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JackLondon



ILVAGABONDO DELLE STELLE

 

 

 

 

1.SONO DARRELL STANDING


Moltevoltenella mia vitaho provato la straordinaria sensazione che ilmio "io" si sdoppiasseche altri esseri vivessero ofossero vissuti in luiin altre epoche o in altri luoghi. Nonstupirtimio futuro lettore; ma indaga nella tua stessa coscienza.Ritorna indietro con il tuo pensieroai giorni in cui il tuo corpo eil tuo spirito non erano ancora cristallizzati; in cuimateriaplasmabileanima fluttuante come le onde in movimentoavvertiviappenanel ribollire del tuo essereil formarsi della tua identità.


Alloraleggendo queste righeforse ricorderai delle cose dimenticatedellevisioni incerte e nebuloseche passarono davanti ai tuoi occhi dibambino e cheogginon ti sembrano che sogni irrealiun partodella fantasiae che ti fanno sorridere.


Eppurein queste lontane visioni del tuo esserenon tutto era sogno.Quandoda bambinoti sembravadurante il sonnodi precipitare nelvuoto da altezze infinite; quando credevi di volareoppure osservavicon orroreintorno ai tuoi piedi immersi nel fangoarrampicarsimigliaia di ragni odiosi e ripugnanti; quando davanti ai tuoi occhisi libravano forme sconosciutedegli incubie vedevi sorgere etramontare degli strani soli di un altro mondo; tutto questoforsenon era una proiezione della tua fantasia febbrile e innocente.


Saituda dove provenissero queste conturbanti immaginie se nonavessero origine in altre vite anteriorida te vissute in altrimondi? Forsequando avrai ultimato queste pagineti sarai fattaun'idea più precisa su tutti questi sconcertanti problemi chesenza dubbioti hanno lasciato finora perplessoirritato.


Inveritàla cortina invisibile della nostra nuova prigione ciavvolge fin dalla nascitae subito dimentichiamo il passato. Equandoa volteesso si ripresenta mentre siamo ancora in braccioalla madre o camminiamo carponi sul pavimento domesticoquestoricordo ancestrale ci procura soltanto un vago senso di paura...


Perquanto mi riguardaricordo perfettamente che nei giorni lontani incui non ero che un piccolo essere balbettante che emetteva dei vagitiper esprimere la sua fame o il desiderio di dormiremi ricordodicevoche avevo la netta sensazione di esistenze anteriori. Iochenon avevo mai detto la parola "Re"e che non l'avevo maiudita pronunciarericordavo d'essere statoin un tempo lontanoilfiglio di un Re. E così pure di essere stato uno schiavo e unfiglio di schiavoe di aver sopportato un collare di ferro intornoal collo.


Raggiuntii quattro o cinque annimi sembrò che migliaia di esseridiversi lottassero dentro di meche tutte quelle vite preesistenticercassero d'inserirsi nella mia vita presentedi cui tentavano dimodellare lo stampo nei sensi più diversi. E nella mia animaacerba ne risultava un disordine indefinibile.


Misembra quasi di vedertiamico lettorementre alzi le spalle egiudichi assurde le mie parole. Cercherò di trascinarti conmeattraverso il tempo e lo spazio; ma non dimenticare che per tantianniattraverso notti piene d'angosciaho meditato nel buioafaccia a faccia con i molteplici "io" che mi tormentavano.Ho ripercorso gli inferni di tutte le mie esistenzee te ne faccioora il raccontoin questo libro che leggerai per passare il temponella quiete domestica.


Matorniamo al discorso iniziato. All'età di quattro o cinqueanniavvertivo dunque quel passato indistruttibile incidere leprofondità del mio essereper imprimergli la formasconosciuta che doveva assumere nel suo eterno divenire. Era quelpassato che provocava le mie collere infantilii miei affetti e lemie gioieche mi faceva ridere o piangere. Il mio temperamento eranervosoeccitabilee con la mia voce si esprimevano mille ereditàscomparsediventate ormai delle ombre. Nei miei furori infantiligridavano mille voci atavichecontemporanee di Adamo e di Evamillegrida selvagge di animali preistoriciancora più antiche. Equando vedevo rossoera il sangue che riaffluiva in meil sangue diquelle epoche...


Eccosvelato il grande segreto. La collera rossa! Essa ha forgiato la miaperditain questa vita che attualmente è la mia. Per causasuafra poche settimanesarò strappato dalla cella in cuiscrivoper essere portato sopra un palcosotto un braccio di legnoal quale è fissata una solida corda. E mi impiccheranno.


Lacollera rossa! E' stata all'origine di tutte le mie disavventureintutte le mie vite! E' la mia eredità paurosa che risale aitempi in cui delle ombre incertefluide e viscidepreparavanol'avvento del mondo.


Maormai è ora che mi presenti. Nonon sono pazzo. E' necessarioche tu sia ben persuaso di questoper credere ciò che tiracconterò.


SonoDarrell Standing. Sentendo questo nomealcuni di voi che mi hannoconosciuto si ricorderanno di me. Agli altriche sono poi la grandemaggioranzapermettetemi di presentarmi.


Ottoanni fainsegnavo agronomìa all'Università diBerkeleyin California. In quel periodoil torpore pesante diquella piccola città fu scosso da un avvenimento improvviso:l'uccisione del professor Haskellin un laboratorio dell'Università.Darrell Standing era l'assassino.


Iosono Darrell Standing. Fui arrestatocon le mani ancora rosse disangue. Non intendo discutere su chi avesse torto o ragione in quelladiscussione fra me e il professor Haskell. La cosa non ha piùimportanza. Il fatto è che in un impeto di colleradi quellacollera rossa che è stata la mia dannazione attraverso tuttele epocheio ho ucciso il mio collega. I verbali del processodimostrano che sono stato io a compiere quest'azione; e non lo nego.


Tuttavianon è per questo delitto che dovrò morire sulla forca.


No.Venni condannato all'ergastolo. A quell'epoca avevo trentasei anni.Oggi ne ho quarantaquattro.


Questiotto anni li ho trascorsi nelle prigioni della Californiaa SanQuintino. Cinqueli ho passati nel buio di una celladisegregazione cellularecome vuole la legge. Gli uomini che laconoscono la chiamano "la morte vivente".


Nelcorso di questi cinque annisono riuscito tuttavia ad evadere dallamia tombain un incredibile volo che ben pochi uomini liberi hannoconosciuto. Rido di quelli che han creduto di seppellirmi in quellacella e che hanno invece aperto i secoli davanti a me. In quei cinqueanniho percorso tutte le mie esistenze anteriori. Ve lo racconterò.Ho tante cose da dirviche non so come cominciare...


Sononato nel Minnesota. Mia madre era figlia di un immigrato svedese: ilsuo nome era Hilda Tonesson. Mio padreChauncey Standingapparteneva al vecchio ceppo americano. Suo nonnoAlfred Standingera un "servo vincolato per contratto"in altre parole unoschiavo trasportato dall'Inghilterra alle piantagioni della Virginianel tempo lontano in cui Washington faceva l'agrimensore ed eraimpegnato a misurare le immense solitudini della Pensilvania.


Unfiglio di Alfred Standing prese parte alla guerra d'Indipendenza; unsuo nipote combatté in quella del 1812. Gli Standing fecerotutte le guerre.


Ioultimo della famigliache morirò senza figlimi sono battutonelle Filippinecontro la Spagna; per farlo diedi le dimissioniquando ero già nel pieno della carrierada professoreall'Università del Nebraska. A quel tempo ero sul punto diesser nominato Decano alla Facoltà d'Agricoltura; proprio iol'anima vagabondal'avventuriero marchiato dal segno del delittoilCaino errabondo dei secoliil testimone dei tempi piùlontaniil sognante poeta delle vecchie lunedelle ere dimenticate.


Eora sono quiin questa cellanel reparto degli assassininellaprigione di Folssom! E aspetto il giorno e l'ora in cui i servitoridella giustizia mi caleranno nel buioin quel buio di cui essi hannotanta paura; in quella notte che li spingesgomentiverso glialtari dei loro Dei dal volto umanocostruiti dal loro terrore edalla loro viltà!


Nonsarò mai il Decano di nessuna Facoltà d'Agricoltura.Eppure conoscevo il mio mestiere alla perfezione. L'agricoltura erala mia passione e la mia forza.


Suquesto argomentoche è stato sempre presente nel mio cuoreho messo insieme degli appunti in un quadernocon delle tabellecomparative. Su queste pagineprima di andare a dormiresi sonochinati ogni sera centomila fittavolicon la pipa tra le labbra.


Ese ne sono trovati contenti...


Miaccorgo che devo chiudere qui il primo capitolo del mio racconto.Sono ormai le nove di sera e nel quartiere degli Assassini èl'ora del coprifuoco. In questo stesso istantesento avvicinarsi ilpasso del mio guardianoche viene certo a rimproverarmi perchéla mia lampada ad olio arde ancora. Come se un semplice viventeavesse il diritto di rivolgere dei rimproveri a chi è inprocinto di oltrepassare la soglia della morte!




2.LA DINAMITE SEPOLTA


SonoDarrell Standing. Fra non molto mi trascineranno via di quiperimpiccarmi. Intantone approfitto per dire ciò che ho sulcuore; e riempio queste pagine come testamento.


ASan Quintino sono diventato quel che si dice un "incorreggibile".Nel gergo particolare delle prigioniun incorregibile è unessere temuto da tutti. Vi spiegherò ora perché mihanno classificato in questa categoria.


Ioodio lo spreco del movimentol'inutile perdita del lavoro. E inquesta prigionecome del resto in tutte le prigionisimili princìpisono una legge.


Erostato aggregato al laboratorio di tessitura della juta. Lo sperperodei movimenti vi regnava sovrano. Questo delitto a discapito di unlavoro ben ordinatomi esasperava. Naturalmenteconstatarlo ecombatterlo rientrava pienamente nel mio carattere.


Primache inventassero la macchina a vapore e i mestieri da essa derivatitremila anni faero già rinchiuso in una galera dell'anticaBabilonia. E vi assicuro che in quei giorni lontanicon i nostrisistemi manualiottenevamo un rendimento superiore a quello cheproduce l'apparecchiatura a vapore installata nella prigione di SanQuintino.


Indignatodi fronte a questo sperpero di energiemi ribellai.


Tentaidi esporre ai sorveglianti una ventina di sistemi che avrebberoassicurato un maggior rendimento. Per tutta rispostavenni segnalatocome indisciplinato al direttore della prigione.


Mibuttarono in una celladove provai che cosa significava la mancanzadel cibo e della luce.


Unavolta ritornato nel laboratoriotentai di riprendere il lavoro inquel caos indescrivibile di disordine e rilassatezza.


Impossibile.Mi ribellai di nuovo. Mi rimandarono in cella eper giuntamimisero la camicia di forza. Venni disteso sul suolocon le bracciain crocee appeso per i pollici sulla punta dei piedi. Fui persinopicchiato dai guardiani. Stupidi brutiche possedevano appenal'intelligenza per comprendere la mia superiorità morale e ildisprezzo che provavo per loro!


Subiiquesta tortura per due anni. Anche i bambini sanno che non c'ènulla di più terribileper un uomodi esser rosicchiato vivodai topi. Ebbene! quei guardiani erano per me dei veri topicherodevano il mio essere pensanteche laceravano tutto quello chec'era d'intelligenza viva nella mia mente. E ioche un tempo avevocombattuto come un soldatoavevo ora perduto ogni coraggio perlottare.


Combatterecome un soldato... L'avevo fatto alle Filippineperché erauna tradizione degli Standing quella di battersi. Ma senzaconvinzione. Trovavo veramente sciocco occupare il mio tempo aficcareper mezzo di un fuciledelle sostanze esplosive nella carnedi altri esseri umani.


Pernaturaero un ottimo agricoltoreun uomo ormai sistematocurvosulla sua cattedraschiavo dei suoi studi di laboratorioe cheaveva il solo desiderio di scoprire i mezzi per migliorare la terra ei suoi frutti.


Inguerrascoprii ben presto che non avevo alcuna attitudine per questomestiere. I miei ufficiali se ne resero conto subito. Mitrasformarono in uno scribacchinoe fu così che io feci laguerra ispano-americana.


Nonè già perché avessi un carattere impossibile maal contrarioperché osavo ancora pensareche mi ribellaiall'anarchia del laboratorio. Ed è per questo che i guardianicominciarono a odiarmie fui dichiarato "incorreggibile";è per questoinfineche il direttore Athertonpersa ognisperanza nei miei confrontimi fece chiamare un giorno nel suogabinetto particolare.


Alledomande che mi poseagli argomenti che illustrò perdimostrarmi che avevo tortoio risposi press'a poco così:


-Come potete lontanamente supporre che i vostri sorvegliantiquestitopi famelicipossano riuscirecon le loro torturea distruggerenel mio cervello le idee che vi si trovano? Tutta l'organizzazione diquesta prigione è sbagliata. Voi sietesenza dubbiounpoliticante molto abile. Conoscete certamente alla perfezione come simanipolino certe elezioni nei bassi fondi di San Francisco.D'altrondela vostra abilità in questa materia vi haprocurato per ricompensa il posto che occupate qui. Ma siete deltutto digiuno sulla tessitura della juta. I vostri laboratori sono inritardo di almeno cinquant'anni.


Rinuncioa descrivervi il seguito del mio discorso. Il risultato fu che ildirettore si convinse del tutto che io ero un "incorreggibile"senza speranza.


Ildirettore Atherton pronunciò il suo verdetto finale: ero uncane arrabbiato. Egli aveva d'altra parte buon gioco.


Piùd'una infrazione al regolamentocommessa da altri reclusimi venneimputata dai guardianie così fui rimesso in cellaa pane eacquasospeso per i pollici. Il supplizio si prolungava per oreeognuna mi sembrava eternapiù lunga di ciascuna vita cheavevo già vissuto.


Anchegli uomini più intelligenti sono a volte crudeli. Gliimbecilli lo sono in modo abnorme. Oragli aguzzini che mi tenevanoin loro poteredal direttore all'ultimo secondinoerano degliabissi d'idiozia...


Tragli ospiti della prigione c'era un recluso che era un vecchio poetaun degenerato dalla fronte bassa e dal mento sfuggente. Si trovava incarcere come falsario. Impossibile trovare un uomo piùbugiardo e vile di lui. Era sempre di una docilità incredibilee faceva la spia.


Questopoeta falsario si chiamava Cecil Winwood. Era recidivoma essendo unleccapiediun ipocrita piagnucolosola sua ultima condanna erastata limitata a sette anni di reclusione. Con la buona condottapoteva sperare anche in una riduzione della pena.


Ioero condannato a vita. Per accelerare la sua liberazionequellacanaglia riuscì ad aggravare ancora la mia già precariasituazione.


Maecco come andarono le cose. Me ne resi conto soltanto piùtardi.


CecilWinwoodper accattivarsi la simpatia del capo repartodel direttoredella prigione e della Commissione delle grazie e del governatoredella Californiainventò di sana pianta un progettod'evasione.


Notatebene: prima di tuttoCecil Winwood era talmente disprezzato daicompagni che nessuno voleva avere il minimo contatto con lui; insecondo luogoio ero considerato un cane idrofobo; infineCecilWinwood aveva bisognoper il suo diabolico intrigodi caniidrofobiossia di me e di alcuni condannati a vitaincorreggibili edisperati come il sottoscritto.


Inutileaggiungere che questi cani arrabbiati odiavano cordialmente CecilWinwood e ne diffidavano. Quando cominciò ad accennare al suopiano di rivolta e d'evasione in massagli voltarono la schienainsultandolo e trattandolo come un agente provocatore.


MaCecil tornò nuovamente alla carica e tanto fece cheallafineraggruppò intorno a sé una quarantina deglielementi più scalmanati.


Epoiché si faceva forte delle facilitazioni che godeva comeuomo di fiducia del direttore e del gerente del DispensarioLongBill Hodge gli ribatté:


-Provalo un po'!


LongBill Hodge era un montanaro condannato a vita per aver fattoderagliare un trenoe che pensava soltanto a evadereper poterammazzare il complice che lo aveva tradito.


CecilWinwood accettò la prova. E assicurò che avrebbe potutoaddormentare i guardiani la notte dell'evasione.


-A paroleè facile! - esclamò Long Bill Hodge. - Civogliono dei fatti. Prova a cloroformizzarestanotte stessauno deinostri guardianiper esempio Barnum! E' una canaglia che non vale lacorda per impiccarlo. Ierinel reparto dei mattiha picchiato asangue quel poveretto di Chink. E non era di servizio! E' di guardiaproprio stanotte. Se lo addormentigli fai perdere il posto. Poiseci riusciraipotremo parlare dell'affare.


Tuttoquestol'ho saputo più tardi da Long Billquando cirinchiusero insieme. Io avevo rifiutato di prender parte altentativo.


CecilWinwood esitava. Gli venne concessa una settimana di tempo eottogiorni dopoegli comunicò ai compagni d'esser pronto.


Eci riuscì. Barnum si addormentò durante il suo turno diguardia.


Vennescoperto e licenziato dal posto.


Questoprimo successo finì col convincere i congiuratianche i piùrestii. ContemporaneamenteCecil Winwood pensava a informare il capodel reparto. Quotidianamentegli faceva il suo rapporto sullosviluppo del complottodi cui era egli stesso l'animatore.


Ancheil capo esigeva naturalmente delle prove. Egli le fornìe iparticolari che dava non lasciavano niente a desiderare.


UnmattinoWinwood comunicò al capo che i quaranta congiuratiche gli confidavano tuttoerano già così avanti dapotersi provvedereper mezzo di un guardiano loro complicedirivoltelle automatiche.


-Provalo! - doveva essere stata la risposta del capo. E il poetafalsario l'aveva provato.


Regolarmentetutte le nottidelle squadre si alternavano ai forni. Un reclusoche faceva parte dei fornaiera una spia al servizio del capo.Winwood lo sapeva.


-Stasera- disse al capo- il guardiano che noi chiamiamo "Facciad'Estate"introdurrà in prigione una dozzina dirivoltelle. Tutto il restocon le munizioniarriverà inseguito con lo stesso sistema. L'incaricato deve consegnargli ilpaccoal forno. Voi avete qui un confidente. Avvisatelo. Verràe vi farà in mattinata il suo rapporto.


"Facciad'Estate" era un vecchio contadinodal viso apertooriginariodel distretto di Humboldt. Era un povero di spiritoun bonaccioneche cercava di guadagnarsi qualche dollaro in più fornendo aiprigionieri del tabacco di contrabbando.


Quellanottedi ritorno da San Franciscoaveva con sé quindicilibbre di tabacco. Non era la prima volta che lo facevae avevasempre consegnato la mercenel fornoa Cecil Winwood. Messosull'avvisoil fornaio-spione lo vide mentre consegnava a Winwood unpacco voluminoso e avvolto in carta da imballaggio. Al mattino feceil suo rapporto al capo.


L'indomaniquando incontrò il capoCecil Winwood aveva un aspetto quasitrionfante.


-Allora- chiese- il vostro confidente ha potuto vedere?


-Sìè andato tutto come avevate detto.


-Lo credo bene! E il suo contenuto basta per far saltare in aria mezzaprigione!


Ilcapo sbiancò.


-Cosa dici? Che cosa contiene?


-Ho aperto il paccoe...


L'imbecilleprese un tono misterioso e aggiunse:


-Non c'erano rivoltellema dinamite. Trentacinque libbre ! E ci sonoanche i detonatori.


Pocomancò che al capo non venisse un colpo.


Trentacinquelibbre di dinamite nella prigione! Mi è stato riferito che ilcapitano Jamie- così si chiamava- si lasciò andaresopra una seggiola a corpo mortotenendosi la testa fra le mani.


-Dov'èadesso? - gridò. - La voglio! Portami subitodove si trova!


CecilWinwood capì finalmente la gravità della situazione.


-L'ho sotterrata- rispose quel maledetto bugiardoche aveva giàdistribuito il tabacco contenuto nel pacco tra gli abitualiconsumatori.


-Benissimo! - disse il capitano. - Portami sul posto. Avantiinmarcia!


Inse stessa la cosa non era inverosimile. In una prigione come SanQuintinovi sono sempre dei nascondigli.


Maquesta volta si trattava d'una pura fantasia di Cecil Winwood.


Quandoil fatto provocò poi un'inchiestaJamie e Winwoodtestimoniarono entrambi che il poeta falsario aveva dichiarato alcapitano che lui e io avevamo sotterratoinsiemela dinamite.


Winwoodcondusse il capitano fino al presunto nascondiglio.


Naturalmentedi dinamite nemmeno l'ombra.


-Santo Dio! - gridò Winwood- Standing me l'ha fatta! Ha presoil paccoper nasconderlo in un altro posto.


Cosìper togliersi dal pasticcio in cui s'era cacciatoil maledetto miprese come capro espiatorio.


Ilcapitano Jamiecredendo d'essere stato giocatoricondusse Winwoodnel suo ufficiochiuse a chiave la porta e gli saltò addosso.


Sottoi colpi Winwood continuava a sostenere di aver detto la verità.Tanto che Jamie ne rimase convinto e credette davvero che esistesserotrentacinque libbre di dinamite nascoste in qualche parte dellaprigionee che quaranta incorreggibili erano sul punto di farsaltare l'intero edificio.


"Facciad'Estate" fu sottoposto a un martellante interrogatorio.


Ilpoveraccio giurò su quanto aveva di più sacro che ilfamoso involto conteneva solo tabacco. Winwoodda parte suagiuròche conteneva esplosivie fu lui a essere creduto.


Aquesto puntoentrai in scena io. O megliosparii nuovamente dallaluce del giorno. Infatti mi accolse nuovamente la cella di rigoredalla quale non dovevo mai più uscire.


Erosbalordito. Mi avevano appena tolto da quell'antrosfinito e apezzi; e la storia ricominciava!


-Adesso- fece Winwood al capitano Jamie- anche se non sappiamodov'è finita la dinamitenon c'è più nessunpericolo.


Standingè il solo a conoscere il nascondiglioe da dove si trovanonpuò far niente. Inveceper quanto riguarda i quaranta uominidi cui vi ho parlatostanno per concretizzare il loro pianod'evasione. Niente di più semplice che coglierli sul fatto.


Sonoio che devo fissare l'ora per la fuga. Dirò che è perla prossima nottealle duee che aprirò io stesso le lorocelle e distribuirò le rivoltelle. Il resto sarà ungiocoper voi. La dinamitela cercheremo dopo.


Manaturalmenteda sei anni a questa partenessuno è mairiuscito a scoprire un'oncia di esplosivobenché la prigionesia stata messa sottosopra almeno un centinaio di volte.


Ildirettore Athertonfino all'ultimo giorno in cui terrà il suopostocontinuerà però a credere nell'esistenza diquella famosa dinamite. Il capitano Jamieche è sempre a capodel repartonon disperaun giorno o l'altrodi metterci le manisopra.


Tuttiquei gentiluomini respireranno liberamente soltanto il giorno in cuipenzolerò in ariacon un cappio al collo.




3.ROTTAMI UMANI


Riprendoil filo del mio racconto.


Pertutto il giornorimasi nella mia cella a scervellarmi per scoprirela ragione di questa nuova e inspiegabile punizione.


Arrivaia concludere che tutto ciò doveva essere opera di una spiadiuno sporco essere che per ingraziarsi qualche guardianomi avevadenunciato per qualche immaginaria infrazione ai regolamenti. Nelfrattempoil capitano Jamie si preparava a reprimere la rivolta dicui Winwood doveva dare il segnale.


Quellanotte non un solo guardiano dormì. Le squadre diurne rimaseroin serviziocome quelle notturne; e quando si avvicinarono le duetutti si nascosero vicino alle celle occupate dai quarantacongiurati.


Lecose andarono com'era stato previsto. All'ora convenutaWinwoodmunito di grimaldelloaprì le cellechiamando per nome glioccupanti uno dopo l'altroe questi sgusciarono fuori. Si riunironotutti nel corridoio; e per i guardiani fu uno scherzo riprenderliinun colpo solo.


Lemenzogne di Winwood davano i loro frutti. Inutilmente i quarantadenunciarono la parte avuta dal falsario in tutta la vicenda. IlConsiglio dei Direttori della prigione non si smosse dallaconvinzione che mentissero tutti per costruirsi delle attenuanti. Ecosì l'Ufficio preposto alle grazie enel giro di tre mesiquella canaglia di Cecil Winwood venne graziato e rimesso in libertà.Ho già detto che ero stato subito rinchiuso in cella.


Eranotte e dormivoquando sentii la porta esterna cigolare sui cardini.Mi svegliai.


-Qualche disgraziato- pensai- che trasloca... Poi udiidistintamente un rumore di percosse e grida di doloreimprecazioni eil fruscìo sordo d'un corpo che si trascina per terra.


Unadopo l'altrale porte che si susseguivano lungo il corridoio siaprirono sbattendomentre i corpi venivano buttati o trascinatinelle celle. Squadre di guardiani arrivavano continuamentee ancoraaltri uomini che continuavano a picchiaree altre porte sispalancavano davanti a sagome sanguinolentidistrutte dallaviolenza. Ma ritorniamo indietroa quel che successe nelle cellequando i cospiratori mi raggiunsero dopo che la porta esterna delcorridoio si era chiusa alle loro spalle.


Iquaranta si precipitarono alle inferriate dei finestrini. Da unacella all'altra cominciarono a farsi tra loro un mucchio di domande.Era un vociare indescrivibile.


Masubito risuonò un urlo taurino. Era la voce del vecchiomarinaio Skysail Jackuna sorta di giganteche dominava il clamore.Comandò il massimo silenziomentre si accingeva a farel'appello di tutti i presenti. E i quarantauno per unourlarono iloro nomi. Erano tutti uomini sicuriincapaci di vendersi per farela spia.


Ilsolo sul quale si avesse qualche sospettoero io. E subii uninterrogatorio in piena regola. Raccontai allora che il mattinostesso ero uscito dalla mia cella e che senza un motivo apparentemici avevano ricondottoprima di loro. Non sapevo altro. La miareputazione d'incorreggibile li tranquillizzò tutti. Allora sitenne consiglio.


Ascoltavo.E per la prima voltavenni a conoscenza della famosa cospirazione.Chi aveva fatto la spia? Si brancolava nel buio.


CecilWinwood non si trovava tra i segregati e tutti i sospetti siappuntarono finalmente su di lui. In tutta questa faccendagridòSkysail- una sola cosa è importante. Tra poco faràgiorno. Ci preleveranno e ci faranno passare un brutto quarto d'ora.Siamo stati presi sul fatto. Non è il caso di negare. E'meglio dire la veritàtutta la verità. Spiegheremo cheCecil Winwood aveva organizzato tutto e che poi ci ha traditi. Poisarà quel che Dio vorrà. Siamo d'accordo?


Suonaronole novequando i secondini fecero irruzione nelle celle e siprecipitarono addosso a noi.


Nonerano molti. A che sarebbe servito? Non potevamo certo resistere! Delrestoessi aprivano le celle una dopo l'altraarmati di manichi dipiccone. Uno strumento ideale per ricondurre alla ragione un uomoindifeso.


Appenasi apriva una cellacominciavano a picchiare. Ogni recluso ebbe lasua parte. Fummo serviti tutti imparzialmentee non era davvero ilcaso d'esser gelosi... Io ebbi la mia razionecome gli altri. Nonera che un iniziouna preparazione all'interrogatorio che ognunoavrebbe dovuto subire da parte degli alti funzionariingrassati dalgoverno.


Ilballo durò parecchi giornie l'orrore di quelle giornatesuperò largamente tutto ciò che avevo fino alloraconosciuto in fatto di crudeltà.


LongBill Hodge fu interrogato per primo. Ne ebbe per due oredopo di chelo riportaronoo meglio lo ributtarono sul pavimento della suacella.


Passòdel tempoprima che Long Bill Hodge rinvenisse. Dalla sua cellagridò:


-Che cos'èquesta faccenda della dinamite? Chi ne sa qualcosa?


Nessunoovviamentene sapeva niente.


Poifu la volta di Luigi Polazzouno spostatofiglio d'italianiimmigrati. Rideva in faccia ai giudicisi burlava di lorolisfidava a inventare contro di lui le peggiori violenze. Riapparve dueore dopo. Non era che uno stracciouno straccio che balbettava neldelirio. Per tutto ii giorno fu incapace di rispondere alle domandedegli altri reclusiansiosi di sapereprima del loro turnochetrattamento aveva subìtoquali domande gli avevano fatto.


Nellequarantott'ore che seguironoLuigi venne richiamato due volte einterrogato. Dopo di chepersa completamente la ragionefu speditonel reparto dei pazzi.


Aognuno dei quaranta toccò lo stesso trattamentoo quasi. Eognuno venne ridotto allo stato di rottame umanourlante nelletenebre. Iosdraiato sul pavimentoascoltavo quei piantiqueilamentiquel vaneggiare di cervelli offuscati dal dolore. E misembravain qualche angolo del passato nebulosodi udire il coro diquegli stessi lamenti salire fino a meche allora non ero nel numerodei sofferenti ma ero il padrone orgoglioso e senza pietà.


Piùtardiidentificai questo vago ricordo col tempo in cuicapitano diuna galera dell'antica Romanavigavo verso Alessandria eGerusalemme. Il coro era dei galeotti che remavano e gemevanosottodi meavvinti ai lunghi remi.


Mavi racconterò tutto questoe a lungo. Per il momento...




4."PARLASTANDING!"


Nellecellele urla continuavano senza treguae durante quelle infiniteore d'attesa il mio spirito era fissato unicamente al pensiero chestava per venire il mio turnoche anch'io sarei stato trascinatofuoriche avrei subìto le torture di quella nuovainquisizione e che mi avrebbero ributtato poi sul pavimento della miacelladi questa cella odiosa dalla porta di ferro e dalle mura dipietra. E giunse il mio turno. Fui afferrato e portato brutalmentefuorifra percosse e bestemmie. Mi trovainon so comedi fronte alcapitano Jamie e al direttore Athertoncircondati da una mezzadozzina di aguzzini pagati dai contribuenti che aspettavano solo unsegnale per mettermi addosso le loro zampe.


Illoro aiuto fu superfluo.


-SieditiStanding! - mi ordinò il direttore Athertonindicandomi una seggiola enorme.


Erolàin piedipestocon tutte le membra indolenzitemorentedi fame e di setegià sfinito dai cinque giorni precedenti disegregazione e da ottanta ore di camicia di forza. Tremavo.


Battevoi denti al pensiero di ciò che stava per succederea meignobile rottame d'uomovecchio professore d'agronomia in untranquillo centro universitario. Esitavo a sedermi.


Ildirettoreper statura e forzaera un vero colosso. Poichétardavo a obbediresi slanciò su di meafferrandomi per leascelle. Poicome se fossi stato un bambinomi sollevò daterra e mi incastrò nel seggiolone.


-E adesso- ripresementre io boccheggiavo- dimmi tuttoStanding!Sputa fuori! E' il modo migliore per migliorare la tua situazione.


-Ma... ma io non so niente di quel che è successo... -balbettai.


Unattimo dopoil direttore Atherton balzò nuovamente su di memi alzò per aria schiacciandomi un'altra volta sulla seggiola.


Finiscilacon la commediaStanding! continuò. - E' inutile!


Parla!Dov'è la dinamite?


Protestaiche non sapevo un accidenti della dinamite.


Fuisollevato una terza volta ricadendo come frantumato. Questo genere ditortura era completamente nuovo per me. Paragonato agli altri cheavevo già subitosi può dire che fosse nettamentepeggiore.


Ilseggiolonesotto gli urti ripetuti del mio corpocominciò arompersi. Ne portarono un altro ma anche questo fu ben presto malridotto. Poi un terzo. E sempre quella dannata domanda sulladinamite.


Quandoil direttore Atherton fu esaustoil capitano Jamie lo sostituì.E quando Jamiedopo un bel po'fu stanco a sua voltal'eserciziolo continuò il guardiano Monohan. - "Dov'è ladinamite?" - E super aria; poi giùsulla seggiola! -"Parla:


dov'èla dinamite... La dinamite... La dinamite..." In tuttacoscienzaavrei barattato volentieri una buona parte della mia animaimmortale per qualche libbra di questo fantomatico esplosivocheavrei potuto dare in pasto ai miei torturatori.


Quanteseggiole furono spezzate? Non lo so. Arrivò infine un momentoin cui ero in pieno delirio. Addormentato o sveglio? Chi lo sa. Persii sensi dalla debolezzapiù volte. Per finirevenniributtato nella mia cella. Quando rinvennimi vidi accanto un agenteprovocatore. Era un condannato a tempoun ometto dalla faccialividaun eteromane pronto a tutto per procurarsi la drogapreferita.


Nonappena lo riconobbimi trascinai verso il finestrino della miacellae urlai nel corridoio:


-State in guardiaamici! C'è una spia fra noi! E' IgnazioIrvine. Attenti a quello che dite!


L'infernodi imprecazioni che scoppiò avrebbe fatto tremare i polsi diun uomo ben più coraggioso di questo Ignazio Irvine. Eradisgustoso nel suo terrorementre tuonavano le voci dei quarantareclusiche gli promettevano per l'avvenire le più orrendevendette.


Seci fosse stato qualche segreto da mantenerela presenza di una spiasarebbe stata sufficiente a chiudere tutte le bocche. Ma non c'eranessun segretoe le conversazioni ripreseroda un finestrinoall'altro.


L'indomanie i giorni seguentigli interrogatori ripreserosempre con ilsolito sistema. Quando gli uomini non riuscivano più acamminarevenivano trasportati. Corse persino la notizia che ildirettore Atherton e il capitano Jamie dovessero darsi il cambio ognidue oretanto erano stanchi.


Nelnostro repartola follia cresceva di giorno in giornod'ora in ora.


Capitebene quello che stava accadendo? La veritàche tutti noidicevamoera la nostra condanna. Di fronte a questi quarantaincorreggibiliche ripetevano continuamente le stesse coseildirettore Atherton e il capitano Jamie pensavanoconvintichementivamo tutti d'accordocome un pappagallo ripete una lezioneimparata.


Lasituazione delle autorità era senza via d'uscita come lanostra. Come venni a sapere in seguitoil Consiglio dei Direttoridella prigione era stato convocato telegraficamentee cosìdue compagnie di miliziaper fronteggiare ogni evento.


Nellenostre cellenon avevamo né materassi né coperte.Poiché chiedevamo continuamente un po' d'acquai guardiani sidivertivano ad azionare le pompe antincendio. Dai finestrinii gettid'acqua si abbattevano su di noicolpendo con forza i nostri corpidolorantie facendoci saltare come cavallette impazzite fra lenostre quattro mura.


Deiquaranta uomini che subirono questi trattamentinon uno uscìincolume. Luigi Polazzocome ho già dettofu il primo aimpazzire e non recuperò mai più la ragione. Long BillHodge la perse lentamentee raggiunse Luigi nel reparto dei pazzi.Altri ancora lo seguirono. Altrila cui salute era stataprofondamente minatarimasero vittime della tubercolosi. In tuttoun buon quarto dei quaranta ci lasciò la pelle.


Quantoa mevenni portato due volte davanti al Gran Consiglio deiDirettori. Potevo scegliere fra due alternative. Se avessi svelatodov'era la dinamiteavrei avuto una punizione puramente nominale ditrenta giorni di cellae poi sarei stato nominato sorvegliante dellaBiblioteca. Se invece avessi insistito a non voler rivelare dov'erala famosa dinamiteallora sarei stato inviato in segregazionecellulare fino al termine della mia condanna. Ossia in eternodatoche ero condannato a vita.


Incredibile!Nessun codice ha mai stabilito una legge così. La California èun paese civileo almeno si vanta d'esserlo. La segregazionecellulare a vita è una pena mostruosafuori da ogni leggemorale o scritta. Eppure io sono il terzo uomo in Californiache haudito pronunciare contro di sé una simile condanna. Gli altridue sono Giacomo Oppenheimer ed Edoardo Morrell. Fra non molto vifarò fare la loro conoscenzaperché ho passato in lorocompagnia ben cinque anninella mia cella oscura...


IlGran Consiglio mi concesse dunque la scelta: un'occupazione gradevolese restituivo una dinamite che non esisteva; la segregazionecellulare a vitase rifiutavo.


Mifurono affibbiate ventiquattr'ore di camicia di forzaaffinchépotessi riflettere con calma. Poifui ricondotto davanti a queisignori. Che potevo fare? Ripeteiper la centesima voltache nonpotevo consegnare una cosa che non esisteva. Ribatterono che ero unbugiardo. Mi dissero inoltre che ero un flagello viventeundegeneratoil peggior criminale del secoloe tanti altricomplimenti del genere.


Inconclusionemantennero la parolae invece che nelle celle comunimi trasferirono nel reparto di segregazione cellulare. Mi sbatterononella cella numero 1. Il numero 5 era occupato da Edoardo Morrell. Ilnumero 15 da Giacomo Oppenheimerche c'era già da dieci anni;Morrell da un anno soltanto. Doveva scontare una pena dicinquant'annimentre Oppenheimer era a vitacome me.


Aprima vistatutto faceva pensare che avremmo dovuto soggiornare inquegli antri per lungo tempo. Eppuresono trascorsi soltanto seiannie nessuno di noi ci si trova più. Oppenheimer èstato impiccato; Morrellper buona condottaè diventato uomodi fiducia a San Quintinoe poi è stato graziato. Io sonoquia Folsomin attesa che il giorno stabilito dal giudice Morgansia il mio ultimo giorno.


Quandodopo sei anni di segregazioneuscii dalla prigione di San Quintinoper essere trasferito qui ed esservi giudicatocome poi vi diròrividi Skysail. Lo rividi...per modo di dire. Dopo sei anni di buioassolutochiudevo gli occhi alla luce del solecome un pipistrello.Lo incontrainel cortile della prigionee lo riconobbipurattraverso una specie di nebbia opaca. Quello che intravidi bastòa stringermi il cuore. I suoi capelli erano tutti bianchi ed eraprecocemente invecchiato. Il petto incavato e le guance smunte. E lamano gli tremava furiosamente per la paralisi.


Camminandovacillava.


Miriconobbee i suoi occhinel volgersi verso di mesi riempirono dilacrime.


Maanch'io non ero ormai che un fetido rottame. Non pesavo che unatrentina di chili. I miei capellispruzzati di bianco come i baffi ela barbaerano irsutinon avendo più conosciuto un paio diforbici. Barcollavo come luie a tal punto che per farmiattraversare quella fetta di cortilesmagliante di solei guardianidovevano sostenermi sotto le braccia.


Ilmio sguardo e quello di Skysail s'incrociarono.


Sapevabene cheparlandomiinfrangeva le regole. Ma il suo spiritoindomabile non si curava di ciò.


-I miei complimentiStanding- mormorò con voce spezzata. -Sei veramente un uomo. Non hai detto niente della dinamite...


Conquel filo di voce che mi restava in corpomormorai a mia volta:


-Non ne ho mai saputo nientedella dinamite... Credo proprio che nonsia mai esistita...


-Bene... - mi risposescuotendo la testa come un bambino. - Tu nonvuoi parlarel'ho capito... Sei veramente un uomoStandingemeriti rispetto...


Iguardiani mi trascinarono viae non ebbi più modo di rivedereSkysail. Era però evidente che anche lui aveva finito con ilcredere a quella dinamite fantasma.


Perchéorami trovo quia Folsome perchéfra pocopenderòdalla forca? Adesso ve lo racconto. Non è per quella vecchiastoria del professor Haskellche ho ucciso; ma perché sonostato dichiarato colpevole d'aggressione contro uno dei mieiguardiani.


Equi è la mia disgrazia. Nell'epoca in cui uccisi il professoreHaskellquesta legge non esisteva. Fu approvata soltanto dopo la miaprima condanna. E' chiaro alloraper quanto mi riguardachel'applicazione retroattiva di questa legge è incostituzionale.E non c'è uomo di buon senso che non sia del mio parere.


Maquale effetto può avere un argomento del genere sullo spiritodi sedicenti uomini di leggeche vogliono sbarazzarsi a ogni costodel noto e rispettabile professore d'agronomia Darrell Standing? Delresto devo riconoscere che c'è un precedente. Un anno faèstato impiccato Giacomo Oppenheimerproprio quia Folsome per undelitto uguale. La sola differenza tra i due casi è che luinon aveva fatto sanguinare con il suo pugno il naso d'un guardiano.No. Macon il suo coltello per il paneaveva tagliuzzato un po' dipelle a un altro guardiano.


Lanostra esistenza quaggiùi rapporti tra gli uominiilgroviglio inestricabile delle leggi... mio Dio! com'è buffo estrano tutto ciò! Scrivo queste righe nella stessa cella cheoccupava Oppenheimer. L'hanno fatto uscire di qui per impiccarlo.


Cosìfaranno con me.


Comese voi foste in gradobranco di idiotibanda di cialtronidistrangolare la mia anima immortalecon la vostra corda e la vostraforca! A dispetto di tuttiio calpesterò ancorae piùd'una voltaquesta nostra terra. E vi cammineròin carne eossacome per il passatoprincipe o contadinosapiente o stupido;a volte sulla vetta della scala socialea volte stritolato dallaruota del destino.




5.IN SEGREGAZIONE


Tuttoquello che scrivo risente naturalmente della situazionee potràapparire un po' sconnesso...


Ritorniamoa San Quintino e alla cella numero 1dove mi avevano rinchiuso.


Misentivo disperatamente soloe le prime ore passarono con unalentezza estenuantei primi giorni mi sembrarono senza fine.


Ilbattito del tempo era segnato soltanto dal cambio regolare deiguardianie dal succedersi del giorno e della notte. Il giorno nonera che una luce debole e confusache tuttavia mi consolava dellatotale oscurità della notte. Una luce che filtrava appenaattraverso uno spiraglioe che portava con sé ben poco delsolare chiarore del mondo esterno.


Laluce non era mai abbastanza perché fosse possibile leggere.Del restonon avevo niente da leggere. Potevo soltanto sdraiarmi epensare. Era ormai evidente chea meno di fabbricare dal nullatrentacinque libbre di dinamitetutta la mia vita sarebbe trascorsain questo ottuso e oscuro silenzio.


L'arredamentodella cella consisteva soltanto in un sottile pagliericcio marcitosteso sul pavimentoe di una copertaancora più evanescentee d'una sporcizia obbrobriosa. Né una sediané untavolo. Niente di niente.


Invita miaho sempre dormito pococon il cervello in eternomovimento. In una cellaci si stanca presto a pensaree il solosistema per sfuggire al pensiero consiste nel dormire. Decisi dicoltivare il sonnocome una specie di scienza. Arrivai a dormiredieci ore su ventiquattropoi dodicie infine quattordici oquindici ore. E' il limite estremo al quale si può giungere.Con questo regimeun cervello attivo non tarda a dissolversiaspappolarsi nel nulla.


Ricorsia tutti i trucchi che mi permettessero di sopportare le ore diveglia. Con l'immaginazione cercai di risolvere le radici quadrate ecubiche d'una lunga serie di numeri; con una concentrazione assolutadella volontàriuscii a risolvere i problemi geometrici piùcomplicati.


Tentaipersino di trovare la quadratura del cerchio. Mi ci ostinai soprafino a quando il problema apparve anche a me insolubile. Poi capiiche ostinandomi su questa stradami sarei imbattuto nel ghignoatroce della follia. Rinunciai pertanto a interessarmi di questaquadratura misteriosa. Fu per me un enorme sacrificiodato che losforzo mentale necessario per una tale ricerca mi servivaegregiamente ad ammazzare il tempo.


Ricorsiad altri artifici. Così sotto le mie palpebrecreai lavisione artificiale di un gioco di damasul qualefacendo un doppiogiocosvolgevo interminabili partiteche duravano ore e ore. Maquando diventai abilissimo in questo finto giocoanch'esso perseogni attrattiva.


Cosìil tempo mi pesava sempre di piùeterno. Allora incominciaiil gioco con le mosche.


Eranomosche simili a tutte le altre. Entravano nella cella sulla scia delsottile raggio di luce. E imparai che le mosche avevano il gusto delgioco. Sdraiato per terratracciavo sulla parete davanti a meconun ditouna linea immaginarialontana circa tre piedi dal suolo.Quando le mosche si posavano sul muroal di sopra di questa lineale lasciavo in pace. Al contrariose scendevano sottofacevo fintadi volerle acchiappare. Avevo cura però di non far loro delmalee con il tempo esse conobbero quanto me dove fosse la lineaimmaginaria.


Mala cosa più sorprendente era che quando esse volevano giocarevenivano apposta a posarsi al di sotto della linea. Le allontanavoevi tornavano ancora. Accadeva spesso che una mosca ripetesse lostesso gioco per un'ora. Quando ne aveva abbastanza andava ariposarsi in territorio neutroal di sopra della linea divisoria.


Unaquindicina di mosche mi facevano così compagnia. Ce n'era unasola che non s'interessava al giocoostinatamente. Dal giorno in cuiaveva compreso il pericolo in cui incorreva scendendo al di sottodella lineaaveva evitato con cura di posarsi nella zona proibita.


Sullemie moschesul mio modo di viveresui loro giochiho fatto benaltre osservazionicon cui non voglio però importunarvioltre.


Cosìtrascorreva il mio tempointerminabile. Non potevo dormirecontinuamentee per quanto fossero intelligenti non potevo sempregiocare con le mosche. Perché le mosche sono moschee io eroun uomocon un cervello umano. E questo cervello abituato a pensarecolmo di cultura e di scienzalavorava comunque senza sosta. Eranato per l'azionee io ero condannato a una passività totale.


Ilmondo era morto per me. Nessuna notizia di un certo interesseriusciva a valicare i muri della mia cella.


Manel mio angusto sepolcronon tutto era silenzio.


Findall'inizio della mia segregazioneavevo sentitoa intervalliregolaririsuonare dei battiti soffocati. Provenienti da piùlontanone avevo uditi degli altriancora più ovattati.


Regolarmentevenivano sempre interrotti dai grugniti del secondino di guardia. Avoltequando i colpi continuavano troppo a lungoarrivavano altriguardianie dai rumori che seguivano indovinavo facilmente che aqualcuno veniva imposta la camicia di forza.


Lafaccenda era facilmente spiegabile. Sapevamo tutti che i due uominiin cella isolata erano Morrell e Oppenheimer. Erano loro due checomunicavano insiemebattendo contro il muro; e per questo venivanopuniti.


Illoro codice doveva essere indubbiamente molto semplice. Eppurenonaveva per me alcun significato. Lo studiai attentamentee quando nescoprii la chiavemi sembrò infantiledi una semplicitàelementare. A ogni colloquiocambiavano la lettera iniziale del loroalfabetoil che lo modificava. Spessooperavano tale cambiamento inpiena conversazione.


Cosìvenne il giorno in cui compresi due frasichiarissime.


-Di' un po'Edoardoche cosa daresti per qualche cartina e unpacchetto di tabacco Bull Durham? - chiedeva quello che batteva icolpi più lontani.


Fuisul punto di gridare tutta la mia gioia. Intorno a mec'erano deglialtri esseri umani! E si poteva comunicare con loro!


Tesiavidamente l'orecchio. Altri colpi più viciniche dovevanoprovenire da Edoardo Morrelrispondevano:


-Farei venti ore di seguito in camicia di forzaper un po' ditabacco.


Poici fu il grugnito del guardiano:


-BastaMorrell!


Chiè estraneo a cose del genere crederà che un condannatoa vita abbia ormai patito il peggio e chequindiun sempliceguardiano non abbia nessun potere per costringerlo a obbedirequandogli proibisce di parlare. Non è così. Rimane ancora lacamicia di forza. Restano la famela setele percosse. E l'uomorinchiuso in una cella come in una trappolaè impotente areagire.


Ilpicchiettìo cessò. Poiquando ripresela notteseguente mi inserii nella conversazione.


-Olà! - battei.


-Olàstraniero!... - rispose Morrellbattendo a sua volta.


EOppenheimer:


-Benvenuto nella nostra confraternita!


Ovviamenteerano curiosi di sapere chi fossida quanto tempo ero segregato incella e perché. Ma prima di rispondere chiesi lorod'insegnarmi la chiave che permetteva di modificare a piacimento ilcodice alfabetico. Me lo spiegaronoe cominciammo a discorrere.


Rimasisorpresoe anche lusingatodi sapere che i miei due compagni nonignoravano il mio nomee che la mia reputazione d'incorreggibile eragiunta fino a loro...


Avevoparecchio da raccontarema soprattutto sul complotto per l'evasionedei quaranta condannatisulla ricerca della dinamitee sullemacchinazioni di Cecil Winwood. Tutte notizie nuove di zeccaperloro. Da due mesi erano completamente isolatitagliati fuori dalmondo. L'attuale squadra in servizio era severa e crudele in modoparticolare. - Taciper adesso- mi comunicò Morrell. -Aspetta che stasera sia di guardia "Testa di torta".


Dormequasi sempree potremo discutere finché vogliamo.


"Testadi torta" era un uomo decisamente brutto e crudelemalgrado lasua pinguedine. Ma era proprio questa sua mole che lo intorpidiva atal punto da fargli sentireirresistibileil bisogno di dormire.


Quantoparlammo quella notte! E il sonno com'era lontano da noi!


Quandosi fece giornofummo tutti e tre denunciati per il rumore cheavevamo fatto. Evidentemente "Testa di torta" dormiva conun occhio solo! E pagammo cara la nostra piccola festa. Era lacamicia di forza. Ne sopportammo la tortura per ventiquattr'orefinoall'indomani alle novelegati sul pavimentosenza mangiare nébere. Fu il prezzo che pagammo in contanti per la nostra nottefelice...


Emalgrado la camicia di forza continuammo a comunicare tra noispecialmente di nottequando la sorveglianza si allentava.


Cosìci raccontammo l'un l'altro buona parte della nostra vita.


PeroreMorrell e io ascoltavamo Oppenheimer narrarci la sua esistenza.Dal tempo della sua gioventùtrascorsa miseramente a SanFrancisco; dagli anni del suo noviziato nel vizio fino alla sua primainfrazione della legge; poitutti i suoi furti e le sue rapine; iltradimento di un complice; San Quintino; e i suoi omiciditra lemura stesse del carcere.


GiacomoOppenheimer era soprannominato la "tigre umana". Ilnomignolo doveva essere stato inventato da un sudicio reporter...


Inverità ho trovato in Oppenheimer tutte le caratteristiche diuna vera umanità. Era fedele ai suoi amicie leale. Avevasubìto delle punizioni durissimepiuttosto che testimoniarecontro un compagno. Aveva coraggio e sapeva soffrire. L'amore per lagiustizia era in lui una vera frenesìa. Gli omicidi che avevacompiuto nella prigione erano dovuti interamente a questo concettoesaltato della giustizia. Era un cervello di prim'ordineche unavita intera trascorsa in galera e dieci anni di segregazione nonavevano minimamente oscurato.


Morrellpossedeva anche lui un'anima incorruttibile.


Prossimoalla mortenon esitò a proclamarlo ad alta voce: i tre piùnobili spiriti che conteneva la prigione di San Quintinodaldirettore Atherton fino all'ultimo servo erano i tre uomini chelanguivano nel buio di queste tre celle.


Nell'oraestremala verità mi induce a dichiarare che gli spiriti piùtemprati sono pure i meno docili. Gli stupidii vigliacchituttiquelli che non possiedono una giusta coscienza del loro valoresonodei prigionieri modello.


GiacomoOppenheimerEdoardo Morrell e iograzie al cielonon siamo fraquesti.




6."SAMARIA!"


Ilfanciullola cui anima è stata risparmiata dalla vitapossiede il dono prezioso di dimenticare. Nell'uomoriuscire adimenticare è segno di uno spirito forte ed equilibratomentre l'ossessione di un ricordo è l'inizio preciso di unamente malata.


Perquestonella mia cellacercavo con tutte le mie forze di annullarela sofferenza e i rancori che mi assalivano. Per questogiocavo conle mosche o facevo con me stesso delle interminabili partite ascacchio comunicavo battendo con le dita.


Madimenticavo solo parzialmente. Altri ricordi più lontanisalivano continuamente in me. Erano quelli d'altri tempi e d'altriluoghidi cui i miei anni verdi avevano conservato memoria.


Questiricordi incoscienti di un essere nato da poco tempo meritano forsed'essere cancellaticome se non avessero alcun significato?


C'èchi ha visto dei condannatigraziatiritornare a vivere e alzarenuovamente gli sguardi verso il sole. E alloraperché questiricordi infantili non potrebbero essi pure risvegliarsie le altrevitegià vissuterisuscitare ai nostri occhi?


Checosa si può tentare? Che cosa si può fare perchéle porte sprangate del nostro cervello si apranoe il passatoriaffiori improvvisamente al sole? Questierano i pensieri cherimuginavo senza tregua nella mia cella.


Maprimalasciatemi raccontare una curiosa e autentica avventura.


Eronel Minnesotanella vecchia fattoria dove sono nato. Allora avevoquasi sei anni. Un giornovenne a trovarci un missionario per laCina che il Consiglio delle Missioni inviava nelle fattorieper unaraccolta di fondi. I miei gli offrirono ospitalità per lanotte.


Dopocenamentre eravamo tutti in cucinae mentre mia madre si preparavaa spogliarmi per mettermi a lettoil missionario levò ditasca delle fotografie della Terrasantache ci fece vedere.


Improvvisamentevedendo una di quelle fotografielanciai un grido.


Sulleprime (così dissi quando fui interrogato)mi era sembratacompletamente familiaretanto nota come se avesse rappresentato lafattoria di mio padre. Poi mi era sembrata del tutto estranea.


Tuttaviadopo averla riguardatal'impressione di avere di fronte l'immaginedi un luogo da me conosciutoritornò più viva che mainella mia mente acerba.


-La Torre di Davide... - disse il missionario.


-No! - esclamai con tono sicuro.


-Pretendi forse che si chiami altrimenti? - chiese il missionario.


Accennaidi sì col capo.


-Alloraragazzo miocome si chiama?


-Si chiama... - cominciai.


Manon potei continuare. Balbettandoaggiunsi:


-L'ho dimenticato...


Rimasiin silenzio un istantepoi ripresi in mano la fotografiae dissi:


-La torre non è più come una volta. E' completamentediversa.


Ilmissionario mostrò a mia madre un'altra fotografia.


-Ecco- disse- dov'ero sei mesi fa.


Esegnando un punto col dito:


-Questa è la porta di Giaffa. Ci sono passato sottoper salirealla Torre di Davide. Sono tutti d'accordo su questa identificazione.Si chiamava El Kulalh...


Lointerruppi di nuovo. Indicai sul lato sinistro della fotografia deiresidui di pilastri in muraturae dissi:


-Nola porta che voi dite era là. Il nome che avete detto èquello che le davano gli Ebrei. Ai miei tempisi chiamavadiversamente. Si chiamava... L'ho dimenticato.


-Sentitelo un po'! - esclamò mio padreridendo. - Non sembrache ci sia stato davvero?


Miopadre continuava a ridere. Il missionario doveva pensare che iovolessi prenderlo in giro.


Mifece vedere una terza fotografia.


Raffiguravaun paesaggio asproquasi privo d'alberi e senza vegetazioneunavalle rocciosacon poche miserabili casupole in pietracoi tetti aterrazza.


-Adesso- disse il missionario in tono leggermente canzonatorio-che cos'è questa secondo te?


Risposisenza esitare:


-Samaria!


-Ha ragione il ragazzo- disse il missionario. - E' SamariainTerrasanta. Ho attraversato io stesso il villaggioe ho compratoquesta fotografia per ricordo. Il ragazzo deve averne visto un altroesemplare. E' la sola spiegazione possibile.


Miopadre e mia madre giurarono che non era possibile. Io intervenni.


-Anche quiè tutto diverso da come ricordo... - Dentro di mecercavo di ricostruire il paesaggio che ricordavo solo confusamente.Nell'insiemenon era cambiato. - Le case- dissi- non eranoqui... Un po' più in là. Gli alberi erano piùfitti.


Unbosco intero e molte capre. Mi sembra di vederlecon due pastori chele guidavano. In questo puntoun gruppo di vagabondivestiti distracci. Sono tutti ammalati. Il loro visole loro gambesono pienidi piaghe...


Ilmissionario sorrise e dichiarò:


-In chiesa o da qualche altra partedeve aver sentito parlare delmiracolo dei lebbrosi.... Quanti eranoquesti vagabondi con lepiaghe?


All'etàdi cinque annisapevo contare fino a cento. Risposi:


-Sono dieci. Agitano le bracciae gridanourlano contro altri uominiche stanno intorno.


-Continua... - fece il missionario. - E' tutto qui? E quello che sitrova di fronte a loroche cosa fa?


-Si è fermato. E tutti si sono fermaticome lui. I caprai sisono avvicinati per vedere. Guardano tutti. - E dopo?


-Niente. I malati se ne tornano a casa. Non urlano più. Nonsembrano più ammalati. Mi alzo sul mio cavalloe guardoanch'io!


Imiei tre ascoltatori scoppiarono in una sonora risata.


Allorami prese la colleraed esclamaiconvinto:


-Sìsono sul mio cavallosono un uomoe porto al fianco una spada.


-Evidentemente- spiegò il missionario- il ragazzo staparlando dei dieci lebbrosi che Cristo incontrò sulla via diGerusalemmee che guarì. Vostro figlio avrà vistoquesta scena riprodotta da qualche lanterna magica. Cercate diricordarvi...


Mamio padre e mia madre non ricordavano affatto che io avessi assistitoa qualche proiezione di lanterna magica.


-Mettetelo alla prova ancora una volta- propose mio padre.


Ilmissionario mi allungò una quarta fotografiache esaminai conattenzione. Poi dissi:


-Il paesaggio è tutto diverso da quello di prima... Quinelcentroc'è una collina... Verso destrauna strada campestredei giardinidegli alberi... A sinistradelle grotte nelle roccedove si seppellivano i morti... Quiinvece si scagliavano dellepietre a delle personefinché non morivano... Non l'ho maivisto... Me l'hanno solo raccontato...


-Ma questa collina al centro... - chiese il missionarioindicandomela. - Lo sai il suo nome?


Esitaiscrollando il capo.


-L'ho dimenticato. Ma ricordo che proprio lì si uccidevano icondannati.


-Perfetto! Benissimo! - esclamò il missionario. - Tutti icompetenti sono d'accordo. La collina è il Golgota e la suasommità è la piazza dei Crani... Lassù èstato crocifisso...


Sivoltò verso di me.


-Ci sai dire chi è stato crocifisso in questo punto? Ti ricordianche di Lui?


Ohse lo ricordavo! Mio padrequando raccontava più avantiquesta storiaaffermava che i miei occhi si dilatavanostranamente...


Manon risposi alla domanda. Dissi soltanto:


-Questo nomenon lo pronuncerò; vi burlereste soltanto di me.


Sìlo ricordo... Lo vedoe ci sono tanti uomini che lo circondanoedue altri come Luiuno alla sua destra e uno alla sinistra... Liinchiodavano su tre croci... Ho visto... Ma non dirò il Suonome... Direste che io mento. Ma io non mento mai.


Chiedeteloa loroalla mamma e al papà se non è vero...


Daquel momentoil missionario non riuscì più a cavarmidi bocca una parola.


Baciaimio padre e mia madreaugurando la buona notte. E mentre mi avviavoverso la mia stanzail missionario concluse:


-Diventerà un teologo di prim'ordine sui problemi biblici. Ameno checon la fantasia che possiedenon diventi un granderomanziere...


Unmissionario stupido e delle profezie idiote. La prova è chesono quia Folsomnel recinto degli assassinie sto scrivendotutto questo in attesa che vengano a prelevare Darrell Standingperpoi inviarlo nel regno delle tenebreattaccato a una corda.


Unapretesa che mi fa alzare le spalle!


Sonoin questa cella della prigione di Folsome mi fermo un attimo nellastesura di queste "Memorie"per ascoltarenella calurapomeridianail tranquillante ronzìo delle mosche nell'ariastagnante. Non sono le mie mosche di San Quintinoe queste non miconoscono per niente. Come compagninel reparto dei condannati amortenon ho più Oppenheimer e Morrell; maalla mia destraGiuseppe Jacksonil negro assassinoe alla mia sinistra Bambecciol'italiano omicida.


Nellamanotengo la penna stilograficaalzata sulla cartae penso chenel corso delle mie vite passatealtre mie mani hanno agitato deipennellidelle penne d'ocae tutti i più strani e diversistrumenti di cui l'uomosin dalla più remota antichitàsi è servito per scrivere...


Matorniamo a San Quintino.


Ladistrazione procurata dalle conversazioni con i miei due compagni dicarcere non durò a lungo. E ricominciai a soffrire per la miasolitudine e per la continua meditazione interiore.


Alloraper sfuggire al presentetentai la strada dell'auto- ipnotismo.Ottenni soltanto un successo parziale. Il mio subcoscienteritornando autonomosi perdeva in vaneggiamenti incoerentiin millefantasie disordinatedegne tutt'al più di un semplice incubo.


Ilmio metodo d'auto-ipnosi era semplicissimo. Seduto alla turca sulpagliericciofissavo un filo di paglia che avevo applicato sul murodove la luce era più viva. Fissavo a lungo questo puntobrillantea cui avvicinavo insensibilmente i miei occhifinchéle mie pupille si velavano. Contemporaneamentelasciavo languireogni altra volontà e mi abbandonavo a una sorta di vertigineche non mancava mai d'impadronirsi di me. Veniva il momento in cuivacillavo. Allora chiudevo le palpebre e mi lasciavo inconsciamentecadere sulla schienasul pagliericcio.


Daquesto momentoper un tempo che poteva variare da dieci minuti amezz'orafino a un'oravagavo attraverso i ricordi sovrappostidelle mie riapparizioni vitali su questa terra. Ma tempi e luoghi sisuccedevano nella mia mente con eccessiva rapiditàconfusamente e senza un ordine.


Tuttociò che sapevoquando rientravo in meera che DarrellStanding era il filo che collegava fra loro tutte quelle visionifantasticheondeggianti. Niente di più. Non riuscivo a vivereinteramente nel tempo e nello spazio nessuno dei miei sognise cosìposso definire queste evocazioni allucinate.


Cosìdopo un quarto d'ora circa dell'ipnosiavevo l'impressionequasisimultaneadi strisciare e grugnire nel fango primitivoe divolarein pieno secolo ventesimosul monoplano del mio amico Hoos.Rientrato nella realtà del carceremi ricordavo perfettamenteche nell'anno precedente alla mia incarcerazione a San Quintinoavevo infatti volato con Hoos sopra il Pacificoa Santa Monica. Alcontrarionon ricordavo più di avere strisciato e grugnitonel fango primordiale. Ma ragionandomi persuadevo che entrambe leazioni dovevano essere egualmente realidal momento che s'eranopresentate tutte e duecontemporaneamentealla mia memoria.Soltantouna era più lontana dell'altrae così il suoricordo s'era offuscatocome ingiallito.


Checaleidoscopio di immaginiin quelle ore rubate alla mia tristerealtà!


Misono seduto alla tavola dei grandi della terracome buffonescrivano e uomo d'armie Re io stessoal posto d'onorea capo deltavolo. Ho riunitodietro le mura robuste del mio palazzoil poteretemporalerappresentato dalla spada che avevo al fianco e dagliinnumerevoli armati che avevo ai miei ordinie il potere spiritualedi cui testimoniavano i monaci incappucciati e i grassi abati chesedevano alla mia tavolabevendo il mio vino e rimpinzandosi del miocibo. Talvoltacon voce gravepronunciavo delle sentenze.Condannavo e imponevo la morte legale a degli uomini checomeDarrell Standingavevano oltraggiato lo spirito eterno della legge.


Mivedevo poialternativamentementre languivo portando intorno alcollo il collare degli schiaviin gelide regioni desolate; osottole calde e profumate notti tropicaliamato da stupende principessedi sangue realementre intorno degli schiavi negri agitavano congrandi ventagli l'aria sonnolenta. E fra il mormorìo dellefontanesotto gli immobili rami delle palmesi udivainlontananzail grido acuto degli sciacalli e il ruggito dei leoni.


Eancora... sperduto nelle desolate steppe dell'Asia mi scaldavo lemani davanti a grandi fuochi alimentati da escrementi secchi dicammello. Equasi subitomi ritrovavo nel torrido deserto d'Asiasdraiato all'ombra tisica dei cespugli di salviamaculati di soleaccanto a pozzi disseccati. Imploravocon la lingua gonfiaunagoccia d'acquamentre intorno a me si allineavanoclassificate incapaci contenitoriossa d'uomini e di bestiecalcinate dal sole...


Erocorsaroassassino a pagamento e piratao monaco curvo su testimanoscrittipergameneenormi volumiantichi e saturi di muffa.


Poidi colpocapo di barbaricomandante di orde urlantiguidavo fileinnumerevoli di carri per strade imperviee calpestavo il suolo diantiche città dimenticate. Mi battevo disperatamentesu queicampi di battaglia d'altre epoche. E nemmeno quando il sole calavaoltre l'orizzontecessava la vermiglia carneficina. Continuava nelleore della notteal cospetto delle stelle che brillavano in cielo. Ela freschezza del vento notturno bastava ad asciugare il sudore dellabattaglia.


Marinaiosenza pauraarrampicato sulle sartìe che oscillavano sulponte delle naviamavo contemplare sotto di me l'acqua del maretrasparente sotto il solein cui foreste rossastre di corallotralucevano negli abissi color turchese. Poitornato al timoneconducevo la mia navecon mano sicuranel porto tranquilloscintillante come uno specchionei golfi serenidove i flutti sispezzano eternamentecon rumore sordosui banchi a fior d'acqua deicoralli aggrovigliati.


Piùprossima nella sua origineun'altra vita trascorsa: quella deigiorni della mia infanzia. Ritornavo il piccolo Darrell Standing checorreva a piedi nudinella fattorìa paternasull'erba umidadella rugiada primaverile. O nei freddi mattini d'inverno portavo ilfieno alle bestienella stalla tiepida del loro alito fumoso. E misembrava di sedermila domenicadinanzi al predicatoreascoltandocon sgomento infantile i suoi discorsi immaginifici sulla felicitàdella Nuova Gerusalemme e sulle sofferenze orribili del fuoco eterno.


Dadove provenivano queste visionimentre nella mia cella misprofondavo in un torpore pesante dopo avere fissato un filo dipaglialuccicante in un raggio di sole?


IoDarrell Standingnato e cresciuto in un angolo isolato delMinnesotagià professore d'agronomia e poi galeottoincorreggibile a San Quintinoe oggi condannato a mortenellaprigione di Folsom; ioDarrell Standingche fra poco moriròimpiccatonon ho mai amatoin questa presente esistenzadellefiglie di re. Non sono mai stato sul tronocon la spada al fianco.Non ho mai navigatoné unito la mia voce a quella deimarinai.


Maalloracome ho potuto conoscere tutte queste cose? Esse sonoestranee alla mia esperienza in questa vita. Eppurefluiscono dalmio cervellocome la parola "Samaria!" proruppe dalle mielabbra infantilial cospetto di una semplice fotografia.


Dalnulla non nasce nulla. Come non mi era possibile creare dal nulla letrentacinque libbre di dinamite che il capitano Jamie e il direttoreAtherton esigevano da me a ogni costocosì non posso avercostruitoin tutti i loro particolariqueste visioni accecanti.Esse erano in agguato e latenti nel mio spiritoe io non ho fattoaltro che portarle alla luce del giorno.




7.L'ODIOSA TORTURA


Questaera la mia situazioneirritante e abnormedalla quale non riuscivoa evadere.


Sapevoche esisteva in me una Golconda di memorie latenti d'altre esistenze.Ma ero impotente a rovistare e a mettere in luce simili tesori.Malgrado i miei tentativinon riuscivo che a barcollare malamentecome un ubriacoin mezzo a questi ricordi.


Paragonavoil mio caso con quello del pastore Stainton Mosesche giurava sullaBibbia di avere incarnato Sant'Ippolitovescovo greco e martirePlotinofilosofo neo-platonicoAtenedorofilosofo stoico; epiùvicino a noiGrocinioun amico di Erasmo da Rotterdam. E nondubitavo minimamente che le asserzioni di Stainton Moses non fosseronel vero.


Leesperienze del colonnello francese De Rochas mi confermavano nellemie convinzionioltre ad attirarmi in modo particolare. Ne avevoletto il raccontoquando ero ancora agli inizi in questa materianegli intervalli che le mie antiche occupazioni mi concedevano. Egliraccontava che impiegando dei soggetti particolarmente idoneinelcorso del sonno ipnotico aveva penetrato le loro antiche personalità.


Cosìera stato per una certa Giuseppinache abitava a Voironneldipartimento dell'Isère. Egli l'aveva portata a rivivere lasua vita e le sue emozioni d'adolescentepoi la sua infanzial'epoca in cui succhiava ancora il lattee quella in cui era ancoranel seno materno. Risalendo più indietroera penetrato nellesue incarnazioni viventiin quella dove il suo esseremescolando idue sessiaveva animato un vecchio scorbuticocerto Gian ClaudioBourdonex soldato nel settimo reggimento d'artiglieriaa Besançondov'era morto all'età di settant'anniparalitico. - OUIOUIPARFAITEMENT...


Eil colonnello De Rochasinterrogando a sua volta la proiezioneipnotizzata di questo Gian Claudio Bourdonl'aveva seguito fino allaradice della sua vitapalpitante nel segreto del seno materno. Ecosìseguendo questo esile filoaveva trovato un'altravecchiaFilomena Carteron...


Perquanto mi riguardanon arrivavo a realizzare con altrettantaprecisione le mie passate personalità. Preso dallo sconfortofinii con il persuadermi che solo la morte avrebbe riportato un po'di luce e di coerenza nel caos in cui mi dibattevo.


Mala vita continuava a scorrere in me prepotentementee malgrado lesue sofferenze Darrell Standing si rifiutava ancora di morire.


Eglinegava al direttore Atherton e al capitano Jamie il diritto diucciderlo.


Hosempre amato la vitasvisceratamentee soltanto la forza vitale cheera in me mi aveva permesso di esistere ancora. E per essasoltantoper essaero ancora in questa cellaa mangiare e a bere malgradotuttoa pensare e a scrivere queste paginein attesadell'inevitabile corda che metterà fine all'attuale edeffimero spettacolo della mia esistenza.


Nonè lontano il momento in cui penetrerò in questo misteroche mi tormentain cui saprò finalmente come dovevo agireper vedere e sapere. Vi racconterò ogni cosa fra non molto...


Ildirettore Atherton e il capitano Jamie ne furono indubbiamente laprima causa.


Dovevanoaver subìto una recrudescenza di panico al pensiero delladinamite che credevano sempre nascosta in qualche posto del lorofetido regno. Un giorno ricomparvero nella mia cella e mi disserosenza complimenti che dovevo decidermi a parlare; altrimentilacamicia di forza mi avrebbe accompagnato fino alla morte. Una morteche sarebbe stata annotata sui registri della prigione come dovuta acause naturalie i loro superiori avrebbero detto: AMEN.


Nonignoravo che cosa fosse la camicia di forza e tutto ciò cherappresentava di spaventosodi dolore e d'agonìa. Avevo vistogli uomini più robusti cedere di schiantoalcuni di lororimanere storpiati per tutta la vitae quegli stessi che avevanoresistitofino ad alloraalla tubercolosideperire poie morirein sei mesi di questa stessa malattia.


Hoconosciuto personalmente Wilsonchiamato "l'uomo dagli occhistorti"che aveva un vizio cardiaco e che nel giro di un'oraera morto nella camicia di forzamentre il medico della prigione loosservava sorridendo. Ne ho conosciuto un altro che dopo mezz'oraconfessò tutto quello che gli si voleva far direil falsocome il veroil che gli valse stima e fiduciae una serie infinitadi favori.


Infinetocco con mano la mia esperienza. Mentre scrivo queste righeil miocorpo è segnato da un migliaio di cicatrici. Esse miseguiranno sino al palco fatale.


Malasciate che vi spieghi un po' in che cosa consiste questa camicia diforza. Allora comprenderete comeimmerso nella sofferenzaio sonofuggito vivente da questa vita; e diventato padrone dello spazio edel tempoho potuto volare fuori delle mura della gehennafino allestelle.


Suppongoche voi abbiate già visto dei grossi copertoni di tela ruvidao di caucciùi cui orli sono forniti di solidi occhielli dirame. Immaginate dunque una di queste telelunga all'incirca quattropiedi e mezzo. La sua larghezza non raggiunge completamente lacirconferenza d'un corpo umanodi cui la tela segue press'a poco lasagoma. Così è più larga alle spalle e aifianchipiù stretta al petto e alle gambe.


Latela è distesa per terra. Il prigioniero che dev'esserepunitoo torturato perché confessiriceve l'ordine didistendervisi soprabocconi. Se rifiuta viene picchiato. Alloraobbedisce.


L'uomoè dunque bocconi. Gli orli della camicia di forza vengonoavvicinati uno all'altroin modo da congiungersi lungo la schiena.Una cordache funziona come il laccio d'una scarpaviene passataattraverso gli occhiellie l'uomo viene stretto dentro la tela.


Avoltese gli aguzzini sono crudeli di naturao quando l'ordineviene dall'altoessi operano una legatura più strettamettendo il loro piede sulla schiena dell'uomoe puntandovi contromentre stringono.


Ricordoancora la prima volta in cui fui costretto a subire il suppliziodella camicia di forza. Era all'inizio della mia incorreggibilità.


Ilpretestocome testimoniano i registri della prigioneera che il miolavoro nel laboratorio della juta era scarso e mal fatto.


Eraun pretesto idiotanaturalmente.


Miportarono nei sotterraneie mi ordinarono di stendermi sulla telafaccia a terra. Rifiutai. Uno degli aguzziniun certo Morrissonpremette i suoi pollici sulla mia carotide. Un altroMobinsanch'egli galeotto ma diventato uomo di fiduciami colpìripetutamente con i pugni. Fui costretto a cederee feci quello chemi comandavano. La mia resistenza non era andata a genio ai mieicarnefici; per questostrinsero i lacci più forte. Poi mirotolarono sulla schienacome avrebbero fatto con un tronco dilegno. Andandosenerichiusero la porta della cellamisero ichiavistellie mi lasciarono nella più completa oscurità.Erano le undici del mattino.


Perqualche minutoprovai soltanto una scomoda costrizione di tutto ilcorpoche pensai si sarebbe attenuata quando mi ci fossi abituato.


Maavvenne esattamente il contrario. Il mio cuore si mise a battere conviolenzamentre i polmoni sembravano diventati impotenti adassorbire l'aria necessaria per permettermi di respirare. Questasensazione di soffocamento era terribile.


Dopouna mezz'oraincominciai a gridarea lanciare urli di terrorearuggirein una autentica demenza di agonizzante. Il doloredallostato sordoera passato a quello acuto. Mi credevo investito da unapleuresìa artificialee il cuore sembrava dover cedere da unmomento all'altro.


Moriredi colpo è niente. Ma questo tipo di mortelenta e raffinataera spaventoso. Mi sentivo come una belva presa in trappolaescoppiavodopo brevi pause di silenzioin nuovi urli e gemiti. Poimi persuasi che tutto ciò non faceva che aggravare il miostatoconsumando ancor più l'aria rarefatta dei miei polmoni.


Tacquiordinando a me stesso di restare tranquillo. Vi riusciia forza divolontàper un periodo di tempo che mi parve eterno ma che ineffetti non superò il quarto d'ora. Poi fui sommerso da unavertigineil cuore si mise a pulsare come se volesse fare scoppiarela tela; semi-asfissiatopersi ogni controllo di me.


Ricominciaia urlarechiamando soccorso.


Nelpieno della crisiudii una voce che proveniva dalla cella vicina.Filtrava attraverso lo spessore dei muri e mi giungeva appena.


-Sta' zitto! - diceva. - Mi stai scocciandohai capito?


-Muoio!... - gridai.


-Non è niente... Lascia perdere! - fu la risposta.


-Sto per morire... - ripetei.


-Alloradi che ti lamenti? - ribatté la voce. - Quando saraicrepatonon soffrirai più... E del restogridase ti piacema non così forte! Ti chiedo soltanto di lasciarmi dormire...


Unacosì stolida indifferenza mi irritòe ripresi ildominio dei miei nervi. Non articolai più che dei gemitisoffocati. Questa nuova fase durò anch'essa un'eternità.Forse dieci minuti. E i miei tormenti presero un'altra direzione.


Adessoerano degli aghi che mi bucavano da tutte le parti. Poi le punturecessaronoe furono sostituite da un intorpidimento generaleche misembrò mille volte più spaventoso. Ricominciai aurlare.


Eil mio vicino ricominciò a protestare.


-Accidentinon si riesce a chiudere un occhio!... Ti assicuro che ionon sto meglio di te... La mia camicia è stretta come la tua!


-Da quanto tempo sei dentro? - chiesi.


-Dall'altro ieri.


-Dall'altro ieri nella camicia di forza?


-Precisamentefratello.


-OhDio mio!


-Ma sìfratello. Da cinquanta ore di seguito. Eppure non milamento e non urlo. Mi hanno legato puntando i piedi sulla miaschiena. Sono conciato con i fiocchipuoi credermi! Non sei il soloa trovarti così. Ti lamentie non è ancora un'ora checi sei dentro...


Protestai:


-Ti sbaglisono un mucchio di ore.


-Fratello miote lo immagini. Sei in buona fedema non ècosì.


Tiassicuro che non è ancora un'ora: li ho sentiti quando tilegavano.


Misembrava impossibile. In meno di sessanta minuti ero già mortomille volte...


Domandai:


-Per quanto tempo ti terranno qui?


-Dio solo lo sa. Il capitano Jamie ce l'ha con me. Non mi faràsciogliere prima che sia in agonìa. E adesso io ti do un buonconsiglio. La cosa migliore da fareè di chiudere gli occhi edimenticare. Gridare non serve a niente. Cerca di pensare ad altro;per esempioa tutte le donne che hai avuto: passerai il tempo. Se tisenti girare la testalasciala girare. Sarà tutto tempoguadagnato. E quando avrai finito con le tue donnepensa a tutti ibastardi che hanno tentato di soffiartele. Pensa un po' a quello cheavresti fatto se ti fossero capitati sotto le mani...


L'uomoche mi parlava in questo modo si chiamava Filadelfia Red.


Eraun recidivo che scontava cinquant'anni di galera per rapina a manoarmatain piena via d'Alameda. Ne aveva già fatto dodici.


Eratra i congiurati traditi da Cecil Winwood. Se riuscirà asopravvivereil giorno in cui verrà rimesso in libertàsarà ormai un vecchio.


Trascorsisenza morirnele mie ventiquattr'ore di camicia di forza. Ma devoaggiungere che dopo d'allora non mi sono mai più sentito lostesso uomo. E non parlo tanto del mio stato fisico.


L'indomanimattinaquando mi sciolseroero mezzo paralizzato e mi trovavo inun tale stato di debolezza che i guardiani dovettero darmi dei calcinelle costole per farmi rialzare sulle quattro zampe. Ma soprattuttoero cambiato dentromoralmente e mentalmente.


Iltrattamento che avevo subìto mi umiliava e mi rivoltava altempo stesso. Avevo smarrito il senso della giustizia. L'amarezza el'odio si erano introdotti nel mio cuore; e da alloracon il passaredegli annisi sono sempre più ingigantiti.


Quellamattinanon pensavo certamente che sarebbe venuto un giorno in cuiventiquattr'ore di camicia di forza non sarebbero state niente perme; cheterminatecento ore di questa stessa tortura mi avrebberotrovato sorridente; che duecentoquaranta ore dello stesso trattamentomi avrebbero fatto egualmente sorridere!


Sìduecentoquaranta ore. Dieci giorni e dieci notti! Tu scrolli lespallecaro lettorecerto che in nessuna parte del mondo civilemillenovecento anni dopo la venuta di Cristosimili orrori possonoaccadere. Non sforzarti di crederlo. Non lo credo io stesso. So soloche io li ho subiti a San Quintinoe che sono sopravvissutopersghignazzare in faccia ai miei carnefici e costringerli a liberarsidi mecon l'aiuto d'una corda e d'una forca; con il pretesto che iocon un pugnoho fatto sanguinare il naso a uno di loro. Scrivoqueste pagine nell'anno del Signore 1913; e in questo stesso annonelle celle di San Quintinoci sono altri uominilegati nellacamicia di forzacome lo fui io.


Nondimenticherò mainé in questa vitané inquelle che seguirannol'addio di Filadelfia Redquando loliberaronoquel mattinoinsieme a medopo settantaquattr'ore dicamicia di forza.


Mentremi spingevanobarcollantenel corridoioegli mi gridò:


-Che ti dicevo? Non sei mortoe ti muovi ancora!


-SilenzioRed - brontolò il sergente.


-Dimentica questo brutto quarto d'ora! - riprese Red.


Ilsergente minacciò:


-Redti metto a posto io!


-Davvero? - chiese Redcon strana dolcezza.


Poila sua voce si fece roca e selvaggia:


-Sei un buono a nienteun bruto! Da solo saresti stato incapace diguadagnarti il panee meno ancora di avere il posto che occupi qui.E' tuo padreche ti ha dato lo spintone. E lo sanno tutti con qualisporchi sistemi tuo padre è riuscito a farsi i quattrini!


Lascena era di una grandezza esaltante. L'uomo colpito e torturato sielevava al di sopra del suo carnefice e sfidava l'odio a cui siesponeva.


Poirivolgendosi a me:


-Arrivedercifratello! - disse Red. - Arrivedercie cerca di fare ilbravod'ora in poi. Mi raccomandoama il nostro direttore... Se loincontri digli che m'hai vistoe che non sono cambiato per niente...




8.LA DINAMITE O LA MORTE


Sonoquinella mia cella numero 1alla mercé di rinnovate minacceda parte del direttore Atherton e del capitano Jamie.


-Standing- mi disse il direttore- bisogna farla finita una voltaper sempre con questa dinamiteo ti faccio morire in camicia diforza! Altripiù in gamba di tehanno finito per confessareprima che fosse troppo tardi. Devi scegliere. La dinamiteo crepare!


-Io non ne so nientedella dinamite!


Ildirettore fece un cennoe la tela fu stesa per terra.


-SdraiatiStanding! - ordinò.


Obbedii.Ormai sapevo che era una vera follia resistere a tre o quattroenergumeni riuniti. Fui legato. Cento ore da fare. Ogniventiquattr'oreun bicchiere d'acqua. Di cibonon avevo nessunavogliae del resto non me ne diedero. Verso la fine della centesimaorail medico del carcereil dottor Jacksonesaminòpiùdi una voltale mie condizioni fisiche.


Maormai mi ero già troppo abituato alla camicia di forza perchécento ore di quella tortura potessero danneggiare seriamente la miacostituzione. Per non parlare poi dei sotterfugi muscolari chel'esperienza mi aveva fatto scoprire e che mi permettevano di rubareun po' di spaziomentre mi legavano.


Dopoventiquattro ore che mi vennero accordate per recuperare le forzemifu inflitta una seconda punizionedi centocinquanta ore. Ne derivòun intorpidimento generalee per il mio cervello un incoscienteabbrutimento. Riuscii a strappare al tempo delle ore di sonno.


Poiil direttore Atherton escogitò alcune varianti alla cura.


Ossiaa intervallila camicia di forza e un po' di riposo. A volteriposavo per dieci ore e ne facevo venti legato; oppure non milasciavano che quattro ore per riprendere fiato. In piena nottequando meno me l'aspettavola porta della mia cella si apriva e lasquadra di turno mi legava. Oppureper tre giorni e tre notticonsecutiveotto ore del supplizio si alternavano regolarmente conotto ore di riposo. Eproprio quando cominciavo a fare una certaabitudine a questo ritmoi miei aguzzini lo modificavanoimprovvisamenteinfliggendomid'un colpodue giorni e due notti dicamicia di forza. Esempretornava a galla l'eterna domanda:


-Dov'è la dinamite?


Esemprenon sapendo più a quale santo votarsiil direttoreAtherton passava dalla collera più sfrenata alla supplica piùpatetica.


Ildottor Jacksonche di medicina doveva intendersene piuttosto poconon nascondeva il suo scetticismo sul risultato del trattamento usatonei miei confronti. Egli insisteva nel dire che la camicia di forzanon sarebbe mai riuscita a uccidermi. Più si intestardiva inquesta opinionee più il direttore Atherton si ostinava algioco e continuava.


-I tipi di questo genere- diceva- sono duri a morire. Ma io saròancora più duro. SentiStanding: quello che hai passatofinora non è che un gioco da ragazzi di fronte a ciòche t'aspetta! Sai che io sono un uomo di parola. Te l'ho giàdetto:


"Ladinamiteo la morte!". E te lo confermo ancora una volta. A tela scelta.


Mentre"Faccia di torta"con i piedi puntati sulla mia schienastringeva fortee io gonfiavo i muscoli al massimo per guadagnare unpo' di spazio ai miei polmonibalbettai:


-Vi ripeto che non c'è niente da confessare. Mi taglierei lamano destrapur di portarvi verso una dinamite qualunquese sapessidov'è.


Athertonsogghignò:


-D'accordo... Ne ho già visti degli altricon la testa duracome la tua. Sei come i cavalli selvaggi: più si battono e piùrecalcitrano... Jonesstringi ancora un po'... Un occhiello di più!Standingse non confessi ci lascerai la pelle. E' una promessa.


Durantequesto trattamentoimparai varie cose. Più l'uomos'indeboliscemeno sente il dolore. In un corpo debole la sofferenzasi attenua. E man mano che l'energia vitale si prosciugale reazionidiventano meno violente. Così successe anche a me. Diventaiapoco a pocouna specie di larva inerteche si ostinava a vivere.


Morrelle Oppenheimerche sapevano bene a quale trattamento ero sottopostoerano addolorati per me. Mi mandavanocon continui picchiettiiiloro consigli e i segni della loro simpatia.


Oppenheimermi assicurava che aveva subito ancora di peggioeppure non ne eramorto.


-Non permettere che ti domininoStanding! - mi diceva con le dita.Tieni duroe non lasciarti morire. Sarebbero troppo contentiqueiporci. E soprattutto non parlare !


Nellamia camicia di forzanon potevo rispondere che con il piede. Con lapunta della scarpapicchiettai la risposta:


-Ti ho già detto che non posso dire niente... Non so nienteniente di niente.


-Inteso e capito! - approvò Oppenheimer.


Econtinuòrivolto a Morrell:


-Questo Standing è fantastico!


Comepotevo arrivare a convincere il direttore Athertondal momento chelo stesso Oppenheimer non faceva che ammirare la mia forza d'animonel conservare il presunto segreto ?


Quandoriuscivo a dormireincominciavo subito a sognare. Fondati su unabase realequesti sogni mi riconducevano sempre alla mia anticaprofessione di agronomo...


Parlavodavanti a un'assemblea di scienziatiriuniti per ascoltarmi. Leggevodelle relazioni... Equando mi svegliavoil sogno era stato cosìpreciso che mi sembrava ancora di sentir risuonare la mia voce.


Oppurevedevo distendersi davanti ai miei occhi delle immense terrecoltivabilimolto simili a quelle della Californiacon la loroflora e la loro fauna. E in tutti i miei sogni mi muovevo sempre inquesto scenario...




9.VOLONTA' DI MORIRE


Nonè poi poi una cosa facile dominare il dolore fisico con lasola forza d'animomantenere la mente serena a tal punto chedimentichi completamente l'atroce urlio dei nervi torturati. Ma hoimparato a subire passivamente il doloresenza dubbio come tutticoloro che sono passati attraverso le diverse fasi della camicia diforza.


Unanottementre stavo per essere slegato dopo cento ore di trattamentoudii picchiettare. Era Morrell.


-A che punto sei? - mi chiedeva. - Sempre fermo?


Risposi:


-Mi sembra di non esistere che a tratti. Avranno la mia pellesecontinuano così..


-Non dar loro questa gioia! - replicò Morrell. - C'è unsistema... L'ho provato io stesso durante un periodo di cella in cuiavevo per vicino Massie. Tutti e due in camicia di forza... Io tenniduromentre Massie urlava come se lo scannassero. Se non avessiconosciuto il truccoavrei fatto come lui. Ecco in che cosaconsiste: prima di tuttoper provarlobisogna essere in uno statodi debolezza estrema. Se si tenta quando si è ancoraabbastanza fortinon riescee poi non se ne vuol più sentirparlare. E' il caso di Jake. Stava troppo benecosì non ciriuscì. Più tardiquando il mio sistema gli sarebbeandato a pennellonon era più il caso. Per questo adesso lonega e dice che gli racconto delle storie. Non è veroJake?


Dallacella numero 13 Oppenheimer picchiettò:


-Non dargli rettaDarrell! E' un sistema che non funziona...


-Morrell- picchiai con le dita- spiegamelo lo stesso.


-Ecco di che si tratta. Bisogna morire artificialmente... Non capisci?Pazienza! Ascoltami bene: quando sei nella camicia di forzale tuebracciale gambe e altre parti del corpo s'intorpidiscononon lesenti più. S'intorpidiscono da solesenza la tua volontà.Ma prendi come base questo esempioe cerca di migliorarlo. Devi farecosì: stenditi sulla schiena e subitoprima che le braccia ole gambe abbiano perso la sensibilitàcomincia a far agire latua volontà. Maricordatidevi aver fede. Sennònonc'è niente da sperare. Devi credere con tutte le tue forze cheil tuo corpo è una cosae la tua anima un'altra. La tua animaè tutto. Il tuo corponon conta. T'ingombra soltanto. E latua anima ordina di morire. Cominci l'operazione dal pollice deipiedi. Li fai morireuno dopo l'altro; poi tutte le altre dita deipiedi. Tu ordini loro di morire. E se hai fede e volontàmoriranno. Naturalmente l'inizio è la parte piùdifficile. Quando il primo dito è mortoil resto diventafacile. Perché alloraper crederenon dovrai piùtormentarti il cervello. La tua volontà agirà senzafatica per tutto il resto del corpo. L'ho provato già trevoltee mi è sempre riuscito. La cosa più curiosa èche mentre il tuo corpo sta morendoil tuo spirito rimane semprelucidopresente. La tua personalità permane. Dopo i piedisono le tue gambe che muoiono. Poi i ginocchi; poi le cosce. E manmano che la morte saletu continui a essere Darrell Standing. Soloil tuo corpo si annullapezzo per pezzo.


Glichiesi:


-E dopoche succede?


-Quando tutto il corpo è mortoe il tuo spirito si senteintegronon hai che da uscire dalla tua pelle e lasciare la tuacarcassa alle tue spalle. E lasciarla significa abbandonare anche lacella. I muri e le porte possono rinchiudere il corponon l'anima.


Oppenheimerbatté la sua risata.


-Ah! ah! ah!


-Lo senti? - rispose Morrell- continua a non credere. Quella voltache ha provato era ancora troppo forte per riuscirci.


-Quando si è mortisi è morti e basta! - ribattéOppenheimer. - I morti non ritornano in vita.


-Io sono morto tre volte...


-Hai voglia di scherzare!


Morrellnon insisté e continuò a parlarmi.


-Non dimenticareDarrellche l'operazione non è difficile. Cisono dei rischi. Ioper esempioho sempre avuto la sensazione chese fossero venuti a togliere il mio corpo dalla mia cellamentre lamia anima se n'era uscitanon sarei più stato capace dirientrarci dentro... Ma torniamo a noi. Una volta che sei riuscito adabbandonare il tuo involucro materialeche ti lascino nella camiciadi forzauno o più mesi non ha più nessuna importanza.


Nonsoffri più... Ci sono stati dei tipi che sono rimasti inletargo per un anno. E così sarà del tuo corpo. Resteràper terrastretto nella telaaspettando il tuo ritorno. E' la solavia da seguire. ProvaDarrell.


-E se non ritorna nel suo corpo? - chiese Oppenheimer.


-Allora è evidente che non c'è più nulla dadire...


Quila conversazione finì..


Rimasiper ore disteso sulla schienanel silenzio e nel buiodimenticandopersino le mie sofferenzementre riflettevo a quanto mi aveva dettoMorrell.


Giunsialla conclusione che l'esperienza valeva almeno la spesa di untentativo. L'uomo di scienza che era in me rimaneva scettico.


Maebbi la volontà sufficiente per credere. Ebbi fede. E riuscii.


Comevi racconterò.




10.UN SORRISO A OGNI COSTO


Ilmattino dopo (e fu questo che mi fece decidere)il direttoreAtherton entrò nella mia cella con delle chiare intenzioni neimiei riguardi.


Eraaccompagnato dal capitano Jamiedal dottor Jacksonda "Facciadi torta" e da un certo Hutchins.


Hutchinsche stava scontando una condanna a quarant'annifaceva di tutto peressere graziato. Era il capo dei cosiddetti uomini di fiducia.


Ipropositi del direttore apparirono subito evidenti.


-Esaminatelo- ordinò al dottor Jackson.


Fuicostretto a spogliarmie quel miserabile aborto mi strappòcon le sue mani la camiciaincrostata di sudiciumeche portavo findalla mia entrata in cella d'isolamento. La mia pelle era grinzosaincartapecorita. E in tutti i puntistraziata da piaghe e dacicatrici lasciate come ricordo dalle numerose punizioni con lacamicia di forza.


L'esameera una pura formalità e venne condotto con una spudorataipocrisia.


-Resisterà? - domandò il direttore Atherton.


-Sì- rispose il dottore.


-E il cuore?


-Magnifico.


-Ritenete che possa sopportare senza eccessivo danno dieci giorniconsecutivi di camicia di forza?


-Certamente.


Ildirettore Atherton sogghignò.


-Ebbene- disse- io non ci credo. Ma questo non c'impediràcerto di tentare l'esperimento.. A terraStanding!


Obbediisdraiandomi con la faccia a terrasulla tela già pronta.


-Avvolgiti dentro! - ordinò.


Tentaidi farcelama la mia debolezza era giunta a tal punto che nonriuscii ad avvoltolarmi bene.


-Bisogna aiutarloborbottò il dottor Jackson.


Athertonscrollò le spalle.


Benpresto non avrà più bisogno d'aiutodisse. - Va bene!Dategli una mano. Ho altro da fareioche perdere qui il mio tempo.


Vennilegatopoi voltato sulla schiena. Fissai Athertonche continuava asogghignare.


-Standing- disse lentamente- ho esaurito tutta la mia pazienzacon te. Ora basta! Sono stufo della tua testardaggine.


Ildottor Jackson afferma che sei in condizioni di sopportare diecigiorni di camicia di forza. Pensaci bene: dieci giorni sono lunghi...Ma ti voglio offrire una via d'uscita. Dimmi dove si trova ladinamite. Appena sarà nelle mie mani lascerai questa cella.Potrai prenderti un bagnoradertie metterti dei vestiti puliti. Tifarò avere sei mesi di riposoe col vitto dell'infermeria.Doposarai addetto alla Biblioteca. Più gentile di cosìsi crepa! Parlandonon tradisci nessuno. Tu sei il soloa SanQuintinoche sa dov'è la dinamite. E nessuno dei tuoicompagni ci andrà di mezzo. Se parlihai tutti i vantaggi. Incaso contrario...


Vifu un attimo di silenzioe il direttore fece un gesto piuttostosignificativo.


-In caso contrario... ricomincerai immediatamente i tuoi dieci giornidi camicia di forza.


Erauna prospettiva orribile. Mi sentivo così debole da esserecerto che questi dieci giorni equivalevano per me a una condanna amorte.


Inquell'attimo tremendomi ricordai del sistema Morrell. Era giunto ilmomento di metterlo in pratica. Non abbassai lo sguardo e sorrisi aldirettore Atherton.


-Signor direttore! Osservate il mio sorriso- dissi. - Se fra diecigiorniquando mi slegheretelo vedrete ancora sulle mie labbrasiete disposto a regalarmi un buon pacchetto di tabaccoe altri duea Morrell e a Oppenheimer ?


-Questi intellettuali! - brontolò il capitano Jamie. - Sicredono superiori a tutti gli altri... Orgogliosi come principi.


Ildirettore Atherton prese la mia proposta per una presa in giro egridò:


-QuestoDarrellti frutterà un occhiello di più!


-Ho parlato seriamentesignor direttore... - risposiconservandotutta la mia calma. - Potete farmi stringere quanto vi piace. Sefradieci giorniho ancora questo sorriso... darete a noi treioMorrell e Oppenheimeri tre pacchetti di tabacco?


Rispose:


-Sembri sicuro di te!


-E' la fede che è ancora nel mio cuoredirettore.


-Allora ti sei convertito? - ghignò.


-Naturalmente... Ritengo di possedere più vita di quanto noncrediatee che di questa vita non riuscirete a vedere la fine. Se locredete opportuno datemi pure cento giorni di camicia di forza.


Dopocento giorniguardandovisorriderò ancora.


-Cento giorni... Dopo dieciavrai dato le tue dimissioni da questomondo!


-Se la pensate cosìpromettetemi i tre pacchetti di tabacco.Che cosa rischiate?


-Vuoi invece un pugno sulla faccia?


-Se vi fa piacereaccomodatevi pure- replicaisempre con la stessavoce soave. - E picchiate fortemi raccomando! Anche ridotta inpoltigliala mia faccia continuerà a sorridere.


Coraggionon abbiate timore... Ma accettate la scommessa.


Larabbia del direttore aveva raggiunto un tale livelloche m'avrebbefatto riderese la mia situazione non fosse stata cosìprecaria. Aveva il viso stravoltostringeva i pugnie stava persaltarmi addosso.


Mariuscì a dominarsi.


-BastaStanding! Domeremo anche te. E lasciando da parte il tabaccosono pronto a farmi tagliare la manose fra dieci giorni sorrideraiancora... Avantiragazzistringetelo ancorafinché sentitescricchiolare le ossa! Hutchinsfagli vedere come sai fare.


L'uomodi fiducia mi dimostròsenza dubbio possibilela suaabilità. Come al solitotentai di guadagnare spaziocontraendo i muscoli. Maoltre a essere ormai troppo magro perottenere un buon risultatofui giocato anche da Hutchinsche avevaimparato da tempo tutte le astuzie della camicia di forza.


Inrealtàquello di Hutchins fu nei miei confronti un vero eproprio tentato omicidio. Col piede puntato sulla mia schienatiravail laccio sempre di più; si fermavapoi tirava ancora. Eracome se la mia carcassa dovesse cedere da un momento all'altro sottoquella tremenda pressionee mi sembrava che tutti i miei organivitali si disintegrassero. Sapevo che non sarei mortosì losapevoeppure mi sembrava che la morte fosse china su di me.


Latesta mi giravail sangue pulsava follemente nelle arterie e levenedalla punta delle dita dei piedi fino alla radice dei capelli.


-E' stretto abbastanza- disse a malincuore il capitano Jamie.


-Lo credo anch'io- dichiarò il dottor Jackson.


Ildirettore si chinò su di me. Sforzandosiriuscì ainserire il suo indice fra la tela e la mia schiena. Ma non riuscìa stringermi di un millimetro in più. - Hutchins- disse-mi congratulo con voi! Ve ne intendete davvero. E adesso giratelocosì vediamo il suo grugno.


Mivoltarono sulla schiena.


Ildirettore Atherton sogghignò:


-Ridi un po' adessose ci riesci ! Sorridi se puoi...


Imiei polmoni schiacciati bramavano soltanto un filo d'aria. Il miocuore minacciava di scoppiare. La mia mente vacillava.


Tuttaviaun leggero sorriso all'indirizzo del direttore Atherton prese formasulle mie labbra.




11.ATTRAVERSO LE STELLE


Laporta si richiuse lasciandomi solosdraiato come al solito sullaschiena.


Graziead alcuni trucchi escogitati nelle precedenti seduteriusciitorcendomi come un serpentead arrivare con l'estremità dellamia scarpa fino a un muro della cella. Non ero già piùcompletamente solo. Se volevopotevo parlare con Morrell eOppenheimer.


Ricordoche in quell'ora la serenità del mio spirito era totale.


Essaandava oltre le sofferenze del mio corpo sopportate passivamente. E aquesta serenità si univa una specie di esaltazione verso ilsognoche era al suo parossismo. E più che mai mi sentivopronto per affrontare la grande prova.


Concentraisu di essa tutti i miei pensieri. Puntai la mia volontà versoil pollice del mio piede destro. Gli ordinai di morire. Ed esso morì.


Tuttoil restocome aveva detto Morrellfu facile. L'operazione risultòlentama uno dopo l'altrole dieci dita dei miei piedi cessarononon furono più. Poimembro dopo membrogiuntura dopogiunturala morte continuò ad avanzareprogressiva.


Essasalì al collo del piedepoi fino alle gambe e ai ginocchi.


Eratale la mia concentrazione che non conobbi neppure la gioia delsuccesso. Avevo un solo obiettivo: ordinare al mio corpo di morireed esso obbediva.


Nonera trascorsa un'orae la morte aveva raggiunto i miei fianchie ioseguitavo a volere che salisse ancorasempre più su.


Quandoraggiunse il cuoreil mio essere cosciente cominciò aoscurarsimentre le prime vertigini mi assalivano. Temendo che sismarrisse del tuttoindirizzai la mia volontà verso ilcervelloche si rischiarò nuovamente. Poiordinai di morirealle mie spallealle mie bracciaalle mani.


Nelmio corpole sole cose viventi erano ormai il mio cranio e unaminuscola parte del mio petto. Il battito del cuore era quasicessato. Batteva ancoraregolarmentema con estrema debolezza.


Ilmio stato era molto simile a quello che si può rilevare in unuomo che si trovi sulla frontiera tra veglia e sonno. Ed era come seil mio cervello si dilatasse prodigiosamente nella mia scatolacranica. A trattibagliori di lucesimili a lampimi invadevano lepupille.


Questadilatazione del cervello mi lasciava perplesso. Mi sembrava che isuoi lembi estremi non solo superassero la cavità del miocranioma che continuassero addirittura a estendersi.


Contemporaneamentesi espandevano intorno a me il tempo e lo spazio. Avevo gli occhichiusie tuttavia avevo la coscienza precisa che i muri della cellasi fossero spostatial punto che essa formava ora un vasto salone.Per un attimopensai che se i muri della prigione si fosserocomportati nello stesso modosarebbero arrivati ben più in làdi San Quintinoper prolungarsida una partefino all'OceanoPacificoe dall'altra fino alle Montagne Rocciose.


Anchel'espansione del tempo era notevole. Il mio cuore non batteva che alunghi intervalli. Provai a contare i secondi fra una pulsazione el'altra. Calcolaicome intervallofino a cento secondi. Poi misembrò che le pause si dilatassero smisuratamentetanto chemi stancai di calcolarle.


Aquesto puntoiniziai l'ultima parte dell'operazionecome mi avevadetto Morrell...


Cominciaicon la la piccola parte del mio petto ancora viva e con il cuore. Laconcentrazione della mia volontà ottenne subito il suoeffetto. Il cuore cessò di battere.


Nonfui più che un puro spiritoun'animauna coscienza morale.


Chiamatelacome volete questa cosa senza nomeche occupava sempre un punto delmio cranioma che continuava a espandersiad andare oltre.


Earrivò l'istante in cui mi sciolsi dalla terra e partii. D'unsolo balzomi trovai oltre il tetto della prigionenel cielo dellaCaliforniae fui tra le stelle...


Lestelle. Vagavo fra esse. Ero un adolescentevestito con un abito daicolori delicatiche brillava dolcemente alla fredda luminositàstellare. Uno strano vestitoil mio... Una reminiscenza di quelliche nella mia infanzia avevo visto indossare alle cavallerizze deicirchie di quello che portavano gli angeli. Così mi avevanoinsegnato.


Percorrevolo spazio interstellaretenendo in mano una luccicante bacchetta dicristalloe avevo la consapevolezza interiore che doveva toccareogni stellaquando le passavo davanti. E non meno precisa era in mela certezza che se avessi evitato di toccarne unauna solasareiprecipitato nell'abisso senza fondo dei castighi eterni.


Alungocamminai fra le stelle. Mi parve di errare per secoli nellospaziocon l'occhio attento e la mia bacchetta in manocon la qualetoccavosenza mai mancarne unotutti gli astri che incontravo sullamia strada.


Lavia celeste si accendeva sempre più di uno splendoreabbagliante. E vedevo avvicinarsi la meta inebriante dell'infinitasapienza. Ma la mia personalità non si era annullata.


Eroperfettamente cosciente che ero ioDarrell Standingche camminavofra le stellecon una bacchetta di cristallo in mano.


Mirendevo anche conto che vivevo nell'irrealeche il mio sogno non erache una proiezione fantastica della mia immaginazionesimile allefantasie provocate dalle droghe. A un trattonel tentativo ditoccare una stellasbagliai; e il colpo andò a vuoto.Compresi subito che l'inevitabile era vicino... E sentii un colpocome una mano che bussava...


L'interosistema astrale esplosevacillò sul suo piedestalloeprecipitò in fiamme. Provai una sofferenza atroce che midilaniava. Un attimo doponon ero più che Darrell Standingil galeotto che giaceva sul pavimento della sua cellanella camiciadi forza.


Unaltro colpoquesto battuto da Morrelle che indicava qualchemessaggio urgentemi fornì immediatamente la spiegazione delmio brusco ritorno su questa lurida terra.


Piùtardichiesi a Morrell qualche altra informazione. Seppi cosìche già una prima volta aveva battuto contro la parete questeparole:


-Standingsei ancora lì?


Attenzioneamico lettore! Proprio in quell'istante partivo per la mia escursionestellarecon il mio abito lieve; e con la bacchetta in manocorrevoverso il mistero supremo della Vita.


Nonrisposi.


Morrellun minuto doponon ricevendo rispostaripeté la domanda. Fucosì che avvenne l'orribile richiamo alla terrala torturaatrocee il mio ritorno nella cella di San Quintino. Tra la prima ela seconda domanda di Morrellnon era trascorso più di unminuto. E io avevo creduto di vagare per interi secoliattraverso lestelle!


Questaera la realtà: ero diventato incapace di riprendere la miacorsa attraverso il cielo. Il picchiettio di Morrell mi trattenevanuovamente al mondo d'orrore da cui ero fuggito. Cercai dirispondergli per pregarlo di cessare con le sue domande. Ma invano.Ero talmente svincolato dal mio corpo che questo non mi obbediva più.Giaceva mortosul pavimento della cellae io non ne occupavo cheuna piccola parte: il cranio. Comandai al mio piede di battere il miomessaggio. Si rifiutò. La mia ragione continuava a dirmi chepossedevo un piede. Eppurein praticanon avevo più piedi.


QuandoMorrell la smise con il suo picchiettiovedendo che non rispondevola gioia mi travolse.


Edevasi nuovamente dalla mia prigione.




12.LA CAROVANA VERSO L'OVEST


Laprima sensazione che mi avvolse fu quella d'una nuvola di polvere.Acre e seccami saliva per le naricicopriva il mio visole miemani...


Intornoa me tutto oscillava in ampie ondate. Gli urti e le spinte sisusseguivanomentre udivo uno stridere di perniil gemere delleruote su un terreno a volte sabbiosoa volte pietroso. Mi giungevanoanche delle voci di uomini stanchi che imprecavano al ritmo lento eottuso delle bestie.


Eroun ragazzo dagli otto ai nove anni e mi sentivo sfinito come la donnadal viso coperto di polvereseduta accanto a meche invano tentavadi consolare un marmocchio in lacrime che teneva in braccio.


Ladonna era mia madre. L'uomoche conduceva il carro e di cui scorgevosoltanto le spalle all'estremità del tunnel di telaera miopadre.


Incominciaia strisciare fra i sacchi accatastati sul carroe mia madre midissecon voce stanca:


-Non puoi startene un po' tranquilloJesse?


Jesseera il mio nome. Sentii mia madre che chiamava Giovanni mio padre.Non conoscevo il cognome di famiglianon avendolo mai sentitopronunciare. Tutto ciò che sapevoera che altri uomini dellacarovana d'emigranti chiamavano mio padre "capitano". Erail capoe tutti ricevevano ordini da lui.


Raggiunsil'estremità del carro e riuscii a sedermi a cassettaaccantoa lui.


L'ariaimpregnata dalla polvere sollevata dai carri e dalle zampe deglianimali che li trainavanoera soffocantespessa come nebbia.


Eintorno un paesaggio sinistrodesolato. Ai lati si rincorreva unateoria di basse collinecon rari cespugli bruciati dal sole.


Ealla base soltanto sabbiaciottoli e spuntoni di rocce.


Diacquaneanche il minimo segno.


Ilnostro carro era il solo tirato da cavalli. Gli altriin una lungafila simile a un serpenteerano tirati da buoi. E ne occorrevano treo quattro coppie per muoverecon estrema fatica e lentezzaognicarro.


Inuna curva avevo contato i carri che ci precedevano e che ciseguivano. In tutto erano quarantacompreso il nostro.


Aidue lati della carovana avanzavano dodici o quindici giovani che sitrascinavano dietro i rispettivi cavalli. Sulle loro selle eranoappoggiate lunghe carabine. Ogni volta che uno di loro si avvicinavapotevo scorgere distintamente i suoi lineamenti contratti e inquietidel tutto simili a quelli di mio padre che teneva anch'egliaportata di manouna carabina.


Lontanomolto lontano da quel desolato paesaggiomi ricordavo di avervissutopiccolissimoin un paese ridentein riva a un fiume dallesponde ricche di alberi. E mentre il carro avanzava a scossoniilmio spirito tornava indietroverso quelle acque gioiose e frescheche scorrevano sotto gli alberi verdi. Ma tutto ciò eralontanotanto lontano...


Lacolonna sembrava seguire un funerale. Non una risatanon una voceallegra si levava dai carri. La pace e la tranquillità eranocome echi spezzatie non camminavano con noi. I visi di tuttiriflettevano tristezza e disperazione. Un brivido sembròimprovvisamente percorrere l'intera carovana.


Miopadre alzò la testa. Io lo imitai. E anche i nostri cavalli.


Fiutaronol'aria con le narici allargatefrementie incominciarono a tirarecon rinnovato vigore. I buoi staccatiche si trascinavano a stentopartirono tutti al galoppo. Le povere bestieridotte a pelle e ossagaloppavano come potevanoscheletri viventi avvolti in una pellerognosa. Ma questo impeto non durò molto. E tornarono atrascinare lentamente le loro povere carcasse.


-Che succede? - chiese mia madre.


-L'acqua è vicina- rispose mio padre. - Dobbiamo arrivare aNephi.


-Dio sia lodato! Forse là ci venderanno qualcosa da metteresotto i denti.


Eraproprio Nephi. Vi entrammo avvolti in una nuvola di polvere rossasotto un sole rossotra i cigolii infernali dei nostri carri.


Ilvillaggio era costituito da una dozzina di abitazionisemplicicapanne sparse qua e là. Il paesaggio era del tutto simile aquello che avevamo lasciato alle nostre spalle. Neanche un albero.


Nient'altroche ciuffi rachiticiin un deserto di sabbia e di pietre. Ma sivedevanoanche se raridei campi coltivati chiusi in parte dasiepi.


Unavera magra d'acquanel letto asciutto del torrente.


Tuttaviaqualche segno di umidità lo mostrava ancora. Un po' d'acquafiltrava in certi puntiin buche che erano state scavatee dove lebestie e i cavalli da sella pestavano con gioiasprofondandovi ilmuso e la testa.


Miamadre si trascinò fino a noi. Guardò al di sopra dellenostre spalle. Mio padre le mostrò un grande fabbricatoaccanto alla rivae disse:


-Dev'essere il mulino di Bill Black.


Inquello stesso momentouno dei nostri che s'era portato inavanguardiatornò verso di noi.


Comunicòqualcosa a mio padreche diede subito il segnale della fermatae icarri di testa cominciarono a distendersi in cerchio.


Iquaranta carriabituati alla manovral'effettuarono in frettasenza incidenti. Quando si fermaronoformavano sul terreno uncerchio completo.


Daicarriuna frotta di bambini si slanciarono a terra seguiti dalledonne. Immediatamenteincominciarono a occuparsi dei preparativi perla cena.


Mentrel'accampamento si animava di mille diverse attivitàmiopadreseguito da parecchi altri uominisi diresse a piedi verso ilmulino.


Durantela loro assenzadegli stranierigli abitanti del deserto di Nephicominciarono a circolare all'interno dell'accampamento con ariaspavalda.


Eranodei bianchicome noi. Ma il loro volto severo era cupo e duroesembravano tutt'altro che ben disposti nei nostri confronti.L'ostilità stagnava nell'aria.


Unodi loro si fermò davanti a mia madre che stava cucinando.


Rimasiimmobileguardando fisso l'intrusoche odiavoperchésentivo l'odio nell'ariaperché sapevo che non c'era nessunofra noi che non odiasse quegli uomini dalla pelle come la nostraeper i quali avevamo dovuto fissare in cerchio il nostro accampamento.


Lostraniero aveva gli occhi azzurrigelidi occhi senza un barlumed'amore o di simpatia. I suoi capelli erano color pepeil suo visoraso fino al mento. Al di sottocoprendo tutto il collo e risalendoa collare fino alle orecchiefaceva mostra di sé una frangiadi barbasetolosa e brizzolata.


Miamadre fece finta di non averlo neppure visto. Lui non salutòcontentandosi di squadrarla per bene. Poi disse con voce di scherno:


-Scommetto che in questo momento preferireste essere sulle rive delMissouri!


-Siamo dell'Arkansas- rispose mia madre.


Elui:


-Se avete ripudiato il paese che vi ha dato i nataliavrete avutodelle buone ragioni per farlovoi che avete scacciato dalle rive delMissouri il popolo eletto dal Signore.


Miamadre non rispose.


Egliproseguì:


-Certodelle ottime ragioniperché adesso venite a mendicaredel pane proprio da quelli che avete perseguitato.


Anchese piccologli istinti atavici della collera non mi difettavano.Perciò risposigridando:


-Voi mentite! Non siamo del Missouri e non mendichiamo. Noi non siamodei mendicanti! Possiamo pagare.


-TaciJesse- mi interruppe mia madreposando la sua mano sulla miabocca.


Poirivolgendosi allo straniero:


-Andatevene- disse- e lasciate in pace questo ragazzo!


Conmossa rapida sfuggii a mia madre e urlaisinghiozzando:


-Vi caccerò in corpo del piombodannato Mormone!


Lostraniero mi ignorò completamentefissando un punto lontanoalle nostre spalle.


Infinesi decise a parlarein tono solennecome un giudice in tribunale:


-Tali padritali figli! L'intera razza è degenerata e dannata!


Peressa non c'è redenzione possibileespiazione sufficiente. Lostesso sangue di Cristo non riuscirebbe a lavarne le iniquità.


Allesue parole risposisinghiozzando:


-Dannato Mormone! Dannato Mormone! Dannato Mormone!


Econtinuai a maledirlofinché egli si allontanòscuotendo gravemente il capo.


Quandomio padre padre tornò con gli altriil lavoronell'accampamento era ultimato. Tutti si strinsero intorno a lui.


Egliscrollò la testa con un'aria che non faceva presagire nientedi buono.


Unodegli uomini incominciò a parlare.


-Essi dichiarano- disse- di possedere farina e provviste per treanni. Fino a ieri ne avevano sempre venduto agli emigranti.


Adessonon ne vogliono sapere. E non solo a noima come regola generale.Sembra che abbiano delle questioni con il governoe in questo mododichiarano il loro malcontento. E noi ne facciamo le spese. Non ègiustocapitano! Abbiamo delle donne e dei bambini da sfamare. LaCalifornia è ancora lontana! Ci arriveremo soltanto fraqualche mesee l'inverno è vicino. E davanti a noi non c'èche deserto. Come potremo affrontarlo se non abbiamo viveri?


S'interruppeun attimopoi ripresefissando la folla:


-Voi non sapete cosa sia il deserto. Ve lo dico io: questo è ilparadisoin confronto!


Sivoltò nuovamente verso mio padre.


-Capitanolo ripeto: dobbiamo ottenere della farina. Se non voglionovendercenenon ci resta che andare a prenderla!


Moltidei presentiuomini e donnelanciarono delle grida d'approvazione.Mio padre allargò le braccia su di essi e li fece tacere.


-Sono d'accordo con voiHamilton... - disse.


Legrida ripresero più forti.


-...eccetto su un punto! - continuò imponendo il silenzio. - Unpunto che ha la sua importanza... Brigham Young ha proclamato lalegge marziale in tutto il paese. E dispone di un esercito. Certopotremmo cancellare Nephi dalla faccia del mondoe impadronirci ditutte le provviste! Ma non andremo troppo lontano. I soldati diBrigham ci sarebbero subito addosso e saremmo a nostra voltadistrutti. Questo lo sapeteHamiltone anche gli altri.


Tuttiinfattilo sapevano. E solo la disperazione era riuscita a farlodimenticare.


Miopadre continuò:


-Sono prontissimo a battermi per ciò che è giusto. Maora non è il caso. Non possiamo permetterci il lusso di unabattaglia perduta in anticipo. Non abbiamo nessuna probabilitàin nostro favore. E il nostro dovere è di non esporre a unpericolo inutile le nostre famiglie. Dobbiamo restare calmi esopportare in silenzio anche delle eventuali angherie. Non ci restaaltro da fare.


-Ma che ne sarà di noicon il deserto da attraversare? -chiese una donna che stava allattando un piccolo.


-Prima del deserto- rispose mio padre- ci sono altre colonie.


Fillmorea sessanta miglia verso sud. Poi viene Corn Cruke a quaranta migliadi distanzaBeaver. Infine c'è Parowan. Allora ci separerannoda Cedar City non più di venti miglia. Più ciallontaneremo dal Lago Salatoe maggiori probabilità avremodi rifornirci.


Ladonna insisté.


-E se dappertutto si rifiutano di venderci dei viveri?


-Allora non dovremo più trattare con i Mormoni. Cedar City èla loro ultima base. Non abbiamo altra scelta: continuare la nostrastradae ringraziare la nostra buona stella quando non li avremo piùtra i piedi. A due giornate da qui ci sono buoni pascoli edell'acqua. Il posto si chiama "Praterie delle Montagne".E' un territorio che non appartiene a nessunodove non c'èanima viva.


Dobbiamoarrivare làprima di tutto. Ci riposeremo e potremo farmangiare le nostre bestieprima di affrontare il deserto. Forsetroveremo anche della selvaggina. Alla peggiocammineremo finchéci sarà possibile. E se sarà necessarioabbandoneremoi nostri carricaricheremo sulle bestie il loro contenutoe faremoa piedi le ultime tappe. Lungo la stradapotremo sempre mangiare lenostre bestie. E' meglio arrivare in California nudi come vermi chelasciare qui la nostra carcassa. E questo sarebbe il destino che cispetterebbese scatenassimo adesso una battaglia.


Miopadre ripeté le sue esortazioni alla calmae l'improvvisatocomizio si sciolse.


Quellanottetardai più del solito ad addormentarmi. La mia rabbiacontro il Mormone aveva a tal punto eccitato il mio cervello chequesto mi ribolliva ancora quandodopo un'ultima rondamio padre siarrampicò a sua volta sul carro.


Imiei genitori mi credevano addormentato. Ma non lo eroe udii miamadre che chiedeva a mio padre se credeva che i Mormoni ci avrebberopermesso di lasciare in pace il loro territorio. Le risposementresi toglieva gli stivaliche aveva piena fiduciae che certo iMormoni ci avrebbero lasciato partire in pace se nessuno dellacarovana li avesse provocati.


Sivoltò ealla luce d'una piccola candela di segoscorsi ilsuo visola cui espressione smentiva le sue parole rassicuranti.


Quellanotte mi addormentai angustiato dal pensiero del pericolo che pendevasulle nostre testesognando di Brigham Young... Un esserestraordinario che nella mia fantasia surriscaldataassumeva delleproporzioni enormieguale in tutto a un vero diavolospaventoso ecrudelecon le corna e una lunga coda.




13.IL GRANDE TRADIMENTO DEI MORMONI


Mirisvegliai nella mia cellaoppresso dalla consueta tortura dellacamicia di forza. Mi facevano corona i quattro personaggi di sempre:il direttore Athertonil capitano Jamieil dottore Jackson eHutchins.


Accennaiun sorrisolottando con tutte le mie forze per non perdere ilcontrollo dei miei nervi straziati dall'atroce dolore dellacircolazione compressache avvertivo di nuovo.


Buttaigiù l'acqua che mi tendevanoma rifiutai il panee nonrisposi alle domande che mi facevano.


Avevorichiuso le palpebree tentavo di ritornare a Nephinel cerchio deicarri. Ma con loro presentinon potei evadere dalla mia cella.


Ognitanto afferravo qualche brano della loro conversazione.


-Assolutamente come ieri- diceva il dottor Jackson. - Non ècambiato in niente...


-Allora può continuare a sopportarla? - chiedeva Atherton.


-Senza alcun dubbio. Ha il cervello completamente atrofizzato. Se nonsapessi che è materialmente impossibiledirei che ha presodegli stupefacenti.


Ildirettore adottò un tono burlesconel rispondere:


-La droga che usala conosco! E' la sua volontà. Scommettochese lo volessesarebbe capace di camminare a piedi nudi sopra untappeto di pietre ardenticome fanno i sacerdoti dei Canachineimari del sud.


-Se la ride di noi- intervenne il dottor Jackson.


-Eppure rifiuta del tutto il cibo- osservò il capitano Jamie.


Ildottore Jackson crollò le spalleannoiato.


-Bah! Se volessepotrebbe digiunare quaranta giornisenza sentire ilminimo dolore.


Approvaiil dottore:


-Sìquaranta giorni e quaranta notti! Vi pregostringetemiancora un po' la mia camiciuolae poi uscite subito di qui.


L'uomodi fiducia cercò di infilare il suo dito fra i lacci.


-Neanche con un argano- affermò- si potrebbe stringere dipiù.


-Hai qualche reclamo da fareStanding? - chiese il direttoreAtherton.


Glirisposi:


-Sì.


-Quale?


-Innanzi tuttola camicia di forza è troppo larga. Hutchins èun vero idiota. Potrebbe guadagnare ancora un pollicese sapessefare il suo mestiere.


-E poi?


-Siete tutti figli del demonio!


Ilcapitano Jamie e il dottore accennarono un sorrisetto ironico.


PoiAtherton aprì la marciae lo squallido quartetto se ne andò.


Rimastofinalmente solomi concentrai per ripiombare nell'oscurità eripartire per Nephi. Volevo conoscere a ogni costo il destino deiquaranta carrilanciati attraverso una terra ostile e inospitale.


Unaparola soltantoprima di riprendere il mio racconto. In tutti iviaggi effettuati attraverso le mie esperienze passatenon ho maipotuto guidarne nessuno verso uno scopo determinato. Questereviviscenze si sono sempre sviluppate al di fuori di ogni influenzadella mia volontà. Ho reincarnato il piccolo Jesse almeno unadozzina di volte. Mi è capitato di riprendereinvolontariamente il filo della sua esistenza quando era ancorabambino nell'Arkansas.


Inquesto caso come negli altriper una maggior chiarezza del raccontoho riunito insieme tutte le diverse fasi di queste successiveresurrezioni del passato.


Moltoprima che spuntasse il solel'accampamento di Nephi era giàin piena attività. Il bestiame era stato fatto uscire dalcerchio dei carriper esser condotto a bere e a pascolare. Gliuomini liberavano le ruote dalle catene che li avevano tenutiaccostati durante la nottee preparavano ogni cosa affinché ibuoi da tiro potessero essere poi comodamente aggiogati.


Ledonne preparavano la colazioneaffaccendate intorno a quarantafuochi. I ragazzi si raccoglievano intorno alla fiammafacendo postoagli uomini dell'ultimo turno di guardia che aspettavano il caffècon gli occhi ancora pieni di sonno.


Ipreparativi della partenza erano necessariamente lunghi per unacarovana come la nostra. Così il sole era già sorto daun'oraquando ci incamminammo fuori di Nephiverso il deserto disabbia e di pietra.


Allanostra partenzanon assistette un solo abitante del posto.


Preferironorinchiudersi nelle loro casecome se fossimo stati degli appestati.


Leore scorrevano interminabilisotto un sole a piombo e la polvere checi raschiava gli occhisenza misericordia. Per tutto il giornononincontrammo una casané bestiamené un segnoqualsiasi di vita. Al calar della notte ci fermammoe come il giornoprecedenteformammo il nostro cerchio di carri a pochi passi da unruscello divorato dall'arsuradove ricominciammo a scavare numerosebucheche lentamente si riempirono d'acqua.


Tappedel genere si ripeterono parecchie voltesempre uguali.


Inmediapercorrevamo quindici miglia al giorno. Questo voleva direquattro giorni di viaggio per arrivare a Fillmorela prossimacolonia dei Mormoni.


AFillmore gli abitanti si rivelarono chiaramente ostilicom'eranostati ovunquedopo il Lago Salato. Ci prendevano in giromentretentavamo di trattare per acquistare dei viveri. Ci insultavanotrattandoci come "Missuriani".


Quandoentrammo in questa localitànotammolegati davanti alla casadall'aspetto più importantedue cavalli da sellapolverosi esudatiche apparivano zoppicanti.


Unvecchio dai capelli fluenti bruciati dal solee dalla camicia inpelle di dainoche doveva servire a mio padre da luogotenente e da"factotum"e che cavalcava a fianco del nostro carroindicò con un gesto appena accennato della testai duecavalli.


-Capitano- borbottò a voce bassa- mi sembra che nonrisparmino i cavalli... Perché dovrebbero far crepare difatica le loro bestiese non per noi?


-Credo proprioLabano- rispose mio padre- che ci stianosorvegliando.


Accompagnatoda Labano e da altri membri della carovanamio padre si recòal mulino di Fillmore per tentare di acquistare farina. Io li seguiidi nascostosenza farmi vedere.


Duranteil colloquiospalleggiavano il mugnaio quattro o cinque uomini. Unodi questiche dovevamo ritrovare più tardi sulla nostrastradaera altocon spalle larghee poteva avere una sessantinad'anni.


Contrariamenteagli uomini che incontravamo di solito in questa regioneaveva ilviso completamente sbarbato.


Lasua bocca era larga e stringeva le labbracome sono soliti farequelli che hanno perduto i denti davanti. Era possessore di un nasoaduncospesso e massiccio. L'insieme del suo viso era tozzo equadratocon gli zigomi sporgentie ampie borse di carne che glipendevano sulle guance. Su tuttodominava una fronte intelligenteegli occhilontani uno dall'altroerano del più stupendoazzurro che avessi mai visto.


Comesempreil colloquio risultò un fallimentoe ce ne tornammoall'accampamento a mani vuote. Sulla via del ritornoLabano disse amio padre:


-Avete visto quel tipo dalla faccia glabra?


Miopadre accennò di sì.


-E' Lee. L'avevo già incrociato sul Lago Salato. E' un furfantedi tre cotte. Ha diciannove mogli e cinquanta figli. E' un religiosofanatico. Chissà perché ci seguecosìattraverso questo paese abbandonato da Dio?


Lanostra marcia riprese il giorno dopo. Dove l'acqua e il suolo loconsentivanoincontravamo delle piccole colonieseparate unadall'altra dalle venti alle cinquanta miglia. Fra loro si stendeval'allucinante deserto.


Eogni volta chiedevamo umilmente dei viveri. Regolarmenteci venivanorifiutatimentre ci sbattevano sulla faccia la solita cantilena delMissouri e del popolo eletto del Signore. Non tentavamo neppure piùdi spiegare che eravamo dell'Arkansas e non del Missouri. Era laveritàma i Mormoni si ostinavano a pretendere il contrario.


Giuntia Beavera cinque giorni di viaggio a sud di Fillmoreincontrammodi nuovo Lee. E ancora dei cavalli sfiancati attaccati davanti allecase.


CedarCity - la Città del Cedro - fu la nostra ultima tappa interritorio mormone. Labanoche era andato in avanscopertatornòcon il suo rapporto. Le notizie erano inquietanti.


Disse:


-Ho visto Lee che scappava a gran velocitàquando sonoapparso.


Capitanoa Cedar Cityci sono più uomini e cavalli di quanti ce nepossano stare.


Tuttavianon avemmo noie. Si rifiutarononaturalmentedi venderci qualsiasicosa. Ma ci lasciarono in pace.


CedarCity era la cittadella avanzata dei Mormoni. Di lìincominciava il deserto senza fine; e al di làla terraagognata e felice della California.


Inostri carri si misero per strada di buon'oral'indomani mattina; ioero seduto a cassettaa fianco di mio padre.


Duegiorni di viaggio estenuante ci portarono nella regione chiamata le"Praterie delle Montagne". Per la prima volta da quandoavevamo traversato il territorio dei Mormonici accampammo senzaformare il cerchio con i nostri carri. E ci preparammo a un soggiornodi almeno una settimana.


Albestiame occorreva riposoprima di fargli affrontare l'autenticodesertoalle cui soglie ci trovavamo. A pochi metri da noi c'era unapiccola sorgente che bastava appena ai nostri bisogni.


Nell'accampamentol'attività ferveva. E lavoravamo tuttiuominidonne ebambini.


Efino a tarda notte nessuno si concesse un attimo di riposo.


Lamattina dopoaccadde il grande disastro.


Dopodue giorni di viaggiolontani dal paese dei Mormonie persuasi chenon ci fossero Indiani nel territorioavevamo trascurato di formareil solito cerchio completo dei carrilasciando che il bestiamepascolasse in libertàsenza nessuno a sorvegliarlo.


Misvegliai improvvisamentecome in preda a un incubo. Fu come unosquillo di trombache mi fece sobbalzare e mi lasciòesterrefatto per qualche secondo.


Rimasicome istupiditoidentificando a fatica i rumori che formavano nelloro insieme uno spaventoso frastuono: spariingiurie di uoministrilli acuti di donne e di ragazzi. Udii poi il fischio dellepallottoleche rimbalzavano contro il ferro delle ruote e il legnodei carri.


Tentaidi alzarmi. Ma mia madre mi costrinse a forza a sdraiarmi di nuovo.Mio padre era già in piedi; vicino al carroesaminava lasituazione.


Corseverso di noigridando:


-Fuori tuttipresto. A terra!


Obbedimmotutti.


-ScavaJesse! - urlò mio padre. - Fa' come me!


Imitandolomi scavai una buca nella sabbiacontro una ruota del carro. Ciservivamo delle manicon furia selvaggiae mia madre faceva lostesso.


-Sbrigati! - gridava mio padre. - Jessefalla più profonda chepuoi!


Poisi allontanòe lo vidi correrementre dava ordini:


-A terra! Riparatevi dietro le ruote dei carri! Scavate delle trinceenella sabbia! Fate uscire dai carri le donne e i ragazzi!


Cessateil fuoco! Tenete pronti i fucili! I celibi con me e Labano! Non inpiedi... Avanzate strisciando!


Mal'attacco non venne. Per circa un quarto d'orail fuoco dei nostriassalitori continuò abbastanza nutrito.


GliIndiani (poiché si trattava d'Indianicome ci informòLabano) non avevano osato avvicinarsi troppoe ci tiravano addossoda una buona distanzasdraiati a terra. Nell'alba che avanzavapotevamo distinguerli nettamente. Vidi anche che mio padre preparavaun contrattacco.


Losentii urlare:


-Fuoco! Tutti insieme!


Unascarica generale si elevò dalle nostre file. Dal mio rifugiopotei constatare che più di un Indiano era stato colpito. Enel fumo che si diradavali vidi allontanarsitirandosi dietro iloro morti e i loro feriti.


Approfittammodella tregua per sistemarci a difesa. I carri furono serrati l'unoaccanto all'altro e incatenaticol timone all'interno del cerchio.


Fattociòcontammo le nostre perdite. Parecchi bambini erano giàmortitre erano moribondi. Il piccolo Rish Hardacre era statocolpito al braccio da una pallottola. Non raggiungeva i sei anniericordo d'averlo visto guardare a bocca aperta la sua feritamentresua madre lo prendeva sulle ginocchia per bendarlo. Vedevo le sueguance ancora bagnate dalle lacrime che aveva versato. Ma adesso nonpiangeva più e fissavacon la meraviglia negli occhiunframmento d'osso che spuntava dal suo avambraccio.


Lasignora White fu ritrovata morta nel carro dei Foxwell. Era ormai unadonna vecchissimaridotta all'impotenza e obesala cui unicaoccupazione consisteva nel restare seduta tutto il santo giornofumando la pipa. Era la madre di Abby Foxwell.


Anchela signora Grant era tra i caduti. Suo marito stava a fianco delcadaverecalmissimo. Non una lacrima bagnava il suo volto. Se nestava lìsemplicementeseduto vicino alla sua donnacon ilfucile sulle sue ginocchialontano da tutto e da tutti. Lo lasciammosolo al suo dolore.


Sottola guida di mio padreche sentii chiamare capitano Francher (conobbicosì il cognome della mia famiglia)l'intera carovanalavorava con l'ardore di un branco di castori.


Alcentro del recinto formato dai carri fu scavata una trincea.


All'internole donne trasportarono i pagliericcii viveri e gli oggetti di primanecessità.


Lagrande trincea fu riservata alle donne e ai ragazzi. Una fossa menoprofonda venne costruita per i combattenti sotto i carri.


Nelfrattempo tornò Labano che era uscito in perlustrazione.


Comunicòche gli Indiani s'erano allontanati di circa mezzo miglioediscutevano animatamente fra loro.




14.IL SUPPLIZIO DELLA SETE


Durantela mattinataosservammo più volte dei nugoli di polvere chesi alzavano in lontananzatradendo la presenza di numerosi uomini acavallo. Convergevano tutti su di noi e sembravano avvolgerci da ogniparte. Ma non vedevamo che polveresenza poter distinguere nessuno.


Enon riuscimmo a vedere di più quando uno dei gruppi siavvicinòper poi scomparire all'orizzonte. Capimmo che sitrattava del nostro bestiame che veniva razziato. I quaranta carriche avevano attraversato metà del continente americanoeranoormai impotenti.


Lepoche bestie rimaste nell'interno dell'accampamento erano fuggitealle prime fucilate.


AmezzogiornoLabano rientrò da una seconda ricognizione. Avevaavvistato una nuova banda d'Indianiproveniente dal sud.


Cercavanodi circondarci completamente. In quel momentoscoprimmo una dozzinadi cavalieri bianchi che ci osservavano dalla cresta d'una vicinacollina.


-Ecco la spiegazione! - mormorò Labano a mio padremostrandogli il gruppo. - Sono loroche hanno aizzato gli Indianicontro di noi... Maledetti Mormoni!


Lagiornata passò senz'altri incidenti.


Quandofu notte fondatre dei nostri giovani lasciarono l'accampamento.Erano Guglielmo AdenAbele Milliken e Timotéo Grant.


-Li ho mandati a Cedar City per chiedere aiuto- disse mio padre amia madrementre ingoiava frettolosamente un boccone.


Miamadre crollò la testa.


-I Mormoni - disse- non mancano neanche qui. E non ci danno nessunaiuto. Quelli di Cedar City faranno lo stesso.


Miopadre disse:


-Ci sono Mormoni buoni e cattivi...


-Fino ad oggi- interruppe mia madre- di buoni non ne abbiamoancora trovati!


Lamattina dopovenni a conoscenza di quello che era accaduto ai nostritre messaggeri.


Itre uomini non avevano percorso che poche migliaquando furonocircondati dai bianchi. Guglielmo Aden gridò che appartenevanoalla carovana Franchere che andavano a Cedar City per chiedereaiuto. Fu abbattuto come un cane con una fucilata. Milliken e Grantvoltarono i cavalli e tornaronoa briglia scioltaa portare lanotizia.


Ognisperanza moriva nei nostri cuori. Erano proprio i Mormoni che avevanospinto contro di noi gli Indiani! Il peggiore fra i pericoli siabbatteva così su di noi.


Alcunidei nostriabbandonato il riparo dei carriraggiunsero la sorgenteper attingervi dell'acqua. Le pallottole fischiarono sulle loroteste. La sorgente era lontana soltanto una trentina di metrima perarrivarci bisognava passare sotto il fuoco degli Indianiappostatiintorno. Per fortunanon erano dei buoni tiratorie i nostririuscirono a portare l'acqua senza esser stati colpiti.


Raggruppatisopra una bassa collinagli Indiani continuavano intanto a discuteregridando come ossessi. Maa parte qualche fucilata ogni tantononsi decidevano ad attaccarci.


Nelpomeriggioil caldo nella nostra fossa si fece più intenso.


Daun cielo senza nubie senza un alito di ventoil sole ci dominavasenza pietà. Gli uominisdraiati nella trincea sotto i carrierano in parte al riparo. Ma nella fossa più grandein cui siammucchiavano più di cento fra donne e ragazzie che nonaveva un riparola temperatura era tremenda. Si soffocavae trovavosempre nuovi pretesti per andare a raggiungere gli uomini sotto icarri.


Indubbiamenteavevamo commesso un errore gravissimo non includendo la sorgente nelcerchio dei carri. Un errore dovuto al panico durante il primoattacco.


Oraera troppo tardi per rimediare. Esposti al fuoconon potevamoarrischiarci a spostare i carri e a trasportarli più lontano.Mio padre ordinò a due uomini di scavare il terrenonelperimetro del recintoe di farvi un pozzo. Furono anche preparatedelle latrine.


Versoil tardo pomeriggiorivedemmo Lee. Era a piedi e attraversava untratto di prateria situato a nord-ovest del nostro accampamento. Eraproprio al limite della portata dei nostri fucili.


Vedendolomio padre afferrò uno dei panni di mia madrelo legò aun bastone e l'alzò in altocome bandiera bianca. Ma Lee nonse ne diede per inteso e continuò per la sua strada.


Alloradopo avere strappato un pezzo del drappo biancoe averlo legato aun'asta più piccolami disse:


-Jesseva' verso di lui. Prendi questa. Cerca di raggiungerlo e diparlargli. Non pensare a quello che è accaduto. Cerca soltantodi convincerlo a venire da noiper parlare.


Mentremi accingevo a eseguire la missione affidatamiJed Durham gridòche voleva accompagnarmi. Jed aveva press'a poco la mia età.


-Durham- disse mio padre a quello del ragazzo- vostro figlio vuoleseguire Jesse. Lo lasciate andare? E' meglio che siano in due. Sicontrolleranno a vicenda...


Durhamacconsentì. E Jed e io uscimmo dall'accampamento sotto laprotezione della bandiera bianca.


MaLee non voleva saperne. Non appena ci scorsese ne scappòvia.


Nonriuscimmo nemmeno ad arrivargli vicini. Scomparve improvvisamente.Doveva essersi nascosto dietro qualche cespuglio.


Maeravamo due ragazzi ostinatie proseguimmo nelle ricerche.


Frugavamodappertuttocon la massima attenzione. Ma sembrava proprio che Leefosse stato inghiottito dalla terra. Cosìtornammoall'accampamento dopo due orecon le pive nel sacco.


Peròla nostra spedizione non fu del tutto inutile. Andando in giro con lanostra bandiera biancascoprimmo che il nostro accampamento eracircondato da tutte le parti. A suda circa mezzo miglioscorgemmoun grande accampamento d'Indiani. Quelli che ci avevano attaccatoerano invece a estraggruppati sulla loro bassa collina.


All'incircadovevano essere almeno duecento. Fra di loro c'erano dei bianchieintuimmo che la discussione era molto animata.


Mac'era dell'altro. Verso nord-estsorgeva un accampamento di bianchinascosto da una piega del terreno. In disparteuna sessantina dicavalli brucavano l'erba tranquillamente. Verso nordavanzava ungruppo di cavalieri che si dirigevano verso il campo dei bianchi.


Alnostro ritornola prima cosa che ricevetti fu uno schiaffo di miamadreper punirmi d'essere stato fuori tanto tempo. Mio padreinvecenon ebbe che lodi per Jed e per menon appena conobbe ilnostro rapporto.


-Faremmo bene a prepararci a un attacco- disse Aronne Cochrane a miopadre.


Versoserami trovavo nella grande fossacon il fratellino sulleginocchiamentre mia madre stendeva delle coperte per preparare unletto.


Vicinoa me c'era Silas Dunlapormai moribondo. Era stato colpito allatestaal primo attacco; e per tutto il giorno aveva deliratoborbottando e cantando. Continuava a fischiettare una vecchiacanzone:


Ilprimo diavolettoal secondo diceva:


Dammiun po' di tabacco dalla tua tabacchiera!


Eil secondo rispondeva al primo: Risparmia I tuoi soldifratelloeavrai sempre piena Di tabacco la tua tabacchiera!


Comeho dettoero seduto accanto a Silas Dunlap e tenevo sulle ginocchiail fratellinoquando l'attacco si scatenò. Il soletramontavae io fissavo Silas Dunlapche stava morendo. La mano disua moglieSaraera posata sulla sua fronte. Essa e sua zia Mariapiangevano pianoquasi in silenzio. L'attacco venne sferrato proprioin quel momento.


Centinaiadi fucili sparavano insiemesommergendoci di proiettili. Nellagrande fossaci sdraiammo ventre a terra. I bambini incominciarono aurlare.


Lefucilate si infittivano. Avrei dato la mano destra pur di trascinarmifino ai carridove i nostri uomini sostenevano un fuocotambureggiantemicidiale. Ma mia madre non me lo permise.


OsservavoSilas Dunlap. Agonizzava ancoraquando il bambino dei Castleton fuucciso. La piccola Dorotea Castletondi soli dieci anniteneva ilpiccolo fra le braccia. Lei non fu colpita.


Tornaia guardare Silas Dunlap. Non si muoveva più.


Lapiccola Dorotea Castleton ebbe una crisi di nervi. Urlò cosìa lungo da contagiare la signora Hastings.


Lanotte era già avanzata quando il fuoco degli assalitori cessò.


Duedei nostri uomini risultarono feriti e vennero portati nella grandefossa. Bill Tyler rimase ucciso. Fu seppellito insieme a Silas Dunlape al piccolo Castleton.


Pertutta la nottesquadre di uomini si diedero il cambio per scavarepiù profondamente il pozzo. Ma incontrarono soltanto dellasabbia umida. Altri tentarono di raggiungere la sorgente. Madovettero rinunciarvidopo che Geremia Hopkins ebbe la mano sinistraattraversata da una pallottola all'altezza del polso.


L'indomani(erano già tre giorni che durava l'assedio)il caldo e lasiccità avevano raggiunto livelli insostenibili. Ci svegliammoarsi di setee la cucina non funzionò. Le nostre bocche eranotalmente seccheche non saremmo stati in grado di mangiare.


Cercaidi mordere un pezzo di panema dovetti rinunciare. Le munizioniscarseggiavanoe non rispondemmo ai colpi isolati che ci venivanotirati contro.


Intantosi continuava a scavare il pozzo. Era ormai così profondo chedovevamo tirarne su la sabbia con corde e secchi.


Versomezzogiornoil pozzo franò. Soltanto dopo un'ora riuscimmo aliberare Amos Wentworth che c'era rimasto sotto. Il pozzo furinforzato con delle tavole tolte ai carrima a venti piedi diprofonditànon trovammo che la solita sabbia umida. L'acquanon filtrava ancora.


Lavitanella grande fossasi faceva sempre più intollerabile.


Iragazzi chiedevano da bere piangendoe i più piccolistrillavano in continuazione.


RobertoCarrun altro ferito che era sdraiato a due passi da meaveva persola ragione. Gesticolava e chiedeva acqua con urla disumane. Anchedelle donne erano ormai prossime al delirio.


Altreinvececome le tre sorelle Demdikecantavano dei salmiinsiemealla loro madre. Altre ancora raccoglievano della sabbia umidaestratta dal pozzoe l'ammassavano sul corpo dei loro bambinitentando di rinfrescarli e di calmarli.


Esasperatidalla sofferenzai due fratelli Fairfax corsero verso la sorgente.Giller non era ancora a metà stradaquando cadde.


Ruggeroriuscì invece a tornarequasi incolume. I due secchi cheaveva portato con sé erano pieni soltanto a metà; unaparte l'aveva persa correndo. Strisciò nuovamente sotto icarri e scese nella grande fossa. La sua bocca era tuttainsanguinata.


Duemezzi secchi erano insufficienti per tante persone. Solo i piccoli ei feriti ne ebbero una piccola parte. Io non ne ottenni una solagoccia.


Nelpomeriggiola situazione si fece ancora più grave. Il solespietato continuava a sfolgorare in un cielo tersosenza nubitrasformando la nostra fossa di sabbia in una fornace. Intantolafucileria si faceva nuovamente nutritamentre gli Indiani lanciavanole loro laceranti grida di guerra.


Duranteuna pausamio padre scese nella grande fossa e si sedette accanto amia madre e a me. Con il viso contrattoascoltava i lamentiisinghiozzi della sua gente che reclamava acqua.


Improvvisamentesi diresse verso Jed e sua madree mandò a chiamare il padredi Jed.


-Jesse- mi chiese- hai paura degli Indiani?


Crollaiil capo con forzapresagendo di essere destinato a un'altramissionenon meno gloriosa della precedente.


-Jesse- continuò- hai per caso paura di quei cani diMormoni?


-No! Non ho affatto paura di quei cani rognosi di Mormoni!


Untriste sorriso sfiorò le labbra di mio padre. Egli continuò:


-In questo casote la senti di andare alla sorgentecon Jedaprendere dell'acqua?


Accettaisenza esitareesultante.


-Vi vestiremo da bambine. Può darsi che in questo modo non vitirino addosso.


Invanoprotestai che potevo andare benissimo cosìcome mi trovavocon i miei calzonicome un vero uomo. Mio padre fu irremovibileedovetti cedere.


Unavolta vestiti con abiti femminiliricevemmo le ultime istruzioni.Poistrisciandosuperammo la linea dei carri e ci trovammo alloscoperto.


Entrambiavevamo lo stesso vestito: calze bianchegonne bianchecon unagrande cintura azzurrae cappelli bianchi da estate. Con noiportavamo ciascuno due piccoli secchi.


-Non abbiate fretta! - gridò mio padre. - Andate piano!Camminate come se foste delle bambine...


Nessunoci sparò addosso.


Raggiungemmosani e salvi la sorgenteriempimmo i nostri secchielli e prima ditornare bevemmo a volontà alla stessa sorgente. Poicon unsecchiello pieno in ogni manotornammo verso i carri. Eancoranemmeno una fucilata!


Ilnumero esatto di viaggi che effettuammo cosìnon lo ricordo.


Mafurono almeno quindici o venti. Camminavamo lentamentetenendoci permano nell'andata. Poi tornavamocon i nostri quattro secchiellipieni.


Maogni cosa ha un termine. Jed e io stavamo per incamminarci percompiere un nuovo viaggioquando si udì una fucilatapoiun'altra.


-Ritorna! - gridò mia madre.


Ciguardammo. I nostri pensieri s'incrociarono come i nostri sguardi.Eravamo due bambini ostinatied eravamo decisi entrambi a restarese uno si fosse ritirato.


Mirimisi in camminoe Jed mi imitò.


-QuiJesse! - gridò di nuovo mia madre.


Jedm'interrogò con uno sguardo. Crollai la testae dichiarai:


-Andiamoci!


Corremmoveloci sulla sabbiae ci sembrò che tutte le fucilate degliIndiani fossero dirette contro di noi. Arrivai alla sorgente perprimo. Riempiti i secchielliriprendemmo la nostra corsauno afianco all'altro.


-Non andare così svelto! - dicevo a Jed. - Finirai perrovesciare metà della tua acqua!


L'osservazioneprodusse il suo effettopoiché egli rallentò subito ilpasso.


Ametà stradainciampai e finii lungo distesoa testa avanti.


Unapallottolarimbalzando per terra proprio davanti a memi avevariempito gli occhi di sabbiatanto che per un momento credetti chemi avessero colpito.


Jedrimase in piediaspettandomi.


-L'hai fatto apposta! - ghignòmentre mi rialzavo.


Afferraisubito il concetto. Egli era convinto che mi fossi lasciato cadereappostaper rovesciare l'acqua e avere così l'alto onore ditornare a prenderne dell'altra.


Questaspecie di gara di coraggio stava diventando una cosa seria.


Tantoseria che non me la sentii di dargli una smentita e tornaidi corsaverso la sorgente. E Jed Durhammalgrado i proiettili che glicadevano attornorimase in piedisempre allo stesso postobene invistaaspettandomi.


Quandorientrammosolo io avevo i secchielli pieni. Un colpo aveva bucatoproprio vicino al fondouno dei secchi di Jed.


Tralasciodi descrivere le geremiadi di mia madree l'evidente fierezza di miopadre.


Comunquequando ritornammo nella grande fossaJed e io fummo acclamati comedue eroi. Le donnecon le lacrime agli occhici colmavano dibenedizioni e si gettavano letteralmente su di noicoprendoci dibaci.


Nellagrande fossa la situazione era leggermente migliorata.


Ognunoaveva potuto calmare con l'acqua l'arsura che lo divorava.


Emalgrado si presentasse il problema di come procurarci l'acqua per igiorni successivisi tornava a sperare. Il punto dolente erano lemunizioni. Nei carririmanevano soltanto cinque libbre di polverementre nelle fiaschette degli uomini non ce n'era quasi più.


L'attaccosi scatenòcome previstoal tramontoe migliaia di fucilateinvestirono da ogni parte l'accampamento. Per il momentonessuno deinostri venne colpito. Rispondemmo soltantodata la scarsezza dipolverecon una trentina di colpi.


Sindal principio dell'assediosolo gli Indiani ci avevano sparatoaddosso. Era una cosa sorprendente. Perché i bianchi agivanocosì? Non ci davano nessun aiutoma non ci attaccavano.


Tuttaviaerano in continua comunicazione con gli Indiani che ci assalivano.Cos'era questo mistero?


Almattino del quarto giornola sete incominciò di nuovo atorturarci. Durante la notte era caduto un abbondante strato dirugiadae noi la leccammo sui timoni dei carrie sui cerchi delleruote.


Nelcorso della mattinata tutto rimase tranquillosenza un solo colpo difucile. Il sole incombeva nell'aria immobile. La nostra seteaumentava. I più piccoli si misero a piangerei ragazzi alamentarsi.


VersomezzogiornoGuglielmo Hamilton prese due secchi e si accinse apartire per la sorgente. Mentre strisciava sotto un carroAnnaDemdike lo raggiunselo circondò con le braccia e tentòdi trattenerlo.


Eglile parlòl'abbracciò e continuò ad avanzare.Non un colpo di fucile gli fu indirizzato contronéall'andatané alla sorgentené al ritorno.


-Sia lodato il Cielo! - esclamò la vecchia Demdike. - La graziadel Signore li ha toccati.


Versole due del pomeriggiodopo un pasto frugale che ci aveva rimessi unpo' in forzeapparve un uomo con una bandiera bianca.


GuglielmoHamilton gli andò incontro. Dopo qualche minuto di colloquiotornò indietro da mio padre e dagli altri uomini. Alle spalledel parlamentareavevamo scorto Leeche ci fissava intensamente.


Un'intensaemozione percorse tutta la carovana. Le donneritenendosi alla finedelle loro sofferenzepiangevano e si abbracciavano. Alcunecome lavecchia Demdikecantavano l'ALLELUIA e benedivano la volontàdel Signore.


Laproposta fatta dai Mormonie che i nostri uomini avevano accettataera che noi ci rimettessimo immediatamente in marcia sotto laprotezione loro e della bandiera bianca.


Intesimio padre che diceva a mia madre:


-Non ci restava che accettare. Era necessario...


-Che cosa succederebbe se ci tradissero? - replicò mia madre.


Miopadre rispose:


-Dobbiamo affrontare il rischio... Le nostre munizioni sono esaurite.


Alcunidei nostri uomini tolsero le catene che tenevano legati i carri e lispostaronopraticando delle brecce nel cerchio. Io osservavoattentamente.


ComparveLeeseguito da due carri vuoti trainati da cavalli.


Tuttigli si fecero intorno. Disse che gli Indiani erano inquieti e che glidavano parecchio da fare per tenerli lontanie che il maggioreHigbeecon cinquanta uomini della milizia dei Mormoniera pronto aprenderci sotto la sua protezione.


Madove il sospetto si insinuò in mio padrein Labano e in moltidei nostrifu quando Lee ci annunciò che dovevamo separarcidai nostri fucilie ammucchiarli in uno dei carri. Il pretesto erache non dovevamo eccitare l'animosità degli Indiani. In questomodoinveceavremmo avuto l'aria d'essere prigionieri della miliziadei Mormonie ci avrebbero lasciati partire senza creare incidenti.


Miopadre sembrò irrigidirsi contro una proposta del genere estava per rifiutare. Scambiò un'occhiata con Labanoche glirisposebisbigliando:


-Nelle nostre mani non ci saranno più utili che nei carri...Non abbiamo più munizioni.


Duedei nostri feriti che non potevano camminarefurono issati su unodei carri condotti da Leeognuno dei quali aveva a cassetta unMormone. Con loro vi presero posto i bambini più piccoli. Jede io avevamo già nove annied eravamo piuttosto sviluppatiper la nostra età. CosìLee ci mise nel gruppo deigrandidicendo che dovevamo camminare a piediinsieme alle donne.


Leeindicò poi quale doveva essere l'ordine di marcia. Le donne ei ragazzi per primiin filadietro i carri. Poi gli uomini in filaindiana.


Lacarovana si mise in marciacarica di tutti i bagagli che potevaportare. Abbandonavamo tutti i nostri carriseguendo i due portatida Lee. Donne e ragazzi li seguivano da vicino. Quando fummo duecentometri avantii nostri uomini si misero in marcia a loro volta.


Adestra e a sinistrastava allineata la milizia dei Mormoni.


Mentresfilavamo davanti a loro notai la cupa gravità segnata suiloro volti. Erano lugubri come dei becchini. Alcune donne si misero apiangere.


Camminavoa due passi da mia madre. Dietro di me venivano le tre sorelleDemdikeche sostenevano la vecchia madre. Un uomoche secondo unadelle sorelle Demdike doveva essere il maggiore Higbeeera immobilesul suo cavalloalle spalle dei soldatie ci guardava passare.Nessun Indiano in vista.


Mentrevoltavo la testa in cerca di Jed Durhamaccadde l'irreparabile.


Udiiil maggiore Higbee gridare con voce stentorea:


-Fate il vostro dovere!


Misembrò che tutti i fucili dei Mormoni sparassero all'unisonocon un solo boato! I nostri uomini caddero in una frazione disecondo. Poi fu la volta delle donnecon una nuova scarica. Lesorelle Demdike e la loro madre caddero tutte nello stesso istante.Cercai con gli occhi mia madre. Era riversa a terra.


Intornoa noiapparivano centinaia d'Indianiche sparavano senzainterruzione. Vidi le due sorelle Dunlap che cercavano uno scampocorrendoe io le seguiiperché bianchi e Indiani ci stavanoammazzandotutti insieme.


Correndovidi uno dei conduttori dei carri che sparava sui due nostri feritisdraiati all'interno.


Ementre correvo seguendo le sorelle Dunlapmi invase una grandeoscurità. I miei ricordi si fermano a questo punto. JesseFrancher cessa di esistere e scompare per sempree il suo corpo nonfu più.


Malo spirito immortale che l'animava è sopravvissuto. E nellasua reincarnazione successivaegli ha dato vita al corpo visibileconosciuto sotto il nome di Darrell Standing; il quale sta per essereimpiccato e lanciato in quel nulla dove tutte queste effimereapparizioni si spengono.


Quinella prigione di Folsomc'è un condannato a vitaMatteoDaviesche appartiene alla più vecchia generazione deiprigionieri e che fa da aiutante nelle esecuzioni capitali.


Quest'uomoha vissuto nei territori dove venne ucciso il giovane Jesse Francher.E' per mezzo suo che ho potuto controllare gli avvenimenti che horaccontato. Quando egli era bambinosi parlava spesso del grandemassacro delle "Praterie delle Montagne".


Tuttaviaquesti avvenimentinella camicia di forza della prigione di SanQuintinosono riaffiorati alla mia memoria.


Seho avuto conoscenza di questi fattila sola spiegazione possibile èche essi non si erano cancellati nella mia anima immortalela qualecontrariamente alla materianon può morire.


MatteoDavies mi ha riferito anche questo. Qualche anno dopo il massacroLee fu arrestato e condannato a morte. Venne giustiziato sulla stessaspianata in cui la nostra carovana si era accampata prima delmassacro.




15.TRA SOGNO E REALTA'


Quandofiniti i miei primi dieci giorni di camicia di forzaaprii gliocchiavevo di fronte il dottor Jackson e il direttore Atherton.Come avevo promessogli sorrisi.


-Troppo miserabile per vivere e troppo vigliacco per morire! - fu ilcommento del direttore.


-I dieci giorni sono finiti... - mormorai.


-Sta bene- brontolò. - Adesso vi slegheremo.


-Non si tratta di questo- gli dissi. - Avete certamente notato chevi ho sorriso. Spero non abbiate dimenticato la nostra piccolascommessa. Prima di slegarmidate a Morrell e a Oppenheimer iltabacco che avete promesso. Guardateeccovi un altro sorriso...


-Sìconosco i bluff degli animali della vostra specie-borbottò il direttore Atherton. - Non vi serviranno a niente!Non so che cosa mi tenga dal darvele di santa ragionevoi chebattete tutti i "records" della camicia di forza!


-Il fatto è- intervenne il dottore Jackson- che io non homai visto un uomo sorridere dopo dieci giorni di camicia di forza.


-E' un bluff... - ribatté il direttore. - SlegaloHutchins.


Abassa voceraccogliendo tutte le poche forze residuemormorai:


-Perché tanta frettadirettore? Non ho nessun treno daprendere... E mi trovo così comodoche preferisco non esserdisturbato.


Mislegarono ugualmente e mi rotolarono sul pavimentofuori dallacamicia di forzacome un pacco di merce qualsiasi.


Ilcapitano Jamie si chinò su di me.


-Non mi stupisco che si trovasse bene là dentro. Non senteniente. E' paralizzato.


-Paralizzato come vostra nonna! - sogghignò il direttore. - Vidico che è tutto un bluff! Mettetelo in piedie vedrete senon si regge.


Hutchinse il dottore si misero d'impegno per raddrizzarmi.


Quandofui in posizione verticaleAtherton disse:


-Adessolasciate andare!


Naturalmentenon essendo ancora padrone della mia povera materiavacillai sulleginocchiabarcollai e andai a sbattere la fronte contro il murodella cella.


-Vedete? - disse il capitano Jamie.


-Sìben imitato! - ribattéostinatoil direttoreAtherton. - Quest'uomo è veramente coriaceolo riconosco. E'un magnifico simulatore!


-Parole d'orodirettore- mormoraisdraiato per terra. - L'ho fattoapposta. E' una caduta per burla. Rialzatemie ricomincerò.


Riusciròa farvi ridere quanto volete...


Nonmi dilungherò sulla tortura che dovetti sopportare in seguitoal ritorno della circolazione del sangue. Era una vecchia storiachesi ripeteva puntualmente ogni volta.


Unavolta solarimasi disteso per terra per tutto il resto dellagiornatain stato semi-comatoso. Esiste una specie di anestesia deldoloreprodotta dal dolore stesso quando raggiunge i livelli piùalti. Ho conosciuto questa anestesìa.


Ilprogramma allestito per me dal direttore Athertonnon era mutato.Permettermi di riposarmi e di recuperare un po' di forzaper qualchegiorno; poise non confessavo dov'era nascosta la dinamiteregalarmi un'altra razione di dieci giorni di camicia di forza.


Mel'aveva ripetuto ancora una voltae io gli avevo risposto:


-Mi dispiace proprio di recarvi tanto disturbosignor direttore.


Peccatoche mi ostini ancora a vivere! La mia morte vi libererebbe da unsacco di guai. Che volete farci? Se non muoionon è davverocolpa mia.


Aquell'epocanon dovevo pesare più di novanta libbre. Due anniprimaquando si erano rinchiuse alle mie spalle le porte dellaprigione di San Quintinoraggiungevo le centosessanta libbre.


Avevodunque perso tutto ciò che potevo perdere. Umanamentenonsembrava possibile che potessi perdere un'oncia di piùecontinuassi a vivere ugualmente. Tuttavianei mesi che seguironocontinuai a diminuire di pesoe non per questo cessai di vivere...Malgrado le cure assidue del direttore Atherton!


Morrellmoriva dalla voglia di sapere se avevo continuato con esito felice lemie esperienze. Ma soltanto la notte seguentequando "Faccia ditorta" diede il cambio a Smithriuscii a iniziare laconversazione coi miei due compagni. Quand'ebbi ultimato il mioraccontoOppenheimer dichiaròscettico:


-Sogni d'oppio!


Poidopo un lungo silenziocontinuò:


-Una voltamolto tempo faho fumato dell'oppio. Posso alloraassicurartiStandingcose ancora più strane delle tue. Credoche sia il trucco che usano i romanzieri per montarsil'immaginazione.


Morrellinvecela pensava come me. Non dubitava minimamente di quello cheraccontavo. Soltantoi suoi risultatierano diversi dai miei.Quando il suo corpo morivaegli restava sempre Edoardo Morrell. Nonritornava mai a vite anteriori. Quando la sua anima si era liberatadalla materiavagabondava nel tempo presente.


Cosìpoteva contemplare il suo corpo disteso sul pavimento della cellaepoi vagare per San Francisco e vedere quello che succedeva. Avevavisitato due volte sua madree tutt'e due le volte l'aveva trovatache dormiva.


Maugualmentenon aveva nessun potere sulle cose materiali. Non potevaaprire una portané spostare un oggettonémanifestare la sua presenza in qualsiasi modo.


D'altrapartemuri e porte non erano per lui degli ostacoli. Egli erasoltanto spirito e pensiero.


-In una di queste passeggiate a San Francisco- ci raccontò-da una nuova insegna attaccata davanti alla bottega di commestibiliche faceva angolo con la casa abitata da mia madrevenni a sapereche questa bottega aveva cambiato proprietario. Sei mesi dopononappena fui in grado di inviare a mia madre una letteram'informai sequello che avevo visto era esatto. Mi rispose che effettivamente labottega di commestibili aveva cambiato proprietario.


-Così- chiese Oppenheimer- tu avevi letto quello che c'erascritto sull'insegna?


-E' evidente- rispose Morrell. - Altrimenticome avrei potutosapere che il nome del proprietario era cambiato?


-D'accordo! - ribatté Oppenheimerincredulo. - Il tuoragionamento non fa una grinza. Ma vorrei ancora una prova. Fra unpo'quando avremo dei guardiani più ragionevoliti faraimettere la camicia di forzaabbandonerai il tuo corpoe andrai afare un giretto a San Francisco. Verso le tre del mattinofai unsalto nei dintorni della Terza Strada; è l'ora in cui escono igiornali del mattino. Leggi le ultime notizie. Poi torna a SanQuintinoprecedendo il rimorchiatore che attraversa la Baia e cheporta i giornali. Informami sulle ultime notizie. Io mi procureròuno di questi giornali. Se le notizie corrisponderannoaccetteròcome verità di Vangelo tutto ciò che mi racconteraidelle tue passeggiate.


Erainfattiuna prova decisivae io approvai Oppenheimerdichiarando amia volta che tale esperienza avrebbe eliminato qualsiasi dubbio.Morrell accettò. Ma era contrario a lasciare inutilmente ilsuo corpo. Perciò decise che lo avrebbe fatto soltanto se ungiorno avesse meritato la camicia di forzaal di fuori della suavolontàe se realmente avesse sofferto troppo.


Aquesto puntofinì la nostra conversazione...




16.TERRA DI COREA


Unavoltafui Adamo Strangun inglese. L'epoca approssimativa di questamia vita posso stabilirla fra il 1550 e il 1650e vissi questaesistenza fino a un età molto avanzatacome apprenderete dalmio racconto.


Iricordi della mia vita come Adamo Strang non cominciano che verso itrent'anni. Nella camicia di forzaAdamo Strang mi è apparsoparecchie volte. Ma sempre nel pieno della sua virilitàcoimuscoli robustiuomo in tutta la pienezza dei suoi trent'anni.


Lo"Sparviero"sul quale navigavo come marinaioera unbastimento olandese partito per le Indiee che si era avventuratomolto al di làin mari sconosciutialla ricerca di nuovericchezze.


Ilvecchio Giovanni Maartensche lo comandavae la cui facciaanimalesca non aveva in apparenza niente di romanticosognava lascoperta di terre verginiinesploratedi una nuova Golconda che lorifornisse abbondantemente di seta e di spezie.


Larealtà delle cose mi obbliga a dire che trovammo soprattuttola febbrele morti violentee dei paradisi pestilenziali la cuibellezza ricopriva dei veri carnai. E anche dei cannibali chesoggiornavano sugli alberi e che erano per di più degliarrabbiati cacciatori di teste. Sbarcammo in varie isolebattutefuriosamente dalle ondecon delle alte montagne su cui fumavano deivulcani. Làdegli uomini nanidai capelli crespicheassomigliavano piuttosto a delle scimmiedelle quali possedevano ilgrido lamentoso e insopportabilevivevano al riparo delle foreste edella giunglada cui c'inviavanonell'ombra della seradei nugolidi frecce avvelenate. Chiunque di noi fosse stato punto con una diqueste freccesarebbe morto immancabilmentefra sofferenzeorribili.


Altroveuomini più grandi e ancora più feroci ci affrontavanosulla riva. Scagliavano su di noi frecce e giavellottial suono diguerra dei loro tam-tam e dei loro tamburi. E ovunques'imboscavanosul nostro passaggiofra tronchi d'alberimentre da una collinaall'altra salivano delle colonne di fumoche chiamavano alle armitutta la popolazione.


L'ufficialeche fungeva da commissario di bordoHendrick Hamelera anchecomproprietario dello "Sparviero"; tutto ciò che nonera suo apparteneva al capitano Maartense viceversa. Questibestemmiava un po' l'inglesee Hamel non molto di più. Imarinai parlavano soltanto l'olandese. Ma da parte mia facevo prestoa imparare tutte le lingueprima l'olandesepoicome viracconteròanche il coreano!


Dopouna navigazione burrascosaarrivammo a un'isola di proprietàgiapponese che non era segnata sulla nostra carta. Gli abitantirifiutarono ogni rapporto con noi. Due funzionari vennero a bordo eci invitaronomolto gentilmentead allontanarci al piùpresto.


Sottol'apparenza cortese delle loro maniere e dei loro discorsitraspariva l'ardore guerriero della loro razzae noi ci affrettammoa salpare.


Attraversammosenza difficoltà gli arcipelaghi giapponesie arrivammo nelMar Giallocon rotta verso la Cina.


Dopoun tremendo uragano che per due giorni ci aveva fatto rollarespaventosamenteil vento era improvvisamente cambiato. Lo"Sparviero" si era rifiutato di obbedire al timone e se neandava alla deriva.


Cidirigemmo verso terranel chiarore attonito di un'alba plumbeasuun mare infuriatole cui onde si alzavano alte come montagne.Eravamo d'inverno. Attraverso una tormenta di nevepotevamointravederea trattiuna costa. Se si può chiamare costa uninsieme di scogli spumeggiantid'innumerevoli rocce pauroseal dilà delle quali apparivano delle spiagge sassosedeipromontori che sprofondavano i loro speroni aguzzi nel mare.


Oltrequesto temibile riparosi profilava una catena di montagnecandidadi neve.


Laprua dello "Sparviero" urtò in pieno contro unoscoglioe il nostro albero di bompresso si spezzò alla basecome un giunco.


L'alberodi trinchetto subì la stessa sorteprecipitando in acqua contutte le sartìe.


Inzuppatofradicio e sbattuto sul ponte dalle ondateriuscii a raggiungereGiovanni Maartenssul cassero. Altri uomini dell'equipaggioseguirono il mio esempioe come me si legarono solidamente con dellecorde. Ci contammo. Eravamo diciotto: tutti gli altri eranoscomparsi.


Maartensnon aveva perso il suo sangue freddo. Mi indicò una cascatad'acqua salatache precipitava da un'anfrattuosità dellacosta rocciosa.


Capiisubito che cosa voleva dire. Desiderava sapere se mi sentivo capacedi scalare l'albero maestromiracolosamente ancora in piediesaltare di là sulla piccola piattaforma che a venti piedi aldi sopra del cassero dominava quell'incavonella roccia a picco.


Naturalmentela larghezza del salto variava di secondo in secondoa causa delleoscillazioni dell'albero. A volte era di sei piedia volteraggiungeva i venti.


Mislegaie cominciai a salire. Giunto sulla cima dell'alberomisuraicon un'occhiata la larghezza del saltoe mi slanciai.


L'acrobazìariuscìe atterrai nell'anfrattuosità. Làmimisi bocconipronto a tendere la mano ai miei compagni che intantoavevano scalato anch'essi l'albero. Non c'era tempo da perdere; da unmomento all'altrolo "Sparviero" poteva sprofondare neigorghi.


Ilcuoco di bordo fu il primo a saltare. Vidi il suo corpo che girava suse stessopoi un'ondata lo afferròmentre cadevafracassandolo contro la roccia. Uno dei mozziun ragazzo divent'annifu scagliato dall'albero contro uno spigolo roccioso.


Morìsul colpo. Due altri uomini finirono nel vuotocome il cuoco. Iquattordici che rimanevano e il capitano Maartensche saltòper ultimoriuscirono a saltare senza inconvenienti. Un'ora dopolo"Sparviero" veniva inghiottito dalle onde.


Perdue giorni e due nottirimanemmo aggrappati alla scoglierasenzauna via d'uscita.


All'albadel terzo giornoun battello da pesca ci avvistò nel rifugioin cui eravamo appollaiati.


Gliuomini del battello erano vestiti completamente di biancoanche sela sporcizia rendeva i loro abiti di un effettivo color grigio. Icapelli erano annodati sulla sommità del loro cranio.


Questonodovenni a sapere dopodistingueva quelli che erano sposati.


Ilbattello tornò verso il villaggio a cercare dei rinforzi.


Accorserotutticon delle cordee fu necessario lavorare quasi tutta lagiornata per toglierci dalla nostra scomoda posizione.


Dopodi checi condussero con loro.


Eragente poverae il loro nutrimento era di difficile digestioneancheper lo stomaco d'un marinaio. Il loro risoincredibilmente sporcoera scuro come cioccolato. Si nutrivano anche d'una specie di miglioimpastato con cetrioli d'una qualità speciale e di un saporecosì acre che appestavano la bocca.


Lecase erano di fango seccatocon un tetto di paglia. Nelle paretiinterne erano praticate delle apertureche lasciavano passare ilfumo della cucina. In questo modosi riscaldava la stanza in cui sidormiva.


Ciriposammo così per diversi giorniconsolandoci della nostradisgrazia col loro tabacco dolcissimo e con una specie di beveraggiolattigginoso fortemente alcoolico. Naturalmentele sbornie eranoall'ordine del giorno...


Ciòche avevamo visto fino ad allora della terra di Cio-Sen- (che belnome! non si poteva proprio scegliere meglio...) - non era fattodavvero per suscitare il nostro entusiasmo. Se quei disgraziatipescatori erano un campione dell'intera popolazionenon ci volevamolto a capire perché quel paese avesse attirato cosìpoco i navigatori stranieri.


Maci sbagliavamo. Il nostro villaggio faceva parte di un'isolaequelli che lo dirigevano dovevano aver spedito un messaggio sulcontinente. Un mattinoinfattitre enormi giunche a due alberigettarono l'àncora poco lontano dalla spiaggia.


Quandoi canotti di bordo approdaronogli occhi del capitano Maartens sispalancarono a dismisura su una seta magnifica che gli splendevadavanti.


Erasbarcato un Coreanovestito appunto di seta da capo a piedid'unaseta multicoloredai mille riflessi. Alto e di bell'aspettoilCoreano era circondato da una mezza dozzina di servitorivestitianch'essi di seta.


Questonobile personaggio si chiamava Kwan-Yung-Jincome seppi piùtardi. Era un YANG-BANcioè un nobile. Esercitava le funzionidi magistrato o governatore della provincia da cui dipendeva l'isola.


Uncentinaio di soldati sbarcarono al suo seguitodirigendosi con luiverso il villaggio. Alcuni erano armati di lancealtri diantidiluviani fucili a miccia.


Icapi del villaggio tremavano di paura al suo cospettoe senza dubbionon avevano torto. A nome dei miei compagni mi feci avantibalbettando le parole di coreano che conoscevo.


Kwan-Yung-Jinassunse un'aria sdegnosa e mi fece segno di allontanarmi. Obbediisenza alcun timore. Perché avrei dovuto temerlo? Ero grandecome lui; e in quanto a pesolo superavo.


Eglimi voltò la schiena e si diresse verso il capo del villaggiomentre i servitori formavano fra lui e noi un cordone protettivo.


Mentrelui parlavaparecchi soldati si fecero avanti portando sulle lorospalle delle assicelle lunghe circa sei piedi e larghe circa duecheerano curiosamente tagliate nel senso della lunghezza. All'estremitàera stato praticato un foro rotondod'un diametro inferiore a quellodella testa d'un uomo.


Kwan-Yung-Jindiede un ordine. Due soldatimuniti d'una di quelle tavolesiavvicinarono a Tromp che se ne stava seduto per terratutto occupatoa esaminarsi un panereccio che aveva in un dito.


L'olandeseTromp era lento nei gesti come nei riflessi. Prima ancora cheriuscisse a rendersi conto di che cosa si trattavala tavola si aprìcome le forbici; poi si richiuse intorno al suo collo.


Trompsi mise a urlare come un ossessoe a girare in tondo come unatrottola impazzita.


Daquel momentola situazione precipitò. Era evidente che Kwan-Yung- Jin aveva intenzione di metterci tutti alla gogna; e labattaglia ebbe inizio. Ci battevamo a pugni nudi contro un centinaiodi soldati armatiper non parlare degli abitanti del villaggiochedavano loro man fortementre Kwan-Yung-Jin se ne stava in disparteavvolto nella sua setacon fiero distacco.


Fuin quell'occasione che mi guadagnai l'appellativo di Yi-Yong- ikl'Onnipotente. I miei compagni erano già stati sopraffatti emessi alla gognaquando io lottavo ancora. Avevo dei pugni duri comemaglie per dirigerli possedevo dei solidi muscoli e una volontàaltrettanto solida. Con mia grande gioia avevo capito che i Coreaniignoravano completamente l'arte del pugilato. Cosìliabbattevo come tanti birillied essi cadevano in seriegli unisugli altri.


Maalla fine fui letteralmente soffocato dal numeroe costretto comegli altri compagni alla gogna.


Cicaricarono tuttie incominciarono quell'imprevisto viaggio.


-Buon Dio! - chiese Vandervoot- che cosa ci aspetta ancora?


Pigiaticome pollame in un giorno di mercatoeravamo seduti sul ponteunoattaccato all'altro. E a più ripresea ogni inclinazionedella giuncarotolammo sul ponte come barili vuoti.


Giuntisul continenteci gettarono in una prigione puzzolenteinfestata dipidocchi.


Questafu la nostra entrata in suolo coreanoe il nostro primo contatto coifunzionari di quel paese.


Restammoin questa prigione per parecchi giorni. Kwan aveva inviato unmessaggero a Keijola capitaleper conoscere la decisione delsovrano nei nostri confronti.


Nelfrattempo eravamo diventati oggetto di una vera e propria esibizioneesotica. Dall'alba al tramontole sbarre delle nostre finestre eranoassediate dagli indigenii quali evidentemente non avevano mai vistodegli esemplari della nostra razza.


Daparte suaKwan-Yung-Jin non ci dimenticava. Tutte le volte chegliene veniva il capriccioordinava di farci uscire dalla prigione edi bastonarci per la stradafra le grida di gioia della plebaglia.


Finalmentecon nostro grande sollievole bastonature cessarono.


Ilmotivo fu l'arrivo di Kim.


Chiera Kim? Di lui dirò soltanto che era il cuore piùgeneroso che avessimo incontrato in Corea. Allora era capitano ecomandava cinquanta uomini. Poi diventò comandante delleGuardie del Palazzo. Einfinemorì per amore della signoraOme mio. Chi era Kim? Era Kime basta!


Appenaegli giunsei nostri colli furono liberati dalla gogna e fummoalloggiati nel migliore albergo del luogo. Senza dubbio eravamoancora dei prigionierima dei prigionieri con una guardia d'onore dicinquanta cavalieri.


L'indomanipercorrevamo la grande strada reale; sedici marinai sopra sedicicavalli nani diretti verso Keijo. L'Imperatoremi spiegò Kimaveva espresso il desiderio di abbassare il suo sguardo sugli strani"Diavoli dei Mari".


Ilviaggio durò parecchi giornipoiché dovevamoattraversare completamenteda nord a sudmetà del territoriocoreano.


Allaprima fermataessendo disceso di sellaandai a rifocillare lenostre cavalcature. Gli uomini della scorta nutrivano i loro cavallicon una specie di minestra di faveben calda. E durante tutto ilnostro viaggioi cavalli ebbero sempre una razione abbondante diquesta minestra calda di fave.


Comeho dettoerano dei cavalli nanipiccolissimi. Avendo fatto unascommessa con Kimne sollevai uno. Nonostante i suoi nitriti e laresistenza che opposelo alzai sopra le mie spalledove lo sostennia lungo. Dopo di ciògli uomini di Kimche avevano giàsentito parlare del mio soprannome di "Yi-Yong-ik"l'Onnipotentemi diederoda allora in poisolo quel nome.


Kimera piuttosto grande per essere un Coreano. Egli si riteneva inoltredi una robustezza eccezionale. Magomito contro gomito e palmacontro palmaio gli facevo abbassare il braccio come volevo. Cosìi soldati e tutti quelli che si radunavano al nostro passaggiomiguardavano a bocca apertamormorando: "Yi-Yong- ik!". Lamia fama mi aveva preceduto.


Dipane non ne vedevamo neppure l'ombrama avevamo in abbondanza delriso bianchissimocome pure una carneche scoprii immediatamenteessere carne di caneanimale che viene regolarmente macellato nellebotteghe coreane. Il tutto era condito con spezie fortissimechefinirono però con il piacermi moltissimo. Come bevanda avevamoun liquido biancolimpidoche dava rapidamente alla testaproveniente dalla distillazione del risoe del quale una sola pintasarebbe stata sufficiente ad uccidere un uomo non in gambamentreeccitava meravigliosamente un uomo forteal punto da renderlo quasipazzo.


ACiong-houna città fortificata che attraversammoin seguitoa una straordinaria bevuta di questo liquorevidi Kim e i notabilicoreani rotolare sotto la tavola. Dovrei dire sopra la tavolavistoche questa non era altro che il pavimentosu cui eravamoaccoccolatie doveper la millesima voltafui colto ai garretti dacrampi feroci.


Anchequitutti mormoravano: "Yi-Yong-ik!"; e la gloriosa famami precedette alla stessa Corte dell'Imperatore.


Inveritàero ormai diventato un prigioniero soltanto di nomeene approfittavo per cavalcare quasi sempre al fianco di Kim. Kim eragiovane. Kim era un uomo unicouniversale. E in ogni circostanzanon smentiva mai se stesso. Tutta la giornata e una buona metàdella nottediscorrevamo e scherzavamo fra noi. Dovevo aver ricevutoil dono delle lingueperché imparai il coreano con estremarapidità. Kim si meravigliava continuamente dei mieiprogressi.


Miteneva anche al corrente sui costumi e sul carattere degli indigenisulle loro virtù e sui loro difetti. M'insegnò diversecanzonicanzoni di fioricanzoni d'amoree canzoni... perbevitori. Eccone una da lui compostae di cui tenterò ditradurvi la strofa finale.


Kime Paknella loro giovinezzahanno firmato fra loro un pattosecondo cui d'ora in avanti si sarebbero astenuti dal bere. Il pattonon tarda a essere spezzatoed entrambi cantano in coro:


Nonon mi trattenere!


Lacoppa affascinante sopra ogni altra cosa al mondodove tantobevettimi renderà giocondo; la coppa del buon vino color delrubino!


Dimmiamico: dov'è?


vicinoa quel pesco rosa?


Buonafortuna a te:


iovoglio bere a iosa...


Hameltipo decisamente intrigante e scaltrom'incoraggiava nei mieischerzi che mi attiravano la benevolenza di Kim edi riflessogiovavano notevolmente a tutta la compagnia. Hamel non smise d'essereil mio consigliere; e fu seguendo i suoi consigli che guadagnai inseguito il favore di Yunsanil cuore della signora Om e labenevolenza dell'Imperatore.


Finoa Keijoi territori che percorrevamo erano dominati da alte montagnenevosesul fianco delle quali si aprivano numerose e fertilivallatecosparse di città fortificate. Ogni seradi cima incimasi accendevano dei segnali fiammeggianti. Kim non mancava maid'osservare con attenzione queste catene di fuoco che rosseggiavanodalle coste alla capitaleportando all'Imperatore il loro messaggio.Una sola fiamma significava che il paese era in pace. Due fiammeannunciavano una rivolta o un'invasione straniera. Durante il nostroviaggionon vedemmo mai più d'una sola fiamma.


MentrecavalcavamoVandervootche chiudeva la marcianon cessava dimeravigliarsi. E continuava a domandare:


-Dio del cielo? Cos'altro ancora?...




17.LA SIGNORA OM


Keijola capitaleera una grande cittàdove tutta la popolazioneeccettuati i nobilio "yang-bans"era vestita di bianco.Questomi spiegò Kimpermetteva di riconoscere a primavistasecondo il grado di pulizia o di sudiciume dei vestitilaposizione sociale di ogni persona. Soltanto i nobilicon le lorosete multicolorierano molto al di sopra di questa volgareclassifica.


Dopoesserci riposati per parecchi giorni in un albergodove riparammoalla meglio i guasti causati dal naufragio e dal lungo viaggio alnostro abbigliamentofummo chiamati alla presenza dell'Imperatore.


Ungrande piazzale si apriva di fronte al Palazzo imperialeche erapreceduto da cani colossali in pietra scolpita.


Imuri di pietra del palazzocoperti di sculture complicateeranocosì robusti da sfidare i più potenti cannoni di unesercito assediante. Dei soldati dalle uniformi sgargianti montavanola guardia davanti a una grande porta. Eranomi informò Kimquelli che essi chiamavano i "cacciatori di tigri"cioèi guerrieri più valorosi e più temuti di tutta laCorea.


Inveceche in una sala d'udienzafummo condotti direttamente in una Sala dapranzodove ci attendeva l'Imperatore.


Ilbanchetto era alla fine e la folla degli invitati era d'umoreeccellente. Una folla formicolante e superba! Alti dignitariPrincipi del sangueNobiliSacerdotiUfficiali superioriDame dicorte a viso scopertoBallerine imbellettateDame d'onoregovernantieunuchiservitori e schiavi.


Tuttaquesta folla si scostò quando l'imperatoreaccompagnato daisuoi familiarisi avanzò per esaminarci. Erasoprattutto perun asiaticoun monarca amabile. Non doveva oltrepassare iquarant'annie la sua pelle chiara non aveva mai conosciuto lasferza del sole. Era obesoquasi rachitico su due gambe deboli esottili. Tuttaviala sua fronte conservava un'aria di estremanobiltà. Ma i suoi occhi erano cisposicoperti da palpebrerugosee le sue labbra si contraevano in un tremito continuo.


Comeseppi poiera l'effetto degli eccessi a cui si abbandonavaincoraggiato in questo da Yunsanil Gran sacerdote buddista eprovveditore imperialedel quale riparleremo.


Coinostri poveri vestiti facevamoi miei compagni e iouna benmeschina figuranell'ambiente che ci circondava. Dapprima vi furonodelle esclamazioni di stuporepoi delle risate. Le ballerine cicircondarono. Trascinandoci nelle loro evoluzioni come degli orsi dacirco.


Erauna cosa umiliante. Ma che cosa potevano fare i poveri lupi di mare?


Perquanto mi riguardaritenni infamante la parte di buffone che sipretendeva di farmi rappresentare. Resistetti alla scherzosa Ki-sang.Irrigidito sulle gambele braccia incrociateignorai pizzicotti ecarezze. Mi abbandonaronoper rivolgersi agli altri.


Hamelportandosi dietro le ballerine che l'avevano preso di mirasiprecipitò verso di medicendomi a strappi:


-Per amor di Diocerca di fare qualcosae di togliermi da questoimpaccio...


Hodetto "a strappi"perché ogni volta che apriva labocca per parlarele tre ballerine gliela empivano di dolciumi.


Continuòa parlare alla meglioschivando la testa a destra e a sinistraperevitare quelle mani accanite e piene di dolciumi.


-Queste buffonate sono deleterie per la nostra dignità. Cirovineranno. Siamo ridotti allo stato di animali domestici.


T'invidioe mi rincresce di non poter imitare la tua resistenza.


Ahqueste cretine! Continua a farti rispettare da loro; e se puoi faccirispettare anche noi...


L'ilaritàdella Corte aumentavae con essa si accrebbe anche la mia audacia.Un eunuco chealle mie spallemi solleticava il collo con una lungapiumami fece decidere. Non lasciai trasparire niente dei mieipropositi. Maimprovvisamenterapido come un lamposenza nemmenovoltare la testa e il corpogli allungai in piena faccia unpotentissimo ceffone.


Siudì uno scricchiolioe l'eunuco rotolò su se stessocome una pallafermandosi contro una parete a dodici piedi didistanza.


Lerisate cessarono. Udii mormorare: "Yi-Yong-ik!". Incrociaile braccia e rimasi immobilepieno d'orgoglio dalla testa ai piediaffrontando senza abbassare lo sguardole centinaia d'occhi che mifissavano. E fui io che li feci abbassare tutti. Tuttisalvo due.


Eranoquelli d'una giovane donnache dai vestiti e dai servi che lacircondavanogiudicai immediatamente come una signora di altolignaggio. Infattiera Lad Omun'autentica principessaappartenente alla Famiglia dei Min. Sembrava avere la mia etàquasi trent'anni. E benché avesse tutte le doti per esseresposatatuttavia non lo era.


Mifissavagli occhi negli occhisenza battere cigliofinchémi costrinse a sfuggire il suo sguardo. Nel suo sguardo non c'erainsolenzané ostilitàné una sfida qualsiasi.Non vi scorsi che un immenso fascino.


Midispiaceva confessarmi vinto da quella piccola donna. Cosìvoltando la testafinsi di portare la mia attenzione sul gruppo pocodecoroso dei miei compagniin preda alle ballerine. Poi battei lemanialla maniera asiaticagridando in coreanocon voce seccacome quando si parla a dei subalterni:


-Voialtrelasciateli tranquilli!


Lasala intera ne rimase come pietrificata. Le donne tremavano dallosgomento. Le piccole ballerine lasciarono i marinai e il lorocapitanoindietreggiando impaurite e gridando. Soltanto la signoraOm non sembrò turbata e continuò a fissarmitranquillamente senza scomporsi!


Ilsilenzio si fece pesantecome se tutti si aspettassero qualcosa dieccezionale. Tutti gli occhi correvano furtivamente dall'Imperatore amee da me all'Imperatore.


Infinel'Imperatore parlò.


-Conoscete la nostra lingua... - disse semplicemente.


Ionon sapevo che cosa rispondere. Mi afferrai alla prima idea che mipassò per la mente.


-Questa lingua- dichiarai- è la mia lingua nativa.


L'Imperatorefece una smorfia e le sue labbra si contrassero. Poi mi disse:


-Spiegati!


-E' la mia lingua madre. La parlavo ancora in fascee la miaprecocità meravigliava tutti quelli che mi avvicinavano. Ungiorno fui rapito da pirati e condotto in un paese lontanodovecompii la mia educazione. Dimenticaicosìle mie origini. Manon appena ho rimesso piede sul suolo coreanoho riparlatospontaneamente il mio antico linguaggio. Sono Coreano di nascitaesolo adesso mi sento veramente a casa.


Frai presentisi alzò un diffuso mormorio. L'Imperatoreinterrogò Kim.


Questoimprevedibile e straordinario uomo non esitò ad appoggiare lemie parole senza il minimo timore di mentire in mio favore.


-Attesto- egli disse- che parlava la nostra linguaquando loincontraiappena uscito dal mare.


Lointerruppi:


-Portatemi degli abiti degni di me!


Evoltandomi verso le ballerine aggiunsi:


-Lasciate in pace i miei schiavi! Hanno fatto un lungo viaggio e sonostanchi.


Kimmi portò in un'altra stanzadove mi aiutò a cambiarevestito.


Poirimasto solo con memi diede una breve lezione su come esprimermi ecomportarmi.


Nonsapeva dove mirassima era anche lui pieno di speranza.


Tornainella Grande Sala.


-Io sono- annunciai- del nobile sangue della Casa di Koryuche untempo regnava su Songdo.


Eraccontaialla megliouna vecchia storia che Kim m'aveva raccontatodurante le nostre cavalcate.


L'Imperatoremi chiese qualche altra informazione sui miei compagni di sventura.Risposi:


-Come ho già dettosono i miei schiavi. Tuttisalvo quelvecchio (indicai con il dito Maartens)che è figlio di unuomo libero.


Fecisegno a Hamel di avvicinarsi.


-Quest'uomo- continuai- è nato nella casa di mio padredauna razza di schiavi. Mi è particolarmente caro. Siamo dellastessa etànati lo stesso giorno; e in quel giornomio padreme lo regalò.


Inseguitoquando raccontai a Hamel questa storiaegli mi rimproverò.


-Che vuoi farci? - gli risposi. - Ho detto cosìper direqualcosa. Ormaiquel che è fattoè fatto! Dobbiamocontinuare a recitare la nostra parte...


Taiwunfratello dell'Imperatoreera decisamente un grande sciocco. Mi sfidòa bere. All'Imperatore piacque l'idea e ordinò a una mezzadozzina dei suoi nobili di partecipare all'orgia. Le donne furonoescluse. Per i miei compagniottenni che fossero alloggiati aPalazzoma chiesi e ottenni che venissero allontanati. Per controchiesi a Kim di rimanere vicino a me.


Dopodi checominciò la sfida.


Ilgiorno dopotutto il Palazzo parlava delle mie imprese. Avevoridotto Taiwun e e gli altri campioni in tali condizioni cherussavanoubriachi fradiciquando io mi ero ritirato per andarmenetranquillamente a dormire. Da allora in poiTaiwun non mise piùin dubbio che io fossi un Coreano autentico. Soltanto un compatriota- secondo lui- era capace di bere impunemente quanto avevo bevutoio.


IlPalazzo imperiale formava da solo una vera cittàe io vennialloggiatocon i miei compagniin una specie di Padiglioned'Estatecompletamente isolato. Scelsi per me l'appartamentomigliore. HamelMaartens e i marinai dovettero accontentarsi di ciòche lasciai loro disponibile.


Nonera ancora trascorso il primo giornoche Yunsanil Gran sacerdotemi faceva chiamare. Quando gli fui davantiordinò che fossimolasciati soli. Eravamo seduti su delle stuoie robustein una camerascura.


Cheuomoquesto Yunsan! Si mise immediatamente a scrutare la mia animain tutte le sue profondità. Credeva alla favola della mianascita? Non potei mai scoprirlo. Come non riuscii mai a penetrarenel suo spirito. Il suo visoimpassibilenon lasciava indovinarenulla dei suoi sentimenti più segreti.


Quelloche pensava Yunsanlo sapeva solo lui. Ma dietro questo sacerdotevestito dimessamentesentivo il potere effettivo che comandava tuttala Corea. Compresi anche che egli si proponeva di servirsi di mepensando che potessi essergli utile.


Agivadi sua iniziativao per conto della signora Om? Era una questioneche per il momento non mi ponevo. Vivevosecondo il miotemperamentonel presentesenza preoccuparmi dei fastidi futuri.


Poifu la signora Om che mi mandò a chiamare.


Eraalloggiata in un vero palazzocircondato da un parco da Mille e unanotte.


Latesta mi girava. Non ero indifferente alle belle donnee penetrandoin quella stupenda dimoraprovavo un sentimento che era ben diversoda una banale curiosità.


Lasignora Om non perse tempo in presentazioni superflue. Era circondatada uno stuolo delle sue damigelle. Ma non prestò loro maggioreattenzione di quella che presta un carrettiere al suo cavallo. Mifece sedere al suo fiancosopra morbide stuoiepoi ordinòche mi si portassero del vino e dei dolci.


SignoreIddio! Mi bastava guardare i suoi occhi per capire i suoi sentimentiverso di me. Maun momento. La signora Om non era una sciocca. Avevala mia etàe tutta la serietà che si addice a questaetà. Sapeva quello che volevae quello che non voleva.


Proprioper questo non s'era mai sposatamalgrado tutte le pressioniesercitate su di lei da una Corte asiatica.


Avevanocercato di costringerla a sposare un suo lontano cuginoun certoCiong-Mong-ju. Tutt'altro che scioccoquest'ultimo aveva speratocon questo matrimoniod'impadronirsi effettivamente del poteredetenuto dal Gran sacerdote.


Yunsanche non voleva cedergli il posto di comandoera anch'egli candidatosegreto alla mano della signora Om e faceva ovviamente tutto ilpossibile per allontanarla da suo cugino. Premetto che non scopriisubito questo intrigo. L'indovinaiin parteper certe confidenzedella signora Om. Il fiuto di Hamel indovinò il resto.


Lasignora Om era un essere raro. Donne del suo valorene nascono dueper ogni secolonel mondo intero. Lei non si curava delle regole edelle convenzioni sociali. La religionecome la praticavasolitamenteera una serie d'astrazioni spiritualiin parte imparatenelle lezioni di Yunsanin parte estratte dalla sua coscienza. Perquanto concerne la religione comunequella che s'insegnava alpopoloaffermava che era tutta una invenzione destinata a manteneresotto il tallone migliaia d'uominiche lavoravano per gli altri.


Lasignora Om era bellad'una bellezza che trascendeva le razze.


Isuoi grandi occhi neri erano splendiditagliati a mandorlae ilbattito leggero delle palpebre riusciva a dar loro un fascinospeciale.


Principessae marinaio! Un sogno a occhi aperti! E mi torturavo il cervello pernon passare da sciocco e spingere a fondo il mio romanzo. Giocavo conil fuocoe ne ero felice.


Cosìcominciai con il ripetere la storia piuttosto confusa che avevoraccontato in presenza di tutta la Corte.


Leim'interruppedandomi sulle labbra dei lievi colpettini con il suoventaglio piumato.


-Va bene! - disse. - Ma non raccontatemi delle storie per bambini.Sappiate che per me voi siete qualcosa di meglio che un discendentedella casata dei Koryu. Voi siete...


Siinterruppee io attesiosservando incantato il crescente ardore delsuo sguardo. Dopo un istantefinì la frase:


-Tu sei un uomo! Un uomo come non ne ho mai immaginatonemmeno neisogni più arditi delle mie notti.


Checosa poteva farein una simile situazioneun povero marinaiosenon arrossire terribilmente sotto quello sguardo? Gli occhi dellasignora Om diventarono due pozzi di malizia provocantementrecontutte le mie forze mi trattenevo dall'abbracciarla.


Finalmentesi mise a rideree batté le mani. Era un segnale:


l'udienzaera terminata.


Andaia trovare Hamelcon la mente ancora sconvolta.


-Ahle donne! - esclamòdopo una lunga ed esasperantemeditazione.


Poisorrisee mi chiese:


-Ami veramente la signora Om?


-Che io l'ami o nopoco importa! - risposi.


Fissòsu di me i suoi occhi acuti come spillie disse:


-L'ami o no?


-Eh!... abbastanza... - risposi.


-Alloracerca di conquistarla. E per mezzo suoun giorno potremoforse ottenere un battello e andarcene da questa terra maledetta.


Ricominciòa fissarmicome per indovinare il mio pensiero.


-Credi- mi chiese- di poterci riuscire?


Ladomanda mi fece sussultare. Egli sorrisecon aria soddisfatta.


Poici lasciammo.


Neigiorni che seguironodivisi il mio tempo fra le mie udienze conl'Imperatorele mie bevute con Taiwuni miei colloqui con il Gransacerdotee le ore deliziose che passavo in compagnia della signoraOm. Inoltrespinto da Hamelimparavo da Kim i mille dettaglidell'etichettale maniere della Cortela storia della Corea e dellasua religionee tutte le raffinatezze del linguaggio. Una faticainfernale...


Inrealtàero una marionetta nelle mani di Yunsanche siserviva di me per i suoi segreti fini. Egli muoveva i filisenza cheio capissi niente dell'intero intrigo. Con la signora Ominveceeroun uomo e non una marionetta. Tuttaviaquando ripenso a quei giorniho dei dubbi su questo punto... Pur cercando di soddisfare con me lasua passionecredo che essa mi guidasse secondo un suo precisodisegno. Con tutto ciòci comprendevamo. Il reciprocodesiderio era così ardenteche nessuna volontànemmeno quella di Yunsanvi si poteva opporre.


L'intrigodi palazzoche indovinavo soltanto vagamenteera diretto controCiong-Mong-ju. Ma c'erano tanti di quei filiche io mi perdevo inquesto labirinto! Anche se non me ne preoccupavo troppo.


Micontentavo di riferire a Hamel tutti i dettagli interessanti cheriuscivo a scopriree parte dei colloqui che avevo con la signoraOm. Omettendonaturalmentei più teneri che non loriguardavano affatto.


Nonentrerò nei particolari del mio amore per la signora Om. Diròsoltanto che ci amavamo perdutamentee che niente e nessuno sembravain grado di poterci dividere.


Poia poco a pocosi presentò il problema del nostro matrimonio.


Inprincipiocon semplici chiacchiere di Cortecon bisbigli a bassavoce fra eunuchi e domestiche. Ma a Palazzonon c'era chiacchierache non finisse per arrivare fino al trono.


Questavoce non era più un segreto per nessuno. Il Palazzo interoentrò in una grande agitazione. Per Ciong-Mong-jupoiunaprospettiva del genere era un vero pugno fra gli occhi.


Egliaffrontòcontro Yunsanla battaglia decisiva. Riuscìad attirare a sé metà del clero della provinciael'Imperatore sgomento vide sfilare interminabili processioni disacerdoti che protestavano.


Yunsantenne duro. L'altra metà del clero gli restava fedelecometutte le grandi città dell'Imperoquali KeijoFusanSong-doPyen- YangCenampo e Cemulpi. Yunsan e la signora Omaffrontarono l'Imperatore. Yunsan finì col vincere la partitaorganizzando per quel povero monarca nuove orgepreparate su misuraallo scopo.


Cosìarrivò un bel giorno in cui Yunsan mi disse:


-Dovete lasciarvi crescere i capelliper il nodo del matrimonio.


Datoche non era nell'ordine logico delle cose che una Principessa disangue imperiale sposasse un marinaioanche se questi affermava diessere un discendente dei Principi di Koryul'Imperatore promulgòun decreto che dichiarava che tale era la mia autentica ascendenza.Contemporaneamenteessendo stati decapitati i Governatori ribelli dicinque provincene fui nominato Governatore unico.


Leprovince che mi erano state affidateerano situate alla frontierasettentrionale della Corea. Al di làsi estendeva il paeseche oggi viene chiamato Manciuriae che allora era conosciuto sottoil nome di Paese degli Hongdaso delle "Teste Rosse".


Le"Teste Rosse"! Erano degli audaci predoni a cavalloche avolte attraversavano lo Yalu per abbattersi come cavallette sulterritorio coreano. Per esperienza personaleposso dire che eranodegli ottimi combattentie che non era facile batterli.


L'annoche seguì si rivelò molto difficile. Mentrea KeijoYunsan e la signora Om finivano con il mettere a tacere completamenteCiong- Mong-juda parte miacome governatoremi facevo un nomeglorioso. Era sempre Hamelnell'ombrache mi spingeva e dirigeva.Ma per tuttiero io l'uomo abile e valoroso che comandava e agiva.


Inmio nomeHamel insegnò alle mie truppe la tattica europea ele condusse a combattere contro le Teste Rosse. Fu una lottamagnifica ed estenuante che durò un anno. Ma alla finelafrontiera settentrionale della Corea era pacificatae sulla rivacoreana non si trovava più una sola Testa Rossaall'infuoridei morti lasciati dal nemico.


Matorniamo a Keijo e alla signora Om.


Eraveramente una gran donna! E per quattro annipotei possederla inpace. Tutta la Corea aveva ormai accettato il nostro matrimonio.Ciong-Mong-jucaduto del tutto in disgrazias'era ritirato sullacosta dell'estremo nord-est per guarire le sue ferite. Yunsancomandava da dittatore.


Lapace regnava sul paese dovetutte le notticorrevano i segnali chela proclamavano.


L'Imperatoreimmerso nelle sue orges'indeboliva sempre piùe i suoiocchi si facevano sempre più cisposi. Kim comandava le guardiedel Palazzo.


AncheMaartens non era stato dimenticato e salì di grado. Chevecchia volpe! Non sospettavo certo le sue intenzioniquando michiese d'essere nominato governatore della piccola e povera provinciadi Kyong-ju. La residenza era veramente una tombauna tomba sacraperché sulla montagna di Tabong erano seppellitein riccheurnele ossa degli antichi Re di Silla. Maartens mi disse chepreferiva essere il primo nella insignificante provincia di Kjong-juanziché l'aiutante di Adamo Strang. E io ero ben lontano dalsospettare che se egli conduceva con sé quattro marinaiciònon fosse unicamente per rompere la solitudine...


Iprimi tempi della mia alta carica furono stupendi. Governavo leprovince settentrionali servendomi di Nobili decadutiscelti per meda Yunsan. Essi svolgevano tutto il lavoroe la mia opera consistevanel fareogni tantoqualche ispezione in compagnia della signoraOm. Possedevamosulla costa meridionaleun Palazzo d'Estatestupendodove risiedevamo di preferenza.


NelfrattempoHamel si preparava ad agiree i suoi progetti siprecisavano ogni giorno di più. In mancanza delle nuove Indieche non avevamo trovatovoleva rifarsi sulla Corea. Non si confidavamolto con mema quando incominciò a manovrare perchédiventassi ammiraglio della flotta di giunche del Cio-sene ainformarsi ripetutamente sui segreti del Tesoro imperialepoteiindovinare facilmente quali erano i suoi progetti.


Quantoa menon desideravo affatto lasciare la Corease non in compagniadella signora Om. Ne parlai con lei. Mi risposestringendomi fra lebracciache ero io il suo ree che mi avrebbe seguito dovunquefossi andato.




18.QUARANT'ANNI DI VAGABONDAGGIO


Yunsanaveva commesso un grave errorelasciando in vita Ciong- Mong-ju. Unerrore! In realtànon aveva potuto agire altrimenti.


Cadutoin disgrazia e bandito dalla CorteCiong-Mong-jumentre sembravaessersi ritirato del tutto a covare il suo livore sulla costanord-estaveva proseguito nei suoi intrighiconservando intatta lasua popolarità tra il clero della provincia. Dei sacerdotibuddisti gli servivano come propagandisti. Continuavano a percorrereil paeseguadagnando alla sua causa tutti i funzionari imperialiottenendo da loro un giuramento d'obbedienza in suo favore. Yunsannon ignorava certo quello che si ordiva nell'ombra; ma non osavaintervenire.


Nellostesso Palazzo imperialeil partito di Ciong-Mong-ju cresceva dinumeromolto più di quanto Yunsan potesse immaginare.


Lestesse guardie del Palazzoi famosi "Cacciatori di tigri"comandati da Kimfurono guadagnati alla sua causa.


Quandola tempesta si scatenòfu veramente un uraganoin tutti isensi. E fu Maartens che fece scoppiare la congiura prima dellascadenza stabilita da Ciong-Mong-jufornendogli una magnificaoccasione per agire.


E'risaputo che i Coreani hanno per gli antenati un culto fanatico;ebbenequel vecchio piratain compagnia dei suoi quattro marinainella provincia sperduta di Kyong-jucommise la follia di profanarele tombe degli antichi Re di Sillasepolti da secolinei loroferetri d'oro!


L'operazionevenne compiuta durante la notte eprima dell'albai cinquecongiurati si mettevano già in strada per guadagnare la costa.


Ilgiorno seguenteperòsi abbatté sulla zona un fittonebbioneed essi si smarrirono. Cosìnon poteronoraggiungere la giunca che li aspettavae che Maartens avevanoleggiato per l'occasione.


Unfunzionario localeun certo Yi-Sun-Sinfedelissimo a Ciong-Mong-jusi lanciò al loro inseguimento con dei soldati.Furono circondati e fatti prigionieri. Soltanto Ermanno Tromp riuscìa fuggiree in seguito poté raccontarmi i particolari delfatto.


Pertutta quella nottequantunque la notizia si fosse giàpropagata attraverso le province del nordle quali si sollevarono inmassa contro i funzionari imperialiKeijo e la Corte dormironotranquillamentein una completa ignoranza degli avvenimenti. Perordine di Ciong-Mong-jui fuochi di pace continuarono a brillare sututte le montagne della Corea. Così accadde anche nelle nottiseguentimentre i messaggeri di Ciong galoppavano ventre a terraper portare ovunque i suoi ordini sovrani.


Mentreuscivo da Keijoverso il crepuscoloper un giro a cavallo incampagnavidi abbattersialla porta della cittàlacavalcatura sfinita d'uno di questi messaggeri. Proseguii per la miastradasenza preoccuparmi di sapere chi fosse quell'uomoe senzadubitare che egli portasse con sé il mio destino.


Ilmessaggio che recava fece scoppiare la rivoluzione al Palazzoimperiale. Quando rientraia mezzanottetutto era giàterminato.


Findalle prime ore della nottei congiurati s'erano impadronitidell'Imperatore. I suoi ministri vennero uccisi. Anche i "Cacciatoridi tigri" s'erano uniti agli insorti! Yunsan e Hamel furonofatti prigionierie picchiati ferocemente a piattonate di sciabola.Gli altri otto marinai riuscirono a fuggire dal Palazzotrascinandocon loro la signora Om. Ciò fu possibile grazie a Kim checonla spada in pugnoaprì loro un varco. Kim cadde nella lotta.Madisgraziatamente per luinon morì per le feriteriportate.


Findall'indomaniCiong-Mong-ju tornò onnipotente. L'Imperatoreaccettò tutte le sue condizionie Ciong-Mong-ju fu acclamatodappertutto come un vincitore.


Maartense i tre marinai catturati con lui furono sepoltifino al collonella Grande Piazzadavanti al Palazzo imperialee lasciati morired'inedia davanti a piatti succulenti che non potevano toccare. Ilvecchio Maartens morì per ultimoe rese l'anima soltanto dopoquindici giorni.


Sapientitorturatori spezzarono le ossa di Kimuna ad una; anch'egli fu moltolento a morire.


Hamelfu battuto a mortefra i clamori gioiosi della plebaglia di Keijo.


IlGran sacerdote Yunsan morì coraggiosamentee la sua fine fudegna di lui. Stava giocando a scacchi con il custode della prigionequando un messo di Ciong-Mong-ju gli presentò una coppa diveleno. Yunsan lo pregò di aspettare un momento.


-Avete dei modi poco cortesi- gli disse. - Non si disturba un uomonel bel mezzo d'una partita a scacchi. Berrò appena avròfinito.


Ilmessaggero attese; Yunsan finì e vinse la partita; poi vuotòla coppa.


Sume e la signora Omla vendetta di Ciong si abbattéinesorabileanche se diversa... Non ci uccise. Non ci fece nemmenoimprigionare. Mamentre la signora Om era dichiarata decaduta dalsuo grado e privata di tutti i suoi beniun decreto imperialeinformava il popolo che io appartenevo alla Casa dei Koryue diconseguenza nessuno doveva uccidermi. Anche gli otto marinaisopravvissutiessendo miei schiavinon dovevano essere molestati.Come mee come la signora Omsarebbero rimastiper tutta la vitadei mendicanti...


Ecosì fuper quarant'anni; perché l'odio diCiong-Mong-ju era inestinguibilee il destino volle che egli vivesselunghi e felici annimentre noi trascinavamo la nostra miserabileesistenza.


Tuttigli sforzi che feci per sfuggire alla mendicità furonoannullati dall'odio di Ciong-Mong-ju. A Song-ho feci il facchinousando come abitazione una misera capanna. Ciong-Mong-ju ci scoprì.Fui battuto e ributtato sulla strada. Fu un inverno orribileincredibilmente rigidodurante il quale il povero Vandervoot - "Checos'altro ancora?" - morì assiderato nelle vie di Keijo.


APyeng-yangtrovai lavoro come portatore d'acqua. Esercitai questomestiere fino a quando Ciong-Mong-ju mi scoprì. Fui nuovamentebattutoespulso da Pyeng-yange ributtato sulla strada.


Esempre così. Nella città di Wijufeci il macellaio dicani. E fui scoperto.


Poidiventai apprendista tintore a Pyonhancercatore d'oro a Kang- Wunfabbricante di corde a Ciksan. Intrecciai cappelli di paglia a Padokfalciai il fieno a Wang-hai. A Masempocurvai la schiena nellerisaie.


Manon trovai mai un posto dove la lunga mano di Ciong-Mong-ju non miraggiungessee non tornasse a ridurmi un mendicante.


Perintere stagionila signora Om e iocercammo ovunque e riuscimmo atrovare un'unica e preziosa radice di "ginseng"quellapianta selvatica di montagna tanto rinomata tra i medicicol prezzodella cui vendita avremmo avuto di che vivere un anno intero. Maproprio nel momento in cui stavo per trattarne la venditafuiarrestato. La radice fu confiscatae per di più fui battuto emesso alla gogna per un tempo più lungo del solito.


Imembri della Corporazione dei merciai ambulanti informavano sempreCiong-Mong-ju sui miei movimenti e sulle mie azioniavvertendo aogni mia mossa i governatori e i loro agenti.


Qualunquecosa si facesseera impossibile fuggiresia attraverso le frontieresettentrionalisia imbarcandoci per mare.


Unasola voltaprima di quella che fu poi l'ultimaincontrai Ciong-Mong-ju. Accadde in una notte d'invernomentre soffiava una violentatempestasulle montagne di Kong-wu. Un piccolo gruzzolomesso daparte con grandi sacrificici aveva permesso di affittare unricovero per la nottenell'angolo più lontano e piùsudicio dell'unica grande sala di un albergo. Stavamo per consumareil nostro pastocomposto di fave e d'aglio selvaticoannegati inuna orribile brodagliacon un minuscolo pezzo di carne di buecosìcoriaceache l'animale da cui proveniva doveva essere mortocertamente di vecchiaia. In quel momentoudimmo tintinnare fuori lecampanelle di bronzo e risuonare gli zoccoli di alcuni cavalli.


Laporta si spalancòe comparve Ciong-Mong-jupersonificazionevivente del benesseredella prosperità e della potenzascuotendo la neve dai suoi magnifici calzari.


Improvvisamentei suoi occhi si fermarono- credo per puro casoperchél'albergo era pieno di gente- sopra di noi.


-Sbarazzatemi di quei vermi làin quell'angolo... - ordinò.


Allorai suoi uomini ci colpirono con le loro frustee ci cacciarono fuoriin piena tempesta.


Nonesisteo Coreauna sola delle tue stradeun sentiero di montagnaun paese qualsiasiche non m'abbia conosciuto! Per quarant'anni hocalpestato il tuo suolo e ho conosciuto la famee la signora Om hadiviso con me la mia miseria. Spinti dalla disperazioneche cosa mainon abbiamo mangiato? Sìho disputato le ossa ai caniraccolto dei chicchi di riso caduti sulla stradarubato ai cavallila loro zuppa di fave.


Perquarant'anniconoscemmo gli angoli più luridi della Coreagli insulti e le percosse della plebaglia...


Piùd'una voltai "coolies" che ingiuriavano a sangue lasignora Omconobbero la violenza del mio pugnola collera della miamano che li schiaffeggiava. Talvoltanelle montagnein villaggisperdutiabbandonati da Dioincontravamo delle vecchie che quandovedevano passare al mio fianco la signora Omla Principessadecadutasospiravanocrollando il capomentre i loro occhi sivelavano di lacrime. Altre donnegiovanisi muovevano a pietànel vedere le mie larghe spallei miei lunghi capelli chiaridell'uomo che un tempo era stato il Principe di Koryu e ilgovernatore di intere province. Frotte di monelli ci seguivano lungola strada. Essi non avevano nessuna pietà e ci bersagliavanod'insolenze e di parole oscene.


Oltrelo Yalusi stendeva una pianura deserta che dal Mare del Giappone alMar Giallo costituiva la frontiera settentrionale della Corea. Anchese desertanon era una regione anticamente sterilema era stataresa tale dalla politica d'isolamento condotta dalla Corea. Su questapianuracittàvillaggitutto era stato distrutto. Era laterra di nessunoinfestata da bestie ferocie percorsa soltanto dai"Cacciatori di tigri" a cavalloche avevano il compito diuccidere tutti gli esseri umani che v'incontravano. Non c'erapertanto alcuna speranza di fuggire in questa direzione.


Dopoaver vagabondato a lungocome mei miei otto compagni portarono dipreferenza i loro passi verso la costa suddove il clima era piùdolce. Inoltre era la regione più vicina al Giapponele cuicoste erano visibili al di là dello stretto che le separava.


Lasola speranza di salvezza proveniva da quella parte. Forse qualchenave europea vi sarebbe apparsaun giorno. E vedo ancorain piedisulle coste rocciose di Fusanquegli otto vecchi che sospiravano lapatria perduta.


Glianni passavano. La signora Om e iocome gli altrieravamo ormaivecchi. Anche noi ci recavamo spesso a Fusandove ci si trovavatutti insieme.


Poicon il passare degli anniqualcuno mancava all'abituale raduno.


GiovanniAmden fu il primo a lasciarci. Giacomo Brinker ci portò lanotizia. Brinker fu l'ultimo degli otto. Aveva quasi novant'anniquando morì.


Miricordocome se fosse ieridi questi due amici che al termine ormaidella loro vitadeboli e accasciatisi riscaldavano al solesullerive di Fusancon la loro ciotola di mendicanti accanto. Parlavanocon le loro voci acuteche somigliavano a quelle dei bambiniraccontandosi mille cose del tempo trascorso.


Trompripeteva continuamente come Maartens e i suoi quattro marinaifracui si trovava anch'egliavevano violato le tombe dei Resullamontagna di Tabongcome avevano trovato ogni salma imbalsamata nelsuo involucro d'orofra due vergini imbalsamate come loro; comeinfinequelle secolari mummieriaffiorate alla lucesidissolvevano subito in polverementre Maartens e i suoi marinaiimprecavano e sudavanonello spezzare i feretri.


Erastato veramente un colpo magnifico. Maartens avrebbe potuto fuggirecon il suo bottinose non fosse stato per un nebbione che lo portòa smarrirsi. Da un simile avvenimento nacque una canzone che udiicantare in Coreafino all'ultimo giorno della mia vita.


Diceva:"Yanggukeni ciajin anga


Wheanpongtora deunda..." e si poteva tradurre così: "Sullacima del Whean c'è una densa nebbiaper gli uominidell'Occidente..." Sìper quarant'anni - quarant'anni dimiseria e di stenti - fui mendicante in terra di Corea. Fra tutti imiei compagni di dolorefui l'ultimo a sopravvivere. La signora Omaveva la mia stessa resistenzae invecchiammo insieme.


Seil mio viso era diventato rugosose i miei capelli biondi eranodiventati bianchi e le mie spalle s'erano curvatesopravvivevaancoranei miei muscoliuna buona parte dell'antica forza. E fuproprio per questo che potei compiere ciò che adesso viracconterò.


Inuna mattina di primaveraero seduto con la signora Om sugli scoglidi Fusan. Ci scaldavamo al solea pochi passi dalla stradaprincipale. Eravamo stracciatisporchimiserabili. Eppure ridevamodi cuoreper una frase scherzosa della signora Om.


Aun trattoun'ombra ci coprì. Era la lettiga di Ciong-Mong-juscortata da servi e da cavalieri.


Eglipoteva avere allora ottant'anni. Quel mattinofece un segno con lamano quasi paralizzatae la lettiga si fermò. Volevacontemplare ancora una volta coloro che da tanto tempo perseguitava.


Lasignora Om mi mormorò all'orecchio:


-Adessoo mio Re...


Poisi voltò per implorare un'elemosina da Ciong-Mong-jufingendodi non riconoscerlo.


Iosapevo quello che le passava nella mente. Questo pensiero era statoper entrambicome un'idea fissadurante quarant'anni! E l'ora eragiuntafinalmente.


Finsianch'io di non riconoscere il mio nemico. Strisciai nella polvereverso la lettigachiedendo lamentosamente la grazia di un'elemosina.


Iservitori si preparavano già a respingermi. La voce chiocciadel padrone li trattenne. Lo vidi sollevarsi sopra un gomitomentrecon l'altra mano allargava le cortine della lettiga. Il suo voltoincartapecorito s'illuminò d'un lampo crudelementre cicovava con lo sguardo.


Ela collera rossa mi sommerse. Tentai invano di lottare contro diessa; in questa lotta con me stessofui colto da un tremito in tuttoil mio corpo.


Tesiverso Ciong la mia ciotola di ramegemendo pietosamente.


Primadi balzarecalcolai la distanza e le mie forze.


Fucome un colpo di fiamma rossa. Vi fu un gran rumore di cortine che silaceravanopoi degli urli e delle esclamazionidei servitoriatterritimentre le mie mani si stringevano intorno alla gola diCiong-Mong-ju. La lettiga si rovesciò. Ma le mie dita nonlasciavano la presa.


Benprestoi pesanti manichi delle fruste dei cavalieri s'abbatteronosulla mia testa.


Unavertigine mi oscurò la mente. Conservavo tuttavia abbastanzacoscienza per sentire che le mie vecchie dita erano solidamenteaffondate in quella magra golache cercavo da tanto tempo...


Ciong-Mong-junon poteva più sfuggirmi; capii che era morto prima che lanotte scendesse definitivamente su di mecome una sorsata d'eteresugli scogli di Fusanin faccia al Mar Giallo.




19.MI CHIAMAVO RAGNAR LODBROG


Illettore non ha certamente dimenticato l'inizio di questo racconto.Quand'ero bambinoe mi mostravano delle fotografie della Terrasantariconoscevo i luoghi che esse raffiguravanoe indicavo i mutamentiche avevano subito.


Siricorderà anche che descrivendo la scena della guarigione deilebbrosioperata da Gesùe di cui ero stato testimoneavevodichiarato al missionario che ero un uomo grande e grosso a cavallocon una spada al fianco...


Questoepisodio della mia prima infanzia non era alloraper meche unavaga luce avvolta di vapori. Il piccolo Darrell Standingvenendo almondonon aveva completamente scordato il passato. Ma questi ricordid'altri tempi e d'altri luoghi oscillavano nella mia coscienzainfantilee la loro tenue luce non aveva tardato a svanire. Per mecome per tutti i bambinile ombre della prigione del mio nuovo corposi serravano sopra le mie esistenze anteriori.


Ogniuomo possiedecome meun lungo passato. Ma pochissimi hanno avutoin sorte di conoscere la segregazione della cella e l'esperienzadistruttiva e purificante a un tempodella camicia di forza. Questafu la mia fortuna. Ecco ciò che mi permise di rivivere alcunedelle mie esistenze anteriorie fra queste quella del cavalierecontemporaneo di Cristo.


Queiconfusi ricordi hanno preso corpo una volta nella camicia di forzanitidi e precisi...


Michiamavo allora Ragnar Lodbrog. Ero un autentico colosso e superavodi mezza testa i più aitanti Romani della Legione. Di tutte lemie reincarnazioniquesta è forse la più avventurosa ela più strana.


RagnarLodbrog non aveva conosciuto sua madre. M'hanno detto poi che eronato in mezzo a una tempestanei mari del Nord Europasu una navedalla prora snella e tagliente. Nato da una donna strappata alla suacasa dopo una razzia sulla costa.


Dimia madre non ho mai saputo il nome. Il vecchio Lingaard m'ha dettosoltanto che era mortadurante la tempestadopo avermi messo almondoe che era d'origine danese.


Ilvecchio Lingaardtroppo vecchio per remaresvolgeva a bordosvariati incarichifra cui quello di chirurgo eoccorrendodilevatrice. Egli dunque mi mise al mondo fra gli elementi scatenatiche si abbattevano sopra mia madresopra di lui e sopra di me.


Hola piena coscienza del mio esseredal momento in cui i miei occhi siaprirono sul mondo.


Avevosoltanto poche orequando Tostig Lodbrog mi osservò. TostigLodbrog era il capitano della nave sulla quale ci trovavamoe dellealtre sette che la seguivanoe che avevan preso parteall'incursione.


TostigLodbrog era soprannominato "Muspell""Fuoco ardente"perché in lui ardeva sempre lo spirito infuocato dellacollera.


Eracoraggioso e crudelee non sapeva cosa fossero né pietàné misericordia.


Fuproprio a luisul ponte oscillanteche mi portò il vecchioLingaard. Ero nudoavvolto in una pelle di lupotutta impregnata disale marino. Nato prematuramenteero piuttosto gracile.


-Oh! un nano! - esclamò Tostig.


Ilfreddo era acutoma questo non impedì a Tostig Lodbrog ditogliermitutto nudofuori dalla pelle di lupo. Poimi tennesospeso per ariaesposto ai morsi del vento.


-Oh! - esclamò- Un pesciolino! un piccolo granchio!


Emi fece dondolarecon la testa in bassotenendomi fra il pollice el'indice.


Dopodi chegli venne in mente un'idea decisamente originale.


-Il piccolo ha sete! - disse. - Voglio fargliene gustare una sorsata!


Miportò sopra un vaso d'idromele e mi lasciò cadere.


Fortunatamenteper meLingaard si precipitò in mio aiutomi tiròfuori dal vasopoi mi riavvolse subito nella pelle di lupo.


TostigLodbrog se la prese. Ci spinse con forza e ci mandò a rotolarecontro il parapetto. I suoi canisimili a orsisi precipitarono sudi noi.


-Oh! oh! - urlava Tostig.


Nonsenza faticail mio protettore riuscì a strapparmi aimolossiai quali abbandonò la pelle di lupo.


TostigLodbrog s'era rimesso a bere. A poco a poco si calmavasenza che ilvecchio intervenisseper chiedergli una pietà che sapevaimpossibile.


Tostigriprese:


-Le donne danesi! Mettono al mondo dei nanie non degli uomini!


Checosa potremo farne di questo aborto? A ogni modoLingaardloalleverai; una volta cresciuto mi servirà da coppiere.


Efu il vecchio Lingaard che si prese cura di meriempiendo la miainfanzia. Seguivo il destino di Tostig Lodbrogsia a terracombattendosia sulle navi sbattute nelle tempeste. Crebbirapidamentemalgrado le profezie di Tostig.


Cosìiniziai a compiere le mie mansioni di coppiere. E mi vedo ancoranella grande sala di Brunanbuhrmentre tenevo in mano un cranioumano pieno di vino caldo profumatoche presentavo poi a Tostigseduto a capo tavola.


TostigLodbrogcompletamente ubriacosbraitava; e tutti i commensalifacevano lo stesso. Si sarebbe detto un manicomio.


Vivevotra uomini ferocialtrettanto spietati nei loro giochi come nei lorocombattimenti; non conoscendone altritrovavo naturale la lorocompagnia.


Venneil momento in cui provai anch'io la mia collerala collera rossa.Avevo soltanto otto anni quando mostrai per la prima volta i denti.Fu durante una grande bevutaa Brunanbuhra cui Lodbrog avevainvitato il capo danese Agardsuo alleato. Tra i due uomini nontardò a nascere una discussione sul valore dei combattentidelle due nazioni. ImprovvisamenteTostig Lodbroga cui mi trovavovicinocon il cranio ricolmoincominciò a insultare le donnedanesi.


Alloraricordandomi di mia madrevidi rosso. Sollevai il cranio e assestaiun violento colpo sulla testa di Tostig Lodbrogche fu scottato emezzo accecato dal vino caldo.


Mentrebarcollavaannaspando per l'aria con le bracciaper trovarmi eschiacciarmiestrassi la piccola daga che portavo al fianco. Locolpii a tre ripreseal ventrealla coscia ed alle natichenonessendo abbastanza alto per colpirlo più in su.


MaTostig Lodbrog mi era addosso...


Enella sala di Brunanbuhrsi vide il piccolo scudiero di razza daneseingaggiare un combattimento in piena regola contro l'enorme TostigLodbrogche non riusciva a raggiungerlo.


Finalmenteriuscì ad afferrarmilanciandomi dall'altro lato dellatavola.


-Buttatelo fuori! Datelo in pasto ai cani! - urlò.


MaAgard si intromisee mi chiese per sécome segno d'amicizia.


Quandogiunse il disgelo e le navi poterono uscire dai fiordipartii sullanave di Agardche mi nominò suo coppiere e mi mise nomeRagnar Lodbrog.


Pertre annivissi con il mio nuovo padroneseguendolo ovunquesia checacciasse il lupo nelle paludisia che bevesse nella grande sala delsuo palazzoin cui Elgivala sua giovane sposaveniva spesso asedersicircondata dalle sue ancelle.


Loaccompagnai in una delle sue spedizioniverso sude bordeggiammoquelle che oggi si chiamano le coste di Francia.


Abbordammoe demmo battaglia. Agard fu ferito a morte. Lo riconducemmo nel suopaesedove spirò. Fu alzato un gran rogovicino al qualestava Elgivanel suo corsetto tessuto d'orocantando. Essa quindisalì sul rogoe con lei tutti i servitori del padronetuttii suoi schiavi.


Maioil coppiere Ragnar Lodbrognon bruciai. Mentre le fiamme delrogo tingevano di rosso il cielomentre gli schiavi urlavanodisperatamentespezzai i miei legami. Poicon una corsa veloceraggiunsi rapidamente le paludiportando ancora il collare d'orodella mia schiavitùe lottando in velocità con i canilanciati alle mie calcagna.


Nellepaluditrovai altri uomini che vivevano allo stato selvaggiomaliberi; schiavi fuggiti e fuori leggeai quali si dava la cacciacome a dei lupi.


Vissicon loro per tre annisenza tetto né fuocoallenandomi alleprivazioni e al freddo. Poidurante una scorreriafui catturatodopo un inseguimento di due giorni.


Fuivendutoin cambio di due cani lupial sassone Edwy; poi passainelle mani di Athelun capo del paese degli Angli.


Divenniuno schiavo combattentefinché non fui catturato incombattimento e venduto agli Unniche mi trasformarono in unguardiano di porci. Riuscii a fuggire verso le grandi foreste a suddella Germaniadove fui raccolto e liberato dai Teutoni.


Eun giornoscendendo sempre più verso il sudincontrai iRomanile cui legioni ci ricacciarono verso gli Unni. Durante unamischiafui fatto prigioniero e condotto a Roma.


Sarebbetroppo lungo raccontare come diventai un uomo liberocittadino esoldato romanoe in che modoquando raggiunsi l'età ditrent'anniraggiunsi Alessandria e poi Gerusalemme.


Sevi ho raccontato la mia giovinezzaè perché sappiateesattamente chi era l'uomo che passava a cavallo sotto la porta diGiaffa; un uomo cheper la sua alta staturafaceva voltare tutte leteste.




20.COM'E' MORTO GESU'


Avevanoben ragione di volgere la testa al mio passaggio. Gli Ebreiminutid'ossa e di muscolinon avevano mai visto degli uomini biondi eaitanti come me.


Quandone incontravo qualcunosi scansava al mio passaggiopoi si fermavacon gli occhi spalancatiper vedere quella specie d'essereselvaggiogiunto dal Nord o da chissà dove.


Quasitutti i soldati di cui disponeva Ponzio Pilato erano ausiliari. C'erasoltanto un nucleo di Romania piediche faceva la guardia alpalazzo del Proconsolee venti cavalieri dei quali io ero ilcapitano.


AllaCorte d'Erodec'era una donna molto amica della sposa di Pilato. Iola conobbi da luila sera stessa del mio arrivo. La chiameremoMiriamperché l'ho amata sotto questo nome. Possedeva quelfascino specialeche è molto più della bellezzae cheè impossibile descrivere.


C'erain lei qualcosa che sfiorava il sublime. Il suo corpo era superbo.Tuttoin leiera aristocratico; la casta alla quale appartenevaisuoi modi e il suo contegno. Il suo viso di un ovale perfetto avevauna tinta ambratala sua opulenta capigliatura era neraconriflessi azzurrinie i suoi occhi sembravano due pozzi profondipieni di mistero.


Findal primo incontro comprendemmo subitoentrambiche eravamo fattiuno per l'altro. I nostri sguardi s'incrociaronoe non siabbandonarono piùfino al momento in cui la sposa di Pilatouna donna magra e rugosaci separòcon una risata nervosa.


ConoscevoPilato da molto tempoprima che egli fosse mandato in Giudeainquel vulcano che era Gerusalemme.


Laconversazione fra noi si protrasse fino a tarda nottein presenzadelle due donne. Pilato m'intrattenne sulla situazione politica delpaeseche lo preoccupava moltissimo.


Apparivainquietoe desideroso di trovare un confidente delle suepreoccupazionie anche di avere un consiglio. Pilato era il tipo diRomano duro e calmocapace di mantenere con un pugno di ferrol'autorità di Roma. Ma quando lo si spingeva agli estremialla sua calma abituale si sostituiva rapidamente la collera.


Quellanotteera visibilmente preoccupato. L'atteggiamento dellapopolazione gli urtava profondamente i nervi. Secondo luiera genteturbolenta e impulsiva quanto maie inoltre sottilissima nell'animo.I Romani trattavano le cose con la massima energiamirando dirittiallo scopo. Gli Ebreiinvecepiegavano apparentemente la schiena equando attaccavanolo facevano alle spalleavvicinandosi di fianco.Da tutto ciòl'irritazione di Pilato contro di loro.


Essilavoravano sott'acqua per diminuire la sua autorità ediriflessoquella di Roma. Non avevano che uno scopo: fare di luiprendendo a pretesto i loro dissensi religiosiun capro espiatorio.


Romanon si occupava mai delle lotte religiose dei popoli conquistati. Magli ebreiper mille vie tortuose e diverseriuscivano a dare unaspetto politico ad avvenimenti completamente estranei alla politica.


Esponendola situazionecon le sollevazioni e le sommosse che avvenivano peristigazione delle diverse sette religiosela voce di Pilato assunseun tono eccitatovelato d'ira.


-Lodbrog- mi disse- malgrado i miei sforzila Giudea non èche un vespaio in continua agitazione. Preferirei mille voltegovernare gli Scitio i Bretoni... In questo momentom'inquietaspecialmente un uomo: un pescatore di pesci che è diventatopescatore d'animee che va ovunquepredicando e compiendo miracoli.Chi mi assicura che domani non trascinerà dietro di sétutto questo popoloe non provocherà sopra di me ilmalcontento di Roma?


Erala prima volta che sentivo nominare Gesùe questaconversazione mi tornò in mentequando questa piccola nuvolache offuscava allora il cielo si tramutò in tempesta.


-Secondo gli ultimi rapporti- proseguì Pilato- Gesùnon si occupa di politica. Ma temo che Caifa e Hannan possanotrasformarlo in una spina aguzzadestinata a pungere Roma e arovinare la mia reputazione.


-Caifa- dissi- è il Gran sacerdote a quanto ne so. MaHannanchi è?


-Hannansuocero di Caifaè il vero Gran sacerdoteuna speciedi vecchio pontefice da cui dipendono tutte le decisioni importanti.E' una volpe matricolatadi cui Caifa non è che lostrumento...


Pilatonon credeva né a Dio né al Diavolo e tanto menoall'immortalità dell'anima. Per luila morte non era che buioe sonno eterno. Da questo si capisce come tutte quelle discussionireligioseda cui era circondato e oppresso a Gerusalemmedovesseroinfastidirlo. Durante un viaggio in Idumeami fu dato come vallettouna specie di cretino che non riuscì mai a imparare a sellarecome si deve un cavallo. Invecegli riusciva benissimo discuteredalla mattina alla sera sull'insegnamento dei rabbini di tutta laGiudea. In materia religiosaera inoltre un sottilissimo sofista.


Matorniamo a Miriam. Dalla moglie di Pilatovenni a sapere che essaapparteneva a un'antica stirpe regale. Sua sorella era la moglie diErode FilippoTetrarca dei Gauloniti e di Batanea e fratello diErode AntipaTetrarca di Galilea. Questi due erano figli di Erode ilGrandeche aveva ucciso sua moglie e tre altri suoi figliericostruitopoco prima di morireil Tempio di Gerusalemme. Da ciòproveniva la sua popolarità in tutta la Giudea.


Rividiparecchie volte Miriamche non s'era sposatanon avendo maiincontrato un marito degno di lei. Era probabilmente un effettodell'ambientedell'aria che respiravamomaappena ci si trovavainsiemecominciavamo a discutere di religione.


Furonodiscussioni lunghe e appassionatein cui la mia anima nordica siscontrava con la suadolce e poetica. Ma non per questo diminuiva lastraordinaria attrattiva che ci legava ogni giorno di piùreciprocamente...


Purtroppole missioni che dovevo compiere per Pilato spesso mi allontanavanopiù di quanto non desiderassida Gerusalemme e da Miriam.


Mirecai in Idumeae in Siriae ovunquesulla mia stradaincontravodegli Ebrei che discutevano animatamente di religione.


Erala caratteristica della loro razza. Invece di lasciare ai preticomeaccade altrovele discussioni teologicheogni ebreo si trasformavain prete enon appena trovava un ascoltatore (il che non eradifficile)cominciava a predicare. Per questoabbandonavano le lorooccupazioniper errare attraverso il paese come dei mendicantiintenti soltanto a discutere e litigare coi rabbini e i talmudistinelle sinagoghe e sotto i portici dei templi.


Fuin Galilea che per la prima volta trovai una traccia di Gesù.A quanto si dicevaera un falegname diventato poi pescatoreche isuoi compagni di pescaabbandonando lavoro e famiglieavevanoseguito nella sua vita errabonda.


Alcunilo ritenevano un autentico profetaaltri lo credevano pazzo. Queldeficiente del mio vallettoche si vantava di conoscere a fondo ilTalmudrise ironicamentequando passò Gesùtrattandolo da "Re dei Mendicanti"perché- mispiegava - secondo la dottrina che predicava il Galileoil Cielo erariservato soltanto ai poverimentre i ricchi e i potenti sarebberoarsi eternamente nelle fiamme.


Miaccorsi che era nel costume del paesedi trattare facilmente comepazzo il proprio simile. Secondo mepazzi lo erano un po' tutti.C'era come un'epidemia di profetiche scacciavano i demoni consistemi magiciguarivano gli infermi con l'imposizione delle maniassorbivano impunemente dei veleni mortalie maneggiavano con lamassima indifferenza i serpenti più velenosi.


-Per Odino! - dicevo spesso a Pilato. - Un po' del nostro gelo delNord farebbe meraviglie! Il climaquiè troppo clemente.


Invecedi abbattere degli alberi per costruirsi dei tettiessi costruisconodelle dottrine! Se riesco a usciresano di menteda questo paese dipazzifarò a pezzi il primo chiacchierone che verrà aparlarmi del mio destino dopo la morte.


Intantol'agitazione aumentava. I Proconsoli e i Governatori inviati da Romaerano odiatie con loro le aquile romanegli stessi scudi votivisospesi davanti all'abitazione di Pilatoin cui il popolo vedeva unoffesa alle proprie credenze.


Ilprelevamento del "censo" era considerato come un supremoabominio; eppure il censo era alla base dell'imposta romana. Ma gliEbrei dichiaravano che il censo era contrario alla legge divinaallaloro Legge...


Quandorientrai a Gerusalemme l'agitazione era al colmo. La folla correvaper le stradegridandodeclamando. Alcuni annunciavano che la finedel mondo era prossima. Altri dichiaravano imminente soltanto larovina del Tempio. I rivoluzionari proclamavano la fine delladominazione romana e il prossimo avvento d'un nuovo Regno di Giudea.


Pilatoera a sua volta inquieto e irritato.


-Se Roma- mi diceva- mi mandasse soltanto una mezza legioneprenderei Gerusalemme alla golae la farei tacere!


Fuialloggiato nel suo stesso Palazzo. Con mia grande gioia vi ritrovaiMiriam. Ma la situazione politica era troppo grave perchéavessimo molto tempo da dedicare all'amore.


Lacittà rumoreggiava. La grande festa di Pasqua era vicinaemigliaia di persone affluivano dalla campagna per celebrarla aGerusalemmesecondo la tradizione.


Chiesia Pilato se tutta quell'effervescenza era causata dagli insegnamentidi quel Pescatoreo dall'odio degli Ebrei contro Roma.


Mirispose:


-Un decimoforse menodi questo rumore è dovuto a Gesù.Ma Caifa e Hannan ne sono la causa principale. Sono loro chesobillano il popolo. A che scopo? Non lo so proprio.


Miriamlo interruppe.


-E' certo- disse- che in questa agitazione Caifa e Hannan hanno laloro parte di responsabilità. Ma voiPonzio Pilatosiete unRomanoe non potete vedere la situazione nella sua vera luce. Sefoste Ebreocomprendereste che il Gran sacerdotei FariseiErodeAntipaErode Filippoe io stessalottiamo per la nostra esistenza.Quel pescatore può essere un pazzo; ma la sua pazzia non mancadi fascino. Egli predica la dottrina dei poveri.


Minacciala nostra Legge. E la nostra Legge è la nostra stessa vitapreziosa come l'aria che respiriamo.


Lamoglie di Pilato ascoltava avidamentecome rapita da un'estasi.


-In verità- disse- è strano che un semplicepescatore abbia una simile potenza. Da dove proviene il suo potere?Sarei curiosa di conoscere quest'uomoe di vederlo con i miei occhi.


Lafronte di Pilato si aggrondò maggiormentementre Miriamesclamava con un riso sprezzante e gelido:


-Se ci tenete tanto a vederloandate a scovarlo nelle baracche dellacittà. Lo troverete ubriacoin compagnia di meretrici. AGerusalemmenon si ha ricordo di un profeta così strano!


Protestai:


-Bere del vino nelle catapecchie non è un delitto. Io stessol'ho fatto migliaia di voltein passato. Non è un motivosufficiente per condannare un uomo...


-E' un elemento pericoloso! - insisté Miriam. - E' unrivoluzionario che distruggerà ciò che rimane delloStato ebraicoe annienterà il Tempio. Bisogna sbarrargli lastrada.


Invischiatodalla disputapresi le parti di Gesù e dichiarai:


-Da quello che ho sentito direquest'uomo è un sempliceha ilcuore buonoe non ha mai fatto del male.


Eraccontai la guarigione dei dieci lebbrosia cui ero stato presentein Samariasulla strada di Gerico.


-E credete a questo miracolo? - mi chiese Pilatomentre dall'esternogiungevano i clamori della follatrattenuta dai nostri soldati. -Voi credete proprioLodbrogche in un istante le piaghe purulentidi quegli infelici siano scomparse?


-Li ho visti guariti- risposi. - Me ne sono voluto assicurare con imiei occhi.


-Ma li avevate visti malati?


-No. Ma tutti l'hanno affermatoe loro fra i primi.


Pilatoebbe un sorriso increduloimitato subito da Miriam. La moglie diPilatoinvecesi suggestionava sempre più. Respirava appenacon le pupille dilatate..


-State in guardiaPilato! - concluse Miriam. - Egli scalzeràla vostra autoritàcome quella di Caifa e di Hannan. In nomedi Tiberio e di Romaavete un compito da eseguiree non potetesottrarvi.


-E quale sarebbe? - chiese Pilato.


-Giustiziare quel pescatore.


Pilatoalzò le spalle e la conversazione finì.


Dalgiorno dopogli avvenimenti precipitarono.


Amezzogiornoquando uscii a cavallo con una mezza dozzina dei mieiuominile strade erano così formicolanti di follache facevofatica ad aprirmi un varco. Notai tra la gente un'ostilitàmaggiore del solito; se gli sguardi avessero potuto uccideresareisubito morto.


IncontraiMiriamil giorno doponel Palazzo di Pilato. Mi parve come immersain un sogno. Il suo sguardoperduto in immagini lontanemi ricordòquello dei lebbrosi sulla strada di Gerico.


-L'ho vistoLodbrog- mormorò infine. - L'ho visto.


-Speriamo- risposi ridendo- che vedendoviEgli non abbia sentitointenerirsi eccessivamente il cuore...


Nonprestò la minima attenzione al mio scherzo. I suoi occhirimasero pieni della visione che li abbagliavaed essa fece perandarsene. La trattenni.


-E' Lui- le chiesi- che ha creato nei vostri occhi questa lucesingolare?


-Sìè Lui! - mi rispose. - Lui che ha risuscitato imorti. E' veramente il Principe della Luce e il Figlio di Dio. L'hovistoe adesso non ne dubito più. Il Figlio di Dio... capiteLodbrog; il Figlio di Dio!


Lacollera si impadronì di me. Ed esclamai:


-Alloravi ha affascinata!


Isuoi occhi si velarono di piantomentre mi rispondeva:


-OhLodbrog! Il fascino che è in Lui supera ogni pensiero...


L'hovisto. L'ho udito. Distribuirò ai poveri tutte le miericchezzee Lo seguirò.


Risposighignando:


-Seguiteloquel profeta ambulante! Quando sarà Redivideràcon voi la sua corona.


Emi scansaiper lasciarla passare. Lei si allontanòmormorando:


-Il suo Regno non è di questo mondo...


Quelloche successe poiè noto a tutti. Dopo che Gesùarrestato per ordine di Caifafu condannato a morte dal Sinedriovenne inviato a Pilato per l'esecuzione della sentenzatra unaplebaglia urlante.


Pilatonon pensava affatto a uccidere Gesùche continuava aconsiderare come un semplice visionarioe non come un rivoluzionariopericoloso. La vita di un uomoper se stessagli importava pocoene avrebbe mandati a morte centose lo avesse ritenuto utile per lapropria sicurezza e nell'interesse di Roma.


Manon sopportava che gli si volesse forzare la mano.


Uscìdunque dal suo palazzocon il volto rabbuiatoper andare incontroal prigioniero. E subitoil fascino che Egli emanava s'impadronìdi lui. Io lo so; ero presente.


Erala prima volta che vedeva Gesùe ne rimase soggiogato. Unaplebaglia rumorosa riempiva il cortile del palazzotrattenuta afatica dai soldati. E l'urlo di quelle bocche era uno solo:


"Crocifiggilo!".Pilatofissando lo sguardo sul pescatorelo condusse con sénel pretorio. Che cosa si dissero? Lo ignoro. So soltanto che quandoPilato tornòera deciso a salvare il condannato.


Mainutilmente cercò di allontanare la tempestapresentando Gesùcome un fanatico inoffensivopoi proponendo di lasciarlo liberoinomaggio alla festa di Pasqua. Le sobillazioni dei sacerdotimescolati alla folladecisero anziché la liberazione di Gesùquella di Barabba.


Iltumulto cresceva. Dal cortile si estendeva ormai a tutta la città.Quandoin un estremo tentativo per salvare il pescatorePilatodichiarò che Gesùessendo nato suddito di ErodeAntipadoveva essergli rinviatoe non poteva esser giudicato négiustiziato a Gerusalemmeun grido furioso salì dalla follache io e i miei venti legionari riuscimmo a stento a trattenere.


Unfanatico pidocchiosocon una lunga barbasi agitava freneticamentegridando:


-L'imperatore è Tiberio! Non esiste un Re dei Giudei! Tiberiosoltanto è imperatore!


VidiPilatol'uomo di ferroesitare. I suoi occhi si rivolsero verso dimecome per chiedermi consiglio. Io e i miei legionari eravamotalmente nauseati da quello spettacolo di viltàcheaspettavamo solo un ordine: spazzare il terreno da quella canaglia.Gesù mi guardava. Mi comandava la bontàil perdono...


Ilresto è ormai affidato alla storia. La prudenza vinse Pilatoche si lavò le mani della morte del pescatorementre laplebaglia accettava che il Suo sangue innocente ricadesse sulla lorotesta e su quella dei suoi figli.


Peril momentola tempesta era placata. Il cortile del palazzo sisvuotò. La folla e i sacerdoti erano soddisfatti.


Mentretrascinavano via Gesùuna delle donne di Miriam venne acercarmiper condurmi da lei.


Quandorestammo solimi attirò a sée lasciandosi cadere frale mie bracciadisse:


-So che Pilato ha ceduto ai sacerdotie ha dato ordine dicrocifiggerlo. Ma si può ancora salvarlo. I vostri uominiLodbrogvi sono fedelie sono soltanto gli ausiliari che locondurranno alla croce. L'orribile corteo non deve raggiungere ilGolgota. Aspettate che abbia varcato le mura della cittàpoiliberate il Figlio di Dio. Prendete per Lui un altro cavalloeportatelo con voi in Siriao non importa dovepurché Eglisia salvo!


Miallacciò il collo con le sue braccia splendidealzò isuoi occhi profondi verso i mieie il suo viso sfiorò le mieguance.


-Fai come ti chiedoe sono tua! - sembrava dicesse.


Rimasifrastornato. Questa donna stupenda mi prometteva il suo amore... setradivo Roma!


-Prenderete un cavallo in più - continuò Miriam. - Saràper me.


Partiròcon voi... E vi seguirò ovunquedove vorrete!


Nonrispondevo. Ero tristeimmensamente triste. Non che avessi delleesitazioni per il mio dovere! Ma capivo che stavo per perdere persempre colei che mi stava dinanzi.


Essaripresecon rinnovata insistenza:


-Non esiste che un uomoa Gerusalemmein grado di salvarlo. Equest'uomosiete voiLodbrog!


Vedendoche rimanevo immobile e silenziosomi afferrò e mi scosse contanta violenza che le mie armi tintinnarono.


-ParlateLodbrog! Parlate! - ordinò. - Voi siete un uomo fortee coraggioso! Voi non avete certo paura di quei miserabili chevogliono ucciderlo. Dite "sì"ed Egli èsalvo. E ioper ciò che faretevi amerò in eterno!


Infinerisposicon lentezza:


-Sono un soldato romano...


Essas'inalberò:


-Siete uno schiavo di Tiberioun cane da guardia di Roma... Voi nonsiete Romano! Siete un gigante barbaro del Nord!


Crollaila testa.


-Mi sono impegnato lealmente- risposi. - Porto le armi e mangio ilpane di Roma. Non voglio essere ingrato. Se non sono Romanoi Romanisono miei fratelli... E poiperché tanta agitazione per lavita o la morte di un uomo? Dobbiamo morire tutti. Un po' prima o unpo' dopoche differenza fa?


-Voi non capiteLodbrog! - gridò Miriam. - Non è unuomo come gli altri. Fra gli uominiè un Dio vivente!


Lastrinsi forte contro di me.


-Dimenticatelo! - pregai. - Viviamo la nostra vitasenza occuparcidegli altri! Lasciamo da parte il mondo dei morti.


Lasciamoche i pazzi inseguano i loro sogni. Lasciamoli fare! Ma noirestiamonella dolcezza che abbiamo scopertouno nell'altro...


Essacercò di svincolarsi.


-Voi non capite! Non capite nulla! - disse con enfasi. - Non voletecapire che quest'uomo è Dioe che la morte infamante che loattende è quella degli schiavi e dei ladroni! Egli non èné l'uno né l'altro. E' immortale! E' Dio!


-Ma allora- ripresi- se è immortaleche cosa puòimportargli di morire? La sua immortalitànel tempo che nonha finenon sarà scalfita di un minuto. Voi affermate che èDio? Secondo quello che m'hanno insegnatoun Dio non puòmorire.


Leinon faceva che esaltarsi sempre più.


-Oh! - gemette- voi non volete capirmi. Voi non siete che una massadi carne.


Tentaidi lottare ancora. Ricordandomi alcune lezioni sottili dei rabbiniebreidomandai:


-Questo eventonon era per caso predetto nelle antiche profezie?


-Sìnelle più antiche profezieche ci annunziavano lavenuta d'un Messia.


-Lasciate allora che le profezie si compiano! - esclamai trionfante. -Chi sono ioper cercare di ostacolarle? Ciò che si devecompiresi compirà. Io non devo né posso oppormi allavolontà di Dio.


Leiripeté:


-Voi non capite... Voi non capite...


Poisi gettò indietrosfuggendo alla presa delle mie bracciaerimanemmo lontani uno dall'altrain silenzioascoltando il tumultoche proveniva dalla strada e i clamori assordanti che accompagnavanoGesùche in quel momento stesso veniva portato al supplizio.


Lasua voce si fece improvvisamente carezzevolesuadente. I suoi occhisi tuffavano nei miei. Si offrivain una promessa immensatalmentegrande e profondache nessuna parola umana potrebbe esprimerla.


-Mi amate? - domandò.


-Sìvi amo! - risposi. - Vi amo infinitamente. Ma Roma èla mia nutrice. Se la tradissidiventerei indegno del vostroamore...


Fuoriil clamore che accompagnava Gesù s'era allontanato. Ilsilenzio regnava in Gerusalemme. Miriam si svincolò dalle miebracciae si diresse verso la portaper andarsene.


Un'ondatadi desiderio mi travolse. Le corsi dietro e la strinsi fra lebracciamentre si dibatteva. La strinsi quasi da soffocarla.


Micolpì al viso. Ma io non la lasciai. Allora cessò dilottare; e diventò fredda e inerte. E compresi che colei chestringevo non mi amava più. Fra le bracciaavevo soltanto ilsuo cadavere.


Lentamenteallargai la stretta. E lentamentelei indietreggiòesollevando le cortine della portascomparve...


Questisono gli avvenimenti ai quali ioRagnar Lodbrogho assistito. Cosìcome li ho raccontati adessoli riferii a Sulpicio Quirinoinviatodi Roma in Siriaa cui venni inviato da Ponzio Pilatoper metterloal corrente dei fatti che s'erano svolti a Gerusalemme.




21.UN NUOVO ROBINSON


DopoOppenheimer e Morrellero considerato come il più pericolosoprigioniero di San Quintino. E più di loroero ritenutorefrattario alle peggiori punizionitenace e testardo come un mulo.


Piùefferate erano le torture dei miei carneficie più resistevo.


"Ladinamiteo la morte!" era stato l'ultimatum di Atherton. Io nonpotevo creare la dinamitee il direttore non era capace d'uccidermi.Le mie esistenze precedenti m'avevano reso più durodell'acciaio.


Permettetemidi descrivervene ancora una. E sarà tuttoprima che miimpicchino...


Mene ricordo come di un incubo senza fine. Mi trovavo su una piccolaisola rocciosabattuta dalle ondee così poco elevata sulmareche durante le tempeste le onde l'inondavano con i loro spruzzisalati. Vivevo tra mille sofferenzesenza fuoco e nutrendomiesclusivamente di carne cruda.


Lamia unica distrazione erano un remo e il mio coltellocon cuisegnavo sul remo una nuova tacca per ogni settimana che passava.


Questocoltello rappresentava per me un tesoro inestimabile.


Sulmio remoincisi questa iscrizione:


"Questoscritto serve a informare la persona nelle cui mani cadràquesto remo. Daniele Fossnato a Elktonnello Stato di Marylandnegli Stati Uniti d'Americas'imbarcò a Filadelfia nel 1809a bordo del NEGOCIATORdiretto alle Isole Amiche. Nel febbraiosuccessivofu gettato sopra quest'isola desertadove si costruìuna capannae visse un certo numero di anninutrendosi di foche.


E'il solo superstite di quel brickche urtò contro un banco dighiaccio e affondòil 25 novembre 1809".


Delnaufragiodello sfasciarsi della nave contro l'"iceberg"in piena nottee del suo successivo affondamentoavevo conservatoun ricordo indelebile. Il vento urlava furiosamente e le veleicordami e tutta l'alberatura del brick che affondavaapparivanocoperti di ghiaccioli. La grande scialuppa era stata calata in maree tutto l'equipaggioeccetto alcuni uomini che annegaronovis'imbarcò. Il freddo era spaventoso. Mentre il capitano Nicollteneva il timoneio continuavo a strofinarmi il naso per impedirglidi gelare.


Facemmorotta verso nord-est. Ma nella scialuppainteramente scopertalamorte non tardò a mietere le prime vittime. Al mattinouno dinoi fu trovato completamente gelato e stecchito.


Unodei mozzi fu la seconda vittima. Poi fu la volta dell'altro mozzo.Nel giro di dieci o quindici giornialtri uomini lo seguirono.


Trascorserocinque settimane. Non restavano a bordo che il capitanoil chirurgoe io. Il gelo era tale che la birra e l'acqua gelarono.


Il27 febbraiosi scatenò una furiosa tempesta di neve. I nostriviveri erano completamente esauriti. Io stavo al timonee i miei duecompagni giacevano in fondo alla scialuppa come due cadaveriquandoscorsi terra. Era un'isoletta rocciosaflagellata dalle onde. Apochi metri dalla costala scialuppa sfuggì al mio controllo.In un attimosi rovesciò e sentii l'acqua salata entrarmi ingolasoffocandomi.


Nonrividi più i miei due compagni. Riuscii ad aggrapparmi a unremomentre un colpo di mare mi lanciava lontanosulla roccia.


Mialzai tutto indolenzitoma senza ferite gravi.


Mirialzairingraziando Dio di avermi mantenuto in vita. Sapevo che lascialuppa era stata rotta in mille pezzie indovinavo la fine cheavevano dovuto fare il capitano Nicoll e il chirurgo. Poi barcollai esvenni.


Rimasisvenuto per tutta la notteavvertendo confusamente l'umiditàe il freddo che mi avvolgevano.


Almattinovedendo la desolazione del posto in cui ero finitoprovaiuno sgomento indicibile. Nessuna piantanon un filo d'erbaspuntavano su quell'escrescenza rocciosa dell'oceano. Per un quartodi miglio di larghezza e mezzo di lunghezzanon c'erano che rocce.


Pertutto il giornomi trascinai sulle ginocchia insanguinatealla vanaricerca di un po' d'acqua potabile. Della scialuppanon rimaneva chel'unico remo al quale mi ero aggrappato e che era stato sbattuto aterra con me.


Ilsecondo giornole mie condizioni peggiorarono ancora. Non avevomangiato da un mucchio di tempoe cominciai a gonfiare. Le miegambele mie bracciatutto il mio corpo si gonfiò. Macontinuai a lottaredeciso a compiere fino all'ultimo la volontàdi Dioche mi ordinava di vivere.


Durantela nottefui svegliato da uno scroscio di pioggia.


Strisciaida un buco all'altro delle roccebevendo la pioggiao leccandola.Era ancora salmastrama tollerabile. Essa mi salvò.


Miriaddormentaie quando al mattino mi risvegliaiil delirio che miaveva squassatoera finito.


Quandoscoprii il cadavere d'una focalasciato dalle ondate sulla costamisentii rinascere.


Nessunmercante che rientra nel proprio porto dopo un vantaggioso viaggiocarico di ricche derratecon la cassaforte ricolma di denarosiritenne maine sono più che certoaltrettanto ricco come iomi sentii in quel momento. Mi buttai in ginocchio per ringraziarevivamente il Signore che- ne ero persuaso più che mai-aveva decisofin dall'inizioche io non dovessi morire.


Raccolsidelle alghe marineche asciugai al solee che distese la sera sullarocciasostituirono il materassocon enorme sollievo del mio poverocorpo tutto indolenzito. Per la prima volta dopo molte settimaneimiei vestiti erano asciutti. Cosìmi addormentai d'un sonnodi piombocausato a un tempo dalla mia stanchezza e dalla salute cheritornava.


Quandodopo una notte di riposomi risvegliaiero un altro uomo. La costaera gremita di foche. Mi sfregai gli occhiper assicurarmi che nonfosse un sogno. Ma non sognavo... Erano là a migliaiae altresguazzavano in mare. Il mio primo pensiero fu che avevo adisposizione più carne di quanta me ne occorresse.


Afferraila sola arma che possedevoil remoe avanzai con prudenza versoquell'immenso carnaio. Ma mi resi conto che tutti quegli esserimarini ignoravano l'esistenza dell'uomo. Non manifestavano alcuntimore vedendomi avvicinaree perciò non mi fu difficileassestare sulle loro teste dei vigorosi colpi di remo.


Neuccisi unaduecinquecontinuando a colpire e a ucciderecome inpreda a una vera pazzia. Continuai così per due ore. Poilefoche si precipitarono tutte in marescomparendo in un baleno.


Avevoucciso più di duecento foche. Le scuoiai; poicon ilcoltellotagliai la loro carne in grossi pezzi che misi ad asciugareal soleche fortunatamente era ricomparso. Nelle spaccature delleroccescoprii dei piccoli depositi di sale formati dal mare. Loraccolsi e ne cosparsi la carneper conservarla.


Questolavoro richiese quattro giornie quando finiila mia opera miriempì di soddisfazione. Maidurante tutti gli otto annitrascorsi su quell'isolottoil tempo fu così soleggiato comedopo quel massacroadatto in tutto a far seccare la mia provvista dicarne. E non mancai di vedere in questo un'altra prova dellaProvvidenza.


Unavolta pensato al cibomi costruii una capanna di pietre e unmagazzino per tenerci la mia carne salatache ricopriii con le pellidegli animali uccisi.


Unadelle mie prime preoccupazioni fu di trovare un mezzo qualsiasi chemi permettesse di calcolare il tempo.


Misforzai di ricordarmi il numero dei giorni trascorsi dopo ilnaufragio della scialuppa. Quando riuscii a stabilirlocostruii consette pioli il mio calendario settimanale. Per ogni settimanafeciun intaglio sul mio remoe un altro per i mesi. Per i giornidedicati al Signoreincisi una specie di Canticoche non mancai direcitare ogni domenica.


Nonè minimamente immaginabile quale mole di lavoro sia necessariaall'uomo rimasto soloperché soddisfi i bisogni piùelementari dell'esistenza. In effettinon ebbi tempo da perderedurante tutto il primo anno. La costruzione della capannache erasoltanto una specie di cavernarichiese sei settimane di durolavoro. Per parecchi mesifui costretto a sorvegliare i mieipreziosi depositi di carne e rinnovare le provviste di sale. Poidovetti grattare e ammorbidire un certo numero di pelli di focaperpotermi fabbricare alla meno peggio dei vestiti.


Ilproblema dell'acqua dolce mi procurò parecchie preoccupazioni.


Ifori delle roccein cui la conservavoerano poco profondi.


Strofinandouna pietra più tenera con una più durariuscii acostruirmi una specie di vaso. Poi ne feci altri di diverse misure.


Unbel giornodopo quattro annile foche riapparvero. Venivano sempredalla stessa isolama ora erano diffidenti. Costruii dei murichelimitavano il passaggio delle rocce da cui arrivavano a terra. Inquesto modo tagliai loro la ritirata e le uccisisenza che potesserofuggire a destra o a sinistra. Cosìper sei mesiavevo adisposizione viveri secchi e salati.


Anchese del tutto privo di qualsiasi compagnia umanae persino di quellad'un cane o d'un gattoaccettai il mio destino con una rassegnazionemaggiore di quanto non facciano quasi tutti gli uomini. Innanzituttola mia coscienza era tranquillaa postoil che è giàmolto. E spesso mi veniva da pensare a quanti criminalioppressi inuna cella dal rimorso di un'azione orrendadovevano essere millevolte più infelici di me.


Anchese mancavo d'ogni compagnia e d'ogni vera comoditàdovevoammettere che la mia situazione aveva pur dei vantaggi. La mia isolaera piccolama io ne ero il padrone assoluto. D'altra parteessendol'isola inaccessibileil mio riposo era totaletranquillo e sicuro.


Mal'uomo è una creatura stranae il desiderio di avere sempredi più lo tormenta sempre. Ioche per tanto tempo avevochiesto alla Provvidenza solo un po' di carne putrefatta persaziarmie una goccia d'acqua salmastra per dissetarmiquando fuipadrone d'una riserva di eccellente carne salata e d'una provvistad'acqua dolcecominciai a sentirmi scontento. Volevo del fuocovolevo sentire sotto i denti il sapore della carne cotta. Da qui asognare piatti succulentiil passo è breve! Lo varcai prestoe vidi ondeggiare nei miei sogni un numero infinito di piattideliziosiai quali mi promettevo di far ampiamente onorese fossiriuscito ad abbandonare la mia isola...


Dedicandomialla costruzione di un'alta torreavevo contribuito a conservarmi inbuona salutefisica e moralee a tener lontane le tentazioni.Tuttaviadurante il sonnocontinuavano a perseguitarmi le visionifantastiche di cibi succulenti e di quella foglia perniciosa che sichiama tabacco.


Il18 giugno del sesto annoavvistai in lontananza una nave. Ma ladistanza era troppo grande perché potesse scorgermi. Invece dibuttarmi nella disperazionequesta momentanea apparizione mi fu digrande conforto. Non potevo più dubitare che le navisolcassero qualche volta quei mari.


Continuaidunque ad aspettare con pazienza gli eventi. Continuai ad annotaresul mio remo le date più importantidopo la mia partenzadall'America. Per guadagnare spaziousai la scrittura piùminuta possibile.


Cosìquando fu ricoperto interamente della mia scritturami divenneancora più prezioso. Non volendo più usarlo peruccidere le fochemi costruii una specie di guaina in pelle di foca.E lo usavo soltantoquando faceva bel tempocome asta di unabandiera che issavo sulla mia torre.


Nelcorso dell'inverno seguentedovetti subire una tempestaparticolarmente spaventosa. Si scatenò verso le nove di serapreceduta da enormi nuvole nere e da un gelido vento di sud-ovest chediventò poi furiosoaccompagnato da tuoni e da lampi paurosi.


Temettipersino per la mia sopravvivenza. Le onde scatenate coprirono deltutto l'isola ese non mi fossi rifugiato sulla mia torresenzadubbio sarei morto annegato. Essa mi salvò. La mia capanna fuinteramente sommersa e l'intera provvista di carne di foca fudistrutta.


Maancora una voltala mia buona stella mi venne in aiuto. Il mareritirandosiaveva cosparso la superficie dell'isola d'una granquantità di pesciche somigliavano a delle triglie. Neriuscii a raccogliere più di milleduecentoche mi affrettai asventrarea salare e a mettere a seccare al solecome si fa disolito col merluzzo. Questo opportuno cambiamento della mia dietavenne giusto in tempo per risvegliarmi l'appetito. Ma non seppiresistere alla golae mangiai tanto che la notte seguente rischiaiquasi di morire.


All'iniziodel mio settimo anno di soggiorno forzato nell'isolasi scatenòuna formidabile tempesta. Quando ritornò il serenoscopriisulle rocce il cadavere fresco d'una gigantesca balena.


Capiretela mia gioia quando trovaiincastrato nelle sue viscereun grossoarpionemunito d'una corda lunga parecchie braccia.


Lacarne del cetaceo mi fornì il nutrimento per un annoe sialternò con quella dei pesci e delle foche. Dal suo grassoestrassi l'olio in cui inzuppavo le mie fette di carne e i pesci.


IoDarrell Standingche scrivo queste righe nella prigione di Folsomdesidero farea questo puntouna riflessione personale.


Dopoaver vissutoin un'esistenza anteriorela vita che ho narratocontutte quelle torture del mio corpotutte quelle privazioni del miostomacocome avrei potuto ancora impressionarmi delle torture chem'infliggeva Atherton? La mia vita attuale è costruitaattraverso i secolidalle mie vite trascorse. Che cosa potevanorappresentareper medieci giorni e dieci notti di camicia diforza? Per me che quando ero Daniele Fossavevo soffertoper ottoeterni annisopra un isolotto rocciososperduto nell'oceano!


L'ottavoanno era finitoe io avevo concepito il progetto di alzare la miatorre fino a sessanta piedi di altezza. Ma un mattinoappenasveglioscorsi una nave che sembrava ispezionare la rivaquasi aportata di voce.


Perfarmi scorgeremi arrampicai sulla torre agitando il remo e la suabandiera in pelle di foca. Poi corsi sulla costagridando eballando. Fui scortoe scorsi il capitano e il suo secondo che miosservavano dal ponte con i loro cannocchiali.


Unascialuppa venne calata in mare. Come seppi più tardierastata la mia torre che aveva attirato la loro curiosità.


Mala forza delle onde rendeva impossibile l'attracco; e dopo parecchitentativii marinai che la governavano mi fecero segno che dovevanoritornare a bordo.


Poteteimmaginarvi la mia disperazione! Afferrai il mio remo (che avevodeciso di offrire al Museo di Filadelfiase mi fossi salvato) e mibuttai in acqua. La mia buona stella e la mia abilitàcon laprotezione di Diofecero sì che riuscissi a raggiungerel'imbarcazione.


Dopomezz'ora ero a bordodi nuovo tra i miei simili...


Ilmio primo impulso fu di lasciarmi andare a una delle mie piùirresistibili passioni. Immediatamenteal secondo ufficialedomandai un pezzo di tabacco da masticaredi quel tabacco chesognavo da otto anni. Mi porse la sua pipacarica di ottimo tabaccodi Virginia.


Cominciaia fumare. Ma dopo cinque minuti soltantola testa cominciò agirarmie mi sentii svenire. Non c'era da stupirsene.


Ilmio organismo si era totalmente purificato del fatale velenoilquale ora agiva in me come fa di solito con un ragazzo alla primafumata.


Restituiila pipa e da quel giorno rinunciai per sempre a quella fogliadannosaguarito del tutto e ringraziando Dio per quest'ultimobeneficio concessomi.


IoDarrell Standingdevo completare adesso il racconto di questaesistenzarivissuta nella camicia di forza della prigione di SanQuintinoaggiungendo che mi sono spesso chiestorisvegliandominella mia cellase Daniele Foss avesse poi mantenuto la sua promessadi regalare il suo remo al Museo di Filadelfia.


Perun prigioniero com'ero ioera estremamente difficile comunicare conil mondo esterno. Tuttaviaun giornoaffidai a un guardiano unalettera che avevo scritto a tale proposito al Conservatore del Museodi Filadelfia. La letteramalgrado le promessenon giunse adestinazione.


Mavenne un giorno in cuiper una strana coincidenza del destinoEdoardo Morrellterminato il suo periodo di segregazionefunominato uomo di fiducia della prigione. Gli feci avere un'altraletterache ebbe maggior fortuna. Ecco la risposta che ricevettieche Morrell mi consegnò di nascosto:


"Inquesto Museo si trova un remo come quello che voi descrivete.


Loconoscono in pochiperché non è esposto nelle saledestinate al pubblico. Io stessoche dirigo questo Museo da diciottoannine ignoravo l'esistenza.


Dopoaver consultato i nostri vecchi registriho trovato una nota intornoa questo remoche ci è stato offerto da un certo DanieleFossoriundo di Elktonnello Stato del Marylandnel 1821. Dopolunghe ricercheriuscii a trovare questo oggetto in un ripostiglio.Le incisioni e le iscrizioni sono intagliate nel legnoesattamentecome voi me le descrivete.


Hopure trovatonei nostri archiviuna relazione consegnataci dallostesso Daniele Fosse che era stata pubblicata a Boston dallalibreria N. Coverly e figlinel 1834. Questa relazione racconta gliotto anni della vita di un uomo naufragato su un'isola deserta. E'evidente che questo marinaiospinto dal bisognooffriva in vendital'opuscolo alle persone che passavano per la strada.


M'interesserebbesapere come voi avete avuto notizia di questo remodi cui tuttiignoravano l'esistenza. Ho ragione di supporre che l'opuscolo diDaniele Foss vi sia venuto fra le manie che l'abbiate letto? Sareilieto di avere delle informazioni in proposito; intantoprendo ledisposizioni necessarie perché il remo e l'opuscolo sianonuovamente esposti al pubblico.


OseaSalsburty"




22.UNA VISITA A OPPENHEIMER


Matorniamo nella mia cella. I periodi di camicia di forza diventavanosempre più lunghima inutilmente il direttore Athertonsperava di trovarmi stecchitouna mattina o l'altra.


Cosìanche per via di certe inchieste svolte nelle prigioni americaneunbel giorno decise che era inutile continuare nella curae me nedispensò.


Privodelle mie sedute in camicia di forzami sentii disorientato.All'inizionon sapevo più come creare in me la morteprovvisoria e volare nel sogno attraverso le stelle. Poiscoprii checon la sola forza di volontà e premendo la coperta sul pettopotevo ugualmente cadere in "trance" catalettica. Irisultati fisiologici e psicologici erano gli stessie ne fui piùche soddisfatto. Cosìun giornopotei far visita aOppenheimernella sua cella.


Comeho già dettoMorrell credeva ciecamente a tutte le mieavventure dell'aldilà; ma Oppenheimer persisteva sempre nelsuo scetticismo.


Ungiornodunquementre giacevo nella morte apparentemi trovaisenza averlo volutotrasportato accanto a lui. Il mio corpo- me nerendevo conto- era nella cella. Ma con lo spirito ero vicino aOppenheimer. Malgrado non avessi mai visto quell'uomolo riconobbifacilmentee seppi che era veramente lui.


Eraestate. Egli giacevacompletamente nudosulla sua coperta.


Fuicolpito dall'aspetto cadaverico del suo visoe da quello del suocorpo scheletrito. Era una carcassa umana. Le sue ossa erano avvoltesoltanto da una pelle tesa e rugosasimile a una pergamena.


Inseguitouna volta rientrato nella mia cella e quando mi ricordaimiresi conto che lo stato fisico di Oppenheimer doveva essere ugualesotto ogni aspettoal mio e a quello di Edoardo Morrell. E misembrava impossibile che le nostre intelligenze potessero ancorasopravvivere in così tristi carcasse. Esiste della gente cheammira e adora la carnequesta carne nata dal fangoe che nel fangoè destinata a ritornare. Se conoscessero le celle dellaprigione di San Quintinocapirebbero la superiorità dellospirito sulla materia.


Matorniamo a Oppenheimer.


Ilsuo corpo faceva pensare a un uomo morto da molto tempoeabbrustolito dal sole del deserto. Gli occhispalancatisembravanoessere l'unica cosa che ancora vivesse in lui. Mentre se ne stavadisteso sulla schienaimmobilei suoi occhi seguivano le evoluzionidi un gruppo di mosche che volavano sopra di luinella penombradella cella. Notai una cicatrice sul suo gomito destroe un'altraalla sua caviglia destra.


Dopoun po'si mise a esaminare una piagaal di sopra dell'ancachesembrava dargli molto fastidio. Egli cominciò a pulirla con imezzi rudimentali di cui può disporre un prigioniero. Poisbadigliòsi stirò le membrae batté il suorichiamo destinato a Morrell.


Ascoltai.


-Come stai? - chiedeva. - Dormio sei sveglio? Come va il professore?


Confusiudii i colpi battuti in risposta da Morrell.


-E' un tipo originale! - riprese Oppenheimer. - Ho sempre diffidatodella gente istruita. Ma lui non è stato corrottodall'educazione. E' un uomo tutto di un pezzo. Per nulla al mondo glifaranno dire quello che non vuole. La dinamitenon l'avranno mai. -E sogghignòmentre con due dita controllava un dente che gliballava nella gengiva.


Morrellapprovòaggiungendo da parte sua degli elogi.


Siain questa esistenzaquanto nelle altre anteriorisono stato predadi molti impulsi d'orgoglio. Ebbene! devo dire che non mi sono maisentito così lusingatoquanto nel sentire i miei due compagniesprimersi così nei miei confronti; valutandomi loro pari.Precisamente. In nessuna epocanulla mi fu mai altrettanto preziosoquanto l'abbraccio morale di quei due condannati a vitache il mondoconsidera come degli spregevoli rifiuti umani.


Quandotornai nel mio corponella mia celladescrissi a Oppenheimer lavisita che gli avevo fatto. Ma rimase incrollabile:


nonci credevachiamando coincidenze tutti i particolari che gli avevodescritto. Coincidenze o un'acuta immaginazione!


Oppenheimerera tuttavia un uomo straordinariamente onesto.


Ascoltatemibene.


Lanotte seguentementre stavo per addormentarmiudii che batteva isoliti colpi. Mi diceva:


-Una cosa mi inquietaprofessore. Tu hai detto di avermi vistomuoverefra le ditauno dei miei denti che scrollava... A questopuntonon so più che cosa dire... E' appena una settimana chequel dente ha cominciato a darmi noiae non l'ho ancora detto anessuno!




23.PERCHE' HO UCCISO


IoDarrell Standingsono ora tranquillamente seduto nella cella deicondannati a mortea Folsom. E penso a tutte le donne che ho amatosia in questa vitache nelle altresin dall'epoca remota in cuifacevo pascolare il mio gregge di renne sulle coste allora ghiacciatedel Mediterraneodiventate poi quelle della Franciadell'Italia edella Spagna.


Rivedola donna che chiamavo Igar e chenell'Età del Bronzosedevaaccanto a meal crepuscolodavanti al fuocomentre io incurvavoarchi di legno odorosoo fabbricavocon ossadelle frecce dentatedestinate ai pesci delle limpide acque.


L'avevorapita agli uomini di un'altra tribù. E per tre giorni l'avevobattutaper domarla. Cosìera diventata la mia donnalacompagna che condivideva con me la capanna piantata sui paliin unapalude.


Perproteggersi dal freddoera sommariamente vestita di pelliinsanguinate delle bestie che io avevo ucciso. La sua pelleabbronzata era annerita dal fumo del nostro rudimentale focolare.


Quandocessavano le piogge primaverilistava spesso dei mesi interi senzalavarsi. Aveva mani callosecon dita nodose e unghie ricurvee isuoi piedi somigliavano piuttosto a delle zampe.


Mai suoi occhi erano azzurri come il cieloprofondi come il mareequando la stringevo a mequando le sue braccia selvagge miallacciavano e le nostre gambe s'incrociavanoil suo cuore battevacon lo stesso ritmo del mio.


Avevoun rivale: il vecchio "Dente di sciabola"un uomo dallelunghe unghie e i fluenti capellii cui gridi acuti e i ruggitidurante la nottegiungevano spesso fino a noi. Allorapersbarazzarmi di luicostruii una specie di trappolasimile a quelleche mi servivano a catturare gli orsi e le bestie feroci:


unafossa profondaricoperta di arbusticon un palo aguzzo piantato infondo.


Igarera una donna meravigliosa ai miei occhi. Ridevamo insiemeal soledel mattinoquando i nostri due bambiniun maschio e una femminasi rotolavano per terragiocando come cuccioli.


Avemmoaltri figli e figlie; che a loro volta procrearono altri discendenti.Eravamo già vecchiquando ci venne addosso un'orda di uominineridalla fronte bassa e dai capelli crespidavanti ai qualifuggimmo su per le colline. Ma ci raggiunseroe impegnammo unabattaglia feroce. Lottai fino all'auroracon i miei figli e i mieinipoti. Facemmo un grande massacro di quegli uomini neri. Poiversola fine della battagliafui colpito a mortee i canti funebri cheio stesso avevo compostorisuonarono sul mio cadavere.


Quaggiùla donna rappresenta tutto per l'uomo. Essa lo avvince a sécome il polo attrae l'ago magnetico. Affascina il suo sguardo conl'ondeggiare meraviglioso e sensuale del suo corpocon la suavaporosa capigliaturabruna o biondacupa come la notteo doratacome il sole d'agosto.


Ilsuo petto e le sue braccia sono un paradiso di delizie per colui chevi si riposa. Il profumo che essa emana riempie le narici. La suavocenel canto o nella risata argentinaal sole o al chiaro dilunao quando piange d'amore nella nottepresa dalla vertigineèpiù cara e dolce di ogni musicapiù melodiosa delcanto sublime e tremendo delle spade nella battaglia. Le sue parolesono un'esaltazione di tutto il suo essere. Elettrizzano il nostrofacendolo percorrere da brividi di fuocopiù squillante diuna tromba d'argento.


Finoin cielocon le Uri e le Valchiriel'uomo le ha riservato un postod'onore. Perchécome in questo mondol'uomo non saprebbeconcepire un Cielo dove la donna non esistesse.


Esemprenelle mie innumerevoli viteho follemente amato questa miadonna. In questa celladove aspetto di essere impiccatorivedevochinarsi sul mio giaciglio Igarla donna selvaggiala signora Omla compagna incantevole di Corea; e Miriamche mi chiedeva ditradire il mio giuramento a Roma; e la madre del piccolo Jessemassacrata a tradimento nelle "Praterie delle Montagne".


Moltevoltenelle mie esistenze passateper possedere la donna che amavoho uccisoe ho celebrato le mie nozze nel sangue ancora caldo.


Ese sono quiin questa cellaaspettando la morte a cui m'hacondannato la leggeè ancora perché ho amato!


Nonè stato per mio piacere che ho ucciso il mio collegailprofessore Haskell. Egli era un uomocome me. E fra noi due c'erauna donnache io amavo; che amavo con tutta l'eredità d'amoreche era in medall'epoca del caos urlantein cui l'uomo e l'amorenon avevano ancora assunto una forma...


Eho ucciso il professore Haskellcome avevo straziato altri uominitante altre volte.


Dodicigiurati si sono riuniti. Dodici giuratipieni di zelopergiudicarmi e condannarmi. Dodiciè sempre stato un numerofatidico. Molto prima delle dodici tribù d'Israelei Magiavevano situato in cielo i dodici segni dello Zodiaco. E nell'Olimposcandinavoquando Odino giudicava gli uominiaveva intorno a séme ne ricordododici Dei come consiglieri...




24.UNA FUGA INUTILE


Iltempo che mi rimane da vivere ormai è breve! Questomanoscritto uscirà di contrabbando dalla prigioneaffidato amani sicure. E qualcuno penserà a pubblicarlo.


Nonsono più nel reparto assassinima nella Cella della Mortedove sono stato trasferito.


Pertenermi d'occhiomi hanno messo accanto la guardia della Morte. Unaguardia che veglianotte e giornosenza mai allontanarsie la suafunzione davvero paradossale è quella di assicurarsi che noncerchi di attentare ai miei giorni. A ogni costo devo essereconservato in vitaper la forca. Altrimenti il pubblico verrebbeingannatola legge distortae il direttore di questa prigionericeverebbe una nota di biasimoperché il suo primo dovere èquello di far sì che i condannati a morte siano debitamente eregolarmente impiccati. Ci sono degli uomini- e io li ammiro- chehanno un modo singolare di guadagnarsi la vita.


Questepagine sono le ultime. L'ora è stata fissata per domattina.


I"reporters" dei giornali sono già arrivati. Liconosco tutti. Se fra loro vi sono dei padri di famiglialadescrizione dell'esecuzione del professore Standing pagherà lescarpe e i libri di scuola dei loro figli. Strano! Scommetterei che acose finiteessi staranno peggio di me.


Mentrein questa cellasono immerso nei miei pensierisento andare evenire nel corridoio il passo pesante e regolare del mio guardiano.Quando passa davanti al finestrinoscorgo il suo occhio diffidenteche mi osserva.


Hovissuto ormai tante viteche in certi momenti mi sento profondamentestanco di questo eterno ricominciare. Quanto affannarsi inutile suquesta terra! Quello che mi augurereinella mia prossima vitasarebbe di occupare semplicemente il corponon più d'unprofessorema d'un modesto e tranquillo fattore di campagna.


Dellegrandi distesedelle solide mucchedei pascoli sulle pendici dellecolline; acqua fresca in abbondanzache porterei verso i miei campicon canali d'irrigazione... Perché osservate questo. L'estateche in California dura a lungo ed è asciuttarappresenta unnotevole ostacolo per una coltura intensiva. Un terreno irrigato adovere potrebbe facilmente produrrecon un buon concimetreraccolti all'anno. Ecco quale sarebbeormaiil mio sogno.


Hosubìto poco fa- dico: "subìto" - una visitadel direttore.


Egliè del tutto diverso dal direttore Atherton di San Quintino.


Egliappariva commossopreoccupatoe sono stato io che ho dovutoinvitarlo a parlare. E' la sua prima impiccagione. Me l'haconfessato. Ioper tenerlo allegrogli ho risposto che anche permeera la prima volta. Ma egli rimase taciturno e triste...


E'un uomoquesto direttoreche ha delle noie domestiche. Ha duefigli: una femmina che frequenta i corsi della Scuola secondariaeun maschioche fa il primo anno all'Università di Stanford.Non possiede una fortuna personalee vive esclusivamente del suostipendio. Per di piùsua moglie è ammalatae anchela salute di lui è piuttosto malandata. Ha cercato persino difare un'assicurazione sulla vitama i medici della Societàassicuratrice non hanno voluto accettare il rischio. E' stato luistesso che mi ha confidato tutti questi suoi grattacapi.


Unavolta cominciato a parlarenon la smetteva piùe nons'accorgeva che tutte queste cose mi annoiavano a morte. Ho dovutoconcludere cortesemente il colloquio: sennòchissàquanto sarebbe andato avanti.


Mami accorgo solo ora che ho dimenticato di raccontarvi come mai mitrovi quinella Cella della Morte.


Liberatodalla camicia di forzatrascorsi ancora due anni nella cella disegregazione di San Quintino. Morrell era stato tolto dalla suacellae nominato uomo di fiducia.


Quandose ne andòmi sentii solo. Oppenheimerche marciva da troppotempo nel suo antrocon l'andar del tempo aveva acquistato uncarattere intrattabile. Per otto mesisi rifiutò di parlarecon chiunqueanche con me.


Unbel giornovenni informato che Cecil Winwoodil falsario- poetailtraditore e spionel'inventore della storia della dinamiteeratornato a San Quintino per scontarvi una nuova condanna.


Decisidi uccidere Cecil Winwood.


Derestola situazione non era allegra... Morrell era partito;Oppenheimer s'era immerso nel mutismo. Continuò cosìfino al giorno in cuiper aver malmenato un guardianoche colpìcon il coltellose ne andò anch'eglima per essereimpiccatocome accadrà a me. Da un anno ero solo. Dovevo beneoccuparmi di qualcosa.


Riusciia procurarmi quattro seghetti. Ero talmente magro che mi bastavasegare quattro sbarre del mio finestrino perché il mio corpopotesse passarvi.


Segaiquelle sbarre. Mi occorsero in tutto otto mesi di lavoro per aprirmiun passaggio.


Avevofatto i miei calcoli. E avevo la certezza d'incontrare Cecil Winwoodnel refettorioall'ora di colazione. Attesi il momento in cui"Faccia di torta"a mezzogiornoprendesse servizio.Faceva caldoed egli non tardò ad addormentarsi. Strappai lesbarre e sgusciai attraverso il finestrino. Poipassai davanti a"Faccia di torta"raggiunsi l'estremità delcorridoioe mi trovai libero... nella prigione.


Maallora accadde la sola cosa che non avevo previsto. Ero rinchiuso incella di segregazione da cinque anni. Ero spaventosamente debole. Ilmio peso era sceso a sessantaquattro libbre. Ed ero quasi cieco.


Trovandomifuorifui colpito da agorafobia. Lo spazio mi spaventò.Cinque anni di quell'inferno mi avevano reso incapace di scendere lascala che mi stava dinanzi.


Matentaie vi riuscii. Arrivai così in uno dei cortili dellaprigione.


Ilcortile a quell'ora era deserto. Il sole era abbagliante. Per trevoltetentai invano di attraversarlo. La testa mi giravae fuicostretto a cercare una protezione nell'ombra di un muro.


Traballaipoi caddi. Alloracome un uomo che sta per annegareche compie ognisforzo per raggiungere la rivastrisciai sulle ginocchia versol'ombra agognata del muro.


Miaccostaie mi misi a piangere. Erano tanti anni che non avevoversato delle lacrime! Ricordo ancora il sapore salato quandoraggiunsero le mie labbra.


Fuiscosso da un fremitocome un accesso di febbre. E ammisi cheattraversare il cortile era un'impresa disperataper me.


Vacillandomi misi a seguirloappoggiandomi con le mani al suo ruvido intonaco.


Eroin questa posizionequando il guardiano Thurstonche da qualchetempo seguiva i miei movimentivenne a impadronirsi di me. Lo vidideformato dai miei occhi malaticome una specie di mostro enormepaurosoche si precipitava contro di me con la violenza di unariete.


Dovevapesare all'incirca centosettanta libbreed è facile capirenelle condizioni in cui eravamoche cosa potesse essere una lottafra noi. Fu durante questa breve colluttazione che egli giuròdi aver ricevuto da me un pugno sul nasoun pugno così forteche il sangue si mise a colarecopioso.


Eroun condannato a vitae per un condannato a vita che passa a vie difattola legge di California prevede come condanna la pena di morte.Fui dichiarato colpevole e condannato a essere appeso.


Legalmentei giudici non potevano accontentarsi delle sole affermazioni diThurstonma a esse si aggiunsero quelle di altri cani da guardiadella prigioneche non ci pensarono due volte ad accusarmi. Lasentenza era perciò inevitabile.


Durantetutto il percorso che dovetti fare in senso inverso per rientrarenella mia cellae specialmente salendo la vertiginosa e ripidascalafui cortesemente massacrato di colpisia da Thurston quantodalla muta dei suoi aiutantiaccorsi a prestargli man forte.Piovevano pugnischiaffi e calci da ogni partecome se grandinasse.


Seil naso di Thurston ha veramente sanguinato- ciò che miguardo bene dall'affermare- dovette essereprobabilmentedurantela mischiaper opera d'uno di quegli accoliti troppo zelanti chepicchiavano a dritto e a rovescio. Ma il pretesto era pur sempreeccellenteper impiccarmi!




25.CHI SARO' DOMANI?


Hoappena avuto uno scambio di idee con la Guardia di servizio che misorveglia. Ha conosciuto Oppenheimerche occupava questa stessacellaun anno faprima di andare al patibolo.


E'un vecchio soldato. Mastica continuamente tabacco.


E'vedovocon quattordici figli vivitutti sposati; è nonno ditrentun nipotie bisnonno di quattro nipotine.


E'un essere primitivodi scarsissima intelligenza. I problemi dellospirito non lo hanno mai tormentato. Ed è per questocredoche è vissuto tanto a lungo e chesenza preoccuparsihamesso al mondo tanti figli.


Michiedo se io non debba augurarmiper la prossima reincarnazioneun'esistenza come la suapuramente vegetativache mi darebbefinalmente un po' di tranquillità.


Dopoessere stato tempestato di pugni e di calci da Thurston e dagli altriguardianiprovai un'immensa soddisfazionequando mi ritrovai nellamia cella.


Làtutto mi appariva sicuroinamovibile. Ero come un fanciullo smarritochedopo una fugatorna alla casa paterna. Sentivo una stranaaffezione verso quei muri che per tanti anni avevo odiato con tuttele mie forze.


Queimurilarghi e solidiche mi stringevano a destra e a sinistraimpedivano allo spazio di lanciarsi su di me come una belva feroce.L'agorafobia è una malattia terribileindescrivibile.Compiango sinceramente quelli che ne soffrono. Da quel poco che ne hoprovatoposso tranquillamente affermare che è piùdifficile affrontare una simile bestia che la forca.


Misono fatto un po' di buon sangue... Il medico delle carceriunapersona a posto e molto simpaticaè entrato nella mia celladella Morteper far due chiacchiere con mee offrirmi eventualmentei suoi buoni uffici... Ossiauna dose di morfina.


Domattina- egli assicura- non mi renderei nemmeno conto di camminare versola forca.


Hodeclinato la sua offerta; e ne ho riso da morire.


Miviene in mente il caso di Oppenheimerche mi è statoraccontato. Anche luinon ha voluto la morfina.


Giuntala sua ultima mattinae terminata la colazionequando giàaveva indossato la camicia senza collettoi "reporters"furono introdotti nella sua cellaansiosi di raccogliere le sueultime parole. Ascoltate come li prese in giro.


Datoche gli chiedevano che cosa pensasse della pena di morteegliburlone com'era sempre stato per tutta la vitarispose:


-Signoriio penso di vivere abbastanza per vederla abolita ungiorno...


Dopole mie innumerevoli viteposso dire che dalla creazione del mondola barbarie umana non ha fatto un solo passo verso il progresso. Nelcorso dei secolil'abbiamo soltanto ricoperta con una mano divernice; nient'altro.


"Nonuccidere!" dice la Legge Divina. Storie!... La prova èche domani mattina sarò impiccato. In questo momentonegliarsenali di tutto il mondo si costruiscono cannonicorazzateemille altri raffinati strumenti destinati a uccidere. "Nonucciderai!".


Cherazza di bluff!...


Lenostre donnenell'Età della Pietraerano più virtuosedi quelle d'oggi. Non ingurgitavano cibi avvelenati da unmercantilismo sfrenato. Le figlie dei poveri disgraziati non eranocondannateper vivereall'avvilente stato della prostituzione:


questapiaga dei nostri tempi era sconosciuta.


Viho narrato per sommi capi quello cheall'inizio del ventesimo secolodopo Cristoho patito nella mia cellae tutti gli ignobili tormentidella camicia di forza. Mainei secoli passatiho conosciuto delletorture simili.


Unsecolo facinquant'anni fale vie di fatto non erano punite con lamortenegli Stati Uniti. OggiOppenheimer è stato impiccatoin Californiaper questo delitto. E io lo sarò fra poco perun pugno sul naso di un uomo. Bontà divina: il progresso!


Sele scimmie e le tigri fossero state sottoposte a un simile regimedaun mucchio di tempo la loro razza sarebbe scomparsa.


Nonè così? Come diceva un giorno Edoardo Morrellpicchiettando sul muro: "il peggior uso che si possa fare di unuomoè quello d'impiccarlo".


Nonon ho nessun rispetto per la pena capitale. Non soltanto èuna malvagità per quei cani d'impiccatori che la eseguisconodietro pagamento d'un salario; ma è una vergogna per lasocietà che la tollerae paga per questo delle tasse.


"Essereappeso per il collofino a che ne segua la morte...".


Cosìrecita il nostro Codicenella sua fantasiosa fraseologia. Mal'impiccagione è una cosa idiotae oltre tuttoantiscientifica.


Perquesto mi ripugna.


Ilmattino fatale è giunto. Il mio ultimo mattino. Ho dormitosaporitamente tutta la nottecome un bambino. Cosìpacificamenteche a un certo punto il guardiano s'èspaventato. Ha creduto che mi fossi soffocato con le coperte.


Lospavento del pover'uomo faceva pena. Era in gioco il suo posto.


Serealmente mi fossi uccisosarebbe stato forse licenziatoe laprospettiva di andare ad aumentare il numero dei disoccupati èoggi poco gradevole...


Mihanno portato la colazione. Sembrerà stupidoma l'ho mangiatacon gusto. Il direttore mi ha offerto personalmente un litro diwhisky.


L'horingraziatoe l'ho pregato di regalarloda parte miaal repartodegli assassini. Povero direttore! Egli temesenza quel whiskychedia in escandescenze e turbi la cerimonia...


Mihanno messo addosso una camicia senza colletto...


Sembrache io sia diventato improvvisamente un personaggio importante. E'incredibile quanta gente s'interessa a me...


Ildottore è uscito un minuto fa. Gli ho chiesto di sentirmi ilpolso. Pulsazioni normali.


Sonol'uomo più tranquillo di questa prigione. Ho quasi l'aria d'unragazzo in procinto di intraprendere un viaggio. Ho fretta diandarmenesono curioso dei paesi nuovi che devo ancora vedere.


Perchédovrei aver paura della morteio che sono entrato nelle tenebredella morte volontaria tante volteper poi riuscirne subito?


Ildirettoreanziché il litro di whiskymi ha mandato unabottiglia di "champagne". L'ho fatta avere al reparto degliassassini. Quanti riguardiper mein queste ultime ore! Strano!


Questiuominiche stanno per uccidermisembrano spaventati dalla miamorte.


Morrellmi ha fatto avere sue notizie. Dice che ha passeggiato tutta lanottefuori del muro della mia prigione.


L'amministrazionegli ha negato il permesso di venirmi a fare i suoi addii. Razza dibanditi! Che gente! Sono certo che la notte prossimaquando miavranno tirato il colloavranno paura a restar soli al buio.


Eccoil messaggio di Morrell: "La mia mano nella tuavecchiocompagno! So cheanche con la corda al collosarai tu ad aver vintola partita. Non avranno la dinamite!".


Ireporters se ne sono andati. Non li vedrò di nuovo chedall'alto del patiboloprima che il boia mi nasconda il viso sottoil cappuccio nero.


Pocherighe ancora...


Scrivendoleritardo la cerimonia. Il corridoio è zeppo di funzionari e diautorità. Sono tutti nervosi. Evidentementevogliono farlafinita al più presto. Senza dubbiomolti di loro sonoaspettati a colazione...


Ilprete ha rinnovato la sua preghiera di restarmi accanto sino allafine. Poveretto! Perché rifiutargli questa consolazione?


Hoacconsentitoed egli è felice. Mio Dioci vuole cosìpocoper rendere contenti gli uomini! Qui finisco. Non posso cheripetere quanto ho detto. La morte assoluta non esiste. La vita èSpiritoe lo Spirito non può morire.


Soltantola carne muore e passa; e si dissolveper poi rinascere sotto formenuove e diverse. Forse effimereche a loro volta perirannoperrinascere ancora.


Chisarònella mia prossima vita? Ecco il punto interrogativo chemi preoccupa. Chi saròquali donne mi ameranno?


Sonocuriosoveramente curioso...




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