altro aveva contribuito alla loro mortefu
impiccato. Pio V ordinò la soppressione del processo; tutte le copieesistenti nelle biblioteche furono bruciate; fu
proibito conservarle sotto pena di scomunica; ma il papa non pensò che luistesso ne aveva una nella propria biblioteca
ed è su questa che sono state fatte tutte le copie che si vedono oggi.
LA BADESSA DI CASTRO
Palermo15 settembre 1838
I
Il melodramma che tanto spesso ha portato sulla scena i briganti italiani delCinquecentoe tutti quelli che
hanno parlato di loro senza conoscerlie ne hanno data finora un'ideacompletamente sbagliata. In generalesi può dire
che quei briganti rappresentarono l'opposizione ai governi atroci chein Italiasuccedettero alle repubbliche medievali.
Il nuovo tiranno era stato di solito il cittadino più ricco della scomparsarepubblicae abbelliva la città di chiese
magnifiche e di splendidi quadri per conquistare il favore del popolino. Èil caso dei Polentini di Ravennadei Manfredi
di Faenzadei Riario di Imoladei Cane di Veronadei Bentivoglio diBolognadei Visconti di Milano eper finiredei43
meno bellicosi e più ipocriti di tuttii Medici di Firenze. Nessunotragli storici di quei piccoli statiha osato raccontare
gli innumerevoli avvelenamenti e delitti ordinati da quei tirannellitormentati dalla paura: tali autorevoli storici erano al
loro soldo. Tenete conto che ogni tiranno conosceva personalmente ognirepubblicano da cui si sapeva detestato
(Cosimogranduca di Toscanaad esempioconosceva lo Strozzi)che molti diquei tiranni finirono assassinatie
capirete gli odi profondil'eterna diffidenza che diedero tanto animo agliitaliani del Cinquecento e tanto ingegno ai loro
artisti. Noterete come queste grandi passioni abbiano impedito la nascita diquel pregiudizio piuttosto ridicolo chiamato
onoreai tempi di Madame de Sévignéche consiste soprattutto nelsacrificare la propria vita per servire il signore di cui
si è sudditi dalla nascitae per piacere alle dame. Nel CinquecentoinFrancial'attività e il vero merito di un uomo
potevano mettersi in lucee attirare l'ammirazionesolo mediante azionicoraggiose sul campo di battaglia o in duelloe
siccome alle donne piace il coraggio e soprattutto l'audaciaesse divennerogiudici supremi del valore maschile. Nacque
allora la galanteriache portò all'annientamento di tutte lepassioni e persino dell'amorea vantaggio di quel crudele
tiranno a cui tutti obbediamo: la vanità. I re protessero la vanitàe conragione; così le onorificenze ebbero un potere
incontestato.
In Italiaun uomo poteva distinguersi per meriti di ogni genereperil modo con cui maneggiava la spada o per
le scoperte fatte in antichi manoscritticome Petrarcaidolo del suo tempo;e una donna del Cinquecento amava un
uomo erudito in lettere greche quanto avrebbe potuto amare un uomo celebreper la bravura militaree forse anche di
più. Fu un'epoca di passioni e non di consuetudine alla galanteria.
Ecco la grande differenza tra Italia e Franciaecco perché l'Italia havisto nascere un Raffaelloun Giorgione
un Tizianoun Correggiomentre la Francia produceva tutti quei bravicapitani del XVI secoloperfettamente
sconosciuti oggipur avendociascuno di loroucciso un gran numero dinemici. Perdonatemi queste crude verità.
Comunque siale vendette atroci e necessarie dei tiranni italiani delMedioevo fecero conquistare ai briganti il cuore dei
popoli. I briganti erano odiati quando rubavano cavalligranodenaroinuna parolaquanto occorreva loro per vivere;
ma in fondoil cuore dei popoli era dalla loro parte; e le ragazze delvillaggio preferivano a tutti gli altri il giovane che
una volta almeno nella vitaera stato costretto ad andare alla macchiae a rifugiarsi dai briganti in seguito a qualche
imprudenza commessa.
Anche ai giorni nostri tutti temono di imbattersi nei brigantima licommiserano quando vengono puniti.
Perché questo popolo così sagacecosì ironicoche ride di quanto vienepubblicato sotto la censura dei padronilegge
abitualmente poesie che narrano con fervidi accenti la vita dei briganti piùrinomati. Il lato eroico di queste storie fa
vibrare la sua fibra di artista così vivace nelle classi basse e poiè tanto stanco delle lodi ufficiali tributate a certe
personeda commuoversi per tutto ciò che in questo campo non è ufficiale.Bisogna sapere che in Italia il popolino
soffre di cose di cui il viaggiatore non si accorgerebbe maianche sevivesse dieci anni in questo paese. Per esempio
quindici anni faprima che la saggezza dei governi sopprimesse ilbrigantaggionon era raro che i briganti con le loro
imprese punissero le iniquità dei governatori di città minori. Queigovernatorimagistrati assoluti con una paga di non
più di venti scudi al mesesono naturalmente agli ordini della famigliapiù influente del posto checon questo semplice
mezzoperseguita i propri nemici. I briganti non riuscivano sempre a punirequel piccoli despoti di governatorima
almeno si prendevano gioco di loro e li sfidavano: non è poco agli occhi diquesto spiritoso popolo. Un sonetto satirico
lo consola di tutti i malima mai dimenticò un'offesa. Ecco un'altradifferenza capitale fra l'Italiano e il Francese.
Nel Cinquecentoquando il governatore di un borgo condannava a morte unpoverettopreso di mira dalla
famiglia più potentespesso si vedevano i briganti attaccare la prigione ecercar di liberare l'oppresso. Dal canto suola
famiglia potentenon fidandosi troppo degli otto o dieci soldati governativiincaricati di far la guardia alla prigione
arruolava temporaneamente a sue spese un drappello di soldati. Questi ultimichiamati bravibivaccavano nei dintorni
della prigione e si incaricavano di scortare fino al patibolo il poverodiavolo di cui era stata comprata la morte. Sein
seno alla famiglia potentec'era un giovaneegli si metteva alla testa diquei soldati improvvisati. Una civiltà in queste
condizioni fa gemere la moralelo ammetto. Ai nostri giorni c'è il duellola noiae i giudici non si lasciano corrompere;
ma quelle usanze cinquecentesche erano straordinariamente adatte a creareuomini degni di questo nome.
Molti storicilodati ancora oggi dalla monotona letteratura accademica hannocercato di nascondere questo
stato di coseche intorno al 1550temprò tanti grandi caratteri. A queitempitali prudenti menzogne furono
ricompensate con tutti gli onori di cui potevano disporre i Medici diFirenzegli Este di Ferrarai viceré di Napoli ecc.
Un povero storicoil Giannoneha tentato di svelare la veritàmaavendoosato dirne solo una piccolissima parte e
avendo per di più adoperato formule dubitative e oscureè risultatonoiosissimoed è anche finito in prigionedove è
mortoa ottantadue anniil 7 marzo 1758.
La prima cosa da farese si vuol conoscere la storia d'Italiaè evitare dileggere gli autori generalmente
approvati: nessuno meglio di loro conosceva il prezzo della menzognanessunopiù di loro ne sapeva ricavare lauti
compensi.
Le prime storie che sono state scritte in Italiadopo la gran barbarie delIX secolomenzionano già i briganti
anzi ne parlano come se esistessero da tempo immemorabile. Guardate laraccolta del Muratori. Quando
disgraziatamente per il bene pubblicoper la giustiziaper il buon governoma fortunatamente per le artile repubbliche
del Medioevo furono oppressei repubblicani più energicicoloro cheamavano la libertà più di quanto l'amassero i loro
concittadinisi rifugiarono nei boschi. Naturalmente il popolo vessatocom'era dai Baglionidai Malatestadai Medici e
così viaamava e rispettava i loro nemici. Le crudeltà dei tirannelli chesuccedettero ai primi usurpatorile crudeltàper
esempiodi Cosimoprimo granduca di Firenzeche faceva assassinare irepubblicani rifugiatisi persino a Venezia
persino a Parigiprocurò nuove reclute ai briganti. Per parlare solo deitempi in cui visse la nostra eroinaintorno al44
1550Alfonso Piccolominiduca di Monte Marianoe Marco Sciarra guidavanocon successo bande armate chenei
dintorni di Albano sfidavano i soldati del papa a quei tempi molto valorosi.
Il campo di azione di quei famosi capiancor oggi ammirati dal popoloandava dal Po e dalle paludi di
Ravenna fino ai boschi che allora coprivano il Vesuvio. La foresta dellaFaggiolacelebre per le loro impresea cinque
leghe da Romasulla strada di Napoliera il quartier generale di Sciarrachedurante il pontificato di Gregorio XIII
riunì a volte parecchie migliaia di soldati. La storia particolareggiata diquesto celebre brigante sembrerebbe incredibile
alla generazione attualeperché non si riuscirebbero mai a capire lemotivazioni dei suoi atti. Solo nel 1592 venne
sconfitto. Quando si vide in condizioni disperatetrattò con la repubblicadi Venezia e passò al suo servizio con i soldati
più fedeli ose vogliamopiù colpevoli. In seguito alle proteste delgoverno romanoVeneziache aveva firmato un
trattato con Sciarralo fece assassinaree mandò i suoi bravi soldati adifendere l'isola di Candia contro i Turchi. Ma la
saggia Venezia sapeva che a Candia si era diffusa una terribile pestilenzaein pochi giorni i cinquecento soldati che
Sciarra aveva portato con sé al servizio della repubblica si ridussero asessantasette.
La foresta della Faggiolai cui alberi giganteschi coprono un anticovulcanofu l'ultimo teatro delle imprese di
Marco Sciarra. Tutti i viaggiatori vi diranno che è il posto più bello diquella mirabile campagna romanail cui
tenebroso aspetto sembra fatto apposta per la tragedia. Essa incorona di unverde cupo le cime del monte Albano.
Un'eruzione vulcanica anteriore di molti secoli alla fondazione di Roma hadato origine a questa montagna.
Essa sorse in un'epoca precedente a tutte le storiein mezzo alla vastapianura che un tempo si stendeva dagli Appennini
al mare. Monte Caviche si innalza circondato dalle cupe ombre dellaFaggiolane è il punto culminante; si vede da
tutte le partida Terracina e da Ostia come da Roma e da Tivolie sono icolli di Albanoora coperti di palazziche
chiudonoverso mezzogiornoquell'orizzonte di Roma così celebre agli occhidei viaggiatori. Un convento di frati neri
ha preso il postoin cima a Monte Cavidel tempio di Giove Fenetriodove ipopoli latini venivano a celebrare sacrifici
collettivi e a rinsaldare i vincoli di una specie di federazione religiosa.Protetto dall'ombra di splendidi castagniil
viaggiatore giungein poche oreai colossali ruderi del tempio di Giove; manell'ombra scuracosì gradevole in quel
climaancora oggi egli guarda inquieto nel fitto della foresta; ha paura deibriganti. Arrivati in cima al Monte Cavisi
accende un fuoco tra i ruderi del tempioper preparare il cibo. Da quelpunto che domina tutta la campagna romana si
vedea ponenteil mare che sembra a due passibenché disti tre o quattroleghe; si distinguono le più piccole barchette;
con un cannocchialeanche debolesi contano gli uomini che vanno a Napolicol vapore. Da tutti gli altri latila vista
spazia su una magnifica pianura che termina a levante con l'AppenninosopraPalestrinae a nord con San Pietro e gli
altri grandi edifici romani. Siccome Monte Cavi non è molto altol'occhiodistingue i minimi particolari di questo luogo
sublime che potrebbe fare a meno di illustrazione storicae tuttavia ognigruppo di alberiogni pezzo di muro in rovina
che si scorge nella pianura o sulle pendici della montagnaricorda una diquelle battaglienarrate da Tito Liviomirabili
per patriottismo e coraggio.
Ancora oggiper arrivare agli imponenti ruderi del tempio di Giove Fenetrioche ora fanno da muro di cinta
all'orto dei frati nerisi può prendere la via trionfalepercorsaun tempo dai primi re di Roma. È lastricata di pietre di
forma molto regolaree ce ne sono lunghi frammentiin mezzo alla forestadella Faggiola.
Sull'orlo del cratere spento cheora riempito di un'acqua limpidaèdiventato il grazioso lago di Albanodi
cinque o sei miglia di circonferenzacosì profondamente incassato nellaroccia lavicasi trovava Albamadre di Roma
che la politica romana distrusse fin dai tempi dei primi re. Ma le sue rovineesistono ancora. Qualche secolo dopoa un
quarto di miglio da Albasul versante della montagna che guarda il mareèsorta Albanola città modernache però è
separata dal lago da una cortina di rocce che nascondono il lago alla cittàe la città al lago. Quando la si scorge dalla
pianurai suoi edifici bianchi si stagliano contro la chioma nera e profondadella foresta cara ai briganti e
continuamente citatache fa da corona alla montagna vulcanica.
Albanoche conta oggi cinque o seimila abitantinon ne aveva neppuretremila nel 1540quando prosperava
nei primi ranghi della nobiltà la potente famiglia Campireali di cui ciaccingiamo a raccontar le sventure.
Traduco questa storia da due voluminosi manoscrittiuno romanol'altrofiorentino. Mi sono arrischiato a
riprodurne lo stilesimile a quello delle nostre vecchie leggende. Mi èsembrato che quello così fine e misurato
dell'epoca attuale sarebbe andato poco d'accordo con le azioni narrate esoprattutto con le riflessioni degli autori. Essi
scrivevano intorno all'anno 1598. Invoco l'indulgenza del lettore per loro eper me.
II
«Dopo aver narrato tante tragiche storie» dice l'autore del manoscrittofiorentino«terminerò con quella che
fra tuttemi fa più pena raccontare. Parlerò della famosa badessa delconvento della Visitazione a CastroElena di
Campirealiil cui processo e la cui morte fecero tanto parlare l'altasocietà romana e italiana. Già verso il 1555i
briganti spadroneggiavano nei dintorni di Romae i magistrati erano vendutialle famiglie potenti. Nel 1572anno del
processoGregorio XIII Buoncompagni salì sul trono di San Pietro. Quelsanto pontefice riuniva in sé tutte le virtù
apostolichema al suo governo civile si possono rimproverare alcunedebolezze: non seppe né scegliere giudici onesti
né reprimere il brigantaggio; si addolorava per i delittima non sapevapunirli. Gli sembrava di prendersi una
responsabilità terribile infliggendo la pena di morte. Come risultato diquesto suo atteggiamentoun numero quasi
infinito di briganti popolava le strade che portano alla città eterna. Perviaggiare con una certa sicurezza bisognava
essere loro amici. La foresta della Faggiolaa cavallo della strada diNapoli che passa per Albanoera da tempo il45
quartier generale di un governo ostile a quello di Sua Santitàe moltevolte Roma fu costretta a trattareda potenza a
potenzacon Marco Sciarrauno dei re della foresta. La forza di queibriganti consisteva nell'essere benvoluti dai
contadini del luogo.
«La graziosa città di Albanocosì vicina al quartier generale deibrigantivide nascerenel 1542Elena di
Campireali. Suo padre era considerato il più ricco patrizio del paeseeinvirtù di ciòaveva potuto sposare Vittoria
Carafache possedeva vasti terreni nel regno di Napoli. Potrei citarequalche vecchio che è ancora in vitae ha
conosciuto bene Vittoria Carafa e sua figlia. Vittoria fu un modello diprudenza e di intelligenzamamalgrado il suo
genionon poté impedire la rovina della famiglia. Strano! Le terribilisventure che saranno il triste argomento del mio
racconto non possonoalmeno mi sembraessere imputatein particolareanessuno dei personaggi che mi accingo a
presentare al lettore: vedo molti sventuratimain veritànon possotrovare colpevoli. Un'estrema bellezza e un'anima
tenera erano due grandi pericoli per la giovane Elena e un'attenuante per ilsuo innamoratoGiulio Branciforteproprio
come l'assoluta mancanza di acume di monsignor Cittadinivescovo di Castropuòalmeno fino a un certo punto
scusarlo. Egli doveva la sua rapida ascesa nella carriera degli onoriecclesiastici all'onestà della sua condottae
soprattutto all'aspetto più nobile e al volto più regolarmente bello chesia dato di incontrare. Trovo scritto di lui che non
si poteva vederlo senza amarlo.
«Siccome non voglio adulare nessunonon nasconderò che un santo frate delconvento di Monte Caviche
spesso era stato sorpresonella cellasollevato di parecchi piedi dalsuolocome San Paolosenza che niente altro che la
grazia divina potesse sostenerlo in quella posizione straordinariaavevapredetto al signore di Campireali che la sua
famiglia si sarebbe spenta con luiche avrebbe avuto due soli figli e cheentrambi sarebbero periti di morte violenta. Fu
per questa predizione che egli non poté sposarsi in paese e che andò acercar fortuna a Napolidove ebbe la buona sorte
di trovare grandi beni e una donna capaceper la sua intelligenzadi mutarel'avverso destinose mai una tale cosa fosse
possibile. Il signore di Campireali era reputato uomo onestissimo ecaritatevolema non aveva nessuna attitudinee così
a poco a poco smise di abitare a Roma e finì per passare quasi tutto l'annonel palazzo di Albano. Si dedicava alla
coltivazione delle sue terresituate in quella ricca pianura che si stendetra la città e il mare. Per consiglio della moglie
diede un'educazione perfetta al figlio Fabiogiovane orgogliosissimo deisuoi natalie alla figlia Elenavero e proprio
miracolo di bellezzacome attesta ancora oggi il suo ritratto nellacollezione Farnese. Dopo aver cominciato a scrivere
la sua storiasono andato a palazzo Farneseper contemplare l'aspettomortale che il cielo aveva dato a quella donna il
cui fatale destino fece tanto scalpore ai suoi tempie ancora oggi ha unposto nella memoria degli uomini. Il volto è di
un ovale allungatola fronte è spaziosai capelli sono biondo scuro. Lasua fisionomia è piuttosto lieta; ella ha grandi
occhi dall'espressione profonda e sopracciglia castane perfettamente arcuate.Le labbra sono sottilissime e il loro
contorno sembra disegnato dal famoso pittore Correggio. Contemplata in mezzoai ritratti che la circondanonella
galleria Farnesesembra una regina. Accade di rado che un'espressione lietasi accompagni alla regalità.
«Dopo aver passato otto interi annicome convittricenel convento dellaVisitazione della città di Castroora
distruttadove venivano mandatea quei tempile figlie di quasi tutti iprincipi romaniElena ritornò al paese natale
non senza lasciare in offerta un magnifico caliceper l'altare maggioredella chiesa. Appena fu di ritorno ad Albanosuo
padre fece venire da Romapromettendogli una lauta pensioneil celebrepoeta Cechinogià molto anziano; questi
adornò la memoria di Elena dei più bei versi del divino Virgilio e dei suoifamosi discepoli PetrarcaAriosto e Dante.»
A questo punto il traduttore deve saltare una lunga dissertazione sullagloria che il Cinquecento attribuiva a
ognuno di questi poeti. Probabilmente Elena sapeva il latino. I versi che lefacevano imparare parlavano d'amoredi un
amore che ci sembrerebbe molto ridicolo se lo incontrassimo nel 1839 intendodire l'amore appassionato che si nutre di
grandi sacrificipuò vivere solo avvolto di mistero e rasenta sempre lepiù atroci disgrazie.
Tale era l'amore che a Elenaappena diciassettenneseppe ispirare GiulioBranciforte. Era un suo vicino
poverissimoe abitava in una casupola costruita nella montagnaa un quartodi lega dalla cittàin mezzo alle rovine di
Alba e sull'orlo di un precipizio di centocinquanta pieditappezzato d'erbache circonda il lago. Quella casupola
contigua alle cupe e magnifiche ombre della foresta della Faggiola fu poiabbattutaquando venne costruito il convento
di Palazzuola. Tutto ciò che quel povero giovane possedeva era un aspettovivace e sveglio e la spensieratezza sincera
con cui sopportava la cattiva sorte. In suo favore si poteva al massimo direche aveva un volto espressivosenza essere
bello. Ma aveva fama di aver combattuto valorosamente al comando del principeColonna e tra i suoi braviin due o tre
imprese molto rischiose. Benché fosse poverobenché non fosse belloeraper le ragazze di Albanoil cuore più ambito
da conquistare. Ovunque ben accoltoGiulio Branciforte aveva avuto solofacili amorifino al momento in cui Elena
tornò dal convento di Castro.
«Quandopoco dopoil grande poeta Cechino si trasferì da Roma nel palazzoCampirealiper insegnare le
belle lettere a quella fanciullaGiulioche lo conoscevagli indirizzò unpoemetto in latinoesaltando la fortuna che
aveva la sua vecchiaia di vedere sì begli occhi fissarsi nei suoie unanimo così puro esser felice quando egli si degnava
di approvarne i pensieri. La gelosia e il dispetto delle ragazzeoggettodelle sue attenzioni prima del ritorno di Elena
resero presto inutili tutte le precauzioni da lui prese per celare unapassione nascente e devo dire che quell'amore tra un
ragazzo di ventidue anni e una ragazza di diciassette non fufindall'iniziovissuto come la prudenza avrebbe
consigliato. Non erano ancora trascorsi tre mesiquando il signore diCampireali si avvide che Giulio Branciforte
passava troppo spesso sotto le finestre del suo palazzo (che si vede ancora ametà della grande strada che sale al lago).»
La franchezza e la rudezzaconseguenze naturali della libertà ammessa dallerepubblichee l'abitudine alle
passioni schiettenon ancora represse dai costumi monarchicisimanifestarono apertamente nella prima mossa del46
signore di Campireali. Il giorno stesso in cui fu colpito dalle frequentiapparizioni del giovane Brancifortel'apostrofò in
questi termini:
«Come osi passare di continuo davanti a casa mia e lanciare occhiateimpertinenti verso le finestre di mia
figliatu che non hai neppure un vestito per coprirtiSe non temessi che ilmio gesto fosse mal interpretato dai vicini ti
darei tre zecchini d'oroper andare a Roma a comprarti una tunica piùdecente. Così almeno i miei occhi e quelli di mia
figlia non sarebbero oltraggiati dalla vista dei tuoi stracci.»
Il padre di Elena certamente esagerava: i vestiti del giovane Branciforte nonerano straccipiuttosto erano fatti
con tessuto andante; ma benché pulitissimi e ben spazzolatibisognaammettere che apparivano consunti. Giulio rimase
così profondamente ferito dai rimproveri del signore di Campireali chedigiornonon si fece più vedere davanti a casa
sua.
Come abbiamo dettole due arcateresti di una antico acquedottocheservivano da muri maestri alla casa
costruita dal padre di Branciforte e da lui lasciata al figlioerano adappena cinque o seicento passi da Albano. Per
scendere da quell'altura alla città modernaGiulio doveva passare davantial palazzo Campireali; Elena notò presto
l'assenza di quello strano giovane cheal dire delle amicheavevaabbandonato ogni altra relazioneper dedicarsi
interamente alla felicità che sembrava provare nel contemplarla.
Una sera d'estateverso mezzanottela finestra di Elena era apertalafanciulla respirava la brezza marina che
arriva fin sulla collina di Albanoper quanto una pianura di tre leghe lasepari dal mare. La notte era scurail silenzio
profondosi sarebbe sentita cadere una foglia. Elenaal davanzale dellafinestrapensava forse a Giulioquando scorse
qualcosacome l'ala silenziosa di un uccello notturnoche passava pianpianoproprio di fronte alla finestra. Si ritrasse
spaventata. Non le venne neppure l'idea che quell'oggetto potesse esserleporto da qualche passante; la sua finestraal
secondo piano del palazzoera a più di cinquanta piedi da terra. Tutt'a untratto le parve di riconoscere un mazzo di fiori
in quella strana cosa chenel silenzio profondopassava e ripassava davantial davanzale a cui era affacciatail cuore le
batté violentemente. Quel mazzo sembrava legato in cima a due o tre diquelle canneche sono come lunghi giunchi
simili al bambùche crescono nella campagna romana e arrivano fino a ventio trenta piedi di altezza. Per via delle
canne troppo flessibili e della brezza piuttosto forteGiulio avevadifficoltà a mantenere il mazzo proprio di fronte alla
finestra dove pensava che Elena stesse affacciatad'altra parte la notte eracosì buia che dalla strada non si riusciva a
vedere fino a quell'altezza. Immobile davanti alla finestraElena eraprofondamente agitata. Prendere quel mazzonon
equivaleva a una confessione? Del resto essa non provava alcuno di queisentimenti che una simile avventura farebbe
nascereoggiin una fanciulla dell'alta societàpreparata alla vita dauna buona educazione. Dato che il padre e il
fratello Fabio erano in casail suo primo pensiero fu che il minimo rumoresarebbe stato seguito da un colpo di
archibugio diretto a Giulio ed ebbe pietà del pericolo che correva quelpovero giovane. Il secondo pensiero fu chepur
conoscendolo pochissimoegli era l'essere al mondo a cui volesse più benedopo la famiglia. Finalmentedopo aver
esitato qualche minutoprese il mazzoetoccando i fiori in quel buiofittosentì un biglietto attaccato a uno stelo; corse
sullo scalone per leggerlo al chiarore della lucerna accesa davantiall'immagine della Madonna. «Imprudente!» disse fra
séquando le prime righe l'ebbero fatta arrossire di gioia«se miscoprono sono perdutae questo povero giovane verrà
per sempre perseguitato dalla mia famiglia.» Tornò in camera e accese illume. Fu un momento delizioso per Giulio
chevergognoso della sua iniziativa e come per nascondersinonostante lanotte fondasi era appiattito contro il tronco
enorme di uno di quei lecci dalle forme bizzarre che ancora oggi si vedono difronte al palazzo Campireali.
Nella letteraGiulio raccontava con la massima semplicità l'umilianterimprovero che gli aveva rivolto il padre
di Elena. «E verosono povero» proseguiva «e difficilmente potresteimmaginare fino a che punto. Ho soltanto la mia
casache forse avrete notato sotto i ruderi dell'acquedotto di Albaintornoc'è un ortodove io stesso coltivo gli erbaggi
di cui mi nutro. Posseggo anche una vigna che affitto per trenta scudiall'anno. In verità non so perché vi amocerto non
posso proporvi di venire a condividere la mia miseria. E tuttaviase non miamatela vita non ha per me più valore; è
inutile dirvi che la darei mille volte per voi. Eppureprima del vostroritorno dal conventoquesta vita non era infelice:
anziera piena delle più brillanti fantasticherie. Così posso dire che lavista della felicità mi ha reso infelice. Certo
allora nessuno al mondo avrebbe osato rivolgermi le frasi con cui vostropadre mi ha marchiato. Mi sarei fatto pronta
giustizia col mio pugnale. Alloracol coraggio e con le armimi sentivopari a tuttiniente mi mancava. Ora tutto è
completamente cambiato: conosco il timore. Ma basta scrivereforse voi midisprezzate. Se invece avete pietà di me
nonostante le misere vesti che mi coprononoterete che tutte le serequandosuona mezzanotte al convento dei
Cappucciniin cima alla collinaio mi nasconderò sotto il grande lecciodi fronte alla finestra che fisso continuamente
perché penso sia quella della vostra camera. Se non mi disprezzate comevostro padregettatemi un fiore staccato dal
mazzoma state attenta che non finisca su un cornicione o un balcone delpalazzo.»
Questa lettera fu letta e riletta; intanto gli occhi di Elena si riempivanodi lacrime; contemplava con tenerezza
quel magnifico mazzo legato con un robustissimo filo di seta. Tentò distrapparne un fiorema non ci riuscì; poi fu colta
dal rimorso. Per le ragazze romanestrappare un fioremanomettere inqualunque modo un mazzo dato in segno
d'amoresignifica mettere quell'amore a repentaglio. Essa però temeva cheGiulio si spazientissee corse alla finestra
ma mentre si affacciavapensò improvvisamente di essere troppo visibilecon la lampada che illuminava tutta la
camera. Elena non sapeva più che segnale fare; le sembrava che qualunquegesto avrebbe detto troppo.
Piena di vergognasi ritrasse svelta dalla finestra. Ma il tempo passava; adun trattole venne un'idea che la
gettò in un turbamento indicibile: Giulio avrebbe creduto che leicome suopadrelo disprezzava perché era povero!
Videappoggiato sul comodinoun pezzetto di marmo preziosolo annodò nelfazzolettoe gettò quel fazzoletto ai piedi
del leccio di fronte alla finestra. Poi fece a Giulio cenno di allontanarsi;sentì che lui le obbedivaperchéandandosene47
non cercava più di soffocare il rumore dei passi. Quando egli ebbe raggiuntola vetta della cinta di roccia che separa il
lago dalle ultime case di AlbanoElena lo sentì cantare parole d'amore; glifece allora dei cenni di salutoquesta volta
meno timidipoi si mise a rileggere la lettera.
Il giorno dopo e i giorni successivivi furono altre lettere e incontrisimili; madato che nei villaggi italiani ci
si accorge di tutto e Elena era di gran lunga il miglior partito del paeseil signore di Campireali venne avvertito che
tutte le sere dopo la mezzanotte la camera di sua figlia era illuminata ecosa ancor più stranala finestra era apertaanzi
Elena se ne stava al davanzale come se non avesse alcun timore delle zanzare(insetti fastidiosissimi che rovinano le
belle serate della campagna romana. A questo punto devo invocare di nuovol'indulgenza del lettore. Quando si è tentati
di conoscere le usanze dei paesi stranieribisogna aspettarsi di trovareidee assurdediversissime dalle nostre). Il
signore di Campireali preparò il suo archibugio e quello del figlio. Laseramentre suonavano le undici e tre quarti
avvertì Fabioe tutti e due sgusciaronocercando di non far rumoresulgrande balcone di pietraal primo piano del
palazzoproprio sotto la finestra di Elena. I massicci pilastri dellabalaustra di pietra li riparavano fino alla cintola dai
colpi di archibugio che qualcuno avrebbe potuto sparare loro da fuori. Suonòmezzanotte; padre e figlio sentirono
qualche lieve rumore sotto gli alberi che costeggiavano la via di fronte alpalazzo; macon loro grande stuporela
finestra di Elena non si illuminò. Quella fanciullafino ad allora tantosemplice e che sembrava una bambina per la
vivacità del suo comportamentoaveva cambiato carattere da quando erainnamorata. Sapeva che la minima imprudenza
poteva compromettere la vita del suo amante; un signore potente come suopadrese avesse ucciso un poveretto come
Giulio Brancifortese la sarebbe cavata scomparendo per tre mesimagariandando a Napoliintanto gli amici di Roma
avrebbero sistemato la faccenda e tutto sarebbe finito con l'offerta di unalampada d'argento e di qualche centinaio di
scudi all'altare della Madonnaallora di moda. La mattinaa colazioneElena aveva capito dalla faccia del padre che
qualcosa lo rendeva furiosoeda come il padre la guardava quando credevadi non esser notatoaveva pensato che
fosse in gran parte per causa sua. Corse tosto a spargere un po' di polveresul legno dei cinque magnifici archibugi che il
padre teneva appesi vicino al letto. E coprì con un leggero strato dipolvere anche il pugnale e le spade. Per tutto il
giorno fu di una allegria sfrenatavagava senza posa per tutta la casadacima a fondo; si affacciava continuamente alle
finestredecisa a fare a Giulio un segnale negativose mai avesse avuto labuona sorte di scorgerlo. Ma inutilmente: il
povero ragazzo era stato così profondamente umiliato dalle crudeli paroledel ricco signore di Campirealida non farsi
più vedere ad Albanodi giorno; veniva solo la domenicaspinto dal dovereper la messa nella parrocchia. La madre di
Elenache l'adorava e non sapeva negarle nientequel giorno uscì con leitre voltema invano: Elena non vide Giulio.
Era disperata. E come si sentì quandoandando a controllare verso sera learmi paternevide che due archibugi erano
stati caricati e che quasi tutti i pugnali e le spade erano stati maneggiati!La distraeva dalla sua mortale inquietudine
solo l'estrema attenzione con cui badava a nascondere i suoi sospetti.Ritiratasi nella sua camera alle dieci di serachiuse
a chiave la porta che comunicava con l'anticamera della madrepoi siappiattì contro la finestrasdraiandosi per terra
per non essere vista da fuori. È facile immaginare con che ansia sentìsuonare le ore; non pensava più a rimproverarsi
come spesso le accadevala rapidità con cui si era innamorata di Giulioeche poteva renderla meno degna di amore
agli occhi di lui. Quella giornata fruttò al giovane più di quanto nonavrebbero fatto sei mesi di costanza e di giuramenti.
«A che serve mentire» si diceva Elena. «Non l'amo forse con tuttal'anima?»
Alle undici e mezzovide benissimo il padre e il fratello mettersi inagguato sul grande balcone di pietrasotto
la sua finestra. Due minuti dopo che fu suonata mezzanotte al convento deiCappuccinisentì anche benissimo i passi
del suo innamorato che si fermò sotto il grande leccio; notò con gioia cheil padre e il fratello sembravano non essersi
accorti di niente. Ci voleva l'ansietà dell'amore per cogliere un rumorecosì leggero.
«Ora» disse fra sé«mi ucciderannoma bisogna ad ogni costo che nonscoprano la lettera di stasera;
perseguiterebbero per sempre il povero Giulio.»
Si fece il segno della croce etenendosi con una mano alla ringhiera diferro della finestrasi affacciò
sporgendosi quanto più poteva verso la strada. Non era ancora passato unquarto di minutoquando il mazzoattaccato
alla lunga cannale urtò il braccio. Essa lo afferròma nello staccarloprontamente dalla canna a cui era fissatofece
batter quella canna contro il balcone di pietra. Immediatamente vennerosparati due colpi di archibugioa cui seguì un
silenzio totale. Il fratello Fabio credendonel buioche ciò che avevabattuto violentemente contro il balcone fosse la
fune lungo la quale Giulio scendeva dalla camera della sorellaaveva fattofuoco verso il balcone di lei; il giorno dopo
essa trovò il segno della pallottola che si era schiacciata contro il ferrodella ringhiera. Il signore di Campireali aveva
sparato in stradadal balcone di pietraperché Giulionel trattenere lacanna che stava per cadereaveva fatto un po' di
rumore. Giuliodal canto suo sentendo muovere sopra la sua testa avevaindovinato quello che stava per succedere e si
era messo al riparo sotto la sporgenza del balcone.
Fabio ricaricò rapidamente l'archibugiopoisenza dare ascolto al padrecorse in giardinoaprì pian piano una
porticina che dava su una strada laterale e andòa passi felpatia gettareun'occhiata alle persone che passeggiavano
sotto il balcone del palazzo.
In quel momento Giulioche quella sera era in buona compagniasi trovava aventi passi da luiincollato
contro un albero. Elenaaffacciata alla ringhiera e tutta trepida per il suoinnamoratointavolòa voce molto altauna
conversazione col fratelloche sentiva camminare in strada; gli chiese seavesse ucciso i ladri.
«Non mi lascio ingannare dalla vostra perfida astuzia» le gridòquest'ultimo dalla strada che stava perlustrando
a gran passi«anzi preparatevi a piangereammazzerò l'insolente che osadare la scalata alla vostra finestra.»
Quelle parole erano state appena pronunziate quando Elena sentì la madrebussare alla porta della camera.
Allora si affrettò ad aprirefingendo di meravigliarsi perché la porta erachiusa.48
«Non fingere con meangelo mio» le disse la madre; «tuo padre èfuribondo e potrebbe uccidertivieni con
me nel mio letto ese hai una letteradammelala nasconderò.»
Elena le disse:
«Prendi questo mazzola lettera è nascosta tra i fiori.»
La madre e la figlia erano appena a lettoquando il signore di Campirealirientrò nella camera della moglie
veniva dall'oratorio che aveva ispezionatobuttando tutto per aria. Elena fucolpita dal fatto che il padrepallido come
uno spettroagiva con la lentezza di chi ha già preso una decisione. «Sonomorta!» si disse Elena.
«Ci rallegriamo d'aver figli» disse il padrepassando vicino al lettodella moglie per andare nella camera della
ragazzatremante di rabbia ma dando prova di un perfetto sangue freddo; «cirallegriamo d'aver figli e invece
dovremmo spargere lacrime di sangue quando questi figli sono femmine. GranDio! è dunque possibile! La loro
leggerezza può disonorare un uomo che in sessant'anni non ha offerto ilminimo appiglio alle chiacchiere.»
Così dicendo entrò nella camera della figlia.
«Sono perduta» disse Elenaalla madre«le lettere sono sotto ilpiedistallo del crocifissoaccanto alla
finestra.»
Subitola madre saltò dal lettocorse dietro al marito e si mise agridargli frasi che lo facessero andare in
bestia; ci riuscì. Il vecchio si infuriòe cominciò a fracassare tuttonella camera della figliama la madre potè sottrarre
le lettere senza esser vista. Un'ora dopoquando il signore di Campirealiera rientrato nella sua cameraattigua a quella
della mogliee in casa era tornata la calmala madre disse alla figlia:
«Eccoti le letterenon voglio leggerlema pensa a quanto avrebbero potutocostarci! Fossi in tele brucerei.
Vaidammi un bacio.»
Elena ritornò nella sua camerasciogliendosi in lacrime; le parevadopo leparole maternedi non amare più
Giulio. Poi si accinse a bruciare le lettere; ma prima di distruggerle vollerileggerle. E le rilesse tantoche il sole era già
alto nel cielo quando si decise finalmente a seguire il salutare consiglio.
Il giorno dopoera una domenicaElena si incamminò con la madre verso laparrocchia; per fortuna il padre
non le seguì. La prima persona che scorse in chiesafu Giulio Branciforte.Con uno sguardo si assicurò che non fosse
ferito e si sentì al colmo della felicità; gli avvenimenti della notte lesembravano ormai lontani mille miglia. Aveva
preparato cinque o sei bigliettini con pezzi di vecchia cartasporca diterra bagnatacome capita di trovarne per terra in
chiesa; quei biglietti contenevano tutti il medesimo avvertimento:
«Avevano scoperto tutto. meno il suo nome. Che non si facesse più vederenella via. Si verrà qui spesso».
Elena lasciò cadere uno di quei pezzetti di carta; un'occhiata avvertìGiulio che lo raccolse e scomparve.
Rientrando a casaun'ora dopoessa trovò sullo scalone del palazzo unframmento di carta che la colpì perché
assomigliava in tutto e per tutto a uno di quelli che aveva usato al mattino.
Lo afferròsenza che neppure la madre si accorgesse di nientee lesse:
«Fra tre giorni tornerà da Romadove deve andare assolutamente. Qualcunocanterà in pieno giornoal
mercatoin mezzo al baccano dei contadiniverso le dieci».
Quella partenza per Roma parve strana a Elena. «Teme forse i colpi diarchibugio di mio fratello?» si chiedeva
con tristezza. L'amore perdona tuttotranne l'assenza volontariache è ilpeggior supplizio. Invece di scorrere in beate
fantasticherie e di essere tutta occupata a soppesare le ragioni di amare ilproprio innamoratola vita è agitata da dubbi
atroci. «Madopo tuttoposso credere che non mi ami più?» andavaripetendosi Elena nei tre lunghi giorni che durò
l'assenza di Branciforte. Tutt'a un tratto una gioia folle spazzò via le suepene: il terzo giornolo vide passeggiare in
pieno mezzogiornonella viadi fronte al palazzo paterno. Aveva abiti nuovie bellissimi. Mai la nobiltà del suo
portamento e la franchezza spensierata e ardita della sua fisionomia avevanoavuto maggior risalto; e maiprima di quel
giornosi era parlato così tanto della sua povertà. Gli uominiesoprattutto i giovani continuavano a ripetere quella
parola crudele; le donnee soprattutto le ragazzenon smettevano di lodareil suo bell'aspetto.
Giulio passeggiò per tutta la giornata in città; sembrava volesse rifarsidei mesi di reclusione a cui la sua
povertà l'aveva condannato. Come si addice a un innamoratoGiulio era benarmato sotto la tunica nuova. Oltre alla
daga e al pugnaleaveva indossato il giaco (una specie di lungocorpetto di maglia di ferromolto scomodo da portare
ma capace di guarire i cuori italiani da una triste malattia che in quelsecolo contagiava tutti gravementeparlo del
timore di venir uccisi a un angolo di strada da uno dei propri ben notinemici). Quel giornoGiulio sperava di scorgere
Elenae poi gli ripugnava star solo con se stesso nella sua casa isolata: edecco perché. Ranuccioun ex soldato del
padredopo aver fatto dieci campagne con lui agli ordini di diversi condottierieda ultimoagli ordini di Marco
Sciarraaveva seguito il capitano quando questi era stato costretto aritirarsi per le ferite. Il capitano Branciforte aveva
le sue ragioni per non vivere a Roma; avrebbe corso il rischio di incontrarei figli di uomini uccisi da lui; persino ad
Albanonon aveva nessuna voglia di mettersi completamente alla mercédell'autorità legale. Invece di comprare o
affittare una casa in cittàpreferì costruirsene una da dove potesseavvistare da lontano i visitatori. Trovò il posto ideale
in mezzo alle rovine di Alba: di lì potevasenza esser scorto da visitatoriindiscretirifugiarsi nella foresta dove regnava
il suo vecchio amico e capoil principe Fabrizio Colonna. Il capitanoBranciforte non si curava minimamente
dell'avvenire del figlio. Quando si ritirò dal servizioappenacinquantennema coperto di feritecalcolò di avere ancora
una decina d'anni di vita euna volta costruita la casaspese ogni anno ildecimo di quanto aveva ammucchiato nei
saccheggi di città e villaggi a cui aveva avuto l'onore di partecipare.
Comprò la vigna che rendeva a suo figlio trenta scudi l'annoper risponderealla battuta maligna di un abitante
di Albano che gli aveva dettoun giorno in cui discuteva animatamente degliinteressi e dell'onore della cittàche49
spettava proprio a un ricco possidente come lui dar consigli agli anziani diAlbano. Il capitano comprò la vignae
annunziò che ne avrebbe comprate ancora molte altre; poiincontrando quelmaligno in un luogo desertolo uccise con
un colpo di pistola.
Dopo otto anni di questa vitail capitano morì; il suo aiutante di campoRanuccioadorava Giulio; peròstanco
di oziareriprese servizio nella compagnia del principe Colonna. Andavaspesso a trovare suo figlio Giuliocome lo
chiamavaealla vigilia di un pericoloso assalto che il principe dovevasostenere nella fortezza della Petrellalo portò a
combattere con lui. Vedendolo molto coraggioso:
«Devi esser matto» gli disse«e anche ben sprovvedutoper vivere neipressi di Albano come l'ultimo e il più
povero dei suoi abitantimentre con le tue imprese e il nome di tuo padrepotresti essere nelle nostre file un brillante
soldato di venturae per di più far fortuna.»
Queste parole continuavano a tormentare Giulio; sapeva il latinoinsegnatogli da un prete; madato che suo
padre si era sempre beffato di quanto diceva il pretea parte il latinononaveva assolutamente nessuna istruzione. In
compensodisprezzato per la sua povertàisolato in una casa solitariaeraprovvisto di un certo buon senso cheper la
sua originalitàavrebbe stupito molti dotti. Per esempioprima diinnamorarsi di Elenae senza sapere il perchépur
amando moltissimo combattereprovava repulsione per il saccheggio cheagliocchi del capitano suo padre e di
Ranuccioera come la divertente farsa finale che segue la nobile tragedia.Da quando amava Elenaquel buon senso
acquisito grazie alle sue riflessioni solitarie era diventato per lui unsupplizio. Quell'animaun tempo tanto spensierata
non osava parlare con nessuno dei suoi dubbi ed era piena di passione e diaffanno. Che cosa non avrebbe detto il
signore di Campirealisapendo che era un soldato di ventura? Questavolta i suoi rimproveri sarebbero stati fondati!
Giulio aveva sempre contato sul mestiere di soldatocome sicura risorsaquando avesse speso i soldi ricavati dalle
catene d'oro e dagli altri gioielli trovati nel forziere del padre. Giulionon si sarebbe fatto scrupolo a rapirelui così
poverola figlia del ricco signore di Campirealiperchéa quei tempi ipadri disponevano dei loro beni come meglio
credevanoe il signore di Campireali poteva benissimo lasciare alla figliamille scudi in tutto. Altri problemi assillavano
la mente di Giulio: in che città avrebbe portato la giovane Elenadopoaverla sposata e sottratta al padre? con che
denaro l'avrebbe fatta vivere?
Quando il signore di Campireali gli aveva rivolto il sanguinoso rimproveroche lo aveva tanto colpitoGiulio
era rimasto per due giorni in preda alla rabbia e al più vivo dolore: nonpoteva decidersi né a uccidere l'insolente
vecchioné a lasciarlo vivere. Passava le notti a piangere; finalmentedecise di consigliarsi con Ranucciol'unico amico
che avesse al mondo; ma l'amico l'avrebbe capito? Invano cercò Ranuccio pertutta la foresta della Faggiolafu costretto
a spingersi sulla strada di Napolioltre Velletridove Ranuccio capeggiavaun'imboscata: stava aspettandocon la sua
bandail generale spagnolo Ruiz d'Avalosche aveva stabilito di andare aRoma per via di terrasenza pensare che poco
tempo primadavanti a molte personeaveva parlato con disprezzo dei soldatidi ventura della compagnia Colonna. Ma
quando il suo cappellano gli ricordò molto opportunamente quellacircostanzaRuiz d'Avalos decise di fare armare una
barca e andare a Roma per mare.
Appena il capitano Ranuccio ebbe sentito il racconto di Giulio:
«Descrivimi esattamente» gli disse«questo signore di Campirealiperché la sua imprudenza non costi la vita
a qualche bravo abitante di Albano. Quando sarà finitain un modo onell'altrola faccenda che ci trattiene quite ne
andrai a Roma dove avrai cura di farti vedere nelle osterie e in altri luoghipubbliciin ogni ora della giornata: non devi
esser sospettato per via del tuo amore per la ragazza.»
Giulio faticò molto a placare l'ira del vecchio compagno di suo padre.Dovette mostrarsi offeso.
«Credi che voglia la tua spada? Come vediho una spada anch'io. Ti chiedoun saggio consiglio.»
Ranuccio continuava a ripeterglia conclusione di ogni suo discorso:
«Sei giovanenon hai ferite; sei stato insultato in pubblico: orbeneunuomo disonorato è disprezzato anche
dalle donne.»
Giulio gli disse che voleva ancora riflettere e interrogare il suo cuoreemalgrado Ranuccio insistesse per farlo
partecipare all'attacco della scorta del generale spagnolodovedicevaavrebbe ricavato onorenonché dobloniGiulio
se ne tornò solo solo nella sua casupola. Làil giorno prima che ilsignore di Campireali sparasse contro di lui un colpo
di archibugioaveva ricevuto la visita di Ranuccio e del suo caporalediritorno dalla zona di Velletri. Ranuccio volle
vedere ad ogni costo il forziere dove il suo capoil capitano Brancifortechiudeva un tempo le catene d'oro e gli altri
gioielli che non riteneva opportuno spendere subito dopo una spedizione.Ranuccio vi trovò tre scudi.
«Ti consiglio di farti frate» disse a Giulio«ne hai tutte le virtù:l'amore per la povertàe qui c'è la prova;
l'umiltàe infatti ti lasci insultare in mezzo alla via da un riccone diAlbano; non ti mancano che l'ipocrisia e la gola.»
Ranuccio mise cinquanta dobloni nel forziere.
«Ti do la mia parola» disse a Giulio«che se tra un mese il signore diCampireali non è sepolto con tutti gli
onori dovuti alla sua nobiltà e al suo censoil mio caporale qui presenteverrà con trenta uomini a demolire la tua
casupola e a dar fuoco ai tuoi poveri mobili. Il figlio del capitanoBranciforte non deve fare una brutta figura in questo
modocon la scusa che è innamorato.»
Allorché il signore di Campireali e suo figlio spararono i due colpi diarchibugioRanuccio e il caporale
stavano appostati sotto il balcone di pietrae Giulio faticò molto aimpedir loro di uccidere Fabioo almeno di rapirlo
quando quest'ultimo fece quell'imprudente sortitapassando dal giardinocome abbiamo raccontato a suo tempo.
Ranuccio si lasciò persuadere da questa ragione: non si deve uccidere ungiovane che può diventare qualcuno e rendersi
utilequando c'è un vecchio peccatorepiù colpevole di luibuono soloper essere sepolto.50
All'indomani di quell'avventura notturnaRanuccio sparì nella foresta eGiulio partì per Roma. La gioia di
comprarsi un bel vestito con i dobloni avuti da Ranuccio era crudelmenteturbata da un'idea davvero singolare per quel
tempo e che già lasciava presagire il suo glorioso destino; ripeteva a sestesso: «Elena deve sapere chi sono.»
Qualunque altro uomo di quell'età e di quel tempo si sarebbe solopreoccupato di godersi il suo amore e di rapire Elena
senza pensare affatto a quel che ne sarebbe stato di lei sei mesi doponéquale opinione avrebbe conservato di lui la
fanciulla.
Di ritorno a Albanoil pomeriggio stesso del giorno in cui sfoggiava davantiagli occhi di tutti i bei vestiti
portati da RomaGiulio venne a sapere da un suo amicoil vecchio Scottiche Fabio era uscito dalla città a cavalloper
andare in una tenuta paterna a tre leghe di distanzanella pianura in rivaal mare. Più tardi vide il signore di Campireali
incamminarsiin compagnia di due pretilungo il magnifico viale di lecciche incorona l'orlo del cratere in fondo al
quale si stende il lago di Albano. Dieci minuti dopouna vecchia siintroduceva arditamente nel palazzo Campireali con
la scusa di vendere frutta; la prima persona che incontrò fu la camerieraMariettaintima confidente della sua padrona
Elenaed essa arrossì fino al bianco degli occhi nel vedersi mettere inmano un bel mazzo di fiori. C'era nascosta una
lettera smisuratamente lunga: Giulio vi raccontava quello che aveva passatodopo la notte dei colpi di archibugioma
per uno strano pudorenon osava confessare ciò di cui ogni altro uomo delsuo tempo si sarebbe vantatovale a dire che
era figlio di un capitano famoso per imprese eroiche e che lui stesso si eragià distinto per il suo coraggio in più di un
combattimento. Gli pareva sempre di sentire i commenti del vecchio Campirealisu questi fatti. Bisogna sapere che nel
XV secolo le ragazzeragionando con buon senso repubblicanostimavano unuomo molto più per le sue azioni che per
le ricchezze accumulate dai padri o per le celebri gesta di questi. Ma eranosoprattutto le ragazze del popolo a pensarla
così. Quelle che appartenevano alle classi ricche o nobili avevano paura deibriganti ecom'è naturaletenevano in
grande considerazione la nobiltà e il censo. Giulio terminava la sua letteracon queste parole: «Non so se i decorosi
vestiti che ho portato da Roma vi hanno fatto dimenticare la crudele ingiuriache una persona da voi rispettata mi ha
rivolto tempo faper il mio misero aspetto; avrei potutoanzi avrei dovutovendicarmilo esigeva il mio onore; non l'ho
fatto pensando alle lacrime che la mia vendetta sarebbe costata a occhi cheadoro. Questo vi darà la provase per mia
disgrazia ne dubitaste ancorache si può esser poverissimi e aver nobilisentimenti. Del restodevo svelarvi un terribile
segretonon proverei nessuna pena a dirlo a qualsiasi altra donnama non soperché tremo al pensiero di confidarlo a
voi. Esso potrebbein un solo istantedistruggere il vostro amore per me eneppure i vostri giuramenti basterebbero a
rassicurarmi. Voglio leggere nei vostri occhi l'effetto di questaconfessione. Uno di questi giorni al cader della notte
verrò a trovarvi nel giardino dietro il palazzo. Quel giornoFabio e vostropadre saranno assenti. Quando avrò la
certezza che malgrado il loro disprezzo per mepovero giovane malvestitonon potranno toglierci tre quarti d'ora o
un'ora per incontrarcivedrete passare sotto le finestre del palazzounuomo che mostrerà ai bambini del paese una
volpe addomesticata. Più tardiquando suonerà l'Ave Mariasentirete in lontananza un colpo di un archibugioallora vi
avvicinerete al muro del giardino e canteretese non sarete sola. Se cisarà silenzioil vostro schiavo verrà a
inginocchiarsi tremante ai vostri piedi e vi racconterà cose che forse vifaranno orrore. Aspettando questo giorno
decisivo e terribile per menon mi arrischierò più a porgervi mazzi difiori a mezzanottema sempre di notteverso le
duepasserò cantando e voichissàaffacciata al grande balcone dipietralascerete cadere un fiore colto con le vostre
mani in giardino. Saranno forse gli ultimi segni di affetto che dareteall'infelice Giulio.»
Tre giorni dopo il padre e il fratello di Elena erano andati a cavallo neiloro possedimenti sulla costada dove
sarebbero ripartiti un po' prima del tramontoper far ritorno a casa versole due di notte. Ma al momento di mettersi in
cammino per tornareerano spariti i loro due cavallie anche tutti quellidella fattoria. Stupitissimi per quell'audace
furtoiniziarono le ricerchei cavalli però furono ritrovati solol'indomani nella foresta di alberi d'alto fustolungo il
mare. I due Campirealipadre e figliofurono costretti a tornare a Albanosu un carro di buoi.
Quella seraquando Giulio si gettò alle ginocchia di Elenaera quasi nottee la povera ragazza era ben felice di
quell'oscurità; per la prima volta era davanti all'uomo che essa amavateneramentee che lo sapevama al quale non
aveva mai rivolto la parola.
Subito le diede un po' di coraggio notare che Giulio era più pallido etremante di lei. Lìai suoi ginocchi
diceva: «In verità non riesco a parlare.» Furono istanti veramente moltofelici; si guardavano senza poter articolare una
parolaimmobili come statue di marmo dall'espressione intensa. Giulioinginocchiatostringeva la mano di Elena che
con la testa chinalo fissava attentamente.
Giulio sapeva bene che i suoi dissoluti amici romani gli avrebberoconsigliato di tentare una certa cosama
quest'idea gli faceva orrore. Lo scosse da quello stato di estasi e forsedalla più grande felicità che possa dare l'amore
un'altra idea; il tempo fugge; i Campireali si avvicinano al palazzo. Capìche con un'anima scrupolosa come la sua non
avrebbe potuto trovare felicità durevolefinché non avesse fatto alla suaamata quella terribile confessioneche gli amici
di Romaavrebbero giudicato un grosso sbaglio.
«Vi ho parlato di una confessione che forse non dovrei farvi» dissefinalmente a Elena.
Impallidì e aggiunse a faticacome se gli mancasse il respiro:
«Forse vedrò sparire quei sentimenti che sono la speranza della mia vita.Mi credete povero; ma non è tutto:
sono un brigante e anche mio padre lo era.»
A quelle paroleElenache aveva un padre ricco e tutte le paure della suacastasi sentì mancareebbe paura di
cadere. «Che tormento sarebbe per il povero Giulio!» pensava: «sicrederebbe disprezzato!». Egli era ai suoi ginocchi.
Per non caderesi appoggiò a lui e poco dopo si abbandonò nelle suebracciaquasi priva di sensi. Come si vedenel
XVI secolopiacevano le storie d'amore raccontate con esattezza. Perchéquelle storie non venivano giudicate con51
l'intelligenzadovevano parlare all'immaginazionee il lettore siidentificava passionalmente con gli eroi del racconto. I
due manoscritti su cui ci basiamoe soprattutto quello che contiene alcuneespressioni tipiche del dialetto fiorentino
descrivono nei minimi particolari tutti gli incontri successivi. Il pericolometteva a tacere i rimorsi della fanciulla.
Spesso i pericoli furono estremima accrescevano l'ardore di quei due cuoriper i quali ogni sensazione amorosa era
felicità. Molte volte rischiarono di essere sorpresi dal padre e da Fabiofuribondi di essere gabbati: correva voce che
Giulio fosse l'amante di Elena e non riuscivano a sorprenderlo. Fabiogiovane impetuoso e fiero delle sue origini
proponeva al padre di far uccidere Giulio.
«Finché sarà al mondo» gli diceva«la vita di mia sorella sarà ingrande pericolo. Chi ci dice che presto
l'onore non ci costringa a macchiarci le mani del sangue di questa ribelle?È diventata audace al punto di non negare più
il suo amore; l'avete vista voi stesso rispondere ai vostri rimproveri con uncupo silenzio; ebbene! quel silenzio è la
condanna a morte di Giulio Branciforte.»
«Pensate chi era suo padre» rispondeva il signore di Campireali. «Certopossiamo facilmente andare a passare
due mesi a Roma eintantoquesto Branciforte sparisce. Ma chi ci dice cheil padreche malgrado i suoi delitti è stato
coraggioso e generosoe ha fatto arricchire molti suoi soldatipurrimanendo poverochi ci dice che suo padre non
abbia ancora amicisia nella compagnia del duca di Monte Marianosia nellacompagnia Colonnache occupa spesso i
boschi della Faggiolaa mezza lega da noi? In questo casoverremomassacrati tutti senza misericordiavoiio e forse
anche la vostra sventurata madre.»
Queste argomentazioniricorrenti nei colloqui tra padre e figliovenivanotenute nascoste solo in parte a
Vittoria Carafala madre di Elenache era disperata. Fabio e suo padredopo molte discussioniconvennero che era
disdicevole per il loro onore lasciar che certe voci continuassero acircolare a Albanotranquillamente. Dato che non era
prudente far sparire il giovane Branciforte cheogni giornodiventava piùinsolente e che oraper di piùrivestito di
splendidi abitispingeva la sua baldanza fino a rivolger la parola inpubblicosia a Fabio sia allo stesso signore di
Campirealibisognava adottare una di queste due soluzionio forse entrambe:ritornare a vivere tutti a Romaricondurre
Elena al convento della Visitazione di Castro dove sarebbe rimasta fino a chenon si fosse trovato per lei il marito
adatto.
Elena non aveva mai confessato il suo amore alla madre; madre e figlia siamavano teneramentepassavano la
vita insiemeeppure mai era stata pronunciata una sola parola sul tema chestava ugualmente a cuore a entrambe. Per la
prima volta l'argomento che occupava tutti i loro pensieri si manifestò aparolequando la madre fece intendere alla
figlia che si parlava di trasferire la famiglia a Romae forse anche dirimandare lei per qualche anno nel convento di
Castro.
Da parte di Vittoria Carafa quei discorsi erano imprudenti e giustificabilisolo con l'infinita tenerezza che
nutriva per la figlia. Elenapazza d'amorevolle provare all'amante di nonvergognarsi della sua povertà e di avere una
fiducia illimitata nel suo onore. «Chi lo crederebbe?» esclama l'autorefiorentino«dopo tanti convegni audaciin cui
rischiava la vitain giardino e persino una volta o due nella sua cameraElena era pura! Forte della sua virtùpropose
all'amante di uscire dal palazzo attraverso il giardinoverso mezzanotte edi trascorrere il resto della notte nella casupola
costruita sui ruderi di Albaa più di un quarto di lega di distanza. Sitravestirono da frati francescani. Elena aveva una
figura slanciataecosì vestitasembrava un giovane novizio di diciotto ovent'anni. Incredibilmentee in questo si vede
la mano di Dionello stretto sentiero scavato nella roccia e che correancora lungo il muro del convento dei Cappuccini
Giulio e la sua amatatravestiti da fratiincontrarono il signore diCampireali e suo figlio Fabio cheseguiti da quattro
servitori armati e preceduti da un paggio con una torcia accesatornavano daCastel Gandolfouna borgata sulle rive del
lagonon molto distante. Per lasciar passare i due amantii Campireali e iservitori si disposero ai lati di quel sentiero
scavato nella roccialargo al massimo otto piedi. Quanto sarebbe statomeglio per Elena venir riconosciuta in quel
momento! Un colpo di pistola sparato dal padre o dal fratello l'avrebbeuccisae il supplizio sarebbe durato solo un
istante: ma il cielo aveva deciso altrimenti (superis aliter visum).
«C'è un altro particolare di quell'eccezionale incontro che la signora diCampirealiormai vecchissima e quasi
centenariasoleva talvolta raccontare a Roma davanti a importanti personaggicheanch'essi vecchissimime l'hanno
riferito quando la mia insaziabile curiosità li interrogava su questo e sumolti altri argomenti.
«Fabio di Campirealiche era un giovane altero e fiero del suo coraggionotando che il frate più adulto non
salutava né il padrené luipassando loro accantoesclamò: «Quantasuperbiabriccone d'un frate! Dio solo sa che cosa
vanno a fare fuori dal conventolui e il suo compagnoa quest'ora indebita.Non so chi mi trattenga dal toglier loro il
cappuccioper vedere che faccia hanno.»
«A quelle paroleGiulio afferrò la daga sotto il saioe s'interpose traFabio e Elena. In quel momento era a un
piede di distanza da Fabio; ma il cielo aveva disposto altrimenti e calmòmiracolosamente il furore di quei due ragazzi
che presto si sarebbero visti molto da vicino.»
Nel processo intentato poi contro Elena di Campirealisi volle presentarequella passeggiata notturna come
prova di corruzione. Era il delirio di un giovane cuore ardente di follepassionema quel cuore era puro.
III
Bisogna sapere che gli Orsinieterni rivali dei Colonnae potentissimiallora nei paesi più vicini a Roma
avevano fatto condannare a mortepoco primadai tribunali governativiBaldassare Bandiniun ricco coltivatore nato52
alla Petrella. Sarebbe troppo lungo riferire qui le diverse azioni che sirimproveravano a Bandini: la maggior parte di
esse sarebbero oggi azioni criminalima non potevano essere giudicate cosìseveramente nel 1559. Bandini era
rinchiuso in un castello degli Orsinisulla montagna dalle parti diValmontonea sei leghe da Albano. Il bargello di
Romaseguito da centocinquanta sbirripassò una notte sulla stradamaestra; veniva a prendere Bandini per portarlo a
Roma nelle carceri di Tordinona; il Bandini aveva fatto ricorso a Roma per lasentenza che lo condannava a morte. Ma
come abbiamo dettoera nativo della Petrellafortezza appartenente aiColonna; la moglie di Bandini si rivolse
pubblicamente a Fabrizio Colonna che si trovava alla Petrella:
«Lascerete morire un vostro fedele servitore?»
«Dio non voglia che io manchi del dovuto rispetto per le decisioni deltribunale del papa mio signore!»
rispondeva il Colonna.
Subito i suoi soldati ricevettero ordinie tutti i suoi partigiani furonoavvisati di tenersi pronti. Il luogo di
raccolta era nei dintorni di Valmontoneuna cittadina costruita sulcocuzzolo di una roccia non molto elevatama difesa
interamente da un precipizio quasi verticale profondo dai sessanta agliottanta piedi. In questa città appartenente al papa
i partigiani degli Orsini e gli sbirri del governo erano riusciti atrasportare Bandini. Tra i più zelanti partigiani
dell'autorità c'erano il signore di Campireali e suo figlio Fabioimparentati del resto con gli Orsini. Mentre Giulio
Branciforte e suo padre erano sempre stati legati ai Colonna.
Quando le circostanze sconsigliavano di agire apertamentei Colonnaricorrevano a un'elementare precauzione:
la maggior parte dei contadini romaniallora come oggifacevano parte diqualche compagnia di penitenti. I penitenti si
mostravano sempre in pubblico con la testa coperta da un pezzo di stoffa chenascondeva il volto e dove erano praticati
due buchi in corrispondenza degli occhi. Quando i Colonna volevano tenersegreta un impresainvitavano i loro
partigiani a raggiungerlivestiti da penitenti.
Dopo lunghi preparativiil trasferimento di Bandiniche faceva notizia inpaese da quindici giornifu fissato
per una domenica. Quel giornoalle due del mattinoil governatore diValmontone fece suonare le campane a stormo in
tutti i villaggi della foresta della Faggiola. Da ogni villaggio furono vistiuscire contadini in gran numero. (I costumi
repubblicani del Medioevoquando ci si batteva per ottenere quel che stava acuoreavevano abituato gli animi al
coraggio: ai nostri giorni nessuno si muoverebbe.)
In quell'occasione si poteva osservare qualcosa di molto strano: via via chei drappelli di contadini armati
provenienti dai vari villaggisi inoltravano nella forestasi dimezzavano;i partigiani dei Colonna si dirigevano verso il
luogo del raduno stabilito da Fabrizio. I capi sembravano sicuri che quelgiorno non ci sarebbero stati scontri: al mattino
avevano ricevuto l'ordine di spargere questa voce. Fabrizio percorreva laforesta col fior fiore dei suoi partigiani a cui
faceva cavalcare i puledri semiselvaggi del suo allevamento. Passavapercosì direin rassegna le diverse bande di
contadinima non parlava loro nel modo più assoluto; anche una sola parolapoteva essere compromettente. Era alto e
magroincredibilmente agile e forte; benché avesse appena quarantacinqueanniaveva capelli e baffi candidie questo
lo infastidiva parecchio: quella caratteristica lo rendeva riconoscibile inluoghi in cui avrebbe preferito mantenere
l'incognito. Man mano che i contadini lo vedevanogridavano «VivaColonna!» e mettevano i cappucci di tela. Anche il
principe aveva il cappuccio sul pettoin modo da poterselo infilare appenaavesse scorto il nemico.
Questi non si fece aspettare: il sole spuntava appena quando un migliaio diuominidel partito degli Orsini
provenienti da Valmontonepenetrarono nella foresta passando a circatrecento passi dai partigiani di Fabrizio Colonna
che egli aveva fatto sdraiare a terra. Quando furono sfilati gli ultimiuomini degli Orsini che costituivano l'avanguardia
il principe fece muovere i suoi: aveva deciso di attaccare la scorta diBandini un quarto d'ora dopo che fosse entrata nel
bosco. In quel puntola foresta è cosparsa di collinette rocciose diquindici o venti piedi: sono colate laviche più o meno
antichesu cui i castagni crescono rigogliosi e intercettano quasi tutta laluce. Dato che quelle colateanche se
abbastanza levigate dal temporendono il suolo inegualeper evitare unaquantità di inutili sali-scendila strada maestra
è stata scavata nella lavae in molti punti è tre o quattro piedi più inbasso della foresta.
Vicino al luogo scelto da Fabrizio per l'attaccoc'era una radura erbosaattraversata a un'estremità dalla strada.
Dopola strada entrava nella forestachein quel puntopiena di rovi e diarbusti tra un albero e l'altroera
assolutamente impenetrabile. Lìcento passi all'interno della foresta e suidue lati della stradaFabrizio aveva schierato i
suoi fanti. A un cenno del principeogni contadino si sistemò il cappuccioe si appostò con l'archibugio dietro un
castagno; i soldati del principe si piazzarono dietro agli alberi più vicinialla strada. I contadini avevano l'ordine
rigoroso di sparare solo dopo i soldatie questi ultimi dovevano farlo soloquando il nemico fosse a venti passi. Fabrizio
fece abbattere in fretta una ventina di alberi cheprecipitando con tutti irami sulla stradapiuttosto stretta in quel punto
e incassata di tre piedil'avevano ostruita completamente. Il capitanoRanucciocon cinquecento uominiseguì
l'avanguardia; aveva ordine di non attaccare fino a che non avesse sentito iprimi colpi di archibugio provenienti dallo
sbarramento di rami. Quando Fabrizio Colonna vide soldati e partigiani benappostati ciascuno dietro un albero e pronti
a combatterepartì al galoppo con tutti gli uomini a cavallotra i qualispiccava Giulio Branciforte. Il principe prese un
sentiero a destra della strada e che portava all'estremità della radura piùlontana da essa.
Si era allontanato soltanto da qualche minutoquando si vide venir dalontanoper la strada di Valmontoneun
folto gruppo di uomini a cavallo: erano gli sbirri e il bargello chescortavano il prigioniero con i cavalieri degli Orsini.
In mezzo a loro era Baldassare Bandinicircondato da quattro boia vestiti dirosso; questi avevano l'ordine di eseguire la
sentenza dei primi giudici e di giustiziare Bandiniqualora avessero visto ipartigiani dei Colonna pronti a liberarlo.53
Fabriziocon la cavalleriaera appena arrivato all'estremità della raduraerbosa più lontana dalla stradaquando
udì i primi colpi di archibugio dell'imboscata che aveva teso sulla stradamaestra al di là dello sbarramento di alberi.
Subito mise i cavalli al galoppo e diresse la carica contro i quattro boiavestiti di rosso che circondavano il Bandini.
Non seguiremo il racconto di questa scaramuccia che durò meno di tre quartid'ora; i partigiani degli Orsini
colti di sorpresa si sbandaronoma gli uomini dell'avanguardia uccisero ilvaloroso capitano Ranuccioe quell'evento
ebbe un'influenza funesta sul destino di Branciforte. Questi aveva appenadato qualche colpo di sciabolacontinuando
ad avvicinarsi agli uomini vestiti di rossoquando si trovò faccia a facciacon Fabio Campireali.
In sella a un focoso cavallo e coperto di un giaco doratoFabiogridava:
«Chi sono questi miserabili mascherati? Strappiamogli la maschera con unasciabolata; guardatecome faccio
io!»
Quasi nello stesso istante Giulio Branciforte venne colpito alla fronte dauna sciabolata di Fabio. Il colpo era
stato vibrato con destrezzatanto che la tela che gli copriva il volto caddeed egli si sentì accecare dal sangue che colava
da quella leggera ferita. Giulio fece indietreggiare il cavallo per avere iltempo di tirare il fiato e di pulirsi il viso.
Volevaad ogni costoevitare di battersi col fratello di Elena; il suocavallo era già distante quattro passi da Fabio
quando venne colpito al petto da una violenta sciabolatache non penetrògrazie al giacoma gli tolse sul momento il
respiro. Quasi contemporaneamente si sentì gridare all'orecchio:
«Ti conoscoporco! È così che guadagni i soldi per sostituire i tuoistracci!»
Giuliopunto sul vivodimenticò il suo primo proposito e si diresse dinuovo su Fabio:
«Ed in mal punto tu venisti!» gridò.
Dopo le prime rapide sciabolategli indumenti che coprivano le cotte dimaglia cadevano a brandelli. La cotta
di Fabio era doratasplendidaquella di Giulio delle più comuni.
«Hai raccolto quel giaco in una fogna?» gli urlò Fabio.
Nello stesso momentoGiulio trovò l'occasione che cercava da mezzo minuto:la splendida cotta di Fabio non
era ben stretta intorno al collo e Giulio vibrò nel punto un po' scoperto unriuscito colpo di punta. La sua spada penetrò
di mezzo piede nel collo di Fabio e fece sprizzare un enorme getto di sangue.
«Insolente!» esclamò Giulio.
E si diresse al galoppo verso gli uomini vestiti di rosso due dei quali eranoancora a cavallo a cento passi da lui.
Mentre si avvicinavaanche il terzo venne abbattuto; manel momento in cuiGiulio si avvicinava al quarto boiaquesti
vedendosi circondato da più di dieci cavalieriscaricò la pistola abruciapelo sullo sventurato Bandiniche cadde.
«Signori mieinon possiamo far più niente qui!» gridò Branciforte«mano alle sciabole e inseguiamo quelle
canaglie di sbirri che scappano da tutte le parti.»
Tutti lo seguirono.
Quandomezz'ora dopo Giulio tornò da Fabrizio Colonnaquel signore glirivolse la parola per la prima volta
in vita sua. Giulio lo trovò stravolto dall'iramentre credeva di vederloesultante per la vittoria che era totale e tutta
dovuta ai suoi piani; perché gli Orsini avevano quasi tremila uominieFabrizioper quell'impresanon ne aveva messi
insieme più di cinquecento.
«Abbiamo perduto il nostro valoroso amico Ranuccio!» esclamò il principerivolgendosi a Giulio«ho toccato
or ora il suo corpo; è già freddo. Il povero Baldassare Bandini è ferito amorte. Cosìin conclusionel'impresa è fallita.
Ma l'ombra del bravo capitano Ranuccio si presenterà a Plutone in buonacompagnia. Ho ordinato di impiccare ai rami
degli alberi tutte quelle canaglie di prigionieri. FateloSignori!» gridòalzando la voce.
E ripartì al galoppo verso il luogo in cui era avvenuto lo scontro conl'avanguardia. Giulio erain un certo
sensoil comandante in seconda della compagnia di Ranuccio; seguì ilprincipe chegiunto vicino al cadavere del
valoroso soldatosteso in mezzo a più di cinquanta cadaveri nemicisceseuna seconda volta da cavallo per prender la
mano di Ranuccio. Giulio l'imitò piangendo.
«Sei molto giovane» disse il principe a Giulio«ma vedo che sei copertodi sanguetuo padre è stato un uomo
valoroso: era stato ferito più di venti volteservendo i Colonna. Prendi ilcomando di quanto rimane della compagnia di
Ranuccio e porta il suo cadavere nella nostra chiesa della Petrella; bada cheforse verrai attaccato lungo la strada.»
Giulio non fu attaccatoperò uccise con un colpo di spada uno dei soldaticolpevole di averlo giudicato troppo
giovane per comandare. Fu un'imprudenza; ma gli andò bene perché era ancoracoperto del sangue di Fabio. Lungo tutta
la stradavedeva alberi carichi di uomini appena impiccati. Questospettacolo orrendoil pensiero della morte di
Ranuccio e soprattutto della morte di Fabiolo facevano quasi impazzire.Sperava solo che non si venisse a sapere il
nome del vincitore di Fabio.
I particolari militari possiamo tralasciarli. Tre giorni dopo ilcombattimentoegli poté tornare per qualche ora a
Albano; raccontò ai conoscenti di esser stato trattenuto a Roma da unaviolenta febbreche lo aveva inchiodato al letto
per tutta la settimana.
Ma dappertutto veniva trattato con ostentato rispettole persone piùragguardevoli lo salutavano per prime
alcuni imprudenti giunsero persino a chiamarlo signor capitano. Erapassato e ripassato davanti al palazzo Campireali
che aveva trovato completamente chiusoedato che il giovane capitano erapiuttosto timido quando si trattava di fare
certe domandesolo a metà della giornata trovò il coraggio di chiedere alvecchio Scortiche lo aveva sempre trattato
con bontà:
«Ma dove sono i Campireali? il palazzo è chiuso.»54
«Amico» rispose Scotti fattosi improvvisamente triste«non dovete maipronunziare questo nome. I vostri
amici sono convinti che è stato lui a cercarvie lo diranno a tutti; mainsommaegli era il principale ostacolo al vostro
matrimonio einsommalascia una sorella immensamente ricca e che vi ama.Dirò di piùin questo caso è bene essere
indiscretivi ama al punto di raggiungervi la notte nella casetta di Alba.Così si può direnel vostro interesseche
eravate marito e moglie prima del fatale combattimento dei Ciampi»(è questo il nome che si dava in paese al
combattimento che abbiamo descritto).
Il vecchio si interruppe vedendo Giulio scoppiare in lacrime.
«Saliamo alla locanda» disse Giulio.
Scotti lo seguì; venne data loro una camera in cui si chiusero a chiaveeGiulio chiese al vecchio il permesso di
raccontargli quanto era successo in quegli ultimi otto giorni. Finito illungo racconto:
«Vedo dalle vostre lacrime» disse il vecchio«che avete agito senzapremeditazione; ma la morte di Fabio è
pur sempre un evento crudele per voi. Bisogna assolutamente che Elenadichiari alla madre che voi siete da tempo il suo
sposo.»
Giulio non rispose e il vecchio attribuì quel silenzio a una lodevolediscrezione. Assorto nei suoi pensieri
Giulio si chiedeva se Elenaesacerbata dalla morte del fratelloavrebbereso giustizia alla sua delicatezza e si pentì di
quanto un tempo era successo. Poidietro sua richiestail vecchio gliparlò francamente di tutto quello che era accaduto
a Albano il giorno del combattimento. Fabio era stato ucciso alle sei e mezzodel mattinoa più di sei leghe da Albano
eincredibilesin dalle nove si era cominciato a parlare della sua morte.Verso mezzogiorno il vecchio Campireali era
stato visto dirigersisinghiozzante e sostenuto dai servitorial conventodei Cappuccini. Poco dopotre di quei buoni
padricon i migliori cavalli dei Campirealie seguiti da molti servitorisi erano diretti verso il borgo dei Ciampivicino
al quale si era svolto il combattimento. Il vecchio Campireali voleva ad ognicosto seguirlima lo avevano dissuaso dato
che Fabrizio Colonna era furente (non si sapeva bene perché) e avrebbepotuto riservargli un brutto trattamento se lo
avesse fatto prigioniero.
La seraverso mezzanottela foresta della Faggiola sembrava in fiamme:tutti i frati e tutti i poveri di Albano
ciascuno con un grosso cero accesoandavano incontro alle spoglie delgiovane Fabio.
«Sapete bene» continuò il vecchio abbassando la voce come se temesse diessere udito«che la strada che
porta a Valmontone e ai Ciampi...»
«Ebbene?» chiese Giulio.
«Ebbenequella strada passa davanti a casa vostrae si racconta che quandoil cadavere di Fabio è arrivato in
quel puntoil sangue sia sgorgato da un'orribile piaga che aveva al collo.»
«È spaventoso!» esclamò Giulio alzandosi.
«Calmateviamico» gli disse il vecchio«è bene che sappiate tutto. Eora posso dirvi che la vostra presenza
quioggiè un po' prematura. Se mi faceste l'onore di consultarmiaggiungereicapitanoche fareste meglio a non
venire a Albanoalmeno per un mese ancora. E non ho bisogno di dirvi che nonsarebbe neppure prudente farvi vedere a
Roma. Non si sa ancora che cosa deciderà il Santo Padre nei riguardi deiColonna; si pensa che presterà fede alla
dichiarazione di Fabrizio che sostiene di aver saputo del combattimento dei Ciampidalla voce pubblica; ma il
governatore di Romache è favorevole agli Orsiniè furente e sarebbefelice di far impiccare qualche valoroso soldato
di Fabriziosenza che costui potesse ragionevolmente protestareperchégiura di non aver assistito al combattimento.
Ma non bastaebenché non me lo abbiate chiestomi permetterò di darviun parere militare: ad Albano vi vogliono
benealtrimenti non sareste così al sicuro. Pensate che girate da ore perla cittàtanto che qualche partigiano degli
Orsini potrebbe pensare a una provocazioneo quanto meno alla facilità diguadagnarsi una bella ricompensa. Il vecchio
Campireali ha ripetuto mille volte che regalerà il suo podere più bello achi vi ucciderà. Avreste dovuto far scendere in
paese qualcuno dei soldati che tenete in casa.»
«In casa non ho nessun soldato.»
«Allora siete pazzocapitano. C'è un giardino dietro alla locandausciremo di lì e fuggiremo attraverso le
vigne. Io vi accompagneròsono vecchio e non sono armatoma se incontriamoqualche malintenzionatomi metterò a
parlare con lui e così almeno vi farò guadagnar tempo.»
Giulio aveva l'animo straziato. Oseremo dire quale folle idea lo tormentava?Appena aveva saputo che il
palazzo Campireali era chiuso e tutti i suoi abitanti partiti per Romasiera riproposto di andare in quel giardino dove
così spesso si era incontrato con Elena. Sperava persino di rivedere lacamerain cui era stato accolto quando la madre
era assente. Sentiva il bisogno di esorcizzare la collera di leirivedendo iluoghi dove essa si era dimostrata tanto tenera.
Branciforte e il generoso vecchio non fecero nessun cattivo incontropercorrendo i sentieri che attraversano le
vigne e salgono attraverso il lago.
Giulio si fece raccontare di nuovo i particolari delle esequie del giovaneFabio. Il corpo di quel coraggioso
ragazzoscortato da molti pretiera stato portato a Roma e sepolto nellacappella di famiglianel convento di
Sant'Onofrio sul Gianicolo. Tutti avevano notato cheper una stranacoincidenzaalla vigilia della cerimoniaElena era
stata ricondotta dal padre al convento della Visitazione a Castro;confermando così la diceria che fosse maritata in
segreto col soldato di ventura che aveva avuto la disgrazia di uccidere suofratello.
Arrivato vicino a casaGiulio trovò il caporale della sua compagnia equattro soldati; essi gli dissero che mai il
loro precedente capitano usciva dalla foresta senza aver vicino qualcuno deisuoi uomini. Il principe soleva ripetere che
chi voleva farsi uccidere per imprudenzadoveva prima dare le dimissioniper non lasciargli sulle spalle una morte da
vendicare.55
Giulio Branciforte riconobbe giuste quelle ideeche fino ad allora gli eranostate del tutto estranee. Aveva
credutocome i popoli primitiviche la guerra consistesse solo nel battersicon coraggio. Obbedì immediatamente alla
volontà del principe; si concesse solo il tempo di abbracciare il saggiovecchio che era stato tanto generoso da
accompagnarlo fino a casa.
Mapochi giorni dopoGiulioquasi impazzito di malinconiavolle tornareal palazzo Campireali. Al cader
della nottecon tre soldatitravestiti da mercanti napoletanipenetrò inAlbano. Si presentò da solo a casa di Scotti;
venne a sapere che Elena era ancora relegata nel convento di Castro. Ilpadrecredendola maritata con colui che
definiva l'assassino del figlioaveva giurato di non rivederla mai più. Nonl'aveva guardata neppure mentre la riportava
al convento. La tenerezza della madreinvecesembrava raddoppiatae spessoessa lasciava Roma per andar a passare
un giorno o due con la figlia.
IV
«Se non mi giustifico con Elena» si ripeteva Giuliofacendo ritornodurante la notteall'accampamento della
sua compagnia nella foresta«finirà col credermi un assassino. Dio saquante storie le avranno raccontato su quel fatale
combattimento!»
Andò a prendere ordini dal principe nella fortezza della Petrellae glichiese il permesso di andare a Castro.
Fabrizio Colonna corrugò la fronte:
«La faccenda del combattimento non è ancora stata sistemata con SuaSantità. Dovete sapere che ho dichiarato
la veritàcioè che ero rimasto del tutto estraneo a questo scontrodi cuiho avuto notizia solo il giorno successivoqui
nel mio castello della Petrella. Ho motivo di credere che Sua Santitàfinirà per prestare fede a questo racconto sincero.
Ma gli Orsini sono potentima tutti dicono che vi siete distinto in quellatemeraria impresa. Gli Orsini arrivano anche a
sostenere che molti prigionieri sono stati impiccati agli alberi. Sapetequanto questi discorsi siano falsi; c'è comunque da
aspettarsi qualche rappresaglia.»
Il profondo stupore che si leggeva nello sguardo ingenuo del giovane capitanodivertiva il principeche tuttavia
giudicò utiledavanti a tanta innocenzaparlar più chiaro.
«Vedo in voi» proseguì«il grande coraggio che ha reso noto in tuttal'Italia il nome di Branciforte. Spero che
dimostrerete sempre per la mia casa quella fedeltà che mi rendeva carovostro padre e che ho voluto ricompensare in
voi. Questa è la parola d'ordine nella mia compagnia: Non dire mai il verosu niente che riguardi me o i miei soldati. Se
costretto a parlarenon vedete l'utilità di mentiredite il falso ad ognibuon contoe guardatevicome da un peccato
mortaledal dire la minima verità. Capiteaggiunta ad altre informazionipotrebbe mettere sulle tracce dei miei
progetti. Sodel restoche avete una passioncella nel convento dellaVisitazione a Castro; potete andare a perdere
quindici giorni in quella cittadinadove gli Orsini hanno amici e persinoagenti. Andate dal mio maggiordomo che vi
consegnerà 200 zecchini. In nome dell'amicizia per vostro padreaggiunseridendo il principevoglio darvi qualche
consiglio su come portare felicemente a termine questa impresa amorosa emilitare. Voi e tre dei vostri soldatisarete
travestiti da mercanti; litigherete con uno dei vostri compagniche faràfinta di esser sempre ubriaco e si farà molti
amici pagando da bere a tutti i vagabondi di Castro. Peròaggiunse ilprincipe cambiando tonose gli Orsini vi
prendono e vi condannano a mortenon confessate il vostro vero nome e ancormeno che siete al mio servizio. Non
occorre che vi raccomandi di girare intorno a tutte le città e di entrarvisempre dalla porta opposta al punto da cui
arrivate.
Giulio fu commosso da quei consigli paternidati da un uomo di solito cosìautoritario. Dapprima il principe
sorrise delle lacrime che il giovane aveva agli occhi; poi la sua voce sialterò. Si sfilò uno dei tanti anelli che portava
alle dita; Giulio ricevendolo in donobaciò quella mano celebre per molteimprese famose.
«Mai mio padre mi avrebbe dato tanti consigli!» esclamò il giovaneentusiasta.
Due giorni dopoun po' prima dello spuntar del soleentrava nelle muradella cittadina di Castro; lo seguivano
cinque soldatitravestiti come lui: due stavano per conto loro e sembravanonon conoscere né luiné gli altri tre. Ancor
prima di entrare in cittàGiulio scorse il convento della Visitazioneunvasto edificio circondato da nere mura e molto
simile a una fortezza. Corse in chiesa; era stupenda. Le suoretutte nobilie in gran parte di famiglia riccagareggiavano
tra loro a chi arricchiva di più la chiesala sola parte del conventoesposta agli sguardi del pubblico. Era diventata ormai
consuetudine che colei che il papa nominava badessain una rosa di tre nomipresentatagli dal cardinale protettore
dell'ordine della Visitazionefacesse una rilevante offertadestinata aeternare il suo nome. Colei che faceva un'offerta
inferiore a quella della badessa precedenteveniva disprezzatainsieme allasua famiglia.
Giulio si inoltrò tremante in quel magnifico edificiorisplendente di marmie di dorature. Veramente egli non
pensava affatto ai marmi e alle dorature; si sentiva addosso lo sguardo diElena. L'altare maggioregli avevano detto
era costato più di 800.000 franchi; ma i suoi occhidisdegnando lericchezze dell'altareerano rivolti a una grata dorata
alta quasi quaranta piedi e divisa in tre parti da due pilastri di marmo.Quella grataa cui l'enorme grandezza conferiva
un aspetto terribilesi innalzava dietro l'altar maggiore e separava il corodelle suore dalla chiesa aperta a tutti i fedeli.
Giulio pensava che dietro la grata stavanodurante le funzionile suore ele educande. Una di loro poteva in
qualsiasi ora andare in quello spazio internose avesse avuto bisogno dipregare; era su questa circostanza risaputa da
tutti che si basavano le speranze del povero innamorato.56
Certoun immenso velo nero ornava la parte interna della grata; ma il velopensava Giulionon deve impedire
alle educande di vedere la parte della chiesa aperta al pubblicopoiché iopur dovendo rimanere a una certa distanza
scorgo benissimoattraverso di essole finestre che danno luce al corofinnei minimi particolari architettonici. Ogni
sbarra di quella grata splendidamente dorata era munita di una robusta puntarivolta contro il pubblico.
Giulio scelse un posto bene in vista di fronte al lato sinistro della gratanel punto più illuminato; lì passava la
vita a sentir messe. Vedendosi circondato soltanto da contadinisperava divenir notatoanche attraverso il velo nero
che guarniva la parte interna della grata. Per la prima volta nella sua vitaquel giovane semplice cercava di far colpo;
vestiva con ricercatezza; faceva molte elemosine entrando e uscendo dallachiesa. Lui e i suoi uomini erano pieni di
attenzioni per gli operai e i fornitori che avevano rapporti col convento.Solo il terzo giorno però ebbe finalmente una
speranza di far giungere una lettera a Elena. Secondo i suoi ordinic'erachi seguiva passo a passo le due converse
incaricate di comprare una parte delle provviste del convento; una di esseera in relazione con un modesto mercante.
Uno dei soldati di Giulioche era stato fratediventò amico del mercante egli promise uno zecchino per ogni lettera
recapitata all'educanda Elena di Campireali.
«Come!» disse il mercante quando gli fu proposto l'affare «una letteraalla moglie del brigante!»
Tutti la chiamavano ormai così a Castrononostante che Elena fosse arrivatada meno di quindici giorni: tanto
rapidamente si diffondono le storie che fanno galoppare la fantasia traquesto popolo appassionato di tutti i particolari
realistici.
Il mercante soggiunse:
«Lei almeno è sposata! ma quante delle nostre signore non hanno questascusae ricevono da fuori ben altro
che lettere.»
In quel primo scrittoGiulio raccontava minuziosamente tutto quello che erasuccesso nel giorno fatale della
morte di Fabio. E terminava chiedendole:
«Mi odiate?»
Elena rispose con poche righe chesenza odiare nessuno avrebbe passato ilresto della vita a cercar di
dimenticare chi le aveva ucciso il fratello.
Giulio si affrettò a riscriverledopo aver inveito contro il destinonellospirito del platonismo allora di moda:
«Vuoi dunque» continuava«dimenticare la parola di Dio trasmessaci dalleSacre Scritture? Dio dice: La
moglie lascerà famiglia e genitori per seguire lo sposo. Oseresti sostenereche non sei mia moglie? Ricordati la notte di
San Pietro. Quando l'alba già spuntava dietro Monte Caviti gettasti aimiei ginocchi; io volli usarti misericordia; saresti
stata mia se l'avessi voluto; non potevi resistere all'amore che alloraprovavi per me. D'un tratto pensai che continuavo a
ripeterti di averti fatto da tempo sacrificio della mia vita e di quantopotevo avere di più caro al mondosarebbe stato
naturale che tu avessi ribattutoanche se non l'hai mai fattoche talisacrificinon provati da alcun atto esteriore
potevano anche essere immaginari. Allora un'ideacrudele per mema in fondogiustami illuminò. Non a caso mi si
offriva l'occasione di sacrificare nel tuo interesse la più grande felicitàche mai avessi sognato. Eri già tra le mie braccia
e indifesaricordati; neppure la tua bocca osava rifiutare. In quel momentoal convento di Monte Cavi suonò l'Ave
Maria del mattinoecome per miracoloquel suono giunse fino a noi. Midicesti: «Fai questo sacrificio alla Santa
Madonnamadre di ogni purezza.» Avevo giàda un istantel'idea diquel supremo sacrificioil solo reale che mai
avessi avuto occasione di farti. Trovai sorprendente che anche tu avessipensato la stessa cosa. Il suono lontano di
quell'Ave Maria mi commosselo confesso; accettai la tua richiesta.Quel sacrificio non l'offrii solo a te; credetti così di
mettere la nostra futura unione sotto la protezione della Madonna. Allorapensavo che non da teperfidasarebbero
venuti gli ostacolima dalla tua ricca e nobile famiglia. Se non ci fossestato un intervento soprannaturalecome
avrebbe potuto quell'Angelus arrivare fino a noi da tanto lontanooltre le cime degli alberi di mezza forestaagitate in
quel momento dalla brezza del mattino? Alloraricorditi inginocchiastidavanti a me; io mi alzaipresi la croce che
porto sul pettoe tu giurasti su quella croceche ora ho qui davantiesulla tua dannazione eternache dovunque ti fossi
trovata e qualunque cosa fosse successaappena te lo avessi chiestotisaresti rimessa al mio volerecome nell'istante in
cui l'Ave Maria di Monte Cavi ti giunse da tanto lontano all'orecchio.Poi dicemmo devotamente due Ave e due Pater.
Ebbene! in nome dell'amore che allora avevi per meese lo hai dimenticatocome temoin nome della tua dannazione
eternati ordino di farmi entrare stanotte nella tua camera o nel giardinodi questo convento della Visitazione.»
Stranamente l'autore italiano riporta molte lunghe lettere scritte da GiulioBranciforte dopo questa; però dà solo
alcuni brani delle risposte di Elena di Campireali. Ma sono passatiduecentosettantotto annie siamo così lontani dai
sentimenti amorosi e religiosi di cui quelle lettere sono pervaseda farmitemere che sembrino prolisse.
Da esse pare che Elena abbia finalmente obbedito all'ordine contenuto inquella che abbiamo in parte tradotto.
Giulio trovò modo di introdursi nel convento; da una frase si potrebbearguire che si vestì da donna. Elena accettò di
vederloma solo attraverso l'inferriata di una finestra a pian terrenochedava sul giardino. Con indicibile doloreGiulio
constatò che la fanciullaun tempo tenera e persino appassionataeradiventata per lui come un'estranea; lo trattò con
cortesia. Lo aveva fatto entrare in giardino quasi unicamente perrispettare il giuramento. Fu un breve colloquio: dopo
qualche istantela fierezza di Giulioforse un po' incoraggiata dagliavvenimenti degli ultimi quindici giorniprevalse
sul suo profondo dolore.
«Mi vedo davanti» disse tra sé«solo la tomba di quell'Elena che aAlbano sembrava essersi data a me per la
vita »57
Subito la sua preoccupazione fu nasconder le lacrime che gli inondavano ilvolto alle espressione cerimoniose
con cui Elena si rivolgeva a lui. Quando essa ebbe finito di parlare e digiustificare un cambiamento tanto naturale
dicevadopo la morte di un fratelloGiulio le disse parlando con estremalentezza:
«Voi non rispettate il giuramentonon mi accogliete in un giardinononsiete in ginocchio davanti a me come
eravate mezzo minuto dopo aver sentito l'Ave Maria di Monte Cavi.Dimenticate il giuramento se potete; in quanto a
meio non dimentico niente; che Dio vi assista.»
Pronunciando queste parolesi allontanò dalla finestra vicino alla qualesarebbe potuto rimanere ancora un'ora.
Chi gli avrebbe dettoun istante primache sarebbe stato lui a interrompereun colloquio tanto desiderato! Quel
sacrificio gli straziava il cuorema pensava che si sarebbe ben meritato ildisprezzo anche di Elena se non avesse
risposto alle sue cerimonie abbandonandola al suo rimorso.
Uscì dal convento prima dell'alba. Subito montò a cavallo ordinando aisoldati di aspettarlo a Castro per una
settimanapoi di tornare nella foresta; era ebbro di disperazione. In unprimo tempo si diresse verso Roma.
«Allontanarmi da lei!» si ripeteva a ogni passo; «siamo diventati estraneil'uno all'altra! O Fabiosei ben
vendicato!»
La vista degli uomini che incontrava per strada aumentava la sua collera;spinse il cavallo attraverso i campi e
ne guidò la corsa verso la spiaggia deserta e incolta che si stende lungo ilmare. Quando non fu più turbato dalla
presenza di quei pacifici contadini di cui invidiava la sorterespirò:l'aspetto di quel luogo selvaggio si accordava con la
sua disperazione e calmava la sua collera; allora poté abbandonarsi acontemplare il suo triste destino.
«Alla mia età» pensò«ho una risorsa: amare un'altra donna!» A queltriste pensierola sua disperazione
raddoppiò; capì che per lui c'era una sola donna al mondo. Si immaginava ilsupplizio che avrebbe provato nel
pronunciare la parola amore di fronte a un'altra; quell'idea lo straziava.
Scoppiò in una amara risata. «Sono ridotto proprio come quegli eroidell'Ariosto che se ne vanno soli soli
attraverso paesi desertiperché devono dimenticare di aver trovato la loroperfida donna tra le braccia di un altro
cavaliere... Lei però non è così colpevole» si disse scoppiando inlacrime dopo quell'amara risata; «non è infedele fino
al punto di amare un altro. Quell'anima ardente e pura si è lasciatafuorviare dalle cose atroci che le hanno raccontato su
di me; probabilmente mi hanno dipinto ai suoi occhi come uno che è partitoper quella fatale spedizione nella speranza
di poter uccidere suo fratello. Avranno detto di più: mi avranno attribuitoun ignobile calcoloche morto luiessa
sarebbe diventata la sola erede di un'immensa fortuna... E io ho commesso lasciocchezza di lasciarla per quindici interi
giorni in preda alla nefasta influenza dei miei nemici! Sono propriodisgraziatoil cielo mi ha fatto anche incapace di
badare alla mia vita! Sono un essere davvero miserevoledavvero spregevole!la mia vita non è servita a nessunoe
tanto meno a me.»
In quel momento il giovane Branciforte ebbe un'ispirazione veramente rara perquel secolo; il suo cavallo
camminava proprio in riva al mare e ogni tanto le onde bagnavano i suoizoccoli; ebbe l'idea di spingerlo in mare e
porre così fine all'orribile sorte che lo perseguitava. Che cosa avrebbefatto ormaiabbandonato dall'unico essere al
mondo capace di fargli sentire l'esistenza della felicità? Poi ad un trattoun'idea lo trattenne. «Che cosa sono le pene che
provo» si disse«a paragone di quelle che soffrirò tra pococonclusaquesta miserevole vita? Elena non mi apparirà più
solo indifferentecom'è in realtàla vedrò tra le braccia di un rivalee quel rivale sarà qualche giovane signore romano
ricco e stimato; infattiper straziarmi l'anima i demoni cercherannole immagini più crudelicome è loro dovere. Così
neppure con la morte potrò dimenticare Elenaanzi la mia passioneraddoppieràperché sarà il mezzo più sicuro che
avrà l'onnipotenza eterna per punirmi del mio orribile peccato.» Perscacciare del tutto la tentazioneGiulio si mise a
recitare devotamente l'Ave Maria. Sentendo suonare l'Ave Maria delmattinopreghiera dedicata alla Madonnaera stato
un giorno soggiogato e indotto a compiere un atto generoso che egli oraconsiderava il più grande sbaglio della sua vita
Maper rispettonon osava spingere più in là il suo ragionamento eesprimere completamente l'idea che lo tormentava.
«Se per un'ispirazione della Madonna ho commesso un fatale erroreessa nondevenella sua infinita giustizia
creare una situazione che mi renda la felicità?» L'idea della giustiziadella Madonna scacciò a poco a poco la
disperazione. Alzò la testa e vide davanti a luioltre Albano e oltre laforestaMonte Cavi coperto di verde cupo e il
santo convento dov'era risuonata quell'Ave Maria del mattino che loaveva spinto verso quello che egli ora definiva un
infame inganno. La vista inattesa di quel santo luogo lo consolò. «No»esclamò«la Madonna non può abbandonarmi.
Se Elena fosse diventata mia sposa come il suo amore desiderava e come la miadignità di uomo avrebbe volutoil
racconto della morte del fratello avrebbe trovato nel suo cuore il ricordodel legame che l'univa a me. Si sarebbe detta
che era stata mia ben prima di quel fatale momento chesul campo dibattagliami ha messo di fronte a Fabio. Egli
aveva due anni più di meera più esperto nelle armipiù ardimentosopiù forte. Mille ragioni avrebbero provato a mia
moglie che non avevo cercato io quello scontro. Si sarebbe ricordata che nonavevo mai avuto il minimo sentimento di
odio contro suo fratelloneppure quando le sparò quel colpo di archibugio.Mi ricordo che nel nostro primo colloquio
dopo il mio ritorno da Romale dicevo: "Che vuoi? lo esigeva l'onore;non posso biasimare un fratello!"» Riportato alla
speranza dalla sua devozione per la MadonnaGiulio spronò il cavallo e inqualche ora giunse dov'era accantonata la
sua compagnia. La trovò in armi: stavano andando sulla strada che unisceRoma a Napoli attraverso Montecassino. Il
giovane capitano cambiò cavallo e si mise in marcia con i soldati. Quelgiorno non ci furono scontri. Giulio non chiese
neppure perché si erano messi in marcianon gli importava. Nel momento incui si vide alla testa dei suoi soldati
considerò il suo destino da un nuovo punto di vista. «Sono proprio unosciocco» si disse«ho fatto male ad andarmene
da Castro; forse la collera mi ha fatto vedere Elena più colpevole di quantonon sia. Nonon può non esser più mia
quell'anima ingenua e purain cui ho visto nascere le prime sensazioniamorose! La sua passione per me era così58
sincera! Non mi ha proposto decine di volte di fuggire con mepovero comesonoe di andare a farci unire in
matrimonio da un frate di Monte Cavi? A Castroavrei dovutoprima di tuttoottenere un secondo appuntamento e farla
ragionare. Davvero la passione mi rende stordito come un bambino! Dio!perché non ho un amico da cui implorare
consiglio? Giudico un'iniziativa esecrabile e un momento dopo la trovoottima!»
La sera di quel giornomentre lasciavano la strada maestra per rientrarenella forestaGiulio si avvicinò al
principe e gli chiese se poteva rimanere ancora qualche giorno nel posto chesapeva.
«Vai al diavolo!» gli gridò Fabrizio«ti sembra il momento che mi occupidi queste bambinate?»
Un'ora dopo Giulio ripartiva per Castro. Vi trovò i suoi uomini; ma nonsapeva come scrivere a Elenadopo
averla lasciata con parole così arroganti. La sua prima lettera dicevasoltanto: «Sarò accolto questa notte?»
«Potete venire»fu la risposta.
Dopo la partenza di GiulioElena si era creduta abbandonata per sempre.Allora aveva sentito tutta la forza del
ragionamento di quel povero giovane infeliceera sua moglie prima che luiavesse la disgrazia di incontrare suo fratello
sul campo di battaglia.
Questa volta Giulio non fu accolto da quelle espressioni cerimoniose che glierano parse tanto crudeli durante il
primo colloquio. Elena però si fece vedere solo al riparo dell'inferriata;ma tremava esiccome Giulio aveva un tono
riservato e si rivolgeva a lei come a un estraneatoccò a Elena sentirequanto sia crudele quel tono quasi ufficiale
quando sostituisce quello della più dolce intimità. Giulioche avevasoprattutto paura di venir ferito dalla freddezza
delle parole che Elena poteva lasciarsi sfuggiresi esprimeva come unavvocato per provare che essa era sua moglie
molto prima del fatale combattimento dei Ciampi. Elena lo lasciava parlareperché temeva di scoppiare in lacrime se
non si fosse limitata a rispondergli con brevi frasi. Alla fineaccorgendosiche stava per tradirsigli fece promettere di
tornare il giorno dopo. Quella nottevigilia di una grande festasi cantavail mattutino di buon'ora: e loro potevano
essere scoperti. Giulioche ragionava da innamoratouscì dal giardinomolto pensieroso: non riusciva a rendersi conto
con certezza se fosse stato accolto bene o male; e siccome le idee militariispirate dalle conversazioni con i compagni
cominciavano a radicarglisi in testa: «Un giorno» disse fra sé«bisognerà forse decidersi a rapire Elena.» E si mise a
esaminare le maniere di penetrare a viva forza nel giardino. Il conventocheera molto ricco e ricattabileaveva
assoldato numerosi servitori in gran parte ex soldati; erano stati alloggiatiin una specie di caserma le cui finestre munite
di inferriate davano sullo stretto passaggio chedalla porta esterna delconventoaperta in un muro nero alto più di
ottanta piediconduceva alla porta interna custodita dalla suora guardiana.Sulla sinistra di questo stretto passaggio c'era
la caserma e a destra il muro del giardinoalto trenta piedi. La facciatadel conventosulla piazzaera un muro rustico
annerito dal tempole cui uniche aperture erano la porta e una finestrellada cui i soldati vedevano fuori. È facile
immaginare che aria triste avesse quel grande muro scuro forato solo da unaporta rinforzata da strisce di lamiera fissate
con enormi chiodi e da un'unica finestrella di quattro piedi di altezza perdiciotto pollici di lunghezza.
Non seguiremo l'autore del manoscritto originale nel lungo racconto deisuccessivi colloqui tra Giulio e Elena.
Il tono dei due amanti era ridivenuto intimoproprio come un tempo nelgiardino di Albano; solo che Elena non aveva
mai acconsentito a scendere in giardino. Una notteGiulio la trovò tuttapensierosa: sua madre era venuta a trovarla da
Roma e si sarebbe fermata per qualche giorno nel convento. Sua madre eracosì affettuosaaveva sempre avuto delicate
attenzioni per i sentimenti segreti della figliache questa provava ungrande rimorso a doverla ingannare; infatticome
avrebbe mai potuto dirle che si incontrava con l'uccisore di suo figlio?Elena finì per confessare con franchezza a Giulio
chese quella buona madre le avesse rivolto precise domandeessa nonavrebbe avuto la forza di mentirle. Giulio capì
di essere in pericolo; la sua sorte dipendeva da una frase che il caso potevasuggerire alla signora di Campireali. La
notte seguente parlò in tono risoluto:
«Domani verrò più prestostaccherò una sbarra di questa inferriatavoiscenderete in giardinovi porterò in
una chiesa della città dove un prete fidato ci sposerà. Prima di giornosarete di nuovo qui in giardino. Una volta mia
moglienon avrò più timoreese vostra madre lo esigein espiazionedella terribile disgrazia che tutti deploriamo
accetterò tuttoanche di passare molti mesi senza vedervi.»
Siccome Elena sembrava costernata per quella propostaGiulio aggiunse:
«Devo tornare dal principe; l'onore e molte altre ragioni mi costringono apartire. Solo ciò che vi propongo può
garantire il nostro avvenire; se non acconsentitesepariamoci per semprequiin questo momento. Partirò col rimorso di
essere stato imprudente. Ho creduto alla vostra parola d'onoreoravoi mancate al giuramento più sacroe io spero che
col tempo il giusto disprezzo ispiratomi dalla vostra leggerezza potràguarirmi di quest'amore che da troppo tempo mi
rende infelice.»
Elena scoppiò in lacrime:
«Mio Dio» esclamava piangendo«che orrore per mia madre!»
Alla fine accettò la proposta.
«Ma» aggiunse«possono scoprirci all'andata o al ritornopensate chescandalopensate in che spaventosa
situazione verrà a trovarsi mia madre; aspettiamo la sua partenzache saràtra qualche giorno.»
«Siete arrivata a farmi dubitare della cosa per me più sacrosanta: lafiducia nella vostra parola. Domani sera
saremo sposatioppure questa è l'ultima volta che ci vediamoal di quadella tomba.»
La povera Elena poté rispondere solo col piantola straziava soprattutto iltono deciso e spietato di Giulio. Si
era dunque proprio meritata il suo disprezzo? Era quello l'amante un tempocosì dolce e tenero? Finalmente acconsentì a
quanto le veniva ordinato. Giulio si allontanò. Da quel momento Elena attesela notte seguente in un susseguirsi di
terribili ansie. Se avesse dovuto prepararsi a una morte certail suo doloresarebbe stato meno cocenteavrebbe potuto59
trovare un po' di coraggio pensando all'amore di Giulio e al tenero affettodella madre. Passò il resto della notte
nell'indecisione più atroce. C'erano momenti in cui avrebbe voluto dir tuttoalla madre. Il giorno dopo era tanto pallida
che essavedendoladimenticò tutti i suoi saggi propositi e si gettònelle braccia della figlia esclamando:
«Che succede? Dio miodimmi che cosa hai fattoo che cosa stai per fare?Se tu prendessi un pugnale e me lo
affondassi nel cuoremi faresti soffrire meno di quanto soffro per il tuosilenzio con me.»
Elena capì che la madremanifestandole tanta tenerezza non esagerava i suoisentimentianzi cercava di
moderarne l'espressionee questo la commosse; cadde in ginocchio davanti alei. E quando la madrecercando di
carpirle il fatale segretole rimproverò di evitarlaElena le rispose cheil giorno dopo e tutti gli altri giornile sarebbe
stata vicinoma la scongiurò di non chiederle altro.
A questa frase imprudente seguì presto una confessione completa. La signoradi Campireali inorridì sentendo
che l'assassino di suo figlio era così vicino. Ma dopo quel dolore provòuna vivissima e purissima gioia. Chi potrebbe
immaginare la sua estasi quando seppe che la figlia non era mai venuta menoai suoi doveri?
Subito i progetti di quella madre prudente cambiarono totalmente; essacredette lecito ricorrere all'astuzia nei
confronti di un uomo che non era niente per lei. Il cuore di Elena erastraziato dagli impeti di passione più crudeli: la
confessione fu quanto è possibile sincera; quell'anima tormentata sentiva ilbisogno di sfogarsi. La signora di
Campirealicheormaiaveva abbandonato ogni prudenzainventò una sfilzadi ragionamentitroppo lunga da riferire.
Senza fatica dimostrò all'infelice figlia che invece di un matrimonioclandestinoche è pur sempre una macchia nella
vita di una donnaavrebbe avuto un dignitosissimo matrimonio pubblicosesolo avesse accettato di rimandare di otto
giorni l'atto di obbedienza che doveva al suo generoso amante.
Intanto leila signora di Campirealisarebbe partita per Roma;avrebbe spiegato al marito che molto prima del
fatale combattimento dei CiampiElena si era sposata con Giulio. Lacerimonia era avvenuta la notte stessa in cui
travestita con una tonaca da frateaveva incontrato il padre e il fratellosulle rive del lagosul sentiero tagliato nella
roccia lungo il muro del convento dei Cappuccini. La madre non perse d'occhiola figlia per tutto il giorno efinalmente
verso seraElena scrisse al suo amante una lettera ingenuaesecondo noimolto commoventein cui gli raccontava le
lotte che le avevano lacerato il cuore. Essa concludeva chiedendogli inginocchio una proroga di otto giorni:
«Scrivendoti» aggiungeva«questa lettera che affiderò a un messaggerodi mia madremi sembra di aver sbagliato a
dirle tutto. Mi par di vederti iratoi tuoi occhi mi guardano con odio; hoil cuore straziato dai più crudeli rimorsi. Dirai
che ho un carattere debolepusillanimespregevole; te lo confessoangelomio. Ma immaginati la scena: mia madrein
lacrimeera quasi ai miei ginocchi. È stato impossibile per me non dirlequale ragione mi impediva di acconsentire alla
sua richiesta; euna volta commessa la debolezza di pronunciar quella fraseimprudentenon so che cosa mi sia
successoma non ho potuto fare a meno di raccontarle quel che è avvenutotra noi. Come se la mia animapriva di
forzaavesse bisogno di un consiglio. Speravo di trovarlo nelle parole diuna madre... Ho troppo presto dimenticato
amico mioche l'interesse di quella madre tanto amata era contrario al tuo.Ho dimenticato il mio primo dovere che è
quello di obbedirtie mi sembra di non esser capace di quell'amore che sasuperare ogni prova. DisprezzamiGiulio
mioma in nome di Diocontinua ad amarmi. Portami via se vuoima rendimigiustizia in questo: se mia madre non si
fosse trovata nel conventoi più spaventosi pericolila vergogna stessaniente al mondo mi avrebbe impedito di
obbedire ai tuoi ordini. Ma mia madre è così buona! Così perspicacecosìgenerosa! Ricordati quello che ti ho
raccontato tempo fa; quando mio padre fece irruzione nella mia cameraessamise in salvo tutte le lettere che io non
avevo più modo di nascondere; poipassato il pericolome le rese senzaleggerle e senza aggiungere una sola parola di
rimprovero! Ebbene! essa si è sempre comportata con me come in quel momentosupremo. Capisci quanto dovrei
amarlaeppure mentre ti scrivo (che cosa orribile!) mi sembra di odiarla. Hadichiarato che per via del caldo voleva
passare la notte sotto una tenda in giardino; sento i colpi di martellostanno alzando la tenda in questo momento; non
possiamo vederci stanotte. Temo che persino il dormitorio delle educandevenga chiuso a chiavee anche le due porte
della scala a chiocciolacome non succede mai. Queste precauzioni mirenderebbero impossibile scendere in giardino
quand'anche pensassi che questa iniziativa scongiurasse la tua collera. Ah!Come mi abbandonerei a te in questo
momentose potessi! Come correrei nella chiesa dove ci dovevamo sposare.»
La lettera finiva con due pagine di frasi deliranti e di ragionamentiappassionatiche sembrano ispirarsi alla
filosofia platonica. Ho eliminato molte espressioni ricercate di questo tiponella lettera che ho appena tradotto.
Giulio Branciforte fu molto stupito di riceverla circa un'ora prima dell'AveMaria della sera. Si era appena
messo d'accordo col prete. Ebbe un moto di rabbia. «Non ho bisogno del suoconsiglio per rapirla: creatura debole e
pusillanime!» E subito partì per la foresta della Faggiola.
Ecco invece la posizione della signora di Campireali: il marito stavamorendo: l'impossibilità di vendicarsi di
Branciforte lo portava lentamente alla tomba. Invano aveva offertoconsiderevoli somme ad alcuni bravi romani;
nessuno di loro aveva voluto affrontare uno dei caporalicome dicevanodelprincipe Colonna: erano troppo sicuri di
venire sterminati con tutta la famiglia. Nemmeno un anno prima un interovillaggio era stato incendiato per punire la
morte di un soldato del Colonna e tutti gli abitantiuomini e donnecheavevano cercato di mettersi in salvo nella
campagnaerano stati legati mani e piedi con una corda e gettati nelle casein fiamme.
La signora di Campireali aveva molte terre nel regno di Napolisuomarito le aveva ordinato di far venire di là
degli assassinima lei aveva solo fatto finta di obbedire: credeva la figliairrevocabilmente legata a Giulio Branciforte.
E perciò pensava che Giulio sarebbe dovuto andare a partecipare a una o duecampagne militari nell'esercito spagnolo
che allora combatteva contro i ribelli di Fiandra. Se fosse tornato vivoquesto sarebbe stato segno che Dio non
disapprovava un matrimonio necessario; nel qual caso avrebbe dato alla figliai possedimenti del regno di Napoli;60
Giulio Branciforte avrebbe preso il nome di una di quelle terre e avrebbepassato qualche anno in Spagna con la moglie.
Dopo tutte queste prove essa avrebbe forse trovato il coraggio di vederlo. Matutto aveva cambiato aspetto dopo la
confessione della figlia: il matrimonio non era più necessarioanziementre Elena scriveva all'amante la lettera che
abbiamo tradottola signora di Campireali scriveva a Pescara e aChietiordinando ai suoi intendenti di mandarle a
Castro uomini sicuri e capaci di un colpo di mano. Non nascondeva loro che sitrattava di vendicare la morte di suo
figlio Fabioil loro giovane padrone. Il corriere partì con le lettereprima che finisse il giorno.
V
Tre giorni dopo Giulio era di nuovo a Castroportava con sé otto soldatiche avevano accettato di seguirlo e di
esporsi all'ira del principe che qualche volta aveva punito con la morteimprese come quella che andavano a compiere.
Giulio aveva già cinque uomini a Castroaltri otto arrivarono con luietuttavia quattordici soldatianche se valorosigli
sembravano insufficienti all'impresa perché il convento era come unaroccaforte.
Si trattava di varcare con la forza o con l'astuzia la prima porta delconvento; poi bisognava attraversare un
passaggio lungo più di cinquanta piedi. Nella parete sinistracome abbiamodettosi aprivano le finestre munite di
inferriate di quella specie di caserma dove le suore ospitavano trenta oquaranta servitoriex-soldati. Da quelle finestre
sarebbe partito un fuoco ben nutritonon appena fosse stato dato l'allarme.
La badessa in caricadonna di giudizioaveva paura delle prodezze dei capiOrsinidel principe Colonnadi
Marco Sciarra e di tanti altri che spadroneggiavano nei dintorni. Comeresistere a ottocento uomini risolutiche
occupassero una piccola città come Castro e credessero il convento pienod'oro?
Di solito la Visitazione di Castro aveva quindici o venti bravi nellacaserma a sinistra del corridoio che andava
dalla prima alla seconda porta del conventoa destra c'era un grosso murodove sarebbe stato impossibile far breccia
alla fine del corridoio c'era una porta di ferro che dava in un atrio acolonne; dopo l'atrio c'era il grande cortile e a destra
il giardino. La porta di ferro era sorvegliata dalla suora guardiana.
Quando Giulioseguito dagli otto uominifu a tre leghe da Castrosi fermòin una locanda fuori mano per
lasciar passare le ore più calde. Una volta làrivelò il suo progettopoi disegnò sulla sabbia del cortile la pianta del
convento da attaccare.
«Stasera alle nove» disse agli uomini«ceneremo fuori dalla cittàamezzanotte entreremo e troveremo i nostri
cinque compagniche ci aspettano vicino al convento. Uno di loroa cavallofingerà di essere un corriere venuto da
Roma per richiamare la signora di Campireali presso il marito morente.Cercheremo di varcare senza rumore la prima
porta del convento che è quinella parte centrale della caserma» disseindicando la pianta tracciata sulla sabbia. «Se
cominciamo l'attacco dalla prima portai bravi delle suore potrannofacilmente spararci con gli archibugi mentre siamo
su questa piazzetta davanti al conventoo mentre percorriamo lo strettopassaggio che va dalla prima alla seconda porta.
Questa seconda porta è di ferroma io ne ho la chiave.
«Veramente ci sono due enormi spranghe di ferrofissate al muro daun'estremitàchequando sono inserite al
loro postobloccano i due battenti. Ma siccome le due spranghe pesano troppoper essere manovrate dalla suora
guardiananon le ho mai viste inseritepur essendo passato più di diecivolte da quella porta. Spero proprio di passarci
anche stasera senza intoppi. Avrete ormai capito che ho una relazione segretanel convento; il mio scopo è rapire
un'educandanon una suora; non dobbiamo usare le armi se non in casoestremo. Se cominciassimo a combattere prima
di arrivare alla seconda porta quella munita di spranghela suora guardianachiamerebbe di sicuro due vecchi giardinieri
settantenni che abitano dentro il conventoe essi inserirebbero sulla portaquei due bracci di ferro di cui vi ho parlato.
Se ci capiterà questa disgraziadovremoper oltrepassare la portademolire il muroe ci vorranno dieci minuti; ad ogni
modoio andrò per primo verso quella porta. Ho pagato uno dei giardinieri;macome capiretemi son guardato bene
dal parlargli del mio progetto di rapimento. Attraversata la seconda portasi gira a destra e si arriva in giardino; una
volta lìcominceremo a combatteree allora bisognerà far man bassa diquanti ci troveremo davanti. Adoprerete
benintesosolo spade e dagheil minimo colpo di archibugio metterebbe arumore tutta la cittàe potremmo venire
attaccati quando usciamo. Non che non mi senta sicuro ad attraversare questapiccola cittàcon tredici uomini come voi
nessuno certo oserebbe scendere in stradama molti abitanti hanno unarchibugioe sparerebbero dalle finestre. In
questo casoinutile dirlobisognerebbe rasentare i muri. Una volta nelgiardino del conventodirete piano a ogni uomo
che vi vedrete davanti «Sparite» e ucciderete a colpi di dagachiunque non ubbidisca all'istante. Io salirò nel convento
dalla porticina del giardino con gli uomini che avrò a portata di manoedopo tre minuti scenderò con una o due donne
che porteremo a bracciasenza permetter loro di camminare. Subito usciremorapidamente dal convento e dalla città.
Lascerò due di voi vicino alla portaessi spareranno una ventina di colpidi archibugiocon intervalli di un minutoper
spaventare gli abitanti e tenerli lontani. »
Giulio ripeté due volte la spiegazione.
«Avete capito bene?» chiese alla sua gente. «Sarà buio nell'atrioadestra il giardinoa sinistra il cortile; non
dovete sbagliare.»
«Contate su di noi!» esclamarono i soldati.
Poi andarono a bere; il caporale rimase e chiese al capitano il permesso diparlare.
«Niente di più semplice» gli disse«del progetto di Vossignoria. Hogià forzato due conventi in vita mia
questo sarà il terzo; ma siamo in pochi. Se il nemico ci costringe adabbattere il muro per scardinare la seconda portasi61
può supporre che i bravi della caserma non resteranno con le mani inmano durante questa lunga operazione; vi
uccideranno sette o otto uomini a colpi di archibugioe allora potrannoriprenderci la donna mentre usciamo. È proprio
quanto ci è accaduto in un convento vicino a Bologna: ci uccisero cinqueuomininoi ne uccidemmo otto; ma il capitano
non ebbe la donna. Propongo a Vossignoria due cose: conosco quattro contadiniqui dei dintorniche hanno servito
coraggiosamente sotto gli Sciarrae che per uno zecchino si batteranno tuttala notte come leoni. Forse ruberanno
qualche pezzo di argenteria del conventoma a voi non deve importareilpeccato lo fanno loro; voili assoldate per
portar via la donnae basta. La seconda proposta è questa: Ugone è unragazzo istruito e abilissimo; era medico quando
uccise il cognato e si diede alla macchia. Potete mandarlo un'oraprima di nottealla porta del convento; chiederà lavoro
e si presenterà tanto beneda farsi assumere nel corpo di guardia; faràbere i servitori delle monacheed è anche capace
di bagnare la miccia dei loro archibugi.
Per disgraziaGiulio accettò la proposta del caporale; questimentre se neandavasoggiunse:
«Ad attaccare un conventosi incorre nella scomunica maggioreperdi più questo è sotto la diretta protezione
della Madonna. . . »
«Intendo» disse Giulio come risvegliato da quelle parole. «Rimanete conme.»
Il caporale chiuse la porta e ritornò a dire il rosario con Giulio.Pregarono per più di un'ora. A buio si rimisero
in marcia.
Quando suonava la mezzanotteGiulioche era entrato da solo a Castro versole undiciritornò a prendere i
suoi uomini fuori dalla porta della città. Entrò con gli otto soldatiacui si erano aggiunti tre contadini armatili riunì ai
cinque che aveva in cittàe si trovò così alla testa di sedici uomini bendecisi; due si erano vestiti da servitori
indossando grembiuloni di tela nera per nascondere il giacoeberretti senza piume.
A mezzanotte e mezzoGiulioche si era riservato la parte del corrieregiunse al galoppo alla porta del
conventofacendo un gran baccano e gridando che si aprisse senza indugio aun corriere del cardinale. Vide con piacere
che i soldati che gli rispondevano dalla finestrelladi fianco alla primaportaerano mezzi ubriachi. Secondo l'usodette
il suo nome su un pezzo di carta; un soldato andò a portare quel nome allaguardianache aveva la chiave della seconda
porta e doveva svegliare la badessa nelle grandi occasioni. La risposta sifece aspettare tre mortali quarti d'oradurante i
quali Giulio faticò a mantenere in silenzio la banda: alcuni abitanticominciavano persino ad aprire timidamente le
finestrequando giunse la risposta favorevole della badessa. Giulio entrònel corpo di guardia per mezzo di una scala di
cinque o sei piediche i bravi gli tesero dalla finestrellaperchénon volevano scomodarsi ad aprire il portonesalì
seguito dai due soldati vestiti da servitori. Saltando dalla finestra nelcorpo di guardiaincontrò lo sguardo di Ugone;
erano tutti ubriachigrazie a lui. Giulio disse al capo che tre servitori dicasa Campirealiche egli aveva armato come
soldati perché lo scortassero durante il camminoavevano comprato una buonaacquavite e chiedevano di salire per non
rimanere ad annoiarsi da soli sulla piazza; la proposta fu accoltaall'unanimità. Quanto a luiaccompagnato dai suoi due
uominiscese dalla scala chedal corpo di guardiaconduceva nel passaggio.
«Cerca di aprire il portone» disse a Ugone.
Egli intanto si diresse tranquillamente alla porta di ferro. Lìtrovò labrava guardiana la quale gli disse che
essendo passata la mezzanottese lui entrasse nel conventola badessasarebbe costretta a scriverlo al vescovoper cui
lo pregava di consegnare il dispaccio a una suorina mandata apposta aprenderlo. Subito Giulio rispose chenel
trambusto creato dall'imprevista agonia del signore di Campirealiavevaportato solo una lettera di credenziali scritta
dal medicoe avrebbe dato a voce tutti i particolari alla moglie e allafiglia del malatose quelle signore erano ancora
nel conventoe naturalmente alla Madre badessa. La guardiana andò ariferire il messaggio. Vicino alla porta rimase
solo la giovane suora mandata dalla badessa. Giulioparlando e scherzandocon leipassò le mani attraverso le sbarre
della porta esempre ridendocercò di aprirla. La suorache eratimidissimasi spaventò e prese molto male quello
scherzo; allora Giulionon volendo perdere altro tempocommise l'imprudenzadi offrirle una manciata di zecchini
pregandola di aprirgliaggiungendo che era troppo stanco per aspettare.Sapeva di fare una sciocchezzadice il
narratore: col ferro e non con l'oro bisognava agirema egli non ebbe cuoredi farlo: sarebbe stato facile afferrare la
suoranon era neppure a un piede da luial di là della porta. All'offertadegli zecchini la ragazza si allarmò. In seguito
disse che dal modo con cui Giulio le parlavaaveva capito che non era unsemplice corriere: è l'innamorato di una delle
suorepensòche viene per avere un appuntamentoed essa era una creaturadevota. Inorriditasi mise a tirare con tutte
le sue forze la corda di una campanella che era nel cortilee che subitofece un frastuono da svegliare i morti.
«Comincia la guerra» disse Giulio ai suoi uomini«in guardia!»
Prese la chiave epassando il braccio attraverso le sbarre di ferroaprìla portacon gran disperazione della
suorinache cadde in ginocchio e si mise a recitare Avemmarie gridando alsacrilegio. Ancora una volta Giulio avrebbe
dovuto far tacere la ragazzae non ne ebbe il coraggio: fu uno dei suoiuomini ad afferrarla e a metterle una mano sulla
bocca.
Nel medesimo istanteGiulio sentì un colpo di archibugio nel passaggioalle sue spalle. Ugone aveva aperta la
porta esterna; il rimanente dei soldati stava entrando senza far rumorequando uno dei bravi di guardiameno ubriaco
degli altrisi avvicinò all'inferriata di una finestraestupito divedere tante persone nel passaggiointimò loro
bestemmiando di fermarsi. Bisognava non rispondere e continuare ad avanzareverso la porta di ferro; così infatti fecero
i primi soldatima l'ultimo di tuttiche era un contadino reclutato nelpomeriggiosparò un colpo di pistola al domestico
del convento che parlava dalla finestrae l'uccise. Quel colpo di pistolain piena nottee le grida lanciate dagli ubriachi
nel veder cadere il loro compagnosvegliarono quei soldati del convento cheerano a letto e non avevano potuto62
assaggiare il vino di Ugone. Otto o dieci bravi saltarono mezzi nudinel passaggioe si misero a attaccare
vigorosamente i soldati di Branciforte.
Come abbiamo dettoquesto trambusto era cominciato quando Giulio avevaappena aperto la porta di ferro.
Seguito dai due soldatisi precipitò in giardinocorrendo verso laporticina della scala delle educande; ma fu accolto da
cinque o sei colpi di pistola. I due soldati cadderolui fu colpito da unapalla al braccio destro. Quei colpi di pistola
erano stati sparati dagli uomini della signora di Campirealichesecondo i suoi ordinipassavano la notte in giardino
con uno speciale permesso che lei aveva ottenuto dal vescovo. Giulio corse dasolo verso la porticinaa lui ben nota
chedal giardinodava sulla scala delle educande. La scosse come potémaera saldamente chiusa. Cercò i suoi uomini
che però non poterono risponderglistavano morendonel buio profondo siimbatté in tre servitori dei Campireali dai
quali si difese a colpi di daga.
Corse sotto il portico dell'atrioverso la porta di ferroper chiamare isoldati; la trovò chiusa: i due pesanti
bracci di ferro erano stati inseriti e fissati con i lucchetti dai vecchigiardinieri che la campana della suorina aveva
svegliato.
«Sono isolato»pensò Giulio. Lo disse ai suoi uomini; invano tentò difar saltare uno dei lucchetti con la spada:
se ci fosse riuscitoavrebbe tolto una spranga e aperto un battente. Ma laspada si spezzò nell'anello del lucchetto;
proprio in quel momento venne ferito alla spalla da uno dei servitori venutidal giardino; si voltò eaddossato alla porta
di ferrosi vide attaccare da molti uomini. Si difese con la daga; perfortunaessendo buio fittoquasi tutti i colpi di
spada finivano sulla cotta di maglia. Fu dolorosamente ferito a un ginocchio;si gettò sull'uomo che si era spinto in
avanti per colpirlolo uccise con un colpo di daga al visoed ebbe la buonasorte di impossessarsi della sua spada.
Allora pensò di esser salvo e si appostò a sinistra della portadallaparte del cortile. I suoi uominiaccorsispararono
cinque o sei colpi di pistola attraverso le sbarre di ferromettendo in fugai servitori. Solo i lampi degli spari
rischiaravano l'atrio.
«Non sparate dalla mia parte!» gridava Giulio ai suoi uomini.
«Siete proprio in trappola» gli disse il caporale con molto sangue freddoparlandogli attraverso le sbarre;
«abbiamo perduto tre uomini. Ora demoliremo lo stipite della porta dal latoopposto a dove vi trovate; state lontanoci
spareranno addosso; in giardino ci sono nemicivero?»
«Quelle canaglie di servi dei Campireali» disse Giulio.
Stava ancora parlando col caporalequandodiretti sul rumorevennerosparati contro di loro alcuni colpi di
pistolaprovenienti dalla parte dell'atrio che dava sul giardino. Giulio. sirifugiò nella stanzetta della suora guardianaa
sinistra dell'entrata; si rallegrò di trovarvi un fioco lumino che ardevadavanti all'immagine della Madonnalo prese con
precauzioneper non spegnerlo; si accorse tristemente di tremare. Esaminòla ferita al ginocchio che lo faceva soffrire
moltoperdeva sangue in abbondanza.
Guardandosi attornofu molto stupito di riconoscerein una donna svenuta suuna poltrona di legnola piccola
Mariettala fidata cameriera di Elenala scosse con forza.
«Comesignor Giulio!» esclamò essa piangendo«vorreste uccidere lavostra amica Marietta?»
«No davvero; di' a Elena che le chiedo scusa di aver disturbato il suoriposo e che pensi all'Ave Maria di Monte
Cavi. Prendi questo mazzo di fioril'ho colto nel suo giardino di Albanomasi è sporcato di sangue; lavalo prima di
darglielo.»
In quel momento si sentì una scarica di colpi di archibugio nel passaggioibravi delle suore attaccavano gli
uomini di Giulio.
«Dimmi dov'è la chiave della porticina» disse a Marietta.
«Non la vedo; ci sono però le chiavi dei lucchetti che fermano le spranghedella porta. Potrete uscire.»
Giulio prese le chiavi e si precipitò fuori della guardiola.
«Non c'è bisogno di abbattere il muro» disse ai suoi soldati«ho qui lechiavi.»
Seguì un momento di assoluto silenziomentre egli cercava di aprire unlucchetto con una delle chiavi; ma era
la chiave sbagliata e dovette prendere l'altra; finalmenteaprì illucchetto; mentre cominciava a sollevare la sprangafu
colpito quasi a bruciapelo da un colpo di pistola al braccio destro. Subitosentì che quel braccio non gli obbediva.
«Sollevate la spranga» gridò alla sua gente.
Non aveva bisogno di dirlo. Al chiarore dello sparoessi avevano vistol'estremità piegata della spranga ormai
per metà fuori dall'anello della porta. Subito tre o quattro braccia robustesollevarono la spranga; quando fu
completamente uscita dall'anellola lasciarono cadere. Allora fu possibiledischiudere un battente della porta; il caporale
entrò e sussurrò a Giulio:
«Non c'è più niente da faresolo tre o quattro di noi non hanno feritecinque sono morti.»
«Ho perso molto sangue» disse Giulio«mi sento sveniredite loro diportarmi via.»
Mentre Giulio parlava col coraggioso caporalei soldati del corpo di guardiaspararono tre o quattro colpi di
archibugioe il caporale cadde morto. Per fortunaUgone aveva uditol'ordine di Giulio e chiamò per nome due soldati
che sollevarono il capitanochenon ancora svenutocomandò loro ditrasportarlo in fondo al giardinodavanti alla
porticina. Bestemmiandoi soldati obbedirono.
«Cento zecchini a chi apre questa porta!» esclamò Giulio.
Ma essa resistette agli síorzi dei tre uomini furibondi. Un vecchiogiardiniereappostato a una finestra del
secondo pianosparava contro di loro molti colpi di pistola cherischiaravano un po' i loro movimenti.63
Dopo gli inutili sforzi diretti contro la portaGiulio svenne davvero; Ugonedisse ai soldati di affrettarsi a
portar via il capitano. Quanto a luientrò nella guardiolacacciò via lapiccola Mariettaingiungendole con voce
terribile di scappare e di non dire mai chi aveva visto. Prese la paglia dallettoci spezzò sopra qualche sedia e diede
fuoco alla stanza. Quando vide le fiamme alzarsiscappò a gambe levatetrai colpi di archibugio sparati dai bravi del
convento.
Solo a più di centocinquanta passi dalla Visitazione raggiunse il capitanodel tutto svenutoche i soldati
portavano via correndo. Qualche minuto dopo uscivano dalla città. Ugone fecefare una sosta: gli erano rimasti solo
quattro soldati; ne rispedì due in cittàcoll'ordine di sparare un colpodi archibugio ogni cinque minuti.
«Cercate di recuperare i vostri compagni feriti» disse loro«e uscitedalla città prima di giorno; noi
percorreremo il sentiero della Croce Rossa. Se potete appiccare ilfuoco da qualche partenon esitate.»
Quando Giulio riprese conoscenzaerano ormai a tre leghe dalla città e ilsole era già alto sull'orizzonte. Ugone
fece rapporto.
La vostra truppa è ora di cinque uominitre dei quali feriti. I duecontadini superstiti hanno avuto due zecchini
per uno di ricompensa e sono fuggiti: ho mandato nel borgo qui vicino i dueuomini non feriti a cercare un chirurgo.
Il chirurgoun vecchietto tutto tremantearrivò presto in groppa a unmagnifico asino; ma per convincerlo a
venire era stato necessario minacciare di appiccargli il fuoco alla casa. Sidovette fargli bere un po' di acquavite per
metterlo in grado di agiretanta era la sua paura. Finalmente si miseall'opera; disse a Giulio che le sue ferite non
avrebbero avuto conseguenze.
«Quella del ginocchio non è pericolosa» aggiunse«ma rimarrete zoppoper tutta la vitase non state in
assoluto riposo per quindiciventi giorni.»
Quando il chirurgo ebbe bendato i soldati feritiUgonelanciando a Giuliouno sguardo di intesagli dette due
zecchinied egli si profuse in ringraziamenti; poicon la scusa didimostrargli la loro riconoscenzai soldati gli fecero
bere tanta acquavite che finì coll'addormentarsi profondamente. Era quelloche volevano. Lo portarono in un campo
vicino e gli misero in tasca un fagottino con quattro zecchini: era il prezzodel suo asino su cui vennero issati Giulio e
un soldato ferito a una gamba. Andarono tutti a passare le ore più calde inriva a uno stagnotra antichi ruderi; poi
marciarono tutta la notteevitando i rari villaggi lungo la strada efinalmentedue giorni dopoal levar del soleGiulio
portato dai suoi uominisi svegliò nel cuore della foresta della Faggioladentro la capanna di carbonaio che era il suo
quartier generale.
VI
All'indomani del combattimentole suore della Visitazione trovarono conraccapriccio nove cadaveri nel
giardino e nel passaggio che andava dal portone esterno alla porta a sbarredi ferro; otto loro bravi erano feriti. Mai al
convento si era avuto tanta paura: qualche volta si erano uditi distintamentecolpi di archibugio sparati sulla piazzama
mai tanti spari in giardinoall'interno dell'edificio e sotto le finestredelle monache. La faccenda era durata un'ora e
mezzodurante la quale la confusione era arrivata al culminelà dentro. SeGiulio Branciforte fosse stato appena
d'accordo con una suora o un'educandasarebbe riuscito nell'impresa: bastavache qualcuno gli aprisse una delle tante
porte che davano sul giardino; matravolto dall'indignazione e dall'ira perquello che chiamava lo spergiuro della
giovane ElenaGiulio voleva ottenere tutto con la forza. Avrebbe creduto divenir meno al suo compito se avesse
confidato le sue intenzioni a qualcuno che poteva riferirle a Elena. Eppureuna sola parola alla piccola Marietta sarebbe
bastata a garantire il successo; essa avrebbe aperto una delle porte sulgiardinoe sicuramente se un uomo fosse apparso
nel dormitorio del conventocon quel terribile accompagnamento di spari dafuorisarebbe stato obbedito alla lettera.
Al primo colpo di archibugio Elena aveva tremato per la vita del suo amante enon aveva pensato ad altro che a fuggire
con lui.
Come descrivere la sua disperazione quando la piccola Marietta le raccontòdell'orribile ferita che Giulio aveva
al ginocchio e da cui aveva visto uscire tanto sangue? Elena si detestava perla sua viltà e pusillanimità:
«Ho commesso la debolezza di parlare a mia madre e Giulio ha versato il suosangue; poteva perder la vita in
questo sublime assalto per il quale ha contato solo sul suo coraggio.»
I bravi ammessi in parlatorio avevano detto alle suoreavide dinotiziechenella loro vitamai erano stati
testimoni di un coraggio pari a quello del giovane vestito da corriere chedirigeva gli sforzi dei briganti. Tutte quante
ascoltavano quei racconti con interesse vivissimoma è facile immaginarecon quanta passione Elena chiedesse loro
particolari sul giovane capo dei briganti. Dopo i lunghi racconti di costoroe dei vecchi giardinieritestimoni imparziali
le parve di non amare più la madre. Vi fu anche un dialogo piuttosto accesotra quelle due donne che si volevano tanto
bene alla vigilia del combattimento; la signora di Campireali fucolpita nel vedere alcune macchie di sangue sui fiori di
un certo mazzo da cui Elena non si separava neppure un istante.
«Bisogna buttar via quei fiori sporchi di sangue.»
«Ioho fatto versare questo sangue generosoperché ho avuto la debolezzadi confidarmi con voi.»
«Amate ancora l'assassino di vostro fratello?»
«Amo il mio sposo cheper mia eterna sventuraè stato attaccato da miofratello.»
Dopo queste frasi la signora di Campireali e sua figlia non siscambiarono più una parola nei tre giorni che la
signora passò ancora al convento.64
All'indomani della sua partenzaElena riuscì a scappareapprofittandodella confusione che regnava intorno
alle due portedovuta alla presenza di un gran numero di muratori chestavano costruendo nuove fortificazioni. Lei e la
piccola Marietta si erano vestite da operai. Ma gli abitanti di Castrofacevano buona guardia alle porte della città. Elena
trovò molte difficoltà per uscire. Finalmentelo stesso mercante che leaveva recapitato le lettere di Branciforte accettò
di farla passar per sua figlia e di accompagnarla fino a Albanodove poténascondersi presso la sua nutrice cheaiutata
da leiera stata in grado di aprire una piccola bottega. Appena arrivataessa scrisse a Brancifortee la nutrice trovònon
senza faticaun uomo disposto a avventurarsi nella foresta della Faggiolasenza conoscere la parola d'ordine dei soldati
del Colonna.
Il messaggero mandato da Elena tornò dopo tre giornispaventatissimo;primagli era stato impossibile trovare
Brancifortee quando le molte domande che aveva fatto sul conto del capitanoavevano finito col renderlo sospettosi
era visto costretto a fuggire.
«Non c'è dubbioil povero Giulio è morto» si disse Elena«e l'houcciso io! A questo doveva portarlo la mia
sciagurata debolezza e la mia pusillanimità; avrebbe dovuto amare una donnafortela figlia di qualche capitano del
principe Colonna.» La nutrice credette che Elena stesse per morire. Salì alconvento dei Cappucciniconfinante col
sentiero scavato nella rocciadove una volta Fabio e suo padre avevanoincontrato i due amanti in piena notte. La
nutrice parlò a lungo al suo confessoree sotto il suggello del sacramentogli confidò che la giovane Elena di
Campireali voleva raggiungere Giulio Brancifortesuo sposoed era dispostaa offrire alla chiesa del convento una
lampada d'argento del valore di cento piastre spagnole.
«Cento piastre!» rispose il frate furibondo. «E che ne sarà del nostroconventose ci esporremo all'odio del
signore di Campireali? Non centomille piastre ci ha datoper esser andatia prendere il corpo di suo figlio sul campo di
battaglia dei Ciampie anche molta cera.»
A onore del convento va detto che due frati anzianiavendo saputo dove Elenasi rifugiava esattamentescesero
a Albano e andarono a trovarladapprima nell'intento di indurlaper amore oper forzaa prender dimora nel palazzo
paternoben sapendo che sarebbero stati riccamente ricompensati dalla signoradi Campireali. Tutta Albano era stata
messa a rumore dalla fuga di Elena e dalle voci di magnifiche promesse fattedalla madre a chi potesse darle notizie di
lei. Ma i due frati furono così commossi dalla disperazione della poveraElenaper la sorte di Giulio Branciforte che
invece di tradirlaindicando alla madre il luogo dove stava nascostasioffrirono di scortarla fino alla fortezza della
Petrella. Elena e Mariettasempre vestite da operaisi recarono a piedi dinotte vicino a una certa fonte nella foresta
della Faggiolaa una lega da Albano. I frati avevano portato i mulieall'albatutti si misero in cammino diretti alla
Petrella. I fratinotoriamente protetti dal principevenivano salutati conrispetto dai soldati incontrati nella foresta; ma
non era così per i due giovanetti che li accompagnavano: i soldati liguardavano dapprima severamente da vicinopoi
scoppiavano a ridere e si complimentavano coi frati per la grazia dei loromulattieri.
«Zittiempisappiate che eseguiamo un ordine del principe Colonna»rispondevano i frati continuando il
cammino.
Ma la povera Elena era proprio sfortunata; il principe non era alla Petrellae quando tornòtre giorni dopoe le
accordò udienzafu durissimo.
«Perché venite quisignorina? Che cosa significa questa iniziativainconsulta? Le vostre chiacchiere di donna
hanno fatto perire sette uominitra i più coraggiosi che ci fossero inItalia e questo nessuna persona di buon senso ve lo
perdonerà mai. A questo mondo bisogna sapere quello che si vuole.Probabilmente per altri nuovi pettegolezzi Giulio
Branciforte è stato dichiarato sagrilego e condannato a essereattanagliato per due ore con tenaglie roventie poi
bruciato come un ebreoluiuno dei migliori cristiani che io conosca! Comeavrebbero potutosenza qualche infame
chiacchiera da parte vostrainventare l'orribile menzogna che GiulioBranciforte era a Castro il giorno dell'attacco al
convento? Tutti i miei uomini vi diranno che quel giorno egli era quiallaPetrellae che la sera lo mandai a Velletri.»
«Ma è vivo?» gridò Elena per la decima voltasciogliendosi in lacrime.
«Per voi è morto» riprese il principe«non lo rivedrete più. Viconsiglio di tornare nel vostro convento di
Castro; cercate di non commettere più indiscrezioni e lasciate la Petrellaentro un'ora. Soprattutto non dite a nessuno di
avermi vistoo saprò come punirvi.»
La povera Elena rimase profondamente ferita nel vedersi accolta così dalfamoso principe Colonnaper il quale
Giulio aveva il massimo rispettoe che essa amava per amor suo.
Checché ne dicesse il principe Colonnal'iniziativa di Elena non eraaffatto sconsiderata. Se fosse arrivata alla
Petrella tre giorni primavi avrebbe trovato Giulio Branciforte. La feritaal ginocchio gli impediva di camminare e il
principe lo aveva fatto trasportare nel grosso borgo di Avezzanonel regnodi Napoli. Alla prima notizia della terribile
sentenza contro Branciforteottenuta col denaro dal signore di Campirealieche lo dichiarava sacrilego per aver violato
un conventoil principe aveva capito chequalora ci fosse stato bisogno diproteggerlonon avrebbe potuto più contare
sui tre quarti dei suoi uomini. Quello era un peccato contro la Madonnaallacui protezione ognuno di quei briganti
credeva di aver particolare diritto. Se a Roma ci fosse stato un bargellotanto audace da andare a arrestare Giulio
Branciforte nel cuore della foresta della Faggiolaprobabilmente ci sarebberiuscito.
Quando arrivò a AvezzanoGiulio si chiamava Fontanae gli uomini che lotrasportavano furono della
massima discrezione. Di ritorno alla PetrellaannunziaronoaddoloraticheGiulio era morto durante il viaggioe da
quel momento ogni soldato del principe seppe che ci sarebbe stata unapugnalata al cuore per chiunque avesse
pronunciato quel nome fatale.65
Invano quindi Elenaritornata a Albanoscrisse lettere su lettere e spesetutti gli zecchini che avevaper farle
recapitare a Branciforte. I due anziani fratiche erano diventati suoi amiciperché l'eccezionale bellezzadice il cronista
fiorentinoesercita un certo ascendente anche sui cuori induritidall'egoismo e dall'ipocrisia; i due fratidicevamo
avvertirono la povera ragazza che avrebbe tentato invano di far giungere unmessaggio a Branciforte: il Colonna aveva
dichiarato che era morto e certamente Giulio sarebbe ricomparso solo quandoil principe l'avesse voluto. La nutrice
annunciò piangendo a Elena che sua madre aveva ormai scoperto il suo ritiroe aveva dato severissimi ordini perché
venisse portata a viva forza al palazzo Campirealia Albano. Elena capì cheuna volta in quel palazzo la sua prigionia
avrebbe potuto essere di un rigore senza limititanto da esserle vietataassolutamente ogni comunicazione con l'esterno
mentre nel convento di Castro avrebbe avutoper ricevere e mandare letterele stesse facilitazioni di tutte le suore. E
poie questo fu determinantenel giardino di quel convento Giulio avevaversato il suo sangue per lei: avrebbe potuto
rivedere la poltrona della suora guardianadove si era seduto un momento peresaminare il ginocchio ferito; era lì che
egli aveva dato a Marietta il mazzolino macchiato di sangue da cui lei oranon si separava mai. Ritornò dunque
tristemente al convento di Castro e la storia potrebbe finire qui: sarebbemeglio per lei e forse anche per il lettore.
Assisteremoinfattialla lenta degradazione di un'anima forte e generosa.La prudenza e le menzogne con cui cercherà
ossessivamente di salvare le apparenzesecondo le regole del vivere civileprenderanno il posto dei sinceri impulsi di
passioni forti e naturali. A questo punto il cronista romano osservamoltoingenuamente: «Una donnasolo perché ha
messo al mondo una figlia molto bellacrede di esser capace di guidarlanella vitae solo perchéquando aveva sei anni
sapeva dirle: Signorina raddrizzatevi il collettoallorché la figlia hadiciotto anni e lei cinquantaallorché la figlia è
intelligente quanto la madree forse piùquestapresa dalla smania didominaresi crede in diritto di disporre della vita
di lei e persino di ricorrere alle bugie.» Vedremo che fu Vittoria Carafamadre di Elenaa causarecon manovre abili e
sapientemente orchestratela morte della figlia tanto amatadopo averlaresa infelice per dodici annitriste risultato
della smania di dominio.
Prima di morireil signore di Campireali aveva avuto la gioia di vederpubblicata a Roma la sentenza che
condannava Branciforte a esser attanagliato per due ore con ferri roventi neiprincipali crocicchi romanie poi bruciato a
fuoco lento e le ceneri gettate nel Tevere. Gli affreschi del chiostro diSanta Maria Novellaa Firenzeancor oggi
mostrano come si eseguivano quelle crudeli sentenze contro i sacrileghi. Disolitoci volevano moltissime guardie per
impedire al popolo indignato di sostituirsi ai carnefici nel loro compito.Ognuno credeva di esser amico intimo della
Madonna. Il signore di Campireali si era fatto leggere ancora una volta lasentenzapoco prima di morire e aveva
regalato all'avvocato che l'aveva ottenuta la sua bella tenuta tra Albano eil mare. Quell'avvocato se l'era ben meritata.
Branciforte era stato condannato a quell'atroce suppliziosenza che nessuntestimone avesse detto di averlo riconosciuto
sotto le vesti di quel giovanotto vestito da corriereche sembrava dirigerecon tanta autorità le mosse degli assalitori. La
generosa donazione emozionò tutti gli intriganti romani. A corte allorac'era un certo fratoneuomo pieno di esperienza
e capace di tuttopersino di obbligare il papa a dargli il cappellocardinalizio; curava gli affari del principe Colonnae
per via di quel cliente terribile era molto considerato. Quando la signoradi Campireali vide tornare a Castro la figlia
fece chiamare il fratone.
«Reverendosarete generosamente ricompensato se vorrete contribuire al buonesito di un affare molto
semplice che ora vi spiegherò. Tra pochi giornila sentenza che condannaGiulio Branciforte a un supplizio terribile
sarà resa pubblica e esecutiva anche nel regno di Napoli. Vi invitomoltoreverendo padrea leggere questa lettera del
vicerémio lontano parenteche si degna di comunicarmi questa notizia. Inche paese potrà trovare asiloBranciforte?
Farò consegnare al principe 50.000 piastrepregandolo di darletutte o inpartea Giulio Brancifortea condizione che
vada a servire il re di Spagnamio signorecontro i ribelli di Fiandra. Ilviceré darà a Branciforte il brevetto di capitano
eaffinché la sentenza di sacrilegioche spero rendere esecutoria anche inSpagnanon lo ostacoli nella carrieraporterà
il nome di barone Lizzara; è una mia piccola tenuta in Abruzzoche troveròmodocon una finta venditadi far
diventare di sua proprietà. Penso che voireverendo padrenon abbiate maivisto una madre trattare così l'assassino del
figlio. Con 500 piastreavremmo potuto da tempo liberarci di quell'essereodioso; ma non abbiamo voluto metterci in
urto con il Colonna. Degnatevi dunque di fargli notare che il rispetto per isuoi diritti mi costa 60.000 o 80.000 piastre.
Non voglio mai più sentir parlare di quel Brancifortee con questopresentate al principe i miei rispetti.»
Il fratone disse che entro tre giorni sarebbe andato a fare una gitadalle parti di Ostiae la signora di
Campireali gli dette un anello che valeva 1000 piastre.
Alcuni giorni dopoil fratone riapparve a Romae disse alla signoradi Campireali che non aveva comunicato
al principe la sua proposta; ma che entro un mese il giovane Branciforte sisarebbe imbarcato per Barcellonae che essa
avrebbe potuto fargli avereattraverso un banchiere di quella città50.000piastre.
Il principe ebbe molta difficoltà a convincere Giulio; quale che fosse ilpericolo che ormai correva in Italiail
giovane innamorato non poteva risolversi a lasciare il paese. Invano ilprincipe insinuò che la signora di Campireali
poteva morire presto; invano gli promise chedopo tre annisarebbe potutocomunque tornareGiulio piangevama non
acconsentiva. Il principe fu costretto a chiederglielo come un serviziopersonale: Giulio non poteva rifiutare niente
all'amico del padre ma era da Elena soprattutto che voleva prendere ordini.Il principe accondiscese a farle recapitare
una lunga letterae per di piùpermise a Giulio di scriverle dallaFiandraogni mese. Finalmente l'amante disperato si
imbarcò per Barcellona. Tutte le sue lettere furono bruciate dal principeche non voleva che Giulio tornasse mai più in
Italia. Abbiamo dimenticato di dire che il principebenché alieno percarattere da ogni forma di vanitàsi era creduto in
dovere di dire per far andar in porto la trattativadi aver voluto garantirepersonalmente un piccolo capitale di 50.000
piastre all'unico figlio di uno dei più fedeli servitori di casa Colonna.66
La povera Elena era trattata come una principessa nel convento di Castro. Lamorte del padre l'aveva fatta
entrare in possesso di un notevole capitale a cui si aggiunsero ereditàimmense. In occasione di quella morte essa fece
distribuire cinque aune di panno nero a tutti gli abitanti di Castro e deidintorni che dichiararono di voler portare il lutto
per il signore di Campireali. Essa era ancora nei primi giorni di luttostrettoquando una mano del tutto sconosciuta le
consegnò una lettera di Giulio. Sarebbe difficile descrivere la gioia concui quella lettera fu apertae la profonda
tristezza che seguì alla sua lettura. Tuttavia era proprio scritta daGiulioessa l'aveva esaminata con la massima
attenzione. La lettera parlava d'amorema che amoreDio mio! Eppure l'avevaredatta la signora di Campirealidonna
di grande intelletto. Il suo disegno era di cominciare un carteggio con setteo otto lettere d'amore appassionatoe di farle
seguire da altre in cui l'amore si sarebbe a poco a poco spento.
Sorvoleremo su dieci anni di una vita infelice. Elena si credeva dimenticataeppure aveva sdegnosamente
rifiutato gli omaggi dei più distinti giovanotti romani. Però aveva esitatoun istante quando gli avevano parlato del
giovane Ottavio Colonnaprimogenito del famoso Fabrizioche l'aveva accoltacosì male un tempo alla Petrella. Le
sembrava chedovendo per forza scegliere un marito che difendesse i suoipossedimenti nello stato romano e nel regno
di Napolile sarebbe stato meno odioso portare il nome di un uomo che Giulioaveva amato. Se avesse acconsentito a
quel matrimonio avrebbe saputo rapidamente la verità su Giulio Branciforte.Il vecchio principe Fabrizio parlava
spessoe con caloredegli atti di sovrumano coraggio del colonnello Lizzara(Giulio Branciforte) cheproprio come gli
eroi dei vecchi romanzicercava di dimenticare con coraggiose imprese unamore infelice che lo rendeva insensibile a
tutti i piaceri. Credeva Elena sposata da tempo; la signora diCampireali aveva circondato anche lui di menzogne.
Elena si era quasi riconciliata con quell'abile madrechedesiderandoardentemente di vederla sposatapregò
un amicoil vecchio cardinale Santi Quattroprotettore della Visitazioneil quale doveva recarsi a Castrodi
comunicare in segreto alle suore più anziane del conventoche avevaritardato il viaggio per un atto di grazia. Il buon
papa Gregorio XIIImosso a pietà per l'anima di un brigante chiamato GiulioBranciforteche una volta aveva tentato di
violare il loro monasteroaveva volutoappresa la sua morterevocare lasentenza che lo dichiarava sacrilegopersuaso
chesotto il peso di una simile condannaegli non sarebbe mai potuto usciredal purgatoriosempre chesorpreso e
massacrato in Messico da selvaggi ribelliavesse avuto la fortuna diandarci. Quella notizia mise in subbuglio tutto il
convento di Castro; arrivò fino a Elena che allora si abbandonava a tutte lestravaganze della vanità che le grandi
ricchezze possono ispirare a una persona profondamente annoiata di tutto. Daquel momentoessa non uscì più di
camera. Bisogna sapere che per poter usare come camera la guardiola dellaportieradove Giulio si era rifugiato un
istante la notte del combattimentoaveva fatto ricostruire mezzo convento.Con infinite pene e poi con grande scandalo
era riuscita a scoprire e a prendere al suo servizio i tre bravi diBranciforte che erano i soli superstiti dei cinque
scampati al combattimento di Castro. Tra questi c'era Ugoneora vecchio ecrivellato di ferite. La presenza di quei tre
uomini aveva fatto mormorare; ma alla fineil timore che a tutti incuteva ilcarattere altero di Elena aveva avuto la
meglioe tutti i giorni si potevano vedere i trecon la sua livreavenir aprender ordini alla grata esternae spesso
fermarsi a rispondere alle domande di Elena sempre sullo stesso argomento.
Dopo sei mesi di reclusione e di distacco dalle cose del mondoseguitiall'annuncio della morte di Giuliola
prima sensazione che risvegliò quell'anima spezzata da un'irrimediabilesventura e da una lunga noia fu una sensazione
di vanità.
La badessa era morta da poco. Secondo l'usanzail cardinale Santi Quattroancora protettore della Visitazione
benché novantaduenneaveva compilato una lista di tre signore suoretra lequali il papa doveva scegliere la badessa.
Solo per gravissimi motivi Sua Santità avrebbe letto gli ultimi due nomidella listadi solito si limitava a cancellare quei
due nomi con un tratto di pennae la nomina era fatta.
Un giornoElena era alla finestra dell'ex guardioladivenuta l'ala estremadel nuovo fabbricatocostruito dietro
suo ordine. La finestra era a meno di due piedi di altezza da quel passaggioche era stato bagnato dal sangue di Giulio e
che ora faceva parte del giardino. Elenaassortateneva gli occhi fissi aterra. Le tre dame che da qualche ora
figuravano sulla lista del cardinalecome si sapeva per succedere alladefunta badessapassavano sotto quella finestra.
Lei non le videe non poté quindi salutarle. Una delle tre si sentì offesae disse ad alta voce alle altre:
«Bel modo per un'educandaesibire la propria camera agli occhi delpubblico!»
Riscossasi a quelle paroleElena alzò gli occhi e incontrò tre sguardimalevoli. «Ebbene!» pensò chiudendo la
finestra senza salutare«da troppo tempo sono agnello in questo conventodevo farmi luponon fosse altro che per
procurare nuovi divertimenti ai curiosi della città.»
Un'ora dopoun suo servitore fu mandato a portare la seguente lettera allamadre che da dieci anni viveva a
Romadov'era molto stimata.
Madre Rispettabilissima
Tutti gli anni mi dai 300.000 franchi il giorno della mia festa; spendoquesto denaro in stravaganzeonorevoli
certoma pur sempre stravaganze.
Benché tu non ne parli da temposo di avere due modi per provarti la miariconoscenza per tutte le buone
intenzioni che hai avuto nei miei riguardi.
Non mi sposeròma mi farebbe piacere diventare badessa di questo convento;questa idea mi è venuta quando
ho visto che il nostro cardinale Santi Quattro ha messo nella lista dapresentare al Santo Padre il nome di tre suore
nemiche mieper cuiqualunque sia l'elettami aspetto ogni sorta divessazioni. Dai a chi è necessario i soldi destinati67
alla mia festa; facciamo prima di tutto rimandare la nomina di sei mesiquesto farà impazzire di gioia la priora del
conventomia intima amicache ora tiene le redini del comando.
Già questo mi renderà felicee sai quanto raramente si possa usare questaparolaparlando di tua figlia. È
un'idea folle; ma se ci vedi qualche possibilità di successotra tre giorniprenderò il velo biancootto anni in convento
senza aver mai passato una notte fuoridanno diritto a una dispensa di seimesiche non si nega mai e costa quaranta
scudi.
Sono con rispettomia venerabile madreecc.
Questa lettera riempì di gioia la signora di Campireali. Quando laricevé si era già pentita di aver fatto
annunciare alla figlia la morte di Branciforte; non sapeva come si sarebberisolta la profonda malinconia a cui Elena era
in predatemeva un colpo di testaaveva persino paura che la figlia volesseandare in Messico a vedere il luogo dove
dicevano che Branciforte fosse stato massacratoe in questo caso era facileche a Madrid venisse a sapere il vero nome
del colonnello Lizzara. D'altra parte la richiesta contenuta nella letteraera la cosa più difficile e si può dir la più
assurda. Una fanciulla che non era neppure suora e che inoltre era nota perla folle passione che aveva ispirato a un
brigantepassione forse corrispostaesser messa a capo di un monastero dovetutti i principi romani contavano qualche
parente! Mapensò la signora di Campirealisi dice che ogni causapuò esser difesa e quindi vinta. Nella sua risposta
Vittoria Carafa diede qualche speranza alla figlia che di solito aveva voglieassurdema di cuiin compensosi stancava
subito. Nel corso della seratacercando informazioni su tutto ciò chedavicino o da lontanopoteva aver attinenza col
convento di Castroapprese che da molti mesi il suo amico cardinale SantiQuattro era molto irritato: voleva maritare la
nipote a Don Ottavio Colonnaprimogenito del principe Fabriziodi cui si èparlato tanto in questa storia. Il principe gli
proponeva il secondogenitodon Lorenzoperchéper rimettere in sesto ilsuo patrimonioinsolitamente compromesso
dalla guerra che il re di Napoli e il papafinalmente d'accordofacevano aibriganti della Faggiolabisognava che la
moglie del primogenito portasse alla famiglia Colonna una dote di 600.000piastre (3.210.000 franchi). Ebbeneil
cardinale Santi Quattroanche diseredando nel modo più grottesco tutti glialtri parentipoteva offrire solo una fortuna
di 380 o 400.000 scudi.
Vittoria Carafa passò la serata e una parte della notte a farsi confermarequesti fatti da tutti gli amici del
vecchio Santi Quattro. Il giorno dopoalle setteandò a casa del cardinalee si fece annunziare.
«Eminenza» gli disse«siamo entrambi molto vecchinon cerchiamo diingannarci chiamando con bei nomi
cose che non sono affatto belle; vengo a farvi una proposta aberrantetutt'al più potrei dirvi che non è abominevole
anche se la trovo ridicola. Durante le trattative per il matrimonio di donOttavio con mia figlia Elenami sono
affezionata a quel giovane eil giorno delle sue nozzevi consegnerò200.000 piastre in possedimenti o in denaroche
vi pregherei di fargli accettare. Ma perché una povera vedova come me possafare un sacrificio così enormeoccorre
che mia figlia Elenache ha ventisette anni e che dall'età di diciannoveanni non ha mai lasciato il conventodiventi
badessa di Castroper questo bisogna ritardare l'elezione di sei mesi;la cosa è canonica.»
«Che dite maiSignora?» esclamò fuori di sé il vecchio cardinale«neppure Sua Santità potrebbe fare quello
che chiedete a un povero vecchio invalido.»
«Perciò ho detto a Vostra Eminenza che la cosa era ridicola; gli sciocchila troveranno follema la gente
informata di ciò che avviene a corte penserà che il nostro ottimo principeil bravo papa Gregorio XIII abbia voluto
ricompensare i lunghi e leali servizi di Vostra Eminenza facilitando unmatrimonio che ella desideracome sa tutta
Roma. Del resto la cosa è possibilissima e del tutto canonicane rispondoio; mia figlia prenderà il velo bianco fin da
domani.»
«Ma la simoniaSignora!» esclamò il vecchio con voce terribile.
La signora di Campireali stava andandosene.
«Mi lasciate una cartache cos'è?»
«È l'elenco dei possedimenti che offrireidel valore di 200.000 piastrequalora rifiutaste il denaro contante; il
trapasso di proprietà delle terre potrebbe esser tenuto segreto per moltotempo; per esempiola casa Colonna potrebbe
intentarmi processi che io perderei...»
«Ma la simoniaSignora... l'orribile simonia!»
«Bisogna cominciare col rimandare di sei mesi l'elezione; domani verrò aprendere ordini da Vostra
Eminenza.»
Mi sembra opportuno spiegareper i lettori d'oltr'Alpeil tonosemiufficiale di alcune parti di questo dialogo;
ricorderò chenei paesi rigorosamente cattolicila maggior parte deidialoghi scabrosi arrivano prima o poi al
confessionale e allora era tutt'altro che indifferente aver usato frasirispettose o termini ironici.
Il giorno dopoVittoria Carafa seppe cheper via di un grave errorescoperto nell'elenco delle tre signore
proposte per la nomina a badessa di Castrol'elezione veniva rimandata disei mesi: la seconda signora dell'elenco aveva
un rinnegato nella sua famiglia; un suo prozio si era fatto protestante aUdine.
La signora di Campireali giudicò il momento opportuno per tentare unapproccio col principe Colonnaalla cui
casa essa offriva un consistente aumento di patrimonio. Brigò per duegiornial fine di riuscire ad ottenere un colloquio
in un villaggio vicino a Romama uscì agitatissima da quell'incontro: avevatrovato il principedi solito tanto calmo
così infatuato dalla gloria militare del colonnello Lizzara (GiulioBranciforte)che essa ritenne del tutto inutile
chiedergli il segreto su quel punto. Il colonnello era per lui come unfiglioanzi un allievo favorito. Il principe passava68
le giornate a leggere certe lettere giunte dalla Fiandra. Che ne sarebbestato del progetto da lei accarezzato e dei sacrifici
degli ultimi dieci annise la figlia avesse saputo dell'esistenza e dellagloria del colonnello Lizzara?
Credo sia meglio tacere molte circostanze chein veritàdipingono icostumi del tempo ma che sarebbero
troppo tristi da raccontare. L'autore del manoscritto romano si è dato ungran daffare per stabilire con esattezza quei
particolari che io sopprimo.
Due anni dopo il colloquio della signora di Campireali col principeColonnaElena era badessa di Castro; ma il
vecchio cardinale Santi Quattro era morto di dolore dopo quell'atto disimonia. A quel tempoera vescovo di Castro il
più bell'uomo della corte pontificiamonsignor Francesco Cittadininobilemilanese. Quel giovaneche si distingueva
per la sua bellezza e per la sua aria modesta e dignitosafu spesso incontatto con la badessa della Visitazione
soprattutto per via di un nuovo chiostrocon cui essa voleva abbellire ilconvento. Il giovane vescovo Cittadiniallora
ventinovennesi innamorò pazzamente della bella badessa. Nel processoistruito un anno dopoun gran numero di
suorechiamate a testimoniareriferirono che il vescovo moltiplicava levisite al conventoe ripeteva continuamente
alla loro badessa: «Altrove comando emi vergogno a confessarloquesto midà piacere; vicino a voi obbedisco come
uno schiavoma con un piacere molto maggiore di quello che provo comandandoaltrove. Sono sotto l'influsso di un
essere superiorenon potrei avere altra volontà che la suaneppure setentassie preferirei essere per l'eternità l'ultimo
dei suoi schiavipiuttosto che essere re lontano dai suoi occhi.»
I testimoni riferiscono che spesso la badessa lo interrompeva nel bel mezzodi quelle sue eleganti frasi
ordinandogli di tacere in termini duri e sprezzanti.
«A dire il vero» continua un altro testimone«la Signora lo trattavacome un servitore; allora il povero
vescovo abbassava gli occhisi metteva a piangerema non se ne andava.Trovava ogni giorno un nuovo pretesto per
tornare al convento e questo scandalizzava molto i confessori delle suore ele nemiche della badessa. Ma la Signora
badessa era difesa accanitamente dalla priora che era sua intima amica e cheai suoi diretti ordinidirigeva il convento.
«"Sapete benenobili sorelle" diceva questa«chedopo lapassione contrastata della sua prima giovinezza per
un soldato di venturaha sempre avuto idee bizzarrema sapete anche qual èil lato positivo del suo carattere: mai
cambia parere sulle persone per cui ha manifestato disprezzo. Ebbeneforseneppure in tutto il resto della sua vitaha
pronunziato più parole oltraggiose di quante ne abbia rivolte in nostrapresenza al povero Monsignor Cittadini. Ogni
giorno lo vediamo trattato in un modo che ci fa arrossire per il suo altorango.»
«"Sì" rispondevano le suore scandalizzate"ma torna tuttii giorni; dunque non deve esser tanto maltrattatoe
ad ogni modoquesta aria di intrigo nuoce alla reputazione del santo ordinedella Visitazione."»
Il padrone più duro non rivolge al servo più inetto un quarto delleingiurie con cui ogni giorno l'altera badessa
umiliava quel giovane vescovo dalle maniere così dolcima egli erainnamorato e aveva portato con sé dal suo paese la
massima fondamentaleche una volta cominciata un'impresa di questo tipobisogna mirare unicamente allo scopo
senza curarsi dei mezzi.
«In fin dei conti» diceva il vescovo al suo confidenteCesare del Bene«merita disprezzo l'innamorato che
abbandona la lotta prima di esserci costretto da ragioni di forza maggiore.»
Ora sarà mio triste compito fare un riassunto per forza molto scarno delprocesso in seguito al quale Elena
trovò la morte. Gli atti di questo processoche ho letto in una bibliotecadi cui non posso fare il nomenon occupano
meno di otto volumi in-folio. L'interrogatorio e le argomentazioni sono inlatinole risposte in italiano. Vedo scritto che
nel mese di novembre 1572verso le undici di serail giovane vescovo sipresentò da solo alla porta della chiesa dove
hanno accesso di giorno i fedeli; la badessa stessa gli aprìe gli permisedi seguirla. Lo fece entrare in una camera dove
lei stava spesso e cheattraverso una porta segretacomunicava con letribune che dominano le navate della chiesa. Era
passata appena un'ora quando il vescovotutto stupitosi vide congedare; labadessa in persona lo riaccompagnò alla
porta della chiesa con queste parole:
«Ritornate nel vostro palazzo e lasciatemi sola. Addiomonsignoremi fateorrore; mi sembra di essermi data
a un lacchè.»
Tre mesi dopoera carnevale. Gli abitanti di Castro erano celebri per lefeste che davano in questa occasionela
città risuonava del chiasso delle mascherate. Tutte passavano davanti a unfinestrino che dava luce a una scuderia del
convento. Si sa che tre mesi prima del carnevale quella scuderia venivatrasformata in salotto e che era sempre piena di
gente mascherata. Mentre impazzava il carnevaleil vescovo passò di lì incarrozzala badessa gli fece un cenno e la
notte dopoall'unaegli era davanti alla porta della chiesa. Entròma fumandato viarabbiosamenteappena trascorsi
tre quarti d'ora. Dopo quel primo appuntamentoin novembreegli era andatoal convento ogni otto giorni circa. Il suo
volto aveva un'espressione trionfante e scioccache non sfuggiva a nessunoma che aveva il privilegio di urtare molto il
carattere altero della giovane badessa. Il lunedì di Pasquacome altrevolteessa lo trattò come l'ultimo degli uomini e
gli rivolse parole che il più povero manovale del convento non avrebbesopportato. Eppurequalche giorno dopoa un
suo cennoil bel vescovo si presentò di nuovoa mezzanottealla portadella chiesa; essa lo aveva convocato per
comunicargli che era incinta. A questa notiziasi legge nel processoil belgiovane impallidì di orrore e rimase inebetito
dalla paura. Alla badessa venne la febbre; fece chiamare il medicoa cuinon nascose il suo stato. Quell'uomo
conoscendo la generosità della malatale promise di trarla d'impaccio.Cominciò col metterla in contatto con una
popolana giovane e graziosaesperta come una levatrice. Era la moglie di unfornaio. Elena fu contenta di parlare con
quella donna che le dichiarò cheper realizzare il piano con cui sperava disalvarlala badessa doveva avere due
confidenti nel convento.
«Confidarmi a una come voipassi! Ma a una mia pari! noandatevenesubito.»69
La levatrice se ne andò. Maqualche ora dopoElenatrovando imprudenteesporsi alle sue chiacchierefece
chiamare il medicoche la rimandò al conventodove venne trattata moltogenerosamente. La donna giurò cheanche se
non l'avessero richiamatanon avrebbe mai divulgato il segreto confidatole;ma continuò a ripetere che se non ci fossero
state all'interno del convento due donne pronte a sacrificarsi per la badessae al corrente di tuttolei non se ne sarebbe
occupata. (Probabilmente pensava all'accusa d'infanticidio). Dopo aver alungo riflettutola badessa decise di confidare
il terribile segreto alla Signora Vittoriapriora del conventodella nobilefamiglia dei duchi di C...e alla Signora
Bernardafiglia del marchese P... Essa fece giurar loro sul breviario di nondir parolaneppure davanti al tribunale della
penitenzadi quanto stava per rivelare. Quelle signore si sentironoraggelare dallo spavento. Dichiararono durante
l'interrogatorio chepreoccupate per il carattere altero della badessasiaspettavano la confessione di un delitto. La
badessa disse loro semplicemente e freddamente:
«Ho mancato a tutti i miei doveri: sono incinta.»
Vittoriala prioracommossa e turbata per l'amicizia che da tanti anni lalegava a Elenae non spinta da vana
curiositàesclamò con le lacrime agli occhi:
«Chi è l'imprudente che ha commesso questo delitto?»
«Non l'ho detto neppure al confessoreimmaginate se voglio dirlo a voi!»
Le due monache discussero subito il modo di nascondere il fatale segreto alresto del convento. Decisero
innanzi tutto di trasportare il letto della badessa dalla sua cameranellaparte centrale del conventoalla farmaciache si
trovava nel punto più remoto del monasteroal terzo piano del grandeedificio costruito grazie alla generosità di Elena.
Lìla badessa diede alla luce un maschio. Da tre settimane la moglie delfornaio stava nascosta nell'appartamento della
priora. Mentre la donna si allontanava col bambinorasentando i muri delchiostroil bambino si mise a strillare e la
donnaterrorizzatasi rifugiò in cantina. Un'ora dopola SignoraBernardaaiutata dal medicopoté aprire una porticina
del giardinoe così la moglie del fornaio uscì alla svelta dal convento epoi dalla città. Arrivata in aperta campagna
ancora in preda al panicosi rifugiò in una grotta che aveva scorto percaso tra le rocce. La badessa scrisse a Cesare del
Beneconfidente e primo cameriere del vescovoche corse alla grotta che gliera stata indicata; era a cavallo: prese in
braccio il bambino e partì al galoppo per Montefiascone. Il bambino vennebattezzato nella chiesa di Santa Margherita
col nome di Alessandro. L'ostessa del posto aveva trovato una balia a cuiCesare consegnò otto scudi: molte donne
radunatesi intorno alla chiesa durante la cerimonia del battesimochiesero agran voce al signor Cesare il nome del
padre del bambino.
«È un gran signore di Roma» egli disse loro«che ha abusato di unapovera contadina come voi.»
E scomparve.
VII
Tutto era andato bene fin qui in quell'immenso conventoabitato da più ditrecento donne curiose; nessuno
aveva visto nientenessuno aveva sentito niente. Ma la badessa aveva dato almedico alcune manciate di zecchini
appena coniati dalla zecca di Roma. Il medico diede molte di quelle monetealla moglie del fornaio. La donna era
graziosa e il marito geloso; frugando nel baule di lei egli trovò quellemonete d'oro luccicantiecredendole il prezzo
del suo disonorela obbligòcol coltello alla golaa dire da dovevenivano. Dopo aver un po' tergiversatola donna
confessò la veritàe la pace fu fatta. I due sposi si misero a discuteresu come impiegare una simile somma. La fornaia
voleva pagare alcuni debitima il marito trovò più bello comprare un muloe così fu fatto. Quel mulo fece scandalo nel
vicinatoche conosceva bene la povertà dei due sposi. Tutte le comari dellacittàamiche e nemicheandavanouna
dopo l'altraa chiedere alla moglie del fornaio chi fosse il generoso amanteche le aveva permesso di comprare un mulo.
La donnafurente qualche volta si lasciava scappare la verità. Un giornoche Cesare del Bene era andato a trovare il
bambinoe tornava a riferire la sua visita alla badessaessabenchémalatissimasi trascinò fino alla grata e gli
rimproverò la poca discrezione dei suoi agenti. Intanto anche il vescovo siera ammalato per la paura e aveva scritto a
Milanoai fratelliper raccontar loro l'ingiusta accusa di cui era oggettoesortandoli a correre in suo aiuto. Benché
molto sofferentedecise di lasciare Castromaprima di partirescrissealla badessa:
«Saprete già che tutto quello che abbiamo fatto è di dominio pubblico.Cosìse vi preme salvare non solo la
mia reputazionema forse la mia vitae per evitare uno scandalo ancor piùgrandepotete incolpare Gian Battista
Dolerimorto da qualche giorno; che secon questo mezzo non salverete ilvostro onoreil mio almeno non correrà più
nessun pericolo. »
Il vescovo chiamò don Luigiconfessore del monastero di Castro.
«Consegnate questo» gli disse«nelle mani della Signora badessa.»
Quest'ultimadopo aver letto l'infame bigliettoesclamòdavanti a quantisi trovavano nella stanza:
«Così meritano di esser trattate le vergini folli che preferiscono labellezza del corpo a quella dell'anima!»
Giunse rapidamente voce di quanto avveniva a Castro alle orecchie delterribile cardinal Farnese (si dimostrava
terribile da qualche annoperché speravanel futuro conclavedi averl'appoggio dei cardinal zelanti). Immediatamente
egli diede l'ordine al podestà di Castro di far arrestare il vescovoCittadini. Tutti i suoi servitoritemendo la questionesi
dettero alla fuga. Solo Cesare del Bene rimase fedele al padrone e giurò chesarebbe morto tra i tormenti piuttosto che
confessare qualcosa che potesse nuocergli. Cittadinivedendosi circondato diguardienel suo palazzoscrisse di nuovo
ai fratelli che arrivarono in tutta fretta da Milano. Lo trovarono detenutonella prigione di Ronciglione.70
Vedo nei primi interrogatori della badessa che ellapur confessando la suacolpanegò di aver avuto rapporti
con monsignore il vescovo; il suo complice era stato Gian Battista Doleriavvocato del convento.
Il 9 settembre 1573Gregorio XIII ordinò che il processo fosse fatto allasvelta e col massimo rigore. Un
giudice penaleun avvocato fiscale e un commissario si recarono a Castro e aRonciglione. Cesare del Beneprimo
cameriere del vescovoconfessa soltanto di aver portato un bambino da unabalia. È interrogato davanti alle Signore
Vittoria e Bernarda. Viene torturato per due giorni di seguitosoffreatrocemente mafedele alla sua parolaconfessa
solo ciò che non può negaree l'avvocato fiscale non può cavargli niente.
Quando è il turno delle Signore Vittoria e Bernardache avevano assistitoalle torture inflitte a Cesareesse
confessano quello che hanno fatto. A tutte le suore viene chiesto il nomedell'autore del criminela maggior parte di
esse rispondono di aver sentito dire che era monsignore il vescovo. Una dellesuore portiere riferisce le parole
oltraggiose che la badessa aveva rivolto al vescovo mettendolo alla portadella chiesa e soggiunge:
«Quando ci si parla con quel tonovuol dire che da molto si fa l'amoreinsieme. Infattimonsignore il vescovo
che di solito veniva notato per la sua aria di sufficienzaerauscendodalla chiesatutto vergognoso.»
Una suorainterrogata davanti agli strumenti di torturarisponde chel'autore del crimine deve essere stato il
gatto perché la badessa lo tiene sempre in braccio e l'accarezza molto.Un'altra suora sostiene che autore del crimine
deve essere il ventoperchéquando tira vento la badessa è felice e dibuon umore; va a godersi il vento su un belvedere
che ha fatto costruire apposta e quando è lì non rifiuta mai i favori chele vengono chiesti. La moglie del fornaiola
baliale comari di Montefiasconespaventate dalle torture inflitte aCesaredicono la verità.
Il giovane vescovo era o si fingeva malato a Ronciglione e questo offrìl'occasione ai fratelliappoggiati dal
credito e dall'influenza della signora di Campirealidi gettarsiripetutamente ai piedi del papae di chiedergli che il
procedimento venisse sospeso fino alla guarigione del vescovo. Al che ilterribile cardinal Farnese aumentò il numero
dei soldati di guardia alla prigione. Non potendosi interrogare il vescovo icommissari cominciavano tutte le sedute
facendo subire nuovi interrogatori alla badessa. Il giorno che la madre leaveva mandato a dire di farsi coraggio e di
continuare a negareessa confessò tutto.
«Perché da principio avete incolpato Gian Battista Doleri?»
«Per pietà della viltà del vescovo; edel restose riesce a salvargli lasua amata vitapotrà aver cura di mio
figlio.»
Dopo la confessionechiusero la badessa in una camera del convento diCastrole cui pareticome la volta
avevano uno spessore di otto piedi; le suore parlavano con terrore di quellasegretachiamata la camera dei frati; la
badessa vi era guardata a vista da tre donne.
Dato che la salute del vescovo era un po' miglioratatrecento sbirriandarono a prelevarlo a Ronciglioneper
trasportarlo in lettigaa Romanella prigione di Corte Savella. Pochigiorni dopoanche le suore furono portate a Roma;
la badessa fu rinchiusa nel monastero di Santa Marta. Le suore accusate eranoquattro: le Signore Vittoria e Bernardala
suora guardiana e la portiera che aveva sentito le parole oltraggiose rivolteal vescovo dalla badessa.
Il vescovo fu interrogato dall'uditore della camera apostolica uno deipersonaggi più importanti dell'ordine
giudiziario della corte pontificia. Fu torturato di nuovo il povero Cesaredel Beneche non solo non confessò nientema
disse cose che addolorarono il pubblico ministeroe questo gli valseun'altra seduta di torture. Un supplizio preliminare
fu inflitto anche alle Signore Vittoria e Bernarda. Il vescovo negava tuttostupidamentema con molto accanimento e
rendeva contofin nei minimi particolaridi quanto aveva fatto nelle tresere che aveva notoriamente passato dalla
badessa.
Finalmente la badessa e il vescovo furono messi a confrontoe benché labadessa dicesse costantemente la
veritàfu sottoposta a tortura. Mentre ripeteva quello chea parte laprima confessioneaveva sempre dettoil vescovo
continuando a recitare la sua partela ingiuriò.
In seguito a molte altre procedurein fondo ragionevolima non scevre diquella crudeltà che troppo spesso
prevaleva nei tribunali italianidopo il regno di Carlo V e di Filippo IIil vescovo fu condannato al carcere perpetuo a
Castel Sant'Angelo; la badessa alla detenzione a vita nel convento di SantaMartadove si trovava. Ma la signora di
Campirealiper salvare la figlia aveva già cominciato a far scavare unpassaggio sotterraneo. Il passaggio iniziava in
una delle cloachemagnifico resto dell'antica Romae doveva finire nelsotterraneo dove venivano deposte le spoglie
mortali delle monache di Santa Marta. Il passaggiolargo all'incirca duepiediaveva pareti di assi per sostenere la terra
ai due latie via via che avanzavaveniva provvisto di una volta formata dadue tavole convergenti come le gambe di
una A maiuscola.
Il sotterraneo era scavato a una trentina di piedi di profondità. La cosapiù importante era farlo nella direzione
giusta; perché continuamentepozzi e fondamenta di antichi edificicostringevano gli operai a deviarlo. Un'altra grave
difficoltà era rappresentata dal materiale di scavodi cui non si sapevache fare; sembra che venisse sparsodurante la
nottenelle vie di Roma. E tutti si stupivano di quella terra cadutapercosì diredal cielo.
Malgrado le forti somme spese dalla signora di Campireali per cercardi salvare la figliail passaggio
sotterraneo sarebbe stato probabilmente scopertosenel 1585non fossevenuto a morire papa Gregorio XIII econ la
sede vacantenon fosse cominciato a regnare il disordine.
Elena si trovava malissimo a Santa Marta; si può immaginare quanto zelomettessero quelle semplici e povere
suorine a tormentare una badessa ricchissima e colpevole di un tale crimine.Aspettava con impazienza il risultato dei
lavori intrapresi dalla madre. Ma improvvisamente fu agitata da insoliteemozioni. Già da sei mesi Fabrizio Colonna
vedendo vacillare la salute di Gregorio XIII e facendo grandi progetti perl'interregnoaveva mandato un suo ufficiale71
da Giulio Branciforteormai notissimo nell'esercito spagnolo col nomecolonnello Lizzara. Lo richiamava in Italia;
Giulio ardeva dal desiderio di rivedere la sua terra. Sbarcò sotto falsonome a Pescaraun piccolo porto dell'Adriatico
in Abruzzoa sud di Chietie attraverso le montagne arrivò alla Petrella.La gioia del principe stupì tutti. Disse a Giulio
che lo aveva mandato a chiamare per fare di lui il suo successore eaffidargli il comando dei suoi soldati. Al che
Branciforte rispose chemilitarmente parlandonon ne valeva più la pena eglielo provò facilmente; se la Spagna
l'avesse voluto davveroin sei mesicon pochi sforziavrebbe annientatotutti i soldati di ventura d'Italia.
«Madopotutto» aggiunse il giovane Branciforte«se voletemioprincipesono pronto a muovermi. Per voi io
sarò sempre il successore del coraggioso Ranuccio ucciso ai Ciampi.»
Prima dell'arrivo di Giulioil principe aveva ordinatocome sapeva far luiche nessunoalla Petrellasi
arrischiasse a parlare di Castro e del processo alla badessa; c'era laprospettiva della pena di mortesenza remissione
per la minima chiacchiera. Nel bel mezzo delle effusioni di amicizia con cuilo accolsechiese a Branciforte di non
andare a Albano senza di luie organizzò il viaggio alla sua maniera: feceoccupare la città da mille uominie mise
un'avanguardia di altri milleduecentosulla strada di Roma. Si puòimmaginare che cosa provò il povero Giulioquando
il principefatto chiamare il vecchio Scottiche era ancora vivonellacasa in cui aveva stabilito il suo quartier generale
lo fece salire nella camera in cui si trovava Branciforte. I due amici sigettarono l'uno nelle braccia dell'altro:
«Oramio povero colonnello» disse a Giulio«aspettati il peggio.»
Dette queste parolesoffiò sulla candela e uscìlasciandoli soli.
Il giorno dopoGiulioche rifiutava di uscire dalla sua cameramandò achiedere al principe il permesso di
tornare alla Petrellae di non incontrarsi con lui per qualche giorno. Mavennero a riferirgli che il principe era
scomparsoinsieme alle sue truppe. Appresadurante la nottela morte diGregorio XIIIaveva dimenticato il suo amico
Giulio e batteva la campagna. Con Giulio erano rimasti solo una trentina diuomini dell'ex compagnia di Ranuccio. Si sa
fin troppo chea quei tempiin periodo di sede vacantele leggi eranolettera mortaognuno sfogava le proprie passioni
e contava solo la forza; per questoprima della fine della giornatailColonna aveva già fatto impiccare più di cinquanta
nemici. In quanto a Giuliobenché avesse meno di quaranta uomini con séosò mettersi sulla strada di Roma.
Tutti i servitori della badessa di Castro le erano rimasti fedeli e abitavanonelle casupole vicino al convento di
Santa Marta. L'agonia di Gregorio XIII era durata più di una settimana; la signoradi Campireali aspettava con
impazienza le giornate di disordini che sarebbero seguite alla morte delpapaper far scavare gli ultimi cinquanta passi
del sotterraneo. Siccome si trattava di attraversare le cantine di molte caseabitateessa temeva di non poter tener
nascosta fino alla fine la sua impresa.
Appena tre giorni dopo l'arrivo di Branciforte alla Petrellai tre ex bravidi Giulio che Elena aveva preso al suo
servizio sembravano ammattiti. Benché tutti sapessero bene che essa erarinchiusa in una segretae vigilata da suore che
la odiavanoUgoneuno dei bravi andò a bussare al convento einsisté stranamente perché gli fosse permesso di vedere
la padronae subito. Fu respinto e messo alla porta. Vi rimasedisperatoesi mise a distribuire un baiocco a ogni
persona addetta al servizio della casache entrava e uscivapronunciandoqueste precise parole:
«Rallegratevi con meè arrivato il signor Branciforteè vivo: ditelo aivostri amici.»
I due compagni di Ugone continuarono a portargli baiocchi per tutto ilgiornoe a distribuirli anche durante la
notteripetendo sempre le stesse parolefino a che non li ebbero finititutti. Ma continuarono tutti e trea turnoa
rimaner di guardia alla porta del convento di Santa Martarivolgendo aipassanti sempre le stesse parolecon grandi
gesti di saluto:
«E arrivato il signor Giulioecc.»
L'idea di quei buoni servitori ebbe successomeno di trentasei ore dopo cheera stato distribuito il primo
baioccola povera Elenanel fondo della segreta seppe che Giulio eravivo; e fu presa da una specie di frenesia:
«O madre mia» gridava«quanto male mi avete fatto!»
Qualche ora dopola stupefacente notizia le venne confermata dalla piccolaMariettachesacrificando tutti i
suoi oriottenne il permesso di seguire la suora guardiana che portava ilpasto alla prigioniera. Elena le si gettò tra le
braccia piangendo di gioia.
«Tutto questo è molto bello» le disse«ma non rimarrò molto con te.»
«Ma certo!» le disse Marietta«sono sicura che prima che finisca ilconclavela vostra prigionia sarà mutata in
semplice esilio.»
«Ah! amica miarivedere Giulioe rivederlocolpevole come sono!»
Nel cuore della terza nottedopo questo colloquiouna parte del pavimentodella chiesa sprofondò con grande
frastuonotanto che le suore di Santa Marta credettero che tutto il conventosprofondasse. Ci fu un grande scompiglio
tutti gridavano al terremoto. Circa un'ora dopo che era crollato il pavimentodi marmo della chiesala signora di
Campirealipreceduta dai tre bravi al servizio di Elenapenetrònella segretaattraverso il sotterraneo.
«Vittoria! VittoriaSignoragridavano i bravi.»
Elena si spaventò a morte; credette che Giulio fosse con loro. Si rassicuròe il suo volto riprese la consueta
espressione severaquando essi le dissero che c'era solo la signora diCampireali e che Giulio era ancora a Albano
presidiata da lui con molte migliaia di soldati.
Dopo qualche minuto di attesaapparve la signora di Campirealicamminava afaticaappoggiandosi al braccio
del suo scudieroche era vestito da cerimoniacon la spada al fiancomatutto sporco di terra.
«Carissima Elenavengo a salvarti!» esclamò la signora diCampireali.
«E chi vi dice che voglia essere salvata?»72
La signora di Campireali era tutta stupita: guardava la figlia con gliocchi sgranati e appariva agitatissima.
«Ebbenemia carissima Elena» disse finalmente«il destino mi obbliga aconfessarti un'azioneforse molto
naturale dopo le disgrazie che avevano colpito la nostra famigliama di cuimi pento e ti prego di perdonarmi: Giulio...
Branciforte... è vivo...»
«Per questo non voglio vivereproprio perché lui vive.»
Da principiola signora di Campireali non capiva quel che diceva lafigliapoi si mise a supplicarla
affettuosamentema senza ottenere risposta: Elena si era voltata verso ilcrocefisso e pregava senza ascoltarla. Invano
per un'orala signora di Campireali si sforzò di strapparle unaparolao uno sguardo. Alla finespazientitala figlia le
disse:
«Sotto il marmo di questo crocifissonella mia cameretta di Albanoavevonascosto le sue lettere; avreste fatto
meglio a lasciare che mio padre mi pugnalasse! Uscitee lasciatemi un po'd'oro.»
La signora di Campireali voleva continuare a parlare alla figliamalgrado i cenni spaventati che le faceva lo
scudieroma Elena proruppe:
«Lasciatemi almeno libera per un'orami avete avvelenato la vitae oravolete avvelenarmi la morte.»
«Abbiamo ancora due o tre ore di tempospero che ti ricrederai» esclamòla signora di Campireali
scoppiando in lacrime.
E se ne andò attraverso il sotterraneo.
«Ugonerimani con me» disse Elena a uno dei suoi bravi«sei benarmatoragazzo mio? perché forse dovrai
difendermi. Mostrami la dagala spadail pugnale.»
Il vecchio soldato le mostrò le armiperfettamente efficienti.
«Ebbenerimani qui fuoridevo scrivere a Giulio una lunga lettera che gliconsegnerai personalmente; non
voglio che passi per altre maniperché non ho niente per sigillarla. Ma tupotrai leggerla tutta. Intasca le monete d'oro
lasciate da mia madrea me bastano cinquanta zecchinimettili sul letto.»
Dopo queste paroleElena si mise a scrivere.
«Non dubito di temio caro Giuliome ne vado per non morir di dolore trale tue bracciavedendo quale
sarebbe stata la mia felicità senza la colpa di cui mi sono macchiata. Noncredere che abbia mai amato un altro essere al
mondo all'infuori di te; anzidisprezzavo con tutto il cuore l'uomo chefacevo entrare nella mia camera. È stato un
peccato di noiao se si vuoledi libertinaggio. Tieni conto che la miamentemolto indebolita dopo l'inutile tentativo
fatto da me alla Petrelladove il principe che veneravoperché amato datemi aveva ricevuta tanto crudelmentetieni
contodicevoche la mia mentegià tanto indebolitafu assediata dadodici anni di menzogne. Tutto ciò che mi
circondava era falsità e ingannoe lo sapevo. Ricevetti da principio unatrentina di lettere tuepensa con che slancio
aprii le prime! maleggendoleil cuore mi si raggelava. Ne esaminavo lascritturariconoscevo la tua manoma non il
tuo cuore. Questa prima bugia mi ha sconvolta a tal puntoda farmi apriresenza gioia una lettera scritta di tuo pugno!
L'odioso annuncio della tua morte distrusse gli ultimi ricordi felici dellanostra giovinezza. Il mio primo pensierocome
puoi capirefu di andare a vedere e a toccare con le mie mani la spiaggiamessicana dove dicevano che eri stato
massacrato dai selvaggise avessi seguito quel pensiero... adesso saremmofeliciperchéa Madridper quanto
numerose e abili fossero le spie sparse intorno a me da una mano vigilantesarei sicuramente riuscita a interessare tutti
gli animi in cui fosse rimasta ancora un po' di pietà e di bontàeprobabilmente sarei arrivata alla veritàperché già
Giulio miole tue imprese avevano attirato su di te l'attenzione del mondoe forse a Madrid qualcuno sapeva che eri
Branciforte. Vuoi che ti dica che cosa impedì la nostra felicità? Prima ditutto il ricordo dell'atroce e umiliante
accoglienza fattami dal principe alla Petrella; quanti ostacoli immani daaffrontare tra Castro e il Messico! Vedila mia
anima aveva già perso ogni energia. Poi ci fu la tentazione della vanità.Avevo fatto costruire una nuova ala nel
conventoper poter far la mia camera nella stanza della guardianadove tieri rifugiato la notte del combattimento. Un
giornostavo guardando la terra che tutanto tempo prima avevi bagnatopermedel tuo sangue; sentii una frase
sprezzantealzai la testa e vidi delle facce cattiveper vendicarmivolliessere badessa. Mia madreche ti sapeva vivo
compì atti di eroismo per ottenere quella stravagante nomina. La carica dibadessa fu per me solo fonte di guaiavvilì
del tutto il mio animo; provai piacere a esercitare il poterespesso per fardel male agli altri; commisi ingiustizie. Mi
ritrovavoa trent'annivirtuosa agli occhi del mondoriccastimataeppure assolutamente infelice. Allora capitò quel
poveruomoche era estremamente buonoma anche estremamente sciocco. Propriola sua insulsaggine mi fece
sopportare i suoi primi discorsi. Ero così infelice per tutto quello che miera accaduto dopo la tua partenzada non aver
più la forza di resistere alla minima tentazione. Potrò mai confessarti unacosa tanto abominevole? Ma ritengo che a una
morta sia permesso tutto. Quando leggerai queste righei vermi divorerannoquesta pretesa bellezza che avrebbe dovuto
essere solo per te. Devo dire ciò che mi angustia: volevo provare anch'iol'amore carnale come tutte quelle signore
romane; ebbi un pensiero licenziosoma non ho mai potuto concedermi aquell'uomo senza un senso di orrore e di
disgusto che annullava ogni piacere. Ti vedevo sempre vicino a menel nostrogiardino del palazzo di Albanoo quando
la Madonna ti ispirò quel pensiero che sembrava generosoma chedopo miamadreè stato la sciagura della nostra vita.
Non eri minacciosoma tenero e buono come fosti sempremi guardavi; allorami infuriavo con quell'altro uomo e
arrivavo persino a picchiarlo con tutte le mie forze. Ecco tutta la veritàGiulio mionon volevo morire senza dirtelae
pensavo anche che forse parlare con te mi avrebbe tolto l'idea di morire. Oravedo ancor meglio quale gioia avrei
provato nel rivedertise mi fossi mantenuta degna di te Ti ordino di viveree di continuare quella carriera militare che
mi ha dato tanta gioiaquando ho saputo dei tuoi successi. Che cosa sarebbeaccadutogran Dio! se avessi ricevuto le73
tue lettere soprattutto dopo la battaglia di Achenne! Vivie ricordati diRanuccioucciso ai Ciampie di Elena chepur
di non leggere un rimprovero nei tuoi occhiè morta a Santa Marta.»
Dopo aver scrittoElena si avvicinò al vecchio soldato che stava dormendogli sottrasse la dagasenza che se
ne accorgessee poi lo svegliò.
«Ho finito» disse«temo che i miei nemici occupino il sotterraneo.Prestovai a prendere la lettera che è sul
tavolo e consegnala tu stesso a Giuliotu stessohai capito? Daglianche questo fazzolettodigli che l'amo in questo
momentocome l'ho sempre amatosemprehai capito?»
Ugonein piedinon si muoveva.
«Suvai!»
«Signoraavete riflettuto bene? Il signor Giulio vi ama tanto!»
«Anch'io l'amoprendi la lettera e dagliela tu stesso.»
«Che Dio vi benedicasiete così buona!»
Ugone andò e tornò in fretta; trovò Elena morta: aveva la daga nel cuore.
ORIGINE DELLE GRANDEZZE DELLA FAMIGLIA FARNESE
La verità sulla famiglia Farnese? A quanto raccontano certi suoi servitorile si può attribuire un'antica nobiltà e
magnificenza. È innegabile che alcuni personaggi di questa famigliaprimadel pontificato di Paolo IIIvissero quasi da
gran signori e conclusero matrimoni con persone di alto rango: ma l'inizioil fondamento e la causa dello splendore di
cui essa gode attualmentenon sono né le grandi qualità né il valore deisuoi membribensì la graziala bellezza e la
cattiva condotta di una dama appartenente a questa famigliache l'hannoportata così in alto. Ecco la storia. Ranuccio
Farnesegentiluomo romano fornito di un modesto patrimonioebbe fra glialtri tre figli: PierluigiGiulia e Giovanna
detta la Vannozza. Pierluigi sposò Giannetta Gaetano; e da luiprobabilmentenacque Alessandro. Ma alcuni
sostengono che questi fu generato da Giovanni Bozzurogentiluomo napoletanoche ebbe una relazione con la Gaetano.
Alessandro giunse al vertice degli onori e della grandezza. Giulia andòsposa a Giovanni Bozzuto; e Vannozzauna
volta cresciutaa causa della sua grazia e della sua leggiadria fu preda dinumerosi amanti. Fra questi Roderigo
Lenzuolinipote di Callisto III. fratello della madre di Roderigo. Il quale(Roderigo) s'innestò nella casa Borgia e fu
innalzato alla porpora nel 1456. Callisto gli conferì la carica divicecancellierecon una rendita di parecchie migliaia di
scudi e altri pingui benefici; era il più ricco dei cardinali. Egli sidedicò intensamente agli amori; doveva i suoi successi
in parte ai sentimenti che sapeva ispiraree in parte al denaro chedispensava con larghezza per molte giovani
nobildonne romanefra cui Vannozza Farnese; e da lei fu tanto presocomealla paniache abbandonò tutte le altre;
notte e giorno gustava il piacere di possederlacome se fosse la sualegittima moglie; per lei spese allegramente grandi
somme; il denaro e i favori di cui disponeva a corte abbagliarono talmente igenitori di leiche essi non badavanoper
loro grande vergognaa quel che Roderigo faceva con la figlia. Da questarelazione illecita nacquero molti figli
(trascurando quelli che morirono in tenera età): FrancescoCesareGoffredoe Lucreziache il padre fece allevare con
molto fasto e splendore. In quanto ad Alessandrofiglio di Pierluigi e diGiannetta Gaetanonacque nel 1458e da
bambino fu allevato con molta cura. Quando giunse all'adolescenzabenchéstudiasse con molto profitto le lettere
greche e latinesi diede ai piaceri della carne; a vent'annifu messo alservizio del cardinale Roderigoche lo stimava
moltoquale nipote dell'amatissima Vannozza; sicché il giovane divennestraordinariamente insolente e sempre più
depravato. Un giorno fece rapire una giovane e nobile damache andava fuoriRoma in carrozza; la tenne presso di sé
per molti giorni in una sua casettacome se fosse sua moglie. Fu sportaquerela presso il Sovrano Pontefice Innocenzo
VIIIche lo fece rinchiudere nel castello {Sant'Angelo}; in seguitopermezzo del cardinale {Roderigo} e del suo
parente Pietro MarzanoAlessandro fu fatto fuggire dalla prigione; con unacorda potè scendere in strada. Finché questo
papa fu in vitafu abbandonato dalla fortuna. Ma quando il cardinaleRoderigo giunse al papato col nome di Alessandro
VItornò subito a Romadove fu ben accolto dal papa e da sua zia Vannozza.Grazie a leia ventiquattro anni ottenne la
porporasi arricchì dei benefici di grandi rendite (tale è il potere diuna donna!)e si diede più che mai alla crapula e al
vizio. Fu in questo periodo che si sollazzò per molti anni con unanobildonna chiamata Cleria; fu come se fosse la sua
legittima mogliee da lei ebbe due figliuno Pierluigi e l'altra Costanzacui fece fare un ricco matrimonio. Giunto agli
ultimi anni dell'età maturacambiò vita e costumio almeno finse dicambiarli; divenne un uomo di grande saggezza
affabileliberalepieno di sublime spiritualità; nondimeno continuò isuoi amori con Cleria; il segreto fu tale che non ne
derivò nessuno scandalo. Ed ecco il primo passo di questa famiglia versotanta grandezza mediante la prostituzione di
Vannozza Farnesezia di Alessandro. All'età di 67 anninel 1534inseguito alla morte di Clemente VIIIaccedette al
pontificatocol nome di Paolo IIIper voto unanime dei cardinali. Sisbarazzò allora di ogni rispetto umano e fece
assurgere i suoi parenti alle grandezze e agli onori. A Pierluigisuofigliodiede Parma e Piacenza che appartenevano
alla Chiesa; e gli altri figliAlessandro e Ranuccio {li fece} cardinali. Diquesti due Monsignor della Casa ha parlato nel
verso: Alessandro e Ranuccio... Un altrodi nome Oraziodivenne ducadi Castro; a Ottavioche era il primogenito
fece dare in moglie Margherita d'Austriavedova di Alessandro de' Mediciduca di Firenzefiglia naturale
dell'imperatore Carlo V con venticinquemila scudi di dote. Ottavio divenneduca di Parma e di Piacenza; e lo sono stati
e lo sono anche i suoi figli. Alla finequesta famiglia divenne pari aqualunque altra famiglia principesca d'Italia; e tutto
ciò accadde grazie a Vannozza Farneseche ne fu l'origine.