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Herman Melville

Bartlebylo scrivano

(una storia di Wall Street

Patrizio Sanasi

.BARTLEBYLO SCRIVANO

(UNA STORIA DI WALL STREET)

Sono un uomo piuttosto avanti negli anni. La natura della mia professione miha portatonel corso degli ultimi

tre decenniin contattoe non soltanto nel solito contattocon unacategoria di uomini interessante all'apparenza e in

qualche modo singolaresui qualiper quanto ne sofinora non è mai statoscritto nulla: mi riferisco ai copisti legali

ovvero agli scrivani. Nella mia vita professionale e privata ne ho conosciutimoltissimi ese volessipotrei raccontare

varie storie che farebbero sorridere i benevoli e piangere i sentimentali. Maper qualche brano sulla vita di Bartlebyil

più strano che abbia mai visto o conosciutorinuncio alle biografie ditutti gli altri. Mentre di molti scrivani potrei

narrare l'intera vitanon si può fare nulla del genere per Bartleby. Nonesiste materiale - ne sono convinto - per

comporre una biografia completa e soddisfacente di quest'uomo. È una perditairreparabile per la letteratura. Bartleby fu

uno di quegli individui sui quali non si riesce ad accertare nullasenzarisalire alle fonti originalinel suo caso molto

esigue. Quello che videro i miei occhi attoniti: ecco ciò che so di Bartlebytranneinverouna vaga notizia che apparirà

in seguito.

Prima di introdurre lo scrivanoquale mi apparve la prima voltaèopportuno che accenni a meai miei

employésal mio lavoroal mio ufficio e all'ambiente in generaleperché si tratta diragguagli indispensabili per capire

in modo adeguato il protagonista che fra poco sarà presentato. Anzituttosono un uomo chedalla giovinezza in poiha

maturato una profonda convinzione: nella vita la via più facile è lamigliore. Ne consegue chepur svolgendo una

professione proverbialmente esuberante e a volte concitata al limite dellaturbolenzanon ho mai lasciato che cose del

genere sconfinassero nella mia pace. Sono uno di quegli avvocati privi diambizioniche mai si rivolgono alla giuria e

in nessun modo inseguono l'applauso del pubblicoma chenella tranquillafrescura di un angolino appartato e discreto

si dedicano a un lavoro discreto fra i titolile obbligazionile ipotechedi uomini abbienti. Quanti mi conoscono mi

considerano una persona eminentemente cauta e fidata. Il compianto John JacobAstorpersonaggio poco incline ai voli

poeticinon esitava a dichiarare che la mia prima virtù era la prudenza; lasecondail metodo. Non lo dico per vanità

ma soltanto per attestare il fatto di aver prestato i miei servigi alcompianto John Jacob Astornome che adoro ripetere

lo ammetto: possiede infatti un suono rotondo e sfericotintinnante comel'oro. Aggiungerò di mia iniziativa di non

essere stato insensibile alla buona opinione che di me aveva il compiantoJohn Jacob Astor.

Qualche tempo prima dell'epoca in cui ebbe inizio questa breve storiail miolavoro era molto aumentato. Mi

era stato conferito il buon vecchio incarico di giudice dell'Alta Corte diEquitàufficio ormai abolito nello stato di New

York. Non era una carica molto gravosama assai piacevolmente remunerata. Dirado perdo la calmaancora più di rado

mi abbandono a una pericolosa indignazione davanti ai torti e agli oltraggima - mi sia concesso a questo punto di

essere avventato - dichiaro chea mio avvisol'abrogazione subitanea eviolenta dell'ufficio di giudice dell'Alta Corte di

Equitàda parte della nuova leggefu... un atto prematurotanto più cheavevo contato su quei benefici per il resto dei

miei giornimentre ne godetti soltanto per alcuni brevi anni. Ma questo èdetto tra parentesi.

Il mio ufficio era al primo piano di Wall Streetn. - Da un lato le finestresi affacciavano sul muro bianco di un

ampio cavedioche prendeva luce da un lucernario e attraversava la casa dacima a fondo.

Questa veduta forse poteva sembrare più scialba che suggestivacarentecom'era di quanto i pittori paesaggisti

definiscono «vita». Mase così erala vista sull'altro latodell'ufficiooffrivaalmenoun contrasto. Su quel versante le

finestre dominavano in pieno la vista di un alto muro di mattonianneritodagli anni e incupito dalla perenne ombra.

Non occorreva che un cannocchiale ne rivelasse le bellezze nascosteperchéa beneficio degli osservatori miopiqueste

risaltavano a meno di dieci piedi dai vetri delle mie finestre. Lacircostanza che gli edifici intorno fossero molto alti e

che il mio ufficio fosse al primo piano faceva sì che lo spazio fra questomuro e il mio assomigliasse a un'enorme

cisterna quadrata.

Nel periodo appena precedente l'arrivo di Bartleby avevo al mio servizio duepersone in qualità di scrivani e un

ragazzo promettente che faceva da fattorino. Il primoTacchino; il secondoPince-Nez; il terzoZenzero. Nomi questi

che non si trovano forse nei registri: a dire il veroerano nomignoli che itre si erano reciprocamente affibbiati e -

pareva - esprimevano bene le rispettive persone e i rispettivi caratteri.Tacchino era un inglese basso e asmaticodella

mia stessa etàcioè non lontano dai sessant'anni. Al mattinosi potrebbedireil suo volto aveva un bel colorito florido

ma dopo le dodicimezzodì - l'ora di pranzo - si accendeva come la gratadel caminetto a Natalee continuava a

fiammeggiare - maper così diresmorzandosi a poco a poco - fino alle seio giù di lìdopo di che non vedevo più il

proprietario di quella faccia cheraggiungendo il pieno fulgore con il solesembrava tramontare con questoper sorgere

culminaredeclinare il giorno successivocon pari regolarità e altrettantagloria. Esistono molte coincidenze singolari

che ho conosciuto nel corso della vitanon ultima quella cheesattamentequando Tacchino irradiava tutto il suo fulgore

dal volto rosso e raggianteproprio allorain quel momento criticoavevainizio la fase quotidiana nella qualea mio

avvisole sue capacità professionali erano gravemente compromesse per ciòche restava delle ventiquattro ore della

giornata. Non che allora rimanesse a girarsi i pollicio mostrasseavversione al lavoro: lungi da ciò. Anzi: il guaio era

che si affaccendava troppo. Cadeva in preda a una strana furia arruffata epasticciona. Era sbadato nell'intingere la

penna nel calamaio. Le macchie sui documenti cadevano tutte alloradopo ledodici. Invero nel pomeriggio non era

soltanto sventato e tristemente incline a fare macchiemain alcuni giornine combinava di peggio e si faceva.rumoroso. In queste occasioni la sua facciaaccesa avvampava ancora di piùquasi che sull'antracite avessero

ammucchiato carbone tipo cannel. Con la sedia faceva chiasso a non finire;rovesciava lo scatolino della sabbia;

nell'aggiustare le penneper l'impazienzale faceva a pezzi e le buttavaper terrapreso dalla rabbia; si alzavasi

sporgeva oltre il tavolometteva a soqquadro le carte in modo addiritturaindecoroso: insomma davvero uno spettacolo

triste in un uomo della sua età. Era tuttavia per me un collaboratorepreziosoche fino a mezzogiorno si dimostrava

come pochipersona prontaequilibrata e assiduacapace di svolgere unagrande mole di lavoro di qualità non

facilmente uguagliabile. Ecco perché chiudevo un occhio sulle sue bizzarriesebbene di tanto in tantoinverogli

rivolgessi le mie rimostranze. Lo facevo con molto tattoperchémentre almattino era il più civilegarbatorispettoso

degli uomininel pomeriggiose provocatorischiava di ricorrere a paroleun po' avventateanzi insolenti. Ora tenendo

come facevoin grande considerazione i suoi servizi mattutinie deciso - anon perderli - tuttaviasentendomi nello

stesso tempo a disagio per i suoi modi pomeridiani così esuberanti - edessendo un uomo pacificopoco propenso a

suscitare con i miei rimproveri reazioni disdicevoli da parte suami decisiun sabato pomeriggio (al sabato era peggio

che negli altri giorni)ad accennarglicon molto garbocheforseora cheinvecchiavaavrebbe ben potuto ridurre

l'orario di lavoro; insomma non era necessario che venisse in ufficio dopo ledodicimauna volta finito il pranzogli

sarebbe convenuto ritornarsene a casa a riposarsi fino all'ora del tè.Niente da fare: insistette nel dedicarmi i suoi servizi

pomeridiani. il volto gli si infervorò da far pauramentre con pigliooratorio mi assicurava - gesticolando con un lungo

righello all'altro capo della stanza - chese erano utili i suoi servizimattutininon erano forse indispensabili quelli

pomeridiani?

«Con tutto il rispettosignore»disse Tacchino in questa occasione«miconsidero il suo braccio destro. Al

mattino mi limito a ordinare in grande spiegamento le mie schierema nelpomeriggio mi metto alla loro testa e

audacemente attacco il nemicocosì»e con il righello vibrò una violentastoccata.

«Ma le macchieTacchino»insinuai timidamente.

«Verosignorema con tutto il rispettoguardi questi capelli! Stoinvecchiando. Di sicuro non si può

rimproverare a questi capelli grigi una macchia o due in un pomeriggio caldosignore. La vecchiaiaanche quando

imbratta una paginaè onorevole. Con rispettosignoretuttie due stiamoinvecchiando».

Difficile resistere a quell'appello alla mia solidarietà. Capivo in ognicaso che di andarsene non se ne parlava.

Risolsiperciòdi lasciarlo staredecidendo tuttavia di provvedere a chenel pomeriggio trattasse documenti di minor

conto.

Pince-Nezil secondo della listaera un giovanotto di circa venticinqueannigiallognolocon basette e

nell'insiemecon un'aria piratesca. Ho sempre ritenuto che fosse la vittimadi due influssi malefici: l'ambizione e la

cattiva digestione. L'ambizione si manifestava in una certa insofferenza peri compiti di mero copistache

inammissibilmente usurpavano gli affari strettamente professionalicome lastesura originale di documenti legali.

Quanto alla cattiva digestionene erano sintomi una saltuaria irascibilitàe ringhiosa irritabilità che gli facevano arrotare

i denti in modo udibile per errori commessi nel copiare: imprecazioniinutilisibilate più che scandite a parole

nell'incalzare del lavoroe soprattutto la perpetua scontentezza perl'altezza della scrivania. Sebbene avesse

un'inclinazione ingegnosa alla meccanicaPince-Nez non riuscì mai adadattare il tavolo alle proprie esigenze. Metteva

sotto pezzi e pezzettini di vario genereblocchetti di cartone: per ottenereuno squisito equilibrio arrivò all'estremo

tentativo di utilizzare strisce di carta assorbente piegata. Ma inutili eranotutti i colpi di genio. Seper dar sollievo alla

schienaalzava il ripiano del tavolo ad angolo acuto portandolo quasi sottoil mento e vi lavorava come chi usasse per

scrivere il tetto spiovente di una casa olandeseallora dichiarava che cosìgli si bloccava la circolazione delle braccia. Se

allora abbassava il tavolo fino alla vita e vi si piegava sopra per scrivereecco che insorgeva un acuto dolore alla

schiena. Insommala verità era che Pince-Nez non sapeva quello che voleva.Oppurese qualcosa volevaera di

sbarazzarsi una volta per tutte del tavolo da scrivano. Fra le manifestazionidella sua morbosa ambizione c'era una

propensione entusiastica a ricevere le visite di certi individui loschiintabarrati in malconce palandraneche egli

chiamava suoi clienti. Ero al correntein veritàche non soltanto si davada farea voltein una circoscrizione elettorale

ma di tanto in tanto sbrigava qualche faccenduola in tribunale e non erasconosciuto sui gradini delle Tombe. Ho

tuttaviabuone ragioni di ritenere che almeno un individuo - uno che venivaa trovarlo in ufficio - e che lui con grandi

arie si ostinava a chiamare suo clientealtri non fosse se non un esattoreche gli stava alle costolee il presunto titolo di

creditouna cambiale. Ma con tutte le sue manchevolezze e i fastidi che miprocuravaPince-Nezcome il suo

compatriota Tacchinomi era molto utile: scriveva con mano rapida e nitidaequando gli garbavanon gli mancavano

maniere da gentiluomo. E da gentiluomo si vestiva sempredando cosìincidentalmentelustro al mio studio. Con

Tacchinoinvecedovevo adoperarmi perché non mi facesse sfigurare. I suoiabiti erano spesso unti e puzzavano di

trattoria; d'estate portava pantaloni larghi e sformati; le giacche eranoesecrabili; il cappellopoimeglio non toccarlo.

Ma se il cappello mi era indifferente perché la naturale urbanità e ladeferenza da impiegato inglese lo inducevano a

toglierselo nell'istante in cui varcava la sogliala giaccainveceeratutt'altro affare. Ne ragionai con luia proposito

dell'argomento giaccama senza risultato. La verità eracredoche un uomocon uno stipendio così modesto non poteva

permettersi di esibire simultaneamente una faccia smagliante e una giaccasmagliante. Come osservò una volta Pince-Nez

i soldi di Tacchino andavano quasi tutti in inchiostro rosso. Un giornod'inverno regalai a Tacchino una mia giacca

dall'aria molto rispettabile grigiaimbottitadava un delizioso calduccio esi abbottonava dalle ginocchia su su fino al

collo. Pensavo che Tacchinoapprezzando quel favoreavrebbe mitigato lasventatezza e la chiassosità pomeridiane.

Macché: credo davvero che l'abbottonarsi in quella giacca morbida che parevauna coperta avesse su di lui un effetto

pernicioso - per lo stesso principio che la troppa biada fa male ai cavalli.Infatti proprio come di un cavallo impetuoso e.recalcitrante si dice che sentala biadacosì Tacchino sentiva la giacca. Lo rendeva insolente. Era un uomoche la

prosperità guastava.

Sebbene sulle abitudini in cui indulgeva di Tacchino io avessi le mieopinioni personalinei confronti di Pince-Nez

ero davvero convinto chea prescindere dai suoi difettisotto altri puntidi vista fosse perlomeno un giovanotto

morigerato. Anzila natura stessa pareva avergli fatto da ostee allanascita gli aveva istillatoda capo a piediun

temperamento così irritabiledi tipo alcolicoda rendere superflue tuttele successive libagioni. Quando ricordo come

nella quiete immobile del mio ufficioPince-Nez a volte si alzava dallasedia con impazienza echinandosi sul tavolo

spalancava le bracciaafferrava l'intera scrivaniala spostavalasbattacchiava grattando il pavimento con un

movimento sinistroquasi che il tavolo avesse una sua volontà perversatesa a ostacolarlo e tormentarlocapisco

chiaramente come per Pince-Nez acqua e cognac fossero del tutto superflui.

Per mia fortunavisto che la causa specifica ne era la cattiva digestionel'irritabilità e il conseguente

nervosismo di Pince-Nez si manifestavano soprattutto al mattinomentre nelpomeriggio era relativamente tranquillo.

Quindipoiché gli attacchi parossistici di Tacchino maturavano soltantointorno al mezzogiornonon dovevo mai

vedermela con le loro eccentricità contemporaneamente. Le crisi sialternavanocome le sentinelle nei turni di guardia.

Quando era in servizio Pince-NezTacchino era in licenzae viceversa. Inquelle circostanze era una buona intesa

naturale.

Zenzeroil terzo della listaera un ragazzotto di circa dodici anni. Ilpadrecarrettierenutriva l'ambizione di

vedereprima di morireil figlio seduto sul seggio di un tribunale inveceche sul sedile di un carro. Ecco perché me lo

mandò in ufficio in qualità di studente di leggefattorinoaddetto apulire e spazzareal salario di un dollaro alla

settimana. Aveva una piccola scrivania per séma non la usava molto. A chigli ispezionasse il cassetto si parava

davanti una collezione di gusci di noce di ogni genere. Per questo ragazzosveglioinfattitutta la nobile scienza del

diritto stava in un guscio di noce. Non infima fra le mansioni di Zenzero - equella che svolgeva con la massima alacrità

- era il compito di approvvigionare di dolci e mele Tacchino e Pince-Nez.Copiare documenti legali è proverbialmente

un compito arido e seccoragion per cui i miei due scrivani erano desiderosidi inumidirsi spesso la bocca con mele

Spitzenberg che si potevano acquistare in varie bancarelle nei pressi delladogana e della posta. Molto di frequente

inoltre mandavano Zenzero a comprare quelle particolari focaccine - piccolepiatterotondemolto speziate - che

avevano suggerito quel soprannome. Nelle mattine freddementre il lavoro eratorpidoTacchino ingoiava dozzine di

queste focaccinequasi fossero cialde sottilissime - ne danno addiritturasei o otto per un centesimo - mentre lo

scricchiolio della penna si mescolava al rumore della bocca che sgranocchiavaquelle focaccine croccanti. Fra i

clamorosi sbagli pomeridiani commessi da Tacchino nella sua smaniapasticciona ce ne fu uno che per un pelo non mi

indusse a licenziarlo: gli capitò di inumidire fra le labbra una cialda allozenzero e appiccicarla su un'ipoteca a mo' di

sigillo. Ma mi intenerì con un inchino di orientale cerimoniosità e conqueste parole:

«Con rispettosignoreè stato un gesto generoso rifornirlaa mie spesedi cancelleria».

Ora la mia attività originaria - quella di redigere atti notarilidispulciare sulla regolarità dei titolidi stendere

oscuri documenti di varia natura - ebbe un considerevole incremento dopo chefui nominato all'Alta Corte di Equità.

C'era quindi molto lavoro per i copisti. Non soltanto dovevo mettere sotto iltorchio gli impiegati già con mema

dovevo procurarmi altro aiuto.

In risposta a un annunciouna bella mattinasi parò immobile sulla sogliadel mio ufficio un giovane - la porta

infatti era apertaperché era estate. Rivedo ancora quella figura:pallidamente lindapenosamente decorosa

irrimediabilmente squallida! Era Bartleby.

Dopo qualche cenno sulle sue qualifichelo assunsifelice di avere nellamia squadra di copisti un uomo

dall'aspetto così singolarmente miteche - pensavo - forse avrebbe avuto unbenefico influsso sull'irrequietezza di

Tacchino e l'irruenza di Pince-Nez.

Avrei dovuto già accennare alle porte pieghevoli di vetro smerigliato chedividevano in due il mio ufficio: da

una parte c'erano i miei scrivanidall'altra c'ero io. A seconda dell'umoreaprivo le porte oppure le chiudevo. Decisi di

assegnare a Bartleby un angolo accanto alle porte pieghevolima dalla miapartein modo da avere a portata di voce

quell'uomo tranquilloseper caso; si fosse dovuto sbrigare qualchelavoretto. Sistemai dunque la sua scrivania in quella

parte della stanzaaccanto a una finestrina laterale che in origine offrivauno scorcio sul retroaffacciandosi su certi

cortili sporchi e muri di mattonima che alloraa seguito di successivecostruzioninon si affacciava più su nulla

sebbene lasciasse entrare un po' di luce. A meno di tre piedi dai vetri dellafinestra c'era un muroe la luce veniva da

molto in altofiltrando tra due alti edificiquasi piovesse dal pertugio diuna cupola. Per rendere ancora più

soddisfacente la sistemazionemi procurai un alto paravento verde pieghevoleche poteva escludere completamente

Bartleby dalla mia vistapur lasciandolo a portata di voce. Cosìin certomodoconvivevano solitudine e compagnia.

In un primo tempo Bartleby eseguì una straordinaria mole di lavoro. Quasifosse ingordo di avere qualcosa da

copiarepareva volesse rimpinzarsi di documenti. Non c'era pausa perdigerirli. Scriveva giorno e nottecopiando alla

luce del sole e al lume della candela. Mi avrebbe entusiasmato quella suadedizionese fosse stato allegramente

operoso. Continuava invece a macinare lavoro in silenzioesanguecon motomeccanico.

Ènaturalmenteparte essenziale del lavoro dello scrivano accertarsi chela copia sia esattaparola per parola.

Se in un ufficio vi sono due o più scrivanisi assistono a vicenda inquesto controllouno leggendo la copial'altro

tenendo l'originale. È una faccenda noiosaspossantesoporifera. Nonfaccio fatica a pensare che sarebbe intollerabile

per un temperamento sanguigno. Non riesco a immaginaread esempioil focosopoeta Byron lietamente seduto

insieme a Bartleby a controllare un atto legale didiciamocinquecentopaginescritte con grafia fitta e raggrinzita..Di tanto in tantose c'erafrettaavevo l'abitudine di aiutare a confrontare qualche breve documentochiamando

allo scopo Tacchino o Pince-Nez. Uno dei motivi per mettere Bartleby così aportata di mano dietro il paravento era

stato quello di disporre dei suoi servigi in lavoretti del genere. Era conmecredoda tre giorni - non c'era stata ancora la

necessità di esaminare le sue copie - quandodovendo completare in granpremura una faccenduoladi punto in bianco

chiamai Bartleby. Nella fretta e nella naturale aspettativa di un'immediataobbedienzame ne stavo seduto con la testa

china sull'originale posato sulla mia scrivaniala mano destra di latonervosamente tesa nel porgere la copiain modo

cheemergendo dal suo cantuccioBartleby potesse afferrarla e procedereall'esame senza il minimo indugio.

In questo atteggiamento sedevo dunque quando lo chiamaispiegandorapidamente quello che volevo da lui

cioè esaminare insieme a me un breve documento. Figuratevi la mia sorpresaanzi la mia costernazionequandosenza

muoversi dal suo angolinocon voce singolarmente soavema fermaBartlebyrispose: «Preferirei di no».

Rimasi per qualche tempo sedutotrasecolatoin assoluto silenziochiamandoa raccolta le mie facoltà attonite.

Subito mi venne da pensare che gli orecchi mi avessero ingannatooppure cheBartleby avesse completamente frainteso

quello che volevo. Ripetei la richiesta con quanta chiarezza mi erapossibilema con altrettanta chiarezza giunse la

risposta di prima: «Preferirei di no».

«Preferirei di no!»ripetei in un'ecoalzandomi di furia e attraversandola stanza d'un balzo. «Come sarebbe a

dire? Le ha dato di volta il cervello? Sumi aiuti a controllare questofoglio con l'originale - prenda»e glielo buttai.

«Preferirei di no»disse.

Lo fissai con aria risoluta. Il volto era smunto nella sua compostezza; gliocchi grigifiochi e tranquilli. Non

una grinza gli increspava il viso. Se ci fosse stato un sintomo anche minimodi disagiodi rabbiadi insofferenzadi

impertinenzain altre parole se ci fosse stato in lui qualcosa dinormalmente umanolo avrei cacciato con brutalità dal

mio ufficio. Ma così come stavano le cosetanto valeva che decidessi dibuttar fuori della porta il pallido busto in gesso

di Cicerone. Restai a fissarlo per qualche tempomentre continuava ascriverequindi mi rimisi alla scrivania. «È ben

strano»pensai. «Che fare?». Ma il lavoro incalzava: conclusi didimenticare intanto la faccenda riservandola a un

attimo di calma in futuro Chiamai quindi Pince-Nez che venne dall'altrastanzae rapidamente controllammo il

documento.

Alcuni giorni più tardi Bartleby terminò quattro lunghi attialtrettantecopie di una settimana di testimonianze

prestate davanti a me nell'Alta Corte di Equità. Si rese necessariocontrollarli. Si trattava di una causa importante che

imponeva la massima accuratezza. Sistemato tuttochiamai TacchinoPince-NezZenzeroche erano nella stanza

attiguacon l'intenzione di dare a ciascuno dei miei quattro impiegati unacopia del documentomentre io avrei letto

l'originale.

Obbedendo al mio ordineTacchinoPince-NezZenzero si erano seduti infilal'uno accanto all'altrociascuno

con la sua copia in manoquando chiamai Bartleby a raggiungere questointeressante gruppetto.

«Bartleby! Si sbrighiaspetto».

Percepii il lento stridio delle gambe della sedia contro il pavimento nudoesubito dopo apparve in piedi

all'imbocco del suo eremo.

«Che cosa le serve?»chiese mite.

«Le copiele copie»risposi in fretta. «Stiamo per confrontarle.Ecco...»e gli porsi il quarto esemplare.

«Preferirei di no»disse e lievemente scomparve dietro il paravento.

Rimasi di sale per qualche istantelìin piedialla testa della colonnadegli impiegati seduti. Riavendomi

avanzai verso il paravento e gli chiesi ragione di una condotta tantoinconsueta.

«Perché rifiuta?»

«Preferirei di no».

Con chiunque altro sarei esplosoesenza sprecare altro fiatol'avreicacciato con ignominia dal mio cospetto.

Ma c'era in Bartleby qualcosa che non soltanto stranamente mi disarmavamaanchein modo curiosomi toccava e

sconcertava. Cominciai a ragionare con lui.

«Sono le sue copie che ci accingiamo a controllare. Le risparmia faticaperché un unico controllo serve per

tutte e quattro. Si fa sempre così. I copisti sono tenuti a controllare leloro copie. Non è così? Non intende dire niente?

Risponda!»

«Preferisco di no»rispose con voce flautata. Mi parve chementre mirivolgevo a luiegli soppesasse con

attenzione ogni mia frasene comprendesse pienamente il significatononpotesse confutare l'ineluttabile conclusione

ma chenello stesso tempouna qualche suprema considerazione locostringesse a rispondere in quel modo.

«Lei è deciso allora a non adeguarsi alla mia richiestauna richiestaconforme all'uso comune e al comune

buon senso?»

Mi fece brevemente capire che su quel punto la mia valutazione era corretta.Sìla sua decisione era

irrevocabile.

Non è infrequente che un uomourtato in modo inconsueto e violentementeirragionevolecominci a dubitare

delle proprie convinzioni fondamentali. Cominciaper così direacongetturare in modo vago cheper quanto stranola

ragione e il diritto stiano forse dall'altra parte. Di conseguenzase sonopresenti persone neutralisi rivolge a costoro in

cerca di un sostegno per la mente che vacilla.

«Tacchino»dissi«che ne pensa? Non ho ragione?»

«Con rispettosignore»rispose Tacchino nel suo tono più blando«pensodi sì».

«Pince-Nezche cosa se ne pensa lei?».«Pensoche lo butterei fuori a calci».

(Il lettore attento e sensibile intuirà cheessendo mattinala risposta diTacchino è formulata con espressioni

cortesi e pacatema che Pince-Nez replica con malumore. Ovveroper ripetereuna frase detta in precedenzail cattivo

umore di Pince-Nez era in serviziomentre quello di Tacchino era inlicenza.)

«Zenzero»dissi desideroso di raccogliere il consenso anche piùinsignificante«che cosa ne pensi tu?»

«Pensosignoreche sia un po' sfasato»rispose Zenzero con un sogghigno.

«Ha sentito quello che dicono»chiesi volgendomi verso il paravento. «Suvenga qui e faccia il suo dovere».

Non si degnò di rispondere. Rimasi a ponderare per un attimorisentito eperplessoma ancora una volta

incalzato dal lavorodecisi di rimandare a un momento di calma lavalutazione del dilemma. Con qualche difficoltà

riuscimmo a venirne a capo di quel lavoro di controllosebbeneogni una odue pagineTacchino con deferenza

esprimesse l'opinione che si trattava di procedura assai inconsuetamentrePince-Nezagitandosi sulla sedia con

nervosismo dispepticodigrignava a denti stretti e sibilava di tanto intanto improperi contro il cocciuto idiota dietro il

paravento. E da parte sua (di Pince-Nez) quella era la prima e l'ultima voltache avrebbe fatto il lavoro di un altro senza

essere pagato.

Bartlebynel frattempose ne stava nel suo eremodimentico di tutto tranneche del documento davanti a sé.

Trascorsero alcuni giorni che videro lo scrivano impegnato in un altrolunghissimo lavoro. La stranezza del suo

comportamento da un po' di tempo a quella parte mi portò a osservare davicino i suoi modi. Notai che non andava mai

a pranzoanzi che non andava mai da nessuna parte. Per quanto ne sapessinon mi risaltava che fosse mai uscito

dall'ufficio: eterna sentinella nel suo angolo. Osservai che verso le undicidel mattino Zenzero avanzava verso il

pertugio nel paravento di Bartlebyquasi fosse stato convocato da un cennoinvisibile da dove ero seduto io. Il ragazzo

allora uscivafacendo tintinnare qualche monetae riappariva con unamanciata di focaccine che depositava nell'eremo

ricevendo due dolcetti per il fastidio.

«Vive di focaccineallora»pensai. «Non fa mai un vero e proprio pranzo;sarà vegetariano. Macchénon

mangia mai verduremangia soltanto focaccine allo zenzero». Cominciaiallora a rincorrere con il pensiero fantasie sui

presumibili effetti che avrebbe potuto produrre sull'organismo umano unnutrimento esclusivamente a base di focaccine

allo zenzero. Si chiamano così perché uno dei principali ingredientiequello che dà il saporeè lo zenzero. Ora che

cos'è lo zenzero? Una cosa piccantespeziata. Bartleby era piccante espeziato? Nient'affatto. Lo zenzero quindi non

aveva alcun effetto su Bartleby. Probabilmente egli preferiva che non neavesse.

Nulla esaspera una persona seria quanto la resistenza passiva. Se l'individuocui si resiste non è di

temperamento disumano e chi gli resiste è una persona innocua nella suapassivitàallorail primoquando è di buon

umoresi sforzanella sua immaginazionedi capire con la carità quanto sidimostra impossibile da spiegare con la

ragione. Cosìper lo piùconsideravo Bartleby e le sue maniere.«Poveraccio»pensavo. «Non ha intenzioni malvagie; è

chiaro che non vuole essere insolente; basta guardarlo per capire che le sueeccentricità - sono involontarie; Mi è utile.

Riesco ad andarci d'accordo. Se lo mando viaè probabile che capiti con unprincipale meno indulgente; sarà trattato

malerischia addirittura di morir di fame. Sì. Ecco chea basso prezzoposso crogiolarmi nell'autocompiacimento.

Mostrarmi amico di Bartlebyassecondarlo nella sua ostinazione mi costeràpoco o nientementre io accumulo

nell'animo quello che finirà per dimostrarsi un dolce bocconcino per la miacoscienza». Ma non sempre ero di questo

umore. La passività di Bartleby a volte mi irritava. Mi sentivo stranamentepungolato a venire ai ferri corti con lui in un

nuovo contrasto - a far scattare una qualche scintilla di rabbia cherispondesse alla mia. Ma tanto valeva che cercassi di

accendere il fuoco strofinando le nocche contro un pezzo di sapone Windsor.Ma un pomeriggio in me prevalse

l'impulso malvagioe ne seguì questa breve scena:

«Bartleby»dissi«quando quei documenti saranno stati copiati tuttiliconfronterò insieme a lei».

«Preferirei di no».

«Come? Non vorrà incaponirsi in quel suo ostinato capriccio?».

Nessuna risposta.

Spalancando le porte pieghevoli lì vicinoesclamairivolto a Tacchino ePince-Nez:

«Bartlebyper la seconda voltadichiara di non voler esminare le suecopie. Che ne pensaTacchino?».

Era di pomeriggioricordatevene. Tacchino se ne stava seduto irradiando lucee calore come una pentola di

rame; la testa calva fumava; le mani turbinavano fra le carte macchiate.

«Che ne penso?»ruggi Tacchino. «Ecco che cosa penso: vado dietro a quelparavento a fargli due occhi

neri!».

Così dicendoTacchinoalzatosi in piediassunse una posizione da pugile.Stava per slanciarsi a mantenere la

promessaquando lo trattenniallarmato per aver incautamente suscitato lasua combattività postprandiale.

«Si siedaTacchino»dissi«e ascolti quello che ha da dire Pince-Nez.Che ne pensaPince-Nez? Non avrei

buone ragioni per licenziare Bartleby su due piedi?»

«Con sua licenzasignoreè lei che deve decidere. Ritengo che la suacondotta sia assai inconsueta einvero

ingiusta nei confronti miei e di Tacchino. Ma forse si tratta di un capricciomomentaneo».

«Ah!»esclamai. «Stranolei ha cambiato idea allora... ne parla conmolta indulgenza».

«Tutto merito della birra»intervenne Tacchino. «La comprensione èeffetto della birra... io e Pince-Nez

abbiamo pranzato insieme oggi. Guardi quanto sono comprensivo iosignore. Devo andare a fargli due occhi neri?»

«A Bartlebyimmagino. Nonon oggiTacchino»risposi. «Giù quei pugnila prego»..Chiusi le porte e di nuovo mi avvicinai a Bartleby. Mi sentivoancora più pungolato a sfidare la sorte. Ardevo

dalla voglia che mi si rivoltasse di nuovo contro. Ricordai che Bartleby nonusciva mai dall'ufficio.

«Bartleby»dissi«Zenzero è fuori; le spiace fare un salto all'ufficiopostale?» (Erano tre minuti di strada).

«Veda se c'è qualcosa per me».

«Preferirei di no».

«Non vuole andare?»

«Preferisco dino».

Barcollando andai alla scrivania e mi sedetti in profonda riflessione.Rispuntò in me un'animosità cieca. Potevo

espormi a un altro ignominioso rifiuto da parte di quel disgraziato macilentoe squattrinato? Dal mio dipendente? Che

altra richiesta assolutamente ragionevole di sicuro rifiuterà ancora?

«Bartleby! ».

Nessuna risposta.

«Bartleby»a voce più alta.

Nessuna risposta.

«Bartleby»con un ruggito.

Proprio come gli spettri obbediscono alle leggi delle invocazioni magichealterzo appello Bartleby sulla soglia

del suo eremo.

«Vada di là e dica a Pince-Nez di venire da me».

«Preferisco di no»disse piano con voce rispettosae lieve sparì.

«Molto beneBartleby»dissi nel tono tranquilloserenamente severo econtrollato che annuncia l'irremovibile

decisione di un incombente terribile castigo. In quel momento avevo una mezzaintenzione del genere. Madopo tutto

avvicinandosi l'ora di cenapensai che fosse meglio prendere il cappello eritornare a casa per quel giornoassai

combattutoperplesso e turbato.

Devo confessarlo? La conclusione di tutta la faccenda fu questa: divenne benpresto un dato di fatto nel mio

ufficio che lì aveva la sua scrivania uno scrivano giovane e pallido di nomeBartleby; che egli copiava per me alla

tariffa normale di quattro centesimi al foglio (cento parole)che era inpermanenza esentato dal controllare il proprio

lavoro e che tale incombenza era trasferita a Tacchino e Pince-Nezinomaggiosenza dubbioalla loro superiore

perspicacia; inoltre che maiper nessuna ragioneil detto Bartleby dovevaessere spedito a sbrigare neanche il più

banale incarico e cheper quanto lo si supplicasse di svolgerloerascontato che «avrebbe preferito di no» - in altre

parole che avrebbe rifiutato di punto in bianco.

Con il passare delle giornate mi riconciliai con Bartleby. La suaperseveranzal'indipendenza da ogni viziola

sua industriosità indefessa (tranne quandoin piedidietro il paraventosceglieva di sprofondarsi in fantasticherie)

l'immobilitàl'inalterabile compostezza in ogni circostanzafacevano dilui un acquisto prezioso. Ed ecco una cosa

fondamentale: erasempre lìilprimo al mattinoininterrottamente durante la giornatal'ultimo alla sera.Avevo nella

sua onestà una fiducia assoluta. I più preziosi documenti li sentivoperfettamente al sicuro in mano sua. Talvolta - senza

dubbio - non riuscivo con tutta la buona volontà a non andare inescandescenze contro di lui. Erainfattioltremodo

difficile tenere sempre a mente quelle strane abitudiniquei privilegiquegli inauditi esoneriche costituivano il tacito

patto in base al quale Bartleby rimaneva nel mio ufficio. Di tanto in tantonella fretta di sbrigare un affare urgente

senza pensarci chiamavo Bartleby in tono secco e spiccio a mettere il dito suun pezzo di nastro rosso che ero in

procinto di annodare per tenere insieme certi documenti. Superfluo direnaturalmenteche da dietro il paravento veniva

la sua consueta risposta: «Preferirei di no»e allora come avrebbe potutoun essere umanocon le comuni debolezze

insite nella nostra naturatrattenersi dall'imprecare amaramente davanti atanta caparbietà... tanta irragionevolezza?

Comunquea ogni successivo rifiuto che ricevevole probabilità cheripetessi l'inavvertenza tendevano a diminuire.

Va detto a questo punto chesecondo l'abitudine di quasi tutti gli avvocaticon lo studio in stabili densamente

popolatidestinati a ufficimolte persone avevano la chiave della miaporta. Una l'aveva una donna che viveva in

soffittae ogni settimana ripuliva da cima a fondo i miei locali e ognigiorno li scopava e spolverava. Un'altra la teneva

Tacchino per comodità. La terza la portavo a volte io in tasca. La quartanon sapevo chi l'avesse.

Orauna domenica mattinacapitandomi di andare alla chiesa della SantissimaTrinità per ascoltare un famoso

predicatore e trovandomi in zona piuttosto in anticipopensai di fare unsalto in ufficio. Per fortuna avevo la chiave con

memanell'infilarla nella toppami stupii di non riuscirci perchéqualcosa vi si opponeva dall'interno. Alquanto

sorpresochiamai ad alta vocequandocon mia costernazioneuna chiavegirò all'interno enella fessura della porta

socchiusami trovai di fronte Bartleby checon il viso smuntoin manichedi camicia e in una tenuta deshabillè

stranamente lacerami diceva con tutta calma di rammaricarsenema in quelmomento aveva molto da fare e preferiva

non ammettermi. Aggiunsequindipoche parole per consigliarmi di fare ilgiro dell'isolato due o tre volteperché in

capo a quell'intervallo avrebbe probabilmente concluso le sue faccende.

Ora l'apparizione assolutamente inattesa di Bartleby che occupava il miostudio la domenica mattinacon la sua

signorile nonchalancecadavericamanello stesso tempo risoluta e controllataebbe un tale effetto su di me che di

slancio sgattaiolai via dalla mia porta e feci come desiderava. Ma non senzavari fremiti di ribellione impotente contro

la mite sfrontatezza di quell'indecifrabile scrivano. Era infatti soprattuttola sua stupefacente docilità che non soltanto

mi disarmavama; per così diremi rendeva impotente. Ritengoinfattiunasorta di impotenza l'atteggiamento di chi

tranquillamente permette al suo impiegato di dargli degli ordini e di mandanovia dai suoi locali. Senza contare che mi

sentivo molto inquieto: che cosa poteva fare Bartleby nel mio ufficioinmaniche di camicia e per il resto.impresentabilela mattina di una domenica?C'era qualcosa che non quadrava? Noera fuori questione. Neppure per un

momento si poteva pensare che Bartleby fosse una persona immorale. Ma checosa ci faceva lì? Copiare? Noneppure

questo; quali che fossero le sue eccentricitàBartleby era una personaeminentemente decorosa. Sarebbe stato l'ultimo

uomo a sedersi alla scrivania in uno stato prossimo alla nudità. Inoltre eradomenicae qualcosa in Bartleby vietava di

supporre che potesse trasgredirecon un'occupazione secolarela dignitàdella giornata.

Il mio animotuttavianon era tranquilloe in preda a una irrequietacuriositàritornai infine davanti alla porta.

Senza difficoltà infilai la chiave ed entrai. Bartleby non si vedeva.Guardai intorno con ansiasbirciai dietro il suo

paraventoma era chiaro che se ne era andato. Esaminando con attenzione illuogoconclusi che chissà da quanto tempo

Bartleby doveva mangiarevestirsidormire nel mio ufficio; il tutto senzaun piattosenza un lettosenza uno specchio.

Il sedile imbottito di un vecchio divano traballantein un angolomostravala lieve impronta di una forma sparuta che lì

si era coricata. Arrotolata sotto la sua scrivania trovai una coperta; sottola grata vuota del caminouna scatola di lucido

e una spazzola; su una sediauna bacinella di latta con del sapone e unasciugamano cencioso; in un giornale alcune

briciole di focaccine e un pezzetto di formaggio. «Sì»pensai«èevidente che Bartleby si è installato quiuna

sistemazione da scapolotutto per conto suo». Immediatamente mi sentiipervadere dal pensiero: «Che squallida

solitudineche isolamento ci sono quisotto i miei occhi! La sua povertàè grandema la sua solitudineche cosa

orribile! Pensaci. Alla domenica Wall Street è deserta come Petra; la nottealla fine di ogni giornataè il vuoto. Questo

edificioche nei giorni feriali brulica di operosità e di vitadi notterimanda l'eco del nullae durante tutta la domenica è

abbandonato. E Bartleby ha scelto questo luogo come propria casa; unicospettatore di una solitudine che ha visto

gremita - una specie di novelloinnocente Marioche medita fra le rovine diCartagine!».

Per la prima volta in vita mia fui sopraffatto da un senso di ineluttabilestruggente malinconia. Prima di allora

non avevo mai sperimentato altro che un triste languore non sgradevole. Ilvincolo della comune umanità mi trascinava

irresistibilmente verso un cupo sconforto. Una malinconia fraterna! Sìio eBartleby eravamo entrambi figli di Adamo.

Ricordai le vivide sete e i volti raggianti che avevo visto quel giornopersone agghindate a festa chesimili a cigni

veleggiavano lungo quel Mississippi che è Broadway; e confrontandoli con ilpallido copistami dissi: «Ahla felicità

corteggia la luceecco perché crediamo che il mondo sia lieto; mal'infelicità si nasconde e si isolaecco perché

crediamo che non ci sia infelicità». Queste tristi fantasticherie -senz'altro chimere di un cervello malato e sciocco -

condussero ad altri pensieripiù circostanziatisulle eccentricità diBartleby. Aleggiava intorno a me il presentimento di

qualche strana scoperta. Mi parve di vedere la pallida forma dello scrivanoavvolta in un sudario gelidogiacere fra

gente sconosciutaincurante.

All'improvviso fui attratto dalla scrivania chiusa di Bartlebycon la chiavein bella mostra nella toppa.

«Non voglio fare nulla di malenon intendo soddisfare una crudelecuriosità»pensavo. «La scrivaniainoltre

è di mia proprietà e anche quello che contiene. Così prenderò il coraggiodi guardare dentro». Tutto era disposto in

ordine metodico; i fogli in pile regolari. Gli scomparti erano profondi espostando i fascicoli delle pratichetastai fino

in fondo. Dopo un poco toccai qualcosa e la trassi fuori. Era un vecchiofazzoletto di cotonepesante e annodato.

Aprendolo vidi che era il suo salvadanaio.

Mi sovvenni allora dei sommessi misteri che avevo notato in quell'uomo.Rammentai di non averlo mai sentito

parlare se non per rispondere; di non averlo mai visto leggere - noneppureun giornale - sebbene di tanto in tanto

avesse abbastanza tempo per sé; ricordai che per lunghi intervalli se nestava in piedi accanto alla sua pallida finestra

dietro il paravento a guardare fuori il muro cieco di mattoni; ero sicuro chenon andasse mai a una mensa o a una

trattoriamentre il suo volto esangue indicava chiaramente che non bevevamai birracome faceva Tacchinoe neppure

tè o perfino caffècome gli altri esseri umani; che non andava mai inalcun posto particolare di mia conoscenza; che non

usciva mai a fare una passeggiataa meno che non ci fosse andato in quelmomento; che aveva sempre evitato di dirmi

chi fosseda dove venissese avesse parenti al mondo; cheseppure cosìscarno ed emaciatonon si lamentava mai di

star male. E soprattutto rammentavo una certa aria inconsapevole di pallido -come chiamarlo? - pallido sussiegoanzi

un alone di austero riserboche mi aveva intimorito fino a ridurmi a quelladocile accettazione delle sue eccentricità

quando avevo ormai paura di chiedergli di rendermi il più insignificanteserviziosebbene potessi capiredalla protratta

immobilitàche dietro il paravento se ne stava probabilmente in piediperso in una di quelle sue fantasticherie

trasognate davanti al muro cieco.

Rimuginando tutte queste cose e collegandole alla recente scoperta che delmio ufficio Bartleby aveva fatto il

suo alloggio permanente e la sua casanon dimentico della sua morbosasuscettibilitàrimuginando tutto questoprese a

insinuarsi in me un sentimento di prudenza. Le mie prime emozioni erano statedi pura malinconia e di sincera

autentica pietà maa mano a mano che la solitudine e l'isolamento diBartleby crescevano nella mia immaginazione

quella stessa malinconia trascolorava in pauraquella pietà in repulsione.E così veroe anche così terribileche fino a

un certo punto il pensiero o la vista dell'infelicità impegnano i nostrimigliori sentimentimain certi casi specialioltre

a un certo puntonon succede più. Sbagliano quanti asseriscono cheinvariabilmente ciò deriva dall'innato egoismo del

cuore umano. Discende piuttosto da una certa impotenza a porre rimedio a unmale estremo e organico. Per un essere

sensibile la pietà non di rado è sofferenza. E quando alla fine si intuisceche tale pietà non si traduce in un efficace

soccorsoil senso comune impone all'animo di sbarazzarsene. Quanto vidiquella mattina mi convinse che lo scrivano

era vittima di un disordine innato e incurabile. Avrei forse potutosoccorrere il corpoma non era il corpo a dolergli; era

la sua anima che soffrivae non potevo raggiungere la sua anima.

Lasciai cadere il proposito di andare alla chiesa della Santissima Trinitàquel mattino. Mi sentivo in qualche

modo indegno dopo le cose che avevo visto. Mi incamminai verso casa pensandoa cosa avrei fatto con Bartleby. Alla.fine mi risolsi su quanto segue: ilmattino dopo gli avrei rivolto alcune pacate domande sul suo passatoecc. eseavesse

rifiutato di rispondere in modo aperto e senza riserve (presumevo che avrebbepreferito di no)gli avrei allora dato una

banconota da venti dollari oltre a quanto già eventualmente gli dovevodicendogli che i suoi servizi non erano più

richiestima chese in qualunque altro modo avessi potuto aiutarlosareistato felice di adoperarmi in tal senso;

soprattutto se avesse desiderato ritornare là dove era natonon importadove fosseavrei volentieri contribuito alle

spese. Inoltreseuna volta arrivato a casain un momento qualsiasi sifosse trovato bisognoso di aiutouna sua lettera

avrebbe certamente avuto risposta.

Giunse il mattino successivo.

«Bartleby»dissi rivolgendomi gentilmente a lui dietro il paravento.

Nessuna risposta.

«Bartleby»dissi in tono ancora più gentile«venga qui. Non lechiederò di fare nulla che lei preferisca non

fare... desidero soltanto parlarle».

A queste parole silenziosamente scivolò fuori.

«Vuole dirmiBartlebydove è nato?»

«Preferirei di no».

«Non vuole raccontarmi nientedi sé?»

«Preferirei di no».

«Quale ragionevole obiezione ha per non parlarmi? Ho nei suoi confrontisentimenti amichevoli».

Non mi guardava mentre parlavoma teneva gli occhi fissi sul busto diCiceronedietro alla mia sediacirca a

sei pollici sopra la mia testa.

«Che cosa mi rispondeBartleby?»proseguii dopo aver aspettato una suarisposta per un bel po' di tempo

mentre il suo volto rimaneva immobilesalvo un tremore quasi impercettibiledelle labbra pallide e sottili.

«Per il momento preferisco non rispondere»disse e si ritirò nel suoeremo.

Fu una mia debolezzalo confessoma in quel momento i suoi modi miirritarono. Non soltanto mi sembrava

che nascondessero un certo pacato disprezzoma la sua caparbietà mi parevaingratitudineconsiderando gli innegabili

benefici e l'indulgenza che aveva avuto da me.

Ancora una volta me ne rimasi lì seduto a rimuginare su quello che avreidovuto fare. Mortificato com'ero per

il suo comportamentoe altrettanto risoluto a licenziarlo quando eroarrivato in ufficioavvertivo un timore

superstizioso che mi si agitava in fondo al cuorevietandomi di mettere inatto quel propositodandomi del mascalzone

se avessi osato proferire una sola parola amara contro di luiil piùderelitto degli uomini. Da ultimoavvicinando con

piglio confidenziale la mia sedia alla sua dietro il paraventomi sedettidicendo:

«Bartlebynon importa se non mi racconta la sua storiama mi consenta disupplicarlada amicodi adeguarsi

per quanto possibile alle abitudini dell'ufficio. Mi prometta chedomani oil giorno appressoaiuterà a controllare i

documenti: in brevemi prometta che fra un giorno o due comincerà a essereun po' ragionevole. Dica di sìBartleby».

«Per il momento preferirei non essere un po' ragionevole»fu la rispostasoavemente cadaverica.

Proprio in quel momento si aprirono le porte pieghevolie si avvicinòPince-Nez. Aveva l'aria sofferente di chi

ha passato una notte particolarmente bruttadovuta a una digestione peggioredel solito. Colse le ultime parole di

Bartleby.

«Preferirebbe di noeh?»ringhiò Pince-Nez. «Lo preferireiio se fossi inleisignore»rivolto a me«lo

preferirei io;gli darei io le preferenzea quel mulo cocciuto! Scusisignorecos'è che preferiscenon fareadesso?».

Bartleby non batté ciglio.

«Signor Pince-Nezpreferirei che lei si ritirasse per il momento»dissi.

In qualche mododa un po' di tempoavevo preso involontariamentel'abitudine di usare la parola «preferire» a

ogni piè sospintoanche fuori luogo. Tremavo all'idea che la vicinanzadello scrivano avesse giàe in modo grave

compromesso il mio equilibrio mentale. Quali altre e peggiori aberrazioni nonavrebbe potuto produrre? Questa

apprensione aveva avuto la sua parte nella decisione di prendere drastichemisure.

Mentre Pince-Nez si allontanava con aria acida e scontrosasi avvicinòbeato e ossequioso Tacchino.

«Con rispettosignore»disse«ieri mi sono messo a pensare al nostroBartleby. Secondo mese solo lo

preferisseun quarto di buona birra al giorno farebbe molto nel curarlo emetterlo in sesto per aiutare a controllare i

documenti»

«Così anche lei è rimasto contagiato dalla parola»dissi leggermenteeccitato.

«Con rispettosignorequale parola?»chiese Tacchino ficcandosi nelristretto spazio dietro il paravento ecosì

facendomandandomi a urtare lo scrivano. «Quale parolasignore?»

«Preferirei essere lasciato solo qui»disse Bartlebyquasi offeso perquell'invasione nel suo spazio privato.

«Ecco laparolaTacchino»dissi«eccola!».

«Ohpreferire?Ohsì... strana parola. Non la uso mai io. Masignorecome stavo dicendosepreferisse...»

«Tacchino»lo interruppi«si ritiriper favore». «Certamentesignorese lei preferisce così». Mentre apriva la

porta pieghevole per ritirarsiPince-Nezlanciandomi un'occhiata dalla suascrivaniami chiese se preferissi che un

certo documento venisse copiato su carta azzurra o bianca. Non sottolineòcon accento malizioso la parola «preferire».

Era chiaro che gli era sfuggita dalle labbra in modo involontario. «Devosbarazzarmi senz'altro di questo dementeche

ha giàin certa misuraturbato la linguase non il cervello mio e deimiei impiegati»pensai fra me. Ma ritenni prudente

non spiattellargli lì per lì il licenziamento..Il giorno successivo notaiche Bartleby non faceva nulla salvo starsene in piedi alla finestraperso nella

fantasticheria ispiratagli dal muro cieco. Quando gli chiesi perché nonscrivesserispose di aver deciso di non scrivere

più.

«Comeanche questo adesso? Cos'altro?»esclamai. «Non vuole piùscrivere?»

«No».

«Per quale ragione?»

«Non capisce da sé la ragione?»rispose con indifferenza.

Lo guardai fisso e notai che i suoi occhi apparivano spenti e vitrei. Mivenne subito da pensare che

l'impareggiabile diligenzadurante le prime settimane del suo impiego pressodi menel copiare accanto a quella buia

finestra gli avesse temporaneamente affaticato la vista.

Ne fui commosso. Gli espressi il mio rammarico; accennai al fatto chenaturalmente faceva cosa saggia ad

astenersi dallo scrivere per un po'; lo incitai a cogliere quell'occasioneper fare qualche salutare attività all'aria aperta.

Cosatuttaviache egli non fece. Alcuni giorni dopodurante un'assenzadegli altri impiegatimi saltò in menteavendo

grande premura di spedire certe lettere per postache Bartlebynon avendonulla al mondo da faresarebbe stato di

sicuro meno inflessibile del solito e avrebbe portato le lettere all'ufficiopostale. Ma rifiutò con aria irremovibile e

assente. Cosìcon notevole disagioci andai di persona.

Passarono altri giorni. Se gli occhi di Bartleby migliorassero o menononsaprei. Di primo acchito avrei detto

di sì. Ma quando gli chiesi confermanon mi accordò risposta. In ogni casonon copiava niente. Alla finesu mia

sollecitazionemi rispose di aver smesso di copiare per sempre.

«Cosa!»esclamai. «Supponiamo che i suoi occhi guariscano perfettamente -meglio di prima - non vorrà più

copiare?»

«Ho smesso di copiare»rispose e scivolò via.

Rimasecome primaa essere un infisso nel mio studio. Anzi - se possibile -divenne più che mai un infisso.

Che cosa fare? Non voleva fare nulla nell'ufficio: perché allora dovevastare lì? Per dirla schiettaera diventato una

pietra al colloun'inutile collanagreve da sopportareper giunta. Eppuremi faceva pena. Non esagero dicendo che mi

metteva a disagio. Se appena avesse fatto il nome di un solo parente o amicogli avrei scritto immediatamente

sollecitandolo a portare quel povero disgraziato in qualche posto adatto. Masembrava soloassolutamente solo

nell'intero universo. Un relitto nel mezzo dell'Atlantico. Alla lunga letiranniche esigenze del lavoro travolsero ogni

altra considerazione. Con tutto il tatto possibile dissi a Bartleby cheincapo a sei giornidoveva assolutamente lasciare

l'ufficio. Lo consigliai di adoperarsinel frattempoper trovarsi un altroalloggio. Mi offrii di aiutarlo in questa fatica

purché facesse il primo passo per il trasloco. «E quando alla fine milasceràBartleby»aggiunsi«provvederò a che lei

non se ne vada del tutto sprovvisto. Sei giorni da adessose ne ricordi».

Alla fine di quel periodo guardai dietro il paraventoed ecco Bartlebysempre lì.

Mi abbottonai la giaccami feci forzaavanzai lentamente verso di luiglitoccai la spalla e dissi: «È venuto il

momento; deve lasciare questo posto. Mi spiace per leiecco il danaromadeve andarsene».

«Preferirei di no»rispose sempre con le spalle voltate.

«Lei deve andarsene».

Rimase in silenzio.

Ora io avevo illimitata fiducia nell'onestà di quell'uomo. Spesso mi avevaconsegnato monetine da sei

centesimi e qualche scellino che avevo sbadatamente lasciato cadereperchésono incline a essere distratto in queste

cosucce. Quello che seguì non parràallorafuori dell'ordinario.

«Bartleby»dissi«le devo dodici dollari per il lavoro svolto. Ecconetrentadue; i venti in più sono per lei.

Vuole prenderli?»e gli tesi le banconote.

Non si mosse.

«Li lascio qui allora»dissi mettendoli sul tavolo sotto un fermacarte.Prendendo quindi cappello e bastonee

avviandomi alla portami volsi tranquillamente aggiungendo: «Quando avràportato via le sue cose dall'ufficio

Bartlebychiuda la porta - ormai se ne sono andati tutti per oggitrannelei. Eper favoreinfili la chiave sotto lo

zerbinodove domattina io possa trovarla. Non la vedrò più: addiodunque.Se in futuronel suo nuovo alloggiopotrò

esserle utilenon manchi di avvertirmi per lettera. AddioBartlebye buonafortuna».

Ma egli non rispose neppure una parola; simile all'ultima colonna di untempio in rovinarimase in piedimuto

e solitario nel mezzo della stanza altrimenti deserta.

Incamminandomi verso casa meditabondola vanità ebbe la meglio sullapietà. Non potevo non essere

compiaciuto per come avevo magistralmente condotto le cose nel liberarmi diBartleby. Magistralmente - così mi

esprimo - e tale deve apparire a ogni pensatore spassionato. La bellezzadella mia tattica sembrava risiedere nella sua

perfettapacata sobrietà. Nessuna arroganza volgarenessuna spacconata dialcun tiponessun sopruso collericonessun

andirivieni concitato per lo studiosbottando in ordini rabbiosi perchéBartleby facesse fagotto con le sue cianfrusaglie

da straccione. Niente del genere. Senza alzar la voce per ordinargli diandarsene - come forse avrebbe fatto un uomo

meno perspicace - partivo dal presuppostoche andarsenedovevae su quel presupposto si fondava tutto quello che

avevo da dire. Più riflettevo su come erano andate le cosepiù ne eroincantato. Il mattino dopotuttaviaal risveglio

avevo i miei dubbi - in qualche modo il sonno aveva smaltito i fumi dellavanità. Uno dei momenti in cui si è più lucidi

e saggi è subito dopo il risveglioal mattino. Mi sembrava ancora diessermi comportato con sagacia... ma soltanto in

teoria. Come sarebbe stato in pratica - ecco l'intoppo. Era davvero unpensiero meraviglioso supporre che Bartleby se ne.fosse andatomadopo tuttoera esclusivamente una mia supposizionenon certo di Bartleby. Il grosso nodonon era

che fossi io a supporrebensì che fosse lui a preferire. Era un uomo dipreferenze più che di supposizioni.

Dopo colazione mi incamminai verso lo studio dibattendo le probabilità afavore e quelle contro. Un attimo

pensavo che la mia tattica si sarebbe rivelata un penoso fallimento e cheavrei trovato Bartleby piantato nel mio ufficio

come al solito; un attimo dopo mi pareva certo che avrei trovato vuota la suasedia. Così continuavo a cambiare

opinione. All'angolo di Broadway e Canal Street vidi un gruppo di gentepiuttosto agitataimpegnata in un'accesa

discussione.

«Scommetto che non lo fa»disse una voce mentre passavo.

«Che non se ne va? D'accordo!»dissi. «Fuori i soldi».

Stavo istintivamente mettendo mano alla tasca per tirar fuori la mia postaquando mi ricordai che quello era

giorno di elezioni. Le parole che avevo udito non avevano alcun rapporto conBartlebyma con il successo o

l'insuccesso di un tale candidato alla carica di sindaco. Assorto com'ero neimiei pensieriavevo immaginatoper così

direche tutta Broadway condividesse il mio turbamento e dibattesse il mioproblema. Li superaigrato che il frastuono

della strada avesse nascosto la mia momentanea distrazione.

Come avevo decisogiunsi davanti alla porta dell'ufficio prima del solito.Rimasi lì ad ascoltare per un attimo.

Tutto era tranquillo. Doveva essersene andato. Provai la maniglia. La portaera chiusa a chiave. Sìla mia tattica aveva

compiuto il miracolo: dovevasul serioessersi dileguato. Eppure un pizzicodi melanconia si mescolava a questo: ero

quasi dispiaciuto per quel brillante risultato. Stavo frugando sotto lozerbino alla ricerca della chiave che senz'altro

Bartleby aveva lasciato lì per mequando per caso con il ginocchio urtai unpannelloproducendo un suono come di chi

bussae da dentroin rispostami giunse una voce: «Un momentosonooccupato».

Era Bartleby.

Ne fui folgorato. Per un attimo rimasi in piedi come quel tizio chepipa inboccaera stato ucciso tanto tempo

prima in Virginia da un fulminein un terso pomeriggio d'estate. Alla suafinestraaperta e tiepidaera stato ucciso e lì

era rimastoaffacciato nel languido pomeriggiofinché qualcunotoccandolonon lo aveva fatto cadere.

«Non se n'è andato?»mormorai alla fine. Ma ancora una volta obbedendo aquello strano ascendente che

aveva su di me l'imperscrutabile scrivanodal quale ascendentepur contanta insofferenzanon riuscivo a sottrarmi del

tuttoscesi piano le scaleuscii in strada ementre giravo intornoall'isolatosoppesai il da farsi in quell'inaudito

dilemma. Buttarlo fuori con la forza non potevo; trascinarlo via a suon diinsulti non si addiceva; chiamare la polizia era

un'idea che non mi andava; eppure lasciargli assaporare il suo cadavericotrionfo su di me... neanche questo potevo

ammettere. Che fare? Oppurese non si poteva fare nientemi restava qualchealtra supposizionein questafaccenda? Sì

come primain prospettivaero partito dal presupposto che Bartleby se nesarebbe andatocosì orain retrospettiva

potevo partire dal presupposto che andato se ne fosse. Sviluppandocoerentemente tale supposizionesarei potuto

entrare in ufficio di gran fretta efingendo di non vedere Bartlebyandargli addosso come se fosse stato aria. Questa

tattica avrebbe avutoin grado straordinariotutto l'aspetto di unaespulsione. Non era possibile che Bartleby riuscisse a

sopportare una tale applicazione della dottrina dei presupposti. Maripensandociil successo del piano pareva piuttosto

dubbio. Decisi di discutere ancora la faccenda con lui.

«Bartleby»dissi entrando nell'ufficio con un'espressione pacatamentesevera«sono profondamente

dispiaciuto. Sono addoloratoBartleby. Avevo un'opinione migliore di lei.L'avevo ritenuta un gentiluomo con il quale

sarebbe bastato fare un semplice accenno in un qualsiasi frangente delicato -un'allusioneinsomma. Maa quanto

sembrami sono ingannato. Come?»aggiunsi con un sussulto di sincerasorpresa. «Non ha ancora toccato quel

denaro»indicandoglielo là dove lo avevo lasciato la sera prima.

Non rispose nulla.

«Intende lasciarmi oppure no?»chiesi a questo punto con impetoimprovvisoavvicinandomi a lui.

«Preferirei nonlasciarla»rispose sottolineando leggermente il non.

«Quale diritto al mondo ha mai di restare qui? Paga l'affitto? Mi paga letasse? Questa casa le appartiene?».

Non rispose nulla.

«È disposto a riprendere a scrivere adesso? I suoi occhi sono guariti?Potrebbe copiarmi un breve documento

questa mattina? Oppure aiutarmi a controllare qualche riga? Oppure fare unsalto all'ufficio postale? In una parolafare

una cosa qualsiasi che giustifichi il suo rifiuto di lasciare l'ufficio?».

In silenzio si ritrasse nel suo eremo.

Mi trovavo in uno stato tale di risentita irritazione che ritenni prudentetrattenermi per il momento dal dire

altro. Io e Bartleby eravamo soli. Mi sovvenne la tragica fine dellosventurato Adams e dell'ancor più sventurato Colt

nell'ufficio solitario di quest'ultimo; come il povero Coltportato da Adamsa un punto di esasperazione estrema

abbandonandosi imprudentemente a un furore selvaggiofosse trascinato acommettere il suo fatale gesto senza esserne

consapevoleun gesto che nessuno avrebbe potuto deplorare più di lui che loaveva compiuto. Spessonel riflettere sul

casomi aveva assalito il pensiero che se l'alterco fosse scoppiato nellapubblica via o in un'abitazione privatanon si

sarebbe concluso in quel modo. Era stata la circostanza di trovarsi da solonell'ufficio desertoal primo piano di uno

stabile mai benedetto dall'influsso umanizzante dei rapporti familiariunufficio dall'assito nudoindubbiamente

polveroso e squallido - ecco che cosa doveva aver contribuito a esacerbare larabbia disperata dello sfortunato Colt.

Ma quando in me sorse questo rancorequando in me si svegliò il vecchioAdamoper tentarmi contro

Bartlebylo abbrancai e lo respinsi. Come? Limitandomi a ricordare ilcomando divino: «Un nuovo comandamento io

do a tutti voiche vi amiate l'un l'altro».? Sìfu questo a salvarmi. Aprescindere da nobili considerazionila carità.spesso opera alla stregua di unprincipio saggio e prudente - una grande salvaguardia per chi la possiede. Gliuomini

hanno ucciso per gelosiaper rabbiaper odioper egoismoper orgogliospiritualema nessun uomoper quanto ne

sappiaha mai ucciso per la dolce carità. Per mero interesse personaleallorain mancanza di un motivo miglioretutti

specie le persone collerichedovrebbero praticare la carità e lafilantropia. In ogni modonell'attuale situazionecercai

con tutte le forze di soffocare la mia esasperazione nei confronti delloscrivano interpretando benevolmente la sua

condotta. «Poverettopoveretto!»pensai. «Non ha cattive intenzionisenza contare che ne ha conosciuti di momenti

difficili e bisogna aver pazienza con lui».

Mi sforzai anche di trovare subito qualcosa da fare enello stesso tempodidare sollievo al mio sconforto.

Cercai di cullarmi nella fantasia chenel corso della mattinatain unmomento che gli fosse andato a genioBartlebydi

sua spontanea volontàsarebbe emerso dal suo cantuccio per imboccare condecisione la direzione della porta. Niente da

fare. Venne la mezza; Tacchino cominciò a irradiare luce dal voltoarovesciare il calamaioa farsi insofferente; Pince-Nez

si acquietò in una cortese compostezza; Zenzero prese a rosicchiare la meladel pranzo; Bartlebyin piedi davanti

alla finestraera immerso in una delle sue più profonde fantasticherie sulmuro cieco. Lo si crederà? Dovrei

ammetterlo? Quel pomeriggio lasciai l'ufficio senza rivolgergli altra parola.

Trascorsero alcuni giornidurante i qualinegli intervalli liberileggiucchiavo il trattato di Edwards Sulla

volontà equello di Priestley Sullanecessità.Date le circostanzequei libri mi ispirarono sentimenti salutari. A poco a

poco mi abbandonai alla convinzione che i miei affanniriguardanti loscrivanofossero stati predestinati dall'eternità e

che Bartleby mi fosse stato assegnato per qualche misterioso scopo da unaonnisciente Provvidenzaimperscrutabile per

un semplice mortale come me. «Sì Bartlebystattene lìdietro il tuoparavento»pensavo. «Non ti perseguiterò più; sei

innocuo e silenzioso come una di queste vecchie sedie. In brevenon mi sentomai così solo come quando so che sei lì.

Perlomeno lo vedolo percepiscointuisco lo scopo predestinato della miavita. Mi basta. Altri forse avranno ruoli più

nobili da interpretarema la mia missione nel mondoBartlebyè di dartiuna stanza d'ufficio per tutto il tempo che ti

andrà di rimanervi».

Sono convinto che avrei persistito in questa saggia e beata disposizionesenon fosse stato per le osservazioni

gratuite e impietose lanciatemi dai colleghi che venivano nel mio studio.Spesso accade che la contiguità con animi

poco liberali finisca con il logorare i migliori propositi degli animigenerosi. Riflettendoci tuttavianon era stranoa ben

pensarciche quanti entravano nel mio ufficiocolpiti dall'aspettopeculiare dell'inesplicabile Bartlebyfossero tentati di

buttare lì qualche commento perfido su di lui. A volte veniva nello studioquesto o quel procuratoreche aveva affari

con meenon trovando nessuno tranne lo scrivanosi adoperava per ottenereda lui qualche indicazione su dove io

fossima Bartlebyindifferente a quelle vane chiacchierese ne rimanevaimmobilein piedi in mezzo alla stanza. E il

procuratoredopo averlo contemplato in quella posizione per qualche tempose ne andava senza aver saputo nulla.

Oppurequando si svolgeva un arbitratocon l'ufficio gremito di avvocati etestimonimentre il lavoro urgeva

qualche legale presenteimmerso nelle sue occupazionivedendo Bartleby chenon faceva assolutamente nullagli

chiedeva di andare di corsa nel suo ufficio (del legale) a prendergli qualchedocumento. Al che Bartleby tranquillamente

rifiutavarestandosene con le mani in mano come prima. Il legalea questopuntosgranando gli occhisi volgeva verso

di me. Che cosa potevo dire? Alla fine mi resi conto che nella cerchia dellemie conoscenze professionali circolavano

sussurri di sorpresa per la strana creatura che tenevo nello studio. Questomi preoccupò molto. E mentre si faceva strada

il pensiero che potesse magari essere un uomo longevo e continuare a occuparei miei localia rifiutare la mia autoritàa

mettere in imbarazzo i miei visitatoria screditare la mia reputazioneprofessionalea gettare un'ombra sinistra

sull'ufficiotenendo l'anima stretta coi denti fino all'ultimo centesimo deisuoi risparmi (non c'era dubbioinfattiche

spendesse al massimo cinque centesimi al giorno)e finisse con ilsopravvivermiavanzando pretese sulla proprietà

degli uffici per usucapione con la sua occupazione perpetua; mentre tuttiquesti cupi presagi mi si affollavano in mente

sempre più pressantie mentre i miei amiciirriducibilidi continuo miimponevano le loro osservazioni sul fantasma

dell'ufficioun grande mutamento si operò in me. Decisi di raccoglieretutte le mie energie e liberarmiuna volta per

tuttedi quell'intollerabile incubo.

Prima di elaborare un piano complicato adatto allo scopomi limitai asuggerire a Bartleby l'opportunità di una

sua partenza definitiva. In tono calmo e grave gli sottoposi l'ideainvitandolo a valutarla con matura ponderazione. Ma

dopo essere stato tre giorni a meditarvimi comunicò che rimaneva invariatala sua originaria decisione; in breve

preferiva ancora alloggiare da me.

«Che cosa farò?»mi dissi abbottonandomi la giacca fino all'ultimobottone. «Che cosa farò? Che cosa dovrei

fare? Che cosa in coscienza sareitenuto a faredi quest'uomoanzi di questo fantasma? Sbarazzarmenedovevo;

andarsenedovrà. Ma come? Non lo butterai fuoriquel pover'uomopallidopassivo - non butterai fuori una creatura

tanto inerme? Non ti disonorerai commettendo una tale crudeltà? Nonon lofarònon posso farlo. Lo lascio piuttosto

vivere e morire quiper murare poi le sue spoglie nella parete. Che cosafarai allora? Puoi blandirloma non lo

smuoverai. I soldi che gli dai per convincerlo li lascia sotto il fermacartesul tuo tavolo. E evidenteinsommache

preferisce aggrapparsi a te.

«Allora è necessario prendere misure drastichestraordinarie. Cosa! Nonvorrai farlo ammanettare da un

poliziottoaffidando a un carcere comune la sua esangue innocenza? E poi perquali motivi potresti ottenere una cosa

simile? È un vagabondo? Come! Un vagabondouno senza fissa dimoralui chesi rifiuta di muoversi? È proprio perché

non è unvagabondo che cerchi di farlo passare pervagabondo.Troppo assurdo. Nessun mezzo di sostentamento

evidente: ecco che l'ho in pugno. Nosbagliato di nuovo: hadi che vivere;senza dubbiol'essere vivi è l'unica prova

inconfutabile che si ha di che vivere. Niente da fareallora. Poiché nonsarà lui a lasciare mesarò io a lasciare lui..Cambierò ufficio; andròaltrove; lo avvertirò nei dovuti modi chese mai lo troverò nei nuovi localiprocederò contro di

lui per violazione di domicilio».

Il giorno successivoagendo di conseguenzacosì mi rivolsi a lui: «Trovoche questo ufficio sia troppo lontano

dal municipiosenza contare che l'aria non è buona. Insomma ho intenzionedi traslocare la prossima settimana e non

avrò più bisogno dei suoi servigi. Glielo dico oggi perché possa trovarsiun altro posto».

Non rispose nullae null'altro fu detto.

Nel giorno fissatonoleggiati carri e uominiandai in ufficio eavendosoltanto pochi mobiliin poche ore fu

portata via ogni cosa. Per tutto il tempo lo scrivano se ne rimase in piedidietro il paravento che ordinai di portar via per

ultimo. Fu tolto epiegato come un enorme fogliolo lasciò inquilinoimmobile di una stanza spoglia. Mi fermai sulla

soglia guardandolo per un momentomentre dentro di me qualcosa mi rimordeva.

Ritornai indietro con la mano in tasca e il cuore in gola.

«AddioBartlebyme ne vado... addio e Dio la protegga in qualche modo.Prenda»facendogli scivolare

qualcosa in mano. Ma finì a terra e allora - strano a dirsi - dovetti fareuno sforzo per strapparmi da luie sì che avevo

tanto desiderato sbarazzarmene.

Nel mio nuovo studioper un giorno o duetenni la porta chiusa a chiavetrasalendo a ogni rumor di passi nel

corridoio. Ritornando in ufficiodopo un'assenza anche brevissimaindugiavosulla soglia per un attimotendendo

l'orecchio con attenzioneprima di infilare la chiave. Ma erano pauresuperflue. Bartleby non venne mai da me.

Pensavo che tutto andasse per il meglioquando venne a trovarmi unosconosciuto dall'aria sconvolta

chiedendomi se fossi io la persona che ultimamente aveva occupato i locali aln.- di Wall Street.

In preda a cupi presentimenti risposi di sì.

«Allorasignore»disse lo sconosciuto che risultò essere un avvocato«lei è responsabile dell'uomo che si è

lasciato dietro. Rifiuta di copiarerifiuta di fare qualsiasi cosa; dice chepreferisce di norifiuta di lasciare i locali».

«Ne sono desolatosignore»risposi fingendomi calmosebbene tremassidentro di me«ma l'uomo cui lei

allude non è niente per me - non è un mio parentenon è neppure unapprendista per il quale lei potrebbe ritenermi

responsabile».

«In nome del cielochi è?»

«Non sono in grado di dirglielo. Non so nulla di lui. In passato lo assunsicome copistama da un po' di tempo

non fa niente per me».

«Lo sistemerò ioallora... buon giornosignore».

Trascorsero parecchi giornie non ne seppi più nulla. Se anche a volte misentivo spinto da un impulso

caritatevole ad andare a trovare il povero Bartlebytuttavia mi trattenevauna certa ripugnanza per chissà che cosa.

«Ormai è sistemato»pensai alla finequandoper tutta la successivasettimananon ebbi altre notizie di lui.

Maarrivando nello studio il giorno dopotrovaiin attesa davanti alla miaportavarie persone agitatissime.

«Eccolo... arriva»gridò il portavoce che riconobbi come l'avvocatovenuto da me in precedenza.

«Deve portarselo via immediatamentesignore»gridò avvicinandosi a me unsignore distintoche sapevo

essere il proprietario dello stabile al n. - di Wall Street. «Questisignorimiei inquilininon lo tollerano più. Il signor

B.»indicando l'avvocato«l'ha messo fuori del suo ufficioe lui adessosi ostina a funestare l'intera casasedendosi

sulla ringhiera delle scale di giorno e dormendo nell'ingresso di notte. Nesono tutti preoccupati; i clienti se ne vanno;

serpeggia la paura di una sommossa. Bisogna intervenire e senza perderetempo».

Atterrito da quel torrente di paroleindietreggiai e sarei stato contento dichiudermi a chiave nel mio nuovo

studio. Invano continuai a insistere che Bartleby non era niente per me - nonpiù di chiunque altro. Invano: risultavo

essere io l'ultima persona che aveva avuto a che fare con lui e dovevorendere conto della terribile situazione. Timoroso

dunque di finire sui giornali (come minacciò oscuramente uno dei presenti)considerai la faccenda edopo un po'dissi

chese l'avvocato mi avesse concesso di parlare allo scrivano in privato nelsuo ufficio (dell'avvocato)quel pomeriggio

mi sarei adoperato al massimo per liberarlo del fastidio all'origine dellesue recriminazioni.

Salendo le scale verso la mia vecchia tanaecco Bartleby che in silenzio sene stava seduto sulla ringhiera del

pianerottolo.

«Che cosa fa quiBartleby?»chiesi.

«Sto seduto sulla ringhiera»rispose mitemente.

Gli feci cenno di entrare nell'ufficio dell'avvocato che subito se ne andò.

«Bartleby»dissi«si rende conto che mi fa tribolare ostinandosi aoccupare l'ingressodopo essere stato

licenziato dall'ufficio?»

Nessuna risposta.

«Ora una delle due: o lei fa qualcosaoppure qualcosa va fatto a lei. Inche lavoro le piacerebbe impegnarsi?

Vorrebbe riprendere a copiare per qualcuno?»

«Nopreferirei non fare cambiamenti».

«Vorrebbe fare il contabile in una drogheria?»

«Si sta troppo al chiuso. Nonon mi va di fare il contabilema non faccioil difficile».

«Troppo al chiuso?»esclamai. «Ma se lei se ne sta sempre rinchiuso!»

«Preferirei non fare il contabile»aggiunse come a sistemare subito quellapiccola questione.

«Le andrebbe di lavorare in un bar? In quel mestiere non si sforza gliocchi».

«Non mi piacerebbe affattoanche secome ho già dettonon faccio ildifficile»..L'insolita loquacità mi diede un'ispirazione. Ritornai allacarica.

«Le piacerebbe allora viaggiare per tutto il paese a riscuotere crediti peri commercianti? Le farebbe bene alla

salute».

«Nopreferirei fare qualcos'altro».

«Che ne direbbe di andare in Europa al seguito di qualche giovane gentiluomoper intrattenerlo con la sua

conversazione... Le andrebbe?»

«Per niente. Non mi pare che ci sia niente di stabile. Mi piace stare fermoin un posto. Ma non faccio il

difficile».

«E fermo in un posto allora se ne starà»esclamai perdendo la pazienza esbottando di rabbia per la prima volta

nella storia dei miei esasperanti rapporti con lo scrivano. «Se lei non sene va da questo stabile prima di serasarò

costretto - anzi sonocostretto - a...a... ad andarmene io stesso!»conclusi in modo piuttosto incongruononsapendo

con quale minaccia spaventarlo per scuoterlo da quella sua immobilitàinducendolo a obbedire. Disperando nell'esito di

altri sforzistavo per lasciarlo precipitosamentequando mi venne un ultimopensiero... un'idea che non avevo mai del

tutto accantonato in precedenza.

«Bartleby»dissi con il tono più gentile che in tutta quella concitazionemi riuscì di assumere«vuole venire

con me - non nel mio ufficioma nel mio appartamento - e restare lì finchénon avremo trovato con comodo una

sistemazione conveniente? Suandiamoci adessosubito».

«Noper il momento preferirei non cambiare nulla».

Non replicai mascansando tutti con una fuga subitanea e rapidamiprecipitai fuori da quello stabilerisalii di

corsa Wall Street verso Broadway esaltando sul primo omnibusmi trovaipresto al sicuro dagli inseguimenti. Non

appena fui di nuovo calmocapii distintamente di aver fatto tutto ilpossibile sia per venire incontro alle esigenze del

padrone di casa e degli inquilinisia per appagare il mio desiderio eobbligo morale di aiutare Bartleby e proteggerlo da

una dura persecuzione. Mi sforzai allora di scrollarmi di dosso ogni ansia edi mettermi tranquillo; la coscienza

approvava quel tentativosebbene non proprio come avrei voluto. Ero cosìtimoroso di essere stanato dall'esasperato

proprietario e dagli adirati inquilini cheaffidando l'ufficio a Pince-Nezper qualche giornomi diressi in carrozza verso

la parte alta della cittàattraversando i sobborghiarrivai a Jersey Citye Hobokenal di là del fiumevisitai in gran

fretta Manhattanville e Astoria. Insomma vissi quasi tutto il tempo incarrozza.

Quando varcai di nuovo la soglia dello studioecco sulla mia scrivania unmessaggio del padron di casa. Lo

aprii con mani tremanti. Mi informava che lo scrivente aveva fattointervenire la polizia e condurre Bartleby alle Tombe

per vagabondaggio. Siccome io su di lui ne sapevo più di ogni altromipregava di recarmi in quel luogo e fare

un'adeguata deposizione dei fatti. Questi ragguagli ebbero su di me reazionicontrastanti. Dapprima ne fui sdegnatoma

alla finegiunsi quasi ad approvare la decisione. Il temperamento sbrigativoed energico del padron di casa lo aveva

indotto ad adottare una procedura che non credo mi sarei mai deciso aseguireeppureestremo rimedio in quelle

circostanze tanto insolitesembrava l'unica soluzione.

Come appresi più tardiil povero scrivanoavvertito che doveva esseretradotto alle Tombenon aveva opposto

la minima resistenzama vi si era adeguato con la sua pallidaimperturbabile mansuetudine.

Alcuni presentiper compassione e curiositàsi erano uniti al gruppo ecapeggiato da un poliziotto a braccetto

di Bartlebyil silenzioso corteo aveva sfilato attraverso le concitatestrade in mezzo al frastuono e al caldo e all'allegria

di mezzogiorno.

Lo stesso giorno in cui ricevetti quel messaggiomi recai alle Tombeovveroper esprimermi con precisione

al carcere giudiziario. Cercato il funzionario competentedichiarai lo scopodella mia visita e venni a sapere che di fatto

l'individuo descritto era lì trattenuto. Assicurai allora il funzionario cheBartleby era un uomo di assoluta probitàda

commiserare profondamenteseppur eccentrico al di là di ogni dire. Espositutto quello che sapevo e conclusi

suggerendo di tenerlo in reclusione con tutta l'indulgenza possibilefinchénon si fosse trovata una soluzione meno

asprasebbene invero non sapessi quale potesse essere. Se poi non si fossedeciso nientelo avrebbe accolto l'ospizio dei

poveri. Chiesi quindi di parlargli.

Non essendo imputato di nessun grave reato e avendo sempre un'aria docile einnocuagli avevano concesso di

aggirarsi liberamente per la prigione e soprattutto nei cortili erbosiinterni. Fu quindi lì che lo trovaida soloin piedi

nell'angolo più tranquillocon il volto verso un alto muromentre tuttointornoattraverso le strette feritoie delle finestre

della prigionemi parve di scorgere gli occhi di ladri e assassini chesbirciavano.

«Bartleby! »

«La conosco»disse senza voltarsi«non ho nulla da dirle».

«Non sono stato io a portarla quiBartleby»dissi profondamenteaddolorato dall'implicito sospetto. «E per lei

questo non dovrebbe essere un posto tanto abbietto. Non le viene imputatanessuna azione riprovevole per trovarsi qui.

E guardi: non è poi così triste come si potrebbe pensare. Guardi: c'è ilcieloc'è l'erba».

«So dove mi trovo»risposema non volle aggiungere altroe così lolasciai.

Mentre imboccavo di nuovo il corridoioun omaccione dall'aria sanguignaconun grembiulemi si avvicinò

eindicando con il pollice sopra la sua spalladisse: «E un suo amico?»

«Sì».

«Vuole morire di fame? Se sìbasta dargli la razione che passa il carcereed è fatta».

«Leichi è?»chiesi non sapendo come catalogare una persona che in untale posto parlava in modo così poco

ufficiale..«Sono il vivandiere. I signori qui che hanno amici mi paganocosì io gli porto cose buone da mangiare».

«È vero?»chiesi volgendomi verso il secondino.

Lo confermò.

«Allora»dissi facendo scivolare qualche moneta d'argento nelle mani delvivandiere (perché così lo

chiamavano)«le chiedo di prestare particolare attenzione al mio amico qui.Gli faccia avere il miglior pranzo che riesce

a trovare. E con

lui sia più gentile che può».

«Che ne dice di presentarmi?»chiese il vivandiere guardandomi conun'espressione che sembrava significare

l'impazienza di mostrarmi le sue buone maniere.

Pensando che potesse giovare allo scrivanoaccondiscesi echiedendo alvivandiere come si chiamassemi

avvicinai con lui a Bartleby.

«Bartlebyecco un amico. Vedrà che le sarà molto utile».

«Servitor suosignoreservitor suo»disse il vivandiere con un profondoinchino dietro il suo grembiule.

«Spero che sarà di suo gusto quisignore. Bel giardino... localifreschi... spero che rimarrà con noi per un po'... cercherò

di renderglielo piacevole. Cosa vuole per pranzo oggi?»

«Preferisco non pranzare oggi»disse Bartleby voltandosi dall'altra parte.«Mi farebbe malenon sono abituato

a pranzare». Così dicendosi portò lentamente sul lato opposto delcortile e si mise davanti al muro cieco.

«Cosa vuoi dire?»disse il vivandiere rivolgendosi a me con sguardoattonito. «E un po' toccovero? »

«Penso che sia un po' dissennato»dissi con tristezza.

«Dissennato? Dissennatodice? Behparola miaecco cosa pensavo: che quelsuo amico lì era un falsario.

Sempre pallidi e con l'aria da signoriquellii falsari. Mi fanno penasignorenon posso farne a meno. Conosceva

Monroe Edwards?»aggiunse in tono mesto e tacque. Quindiappoggiando lamano sulla mia spalla con gesto accorato

sospirò: «È morto tisico a Sing-Sing. Così non conosceva Monroe?»

«Nonon ho mai frequentato falsari. Ma non posso restare oltre. Abbia curadel mio amico laggiù. Non ci

perderà. Arrivederla».

Alcuni giorni dopodi nuovo ammesso alle Tombepercorsi i corridoi allaricerca di Bartlebyma senza

trovarlo.

«L'ho visto da poco uscire dalla sua cella»disse un secondino«forse sen'è andato a gironzolare in cortile».

Mi avviai in quella direzione.

«Cerca l'uomo che non parla?»chiese un altro secondino superandomi. «Èdisteso laggiù... dorme nel cortile.

Non sono neanche venti minuti che l'ho visto sdraiarsi».

Il cortiletranquillissimoera precluso ai detenuti comuni. Le muraintornostraordinariamente spesselo

isolavano da ogni suono esterno. Lo stile egizio del complesso mi incombevaaddosso con il suo cupore. Ma sotto i

piedi cresceva una soffice erbetta prigioniera. Il cuore delle piramidieterne - sembrava - doveall'internoper qualche

strano incantesimoattraverso le fendituredai semi lasciati cadere dagliuccelli fosse germogliata l'erba.

Rannicchiato in una strana posa ai piedi del murocon le ginocchia piegatedisteso sul fiancola testa

appoggiata sulle pietre freddevidi il devastato Bartleby. Non si muovevanulla. Mi fermaiquindi mi accostai a luimi

chinai e vidi che i suoi occhi opachi erano aperti; per il restosembravaimmerso in un sonno profondo. Qualcosa mi

spinse a toccarlo. Tastai la mano e un brivido pungente mi guizzò su per ilbraccio e giù per la schiena fino ai piedi.

Il faccione rotondo del vivandiere sbucò dietro di me. «Il suo pranzo èpronto. Neanche oggi vuoi mangiare

eh? E che? Vive senza mangiare?»

«Vive senza mangiare»dissi e gli chiusi gli occhi.

«Ehi! Dormeeh?»

«Con i re e i consiglieri»mormorai.

Non occorrerebbe dire molto di più in questa storia. L'immaginazione puòfacilmente dare l'idea dello spoglio

rituale del seppellimento del povero Bartleby. Ma prima di accomiatarmi dallettorelasciatemi dire chese questo

racconto ha suscitato la curiosità di sapere chi fosse Bartleby e che vitaavesse condotto prima che lo conoscesse il

presente narratoreposso soltanto rispondere che io pienamente condividotale curiositàma sono del tutto incapace di

soddisfarla. Eppure a questo punto sono incerto se divulgare l'eco di unadiceria che giunse al mio orecchio alcuni mesi

dopo la morte dello scrivano. Su quali basi poggiasse non sono mai riuscitoad accertare; quindinon sono in grado di

dire quanto ci sia di vero. Ma poiché questa vaga notiziacomunqueriportatanon mi sembra priva di una sua

suggestioneforse lo stesso parrà agli altri; così ne farò un brevecenno. Ecco la notizia: Bartleby era stato un impiegato

subalterno nell'ufficio delle lettere smarrite a Washingtondal quale erastato all'improvviso licenziato per un

cambiamento nell'amministrazione. Quando penso a questa diceriaa faticariesco a esprimere le emozioni che mi

pervadono. Lettere smarritelettere morte! Non suona come uomini morti?Pensate a un uomoper natura e sventura

incline a una languida disperazione: esiste un lavoro più adatto adaccentuarla che maneggiare continuamente queste

lettere morte e metterle in ordine per darle alle fiamme? Ogni anno nevengono bruciate a carrettate. Qualche volta dal

foglio piegato il pallido impiegato estrae un anello - il dito al quale eradestinatoforseimputridisce nella tomba; una

banconota inviata in un moto di pronta carità... e colui che ne avrebbetratto sollievo non mangia più e non soffre più la

fame; parole di perdono per coloro che morirono nello sconforto; di speranzaper coloro che morirono disperati; buone.nuove per coloro che morirono soffocatida sventure inconsolabili. Apportatrici di vitaqueste lettere rovinano versola

morte.

O Bartleby! O umanità!




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