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Giovanni Verga
MASTRO DON GESUALDO
Parte prima
I
Suonava la messa dell'alba a San Giovanni; ma il paesetto dormiva ancora della grossaperché era piovuto da tre giornie nei seminati ci si affondava fino a mezza gamba. Tutt'a un trattonel silenzios'udì un rovinìola campanella squillante di Sant'Agata che chiamava aiutousci e finestre che sbattevanola gente che scappava fuori in camiciagridando:
- Terremoto! San Gregorio Magno!
Era ancora buio. Lontanonell'ampia distesa nera dell'Alìaammiccava soltanto un lume di carbonaie più a sinistra la stella del mattinosopra un nuvolone basso che tagliava l'alba nel lungo altipiano del Paradiso. Per tutta la campagna diffondevasi un uggiolare lugubre di cani. E subitodal quartiere bassogiunse il suono grave del campanone di San Giovanni che dava l'allarme anch'esso; poi la campana fessa di San Vito; l'altra della chiesa madrepiù lontano; quella di Sant'Agata che parve addirittura cascar sul capo agli abitanti della piazzetta. Una dopo l'altra s'erano svegliate pure le campanelle dei monasteriil CollegioSanta MariaSan SebastianoSanta Teresa: uno scampanìo generale che correva sui tetti spaventatonelle tenebre.
- No! no! È il fuoco!... Fuoco in casa Trao!... San Giovanni Battista!
Gli uomini accorrevano vociandocolle brache in mano. Le donne mettevano il lume alla finestra: tutto il paesesulla collinache formicolava di lumicome fosse il giovedì seraquando suonano le due ore di notte: una cosa da far rizzare i capelli in testachi avesse visto da lontano.
- Don Diego! Don Ferdinando! - si udiva chiamare in fondo alla piazzetta; e uno che bussava al portone con un sasso.
Dalla salita verso la Piazza Grandee dagli altri vicolettiarrivava sempre gente: un calpestìo continuo di scarponi grossi sull'acciottolato; di tanto in tanto un nome gridato da lontano; e insieme quel bussare insistente al portone in fondo alla piazzetta di Sant'Agatae quella voce che chiamava:
- Don Diego! Don Ferdinando! Che siete tutti morti?
Dal palazzo dei Traoal di sopra del cornicione sdentatosi vedevano salire infattinell'alba che cominciava a schiarireglobi di fumo densoa ondatesparsi di faville. E pioveva dall'alto un riverbero rossastroche accendeva le facce ansiose dei vicini raccolti dinanzi al portone sconquassatocol naso in aria. Tutt'a un tratto si udì sbatacchiare una finestrae una vocetta stridula che gridava di lassù:
- Aiuto!... ladri!... Cristianiaiuto!
- Il fuoco! Avete il fuoco in casa! Apritedon Ferdinando!
- Diego! Diego!
Dietro alla faccia stralunata di don Ferdinando Trao apparve allora alla finestra il berretto da notte sudicio e i capelli grigi svolazzanti di don Diego. Si udì la voce rauca del tisico che strillava anch'esso:
- Aiuto!... Abbiamo i ladri in casa! Aiuto!
- Ma che ladri!... Cosa verrebbero a fare lassù? - sghignazzò uno nella folla.
- Bianca! Bianca! Aiuto! aiuto!
Giunse in quel punto trafelato Nanni l'Orbogiurando d'averli visti lui i ladriin casa Trao.
- Con questi occhi!... Uno che voleva scappare dalla finestra di donna Biancae s'è cacciato dentro un'altra voltaal vedere accorrer gente!...
- Brucia il palazzocapite? Se ne va in fiamme tutto il quartiere! Ci ho accanto la mia casaperdio! - Si mise a vociare mastro-don Gesualdo Motta. Gli altri intantospingendofacendo leva al portoneriuscirono a penetrare nel cortilead uno ad unocoll'erba sino a mezza gambavociandoschiamazzandoarmati di secchiedi brocche piene d'acqua; compare Cosimo colla scure da far legna; don Luca il sagrestano che voleva dar di mano alle campane un'altra voltaper chiamare all'armi; Pelagatti così com'era corsoal primo allarmecol pistolone arrugginito ch'era andato a scavar di sotto allo strame.
Dal cortile non si vedeva ancora il fuoco. Soltantodi tratto in trattocome spirava il maestralepassavano al di sopra delle gronde ondate di fumoche si sperdevano dietro il muro a secco del giardinettofra i rami dei mandorli in fiore. Sotto la tettoia cadente erano accatastate delle fascine; e in fondoritta contro la casa del vicino Mottadell'altra legna grossa: assi d'impalcaticorrentoni fradiciuna trave di palmento che non si era mai potuta vendere.
- Peggio dell'escavedete! - sbraitava mastro-don Gesualdo. - Roba da fare andare in aria tutto il quartiere!... santo e santissimo!... E me la mettono poi contro il mio muro; perché loro non hanno nulla da perderesanto e santissimo!...
In cima alla scaladon Ferdinandoinfagottato in una vecchia palandranacon un fazzolettaccio legato in testala barba lunga di otto giornigli occhi grigiastri e stralunatiche sembravano quelli di un pazzo in quella faccia incartapecorita di asmaticoripeteva come un'anatra:
- Di qua! di qua!
Ma nessuno osava avventurarsi su per la scala che traballava. Una vera bicocca quella casa: i muri rottiscalcinaticorrosi; delle fenditure che scendevano dal cornicione sino a terra; le finestre sgangherate e senza vetri; lo stemma logoroscantonatoappeso ad un uncino arrugginitoal di sopra della porta. Mastro-don Gesualdo voleva prima buttar fuori sulla piazza tutta quella legna accatastata nel cortile.
- Ci vorrà un mese! - rispose Pelagatti il quale stava a guardare sbadigliandocol pistolone in mano.
- Santo e santissimo! Contro il mio muro è accatastata!... Volete sentirlasì o no?
Giacalone diceva piuttosto di abbattere la tettoia; don Luca il sagrestano assicurò che pel momento non c'era pericolo: una torre di Babele!
Erano accorsi anche altri vicini. Santo Motta colle mani in tascail faccione gioviale e la barzelletta sempre pronta. Speranzasua sorellaverde dalla bilestrizzando il seno vizzo in bocca al lattantesputando veleno contro i Trao: - Signori miei... guardate un po'!... Ci abbiamo i magazzini qui accanto! - E se la prendeva anche con suo marito Burgioch'era lì in maniche di camicia: - Voi non dite nulla! State lì come un allocco! Cosa siete venuto a fare dunque?
Mastro-don Gesualdo si slanciò il primo urlando su per la scala. Gli altri dietro come tanti leoni per gli stanzoni scuri e vuoti. A ogni passo un esercito di topi che spaventavano la gente.
- Badate! badate! Ora sta per rovinare il solaio! - Nanni l'Orbo che ce l'aveva sempre con quello della finestravociando ogni volta: - Eccolo! eccolo! - E nella bibliotecala quale cascava a pezzifu a un pelo d'ammazzare il sagrestano col pistolone di Pelagatti.
Si udiva sempre nel buio la voce chioccia di don Ferdinando il quale chiamava: - Bianca! Bianca! - E don Diego che bussava e tempestava dietro un usciofermando pel vestito ognuno che passava strillando anche lui: - Bianca! mia sorella!...
- Che scherzate? - rispose mastro-don Gesualdo rosso come un pomodoroliberandosi con una strappata. - Ci ho la mia casa accantocapite: Se ne va in fiamme tutto il quartiere!
Era un correre a precipizio nel palazzo smantellato; donne che portavano acqua; ragazzi che si rincorrevano schiamazzando in mezzo a quella confusionecome fosse una festa; curiosi che girandolavano a bocca apertastrappando i brandelli di stoffa che pendevano ancora dalle paretitoccando gli intagli degli stipitivociando per udir l'eco degli stanzoni vuotilevando il naso in aria ad osservare le dorature degli stucchie i ritratti di famiglia: tutti quei Trao affumicati che sembravano sgranare gli occhi al vedere tanta marmaglia in casa loro. Un va e vieni che faceva ballare il pavimento.
- Ecco! ecco! Or ora rovina il tetto! - sghignazzava Santo Mottasgambettando in mezzo all'acqua: delle pozze d'acqua ad ogni passofra i mattoni smossi o mancanti. Don Diego e don Ferdinandospintisbalordititravolti in mezzo alla folla che rovistava in ogni cantuccio la miseria della loro casacontinuando a strillare: - Bianca!... Mia sorella!...
- Avete il fuoco in casacapite! - gridò loro nell'orecchio Santo Motta. - Sarà una bella luminaria con tutta questa roba vecchia!
- Per di quaper di qua! - si udì una voce dal vicoletto. - Il fuoco è lassùin cucina...
Mastro Nunzioil padre di Gesualdoarrampicatosi su di una scala a piuolifaceva dei gesti in ariadal tetto della sua casalì dirimpetto. Giacalone aveva attaccata una carrucola alla ringhiera del balcone per attinger acqua dalla cisterna dei Motta. Mastro Cosimoil legnaiuolosalito sulla grondadava furiosi colpi di scure sull'abbaino.
- No! no! - gridarono di sotto. - Se date aria al fuocoin un momento se ne va tutto il palazzo!
Don Diego allora si picchiò un colpo in frontebalbettando: - Le carte di famiglia! Le carte della lite! - E don Ferdinando scappò via correndocolle mani nei capellivociando anche lui.
Dalle finestredal balconecome spirava il ventoentravano a ondate vortici di fumo densoche facevano tossire don Diegomentre continuava a chiamare dietro l'uscio: - Bianca! Bianca! il fuoco!...
Mastro-don Gesualdo il quale si era slanciato furibondo su per la scaletta della cucinatornò indietro accecato dal fumopallido come un mortocogli occhi fuori dell'orbitamezzo soffocato:
- Santo e santissimo!... Non si può da questa parte!... Sono rovinato!
Gli altri vociavano tutti in una voltaciascuno dicendo la sua; una baraonda da sbalordire: - Buttate giù le tegole! - Appoggiate la scala al fumaiuolo! - Mastro Nunzioin piedi sul tetto della sua casasi dimenava al pari di un ossesso. Don Lucail sagrestanoera corso davvero ad attaccarsi alle campane. La gente in piazzafitta come le mosche. Dal corridoio riuscì a farsi udire comare Speranzache era rauca dal gridare strappando i vestiti di dosso alla gente per farsi largocolle unghie sfoderate come una gatta e la schiuma alla bocca: - Dalla scala ch'è laggiùin fondo al corridoio! - Tutti corsero da quella partelasciando don Diego che seguitava a chiamare dietro l'uscio della sorella: - Bianca! Bianca!... - Udivasi un tramestìo dietro quell'uscio; un correre all'impazzata quasi di gente che ha persa la testa. Poi il rumore di una seggiola rovesciata. Nanni l'Orbo tornò a gridare in fondo al corridoio: - Eccolo! eccolo! - E si udì lo scoppio del pistolone di Pelagatticome una cannonata.
- La Giustizia! Ecco qua gli sbirri! - vociò dal cortile Santo Motta.
Allora si aprì l'uscio all'improvvisoe apparve donna Biancadiscintapallida come una mortaannaspando colle mani convulsesenza profferire parolafissando sul fratello gli occhi pazzi di terrore e d'angoscia. Ad un tratto si piegò sulle ginocchiaaggrappandosi allo stipitebalbettando:
- Ammazzatemidon Diego!... Ammazzatemi pure!... ma non lasciate entrare nessuno qui!...
Quello che accadde poidietro quell'uscio che don Diego aveva chiuso di nuovo spingendo nella cameretta la sorellanessuno lo seppe mai. Si udì soltanto la voce di luiuna voce d'angoscia disperatache balbettava: - Voi?... Voi qui?...
Accorrevano il signor Capitanol'Avvocato fiscaletutta la Giustizia. Don Liccio Papail caposbirrogridando da lontanobrandendo la sciaboletta sguainata: - Aspetta! aspetta! Ferma! ferma! - E il signor Capitano dietro di luitrafelato come don Licciocacciando avanti il bastone: - Largo! largo! Date passo alla Giustizia! - L'Avvocato fiscale ordinò di buttare a terra l'uscio. - Don Diego! Donna Bianca! Aprite! Cosa vi è successo?
S'affacciò don Diegoinvecchiato di dieci anni in un minutoallibitostralunatocon una visione spaventosa in fondo alle pupille grigecon un sudore freddo sulla frontela voce strozzata da un dolore immenso:
- Nulla!... Mia sorella!... Lo spavento!... Non entrate nessuno!...
Pelagatti inferocito contro Nanni l'Orbo: - Bel lavoro mi faceva fare!... Un altro po' ammazzavo compare Santo!... - Il Capitano gli fece lui pure una bella lavata di capo: - Con le armi da fuoco!... Che scherzate?... Siete una bestia! - Signor Capitanocredevo che fosse il ladrolaggiù al buio... L'ho visto con questi occhi! - Zitto! zittoubbriacone! - gli diede sulla voce l'Avvocato fiscale. - Piuttosto andiamo a vedere il fuoco.
Adesso dal corridoiodalla scala dell'ortotutti portavano acqua. Compare Cosimo era salito sul tettoe dava con la scure sui travicelli. Da ogni parte facevano piovere sul soffitto che fumavategolesassicocci di stoviglie. Burgiosulla scala a piuolisparandovi schioppettate soprae dall'altro lato Pelagattiappostato accanto al fumaiuolocaricava e scaricava il pistolone senza misericordia. Don Luca che suonava a tutto andare le campane; la folla dalla piazza vociando e gesticolando; tutti i vicini alla finestra. I Margarone stavano a vedere dalla terrazza al di sopra dei tettidirimpettole figliuole ancora coi riccioli incartatidon Filippo che dava consigli da lontanodirigendo le operazioni di quelli che lavoravano a spegnere l'incendio colla canna d'India.
Don Ferdinandoil quale tornava in quel momento carico di scartafaccibatté il naso nel corridoio buio contro Giacalone che andava correndo.
- Scusatedon Ferdinando. Vado a chiamare il medico per la sorella di vossignoria.
- Il dottor Tavuso! - gli gridò dietro la zia Macrì una parente povera come loroch'era accorsa per la prima. - Qui vicinoalla farmacia di Bomma.
Bianca era stata presa dalle convulsioni: un attacco terribile; non bastavano in quattro a trattenerla sul lettuccio. Don Diego sconvolto anche luipallido come un cadaverecolle mani scarne e tremanticercava di ricacciare indietro tutta quella gente. - No!... non è nulla!... Lasciatela sola!...- Il Capitano si mise infine a far piovere legnate a diritta e a mancacome venivasui vicini che s'affollavano all'uscio curiosi. - Che guardate? Che volete? Via di qua! fannulloni! vagabondi! Voidon Liccio Papamettetevi a guardia del portone.
Venne più tardi un momento il barone Mèndolaper convenienzae donna Sarina Cirmena che ficcava il naso da per tutto; il canonico Lupi da parte della baronessa Rubiera. La zia Sganci e gli altri parenti mandarono il servitore a prender notizie della nipote. Don Diegoreggendosi appena sulle gambesporgeva il capo dall'uscioe rispondeva a ciascheduno:
- Sta un po' meglio... È più calma!... Vuol esser lasciata sola...
- Eh! eh! - mormorò il canonico scuotendo il capo e guardando in giro le pareti squallide della sala: - Mi rammento qui!... Dove è andata la ricchezza di casa Trao!...
Il barone scosse il capo anche luilisciandosi il mento ispido di barba dura colla mano pelosa. La zia Cirmena scappò a dire:
- Sono pazzi! Pazzi da legare tutti e due! Don Ferdinando già è stato sempre uno stupido... e don Diego... vi rammentate! Quando la cugina Sganci gli aveva procurato quell'impiego nei mulini!... Nossignore!... un Trao non poteva vivere di salario!... Di limosina sìpossono vivere!...
- Oh! oh! - interruppe il canonicocolla malizia che gli rideva negli occhietti di topoma stringendo le labbra sottili.
- Sissignore!... Come volete chiamarla: Tutti i parenti si danno la voce per quello che devono mandare a Pasqua e a Natale... Vinoolioformaggio... anche del grano... La ragazza già è tutta vestita dei regali della zia Rubiera.
- Eh! eh!... - Il canonicocon un sorrisetto increduloandava stuzzicando ora donna Sarina ed ora il baroneil quale chinava il caposeguitava a grattarsi il mento discretamentefingeva di guardare anch'esso di qua e di làcome a dire: - Eh! eh! pare anche a me!...
Giunse in quel mentre il dottor Tavuso in frettacol cappello in caposenza salutar nessunoed entrò nella camera dell'inferma.
Poco dopo tornò ad uscirestringendosi nelle spallegonfiando le goteaccompagnato da don Ferdinando allampanato che pareva un cucco. La zia Macrì e il canonico Lupi corsero dietro al medico. La zia Cirmena che voleva sapere ogni cosa e vi piantava in faccia quei suoi occhialoni rotondi peggio dell'Avvocato fiscale.
- Eh? Cos'è stato? Lo sapete voi? Adesso si chiamano nervi... malattia di moda... Vi mandano a chiamare per un nulla quasi potessero pagare le visite del medico! - rispose Tavuso burbero. Quindipiantando anche lui gli occhiali in faccia a donna Sarina:
- Volete che ve la dica? Le ragazze a certa età bisogna maritarle!
E voltò le spalle soffiando gravementetossendospurgandosi. I parenti si guardarono in faccia. Il canonicoper discrezioneprese a tenere a bada il barone Mèndoladandogli chiacchiera e tabaccosputacchiando di qua e di làonde cercare di sbirciar quello che succedeva dietro l'uscio socchiuso di donna Biancastringendo le labbra riarse come inghiottisse ogni momento: - Si capisce!... La paura avuta!... Le avevano fatto credere d'avere i ladri in casa!... povera donna Bianca!... È così giovine!... così delicata!...
- Sentitecugina! - disse donna Sarina tirando in disparte la Macrì. Don Ferdinandoscioccovoleva accostarsi per udire lui pure: - Un momento! Che maniera! - lo sgridò la zia Cirmena. - Ho da dire una parola a vostra zia!... Piuttosto andate a pigliare un bicchiere d'acqua per Biancache le farà bene...
Tornò a scendere Santo Motta di lassùfregandosi le manicoll'aria sorridente: - È tutta rovinata la cucina! Non c'è più dove cuocere un uovo!... Bisognerà fabbricarla di nuovo! - Come nessuno gli dava rettafissava in volto or questo ed ora quello col suo sorriso sciocco.
Il canonico Lupiper levarselo dai piedigli disse infine:
- Va beneva bene. Poi ci si penserà...
Il barone Mèndolaappena Santo Motta volse le spallesi sfogò infine:
- Ci si penserà?... Se ci saranno i denari per pensarci! Io gliel'ho sempre detto... Vendete metà di casacugini cari... anche una o due camere... tanto da tirare innanzi!... Ma nossignore!.. Vendere la casa dei Trao?... Piuttostoogni stanza che rovina chiudono l'uscio e si riducono in quelle che restano in piedi... Così faranno per la cucina... Faranno cuocere le uova qui in salaquando le avranno... Vendere una o due camere:... Nossignore... non si puòanche volendo... La camera dell'archivio: e ci son le carte di famiglia!... Quella della processione: e non ci sarà poi dove affacciarsi quando passa il Corpus Domini!... Quella del cucù:... Ci hanno anche la camera pel cucùcapite!
E il baronecon quella sfuriatali piantò tutti lìche si sganasciavano dalle risa.
Donna Sarinaprima d'andarsenepicchiò di nuovo all'uscio della nipoteper sapere come stava. Fece capolino don Diegosempre con quella faccia di cartapestae ripeté:
- Meglio... È più calma!... Vuol esser lasciata sola...
- Povero Diego! - sospirò la zia Macrì. - La Cirmena fece ancora alcuni passi nell'anticameraperché non udisse don Ferdinando il quale veniva a chiuder l'uscioe soggiunse sottovoce:
- Lo sapevo da un pezzo... Vi rammentate la sera dell'Immacolatache cadde tanta neve?... Vidi passare il baronello Rubiera dal vicoletto qui a due passi... intabarrato come un ladro...
Il canonico Lupi attraversò il cortilerialzando la sottana sugli stivaloni grossi in mezzo alle erbaccesi voltò indietro verso la casa smantellataper veder se potessero udirloe poidinanzi al portoneguardando inquieto di qua e di làconchiuse:
- Avete udito il dottore Tavuso? Possiamo parlare perché siamo tutti amici intimi e parenti... A certa età le ragazze bisogna maritarle!
II
Nella piazzacome videro passare don Diego Trao col cappello bisunto e la palandrana delle grandi occasionifu un avvenimento: - Ci volle il fuoco a farvi uscir di casa! - Il cugino Zacco voleva anche condurlo al Caffè dei Nobili: - Narratecidite come fu... - Il poveraccio si schermì alla meglio; per altro non era socio: poveri sìma i Trao non s'erano mai cavato il cappello a nessuno. Fece il giro lungo onde evitare la farmacia di Bommadove il dottor Tavuso sedeva in cattedra tutto il giorno; ma nel salire pel Condottorasente al muroinciampò in quella linguaccia di Ciollach'era sempre in cerca di scandali:
- Buon ventobuon ventodon Diego! Andate da vostra cugina Rubiera?
Lui si fece rosso. Sembrava che tutti gli leggessero in viso il suo segreto! Si voltò ancora indietro esitanteguardingoprima d'entrare nel vicolettotemendo che Ciolla stesse a spiarlo. Per fortuna colui s'era fermato a discorrere col canonico Lupifacendo di gran risatealle quali il canonico rispondeva atteggiando la bocca al riso anche luidiscretamente.
La baronessa Rubiera faceva vagliare del grano. Don Diego la vide passando davanti la porta del magazzinoin mezzo a una nuvola di pulacon le braccia nudela gonnella di cotone rialzata sul fiancoi capelli impolveratimalgrado il fazzoletto che s'era tirato giù sul naso a mo' di tettino. Essa stava litigando con quel ladro del sensale Pirtusoche le voleva rubare il suo farro pagandolo due tarì meno a salmaaccesa in voltogesticolando con le braccia peloseil ventre che le ballava: - Non ne avete coscienzagiudeo?... - Poicome vide don Diegosi voltò sorridente:
- Vi salutocugino Trao. Cosa andate facendo da queste parti?
- Veniva appuntosignora cugina... - e don Diegosoffocato dalla polveresi mise a tossire.
- Scostateviscostatevi! Via di quacugino. Voi non ci siete avvezzo - interruppe la baronessa. - Vedete cosa mi tocca a fare? Ma che faccia avetegesummaria! Lo spavento di questa notteeh?...
Dalla botolain cima alla scaletta di legnosi affacciarono due scarpaccedelle grosse calze turchinee si udì una bella voce di giovanetta la quale disse:
- Signora baronessaeccoli qua.
- È tornato il baronello?
- Sento Marchese che abbaia laggiù.
- Va beneadesso vengo. Dunquepel farro cosa facciamomastro Lio?
Pirtuso era rimasto accoccolato sul moggiotranquillamentecome a dire che non gliene importava del farroguardando sbadatamente qua e là le cose strane che c'erano nel magazzino vasto quanto una chiesa. Una voltaal tempo dello splendore dei Rubierac'era stato anche il teatro. Si vedeva tuttora l'arco dipinto a donne nude e a colonnati come una cappella; il gran palco della famiglia di controcon dei brandelli di stoffa che spenzolavano dal parapetto; un lettone di legno scolpito e sgangherato in un angolo; dei seggioloni di cuoiosventrati per farne scarpe; una sella di velluto polverosaa cavalcioni sul subbio di un telaio; vagli di tutte le grandezze appesi in giro; mucchi di pale e di scope; una portantina ficcata sotto la scala che saliva al palcocon lo stemma dei Rubiera allo sportelloe una lanterna antica posata sul copricielocome una corona. Giacalonee Vito Orlandoin mezzo a mucchi di frumento alti al pari di montagnesi dimenavano attorno ai vagli immensicome ossessitutti sudati e bianchi di pulacantando in cadenza; mentre Gerbidoil ragazzoammucchiava continuamente il grano con la scopa.
- Ai miei tempisignora baronessaio ci ho visto la commediain questo magazzino- rispose Pirtuso per sviare la domanda.
- Lo so! lo so! Così si son fatti mangiare il fatto suo i Rubiera! E ora vorreste continuare!... Lo pigliate il farrosì o no?
- Ve l'ho detto: a cinque onze e venti.
- Noin coscienzanon posso. Ci perdo già un tarì a salma.
- Benedicite a vossignoria!
- Viamastro Lioora che ha parlato la signora baronessa! - aggiunse Giacalonesempre facendo ballare il vaglio. Ma il sensale riprese il suo moggioe se ne andò senza rispondere. La baronessa gli corse dietrosull'uscioper gridargli:
- A cinque e vent'uno. V'accomoda?
- Benedicitebenedicite.
Ma essacolla coda dell'occhiosi accorse che il sensale si era fermato a discorrere col canonico Lupiil qualesbarazzatosi infine del Ciollase ne veniva su pel vicoletto. Allorarassicuratasi rivolse al cugino Traoparlando d'altro:
- Stavo pensando giusto a voicugino. Un po' di quel farro voglio mandarvelo a casa... Nonosenza cerimonie... Siamo parenti. La buon'annata deve venire per tutti. Poi il Signore ci aiuta!... Avete avuto il fuoco in casaeh? Dio liberi! M'hanno detto che Bianca è ancora mezza morta dallo spavento... Io non potevo lasciarequi... scusatemi.
- Sì... son venuto appunto... Ho da parlarvi...
- Ditedite pure... Ma intantomentre siete laggiùguardate se torna Pirtuso... Cosìsenza farvi scorgere...
- È una bestia! - rispose Vito Orlando dimenandosi sempre attorno al vaglio. - Conosco mastro Lio. È una bestia! Non torna. Ma in quel momento entrava il canonico Lupisorridentecon quella bella faccia amabile che metteva tutti d'accordoe dietro a lui il sensale col moggio in mano. - Deo gratias! Deo gratias! Lo combiniamo questo matrimoniosignora baronessa?
Come s'accorse di don Diego Traoche aspettava umilmente in disparteil canonico mutò subito tono e manierecolle labbra stretteaffettando di tenersi in disparte anche luiper discrezionetutto intento a combinare il negozio del frumento.
Si stette a tirare un altro po'; mastro Lio ora strillava e dibattevasi quasi volessero rubargli i denari di tasca. La baronessa invece coll'aria indifferentevoltandogli le spallechiamando verso la botola:
- Rosaria! Rosaria!
- E tacete! - esclamò infine il canonico battendo sulle spalle di mastro Lio colla manaccia. - Io so per chi comprate. È per mastro-don Gesualdo.
Giacalone accennò di sìstrizzando l'occhio.
- Non è vero! Mastro-don Gesualdo non ci ha che fare! - si mise a vociare il sensale. - Quello non è il mestiere di mastro-don Gesualdo! - Ma infinecome s'accordarono sul prezzoPirtuso si calmò. Il canonico soggiunse:
- State tranquilloche mastro-don Gesualdo fa tutti i mestieri in cui c'è da guadagnare.
Pirtuso il quale s'era accorto della strizzatina d'occhio di Giacaloneandò a dirgli sotto il naso il fatto suo: - Che non ne vuoi mangiare panetu? Non sai che si tace nei negozi? - La baronessadal canto suomentre il sensale le voltava le spalleammiccò anch'essa al canonico Lupicome a dirgli che riguardo al prezzo non c'era male.
- Sìsì- rispose questi sottovoce. - Il barone Zacco sta per vendere a minor prezzo. Però mastro-don Gesualdo ancora non ne sa nulla.
- Ah! s'è messo anche a fare il negoziante di granomastro-don Gesualdo? Non lo fa più il muratore?
- Fa un po' di tuttoquel diavolo! Dicesi pure che vuol concorrere all'asta per la gabella delle terre comunali...
La baronessa allora sgranò gli occhi: - Le terre del cugino Zacco:... Le gabelle che da cinquant'anni si passano in mano di padre in figlio?... È una bricconata!
- Non dico di no; non dico di no. Oggi non si ha più riguardo a nessuno. Dicono che chi ha più denariquello ha ragione...
Allora si rivolse verso don Diegocon grande enfasipigliandosela coi tempi nuovi:
- Adesso non c'è altro Dio! Un galantuomo alle volte... oppure una ragazza ch'è nata di buona famiglia... Ebbene non hanno fortuna! Invece uno venuto dal nulla... uno come mastro-don Gesualdoper esempio!...
Il canonico riprese a dire come in aria di mistero parlando piano con la baronessa e don Diego Trao sputacchiando di qua e di là:
- Ha la testa fine quel mastro-don Gesualdo! Si farà ricco ve lo dico io! Sarebbe un marito eccellente per una ragazza a modo... come ce ne son tante che non hanno molta dote.
Mastro Lio stavolta se ne andava davvero. - Dunque signora baronessaposso venire a caricare il grano? - La baronessatornata di buon umorerispose: - Sì ma sapete come dice l'oste? “ Qui si mangia e qui si beve; senza denari non ci venire.“
- Pronti e contantisignora baronessa. Grazie a Dio vedrete che saremo puntuali.
- Se ve l'avevo detto! - esclamò Giacalone ansando sul vaglio. - È mastro-don Gesualdo!
Il canonico fece un altro segno d'intelligenza alla baronessae dopo che Pirtuso se ne fu andatole disse:
- Sapete cosa ho pensato? di concorrere pure all'asta vossignoriainsieme a qualchedun altro... ci starei anch'io...
- Nonoho troppa carne al fuoco!... Poi non vorrei fare uno sgarbo al cugino Zacco! Sapete bene... Siamo nel mondo... Abbiamo bisogna alle volte l'uno dell'altro.
- Intendo... mettere avanti un altro... mastro-don Gesualdo Mottaper esempio. Un capitaluccio lo ha; lo so di sicuro... Vossignoria darebbe l'appoggio del nome... Si potrebbe combinare una società fra di noi tre...
Posciasembrandogli che don Diego Trao stesse ad ascoltare i loro progettiperchè costui aspettava il momento di parlare alla cugina Rubieraimpresciuttito nella sua palandranae aveva tutt'altro per la testa il poveraccio! il canonico cambiò subito discorso:
- Ehehquante cose ha visto questo magazzino! Mi rammentoda piccoloil marchese Limòli che recitava Adelaide e Comingio colla Margaronebuon'animala madre di don Filippoquella ch'è andata a finire poi alla Salonia. “Adelaide! dove sei?“ - La scena della Certosa... Bisognava vedere! tutti col fazzoletto agli occhi! Tanto che don Alessandro Spina per la commozionesi mise a gridare: “Ma diglielo che sei tu!...“ e le buttò anche una parolaccia... Ci fu poi la storia della schioppettata che tirarono al marchese Limòlimentre stava a prendere il frescodopo cena; e di don Nicola Margarone che condusse la moglie in campagnae non le fece più vedere anima viva. Ora riposano insieme marito e moglie nella chiesa del Rosariopace alle anime loro!
La baronessa affermava coi segni del capodando un colpo di scopadi tanto in tantoper dividere il grano dalla mondiglia. - Così andavano in rovina le famiglie. Se non ci fossi stata ioin casa dei Rubiera!... Lo vedete quel che sarebbe rimasto di tante grandezze! Io non ho fumigrazie a Dio! Io sono rimasta quale mi hanno fatto mio padre e mia madre... gente di campagnagente che hanno fatto la casa colle loro maniinvece di distruggerla! e per loro c'è ancora della grazia di Dio nel magazzino dei Rubierainvece di feste e di teatri...
In quella arrivò il vetturale colle mule cariche.
- Rosaria! Rosaria! - si mise a gridare di nuovo la baronessa verso la scaletta.
Finalmente comparvero dalla botola le scarpaccie e le calze turchinepoi la figura di scimmia della servasudiciaspettinatasempre colle mani nei capelli.
- Don Ninì non era alla Vignazza- disse lei tranquillamente. - Alessi è ritornato col canema il baronello non c'era.
- OhVergine Santa! - cominciò a strillare la padronaperdendo un po' del suo colore acceso. - OhMaria Santissima! E dove sarà mai? Cosa gli sarà accaduto al mio ragazzo?
Don Diego a quel discorso si faceva rosso e pallido da un momento all'altro. Aveva la faccia di uno che voglia dire: - Aprititerrae inghiottimi! - Tossìcercò il fazzoletto dentro il cappelloaprì la bocca per parlare; poi si volse dall'altra parteasciugandosi il sudore. Il canonico s'affrettò a rispondereguardando sottecchi don Diego Trao.
- Sarà andato in qualche altro posto... Quando si va a cacciasapete bene...
- Tutti i vizi di suo padrebuon'anima! Cacciagiuocodivertimenti... senza pensare ad altro... e senza neppure avvertirmi!... Figuratevistanottequando le campane hanno suonato al fuocovado a cercarlo in camera suae non lo trovo! Mi sentirà!... Ohmi sentirà!...
Il canonico cercava di troncare il discorsocol viso inquietoil sorriso sciocco che non voleva dir nulla:
- Ehehbaronessa! vostro figlio non è più un ragazzo; ha ventisei anni!
- Ne avesse anche cento!... Fin che si maritacapite!... E anche dopo!
- Signora baronessadove s'hanno a scaricare i muli? - disse Rosariagrattandosi il capo.
- Vengovengo. Andiamo per di qua. Voialtri passerete pel cortilequando avrete terminato.
Essa chiuse a catenaccio Giacalone e Vito Orlando dentro il magazzinoe s'avviò verso il portone.
La casa della baronessa era vastissimamessa insieme a pezzi e bocconia misura che i genitori di lei andavano stanando ad uno ad uno i diversi proprietarisino a cacciarsi poi colla figliuola nel palazzetto dei Rubiera e porre ogni cosa in comune: tetti alti e bassi; finestre d'ogni grandezzaqua e làcome capitava; il portone signorile incastrato in mezzo a facciate da catapecchie. Il fabbricato occupava quasi tutta la lunghezza del vicoletto. La baronessadiscorrendo sottovoce col canonico Lupis'era quasi dimenticata del cuginoil quale veniva dietro passo passo. Ma giunti al portone il canonico si tirò indietro prudentemente: - Un'altra volta; tornerò poi. Adesso vostro cugino ha da parlarvi. Fate gli affari vostridon Diego.
- Ahscusatecugino. Entrateentrate pure.
Fin dall'androne immenso e buiofiancheggiato di porticine basseferrate a uso di prigionesi sentiva di essere in una casa ricca: un tanfo d'olio e di formaggio che pigliava alla gola; poi un odore di muffa e di cantina. Dal rastrello spalancatocome dalla profondità di una cavernavenivano le risate di Alessi e della serva che riempivano i barilie il barlume fioco del lumicino posato sulla botte.
- Rosaria! Rosaria! - tornò a gridare la baronessa in tono di minaccia. Quindi rivolta al cugino Trao: - Bisogna darle spesso la vocea quella benedetta ragazza; perché quando ci ha degli uomini sottomano è un affar serio! Ma del resto è fidatae bisogna aver pazienza. Che posso farci?... Una casa piena di roba come la mia!...
Più in lànel cortile che sembrava quello di una fattoria popolato di gallinedi anatredi tacchiniche si affollavano schiamazzando attorno alla padronail tanfo si mutava in un puzzo di concime e di strame abbondante. Due o tre muli dalla lunga fila sotto la tettoiaallungarono il collo ragliando; dei piccioni calarono a stormi dal tetto; un cane da pecoraio ferocesi mise ad abbaiarestrappando la catena; dei conigli allungavano pure le orecchie inquietedall'oscurità misteriosa della legnaia. E la baronessa in mezzo a tutto quel ben di Diodisse al cugino:
- Voglio mandarvi un paio di piccioniper Bianca...
Il poveraccio tossìsi soffiò il nasoma non trovò neppure allora le parole da rispondere. Infinedopo un laberinto di anditi e di scaletteper stanzoni oscuriingombri di ogni sorta di robamucchi di fave e di orzo riparati dai graticciarnesi di campagnacassoni di biancheriaarrivarono nella camera della baronessaimbiancata a calcecol gran letto nuziale rimasto ancora tale e qualedopo vent'anni di vedovanzadal ramoscello d'ulivo benedettoa piè del crocifissoallo schioppo del marito accanto al capezzale.
La cugina Rubiera era tornata a lamentarsi del figliuolo: - Tale e quale suo padrebuon'anima! Senza darsi un pensiero al mondo della mamma o dei suoi interessi!...
Vedendo il cugino Trao inchiodato sull'usciorimpiccinito nel soprabitonegli porse da sedere: - Entrateentratecugino Trao. - Il poveretto si lasciò cadere sulla seggiolaquasi avesse le gambe rottesudando come Gesù all'orto; si cavò allora il cappellaccio bisuntopassandosi il fazzoletto sulla fronte.
- Avete da dirmi qualche cosacugino? Parlatedite pure.
Egli strinse forte le mani l'una nell'altradentro il cappelloe balbettò colla voce rocale labbra smorte e tremantigli occhi umidi e tristi che evitavano gli occhi della cugina:
- Sissignora... Ho da parlarvi...
Leida primaal vedergli quella facciapensò che fosse venuto a chiederle denari in prestito. Sarebbe stata la prima voltaè vero: erano troppo superbi i cugini Trao: qualche regalucciodi quelli che aiutano a tirare innanzivinooliofrumentosolevano accettarlo dai parenti ricchi - leila cugina Sganciil barone Mèndola - ma la mano non l'avevano mai stesa. Però alle volte il bisogno fa chinare il capo anche ad altro!... La prudenza istintiva che era nel sangue di leile agghiacciò un momento il sorriso benevolo. Poscia pensò al fuoco che avevano avuto in casaalla malattia di Bianca - era una buona donna infine - don Diego aveva proprio una faccia da far compassione... Accostò la sua seggiola a quella di luiper fargli animoe soggiunse:
- Parlateparlatecugino mio... Quel che si può fare... sapete bene... siamo parenti... I tempi non rispondono... ma quel poco che si può... Non molto... ma quel poco che posso... fra parenti... Parlate pure...
Ma egli non potevano! colle fauci strettela bocca amaraalzando ogni momento gli occhi su di leie aprendo le labbra senza che ne uscisse alcun suono. Infinecavò di nuovo il fazzoletto per asciugarsi il sudorese lo passò sulle labbra aridebalbettando:
- È accaduta una disgrazia!... Una gran disgrazia!...
La baronessa ebbe paura di essersi lasciata andare troppo oltre. Nei suoi occhiche fuggivano quelli lagrimosi del cuginocominciò a balenare la inquietudine del contadino che teme per la sua roba.
- Cioè!... cioè!...
- Vostro figlio è tanto ricco!... Mia sorella noinvece!...
A quelle parole la cugina Rubiera tese le orecchiecolla faccia a un tratto irrigidita nella maschera dei suoi progenitoriimprontata della diffidenza arcigna dei contadini che le avevano dato il sangue delle vene e la casa messa insieme a pezzo a pezzo colle loro mani. Si alzòandò ad appendere la chiave allo stipite dell'usciofrugò alquanto nei cassetti del cassettone. Infinevedendo che don Diego non aggiungeva altro:
- Ma spiegatevicugino. Sapete che ho tanto da fare...
Invece di spiegarsi don Diego scoppiò a piangere come un ragazzonascondendo il viso incartapecorito nel fazzoletto di cotonecon la schiena curva e scossa dai singhiozzi ripetendo:
- Bianca! mia sorella!... È capitata una gran disgrazia alla mia povera sorella!... Ahcugina Rubiera!... voi che siete madre!...
Adesso la cugina aveva tutt'altra faccia anche lei: le labbra strette per non lasciarsi scappar la pazienzae una ruga nel bel mezzo della fronte: la ruga della gente che è stata all'acqua e al sole per farsi la roba - o che deve difenderla. In un lampo le tornarono in mente tante cose alle quali non aveva badato nella furia del continuo da fare: qualche mezza parola della cugina Macrì; le chiacchiere che andava spargendo don Luca il sagrestano; certi sotterfugi del figliuolo. A un tratto si sentì la bocca amara come il fiele anch'essa.
- Non socugino- gli rispose secco secco. - Non so come ci entri io in questi discorsi...
Don Diego stette un po' a cercare le paroleguardandola fisso negli occhi che dicevano tante cosein mezzo a quelle lagrime di onta e di doloree poi nascose di nuovo il viso fra le maniaccompagnando col capo la voce che stentava a venir fuori:
- Sì!... sì!... Vostro figlio Ninì!...
La baronessa stavolta rimase lei senza trovar parolacon gli occhi che le schizzavano fuori dal faccione apoplettico fissi sul cugino Traoquasi volesse mangiarselo; quindi balzò in piedi come avesse vent'annie spalancò in furia la finestra gridando:
- Rosaria! Alessi! venite qua!
- Per carità! per carità! - supplicava don Diego a mani giuntecorrendole dietro. - Non fate scandaliper carità! - E tacquesoffocato dalla tossepremendosi il petto.
Ma la cuginafuori di sénon gli dava più retta. Sembrava un terremoto per tutta la casa: gli schiamazzi dal pollaio; l'uggiolare del cane; le scarpaccie di Alessi e di Rosaria che accorrevano a rotta di colloarruffatiscalmanaticon gli occhi bassi.
- Dov'è mio figlioinfine? Cosa t'hanno detto alla Vignazza? Parlastupido! - Alessi dondolandosi ora su di una gamba e ora sull'altrabalbettandoguardando inquieto di qua e di làripeteva sempre la stessa cosa: - Il baronello non era alla Vignazza. Vi aveva lasciato il caneMarchesela sera innanzied era partito: - A piedisissignora. Così mi ha detto il fattore. - La servarassettandosi di nascostoa capo chinosoggiunse che il baronelloallorché andava a caccia di buon'orasoleva uscire dalla porticina della stallaper non svegliar nessuno: - La chiave?... Io non so... Ha minacciato di rompermi le ossa... La colpa non è miasignora baronessa!... - Come le pigliasse un accidentealla signora baronessa. - Poi sgattaiolarono entrambi mogi mogi. Nella scala si udirono di nuovo le scarpaccie che scendevano a precipizioinseguendosi.
Don Diegocadavericocol fazzoletto sulla bocca per frenare la tossecontinuava a balbettare soffocato delle parole senza senso.
- Era lì... dietro quell'uscio!... Meglio m'avesse ucciso addirittura... allorché mi puntò le pistole al petto... a me!... le pistole al pettocugina Rubiera!...
La baronessa si asciugava le labbra amare come il fiele col fazzoletto di cotone: - No! questa non me l'aspettavo!... dite la veritàcugino don Diegoche non me la meritavo!... Vi ho sempre trattati da parenti... E quella gatta morta di Bianca che me la pigliavo in casa giornate intere... come una figliuola...
- Lasciatela starecugina Rubiera! - interruppe don Diegocon un rimasuglio del vecchio sangue dei Trao alle guance.
- Sìsìlasciamola stare! Quanto a mio figlio ci penserò ionon dubitate! Gli farò fare quel che dico ioal signor baronello... Birbante! assassino! Sarà causa della mia morte!...
E le spuntarono le lagrime. Don Diegoavvilitonon osava alzare gli occhi. Ci aveva fissi dinanziimplacabiliCiollala farmacia di Bommale risate ironiche dei vicinile chiacchiere delle comaried anche insistente e dolorosala visione netta della sua casadove un uomo era entrato di notte: la vecchia casa che gli sembrava sentir trasalire ancora in ogni pietra all'eco di quei passi ladri: e Biancasua sorellala sua figliuolail suo sangueche gli aveva mentitoche s'era stretta tacita nell'ombra all'uomo il quale veniva a recare così mortale oltraggio ai Trao: il suo povero corpo delicato e fragile nelle braccia di un estraneo!... Le lagrime gli scendevano amare e calde a lui pure lungo il viso scarno che nascondeva fra le mani.
La baronessainfinesi asciugò gli occhie sospirò rivolta al crocifisso:
- Sia fatta la volontà di Dio! Anche voicugino Traodovete aver la bocca amara! Che volete: Tocca a noi che abbiamo il peso della casa sulle spalle!... Dio sa se della mia pelle ho fatto scarpedalla mattina alla sera! se mi son levato il pan di bocca per amore della roba!... E poi tutto a un trattoci casca addosso un negozio simile!... Ma questa è l'ultima che mi farà il signor baronello!... L'aggiusterò ionon dubitate! Alla fin fine non è più un ragazzo! Lo mariterò a modo mio... La catena al collolà! quella ci vuole!... Ma voilasciatemelo diredovevate tenere gli occhi aperticugino Trao!... Non parlo di vostro fratello don Ferdinandoch'è uno stupidopoverettosebbene sia il primogenito... ma voi che avete più giudizio... e non siete un bambino neppur voi! Dovevate pensarci voi!... Quando si ha in casa una ragazza... L'uomo è cacciatoresi sa!... A vostra sorella avreste dovuto pensarci voi... o piuttosto lei stessa... Quasi quasi si direbbe... colpa sua!... Chissà cosa si sarà messa in testa?... magari di diventare baronessa Rubiera...
Il cugino Trao si fece rosso e pallido in un momento.
- Signora baronessa... siamo poveri... è vero... Ma quanto a nascita...
- Ehcaro mio! la nascita... gli antenati... tutte belle cose... non dico di no... Ma gli antenati che fecero mio figlio barone... volete sapere quali furono?... Quelli che zapparono la terra!... Col sudore della frontecapite? Non si ammazzarono a lavorare perché la loro roba poi andasse in mano di questo e di quello... capite?...
In quel mentre bussarono al portone col pesante martello di ferro che rintronò per tutta la casae suscitò un'altra volta lo schiamazzo del pollaioi latrati del cane; e mentre la baronessa andava alla finestraper vedere chi fosseRosaria gridò dal cortile:
- C'è il sensale... quello del grano...
- Vengovengo! - seguitò a brontolare la cugina Rubieratornando a staccare dal chiodo la chiave del magazzino. - Vedete quel che ci vuole a guadagnare un tarì a salmacon Pirtuso e tutti gli altri! Se ho lavorato anch'io tutta la vitae mi son tolto il pan di boccaper amore della casaintendo che mia nuora vi abbia a portare la sua dote anch'essa...
Don Diegosgambettando più lesto che poteva dietro alla cugina Rubieraper gli anditi e gli stanzoni pieni di roba seguitava:
- Mia sorella non è ricca... cugina Rubiera... Non ha la dote che ci vorrebbe... Le daremo la casa e tutto... Ci spoglieremo per lei... Ferdinando ed io...
- Appuntovi dicevo!... Badate che c'è uno scalino rotto... Voglio che mio figlio sposi una bella dote. La padrona son ioquella che l'ha fatto barone. Non l'ha fatta lui la roba! Entrateentratemastro Lio. Lìdal cancello di legno. È aperto...
- Vostro figlio però lo sapeva che mia sorella non è ricca!...- ribatteva il povero don Diego che non si risolveva ad andarsenementre la cugina Rubiera aveva tanto da fare. Essa allora si voltò come un gallocoi pugni sui fianchiin cima alla scala:
- A mio figlio ci penso iotorno a dirvi! Voi pensate a vostra sorella... L'uomo è cacciatore... Lo manderò lontano! Lo chiudo a chiave! Lo sprofondo! Non tornerà in paese altro che maritato! colla catena al collo! ve lo dico io! La mia croce! la mia rovina!...
Quindimossa a compassione dalla disperazione muta del poveraccioil quale non si reggeva sulle gambeaggiunsescendendo adagio adagio:
- E del resto... sentitedon Diego... Farò anch'io quello che potrò per Bianca... Sono madre anch'io!... Sono cristiana!... Immagino la spina che dovete averci lì dentro...
- Signora baronessadice che il farro non risponde al peso- gridò Alessi dalla porta del magazzino.
- Che c'è? Cosa dice?... Anche il peso adesso? La solita rinculata! per carpirmi un altro ribasso!...
E la baronessa partì come una furia. Per un po' si udì nella profondità del magazzino un gran vocìo: sembrava che si fossero accapigliati. Pirtuso strillava peggio di un agnello in mano al beccaio; Giacalone e Vito Orlando vociavano anch'essiper metterli d'accordoe la baronessa fuori di séche ne diceva di tutti i colori. Poscia vedendo passare il cugino Traoil quale se ne andava colla coda fra le gambela testa infossata nelle spallebarcollandolo fermò sull'usciocambiando a un tratto viso e maniere:
- Sentitesentite... l'aggiusteremo fra di noi questa faccenda... Infine cos'è stato?... Niente di malene son certa. Una ragazza col timor di Dio... La cosa rimarrà fra voi e me... l'accomoderemo fra di noi... Vi aiuterò anch'iodon Diego... Sono madre... son cristiana... La mariteremo a un galantuomo...
Don Diego scosse il capo amaramenteavvilitobarcollando come un ubbriaco nell'andarsene.
- Sìsìle troveremo un galantuomo... Vi aiuterò anch'io come posso... Pazienza!... Farò un sagrificio...
Egli a quelle parole si fermòcogli occhi spalancatitutto tremante: - Voi!... cugina Rubiera!... No!... no!... Questo non può essere...
In quel momento veniva dal magazzino il sensalebianco di puladuroperfino nella barba che gli tingeva di nero il viso anche quand'era fatta di fresco: gli occhietti grigi come due tarì d'argentosotto le sopracciglia aggrottate dal continuo stare al sole e al vento in campagna.
- Bacio le manisignora baronessa.
- Come? Così ve ne andate? Che c'è di nuovo? Non vi piace il farro?
L'altro disse di no col capo anch'essoal pari di don Diego Traoil quale se ne andava rasente al murocontinuando a scrollare la testacome fosse stato colto da un accidenteinciampando nei sassi ogni momento.
- Come? - seguitava a sbraitare la baronessa. - Un negozio già conchiuso!...
- C'è forse caparrasignora baronessa?
- Non c'è caparra; ma c'è la parola!...
- In tal casobacio le mani a vossignoria!
E tirò viaostinato come un mulo. La baronessafuribondagli strillò dietro:
- Sono azionacce da pari vostro! Un pretesto per rompere il negozio... degno di quel mastro-don Gesualdo che vi manda... ora che s'è pentito...
Giacalone e Vito Orlando gli correvano dietro anch'essi scalmanandosi a fargli sentire la ragione. Ma Pirtuso tirava viasenza rispondere neppuredicendo a don Diego Trao che non gli dava retta:
- La baronessa ha un bel dire... come se al caso non avrebbe fatto lo stesso lei pure!... Ora che il barone Zacco ha cominciato a vendere con ribasso... Villano o baronessa la caparra è quella che conta. Dico benevossignoria?
III
La signora Sganci aveva la casa piena di gentevenuta per vedere la processione del Santo patrono: c'erano dei lumi persino nella scala; i cinque balconi che mandavano fuoco e fiamma sulla piazza nera di popolo; don Giuseppe Barabba in gran livrea e coi guanti di cotoneche annunziava le visite.
- Mastro-don Gesualdo! - vociò a un trattocacciando fra i battenti dorati il testone arruffato. - Devo lasciarlo entraresignora padrona?
C'era il fior fiore della nobiltà: l'arciprete Bugnolucente di raso nero; donna Giuseppina Alòsicarica di gioie; il marchese Limòlicon la faccia e la parrucca del secolo scorso. La signora Sgancisorpresa in quel bel modo dinanzi a tanta gentenon seppe frenarsi.
- Che bestia! Sei una bestia! Don Gesualdo Mottasi dice! bestia!
Mastro-don Gesualdo fece così il suo ingresso fra i pezzi grossi del paeseraso di frescovestito di panno finecon un cappello nuovo fiammante fra le mani mangiate di calcina.
- Avantiavantidon Gesualdo! - strillò il marchese Limòli con quella sua vocetta acre che pizzicava. - Non abbiate suggezione.
Mastro-don Gesualdo però esitava alquantointimiditoin mezzo alla gran sala tappezzata di damasco giallosotto gli occhi di tutti quei Sganci che lo guardavano alteramente dai ritrattiin giro alle pareti.
La padrona di casa gli fece animo:
- Quiquic'è posto anche per voidon Gesualdo.
C'era appunto il balcone del vicolettoche guardava di sbieco sulla piazzaper gli invitati di seconda mano ed i parenti poveri: donna Chiara Macrìcosì umile e dimessa che pareva una serva; sua figlia donna Agrippinamonaca di casa una ragazza con tanto di baffiun faccione bruno e bitorzoluto da zoccolantee due occhioni neri come il peccato che andavano frugando gli uomini. In prima fila il cugino don Ferdinandocurioso più di un ragazzoche s'era spinto innanzi a gomitatee allungava il collo verso la Piazza Grande dal cravattone neroal pari di una tartarugacogli occhietti grigi e stralunatiil mento aguzzo e color di filiggineil gran naso dei Trao palpitanteil codino ricurvosimile alla coda di un cane sul bavero bisunto che gli arrivava alle orecchie pelose; e sua sorella donna Bianca rincantucciata dietro di luicolle spalle un po' curveil busto magro e piattoi capelli lisciil viso smunto e dilavatovestita di lanetta in mezzo a tutto il parentado in gala.
La zia Sganci tornò a dire:
- Venite quidon Gesualdo. V'ho serbato il posto per voi. Quivicino ai miei nipoti.
Bianca si fece in làtimidamente. Don Ferdinandotemendo d'esser scomodatovolse un momento il capoaccigliatoe mastro-don Gesualdo si avvicinò al balconeinciampandobalbettandosprofondandosi in scuse. Rimase lìdietro le spalle di coloro che gli stavano dinanzialzando il capo a ogni razzo che saliva dalla piazza per darsi un contegno meno imbarazzato.
- Scusate! scusate! - sbuffò allora donna Agrippina Macrìarricciando il nasofacendosi strada coi fianchi poderosiassettandosi sdegnosa il fazzoletto bianco sul petto enorme; e capitò nel crocchio dove era la zia Cirmena colle altre damesul balcone grandein mezzo a un gran mormorìotutte che si voltavano a guardare verso il balcone del vicolettoin fondo alla sala.
- Me l'han messo lì... alle costolecapite!... Un'indecenza!
- Ahè quello lo sposo! - domandò sottovoce donna Giuseppina Alòsicogli occhietti che sorridevano in mezzo al viso placido di luna piena.
- Zitto! zitto. Vado a vedere... - disse la Cirmenae attraversò la sala - come un mare di luce nel vestito di raso giallo - per andare a fiutare che cosa si macchinasse nel balcone del vicoletto. Lì tutti sembravano sulle spine: la zia Macrì fingendo di guardare nella piazzaBianca zitta in un cantuccioe don Ferdinando solo che badava a godersi la festavoltando il capo di qua e di làsenza dire una parola.
- Vi divertite quieh? Tu ti divertiBianca?
Don Ferdinando volse il capo infastidito; poi vedendo la cugina Cirmenaborbottò: - Ah... donna Sarina... buona sera! buona sera! - E tornò a voltarsi dall'altra parte. Bianca alzò gli occhi dolci ed umili sulla zia e non rispose; la Macrì abbozzò un sorriso discreto.
La Cirmena riprese subitoguardando don Gesualdo:
- Che caldoeh? Si soffoca! C'è troppa gente questa volta..
La cugina Sganci ha invitato tutto il paese...
Mastro-don Gesualdo fece per tirarsi da banda.
- Nononon vi scomodatecaro voi... Sentite piuttostocugina Macrì...
- Signora! signora! - vociò in quel momento don Giuseppe Barabbafacendo dei segni alla padrona.
- No- rispose lei- prima deve passare la processione.
Il marchese Limòli la colse a volo mentre s'allontanavafermandola pel vestito: - Cuginacuginalevatemi una curiosità: cosa state almanaccando con mastro-don Gesualdo?
- Me l'aspettavo... cattiva lingua!... - borbottò la Sganci; e lo piantò lìsenza dargli rettache se la rideva fra le gengive nudesprofondato nel seggiolonecome una mummia maliziosa.
Entrava in quel punto il notaro Neripiccolocalvorotondouna vera trottolacol ventre petulantela risata chiassosala parlantina che scappava stridendo a guisa di una carrucola. - Donna Mariannina!... Signori miei!... Quanta gente!... Quante bellezze!... - Poiscoperto anche mastro-don Gesualdo in pompa magnafinse di chinarsi per vederci megliocome avesse le traveggoleinarcando le cigliacolla mano sugli occhi; si fece il segno della croce e scappò in furia verso il balcone grandecacciandosi a gomitate nella follaborbottando:
- Questa è più bella di tutte!... Com'è vero Dio!
Donna Giuseppina Alòsi istintivamente corse con la mano sulle gioie; e la signora Capitanache non avendo da sfoggiarne metteva in mostra altre ricchezzeal sentirsi frugare nelle spalle si volse come una vipera.
- Scusatescusate; - balbettava il notaro. - Cerco il barone Zacco.
Dalla via San Sebastianoal disopra dei tettisi vedeva crescere verso la piazza un chiarore d'incendiodal quale di tratto in tratto scappavano dei razzidinanzi alla statua del santocon un vocìo di folla che montava a guisa di tempesta.
- La processione! la processione! - strillarono i ragazzi pigiati contro la ringhiera. Gli altri si spinsero innanzi; ma la processione ancora non spuntava. Il cavaliere Peperitoche si mangiava con gli occhi le gioie di donna Giuseppina Alòsi - degli occhi di lupo affamato sulla faccia magrafolta di barba turchiniccia sino agli occhi - approfittò della confusione per soffiarle nell'orecchio un'altra volta:
- Sembrate una giovinettadonna Giuseppina! parola di cavaliere!
- Zittocattivo soggetto! - rispose la vedova. - Raccomandatevi piuttosto al santo Patrono che sta per arrivare.
- Sìsìse mi fa la grazia...
Dal seggiolone dove era rannicchiato il marchese Limòli sorse allora la vocetta fessa di lui:
- Serviteviservitevi pure! Già son sordolo sapete.
Il barone Zaccorosso come un peperonerientrò dal balconesenza curarsi del santosfogandosi col notaro Neri:
- Tutta opera del canonico Lupi!... Ora mi cacciano fra i piedi anche mastro-don Gesualdo per concorrere all'asta delle terre comunali!... Ma non me le toglieranno! dovessi vendere Fontanarossavedete! Delle terre che da quarant'anni sono nella mia famiglia!...
Tutt'a un trattosotto i balconila banda scoppiò in un passodoppio furibondorovesciandosi in piazza con un'onda di popolo che sembrava minacciosa. La signora Capitana si tirò indietro arricciando il naso.
- Che odore di prossimo viene di laggiù!
- Capite? - seguitava a sbraitare il barone Zacco - delle terre che pago già a tre onze la salma! E gli par poco!
Il notaro Neriche non gli piaceva far sapere alla gente i fatti suoisi rivolse alla signora Capitana scollacciata ch'era un'indecenzacol pretesto che si faceva mandare i vestiti da Palermola quale civettava in mezzo a un gruppo di giovanotti.
- Signora Capitana! signora Capitana! Così rubate la festa al santo! Tutti gli voltano le spalle!
- Come siete stupiditutti quanti! - rispose la Capitanagongolante. - Vado a mettermi vicino al marcheseche ha più giudizio di voi.
- Ahimè! ahimè! signora mia!...
Il marchesecogli occhietti svegli adessoandava fiutandole da presso il profumo di bergamotta tanto che essa doveva schermirsi col ventaglioe il vecchietto ad ostinarsi:
- No! no! lasciatemi fare le mie devozioni!...
L'arciprete prese tabaccosi spurgòtossìinfine si alzòe si mosse per andarsenegonfiando le gote - le gote lucenti la sottana lucenteil grosso anello lucentetanto che le male lingue dicevano fosse falso; mentre il marchese gli gridava dietro:
- Don Calogero! don Calogero! dico per dire che diavolo! Alla mia età...
E appena cessarono le risate alla sortita del marchesesi udì donna Giuseppina Alòsiche faceva le sue confidenze al cavaliere.
-... come fossi liberacapite! Le due grandi al Collegio di Maria; il maschio al Seminario; in casa ci ho soltanto l'ultimoSarinoch'è meno alto di questo ventaglio. Poi i miei figliuoli hanno la roba del loro padrebuon'anima...
Donna Sarina tornò verso il balcone grande chiacchierando sottovoce colla cugina Macrìcon delle scrollatine di capo e dei sorrisetti che volevano dire.
- Però non capisco il mistero che vuol farne la cugina Sganci!... Siamo parenti di Bianca anche noialla fin fine!...
- È quello? quello lì? - tornò a chiedere donna Giuseppina col sorriso maligno di prima.
La Cirmena accennò di sìstringendo le labbra sottilicogli occhi rivolti altrovein aria di mistero anch'essa. Infine non si tenne più:
- Fanno le cose sottomano... come se fossero delle sudicerie. Capiscono anche loro che manipolano delle cose sporche... Ma la gente poi non è così sciocca da non accorgersi... Un mese che il canonico Lupi si arrabatta in questo negozio... un va e vieni fra la Sganci e la Rubiera...
- Non me lo dite! - esclamò Peperito. - Una Trao che sposa mastro-don Gesualdo!... Non me lo dite!... Quando vedo una famiglia illustre come quella scendere tanto basso mi fa male allo stomacoin parola d'onore!
E volse le spalle soffiandosi il naso come una trombetta nel fazzoletto sudiciofremendo d'indignazione per tutta la personcina miseradopo aver saettato un'occhiata eloquente a donna Giuseppina.
- Chi volete che la sposi?... senza dote!... - ribatté la Cirmena al cavaliere ch'era già lontano. - Poidopo quello ch'è successo!...
- Almeno si metterà in grazia di Dio! - osservò piano la zia Macrì. La sua figliuola che stava ad ascoltare senza dir nullafissando in volto a chi parlava quegli occhioni ardentiscosse la tonacaquasi avesse temuto d'insudiciarla fra tante sozzuree mormorò colla voce d'uomocolle grosse labbra sdegnose sulle quali sembrava veder fremere i peli neririvolta al chiarore della processione che s'avvicinava al di sopra dei tetti della viacome un incendio:
- Santo Patrono! Guardatemi voi!
- Queste sono le conseguenze!... La ragazza si era messa in testa non so che cosa... Un disonore per tutto il parentado!... La cugina Sganci ha fatto bene a ripararvi... Non dico di no!... Ma avrebbe dovuto parlarne a noi pure che siamo parenti di Bianca al par di lei... Piuttosto che fare le cose di nascosto... Scommetto che neppure don Ferdinando ne sa nulla...
- Ma l'altro fratello... don Diegocosa ne dice?...
- Ahdon Diego?... sarà a rovistare fra le sue cartacce... Le carte della lite!... Non pensa ad altro... Crede d'arricchire colla lite!... Lo vedete che non è uscito di casa neppure per la festa... Poi forse si vergogna a farsi vedere dalla gente... Tutti così quei Trao... Degli stupidi!... gente che si troveranno un bel giorno morti di fame in casapiuttosto di aprir bocca per...
- Il canonicono! - stava dicendo il notaro mentre s'avvicinavano al balcone discorrendo sottovoce col barone Zacco. - Piuttosto la baronessa... offrendole un guadagno... Quella non ha puntiglio!... Del canonico non ho paura... - E tutto sorridente poi colle signore:
- Ah!... donna Chiara!... La bella monaca che avete in casa!... Una vera grazia di Dio!...
- Ehmarchese? eh? Chi ve l'avrebbe dettoai vostri tempi?... che sareste arrivato a vedere la processione del santo Patrono spalla a spalla con mastro-don Gesualdoin casa Sganci! - riprese il barone Zaccoil quale pensava sempre a una cosae non poteva mandarla giùguardando di qua e di là cogli occhiacci da spiritatoammiccando alle donne per farle ridere.
Il marcheseimpenetrabilerispose solo:
- Ehehcaro barone! Eheh!
- Sapete quanto ha guadagnato nella fabbrica dei mulini mastro-don Gesualdo? - entrò a dire il notaro a mezza voce in aria di mistero. - Una bella somma! Ve lo dico io!... Si è tirato su dal nulla... Me lo ricordo io manovalecoi sassi in spalla... sissignore!... Mastro Nunziosuo padrenon aveva di che pagare le stoppie per far cuocere il gesso nella sua fornace... Ora ha l'impresa del ponte a Fiumegrande!... Suo figlio ha sborsato la cauzionetutta in pezzi da dodici tarìl'un sull'altro... Ha le mani in pasta in tutti gli affari del comune... Dicono che vuol mettersi anche a speculare sulle terre... L'appetito viene mangiando... Ha un bell'appetito... e dei buoni dentive lo dico io!... Se lo lasciano faredi qui a un po' si dirà che mastro-don Gesualdo è il padrone del paese!
Il marchese allora levò un istante la sua testolina di scimmia; ma poi fece una spallucciatae risposecon quel medesimo risolino tagliente:
- Per me... non me ne importa. Io sono uno spiantato.
- Padrone?... padrone?... quando saran morti tutti quelli che son nati prima di lui!... e meglio di lui! Venderò Fontanarossa; ma le terre del comune non me le toglie mastro-don Gesualdo! Né soloné coll'aiuto della baronessa Rubiera!
- Che c'è? che c'è? - interruppe il notaro correndo al balconeper sviare il discorsopoiché il barone non sapeva frenarsi e vociava troppo forte.
Giù in piazzadinanzi al portone di casa Sgancivedevasi un tafferugliodei vestiti chiari in mezzo alla ressaberretti che volavano in ariae un tale che distribuiva legnate a diritta e a manca per farsi largo. Subito dopo comparve sull'uscio dell'anticamera don Giuseppe Barabbacolle mani in aria strangolato dal rispetto.
- Signora!... signora!...
Era tutto il casato dei Margarone stavolta: donna Fifìdonna Giovanninadonna Mitala mamma Margaronedonna Belloniadei Bracalanti di Pietraperzianientemenoche soffocava in un busto di raso verdepavonazzasorridente; e dietroil papà Margaronedignitosogonfiando le goteappoggiandosi alla canna d'India col pomo d'orosenza voltar nemmeno il capotenendo per mano l'ultimo dei MargaroneNicolinoil quale strillava e tirava calci perché non gli facevano vedere il santo dalla piazza. Il papàbrandendo la canna d'Indiavoleva insegnargli l'educazione.
- Adesso? - sogghignò il marchese per calmarlo. - Oggi ch'è festa? Lasciatelo stare quel povero ragazzodon Filippo!
Don Filippo lasciò starelimitandosi a lanciare di tanto in tanto qualche occhiataccia autorevole al ragazzo che non gli badava. Intanto gli altri facevano festa alle signore Margarone: - Donna Bellonia!... donna Fifì!... che piacerestasera!... - Perfino don Giuseppe Barabbaa modo suosbracciandosi a portar delle altre seggiole e a smoccolare i lumi. Poi dal balcone si mise a fare il telegrafo con qualcuno ch'era giù in piazzagridando per farsi udire in mezzo al gran brusìo della folla: - Signor barone! signor barone! - Infine corse dalla padronatrionfante:
- Signora! signora! Eccolo che viene! ecco don Ninì!.
Donna Giuseppina Alòsi abbozzò un sorrisetto alla gomitata che le piantò nei fianchi il barone Zacco. La signora Capitana invece si rizzò sul busto - come se sbocciassero allora le sue belle spalle nude dalle maniche rigonfie.
- Sciocco! Non ne fai una bene! Cos'è questo fracasso? Non è questa la maniera!
Don Giuseppe se ne andò brontolando.
Ma in quella entrava don Ninì Rubieraun giovanotto alto e massiccio che quasi non passava dall'usciobianco e rosso in visocoi capelli ricciutie degli occhi un po' addormentati che facevano girare il capo alle ragazze. Donna Giovannina Margaroneun bel pezzo di grazia di Dio anch'essacinghiata nel busto al pari della mammasi fece rossa come un papaveroal vedere entrare il baronello. Ma la mamma le metteva sempre innanzi la maggioredonna Fifìdisseccata e gialla dal lungo celibatotutta pelosacon certi denti che sembrava volessero acchiappare un marito a volosopraccarica di nastridi fronzoli e di galecome un uccello raro.
- Fifì vi ha scoperto per la prima in mezzo alla folla!... Che follaeh? Mio marito ha dovuto adoperare il bastone per farci largo. Proprio una bella festa! Fifì ci ha detto: Ecco lì il baronello Rubieravicino al palco della musica...
Don Ninì guardava intorno inquieto. A un tratto scoprendo la cugina Bianca rincantucciata in fondo al balcone del vicolettosmorta in visosi turbòsmarrì un istante il suo bel colorito fiorentee rispose balbettando:
- Sissignora... infatti... sono della commissione...
- Bravo! bravo! Bella festa davvero! Avete saputo far le cose bene!... E vostra madredon Ninì?...
- Presto! presto! - chiamò dal balcone la zia Sganci. - Ecco qui il santo!
Il marchese Limòliche temeva l'umidità della seraaveva afferrato la mamma Margarone pel suo vestito di raso verde e faceva il libertino: - Non c'è furianon c'è furia! Il santo torna ogni anno. Venite quadonna Bellonia. Lasciamo il posto ai giovaninoi che ne abbiamo viste tante delle feste!
E continuava a biasciarle delle barzellette salate nell'orecchio che sembrava arrossire dalla vergogna; divertendosi alla faccia seria che faceva don Filippo sul cravattone di raso; mentre la signora Capitanaper far vedere che sapeva stare in conversazionerideva come una mattachinandosi in avanti ogni momentoriparandosi col ventaglio per nascondere i denti bianchiil seno biancotutte quelle belle cose di cui studiava l'effetto colla coda dell'occhiomentre fingeva d'andare in collera allorché il marchese si pigliava qualche libertà soverchia - adesso che erano soli - diceva lui col suo risolino sdentato di satiro.
- Mita! Mita! - chiamò infine la mamma Margarone.
- No! no! Non mi scappatedonna Bellonia!... Non mi lasciate solo con la signora Capitana... alla mia età!... Donna Mita sa quel che deve fare. È grande e grossa quanto le sue sorelle messe insieme; ma sa che deve fare la bambinaper non far torto alle altre due.
Il notaro Neriche per la sua professione sapeva i fatti di tutto il paese e non aveva peli sulla linguadomandò alla signora Margarone:
- Dunquece li mangeremo presto questi confetti pel matrimonio di donna Fifì?
Don Filippo tossì forte. Donna Bellonia rispose che sino a quel momento erano chiacchiere: la gente parlava perché sapeva don Ninì Rubiera un po' assiduo con la sua ragazza:
- Nulla di serio. Nulla di positivo... - Ma le si vedeva una gran voglia di non esser creduta. Il marchese Limòli al solito trovò la parola giusta:
- Finché i parenti non si saranno accordati per la dotenon se ne deve parlare in pubblico.
Don Filippo affermò col capoe donna Belloniavista l'approvazione del maritos'arrischiò a dire:
- È vero.
- Sarà una bella coppia! - soggiunse graziosamente la signora Capitana.
Il cavaliere Peperitoonde non stare a bocca chiusa come un alloccoin mezzo al crocchio dove l'aveva piantato donna Giuseppina per non dar troppo nell'occhioscappò fuori a dire:
- Però la baronessa Rubiera non è venuta!... Come va che la baronessa non è venuta dalla cugina Sganci?
Ci fu un istante di silenzio. Solo il barone Zaccoda vero zoticoper sfogare la bile che aveva in corposi diede la briga di rispondere ad alta vocequasi fossero tutti sordi:
- È malata!... Ha mal di testa!... - E intanto faceva segno di no col capo. Posciaficcandosi in mezzo alla gentea voce più bassacol viso acceso:
- Ha mandato mastro-don Gesualdo in vece sua!... il futuro socio!... sissignore!... Non lo sapete? Piglieranno in affitto le terre del comune... quelle che abbiamo noi da quarant'anni... tutti i Zaccodi padre in figlio!...!... Una bricconata! Una combriccola fra loro tre: Padre figliuolo e spirito santo! La baronessa non ha il coraggio di guardarmi in faccia dopo questo bel tiro che vogliono farmi... Non voglio dire che sia rimasta a casa per non incontrarsi con me... Che diavolo! Ciascuno fa il suo interesse... Al giorno d'oggi l'interesse va prima della parentela... Io poi non ci tengo molto alla nostra... Si sa da chi è nata la baronessa Rubiera!... E poi fa il suo interesse... Sissignore!... Lo so da gente che può saperlo!... Il canonico le fa da suggeritore; mastro-don Gesualdo ci mette i capitalie la baronessa poi... un bel nulla... l'appoggio del nome!... Vedremo poi quale dei due conta di piùfra il suo e il mio!... Ohse la vedremo!... Intanto per provare cacciano innanzi mastro-don Gesualdo... vedetelìnel balcone dove sono i Trao?...
- Bianca! Bianca! - chiamò il marchese Limòli.
- Iozio?
- Sìvieni qua. - Che bella figurina! - osservò la signora Capitana per adulare il marchesementre la giovinetta attraversava la salatimidacol suo vestito di lanettal'aria umile e imbarazzata delle ragazze povere.
- Sì- rispose il marchese. - È di buona razza.
- Ecco! ecco! - si udì in quel momento fra quelli ch'erano affacciati. - Ecco il santo!
Peperito colse la palla al balzo e si cacciò a capo fitto nella folla dietro la signora Alòsi. La Capitana si levò sulla punta dei piedi; il notarogalanteproponeva di sollevarla fra le braccia. Donna Bellonia corse a far la mammaaccanto alle sue creature; e suo marito si contentò di montare su di una sediaper vedere.
- Cosa ci fai lì con mastro-don Gesualdo? - borbottò il marcheserimasto solo colla nipote.
Bianca fissò un momento sullo zio i grandi occhi turchini e dolcila sola cosa che avesse realmente bella sul viso dilavato e magro dei Traoe rispose:
- Ma... la zia l'ha condotto lì...
- Vieni quavieni qua. Ti troverò un posto io.
Tutt'a un tratto la piazza sembrò avvampare in un vasto incendiosul quale si stampavano le finestre delle casei cornicioni dei tettila lunga balconata del Palazzo di Cittàformicolante di gente. Nel vano dei balconi le teste degli invitati che si pigiavanonere in quel fondo infuocato; e in quello di centro la figura angolosa di donna Fifì Margaronesorpresa da quella lucepiù verde del solitocolla faccia arcigna che voleva sembrar commossail busto piatto che anelava come un manticegli occhi smarriti dietro le nuvole di fumoi denti soli rimasti feroci; quasi abbandonandosispalla a spalla contro il baronello Rubierail quale sembrava pavonazzo a quella luceincastrato fra lei e donna Giovannina; mentre Mita sgranava gli occhi di bambinaper non vederee Nicolino andava pizzicando le gambe della genteper ficcarvi il capo framezzo e spingersi avanti.
- Cos'hai? ti senti male? - disse il marchese vedendo la nipote così pallida.
- Non è nulla... È il fumo che mi fa male... Non dite nullazio! Non disturbate nessuno!...
Di tanto in tanto si premeva sulla bocca il fazzolettino di falsa batista ricamato da lei stessae tossivaadagio adagiochinando il capo; il vestito di lanetta le faceva delle pieghe sulle spalle magre. Non diceva nullastava a guardare i fuochicol viso affilato e pallidocome stirato verso l'angolo della boccadove erano due pieghe dolorosegli occhi spalancati e lucentiquasi umidi. Soltanto la mano colla quale appoggiavasi alla spalliera della seggiola era un po' tremante e l'altra distesa lungo il fianco si apriva e chiudeva macchinalmente: delle mani scarne e bianche che spasimavano.
- Viva il santo Patrono! Viva san Gregorio Magno! - Nella follalaggiù in piazzail canonico Lupiil quale urlava come un ossessoin mezzo ai contadinie gesticolava verso i balconi del palazzo Sgancicol viso in suchiamando ad alta voce i conoscenti:
- Donna Marianna?... Eh?... eh?... Dev'esserne contento il baronello Rubiera!... Baronello? don Ninì? siete contento?... Vi salutodon Gesualdo! Bravo! bravo! Siete lì!... - Poi corse di sopra a precipizioscalmanatorosso in visocol fiato ai dentila sottana rimboccatail mantello e il nicchio sotto l'ascellale mani sudice di polverein un mare di sudore: - Che festaeh! signora Sganci! - Intanto chiamava don Giuseppe Barabba che gli portasse un bicchier d'acqua: - Muoio dalla setedonna Marianna! Che bei fuochieh?... Circa duemila razzi! Ne ho accesi più di duecento con le mie mani sole. Guardate che manisignor marchese!... Ahsiete quidon Gesualdo? Bene! bene! Don Giuseppe? Chissà dove si sarà cacciato quel vecchio stolido di don Giuseppe:
Don Giuseppe era salito in soffittaper vedere i fuochi dall'abbainoa rischio di precipitare in piazza. Comparve finalmentecol bicchier d'acquatutto impolverato e coperto di ragnatelidopo che la padrona e il canonico Lupi si furono sgolati a chiamarlo per ogni stanza.
Il canonico Lupich'era di casagli diede anche una lavata di capo. Posciavoltandosi verso mastro-don Gesualdocon una faccia tutta sorridente:
- Bravobravodon Gesualdo! Son contentone di vedervi qui. La signora Sganci mi diceva da un pezzo: l'anno venturo voglio che don Gesualdo venga in casa miaa vedere la processione!
Il marchese Limòliil quale aveva salutato gentilmente il santo Patrono al suo passaggioinchinandosi sulla spalliera della seggiolaraddrizzò la schiena facendo un boccaccia.
- Ahi! ahi!... Se Dio vuole è passata anche questa!... Chi campa tutto l'anno vede tutte le feste.
- Ma di veder ciò che avete visto stavolta non ve l'aspettate più! - sogghignava il barone Zaccoaccennando a mastro-don Gesualdo. - No! no! Me lo rammento coi sassi in spalla... e le spalle lacere!... sul ponte delle fabbrichequest'amicone mio con cui oggi ci troviamo quia tu per tu!...
Però la padrona di casa era tutta cortesie per mastro-don Gesualdo. Ora che il santo aveva imboccato la via di casa sua sembrava che la festa fosse per lui: donna Marianna parlandogli di questo e di quello; il canonico Lupi battendogli sulla spalla; la Macrì che gli aveva ceduto persino il posto; don Filippo Margarone anche lui gli lasciava cadere dall'alto del cravattone complimenti simili a questi:
- Il nascer grandi è casoe non virtù!... Venire su dal nullaqui sta il vero merito! Il primo mulino che avete costruito in appaltoeh? coi denari presi in prestito al venti per cento!...
- Sì signore- rispose tranquillamente don Gesualdo. - Non chiudevo occhiola notte.
L'arciprete Bugnoingelosito dei salamelecchi fatti a un altrodopo tutti quegli spariquelle gridaquel fracasso che gli parevano dedicati un po' anche a luicome capo della chiesaera riuscito a farsi un po' di crocchio attorno pur essodiscorrendo dei meriti del santo Patrono: un gran santo!... e una gran bella statua... I forestieri venivano apposta per vederla... Degli inglesis'era risaputo poil'avrebbero pagata a peso d'oroonde portarsela laggiùfra i loro idoli... Il marchese che stava per iscoppiarel'interruppe alla fine:
- Ma che sciocchezze!... Chi ve le dà a beredon Calogero? La statua è di cartapesta... una brutta cosa!... I topi ci hanno fatto dentro il nido... Le gioie?... Eh! eh! non arricchirebbero neppur mefiguratevi! Vetro colorato... come tante altre che se ne vedono!... un fantoccio da carnevale!... Eh? Cosa dite?... Sìun sacrilegio! Il mastro che fece quel santo dev'essere a casa del diavolo... Non parlo del santo ch'è in paradiso... Lo soè un'altra cosa... Basta la fede... Son cristiano anch'ioche diavolo!... e me ne vanto!...
La signora Capitana affettava di guardare con insistenza la collana di donna Giuseppina Alòsinel tempo stesso che rimproverava il marchese: - Libertino!... libertino! - Peperito s'era tappate le orecchie. L'arciprete Bugno ricominciò daccapo: - Una statua d'autore!... Il ReDio guardivoleva venderla al tempo della guerra coi giacobini!... Un santo miracoloso!...
- Che c'è di nuovodon Gesualdo? - gridò infine il marchese ristuccocon la vocetta fessavoltando le spalle all'arciprete. - Abbiamo qualche affare in aria?
Il barone Zacco si mise a ridere fortecogli occhi che schizzavano fuori dell'orbita; ma l'altroun po' stordito dalla ressa che gli si faceva attornonon rispose.
- A me potete dirlocaro mio- riprese il vecchietto malizioso. - Non avete a temere che vi faccia la concorrenzaio!
Al battibecco si divertivano anche coloro che non gliene importava nulla. Il barone Zaccopoifiguriamoci! - Eh! eh! marchese!... Voi non la fatela concorrenza?... Eh! eh!
Mastro-don Gesualdo volse un'occhiata in giro su tutta quella gente che ridevae rispose tranquillamente:
- Che voletesignor marchese?... Ciascuno fa quel che può...
- Fatefateamico mio. Quanto a menon ho di che lagnarmene...
Don Giuseppe Barabba si avvicinò in punta di piedi alla padronae le disse in un orecchiocon gran mistero -
- Devo portare i sorbettiora ch'è passata la processione?
- Un momento! un momento! - interruppe il canonico Lupi- lasciatemi lavar le mani.
- Se non li porto subito- aggiunse il servitore- se ne vanno tutti in broda. È un pezzo che li ha mandati Giacintoed eran già quasi strutti.
- Va beneva bene... Bianca?
- Zia...
- Fammi il piacereaiutami un po' tu.
Dall'uscio spalancato a due battenti entrarono poco dopo don Giuseppe e mastro Tittail barbiere di casacarichi di due gran vassoi d'argento che sgocciolavano; e cominciarono a fare il giro degli invitatipasso passocome la processione anch'essi. Prima l'arcipretedonna Giuseppina Alòsila Capitanagli invitati di maggior riguardo. Il canonico Lupi diede una gomitata al barbiereil quale passava dinanzi a mastro-don Gesualdo senza fermarsi. - Che so io?... Se ne vedono di nuove adesso!... - brontolò mastro Titta. Il ragazzo dei Margarone ficcava le dita dappertutto.
- Zio?...
- Graziecara Bianca... Ci ho la tosse... Sono invalido... come tuo fratello...
- Donna Bellonialìsul balcone! - suggerì la zia Sgancila quale si sbracciava anche lei a servire gli invitati.
Dopo il primo movimento generaleun manovrar di seggiole per schivare la pioggia di sciroppoerano seguiti alcuni istanti di raccoglimentoun acciottolìo discreto di piattelliun lavorar guardingo e tacito di cucchiaicome fosse una cerimonia solenne. Donna Mita Margaroneghiottasenza levare il naso dal piatto. Barabba e mastro Titta in disparteposati i vassoisi asciugavano il sudore coi fazzoletti di cotone.
Il baronello Rubiera il quale stava discorrendo in un cantuccio del balcone grande naso a naso con donna Fifìguardandosi negli occhidegli occhi che si struggevano come i sorbettisi scostò bruscamente al veder comparire la cuginascolorandosi un po' in viso. Donna Bellonia prese il piattino dalle mani di Biancainchinandosi goffamente:
- Quante gentilezze!... è troppo! è troppo!
La figliuola finse di accorgersi soltanto allora della sua amica:
- OhBianca... sei qui?... che piacere!... M'avevano detto ch'eri ammalata...
- Sì... un po'... Adesso sto bene...
- Si vede... Hai bella cera... E un bel vestitino anche... semplice!... ma grazioso!...
Donna Fifì si chinò fingendo d'osservare la stoffaonde far luccicare i topazii che aveva al collo. Bianca risposefacendosi rossa:
- È di lanetta... un regalo della zia...
- Ah!... ah!...
Il baronello ch'era sulle spine propose di rientrare in sala: - Comincia ad esser umido... Piglieremo qualche malanno...
- Sì!... Fifì! Fifì! - disse la signora Margarone.
Donna Fifì dovette seguire la mammacoll'andatura cascante che le sembrava molto sentimentalela testolina alquanto piegata sull'omerole palpebre che battevanocolpite dalla luce più vivasugli occhi illanguiditi come avesse sonno.
Bianca posò la mano sul braccio del cuginoil quale stava per svignarsela anche lui dal balconedolcementecome una carezzacome una preghiera; tremava tuttacolla voce soffocata nella gola:
- Ninì!... SentiNinì!... fammi la carità!... Una parola sola!... Son venuta apposta... Se non ti parlo qui è finita per me... è finita!...
- Bada!... c'è tanta gente!... - esclamò sottovoce il cuginoguardando di qua e di là cogli occhi che fuggivano. Ella gli teneva fissi addosso i begli occhi supplichevolicon un grande sconfortoun grande abbandono doloroso in tutta la personanel viso pallido e disfattonell'atteggiamento umilenelle braccia inerti che si aprivano desolate.
- Cosa mi rispondiNinì?... Cosa mi dici di fare?... Vedi... sono nelle tue braccia... come l'Addolorata!...
Egli allora cominciò a darsi dei pugni nella testacommossocol cuore gonfio anch'essobadando a non far strepito e che non sopraggiungesse nessuno nel balcone. Bianca gli fermò la mano.
- Hai ragione!... siamo due disgraziati!... Mia madre non mi lascia padrone neanche di soffiarmi il naso!... Capisci? capisci?... Ti pare che non ci pensi a te?... Ti pare che non ci pensi?... La notte... non chiudo occhio!... Sono un povero disgraziato!... La gente mi crede felice e contento...
Guardava giù nella piazzaora spopolataonde evitare gli occhi disperati della cugina che gli passavano il cuoreaddoloratocogli occhi quasi umidi anch'esso.
- Vedi? - soggiunse. - Vorrei essere un povero diavolo... come Santo Mottalaggiù!... nell'osteria di Pecu-Pecu... Povero e contento!...
- La zia non vuole?
- Nonon vuole!... Che posso farci?... Essa è la padrona!
Si udiva nella sala la voce del barone Zaccoche disputavaalterato; e poinei momenti ch'esso tacevail cicaleccio delle signorecome un passeraiocon la risatina squillante della signora Capitanache faceva da ottavino.
- Bisogna confessarle tuttoalla zia!...
Don Ninì allungò il collo verso il vano del balconeguardingo. Poscia risposeabbassando ancora la voce:
- Gliel'ha detto tuo fratello... C'è stato un casa del diavolo!... Non lo sapevi?
Don Giuseppe Barabba venne sul balcone portando un piattello su ciascuna mano.
- Donna Biancadice la zia... prima che si finiscano...
- Grazie; mettetelo lìsu quel vaso di fiori...
- Bisogna far prestodonna Bianca. Non ce n'è quasi più.
Don Ninì allora mise il naso nel piattellofingendo di non badare ad altro: - Tu non ne vuoi?
Essa non rispose. Dopo un po'quando il servitore non era più lìsi udì di nuovo la voce sorda di lei:
- È vero che ti mariti?
- Io?...
- Tu... con Fifì Margarone...
- Non è vero... chi te l'ha detto?...
- Tutti lo dicono.
- Io non vorrei... È mia madre che si è messa in testa questa cosa... Anche tu... dicono che vogliono farti sposare don Gesualdo Motta...
- Io?...
- Sìtutti lo dicono... la zia... mia madre stessa...
Si affacciò un istante donna Giuseppina Alòsicome cercando qualcheduno; e vedendo i due giovani in fondo al balconerientrò subito nella sala.
- Vedi? vedi? - disse lui. - Abbiamo tutti gli occhi addosso!... Piglia il sorbetto... per amor mio... per la gente che ci osserva... Abbiamo tutti gli occhi addosso!...
Essa prese dolcemente dalle mani di lui il piattino che aveva fatto posare sul vaso dei garofani; ma tremava così che due o tre volte si udì il tintinnìo del cucchiaino il quale urtava contro il bicchiere.
Barabba corse subito dicendo:
- Eccomi! eccomi!
- Un momento! Un momento ancoradon Giuseppe!
Il baronello avrebbe pagato qualcosa di tasca sua per trattenere Barabba sul balcone.
- Come vi tratta la festadon Giuseppe?
- Che voletesignor barone?... Tutto sulle mie spalle!... la casa da mettere in ordinele fodere da toglierei lumi da preparare... Donna Biancaquipuò dirloche mi ha dato una mano. Mastro Titta fu chiamato solo pel trattamento. E domani poi devo tornare a scopare e rimettere le fodere...
Don Giuseppe seguitando a brontolare se ne andò coi bicchieri vuoti. Dalla sala arrivò il suono di una sghignazzata generalesubito dopo qualcosa che aveva detto il notaro Nerie che non si poté intender bene perché il notaro quando le diceva grosse abbassava la voce.
- Rientriamo anche noi- disse il baronello. - Per allontanare i sospetti...
Ma Bianca non si mosse. Piangeva chetanell'ombra; e di tanto in tanto si vedeva il suo fazzoletto bianco salire verso gli occhi. - Ecco!... Sei tu che fai parlare la gente! - scappò detto al cugino ch'era sulle spine.
- Che te ne importa? - rispose lei. - Che te ne importa?... Oramai!...
- Sì! sì!... Credi che non ti voglia più bene?...
Uno struggimentoun'amarezza sconfinata venivano dall'ampia distesa nera dell'Alìadirimpettoal di là delle case dei Barresidalle vigne e gli oliveti di Giolioche si indovinavano confusamenteoltre la via del Rosario ancora formicolante di lumidal lungo altipiano del Casalgilardorotto dall'alta cantonata del Collegiodal cielo profondoricamato di stelle - una più lucentelassùche sembrava guardassefreddatristesolitaria. Il rumore della festa si dileguava e moriva lassùverso San Vito. Un silenzio desolato cadeva di tanto in tantoun silenzio che stringeva il cuore. Bianca era ritta contro il muroimmobile; le mani e il viso smorti di lei sembravano vacillare al chiarore incerto che saliva dal banco del venditore di torrone. Il cugino stava appoggiato alla ringhierafingendo di osservare attentamente l'uomo che andava spegnendo la luminarianella piazza desertae il giovane del paratoreil quale correva su e giù per l'impalcato della musicacome un gattone neroschiodandomartellandobuttando giù i festoni e le ghirlande di carta. I razzi che scappavano ancora di tratto in trattolontanodietro la massa nera del Palazzo di Cittài colpi di martello del paratorele grida più rarestanche e avvinazzatesembravano spegnersi lontanonella vasta campagna solitaria. Insieme all'acre odore di polvere che dileguavaandava sorgendo un dolce odor di garofani; passava della gente cantando; udivasi un baccano di chiacchiere e di risate nella salavicino a loronello schianto di quell'ultimo addio senza parole.
Nel vano luminoso del balcone passò un'ombra magrae si udì la tosserella del marchese Limòli:
- Ehehragazzi!... benedetti voialtri!... Sono venuto a veder la festa... ora ch'è passata... Biancanipote mia... bada che l'aria della sera ti farà male...
- Nozio- rispose lei con voce sorda. - Si soffoca lì dentro.
- Pazienza!... Bisogna sempre aver pazienza a questo mondo... Meglio sudare che tossire... TuNinobada che le signore Margarone stanno per andarsene.
- Vadozio.
- Vavase no vedrai che denti! Non vorrei averli addosso neppur io!... E sì che non posso fare lo schifiltoso!... Che diavolo gli è saltato in corpo a tua madredi farti sposare quei denti?...
- Ah... zio!...
- Sei uno sciocco! Dovresti lasciarle fare il diavolo a quattro quanto le pare e piacea tua madre!... Sei figlio unico!... A chi vuoi che lasci la roba dopo la sua morte?
- Eh... da qui a trent'anni!... Il tempo di crepare di fame intanto!... Mia madre sta meglio di voi e di mee può campare ancora trent'anni!...
- È vero! - rispose il marchese. - Tua madre non sarebbe molto contenta di sentirsi lesinare gli anni... Ma è colpa sua.
- Ah! zio mio!... Credetemi ch'è un brutto impiccio!...
- Càlmati! càlmati!... Consòlati pensando a chi sta peggio di te.
S'affacciò la signora Capitanasveltairrequietaguardando sorridente di qua e di là nella strada.
- Mio marito?... Non viene ancora?...
- Il santo non è ancora rientrato - rispose don Ninì. - Si ode subito il campanone di San Giovanniappena giunge in chiesae attacca l'altra festa.
Però la gente cominciava ad andarsene di casa Sganci. Prima si vide uscire dal portone il cavalier Peperitoche scomparve dietro la cantonata del farmacista Bomma. Un momento dopo spuntò il lanternone che precedeva donna Giuseppina Alòsila quale attraversò la piazzasporca di carta bruciata e di gusci di fave e nocciuolein punta di piedicolle sottane in manoavviandosi in su pel Rosario; e subito dopodalla farmaciascantonò di nuovo l'ombra di Peperitoche le si mise dietro quatto quattorasente al muro. La signora Capitana fece udire una risatina seccae il baronello Rubiera confermò:
- È lui!... Peperito!... com'è vero Dio!
Il marchese prese il braccio di sua nipote e rientrò con lei nella sala. In quel momento mastro-don Gesualdoin piedi presso il balconediscorreva col canonico Lupi. Questi perorando con caloresottovocein aria di misterostringendoglisi addossoquasi volesse entrargli in tasca col muso di furetto; l'altro seriocol mento nella manosenza dire una parolaaccennando soltanto col capo di tratto in tratto. - Tale e quale come un ministro! - sogghignava il barone Zacco. Il canonico conchiuse con una stretta di mano enfaticavolgendo un'occhiata al baroneil quale finse di non accorgersenerosso al par di un gallo. La padrona di casa portava le mantiglie e i cappellini delle signorementre tutti i Margarone in piedi mettevano sossopra la casa per accomiatarsi.
- To'... Bianca!... Ti credevo già andata via!... - esclamò donna Fifì col sorriso che mordeva.
Bianca rispose soltanto con un'occhiata che sembrava attonitatanto era smarrita e dolente; in quel tempo suo cugino si dava gran moto fra le mantiglie e i cappellinia capo basso.
- Un momento! un momento! - esclamò don Filippo levando il braccio rimastogli liberomentre coll'altro reggeva Nicolino addormentato.
Si udiva un tafferuglio nella piazza; strilli da lontano; la gente correva verso San Giovannie il campanone che suonava a distesalaggiù.
La signora Capitana rientrò dal balcone tappandosi le orecchie colle belle mani candidestrillando in falsetto:
- Mio marito!... Si picchiano!...
E si abbandonò sul canapècogli occhi chiusi. Le signore si misero a vociare tutte in una volta; la padrona di casa gridava a Barabba di scendere a dare il catenaccio giù al portone; mentre donna Bellonia spingeva le sue ragazze in branco nella camera di donna Marianninae il marchese Limòli picchiava sulle mani della Capitana dei colpettini secchi. Il notaro Neri propose anche di slacciarla.
- Vi pare?... - diss'ella allora balzando in piedi infuriata. - Per chi m'avete presadon asino?
Giunse in quel momento il Capitanoseguito da don Liccio Papa che sbraitava in anticameranarrando l'accaduto- non lo avrebbero trattenuto in cento.
- La solita storia di ogni anno! - disse finalmente il signor Capitanodopo che si fu rimesso vuotando d'un fiato un bicchier d'acqua. - I devoti di San Giovanni che danno mano al campanone un quarto d'ora prima!... Soperchierie!... Quelli di San Vito poi che non vogliono tollerare... Legnate da orbi ci sono state!
- La solita storia di ogni anno! - ripeté il canonico Lupi. - Una porcheria! La Giustizia non fa nulla per impedire...
Il Capitano in mezzo alla salacoll'indice teso verso di luisbuffò infine:
- Sentitelo!... Perché non ci andate voi? Un altro po' facevano la festa a me pure!... Vostro marito ha corso pericolo della vitadonna Carolina!...
La signora Capitanacol bocchino strettogiunse le mani:
- Gesummaria!... Maria Santissima del pericolo!...
- Stai fresca! - borbottò il notaro voltandosi in là. - Stai fresca davvero!... se aspetti che tuo marito voglia arrischiare la pelle per lasciarti vedova!...
Don Ninì Rubiera cercando il cappello s'imbatté nella cuginala quale gli andava dietro come una fantasimastravoltaincespicando a ogni passo.
- Bada!... - le disse lui. - Bada!... Ci guardano!... C'è lì don Gesualdo!...
- Bianca! Bianca! Le mantiglie di queste signore! - gridò la zia Sganci dalla camera da letto dove s'era ficcato tutto lo stormo dei Margarone.
Essa frugava in mezzo al mucchiocolle mani tremanti. Il cugino era così turbato anch'esso che seguitava a cercare il suo cappello lui pure. - Guardace l'ho in testa! Non so nemmeno quello che fo.
Si guardò attorno come un ladromentre ciascuno cercava la sua roba in anticamerae la tirò in disparte verso l'uscio
- Senti... per l'amor di Dio!... sii cauta!... Nessuno ne sa nulla... Tuo fratello non sarà andato a raccontarlo... Ed io neppure... Sai che t'ho voluto bene più dell'anima mia!...
Essa non rispose verbogli occhi soli che parlavanoe dicevano tante cose.
- Non guardarmi con quella facciaBianca!... no!... non guardarmi così... mi tradirei anch'io!...
Donna Fifì uscì col cappello e la mantigliastecchitale labbra strette quasi fossero cucite; e siccome sua sorellagiovialonasi voltava a salutare Biancala richiamò con la voce stizzosa:
- Giovannina! andiamo! andiamo!
- Meno male questa qui! - borbottò il baronello. - Ma sua sorella è un castigo di Dio.
La zia Sganciaccompagnando le Margarone sino all'usciodisse a mastro-don Gesualdo che si sprofondava in inchini sul pianerottoloa rischio di ruzzolare giù per la scala:
- Don Gesualdofate il favore... Accompagnate i miei nipoti Trao... Già siete vicini di casa... Don Ferdinando non ci vede bene la sera...
- Sentite qua! sentite qua! - gli disse il canonico.
Zacco non si dava pace; fingeva di cercare il lampione nelle cassapanche dell'anticameraper darlo da portare a mastro-don Gesualdo. - Giacché deve accompagnare donna Bianca... una dei Trao... Non gli sarebbe passato neppure pel capo di ricevere tanto onore... a mastro-don Gesualdo!... - Però costui non poteva udire perché aspettava nella piazzadiscorrendo col canonico. Solo don Liccio Papail quale chiudeva la marcia colla sciaboletta a tracollasi mise a ridere: - Ah! ah!
- Che c'è? - chiese il Capitanoche dava il braccio alla moglie infagottata. - Che c'èinsubordinato?
- Nulla; - rispose il marchese. - Il barone Zacco che abbaia alla luna.
Poimentre scendeva insieme a Biancaappoggiandosi al bastoncinopasso passole disse in un orecchio:
- Senti... il mondo adesso è di chi ha denari... Tutti costoro sbraitano per invidia. Se il barone avesse una figliuola da maritaregliela darebbe a mastro-don Gesualdo!... Te lo dico io che son vecchioe so cos'è la povertà!...
- Eh? Che cosa? - volle sapere don Ferdinandoil quale veniva dietro adagio adagiocontando i sassi.
- Nulla... Dicevamo che bella seracugino Trao!
L'altro guardò in ariae ripeté come un pappagallo: - Bella sera! bella sera!
Don Gesualdo stava aspettandolì davanti al portoneinsieme al canonico Lupi che gli parlava sottovoce nella faccia: - Eh? eh? don Gesualdo?... che ve ne pare? - L'altro accennava col capolisciandosi il mento duro di barba colla grossa mano. - Una perla! una ragazza che non sa altro: casa e chiesa!... Economa... non vi costerà nulla... In casa non è avvezza a spender di certo!... Ma di buona famiglia!... Vi porterebbe il lustro in casa!... V'imparentate con tutta la nobiltà... L'avete vistoehstasera?... che festa v'hanno fatto?... I vostri affari andrebbero a gonfie vele... Anche per quell'affare delle terre comunali... È meglio aver l'appoggio di tutti i pezzi grossi!...
Don Gesualdo non rispose subitosopra pensieria capo chinoseguendo passo passo donna Bianca che s'avviava a casa per la scalinata di Sant'Agata insieme allo zio marchese e al fratello don Ferdinando.
- Sì... sì... Non dico di no... È una cosa da pensarci... una cosa seria... Temo d'imbarcarmi in un affare troppo grossocaro canonico... Quella è sempre una signora... Poi ho tante cose da sistemare prima di risolvere... Ciascuno sa i propri impicci... Bisogna dormirci sopra. La notte porta consigliocanonico mio.
Bianca che se ne andava col cuore strettoascoltando la parlantina indifferente dello zioaccanto al fratello taciturno e allampanatoudì quelle ultime parole.
La notte porta consiglio. La notte scura e desolata nella cameretta misera. La notte che si portava via gli ultimi rumori della festal'ultima lucel'ultima speranza... Come la visione di lui che se ne andava insieme a un'altrasenza voltarsisenza dirle nullasenza rispondere a lei che lo chiamava dal fondo del cuorecon un gemitocon un lamento d'ammalataaffondando il viso nel guanciale bagnato di lagrime calde e silenziose.
IV
Mentre i muratori si riparavano ancora dall'acquazzone dentro il frantoio di Giolio vasto quanto una chiesa facendo alle piastrelleentrò il ragazzo che stava a guardia sull'uscioaddentando un pezzo di panecolla bocca pienavociando:
- Il padrone!... ecco il padrone!...
Dietro di lui comparve mastro-don Gesualdobagnato fradiciotirandosi dietro la mula che scuoteva le orecchie.
- Bravi!... Mi piace!... Divertitevi! Tantola paga vi corre lo stesso!... Corpo di!... Sangue di!...
Agostinoil soprastanteannaspandobofonchiandoaffacciandosi all'uscio per guardare il cielo ancora nuvolo coll'occhio orbotrovò infine la risposta:
- Che s'aveva a fare? bagnarci tutti?... La burrasca è cessata or ora... Siamo cristiani o porci?... Se mi coglie qualche malanno mia madre non lo fa più un altro Agostinono!
- Sìsìhai ragione!... la bestia sono io!... Io ho la pelle dura!... Ho fatto bene a mandare qui mio fratello per badare ai miei interessi!... Si vede!... Sta a passare il tempo anche lui giuocandosia lodato Iddio!...
Santoch'era rimasto a bocca apertacoccoloni dinanzi al pioletto coi quattrinisi rizzò in piedi tutto confusograttandosi il capo.
Gesualdointanto che gli altri si davano da faremogi mogimisurava il muro nuovo colla canna; si arrampicava sulla scala a piuoli; pesava i sacchi di gessosollevandoli da terra: - Sangue di Giuda!... Come se li rubassi i miei denari!... Tutti quanti d'intesa per rovinarmi!... Due giorni per tre canne di muro? Ci ho un bel guadagno in questo appalto!... I sacchi del gesso mezzi vuoti! Neli? Neli? Dov'è quel figlio di mala femmina che ha portato il gesso?... E quella calce che se ne va in polvereeh?... quella calce?... Che non ne avete coscienza di cristiani? Dio di paradiso!... Anche la pioggia a danno mio!... Ci ho ancora i covoni sull'aia!... Non si poteva metter su la macina intanto che pioveva?... Su! animo! la macina! Vi do una mano mentre son qua io...
Santo piuttosto voleva fare una fiammata per asciugargli i panni addosso. - Non importa- rispose lui. - Me ne sono asciugata tanta dell'acqua sulle spalle!... Se fossi stato come tesarei ancora a trasportare del gesso sulle spalle!... Ti rammenti?... E tu non saresti qua a giuocare alle piastrelle!...
Brontolandodandosi da fare per preparare la levale biettei puntellisi voltava indietro per lanciargli delle occhiatacce. - Malannaggia! - esclamò Santo. - Sempre quella storia!... - E se ne andò sull'uscio accigliatocolle mani sotto le ascelleguardando di qua e di là. I manovali esitavanogirando intorno al pietrone enorme; il più vecchiomastro Colatenendo il mento sulla manoscrollando il capoaggrondatoguardando la macina come un nemico. Infine sentenziò ch'erano in pochi per spingerla sulla piattaforma: - Se scappa la levaDio liberi!... Chi si metterà sotto per dar lo scambio alle biette? Io nocom'è vero Dio!... Se scappa la leva!... mia madre non lo fa più un altro mastro Cola Ventura!... Eheh!... Ci vorrebbero dell'altre braccia... un martinetto... Legare poi una carrucola lassù alla travatura del tetto... poi dei cunei sotto... vedetevossignoriaa far girare i cuneisi sta dai lati e non c'è pericolo...
- Bravo! ora mi fate il capomastro! Datemi la stanga!... Io non ho paura!... Intanto che stiamo a chiacchierare il tempo passa! La giornata corre lo stessoeh?... Come se li avessi rubati i miei denari!... Su! da quella parte!... Non badate a me che ho la pelle dura... Via!... su!... Viva Gesù!... Viva Maria!... un altro po'!... Badate! badate!... Ah Mariano! santo diavolonem'ammazzi!... Su!... Viva Maria!... La vita! la vita!... Su!... Che faibestiada quella parte?... Su!... ci siamo! È nostra!... ancora!... da quella parte!... Non abbiate paura che non muore il papa... Su!... su!... se vi scappa la leva!... ancora!... se avessi tenuta cara la pelle... ancora!... come la tien cara mio fratello Santo... santo diavolone! santo diavolonebadate!... a quest'ora sarei a portar gesso sulle spalle!... Il bisogno... via! via!... il bisogno fa uscire il lupo... ancora!... su!... il lupo dal bosco!... Vedete mio fratello Santo che sta a guardare?... Se non ci fossi io egli sarebbe sotto... sotto la macina... al mio posto... invece di grattarsi... a spingere la macina... e la casa... Tutto sulle mie spalle!... Ah! sia lodato Iddio!
Infineassicurata la macina sulla piattaformasi mise a sedere su di un sassotrafelatoancora tremante dal batticuoreasciugandosi il sudore col fazzoletto di cotone.
- Vedete come ci si asciuga dalla pioggia? Acqua di dentro e acqua di fuori! - Santo propose di passare il fiasco in giro. - Ah?... per la fatica che hai fatto?... per asciugarti il sudore anche tu?... Attaccati all'abbeveratoio... qui fuori dell'uscio...
Il tempo s'era abbonacciato. Entrava un raggio di sole dall'uscio spalancato sulla campagna che ora sembrava allargarsi ridentecol paese sull'alturain fondodi cui le finestre scintillavano.
- Lestilestiragazzi! sul ponteandiamo! Guadagniamoci
tutti la giornata... Mettetevi un po' nei panni del padrone che vi paga!... L'osso del collo ci rimetto in quest'appalto!... Ci perdo diggiàcome è vero Iddio!... Agostino! mi raccomando! l'occhio vivo!... La parola dolce e l'occhio vivo!... Mastro Colavoi che siete capomastro!... chi vi ha insegnato a tenere il regolo in mano?... Maledetto voi! Marianodammi quassù il regolosul ponte... Che non ne avete occhicorpo del diavolo!... L'intonaco che screpola e sbulletta!... Mi toccherà poi sentire l'architettomalannaggia a voialtri!... Quando torna quello del gesso ditegli il fatto suoa quel figlio di mala femmina!... ditegli a Neli che sono del mestiere anch'io!... Che ne riparleremo poi sabatoal far dei conti!...
Badava a ogni cosagirando di qua e di lárovistando nei mucchi di tegole e di mattonisaggiando i materialialzando il capo ad osservare il lavoro fattocolla mano sugli occhinel gran sole che s'era messo allora. - Santo! Santo! portami qua la mula... Fagli almeno questo lavoroa tuo fratello! - Agostino voleva trattenerlo a mangiare un bocconepoiché era quasi mezzogiornoun sole che scottavada prendere un malanno chi andava per la campagna a quell'ora. - Nonodevo passare dal Camemi... ci vogliono due ore... Ho tant'altro da fare! Se il sole è caldo tanto meglio! Arriverò asciutto al Camemi... Spicciamociragazzi! Badate che vi sto sempre addosso come la presenza di Dio! Mi vedrete comparire quando meno ve lo aspettate! Sono del mestiere anch'ioe conosco poi se si è lavorato o no!...
Intanto che se ne andavaSanto gli corse dietrolisciando il collo alla mulatenendogli la staffa. Finalmentecome vide che montava a cavallo senza darsene per intesosi piantò in mezzo alla stradagrattandosi l'orecchio: - Così mi lasci? senza domandarmi neppure se ho bisogno di qualche cosa?
- Sìsìho capito. I denari che avesti lunedì te li sei giuocati. Ho capito! ho capito! eccoti il resto. E divèrtiti alle piastrelleche a pagare poi ci son io... il debitore di tutti quanti!...
Brontolava ancora allontanandosi all'ambio della mula sotto il sole cocente: un sole che spaccava le pietre adessoe faceva scoppiettare le stoppie quasi s'accendessero. Nel burronefra i due montisembrava d'entrare in una fornace; e il paese in cima al collearrampicato sui precipizidisseminato fra rupi enormiminato da caverne che lo lasciavano come sospeso in arianerastrorugginososembrava abbandonatosenza un'ombracon tutte le finestre spalancate nell'afasimili a tanti buchi nerile croci dei campanili vacillanti nel cielo caliginoso. La stessa mula anelavatutta sudatanel salire la via erta. Un povero vecchio che s'incontròcarico di manipolisfinitosi mise a borbottare:
- O dove andate vossignoria a quest'ora?... Avete tanti denarie vi date l'anima al diavolo!
Giunse al paese che suonava mezzogiornomentre tutti scappavano a casa come facesse temporale. Dal Rosario veniva il canonico Lupiaccaldatocol nicchio sulla nucasoffiando forte:
- Ahahdon Gesualdo!... andate a mangiare un boccone?... Io noper mia disgrazia! Sono a bocca asciutta sino a quest'ora... Vado a celebrare la santa messa... la messa di mezzogiorno!... un capriccio di Monsignore!
- Sono salito al paese apposta per voi!.... Ho fatto questa pettata!... È caldoeh! - intanto si asciugava il sudore col fazzoletto. - Ho paura che mi giuochino qualche tiroriguardo a quell'appalto delle strade comunalisignor canonico. Vossignoria che vi fate sentire in paese... ci avete pensato? So poi l'obbligo mio!...
- Ma che dite?... fra di noi!... ci sto lavorando... A propositoche facciamo per quell'altro affare? ci avete pensato? che risposta mi date?
Don Gesualdo il quale aveva messo al passo la mulacamminandogli allatocurvo sulla sellaun po' sbalordito dal gran solerispose:
- Che affare? Ne ho tanti!... Di quale affare parlate vossignoria?
- Ah! ah! la pigliate su quel verso?... Scusate... scusate tanto!...
Il canonico mutò subito discorsoquasi non gliene importasse neppure a lui: parlò dell'altro affare della gabellache bisognava venire a una conclusione colla baronessa Rubiera: - C'è altre novità... Il notaro Neri ha fatto lega con Zacco... Ho paura che...
Don Gesualdo allora smontò dalla mulapremurosotirandola dietro per le redinimentre andava passo passo insieme al pretetutto orecchia capo chino e col mento in mano.
- Temo che mi cambino la baronessa!... Ho visto il barone a confabulare con quello sciocco di don Ninì... ieri seradietro il Collegio... Finsi d'entrare nella farmacia per non farmi scorgere. Capite? un affare grosso!... Son circa cinquecento salme di terra... C'è da guadagnare un bel pezzo di panesu quell'asta.
Don Gesualdo ci si scaldava lui pure: gli occhi accesi dall'afa che gli brillavano in quel discorso. Temeva però gli intrighi degli avversaritutti pezzi grossidi quelli che avevano voce in capitolo! E il canonico viceversaandava raffreddandosi di mano in manoaggrottandosi in visostringendosi nelle spalleguardandolo fisso di tanto in tantoe scrollando il capo di sotto in sucome a dargli dell'asino.
- Per questo dicevo!... Ma voi la pigliate su quel verso!... Scusatescusatemi tanto!... Volevo con quell'affare procurarvi l'appoggio di un parentado che conta in paese... la prima nobiltà... Ma voi fate l'indifferente... Scusatemi tanto allora!... Anche per dare una risposta alla signora Sganci che ci aveva messo tanto impegno!... Scusatemiè una porcheria...
- Ahparlate dell'affare del matrimonio?...
Il canonico finse di non dar retta lui stavolta: - Ah! ecco vostro cognato! Vi salutomassaro Fortunato!
Burgio aveva il viso lungo un palmoaggrottatocon tanto di muso nel faccione pendente.
- V'ho visto venire di laggiùcognato. Sono stato ad aspettarvi lìal belvedere. Sapete la notizia? Appena quindici salme fecero le fave!... Neanche le spesecom'è vero Iddio!... Son venuto apposta a dirvelo...
- Vi ringrazio! grazie tante! Ora che volete da me? Io ve l'aveva dettoquando avete voluto prendere quella chiusa!... buona soltanto per dar spine!... Volete sempre fare di testa vostrae non ne indovinate unabenedett'uomo! - rispose Gesualdo in collera.
- Beneavete ragione. Lascerò la chiusa. Non la voglio più! Che pretendete altro da me?
- Non la volete?... L'affitto vi dura altri due anni!... Chi volete che la pigli?... Non son tutti così gonzi!...
Il canonicovedendo che il discorso si metteva per le lunghevolse le spalle:
- Vi saluto... Don Luca il sagrestano mi aspetta... digiuno come me sino a quest'ora! - E infilò la scaletta pel quartiere alto.
Don Gesualdo allora infuriato prese a sfogarsi col cognato: - E venite apposta per darmi la bella notizia?... mentre stavo a discorrere dei fatti miei... sul più bello? mi guastate un affare che stavo combinando!... I bei negozi che fate voi! Chi volete che la pigli quella chiusa?
Massaro Fortunato dietro al cognato tornava a ripetere:
- Cercando bene... troveremo chi la pigli... La terra è già preparata a maggese per quest'altr'anno... mi costa un occhio... Vostra sorella fa un casa del diavolo... non mi dà pace!... Sapete che castigo di Diovostra sorella!
- Vi costavi costa!... Io lo so a chi costa! - brontolò Gesualdo senza voltarsi. - Sulle mie spalle ricadono tutte queste belle imprese!...
Burgio s'offese a quelle parole:
- Che volete dire? Spiegatevicognato!... Io già lavoro per conto mio! Non sto alle spalle di nessunoio!
- Sìsìva bene; sta a vedere ora che devo anche pregarvi? Come se non l'avessi sulle spalle la vostra chiusa... come se il garante non fossi io...
Così brontolando tutti e due andarono a cercare Pirtusoche stava al Fossolaggiù verso San Giovanni. Mastro Lio stava mangiando quattro favecoll'uscio socchiuso.
- Entrateentratedon Gesualdo. Benedicite a vossignoria! Ne comandate? volete restar servito? - Poi come udì parlare della chiusa che Burgio avrebbe voluto appioppare a un altrodi allegro che era si fece scuro in visograttandosi il capo.
- Eh! eh!... la chiusa del Purgatorio? È un affar serio! Non la vogliono neanche per pascolo.
Burgio s'affannava a lodarlaterre di pianuraterre profondeche gli avevano dato trenta salme di fave quell'anno soltantopreparate a maggese per l'anno nuovo!... Il cognato tagliò cortocome uno che ha molta altra carne al fuocoe non ha tempo da perdere inutilmente.
- Insommamastro Liovoglio disfarmene. Fate voi una cosa giusta... con prudenza!...
- Questo si chiama parlare! - rispose Pirtuso. - Vossignoria sa fare e sa parlare... - E adesso ammiccava coll'occhietto ammammolatoun sorrisetto malizioso che gli errava fra le rughe della bazza irta di peli sudici.
Sulla strada soleggiata e deserta a quell'ora stava aspettando un contadinocon un fazzoletto legato sotto il mentole mani in tascagiallo e tremante di febbre. Ossequiosoabbozzando un sorriso tristefacendo l'atto di cacciarsi indietro il berretto che teneva sotto il fazzoletto: - Benedicitesignor don Gesualdo... Ho conosciuto la mula... Tanto che vi cercovossignoria! Cosa facciamo per quelle quattro olive di Giolio? Io non ho denari per farle cogliere... Vedete come sono ridotto?... cinque mesi di terzanasissignoreDio ne liberi vossignoria! Son ridotto all'osso... il giorno senza pane e la sera senza lume... pazienza! Ma la spesa per coglier le olive non posso farla... proprio non posso!... Se le voletevossignoria... farete un'opera di caritàvossignoria...
- Eh! eh!... Il denaro è scarso per tuttipadre mio!... Voi perché avete messo il carro innanzi ai buoi?... Quando non potete... Tutti così!... Vi mettereste sulle spalle un feudoa lasciarvi fare... Vedremo... Non dico di no... Tutto sta ad intendersi...
E lasciò cadere un'offerta minimaseguitando ad andarsene per la sua strada senza voltarsi. L'altro durò un pezzetto a lamentarsicorrendogli dietrochiamando in testimonio Dio e i santipiagnucolandobestemmiandoe finì per accettareracconsolato tutto a un trattocambiando tono e maniera.
- Compare Lioavete udito? affare fatto! Un buon negozio per don Gesualdo... pazienza!... ma è detta! Quanto a meè come se fossimo andati dal notaio! - E se ne tornò indietrocolle mani in tasca.
- Sentite quamastro Lio- disse Gesualdo tirando in disparte Pirtuso. Burgio s'allontanò colla mula discretamentesapendo che l'anima dei negozi è il segretointanto che suo cognato diceva al sensale di comprargli dei sommacchiquanti ce n'eranoal prezzo corrente. Udì soltanto mastro Lio che rispondeva sghignazzandocolla bocca sino alle orecchie: - Ah! ah!... siete un diavolo!... Vuol dire che avete parlato col diavolo!... Sapete quel che bisogna vendere e comprare otto giorni prima... Va benerestiamo intesi... Me ne torno a casa ora. Ho quelle quattro fave che m'aspettano.
Burgio non si reggeva in piedi dall'appetitoe si mise a brontolare come il cognato volle passare dalla posta. - Sempre misteri... maneggi sottomano!
Don Gesualdo tornò tutto contentoleggendo una lettera piena di sgorbi e suggellata colla midolla di pane:
- Lo vedete il diavolo che mi parla all'orecchio! eh? M'ha dato anche una buona notiziae bisogna che torni da mastro Lio.
- Io non so nulla... Mio padre non m'ha insegnato a fare queste cose!... - rispose Burgio brontolando. - Io fo come fece mio padre... Piuttostose volete venire a prendere un boccone a casa... Non mi reggo in piedicom'è vero Dio!
- Nonon posso; non ho tempo. Devo passare dal Camemiprima d'andare alla Canziria. Ci ho venti uomini che lavorano alla strada... i covoni sull'aia... Non posso...
E se ne andò sotto il gran soletirandosi dietro la mula stanca.
Pareva di soffocare in quella gola del Petraio. Le rupi brulle sembravano arroventate. Non un filo di ombranon un filo di verdecolline su collineaccavallatenudearsiccesassosesparse di olivi rari e magridi fichidindia polverosila pianura sotto Budarturo come una landa bruciata dal solei monti foschi nella caliginein fondo. Dei corvi si levarono gracchiando da una carogna che appestava il fossato; delle ventate di scirocco bruciavano il viso e mozzavano il respiro; una sete da impazzireil sole che gli picchiava sulla testa come fosse il martellare dei suoi uomini che lavoravano alla strada del Camemi. Allorché vi giunse invece li trovò tutti quanti sdraiati bocconi nel fossatodi qua e di làcol viso coperto di moschee le braccia stese. Un vecchio soltanto spezzava dei sassiseduto per terra sotto un ombrellacciocol petto nudo color di ramesparso di peli bianchile braccia scarnegli stinchi bianchi di polverecome il viso che pareva una mascheragli occhi soli che ardevano in quel polverìo.
- Bravi! bravi!... Mi piace... La fortuna viene dormendo... Son venuto io a portarvela!... Intanto la giornata se ne va!... Quante canne ne avete fatto di massicciata oggivediamo?... Neppure tre canne!... Per questo che vi riposate adesso? Dovete essere stanchisangue di Giuda!... Bel guadagno ci fo!... Mi rovino per tenervi tutti quanti a dormire e riposare!... Corpo di!... sangue di!...
Vedendolo con quella faccia accesa e riarsabianca di polvere soltanto nel cavo degli occhi e sui capelli; degli occhi come quelli che dà la febbree le labbra sottili e pallide; nessuno ardiva rispondergli. Il martellare riprese in coro nell'ampia vallata silenziosanel polverìo che si levava sulle carni abbronzatesui cenci svolazzantiinsieme a un ansare secco che accompagnava ogni colpo. I corvi ripassarono gracidandonel cielo implacabile. Il vecchio allora alzò il viso impolverato a guardarlicon gli occhi infuocatiquasi sapesse cosa volevano e li aspettasse.
Allorché finalmente Gesualdo arrivò alla Canziriaerano circa due ore di notte. La porta della fattoria era aperta. Diodata aspettava dormicchiando sulla soglia. Massaro Carmineil camparoera steso bocconi sull'aiacollo schioppo fra le gambe; Brasi Camauro e Nanni l'Orbo erano spulezzati di qua e di làcome fanno i cani la nottequando sentono la femmina nelle vicinanze; e i cani soltanto davano il benvenuto al padroneabbaiando intorno alla fattoria. - Ehi? non c'è nessuno? Roba senza padronequando manco io! - Diodatasvegliata all'improvvisoandava cercando il lume tastoniancora assonnata. Lo zio Carminefregandosi gli occhicolla bocca contratta dai sbadiglicercava delle scuse.
- Ah!... sia lodato Dio! Voi ve la dormite da un cantoDiodata dall'altroal buio!... Cosa facevi al buio?... aspettavi qualcheduno?... Brasi Camauro oppure Nanni l'Orbo?...
La ragazza ricevette la sfuriata a capo chinoe intanto accendeva lesta lesta il fuocomentre il suo padrone continuava a sfogarsilì fuoriall'oscuroe passava in rivista i buoi legati ai pioli intorno all'aia. Il camparo mogio mogio gli andava dietro per rispondere al caso: - GnorsìPelorosso sta un po' meglio; gli ho dato la gramigna per rinfrescarlo. La Bianchetta ora mi fa la svogliata anch'essa... Bisognerebbe mutar di pascolo... tutto il bestiame... Il mal d'occhiosissignore! Io dico ch'è passato di qui qualcheduno che portava il malocchio!... Ho seminato perfino i pani di San Giovanni nel pascolo... Le pecore stanno benegrazie a Dio... e il raccolto pure... Nanni l'Orbo? Laggiù a Passanitellodietro le gonnelle di quella strega... Un giorno o l'altro se ne torna a casa colle gambe rottecom'è vero Dio!... e Brasi Camauro anch'essoper amor di quattro spighe... - Diodata gridò dall'uscio ch'era pronto. - Se non avete altro da comandarmivossignoriavado a buttarmi giù un momento...
Come Dio volle finalmentedopo un digiuno di ventiquattr'oredon Gesualdo poté mettersi a tavolaseduto di faccia all'uscioin maniche di camiciale maniche rimboccate al disopra dei gomiticoi piedi indolenziti nelle vecchie ciabatte ch'erano anch'esse una grazia di Dio. La ragazza gli aveva apparecchiata una minestra di fave novellecon una cipolla in mezzoquattr'ova freschee due pomidori ch'era andata a cogliere tastoni dietro la casa. Le ova friggevano nel tegameil fiasco pieno davanti; dall'uscio entrava un venticello fresco ch'era un piacereinsieme al trillare dei grillie all'odore dei covoni nell'aia: - il suo raccolto lìsotto gli occhila mula che abboccava anch'essa avidamente nella bica dell'orzopovera bestia - un manipolo ogni strappata! Giù per la chinadi tanto in tantosi udiva nel chiuso il campanaccio della mandra; e i buoi accovacciati attorno all'aialegati ai cestoni colmi di fienosollevavano allora il capo pigrosoffiandoe si vedeva correre nel buio il luccichìo dei loro occhi sonnolenticome una processione di lucciole che dileguava.
Gesualdo posando il fiasco mise un sospironee appoggiò i gomiti sul deschetto:
- Tu non mangi?... Cos'hai?
Diodata stava zitta in un cantuccioseduta su di un barilee le passò negli occhia quelle paroleun sorriso di cane accarezzato.
- Devi aver fame anche tu. Mangia! mangia!
Essa mise la scodella sulle ginocchiae si fece il segno della croce prima di cominciarepoi disse: - Benedicite a vossignoria!
Mangiava adagio adagiocolla persona curva e il capo chino. Aveva una massa di capelli morbidi e finimalgrado le brinate ed il vento aspro della montagna: dei capelli di gente riccae degli occhi castagnial pari dei capellitimidi e dolci: de' begli occhi di cane carezzevoli e pazientiche si ostinavano a farsi voler benecome tutto il viso supplichevole anch'esso. Un viso su cui erano passati gli stentila famele percossele carezze brutali; limandolosolcandolorodendolo; lasciandovi l'arsura del solleonele rughe precoci dei giorni senza paneil lividore delle notti stanche - gli occhi soli ancora giovaniin fondo a quelle occhiaie livide. Così raggomitolata sembrava proprio una ragazzettaal busto esile e sveltoalla nuca che mostrava la pelle bianca dove il sole non aveva bruciato. Le manianneriteerano piccole e scarne: delle povere mani pel suo duro mestiere!...
- Mangiamangia. Devi essere stanca tu pure!...
Ella sorrisetutta contentasenza alzare gli occhi. Il padrone le porse anche il fiasco: - Te'bevi! non aver suggezione!
Diodataancora un po' esitantesi pulì la bocca col dorso della manoe s'attaccò al fiasco arrovesciando il capo all'indietro. Il vinogeneroso e caldole si vedeva scendere quasi a ogni sorso nella gola color d'ambra; il seno ancora giovane e fermo sembrava gonfiarsi. Il padrone allora si mise a ridere.
- Bravabrava! Come suoni bene la trombetta!...
Sorrise anch'essapulendosi la bocca un'altra volta col dorso della manotutta rossa.
- Tanta salute a vossignoria!
Egli uscì fuori a prendere il fresco. Si mise a sedere su di un covoneaccanto all'usciocolle spalle al murole mani penzoloni fra le gambe. La luna doveva essere già altadietro il monteverso Francofonte. Tutta la pianura di Passanitelloallo sbocco della valleera illuminata da un chiarore d'alba. A poco a pocoal dilagar di quel chiaroreanche nella costa cominciarono a spuntare i covoni raccolti in mucchicome tanti sassi posti in fila. Degli altri punti neri si movevano per la chinae a seconda del vento giungeva il suono grave e lontano dei campanacci che portava il bestiame grossomentre scendeva passo passo verso il torrente. Di tratto in tratto soffiava pure qualche folata di venticello più fresco dalla parte di ponentee per tutta la lunghezza della valle udivasi lo stormire delle messi ancora in piedi. Nell'aia la bica alta e ancora scura sembrava coronata d'argentoe nell'ombra si accennavano confusamente altri covoni in mucchi; ruminava altro bestiame; un'altra striscia d'argento lunga si posava in cima al tetto del magazzinoche diventava immenso nel buio.
- Eh? Diodata? Dormimarmotta?...
- Nossignoreno!...
Essa comparve tutta arruffata e spalancando a forza gli occhi assonnati. Si mise a scopare colle mani dinanzi all'usciobuttando via le fraschecarponifregandosi gli occhi di tanto in tanto per non lasciarsi vincere dal sonnocol mento rilassatole gambe fiacche.
- Dormivi!... Se te l'ho detto che dormivi!...
E le assestò uno scapaccione come carezza.
Egli invece non aveva sonno. Si sentiva allargare il cuore. Gli venivano tanti ricordi piacevoli. Ne aveva portate delle pietre sulle spalleprima di fabbricare quel magazzino! E ne aveva passati dei giorni senza paneprima di possedere tutta quella roba! Ragazzetto... gli sembrava di tornarci ancoraquando portava il gesso dalla fornace di suo padrea Donferrante! Quante volte l'aveva fatta quella strada di Licodiadietro gli asinelli che cascavano per via e morivano alle volte sotto il carico! Quanto piangere e chiamar santi e cristiani in aiuto! Mastro Nunzio allora suonava il deprofundis sulla schiena del figliuolocon la funicella stessa della soma... Erano dieci o dodici tarì che gli cascavano di tasca ogni asino morto al poveruomo! - Carico di famiglia! Santo che gli faceva mangiare i gomiti sin d'allora; Speranza che cominciava a voler marito; la mamma con le febbritredici mesi dell'anno!... - Più colpi di funicella che pane! - Poi quando il Mascalisesuo ziolo condusse seco manovalea cercar fortuna... Il padre non volevaperché aveva la sua superbia anche luicome uno che era stato sempre padronealla fornacee gli cuoceva di vedere il sangue suo al comando altrui. - Ci vollero sette anni prima che gli perdonassee fu quando finalmente Gesualdo arrivò a pigliare il primo appalto per conto suo... la fabbrica del Molinazzo... Circa duecento salme di gesso che andarono via dalla fornace al prezzo che volle mastro Nunzio... e la dote di Speranza ancheperché la ragazza non poteva più stare in casa... - E le dispute allorché cominciò a speculare sulla campagna!... - Mastro Nunzio non voleva saperne... Diceva che non era il mestiere in cui erano nati. “Fa l'arte che sai!“ - Ma poiquando il figliuolo lo condusse a veder le terre che aveva compratolì proprioalla Canzirianon finiva di misurarle in lungo e in largopovero vecchioa gran passicome avesse nelle gambe la canna dell'agrimensore... E ordinava “bisogna far questo e quest'altro“ per usare del suo dirittoe non confessare che suo figlio potesse aver la testa più fine della sua. - La madre non ci arrivò a provare quella consolazionepoveretta. Morì raccomandando a tutti Santoche era stato sempre il suo prediletto e Speranza carica di famiglia com'era stata lei... - un figliuolo ogni anno... - Tutti sulle spalle di Gesualdogiacché lui guadagnava per tutti. Ne aveva guadagnati dei denari! Ne aveva fatta della roba! Ne aveva passate delle giornate dure e delle notti senza chiuder occhio! Vent'anni che non andava a letto una sola volta senza prima guardare il cielo per vedere come si mettesse. - Quante avemariee di quelle proprio che devono andar lassùper la pioggia e pel bel tempo! - Tanta carne al fuoco! tanti pensieritante inquietudinitante fatiche!... La coltura dei fondiil commercio delle derrateil rischio delle terre prese in affittole speculazioni del cognato Burgio che non ne indovinava una e rovesciava tutto il danno sulle spalle di lui!... - Mastro Nunzio che si ostinava ad arrischiare cogli appalti il denaro del figliuoloper provare che era il padrone in casa sua!... - Sempre in motosempre affaticatosempre in piedidi qua e di làal ventoal solealla pioggia; colla testa grave di pensieriil cuore grosso d'inquietudinile ossa rotte di stanchezza; dormendo due ore quando capitavacome capitavain un cantuccio della stalladietro una siepenell'aiacoi sassi sotto la schiena; mangiando un pezzo di pane nero e duro dove si trovavasul basto della mulaall'ombra di un ulivolungo il margine di un fossonella malariain mezzo a un nugolo di zanzare. - Non festenon domenichemai una risata allegratutti che volevano da lui qualche cosail suo tempoil suo lavoroo il suo denaro; mai un'ora come quelle che suo fratello Santo regalavasi in barba sua all'osteria! - trovando a casa poi ogni volta il viso arcigno di Speranzao le querimonie del cognatoo il piagnucolìo dei ragazzi - le liti fra tutti loro quando gli affari non andavano bene. - Costretto a difendere la sua roba contro tuttiper fare il suo interesse. - Nel paese non un solo che non gli fosse nemicoo alleato pericoloso e temuto. - Dover celare sempre la febbre dei guadagnila botta di una mala notizial'impeto di una contentezza; e aver sempre la faccia chiusal'occhio vigilantela bocca seria! Le astuzie di ogni giorno; le ambagi per dire soltanto “vi saluto“; le strette di mano inquietecoll'orecchio teso; la lotta coi sorrisi falsio coi visi arrossati dall'iraspumanti bava e minacce - la notte sempre inquietail domani sempre grave di speranza o di timore...
- Ci hai lavoratoanche tunella roba del tuo padrone!... Hai le spalle grosse anche tu... povera Diodata!...
Essavedendosi rivolta la parolasi accostò tutta contenta e gli si accovacciò ai piedisu di un sassocol viso bianco di lunail mento sui ginocchiin un gomitolo. Passava il tintinnìo dei campanacciil calpestìo greve e lento per la distesa del bestiame che scendeva al torrentedei muggiti gravi e come sonnolentile voci dei guardiani che lo guidavano e si spandevano lontanenell'aria sonora. La luna ora discesa sino all'aiastampava delle ombre nere in un albore freddo; disegnava l'ombra vagante dei cani di guardia che avevano fiutato il bestiame; la massa inerte del camparosteso bocconi - Nanni l'Orboeh?... o Brasi Camauro? Chi dei due ti sta dietro la gonnella? - riprese don Gesualdo che era in vena di scherzare.
Diodata sorrise: - Nossignore!... nessuno!...
Ma il padrone ci si divertiva: - Sìsì!... l'uno o l'altro... o tutti e due insieme!... Lo saprò!... Ti sorprenderò con loro nel vallonequalche volta!...
Essa sorrideva sempre allo stesso mododi quel sorriso dolce e contentoallo scherzo del padrone che sembrava le illuminasse il visoaffinato dal chiarore molle: gli occhi come due stelle; le belle trecce allentate sul collo; la bocca un po' larga e tumidama giovane e fresca.
Il padrone stette un momento a guardarla cosìsorridendo anch'essoe le diede un altro scapaccione affettuoso.
- Questa non è roba per quel briccone di Brasio per Nanni l'Orbo! no!...
- Ohgesummaria!... - esclamò essa facendosi la croce.
- Lo solo so. Dico per ischerzobestia!...
Tacque un altro po' ancorae poi soggiunse: - Sei una buona ragazza!... buona e fedele! vigilante sugli interessi del padronesei stata sempre...
- Il padrone mi ha dato il pane- rispose essa semplicemente. - Sarei una birbona...
- Lo so! lo so!... poveretta!... per questo t'ho voluto bene!
A poco a pocoseduto al frescodopo cenacon quel bel chiaro di lunasi lasciava andare alla tenerezza dei ricordi. - Povera Diodata! Ci hai lavorato anche tu!... Ne abbiamo passati dei brutti giorni!... Sempre all'ertacome il tuo padrone! Sempre colle mani attorno... a far qualche cosa! Sempre l'occhio attento sulla mia roba!... Fedele come un cane!... Ce n'è volutosìa far questa roba!...
Tacque un momento intenerito. Poi ripresedopo un pezzettocambiando tono:
- Sai? Vogliono che prenda moglie.
La ragazza non rispose; egli non badandociseguitò:
- Per avere un appoggio... Per far lega coi pezzi grossi del paese... Senza di loro non si fa nulla!... Vogliono farmi imparentare con loro... per l'appoggio del parentadocapisci?... Per non averli tutti controall'occasione... Eh? che te ne pare?
Ella tacque ancora un momento col viso nelle mani. Poi risposecon un tono di voce che andò a rimescolargli il sangue a lui pure:
- Vossignoria siete il padrone...
- Lo solo so... Ne discorro adesso per chiacchierare... perché mi sei affezionata... Ancora non ci penso... ma un giorno o l'altro bisogna pure andarci a cascare... Per chi ho lavorato infine?... Non ho figliuoli...
Allora le vide il visorivolto a terrapallido pallido e tutto bagnato.
- Perché piangibestia?
- Nientevossignoria!... Così!... Non ci badate...
- Cosa t'eri messa in capodi'?
- Nientenientedon Gesualdo...
- Santo e santissimo! Santo e santissimo! - prese a gridare lui sbuffando per l'aia. Il camparo al rumore levò il capo sonnacchioso e domandò:
- Che c'è?... S'è slegata la mula? Devo alzarmi?...
- Nonodormitezio Carmine.
Diodata gli andava dietro passo passocon voce umile e sottomessa:
- Perché v'arrabbiatevossignoria?... Cosa vi ho detto?...
- M'arrabbio colla mia sorte!... Guai e seccature da per tutto... dove vado!... Anche tuadesso!... col piagnisteo!... Bestia!... Credi chese maiti lascerei in mezzo a una strada... senza soccorsi?...
- Nossignore... non è per me... Pensavo a quei poveri innocenti...
- Anche quest'altra?... Che ci vuoi fare! Così va il mondo!... Poiché v'è il comune che ci pensa!... Deve mantenerli il comune a spese sue... coi denari di tutti!... Pago anch'io!... So io ogni volta che vo dall'esattore!...
Si grattò il capo un istantee riprese:
- Vediciascuno viene al mondo colla sua stella... Tu stessa hai forse avuto il padre o la madre ad aiutarti? Sei venuta al mondo da tecome Dio manda l'erba e le piante che nessuno ha seminato. Sei venuta al mondo come dice il tuo nome... Diodata! Vuol dire di nessuno!... E magari sei forse figlia di baronee i tuoi fratelli adesso mangiano galline e piccioni! Il Signore c'è per tutti! Hai trovato da vivere anche tu!... E la mia roba?... me l'hanno data i genitori forse? Non mi son fatto da me quello che sono? Ciascuno porta il suo destino!... Io ho il fatto miograzie a Dioe mio fratello non ha nulla...
In tal modo seguitava a brontolarepasseggiando per l'aiasu e giù dinanzi la porta. Poscia vedendo che la ragazza piangeva ancoracheta cheta per non infastidirlole tornò a sedere allato di nuovorabbonito.
- Che vuoi? Non si può far sempre quel che si desidera. Non sono più padrone... come quando ero un povero diavolo senza nulla... Ora ci ho tanta roba da lasciare... Non posso andare a cercar gli eredi di qua e di làper la strada... o negli ospizi dei trovatelli. Vuol dire che i figliuoli che avrò poise Dio m'aiutasaranno nati sotto la buona stella!...
- Vossignoria siete il padrone...
Egli ci pensò un po' superché quel discorso lo punzecchiava ancora peggio di una vespae tornò a dire:
- Anche tu... non hai avuto né padre né madre... Eppure cosa t'è mancatodi'?
- Nullagrazie a Dio!
- Il Signore c'è per tutti... Non ti lascerei in mezzo a una stradati dico!... La coscienza mi dice di no... Ti cercherei un marito...
- Oh... quanto a me... don Gesualdo!...
- Sìsìbisogna maritarti!... Sei giovanenon puoi rimaner così... Non ti lascerei senza un appoggio... Ti troverei un buon giovaneun galantuomo... Nanni l'Orboguarda! Ti darei la dote...
- Il Signore ve lo renda...
- Son cristiano! son galantuomo! Poi te lo meriti. Dove andresti a finire altrimenti?... Penserò a tutto io. Ho tanti pensieri pel capo!... e questo cogli altri!... Sai che ti voglio bene. Il marito si trova subito. Sei giovane... una bella giovane... Sìsìbella!... lascia dire a me che lo so! Roba fine!... sangue di barone seidi certo!...
Ora la pigliava su di un altro tonocol risolino furbo e le mani che gli pizzicavano. Le stringeva con due dita il ganascino. Le sollevava a forza il capoche ella si ostinava a tener basso per nascondere le lagrime.
- Già per ora son discorsi in aria... Il bene che voglio a te non lo voglio a nessunoguarda!... Su quel capo adessosciocca!... sciocca che sei!...
Come vide che seguitava a piangeretestardascappò a bestemmiare di nuovosimile a un vitello infuriato.
- Santo e santissimo! Sorte maledetta!... Sempre guai e piagnistei!...
V
Masiil garzonecorse a svegliare don Gesualdo prima dell'albacon una voce che faceva gelare il sangue nelle vene:
- Alzatevivossignoria; ch'è venuto il manovale da Fiumegrande e vuole parlarvi subito!...
- Da Fiumegrande?... a quest'ora?... - Mastro-don Gesualdo andava raccattando i panni tastonial buioancora assonnatocon un guazzabuglio nella testa. Tutt'a un tratto gridò:
- Il ponte!... Deve essere accaduta qualche disgrazia!... - Giù nella stalla trovò il manovale seduto sulla panchettafradicio di pioggiache faceva asciugare i quattro cenci a una fiammata di strame. Appena vide giungere il padronecominciò a piagnucolare di nuovo:
- Il ponte!... Mastro Nunziovostro padredisse ch'era ora di togliere l'armatura!... Nardo vi è rimasto sotto!...
Era un parapiglia per tutta la casa: Speranzala sorellache scendeva a precipiziointanto che suo marito s'infilava le brache; Santoancora mezzo ubbriacoruzzoloni per la scaletta della botolaurlando quasi l'accoppassero. Il manovalea ciascuno che capitavatornava a dire:
- Il ponte!... l'armatura!... Mastro Nunzio dice che fu il cattivo tempo!...
Don Gesualdo andava su e giù per la stallapallidosenza dire una parolasenza guardare in viso nessunoaspettando che gl'insellassero la mulala quale spaventata anch'essa sparava calcie Masi dalla confusione non riusciva a mettergli il basto. A un certo punto gli andò coi pugni sul visocogli occhi che volevano schizzargli dall'orbita.
- Quando? santo e santissimo!... Non la finisci piùpeste che ti venga!
- Colpa vostra! Ve l'avevo detto! Non sono imprese per noialtri! - sbraitava la sorella in camiciacoi capelli arruffatiuna furia tale e quale! Massaro Fortunatopiù calmoapprovava la mogliecon un cenno del caposilenziososeduto sulla panchettasimile a una macina di mulino. - Voi non dite nulla! state lì come un allocco!
Adesso Speranza inveiva contro suo marito: - Quando si tratta d'aiutar voiche pure siete suo cognato!... carico di figliuoli anche!... allora saltano fuori le difficoltà!... denari non ce ne sono!... i denari che si son persi nel ponte della malora!
Gesualdo da principio si voltò verso di lei inviperitocolla schiuma alla bocca. Poscia mandò giù la bilee si mise a canterellare mentre affibbiava la testiera della mula: un'allegria che gli mangiava il fegato. Si fece il segno della crocemise il piede alla staffa; infine di lassùa cavalloche toccava quasi il tetto col caposputò fuori il fatto suoprima d'andarsene:
- Avete ragione! M'ha fatto fare dei bei negozituo marito! La semenza che abbiamo buttato via a Donninga! La vigna che m'ha fatto piantare dove non nasce neppure erba da pascolo!... Testa fine tuo marito!... M'è toccato pagarle di tasca mia le vostre belle speculazioni! Ma son stancovehdi portare la soma! L'asino quand'è stanco si corica in mezzo alla via e non va più avanti...
E spronò la mulache borbottava ancora; la sorella sbraitandogli dietrodall'uscio della stallafinché si udirono i ferri della cavalcatura sui ciottoli della stradicciuolanel buio. Il manovale si mise a correreaffannatozoppicando; ma il padroneche aveva la testa come un mulinonon se ne avvide. Soltanto allorché furono giunti alla chiusa del Carminevolse il capo all'udire lo scalpiccìo di lui nella motae lo fece montare in groppa. Il ragazzocolla voce rotta dall'andatura della mularipeteva sempre la stessa cosa:
- Mastro Nunzio disse che era tempo di togliere l'armatura... Era spiovuto dopo il mezzogiorno... - Novossignoriadisse mastro Nardo; lasciamo stare ancora sino a domani... - Disse mastro Nunzio: - tu parli così per papparti un'altra giornata di paga... - Io intanto facevo cuocere la minestra per gli uomini... Dal monte si udiva gridare: “La piena! cristiani!...“ Mentre Nardo stava sciogliendo l'ultima fune...
Gesualdocol viso al ventofrustato dalla burrascaspronava sempre la mula colle calcagnasenza aprir bocca. - Eh?... Che ditedon Gesualdo?... Non rispondete?... - Che non ti casca mai la lingua? - rispose infine il padrone.
Cominciava ad albeggiare prima di giungere alla Torretta.
Un contadino che incontrarono spingendo innanzi l'asinellopigliandosi l'acquazzone sotto la giacca di cotoninacol fazzoletto in testa e le mani nelle taschevolle dire qualche cosa; accennava laggiùverso il fiumementre il vento si portava lontano la voce. Più in là una vecchierella raggomitolata sotto un carrubbio si mise a gridare:
- Non potete passareno!... Il fiume!... badate!...
In fondonella nebbia del fiume e della pioggiasi scorgeva confusamente un enorme ammasso di rovinecome un monte franato in mezzo al fiumee sul pilone rimasto in piediperduto nella bruma del cielo bassoqualcosa di nero che si muovevadelle braccia che accennavano lontano. Il fiumedi qua e di là dei rottamistraripava in larghe pozze fangose. Più giùdegli uomini messi in filacoll'acqua fino al ginocchiosi chinavano in avanti tutti in una voltae poi tiravano insiemecon un oooh! che sembrava un lamento.
- No! no! - urlavano i muratori trattenendo pel braccio don Gesualdo. - Che volete annegarvivossignoria?
Egli non rispondevanel fango sino a mezza gambaandando su e giù per la riva corrosacoi capelli che gli svolazzavano al vento. Mastro Nunziodall'alto del pilonegli gridava qualche cosa: delle grida che le raffiche gli strappavano di bocca e sbrindellavano lontano.
- Che ci fate adesso lassù?... State a piangere il morto? Lasciate... lasciate andare! - gli rispose Gesualdo dalla riva. Il rumore delle acque si mangiò anche le sue parole furiose. Il vecchioin altonella nebbiaaccennava sempre di notestardo. Dell'altra gente gridava anche dalla riva oppostasotto gli ombrelloni d'inceratasenza potere farsi intendereindicando verso il punto dove gli uomini tiravano in salvo delle travi. A seconda del vento giungevano pure di lassùdonde veniva la correntedelle voci che sembravano cadere dal cielodelle grida disperatee un suono di corno rauco.
Gesualdocurvo sotto l'acquazzonesfangando sulla rivaaiutava a tirare in salvo i legnami dell'armatura che la corrente furiosa seguitava a scuotere e a sfasciare. - A me!... santo Dio!... non vedete che si porta anche quelli?... - A un certo punto barcollò e stava per affondare nella melma spumosa che dilagava.
- Santo diavolone! Che volete lasciarvi anche la pelle? - urlò il capomastro afferrandolo pel bavero. - Un altro po' strascinate me pure alla perdizione!
Eglipallido come un mortocogli occhi stralunatii capelli irti sul capoquasi colla schiuma alla boccarispondeva:
- Lasciatemi crepare! A voi non ve ne importa!... Dite così perché voi non ci avete il sangue vostro in mezzo a quell'acqua!... Lasciatemi crepare!
Mastro Nunziovedendo smaniare a quel modo il suo figliuolovoleva buttarsi a capo fitto giù nella corrente addirittura: - Per non stare a sentir lui!... Adesso mi dirà ch'è tutta colpa mia!... vedrete!... Non son padrone di muovere un dito in casa mia... Sono padrone da burla... Allora è meglio finirla in una volta!... - E andava tentando l'acqua col piede.
- Sentite! - interruppe il figliuolo con voce sorda. - Lasciatemi in pace anche voi! Io v'ho lasciato farevoi! Avete voluto che prendessi l'appalto del ponte... per non stare in ozio... Vedete com'è andata a finire!... E bisogna tornare da capose non voglio perdere la cauzione... Potevate starvene quieto e tranquillo a casa... Che vi facevo mancare?... Lasciatemi in pace almeno. Tantovoi non ci avete perso nulla...
- Ah! Non ci ho perso nulla?... Sapevo bene che glielo avresti rinfacciato... a tuo padre!... Già non conto più nulla io! Non so far più nulla!... Ti ho fatto quel che sei!... Come se non fossi il capo di casa!... come se non conoscessi il mio mestiere!...
- Ah!... il vostro mestiere?... perché avevate la fornace del gesso?... e mi è toccato ricomprarvela due volte anche!... vi credete un ingegnere!... Ecco il bel mestiere che sapete fare!...
Mastro Nunzio guardò infuriato il suo figliuoloannaspandoagitando le labbra senza poter proferire altre parolestrabuzzando gli occhi per tornare a cercare il posto migliore da annegarsie infine brontolò:
- E allora perché mi trattieni?... Perché non vuoi che mi butti nel fiume? perché?
Gesualdo cominciò a strapparsi i capellia mordersi le bracciaa sputare in cielo. Poscia gli si piantò in faccia disperatoscuotendogli le mani giunte dinanzi al viso.
- Per l'amor di Dio!... per l'anima di mia madre!... con questo po' di tegola che m'è cascata fra capo e collo... capite che non ho voglia di scherzare adesso!...
Il capomastro si intromise per calmarli. - Infine quel ch'è stato è stato. Il morto non torna più. Colle chiacchiere non si rimedia a nulla. Piuttosto venite ad asciugarvi tutti e dueche arrischiate di pigliare un malanno per giuntacosì fradici come siete.
Avevano acceso un gran fuoco di giunchi e di legna rottenella capanna. Pezzi di travi su cui erano ancora appiccicate le immagini dei santi che dovevano proteggere il pontebuon'anima sua! Mastro Nunzioil quale perdeva anche la fede in quella disdettaci sputò sopra un paio di voltecol viso torvo. Tutti piangevano e si fregavano gli occhi dal fumointanto che facevano asciugare i panni umidi. In un cantosotto quelle quattro tegole rotteera buttato Nardoil manovale che s'era rotta la gambasudando e spasimando. Volle mettere anch'egli una buona parola nel malumore fra padre e figlio:
- Il peggio è toccato a me; - si lamentò- che ora rimango storpio e non posso più buscarmi il pane.
Uno dei suoi compagnivedendo che non poteva muoversigli ammucchiò un po' di strame sotto il capo. Mastro Nunziosull'usciocoi pugni rivolti al cielolanciava fuoco e fiamme.
- Giuda Iscariota! Santo diavolone! Doveva venire adesso questa grazia di Dio!...
Ciascheduno diceva la sua. Dei vicinivenuti per vedere; dei viandanti che volevano passare il fiumee aspettavanoal riparocon la schiena alla fiammata.
- Evviva voi! Avete fatto un bel lavoro! Tanti denari spesi! I denari del comune!... Ora ci tocca aspettare chissà quantoprima di vedere un altro ponte... O com'era fattodi ricotta?
- Questi altriadesso!... Arrivate giusto nel buon momento!... Volete che faccia scendere Dio e i santi di lassù?...- sbraitava mastro Nunzio.
Gesualdoluinon diceva nullacon la faccia color di terraseduto su di un sassole mani fra le coscepenzoloni. Quindi prese a sfogarsi col manovale.
- Guarda quella carogna! Mi lascia fuori la mulacon questo tempo! Poltronaccio! Nemico del tuo padrone!
- Non vi disperatevossignoria! - piagnucolò Nardo dal suo cantuccio. - Finché c'è la saluteil resto è niente!...
Gesualdo gli lanciò addosso un'occhiata furibonda.
- Parla benelui... che non ha nulla da perdere!...
- Nonovossignoria!... Non dite cosìche il Signore vi gastiga!...
Mastro Nunzioappoggiato allo stipite dell'usciostava masticando da un po' la sua ideafra le gengive sdentate. Infine la buttò fuoririvolgendosi verso il figliuolo all'improvviso:
- E sai cos'ho da dirti? Che non ne voglio più sapere di questo ponte della disgrazia! Piuttosto faremo un mulinocoi materiali che riusciremo a mettere in salvo... Un affare sicuro quello...
- Un'altra adesso! - saltò su Gesualdo. - Siete ammattito davvero? E la cauzione? Volete che ci perda anche quella? Se lasciassi fare a voi!... Quando presi a fabbricare dei mulinimi toccava sentire che era la rovina... Ora che vi siete persuasonon vorreste far altro... come se tutto il paese dovesse macinarsi le ossa notte e giornoe le mie prima degli altri!... santo e santissimo!
La lite s'accese un'altra volta. Mastro Nunzio che strillava e si lagnava di non esser rispettato. - Vedete se sono un fantoccio?... un pulcinella?... il capo della casa... signori miei!... guardate un po'!... - Gesualdo per finirla saltò di nuovo sulla mulaverde dalla bilee se ne andò mentre l'acqua veniva ancora giù dal cielo come Dio la mandavacol capo nelle spallebagnato sino alle ossail cuore dentro più nero del cielo nuvolo che aveva dinanzi agli occhi; il paese grigio e triste nella pioggia anch'essolassù in cima al montecol suono del mezzogiorno che passava a ondatetrasportato dal ventoe si sperdeva in lontananza.
Quanti lo incontravanoconoscendo la disgrazia che gli era capitatadimenticavano di salutarlo e tiravano via. Egli guardava bieco e borbottava di tanto in tanto fra di sé:
- Sono ancora in piedi! Mi chiamo mastro-don Gesualdo!... Finché sono in piedi so aiutarmi!
Un soloun povero diavoloche andava per la stessa stradagli offrì di prenderlo sotto l'ombrello. Egli rispose:
- Ci vuol altro che l'ombrelloamico mio! Non temeteche non ho paura d'acqua e di grandineio!
Arrivò al paese dopo mezzogiorno. Il canonico Lupi s'era coricato allora allorasubito dopo pranzo. - Vengovengodon Gesualdo! - gli gridò dalla finestrasentendosi chiamare.
Qualcheduno che andava ancora pei fatti suoia quell'oravedendolo così fradiciopiovendo acqua come un ombrellogli disse:
- Ehdon Gesualdo?... che disgrazia!...
Lui duro come un sassocol sorriso amaro sulle labbra sottili e palliderispondeva:
- Ehcose che accadono. Chi va all'acqua si bagnae chi va a cavallo cade. Ma sinché non v'è uomini mortia tutto si rimedia.
I più tiravano di lungovoltandosi per curiosità dopo ch'erano passati. Il canonico comparve infine sul portoncinoabbottonandosi la sottana.
- Eh? eh? don Gesualdo? Eccovi qua... eccovi qua!...
Don Gesualdo s'era fatta una faccia allegra per quanto potevacolla febbre maligna che ci aveva nello stomaco.
- Sissignoreeccomi qua! - rispose con un sorriso che cercò di fare allargare per tutta la faccia scura. - Eccomi quacome volete voi... ai vostri comandi... Peròdite la veritàvoi parlate col diavoloeh?
Il canonico finse di non capire: - Perché? pel ponte? Noin fede mia! Mi dispiace anzi!...
- Nononon dico pel ponte!... Ma andiamo di sopravossignoria. Non son discorsi da farsi quiin istrada...
C'era il letto ancora disfatto nella camera del canonico; tutt'in giro alle pareti un bel numero di gabbiolinedove il canonicogran cacciatore al paretaioteneva i suoi uccelli di richiamo; un enorme crocifisso nero di faccia all'uscioe sotto la cassa della confraternitacome una bara da mortonella quale erano i pegni dei denari dati a prestito; delle immagini di santi qua e làappiccicate colle ostieinsudiciate dagli uccellie un puzzo da morirefra tutte quelle bestie.
Don Gesualdo cominciò subito a sfogarsi narrando i suoi guai: il padre che si ostinava a fare di testa suaper mostrare ch'era sempre lui il capodopo aver dato fondo al patrimonio... Gli era toccato ricomprargliela due volte la fornace del gesso! E continuava a metterlo in quegli impicci!... E se lui diceva ahi! quando era costretto a farsi aprire la vena e a lasciarsi cavar dell'altro sangue per pagareallora il padre gridava che gli si mancava di rispetto. La sorella ed il cognato che lo pelavano dall'altra parte. Una bestiaquel cognato Burgio! bestia e presuntuoso! E chi pagava era sempre luiGesualdo!... Suo fratello Santo che mangiava e beveva alle sue spallesenza far nullada mattina a sera: - Col mio denarocapitevossignoria? col sangue mio! So io quel che mi costa! Quando ho lasciato mio padre nella fornace del gesso in rovinache non si sapeva come dar da mangiare a quei quattro asini del caricocolla sola camicia indosso sono andato via... e un paio di pantaloni che non tenevano piùper la decenza... senza scarpe ai piedisissignore. La prima cazzuola per incominciare a fare il muratore dovette prestarmela mio zio il Mascalise... E mio padre che strepitava perché lasciavo il mestiere in cui ero nato... E poiquando presi il primo lavoro a cottimo... gridava ch'era un precipizio! Ne ho avuto del coraggiosignor canonico! Lo so io quel che mi costa! Tutto frutto dei miei sudoriquello che ho... E quando lo vedo a buttarmelo viachi da una parte e chi dall'altra!... che voletevossignoria! il sangue si ribella!... Ho taciuto sinora per aver la quiete in famiglia... per mangiare in santa pace un boccone di panequando torno a casa stanco... Ma ora non ne posso più! Anche l'asino quando è stanco si corica in mezzo alla via e non va più avanti... Voi non sapete che gastigo di Dio è Speranzamia sorella!... Voglio finirla!... Ciascuno per casa sua. Dico benecanonico mio?
Il canonico intanto governava i suoi uccelli di richiamo. - Se non mi date rettavossignoriaè inutile che parli!
- Sìsìvi ascolto. Che diavolo! non ci vuole poi un sant'Agostino a capire quel che volete!... In conclusione si tratta di salvare la cauzionenon è così? di avere qualche aiuto dal comune?
- Sissignore... la cauzione...
Poi Gesualdo gli piantò addosso gli occhi grigi e penetrantie riprese:
- E un'altra cosa anche... Vi dicevo che voglio far casa da me... per conto mio... se trovo la moglie che mi conviene... Ma se non mi date rettavossignoria... allora è inutile... O se fingete di non capire... Vi ricordate?... quel discorso che mi faceste la sera della festa del santo Patrono?... Ma se fate le viste di non capireperchè sono venuto qui da voi... quando vi ho detto per prima cosa... Vi ho detto: “Eccomi quacome volete voi...“
- Ah!... ah!... - rispose il canonico alzando il capo come un asino che strappi la cavezza. Poi lasciò stare il nicchio che andava spolverando attentamentee gli fissò addosso anche lui i suoi occhi da uomo che non si lascia mettere nel sacco.
- Sentitedon Gesualdo... questo non è discorso che venite a farmi adessoa questa maniera! Allora vuol dire che non conoscete chi vi è amico e chi vi è nemicobenedetto Dio! Ho piacere che abbiate toccato con mano se il consiglio che vi ho dato allora era tutt'oro! Una giovane ch'è una perlaavvezza ad ogni guaioche l'avreste tutta ai vostri comandie di famiglia primaria anche!... la quale vi farebbe imparentare con tutti i pezzi grossi del paese!... Lo vedete adesso di che aiuto vi sarebbe? Avreste dalla vostra i giurati e tutti quanti. Anche per l'altra faccenda della gabellapoise volete entrarci insieme a noi...
- Sissignore - rispose Gesualdo vagamente. - Tante cose si potrebbero fare... Si potrebbe parlarne...
- Si dovrebbe parlarne chiaroamico mio. Mi prendete per un ragazzo? Una mano lava l'altra. Aiutami che t'aiutodice pure lo Spirito Santo. Voicaro don Gesualdoavete il difetto di credere che tutti gli altri sien più minchioni di voi. Prima fate lo gnorrinon ci sentite da quell'orecchioe poial bisognoquando vi casca la casa addossomi venite dinanzi con quella faccia.
- Sarà il caldo... saranno tutti quegli uccelli... - balbettò l'altro un po' scombussolato. - Vorrei vedervi nei miei pannisignor canonico! - esclamò infine.
- Nei vostri panni... sicuro... mi ci metto! Voglio farvi vedere e toccar con mano chi vi vuol bene o no! Eccomi con voi. Pensiamo a quest'affare del ponte prima... a salvare la cauzione... con un sussidio del comune. Andremo adesso dal capitano... e dai giurati che non ci sarebbero contrari... Peccato che il barone Zacco abbia già dei sospetti per l'affare della gabella!... Lasciatemi pensare...
Mentre terminava di legarsi il mantello al collo andava raccogliendo le ideecolle sopracciglia aggrottateguardando in terra di qua e di là.
- Ecco! Io vo prima dalla signora Sganci... no! no! non le dico nulla per adesso! qualche parola così in aria... in via accademica... Mi basta che donna Marianna scriva due righe al capitano. Quanto alla baronessa Rubiera posso dormire fra due guanciali... è come se fosse la vostra stessa personase mi promettete... Ma badiamoveh!...
E il canonico sgranò gli occhi. Don Gesualdo stese la mano verso il crocifisso.
- Nodico per l'altro affarequello della gabella. Non vorrei che giuocassimo a scarica barile fra di noicaro don Gesualdo!
Costui voleva allungare la mano di nuovo; ma il canonico aveva già infilato l'uscio. - Voi m'aspetterete giùnel portone. Un momentovado e torno.
Tornò fregandosi le mani: - Ve l'avevo detto. Non ci vede dagli occhi donna Marianna per quella nipote! Farete un affarone!
Appena fuori si imbatterono nel notaro Neriche andava ad aprire lo studioe fece il viso di condoglianza a don Gesualdo. - Brutto affareeh? Mi dispiace! - Sotto si vedeva che gongolava. Il canonicoa tagliar cortorispose lui: - Cosa da nulla... Il diavolo poi non è così brutto... Rimedieremo... Abbiamo salvato i materiali... - Dopoquando furono lontanie il notaio con la chiave nella toppa li guardava ancora ridendoil canonico gli soffiò nell'orecchioa mastro-don Gesualdo:
- È che avete una certa facciacaro mio!...
- Io?
- Sì. Non ve ne accorgetema l'avete! Se fate quella facciatutti vi metteranno i piedi sopra per camminarvi!... Con quella faccia non si va a chiedere un favore... Aspettatemi qui; salgo un momento dal cavalier Peperito. È una bestia; ma l'hanno fatto giurato.
Appena il canonico se ne fu andato su per la scala rotta e scalcinataarrivò il cavaliere dal poderettomontato su di un asinello macilentocon una bisaccia piena di fave dietro. Don Gesualdo per ingraziarselo lo aiutò a scaricar le favee a legar l'asino alla mangiatoiasotto l'arco della scaletta; ma il cavaliere parve un po' seccato d'esser stato sorpreso in quell'arnesetutto infangatoe col vestito lacero da campagna.
- Non ne facciamo nulla- disse il canonico ritornando poco dopo. - È una bestia! Crede di fare il cavaliere sul serio... Deve avercela con voi... Bisogna trovare la persona. Ciolla? ohi? Ciolla? A voi dicoCiolla! Sapete s'è in casa don Filippo? L'avete visto uscire?
Ciolla ammiccò coll'unico occhiotorcendo ancora la bocca di paralitico.
- NoCanali è ancora lìda Bommache l'aspetta per condurlo dalla cognatala ceraiuolasapete bene? È la loro passeggiatadopopranzo... a trastullarsi con leidietro lo scaffale... Che c'è di nuovodon Gesualdo? Andate a benedire il ponteinsieme al canonico?
Don Gesualdo si sfogò infine con luiappuntandogli contro le cornacon tutt'e due le mani.
- Vi stava sulla pancia quel ponte!... Come aveste dovuto spendere di tasca vostra!...
Il canonico lo tirò per un braccio:
- Andiamoandiamo! Volete chiudere la bocca a tutti gli sfaccendati?
Nel salire per la stradicciuola dei Margarone incontrarono il marchese Limòliche andava a fare la sua passeggiatina solita della seradal Rosario a Santa Maria di Gesùsempre solo e con l'ombrello rosso sotto il braccio. Il canonicorispondendo alla scappellata cerimoniosa del marcheseebbe un'ispirazione.
- Aspettateaspettate un momento!
Di lì a un po' tornò a raggiungere don Gesualdo con tutt'altro viso.
- Un gran diavolo quel marchese! Povero come Giobbema è uno che ha voce in capitolo! S'aiutano fra di lorotutti in un gruppo!... una buona parolaalle volte!... fra di loro non possono dir di no... Lo lascerebbero morir di famema un favore non glielo negano...
Don Filippo era ancora in casaoccupato a rigar la carta per le aste di Nicolino: - Che buon vento? che buon vento?... - Poscia vedendo entrare anche don Gesualdodietro il canonicocalò di nuovo gli occhiali sul naso. - Ho tanto da fare!... Ahsì!... la cauzione?... Volete che il comune vi aiuti a ripescarla? Volete qualche agevolazione per riprendere i lavori?... Vedremo... sentiremo... Se l'avete sbagliato la prima volta questo ponte benedetto?... È un affar grave... Non so di che si tratti... Non sono informato... Da un pezzo che non me ne occupo... Tanto da fare!... Non ho tempo di soffiarmi il naso... Vedremo... sentiremo...
In quella entrò Canaliil quale veniva a cercare Margaronesorpreso di non vederlo all'ora solita. Anch'esso sapeva del pontee sembrava che si divertisse mezzo mondo a prolungare le condoglianze - il veleno che gli scorreva sotto il faccione giallo: - Ahi! ahi! don Gesualdo!... Era un'impresa grossa!... Un colpo da mandare ruzzoloni!... C'era troppa carne al fuoco in casa vostra!... - Don Filippoora che aveva l'appoggiosi rivoltò anche lui: - Bisogna fare il passo secondo la gambamio caro!... Volevate pigliare il cielo a pugni... Il posto a chi toccacaro amico!... Non bisogna mettersi in testa di dare il gambetto a un paese intero!...
Don Gesualdo allora perse la pazienza. Si alzò di bottorosso come un galloe aprì la bocca per sfogarsi. Ma il canonico gliela tappò con una mano. - State zitto! Lasciate dire a me! Sentite quadon Filippo!
Lo tirò per la falda nell'anticamera. Di lì a un po' rientrarono a braccettodon Filippo tornato un pezzo di zucchero con mastro-don Gesualdospalancandogli addosso gli occhioni di buequasi lo vedesse allora per la prima volta: - Vedremo!... Quanto a me... quel che si può fare... Ho parlato nel vostro interessecaro don Gesualdo...
Don Gesualdoscendendo le scalebrontolava ancora:
- Perché dovrei averli tutti contro?... Non fo male a nessuno... Fo gli affari miei...
- Ehcaro don Gesualdo! - scappò a dire infine il canonico. - Gli affari vostri fanno a pugni con gli affari degli altriche diavolo!... Apposta bisogna tirarli dalla vostra... Fra di loro si danno la mano... son tutti parenti... Voi siete l'estraneo... siete il nemicoche diavolo!
Il canonico si fermò su due piediin mezzo alla piazzettadi fronte al palazzo dei Traoaltonero e smantellatoe guardando fisso don Gesualdocogli occhietti acuti di topo che sembrava volessero ficcarglisi dentro come due spilliil viso a lama di coltello che sfuggiva da ogni parte:
- Vedete?... quando sarete entrato nel campo anche voi... Quella è la dote che vi porterebbe donna Bianca!... È denaro sonante per voi che avete le mani in tanti affari.
Mastro-don Gesualdo tornò a lisciarsi il mentocome quando stava a combinare qualche negozio con uno più furbo di lui; guardò il palazzo; guardò poi il canonicoe rispose:
- Però caparra in manoeh? signor canonico? Prima voglio vedere come la pigliano i parenti di lei.
- A braccia aperte la pigliano!... ve lo dico io! Fate conto che il fiume torni a rifarvi il ponte meglio di primae andate a dormirci su.
Nel vicoletto lì accantovicino a casa suatrovò Diodata che stava aspettandolo colla mantellina in testarincantucciata sotto l'arco del ballatoiopoiché in casa non la volevanoSperanza principalmentee la tolleravano soltanto in campagnapei servigi grossi. Appena la ragazza vide il suo padrone ricominciò a piangere e a lamentarsiquasi fosse caduto addosso a lei il ponte: - Don Gesualdoche disgrazia! Mi sarei contentata d'annegarmi io piuttosto!... Son venuta a vedervivossignoria... con questa spina che dovete averci in cuore!...
- Quest'altra adesso! Perché sei venuta? Tutta bagnata sei!... guarda! come le bestie!... dalla Canziria fin qui a piedi!... apposta per farmi il piagnisteo... Come non ne avessi abbastanza dei miei guai!... Ora dove vai a quest'ora?
La fece entrare nella stalla. Essa nello staccarsi dal muro lasciò una pozza d'acqualì davanti all'uscio dove era stata ad aspettare. Anche lui si sentiva le ossa rotte. Per giuntasua sorella l'accolse come un cane.
- Siete tornato dalla festa? Avete visto che bel guadagno?
Poi si rivolse inviperita a suo maritoneramagra al par di un chiodocogli occhi di carbonetanto di bocca apertaquasi volesse mangiarsi la gente:
- Voi non dite nulla?... A voi non bolle il sangue?...
Burgiopiù pacificocercava di svignarselafacendo le spalle grossechinando il testone di bue.
- Ecco!... Nessuno si dà pensiero dei guai che ci càpitano!... Io sola mi mangio il fegato!
Il fratello Gesualdocolla bocca amarale andava cantando:
- Lascia stareSperanza! Lasciami stareche ne ho abbastanzaanche senza la tua predica!
- Non volete sentire neppure la predica? Non volete che mi lamenti? Tanti denari persi!... Che non li guadagnate i vostri denarivoi?...
Egli per fuggire quella vespaandava cercando in cucina qualcosa da mettere sotto il dentedopo una giornata simile. Frugava nel cassone del pane. Speranza sempre dietrocome il gastigo di Dio.
- Fra pocoseguitando di questo passonon ce ne sarà più del pane nel cassoneno!... e non ci sarà neppure il cassonenon ci sarà!... La casa se ne andrà tutta al diavolo!...
Santoche tornava affamato dal bighellonare in piazza tutta la giornataal trovare il fuoco spento diede nelle furiecome un vero animale. I ragazzi che strillavano; tutti i vicini alle finestre per godersi la scena; tanto che Gesualdo infine perse la pazienza:
- Sapete cosa vi dico? che mi fate fare uno sproposito! Tante volte ve l'ho predicato!... ora lo fo sul seriocom'è vero Dio! L'asino quando non ne può più si coricae buona notte a chi resta!
E se ne andò nella stallamentre Speranza gli strillava dietro:
- Scappate anche? per andare a trovare Diodata? Vi pare che non l'abbia vista? Mezza giornata che vi aspettaquella sfacciata!...
Egli sbatacchiò l'uscio. Da prima non voleva neppur mangiaredigiuno com'era da ventiquattr'orecon tutti quei dispiaceri che gli empivano lo stomaco. Diodata andò a comprargli del pane e del salamebagnata sino alle ossa al par di luicolla gola secca. Lìsulla panchetta della stalladinanzi a una fiammata di stramealmeno si inghiottiva in pace un po' di grazia di Dio. - Ti piaceehquesta bella vita? Ti piace a te? - domandava egli masticando a due palmentiancora imbronciato. Essa stava a vederlo mangiarecol viso arrossato dalla fiammae diceva di sìcome voleva luicon un sorriso contento adesso. Il giorno finiva sereno. C'era un'occhiata di sole che spandevasi color d'oro sul cornicione del palazzo dei Traodirimpettoe donna Bianca la quale sciorinava un po' di biancheria logorasul terrazzo che non poteva vedersi dalla piazzacolle mani fine e delicatela persona che sembrava più alta e sottile in quella vesticciuola dimessamentre alzavasi sulla punta dei piedi per arrivare alle funicelle stese da un muro all'altro.
- Vedi chi vogliono farmi sposare? - disse lui. - Una Trao!... e buona massaia anche!... m'hanno detto la verità...
E rimase a guardarepensierosomasticando adagio adagio. Diodata guardava anche leisenza dir nullacol cuore grosso. Passarono le capre belando dal vicoletto. Donna Biancacome sentisse alfine quegli occhi fissi su di leivoltò il viso pallido e sbattutoe si trasse indietro bruscamente.
- Adesso accende il lume- riprese don Gesualdo. - Fa tutto in casa lei. Eheh... c'è poco da scialarla in quella casa!... Mi piace perché è avvezza ad ogni guaioe l'avrei al mio comando... Tu di'che te ne pare?
Diodata volse le spalleandando verso il fondo della stalla per dare una manciata di biada fresca alla mulae rispose dopo un momentocolla voce roca:
- Vossignoria siete il padrone.
- È vero... Ma veh!... che bestia! Devi aver fame anche tu... Mangiamangiapoveretta. Non pensar solo alla mula.
VI
Don Luca il sagrestano andava spegnendo ad una ad una le candele dell'altar maggiorecon un ciuffetto d'erbe legato in cima alla cannatenendo d'occhio nel tempo istesso una banda di monelli che irrompevano di tratto in tratto nella chiesa quasi deserta in quell'ora caldainseguiti a male parole dal sagrestano. Donna Bianca Traoinginocchiata dinanzi al confessionariochinava il capo umile; abbandonavasi in un accasciamento desolato; biascicando delle parole sommesse che somigliavano a dei sospiri. Dal confessionario rispondeva pacatamente una voce che insinuavasi come una carezzaa lenire le angoscea calmare gli scrupolia perdonare gli erroria schiudere vagamente nell'avvenirenell'ignotocome una vita nuovaun nuovo azzurro. Il sole di sesta scappava dalle cortinein altoe faceva rifiorire le piaghe di sant'Agataall'altar maggiorequasi due grosse rose in mezzo al petto. Allora la penitente risollevavasi ansiosaraggiante di consolazioneaggrappandosi avidamente alla sponda dell'inginocchiatoiocon un accento più fervidoappoggiando la fronte sulle mani in croce per lasciarsi penetrare da quella dolcezza. Veniva un ronzìo di mosche sonnolentiun odor d'incenso e di cera struttaun torpore greve e come una stanchezza dal luogo e dall'ora. Una vecchia aspettava accoccolata sui gradini dell'altaresimile a una mantellina bisunta posata su di un fagotto di lavandaiae quando destavasi borbottandodon Luca le dava sulla voce:
- Bella creanza! Non vedete che c'è una signora prima di voi al confessionario?... quelle non sono le quattro chiacchiere che avete da portarci voi al tribunale della penitenza!... discorsi di famigliacara voi!... affari importanti!
Nell'ombra del confessionario biancheggiò una mano che faceva il segno della crocee donna Bianca si alzò infinebarcollandochiusa nel manto sino ai piedicol viso raggiante di una dolce serenità. Don Lucavedendo che la vecchia non si risolveva ad andarsenetoccò la mantellina colla canna.
- Ehi? ehi? zia Filomena?... È tardi oggiè tardi. Sta per suonare mezzogiornoe il confessore deve andarsene a desinare.
La vecchia levò il capo istupiditoe si fece ripetere due o tre volte la stessa cosatestardaimbambolata. - Sicurosto per chiudere la chiesa. Potete andarvenemadre mia. Oggi?... neppure!... ci ha la trebbia al Passo di Cava padre Angelino. Giorni di lavorocara mia! - Bel bello riescì a mandarla viaborbottandotrascinando le ciabatte. Poimentre il prete infilava l'uscio della sagrestiadon Luca dovette anche dar la caccia a quei monellirovesciando banchi e sediefacendo atto di tirare l'incensiere: - Fuori! fuori! Andate a giuocare in piazza! - Nello stesso tempo passava e ripassava vicino a donna Bianca che si era inginocchiata a pregare dinanzi alla cappella del Sacramentosfolgorante d'oro e di colori lucenti da accecaretossendospurgandosifermandosi a soffiarsi il nasobrontolando:
- Neppure in chiesa!... non si può raccogliersi a far le orazioni!...
Donna Bianca si alzò in piedisegnandosicolle labbra ancora piene di avemarie. Il sagrestano le rivolse la parola direttamentementr'essa avviavasi per uscire:
- Siete contentavossignoria? Un sant'uomo quel padre Angelino! Confessa beneeh? V'ha lasciata contenta?
Ella accennò di sì col capocol sorriso breverallentando il passo per cortesia.
- Un bravo uomo! un uomo di giudizio! Quello sì che ve lo può dare un buon consiglio... meglio di vostro fratello don Ferdinando... ed anche di don Diegosì!...
Guardò intorno cogli occhi di gatto avvezzi a vederci al buio nella chiesa e su per la scala del campanilee aggiunse sottovocecambiando tonoin aria di gran mistero:
- Sapete che risposta gli hanno dato a don Gesualdo Motta? Aveva mandato a fare la domanda formale di matrimonioieri dopo pranzocol canonico Lupi...
Bianca arrossì senza levare il capo. Il sagrestano che la guardava negli occhi bassiseguendola passo passoriprese più forte:
- Gli hanno detto di no... tale e quale come ve lo dico adesso... Il canonico è rimasto di sale!... Nessuno si sarebbe aspettato quella rispostanon è vero?... il canonico donna Mariannaanche la baronessa vostra ziatutti che ci avevano posto un grande impegno!... Si sarebbe mosso quel Cristo ch'è di legnovedete! Nessuno l'avrebbe creduto così duroquel don Diego vostro fratello! un signore umile e buono che pareva di potersi confessare con lui!... Non parlo di don Ferdinandoch'è peggio di un ragazzopoveretto!...
Egli era riuscito a fermare donna Biancapiantandosele dinanzicogli occhi lucentiil viso accesoabbassando ancora la voce nel farle una confidenza decisiva:
- Don Gesualdo sembra impazzito!... Dice che non può mandarla giù! che ne farà una malattiacom'è vero Iddio!... Sono andato a trovarlo alla Canziria... faceva trebbiare il grano... - Don Gesualdoch'è questa la maniera di prendersela?... Ci lascerete la pellevossignoria!... - Lasciatemi starecaro don Lucache so io!... dacché il canonico mi portò quella bella risposta!... - Sembra davvero malato di cent'anni!... La barba lunga... Non dorme e non mangia più...
In quel momento si udì uno scalpiccìo di gente di chiesa. Don Luca alzò la voce di bottoquasi parlasse a un sordo:
- Oggi padre Angelino ci ha la trebbia al Passo di Cava. Se avete qualche altro peccato da confessarvic'è l'arciprete Bugno sfaccendato... buono anche quello! un servo di Dio...
Però vedendo il canonico Lupi che s'avanzava verso di loroinchinandosi a ogni altarecolla destra stillante d'acqua benedettail nicchio pendente dall'altra mano:
- Benedicitesignor canonico! Come va da queste parti?...
Il canonicoinvece di risponderglisi rivolse a donna Bianca con un sorriso sciocco sul muso aguzzo di furetto color di filiggine.
- Facciamo del benedonna Bianca! Raccomandiamoci al Signore! Vi ho vista entrare in chiesamentre andavo qui vicinoda don Gesualdo Mottae ho detto: Ecco donna Bianca che fa la sua visita alle Quarant'oree dà il buon esempio a meindegno sacerdote...
- Giusto... qui c'è il signor canonico!... Se avete qualche altro peccato da dirglidonna Bianca...
- Io non possomi dispiace! Monsignore non mi ha data la confessioneperché sa che me ne manca il tempo... - Indi aggiunse con un certo risolinolisciandosi il mento duro di barba. - Poi i vostri fratelli non vorrebbero...
Donna Biancarossa come se avesse avuto sul viso tutto il riflesso della cortina che velava l'altare del Crocifissofinse di non capire. Il canonico ripigliòmutando registro:
- Ci ho tante faccende gravi sulle spalle... mie e d'altrui... Andavo appunto da don Gesualdo per commissione di vostra zia. Sapete il grosso affare che hanno insiemecolla baronessa? -Donna Bianca fece segno di no.
- Un affare grosso... Si tratta di pigliare in affitto le terre di tutti i comuni della Contea!... Don Gesualdo ha il cuore più grande di questa chiesa!... e i conquibus anche!... Assai! assaidonna Bianca! Assai più di quel che si crede... Uno che si farà ricco come Cresocon quella testa fine che ha!
Don Luca si lasciò scappare di boccamentre andava spogliandosi degli abiti ecclesiasticicol viso dentro la cottale braccia in ariala voce soffocata:
- Bisogna vedere quel che ha raccolto alla Canziriabisogna vedere!
- Ahah! venite di lassù?
- Sissignore- rispose il sagrestanocavando fuori il viso rosso e imbarazzato. - Cosìper fare quattro passi... Ci vado ogni anno per la limosina della chiesa... Don Gesualdo è devoto di sant'Agata!
- Un cuor d'oro! - interruppe il canonico. - Generosocaritatevole!... Peccato che...
E si diede della mano sulla bocca.
- Quello che stavo dicendo a donna Bianca!... - confermò don Lucaripreso animocogli occhietti di nuovo petulanti.
- Basta! basta! Ciascuno dispone a suo modo in casa sua! Ora vi lascio pei fatti vostri. Tanti saluti a don Diego e a don Ferdinando!
Donna Bianca imbarazzata voleva andarsene anche lei; ma ma il sagrestano la trattenne:
- Un momento! Cosa devo dire a padre Angelinose volete mettervi in grazia di Dio prima della festa di san Giovanni Battista...
Il canonico insisteva anche lui: - Nonorestatedonna Biancafate gli affari vostri. - Posciaappena egli lasciò ricadere la portierauscendodon Luca ammiccò: - E così? che devo dire a don Gesualdose mai lo vedo... per caso?..
Essa sembrava esitante. Seguitava ad avviarsi verso la porta della chiesapasso passotenendo gli occhi bassicome infastidita dall'insistenza del sagrestano.
- Giacché i miei fratelli hanno detto di no...
- Una sciocchezza hanno detto! Avrei voluto condurli per mano alla Canziriae fargli vedere se non vale tutti i vostri ritratti affumicati!... Scusatemidonna Bianca!... parlo nell'interesse di vossignoria... I vostri fratelli tengono al fumo perché sono vecchi... hanno i piedi nella fossaloro!... Ma voi che siete giovinecome rimanete? Non si rovina così una sorella!... Un marito simile non ve lo manda neppure san Giuseppe padre della provvidenza!... Sono pazzi a dir di no i vostri fratelli!... pazzi da legare!... Le terre della Contea se le piglierà tutte luidon Gesualdo!... e poi le mani in pasta da per tutto. Non si mura un sasso che non ci abbia il suo guadagno lui... Domeneddio in terra! Pontimulinifabbrichestrade carreggiabili!... il mondo sottosopra mette quel diavolo! Fra poco si andrà in carrozza sino a Militelloprima Dio e don Gesualdo Motta!... Sua moglie andrà in carrozza dalla mattina alla sera!... camminerà sull'oro colatocome è vero Dio! Anche padre Angelino vi avrà consigliato la stessa cosa che vi dico io... Non ho udito nullaper non violare il suggello della confessionema padre Angelino è un uomo di giudizio... vi avrà consigliato di prendere un buon marito... di mettervi in grazia di Dio.
Donna Bianca lo guardò sbigottitacol mento aguzzo dei Trao che sembrava convulso. Indi alzò verso il crocifisso gli occhi umidi di lagrimecolle labbra pallide serrate in una piega dolorosa. Con quelle labbra senza sangue rispose infine sottovoce:
- I miei fratelli sono padroni... tocca a loro decidere...
Don Luca a corto d'argomenti rimase un istante quasi sbalorditopiantandosi dinanzi a lei per non lasciarla scapparesoffocato da tante buone ragioni che aveva in golabalbettandoannaspandograttandosi rabbiosamente il capocon gli occhietti scintillanti che andavano come frugandola tutta da capo a piedi per trovare il punto debolescuotendole dinanzi le mani giunteminaccioso e supplichevole. Alla fine proruppe:
- Ma è giustiziasanto Dio? è giustizia far tribolare in tal modo un galantuomo che vi vuol tanto bene?... Dare un calcio alla fortuna?... Scusatemidonna Bianca! io parlo nel vostro interesse... Dovete pensarci voi! Non siete più sotto tutelaalla fin fine!... Mi scaldo il sangue per voi... perché sono buon servo della vostra famiglia... una gran casata!... peccato che non sia più quella di prima!... Ora che avreste il mezzo di far risorgere il nome dei Trao!... Questo si chiama dare un calcio alla fortuna!... si chiama essere ingrati colla divina Provvidenza.
Essa seguitava ad andare verso la portairresolutaa capo chino. Don Luca alle calcagna di leiaccalorandositoccando tutti i tastimutando tono a ogni registro: - E certe giornatedonna Bianca!... certe giornate che spuntano a casa vostra!...
Bastascusatemiio ne parlo perché ci bazzico sempre ad aiutarviinsieme a mia moglie... E quando i vostri parenti si dimenticano che siete al mondo!... certe giornate d'inverno come vuol Dio!... Basta! Potreste esser la regina del paeseinvece! pensateci bene. Don Gesualdo spiccherebbe di lassù il sole e la luna per farvi piacere!... Non ci vede più dagli occhi!... Sembra un pazzo addirittura.
Donna Bianca s'era fermata su due piedia testa altacon una fiamma improvvisa che parve buttarle in viso la portiera sollevata in quel momento da qualcuno che entrava in chiesa. Comparve una donna macilentacolla gonnella in cenci sollevata dalla gravidanza sugli stinchi sottilisudicia e spettinatacome se non avesse fatto altro in vita sua che portare avanti quel ventre - un viso di chioccia istupidita dal covarecon due occhietti tondi su di una faccia a puntagialla e incartapecoritae un fazzoletto lacero da malatalegato sotto il mento; nient'altro sulle spalleda persona ch'è di casa in casa del Buon Dio. Essa dalla soglia si mise a gemerequasi avesse le doglie:
- Don Luca?... che non lo suonate mezzogiorno?... la pentola sta per bollire...
- Perché l'hai messa a bollire così presto? Il sole è ancora quisul limitare... L'arciprete fa un casa del diavolo per questa faccenda di suonare mezzogiorno prima dell'ora... Per stavolta... giacché è fatta... eccoti la chiave del campanile...
Don Lucatenendo ancora la cotta sotto il bracciolitigava colla mogliestecchito nella sottana bisunta quant'era enorme il ventre della donna:
- Tu ci hai l'orologio lìnella pancia!... Pensi solo a mangiare!... Ci vuol la grazia di Dio!... I vicini sono ancora tutti fuori... Ecco lì i ragazzi di Burgio!...
- Aspettano anche loro!... - piagnucolò la mogliesempre su quel tono. - Aspettano che suonate mezzogiorno... - E se ne andò col ventre avanti.
- I nipoti di don Gesualdo! - riprese il sagrestano ammiccando in modo significativo a donna Bianca nel tornare indietro. - Stanno lì a farci la spia!... Li manda sua madre apposta comare Speranzaper sapere tutto quello che facciamo! Tiene d'occhio la robacolei!... quasi fosse sua!... Ci ha fatto i suoi disegni sopra!... Quando m'incontra ha l'aria di mangiarmi!...
Finse di precedere donna Bianca per sollevare la portieraonde trattenerla ancora un momento: - Lui fa proprio compassione!... Una faccia da malato!... Mi parlò tutto il tempo di vossignoria... Dice che forse il canonico Lupi non avrà saputo fare l'imbasciata... che vorrebbe parlarvi... per vedere... per sentire...
Donna Bianca si fece di fuoco.
- È innamoratoche volete farci? Innamorato come un pazzo. Dovreste tornare a parlargliene coi vostri fratelli. Mandargli qualche buona parola... una risposta più da cristiani... Verrò io stesso a prenderladopo mezzogiornoquando don Diego e don Ferdinando sono in letto... col pretesto dei fiori per la Madonna... Sì? Cosa mi dite?
Essa chinò il capo rapidamentenel passare sotto la cortinaed uscì fuori. Don Luca credette di scorgere che volesse frugarsi in tascae seguitòcorrendole dietro:
- Che fate? No! Mi offendete! Un'altra volta... più tardi... quando potrete... Ho pensato meglio di mandare mia mogliea prendere la risposta di vossignoria. Non vorrei che i vostri fratellivedendomi bazzicare per casasospettassero che mi manda il canonico...
Dopo vespro spicciò lesto lesto il servizio della chiesa e corse alla Canziria: cinque miglia di salitapazienzaper amore di don Gesualdo che se lo meritavain verità! - Sta per cascaredon Gesualdo! Ancora essa non mi ha detto chiaro di sìcolla sua bocca; ma si vede che tentennacome la pera quand'è matura. Sono pratico di queste coseperché vedo tutti i giorni in chiesa delle donne che ricorrono al tribunale della penitenza... prima e poi... M'ha fatto sudare una camicia!... Ma ora vi dico che la pera è matura! Un'altra crollatinae vi casca fra le braccia; ve lo dico io! Dovreste correre al paese e scaldare il ferro mentre è caldo.
Però don Gesualdo non fece una gran festa all'imbasciata amorosa che gli capitava in quel momento: - Vedetedon Lucaci ho tutta la raccolta nell'aia... Sono in piedi da stanotte... Non ho sempre il vento in tasca per trebbiare a comodo mio!...
L'aia era vasta quanto una piazza. Dieci muli trottavano in girocontinuamente; e dietro i muli correvano Nanni l'Orbo e Brasi Camauroaffondando nella pula sino ai ginocchiansantivociandocantandourlando. Da un latoin una nuvola biancauna schiera di contadini armati di forchecolle camice svolazzantisembrava che vangassero nel grano; mentre lo zio Carminein cima alla bicanero di solecontinuava a far piovere altri covoni dall'alto. Delle tregge arrivavano ogni momento dai seminati intornocariche d'altra messe; dei garzoni insaccavano il grano e lo portavano nel magazzinodove non cessava mai la nenia di Pirtuso che cantava “e viva Maria!“ ogni venti moggi. Tutt'intorno svolazzavano stormi di gallineun nugolo di piccioni per aria; degli asinelli macilenti abboccavano affamati nella pagliacoll'occhio spento; altre bestie da soma erano sparse qua e là; e dei barili di vino passavano di mano in manoquasi a spegnere un incendio. Don Gesualdo sempre in motocon un fascio di taglie in manosegnando il frumento insaccatofacendo una croce per ogni barile di vinocontando le tregge che giungevanosgridando Diodatadisputando col sensalevociando agli uomini da lontanosudandosenza vocecolla faccia accesala camicia apertaun fazzoletto di cotone legato al colloun cappellaccio di paglia in testa.
- Lo vedetedon Lucase ho tempo da perdere adesso!... Vino qua! Date da bere a don Luca!... Sìsìverrò; ma quando potrò... Per ora non posso muovermicascasse il mondo!... Diodata!... bada che il vento spinge la fiamma verso l'aiasanto e santissimo!... Nodon Luca! non sono in collera pel rifiuto dei suoi fratelli... Venite quaaccostatevich'è inutile far sapere alla gente i fatti nostri!... Ciascuno la pensa a modo suo... Poi è lei che deve risolvere... Se lei dice di sìio per me non mi tiro indietro... Ma oggi non posso venire... e neppure domani... Be'! dopodomani!... Dopodomani devo venire anche per l'affare della gabellae ne discorreremo.
Don Luca suggerì pure di far precedere due paroline scritte: - Ci abbiamo appunto mia moglie che par fatta apposta per consegnarle sottomano a donna Biancasenza destar sospetti. Una bella letterinacon due o tre parole che fanno colpo sulle ragazze! Capitevossignoria? Ciolla ci ha la mano... Ne parlerei io stesso a Ciolla in segretezzasenza stare a rompervi il capovossignoria; e vi fa fare una bella figura. Con un bottiglione di vino poi ve lo chetateil Ciolla.
Don Gesualdo non volle sapere di lettera: - Non per risparmiare il vino; ma che storie mi andate contando? Se a lei l'affare gli vaallora che bisogno c'è di tante chiacchiere.
- Basta! basta! - conchiuse don Luca. - Dicevo per piantare meglio il chiodo. Ma voi siete il padrone.
Don Luca se ne tornò tutto contentocon un agnello e una forma di cacio. Per prudenza mandò la moglie a fare l'imbasciatasotto un pretesto: - Circa a quel discorso che siete intesi con mio maritovossignoriadice che il confessore verrà dopodomani a prendere la risposta!... Il confessore domenica aspetta la risposta!... - Don Ferdinando che aveva udito aprire il portonecomparve in quel momento come un fantasma.
- Il confessore!... - riprese a dire la gnà Grazia senza che nessuno le domandasse nulla. - Donna Bianca voleva confessarsi!... Oggi non puòil confessore... E domani neppure... Domenica piuttostose gli fate sapere che siete pronta...
La poveracciasotto quegli occhi stralunati di don Ferdinandoche pareva la frugassero tuttasospettosiinquietisi confondevabalbettavacercava le parole. Posciavedendo che l'altro stava zitto e non si movevaallampanatotacque anch'essae si mise a guardare in ariaa bocca apertacolle mani sul ventre. Biancaa tagliar cortola condusse nella dispensaper darle una grembiata di fave. Don Ferdinandosempre dietrocucito alle loro calcagnataciturnoguardando in ogni cantucciosospettoso. Si chinò anch'esso sul mucchietto di favecovandolo colla personamisurandolo ad occhiopalpandolo colle mani. E dopo che la sagrestana se ne fu andatacome un'anatrareggendo il grembiule pieno sul ventre enormesi mise a brontolare:
- Troppe!... Ne hai date troppe!... Stanno per terminare!...La zia non ne manda altre prima di Natale!...
La sorella voleva andarsene; ma lui seguitava a cercarea frugarea passare in rivista la roba della dispensa: due salsicciotti magri appesi a un gran cerchio; una forma di cacio bucata dai topi; delle pere infracidite su di un'asse; un orciolino d'olio appeso dentro un recipiente che ne avrebbe contenuto venti cafisi; un sacco di farina in fondo a una cassapanca grande quanto un granaio; il cestone di vimini che aspettava ancora il grano della Rubiera.
Infine riprese:
- Ci vuol l'aiuto di Dio!... Siamo tre bocche da sfamarein casa!... Ti par poco? Ci vorrebbe anche un po' di brodo per Diego... Non mi piace da qualche tempo!... Hai visto la faccia che ha? Lo stesso viso della buon'animati rammenti?... quando si mise a letto per non alzarsi più! E il medico non viene neppureperchè ha paura di non esser pagato... dopo tanti denari che s'è mangiati nell'ultima malattia della buon'anima!... La zia Rubiera s'è dimenticata che siamo al mondo... ed anche la zia Sganci...
Così brontolando andava passo passo dietro alla sorellachinandosi a raccattar per terra le fave cadute dal grembiule di Grazia. Posciacome svegliandosi da un sognodomandò:
- Tu perché non vai più dalla zia Rubiera? Avrebbe mandato un paio di piccionisapendo che Diego non sta bene... per fargli un po' di brodo...
Bianca divenne di brace in visoe chinò gli occhi. Don Ferdinando aspettò un momento la risposta a bocca apertabattendo le palpebre. Indi tornò nella dispensa a riporre le fave che aveva raccolte da terra. Poco dopo essa se lo vide comparire dinanzi un'altra voltacon quell'aria sbalordita.
- Se torna la sagrestana non gli dar nullaun'altra volta! Sanguisughe sono! Le fave stanno per terminarehai visto?... E un'altra cosa... Dovresti andare dalla zia Sganci per un po' d'olio... in prestito... Diglielo bene che lo vuoi in prestitoperché noi non siamo nati per chiedere la limosina... giacché la zia non ci ha pensato... Fra poco saremo al buio... anche Diego che è malato... tutta la notte!...
E spalancava gli occhiaccennando ancora colle mani e col capocon un terrore vago sul viso attonito. Da lontano si udiva di tanto in tanto la tosse che si mangiava don Diegoattraverso agli uscilungo il corridoioimplacabile e dolorosaper tutta la casa... Bianca sussultava ogni voltacol cuore che le scoppiavachinandosi ad ascoltareo fuggiva come spaventatatappandosi le orecchie.
- Non ci reggono! Non ci reggo!...
Infine Dio le diede la forza di ricomparire dinanzi a luiquel giorno in cui don Ferdinando le aveva detto che il fratello stava peggionella cameretta sudiciasdraiato su quel lettuccio che sembrava un canile. Don Diego non stava né peggio né meglio. Era lìaspettando quel che Dio mandavacome tutti i Traosenza lagnarsisenza cercare di fuggire il suo destinobadando solo di non incomodare gli altrie tenersi per sé i suoi guai e le sue miserie. Volse il capovedendo entrare la sorellaquasi un'ombra gli calasse sul viso incartapecorito. Poscia le accennò colla mano di accostarsi al letto. - Sto meglio... sto meglio... povera Bianca!... Tu come stai?... Perché non ti sei fatta vedere?... perché?...
Le accarezzava il capo con quella mano scarna e sudicia di malato povero. Gli era rimasto sulle guance incavate e sparse di peli grigi un calore di fiamma.
- Povera Bianca!... son sempre tuo fratellosai!... il tuo fratello che ti vuol tanto bene... povera Bianca!...
- Don Ferdinando mi ha detto... - balbettò essa timidamente. - Volete un po' di brodo?...
Il malato da prima fece segno di noguardando in ariasupino. Poi volse il capofissandola cogli occhi avidi dal fondo delle orbite che sembravano vuotefiligginose. - Il brododicevi? C'è un po' di carne?...
- Manderò dalla zia... dalla zia Sganci!... - s'affrettò ad aggiungere Biancacon una vampa improvvisa sulle guance. Sul volto del fratello era passata un'altra fiamma simile.
- No! no!... non ne voglio.
Neppure il medico voleva: - Nono! Cosa mi fa il medico?... Tutte imposture!... per spillarci dei denari... Il vero medico è lassù!... Quel che vorrà Dio... Del resto mi sento meglio...
Parve migliorare realmentedi lì a qualche giorno: del buon brodoun po' di vino vecchio che mandava la zia Sgancil'aiutarono ad alzarsi da lettoancora sconquassatocol fiato ai denti. Venne pure donna Marianna in persona a fargli visitapremurosacon un rimprovero amorevole sulla faccia buona: - Come? Siete in quello stato ed io non ne so nulla? Siamo in mezzo ai turchi? Siamo parentisì o no? Sempre misteri! Sempre ombrosi e selvaticitutti voialtri Trao!... rincantucciati come gli orsi in questa tana! Un bel mattino vi troveranno belli e morti all'improvviso che sarà una vergogna per tutto il parentado!... Neppure di quel negozio del matrimonio non me ne avete detto nulla!...
E sfilò quest'altro rosario: Erano pazzio cos'eranoa rifiutare una domanda simile a quella?... Uno sulla strada di farsi riccone come don Gesualdo Motta!... - Don Gesualdo! sissignori! I pazzi lasciateli stare!... Vedete bene in quale stato vi hanno ridotto!... Un cognato che potrebbe aiutarvi in tutti i modi... che vi toglierebbe da tante angustie!... Ah!... ah!...
Donna Marianna guardava intorno per la stanzaccia squallidacrollando il capo. Gli altri non fiatavano: Bianca a capo chino; don Ferdinando aspettando che parlasse suo fratellocogli occhi di barbagianni fissi su di lui.
Don Diego da principio rimase attonitobrontolando:
- Mastro-don Gesualdo!... Siamo arrivati fin lì!... Mastro-don Gesualdo che vuol sposare una Trao!...
- Sicuro! Chi volete che la sposi?... senza dote? Non è più una bambina neppure lei!... È un tradimento bell'e buono!... Cosa faràquando chiuderete gli occhi voi e vostro fratello?... la servaeh? La serva della zia Rubiera o di qualchedun altro?...
Don Diego si alzò da letto come si trovavain camiciuola di flanellacol fazzoletto in testale gambe stecchite che gli tremavano a verga dentro le mutande logore: un ecceomo! Andava errando per la stanzastralunatofacendo gesti e discorsi incoerentitossendotirando il fiato a stentosoffiandosi il nasoquasi suonasse una tromba.
- Mastro-don Gesualdo!... Saremmo arrivati a questoche una Trao sposerebbe mastro-don Gesualdo! Tu acconsentirestiBianca?... di'!... Tu diresti di sì?...
Bianca pallidissimasenza levare gli occhi da terradisse di sì col capolentamente.
Egli agitò in aria le braccia tremantie non seppe più trovare una sola parola. Don Ferdinando non fiatava neppur luiatterrito che Don Diego non riuscisse a persuader Bianca.
- Cosa volete che dica? - esclamò la zia. - Vi pare un bell'avvenire quello d'invecchiare come voialtri... fra tante angustie?... Scusatemine parlo perché siamo parenti... Fo quel che posso anch'io per aiutarvi... ma non è una bella cosa infine neanche per voialtri... Ed ora che vi si offre la fortunarisponderle con un calcio... Scusatemiio la direi una porcheria!
Tutt'a un tratto don Diego si mise a riderequasi colpito da un'ispirazioneammiccando dell'occhiofregandosi le manicon dei cenni del capo che volevano dire assai.
- Va bene! va bene!... Non è che questo?... perché ora come ora siamo un po' angustiati?... Ti pesadi'?... ti pesa questa vita angustiatapovera Bianca?... Hai paura per l'avvenire?...
Si fregò il mento peloso colla mano ischeletritaseguitando ad ammiccarecercando di rendere furbo il sorriso pallido.
- Vieni qua... Non ti dico altro!... Anche voizia!... Venite a vedere!...
S'arrampicò tutto tremante su di una seggiola per aprire un armadietto ch'era nel muroal di sopra della finestrae ne tirò fuori mucchi di scartafacci e di pergamene - le carte della lite - quella che doveva essere la gran risorsa della famigliaquando avessero avuto i denari per far valere le loro ragioni contro il Re di Spagna: dei volumi giallilogori e polverosiche lo facevano tossire a ogni voltar di pagina. Sul letto era pure sciorinato un grand'albero genealogicocome un lenzuolo: l'albero della famiglia che bagnava le radici nel sangue di un re libertinocome portava il suo stemma - di rossocon tre gigli d'orosu sbarra del medesimoe il motto che glorificava il fallo della prima autrice: Virtutem a sanguine traho.
S'era messi gli occhialiappoggiando i gomiti sulla sponda del lettucciobocconicon gli occhi che si accendevano in fondo alle orbite livide.
- Son seicent'anni d'interessi che ci devono!... Una bella somma!... Uscirete d'ogni guaio una volta per sempre!...
Bianca era cresciuta in mezzo a simili discorsi che aiutavano a passare i giorni tristi. Aveva veduto sempre quei libracci sparsi sulle tavole sgangherate e per le sedie zoppe. Così essa non rispose. Suo fratello volse finalmente il capo verso di leicon un sorriso bonario e malinconico.
- Parlo per voialtri... per te e per Ferdinando... Ne godrete voialtri almeno... Quanto a me... io sono arrivato... Te'!... te' la chiave!... serbala tu!
La zia Sgancia quei discorsida prima scattò come una molla: - Caro nipotemi sembrate un bambino! - Ma subito si calmòcol sorriso indulgente di chi vuol far capire la ragione proprio a un ragazzo.
- Va bene!... va benone!... Intanto maritatela con lo sposo che vi si offre adessoe poise diverrete tanti Cresisarà anche meglio.
Don Diego rimase interdetto al vedere che la sorella non prendeva la chiavee tornò daccapo:
- Anche tuBianca?... Dici di sì anche tu?...
Essaaccasciata sulla seggiolachinò il capo in silenzio.
- E va bene!... Giacché tu lo vuoi... giacché non hai il coraggio di aspettare...
Donna Mariannina seguitava a perorare la causa di don Gesualdodicendo ch'era un affare d'oro quel matrimoniouna fortuna per tutti loro; congratulandosi con la nipote la quale fissava fuori dalla finestracogli occhi lucenti di lagrime; rivolgendosi financo a don Ferdinando che guardava tutti quanti ad uno ad unosbalordito; battendo sulle spalle di don Diego il quale sembrava che non udissecogli occhi inchiodati sulla sorella e un tremito per tutta la persona. A un certo punto egli interruppe la ziabalbettando:
- Lasciatemi solo con Bianca... Devo dirle due parole... Lasciateci soli...
Essa alzò gli occhi sbigottitafaccia a faccia col fratello che sembrava un cadaveredopo che la zia e don Ferdinando furono usciti.
Il pover'uomo esitò ancora prima di aggiungere quel che gli restava a direfissando la sorella con un dolore più pungente e profondo. Poscia le afferrò le maniagitando il capomovendo le labbra senza arrivare a profferir parola.
- Dimmi la veritàBianca!... Perché vuoi andartene dalla tua casa?... Perchè vuoi lasciare i tuoi fratelli?... Lo so! lo so!... Per quell'altro!... Ti vergogni a stare con noidopo la disgrazia che t'è capitata!...
Continuava ad accennare del capocon uno struggimento immenso nell'accento e nel visocolle lagrime amare che gli scendevano fra i peli ispidi e grigi della barba.
- Dio perdona... Ferdinando non sa nulla!... Io... io... Bianca!... Come una figliuola ti voglio bene!... Mia figlia sei... Bianca!...
Tacque sopraffatto da uno scoppio di pianto.
Ella più morta che viva scosse il capo lentamente e biascicò:
- No... no... Non è per questo...
Don Diego lasciò ricadere adagio adagio le mani della sorellaquasi un abisso si scavasse fra di loro.
- Allora!... Fa quello che vuoi... fa quello che vuoi...
E le volse le spallecurvosenza aggiunger altrostrascicando le gambe.
VII
Nella casa antica dei La Gurnapresa in affitto da don Gesualdo Mottas'aspettavano gli sposi. Davanti alla porta c'era un crocchio di monelliche il ragazzo di Burgioin qualità di parentes'affannava a tener discostiminacciandoli con una bacchettina; la scala sparsa di foglie d'arancio; un lume a quattro becchi posato sulla ringhiera del pianerottolo; e Brasi Camaurocon una cacciatora di panno blùla camicia di bucatogli stivali nuoviche dava l'ultimo colpo di scopa nel portone imbiancato di fresco. A ogni momento succedeva un falso allarme. I ragazzi gridavano: - Eccoli! eccoli! - Camauro lasciava la scopae della gente si affacciava ai balconi illuminati.
Verso un'oradi notte arrivò il marchese Limòlifacendosi largo colla canna d'India. Vide il lumevide le foglie d'arancio e disse: - Bravo! - Ma nel salire le scalestava per rompersi l'osso del colloe allora scappò anche a bestemmiare:
- Che bestie!... Han fatto un mondezzaio!..
Brasi corse colla scopa. - Spazzo via tuttosignor marchese? Butto via ogni cosa?
- Nono!... Adesso son passato. Non grattar troppo colla scopapiuttosto... Si sente l'odor di stalla.
Udendo delle vociSanto Motta che aspettava di sopravestito di nuovocoi pantaloni a staffe e un panciotto di raso a fiorisi affacciò nel pianerottoloinfilandosi la giamberga.
- Eccomi! eccomi!... Sono qui!... Ahsignor marchese!... bacio le mani!...
E rimase un po' confusonon vedendo altri che il Limòli.
- Servoservocaro don Santo!... Non baciate più nulla... ora siamo parenti.
In cima alla scala comparve anche donna Sara Cirmenala sola di tutto il parentado della sposa che si fosse degnata di venirecon un moggio di fiori finti in testail vestito di seta che aveva preso le pieghe come la cartanel cassettonei pendagli di famiglia che le strappavano le orecchieseccata di aspettare da un gran pezzo in un bagno di sudoree si mise a strillare di lassù:
- Ma che fanno? C'è qualche altra novità?
- Nullanulla- rispose il marchese salendo adagio adagio.
- Son uscito prima per non far vedere ch'ero solo in chiesadi tutti i parenti... Son venuto a dare un'occhiata.
Don Gesualdo aveva fatto delle spese: mobili nuovifatti venire apposta da Cataniaspecchi con le cornici doratesedie imbottitedei lumi con le campane di cristallo: una fila di stanze illuminateche viste cosìcon tutti gli usci spalancatipareva di guardare nella lente di un cosmorama.
Don Santo precedeva facendo la spiegazionetirando in su ogni momento le maniche che gli arrivavano alla punta delle dita.
- Come? Non c'è nessuno ancora? - esclamò il marchesegiunti che furono nella camera nuzialeparata come un altare.
Compare Santo rannicchiò il capo nel bavero di vellutoal pari di una testuggine.
- Per me non manca... Io son qui dall'avemaria... Tutto è pronto...
- Credevo di trovare almeno gli altri parenti... Mastro Nunzio... vostra sorella...
- Nossignore... si vergognano... C'è stato un casa del diavolo! Io son venuto per tener d'occhio il trattamento...
E aprì l'uscio per farglielo vedere: una gran tavola carica di dolci e di bottiglie di rosolioancora nella carta ritagliata come erano venuti dalla cittàsparsa di garofani e gelsomini d'Arabiatutto quello che dava il paeseperché la signora Capitana aveva mandato a dire che ci volevano dei fiori; quanti candelieri si erano potuti avere in prestitoa Sant'Agata e nell'altre chiese. Diodata ci aveva pure messi in bell'ordine tutti i tovagliuoli arrotolati in puntacome tanti birilliche portavano ciascuno un fiore in cima.
- Bello! bello! - approvò il marchese. - Una cosa simile non l'ho mai vista!... E questi quicosa fanno?
Ai due lati della tavolacome i giudei del Santo Sepolcro ci erano Pelagatti e Giacaloneche sembravano di cartapesta così lavati e pettinati.
- Per servire il trattamentosissignore!... Mastro Titta e l'altro barbiere suo compagno si son rifiutaticon un pretesto!... Vanno soltanto nelle casate nobili quei pezzenti!... Temevano di sporcarsi le mani quiloro che fanno tante porcherie!...
Giacalonepremurosocorse tosto con una bottiglia per ciascuna mano. Il marchese si schermì:
- Graziefigliuol mio!... Ora mi rovini il vestitobada!
- Di là ci sono anche le tinozze coi sorbetti! - aggiunse don Santo.
Ma appena aprì l'uscio della cucinasi videro fuggire delle donne che stavano a guardare dal buco della serratura.
- Ho vistoho vistocaro parente. Lasciateli stare; non li spaventate.
In quel momento si udì un baccano giù in istradae corsero in tempo al balcone per vedere arrivare la carrozza degli sposi. Nanni l'Orboa cassettacol cappello sino alle orecchiefaceva scoppiettare la frusta come un carrettieree vociava:
- Largo!... A voi!... Guardatevi!... - Le muletolte allora dall'armentoricalcitravano e sbuffavanotanto che il canonico Lupi propose di smontare lì dov'eranoe Burgio s'era già alzato per scavalcare lo sportello. Ma le mule tutt'a un tratto abbassarono il capo insiemee infilarono il portone a precipizio.
- Morte subitanea! - esclamò il canonicoricadendo col naso sui ginocchi della sposa.
Salivano a braccetto. Don Gesualdo con una spilla luccicante nel bel mezzo del cravattone di rasole scarpe lucideil vestito coi bottoni doratiil sorriso delle nozze sulla faccia rasa di fresco; soltanto il bavero di vellutotroppo altoche gli dava noia. Lei che sembrava più giovane e graziosa in quel vestito candido e spumantecolle braccia nudeun po' di petto nudoil profilo angoloso dei Trao ingentilito dalla pettinatura allora in modai capelli arricciati alle tempie e fermati a sommo del capo dal pettine alto di tartaruga: una cosa che fece schioccare la lingua al canonicomentre la sposa andava salutando col capo a destra e a sinistrapalliducciatimidaquasi sbigottitatutte quelle nudità che arrossivano di mostrarsi per la prima volta dinanzi a tanti occhi e a tanti lumi.
- Evviva gli sposi! evviva gli sposi! - si mise a gridare il canonicomesso in allegriasventolando il fazzoletto.
Bianca prese il bacio della zia Cirmenail bacio dello zio marcheseed entrò sola nelle belle stanzedove non era anima viva.
- Ehi? ehi? bada che perdi il marito! - le gridò dietro lo zio marchese fra le risate generali.
- Ci siamo tutti? - borbottò sottovoce donna Sarina.
Il canonico si affrettò a risponder lui.
- Sissignora. Poca brigatavita beata!
Dietro di loro saliva Alessicolla berretta in manointimidito da quei lumi e da quell'apparato. Sin dall'uscio si mise a balbettare:
- Mi manda la signora baronessa Rubiera... Dice che non può venire perchè le duole il capo... Manda a salutare la nipotee don Gesualdo anche...
- Vai in cucinada questa parte - gli rispose il marchese. - Di' che ti dieno da bere.
Don Gesualdo approfittò di quel momento per raccomandare sottovoce a suo fratello:
- Stai attentodinanzi a tutta questa gente!... Ti metti a sederee non ti muovi più. Come vedi fare a mefai tu pure.
- Ho capito. Lascia fare a me!
La zia Cirmena si era impadronita della sposae aveva assunta un'aria matronale che la faceva sembrare in collera. Dopo che ciascuno ebbe preso posto nella bella sala cogli specchisi fece silenzio; ciascuno guardando di qua e di là per fare qualche cosaed ammirando coi cenni del capo. Alla fine il canonico credette di dover rompere il ghiaccio:
- Don Santosedetevi qua. Avvicinatevi; non abbiate timore.
- A me? - rispose Santo che si sentiva dar del don lui pure.
- Questo è tuo cognato- disse il marchese a Bianca.
Il notaro ripigliò di lì a un momento:
- Guardate! guardate! Sembra lo sbarco di Cristoforo Colombo!
Vedevasi sull'uscio dell'anticamera un mucchio di teste che si pigiavanofra curiose e timidequasi stesse per scoppiare una mina. Il canonico fra gli altri monelli scorse Nunzioil nipotino di don Gesualdoe gli fece segno d'entrareammiccandogli. Ma il ragazzo scappò via come un selvaggio; e il canonicosempre sorridendodisse:
- Che diavoletto!... tutto sua madre...
Il marchesesdraiato sulla sedia a bracciuoliaccanto alla nipotesembrava un presidentechiacchierando soltanto lui.
- Bravo! bravo!... Tuo marito ha fatto le cose bene!... Non ci manca nulla in questa casa!... Ci starai da principessa!... Non hai che a dire una parola... mostrare un desiderio...
- Allora ditegli che vi comperi delle altre mule - aggiunse il canonico ridendo.
- È vero; sei alquanto pallida... Ti sei forse spaventata in carrozza?
- Sono mule troppo giovani... appena tolte dall'armento... non ci sono avvezze... Ora usano dei cavalli per la carrozza - disse il canonico.
- Certamente! certamente! - si affrettò a rispondere don Gesualdo. - Appena potrò. I denari servono per spenderli... quando ci sono.
Il marchese e il canonico Lupi tenevano viva la conversazionedon Gesualdo approvando coi cenni del capo; gli altri ascoltavano: la zia Cirmena con le mani sul ventre e un sorrisetto amabile che faceva cascare le parole di bocca: un sorriso che diceva: - Bisogna pure! giacché son venuta!... Valeva proprio la pena di mettersi in gala!... - Bianca sembrava un'estraneain mezzo a tutto quel lusso. E suo marito imbarazzato anche luifra tanta gentela sposagli amicii servitoridinanzi a quegli specchi nei quali si vedeva tuttovestito di nuovoridotto a guardare come facevano gli altri se voleva soffiarsi il naso.
- Il raccolto è andato bene! - disse il marchese a voce più altaperché gli altri lo seguissero dove voleva arrivare. - Io ne parlo per sentita dire. Eh? eh? massaro Fortunato?...
- Sissignoregrazie a Dio!... Sono i prezzi che non dicono!...
- Ci sarà tanto da fare in campagna! Nel paese non c'è più nessuno.
La zia Cirmena allora non potè frenarsi:
- Ho vista al balcone la cugina Sganci... credevo che venisseanzi!...
- Chissà? chissà? Quella pioggerella ch'è caduta ha ridotto la strada una pozzanghera!... Io stavo per rompermi il collo. Però dicono che fa bene alle vigne. Eh? eh? massaro Fortunato?...
- Sissignorese vuol Dio!...
- Saranno tutti a prepararsi per la vendemmia. Noi soli nodonna Sarina! Noi beviamo il vino senza pregare Dio per l'acqua!... Bisogna condurre la sposa a Giolio per la vendemmiadon Gesualdo!... Vedrai che vigneBianca!
- Certo!... è la padrona!... certo!...
- Un momento!... - esclamò il canonico balzando in piedi. - Mi pare di sentir gente!...
Santoche stava all'ertacogli occhi fissi sul fratellogli fece segno per sapere se era ora d'incominciare il trattamento. Ma il canonico rientrò dal balcone quasi subitoscuotendo il capo.
- No!... Son villani che tornano in paese. Oggi è sabato e arriva gente sino a tardi.
- Io l'avevo indovinato! - rispose la Cirmena. - Ho l'orecchio fine!... Chi aspettatevoi?
- Donna Giuseppina Alòsiper bacco!... Quella almeno non manca mai!
- L'avrà trattenuta il cavaliere... - si lasciò scappare il marcheseperdendo la pazienza.
Santoche s'era già alzatotornò a sedere mogio mogio.
- Con permesso! con permesso! - disse il canonico. - Un momento! Vo e torno!
Donna Sarina gli corse dietro nell'anticamerae si udì il canonico rispondere forte:
- No! Qui vicino... dal Capitano!...
Il marchese che stava coll'orecchio teso fingeva d'ammirare ancora i mobili e le stanzee tornò a dire:
- Belli! belli!... Una casa signorile! Siete stati fortunati di potervi cacciare nel nido dei La Gurna!... Eh! eh!... Se ne videro qui delle feste... in questo stesso luogo!... Mi rammento... pel battesimo dell'ultimo La Gurna... Corradino... Adesso sono andati a stare a Siracusatutta la famigliadopo aver dato fondo a quel po' che rimaneva!... Mors tua vita mea!... Qui starete da principi!... Eh! eh!... son vecchio e la so lunga!... Ci staremmo bene anche noiehdonna Sarina?... eh?
Donna Sarina si dimenava sulla seggiola per tener la lingua in freno: - Quanto a me!... - disse poi - grazie a Dio!... La prova è che il ragazzo La GurnaCorradinoviene da me per la villeggiatura. Lui non ci ha colpapovero innocente!
- Nonoè meglio star seduti in una bella sedia soffice come questache andare a buscarsi il pane di qua e di làcome i La Gurna!... quando si può buscarselo anche!... E avere una buona tavola apparecchiatae la carrozza per far quattro passi dopoe la vigna per la villeggiaturae tutto il resto!... La buona tavola soprattutto!... Son vecchioe mi dispiace che il marchesato non possa servirsi in tavola... Il fumo è buono soltanto in cucina... La so lunga... C'è più fumo nella cucinache arrosto sulla tavola in molte case... quelle che ci hanno lo stemma più grosso sul portone... e che arricciano più il naso!... Se torno a nascerevoglio chiamarmi mastro Alfonso Limòlied esser ricco come voinipote mio... Per godermi i miei denari fra me e me... senza invitar nessuno... no!...
- Tacete!... Sento il campanello! - interruppe donna Sarina. - È un pezzo che suonano mentre voi state a predicare...
Però era un tintinnìo sommesso di gente povera. Santo corse ad apriree si trovò faccia a faccia col sagrestanoseguito dalla mogliela quale portava sotto il braccio un tovagliuolo che pareva un saccoquasi fosse venuta per lo sgombero. Al primo momento don Luca rimase imbarazzatovedendo il fratello di Speranza che gli aveva mandato a dire mille improperi con suo marito Burgio; ma non si perse d'animo per questoe trovò subito il pretesto:
- C'è il canonico Lupi?... Mia mogliequim'ha detto ch'era montato in carrozza cogli sposi...
La gnà Grazia allora entrò svolgendo adagio adagio il tovagliuoloe ne cavò una caraffina d'acqua d'odoretappata con un batuffoletto di cenci.
- L'acqua benedetta!... Abbiamo pensato per donna Bianca!
E si misero ad aspettare tranquillamentemarito e mogliein mezzo alla sala.
In quel momento tornò il canonico Lupirosso in visosbuffandoasciugandosi il sudore. E a prevenire ogni domanda si rivolse subito al padrone di casasorridendocoll'aria indifferente:
- Don Gesualdo... se avete intenzione di farci fare la bocca dolce!... Mi pare che sia tempo!... All'alba ho da dir messaprima d'andare in campagna.
- Vado? - saltò a dire subito Santo. - Mettiamo mano?
Si alzò in piedi la sposa; si alzarono dopo di lei tutti gli altrie rimasero fermi ai loro postiaspettando a chi toccasse aprire la marcia. Il canonico si sbracciava a far dei segni a compare Santoe vedendo che non capivagli soffiò colla voce di pettocome in chiesaallorché sbagliavasi la funzione:
- A voi!... Date braccio alla cognata!...
Ma il cognato non si sentiva di fare quella parte. Infine glielo spinsero dietro a forza. Lo zio Limòli intanto era passato avanti colla sposae il canonico borbottò all'orecchio di don Gesualdo:
- Credereste?... fa la sdegnosa anche la Capitana! Lei che non manca mai dove c'è da leccare piatti! Fa la sdegnosa anch'essa! Come se non si sapesse donde viene quella gran dama!... No! no! che fate?... - esclamò a un tratto slanciandosi verso compare Santo.
Costuipersa la pazienzaquatto quatto rimboccavasi le maniche del vestito. Per fortuna la cognata stava parlando collo zio Limòlie non se ne accorse. Il marchesedal canto suoera distrattocercando di evitare Giacalone e Pelagatti che volevano servirlo a ogni costo. - Faranno nascere qualche guaio quei due ragazzi! - borbottò infine.
Anche Bianca abbozzò un sorriso a quell'uscitae si scostarono dalla tavola tutti e dueper evitare il pericolo.
- Non vuol nulla!... - tornò dicendo il cognato don Santoquasi si fosse tolto un gran peso dallo stomaco. - Ioper megliel'ho offerto!...
- Neanche un bicchierino di perfetto amore? - entrò a dire il canonico con galanteria. La zia Cirmena si mise a rideree Santo guardò il fratelloper vedere cosa dovesse fare.
- Eh! eh!... - aggiunse il marchese con la sua tosserella. - Eh! eh!...
- Qualcosazio?
- Graziegraziecara Bianca... Non ho più denti né stomaco... Sono invalido... Sto a vedere soltanto... non posso fare altro...
Il canonico si fece pregare un po'e quindi trasse di tasca un fazzoletto che sembrava un lenzuolo. Intanto la zia Cirmena s'empiva il borsone che portava al bracciodov'era ricamato un cane tutto interoe ce n'entrava della roba! Il canonico inveceche aveva le tasche sino al ginocchiosotto la zimarradelle vere bisaccepoteva cacciarvi dentro tutto quello che voleva senza dare nell'occhio. Bianca pure regalò con le sue mani stesse una scatola di confetti al cognato Santo.
- Per vostra sorella e i suoi ragazzi...
- Di' che glieli manda lei stessa... la cognata... - soggiunse Gesualdo tutto contentocon un sorriso di gratitudine per lei.
Erano un po' in dispartementre tutti gli altri si affollavano intorno alla tavola. Egli allora le disse pianocon una certa tenerezza:
- Brava! mi piaci perché sei giudiziosae cerchi di metter pace in famiglia... Non sai quel che c'è stato!... Mia sorella specialmente!... M'hanno fatto andare tutto in veleno anche il giorno delle nozze!...
Com'essa gli ispirava confidenzacol viso buonostava per sfogarsi del rimanentesenza avvedersenequando la zia Cirmena venne ad interromperlo dicendogli:
- Pensate al sagrestano; è lì che aspetta con sua moglie.
Don Lucavedendo arrivare tanta grazia di Diofinse di esser sorpreso. - Nossignore! Non siamo venuti per i dolci... Non v'incomodatevossignoria! - Sua moglie intanto andava sciorinando la tovaglia che pareva quella dell'altare. Lui inveceper dimostrare la sua gratitudinefingeva di guardare in ariainarcando le ciglia dalla sorpresa.
- GuardaGrazia!... Quanta roba!... Ce ne sono stati spesi dei denari qui! - Posciaappena don Gesualdo volse le spalleaiutò ad insaccare anche lui.
- Par d'essere appestati!... - borbottò donna Sarina che rientrava col borsone pieno insieme al canonico Lupi. - Neppure i suoi fratelli son venuti!... avete visto?...
- Poveretti!... poveretti!... - rispose l'altro agitando la mano dinanzi alla frontecome a dire che coloro non ci avevano più la testa a segno. Poi si guardò intorno abbassando la voce: - Sembrava che piangessero il mortoquando siamo andati a prendere la sposa!... due gufitale e quale!... Si rintanavano di stanza in stanzaal buio... Due gufitale e quale!... Donna Biancainvecevoleva fare le cose con bella maniera... almeno pei riguardi umani!... Infine se si è indotta a questo passo...
Fece un altro segnocoll'indice e il pollice in croce sulla bocca. E sbirciando colla coda dell'occhio che rientravano in sala anche Bianca e suo maritodisse fortecome in seguito di un altro discorsomostrando il fazzoletto pieno: - Sono le mie propine!... frutti di stola...
La moglie del sagrestanoche non si era accorta della sposa aggiunse:
- Sono ancora lìtutti e duedietro i vetri della finestraal buioa guardare in piazza dove non c'è nessuno!... come due mummie addirittura!...
Donna Biancanel passareudì quelle parole.
- Tanta salute! - interruppe il sagrestano vedendo la signora. - Sarà una festa per quei ragazziquando arriveremo a casa!... Cinque figliuolidonna Bianca!...
Poivoltandosi verso la moglie che se ne andava barcollandocon quell'altro fardello sulla pancia:
- Salute e figli maschi!... La roba ce l'avete!... Ora pregheremo il Signore di darvi i figliuoli... Vogliamo vedervi come Grazia fra nove mesi...
Il marchese per tagliar corto l'accomiatò: - Va bene! Buona seracaro don Luca!
Nell'altra stanzaappena furono usciti gli invitatisi udì un baccano indiavolato. I vicinila gente di casaBrasi CamauroGiacaloneNanni l'Orbouna turba famelicapiombò sui rimasugli del trattamentodisputandosi i dolciumistrappandoseli di manoaccapigliandosi fra di loro. E compare Santocol pretesto di difendere la robaabbrancava quel che potevae se lo ficcava da per tuttoin boccanelle taschedentro la camicia. Nunzioil ragazzo di Burgioentrato come un gattosi era arrampicato sulla tavolae s'arrabbattava a calci e pugni anche luistrillando come un ossesso; gli altri monelli carponi sotto. Don Gesualdoinfuriatovoleva correre col bastone a far cessare quella baraonda; ma lo zio marchese lo fermò pel braccio!...
- Lasciateli fare... tanto!...
La zia Cirmena che si era divertita almeno un po'si piantò nel bel mezzo della stanzaguardando in faccia la gentecome a dire ch'era ora d'andarsene. In quel frattempo tornò di corsa il sagrestanoansantecon un'aria di gran mistero:
- C'è qui tutto il paese!... giù in istradache stanno a vedere!... Il barone Zaccoi Margaronela moglie di Mèndola anche... tutti i primi signori del paese!... Fa chiasso il vostro matrimoniodon Gesualdo!...
E se ne andò com'era venutofrettolosoinfatuato.
La zia Cirmena borbottò:
- Che seccatura!... Ci fosse almeno un'altra uscita!...
Il canonico invececuriosovolle andare a vedere.
Di rimpettoalla cantonata di San Sebastianoc'era un crocchio di gente; si vedevano biancheggiare dei vestiti chiari nel buio della strada. Altri passavano lentamentein punta di piedirasente al murocol viso rivolto in su. Si udiva parlare sottovocedelle risa soffocate ancheuno scalpiccìo furtivo. Due che tornavano indietro dalla parte di Santa Maria di Gesù si fermaronovedendo aprire il balcone. E tutti sgattaiolarono di qua e di là. Rimase solo Ciollache fingeva d'andare pei fatti suoi canticchiando:
Amoreamoreche m'hai fatto fare?
Donna Sarina e il marchese Limòli si erano avvicinati anch'essi al balcone. Quest'ultimo allora disse:
- Adesso potete andarvenedonna Sarina. Non c'è più nessuno laggiù!...
La zia Cirmena scattò su come una molla:
- Io non ho pauradon Alfonso!... Io fo quel che mi pare e piace!... Son qui per far da mamma a Bianca... giacché non c'è altra parente prossima. Non possiamo piantar la sposa quasi fosse una trovatella... pel decoro della famiglia almeno!...
- Ah? ah?... - sogghignava intanto il marchese.
Donna Sarina gli ribatté sul musofrenando a stento la voce:
- Non mi fate lo gnorridon Alfonso!... Lo sapete meglio di me!... Deve premere anche a voi che siete della famiglia... Bisogna farlo per la gente... se non per lei!... - E infilò l'uscio della camera nuzialecontinuando a sbraitare.
- Va beneva bene! Non andate in collera... Vuol dire che ce ne andremo noi!... Ehiehicanonico... Mi par che sarebbe tempo d'andarcene!... Un po' di prudenza!...
- Ah! ah!... Ah! ah! - chiocciava il canonico.
- Buona nottenipoti miei! Vi dò pure la benedizione che non costa nulla...
Bianca s'era fatta pallida come un cencio lavato. Si alzò anche leicon un lieve tremito nei muscoli del mentocoi begli occhi turchini che sembravano smarritiincespicando nel vestito nuovoe balbettò:
- Zio!... sentitezio!... - E lo tirò in disparte per parlargli sottovocecon calore.
- Sono pazzi! - interruppe il marchese ad alta voce accalorandosi anche lui. - Pazzi da legare! Se torno a nascerelo dirò anche a lorovoglio chiamarmi mastro Alfonso Limòli!...
- Bravo! - sghignazzò il canonico. - Mi piace quello che dite!
- Buona notte! buona notte! Non ci pensare! Andrò da loro domattina... E fra nove mesiricordati benevoglio essere invitato di nuovo pel battesimo... il canonico Lupi ed io... noi due soli... Non ci sarà neppure bisogno della cugina Cirmena!...
- Poca brigatavita beata! - conchiuse l'altro.
Don Gesualdo li accompagnò sino all'usciosolleticato internamente dai complimenti del canonicoil quale non finiva dal dirgli che aveva fatto le cose ammodo: - Peccato che non sieno venuti tutti gli invitati! Avrebbero visto che spendete da Cesare. Mi sorprende per la signora Sganci!... Anche la baronessa Rubiera sarebbe stata contenta di vedere come le rispettate la nipote... che non siete di quelli che hanno il pugno stretto... giacché dovete esser soci fra poco.
- Eh! eh! - rispose don Gesualdo che si sentiva ribollire in quel punto i denari male spesi. - C'è tempo! c'è tempo! Ne deve passare prima dell'acqua sotto il ponte che non c'è più... Diteglielo purealla signora baronessa.
- Come? come? Se era cosa intesa? Se dovete esser soci?
- I miei soci son questi qua! - ripeté don Gesualdo battendo sul taschino. - Non vorrei che la signora baronessa Rubiera avesse a vergognarsi d'avermi per compagno... diteglielo pure!
- Ha ragione! - aggiunse il marchese fermandosi a metà della scala. - Ha l'amor proprio dei suoi denariche diavolo!... La cugina Rubiera avrebbe potuto degnarsi... Non si sarebbe guastato il sangue per così pocolei!...
- Chissà? chissà perché non è venuta?... Ci dev'essere qualch'altro motivo... Poigli affari... è un'altra cosa... Pensateci bene!... Vi mancherà un appoggio!... Li avrete tutti nemici allora!...
- Tutti nemici... oh bella! perché?
- Pei vostri denaricaspita!... Perché potete mettere anche voi le mani nel piatto!... Poi vi siete imparentato con loro!... Uno schiaffocaro mio! Uno schiaffo che avete dato a tutti quanti!
- Sapete cosa ho da dirvi? - si mise a strillare allora il marchese levando il capo in su. - Che se non avessi il vitalizio della mia commenda di Malta per non crepare di famesarei costretto a dare uno schiaffo anch'io a tutta la nobile parentela... Sarei costretto a scopar le strade!...
E se ne andò borbottando.
- Don Gesualdo- disse Nanni l'Orbo facendo capolino dalla cucina. - Son qui i ragazzi che vorrebbero baciar la mano alla padrona... se non c'è più nessuno...
- Spicciatevi! spicciatevi! - rispose lui infastidito.
Prima s'affollarono sulla soglia simili a un branco di pecore; posciadopo Nanni l'Orbosfilarono dietro tutti gli altricol sorriso goffoil berretto in manole donne salutando sino a terra come in chiesaimbacuccate nelle mantelline.
- Questa è Diodata- disse Nanni l'Orbo. - Una povera orfanella che il padrone ha mantenuto per carità.
- Sissignora!... Tanta salute!... - E Diodata non seppe più che dire.
- Un cuore tanto fattodon Gesualdo! - seguitò Nanni l'Orbo accalorandosi. - Gli ha fatto anche la dote! Domeneddio l'aiuta per questo!
Don Gesualdo andava spegnendo i lumi. Poi si voltò tutto di nuovo vestitoche Diodata non osava nemmeno alzare gli occhi su di luie conchiuse:
- Va bene. Siete contenti?
- Sissignore- rispose Nanni l'Orboguardando con tenerezza Diodata. - Contentoni!... può dirlo anche lei!...
- È un pezzo che compare Nanni teneva d'occhio a quei baiocchiper non lasciarseli sfuggire! - aggiunse Brasi Camauro. - È nato col berretto in testa!
- Sposa Diodata- narrò allora alla moglie don Gesualdo. - La marito con lui.
Il camparo aggiunse altre informazioniridendo:
- Si correvano dietro! Bisognava far la guardia a loro pure!... Il padrone mi dovrebbe ancora qualche regaluccio per quest'altra custodia che non era nel patto!...
Allora scoppiò una risata generaleperché compare Carmine era molto lepidodi solito. La ragazzatutta una fiammagli lanciò un'occhiata di bestia selvaggia.
- Non è vero! nossignoredon Gesualdo!...
- Sì! sì! e Brasi Camauro anche! e Giacaloneallorché veniva pel carro!... Tutti d'amore e d'accordoinsieme!...
Le risate non finivano più; Nanni l'Orbo pel primoche si teneva i fianchi. Solo Diodatarossa come il fuococolle lagrime agli occhis'affannava a ripetere:
- Nossignore!... non è vero!... Come potete dirlocompare Carmine?... non ne avete coscienza?
Donna Sarina comparve di nuovo sull'usciocolle braccia incrociatesenza profferire una parola; soltanto i fiori che le si agitavano sul capo parlavano per lei.
- Ora basta! - conchiuse il padrone. - Andatevenech'è tardi.
Essi salutarono un'altra voltainchinandosi goffamentebalbettando confusamente in corourtandosi nell'usciree se ne andarono con un calpestìo pesante di bestiame grosso. Appena fuori cominciarono a ridere e scherzare fra di loro; Brasi Camauro e Pelagatti dandosi degli spintoni; Nanni l'Orbo e compare Carmine barattando parolacce e ingiurie atrocicolle braccia l'uno al collo dell'altrocome due fratelli messi in allegria dal vino bevuto. Una baldoria che fece ridere anche lo stesso don Gesualdo.
- Son come le bestie! - diss'egli rientrando. - Non dar rettacara Bianca!
- Un momento! - strillò la zia Cirmena respingendolo colle maniquasi egli stesse per farle violenza. - Non potete entrare adesso! fuori! fuori!
E gli chiuse l'uscio sul muso.
Diodata risalì di corsa in quel puntoscalmanatacolle lagrime agli occhi.
- Don Gesualdo!... Non vogliono lasciarmi andare pei fatti miei!... Li sentitelaggiù?... compare Nanni e tutti gli altri!...
- Ebbene? Che c'è? Non dev'essere tuo marito?...
- Sissignore... Dice per questo!... ch'è il padrone... Non mi lasciano andare in pace!... tutti quanti!
- Aspetta! aspettache piglio un bastone!
- No! no! - gridò Nanni dalla strada. - Ce ne andiamo a casa. Nessuno la tocca.
- Senti? Nessuno ti tocca. Vattene... Che fai adesso?
Essastando due scalini più giùgli aveva presa la mano di nascostoe andava baciandola come un vero cane affezionato e fedele: - Benedicite!... benedicite!...
- Ora ricomincia il piagnisteo! - sbuffò lui. - Non ho un momento di pacequesta sera!...
- Nossignore... senza piagnisteo... Tanta salute a vossignoria!... e alla vostra sposa anche!... È che volevo baciarvi la mano per l'ultima volta!... Mi tremano un po' le gambe... Tanto bene che mi avete fattovossignoria!...
- Be'! be'!... Sta allegra tu pure!... Dev'essere un giorno d'allegria questo!... Hai trovato un buon marito anche tu... Il pane non te lo farà mancare... E quando verrà la malannataricordati che c'è sempre il mio magazzino aperto... Sei contenta anche tu? di'?
Essa rispose ch'era contentachinando il capo più voltegiacché aveva un groppo alla gola e non poteva parlare.
- Va bene! Ora vattene via contenta... e senza pensare ad altrosai!... senza pensare ad altro!...
Com'essa lo guardava in un certo modocogli occhi dolorosi che sembrava gli leggessero anche a lui il cruccio segreto in cuorecominciò a gridare per non pensarciquasi fosse in collera.
- E senza cercare il pelo nell'uovo!... senza pensare a questo e a quell'altro... Il Signore c'è per tutti... Anche tu sei una povera trovatellae il Signore ti ha aiutato!... Al caso poici son qua io... Farò quello che potrò... Non ho il cuore di sassono!... Lo sai! Vaivai; vattene via contenta!...
Ma Diodatache gli voltava le spallecol petto pigiato contro la ringhieraquasi si sentisse morire dal crepacuorenon poté frenare i singhiozzi che la scuotevano dalla testa ai piedi. Allora il suo padrone scappò a bestemmiare:
- Santo e santissimo!... santo e santissimo!
In quel momento comparve la zia Cirmena in cima alla scalacon lo scialle in testail borsone infilato al braccioe gli occhi umidi di lagrimecome si conveniva alla parte di madre che l'era toccata quella volta.
- Eccomi quadon Gesualdo! eccomi qua! - E stese le braccia come un crocifisso per buttargliele al collo. - Non ho bisogno di farvi la predica... Siete un uomo di giudizio... Povera Bianca!... Sono commossaguardate!
Cercò nel borsone il fazzoletto di battistafra la roba di cui era pienoe si asciugò gli occhi. Poi baciò di nuovo lo sposoasciugandosi anche la bocca con lo stesso fazzolettoe chiamò il servitore che aspettava giù col lampione.
- Don Camillo! Accendetech'è ora di andarsene. Don Camillo? ehi? cosa fate? dormite?
Dalla strada rispose Ciollaripassando col chitarrino:
Amoreamoreche m'hai fatto fare?
E degli altri sfaccendati gli andavano dietrofacendogli l'accompagnamento coi grugniti.
- No! - esclamò la zia Cirmena piantandosi dinanzi al nipotequasi ad impedirgli di fare una pazzia. - Non date retta... Sono ubbriachi!... canaglia che crepano d'invidia! Andate a trovare vostra moglie piuttosto! Ve la raccomando... non va presa come le altre... Siamo fatti di un'altra pasta... tutta la famiglia... Mi pare di lasciare il sangue mio nelle vostre mani adesso!... Non ho avuto figliuole... non ho mai provato una cosa simile!... Mi sento tutta sconvolta!... No! no! Non badate a me!... mi calmerò... Voidon Camilloandate avanti col lume...
Egli volse le spalle. - Quante chiacchiere! Infine siamo marito e moglie sì o no? - Entrando nella camera nuziale trasse un sospirone.
- Ah! se Dio vuoleè finita! Ce n'è voluto... ma è finitase Dio vuole!... Non lo fo piùcom'è vero Iddiose si ha a ricominciare da capo!...
Voleva far ridere anche la sposametterla un po' di buon umoreper star meglio insieme in confidenzacome dev'essere fra marito e moglie. Ma leich'era seduta dinanzi allo specchiovoltando le spalle all'usciosi riscosse udendolo entraree avvampò in viso. Indi si fece smorta più di primae i lineamenti delicati parvero affilarlesi a un tratto maggiormente.
Proprio quello che aveva detto la zia Cirmena! Una ragazza che vi basiva per un nullae v'imbrogliava la lingua e le mani. Gli seccavaeccoquel giorno di nozze che non gli aveva dato un sol momento buono.
- Ehi?... Perchè non dici nulla?... Cos'hai?... - Rimase un momento imbarazzatosenza saper che dire neppure luiumiliato nel suo bel vestito nuovoin mezzo ai suoi mobili che gli costavano un occhio del capo.
- Senti... s'è così... se la pigli su quel verso anche tu... Allora ti saluto e vo a dormire su di una sediacom'è vero Dio!...
Essa balbettò qualche parola inintelligibileun gorgoglìo di suoni timidi e confusie chinò il capo ubbidienteper cominciare a togliersi il pettine di tartarugacolle mani gracili e un po' sciupacchiate alle estremità di ragazza povera avvezza a far di tutto in casa.
- Brava! brava! Così mi piaci!... Se andiamo d'accordo come dico iola nostra casa andrà avanti... avanti assai! Te lo dico io! Faremo crepare gli invidiosi... Hai visto staserache non son voluti venire alle nozze?... Quante spese buttate via!... Hai visto che mi mangiavo il fegato e ridevo?... Riderà meglio chi ride l'ultimo!... Viaviaperchè ti tremano così le mani?... non sono tuo marito adesso?... a dispetto degli invidiosi!... Che paura hai?... Senti!... quel Ciolla!... mi farà fare uno sproposito!...
Essa tornò a balbettare qualche parola indistintache le spirò di nuovo sulle labbra smortee alzò per la prima volta gli occhi su di luiquegli occhi turchini e dolci che gli promettevano la sposa amorevole e ubbidiente che gli avevano detto. Allora egli tutto contentocon un risata larga che gli spianò il viso ed il cuoreriprese:
- Lascialo cantare. Non me ne importa adesso di Ciolla... di lui e di tutti gli altri!... Crepano d'invidia perché i miei affari vanno a gonfie velegrazie a Dio! Non te ne pentirainodi quello che hai fatto!... Sei buona!... non hai la superbia di tutti i tuoi...
In cuore gli si gonfiava un'insolita tenerezzamentre l'aiutava a spettinarsi. Proprio le sue grosse mani che aiutavano una Traoe si sentivano divenir leggere leggere fra quei capelli fini! Gli occhi di lui si accendevano sulle trine che le velavano gli omeri candidi e delicatisulle maniche brevi e rigonfie che le mettevano quasi delle ali alle spalle. Gli piaceva la peluria color d'oro che le fioriva agli ultimi nodi delle vertebrele cicatrici lasciatele dal vaccinatore inesperto sulle braccia esili e bianchequelle mani piccoleche avevano lavorato come le suee tremavano sotto i suoi occhiquella nuca china che impallidiva e arrossivatutti quei segni umili di privazioni che l'avvicinavano a lui.
- Voglio che tu sii meglio di una reginase andiamo d'accordo come dico io!... Tutto il paese sotto i piedi voglio metterti!... Tutte quelle bestie che ridono adesso e si divertono alle nostre spalle!... Vedrai! vedrai!... Ha buon stomacomastro-don Gesualdo!... da tenersi in serbo per anni ed anni tutto quello che vuole... e buone gambe pure... per arrivare dove vuole... Tu sei buona e bella!... roba fine!... roba fine sei!...
Essa rannicchiò il capo nelle spallesimile a una colomba trepidante che stia per esser ghermita.
- Ora ti voglio bene davverosai!... Ho paura di toccarti colle mani... Ho le mani grosse perchè ho tanto lavorato... non mi vergogno a dirlo... Ho lavorato per arrivare a questo punto... Chi me l'avrebbe detto?... Non mi vergognono! Tu sei bella e buona... Voglio farti come una regina... Tutti sotto i tuoi piedi!... questi piedini piccoli! Hai voluto venirci tu stessa... con questi piedini piccoli... nella mia casa... La padrona!... la signora bella mia!... Guardami fai dire delle sciocchezze!...
Ma essa aveva l'orecchio altrove. Pareva guardasse nello specchiolontanolontano.
- A che pensi? ancora al Ciolla?... Vo a finire in prigionela prima notte di matrimonio!...
- No! - interruppe lei balbettandocon un filo di voce. - No... sentite... devo dirvi una cosa...
Sembrava che non avesse più una goccia di sangue nelle venetanto era pallida e sbattuta. Mosse le labbra tremanti due o tre volte.
- Parla- rispose lui. - Tutto quello che desideri... Voglio che sii contenta tu pure!...
Com'era di luglioe faceva un gran caldosi tolse anche il vestitoaspettando. Ella si tirò indietro bruscamentequasi avesse ricevuto un urto in pieno petto; e s'irrigidìtutta biancacogli occhi cerchiati di nero.
- Parlaparla!... Dimmelo qui all'orecchio... qui che nessuno ci sente!...
Rideva tutto contento colla risata grossolananell'impeto caldo che cominciava a fargli girare il capobalbettando e anfanandoin maniche di camiciastringendosi sul cuore che gli batteva fino in gola quel corpo delicato che sentiva rabbrividire e quasi ribellarsi; e come le sollevava il capo dolcemente si sentì cascar le braccia. Ella si asciugò gli occhi febbrilicol viso tuttora contratto dolorosamente.
- Ah!... che gusto!... Aveva ragione la zia Cirmena!...
Bel divertimento!... Dopo tanti stentitanti bocconi amari!... tante spese fatte!... Si dovrebbe essere così contenti qui... due che si volessero bene!... Nossignore! neanche questo mi tocca! Neanche il giorno delle nozzesanto e santissimo!... Dimmi almeno che hai!...
- Non badate a me... Sono troppo agitata...
- Ah! quel Ciolla!... ancora!... Com'è vero Diogli tiro addosso un vaso di fiori adesso!... Voglio far la festa anche a luila prima notte di matrimonio!
Parte seconda
I
- Tre onze e quindici!... Uno!... due!...
- Quattr'onze! - replicò don Gesualdo impassibile.
Il barone Zacco si alzòrosso come se gli pigliasse un accidente. Annaspò alquanto per cercare il cappelloe fece per andarsene. Ma giunto sulla soglia tornò indietro a precipiziocolla schiuma alla boccaquasi fuori di ségridando:
- Quattro e quindici!...
E si fermò ansante dinanzi alla scrivania dei giuratifulminando il suo contradittore cogli occhi accesi. Don Filippo MargaronePeperito e gli altri del Municipio che presiedevano all'asta delle terre comunalisi parlarono all'orecchio fra di loro. Don Gesualdo tirò su una presaseguitando a fare tranquillamente i suoi conti nel taccuino che teneva aperto sulle ginocchia. Indi alzò il capoe ribatté con voce calma:
- Cinque onze!
Il barone diventò a un tratto come un cencio lavato. Si soffiò il naso; calcò il cappello in testae poi infilò l'usciosbraitando:
- Ah!... quand'è così!... giacch'è un puntiglio!... una personalità!... Buon giorno a chi resta!
I giurati si agitavano sulle loro sedie quasi avessero la colica. Il canonico Lupi si alzò di bottoe corse a dire una parola all'orecchio di don Gesualdopassandogli un braccio al collo.
- Nossignore- rispose ad alta voce costui. - Non ho di queste sciocchezze... Fo i miei interessie nulla più.
Nel pubblico che assisteva all'asta corse un mormorìo. Tutti gli altri concorrenti si erano tirati indietrosgomenticacciando fuori tanto di lingua. Allora si alzò in piedi il baronello Rubierapettorutolisciandosi la barba scarsasenza badare ai segni che gli faceva da lontano don Filippoe lasciò cadere la sua offertacoll'aria addormentata di uno che non gliene importa nulla del denaro:
- Cinque onze e sei!... Dico io!...
- Per l'amor di Dio- gli soffiò nelle orecchie il notaro Neri tirandolo per la falda. - Signor baronenon facciamo pazzie!...
- Cinque onze e sei! - replicò il baronello senza dar rettaguardando in giro trionfante.
- Cinque e quindici.
Don Ninì si fece rossoe aprì la bocca per replicare; ma il notaro gliela chiuse con la mano. Margarone stimò giunto il momento di assumere l'aria presidenziale.
- Don Gesualdo!... Qui non stiamo per scherzare!... Avrete denari... non dico di no... ma è una bella somma... per uno che sino a ieri l'altro portava i sassi sulle spalle... sia detto senza offendervi... Onestamente... “Guardami quel che sonoe non quello che fui“ dice il proverbio... Ma il comune vuole la sua garanzia. Pensateci bene!... Sono circa cinquecento salme... Fanno... fanno... - E si mise gli occhialiscrivendo cifre sopra cifre.
- So quello che fanno- rispose ridendo mastro-don Gesualdo. - Ci ho pensato portando i sassi sulle spalle... Ah! signor don Filipponon sapete che soddisfazioneessere arrivato sin quifaccia a faccia con vossignoria e con tutti questi altri padroni mieia dire ciascuno le sue ragionie fare il suo interesse!
Don Filippo posò gli occhiali sullo scartafaccio; volse un'occhiata stupefatta ai suoi colleghi a destra e a sinistrae tacque rimminchionito. Nella folla che pigiavasi all'uscio nacque un tafferuglio. Mastro Nunzio Motta voleva entrare a ogni costoe andare a mettere le mani addosso al suo figliuolo che buttava così i denari. Burgio stentava a frenarlo. Margarone suonò il campanello per intimar silenzio.
- Va bene!... va benissimo!... Ma intanto la legge dice...
Come seguitava a tartagliarequella faccia gialla di Canali gli suggerì la rispostafingendo di soffiarsi il naso.
- Sicuro!... Chi garantisce per voi?... La legge dice...
- Mi garantisco da me- rispose don Gesualdo posando sulla scrivania un sacco di doppie che cavò fuori dalla cacciatora.
A quel suono tutti spalancarono gli occhi. Don Filippo ammutolì.
- Signori miei!... - strillò il barone Zacco rientrando infuriato. - Signori miei!... guardate un po'! a che siam giunti!...
- Cinque e quindici! - replicò don Gesualdo tirando un'altra presa. - Offro cinque onze e quindici tarì a salma per la gabella delle terre comunali. Continuate l'astasignor don Filippo.
Il baronello Rubiera scattò su come una mollacon tutto il sangue al viso. Non l'avrebbero tenuto neppure le catene.
- A sei onze! - balbettò fuori di sé. - Fo l'offerta di sei onze a salma.
- Portatelo fuori! Portatelo via! - strillò don Filippo alzandosi a metà. Alcuni battevano le mani. Ma don Ninì ostinavasipallido come la sua camicia adesso.
- Sissignore! a sei onze la salma! Scrivete la mia offertasegretario!
- Alto! - gridò il notaro levando tutte e due le mani in aria. - Per la legalità dell'offerta!... fo le mie riserve!...
E si precipitò sul baronellocome s'accapigliassero. Lìnel vano del balconefaccia a facciacogli occhi fuori dell'orbitasoffiandogli in viso l'alito infuocato:
- Signor barone!... quando volete buttare il denaro dalla finestra!... andate a giuocare a carte!... giuocatevi il denaro di tasca vostra soltanto!...
Don Ninì sbuffava peggio di un toro infuriato. Peperito aveva chiamato con un cenno il canonico Lupie s'erano messi a confabulare sottovocechinati sulla scrivaniaagitando il capo come due galline che beccano nello stesso tegame. Era tanta la commozione che le mani del canonico tremavano sugli scartafacci. Il cavaliere lo prese per un braccio e andarono a raggiungere il notaro e il baronello che disputavano animatissimi in un canto della sala. Don Ninì cominciava a cederecol viso floscio e le gambe molli. Il canonico allora fece segno a don Gesualdo d'accostarsi lui pure.
- No- ammiccò questi senza muoversi.
- Sentite!... C'è quell'affare della cauzione... Il ponte se n'è andatosalute a noi!... C'è modo d'accomodare quell'affare della cauzione adesso...
- No- ripigliò don Gesualdo. Sembrava una pietra murata. - L'affare del ponte... una miseria in confronto.
- Villano! mulo! testa di corno! - ricominciò ad inveire il barone sottovoce.
Don Filippodopo il primo momento d'agitazioneera tornato a sedereasciugandosi il sudore gravemente. Intanto che il canonico parlava sottovoce a mastro-don Gesualdoil notaro da lontano cominciò a far dei segni. Don Filippo si chinò all'orecchio di Canali. Sottomanoin voce di falsettoil banditore replicò:
- L'ultima offerta per le terre del comune! A sei onze la salma!... Uno!... due!...
- Un momentosignori miei! - interruppe don Gesualdo - Chi garantisce quest'ultima offerta?
A quell'uscita rimasero tutti a bocca aperta Don Filippo apriva e chiudeva la sua senza trovar parola. Infine rispose:
- L'offerta del barone Rubiera!... Eh? eh?
- Sissignore. Chi garantisce pel barone Rubiera?
Il notaro si gettò su don Ninì che sembrava volesse fare un massacro. Peperito dimenavasi come l'avessero schiaffeggiato. Lo stesso canonico allibì. Margarone balbettava stralunato.
- Chi garantisce pel barone Rubiera?... chi garantisce?... -
A un tratto mutò tonovolgendola in burla: - Chi garantisce pel barone Rubiera!... Ah! ah!... Oh bella! questa è grossa! - E moltial pari di luisi tenevano i fianchi dalle risate.
- Sissignore- replicò don Gesualdo imperturbabile. - Chi garantisce per lui? La roba è di sua madre.
A quelle parole cessarono le risatee don Filippo ricominciò a tartagliare. La gente si affollava sull'uscio come ad un teatro. Il canonicoche sembrava più pallido sotto la barba di quattro giornitirava il suo compagno pel vestito. Il notaro era riuscito a cacciare il baronello contro il muromentre costuiin mezzo al baccanovomitava:
- Becco!... cuor contento!... redentore!
- La parola del barone! - disse infine don Filippo. - La parola del barone Rubiera val più delle vostre doppie!... don... don...
- Don Filippo! - interruppe l'altro senza perdere la sua bella calma. - Ho qui dei testimoni per metter tutto nel verbale.
- Va bene! Si metterà tutto nel verbale!... Scrivete che il baronello Rubiera ha fatto l'offerta per incarico di sua madre!...
- Benone! - aggiunse don Gesualdo. - Quand'è così scrivete pure che offro sei onze e quindici a salma.
- Pazzo! assassino! nemico di Dio! - si udì gridare mastro Nunzio nella folla dell'altra sala.
Successe un parapiglia. Il notaro e Peperito spinsero fuori dell'uscio il baronello che strepitavaagitando le braccia in aria. Dall'altro canto il canonicoconvulsosi gettò su don Gesualdostringendoglisi addossosedendogli quasi sulle ginocchiacolle braccia al colloscongiurandolo sottovocein aria disperatacon parole di fuocoficcandoglisi nell'orecchioscuotendolo pei petti della giaccaquasi volesse strapazzarloper fargli sentir ragione.
- Una pazzia!... Dove andiamocaro don Gesualdo?...
- Non temetecanonico. Ho fatto i miei conti. Non mi scaldo la testaio.
Don Filippo Margarone suonava il campanello da cinque minuti per avere un bicchier d'acqua. I suoi colleghi s'asciugavano il sudore anch'essitrafelati. Solo don Gesualdo rimaneva seduto al suo posto come un sassoaccanto al sacchetto di doppie. A un certo puntodalla baraonda ch'era nell'altra stanzairruppe nella sala mastro Nunzio Mottastralunatotremante di colleracoi capelli bianchi irti sul caporimorchiandosi dietro il genero Burgio che tentava di trattenerlo per la manica della giaccacome un pazzo.
- Signor don Filippo!... sono il padresì o no?... comando iosì o no?... Se mio figlio Gesualdo è matto!... se vuol rovinarci tutti!... c'è la forzasignor don Filippo!... Mandate a chiamare don Liccio Papa!... - Speranzadall'usciocol lattante al pettoche si strappava i capelli e urlava quasi l'accoppassero. - Per l'amor di Dio! per l'amor di Dio! - supplicava il canonicocorrendo dall'uno all'altro. - I denari del ponte!... Vuole la mia rovina!... Nemico di suo padre stesso! - urlava mastro Nunzio. - Erano forse denari vostri? - scappò infine a gridare il canonico; - non era sangue del figlio vostro? non li ha guadagnati luicol suo lavoro? - Tutti quanti erano in piedivociando. Si udiva Canali strillare più forte degli altri per chetare don Ninì Rubiera. Il barone Zacco avvilitose ne stava colle spalle al muroe il cappello sulla nuca. Il notaro era sceso a precipiziofacendo gli scalini a quattro a quattroonde correre dalla baronessa. Per le scale era un via vai di curiosi: gente che arrivava ogni momento attratta dal baccano che udivasi nel Palazzo di Città. Santo Motta dalla piazza additava il balconevociando a chi non voleva saperle le prodezze del fratello. S'era affacciata perfino donna Marianna Sgancicoll'ombrellinomettendosi la mano dinanzi agli occhi.
- Com'è vero Dio!... Io l'ho fatto e io lo disfo!... - urlava il vecchio Motta inferocito. - Largo! largo! - si udì in mezzo alla folla.
Giungeva don Giuseppe Barabbaagitando un biglietto in aria. - Canonico! canonico Lupi!... - Questi si spinse avanti a gomitate. - Va bene - dissedopo di aver letto. - Dite alla signora Sganci che va benee la servo subito.
Barabba corse a fare la stessa imbasciata nell'altra sala.
Quasi lo soffocavano dalla ressa. Il canonico si buscò uno strappo alla zimarramentre il barone stendeva le braccia per leggere il biglietto. CanaliBarabba e don Ninì litigavano fra di loro. Poscia Canali ricominciò a gridare: - Largo! largo! - E s'avanzò verso don Gesualdo sorridente:
- C'è qui il baronello Rubiera che vuole stringervi la mano!
- Padrone! padronissimo! Io non sono in collera con nessuno.
- Dico bene!... Che diavolo!... Oramai siete parenti!...
E tirando pel vestito il baronello li strinse entrambi in un amplessocostringendoli quasi a baciarsi. Il barone Zacco corse a gettarsi lui pure nelle loro bracciacoi lucciconi agli occhi.
- Maledetto il diavolo!... Non sono di bronzo!... Che sciocchezza!...
Il notaro sopraggiunse in quel punto. Andò prima a dare un'occhiata allo scartafaccio del segretarioe poi si mise a battere le mani.
- Viva la pace! Viva la concordia!... Se ve l'ho sempre detto!...
- Guardate cosa mi scrive vostra zia donna Marianna Sganci!... - disse il canonico commossoporgendo la lettera aperta a don Gesualdo. E fattosi al balcone agitò il foglio in ariacome una bandiera bianca; mentre la signora Sganci dal balcone rispondeva coi cenni del capo.
- Pace! pace!... Siete tutti una famiglia!...
Canali corse a prendere per forza mastro NunzioBurgioperfino Santo Mottascamiciatoe li spinse nelle braccia dei nuovi parenti. Il canonico abbracciava anche comare Speranza e il suo bambino. Avrebbero pianto gli stessi sassi. - Per parte di moglie... siete cugini...
- È vero- aggiunse don Ninì tuttora un po' rosso in viso. - Siamo cresciuti insieme con Bianca... come fratello e sorella.
- Caro don Nunzio!... vi rammentate la fornace del gesso... vicino Fontanarossa?...
Il vecchio burbero fece una spallataper levarsi d'addosso la manaccia del barone Zaccoe rispose sgarbatamente.
- Io mi chiamo mastro Nunziosignor barone. Non ho i fumi di mio figlio.
- E perché poi? A vantaggio di chi vi fate la guerra?... Chi ne gode di tanto denaro buttato via?... - conchiuse Canali infervorato.
- Pazzie! ragazzate!... Un po' di sangue alla testa!... La giornata calda!... Un puntiglio sciocco... un malinteso... Ora tutto è finito! Andiamo via! Non facciamo ridere il paese!... - E il notaro cercava di condurli a spasso tutti quanti.
- Un momento! - interruppe don Gesualdo. - La candela è ancora accesa. Vediamo prima se hanno scritto l'ultima mia offerta.
- Comecome? Che discorsi!... Cosa vuol dire?... Torniamo da capo?... - Di nuovo s'era levato un putiferio. - Non siamo più amici? Non siamo parenti?
Ma don Gesualdo s'ostinavapeggio di un mulo:
- Sissignoresiamo parenti. Ma qui siamo venuti per la gabella delle terre comunali. Io ho fatta l'offerta di sei onze e quindici tarì a salma.
- Villano! testa di corno!
Don Filippoin mezzo a quel trambustofu costretto a sedere di nuovo sul seggiolonesbuffando. Vuotò di un fiato il bicchiere d'acquae suonò il campanello. - Signori miei! - vociava il segretario- l'ultima offerta... a sei onze e quindici! - Tutti se n'erano andati a discutere strepitando nell'altra salalasciando solo don Gesualdo dinanzi alla scrivania. Invano il canonicoinquietogli soffiava all'orecchio:
- Non la spuntateno!... Si son dati l'intesa fra di loro!... - A sei onze e quindici la salma!... ultima offerta!...
- Don Gesualdo! don Gesualdo! - gridò il notaro quasi stesse per crollare la sala.
Rientrarono nuovamente in processione: il barone Zacco facendosi vento col cappello; il canonico e Canali ragionando fra loro due a bassa voce; don Ninìpiù restìoin coda agli altri. Il notaro con le braccia fece un gesto circolare per radunarli tutti intorno a sé:
- Don Gesualdo!... sentite qua!
Volse in giro un'occhiata da cospiratore e abbassò la voce:
- Una proposta seria! - e fece un'altra pausa significativa. - Prima di tuttoi denari della cauzione... una bella somma!... La disgrazia volle così... ma voi non ci avete colpadon Gesualdo... e neppure voimastro Nunzio... È giusto che non li perdiate!... Accomoderemo la cosa!... Voisignor barone Zaccovi rincresce di lasciare le terre che sono da quarant'anni nella vostra famiglia?... E va bene!... La baronessa Rubiera adesso vuole la sua parte anche lei?... ha più di tremila capi di bestiame sulle spalle... E va bene anche questa! Don Gesualdoquiha denari da spendere lui pure; vuol fare le sue speculazioni sugli affitti... Benissimo! Dividete le terrefra voi tre... senza litisenza puntigli senza farvi la guerra a vantaggio altrui... A vantaggio di chipoi?... del comune! Vuol dire di nessuno! Mandiamo a monte l'asta... Il pretesto lo trovo io!... Fra otto giorni si riapre sul prezzo di prima; si fa un'offerta sola... Io no... e nemmeno loro!... Il canonico Lupi!... in nome vostrodon Gesualdo... Ci fidiamo... Siamo galantuomini! Un'offerta sola sul prezzo di prima; e vi rimangono aggiudicate le terre senza un baiocco d'aumento. Solamente una piccola senseria per me e il canonico... E il rimanente lo dividete fra voi trealla buona... d'amore e d'accordo. Vi piace? Siamo intesi?
- Nossignore- rispose don Gesualdo- le terre le piglio tutte io.
Mentre gli altri erano contenti e approvavano coi cenni del capo l'occhiata trionfante che il notaro tornava a volgere intornoquella risposta cadde come una secchia d'acqua. Il notaro per primo rimase sbalordito; indi fece una giravolta e s'allontanò canterellando. Don Ninì scappò via senza dir nulla. Il barone stavolta finse di calcarsi il cappello in capo per davvero. Lo stesso canonico saltò su inviperito:
- Allora vi pianto anch'io!... Se volete rompervi le cornail balcone è lìbell'e aperto!... Vi offrono dei buoni patti!... vi stendono le mani!... Io vi lascio solocom'è vero Dio!
Ma don Gesualdo si ostinavacol suo risolino scioccoil solo che non perdesse la testa in quella baraonda.
- Siete una bestia! - gli disse sempre ridendo. Il canonico spalancò gli occhi e tornò docile a vedere quel che stava macchinando quel diavolo di mastro-don Gesualdo.
Il notaroprudenteseppe dominarsi prima degli altrie tornò indietro col sorriso sulle labbra e le tabacchiera in mano lui pure.
- Dunque?... le volete tutte?
- Eh... eh... Cosa stiamo a farci qui dunque! - rispose l'altro.
Neri gli offrì la tabacchiera apertae riprese a voce bassain tono di confidenza cordiale:
- Che diavolo volete farne?... circa cinquecento salme di terre!...
Don Gesualdo si strinse nelle spalle.
- Caro notaroforse che voglio ficcare il naso nei vostri libracciio?
- Quand'è cosìdon Gesualdostate a sentire... discorriamola fra di noi... Il puntiglio non conta... e nemmeno l'amicizia... Badiamo agli interessi...
A ogni frase piegava il capo ora a destra e ora a sinistracon un fare cadenzato che doveva essere molto persuasivo.
- Se le volete tutteve le faremo pagare il doppioed ecco sfumato subito metà del guadagno... senza contare i rischi... le malannate!... Lasciateci l'ossocaro don Gesualdo! tappateci la bocca... Abbiamo dentie sappiamo mordere! Andremo a rotta di collo noialtri e voi pure!...
Don Gesualdo scrollava il caposogghignandocome a dire: - Nossignore! Andrete a rotta di collo voialtri soltanto! - Seguitava a ripetere:
- Forse che io voglio cacciare il naso nei vostri scartafacci?
Poivedendo che il notaro diventava verde dalla bilevolle offrirgli una presa lui.
- Vi spiego il mistero in due parolegiacché vedo che mi parlate col cuore in mano. Piglierò in affitto le terre del comune... e quelle della Contea pure... tutte quantecapitesignor notaro? Allora comando ai prezzi e all'annatacapite?... Ve lo dico perchè siete un amicoe perché a far quel che dico io ci vogliono molti capitali in manoe un cuore grande quanto il piano di Santamargheritacaro notaro. Perciò spingerò l'asta sin dove voialtri non potrete arrivare. Ma badate! a un certo puntose non mi convienemi tiro indietroe vi lascio addosso il peso che vi rompe la schiena...
- E questa è la conclusione?...
- Eh? eh? Vi piace?
Il notaro si volse di qua e di làcome cercasse per terrasi calcò il cappello in capo definitivamentee volse le spalle:
- Salute a chi rimane!... Ce ne andiamo... Non abbiamo più nulla da fare.
Il canonicoch'era stato ad ascoltare a bocca apertasi strinse al socio con entusiasmoappena rimasero soli.
- Che bottaeh? don Gesualdo! Che tomo siete voi!... La mia mezzeria ci sarà sempre?
Don Gesualdo rassicurò il canonico con un cenno del capoe disse a Margarone:
- Signor don Filippoandiamo avanti...
- Io non vo niente affatto! - rispose finalmente Margarone adirato. - La legge dice... Non c'è più concorrenza!... Non trovo garanzia!... Devo consultare i miei colleghi. - E si mise a raccogliere gli scartafacci in fretta e in furia.
- Ah! così si tratta?... è questa la maniera?... Va bene! va benone! Ne discorreremo poisignor don Filippo... Un memoriale a Sua Maestà!... - Il canonico col mantello sul braccio come un oratore romanoperorava la causa dell'amico minaccioso. Don Gesualdo invecepiù calmoriprese il suo denaro e il taccuino zeppo di cifre: - Io sarò sempre qua signor don Filippoquando aprite di nuovo l'asta.
- Signori miei!... guardate un po'... a che siam giunti! - brontolava Margarone. Per la scala del Palazzo di Città e per tutto il paese era un subbuglioal sentire la lotta che c'era stata per levare di mano al barone Zacco le terre del comune che da quarant'anni erano nella sua famiglia e il prezzo a cui erano salite. La gente si affacciava sugli usci per veder passare mastro-don Gesualdo.
- Guardate un po'signori mieia che s'era arrivati!... - Fresco come un bicchier d'acquaquel mastro-don Gesualdo che se ne andava a casacolle mani in tasca... In tasca aveva più denari che capelli in testa! e dava da fare ai primi signori del paese! Nell'anticamera aspettava don Giuseppe Barabbain livrea: - Signor don Gesualdoc'è di là la mia padrona a farvi visita... sissignore! - Donna Mariannina in gala era seduta sul canapè di setasotto lo specchio grandenella bella sala gialla.
- Nipote miol'avete fatta grossa! Avete suscitato l'inferno in tutto il parentado!... Sicuro! La moglie del cugino Zacco è venuta a farmi vedere i lividori!... Sembra ammattito il barone!... Prende a sfogarsi con chi gli capita... Ed anche la cugina Rubiera... dice ch'è un proditorio! che il canonico Lupi vi aveva messi d'amore e d'accordoe poi tutt'a un tratto... È veronipote mio? Son venuta apposta a discorrerne con Bianca... VediamoBiancaaiutami tu. cerchiamo d'accomodarla. Voidon Gesualdole farete questo regaloa vostra moglie. Eh? che ne dite?
Bianca guardava timidamente ora lei ed ora il maritorannicchiata in un cantuccio del canapècolle braccia sul ventre e il fazzoletto di seta in testache s'era messo in fretta onde ricevere la zia. Aprì la bocca per rispondere qualche cosamessa in soggezione da donna Marianninala quale continuava a sollecitarla:
- Eh? che ne dici? Adesso sono anche affari tuoi.
Bianca tornò a guardare il maritoe tacque imbarazzata. Ma egli la tolse d'impiccio.
- Io dico di no- rispose semplicemente.
- Ah? ah? Dite così?...
Donna Mariannina rimase a bocca aperta lei pure un istante.
Poscia divenne rossa come un gallo: - Ah! dite di no?... Scusatemi... Io non c'entro. Ero venuta a parlarne con mia nipoteperché non vorrei liti e questioni fra parenti... Anche coi tuoi fratelliBianca... quel che non ho fatto per indurli... don Diego specialmente ch'è così ostinato!... Una disgrazia... un gastigo di Dio!
- Che volete farci? - rispose don Gesualdo. - Non tutti i negozi riescono bene. Anch'iose avessi saputo... Non parlo per la moglie che ho presano! Non me ne pento!... Buonainteressataubbidiente... Glielo dico quiin faccia a lei... Ma quanto al resto... lasciamo andare!
- Dite benelasciamo andare. Apposta son venuta a parlare con Biancaperché so che le volete bene. Adesso siete marito e mogliecome vuol Dio. Anch'essa è la padrona...
- Sissignoreè la padrona. Ma io sono il marito...
- Vuol dire che ho sbagliato- disse la Sganci punta al vivo.
- Nonon avete sbagliato vossignoria. È che Bianca non se ne intendepoveretta. È veroBiancache non te ne intendidi'?
Bianca disse di sìchinando il capo ubbidiente.
- Sia per non detto. Non ne parliamo più. Ho fatto il mio dovere da buona ziaper cercare di mettervi d'accordo... Anche oggilaggiùal Municipioavete visto?... quello che vi feci dire dal canonico Lupi?...
- Lupus in fabula! - esclamò costui entrando come in casa propriacol cappello in testail mantello ondeggiante dietrofregandosi le mani. - Sparlavate di meeh? Mi sussurravano le orecchie...
- Voi piuttostobuonalana! Avete la cera di chi ha preso il terno al lotto!
- Il terno al lotto? Mi fate il contrappelo anche? Un povero diavolo che s'arrabatta da mattina a sera!...
- Si discorreva della gabella delle terre... - disse don Gesualdo tranquillamentetirando su una presa- cosìper discorrere...
- Ah! ah! - rispose il canonico; e si mise a guardare in aria. La zia Sganci osservava lei pure i mobili nuovivoltando la testa di qua e di là.
- Belli! belli! Me l'aveva detto la cugina Cirmena. Peccato che non mi sentissi bene la sera del matrimonio...
- E gli altri puresignora donna Mariannina! - rispose il canonico con una risatina. - Fu un'epidemia!...
- No! no! Posso assicurarvelo! in fede mia!... La Rubierapoveretta!... E anche suo figlio... Lo sento sempre che si lagna... - Ziacome potrei?... - Donna Mariannina s'interruppe. - Ma abbiamo detto di non parlarne più. Lui però si duole di non poter venire a fare il suo dovere... Dissidi ce n'è sempredico ioanche tra fratelli e sorelle... Ma passerannocoll'aiuto di Dio... SaiBianca? tuo cugino si marita. Ora non c'è bisogno di far misteri perché tutto è combinato. Don Filippo dà la tenuta alla Saloniatrenta salme di terra! Una bella dote.
Bianca ebbe un'ondata di sangue al visoindi divenne smorta come un cencio; ma non si mosse né disse verbo.
Il canonico rispose lui invecemasticando ancora l'amaro.
- Lo sappiamo! lo sappiamo! L'abbiamo capita oggial Municipio!... - Infine non seppe più frenarsiquasi bruciasse a lui la ferita.
- La baronessa Rubiera ha cercato di dare il gambetto a me pure!... a me che le avevo proposto l'affare!... Si è messa d'accordo cogli avversari! Tutti contrari!... I parenti della moglie schierati contro il marito!... Uno scandalo che non s'è mai visto... Hanno bandito un nuovo appalto per il ponte onde fargli perdere la cauzione a questo disgraziato! Tutte le angherie!... Per la costruzione delle nuove strade fanno venire i concorrenti sin da Caltagirone e da Lentini!... - Di là almeno non ci capita addosso qualche altro parente!...- ha detto il barone Mèndolacolla sua stessa bocca nella farmacia.
Donna Marianna diventava di cento colori e si mordeva le labbra per non spifferare il fatto suo. Don Gesualdo invece se la rideva tranquillamentesdraiato sul suo bel canapè sofficee a un certo punto gli chiuse anche la bocca colla mano al canonico.
- Lasciate stare!... Queste son chiacchiere che non vanno al mulino. Ciascuno fa il suo interesse.
- Dico per rispondere a donna Mariannina. Volete sentirne un'altraeh? la più bella? Si sono pure messi d'accordo per vendere il grano a rotta di colloe far cascare i prezzi. Una camorra! Il baronello Rubiera ha detto che non gliene importa di perdervi cent'onzepur di farne perdere mille a don Gesualdo che ha i magazzini pieni... Al marito di sua cugina! Vergogna! Ce n'ho venti salme anch'iocapitevossignoria! Una birbonata!
Il canonico andava scaldandosi maggiormente di mano in manorivolto a mastro-don Gesualdo: - Bel guadagno avete fatto a imparentarvi con loro. Chi l'avrebbe detto... eh? L'avete sbagliata!... Scusatedonna Bianca! non parlo per voi che siete un tesoro!... Alloracara donna Mariannina!... alloraquand'è cosìmuoia Sansone con tutti i Filistei.
- E lasciamoli morire- disse la signora Sganci alzandosi. - Già il mondo non finirà per questo. - Come la nipote s'era alzata anch'essa dal canapèmortificata da tutti quei discorsicolle braccia incrociate sul ventredonna Mariannina continuò ridendo e fissandole gli occhi addosso: - È veroBianca che il mondo non lo lascerai finiretu? - Bianca tornò a farsi rossa. - Evviva! Mi congratulo. Ora che avete questa bella casa dovete fare un bel battesimo... con tutti i parenti... d'amore e d'accordo. Se noperché li avrete spesi tanti denari?
Don Gesualdo non voleva darla vinta ai suoi nemicima dentro si rodevaperché davvero non gli servivano gran cosa tutti quei denari spesi. - Eheh- rispose con quel certo buon umore che voleva sfoggiare allora. - Pazienza! Serviranno per chi verrà dopo di noise Dio vuole! - E batteva affettuosamente sulla spalla della moglieamorevole e sorridentementre pensava pure che se i suoi figliuoli avessero avuto la stessa sorteerano proprio denari buttati viatante fatichei guadagni stessisempre con quel bel risultato! Poiquando la zia Sganci se ne fu andataprese a brontolare contro di Biancache non si era messo il vestito buono per ricevere la zia: - Allora a che serve aver la roba? Diranno che ti tengo come una serva. Bel gusto spendere i denariper non goderne né noi né gli altri!
- Lasciamo stare queste sciocchezzee parliamo di cose serie! - interruppe il canonico che s'era riannuvolato in viso. - C'è un casa del diavolo. Cercano di aizzarvi contro tutto il paesedicendo che avete le mani lunghee volete acchiappare quanta terra si vede cogli occhiper affamare la gente... Quella bestia di Ciolla va predicando per conto loro... Vogliono scatenarci contro anche i villani... a voi e a mecaro mio! Dicono che io tengo il sacco... Non posso uscir di casa...
Don Gesualdo scrollava le spalle. - Ahi villani? Ne riparleremo poiquando verrà l'inverno. Voi che paura avete?
- Che paura hoper... mio!... Non sapete che a Palermo hanno fatto la rivoluzione.
Andò a chiudere l'uscio in punta di piedie tornò cuponero in viso.
- La Carboneriacapite!... Anche qui hanno portato questa bella novità! Posso parlare giacché non l'ho avuta sotto il suggello della confessione. Abbiamo la sètta anche qui!
E spiegò cos'era la faccenda: far legge nuova e buttar giù coloro che avevano comandato sino a quel giorno.
- Una settacapite? Tavusomettiamoal posto di Margarone; e tutti quanti colle mani in pasta! Ogni villano che vuole il suo pezzo di terra! pesci grossi e minutagliatutti insieme. Dicono che vi è pure il figlio del Renientemeno! il Duca di Calabria.
Don Gesualdoch'era stato ad ascoltare con tanto d'occhi apertiscappò a dire:
- S'è così... ci sto anch'io! non cerco altro!... E me lo dite con quella faccia? Mi avete fatto una bella paurasanto Dio!
L'altro rimase a bocca aperta: - Che scherzate? O non sapete che voglia dire rivoluzione? Quel che hanno fatto in Franciacapite? Ma voi non leggete la storia...
- Nono- disse don Gesualdo. - Non me ne importa.
- Me ne importa a me: Rivoluzione vuol dire rivoltare il cestoe quelli ch'erano sotto salire a galla: gli affamatii nullatenenti!...
- Ebbene? Cos'ero io vent'anni fa?
- Ma adesso no! Adesso avete da perderecristiano santo! Sapete com'è? Oggi vogliono le terre del comune; e domani poi vorranno anche le vostre e le mie! Grazie! grazie tante! Non ho dato l'anima al diavolo tanti anni per...
- Appunto! Bisogna aiutarsi per non andare in fondo al cestocaro canonico! Bisogna tenersi a gallase non vogliamo che i villani si servano colle sue mani. Li conosco... so farenon dubitate.
E spiegò meglio la sua idea: cavar le castagne dal fuoco con le zampe del gatto; tirar l'acqua al suo mulinoe se capitava d'acchiappare anche il mestolo un quarto d'orae di dare il gambetto a tutti quei pezzi grossi che non era riescito ad ingraziarsi neppure sposando una di lorosenza dote e senza nullatanto meglio...
Gli andarono in quel momento gli occhi su Bianca che stava rincantucciata sul canapèsmorta in viso dalla pauraguardando or questo e or quelloe non osava aprir bocca.
- Non parlo per tesai. Non me ne pento di quel che ho fatto. Non è stata colpa tua. Tutti i negozi non riescono a un modo. Poi se capita di fare il benenel tempo stesso...
Il canonico cominciava a capacitarsicogli occhi e la bocca di traversopensierosoe appoggiava anche lui il discorso del socio: - Non si voleva torcere un pelo a nessuno... se si arrivava ad afferrare il mestolo un po' di tempo... quante cose si farebbero...
- Voi dovreste farne una!... - interruppe don Gesualdo. - Parlare con chi ha le mani in questa faccendae dire che vogliamo esserci anche noi.
- Eh? Che dite?... un sacerdote!
- Lasciate starecanonico!... Poi se vi è il figlio del Repotete esserci anche voi!
- Caspita! Al figlio del Re non gliela tagliano la testase mai!
- Non temeteche non ve la tagliano la testa! Giàse è come avete dettodovrebbero tagliarla a un paese intero. Credete che non abbia fatto i miei contiin questo tempo?... Quando saremo lìa veder quel che bolle in pentola... Bisogna mettersi vicino al mestolo... con un po' di giudizio... col denaro... So io quello che dico.
Bianca cominciò allora a balbettare: - Oh Signore Iddio!... Cosa pensate di fare?... Un padre di famiglia!... - Il canonicoindecisola guardava turbatoquasi sentisse il laccio al collo. Don Gesualdo per rassicurarlo soggiunse:
- Nono. Mia moglie non sa cosa dice... Parla per soverchia affezionepoveretta. - Posciamentre accompagnava il suo socio in anticamerasoggiunse:
- Lo vedete? Comincia ad affezionarmisi. Già i figliuoli sono un gran legame. Speriamo almeno che abbiano ad esser felici e contenti loro; giacché io... Volete che ve la dicaehcanonicocome in punto di morte? Mi sono ammazzato a lavorare... Mi sono ammazzato a far la roba... Ora arrischio anche la pellea sentir voi!... E che ne ho avutoeh? ditelo voi!...
II
C'era un gran fermento in paese. S'aspettavano le notizie di Palermo. Bomma che teneva cattedra nella farmaciae Ciolla che sbraitava di qua e di là. Degli arruffapopolo stuzzicavano anche i villani con certi discorsi che facevano spalancare loro gli occhi: Le terre del comune che uscivano di casa Zacco dopo quarant'anni... un prezzo che non s'era mai visto l'eguale!... Quel mastro-don Gesualdo aveva le mani troppo lunghe... Se avevano fatto salire le terre a quel prezzo voleva dire che c'era ancora da guadagnarci su!... Tutto sangue della povera gente! Roba del comune... Voleva dire che ciascuno ci aveva diritto!... Allora tanto valeva che ciascuno si pigliasse il suo pezzetto!
Fu una domenicala festa dell'Assunta. La sera innanzi era arrivata una lettera da Palermo che mise fuoco alla polverequasi tutti l'avessero letta. Dallo spuntare del giorno si vide la Piazza Grande piena zeppa di villani: un brulichìo di berrette bianche; un brontolìo minaccioso. Fra Girolamo dei Mercenariche era seduto all'ombrainsieme ad altri malintenzionatisugli scalini dinanzi allo studio del notaro Nericome vide passare il barone Zacco colla coda fra le gambegli mostrò la pistola che portava nel manicone.
- La vedetesignor barone?... Adesso è finito il tempo delle prepotenze!... D'ora innanzi siam tutti eguali!... - Correva pure la voce dei disegni che aveva fatto fra Girolamo: lasciar la tonaca nella cellae pigliarsi una tenuta a Passanetoe la figliuola di Margarone in mogliela più giovane.
Il notaro ch'era venuto a levar dallo studio certe carte interessantidovette far di cappello a fra Girolamo per entrare: - Con permesso!... signori miei!... - Poi andò a raggiungere don Filippo Margarone nella piazzetta di Santa Teresa: - Sentite qua; ho da dirvi una parola!... - E lo prese per un braccioavviandosi verso casaseguitando a discorrere sottovoce. Don Filippo allibbiva ad ogni gesto che il notaro trinciava in aria; ma si ostinava a dir di nogiallo dalla paura. L'altro gli strinse forte il braccioattraversando la viuzza della Masera per salire verso Sant'Antonio. - Li vedete? li sentite? Volete che ci piglino la manoi villanie ci facciano la festa? - La piazzain fondo alla stradicciuolasembrava un alveare di vespe in collera. Nanni l'OrboPelagattialtri mestatorieccitatissimipassavano da un crocchio all'altrovociferandogesticolandosputando fiele. Gli avventori di mastro Titta si affacciavano ogni momento sull'uscio della bottegacolla saponata al mento. Nella farmacia di Bomma disputavasi colle mani negli occhi. Dirimpettosul marciapiede del Caffè dei Nobilidon Anselmo il cameriere aveva schierate al solito le seggiole al fresco; ma non c'era altri che il marchese Limòlicol bastone fra le gambeil quale guardava tranquillamente la folla minacciosa.
- Cosa voglionodon Anselmo? Che diavolo li piglia oggi? Lo sapete?
- Vogliono le terre del comunesignor marchese. Dicono che sinora ve le siete godute voialtri signorie che adesso tocca a noiperchè siamo tutti eguali.
- Padroni! padronissimi! Quanto a me non dico di no! Tutti eguali!... Portatemi un bicchier d'acquadon Anselmo.
Di tanto in tanto dal Rosario o dalla via di San Giovanni partiva come un'ondata di gentee un brontolìo più minacciosoche si propagava in un baleno. Santo Motta allora usciva dall'osteria di Pecu-Pecue si metteva a vociarecolla mano sulla guancia:
- Le terre del comune!... Chi vuole le terre del comune!... Uno!... due!... tre!... - E terminava con una sghignazzata.
- Largo!... largo!... - La gente correva verso la Masera. Al disopra della folla si vide il baronello Rubiera colla frusta in ariae la testa del suo cavallo che sbuffava spaventato. Il campiere che gli stava alle costolearmato sino ai dentigridava come un ossesso: - Signor barone!... Questa non è giornata!... Oggi ci vuol prudenza!... - Dalla parte di Sant'Agata comparve un momento anche il signor Capitanoper intimorire la folla ammutinata colla sua presenza. Si piantò in cima alla scalinataappoggiato alla canna d'Indiadon Liccio Papa dietroche ammiccava al solecon tanto di tracolla bianca attraverso la pancia. Ma vedendo quel mare di teste se la svignarono subito tutti e due. Alle finestre facevano capolino dei visi inquietidietro le invetriatequasi piovesse. Il palazzo Sganci chiuso ermeticamentee don Giuseppe Barabba appollaiato sull'abbaino. Lo stesso Bomma aveva sfrattato gli amici prima del solitoper timore dei vetri. Di tanto in tantonel terrazzo dei Margaroneal disopra dei tetti che si accavallavano verso il Castellocompariva la papalina e la faccia gialla di don Filippo. A mezzogiornoappena suonò la messa grandeciascuno se ne andò pei fatti suoi; e rimase solo a vociare Santo Mottanella piazza deserta.
- Avete visto com'è andata a finire? - Ciolla corse a desinare lui pure. Don Liccio Papaadesso che non c'era più nessunosi fece vedere di nuovo per le viecon la mano sulla sciabolettaguardando fieramente gli usci chiusi. Infine entrò da Pecu-Pecue si posero a tavola con compare Santo.
- Avete visto com'è andata a finire? - Ciolla soleva desinare in fretta e in furia col cappello in testa e il bastone fra le gambeper tornar subito in piazza a mangiar l'ultimo bocconeportandosi in tasca una manciata di lupini o di ceci abbrustolitid'inverno anche con lo scaldino sotto il tabarrobighellonandodicendo a ciascuno la suasputacchiando di qua e di làseminando il terreno di bucce. - Avete visto com'è andata a finire? - Faceva la prima tappa dal calzolaiopoi dal caffettiereappena aprivasenza prendere mai nullagirava a seconda dell'ombrad'inverno in senso inversocercando il sole. E le cose tornarono ad andare pel suo versoal pari di Ciolla. Giacinto mise fuori i tavolini pei sorbettidon Anselmo schierò le seggiole sul marciapiede del Caffè dei Nobili. Rimanevano le ultime nuvole del temporale: dei capannelli qua e làdinanzi alla bottega di Pecu-Pecu e al Palazzo di Città; gente che guardava inquietacuriosi che correvano e si affollavano al più piccolo rumore. Ma del resto ogni cosa aveva ripreso l'aspetto solito delle domeniche. L'arciprete Bugno che stava un'ora a leccare il sorbetto col cucchiarino; il marchese e gli altri nobili seduti in fila dinanzi al Caffè; Bomma predicando in mezzo al solito circolosull'uscio della farmacia; uno sciame di contadini un po' più in làalla debita distanza; e ogni dieci minuti la vecchia berlina del barone Mèndola che scarrozzava la madre di luisorda come una talpadal Rosario a Santa Maria di Gesù: le orecchie pelose e stracche delle mule che ciondolavano fra la follail cocchiere rannicchiato a cassettacolla frusta fra le gambeaccanto al cacciatore gallonatocolle calze di bucato che sembravano imbottite di nocie le piume gialle del cappellone della baronessa che passavano e ripassavano su quell'ondeggiare di berrette bianche.
Tutt'a un tratto accadde un fuggi fuggi: una specie di rissa dinanzi all'osteria. Don Liccio Papa cercava d'arrestare Santo Mottaperché aveva gridato la mattina; e il capitano l'incitava da lontanobrandendo la canna d'India: - Ferma! ferma!... la giustizia!
Ma Santo si liberò con uno spintonee prese a correre verso Sant'Agata. La folla fischiava ed urlava dietro allo sbirro che tentava d'inseguirlo. - Ahi! ahi! - disse Bomma ch'era salito su di una sedia per vedere. - Se non rispettano più l'autorità!... - Tavuso gli fece segno di taceremettendosi l'indice attraverso la bocca. - Sentite quadon Bastiano! - E si misero a discorrere sottovocetirandosi in disparte. Dalla Maddalena scendeva lemme lemme il notarocol bastone dietro la schiena. Bomma cominciò a fargli dei segni da lontano; ma il notaro finse di non accorgersene; accennò al Capitano che s'avviava verso il Collegioed entrò in chiesa anche lui dalla porta piccola. Il Capitano passando dinanzi alla farmacia fulminò i libertini di un'occhiatacciae borbottòrivolto al principale:
- Badate che avete moglie e figliuoli!...
- Sangue di!... corpo di!... - voleva mettersi a sbraitare il farmacista. In quel momento suonava la campanella della benedizionee quanti erano in piazza s'inginocchiarono. Poco dopoCiollache ingannava il tempo sgretolando delle fave abbrustoliteseduto dinanzi alla bottega del sorbettiere vide una cosa che gli fece drizzar le orecchie: il notaro Neri che usciva di chiesa insieme al canonico Lupie risalivano verso la Maddalenapasso passodiscorrendo sottovoce. Il notaro scrollava le spalleguardando sottecchi di qua e di là. Ciolla tentò di unirsi a loroma essi lo piantarono lì. Bommada lontanonon li perdeva di vista dimenando il capo.
- Badate a quel che fate!... Pensate alla vostra pelle! - gli disse il Capitano passandogli di nuovo accanto.
- Becco!... - voleva gridargli dietro il farmacista. - Badate a voi piuttosto!... - Ma il dottore lo spinse dentro a forza. Ciolla era corso dietro al canonico e al notaro Neri per la via di San Sebastianoe li vide ancora fermi sotto il voltone del Condottomalgrado il gran puzzoquasi al buioche discorrevano sottovocegesticolando. Appena s'accorsero del Ciolla se la svignarono in frettal'uno di qua e l'altro di là. Il notaro continuò a salire per la stradicciuola sassosae il canonico scese apposta a rompicollo verso San Sebastianofermando il Ciolla come a caso.
- Quel notaro... me ne ha fatta una!... Aveva il consenso di massaro Sbrendola... un contratto bell'e buono... e ora dice che non si rammenta!
- Va làva làche non me la dai a bere! - mormorò Ciolla fra di sèappena il canonico ebbe voltate le spalle. E corse subito alla farmacia:
- Gran cose c'è per aria! Cani e gatti vanno insieme! Gran cose si preparano! - Tavuso gonfiò le gote e non rispose. Lo speziale invece si lasciò scappare: - Lo so! lo so!
E si picchiò la mano aperta sulla boccafulminato dall'occhiata severa che gli saettò il dottore.
Verso due ore di nottedon Gesualdo stava per mettersi a cenarequando venne a cercarlo in gran mistero il canonicotravestito da pecoraio. Bianca fu lì lì per abortire dallo spavento.
- Don Gesualdo siamo prontise volete venire; gli amici vi aspettano.
Ma gli tremava la voce al poveraccio. Lo stesso don Gesualdoal momento di buttarsi proprio in quella faccendagli vennero in mente tante brutte idee; si fece pallidoe gli cadde la forchetta di mano. Bianca poi si alzò convulsaincespicando qua e làpigliandosela col canonicoche metteva in quell'impiccio un padre di famiglia.
- Se fate così!... - balbettò il canonico; - se mi fate anche la jettatura... allorabuona notte!
Don Gesualdo cercava di volgerla in riderecolle labbra smorte - Bravo canonico! Adesso si vedrà se siete un uomo!... Sono contentovediBianca! Sono contento d'andare magari verso il precipizioper vedere che cominci ad affezionarti a me e alla casa...
Tutto sudatocolle mani un po' tremantisi imbacuccò ben bene in uno scapolareper prudenzae scesero in istrada. Non c'era anima viva. Sul terrazzo del Collegio una mano ignota aveva spento finanche il lampione dinanzi alla statua dell'Immacolata: una cosa da fare accapponar la pellequella sera! Egli allora si sentì stringere il cuore da una tenerezza insolitapensando alla casa e ai parenti.
- Povera Bianca! Avete visto? È buonasìin fondo... Non lo credevodavvero!...
- Zitto! - interruppe il canonico. - Se vi fate conoscere alla voceè inutile nascondersi e sudare come bestie!
Ogni momento andava voltandositemendo di essere spiati. Arrivati nella via di San Giovanni videro un'ombra che andava in su verso la piazzae il canonico disse piano:
- Vedete?... È uno dei nostri!... Va dove andiamo noi.
Era in un magazzino di Grancoregiù nelle stradicciuole tortuose verso San Francescoche sembravano fatte apposta. Una casetta bassa che aveva una finestra illuminata per segnale. Si bussavano tre colpi in un certo modo alla porticina dove si giungeva scendendo tre scalini; si attraversava un gran cortile oscuro e scoscesoe in fondo c'era uno stanzone buio dove si capiva che stava molta gente a confabulare insieme dal sussurrìo che si udiva dietro l'uscio. Il canonico disse: - È qui! - e fece il segnale convenuto.
Tutti e due col cuore che saltava alla gola. Per fortuna in quel momento giunse un altro congiuratoimbacuccato come lorocamminando in punta di piedi sui sassi del cortilee ripeté il segnale istesso.
- Don Gesualdo- disse il notaro Neri cavando il naso da una gran sciarpa. - Siete voi? Vi ho riconosciuto al canonico che sembra un cuccopoveraccio!
Il notaro la pigliava allegramente. Narrava che a Palermo avevano fatto il pasticcio; avevano ammazzato il principe di Aci e s'erano impadroniti di Castellammare: - Chi comanda adesso è un pretecerto Ascenso!
- Ah? - rispose il canonico che si sentiva in causa. - Ah?
- Silenzio per ora!... Andiamo adagio! Sapete com'è?... a chi deve prima attaccare il campanello al gatto! E ogni galantuomo non vorrebbe mettere il piede in trappola. Ma se siamo in tanti... C'è anche il barone Zacco stasera.
- Che aspettiamo ad entraresignori miei? - interruppe don Gesualdo a quella notiziacoraggioso come un leone.
Quando tornarono ad usciredopo un gran pezzoerano tutti più morti che vivi. Bomma sforzavasi di fare il gradasso; Tavuso non diceva una parola; e il notaro stava soprapensieri anche lui. Zacco corse ad attaccarsi al braccio di don Gesualdoquasi fossero divenuti fratelli davvero. - Sentitecuginoho da parlarvi. - E seguitarono ad andare a braccetto in silenzio.
- Ssst!... un fischio!... verso i Cappuccini!... - Il barone mise mano alla pistola: tutti con un gran batticuore. Si udirono abbaiare dei cani. - Fermo!... - esclamò il canonico sottovoceafferrando il braccio armato del barone che mirava al buio- è fra Girolamoche non vuol esser visto da queste parti! - Appena si udì richiudere l'uscionel vano del quale era balenata una sottana biancail farmacista borbottò col fiato ai denti: - L'abbiamo scappata bellaparola d'onore! - Il barone invece strinse forte il braccio di don Gesualdo senza dir nulla. Poi lasciò andare ciascuno per la sua stradaBomma in suverso la Piazza Grandeil canonico a piè della scalinata che saliva a San Sebastiano. - Da questa partedon Gesualdo... venite con me. - E gli fece fare il giro lungo pei Cappuccinirisalendo poi verso Santa Maria di Gesù per certe stradicciuole buie che non si sapeva dove mettere i piedi. A un tratto si fermò guardando faccia a faccia il suo amico novello con certi occhi che luccicavano al buio.
- Don Gesualdoavete sentito quante belle chiacchiere? Adesso siamo tutti fratelli. Nuoteremo nel latte e nel mieled'ora in poi... Voi che ci credeteeh?
L'altro non disse né sì né noprudenteaspettando il seguito.
- Io no... Io non mi fido di tutti questi fratelli che non mi ha partorito mia madre.
- Allora perché siete venutovossignoria?
- Per non farci venire voicaspita! Io non fo misteri. Giuochiamo a tagliarci l'erba sotto i piedi fra di noi che abbiamo qualcosa da perdereed ecco il bel risultato! Far la minestra per i gattie arrischiare la roba e la testa!... Io bado ai miei interessicome voi... Non ho i fumi che hanno tanti altri... Parenti! parentissimi! quanto a me volentieri... Allora mettiamoci d'accordo piuttosto fra di noi...
- Ebbene? che volete fare?
- Ah? che voglio fare? La pigliate su quel verso? Mi fate lo gnorri?... Allora sia per non detto... Ciascuno il suo interesse! Fratelli! Carbonari! Faremo la rivoluzione! metteremo il mondo a soqquadro anche!... Io non ho paura!... - Nel calore della disputa il barone si era addossato all'uscio di un cortile. Un cane si mise a latrare furiosamente. Zacco spaventato se la diede a gambe colla pistola in pugnoe don Gesualdo dietro di luiansante. Prima di giungere in piazza di Santa Maria di Gesùuno che andava correndo lo fermò mettendogli la mano sul petto.
- Signor don Gesualdo!... dove andate?... c'è la giustizia a casa vostra!
Quello che temeva il canonico! quello che temeva Bianca! Egli correva al buiosenza saper dovecon una gran confusione in testae il cuore che voleva uscirgli dal petto. Poiudendo colui che gli arrancava dietrocon un certo rumore quasi picchiasse in terra col bastonegli disse: - E tu chi sei?
- Nardoil manovalequello che ci lasciò la gamba sul ponte. Non mi riconoscete piùvossignoria? Donna Bianca mi ha mandato a svegliare di notte.
E narrava com'era arrivata la Compagnia d'Armeall'improvvisoa quattr'ore di notte. Il Capitano e altri Compagni d'Arme erano in casa di don Gesualdo. Lassùverso il Castellovedevansi luccicare dei lumi; c'era pure una lanterna appesa dinanzi alla porta dello stallaticoal Poggioe dei soldati che strigliavano. Più in lànelle vicinanze della Piazza Grandesi udivano di tanto in tanto delle voci: un mormorìo confusodei passi che risuonavano nella nottedei cani che abbaiavano per tutto il paese.
Don Gesualdo si fermò a riflettere: - Dove andiamovossignoria? - chiese Nardo. - Ci ho pensato. Non far rumore. Ah! Madonna Santissima del Pericolo! Va a chiamare Nanni l'Orbo. Lo conosci? il marito di Diodata?
Cominciava ad albeggiare. Ma nelle viottole fuori mano che avevano preso non s'incontrava ancora anima viva. La casuccia di Diodata era nascosta fra un mucchio di casupole nerastre e macchie di fichi d'Indiadove il fango durava anche l'estate. C'era un pergolato sul ballatoioe un lume che trapelava dalle imposte logore.
- Bussa tuse mai... - disse don Gesualdo.
Diodata al vedersi comparire dinanzi il suo antico padrone ansante e trafelato si mise a tremare come una foglia.
- Che volete da me a quest'ora?... Per l'amor di Dio! lasciatemi in pacedon Gesualdo!... Se torna mio marito!... È uscito or oraper cogliere quattro fichi d'India!... qui accanto.
- Bestia! - disse lui. - Ho altro pel capo! Ci ho la giustizia alle calcagna!...
- Che c'è? - chiese Diodata spaventata.
Egli colla mano le fece segno di star zitta. In quel momento tornò correndo compare Nardo; la gamba di legno si udiva da lontano sull'acciottolato.
- Eccolo!... eccolo che viene!...
Entrò Nanni l'Orbotorvocolla canna da cogliere i fichi d'India in spallae gli occhi biechi che fulminavano di qua e di là. Invano Diodatacolle braccia in croce giurava e spergiurava.
- Padron mio! - esclamò Nanni - a che giuoco giuochiamo? Questa non è la maniera!...
- Bestia! - gridò infine don Gesualdoscappandogli la pazienza. - Ho la forca dinanzi agli occhie tu vieni a parlarmi di gelosia!
Allo strepito accorsero i vicini - Lo vedete? - ripigliò Nanni infuriato. - Che figura fo dinanzi a loro padron mio? In coscienzaquel po' che avete dato a costei per maritarla è una miseriain confronto della figura che mi fate fare!
- Taci! Farai correre gli sbirri con quel chiasso! Che vuoi? Ti darò quello che vuoi!...
- Voglio l'onor miodon Gesualdo! L'onor mio che non si compra a denari!
Cominciarono ad abbaiare anche i cani del vicinato.- Vuoi la chiusa del Carmine?... un pezzo che ti fa gola!
Infine compare Nardo riuscì a metterli d'accordo sulla chiusa del Carmine. - Corpo di Giuda! La roba serve per queste occasioni... carcerimalattie e persecuzioni... Voi l'avete fattadon Gesualdoe serve per salvare la vostra pelle...
Don Gesualdo con una faccia da funerale brontolò:
- Parla! Sbraita! Hai ragione! Adesso hai ragione tu!
- Considerate dunque il vostro prossimovossignoria! La moglie da mantenere... I figli che nasceranno... Se mi tornano a casa anche gli altri... quelli che son venuti primabisogna mantenerli come fossero miei... perché sono il marito di Diodata... La gente dirà magari che li ho messi al mondo io!...
- Basta! basta! Se t'ho detto di sì per la chiusa!
- Parola di galantuomo? Davanti a questi testimoni? Quand'è così... giacchè mi dite che siete venuto soltanto per salvare la pellepotete rimanere tutto il tempo che vi piace. Sono un buon diavolacciolo sapete!...
S'era fatto tardi. Compare Nannicompletamente rabbonitopropose anche di andare a vedere quel che accadeva fuori:
- Voi fate liberamente come se foste in casa vostradon Gesualdo... Compare Nardo verrà con me. Al ritornoper segnalebusserò tre colpi all'uscio. Ma se nonon aprite neanche al diavolo.
Era un terrore pel paese: porte e finestre ancora chiuseCompagni d'Arme per le vierumore di sciabole e di speroni. Le signorine Margaronein fronzoli e colla testa irta di ciambelle come un fuoco d'artificiocorrevano ogni momento al balcone. Don Filippotronfio e pettorutose ne stava adesso seduto nel Caffè dei Nobiliinsieme al Capitano Giustiziere e l'Avvocato Fiscalefacendo tremare chi passava colla sola guardatura. Nella stalla di don Gesualdo dei trabanti governavano i cavallie il Comandante fumava al balconein pantofolecome in casa sua.
Nanni l'Orbo tornò ridendo a crepapelle. Prima di entrare però bussò al modo che aveva dettotossìsi soffiò il nasopure si trattenne un po' a discorrere ad alta voce con una vicina che si pettinava sul ballatoio. Don Gesualdo stava mangiando una insalata di cipolleonde prevenire qualche malattia causata dallo spavento. - Prosit! prositdon Gesualdo! A casa vostra ci ho trovato dei forestieritale e quale come voi qui da me. Il barone Zacco corre ancora!... L'hanno visto prima dell'alba più in là di Passanetofiguratevi! a casa del diavolo!... dietro una siepepiù morto che vivo!... Sua moglie fa come una pazza... Sono stato anche a cercare del notaro Nerise s'ha a scrivere due parole della chiusa del Carmine che date a mia moglie pei servizi prestati... Non che non mi fidi... sapete bene... per la vita e per la morte. Nessuno l'ha più vistoil notaro! Dicono ch'è nascosto nel monastero di San Sebastiano... vestito da donna... sissignore! Gli sbirri cercano da per tutto! Ma qui non avete da temerevossignoria!... Udite? udite?
Sembrava che si divertisse a fare agghiacciare il sangue nelle vene al prossimo suoquel briccone! Udivasi infatti un vocìo di comariun correre di scarponi grossi strilli di ragazzi. Diodata s'arrampicò sino all'abbaino del granaio per vedere. Poi Nanni venne a dire:
- È il viaticoDio liberi!... Va in su verso sant'Agata. Ho visto il canonico Lupi che portava il Signore... cogli occhi a terra!... una faccia da santocom'è vero Iddio!
- Staseraappena è scuromi farai trovare una cavalcatura laggiù alla Maserae mi darai qualche cosa da travestirmi; - disse don Gesualdoche sembrava più smorto alla luce dell'abbaino.
- Perché? Non vi piace più lo stare in casa mia? Diodata vi avrebbe fatto qualche mancanza?
- Nono... Mi pare mill'anni d'esser lontano...
- Qui però non avete da temere... Gli sbirri non vengono a cercarvi qui! A casa vostra piuttosto! Guardatevi!...
Infatti Bianca la sera innanzi s'era visto capitare a tre ore di notte il Capitan d'Armeun bell'uomo colla barba a collana e i baffi alla militareche recava il biglietto d'alloggio. Biancagià inquieta per suo maritonon sapendo che fareaveva mandato a chiamare lo zio Limòliil quale giunse sbadigliando e di cattivo umore. Invano il Capitan d'Arme accarezzandosi i baffi che aveva lasciato crescere da pocole diceva colla voce grossa:
- Non temete!... Calmatevibella signora!... Noi militari siamo galanti col bel sesso!...
- Poi - aggiunse il marchese - questi qua sono militari per modo di dire; come io ho fatto il voto di castità perché sono cavaliere di Malta.
Il Capitano si accigliòma l'altrosenza accorgersene continuòbattendogli familiarmente sulla spalla:
- Vi conoscodon Bastiano!... Eravate piccolo cosìcolle brache apertequando si faceva delle scappatelle insieme a vostro padre... Allora il voto mi dava noia come vi dà noia adesso quella stadera che portate appesa al fianco... Bei tempi!... Bell'uomo vostro padre! Il cuore e la borsa sempre aperti!... Don Marcantonio Stangafame!... dei Stangafame di Ragusa!... una delle prime famiglie della Contea! Peccato che siate in tanti! L'avete indovinata a farvi nominare Capitan d'Arme!... Quattrocent'onze all'annoper rispondere dei furti campestri... È una bella somma... Vi rimane in tasca tale e quale... poiché il territorio è tranquillo!... Una bagattella soltanto pei dodici soldati che vi tocca mantenere... due tarì al giorno per ciascunoeh?...
- Bastacorpo di... bacco!... - gridò il Capitan d'Arme battendo in terra la sciabola. - Sembrami che vogliate burlarvi di mecorpo di... bacco!
- Ehiehi! Adagiosignor capitano! Sono il marchese Limòlie ho ancora degli amici a Napoli per farvi scapitanare e tagliare i baffi novellisapete!
Capitò in quel momento il ragazzetto del sagrestano che veniva a fare un'imbasciata di gran premurabalbettandoimbrogliandositornando sempre a ripetere la stessa cosa rosso dalla suggezione. Il marcheseche cominciava a farsi un po' sordotendeva l'orecchiogli faceva dei versacci lo intimidiva maggiormente strillando: - Eh? che diavolo vuoi?
Ma Bianca mise un grido straziante un grido che fece rimanere lo zio a bocca apertae scappò per la casa cercando il mantocercando qualcosa da buttarsi in capo per uscire di casaper correre subito.
III
Da gran tempoogni giornoalla stessa oradonna Giuseppina Alòsi che stava al balcone facendo la calza per aspettare la passata di Peperitodon Filippo Margarone mentre rivoltava la conserva di pomidoro posta ad asciugare sul terrazzol'arciprete Bugno nell'appendere al fresco la gabbia del canarinofin coloro che stavano a sbadigliare nella farmacia di Bommase volgevano gli occhi in suverso il Castelloal di sopra de' tettisolevano vedere don Diego e don Ferdinando Traouno dopo l'altroche facevano capolino a una finestraguardinghivolgevano poi un'occhiata a destraun'altra a sinistraguardavano in ariae ritiravano il capo come la lumaca. Dopo qualche minuto infine aprivasi il balcone grandestridendotentennandoa spinte e a ripresee compariva don Diegocurvomacilentocol berretto di cotone calcato sino alle orecchietossendosputandotenendosi all'inferriata con una mano; e dietro di lui don Ferdinando che portava l'annaffiatoiogialloallampanatoun vero fantasma. Don Diego annaffiavanettavarimondava i fiori di Bianca; si chinava a raccattare i seccumi e le foglie vizze; rimescolava la terra con un coccio; passava in rivista i bocciuoli nuovie li covava cogli occhi. Don Ferdinando lo seguiva passo passoattentissimo; accostava anche lui il viso scialbo a ciascuna piantaaguzzando il musoaggrottando le sopracciglia. Poscia appoggiavano i gomiti alla ringhierae rimanevano come due galline appollaiate sul medesimo bastonevoltando il capo ora di qua e ora di làa seconda che giungeva la mula di massaro Fortunato Burgio carica di granoo saliva dal Rosario la ragazza che vendeva ovaoppure la moglie del sagrestano attraversava la piazzetta per andare a suonare l'avemaria. Don Ferdinando stava intento a contare quante persone si vedevano passare attraverso quel pezzetto di strada che intravvedevasi laggiùfra i tetti delle case che scendevano a frotte per la china del poggio; don Diego dal canto suo seguiva cogli occhi gli ultimi raggi di sole che salivano lentamente verso le alture del Paradiso e di Monte Lauroe rallegravasi al vederlo scintillare improvvisamente sulle finestre delle casipole che si perdevano già fra i campisimili a macchie biancastre. Allora sorrideva e appuntava il dito scarno e tremantespingendo col gomito il fratelloil quale accennava di sì col capo e sorrideva lui pure come un fanciullo. Poi raccontava quello che aveva visto lui: - Oggi ventisette!... ne sono passati ventisette... L'arciprete Bugno era insieme col cugino Limòli!...
Per un po' di giorniverso i primi d'agostoera venuto soltanto don Ferdinando ad annaffiare i fioristrascinandosi a stentocoi capelli grigi svolazzantisbrodolandosi tutto a ogni passo. Allorché ricomparve anche don Diegoparve di vedere Lazzaro risuscitato: tutto nasocolle occhiaie nereseppellito vivo in una vecchia palandranatossendo l'anima a ogni passo: una tosse fioca che non si udiva quasi piùe scuoteva dalla testa ai piedi lui e il fratello che gli dava il bracciocome andasse facendo la riverenza a ogni vaso di fiori. E fu l'ultima volta. D'allora in poi s'erano viste raramente insieme le teste canute dei due fratellidietro i vetri rattoppati colla cartacercando il soledon Diego sputando e guardando in terra ogni momento. Il giorno in cui avvenne quel parapiglia nel Palazzo di Cittàche le voci si udivano sin nella piazzetta di Sant'Agataapparve per un istante alla finestra la cima di un berretto bianco tremolante. Ma allorquando la processione di San Giuseppe si fermò dinanzi al portone dei Traoper l'omaggio tradizionale alla famigliale finestre rimasero chiusemalgrado il vocìo della folla. Don Ferdinando scese per comprare l'immagine del santo gonfio d'asmacogli occhi arsi di sonno piegato in due le mani nerastre tremanti così che non trovavano quasi nel taschino i due baiocchi per l'immagine. Il procuratore di San Giuseppeche dirigeva la processionegli disse:
- Vedrete quant'è miracolosa quell'immagine! Tanta salute e provvidenza a tuttiin casa vostra!
E gli affidò anche il bastone d'argento del santoda metterlo al capezzale del malato: un tocca e sana. Eppure non giovò neanche quello.
Compare Cosimo e Pelagattipartendo per la campagna due ore prima dell'albao tornando a notte fattavedevano sempre il lume alla finestra di don Diego. E il cane nero dei Motta uggiolava per la piazzacome un lamento. Poiverso nonabussava al portone il ragazzo di don Lucaportando un bicchiere di latte. Di tanto in tanto veniva don Giuseppe Barabbacon un piatto coperto dal tovagliuoloo il servitore del Fiscale che recava un fiasco di vino. A poco a poco diradarono anche quelle visite. L'ultima volta il dottor Tavuso se n'era andato scrollando le spalle. I ragazzi del vicinato giuocavano tutto il giorno dietro quel portone che non si apriva più. Una seratardii viciniche stavano cenandoudirono la voce chioccia di don Ferdinando chiamare il sagrestanolì dirimpetto: una voce da far cascare il pan di bocca. E subito dopo un gran colpo al portone sconquassatoe dei passi che si allontanarono frettolosi.
Fu giusto quella notte che arrivava la Compagnia d'Arme. Una baraonda per tutto il paese. Al rumore insolito anche Don Diego aprì un istante gli occhi. Burgio che era sul ballatoio di casa suacoll'orecchio teso verso la Piazza Grande dove udivasi quel parapigliavedendo gente nel balcone dei Traodomandò inquieto:
- Che c'è?... Cosa succede?
- Don Diego!... - rispose il sagrestano; e fece il segno della crocequasi massaro Fortunato avesse potuto vederlo al buio. - Solo come un cane!... me lo lasciano sulle spalle!... Ho mandato Grazia pel dottore... a quest'ora!...
- Sentitelaggiùverso la piazza?... sentite?... Che giornata spunterà domattinaDio liberi!...
- Basta avere la coscienza nettamassaro Fortunato. Sono stato sempre un povero diavolo!... Bacio la mano di chi mi dà pane...
- Il dottore!... quello sì!... deve avere la tremarella addosso a quest'ora!... E anche il canonico Lupidicono!... Buona sera!... I muri hanno orecchie al buio!
Infatti il dottor Tavusoch'era il capo di tutti i giacobini del paesee stava nascosto nella legnaiatremando come una fogliavide giunta l'ultima sua ora all'udir bussare all'uscio con tanta furia.
- Li sbirri!... la Compagnia d'Arme!...
Quando gli dissero che era la moglie del sagrestanoinvecela quale veniva a cercarlo per don Diego moribondomontò in furia come una bestia.
- È ancora vivo?... Mandatelo al diavolo!... Vengono a spaventarmi!... a quest'ora!... di questi tempi!... Un padre di famiglia!... Andate a chiamare i suoi parenti piuttosto... o il viaticoch'è meglio!...
La zia Sganci non volle neppure aprire. Barabba rispose dietro il portonechiuso con tanto di catenaccio:
- Buona donnaquesti non son tempi di correre di notte per le strade. Domattinase Dio vuolechi campa si rivede.
Per fortunaGrazia non aveva di che temere; e suo marito l'avrebbe mandata senza sospetto in mezzo a un reggimento di soldati. L'andare attorno così tardiin quella tal notteera proprio uno sgomento. Lo stesso baronello Rubierache era uscito di buon'ora dalla casa dei Margarones'era fatto accompagnare col lampione.
- Ninì! Ninì! - strillò dal balcone donna Fifì con la vocina sottilequasi il suo fidanzato corresse a buttarsi in un precipizio.
- Non temere... no! - rispose lui con la voce grossa.
All'udir gente nella piazzettadal portone dei Traoche rimbombò come una cannonatauscì correndo don Luca:
- Signor barone!... sta per morire vostro cugino don Diego!... solo come un cane!... Non c'è nessuno in casa!...
Rimpetto al palazzo nero e triste dei Trao splendeva il balcone lucente dei Margaronee in quella luce disegnavasi l'ombra di donna Fifìrammentandogli un'altra ombra che soleva aspettarlo altra volta alla finestra del palazzo smantellato. Don Ninì se ne andò frettolosoa capo chinoportandosi seco negli occhi i ricordi di quella finestra chiusa e senza lume.
- Bella porcheria!... Me lo lasciano sulle spalle!... a me solo! - brontolò don Luca tornando nella camera del moribondo.
Don Ferdinando stava seduto a piè del lettosenza dir nullasimile a una mummia. Di tanto in tanto andava a guardare in viso suo fratello; guardava poi don Lucastralunatoe tornava a chinare il capo sul petto. Alla sfuriata del sagrestano però si rizzò all'improvvisoquasi gli avessero dato uno scossonee domandò pianocon la voce assonnata di uno che parli in sogno:
- Dorme?
- Sìdorme!... Andate a dormire voi purese volete!...
Ma l'altro non si mosse. Il malato da prima voleva sapere ogni momento che ora fosse; poiverso mezzanottenon domandò più nulla. Stava chetocol naso contro il muroe la coperta sino alle orecchie. Graziadi ritornoaveva accostato l'usciomesso il lume accantosul tavolinoed era andata a dare un'occhiata a casa sua. Il marito si accomodò alla meglio su due sedie. Don Ferdinandodi tratto in trattosi alzava di nuovoin punta di piedisi chinava sul lettosimile a un uccello di malaugurioe tornava a domandare pianoall'orecchio di don Luca:
- Che fa? dorme?
- Sì! sì!... Andate a dormire voi pure!... andate!
E l'accompagnò lui stesso in camera suaper liberarsi almeno da quella noia. Don Ferdinando sognava che il cane nero dei vicini Motta gli si era accovacciato sul pettoe non voleva andarseneper quanto egli cercasse di svincolarsi e di gridare. La coda del canelungalunga che non finiva piùgli si era attorcigliata al collo e alle bracciaal pari di un serpentee lo stringevasoffocandologli strozzava la voce in golaquando udì un'altra voce che lo fece balzare dal lettocon una gran palpitazione di cuore.
- Alzatevidon Ferdinando! Questa non è ora di dormire!...
Don Diego pareva che russasse fortesi udiva dall'altra stanza; supinocogli occhi aperti e spentile narici filigginose: un viso che non si riconosceva più. Come don Ferdinando lo chiamò prima pian pianoe tornò a chiamarlo e a scuoterlo inutilmentegli si rizzarono quei pochi capelli in capoe si rivolse al sagrestanosmarritosupplichevole:
- Che fa ora?... che fa?...
- Che fa?... Lo vedete che fa!... Grazia! Grazia!
- No!... Fermatevi!... Non aprite adesso!...
Era giorno chiaro. Donna Bellonia in sottana stava a spiare dalla terrazza verso la Piazza Grande per incarico del maritospaventata dal tramestìo che s'era udito tutta la notte nel paese; e Burgio strigliava la mula legata al portone dei Trao. Alle grida di don Lucalevò il capo verso il balconee domandò cosa c'era con un cenno del capo. Il sagrestano rispose anche lui con un gesto della manofacendo segno di uno che se ne va.
- Chi? - domandò la Margarone che se ne accorse. - Chi? don Diego o don Ferdinando?
- Sissignoradon Diego! Lo lasciano sulle spalle a me solo!... Corro dal dottore... almeno per la ricetta del viaticoche diavolo!... Signori miei! deve andarsene così un cristianosenza medico né speziale?...
Speranza cominciò dallo sgridare suo marito che aveva legata la mula alla casa del moribondo: - Porta disgrazia! Ci vorrebbe quest'altra!... - Poi si diedero a strologare i numeri del lotto insieme a donna Belloniach'era corsa a prendere il libro di Rutilio Benincasa. Donna Giovannina s'affacciò asciugandosi il viso; ma non si vide altro che il sagrestano il quale correva a chiamare Tavusolì a due passi una porticina verdecolla fune del campanello legata alta perché non andassero a seccarlo di notte. Picchia e ripicchia infine la serva di Tavuso gli soffiò attraverso il buco della serratura:
- O chetatevi che il dottore non esce di casase casca il mondo! È più malato degli altrilui!
Bommagiallo al par del zafferanostava pestando cremor di tartaro in fondo alla farmaciasolo come un appestato. Don Luca entrò a precipiziocol fiato ai denti:
- Signor don Arcangelo!... don Diego Trao è in punto di morte. Il dottore non vuol venire... Cosa fo?
- Cosa fate?... La cassa da morto fategliaccidenti a voi! M'avete spaventato! Non è questa la maniera... oggi che ogni galantuomo sta coll'anima sulle labbra!... Andate a chiamargli il prete piuttosto... lìal Collegioc'è il canonico Lupi che s'arrabatta a dir messe e mattutino fin dall'albaper farsi vedere in chiesa!... Cade sempre in piedi colui! Se ne ride degli sbirri!... Io fo lo speziale! Pesto cremor di tartarogiacché non posso pestar altro... non posso!
Mavedendo passare Ciolla ammanettato come un ladrosi morse la linguae chinò il capo sul mortaio. - Signori miei! - sbraitava Ciolla- guardate un po'!... un galantuomo che se ne sta in piazza pei fatti suoi!... - I Compagni d'Armesenza dargli rettalo cacciavano innanzi a spintoni; don Liccio Papa di scorta colla sciabola sguainatagridando: - Largo! largo alla giustizia!... - Il Capitano Giustizieredall'alto del marciapiede del Caffè dei Nobilisentenziò:
- Bisogna dare un esempio! Ci pigliavano a calci dove sapeteun altro po'!... manica di birbanti!... Un paese come il nostroche prima era un convento di frati!... Al castello! al castello! Don Liccioeccovi le chiavi!...
Grazie a Dio si tornava a respirare. I ben pensanti sul tardi cominciarono a farsi vedere di nuovo per le strade; l'arciprete dinanzi al caffè; Peperito su e giù pel Rosario; Canali a braccetto con don Filippo verso la casa della ceraiuola; don Giuseppe Barabba portando a spasso un'altra volta il cagnolino di donna Marianna Sganci; la signora Capitana poi in galaquasi fosse la sua festaadesso che ci erano tanti militaricolla borsa ricamata al braccioil cappellino carico di piumescutrettolandoridendocinguettandorimorchiandosi dietro don Bastiano Stangafameil tenentetutti i colleghi di suo maritoil quale se ne stava a guardare da vero babbèocolla canna d'India dietro la schienamentre i suoi colleghi passeggiavano con sua mogliespaccandosi come compassiridendo a voce altaguardando fieramente le donne che osavano mostrarsi alle finestrefacendo risuonare da per tutto il rumore delle sciabole e il tintinnìo degli speroniquasi ci avessero le campanelle alle calcagna. Le ragazze Margaronestipate sul terrazzosi rodevano d'invidia. - Specie il tenente ci aveva dei baffoni come code di cavalloe due file di bottoni lungo il ventre che luccicavano da lontano.
Talché in quell'aria di festa suonò più malinconico il campanello del viatico. Correvano anche delle voci sinistre: - Una battaglia c'è stata!... dei condannati a morte!... - Uno di quelli che portavano il lanternone dietro il baldacchino disse che il viatico andava dai Trao. - Un'altra grande famiglia che si estingue! - osservò gravemente l'Avvocato Fiscale scoprendosi il capo. La signora Capitanasaltellando sulla punta delle scarpette per mostrare le calze di seta stava rimbeccando don Bastiano con un sorriso da far dannare l'anima:
- Lo so! lo so! giuramenti da marinaio!...
Il Capitan d'Arme ammiccò a donna Bianca la quale passava in quel momentocon un'aria che voleva dire: - Anche costei!... che colpa ci ho? - scappellandosi con soverchio ossequio. Ma quella poveretta non gli rispose. Andava quasi correndotrafelatacol manto giù per le spalleil viso ansioso e pallido. Donna Fifì Margarone si tirò indietro dal balcone con una smorfiaappena la vide sboccare nella piazzetta dalla salita di Sant'Agata.
- Ah!... finalmente!... la buona sorella!... quanta degnazione!...
- Bianca! Bianca! - gridava lo zio Limòli che non poteva tenerle dietro.
Dinanzi al portonespalancato a due battentisi affollavano i ragazzi di Burgio e di don Luca. La moglie del sagrestano ne usciva in quel momentoarruffatagiallasenza ventree si mise a distribuire scappellotti a diritta e a manca:
- Via! via di qua!... Che aspettate? la festa? - Poscia entrò in chiesa frettolosa. Delle comari stavano alle finestrecuriose. In cima alla scala don Giuseppe Barabba spolverava delle bandiere nerebucate e rose dai topicollo stemma dei Trao: una macchia rossa tutta intignata. Era corsa subito la zia Macrì colla figliuolae il barone Mèndola che stava lì vicino; una va e vieni per la casaun odor d'incenso e di moccolaiauna confusione. In fondoattraverso un uscio socchiusoscorgevasi l'estremità di un lettuccio bassoe un formicolìo di ceri accesifunebrinel giorno chiaro. Bianca non vide altroin mezzo a tutti quei parenti che le si affollavano intornosbarrandole il passo: - No!... lasciatemi entrare!
Apparve un momento la faccia stralunata di don Ferdinandocome un fantasma; poi l'uscio si chiuse. Delle braccia amiche la sorreggevanoaffettuosamentee la zia Macrì ripeteva: - Aspetta!... aspetta!...
Tornò la moglie del sagrestanoansanteportando dei candelieri sotto il grembiule. Suo maritoche si affacciò di nuovo all'usciovenne a dire:
- C'è il viatico... l'estrema unzione... Ma non sente...
- Voglio vederlo!... Lasciatemi andare!
- Bianca!... in questo momento!... Bianca!...
- Vuoi ammazzarlo?... Una commozione!... Se ti sente!... Non far cosìviaBianca!... Un bicchier d'acqua!... presto!...
Donna Agrippina corse in cucina. S'aprì l'uscio un'altra volta su di un luccichìo di processione. Il preteil baldacchinoi lanternoni del viatico passarono come una visione. Il marcheseinchinandosi sino a terraborbottò:
- Dominesalva me...
- Amen! - rispose il sagrestano. - Ho fatto quel che ho potuto... solo come un cane!... due volte dal medico!... di notte!... Anche dal farmacista!... dice che il conto è lungo... e non ci ha l'erba di Lazzaro risuscitatopoi!...
- Perché?... perchè non mi lasciate entrare?... Che ho fatto?... - Essa tremava così che i denti facevano tintinnare il bicchierequasi fuori di sèfissando addosso alla gente gli occhi spaventati.
- Lasciatemi! lasciatemi entrare!
Lo zio marchese si affrettò a cavare il fazzoletto per asciugarle tutta l'acqua che si era versata addosso. Il barone Mèndola e la zia Macrì stavano discorrendo nel vano del finestrone: - Una malattia lunga!... Tutti così quei Trao!... non c'è che fare!...
- Guarda! - esclamò il barone che stava da un po' attento. - Hanno aperto un finestrino sul mio tetto... laggiù!... quel ladro di Canali!... Fortuna che me ne sia accorto! Lo citerò in giudizio!... una citazione nera come la pece!...
- Don Luca! don Luca! - si udì gridare. L'uscio si spalancò a un trattoe comparve don Ferdinando agitando le braccia in aria. Don Luca corse a precipizio. Successe un momento di confusione: delle stridadelle voci concitateun correre all'impazzatadonna Agrippina che cercava l'aceto dei sette ladrigli altri che stentavano a trattenere Biancala quale faceva come una pazzacon la schiuma alla boccagli occhi che mandavano lampie non si riconoscevano più.
- Perchè?... perchè non volete? Lasciatemi! lasciatemi!... lasciatemi entrare!...
- Sì! sì! - disse lo zio marchese. - È giusto che lo veda!... Lasciatela entrare.
Ella scorse un corpo lungo e stecchito nel lettuccio bassoun mento aguzzoispido di barba grigiastrarivolto in sue due occhi glauchispalancati.
- Diego!... Diego!... fratello mio!...
- Non fate a quel mododonna Bianca! - disse piano don Luca. - Se ci sente ancorail poverettofiguratevi che spavento!...
Essa si arrestò tutta tremanteatterritacolle mani nei capelliguardandosi intorno trasognata. A un tratto fissò gli occhi asciutti ed arsi su don Ferdinando che annaspava stralunatoquasi volesse allontanarla dal letto.
- Nulla!... nulla m'avete fatto sapere!... Non son più nulla... un'estranea!... Fuoridalla casa e dal cuore!... fuori!... da per tutto!
- Zitta!... - balbettò don Ferdinando mettendo il dito tremante sulla bocca. - Poi!... poi!... Adesso taci!... Tanta gentevedi!...
- Bianca! Bianca!... - supplicavano gli altri abbracciandolaspingendolatirandola per le vesti.
- Portatela via!... - gridò la zia Macrì dall'uscio. - Nello stato in cui èla poveretta... succederà qualche altra tragedia!...
Frattanto giunse donna Sarina Cirmenascalmanatain un bagno di sudore.
- L'ho saputo or ora! - balbettò lasciandosi cadere sul seggiolone di cuoio in mezzo ai parenti riuniti nella gran sala. - Che volete? con quel parapiglia che c'è stato nel paese! Se non era pel viatico che vidi venire da queste parti...
Il marchese indicò l'uscio dell'altra stanza con un cenno del capo. La zia Cirmenaaccasciata sul seggiolonecol fazzoletto agli occhipiagnucolò:
- Io non ci reggo a queste scene!... Sono tutta sottosopra!... - E siccome continuava a interrogare cogli occhi or questo e or quellodonna Agrippina rispose sottovocecompuntafacendo il segno della croce:
- Or ora!... cinque minuti fa!
Don Giuseppe venne recando in fascio le bandiere:
- Ecco!... Il falegname è avvertito.
Il barone Mèndola s'alzò per andare a sentire cosa volesse.
- Va beneva bene- disse Mèndola. - Or ora si pensa a tutto. Don Luca? ehi? don Luca?
Appena il sagrestano affacciò il capo all'usciosi udirono delle strida che laceravano il cuore.
- Povera Bianca!... sentite?
- Fa come una pazza! - confermò don Luca. - Si strappa i capelli!...
Il barone Mèndola lo interrogò dinanzi a tutti quanti:
- Avete pensato a ogni cosaehdon Luca?
- Sissignore. Il catafalcole bandieretante messe quanti preti ci sono. Ma chi paga?
- Andate! andate! - interruppe vivamente la Cirmena spingendo per le spalle il sagrestano verso la camera del mortodove cresceva il trambusto.
- Mi dispiace! - osservò la zia Macrì alzandosi per vedere dov'era arrivato il sole. - Mi dispiace che si fa tardi e a casa mia non c'è nessuno per preparare un boccone.
Uscì don Luca dalla camera del mortoturbato in viso.
- È un affar serio... Bisognerà portarla via per amore o per forza!... Vi dico ch'è un affar serio!
- È permesso? Si può?
Era il vocione del cacciatore che accompagnava la baronessa Mèndolacol cappello piumatole calze imbottite di noci. La vecchiasenza bisogno di udir altrodiritta e stecchita come un fusoandò a prendere il suo posto fra i parenti che al suo apparire s'erano taciutiseduti intorno sui seggioloni antichicol viso lungo e le mani sul ventre. La baronessa guardava intornogridando a voce alta:
- E la Rubiera? e la cugina Sganci? Ora che si fa? Bisogna avvertire il parentado per le esequie...
- Eccola lì! - disse donna Sarina all'orecchio della Macrì. - Cascasse il mondo... non manca mai!... Avete visto il subbuglio che c'è per le strade?
La cugina rispose con un sorriso pallidofacendo segno che la vecchia non aveva paura di nulla perché era sorda.
- Il fatto è... - cominciò il barone.
Ma in quel momento portavano Bianca svenutale braccia penzolonidonna Agrippina e il sagrestano rossiansantie col fiato ai denti. - Quasi fosse morta! - sbuffò il sagrestano.
- Gli pesano le ossa!... - La zia Macrì consigliò: - Lìlìnella sua camera!...
- Il fatto è... - riprese il barone Mèndola sottovocetirando in disparte il cugino Limòli e donna Sarina Cirmena- il fatto è che bisogna concertarsi pel funerale. Adesso vedrete che spuntano fuori i parenti del cognato Motta... Faremo un bel vedere!... al fianco di Burgio e di mastro Nunzio Motta!... Ma il marito non si può lasciarlo fuori... È una disgrazianon dico di no... ma bisogna sorbirsi mastro-don Gesualdoeh?...
- Sicuro! sicuro! - rispose la zia Cirmena.
Essa voleva fare qualche altra obiezione. Ma il marchese Limòli disse il fatto suo:
- Lasciate correrecugina cara!... Tanto!... il morto è mortoe non parla più.
- Allora!... - ribatté la Cirmena diventando rossa- è una bella porcheria che mastro-don Gesualdo non si sia fatto neppur vedere!
Mèndola uscì sul pianerottolo per dire a Barabba di correre a casa Sganci.
- Ci vogliono denari- disse piano tornando indietro. - Avete sentito il sagrestano? Le spese chi le fa?
La zia Macrì finse di non udirediscorrendo sottovoce colla Cirmena:
- Povera Bianca!... in quello stato! Quanti mesi sono? lo sapete?...
- Sette... devono esser sette... Insomma un affar serio!...
Il marchese Limòliche discuteva insieme a Mèndola e a Barabba sui preparativi del funerale conchiuse:
- Io inviterei l'Arciconfraternita dei Bianchi trattandosi di una persona di riguardo...
- Sicuro... Bisogna far le cose con decoro... senza risparmio!...
Ma ciascuno vogava al largo quando si parlava di anticipare un baiocco. Nella camera del morto durava intanto il contrasto fra la moglie del sagrestanoche voleva farne uscire don Ferdinandoe lui che si ostinava a rimanere: come un guaiolare di cagnuoloe la voce aspra della zia Graziala quale strillava:
- Madonna santa! non capite proprio nulla?... Siete un ragazzo tale e quale! Il mio ragazzo avrebbe più giudizio di voiguardate!
E tutt'a un trattoin mezzo al crocchio dei parenti che discorrevano sottovocesi vide capitare don Ferdinando strascicando le gambecoi capelli arruffatila camicia apertail viso di un cadavere anch'essorecando uno scartafaccio che andava mostrando a tutti quanti:
- Ecco il privilegio!... Il diploma del Re Martino... Bisogna metterlo nell'iscrizione mortuaria... Bisogna far sapere che noi abbiamo diritto di esser seppelliti nelle tombe reali... una cum regibus! Ci avete pensato alle bandiere collo stemma? Ci avete pensato al funerale?
- Sìsìnon dubitate...
Come ciascuno evitava di impegnarsi direttamentevoltandogli le spalledon Ferdinando andava dall'uno all'altro biascicandocolle lagrime agli occhi:
- Una cum regibus!... Il mio povero fratello!... Una cum regibus!...
- Va beneva bene- gli rispose il marchese Limòli. - Non ci pensate.
Il barone Mèndolache era stato a confabulare con della gentefuori sul pianerottolorientrò gesticolando:
- Signori miei!... se sapeste!... Casco dalle nuvole!...
- Zitto! - gli fece segno il marchese- zitto! Che cos'è adesso?...
Nella camera di Bianca udivasi un gran trambusto; delle voci affannose e supplichevoli; un tramenìo come di gente in lotta; grida deliranti di dolore e di collera; poscia un urlo che fece trasalire tutti quanti. L'uscio fu sbatacchiato con impetoe ne uscì all'improvviso il marchese stravolto. Un momento dopo si affacciò la zia Macrì gridando:
- Un medico! Presto! presto!
Giungevano allora altri parenti in processionecompunti coi guanti neri. In mezzo al rumore delle seggiole smosse la zia Macrì tornò a gridare:
- Presto! un medico! presto!
IV
“Se agglomerate cerimonie tema non forman delle mie verghe non ne traligna l'ossequio. Sì che sorgenti men fallaci e più stabili le sole preci ne reputo. Il favor di un vostro sguardo è quel che aneloe lo ambisco mercé delle melenzose mie riga.
L'ore 7 del 17.
“ Barone Antonino Rubiera.“
- Sicuro! - aggiunse mastro Titta che stava sull'uscio del palchettomentre donna Fifì compitava la letterina. - Me l'ha data lui stessoil baronelloper consegnarla di nascosto alla prima donna. Maper carità! Son padre di famiglia!... Non mi fate perdere il pane.
Donna Fifìgialla dalla bilenon rispose neppure. Di nascostodietro il parapettospiegazzava la lettera con mano febbrile. Indi la passò alla mamma che balbettava.
- Ma sentiamo... Cosa dice?...
- Me ne vo- riprese il barbiere umilmente. - Torno sul palcoscenico perché adesso lei ammazza il primo amorosoe devo pettinarla coi capelli giù per le spalle... Mi raccomandodonna Fifì!... Non mi tradite!...
- Ma che dice? - ripeté la mamma.
Nicolino cacciò il capo fra di loroe si buscò una pedata. Agli strilli accorse don Filippoche stava passeggiando nel corridoioperché il palco era pieno zeppo.
- Che c'è?... Al solito! Facciamo ribellare tutto il teatro... soltanto noi!...
Canali cacciò anche lui il capo dentro il palchetto.
- State attenti! Ora c'è la scena in cui s'ammazzano!...
- Magari! - borbottò fra i denti Fifì.
- Eh? Che cosa?
- Nulla. Fifì ha mal di capo- rispose don Filippo. Quindi piano alla moglie: - Si può sapere che cosa c'è?
- Si soffoca! - aggiunse Canali. - Mi fate un po' di posto?... Guardate lassù!... quanta gente! Quasi quasi mi metto in maniche di camicia.
C'era una siepe di teste. Dei contadini ritti in piedi sulle panche della piccionaiache si tenevano alle travi del soffitto per guardar giù in platea; dei ragazzi che si spenzolavano quasi fuori della ringhieracome stessero a rimondar degli ulivi; una folla tale che la signora Capitananel palco dirimpettominacciava di svenirsi ogni momentocolla boccetta d'acqua d'odore sotto il naso.
- Perché non si fa slacciare dal Capitan d'Arme? - disse Canali che aveva di tali uscite.
Il barone Mèndolail quale stava facendo visita a donna Giuseppina Alòsi nel palco accantosi voltò colla sua risata sciocca che si udiva per tutta la sala. Donna Giovannina si fece rossa. Mita sgranò tanto d'occhie la mamma spinse Canali fuori dell'uscio. Poi disse a Fifì:
- Bada! La Capitana ti guarda col cannocchiale!...
- No! Non guarda me! - rispose lei facendo una spallata.
- Ne volete sentire una nuova? - seguitò il barone ostinandosi a cacciare il capo nel vano dell'uscio. - C'è un casa del diavolodalla Capitana!... Fa sorvegliare la locanda dov'è alloggiata la prima donna!... Suo marito stessopoveretto!... Pare che ne abbia scoperto delle belle!... - Il Capitan d'Armeseccatofu costretto a rimbeccargli: - Perché non badate a quel che succede in casa vostracaro collega?
- Ehm! ehm! - tossì don Filippo gravemente. Dalla platea intimarono pure silenziogiacché s'alzava il sipario. Donna Bellonia allora cavò fuori gli occhiali per leggere il bigliettodietro le spalle di Fifì.
- Ma che dice? Io non ci capisco niente!...
- Ahnon capite?... Non me ne ha scritta mai una così bella!... l'infame! il traditore!...
Il fatto è che Ciollail quale si piccava di letteraturaci s'era stillata la quintessenza del cervellochiusi tutti e due a quattr'occhi col baronello nella retrobottega di Giacinto. Don Filippo tornò a domandare:
- Ma che c'è? Si può sapere?
- Ssst!!! - zittirono dalla platea.
Si sarebbe udita volare una mosca. La prima donnatutta bianca fuorché i capellisciolti giù per le spallecome l'aveva pettinata mastro Tittafaceva accapponar la pelle a quanti stavano a sentirla. Alcunidall'ansias'erano anche alzati in piedimalgrado le proteste di quelli ch'erano seduti dietro e non vedevano niente. Lo stesso Canalicommossosi soffiava il naso come una tromba.
- Guardate! guardate!... adesso!...
“Io!... io stessa!... con questa destra che tu impalmastigiurandomi eterna fé!...“
L'amorosoun mingherlino che lei si sarebbe messo in tascaindietreggiava a passi misuraticon una mano sul giustacuore di vellutoe l'altrain atto di orrorefra i capelli arricciati.
- Non ci reggono! - borbottò Canali. E scappò viagiusto nel momento che risuonavano gli applausi.
- Che comicaeh? Che talento? - esclamò don Filippo smanacciando lui pure. - Peste!... maleducato!...
Nicolino impaurito sgambettava e cacciavasi verso l'uscio a testa in giùstrillando che voleva andarsene. Un terremoto giù in platea. Tutti in piedivociando e strepitando. La prima donna ringraziava di qua e di làdimenando i fianchisaettando il collo a destra e a sinistra al pari di una testugginemandando baci e sorrisi a tutti quanti sulla punta delle ditacolle labbra cucite dal rossettoil seno che le scappava fuori tremolante ad ogni inchino.
- Sangue di!... corpo di!... - esclamò Canali che era tornato ad applaudire. - Son maritato!... son padre di famiglia!... Ma farei uno sproposito!...
- Papà mio! papà mio! - proruppe allora donna Fifìscoppiando a piangere addosso al genitore. - Se mi volete benepapà miofatemi bastonare a dovere quella sgualdrina!...
- Eh?... - balbettò don Filippo rimasto a bocca aperta e con le mani in aria. - Che ti piglia adesso?
Donna BelloniaMitaGiovanninatutte insieme si alzarono per calmare Fifìcircondandolaspingendola in fondoverso l'uscioper nasconderla. Nei palchi dirimpettogiù in plateavi fu un ondeggiare di testedelle risatedei curiosi che appuntavano il cannocchiale verso il palchetto dei Margarone. Don Filippoonde far cessare lo scandalosi mise in prima filainsieme a Nicolinoappoggiandosi al parapettosalutando le signore col sorriso a fior di labbramentre borbottava sottovoce:
- Stupida!... Tuo fratellocosì piccoloha più giudizio di teguarda!...
Anche nel palco accanto si udiva un tramenìo. La signora Alòsi tutta affaccendatacon la boccettina d'acqua d'odore in manoe il barone Mèndola voltando la schiena al teatroscuotendo per le braccia un ragazzetto bianco al par della camiciaabbandonato sulla seggiola.
- Gli è venuto male al piccolo La Gurna... - disse il barone Mèndola dal palco di donna Giuseppina. - Capisce come uno grande!... Una seccatura!
- Come la mia Fifì... or ora!... Benedetti ragazzi! Pigliano tutto sul serio!...
Il fanciullopallidocon grandi occhi intelligenti e timidiguardava ancora la scena a sipario calato. Donna Giuseppinadopo che il nipotino si fu riavuto alquantooffrì per cortesia la sua boccetta d'odore ai Margarone. Don Filippo seguitò a brontolare sottovoce:
- Tale e quale come il ragazzo La Gurna che ha sett'anni!... Vergogna!... Non mi ci pescate piùparola d'onore!
Ma tacque vedendo entrare Mèndola che veniva a far visitavestito in galacolla giamberga verde bottigliai calzoni fior di pomosoltanto il corvattone nero pel lutto del cugino Trao. Andava così facendo visite da un palco all'altroper non pagare il posto.
- Non vi scomodate... un posticino... in un cantuccio... VoiCanalipotete andare da donna Giuseppinaqui accantoche non c'è nessuno!... Nonoin veritànessuno!... Sarinoil suo figliuolettoquello alto quanto il ventagliosapete la canzone?... e Corradino La Gurnail ragazzo della zia Trao... Donna Giuseppina lo conduce dove va per servirle di paravento... quando aspetta certe visite... capite? L'hanno mandato apposta da Siracusa per romperci le tasche!... - Posciaappena Canali se ne fu andato: - Ora arriva anche Peperito!... Non mi piace giuocare a tressetti!... - E ammiccò chiudendo un occhio. Nessuno gli rispose. Allora vedendo quei musi lunghiripigliòcambiando tono:
- Che produzioneeh? La donna specialmente!... M'ha fatto piangere come un bambino!
- Anche qui! anche qui! - rispose don Filippofingendo di volgerla in burletta.
- Ahdonna Fifì?... Allegramenteché adessoal terz'attofanno pace fra di loro. Lui è ferito soltanto. Lo salva una ragazza che l'ama di nascostoe viceversa poi si scopre esser sua sorella di latte... Una produzione che fu replicata due sere di seguito a Caltagirone... Ohi! ohi!... cos'è adesso?
Il Capitan d'Armedal palco dirimpettocredendo di non esser vistodietro le spalle della Capitanafaceva segno verso di loro col fazzoletto biancofingendo di soffiarsi il naso. Mèndola nel voltarsi sorprese pure donna Giovannina col fazzoletto al viso. Ella abbassò subito gli occhi e si fece rossa come un peperone.
- Ah! ah!... Sicuro! Una bella compagnia! Fortuna che sia capitata da queste parti! La prima donna specialmente!... Sta lìdi faccia a casa mianella locanda di Nanni Ninnarò. Bisogna vedere ogni seradopo la recita!... - E terminò la frase all'orecchio di don Filippoil quale rispose: - Ehm!... ehm!...
- Ti dò uno sgrugno- minacciò intanto la mamma sottovocemangiandosi cogli occhi Giovannina. - Ti fo venire adesso il raffreddore!...
- Sicuro! - riprese il barone ad alta voce perché non capissero le ragazze. - Padrone del campo veramente è il padre nobilequello che avete visto col barbone bianco. Finta che litigano ogni sera sul palcoscenico... Ma poia casabisogna vedere!... Non vi dico altro! Ho fatto un buco apposta nell'impannata del granaio che guarda appunto in camera sua. Però ci sono gli avventizîi devoti spicciolicapite? quelli che vanno a portare la loro offerta... Il figlio del notaro Neri ha saccheggiato la dispensanel tempo che suo padre era fuggiasco... salsicciottireste di fichi secchipezze intere di cacio... Portava ogni giorno qualcosa in tasca... Ohi! ohi!...
La signora Capitana si disponeva ad andarsene prima del tempo. In piedisul davanti del palchettoaveva tolto con mal garbo il guardaspalle al Capitan d'Armee l'aveva dato al tenenteil quale glielo accomodava sugli omeri nudi in barba al suo superioreadagio adagiofacendo il comodo suosenza curarsi di tutti quegli occhi che avevano addosso. Don Bastiano Stangafame dall'altro latocol ventaglio in manoe il maritopacificoche guardava e taceva. Mèndola diede una gomitata a Margaronee tutti e due si misero a guardare in ariagrattandosi il mento. Canali osservò dal palco accanto:
- Un po' per unonon fa male a nessuno!...
- Badate a voi piuttosto!... badate!...
- Sìsìl'ho visto venire... Adesso scappoprima che giunga il cavaliere...
S'imbatté col Peperito giusto sull'uscio del corridoio.
- Ohcavaliere!... Beato chi vi vede! S'era inquieti da queste parti... parola d'onore!...
- Perché? - balbettò Peperito facendosi rosso.
- Così... Una produzione come questa che fa correre tutto il paese... Si diceva... come va che il cavaliere?...
Peperito esitò alquantocercando la rispostanon sapendo se dovesse mettersi in collerae poi gli sbatté l'uscio sul muso.
- Ora fanno il quadro degli innocenti! - soggiunse Canali ridendo. - Vado in platea per vederlo di laggiù.
- Allegramentedonna Fifì! - disse poi Mèndola. - Non vi sono né morti né feriti!... Se non arriviamo a farvi ridere in nessun modovuol dire...
In quella si udì nel corridoio un fruscìo di setae un rumore di sciabole e di speroni. Donna Giovannina si fece di brace in voltosentendosi addosso gli occhi della mamma. La signora Capitana spinse l'uscio del palchettoe mise dentro la sua testolina riccioluta e sorridente.
- Nononon vi scomodate. Son passata un momento a salutarvi. Un'indecenza questa produzione... Io me ne vo per non sentir altro... E il vestito della donna!... avete vistonel chinarsi?...
- Eh! eh!... - rispose don Filippo accennando alle sue ragazze.
- Precisamente! Una mamma non potrà condurre in teatro le figliuole.
- È giusto! - osservò allora don Filippo. - Dovrebbe interessarsene l'autorità...
Il tenenteche le cortesie della signora Capitana avevano messo in venaaggiunse:
- Io sono l'autorità. Ora corro sul palcoscenico per vedere s'è quel che dico io... Voglio toccare con mano come san Tommaso!
Ma nessuno rise. Solo la Capitanadandogli un colpetto sul bracciosi chinò sorridendo all'orecchio di donna Bellonia per confidarle ciò che affermava il tenente: - Io dico di noinvece. Guardate donna Giovannina... È grassa quasi quanto la prima donnaeppure non si vede... Un po'... sì... da vicino... forse pel busto che stringe troppo...
- Graziosissimo!... - borbottò il Capitan d'Arme dal corridoio. - Elegantissimo!...
Zaccoche giungeva alloraal vedere gli uniformi stava per tornare indietrotanta la paura che gli era rimasta da quell'affare della Carboneria. Ma poi si fece animoper non destar sospettie andò a stringere la mano a tutti quantisorridendogiallo come un morto.
- Vengo dalla cugina Trao. È ancora in casa del fratellopoverina! Non si può muovere!... Ha voluto partorire proprio a casa sua!... Io non ne sapevo nullagiacché sono stato in campagna per badare ai miei interessi.
- Ma che aspettano a battezzare cotesta bambina! - chiese Margarone. - L'arciprete Bugno fa un casa del diavolo per quell'anima innocente che corre rischio d'andare al limbo.
Allora prese la parola il Capitano Giustiziere.
- Aspettano il rescritto di Sua MaestàDio guardi... Un'idea del marchese Limòliper far passare il nome dei Trao ai collateraliora che sta per estinguersi la linea mascolina... Le carte furono nelle mie mani...
- Sìuna gran famiglia... una gran casa- aggiunse la signora Capitana. - Ci andai per far visita a donna Bianca. Ho visto anche la bambina... un bel visetto.
- Benissimo! - conchiuse Zacco. - Così mastro-don Gesualdo ci ha guadagnato che neppur la sua figliuola è roba sua.
La barzelletta fece ridere. Canali che tornava colle tasche piene di bruciatevolle che gliela ripetessero.
- Buona sera! buona sera! Non voglio stare a sentire altro! - esclamò la Capitana tutta sorridentetappandosi le orecchie con le manine inguantate. - No... me ne vo... davvero!...
Erano tutti nel corridoio: donna Fifì masticando un sorriso fra i denti gialli; Nicolino dietro a Canali il quale distribuiva delle bruciate; anche donna Giuseppina Alòsi aveva aperto l'uscio del suo palcoper non dar campo alle male lingue. Solo donna Giovannina era rimasta al suo posto inchiodata dal viso arcigno della mamma. Don Ninì che veniva di nascosto per non destar i sospetti della fidanzata vestito di nerocon un mazzolino di rose in manorimase un po' interdetto trovando tanta gente nel corridoio. Donna Fifì gli rivolse un'occhiatacciae tirò sgarbatamente per un braccio il fratellino che gli si arrampicava addosso onde frugargli nelle tasche. Il Capitano d'Arme accarezzò il ragazzoe disse guardando nel palco dei Margarone con certi occhi arditi:
- Che bel fanciullo!... tanto simpatico!... Una bella famiglia!...
Donna Fifì gli rispose con un sorriso civettuoloproprio sotto gli occhi del fidanzato. La Capitana rise agro anche lei; guardò donna Giovannina che aveva gli occhi lucentie siccome Peperito stava accarezzando Corradino La Gurna per far la corte a donna Giuseppinadicendo che aveva un'aria distintatutta l'aria dei Traola Capitana aggiunsecolla vocina melata:
- È sorprendente l'aria di famiglia che c'è fra di loro. Avete visto come somiglia a don Ninì la bambina di donna Bianca?
- Che diavolo! - le borbottò all'orecchio Canali. - Che storie andate pescando!...
Successero alcuni istanti di silenzio imbarazzante. Zacco se ne andò canterellando. Canali annunziò che stava per cominciare l'ultimo atto. Ci fu uno scambio di baci e di sorrisi pungenti fra le signore; e donna Fifì si lasciò andare anche a stringere la mano che il Capitano le stendeva alla moda forestieracon un molle abbandono.
- Viaentrate un momento- disse donna Bellonia al baronello. - Vi metterete in fondo al palcoinsieme a Fifìgiacché siete in lutto. Nessuno vi vedrà. Levati di lìGiovannina.
- Sempre così! - borbottò costei ch'era furiosa contro la sorella. - Mi tocca sempre cedere il postoa me!...
- Mamma... lascialo andare... s'è in lutto!... La commedia potrà vederla dal palcoscenico!... - sogghignò Fifì.
- Io?...
Ma essa gli volse le spalle. Mèndola s'era ficcato nel palco prima di tutti gli altriper veder la scena che aveva detto luie faceva la spiegazione a ogni parola. - State attenti!... Ora si scopre che la sorella di latte è figlia di un altro...
- Son cose che succedono! - osservò Canali dall'uscio.
- Zitto! zitto! cattiva lingua!
Tutti gli occhianche quelli delle ragazzesi rivolsero al baronelloil quale finse di non capire. - Se vi seccate!... - borbottò donna Fifì- giacchè state lì come un grullo... volete andarvene?...
- Io?...
- Ecco!... - Interruppe Mèndola trionfante. - Ecco!... capite?
- Son maritato!... - tornò a dire Canali. - Son padre di famiglia... Ma farei volentieri uno sproposito per la prima donna!... Anche il nome ha bello!... Aglae...
- Agli... porri!... che nome!... - sogghignò il barone Mèndola. - Io non saprei come fare... a tu per tu!...
Don Filippo tagliò corto.
- È un'artistona... una prima donna di cartello... Allora si capisce...
- Sicuro- si lasciò scappare incautamente don Ninì per dire qualche cosa.
- Ah!... Piace anche a voi?...
- Certamente... cioè... voglio dire...
- Ditedite pure!... Già lo sappiamo!...
Mèndola fiutò la burrasca e si alzò per svignarsela: - Il resto lo so. Buona sera. Con permessodon Filippo. SentiteCanali...
Per disgrazia la prima donna che doveva tenere gli occhi rivolti al cielo nel declamare: “S'è scritto lassù... dal Fato...“ si trovò a guardare nel palco dei Margarone. Donna Fifì allora non seppe più frenarsi:
- Giàlo sappiamo! Le agglomerate cerimonie!... le melenzose riga!...
- Io?... le melenzose?...
Ma lei scattò inferocitaquasi volesse piantargli i denti in volto:
- Ci vuole una faccia tosta!... Sissignore! la lettera con le melenzose!... eccola qua!... - e gliela fregò sotto il nasoscoppiando a piangere di rabbia. Don Ninì da prima rimase sbalordito. Indi scattò su come una furiacercando il cappello. Sull'uscio s'imbatté in don Filippoche accorreva al rumore.
- Siete uno stupido!... un imbecille!... La bella educazione che avete saputo dare a vostra figlia!... Grazie a Dionon ci metterò più i piedi a casa vostra!
E partì infuriato sbatacchiando l'uscio. Don Filippo che era rimasto a bocca apertaappena il baronello se ne fu andatosi cacciò nel palchettosbraitando contro la moglie alla sua volta:
- Siete una stupida!... Non avete saputo educare le figliuole!... Vedete cosa mi tocca sentirmi dire!... Non dovevate portarmelo in casa quel facchino!...
La rottura fece chiasso. Dopo cinque minuti non si parlava d'altro in tutto il teatro. Poco mancò che la produzione non terminasse a fischi. Il capocomico se la prese colla prima donnache lo guastava con le prime famiglie del paese. Ma lei giurava e spergiurava di non conoscerlo neanche di vistaquel baronee gliene importava assai di lui. L'udirono mastro Cosimo il falegname e quanti erano sul palcoscenico. Don Ninì furibondo andò subito il giorno dopo a cercare Ciollail quale se ne stava pei fatti suoidopo quelle ventiquattr'ore passate in Castello sottochiave.
- Bella figura m'avete fatto fare colle vostre melenzose!... La sa a memoria tutto il paese la vostra lettera!...
- Ebbene? cosa vuol dire? Segno ch'è piaciutase la sanno tutti a memoria!
- È piaciuta un corno! Lei dice che gliene importa assai di me!
- Oh! oh!... È impossibile!... La lettera avrebbe sfondato un muro! Vuol dire che la colpa è vostradon Ninì... Non parlo del vostro fisico... Bisognava accompagnarla con qualche regalucciocaro barone! La polvere spinge la palla! Credevate di far colpo per la vostra bella faccia?... con due baiocchi di carta rasata?... Giacché a me non mi avete dato nullaveh!...
Invano gli amici e i parenti tentarono d'intromettersi onde rappattumare i fidanzati. La mamma ripeteva: - Che vuoi farci?... Gli uomini!... Anche tuo padre!... - Don Filippo la pigliava su un altro tono: - Sciocchezze... scappatelle di gioventù!... Fu l'occasione... la novità... Le prime donne non vengono mica ogni anno... Sei una Margarone alla fin fine! Lui non cambia certo una Margarone con una comica! Poise perdono io che sono offeso maggiormente!...
Ma donna Fifì non si placava. Diceva che non voleva saperne più di coluiuno scioccoun avaraccioil barone Melenzose!... Se mainon le sarebbe mancato un pretendente cento volte meglio di lui... Andava scorbacchiandolo con tuttiamiche e parenti. Don Ninì dalla rabbia avrebbe fatto non so che cosa. Giurava che voleva spuntarla ad ogni costoed avere la prima donnanon fosse altro per dispetto.
- Ah! gliela farò vedere a quella strega! La polvere spinge la palla!...
E mandò a regalare salsicciotticaciocavalloun bottiglione di vino. Empirono la tavola della locanda. Non si parlava d'altro in tutto il paese. Il barone Mèndola narrava che ogni sera si vedevano le Nozze di Cana dal suo buco. Regali sopra regalitanto che la baronessa dovette nascondere la chiave della dispensa. Mastro Titta venne a dire infine a don Ninì:
- Non resiste piùvossignoria! Ha perso la testala prima donna. Ogni seramentre sto a pettinarlanon mi parla d'altro.
- Se mi fa avere la soddisfazione che dico io!... Sotto gli occhi medesimi di donna Fifì voglio avere la soddisfazione! Voglio farla morir tisica!
Fu una delusione il primo incontro. La signora Aglae faceva una parte di povera ciecae aveva il viso dipinto al pari di una maschera. Nondimeno lo accolse come una regina nel bugigattolo dove c'era un gran puzzo di moccolaia e lo presentò a un omaccioneil quale stava frugando dentro il cassonein maniche di camiciae non si voltò neppure.
- Il barone Rubieradistinto cultore... Il signor Pallante celebre artista.
Poi volse un'occhiata alla schiena del celebre artista che continuava a rovistare brontolandoun'altra più lunga a don Ninìe soggiunse a mezza voce:
- Lo conoscevo di già!... Lo vedo ogni sera... in platea!
Egli invece stava per scusarsi che in teatro non era venuto a causa del lutto; ma in quella si voltò il signor Pallante colle mani sporche di polvereil viso impiastricciato anche luie una vescica in testa dalla quale pendevano dei capelli sudici.
- Non c'è- disse con un vocione che sembrava venire di sotterra. - Te l'avevo detto!... accidenti! - E se ne andò brontolando.
Ella guardò intorno in aria di misterocolle pupille stralunate in mezzo alle occhiaie nere; andò a chiudere l'uscio in punta di piedie poscia si voltò verso il giovanecon una mano sul pettoun sorriso pallido all'angolo della bocca.
- È strano come mi batte il cuore!... No... non è nulla... sedete.
Don Ninì cercò una sediacolla testa in fiammeil cuore che gli batteva davvero. Infine si appollaiò sul baulecercando qualche frase appropriatache facesse effettomentre lei bruciava un pezzettino di sughero alla fiamma del lume a olio che fumava.
Sopraggiunse un'altra visitaMommino Neriil quale trovando lì Rubiera diventò subito di cattivo umoree non aprì boccaappoggiato allo stipitesucchiando il pomo del bastoncino. La signora Aglae teneva sola la conversazione: un bel paese... un pubblico colto e intelligente... bella gioventù anche...
- Buona sera- disse Mommino.
- Ve ne andatedi già?...
- Sì... Non potrete muovervi qui dentro... Siamo in troppi...
Don Ninì lo accompagnò con un sogghignocontinuando a suonare la gran cassa sul baule colle calcagna. Ella se ne avvide e alzò le spallecon un sorriso affascinantesospirando quasi si fosse levato un peso dallo stomaco.
Il baronello gongolante incominciò. - Se sono d'incomodo anch'io... - E cercò il cappello che aveva in mano.
- Oh no!... voino! - rispose lei con premurachinando il capo.
- Si può? - chiese la vocetta fessa del tirascene dietro l'uscio.
- No! no! - ripeté la signora Aglae con tal vivacità quasi fosse stata sorpresa in fallo.
- Si va in scena! - aggiunse il vocione del signor Pallante. - Spicciati!
Allora essalevando verso don Ninì il viso rassegnatocon un sorriso triste:
- Lo vedete!... Non ho un minuto di libertà!... Sono schiava dell'arte!...
Don Ninì colse la palla al balzo: L'arte... una bella cosa!... Era il suo regno... il suo altare!... Tutti l'ammiravano!... dei cuori che faceva battere!...
- Ah! sì!... Le ho data tutta me stessa... Me le son data tutta!...
E aprì le bracciavoltandosi verso di luicon tale abbandonocome offrendosi all'artelì su due piediche don Ninì balzò giù dal cassone.
- Badate! - esclamò lei a bassa vocerapidamente. - Badate!...
Aveva le mani tremantiche stese istintivamente verso di luiquasi a farsene schermo. Poi si fregò gli occhireprimendo un sospiroe balbettò come svegliandosi:
- Scusate... Un momento... Devo vestirmi...
E un sorriso malizioso le balenò negli occhi.
Quel seccatore di Mommino Neri era ancor lìappoggiato a una quintache discorreva col signor Pallantegià vestito da recolla zimarra di pelliccia e la corona di carta in testa. Stavolta toccò a don Ninì di farsi scuro in viso. Ellacome lo sapessesocchiuse di nuovo l'usciosporgendo il braccio e l'omero nudi:
- Baronese aspettate alla fine dell'atto... quei versi che desiderate leggere li ho lìin fondo al baule.
No! nessuna donna gli aveva data una gioia simileuna vampata così calda al cuore e alla testa: né la prima volta che Bianca gli s'era abbandonata fra le bracciatrepidante; né quando una Margarone aveva chinato il capo superbomostrandosi insieme a luiin mezzo al mormorìo che suscitavano nella folla. Fu un vero accesso di pazzia. Buccinavasi persino che onde farle dei regali si fosse fatto prestare dei denari da questo e da quello. La baronessadisperatafece avvertire gli inquilini di non anticipare un baiocco al suo figliuolo se no l'avevano a far con lei. - Ah!... ah!... vedranno! Mio figlio non ha nulla. Io non pago di certo!...
C'erano state scene violente fra madre e figlio. Lui ostinato peggio d'un mulotanto più che la signora Aglae non gli aveva lasciato neppur salire la scala della locanda. Infine gli aveva detto il perchéuna seraal buio lì sulla soglia mentre Pallante era salito avanti ad accendere il lume:
- È geloso!... Son sua!... sono stata sua!...
Ed aveva confessato tuttoa capo chinocon la bella voce sonora soffocata dall'emozione. Egliun gran signore diseredato dal genitore a causa di quella passione sventurataaveva amata a lungopazzamentedisperatamente: uno di quegli amori che si leggono nei romanzi; si era dato all'arte per seguirla; aveva sofferto in silenzio; aveva imploratoaveva pianto... Infine una sera... come allora... ancora tutta fremente e palpitante delle emozioni che dà l'arte... la pietà... il sacrificio... non sapeva ella stessa come... mentre il cuore volava lontano... sognando altri orizzonti... altro ideale... Ma dopomai più!... mai più!... S'era ripresa!... vergognosa... pentita... implacabile... Egli che l'amava semprecome prima... più di prima... alla follia... era geloso: geloso di tutto e di tuttidell'ariadel sognodel pensiero... di lui puredon Ninì!...
- Ohè! - si udì il vocione di su la scala. - Li vuoi fritti o al pomodoro?
Sul viso di leidolcemente velato dalla semi-oscuritàerrò un sorriso angelico.
- Vedete?... Sempre così!... Sempre la stessa devozione!...
Ciolla che era il confidente di don Ninì gli disse poi:
- Come siete sciocco! Quello lì è un... pentolaccia! Si pappano insieme la roba che mandate voi e il figlio di Neri.
Infatti aveva incontrato spesso Mommino sul palcoscenicoed anche dinanzi all'uscio della locandasu e giù come una sentinella. Mommino adesso era tutto gentilezze e sorrisi per lui. Quando gli parve proprio di farci una figura scioccamontò in collera.
- Ah!... tu lo vuoi? - gli diss'ella infine con accento febbrile. - Ebbene... ebbene... Se non c'è altro mezzo di provarti quanto io t'amo... Giacché bisogna perdermi ad ogni costo... stasera... dopo la mezzanotte!...
Un odore di stallain quella scaletta buiacogli scalini unti e rotti da tutti gli scarponi ferrati del contado. Lassù in cimaun fil di lucee una figura biancache gli si offrì interabruscamentecon le chiome sparse.
- Tu mi vuoi... baiadera... odalisca?...
C'erano dei piatti sudici sulla tavolaun manto di damasco rabescato sul lettodei garofani e un lume da notte acceso sul canteranodinanzi a un quadrettino della Verginee un profumo d'incenso che svolgevasi da un vasetto di pomata il quale fumava per terra. All'uscio che metteva nell'altra stanza era inchiodato un bellissimo sciallo turcomacchiato d'olio; e dietro lo sciallo turco udivasi il signor Pallante che russava sulla sua gelosia.
Essaspalancando quegli occhi neri che illuminavano la stanzamise un dito sulle labbrae fece segno a Rubiera d'accostarsi.
“Insomma l'ha stregato!“ scriveva il canonico Lupi a mastro-don Gesualdo proponendogli di fare un grosso mutuo al baronello Rubiera. “Don Ninì è pieno di debiti sino al colloe non sa più dove battere il capo... La baronessa giura che sinchè campa lei non paga un baiocco. Ma non ha altri eredie un giorno o l'altro deve lasciargli tutto il suo. Come vedeteun buon affarese avete coraggio...“
“Quanto?“ rispose mastro-don Gesualdo. “Quanto gli occorre al baronello Rubiera? S'è una cosa che si può fare son qua io.“
Più tardicome si seppe in paese della grossa somma che don Gesualdo aveva anticipata al barone Rubieratutti gli davano del mattoe dicevano che ci avrebbe persi i denari. Egli rispondeva con quel sorriso tutto suo:
- State tranquilli. Non li perdo i denari. Il barone è un galantuomo... e il tempo è più galantuomo di lui.
Dice bene il proverbio che la donna è causa di tutti i mali! Commediante poi!
V
Don Ninì aveva sperato di tenere segreto il negozio. Ma sua madre da un po' di tempo non si dava pacevedendolo così mutatodispettososopra pensiericol viso acceso e la barba rasa ogni mattina. La notte non chiudeva occhio almanaccando dove il suo ragazzo potesse trovare i denari per tutti quei fazzoletti di seta e quelle boccettine d'acqua d'odore. Gli aveva messi alle calcagna Rosaria ed Alessi. Interrogava il fattore e la gente di campagna. Teneva sotto il guanciale le chiavi del magazzino e della dispensa. Come le parlasse il cuorepoveretta! Il cugino Limòli era arrivato a indicarle la signora Aglae che scutrettolava tutta in fronzoli. - La vedete? è quella lì. Che ve ne sembraehdi vostra nuora? Siete contenta? - Propriocome le avesse lasciata la jettatura don Diego Traomorendo!
Nei piccoli paesi c'è della gente che farebbe delle miglia per venire a portarvi la cattiva nuova. Una mattina la baronessa stava seduta all'ombra della stoia sul balconeimbastendo alcuni sacchi di canovaccio che Rosaria poi le cuciva alla meglioaccoccolata sullo scalinoaguzzando gli occhi e le labbra perché l'ago non le sfuggisse dalle manacce ruvide voltandosi di tanto in tanto a guardare giù nella stradicciuola deserta.
- E tre! - si lasciò scappare Rosaria vedendo Ciolla che ripassava con quella faccia da uscieresbirciando la casa della baronessa da cima a fondofermandosi ogni due passitornando a voltarsi quasi ad aspettare che lo chiamassero. La Rubiera che seguiva da un pezzetto quel va e vienidi sotto gli occhialisi chinò infine a fissare il Ciolla in certo modo che diceva chiaro: Che fate e che volete?
- Benedicite. - Cominciò ad attaccar discorso lui. E si fermò su due piediappoggiandosi al muro di rimpettocol cappello sull'occipite e in mano il bastone che sembrava la canna dell'agrimensoreaspettando. La baronessa per rispondere al saluto gli domandòfacendo un sorrisetto agrodolce:
- Che fate lì? Mi stimate la casa? Volete comprarla?
- Io no!... Io nosignora mia!...
- Io no! - Tornò a dire più fortevedendo che lei s'era rimessa a cucire. Allora la Rubiera si chinò di nuovo verso la stradicciuolacogli occhiali lucentied entrambi rimasero a guardarsi un momento cosìcome due basilischi.
- Se volete dirmi qualche cosasalite pure.
- Nullanulla- rispose Ciolla; e intanto s'avviava verso il portone. Rosaria tirò la funicella e si mise a borbottare;
- Che vuole adesso quel cristiano? A momenti è ora d'accendere il fuoco. Ma intanto si udiva lo schiamazzo degli animali nel cortile e i passi di Ciolla che saliva adagio adagio. Egli entrò col cappello in testaossequiosoripetendo: Deo gratias! Deo gratias! lodando l'ordine che regnava da per tutto in quella casa.
- Non ne nascono più delle padrone di casa come voisignora baronessa! Ecco! ecco! siete sempre lìa sciuparvi la vista sul lavoro. Ne hanno fatta della roba quelle mani!... Non ne hanno scialacquatano!
La baronessa che aspettava coll'orecchio teso cominciò ad essere inquieta. Intanto Rosaria aveva sbarazzato una seggiola del canovaccio che vi era ammucchiato soprae stava ad ascoltaregrattandosi il capo.
- Va a vedere se la gallina ha fatto l'uovo- disse la padrona. E tornò a discorrere col Ciollapiù affabile del consuetoper cavargli di bocca quel che aveva da dire. Ma Ciolla non si apriva ancora. Parlava del tempodell'annatadel fermento che aveva lasciato in paese la Compagnia d'Armedei guai che erano toccati a lui. - I cenci vanno all'ariasignora miae chi ha fatto il danno invece se la passa liscia. Benedetta voi che ve ne state in casaa badare ai vostri interessi. Fate bene! Avete ragione! Tutto ciò che si vede qui è opera vostra. Non lo dico per lodarvi! Benedette le vostre mani! Vostro maritobuon'anima!... vianon parliamo dei morti... le mani le aveva bucate... come tutti i Rubiera... I fondi coperti di ipoteche... e la casa... Infine cos'era il palazzetto dei Rubiera?... Quelle cinque stanze lì?...
La baronessa fingeva d'abboccare alle lodidandogli le informazioni che volevaaccompagnandolo di stanza in stanzaspiegandogli dove erano stati aperti gli usci che mettevano in comunicazione il nuovo col vecchio.
Ciolla seguitava a guardare intorno cogli occhi da usciere accennando del capodisegnando colla canna d'India: - Per l'appunto! quelle cinque stanze lì. Tutto il resto è roba vostra. Nessuno può metterci le unghie nella roba vostra finché campate... Dio ve la faccia godere cent'anni! una casa come questa... una vera reggia! vasta quanto un convento! Sarebbe un peccato mortalese riuscissero a smembrarvela i vostri nemici... ché ne abbiamo tuttinemici!...
Essache si sentiva impallidirefinse di mettersi a ridere: una risata da fargli montar la mosca al naso a quell'altro.
- Cosa? Ho detto una minchioneria? Nemici ne abbiamo tutti. Mastro-don Gesualdoesempigrazia!...
Quello non vorrei trovarmelo mischiato nei miei interessi...
Fingeva anche lui di guardarsi intorno sospettosoquasi vedesse da per tutto le mani lunghe di mastro-don Gesualdo. - Quellose si è messo in testa di ficcarvisi in casa... a poco a poco... da qui a cent'anni... come fa il riccio...
La baronessa era tornata sul balcone a prendere ariasenza dargli rettaper cavargli di bocca il rimanente. Egli nicchiò ancora un pocodisponendosi ad andarsenecavandosi il cappello per darvi una lisciatinacercando la canna d'India che aveva in manoscusandosi delle chiacchiere colle quali le aveva empito la testa sino a quell'ora.
- Che avete da fareeh? Dovete vestirvi per andare al battesimo della figliuola di don Gesualdo? Sarà un battesimo coi fiocchi... in casa Trao!... Vedete dove va a ficcarsi il diavoloche la bambina di mastro-don Gesualdo va proprio a nascere in casa Trao!... Ci saranno tutti i parenti... una pace generale... Siete parente anche voi...
La baronessa continuava a rideree Ciolla le teneva dietrotutti e due guardandosi in visocogli occhi soli rimasti serii.
- No? Non ci andate? Avete ragione! Guardatevi da quell'uomo! Non vi dico altro! Vostro figlio è una bestia!... Non vi dico altro!...
- Mio figlio ha la sua roba ed io ho la mia... Se ha fatto delle sciocchezze mio figlio pagheràse può pagare... Io no però! Pagherà luicol fatto suocon quelle cinque stanze che avete visto... Non ha altroper disgrazia... Ma io la mia roba me la tengo per me... Son contenta che mio figlio si diverta... È giovane... Bisogna che si diverta... Ma io non pagono!
- Quello che dicono tutti. Mastro-don Gesualdo crede d'essere furbo. Ma stavoltase maiha trovato uno più furbo di lui. Sarebbe bella che gli mantenesse l'amante a don Ninì!... Gli parrebbe di fare le sue follie di gioventù anche lui!...
La baronessadal gran ridereandava tenendosi ai mobili per non cadere. - Ahah!... questa è bella!... Questa l'avete detta giustadon Roberto!... - Ciolla le andava dietro fingendo di ridere anche luispiandola di sottecchiindispettito che se la prendesse così allegramente. Ma Rosariamentre veniva a pigliar la telavide la sua padrona così pallida che stava per chiamare aiuto.
- Bestia! Cosa fai? Perché rimani lì impalata? Accompagna don Roberto piuttosto! - Così Ciolla si persuase ad andarsene finalmentesfogandosi a brontolare colla serva:
- Com'è allegra la tua padrona! Ho piaceresì! L'allegria fa buon sangue e fa vivere lungamente. Meglio! meglio!
Rosariatornando di sopravide la padrona in uno stato spaventevolefrugando nei cassetti e negli armadicolle mani che non trovavano nullagli occhi che non ci vedevanola schiuma alla boccavestendosi in tutta fretta per andare al battesimo del cugino Motta. - Sìci andrò... Sentiremo cos'è... È meglio sapere la verità. - La gente che la vedeva passare per le stradetrafelata e col cappellino di traverso non sapeva che pensare. Nella piazzetta di Sant'Agata c'era una gran curiositàcome giungevano gli invitati al battesimo in casa Traoe don Luca il sagrestano che andava e venivacoi candelieri e gli arnesi sacri sotto il braccio. Speranza ogni momento si affacciava sul ballatoioscuotendo le sottanepiantandosi i pugni sui fianchie si metteva a sbraitare contro quella bambina che le rubava l'eredità del fratello:
- Sarà un battesimo strepitoso! C'è la casa piena... tutta la nobiltà... Noi solino! Non ci andremo... per non fare arrossire i parenti nobili... Non ci abbiamo che vederenoi!... Nessuno ci ha invitati al battesimo di mia nipote... Si vede che non è sangue nostro...
Anche il vecchio Motta s'era rifiutatola mattinaallorché Gesualdo era andato a pregarlo di mettere l'acquasanta alla nipotina. Seduto a tavola - stava mangiando un boccone - gli disse di nolevando in su il fiasco che aveva alla bocca. Poiasciugandosi le labbra col dorso della manogli piantò addosso un'occhiataccia.
- Vacci tu al battesimo della tua figliuola. È affar tuo! Io non son nato per stare fra i signoroni... Voialtri venite a cercarmi soltanto quando avete bisogno di me... per chiudere la bocca alla gente... Nono... quando c'è da guadagnare qualcosa non vieni a cercarmitu!... Lo sai? L'appalto della strada... la gabella...
Mastro Nunzio voleva snocciolare la litania dei rimproveriintanto che ci si trovava. Ma Gesualdoil quale aveva già la casa piena di gentee sapeva che non gli avrebbe mai fatto chinare il capo se aveva detto di nose ne andò colle spalle e il cuore grossi. Non era allegro neppur luipoveracciosebbene dovesse far la bocca ridente ai mirallegro e ai salamelecchi. Però infine con Nanni l'Orbopiù sfacciatoche gli rompeva le tasche chiedendogli i confetti a piè della scalasi sfogò:
- Sì!... Va a vedere!... Va a vedere come s'è storta fin la trave del tettoora ch'è nata una bambina in questa casa!
Barabba e il cacciatore della baronessa Mèndola avevano dato una mano a scoparea spolverarea rimettere in gambe l'altare sconquassatochiuso da tant'anni nell'armadio a muro della sala grande che serviva di cappella. La sala stessa era ancora parata a luttoqual'era rimasta dopo la morte di don Diegocoi ritratti velati e gli alveari coperti di drappo nero torno torno per i parenti venuti al funeralecom'era l'uso nelle famiglie antiche. Don Ferdinandoraso di frescocon un vestito nero del cugino Zacco che gli si arrampicava alla schiena andava ficcando il naso da per tuttocol viso lungole braccia ciondoloni dalle maniche troppo corteinquietosospettosodomandando a ciascuno:
- Che c'è? Cosa volete fare?
- Ecco vostro cognato- gli disse la zia Sganci entrando nella sala insieme a don Gesualdo Motta. - Ora dovete abbracciarvi fra di voie non tenere in corpo il malumorecon quella creaturina che c'è di mezzo.
- Vi salutovi saluto- borbottò don Ferdinando; e gli voltò le spalle.
Ma gli altri parenti che avevano più giudiziofacevano buon viso a don Gesualdo: Mèndolai cugini Zaccotutti quanti. Già i tempi erano mutati; il paese intero era stato sottosopra ventiquattr'oree non si sapeva quel che poteva capitare un giorno o l'altro. Oramaiper amore o per forzamastro-don Gesualdo s'era ficcato nel parentadoe bisognava fare i conti con lui. Tutti perciò volevano vedere la bambina - un fioreuna rosa di maggio. - La zia Rubiera abbracciava Biancacome una mamma che abbia ritrovata la sua creaturaasciugandosi gli occhi col fazzoletto diventato una spugna.
- No! Non ho peli sullo stomaco!... Non mi pareva verodopo d'averti allevata come una figliuola!... Sono una bestia... Son rimasta una contadina... tale e quale mia madrebuon'anima... col cuore in mano...
Bianca tutta adornata sotto il baldacchino del lettonepallida che sembrava di cerasbalordita da tutta quella ressanon sapeva che rispondereguardava la gentestralunatacercava di abbozzare qualche sorrisobalbettando. Suo marito invece faceva la sua parte in mezzo a tutti quegli amici e parenti e mirallegrocol viso aperto e giulivole spalle grosse e bonariel'orecchio teso a raccogliere i discorsi che si tenevano intorno a lui e dietro le sue spalle. La zia Cirmenainfatuatarispondeva a coloro che auguravano la nascita di un bel maschiottopiù tardiche già le femmine sono come la gramignae vi scopano poi la casa del bello e del buono per andare a maritarsi...
- Eh... i figliuoli bisogna pigliarseli come Dio li mandamaschi o femmine... Se si potesse andare a sceglierli al mercato... A don Gesualdo non gli mancherebbero i denari per comprare il maschio.
- Non me ne parlate! - interruppe alla fine la zia Rubiera - Non sapete quel che costino i maschi!... Quanti dispiaceri! Lo so io!...
E continuò a sfogarsi all'orecchio di Biancaaccesa sbirciando di sottecchi don Gesualdo per vedere quel che ne dicesse. Don Gesualdo non diceva nulla. Bianca invececogli occhi chinisi faceva di mille colori.
- Non lo riconosco piùno!... nemmeno io che l'ho fatto!... Ti rammentiche figliuol d'oro?... docileamorosoubbidiente... Adesso si rivolterebbe anche a sua madreper quella donnaccia forestiera... una commediantela conosci? Dicono che ha i denti e i capelli finti... Deve avergli fatta qualche malìa! Commediante e forestieracapisci!... lui non ci vede più dagli occhi... Spende l'osso del collo... La gente cattiva... i birboni anche l'aiutano... Ma io non pagono!... Ohquesto poino!
- Zia! - balbettò Bianca con tutto il sangue al viso.
- Che vuoi farci? È la mia croce! Se sapevo tanto piuttosto...
Don Gesualdo badava a chiacchierare col cugino Zaccotutti e due col cuore in manoamiconi. La baronessa allora spiattellò la domanda che le bolliva dentro:
- È vero che tuo marito gli presta dei denari... sottomano?... L'hai visto venire quida lui?... Di'che ne sai?
- Certocerto- rispose in quel punto don Gesualdo. - I figliuoli bisogna pigliarseli come vengono. - Zacco a conferma mostrò le sue ragazzeschierate in fila come tante canne d'organomodeste e prosperose. - Ecco! io ho cinque figliuolee voglio bene a tutte egualmente!
- Sicuro! - rispose Limòli. - È per questo che non volete maritarle.
Donna Laviniala maggiorevolse indietro un'occhiata brutta. - Ahsiete qui? - disse il barone. - Siete sempre presente come il diavolo nelle litanievoi!
Il marcheseche doveva essere il padrinosi era messa la croce di Malta. Don Luca venne a dire che il canonico era prontoe le signore passarono in salacon un gran fruscìo di setadietro donna Marianna la quale portava la bambina. Dall'uscio aperto vedevasi un brulichìo di fiammelle. Don Ferdinandoin fondo al corridoiofece capolinocurioso. Bianca dalla tenerezza piangeva cheta cheta. Suo marito ch'era rimasto ginocchionicome gli aveva detto la Macrìcol naso contro il murosi alzò per calmarla.
- Zitta... Non ti far scorgere!... Dinanzi a coloro bisogna far buon viso...
Tutt'a un tratto scoppiò giù in piazza un crepitìo indiavolato di mortaletti. Don Ferdinando fuggì via spaventato. Gli altri che assistevano al battesimo corsero al balcone coi ceri in mano. Persino il canonico in cotta e stola. Era Santoil fratello di don Gesualdoil quale festeggiava a quel modo il battesimo della nipotinascamiciatocarponi per terracolla miccia accesa. Don Gesualdo aprì la finestra per dirgli un sacco di male parole:
- Bestia!... Ne fai sempre delle tue!... Bestia!...
Gli amici lo calmarono: - Poveraccio... lasciatelo fare. È un modo d'esprimere la sua allegria...
La zia Sganci trionfante gli mise sulle braccia la figliuola:
- Eccovi Isabella Trao!
- Motta e Trao! Isabella Motta e Trao! - corresse il marchese. Zacco soggiunse ch'era un innesto. Le due famiglie che diventavano una sola. Però don Gesualdo tenendo la bambina sulle braccia rimaneva alquanto imbroncito. Intanto don Lucaaiutato da Barabba e dal cacciatoreserviva le granite e i dolci. La zia Cirmenache aveva portato seco apposta il nipotino La Gurnagli riempiva le tasche e il fazzoletto. Le Zacco invecepoiché la maggiorecontegnosanon aveva preso nulladissero tutte di nouna dopo l'altramangiandosi il vassoio cogli occhi. Don Luca incoraggiava a prendere dicendo:
- È roba fresca. Sono stato io stesso ad ordinarla a Santa Maria e al Collegio. Non s'è guardato a spesa.
- Diavolo! - disse Zaccoche cercava l'occasione di mostrarsi amabile. - Diavolo! Vorrei vedere anche questa!... - Gli altri facevano coro. - Ecco che risorgeva casa Trao. Voleri di Dio. Quella bambina stessa che aveva voluto nascere nella casa materna. Il canonico Lupi arrivò anche a congratularsi col marchese Limòli il quale aveva pensato al mezzo di non lasciare estinguere il casato alla morte di don Ferdinando.
- Sicurosicuro- borbottò don Gesualdo. - Era già inteso... V'avevo detto di sì allora... Quando ho detto una parola...
E andò a deporre la figliuola fra le braccia della moglie che le zie si rubavano a vicenda. La baronessa Mèndola voleva sapere cosa dicessero. Zaccopremurosovenne a chiedere dei confetti per don Ferdinando a cui nessuno aveva pensato.
- Sicurosicuro. È il padrone di casa.
- Vedete? - osservò la zia Rubiera. - A quest'ora c'è già pel mondo chi deve portarvi via la figliuola e la roba.
Scoppiarono delle risate. Donna Agrippina torse la bocca e chinò a terra gli occhioni che dicevano tante cosequasi avesse udito un'indecenza. Don Gesualdo rideva anche luifaceva buon viso a tutti. Alla fine arrischiò anche una barzelletta:
- E quando si marita vi lascia anche il nome dei Trao... La dotenonon ve la lascia!...
La Rubiera che stimò il momento propizioe non voleva perdere l'occasionelo tirò a quattr'occhi vicino al lettomentre si udivano in fondo al corridoio Mèndola e don Ferdinando i quali litigavano ad alta vocee tutti corsero a vedere.
- Sentite don Gesualdo; io non ho peli sulla lingua. Volevo parlarvi di quello scapestrato di mio figlio. Aiutami tuBianca.
- Iozia?...
- Scusatemiio so parlare col cuore in mano... tale e quale come m'ha fatta mia madre... Ora che siete padre anche voidon Gesualdo capirete quel che devo averci in cuore... che spina... che tormento!...
Guardava ora la nipote ed ora suo marito cogli occhi acuticol sorriso semplice e buono che le avevano insegnato i genitori pei negozi spinosi. Don Gesualdo stava a sentire tranquillamente. Biancaimbarazzata da quell'esordiocolla figliuoletta in grembosembrava una statua di cera.
- Saprete le chiacchiere che corronodi Ninì con quella comica? Bene. Di ciò non mi darei pensiero. Non è la prima e l'ultima. Suo padrebuon'animaera fatto anch'esso così. Ma sinora gli ho impedito di commettere qualche sciocchezza. Adesso però ci sono di mezzo i birbonii cattivi compagni... SentiBiancaiola mia figliuolanon l'avrei data da battezzare a quel canonico lì!...
Biancasbigottitamuoveva le labbra smorte senza arrivare a trovar parole. Don Gesualdo invece aveva fatto la bocca a risocome la baronessa scappò in quell'osservazione. Essaudendo che tornava gentegli domandò infine apertamente:
- Ditemi la verità. V'ha fatto chiedere del denaro in prestitoeh?... Gliene avete dato?
Don Gesualdo rideva più forte. Poi vedendo che la baronessa diveniva rossa come un peperonerispose:
- Scusate... scusate... Se mai... Perché non lo domandate a lui?... Questa è bella!... Io non sono il confessore di vostro figlio...
Mèndola irruppe nella camera narrando fra le risate la scena che aveva avuta con quell'orso di don Ferdinando il quale non voleva venire a far la pace col cognato. La Rubierasenza dir altroasciugavasi le labbra col fazzoletto ancora appiccicoso di dolciumementre i parenti toglievano commiato. Nell'andarsene ciascuno aveva una parola d'elogio sul modo in cui erano andate le cose. Donna Marianna diceva alla Rubiera sottovoce che aveva fatto bene a venire anche leiper non dar nell'occhioper far tacere le male lingue... L'altra rispose con un'occhiataccia che donna Agrippina colse al volo:
- M'è giovata assai! Serpi sono! Non vi dico altro. Ci siam messa la vipera nella manica!... Vedrete poi...
Don Gesualdorimasto solo colla moglie tracannò di un fiato un gran bicchiere di acqua frescasenza dir nulla. Bianca disfatta in visoquasi fosse per sentirsi maleseguiva ogni suo movimento con certi occhi che sembravano spaventatistringendo al seno la bambina.
- Te'vuoi bere? - disse lui. - Devi aver sete anche tu.
Ella accennò di sì. Ma il bicchiere le tremava talmente nelle mani che si versò tutta l'acqua addosso.
- Non importanon importa- aggiunse il marito. - Adesso nessuno ci vede.
E si mise ad asciugare il lenzuolo col fazzoletto. Poi tolse in braccio la bambina che vagivaballottandola per farla chetareportandola in giro per la camera.
- Hai vistoehche gente? che parenti affezionati? Ma tuo marito non se lo mettono in tascano.
Fuorinella piazzatutti i vicini erano affacciati per vedere uscire gli invitati. Alla finestra dei Margaronelaggiù in fondoal di sopra dei tettic'era pure dell'altra gente che faceva capolino ogni momento. La Rubiera cominciò a salutare da lontanocol ventagliocol fazzolettomentre discorreva col marchese Limòlitalmente accesa che sembrava volessero accapigliarsi.
- Razze di serpisono! Cime di birbanti! Se lo mangiano in un boccone quello scomunicato di mio figlio!... Ma prima l'ha da fare con me! Sentiteaccompagnatemi un momento dai Margarone... È un pezzo che non ci vediamo... Infine non è un motivo per romperla con dei vecchi amici... una ragazzata... Voi siete un uomo ammodo... e alle volte... una parola a proposito...
Venne ad aprire donna Giovannina con tanto di muso. Si vedeva in fondo l'uscio del salotto buono spalancato; tolte le fodere ai mobili. Un'aria di cerimonia insomma.
- Che c'è? - chiese il marchese entrando. - Cosa accade?
- Io non so nulla! - esclamò donna Giovannina la quale sembrava sul punto di scoppiare a piangere. - Ci sarà gente di làcredo; ma io non ne so nulla.
- Povera bambina! povera bambina! - Il marchese indugiava in anticameraaccarezzando la ragazza. Le aveva preso con due dita il ganascino da canonicoammiccando con maliziaguardandosi intorno per dirle sottovoce:
- Che vuoi farci? Pazienza! Chi primo nasce primo pasce. Ci sarà donna Fifìcolla mammaa ricevere le visiteeh? Don Bastianoeh? il Capitan d'Arme?...
Don Bastiano infatti era lìnel salottovestito in borghesecon abiti nuovi fiammanti che gli rilucevano addossoraso di frescoseduto sul canapè accanto alla mamma Margaronecome uno sposofacendo scivolare di tanto in tanto un'occhiata languida e sentimentale verso la ragazzalisciandosi i baffoni novelli che non volevano piegarsi. Donna Fifìal vedere giungere la Rubierasi ringalluzzìsuperbiosatubando sottomano col forestiero per farle dispetto.
- Ohoh- disse il marchesesalutando don Bastiano ch'era rimasto un po' grullo. - Siete ancora qui? Bene! bene!
Ed incominciò a discorrere col capitanointanto che le signore chiacchieravano tutte in una voltadomandandogli perché la Compagnia d'Arme fosse partita senza di luise aveva intenzione di fermarsi un pezzettose era contento del paese e voleva lasciare le spalline. Don Bastiano si teneva sulle generalilodando il paesaggioil climagli abitantisottolineando le parole con certi sguardi espressivi rivolti a donna Fifìla quale fingeva di guardare fuori dal balcone cogli occhi pieni di poesiae chinava il capo arrossendo a ciascuno di quei complimentiquasi fossero a lei dedicati. Il marchese domandò a un tratto che n'era di don Filippoe gli risposero che era uscito per condurre a spasso Nicolino.
- Ahbene! bene!
La Rubiera si morsicava le labbra aspettando che il cugino Limòli avviasse il discorso sul tema che sapeva. Ma intanto osservava di sottecchi le arie languide di donna Fifìla quale sembrava struggersi sotto le occhiate incendiarie di don Bastiano Stangafamee non poteva star ferma sulla seggiolacol seno piatto ansante come un manticee i piedini irrequieti che dicevano tante cose affacciandosi ogni momento dal lembo del vestito. La conversazione languiva. Si parlò del battesimo e della gente che c'era stata. Ma ciascuno pensava intanto ai fatti suoichiacchierando del più e del menocercando le parolecol sorriso distratto in bocca. Solo il marchese sembrava che pigliasse un grande interesse ai discorsi del capitanoquasi non fosse fatto suo. Poisbirciando il viso rosso di donna Giovannina che stava a spiare dall'uscio socchiusola chiamò a voce alta.
- Avantiavantibella figliuola. Vogliamo vedere quella bella faccia. Siamo qui noi soliin famiglia...
La mamma e la sorella maggiore fulminarono due occhiataccie addosso alla ragazzala quale rimaneva sull'uscionascondendo le mani di serva sotto il grembiulevergognosa di esser stata scoperta a quel modovestita di casa. Limòlisenza accorgersi di nulladomandava sottovoce a donna Bellonia:
- Quando la maritiamo quella bella figliuola? Prima tocca alla maggioreè naturale. Ma poi ricordatevi che ci son qua io per fare il sensale... gratis et amoreben inteso... Siamo amici vecchi!...
Donna Bellonia andava facendogli li occhiaccisebbene il marchese fingesse di non badarci. Poi gli disse sottovoce:
- Cosa dite!... che idee da metterle in testa!... Ancora è troppo giovane... quasi quasi ha ancora il vestito corto...
- Vedo! vedo! - rispose il marchese sbirciando le calze bianche di donna Giovannina. Donna Fifì aveva condotto il capitano ad ammirare i suoi fiori sul balcone. Colse un bel garofanol'odorò a lungo socchiudendo gli occhie glielo porse. - Vedovedo- ripeté il vecchietto.
La Rubiera allora volle accomiatarsimasticando un sorrisocoi fiori gialli che le fremevano sul cappellino. Intanto che le signore barattavano baci ed abbracciil marchese si rivolse al capitano.
- Mi congratulo!... Mi congratulo tanto... davvero... don Bastiano.
- Perché?... Di che cosa?... - Il capitano sorpreso e imbarazzato cercava una botta di risposta. Ma l'altro gli aveva già voltato le spallesalutava le signore con una parola gentile per ciascuna; accarezzava paternamente donna Giovannina che teneva ancora il broncio.
- Che c'è? che c'è? Cosa vuol dire? Le ragazze devono stare allegre. Hai inteso tua madre? Dice che hai tempo di crescere. Sudunque! allegra!
La Rubiera sentivasi scoppiare sotto la mantiglia; dopo che si fu voltata indietro a salutare colla mano dalla strada tutti i Margarone schierati sul terrazzino prese a borbottare:
- Avete capitoeh?
- Diamine! Non ci voleva molto. Anche per la Giovannina bisogna mettersi il cuore in pace...
- Ma sìma sì! Con tanto piacere me lo metto il cuore in pace... Una civetta!... Avete visto il giuochetto del garofano? Saremmo stati freschi mio figlio ed io... Quasi quasi se lo meritava! Scomunicato! Nemico di sua madre stessa!...
Lì a due passi si imbatterono in Canaliche andava dai Margaronee aveva visto da lontano i baciamani fra la strada e il terrazzo. Canali fece un certo visoe fermò la baronessa per salutarlamenando il discorso per le lunghesgranandole in faccia due occhi curiosi.
- Siete stata da donna Belloniaeh? Avete fatto bene. Un'amicizia antica come la vostra!... Peccato che don Ninì...
La baronessa cercava di scavar terreno anch'essain aria disinvoltafacendosi vento e menando il can per l'aia. - Infine... delle sciocchezze... sciocchezze di gioventù...
- Nonoperdonate! - ribatté Canali. - Vorrei veder voi stessa!... Un padre deve aprire gli occhi per sapere a chi dà la sua creatura... Non dico per vostro figlio... Un buon giovane... un cuor d'oro... Il male è che s'è lasciato abbindolare... circondato da falsi amici... Di bricconi ce ne son sempre... Gli hanno carpito qualche firma...
La baronessa lo piantò lì senz'altro. - Sentite? Vedete? - andava brontolando col cugino Limòli. Poscia piantò anche lui che non poteva più tenerle dietro. - Vi salutovi saluto - E corse dal notaro Neripallida e trafelataper vedere... per sentire... Il notaro non sapeva nulla... nulla di positivo almeno.
- Sapetedon Gesualdo è volpe fina... Son cose queste che si fanno sottomanose mai... Avranno fatto il contratto da qualche notaio forestiere... Il notaro Sghembri di Militello dicono... Ma via... Non c'è motivo poi di mettersi in quello stato per una cosa simile... Avete una faccia che non mi piace.
Rosariach'era a ripulire il pollaio quando la sua padrona era tornata a casaudì a un tratto dal cortile un urlo spaventosocome stessero sgozzando un animale grosso di soprauna cosa che le fece perdere le ciabatte correndo a precipizio. La baronessa era ancora lìdove aveva cominciato a spogliarsiappoggiata al cassettonepiegata in due quasi avesse la colicagemendo e lamentandosimentre le usciva bava dalla boccae gli occhi le schizzavano fuori:
- Assassino! Figlio snaturato!... No! non me la faccio mangiare la mia roba!... Piuttosto la lascio ai poveri... ai conventi... Voglio far testamento!... Voglio far donazione!... Chiamatemi il notaro... subito!...
Don Ninì stava bisticciandosi colla sua Aglaein quella stanzaccia di locanda che per lui era diventata un inferno dal momento in cui s'era messo sulle spalle il debito e mastro-don Gesualdo. Il letto in disordinei vestiti sudicii capelli spettinatile carezze stesse di leii manicaretti cucinati dall'amico Pallantegli si erano mutati in velenodacché gli costavano cari. Al veder giungere Alessi che veniva a chiamarloparlando di notaro e di donazionesi fece pallido a un tratto. Invano la prima donna gli si avvinghiò al collodiscintasenza badare al Pallante che accorreva dalla cucina né ad Alessi il quale spalancava gli occhi e si fregava le mani.
- Ninì! Ninì mio!... Non mi abbandonare in questo stato!...
- Malannaggia! Lasciatemi andare... tutti quanti siete!... Vi pare che si scherzi!... Quella donna è capace di tutto!
Don Ninìripreso interamente dall'amor della robanon si lasciò commuovere neppure dalla scena dello svenimento. Piantò lì dov'era la povera Aglae lunga distesa sul pavimento come all'ultimo atto di una tragediae Pallante che le tirava giù il vestito sulle calzeper correre a casa senza cappello. Colà ci fu una scena terribile fra madre e figlio. Lui da prima cercava di negare; poi montò su tutte le furiesi lagnò di esser tenuto come uno schiavopeggio di un ragazzosenza due tarì da spendere; e la baronessa minacciava di andare lei in persona dal notaroper disporre della sua robacosì com'erain sottanaa quell'ora stessase non volevano mandarlo a chiamare. Don Ninì allora scese a dar tanto di chiavistello al portonee si mise la chiave in tascaminacciando di rompere le ossa al garzonese fiatava.
- Ah! questa è la ricompensa! - borbottò Alessi. - Un'altra volta ci vò davvero dal notaio.
Finalmenteper amore o per forzariescirono a mettere in letto la baronessala quale si dibatteva e strillava che volevano farla morire di colpo per scialacquare la sua roba: - Mastro-don Gesualdo!... sì!... Lui se lo mangia il fatto mio! - Il figliuolo colle buone e colle cattive tentava di calmarla: - Non vedete che state poco bene? Volete ammalarvi per farmi dar l'anima al diavolo? - Poi tutta la notte non chiuse occhioalzandosi ogni momento per correre ad origliare se sua madre strillava ancoraspaventato all'idea che udissero i vicini e gli venissero in casa colla giustizia e il notaromaledicendo in cuor suo la prima donna e chi gliela aveva messa fra i piediturbatose si appisolava un momentoda tanti brutti sogni: mastro-don Gesualdoil debitodella gente che gli si accalcava addosso e gli empiva la casauna gran folla.
Rosaria venne a bussargli all'uscio di buon mattino:
- Don Ninì! signor barone! venite a vedere... La padrona ha perso la parola!... Io ho paurase vedeste...
La baronessa stava lunga distesa sul lettosimile a un bue colpito dal macellaiocon tutto il sangue al viso e la lingua ciondoloni. La bilei dispiaceritutti quegli umori cattivi che doveva averci accumulati sullo stomacole gorgogliavano dentrole uscivano dalla bocca e dal nasole colavano sul guanciale. E come volesse aiutarsiancora in quello statocome cercasse di annaspare colle mani gonfie e grevicome cercasse di chiamare aiutocoi suoni inarticolati che s'impastavano nella bava vischiosa.
- Mamma! mamma mia!
Don Ninì atterritoancora gonfio dal sonnoandava strillando per le stanzedandosi dei pugni sulla testacorrendo al balcone e disperandosi mentre i vicini bussavano e tempestavano che il portone era chiuso a chiave. Da lì a un po'medicobarbiereparenticuriosila casa si riempì di gente. Proprio il sogno di quella notte. Don Ninì narrava a tutti la stessa cosaasciugandosi gli occhi e soffiandosi il naso gonfio quasi suonasse la tromba. Appena vide giungere anche il notaro Neri non si mosse più dal capezzale della mammadomandando al medico ogni momento:
- Che ve ne sembradottore? Riacquisterà la parola?
- Col tempocol tempo- rispose infine il medico seccato. - Diaminecredete che sia stato come fare uno starnuto?
Don Ninì non si riconosceva più da un giorno all'altro; colla barba lungai capelli arruffatifisso al capezzale della madreoppure arrabattandosi nelle faccende di casa. Non usciva una fava dalla dispensa senza passare per le sue mani. Tant'è vero che i guai insegnano a metter giudizio. Sua madre stessa glielo avrebbe dettose avesse potuto parlare. Si vedeva dal modo in cui gli guardava le manicol sangue agli occhiogni volta che veniva a prendere le chiavi appese allo stipite dell'uscio. E anche luiadesso che la roba passava per le sue manicomprendeva finalmente i dispiaceri che aveva dato alla povera donna; se ne pentivacercava di farseli perdonarecolla pazienzacolle cure amorevoli standole sempre intornosorvegliando l'inferma e la gente che veniva a farle visitaimpallidendo ogni volta che la mamma tentava di snodare lo scilinguagnolo dinanzi agli estranei. Sentiva una gran tenerezza al pensare che la povera paralitica non poteva muoversi né parlare per togliergli la roba siccome aveva minacciato.
- Nononon lo farà! Son cose che si dicono in un momento di collera... Vorrei vederla!... Sono infine il sangue suo... Morirebbe d'accidente lei per la primase dovesse lasciare la sua roba a questo e a quello...
Parte terza
I
L'Isabellinaprima ancora di compire i cinque annifu messa nel Collegio di Maria. Don Gesualdo adesso che aveva delle pietre al solee marciava da pari a pari coi meglio del paesecosì voleva che marciasse la sua figliuola: imparare le belle maniereleggere e scriverericamareil latino dell'uffizio anchee ogni cosa come la figlia di un barone; tanto più chegrazie a Diola dote non le sarebbe mancataperché Bianca non prometteva di dargli altri eredi. Essa dopo il parto non s'era più rifatta in salute; anzi deperiva sempre più di giorno in giornorosa dal baco che s'era mangiati tutti i Traoe figliuoli era certo che non ne faceva più. Un vero gastigo di Dio. Un affare sbagliatosebbene il galantuomo avesse la prudenza di non lagnarsene neppure col canonico Lupi che glielo aveva proposto. Quando uno ha fatto la minchioneriaè meglio starsi zitto e non parlarne piùper non darla vinta ai nemici. - Nullanulla gli aveva fruttato quel matrimonio; né la dotené il figlio maschioné l'aiuto del parentadoe neppure ciò che gli dava prima Diodataun momento di svago un'ora di buonumorecome il bicchiere di vino a un pover'uomo che ha lavorato tutto il giornolà! Neppur quello! - Una moglie che vi squagliava fra le maniche vi faceva gelare le carezzecon quel visocon quegli occhicon quel fare spaventatocome se volessero farla cascare in peccato mortale ogni volta e il prete non ci avesse messo su tanto di croce prima quand'ella aveva detto di sì... Bianca non ci aveva colpa. Era il sangue della razza che si rifiutava. Le pesche non si innestano sull'olivo. Ellapoverettachinava il visoarrivava ad offrirlo anzitutto rossoper ubbidire al comandamento di Diocome fosse pagata per farlo...
Ma egli non si lasciava illudereno. Era villanoma aveva il naso fino di villano pure! E aveva il suo orgoglio anche lui. L'orgoglio di quello che aveva saputo guadagnarsicolle sue manitutto opera suaquei lenzuoli di tela fine in cui dormivano voltandosi le spallee quei bocconi buoni che doveva mangiare in punta di forchettasotto gli occhi della Trao...
Almeno in casa sua voleva comandar le feste. E se Domeneddio l'aveva gastigato giusto nei figliuoli che voleva mettere al mondo secondo la sua leggedandogli una bambina invece dell'erede legittimo che aspettavaIsabella almeno doveva possedere tutto ciò che mancava a luiessere signora di nome e di fatto. Biancaquasi indovinasse d'aver poco da viverenon avrebbe voluto separarsi dalla sua figliuoletta. Ma il padrone era luidon Gesualdo. Egli era buonoamorevolea modo suo; non le faceva mancare nullamedicispezialitale e quale come se gli avesse portato una grossa dote. - Bianca non aveva parole per ringraziare Iddio quando paragonava la casa in cui il Signore l'aveva fatta entrare con quella in cui era nata. Lì suo fratello stesso desiderava di giorno il pane e di notte le coperte... Sarebbe morto di stenti se i suoi parenti non l'avessero aiutato con bella manierasenza farglielo capire. Soltanto da lei don Ferdinando non voleva accettare checchessiamentre don Gesualdo non gli avrebbe fatto mancar nullacol cuore largo quanto un marequell'uomo! Gli stessi parenti di lei glielo dicevano: - Tu non hai parole per ringraziare Dio e tuo marito. Lascia fare a lui ch'è il padronee cerca il meglio della tua figliuola.
Poi considerava ch'era il Signore che la punivache non voleva quella povera innocente nella casa di suo maritoe la notte inzuppava di lagrime il guanciale. Pregava Iddio di darle forzae si consolava alla meglio pensando che soffriva in penitenza dei suoi peccati. Don Gesualdoche aveva tante altre cose per la testatanti interessi grossi sulle spalleed era abituato a vederla sempre cosìcon quel visonon ci badava neppure. Qualche volta che la vedeva alzarsi più smortapiù disfatta del solitole diceva per farle animo:
- Vedrai che quando avrai messo in collegio la tua bambina sarai contenta tu pure. È come strapparsi un dente. Tu non puoi badare alla tua figliuolacolla poca salute che hai. E bisogna che quando sarà grande ella sappia tutto ciò che sanno tante altre che sono meno ricche di lei. I figliuoli bisogna avvezzarli al giogo da piccoliciascuno secondo il suo stato... Lo so io!... E non ho avuto chi mi aiutasseio! Quella piccina è nata vestita.
Nondimenoall'ultimo momento vi furono lagrime e piagnisteiquando accompagnarono l'Isabellina al parlatorio del monastero. Bianca s'era confessata e comunicata. Ascoltò la messa ginocchionisentendosi mancaresentendosi strappare un'altra volta dalle viscere la sua creatura che le si aggrappava al collo e non voleva lasciarla.
Don Gesualdo non guardò a spesa per far stare contenta Isabellina in collegio: dolcilibri colle figureimmagini di santinoci col bambino Gesù di cera dentroun presepio del Bongiovanni che pigliava un'intera tavola: tutto ciò che avevano le figlie dei primi signorila sua figliuola l'aveva; e i meglio bocconile primizie che offriva il paesele ciriegie e le albicocche venute apposta da lontano. Le altre ragazzette guardavano con tanto d'occhie soffocavano dei sospiri grossi così. La minore delle Zaccoe le Mèndola di seconda manole quali dovevano contentarsi delle cipolle e delle olive nere che passava il convento a merendasi rifacevano parlando delle ricchezze che possedevano a casa e nei loro poderi. Quelle che non avevano né casa né poderitiravano in ballo il parentado nobileil Capitano Giustiziere ch'era fratello della mammala zia baronessa che aveva il cacciatore colle pennei cugini del babbo che possedevano cinque feudi l'uno attaccato all'altronello stato di Caltagirone. Ogni festaogni Capo d'annocome la piccola Isabella riceveva altri regali più costosiun crocifisso d'argentoun rosario coi gloriapatri d'oroun libro da messa rilegato in tartaruga per imparare a leggerenascevano altre guerricciuolealtri dispettuccidelle alleanze fatte e disfatte a seconda di un dolce e di un'immagine data o rifiutata. Si vedevano degli occhietti già lucenti d'alterigia e di gelosiadei visetti accesidei piagnisteiche andavano poi a sfogarsi nell'orecchio delle mammein parlatorio. Fra tutte quelle piccinein tutte le famigliesuccedeva lo stesso diavoleto che mastro-don Gesualdo aveva fatto nascere nei grandi e nel paese. Non si sapeva più chi poteva spendere e chi no. Una gara fra i parenti a buttare il denaro in frascheriee una confusione generale fra chi era stato sempre in prima filae chi veniva dopo. Quelli che non potevanoproprioo si seccavano a spendere l'osso del collo pel buon piacere di mastro-don Gesualdosi lasciavano scappare contro di lui certe allusioni e certi motteggi che fermentavano nelle piccole teste delle educande. Alla guerra intestina pigliavano parte anche le monachesecondo le relazionile simpatieil partito che sosteneva oppure voleva rovesciare la superiora. Ci si accaloravano fin la portinaiafin le converse che si sentivano umiliate di dover servire senz'altro guadagno anche la figliuola di mastro-don Gesualdouno venuto su dal nullacome loroarricchito di ieri. Le nimicizie di fuorile discordiele lotte d'interessi e di vanitàpassavano la clausuraoccupavano le ore d'oziosi sfogavano fin là dentro in pettegolezziin rappresagliein parole grosse. - Sai come si chiama tuo padre? mastro-don Gesualdo. - Sai cosa succede a casa tua? che hanno dovuto vendere una coppia di buoi per seminare le terre. - Tua zia Speranza fila stoppa per conto di chi la pagae i suoi figliuoli vanno scalzi. - A casa tua c'è stato l'usciere per fare il pignoramento. - La piccola Alimena arrivò a nascondersi nella scala del campanileuna domenicaper vedere se era vero che il padre d'Isabella portasse la berretta.
Egli trovava la sua figliuoletta ancora rossacol petto gonfio di singhiozzivolgendo il capo timorosa di veder luccicare dietro ogni grata gli occhietti maliziosi delle altre piccineguardandogli le mani per vedere se davvero erano sporche di calcinatirandosi indietro istintivamente quando nel baciarla la pungeva colla barba ispida. Tale e quale sua madre. - Così il pesco non s'innesta all'ulivo. - Tante punture di spillo; la stessa cattiva sorte che gli aveva attossicato sempre ogni cosa giorno per giorno; la stessa guerra implacabile ch'era stato obbligato a combattere sempre contro tutto e contro tutti; e lo feriva sin lìnell'amore della sua creatura. Stava zittonon lagnavasiperché non era un minchione e non voleva far ridere i nemici; ma intanto gli tornavano in mente le parole di suo padregli stessi rancorile stesse gelosie. Poi rifletteva che ciascuno al mondo cerca il suo interessee va per la sua via. Così aveva fatto lui con suo padrecosì faceva sua figlia. Così dev'essere. Si metteva il cuore in pacema gli restava sempre una spina in cuore. Tutto ciò che aveva fatto e faceva per la sua figliuola l'allontanava appunto da lui: i denari che aveva speso per farla educare come una signorale compagne in mezzo alle quali aveva voluto farla crescerele larghezze e il lusso che seminavano la superbia nel cuore della ragazzinail nome stesso che le aveva dato maritandosi a una Trao - bel guadagno che ci aveva fatto! - La piccina diceva sempre: - Io son figlia della Trao. Io mi chiamo Isabella Trao.
La guerra si riaccese più viva fra le ragazze quando si maritò don Ninì Rubiera: - S'è vero che siete parentiperché tuo zio non ti ha mandato i confetti? Vuol dire che voialtri non vi vogliono per parenti. - L'Isabellinache rispondeva già come una granderibatté:
- Mio padre me li comprerà lui i confetti. Ci siamo guastati coi Rubiera perché ci devono tanti denari. - La figlia della ceraiuolach'era del suo partitoaggiunse tante altre storie: - Il baronello era uno spiantato. La Margarone non aveva più voluto saperne. Sposava donna Giuseppina Alòsi più vecchia di luiperché non aveva trovato altroper amor dei denari: tutto ciò che narravasi nella bottega di sua madrein ogni caffèin ogni spezieriadi porta in porta.
Nel paese non si parlava d'altro che del matrimonio di don Ninì Rubiera. - Un matrimonio di convenienza! - diceva la signora Capitana che parlava sempre in punta di forchetta. Cogli annila Capitana aveva preso anche i vizii del paese; occupavasi dei fatti altrui ora che non aveva da nasconderne dei propri. Allorchè incontrava il cavalier Peperito gli faceva un certo visetto malizioso che la ringiovaniva di vent'annidei sorrisi che volevano indovinare molte cosescrollando il capooffrendosi graziosamente ad ascoltare le confidenze e gli sfoghi gelosiminacciando il cavaliere col ventagliocome a dirgli ch'era stato un gran discolaccio luie se si lasciava adesso portar via l'amante era segno che ci dovevano essere state le sue buone ragioni... prima o poi...
- No! - ribatteva Peperito fuori della grazia di Dio. - Né prima né poi! Questo potete andare a dirglielo a donna Giuseppina! Se non ho potuto comandare da padrone non voglio servire nemmeno da comodinocapite?... fare il gallo di razza... capite? Su di ciò donna Giuseppina potrà mettersi il cuore in pace!
Adesso sciorinava in piazza tutte le porcherie dell'Alòsiche se vi mandava a regalare per miracolo un paniere d'uva voleva restituito il paniere; e vendeva sottomano le calze che facevadelle calze da serva grosse un dito- essa gliele aveva fatte anche vedere sulla forma per stuzzicarlo... per strappargli ciò che faceva comodo a lei... Ma luino!...
Insommaandava raccontandone di cotte e di crude. Corsero anche delle sante legnate al Caffè dei Nobili. Ciolla gli stava alle calcagna per raccogliere i pettegolezzi e portarli in giro alla sua volta. Un giorno poi fu una vera festa per luiquando si vide arrivare in paese la signora Aglae che veniva insieme al signor Pallante a fare uno scandalo contro il barone Rubieraa riscuotere ciò che le spettavase il seduttore non voleva vedersela comparire dinanzi all'altare. Essa giungeva apposta da Modicasputando fieleincerettatadipintacarica di piume di gallo e di pezzi di vetrotirandosi dietro la prova innocente della birbonata di don Ninìuna bambinella ch'era un amore. Così la gente diceva che don Ninì era sempre stato un donnaiuoloe se sposava l'Alòsiche avrebbe potuto essergli madreci dovevano essere interessi gravi. Chi spiegava la cosa in un modo e chi in un altro. Il baronelloquelli che s'affrettarono a fargli i mirallegro onde tirargli di bocca la verità verase li levò dai piedi in poche parole. La Sganci che aveva combinato il negozio stava zitta colle amiche le quali andavano apposta a farle visita. Don Gesualdo ne sapeva forse più degli altrima stringevasi nelle spalle e se la cavava con simili risposte:
- Che volete? Ciascuno fa il suo interesse. Vuol dire che il barone Rubiera ci ha trovato il suo vantaggio a sposare la signora Alòsi.
La verità era che don Ninì aveva dovuto pigliarsi l'Alòsi per salvare quel po' di casa che don Gesualdo voleva espropriargli. È vero che adesso era diventato giudiziosotutto dedito agli affari; ma sua madresepolta viva nel seggiolone non lo lasciava padrone di un baiocco; si faceva dar conto di tutto; voleva che ogni cosa passasse sotto i suoi occhi; senza poter parlaresenza potersi muoveresi faceva ubbidire dalla sua gente meglio di prima. E attaccata alla sua roba come un'ostricaostinandosi a vivere per non pagare. Il debito intanto ingrossava d'anno in anno: una cosa che il povero don Ninì ci perdeva delle nottate interesenza poter chiudere occhioalle volte: e alla scadenzacapitale e usurarappresentavano una bella somma. Il canonico Lupiche andò in nome del baronello a chiedere dilazione al pagamentotrovò don Gesualdo peggio di un muro: - A che giuoco giochiamo canonico mio? Sono più di nove anni che non vedo né frutti né capitale. Ora mi serve il mio denaroe voglio esser pagato.
Don Ninì pel bisogno scese anche all'umiliazione d'andare a pregare la cugina Biancadopo tanto tempo. La prese appunto da lontano. - Tanto tempo che non s'erano visti! Lui non aveva faccia di comparirle dinanziin parola d'onore! Non cercava di scolparsi. Era stato un ragazzaccio. Ora aveva aperto gli occhitroppo tardiquando non c'era più rimedioquando si trovava sulle spalle il peso dei suoi errori. Ma proprio non poteva pagare in quel momento. - Son galantuomo. Ho di che pagare infine. Tuo marito sarà pagato sino all'ultimo baiocco. Ma in questo momento proprio non posso! Tu sai com'è fatta tua zia! che testa dura! Ne abbiamo avuti dei dispiaceri per quella testa dura! Ma infine non può campare eternamentepoverettacom'è ridotta...
Bianca era rimasta senza fiato al primo vederlosenza parolefacendosi ora pallida e ora rossa. Non sapeva che direbalbettavasudava freddoaveva una convulsione nelle mani che cercava di dissimularestirando macchinalmente le due cocche del grembiule. A un tratto ebbe uno sbocco di sangue.
- Cos'è? cos'è? Qualcosa alle gengive? Ti sei morsicata la lingua?
- No- rispose lei. - Mi viene di tanto in tanto. L'aveva anche don Diegoti rammenti? Non è nulla.
- Benebene. Intanto fammi questo piacere; parlane a tuo marito. In questo momento proprio non posso... Ma son galantuomomi pare!... Mia madreda qui a cent'anninon ha a chi lasciare tutto il suo.
Bianca cercava di scusarsi. - Suo marito era il padrone. Faceva tutto di testa proprialui. Non voleva che gli mettessero il naso nelle sue cose. - Allora perché sei sua moglie? - ribatté il cugino. - Bella ragione! Uno che non era degno di alzarti gli occhi in viso!... Deve ringraziare Iddio e l'ostinazione di mia madre se gli è toccata questa fortuna!... Dunque farai il possibile per indurlo ad accordarmi questa dilazione?
- E tu cosa gli hai detto? - domandò don Gesualdo trovando la moglie ancora agitata dopo quella visita.
- Nulla... Non so... Mi son sentita male...
- Bene. Hai fatto bene. Sta tranquilla che agli affari ci penso io. Serpi nella manica sono i parenti... Hai visto? Cercano di tesolo quando ne hanno bisogno; ma del resto non gli importa di sapere se sei morta o viva. Lascia fare a me che la risposta gliela mando coll'uscierea tuo cugino...
Così era venuto quel matrimonioché il barone Rubiera prima aveva messo sottosopra cielo e terra per trovare i denari da pagare don Gesualdo; e infine donna Giuseppina Alòsila quale aveva delle belle terre al soleaveva dato l'ipoteca. Don Gesualdoottenuta la sua brava iscrizione sulle terrenon parlò più di aver bisogno del denaro.
- Col tempo... - confidò alla moglie. - Lasciali tranquilli. Loro non pagano né frutti né capitalie col tempo quelle terre serviranno per la dote d'Isabella. Che te ne pare? Non è da ridere? Lo zio Rubiera che pensa a mettere insieme la dote della tua figliuola!...
Egli aveva di queste uscite buffe alle volteda solo a solo con sua mogliequando era contento della sua giornataprima di coricarsimettendosi il berretto da nottein maniche di camicia. A quattr'occhi con lei mostravasi proprio quel che erabonaccionecolla risata larga che mostrava i denti grossi e bianchipassandosi anche la lingua sulle labbraquasi gustasse già il dolce del boccone buonoda uomo ghiotto della roba.
Isabella fatta più grandicella passò dal Collegio di Maria al primo educatorio di Palermo. Un altro strappo per la povera mamma che temeva di non doverla più rivedere. Il maritoonde confortarlain quello statole disse: - Vedi noi ci ammazziamo per fare il suo megliociascuno come puòed essa un giorno non penserà neppure a noi. Così va il mondo. Anzi devi metterti in testa che tua figlia non puoi averla sempre vicina. Quando si marita anderà via dal paese. Qui non ce n'è uno che possa sposarlacolla dote che le darò. Se ho fatto tanto per leivoglio almeno sapere a chi lo dò il sangue mio. Adesso che ti parlo è già nato chi deve godersi il frutto delle mie fatichesenza dirmi neppure grazie.
Aveva il cuore grosso anche luipoveraccioe se sfogavasi a quattr'occhi colla moglie alle volteper discorrere non si rifiutava però a fare ciò ch'era debito suo. Andava a trovare la sua ragazza a Palermoquando potevaquando i suoi affari lo permettevanoanche una volta all'anno. Isabella s'era fatta una bella fanciullaun po' gracile ancorapallidinama con una grazia naturale in tutta la personcina gentilela carnagione delicata e il profilo aquilino dei Trao; un fiore di un'altra piantain poche parole; roba fine di signori che suo padre stesso quando andava a trovarla provava una certa suggezione dinanzi alla ragazza la quale aveva preso l'aria delle compagne in mezzo a cui era stata educatatutte delle prime famiglieciascuna che portava nell'educandato l'alterigia baronale da ogni angolo della Sicilia. Al parlatorio lo chiamavano il signor Trao. Quando volle saperne il perchéIsabella si fece rossa. La stessa storia del Collegio di Maria anche lì. E la sua figliuola aveva dovuto soffrire le stesse umiliazioni a motivo del parentado. Per fortuna la signorina di Leyrache Isabella s'era affezionata coi regalucciaveva preso a difenderla a spada tratta. Essa conosceva di nome la famiglia dei Traouna delle prime laggiùove il duca suo fratello possedeva dei feudi. La duchessina aveva il nome e il parlare altosebbene stesse in collegio senza pagaretalché le compagne lasciarono passare il Trao. Ma don Gesualdo dovette lasciarlo passare anche luie farsi chiamare cosìper amore della figliuolaquando andava a trovarla. - Vedrai come si è fatta bella la tua figliuola! - tornava poi a dire alla moglie che era sempre malaticcia.
Essa la rivide finalmente all'uscire del collegionel 1837quando in Palermo cominciavano già a correre le prime voci di colèrae don Gesualdo era corso subito a prenderla. Fu come un urto al petto per la povera madredopo tanto tempoquando udì fermarsi la lettiga dinanzi al portone. - Figlia mia! figlia mia! - colle braccia stesele gambe malfermeprecipitandosi per la scala. Isabella saliva correndocolle braccia aperte anche lei. - Mamma! mamma! - E poi avvinghiate l'una al collo dell'altrala madre sballottando ancora a destra e a sinistra la sua creatura come quand'era piccina.
Indi vennero le visite ai parenti. Bianca era tornata in forze per portare in trionfo la sua figliuolain casa Sganci in casa Limòlida per tutto dove era stata bambinettaprima d'entrare in collegioora già fatta grandecol cappellino di pagliale belle treccie bionde - un fiore. Tutti si affacciavano per vederla passare. La zia Sgancidivenuta sorda e ciecale tastò il viso per riconoscerla: - Una Trao! Non c'è che dire. - Lo zio marchese ne lodò gli occhidegli occhi blù che erano due stelle. “Degli occhi che vedevano il peccato“disse il marcheseil quale aveva sempre pronta la barzelletta. Allorché la condussero dallo zio don FerdinandoIsabella che soleva spesso rammentare colle compagne la casa maternanegli sfoghi ingenui d'ambizioneprovò un senso di sorpresadi tristezzadi delusione al rivederla. Entrava chi voleva dal portone sconquassato. La corte era angustaingombra di sassi e di macerie. Si arrivava per un sentieruolo fra le ortiche allo scalone sdentatobarcollantesoffocato anch'esso dalle erbacce. In cima l'uscio cadente era appena chiuso da un saliscendi arrugginito; e subito nell'entrare colpiva una zaffata d'aria umida e greveun tanfo di muffa e di cantina che saliva dal pavimento istoriato col blasoneseminato di cocci e di rottamipioveva dalla vòlta scalcinataveniva densa dal corridoio nero al pari di un sotterraneodalle sale buie che s'intravedevano in lunga filaabbandonate e nudeper le strisce di luce che trapelavano dalle finestre sgangherate. In fondo era la cameretta dello ziosordidaaffumicatacol soffitto sconnesso e cadentee l'ombra di don Ferdinando che andava e veniva silenziososimile a un fantasma.
- Chi è?... Grazia... entra...
Don Ferdinando apparve sulla sogliain maniche di camiciagiallo ed allampanatoguardando stupefatto attraverso gli occhiali la sorella e la nipote. Sul lettuccio disfatto c'era ancora la vecchia palandrana di don Diego che stava rattoppando. L'avvolse in frettainsieme a un fagotto d'altri cencie la cacciò nel cassettone.
- Ah!... sei tuBianca?... che vuoi?...
Indi accorgendosi che teneva ancora l'ago in manose lo mise in tascavergognososempre con quel gesto che sembrava meccanico.
- Ecco vostra nipote... - balbettò la sorella con un tremito nella voce. - Isabella... vi rammentate?... È stata in collegio a Palermo...
Egli fissò sulla ragazza quegli occhi azzurri e stralunati che fuggivanodi qua e di làe mormorò:
- Ah!... Isabella?... mia nipote?...
Guardava inquieto per la stanzae di tanto in tantocome vedeva un oggetto dimenticato sul tavolino o sulla seggiola zoppadel refe sudicioun fazzoletto di cotone posto ad asciugare al solecorreva subito a nasconderli. Poi si mise a sedere sulla sponda del lettucciofissando l'uscio. Mentre Bianca parlavacol cuore strettoegli seguitava a volgere intorno gli occhi sospettosipensando a tutt'altro. A un tratto andò a chiudere a chiave il cassetto della scrivania.
- Ah!... mia nipotedici?...
Fissò di nuovo sulla giovinetta lo stesso sguardo esitantee chinò gli occhi a terra.
- Somiglia a te... tale e quale... quand'eri qui...
Sembrava che cercasse le parolecogli occhi erranti evitando quelli della sorella e della nipotecon un tremito leggiero nelle maniil viso smorto e istupidito. Un istantementre Bianca gli parlava all'orecchiosupplichevolequasi le spuntassero le lagrimeegli di curvo che era si raddrizzò così che parve altissimocon un'ombra negli occhi chiari un rimasuglio del sangue dei Trao che gli colorava il viso scialbo.
- No... no... Non voglio nulla... Non ho bisogno di nulla... Vattene oravattene... Vedi... ho tanto da fare...
Una cosa che stringeva il cuore. Una rovina ed un'angustia che umiliavano le memorie ambiziosele fantasie romantiche nate nelle confidenze immaginarie colle amiche del collegiole illusioni di cui era piena la bizzarra testolina della fanciullatornata in paese coll'idea di rappresentarvi la prima parte. Il lusso meschino della zia Sgancila sua casa medesima fredda e malinconicail palazzo cadente dei Trao che aveva spesso rammentato laggiù con infantile orgogliotutto adesso impicciolivasidiventava neropoverotriste. Lìdirimpettoera la terrazza dei Margaroneche tante volte aveva rammentato vastainondata di soletutta fioritapiena di ragazze allegre che la sbalordivano allorabambinacollo sfoggio dei loro abiti vistosi. Com'era stretta e squallida invececon quell'alto muro lebbroso che l'aduggiava! e come era divenuta vecchia donna Giovanninache rivedeva seduta in mezzo ai vasi di fiori polverosifacendo la calzavestita di neroenorme! In fondo al vicoletto rannicchiavasi la casuccia del nonno Motta. Allorché il babbo ve la condusse trovarono la zia Speranza che filavacanutacolle grinze arcigne. C'erano dei mattoni smossi dove inciampavasiun ragazzaccio scamiciato il quale levò il capo da un basto che stava accomodandosenza salutarli. Mastro Nunzio gemeva in letto coi reumatismisotto una coperta sudicia:
- Ahsei venuto a vedermi? Credevi che fossi morto? Nononon son morto. È questa la tua ragazza? Me l'hai portata qui per farmela vedere?... È una signorinanon c'è che dire! Gli hai messo anche un bel nome! Tua madre però si chiamava Rosaria! Lo sai? Scusateminipote miase vi ricevo in questo tugurio... Ci son natoche volete... Spero di morirci... Non ho voluto cambiarlo col palazzo dove pretendeva chiudermi vostro padre... Io sono avvezzo ad uscir subito in istrada appena alzato... Nonoè meglio pensarci prima. Ciascuno com'è nato. - Speranza grugniva delle altre parole che non si udivano bene. Il ragazzaccio li accompagnò cogli occhi sino all'uscioquando se ne andarono.
Intanto incalzavano le voci di colèra. A Catania c'era stata una sommossa. Giunse da Lentini don Bastiano Stangafame insieme a donna Fifì la quale pareva avesse già il male addossoverdeimpresciuttitanarrando cose che dovevano averle fatto incanutire i capelli in ventiquattr'ore. A Siracusa una giovinetta bella come la Madonnala quale ballava sui cavalli ammaestrati in teatroe andava spargendo il colèra con quel pretestoera stata uccisa a furor di popolo. La gente insospettita stava a vederefacendo le provviste per svignarsela dal paeseal primo allarmee spiando ogni viso nuovo che passasse.
In quel tempo erano capitati due merciai che portavano nastri e fazzoletti di seta. Andavano di casa in casa a vendere la robae guardavano dentro gli usci e nei cortili. Le Margarone che spendevano allegramente per azzimarsiquasi fossero ancora di primo pelofecero molte compere; anzi non trovandosi denari spiccioliquei galantuomini dissero che sarebbero ripassati a prenderli il giorno dopo.
Invece spuntò il giorno del Giudizio Universale. Ciolla era andato a ricorrere dal giudice che gli avevano avvelenate le galline: le portava a prova in manoancora calde. Tornò in casa don Nicolino scalmanatoordinando alle sorelle di sprangare usci e finestre e non aprire ad anima viva. Il dottor Tavuso fece chiudere anche lo sportello della cisterna. I galantuominirammentandosi il bel soggetto ch'era il Ciollaquello ch'era stato in Castello colle manettesedici anni primasi armarono sino ai dentie si misero a perlustrare il paesese mai gli tornava il ghiribizzo di voler pescare nel torbido. La parola d'ordine erasparargli addosso senza misericordia al primo allarme. I due merciai non si videro più. Prima di sera cominciarono a sfilare le vetture cariche che scappavano dal paese. Dopo l'avemaria non andava anima viva per le strade. Giunse tardi una lettigache portava don Corrado La Gurnavestito di nerocol fazzoletto agli occhi. I cani abbaiarono tutta la notte.
Il panico poi non ebbe limiti allorché si vide scappare la baronessa Rubieraparaliticasu di una sedia a bracciuolipoiché nella portantina non entrava neppuretanto era enormeportata a fatica da quattr'uominicolla testa pendente da un latoil faccione lividola lingua pavonazza che usciva a metà dalle labbra bavosegli occhi soltanto vivi e inquietile mani da morta agitate da un tremito continuo. E dietroil baronello invecchiato di vent'annicurvogrigiocarico di figliuolicolla moglie incinta ancorae gli altri figli del primo letto. Empivano la strada dove passavano: uno sgomento. La povera gente che era costretta a rimanere in paese stava a guardare atterrita. Nelle chiese avevano esposto il Sacramento. Tacquero allora vecchi rancorie si videro fattori restituire il mal tolto ai loro padroni. Don Gesualdo aprì le braccia e i magazzini ai poveri e ai parenti; tutte le sue case di campagna alla Canziria e alla Salonia. A Mangalavitedove aveva pure dei casamenti vastissimiparlò di riunire tutta la famiglia.
- Ora corro da mio padre per cercare d'indurlo a venire con noi. Tu intanto va da tuo fratello- disse a Bianca. - Fagli capire che adesso son tempi da mettere una pietra sul passatogli avessi fatto anche un tradimento... Abbiamo il colèra sulle spalle... Il sangue non è acqua infine! Non possiamo lasciare quel povero vecchio solo in mezzo al colèra... Mi pare che la gente avrebbe motivo di sparlare dei fatti nostrieh?...
- Voi avete il cuore buono! - balbettò la moglie sentendosi intenerire. - Voi avete il cuore buono!
Ma don Ferdinando non si lasciò persuadere. Era occupatissimo ad incollare delle striscie di carta a tutte le fessure delle impostecon un pentolino appeso al colloarrampicato su di una scala a piuoli.
- Non posso lasciar la casa- rispose. - Ho tanto da fare!... Vedi quanti buchi?... Se viene il colèra... Bisogna tapparli tutti...
Inutilmente la sorella tornava a pregare e scongiurare - Non mi lasciate questo rimorsodon Ferdinando!... Come volete che chiuda occhio la nottesapendovi solo in casa?...
- Ah! ah!... - rispose lui con un sorriso ebete. - La notte non me lo soffiano il colèra!... Chiuderò tutte le fessure... guarda!
E tornava a ribattere: - Non posso lasciar la casa sola... Ho da custodire le carte di famiglia...
La moglie del sagrestanoche vide uscire donna Bianca desolata dal portonele corse dietro piangendo:
- Non ci vedremo più!... Tutti se ne vanno... Non avremo per chi sonare messa e mattutino!
Anche mastro Nunzio s'era rifiutato ad andare col figliuolo.
- Io mangio colle manifigliuol mio. Arrossiresti di tuo padre a tavola... Sono uno zotico... Non sono da mettermi insieme ai signori!... Nono! è meglio pensarci prima! Meglio crepar di colèra che di bile!... Poisai? io sono avvezzo ad esser padrone in casa mia... Sono un villano... Non so starci sotto le scarpe della moglieno!
Speranza mostrò Burgio allettato anche lui dalla malaria.
- Noi non usiamo abbandonare i nostri nel pericolo!... Mio marito non può muoversie noi non ci muoviamo!... Ecco come siam noi!... Lo sapete quello che ci vuole a mantenere una famiglia interacol marito confinato in letto!... -
Ma non t'ho sempre detto che sarai la padrona!... Tutto quello che vuoi!... - esclamò infine Gesualdo.
- No!... Non vi ho chiesto l'elemosina!... Non accetteremmo nullase non fosse pel bisogno... grazie a Dio!... Poiché ci fate la caritàandremo alla Canziria... Non temete! Così la gente non potrà dire che avete abbandonato vostro padre in mezzo al colèra!... Voi pensate a mandarci le provviste... Non possiamo pascerci d'erba come le bestie!... sentite... Se avete pure qualche vestito smesso di vostra figliadi quelli proprio che non possono più servirle... Già lei è una signorama saranno sempre buoni per noi poveretti!...
I Margarone partirono subito per Pietraperzia; tutti ancora in lutto per don Filippomorto dai crepacuori che gli dava il genero don Bastiano Stangafameogni volta che gli bastonava Fifì se non mandava denari. Annebbiavano una strada.
Il barone Mèndolache faceva la corte alla zia Sgancise la condusse a Passanetoe ci prese le febbripovera vecchia. Zacco e il notaro Neri partirono per Donferrante. Era uno squallore pel paese. A ventitré ore non si vedeva altri lungo la via di San Sebastiano che il marchese Limòliper la sua solita passeggiatina del dopopranzo. E gli fecero sapere anzi che destava dei sospetti con quelle gitee volevano fargli la festa al primo caso di colèra.
- Eh? - disse lui. - La festa? Ci avete a pensar voialtriche vi tocca pagar le spese. Io fo quello che ho fatto semprese no crepo egualmente.
E alla nipote che lo scongiurava di andar con lei a Mangalavite:
- Hai paura di non trovarmi più?... Nononon temere; il colèra non sa che farsene di me.
Mentre Bianca e la figliuola stavano per montare in lettigagiunse la zia Cirmenadisperata.
- Avete visto? Tutti se ne vanno! I parenti mi voltano le spalle!... E m'è cascato addosso anche quel povero orfanello di Corrado La Gurna... Una tragedia a casa sua!... Padre e madre in una notte... fulminati dal colèra!... Nessuno ha il mio cuoreno!... Una povera donna senza aiuto e che non sa dove andare!... Se mi date la chiave delle due camerette che avete laggiù a Mangalavitevicino alla vostra casina!... le camere del palmento... Siete il solo parente a cui ricorrerevoidon Gesualdo!...
- Sìsì- rispose lui - ma non lo dite agli altri...
- Glielo dirò anzi!... Voglio rinfacciarlo a tutti quantise campo!
II
Quella che chiamavano la casinaa Mangalaviteera un gran casamento annidato in fondo alla valletta. Isabella dalla sua finestra vedeva il largo viale alpestre fiancheggiato d'ulivila folta macchia verde che segnava la grotta dove scorreva l'acquale balze in cui serpeggiava il sentieroe più in su l'erta chiazzata di sommacchiBudarturo brullo e sassoso nel cielo che sembrava di smalto. La sola pennellata gaia era una siepe di rose canine sempre in fiore all'ingresso del vialedimenticate per incuria.
Pei dirupiogni grottale capannuccie nascoste nel folto dei fichidindiaerano popolate di povera gente scappata dal paese per timore del colèra. Tutt'intorno udivasi cantare i galli e strillare dei bambini; vedevansi dei cenci sciorinati al solee delle sottili colonne di fumo che salivano qua e là attraverso gli alberi. Verso l'avemaria tornavano gli armenti negli ovili addossati al casamentobranchi interi di puledri e di buoi che si raccoglievano nei cortili immensi. Tutta la notte poi era un calpestìo irrequietoun destarsi improvviso di muggiti e di belatiuno scrollare di campanacciun sito di stalla e di salvatico che non faceva chiudere occhio ad Isabella. Di tanto in tanto correva una fucilata pazza per le tenebrelontano; giungevano sin laggiù delle grida selvagge d'allarme; dei contadini venivano a raccontare il giorno dopo di aver sorpreso delle ombre che s'aggiravano furtive sui precipizi; la zia Cirmena giurava di aver visto dei razzi solitarii e luminosi verso Donferrante. E subito spedivano gente ad informarsi se c'erano stati casi di colèra. Il barone Zacco ch'era da quelle partirispondeva invece che i fuochi si vedevano verso Mangalavite.
Don Gesualdomeno la paura dei razzi che si vedevano la nottee il sospetto di ogni viso nuovo che passasse pei sentieri arrampicati lassù sui greppici stava come un papa fra i suoi armentii suoi campii suoi contadinile sue faccendesempre in moto dalla mattina alla serasempre gridando e facendo vedere la sua faccia da padrone da per tutto. La sera poi si riposavaseduto in mezzo alla sua gentesullo scalino della gradinata che saliva al vialedinanzi al cancelloin maniche di camiciagodendosi il fresco e la libertà della campagnaascoltando i lamenti interminabili e i discorsi sconclusionati dei suoi mezzaiuoli. Alla moglieche l'aria della campagna faceva star peggiosoleva dire per consolarla: - Qui almeno non hai paura d'acchiappare il colèra. Finché non si tratta di colèra il resto è nulla. - Lì egli era al sicuro dal colèracome un re nel suo regnoguardato di notte e di giorno - a ogni contadino aveva procurato il suo bravo schioppodei vecchi fucili a pietra nascosti sotto terra fin dal 12 o dal 21 e teneva dei mastini capaci di divorare un uomo. Faceva del bene a tutti; tutti che si sarebbero fatti ammazzare per guardargli la pelle in quella circostanza. Granofaveuna botte di vino guastatosi da poco. Ognuno che avesse bisogno correva da lui per domandargli in prestito quel che gli occorreva. Lui colle mani aperte come la Provvidenza. Aveva dato ricovero a mezzo paesenei fienilinelle stallenelle capanne dei guardianinelle grotte lassù a Budarturo. Un giorno era arrivato persino Nanni l'Orbo con tutta la sua masnadastrizzando l'occhiotirandolo in disparte per dirgli il fatto suo:
- Don Gesualdo... qui c'è anche roba vostra. Guardate Nunzio e Gesualdo come vi somigliano! Quattro tumoli di pane al mese si mangianoprosit a loro! Non potete chiudere loro la porta in faccia... Ne avete fatta tanta della carità? E fate anche questache così vuol Dio.
- Guarda cosa diavolo t'è venuto in mente!... Qui c'è mia moglie e mia figlia adesso!... Almeno andatevene nel palmentoe non vi fate vedere da queste parti...
Ma tutto quel bene e quella carità gli tornavano in veleno per l'ostinazione dei parenti che non avevano voluto mettersi sotto le sue ali. Se ne sfogava spesso con Bianca la seraquando chiudeva usci e finestre e si vedeva al sicuro: - Salviamo tanta gente dal colèra... Abbiamo tanta gente sotto le alie soltanto il sangue nostro è disperso di qua e di là... Lo fanno apposta... per farci stare in angustie... per lasciarci la spina dentro!... Non parlo di tuo fratello poveraccio quello non capisce... Ma mio padre... Non me la doveva lasciare questa spinalui!...
Non sapeva di quell'altro dispiacere che doveva procuragli la figliuolail pover'uomo! Isabella ch'era venuta dal collegio con tante belle cose in testache s'era immaginata di trovare a Mangalavite tante belle cose come alla Favorita di Palermosedili di marmostatuefiori da per tuttodei grandi alberi dei viali tenuti come tante sale da balloaveva provata qui un'altra delusione. Aveva trovato dei sentieri alpestridei sassi che facevano vacillare le sue scarpettedelle vigne polverosedelle stoppie riarse che l'accecavanodelle rocce a picco sparse di sommacchi che sembravano della ruggine a quell'altezzae dove il tramonto intristiva rapidamente la sera. Poi dei giorni sempre ugualiin quella tebaide; un sospetto continuouna diffidenza d'ogni cosadell'acqua che bevevasidella gente che passavadei cani che abbaiavanodelle lettere che giungevano - un mucchio di paglia umida in permanenza dinanzi al cancello per affumicare tutto ciò che veniva di fuori- le rare lettere ricevute in cima a una cannaattraverso il fumo - e per solo svagoil chiacchierìo della zia Cirmenala quale arrivava ogni sera colla lanterna in mano e il panierino della calza infilato al braccio. Suo nipote l'accompagnava raramente; preferiva rimanersene in casaa far l'orso e a pensare ai casi suoi o ai suoi mortichissà... La zia Cirmena per scusarlo parlava del gran talento che aveva quel ragazzotutto il santo giorno chiuso nella sua stanzettacol capo in manoa riempire degli scartafaccipiù grossi di un bastodi poesie che avrebbero fatto piangere i sassi. Don Gesualdo ci s'addormentava sopra a quei discorsi. La mamma parlava poco anche leisempre senza fiatosempre fra letto e lettuccio. La sola che dovesse dar retta alla zia era leiIsabellasoffocando gli sbadiglidopo quelle giornate vuote. Alle sue amiche di collegiodisseminate anch'esse di qua e di lànon sapeva proprio cosa scrivere. Marina di Leyra le mandava ogni settimana delle paginette stemmate piene zeppe di avventuredi confidenze interessanti. La stuzzicavala interrogavachiedeva in ricambio le sue confidenzesembrava a ogni lettera che le capitasse lì dinanzicoi suoi occhioni superbicolle belle labbra carnosea dirle in un orecchio delle cose che le facevano avvampare il visoche le facevano battere il cuorequasi ci avesse nascosto il suo segreto da confidarle anche lei. S'erano regalato a vicenda un libriccino di memoriecolla promessa di scrivervi sopra tutti i loro pensieri più intimituttotuttosenza nascondere nulla! I begli occhi azzurri d'Isabellagli occhi che diceva lo zio Limòlisenza volerlosenza guardare neppuresembrava che cercassero quei pensieri. In quella testolina che portava ancora le trecce sulle spallenasceva un brulichìoquasi uno sciame di api vi recasse tutte le voci e tutti i profumi della campagnadi là dalle rocciedi là da Budarturodi lontano. Sembrava che l'aria liberalo stormire delle frondiil sole caldole accendessero il sanguepenetrassero nelle sottili vene azzurrognolele fiorissero nei colori del visole gonfiassero di sospiri il seno nascente sotto il pettino del grembiule. - Vedi quanto ti giova la campagna? - diceva il babbo. - Vedi come ti fai bella?
Ma essa non era contenta. Sentiva un'inquietezza un'uggiache la facevano rimanere colle mani inerti sul ricamoche la facevano cercare certi posti per leggere i pochi libriquei volumetti tenuti nascosti sotto la biancheriain collegio. All'ombra dei nocivicino alla sorgentein fondo al viale che saliva dalla casinac'era almeno una gran paceun gran silenzios'udiva lo sgocciolare dell'acqua nella grottalo stormire delle frondi come un marelo squittire improvviso di qualche nibbio che appariva come un punto nell'azzurro immenso. Tante piccole cose che l'attraevano a poco a pocoe la facevano guardare attenta per delle ore intere una fila di formiche che si seguivanouna lucertolina che affacciavasi timida a un crepacciouna rosa canina che dondolava al disopra del muricciuolola luce e le ombre che si alternavano e si confondevano sul terreno. La vinceva una specie di dormivegliauna serenità che le veniva da ogni cosae si impadroniva di leie l'attaccava lìcol libro sulle ginocchiacogli occhi spalancati e fissila mente che correva lontano. Le cadeva addosso una malinconia dolce come una carezza lieveche le stringeva il cuore a volteun desiderio vago di cose ignote. Di giorno in giorno era un senso nuovo che sorgeva in leidai versi che leggevadai tramonti che la facevano sospirareun'esaltazione vagaun'ebbrezza sottileun turbamento misterioso e pudibondo che provava il bisogno di nascondere a tutti. Spessola serascendeva adagio adagio dal lettuccio perché la mamma non udissesenza accendere la candelae si metteva alla finestrafantasticandoguardando il cielo che formicolava di stelle. La sua anima errava vagamente dietro i rumori della campagnail pianto del chiùl'uggiolare lontanole forme confuse che viaggiavano nella nottetutte quelle cose che le facevano una paura deliziosa. Sentiva quasi piovere dalla luna sul suo visosulle sue mani una gran dolcezzauna gran prostrazioneuna gran voglia di piangere. Le sembrava confusamente di vedere nel gran chiarore biancooltre Budarturolontanoviaggiare immagini notememorie carefantasie che avevano intermittenze luminose come la luce di certe stelle: le sue amicheMarina di Leyraun altro viso sconosciuto che Marina le faceva sempre vedere nelle sue lettereun viso che ondeggiava e mutava formaora biondoora brunoalle volte colle occhiaie appassite e la piega malinconica che avevano le labbra del cugino La Gurna. Penetrava in lei il senso delle cosela tristezza della sorgenteche stillava a goccia a goccia attraverso le foglie del capelvenerelo sgomento delle solitudini perdute lontano per la campagnala desolazione delle forre dove non poteva giungere il raggio della lunala festa delle rocce che s'orlavano d'argentolassù a Budarturodisegnandosi nettamente nel gran chiarorecome castelli incantati. Lassùlassùnella luce d'argentole pareva di sollevarsi in quei pensieri quasi avesse le alie le tornavano sulle labbra delle parole soavidelle voci armoniosedei versi che facevano piangerecome quelli che fiorivano in cuore al cugino La Gurna. Allora ripensava a quel giovinetto che non si vedeva quasi maiche stava chiuso nella sua stanzettaa fantasticarea sognare come lei. Laggiùdietro quel monticellola stessa luna doveva scintillare sui vetri della sua finestrala stessa dolcezza insinuarsi in lui. Che faceva? che pensava? Un brivido di freddo la sorprendeva di tratto in tratto come gli alberi stormivano e le portavano tante voci da lontano - Luna biancaluna bella!... Che failuna? dove vai? che pensi anche tu? - Si guardava le mani esili e delicatecandide anch'esse come la lunacon una gran tenerezzacon un vago senso di gratitudine e quasi di orgoglio.
Poscia ricadeva stanca da quell'altezzacon la mente inertescossa dal russare del babbo che riempiva la casa. La mamma vicino a lui non osava neppure fare udire il suo respiro; come non osava quasi mostrare tutta la sua tenerezza alla figliuola dinanzi al maritotimidacon quegli occhi tristi e quel sorriso pallido che voleva dire tante cose nelle più umili parole: - Figlia! figlia mia!... - Soltanto la stretta delle braccia esilie l'espressione degli sguardi che correvano inquieti all'uscio dicevano il resto. Quasi dovesse nascondere le carezze che faceva alla sua creaturale mani tremanti che le cercavano il visogli occhi turbati che l'osservavano attentamente. - Che hai? Sei pallida!... Non ti senti bene?
La zia Cirmena che vedeva la ragazza così gracilecosì pallidinacon quelle pesche sotto gli occhicercava di distrarlale insegnava dei lavori nuovidelle cornicette intessute di fili di pagliadelle arance e dei canarini di lana. Le contava delle storiellele portava da leggere le poesie che scriveva suo nipote Corradodi nascostonel panierino della calza. - Son fresche fresche di ieri. Gliele ho prese dal tavolino ora che è uscito a passeggiare. È ritrosoquel benedetto figliuolo. Così timido! uno che ha bisogno d'aiutocol talento che hapeccato! - E le suggeriva anche dei rimedi per la salute delicatalo sciroppo marzialedelle teste di chiodi in una bottiglia d'acqua. Si sbracciava ad aiutare in cucinacol vestito rimboccato alla cintolaa far cuocere un buon brodo di ossa per sua nipote Biancaa preparare qualche intingolo per Isabella che non mangiava nulla. - Lasciate fare a me. So quel che ci vuole per lei. Voialtri Trao siete tanti pulcini colla luna. - Un braccio di mare quella zia Cirmena. Una donna che se le si faceva del benenon ci si perdeva interamente. Spesso costringeva Corrado a venire anche lui la sera per tenere allegra la brigata.
- Tu che sai fare tante cosecoi tuoi libricolle tue chiacchiereporterai un po' di svago. Santo Dio! se stai sempre rintanato coi tuoi libricome vuoi far conoscere i tuoi meriti? - Poiquando lui non era presentecantava anche più chiaro: - Alla sua età!... Non è più un bambino... Bisogna che s'aiuti... Non può vivere sempre alle spalle dei parenti!... - E superbo come Lucifero per giuntaricalcitrando e inalberandosi se alcuno cercava di aiutarlodi fargli fare buona figurase la zia s'ingegnava lei di aprir gli occhi alla gente sul valore del suo nipote Corrado e gli rubava gli scartafaccie andava a sciorinarli lei stessa in mezzo al crocchio dei cugini Mottacompitandoaccalorandosi come un sensale che fa valere la mercementre don Gesualdo andava appisolandosi a poco a pocoe diceva di sì col caposbadigliandoe Bianca guardava Isabella la quale teneva i grand'occhi sbarrati nell'ombraassortae le si mutava a ogni momento l'espressione del viso delicatoquasi delle ondate di sangue la illuminassero tratto tratto. Donna Sarina tutta intenta alla lettura non si accorgeva di nullabadava ad accomodarsi gli occhiali di tanto in tantochinavasi verso il lumeoppure se la pigliava col nipote che scriveva così sottile.
- Ma che talentoeh! Come amministratore... che so io... per soprintendere ai lavori di campagna... dirigere una fattoriaquel ragazzo varrebbe tant'oro. Il cuore mi dice che se voidon Gesualdotrovaste di collocarlo in alcuno dei vostri negozifareste un affare d'oro!... E... ora che non ci sente... per poco salario anche! Il giovane ha gli occhi chiusicome si dice... ancora senza malizia... e si contenterebbe di poco! Fareste anche un'opera di caritàfareste!
Don Gesualdo non diceva né sì né noprudenteda uomo avvezzo a muovere sette volte la lingua in bocca prima di lasciarsi scappare una minchioneria. Ci pensava subadava alle conseguenzebadava alla sua figliuolaanche russandocon un occhio aperto. Non voleva che la ragazza così giovanecosì inespertasenza sapere ancora cosa volesse dire esser povero o riccos'avesse a scaldare il capo per tutte quelle frascherie. Lui era ignoranteuno che non sapeva nullama capiva che quelle belle cose erano trappole per acchiappare i gonzi. Gli stessi arnesi di cui si servono coloro che sanno di lettere per legarvi le mani o tirarvi fuori dei cavilli in un negozio. Aveva voluto che la sua figliuola imparasse tutto ciò che insegnavano a scuolaperché era riccae un giorno o l'altro avrebbe fatto un matrimonio vantaggioso. Ma appunto perch'era ricca tanta gente ci avrebbe fatti su dei disegni. Insomma a lui non piacevano quei discorsi della zia e il fare del nipote che le teneva il sacco con quell'aria ritrosa di chi si fa pregare per mettersi a tavoladi chi vuol vender cara la sua mercanzia. E le occhiate lunghe della cuginettai silenzi ostinatiquel mento inchiodato sul pettoquella smania di cacciarsi coi suoi libri in certi posti solitariper far la letterata anche leiuna ragazza che avrebbe dovuto pensare a ridere e a divertirsi piuttosto...
Finora erano ragazzate; sciocchezze da riderci soprao prenderli a scappellotti tutt'e duela signorina che mettevasi alla finestra per veder volare le moschee il ragazzo che stava a strologare da lontanodi cui vedevasi il cappello di paglia al disopra del muricciuolo o della sieperonzando intorno alla casinanascondendosi fra le piante. - Don Gesualdo aveva dei buoni occhi. Non poteva indovinare tutte le stramberie che fermentavano in quelle teste matte- i baci mandati all'ariae il sole e le nuvole che pigliavano parte al duetto - a un miglio di distanza- ma sapeva leggere nelle pedate freschenelle rose canine che trovava sfogliate sul sentieronell'aria ingenua di Isabella che scendeva a cercare le forbici o il ditale quando per combinazione c'era in sala il cuginonella furberia di lui che fingeva di non guardarlacome chi passa e ripassa in una fiera dinanzi alla giovenca che vuol comprare senza darle neppure un'occhiata. Vedeva anche nella faccia ladra di Nanni l'Orbonel fare sospettoso di luinell'aria sciocca che pigliavaquando rizzavasi fra i sommacchimettendosi la mano sugli occhiper guardar laggiùnel vialeo si cacciava carponi fra i fichi d'Indiao veniva a portargli dei pezzi di carta che aveva trovato vicino alla fontanadei calcinacci scrostati dal sedilefacendo il nesci:
- Don Gesualdoche c'è stato vossignorialassù?... Alle volte... per far quattro passi... L'erba sulla spianata è tutta pestacome ci si fosse sdraiato un asino. Ladrinoeh?... Ho paura di quelli del colèra piuttosto.
- No... di giorno?... che diavolo!... bestia che sei!... Non temerequi stiamo cogli occhi aperti.
E ci stava davverocon prudenzaper evitar gli scandaliaspettando che terminasse il colèra per scopare la casae finirla pulitamente con donna Sarina e tutti i suoi senza dar campo di parlare alle male linguerimbeccando la zia Cirmena che s'era messa a far la sapiente anche leia parlare col squinci e lincitagliando corto a quelle chiacchiere sconclusionate che vi tiravano gli sbadigli dalle calcagna. Un giornopresenti tutti quantisputò fuori il fatto suo.
- Ah... le canzonette? Roba che non empie panciacari miei! - La zia Cirmena si risentì alfine: - Voi pigliate tutto a peso e a misuradon Gesualdo! Non sapete quel che vuol dire... Vorrei vedervici!... - Egli alloracol suo fare canzonatorioraccolse in mucchio libri e giornali ch'erano sul tavolino e glieli cacciò in gremboa donna Sarinaridendo ad alta vocespingendola per le spalle quasi volesse mandarla via come fa il sensale nel conchiudere il negoziovociando così forte che sembrava in collerafra le risate:
- Be'... pigliatelise vi piacciono... Potrete camparci su!...
Tutti si guardarono negli occhi. Isabella si alzò senza dire una parolaed uscì dalla stanza. - Ah!... - borbottò don Gesualdo. - Ah!...
Ma visto che non era il momentocacciò indietro la bile e voltò la cosa in scherzo:
- Anche a lei... le piacciono le canzonette. Come passatempo... colla chitarra... adesso che siamo in villeggiatura non dico di no. Ma per lei c'è chi ha lavorato al sole e al ventocapite?... E se ha la testa dura dei Traoanche i Motta non scherzanoquanto a ciò...
- Bene- interruppe la zia- questo è un altro discorso.
- Ahvi sembra un altro discorso?
- Ecco! - saltò su donna Sarinapigliandosela a un tratto col nipote. - Tuo zio parla pel tuo bene. Non lo troviun parente affezionato come luisenti!
- Certocerto... Voi siete una donna di giudiziodonna Sarinae cogliete le parole al volo.
La Cirmena allora si mise a dimostrare che un ragazzo di talento poteva arrivare dove volevasegretariofattoreamministratore di una gran casa. Le protezioni già non gli mancavano. - Certocerto- continuava a ripetere don Gesualdo. Ma non si impegnava più oltre. Si dava da fare a rimettere le seggiole a postoa chiudere le finestrecome a dire: - Adesso andate via. - Però siccome il giovane voltava le spalle senza risponderecon la superbia che avevano tutti quei parenti spiantatidonna Sarina non seppe più frenarsiraccattando in furia i ferri da calza e gli occhialiinfilando il paniere al braccio senza salutar nessuno.
- Guardate s'è questa la maniera! Così si ringraziano i parenti della premura? Io me ne lavo le mani... come Pilato... Ciascuno a casa sua...
- Ecco la parola giustadonna Sarina. Ciascuno a casa sua. Aspettateche vi accompagno... Eh? eh? che c'è?
Da un pezzomentre discorrevatendeva l'orecchio all'abbaiare dei canial diavolìo che facevano oche e tacchini nella cortea un correre a precipizio. Poi si udì una voce sconosciuta in mezzo al chiacchierìo della sua gente. Dal cancello s'affacciò il camparostralunatofacendogli dei segni.
- Vengovengoaspettate un momento.
Tornò poco dopo che sembrava un altrostravoltocol cappello di paglia buttato all'indietroasciugandosi il sudore. Donna Sarina voleva sapere a ogni costo cosa fosse avvenutofingendo d'aver paura.
- Nulla... Le stoppie lassù avran preso fuoco... V'accompagno. È cosa da nulla.
Nell'aia erano tutti in subbuglio. Mastro Nardosotto la tettoiainsellava in fretta e in furia la mula baia di don Gesualdo. Dinanzi al rastrello del giardino Nanni l'Orbo e parecchi altri ascoltavano a bocca aperta un contadino di fuorivia che narrava gran coseaccaloratogesticolando mostrando il vestito ridotto in brandelli.
- Nullanulla- ripetè don Gesualdo. - V'accompagno a casa vostra. Non c'è premura. - Si vedeva però ch'era turbatobalbettavagrossi goccioloni gli colavano dalla fronte. Donna Sarina s'ostinava ad aver paurapiantandosi su due piedifrugando di qua e di là cogli occhi curiosifissandoli in viso a lui per scovar quel che c'era sotto: - Un caso di colèraeh? Ce l'han portato sin qui? Qualche briccone? L'han colto sul fatto? - Infine don Gesualdo le mise le mani sulle spalleguardandola fissamente nel bianco degli occhi: - Donna Sarinaa che giuoco giochiamo? Lasciatemi badare agli affari di casa mia! santo e santissimo! - E la mise bel bello sulla sua stradadi là dal ponticello. Tornando indietro se la prese con tutta quella gente che sembrava ammutinatacomare Lia che aveva lasciato d'impastare il panesua figlia accorsa anche lei colle mani intrise di farina. - Che c'è? che c'è? Voimastro Nardoandate avanti colla mula. Vi raggiungerò per via. Lìda quella partepel sentiero. Non c'è bisogno di far sapere a tutto il vicinato se vo o se rimango. E voialtri badate alle vostre faccende. E cucitevi la boccaehi!... senza suonar la tromba e andar narrando quel che mi succededi qua e di là!...
Poi salì di sopra colle gambe rotte. Bianca appena lo vide con quella faccia si impaurì. Ma egli però non le disse nulla. Temeva che i sorci ballassero mentre non c'era il gatto. Mentre la moglie l'aiutava a infilarsi gli stivaliandava facendole certe raccomandazioni: - Bada alla casa. Bada alla ragazza. Io vo e torno. Il tempo d'arrivare alla Salonia per mio padre che sta poco bene. Gli occhi aperti finché non ci son iointendi? - Bianca da ginocchioni com'era alzò il viso attonito. - Svegliati! Come diavolo sei diventata? Tale e quale tuo fratello don Ferdinando sei! Tua figlia ha la testa sopra il cappellote ne sei accorta? Abbiamo fatto un bel negozio a metterle in capo tanti grilli! Chissà cosa s'immagina? E gli altri pure... Donna Sarina e tutti gli altri! Serpi nella manica!... Dunqueniente visitefinché torno... e gli occhi aperti sulla tua figliuola. Sai come sono le ragazze quando si mettono in testa qualcosa!... Sei stata giovane anche tu... Ma io non mi lascio menare pel naso come i tuoi fratellisai!... Nonochetati! Non è per rimproverarti... L'hai fatto per meallora. Sei stata una buona mogliedocile e obbedientetutta per la casa... Non me ne pento. Dico solo acciò ti serva d'ammaestramentoadesso. Le ragazze per maritarsi non guardano a nulla... Tu almeno non facevi una pazzia... Non te ne sei pentita neppur tuè vero? Ma adesso è un altro par di maniche. Adesso si tratta di non lasciarsi rubare come in un bosco...
Biancaritta accanto all'usciocol viso scialbospalancò gli occhidove era in fondo un terror vagouno sbalordimento accoratol'intermittenza dolorosa della ragione annebbiata ch'era negli occhi di don Ferdinando.
- Ah! Hai capito finalmente! Te ne sei accorta anche tu! E non mi dicevi nulla!... Tutte così voialtre donne... a tenervi il sacco l'una coll'altra!... congiurate contro chi s'arrovella pel vostro meglio!
- No!... vi giuro!... Non so nulla!... Non ci ho colpa... Che volete da me?... Vedete come son ridotta!...
- Non lo sapevi? Cosa fai dunque? Così tieni d'occhio tua figlia... È questa una madre di famiglia?... Tutto sulle mie spalle! Ho le spalle grosse. Ho lo stomaco pieno di dispiaceri... E sto benone io!... Ho la pelle dura.
E se ne andò col dorso curvosotto il gran soleruminando tutti i suoi guai. Il messo ch'era venuto a chiamarlo dalla Salonia l'aspettava in cima al sentieroinsieme a mastro Nardo che tirava la mula zoppicando. Come lo vide da lontano si mise a gridare:
- Spicciatevivossignoria. Se arriviamo tardiper disgraziala colpa è tutta mia.
Cammin facendo raccontava cose da far drizzare i capelli in testa. A Marineo avevano assassinato un viandante che andava ronzando attorno all'abbeveratoionell'ora caldalaceroscalzobianco di polvereacceso in voltocon l'occhio biecocercando di farla in barba ai cristiani che stavano a guardia da lontanosospettosi. A Callari s'era trovato un cadavere dietro una siepegonfio come un otre: l'aveva scoperto il puzzo. La seradovunquesi vedevano dei fuochi d'artifiziouna pioggia di razzitale e quale la notte di San LorenzoDio liberi! Una donna incintache s'era lasciata aiutare da uno sconosciutomentre portava un carico di legna al Trimmillitoera morta la stessa notte all'improvvisosenza neanche dire - Cristo aiutami - colla pancia piena di fichi d'India.
- Vostro padre l'ha voluto lui stesso il colèrasissignore. Tutti gli dicevano: Non aprite se prima il sole non è alto! Ma sapete che testa dura! Il colèra ce l'ha portato alla Salonia un viandante che andava intorno colla bisaccia in spalla. Di questi tempifiguratevi! C'è chi l'ha visto a sederestanco mortosul muricciuolo vicino alla fattoria. Poi tutta la notte rumori sul tetto e dietro gli usci... E le macchie d'unto che si son trovate qua e là a giorno fatto!... Come della bava di lumaca... Sissignore!... Quella bestia dello speziale continua a predicare di scopar le casedi pigliarsela coi maiali e colle gallineper tener lontano il colèra! Adesso il veleno ce lo portano le bestie del Signoreche non hanno malizia! avete intesovossignoria?... Roba da accopparli tutti quanti sonomedicipreti e spezialiperché loro ogni cristiano che mandano al mondo della verità si pigliano dodici tarì dal re! E l'arciprete Bugno ha avuto il coraggio di predicarlo dall'altare: - Figliuoli mieiso che ce l'avete con mea causa del colèra. Ma io sono innocente. Ve lo giuro su quest'ostia consacrata! - Io non so s'era innocente o no. So che ha acchiappato il colèra anche luiperché teneva in casa quelle bottiglie che mandano da Napoli per far morire i cristiani. Io non so niente. Il fatto è che i morti fioccano come le mosche: Donna Marianna SganciPeperito...
III
Allorché giunsero alla Salonia trovarono che tutti gli altri inquilini della fattoria caricavano muli ed asinelli per fuggirsene. Inutilmente Bommache era venuto dalla vignalì vicinosi sgolava a gridare:
- Bestie! s'è una perniciosa!... se ha una febbre da cavallo! Non si muore di colèra con la febbre!
- Non me ne importa s'è una perniciosa! - borbottò infine Giacalone. - I medici già son pagati per questo!...
Mastro Nunzio stava male davvero: la morte gli aveva pizzicato il naso e gli aveva lasciato il segno delle dita sotto gli occhiun'ombra di filiggine che gli tingeva le narici assottigliategli sprofondava gli occhi e la bocca sdentata in fondo a dei buchi nerigli velava la faccia terrea e sporca di peli grigi. Aprì quegli occhi a stentoudendo suo figlio Gesualdo che gli stava dinanzi al lettoe disse colla voce cavernosa:
- Ah! sei venuto a vedere la festafinalmente?
Santocome un alloccostava seduto sullo scalino dell'usciosenza dir nullacoi lucciconi agli occhi. Burgio e sua moglie si affrettavano a insaccare un po' di granoper non morir di fame dove andavanoappena avrebbe chiusi gli occhi il vecchio. Nel cortile c'erano anche le mule cariche di roba. Don Gesualdo afferrò pel vestito Bommail quale stava per andarsene anche lui.
- Che si può faredon Arcangelo? Comandate! Tutto quello che si può fareper mio padre... tutto quello che ho!... Non guardate a spesa...
- Eh! avrete poco da spendere... Non c'è nulla da fare... Sono venuto tardi. La china non giova più!... una perniciosa coi fiocchicaro voi! Ma però non muore di colèrae non c'è motivo di spaventare tutto il vicinatocome fanno costoro!
Il vecchio stava a sentirecogli occhi inquieti e sospettosi in fondo alle orbite nere. Guardava Gesualdo che si affannava intorno al farmacistaSperanza la quale strillava e singhiozzava aiutando il marito ne' preparativi della partenzaSanto che non si muovevaistupiditoi nipoti qua e là per la casa e nel cortilee Bomma che gli voltava le spallescrollando il capofacendo gesti d'impazienza. Speranza infine andò a consegnare le chiavi a suo fratelloseguitando a brontolare:
- Ecco! Mi piace che siete venuto... Così non direte che vogliamo fare man bassa sulla robaio e mio maritoappena chiude gli occhi nostro padre...
- Non sono ancora mortono! - si lamentò il vecchio dal suo cantuccio. Allora si alzò come una furia l'altro figliuoloSantocon la faccia sudicia di lagrimevociando e pigliandosela con tutti quanti:
- Il viatico che non glielo daterazza di porci?... Che lo fate morire peggio di un cane?...
- Non sono ancora morto! - piagnucolò di nuovo il moribondo. - Lasciatemi morire in paceprima!...
- Non è per la robano! - gli rispose il genero Burgio accostandosi al letto e chinandosi sul malato come parlasse a un bambino: - Anzi è per vostro amore che vogliamo farvi confessare e comunicare prima di chiudere gli occhi.
- Ah!... ah!... Non vi par l'ora!... Lasciatemi in pace... lasciatemi!...
Giunse la sera e passò la notte a quel modo. Mastro Nunzio nell'ombra stava zitto e immobilecome un pezzo di legno; soltanto ogni volta che gli facevano inghiottire a forza la medicinagemevasputavae lamentavasi ch'era amara come il velenoch'era mortoche non vedevano l'ora di levarselo dinanzi. Infineperché non lo seccasserovoltò il naso contro il muroe non si mosse più. - Poteva essere mezzanottesebbene nessuno s'arrischiasse ad aprire la finestra per guardar le stelle. - Speranza ogni tanto s'accostava al malato in punta di piedilo toccavalo chiamava adagio adagio; ma lui zitto. Poi tornava a discorrere sottovoce col marito che aspettava tranquillamenteaccoccolato sullo scalinodormicchiando. Gesualdo stava seduto dall'altra parte col mento fra le mani. In fondo allo stanzone si udiva il russare di Santo. I nipoti erano già partiti colla robainsieme agli altri inquilini e un gatto abbandonato s'aggirava miagolando per la fattoriacome un'anima di Purgatorio: una cosa che tutti alzavano il capo trasalendoe si facevano la croce al vedere quegli occhi che luccicavano nel buiofra le travi del tetto e i buchi del muro; e sulla parete sudicia vedevasi sempre l'ombra del berretto del vecchiogigantescache non dava segno di vita. Poitre voltesi udì cantare la civetta.
Quando Dio vollea giorno fattodopo un pezzo che il giorno trapelava dalle fessure delle imposte e faceva impallidire il lume posato sulla botteBurgio si decise ad aprire l'uscio. Era una giornata foscail cielo copertoun gran silenzio per la pianura smorta e sassosa. Dei casolari nerastri qua e làl'estremità del paese sulla collina in fondosembravano sorgere lentamente dalla caliginedeserti e silenziosi. Non un uccellonon un ronzìonon un alito di vento. Solo un fruscìo fuggì spaventato fra le stoppie all'affacciarsi che fece Burgiosbadigliando e stirandosi le braccia.
- Massaro Fortunato!... venite quavenite! - chiamò in quel punto la moglie colla voce alterata.
Gesualdo chino sul lettuccio del genitorelo chiamavascuotendolo. La sorellaarruffatadiscintache sembrava più gialla in quella luce scialbapreparavasi a strillare. Infine Burgiodopo un momentoazzardò la sua opinione: - Signori mieia me sembra morto di cent'anni.
Scoppiò allora la tragedia. Speranza cominciò a urlare e a graffiarsi la faccia. Santosvegliato di soprassaltosi dava dei pugni in testafregandosi gli occhipiangendo come un ragazzo. Il più turbato di tutti però era don Gesualdosebbene non dicesse nullaguardando il morto che guardava lui colla coda dell'occhio appannato. Poi gli baciò la manoe gli coprì la faccia col lenzuolo. Speranzainconsolabileminacciava di correre al paese per buttarsi nella cisternadi lasciarsi morir di fame: - Cosa ci fo più al mondo adesso? Ho perso il mio sostegno! la colonna della casa! - Quel piagnisteo durò la giornata intera. Inutilmente il marito per consolarla le diceva che don Gesualdo non li avrebbe abbandonati. Erano tutti figli suoiorfanelli bisognosi. Santo col viso sudicio guardava or questo e or quello come aprivano bocca. - No! - s'ostinava Speranza. - È mortooramio padre! Non c'è nessuno che pensi a noi!
Gesualdo che l'aveva lasciata sfogare un pezzo tentennando il capocogli occhi gonfile disse infine:
- Hai ragione!... Non ho fatto mai nulla per voialtri!... Hai ragione di lagnarti della buona misura!...
- No- interruppe Burgio. - No! Parole che scappano nel bruciocognato.
Intanto bisognava pensare a seppellire il mortosenza un cane che aiutassea pagarlo tant'oro! Un falegnamelì al Camemimise insieme alla meglio quattro asserelle a mo' di barae mastro Nardo scavò la buca dietro la casa. Poi Santo e don Gesualdo dovettero fare il resto colle loro mani. Burgio però stava a vedere da lontanotimoroso del contagioe sua moglie piagnucolava che non le bastava l'animo di toccare il morto. Le faceva male al cuoresì! Dopoasciugatisi gli occhirifatto il lettorassettata la casanel tempo che mastro Nardo preparava le cavalcaturee aspettavano seduti in crocchioella attaccò il discorso serio.
- E oracome restiamo intesi?
Tutti quanti si guardarono in faccia a quell'esordio. Massaro Fortunato tormentava la nappa della berrettae Santo sgranò gli occhi. Don Gesualdo però non aveva capito l'antifonacol viso in ariacercava il verbo.
- Come restiamo intesi? Perché? Di che cosa?
- Per discorrere dei nostri interessieh? Per dividerci l'eredità che ha lasciato quella buon'animatanto paradiso! Siamo tre figliuoli... Ciascuno la sua parte... secondo vi dice la coscienza... Voi siete il maggiorevoi fate le parti... e ciascuno di noi piglia la sua... Però se ci avete il testamento... Non dico... Allora tiratelo fuorie si vedrà.
Don Gesualdoche era don Gesualdorimase a bocca aperta a quel discorso. Stupefattocercava le parolebalbettava:
- L'eredità?... Il testamento?... La parte di che cosa?...
Allora Speranza infuriò. - Come? Di questo si parlava. Non erano tutti figli dello stesso padre? E il capo della casa chi era stato? Sinora aveva avuto le mani in pasta don Gesualdovenderecomprare... Oraciascuno doveva avere la sua parte. Tutto quel ben di Dioquelle belle terrela Canziriala Salonia stessa dove avevano i piedierano forse piovuti dal cielo? - Burgiopiù calmometteva buone parole; diceva che non era quello il momentocol morto ancora caldo. Tappava la bocca alla moglie; cacciava indietro il cognato Santoil quale aveva aperto tanto d'orecchi e vociava: - Nonolasciatela dire! - Infine volle che si abbracciasserolìnella stanza dove erano rimasti poveri orfanelli. Don Gesualdo era un galantuomoun buon cuore. Non l'avrebbe fatta una porcheria. - Non scappate! Sentite qua! Non è vero? Non siete un galantuomo?
- No! no! Lasciatemi sentire quello che pretendono. È meglio spiegarsi chiaro.
Ma la sorella non gli dava più rettaseduta su di un sassofuori dell'uscioborbottando fra di sè. Massaro Fortunato toccò pure degli altri tasti: il gastigo di Dio che avevano sulle spallel'ora che si faceva tarda. Intanto mastro Nardo tirò fuori la mula dalla stalla. Rimasero ancora un pezzetto lì fuori a tenersi il broncio. Poi don Gesualdo propose di condurseli tutti a Mangalavite. Il cognato Burgio serrava l'uscio a chiavee caricava sul basto i pochi panniche aveva raccolti in un fagottino. Speranza non rispose subito all'invito del fratellosciorinando lo scialle per accingersi alla partenzaguardando di qua e di làcogli occhi torvi. Infine spiattellò quel che aveva sullo stomaco:
- A Mangalavite?... Nograzie tante!... Cosa ci verrei a fare... se dite che è roba vostra?... Sarebbe anche un disturbo per vostra moglie e la figliuola... due signore avvezze a stare coi loro comodi... Noi poveretti ci accomodiamo alla meglio... Andremo alla Canziria. Andremo piuttosto alla fornace del gesso che ha lasciato mio padrebuon'anima... Quella sì!... Colà almeno saremo a casa nostra. Non direte d'averla comperata coi vostri guadagni la fornace del gesso!... Nonosto zittamassaro Fortunato! Se ne parlerà poichi campa. Chi campa tutto l'anno vede ogni festa. Vi salutodon Gesualdo. Sarà quel che vuol Dio. Beato quel poveretto che adesso è tranquillosottoterra!...
Brontolava ancora ch'era già in viaggiosballottata dall'ambio della cavalcaturacolla schiena curvae il vento che le gonfiava lo scialle dietro. Don Gesualdo montò a cavallo lui puree se ne andò dall'altra partecol cuore grosso dell'ingratitudine che raccoglieva semprevoltandosi indietrodi tanto in tantoa guardare la fattoria rimasta chiusa e desertaaccanto alla buca ancora frescae la cavalcata dei suoi che si allontanavano in filauno dopo l'altrodi già come punti neri nella campagna brulla che s'andava oscurando. Dopo un pezzettomastro Nardo che ci aveva pensato sufece l'orazione del morto:
- Poveretto! Ha lavorato tanto... per tirare su i figliuoli... per lasciarli ricchi... Ora è sotto terra! Vi rammentatevossignoriaquando è rovinato il pontea Fiumegrandee voleva annegarsi?... Ecco cos'è il mondo! Oggi a tedomani a me.
Il padrone gli rivolse un'occhiata bruscae tagliò corto:
- Zittobestia!... Anche tu!...
Potevano essere due ore di notte quando arrivarono alla Fontana di don Cosimocon una bella sera stellatail cielo tutto che sembrava formicolare attorno a Budarturosulla distesa dei piani e dei monti che s'accennava confusamente. La mulasentendo la stalla vicinasi mise a ragliare. Allora abbaiarono dei cani; laggiù in fondo comparvero dei lumi in mezzo all'ombra più fitta degli alberi che circondavano la casinae s'udirono delle vociun calpestìo precipitoso come di gente che corresse; lungo il sentiero che saliva dalla valle si udì un fruscìo di foglie secchedei sassi che precipitarono rimbalzandoquasi alcuno s'inerpicasse cautamente. Poi silenzio. A un trattodal buiosul limite del boschettopartì una voce:
- Ehidon Gesualdo?
- EhiNanniche c'è?
Compare Nanni non risposemettendosi a camminare accanto alla mula. Dopo un momento masticò sottovocequasi a malincuore:
- C'è che son qui per guardarvi le spalle!
Don Gesualdo non chiese altro. Scendevano per la viottola in fila. Nanni l'Orbo aggiunse soltantodi lì a un po': - Si fece la festaeh? - E come il padrone continuava a tacereconchiuse: - L'ho capito alla cera che avetevossignoria. Mondo di guai!... L'uno dopo l'altro! - Giunti alla fontana infine disse:
- Smontiamo quieh? Mastro Nardo se ne andrà pel viale colle cavalcaturee noi da questa parteper far più presto.
Don Gesualdo capì subitoe non se lo fece dire due volte. Andavano in silenziolungo il muroquasi ci vedessero al buio. A un certo punto l'Orbo accennò delle pietre sparse per terrauna specie di breccia fra le spine che coronavano il muroe disse piano: - Vedetevossignoria? - L'altro affermò col capoe scavalcò il chiuso. Nanni l'Orbo coll'acciarino accese un zolfanello e andarono seguendo le pedate passo passosino alla casina. Sotto la finestra di donna Isabella l'Orbo additò in silenzio l'erba ch'era tutta pestaquasi ci si fossero davvero sdraiati degli asini.
- I cani poi come fossero alloppiati! - osservò compare Nanni con quel fare misterioso. - Se non ero ioche ho l'orecchio fino... Dicevo a Diodata: Finché manca il padrone bisogna stare coll'orecchio tesoper guardargli le spalle... Allora ho mandato Nunzio sul ponticellomentre io con Gesualdo arrivavo dalla parte del palmento... Sissignore dov'è alloggiata donna Sarina col nipote... Se i cani sono stati zittidicevo fra di me...
- Va bene. Adesso taci. Di lassù potrebbero udirti.
Il giorno doporicevendo le visite di condoglianzavestito di nerocolla barba lungaappena donna Sarina ebbe fatto l'elogio del morto e del vivoasciugandosi gli occhirimboccandosi le maniche per correre in cucina ad aiutare in quello scompigliodon Gesualdo la fermò nell'anditosenza tanti complimenti.
- Sapetedonna Sarina?... il servizio che dovreste farmi sarebbe d'andarvene. Patti chiari e amici carinon è vero? Ho bisogno di quelle due stanze... pei miei motivi. Sinora non vi ho detto nulla. Ma voi avrete ammirato la mia prudenzaeh?
La Cirmena diventò verde. S'aggiustò il vestitosorridendopigliandola con disinvoltura: - Benebene. Ho capito. Una volta che vi servono quelle due stanzuccie... Se avete i vostri motivi... Anche subitosu due piedi... colèra o no!... La gente non ha da dire se me ne mandate via in mezzo al colèra!... Siete il padrone. Ciascuno sa i fatti di casa sua. Soltantose permettetevado prima a salutare mia nipote. Non so cosa potrebbero pensare se me ne andassi zitta zitta... Le male linguesapete!...
Bianca non arrivava a capacitarsi: - Come? andarsene via? nel fitto del colèra? Perché? Cos'era stato? - La zia Cirmena adduceva diversi pretesti strambi: forza maggiore; ciascuno ha i suoi motivi; interessi gravi di casa; Corrado aveva ricevuto una lettera urgentissima. - Gli rincresce anche a luipoveretto. Gli è arrivata fra capo e collo. S'era tanto affezionato a questi luoghi... Anche poco fa mi diceva: - Ziaoggi è l'ultima passeggiata che andrò a fare alla sorgente... - Don Gesualdofuori dei gangheritagliò corto a quei discorsi sciocchi.
- Scusatedonna Sarina. Mia moglie non capisce più niente... Diventano tutti così nella sua famiglia... Doveva toccare a me!...
Isabella invece s'era fatta pallida come un cadavere. Ma non si mossenon disse nullauna vera Traocol viso fermo e impenetrabile. Ricambiava anche gli abbracci e i saluti affettuosi della ziasforzandosi di sorriderecon una ruga sottile fra le ciglia. Poiquando fu solaa un trattocon un gesto disperatosi strappò la gorgierina che la soffocavacon un'onda di sangue al voltoun abbarbagliamento improvviso dinanzi agli occhiuna fittauno spasimo acuto che la fece vacillareannaspandofuori di sé.
Voleva vederlol'ultima voltaa qualunque costoquando tutti sarebbero stati a riposaredopo mezzogiornoe che alla casina non si moveva anima viva. La Madonna l'avrebbe aiutata: - La Madonna!... la Madonna!... - Non diceva altrocon una confusione dolorosa nelle ideela testa in fiammeil sole che le ardeva sul capogli occhi che le abbruciavanouna vampa nel cuore che la mordevache le saliva alla testache l'accecavache la faceva delirare: - Vederlo! a qualunque costo!... Domani non lo vedrò più!... più!... più!... - Non sentiva le spine; non sentiva i sassi del sentiero fuori mano che aveva preso per arrivare di nascosto sino a lui. Ansantepremendosi il petto colle manitrasalendo a ogni passospiando il cammino con l'occhio ansioso. Un uccelletto spaventato fuggì con uno strido acuto. La spianata era desertain un'ombra cupa. C'era un muricciuolo coperto d'edera tristeuna piccola vasca abbandonata nella quale imputridivano delle piante acquatichee dei quadrati d'ortaggi polverosi al di là del murotagliati dai viali abbandonati che affogavano nel bosco irto di seccumi gialli. Da per tutto quel senso di abbandonodi desolazionenella catasta di legna che marciva in un angolonelle foglie fradicie ammucchiate sotto i nocinell'acqua della sorgente la quale sembrava gemere stillando dai grappoli di capelvenere che tappezzavano la grottacome tante lagrime. Soltanto fra le erbacce del sentiero pel quale lui doveva veniredei fiori umili di cardo che luccicavano al soledelle bacche verdi che si piegavano ondeggiando mollementee dicevano: Vieni! vieni! vieni! Attraversò guardinga il viale che scendeva alla casinacol cuore che le balzava alla golale batteva nelle tempiele toglieva il respiro. C'erano lìfra le foglie seccheaccanto al muricciuolo dove lui s'era messo a sedere tante voltedei brani di carta abbruciacchiatiumidicciche s'agitavano ancora quasi fossero cose vive; dei fiammiferi spentidelle foglie d'edera strappatedei virgulti fatti in pezzettini minuti dalle mani febbrili di luinelle lunghe ore d'attesanel lavorìo macchinale delle fantasticherie. S'udiva il martellare di una scure in lontananza; poi una canzone malinconica che si perdeva lassùnella viottola. Che agonìa lunga! Il sole abbandonava lentamente il sentiero; moriva pallido sulla rupe brulla di cui le forre sembravano più tristied ella aspettava ancoraaspettava sempre.
- Signor don Gesualdo... Venite quase permettete... Ho da parlarvi. - Nanni l'Orbocontinuando a chiamarlodall'aiaaffettava di non poter mettere il piede nel cortilecoll'aria misteriosafinchè il padrone andò a sentire quel che diavolo volessedandogli una buona strapazzataper cominciare:
- T'ho detto tante volte di non lasciarti vedere da queste parti! Che diavolo!... Se lo fai apposta...
- Nossignore. Appuntovi ho chiamato qui fuori. Dobbiamo parlare da solo a soloper quel che ho da dirvi... Qui nel giardino. Siamo aspettati.
C'erano infatti Nunzio e Gesualdo di Diodatavestiti da festacolle mani in tascae un fazzolettino nero al collo. Compare Nanni lo fece notare al padrone. - Il sangue è sangue. Avete da ridirci? Tutti e due... hanno voluto portare il lutto alla buon'anima di vostro padre... per rispettosenza secondi fini... Soltantovossignoria potete aiutarli senza mettere mano alla tasca... Eccoloro vorrebbero a mezzadria quel pezzo di terra ch'è sotto la fontana. Sono due bravi ragazzilaboriosi. Vi somiglianodon Gesualdo... Se date loro qualche agevolazionepensate infine che non lo fate per degli estranei!...
Don Gesualdo tentennavainsospettito da una parte d'esser preso così alla sprovvistae cedendo nel tempo istessosuo malgradoa quella certa voce interna che gli andava ripicchiando dentro tutti gli argomenti messi fuori da compare Nanni per persuaderlo. - Infine cosa domandavano?... del lavoro... Lui che poteva tanto!... Un affare di coscienza!... Avrebbe fatto un buon negozio anche... - A un certo punto l'Orbo propose di mandare a chiamare Diodata perché dicesse la sua. Don Gesualdo alloraper levarsi quella noiaper sgravio di coscienzacome diceva quell'altro fissando i due ragazzoniche seguivano passo passo colle mani in tascasenza aprir boccasi lasciò scappare: - Be'... be'se si parla soltanto del pezzo di terra ch'è sotto la fontana... Se non fate come il riccio che poi allarga le spine...
- Sissignore! Che vuol dire! - saltò su compare Nanni pigliandolo subito in parola. - Quello solo! Mezza salma di terra in tutto. Possiamo andare a vedere. È qui vicino. Vi metteremo i segnali sotto i vostri occhigiacché siete quiperchè non temiate che vi si rubi... Giusto!... ci abbiamo anche dei testimonivedete... La signorinalassùsotto il gran noce...
Don Gesualdo guardò dove diceva l'Orboe si sbiancò subito in viso. A un trattomutò cera e manierae congedò tutti bruscamente:
- Va benene parleremo... C'è tempo. Non si piglia così la gente pel collosanto e santissimo! Ho detto di sì; ora andatevene!
I due giovani sgattaiolarono mogi mogi a quella sfuriatamentre Nanni si cacciava fra le macchie per godersi la scena da lontano. Don Gesualdo saliva già in fretta pel vialecome avesse vent'annisottosopra. Isabella se lo vide comparire dinanzi all'improvviso con una faccia che quasi la fece tramortire dallo spavento. Egli non le disse nulla. Se la prese per manocome una bambinae se la portò a casa. Lei si lasciava condurrecome una mortacol cuore mortosenza vedereinciampando nei sassi. Solo di tanto in tanto si cacciava la mano nei capelliquasi sentisse lì un gran smarrimentoun gran dolore.
Bianca al vederli arrivare a quel modo si mise a tremare come una foglia. Il marito le consegnò la figliuola con un'occhiata terribiletentennando il capo. Ma non disse nulla. Si mise a passeggiare per la stanzaasciugandosi tratto tratto col fazzoletto il fiele che ci aveva in bocca. Poi aprì l'uscio di colpo e se ne andò.
Girava da per tutto come un bue infuriatosbattendo gli uscipigliandosela con chi gli capitava. Udivasi ovunque la sua voce che faceva tremare la casa:
- Nardodove sei stato sino ad ora? T'avevo detto di portarmi quelle forbici alla vigna? - Non sono rientrati ancora i puledri? Me li farà storpiare quell'animale di Brasi! Gli darò ora il fatto suoappena torna! - Di'Santoro? avete terminato di mietere i sommacchi lassù?... Cosa diavolo avete fatto dunque tutta la giornata?... Appena manca un momento il padrone!... Assassini! nemici salariati!... - Martino! il lume accendiMartinoper mungere le pecore! Mi verserai per terra tutto il lattecosì al buiobestia!... - Ancora non hanno acceso il lume lassù! Che fanno? Recitano il rosario?... Concetta! Concetta! Siamo ancora al buio! Cosa diavolo fate? Che casaappena volto le spalle io!... Che succederà se io chiudo gli occhi?...
Dopo un po' di tempo tornò a bussare all'uscio delle donnee siccome non aprivano subito lo sfondò con un calcio. Bianca allora si rivoltò inferocitasimile a una chioccia che difende i pulcinicon un viso che nessuno le aveva mai visto; il viso stralunato dei Traoin cui gli occhi luccicavano come quelli di una pazza sul pallore e la magrezza spaventosacoprendo col suo il corpo della figliuola ch'era stesa bocconi sul lettocol viso nel guancialescossa da sussulti nervosi.
- Ah! me la volete uccidere dunque? Non vi basta? Non vi basta? Me la volete uccidere?
Non si riconosceva piùtanto che lo stesso don Gesualdo rimase sconcertato. Ora cercava di pigliarla colle buonevinto da uno sconforto immensodall'amarezza di tanta ingratitudine che gli saliva alla golacolle ossa rotteil cuore nero come la pece.
- Avete ragione!... Io sono il tiranno! Ho il cuore e la pelle duraio! Sono il bue da lavoro... Se m'ammazzo a lavorare è per voialtricapite? A me basterebbe un pezzo di pane e formaggio... Vuol dire che ho lavorato per buttare ogni cosa in bocca al lupo... il mio sangue e la mia roba!... Avete ragione!...
Bianca volle balbettare qualche parola. Allora egli si voltò infuriato contro di leicon le mani in ariala bocca spalancata. Ma non disse nulla. Guardò la figliuola che si era appoggiata tutta tremante alla sponda del lettucciocol viso gonfiole trecce allentate; allora lasciò cadere le braccia e si mise a passeggiare innanzi e indietro per la camerapicchiando le mani una sull'altrasoffiando e sbuffandocogli occhi a terraquasi cercasse le parolecercando le maniere che ci volevano per far capire la ragione a quelle teste dure.
- Via viaIsabella!... È una sciocchezzacapisci!... È una sciocchezza guastarsi il sangue... Non voglio guastarmi il sangue... Ho tanti altri guai! Ci ho il cuore grosso!... Vorrei che tu vedessi un po' quanti guai ci ho in testa!... Ti metteresti a riderecom'è vero Dio!... Vedresti che sciocchezza è tutto il resto!... Ancora sei giovane... Certe cose non le capisci... Il mondovediè una manica di ladri... Tutti che fanno: levati di lì e dammi il fatto tuo... Ognuno cerca il suo guadagno... Vedivedi... te lo dico?... Se tu non avessi nullanessuno ti seccherebbe... È un negoziocapisci?... Il modo d'assicurarsi il pane per tutta la vita. Uno che è poverouomo o donnasia detto senza offendere nessunos'industria come può... Gira l'occhio intorno; vede quello che farebbe al caso suo... e allora mette in opera tutti i mezzi per arrivarciciascuno come può... Unoponiamoci mette il casatoe un altro quello che sa fare di meglio... le belle parolele occhiate tenere... Ma chi ha giudiziodall'altra partedeve badare ai suoi interessi... Vedi come son sciocchi quelli che piangono e si disperano?...
Il discorso gli morì in bocca dinanzi al viso pallido e agli occhi stralunati coi quali lo guardava la figliuola. Anche la moglie non sapeva dir altro:
- Lasciatela stare!... Non vedete com'è?...
- Come una sciocca è!... - gridò mastro-don Gesualdo uscendo finalmente fuori dai gangheri. - Come una che non sa e non vuol sapere!... Ma io non sarò scioccono!... Io lo so quello che vuol dire!...
E se ne andò infuriato.
IV
Cessata la paura del colèraappena ritornato in paesedon Gesualdo s'era vista arrivare la citazione della sorellaautorizzata dal marito Burgioche voleva la sua parte dell'eredità paterna - di tutto ciò che egli possedeva - una bricconata; adducendo che quei beni erano stati acquistati coi guadagni della societàdi cui era a capo mastro Nunzio; e che adesso voleva appropriarsi tutto luiGesualdo- lui che li aveva avuti tutti quanti sulle spallesino a quel giorno! che aveva dovuto chinare il capo alle speculazioni sbagliate del padre! ch'era stato la provvidenza del cognato Burgio nelle malannate! che pagava i debiti del fratello Santo all'osteria di Pecu-Pecu! - anche Santo lo citava per avere la sua quotaaveva fatto parte della società anche luiquel fannullone! - Ora lo svillaneggiavano per mezzo d'usciere; gli davano del ladro; volevano mettere i sigilli; sequestrargli la roba. Lo trascinavano fra le litigli avvocatii procuratori - un sacco di spesetanti bocconi amaritanta perdita di tempotanti altri affari che ne andavano di mezzoi suoi nemici che c'ingrassavano - nei caffè e nelle spezierie non si parlava d'altro - tutti addosso a lui perch'era riccoe pigliando le difese dei suoi parenti che non avevano nulla! Il notaro Neri gli faceva anche l'avvocato contrariogratis et amoreper le questioni vecchie e nuove che erano state fra di loro. Speranza l'aspettava sulle scale del pretorio per vomitargli addosso degli improperiiaizzandogli contro i figliuoli grandi e grossi inutilmenteaizzandogli contro Santo che non aveva faccia veramente di pigliarsela con don Gesualdo e cercava di sfuggirlo. - Siete tutti quanti dei capponi! tale e quale mio marito!... Io sola dovrei portare i calzoni qui! Non mi tengo se non lo mando in galeraquel ladro! Venderò la camicia che ho indosso. Voglio il fatto mioil sangue di mio padre... - Fu peggio ancora la prima volta che il giudice le diede causa persa: - Signori mieiguardate un po'!... Tutto si compra coi denari al giorno d'oggi!... Ma ricorrerò sino a Palermosino al rese c'è giustizia a questo mondo!... - Il barone Zaccosiccome allora aveva in testa di combinare certo negozio con don Gesualdos'intromise a farla da paciere. Una domenica riunì in casa sua tutti i Mottacompreso il marito di comare Speranza ch'era una bestiae non sapeva dire le sue ragioni. Santocostretto a trovarsi faccia a faccia con suo fratello don Gesualdocominciò dallo scusarsi:
- Che vuoi?... Io non ci ho colpa. Mi condussero dall'avvocato... Cosa dovevo fare?... Perché l'abbiamo chiesto il consiglio dell'avvocato?... Quello che mi dice l'avvocato io fo...
Don Gesualdo si mostrava arrendevole. Non che ci fosse obbligatono! - la legge lui la conosceva. - Ma per buon cuore. Il bene che aveva potuto fare ai suoi parenti l'aveva sempre fattoe voleva continuare a farlo. Lì un battibecco di prove e controprove che non finivano più. Speranzache vedeva sfumare la sua parte dell'eredità se si parlava di buon cuorese la pigliava col marito e coi figliuoli i quali non sapevano difendersi. Anche Santo stava zittocome un ragazzo che ne ha fatta una grossa. Fortuna che c'era leia dire il fatto suo:
- Che volete darcila limosina? Qualche salma di grano a comodo vostrodi tanto in tanto? qualche salma di vinoquello che non potete vendere?
- Cosa vuoi che ti dial'Alìa o Donninga? Vuoi che mi spogli io per empire il gozzo a voialtri che non avete fatto nulla? Ho figli. La roba non posso toccarla...
- La roba tua?... sentite quest'altra! Allora vuol dire che nostro padre buon'anima non ha lasciato nulla? E il negozio del gesso che avevate in comune? E quando avete preso insieme l'appalto del ponte? Nulla è rimasto alla buon'anima? I guadagni sono stati di voi solo? per comprare delle belle tenute? quelle che volete appropriarvi perché avete dei figliuoli?... C'è un Dio lassùsentite!... Ciò che volete togliere di bocca a questi innocentic'è già chi se lo mangia alla vostra barba! Andate a vederela serasotto le vostre finestreche passeggio!...
Finì in parapiglia. Il barone dovette mettersi a gridare e a fare il diavolo perché non si accapigliassero seduta stanteinvece di rappacificarsi. Speranza se ne andò da una parte ancora sbraitandoe don Gesualdo dall'altracolla bocca amaratormentato anche da quell'altra pulce che la sorella gli aveva messo nell'orecchio. Adessoin mezzo a tanti guai e grattacapigli toccava pure dover sorvegliare la figliuola e quell'assassino di Corrado La Gurna che la Cirmena per dispetto gli metteva fra i piedilì in paesea spese sue. Doveva tenere gli occhi aperti su ciascuno che andava e venivasulle servesui fogli di carta che mancavanosulla figliuola la quale aveva l'aria di chi ne cova una grossapallida allampanata... Ci si struggeva l'animala disgraziata! E lui doveva rodersi il fegato e mandar giù la bileper non far di peggio. Una sera finalmente la sorprese alla finestracon un tempo da lupi.
- Ah!... Continua la musica!... Che fai qui... a quest'ora?... A prendere il fresco per l'estate? T'insegno io a contar le stelle! Non m'hai visto ancora uscir dai gangheri! Gliel'insegno io a passeggiar di sera sotto le mie finestrea certi cavalieri! Un fracco di legnatese l'incontro! M'hai visto finora colla bocca dolce; ma adesso ti fo vedere anche l'amaro! Ti faccio arar dirittocome tiro l'aratro io!
Da quel giorno ci fu un casa del diavolomattina e sera. Don Gesualdo prese Isabella colle buonecolle cattiveper levarle dalla testa quella follìa; ma essa l'aveva sempre lì nella ruga sempre fissa fra le ciglianella faccia pallidanelle labbra strette che non dicevano una parolanegli occhi grigi e ostinati dei Trao che dicevano invece - Sìsìa costo di morirne! - Non osava ribellarsi apertamente. Non si lagnava. Ci perdeva la giovinezza e la salute. Non mangiava più; ma non chinava il capotestardauna vera Traocolla testa dura dei Motta per giunta. - Il pover'uomo era ridotto a farsi da sè l'esame di coscienza. - Dei genitori quella ragazza aveva preso i soli difetti. Ma l'amore alla roba no! Il giudizio di capire chi le voleva bene e chi le voleva maleil giudizio di badare ai suoi interessino! Non era neppure docile e ubbidiente come sua madre. Gli aveva guastata anche Bianca! Anche costeial vedere la sua creatura che diventava pelle e ossaera diventata come una gatta che gli si vogliano rubare i figliuolicol pelo irtotale e quale - la schiena incurvata dalla malattia e gli occhi luccicanti di febbre. Gli sfoderava contro le unghie e la lingua. - Volete farla morire di mal sottilela mia creatura? Non vedete com'è ridotta? Non vedete che vi manca di giorno in giorno? - L'avrebbe aiutatasottomanoanche a fare uno spropositoanche a rompersi il collo. Avrebbe tradito il marito per la sua creatura. Gli diceva: - Me ne vo a stare da mio fratello! Io e la mia figliuola! Che vi pare? - Cogli occhi di brace. Non l'aveva mai vista a quella maniera. Una voltadietro al medico il quale veniva per la ragazzaegli vide capitare una faccia che non gli piacque: una vecchia del vicinato che portava la medicina del farmacistacome don Luca il sagrestano e sua moglie Grazia portavano in casa Trao le sue imbasciate amorose. Era ridotto a passare in rivista le ricette del medico e la carta delle pillole che mandava Bomma. In un mese mutarono cinque donne di servizio. Era un tanghero luima non era un minchione come i fratelli Trao. Teneva ogni cosa sotto chiave; non lasciava passare un baiocco che potesse aiutare a fargli il tradimento. Era un cane alla catena anche luipover'uomo. Infine per togliersi da quell'inferno si decise a mettere Isabella in conventolì al Collegio di Mariacome quando era bambinacarcerata! Sua moglie ebbe un bel piangere e disperarsi. Il padrone era lui! - Sentite- gli disse Bianca colle mani giunte- io ho poco da penare. Ma lasciatemi la mia figliuolafino a quando avrò chiuso gli occhi.
- No! - rispose il marito. - Non ha neppure compassione di te quell'ingrata! Ci siamo ammazzati tutti per farne un'ingrata! Ha perso l'amore ai parenti... lontana di casa sua!
Il tradimento glielo fecero lìal Collegio: dell'altra gente beneficata da luila sorella di Gerbido che faceva la portinaiaGiacalone che veniva a portare i regali della zia Cirmena e faceva passare i bigliettini dalla ruotaBomma che teneva conversazione aperta nella spezieria per far comodo a don Corrado La Gurnail quale mettevasi subito a telegrafareappena la ragazza saliva apposta sul campanile. Lo facevano per pochi baiocchiper piacereper nienteper inimicizia. Congiuravano tutti quanti contro di luiper rubargli la figliuola e la robacome se lui l'avesse rubata agli altri. Un bel giorno infinementre le monache erano salite in coroche c'erano le quarant'orela ragazza si fece aprir la porta dai suoi complicie spiccò il volo.
Fu il due febbraiogiorno di Maria Vergine. C'era un gran concorso di devoti quell'anno alla festaperché non pioveva dall'ottobre. Don Gesualdo era andato in chiesa anche luia pregare Iddio che gli togliesse quella croce d'addosso. Invece il Signore doveva aver voltati gli occhi dall'altra parte quella mattina. Appena tornò dalla santa Messaquel giorno segnalatotrovò la casa sottosopra; sua moglie colle mani nei capellile serve che correvano di qua e di là. Infine gli narrarono l'accaduto. Fu come un colpo d'accidente. Dovettero mandare in fretta e in furia pel barbiere e cavargli sangue. La gnà Lia si buscò uno schiaffo tale da fracassarle i denti. Bianca più morta che viva scendeva le scale ruzzoloniquasi per fuggirsene anche leidalla paura. Luipaonazzo dalla colleracolla schiuma alla boccanon ci vedeva dagli occhi. Non vedeva lo stato in cui era la poveretta. Voleva correre dal giudicedal sindacomettere sottosopra tutto il paese; far venire la Compagnia d'Arme da Caltagirone; farli arrestare tutti e duefigliuola e complice; farlo impiccare nella pubblica piazzaquel birbante! farlo squartare dal boia! fargli lasciare le ossa in fondo a un carcere! - Quell'assassino! quel briccone! In galera voglio farlo morire!... tutti e due!...
In mezzo a quelle furie capitò la zia Cirmenacol libro da messa in manoil sorriso placidovestita di seta.
- Chetatevidon Gesualdo. Vostra figlia è in luogo sicuro. Pura come Maria Immacolata! Chetatevi! Non fate scandalich'è peggio! Vedete vostra moglieche pare stia per rendere l'anima a Diopoveretta! Lei è madre! Non possiamo sapere quello che ci ha nel cuore in questo momento! Sono venuta apposta per accomodar la frittata. Io non ci ho il pelo nello stomacocome tanti altri. Non so tener rancore. Sapete che mi sono sbracciata sempre pei parenti. Mi avete messo sulla strada... col colèra... con un orfanello sulle spalle... Ma non importa. Eccomi qua ad accomodare la faccenda. Ho il cuore buonotanto peggio! mio danno! Ma non so che farci! Ora bisogna pensare al riparo. Bisogna maritar quei due ragazziora che il male è fatto. Non ci è più rimedio. Del resto sul giovane non avete che dire... di buona famiglia.
Don Gesualdo stavolta le perse il rispetto addiritturacon tanto di bocca apertaquasi volesse mangiarsela: - Con quel pezzente?... Dargli la mia figliuola?... Piuttosto la faccio morire tisica come sua madre!... In campagna! in un convento! Bel negozio che mi portate!... da pari vostra!... Ci vuole una bella faccia tosta!... Mi fate ridere con questa bella nobiltà... So quanto vale!... tutti quanti siete!....
Successe un parapiglia. Donna Sarina sfoderò anche lei la sua lingua taglienterossa al pari di un gallo: - Parlate da quello che siete! Almeno dovevate tacere per riguardo a vostra moglievillano! mastro-don Gesualdo! Siete la vergogna di tutto il parentado!...
- Ah! ah! la vergogna. Andate là che avete ragione a parlare di vergognavoi!... mezzana! Ci avete tenuto mano anche voi! Siete la complice di quel ladro!... Bel mestiere alla vostra età! Vi farò arrestare insieme a luidonna Sarina dei miei stivali! donna... cosadovrebbero chiamarvi!
Sopraggiunse lo zio Limòlinonostante i suoi acciacchipel decoro della famigliaper cercare di metter pace anche luicolle buone e colle cattive. - Non fate scandali! Non strillate tantoch'è peggio! I panni sporchi si lavano in casa. Vediamo piuttosto d'accomodare questo pasticcio. Il pasticcio è fattocaro mioe bisogna digerirselo in santa pace. Bianca! Biancanon far così che ti rovini la salute... Non giova a nulla...
Don Gesualdo partì subito a rompicollo per Caltagirone. Voleva l'ordine d'arrestovoleva la Compagnia d'Arme. Lo zio marchese dal canto suo provvide a quello che c'era di meglio da farecon prudenza ed accorgimento. Prima di tutto andò a prendere subito la nipotee l'accompagnò al monastero di Santa Teresaraccomandandola a una sua parente. La gente di casaun po' colle minacceun po' col denarofurono messi a tacere. Poco dopo giunse come un fulmine da Caltagirone l'ordine d'arresto per Corrado La Gurna. Donna Sarina Cirmenaimpauritatenne la lingua a casa anche lei.
Intanto il marchese lavorava sottomano a cercare un marito per Isabella. Era figlia unica; don Gesualdo per amore o per forzaavrebbe dovuto darle una bella dote; e colle sue numerose relazioni era certo di procurarle un bel partito. Ne scrisse ai suoi amici; ne parlò alle persone che potevano aiutarlo in simili faccendeil canonico Lupiil notaro Neri. Quest'ultimo gli scovò finalmente colui che faceva al caso: un gran signore di cui il notaro amministrava i possessialquanto dissestato è vero nei suoi affariingarbugliato fra liti e debitima di gran famigliache avrebbe dato un bel nome alla discendenza di mastro-don Gesualdo. Quando si venne poi a discorrere della dote con quest'ultimo fu un altro par di maniche. Lui non voleva lasciarsi mangiar vivo. Neanche un baiocco! Il suo denaro se l'era guadagnato col sudore della frontela vita intera. Non gli piaceva di lasciarsi aprir le vene per uno che doveva venire da Palermo a bersi il sangue suo.
- Di dove volete che venga dunquedalla luna? Caro mioqueste son parole al vento. Sapete com'è? Vi porto un paragone a modo vostroper farvi intendere ragione: La grandine che vi casca nella vigna... Una disgrazia che vi capita nell'armento... Bisogna mandare alla fiera la giovenca che si è rotte le cornae chiudere gli occhi sul prezzo. Bisogna chinare il capoper amore o per forza. Del resto non avete altri figliuoli... Almeno sapete di farla una signorona!...
Il marchese nel tempo istesso andava a far visita alla nipotina. La pigliava colle buonecol giudizio che ci vuole per toccare certi tasti: - Hai ragione! Piangi pure che hai ragione! Sfogati con me che capisco queste cose... Un bruciouna cosa che sembra di morire! Tuo padre non ne capisce nullapoveretto. È stato sempre in mezzo ai suoi negoziai suoi villani... un po' rozzo anchese vogliamo... Ma ha lavorato per teper farti ricca. Tucol nome di tua madree coi quattrini di luipuoi rappresentare la prima parte anche in una grande cittàquando vorrai... Non quiin questo buco... Qui mi sembra di soffocare anche a me. Sono stato giovane; me li son goduti anch'io i begli anni... Appunto ti dicevo... Capisco quello che devi averci adesso nel tuo cuoricino. Quando si è giovani pare che al mondo non ci debba essere altro che quello... Tuo padre ha preso la via storta... Ma se lui si ostina a non darti nullaneanche quel giovanepoverettone ha... E allora... se ti tocca scopar la casa... se lui deve tirare il diavolo per la coda... Sarà un affar seriointendi? Vengono le quistionii pentimentii musi lunghi. I musi lunghi imbruttiscono te e luimia cara. Perché poi? con qual costrutto? Se tuo padre ha detto di nosarà di noche non lo sposerai. Morirai quiin questa specie d'ergastolo; ci consumerai i tuoi begli anni. Corrado rimarrà in esilioad arbitrio della poliziafinché vorrà tuo padre; egli ha le braccia lunghe adesso... Nemmeno a chi vuoi bene gioverestise ti ostini. Tuo cugino ha bisogno d'aver la testa quietadi lavorare in paceper guadagnarsi da vivere onestamente... Invece potresti sposare un gran signoree s'è vero che quel giovane ti vuol tanto bene dovrebbe esser contento lui pel primo. Quello si chiama amore... Un gran signorecapisci! Per ora non dirne nulla colle tue compagne... qui nel monastero sai creperebbero d'invidia... Ma so che c'è per aria il progetto di farti sposare un gran signore. Saresti principessa o duchessa! Altro che donna tal di tali! Carrozzecavallipalco a teatro tutte le seregioielli e vestiti quanti ne vuoi...Con quel bel visetto so io quante teste farai girare in una gran città! Quando si entra in una sala di balloscollacciatacoperta di brillantitutti che domandano: - Chi è quella bella signora?... - E si sente rispondere: la duchessa tale o la principessa tal'altra!... - Viavieni a veder tua madre ch'è ancora ammalatapoveretta! L'ha finita quel colpo! Sai ch'è di poca salute!... Anche tuo padre t'aspetta a braccia aperte. È un buon uomopoveraccio! Un cuor d'orouno che s'è ammazzato a lavorare per farti ricca!... Adesso torna a casa... Poi si vedrà...
Quando finalmente lo zio marchese condusse dai genitori la pecorella smarritafu una scena da far piangere i sassi. Isabella cadde ginocchioni dinanzi al letto della mammache trovava così mutatasinghiozzando e domandandole perdono; mentre sua madrepoverettapassava da uno svenimento all'altrotanta era la consolazione. Poi arrivò don Gesualdoe stettero zitti tutti quanti. Egli infine prese la parolaun po' turbato anche luicogli occhi gonfiché il sangue infine non è acquae il cuore non l'aveva di sasso.
- Me l'hai fatta grossa! Questa non me la meritavo. Ci siamo tolto il pan di boccaio e tua madreper farti ricca!... Vedi com'è ridottapoveraccia?... Se chiude gli occhi è un cadavere addirittura!... Ma sei il sangue nostrola nostra creaturae ti abbiamo perdonato. Ora non se ne parli più.
Però Isabella ne parlava sempre collo zio marchesecolla zia Mèndolacolla zia Macrìcon tutti i parenti; da tutti cercava aiutofin dal suo confessorecome una pazzadesolatalavando dal piangere le pietre del confessionario. Tutti le dicevano: - Che possiamo farcise tuo padre non vuole? Lui è il padrone. Lui deve mettere fuori i denari della dote. Lo fa pel tuo meglio; cerca il tuo vantaggio. Tutte quante si maritano come vogliono i genitori! - Il confessore stesso tirava fuori la volontà di Dio. Anche la zia Cirmenaquando aveva visto che non era bastata nemmeno la fuga a cavare i denari della dote dalle mani di don Gesualdos'era stretta nelle spalle:
- Che vuoimia cara? Io ho fatto il possibile. Ma senza denari non si canta Messa. Corrado non ha nulla - tu non hai nulla neppurese tuo padre si ostina a dir di no... Fareste un bel matrimonio! Vedi com'è andata a finire? Che quel povero giovane ci ha rimesso anche la libertàpel capriccio di tuo padre! Lascialo stare in pace almenoperché adesso alle lettere che scrive ai parenti ogni giorno tutte che piangono guai e vorrebbero denariin conclusioneè un affare serio!...
Il marchese Limòli poi gliela cantava su un altro tono:
- Figliuola miaquando uno non è ricconon può darsi il gusto di innamorarsi come vuole. Voialtri siete giovani tutti e duee avete gli occhi chiusi. Non vedete altro che una cosa sola! Bisogna vedere anche quello che verrà poila pentola da mettere al fuocole camice da rattoppare... Sarà un bel divertimento! Tu sei nata beneper parte di madrelo so anch'io. Ma vedi tua madrecos'ha dovuto faree tuo zio don Ferdinandoe io stesso!... Siamo tutti nati dalla costola di Adamofigliuola mia!... Anche Corrado è della costola d'Adamo. Ma i baiocchi li tiene tuo padre! Se non vuol darveneandrete a scopar le strade tutti e duee dopo un mese vi piglierete pei capelli. Invece puoi fare un gran matrimonio sfoggiarla da gran signorain una gran città!... Dopoquando avrai il cuoco in cucinala carrozza che t'aspetta e le tue buone rendite garantite nell'atto dotalepotrai darti il lusso di pensare alle altre cose...
Verso la Pasqua giunse in paese il duca di Leyracol pretesto di dar sesto ai suoi affari da quelle partichè ne avevano tanto di bisogno. Era un bell'uomomagroelegante un po' calvogentilissimo. Si cavava il cappello anche per rispondere al saluto dei contadini. Aveva lo stesso sorriso e le medesime maniere cortesi per tutti i seccatori dai quali fu tosto assediatofin dal primo giorno. Nel paese fu l'argomento di tutti i discorsi: Quel che aveva detto; quel che era venuto a fare; quanto tempo si sarebbe fermato lì; quanti anni aveva. Le signore asserivano che non dimostrava più di quarant'anni. Il giorno della processione del Cristo risuscitato ci fu il Caffè dei Nobili pieno zeppo di signore. Le Zacco con certi cappellini che facevano male agli occhi; la signora Capitana stecchita nel suo eterno lutto che la ringiovanivae la faceva chiamare ancora la bella vedovella - da dieci annidacché era morto suo marito. - Le Margarone in gran galaverdirossegiallesvolazzanti di piumedi nastridi ricciolini diventati neri col tempograsse da scoppiarecolor di mattone in viso. Tutte che cicalavanoe si davano un gran da fare per dar nell'occhio ai signori forestieri. Il duca s'era tirato dietro lo zio balìonde sembrar più giovane - dicevano le male lingue: un vecchietto grasso e rubicondo che doveva lasciargli l'ereditàe intanto faceva la corte alle signore - come non sanno farla più al giorno d'oggi! - osservò la Capitana.
Sul più bellomentre la statua dell'Evangelista correva balzelloni da Gesù a Mariae il popolo gridava: viva Dio resuscitato! capitò la carrozza nuova di don Gesualdo Motta. Lui con la giamberga dai bottoni d'oro e il solitario al petto della camiciala moglie in gala anche leipoverettache la veste nuova le piangeva addossoallampanataridotta uno scheletroe la figliuola con un vestito nuovofatto venire apposta da Palermo. La folla si apriva per lasciarli passaresenza bisogno di spintoni. Dei curiosi guardavano a bocca aperta. Lo stesso duca domandò chi fossero: - Ahuna Trao! Si vede subitoquantunque abbia l'aria un po' sofferentepovera signora. - Il marchese Limòli ringraziava luicon un cenno del capoe lo presentò alla nipote. Il duca e il balì di Leyra fecero un gruppo a partesul marciapiede del Caffè dei Nobilicolla famiglia di don Gesualdo e il marchese Limòli. Tutt'intorno c'era un cerchio di sfaccendati.
Il barone Zacco attaccò discorso col cocchiere per scavare cosa c'era sotto. Mèndola fingeva d'accarezzare i cavalli. Canali ammiccava di qua e di là: - Guardate un po'signori mieiche ruota è il mondo! - Nessuno badava più alla processione. C'era un bisbiglio in tutto il Caffè. Don Ninì Rubierada lontanocol cappello in cima al bastone appoggiato alla spallasi morsicava le labbra dal dispettopensando a quel che era toccato a lui invecedonna Giuseppina Alòsi in moglieuna mandra di figliuolila lite per la casa che mastro-don Gesualdo voleva acchiapparsi col pretesto del debitodopo tanto tempo... La moglie al vederlo così stralunatocogli occhi fissi addosso a sua cuginagli piantò una gomitata aguzza nelle costole.
- Quando volete finirla?... È uno scandalo!... I vostri figliuoli stessi che vi osservano! Vergogna!
- Ma sei pazza? - rispose lui. - Diavolo! Ho altro pel capo adesso! Non vedi che ha già i capelli bianchi? ch'è una mummia?... Sei pazza?
Egli pure era invecchiatoflosciocalvopanciutoacceso in visocolle gote ed il naso ricamati di filamenti sanguigni che lo minacciavano della stessa malattia di sua madre. Ora si guardavano come due estraneilui e Biancaindifferenticiascuno coi suoi guai e i suoi interessi pel capo. Anche le male linguedopo tanto tempoavevano dimenticato le chiacchiere corse sui due cugini. Però invidiavano mastro-don Gesualdo il quale era arrivato a quel postoe donna Bianca che aveva fatto quel gran matrimonione. La sua figliuola sarebbe arrivata chissà dove! Donna Agrippina Macrì e le cugine Zacco saettavano occhiate di fuoco sul cappellino elegante d'Isabellae sui salamelecchi che le faceva il duca di Leyrainguantatocon un cravattone di raso che gli reggeva il bel capo signorilegiocherellando con un bastoncino sottile che aveva il pomo d'oro. La signora Capitana fece osservare a don Mommino Neriil quale era diventato un rompicollodopo la storia della prima donna:
- È inutile! Basta guardarlo un momentoper saper con chi avete da fare. Dirà magari delle sciocchezze adesso... Ma è il modo in cui le dice!... Ogni parola come se ve la mettesse in un vassoio...
Il signor duca andò poi a presentare i suoi omaggi in casa Motta. Don Gesualdo si fece trovare nel salotto buono. Avevano lavorato tutto il giorno a dar aria e spolverarele serveluimastro Nardo. Il signor ducacolla parlantina scioltadiscorreva un po' di tuttodi agricoltura col padrone di casadi mode con le signoredi famiglie antiche col marchese Limòli. Egli aveva sulla punta delle dita tutto l'almanacco delle famiglie nobili dell'isola. Arrivò anche a confidare che la sua era originaria del paese. Desiderava fare il suo dovere con don Ferdinando Traoe visitare il palazzoche doveva essere interessantissimo. Con la ragazzadi sfuggitalasciò cadere il discorso sulle opere allora in voga; raccontò qualche fatterello della società; narrò aneddoti del tempo in cui era a Palermo la cortela regina Carolinagli inglesi: un mondo di chiacchierecome una lanterna magica nella quale passavano delle gran damedel lusso e delle feste. Nell'andarsene baciò la mano a donna Bianca. Per le scaledal pollaiosull'uscio della legnaiatutta la gente di casa s'affollava per vederlo passare. Dopola sera non si fece altro che parlare di luiin cucinafin le servee mastro Nardoil quale sgranava gli occhi.
Il balì di Leyra e il marchese Limòli poi avevano intavolato un altro discorsocosìa fior di labbratenendosi sulle generali. Il giorno dopo intervenne anche il ducail quale confessò prima di tutto ch'era innamorato della ragazzaun vero fiorellino dei campiuna violetta nascosta; e dichiarò sorridendoche quanto al resto... d'affari voleva dire... non se n'era occupato maiper sua disgrazia!... non era il suo fortee aveva pregato il notaro Neri di far lui...
Un vero usuraioquel notarosottileavidoinsaziabile. Don Gesualdo avrebbe preferito mille volte trattare il negozio faccia a faccia col generoda galantuomini. - Nonocaro suocero. Non è la mia partita. Non me ne intendo. Quello che farete voialtri sarà ben fatto. Quanto a meil tesoro che vi domando è vostra figlia.
Però le trattative tiravano in lungo. Mastro-don Gesualdo cercava difendere la sua robavederci chiaro in quella faccendatoccar con mano che quanto ci metteva il signor genero nell'altro piatto della bilancia fosse tutto oro colato. Il duca aveva dei gran possessiè veromezza contea; ma dicevasi pure che ci fossero dei gran pasticcidelle litidelle ipoteche. Del notaro Neri non poteva fidarsi. L'altro sensaleil marchese Limòlinon aveva saputo badare nemmeno ai suoi interessi. Voleva intromettercisi il canonico Lupiprotestando l'amicizia antica. Ma lui rispose: - Vi ringrazio! Grazie tantecanonico! Mi è bastato una volta sola! Non voglio abusare... - Tutti miravano alla sua roba. Ci furono dei tira e molladelle difficoltà che sorgevano a ogni passodelle vecchie carte in cui ci si smarriva. Intanto la figliuoladall'altra parteaveva sempre quell'altro in testa. Scongiurava il babbo e la mamma che non volessero sacrificarla. Andava a piangere dai parentie a supplicare che l'aiutassero: - Non posso! non posso! - Ai piedi del confessore aprì il suo cuoretutto! il peccato mortale in cui era!... - Quel servo di Dio non capiva nulla. Badava solo a raccomandarle di non cascarci più e le metteva il cuore in pace coll'assoluzione. La poveretta arrivò a scappare in casa dello zio Traoonde buttarsi nelle sue braccia.
- Ziotenetemi qui! Salvatemi voi. Non ho altri al mondo! Sono sangue vostro. Non mi mandate via!
Don Ferdinando era malatocoll'asma. Non poteva parlarenon capiva nulladel resto. Faceva dei gesti vaghi colla mano scarnae chiamava in aiuto Graziacome un bambinosbigottito da ogni viso nuovo che vedesse.
- Sìtenetemi qui in luogo di Grazia. Vi servirò colle mie mani. Non mi mandate via. Vogliono maritarmi per forza!... in peccato mortale!...
Il vecchio allora ebbe come un ricordo negli occhi appannatinel viso smorto e rugoso. Tutti i peli grigi della barba ispida parvero trasalire.
- Anche tua madre s'è maritata per forza... Diego non voleva... Vatteneora... se no viene tuo padre a condurti via di qua!... Vattenevattene...
Lo zio marcheseuomo di mondoche ne sapeva più di tutti sulle chiacchiere raccolte a casaccioprese a quattr'occhi don Gesualdo:
- Insommavolete capirla? Vostra figlia dovete maritarla subito. Datela a chi vi piace; ma non c'è tempo da perdere. Avete capito?
- Eh?... Come?... - balbettò il povero padre sbiancandosi in viso.
- Sicuro!... Avete trovato un galantuomo che se la piglia in buona fede... Ma non potete pretendere troppo infine da lui!...
Talchè don Gesualdostretto da tutte le partitirato pei capellisi lasciò aprir le venee mise il suo nome in lettere di scatola al contratto nuziale: Gesualdo Motta sotto la firma del genero che pigliava due righe: Alvaro Filippo Maria Ferdinando Gargantas di Leyra.
Da Palermo giunsero dei regali magnificidei gioielli e dei vestiti che asciugarono a poco a poco le lagrime della sposauno sfoggio di grandezze che la pigliava come una vertigineche chiamava un pallido sorriso fin sulle labbra della mammae che lo zio marchese andava spampanando da per tutto. Solo don Gesualdo borbottava di nascosto. Si aspettavano gran cose per quello sposalizio. La Capitana mandò un espresso a Catania dal primo sarto. Le Zacco stettero otto giorni in casa a cucire. Però alle nozze non fu invitato nessuno: gli sposi vestiti da viaggioi genitorii testimoniquattro candele e nessun altronella meschina chiesetta di Sant'Agatadove s'era maritata Bianca. Quanti ricordi per la povera madrela quale pregava inginocchiata dinanzi a quell'altarecoi gomiti sulla seggiola e il viso fra le mani! Fuori aspettava la lettiga che doveva portarsi via gli sposi. Fu una delusione e un malumore generale fra i parenti e in tutto il paese. Dei pettegolezzi e delle critiche che non finivano più intorno a quel matrimonio fatto come di nascosto. Della gente era andata a far visita ai Margarone e in casa Alòsiper vedere se la sposa era rossa o pallida. La Capitana aveva un bel fareun bel cercare di non darsi vintadicendo che quella era la moda di sposarsi adesso. Donna Agrippina rispose che a quel modo non le pareva nemmeno un sagramentopovera Isabella!... La Cirmena masticava altre cose fra i denti:
- Come sua madre!... Vedrete che sarà fortunata perché è figlia di sua madre!...
Ciolla che vide passare dalla piazza la lettiga si mise a gridare:
- Gli sposi! Ecco la lettiga degli sposi che partono! - Poi andò a confidare di porta in portaal Caffènella spezieria di Bomma:
- È partita anche una lettera per don Corradino La Gurna... Sicuro! Una lettera per fuori regno. Me l'ha fatta vedere il postino in segretezza. Non so che dicesse; ma non mi parve scrittura della Cirmena. Avrei pagato qualche cosa per vedere che c'era scritto...
La lettera diceva tante belle coseper mandare giù la pillolalei e il cuginetto che si disperava e penava lontano.
“Addio! addio! Se ti ricordi di mese pensi ancora a medovunque saraieccoti l'ultima parola di Isabella che amasti tanto! Ho resistitoho lottato a lungoho sofferto... Ho pianto tanto! ho pianto tanto!... Addio! Partiròandrò lontano... Nelle festein mezzo alle pompe della capitaledovunque sarò... nessuno vedrà il pallore sotto la mia corona di duchessa... Nessuno saprà quel che mi porto nel cuore... sempresempre!... Ricordati! ricordati!...“
Parte quarta
I
Erano appena trascorsi sei mesiquando sopravvennero altri guai a don Gesualdo. Isabella minacciava di suicidarsi; il genero aveva preso a viaggiare fuori regnoe faceva temere di voler intentare causa di separazioneper incompatibilità di carattere. Altre chiacchiere giunsero in segreto sino al povero padreil quale corse a rotta di collo alla villa di Carinidov'era confinata la duchessa per motivi di salute. Ritornò poi invecchiato di dieci annipigliandosela colla moglie che non capiva nullamaledicendo in cuor suo la Cirmena e tutto il parentado che gli dava soltanto bocconi amaricostretto a correr dietro al notaio per accomodare la faccenda e placare il signor genero a furia di denari. Fu un gran colpo pel poveretto. Tacque alla moglie il vero motivoper non affliggerla inutilmente; tenne tutto per sè; ma non si dava pace; parevagli che la gente lo segnasse a dito; sentivasi montare il sangue al viso quando ci pensavada soloo anche se incontrava quell'infame della Cirmena. Lui era un villano; non c'era avvezzo a simili vergogne! Intanto la figlia duchessa gli costava un occhio. Prima di tutto le terre della Canziriad'Alìa e Donninga che le aveva assegnato in dotee gli facevano piangere il cuore ogni qualvolta tornava a vederledate in affitto a questo e a quellodivise a pezzi e bocconi dopo tanti stenti durati a metterle insiememal tenutemal coltivatelontane dall'occhio del padronequasi fossero di nessuno. Di tanto in tanto gli arrivavano pure all'orecchio altre male nuove che non gli lasciavano requiecome tafanicome vespe pungenti; dicevasi in paese che il signor duca vi seminasse a due mani debiti fitti al pari della grandinela medesima gramigna che devastava i suoi possessi e si propagava ai beni della moglie peggio delle cavallette. Quella povera Canziria che era costata tante fatiche a don Gesualdotante privazionidove aveva sentito la prima volta il rimescolìo di mettere nella terra i piedi di padrone! Donninga per cui si era tirato addosso l'odio di tutto il paese! le buone terre dell'Alìa che aveva covato dieci anni cogli occhisera e mattinale buone terre al solesenza un sassoe sciolte così che le mani vi sprofondavano e le sentivano grasse e calde al pari della carne viva... tuttotutto se ne andava in quella cancrena! Come Isabella aveva potuto stringere la penna colle sue manie firmare tanti debiti? Maledetto il giorno in cui le aveva fatto imparare a scrivere! Sembravagli di veder stendere l'ombra delle ipoteche sulle terre che gli erano costate tanti sudoricome una brinata di marzopeggio di un nebbione primaverileche brucia il grano in erba. Due o tre voltein circostanze graviera stato costretto a lasciarsi cavar dell'altro sangue. Tutti i suoi risparmi se ne andavano da quella vena apertale sue faticheil sonno della nottetutto. E pure Isabella non era felice. L'aveva vista in tale statonella villa sontuosa di Carini! Indovinava ciò che doveva esserci sottoquando essa scriveva delle lettere che gli mettevano addosso la febbrel'avvelenavano coll'odore sottile di quei foglietti stemmatilui che aveva fatto il cuoio duro anche alla malaria. Il signor duca invece trattava simili negozi per mezzo del notaro Neri - poichè non erano il suo forte. - E alla finequando mastro-don Gesualdo s'impennò sul seriosbuffandorecalcitrandogli fece dire:
- Si vede che mio suoceropoverettonon sa quel che ci vuole a mantenere la figliuola col decoro del nome che porta...
- Il decoro?... Io me ne lustro gli stivali del decoro! Io mangio pane e cipolle per mantenere il lustro della duchea! Diteglielo pure al signor genero! In pochi anni s'è mangiato un patrimonio!
Fu un casa del diavolo. Donna Biancala quale era assai malandatae sputava sangue ogni mattinafece una ricaduta che in quindici giorni la condusse in fin di vita. Nel paese ormai si sapeva ch'era tisica: tutti così quei Trao! una famiglia che si estingueva per esaurimentodiceva il medico. Soltanto il maritoch'era sempre fuoriin faccendeoccupato dai suoi affaricon tanti pensieri e tanti guai per la testasi lusingava di farla guarire appena avrebbe potuto condursela a Mangalavitein quell'aria balsamica che avrebbe fatto risuscitare un morto. Essa sorrideva tristamente e non diceva nulla.
Era ridotta uno scheletrodocile e rassegnata al suo destinosenza aspettare o desiderare più nulla. Soltanto avrebbe voluto rivedere la figliuola. Suo marito glielo aveva anche promesso. Ma siccome erano in dissapore col genero non ne aveva più parlato. Isabella prometteva sempre di venireda un autunno all'altroma non si decideva maicome avesse giurato di non metterci più i piedi in quel paese maledettoe se lo fosse tolto dal cuore interamente. A misura che le mancavano le forzeBianca sentiva dileguare anche quella speranzacome la vita che le sfuggivae sfogavasi a ruminare dei progetti futurivaneggiandoaccendendosi in viso delle ultime fiamme vitalicon gli occhi velati di lagrime che volevano sembrare di tenerezza ed erano di sconforto: - Farò questo! farò quell'altro! - Faceva come quegli uccelletti in gabbia i quali provano il canto della primavera che non vedranno. Il letto le mangiava le carni; la febbre la consumava a fuoco lento. Adessoquand'era presa dalla tossesi metteva ad ansaresfinitacolla bocca apertagli occhi smaniosi in fondo alle occhiaie che sembravano fonde fondebrancicando colle povere braccia stecchite quasi volesse afferrarsi alla vita.
- Bene! - sospirò infine don Gesualdo che vedeva la moglie in quello stato. - Farò anche questa!... Pagherò anche stavolta perché il signor duca ti faccia rivedere la figliuola!... Già son fatto per portare il carico...
Il medico andava e veniva; provava tutti i rimeditutte le sciocchezze che leggeva nei suoi libracci; c'era un conto spaventoso aperto dal farmacista. - Almeno giovassero a qualche cosa! - brontolava don Gesualdo. - Io non guardo ai denari spesi per mia moglie; ma voglio spenderli perché le giovino e le si veggano in faccia... non già per provare i medicamenti nuovi come all'ospedale!... Ora che si sono messi in testa ch'io sia riccociascuno se ne giova pei suoi fini...
La prima volta però che s'arrischiò a fare velatamente queste lagnanze allo stesso medicoSaleniun altro dottorone ch'era peggio di Tavusobuon'animagli piantò in faccia gli occhiaccie rispose burbero:
- Allora perché mi chiamate?
Dovette anche pregarlo e scongiurarlo di continuare a fare il comodo suoquantunque non giovasse a nulla. La vigilia dell'Immacolata parve proprio che la povera Bianca volesse rendere l'anima a Dio. Il marito ch'era andato ad aspettare il medico sulla scala gli disse subito:
- Non mi piacedottore! Stasera mia moglie non mi piace!
- Eh! ve ne accorgete soltanto adesso? A me è un pezzo che non mi piace. Credevo che l'aveste capita.
- Ma che non c'è rimediovossignoria? Fate tutto ciò che potete. Non guardate a spesa... I denari servono in queste occasioni!...
- Ahadesso me lo dite? Adesso capite la ragione? Me ne congratulo tanto!
Saleni ricominciò la commedia: il polsola linguaquattro chiacchiere seduto ai piedi del lettocol cappello in testa e il bastone fra le gambe. Poi scrisse la solita ricettale solite porcherie che non giovavano a nullae se ne andò lasciando nei guai marito e moglie. La casa era diventata una spelonca. Tutti che vogavano alla larga. Finanche le serve temevano del contagio. Zacco era il solo parente che si rammentasse di loro nella disgraziadacchè avevano fatto società per l'appalto dello stradonetornati amici con don Gesualdo. Egli veniva ogni giorno insieme a tutta la famigliala baronessa impresciuttita e ubbidientele figliuole che empivano la camerastagionategrasse e prosperose che sfidavano le cannonate. - Lui non aveva paura del contagio! Sciocchezze!... Poiquando si tratta di parenti!... Quella sera aveva sentito dire in piazza che la cugina Bianca stava peggio ed era giunto più presto del solito. - Per distrarre un po' don Gesualdo lo tirò nel vano del balconee cominciò a parlargli dei loro negozi.
- Volete ridere adesso? Il cugino Rubiera dirà all'asta per gli altri due tronchi di strada!... Sissignore! quella bestia!... Eh? eh? che ne dite?... Lui che non ha potuto pagarvi ancora i denari della prima donna?... C'è l'inferno a causa vostra con la moglie che non vuol pagare del suo!... I figliuoli sìglieli ha portati in dote!... ma i denari vuol tenerseli per sé! È predestinato quel povero don Ninì!... E sapete chi comparisce all'astaeh? volete saperlo?... Canalifiguratevi!... Canali che fa l'appaltatore in società col barone Rubiera!... Ora s'è svegliata in tutti quanti la fame del guadagno!... Eh?... Non avevo ragione di dire?... Non ridete?...
Ma l'amico non gli dava rettainquietocoll'orecchio sempre teso dall'altra parte. Indi si alzò e andò a vedere se Bianca avesse bisogno di qualche cosa. Essa non aveva bisogno di nullaguardando fisso con quegli occhi di creatura innocenterecandosi alla bocca di tanto in tanto il fazzoletto che ricacciava poi sotto il guanciale insieme alla mano scarna. Le cugine Zacco stavano sedute in giro dinanzi al lettocolle mani sul ventre. La mamma per rompere il silenzio balbettò timidamente:
- Sembra un po' più calma... da che siam qui noi...
Le figliuole a quelle parole guardarono tutte insiemee approvarono col capo.
Il barone s'accostò al letto lui puredimostrando molto interesse per l'ammalata:
- Sìsìnon c'è confronto!... l'occhio è più sveglio; anche la fisonomia è più animata... Si capisce!... udendo discorrere intorno a lei... Bisogna distrarlatenerle un po' di conversazione... Per fortuna siete in buone mani. Il dottore sa il fatto suo. Poiquando si hanno dei mezzi!... quando non manca nulla! Ne conosco tanti altri invece... ben nati... di buona famiglia... cui manca di giorno il pane e di notte la coperta!... vecchi e malatisenza medico né speziale...
Si chinò all'orecchio di don Gesualdo e spifferò il resto. Bianca l'udì o l'indovinòcon gli occhi luminosi che fissavano in volto la gentee cavò di sotto il guanciale la mano scarna e pallida che sembrava quella di una bambinaper far segno al marito d'avvicinarsi. Don Gesualdo s'era chinato su di lei e accennava di sì col capo. Il barone vedendo che non era più il caso di misteri parlò chiaro:
- Non verrà! Don Ferdinando è diventato proprio un ragazzo. Non capisce nullapoveretto!... Bisogna compatirlo. Diciamola quifra noi parenti... Che gli sarebbe mancato?... Un cognato con tanto di cuorecome questo qui!...
L'inferma agitò di nuovo in aria quella mano che parlava da sola.
- Eh? Che dice? Cosa vuole? - domandò il barone.
Donna Laviniala maggiore delle ragazzes'era alzata premurosa per servirla in quel che occorresse. Donna Mariettal'altra sorellatirò invece il papà per la falda. Bianca s'era chiusa in un silenzio che le affilò come un coltello il viso smuntosì che il barone stesso se ne avvide e mutò discorso.
- Domeneddio alle volte ci allunga i giorni per farci provare altri guai... Parlo della baronessa Rubierapoveretta! Eh?... Vivere per vedersi disfare sotto i propri occhi la roba che s'è fatta!... senza poter dire una parola né muovere un dito... eh?... eh? Suo figlio è una bestia. La nuora gli conta i bocconi che mangia!... Com'è vero Iddio! Non vede l'ora di levarsela dai piedi!... E leino! non vuole andarsene! Vuol vivere apposta per vedere come farà suo figlio a togliersi dal collo il debito e don Gesualdo... Eh? Ho parlato or ora con vostro marito dei gran progetti che ha don Ninì pel capo...
Don Gesualdo stava zittosopra pensieri. Poisiccome il barone aspettava la risposta della cugina Biancacol risolino fisso in boccabrontolò:
- Nonon c'è tanto da ridere... Dietro il paravento dev'essere anche il canonico Lupi.
Zacco rimase interdetto: - Quel briccone? quell'intrigante?... Come lo sapete?... Chi ve l'ha detto?...
- Nessuno. È un'idea mia. Ma vedrete che non m'inganno. Del resto non me ne importa nulla! Ho altro pel capo adesso!
Ma il barone non si dava pace: - Che? Non ve ne importa? Grazie tante! Sapete cosa dicono pure? Che vogliono levarci di mano le terre del comune!... Dicono che stavolta hanno trovato il modo e la maniera... e che né voi né io potremo rimediarcicapite?...
Don Gesualdo si strinse nelle spalle. Sembrava che davvero non gliene importasse nulla di nulla adesso. Il barone a poco a poco andò calmandosiin mezzo al coro dei suoi che mormoravano sottovoce contro il canonico.
- Un intrigante!... un imbroglione!... Non si fa nulla in paese che non voglia ficcarci il naso lui!... - Donna Mariettapiù prudentetirò il babbo per la falda un'altra volta.
- Scusate! scusate! - aggiunse lui. - Si chiacchiera per dire qualche cosa... per distrarre l'ammalata... Non si sa di che parlare... Sapete voi cosa vanno narrando pure i malintenzionati come Ciolla?... che fra otto giorni si farà la rivoluzione... per spaventare i galantuomini... Vi rammentatenel ventunoeh? don Gesualdo?
- Ah?... Che volete?... La rivoluzione adesso l'ho in casa!...
- Capiscocapisco... Ma infinenon mi pare...
La baronessache parlava al bisognosi rivolse a don Gesualdocon quella faccia di malauguriochiedendogli se alla duchessa avessero scritto di sua madre che era in quello stato... Bianca aveva l'orecchio fino degli ammalati gravi. - No! no! Non c'è premura! - interruppe Zacco. Intanto donna Lavinia si era alzata per andare a prendere un bicchier d'acqua. Come si udì suonare il campanello dell'uscio voleva anche correre a vedere chi fosse.
- Una spada a due mani! - esclamò sottovoce il baronequasi facesse una confidenzae sorridendo di compiacimento. - Una ragazza che in casa vale un tesoro... Giudiziosa!... Per sua cugina Bianca poi si butterebbe nel fuoco!... - La mamma sorrideva lei pure discretamente. In quella sopraggiunse la serva ad annunziare che c'era il barone Rubiera con la moglie.
- Lui? Ci vuole una bella faccia tosta!... - saltò su il barone cercando il cappello che teneva in testa. - Vedrete che viene a parlarvi di ciò che v'ho detto! Non ci avete un'altra uscita?... per non vederlo in facciaquella bestia!...
La sua famiglia toglieva commiato in fretta e in furia al pari di luicercando gli sciallirovesciando le seggioleurtandosi fra di loroquasi don Ninì stesse per irrompere a mano armata nella camera. La povera infermasmarrita in quel parapigliasi lasciò sfuggire con un filo di voce:
- Per l'amor di Dio... Non ne posso più!
- No... Non potete farne a menocugina mia!... Sono parenti anch'essi!... Vedrete che vengono appostaonde approfittare dell'occasione... Finta di farvi una visita... Piuttosto ce ne andremo noi... È giusto... Chi prima arriva al mulino...
Ma i Rubiera non spuntavano ancora. Don Gesualdo andò nell'anticameradove seppe dalla serva che aspettavano nel salottocome avevano sentito che c'erano i Zacco...
- Meglio! - osservò il barone. - Vuol dire che desidera parlarvi a quattr'occhidon Ninì!... Allora noi non ci moviamo. Restiamo a far compagnia alla cuginaintanto che voi fate gli affari vostri... Sentiremo poi cosa è venuto a dirvi quello sciocco!
La serva aveva portato un lumicino nel salottoe in quella semioscurità don Ninì sembrava addirittura enormeinfagottato nel cappottocon la sciarpa di lana sino alle orecchie una zazzera sulla nuca che non tagliava sino a maggio. Donna Giuseppina invece s'era aggobbitaaveva il viso floscio e grinzoso nel cappuccio rotondoi capelli di un grigio sudicio mal pettinatilisciati in fretta con le mani e fermati dal fazzoletto di seta che portava legato sotto il mentole mani corrose e neredelle mani di buona massaia con le quali gesticolava per difendere gli interessi del maritoagitandosi nel cappottino seminato di pillacchereche la copriva tutta quantamostrando in tutta la persona l'incuria e la trascuraggine della signora ricca che non ha bisogno di pareredella moglie che ha cessato di far figliuoli e non deve neppure piacere al marito. E sulla bocca sdentata teneva fisso un sorriso di poverail sorriso umile di chi viene a sollecitare un favorementre don Ninì cercava le parolegirando il cappellaccio fra le manicon quella sciarpa sino al naso che gli dava un aspetto minaccioso. La moglie gli fece animo con un'occhiatae cominciò lei:
- Abbiamo sentito che la cugina sta male... Siam corsi subito con Ninì... Infine siamo parenti... dello stesso sangue... Le questioni... gl'interessi... si sain tutte le famiglie... Ma ogni cosa deve mettersi da banda in certe occasioni... Anche Ninì... poverettonon si dava pace... Diceva sempre... Infine vorrei sapere perché...
Don Ninì approvava coi gesti e con tutta la persona che aveva lasciato cadere sul canapè facendolo scricchiolare; e subito intavolò il discorso per cui erano venuti - sua moglie volle assolutamente che il cugino sedesse in mezzofra due fuochi. - Abbiamo quell'affare del nuovo appaltocaro don Gesualdo. Perché dobbiamo farci la guerra fra di noidico io? a vantaggio altrui?... giacchè infine siamo parenti!...
- Sicuro! - interruppe la moglie. - Siamo venuti per questo... Come sta la cugina?
- Come Dio vuole!... Come ci avessi il gastigo di Dio sulle spalle!... Non ho testa di pensare agli affari adesso...
- Nononon voglio che ci pensiate... Appunto dicevo... dovreste rimettervene a una persona di fiducia... Salvo l'interesseben inteso...
Don Ninì a un tratto si fece scuro in visocacciandosi all'indietro appuntandogli in faccia gli occhi sospettosi:
- Ditemi un po' vi fidate voi di Zacco? Eh? vi fidate?
Don Gesualdo malgrado il malumore che aveva in corpomosse la bocca a risocome a dire che non si fidava di nessuno.
- Bene! Se sapeste che roba è quell'uomo!... Ciò che diceva di voiprima!... prima di essere pane e cacio con voi!... Che roba gli scappava di bocca!...
Donna Giuseppinacon le gote gonfiestringeva le labbraquasi per non lasciarselo scappare neppur lei.
- Infinelasciamo andare! Chiacchiera non macina al mulino... È parente anche lui!... Dunque torniamo a noi. Perché ci facciamo la guerra? Perché facciamo campare giudici ed avvocati alle nostre spalle? Cosa sono questi malumori fra parenti? Per quella miseria che vi devo? Sìuna miseria! Per voi è una presa di tabacco...
- Scusatescusateanche per voi...
Allora interloquì donna Giuseppinacontando miserieuna famiglia numerosasua suocerala baronessafinché viveva lei...
- Scusate... Non c'entra... È che i denari servonosapete... I miei denari li ho dati a vostro marito.
Don Ninì prese a scusarsidinanzi alla moglie. Certo... i denari se li era fatti prestare... in un momento che aveva persa la testa... Quando si è giovani... sarebbe meglio tagliarsela la testaalle volte... Voleva pagare... col tempo... sino all'ultimo baioccosenza litisenza altre spese... appena chiudeva gli occhi sua madre... Ma era giusto inasprirgli contro la baronessasanto Dio? Farle commettere qualche bestialità?...
- Ah? - disse don Gesualdo. - Ah? - E guardò donna Giuseppina come per chiedere perché non pagasse lei.
Don Ninì imbarazzato guardava ora lui ed ora la moglie. Essa infine interloquìtroncandogli la parola con un segno del fazzoletto che aveva tirato fuori dalla borsa.
- Non è questo soltanto... L'affare delle terre... Non glie ne avete ancora parlato al cugino don Gesualdo?...
- Sì... l'affare delle terre comunali...
- Lo so- rispose don Gesualdo. - L'affitto scade in agosto. Chi vorrà dire all'astapoi...
- No! no!... né voi né io ce le mangeremo.
- Legge nuova! - interruppe donna Giuseppina con un sorriso agro. - Le terre non si dànno più in affitto! Il comune le dà a censo... ai più poveri... Un bocconcino per ciascuno... Saremo tutti possidenti nel paeseda qui a un po'!... Non lo sapete?
Don Gesualdo drizzò le orecchiemettendo da parte un momento i suoi guai. Indi abbozzò un sorriso svogliato.
- Come è vero Dio! - soggiunse il barone Rubiera. - Ho visto il progettosìal palazzo di città! Dicono che il comune ci guadagnae ciascuno avrà il suo pezzo di terra.
Allora don Gesualdo cavò fuori la tabacchierafiutando un agguato.
- Cioè? cioè?
- Don Gesualdo! - chiamò la serva dall'uscio. - Un momentovossignoria...
- Fatefate pure il comodo vostro! - disse donna Giuseppina. - Non abbiamo premura. Aspetteremo.
- La padrona! Vuol parlare con vossignoria!
- Eh? Che vogliono? Che dicono? - L'assalirono subito i Zacco appena don Gesualdo entrò nella stanza dell'inferma. - Son io che ho mandato a chiamarvi- disse il barone col sorriso furbo.
Ma lui non risposechino sulla mogliela quale s'aiutava cogli occhi e con quella povera mano pallida e scarna che diceva per lei:
“No!... Non vi mettete con colui... se volete darmi retta una volta sola... Non vi mettete insieme con mio cugino Rubieravoi!... Guardate che vi parlo in punto di morte!...“
Aveva la voce afonicagli occhi che penetravanocosì lucenti e fissi. Zacco che si era chinato anche lui sul letto per udireesclamò trionfante:
- Benedetta! parla come una che vede al di là! Non fareste nulla di buono con quell'uomo! Una bestia! Una banderuola! Ciò che vi dice vostra moglie in un momento come questo è vangelodon Gesualdo! Ricordatevi bene! Io mi farei scrupolo a non darle rettain parola d'onore!...
- E donna Giuseppina? Fintamaligna!... - aggiunse la Zacco. - Ha abbreviato i giorni della suocera! Non vede l'ora di levarsela dagli occhi!
- Andateandate a sentire il resto. Qui ci siamo noi. Andateci purese no vi restano lì fino a domani!
Don Ninì stava ancora seduto sul canapèsbuffando dal caldo nella sciarpa di lanacol cappello in testa; e donna Giuseppina si era alzata per osservare al buio le galanterie disposte in bell'ordine sui mobili: il servizio da caffèi fiori di carta sotto le campane di cristallol'orologio che segnava sempre la stessa ora. Vedendo don Gesualdo di ritorno gli disse subito:
- Vi ha fatto chiamare il barone Zacco? Non c'era motivo... Qui non si fanno misteri...
- Non si fanno misteri! - ripigliò il marito. - Si tratta di metterci d'accordo... tutti i bene intenzionati... Se è bene intenzionato anche lui... quel signore!...
- Ma- osservò don Gesualdo. - se la cosa è come diteio non saprei che farci... Cosa volete da me?
Donna Giuseppina si era perfino trasformata in voltoappuntando in faccia a questo e a quello gli occhi come due spillimasticando un sorriso con la bocca nera. Cacciò indietro del tutto il maritoe si prese tutto per sé il cugino Motta.
- Sìil rimedio c'è!... c'è! - E stette un po' a guardarlo fisso per fare più colpo. Posciatenendo stretta la borsa fra le mani gli si accostò con una mossa dei fianchiin confidenza:
- Si tratta di far prendere le terre a gente nostra... sottomano... - disse il barone.
- No! no!... Lasciate che gli spieghi io... Le terre del comune devono darsi a censoeh? a pezzi e a bocconi perché ogni villano abbia la sua parte? Va bene! Lasciamoli fare. Anzimettiamo avantisottomanodegli altri pretendenti... dei maestri di bottegadella gente che non sa cosa farsene della terra e non ne caverà neppure i denari del censo. Ci hanno tutti lo stesso dirittonon è vero? Alloracon un po' di giudizioanticipando a questo e a quello una piccola somma... Loro falliscono in capo all'annoe noi ci pigliamo la terra in compenso del credito. Avete capito? Bisogna evitare per quanto si può che ci mettano mano i villani. Quelli non se lo lasciano scappare mai più il loro pezzetto di terra. Ci lasciano le ossa piuttosto!
Don Gesualdo si alzò di bottocolle narici apertela faccia rianimata a un trattoe si mise a passeggiare per la stanza. Poitornando in faccia ai due che s'erano alzati puresorpresi:
- Questa non viene da voi! - esclamò. - Questa è buona! Questa so di dove viene!
- Ah! ah! capite? vedete?... - rispose il barone trionfante. - Prima di tutto bisogna tappare la bocca a Nanni l'Orbo... Col giudizio... con un po' di denaro... senza far torto a nessunoben inteso!... La giustizia...
- Voi che ci avete mano... Quello è un imbroglioneun arruffapopolo... capace di aizzarci contro tutto il paese. Voi che ci avete mano dovreste chiudergli la bocca.
Don Gesualdo tornò a sedersipentito d'essersi lasciato trasportare dal primo movimentograttandosi il capo.
Ma il barone Zaccoche stava di là coll'orecchio tesonon seppe più frenarsi.
- Scusatescusatesignori miei! - disse entrando. - Se disturbo... se avete da parlare in segreto... Me ne vo... - E si mise a sedere lui purecol cappello in testa.
Tacquero tutticiascuno sbirciando sottecchi il compagnodon Ninì col naso dentro la sciarpasua moglie colle labbra strette. Infine disse che le rincresceva tanto della malattia di Bianca. - Proprio! c'è un lutto nel paese. Ninì è un pezzo che mi predica: Giuseppina miadobbiamo andare a vedere come sta mia cugina... Gl'interessi sono una cosama la parentela poi è un'altra...
- Dunque- riprese don Gesualdo- questa bella pensata di pigliarci sottomano le terre del comune chi l'ha fatta?
Allora non fu più il caso di fingere. Donna Giuseppina tornò a discorrere del fermento che c'era in paesedella rivoluzione che minacciavano. Il barone Zacco si agitòfacendo segno col capo a don Gesualdo.
- Eh? eh? Cosa vi ho detto or ora?...
- Infine... - conchiuse donna Giuseppina- è meglio parlarci chiaro e darci la mano tutti quelli che abbiamo da perdere...
E tornò su quella birbonata di sminuzzare le terre del comune fra i più poveriin tante bricioleun pizzico per ciascunoche non fa male a nessuno!... Essa rideva così che le ballava il ventre dalla bile.
- Ah??? - esclamò il barone pavonazzo in visoe cogli occhi fuori dell'orbita. - Ah??? - E non disse altro Don Gesualdo rideva anche lui.
- Ah? voi rideteah?
- Cosa volete che faccia? Non me ne importa nullavi dico!
Donna Giuseppina rimase stupefatta: - Come!... voi!... - Quindi lo tirò in dispartevicino al canterano dov'era l'orologio fermoparlandogli pianocon le mani negli occhi. Don Gesualdo stava zittolisciandosi il mentocon quel risolino calmo che faceva schiattare la gente. I due baroni da lontano tenevano gli occhi fissi su di luicome due mastini. Infine egli scosse il capo.
- No! no! Ditegli al canonico Lupi che denari non ne metto fuori più per simili pasticci. Le terre se le pigli chi vuole... Io ho le mie...
Gli altri gli si rivoltarono contro tutti d'accordovociandoeccitandosi l'un l'altro. Zaccoadesso che aveva capito di che si trattavascalmanavasi più di tutti: - Una pensata seria! Da uomo con tanto di barba! Il miglior modo per evitare quella birbonata di dividere fra i nullatenenti i fondi del comune!... Capite?... Allora vuol dire che il mio non è più mioe ciascuno vuole la sua parte!... - Don Gesualdoduroscrollava il capo; badava a ripetere: - No! no! non mi ci pigliano! - Tutt'a un tratto il barone Zacco afferrò don Ninì per la sciarpa e lo spinse verso il canapè quasi volesse mangiarselosussurrandogli nell'orecchio:
- Volete sentirla? Volete che ve la canti? È segno che quello lì ci ha il suo fine per farci rimaner tutti quanti siamo con tanto di naso!... Lo conosco!...
Le signore Zacco allo strepito s'erano affacciate sull'uscio dell'anticamera. Successe un istante d'imbarazzo fra i parenti. Zacco e don Ninì si calmarono di bottotornando cerimoniosi.
- Scusate! scusate! La cugina Bianca crederà chissà cosaal sentirci gridare... per nulla poi!... - Zacco sorrideva bonariamentecon la faccia ancora infocata. Don Ninì s'avvolgeva di nuovo la sciarpa al collo. Sua mogliecol sorriso amabile lei puretolse commiato.
- Tanti saluti a donna Bianca... Non vogliamo disturbarla... Speriamo che la Madonna abbia a fare il miracolo... - Don Ninì con la bocca coperta grugnì anche lui qualche parola che non potè udirsi. - Un momento. Vengo con voi- esclamò Zacco. - E fingendo di cercare il cappello e la canna d'India s'accostò a don Gesualdo nel buio dell'anticamera.
- Sentite... Fate malein parola d'onore! Quella è una proposta seria!... Fate male a non intendervi col barone Rubiera!...
- Nonon voglio impicci!... Ho tanti altri fastidi pel capo!... Poimia moglie ha detto di no. Avete udito voi stesso.
Il barone stava per montare in furia davvero!
- Ah!... vostra moglie?... Le date retta quando vi accomoda! - Ma cambiò tono subito. - Del resto fate voi!... Fate voiamico mio!... Aspettatedon Ninì. Veniamo subito. - Sua moglie non la finiva più. Sembrava che non potesse staccarsi dal letto dell'ammalatarincalzando la copertasprimacciandole il guancialemettendole sotto mano il bicchier d'acqua e le medicinecon la faccia lungasospirandobiasciando avemarie. Voleva pure che restasse la sua ragazza ad assistere la nottese mai. Donna Lavinia acconsentiva di tutto cuoredandosi da fare anche essapremurosaimpadronendosi già delle chiavivigilando su tuttocome una padrona.
- No!... - mormorò Bianca con la voce rauca. - No!... Non ho bisogno di nessuno!... Non voglio nessuno!...
Li seguiva per la camera con l'occhio inquietosospettosodiffidentecon un certo tono di rancore nella voce cavernosa. Sforzavasi di mostrarsi più fortesollevandosi a stento sui gomiti tremanticogli omeri appuntati che sembravano forare la camiciuola da notte. Posciaappena le Zacco se ne furono andatericadde sfinitafacendo segno al marito d'accostarsi.
- Sentite!... sentite!... Non le voglio più!... Non le fate venir più quelle donne... Si son messe in testa di darvi moglie... come se fossi già morta.
E col capo seguitava a far segno di sìdi sìche non s'ingannavacol mento aguzzo nell'ombra della gola infossatamentr'eglichino su di leile parlava come a una bimba sorridendocon gli occhi gonfi però.
- Vi portano in casa la Lavinia... Non vedono l'ora che io chiuda gli occhi... - Lui protestava di no che non gliene importava nulla della Laviniache non voleva più rimaritarsiche ne aveva visti abbastanza dei guai. E la poveretta stava ad ascoltarlo tutta contentacogli occhi lustri che penetravano fin dentroper vedere se dicesse la verità.
- Sentite... ancora... un'altra cosa...
Accennava sempre con la manopoichè la voce le mancavaquella voce che sembrava venire da lontanogli occhi che si velavano a quando a quando di un'ombra. Aveva fatto anche uno sforzo per sollevarsionde passargli un braccio al collocome non le restasse che lui per attaccarsi alla vitaagitando il viso che si era affilato maggiormentequasi volesse nasconderglielo in pettoquasi volesse confessarsi con lui. Dopo un momento allentò le bracciacol volto rigido e chiusocolla voce mutata:
- Più tardi... Vi dirò poi... Ora non posso...
II
Adesso tutto andava a rotta di collo per don Gesualdo; la casa in disordine; la gente di campagnalontano dagli occhi del padronefaceva quel che voleva; le stesse serve scappavano ad una ad unatemendo il contagio della tisi; persino Menal'ultima che era rimasta pel bisognoquando parlarono di farle lavare i panni dell'ammalata che la lavandaia rifiutavasi di portare al fiumetemendo di perdere le altre pratichedisse chiaro il fatto suo:
- Don Gesualdoscusate tantoma la mia pelle vale quanto la vostra che siete ricco... Non vedete com'è ridotta vostra moglie?... Mal sottile èDio liberi! Io ho paurae vi saluto tanto.
Dopo che s'erano ingrassati nella sua casa! Ora tutti l'abbandonavano quasi rovinassee non c'era neppure chi accendesse il lume. Sembrava quella notte alla Saloniain cui aveva dovuto mettere colle sue mani il padre nel cataletto. Né denari né nulla giovava più. Allora don Gesualdo si scoraggiò davvero. Non sapendo dove dar di capopensò agli amici antichiquelli che si ricordano nel bisognoe mandò a chiamare Diodata per dare una mano. Venne invece il marito di leisospettosoguardandosi intornobadando dove metteva i piedisputacchiando di qua e di là:
- Quanto a me... anche la mia pellese la voletedon Gesualdo!... Ma Diodata è madre di famiglialo sapete... Se le capita qualche disgraziaDio ne liberi voi e me... Se piglia la malattia di vostra moglie... Siamo povera gente... Voi siete tanto ricco; ma io non avrei neppure di che pagarle il medico e lo speziale...
Insomma le solite litaniela solita giaculatoria per cavargli dell'altro sangue. Finalmentedopo un po' di tira e mollas'accordarono sul compenso. Gli toccava chiudere gli occhi e chinare il capo. Nanni l'Orbotutto contento del negozio che aveva fattoconchiuse:
- Quanto a noi siete padrone anche della nostra pelledon Gesualdo. Comandateci puredi notte e di giorno. Vo a pigliare mia moglie e ve la porto.
Ma Bianca soffriva adesso di un altro male. Non voleva vedersi Diodata per casa. Non pigliava nulla dalle sue mani. - No!... tuno!... Vattene via! Che sei venuta a faretu? - Irritavasi contro quegli affamati che venivano a mangiare alle sue spalle. Come s'affezionasse anche alla robain quel punto; come si risvegliasse in lei un rancore anticouna gelosia del marito che volevano rubarlequella cattiva gente venuta apposta a chiuderle gli occhia impadronirsi di tutto il suo. Era diventata tale e quale una bambinasospettosa irascibilecapricciosa. Si lagnava che le mettessero qualche cosa nel brodoche le cambiassero le medicine. Ogni volta che si udiva il campanello dell'uscio c'era una scena. Diceva che mandavano via la gente per non fargliela vedere.
- Ho sentito la voce di mio fratello don Ferdinando!... È arrivata una lettera di mia figliae non hanno voluto darmela!... - Il pensiero della figlia era un altro tormento. Isabella stava anch'essa poco benelontano tantoun viaggio che l'avrebbe rovinata per semprescriveva suo marito. Del resto sapevano da un pezzo come Bianca si strascinasse fra letto e lettuccioe non avrebbero mai creduto la catastrofe così prossima. Intanto la povera madre non sapeva darsi pacee se la pigliava con don Gesualdo e con tutti quanti le stavano vicino. Ci voleva una pazienza da santi. Aveva un bel dire suo marito:
- Guarda!... Cosa diavolo ti viene in mente adesso!... Anche la gelosia ti viene in mente!... - Essa aveva certe occhiate nere che non le aveva mai visto. Con certo suono che non le aveva mai udito nella voce raucaessa gli diceva:
- Mi avete tolto mia figlia... anche adesso che sono in questo stato!... Ve lo lascio per scrupolo di coscienza!... - Oppure gli rinfacciava di averle messo fra i piedi quell'altra gente... Oppure non rispondeva affattocol viso rivolto al muroimplacabile.
Nanni l'Orbo s'era installato come un papa in casa di don Gesualdo. Mangiava e beveva. Veniva ogni giorno a empirsi la pancia. Diodata badava a quel che c'era da faree lui correva in piazza a spassarselaa confabulare cogli amicia dir che ci voleva questo e si doveva far quell'altroa difendere la causa della povera gente nella quistione di spartirsi i feudi del comuneciascuno il suo pezzettocome voleva Dioe quanti figliuoli ogni galantuomo aveva sulle spalletante porzioni! Egli conosceva anche per filo e per segno tutti i maneggi dei pezzi grossi che cercavano appropriarsi le terre. Una volta attaccò una gran discussione su quest'argomento con Canalie andò a finire a pugniadesso che non era più il tempo delle prepotenze e ognuno diceva le sue ragioni.
Il giorno dopo mastro Titta era andato da Canali a radergli la barbaallorché suonarono il campanello e Canali andò a vedere colla saponata al mento. Mentre affilava il rasoiomastro Titta allungò il collo per semplice curiositàe vide Canali il quale parlava nell'anticamera con Gerbidouna faccia tutti e due da far tendere l'orecchio a chiunque. Canali diceva a Gerbido: - Ma ti fidi poi? - E Gerbido rispose: - Oh!!! - Nient'altro.
Canali tornò a farsi la barbatranquillo come nulla fossee mastro Titta non ci pensò più. Soltanto la seranon sapeva egli stesso il perché... un presentimentovedendo Gerbido appostato alla cantonata della Maseracolla carabina sotto!... Gli tornarono in mente le parole di poco prima.
- Chissà per chi è destinata quella pillolaDio liberi!... - pensò fra di sé.
Già i tempi erano sospettie la gente s'era affrettata a casa prima che suonasse l'avemaria. Più in là incontrando Nanni l'Orboche stava da quelle partiil cuore gli disse che Gerbido aspettasse appunto lui.
- Che fate a quest'ora fuoricompare Nanni? - gli disse mastro Titta. - Venitevene a casa piuttostoche faremo la strada insieme...
- Nomastro Tittadevo passare qui dal tabaccaioe poi vo un momento a vedere Diodatache è ad assistere la moglie di don Gesualdo.
- Fatemi questo piacerecompare Nanni! Venite a casa piuttosto! Il tabacco ve lo darò ioe da vostra moglie ci andrete domani. Non son tempi d'andare per le strade a quest'ora!... Credete a me!...
L'altro la voltava in burla; diceva di non aver paura luiche gli rubassero i denari che non aveva... L'aspettava sua moglie con un piatto di maccheroni... e tante altre cose... Per un piatto di maccheroniDio liberici lasciò la pelle!
Appena mastro Titta udì il rumore della schioppettatadue minuti dopodisse fra sé: - Questa è compare Nanni che se l'è presa.
Don Gesualdo quel giorno aveva avuto degli altri dispiaceri. Speranza mandava l'usciere giusto quando sapeva di fargli dare l'anima al diavolo. Non gli lasciavano requie da anni ed annie gli avevano fatto incanutire i capelli con quella lite. Anche Speranza ci si era ridotta simile a una strega; ci s'era mangiata la chiusa e la vignastuzzicata da ciascuno che avesse avuto da dire con suo fratello. Andava vituperandolo da per tutto. L'aspettava apposta nella strada per vomitargli addosso delle ingiurie. Gli aizzava contro i figliuolipoiché il marito non voleva guastarsi il sangue - era buono soltanto per portarsi la pancia a spasso nel paeselui - e lo stesso Santoallorchè aveva bisogno di denarivoltava casacca e si metteva dalla parte di Gesualdoa sputare contro di lei gli stessi improperi che aveva diretto al fratello: una banderuola che girava a seconda del vento.
- È una vera bricconatavedetedon Camillo! Mi tirano di queste sassate giusto mentre sono nei guai sino al collo. Ho seminato bene e raccolgo male da tutti quantivedete!
Don Camillo si strinse nelle spalle.
- Scusatedon Gesualdo. Io fo l'ufficio mio. Perché vi siete guastato col canonico Lupi?... Per l'appalto dello stradone!... per una cosa da nulla... Quello è un servo di Dio che bisogna tenerselo amico... Ora soffia nel fuoco coi vostri parenti... Non voglio dir male di nessuno; ma vi darà da farecaro don Gesualdo!
E don Gesualdo stava zitto; curvava le spalle adesso che ciascuno gli diceva la suae chi poteva gli tirava la sassata. Come sapevasi che sua moglie stava peggioil marchese Limòli era venuto a visitare la nipotee ci aveva condotto pure don Ferdinandotutti e due a braccettosorreggendosi a vicenda. - La morte e l'ignorante- osservavano quanti li incontravano a quell'ora per le stradecol fermento che c'era nel paese; e si facevano la croce vedendo ancora al mondo don Ferdinandocon quella palandrana che non teneva più insieme. I due vecchi s'erano messi a sedere dinanzi al lettocol mento sul bastonementre don Gesualdo faceva la storia della malattiae il cognato gli voltava la schiena senza dir nullarivolto alla sorellala quale guardava or questo ed ora quell'altropoverettacon quegli occhi che volevano far festa a tutti quantiallorché s'udì un vocìo per la stradagente che correva strillandoquasi fosse scoppiata la rivoluzione che s'aspettava. Tutt'a un tratto si udì bussare al portone e una voce che gridava:
- Comare Diodataaprite! Corretesubito! Andate a vedereche vostro marito si è presa una schioppettata!... lìnella farmacia!...
Diodata corse così come si trovavaa testa scopertaurlando per le strade. In un momento la casa di don Gesualdo fu tutta sottosopra. Venne anche il barone Zaccosospettosoinquietomasticando le paroleguardandosi dinanzi e di dietro prima d'aprir bocca.
- Avete visto? È fatta! Hanno ammazzato il marito di Diodata!
Don Gesualdo allora si lasciò scappare la pazienza.
- Che ci posso fare io? Mi mancava anche questa! Che diavolo volete da me?
- Ahcosa potete farci?... Scusate! Credevo che doveste ringraziarmi... se vengo subito ad avvertirvi... pel bene che vi voglio... da amico... da parente...
Intanto sopraggiungeva dell'altra gente. Zacco allora andava a vedere chi fossesocchiudendo l'uscio dell'anticamera. Ogni momento si udiva sbattere il portonetanti scossoni per la povera ammalata. A un certo punto Zacco venne a diretutto stravolto:
- A Palermo c'è un casa del diavolo... La rivoluzione... Vogliono farla anche qui... Quel briccone di Nanni l'Orbo doveva farsi ammazzare giusto adesso!...
Don Gesualdo continuava a stringersi nelle spallecome uno che non gliene importa nulla oramaitutto per la poveretta ch'era in fin di vita. Dopo un po' giunsero la moglie e le figlie del barone Zaccovestite di casacogli scialli giù pel dorsole facce lunghesenza salutar nessuno. Si vedeva ch'era finita. La baronessa andava a parlare ogni momento sottovoce col marito. Donna Lavinia s'impadronì delle chiavi. A quella vista don Gesualdo si sbiancò in viso. Non ebbe il coraggio neppure di chiedere s'era giunta l'ora. Soltantocogli occhi lustri interrogava tutti quantiad uno ad uno.
Ma gli rispondevano con delle mezze parole. Il barone allungava il musosua moglie alzava gli occhi al cielocolle mani giunte. Le ragazzegià prese dal sonnostavano zitte sedute nella stanza accanto a quella dov'era l'ammalata. Verso mezzanottecome la poveretta s'era chetata a poco a pocodon Gesualdo voleva mandarli a riposare.
- No- disse il barone- non vi lasceremo solo questa notte.
Allora don Gesualdo non fiatò piùgiacchè non c'era più speranza. Si mise a passeggiare in lungo e in largoa capo chinocolle mani dietro la schiena. Di tanto in tanto si chinava sul letto della moglie. Poi tornava a passeggiare nella stanza vicinaborbottava fra di sèscrollava il caposi stringeva nelle spalle. Infine si rivolse a Zaccocolla voce piena di lagrime:
- Io direi di mandare a chiamare i suoi parenti... eh? don Ferdinando... Che ne dite voi?
Zacco fece una smorfia.- I suoi parenti?... Ahva bene... Come volete... Domani... a giorno fatto...
Ma il pover'uomo non seppe più frenarsile parole gli cuocevano dentro e sulle labbra.
- Capite?... Neanche farle vedere la figliuola per l'ultima volta! È un porcoquel signor duca! Tre mesi che scrive oggi verremo e domani verremo! Come se avesse dovuto campar cent'anni quella poveretta! Dice bene il proverbio: Lontano dagli occhi e lontano dal cuore. Ci ha rubato la figlia e la dotequell'assassino!
E continuò a sfogarsi così per un pezzo colla moglie di Zaccoche era mamma anche leie accennava di sìsforzandosi di tenere aperti gli occhi che le si chiudevano da soli. Egliche non sentiva nè il sonno nè nullatornava a brontolare:
- Che notte! che nottata eterna! Com'è lunga questa notte
Domeneddio!
Appena spuntò il giorno aprì il balcone per chiamare Nardo il manovalee mandarlo da tutti i parentichè Biancapoverettastava assai malese volevano vederla. Per la strada c'era un via vai straordinarioe laggiù in piazza udivasi un gran sussurro. Mastro Nardoal ritornoportò la notizia.
- Hanno fatto la rivoluzione. C'è la bandiera sul campanile.
Don Gesualdo lo mandò al diavolo. Gliene importava assai della rivoluzione adesso! L'aveva in casa la rivoluzione adesso! Ma Zacco procurava di calmarlo.
- Prudenzaprudenza! Questi son tempi che ci vuol prudenzacaro amico.
Di lì a un po' si udì bussare di nuovo al portone. Don Gesualdo corse in persona ad aprirecredendo che fosse il medico o qualchedun' altro di tutti coloro che aveva mandato a chiamare. Invece si trovò di faccia il canonico Lupivestito di cortocon un cappellaccio a cencioe il baronello Rubiera che se ne stava in disparte.
- Scusatedon Gesualdo... Non vogliamo disturbarvi... Ma è un affare serio... Sentite qua...
Lo tirò nella stalla onde dirgli sottovoce il motivo per cui erano venuti. Don Ninì da lontanoancora imbroncitoapprovava col capo.
- S'ha da fare la dimostrazionecapite? Gridare che vogliamo Pio Nono e la libertà anche noi... Se no ci pigliano la mano i villani. Dovete esserci anche voi. Non diamo cattivo esempiosanto Dio!
- Ah? La stessa canzone della Carboneria? - saltò su don Gesualdo infuriato. - Vi ringrazio tantocanonico! Non ne fo più di rivoluzioni! Bel guadagno che ci abbiamo fatto a cominciare! Adesso ci hanno preso gustoe ogni po' ve ne piantano un'altra per togliervi i denari di tasca. Oramai ho capito cos'è: Levati di lìe dammi il fatto tuo!
- Vuol dire che difendete il Borbone? Parlate chiaro.
- Io difendo la mia robacaro voi! Ho lavorato... col mio sudore... Allora... va bene... Ma adesso non ho più motivo di fare il comodo di coloro che non hanno e non posseggono...
- E allora ve la fanno a voicapite! Vi saccheggiano la casa e tutto!
Il canonico aggiunse che veniva nell'interesse di coloro che avevano da perdere e dovevano darsi la manoin quel frangentepel bene di tutti... Se nonon ci avrebbe messo i piedi in casa sua... dopo il tiro che gli aveva giocato per l'appalto dello stradone...
- Scusate! Giacché volete fare il sordo... Sapete che avete tanti nemici! Invidiosi... quel che volete... Intanto non vi guardano di buon occhio... Dicono che siete peggio degli altriora che avete dei denari. Questo è il tempo di spenderlii denarise volete salvar la pelle!
A quel punto prese la parola anche don Ninì:
- Lo sapete che ci accusano di aver fatto uccidere Nanni l'Orbo... per chiudergli la bocca... Voi pel primo!... Mi dispiace che m'hanno visto venire con mia mogliel'altra sera...
- Già- osservò il canonico- siamo giusti. Chi poteva avere interesse che compare Nanni non chiacchierasse tanto?... Una bocca d'infernosignori miei! La storia di Diodata la sa tutto il paese. Ora vi scatenano contro anche i figliuoli... vedretedon Gesualdo!
- Va bene- rispose don Gesualdo. - Vi saluto. Non posso lasciar mia moglie in quello stato per ascoltar le vostre chiacchiere. - E volse loro le spalle.
- Ah- soggiunse il canonico andandogli dietro su per le scale. - Scusatenon ne sapevo nulla. Non credevo che fossimo già a questo punto...
Giacché erano lì non potevano fare a meno di salire un momento a veder donna Biancalui e il baronello. Don Ninì si fermò all'uscio col cappello in manosenza dire una parolae il canonicoche se ne intendevadopo un po' fece cenno col capo a don Gesualdocome a dirgli di sìch'era ora.
- Io me ne vo- disse don Ninì rimettendosi il cappello. - Scusatemi tantoio non ci reggo.
C'era già don Ferdinando Trao al capezzalecome una mummiae la zia Macrìla quale asciugava il viso alla nipote con un fazzoletto di tela fine. Le Zacco erano pallide della nottata persae donna Lavinia non si reggeva più in piedi. Sopraggiunse il marchese Limòli insieme al confessore. Donna Agrippina allora li mise fuori tutti quanti. Don Gesualdodietro a quell'uscio chiusosi sentiva un gruppo alla golaquasi gli togliessero prima del tempo la sua povera moglie.
- Ah!... - borbottò il marchese. - Che commediapovera Bianca! Noi restiamo qui per assistere ogni giorno alla commediaehdon Ferdinando!... Anche la morte s'è scordata che ci siamo al mondo noi!...
Don Ferdinando stava a sentireistupidito. Tratto tratto guardava timidamente di sottecchi il cognato che aveva gli occhi gonfila faccia gialla e ispida di pelie faceva atto d'andarseneimpaurito.
- No- disse il marchese. - Non potete lasciare la sorella in questo punto. Siete come un bambinocaspita!
Entrò in quel mentre il barone Mèndolacol fiato ai denticominciando dallo scusarsi a voce alta:
- Mi dispiace... Non ne sapevo nulla... Non credevo... - Poivedendosi intorno quei visi e quel silenzioabbassò la voce e andò a finire il discorso in un angoloall'orecchio del barone Zacco. Costui tornava a parlare della nottata che avevano persa: le sue ragazze senza chiudere occhioLavinia che non si reggeva in piedi. Don Gesualdo guardava è vero stralunato di qua e di làma si vedeva che non gli dava retta. In quella tornò ad uscire il pretestrascicando i piedicon una commozione che gli faceva tremar le labbra cadentipovero vecchio.
- Una santa!... - disse al marito. - Una santa addirittura!
Don Gesualdo affermò col capocol cuore gonfio anche lui. Bianca ora stava supinacogli occhi sbarratiil viso come velato da un'ombra. Donna Agrippina preparava l'altare sul comòcon la tovaglia damascata e i candelieri d'argento. A che gli giovava adesso avere i candelieri d'argento? Don Ferdinando andava toccando ogni cosaproprio come un bambino curioso. Infine si piantò ritto dinanzi al lettoguardando la sorella che stava facendo i conti con Domeneddio in quel momentoe si mise a piangere e a singhiozzare. Piangevano tutti quanti. In quell'istante fece capolino dall'uscio donna Sarina Cirmenascalmanatacol manto alla rovesciaesitanteguardando intorno per vedere come l'avrebbero accoltacominciando diggià a fregarsi gli occhi col fazzoletto ricamato.
- Scusate! Perdonate! Io non ci ho il pelo nello stomaco... Ho sentito che mia nipote... Il cuore l'ho quidi carne!... L'ho tenuta come una figliuola!... Bianca!... Bianca!...
- Nozia! - disse donna Agrippina. - S'aspetta il viatico. Non la disturbate adesso con pensieri mondani...
- È giusto- disse donna Sarina. - Scusatemidon Gesualdo.
Dopo che si fu comunicataBianca parve un po' più calma. L'affanno era cessatoe arrivò a balbettare qualche parola. Ma aveva una voce che s'udiva appena.
- Vedete? - disse donna Agrippina. - Vedeteora che si è messa in grazia di Dio!... Alle volte il Signore fa il miracolo. - Le misero sul petto la reliquia della Madonna. Donna Agrippina si tolse il cingolo della tonaca per ficcarglielo sotto il guanciale. La zia Cirmena portava esempi di guarigioni miracolose: tutto sta ad avere fede nei santi e nelle reliquie benedette: il Signore può far questo ed altro. Lo stesso don Gesualdo allora si mise a piangere come un bambino.
- Anche lui! - borbottò donna Sarinafingendo di parlare all'orecchio della Macrì. - Anche luiil cuore non l'ha cattivo in fondo. Non capisco però come Isabella non sia venuta... duchessa o no!... Mamme ne abbiamo una sola!... Se bisognava fare tante storie per arrivare a questo bel risultato...
- È un porco!... un infame!... un assassino! - seguitò a brontolare don Gesualdostralunatocolle labbra strettegli occhi accesi che pareva un pazzo.
- Eh? che cosa? - domandò la Cirmena.
- Ssst! ssst! - interruppe donna Agrippina.
Il barone Mèndola si chinò all'orecchio di Zacco per dirgli qualche cosa. L'altro scosse il testone arruffato e gonfio due o tre volte. La baronessa approfittò del buon momento per indurre don Gesualdo a pigliare un po' di ristoro dalle mani stesse di Lavinia. - Sìun po' di brododue giorni che non apriva bocca il pover'uomo!...
Come passarono nella stanza accantoche dava sulla stradasi udì da lontano un rumore che pareva del mare in tempesta. Mèndola narrò allora quello che aveva visto nel venire.
- Sissignore! Hanno messo la bandiera sul campanile.
Dicono ch'è il segno di abolire tutti i dazi e la fondiaria. Perciò or ora faranno la dimostrazione. Il procaccia delle lettere ha portato la notizia che a Palermo l'hanno già fatta... e anche in tutti i paesi lungo la strada. Sicché sarebbe una porcheria a non farla anche qui da noi... Infine cosa può costare? La bandaquattro palmi di mussolina... Guardate!... guardate!...
Dalla via del Rosario spuntava una bandiera tricolore in cima a una cannae dietro una fiumana di gente che vociava e agitava braccia e cappelli in aria. Di tanto in tanto partiva anche una schioppettata. Il marchesech'era sordo come una talpadomandò:
- Eh? Che c'è?
Il finimondo c'era! Don Gesualdo rimase colla chicchera in mano. S'udì in quel punto una forte scampanellata all'uscioe Zacco corse a vedere. Dopo un momento sporse il capo dall'uscio dell'anticamerae chiamò a voce alta:
- Marchese! Marchese Limòli!
Rimasero a discutere sottovoce nell'altra stanza. Pareva che il barone mettesse buone parole con un terzo che era arrivato allorae il marchese andasse scaldandosi. - No! no! è una porcheria! - In quella rientrò Zaccosolocol viso acceso.
- Sentitedon Gesualdo!... Un momento... una parolina...
La folla era giunta lìsotto la casa; si vedeva la bandiera all'altezza del balconequasi volesse entrare. Si udivano degli urli: vivamorte.
- Un momento! - esclamò allora Zaccomettendo da parte ogni riguardo. - Affacciatevi un momentodon Gesualdo! Fatevi vederese no succede qualche diavolo!...
C'era il canonico Lupiche portava il ritratto di Pio Nonoil baronello Rubieragiallo come un mortosventolando il fazzolettotant'altra gentetutti gridando:
- Viva!... abbasso!... morte!...
Don Gesualdoaccasciato sulla seggiolacolla chicchera in manoseguitava a scrollare il capoa stringersi nelle spallepallido come la camiciaridotto un vero cencio. Il marchese assolutamente voleva sapere cosa cercasse quella gentelaggiù: - Eh? che cosa?
- Vogliono la vostra roba! - esclamò infine il barone Zacco fuori dei gangheri. Il marchese si mise a ridere dicendo: - Padroni! padronissimi! - In quel momento passò di furia donna Agrippina Macrìcolla tonaca color pulce che le sbatteva dietroe nella camera della moribonda si udì un gran trambustoseggiole rovesciatedonne che strillavano. Don Gesualdo s'alzò di bottovacillandocoi capelli irtiposò la chicchera sul tavolinoe si mise a passeggiare innanzi e indietrofuori di sépicchiando le mani l'una sull'altra e ripetendo:
- S'è fatta la festa!... s'è fatta!
III
Giunse poco dopo una lettera d'Isabella la quale non sapeva nulla ancora della catastrofee fece piangere gli stessi sassi. Il duca scrisse anche lui - un foglietto con una lista nera larga un ditoe il sigillo stemmatopur esso neroche stringeva il cuore - inconsolabile per la perdita della suocera. Diceva che alla duchessa s'era dovuto nascondere la verità per consiglio degli stessi medicivisto che sarebbe stato un colpo di fulminemalaticcia com'era anch'essagiusto alla vigilia di mettersi in viaggio per andare a vedere sua madre!... Terminava chiedendo per lei qualche ricordo della mortauna bazzecolauna ciocca di capelliil libro da messal'anellino nuziale che soleva portare al dito...
Al notaro poi scrisse per chiedere se la defuntabuon'animaavesse lasciati beni stradotali. - Si seppe poi da don Emanuele Fioriol'impiegato della postail quale scovava i fatti di tutto il paesegiacché il notaro non rispose neppuree solo con qualche intimobrontolone come s'era fatto coll'etàandava dicendo:
- Mi pare che il signor duca sia ridotto a cercare la luna nel pozzomi pare!
La povera morta se n'era andata alla sepoltura in frettafra quattro cerinel subbuglio della gente ammutinata che voleva questoe voleva quell'altrostando in piazza dalla mattina alla seraa bociare colle mani in tasca e la bocca apertaaspettando la manna che doveva piovere dal campanile imbandierato. Ciolla ch'era diventato un pezzo grosso alfinecon una penna nera nel cappello e un camiciotto di velluto che sembrava un bambinoa quell'etàpasseggiava su e giù per la piazzaguardando di qua e di là come a dire alla gente: - Ehi! badate a voi adesso! - Don Lucaportando la croce dinanzi alla baraammiccava gentilmenteper farsi strada fra la follae sorrideva ai conoscenticome udiva lungo la via tutti quei gloria che recitava la gente alle spalle di mastro-don Gesualdo.
- Un brigante! un assassino! uno che s'era arricchitomentre tanti altri erano rimasti poveri e pezzenti peggio di prima! uno che aveva i magazzini pieni di robae mandava ancora l'usciere in giro per raccogliere il debito degli altri. - A strillare più forte erano i debitori che s'erano mangiato il grano in erba prima della messe. Gli rinfacciavano pure di essere il più tenace a non voler che gli altri si pigliassero le terre del comuneciascuno il suo pezzetto. Non si sapeva donde fosse partita l'accusa; ma ormai era cosa certa. Lo dicevano tutti: il canonico Lupi armato sino ai dentiil barone Rubiera colla cacciatora di fustagnocome un povero diavolo. Essi erano continuamente in mezzo ai capannellialla mano e bonaccionicol cuore sulle labbra: - Quel mastro-don Gesualdo sempre lo stesso! aveva fatto morire la moglie senza neppure chiamare un medico da Palermo! Una Trao! Una che l'aveva messo all'onore del mondo! A che l'era giovato essere tanto ricca? - Il canonico si lasciava sfuggire dell'altro ancorain confidenza: Le stesse messe in suffragio dell'anima avevano lesinato alla poveretta! - Lo so di certo. Sono stato in sagrestia. Se non ha cuore neppure pel sangue suo!... Non mi fate parlarechè domattina devo dir messa! - Nobili e plebeipassato il primo sbigottimentoerano diventati tutti una famiglia. Adesso i signori erano infervorati a difendere la libertà; preti e frati col crocifisso sul pettoo la coccarda di Pio Nonoe lo schioppo ad armacollo. Don Nicolino Margarone s'era fatto capitanocogli speroni e il berretto gallonato. Donna Agrippina Macrì preparava filacce e parlava d'andare al campoappena cominciava la guerra. La signora Capitana raccoglieva per la compera dei fucilivestita di tre coloriil casacchino rossola gonnella biancae un cappellino calabrese colle penne verdi ch'era un amore. Le altre dame ogni giorno portavano sassi alle barricatefuori portacoi canestrini ornati di nastri e la musica avanti. Sembrava una festamattina e seracon tutte quelle bandierequella folla per le stradequelle grida di viva e di abbassoogni momentolo scampanìola banda che suonavala luminaria più tardi. Le sole finestre che rimanessero chiuse erano quelle di don Gesualdo Motta. Lui il solo che se ne stesse rintanato come un luponemico del suo paeseadesso che ci s'era ingrassatolagnandosi continuamente che venivano a pelarlo ogni giornola commissione per i poveriil prestito forzoso la questua pei fucili!... Lui lo mettevano in capo listalo tassavano il doppio degli altri. Gli toccava difendersi e litigare. I signori del Comitato che tornavano stanchi di casa suadopo un'ora di tira e mollane contavano delle belle. Dicevano che non capiva più nienteuno stupidol'ombra di mastro-don Gesualdoun cadavere addiritturache stava ancora in piedi per difendere i suoi interessima la mano di Dio arrivatosto o tardi!
Intanto i villani e gli affamati che stavano in piazza dalla mattina alla seraa bocca apertaaspettando la manna che non venivasi scaldavano il capo a vicendadiscorrendo delle soperchierie patitedelle invernate di stentimentre c'era della gente che aveva i magazzini pieni di robadei campi e delle vigne!... Pazienza i signoriche c'erano nati... Ma non si davano pacepensando che don Gesualdo Motta era nato povero e nudo al par di loro. - Se lo rammentavano tutti povero bracciante. - Speranzala stessa sua sorella predicava lìdi faccia alla bandiera inalberata sul Palazzo di Cittàch'era giunto alfine il momento di restituire il mal toltodi farsi giustizia colle proprie mani. Aizzava contro allo zio i suoi figliuoli che s'erano fatti grandi e grossie capaci di far valere le loro ragionise non fossero stati due capponicome il genitoreche s'era acquetato subitoquando il cognato aveva mandato un gruzzolettoallorché Bianca stava maledicendo che voleva fare la pace con tutti quantie dei guai ne aveva anche troppi. Giacalonea cui don Gesualdo aveva fatto pignorar la mula pel debito del raccoltol'erede di Pirtusoche litigava ancora con lui per certi denari che il sensale s'era portati all'altro mondotutti coloro che gli erano contro per un motivo o per l'altrosoffiavano adesso nel fuocodicendone roba da chiodiraccontando tutte le porcherie di mastro-don Gesualdosparlandone in ogni bettola e in ogni crocchiostuzzicando anche gli indifferenticon quella storia delle terre comunali che dovevano spartirsi fra tutti quantidelle quali ciascuno aspettava il suo pezzettodi giorno in giornoe ancora non se ne parlavae chi ne parlava lo facevano uccidere a tradimentoper tappargli la bocca... Si sapeva da dove era partito il colpo! Mastro Titta aveva riconosciuto Gerbidol'antico garzone di don Gesualdomentre fuggiva celandosi il viso nel fazzoletto. Così tornò a galla la storia di Nanni l'Orbo il quale s'era accollata la ganza di don Gesualdo coi figliuolidei poveri trovatelli che andavano a zappare nei campi del genitore per guadagnarsi il panee gli baciavano le mani per giuntacome quella bestia di Diodata che a chi gli dava un calcio rispondeva grazie.
Dài e dài erano arrivati a scatenargli contro anche lorouna sera che li avevano tirati in quelle chiacchiere all'osteriae i due ragazzacci non possedevano neppure di che pagar da bere agli amici. Don Gesualdo si vide comparire a quell'ora Nunzioil più ardito. - Il nome del nonnosì glielo aveva dato; ma la roba no! - Per poco non s'accapigliaronopadre e figlio. Si fece un gran gridareuna lite che durò mezz'ora. Accorse anche Diodatacoi capelli per ariavestita di nero. Nunzioubbriaco fradiciopretendeva il fatto suo lì su due piedie gliene disse di tutte le speciea lei e a lui. Lo zio Santoche s'era accomodato col fratellodopo la morte della cognataaiutandolo a passar l'angustiamangiando e bevendo alla sua barbaafferrò la stanga per metter pace. Il povero don Gesualdo andò a coricarsi più morto che vivo.
In mezzo a tanti dispiaceri s'era ammalato davvero. Gli avvelenavano il sangue tutti i discorsi che sentiva fare alla gente. Don Luca il sagrestanoil quale gli s'era ficcato in casaquasi fosse già l'ora di portargli l'olio santopretendeva che don Gesualdo dovesse aprire i magazzini alla povera gentese voleva salvare l'anima e il corpo. Lui ci aveva cinque figliuoli sulle spallecinque bocche da sfamaree la moglie sei. Mastro Tittaquand'era venuto a cavargli sanguegli cantò il restocolla lancetta in aria:
- Vedete? Se non mettono giudiziocertuniva a finir malestavolta! La gente non ne può più! Sono quarant'anni che levo pelo e cavo sanguee sono ancora quello di primaio!
Don Gesualdomalatogiallocolla bocca sempre amaraaveva perso il sonno e l'appetito; gli erano venuti dei crampi allo stomaco che gli mettevano come tanti cani arrabbiati dentro. Il barone Zacco era il solo amico che gli fosse rimasto. E la gente diceva pure che doveva averci il suo interesse a fargli l'amicoqualche disegno in testa. Veniva a trovarlo sera e mattinagli conduceva la moglie e le figliuolevestiti di nero tutti quantiche annebbiavano una strada. Gli lasciava la sua ragazza per curarlo: - Lavinia ci ha la mano appostaper far decotti. - Lavinia è un diavoloper tener d'occhio una casa. - Lasciate fare a Lavinia che sa dove metter le mani. - Dall'altro canto poi faceva il viso brusco se Diodata aveva la faccia di farsi vedere ancora lìda don Gesualdocon il fazzoletto nero in testacarica di figliuolidi già canuta e curva come una vecchia: - Nonobuona donna. Non abbiamo bisogno di voi! Badate ai fatti vostri piuttostoché qui la cuccagna è finita. - Poscia in confidenza spifferava anche delle paternali all'amico. - Che diavolo ne fate di quella vecchia?... Non vi conviene di lasciarvela bazzicar fra i piedi coleiora ch'è vedova!... Dopo che l'avete avuta in casa anche da zitella... Il mondosapete beneha la lingua lunga! Poiquell'altra storia... la morte di suo marito... È vero che se lo meritava!... Ma infine è meglio chiudere la bocca alla gente!... Del restonon avete bisogno di nullaora che ci abbiamo qui la mia ragazza.
Lui stesso si faceva in quattro a disporre e a ordinare nella casa del cugino don Gesualdoa ficcare il naso in tutti i suoi affaria correre su e giù con le chiavi dei magazzini e della cantina. Gli consigliava pure di mettere a frutto il denaro contantese ce ne aveva in serbocaso mai le faccende s'imbrogliassero peggio.
- Datelo a mutuocol suo bravo atto dinanzi notaio... un po' per unoa tutti coloro che gridano più forte perché non hanno nulla da perderee minacciano adesso di scassinarvi i magazzini e bruciarvi la casa. Tacerannoper adesso. Poise arrivano a pigliarsi le terre del comunevoi ci mettete subito una bella ipoteca. Le cose non possono andare sempre a questo modo. I tempi torneranno a cambiaree voi ci avrete messo sopra le unghie a tempo.
Ma lui non voleva sentir parlare di denaro. Diceva che non ne avevache suo genero l'aveva rovinatoche preferiva riceverli a schioppettatequelli che venivano a bruciargli la casa o a scassinargli i magazzini. Era diventato una bestia feroceverde dalla bilela malattia stessa gli dava alla testa. Minacciava: - Ah! La mia roba? Voglio vederli! Dopo quarant'anni che ci ho messo a farla... un tarì dopo l'altro!... Piuttosto cavatemi fuori il fegato e tutto il resto in una voltaché li ho fradici dai dispiaceri... A schioppettate! Voglio ammazzarne prima una dozzina! A chi ti vuol togliere la roba levagli la vita!
Perciò aveva armato Santo e mastro Nardoil vecchio manovalecon sciabole e carabine. Teneva il portone sbarratodue mastini feroci nel cortile. Dicevasi che in casa sua ci fosse un arsenale; che la sera ricevesse Canaliil marchese Limòlidell'altra gente ancoraper congiuraree un bel mattino si sarebbero trovate le forche in piazzae appesi tutti coloro che avevano fatta la rivoluzione. I pochi amici perciò l'avevano abbandonatoonde non esser visti di cattivo occhio. E Zacco correva davvero un brutto rischio continuando ad andare da lui e a condurgli tutta la famiglia. - Peccato che con voi ci si rimette il ranno e il sapone! - gli disse però più di una volta. Sua moglie infinevedendo che non si veniva a una conclusione con quell'uomolasciò scoppiare la bombaun giorno che don Gesualdo s'era appisolato sul canapègiallo come un mortoe la sua ragazza gli faceva da infermieramessa a guardia accanto alla finestra.
- Scusatemicugino! Sono madree non posso più tacereinfine... TuLaviniavai di làchè ho da parlare col cugino don Gesualdo... Ora che non c'è più la mia ragazzaapritemi il cuorecugino mio... e ditemi chiaro la vostra intenzione... Quanto a me ci avrei tanto piacere... ed anche il barone mio marito... Ma bisogna parlarci chiaro...
Il poveraccio spalancò gli occhi assonnatiancora disfatto dalla colica: - Eh? Che dite? Che volete? Io non vi capisco.
- Ah! Non mi capite? Allora che ci sta a far qui la mia Lavinia? Una zitella! Siete vedovo finalmentee gli anni del giudizio li dovete anche avereper pigliare una risoluzionee sapere quel che volete fare!
- Niente. Io non voglio far niente. Voglio stare in pacese mi ci lasciano stare...
- Ah? Così? Stateci pure a comodo vostro... Ma intanto non è giusto... capite bene!... Sono madre...
E stavoltarisolutaordinò alla figliuola di prendere il manto e venirsene via. Lavinia obbedìfuribonda anche lei. Tutt'e dueuscendo da quella casa per l'ultima voltafecero tanto di croce sulla soglia. - Una galeraquella baracca! La povera cugina Bianca ci aveva lasciato le ossa col mal sottile! - Zacco la sera stessa andò a far visita al barone Rubierainvece di annoiarsi con quel villano di mastro-don Gesualdo che passava la sera a lamentarsitenendosi la panciaall'oscuroper risparmiare il lume.
- Mi voleteeh? cugino Rubiera... donna Giuseppina...
Don Ninì era uscito per assistere a certo conciliabolo in cui si trattavano affari grossi. Intanto che aspettavail barone Zacco volle fare il suo dovere colla baronessa madrech'era stato un pezzo senza vederla. La trovò nella sua camerainchiodata nel seggiolone di faccia al letto matrimonialeaccanto al quale era ancora lo schioppo del maritobuon'animae il crocifisso che gli avevano messo sul petto in punto di morteimbacuccata in un vecchio sciallee colle mani inerti in grembo. Appena vide entrare il cugino Zacco si mise a piangere di tenerezzarimbambita: delle lagrime grosse e silenziose che si gonfiavano a poco a poco negli occhi torbidie scendevano lentamente giù per le guance floscie. - Benebenemi congratulocugina Rubiera! La testa è sana! Conoscete ancora la gente! - Essa voleva narrargli anche i suoi guaibiasciandosbuffando e imbrogliandosicon la lingua grossa e le labbra pavonazzespumanti di bava. Il baroneaffettuosotendeva l'orecchiosi chinava su di lei. - Eh? Che cosa? Sìsìcapisco! Avete ragionepoveretta! - In quella sopraggiunse la nuora infuriata. - Non si capisce una maledetta! - osservò Zacco. - Deve essere un purgatorio per voialtri parenti. - La paralitica fulminò un'occhiata ferocerizzando più che poteva il capo piegato sull'omeromentre donna Giuseppina la sgridava come una bimbaasciugandole il mento con un fazzoletto sudicio. - Che avete? che volete? stolida!... Vi rovinate la salute!... È proprio una creaturina di latteDio lodato! Non bisogna credere a quello che dice! Ci vuole una pazienza da santi a durarla con lei!... - La suocera adesso spalancava gli occhiguardandola atterritarannicchiando il capo nelle spallequasi aspettando di essere battuta: - Vedete? Santa pazienza!
- Ve l'ho detto- conchiuse il barone. - Avete il purgatorio in terraper andarvene diritto in paradiso.
Indi giunse don Ninì a prendere le chiavi della cantina. Trovando il cugino fece un certo viso sciocco.
- Ah... cugino!... che c'è di nuovo? Vostra moglie sta bene?... Quida melo vedete... guai colla pala! Che c'èmammà? i soliti capricci? Permettetemicugino Zaccodevo scendere giù un momento...
Le chiavi stavano sempre lìappese allo stipite dell'uscio. La paralitica li accompagnava cogli occhisenza poter pronunziare una parolasforzandosi più che potesse di girare il capo a ogni passo che faceva il figliuolocon delle chiazze di sangue guasto che le ribollivano a un tratto nel viso cadaverico. Zacco allora cominciò a snocciolare il rosario contro di mastro-don Gesualdo. - Signore Iddiome ne accuso e me ne pento! L'ho durata fin troppo con colui! Mi pareva una brutta cosa abbandonarlo nel bisogno... in mezzo a tutti i suoi nemici... Non fosse altro per carità cristiana... Ma via! è troppo... Neanche i suoi parenti possono tollerarloquell'uomo! Figuratevi! neanche quello stolido di don Ferdinando!... Si contenta di non uscire più di casa pur di non essere costretto a mettere il vestito nuovo che gli ha mandato a regalare il cognato... Sin che campaavete inteso? Quello è un uomo di carattere! Infine sono stancoavete capito? Non voglio rovinarmi per amore di mastro-don Gesualdo. Ho moglie e figliuoli. Dovrei portarmelo appeso al collo come un sasso per annegarmi?
- Ah!... ve l'avevo detto io! Vediamoviain coscienza! Cosa era mastro-don Gesualdo vent'anni fa?... Ora ci mette i piedi sul colloa noialtri! Vedetesignori mieiun barone Zacco che gli lustra le scarpe e s'inimica coi parenti per lui!
L'altro chinava il capocontrito. Confessava che aveva erratoa fin di beneper impedirgli di far dell'altro malee cercare di cavarne quel poco di buono che si poteva. Una voltain vitasi può sbagliare...
- L'avete capita finalmente? Avete visto chi aveva ragione di noi due?
La moglie gli chiuse la parola in bocca con una gomitata: - Lasciatelo parlare. È lui che deve dire ciò che vuole adesso da noi... quel ch'è venuto a fare...
- Bene! - conchiuse Zacco con una risata bonaria. - Son venuto a fare il Figliuol Prodigovia! Siete contenti?
Donna Giuseppina era contenta a bocca stretta. Suo marito guardò prima leipoi il cugino Zaccoe non seppe che dire.
- Bene- riprese Zacco un'altra volta. - So che stasera quei ragazzi vogliono fare un po' di chiasso per le strade. Ci avete appunto in mano le chiavi della cantina per tenerli allegri. Badate che non ho peli sulla linguase a qualcuno salta in mente di venire a seccarmi sotto le mie finestre. Ci ho molta roba anch'io nello stomacoe non voglio aver dei nemici a credenzacome mastro-don Gesualdo!...
Marito e moglie si guardarono negli occhi.
- Son padre di famiglia! - tornò a dire il barone. - Devo difendere i miei interessi... Scusate... Se giochiamo a darci il gambetto fra di noi!...
Donna Giuseppina prese la parola leiscandolezzata:
- Ma che discorsi son questi?... Scusatemi piuttosto se metto bocca nei vostri affari. Ma infine siamo parenti...
- Questo dico io. Siamo parenti! Ed è meglio stare uniti fra di noi... di questi tempi!...
Don Ninì gli stese la mano: - Che diavolo!... che sciocchezze!... - Quindi si sbottonò completamenteguardando ogni tanto sua moglie: - Venite in teatro questa seraper la cantata dell'inno. Fatevi vedere insieme a noialtri. Ci sarà anche il canonico. Dice che non fa peccatoperché è l'inno del papa... Discorreremo poi... Bisogna metter mano alla tascaamico mio. Bisogna spendere e regalare. Vedete io?
E agitava in aria le chiavi della cantina. La vecchiache non aveva perduto una parola di tutto il discorsosebbene nessuno badasse a leisi mise a grugnire in una collera ostinata di bambinagonfiando apposta le vene del collo per diventar pavonazza in viso. Ricominciò il baccano: nuora e figliuolo la sgridavano a un tempo; lei cercava di urlar più forteagitando la testa furibonda. Accorse anche Rosariacol ventre enormele mani sudice nella criniera arruffata e grigiastraminacciando la paralitica lei pure:
- Guardate un po'! È diventata cattiva come un asino rosso! Cosa gli mancaeh? Mangia come un lupo!
Rosaria non la finiva più su quel tono. Il barone Zacco pensò bene di accomiatarsi in quel frangente.
- Dunquestaseraalla cantata.
IV
C'era un teatronepoiché s'entrava gratis. Lumicantateapplausi che salivano alle stelle. La signora Aglae era venuta apposta da Modicaa spese del comuneper declamare l'inno di Pio Nono ed altre poesie d'occasione. Al vederla vestita alla grecacon tutta quella grazia di Dio addossoprosit a leidon Ninì Rubieranella commozione generalesi sentiva venire le lagrime agli occhie smanacciava più forte degli altriborbottando fra di sé:
- Corpo di!... È ancora un bel pezzo di donna!... Fortuna che non ci sia mia moglie qui!...
Ma i rimasti fuoriche spingevano senza poter entrarepartirono finalmente a strillare viva e morte per conto proprio; e quanti erano in teatroal baccanouscirono in piazzalasciando la prima donna e il signor Pallante a sbracciarsi da solicolle bandiere in mano. In un momento si riunì una gran follache andava ingrossando sempre al par di un fiume.
Udivasi un gridìo immensodegli urli che nel buio e nella confusione suonavano minacciosi. Don Niccolino MargaroneZaccoMommino Neritutti i bene intenzionatisi sgolavano a chiamare “fuori i lumi!“ per vederci chiaroe che non nascessero dei guai.
La folla durò un pezzo a vociare di qua e di là. Indi si rovesciò come un torrente giù per la via di San Giovanni. Dinanzi all'osteria di Pecu-Pecu c'era un panchettino con dei tegami di roba fritta che andò a catafascio - petronciani e pomidoro sotto i piedi. Santo Mottache stava lì di casa e bottegastrillava come un ossessovedendo andare a male tutta quella roba.
- Bestie! animali! Che non ne mangiate grazia di Dio? - Quasi pestavano anche luinella furia. Giacalone e i più infervorati proposero di sfondar l'uscio della chiesa e portare il santo in processioneper far più colpo. Sì e no. - Bestemmie e sorgozzonilì all'oscurosul sagrato. Mastro Cosimo intanto s'era arrampicato sul campanile e suonava a distesa. Le grida e lo scampanìo giungevano sino all'Alìasino a Monte Laurocome delle folate di uragano. Dei lumi si vedevano correre nel paese alto- un finimondo. A un trattoquasi fosse corsa una parola d'ordinela folla s'avviò tumultuando verso il Fossodietro coloro che sembravano i caporioni. Mèndoladon Nicolinolo stesso canonico Lupi che s'era cacciato nella baraonda a fin di benestrillavano inutilmente: - Ferma! ferma! - Il barone Zacconon avendo più le gambe di primafaceva piovere delle legnatea chi piglia pigliaper far intender ragione agli orbi.
- Ehi? Che facciamo?... Adagiosignori miei!.. Non cominciamo a far porcherie! In queste cose si sa dove si comincia e non si sa...
Come molti avevano messo orecchio al discorso di sfondar usci e far la festa a tutti i santila marmaglia ora pigiavasi dinanzi ai magazzini di mastro-don Gesualdo. Dicevasi ch'erano pieni sino al tetto. - Uno ch'era nato povero come Giobbee adesso aveva messo superbiaed era nemico giurato dei poveretti e dei liberali! - Coi sassicoi randelli - due o tre s'erano armati di un pietrone e davano sulla porta che parevano cannonate. Si udiva la vocetta stridula di Brasi Camauro il quale piagnucolava come un ragazzo:
- Signori miei! Non c'è più religione! Non vogliono più sapere né di cristi né di santi! Vogliono lasciarci crepare di fame tutti!
All'improvviso dal frastuono scapparono degli urli da far accapponare la pelle. Santo Motta malconcio e insanguinatorotolandosi per terrariescì a far fare un po' di largo dinanzi all'uscio del magazzino. Allora i galantuominivociando anche lorospingendotempestandocacciarono indietro i più riottosi. Il canonico Lupiaggrappato alla inferriata della finestratentava di farsi udire:
-... maniera?... religione!... la roba altrui!... il Santo Padre!... se cominciamo... - Altre grida rispondevano dalla moltitudine: -... eguali... poveri... tirare pei piedi!... bue grasso!... - Giacaloneonde aizzar la follaspinse avanti i due bastardi di Diodata ch'erano nella calcaschiamazzando: -... don Gesualdo!... se c'è giustizia!... abbandonati in mezzo a una strada!... se ne lagna anche Domeneddio!... andare a fare i conti con lui!...
Dalla piazza di Santa Maria di Gesùdalle prime case di San Sebastianoi vicinispaventatividero passare una fiumana di genteuna baraondadelle armi che luccicavanodelle braccia che si agitavano in ariadelle facce accese e stravolte che apparivano confusamente al lume delle torce a vento. Usci e finestre si chiudevano con fracasso. Si udivano da lontano strilli e pianti di donnevoci che chiamavano: - Maria Santissima! Santi cristiani!...
Don Gesualdo era in letto malatoquando udì bussare alla porticina del vicoletto che pareva volessero buttarla giù. Poi il rombo della tempesta che sopravveniva. La sera stessa un'anima caritatevole era corsa a prevenirlo: - Badatedon Gesualdo! Ce l'hanno con voi perché siete borbonico. Chiudetevi in casa! - Luiche aveva tanti altri guais'era stretto nelle spalle. Ma al vedere adesso che facevano sul seriobalzò dal letto così come si trovavacol fazzoletto in testa e il cataplasma sullo stomacoinfilandosi i calzoni a casacciomettendo da parte i suoi malannia quella voce che gli gridava:
- Don Gesualdo!... presto!... scappate!...
Una voce che non l'avrebbe dimenticata in mille anni! Arruffatoscamiciatocogli occhi che luccicavanosimili a quelli di un gatto inferocitonella faccia verde di bileandava e veniva per la stanzacercando pistole e coltellaccirisoluto a vender cara la pelle almeno. Mastro Nardo e quei pochi di casa che gli erano rimasti affezionati pel bisogno si raccomandavano l'anima a Dio. Finalmente il barone Mèndola riescì a farsi aprire l'uscio del vicoletto. Don Gesualdoappostato alla finestra col fucilestava per fare un subisso.
- Eh! - gridò Mèndola entrando trafelato. - Tirate ad ammazzarmiper giunta? Questa è la ricompensa?
L'altro non voleva sentir ragione. Tremava tutto dalla collera.
- Ah! così? A questo punto siamo arrivatiche un galantuomo non è sicuro neppure in casa? che la roba sua non è più sua? Eccomi! Cadrà Sansone con tutti i Filisteiperò! Lo stesso lupoquando lo mettono colle spalle al muro!... - Zaccoe due o tre altri benintenzionati ch'erano sopravvenuti intantosudavano a persuaderlovociando tutti insieme:
- Che volete fare? Contro un paese intero? Siete impazzito? Bruceranno ogni cosa! Cominciano di qua la Strage degli Innocenti! Ci farete ammazzare tutti quanti!
Lui s'ostinavafuribondocoi capelli irti:
- Quand'è così!... Giacché pretendono metterci le mani in tasca per forza!... Giacchè mi pagano a questo modo!... Ho fatto del bene... Ho dato da campare a tutto il paese... Ora gli fo mangiar la polvereal primo che mi capita!...
Proprio! Era risoluto di fare uno sterminio. Per fortuna irruppe nella stanza il canonico Lupie gli si buttò addosso senza badare al rischiospingendolo e sbatacchiandolo di qua e di làfinché arrivò a strappargli di mano lo schioppo. - Che diavolo! Colle armi da fuoco non si scherza! - Aveva il fiato ai dentiil cranio rosso e pelato che gli fumava come quando era giovanee balbettava colla voce rotta:
- Santo diavolone!... Domeneddioperdonatemi! Mi fate parlare come un porcodon asino! Siamo qui per salvarvi la vitae non ve lo meritate! Volete far mettere il paese intero a sacco e fuoco? Non m'importa di voibestia che siete! Ma certe cose non bisogna lasciarle incominciare neppure per ischerzocapite? Neppure a un nemico mortale! Se coloro che sinora si sfogano a gridarepigliano gusto anche a metter mano nella roba altruisiamo fritti!
Il canonico era addirittura fuori della grazia di Dio. Gli altri davano addosso ancor essi su quella bestia testarda di mastro-don Gesualdo che risicava di comprometterli tutti quanti; lo mettevano in mezzo; lo spingevano verso il muro; gli rinfacciavano l'ingratitudine; lo stordivano. Il barone Zacco arrivò a passargli un braccio al colloin confidenzaconfessandogli all'orecchio ch'era con luicontro la canaglia; ma pel momento ci voleva prudenzalasciar correrechinare il capo. - Dite di sì... tutto quello che voglionoadesso... Non c'è lì il notaio per mettere in carta le vostre promesse... Un po' di manieraun po' di denaro... Meglio dolor di borsa che dolor di pancia...
Don Gesualdoseduto su di una seggiolaasciugandosi il sudore colla manica della camicianon diceva più nullastralunato. Giù al portone intanto il barone Rubieradon Nicolinoil figlio di Nerisi sbracciavano a calmare i più riottosi.
- Signori miei... Avete ragione... Si farà tutto quello che volete... Abbiamo la bocca per mangiare tutti quanti... Viva! viva!... Tutti fratelli!... Una mano lava l'altra... Domani... alla luce del sole. Chi ha bisogno venga qui da noi... Ora è tardie siamo tutti d'un colore... birbanti e galantuomini... Ehi! ehidico!...
Don Nicolino dovette afferrare pel collo un tale che stava per cacciarsi dentro il portone socchiusoapprofittando della confusione e della ressa che facevasi attorno a una donna la quale strillava e supplicava:
- Nunzio! Gesualdo! Figliuoli miei!... Che vi fanno fare?... Nunzio... Ah Madonna santa!...
Era Diodatala quale aveva sentito dire che i suoi ragazzi erano nella baraondaa gridare viva e morte contro don Gesualdo anche loroed era corsa colle mani nei capelli. - Madonna santa! che vi fanno fare!... - Zacco e mastro Nardo portarono giù intanto dei barili pienie aiutavano a metter pace mescendo da bere a chi ne volevamentre il canonico di lassù predicava:
- Domani! Tornate domanichi ha bisogno... Adesso non c'è nessuno in casa... Don Gesualdo è fuoriin campagna... ma col cuore è anch'esso quicon noialtri... per aiutarvi... Sicuro... Ciascuno ha da avere il suo pezzo di pane e il suo pezzo di terra... Ci aggiusteremo... Tornate domani...
- Domaniun corno! - brontolò di dentro don Gesualdo. - Mi pare che vossignoria aggiustate ogni cosa a spese miecanonico!
- Volete star zitto! Volete farmi fare la figura di bugiardo?... Se ho detto che non ci sieteper salvarvi la pelle...
Don Gesualdo tornò a ribellarsi:
- Perchè? Che ho fatto? Io sono in casa mia!...
- Avete fatto che siete ricco come un maiale! - gli urlò infine all'orecchio il canonico che perse la pazienza. Gli altri allora l'assaltarono tutti insiemecolle buonecolle cattivedicendogli che se i rivoltosi lo trovavano lìdella casa non lasciavano pietra sopra pietra; pigliavano ogni cosa; neanche gli occhi per piangere gli lasciavano. Finché lo indussero a scappare dalla parte del vicoletto. Mèndola corse a bussare all'uscio dello zio Limòli.
Al baccanoil marcheseoramai sordo come una talpas'era buttato un ferraiuolo sulle spallee stava a vedere dietro l'invetriata del balconein camiciacollo scaldino in mano e i piedi nudi nelle ciabattequando gli capitò quella nespola fra capo e collo. Ci volle del bello e del buono a fargli capire ciò che volevano da lui a quell'oramastro-don Gesualdo più morto che vivogli altri che gli urlavano nell'orecchiouno dopo l'altro:
- Vogliono fargli la festa... a vostro nipote don Gesualdo... Bisogna nasconderlo...
Egli ammiccavacolle palpebre floscie e cascantiaccennando di sìmentre abbozzava un sorriso malizioso.
- Ah?... la festa?... a don Gesualdo?... È giusto! È venuto il vostro tempocaro mio... Siete il campione della mercanzia!...
Ma finalmenteal sentire che invece volevano accopparlomutò registrofingendo d'essere inquietocolla vocetta fessa:
- Che?... Lui pure? Cosa vogliono dunque?... Dove andiamo di questo passo?
Mèndola gli spiegò che don Gesualdo era il pretesto per dare addosso ai più denarosi; ma lì non sarebbero venuti a cercarne dei denari. Il vecchio accennava di no anche luiguardando intornocon quel sorrisetto agro sulla bocca sdentata.
Erano due stanzacce invecchiate con luinelle quali ogni sua abitudine aveva lasciato l'impronta: la macchia d'unto dietro la seggiola su cui appisolavasi dopo pranzoi mattoni smossi in quel breve tratto fra l'uscio e la finestrala parete scalcinata accanto al letto dove soleva accendere il lume. E in quel sudiciume il marchese ci stava come un principesputando in faccia a tutti quanti le sue miserie.
- Scusatesignori mieise vi ricevo in questa topaia... Non è pel vostro meritodon Gesualdo... La bella parentela che avete presaeh?...
Sul vecchio canapè addossato al muropuntellandolo cogli stessi mattoni rottiimprovvisarono alla meglio un letto per don Gesualdo che non stava più in piedimentre il marchese continuava a brontolare:
- Guardate cosa ci capita! Ne ho viste tante! Ma questa qui non me l'aspettavo...
Pure gli offrì di dividere con lui la scodella di latte in cui aveva messo a inzuppare delle croste di pane.
- Son tornato a baliavedete. Non ho altro da offrirvi a cena. La carne non è più pei miei dentiné per la mia borsa... Voi sarete avvezzo a ben altroamico mio... Che volete farci? Il mondo gira per tutticaro don Gesualdo!...
- Ah! - rispose lui. - Non è questonosignor marchese. È che lo stomaco non mi dice. L'ho pieno di veleno! Un cane arrabbiato ci ho.
- Bene- dissero gli altri. - Ringraziate Iddio. Qui nessuno vi tocca.
Fu un colpo tremendo per mastro-don Gesualdo. L'agitazionela bileil malanno che ci aveva in corpo... La notte passò come Dio volle. Ma il giorno dopoall'avemariatornò Mèndola intabarratocol cappello sugli occhiguardandosi intorno prima d'infilar l'uscio.
- Un'altra adesso! - esclamò entrando. - Vi hanno fatto la spiadon Gesualdo! E vogliono stanarvi anche di qua per costringervi a mantenere ciò che ha promesso il canonico... Ciolla in persona... l'ho visto laggiù a far sentinella...
Il marchesech'era tornato arzillo e gaio fra tutto quel parapigliaaguzzando l'uditoficcandosi in mezzo per acchiappar qualche parolacorse al balcone.
- Sicuro! Eccolo lì col camiciottocome un bambino... Vuol dire che si torna indietro tutti!...
Don Gesualdo s'era alzato sbuffandogridando ch'era meglio finirlache correva giù a dargliela luila promessaal Ciolla! E giacchè lo cercavanoera lìpronto a riceverli!...
- Certocerto- ripeteva il marchese. - Se vi cercano vuol dire che hanno bisogno di voi. Di me non vengono a cercare sicuro! Vogliono farvi gridare viva e morte insieme a loro? E voi andateci! Viva voi che avete da farli gridare!
- No! So io quello che vogliono! - ribattè don Gesualdo imbestialito.
- Scusatenon si tratta soltanto di voi adesso- osservò Mèndola. - È che dietro di voi ci siamo tutto il paese!...
Sopraggiunse il canonicograttandosi il capoimpensierito della piega che pigliava la faccenda. Durava la baldoria. Una bella cosa per certa gente! Quei bricconi s'erano legate al dito le parole di pace ch'egli si era lasciato sfuggire in quel frangentee stavano in piazza tutto il giorno ad aspettare la manna dal cielo: - M'avete messo in un bell'imbrogliovoidon Gesualdo!
A quell'uscita del canonico successe un altro battibecco fra loro due: - Ioeh?... Io!... Son io che ho promesso mari e monti?
- Per chetarliin nome di Dio! Parole che si diconosi sa! Avrei voluto vedervidinanzi a quelle facce scomunicate!
Il marchese si divertiva: - Senti senti! Guarda guarda!
- Insomma- conchiuse Mèndola- queste son chiacchieree bisogna pigliar tempo. Intanto voi levatevi di mezzocausa causarum! In fondo a una cisternain un bucodove diavolo voletema non è la maniera di compromettere tanti padri di famigliaper causa vostra!
- In casa Trao! - suggerì il canonico. - Vostro cognato vi accoglierà a braccia aperte. Nessuno sa che c'è ancora lui al mondoe non verranno a cercarvi sin lì. - Il marchese approvò anch'esso: - Benissimo. È una bella pensata! Cane e gatto chiusi insieme... - Don Gesualdo s'ostinava ad opporsi.
- Allora- esclamò il canonico- io me ne lavo le mani come Pilato. Anzi vado a chiamarvi Ciolla e tutti quantise volete!...
Don Gesualdo era ridotto in uno stato che di lui ne facevano quel che volevano. A due ore di notteper certe stradicciuole fuori manoandarono a svegliare Grazia che aveva la chiave del portonee al buiotentoniarrivarono sino all'uscio di don Ferdinando.
- Chi è? - si udì belare di dentro una voce asmatica. - Graziachi è?
- Siamo noidon Gesualdovostro cognato...
Nessuno rispose. Poi si udì frugare nel buio. E a un tratto don Ferdinando si chiuse dentro col palettoe si mise ad ammonticchiare sedie e tavolini dietro l'usciocontinuando a strillare spaventato:
- Grazia! Grazia!
- Corpo del diavolo! - esclamò Mèndola. - Qui si fa peggio! Quella bestia farà correre tutto il paese!
Il canonico rideva sotto il nasoscuotendo il capo. Grazia intanto aveva acceso un mozzicone di candelae li guardava in faccia ad uno ad unoallibbitabattendo le palpebre.
- Che volete faresignori miei? - azzardò infine timidamente. Don Gesualdoche non si reggeva più in piedipallido e disfattoproruppe in tono disperato:
- Io voglio tornarmene a casa mia!... a qualunque costo... Sono risoluto!...
- Nossignore! - interruppe il canonico. - Qui siete in casa vostra. C'è la quota di vostra moglie. Ahcaspita! Avete avuto pazienza sino adesso... Ora basta!... Lìnella camera di donna Bianca. Il letto è ancora tal quale.
Mèndola s'era messo di buon umorementre preparavano la stanza. Frugava da per tutto. Andava a cacciare il naso nell'andito oscurodietro l'usciolino. Trovava delle barzellettericordando le vecchie storie. Quanti casi! Quante vicende! - Chi ve lo avrebbe dettoehdon Gesualdo? - Lo stesso canonico Lupi si lasciò sfuggire un sorrisetto.
- Intanto che siete quipotete fare le vostre meditazioni sulla vita e sulla morteper passare il tempo. Che commediaquesto mondaccio! Vanitas vanitatum!
Don Gesualdo gli rivolse un'occhiata nerama non rispose. Ci aveva ancora dello stomaco per chiudervi dentro i suoi guai e le sue disgraziesenza farne parte agli amiciper divertirli. Si buttò a giacere sul lettoe rimase solo al buio coi suoi malannisoffocando i lamentimandando giù le amarezze che ogni ricordo gli faceva salire alla gola. D'una cosa sola non si dava paceche avrebbe potuto crepare lì dove erasenza che sua figlia ne sapesse nulla. Alloranella febbregli passavano dinanzi agli occhi torbidi BiancaDiodatamastro Nunziodegli altri ancoraun altro sé stesso che affaticavasi e s'arrabattava al sole e al ventotutti col viso arcignoche gli sputavano in faccia: - Bestia! bestia! Che hai fatto? Ben ti stia!
A giorno tornò Grazia per aiutare un po'sfinitaansando se smuoveva una seggiolafermandosi ogni momento per piantarsi dinanzi a lui colle mani sul ventre enormee ricominciare le lagnanze contro i parenti di don Ferdinando che le lasciavano quel poveretto sulle spallelesinandogli il pane e il vino. - Sissignorel'hanno tutti dimenticatolì nel suo cantucciocome un cane malato!... Ma io il cuore non mi dice... Siamo stati sempre vicini... buoni servi della famiglia... una gran famiglia... Il cuore non mi diceno!
Dietro di lei veniva una masnada di figliuoli che mettevano ogni cosa a soqquadro. Poi sopraggiunse Speranza strepitando che voleva vedere suo fratelloquasi egli stesse per rendere l'anima a Dio.
- Lasciatemi entrare! È sangue mio infine! Ora ch'è in questo stato mi rammento solo di essere sua sorella. - Leiil maritoi figliuoli. Mise a rumore tutto il vicinato. Don Gesualdo lasciò il letto sbuffando. Non lo avrebbero tenuto le catene.
- Voglio tornare a casa mia! Che ci sto a fare qui? Tantolo sanno tutti!...
A gran stento lo indussero ad aspettare la sera. E dopo l'avemariaquatti quattiBurgio e tutti i parenti l'accompagnarono a casa. Speranza volle restare a guardia del fratellogiacché trovavasi tanto malatoe per miracolo quella notte non gli avevano messo ogni cosa a sacco e ruba.
- Non vuol dire se siamo in lite. Al bisogno si vede il cuore della gente. Gli interessi sono una cosae l'amore è un'altra. Abbiamo litigatolitigheremo sino al giorno del Giudizioma siamo figli dello stesso sangue! - Protestò che l'avrebbe tenuto meglio delle pupille dei propri occhilui e la sua roba. Gli schierò dinanzi al letto marito e figliuoli che giravano intorno sguardi cupidiripetendo:
- Questo è il sangue vostro! Questi non vi tradiscono! - Luicombattutostancoavvilitonon ebbe neanche la forza di ribellarsi.
Cosìa poco a pocogli si misero tutti quanti alle costole. I nipoti scorazzando per la casa e pei poderispadroneggiandocacciando le mani da per tutto. La sorellacolle chiavi alla cintolafrugandorovistandomandando il marito di qua e di làpei rimedie a coglier erbe medicinali. Come massaro Fortunato si lagnava di non aver più le gambe di vent'anni per affacchinarsi a quel modoessa lo sgridava:
- Che volete? Non lo fate per amore di vostro cognato? Carceremalattie e necessità si conosce l'amistà.
Lei non aveva suggezione di Ciolla e di tutti gli altri della sua risma. Una volta che Vito Orlando pretese di venire a fare una sbravazzatacolla pistola in tascaper liquidare certi conti con don Gesualdoessa lo inseguì giù per le scale buttandogli dietro una catinella d'acqua sporca. Lo stesso canonico Lupi aveva dovuto mettersi la coda fra le gambee non era tornato a fare il generoso colla roba altruiora che Ciolla e i più facinorosi erano partiti a cercar fortuna in cittàcon bandiere e trombette. Il canonicoonde chetare gli altriaveva preso il ripiego di sortire in processionecolla disciplina e la corona di spine; e così gli altri si sfogavano in feste e quarant'orementre lui andava predicando la fratellanza e l'amore del prossimo.
- Però un baiocco non lo mette fuori! - sbraitava comare Speranza. - E questo va bene. Ma se torna a fare il camorristaqui da noilo ricevo come va... tal quale Vito Orlando!
Intanto la casa di don Gesualdo era messa a sacco e ruba egualmente. Vinoolioformaggiopezze di tela anchesparivano in un batter d'occhio. Dalla Canziria e da Mangalavite giungevano fattori e mezzadri a reclamare contro i figliuoli di massaro Fortunato Burgio che comandavano a bacchettae saccheggiavano i poderi dello zioquasi fosse già roba senza padrone. Luipoveraccioconfinato in lettosi rodeva in silenzio; non osava ribellarsi al cognato e alla sorella; pensava ai suoi guai. Ci aveva un canelì nella panciache gli mangiava il fegatoil cane arrabbiato di San Vito martireche lo martirizzava anche lui. Inutilmente Speranzaamorevolecercava erbe e medicineconsultava Zanni e persone che avevano segreti per tutti i mali. Ciascuno portava un rimedio nuovodei decottidegli unguentifino la reliquia e l'immagine benedetta del santoche don Luca volle provare colle sue mani. Non giovava nulla. L'infermo badava a ripetere:
- Non è niente... un po' di colica. Ho avuto dei dispiaceri. Domani mi alzerò...
Ma non ci credeva più neppur luie non si alzava mai. Era ridotto quasi uno scheletropelle e ossa; soltanto il ventre era gonfio come un otre. Nel paese si sparse la voce che era spacciato: la mano di Dio che l'agguantava e l'affogava nelle ricchezze. Il signor genero scrisse da Palermo onde avere notizie precise. Parlava anche d'affari da regolaree di scadenze urgenti. Nella poscritta c'erano due righe sconsolate d'Isabellala quale non si era ancora riavuta dal gran colpo che aveva ricevuto poco prima. Speranzache era presente mentre il fratello s'inteneriva sulla letterasputò fuori il veleno:
- Ecco! Ora vi guastate il sangueper giunta! Potreste andarvene all'altro mondo... solo e abbandonatocome uno che non ha nè possiede!... Chi vi siete trovato accanto nel bisognoditelo? Vostra figlia vi manda soltanto belle parole... Suo marito però va al sodo!
Don Gesualdo non rispose. Ma di nascostorivolto verso il murosi mise a piangere cheto cheto. Sembrava diventato un bambino. Non si riconosceva più. Allorchè Diodatasentendo ch'era tanto malatovolle andare a visitarlo e a chiedergli perdono per la mancanza che gli avevano fatto i suoi ragazzila notte della sommossarimase di stucco al vederlo così disfattoche puzzava di sepolturae gli occhi che a ogni faccia nuova diventavano lustri lustri.
- Signor don Gesualdo... son venuta a vedervi perché mi hanno detto che siete in questo stato... Dovete perdonare... a quegli screanzati che vi hanno offeso... Ragazzi senza giudizio... Si son lasciati prendere in mezzosenza sapere quello che facessero... Dovete perdonare per amor miosignor don Gesualdo!...
E si vedeva che parlava sincerala poverettacon quel visomandando giùper nasconderlele lagrime che a ogni parola le tornavano agli occhicercando di pigliargli la mano per baciargliela. Egli faceva un gesto vagoe scuoteva il capocome a dire che non gliene importavaoramai. In quella sopravvenne Speranzae fece una partaccia a quella sfacciata che veniva a tentarle il fratello in fin di vitaper cavargli qualcosaper pelarlo sino all'ultimo. Una sanguisuga. Ci s'era ingrassata alle spalle di lui! Non le bastava? Ora calavano i corviall'odor del carname. Il malato chiudeva gli occhi per sfuggire quel supplizioe agitavasi nel letto come al sopraggiungere di un'altra colica. Talché Diodata se ne andò senza poterlo salutarea capo chinostringendosi nella mantellina. Speranza tornò al fratellotutta amorevole e sorridente.
- Per assistervi adesso ci avete qui noi... Non vi lasceremo solonon temete.. Tutto ciò che avete bisogno... Comandate. Che ne fareste adesso di quella strega? Vi mangerebbe anima e corpo. Neanche il viatico potreste riceverecon quello scandalo in casa!
Lei lo assisteva meglio di una servae lo curava con amoresenza guardare a spesa né a fatiche. Vedendo che nulla giovavaarrivò a chiamare il figlio di Tavusoil quale tornava fresco fresco da Napolilaureato in medicina- un ragazzotto che non aveva ancora peli al mento e si faceva pagare come un principe. - Però don Gesualdo gli disse il fatto suoal vedergli metter mano alla penna per scrivere le solite imposture:
- Don Margheritinoio vi ho visto nascere! A me scrivete la ricetta? Per chi mi pigliateamico caro!
- Allora- ribattè il dottorino infuriato- allora fatevi curare dal maniscalco! Perché mi avete fatto chiamare? - Prese il cappelloe se ne andò.
Ma siccome il malato soffriva tutti i tormenti dell'infernonella lusinga che qualcheduno trovasse il rimedio che ci volevaper non far parlare anche i vicini che li accusavano di avariziadovettero chinare il capo a codestochinare il capo a medici e medicamenti. Il figlio di TavusoBomma quanti barbassori c'erano in paesetutti sfilarono dinanzi al letto di don Gesualdo. Arrivavanoguardavanotastavanoscambiavano fra di loro certe parolacce turche che facevano accapponar la pellee lasciavano detto ciascuno la sua su di un pezzo di carta - degli sgorbi come sanguisughe. Don Gesualdosbigottitonon diceva nullacercava di cogliere le parole a volo; guardava sospettoso le mani che scrivevano. Soltantoper non buttare via il denaro malamenteprima di spedire la ricettaprese a parte don Margheritinoe gli fece osservare che aveva un armadio pieno di vasetti e boccettinecomperati per la buon'anima di sua moglie. - Non ho guardato a spesasignor dottore. Li ho ancora lìtali e quali. Se vi pare che possano giovare adesso...
Non gli davano retta neppur quando tornava a balbettarespaventato da quelle facce serie: - Mi sento meglio. Domani mi alzo. Mandatemi in campagna che guarirò in ventiquattr'ore. - Gli dicevano di sìper contentarlocome a un bambino. - Domanidoman l'altro. - Ma lo tenevano lìper smungerloper succhiargli il sanguemediciparenti e speziali. Lo voltavanolo rivoltavanogli picchiavano sul ventre con due ditagli facevano bere mille porcherielo ungevano di certa roba che gli apriva dei vescicanti sullo stomaco. C'era di nuovo sul cassettone un arsenale di rimedicome negli ultimi giorni di Biancabuon'anima. Egli borbottavatentennando il capo. - Siamo già ai medicamenti che costano cari! Vuol dire che non c'è più rimedio. - Il denaro a fiumiun va e vieniuna baraonda per la casatavola imbandita da mattina a sera. Burgioche non c'era avvezzocorreva a mostrare la lingua ai medicicome venivano pel cognato; Santo non usciva più nemmeno per andare all'osteria; e i nipotiquando tornavano dai poderisi pigliavano pei capelli: liti e quistioni fra di loro che facevano a chi più arraffadegli strepiti che arrivavano fin nella camera dell'infermoil quale tendeva l'orecchiosmanioso di sapere quello che facevano della sua robae anche lui si metteva a strillare dal letto:
- Lasciatemi andare a Mangalavite. Ci ho tutti i miei interessi alla malora. Qui mi mangio il fegato. Lasciatemi andarese no crepo!
Ci aveva come una palla di piombo nello stomacoche gli pesavavoleva uscir fuoricon un senso di pena continuo; di tratto in trattosi contraevas'arroventava e martellavae gli balzava alla golae lo faceva urlare come un dannatoe gli faceva mordere tutto ciò che capitava. Egli rimaneva sfinitoanelantecol terrore vago di un altro accesso negli occhi stralunati. Tutto ciò che ingoiava per forzaper aggrapparsi alla vitai bocconi più rarisenza chiedere quel che costasserogli si mutavano in veleno; tornava a rigettarli come roba scomunicatapiù nera dell'inchiostroamaramaledetta da Dio. E intanto i dolori e la gonfiezza crescevano: una pancia che le gambe non la reggevano più. Bommapicchiandovi soprauna volta disse: - Qui c'è roba.
- Che volete direvossignoria? - balbettò don Gesualdobalzando a sedere sul lettocoi sudori freddi addosso.
Bomma lo guardò bene in facciaaccostò la seggiolasi voltò di qua e di là per vedere s'erano soli.
- Don Gesualdosiete un uomo... Non siete più un ragazzoeh?
- Sissignore- rispose lui con voce fermacalmatosi a un trattocol coraggio che aveva sempre avuto al bisogno. - Sissignoreparlate.
- Benequi ci vuole un consulto. Non avete mica una spina di fico d'India nel ventre! È un affare seriocapite! Non è cosa per la barba di don Margheritino o di qualcun altro... sia detto senza offenderliqui in confidenza. Chiamate i migliori medici forestieridon Vincenzo Caprail dottor Muscio di Caltagironechi volete... Denari non ve ne mancano...
A quelle parole don Gesualdo montò in furia: - I denari!... Vi stanno a tutti sugli occhi i denari che ho guadagnato!... A che mi servono... se non posso comprare neanche la salute?... Tanti bocconi amari m'hanno dato... sempre!...
Ma però volle stare a sentire la conclusione del discorso di Bomma. Alle volte non si sa mai... Lo lasciò finirestando zittotenendosi il mentopensando ai casi suoi. Infine volle sapere:
- Il consulto? Che mi fa il consulto?
Bomma perse le staffe: - Che vi fa? Caspita! Quello che vi può fare... Almeno non si dirà che vi lasciate morire senza aiuto. Io parlo nel vostro interesse. Non me ne viene nulla in tasca... Io fo lo speziale... Non è affar mio... Non me ne intendo. Vi ho curato per amicizia... - Come l'altro tentennava il capodiffidentecol sorriso furbo sulle labbra smorteil farmacista mise da banda ogni riguardo. - Morto sietedon minchione! A voi dico!
Allora don Gesualdo volse un'occhiata lenta e tenace in girosi soffiò il nasoe si lasciò andar giù sul letto supino. Di lì a un po'guardando il soffittoaggiunse con un sospiro:
- Va bene. Facciamo il consulto.
La notte non chiuse occhio. Tormentato da un'ansietà nuovacon dei brividi che lo assalivano di tratto in trattodei sudori freddidelle inquietudini che lo facevano rizzare all'improvviso sul letto coi capelli irtiguardando intorno nelle tenebrevedendo sempre la faccia minacciosa di Bommatastandosisoffocando i doloricercando d'illudersi. Parevagli di sentirsi meglio infatti. Voleva curarsigiacché era un affar serio. Voleva guarire. Ripeteva le parole stesse dello speziale: denari ne aveva; s'era logorata la vita apposta; non li aveva guadagnati per far la barba al signor genero; perché se li godessero degli ingrati che lo lasciavano crepare lontano: Lontano dagli occhilontan dal cuore! Il mondo è fatto cosìche ciascuno tira l'acqua al suo mulino. Il mulino suodi luiera di riacquistare la salutecoi suoi denari. C'erano al mondo dei buoni medici che l'avrebbero fatto guarirepagandoli bene. Allora asciugavasi quel sudore d'agoniae cercava di dormire. Voleva che i medici forestieri che aspettava il giorno dopo gli trovassero miglior cera; contava le ore; gli pareva mill'anni che fossero lì dinanzi al suo letto. La stessa luce dell'alba gli faceva animo. Poiallorché udì le campanelle della lettiga che portava il Muscio e don Vincenzo Capra si sentì slargare il cuore tanto fatto. Si tirò su svelto a sedere sul letto come uno che si senta proprio meglio. Salutò quella brava gente con un bel sorriso che doveva rassicurare anche loroappena li vide entrare.
Essi invece gli badarono appena. Erano tutti orecchi per don Margheritino che narrava la storia della malattia con gran prosopopea; approvavano coi cenni del capo di tanto in tanto; volgevano solo qualche occhiata distratta sull'ammalato che andavasi scomponendo in voltoalla vista di quelle facce serieal torcer dei musialla lunga cicalata del mediconzolo che sembrava recitasse l'orazione funebre. Dopo che colui ebbe terminato di ciarlare s'alzarono l'uno dopo l'altroe tornarono a palpare e a interrogare il malatoscrollando il capocon certo ammiccare sentenziosocerte occhiate fra di loro che vi mozzavano il fiato addirittura. Ce n'era uno specialmentedei forestieriche stava accigliato e pensierosoe faceva a ogni momento uhm! uhm! senza aprir bocca. I parentila gente di casadei vicini ancheper curiositàsi affollavano all'uscioaspettando la sentenzamentre i dottori confabulavano a bassa voce fra di loro in un canto. A un cenno dello spezialeBurgio e sua moglie andarono a sentire anch'essiin punta di piedi.
- Parlatesignori miei! - esclamò allora il pover'uomo pallido come un morto. - Sono io il malatoinfine! Voglio sapere a che punto sono.
Il Muscio abbozzò un sorriso che lo fece più brutto. E don Vincenzo Caprain bel modocominciò a spiegare la diagnosi della malattia: Pylori canceril pyrosis dei greci. Non s'avevano ancora indizii d'ulcerazione; l'adesione stessa del tumore agli organi essenziali non era certa; ma la degenerescenza dei tessuti accusavasi già per diversi sintomi patologici. Don Gesualdodopo avere ascoltato attentamenteriprese:
- Tutto questo va benone. Però ditemi se potete guarirmivossignoria. Senza interesse... pagandovi secondo il vostro merito...
Capra ammutolì da prima e si strinse nelle spalle.
- Eheh... guarire... certo... siamo qui per cercar di guarirvi... - Il Musciopiù brutalespifferò chiaro e tondo il solo rimedio che si potesse tentare: l'estirpazione del tumoreun bel casoun'operazione chirurgica che avrebbe fatto onore a chiunque. Dimostrava il modo e la manieraaccalorandosi nella propostaaccompagnando la parola coi gestifiutando già il sangue cogli occhi accesi nel faccione che gli s'imporporava tuttoquasi stesse per rimboccarsi le maniche e incominciare; tanto che il paziente spalancava gli occhi e la boccae tiravasi indietro per istinto; e le donneatterritescapparono a gemere e a singhiozzare.
- Madonna del Pericolo! - cominciò a strillare Speranza. - Vogliono ammazzarmi il fratello... squartarlo vivo come un maiale!
- Chetatevi! - balbettò lui passandosi un lembo del lenzuolo sulla faccia che grondava goccioloni. Gli altri medici tacevano e approvavano più o meno la proposta del dottor Muscio per cortesia. Don Gesualdovisto che nessuno fiatavaripigliò a dire:
- Chetatevi!... Si tratta della mia pelle... devo dir la mia anch'io... Signori miei... sono un uomo... Non sono un ragazzo... Se dite ch'è necessaria... questa operazione... Se dite che è necessaria... Sissignore... si farà... Peròlasciatemi dir la mia...
- È giusto. Parlate.
- Ecco... Una cosa sola.. Voglio sapere prima se mi garantite la pelle... Siamo galantuomini... Mi fido di voi... Non è un negozio da farsi a occhi chiusi. Voglio vederci chiaro nel mio affare...
- Che discorsi son questi! - interruppe il Muscio dimenandosi sulla seggiola. - Io fo il chirurgoamico mio. Io fo il mio mestieree non m'impiccio a far scommesse da ciarlatano! Credete di trattare col Zannialla fiera?
- Allora non ne facciamo nulla- rispose don Gesualdo. E gli voltò le spalle. - Andate làBommache m'avete dato un bel consiglio!
Speranzapremurosavide giunta l'ora di rivolgersi ai santie si diede le mani attorno a procurar reliquie e immagini benedette. Neri pensò che si doveva avvertire subito la figliuola e il genero del pericolo che correva don Gesualdo. Lui non dava più retta. Diceva che di santi e di reliquie ne aveva un fasciolì nell'armadio di Biancainsieme alle altre medicine. Non voleva veder nessuno. Giacché era condannatovoleva morire in pacesenza operazioni chirurgichelontano dai guainella sua campagna. S'attaccava alla vita mani e piedidisperato. Ne aveva passate delle altre; s'era aiutato sempre da sénei mali passi. Coraggio ne aveva e aveva il cuoio duro anche. Mangiava e beveva; si ostinava a star meglio; si alzava dal letto due o tre ore al giorno; si trascinava per le stanzeda un mobile all'altro. Infine si fece portare a Mangalavitecol fiato ai dentimastro Nardo da un lato e Masi dall'altro che lo reggevano sul mulo - un viaggio che durò tre oree gli fece dire cento volte: - Buttatemi nel fossoch'è meglio.
Ma laggiùdinanzi alla sua robasi persuase che era finita davveroche ogni speranza per lui era perdutaal vedere che di nulla gliene importavaoramai. La vigna metteva già le fogliei seminati erano altigli ulivi in fiorei sommacchi verdie su ogni cosa stendevasi una nebbiauna tristezzaun velo nero. La stessa casinacolle finestre chiusela terrazza dove Bianca e la figliuola solevano mettersi a lavorareil viale desertofin la sua gente di campagna che temeva di seccarlo e se ne stava alla largalì nel cortile o sotto la tettoiaogni cosa gli stringeva il cuore; ogni cosa gli diceva: Che fai? che vuoi? La sua stessa robalìi piccioni che roteavano a stormi sul suo capole oche e i tacchini che schiamazzavano dinanzi a lui... Si udivano delle voci e delle cantilene di villani che lavoravano. Per la viottola di Licodiain fondopassava della gente a piedi e a cavallo. Il mondo andava ancora pel suo versomentre non c'era più speranza per luiroso dal baco al pari di una mela fradicia che deve cascare dal ramosenza forza di muovere un passo sulla sua terrasenza voglia di mandar giù un uovo. Alloradisperato di dover moriresi mise a bastonare anatre e tacchinia strappar gemme e sementi. Avrebbe voluto distruggere d'un colpo tutto quel ben di Dio che aveva accumulato a poco a poco. Voleva che la sua roba se ne andasse con luidisperata come lui. Mastro Nardo e il garzone dovettero portarlo di nuovo in paesepiù morto che vivo.
Di lì a qualche giorno arrivò il duca di Leyrachiamato per espressoe s'impadronì del suocero e della casadicendo che voleva condurselo a Palermo e farlo curare dai migliori medici. Il poverettoch'era ormai l'ombra di sé stessolasciava fare; riapriva anzi il cuore alla speranza; intenerivasi alle premure del genero e della figliuola che l'aspettava a braccia aperte. Gli pareva che gli tornassero già le forze. Non vedeva l'ora d'andarsenequasi dovesse lasciare il suo male lìin quella casa e in quei poderi che gli erano costati tanti sudorie che gli pesavano invece adesso sulle spalle. Il genero intanto occupavasi col suo procuratore a mettere in sesto gli affari. Appena don Gesualdo fu in istato di poter viaggiarelo misero in lettiga e partirono per la città. Era una giornata piovosa. Le case notedei visi di conoscenti che si voltavano appenasfilavano attraverso gli sportelli della lettiga. Speranzae tutti i suoiin collera dacché era venuto il duca a spadroneggiarenon si erano fatti più vedere. Ma Nardo aveva voluto accompagnare il padrone sino alle ultime case del paese. In via della Masera si udì gridare: - Fermate! fermate! - E apparve Diodataché voleva salutare don Gesualdo l'ultima voltalìdavanti il suo uscio. Perògiunta vicino a luinon seppe trovare le parolee rimaneva colle mani allo sportelloaccennando col capo.
- AhDiodata... Sei venuta a darmi il buon viaggio?... - disse lui. Essa fece segno di sìdi sìcercando di sorrideree gli occhi le si riempirono di lagrime.
- Povera Diodata! Tu sola ti rammenti del tuo padrone...
Affacciò il capo allo sportellocercando forse degli altrima siccome pioveva lo tirò indietro subito.
- Guarda che fai!... sotto la pioggia... a capo scoperto!... È il tuo vizio antico! Ti rammentiehti rammenti?
- Sissignore- rispose lei semplicementee continuava ad accompagnare le parole coi cenni del capo. - Sissignorefate buon viaggiovossignoria.
Si staccò pian piano dalla lettigaquasi a malincuoree tornò a casafermandosi sull'uscioumile e triste. Don Gesualdo s'accorse allora di mastro Nardo che l'aveva seguìto sin lìe mise mano alla tasca per regalargli qualche baiocco.
- Scusatemastro Nardo... non ne ho... sarà per un'altra voltase torniamo a vedercieh?... se torniamo a vederci... - E si buttò all'indietrocol cuore gonfio di tutte quelle cose che si lasciava dietro le spallela viottola fangosa per cui era passato tante volteil campanile perduto nella nebbiai fichi d'India rigati dalla pioggia che sfilavano di qua e di là della lettiga.
V
Parve a don Gesualdo d'entrare in un altro mondoallorché fu in casa della figliuola. Era un palazzone così vasto che ci si smarriva dentro. Da per tutto cortinaggi e tappeti che non si sapeva dove mettere i piedi - sin dallo scalone di marmo - e il portiereun pezzo grosso addiritturacon tanto di barba e di soprabitonevi squadrava dall'alto al bassoaccigliatose per disgrazia avevate una faccia che non lo persuadessee vi gridava dietro dal suo gabbione: - C'è lo stoino per pulirsi le scarpe! - Un esercito di mangiapanestaffieri e camerieriche sbadigliavano a bocca chiusacamminavano in punta di piedie vi servivano senza dire una parola o fare un passo di piùcon tanta degnazione da farvene passar la voglia. Ogni cosa regolata a suon di campanellocon un cerimoniale di messa cantata - per avere un bicchier d'acquao per entrare nelle stanze della figliuola. Lo stesso ducaall'ora di pranzosi vestiva come se andasse a nozze.
Il povero don Gesualdonei primi giornis'era fatto animo per contentare la figliuolae s'era messo in gala anche lui per venire a tavolalegato e impastoiatocon un ronzìo nelle orecchiele mani esitantil'occhio inquietole fauci strette da tutto quell'apparatodal cameriere che gli contava i bocconi dietro le spallee di cui ogni momento vedevasi il guanto di cotone allungarsi a tradimento e togliervi la roba dinanzi. L'intimidiva pure la cravatta bianca del generole credenze alte e scintillanti come altarie la tovaglia finissimache s'aveva sempre paura di lasciarvi cadere qualche cosa. Tanto che macchinava di prendere a quattr'occhi la figliuolae dirle il fatto suo. Il ducaper fortunalo tolse d'impicciodicendo ad Isabelladopo il caffècol sigaro in bocca e il capo appoggiato alla spalliera del seggiolone:
- Mia carad'oggi innanzi credo che sarebbe meglio far servire papà nelle sue stanze. Avrà le sue orele sue abitudini... Poicol regime speciale che richiede il suo stato di salute...
- Certocerto- balbettò don Gesualdo. - Stavo per dirvelo... Sarei più contento anch'io... Non voglio essere d'incomodo...
- No. Non dico per questo. Voi ci fate a ogni modo piacerecaro mio.
Egli si mostrava proprio un buon figliuolo col suocero. Gli riempiva il bicchierino; lo incoraggiava a fumare un sigaro; lo assicurava infine che gli trovava miglior cerada che era arrivato a Palermoe il cambiamento d'aria e una buona cura l'avrebbero guarito del tutto. Poi gli toccò anche il tasto degli interessi. Mostravasi giudizioso; cercava il modo e la maniera d'avere il piacere di tenersi il suocero in casa un pezzosenza timore che gli affari di lui andassero a rotta di collo... Una procura generale... una specie d'alter ego... Don Gesualdo si sentì morire il sorriso in bocca. Non c'era che fare. Il generonel visonelle parolesin nel tono della voceanche quando voleva fare l'amabile e pigliarvi bel belloaveva qualcosa che vi respingeva indietroe vi faceva cascar le bracciauno che avesse voluto buttargliele al colloproprio come a un figlioe dirgli:
- Te'! per la buona parolaadesso! Pazienza il resto! Fai quello che vuoi!
Talché don Gesualdo scendeva raramente dalla figliuola. Ci si sentiva a disagio col signor genero; temeva sempre che ripigliasse l'antifona dell'alter ego. Gli mancava l'arialì fra tutti quei ninnoli. Gli toccava chiedere quasi licenza al servitore che faceva la guardia in anticamera per poter vedere la sua figliuolae scapparsene appena giungeva qualche visita. L'avevano collocato in un quartierino al pian di soprapoche stanze che chiamavano la foresteriadove Isabella andava a vederlo ogni mattinain veste da cameraspesso senza neppure mettersi a sedereamorevole e premurosaè veroma in certo modo che al pover'uomo sembrava d'essere davvero un forestiero. Essa alcune volte era pallida così che pareva non avesse chiuso occhio neppur lei. Aveva una certa ruga fra le cigliaqualcosa negli occhiche a luivecchio e pratico del mondonon andavan punto a genio. Avrebbe voluto pigliarsi anche lei fra le bracciastretta strettae chiederle piano in un orecchio: - Cos'hai?... dimmelo!... Confidati a me che dei guai ne ho passati tantie non posso tradirti!...
Ma anch'essa ritirava le corna come fa la lumaca. Stava chiusaparlava di rado anche della mammaquasi il chiodo le fosse rimasto lìfisso... accusando lo stomaco peloso dei Traoche vi chiudevano il rancore e la diffidenzaimplacabili!
Perciò lui doveva ricacciare indietro le parole buone e anche le lagrimeche gli si gonfiavano grosse grosse dentroe tenersi per sé i propri guai. Passava i giorni malinconici dietro l'invetriataa veder strigliare i cavalli e lavare le carrozzenella corte vasta quanto una piazza. Degli stallieriin manica di camicia e coi piedi nudi negli zoccolicantavanovociavanobarattavano delle chiacchiere e degli strambotti coi domesticii quali perdevano il tempo alle finestrecol grembialone sino al colloo in panciotto rossostrascicando svogliatamente uno strofinaccio fra le mani ruvidecon le barzellette sguaiatedei musi beffardi di mascalzoni ben rasi e ben pettinati che sembravano togliersi allora una maschera. I cocchieri poidegli altri pezzi grossistavano a guardarecol sigaro in bocca e le mani nelle tasche delle giacchette attillatediscorrendo di tanto in tanto col guardaportone che veniva dal suo casotto a fare una fumatinaaccennando con dei segni e dei versacci alle cameriere che si vedevano passare dietro le invetriate dei balconioppure facevano capolino provocantisfacciatea buttar giù delle parolacce e delle risate di male femmine con certi visi da Madonna. Don Gesualdo pensava intanto quanti bei denari dovevano scorrere per quelle mani; tutta quella gente che mangiava e beveva alle spalle di sua figliasulla dote che egli le aveva datosu l'Alìa e su Donningale belle terre che aveva covato cogli occhi tanto temposera e mattinae misurato col desiderioe sognato la nottee acquistato palmo a palmogiorno per giornotogliendosi il pane di bocca: le povere terre nude che bisognava arare e seminare; i mulinile casei magazzini che aveva fabbricato con tanti stenticon tanti sacrificiun sasso dopo l'altro. La CanziriaMangalavitela casatuttotutto sarebbe passato per quelle mani. Chi avrebbe potuto difendere la sua roba dopo la sua morteahimèpovera roba! Chi sapeva quel che era costata? Il signor ducaluiquando usciva di casaa testa altacol sigaro in bocca e il pomo del bastoncino nella tasca del pastranofermavasi appena a dare un'occhiata ai suoi cavalliossequiato come il Santissimo Sagramentole finestre si chiudevano in frettaciascuno correva al suo postotutti a capo scopertoil guardaportone col berretto gallonato in manoritto dinanzi alla sua vetrinagli stallieri immobili accanto alla groppa delle loro bestiecolla striglia appoggiata all'ancail cocchiere maggioreun signoronepiegato in due a passare la rivista e prendere gli ordini: una commedia che durava cinque minuti. Dopoappena lui voltava le spallericominciava il chiasso e la baraondadalle finestredalle arcate del portico che metteva alle scuderiedalla cucina che fumava e fiammeggiava sotto il tettopiena di sguatteri vestiti di biancoquasi il palazzo fosse abbandonato in mano a un'orda famelicapagata apposta per scialarsela sino al tocco della campana che annunziava qualche visita - un'altra solennità anche quella. - La duchessa certi giorni si metteva in pompa magna ad aspettare le visite come un'anima di purgatorio. Arrivava di tanto in tanto una carrozza fiammante; passava come un lampo dinanzi al portinaioche aveva appena il tempo di cacciare la pipa nella falda del soprabito e di appendersi alla campana; delle dame e degli staffieri in gala sguisciavano frettolosi sotto l'alto vestiboloe dopo dieci minuti tornavano ad uscire per correre altrove a rompicollo; proprio della gente che sembrava presa a giornata per questo. Lui invece passava il tempo a contare le tegole dirimpettoa calcolarecon l'amore e la sollecitudine del suo antico mestierequel che erano costate le finestre scolpitei pilastri massiccigli scalini di marmoquei mobili sontuosiquelle stoffequella gentequei cavalli che mangiavanoe inghiottivano il denaro come la terra inghiottiva la sementecome beveva l'acquasenza renderlo peròsenza dar fruttosempre più affamatisempre più divorantisimili a quel male che gli consumava le viscere. Quante cose si sarebbero potute fare con quel denaro! Quanti buoni colpi di zappaquanto sudore di villani si sarebbero pagati! Delle fattoriedei villaggi interi da fabbricare... delle terre da seminarea perdita di vista... E un esercito di mietitori a giugnodel grano da raccogliere a montagnedel denaro a fiumi da intascare!... Allora gli si gonfiava il cuore al vedere i passeri che schiamazzavano su quelle tegoleil sole che moriva sul cornicione senza scendere mai giù sino alle finestre. Pensava alle strade polveroseai bei campi dorati e verdial cinguettìo lungo le siepialle belle mattinate che facevano fumare i solchi!... Oramai!... oramai!...
Adesso era chiuso fra quattro muracol brusìo incessante della città negli orecchilo scampanìo di tante chiese che gli martellava sul capoconsumato lentamente dalla febbreroso dai dolori che gli facevano mordere il guancialea volteper non seccare il domestico che sbadigliava nella stanza accanto. Nei primi giorniil cambiamentol'aria nuovaforse anche qualche medicina indovinataper sbaglioavevano fatto il miracologli avevano fatto credere di potersi guarire. Dopo era ricaduto peggio di prima. Neppure i migliori medici di Palermo avevano saputo trovar rimedio a quella malattia scomunicata! tal quale come i medici ignoranti del suo paesee costavano di piùper giunta! Venivano l'uno dopo l'altrodei dottoroni che tenevano carrozzae si facevano pagare anche il servitore che lasciavano in anticamera. L'osservavanolo tastavanolo interrogavano quasi avessero da fare con un ragazzo o un contadino. Lo mostravano agli apprendisti come il zanni fa vedere alla fiera il gallo con le cornaoppure la pecora con due codefacendo la spiegazione con parole misteriose. Rispondevano appenaa fior di labbrase il povero diavolo si faceva lecito di voler sapere che malattia covava in corpoquasi egli non avesse che vedercicolla sua pelle! Gli avevano fatto comperare anch'essi un'intera farmacia: dei rimedi che si contavano a goccecome l'orodegli unguenti che si spalmavano con un pennello e aprivano delle piaghe vivedei veleni che davano delle coliche più forti e mettevano come del rame nella boccadei bagni e dei sudoriferi che lo lasciavano sfinitosenza forza di muovere il capovedendo già l'ombra della morte da per tutto.
- Signori mieia che giuoco giuochiamo? - voleva dire. - Allorase è sempre la stessa musicame ne torno al mio paese...
Almeno laggiù lo rispettavano pei suoi denarie lo lasciavano sfogarese pretendeva di sapere come li spendeva per la sua salute. Mentre qui gli pareva d'essere all'ospedalecurato per carità. Doveva stare in suggezione anche del genero che veniva ad accompagnare i pezzi grossi chiamati a consulto. Parlavano sottovoce fra di lorovoltandogli le spallesenza curarsi di lui che aspettava a bocca aperta una parola di vita o di morte. Oppure gli facevano l'elemosina di una risposta che non diceva nientedi un sorrisetto che significava addirittura - Arrivederci in Paradisobuon uomo! - C'erano persino di quelli che gli voltavano le spallecome si tenessero offesi. Egli indovinava che doveva essere qualche cosa di graveal viso stesso che facevano i medicialle alzate di spalle scoraggiantialle lunghe fermate col generoe al borbottìo che durava un pezzo fra di loro in anticamera. Infine non si tenne più. Un giorno che quei signori tornavano a ripetere la stessa pantomimane afferrò uno per la faldaprima d'andarsene.
- Signor dottoreparlate con me! Sono io il malatoinfine! Non sono un ragazzo. Voglio sapere di che si trattagiacché si giuoca sulla mia pelle!
Colui invece cominciò a fare una scenata col ducaquasi gli si fosse mancato di rispetto in casa sua. Ci volle del bello e del buono per calmarloe perché non piantasse lì malato e malattia una volta per sempre. Don Gesualdo udì che gli dicevano sottovoce: - Compatitelo... Non conosce gli usi... È un uomo primitivo... nello stato di natura... - Sicché il poveraccio dovette mandar giù tuttoe rivolgersi alla figliuolaper sapere qualche cosa.
- Che hanno detto i medici? Dimmi la verità?... È una malattia gravedi'?...
E come le vide gonfiare negli occhi le lagrimemalgrado che tentasse di cacciarle indietroinfuriò. Non voleva morire. Si sentiva un'energia disperata d'alzarsi e andarsene via da quella casa maledetta.
- Non dico per te... Hai fatto di tutto... Non mi manca nulla... Ma io non ci sono avvezzovedi... Mi par di soffocare qui dentro...
Neppur lei non ci stava bene in quella casa. Il cuore glielo dicevaal povero padre. Sembrava che fossero in perfetto accordomarito e moglie; discorrevano cortesemente fra di lorodinanzi ai domestici; il duca passava quasi sempre una mezz'oretta nel salottino della moglie dopo pranzo; andava a darle il buon giorno ogni mattinaprima della colazione; per i Mortia Nataleper la festa di Santa Rosaliae nella ricorrenza del suo onomastico o dell'anniversario del loro matrimoniole regalava dei gioiellich'essa aveva fatto ammirare al babboin prova del bene che le voleva il marito.
- Ahah... capisco... dev'essere costata una bella somma!... però non sei contenta... si vede benissimo che non sei contenta....
Leggeva in fondo agli occhi di lei un altro segretoun'altra ansietà mortaleche non la lasciava neppure quand'era vicino a luiche le dava dei sussultiallorché udiva un passo all'improvvisoo suonava ad ora insolita la campana che annunziava il duca; e dei pallori mortalicerti sguardi rapidi in cui gli pareva di scorgere un rimprovero. Alcune volte l'aveva vista giungere correndopallidatremante come una fogliabalbettando delle scuse. Una nottetardimentre era in letto coi suoi guaiaveva udito un'agitazione insolita nel piano di sottodegli usci che sbattevanola voce della cameriera che strillavaquasi chiamasse aiutouna voce che lo fece rizzare spaventato sul letto. Ma sua figlia il giorno dopo non gli volle dir nulla; sembrava anzi che le sue domande l'infastidissero. Misuravano fino le parole e i sospiri in quella casaciascuno chiudendosi in corpo i propri guaiil duca col sorriso freddoIsabella con la buona grazia che le aveva fatto insegnare in collegio. Le tende e i tappeti soffocavano ogni cosa. Peròquando se li vedeva dinanzi a luimarito e mogliecosì tranquilliche nessuno avrebbe sospettato quel che covava sottosi sentiva freddo nella schiena.
Del restoche poteva farci? Ne aveva abbastanza dei suoi guai. Il peggio di tutti stava lui che aveva la morte sul collo. Quand'egli avrebbe chiuso gli occhi tutti gli altri si sarebbero data pacecome egli stesso s'era data pace dopo la morte di suo padre e di sua moglie. Ciascuno tira l'acqua al suo mulino. Ne aveva data tanta dell'acqua per far macinare gli altri! SperanzaDiodatatutti gli altri... un vero fiume. Anche lìin quel palazzo di cuccagnaera tutto opera sua; e intanto non trovava riposo fra i lenzuoli di tela finesui guanciali di piume; soffocava fra i cortinaggi e le belle stoffe di seta che gli toglievano il sole. I denari che spendeva per far andare la baraccai rumori della corteil cameriere che gli tenevano dietro l'uscio a contargli i sospiriinsino al cuoco che gli preparava certe brode insipide che non riusciva a mandar giùogni cosa l'attossicava; non digeriva più neanche i bocconi prelibatierano tanti chiodi nelle sue carni.
- Mi lasciano morir di famecapisci! - lagnavasi colla figliuolaalle voltecogli occhi accesi dalla disperazione. - Non è per risparmiare... Sarà della roba buona... Ma il mio stomaco non c'è avvezzo... Rimandatemi a casa mia. Voglio chiuder gli occhi dove son nato!
L'idea della morte ora non lo lasciava più; si tradiva nelle domande insidiosenelle occhiate piene di sospettoanche nella preoccupazione affannosa di dissimularla in vari modi. Adesso non aveva più suggezione di nessunoe afferrava chi gli capitava per domandare:
- Voglio sapere la veritàsignori cari... Per regolare le mie cose... i miei interessi... - E se cercavano di rassicurarlodicendogli che non c'era nulla di grave... di serio... pel momento... egli tornava ad insisteread appuntare gli occhifurboper scavar terreno: - È che ho tanto da fare laggiùal mio paesesignori miei... capite!... Non posso mica darmi bel tempoio!... Bisogna che pensi a tuttose no c'è la rovina!...
Poi spiegava di dove gli era venuto quel male: - Sono stati i dispiaceri!... i bocconi amari!... ne ho avuti tanti! Vedeteme n'è rimasto il lievito qui dentro!... - Era tornato diffidente. Temeva che non vedessero l'ora di levarselo di tornoper risparmiar la spesa e impadronirsi del fatto suo. Cercava di rassicurar tutti quanticol sorriso affabile:
- Non guardate a spesa... Posso pagare... Mio genero lo sa... Tutto ciò che occorre... Non saranno denari persi... Se campone guadagno ancora tanti dei denari... - Cogli occhi lucenticercava d'ingraziarsi la sua figliuola stessa. Sapeva che la robaahimèmette l'inferno anche fra padri e figli. La pigliava in parola. Balbettavaaccarezzandola come quand'era bambinaspiandola di sottecchi intantocol cuore alla gola:
- Qui cosa mi manca? Ho tutto per guarire... Tutto quello che ci vorrà spenderemonon è vero?
Ma il male lo vinceva e gli toglieva ogni illusione. In quei momenti di scoraggiamento il pover'uomo pensava a voce alta:
- A che mi serve?... a che giova tutto ciò?... Neppure a tua madre è giovato!
Un giorno venne a fargli visita l'amministratore del ducaofficiosotutto gentilezze come il suo padrone quando apparecchiavasi a dare la botta. S'informò della salute; gli fece le condoglianze per la malattia che tirava in lungo. Capiva beneluiun uomo d'affari come don Gesualdo... che dissesto... quanti danni... le conseguenze... un'azienda così vasta... senza nessuno che potesse occuparsene sul serio... Infine offrì d'incaricarsene lui... per l'interesse che portava alla casa... alla signora duchessa... Del signor duca era buon servo da tanti anni... Sicché prendeva a cuore anche gli interessi di don Gesualdo. Proponeva d'alleggerirlo d'ogni carico... finché si sarebbe guarito... se credeva... investendolo per procura...
A misura che colui sputava fuori il velenodon Gesualdo andava scomponendosi in viso. Non fiatavastava ad ascoltarlocogli occhi bene apertie intanto ruminava come trarsi d'impiccio. A un tratto si mise a urlare e ad agitarsi quasi fosse colto di nuovo dalla colicaquasi fosse giunta l'ultima sua orae non udisse e non potesse più parlare. Balbettò solosmaniando:
- Chiamatemi mia figlia! Voglio veder mia figlia!
Ma appena accorse leispaventata egli non aggiunse altro. Si chiuse in sè stesso a pensare come uscire dal malo passotorvodiffidentevoltandosi in là per non lasciarsi scappare qualche occhiata che lo tradisse. Soltanto ne piantò una lunga lunga addosso a quel galantuomo che se ne andava rimminchionito. Infinea poco a pocofinse di calmarsi. Bisognava giuocar d'astuzia per uscire da quelle grinfie. Cominciò a far segno di sì e di sì col capofissando gli occhi amorevoli in volto alla figliuola allibbitacol sorriso paternoil fare bonario;
- Sì... voglio darvi in mano tutto il fatto mio... per alleggerirmi il carico... Mi farete piacere anzi... nello stato in cui sono... Voglio spogliarmi di tutto... Già ho poco da vivere... Rimandatemi a casa mia per fare la procura... la donazione... tutto ciò che vorrete... Lì conosco il notaro... so dove metter le mani... Ma prima rimandatemi a casa mia... Tutto quello che vorretepoi!...
- Ahbabbobabbo! - esclamò Isabella colle lagrime agli occhi.
Ma egli sentivasi morire di giorno in giorno. Non poteva più muoversi. Sembravagli che gli mancassero le forze d'alzarsi dal letto e andarsene via perché gli toglievano il denaroil sangue delle veneper tenerlo sottomanoprigioniero. Sbuffavasmaniavaurlava di dolore e di collera. E poi ricadeva sfinitominacciosocolla schiuma alla boccasospettando di tuttospiando prima le mani del cameriere se beveva un bicchiere d'acquaguardando ciascuno negli occhi per scoprire la veritàper leggervi la sua sentenzacostretto a ricorrere agli artifizii per sapere qualcosa di quel che gli premeva.
- Chiamatemi quell'uomo dell'altra volta... Portatemi le carte da firmare... È giustoci ho pensato su. Bisogna incaricare qualcuno dei miei interessifinchè guarisco...
Ma adesso coloro non avevano fretta; gli promettevano sempredall'oggi al domani. Lo stesso duca si strinse nelle spalle: come a dire che non serviva più. Un terrore più grandepiù vicinodella morte lo colse a quell'indifferenza. Insistevavoleva disporre della sua robacome per attaccarsi alla vitaper far atto d'energia e di volontà. Voleva far testamentoper dimostrare a sè stesso ch'era tuttora il padrone. Il duca finalmenteper chetarlogli disse che non occorrevapoiché non c'erano altri eredi... Isabella era figlia unica...
- Ah?... - rispose lui. - Non occorre... è figlia unica?...
E tornò a ricoricarsilugubre. Avrebbe voluto rispondergli che ce n'erano ancoradegli eredi nati prima di leisangue suo stesso. Gli nascevano dei rimorsicolla bile. Faceva dei brutti sognidelle brutte facce pallide e irose gli apparivano la notte; delle vocidegli scossoni lo facevano svegliare di soprassaltoin un mare di sudorecol cuore che martellava forte. Tanti pensieri gli venivano adessotanti ricorditante persone gli sfilavano dinanzi: BiancaDiodatadegli altri ancora: quelli non l'avrebbero lasciato morire senza aiuto! Volle un altro consultoi migliori medici. Ci dovevano essere dei medici pel suo malea saperli trovarea pagarli bene. Il denaro l'aveva guadagnato appostalui! Al suo paese gli avevano fatto credere che rassegnandosi a lasciarsi aprire il ventre... Ebbenesìsì!
Aspettava il consultoil giorno fissatosin dalla mattinaraso e pettinatoseduto nel lettocolla faccia color di terrama fermo e risoluto. Ora voleva vederci chiaro nei fatti suoi. - Parlate liberamentesignori miei. Tutto ciò che si deve fare si farà!
Gli batteva un po' il cuore. Sentiva un formicolìo come di spasimo anticipato tra i capelli. Ma era pronto a tutto; quasi scoprivasi il ventreperchè si servissero pure. Se un albero ha la cancrena addossocos'è infine? Si taglia il ramo! Adesso invece i medici non volevano neppure operarlo. Avevano degli scrupolidei ma e dei se. Si guardavano fra di loro e biasciavano mezze parole. Uno temeva la responsabilità; un altro osservò che non era più il caso... oramai... Il più vecchiouna faccia di malaugurio che vi faceva morire prima del tempocom'è vero Dios'era messo già a confortare la famigliadicendo che sarebbe stato inutile anche primacon un male di quella sorta...
- Ah... - rispose don Gesualdofattosi rauco a un tratto. - Ah... Ho inteso...
E si lasciò scivolare pian piano giù disteso nel lettotrafelato. Non aggiunse altroper allora. Stette zitto a lasciarli finire di discorrere. Soltanto voleva sapere s'era venuto il momento di pensare ai casi suoi. Non c'era più da scherzare adesso! Aveva tanti interessi gravi da lasciare sistemati... - Taci! taci! - borbottò rivolto alla figliuola che gli piangeva allato. Colla faccia cadavericacogli occhi simili a due chiodi in fondo alle orbite livideaspettava la risposta che gli dovevanoinfine. Non c'era da scherzare!
- Nono... C'è tempo. Simili malattie durano anni e anni... Però... certo... premunirsi... sistemare gli affari a tempo... non sarebbe male...
- Ho inteso- ripetè don Gesualdo col naso fra le coperte. - Vi ringraziosignori miei.
Un nuvolo gli calò sulla faccia e vi rimase. Una specie di rancorequalcosa che gli faceva tremare le mani e la vocee trapelava dagli occhi socchiusi. Fece segno al genero di fermarsi; lo chiamò dinanzi al lettoa quattr'occhida solo a solo.
- Finalmente... questo notaro... verràsì o no? Devo far testamento... Ho degli scrupoli di coscienza... Sissignore!... Sono il padronesì o no?... Ah... ah... stai ad ascoltare anche tu?...
Isabella andò a buttarsi ginocchioni ai piedi del lettocol viso fra le materassesinghiozzando e disperandosi. Il genero lo chetava dall'altra parte. - Ma sìma sìquando vorretecome vorrete. Non c'è bisogno di far delle scene... Ecco in che stato avete messo la vostra figliuola!...
- Va bene! - seguitò a borbottare lui. - Va bene! Ho capito!
E volse le spalletal quale suo padrebuon'anima. Appena fu solo cominciò a muggire come un buecol naso al muro. Ma poi se veniva gentestava zitto. Covava dentro di sé il male e l'amarezza. Lasciava passare i giorni. Pensava ad allungarseli piuttostoa guadagnare almeno quelliuno dopo l'altrocosì come venivanopazienza! Finché c'è fiato c'è vita. A misura che il fiato gli andava mancandoa poco a pocoacconciavasi pure ai suoi guai; ci faceva il callo. Lui aveva le spalle grossee avrebbe tirato in lungomercé la sua pelle dura. Alle volte provava anche una certa soddisfazionefra sé e sésotto il lenzuolopensando al viso che avrebbero fatto il signor duca e tutti quantial vedere che lui aveva la pelle dura. Era arrivato ad affezionarsi ai suoi malannili ascoltavali accarezzavavoleva sentirseli lìcon luiper tirare innanzi. I parenti ci avevano fatto il callo anch'essi; avevano saputo che quella malattia durava anni ed annie s'erano acchetati. Così va il mondopur troppoche passato il primo bolloreciascuno tira innanzi per la sua via e bada agli affari propri. Non si lamentava neppure; non diceva nullada villano maliziosoper non sprecare il fiatoper non lasciarsi sfuggire quel che non voleva dire; solamente gli scappavano di tanto in tanto delle occhiate che significavano assaial veder la figliuola che gli veniva dinanzi con quella faccia desolatae poi teneva il sacco al maritoe lo incarcerava lìsotto i suoi occhicol pretesto dell'affezioneper covarselopel timore che non gli giuocasse qualche tiro nel testamento. Indovinava che teneva degli altri guai nascostileie alle volte aveva la testa altrovementre suo padre stava colla morte sul capo. Si rodeva dentroa misura che peggiorava; il sangue era diventato tutto un veleno; ostinavasi sempre piùtaciturnoimplacabilecol viso al murorispondendo solo coi grugniticome una bestia.
Finalmente si persuase ch'era giunta l'orae s'apparecchiò a morire da buon cristiano. Isabella era venuta subito a tenergli compagnia. Egli fece forza coi gomitie si rizzò a sedere sul letto. - Senti- le disse- ascolta...
Era turbato in visoma parlava calmo. Teneva gli occhi fissi sulla figliuolae accennava col capo. Essa gli prese la mano e scoppiò a singhiozzare.
- Taci- riprese- finiscila. Se cominciamo così non si fa nulla.
Ansimava perchè aveva il fiato cortoed anche per l'emozione. Guardava intornosospettosoe seguitava ad accennare del capoin silenziocol respiro affannato. Ella pure volse verso l'uscio gli occhi pieni di lagrime. Don Gesualdo alzò la mano scarnae trinciò una croce in ariaper significare ch'era finitae perdonava a tuttiprima d'andarsene.
- Senti... Ho da parlarti... intanto che siamo soli...
Ella gli si buttò addossodisperatapiangendosinghiozzando di nodi nocolle mani erranti che l'accarezzavano. L'accarezzò anche lui sui capellilentamentesenza dire una parola. Di lì a un po' riprese:
- Ti dico di sì. Non sono un ragazzo... Non perdiamo tempo inutilmente. - Poi gli venne una tenerezza. - Ti dispiaceeh?... ti dispiace a te pure?...
La voce gli si era intenerita anch'essagli occhitristis'erano fatti più dolcie qualcosa gli tremava sulle labbra. - Ti ho voluto bene... anch'io... quanto ho potuto... come ho potuto... Quando uno fa quello che può...
Allora l'attirò a sé lentamentequasi esitandoguardandola fissa per vedere se voleva lei puree l'abbracciò stretta strettaposando la guancia ispida su quei bei capelli fini.
- Non ti fo maledi'?... come quand'eri bambina?...
Gli vennero insieme delle altre cose sulle labbradelle ondate di amarezza e di passionequei sospetti odiosi che dei bricconinelle questioni d'interessiavevano cercato di mettergli in capo. Si passò la mano sulla fronteper ricacciarli indietroe cambiò discorso.
- Parliamo dei nostri affari. Non ci perdiamo in chiacchiereadesso...
Essa non volevasmaniava per la stanzasi cacciava le mani nei capellidiceva che gli lacerava il cuoreche gli pareva un malaugurioquasi suo padre stesse per chiudere gli occhi.
- Ma noparliamone! - insisteva lui. - Sono discorsi serii. Non ho tempo da perdere adesso. - Il viso gli si andava oscurandoil rancore antico gli corruscava negli occhi. - Allora vuol dire che non te ne importa nulla... come a tuo marito...
Vedendola poi rassegnata ad ascoltareseduta a capo chino accanto al lettocominciò a sfogarsi dei tanti crepacuori che gli avevano datilei e suo maritocon tutti quei debiti... Le raccomandava la sua robadi proteggerladi difenderla: - Piuttosto farti tagliare la manovedi!... quando tuo marito torna a proporti di firmare delle carte!... Lui non sa cosa vuol dire! - Spiegava quel che gli erano costatiquei poderil'Alìala Canziriali passava tutti in rassegna amorosamente; rammentava come erano venuti a luiuno dopo l'altroa poco a pocole terre seminativei pascolile vigne; li descriveva minutamentezolla per zollacolle qualità buone o cattive. Gli tremava la vocegli tremavano le manigli si accendeva tuttora il sangue in visogli spuntavano le lagrime agli occhi: - Mangalavitesai... la conosci anche tu... ci sei stata con tua madre... Quaranta salme di terrenitutti alberati!... ti rammenti... i belli aranci?... anche tua madrepoverettaci si rinfrescava la boccanegli ultimi giorni!... 300 migliaia l'annone davano! Circa 300 onze! E la Salonia... dei seminati d'oro... della terra che fa miracoli... benedetto sia tuo nonno che vi lasciò le ossa!...
Infineper la tenerezzasi mise a piangere come un bambino.
- Basta- disse poi. - Ho da dirti un'altra cosa... Senti...
La guardò fissamente negli occhi pieni di lagrime per vedere l'effetto che avrebbe fatto la sua volontà. Le fece segno di accostarsi ancoradi chinarsi su lui supino che esitava e cercava le parole.
- Senti!... Ho degli scrupoli di coscienza... Vorrei lasciare qualche legato a delle persone verso cui ho degli obblighi... Poca cosa... Non sarà molto per te che sei ricca... Farai conto di essere una regalìa che tuo padre ti domanda... in punto di morte... se ho fatto qualcosa anch'io per te...
- Ahbabbobabbo!... che parole! - singhiozzò Isabella.
- Lo faraieh? lo farai?... anche se tuo marito non volesse...
Le prese le tempie fra le manie le sollevò il viso per leggerle negli occhi se l'avrebbe ubbiditoper farle intendere che gli premeva proprioe che ci aveva quel segreto in cuore. E mentre la guardavaa quel modogli parve di scorgere anche lui quell'altro segretoquell'altro cruccio nascostoin fondo agli occhi della figliuola. E voleva dirle delle altre cosevoleva farle altre domandein quel puntoaprirle il cuore come al confessoree leggere nel suo. Ma ella chinava il capoquasi avesse indovinatocolla ruga ostinata dei Trao fra le cigliatirandosi indietrochiudendosi in sèsuperbacoi suoi guai e il suo segreto. E lui allora sentì di tornare Mottacom'essa era Traodiffidenteostiledi un'altra pasta. Allentò le bracciae non aggiunse altro.
- Ora fammi chiamare un prete- terminò con un altro tono di voce. - Voglio fare i miei conti con Domeneddio.
Durò ancora qualche altro giorno cosìfra alternative di meglio e di peggio. Sembrava anzi che cominciasse a riaversi un pocoquando a un trattouna nottepeggiorò rapidamente. Il servitore che gli avevano messo a dormire nella stanza accanto l'udì agitarsi e smaniare prima dell'alba. Ma siccome era avvezzo a quei capriccisi voltò dall'altra partefingendo di non udire. Infineseccato da quella canzone che non finiva piùandò sonnacchioso a vedere che c'era.
- Mia figlia! - borbottò don Gesualdo con una voce che non sembrava più la sua. - Chiamatemi mia figlia!
- Ahsissignore. Ora vado a chiamarla- rispose il domesticoe tornò a coricarsi.
Ma non lo lasciava dormire quell'accidente! Un po' erano sibilie un po' faceva peggio di un contrabbassonel russare. Appena il domestico chiudeva gli occhi udiva un rumore strano che lo faceva destare di soprassaltodei guaiti rauchicome uno che sbuffasse ed ansimasseuna specie di rantolo che dava noia e vi accapponava la pelle. Tanto che infine dovette tornare ad alzarsifuribondomasticando delle bestemmie e delle parolacce.
- Cos'è? Gli è venuto l'uzzolo adesso? Vuol passar mattana! Che cerca?
Don Gesualdo non rispondeva; continuava a sbuffare supino. Il servitore tolse il paralumeper vederlo in faccia. Allora si fregò bene gli occhie la voglia di tornare a dormire gli andò via a un tratto.
- Ohi! ohi! Che facciamo adesso? - balbettò grattandosi il capo.
Stette un momento a guardarlo cosìcol lume in manopensando se era meglio aspettare un po'o scendere subito a svegliare la padrona e mettere la casa sottosopra. Don Gesualdo intanto andavasi calmandocol respiro più cortopreso da un tremitofacendo solo di tanto in tanto qualche boccacciacogli occhi sempre fissi e spalancati. A un tratto s'irrigidì e si chetò del tutto. La finestra cominciava a imbiancare. Suonavano le prime campane. Nella corte udivasi scalpitare dei cavallie picchiare di striglie sul selciato. Il domestico andò a vestirsie poi tornò a rassettare la camera. Tirò le cortine del lettospalancò le vetratee s'affacciò a prendere una boccata d'ariafumando.
Lo stalliereche faceva passeggiare un cavallo malatoalzò il capo verso la finestra.
- Mattinataehdon Leopoldo?
- E nottata pure! - rispose il cameriere sbadigliando. - M'è toccato a me questo regalo!
L'altro scosse il capocome a chiedere che c'era di nuovoe don Leopoldo fece segno che il vecchio se n'era andatograzie a Dio.
- Ah... così... alla chetichella?... - osservò il portinaio che strascicava la scopa e le ciabatte per l'androne.
Degli altri domestici s'erano affacciati intantoe vollero andare a vedere. Di lì a un po' la camera del morto si riempì di gente in manica di camicia e colla pipa in bocca. La guardarobiera vedendo tutti quegli uomini alla finestra dirimpetto venne anche lei a far capolino nella stanza accanto.
- Quanto onoredonna Carmelina! Entrate pure; non vi mangiamo mica... E neanche lui... non vi mette più le mani addosso di sicuro...
- Zittoscomunicato!... Noho paurapoveretto... - Ha cessato di penare.
- Ed io pure- soggiunse don Leopoldo.
Cosìnel crocchionarrava le noie che gli aveva date quel cristiano - uno che faceva della notte giornoe non si sapeva come pigliarloe non era contento mai. - Pazienza servire quelli che realmente son nati meglio di noi... Bastadei morti non si parla.
- Si vede com'era nato... - osservò gravemente il cocchiere maggiore. - Guardate che mani!
- Giàson le mani che hanno fatto la pappa!... Vedete cos'è nascer fortunati... Intanto vi muore nella battista come un principe!...
- Allora- disse il portinaio- devo andare a chiudere il portone?
- Sicuroeh! È roba di famiglia. Adesso bisogna avvertire la cameriera della signora duchessa.