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JackLondon



PRIMADI ADAMO

 

 

 

 

PRIMADI ADAMO


"Primadi Adamo" (titolo originale: Before Adam)scritto nella primametà del 1906apparve a puntate su "Everybody"nell'ottobre dello stesso annopoi in volume presso MacmillanNewYork1907.


"Questisono i nostri antenati e la loro storia è la nostra storia.


Ricordateviche come è certo che un giorno noi scendemmo dagli alberi percamminare eretti al suolocosì è altrettanto certo chein un'epoca ancora più lontanasiamo usciti arrampicandocidal mareper iniziare la nostra prima avventura sulla terra ferma"- Jack London




1


Primache sapessimi sono spesso domandato da dove venisse la moltitudinedelle immagini che popolava i miei sognie che erano del tuttodiverse dalla realtà dello stato di veglia. Esse tormentaronola mia infanziafacendo dei miei sogni una serie d'incubi eun po'più tardimi convinsero che io differivo dal resto della miaspecieche ero un essere contro natura e maledetto.


Godevola mia parte di felicità solo durante il giorno; le mie nottisegnavano il regno della paura... e di quale paura! Oso affermare chenessun uomotra quelli che con me vivono su questa terraha maisofferto uno spavento di tale natura e di tale intensità;giacché la mia paura è la paura della lontananza deltempo che fula paura che predominava al tempo della nascita delmondo e al tempo della giovinezza del mondo nascente; la paurainsommache regnava suprema durante il periodo conosciuto col nomedi Medio Pleistocene.


Checosa intendo dire con ciò? Sento che è necessaria unaspiegazione prima che incominci ad esporre qual era il contenuto deimiei sognidiversamente voi ben poco comprendereste il significatodi cose che per me sono così familiari. Mentre scrivotuttigli esseritutti gli avvenimenti di questo mondo dei miei sognisorgono dinanzi ai miei occhi in una vasta fantasmagoriama so cheper voi essi sarebbero senza connessione e senza ragione.


Checosa possono significare per voi l'amicizia di Orecchiutola caldaseduzione della Rapidala concupiscenza e l'atavismo di Occhiorosso?Stridenti incoerenze e null'altro. Incoerenze stridenti quanto ifatti e le gesta del Popolo del Fuoco e del Popolo degli Alberi e leinintelligibili assemblee delle orde. Nulla potete sapere voi cheignorate la pace delle fresche caverne sul fianco delle rupi e ilgiocondo andirivieni all'orlo dell'acqua dove andavamo a dissetarcisul calar del giorno; voi che non avete mai conosciuto il morsopungente del vento mattutino sulla cima degli alberi e il saporedella giovane corteccia dolce al palato.


Credoperciò che sarebbe stato meglio per voi essere iniziati comelo fui io al tempo della mia infanzia. Bambinodi giorno ero ugualeagli altri bambini; ma nel sonno ero del tutto diverso. Sin daglianni di cui la mia mente conserva vivo il ricordoil mio sonno fusempre un periodo di terrore. Molto raramente i miei sogni sicoloravano di felicità; in genere erano fatti di pauradi unapaura così stranacosì folle da non esservi nulla diparagonabile. Nessuna delle paure che provai nelle ore di vegliaassomiglia alla paura che s'impadroniva di me durante il sonno: paurad'un genere tale da superare tutte le mie esperienze.


Ragazzonato e allevato in cittàla campagna rappresentava per me unterreno inesplorato. Tuttavia non sognavo mai la cittànéappariva mai una casa in uno dei miei sognicome del resto nessunessere umano oltrepassava mai la barriera del mio sonno. Iocheavevo visto alberi solo nei parchi e nei libri illustratierravoattraverso foreste sconfinate. Inoltrequesti alberi di sogno nonerano una semplice percezione confusa della mia visionema erano bennetti e distinti.


Eroin termini d'intimità vissuta con essi; ne vedevo ogni ramoogni gemma; vedevo e conoscevo ogni foglia.


Hoserbato il ricordo preciso della prima volta in cuiallo stato divegliavidi una quercia. Guardando le fogliei ramii nodiricordai con una lucidità impressionante di aver giàvisto moltissime altre volte quella stessa specie d'albero durante ilmio sonno. Così non fui affatto sorpreso più tardinelriconoscere immediatamenteappena li vidialberi come l'abeteiltassola betullail lauro.


Ioli avevo già visti tutti e li vedevo ancora tuttiogni nottedurante il mio sonno.


Comeavrete già osservatotutto ciò viola la leggefondamentale dei sognivale a dire la regola per cui ciascuno vedein sogno solo quello che ha visto allo stato di vegliaocombinazioni di cose da lui viste allo stato di veglia. Ebbenetuttii miei sogni andavano contro questa regola: mai ho visto in sognoqualcosa di cui abbia avuto conoscenza essendo desto. La mia vitadurante i sogni e la mia vita allo stato di veglia erano due vitenettamente separateche non avevano nulla di comune tra esseall'infuori della mia persona. Io eroin un certo modoil trattod'unione vivente tra quelle due esistenze.


Sindai primi anni della mia infanzia appresi che le noci si comprano daldroghierela frutta dal fruttivendolo; ma ben prima di sapere questoio avevo in sogno colto le noci sugli alberi o le avevo raccattate interra sotto gli alberi stessicome pure avevo mangiato frutti coltisugli arbusti e sui cespugliquantunque una simile cosa mai mi fosseaccaduta durante la vita trascorsa ad occhi aperti.


Nondimenticherò mai la prima volta che vidi servire a tavola imirtilli. Mai quei frutti mi erano comparsi davanti agli occhietuttaviavedendolimi vennero improvvisamente alla memoria ricordidi sogni durante i quali avevo errato in una zona paludosa facendouna scorpacciata di mirtilli. Mia madre mi pose davanti un piattopieno di questi frutti; subito ne presi una cucchiaiatama primaancora di averla portata alla bocca io sapevo perfettamente il saporeche avrebbero avuto i mirtilli. E non m'ingannai: era un sapore asproche avevo conosciuto mille volte durante il sonno.


Ei serpenti? Molto tempo prima che avessi sentito dire della loroesistenzaessi mi tormentavano durante il sonno. Mi aspettavanoannidati nelle radure delle forestesi slanciavano come frecce sottoi miei piedifuggivano ondulando attraverso l'erba secca o sullerocce nude; oppure m'inseguivano fin sulla cima degli alberiattorcigliando i loro grandi corpi lucidi ai tronchiscacciandomisempre più in alto o sempre più lontano sui rami cheoscillavano scricchiolandomentre il suolo sembrava inabissarsi auna distanza vertiginosa. I serpenti!... Con la loro lingua bifidailoro occhi rotondile loro scaglie scintillanti e il loro tintinniostriduloli conoscevo anche troppo bene allorché la primavolta che entrai in un circo vidi l'incantatore di serpenti prenderlitra le mani e sollevarli! Erano per me vecchie conoscenzeopiuttosto vecchi nemiciche popolavano di terrore le mie notti.


Ahquelle foreste sconfinate e la loro oscurità piena d'orrore!Per quante eternità non ho errato nel loro senoio esseretimidoperseguitatoallarmato dal minimo rumorespaventato dallamia stessa ombracoi nervi tesisempre all'ertapronto ad ogniistante a balzar lontano in una corsa folle per scampare la vita!Perché io ero la preda offerta a tutte le specie di esseriferoci che abitavano la forestaed era con paura delirante chefuggivo davanti ai mostri in caccia.


Avevocinque anni quando andai per la prima volta al circo. Tornai a casamalato; malato e non per colpa dei dolciumi e delle bibite.


Bisognache vi racconti come andò. Quando entrammo nella tenda dove sitrovava il serraglioun ruggito rauco lacerò l'aria. Ritiraibruscamente la mano da quella di mio padre e urlando di terrore miprecipitai perdutamente verso l'uscitaurtai altra gentecaddi erimasi tremante di paura. Mio padreavendomi raggiuntomi calmò;mi mostrò che il pubblico non era affatto spaventato deiruggiti e mi rianimò assicurandomi che la nostra sicurezza eraperfetta.


Nondimenofu soltanto tremando di paura e spinto dagli incoraggiamenti di miopadreche mi accostai finalmente alla gabbia del leone. Come loriconobbi subito! Era la Bestiala Bestia terribile! E subito mibalenarono nella memoria i ricordi dei miei sogni: il sole meridianoche faceva brillare le alte erbeil toro selvatico che pascevatranquillol'improvviso dividersi delle erbe sotto la rapida corsadella belva che si gettava sul dorso del toroe lo strepito dellalotta e i muggiti e lo stritolìo delle ossa; oppure la calmafrescura dell'abbeveratoioil cavallo selvatico immerso nell'acquasino a mezza gambache beveva tranquillamentee ancora la Belvasempre la Belva! e il salto e il nitrito e lo sbuffo del cavallo e loscricchiolio prolungato delle ossa; e ancoradurante il cupocrepuscolo e il silenzio triste del giorno che volge alla finel'improvviso ruggito possentelanciato a piena golainatteso comeil richiamo della tromba del destinoe subito dopo urli e balbettiidi spavento in mezzo al fogliamedov'ero anch'iotremante di pauraunità smarrita della folla urlante e balbettante sugli alberi.


Nelvedere la Belvaimpotente dietro le sbarre della gabbiadiventaifurioso. Digrignai i dentidanzai avanti e indietro lanciandolegrida beffardeincoerentie facendo smorfie grottesche. Il leonerispose scagliandosi contro le sbarre e ruggendo verso di me la suainutile rabbia. Ahanche lui mi riconoscevae capiva bene i suoniche io emettevo: le grida di antichi tempi.


Imiei genitori erano spaventati: "Questo ragazzo èmalato"diceva mia madre. "Ha un attacco di nervi"disse mio padre. Io non ho mai detto loro la veritàed essil'ignorano ancora. Avevo già circondato di reticenze la miadualitàquella semi- dissociazione della mia personalitàcome credo di poterla chiamare.


Vidil'incantatore di serpentie questo fu tutto quel che vidi quellasera. Mi ricondussero a casa snervatoesaurito dalla stanchezzareso malato da quella irruzione della mia vita di sogno nella miavita reale.


Hoparlato della mia reticenza. Una sola volta confidai la stranezza diquel che mi accadeva a un compagno che aveva otto anni come me. Daimiei sogni ricostruii per lui le immagini di quel mondo svanito dovecredo veramente d'esser vissuto un tempo. Gli parlai dei terrori diquell'epoca tanto remotadi Orecchiutodegli scherzi che facevamoinsiemedei ciangottii inintelligibilidegli Uomini del Fuoco e deiricoveri dove si annidavano.


Ilmio compagno si burlò di me e mi raccontò certe storiedi fantasmi e di morti che tornano la notte. Soprattutto volse inridicolo ciò che egli considerava come scialbi prodotti dellamia fantasia. Alle altre storie che gli raccontaiper tuttarispostami rise bellamente sulla faccia. Giurai con tutta sinceritàche le cose stavano precisamente cosìe allora egliincominciò a guardarmi in modo stranoe fece poi agli altricompagni un racconto così sbalorditivo delle mie confidenzeche tutti presero a considerarmi in una maniera insolita.


Questaamara esperienza mi servì di lezione. Io ero un essere diversoda quelli della mia specie; ero anormale nel senso che essi nonpotevano comprendere e io non potevo loro spiegare senza dar luogo amalintesi. Quando tra compagni si raccontavano in circolo storie dispettri e di fantasmiio tacevoma dentro di me sorridevo inmaniera spaventosarabbrividente. Pensavo alle mie notti di terroresapevo che le mie parole erano fatti realiveri come la vita e nonvapori impalpabili e ombre immaginarie.


Perchénessuno spavento mi coglieva al pensiero dei lupi mannari e degliorchi malvagi. La caduta da un'altezza vertiginosa attraverso ilfogliame degli alberiecco; i serpenti che mi si attorcigliavanoaddosso e che io evitavo saltando lontanomentre mi battevano identi; i cani selvatici che m'inseguivano attraverso le radure sinoal rifugio delle foreste; eccoquesti erano terrori concreti erealifatti e non immaginazionicose di carne vivadi sudoredisangue.


Orchie lupi mannari sono stati per me dei buoni compagni di letto inconfronto agli orrori che divisero il mio letto al tempo della miainfanzia e lo dividono anche ora chegiunto all'età maturatraccio questi ricordi.




2


Hodetto che nei miei sogni non vedevo mai esseri umani. Mi accorsipresto di questo fatto e risentii in modo piuttosto pungente questaassenza della mia propria specie. Anche quand'ero bambinoavevo lasensazionein mezzo all'orrore dei miei sogniche se avessiincontrato un uomoun solo essere umanomi sarei salvato dai sognie dai terrori che mi circondavano durante il sonno. Questo pensieroturbò per anni interi le mie notti: se potessi trovarequest'essere umanosarei salvo!


Devoripetere che questa idea mi sorprendeva proprio nel bel mezzo delsogno e da ciò desumo l'evidenza della coesistenza delle miedue personalitàla prova che esiste un punto comune alle dueparti dissociate del mio io. La mia personalità di sognoviveva nei tempi remotiprima ancora che esistesse l'uomo come noilo conosciamoe l'altra mia personalitàquella della miavita realesi fondeva nella sostanza dei miei sogni per quanto èconcesso alle conoscenze delle vite d'un uomo.


Forsegli psicologi togati troveranno da ridire sul significato che ioattribuisco alle parole "dissociazione della personalità."So benissimo in che senso essi ricorrono a questo terminema sonocostretto a servirmene a modo mioin mancanza di altri piùappropriati. Comunque io mi riparo dietro l'insufficienza dellalingua. Ed ora veniamo all'uso o al cattivo uso che io faccio diquesto termine.


Ebbiuna prima indicazione sul significato e sulla causa dei miei sognisolo quandoragazzinovenni messo in collegio. Fino allora queisogni erano rimasti privi di significato e senza causa apparente.


Main collegio mi fu rivelata l'evoluzione e la psicologia e conobbi laspiegazione di sensazioni e di stati mentali diversi e strani. Vieraad esempioil sogno della caduta attraverso lo spazio:avventura che accade più comunemente in sogno e che ciascunodi noi conosce per esperienza personale.


Ilmio professore mi disse che era un ricordo di razza che risale ainostri antenati lontanissimi che vivevano sugli alberi. Siccome eranoarboricoliil rischio di cadere rappresentava per loro una minacciasempre presente. Infatti molti di essi persero la vita in questomodocadendo; ma in generale tutti fecero cadute terribiliscampando alla morte solo afferrandosi ai rami mentre precipitavanoverso il suolo.


Benintesouna caduta così terribilee interrotta in una simile manieraproduceva nell'organismo una scossa chea sua voltaprovocava dellemodificazioni molecolari nelle cellule cerebrali.


Questemodificazioni molecolari si trasmettevano alle cellule cerebralidella discendenza e diventavano insomma dei ricordi ereditari. Cosìquando io e voiaddormentati o assopiticadiamo attraverso lospazio e torniamo in noi con una sensazione di batticuoreproprionell'attimo immediatamente prima di fracassarci le ossa sul suolonon facciamo che ricordarci di quel che avvenne ai nostri antenatiarboricoli e che si è impressoper le successivemodificazioni cerebralinell'eredità della specie.


Nullac'è di strano in questocome nulla c'è di strano in unistinto.


Unistinto è semplicemente un'abitudine che si è impressanella materia della nostra ereditàecco tutto. E' da notareper incisoche in questo sogno della cadutache è familiarea voia mea tuttigiammai noi tocchiamo il suolo. Cadere sulsuolo equivale a morire. I nostri antenati arboricoli che cadevano aterra morivano sul colpo. E' vero che la scossa della caduta sicomunicava alle loro cellule cerebralima essi morivanoimmediatamenteprima di poter generare una discendenza. Voi ed iodiscendiamo da quelli che non toccarono terra; e per questo appuntoné voi né io non tocchiamo mai il suolo cadendo insogno.


Veniamoora alla dissociazione della personalità. Noi non abbiamo maiquesta sensazione della caduta quando siamo allo stato di veglia. Lanostra personalità di veglia la ignora. Allora (e quil'argomento è irresistibile) deve essere una personalitàben distinta che cade quando noi dormiamo e che ha giàl'esperienza di questa caduta; che hainsommaun ricordo delleavventure capitate a una specie scomparsaallo stesso modo come lanostra personalità di veglia ha il ricordo degli avvenimentidella nostra vita reale.


Fua questo punto del mio ragionamento che incominciai a veder la lucee ben presto questa luce scintillò su di me con un fulgoreabbaglianteilluminando e svelando tutto quello che c'era dispaventosod'irrealedi antinaturaled'impossibile nelle mieavventure di sogno. Nel sonno non era la mia personalità diveglia che mi guidavama una personalità diversa e bendistintache possedeva un fondo di esperienze nuovo e totalmentediversoe che avevadal punto di vista dei miei sogniil ricordodi quelle avventure del tutto distinte.


Qualera questa personalità? Quando aveva essa stessa vissuto unavita di veglia su questa terra per raccogliervi una collezione diavventure così strane? Queste erano le domande alle qualirispondevano i miei sogni stessi. Questa personalità visse intempi preistoriciall'epoca della giovinezza del mondodurante ilperiodo che noi chiamiamo Medio Pleistocene; rabbrividì diterrore al ruggito del leone; fu inseguita dalle fiereminacciatadai serpenti dal morso mortale; balbettò nelle radunate coisuoi simili; fu angariatamalmenata dagli Uomini del Fuoco quandofuggì dinanzi alla loro invasione.


Mavoi obietterete: "Come mai questi ricordi non sono comuni anchea noidato che anche noi abbiamo una vaga personalità cheprecipita attraverso lo spazio mentre dormiamo?".


Aquesta domanda risponderò con un'altra domanda: perchévi sono dei vitelli a due teste? La mia risposta è che vi sonodei fenomeni. E questa è anche la risposta che do alla vostradomanda: io possiedo quest'altra personalità e questa completamemoria atavica perché sono un fenomeno.


Voglioessere ancora più esplicito. Il ricordo di specie piùcomune che noi abbiamo è il sogno della caduta nello spazio.Appunto perché è molto vagaquesta seconda personalitàha conservato questo solo ricordo. Ma molti di noi hanno personalitàdiverse più nitidepiù distinte. Numerose sono lepersone che sognano di volare nell'ariache sono inseguite damostriche fanno sogni coloratiche nel sogno patiscono ilsoffocamentoche in sogno vedono rettili e vermi di ogni sorta. Inuna parolamentre questa personalità diversa è in noigeneralmente allo stato di vestigioin alcuni è quasiobliterata e in altri è più accentuata. Certuni hannodei ricordi di specie più fortipiù completi di certialtri.


Tuttociò non costituisce che una questione di grado variabile nelpossesso di quest'altra personalità. In mequesto grado dipossesso è enorme. L'altra personalità è inpotenza quasi uguale alla mia propria personalità. Perciòio sonocome ho già dettoun fenomenoun capricciodell'ereditarietà.


Credoche sia effettivamente il possesso di questa altra personalità- ma a un grado inferiore al mio - che in talune persone abbia fattocredere ad esperienze compiute in precedenti reincarnazioni. Perqueste persone ciò è plausibileè un'ipotesiconvincente. Quando hanno visioni di scene che non hanno mai vedutoessendo in carne ed ossaricordi di atti e di avvenimenti cherisalgono al passatola spiegazione più semplice èquella di aver già vissuto una vita anteriore.


Macommettono l'errore di non tener conto della loro dualità.Esse non riconoscono l'esistenza della loro seconda personalità;questa la prendono per la loro propria personalitàcredendocosì di non averne che una; e da tali premesse non possono checoncludere di aver vissuto delle vite anteriori.


Mahanno tortoperché qui non si tratta di reincarnazione. Io hovisioni di me stessodove mi vedo errare nelle foreste del mondonascentee tuttavia non sono me che vedoma un essere che fa moltolontanamente parte di mecome mio padre e mio nonno fanno parte dime stessoma a una distanza meno grande. Questo alter ego di mestesso è un antenato in rapporto a me; un progenitore dei mieiprogenitori nella primitiva stirpe della mia specie; e lui stesso èa sua volta la discendenza d'una stirpe cheprima di luigrazieall'evoluzioneacquistò dita e pollici e imparò adarrampicarsi sugli alberi.


Arischio di diventare noioso devo ripetere che in tutto ciò iodevo essere considerato un fenomeno. Non solo possiedo la memoriadella specie a un grado straordinarioma ho anche conservato iricordi derivanti da un antenato particolare e lontanissimo. Esebbene il caso sia poco frequentetuttavia non c'è nulla dieccezionale in questo.


Seguiteil mio ragionamento. Un istinto è un ricordo di specie:


benissimo.Allora voiiotutti riceviamo questi ricordi dai nostri padri edalle nostre madrital quali essi li hanno ricevuti dai loro propripadri e madri. Deve dunque esistere un intermediario attraverso ilquale questi ricordi sono trasmessi di generazione in generazione.


Questointermediario è ciò che Weismann chiama "plasmagerminativo" il quale trasporta i ricordi di tutta l'evoluzionedella specie.


Questiricordi sono deboli e confusie molti di essi vanno perduti.


Maalcuni esemplari di plasma germinativo trasportano una quantitàeccessiva di ricordi; sonoper parlare scientificamentepiùatavici degli altri. Il mio germoplasma è di questa specie. Iosono una bizzarria dell'ereditàun incubo atavico (chiamatemicome volete)ma se sono cosìvivo e realecome un essereche mangia con appetito tre volte al giornoche cosa possiamo farcivoi ed io?


Eoraprima di riprendere il mio raccontovoglio prevenire leobbiezioni dei San Tommaso della psicologiasempre inclini allacanzonaturai quali non mancheranno di dire che la coerenza dei mieisogni è dovuta a un eccessivo lavoro mentale e allapenetrazione subcoscientenei miei sognidella mia conoscenzadell'evoluzione.


Anzituttoio non sono mai stato uno scolaro molto diligente; a scuolaerosempre l'ultimo della classe. Preferivo gli sport e (non ho alcunaragione di non confessarlo) in particolar modo il biliardo.


Inoltreho avuto cognizione dell'evoluzione solo quando entrai in collegio; etuttavia durante la mia infanzia e la mia giovinezza avevo giàvissuto nei miei sogni tutti i particolari di quell'alt ra vita deitempi remoti. Aggiungerò che questi particolari rimaseroingarbugliati e incoerenti sino al momento in cui conobbi la teoriadell'evoluzione. L'evoluzione fu la chiave del mistero; essa fornìla spiegazionediede ordine alle bizzarrie del mio cervello atavicochemoderno e normaletornava ad ascoltare gli echi di un passatocosì lontanocontemporaneo degli esordi informi dell'umanità.


Poichéin questo passato che io conoscol'uomo non esisteva come noi loconosciamo oggifu dunque durante quel periodo del suo "divenire"che io debbo aver vissuto e posseduto il mio essere.




3


Ilsogno più abituale della mia prima infanzia era di questogenere:


mipareva di essere una piccolissima cosadi essere rannicchiato in unaspecie di nido formato di rami e felci. Talvolta ero disteso supino.Pare che passai parecchie ore in questa posizioneintento adosservare il sole che giocava tra le fronde sopra il mio capo e ilvento che agitava le foglie. Spessoquando il vento spirava piùviolentementeil nido dondolava da una parte e dall'altra.


Mamentre riposavo così nel mio nidoero sempre in preda allasensazione di un vuoto terribile spalancato sotto di me. Non l'avevomai vistonon avevo mai guardato oltre il bordo del nido; maconoscevo l'esistenza di questo spazio vuoto aperto proprio sotto dimeche mi minacciava incessantemente come la gola di qualche mostrodivorante; e lo temevo.


Questosognonel quale io rimanevo passivo e che rappresentava uno statopiù che un attolo ebbi spessissimo nel corso della mia primainfanzia. Ma d'improvviso irrompevano in mezzo a esso forme strane edeventi atroci come il tuono e il fragore della tempestaoppurepaesaggi ignoti che mai avevo visto nella mia esistenza di veglia. Datutto ciò derivava una tale confusioneun incubo di cuipermancanza di nesso logiconon capivo nulla.


Perchévedetenon c'era nessuna coerenzanessuna successione diavvenimenti nei miei sogni. A un certo momento ero una creaturinaminuscolagiacente in un nido arboreo; nel momento successivo ero unuomo adulto del mondo primitivoimpegnato in una lotta a corpo acorpo con Occhiorosso; e subito dopo mi arrampicavo con precauzioneverso la sorgentenel mezzo del calore del giorno. Eventi separatiche nel mondo primitivo avevano occupato annisi svolgevano in menello spazio di pochi minutidi pochi secondi.


Eraun guazzabugliouna confusione di cui vi risparmierò iparticolari. Solo quandodivenuto giovinettoebbi sognato migliaiadi voltel'arruffata matassa si dipanò e tutto divenne in mechiaro e netto. Acquistai allora la nozione del tempo e fui in gradodi congiungere gli uni agli altri fatti e avvenimenti nell'ordineloro proprio. Fui così capace di ricostruire il mondoprimitivo scomparsoil mondo qual era quando ci vivevo io - o quandoci viveva l'altro me stesso.


Permaggiore comodità del lettoredato che questa non èuna tesi di sociologiacon gli avvenimenti sparsi cercherò diricostruire un racconto chiaropoiché una certaconcatenazione persiste tuttavia nei miei sogni. C'è la miaamicizia per Orecchiutoad esempio; c'è anche l'inimicizia diOcchiorosso e l'amore della Rapida. Sono certo che voi riconosceretecome tutto questo costituiscaa ben considerareuna storiaabbastanza coerente e interessante.


Ricordopochissimo di mia madre. Il più antico ricordo che ho serbatodi lei - e che è di certo il più vivopuò darsiche sia questo: mi sembra che ero coricato per terra; ero un po' piùgrande che all'epoca del nidoma tuttavia ancora incapace diqualsiasi difesa. Mi rotolavo sulle foglie secchecon le quali midivertivo a giocare emettendo di quando in quandodal fondo dellagolapiccoli gridi lamentosi e gemebondi. Il sole splendevaardentemente e io mi sentivo felice e soddisfatto. Mi trovavo in unapiccola radura: intorno a meda ogni partesi trovavano cespugli egruppi di felcie in altotutto attornosorgevano i tronchi e irami degli alberi della foresta.


Improvvisamentesentii un rumore. Mi misi a sedererimanendo immobile in ascolto. Ipiccoli suoni si spensero nella mia gola: ero come pietrificato. Ilrumoresimile al grugnito di un maialesi avvicinò.


Incominciaia percepire il fruscìo prodotto dallo spostamento di un corpoattraverso il fogliame. Poi vidi le felci agitarsi al suo passaggiopoi ancora la cortina di felci si aprì e scorsi due occhibrillantiun grugno prolungatodelle zanne bianche.


Eraun cinghiale selvatico. Mi guardava con curiosità. Grugnìuna volta o duedondolò la massa carnosa dall'una all'altradelle zampe anteriorimentre scuoteva leggermente la testa e agitavale felci.


Ioero sempre come pietrificatocon gli occhi fissi sulla bestialepalpebre immobili e il cuore divorato dalla paura. Sembra chequell'immobilità e quel silenzio fossero proprio quel che siaspettava da me. Non dovevo gridare di fronte al terrore: tale era ilcomandamento dell'istinto. Rimasi dunque seduto làaspettandonon so che cosa. Il cinghiale rovesciò le felci e penetrònella radura. La curiosità sprizzava dai suoi occhichebrillavano crudelmente.


Dondolòla testa verso di me in modo piuttosto minacciosofece un passoavantipoi un altroe un altro ancora...


Alloralanciai un gridoun urlo. Non posso descriverloma fu acutolacerante. E pare cheal punto in cui erano giunte le cosequelgrido fosse anch'esso atteso da meperchéda un punto nonmolto lontanorispose un altro grido. Il rumore che avevo fattoparve sconcertare momentaneamente il cinghialeementre esso siarrestava e si dondolava indecisoun'apparizione sorse accanto anoi.


Eramia madregrande come un orang-utang o come uno scimpanzé; matuttavia differente da essiin una maniera chiara e definita. Piùsolidamente piantata e meno pelosa. Le braccia erano meno lunghelegambe più forti. Unico indumento il suo vello naturale. E viassicuro che era una vera furia quando era irritata.


Ecome una furia balzò sulla scena. Digrignava i dentifacevasmorfie spaventosebrontolavalanciava strilli acuti e continui cheassomigliavano a questo: "Kh-ah! Kh-ah!". La suaapparizione fu così fulmineacosì formidabile che ilcinghiale si mise sulla difensivagli si drizzò il pelorimase immobilizzatomentre lei si dirigeva contro di lui. Io seppiesattamente quel che dovevo fare durante l'attimo di respiro che essaaveva guadagnato: saltai verso di leiafferrandola alla cinturamiaggrappai con le mani e coi piedi; sìanche coi piediperchépotevo aggrapparmi con essi altrettanto bene come facevo con le mani.Sentivo nella stretta i suoi peli irrigidirsie così pure lasua pellementre i muscoli si muovevano sotto la peluria secondo glisforzi che compiva.


Saltaicome ho dettoper raggiungerlae nello stesso istante essa fece unbalzo in aria afferrando con le mani un ramo trasversale.


Immediatamentedoposcoprendo le zanneil cinghiale si avventava sotto di noi.S'era riavuto dalla sorpresa e s'era gettato in avantilanciando ungrido simile a uno squillo di tromba. Era evidentemente un richiamopoiché fu subito seguito da un precipitarsi di corpi cheurtavano in tutte le direzioni le felci e i cespugli.


Daogni lato irruppero cinghiali nella radura in numero di una ventinacirca. Essendosi mia madre rifugiata sopra un grosso ramomentre iomi tenevo aggrappato a leici trovammo così appollaiati intutta sicurezza a quattro metri dal suolo. Mia madre erasovreccitata:


barbugliavagridavaringhiava contro il circolo delle bestie checol pelo irtodigrignando i dentis'erano radunate sotto di noi. E iotuttotremanteguardavo dall'alto i bruti in colleraimitando del miomeglio le grida di mia madre.


Dilontano sorsero gridi simili ai nostrima più profondisimili a note di un basso. Diventarono sempre più fortiepoco dopo vidi avvicinarsi mio padre - o almenodall'evidenzadell'epocacolui che potevo ritenere fosse mio padre.


Nonera molto avvenentecome genitore. Mezzo uomo e mezzo scimmiaetuttavia né uomo né scimmia. Non posso descriverloperché non esiste ai giorni nostri nulla che gli somiglisopra la terrasotto la terra o nell'interno della terra. Era unuomo grande per l'epoca e doveva pesare le sue centotrenta libbre.Una faccia larga e piatta; sopracciglia folte che proteggevano duepiccoli occhi vicinissimi l'uno all'altroaffondati in orbiteprofonde. Non avevaper così direnaso: quel che ne facevale veci era una cosa camusa e appiattita senza rilievo; le nariciformavano col volto come due fori aperti in alto invece che in basso.


Avevafronte depressa e sfuggente. La capigliaturapiantata immediatamentesopra gli occhigli copriva tutta la testache era inverosimilmentepiccola e sostenuta da un collo altrettanto inverosimilegrosso ecorto.


Lastruttura del corpocome quella dei nostripresentava un'economiaelementare. Un torace enormevasto come una caverna; ma non sivedevano muscoli densi e solidiné spalle largamente protesené snellezza di formené generosa simmetria dicontorni. Il corpo di mio padre rappresentava la forzama la forzasenza bellezza: la forza primitivaferocefatta per agguantarestritolarelaceraredistruggere.


Leanche erano strette; magre e pelosesbilenche; con muscoli simili acordele gambe. Somigliavano piuttosto a due bracciquelle gambe:


contortee nodose avevano appena una parvenza del polpaccio pieno e carnosoche orna la vostra gamba e la mia. Ricordo che mio padre non potevacamminare sulla pianta dei piedie ciò perché aveva ipiedi prensilipiuttosto simili a mani che a piedi. L'alluceinvecedi essere sul piano delle altre ditas'opponeva ad esse come unpollicee questa opposizionementre gli permetteva di afferrare unaqualunque cosa tanto col piede come con la manonon gli consentivadi camminare sulla pianta dei piedi.


Mail suo aspetto non era più sorprendente del modo in cui giunsesul posto dove mia madre e io eravamo appollaiatisopra i cinghialiinfuriati. Venne attraverso il fogliame degli alberisaltando diramo in ramo e da un albero all'altro. Lo vedo anche oranella miavita di vegliamentre scrivo queste righedondolarsi per passare daun albero all'altrocreatura pelosaquadrumaneurlante di rabbiaarrestandosi di quando in quando per percuotersi il petto col pugnochiusosuperare poi spazi da tre a cinque metriafferrare un ramocon una manodondolarsi attraverso uno spazio vuoto per aggrapparsipiù lontano con l'altra manosenza esser mai imbarazzato acontinuare il suo viaggio aereo.


Nelguardarlo sentivo dal fondo del mio esseredai miei stessi muscolisollevarsi come un'ondata il fremente desiderio di saltare anch'iocosì di ramo in ramo; sentivo la certezza del potere latentedei miei muscoli. E perché avrebbe dovuto essere diversamente?Quando un bambino guarda suo padre in atto di abbattere un albero acolpi di scurenel fondo di se stesso sente che un giorno anche luifarà cadere gli alberi sotto i colpi della sua scure. Lastessa sensazione provavo io. La mia vita era costituita per farequel che faceva mio padre e mi parlava segretamente e ambiziosamentedi cammini aerei e di volate fra gli alberi.


Finalmentemio padre ci raggiunse. Era in grande collera. Ricordo il modo in cuiil suo labbro inferiore sporgeva in avanti mentre guardava icinghiali con occhi terribili. Mugolava come un cane e ricordo che isuoi caninigrossi come arpionimi impressionarono enormemente.


Ilsuo contegno non fece che eccitare ancor più i cinghiali. Eglistaccò dei ramoscelli e dei rami morti e li gettò suinostri nemici.


Sisospese anche con una manoin una maniera tentatriceal disopra diessie appena fuori della loro portatae cominciò aprovocarli e a burlarsi di loromentre nella propria rabbiaimpotente le bestie digrignavano le zanne. Non contento di ciòspezzò un ramo robusto e aggrappato con un piede e con unamano all'alberofrustò i fianchi delle bestie invasate dafurore e le colpì nel mezzo del grugno. Non occorre dire chemia madre e io eravamo entusiasti di assistere a quello spettacolo.


Maci si stanca di tuttoanche delle cose più bellee miopadreridendo maliziosamentesi rimise a camminare d'albero inalbero. Mia madre lo seguìed io sentii tutta la miaambizione placarsisvanire; divenni terribilmente pauroso e mi tenniaggrappato a lei con tutte le mie forzementre lei s'arrampicava esi dondolava di ramo in ramo.


Ricordoche un ramo si ruppe sotto il peso dei nostri corpi. Mia madre avevaspiccato un salto enorme e quando il ramo si spezzò fuisopraffatto dalla spaventosa sensazione della caduta di entrambi nelvuoto. La forestail riflesso del sole sulle foglie che stormivanoscomparvero ai miei occhi. Ebbi appena il tempo d'intravvedere miopadrementre s'arrestava per guardare quel che accadeva; poi tuttodivenne buio...


Subitodopo mi destai nel mio letto ben rincalzatomolle di sudoretremante e pieno di nausea. La finestra era aperta e un venticellofresco penetrava nella mia camera. La lampada da notte ardevatranquillamente. Come conclusione dell'avventuraho motivo dicredere che non fummo massacrati dai cinghialiperché noncademmo sino al suolo; diversamente non sarei quiin questo momentomille secoli più tardia ricordare quell'avvenimento.


Eora mettetevi al mio posto per un momento; riandate un po' con me altempo della mia prima infanzia; siate mio compagno di letto esupponete di sognare questi incomprensibili orrori. Mai io avevovisto un cinghiale in vita mianemmeno un maiale domestico. Quel cheavevo potuto vedere di più prossimo era il lardo dellacolazione. E tuttaviareali e viventii cinghiali facevanoirruzione nei miei sognimentre ioin compagnia di genitorifantasticicompivo evoluzioni di albero in alberoal disopra dispazi vertiginosi.


Visorprende che io fossi spaventato e oppresso dalle mie notti piened'incubi? Ero maledettoe quel che era peggio ancoraavevo paura didirlo. Non so perché non osavo parlarne: avevo un senso dicolpaquantunque non sapessi di che cosa fossi colpevole. Soffriicosì per lunghi anni in silenziofinchégiunto in etàmaturaappresi il perché e il come dei miei sogni.




4


C'ènelle mie reminiscenze preistoricheuna cosa che m'imbarazzaed èl'indeterminatezza del fattore tempo. Non sempre conosco l'ordinerelativo degli avvenimenti; non posso dire se un intervallo di unannodi due anni o di cinque anni separa taluni di questiavvenimenti. Solo vagamente posso apprezzare il passaggio del tempodalla constatazione dei mutamenti nell'aspetto e nelle occupazionidei miei compagni.


Inoltremi studio di applicare la logica delle circostanze ai diversiincidenti. Per esempionon v'è dubbio che mia madre e iodovemmo rifugiarci sugli alberi per sfuggire ai cinghiali minacciosie che cademmo nel vuoto in un'epoca anteriore a quella in cui feci laconoscenza di Orecchiutoe che divenne quel che dovrei chiamare ilmio compagno d'infanzia. E' pure evidente che nell'intervallo fra idue avvenimenti io avevo dovuto abbandonare mia madre.


Nonho altro ricordo di mio padre all'infuori di quello che ho descrittonel capitolo precedente; egli in seguito non riapparve mai.


Dallaconoscenza che ho di quell'epocala sola spiegazione che possa daredi questa sparizione è che dovette incontrare la mortepochissimo tempo dopo l'avventura dei cinghiali. Nessun dubbio chesia perito di morte prematura. Era nella pienezza delle sue forze esolo una morte improvvisa e violenta poteva toglierlo dal mondo.Ignoro però in che modo egli perìcioè seannegò nel fiumeo fu inghiottito da un serpente o se sparìnello stomaco di Dente di Sciabolail tigre: questo lo ignoro.


Sappiateche ricordo solo le cose che vidi io stessocoi miei propri occhidurante quei giorni preistorici. Anche se mia madre seppe in qualmodo morì mio padrenon me ne parlò maie d'altrapartedubito che avesse un vocabolario capace di comunicare notiziedi questo genere. Complessivamente la Specie possedeva un insieme ditrenta o quaranta suoni all'incirca.


Lichiamo SUONI invece che PAROLEperché erano proprio suonisuoni che non avevano valori ben determinatisuscettibili d'essermodificati con aggettivi e con avverbi. Questi ultimi strumenti dellinguaggio non erano ancora stati inventati. Invece di qualificare isostantivi e i verbi con l'impiego di aggettivi o di avverbinoimodificavamo i suoni con l'intonazionecon variazioni di durata e dielevazioneprolungandoli e accelerandoli. Il tempo impiegatonell'emissione di un dato suono ne modificava il significato.


Nonavevamo coniugazione; si giudicava il tempo dal contesto.


Parlavamosolo di cose concreteperché pensavamo solo alle coseconcrete. Ricorrevamo largamente anche alla pantomima. La piùsemplice astrazione era praticamente fuori dalla sfera del nostropensieroe quando uno di noiper casovi pensavaera poi moltoimbarazzato a comunicare l'idea ai suoi similiperché nonesistevano suoni adeguati a tale fine. Sarebbe stato chiedere troppoal suo ristretto vocabolario: quindi se uno inventava suoni per lacircostanzai suoi compagni non lo capivano. Doveva allora farricorso alla pantomimagesticolando del suo meglio per manifestareil proprio pensieroripetendonello stesso tempoinfinite volte ilnuovo suono.


Fucosì che il linguaggio si accrebbe. Coi pochi suoni di cuidisponevamodiventammo capaci di portare il nostro pensiero un po'più lontano di quei suoni; e allora sorgeva il bisogno disuoni nuovi per esprimere un pensiero nuovo. Qualche volta peròci accadeva di pensare a cose troppo lontaneoltre le possibilitàdei suoni che possedevamodi giungere a compiere astrazioni -astrazioni molto oscurelo confesso- che non riuscivamo in alcunmodo a far comprendere ai nostri compagni. Vi assicuro che illinguaggio progrediva assai lentamente in quell'epoca.


Credeteeravamo semplici in modo sorprendente; ma sapevamo pure cose che ogginon si conoscono affatto. Potevamo muovere le orecchiedrizzarleabbassarle a nostro piacimento; potevamo grattarci la schienatra ledue spallecon disinvoltura; potevamo scagliare pietre coi piedicosa che io ho fatto molte volte. Potevo anche irrigidire leginocchiacurvarmi sulle anche e toccare il suolonon giàcon la punta delle ditama con i gomiti. E che dire della nostraabilità nello snidare gli uccelli? Vorrei che i monelli delventesimo secolo avessero potuto vederci. Del resto non lo facevamoper far collezione di uovama per mangiarle.


Ricordoin proposito... Ma non voglio anticipare. Bisogna prima che vi parlidi Orecchiuto e della nostra amicizia. Molto presto nella mia vita miseparai da mia madre. Forse l'abbandonai perché essa prese unnuovo marito dopo la morte di mio padre. Ho pochi ricordi del miopatrignoe tutt'altro che lusinghieri per lui. Era un uomo smilzosenza robustezza. Aveva la lingua molto attiva; il suo infernaleschiamazzo mi agghiaccia tuttoraquando ci penso. Il suo spirito eratroppo illogico per permettergli di prefiggersi uno scopo qualsiasi.


Lescimmie in gabbia mi fanno sempre pensare a lui. Scimmiesco era:


eccola miglior descrizione che io possa darne.


Miodiò sin dal principioe presto imparai ad aver paura di luie dei suoi tiri maligni. Quando appariva mi rifugiavo accanto a miamadre e mi aggrappavo a lei. Man mano che crescevosentivo peròche era inevitabile che di tanto in tanto mi allontanassi da lei peravventurarmi sempre più lontano. Erano appunto questeoccasioni che spiava lo Schiamazzatore. Bisogna che spieghi come noinon portassimo nomi propri; per maggior comodità ho attribuitoio stesso dei nomignoli ai diversi individui coi quali ero piùspesso in contattoe SCHIAMAZZATORE è la definizione piùappropriata che io possa dare del mio caro patrigno. Quanto a me misono chiamato GRAN DENTEe ciò perché i miei caninierano particolarmente sviluppati.


Torniamoallo Schiamazzatore. Egli mi terrorizzava continuamente.


Continuamentemi pizzicava e mi suonava pugnie all'occasionenon esitava amordermi. Spesso mia madre interveniva ed era un piacere vedere comeessa gli strappava il vello. Ma il risultato di tutto ciò erauna violenta e continua lite di famiglianella quale iorappresentavo il pomo della discordia.


Nola vita di famiglia non era bella per me. Sorrido scrivendo questafrase: vita di famiglia! Famiglia! Io non avevo famiglia nel sensomoderno della parola. Il mio "focolare" consisteva inun'associazione senza domicilio. Vivevo sotto la custodia maternaenon già in una casa. Mia madre viveva d'altronde non importadovea condizione chela nottefosse riparata a qualche metro dalsuolo.


Miamadre era di idee antiche: si atteneva ancora agli alberi. I membripiù progrediti della nostra orda vivevano nelle caverne soprail fiume; ma mia madre era diffidente e conservatricee gli alberile bastavano a sufficienza. Avevamo naturalmente un albero specialesul quale di solito ci tenevamo appollaiatima spesso un alberoqualunque serviva alla bisogna quando la notte ci sorprendeva. Inun'ampia biforcazione veniva stabilita una specie di rozzapiattaformafatta di ramidi fronde e di liane. Era più diun nido di uccelloseppure molto più rozzo; ma possedeva unaparticolarità che non ho mai riscontrato in alcun nidoe cioèun tetto.


Noncertamente un tetto come ne costruisce l'uomo modernoe neppure untetto come ne fanno i più primitivi degli aborigeni odiernima un tetto infinitamente più rozzo del lavoro piùmaldestro eseguito dall'uomo come noi lo conosciamo. Al disopra dellabiforcazione dove giacevamov'era un ammasso di rami morti e dicespugli secchiquattro o cinque rami adiacenti sostenevano quel chechiamerei i diversi angolisemplici e forti bastoni di circa unpollice di diametrosui quali erano gettati rami e cespugli chesembravano esservi stati lanciati quasi a casosenza la minimapretesa di puntellatura. Devo d'altra parte confessare che sotto unaforte pioggia il tetto faceva acqua in modo pietoso.


Matorniamo ancora allo Schiamazzatore. Egli rendeva la vita famigliareveramente intollerabile a mia madre e a me. Per vita famigliare nonintendo soltanto la vita nel nido arboreo che faceva acqua da tuttele partima anche la nostra esistenza a tre. Lo Schiamazzatore miperseguitava con una cattiveria irriducibile: era la sola cosa percui fosse capace di persistere più di cinque minuti. Le cosegiunsero a tal segno che col tempo mia madre divenne meno aspra neldifendermi. Immagino che in seguito alle continue liti provocatedallo Schiamazzatoreio finii col diventare per lei un pesofastidioso. In ogni caso la situazione volse così rapidamentedi male in peggioche mi sarei risoltodi mia spontanea iniziativaad abbandonare la nostra dimorase la soddisfazione di compiere unatto così indipendente non mi fosse stata negata. Infattiprima di esser pronto ad andarmenefui gettato fuorigettato intutta l'estensione del termine.


L'occasionesi offrì allo Schiamazzatore un giorno in cui ero solo nelnido. Egli era andato con mia madre fino alla palude dei mirtilli.


Avevadovuto fin da prima organizzare la faccendapoiché lo sentiitornar solo attraverso la foresta ruggendo di rabbia interiore. Comefacevano tutti gli uomini della nostra orda quando erano in collera ocercavano di andare in colleraegli s'arrestava di quando in quandoe si percuoteva il petto col pugno.


Compresilo stato di abbandono impotente in cui mi trovavoetutto tremantemi rannicchiai nel nido. Lo Schiamazzatore venne diretto al nostroalbero - ricordo che era una quercia - e incominciò adarrampicarsi senza interrompere nemmeno per un istante il suo baccanoinfernale. Ho già detto che il nostro vocabolario era moltolimitatocosicché egli dovette esaurirlo interamente nellediverse espressioni con le quali tradusse il suo inestinguibile odionei miei riguardi e la sua intenzione di farla finita immediatamentee per sempre con me.


Mentresaliva verso il nido io mi salvai verso l'estremità del granramo orizzontale. M'inseguì anche per quella via e io andaisempre più lontano. Alla fine giunsi fra i ramoscelli e lefoglie. Lo Schiamazzatore era sempre stato vile e la suacircospezione aveva avuto sempre il sopravvento sulla sua piùforte collera. Ebbe paura di seguirmi fra i piccoli ramiperchéil peso del suo corpomaggiore del miol'avrebbe fatto ruzzolareattraverso il fogliame prima che fosse riuscito ad afferrarmi.


Manon aveva bisogno di raggiungermi e lo sapeva beneil miserabile!


Conun'espressione maligna sulla facciacon gli occhi a palla brillantid'un intelligenza crudeleegli incominciò a far dondolare ilramo. E come dondolava! E io ero proprio all'estremitàaggrappato agli ultimi ramoscelliche incominciavano a cadere sottoil peso! A venti piedi sotto di me c'era il suolo.


Semprepiù violentemente egli scosse il ramolanciando verso di meil suo odio esultante. E così giunse la fine: i miei quattropunti di appoggio mi mancarono contemporaneamentee caddicon lapancia all'ariaguardando lo Schiamazzatorementre le dita dei mieipiedi stringevano ancora convulsamente i ramoscelli spezzati.Fortunatamente per me non v'erano sotto l'albero cinghiali in agguatoe l'urto della caduta fu attutito da arbusti elastici e resistenti.


Ingeneralela caduta interrompe i miei sognibastando la scossanervosa a sopprimere per un istante un intervallo di mille secoli e aprecipitarmi completamente sveglio nel mio lettino di fanciullodovemi ritrovo distesotremantebagnato di sudore e da dove sentosuonar l'ora alla pendola del vestibolo. Ma spesso ho fatto in sognoquesta cadutae mai essa ha avuto il potere di destarmi. Sempre misono inabissatourlandoattraverso i cespugli e toccando il suolocon un colpo sordo.


Giacevolà dov'ero cadutotutto graffiatoindolenzito e piangente.


Guardandoin ariaattraverso i cespuglividi lo Schiamazzatore. Egli avevaintonato un canto di gioia demoniaco e ne segnava il tempodondolandosi sul ramo. Repressi vivamente il pianto: non ero piùsotto il sicuro riparo che mi offriva il nido sull'albero e conoscevobene il pericolo al quale mi sarei esposto attirando le bestie dapreda con un'espressione troppo rumorosa del mio dolore.


Ricordochementre i miei singhiozzi si calmavanoincominciai ainteressarmi ai curiosi effetti di luce che producevo aprendo echiudendo parzialmente le palpebre bagnate di lacrime. Poi presi atastarmi il corpo e constatai che in sostanza la caduta non mi avevatroppo danneggiato. Avevo perduto qua e là un po' di pelle eun po' di pelo: l'estremità aguzza e irregolare d'un ramospezzato aveva sdrucito di un buon pollice uno dei miei avambracci el'anca destrache aveva subito l'urto del mio contatto col suolomifaceva soffrire in modo intollerabile. Ma dopo tutto le ferite eranoinsignificanti:


nessunosso rottoe poiin quell'epocala carne umana si rimarginavaassai più facilmente di oggi. Peròla caduta era stataseriasicché zoppicai dalla parte dell'anca malata per unalunga settimana.


Mentregiacevo sotto i cespuglimi assalì un senso di desolazione:


erala coscienza di non avere più una dimora. Decisi di nontornare mai più da mia madre e dallo Schiamazzatore. Sareiandato lontanosempre più lontanoattraverso la forestamisteriosa e terribiledove avrei pur trovato un albero su cuicostruirmi il nido. La questione del cibo non m'impauriva; sapevodove trovarne. Da almeno un anno non dipendevo più da miamadre a questo riguardo; essa non mi dava più che la suaprotezione e la sua direzione.


Strisciandouscii lentamente dalla macchia. Una sola volta guardai dietro di me evidi lo Schiamazzatore sempre intento a cantare e a dondolarsi. Ilsuo volto era tutt'altro che bello a vedersi. Sapevo agire conprudenza e fui estremamente circospetto in quel primo viaggioattraverso il mondo.


Nonmi preoccupavo affatto di sapere dove andavo. Andavo. Avevo un soloscopo: allontanarmi fuori dalla portata dello Schiamazzatore. Miarrampicai su un alberoe passando da questo in quelli vicinierraiper ore e ore senza mai toccar terra. Ma non andai in una direzioneprecisacome pure non viaggiavo senza fare di tratto in tratto unasosta. Era naturale che in mecome in tutti quelli della mia speciele idee non avessero un seguito logico e continuo. Inoltre ero appenaun fanciullo e spesso mi fermavo a lungo per trastullarmi.


Quelche mi accadde in seguito è molto vago nella mia mente efigura solo parzialmente nei miei sogni. L'altro io che è inme ha molto dimenticatosoprattutto in rapporto a quest'epoca. Nonsono stato capace d'altronde di riunire i miei svariati sogni in mododa colmare con precisione la lacuna che rimane tuttora aperta tra lamia partenza dall'albero e il mio arrivo alle caverne.


Ricordosolo di aver attraversato con grande spavento diverse radurescendendo a terra e correndo con tutta la velocità che legambe mi consentivano. Ho il ricordo di giorni di pioggia e di giornidi soleil che mi fa presumere che andai errando per un tempo nonbreve. In sogno risento soprattutto l'affanno che mi coglieva sottola pioggiale sofferenze che mi cagionava la fame e il modo con cuile calmavo.


Unpiù preciso ricordo mi rimane della caccia che diedi allepiccole lucertole sulla cima rocciosa di una collinetta calva. Esseguizzavano tra le pietre e molte mi sfuggirono; tuttaviaogni tantoriuscivo ad afferrarne una rivoltando una pietra. Poi vennero iserpenti a scacciarmi dalla collinetta. Non mi molestaronopoichéerano semplicemente intenti a scaldarsi al sole sulle rocce piatte.Ma tale era il timore atavico che avevo di loroche appena li vidiscappai velocemente come se mi inseguissero.


Poimasticai una corteccia amara strappata a dei giovani alberi.


Ricordovagamente di aver mangiato anche molte noci verdidai gusci molli edalla polpa lattiginosa. Soprattutto ricordo di aver patito fortidolori allo stomacoforse a causa di dette noci verdi e forse anchedelle lucertole: ma non ve lo saprei dire con precisione. Come purenon so per quale dono della fortuna io non sia stato divorato inquelle lunghe ore durante le quali rimasi a torcermi al suolo per lacolica.




5


Comeuscii dalla foresta ebbi una repentina visione della scena che sisvolgeva davanti ai miei occhi. Mi trovavo sul limitare di un largospazio scoperto; da un lato si elevavano a picco contro il cielo alteroccedall'altro c'era il fiume. La riva scendeva con rapido pendiofino all'acquama qua e làin diversi puntidovein varieepoches'erano prodotti scoscendimentile piste conducevano agliabbeveratoi nei quali andavano a dissetarsi quelli della Specie chevivevano nelle caverne della scogliera.


Ilcaso mi aveva guidato al principale centro di abitazione dellaSpecie. Posso direcon un po' di esagerazioneche era il villaggio.


Miamadrecon lo Schiamazzatore ed iocosì come alcuni altriindividui isolatieravamo come degli "abitanti dei sobborghi".


Facevamoanche noi parte dell'Orda pur vivendone a una certa distanza.


Equesta distanza era brevenonostante io avessi impiegato un'interasettimana a superarlaa causa dei giri viziosi che avevo fatto;giacché se fossi venuto direttamenteme la sarei cavata inmeno d'un'ora.


Dallimitare della foresta vedevo le caverne sul fianco della rupelariva scoperta e i sentieri che scendevano al fiume. Nello spaziolibero della riva vidi parecchi membri della Specie. Fanciullosoloavevo errato per una settimanadurante la quale non avevo incontratoalcuno dei miei similivivendo nel terrore e nella desolazione. Eccoperché nel vedere quelli della mia speciefui preso da unagioia immensa e corsi verso di loro come un pazzo.


Accaddeallora una cosa strana. Uno di quelli della Specie mi vide e lanciòun grido d'allarme. Immediatamente urlando di paurapresa dalpanicotutta l'Orda fuggì. A saltiscalando rocceciascunosi gettò nelle aperture delle caverne e vi scomparve; tuttitranne uno soloun piccolo che nel trambusto era stato dimenticatoai piedi della rupe. Il piccolo si lamentava piagnucolando; sua madrecorse fuori dalla sua tanaegli balzò verso di lei e a lei siaggrappò con tutte le forze mentre essa fuggiva carponi versola caverna.


Erosolo. La rivaun istante prima così popolataera diventatadeserta in un battibaleno. Disperatomi sedetti e mi misi apiagnucolare: non ci capivo nulla. Perché tutta l'Orda erafuggita lontano da me? Più tardiquando mi misero al correntedegli usifui in grado di comprendere. Quando quelli dell'Orda mividero sbucare dalla foresta di gran corsacredettero che fossiinseguito da qualche belva in caccia; il mio così pococerimonioso arrivo era stato il segnale del... SI SALVI CHI PUO'.


Dalposto dove m'ero sedutosorvegliando le aperture delle cavernemiaccorsi che quelli della Specie mi stavano spiando. Pian pianoqualcuno osò cacciar fuori la testa; un po' più tardiincominciarono a chiamarsi da una caverna all'altra. Nella fretta enel disordine del fuggi fuggi era accaduto che non tutti avevanoraggiunto la propria tana. Diversi piccoli avevano cercato asilo inuna caverna diversa dalla loro. Le madri non li chiamavano per nomepoiché questa invenzione non era stata ancora fatta: eravamotutti anonimi; ma i piccoli riconoscevano le proprie mamme dalle lorogrida ansiose e lamentose. Così purese mia madre fosse statalà e mi avesse chiamatoio avrei riconosciuto la sua voce traquelle di cento madrie lei avrebbe riconosciuta la mia fra millealtre.


Irichiami continuarono per qualche tempo da una parte e dall'altramaquelli della Specie erano troppo prudenti per uscire dalle lorocaverne e discendere sulla riva. Alla fine uno di essi si decise: eraun essere che in seguito doveva avere una notevole influenza sulcorso della mia vita. Del resto egli già occupava unimportante posto nell'esistenza degli abitanti delle caverne. E' luiche nel seguito di questa mia narrazione chiamerò Occhiorossoa causa dei suoi occhi infiammatile cui palpebre sempre rossesembravano indicare la più terribile ferocia per l'effetto cheproducevano. Ugualmente rosso era il colore della sua anima.


Erain tutto e per tutto un mostro. Fisicamenteera gigantesco.


Potevapesare centosettanta libbre ed era l'essere più alto che ioabbia mai visto fra i componenti della Specie. Nessuno fra il Popolodel Fuoco e il Popolo degli Alberi era grande e forte quanto lui.Ogni volta che in un giornale m'imbatto nella descrizione d'uno deinostri pugilimi chiedo quale figura avrebbe fatto il campionecontro di lui. Credo che le sue probabilità sarebbero stateassai scarse.


Conuna semplice presa delle sue dita di ferroOcchiorossosenzasforzogli avrebbe strappato netto dal corpo un muscolounbicipitead esempio. Con un manrovescioapplicato con disinvolturagli avrebbe fracassato il cranio come un guscio d'uovo. Con un colpodei piedi (che erano le sue mani posteriori)l'avrebbe sbudellato.Con un pugno gli avrebbe rotto i tendini del collo e sarebbe bastatauna sola pressione delle mascelle per sezionargli la carotide espezzargli la colonna vertebrale nel stesso tempo.


Standosedutocon un solo balzo poteva superare una distanza di ventipiedi. Era abominevolmente peloso. Per noi era motivo d'orgoglio nonessere troppo pelosi. Lui era cosparso di peli dalla testa ai piedisotto le braccia come sopra e persino nelle orecchie. Le sole partidel suo corpo che non fossero villose erano le palme delle manilapianta dei piedie il visoimmediatamente sotto gli occhi. Erainsomma brutto; spaventosamente brutto; la boccacontratta nellesmorfie più ferocie il labbro inferiore pendenteerano inperfetta armonia coi suoi occhi terribili.


Taleera Occhiorosso. Mollemente uscì carponi dalla sua caverna evenne alla riva. Ignorando la mia presenzaperlustrò idintorni.


Camminandosi curvavaseguendo il movimento delle anche; si chinava cosìfortemente e le sue braccia erano così lunghe che a ogni passole nocche delle sue dita toccavano il suolo. Era evidente che quellaposizione semi-eretta lo imbarazzava perchéper mantenerel'equilibrioappoggiava le giunture in terra. Vi assicuro peròche così carponi correva molto velocementecosa per la qualenoialtri della Specie eravamo invece particolarmente inadatti; anzirari erano fra noi quelli che camminando si sostenevano sulle dita:essi costituivano un atavismo. Occhiorosso era un atavismo anche piùpalese.


Noieravamo in via di evolverci dalla vita arboricola alla vita al suolo;da numerose generazioni perseguivamo questa trasformazionee ilnostro corpo e la nostra andatura si erano egualmente evoluti. MaOcchiorosso aveva fatto ritorno al tipo arboricolo piùprimitivo.


Restavacon noi perchénato nell'Ordanon poteva fare diversamente;ma in realtà egli costituiva un atavismo e il suo posto eraaltrove.


Moltocircospetto e vigile andava qua e là sulla rivasondando conl'occhio i varchi che erano aperti fra gli alberi e cercando discorgere la bestia in caccia che tutti supponevano mi avesseinseguito. E durante tutto questo temposenza occuparsi di mel'Orda si ammassava all'ingresso delle caverne e spiava.


FinalmenteOcchiorosso si dovette convincere che non c'era alcun pericoloimminente in vista. Tornava dall'estremità della pistadoveaveva gettato un colpo d'occhio indagatore sull'abbeveratoio. Eragiunto presso di mema senza avermi notato. Proseguì il suocammino fino a giungere alla mia altezza e allorasenza preavvisocon incredibile rapiditàmi diede uno scappellotto. Fuiproiettato indietro una dozzina di piediprima di ricadere al suoloe ricordo che al momento in cui il colpo mi raggiunseintesichiaramentesebbene mezz'accoppato com'erol'esplosione selvaggiadi sghignazzamenti e di risa sgangherate che si levò dallecaverne. Si trattava di un grazioso scherzoalmeno per quell'epoca;e di gran cuore la Specie rideva e ci si divertiva.


Inquesto modo fui accolto nell'Orda. Occhiorosso non si occupòpiù di me e io potei con tutta comodità piagnucolare esinghiozzare.


Parecchiedonne si raccolsero intorno a me con curiosità. Le riconobbi;le avevo incontrate l'anno precedente quando mia madre mi avevacondotto nel burrone delle nocciole.


Mapresto esse mi abbandonaronoe a sostituirle presso di me vennerouna dozzina di monellicuriosi e impertinenti. Costoro formarono uncircolo attorno a memostrandomi a ditofacendomi smorfieprendendomi a spintoni e a pizzicotti. Avevo paura e per un po' lilasciai fare; poi la collera mi velò gli occhi e balzai coidenti e con le unghie sul più audace di essisu Orecchiuto.Gli ho dato questo nome perché poteva drizzare uno solo deisuoi orecchi; l'altro pendeva semprefloscio e immobile. Non soquale accidente ne aveva lesi i muscoli impedendo a Orecchiuto dimuoverlo.


Eglimi afferrò a corpo a corpo e ci accapigliammo come dueragazzacci decisi a darsele di santa ragionegraffiandocimordendocistrappandoci i capelliafferrandoci violentemente per lavita e ruzzolando insieme a terra. Ricordo che riuscii a fargliquello checome seppi più tardi in collegiosuole chiamarsi"una presa di testa semplice." Questa "presa" midiede un vantaggio decisivo che però non conservai a lungo.Egli ripiegò una gamba e col piede - la sua mano posteriore -mi sferrò un calcio tale che mancò poco non misventrasse. Dovetti lasciarlo per mettermi in salvo; poi riprendemmola lotta.


Orecchiutoera di un anno maggiore di mema la mia collera era parecchie voltepiù forte della suasicché alla fine lo costrinsi adarsela a gambe. Lo inseguii sullo spazio scopertopoi per unsentiero che scendeva al fiume. Ma egli conosceva i luoghi meglio dime perché correndo lungo l'acqua risalì da un'altrapista; quindi piegò obliquamente attraverso lo spazio scopertoe si precipitò in una caverna aperta.


Primadi aver tempo di riflettere mi immersi anch'io nell'oscuritàdell'antrodietro di lui; ma subito rimasi spaventatissimoperchénon ero mai penetrato in una caverna. Incominciai a piangere e agridare. Orecchiuto prese a schiamazzare e a burlarsi di meesaltandomi addosso senza che io lo vedessi mi gettò a terra.


Nonosò tuttavia impegnarsi in una seconda battaglia e fuggì.Mi trovavo tra lui e l'ingresso della caverna; e sebbene non l'avessivisto passarmi accantoavevo l'impressione che egli fosse scomparso.


Miposi in ascoltoma non udii nulla che m'indicasse in quale punto sifosse nascosto. Alquanto imbarazzato uscii dalla caverna e mi posi inagguato.


Erocertissimo che egli non era uscito dalla parte in cui eravamoentrati; tuttaviadopo pochi istantime lo rividi vicino che sisganasciava dalle risa. Mi scagliai contro di lui e nuovamente eglisparì nella caverna. Questa volta però non lo seguii.Mi trassi leggermente indietro e rimasi a spiare. Egli non uscìe tuttaviacome prima me lo rividi accanto sghignazzante e per laterza volta lo ricacciai nella caverna.


Questoesercizio si ripeté parecchie volte ancora.


Allafine lo seguii nella caverna e qui lo cercai invano. Volevo saperenon capivo come mi sfuggisse. Ogni volta che entrava nella cavernanon ne usciva piùe tuttavia sempre me lo vedevo riappariredi fianco sghignazzando. Così la nostra battaglia si trasformòin una partita a rimpiattino.


Pertutto il pomeriggioa intervalli di tempocontinuammo in quelgiocoe uno spirito di allegrezza amichevole si stabilì tranoi. Alla fine Orecchiuto non s'allontanò più e cimettemmo a sedere a braccetto l'uno accanto all'altro. Un po' piùtardiegli mi svelò il mistero della caverna. Temendomi permanomi condusse nell'interno: la caverna comunicava con un'altracaverna attraverso uno stretto crepaccio e da quella parte tornammo arivedere la luce.


Eravamodiventati buoni amiciio e Orecchiuto. Quando altri monellacci siradunavano per importunarmiegli prendeva le mie difese; e lesuonammo così forte che mi lasciarono presto tranquillo.


Orecchiutomi fece conoscere il villaggio; poco o niente poteva dirmi suirapporti e sui costumi che vigevano fra i membri dell'Ordamancandodi un sufficiente vocabolario; ma appresi molto osservando le sueazioni.


Quindiegli mi mostrò luoghi e cose. Mi condusse sullo spazioscopertotra le caverne e il fiumee più lontano ancoranella forestadove in un punto erboso fra gli alberi facemmo un buonpastoanzi una vera scorpacciata di carote filamentose. Dopo di chebevemmo copiosamente al fiume e risalimmo lungo una pista verso lecaverne.


Nellapista incontrammo ancora Occhiorosso. Orecchiuto s'eraimprovvisamente messo in disparte e si rannicchiava contro il pendio.


Naturalmentee inconsciamente io l'imitai cercando di scoprire quale fosse lacausa del suo spavento. La causa era appunto Occhiorossoche sipavoneggiava scendendo nel mezzo del sentiero roteando ferocemente isuoi occhi infiammati. Notai che tutti i monelli lo evitavano comeavevamo fatto noimentre i grandi lo guardavano con circospezionequando si avvicinava e si traevano da parte per lasciargli libero ilmezzo del sentiero.


Poichécadeva la serala riva divenne deserta. La Specie cercava lasicurezza nelle caverne. Orecchiuto mi condusse a dormire. Salimmofino alla sommità della rupe eal disopra delle altrecaverneraggiungemmo un piccolo crepaccio che dal basso non siscorgeva.


Orecchiutovi s'infilòio lo seguii non senza difficoltàtantol'ingresso era strettoe mi trovai in una piccola cavernabassissimache non aveva più di due piedi di altezza e forsetre piedi di larghezza su quattro di lunghezza. Lìrannicchiati fra le braccia l'uno dell'altropassammo la notte adormire.




6


Sei più audaci monelli dell'Orda giocavano a rimpiattino nellecaverne di larga aperturaciò significavacome appresiprestoche esse erano disabitate; infattinessuno vi dormivadurante la notte.


Solole caverne a ingresso stretto servivano a tale usoe piùl'orifizio era angusto più esse erano apprezzate. Ciò acausa della paura delle bestie da preda chesia di giorno che dinotteci rendevano penosissima l'esistenza.


Ilmattino che seguì la mia prima notte passata con Orecchiutoappresi quale fosse il vantaggio di queste caverne dall'ingressostretto. All'alba il vecchio Dente di Sciabolail tigresi mostròsulla riva. Due membri della Specie che s'erano già levatiappena lo videro se la diedero precipitosamente a gambe. Non so sefurono presi dal panico o se Dente di Sciabola era troppo vicino alleloro calcagna per dar loro il tempo di scalare la rupe fino aicrepacci; comunque si precipitarono nella caverna a doppia uscitadove io e Orecchiuto avevamo giocato il giorno prima.


E'impossibile dire quel che accadde all'interno della cavernama èlecito credere che i due fuggiaschi penetrarono nella cavernasuccessiva passando attraverso la fessura di comunicazione. Ilcrepaccio era troppo stretto perché vi potesse passare ancheDente di Sciabolache infatti se ne riuscìdeluso e furiosodalla parte da cui era entrato. Era chiaro che la sua caccia notturnaera stata infruttuosa e che si riprometteva di fare un pasto a spesedella nostra pelle. Scorse i due fuggitivi all'ingresso della secondacaverna e balzò verso di loro. Naturalmente essi rifecero aritroso il tragitto che avevano percorso e Dente di Sciabola uscìdi nuovo mostrando i dentipiù furioso che mai.


Unagazzarra si scatenò fra tutti noi. Dall'alto al basso dellarupe rocciosa facemmo ressa all'ingresso delle caverne e sullesporgenze esterneschiamazzando e gridando in mille toni diversi. Egiù smorfiesmorfie ringhiose perché tale era ilnostro istinto. Eravamo altrettanto furiosi quanto lo stesso Dente diSciabolasebbene il timore si confondesse con la nostra collera.Ricordo che lanciavo grida laceranti e che mi misi a gara con glialtri nel fare smorfienon solo perché essi me ne davanol'esempioma anche perché subivo un impulso interiore che mispingeva a imitarlia far tutto ciò che essi facevano. Il miopelo era irto ed ero agitato da una rabbia feroce irragionevole.


Perun pezzo il vecchio Dente di Sciabola continuò ad avventarsidall'una all'altra delle caverne gemelle. Ma i due fuggiaschiriuscivano così bene a infilarsi nel crepaccio dicomunicazione e gli sfuggivano sempre. Nel frattempo noilungo lerocceavevamo dato inizio al combattimento. Ogni volta che il tigreusciva da una delle cavernelo bombardavamo a colpi di pietra. Daprincipio le facevamo semplicemente cadere su di luima poiincominciammo a scagliargliele con tutta la forza dei nostri muscoli.


Ilbombardamento attrasse su noi l'attenzione di Dente di Sciabola e lorese ancora più furibondo. Smise di inseguire i fuggiaschibalzò verso di noi lungo le rocceaggrappandosi ai massifriabili e arrotando i denti mentre si arrampicava. Alla vista diquell'orribile facciaci rifugiammo tutti fino all'ultimonellecaverne; mi risulta che la fuga fu generaleperché guardandodi sfuggita vidi che il pendio della rupe era completamente desertoe vi era rimasto solo Dente di Sciabola cheavendo perdutol'equilibrioscivolava e cadeva lungo il muro roccioso.


Lanciaiun grido d'incitamento e di nuovo l'Orda urlante coprì la rupee le pietre caddero su Dente di Sciabolafitte come una gragnuola.Il tigre era folle di rabbia. Più volte tentò ditornare all'assalto; una volta raggiunse persino l'ingresso dellecaverne più bassema senza riuscire a infilarvisi. Ad ognibalzo che faceva in avantiondate di terrore piombavano su di noi.Da principio la maggior parte si precipitava nelle caverne mentrealcuni più animosi restavano fuori per lanciare pietre; ma benpresto si rimase tutti fuori continuando ininterrottamente il tiro.


Maiessere così dominatore fu così completamente sconfitto.Era profondamente ferito nel suo orgoglio dal vedersi sopraffatto inquel modo da esseri così deboli e meschini. Si fermòsullo spazio scopertoguardandocimostrando le zannesferzando conla codacercando di ghermire con la bocca le pietre che gli cadevanovicino. Ne avevo appunto lanciata una quando egli levò latesta; il proiettile gli cadde in pieno sulla punta del naso; fece unbalzo in aria con tutt'e quattro le zamperuggendo e miagolando disorpresa e di rabbia.


Eravinto e lo sapeva. Ritrovando la propria dignità si allontanòcon passo maestoso e solenne dalla pioggia di pietre. Sostòpoi nel mezzo della riva per guardarci con aria vigile e affamata.Abbandonava con rammarico il pasto desiderato: la carne era tanta esceltama purtroppo inaccessibile. Il suo aspetto ci fece proromperein una formidabile risata: un riso motteggiatore e tumultuoso. Oragli animali non amano che al danno segua la beffa; ciò limette in collera; e fu proprio così che il nostro riso irritòDente di Sciabola. Con un ruggito riprese l'assalto della rupe:proprio quello che noi desideravamo. Il combattimento era divenuto ungioco e provavamo un piacere estremo a scagliargli pietre su pietre.


Mail nuovo attacco durò poco. Il tigre ritrovò presto ilsuo buon senso e inoltre i nostri proiettili che raggiungevano spessoil segnocontribuirono a smorzargli ogni velleità di tornareall'assalto. Ho la visione ben netta di un suo occhiosporgentegonfio e quasi chiuso; e lo vedo ancorapiantato sul limitare dellaforestaverso la quale aveva finalmente battuto in ritirata. Ciguardava voltando la testacon le labbra contratte che scoprivanofino alla radice i suoi molari enormiil pelo irto e la coda chefrustava l'aria. Lanciò un ultimo ruggitopoi sparìfra gli alberi.


Allorasi levò tra noi un formidabile schiamazzo. Formicolavamo fuoridelle nostre taneesaminando le tracce lasciate dagli artigli sullaroccia friabile della rupe e parlando tutti in una volta. Uno dei duefuggiaschi che erano stati bloccati nella caverna a doppia uscitanon aveva ancora avuto tempo di crescereera appena un adolescente.I due erano emersi fieramente dal loro rifugio e noi intorno a lorodavamo via libera a una rumorosa ammirazione. A un tratto la madredel fanciullo si aprì rapidamente un passaggio tra la ressasi precipitò su di luie in preda a una rabbia furiosaglitirò le orecchiegli strappò i capelligridando comeuna diavolessa. Era giovaneforteben piantatamolto pelosae lebotte che somministrò al suo rampollo furono ragioned'allegria per tutta l'Orda. Quasi scoppiavamo dal rideresostenendoci l'uno con l'altro e rotolandoci sul suolo nel fervoreeccessivo e spasmodico della nostra ilarità.


Adispetto del regno di terrore sotto il quale si vivevala Specieamava enormemente il riso. Nessuno mai comprese come noi l'umorismodi certe situazioni; la nostra gaiezza era irresistibile etravolgente come quella di Gargantua. Una gaiezza che non avevamisura: quando una cosa era buffa l'apprezzavamo in tutto il suovalore torcendoci dal rideree comiche ci apparivano le cose piùsemplicipiù grossolane.


Viassicuro che in quell'epoca si rideva molto.


Ilmodo col quale avevamo ricevuto Dente di Sciabola veniva usato controtutti gli animali che invadevano il villaggio. Ci eravamo riservati inostri sentieri e i nostri abbeveratoirendendo la vitaintollerabile alle bestie che penetravano o erravano sul nostroterritorio. Anche le bestie da preda più feroci eranomaltrattate da noi in modo tale che subito imparavano a rispettare ilnostro dominio.


Noneravamo battaglieri come essema eravamo astuti e codardie si deveappunto alla nostra astuzia e alla nostra codardiaalla nostradisordinata tendenza alla paura se riuscimmo a sopravvivere inquell'ambiente terribilmente ostile del mondo nascente.


Secondoi miei calcoliOrecchiuto era di un anno maggiore di me. Egli nonaveva alcun mezzo di raccontarmi il suo passatoma poiché nonlo vidi mai in compagnia di sua madresuppongo che fosse orfano. Epoi i padri contavano poco nelle famiglie che formavano l'Orda. Ilmatrimonio era ancora allo stato primitivoe le coppie potevanoprendersilitigare e separarsi a piacere. L'uomo modernoinventandol'istituto del divorziofa la stessa cosa legalmente. Ma noi nonavevamo leggi; non conoscevamo altro che l'uso chein tali cosetendeva verso la promiscuità.


Ciònondimenocome il seguito di questo racconto dimostreràsivedeva spuntare tra noi un barlume di quella monogamia che doveva piùtardi dar forza e potenza alle tribù che l'adottarono. Di piùanche all'epoca in cui io nacquinon mancavano esempi di coppiefedeli che vivevano sotto gli alberi vicini a quello di mia madre. Lavita in seno all'Orda non era molto adatta alla monogamiaper cui lecoppie fedeli si allontanavano per vivere in solitudine. Per anni eanni queste coppie vivevano unitenonostante il fatto chequandol'uomo o la donna moriva o era divoratoil sopravvivente trovasseinvariabilmente un nuovo compagno.


Unacosa eccitò molto la mia curiosità nei primi giorni delmio soggiorno nell'Orda: un timore senza nome e inesplicabileincombeva su tutti. All'inizio ebbi l'impressione che si trattasse diuna questione di direzione: l'Orda temeva il Nord-Est. Si vivevatutti in una perenne apprensione verso questo punto dell'orizzonte.Ciascuno guardava più frequentemente e con più timorein quella direzione che in tutte le altre.


Ognivolta che con Orecchiuto andavo verso il Nord-Est a mangiare carotefilamentoseche in quella stagione erano ben matureegli diventavastraordinariamente timido. Si accontentava di rifiutidi grossecarote coriaceedi quelle piccole che erano tutte filamentipiuttosto che avventurarsi un po' più lontanodove le caroteerano ancora intatte e dove avremmo potuto sceglierle. E se iotentavo di avventurarmierano urli e rimproveri. Mi facevacomprendere che da quella parte si trovava un pericolo terribile; mache cosa fosse di preciso questo pericolola povertà del suolinguaggio non gli permetteva di spiegarmelo.


Feciin questo modo più di un buon pastomentre egli mi sgridava einvano strepitava dietro di me. Stavo all'ertama non scorgevonessun pericolo. Calcolavo sempre la distanza che mi separavadall'albero più vicinoe sapevo di poter su quella distanzasuperare in velocità il Leone o il vecchio Dente di Sciabolaqualora l'uno o l'altro fossero improvvisamente comparsi.


Sullafine del pomeriggio un gran tumulto si levò nel villaggio.


L'Ordaera dominata da un'unica idea: quella della paura. I nostriformicolavano sul fianco della rupeguardando e indicando col ditoil Nord-Est. Non sapevo che cosa questo potesse significarema corsia rifugiarmi nella nostra piccola caverna prima di volgermi anch'io aguardare.


Alloraal di là del fiumelontano verso il Nord-Estvidi per laprima volta il mistero del fumo. Lo credetti un serpente mostruosorizzato sulla codacon la testa levata in alto oltre gli alberichesi dondolasse da un lato all'altro. Tuttavia mi pareva in un certomodoanche dall'atteggiamento della Specieche il fumo noncostituisse un pericolo per se stesso. Sembrava che lo temessero comel'indice di qualche altra cosae io ero incapace di indovinare dicosa si trattassenéd'altra partenessuno era in grado didirmelo.


Mapoco tempo dopo dovevo apprendere che era una cosa ben diversamenteterribile del Leonedel vecchio Dente di Sciaboladegli stessiserpentioltre ai quali pareva non vi fosse nulla di piùterribile.




7


Sdentatoera un altro ragazzo che viveva da solo. La madre abitava nelvillaggioma siccome dopo di lui erano nati altri due figlierastato messo fuori della caverna e costretto ad affrontare la vita dasolo. Avevamo assistito alla sua espulsione nei giorni precedentinon senza divertirci un mondo. Sdentato non voleva andarsenee ognivolta che la madre lasciava la cavernaegli vi si introduceva dinascosto.


Quandoal ritornoessa ve lo ritrovavaerano sfoghi di rabbia comicissimi.Una buona metà dell'Orda si mise ogni giorno ad aspettarequeste occasioni. Dapprima si sentivano brontolii e grida uscenti dalfondo della cavernadopo il rumore di sacrosante botte e gli strillidi Sdentato. Allora intervenivano i due fratelli minori e come nellaeruzione di un vulcano in miniaturaSdentato veniva proiettatofuori.


Incapo ad alcuni giorni la sua espulsione fu un fatto compiuto. Senzache nessuno si interessasse del suo caso pietosoper una buonamezz'orain mezzo alla rivaegli diede libero sfogo al suo dolorepoi venne ad abitare con Orecchiuto e con me. La nostra caverna erapiccola; mastringendocipotevamo benissimo entrarci in tre. Nonricordo che Sdentato abbia trascorso con noi più di una nottecosicché il fatto dovette sopraggiungere proprio in queltempo.


Erail pomeriggio. Al mattino avevamo mangiato carote a sazietàeresi imprudenti dal giococi eravamo avventurati fino ai grandialberial di là della radura. Non riesco a capire comeOrecchiuto avesse potuto vincere la sua abituale diffidenza:evidentemente dovette essere trascinato dal gioco. Ci divertivamofollemente a inseguirci tra gli alberi. E quale inseguimento!...Superavamo spazi da tre a cinque metri con la massima facilità;fare un tuffo da sei a otto metri fino al suolo era per noi unnonnulla. In realtà temo quasi di non esser creduto rivelandoda quale altezza saltavamo. Divenuti più maturi e piùpesantici accorgemmo che era necessario usare maggior prudenza neinostri salti; ma in quell'età in cui i nostri corpi non eranoche nervi e tendini potevamo tutto osare.


Sdentatospiegava una notevole agilità in quel gioco. Egli "erapreso" meno spesso dell'uno e dell'altro di noi duee nel corsodel gioco scoprì un trucco che né Orecchiuto néio eravamo capaci d'imitare. A dire il vero avevamo paura diprovarci.


Quandouno di noi due "era preso" Sdentato correva sempreall'estremità d'un alto ramo di un certo albero. Da quel ramoal suolo dovevano esserci più di venti metrisenza nulla ches'interponesse per arrestare la caduta. Ma a circa sei metri piùin basso e ad almeno cinque metri fuori della verticalesi trovavaun grosso ramo di un altro albero. Allorché correvamo versol'estremità del ramoSdentatofacendoci fronteincominciavaa dondolarsi dall'alto in basso. Questo naturalmente c'impediva diavanzare presto; ma il suo scopo era un altro. Scuoteva il ramovolgendo il dorso al punto verso il quale egli doveva caderee almomento in cui stavamo per raggiungerlolasciava tutto. Il ramovibrante agiva come un trampolino e lo proiettava fuori. Durante lacaduta egli si volgeva su un fianco fendendo l'ariain modo da farfronte al grosso ramo verso il quale precipitava.


Questoramo si piegava violentemente sotto il colpotanto che a volte siudiva uno scricchiolio minaccioso; ma non si spezzava maieattraverso il fogliame potevamo sempre vedere la faccia di Sdentatoche ci facevatronfio e pettorutodelle smorfie.


Ioero stato "preso"l'ultima volta che Sdentato usòquel trucco.


Avevaraggiunto l'estremità del ramo superiore e incominciava adondolarsi; mi arrampicavo dietro di luiquando improvvisamenteOrecchiuto lanciò un grido soffocato d'allarme. Mi volsi e lovidi sulla biforcazione principale dell'alberoche si rannicchiavacontro il tronco. Istintivamente feci altrettanto lungo il mio ramo.Sdentato cessò di dondolarsima il ramo non si arrestòed egli continuò a oscillare verticalmente in un fruscio difoglie.


Sentiiscricchiolare un ramoscello eguardando al suolo vidi per la primavolta un Uomo del Fuoco. Strisciava a passi di lupo con gli occhivolti in altoguardando l'albero. All'inizio lo presi per una bestiaferoce perché portava sulle spalle e intorno alla cintola unlembo di pelle d'orso. Poi vidi più distintamente i suoipiedile sue manii lineamenti del suo viso. Egli era molto similealla mia specieperò meno peloso e i suoi piedi somigliavanoalle mani meno dei nostri. In realtà lui e i suoi similicomedovevo venire a sapere in seguitoerano molto meno pelosi di noicome noid'altro cantolo eravamo meno del Popolo degli Alberi.


Comelo guardavo mi venne istantaneamente un pensiero: era quello ilterrore del Nord-Estdi cui il fumo misterioso era un indizio. Fuipreso tuttavia da una gran curiosità di sapere. Quell'esserenon aveva certo un'aria troppo terribile: Occhiorosso o qualsiasialtro degli uomini dell'Orda sarebbe stato più che in grado dilottare con lui.


Inoltreera vecchioraggrinzito per l'etàcol pelo del volto grigioe la gamba alquanto zoppicante. Nessun dubbio che noi saremmoriusciti a vincerlo facilmente nella corsa o nell'arrampicarsi suglialberi:


nonavrebbe mai potuto raggiungerciquesto era certo.


Maportava in mano qualcosa che non avevo mai visto: un arco e unafreccia. In quel tempoun arco e una freccia non avevano alcun sensoper me. Come avrei potuto sapere che la morte si nascondeva in quelpezzo di legno curvo? Ma Orecchiuto lo sapeva. Evidentemente avevagià visto gli Uomini del Fuoco e conosceva i loro modi. L'Uomodel Fuoco lo guardò e girò intorno all'albero;ugualmente intorno al troncopiù su dalla biforcazionegiròOrecchiutomantenendo sempre lo spessore del legno tra sé el'Uomo del Fuoco. Quest'ultimoimprovvisamenterifece il giro aritroso; Orecchiutocolto alla sprovvistacambiò giro a suavoltama non riuscì a proteggersi dietro il tronco prima chel'Uomo del Fuoco avesse scoccato la freccia. La vidi volare in altofallire il colpoperché passò vicinissima a Orecchiutosenza toccarloscivolare su un ramo e ricadere a terra. Trepidai digioia dall'alto ramo su cui ero appollaiato. Avevo capito; era ungioco.


L'Uomodel Fuoco lanciava delle cose a Orecchiutocome noi stessi ce nelanciavamo qualche volta reciprocamente.


Ilgioco continuò per un pezzoma Orecchiuto non si espose unaseconda voltadi modo che l'Uomo del Fuoco vi rinunciò.Allora mi allungai verso l'esterno sul mio ramo orizzontalemettendomi a schiamazzare verso di lui. Anch'io volevo giocare;volevo che l'Uomo del Fuoco provasse a colpire anche me con lafreccia. Egli mi videma non fece caso a me; spiava invece Sdentatoche si dondolava ancora mollemente e involontariamente sull'estremitàdel suo ramo.


Dinuovo la freccia guizzò nell'aria e Sdentato lanciò unurlo di sorpresa e di dolore. Era stato colpito. Ciò conferivaun nuovo aspetto alla situazione. Non avevo più nessuna vogliadi giocarema tremando mi rannicchiai tutto contro il mio ramo. Unaseconda e poi una terza freccia partironosenza peraltro colpireSdentatoma facendo fremere le foglie nell'attraversarledescrivendo una curva nel loro volo e ricadendo poi al suolo. Lacorda dell'arco vibrò ancorala freccia partì eSdentatocon un gran gridoun grido orribilecadde dal ramo. Lovidi precipitare girando su se stessotutto braccia e tutto gambecon l'asta della freccia che gli usciva dal petto e spariva eriappariva a ogni rivolgimento del suo corpo nella caduta turbinosa.


Daun'altezza di più di venti metri cadde; urlando si abbattéal suolo con un tonfo secco di schiacciamento: qui il suo corpo sicontrasse leggermente e poi si distese. Era ancora vivodato che simuoveva e contorcevagraffiando il suolo con le mani e coi piedi. Hoancora davanti agli occhi l'Uomo del Fuocoche correva verso di luicon una pietra e gli martellava la testa... E poi non ricordo altro.


Durantela mia infanzia mi svegliavo sempre a questo punto del mio sognolanciando grida di terrore per vedere il più delle volte miamadre e la mia governante accanto al mio lettoche ansiosamente mipassavano la mano tra i capelli per calmarmidicendomi che erano lìe che quindi non dovevo avere nessuna paura.


Ilmio sogno successivonell'ordine in cui si presentavanoincominciasempre con la mia fuga nella forestain compagnia di Orecchiuto.L'Uomo del FuocoSdentato e l'albero tragico erano spariti e noiduein un panico prudentefuggivamo attraverso gli alberi. Provavoun dolore acuto alla gamba destra: una freccia dell'Uomo del fuocoera piantata nella carne con la punta e l'asta che uscivano daciascun lato. E non soltanto l'attrito e la tensione mi facevanosoffrire crudelmentema m'impacciavano i movimenti e m'impedivano diseguire Orecchiuto.


Allafine mi fermai e mi rannicchiai al riparo di un'inforcatura;viceversa Orecchiuto continuò la sua fuga. Lo chiamairicordocon accento lacrimevoleed egli si fermò perguardare indietro. Allora tornò sui suoi passimi raggiunsesull'albero ed esaminò la freccia.


Tentòdi estrarla ma da un lato la carne resisteva alla punta uncinatadall'altro all'asta impennata. Siccome l'operazione mi facevasoffrire orribilmentefermai Orecchiuto.


Perqualche tempo restammo nascosti su quell'albero: inquietovogliosodi fuggireOrecchiuto guardava continuamente e con timore in tuttele direzioni mentre io gemevo e mi lamentavo a bassa voce. Il miocompagno era visibilmente sulle spinee tuttaviamalgrado la paurarestava accanto a me. La sua condotta mi apparve come un simboloprecursore dell'altruismo e del cameratismo che hanno contribuito afare dell'uomo il più possente fra tutti gli animali.


Ancorauna voltaOrecchiuto provò ad estrarre la freccia dalla miagamba ed io glielo impedii con collera. Allora egli si chinò eincominciò a rosicchiare l'asta coi dentitenendola ferma conle mani in modo da impedirle di muoversi nella feritamentre io miaggrappavo fortemente a lui. Io medito spesso su quella scena:piccoli uomini non compiutamente esperti della vitaal tempodell'infanzia della Specieuno di noi dominava la propria paurafrenava l'istinto egoista che lo spingeva a fuggireper rimanereaccanto all'altro e prestargli soccorso. E vedo sfilarmi davanti alpensiero tutte le grandi cose che quel gesto conteneva in potenza; eho le visioni di Pizia e Damonedegli equipaggi dei canotti disalvataggiodelle infermiere della Croce Rossadei martirideidifensori di fanciulli sperdutidel padre Damiano fra i lebbrosidelle isole Hawaii e dello stesso Cristoe di tutti gli uomini dellaterra la cui statura e la cui forza morale traggono origine dai magrifianchi d'Orecchiutodi Gran Dente e di altri vaghi abitanti delmondo appena nato.


QuandoOrecchiuto ebbe spezzato coi denti la punta della frecciagli fufacile estrarne poi l'asta. Riprendemmo allora la fuga; ma questavolta fu lui a trattenermi. La mia gamba sanguinava abbondantemente:


qualchepiccola vena doveva essersi rotta. Correndo all'estremità diun ramoOrecchiuto strappò un pugno di foglie verdi e leficcò nella ferita aperta. Ciò produsse l'effettodesiderato perché il sangue cessò ben presto disgorgare. E insieme riprendemmo il cammino verso il rifugio dellecaverne.




8


Ricordobenissimo l'inverno che seguì la mia partenza dal nidofamiliareperché sogno a lungo d'essere seduto tutto tremanteper il freddo. Orecchiuto e io siamo rannicchiati l'uno control'altrocon le braccia e le gambe intrecciateil volto livido e identi che battono. Il freddo diventava particolarmente pungente versoil mattino; durante quelle ore glaciali dell'aurora si dormiva poco onientee in preda a un penoso assideramento si aspettava la levatadel sole che doveva riscaldarci un po'.


Quandouscivamo dalla cavernail suoloricoperto di brinascricchiolavasotto i piedi. Una mattinascoprimmo il ghiaccio alla superficiedell'acqua del l'abbeveratoio fattasi tranquillae ciòprodusse una rumorosa sorpresa fra noi. Neanche il vecchio OssoMidollosol'anziano dell'Ordaaveva mai visto un fenomeno simile.


Ricordol'aspetto inquietolacrimante quasiche assunsero i suoi occhiquando esaminò il ghiaccio. (I nostri occhi avevano semprequello sguardo doloroso ogni qualvolta non comprendevamo una datacosao quando sentivamo l'aculeo di un desiderio vagoindefinibile). Anche Occhiorossonell'ispezionare il ghiaccioebbequell'aria triste e desolata; fissò lo sguardo lontanooltreil fiumeverso il Nord-Estcome se associasse il Popolo del Fuoco aquell'avvenimento.


Trovammoil ghiaccio solo quella mattinama quello fu l'inverno piùrigido che mai dovemmo subire. Non ho ricordo di altro inverno piùfreddo. Ho spesso pensato che quella stagione eccezionalmenterigorosa fosse un segno forierouna specie di avanguardia degliinnumerevoli inverni glaciali che dovevano infierire via via che lacalotta di ghiaccio si stendeva sulla faccia della terra; ma questacalotta noi non la vedemmo mai. Molte generazioni dovetterosusseguirsi prima dell'epoca in cui i discendenti dell'Orda furonocostretti a emigrare verso il sud o adattarsi sul posto al nuovoelemento.


Lavita per noi era completamente affidata alla sorte. Progetti pochiefatti ancor meno. Mangiare quando si aveva famebere quando si avevaseteevitare i nostri nemici carnivoriecco tutto. La notte cirifugiavamo nelle nostre caverne e il resto del tempo lo passavamo atrastullarci. Eravamo oltremodo curiositutto ci dava motivo didivertimento sempre pronti alle burle e alle malizie. Non c'eraalcuna serietà in noitranne nei momenti in cui si correva unpericolo o quando ci assaliva la collera; ma anche in quei casi laserietà spariva insieme all'occasione che l'aveva provocata.


Nonesisteva alcuna connessione tra le nostre ideeeravamo fuori d'ognilogica e non davamo importanza a nulla. I nostri disegni non avevanostabilità e in questo gli Uomini del Fuoco ci eranoimmensamente superioriperché possedevano quella tenacianello sforzo che a noi mancava quasi del tutto. Tuttaviaall'occorrenzae soprattutto nel controllo delle emozionieravamocapaci di perseguire uno scopo lungamente vagheggiato. La fedeltàdelle coppie monogame di cui ho parlato può essere spiegatacome una questione di abitudine; ma il mio lungo desiderio per laRapida non può giustificarsi cosìcome pure l'odiomortale che Occhiorosso e io nutrivamo l'un per l'altro.


Maogni volta che io lancio uno sguardo retrospettivo su quella vita dellontano passatociò che più mi colpisce è lagrande volubilità e la incredibile stupidità cheregnavano in noi. Un giorno raccattai una zucca rotta che la pioggiaaveva riempito d'acqua; l'acqua era buona e la bevetti. Mi spinsianche sino al fiume con quel recipiente e qui attinsi dell'altraacquabevendone una parte e innaffiando Orecchiuto col resto. Poibuttai via la zucca. Non mi venne però mai in mente diriempire d'acqua la zucca e di portarla alla caverna; e tuttavia miaccadeva spesso di aver sete la nottespecialmente quando avevomangiato del crescione e delle cipollequando nessuno osava lasciarele caverne per andare a dissetarsi all'abbeveratoio.


Un'altravolta trovai una zucca disseccata nell'interno della quale i semiproducevano rumore quando la scuotevo. Mi ci divertii a lungomacome ci si diverte con un baloccoe niente più. Tuttaviaqualche tempo dopol'impiego delle zucche per immagazzinare l'acquadivenne di uso comune nell'Orda. Ma non ne fui io l'inventore.L'onore spetta al vecchio Osso Midolloso e l'innovazione scaturìda uno stato di necessità dipendente dalla sua tarda età.


Inogni casoil primo membro dell'Orda che fece uso delle zucche fuOsso Midolloso. Egli conservava una provvista d'acqua da bere nellacaverna che abitava: questa apparteneva al Glabrofiglio di OssoMidollosoche consentiva al padre di occuparne un angolo. Vedevamoil vecchio Osso Midolloso riempire la sua zucca all'abbeveratoio etrasportarla con cura fino alla caverna. Lo spirito di imitazione eragrande tra noie prima unopoi un altro e poi un altro ancorasiprocurarono una zucca e l'impiegarono allo stesso mododi modo chel'uso di far provvista d'acqua divenne generale.


Maspesso accadeva a Osso Midolloso di sentirsi malee allora eraincapace di lasciare la caverna. Il Glabro si assumeva l'incarico diriempire la zucca per il padre; un po' più tardi peròil Glabro impose questo lavoro a suo figlioil Labbronee inseguito anche quando Osso Midolloso stava beneil Labbrone continuòa trasportare acqua per lui. Alla fine gli uomini si limitarono adattingere acqua solo in casi eccezionali: questo compito fu assegnatoalle donne e ai ragazzi più grandicelli. Orecchiuto e ioessendo indipendentidovevamo provvedere acqua solo per i nostribisognie perciò potevamo burlarci degli altri piccoliquandointenti a giocarequalcuno li chiamava per mandarli ariempire le zucche.


Ilprogresso era lento tra noi. Passavamo tuttianche gli adultil'intera vita a giocaree giocavano come nessuno degli altrianimali.


Quelpoco che sapevamo lo apprendevamo nel corso di giochi ed era dovutoalla nostra curiosità e alla nostra sagacia. Ad ogni modolasola grande invenzione fatta dall'Orda al tempo in cui vissi in mezzoad essafu l'impiego delle zucche.


All'inizionon vi mettemmo che acquaseguendo l'esempio di Osso Midolloso. Maun giorno una donnanon so qualeriempì di mirtilli unazucca che portò poi alla sua caverna. Subito le altre donne simisero con lo stesso sistema a trasportare bacchenociradici.


L'ideauna volta in marciadoveva progredire. Anche un'altra evoluzione delrecipiente per trasporto fu dovuta alle donne. Ciò avvennesenza dubbio perché una delle donne aveva trovato che la zuccaera troppo piccolaoppure perché s'era dimenticata diportarla con sé; fatto sta che riunì due grandi fogliene fissò gli orli con sottili e flessibili ramoscelli e vimise dentroper trasportarle alla sua cavernabacche in quantitàmolto superiore a quella che avrebbe potuto contenere una zucca dellapiù grande dimensione.


Sinoa questo puntoma non oltregiungemmo nel trasporto dei viveridurante gli anni che passai con l'Orda. Non venne mai in mente anessuno d'intrecciare un paniere con fili di vimini. Solo gli adultiuomini e donneusavano legare talvoltacon solidi sarmentifascidi felci e di rami che trasportavano nelle caverne per farne deigiacigli. Probabilmente dovettero passare altre dieci o ventigenerazioni prima che la specie arrivasse a intrecciare un paniere.Ma in qualunque epoca ciò avvenneuna cosa è certaecioè che una volta trovato il modo d'intrecciare panieri diviminilo sviluppo consecutivo e inevitabile fu la fabbricazione ditessuti grossolanie in conseguenza di ciò l'uso degliindumentichedissimulando le nuditàfece nascere ilpudore.


Fucosì che un nuovo impulso sorse nel mondo nascente; ma essoera appena agli inizi del suo sviluppoe noi eravamo appena in motoe potevamo fare ben poco cammino in una sola generazione. Eravamosenz'armisenza fuoconon avevamo a disposizione che gli elementipiù rudimentali del linguaggio. L'invenzione della scritturaera così infinitamente lontana nell'avvenire che ho persinospavento a pensarci.


Perpoco non feci anch'io una grande scoperta. Per dimostrarvi quantofosse fortuito il progresso in quell'epocapermettetemi di spiegarvicomesenza la golosità di Orecchiutoavrei potuto compierel'addomesticamento di un canecosa che il Popolo del Fuococheviveva a Nord-Est delle cavernenon aveva ancora scopertoperchéper esperienza personale mi risulta che le Genti del Fuoco nonavevano cani. Vi esporrò dunque come la ghiottoneria diOrecchiuto ritardòforse per parecchie generazioniil nostrosviluppo sociale.


Anotevole distanza dal lato occidentale delle caverne c'era una granpaludema a sud si profilava una catena di colline basse e roccioseche erano poco frequentate per due ragioni: primo perché nonvi si trovava nessuno degli alimenti che costituivano il nostronutrimento; secondo perché erano piene di tanedove vivevanogli animali carnivori.


Orbenesuccesse che Orecchiuto e io ci sperdemmo un giorno tra questecolline. Non ci saremmo certamente spinti in quella direzione se nonvi fossimo stati trascinati da una tigre che stavamo inseguendo emolestando. Non ridete se vi dico che era il vecchio Dente diSciabola in carne e ossa; ma noi non correvamo alcun serio pericolo.Lo incontrammo per caso nella forestaal mattino prestoesentendoci al sicuro tra i ramia notevole distanza da luiglimanifestammo con forti schiamazzi la nostra antipatia e il nostroodio. Lo seguimmo di ramo in ramod'albero in alberofacendo unchiasso infernale e avvisando tutti gli abitanti della foresta cheDente di Sciabola stava per arrivare.


Questoscompigliò completamente i suoi piani di caccia e lo mise inuna terribile collera. Ringhiava verso di noi frustando l'aria con lacodaefermandosi di tanto in tantoci guardavaimmobilearrovellandosi il cervello in cerca di qualche mezzo peracchiapparci.


Manoi giù a bombardarlo di lazzisberleffi e tronconi di ramo.


Bersagliarecosì una tigre era per la specie uno sport favorito. A volteaccadeva che metà dell'Orda inseguisse dall'alto dei rami unatigre o un leone avventuratosi fuori del suo ricovero durante le oredel giorno. Era la nostra vendetta perché più d'unmembro dell'Ordapreso alla sprovvistaera scomparso nel ventredella tigre o del leone; ed era anche un mezzo per far capire aglianimali da predaimpotenti e codardiche era assai meglio per lorotenersi possibilmente lontani dal nostro dominio. E infineciòera divertenteera un magnifico gioco.


CosìOrecchiuto e io avevamo inseguito Dente di Sciabola attraverso tremiglia di foresta. Verso la fine della cacciaegli si mise la codatra le gambe ecome un botolo battutose la svignòrapidamente.


Facemmodel nostro meglio per inseguirlo; maquando giungemmo all'estremitàdella forestaegli non era più che un punto nero inlontananza.


Nonso che cosa ci spingessese non la curiosità; ma dopo essercitrastullati per qualche tempo negli immediati dintorniOrecchiuto eio ci avventurammo sul terreno scoperto fino ai piedi delle collinerocciose. Non andammo però molto lontano; credo che non cidiscostammo dagli alberi per più di cento metri. Nel girareattorno alla punta di una roccia (procedevamo con gran cautelaperché non si sapeva quel che potevamo incontrare)c'imbattemmo in tre cagnolini che ruzzavano al sole.


Senzaessere visti da loroli spiammo per un buon minuto. Nel muroroccioso si scorgeva una fessura orizzontale: senza dubbio il rifugiodove la madre li aveva lasciati e dal quale essi non avrebbero dovutomuoversi se fossero stati dei cagnolini ubbidienti. Ma la vita cheferveva nei loro corpicome aveva spinto Orecchiuto e me adavventurarci fuori della forestacosì aveva fatto uscire icagnolini dal loro rifugio per sgranchirsi le gambe. So bene come lamadre li avrebbe puniti se li avesse sorpresi in quel posto.


Furonoinvece sorpresi da Orecchiuto e da me. Orecchiuto mi lanciòun'occhiatae subito ci gettammo su di loro. I cagnolini siprecipitarono verso la tanasolo rifugio che conoscessero; ma ci fufacile sorpassarli. Uno di essi si cacciò tra le mie gambe: migettai a terra e l'acchiappai. L'animaletto affondò i dentiniacuminati nel mio braccioe nella subitaneità del dolore edella sorpresalo lasciai andare; in un attimoera giàsparito nella tana.


Orecchiutoche lottava col secondo cagnolinomi guardò di sbieco e mifece capire con suoni variatiche razza d'imbecille e di buono anulla io fossi. Ciò mi fece vergognare e mi spronò alpunto da infondermi nuovo coraggio. Afferrai per la coda il cagnolinoche restava. Immediatamente i suoi denti mi penetrarono nella carnema io lo tenni stretto per la pelle del collo. Allora Orecchiuto e ioci sedemmosollevammo in aria i cagnolini e li guardammo ridendomentre essi brontolavanomugolavano e guaivano.


ImprovvisamenteOrecchiuto trasalì: gli pareva di aver inteso un rumore. Ciguardammo con terrorecomprendendo tutto il pericolo della nostrasituazione. Se c'è una cosa che trasforma gli animali indiavoli scatenatiquesta è appunto veder toccare i loropiccoli. Oraquegli animalettiche facevano tanto baccanoappartenevano ai cani selvatici che noi conoscevamo molto benee lecui rapide mute erano il terrore degli erbivori. Più volte liavevamo spiati mentre inseguivano branchi di bisonti e assalivano levaccine e le bestie vecchie e malate. E noi stessi eravamo statimessi in fuga e perseguitati da questi cani.


Avevovisto una donna della Specieinseguita e raggiunta proprio nelmomento in cui varcava il rifugio della foresta. Se non fosse stataesaurita dalla corsaavrebbe potuto mettersi in salvo su un albero:


tentòanzi di farlo; ma invanoperché scivolòcaddee icani selvatici la finirono in un attimo.


Rimanemmoappena un secondo a guardarciio e Orecchiuto. Tenendo sempresaldamente i nostri prigioniericorremmo verso i boschie una voltaappollaiati al sicuro su un grande alberocominciammo di nuovo asganasciarci dalle risa osservando i cagnolini. Vedete bene checomevi dicevoogni cosa che ci accadevaera per noi fonte di riso.


Alloraincominciò uno dei compiti più ardui che io abbia maiintrapreso. Volevamo trasportare i cagnolini nella nostra caverna.Non potevamo servirci delle mani per arrampicarciperché peruna buona metà del tempo necessario per salire esse eranoimpegnate a trattenere i nostri prigionieriche si divincolavanofuriosamente. Cercammo di camminare sul suoloma fummo indotti atornare sugli alberi a causa di una lurida ienache si mise aseguirci dal basso. Quella iena era però una bestiaintelligente.


Orecchiutoebbe un'idea. Si ricordò del modo come aveva legato certebracciate di foglie per trasportarle alla caverna e farne giacigli.


Strappatealcune liane solidelegò insieme le zampe del suo cagnolino ese lo mise sulle spalle con l'aiuto di un altro pezzo di lianapassata intorno al collo: così poté avere mani e piediliberi per arrampicarsi. Era entusiasta della trovata e si mise incammino senza aspettare che io avessi finito di legare le zampe almio cagnolino. Ma subito incontrò una difficoltà: labestiola non voleva saperne di restar ferma sulle sue spalle. Gliscivolò prima sul fiancopoi sul pettoe siccome i suoidenti non erano legatila prima cosa che fece fu di piantarli nellostomaco senza protezione di Orecchiuto. Questi lanciò un urlofu quasi per caderesi aggrappò violentemente a un ramo conle due mani; la liana passata sul suo collo si ruppe e la bestiolacon le quattro zampe legateprecipitò al suolo. La iena simise a pranzo.


Orecchiutodisgustato e furiosoingiuriò come si doveva la iena e poi siallontanò solo fra gli alberi. Io non avevo alcuna ragione perportare il cagnolino alla cavernavolevo cosìsenza sapereperché; e studiai per riuscire nell'intento. Lo resi molto piùfacile perfezionando l'idea di Orecchiuto; non soltanto legai lezampe del cagnolinoma gli passai una bacchetta fra le mascellechelegai solidamente insieme.


Giunsiinfine alla caverna col cagnolino. Dovevo avere una testardagginesuperiore alla media di quelli della Specie; perché senza diciò non avrei mai condotto a termine l'impresa. Tutti siburlarono di me quando mi videro issare il mio prigioniero fino allapiccola cavernama io non me ne curai: il successo coronava i mieisforzi e io avevo il cagnolino. Era un giocattolo come nessuno dellaSpecie ne aveva. Imparò prestissimo: quando giocavo con lui edegli mi mordevalo battevo sulle orecchiedi modo che egli stava unpezzo prima d'esser tentato di ricominciare.


Eromolto assorbito da quel gioco. Costituiva qualcosa di nuovo e laSpecie amava straordinariamente le novità.


Quandovidi che rifiutava i frutti e i legumiandai per lui a caccia diuccellidi scoiattoli e di giovani conigli. Essendo nello stessotempo carnivori ed erbivorinon eravamo abituati a cacciare lapiccola selvaggina. Il cagnolino mangiò e prosperòeda quanto mi è dato di ricordaredevo averlo posseduto perpiù di una settimana. Un giornotornando alla caverna con unanidiata di fagiani appena natividi che Orecchiuto aveva ucciso ilcagnolino e incominciava proprio allora a mangiarselo. Gli saltaiaddosso - la caverna era piccola - e giù con le unghie e coidenti.


Ecosìcon una lottaterminò uno dei primi tentativi diaddomesticamento del cane. Ci strappammo i peli a manatecigraffiammoci mordemmocercammo di cavarci gli occhi. Poi citenemmo il broncio e alla fine ci riconciliammo. Dopomangiammoinsieme il cagnolino. Crudo? Sì. Non avevamo ancora scopertoil fuoco. La nostra evoluzione in animali cucinieri era ancorarinchiusa nel papiro strettamente arrotolato dell'avvenire.




9


Occhiorossoera un atavismo. Era più primitivo di chiunque fra noi.


Nonci somigliavae noi dal canto nostro eravamo ancora cosìprimitivi da essere incapaci di uno sforzo combinato per sopprimerloo per espellerlo. Per quanto rudimentale fosse la nostraorganizzazione socialeegli era ancora troppo rozzo per darsenepensierocosicché tutto in lui tendeva a distruggere l'Ordacoi suoi atti antisociali.


Occhiorossocostituiva realmente un ritorno verso un tipo più antico e ilsuo posto avrebbe dovuto essere fra il Popolo degli Alberi e non inmezzo a noiche eravamo in via d'evolverci verso lo stato d'esseriumani.


Eraun mostro di crudeltàil che vuol dire molto per quell'epoca.


Battevale sue mogli; non che ne avesse più d'una alla voltadimoglima gli è che si coniugò parecchie volte. Nessunadonna poteva vivere con lui e tuttavia esse dovevano viverci perforza. Non c'era modo di contraddirlo: nessuno era abbastanza forteper resistergli.


Mitorna spesso la visione dell'ora tranquilla che precede ilcrepuscolo. Dal fiume fino al campo di carote e alle paludi deimirtillila Specie si riunisce nello spiazzo scoperto che èdavanti alle caverne. Non osa attardarsi a lungoperché siavvicina la terribile oscuritàdurante la quale la terra èabbandonata alla carneficina delle bestie ferocimentre gli antenatidell'uomotutti tremantisi tengono nascosti nelle loro tane.


Abbiamoancora qualche minuto di respiro prima di arrampicarci verso lenostre caverne. Siamo stanchi di aver giocato tutto il giorno ealeggia su di noi appena un brusìo attenuato. Anche i piccoliancora avidi di divertimenti e di sgambettigiocano con cautela. Labrezza di mare è calatae le ombre si allungano mentre ilsole sta per toccare l'orizzonte. E allorad'improvvisodallacaverna d'Occhiorosso partono grida selvagge e un rumore di colpi.Batte sua moglie.


All'inizioun silenzio terrificante incombe su noi. Ma siccome i colpi e legrida continuanomanifestiamo la nostra collera impotente con unoschiamazzo insensato. E' chiaro che gli uomini sono irritati per imetodi brutali di Occhiorossoma hanno troppo paura di lui perintervenire. I colpi cessanoi gemiti soffocati si spengonoma noicontinuiamo a schiamazzare. E la triste notte scende lentamente.


Quantunquela maggior parte degli avvenimenti costituissero per noi argomento dirisatuttavia non ridevamo mai quando Occhiorosso batteva la moglie.Sapevamo troppo bene quello che simili brutalità avevano ditragico. Più di una mattinaai piedi della rupetrovammo ilcadavere della donna che era stata sua moglie il giorno prima. Eglil'aveva scaraventata lìdalla sua cavernaappena morta. Nonsotterrava mai i suoi morti; lasciava all'Orda la cura di far sparirei cadaveri chealtrimentiavrebbero ammorbato l'aria dei dintorni.


Disolito i cadaveri venivano gettati nel fiumea valle dell'ultimoabbeveratoio.


Nonsoltanto Occhiorosso uccideva le sue donnema uccideva anche perprocurarsene. Quando voleva una nuova moglie e aveva buttato l'occhiosu quella d'un altrofiniva sempre con l'uccidere costui. Io fuitestimone di due di questi assassinii. Tutta la Specie sapevama eraimpotente a reagireperché non si era ancora sviluppatonell'Orda un governo degno di questo nome. Avevamo pur tuttavia lenostri consuetudinie la nostra collera si scagliava su coloro chele violavano. Cosìad esempiochi insudiciava unabbeveratoio era assalito da tutti i presenti e chiper partitopresodava un falso allarmesubiva da parte nostra un trattamentobrutale. Ma Occhiorosso calpestava tutte le nostre consuetudinienoi ne avevamo una tale paurache eravamo incapaci d'organizzareun'azione collettiva per castigarlo.


Duranteil sesto inverno che passammo nella cavernaOrecchiuto e io ciaccorgemmo che eravamo molto cresciuti. Sin dal principio diquell'invernocon pena avevamo potuto infilarci nel crepaccio cheformava l'ingresso del nostro domicilio. Ciò aveva comunque ilvantaggio di impedire agli adulti di impadronirsi della nostracavernache era fra le più desiderabiliperché la piùelevata della rupela più sicurae la più caldad'invernoessendo più piccola delle altre.


Perindicare quale fosse lo stato di sviluppo mentale della Speciepossofar notare che sarebbe stata cosa semplicissima per gli adultiscacciarci dalla nostra caverna e allargarne l'ingresso; ma essi nonne ebbero neppure l'idea. Né vi pensammo noi dueOrecchiuto eiosino al giorno in cui la nostra crescente corporatura non cicostrinse a eseguire l'ampliamento. Ciò accadde quandol'estate era al suo apice e noi eravamo ingrassati grazie a unamigliore nutrizione. Lavoravamo al crepaccio a intervalli e quando neavevamo voglia.


Primaestirpammo con le dita le pietre già smossea tal punto chele unghie ci dolevanoquandoincidentalmenteio ebbi l'idea diusare un pezzo di legno. La cosa andò benissimoma provocòuna catastrofe.


Unamattinapoco dopo l'albaavevamo liberato la rupe da un interomonticello di frammenti. Io spinsi il mucchio sul limitaredell'ingresso. Immediatamente doposi levò dal piede dellarupe un urlo rabbioso. Non avemmo bisogno di spenzolarci perguardareperché conoscevamo fin troppo bene quella voce. Isassi erano ruzzolati addosso a Occhiorosso.


Costernatici rannicchiammo in fondo alla caverna. Un minuto più tardiOcchiorosso apparve all'ingresso furioso come un diavolo e ci cercavacon lo sguardo dei suoi occhi accesi. Ma era troppo altotroppocorpulento per poter giungere sino a noi. Improvvisamente siallontanò. Capimmo che la cosa si metteva male. Da quel chesapevamo delle maniere della Specieegli avrebbe dovuto restar lìper dare sfogo alla propria rabbia. Strisciai sino all'ingresso dellacaverna e lanciai uno sguardo in giù. Vidi che Occhiorossoricominciava a salire la rupe. Aveva in mano un grosso bastone. Primache avessi indovinato il suo pianoegli si trovava di nuovo davantiall'imboccatura della caverna e cercava selvaggiamente d'infilzarcicol bastone.


Isuoi colpi erano prodigiosie di certo ci avrebbero sventrati seavessero raggiunto il bersaglio. Ci stringemmo contro le paretilateralidove eravamo quasi al sicuro. Ma frugando con insistenzaegli di tanto in tanto riusciva a coglierciassestandoci colpicrudeli che ci strappavano pelo e pelle. E quando il dolore ci facevaurlareegli manifestava la propria soddisfazione con ruggitiecolpiva più forte.


Alloraincominciai a diventare furioso. Ero di un umore poco trattabile inquell'epoca e avevo un discreto coraggioanche se era il coraggiodel topo spinto agli estremi limiti della pazienza.


Afferraiil bastone con le due manima la forza di Occhiorosso era tale checon uno strattone mi tirò fino al crepaccio. Poi allungòil braccio per afferrarmi e le sue unghie mi strapparono la carnementre facevo un balzo indietro per raggiungere la sicurezza relativadella parete laterale.


Dinuovo il mostro riprese a colpiree mi assestò un dolorosocolpo alla spalla. Orecchiuto non badava che a tremar di paura e aurlare ogni volta che era toccato. Cercai con gli occhi un bastoneper difendermima non trovai che un pezzo di ramo di un pollice didiametro e di un piede di lunghezza. Lo scagliai contro Occhiorossosenza però fargli un gran malesebbene urlasse di rabbia perl'audacia di cui avevo dato prova rispondendogli. Egli si rimise acolpire con furoree iocapitatomi sotto mano un pezzo di rocciaglielo lanciai in pieno petto.


Ciòmi diede audaciae d'altra parte ero altrettanto furioso quantoOcchiorosso e avevo perso ogni ritegno. Strappai dalla parete unascheggia che doveva pesare due o tre libbre e la scagliai con tuttaforza sul volto del nemico. Poco mancò che il colpo nonponesse fine al combattimento. Indietreggiò vacillandoabbandonò il bastone e scivolò per un bel tratto lungoil ripido pendio della rupe.


Loguardai: era orribile; aveva la faccia coperta di sangue e digrignavai denti come un cinghiale. Si asciugò il sangue chel'accecavami scorse e urlò di rabbia. Avendo perso ilbastone si mise a strappare pietre dalla roccia e a scagliarmelecontro. In questo modo mi rifornì di proiettiliche io glirinviai immediatamenteottenendo risultati migliori dei suoidatoche egli formava un bersaglio eccellentee poteva vedermi soltanto atrattiper la cura che io avevo di acquattarmi contro la paretelaterale. A un tratto scomparve di nuovoe dall'imboccatura dellacaverna vidi che scendeva verso lo spiazzo. Tutta l'Orda s'erariversata fuori delle tane e osservava lo spettacolo mantenendo unsilenzio impaurito.


SiccomeOcchiorosso si dirigeva verso il bassoi meno coraggiosi siaffrettarono a filare come conigli verso le loro caverne. Vidi ilvecchio Osso Midolloso fuggireinciampando e traballandocon lamaggiore velocità che le sue gambe gli consentivano.Occhiorosso balzò verso il basso della rupe e superògli ultimi venti piedi con un solo salto. Toccò terra proprioaccanto a una madre che incominciava allora ad arrampicarsi verso lasua tana. La donna lanciò un grido di terroree il piccolo didue anni che si aggrappava a lei rotolò ai piedi diOcchiorosso. La madre e il mostro si precipitarono contemporaneamentein avanti per afferrarloma fu Occhiorosso che riuscì aimpadronirsene. Un istante dopo il piccolo fragile corpo venivaproiettato in aria e si schiacciava sulla muraglia di roccia.


Proseguendoil suo cammino per andare a raccogliere il bastoneOcchiorossoincontrò il vecchio Osso Midolloso che fuggiva zoppicando.


L'enormemano del mostro si allungò e afferrò il vecchio per lanuca.


Iocredevo che gli torcesse il collo. Il vecchio si afflosciòabbandonandosi al destino: Occhiorosso esitò un momentomentre l'altrotremando orribilmentecurvava il capo e si coprivail viso con le mani. Senza dibattersisi lasciò buttare aterra con la faccia al suolo e restò lì distesonell'attesa e nel timore della morte.


Nellospazio scoperto vidi il Glabro chesenza osarsi di avanzaresipercuoteva il petto e rizzava il pelo. E alloraobbedendo a qualcheubbia del suo spirito incoerenteOcchiorosso abbandonò ilvecchiocontinuò per la sua strada e raccolse il bastone.


Poitornò alla rupe e ricominciò l'ascesa. Orecchiutochetremava e guardava timorosamente al mio fiancosi precipitòalla caverna. Era chiaro che Occhiorosso aveva l'intenzione diuccidere. Io ero disperatofuriosoma completamente calmo. Correndoqua e là sulle creste vicineriunii un mucchio di pietreall'imboccatura della caverna. Occhiorosso era a qualche metro piùin basso di noinascosto per il momento da una prominenza rocciosa.Mentre continuava ad arrampicarsila sua testa emerse e io glilanciai una pietra che però non lo raggiunse e andò inpezzi battendo sulla rupe; ma la polvere e le schegge riempirono gliocchi del mostrofacendolo indietreggiare fuori della nostra vista.


Risasoffocate e schiamazzi sorsero tra quei membri dell'Orda cherappresentavano il ruolo di spettatori. Finalmente c'era qualcunonel seno stesso della Specieche osava affrontare Occhiorosso. Maappena le approvazioni e le esclamazioni si levarono nell'ariaOcchiorosso si volse verso di loro mostrando i dentie in un attimoli ridusse al silenzio. Incoraggiato da questo segno della suapotenzalevò di nuovo la testae lanciando sguardi ferocimostrando i dentifacendo stridere le zannecercòd'intimidirmi. Faceva smorfie orribili corrugando fortemente la pellesopra gli occhi e portando in avanti la capigliatura dalla sommitàdella testa fin sulla frontedove i capelli rimasero irti come tantepunte minacciose.


Quellavista mi agghiacciò di spavento. Tuttavia riuscii a vincere ilterrore e con una pietra in mano minacciai a mia volta Occhiorosso.


Eglicercò di avanzare ancora e io gli lanciai il mio proiettile.Il colpo fallìma per poco. Il colpo successivo lo colse inpieno: il sasso lo raggiunse al collo. Egli scivolò fuoridalla vistama mentre spariva notai che con una mano cercava diaggrapparsi alla roccia e con l'altra si comprimeva la gola. Ilbastone ruzzolò rumorosamente fino ai piedi della rupe.


Nonvedevo più il mostroma udivo che anelavasoffocava etossiva.


Glispettatori rispettavano un mortale silenzio. Mi accovacciaiall'ingresso della caverna e aspettai. Come il soffocamento e latosse cessaronopotei udire a più riprese Occhiorosso che sischiariva la voce. Un po' più tardi incominciò ascendere. Andava molto pianofermandosi di tanto in tanto perallungare il collo o palparlo con la mano.


Vedendoloscenderel'Orda interacon grida e urli selvaggifuggìverso i boschi. Il vecchio Osso Midolloso zoppicando e vacillandoseguiva da lontano; Occhiorosso non fece minimamente caso alla fugageneralee avendo raggiunto la rivagirò lungo la base dellarupee risalì nella sua cavernasenza gettare neppureun'occhiata intorno a sé.


Orecchiutoe io ci guardammo a lungoe ci capimmo. Immediatamentein silenzioe con precauzioneincominciammo a strisciare lungo la rupe.


Giuntialla sommità guardammo indietro: il villaggio era statodisertato etranne Occhiorossorimasto nella sua cavernal'Ordaera scomparsa nelle profondità della foresta.


Civolgemmo e prendemmo la fuga. Traversavamo correndo le raduresuperavamo i pendiisenza curarci dei serpenti che potevano esserenascosti nell'erba. Raggiungemmo così i boschiciarrampicammo sugli alberi e proseguimmo nella nostra fuga lavorandodi braccia sino a quando non avemmo messo parecchie leghe fra lecaverne e noi. Allorama soltanto alloranella sicurezza di unabiforcazione di ramici guardammo e ci mettemmo a ridere. Restammoappoggiati l'uno contro l'altrocon le braccia e le gambeintrecciategli occhi grondanti di lacrime e i fianchi che cidolevano per il gran ridere.




10


Quandoavemmo riso abbastanzaOrecchiuto e io voltammo a un tratto camminoe facemmo colazione nella palude dei mirtilli. In quella stessapalude avevo compiuto diversi anni prima i miei primi viaggiattraverso il mondoin compagnia di mia madre chedopo di alloraavevo raramente rivista. Di solitoquando essa si recava allecaverne presso l'Ordaio ero partito per la foresta. Avevointravisto una volta o due lo Schiamazzatore sulla rivaedall'ingresso della mia caverna mi ero procurato il piacere di farglismorfie e di vederlo andare in collera. Eccettuata qualche gentilezzadi questo generenon mi ero mai occupato della mia famiglia; nonm'interessavo affatto delle sue sorti ein ogni casosapevocavarmela benissimo da solo.


Dopoaver mangiato mirtilli a sazietàpasto che finì con undessert di uova mezzo covate che trovammo in due nidi di quaglieOrecchiuto e io erravamo con circospezione nella foresta verso ilfiume. Da quella parte si trovava il mio vecchio domiciliol'alberoda cui ero stato espulso dallo Schiamazzatore. L'albero era ancoraabitato. Mi accorsi che la famiglia era cresciuta: vidi unacreaturina attaccata alle mammelle di mia madre. C'era anche unafemminuccianon ancora completamente sviluppatala qualeda unodei rami più bassici guardava con circospezione. Eraevidentemente mia sorellao meglio mia sorellastra.


Miamadre mi riconobbe subito; ma appena incominciai ad arrampicarmisull'alberomi fece segno di allontanarmi. Orecchiutosempre piùprudente di mebatté in ritiratané io poteiconvincerlo a tornare indietro. Tuttaviapiù tardimiasorella scese a terra e lìcome pure sugli alberi vicinicidivertimmo e facemmo chiasso per tutto il pomeriggio. Ma la cosa finìmale. Lei era mia sorellama questo non le impedì ditrattarmi crudelmentepoiché aveva ereditato tutta lamalvagità dello Schiamazzatore. Si gettòimprovvisamente su di memi graffiòmi strappò icapellie affondò quanto più le fu possibile i suoidenti aguzzi nel mio avambraccio. Io persi la pazienza; non la feriima certo fino a quel giorno non aveva mai ricevuto una sberla cosìsonora.


Simise a gridare e a sbraitare. Lo Schiamazzatoreche era statoassente tutta la giornatae che tornava in quel momentoaccorse alchiasso; mia madre fece lo stessoma fu lui che arrivò perprimo.


Senzaaspettarlo me la filaiseguito da Orecchiutoe ci mettemmo in salvofra i rami.


Quandolo Schiamazzatore ebbe cessato d'inseguirci e quando Orecchiuto e iofinimmo di ridere dell'incidenteci accorgemmo che calava la sera.La notte piombava su di noi con tutti i suoi terrori e non eraneanche il caso di pensare di far ritorno alle caverne: Occhiorossorendeva l'impresa impossibile. Ci rifugiammo in un albero isolato eappollaiati su un'alta inforcaturavi passammo la notte. Fu unanotte detestabile. Durante le prime ore piovve a dirottopoi venneil freddo e un vento gelato c'investì da tutte le parti.Bagnatitremantibattendo i dentici stringemmo l'uno nellebraccia dell'altrorimpiangendo la caverna che il calore dei nostricorpi riscaldava così presto e dove eravamo al sicuro eall'asciutto.


L'albaci trovò in condizioni pietosema risoluti a non trascorrerepiù un'altra notte come quella. Ricordandoci dei nidi arboreidei nostri genitorici mettemmo a fabbricarne uno per nostro uso.


Costruimmola carcassa d'un rozzo nido e sui rami più elevati collocammole travi per reggere il tetto. Allora il sole si levò e sottola sua benefica influenza dimenticammo le sofferenze della notte epartimmo per procurarci la colazione. Poie questo spiega quantofosse illogica la vita in quell'epocaincominciammo a giocare. Civolle un buon mese di lavoro intermittente per costruire il nostrodomicilio arboreoil qualeuna volta ultimatonon ci servìpiù a nulla.


Maio qui anticipo gli avvenimenti della mia storia. Quandonellamattina che seguì la nostra partenza dalle cavernecimettemmo a giocare dopo aver fatto colazioneOrecchiuto mi inseguìfra gli alberi sino al fiume. Lo raggiungemmo nel punto in cuisboccava un vasto emissario proveniente dalla palude dei mirtilli. Lafoce dell'emissario era larga e non aveva corrente. Proprioall'imboccatura giacevaabbandonato sull'acqua stagnanteun ammassodi tronchi d'alberodi cui alcuni disseccati e privi di rami a causadello strofinamento prodotto dalle pienee a causa di una prolungataesposizione durante numerose estati sui banchi di sabbia.


Galleggiavanoalti sull'acqua e beccheggiavano fortemente o si capovolgevano quandoli caricavamo col nostro peso.


Quae làfra i tronchisi affacciavano pozze d'acquadoveguizzavano bande di pesciolinisimili a ghiozziche nuotavano intutti i sensi. Diventammo subito pescatori. Allungati sui tronchitenendoci quieti e tranquilli in attesa del passaggio del pesceminutofacevamo rapide passate con le mani. La pesca venne divorataseduta stanteancora umida e guizzantesenza che ci accorgessimodella mancanza di sale.


L'imboccaturadell'emissario diventò il nostro posto preferito. Vi passavamoogni giorno parecchie oreprendendo il pescegiocando sui tronchid'alberoe qui facemmo anche le nostre prime prove di navigazione.Il tronco sul quale Orecchiuto era allungato se ne andò alladeriva. Era coricato sul fianco e dormiva. Una leggera brezzaallontanò lentamente l'albero morto dalla rivae quando miaccorsi della situazione difficile in cui Orecchiuto si trovavaladistanza era troppo grande perché egli potesse saltare aterra.


All'iniziol'incidente mi parve semplicemente comico; ma quando si svegliòin me una di quelle ondate di timore così comuni in quei tempidi perpetua mancanza di sicurezzafui colpito dal mio proprioisolamento. Ebbi d'improvviso coscienza dell'allontanamento diOrecchiuto su quell'elemento estraneosebbene una distanza di pochipiedi ci separassee lanciai verso di lui un grido di allarme. Eglisi svegliòspaventatoe si agitò cosìimprudentemente sul suo troncoche questo si capovolsegettandoloin acqua. Tre volte ancora il tronco d'albero fece capitombolareOrecchiuto mentre cercava di rimontarci sopra. Alla fine ci riuscìe ci si tenne fortemente aggrappatogridando dal terrore.


Ionon potevo far nullae lui neppure. Ignoravamo completamente checosa volesse dire nuotare; eravamo già troppo lontani dalleforme inferiori della vita per aver l'istinto del nuoto e non cieravamo ancora sufficientemente evoluti verso lo stato umano perconsiderare un simile tentativo come la soluzione di un problema.Desolatoerrai sulla rivaseguendo quanto mi fu piùpossibile da vicino le involontarie evoluzioni di Orecchiutomentreegli si lamentava e gridava a tal punto che fu un caso veramentestraordinario se non attirò su di noi tutti i carnivori deidintorni.


Intantole ore passavano. Il sole si levò al disopra delle nostreteste e incominciò a scendere verso occidente. La leggerabrezza cadde e lasciò Orecchiuto sul suo tronco d'alberogalleggiante a una distanza di cento piedi dal punto in cui io loseguivo. Fu allora chein una maniera o nell'altrasenza che iosappia comeOrecchiuto fece la grande scoperta. Si mise a remare: aremare con le mani. Dapprima la sua progressione fu lenta eirregolarepoia poco a pocola accelerò e incominciòfaticosamente ad avvicinarsi alla riva. Io non capivo niente dellafaccenda; mi sedetti e aspettaiguardandolofinché non ebberaggiunto la terra ferma.


Maegli aveva imparato qualcosacosa che io non avevo fatto. Piùtardiin quello stesso pomeriggioeglicon deliberato propositosi allontanò dalla riva sul tronco d'albero. Più tardiancorami persuase a raggiungerloe così anch'io imparai aremare con le mani.


Perparecchi giorni non ci allontanammo più dall'emissario;eravamo così presi dal nuovo gioco che quasi ci dimenticavamodi mangiare.


Durantela notte ci annidavamo su un albero vicinoe avevamo dimenticatopersino l'esistenza d'Occhiorosso.


Provammodi continuo altri tronchi e ben presto riuscimmo a scoprire che piùessi erano piccolipiù era facile farli avanzare. Ciaccorgemmo pure che più il tronco era piccolo e più erasuscettibile di capovolgersi e di farci fare delle immersioni.Imparammo ancora qualche altra cosa a proposito dei piccoli tronchid'albero. Un giorno remavamo ognuno su un troncouno di fiancoall'altroe cosìincidentalmentementre giocavamoscoprimmo che se uno di noi si aggrappava con una mano e un piede altronco dell'altroentrambi i tronchi erano resi più stabili enon si capovolgevano più. Allungati sui tronchi a quel modole nostre mani e i nostri piedi restavano liberi per remareall'esterno dei due tronchi. La scoperta finale fu che quellaposizione ci consentiva di usare tronchi ancora più piccoli econseguentemente di ottenere una velocità maggiore. Le nostrescoperte si fermarono qui. Avevamo inventato la più primitivadelle zattere e l'insufficienza del nostro buon senso non cipermetteva di rendercene conto. Mai ci venne in mente l'idea dilegare i tronchi l'uno all'altro con ramoscelli resistenti o conradici fibrose: ci contentavamo di tener fermi i tronchi con le manie con i piedi.


Quandoil nostro primo entusiasmo per la navigazione si calmò ericominciammo a tornare alla nostra dimora arborea per passarvi lanotteincontrammo la Rapida. La vidi per la prima volta mentrecoglieva ghiande novelle sui rami di una grande quercia vicino allanostra. Era timidissima. All'inizio si mostrò tranquilla; maquando si vide scopertasi lasciò cadere a terra e fuggìrapidamente. Nei giorni successivila scorgemmo di quando in quando;poi ci mettemmo a cercarla ogni volta che andavamo o venivamo tra ilnostro albero e l'imboccatura dell'emissario.


Ungiorno essa non fuggì. Era in attesa del nostro arrivo e cilanciò persino richiami dolci e invitanti. Non potemmotuttavia avvicinarci a leiperché non appena le sembrava chele fossimo giunti troppo vicinofuggiva subitoe da lontanoricominciava con grazia i suoi richiami. Questo gioco duròparecchi giorni. Ci occorse insomma diverso tempo per fare la suaconoscenzama finalmente vi riuscimmo ed essa prese parte qualchevolta ai nostri divertimenti.


Mipiacque fin dal principio. Era dolcissima e di aspetto piacevole.


Avevagli occhi più teneri che avessi mai incontrato. In ciòdifferiva profondamente dalle ragazze e dalle donne della Speciecheerano delle vere virago. Non lanciava mai grida aspreirritateeper lei sembrava naturale sfuggire le complicazioni anzichéfar loro fronte e combatterle.


Ladolcezza che ho accennato sembrava emanare da tutto il suo essere:


eradovuta all'aspetto del suo corpo e del suo viso. I suoi occhi eranopiù grandi e pure meno cavernosi di quelli della generalitàdella Speciele ciglia più lunghe e più regolari. Ilnaso non era grosso e appiattito come il nostroma ben profilatoele narici s'aprivano verso il basso. I suoi incisivi non eranograndiil labbro superiore non era lungo e pendentenéquello inferiore sporgeva troppo. Non era molto pelosatranne sullaparte esteriore delle braccia e delle gambee sulla parte superioredella schiena; e se le anche erano sottilii polpacci non eranocontorti e nodosi.


Nelgettare su di lei uno sguardo retrospettivodurante i miei sogni delventesimo secolomi è sempre venuto in mente che avesse deilegami di parentela col Popolo del Fuoco. Suo padreoppure suamadrepotevano benissimo provenire da quella più nobilestirpe. Casi similisebbene rarisi verificano qualche voltae iostesso ho visto coi miei propri occhi tali esempi in alcuni membridell'Ordache rinnegavano questa per andare a vivere col Popolodegli Alberi.


Matutto ciò non ha nulla a che fare col mio racconto. La Rapidadifferiva radicalmente da tutte le femmine dell'Orda e perciòmi piacque fin dal principio. La sua dolcezza e la sua grazia miseducevano. Non era mai brusca né di spirito battagliero;riusciva sempre a scapparee ciò mi suggerì il nomeche le ho dato. Si arrampicava sugli alberi molto meglio diOrecchiuto e di me. Quando giocavamo a inseguirciriuscivamo araggiungerla per casomentre lei ci prendeva quando voleva. Eranotevolmente rapida in tutti i suoi movimentie nel valutare ledistanze aveva un'abilità che era eguagliata solo dalla suaaudacia.


Timidasino all'eccesso in quasi tutte le coseera senza alcun timorequando si trattava di arrampicarsi o di correre sui ramieparagonati a leiOrecchiuto e ioeravamo goffilentipaurosi.


Dovevaessere orfana perché non la vedemmo mai in compagnia di altrie non si sarebbe potuto dire da quanto tempo vivesse sola al mondo.


Avevadovuto apprendere prestissimo nella sua infanzia che era possibiletrovare sicurezza solo nella fuga. Era prudentissima e molto saggia.Per Orecchiuto e per me divenne una specie di gioco cercare discoprire il luogo in cui viveva. Certamente aveva un nido in qualcheparte e non molto lontano; ma per quanto ne seguissimo le traccenonriuscimmo a sapere dove. Consentiva volentieri a giocare con noidurante il giornoma conservava gelosamente il segreto del suodomicilio.




11


Bisognache il lettore tenga presente che la descrizione da me fatta dellaRapida non è quella che ne avrebbe data Gran Dentel'altro IOdei miei sogniil mio antenato preistorico. E' con l'intermediariodei miei sogni che il mio IO moderno guarda e vede con gli occhi diGran Dente.


Lastessa cosa avviene per molti avvenimenti di quell'epoca lontana cheio ricostruisco qui. C'è nelle mie impressioni un dualismotroppo confuso perché io ne imponga la noia ai lettori.Soltanto qui io arresto il corso del mio racconto per segnalarequesto dualismoquesta imbarazzante confusione di personalità.E' il mio IO moderno quello che guarda indietro al disopra deisecoliche valutache analizza le emozioni e i moventi di GranDentel'altro IO; luiche non si preoccupava affatto di valutare eanalizzareessendo la semplicità personificata. Egli vivevasemplicemente gli eventisenza mai riflettere e chiedersi perchéli vivesse in quella maniera così speciale e spesso bizzarra.


Quandoil mio IO moderno divenne più maturo di etàpenetraisempre più nel fondo dei miei sogni. Si può sognare enel corso stesso del proprio sogno sapere che si sogna ese il sognoè penosoriconfortarsi con l'idea che è solo un sogno:tutto ciò è accaduto spessoa tutti. Fu cosìche il mio IO moderno penetrò spesso nel mio sogno enellastrana personalità doppia che ne risultavaesso fu a un tempoattore e spettatore; e più di una volta è stato turbatoe contrariato per quello che il mio IO primitivo aveva di scioccod'illogicod'ottuso e in generale d'inverosimilmente stupido.


Ancorauna parola prima che io abbandoni questa digressione. Avete maisognato che sognavate? I cani sognanoi cavalli sognanotutti glianimali sognano. Al tempo di Gran Dentegli antenati dell'uomosognavano e quando facevano cattivi sogni lanciavano urli dormendo.


Ebbeneil mio IO moderno si è coricato al fianco di Gran Dente e hasognato i suoi sogni.


Mirendo benissimo conto di come questo sorpassi quasi i limitidell'intelligenzama so che la cosa mi è realmente accaduta.


Permettetemidi dirvi che i sogni durante i quali Gran Dente volava e siarrampicava erano per lui così vivi come per voi il sognodella caduta attraverso lo spazio.


PerchéGran Dente aveva anche lui un altro IOe quando dormivaquest'altrapersonalità tornava in sogno fino al passatoverso i rettilialativerso i draghi che precipitavano e cozzavano fra di loroepiù lontano ancoraverso la vita affaccendatabrulicante deimammiferi minuscolie più lontano ancoraverso il limo dellariva del mare dell'età primitiva. Io non possoné osodirne di più; tutto ciò è troppo vagotroppocomplicatotroppo terribile. Io posso solo segnalare queste vaste eterrificanti prospettiveattraverso le quali ho potuto confusamentegettare sguardi vaghi sull'evoluzione della vitanon solo risalendodalla scimmia sino all'uomoma partendo ancora da più inbassodal verme.


Eora torniamo alla mia storia. Gran Denteil mio IO di alloranonvedeva nella Rapida la creatura dai tratti più finidallelinee più armoniosedalle ciglia più lunghedal nasomeglio conformatodalle narici aperte verso il bassoil cui insiemetendeva verso la bellezza. La conoscevo solo come la giovane femminadagli occhi teneriche guardava dolcemente e non si batteva mai.Senza sapere perchémi piaceva giocare con leifare insiemea lei scorrerie alla ricerca della predao a snidare gli uccelli.Confesso che essa mi diede eccellenti lezioni sull'arte diarrampicarsi sugli alberi. Era abilissimae molto robustae imovimenti del suo corpo non erano certo impacciati da gonne troppoaderenti.


Versoquest'epoca si produsse una certa defezione da parte di Orecchiuto.Prese l'abitudine di allontanarsi spesso in direzione dell'alberodove viveva mia madre. S'era affezionato alla mia malignasorellastrae lo Schiamazzatore aveva finito col tollerare la suapresenza. C'erano anche parecchi altri ragazzacciprogenitura dicoppie monogame che vivevano nelle vicinanzecoi quali Orecchiutogiocava.


Nonriuscii mai a convincere la Rapida a unirsi a loro. Ogni volta che ioandavo a raggiungerlilei restava indietro e spariva. Ricordo diaver fatto una volta un serio sforzo per indurla a venire con noimagettò dietro di sé sguardi inquieti e batté inritiratachiamandoci dall'alto di un albero. Per questo motivo nonpresi l'abitudine di accompagnare Orecchiuto quando si recava daisuoi nuovi amici. La Rapida e io eravamo buoni compagnima io ebbiun bel cercarenon riuscii mai a scoprire l'albero in cui abitava.Senza dubbiose non fosse sopraggiunta qualche cosaci saremmo benpresto unitipoiché la nostra simpatia era reciproca; maquesto qualche cosa purtroppo sopravvenne.


Unamattina in cui la Rapida non si era fatta vedereOrecchiuto e ioc'intrattenevamo all'imboccatura dell'emissariogiocando sui tronchid'albero. Eravamo appena in moto quando fummo sorpresi da un ruggitodi rabbia. Era Occhiorosso. Accovacciato sull'ammasso dei tronchi cilanciava lunghi sguardi d'odio. Avemmo orribilmente pauradato chelì non c'era nessuna caverna dall'apertura stretta per darciasilo. Ma i venti piedi che ci separavano da lui ci offrivano unasicurezza momentaneaper cui subito riprendemmo coraggio.


Occhiorossosorse in piedi e incominciò a picchiarsi col pugno il pettovilloso. I nostri due tronchi d'albero erano fianco a fianco: cimettemmo a sedere e cominciammo a dileggiare il mostro. All'inizio ilnostro riso fu timidopervaso di timore; ma quando raggiungemmo laconvinzione dell'impotenza del nostro nemicodiventò moltorumoroso.


Larabbia di Occhiorosso aumentò; digrignava i denti nella suavana collera. Nella nostra supposta sicurezzaci beffavamo di luiancor più audacemente. Eravamo membri della Speciee perciòpoco perspicaci.


Occhiorossocessò bruscamente di percuotersi il petto e di digrignare identi: poiscavalcando i tronchi d'alberocorse fino alla riva.


Allorala nostra gioia si tramutò in costernazione. Occhiorosso nonaveva l'abitudine di rinunciare così facilmente alle proprievendette.


Tremantidi pauraci tenevamo in attesa di quel che stava per seguire. L'ideadi allontanarci remando non ci passò neppure per la mente. Ilmostro tornò a grandi passi attraverso l'ammasso di tronchid'alberorecando una manciata di ciottoli rotondilevigatidall'acqua. Fu una fortuna che non trovò proiettili piùgrossicomead esempiopietre di due o tre libbreperchénon eravamo a più di una ventina di piedi da lui e ci avrebbesicuramente uccisi.


Comunquesiail nostro pericolo non era lieve. Zip! Un ciottolo minuscolofischiò passando con la velocità di una pallottola.


Orecchiutoe io cominciammo a remare follemente. Un altro fischio.


Orecchiutolanciò un grido di dolore: il ciottolo l'aveva colpito fra ledue spalle. Poi ne ricevetti uno io che mi fece urlare. La sola cosache ci salvò fu l'esaurimento delle munizioni di Occhiorosso.


Eglicorse a cercarne di nuove sul banco di ghiaiamentre Orecchiuto e ioci allontanavamo remando.


Giungemmogradualmente fuori tiromentre Occhiorosso continuava adapprovvigionarsi di proiettili e i ciottoli fischiavano ancoraintorno a noi. Al centro dell'emissario c'era una leggera corrente enella nostra agitazione non ci accorgemmo che ci trascinava nelfiume.


MentreremavamoOcchiorosso restava vicino a noi per quanto gli erapossibileseguendoci lungo la riva. Scoprì allora pietre piùgrosse il cui impiego aumentò la portata del suo tiro. Unproiettileche pesava almeno cinque libbresi abbatté sultronco d'albero proprio vicino a mee il colpo fu tale che fecepenetrare nella mia gamba una quantità di schegge di legnopungenti come aghi di fuoco: se invece del tronco il ciottolo avessecolpito memi avrebbe ucciso.


Allorafummo trascinati dalla corrente del fiume. Remavamo cosìfuriosamente che Occhiorosso fu il primo ad accorgersene e ne fummoavvertiti dal suo urlo trionfante. Nel punto dove l'acquadell'emissario incontrava la corrente del fiumesi formava una seriedi risucchi o di piccoli gorghiche afferrarono la nostra zatterarudimentalela fecero girare su se stessagettandola avanti eindietro e in tutti i sensi. Cessando di remare consacrammo tutte lenostre energie per mantenere affiancati i due tronchi. Durante questotempoOcchiorosso continuava il suo tirole pietre ci cadevanointornofacendo zampillare l'acqua su di noi e minacciando le nostreesistenze. Egli ci divorava con gli occhiurlando in manieraselvaggia.


Ilfiume formava un brusco gomito nel punto dove sboccava l'emissarioela sua corrente si trovava per questo fatto interamente rigettataverso l'altra riva. Di conseguenzai nostri tronchi deviaronorapidamente verso quella spondala sponda nordpur continuando adeviare per la corrente. In tal modo ci trovammo in pochi istantifuori della portata del tiro di Occhiorosso e finalmente lo vedemmoin lontananzasu un promontorio della rivache danzava dalla gioiae cantava un peana di vittoria.


Orecchiutoe io badavamo soltanto a impedire ai tronchi di scostarsi.


Eravamorassegnati alla nostra sortee restammo rassegnati fino al momentoin cui ci rendemmo conto che la corrente ci aveva fatto deviare ameno di cento piedi dalla riva nord. Allora ci mettemmo a remare perraggiungere la terra. Qui la forza della corrente era rigettata versola riva sude il risultato dei nostri sforzi fu che la tagliammo nelpunto in cui era più rapida e stretta. Prima di aver potutodubitarnene eravamo usciti e ci trovavamo in una controcorrente piùcalma.


Lanostra zattera deviò lentamentee alla fine si arenò apochi passi dalla riva. Orecchiuto e io ci arrampicammo a terra. Idue tronchi d'alberoalleggeriti del nostro pesolasciarono allorala controcorrente e discesero lungo il filo dell'acqua. Ci guardammoma senza ridere questa volta; eravamo in un paese sconosciuto e nonpensavamo che ci sarebbe stato possibile tornare a casa allo stessomodo di come ne eravamo partiti.


Senzache lo sapessimoavevamo appreso ad attraversare un fiumecosa chenessun altro membro della Specie aveva fatto fino allora. Eravamo iprimi della Specie a metter piede sulla riva nord del fiume e credoche fummo anche gli ultimi. E' indubbio che il fatto si sarebbeverificato prima o poima la migrazione del Popolo del Fuoco e ladispersione che ne risultò tra i sopravvissuti della Specieritardarono questo avvenimento di parecchi secoli.


E'veramente impossibile dire quanto fu disastroso il risultato dellamigrazione del Popolo del Fuoco. Personalmente tendo a credere cheessa causò la distruzione della mia Specie; che noiramo divita inferiore tendente verso l'uomofummo distrutti in bloccotrovando la nostra fine nelle vicinanze della foce muggentedove ilfiume raggiungeva il mare. Naturalmentein questa ipotesi bisognaspiegare la mia esistenza; ma io non voglio anticipare nulla del mioraccontoe darò questa spiegazione più tardiprimadella fine.




12


Nonho alcuna idea del tempo durante il quale Orecchiuto e io errammo nelterritorio situato a nord del fiume. Per calcolare quale probabilitàvi fosse per noi di ritornare ai nostri luoghi d'originebisognapensare che eravamo come marinai naufragati in un'isola deserta.Volgemmo le spalle al fiume e per settimane e mesi errammo in queldeserto in cui la Specie era sconosciuta. Mi riesce difficilericostruire il nostro viaggio e impossibile farlo senza soluzione dicontinuità. L'insieme della visione che ne conservo ènebbioso e indistintoanche se qua e là ho dei ricordi vividegli avvenimenti che si verificarono.


Ricordospecialmente la fame che ci toccò patire nelle montagnesituate fra il Lago Lungo e il Lago Lontanoe il vitello chesorprendemmo mentre dormiva in una boscaglia; come pure ricordo ilPopolo degli Alberiche viveva nella foresta che si estendeva tra ilLago Lungo e le montagnee che ci diede una caccia spietata traquelle montagnecostringendoci a fuggire verso il Lago Lontano.


Dapprimadopo aver lasciato il fiumecamminammo verso occidente fino a unpiccolo corso d'acqua che scorreva in un terreno paludoso. Da quifacemmo un giro verso il Nordcosteggiando le paludie dopoparecchi giorni di marcia arrivammo a quello che ho chiamato LagoLungo.


Passammoqualche tempo alla sua estremità superioredove trovammo inabbondanza di che saziarci; e lìun giornonella forestacademmo nelle mani del Popolo degli Alberi. Questi esseri eranoscimmie ferociné più né menoe tuttavia nondifferivano molto da noi.


Eranoè veropiù pelosi; avevano gambe un po' piùcontorte e nodoseocchi un po' più piccolicollo un po' piùcorto e più grossole narici somigliavano un po' piùdelle nostre a due buchi aperti in una depressione alla superficiedel viso; ma la facciala pianta delle mani e dei piedi eranoglabre. Come noi essi emettevano suonicon significati quasianaloghi. Tutto sommatoil Popolo degli Alberi e la Specie non eranomolto dissimili.


Lovidi subito: un vecchietto vacillantemagroappassitocon lafaccia solcata da rughe e gli occhi cisposi. Era una preda legittima.


Nelnostro mondo non vi era nessuna simpatia fra le diverse specieequesti non apparteneva alla nostra specie: era un Uomo degli Alberi eper di più vecchiomolto vecchio. Se ne stava seduto ai piedidi un alberoche era evidentemente il suo alberodato che potemmovedere tra i rami il nido in rovina dove trascorreva la notte.


Lomostrai a Orecchiuto e ci precipitammo su di lui. Egli tentòdi arrampicarsi sul suo alberoma fu troppo lento. Lo agguantai peruna gamba e lo gettai a terra. Allora ci divertimmo a pizzicarloatirargli i pelia torcergli gli orecchia fargli il solletico e apungerlo con la punta di un bastoneridendo fino alle lacrime. Lasua vana collera era assurda. Buffissimo era poi il suo tentativo dirianimare l'ardore spento della sua gioventùdi resuscitarela sua forza esaurita dagli anni; faceva smorfie che nella suaintenzione dovevano essere feroci; ma in realtà eranolamentose; digrignava i denti - denti che non erano più cheradici -; si batteva coi pugni impotenti il magro petto.


Etossivae sospiravae barbugliavabalbettava prodigiosamente.


Ognivolta che tentava di arrampicarsi sull'albero lo tiravamo a terraecosì bene che alla fine si diede per vinto; si sedette epiansementre Orecchiuto e ioanche noi sedutitenendocisottobraccioridevamo della sua angoscia.


Daipianti passò ai gemitidai gemiti alle lamenteleperarrivare a un grido acuto. La cosa ci allarmòma piùnoi volevamo farlo tacerepiù lui gridava forte. Alloradaun punto non molto lontano della foresta un "Goëk! Goëk!"giunse fino alle nostre orecchie. Numerosi altri richiami risposero aquestosinché da lontano si levò una voce di bassoprofondo: "Goëk! Goek!" Poi il grido di adunata:"Huu-huu!" sorse intorno a noi nella foresta.


Alloraincominciò la cacciache sembrava non dovesse mai piùfinire.


Tuttauna tribù c'inseguì sugli alberi e poco mancòche ci pigliasse.


Dovemmorifugiarci sul suolodove avevamo qualche vantaggiodato che essierano Uomini degli Alberi di nome e di fatto e se ci superavanonell'arrampicarsinoi li battevamo nella corsa sul suolo. Filammoverso il Nord con la tribù urlante alle calcagna. Nelle radureguadagnavamo terrenoma sotto i boschi era per loro facileraggiungerci e più di una volta ci serrarono da presso. Mentrela caccia continuavacapimmo che anch'essi erano d'una speciediversa dalla nostrae che i legami che potevano unirci non avevanonulla di simpatico.


C'inseguironoper ore e ore e la foresta sembrava infinita. Cercavamo di restareper quanto più possibile nelle radurema esse sboccavanosempre in una foresta più fitta. Talvolta pensavamo d'esseresfuggiti all'inseguimento e ci mettevamo a sedere per riposarci unpo'; ma sempre prima che avessimo ripreso respiroudivamo l'odioso"Huuhuu!" e i terribili "Goëk! Goëk!" equesti ultimi talvolta prolungati da un selvaggio "Ah ah-ah! ahha-a-a-a!".


Cosìfummo inseguiti attraverso la foresta dal Popolo degli Alberiesasperato. Alla fineverso la metà del pomeriggioi pendiiincominciarono a elevarsi sempre più e gli alberi divenneropiù piccoli. Poi arrivammo sui fianchi erbosi delle montagne.Qui riuscimmo a prendere un buon vantaggio e gli Uomini degli Alberiabbandonarono la caccia per tornare nella loro foresta.


Siccomela montagna era brulla e inospitaleper tre volte in quel pomeriggiotentammo di raggiungere di nuovo la foresta. Ma il Popolo degliAlberi si teneva in agguato e ci respinse. Orecchiuto e io passammola notte su un albero nano non più alto di un cespuglio. Nonvi eravamo affatto al sicuro e saremmo stati facile preda per unanimale in caccia che fosse sopraggiunto.


Lamattina seguentea causa del rispetto che ci eravamo dovuti imporreper il Popolo degli Alberipartimmo per la montagna. Sono certo chenon avevamo un piano definitoneanche un'idea di quel che ciconveniva fare. Eravamo soltanto sospinti in avanti dal pericolo alquale eravamo sfuggiti. Delle nostre peregrinazioni attraverso lemontagne non ho che ricordi nebulosi. Per parecchi giorni ciaggirammo in quella regione desolata e soffrimmo moltospecie per lapauraperché tutto quel che vedevamo era per noi nuovo estrano. Soffrimmo il freddoe più tardi anche la fame.


Eraun paese completamente scopertoformato di roccedi ruscellispumeggianti e di cateratte risonanti. Salivamo e scendevamo allaventura per valli e gole terribili; e semprequalunque fosse ilposto da cui guardavamosi stendevano dinanzi a noiin tutte ledirezionicatene su catene di montagne interminabili. Dormivamo lanotte nelle buche e nei crepaccie una notte ci appollaiammo sullasommità di una sottile punta di roccia che somigliava quasi aun albero.


Finalmentenel mezzo d'una giornata afosaquando la fame ci dava il capogiroraggiungemmo la parte più elevata della catena. Da questaspina dorsale sollevata dalla terraguardando verso Nordal di làdelle montagne che si succedevano le une alle altre sempre piùbasseintravedemmo un lago lontanosul quale il sole scintillava.Era circondato da rive erbosepiatteprive di alberi. E verso l'Estvedemmo la linea nera d'una forestaampia e lunga.


Cioccorsero due giorni per scendere fino al lagoed eravamo esauritidalla fame quando lo raggiungemmo. Sulla riva trovammo un vitellinoda latte che dormiva pacificamente al riparo d'una macchia. Esso cifece molto maleperché noi non conoscevamo altro mezzo perucciderlo all'infuori delle nostre mani. Soddisfatta come si deve lanostra fameportammo il resto della carne nella forestache era aorientee la nascondemmo tra i rami di un albero. Non tornammo peròmai più a riprenderlaperché il corso d'acqua cheusciva dal Lago Lontano brulicava di salmonirisaliti dal mare perdeporre le uova.


Aoccidente del lago si stendevano praterie dove passavano moltitudinidi bisonti e altro bestiame selvaggio. C'erano anche mute di caniselvaticie poiché non esistevano alberila localitànon era sicura per noi. Camminammo verso il Nordseguendo il corsod'acqua per diversi giorni. Allorae ignoro per quale ragioneabbandonammo improvvisamente il corso d'acqua per piegare verso Estpoi verso Sud- Estattraverso una grande foresta. Ma non vorreiannoiare i lettori coi particolari del nostro viaggio; lo facciosoltanto per mostrare come arrivammo finalmente nel paese degliUomini del Fuoco.


Sbucammosul fiumema senza sapere che era il nostro fiume. Avevamo erratocosì a lungo che finimmo per accettare come normale il nostrostato di sperduti. Quando ci pensovedo chiaramente come le nostreesistenze e i nostri destini siano modificati dal più semplicecaso.


Nonsapevamo che quello era il nostro fiume; nulla l'indicava; e se nonl'avessimo riattraversatonon saremmo probabilmente mai piùtornati in mezzo all'Orda; e ioil modernoche dovevo nascere millesecoli più tardinon sarei venuto al mondo.


Orecchiutoe io desideravamo ardentemente di tornare. Durante il nostro viaggioavevamo provato la nostalgia del paese d'originel'aspirazione versola nostra specie e la nostra terra; spesso mi aveva assalito ilricordo della Rapidala giovane femmina che lanciava dolci gridadicui mi piaceva la compagnia e che viveva solasenza che nessunosapesse dove. I ricordi che avevo di lei erano accompagnati dasensazioni di fameche provavo anche quando non ero affamatoquandoavevo appena finito di mangiare.


Matorniamo al fiume. Là il nutrimento era abbondante; consistevasoprattutto in bacche e in radici succulente. Ci attardammo parecchigiorni sulla riva a giocare. Allora Orecchiuto ebbe un'idea. Fu unfatto visibiledi cui io fui testimone: la venuta d'un'idea.


L'espressionedei suoi occhi divenne triste e dolente ed egli fu fortementeagitato. Tentò di parlare; non vi riuscì; non vi riuscìperché non possedeva i suoni necessari per esprimere l'idea.Il risultato dei suoi sforzi fu un barbugliamento che mi fece ridere.Ciò lo mandò in bestia; mi afferròall'improvviso e mi gettò a terra.


Naturalmenteci battemmo e alla fine lo inseguii sulla cima di un alberodoveegli si armò d'un lungo ramo col quale mi percosse ogni voltache tentavo di raggiungerlo.


Intantol'idea aveva cessato di brillare. Io non la conoscevo e Orecchiutol'aveva dimenticata. Ma la mattina seguente essa sorse di nuovo nelsuo cervello. Era forse l'istinto del ritorno che si affermava in luia far persistere l'idea: in ogni caso essa c'erae più chiaradi prima. Mi fece scendere fino al fiumedove un tronco s'eraincagliato sulla riva. Credetti che avesse voglia di giocarecomeavevamo fatto all'imboccatura dell'emissarioe non cambiai parerequando lo vidi trascinare un secondo tronco che giaceva piùlontanoa valle.


Soloquandodopo aver rematotenendo affiancati i due tronchigiungemmofino alla correntemi resi conto dell'intenzione di Orecchiuto. Eglimi additò la riva opposta e ricominciò subito a remarelanciando alte grida d'incoraggiamento. Compresi e remammo con forza.La corrente rapida ci afferròci gettò verso la rivameridionalema prima che avessimo potuto atterrareci respinseverso la riva opposta.


Allorasorse il dissenso. Vedendo la riva nord così vicinaincominciai a remare verso quella direzione per approdarvi.Orecchiuto si sforzava di raggiungere la riva meridionale. I tronchid'albero girarono su se stessidescrivendo cerchi; non andavano innessuna direzione e la foresta sfilava davanti a noimentrescendevamo lungo la corrente.


Nonpotevamo battercipoiché non eravamo tanto sciocchi datralasciare di tener riuniti i due tronchi con l'aiuto dei piedi edelle mani. Ma schiamazzammo e c'insultammo fino al momento in cui lacorrente ci portò di nuovo verso la riva meridionale. In quelmomento era quella la meta più prossimae d'accordo eamichevolmente remammo per raggiungerla. Sbarcammo in unacontrocorrente e ci arrampicammo immediatamente sugli alberi per fareuna ricognizione.




13


Lasera del primo giorno trascorso sulla riva meridionale del fiumescoprimmo gli Uomini del Fuoco. Doveva trattarsi di un gruppo dicacciatori errantii quali s'erano accampati non molto lontanidall'albero che Orecchiuto e io avevamo scelto per alloggiare durantela notte. All'inizio le voci degli Uomini del Fuoco ci allarmarono;ma più tardiquando sopraggiunse l'oscuritàil fuococi attrasse.


Scivolammocon cautela e in silenzio d'albero in albero fino a un punto doveavemmo una buona visione dello spettacolo.


Inuna radura in mezzo agli alberivicino al fiumeardeva un fuocoeintorno a esso si trovavano una mezza dozzina di Uomini del Fuoco.


ImprovvisamenteOrecchiuto si aggrappò a me e sentii che tremava.


Guardaipiù attentamente e vidi il piccolo vecchio grinzoso la cuifreccia avevaalcuni anni primafatto cadere Sdentato dall'alto diun albero. Quando egli si levò e s'aggirò intorno alfuoco gettandovi della legnanotai che zoppicava dalla gambainferma. Qualunque fossela sua infermità era permanente.Sembrava più secco e incartapecorito che mai e il pelo delviso era tutto grigio.


Glialtri cacciatori erano giovani. Notaiposati a terra accanto a lorogli archi e le freccee riconobbi quelle armi. Gli Uomini del Fuocoportavano pelli intorno ai fianchi e sulle spalle; in compensoavevano braccia e gambe nude e non portavano calzature. Come ho giàdettoerano meno pelosi di noialtri della Specie. Non avevano latesta grossa e fra loro e quelli della Specie c'era pochissimadifferenza nel grado d'inclinazione della fronte.


Camminavanomeno curvi di noi ed erano meno elastici nei movimenti.


Schienaanche e ginocchi sembravano più rigidi. Le braccia non eranolunghe quanto le nostree notai che nel camminare non siequilibravano mai toccando il suolo da una parte e dall'altra con lemani. I loro muscoli erano più pieni e simmetricie l'insiemedel viso più gradevole. Le narici si aprivano verso il bassoe anche il profilo del naso era più sviluppatonon aveva unaspetto appiattitoschiacciato come il nostro. Le labbra erano menomollimeno pendentie i canini meno simili a zanne. Tuttavia eranostretti di bacino come noi e non pesavano di più. Tuttosommatodifferivano da noi meno di quanto noi stessi differissimodal Popolo degli Alberi. Certamente le tre specie erano affini ed'un'affinità abbastanza stretta.


Ilfuoco intorno al quale sedevano era particolarmente attraente.


Orecchiutoe io passammo ore e ore a guardare le fiamme e il fumo.


Soprattuttoaffascinava quandodopo che vi avevano aggiunto del combustibilenubi di scintille si levavano in aria. Avrei ben voluto accostarmi alfuoco e guardarloma non c'era mezzo. Eravamo rannicchiatinell'inforcatura di un albero sul limitare di una radura e nonosavamo correre il rischio d'essere scoperti.


GliUomini del Fuocoaccoccolati intorno al focolaredormivano col capoappoggiato sulle ginocchia. Il loro sonno non era profondo; leorecchie si muovevano leggermente e apparivano agitate. Spessissimol'uno o l'altro si levava e alimentava il fuoco gettandovi altralegna. Nell'oscuritàoltre il cerchio di luce proiettatasulla forestaerravano le bestie da preda che Orecchiuto e ioeravamo in grado di riconoscere dai diversi rumori che facevano.C'erano cani e pure una iena e a un certo momento si levò ungran baccano di abbaiamenti e di brontolii che svegliòbruscamente tutto il circolo dei dormienti.


Poiun leone e una leonessa sostarono sotto il nostro alberoguardandoavidamente con la criniera irta e gli occhi inquieti. Il leone sileccava i baffiera eccitatocome se volesse avanzare e fare unbuon pasto; la leonessa era più prudente. Fu lei che ciscoprì; allora la coppia si arrestò e ci guardòin silenziofiutandoci con le narici palpitanti. Alla fine emiserobrontoliilanciarono un ultimo sguardo verso il fuoco e tornarononella foresta.


Permolto tempo ancora Orecchiuto e io restammo a guardare. Di quando inquando udivamo gli scricchiolii prodotti da corpi pesanti che simuovevano fra la massa degli alberi e nelle macchie basseenell'oscurità che regnava fuori del cerchio di lucepotevamovedere occhi brillare ai riflessi del fuoco. In lontananza udimmoruggire un leone; ancora più lontano si levò il gridodi qualche animale colpitoche batteva l'acqua e guazzava in unabbeveratoio. Dal fiume salirono pure i brontolii prolungati deirinoceronti.


Lamattinadopo aver dormitoci accostammo di nuovo cautamente versoil fuoco. Esso covava ancora sotto la cenere e gli Uomini del Fuocoerano partiti. Facemmo un giro nella foresta per assicurarci che sierano definitivamente allontanatipoi tornammo di corsa verso ilbraciere. Volevo rendermi conto a che cosa somigliasse il fuocoeraccolsi fra il pollice e l'indice un carbone ardente. Il grido didolore e di spavento che lanciaimentre lo lasciavo caderefecefuggire Orecchiuto sulla cima di un albero; iopreso dal suo stessopanicove lo raggiunsi istantaneamente.


Lavolta successiva tornammo usando una maggiore prudenza ed evitammo ilcontatto dei carboni ardenti. Ci mettemmo a imitare gli Uomini delFuoco: accovacciati accanto al bracierecol capo appoggiato sulleginocchiafacemmo la scena di dormire. Poi volemmo ripetere anche laloro maniera di parlarema dalle nostre labbra non uscirono chebalbettii inintelligibili. Ricordai di aver visto il vecchio grinzosoattizzare il fuoco con un ramo; feci la stessa cosa anch'iosollevando masse di carboni ardenti e nuvole di cenere bianca. Comegioco era magnificoe fummo ben presto coperti di un candido stratodi cenere.


Erainevitabile che imitassimo gli Uomini del Fuoco alimentando ilbraciere. Provammo prima con alcuni ramoscelli. La cosa riuscì.Il legno s'infiammò scoppiettando e per la gioia ci mettemmo adanzare e a schiamazzare pazzamente. Poi ci mettemmo a gettare sulfuoco pezzi di legno di più grossa dimensione; e ce nemettemmo tanti e tanti finché il braciere diventòenorme. Ci precipitavamo da tutte le partitrascinando fuori dellaforesta rami e arbusti morti. Le fiamme lingueggiarono sempre piùin alto e la colonna di fumo sorpassava la cima degli alberi. Siudivano crepitiiscoppi e rombi terribili. Era il lavoro piùcolossale che fosse mai uscito dalle nostre mani e ne eravamo fieri."Anche noi siamo Uomini del Fuoco"pensavamo danzandosempre come gnomi bianchi attorno alle fiamme.


L'erbasecca e i rami che erano sul suolo presero fuoco senza che ce neaccorgessimo. Improvvisamente un grande albero situato sul marginedella radura scoppiò in fiamme. Lo guardavamo con occhisorpresi e il calore ci costrinse a indietreggiare. Un altro alberoe poi un altro ancora e poi una mezza dozzina presero fuoco. Allorafummo presi da paura. Il mostro era scatenato. Ci rannicchiammospaventatimentre il fuoco si propagava intorno alla radura e ciavvolgeva da tutte le parti. Negli occhi di Orecchiuto riapparvel'espressione lamentosa che accompagnava sempre in lui la mancanza dicomprensionee so che quello stesso sguardo doveva illuminare anchei miei occhi. Ci aggrappammo l'uno all'altro tenendoci allacciatifino al momento in cui il calore ci raggiunse e l'odore dei pelibruciati giunse alle nostre narici. Allora con un balzo fuggimmoverso occidentevolgendoci di tratto in tratto a guardare indietro eridendoridendo fino alle lacrime mentre correvamo.


Ametà del giorno raggiungemmo una lingua di terraformatacome scoprimmo in seguitoda una gran curva del fiume che formava inquel punto un cerchio quasi completo. Una massa confusa di collinebasse e in parte boscose attraversava quella penisola. Raggiungemmole alture e guardammo indietro verso la foresta; era diventata unmare di fiamme che il ventoalzandosifaceva ondulare versooriente. Andammo in direzione oppostaseguendo la rivae prima chepotessimo immaginarcelocademmo in pieno sulla residenza degliUomini del Fuoco.


Essiavevano scelto un punto strategico meraviglioso. Era una penisolaprotetta da tre lati dalla curva del fiume: un solo lato eraaccessibile da terra. Era la parte stretta della penisolaall'ingresso della quale le colline basse formavano una barrieranaturale. Isolati così dal resto del mondogli Uomini delFuoco avevano potuto vivere e prosperare in quel sito. In realtàcredo appunto che quella prosperità fu la causa dellamigrazione successivache tanto danno arrecò alla Specie. GliUomini del Fuoco avevano dovuto moltiplicarsi eccessivamente fino alpunto di ritrovarsi rinchiusi scomodamente entro i limiti del lorodominio. Dovettero fatalmente strariparee nel corso della loroespansionescacciarono e distrussero la Speciesi stabilirono nellesue caverne e occuparono il terreno dove noi avevamo vissuto.


Orecchiutoe io ci preoccupammo ben poco di tutto questo quando ci trovammonella piazzaforte degli Uomini del Fuoco. Non avevamo che un'idea:fuggire quantunque non potendo fare a meno di soffermarci persoddisfare la nostra curiosità guardando dall'alto ilvillaggio.


Vedemmocosì per la prima volta le donne e i bambini degli Uomini delFuoco; i bambini scorrazzavano per la maggior parte nudima le donneindossavano pelli di bestie selvagge.


Comenoi della Speciele Genti del Fuoco vivevano nelle caverne. Lospazio scoperto davanti a queste scendeva in pendio verso il fiume enumerosi fuochi bruciavano sulla riva. Ignoro se le Genti del Fuocousassero cuocere i loro alimenti: fatto sta che né io néOrecchiuto li vedemmo far cucina. Tuttavia è mia opinione cheessi dovevano dedicarsi a una specie di cucina rudimentale. Come noisi servivano di zucche per attingere acqua al fiume. C'era un grandeandirivieni nel villaggioe le donne e i bambini lanciavano altegrida. I piccoli giocavano e sgambettavano qua e làcomefacevano i bambini della Specieai quali somigliavano più diquanto gli Uomini del Fuoco non somigliassero agli adulti dellaSpecie.


Orecchiutoe io non ci attardammo a lungo; vedemmo una banda di ragazzi chetiravano con l'arco e tornammo furtivamente indietro nel piùfolto della forestaproseguendo poi verso il fiume. Lìtrovammo una piccola zatteracostruita evidentemente da qualcunodegli Uomini del Fuoco. Erano due tronchipiccoli e drittilegatiinsieme da radici resistenti e da rami fissati trasversalmente.


Questavolta avemmo entrambi la stessa idea. Volevamo fuggire dal paese delPopolo del Fuoco: quale mezzo migliore che attraversare il fiume suquei tronchi d'albero? Vi montammo sopra e ci spingemmo al largo.Qualcosa trattenne all'improvviso la zattera e la rigettòviolentemente indietro contro la riva. Questo brusco arresto ci fecequasi cadere in acqua. La zattera era legata a un albero con unagomena di radici intrecciate. La staccammo prima di lanciarci dinuovo in avanti. Quando raggiungemmo il centro della corrente avevamodeviato a vallesino al punto da trovarci proprio di fronte alvillaggio del Popolo del Fuoco. Eravamo così intenti a remarecon gli occhi fissi sull'altra spondache non ce ne eravamo accortifino al momento in cui un grido selvaggiopartito dalla rivace neavvertì.


Ciguardammo intorno: parecchi Uomini del Fuoco ci contemplavanomostrandoci a ditomentre altri uscivano strisciando dalla caverna.


Cisedemmo sulla zattera a fissarlidimenticando di remare. C'era granconfusione sulla riva; alcuni Uomini del Fuoco scaricarono su di noii loro archi; le frecce caddero numerosissime attorno a noi; ma perbuona sorte eravamo fuori tiro.


Quellofu un giorno memorabile per Orecchiuto e per me. A orientel'incendio che avevamo provocato riempiva di fumo metà delcielo; ma noi eravamo lìnel mezzo del fiumeperfettamenteal sicurosfilando intorno al rifugio del Popolo del Fuoco. Cimettemmo a sedere sbeffeggiando le Genti del Fuocosempre filandotrascinati verso il Sudpoi da Sud-Ovest a Esta Nord-Estpoiancora verso Estseguendo la gran curva doppia in cui il fiume siannodava quasi ripiegandosi su se stesso.


Mentrecontinuavamo a navigare verso occidentelasciando il Popolo delFuoco ben dietro di noiuna scena familiare si svolse davanti ainostri occhi. Era il grande abbeveratoio sino al quale ci eravamoavventurati una volta o due per vedere l'andirivieni degli animaliquando scendevano a dissetarsi al fiume. Sapevamo che più inlà c'era il campo di carotee poi la rupe con le caverneabitate dai nostri.


Incominciammoa remare per raggiungere la riva che sembrava fuggire rapidamenteeprima di aver avuto il tempo di pensarciapprodavamo nel punto dovei membri della Specie avevano l'abitudine di bere.


C'eranodonne e bambinie numerosi portatori d'acqua che riempivano lezucche. Alla nostra vista tutti si diedero a una pazza fugaabbandonando dietro di sé una fila di zucche.


Sbarcammotrascurando naturalmente di amarrare la zatterache si allontanòlungo il filo dell'acqua. Molto prudentemente strisciammo lungo ilsentiero. L'Orda era sparita nelle proprie tanesebbene qua e làsi affacciasse qualche volto che ci spiava. Nessun indizio diOcchiorosso. Eravamo tornati a casa. La sera stessa ci coricammonella nostra piccola cavernaalla sommità della rupedopoaverne scacciato una coppia di monelli di umore battagliero che neavevano preso possesso.




14


Imesi si succedettero. Il dramma e la tragedia dell'avvenire non sierano ancora profilati sull'orizzontee nel frattempo noischiacciavamo noci e vegetavamo. Ricordo che l'annata fu buona per lenoci; ne riempivamo delle zucche per portarle nei posti dove usavamoschiacciarle; le appoggiavamo in un cavo della roccia e con unciottolo si compiva l'operazionemangiandole poi con la stessarapidità con cui le aprivamo.


Erasopraggiunto l'autunno quando Orecchiuto e io tornammo dal nostroavventuroso viaggio. L'inverno che seguì fu clemente. Fecifrequenti escursioni nelle vicinanze del mio albero familiareepercorsi non meno spesso tutto il territorio fra le paludi deimirtilli e l'imboccatura dell'emissario dove Orecchiuto e io avevamoimparato a navigare; ma non mi riuscì di scoprire alcunatraccia della Rapida.


Erasparitae io la desideravospinto da quel desiderio ardente di cuiho già parlatoe che era simile alla fame fisicauna fameche sentivo anche a stomaco pieno. Ma ogni ricerca fu vana.


Tuttaviala vita non era monotona alle caverne. Bisognavaè verotener conto di Occhiorosso. Orecchiuto e io non avevamo mai unistante di tranquillitàall'infuori dei momenti in cuieravamo rifugiati nella nostra piccola caverna. Per quanto neavessimo ampliato l'ingressoavevamo ancora qualche difficoltàa scivolarci dentroe per quanto continuassimo a ingrandirloessorestava ancora troppo angusto per il corpo enorme di Occhiorosso.D'altronde egli non assediò più la nostra caverna. Nonaveva dimenticato la lezione ricevuta e portava al collo una grossaprotuberanzache segnava il punto dove era stato colpito dallascheggia di roccia che gli avevo lanciata. Questa protuberanzachenon scomparve maiera talmente grossa che la si distinguevabenissimo anche da lontano. Mi sono spesso divertito a contemplarequel segno del mio coraggiola cui vista mi faceva rideresoprattutto quando mi trovavo in perfetta sicurezza.


Sebbenenon potessimo contare sul soccorso degli altri nel caso cheOcchiorosso ci riducesse in pezzi sotto i loro occhituttavia imembri dell'Orda simpatizzavano grandemente per noi. Non era forseuna vera e propria simpatiama un modo di esprimere il loro odioverso Occhiorosso. In ogni casoci avvertivano sempre del suoavvicinarsi.


Sianella forestasia sulla riva del fiume o nello spazio scopertodavanti alle caverneessi erano sempre a prevenirci in tempo delpericolo che incombeva su di noi; di modo che avevamo sempre ilvantaggio di questa molteplice sorveglianza nella nostra inimiciziacon Occhiorossol'atavismo.


Unavolta Occhiorosso riuscì quasi a cogliermi. Era poco dopol'albae la Specie non si era ancora alzata. La sorpresa fucompleta. Nessun mezzo di ritirata verso la mia caverna mi erapossibile. In un battibaleno mi precipitai nella caverna a doppiauscitaquella stessa in cui Orecchiuto mi era sfuggito anni primaedavanti alla quale Dente di Sciabola era stato solennemente battutomentre inseguiva i due membri della Specie. Quando ebbi raggiunto ilpassaggio che univa le due cavernemi accorsi che Occhiorosso non miseguiva; l'istante dopo si precipitava però nella cavernadall'altro ingresso. Mi tirai indietro nel passaggio: egli uscìrientrò dall'altra partedandomi la caccia con persistenzaaccanita. Mi limitai a mettermi al sicuro infilandomi ogni volta nelpassaggio di comunicazione.


Mitenne lì una mezza giornata prima di abbandonare la caccia. Inseguitoquando Orecchiuto e io avevamo la certezza di raggiungere ladoppia cavernanon battevamo più in ritirata verso la nostratutte le volte che Occhiorosso faceva la sua comparsa. Cicontentavamo di tenerlo d'occhio e di assicurarci che non citagliasse la linea di ritirata.


Appuntoin quell'inverno Occhiorosso uccise la sua ultima mogliecoi cattivitrattamenti e le continue percosse. L'ho chiamato un atavismoma inciò egli era peggio di un atavismopoiché i maschidegli animali inferiori non maltrattano né uccidono le lorocompagne. Per questo credo che Occhiorossononostante le sueterribili tendenze atavichefacesse prevedere la venuta dell'Uomo;non vi sono che i maschi della specie umana che uccidono le propriecompagne.


Comeera da aspettarsiavendo soppressa la moglieOcchiorosso si mise incerca di un'altra. Si decise per la Canterinanipote del vecchioOsso Midolloso e figlia del Glabro. Era una giovane che amava moltocantare al crepuscoloseduta all'ingresso della sua cavernae siera recentemente unita allo Sbilenco. Costui era un esseretranquilloche non molestava nessuno e non aveva l'abitudine diazzuffarsi coi suoi simili. Non era certo un battagliero: piccolomagroera il meno agile di tutti.


MaOcchiorosso commise un atto abominevole. Si era nella calma fine delgiornoal momento in cui incominciavamo a raggrupparci ai piedidella rupeprima di tornare ad arrampicarci verso le nostre caverne.


Aun trattola Canterinainseguita da Occhiorossosi precipitòlungo un sentiero che saliva da un abbeveratoio. Corse verso ilmarito; il povero piccolo Sbilenco era terribilmente spaventatomasi comportò da eroe. Pur sapendosi minacciato di mortenonfuggì; si levòschiamazzandoeresse il pelomostròi denti.


Occhiorossomugghiava rabbiosamente. Era per lui una grave offesa vedere unoqualunque della Specie resistergli così. La sua mano sislanciò in avanti e agguantò lo Sbilenco per il collo;questi affondò i denti nel braccio di Occhiorosso; ma unistante dopocol collo spezzatosi contorceva al suolo come unverme. La Canterina lanciò grida inintelligibili; Occhiorossoagguantò anche lei per i capelli e la trascinò versol'alto della rupe. La trascinò con forza quando l'ascensioneincominciòla tirò e infine la issò nella suacaverna.


Noitutti eravamo furibondidi una collera follevociferante.


Percuotendociil pettorizzando il pelodigrignando i dentici unimmo persfogare ognuno la propria rabbia. Sentivamo l'aculeo dell'istintodella collettivitàdell'unione per un'azione concertatadell'impulso verso la cooperazione. Seppure in una forma oscuraquesto bisogno di azione collettiva ci s'imponeva; ma non avevamoalcun mezzo per manifestarla. Non facemmo fronte in blocco aOcchiorossoper annientarloper mancanza di mezzi sufficienti peresprimere l'impulso comune. Pensavamo vagamente a cose per le qualinon esistevano simboli. Questi simboli dei pensieri dovevano essereinventati solo in seguitolentamente e penosamente.


Cercammodi formulare suoni coi vaghi pensieri che volteggiavano simili aombre nella nostra coscienza. Il Glabro incominciò aschiamazzare rumorosamente; con questo rumore egli esprimeva la suacollera contro Occhiorosso e il suo desiderio di fargli del male.


Giunsecosì a esprimere questi suoi sentimenti e noi lo comprendemmo;ma quando tentò di formulare l'impulso di cooperazione ches'agitava nel suo intimoquei suoni divennero inintelligibili.Allora Facciagrossacon le sopracciglia rizzatebattendosi ilpettoincominciò anche lui a schiamazzare. L'uno dopo l'altroci unimmo a quel turbine di rabbiafinché il vecchio OssoMidolloso si mise a borbottare e a barbugliare con la sua voce fiocae con le sue labbra scarnite. Qualcuno afferrò un bastone econ esso si mise a percuotere un tronco d'albero. In breve il baccanosegnò una certa cadenza; inconsciamente le nostre grida e lenostre esclamazioni assunsero un ritmoche produsse su di noi uneffetto calmantee prima che lo sapessimodimenticata la nostracolleraavevamo intonato un coro ritmico.


Questaspecie di cori mostrano in modo meraviglioso la mancanza di nessonelle ideel'illogicità della Specie. Noiche una colleracomune univa in un impulso verso la cooperazioneeravamo sviativerso l'oblio dalla ripetizione di un ritmo grossolano. Eravamosocievoli e vivevamo in bande e queste riunioni di canto e di riso cisoddisfacevano. Insomma i cori ritmici erano come i precursori deiconsigli dell'uomo primitivo e delle grandi assemblee nazionalideicongressi internazionali dell'uomo moderno. Ma noi della Specie delmondo nascente non avevamo il dono della parolae ogni volta che citrovavamo così riunitiprecipitavamo nella cacofonia dellatorre di Babeledonde usciva una specie di ritmo che conteneva in sestesso gli elementi di un'arte futura. Era l'arte nascente.


Nonvi era continuità nei ritmi che noi battevamo. La cadenzaandava ben presto dispersa e la cacofonia regnava finché nonne avessimo trovata un'altra. Talvolta una mezza dozzina di cadenzebattevano simultaneamenteciascuna appoggiata da un gruppo che sisforzava con ardore di sorpassare gli altri ritmi.


Negliintervalli del baccanociascuno cicalava per conto propriofacevacapriolestrepitavagridavadanzavabastando a se stessopienodelle proprie idee e della propria volontà con esclusionetotale di quelle degli altricentro dell'universoseparato per ilmomento da ogni armonia con gli altri centri dell'universo chesaltavano e urlavano intorno a lui. Allora sopravveniva il ritmo: unbattito di maniun bastone urtato su un tronco d'alberol'esempiodi un tale che danzava senza mai fermarsi o il canto di un altro chegridavaconvulsamente e regolarmentecon un'inflessione monotona ediscendente: "Eh-bangeh-bang! Eh bangeh-bang!". L'unodopo l'altro gli attoriin principio solo coscienti delle loroazionierano presi dal ritmo e ben presto tutti danzavano ocantavano in coro: "Ha-ahha-haha!" era uno dei nostriritornelli favoriticome pure: "Eh- uàeh-uàeh-uà-ah!". Cosìsgambettando pazzamentesaltandogridandodondolandocidanzavamo e cantavamo nelcrepuscolo incombente del mondo primitivo chiamando l'oblioraggiungendo l'accordoed eccitandoci sino a una frenesia senzasignificato né senso. E così l'arte dissolveva lanostra rabbia contro Occhiorosso.


Continuammoa urlare i selvaggi ritornellifinché la notte sopravvenneammonendoci coi suoi terrori; poi scivolammo verso le nostre tanenella rupechiamandoci a bassa vocementre le stelle si mostravanoe l'oscurità si diffondeva.


Nonsi temeva che l'oscurità. Non avevamo alcun germe direligionealcuna concezione di un mondo invisibile. Conoscevamounicamente il mondo realee le cose che temevamo erano le coserealii pericoli concretigli animali divoratori in carne e ossa.Solo essi ci facevano temere l'oscuritàperché questasegnava l'ora degli animali da predal'ora in cui solevano usciredai propri rifugi e balzare su di noi nella notteattraverso laquale si aggiravano sicuri e invisibili.


E'possibile cheappunto da questo timore degli esseri reali dellanottesi sia più tardi sviluppata la paura degli esseriirrealiper raggiungere il suo apogeo nella concezione di un vasto epotente mondo invisibile.


Quandol'immaginazione crebbeaumentò anche la paura della mortefino al momento in cui la Razza futura condensò quel timorenell'oscurità e la popolò di spiriti.


Pensoche il Popolo del Fuoco avesse già incominciato ad aver pauradella notte in quest'ultimo modo; ma le ragioni che ci facevanointerrompere i nostri cori ritmici per correre a rifugiarci nellenostre tane erano il vecchio Dente di Sciabolai leoni e glisciacallii cani selvatici e i lupie in genere tutte le razzeaffamate e carnivore.




15


Orecchiutosi ammogliò durante il secondo inverno che seguì ilnostro viaggio d'avventure. L'avvenimento giunse completamenteinatteso ed egli non mi diede alcun avviso. Lo seppi una sera mentremi arrampicavo sulla rupe per raggiungere la nostra caverna. Appenasporsi il capo oltre l'ingressosubito mi arrestai: non c'era piùposto per me. Orecchiuto vi si era installato con sua mogliela miasorellastrafiglia del mio patrigno lo Schiamazzatore.


Cercaidi entrare per forza. Lo spazionella cavernaera appenasufficiente per duee perciò era tutto occupato. Ebbi lapeggio e immediatamentesia per le unghiate che ricevetti che per lestrappate di pelifui contento di andarmene. Dormii quella notteealtre ancoranel passaggio di comunicazione della caverna gemellache sapevo essere un asilo relativamente sicuro. Così come duemonelli avevano lì potuto sfuggire al vecchio Dente diSciabolae come io stesso vi avevo schivato Occhiorossomi sembravache facendo la spola tra le due caverneavrei potuto sfuggire atutti gli animali da preda.


Maavevo dimenticato i cani selvaticii quali erano abbastanza magriper passare dovunque potevo passare io. Una notte mi fiutarono. Sefossero penetrati simultaneamente dalle due entratemi avrebberopreso senz'altro. Mainseguito da alcuni di essi nel passaggio dicomunicazioneuscii rapidamente dall'altra parte. Di fuori miaspettavano altri cani selvaticii quali si scagliarono contro di mementre mi slanciavo avanti e incominciavo ad arrampicarmi lungo larupe. Uno di essiun bruto sfiancato e affamatomi afferròin pieno salto. I suoi denti affondarono nei muscoli della mia cosciae fui quasi rovesciato. Il cane tenne la sua presama io non fecialcun tentativo per fargliela lasciareperché tuttal'attività del mio spirito e tutta la mia energia erano tesenello sforzo di arrampicarmiper giungere così fuori dellaportata di quei bruti.


Soloquando fui lontano dai miei inseguitorimi preoccupai del doloreatroce che risentivo alla coscia; e allora a una dozzina di piedisopra la muta ringhiosa che balzava e si arrampicava e poi ruzzolavalungo il pendio della rupeafferrai il cane alla gola e lentamentelo strangolai. Mi ci volle un certo tempo; la bestia graffiava e mistrappava pelo e pelle con le zampe posteriorimentre con tutto ilpeso del suo corpo dava scosse formidabili nell'intento di tirarmi inbasso alla rupe.


Allafine i suoi denti si ritirarono dalla mia carne lacerata.


Trasportaiil cadavere del cane nell'alto della rupe e passai la nottesull'ingresso della mia antica cavernanella quale si trovavanoOrecchiuto e la mia sorellastra. Però prima dovetti sopportareun torrente d'ingiurie dal resto dell'Orda per esser stato causa ditanto baccano. Ma di ciò mi vendicai subito: di quando inquandoallorché gli abbaiamenti della muta si calmavanolasciavo cadere una pietra che aveva l'immancabile effetto dirisvegliarli. Allora gli insulti dell'Orda esasperata riprendevanocon aumentata vivacità. Al mattino divisi con Orecchiuto e consua moglie il cane che avevo uccisoe per qualche giorno il nostrotrio non si cibò né di erbe né di frutta.


Ilmatrimonio di Orecchiuto non fu soddisfacente e per fortuna non duròa lungo. Né io né lui fummo felici durante quelperiodo. Ero isolatosoffrivo di essere stato scacciato fuori dellamia piccola caverna dove mi trovavo al sicuro eper una ragione oper l'altranon feci lega con nessuno degli altri maschi. Il miocameratismo di lunga data con Orecchiuto era diventato un'abitudine.


E'vero che avrei potuto ammogliarmi anch'ioe probabilmente l'avreifatto senza la penuria di femmine che c'era nell'Orda. Questa raritàera dovuta alla stravaganza di Occhiorossola qual cosa pone inevidenza quale minaccia costui rappresentasse per l'esistenzadell'Orda. E poi c'era la Rapidache non avevo dimenticata.


Nelperiodo durante il quale Orecchiuto fu ammogliato errai da una partee dall'altrasempre in pericolo la notte e non dormendo mai a mioagio. Uno dei membri dell'Orda morì e la vedova fu condottanella caverna d'un altro. Presi possesso della caverna abbandonatadal mortoma il suo ingresso era troppo largo e quando Occhiorossoriuscì una volta quasi a prendermicitornai a dormire nelcorridoio interno della caverna doppia. Nondimeno quando vennel'estate mi allontanai dalle caverne per intere settimanedormendoin un nido che costruii su un alberoall'imboccatura dell'emissario.


Hodetto che Orecchiuto non era felice. La mia sorellastra era veramentela figlia dello Schiamazzatore e gli rendeva la vita intollerabile.In nessuna caverna c'erano tante liti e tante dispute come nellaloro. Occhiorosso era un vero Barbabluma Orecchiuto era iltrastullo della mogliee Occhiorosso era troppo astuto perdesiderare la donna di Orecchiuto.


Perfortuna di quest'ultimo essa morì presto. Una cosastraordinaria sopravvenne quell'estate. Quasi alla fine dellastagionevi fu una seconda maturazione di carote. Quelle radiciinattese erano giovanigustoseteneree per qualche tempo il campodi carote fu il pascolo favorito dell'Orda. Una mattinadi buon'oraci andammo a far colazione in gran numero. Accanto a me c'era ilGlabro; un po' più distante il padre e il figlio di luiilvecchio Osso Midolloso e il Labbrone. Dall'altra parte si trovavanola mia sorellastra e Orecchiuto: essa era fra noi due.


Improvvisamentesenza alcun preavvisoil Glabro e la mia sorellastra balzarono inpiedi urlandomentre io udivo il colpo sordo delle frecce che litrapassavano. Nello stesso istante essi erano caduti al suolodimenandosi e anelandomentre il resto di noi fuggiva perdutamenteverso gli alberi. Una freccia mi fischiò all'orecchio e andòa configgersi a terravibrando e oscillando sotto la scossa prodottadal brusco arresto del suo volo. Rammento lucidamente il balzo adestra che feci per evitarla mentre correvo e il giro inutilmentegrande che feci. Dovetti fare uno scartocome un cavallo che sigetta di fiancoalla vista di un oggetto di cui ha paura.


Orecchiutocadde bruscamente a terramentre correva accanto a me. Una frecciapenetratagli nel polpacciol'aveva abbattuto. Si rialzò etentò di riprendere la corsa; ma cadde una seconda volta. Michiamò in tono di preghiera dopo essersi sollevato; pois'accasciòtremando di paura. Mi precipitai per prestarglisoccorso. Egli mi mostrò la freccia. L'afferrai per estrarlama ciò dovette causargli un dolore tanto intollerabile chesubito s'impadronì della mia mano e mi fermò.


Unafreccia passò fischiando fra noi due: un'altra colpìuna roccia e volò in schegge sul suolo. Era troppo. Tiraibruscamente con tutte le mie forze; Orecchiuto urlò e mi coprìdi morsidi pugni e di graffimentre la freccia usciva dallaferita. Ma l'istante successivo avevamo ripreso la nostra corsafolle.


Guardaiindietro. Il vecchio Osso Midolloso abbandonato in lontananzaprocedeva vacillando nella sua corsa per sfuggire alla morte.Inciampò ripetutamente e una volta cadde pure; ma per buonasorte non volavano più frecce. Riuscì a rimettersidebolmente in piedi; l'età gli pesava fortementee tuttavianon voleva morire. Tre Uomini del Fuocoche ora si slanciavano inavantifuori del loro agguato nella forestaavrebbero potutofacilmente raggiungerlo; ma non ci provarono neppure.


Probabilmenteegli era troppo vecchio e troppo incartapecorito. Essi volevano ilGlabro e la mia sorellastraperchéappena mi voltai indietrosempre fuggendo fra gli alberipotei vedere gli Uomini del Fuoco cheschiacciavano loro il cranio con delle pietre. Uno dei tre Uomini delFuoco era il vecchio cacciatore zoppo e grinzoso.


Proseguimmola nostra fuga sugli alberi verso la cavernain folla sovreccitata edisordinatascacciando davanti a noi tutti i piccoli animali dellaforesta e facendo gridare le gazze in una maniera sfrontata. Ora chenon c'era più pericolo immediatoil Labbrone attese il nonnoOsso Midolloso eseparati tra loro dalla scomparsa di unagenerazioneil vecchio e il giovane formarono la nostraretroguardia.


CosìOrecchiuto tornò celibe. Quella notte stessa dormii con luinella mia antica caverna e il nostro cameratismo ricominciò.La perdita della moglie non parve recargli alcun dolore; almeno nonmostrò per lei neppure il più lieve rimpianto. Solo lasua ferita sembrava addolorarloe occorse un'intera settimana perchériacquistasse la vivacità di prima.


OssoMidolloso era l'unico vecchio dell'Orda. Talvoltagettando unosguardo retrospettivo in quel lontanissimo passatoquando la visioneche ho di lui è più nettanoto una somiglianzasorprendente fra lui e il padre del nostro giardiniere. Il padre delgiardiniere era vecchissimoe molto magro; quando guardavacuriosamente fra le palpebre cispose dei suoi occhiettie borbottavafra le gengive sdentateassomigliava di tutto punto a Osso Midollosoe agiva come lui. Da bambinoquesta rassomiglianza mi spaventava.Fuggivo ogni volta che vedevo il vecchio camminare zoppicandoappoggiato ai suoi due bastoni. Osso Midolloso aveva pure un po' dibarba bianca che mi pareva somigliante alle fedine del vecchio.


Comeho dettoOsso Midolloso era il solo vecchio dell'Orda e costituivaun'eccezione. La Specie non raggiungeva la vecchiaia. La stessa etàmatura era una rarità. La morte violenta era il genere dimorte abituale. Si moriva come morì mio padrecome era mortoSdentatocome erano morti la mia sorellastra e il Glabrobruscamentebrutalmentenel pieno possesso delle proprie facoltàin tutto il rigoglioin tutta la forza della vita. Morte naturale?Sìla morte violenta era il solo modo di morire aquell'epoca.


Nonsi moriva di vecchiaia nell'Ordae io non ho conosciuto un solo casodi questo genere. Lo stesso Osso Midollosoil solo a cui ciòsarebbe potuto accaderenon morì di vecchiaia. Una graveinfermitàogni diminuzione accidentale o temporanea dellefacoltà votava l'individuo a una morte prossima. Di solitoqueste morti sopravvenivano senza la presenza di testimoni. Sispariva semplicemente: si lasciava una mattina la caverna e non vi sifaceva più ritorno. Si spariva nelle gole voraci delle bestieda preda.


L'incursionedel Popolo del Fuoco nel campo di carote fu il principio della fine.Di ciò non avemmo alcun dubbio. I cacciatori del Popolo delFuoco incominciarono a mostrarsi più spessoa misura che iltempo avanzava. S'insinuavano silenziosamentea duea tre pervoltanell'interno della forestae le frecce di cui erano armatisopprimevano la distanza e facevano cadere le loro prede dall'altodei più grandi alberisenza che dovessero arrampicarvisi.L'arco e la freccia erano come un'estensione prodigiosa dei lorosalti e dei loro colpidi modo che essi potevano raggiungere euccidere a una distanza di cento piedi e anche più. Ciòli rendeva terribilipiù terribili dello stesso Dente diSciabola. E inoltre erano astutissimi; usavano un linguaggio chepermetteva loro di ragionare efficacementee per di piùsapevano operare di comune accordo.


Finimmoperciò con l'essere molto circospetti quando eravamo nellaforesta. Diventammo più vigilipiù timorosi. Nonpotevamo piùappollaiati su un alberoridere dei nemicicarnivori che si aggiravano sul suolo; né potevamo piùconsiderare gli alberi come una protezione.


GliUomini del Fuoco erano dei carnivoricon unghie e zanne di centopiedi di lunghezzai più terribili di tutti gli animali dapreda che percorrevano il mondo primitivo.


Unamattinaprima che la Specie si fosse sparpagliata nella forestavifu un panico fra i portatori d'acqua e quelli che erano andati adissetarsi al fiume. Tutta l'Orda si precipitò verso lecaverne.


Avevamol'abitudinein circostanze analoghedi fuggire prima e di fare dopolo nostra inchiesta. Aspettammo sull'ingresso delle nostre tane e virimanemmo a spiare. In capo a qualche minutoun Uomo del Fuocos'inoltrò con precauzione nello spazio scoperto: era ilvecchio piccolo cacciatore magro e ossuto. Rimase a lungo asorvegliarciguardando le nostre caverne e la rupe dall'alto inbasso. Discese lungo un sentiero fino a un abbeveratoioper tornarepochi istanti dopo per un altro sentiero. E lì restòancora immobilesorvegliandoci attentamente. Poifatto un mezzogirorientrò zoppicando nella forestamentre noiincominciavamo a chiamarci l'un l'altro ansiosamente e lamentosamentedall'ingresso delle nostre caverne.




16


Laritrovai laggiùnei dintorni della palude dei mirtilli doveviveva mia madre e dove Orecchiuto e io avevamo costruito suglialberi il nostro primo nido. L'incontro fu inatteso. Come giunsisotto l'alberoudii echeggiare la voce dolce e familiare e guardaiin alto. Era lìla Rapidaseduta su un ramodondolando legambe mentre mi guardava.


Rimasiper qualche tempo immobile. La sua vista mi aveva reso felice.


Mapoi un'agitazione e un dolorefino ad allora mai conosciutiincominciarono a penetrare in quella mia felicità. Miarrampicai sull'albero per raggiungerla; appena se ne accorse battélentamente in ritirata verso l'estremità del ramo. Proprio nelmomento in cui stavo per avvicinarmi a leisaltò attraversolo spazio e cadde fra i rami di un albero vicino. Tra l'intrico dellefoglie frementi mi guardò curiosamentecon dolci richiami. Mislanciai direttamente verso di lei e dopo un inseguimento animatolastessa situazione si presentòpoiché essa era lìe mi chiamava dolcemente e mi guardava attraverso le foglie di unterzo albero.


Sentiiche in un certo modo la situazione attuale differiva da quella cheesisteva all'epoca che precedette il mio avventuroso viaggio conOrecchiuto. Io la volevoe lo sapevo; e lo sapeva anche lei. Perciònon voleva che non mi avvicinassi alla sua persona. Dimenticai cheera veramente la Rapida e chenell'arte di arrampicarsimi eramaestra.


L'inseguiid'albero in albero e sempre essa m'evitavavolgendosi a guardarmicon occhi benevolichiamandomi dolcementedanzandosaltandodondolandosi davanti a meappena fuori portata. Più misfuggivae più io volevo raggiungerla; e le ombre delpomeriggioallungandosifurono testimoni della inconcludenza deimiei sforzi.


Mentrel'inseguivoo durante i pochi istanti di riposo fra gli alberi chedi quando in quando mi pigliavoosservai i cambiamenti che si eranoprodotti in lei. S'era fatta più grandepiù robustapiù sviluppata. Le curve del suo corpo erano piùrotondei suoi muscoli più pieni e c'era in lei qualcosa dinuovo e d'indefinibile che denotava la maturità. Era stataassente tre annialmeno da quanto mi è dato supporre. Forseanche un quarto anno era trascorsoche io confondevo con gliavvenimenti degli altri tre. Ma più ci penso e più hola certezza che aveva dovuto restare assente quattro anni.


Dovefosse stataperché fosse partita e quel che le accaddedurante quel periodolo ignoro. Essa non aveva alcun mezzo didirmelocome io e Orecchiuto non avevamo il mezzo per dire allaSpecie quel che avevamo visto durante il periodo in cui eravamorimasti assenti. Con ogni probabilità se n'era andatasolaacompiere un viaggio d'avventure come noi. E' anche probabile checausa della sua partenza fosse stato Occhiorosso. Infatti questiaveva dovuto certamente incontrarla nei suoi giri per boschi; se gliera preso il ticchio di perseguitarlanessun dubbio si puòavere che ciò era bastato a farla fuggire. Considerando gliavvenimenti successivisono indotto a credere che essa si sia spintaparecchio verso il Sudattraverso una catena di montagne e lungo unfiume sconosciutolontano dai suoi simili. Molti Uomini degli Alberiabitavano da quella parte e ritengo che la loro presenza dovettespingerla a ritornare verso l'Orda e verso di me. Spiegheròpiù avanti le ragioni che avevo per pensare così.


Leombre della sera si allungavano e io la inseguivo piùardentemente che maisenza tuttavia riuscire a raggiungerla. Leifingeva di cercare perdutamente di sfuggirmi e sempre faceva in mododi restare appena fuori portata. Dimenticai tuttoil tempol'avvicinarsi della notte e i miei nemici carnivori. Ero pazzod'amore per leie di collera ancheperché capivo che nonvoleva che la raggiungessi. E' curioso constatare come quella collerasembrava far parte del desiderio che avevo di lei.


Comeho dettodimenticai tutto. Correndo attraverso una raduracaddi inpieno su una colonia di serpenti. Ma neanche la loro vista riuscìa fermarmi. Ero pazzo. Essi si slanciarono su di mema io a furia disbalzi e di scarti riuscii a evitarli e continuai a correre. Poi cisi mise un pitonebestia chein un altro momentomi avrebbecertamente fatto arrampicare gridando di spavento sino alla cima diun albero; ma siccome la Rapida stava per spariresaltai a terra eproseguii la mia corsa. L'avevo scampata bella. Poi intervenne la miavecchia nemicala iena: dal modo con cui agivoessa era sicura chequalche cosa stesse per accadere e mi seguì per un'ora. Unavolta esasperammo una banda di cinghiali che si misero a inseguirci.La Rapida osò fare tra gli alberi un salto enorme che mi parvesorpassare i limiti di quanto io stesso ero capace di fare in talgenere di esercitazioni. Dovetti scendere a terra. I cinghiali eranolì; ma io non mi occupai di loro.


Toccaiterra a meno di un metro dal più vicino. Essi si misero adavanzare ai miei fianchi mentre io correvoe per due volte micostrinsero a tornare sugli alberifuori della direzione che seguivala Rapida. Di nuovo mi avventurai per terratornai sui miei passiattraversai un vasto spazio scopertoseguito alle calcagna dallabanda interache grugnivaarruffava le setoledigrignava i denti.


Seavessi fatto un passo falso o inciampato in qualche ostacolonell'attraversare quella raduranon avrei avuto alcuna possibilitàdi scampo; ma per buona sorte ciò non mi accadde. E poco misarebbe importato. Il mio stato d'animo era tale che avrei affrontatoil vecchio Dente di Sciabola in persona o una banda di Uomini delFuoco armati di archi e di frecce. Così era la mia folliaamorosa. Ma non era così per la Rapida. Essa eraprudentissimanon osava affrontare alcun rischio reale eriportandomi indietro attraverso i secoli fino a quel folleinseguimento amorosoricordo che ogni volta che la mia corsa eraritardata dai cinghialiessa non coglieva l'occasione perallontanarsi ancor di piùma aspettava piuttosto che ioavessi potuto riprendere la mia caccia. E dirigeva ordinatamente lasua ritirataandando sempre nella direzione che doveva seguire.


Infinevenne l'oscurità completa. Essa mi condusse intorno al cigliomuscoso di una gola che formava una sporgenza fra gli alberi. Poipenetrammo in una massa compatta di cespugli che mi graffiarono elacerarono al passaggio. Ma conoscendo il camminolei vi passòimmune. Nel mezzo della boscaglia c'era un grande alberounaquercia.


Seguiila Rapida da vicino mentre si arrampicava; e nell'inforcaturanelnido che avevo così a lungo e così invano cercatolaraggiunsi.


Laiena aveva ritrovato le nostre tracce e oraseduta al suolofacevaudire brontolii famelici. Ma noi non ce ne curammoci burlammo anzidi leifinchésempre brontolandonon la vedemmo sparireattraverso la boscaglia. Era primavera e i rumori della notte eranonumerosi e diversi. Come suole sempre accadere in questa stagionedell'annoc'erano molti combattimenti fra animali; dal nostro nidopotevamo udire i nitriti acuti dei cavalli selvaticii barriti deglielefantii ruggiti dei leoni. Ma la luna si levò nell'ariatiepida e noi ridemmo: tutto ciò non ci faceva piùpaura.


L'indomaniincontrammo due galli arruffati i quali battagliavano con tantoardore cheandando diritto su di loropotei prenderli per il collosenza che se ne accorgessero. Così la Rapida e io facemmo lanostra colazione di nozze. I galli erano deliziosi. Era facileprendere gli uccelli in primavera. Poiin una notte di quello stessoannodue alci si batterono al chiaro di lunamentre la Rapida e ioli guardavamo dall'alto degli alberi. Vedemmo pure un leone e unaleonessa giungere inosservati sino a loro e ucciderli mentrecombattevano.


Nonsaprei dire per quanto tempo vivemmo nel nido arboreo della Rapida.Ma un giornomentre eravamo lontanil'albero fu colpito dalfulmine. Grossi rami furono schiantati e il nido demolito.Incominciai a ricostruirloma la Rapida rifiutò di mettercimano. Come dovevo poi venire a sapereessa aveva una gran paura delfulmine e furono inutili i miei tentativi per indurla a ritornare sulnostro albero. Perciòterminata la nostra luna di mieletornammo a vivere nelle caverne; e con gli stessi modi con cuiOrecchiuto mi aveva espulso dal nostro alloggio quando si eraammogliatocosì ora ve lo scacciai io. Presi possesso con laRapida della cavernae Orecchiuto dovette accontentarsi di dormirenel corridoio di comunicazione della caverna doppia.


Moltenoie sopravvennero in seguito al nostro ritorno in mezzo all'Orda.Occhiorosso aveva avuto non so quante moglidopo la Canterina; eanche questa aveva subìto la stessa sorte delle altre.


Peril momento egli conviveva con una piccola creatura dolce e timidache piangeva e piagnucolava senza interruzionesia che egli labattesse o che la lasciasse tranquilla. La sua morte era questione dipochissimo tempo. Prima che morisseOcchiorosso aveva giàmesso gli occhi sulla Rapidae appena la moglie fu morta incominciòa perseguitarla.


Perfortuna era la Rapidae aveva quella sorprendente abilitàalla fuga tra gli alberi. Tuttavia ebbe bisogno di far ricorso atutto il suo ardimentoa tutta la sua saggezza per sfuggire agliartigli di Occhiorosso. Né io potevo aiutarla: Occhiorosso eraun mostro così terribile che mi avrebbe fatto a pezzi al primotentativo. Ho conservato fino alla morte una spalla storpiata chefunzionava male e mi faceva soffrire nei giorni di pioggia:conseguenza della brutalità di Occhiorosso.


LaRapida era ammalata quando io fui ferito. Era senza dubbio un accessodella malaria di cui soffrivamo tutti assai spesso; ma qualunque cosafosseciò la rendeva fiacca e pesante. I suoi muscoli nonavevano più gli scatti abituali e si trovava in cattivecondizioni per fuggire quando Occhiorosso la mise alle strette nellevicinanze del rifugio dei cani selvaticia parecchie miglia a suddelle caverne. In condizioni normali lei gli avrebbe girato intornol'avrebbe battuto alla corsa e raggiunto il riparo della nostracaverna dall'ingresso stretto. Ma essa non poteva girargli intorno;era troppo pesantetroppo lenta. Egli riusciva ogni volta asbarrarle il camminofinché essa abbandonava questi tentativiper mettere tutta la propria energia a evitare le sue grinfie.


Tenerlosotto scacco sarebbe stato per lei un gioco da bambini se non fossestata malata; ma nel suo stato aveva bisogno di tutta la sua prudenzae di tutta la sua malizia. Aveva sul suo avversario il vantaggio dipoter circolare su rami più fragili e di fare balzi piùgrandi. Aveva anche una nozione infallibile della distanza e unsicuro istinto per apprezzare la robustezza dei rami e la relativasolidità di quelli marciti.


Fuuna caccia interminabile. Entrambi si slanciavano attraverso laforestagirandoandandovenendo su lunghe distanze. Intensa ful'emozione fra i membri dell'Ordai quali si abbandonarono a unoschiamazzo folleche raggiungeva il parossismo quando Occhiorossoera lontanoper poi calmarsi quando l'inseguimento si avvicinava.Maeccettuate queste manifestazionii membri dell'Orda preferironoassistere agli avvenimenti da spettatori curiosi e passivi. Lefemmine lanciavano grida laceranti e sbraitavanomentre i maschi sipercuotevano il petto di rabbia inutile. Facciagrossa era in specialmodo furiosoe sebbene moderasse il suo baccano ogni volta cheOcchiorosso si avvicinavanon riusciva a serbare in quei momenti unsilenzio così completo come tutti gli altri.


Quantoa me non davo certo prova di un gran coraggio. So bene che non eroaffatto un eroe. E inoltrea che mi sarebbe servito affrontareOcchiorosso? Egli era il mostro onnipossenteil bruto dell'abissoenon vi era alcuna speranza per me in una lotta a corpo a corpo conlui. Mi avrebbe uccisoe ciò non avrebbe in nulla modificatola situazione. Egli avrebbe raggiunto la Rapida prima che lei fosseriuscita a raggiungere la caverna. Stando così le cosenon mirestava che guardarereprimere la mia impotente collerascostarmidal suo cammino e moderare la mia rabbia ogni volta che Occhiorossosi avvicinava un po' troppo.


Leore trascorsero; era il pomeriggio inoltrato e l'inseguimentocontinuava. Occhiorosso era deciso a esaurire la resistenza dellaRapida. L'affaticava con deliberato proposito. Alla fine essaincominciò a perdere il fiato e le fu impossibile continuarela sua corsa folle. Allora ricorse al sistema di rifugiarsisull'estremità dei rami dove lui non poteva seguirla. Avrebbecosì guadagnato un po' di tempo per riprender respiro. MaOcchiorosso era diabolico. Non potendo seguirlala sloggiavascuotendo fortemente i rami per farla cadere. Con tutto il propriopeso e con tutta la propria forza scuoteva il ramo in tutti i sensifino a far precipitare la Rapidacosì come si stacca unamosca dalla punta di una frusta. La prima volta essa si salvòcadendo molto più in basso sui rami; ma un'altra volta questinon le impedirono di giungere fino al suolopur attenuando laviolenza della caduta. Un'altra volta ancora Occhiorosso la staccòcosì brutalmente dal ramo che fu proiettata attraverso lospazio su un altro albero. La maniera con cui essa vi si aggrappòper salvarsi fu semplicemente sorprendente. Solo quando vi eracostretta cercava una salvezza temporanea sui rami flessibili. Ma eracosì affaticatache non poteva evitare Occhiorosso in altromodocosicché parecchie volte dovette ricorrere a quelsistema.


Lacaccia continuava e anche l'Orda continuava a gridarea percuotersiil pettoa digrignare i denti. Allora venne la fine. Il crepuscoloera quasi del tutto calato. Tremanteanelanteperdendo il respirola Rapida pendeva pietosamente da un alto ramo flessibile.


Eraa trenta piedi dal suoloda cui soltanto il vuoto la separava.


Occhiorossosi dondolava più in basso sullo stesso ramo checome unpendolooscillava sempre più largamente a ogni impulso dellasua massa. A un trattobruscamenteegli arrestò lo slancioproprio nel momento in cui l'oscillazione aveva raggiunto il culmine.La stretta della Rapida si allentò eurlandofu precipitataal suolo.


Mamentre cadeva si raddrizzò e toccò terra con i piedi inbasso.


Abitualmenteprecipitando da una tale altezzal'elasticità delle sue gambeavrebbe attutito la scossa del suo contatto con la terra. Ma eraspossata; e non poté compiere il salto con la necessariaelasticità.


Legambe le cedettero sotto e attutirono la scossa solo parzialmenteedessa si abbatté su un fianco. Non era feritama aveva larespirazione completamente interrotta. Restò sul suoloimpotente e ansimante.


Occhiorossosi gettò su di lei e l'afferrò. Con le dita uncinatel'afferrò per i capellisi ersemugghiando il suo trionfo ela sua sfida verso l'Orda spaventata che lo guardava dall'alto deglialberi.


Allorala rabbia mi spense il lume della ragione. Mandai al diavolo laprudenzadimenticai il desiderio di vivere che possedeva tutta lamia carne. Mentre Occhiorosso ruggivami precipitai su di luiassalendolo alle spalle. Il mio slancio fu così inatteso chelo gettai a terrae con le braccia e con le gambelo allacciaifortemente sforzandomi di tenerlo immobile al suolo. La cosa misarebbe stata impossibile se egli non avesse avuto una manoaggrappata alla capigliatura della Rapida.


Lamia condotta ebbe per effetto immediato di rendere audaceFacciagrossache divenne per me un alleato prezioso. Corse allacaricaaffondò i denti nel braccio di Occhiorossograffiandogli e lacerandogli il baffo. Quello sarebbe stato ilmomento buono per il resto dell'Orda di intervenireunendosi a noi;era l'occasione di finirla per sempre con Occhiorosso. Ma essi se nerestarono tutti fra gli alberispaventatissimi.


Erainevitabile che Occhiorosso dovesse riuscire vittorioso in una lottacontro noi due soli. Se non ci massacrò ben benelo dovemmoal fatto che i suoi movimenti erano impacciati dalla Rapidacheaveva nel frattempo ripreso fiato e incominciava a resistere. Ilmostro non voleva lasciarle i capellie ciò lo paralizzava.Mi agguantò per il braccio; e questo per me era il principiodella fine. Incominciò ad attirarmi a sé in modo daessere in grado da affondarmi le zanne nel collo. La sua bocca eraspalancata e mostrava i denti. In quello stesso momentosebbeneavesse appena incominciato a spiegare la propria forzami torse laspalla in modo tale che ne soffrii per tutto il resto della mia vita.


Alloraqualcosa d'inatteso si verificòsenza che nulla avesse potutofarcelo supporre. Un corpo enorme piombò sulla massa confusache formavamo tutt'e quattro. Fummo violentemente separatirotolandodai due latie nella subitaneità della sorpresa lasciammoandare completamente la stretta che ci teneva avvinti.


Almomento dell'urto Facciagrossa lanciò un grido terribile. Nonsapevo che cosa fosse accadutosebbene fiutassi la presenza dellatigre e avessi la visione di una pelliccia striata mentre balzavoverso un albero.


Erail vecchio Dente di Sciabola. Destato nella sua tana dal rumore cheavevamo fattosi era fatto avantiinavvertitostrisciando fino anoi. La Rapida scappò su un albero vicino al miodove laraggiunsi immediatamente. La circondai con le braccia e la tennistretta al mio pettomentre piangeva ed emetteva i suoi soliti dolcirichiami. Dal suolo saliva un brontolio e un rumore di ossarosicchiate e stritolate. Era Dente di Sciabola che cenava con ciòche era stato Facciagrossa. Più lontanoOcchiorossocon gliocchi infiammati e cerchiati di rossoguardava quel mostro piùpotente di lui. La Rapida e io abbandonammo l'albero e ce ne andammoattraverso la foresta verso le cavernementre l'Ordaraccolta suglialberilanciava insulti e pezzi di rami sul suo vecchio nemico.Questi agitava la codamostrava i dentima continuava a pascersi.


Cosìfummo dunque salvati: da un accidentedal più fortuito degliaccidenti. Diversamente io sarei morto lìsotto la stretta diOcchiorossoe non vi sarebbe stato un ponte gettato attraverso iltempoattraverso un migliaio di secolifino alla discendenza chelegge i giornalicircola sui tranvai elettrici e scrive racconti diavvenimenti passaticome quello che è qui rievocato.




17


Fual principio dell'autunno dell'anno dopo che accadde quel che segue.Visto che non era riuscito a impadronirsi della RapidaOcchiorossoaveva preso un'altra moglie; ecaso stranocostei viveva ancora.Caso anche più stranoaveva un bambino di pochi mesiche erail primo figlio di Occhiorossoperché le sue precedenti moglierano vissute troppo poco per fare figli. L'anno era trascorso beneper tutti noi. Il tempo era stato eccezionalmente mite e ilnutrimento abbondante. Ricordo specialmente i navoni di quell'anno.Anche la raccolta delle noci fu straordinaria e le susine erano piùgrosse e saporite del solito.


Insommafu un'annata d'oro. E fu allora che accadde il grande avvenimento.Era di prima mattina e tutti fummo sorpresi nelle nostre caverne.Nella fredda luce grigia uscimmo dal sonnola maggior parte perandare incontro alla morte. La Rapida e io fummo svegliati da unpandemonio di grida e di schiamazzi. La nostra caverna era la piùelevata di tutte sulla rupe; ci spingemmo fino all'ingresso eguardammo avidamente verso il basso della parete rocciosa. La rivaera invasa dagli Uomini del Fuoco... Le loro grida e i loro urli siunirono ai clamori dell'Orda; ma essi avevano ordine e metododuequalità di cui la Specie difettava. Ognuno di noi combatteva eagiva per proprio contoe nessuno conosceva la portata del disastroche ci colpiva.


Nelmomento in cui incominciammo a lanciare pietregli Uomini del Fuocos'erano ammassati in gran numero ai piedi della rupe. Il nostro primolancio di pietre aveva dovuto rompere qualche testapoichéquando indietreggiarono scostandosi dalla rupetre di loro giacevanoa terrasi agitavano e si dibattevanoe un altro cercava diallontanarsi strisciando. Ma li servimmo di tutto punto: in quelmomento noii maschi della Specieruggivamo di collera e facemmopiovere le pietre sui tre Uomini del Fuoco che erano stesi al suolo.


Parecchidegli assalitori tornarono indietro per trascinarli in un luogosicuroma ancora una volta i nostri proiettili li costrinsero abattere in ritirata.


GliUomini del Fuoco divennero furiosi e nello stesso tempo prudenti.


Nonostantele loro grida di collerasi tennero a distanza e lanciarono volatedi frecce contro di noi. Questo ebbe per effetto immediato di porfine alla grandinata di pietre; ma nell'attacco una dozzina di noifurono uccisiuna ventina feriti e il resto batté in ritiratanelle caverne. Io non ero completamente fuori tiro nella mia cavernatroppo elevatama la distanza era abbastanza grande per impedire cheil tiro fosse efficace ed'altra partegli Uomini del Fuoco nonavevano intenzione di sciupare molte frecce per colpirmi. Di piùero curioso: volevo vedere. Mentre la Rapida se ne rimaneva nel fondodella caverna tutta tremante di paura e lanciando di quando in quandogrida lamentose e soffocate perché non volevo rientrareio mirannicchiai nell'ingresso e stetti lì a spiare.


Orail combattimento era diventato intermittente; era come sospeso.


Tuttinoi eravamo rifugiati nelle caverne e si trattava di sapereper gliUomini del Fuococome farci uscire. Essi non osavano avventurarvisie noi in generale non ci esponevamo più alle loro frecce. Diquando in quandoallorché uno degli assalitori si avvicinavaai piedi della rupequalcuno faceva ruzzolare una pietra; eimmediatamentecome rispostaveniva crivellato da una mezza dozzinadi frecce. Questa astuzia andò bene per un certo tempomafinalmente quelli della Specie cessarono di mostrarsi e ilcombattimento fu completamente sospeso.


Dietrogli Uomini del Fuoco potevo vedere il vecchio piccolo cacciatoreincartapecoritoche dirigeva gli altri. Questi gli obbedivano eandavano nelle varie direzioni secondo i suoi ordini.


Alcunisi recarono nella foresta e ne tornarono con dei carichi di legnasecca di foglie morte e di erbe. Allora tutti gli Uomini del Fuoco siavvicinarono; e mentre la maggior parte si tenevano pronti con gliarchi e le frecce per tirare su quelli dell'Orda che avessero osatomostrarsiparecchi altri si fecero avanti e accumularono legna ederbe secche all'ingresso delle caverne inferiori. Poi da quel mucchioevocarono il mostro che più di tutto temevamo: il Fuoco.


All'iniziofili di fumo si levarono e ondularono in spirali lungo la rupe;quindi vidi le fiamme dalle lingue rosse slanciarsi attraverso i ramicome serpi ardenti. Il fumo si addensò sempre piùcoprendo in certi momenti tutta la superficie della rupe come unsudario. Ma io mi trovavo molto in alto e il fumo non mi diedeeccessivo disturbosebbene mi pungesse gli occhiche mistropicciavo coi pugni chiusi.


Alvecchio Osso Midolloso toccò la sorte di essere sloggiato perprimo dal fumo. Siccome una leggera brezza allontanò in quelmomento il fumopotei vedere chiaramente la scena. Egli si slanciòattraverso il fumomise il piede su un carbone ardentee urlandodal dolorecercò di scalare la rupe. Una fitta gragnuola difrecce lo investì da tutte le parti. Si arrestò soprauna sporgenza rocciosa eaggrappatosi a un masso per sostenersiaprì convulsamente la boccastarnutendo e agitando la testa.Si dondolava su se stessoe le cime barbute di una dozzina di frecceerano irte sul suo corpo. Vecchio com'eranon voleva morire. Oscillòsempre piùcon le ginocchia che gli cedevano esemprevacillandogemeva lamentosamente. Poi la sua mano allentò lastretta e cadde di colpo; le vecchie ossa dovettero frantumarsi alsuolo. Sempre brontolando cercò con sforzi inani di rialzarsifinché un Uomo del Fuoco si precipitò su di lui e glifracassò il cranio con una clava.


Equel che accadde a Osso Midolloso accadde a numerosi altri membridell'Orda. Incapaci di sopportare il soffocamento dovuto al fumosaltavano in fretta fuori delle loro caverne per cadere sotto lefrecce. Alcune donne e diversi bambini restarono nelle caverne dovemorirono soffocatima la maggior parte trovò la morteall'esterno.


Quandogli Uomini del Fuoco ebbero così vuotato la fila inferiore dicaverneincominciarono i preparativi per ripetere la stessaoperazione con la seconda fila. E mentre si arrampicavanocarichi dierbe e di legnaOcchiorossoseguito dalla moglie al seno dellaquale il piccolo si aggrappava strettamentecompì consuccesso la fuga fino alla sommità della rupe. Gli Uomini delFuoco avevano dovuto supporre che durante l'intervallo delleoperazioni di affumicamento noi saremmo rimasti nelle cavernecosicché furono presi alla sprovvista e le loro frecceincominciarono a volare solo dopo che Occhiorosso e i suoi furonobene in alto sulla scarpata. Quando egli raggiunse la sommitàsi volse indietro e guardò con aria feroce gli invasorimuggendo e battendosi il petto. Essi gli lanciarono freccema senzacolpirloed egli proseguì la sua fuga.


Vidiaffumicare una terza e poi una quarta fila di caverne. Pochissimimembri della Specie riuscirono a mettersi in salvo sull'alto dellarupe; in maggioranza furono raggiunti dalle frecce sul muro rocciosoe caddero giù mentre si sforzavano di scalarlo. Ricordo che ilLabbrone giunse sino all'altezza della mia cavernagridando in modopietosoperché aveva il petto trapassato da parte a parte dauna frecciala cui coda barbuta si drizzava fra le due spallementre la punta d'osso gli usciva dal petto: era stato colpito allaschiena mentre si arrampicava. Si abbatté all'imboccaturadella mia cavernavomitando fiotti di sangue.


Quasiin quello stesso istante le file superiori sembrarono vuotarsispontaneamente. Quasi tutti i membri dell'Orda che non erano statiancora scacciati dal fumo fecero contemporaneamente la loro sortitaverso l'alto della rupe. Ciò fu la salvezza per molti. Gliuomini del Fuoco non riuscivano a scaricare i loro archi abbastanzapresto; riempivano l'aria con le loro freccee a ventine i feritiruzzolavano giù; ma tuttavia alcuni tra i fuggiaschiraggiunsero la sommità e scamparono alla morte.


Ildesiderio di fuggire vinse in me la curiosità. Le frecceavevano cessato di volareil resto dell'Orda sembrava scomparsosebbene non fosse affatto impossibile che qualcuno dei suoi membri sitrovasse ancora nascosto nelle caverne superiori. Sia la Rapida cheio incominciammo ad arrampicarci verso la sommità della rupe.Alla nostra vistaun gran gridoprovocato dalla Rapida e non da mesi levò dalla moltitudine degli Uomini del Fuoco.Schiamazzavano con animazione e si additavano a vicenda la Rapida;non tentarono di tirare su di lei; non una freccia infatti fuscoccata nella nostra direzione. Si misero a chiamarlaanzicontono dolce e carezzevole.


Iomi fermai per guardarli; ma essa ebbe pauraincominciò alamentarsi e mi trascinò via. Così raggiungemmo la cimae scomparimmo nel folto degli alberi.


Questoincidente mi ha spesso sorpreso e indotto a riflettere. Se leilaRapidaapparteneva realmente alla specie degli Uomini del Fuocoaveva dovuto esserne separata in un'epoca in cui era troppo giovaneper averne conservato il ricordo; in caso diverso non avrebbe avutotanta paura di loro. D'altra parte poteva darsi benissimo chepuressendo della stessa specienon fosse stata separata da loromafosse invece nata nella foresta selvaggialontana dai luoghi delloro soggiorno abituale. Suo padre era forse un Uomo del Fuocorinnegato; sua madreuna della mia stessa specieuna femmina dellanostra comunità. Ma chi può affermare qualcosa suquesto argomento? Non certo io; e la Rapida non ne sapeva piùdi me.


Vivemmouna giornata di vero terrore. La maggior parte degli scampatifuggivano verso la palude dei mirtilli e si rifugiarono nella forestavicina. E per tutta la giornata bande di Uomini del Fuoco batteronola forestauccidendo tutti i nostri che vi si trovavano. Certamentefu un piano eseguito di proposito deliberato: moltiplicandosi al dilà delle possibilità del loro territoriogliassalitori avevano deciso di fare la conquista del nostro. Tristeconquista! Noi eravamo impotenti contro di loro; fu un massacrogenerale perché non risparmiarono nessuno; furono uccisigiovani e vecchi e la contrada sbarazzata radicalmente dalla nostrapresenza.


Fuper noi come la fine del mondo. Cercavamo sugli alberi un ultimorifugio; ma solo per esservi di lì a poco circondati e uccisiuna famiglia dopo l'altra. Assistemmo a molti di questi orrori inquel giorno; e ciò nonostante io volevo vedere. La Rapida e ionon restavamo a lungo sullo stesso albero; così evitammo diessere scoperti; ma sembrava che non esistesse nessun rifugio pernoi. Gli Uomini del Fuoco erano dappertuttoaccaniti nella loroopera di sterminio; da qualunque parte ci volgessimoli incontravamoinevitabilmente; e fu così che potemmo vedere molto della loroopera.


Nonvidi quel che avvenne di mia madrema fui presente quando loSchiamazzatorecrivellato di frecceprecipitò giù dalvecchio nido familiare. Credo anche che assistendo a quellospettacolo non potei trattenere un sussulto di gioia. Prima diabbandonare questa parte del raccontobisogna che parli diOcchiorosso. Egli fu preso con la sua ultima moglie su un alberonelle vicinanze della palude dei mirtilli:


perl'occasionela Rapida e io ci trattenemmo a lungo a guardare primadi riprendere la nostra fuga. Gli Uomini del Fuoco erano troppoassorti nel loro lavoro perché potessero scorgercie inoltreaccovacciati come eravamo nel folto della boscagliapotevamosentirci al riparo da ogni sorpresa.


Piùdi venti cacciatori erano sotto l'alberofra i cui rami scaricavanovolate di frecceche raccoglievano ogni volta che ricadevano aterra. Io non potevo vedere Occhiorossoma potevo udirloche urlavaspaventosamente. Dopo un breve intervalloi suoi urli si velaronocerto perché s'era lasciato scivolare in qualche parte cavadel tronco. Ma la moglie non poté raggiungerlo in quelrifugio: una freccia la fece precipitare a terra. Doveva esseregravemente feritaperché non fece alcun movimentonessunosforzo per fuggire. Restò lì tutta raggomitolatariparando il suo piccino che si aggrappava fortemente a leieimplorando con la voce e con il gesto gli Uomini del Fuocoi qualila circondaronobeffeggiandolacome Orecchiuto e io ci eravamoburlati del vecchio Uomo degli Alberi. E come noi l'avevamo colpitocoi ramialtrettanto essi fecero con lei.


Lapercossero con l'estremità degli archiferendola ai fianchi.Ma tutto ciò non era abbastanza divertente per loro perchéessa non voleva battersi e neppure andare in collera; si contentavadi proteggere il piccolo col proprio corpo e d'implorare pietàdai suoi persecutori. Uno degli Uomini del Fuoco le si avvicinòcon una clava in mano: essa videcompresema si limitò soloa lanciare appelli lamentosi sino al momento in cui il colpo siabbatté su di lei.


Occhiorossonel cavo dell'alberoera al riparo delle frecce. Gli Uomini delFuoco si riunirono per deliberaree dopo un colloquio d'una certaduratauno di loro si arrampicò sull'albero. Quel che accaddelassùnon saprei dirveloma udii grida fra il fogliame evidi la sovreccitazione di quelli che erano rimasti giù. Dopoalcuni minuti il corpo dell'Uomo del Fuoco precipitò con ungran tonfo al suolodove rimase inerte. Gli altri guardaronoglisollevarono il capoma esso ricadde mollemente appena lasciatolo.Occhiorosso gli aveva regolato il conto.


GliUomini del Fuoco erano pieni di furore. C'era un crepaccio neltroncovicino al suolo; essi vi ammassarono rami ed erbe e poi vidiedero fuoco. Abbracciatila Rapida e ioattendevamo e spiavamotra il fogliame. Di tanto in tanto essi gettavano rami verdi e fogliesul fuocoil che produceva un fumo densissimo.


Improvvisamenteli vedemmo scostarsi rapidamente dal piede dell'albero; ma non furonoabbastanza sollecitiperché il corpo di Occhiorosso atterròcome un bolide in mezzo a loro. Era in preda a una rabbia tremenda ecolpiva a destra e a manca con le sue lunghe braccia. Sfiguròletteralmente il viso a uno di lorocon le sue dita nodose e i suoimuscoli formidabili. Spezzò la nuca di un altro con un pugno.Gli Uomini del Fuoco indietreggiarono con grida feroci e selvagge;poi gli si precipitarono addosso. Egli riuscì ad afferrare unaclava e incominciò a spaccare teste come se fossero guscid'uovo.


Ilmostro era troppo forte per loroe di nuovo dovetteroindietreggiare. Occhiorosso approfittò dell'occasionepurcontinuando a urlare di rabbia. Alcune frecce gli volarono dietromad'un balzo riuscì a immergersi nel folto della forestaescomparve.


LaRapida e io ci allontanammo in silenzio; ma subito cademmo suun'altra banda di Uomini del Fuocola presenza dei quali cicostrinse a gettarci nella palude dei mirtilli. Sennonchémentre noi conoscevamo i sentieri arborei che attraverso quellapalude conducevano alle maremme lontanegli Uomini del Fuoco nonpotevano seguirci su quel terreno mobile. Cosìancora unavoltasfuggimmo alla loro persecuzioneraggiungendo una strettastriscia di forestache separava la palude dei mirtilli dalla grandepalude che si stendeva verso l'Ovest. Qui incontrammo Orecchiuto. Nonposso immaginare come fosse riuscito a mettersi in salvoa meno chela notte precedente non si fosse trattenuto a dormire lontano dallecaverne.


Inquesta striscia boscosa avremmo potuto benissimo costruire ricoverisugli alberi e stabilirvici; ma gli Uomini del Fuoco proseguivano afondo la loro opera di sterminio. Nel pomeriggioBarbuto e suamoglie sbucarono tra gli alberi e passarono accanto a noifuggendoverso oriente. Andavano silenziosi e rapidicol terrore dipinto inviso.


Nelladirezione da cui venivanoudimmo le grida e gli urli dei cacciatorie i richiami lamentosi di quelli della Specie. Gli Uomini del Fuocoerano riusciti ad attraversare la palude.


LaRapidaOrecchiuto e io filammo via immediatamente sulle tracce delBarbuto e di sua moglie. Quando giungemmo alla fine del boscodoveincominciava la grande paludeci toccò fermarcinonconoscendo i sentieri che l'attraversavano. Eravamo fuori del nostroterritorioin un posto da cui la Specie si era sempre tenutalontana. Nessuno c'era mai entratoo almeno nessuno ne era mairitornato. A nostro parerela grande palude rappresentava il misteroe lo spaventol'ignotoil terribile ignoto. Ci fermammo dunque sulbordo del bosco; avevamo paura. Le grida degli Uomini del Fuoco siavvicinavano. Ci guardammo in faccia. A un trattoil Barbuto sislanciò sul pantano mobile e raggiunse il terreno piùsolido d'una prominenza erbosa. La moglie non lo seguì; feceun tentativoma subito indietreggiò sulla superficieinsidiosa e si accasciò piena di timore.


LaRapida non mi aspettò efermandosi solo dopo aver sorpassatodi un centinaio di metri il Barbutoraggiunse una spianata elevataerbosa e molto più vasta. Quando Orecchiuto e io laraggiungemmogli Uomini del Fuoco apparivano sotto gli alberi. Presadal panicola moglie del Barbuto si precipitò appresso a noi.Correva alla cieca e senza alcuna cautelaattraversando la crostasolida. Ci voltammo a guardare e vedemmo gli Uomini del Fuococrivellarla di freccementre affondava nella melma; poi le frecceincominciarono a piovere intorno a noi. Il Barbuto ci aveva raggiuntie tutti e quattrosenza sapere dove andassimoci allontanammosempre più in mezzo alla palude.



18


Nonho alcun ricordo preciso della nostra corsa errante attraverso lagrande palude. Quando vi torno con la menteprovo un caosd'impressioni senza nesso e perdo persino la nozione del tempo. Nonho un'idea esatta del tempo trascorso da noi quattro in quel vastooceano di verde; ma ricordo che dovemmo errare in mezzo a esso persettimane intere. I miei ricordi di quel che vi accadde assumonoinvariabilmente la forma d'incubi. Oppresso da una paura multiformeho coscienza di erraredi errare senza fine per tempi infinitiattraverso un groviglio umido e vischiosodove serpenti velenosi sigettavano su noidove belve d'ogni specie ruggivano da tutte lepartidove il fango tremava sotto i nostri passiformando comeventose attorno alle nostre caviglie.


Soche parecchie volte il nostro cammino fu deviato da ruscellidalaghida mari di melma; e ci furono tempestesollevamenti d'acquasu vaste distese di terreno depresso; e anche ci furono periodi difame e di miseriacontro i quali la nostra impotenza fu totaleaccovacciati sugli alberi per interi giorniimmobilizzati da quelleinondazioni intermittenti.


Frale tante immaginiuna è più profondamente impressa nelmio cervello. Grandi alberi ci circondano e dai loro rami pendonolunghi filamenti di musco mentre le alte lianesimili a mostruosiserpentisi arrampicano intorno ai tronchi e allacciano la lorocapigliatura aerea. E tutto intornola melma mollesulla qualeribollono i gaspalpita e sospira di un'agitazione interna. Nelmezzo di tutto questo ci troviamo noi della Speciein numero di unadozzina; siamo magri e di penoso aspettocon le ossa che spuntanoattraverso la pelle tesa.


Noncantiamonon schiamazziamonon ridiamonon facciamo più igioiosi scherzi di un tempo. Questa volta le nostre disposizioni allaburla e all'esuberanza ilare sono disperatamente abbattute. Emettiamodi quando in quando suoni lamentosidolenti; ci guardiamo fra noi;ci ammassiamo gli uni contro gli altri. E' come l'incontro dellosparuto manipolo di sopravvissuti nell'ultimo giorno del mondo.


Questoavvenimento non ha però nessuna relazione con gli altriincidenti sopravvenuti nella palude. Non posso nemmeno dire in chemodo riuscimmo ad attraversarlama alla fine giungemmo a una fila dicolline basse che scendevano verso il fiume. Era il nostro fiume checome noiusciva dalla grande palude. Sulla riva sudnel punto doveil fiume si era aperto un varco attraverso le collinetrovammoparecchie caverne scavate nell'arenaria; di làverso l'Ovestl'oceano si gettava rumoreggiando sulla barra che chiudeva la focedel fiume. E lì nelle cavernepresso il marefissammo lanostra residenza.


Noneravamo molti. Di quando in quandocon i giorni che si succedevanoaltri membri dell'Orda apparvero. Uscirono dalla paludetrascinandosiad uno ad unoa due a duea tre a trepiùmorti che viviveri scheletri ambulantie quando fummo una trentinanon ne arrivarono più altri. Occhiorosso non era fra noi.Particolare degno di nota: nessun bambino sopravvisse a quelterribile viaggio.


Nonparlerò diffusamente degli anni che trascorremmo in riva almare.


Erauna località tutt'altro che piacevole da abitare. L'aria eraumida e freddaed eravamo costantemente colti da tosse eraffreddori. Non potevamo resistere in un tale ambiente. Avemmo anchedei figli; ma nacquero con poca vitalità e morirono presto. Epoiché gli adulti stessi morivano più presto di quantonon nascessero i bambinicosì il nostro numero diminuiva inmaniera costante.


D'altraparteil cambiamento di nutrizione non ci era affatto favorevole:gli alimenti vegetali essendo scarsidiventammo mangiatori di pesce.Le mareggiate ci gettavano sulla spiaggia foladiorecchie di mareostriche di roccia e grossi granchi. Trovammo anche diverse specie dialghe che erano mangiabili; il cambiamento di nutrizione ci diedefrequenti mali di stomaco e nessuno di noi ingrassava. Eravamo magrie avevamo l'aria dispeptica. Orecchiuto morì nel prenderedelle grosse orecchie di mare: una di esse gli si chiuse sulle dita amarea bassa ed egli annegò sommerso dal flusso successivo.Ritrovammo il suo corpo il giorno dopo e la cosa ci servì dilezionecosicchéda allora in poinessuno di noi fu piùpreso dalle valve di un'orecchia di mare.


LaRapida e io riuscimmo ad allevare un bambino; riuscimmo almeno adallevarlo per alcuni anni. Ma sono più che sicuro che egli nonsarebbe sopravvissuto in quel terribile clima. Ed ecco che un belgiorno gli Uomini del Fuoco riapparvero di nuovo. Avevano disceso ilfiumenon già su una zatterama su una piroga rudimentale.Erano in tre che remavanoe uno di loro era luisempre luiilvecchio piccolo cacciatore incartapecorito. Sbarcarono sullaspiaggia: il vecchio attraversò la sabbia zoppicando e si misead esaminare le nostre caverne. Dopo alcuni minutigli Uomini delFuoco se ne andarono; ma la Rapida era spaventatissima. Avevamo certotutti paurama nessuno quanto lei: piangevagridavae fu agitatatutta la notte. Al mattinoprese il bambino fra le braccia e con legridai gesti e l'esempio mi trascinò in una seconda e lungafuga. Otto membri della Specie - tutto quel che restava dell'Orda -rimasero nelle caverne.


Senzadubbionon c'era alcuna speranza per loro: anche se gli Uomini delFuoco non tornaronodovettero perire rapidamente. Il clima erapessimo vicino al maree quelli della Specie non erano fatti persopportarne i rigori.


Andammoverso il Sudcosteggiando per vari giorni la grande paludesenzamai avventurarci in mezzo a essa. Una volta tornammo verso occidentetraversando una catena di montagne e ridiscendendo verso la costa; mala località non era conveniente per noi. Non c'erano alberi;non c'era nullatranne promontori desolationde sonanti e ventiviolentissimi che sembravano non dover mai cessare la loro rabbia.


Riattraversammoi montispingendoci a oriente e a sudfino al momento in cuiritrovammo la grande palude.


Raggiungemmoben presto l'estremità sud della paludee continuammo lanostra corsa verso il Sud. Il paesaggio era un incantol'aria calda:


eravamodi nuovo nella foresta. Più tardi riattraversammo una catenadi colline basse e ci trovammo in una regione ancora piùboscosa. Più ci allontanavamo dalla costapiù facevacaldo. Andammo avanti fino a raggiungere un corso d'acqua piùgrandeche la Rapida parve riconoscere. Doveva essere il posto doveera venuta durante i quattro anni che aveva trascorso lontanodall'Orda. Attraversammo il fiume su tronchi d'alberoe sbarcammosull'altra riva ai piedi d'una scarpata elevata. Lassù in altotrovammo un nuovo alloggiouna caverna di accesso difficilissimo edel tutto invisibile dalla riva.


Miresta ben poco da raccontare. La Rapida e io vivemmo in quel sicuroasilo e vi allevammo pacificamente la nostra famiglia. Le miereminiscenze si fermano qui. Non facemmo altre migrazioni. Non sognomai più lontano della nostra caverna elevata e inaccessibile.Lì dovette venire al mondo il bambino che ereditò lasostanza dei miei sognil'essere che s'impregnò di tutte leimpressioni della mia vitao piuttosto della vita di Gran Dentecheè l'altra mia personalità e non il mio vero IOpuressendo per me così reale che spesso sono incapace di dire inquale epoca vivo.


Spessorivolgo a me stesso domande su questa linea di discendenza. Io ilmoderno sono incontestabilmente un uomo. In qualche partee per unafiliazione direttaquesti due componenti della mia personalitàsi riallacciano. I membri della Specieprima della loro distruzioneerano in via di diventare uomini? Abbiamoio e i mieicompiutoquesta trasformazione? D'altra partenon potrebbe darsi che uno deimiei discendenti si sia unito alle Genti del Fuoco per diventare unodei loro? Non ne so nullae non ho neanche modo di saperlo. Una solacosa è certae cioè che Gran Dente impresse sullacostituzione mentale d'uno dei suoi figli tutte le immagini e lesensazioni della sua vitae che ve l'impresse in modo cosìindelebile che le legioni di generazioni che seguirono non hannopotuto cancellarle.


Madi un'altra cosa è necessario che io parli prima di finire. E'un sogno che mi accade spesso di fare. Quanto al tempol'avvenimentoreale dovette verificarsi durante il periodo in cui vivevo nellacaverna inaccessibile. Ricordo che mi ero avventurato nella forestalontanoverso oriente. Sopraggiunse una banda di Uomini degliAlberi; rannicchiato nella massa del fogliameli guardai giocare.Essi tenevano un'allegra riunionedanzando e cantando in cadenzaselvaggia.


Aun tratto voci e sgambetti cessarono. Si strinsero insieme in predaallo spaventoguardandosi ansiosamente intorno per cercare una lineadi ritirata. Allora Occhiorosso si fece avanti in mezzo al gruppo.Non cercò di fare loro del malesebbene tutti tremassero dipaura e si tirassero indietro. Egli era uno dei loro. Dietro di luiveniva una vecchia femmina del Popolo degli Alberila sua ultimamogliedalle gambe contorte e nodoseche camminava toccando ilsuolo con le dita piegatein modo da appoggiarvisi sopra.Occhiorosso si sedette in mezzo al circolo. Lo vedo ancora adessomentre scrivoroteare gli occhi in fiamme e guardare intorno a séla cerchia della Gente degli Alberi; ementre guardaripiega la suagamba enormee con le dita adunche del piede si gratta lo stomaco.OcchiorossoL'ATAVISMO.




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