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Antonio Fogazzaro




PICCOLOMONDO MODERNO






CAPITOLOPRIMO

ABOVO



I


Lavecchia marchesa Nene Scremin stava spolverando ella stessain abitodi ricevimento e con un viso arcignoil suo salotto. Strofinava colfazzoletto le spalliere delle sedie appoggiate alle paretigl'intagli del canapè e delle poltronei piani dellecantonierela campana della pendola. Alzava uno a uno i candelieridorati dalla caminiera di marmo neroalzava dal tavolo di marmobiancouno a unoi porta-fiorii porta-ritrattile bomboniereininnoli accumulati da una serie favolosa di natalizi e dianniversaristrofinava il marmocancellava le piccole nuvolette dipolverebrontolando contro quel benedetto Federico che pretendeva diavere spolverato. Il povero Federicomezzo storpiomezzo sdentatomezzo calvocapitò in quel puntonella sua blusa di faticaa dirle che c'era il giardiniere vecchioquello licenziato da duemesie che desiderava di parlarle.

“Ch'elspeta!” disse la marchesa. “E vubenedetocossa feu cheno ve vestí? No savì che xe marti? Che spolverar feuvu? No vedì che stala che xe qua?”

“Chestala?” fece Federicointontito. “Che stala? Capemi soche son sta qua do ore stamatina.”

“Bengavarì dormìo. Gài portà l'ovo a laTonina?”


LaTonina era una vecchia cameriera infermamantenuta dagli Scremin percarità. Federico dichiarò di non sapere se amezzogiorno le avessero portato il solito uovoe in quel punto vennela cuoca a ripetere il messaggio del giardiniere licenziato. Ne seguìun battibecco fra i due serviappunto per questa replica nonrichiestamalgrado la presenza della padrona. Ma la marchesadominata da tetri presentimentivoleva notizie dell'uovo e seppedalla cuoca che l'uovo alla Tonina lo aveva portato la guattera e chela Toninasentendosi poco benenon lo aveva preso. Questo fu ilprincipio di un dramma. Cos'era accaduto dell'uovo? Silenzio.Possibile che qualcuno l'avesse mangiato? Che si fosse dimenticata laquaresima? Federico brontolò: “El sarà in cusina”.La marchesa intascò il suo fazzoletto sudicioandòdiritta in cucina. Cerca quacerca làniente uovo. Andòalla finestra e chiamò il cocchiere che stava ripulendofinimenti nel cortile. Mentre colui saliva ella si affacciòalla buia scaletta di servizio per chiamar la guatteravide qualcunonell'ombralo credette il cocchiere e gli domandòbruscamente: “Gavìo tolto un ovo?”. “Misignora?” rispose coluitimido. “Mi no so gnente de ovi.”Allora la marchesa lo giudicò un accattonegli gittòun brusco “No ghe xe gnente!” Quegli replicò ch'erail giardiniere vecchio. “Ohbenspetè.” E lavecchia dama ricominciò la sua caccia all'uovo.

Nessunoaveva preso l'uovonè la guatteranè il cocchierenèla cameriera. La marchesa andò in cerca del fattore che disolito dopo mezzogiorno pigliava un caffè in cucina. “Galovisto un ovo?”. “Un ovosignora?” Il povero fattorenon potendo negare di aver veduto un uovo durante la sua carrieramortale e non osando affermarlo in quel momentorimase a boccaaperta. Intanto i cinque domesticiquale sulla scalaquale in unastanzaquale in un corridoioquale in cucinabrontolavanosoliloqui alquanto scorretti e l'uovo scomparso empiva la casa di sè.

“Perun ovo!” fremeva il cocchiereseccatissimo di aver fatto tantescale per niente “e i tien carozza e cavàisti fioi decani!” Proprio in quel momento la padrona lo chiamò dacapo. Voleva sapere se avesse visto il padrone. Colui rispose di nosgarbatamente. “Sarà in Duomoil signor padrone”disse la cameriera alle spalle della marchesa. “Saràandato a far l'ora.” La vecchia signora sapeva che da qualchetempo suo maritoper certe coperte ambizioni politichenon vestivapiù la cotta di socio della confraternita del Duomo. Tacqueperò. In quel momento un ragazzotto uscì dalla scuderiacon una bracciata di fieno. “Dove va quel fienohe?” gridòla vecchiaimperiosa. Stavolta il cocchiere rispose con affettatasolennitàcompiacendosi di farla tacere e di esprimereinsieme un coperto disprezzo per qualcun altro: “Fien del parongiovine! Ordine del paron giovine!”.

Federicoche stava abbottonandosi la livreamasticò un altrosoliloquio sulla clientela di straccioni che aveva il “parongiovine”il genero dei padroni vecchiche abitava un'ala delpalazzo e teneva in scuderia un cavallo da sella. Anche i brumistidisperativenivanoadessoa spremerlo! Anche fieno regalava!Federico diede al giardinierenella sua sapienzail consiglio diandarsene e di ritornare verso le quattro quando veniva a casa il“paron giovine”. “Ancòciòla paronala ga in testa un ovo e diman la gavarà in testa un galeto.Vien dal paron giovine. Adesso che i lo ga fato anca consiglier!”


L'arrivodelle prime visite interruppe le indagini della marchesa mentrestavano per approdare a una scoperta impensata e imbarazzante. Ellaera in relazione con tutta la città. Aveva nel suo taccuinouna nota di novantasette visite a fare in dicembre e in aprileresiduo delle centoquarantasei cui era giuntaper compiacere almaritonella sua giovinezza e forse anche negli anni faticosi etormentosi in cui aveva dovuto mettere in mostra la figliuola. I suoiricevimenti del martedì erano però di solito moltoscarsi perchè le amiche intime e le amiche umili evitavano ilgiorno solenne. Invece quel martedìnatalizio della padronadi casaun po' per questo un po' per casovenne molta gente. Leamiche umili capitarono presto per non abbattersi nelle amichegrandi. Erano tre o quattro vecchiette dignitosamente composte neldecoro delle loro maniere cerimoniose e della loro setanellacoscienza della loro modesta civiltà. Il tuche davano alla marchesa Nene aveva una segretacommovente anima disoggezione e d'intima compiacenza. La marchesa se la intendeva conloro meglio che con le altreanche perchè in fatto dipratiche religiosedi magristretti magri e digiuni avevano tuttecome leiuna coscienza di ermellinocosì candida che persinola più minuta goccia di latte avrebbe potuto macchiarla. Levecchie signore si eran sempre tanto guardatenei loro colloquidalmenomo accenno a cose politichea elezionia Consigli comunali comeda ogni altro discorso che non riguardasse il tempola salutegliinteressile vicende familiari di qualche personatutt'al piùl'ingegno e i polmoni di un predicatore; avevano cosìregolarmente ammutolito e con tale identico sussiego udendo altruiparlar di faccende pubbliche e di faccende sporcheche adesso nonsapevano come felicitar la suocera per la elezione del genero aconsigliere comunaleavvenuta due giorni prima.

Dopoaver lamentatotutte a una vocela fortunatissima recrudescenza difreddo che alimentava i languenti colloqui dei salotti cittadinilapiù ardita arrischiò una parolina: “El ga avudouna bela sodisfazionto generoi me ga dito. L'è tanto bonpopoareto!”.

Lealtre vecchiettepreso animogracidarono con le loro fesse vociuntuose: “Eh quel che xepo! - Tanto bontuti no fa che dire.- Se consolemo tanto”.

Lamarchesa Nene fece un viso grave e disse loro: “Conforti magri”.Allora venne dalle amiche qualche tristemisteriosa parola dicompianto e di speranza che cadde non raccolta. Il discorso ritornòalle virtù del genero e le buone signoreinvece di parlarnealla suocerane parlaronoper un raffinamento di adulazionetraloro. Una di esse aveva udito il parroco del Duomo levare a cielo lapietà del signor Maroni; un'altra riferì che la suadomestica s'incontrava ogni mattina col signor Maroni alla primamessa. La più timida non fece che correggere sottovoce lealtre quando nominavano il lodatoma per quanto mormorasse “MaironiMaironi”esse continuavano col loro Maroni; scusabiliperchèanche la marchesausa a rimpastar nel dialetto nomi e cognomidiceva Maroni tre volte su quattro. La conversazione passòquindi al matrimonio di un garzone della merciaiuola dove tuttequelle signore si provvedevano di aghi e di refe.


Piùtardipartite le pedinearrivarono quasi a un punto alcune dame eun paio di cavalieriche si eran data la posta per alleviar le noiedi questa visita a una vecchia signorache non viveva abbastanza nelmondo per poterle parlare di cose mondane nè abbastanza fuoridi esso per poterla piantare del tutto. Fu suonata la stessa musicadi primain tono diverso. Si parlò di freddo e ci furon breviaccenni fra le dame e i cavalieri a un picknicka una grossa questione diplomaticaa certe persone non desideratenella compagnia. L'idea di una trottata mattutina in stagemetteva segreti brividi a moltich'eran però contenti digelare per l'eleganza della partita e della brigata. Poi una damapoliticante entrò a spada tratta nell'argomento dell'elezionementre le altre la guardavano come un fenomeno di eloquenza e diardire e uno dei cavalieri faceva di soppiatto qualche smorfiaburlesca. Costui fece pure rumorosamente le sue felicitazioni maintercalandovi sottovoceper uso delle vicinecerte giaculatorie:“Atenti che adesso vien Federico con quattro cichere de aquasanta. - Scommessa che el consiglier xe in camera col piviale ch'elcanta el Te Deumdavanti a l'altariolo. - Me par de sentirlo in Consiglio: etcum spiritu tuo”. Le vicinesi mordevano le labbragli sussurravano: “El tasa!” edegli pretendeva che la marchesa fosse sorda. “Ahiahi”brontolò udendo annunciare il Prefetto“ahi che adessobisogna parlar pulito! Se savea portava la gramatica!”

Ilcommendatore Prefettoun buon toscanoamante del quieto viverevenuto da un mese appena nella sua modesta sede venetaera statopresentato alla marchesa da suo maritoin ferroviae ora veniva perla visita d'obbligoben contento di blandire il marchese Zanetodiservirsi delle sue velleità senatoriali per staccarlo poco apoco dal partito clericale.

Lamarchesaimpacciatissima con la gente che parlava italianoloaccolse in modo da farlo rimanere impacciato anche lui. Per fortunala signora eloquente si era incontrata più volte colcommendatore in una casa di amicia Firenze. Ella fece subito pompadi questa relazionegli parlò con familiaritàepoichè tra lei e lui era seduta un'altra signoralo presentòsottovoce per far intendere che sapeva come ciò sarebbetoccato alla padrona di casa ma che si pigliava una licenza amabile.“Disemoghe a la Nene” mormorò allora il cavalieresatirico alle vicine “che qua gnente ocore e che la pol andar adar fora el butiro in cusina”. Infatti la povera marchesanotaper la sua severa economia domesticaassisteva muta al duettobrillante dell'amica e del commendatoreal quale non era parso veroin quel primo smarrimentodi afferrare la sola mano offertagli. Eglinon fiatònaturalmentedell'elezione clericale Maironifecealla padrona di casanon sapendo che dirledei complimenti per ilsuo bel palazzo del Quattrocentosi udì rispondere che loaveva tenuto in gran pregio anche il fu professor Canella e senzadomandar chi diavolo fosse questo illustre uomovisto alzarsi ilcavalier faceto e la signora eloquentesi alzò anch'egli.

Fuorila via deserta luceva nel sole di marzo. La irrequieta damainvecedi salire in carrozzasi portò i suoi due compagnia piedisotto gl'ippocastani del passeggio pubblicogià tuttispruzzati di verde. Il Prefetto s'informò con una facciaossequiosa se la signora fosse cugina degli Scremin. Udito che nosivolse all'altro: “Allora è Lei?” diss'egli. “Noneppur Lei? Dio La honservi!” Dopo un mese di residenza nel suominuscolo principato egli s'era fitto in capo che tutti i nobili vifosserofra loropoter del mondoalmeno “hugini!”Immaginava con terrore le loro affinità e parentele come ungarbuglio inestricabileun'arruffata matassa enorme che a tirarne unpoco il menomo filo vien tutta addosso. Perciò non s'attentavamai a parlar di nobili con altri nobili senza infiniti riguardi ecerimonie. Voleva dunque sapere quanto valesse questo nuovoconsigliere clericalequesto genero senza mogliedi questa suocerasenza figlia. Non lo conosceva affattonon s'era mai incontrato conlui neppure in una visita. E perchèDio bonoquest'uomo chenon si vede sta in casa di questa donna che non parla?

Tantola dama politicante quanto il cavaliere di spirito possedevano unascienza minuta di tutti gli Scremin e persino dei loro domesticidalfamoso Federico ch'era stato licenziato dal Vescovo per causa dicerta piacente pollivendolasino alla guatteracugina della bellaMatilde di casa Xtanto cara al padrone. Sapevano quanto la vecchiamarchesa spendeva il mese nello zucchero e nel caffèe aquale altezza favolosa giungevano le calze del marchese. Avrebberopotuto offrire al Prefetto la completa biografia del nuovoconsigliereornata di un ritratto cui non sarebbe mancato un pelo.Forse gli sarebbero soltanto mancate certe ombre reconditenell'occhioinafferrabili dal loro intelletto e di pochissimo contoper l'amministrazione provinciale.

Manessuno dei due s'attentò d'istruire il Prefetto in presenzadell'altro che lo avrebbe poi raccontato al mondo. Convien direaltresì che se non eran parenti nè amici degli Screminsentivano però di avere un decoro comune con quei nobili divecchia razza e il linguaggio poco riguardoso del Prefetto li avevaturbati come un leggero urto di contraccolpo all'aristocratico sedileonde assorbivanodissimulandolocoperteintime dolcezze. Il nobilesignore arguto poteva bene burlarsi degli Scremin in privatocomefece poi quando gli riescì di cavare a Federico la storielladell'uovoma in pubblico era un'altra cosa e quando gli capitavad'incontrar la carrozza della marchesa Nenesalutava solenne ecompunto come se passasse una persona della Sacra Famiglia. Cosìil Prefetto potè solamente sapere che Piero Maironinatodalle nozze poco savie del nobile Franco Maironibrescianocon unapersona inferioreorfano dall'infanziaera stato pupillo delmarchese Scremin suo parente per parte di una defunta marchesaScremin maritata Maironibisnonna del giovane; che aveva sposatol'unica figliuola degli Scremin; che sventuratamente la giovanesignoracolta pochi mesi dopo il matrimonio da grave malattiamentalegiaceva da quattro annisenza speranzain una casa disalute. Il marito non se n'era consolato mainon andava in societàviveva ritiratissimofrequentava molto le chiesestudiava molto.Ricco assai per la eredità della bisnonnapiù riccodegli Screminnon si occupava punto de' suoi affarilargheggiava inbeneficenze.

Ilpovero Prefetto sarebbe rimasto male separtita la dama colcavaliere nel coupéche li seguivaavesse udito l'arguto gentiluomo commentarpiacevolmente il suo copricapoun Pantheonerifacendogli ilversola sua larga cravatta: “Un vero hollare di haval diharretta dello Stato!”. Quanto a Maironinè il cavalierenè la dama lo potevano soffriree dopo servito il Prefetto sisfogarono sul nuovo consigliereun antipaticoun baciapileunorsouno stramboun ambizioso coperto che probabilmente sapevacollocare le sue beneficenze a frutto. Il cavaliere neppure volevacredere alla santità di un uomo giovaneda quattro anniammogliato e non ammogliato. Povero cavalierepovera damaessi puresarebbero rimasti male sedue minuti dopo saliti in carrozzaavessero udito il capitano Reggini di Nizza cavalleriafamosocinicoaffrontar sotto gli ippocastani il Prefettosuo compaesanoa questo modo: “O che ci faceva Leicommendatore miofraquella vecchia scatola e quel coperchio? Per causa Sua noncombaciavano!”.



II


Lamarchesa Nene non si trovò col marito sola e sicura dallecuriosità domestiche se non assai tardi nel dopopranzopocoprima dell'ora di conversazione. “L'ovo!” diss'egli umilequando sua moglie lo interrogò con un lugubre cipiglio. “Tasixe verolo go tolto mi. No magnarmeson andà in oca. Cossavustu? Son andà in oca.” Egli offersenella sua mansuetavirtùuna confessione pubblica in cucina. “Sempiezzi!”brontolò la moglieaccigliata. Il maritomolto superiore alei di cultura e molto inferiore d'animolargamente fornito diambizioni a lei sconosciutesapeva camminar bene certe mobili viedelle nuvole e anche certe altre vie sotterraneecerte gallerieelicoidali che potevano condurre piano piano su qualche cimadominatrice il suo carico di desideri e di scrupolima non era mairiuscito ad impratichirsi delle vie comuni dove il volgo camminaspeditoanzi non sapeva raccapezzarsi neppure in casa propria dovecamminava spedita sua moglie. Invece costeinatura complicatissimad'intelligenza e di tarditàdi larghezza e di parsimoniadigentilezze poetiche e di fermezze quasi durenata immune dafantasieda passioni e anche da egoismoma curante di sè epur sempre tenacein palese o in segretode' suoi propositiprontaalle franchezze difficili e custode gelosa degl'intimi propripensieripossedeva un senso acuto dell'angusta realtà dentrola quale chiudeva l'energia instancabile de' suoi affetti oscuri eprofondii suoi disegni sapienti e i suoi discorsi insipidi.

Ellaera devota al maritocome al solo uomo cui avesse pensato mai;devota a quella felicità del marito che nel campo moralerispondeva non tanto ai desideri di lui quanto alle idee di lei. Leinettitudini di Zaneto alla vita pratica la irritavano nel suosegreto. Nè una discreta fama di archeologonèl'ambito seggio in Senatonè un portafogli di ministroavrebbero scemato d'un atomo la occulta disistima ond'era partitoadesso quello scatto: “Sempiezzi!”. Un'ombra di malcontentole restò in viso per tutta la seratabenchè di tempoin tempo il vecchio sposo cercasse farlequasi di soppiattoqualcheamabilitàe benchè la conversazione dei soliti amicipreti e piccoli borghesiclienti della nobile famigliafosse piùvivace del solito.


Ilsalotto di casa Scremin era una specie di laboratorio dove sirecavano ogni seraper la descrizione e l'analisiparole raccolteper le altre case e per le vieparole di riconosciuti proprietariparole vaganti senza padroneogni voce da cui si potesse spremerequalche curioso fatto altruiqualche sospetto solleticantequalchemateria oscura ove far compariremediante reagenti opportunileombre mobili di un intrigoove trovar col fiuto le orme di unapersona nota e seguirla poi all'odore e pungerla se possibile nellasua via nascosta e morderla un pocotanto da gustarne anche ilsapore o almeno da cogliere qualche minuscolo filo delle tenui tramedi commedia che la vita continuamente ordiscesperde e ricomponeintorno a ogni persona umana. Il laboratorio non mancava nè disali nè di acidi. Vi si faceva della maldicenza misurata egarbata su tutti i peccati del prossimo salvochè su quelli diamore.

Ipeccati di amore non si potevano assolutamente introdurre nellaconversazione. Se i due o tre più liberi parlatori dellabrigata si arrischiavano a infrangere il divietosubito il marcheseZaneto alzava la voce: “Ta ta ta!” e accadeva ben di radoch'egli fosse costretto dalla protervia di un ribelle a continuare digaloppo e più forte: “Taratatàtaratatàtaratatà!”. Il buon uomoche avrebbe avuto una spiccatainclinazione a mettersi con i farisei e a lapidar l'adulteranonusava altrettanto rigore che per le espressioni poco esatte inmateria di fede. Quando non si trattava di malcostume nè didogmi lasciava correre. Guardingo egli stesso in ogni sua parolapareva quasi compiacersi che gli altri non lo fossero altrettanto.Una certa dose di sale comune l'avevan tutti. C'era poi un burberogiudice in pensione che aveva sempre in pronto il sale amaro e c'eraun vecchio lungomagrogialloarcignoche veniva assiduamente conuna moglie lungamagragiallamalinconica e che non parlava se nonper schizzare qualche goccia di acido.

Quellasera i chimici di casa Scremin avevano nel crogiuolo il fiore delmondo elegantel'Olimpo della piccola città. Trattarquest'Olimpo con acidi e sali era il loro più squisitopiacere. Da buoni botoli borghesi non si pigliavano alcuna soggezionedella grossa bestia rampante sullo stemma di casa. La marchesa Nenenon pareva tener gran fatto alla bestia; il marchese Zanetoaffabilee umile con tuttisapeva coprir bene un certo debole per essa. Inobili coniugi appartenevano a un gruppo scuropesantemalinconicodi nobili codinifra i quali e l'Olimpo dei ricevimenti elegantidei ballidei pick_nicksdel lawn_tennisdelpattinaggiole relazioni erano scarse e fredde. Un prete bonarioassai curioso e ambizioso cronistamise fuoriappena venutola suaghiotta primizia: “Dunquepicche nicchegnente!”. Subitoil signore acido e il signore amaroche quando potevano mordere ilprete ci avevano un gusto mattoesclamarono: “Vèciavècia! Barbabarba!”. Il pretesbalorditoirritatorossoaffermò che la risoluzione di mandar tutto a monte erastata presa tre ore primaalle seie i suoi tormentatori perpetuireplicarono che alle sei e mezzo se n'era parlato al caffè eche il picknick eraandato in fumo per causa dei forestieri di villa Diedo. “Vedìoche no saví gnente!” fece il prete trionfante. Egli avevauna versione diversa. “E la mia xe sicura!” Una gran damaanfibiatutta chiesa alla mattina e tutta Olimpo alla seraavevaraccontato il fatto a suo marito in presenza del medico di casae ilmedicoamico del pretelo aveva incontratogli aveva detto: “Vaia casa Screminstasera? Conta questa”. E il prete cominciòsolennementein lingua aulica:

“Bisognasapere che parecchie signore avevano posto per condizione che ilpicche_nicche si facesse di domenica per rispetto alla quaresima.”“No credo un corno” brontolò il signore acido. Glialtri zittironoil prete ribattè in dialetto: “La fazzade manco” e risalì subito sul suo pulpito dell'italianopulpitoper veritàun po' sconnesso e sdrucciolevole.

“Dunquesi sceglie domenica; questa che viene. Intanto succede che PittimèlaLoro sanno chi èincontra a passeggio i Zigiottimarito emoglieeda balordoli invita. I Zigiottifiguremose!beatibeati! La cosa si spandesuccede un putiferio. Nessuno vuole iZigiottispecialmente le signore. Pittimèla prende una filadi titolima come si fa? dicono i promotori del picche_niccheidirettori. "Come si fa?' dice una signora. "S'intima aPittimèlapoichè ha fatto la frittatache se la mangie che ci liberi come può.' Un'altra dice: "Si piantaanche Pittimèla'. Un'altra dice: "Si manda tutto amonte'. Una quarta non dice nientema subitoticche tacchesiammala.”

“Benone!”brontola il signore amaro. “S'indovina chi è.” “Latale!” dice il signore acido. “Mi no so gnente!”esclama il prete. “Eh carocome se no lo savesse tuti che fraso marìo e la Zigiotta...”. “Ta ta tata ta ta!”squilla in furia il marchese Zaneto. “Avantidon Serafin.”E il prete continua: “I promotoridisperatinon sanno a chesanto votarsi. Peròadesso vi dirò come stamattinatutto pareva accomodato per modo che alle tre una Commissione andòa villa Diedo per invitare i signori Dessià!.”“Dessalle!” interruppe qualcuno. “Va benva bendesalde peverede quel che i xe.”

Appenauditi nominare i Dessallei forestieri di villa Diedoil signoreacido che li aveva designati come colpevoli della catastrofe e s'eraudito smentire dal pretecominciò a storcere la boccailnasotutti i muscoli del suo viso di cartapecoracon le piùlugubri e fantastiche smorfie. Don Serafino lo guardò e primaancora che colui aprisse boccagli disse: “La spèta!”.

“Mino parlobenedèto!”

Ilprete riprese:

“Fatalitàvolle che i signori Dessalle aspettassero amici da Venezia proprioper domenica.” “E dunque?” brontolò colui chenon parlava. A misura che don Serafino veniva raccontando come pereffetto del rifiuto dei Dessalle si fossero divise le opinioni circail fare e il non fare il picknickil signore acido e il signore amaro lo interrompevano sempre piùforte: “E dunque? E dunque?”. Qualche altro piùsommesso “e dunque?” scattava qua e làdall'uditorio. Per un poco il prete andò avanti e poiperdutala pazienzasi mise esemplarmente a gridare: “Pazienza!pazienza!”. Quindi scese dal pulpito: “Le lassa andaravantiLe lassacorpo de mi solo!” - “Zittozittobuonibuoni!” gridava Zaneto. Ma quando il preterosso come ungamberoabbaiò che non sapevano nientenoniente; e che peril rifiuto dei Dessalle si era dibattuta da capo la questioneZigiotti; e che per causa della Zigiotti “tin tun tan paramartellai ga mandà tuto per aria”allora gli altri simisero ad abbaiargli contro che senza il rifiuto Dessalle non sarebbetornata in campo la questione Zigiotti e abbaiarono tanto forte cheZaneto diede un gran colpo di timone e voltò il discorso versoil naso del signor Carlino Dessalle. “L'ho visto una volta solama un gran naso!” “Non lo tocchimarchese!” esclamòl'uomo acido.

“Tuttodev'essere perfetto a casa Dessalle; anche i nasi. Forestierimarchesegente che invitagente che spendesignor mio! Adoriamoliungiamolilecchiamoliandiamo in visibilioandiamo in deliquio!Che distintiche amabiliche cariche spiritoche bellezza! Ellamarchesemi parla del naso di luima giurerei che qui si trovabello anche il naso di lei!”

“Peuh!”fece don Serafinocome per dire che questo secondo naso non glipareva poi tanto obbrobrioso.

“Masìcaro! Sentemarchese? Anche il clero! Ci perde la testaanche il cleroci perde! Eppure quella è gente che non va amessa. Genteute religionche qua se ghe dise pamòi”.

Questaparola pamòioche nel dialetto del luogo significa tanto una zuppa quanto unapersona di dubbia ortodossiaforse per le parvenze incoloriper lapoco nutriente virtù di un tal cibo e di un tal credofecesuccedere un altro tafferuglio. Il prete gridava: “Cossa vienlofora? cossa m'importa a mi che i sia pamòi o che no i siapamòi? Cossa ga da far i pamòi col naso?”. Ilcensore bilioso gridava: “Sissignorsissignorpamòipamòi! Pamòio lu e pamòia ela!”. Gli altriridevano e li aizzavano. Zanetofra ridente e contrito per la malariuscita della sua manovracercava metter pace. Durante la zuffa unsignore ossequioso seduto presso alla marchesa Nene le domandòsommessamente il suo parere. La marchesache lavorava di calzenonalzò gli occhi dai ferri e rispose:

“Mino vado a zavariarme.”

Lavecchia marchesa non si “zavariava” maiossia non si davamai fastidio per ciò che non la riguardava. Così almenopareva; perchè nel fondo dell'anima sua vi era una quantitàdi celle segrete e chiuse a chiave dov'ella custodiva note raccoltein silenzio su tante cose cui non pareva badarefila intricate ditenebrosi disegni per il bene di questa o quella persona in qualchecaso futuro e incertosimpatie e antipatie non confessate maigiudizi sugli uomini e sulle cose tenuti occulti ma inflessibili eduri come il bronzoidee parte diritteparte storte che davanoqualche rara voltanei colloqui più intimiparole impensateben diverse da quei comuni ferravecchi di cui teneva un magazzino inbocca. Ella eradel restoimbronciataquella sera; e il marcheseZanetocon la sua coscienza tutta intrisa dell'uovo illegittimopreso per distrazione in cucinacolse il tempo in cui gli altriinfervorati nella disputa per i nasi Dessallenon badavano a lorosi accostò alla sua sposasi mise a farle delle moinecontrite che la seccarono. “Va là! Lasciami stare!”diss'ella brusca. “Non far sciocchezze!” Il pover uomo sivoltò mogio mogio a don Serafino che stava rimbeccando uninterruttore. “Abramo? Cossa vienlo fora con Abramo questo quaadesso?” “Sì”rispondeva colui: “Abramo eRebeccanoe Saracossa xela!” Poichè i Dessalle sierano fatti conoscere come fratello e sorellas'insinuavabenignamente che qualche Faraone avrebbe forse potuto dire una cosadiversa. Più voci protestarono. I Dessalle eranoconosciutissimi a Roma e a Venezia come fratelliorfani di unricchissimo banchiere di Marsiglia e di una Guglielmucci romana.

DonSerafino diceva di non saperne se fossero pamòio no. Avevano invitato il loro parroco a pranzocertoelargheggiavano con lui di danaro per i poveri. La signora gli avevaanche offerto qualche cosa per la chiesa. “Una santa!”brontolò l'uomo acido con un ghigno pieno di reticenze. “Ohno se sa po gnente!” esclamò don Serafino. “ElanoLa sa gnente!” ribattè l'altro: e si fermò lìper paura dei “ta ta ta” di Zaneto. “E pur la gavarài so trenta” brontolò il signore amaroa epilogo diparole taciute. Allora gli scoppiò da ogni parte un fuoco vivodi “Cossatrenta? Cossatrenta?” “Venticinque!”“Vintidò!” L'acido venne in soccorso dell'amaro: “Mosì! Undese! Diese!”.


Albattere delle undici tutta la brigata si rovesciò in frottadal salotto sulle scale. Nell'atrio del palazzo cominciarono ibisbigli sul muso lungo della marchesa. Che diavolo aveva? Appenauscito lo sciame sulla via sopraggiunse l'ultimo amico di casa ches'era indugiato con Federico sulle scale appunto per spillargli ilsegreto del muso lungo. Sopraggiunse correndoridendosi nel baverorialzatofregandosi le maniripetendo a se stesso: “Belabelabelabela!”. Subito gli furono tutti attornotuttisorbirono con voluttà il famoso uovotutti fecero eco: “Bela!Bela!” meno don Serafino che trattandosi di materia moltodelicatarideva con riserbo e diceva solo: “Povareta!Povareta!” in tono di blando compatimento. Dopo il muso lungodella marchesa venne la volta della lucerna. “Che puzzo dipetrolio! Che indecenza!”. “E il caffè?”esclamò don Serafino. “Non era proprio acqua sporcastasera?” Anche qui gli amici fecero eco; solo il signore acidosostenne ch'era acqua pulita.

Ilprete raccontò che in passato aveva fatto qualche osservazionea Federico. Federico s'era scusato accusando la padrona. “Avariziacagnasior.” Ogni meseappena pagato il conto del droghierela padrona andava in cucina a predicare sul caffè troppoforte. Ripagata così la ospitalità degli Scremin dovequei piccoli borghesi gustavano da lunghi anni un odoreun sapore dipadronanza sulla nobile casa molto voluttuosi ai loro sensidemocraticila brigata si sciolse sotto il fanale di un crocicchiosi sparse per tre o quattro vie deserte. Di qua l'uomo acido ripreseil tema Dessalle brontolando con l'asprezza di una stizzosa virtùcose da fare spiritare quattro Zaneti e strillar “ta ta ta”anche alle vecchie metope del Cinquecentoche dall'alto dellecornici palladiane guardavan giù nella via. Di là eral'uovo che si frullava da capo fra bisbigli e risatine; e siricommentava l'uscita di Zaneto dalla confraternita del Duomo. Poi sifaceva l'autopsia del vecchio amico per trovargli l'ulcussenatorium e l'uomo amaro andavaripetendo: “Mondo! Tuti compagni! Mondo!”. “Caspita!”diceva un altro: “Un ovo de matinala quaresima! Atenti ch'else fa turco!” Poi vennero in campo certe promesse di Zaneto aldeputato del collegio. FigurarsiZaneto che dopo il 1870 non avevamai votato! Parlarono anche di pratiche fatte per lui dal deputatodel collegio presso una dama romana amica di due ministri.

“Capìo?”diceva uno. “Amiga de do! Figurève che dama! altro che tata ta!” Un altro alluse discretamente a un potentato dellacittàa un uomo politico detto per antonomasia ilCommendatorebasso di statura. “Sìma se el picoleto nolo aiuta!...”

Peruna terza straduccia don Serafino trotterellava verso il suo umilenido insieme a un compagno che aveva nidificato negli stessi paraggi.Anche questi due frullarono l'uovo ma con mansuetudine. Si figuravanoi rimorsi di Zaneto per lo scandalo dato. “Perchè l'èun santo omosavìo!” diceva il prete. “Perchèmi so!” E raccontò al suo compagno atti di ascetismocompiuti dal marchese Scremin in segreto. Ci aveva in corpo quel bacodel Senatosì; un baco guastamestieri! Don Serafino stavaconsiderando minutamentea bassa voceil disgraziato baco e i suoimalefiziquandoallo svoltar d'un cantoil suo compagno lointerruppe con un colpo di gomito. Quegli aveva sfioratosvoltandoun signore astratto che svoltava nel senso oppostoe camminavaadagiocon le mani nelle tasche del soprabito.

“Galavisto el consiglier!” diss'eglifatti pochi passi.

“Mino. Che consiglier?”

“Ehcosso! Maironi!”

Maironi!A quest'ora! Da queste parti! Dove sarà andato? Inconversazione non si vede più. Tanti lo trovano piùdistrattoquel giovinepiù cupo. Ogni mattina a messaognisera alle funzioniogni otto giorni ai Sacramenti. E` sempre statopio ma non a questo punto. E caritàcarità senza fine.“Perchè mi so!” La sua disgraziasì! Mainsomma non è cosa nuovason quattro anniadesso.

Nonon poteva esser questo. Un buon giovinema un po' strano anche luisapete. Il sangue non è acquadicono che sua madre sia statauna testa caldae suo padre: hèhèoli!Buonoperò! Eccoun santo davvero. Una fedeuna carità!E devoto alla causa! Clericale proprio di quei convinticapite;perchèinter nosanche fra i nostri della zizzania ce n'è! C'è chi tiraalla scarsella e c'è chi tira a far chiassoa farsi un nomeun'influenza. Pochima ce n'è! Quello lì no; ehquello lì! E talento. Talento grande. - Qui don Serafino sifermò sui due piedicavò la tabacchiera eficcate ledita nel tabaccosoggiunse con importanza: “Adesso lo femosindacocapìo”.



III


Intantoil signore astratto si avviava con un'andatura stanca verso ilpalazzo Scremin. Trovò il portone chiusospento il gasnell'atriospento il gas sulle scale. Entrò nel suoappartamentoal primo pianoin faccia a quello abitato dagliScremin. Si stava levando il soprabito nell'anticamera quando fuleggermente bussato all'uscio. Aperse. Era la giovane cameriera dellamarchesa Neneuna figurina snella e altabiondavestita di scurocon i capelli arruffati sulla fronte. Egli impallidìledomandòtenendo la maniglia dell'uscioche volesse. Laragazza lo fissòpallida anche leicon due belli occhiazzurriarditi nel fondovelati di dolcezza. “Scusi unmomento” diss'ella. “C'è una cosa.” Si guardòcon una mossa rapidaalle spalle e ripetè: “Le avrei adire una cosa”. La voceun po' fiocaun po' grossaeratuttavia musicale. Il giovane esitò un momentopoi mormorò:“Avanti” e si fece da banda. La camerierina passòsfiorandolo col suo odor tepido di capelli giovani e di personamondasussurrò un “grazie” pieno di sensopigliòil soprabito del signores'indugiò ad appenderloall'attaccapanniad assettarvelo con leggeri colpettini delle maninon bianche ma piccole e sottili. La lucernettache ardeva sullaconsolle in facciaall'attaccapannile dorava i capelli magnifici attorti sulla nucacome un groppo di serpi.

“C'èstato il giardiniere” diss'ella accarezzando ancora il soprabitoe parlando pianoquasi con tenerezzacome se le parole fosserostate più di quell'abito e di quelle carezzeche d'altro. “Ilgiardiniere ch'è andato via.”

Perqualche momento ella non si udì risponder nullae le sue maniparvero moversi incertea caso. Poi il giovine disse: “Cosa...”con voce diversa dalla solita e non compiè la frase. Ella sichinò a raccattar chi sa chegli offerse un baleno del suofine collo bianco.

“Dice”riprese ancora più sottovoce“che forse andrà daisignori Dessalle e che i signori Dessalle domanderanno informazionialla mia marchesa e che allora Lei ci potrebbe forse mettere unaparola buona. Dice pure che Lei ora diventerà sindaco e chegli raccomanda un suo figliuolo per la biblioteca.”

Sivoltòdiede un'occhiata alla lucerna che fumavasi mosseadagio adagioper andarne ad abbassare il lucignolo e nel passardavanti a Maironi gli alzò in viso due occhi grandivitreipieni di una chiara proposta. Egli fremette ma non disse niente. Labiondina si pose ad abbassar lentamente il lucignologiùgiùsenza sostaquasi fino a spegnere. Allora Maironi dissebrusco:

“Lasignora ha suonato.”

“Hasuonato?”. Colei trasalìrialzò il lucignologuardò il giovine in visocapì subito di avere passatoil segno.

“Sequell'uomo ritorna” riprese Maironi“gli dica che per leinformazioni parlerò.”

Laragazza rispose asciutta “va bene”se n'andò drittae seria senza degnarlo nè d'un saluto nè d'uno sguardo.

Rimastosoloil giovane si strinse i pugni alle tempieli battè conimpeto sul piano della consolleve li tenne per un momentoansanteguardandosi nello specchiointerrogandoquasil'immagine di se stesso.

Poia un trattocome se avesse paura del proprio visodel propriosguardodei propri pensierisoffiò furiosamente sullalucernaentrò al buio nella sua camera da lettosi gittòginocchioni sull'obliqua lama di luce biancastra che per una grandefinestra il cielo notturno gittava sul tappeto del pavimentogiunsele mani di slancioguardando il chiaror fioco delle nuvole.

Passatialcuni secondigli occhi suoi poco a poco discesero fino aldavanzale della finestrafino all'ombra; si fermarono come smarritiin una visione. Egli pareva immaginare con la volontà sospesanè consentendo nè resistendo alle immaginazionicoseche gli togliessero il respiro. Si scossesi gettò bocconi aterra figgendo il viso sul pavimento. Poi balzò in piediaccese una candela esnudatosi il braccio destrolo tenne a piùripresestringendo il pugnosulla fiamma. Si guardò legrandi macchie rosse delle scottaturemise un sospiro di sollievotrasse il portafoglilo apersecontemplò una piccolafotografia ovaleil viso di una giovinetta sui diciott'anniregolarefreddo nella espressione e tuttavia non senza una tal qualemalinconica dolcezza nell'occhio e una più spiccata fermezzanel mento. L'acconciatura altissimapassata di moda da cinque o seiannilo guastava come un goffo accento circonflesso e faceva pensarea una persona morta. Il giovane se lo accostò alle labbra mapoi non ebbe cuore di baciarloparendogli esserne indegnodeposesospirando il portafogli sul tavolino da notte e soltanto allora viscorse un mazzolino di violette sopra una lettera.

Ilsuo pensiero corse alla cameriera toscana. Era leiforseche avevascrittoche offriva i fiori. Nè volendo nè disvolendomosse lentamente la manotolse le violette di su la lettera e restòcon la mano in ariatutto amaro di vergogna.

Nonera una letteraera un cartoncino e aveva due sole parole di pugnodella marchesa Nene:

17marzo.


PieroMaironi ed Elisa Screminla donatrice del portafogliosi eranofidanzati il 17 marzo 1882 e ogni anno la marchesa Nenecon undelicatissimopoetico pensieroaveva silenziosamente ricordato cosìa suo genero il giorno felicediventato giorno di lagrime. Oraperla prima voltail 17 marzo era giunto senza ch'egli ricordasse.Neppure le viole glielo avevano rammentato. Dioe aver pensato chevenissero dalla cameriera! Ne chiese mentalmente perdono allariverita vecchia signora con uno slancio che subito gli mancònella morta sfiducia montante dal fondo dell'anima. Si coricòsenza pregarecovando un disordine di sentimenti informi: umiliatoamor propriocruccio di non sentirsi alcuna dolcezza della vittoriamateriale sulla tentazionerancore sordo contro Iddio che tacevadubbi che il suo lottare con la natura fosse inutile e stoltodubbidi essere un miserabile schiavo inconscio di pregiudizi religiosi emorali impressi dagli altrie per semprenella sua molle coscienzainfantileterrore e rimorso di questi dubbipropositi di lottareancora. Poichetati alquanto i moti incomposti dell'animo esuccessovi un lieve soporegli risalì nell'ombra interna delcapo e gli fugò il sonno l'immagine più e piùviva della donna che si era offertadegli occhi vitreiparlanti ebrucianti.

Cacciòla visione voluttuosala richiamòla respinse ancora con piùmolle difesa. Ebbecon un gran batter del cuorel'idea che un velodenso e molle si stendesse lentamente sopra di luichiudesse ilcielo. Ebbe il senso di una liberazionedi un'ebbrezza salientedalla terra caldadi un abbandonodi un'amorosa estasi in cui tuttala più occulta parte dell'esser suouna magnifica potenzaintatta di passionedi gioia e di follia gli sarebbe scoppiata dalcuoredal pensierodai sensi. Diverse forme gli lampeggiavano nellavisione interna: l'ardita cameriera biondala bella signoraDessalleincontrata un giorno in ferroviadai grandi occhi bruniche tanto lo avevan guardatoe altre ancoracui egli si foggiavacon violenza in una forma solain un essere solocreandole di sècon un pensato magico bacio fra l'orecchio e il collocreando nellacameriera come nella damacon irresistibile imperola donna volutada luianimando della propria sua fiamma la donna da lui uscita e dariaspirare in sè. Balzò a sedere sul letto. Nelsilenzio della nottenel lume tremante della candela le stesse coseintorno a lui parevano guardarlo attonite. Sceseaperse la finestrabevve l'aria freddascura e muta.

Oredalla torre di città: unadue. Silenzio. Ore dalla prossimachiesa: unadue. Paiono voci tristi e gravi che si scambiano unlugubre saluto claustrale: memento.Altre voci solennivicinelontanenell'interno stesso della casaripetono: unadue: memento.Maironi si fece macchinalmente il segno della crocemormoròmacchinalmente: “Et ne nos inducas in tentationem sed libera nosa maloamen”.

Sentìla preghiera cader senza eco nel mistero vuoto e sordogiunse lemanichiamò a sèquasi per un cieco istintoduepersone non conosciute maiimmaginate in diverse forme infinitetalvolta dimenticatetalvolta desiderate intensamentestrette a luidal più tenero affettoma impedite di rispondere al suorichiamodormenti l'ultimo sonno nel povero camposanto di Oria inValsolda: “Madre mia! padre mio!”.


Siricordò di avere una lettera urgente a scriverevolle farlosubito. Si trattava di rispondere a monsignor De Antonicanonico delDuomoch'era venuto il giorno prima da lui con una missione segretadi S.E. il Vescovo. La maggioranza clericale del Consigliouscitadalle recenti elezioniavrebbe corso pericolo di vita se non mettevaalla luce il giovane sindaco da lei concepito. Questo frutto restìodel suo seno era Piero Maironi. Le pratiche fatte presso di lui primadell'elezione non avevano approdato; Maironi non voleva sapernel'aveva dichiarato a monsignor De Antoni. Il mansueto monsignor DeAntoni a forza di spiccicare durante le sue proteste dei vischiosi“benbensissignorsissignor”a forza di sorrisettidicontorcimentidi blandi “ho capito” e di vispi “facciamocosì” aveva ottenuto una proroga alla rispostadefinitiva. Ora Maironi era impaziente di sbarazzarsi del tutto. Sesi era lasciato portare dagli amici per disciplina di parte e ancheper un desiderio indefinito di moto e di lavoronon voleva perònuovo agli affariesser posto a capo dell'amministrazione comunalein un momento difficilein cui la sua inesperienza poteva costarcara al partito e più al pubblico.

Gliripugnava pure di lasciar del tuttosui due piedil'abito di vitabigia che portava da quattro anni. Qualche altra cosa gli ripugnavaforse nell'offerta degli amicicui neppure voleva confessare a sestesso. Ed era ritornato a casaquella seracol proposito discrivere subitoper finirla.

Nelpensarecon la penna in manole frasi di cui vestire i suoiargomenti per modo che persuadessero il Vescovo al quale la letterasarebbe stata indubbiamente mostrata da monsignor De Antoninelcercare gli epiteti delle difficoltàdei pericolidellecuredelle angustie che lo avrebbero atteso sullo scanno sindacaleun pensiero nuovo gli si affacciò alla mente. E se accettasse?Se le difficoltài pericolile curele angustie potesserocacciare i fantasmi amorosie voluttuosi che lo assediavano? Sequesto dubbio glielo ispirassero suo padre e sua madre allorainvocati? Se l'offerta degli amici e le premure del Vescovo celasseroun coperto aiuto di Dio? Pensòpensò fino a che ilcapo gli s'intorbidò di stanchezzadi sonno; e rimise ladecisione all'indomani mattina.


Eglidormiva ancora quando gli capitò in cameraguardingocon lafaccia piena di rincrescimento e la bocca piena di scuseil marcheseZaneto. Aveva una tal quale necessità di parlare al generonon gli era venuto in menteconoscendo le sue abitudiniche potessedormire ancoragli parlerebbe adessose però il genero nonne fosse troppo incomodato. Dopo il successo elettorale di Maironi ilsuocero lo trattava con una officiosità così impacciatae fredda che Piero n'era seccato e aspettava sempre di vedernecomparire la cagione occulta. Udito quell'esordiopensò: "Cisiamo" e rispose: “Figurati!”.

“Beneeccodue cose” cominciò Zaneto lentamenteguardando interra e spremendosi a più ripresedalle guance con la manosinistrale parole che parvero colar vischiose dalla bocca: “duecose”.

Apertacosì la vena del discorsoalzò gli occhinon peròin viso al suo interlocutoree parlò un poco piùfluido:

“Sonovenute da me alcune persone del tuo partito. Dico del tuopartito perchè forse lemie idee... sìdiconon so... insomma per intenderci meglio.Persone ottime e anchediròautorevoli. Sì sìautorevoli. Desideravano che io ti persuadessi ad accettare l'ufficiodi sindaco. Io ho risposto che parlerei per riferiresemplicemente.Dicono...”

Quila voce di Zaneto cambiòprese l'accento caricato di chiripetendo parole altruivuol fare intender chiaro che parla cosìun altro e non egli.

“Diconoche sei indicato per la posizione socialeper la votazione stessache nessun altro sindaco è possibile fuori di teche se nonaccetti è un danno gravissimo della città e cosìvia.”

Zanetotacque un momentopoi guardò finalmente suo genero e lasciòcascare floscia floscia questa chiusa:

“Ecco.”

“Etu” domandò Piero“cosa ne dici?”

Zanetosi fece un po' scuroprese un'aria di Sibilla restìa e dopoaver taciuto alquanto rispose con insolita risolutezza:

“Dispensami!”

“Ehno!” rispose il giovane ironicamentevolendo pur aver ragionedi tanta diplomazia.

“Perchèdispensarti?”

Zanetofece un gran gesto silenziosomenò il braccio destro in ariasorrise come per dire “cosa serve?” e ripetè:

“Dispensami!”

“Civuol tanto” esclamò Piero “a dire che seicontrario?”

“No”rispose Zaneto“io non sono nè contrario nèfavorevole. Ti dico subito che di questo stesso argomento mi haparlato un'altra persona per indurmi a sconsigliarti dall'accettareed io l'ho pregatacome adesso tea dispensarmi.”

“Echi era questa persona?”

Zanetosi scossesi contorse con un brontolìo che pareva nascerglinel ventricolo. Suo genero indovinò subito.

“IlPrefetto” diss'egli. “Non c'è dubbio.”

“Pianopiano” fece Zaneto sconcertato. “Io non ho detto niente enon dico niente. Del resto ieri son venuti molti a parlarmi del tuosindacato. Il primo è venuto alle otto della mattinaunindividuo che non conosco. - Chi è Lei? - Sono uno che suonail pelittone in fa bemolle.- Bravo. E allora?... Se dicesse una parola a Suo genero che saràil nostro sindaco... se mi facesse prendere nella banda municipale...- A mezzogiorno ne capita un altro; anche lui per avere la tuaprotezioneperchè tu gli faccia impiegare un figliuolo allaPosta e collocar la madre al Ricovero comunale. Un terzo èvenuto ieri a seraun diurnista del Municipio. Dice che fra pochigiorni sarai eletto sindacoche vorrebbe presentarsi a te per fartii suoi ossequi e anche per certe sue istanze particolarima che sitrova in condizioni miserabili di vestito e gli occorrerebbe unagiacca decentese puoi aiutarlo. Vedi vediche tesoro di clienti tifai!”

Pierolo fissò in silenzioleggendogli nelle pieghe dell'animaefinito di leggerecambiò discorso.

“Aveviun'altra cosami pare” diss'egli.

Ilmarchese ostentò di reprimere grosse ondate di risoostentateanche quelle.

“Sìun'altra cosa” diss'egli. “Un'altra cosa sicut etin quantum.”

Emise fuori l'altra cosanon senza sussultare ancoratratto trattodi riso represso.

Unambasciatore della stessa risma di coloro ch'eran venuti colla fasciasindacale in tascaaveva picchiato all'uscio di Zaneto molto piùsegretamente e timidamente per averne aiuto a cavare quattrini dalgenero in pro del giornale clericale. Zaneto riferì ilmessaggio con lo stesso umorismo di cui aveva lievemente conditepoco primale suppliche di quei tali clientiaggiunse sale allavivanda amara volendo renderla impossibile al palatonon tanto peruna paterna cura de' quattrini insidiati quanto per il desiderio cheil giornale più inviso alla Prefettura non ricevesse aiuti dacasa sua. “La parte mia” conchiuse il vecchio diplomatico“l'ho fatta.” E si alzò.

Maironicredette finito il colloquioma s'ingannava. Il suocero si accostòal suo lettogli prese una manogli disse sottovocetutto mutatoin viso: “Senti”represse a stento dei singhiozzi comeprima aveva represso il riso e potè finalmente spiccicarequeste due parole: “Quando vai?...”

“Alsolito” rispose Pieropure sottovoce. “Posdomani.”

“Ecredi che la vedrai?”

“Manolo sai bene che da molto tempo il direttore non vuole più.”

AlloraZaneto ruppe in singhiozzi più forti. Maironi sapeva che ilvecchio portava veramente affetto alla figliuola reclusa in un luogodi sventura; sapeva che quelle lagrime non si potevano dir false.Puresiccome il modo suo di sentire e di esprimere il dolore eraaffatto diversole dimostrazioni così rumorose e intempestivedi Zaneto gli ferivano i nervi come a suo padre le dolcezze dellasüra Peppina. Ilsangue che ora gli corse al viso era proprio il buon sangue impetuosodel povero Franco.

“OhSignore!” mormorò Zaneto asciugandosi gli occhi con unfazzolettone biancastro.

“Cosa?”Piero trasalì. Che c'era di nuovoadesso?

“Oh!Una cosauna cosa! Uno sforzo tale che debbo fare!”

Nuovisinghiozzinuove lagrimeaffannosa ricerca del fazzolettone pertutte le taschebrancicamentomolto spiacevole a Pierodellelenzuolascopertafinalmentedel sudicio coso fra le gambe dellasedia quando gli occhi si erano asciugati da sè e Zaneto nonpotevadecentementerimettersi a lagrimare.

“Cosavuoi? Bisogna pur parlare. Sai che il termine dopo il quale tu puoiconseguire il capitale della dote di...”

Unapausauna contrazione del visouna vittoria della volontà.

“...scade l'anno venturo. Occorre dunque parlarne. Ora ti confesso chenelle mie condizioni il metter fuori questa somma...”

Pierolo interruppe. Ma di che si crucciava mai? Ma che terminichescadenze! Facesse il comodo suo. Allora il buon Zaneto s'impelagòin un mar di parole ingarbugliatenè avrebbe riguadagnata lariva senza il soccorso altrui. In sostanza quel chieder la prorogadell'affranco della dote non era stato che un esordiounaintroduzione alla proposta di addossare per l'avvenire al genero ilpagamento della ricchezza mobile. Piero capì subito che ilpover uomo recitava male una lezioncina spuntatameditata e compostadentro quel duro e freddo bernoccolo degli affari che fioriva sottole trecce grigie della marchesa Nenein amichevole compagnia conparecchi altri bernoccoli di opposta indole.

“Matutto quel che volete!” diss'eglisdegnoso.

“Abbipazienza” fece il povero Zaneto. “Abbi pazienza. Le cosebisogna dirleeh!”

Cavòl'orologiotrasalìfece “oheohe!” e scappòdicendo che aveva l'impegno di andare con la Nene in Duomo allanovena di san Giuseppe.


UscitoZanetoPiero pensò lungamente guardando nella sedia vuota laimpronta sincera del suocero pesantelo sgualcimento scandaloso eignobilesenza velature diplomatichesenz'alcuno di quegliaccomodamenti studiati ch'erano familiari a Zaneto quando intendevaprodurre impressione in altrui con una parte diversa di sècon la parte superiore e più degna. Poi si vestì escrisse la seguente lettera a monsignor De Antoni:


MonsignoreVogliaLa pregoinformare monsignor Vescovo che se i miei colleghipenseranno proprio di chiamarmi a quell'ufficio malgrado le miescarse attitudini e la mia totale inesperienza della cosa pubblicalo accetterò. Gli dica pure che confido molto nelle suepreghiere. Mi raccomandi a Diomonsignoreanche Lei.

Suodevotissimo

P.Maironi


Rilessee si disse: “Fino a qual punto sono sincero? Fino a qual puntosono ipocrita?”.

EntròFederico recando una lettera.

"Qualcuno'pensò Piero"che suonerà il pelittone in mi.'Si disdisse subito. Era una busta di carta pergamenaleggermenteprofumata di violettacon questo semplice indirizzo: - SignorMaironi - a caratteri grandi esicuri. Chi l'aveva portata? Un cameriere dei forestieri di villaDiedo.

Pieroaperse e lesse:


SignoreUn tale Pomato ci si è offerto per giardiniere asserendo diessere stato lungamente al Suo servizio. Mi permetto di chiederleanome pure di mio fratelloch'è assentequalche informazionecirca l'abilità e l'onestà di quest'uomo. Gradisca lemie scuse per l'incomodo che Le reco.

JeanneDessalle

P.S.Sono in casa il lunedì e il venerdì dalle cinque allesette.


Federicodomandò se vi fosse risposta. Maironi tacqueassorto nelledue righe discretesignificanti del poscritto. Egli aveva viaggiatodue mesi prima in ferrovia con una giovane signora elegantissimadailineamenti molto spiccatima belladagli occhi grandiintelligentie dolci che troppe volte si erano incontrati con i suoi e gli eranopoi rimasti parecchi giorni nel cuore. La signora era discesa con luie nello staffiere in livrea che ne aveva preso la valigetta egliaveva riconosciuto un antico domestico di casa Screminpassato alservizio dei Dessalle. Adesso i due grandiintelligentidolci occhigli si erano riaperti nel cuore.

“Risposta?”diss'egliguardando ancora il poscritto. “Noadesso no.”Ma poiquando Federico era già uscitolo richiamò:“Aspettasìc'è risposta”. E scrisse:


Signora

IlPomato fu veramente al servizio del marchese Screminmio suocero. Locredo abile. Ho inteso dire che fa professione d'idee socialiste. Nonso che gli Scremin abbiano mai sospettato della sua probità.

Conperfetto ossequio.

Devotissimo

P.Maironi


Consegnòa Federico il biglietto senza rileggerlo e congedò bruscamenteil povero diavolo sbalordito: “va là! va là”come se temesse di pentirsi ancora.




CAPITOLOSECONDO


NELMONASTERO


I


Unservo tagliato all'antica introdusse nella sala del biliardo ilsignore che aveva chiesto di don Giuseppe. “Il suo nomedigrazia?” diss'egli.

“Maironi.”

Quegliandò in cerca del padrone.

L'uscioa vetriche dalla sala del biliardo mette per cinque scalini algiardino della villa Floresera aperto. Un languido sole d'aprilemoriva sulla coperta grigia del biliardo e sul chiaro impiantito diabete. Entrava con l'aria tepida un odor lieve della pioggerellinafine fine che si vedeva tremolar nel soleannebbiar le campagne dalontanosotto il cielo turchino. Il prato pendente in giro allafronte dell'edificio alto e scopertoi grandi alberiche fanno alaquasi a un atteso corteo di principisuggevano la pioggerellinadolce senza un bisbiglio. Così taceva la casa vuota. Lìnella sala le sedie addossate alle paretii pochi altri arredisimmetricamente dispostiil biliardo copertoparevan tristi comecose morte che serbassero il ricordo della vita.

Ildomestico non ritornava. Piero uscì sulla scalinata a guardarla pioggerellina mutae un sentor debole di viole gli rese lavisione voluttuosa del primo incontro con la persona che ora gliriempiva il cuore. La vide schiuder lentamente il mantello dipellicciamostrar il busto squisitoodorante di violail mazzolinodegli scuri fiori alla cintura. Sentì lo sguardo intelligenteche gli aveva fatto allora dolere il pettoentrargli ancora ediffonderglisi con tanta dolcezza nella persona. “Non lo trovosignore” disse il vecchio domestico alle sue spalle. “Incamera non c'ènella chiesetta neppure. Sarà sulmonteforse.” Soggiunse che sarebbe andato a rintracciarlo.Maironi non lo permiseprese egli stesso la via dell'umile poggioche sale dietro il cortile della villablando verso mezzogiorno erigato per traverso di viti a filaricui fende una sottileprocessione ascendente di cipressi; ertoboscoso verso occidenteallacciato da grandi maglie bizzarre di sentieri che ne legano ilrotto cadere. Per uno di quei sentieri Piero scorse calar il vecchioprete che cercavadon Giuseppe Floresl'ultimo della sua famigliail solo signore della villa desertadel poggiodei bassi prati dovenel gran silenzio del mezzogiorno gurgugliavan tacchinischiamazzavano anitre e ochedelle folte macchie di alberi esotici enostrali che lì salivano i valloncelli e i dorsi del poggiofino al ciglio degli alti vigneti.

DonGiuseppe scendeva passo passoleggendonon curando le radefinigoccioline di pioggia. Quando alzò gli occhi dal libroMaironi salutò accelerando il passo. Sulle prime il vecchioprete non lo riconobbe; poi mise un “oh!” lietoscese convivacità giovanilea braccia aperteil cappello in una manoe il libro nell'altratutto lucente in viso di sorpresa e dipiacere. Era un nobile viso dove le linee maschie delle ossainferiori e il grande arco del naso compievano degnamenteper cosìdirel'alta parola della fronte ampiasolenne; e gli occhi scurivividolci austeramentepronti a colorarsi di ogni balenodi ognifiammadi ogni ombra dello spiritodicevano la calda purezzainternala soavità recondita di quella parola cosìmaestosa.

Orascintillavano veramenteperchè don Giuseppe aveva conosciutoin Valsoldaprima del 1859standovi ospite di certi suoi parentiFranco e Luisa Maironii genitori di Piero; e godeva sempre di vederPiero che gli ricordava quelle elette creaturequel poetico lagoromito e i giorni suoi più sereni. S'incontravano di rado.Prossimo ai settantasololontano dalla città nove mesil'annodon Giuseppeche aveva un tempo frequentato casa Scremin edera stato confessore della marchesa Nenenon ci andava quasi più.S'incontrava qualche volta con Piero l'inverno al gabinetto dilettura o fuori portasulle vie solitarie della collina.

“Carosignor sindacocaro signor sindaco!” esclamò tuttoridenteposando le mani affettuose alle braccia del giovane che glistava davanti pur sorridente ma in atto di riverenza. “Chemiracolo! Come mai?”

“Leiè sempre stato così buono con memi ha detto tantevolte di veniree oggi me ne sono rammentatoho avuto una ragionedi rammentarmene.”

“Benebene bene” fece don Giuseppe e gli venne in mente che alMunicipio volessero qualche cosa da luiforse imporgli la soma di unufficio pubblico. Si avviò con l'ospite verso la villa senzaparlarepensando a levarsi d'impaccio e preparando difesevecchio einfiacchito come si sentiva. Anche Maironi camminava preoccupato etaciturno. Don Giuseppe fu il primo a sentir la molestia di quelsilenziochiese notizia degli Scremin. Poi si fermò e guardòPiero sorridendo con certa innocente malizia.

“Èvero” diss'egli“quello che mi hanno detto del marchese?”

“Cosa?”

“Chepresto sarà fatto senatore?”

Pierosi strinse nelle spalle.

“Puòdarsi” rispose. “Non lo so. Non ne stupirei. Ma dica: io Lereco incomodo? Ella sarebbe rimasto fuoriora?”

DonGiuseppe protestò e si confermò nell'idea che ilsindaco fosse venuto per uno scopo determinato. Presso il cancellodel cortile convenne ai due di arrestarsi per una torma di buoi cheandavano all'abbeveratoio.

“Sudditisuoi?” fece Maironi. “Cento volte migliori di certi sudditimieigliel'assicuro.”

L'accentofu così amaro che don Giuseppestupitoesclamò:

“Dispiaceri?Ha dispiaceri al Municipio?”

“Nonono” s'affrettò a rispondere Maironi. “Questo nonimporta affatto. Dicevo per dire.”

V'eradunque un'altra cosa che importava. Don Giuseppe introdusse l'ospitenella sala del biliardo e lo invitò a sedere.

“Scusi”disse Maironirestando in piedi. “Se mi permetteLe vorreiparlare.” E poichè don Giuseppecon un cenno di assensoinsisteva per farlo sedere lìlo guardò un poco senzarispondere. Il vecchio prete capì. “Come vuolecomevuole” diss'eglie accostatagli una mano al bracciolo avviòverso l'uscio che metteva in un suo freddo e umido studiolo.

“Scusisa” fece Maironi sottovoce.

Nonon potevano essere affari del Municipioquella non era la solitavoce di Piero Maironi.

“Quinon entra nessuno?” diss'egli.

DonGiuseppe chiuse l'uscio a chiave e rispose:

“Ecco.”

Dubitavaper certe vociche gli Scremin fossero un po' squilibrati nellefinanze.

Unaconfidenza circa questo punto? O circa la infelice reclusa? Mentrefantasticava cosìPiero Maironiseduto accanto a lui sulvecchio logoro canapè rossostava silenzioso a capo chino.“Don Giuseppe” cominciò finalmentee stese una manoal prete senza guardarlosenza volgere il viso“io sono venutoda Lei come un figlio.”

DonGiuseppe gli prese la manogliela strinse commossocon un tacitomoto delle labbracon un lampo affettuoso del viso.

“Ioho per Lei la riverenza che hanno tutti; sìsìme lolasci dire! Ma poi ci ho anche un'affezione particolare e Lei ne sail perchè. Ho un bisogno immenso di Leiadesso.”

Ilviso del candidoumile prete si colorò di meraviglia.

“Bisognodi me?”

“Sì.Bisogno di Lei. Son venuto da Lei come da un padrema da un padrech'è sacerdote.”

DonGiuseppe gli riprese la manogliela strinse ancorasenza parole.

“Nonsi meravigli di nullasa! Pensi ch'io sia il penitente e Lei ilconfessore. Prima di tutto Le domando questo: secondo le leggi dellaChiesaè mai possibilein nessun casoche un uomoconiugatoil quale ha la moglie viva ma demente da più anniproprio affatto e senza speranzaottenga il permesso di entrare inuna corporazione religiosa?”

“Ehno.”

Maironitacque.

“Puòritirarsi dal mondo” s'affrettò a dire don Giuseppe“puòvivere con Dio nella solitudinecomporsi lui una regolasantificarsi.”

Lafronte solennegli occhi gravila voce dolce e bassa spiravanoossequio al gran dolorealla gran fede che apparivano congiunti neldesiderio del giovane.

Maironirispose sottovoce: “Questo non è possibile”.

Nelsilenzio che seguì lampeggiò in mente a don Giuseppeuna parola dimenticata di donna Luisa Maironi Rigeyla madre diPiero. Salivano insiemei Maironii Pasotti e lui a piediilsignor Giacomo Puttini sull'asino del mugnaioal Boglia per la viadi Castello. Presso Muzzaglio don Franco Maironi era uscito a dire:“Bel postoehper un monastero!”. E donna Luisa avevamormorato: “Troppo bello per gente inutile”. N'era venutapoi una gran discussione. Adesso dopo tanti annicose umane! ilfiglio di Luisanon ancor nato in quel temposentiva il fascino delmonastero.

“Ellanon comprenderà” riprese Maironi“perchè nonmi sia possibile ritirarmi dal mondo senza un abito religiososenzaun voto. Questo dipende dallo stato dell'anima mia. Vedeio sonvenuto veramente per parlarle dell'anima mia. Immaginavo che circal'altra cosa Ella mi avrebbe risposto come mi ha risposto. E parlarledell'anima mia mi è tanto difficile! Non riesco a comprenderebene me stesso. Se penso una cosa di me mi vien subito in mentequalche ragione di pensarne l'opposta. Bisogna che Lei mi aiutidonGiuseppe. Soffrosa; e Lei ha voluto benenon è veroalpovero papà e alla povera mamma?...”

Dicendoqueste parole sorrise un poco di un sorriso tanto triste che passòil cuore a don Giuseppe. “Sìsì” diss'egli“tanto!” E tacqueesitando ancora a cercar consiglio econforto per una ultima resistenza dell'umiltà sua nativa.

“Midica” incominciò finalmente sottovoce con un albore involto di letizia santa: “questa idea della professionereligiosaintendo che Le è venuta dal dolorema quando? Comeha principiato in Lei?”

“Ohdon Giuseppenon mi è mica venuta dal dolore.”

“No?”

Ilviso di Maironigiunto dalla tempesta internasi scompose. La voceobbediva ancora al frenoma tremava.

“Nodon Giuseppesono un vilenon sento più nessun dolore per lostato di mia moglie.”

DonGiuseppe lo guardòsgomentato più ancora dal disordinedi quel volto che dalle parole. L'altro ripetèa stentoconsoffocata voce:

“Nessuno.”

DonGiuseppe aperse le braccia.

“Eallora?” diss'egli quasi severamente. Maironi scattò inpiediandò alla finestravi stette un minuto voltando alprete le spalle che sussultavano. Quando ritornò al canapèil viso era ricomposto e la voce ferma.

“Bisognache Le spieghi tutto” diss'egli. “Avrà pazienzadonGiuseppe?” Alla protesta muta del vecchiocontinuò:

“Ellasa come sono entrato in casa Scremin. Sa che restai senza padreappena natosi può dire; perchè mio padre morìa Oria delle conseguenze della sua ferita nel 1860 e io nacqui nel'59. Sa che mia madre morìpure a Oriadue anni dopochemia bisnonna Maironi non volle tenermi in casa e mi affidò aisuoi parenti Scremin. Il marchese è figlio di un fratellodella bisnonna. Morì presto anche leilasciò erede mee nominò mio tutore il marchese. Credo che sin da quel giornogli Scremin abbiano pensato a me per la povera Elisa. Sono diventatouomo in casa lorostudiando con don Paolocom'Ella sasenzalibertà di scegliermi degli amicifrequentando sempre lastessa genteimpregnata delle stesse idee. Io voglio ancora bene aquell'eccellente don Paoloma da ragazzopoil'ho adorato. Quantoho pensato allora di farmi religioso anch'io! Il solo odore d'incensoche don Paolo serbava nella tonaca quando veniva a pigliarmidopo lefunzioniper il passeggiomi metteva una riverenza! E pensavo allostato religioso come ad uno stato quasi divino. Durante le funzionial suono dell'organola mia delizia era di sognare la Tebaide o ilLibano o anche spesso un monastero fantastico perduto in mezzo almare del Nord. In pari tempo...”

QuiPiero s'interruppe.

“Miascolti come nel sacramento” diss'egli sottovoce. E ripigliò:

“Dunqueio che sognavo monasteri e vita religiosaè incredibile comedai primi anni della fanciullezzaprima di possedere il sensomoralefossi soggetto ad accessi strani di sensualità; di unasensualità che la mia ignoranzafortunatamente duratamoltissimorendeva cieca e particolarmente tormentosa. Quando il miosenso morale si risvegliòsiccome poi religiosissimo ero giàda primanon Le so dire i miei terrori e le penitenze segrete!Alloramolto molto prestosiccome per un certo tempo dopo ch'eroandato ai Sacramenti avevo delle estasi religiosedei rapimentiinesprimibilidei giorni in cui l'idea della menoma impuritàmi metteva schifocominciai a pensare sul serio che per liberarmidalle ossessioni dello spirito immondo avrei dovuto entrare in unOrdine religioso.

Unavolta fui condotto a vedere l'abbazia di Praglianegli EuganeicheLei conosce; dev'essere a sei o sette miglia da qui. Làproprio nelle logge del cortile pensilemi venne l'idea di farmibenedettino. Avevo quindici anniallora. Ne parlai a don Paolo e donPaolo mi disse ch'ero troppo giovine per pensare a queste cose. Capiida certe vaghe parole del mio confessore che il discorso era statoriferito in famigliache l'avevano preso sul serio e ch'eranocontrarissimi. Infatti mi mandarono a viaggiare con don Paolomifecero condurre qualche volta al teatro da un amico di casa. Io avevosempre combattimenti internima duravo fermo nel mio proposito.Studiavo il latino e il greco assai volentieri ed ero contento che ilmio tutore non mi facesse seguire un corso regolare di studi perchèprima ancora di pensare a farmi fratequando mi avevano detto chegli studi regolari potevano solamente condurmi a diventare avvocatoo impiegatoo medicoo ingegnereo professoren'ero rimastosorpreso e afflitto. Non mi sentivo nato ad alcuna di queste vieavevo creduto che nel mondo ve ne fosse un'altra buona per memiaccoravo del mio inganno come di non saper decifrare in me stesso idesideri che mi rendevano inquieto. L'idea di farmi religioso miparve una rivelazionemi diede un benessere profondoper qualchetempo; vorrei dire fino a sedici anni. A sedici anni un certo sensodi diventar diverso io e di veder diverse tutte le cosecertisguardinuovidi donnecerte rivelazioni del mondo e della vita misconvolsero l'anima. Però nelle mie agitazioni indicibili diquel tempoanche nei momenti in cui abborrivo dalla vita religiosal'idea di renderla impossibile col matrimonio m'ispirava uninesplicabile terrore; proprio terrore. Intanto mi tenevo attaccato atutte le esteriorità religiosealla Conferenza di S. Vincenzode' Paolial Circolo della gioventù cattolicaper istintoperchè lì almeno c'è qualche cosa di fermo. Glianni passavanoavrei potuto cominciare a occuparmi de' miei affarima non ci pensavo. Capivo che il mio tutore non lo desiderava e miera facile di compiacerlo: non ho affetto alla proprietà. Dalpartito ero accarezzato molto. Lei lo sa. Mi elessero vicepresidentedel Circolo. Mi affidarono dei lavoridelle traduzioni dal tedesco edal francese di scritti cattolicimi parlavano sempre del mioingegnodi uffici pubblici cui sarei stato chiamatodi una grandeparte che mi era serbata nell'azione cattolicami chiusero nellaloro cerchiami rappresentarono corrotti e pericolosi tutti igiovani non clericalim'insinuarono spesso idee di matrimonio conallusioni alla cuginetta ch'era in collegio. Ciò che dovevofare per il Circolo lo facevo senz'amore. Non ho fatto con amore cheuna traduzione di Ketteler. Capivo che per l'idea d'una legislazionesociale cristiana avrei potuto appassionarmima sentivo in paritempo che fra i miei compagni di partito e me vi erano delledissonanze profondeche un'azione comune con essiproprio excordenon mi sarebbe statapossibile. Mi pareva che avessero acqua nelle veneacqua santasevuolema troppo diversa da quel sangue pieno di fuoco latente che misentivo ioe ricadevo in una specie di letargoconfortandomi con lasperanza stupida di una potenza ignota che maturasse dentro di me.

Quantoal matrimonio incominciai a considerarne l'idea come un nuotatorestanco incomincia a pensare di abbandonarsi. Avevo ventun anni quandogli Scremin levarono di collegio l'Elisa che ne aveva diciassette.Allora ebbi un quartierino a parteun domestico a parte. Il marchesemi dichiarò solennemente che le convenienze volevano così;tanto solennemente che mi parve quasi essere giudicato indegno diaspirare alla mano di mia cugina. In apparenza ero libero. In fattola marchesacon tutte le piccole buone arti che possiedemi tenevapiù schiavo di prima. L'Elisa mi piaceva come personamipiaceva per un certo che di enigmatico nella sua stessa freddezza eseveritàmi piaceva sopra tuttocredoperchè mi eroaccorto di piacere a lei. Peròsiccome mi ero finalmenteanche accorto delle manovre di suo padre e di sua madren'eroseccato e mi difendevo; perchè poi proprio innamorato non ero.In questo stato d'animouna seraa Veneziaio che fino a quelmomento mi ero serbato materialmente puro...”

Silenzio.

“Passipassi” mormorò don Giuseppe. Piero ripetè:

“Lareazione di vergogna e di nausea fu violentissima. Allora ilmatrimonio con una fanciulla tanto pura e severa come mia cugina miparve un asilo di pace. Quando la sposai mi credetti innamoratissimodi lei. Però neppure a lei ho voluto raccontare i mieipropositi segreti di una volta. Solo mi ricordo che si visitòinsieme Pragliache il trovarmi nel cortile pensile con mia mogliemi fece un'impressione straordinaria e che mia moglie mi domandòe mi ridomandò se mi sentissi male. Adessodon Giuseppeviene qualche cosa di tanto penoso a dire! Mi pare una viltàdi raccontare certe cose quando...”

Pieronon potè continuarenon potè reprimere un singhiozzoviolento.

“Ecco”ripigliò alfine“dopo i primi giorni mi trovaidisillusoin certe coseriguardo a mia moglie. Intantomalgrado ilsuo affettoaveva freddezze invincibili. Mi perdoni; a un padre devopur dire tutto! Non mi pareva più enigmaticami parevachiusasìma vuota. La portai in Valsolda per una visita aimiei mortiavrei voluto che pigliasse affetto al paesealla casache mi è tanto cara. Invece si mostrò gelida. Ne fuioffeso amaramente. La malattia terribile incominciò conprostrazioniterroripresentimenti sinistri e accessi strazianti diaffetto per me. Allora non Le so dire i miei rimorsimi sonodisprezzatoodiato! Mi sono proposto di adorarlase guarivacomeuna creatura del cielo. Non avrei voluto la casa di salute; cedettiperchè solo a quel patto i medici mi permettevano di sperare.Quel che ho sofferto Iddio lo sama confidavo in luitanto! Dopo unanno vennero certe parole dubbiescure dei mediciche prima miavevano sempre confortato. La impressione fu terribilema poco apoco passò; qualche momento buono di tempo in tempo c'era ebastava per rialzarmi. Mia suocerapoverettaaveva tanta fiducia!Nel primo tempo parlava sempre di sua figlia come se avesse a guarirel'indomanipoi non ne parlava piùma io sapevo che facevasegretamente preparare in campagna un quartiere per lei.

Sifiguri che vi faceva collocare stufe perchè fosse pronto adaccoglierla in qualunque momentoche vi andava raccogliendo certivecchi mobili stati cari all'Elisa da ragazza. Andai avanti cosìun altro paio d'anni con un'altalena continua d'illusioni e didisillusioni. Finalmente vi fu un primo momento in cuipensando amia mogliemi tornò in mente qualche suo attoqualche suaparola che mi aveva fatto cattiva impressione. Mi spaventai.Possibile che il mio dolore cominciasse a venir meno? Cacciai queiricordi come tentazioni diaboliche. Ma tornavano. Reagii quantopoteipregai e feci pregare più di primaesagerai nelledimostrazioni. Non soper esempio disposi la camera da letto e ilgabinetto di toeletta di mia moglie come s'ella vi fosse ancoracontutti i suoi ninnolii profumisino all'accappatoio sullapoltroncina. Per un po' di tempo questo mi giovavami ravvivava lememorie; ma poi! Vedevo la tenerezza negli occhi de' miei suocerivedevo la pietà negli occhi dei miei conoscenti. Era una cosaterribile perchè non soffrivo piùnon amavo piùmi sentivocon orroreun ipocrita. Non basta; prima non avreiguardato una donna in viso due volteper la sua bellezza. Poi...”

Ilgiovane si coperse gli occhi con le mani ripetendo che voleva diretuttotutto! Scopertosi il viso continuò:

“Ungiornoproprio ritornando dal luogo dov'è mia mogliem'incontrai nel treno con una signora giovine e bella che certo miconosceva perchè mi avvidi subito che mi guardava concuriosità e interesse. Quella è la prima persona che hasospettato il vero de' miei sentimenti perchè mi parveleggerle in visodopo averla guardata due o tre volteuna sorpresauna specie di sorriso interno; capisce? Per molto tempo non mi poteilevare quegli occhi dalla memoria. M'infervorai sempre piùnelle pratiche ascetichepregai Dio che mi aiutasse e mi parveinfatti di aver dimenticato.”

Tuttoquest'ultimo racconto Maironi lo fece ansandocon voce rotta dallosforzo di strapparsi dall'anima cose tanto compresse nell'interno dilei. Don Giuseppe lo ascoltava tristesenza guardarlocon l'ariarassegnata di uno che non si meraviglia piùche sa di aver adascoltare la solitaeternauniforme storia. Piero prosegui:

“Ilfervore ascetico durò poco. Qui devo anche dire che non sottoil colpo della mia sventura ma più tardiquando il dolorediminuivaproprio quando mi davo più che mai alle pratichereligiosecominciarono a venirmi dei pensieri straninovissimi permedei dubbi circa la fedefulmineiche mi scuotevano e che iocacciavo restandone tutto tremante. Una sera la cameriera di miasuoceragiovanegraziosavenne da me con un pretesto. Mi contenniil mio visole mie parole furono di ghiaccio ed ella se ne andòma vi ebbe poi un momento in cui mi domandai perchè se Diovoleva proprio un simile tormento delle sue creature non le aiutassedi più! Perchè mi facesse incontrare quella signora neltreno e quella ragazza in casa di mia suocera! Mi venivano impeti diribellioneuna domanda insistenteacremi martellava il cervello:e se Dio non ci fosse? E se Dio non ci fosse? Se tutta la mia fedefosse un tessuto di illusioni? Se io fossi uno schiavo di pregiudizialtruid'idee cacciatemi nella testa quando non potevo pensare? Seio fossi in fatto di religione una miserabile scimmia della gente cheho sempre veduto intorno a me? Ohdon Giuseppedon Giuseppemisalvi Lei!”

Ilgiovine gettò le braccia al collo del vecchio pretesinghiozzando.

DonGiuseppe corrispose all'abbracciosussurrò con dolcezza: “Sìsì caroio no ma il Signore La salverà. Sìconfidiconfidi!”.

Ilservitore bussò e annunciò il caffè. DonGiuseppe credette bene di aprirgli. Maironi riprese l'impero di sestessoe quando il domestico se ne fu andato continuò il suoracconto.

“Proprioquella notte mi decisi di accettare l'ufficio di sindaco. Viripugnavo moltissimoprima. Ogni volta che ho pensatodopo la miasventuraa occupare in qualche modo stabile la mia vita cosìvuotaa legarmi in qualche modomi arrestò sempre unosgomento istintivo. Sempre mi veniva in mente di essere destinato daDio a qualche cosa ch'Egli non mi rivelava ancorasempre mi parevadi far male se pigliavo un'altra via. Quella notte pensai che fossebene di costringermi a tanti pensieri nuovia tante preoccupazioninuovea lavorare assaia occuparmi degli altri più che dime. Guardimi decido e poco dopo ecco un biglietto di quella signoraincontrata in ferroviache mi domanda certe informazioni e mi facapirenon proprio chiaramentema copertamenteche gradirebbe unamia visita. Ebbi come un'ondata di amarezza per questa tentazione cheIddio mi mandava appena compiuto un sacrificio grande per serbarmifedele alla sua legge. Presi la penna e spedii sull'atto alla signorale informazioni richiestetogliendo ogni ragione di visita. Poi midiedi tutto alla preparazione che mi era necessaria prima di assumerel'ufficio di sindaco. Mio Diodon Giuseppeè passato un annoe sto ancora tanto male; se c'è per me una via di salutenonè che questa: uscire dal mondo!”

Ilgiovine tacque. Poi afferrò un braccio al preteglielostrinse in uno spasimo di passione: “Don Giuseppedon Giuseppepensipensi se proprio non è possibile! Un romitaggio liberonon fa per me. Ho bisogno contro me stesso di un carceredi quattropareti sepolcralidurefreddemutee in questo momento sonoancora prontoandrei con gioiadomani non so! La supplico nel nomedel mio povero papàdella mia povera mamma che Lei ricordatanto. La scongiuro!”

Fecel'attocosì dicendodi buttarsi ginocchioni. Don Giuseppe loabbracciò di slanciolo trattenne. La gran fronte maestosairradiava tenerezza e doloregli occhi erano velatila voce glimoriva in un movimento mutoincompostodel viso inferiore.

“No”diss'egli a stentodopo una lunga pausa“la cella noadessola cella non farebbe per Lei.”

“Perchè?Perchè?”

Ilvecchio lo guardò un poco e sussurrò tristemente:

“Perchètutte le Sue tentazioni vi entrerebbero con Leiperchè ilmondo è ancora troppo radicato nel Suo cuore e credendo difuggirlo Ella lo porterebbe con sè.”

“Maforse Iddio mi aiuterebbe di più.”

DonGiuseppe sospirò come chi si duole di non essere creduto.

“Diquesto parleremo” diss'egli. “Intanto mi spieghi perchèsta così maleora.”

“Ecco:perchèprima di tuttola mia fede va molto peggio. Le hoparlato di dubbipoco fa. Glielo dico subitoi miei sono sopratutto dubbi di sentimentodubbi d'istintoe in fondolo capiscobenevengono da un insieme di impressioni piuttosto che dalraziocinio.

Finda quando ero tentato nei sensi ed ero tentato di accusar Dio chem'imponeva una legge terribileuna legge contro la natura del miocorpo e non mi aiutava a obbediresin d'alloraquesta è unacoincidenza che forse mi condanna ma insomma è la veritàio cominciai a sentire fastidio di quella specie di religione chevedevo intorno a me; fastidio degli scrupoli di mio suocero che parlasempre di umiltà cristianache piega il ginocchio davanti alVescovo e farebbe a quattro gambe gli scalini di tutti i ministeriper esser nominato senatore; fastidio persino qualche volta dellepratiche devote di mia suocera che con tutta la sua santità ebontà suggerisce al marito grettezzein materie d'affaridell'altro mondo; fastidio di certe persone pie che venivano aseccarsi ogni sera in casa Scremin per mangiarvi a due palmenti unavolta la settimana; fastidio di tante altre pie persone o avare omaledichepiene di livore contro tutto e tutti o feroci contro lepovere creature che hanno ceduto a una passione illecita; fastidio dicerti formalismi farisaicidi certe idolatrie superstiziosedicerti incensi pagani profusi a uomini. Li cacciavo alloraquestifastidicome tentazioni contro la carità e l'umiltà.Ahdon Giuseppequanto sono cresciuti dopo un anno che sto inmezzocome sindacoalla parte attiva e politicante di un partito ilquale diffida già di me perchè indovina qualche cosadel mio interno! Non Le dico tutte le meschinitàtutte lepiccole ambizionitutti i piccoli rancori che fermentano intorno ame! Non immaginisache io ammiri gli altriquelli che mi trovo afronte più spesso nel Consiglio comunalegente pronta semprea bravate contro persone che non schiaffeggiano nè si battonogente prodiga di frasi sentimentali e avara di quattrinigente cheha paura dell'acqua santa quando vive e del diavolo quando muoresempre a cavallo su Roma e la monarchia liberaledi cui giurerei chealmeno a tre su quattro di loro non importa niente! Non li ammiromaquelli non si fanno avanti nel nome di Dio! Di essi non mi curo. Eccoinvece il mio pensiero terribile: come mai è quest'altra gentegrettaquesta gente piccinaquesta gente malignaquesta gentesciocca che possiedeproprio lei solala veritàil segretodi tutto l'Essereil segreto dell'anima umanail segreto dellanostra sorte futura? Per un pezzo mi sono rifugiato nelle ragioni dicredere che avevo nel mio proprio cervellonel mio proprio cuore;adesso non mi sento più sicuro neppure lì. Mi risponda:posso io dire che la mia fede venga propriooriginariamentedalraziocinio miodal sentimento mio? Posso io dire che non vi èstata seminata e coltivata dai miei educatori? Posso io dire - miperdonidon Giuseppe! - ch'essi non mi abbiano storpiato il cervelloe il cuore per farne dei vasi di questa loro cultura artificialecosì che in fin dei conti è forse la loro fede e non lamia che vive in meperchè io non ho mai avuto la libertàdi credere o di non credere e vado acquistandola solamente adesso? Laloro fede! Forse la fede che anche ad essi quand'erano teneri fucacciata nell'intelletto per forzastorpiandolo! Capisce che dubbiospaventoso! E` anche per questo che vorrei seppellirmi in un conventodi Trappistifra uomini religiosi che non abbiano tenuto niente persèche abbiano dato a Dio tuttoche dovrei quindi ammirarefra uomini che avranno presa la fede anche dai loro educatorima cheperò l'hanno grandemente accresciuta in sèper forzapropria.

Nonsi puòdon Giuseppenon si può?”

“Mano!” fece don Giuseppequasi bruscamente. Il viso era freddo egrave; era il viso di un medico che uditi i lamenti del suo infermopoco se n'è commossoma poiascoltatone il cuorevi haudito nel profondo il passo zoppicante della Morte. Credette cheMaironi avesse finito e come cercando il suo esordiocon parlantemoto inquieto di tutti i muscoli del viso e delle mani raccoltedavanti al pettoincominciò:

“Ecco.”

Maironisussurrò angosciosamentein fretta:

“Nonho finitodon Giuseppenon ho finito.”

“Ahbene benedica.”

L'altronon parlò subito. Era venuto il momento delle parole piùdifficiliforse. Gli facevano groppo alla golanon venivano.

“Secrede bene di parlare” disse don Giuseppe dolcemente“sifaccia coraggio.”

“Sìcaro don Giuseppemi farò coraggio. Lei ricorda che Le hoparlato di una signora? Di una signora che incontrai un giorno inferroviae che poi mi scrisse un biglietto al quale risposi iniscritto per togliermi alla tentazione di andare da lei? Bene...”

“Ah!”fece don Giuseppesottovoceinvolontariamente.

“Aspetti!”esclamò il giovine. “Forse Lei pensa cose peggiori diquelle che adesso Le dirò. Sentanon so perchè fareimisteri con Lei in un momento come questo. La signora è laDessalle di villa Diedo. Ne avrà sentito parlare. Male? Moltomale?”

“Eccosìnon tanto bene” rispose don Giuseppe imbarazzatomasticando le parole: “non tanto bene. Però mi parve chein fin dei conti se ne parlasse vagamenteche fossero diceriesupposizioni...”

Quinel voler intravvedere la possibile falsità della maldicenzai begli occhi del vecchio diedero un lume lieto. Maironialla vistadi quel lume benevoloal pensiero che don Giuseppe fosse mitementedisposto verso la persona di cui gli stava parlando come di unpericoloriprese e strinse la mano del vecchiolo interrogòcon lo sguardoinconsciamentequasi sperando una parola indulgenteal suo sentimento. Don Giuseppe non capì.

“Cosa?”diss'egli.

Labenigna luce era già sparita dagli occhi suoi. Maironi ripresetriste:

“Niente.Cosa dicevo? Credo che l'abbiano calunniata e che se in principio sison raccontate delle storie odioseadesso non se ne raccontino più.La credo pura. Lei sa ch'è divisa dal marito? Ha chiesto laseparazioneperchè suo marito si ubbriacava e la batteva.Pura per fierezzasaper orgoglioforse anche per disgusto e perun sentimento morale forte; per sentimento religiosono. Dio mioeadesso come Le posso raccontare ciò che vi è stato fralei e me se di atti non c'è stato nientese dovrei raccontaredei movimenti d'anima che sono in meche sento in leiche voglionodire tutto? Sivedo anche nell'anima suaperchè èmolto appassionata e si tradisce molto persino quando si difendecontro se stessaquando lottaforse per orgogliocontro la suainclinazione ed è aggressiva con me. Ho capito che la primaimpressione risale per lei come per me all'incontro in ferrovia. Laprima volta mi portò da lei il consigliere delegatoBassanelliamico di casa Dessallecompagno d'armi di mio padrechezoppica per una ferita riportata a Palestro.

Bassanellivoleva mostrarmi la stradicciuola comunale che conduce a villa Diedoe che il Municipio dovrebbe riattare. Abbiamo incontrato il signorDessalle e bisognò entrare nella villa. Me ne venni via solo.Lei conosce villa Diedonaturalmente? L'avrà visitata per iTiepoloalmeno. Nell'uscire per la terrazza di ponentefraquell'ondeggiar di rose sulle balaustratenello scender la gradinatain faccia a uno splendore di tramontoio avevo addossodireilaubbriacatura di un sogno stranoe avevo insieme un dolore mutofissoproprio nel centro del mio essere. Avevo inteso che la signoravoleva farsi amare da memi sentivo attratto non per i sensi chetacevanonon per l'anima che aveva paurama per una specie difascino magnetico. Orae questo non l'ho capitonon lo capiròmai se Lei non mi aiutal'idea di un legame spiritualeanche solospiritualecon la signora mi atterriva molto più che l'ideadi un vero e proprio peccato con la prima disgraziata che passa.Ritornai a villa Diedo molte volte eper un pezzoriluttantetrattonon sodal magnetismo. Ci stavo come uno che fosseinnamorato e non credevo di esserlo; non potevo a meno di guardarlaspessonon potevo a meno di parlarlequando eravamo solicome unoche l'amasse e volesse contenersi. Intantodevo pur dirlole altremie tentazioni mi davano tregua. Forse per questo il mio confessoremi citò un passo dell'Imitazioneche dice presso a poco “non ogni affezione che pare non buonadeve subito sfuggirsi” e non mi ordinò di troncare. E` unsant'uomomapeccati a partecerte cose non le puòintendere. Dirgliele sarebbe peggio che inutile. Ora in quest'ultimotempoproprio in questi ultimi giornic'è stato uncambiamento. Sentovedointendo che dall'altra partese primac'era capriccioadesso c'è passioneuna passione che nondissimula quasi più. Ieri proprio me l'ha confessata quasi deltutto apertamente. E da tre giorni temo che la passione vera stiaentrando anche in melo stesso mio senso moralea momentisioscura. Mi parea momentiche in presenza dell'amore ognirestrizione morale cessi di dirittoresti abolitache l'amore liabbia tuttii diritti. Non li accetto ancora questi pensierimifanno ancora orroreli mando viami dico che se sarei capace diconsentirvi con la immaginazione non sarei però capace diconsentirvi col fatto; e c'è anche in meogni tantounareazione forte di tutte le resistenze buoneuna reazione di fededislanci misticipersino di tenerezza per la mia povera moglieper lamemoria di mio padre e di mia madre. Il bene e il male si alternanodentro di me con una violenza che non posso più sopportare.Vuole che glielo dica? Io non ho un po' di tranquillitàunpo' di riposo se non quando sto con questa signora. La presenza suami riposa invece di eccitarmi. Dopo è peggioquesto sì.Non so neppure come posso attendere al mio ufficio. Già lagente si deve accorgere di qualche cosanon è possibile!Stanotte non potevo dormireavevo un'ora buonapregai e piansitantomi venne in mente quest'idea di uscire dal mondomi parve cheil Signore mi suggerisse di venire da Lei e...”

Violentisinghiozzi senza lacrime gli ruppero la parola. Don Giuseppe gli poseuna mano sul capo dolcemente.

“No”diss'egli “nocaro. Perchè? Dolore sìterroreno. Lei sta in mezzo alle onde e alla tempestama nella navicella viè Cristosa; Cristo che dorme”.

“Miparlimi parli” mormorò Maironi. Gli s'inginocchiòai piedi e il prete non lo impedì.

“Sìcarosì. Prima di tutto non abbia tanta paura delle Suetentazioni! Non si creda tentato molto più di tanti altri chea Lei parranno sicuri del maletutti di Dio. Le Sue tentazionicontro la fedeintantoper poco che Lei resistanon mi paionotemibili. Se non ci fossero state le tentazioni del sensocosìfortieposta la fralezza umanacosì prevedibilile altreprobabilmente neppure sarebbero venute. Perchè fu tentatocontro la fede? Perchè Le è parso che Dio nonL'aiutasse a sostener la sua legge severaperchè ha temutoche la Sua fede Le fosse stata impostaperchè ha vistointorno a Sé molti cattolici di mente ristretta e che non Lepaiono conformarsi all'ideale evangelico. Veda un poco quanto piccolesono queste difficoltà! Iddio non L'aiuta! Come non L'aiuta?Permette che Ella sia tentatoma poi quando Lei combattevacome miha dettoquando vincevacome mi ha dettochi Le spirava la forzabuona? Non sa che nemo potest esse continens nisi Deus det?Dio opera nascostamentenoi non possiamo avere il senso di quelloch'Egli fa in noi e fuori di noima certo neppure possiamo vincerela carne senza il suo aiuto. Se una volta permise che cadesseL'hapoi rialzato subito. La fede imposta? Sarà verose vuolefino a un certo punto; ma Le par questa una buona ragione dirigettarla? Rigetterebbe Lei le nozioni di scienza che Le hannoimpresso nell'intelletto quando era fanciulloperchè non Lefurono dimostrate? Non è invece questo un altro stimolosemaia considerarea meditare i fondamenti razionali della nostrafedeche sono magnificia compiere un dovere del cristianointelligente e coltoun dovere troppo poco intesotroppo pocopraticatoil dovere di elevare il Suo concetto della veritàcattolica sopra il concetto popolare e infantiledi formarsene unoadeguato alle facoltà che Iddio dona per il fine ultimo diessere conosciuto e glorificato? E quanto al disgusto che Le vienedalle persone...si alzisieda qui... proprioè unargomento misero! Poniamo che questa gente sia come Lei diceio nonla giudico; forse le intenzioni sono migliori delle opere. Vorreisolo affermare che Sua suocera potrà forse avere qualchepiccola debolezzanon lo soma è un'anima cristiana grande.Lasciamo pure. Per Leii Suoi suocerii loro amicii Suoicolleghimetta pure un altro centinaio di persone che praticasonodunque la Chiesa cattolica di tutti i luoghi e di tutti i tempi? Nonha dato la Chiesa cattolica una folla di uomini santi e di uominigrandi che hanno avuto un adeguato concetto della veritàreligiosa e del modo migliore di praticarla? E non ha trovato maiLeigrandezza morale in persone umili che non sanno niente dipartiti e professano con ardore la religione cattolica? Mi pareimpossibile! Lei non se ne accorgema è la passione che nonLe lascia veder giusto.

Guardiio potrei anche ammettere degli apostoli che sorgessero a predicareuna elevazione dello spirito cristiano nella Chiesama uscirneperchè oggi nella sua parte umana essa non risponde all'idealeche ne abbiamo? Allorase siamo patriotiandiamo in esilio! Eh?”

Cosìparlando il vecchio prete guardava Piero con tutta l'anima sua caldanegli occhi santipieni di richiamo alla ragione. Attese la rispostaa bocca socchiusaporgendosi ancora tutto incontro all'altroparlandogli ancora con gli occhi accesi e col viso.

“Miperdoni” rispose il giovine accorato. “Forse vi èun'altra ragione de' miei dubbipiù reconditae io non laso.”

DonGiuseppe sospirò.

“Senta”diss'egli dopo un breve silenzio. “Mentre Lei mi parlava dellapersona che l'attraeio pensavo una cosa. Se l'esperimento di vitapubblica Le è riuscito maleperchè non troncarlo? Senon è contento de' Suoi colleghiperchè restare alMunicipio? E uscendo bruscamente dal Municipiovorrebbe restare incittàsubire il fastidio delle pressionidegliinterrogatoridelle chiacchiere infinite che si farebbero sul contoSuo? Perchè non andrebbe a stare un anno o due nella casa diSuo padre e di Sua madre? Mi pare che quel soggiorno avrebbe grandivantaggi per Lei. E` anche un paesaggio spiritualepieno diraccoglimentoche sodi dolcezza casta.”

“Eallora...” fece Maironipiano. L'altra parola gli morìnella gola. Perchè dirla? Neppure don Giuseppe l'avevapronunciata e tutto il suo discorso del Municipiodella cittàdella Valsolda non significava che quella parola: rompere.

“Leiera pur disposto” riprese don Giuseppe vedendolo esitare “aentrare in un convento?”

Maironisi volse lentamente a lui con le braccia apertelo abbracciòe appoggiandogli il viso a una spalla mormorò:

“Uscirdal mondo sarebbe più facile.”

Allorail vecchio lo cinse alla sua volta d'un bracciogli parlò suicapelligravemente. Le parole pie avevano una sonoritàvelatacosì profondacosì dolce!

“Carobisogna restar nel mondo e bisogna uscirne. Bisogna che la Sua cellasia nel Suo cuorenel più interno del Suo cuore. Sìcaropianga di dolorema pianga pure di tenerezza. Vi èQualcuno che gliela preparain questo momentola cellache vi sidispone ad aspettarLache Le dice di venire a Luidi abbandonargliil capo in seno perchè ha tanta pietà di Leiperchèvuol perdonarle tuttotuttotutto. Entrientrinon resista. Diceche si sente tanto male? Sìperchè guarda le cose delmondo a cui è legato e anche in esse vi è Gesùma vi è Gesù severoGesù tristee niente fadolere il cuore come lo sguardo severo e triste di Gesù. E` unprezioso dono l'amarezza del Suo cuoresa! Come vivrebbe in un taltormentocome non si volgerebbe da Gesù severo a Gesùamoroso? E` un prezioso dono e le Sue tentazionise proprio sonotanto più fiere delle comunidànno segno di cosegrandi a cui è chiamato dal Signore. Le dico questo secondo laparola di un arcangelouna delle parole più profonde che cisiano pervenute dal mondo angelico.

Leidice che le tentazioni di sensualità sono diminuite e che noncomprende come il pericolo di legarsi a quella signora con l'anima Lasgomenti più del pericolo di una caduta puramente sensuale. IlSuo terrore è giusto perchè la viltà stessa delpeccato semplicemente sensuale prima è un ritegno e dopogenera quell'impulso di dolore e di sdegno che rialza rapidamente.Invece il legame creduto solo d'anima conducea poco a pocoquandoc'è l'occasionea certe familiarità che vannodiventando più e più sensuali e preparano unasovreccitazione del corpo che si unisce alla sovreccitazione dellospirito. Allorain questo naturale accordo del corpo e dellospiritoil peccato pare meno vilemeno deformatore della naturaumana e non genera odio e schifo dell'altra persona come nel primocasogenera invece una più stretta unione nel maleunionesuperba e ciecacontenta di sè fino a cheper suo castigoespirito e corpo non si raffreddino. Ringrazi Dio che L'ammonisce delpericolo da Lei non veduto con un orrore da Lei non compreso. Nonindugicessi di vedere quella signora esenza timore dei suoi dubbicirca la Fedesi chiuda nelle braccia di Gesù. Poiquanto arimanere o partireio non Le voglio più dare consigli. Io Lavedo già fra quelle bracciasu quel pettoe sento che debbosolamente dirlepoichè sono qui un amico e non altro:interroghi Luiascolti Lui. Alloraquando dirà i Suoidesideri a Gesùsi ricordi ancheper l'ultima cosadiquesto vecchio prete tanto impedito ancora nello spirito da unmiserabile corpo che decade sempre e non si dissolve mai. Ha intesocaro?”

Maironinon rispondevabaciava l'abito dell'uomo santopiangendo. E l'uomosanto chinò il visogli posò lievemente le labbra suicapelliguardando pur sempre con occhi riverenti nell'altonell'Invisibile.


Nonpioveva piùblandi chiarori di sole mal nascosto nelle nuvolegiallognole ravvivavano il giardino sonnolentolucevano sulla umidagradinata della villadove don Giuseppe stava mostrando a Maironicon un sorriso triste la scena dei piani sfumanti di qua sino aigrandi coni azzurrognoli degli Euganeidi là sino allasottile parete soleggiata dei Bericie il giardino da lui pensatodisegnatogittato sul rustico piano e sul colle selvaggioabbellitovia viad'anno in annovagheggiato nel suo futuro fiore non per sèma per dilette anime partite dalla terracontro l'antivedere umanoprima di lui.

“Ecco”diss'egli accennando con una mano agli Euganei“Praglia èlà.”

Pervenire da don GiuseppeMaironi aveva detto in casa che si pigliavaun giorno di riposo e che desiderava rivedere l'abbazia benedettinadi Praglia. Adesso aveva poca voglia di andarci. Don Giuseppe loincoraggiò. Era così magnificamente tristel'anticomonastero! Era così propizionella sua maestà cinta disolitudineai pensieri di cui Maironi aveva maggior bisogno! Ilvecchio si animava tutto in viso parlando dei cortili eleganti eseveridella Crocifissione di Bartolomeo Montagna che stava nelrefettorio e anche dell'indegno abbandono in cui l'insigne monumentoera lasciato dal Governodegli strazî maggiori che si temevanoallora e che furono compiuti più tardi: assassinio vile di unvecchio gloriosodelitto consumato nel silenziocol favore dellasolitudine.

Maironidistrattolo ascoltava male. Pensava all'altra solitudine lontanadella Valsolda. Proprio il giorno prima gli avevano scritto di làche il mandarino del giardinetto pensile era uscito malconcio assaidall'invernata durache l'antica passiflora della terrazza eramortache occorrevano riparazioni al tetto della sala e allepalizzate delle fondamenta nel lagoe che si sperava in una prossimavisita del padrone. Mentre don Giuseppe gli parlava del dolorosoabbandono in cui giaceva Pragliaegli aveva in mente la casettadeserta dov'erano morti suo padre e sua madre e dov'egli non facevache due apparizioni l'anno: il giorno dei morti e nel maggio perprovvedere il giardinetto di fiori. Il prete sentì di nonessere ascoltato e tacque. Poicome cercando i pensieri dell'ospitein argomenti più vicini a luigli parlò di una visitache la marchesa Nene gli aveva fatta l'anno prima.

“Desideravauna Messa per la Sua signoraqui nella cappella dove la Sua signoraè stata da bambina e si è tanto divertita a tirare imantici dell'organo. Mi chiese pure certi aranci dell'arancieramolto acerbiper veritàma che insomma la Sua signora avevagustati quella volta e che aveva ricordati poi spesso. E desideròpoverettache io unissi agli aranci una parola mia.” Qui donGiuseppe ebbe un sorriso di commiserazione tristecome per dire: sifiguri cosa può valere una parola mia!

“Adessogliela mando con gli aranci” disse. “Mi ha veramenteispirato riverenzapovera marchesa. Lei sa che di solito esprimepoco i proprî sentimentinon dice mai cose accentuate. Benequiproprio qui dove siamo adessoricordo queste sue parole dettesenza lagrimesasenza troppa commozione: "Don Giuseppedicaal Signore che non ne posso più'.”

Erainfattia pensare la maschera di calma che sempre la vecchia signoraportava davanti ai suoi e al mondouna parola tragica. Maironiquantunque avesse più volte intravvedute le profonditàsegrete di quell'animane fu colpito come da un rimproverosentìla inferiorità morale della propria natura obliosapiena diconcupiscenze. Gli balenò insieme il dubbio di una impotenzadella volontà contro questa disposizione fataleimperantedell'essere suoil cuore gli si sollevò in un amaro “perchè”e subito si raumiliò per la riverenza dell'alto spiritovicino.

“DonGiuseppe” diss'egli quando il domestico lo ebbe avvertito che lacarrozzella era pronta“crede proprio che il Signore vorràaiutarmi?”

“Masìpurchè non ne dubiti.”

Sulsedile della carrozzella era stato posato un panierino di aranci.Maironi si volse a don Giuseppe. “Son di quelli che Lei sa”disse don Giuseppe umilmentecome scusandosi. Il giovane gli strinseforte le mani e non potè proferir parola. Potè appenaquando la carrozzella partìlevarsi il cappellorisponderecosì al salutopur silenzioso e commossodel vecchio prete.



II


Lacarrozzella seguì l'unghiain principiodi umili collinettepassò un villaggioun fiumealtri villaggicorse unatortuosa stradicciuola vagabonda nel piano sino agli avamposti degliEuganeipiegò per il viale maestoso di platani che ne rade asettentrione il fianco deserto.

Dovequesto svolta a guardar il levante e si allontana verso mezzodìsi parte dalla via maestra e lo segue uno stradone che mette capodopo cinque minuti alla fosca cintura del grande monasteroabbandonatoalla torre merlataal bel tempio possente delQuattrocentoassiso sur un enorme dado di pietre nereonde irrompequa e làcongiurata con le ribellioni del pensierolaribellione dell'erba viva. Maironi fece l'intero viaggio senzaguardar mai nè a destra nè a sinistraassorto nel suodramma internonelle visioni di villa Diedonel fantasma dellaValsolda. Anche lo molestavano di tempo in tempo i richiami di tantiaffari pubblici graviurgentiche aveva per le manibenchènon volesse dar loro ascolto. In fondo il colloquio con don Giuseppegli aveva lasciato nell'anima gratitudineriverenza nuovatenerezzaintensa per il santo vecchio e con questo una mistura di delusionenon avvertita in principiomanifestatasi poi a misura che ne venivameditando le parole disgiunte dal suono dolce e grave della vocedall'aspetto del viso piodall'aura dello spirito immacolato.Sospettavain fondodi non essere stato compreso nèconosciuto benesospettava che il consiglio di fuggire in unasolitudine e di viverci partisse da un concetto inesatto della suanatura e fosse stato suggerito dal desiderio di sostituire almonasteroimpossibileuno stato simile allo stato monastico. Oraegli aveva sognato i sacrificile aspre penitenze; si sgomentavadella vita inerte in una casa piacevole. Ah peròse Iddio loaiutasse! Se la coincidenza strana del consiglio di don Giuseppe conla lettera di Valsolda significasse un disegno della Provvidenza!Quando si vide a fronte la fosca cintura e la torre merlata diPraglia pensò che forsechi sanel silenzio dell'anticomonastero la voce divina gli si farebbe udire. Lo urtòimprovvisamente fuori de' suoi pensieri un fracasso di cavalli algran trotto e di ruote sulla ghiaia. Una victoriache veniva dal monastero gli passò accantouna voce notagridò: “MaironiMaironi! Fermaferma!”. Lacarrozzella si fermòun giovanotto elegantesaltato dallavictoriacorse allosportello. “Finalmente” diss'egli con uno spiccato accentotoscano. “Vedesignor sindacoche improvvisata! Si èsaputo che il nostro signore e padrone veniva a Praglia e noi chesiamo i fedeli tra i fedelidietro! Ma si credeva di trovarlo qui ederavamo un poco puzzled.Jeanne è al monastero. Io vado a occuparmi dell'igiene dellemie bestiee ritorno subito. Mi dica un po': Lei non ha ombrello etiene anche abbassato il mantice della carrozza. Si piglieràun malanno con questa pioggerella fredda che in aprile dev'essere poianche infetta di fermenticredo!”

Maironinon s'era accorto affatto della pioggia. Al vedere Carlino Dessallesentìprima di udirloche sua sorella era a Pragliach'eravenuta per luiche tornar indietro era impossibile.

Unafiamma gli divampò in cuore. Cosìcosì Dio loaiutava? Non era un irridere lui che si era proposto d'interrogare lavolontà nella pace del monastero e anche un irridere al suoministropovero santo vecchioche lo aveva consigliato di venirci?Impose silenzio alla ribellione internacon impetosalutòDessalle non senza imbarazzo. Partito Dessalleordinò alvetturino di andare al passo. Diocome comportarsi nel primoincontro! Lasciar comprendere lo stato dell'animo suola risoluzionedi allontanarsio coprirladissimulare? Sìsìdissimulare. Ma troppo nosarebbe un tradimento! Restar poco? Unpretestoun pretesto di restar poco! Dioquale? Gli zoccoli delcavallo suonarono sulle pietre della sogliaMaironi si composepalpitanteun viso freddola carrozzella entrò nel porticodel cortile rustico.


Lìnon c'era nessuno. Piero stette un pezzo a guardar il tremolare dellapioggia fitta e minuta fuori del porticosull'erba foltasul pozzoelegante del Cinquecentosull'alto fianco del monastero imminente asinistra con le sue piccole finestre archiacutecon i finestronidello scalone interno del Settecentocon gli archettini trilobatidelle cornici di terracotta. Stette a guardarea origliare. Nessunpassonessuna voce. Richiamò al cuore tutti i suoi propositibuoni e si avviò a sinistra verso una porta socchiusa.L'aperseebbe una visione di svelte arcateil senso di un pioammonitore pensiero anticodi una severa bellezza casta. Entròe nulla più videnulla più sentì di quelgentile Quattrocento. A dieci passi da luila signora Dessallestretta in un lungo mantello verde scurofoderato di pellicciainun collare di skunkcol bavero rialzato intorno al viso pallidolo guardava immobile.

Ellalo guardava con lo stesso sguardo serio che gli aveva fermato in visonel trenodopo molti altri sguardi fugacidopo un batter incertodelle palpebreun'apparente lotta con se stessa. I grandi occhi dileidama in ogni movimento dell'alta e fine personain ogni lineadella toeletta ricca e severalo avevano allora fatto palpitare conla loro fissa profonditàdove oscura passione e oscura ironiacomponevano un indistinto colore di maturità voluttuosa. Ellali aveva ritolti per la prima da quelli del giovane. Apertasi quindiil lungo mantello verde scuro foderato di pelliccia con un attolentonegligente delle maniguardando il finestrinoaveva lasciatointravvedere lo squisito disegno del busto. La figura e le movenzeerano così nobilmente signoriliil viso così serioche il solo dubbio d'una pensata cagione di quell'atto aveva dato aMaironi il più mordente piacere. I begli occhiripresi dainquietudinedopo guardato a caso qua e làsi eran fermatiancora nei suoigli avean fatto doler di dolcezza tutta la persona.E adessodopo alquanti mesi di familiaritàella lo guardavacon lo stesso sguardomutaimmobilestretta nello stesso mantellonel collare di skunkcol bavero rialzato intorno al viso pallido e serio. I begli occhibruni dicevano: "Eccomison venuta per Leiho fatto male?Aspetto una parola'.

Ilgiovane salutò sorridendo con un sorriso forzato e le stese lamano ch'ella non prese.

“Leidesiderava di star soloqui? Debbo andar via?” diss'ella con lasua bella voce rapidacol suo purissimo accento. E lentamentequasitimidamenteuna mano inguantata di bianco uscì dal mantellodischiusomentre lo sguardo fisso cercava la risposta in fondo agliocchi di lui.

Maironistrinse la mano che si offrivadisse un “grazie” inteso aevitar una risposta diretta senza scortesia: caldoperciò. Esubitoal sorriso felice di lein'ebbe una stretta di rimorso.

“Lepiace la mia toilette?”diss'ella. “La ricorda?” E sorridendo ancora dischiuse unpoco il mantellomostrò lo squisito disegno del busto.

Egliimpallidì e rispose freddo che la ricordava.

“Losoche la ricorda. Sono anche freddolosama l'ho messa per questo.Dicaforse non Le sono mai tanto piaciutadopocome quel giornonel treno.”

“Sa”diss'egli scherzando“quando viaggio ho il cuore moltosensibile.”

Lagiovane signora aggrottò le sopraccigliamormorò:“Brutto!” e soggiunse subito: “Però mi trovabella? Molto bellanon è vero? Anche adesso?”.

Ilgiovine fece “ohmoltissimo!” con un inchino profondo.Ella si sdegnò di quel tono. “Se non fossi tanto vile conLei” disse“dovrei voltarle le spalle! Mi fa una rabbia!Lei è tanto padrone di sèe ioappena ho cominciato asentiremi sono tradita subito. Io non so nascondere e non me neimporta nientedel resto. Senta! Lei mi ha giudicato leggera quelgiornoin viaggio? Mi ha giudicato civetta?”

“Noavrei giudicato leggera e civetta un'altra; Leicon quella sinceritànegli occhino.”

“Mel'ha dettoperòdopo!”

“Sìma per giuoco.”

“Eadesso mi giudica male perchè sono venuta?”

Maironiesitò un attimo prima di rispondere: “No”.

“Perchèci ha pensato? Ecco che mi giudica male. Cosa voleva dire? Harisposto "no' per compassione. Mi giudica anche Lei come certisuoi cari concittadini!”

Eglisapeva le calunnie infami sparse da qualche scioccoda qualchespensierato sul conto di Jeanne Dessallee protestò con tantosdegnocon tanto ardore che gli occhi di lei ebbero un sorrisodolcissimo.

“Nonsono cattivasasono molto buona” diss'ella facendosi un visocontritouna boccuccia di bambina imbronciatauna voce dolente.“Solamente non so nascondere quello che sento. Non ho potutonascondere la mia simpatia neppure quel primo giorno. E faccio maleho sempre fatto male a tradirmi cosìperchè Lei èun superbo che vorrebbe conquistare per forza l'amore di una donnasuperba. Io invece sono umile e non Le piaccio.”

Nonera la prima volta che la signora Dessalle si mostrava tanto audacecon Piero Maironi. La prima volta ella gli si era mostrata cosìa villa Diedonel boschetto appartato che pende dal colle ai silenzidi una valletta deserta. Gli aveva detto che lo trovava tanto diversoda tuttitanto migliorech'era felice di vederloma chel'aspettazione delle sue visite la turbava sempreche poi la suapresenza le metteva una soggezione grande e che osava dirgli tuttoquesto perchè lo sapeva un santo.

Maironinon conoscendola ancoraaveva giudicato che si trattasse di uncapricciodi una provocazione meditata e non dubitò di veniredisprezzato per il suo riserbo. Vide poi che la signora non lodisprezzava puntola conobbe fieramente sincerafieramente sdegnosadi capricci sensualivergognò di sèdel propriosospetto indegnocome di una inferiorità morale.

“Dica”insistette la signora perchè il giovine non rispondeva.

Aun tratto gli occhi di lei diedero un lampo.

“Cos'ha?”diss'ella. “Lei ha qualche cosa!”

“Nientenon ho niente. Cosa vuole che abbia?”

Pierorispose sorridendo così poco spontaneamenteche un'angosciauna tenerezza senza nome sfolgorarono nel viso pallido di Jeanne. “E`successo qualche cosa? Cosa è successo? Parli!” E gliafferrò un braccio.

“Badic'è il custode” mormorò Pierosgomentato.

“Nononon c'èè andato a prender le chiavi delrefettorio. Parli! Parli!”

“MaDioadesso verrà Suo fratello!”

“Nonme ne importa!” esclamò la signora. “Dica! Cosa èsuccesso?”

Tantaviolenza ferì Maironi. “Niente” diss'eglifermo.“Non è successo niente. Ho preso una risoluzioneeccotutto.”

“Qualerisoluzione?”

Ilcustode con le chiavi.

“Unmomento” rispose Piero. Ma che importava a lei la presenza diquell'uomo! Un fugace moto di commiserazione orgogliosa le passòper gli occhi torbidi e le sopracciglia inarcate. Come poteva ilgrande amore usar tante piccole prudenze? “Vada avanti!”disse al custode. “Apra! Noi verremo poi.” E non curandopiù costui che brontolava e non obbedivasi volse a Piero.“Quale risoluzione?” diss'ella.

“Unarisoluzione che Le farò conoscerema non ora.”

“Perchè?E` una risoluzione che mi deve far male?”

“Nonne parliamo adessoLa prego!”

“Com'èpossibilea medi non parlarne? Lei non capisce niente!”

Alleacerbe parole seguì uno slancio represso della bella personache si porse un istante fremendo amoreraggiando dal viso e dallosguardo umileaccorato amore.

“Ohma questo è un incantoè un paradiso!”

EraCarlino Dessalle che si estasiava così sull'entrata delcortilealle spalle di Piero. “Caro Maironi” diss'egli“senta quest'idea. Praglia è il sogno d'un vecchionevergine e santo che ha cenato di olive e di melagrani e si èaddormentato al suono di un preludio di Bachnon però come viaddormentereste voi. Oserei anche dire che ha bevuto acquasterilizzata.”

“Leinon ha veduto ancora niente” fece Maironi.

“Dioquesti sindaci come sono amministrativi! Nientedice! Non ho vedutoniente quando sono arrivato in carrozza perchè avevo paura dipigliarmi un malanno grazie ai capricci di mia sorella che vuole lapellicciama vuole anche la pioggia e il vento; e soprattutto perchèmia sorella è stata insopportabilemi ha torturato tutto iltempo accusandomi di un ritardo che poteva far crollarea quantosembrail cielo e la terra; ma ritornando a piediadessoho avutole coup de foudre.Capitebasta uno sguardo. La torre merlata e quella divina loggettache vi si porge incontro lassù - già voi nemmancol'avete vista! - come un saluto del genio dell'abbaziail quale nonha potuto partire coi frati; e quella bruna chiesa quattrocentescacosì larga e solida nella sua eleganzaassisa in alto sopraquella compagine quadrata di grandi pietre coricate e morte comevolumi di teologidi dottori e di Padrimi han fatto battere ilcuore; o almeno qualche cosa in quel postoperchè mia sorellanon è sicura che io ce l'abbiail cuore; quanto a me non citengo.

Ecapitela massiccità - lasciatevocabolo mio! - lamassiccità toscana di questo zoccolo e di questa chiesa cosìlegata con la toscanità di questo colle che di barbaro ci hasolamente la calotta di selva selvaggia sopra gli olivetima ètanto composto nel suo movimentotanto schivo di ogni attitudinemaleducatatanto seriovero?e fatto per la meditazioneconquelle piccole processioni fraticellesche di cipressettimoltobornés masemplici e piitale insommaquesto colleche si vede nel suo corpoalto e grosso una devota umiltà verso la chiesa che gli stasotto e che pure grandeggia e lo signoreggiatutto ciò mi hapresodiremo ehsorella miai polmoniperchè quelli sperodi averlie ho buttato fuori tutto il mio fiato in una fila di oh!oh!tanto che ne son rimasto senza per cinque minuti.”

“Pareche ti sia ritornato” disse Jeanne.

“Ohsìè ritornato. E qui e quiquesto cortiletto divinoquesto casto pensamento trasmutato in sogno! Guardate la graziainfinita dei fregi minutivedete le cornici di terracottagliarchettini trilobatiil melarancio simbolicoe quelleconchiglietteun antico rosario allineato. Giustoforse non eranomelagranierano melaranci che il vecchione santo ha preso a cena. E`la grazia del colossale! Guardatemi questa torre che regna e nonopprime. Lasciamo che si tiri su la nostra gratitudine versoun'eccelsa fonte di tutte le forme belle.”

“Carlino”interruppe sua sorella“non far troppo il Carucci!”

“CheCarucci! Il Carucci è un monolito e io sono una costruzioneinfinitamente composta. Il Carucci non ha che una nota e io ne hocento. Il Carucci è un ipocrita intellettuale. Ha finto pertanto tempo di sdilinquirsi per la bellezza che ora si crede sincero.In fondo non gusta che vino bleuformaggio pecorino e cuoche. Lasciatemi dire. Il Carucci non èuno specchio delle cose multicoloremobileora pianoora cavooraconvessocome lo sono io che poi non scrivo. Per il Carucci lospecchio è nelle cose; egli non ci vede che sèdappertutto sè. Lasciami dire. Ohbadate! Codesto ha adessere lo stemma del monastero. Una stella. Bene!”

MentreCarlino Dessallecol monocolo incastrato nell'occhio destroalzavail suo lunghissimo naso finela sua smunta bruna faccia originaleverso lo stemma del monasteroscolpito sopra una portasua sorellaprese il braccio di Maironi.

“Andiamo”diss'ellae raggiunsero il custode ancora piantato lì adaspettare sull'altra porta che mette allo scalone.

Dessallepur guardando la stellase ne avvide e si rannuvolò. Egliteneva sua sorellamaggiore di luiper la donna più bellapiù affascinante e insieme di più alto animo e di piùsicuro giudizio che fosse al mondo. Gli pareva strano che ciascunodei suoi conoscenti non s'innamorasse di leigli pareva naturale chel'amore dell'uno o dell'altro giungesse a toccarla un po'ma ch'ellapotesse con un attocon una parolavenir meno per un solo momentoalla propria dignitànon l'aveva sospettato mai. Incominciavaa sospettarne adesso per la prima volta e n'erasegretamenteturbato.

Chesua sorella provasse una viva simpatia per Maironich'egli purestimava molto malgrado la gran divergenza delle ideelo intendeva.Intendeva meno ch'ella curasse poco di nascondere il propriosentimentomentre Maironise pure era innamoratosapevadissimulare. Aveva consentito non senza qualche difesa alla gita diPraglia per timore che Jeanne ci venisse sola; e ora gli seccava chepresente luiellanon paga di esser corsa dietro Maironianche glisi attaccasse a quel modo. La richiamò a veder lo stemma delmonastero e il tono del richiamo fu alquanto vibrato. Jeanne sistaccò da Maironiche non la seguìe venne solaamalincuore.

Vergisstmein nicht!” le diss'eglisottovocequando gli fu vicinapigiando sul tdel plurale.

Ellaalzò il viso imbronciato a guardar la stella e sussurrò:

“Crediche so condurmi.”

Carlinocontento in cuor suo di essere stato intesoprotestò di nonaver voluto dir questo. Che! Mai!

IntantoMaironi contemplava non il doppio giro delle svelte arcate sotto lesopracciglia graziose delle cornici di terracottanon la torreascendente in atto di mediatrice fra il chiostro e il cieloma ildisordine vivo e la foganel cortiledell'erbe ubbriache diprimavera. Contemplava l'erbepieno il cuor torbido e dolente diquella offerta d'amore immensodell'idea che forse Dio non esistevao almeno ch'era un Dio diverso da quello della fede cristianapoichèdi tante preghierepenitenze e lotte lo rimunerava permettendo chein un momento simile fosse tentato così.

“Leiama i fiori? Quelli bianchi son giglivero? E quelli gialli sondente di leone? Equelli azzurri che sono? Dicasenta un'idea carina. Non han l'ariatutti questi fiori di aver saputo che non ci sono più i fratiseveri nè i loro asini ghiottoniche non ci son più nècomandamenti nè precettie d'essere allora sgusciati fuori daquella corbeilledaquella vecchia vasca là in mezzodi essersi dispersi per fareall'amore allegramente un po' dappertutto? Dica.”

Volendopure almeno una paroletta dolce per l'idea carinaDessalle posòun dito sulla spalla di Maironi che trasalì e rispose a caso:

“Certamente!”

Sulloscalone del Settecento che sale ai grandi androni fiancheggiati dicellementre il custode indicava le lapidi commemoranti visiteimperiali austriacheFrancesco IFerdinando Ie Dessalle gemevacome se lapidi e scalone gli premessero sullo stomacosua sorellapreso da capo il braccio di Pierogli sussurròaffannosamente:

“Nonmi abbandoni.”

Eglinon rispose parolastrinse inconsciamente col proprio il braccio diJeannerallentò subito la strettacome atterrito. Gli occhidi leiche si erano illuminati di dolcezzalo interrogarono consgomento.

Eglidisse alloranon volendole direper uno sdoppiamento della suavolontàper un maligno impulso interioreparole che sentivaesser il principio della sua disfatta:

“Leparlerò subito.”

Sierano avviati per un androne alla loggetta sporgente che guarda ineri approcci del monasteroil fianco della chiesail gran piano disettentrione fino a nevose Alpi lontane.

Nonudirono il custode che li richiamava:

“Signorida questa parte!” Dessalle gridò: “Jeanne!”.Allora si voltarono e Carlino disse a sua sorella che aveva un'idea:questa. Poichè il Governo con la sua Giunta superiore di BelleArticon i suoi elenchi di monumenti nazionalicon le sueCommissioni conservatrici di niente e rompitrici all'infinitocon lesue cateratte di retorica ministerialelasciava marcire e perire ungioiello similecomperarlo per una frateria nuova di artisti e dipoeti che avessero un comune concetto dell'arte e fossero giàentrati negli anni della sapienza cosicchè non importasse loropiù affatto nè di onori nè di amori.

“Vediamole celle” disse la signora. Ma Dessalle protestò che mainon avrebbe posto piede in una di quelle celle senza farsi precedereda una eccellentissima soluzione di sublimato corrosivo al quattroper mille. “Temo particolarmente i microbi frateschi”diss'egli. “Entrateci voi ma stateci poco.”

Entraronoin una cella. Appena il custode ne tornò fuori pensando esserseguito da loroJeanne si fermò.

“Dunque?”diss'ella.

AdessoMaironi non voleva più dir niente. La signoracorrucciatasiaccostò al finestrinoparlò guardando i campia vocebassa:

“Leinon ha cuore. E` egoista. Si diverte a essere amato e ha paura dicompromettersivorrebbe dire e non direfarsi avanti e tirarsiindietronon tanto avanti da metter sè in pericolo e nontanto indietro da offendere me. E` antipaticodisgustoso!”

Sivoltò a guardarlo. Il cruccio degli occhi dolentidellelabbra serrate e sporte finì in un ritorno di dolcezza e dipreghiera.

“Sì”diss'eglisenza avvicinarlesi. “Disgustoso a me stessosopratutto. La mia prima risoluzione eraguardicacciarmi in una celladi frateper sempre!”

“Dove?Qui?” fece la Dessalleironica. “Questa era la prima; e laseconda?”

Ilcustode rientrò facendo suonar le chiavi e disse che lo sposodella signora la desiderava. Sia Maironi che Jeanne sentirono cosaquell'uomo aveva pensato di loro. Alla signora ciò eraindifferente. A Maironi parve aver dato un passo avanti nella viascura dell'abbandono di sè alla passione.

“Credevoche recitaste compieta” disse Dessalleun po' brusco. Suasorella gli rispose che infatti aveva provato lì dentro certainclinazione a monacarsi e che Maironi aveva sentito una divinachiamata per il ministero di sacrestano del convento. Conoscendolaincapace di coprir con affettate impertinenze le tracce di unaemozione diversaCarlino rise e ritornò agli amoreggiamentifantasiosi col monasteroal piacere di crearvi con la suaimmaginazione bellezze nuove per goderne primo e solodi esprimere isuoi capricci intellettuali in una forma curiosapregna dell'auracerebrale sua. Aveva rassomigliato il monumento a un sogno e comequell'incognito Carucci dal quale gli pareva esser tanto disformeviandava specchiando i sogni suoi proprile sue proprie fantasieestetiche. Ne assaporava certe squisitezze particolari d'arte che gliparlavano del suo favorito Quattrocento e intanto l'anima unicadell'abbazia venerabilevivificante ogni pietra di pensiero santoorante nella solitudine con la maestà di un grande che sisente dissolvere in Dionon era interrogata da lui e non gliparlava.

Essataceva pure interamente con la signora Dessalle. Jeanne Dessalleintelligentissima d'artenon aveva dato alle magnifiche architettureun solo sguardo attento e camminava a casolegata i pensieri e isensi alla presenza di Maironi. A Maironi la impertinente trovatadella signora sulla vocazione era parsa forse un colpo di spillo aluicerto una soffiatina di polvere negli occhi del fratellosoffiatina che supponeva la complicità sua. Gliene corse nelsangue prima una brivido di dolcezzapoi una reazione dimalcontento. Quando i suoi compagniche lo precedevanooltrepassatauna porta senza usciosvoltarono dal corridoio nel cortile pensileed eglirimasto un poco indietrosi trovò a fronte quelchiaror largoquel quadrato severo di contrapposte arcateilputeale nel mezzoil tabernacoletto sull'angolo del refettoriopieno di cielo sotto il pinnacolofra le quattro colonnineloSpirito del monastero lo fermò. Preso dal suo drammailgiovane si era scordato di essere a Praglia. Riconobbe a un tratto ilchiaror largoil quadrato di arcateil puteale nel mezzoiltabernacoletto sull'angolo del refettorio. Trasalìsiarrestò. Era il posto della commozione inesplicabiledellapresenza misteriosache due voltea intervalli di anniavevasentito. Sul piano del cortilesulle fronti delle arcateuncrescente lume di sole veniva più e più colorando lepietre austere come un'ascensione interna di vitadi sensodiparola. La prima volta lo Spirito del monastero aveva inebriato ilgiovinetto di desiderioaveva la seconda volta percosso l'uomo dirimprovero; adesso lo respingeva da sèmuto.

“Ebbenecaro Maironiche fa? Venga! Ci sono cose meravigliosequi!”

Dessalletrascinò Piero nella loggiagli mostrò la cresta scuradel colle imminente al tetto della loggia opposta. “FacciagraziaPraglia è l'abbazia del Morgantedel mio divinoMorgante! Quello è il monte dei giganti! Che stava pensandoLei? Non ci pianti! Pensi che oggi dovevano venire a Villa Diedo lacontessa Importanza e le contessine Importanzète e noi leabbiamo piantate per Lei!”

Avevanoriso insiemein passatodi questi nomignoli inflitti da certasignora di loro comune conoscenza a una nobile dama della cittàe alle sue figliuole che si dicevano insidiare al celibato diCarlino.

“Nonper Leiper Praglia!” corresse Jeannesenza voltarsi.

“Vadavadaammansi mia sorella!” esclamò Dessalle e si fermòa schizzare sul taccuino una elegante porta sotto le arcate dilevante.

Maironiraggiunse la signora che non mostrò avvedersi di lui. Andaronocosì a paro per qualche momentosenza parlarsi.

“GiàLei ha paura!” disse alfine Jeanne con voce sommessa mavibrante. “Lei non vuol dirlo ma capiscopensa bassezze di mecon tutta la Sua religione. Appunto perchè ha un'idea angustaun'idea falsa della religionedell'amoredi mesoprattutto di mes'immagina che io La condurrò al male. È così:non mi conoscenon sa conoscermicrede che fuori della Suareligione tutto sia impurotutto sia falsotutto sia da fuggiredaodiare!”

“Leisa che non sono libero?”

Nelproferire sottovoce queste parole Piero si fermò.

Mainon si era parlato fra loro della demente.

Jeannelo guardò negli occhi e rispose:

“Loso.”

Unmomento dopointerpretando il silenzio di Maironi per desiderio dirisparmiarle una conclusione ovvia e amarariprese con frettaincauta.

“Maio non tolgo niente a Sua moglie.”

Laparola poteva intendersi nel senso che Jeanne aveva pensatosapendocome Piero non amasse più la moglie da un pezzoe anche nelsenso che alla signora Maironiposto il suo statoniente si potevapiù togliere. A Piero balenò questo secondo senso.Esclamò con sdegno: “Non lo dica!” e riprese acamminare concitato. Jeanneatterritalo seguì: “Come?Che ha inteso?”. E afferrato il perchè di quello sdegnoprotestò con tanta violenzamentre Maironi ripeteva “milasci! mi lasci! mi lasci!”di non aver voluto alludere allasventura di sua moglieche quegli si arrese. Intanto si avviavanoentrambisenza volerlo nè saperloa una uscita del cortile.Il custodeche badava a veder disegnare Carlinoli richiamò:“Signori! Signori! Non vogliono vedere il refettorio?”.Tornarono lentamente indietro. “Credo!” disse Maironiconvoce soverchiata dall'emozione. “Ma io non posso continuarecosì! E` meglio che mi allontani non da Lei solada tutto; daquanto possoinsomma. La seconda risoluzione era questa”.

“Aspetti”disse Jeanne. Pregò il custodeper liberarsenedi portarleun bicchier d'acquadiede un'occhiata a suo fratello che stavatuttavia disegnandoritornò a Pierogli disse: “venga!”lo trasse nella loggetta che presso il refettorio si porge sugliortial parapetto dell'arcata che guarda lo sconfinato piano dilevante; tutto questo con prontezza nervosa e sicura.

“Miascolti!” diss'ella rapidamentebuttandosi sul parapetto. “Leinon ha ragione di fuggirminon ha ragione di temermi. Lei nonconosce il mio sentimento per Leinon conosce l'anima mia. Io nonvivo che per Lei nel mio interno. Ho sempre amato mio fratello comeuna madrel'amo ancora con un senso di dovere maternoteneramentedirei che la mia vita esterna gli appartiene ancora tuttache glipotrei sacrificare anche la gioia di veder Lei; ma la mia vitainternaquella che non dipende dalla mia volontàappartienea Lei. Se sono tanto franca e audace con Lei è perchèil sentimento mio non ha niente da nasconderenon ha niente che mipossa far vergognaniente che Le possa fare paura e anche perchèho una gran fiducia in Lei. Io non desidero che affettoil resto mifa ribrezzo. Sarà la mia natura freddasarà orgogliosaranno i sei mesi orribili che ho passato con un marito immondoperchè Lei sa che neppur io sono liberasarà quel cheLei vuoleio non desidero che tenerezza di affetto. Se lei ha dellecattive immaginazioniio sento che purificherei l'anima Sua invecedi abbassarla. La purificherei meglio io che il digiuno e lepreghiere nel desertoperchè con quest'idea di combattere unnemico lo si va necessariamente a cercare e in qualunque posto Leiandassepenserebbe male a me; nella Sua mente diventerei un'altrapersonaquella che non sonouna corruttrice. Ma io...”

Quisi coperse il viso con le manie continuò abbassando la voce:

“Ioho un bisogno immensoimmensoimmenso che Lei mi voglia bene. Io midispero se Lei mi abbandonaprecipito in un abisso. Mi dica che mivuol benemi dica che non mi abbandona! Non mi faccia morire!”

“Signoral'acqua” disse il custode dietro a loro.

Jeannesi alzò dal parapettolividacon gli occhi rossiprese latazza.

“Sic'ètait du poison” diss'ellavolta a Maironi“faudrait_il boire?”

Neigrandi occhi magnetici erravano tristezza e tenerezza infinite.

“Jecrois que non” mormorò egli malgrado sèin unavertiginepallido come se gli mancasse la vita.

Gliocchi di Jeanne s'illuminarono di un lampo inesprimibile di sorriso.“Quest'acqua è torbida” diss'ella al custodeattonito. Porse la tazza fuori del parapettoversò l'acquapian piano fino all'ultima gocciaguardandolasorridendomormorando: “Che gioiache gioiache gioia!”.


Parveallora che gli occhi suoi si aprissero alle cose. LasciòPieroprese amorosamente il braccio di suo fratellovolle vedere loschizzo della portasuggerì uno schizzo del colle imminentealla loggia ma da un punto di vista migliorelo andò cercandoper il cortilesi fece spiegare il motto del puteale “aestussordessitim pulso”caddein estasi davanti al magnifico lavabosull'entrata del refettoriotrasse Carlino nella loggetta sporgentesugli ortigli mostrò il mare verdognolo della campagnadistesa fino alle torri e alle cupole di una lontana cittàumili e nere sull'orizzonte; e di làsolo di làgittòa Maironi un'occhiata dolcissima. Voltasi poi alla scena delle loggeche l'abside alta del tempio e il campanile signoreggianoimmaginòdicendo la sua visione a voce bassa e col volto rapitouna sera dilunaun andar lento e silenzioso di monaci sotto le arcate perchiarori e ombre. Si dolse che i monaci fossero scomparsima poiguardando Pieroespresse arditamente l'opinione che non vi fosse piùarmonia fra l'odierno spirito cattolico e la poesia di quellasolitudine. Sostenne che la presente combattività cattolicapoteva bene acconciarsi a conventi fra il popolonelle cittàma che nessuno pensava più ai desertiche se il cattolicismoera antiquato nello spiritotendeva però a tutte le formemoderne dell'azione. “Ci sono sempre le anime offeseal mondo”disse Carlino. “Ci sono i solitari per naturacome ioperesempioche sono un benedettino leggermente sbagliato. Se avessifede piglierei l'abito e riscatterei Praglia”.

“Lei?”fece Maironi. Le parole aggressive di Jeanne sullo spirito delcattolicismo non lo avevano ferito; l'incontro curioso delle parolespensierate di Dessalle con i sentimenti suoi di poc'anzi non loaveva scosso. Rideva e gli occhi gli scintillavano. Mentre Jeanne gliaveva parlato del suo amoretanto violento e puroegli si erasentito prendere insensibilmente da lei e anche dalla idea che i suoitimori eran ombra e sognoche i ritegni religiosii ritegni del suolegame erano lacci di cose morteche forse la stessa interareligione cattolica era un grande spettrale cadavere in piedi comel'abbazia.

L'occultolavoro di tante passate tentazioni contro la federepresse conterrore e non vintesi manifestava oranell'urto della passionecon improvvise rovine.

Appenapronunciatequasi automaticamentele parole "je crois que non'come colui che nudo saggia col piede una fresca corrente ed esitamase si sente sdrucciolare dal margine tutto di slancio le siabbandonaegli si era abbandonato al sentimento che non gli parevapiù tentazione ma offerta di un Dio più vero e grande ebuono del Dio appresogli da' suoi maestri. Per un attimomartellandogli il cuore a furiale muragli archile colonne delmonastero gli avevano roteato vorticosamente intorno. Si sentiva unafuriosa voglia di cinger con un braccio la vita di Jeanne etrascinarla fuoriall'apertodi correre l'erbe dei pratigliolivetile cime dei colligridando al cielo la sua libertà ela sua gioia. Rideva in pari tempointernamentedella propriavoglia folletremava di tradirsisi comprimeva nel petto la nuovaintensa vita. E godette che Jeanne non gli fosse vicinagli fece unacuto piacere di vederla sciolta in apparenza da luisapendolastretta a lui nel pensieroebbra di lui. E si ascoltòintantocon profondi respiridilatar l'anima. Il dolcissimo sguardolungo di Jeanne dalla loggetta dove l'acqua era stata idealmenteconvertita in veleno gli fece ancoraper un attimorotear le coseintorno.

“Lei?”diss'egli ridendo. “Un mondano come Lei?”

“Ionon sono un mondanocaro Maironi. Io prendo interesse a osservare levanità mondane e non sono mondano come un astronomo non èceleste.”

Jeanneche in quel momento stava guardando da vicino i fregi del lavaboi pesci marinile tarsie di verde antico e di porfidochiamòa sè Maironicon un gesto.

“Nonso mai come chiamarla” diss'ellapiano. E soggiunse forte:“Cosa è scritto qui? Mi spieghi”.

Pierole tradusse il motto latino scolpito dentro l'arcoal di sopra delvaso marmoreo:

OMNESVELUT AQUA DILABIMUR


Echinandosi come per guardare lo squisito marmosussurrò:

“Chiamamiamore.”

Ellanon rispose; egli rimase chino celando il fuoco del viso.

“Poverifratucci!” esclamò Dessalle alle loro spalle. “Sonpassati tutti davveroeh? Ma ditemi un po': quel motto lìcome va preso? Dev'essere epicureodentro quella gioia di fregiquel sorriso dello scettico Cinquecento! Mangiamobeviamo e godiamofin che ci è tempoeh?”

Entrarononel refettorio. Jeanneassorta nella sua beatitudineguardavadistrattamente i motti immaginosiattorti a sculture simbolichesopra ciascuno degli stalli di legno che il secolo XVIII schieròalle pareti maggiori della sala rettangolareda capo a fondosottocerti quadroni male ingombri di corpi enormi. Dessalleammiratodelle imprese scolpite sugli stallidei motti arguti e profondisistaccò da Jeanneprese con sè Maironilo trasse dauno stallo all'altroleggendocommentandoammirando a gran voce.“Aiuti mesignor Maironi!” disse Jeanne. “Carlo sa illatino.” Mentre Maironi veniva bevendo nei begli occhi fissi undolcissimo richiamoellache stava presso lo stallo dov'èfigurata una falce di lunagli disse con voce oscillante: “Cosasignifica completur cursu?”e quando fu a due passigli gittò con un lieverapido porgerdel viso la trepida parola: “Amore!”.

Esorrise.

Maironinon potè parlare subito. Ella rise allora due sottilibrevigetti di risocome getti di una vena ferita sfuggenti al pollice.

“Significa...”ricominciò il giovine e voleva dire: "l'anima mia che sivolge a te e tutta s'illuminasi compie nella luce tua'. Ma Jeannelo interruppe alla prima parola: “Non importa; mi dica che miama! Sì? Proprio? Combini di ritornare in città connoi. C'è posto!”.

“Uditequestocome è bello per un pozzo!” gridò Carlinodall'altro capo della sala. “Exercita purior!

“Chevuol dire?” domandò Jeanne a Maironiperchè ilcustode s'era piantato lì accosto. E udita la spiegazioneosservò: “Non avrà pensato qualche frate cheesercitando fuori di qui la menteil cuoretutte le attivitàbuonesarebbe diventato più puropiù sano?”

“Equestae questa?” gridò Dessalle. “Una sirena.Dulcedine perdit!

“Sela capisco benenon è peregrina!” esclamò Jeannevivacemente. Maironi tacque. Dessalle chiamò il custodeglichiese di chi fosse l'affresco della Crocifissione.

“DiBartolomeo Montagnapittore vicentino.”

Dessallevolle che sua sorella e Maironi venissero ad ammirare il grandeaffresco. Vennerolodarono assai scarsamentecon sorpresa e sdegnodi Carlino. Il Cristo non piaceva loro affatto; nelle altre figure sivedeva l'epoca buona e non più.

“Maguardate Mariadunque! Per me ve lo dico subitoun'altra sola Mariain tutta l'arte che conosco mi ha commosso più di questalaMaria di Van Dyck al museo di Anversache ha in grembo il Cristomorto e spande le braccia con quel viso al cieloti ricordiJeanne?con quel viso lagrimoso e amaro che dice: "perchè?'.Questareligiosamenteè superiore. E` piena di coraggiocrede nella resurrezione di suo figlio. Qui arrischiocaro Maironidi pigliarmi una febbriciattola di fede anch'io. Lei poi mi prendenel suo Municipio per assessore delle Belle Artieh?”

Maironisorrise a fior di labbro e rispose solo: “Va bene”.



III


Partironoal tramontonella stessa carrozza. Prima di uscire dal recintopassando lungo il nero bastione che porta la chiesaDessalleesclamò: “E la chiesa? Non abbiamo veduta la chiesa!”.Uscendo dal refettorioil custode aveva chiesto due volte a Jeanne ea Maironi se desiderassero visitare la chiesa e poichè non eravenuta la rispostaaveva lasciato andare. Anche adesso nèMaironi nè Jeanne parlaronola carrozza correva giàforteil momento passò. Dessalle aveva la fantasia piena delmonastero taciturnodella solitudine ove posadi cipressidiulividi archetti trilobatidi stemmidi mottidi monaci antichidel custode dalle chiavi tintinnanti nel deserto lo stridulo innotrionfale dello spirito moderno. E rievocava ogni cosa nel suolinguaggio colorito e finecercando similitudini bizzarre che gliatteggiassero a modo suo dentro la mente le cose vedute sì ches'incarnassero nella sua persona e gli appartenessero meglio. Poi simise ad abbozzare il piano d'un romanzo dove Pragliavenduta dalGovernoera comperata da un mistico polacco che vi raccoglieva delledame isteriche per fondarvinella meditazione e nella preghieraunareligione nuova.

“Quale?”chiese Maironi.

“Nonimporta. Una religione nuova! Poniamose vuolela religione miach'è la religione del dubbiouna religione che invece diobbligarci a credere quello che non si può sapereciproibisce di negarlo e c'impone il dubbioil quale èinfinitamente più sapiente e utile della fedeperchèci dispone a tutte le possibilità! Ed è anche piùpoetico!”

Maironiscattò con una violenza strana.

“Nonosia tutto per o sia tutto contro! Neghi piuttosto! Dica chel'uomo creò Iddio perchè gli fece comodo! Oppure dicache il Dio della religione è una maschera del Dio vero e cheLei non vuole adorare le maschere! Oppure si ribellidica che Leinon si è obbligato a niente per avere il Suo corpo e il Suointellettoche i Suoi desideri di vita e di libertà non se liè dati Leiche Lei vuole l'una e l'altra! Dica questo se Lepiacema non quello che ha detto!”

“Eccoi cattolicicome sono” ribatté Dessallesorridendo. “Civogliono addirittura empî. Più ci avviciniamo a voimeno ci sopportate. Si potrebbe sostenere benissimo che la vostrareligione insegna l'odio del prossimo. Guardate come trattate iprotestanti e quei poveri liberali che vorrebbero dirsi cattolicianche loro! Odio del prossimo!”

“Però...”fece Jeanne rivolgendosi a Maironi come per rispondere a lui al difuori e al di sopra delle parole di suo fratello. E s'interruppesubito.

“Però?”ripetè Maironiaspettando.

“Niente”diss'ella.

Ilgiovane raccolse la bianca pelliccia di lupo di Russia che scivolavadalle ginocchia di Jeanne e dalle suel'accomodòv'incontròsotto una mano che prima si offerse inerte e poi attanagliò lasua come un morsomentre una bella bocca lasciava neghittosamentecadere queste due paroline di pace: “Fa fresco”.

Nessunoparlò più per un pezzo. Jeanne accomodò alla suavolta la pellicciameglio assai. Parve a Maironi che il grevemantello bianco di fiera piegasse ai lievi tocchi delle mani abilicon intelletto del comando.

Egliguardava la mano desideratanon osandoin faccia a Dessalleguardare Jeanne negli occhi senza parolee non trovandone alcuna;guardava la mano che indugiandosi sulla pelliccia gli rispondevacome pure un mal celato sorriso della bocca: strette segretebasta.L'odore del mantello di Jeannechiuso sulla squisita personadellapellicciadei guanti lievemente profumatiforse dei capellisalivain un tepido indistinto al cervello del giovinealternandosisecondo il vento e il passo dei cavallicon l'odor fresco dei campie della strada umida. Gli pareva che una scuradolce aura di lei loavvolgessedonandosi; che fosse già questo un principio disegreto delizioso possesso. Passarono davanti alla villa di donGiuseppebianca nell'ultimo chiarore del ponentesopra il giardinopieno d'ombra. Dessalle credette discernere un prete seduto sullagradinata della frontelo suppose il padronedisse che aveva uditofarne gran lodi e chiese a Maironi se lo conoscesse. Nello stessopunto Jeanneche non aveva fatto attenzione al discorso delfratellomostrò a Maironi la falce della luna nel cielo dioccidente. “Completur?”diss'ellanon ricordando l'altra parola. Maironi non parve intendereed ella ripetè: “completur...dica!”. “Ahcursucursu!” esclamòDessalle e non rinnovò la domanda. Intanto la mano di Jeannecercò sotto la pelliccia la mano carala strinsedisse: losodistrattoa cosa pensavi! e la mano stretta rispose mentendo:sìsìlo sai. Avrebbero poi voluto tacerel'una el'altroma Carlino aveva una parlantina! Raccontò a Maironiquanto sua sorella si fosse scandolezzatatempo addietroch'egliavesse raccomandato quel giardinierebellissimo esemplare disocialista latinorivoluzionario. Sua sorellasaputo di certi suoidiscorsigli aveva proposto di licenziarloma egli era felice ditenersi in gabbia nel giardino una bestia feroce tanto curiosa. Nonsi lasciava studiareperòla bestia; aveva un guscio moltopulito e inoffensivo nel quale rientrava tosto che i padroni le siaccostavano. Intanto i due si parlavano in segreto con le manicongiunteavendo Jeanne tentato invanomollementedi ritirar lasuae lasciaron dire Carlinonon si difeserosolamente riserodiquando in quando. Carlino trasse in campo anche il figlio delgiardiniereRicciotti Pomato; lo raccomandò per il postod'inserviente della Biblioteca. L'anno prima era stato nominato unaltro invece di lui; adesso il posto era vacante da capo. Maironipromise senz'altroper uscirne. Ma Carlino era inesauribile e miseil discorso sul marchese Scremin che aveva fatto parlare ai Dessalleda suo genero perchè gli giovassero nelle sue mire senatoriepresso una potenteintrigante dama di Roma di cui si conosceval'amicizia - da presupporsi onestadiceva Zaneto; molto ambiguadiceva il mondo - con un uomo politicozio dei Dessalle. Egli si erapoi fatto presentare a villa Diedosuonandogli dietro il ghignosatanico dell'uomo amaro: mondo! mondo! Vi era quindi ritornato due otre volte con una solenne tuba ediceva Carlinocol suo guscioanche lui; con un polito untuoso guscio di umiltànel qualespariva frettoloso a capo in giù tósto che Jeanne eCarlino accennavano a toccar il tasto dei meriti che il Governo gliavrebbe dovuto riconoscere.

OraCarlino lo stese delicatamente sopra un'ideale tavola anatomica pertrovargli questi meriti. Finalmentepoichè i suoi compagninon parevano dargli rettasmise di parlare anche lui.

Unatorre alta e sottiletozzi campanilischiacciati ammassi di tettivenivano alzandosi dal piano davanti alla carrozza sotto le aereefronti nevose delle montagne lontane. Era la cittàla tristefine del cielo aperto ai sognidella terra distesa in paceodorantevita e frescura; la triste fineper Jeanne e Pierodel molleveloce andare in silenzio sentendo fino al cuore ogni tocco lievedelle spallenelle scosse della corsa. La carrozza si fermòalla scuderia Dessallesull'angolo della ripida stradicciuola chesale a villa Diedo. Un invito a pranzo per il giorno doposalutibrevi e già caldi del dolce domani. Mentre Piero scendeva perrientrare a piedi in cittàil cocchiere disse che teneva unpanierino di aranci del signoreconsegnatogli dal vetturale dellacarrozzella: e Dessalle gli ordinò di accompagnare il signoreal palazzo Scremin.

Ilpanierino di aranci fu posato sul piccolo sedile interno dellavictoria di fronte aPiero. Egli sentì la loro parola tragica ma non se necommosse. Era un rimprovero per il destinoforse; non per lui! Fissolo sguardo nei frutti doratiblandito i sensi dalla persistente auradella signora di cui adesso aveva preso il postorivedeva Jeannenella loggia di Praglia con la tazza in manoriassaporava latristezza dei grandi occhi magneticil'ineffabile accento dellesommesse parole: "Si c'ètait du poisonfaudrait_ilboire?'.


CAPITOLOTERZO


ECLISSI


I


Alquanticonsiglieri della maggioranza clericale dovevano riunirsi allequattro in casa Záupa. La vecchia signora Záupa nonvoleva persuadersi che questo fosse un onore per leiper ilconsigliere suo figlioper sua nuoraper i nipotiper tutte lefrondi del prolifero ceppo Záupa. Perchè non siriunivano in casa del sindaco? “La porta pazienzamamaper stavolta; ghe xe la so rason” ripeteva l'onestopiccolettoconsigliere Záupa dirigendo con voce più sommessa mapiù imperiosafra una presa di tabacco e l'altrail lavorodocile e muto di una donnina esanguesua mogliee di un donnonepolputola servache levavano il pepe e la canfora dalle poltronedai canapè del salottospolveravano i fiori di cartalebomboniere. Alla vecchia signora Záupaspettatriceaccigliatapareva che non fosse necessario ricevere i consiglieri inquell'augusta e sacra stanzadove grazie al pepealla canforaalleprolisse camicie di tela turchina e alle tenebre perpetueseggiolepoltronecanapètavolinispecchivasicandelabripendolae fiori di cartaentrativi per le nozze dei suoi defunti suoceriZáupaserbavano ancora la freschezza del 1815.

“Laporta pazienzamamala sia bona” ripeteva l'ominomellifluo;e brontolò invece alla sposa: “Carèghe! Andèmo”.La mansueta creatura e il donnone cominciarono a portar dentro sedie.Alla quinta sedia la vecchia signora sbuffò: “Ma quantimai xeliposti b...?”.

“Sedesemamase i vien tuti” rispose il figliuolo mansuetoingoiandocon una smorfia l'appellativo ingiurioso e la propria complicitàin esso.

“Midigosiorche faressi megio a tender al vostro mezàcontuti quei tosi; che za gnanca in Paradiso per el scalon del Municipiono ghe andè.”

Lavecchia diede le spalle a quelle fastidiose novità della suacasa brontolando “no ghe andèno ghe andè”si allontanò. Subito la esangue signora Záupa junioreosò metter fuori la sua voce flebile per osservare a Matíoch'era prestoch'erano appena le due e mezzo; il donnone alzòuna tendina della finestrasorrise alla fruttivendola di faccia; eMatío Záupasenza rispondere alla sposasi mise atrottare per la cameraripetendo: “Ga d'esserega d'esseregad'essere”fino a che gli capitò sotto gli occhi miopiuna piccolapoco vestita donnetta di porcellanagià difesacontro le sue verecondie iconoclaste dalla vecchia signora Záupache le chiamava "stomeghezzi'. Matío si cacciò ladonnetta in una delle tasche posteriori dell'abitodove poi ladimenticò e il donnone ebbe a pescarla l'indomani mattina colpiù complicato stupore.

Alletre meno cinque minuti un discretissimo tocco di campanello fecetrasalire l'onesto consigliere. Presto quapresto làcacciala serva ad apriremette in fuga la moglie dalla parte opposta“viaviavia!”s'incammina piano piano in punta di piediverso l'anticamerasi fermatorce e china il capomette una manoall'orecchioriconosce i passi e le voci di chi sale la scalasisoffia il naso a precipizio.

Entranodue persone dall'aria piuttosto misteriosaun laico e un prete.

Illaico cava l'orologio e dice a Záupa: “Le pare?”.Záupa risponde tutto sorridentefacendo frettolosi inchini efregandosi le mani: “Puntualissimipuntualissimi!” eintroduce i visitatori nel salotto sacro. Il pretefigurina smilzadal viso finedagli occhi beffardiera un capoccia occulto delpartitouno dei tre o quattro chestando nell'ombramovevano sulloscacchiere con occulte fila i vittoriosi pezzi neri. L'altrobell'uomo sulla quarantinadai modi signorilidall'ariaintelligente e benevolaera il cavalier Soldinilombardodirettoredel giornale clericale.

“Dunque?”fece Záupa.

Idue si guardarono esitandosorridendointerrogandosi tacitamente.“Parli Lei” disse il prete. E spiegò allo Záupapoichè l'altro non si arrendevache non c'era tra loro unperfettissimo accordo e ch'egli preferiva parlare dopo. Allora ilSoldini disse che stava bene e incominciò il suo discorso.

“Eccoqua. Dunquedisgraziatamentenelle voci che corrono sul nostrosindaco e quella signora vi ha moltoper lo menodel vero. C'èla passione dalle due parti e non silenziosa.”

“Eh!”interruppe il prete. “Altro che silenziosa! Baciabbracciamentiin giardinocoram populo!”

“Diciamocoram nemore et lunase è vero. Ma poifino a qual punto le cose siano arrivatenessuno...”

“Falo stesso” brontolò il prete. “Del resto coramnemoreluna et hortulano.”

“Sia!A me non pare che faccia lo stessoma tiriamo avanti. Premetto. Miamoglie e io siamo in buona relazione col sindaco e mia moglie visitapoi anche la signora Dessalle che ha conosciuto a Roma.”

Záupaassentì ossequiosamente: “Sissignor”. E il prete cheascoltava a capo chino fece una smorfia significativa.

“Ioperò” continuò il cavalier Soldini “parlandodi questo doloroso argomento sarò imparzialissimo eschiettissimo. Nessunodicevopuò sapere fino a qual puntole cose siano arrivate; ma mia moglie che in queste faccende èmolto penetrantenon crede al peggio e non ci voglio credere neppurio.”

“Benben” fece Záupacontento. Il prete brontolò:“buone persone”. E soggiunse forte: “E il resto?”.

“Ilrestosì: ora ci vengosiccome però il peggio sidiceavrei rimorso di tacere che la sorgente delle voci piùvelenoseraccolte subitosi sae diffuse rapidamente con bisbiglipieni di prudenza ipocritada tanta gente che assapora con unavoluttà particolare i peccati delle persone creduteimpeccabili e sopra tutto i peccati dei clericalièl'ortolano di casa Dessalleil quale ha particolari rancoripiùo meno coperticon il giardinierequel mezzo anarchico tuttopropenso al sindaco che gli ha fatto nominare il figliuolo allabiblioteca e lo ha protetto nel ridicolo affare dei calzoni filettatidi bleu.”

“Ridicolo?”mormorò il prete. “Sentirà oggiQuaiotto!”

“Masìridicolovia! e spero che lo capiranno tutti! Spero chesi seppellirà! Nell'interesse del partitodico!”

“Ehper me!” disse il prete. “Bisogna persuadere Quaiotto!”

“Ebbenebisognerà far intendere ragione anche al signor consigliereQuaiotto!”

Ilbuon Záupa che teneva in sospeso una presa di tabaccosi posea menar in giro la mano con la presaa menar in giro la testa comeun baco maturotirandosi faticosamente in bocca un gruppo di paroleche gli si udivano strisciar su per la gola.

“Mepar anca a mime par anca a mipare anche a me. Ma bisogna che ghela digabisogna che ce la dica: questi calzoni... il collegaQuaiotto... me li ha mandati... precisamente per la seduta d'oggi...e iocome facevo?... li ho dovuti accettareli ho dovutili ho. Eson qui.”

“Bruciamoli”fece Soldini. E il prete: “Oh sìbruciamoli!Non capisce che la parte ridicola la fanno i liberali?”

“Ame pare che la facciamo un po' tutti quanti; ma tiriamo via. Eveniamocome si dicevaal resto. Il resto è che venerdìscorso i Dessalle hanno dato a degli amici forestieriin giardinoun déjeunédi grasso e Maironi c'era”.

“Hmgrossetta” fece Záupacontrito e mite nel tempo stesso.“Ma è poi sicuro che abbia mangiato?”

“Purtroppoe ci fu scandalo” rispose Soldini “perchè il solitoortolano ne ha parlato a una turba di gente.”

“Capisce!”esclamò il prete guardando Záupa.”

“Nonmi meraviglio” disse Záupa. “Non conoscevo questoparticolarema che l'uomo... da qualche tempo... sia cambiato e nonin beneecconon in bene... bisogna ammetterlobisogna. Anche ilsuo contegno nell'affare dei calzoniandiamo!... Non vaeccononva! E tante altre piccole cose ci sonotanti altri piccoli fattispiacevoliper cuigiàspecialmente dato il carattere dicerti colleghinon si va avantinon si vaecco!”

Allorail cavalierepremesso che deplorava privatamente gli scandaliDessalle ma che a suo avviso era pericolosissimoinopportunissimo diservirsene contro il sindacoammise che la sua permanenza in ufficioera diventata un vero impaccio per tutti e spiegò che ildissenso fra lui e l'ottimo abate riguardava soltanto la via diuscita. Secondo lui il contegno del sindaco nel famoso affare deicalzoni significava desiderio di provocare una crisi. Maironi volevaromperla con la Giuntacon la maggioranza e col partitomaprobabilmenteromperla come e dove faceva comodo a lui. Volevaintantoprobabilmentemettre les rieurs de son côté.Qui Záupa e l'abate si guardaronosi dissero con gli occhi:"Avete capitovoi? Io no'. Voleva poiproseguì Soldinivenir licenziato in modo che facesse torto ai cattolicichegiustificasseo almeno scusasseuna successiva rottura maggioreancoraun passaggio ad altre idee e ad altri uomini. Ora nonconveniva ai cattolici di fare il suo giuoco; per niente! Convenivaromperla sopra una questione amministrativa.

“Aquesto modo” conchiuse il sagace oratore “eviterete dioffendere i suoi sentimenti personalinon lo spingerete a reazioniestreme che sarebbero una rovina spirituale per luinaturalmentemapoi anche un colpo doloroso per il partito. Se quando voiprudentementerispettosamentelo avviate all'uscitadall'amministrazioneegli vorrà invece pigliar l'uscita dallaFedesuo danno. Voi non ne avrete colpa ed egli non ci faràuna bella figura. No davvero! Nessuno approverà mai che sicambi fede politica e religiosa per una questione di cinta daziaria odi gaso di stipendi alle levatrici comunali e nemmeno per unaquestione di amor proprio.

Mase non lo irritatenon credo che diserterà. Sta sotto ilfascino di una donnaqueste son cose umane e noi cattolici abbiamoforse il torto di non riconoscere abbastanza la fragilitàsessualesto per direanche dei galantuomini e dei cristiani piùconvinti. Lasciate che la parabola del fascino si compia. Come certitumoriquesti sono mali che guai a operarli se non sono giunti amaturità. Io adesso dirò una cosa cruda chescandolezzerà qui il nostro buon dottor Záupa.”

“Eme no?” fece il prete.

“Leimenocredo. Iocome non sono un misticonè un ascetacosìnon sono un teologo e non so se dico un'eresia. S'è un'eresiada buon cattolico la ritiro. Ragionando da uomo di mondo dico che seil desiderio della colpa estremanon soddisfatto per difficoltàesterneequivalenel giudizio di Dioal fattose per casoquest'uomo e questa signora si trovano in condizioni talisarebbeutile che il fatto si avverasse perchè la parabola dellapassione sarebbe più breve.”

Sivide l'esofago dell'ottimo dottor Záupa contrarsi nello sforzod'inghiottire un boccone tanto smisuratoper esso.

“Ein questo caso” disse il maligno beffardo abate “cosa sidovrebbe far noiper aiutare?” Soldini esclamò ridendo:“Per caritàper carità! Son cose che si dicono”.E venne alla conclusione del suo discorso. “Lasciamo questechiacchiere. Voi scegliete oggi il terreno della crisi. Mi èvenuto in mente ora che potrebbe esser l'aumento dello stipendio aimaestri delle scuole rurali. Voi assessori vi accordate oggi disollevare la questione nella prima seduta di Giunta e di deliberareallora che l'istanza dei maestri sia portata in Consiglio con votonegativo. Il sindaco si è compromessocome sapetea questopropositocon le dichiarazioni che ha fatte quando si discuteval'istanza degli spazzini. Si dimetterà. Subito voi vidimettete purepro forma.Si raduna il Consiglio per le dimissioni e allora non si fannocomplimentie non si rielegge il sindaco. Res finita est.”

“Ehsissignor” fece Záupa. “Questa xe prudente. Xeprudente.”

“Finitamale” cominciò il pretecurando poco le opinioni diZáupa. Egli aveva idee diverse da quelle del cavaliere.Bruttabruttissima cosa la relazione con la signora; inutile ilricercarequando c'è scandalose vi sia o non vi siainfattotutto il male che la gente dice: ma insommavia! concediamoper un momento che il fallo sia da imputare alla comune fragilitàumana; e la infrazione pubblica del venerdì? Pazienza uncattolico qualunque! Ma il capo del partito? Passi per un banchettoufficiale cui il sindaco potrebbe essere costretto d'intervenire. Puòavere la dispensa del Vescovopuò scegliere fra i piattigrassi e i magriper ultima risorsa può fare a meno dimangiare. Ma in una riunione di puro piacere e anche all'aperto! E iltavolino del sindaco si poteva vedere dal vigneto dove la gentelavorava! Non era una semplice violazione del precettoera unasfida! Sarebbe un altro scandalo il non raccoglierla. Il signorsindaco era un membro malato della Chiesa e il membro malato sitronca senza misericordia.

Lamisericordia giusta è di fare come San Paolodi consegnarel'uomo e la sua sciarpa sindacale nelle mani di Satanaperchèl'anima si salvi nel giorno del giudizio. Peròprima diarrivare a tanto bisogna richiamare il peccatorefargli parlare daqualche persona molto autorevolee poise resisteandar da luidirgli che si desiderano le sue dimissioni.

“Eh!”fece Záupaimmaginando di aversi a trovare anche lui fra ifuturi portatori dell'ambasciata. “Questa xe dureta. Xe dureta.No ghe par?”

“Ehciò!” rispose il prete. “Lo so anca mi”.

Ilcavaliere osservò ch'erano quasi le quattroe che a loroconveniva di andarsene senza esser veduti dai consiglierii qualiforse li pregherebbero di partecipare alla riunionecosa nonopportuna. Oramai il dottor Záupa sapeva e poteva regolarsi.Per parte sua il cavaliere aveva espresso una semplice opinionedesiderava si discutesse ma poi non si voleva imporre.

Nell'uscirel'abate mormorò all'orecchio di Záupa: “La tenetesegreta questa riunione?”. E siccome Záupa rispose disoprassalto con tanto di cipiglio e di mani levate: “Euhdiamine!” come se si fosse trattato di un complotto perammazzare il Papal'altro crollò le spalleinfastiditofeceun gestocome per dire: "Parlate!' e lasciò trasecolatol'ingenuo Záupagli rallentò la foga dei "servitorsuoservitor suo'degl'interminabili inchini a scatto con i qualisoleva accompagnare alla porta i suoi visitatori. Rimasto soloildottor Matío si appuntò alla fronte l'indice della manodestraguardando con attenzione intensa la chiave dell'uscio. Quandogli parve aver trovato l'altra chiave ideale che cercavadato unomaggio tacito alla finezza dell'abateraccolse il pensiero nellanecessità dell'ora presente e chiamò la serva.

“Quelebraghe?”

“Lexe in cusinasignor.”

“Benquando ca sonaròportèle.”



II


Iconsiglieri invitati vennero alla spicciolata e in ritardo. Allequattro e un quarto erano sette. L'uomo acido e l'uomo amaromembriessi pure del Consiglio e della maggioranzacominciarono aborbottare insopportabilmente. L'acido masticavacon la sua mutriasepolcralegiaculatorie corrosivesenza guardare in faccia anessuno. “Brava zente! Un gusto matomagnaremo i risi longhi unmia!” L'amaro lo accompagnava con un pizzicato di contrabbasso:“Porcarieporcarie”. Il consigliere Quaiottovenuto ilprimopareva pure impazienteguardava spesso nella via. Gli altriscambiate abbondanti cerimonie con il dottor Záupa e fra lorofatti tranquilli circa la preziosa salute della mamma Záupadella sposa Záupa e dei marmocchi Záupalodatosommessamentetimidamenteil meraviglioso aspetto giovanile delcanapèdelle seggiole e delle poltroneevocate con rispettole ombre congiuntevi degli Záupa preistoricicantata in corola gran bontà delle stoffe antichenon sapevano piùche dire. Matío chiese con qualche trepidazione all'uomo acidose intendesse di assistere all'eclissi totale di luna ch'era attesonella notte prossima e n'ebbe un rabbuffo. “Benedeto! No La vedeche nuvole?” Per fortuna capitarono in breve altri ottoconsiglieri. Matío sedettetossìaperse la sedutacominciò a spiegarecon una faccia compuntail perchèdi quella riunione straordinaria in casa sua. Tutte le altre faccediventarono pure compuntetutti gli occhi si abbassarono a guardar ipiedi di loro particolare conoscenzameno quelli dell'uomo acido chefissavano l'oratore con una espressione pregiudizialenelle grigieloro nebbiedi mediocre stima.

L'oratorefece con garbo un discorsetto diplomatico. Tutti sapevano che lariunione si teneva per intendersi sul quid agendumrispetto al sindaco e quasi tutti erano venuti a malincuorecolpresentimento di non saper trovare una buona uscita dall'impicciodoloroso. Il solo consigliere Quaiottopiccolo proprietario delsuburbiouno fra i più ardentiturbolenti ed eloquenti delpartitoera venuto con la testa piena di accuse d'ogni maniera e dipropositi ferocicon la risoluzione di far votare un formidabileultimatum. Il miteZáupapropenso in cuor suo alle opinioni del Soldinicominciò a dire che certi dissensi fra la maggioranza e il suocapo naturaleil sindacocirca certe questioni amministrativegraviavevano consigliato una riunione quasi plenaria dellamaggioranza stessa senza l'intervento del sindaco stessopertrattare dei dissensi...

“...stessi” mormorò l'uomo acido. Ma Záupadopoaverci pensato un pocodisse invece: “Medesimi”.

L'uditorioparve sorpreso. Coloro che avevano preparato la riunione insieme aZáupa s'interrogarono con gli occhi. Matío si guardòin giro e ripetè più fortecon intenzione: “...sui dissensi medesimi”. Il consigliere Quaiottoche si eravenuto agitando sulla sedia e aveva pure scambiato a destra e asinistra occhiate di malcontentodissenon tanto sottovoce: “Macosa?”. Gli altriincominciando a capire l'idea di Matíocontenti di non avere a toccare il tasto scottantezittironoQuaiotto. Matío proseguì.

Nellasua qualità di membro della Giunta espose con dispiacere i"medesimi'. Appena migliorati gli stipendi degli spazzini eranvenute istanze delle guardie di cittàdegli uscierimunicipalidegli insegnanti delle scuole suburbane. Circa i desideridi questi ultimi il sindaco aveva fatto in Consiglio dichiarazionicompromettenti eZáupa lo diceva con rincrescimentononautorizzate. Ora conveniva troncare subitofosse pure con rammaricoun movimento che dagli spazzini minacciava di propagarsi fino alsegretario capo e che metteva a repentaglio la salute del bilancio.Conveniva salvare il bilancio a ogni costo e passare all'ordine delgiorno su tutte le istanze presentate. Záupa riteneva che gliassessori suoi colleghi non avrebbero avuto difficoltà di farconoscere all'onorevole sindaco Maironicon dolorema nettamenteassaila loro volontà incrollabilearrivando sinoall'offerta delle dimissioni. Capiva bene che questo era quasi uncostringere il sindaco a offrire le propriema era purelodichiarava con cordogliouna imprescindibile necessità. Avevacreduto di esporre così l'opinione propriamodestamenteprontodel restoad accettare...

“...con disperazione” suggerì piano l'uomo acido.

“...con ossequio” disse Záupa “la volontà deicolleghi.”

Lapiccola assembleasulle primerimase muta. Poi cominciarono alcunibisbigli intorno a Quaiotto e si udì costui dire: “Osiamo in famiglia o non siamo in famiglia!”. Evidentemente ivicini gli bisbigliavano dei calmanti. Záupa lo guardòallargò le braccia in un silenzioso dominus vobiscumscattando indietro con il colloper significare che al fine volutoda Quaiotto si arrivava lo stesso. Ma Quaiotto bolliva sempre piùforteribatteva a destra e a sinistra i bisbigli degli amiciscotendo loro le mani sul viso perchè gli amici pure siaccaloravano. Come in un fascio di sarmenti imposto a coperte brageil calore si propaga con lento lavoro fino a che vi brillan sottoduetrequattro punti roventi e il fascio si slacciavispesseggiano le favillele fumaroletutto vi bisbigliacigolacrepitae se qualche spettatore impaziente vi accosta un fiammiferoaccesosubito ne saetta ruggente la vampa acutacosìrumoreggiando quel gruppo inquietoe avendovi l'uomo acidopensosodella minestragittato il suo fiammifero acceso “O dentro ofora!”Quaiotto scattò: “Domando la parola!”.

Parlòcon l'onda di grossa facondia che la Provvidenza versa nelle testepiù vuote di ciascun partito politico estremo per cavarnesalutare frutto di spropositi. Disse che nel Consiglio Comunale sipoteva rappresentare una commedia ma che in una riunione privata ciògli pareva fuor di luogo. Soggiunsechiedendone scusa all'egregiodottor Záupache neppure la scena della commedia gli parevascelta bene. Dimostrò che respingere con un voto di massimatutte le istanze per aumento di stipendi era impolitico e che sarebbeminor errorein fin dei contiaumentar lo stipendio anche alsegretario capo.

“Pulito!”brontolò l'uomo acidomentre altri esclamava: “E ilbilancio? E il bilancio?”.

Quaiottoraccolseper disgrazial'interruzione. Cos'erano cinqueseiottomila lire per un bilancio di milioni? Fino a che il pallone dellasua rettorica aveva navigato le nubi i colleghi erano stati aguardarlo col naso all'ariama quando toccò terraes'impigliò fra le cifregli corserocome avviene agliaeronautitutti addosso.

Infondo la maggioranza della maggioranzagente pacificapiùpenetrata di un malinteso dovere religioso che di passione politicafedele anche nell'azione pubblica alle vecchie tradizioni delle buonecreanze privatesubiva il demagogo Quaiotto ma non lo amava. Fu unsubisso di proteste. Che cinque! Che sei! Che otto! Quaiotto si voltòinferocito sfidando l'assemblea. Due o tre colleghii finanzieri delpartitogli tennero testa. Gli altri si sfogarono fra loro contro leviolenze di colui che minacciava di guastar le uova tanto beneaccomodate nel paniere del dottor Záupa. E poichèQuaiotto e i suoi contraddittori disputavano in piedi con un baccanodel diavolosi fecero essi pure addosso allo smarrito presidentegli predicarono di tener durodurodurodi non permettere che siparlasse di scandali privati. L'uomo acido porse un orecchio nelgruppo. “Benon!” diss'egliritraendosi. “Il sindacorompe e i pori cani dei impiegati paga.” Intanto Quaiotto e isuoi avversari si gittavano manciate di cifre negli occhi. “Cartae penna!” gridò uno dei contendenti. “Dottor Záupacarta e pennaLa prego!” Záupaattorniatointontitodagli altrinon udiva. Il demagogo esclamò: “Qua mi! Quami!”. E diede senz'altro una strappata di campanello. “Unfoglio di cartaun calamaio e una penna!”diss'egli al donnoneappena comparve. Ma il donnone si fece avanti rosso rossorecandosulle mani sporte come un vassoio le brache piegate in quattrocercando il padrone cogli occhi attoniti.

“Signori!Signori!” gridò Quaiotto trionfalmente. “Zittitutti! La provvidenza! Adesso c'intendiamo subito! Domando laparola!” E intanto pigliò le brache. Tutti si voltarono aluiporsero il naso verso l'oggetto misterioso. “Cossa? Braghe?un par de braghe?” I più non sapevanonon intendevanoguardavano le brachesbalorditi. Qualcuno che sapevasorrisecrollando il capo. L'uomo acido domandò sottovoce al suovicino: “Xele le braghe de la vecia Záupa?”.Quaiottospiegata e scossa la sua preda con manifesta compiacenzainsisteva: “Domando la parola! Domando la parola! Domando laparola!” mentre Záupa faceva dei gesti severi al donnoneil quale rispondeva con gesti apologeticimostrando il campanello.Finalmente la serva se n'andò e Quaiotto ebbe la parola.

“Signori”diss'egli“se la comparsa di queste... di questi... di questodirò cosìindumento vi pare strana e ridicolasappiate che il colpevole sono io. L'ho mandato io al nostro egregiopresidente e me ne felicitosignori. Quando si tratta del benepubblico e del trionfo dei nostri principiidelle nostre opinioninon vi sono argomenti ridicoli. Questo oggetto di vestiario ha unastoria incredibile ma vera. Ha una storia dico: e questa storia...”

“Edài!” sussurrò l'uomo acido.

“...questa storia io la racconterò adesso per vostra edificazionee perchèsiccome capisco che voiegregi colleghiper unsentimento di squisita delicatezza...”

L'uomoacido borbottò più forte: “A proposito decomedie!”.

L'oratoreseccatolo apostrofò. “Cossa galaEla? La faccia lagrazia de tasereLa faccia.”

L'uomoacido storse la boccagli occhile sopraccigliale rughe gialledelle guance e della fronte nelle più contraddittorie eassurde direzionima non ribattè sillaba.

“Siccomecapisco” riprese Quaiotto “che voiegregi colleghisietealieniper un sentimento di squisita delicatezzadall'occuparvi dispinose faccende privateil mio racconto vi suggerirà un mododi uscire dalle presenti difficoltà senza toccare quellefaccendee anche senza sacrificar gl'interessi di tanti fedeli emiseri servitori del nostro Comune.”

Quimolti esclamarono: “A pian! A pian! A pian!”. L'oratore nonse ne diede per inteso e continuò:

“Voisapete che recentemente fu nominato inserviente della Biblioteca ilfiglio di quel Pomato detto Çeólasocialistaforseanarchicoch'è giardiniere di una certa casa dovel'illustrissimo signor sindaco pratica molto.”

Ildottor Záupa diventò rosso e tossì.

“Nonabbia paurasignor presidente! Mi fermo a tempo. La Giunta avrànominato il signor Ricciotti Çeóla per far piacereall'illustrissimo signor sindacoma ha fatto malediciamola.Bastava il nome Ricciotti per capirlo. Dunque il signor Ricciottiappena nominatosi presenta al bibliotecarioe il bibliotecario lomanda dall'economo municipale per il vestito. Il signor Ricciotti vadall'economo e si fa mostrare il vestito. Appena veduti i calzonifilettati di rossoprotesta che non vuole uniformi. L'economoinvece di fare il proprio dovere e mandarlo al diavolo...”

Alcuniconsiglieri pii grugnirono.

“Benedirò così: invece di mandarlo da suo padrel'economogli dice che parlerà coll'assessore. L'assessorech'èil nostro egregio presidente quipersona gentilepersona benignaquanto maipropone alla Giunta di cambiare la filettatura rossa inuna filettatura blù. I calzoni sono neri. La Giunta approva.”

Matíoassentì del caposorridendo modestamente.

“Adessovi pregosignoridi guardare la filettatura e di giudicare.”

Quaiottoposò i calzoni sul tavolodavanti a sè.

“Viprego di dirmi se il filo potrebbe essere più invisibileseil blù scuro non si confonde col nero!”

Záupasorrise ancora e crollò il capo come scotendo da sè unalloro ideale che il collega gli avesse offerto per la sua finetrovata.

“Invece”proseguì Quaiotto“il signor Çeólarichiamato dall'economogli dichiarò che i suoi principii glivietavano di accettare il blù come il rosso e fece poi lastessa dichiarazione anche al bibliotecario...”

“Ilquale” interruppe un consigliere informatopescando con duedita nella tabacchiera e sorridendo al tabacco“ga risposto: "ELu el se dimeta'. "Mi no' dise el toso. "Ben' dise elbibliotecario "e Lu el vegna senza braghe.'”

“Benissimo!”rispose Quaiotto. “Il signor bibliotecariopersonaintelligentepersona dottapersona pratica del mondoavràrisposto come avrà creduto meglio. Adesso state attenti. Ilsignor Çeóla va da un consigliere liberaleliberalissimoche lo protegge. Non faccio nomi ma la cosa ècerta. Il nostro collega liberaleappena udito il suo raccontoloabbracciagli fa gran complimenti sulla sua nobiltà efierezzalo incoraggia a tener durova dal bibliotecarioloinvestegli tira fuori il Medio Evogl'ideali moderniil filo blùche poi diventerà rosso per la vergogna e persinol'uguaglianza cristiana.

Lodico perchè stavo leggendo nella stanza vicina” (“Cossa!”mormorò l'uomo acido. “La vita de Bertoldo?”) “...e ho udito colle mie orecchie.”

Qualcunodomandò che avesse risposto il bibliotecario al collegaliberale.

“Ilbibliotecario? Prima ha risposto: a me la conta? Vada al Municipio. Epoi ha detto: li ha vistiLeiquesti calzoni? E il nostro signorcollega talentone ha dovuto confessare di no. Non si è peròdato per vinto. Al Municipios'intende benenon ebbe il muso dipresentarsi. Doveva andare dal signor commendatore Prefetto peraffari della provinciainsieme a un senatore e a due deputati. Nonfaccio nomi. Sbrigati gli affari della provincia si fa un po' diconversazione e il nostro collega... scherzando... mettendo quasi lacosa in ridicolo... vien fuori con l'affare dei calzoni”.

Quil'uomo acidodesideroso di una rivincitaesclamò: “Comefala a saverlo?”.

“Comefaccio a saperlo?” rispose Quaiotto sdegnosamente. “Lo soperchè lo so. E La prego di credere che quel che so lo so.”

“Bravo!”fece l'uomo acido. Il suo vicino gli disse sottovoce che l'usciere diprefettura Martinato era fratello del gastaldo di Quaiotto. Questicontinuò:

“Tantoil senatore quanto i deputati ci mettono pure le loro risatine.L'illustrissimo signor Prefetto la piglia sullo stesso tono.Scherzanoridono tutti e cinque. Non credo che il signor RicciottiÇeóla sarebbe stato contento dei loro discorsiseavesse origliato all'uscio; ma intanto l'illustrissimo signorPrefetto si assume di parlarne all'illustrissimo signor sindaco.Infatti il giorno dopoier l'altroPrefetto e sindaco si trovanoinsieme in quella tale casasi parlanoscherzanoridono. Voi nonlo crederete: ieri Çeóla si presenta in Biblioteca conuna lettera del signor sindaco che lo dispensa dall'uniforme. Ilnostro dottor Záupa non ne sa nientenessuno della Giunta nesa nienteÇeóla trionfa di tutto e di tuttie icalzoni che dovrebbero prestar servizio in Bibliotecaeccoli qua!”

L'oratoretemendo che si sorridessetemendo che lo sdegno dell'uditorio nonriuscisse adeguato al suo desiderio e al misfatto del sindacobalzòin piedie gesticolandodeclamando come un barbiere in tragediaesclamò:

“Signori!Questo atto del signor sindaconon esito a dirloèinqualificabile. Questo atto è un insulto alla Giuntauninsulto al bibliotecarioun insulto alle tradizionidell'amministrazione comunaleun insulto ai nostri principîalle nostre opinioni. Pare un piccolo fattosignorima invece èun fatto grandecome sarebbe un fatto grande la prima piccola gocciache in questo istante filtrasse dal fiume sotto le fondamentadell'onesta casa dove siamo raccolti”.

Ildottor Záupa alzò di scatto le sopracciglia fino aicapelli. L'altro riprese:

“Ènecessario che questo atto del sindaco venga revocato! E` per noiquestione di dignitàquestione di onore. E` necessario cheuna deliberazione della Giunta stessa ese occorredel Consigliomedesimotolga la concessione inconsulta. E` necessario!”

Quaiottoavendo concepito il disegno di assistere la propria eloquenza con unpugno di gran suono sul tavolospinse con la sinistra i calzoni dabanda e con la destra menò il pugnomentre i suoi vicini gligridavano “Ocio! Ocio!” e un cestellino di porcellanadorata spinto da una bombonieraspinta da un albumspinto dallebrache del Municipiocapitombolava nell'abisso.

"OhDiola mamma!' pensò Matío nel cuore mentre la boccadiceva: “Gnentegnentegnente!”. E si precipitòcol desolato Quaiottocon i colleghi più agilia raccoglieregli sparsi cocci dorati. Quattro schiene tumultuavano sotto iltavolo: quella del buon Matío che ripeteva “gnentegnentegnente”quella di Quaiotto che gemeva “per caritàper caritàper carità!” e altre due schienericche di buone speranze nella risurrezione artificiale delcestellino. Gli undici personaggi sedutiintenticon le mani sulleginocchiaalle quattro schiene e ai cocci brillantidirigevano illavoro. “Quaiottoa dritta!” “Dotòrasinistra!” “Più in qua!” “Più inlà” L'uomo acidodato di gomito all'uomo amaro e poi aun altro vicinomostrava loro con un sorriso giallo la testa e ilseno della donnetta di porcellana che uscivano dalla tasca posterioresinistra dell'abito di Matío. Inutilmente il donnonericomparso sulla soglia con una lettera in mano chiamò trevolteguardando stupefatta quella baraonda: “Siòr paron!Siòr paron! Siòr paron!”. Matío non udìche la quarta chiamata. Cosa c'era adesso! Una lettera di granpremuramandata dal signor sindaco.

Ilpresidente dell'adunanza uscì rosso rosso di sotto il tavoloprese la letteral'apersemise una esclamazionededicò unnuovo omaggio mentale alla finezza dello smilzo abatechiamòa due mani i colleghi a sè e lesse ad alta voce:

EgregiosignoreApprendo che i consiglieri della maggioranza si riunisconoquest'oggi in casa Sua per trattare di affari del Comune. Noninvitato alla riunionegiudicosenza sorpresa e senza il menomorammaricoche la maggioranza desideri troncare i suoi legami con ilcapo dell'Amministrazione comunale. Risolvo perciò dirassegnare immediatamente le mie dimissioni al R. Prefetto e ne docomunicazione a Leiassessore anzianoavvertendola che nonrimetterò piede in ufficio. Gradiscaegregio signoreisentimenti della mia personale osservanza.

Devotissimo

P.Maironi

“Evviva!”gridò Quaiotto. “Eclissi del sindaco!” E tutte lefacce s'illuminaronomeno quella dell'uomo acido. “S'el mandavala so ciacierata un'ora prima” diss'egli scendendo le scale“nome tocaria de magnar i risi longhi e no gavaria le scarsèlepiene de braghe”. “E io Le dico” gridò suQuaiotto dal fondo della scala“che ho le tasche piene dei Suoibrontolamenti!” L'uomo acido storse la boccagli occhilesopraccigliale rughe gialle delle guance e della fronteforseanche gli orecchima non ribattè sillaba. Gli altri nonfacevano che parlare a lingua sciolta degli amori del sindaco e lascala era piena di tutto che nel salotto si era faticosamentetaciuto. “E cossa dise la marchesa?” “Povaretala xeun spetro.” “E el marchese?” “El se adata.”“Ma sémoi proprio a sto punto?” “Mi digo desì.” “Mi digo de no.” “Disela de no? Idise de sì.” Le stesse cose si erano bisbigliate sullescalepiù sommessamenteprima della sedutafra iconsiglieri che s'incontrarono a salirle insieme. Così entranobisbigliando in un cavo montano rivoletti che lo empiono di acquesilenziose e queste poi traboccando insieme a valle ripigliano lechiacchiere con maggior voce.




III


Inuvoli che alle quattro pendevano sulle spettabili tegole dell'onestacasa Záupadiedero alle sei un violento acquazzone. Tuonilampifurioso vento apersero nitide da levante a ponente le viedella luna. Il principio dell'eclissi era annunciato per le undici emezzoe verso le undici Maironi doveva recarsi a villa Diedo persalire poi con i Dessalle sul vicino colledove un nastro dimagnifica via serpeggia per le alture signoreggiando a vicendaetalora insiemel'oriente infinito e il disordinato campo d'occidenteche le radici tortuose dell'Alpe ingombrano sino alla fuga obliquadell'alte sue fronti. Poco dopo le dieci e mezzo egli si metteva perla stradicciuola ripida e deserta che sale alla villa dalla scuderia.La luna radeva le vette degli alberi pendenti dalla costa sullastrada. Pierocamminando rapidamente nell'ombraudì unchiacchierìo di voci femminili e maschili che gli scendevanoincontro. Rallentò egli pure il passo.

Riconobbele voci delle signore che Carlino Dessalle chiamava contessaImportanza e contessine Importanzètedi altre signorediufficiali e borghesi suoi conoscentiche ridevanosi facevanocongratulazioni smaccatemagnificavano lo spettacolo dell'eclissidalla terrazza della villa. Gli uomini schiamazzavanola contessaImportanza li sgridava: “Zitto! zitto!”un'altrachepareva furiosaesclamava: “Che zitto! Parlate forte! Per megiuro che non ci ritorno mai più!”. Precedeva un gruppodi signorineridendo a proposito di certa eclissi che non era quelladella lunadella eclissi di un giovine signorela qualea sentirle altreaveva molto afflitto la maggiore delle Importanzète.Questa protestavaritorceva gli straliparlava di eclissi del thèdel babàdelle sigarette cubanedolcezze sperate invanodalle amichedi eclissi di un tenente e di un segretario diprefetturasperati anch'essi e non visti comparire al ritrovo.

Qualcunogridò dalla retroguardia: “Dica eclissi della buonacreanza!”. La dama furiosa confermò: “Bravo! E cosacredete? Che vadano a veder l'eclissilei e l'amico? Si eclisserannoloroinvecein qualche boschetto!”. Si capiva che la compagniaera salita a villa Diedo con l'elegante idea di fare una sorpresagraditapigliando l'eclissi a pretesto; e che Jeanne l'aveva pocoamabilmente congedata. Le signorine incontrarono Maironi che salivarasente il muro di sostegno della costanell'ombra. Una di esse loriconobbefinse di sdrucciolare e appiccicatasi di peso al bracciodella povera Importanzèta minorela fece sdrucciolar davverostrillò con la sua vittima. Subito strillarono anche le madrii cavalieri si slanciarono al soccorsotutta la retroguardia vennegiù sull'avanguardia come una valanga e Maironi passò.

Trovòsocchiusa la porta del giardinoentrò sotto la foltacarpinata di sinistra cui luceva in fondo un chiaror di ghiaiailluminata dalla luna. Da un lato della carpinata un'ombra nerascattò sul chiaror biancoPiero si sentì stretto nellebraccia di Jeannen'ebbe la fronte impetuosa sul petto. Stetterocosì lungamente abbracciati senza una parolaegli con labocca sui tepidisoffici capelli di leirespirandone l'odore; ellastringendolo fortepremendo e scotendo la fronte come per rompergliil petto ed entrarvi tutta.

FinalmenteJeanne disse pianosenz'alzare il capoche suo fratello era fuoridi cittàche aveva tanto gioito di questa inattesa fortuna epoi tanto trepidatotanto temuto; temuto di non poter star sola conluiprima; poi quando le era riuscito di mandar via dei noiositemuto che egli non venisse. E gli rise sul petto un piccolo riso digioia. Piero non disse nientele prese il capo a due maniglieloalzò a forzala baciò ingordosugli occhisulleguancesulle labbrasempre in silenzioJeanne concedendosirendendo i baci ma senza foga. Ella gli levò alfine dolcementele mani dal collogli prese il capo alla sua voltalo baciòsulla fronte come per quietargli il sangue e sussurrò: “Adessodimmi una parola”. Ma perchè il giovineingordo ancorainasprito nel suo desideriorispondeva solamentefra un bacio el'altro: “Ho seteho sete”ella si staccò da luidisse risoluta “basta”gli ordinò di usciredistar fuori alcuni minutidi suonare il campanello per riguardo aidomestici. Ell'andava ad aspettarlo sulla terrazza. Maironi obbedìmalcontento.

Cinqueminuti dopoun domestico uscivaprecedendolo dalla carpinatatenebrosa nel chiaro di lunaealzata la impenetrabile faccialiscia di romano antico alla balaustrata della terrazzaannunciava:

“Ilsignor Maironi.”

Jeanneritta dietro la balaustratachiusa in un mantelletto biancorisposeal saluto rispettoso di Piero: “Che bravo!” e sorrise.Piero salì sulla terrazza con il cappello in manocon unsorriso troppo simile al sorriso di lei che gli veniva incontro. Eramagnificanel chiaro di lunala terrazza di marmo biancoprotesadal piano signorile della villaporgente lo scalone al giardinosommersa la balaustrata nel furioso assalto del rosetoin unascarmigliata pompa di fogliame densodi grandi occhi carneidilunghe frondi mobili ai fiati vagabondi della notte. Era magnificacon il suo arco di bellezza in giro alle tre frontivia via dagliumili oscuri piani del settentrione al radiante chiarore del cielosopra la città illuminataal dorso dell'altura stretto fra ledue carpinate lungheai campi arati dormenti nella valletta delmezzogiornosotto la luna.

“Perchènon si resta qui?” disse Piero con voce sommessacome se leparole innocenti potessero tradire a qualche orecchio curioso il suodesiderio di un'ora beata in quel solingo incanto di marmi e di lunafra le rose inquieteaccennanti un voluttuoso invito.

“Adessosi resta qui” rispose Jeanne; e ordinato al domestico il caffèla bevanda favorita di lei e dell'amicosi avviò verso alcunisedili di bambù aggruppati in un angolo della terrazza.

“Epoi si va” diss'ella pianoabbandonandosi riversacon unsospirosulla poltrona bassa lambita dalle rose. Vide negli occhi diPiero un lampo che la fece rizzarsi di botto. “Com'ècattivoLei!” diss'ella. “Io non ci penso mai.”

Egliprotestòaccesoche non era cattiveria di amarla con tuttoil suo spirito e tutto il suo sanguedi...

Jeannelo interruppe con un gestogli additò una finestra dellavillailluminata e aperta.

“Lecameriere” diss'ella.

Pierosi morse le labbrala guardò a lungoparlando con gli occhifissiardenti. Poi le disse che non era più sindacocheaveva rotto con quella genteper sempreche gli pareva di nascere aun'altra vitach'era ubbriaco di libertà. Appena proferita laparola gli sovvenne della catena intatta. Jeanne parve colpita dallastessa ideanon trovò niente a dire. Dopo un momento disilenzio penosoparlò dei seccatori venuti dalla cittàcol pretesto dell'eclissi per fare una bizzarria elegante edivertirsi. Aveva dovuto licenziarli con desolazionepovera Jeanne!Un impegnoun ritrovo sulla via dei collicon amici. In veritàsuo fratello l'aveva lasciata in forse di ritornare da Venezia con unamico pittorein tempo di assistere insieme all'eclissied ella siera impegnata di salire ai colli in carrozza e di fermarsi adattenderli sul tratto di via che signoreggia i due versanti. Iseccatori parevano disposti ad aspettare ch'ella partisse. “Temodi non essere stata molto gentile”diss'ella. “Del resto”soggiunsealludendo a due dame della città che l'adoravanomalgrado un assai tepido ricambio da parte sua“nè l'unanè l'altra delle mie gelose c'erale mamme e le signorinedella compagnia erano venute immensamente più per mio fratelloche per me; e forse qualcuna era venuta per eclissarsi in buonacompagnia nel boschetto o sotto le carpinate.”

Maironipensò involontariamente che aveva udito dai "seccatori'una simile parola detta per Jeannee non n'ebbe piacere. Intantoentrò il romano antico recando il caffè.

“Sapevoquello che Lei mi ha raccontato” disse Jeanne. “Me lo hadetto questa seramezzo costernatomezzo frementeil signorinofiero della biblioteca. E ho capito che lo sapevano anche gli altri.Je les ai entendus dire en partant que j'avais les nerfs et quec'ètait l'effet de la crise.”

“Andiamoa piedieh?” diss'ella poi. “Faccio scendere la carrozzaalla stazione e ordino che ci raggiunga poi a ogni modoarrivino onon arrivino.”

Diedele istruzioni al domestico e si alzò mentre dall'altosantuario del collebianco sul cielo serenosuonava la gran vocesolenne della mezzanotte. Poichè andavano a piedi era tempo dimettere il cappello e i guanti.

Maironila seguì in salanella bella sala rettangolare onde ilTiepolo ha dipinto le due pareti maggiorimostrandoci qua Ifigeniafra i carnefici e i principi dolentilà gli equipaggi acheivolti alle navi per l'imbarco. Era semiscuraodorata di héliotropee di sigarette cubane.

“Restiamoquirestiamo qui” disse il giovine con una voce tanto stranacon un accento di supplica tanto ardente che Jeanneavviata a salirenelle sue camereaffrettò il passo. Egli balzò dietroa lei nel corridoio oscuro che conduce alla scalale gittò lemani alla vitama ella se ne strappò di slanciosaltònella luce della scala. Ridiscese prestotristecon la cameriera.

Appenail domestico ebbe chiuso alle loro spalle il cancello del giardinoMaironi chiese perdono. Jeanne non rispose. Egli si sentìgelare il sanguesi fermò sui due piedi.

Jeannegli prese il bracciogli disse che non era in collerach'erasoltanto tristemolto tristedi sovreccitargli tanto i sensidinon essere intesa nei suoi slanci di amore immenso e tuttavia nonsensuale. Era dolente e sorpresa di esercitare un'influenza similesopra di luisuo primo vero amorementre altri che l'avevano amatae forse l'amavano ancorasenza ricambiosi sentivano comepurificati da leile avevan chiesto amore nel nome della lorosalvezza morale. Perciò temeva di essere amata da luisolamente come una dolce liberazione dal suo passatola quale nongli paresse completa senza un atto di offesa mortaleirrimediabilea questo passatosenza un atto che lo legasse quasi materialmentealla sua liberatrice. Qui egli volle interromperlama Jeanne non lopermise. Se nella sua passione violenta ella si faceva talvolta umiledavanti a lui come una schiavalo giudicava ora con un'altaindipendenzacon un acumecon una tranquilla franchezza che losgomentarono.

“Nonmi ami più?” diss'egli. Ella fece: “Oh!” e glistrinse il bracciogli si serrò con impeto al fianco. Unaricreante dolcezza lo invase. “Anch'io” diss'egli “sonostato purificato da te perchè adesso il piacere senz'amore mifarebbe schifo. In questo momento poi mi sento puro come vuoi tu.Pensa che ti bacio sulla fronte.” Jeanne sorrise. “Sìcaro” e continuò:

“Vedidevi credermi; io sono proprio singolarein questo. Non so se siafreddezza di naturase sia orgogliose sia conseguenzadell'impressione orribile ch'ebbi dalla brutalità di miomaritose sianon soun senso esteticose sia tutto questoinsieme. So che l'idea sola della sensualità estrema m'ispiraun'immensa ripugnanza. Forse potreicon uno sforzosacrificarmi percompiacere la persona che amoma sarei certissima di amarla moltomenodopo. Anche te sento di amar meno in certi momenti che saicome poco fa. Sarò stranaunicama è così! Epoi vi è mio fratello. Io mi sento madre per mio fratello emio fratello ha la più grande fiducia nella mia elevatezzamiadora come un essere superiore a ogni fragilità umana. Sarebbeterribile per lui di scoprire che mi abbasso come le altre. Perchèpoi io lo credo freddo anche luidi temperamento; certo èschivo morbosamenteper un uomonon soltanto d'ogni atto poco finema d'ogni parola che tocchi certi argomenti. Non ha piùreligione di meeppure io direi che vive proprio non come gli altri.Forse ha un po' la religione della sua salute...”

Jeanneguardò la luna. “Non so” diss'ella “come faccioa parlare con Lei di simili coseprima dell'eclissi totale.”

“ConLei?”

“Sìcon Lei! Non vede che c'è gente?”

Uscivanoallora dalla viuzza stretta fra due muri sullo scoperto dorsoascendente alle maggiori alturedovea pochi passi da lorolungoil parapetto che corona il ciglio del piazzale verso la cittàcamminava una frotta di giovani conversando e ridendo.

“Adessoche ha piantato quei santocchi” diceva uno di loro soverchiandocon la voce il chiasso degli altri“per il piacere...”

equi una sconcezza“adesso lo stimo e gli do il voto!”

“Mache!” gridò un altro. “E` stato per i calzoni diRicciotti!” Una risata e passarono.

Lìpressola strada che viene da villa Diedo e dalle altre ville delpoggetto si allaccia con quella che sale al Santuario dalla città.Maironilividosi avviò con la sua compagna verso le ombredei grandi ippocastani allineati come una guardia d'onore sullasinistra dell'ampia salita. Avanti e dietro a loro salivano alcunialtri curiosi dell'eclissi. Udirono un signore che li precedeva condue signoredire alle sue compagne: “Sarebbe bella che leiguarisse!”. Forse non parlava della persona cui Maironi e Jeannepensaronoma le parole oscure percossero questi due come un soffiodi ghiaccio. A ciascuno fu amaro anzitutto il pensare che l'altropure aveva udito; poiche non era possibile dir niente; poiche illoro stesso imbarazzo pareva non scevro di ridicolo. Senz'accordosenza parlarepassarono insieme dall'altro lato della via. Jeanneruppe il silenziodisse che a suo fratello era venuto il capricciodi dare a villa Diedo o un garden-partyin giugno o una festa in costume nel prossimo invernoper la qualesarebbe stato necessario di coprire le terrazze con ferro e vetro eperciò d'incominciar presto almeno gli studich'ella vi eracontraria ma che gli amici e le amiche di Carlinocon quest'idea delTiepolodel Settecento e dei costumi tiepoleschi e settecenteschigli montavano la testa persino da Firenze. Posto l'ambientepettegoloc'era da sperare che la festa andasse a monte come ilpick-nick. Piero nonparve prendere interesse al discorso. Allora Jeanne gli domandòparlando piano perchè davanti a loro saliva una brigata digiovani e signorese non fosse probabile che il Consiglio comunalelo rieleggesse. Nonon era affatto probabile. Perchè non sicredesse a un puntiglioa un dispettoPiero intendeva inviare alpiù presto le sue dimissioni anche da consigliere.

“Aquante cose pensa Lei!” disse Jeanne. “Io penso a unasola.” “Io posso pensare quella che Lei dice” risposePiero “intensamente quanto Leie posso insieme pensarne altre!”

Nelgruppo dei giovani e delle signore si discorreva di blasone. Alcunesignorineferocemente democraticheparlavano della nobiltà eanche della borghesia mescolata ai nobilicome di gente inferioreintellettualmente e moralmentedestinata a finire di logorarsinell'ozio e nei piaceria scomparire nella rovina economica che liminacciava quasi tutti e di cui si vedevano in giro molti segni malcoperti di stemmidi coronedi livree. E quia voce piùbassasi dicevano i nomi. Ciascuno del gruppo aveva a raccontaregrettezze segrete di gente fastosadebiti vergognosisegretestrettezze di gente che non sapeva rinunciare a costose apparenzemiserie intellettuali della classe altaignoranze crasseapatìecretinebigottismoateismo pratico senza base razionale; miseriemoraliaccidieburbanze con gl'inferioridurezze avareamorisenz'amore.

“Almenoquesto no” mormorò Piero all'amica. Egli nobileleiborghese mescolata ai nobilisi divertivano di quei panegirici.

“Socialismosocialismo!” esclamò ridendo uno dei giovani. Due o treragazzeuscite di fresco dalla Scuola magistraleappunto inclinateal socialismoarditefrancheraccolsero il guanto. I giovaniusciti di fresco dall'Universitàreplicarono con fogaironicaopponendo alle ragazze la dottrina liberaleconcedendoquesto e negando quello dall'alto della loro superioritàmaschile. Essi parevano più colti; le donnenella loropassione per una creduta giustiziaparevano più forti.Irritata dal tono sarcastico dei contraddittoriuna di esse risposecosì pungente che qualcuno replicò:

“CaraElaLa dovaría sposar Ciotti Çeóla.” Lasignorina rispose scherzando che lo stimava più di loromache pur troppo l'eroe era già prigioniero di una cameriera.Allora una delle due povere vecchie mamme fuori d'usoprese con sèda quella briosa gioventù e sfoderate come due stracci dipassaportiturbata dalle audacie della conversazioneosòdire: “Andemoandemo!”. L'altradolcecandidaineffabile ocausa snocciolar rosari e lasciar la briglia sul colloalle figliesoggiunseperchè toccavano allora l'altopiazzale del tempio: “Almanco no fève sentir da laMadona!”. I giovani si sparsero ridendo a guardar il panorama ela luna.

“Etu adesso” disse Jeanne sorridendo “ti metterai con iliberali?”

Maironinon rispose. Fatti pochi passientrarono nell'ombra della chiesa.Egli prese allora il braccio di Jeanneche resistette. “Per menon importa se ci vedono” diss'ella“ma temo di far male ate.” Il giovane la trasse a sè con violenzaella cedettesubito. “Non temereno” diss'egli. “Io disprezzotutto quello che tutti hanno dettoche dicono e che diranno. Delresto non mi parlare dei partiti di qui! E non mi parlare di questacittà che mi diventa più odiosa ogni momento. Giàio non sono nato qui e ho un altro sangue nelle vene. Adesso poi cheho rotto con tante coseil mondo mi si allarga e mi s'illuminaintorno immensamente. Mi par d'essere un Diocapisciin unapozzanghera. Mettermi con i liberali? Ma con qual partito mettermiquisanto cielose hanno tutti un'impronta di angustia e dimiseria! Guarda i clericali! Se c'è un clericale col quale sipossa discutere non è di quiè Soldiniche viene daMilano. I liberali? Lo so che adesso li avrò tutti intorno ame e ne son seccato a quest'ora. Li conosco e li peso! E poigiàio non so ancora cosa diventerò. Tantosaila mia parted'azione nel mondo la esercito! Non somi pare di esserci portatodal destinoma non credo che neanche fuori di qui diventerei maiquello che si chiama un liberale. Gente invecchiata. La libertàè stata un ideale e adesso non può essere che un'arma.E` più facile che tu mi veda socialista.”

“Nono” fece Jeanne; senza molto caloreperò.

“Ehnon socialista con i socialisti di quisai! Forse neanche con isocialisti di Milano e di Torino che valgono di più. Certo maicon gl'ignorantinè con i disonestinè con i cupidi!”

“Maneanche con gli altri!”

“Perchè?”

Pierosapeva che Carlino Dessalle era un feroce nemico del socialismo; nons'era mai accorto che Jeanne dividesse il sentimento del fratello.

InfattiJeanne non ne divideva l'odio. Era scetticaprofondamente scettica.

“Perchèè una cosa inutile” diss'ella. “Il mondo va comedeve andare. Sono sogni. Sarai una mosca del carro.”

Egliprotestò così sdegnosamente che Jeanne se ne atterrì.“No noscusa scusazitto zitto!” Sopraggiungeva allora lacomitiva oltrepassata sul piazzale della chiesa. I giovanigiàtanto chiassosipassavano in silenziorapidamenteavendoriconosciuto Maironi. Invano le due povere mamme sgangheratearrancavano loro dietro gemendo: “Tosi! putèle!”.Maironi aspettò che passassero anche le due mamme e poiritornò alle proteste; ma Jeanne lo supplicò dismetteredi non guastare l'ora felicedi parlarle di amoresoltanto di amoree la sua voce aveva lente carezze di mani tenere.Egli si arreseebbe un ritorno di passione come nella villavolevalasciare la via maestraprenderne un'altra ombrosa che se ne spiccapochi passi oltre la chiesa. Jeanne si oppose. Piero insistevaquasiviolento. “Adesso ti prendo fra le bracciati porto dove voglioio.” Ella tenne fermolo trasse avanti.

“Avrestigridato?” diss'egli.

“Noti avrei morso.”

Eglitacque. Fatti pochi passiJeanneconducendo a fine con la voce unragionamento incominciato nel silenziogli domandò se avesserotto proprio del tutto anche con la sua fede. “Credo di sì”diss'egli. Jeanne sorrise. “Comecredi?” Egli giustificòla parola strana. “Saivi è nell'anima mia un talepolverìo di rovine ancora in motoche non so bene cosa siacaduto e cosa resti in piedi. Credo di credere ancora in Dioquestosìma non nel Dio che mi hanno insegnato. Quello l'ho sepoltoa Praglia. Era già mezzo morto dentro di meanche prima:stavo però ancora nel vischio delle mie vecchie abitudinimentali. Chi sase tutti i cattolici fossero come un vecchio preteche conosconon avrei perduta la fede. Anche luiperò! Midice che non devo giudicare la Chiesa cattolica da qualche centinaiodi persone e io non sapergli rispondere che da tutta intera la Chiesacattolica si va ritirando la vitache tutto vi è antiquatodalla parola del Vaticano a quella dell'ultimo cappellano dicampagna! Una volta ho pensato: "Se venisse un altro SanFrancesco! Se venisse un altro Sant'Agostino!' Adesso so che nonverranno”.

“Midispiace” disse Jeanne “che tu abbia perduta la fede.”

“Perchè?”

“Perchèso quanto è triste di non aver dentro di sè niente difermoniente di assoluto.”

“Tunon hai nientein tedi fermo?”.

“Nientetranne l'amore.”

“Noncredi neppure che ci sia un'altra vita?”

“No”rispose Jeannesospirando.

Tacqueroentrambi. A un tratto Jeanne esclamò: “E la luna?”.Alzarono insieme gli occhi alla lunaquasi dubitando che l'eclissifosse già passata. L'ombra copriva un terzo dell'astro.Guardarono l'ora. A momenti avrebbe dovuto arrivare la carrozza.

“Speroche non vengano” disse Jeanne. Soggiunse che il pittoreveneziano era stato innamorato di lei e confessò che unavoltapure non amandolo affattolo trovava carinoe si divertivadelle pazzie ch'eglimalgrado i rabbuffi di leile diceva.

Adessonon le diceva più pazzie e le era venuto a noia. Maironi finsed'intendere ch'ella rimpiangesse le pazzie di coluifece il geloso.Risero insiemerisero deliziosamente di altri innamorati di Jeannedel capitano Regginiuggiosomalgrado il suo spiritoper lagelosia che si permetteva con quel bel dirittorisero di un maturosignore ammogliato della cittàambizioso dell'alloro dilibertino e poco pratico del mestiereche non s'era peritato di farl'audace emesso a postoaveva preso il Ponte dei Sospiri.

Unacarrozza dietro a loro. Cavalli bianchi; non la carrozza Dessalle.Jeanne e Maironi si fecero da bandanell'ombra di un muro.Principiava lì una discesa ripidail cocchiere mise i cavallial passo. Era uno stagepieno di signoredi ufficiali e di una chiassosa discussioneastronomica sul naso del colonnellodel quale naso il capitanoReggini giurava veder l'ombra sulle montagne della luna e proprio sulvulcano della Desolazionementre qualcun altro giurava alla suavolta che quella era l'ombra delle appendici frontali di... Protesteinorriditeesclamazionirisaterisatinesatirecavalli e stagetutto passò. A Jeanne pareva che fosse stato pronunciato ilnome di suo marito.

“Anch'iosai” diss'ella“vorrei tanto andar via!”

“Dove?”

“Dovenessuno ci conoscesse.”

Eglila compresele strinse forte il bracciole domandò:

“Etuo fratello?”

Jeannesospirò. “Basterebbe dirgli che nella valletta delSilenziodopo le piogge abbondantil'acqua ristagna e infetta unpochino l'aria. Ma io non lo farò. Villa Diedo gli piace tantoe ci ha già speso un tal monte di denaro!”

Eccoi cavalli di casa Dessalleal piccolo trotto. Il landauè vuotoil romano antico scende di cassetta e dice che non èarrivato nessuno. Jeanne e Maironi salgono. Jeanne non vorrebbeincontrare lo stageproponesenza troppo rifletteredi ritornare a villa Diedo eattendervi il culmine dell'eclissi sulla terrazza. Maironi le mormoraun “grazie” così caldo ch'ella si pente dellaproposta. Non osa però mutarla.

Soltantoallorarisalendo lentamente l'ertadietro le orecchiute maestàdel cocchiere e dello staffiereJeanne e Piero guardarono la scenadel loro idilliole bianche villette più e più smorteper i colli oscuratiil tremolar nuovo di stelline nascenti dalprofondo del cielo. Passavano ondate d'aria tiepidaodori d'acaciein fioreondate d'aria frescaodori di bosco umido.

“IlSuo paese è belloperò” disse Jeanne.

“Nonè il mio.”

“Comenon è il Suo?”

Maironirise per il tono delle parole di Jeanne che pareva offesapareva noncredergli.

“Sempreorgogliosa!” diss'egli. “Non vuol mai avere sbagliato!”Ella sorrise puregli alitò sul viso un “Cattivo!”.Poi gli domandò ad alta voce dove mai fosse il suo paese esoggiunse piano: “Lo sonon ci aveva pensato”. Piero leparlò della casetta dov'era natodel romito lagodellegrandiaustere montagne di Valsolda. Il landautoccava allora il sommo dell'ertai cavalli presero il trotto.

“Sefossimo là in barcanoi due soli!” disse Piero. “Cisaremo mai? Soliin una piccola barchettanell'ombra di un golfosull'acqua che palpita?” Passò un braccio dietro lespalle di Jeannesentì la bella persona rilevarsi un poco epoi premergli sul bracciodeliziosamenteora più ora menorispondendo a ogni sua stretta. Non si parlarono più che così.I cavalli correvanogli odori ventavano sulla via dell'una edell'altra fiorita spondatutte le cose si facevano al mancar dellaluna più e più smorte in un languore voluttuosonelpresentimento di una congiunzione arcana dei due astri nell'ombra.

Appenaun sottile orlo di argento del rossastro globo lunare brillava ancoraquando i due risalirono sulla terrazza oscura. Si sentivano sìe no nell'aria inquieta e buia gli aliti delle rose come voci didesiderio e di pena. Si vedevan sì e no le frondi porgersi inqua e in là come braccia di ciechi brancolanti. Nel chinarsiper volgere la poltrona da riposo verso il ponente ove la lunascendevaPiero sfiorò con le labbra una spalla di Jeanne esussurrò: “Cara ombra!”. Jeanne rispose: “Ioperò amo la luce”. Nello stesso tempo gli folgoraronodentro la frontecome una punta di ghiaccio fitta e ritoltaleparole: dilexerunt tenebras.Via! Via! Neppure averle pensatevoleva! Sedette accanto a Jeannedisse forteper il caso che qualcuno li spiasse: “Adessosignorafacciamo gli astronomi” e le prese una mano. “Seistata ingiusta” mormorò“amaramente ingiusta quandohai detto che nel mio ardore c'è un proposito freddo. Nondirlo più!” Jeanne si portò la mano di lui allelabbra. Silenzioaliti di rosemolle ondular di frondisospiriumani pieni dell'Indicibile.

“Nonè troppo fresco e umidoquiper Lei?” disse Pierofinalmente. “Non sarebbe meglio...?”

Jeannesorrise. “E` meglio che Lei partacredoamico mio.”

“Addiodunque!”

“No!”

Gliaveva ben detto lei di partire e adesso non voleva più. Riseroentrambitanto dolcemente. “Sìsì”diss'ella facendosi seria. “Bisogna che parta!” E perchèPiero le sussurrava: “Partire senza un bacio? Partire senza unbacio?” si alzòentrò in salaseguìta dalui. “Adesso La faccio accompagnare al cancello” disse.Posato un dito sul bottone del campanello elettricosi volse algiovanegli porse le labbra.

Egliscese come in sognosenz'altro senso che di quell'attodi quellaboccasenz'altro pensiero che di non poter pensare a nientedi nonpoter volere nientedi scender beato in grembo al Fiume della Vitaardente e dolce. Nell'entrare in casa si domandò se fossepossibile vivere più oltre fra quella gente. Posando ilsoprabito gli sovvennecon disgustodella camerierina bionda. Chegioia non sentire più in sè il bruto senz'amoreessertrasfigurato anche nella vita corporea! Sedette sul lettorivisse ipiù deliziosi momenti di quella nottedall'abbraccio mutosotto i carpini al bacio nella sala. Anche meditò le piùsingolari parole di Jeannecompiacendosi orgogliosamente dell'amoredi una creatura così bellastrana e profondachiedendosi inpari tempoadesso che ci pensava a mente riposatase non fosse inleicon tutto il suo amoreun intimo nucleo di orgogliod'idee piùforti che l'amoreinvincibili.

Equell'attaccamento al fratello non era eccessivoquasi offensivo?Quale amoreperòquale grandeimpetuosotenero amore purnei confini suoi! Quale amore unicoquale spiritualitàintensa di amore mista con i desideri più delicati e squisitidei sensi! Ricorse avido alla memoria dell'abbraccio mutodellabocca soave. Ah!

Siscossesi dispose a coricarsi. Ecco qualche cosa di nuovo sultavolino da nottecome la sera della tentazione. Non fiori stavoltauna lettera chiusacon un semplice indirizzo“Piero”di carattere della marchesa. L'apersenon si avvide della piccolabusta che ne cadde e lesse:

Siaringraziato Iddio che ci dona consolazione. Stasera dopo le dieci èvenuto il medico assistente dello Stabilimento e ha portato ilbiglietto con lo scritto di Elisa che ti unisco.

Pieros'interrupperabbrividìcercò e raccattò daterra la piccola busta. Conteneva un quadratino di carta dove la manodella Demente aveva scritto per isghembo e male a grossi caratteri:


s’ofro

Dalleprofondità del palazzo il vecchio orologio suonò letre. Ritornò il silenzioil pauroso silenzio delle coseconscie. Piero seduto sul letto con la lettera in manola guardavatrasognatoguardava il quadratino di carta e poi da capo la letteraleggeva e rileggeva di speranze dei medicidi una messa che sisarebbe celebrata l'indomani mattina in Duomo. Fermòfinalmente gli occhi torbidi sulla parola scritta maleper isghemboa caratteri grandi. Sentimenti diversi di rimorsodi terroredisperanza rea o conosciuta per talediverse immagini di possibilieventi che maturassero qualche strano dramma cozzavano in luioscurandogli l'anima. Poco a pocomirando sempre la terribile parolatanto ancora piena di ombre idioteegli si ricompose una cupa quietenell'idea della probabile vittoria finale delle ombresi disse e siridisse ch'era questo il freddo giudizio della sua ragione e non lavoce delle crudeli speranze. Il lume della candela smorì neiprimi alboridalle profondità del palazzo il vecchio orologiosuonò le quattroe ritornò il silenzioil paurososilenzio delle cose conscie.



IV


Jeannepartito Maironimandò il domestico a lettosuonò perla camerieramandò a letto anche costeiuscì sullaterrazza candida nel lume della luna redivivaritornòall'angolo d'ombra tra i fogliami tiepidi delle rosesi riadagiòsulla poltrona da riposo e sorrise a se stessabeata. Mai non avevaamato prima d'incontrar Maironi e neppure desiderato di amare.Nessuno dei tanti adoratori suoi aveva saputo destarle nell'anima ilsenso della sua femminilità profonda. Questo senso non s'eraora destato che a mezzo. L'ardore dello spirito non le aveva ancorapenetrato il corpo. I suoi desideri non andavano oltre la presenzacontinua e la tenerezza appassionata di luiil possesso dell'animasuala libertànei momenti in cui si preferisce il silenzioalla paroladi cingergli con le braccia il collodi posargli lafronte sopra una spalla. Oltre questo abbandono e carezzebaci afior di labbroe il senso alle spalle del braccio dilettoincominciavano le sue ripugnanze. Ai suoi rapimenti non si mesceva unatomo di timore nè di rimorso. Figlia di genitori increduli etuttavia rispettosi della religioneera passata per gli effimerifervori ascetici del collegio. Quindi lo spirito infusole nel sanguela coscienza della sua superiorità intellettuale sulle personeche l'avevano guidata alla pietàla tendenza critica del suointellettole letturele conversazioni di uomini coltissimi eirreligiosila incredulità conosciuta dei genitori che purela mandavano a messaai sacramentie le regalavano libri dipreghieratutto questo insieme l'aveva condotta a una specie disereno fatalismodall'alto del quale i dogmi cristianiIddiolaimmortalità dello spirito le parevano illusioni gentilinobilianche utili a coloro che non possedessero come lei nellapropria natura il senso della dignità moralei suoi freni e isuoi stimoli. La sua fierezzail suo affetto al rispetto altruilevaghe idealità morali che le tenevano luogo di fede leispiravano il disgusto dell'adulterio ma non le facevano alcunrimprovero di un amore chesoddisfatto secondo il desiderio suoleriempiva l'anima di bontà. Sapeva di non toglier niente allamoglie di Piero e il suo scetticismo circa le illusioni delsentimentoil fortelucido intelletto della realtà non leconsentivano rimorsi per un'offesa chenon potuta sentirenon eraoffesa.

L'immaginesquallida della Demente non si affacciava mai alla sua coscienza.Aveva ben pensatouna voltache la madre di lei soffrirebbe moltose sapesse; ma vi era nella vitasecondo il suo vedereunIneluttabile e questi dolori ne facevan parte. Anche l'amoreprocedeva dall'Ineluttabile. Perchè si era ella innamorata diMaironi? Per i pregi del viso e dello spirito? Noper un che negliocchi suoi. Le avevano molto parlatosìdi questo giovaneintelligentecoltogenerosissimopioinfelice; le avevanoispirata molta curiosità di conoscerloparticolarmente disapere se egli amasse ancora sua moglie; ma soltanto quel Chemisterioso l'aveva presa. Era ella forse delle infinite cui bastavenir guardate due volte da un uomo non vecchionon bruttononineleganteper sentirsi attratte? Neppur questo; molti uomini leavevano ispirato simpatia conversando con leis'era compiaciuta dimolte ammirazioninon sempre aveva sdegnato le dolcezze d'una lievecivetteriama soltanto nel primo incontro con Maironi aveva sentitol'improvviso impero d'un destino.

Erain quel punto divenuta schiava dell'Ineluttabile.

Ineluttabilel'amoreineluttabili erano i dolori che esso avrebbe recato ad altrecreature umane e che non le ispiravanoquindirimorso ma solamentepietà. Sotto l'ebbrezza di Maironi che scendeva col bacio dilei sulle labbra si veniva raccogliendo silenziosamentenonavvertitoun lievito amaro. Sotto l'ebbrezza di Jeanne vi era ilreconditofreddo nucleo del suo scetticismola sua chiara visionedel vortice eterno nel quale il suo amore e la sua coscienzacometutti gli altri amoricome tutte le altre coscienzesidissolverebbero in breve. Questo era l'Ineluttabile supremo e non laturbavale rendeva più intenso il piacere dell'ora presente.

Ellanon credeva di poter più dormirequella notte: e le gradivadi godersi il tramonto della lunala fragranza delle rosepensandoa lui. Come mai l'aveva lasciato partire senza domandargli quandosarebbe ritornato? Non potevanon poteva stare in questa incertezza!Vide i suoi guantidimenticati sopra una sedia. Ohse ora venisse ariprenderli! Si rizzò sulla personastette in ascolto. Chefollia! Si propose di rimandar i guanti l'indomani mattina con unalettera. E li presecontenta. Si struggeva di baciarlisorrise dise stessa. Non li baciòmise la mano in uno di essisorriseancorasorrise di sentirsi mortificata che fossero cosìgrandi mentre avrebbe giurato che le mani di Piero fossero piccole.Uno stridere del cancello! Lui?


Nonera Maironiera Carlino arrivato in carrozza con quattro amicil'elegante deputato Berardiniil grande violoncellista LazzaroChiecol'allegro pittore veneziano Fusarin e un tal Fanellisenesecritico d'arte e di letteraturagiovanissimolibertinosfacciatocome un monello di Firenze. Eran partiti da Venezia col treno el'avevan lasciato per fare una scarrozzata di trenta chilometrigodendosi appieno la calda notte di maggio e l'eclissi. Seguiva ilvetturale portando il violoncello di Chieco. Furono meravigliatissimidi trovare Jeannea quell'orasulla terrazza. Ella non conoscevache Fusarinil suo adoratore pazzo di una volta. Chi si fece avantiil primo con il cappello in mano e a braccia aperte fu Chieco.“Divina signoranon badate a questi grattaformaggi che non sonodegni della vostra attenzione. Io soloLazzaro Chiecovioloncellista di cameraanzi di anticamera del Padre Eternolosono!”

“Carlino!”esclamò Jeanne ridendo mentre gli altri la supplicavanocomicamente di compatire il maestro rimbambito. “Non presenti?Che fai?”

Carlinosaliva lo scalone della terrazza a ritrosopian piano. “Scusatescusate!” diss'egli. “Aspettate! Mi hanno insegnato aVenezia questa cosa magnificache fa bene ai polmoni di salire lescale così. E` delizioso!”

Fusarine Fanelli lo afferraronolo portarono su di pesostrillando egli:“Meglio! Meglio!”. Intanto Berardini pregava Jeanne di nonconfonderlo con quei farabutti: egli non aveva bevutoa cenacheacqua; essi...! E fece il gesto ipocrita della simulata ignoranza.Intanto Carlinorassettatisi i solinila cravatta e il bavero dellagiaccasi accinse alle presentazioni.

“Lasciamoqueste volgaritàper amor del cielo!” esclamòl'onorevole deputato. “Signoraio La ho veduta nei miei sogni econfido che anche Lei abbia veduto me. Lasciamo che costoro michiamino Berardini. Suo fratello che mi disprezzadice: "Ildeputato Berardini'; Fusarin che mi odiadice: "Il commendatoreBerardini'.”

“Fiold'un can!” brontolò Fusarin. “Intanto el ghe le gaspiferae tute.”

“Nonce ne curiamo” proseguì l'onorevole. “Lei èLeie io sono io.”

“Signora”disse Fanelli“iocome il più educato di questi quattroamici di Suo fratelloche non è gran lode!mi lasceròpresentare.”

Mapoi Jeanne guardò Carlinoimbarazzata. Aveva carissima questavisitama... Chieco precorse le parole che venivano.

“Nientesignora mia! Noi non siamo genterella come questi grattaformaggi diquesta vostra cittaduzzache russano laggiù nei pantani. Voinon avete a incaricarvi di farci dormire. Siete voibella miachedormite e noi siamo il vostro sogno di stanotte. Io sono venutoperchè vostro fratello mi ha detto che tiene un clavecinanticobonissimo; e perchè voglio vedere se io possoinnamorarmi di Voi e se Voi potete non innamorarvi di me. Questialtri straccioni sono del mio seguito. Ebbeneadesso si fa musicasi prendonobella miase è possibiletre o quattro tazze ditènon tanto fortecon latteFusarin e Vostro fratello siconsigliano sul ballo tiepolesco che dareteil mio compaesanoBerardini dice un altro sacco di asinateio faccio un poco ilgrazioso e sull'aurora tutto il sogno sfuma in landauverso l'oriente.”

Idomestici vi perdettero il sonno ma parve un sogno veramente. Lefiamme della luce elettrica brillarono nella sala grande e nellequattro minori che la inquadranopure dipinte a buon fresco dalTiepolo in onore di Omerodi Virgiliodell'Ariosto e del Tasso.Apparvero per le pareti i grandi corpi viventi degli eroisuperbinelle armonie del moto e del riposo; apparvero facce plebee diprincipi dai manti pomposinudità carnose e calde diprincipesse villanei colonnati di Aulidele logge di Cartagineletende acheegli scogli dell'isola di Calipso e delle Ebudesfondinebulosi di cielo e di mare. Successe uno strepito perchèBerardini e Chieco erano pazzi di ammirazione per gli affreschimentre Fanelli sentenziavafreddo e sarcasticodietro la caramellafaceva il difficilenotava le scorrezioni scandalose del disegnotanto che Chieco gli diede del "brutto macaco” e Fusaringli saltò addosso con furore. “Cossa galoEl digasorpiavolo? El me lassa star sto poro vecio che a fato sti spegassisala! El se contenta de scrivar settessento articoli a la setimanaco quele game sugestivein maloraco quel maledeto color che cantae co sete oto "vibrante di modernità'El diga! Ti ti laga co Tiepolo perchè el fasea i zenoci grossi e mi la go coDomenedio che te ga fato el muso roto!”

Trlin!Trlin! Trlin! Carlino chiama col clavecinalla sala di OmeroJeanne richiama con la voce: “Musicamusica!”. Si risponde: “Musicamusica! Bastabasta!”.Tutti corrono alla sala di Omero meno Chieco che cava il violoncellodalla cassa.

Poichèstanno per entrare un certo signor Bachun certo signor Haydnuncerto signor Marcello e altri personaggi in parruccaspadinocalzedi seta e fibbie di brillantisia l'accoglienza gaia! Champagne!Fanelli brinda spiritosamente alla più vibrante di modernitàfra le dee di villa Diedo. Berardini improvvisa una tirata baroccasulla dea Diana e beve al fratello suo divinoad Apollo Dessalle.Chiecoalzando il bicchiere verso l'affresco di Ulisse pensoso inriva al maresi offre consolatore alla dolcetristebellissimaCalipso che vi emerge dall'onda con le spalle e col seno ignudibrinda a lei e alla sua sarta. Fusarin brinda “ai veci Diedopoariniche a fato su sto casoto!” E CarlinopoichèJeanne vorrebbe proibirgli di aprire troppe bottiglie di Champagnebrinda a lei come gendarme: “Pas à Jeanne d'Arc mais àJeanne d'armes!”.

Edentra Bachil dio Bachdice Chiecoche dà dello straccionea Carlino perchè in una tale villacon tali affreschicontale clavecinregnando insieme Tiepolo e Bachnon tiene parrucchespadinigiubbericamatecalzoni corticalze di seta per tutti i suoi ospiti.“Giuriamo” grida Berardini “di venire al vostro ballocosì!” Si giura e Bach incomincia il suo discorsinosereno. A una cristallinatintinnante vocina puerile s'intreccia unavoce di vecchio nonno scherzosotenero e nasuto. Chieco suona ilvioloncello come un semidio e Carlino fa meraviglie sul clavecintanto che il collega gli dice spesso: bravo! Il delizioso profumo delSettecento ammollisce i cuori. Jeanne sospiraFusarin ritrova in sèveteris vestigia flammaesi attenta di accarezzarledi soppiattouna manoonde Jeanne sialza e vacon un lievissimo sorriso traditorea voltar le pagine asuo fratello. Fanelli indovina e guarda maliziosamente Fusarin che sibutta sul davanzale di una finestra e incensa le stelle con il suomanilla. Berardini fiuta un intrigoincontra due volteper casoibegli occhi di Jeannepalpitasogna un'avventura casanoviana.Jeanne sente il proprio fascinone gode per lui al quale idealmenteappartiene. E il cortigiano Bach va intorno lusingando ciascuno conparolette dolcicon risolini blandis'inchina grazioso con un colpodi tricorno al vento e si ritira. Berardini applaude forte e subitotrova modo di sussurrare a Jeannein franceseche non ha uditonienteche ha veduto lei solache bisogna riprodurre nel ballo ipersonaggi degli affreschich'ella sarà Calipso e lui ilmare. “L'amer?” dice Fanellificcando il naso nel dialogo.“Il l'est toujours. N'en goûtez pas!” E una risatina.Zittoperchè adesso entra So Ecelenza el nobilomo Marcello eChieco richiama Jeanne.

“Bellamianon date retta alle asinate di costoro. A posto! E non voltatetroppo presto come avete fatto prima! E voi altri atei porciattenti! Perchè ioquando suono Marcellocredo in Dio!Avanti! Andiamo!”

Erala quarta sonata per violoncello e piano. Dopo un trillo delvioloncelloil credente Chiecomenando certe potenti arcategridò:“Questo mondo non si può sopportare!”. E su e suverso l'alto con l'onde accavallantisi delle arcate veementi.

“SenzaCalipso” sussurrò Fanelli. Infatti Fusarinpreso dallaviolenza della musicateneva su Jeanne gli occhi ardentilascongiurava con gli slanci del violoncello. Il clavecinparve disadatto a tanta passione. Come poteva Beethoven concepire lesonate senza concepire insieme il pianoforte moderno? Carlinosostenne che la musica di Beethoven aveva creato il pianofortemoderno come negli organismi non è l'organo che si crea lapotenzaè la potenza che si crea l'organo. Si passò aCorellima Carlino era stancoalla seconda pagina sbagliò iltemposi prese del ladro e dell'assassino da Chiecoil qualedopodue "a capo' smarrito ancora il compagnosaltò in piedigridando: “Ci troveremo al caffè! Ci troveremo alcaffè!”. Mentre gli altri amici ridevano col reo Carlinoegli prese Jeanne a partele disse qualche cosa di tanto arrischiatoche Jeanne fece un atto di vivo sdegno. “Nientenienteniente!” si mise a gridare buffonescamente lo sfrontato uomo.“Dirò come il mio barcaiuolo - de Venessia - quando glidomando se vuol piovere: "Gnentegnente! La montagna vorave mael mar no la intende!'”. E tutta la brigata passò ridendonella sala d'Ifigenia.


Alsuono del clavecin edel violoncelloil giardiniere Çeólal'ortolanosuamoglieun paio di braccianti erano sbucati all'aperto presso che incamicia. Si era quindi aggiunto al grupposotto le finestre diCalipsouno straccione in tubaun vecchio mattoide nottambulochetutti chiamavano el sior Piereto Pignolo.

í“Ciòticolo storto” disse il giardiniereall'ortolanofinita la gavotta di Bach“ti che te frui ibanchi de le ciese e che te ghe credi a l'infernosti siori che godeel bon tempo tuto el dì e tuta la notedisito che i ghe vadao che no i ghe vada a l'inferno?”

“Valàmato! Cossa vètu a tirar fora?” risposel'ortolanoe sua moglie soggiunse: “Lassèlo stare el meomo che l'è un bon omo. Vardè de no andarghe vual'inferno”.

“Mi?Ghe andaria volentieravardè vuper vederli andar a rostolori. I fa compagno de le moschesti maledetiche co xe quanovembrele fa el demonio sui veri quando che ghe bate el sole. I sache i la ga curta e i ghe dà dentro a più no posso.”

Zittomusica in altoMarcello.

“Chemusica da gati! Mi torno a cuccio” brontola l'ortolana quando ilpezzo è finito. “Tasibestia” le dice il maritoplacido. “E mi” ripiglia lei“che voria saver se ighe credei sioria l'inferno! Mi digo che i ghe crede tanto cofàvugiardiniero. E loracapìomi digo che chi sa che elSignore no li manda in malora lori e anca vualtri che no volìsaverghene de ciesa e che el ne fassa diventar siori nualtri che setien da Elo. Cossa diseloLusior Pieretoch'el ga studià?”

Zittomusica nell'altoCorelli.

“Mepar che i vada a torzio” brontola il giardiniereudendo leinterruzioni della musica e il tempestare di Chieco.

“Midigo” incomincia solennemente il mattoide in tuba quando non siode più nè chiasso nè musica “che sìtuti una manega de aseni.

Asenii to paroni perchè i te paga tigiardinier. Aseno tiperchèse te ghe comandavi a quel bambozzo de quel to fiolo de ciapar lebraghe de la bibliotecalu el becava el posto istesso e ti te podevidarme le so braghe vecie a mi. Asena vuortolanaperchè nocapì che sì nata con un muso da brocoli e che gavìda crepar in mezo ai brocoli; e aseno anca tiortolanche te vèin ciesa e te robi poco!”

Eil signor Piereto Pignolo volta le spallese ne va lento e solenneverso il cancellofendendo le ghiaie argentee con la sperticataombra della tuba.


Nell'usciredalla sala di musicaBerardini trattenne un momento Jeanne.

“Leis'interessa per un aspirante senatore?” diss'egli con gli occhiaccesi. “Non tropponon troppo!” rispose Jeanne ridendo.Infatti ella s'era adoperata per il marchese Zaneto quando le premevail favore degli Scremin che avrebbero potuto insospettirsidell'assiduità del Maironi e allontanarlotuttora indecisocom'erada lei. Adessosicura del fatto suolasciava fare aCarlino che ci aveva preso gusto.

“Nontroppo ma però abbastanzainsomma” replicòBerardini. “La riuscita è possibile. Occorrono peròalcune cose. Primache il genero del marchese si dimetta da sindacoe abbandoni il suo partito; o almenose il disertare gli ripugnatroppoche non militi più.”

“Questoè fatto” interruppe Jeanne.

“Ah!Bene. Poiche nel collegio del Bresciano dove il signor Maironi hapossedimenti grandi e dove i suoi agentifinorahanno raccomandatosempre l'astensionequesti agenti facciano invece votarenell'elezione prossimaper il candidato del Governo. Poiche sitrovi modo di far cessare certe dicerie sulle condizioni economichedel marchese. Finalmentee questo preme assai perchè ilGoverno non vuole compromettersi troppoche non gli sia contrario unuomo politico influente di cui ho detto il nome a Carlino e che saràsenza dubbio fatto interpellarecon prudenzadal Presidente delConsiglio. Credo che a queste condizioni la cosa si possa consideraredecisa. E` contenta? Posso sperare un piccolo premio?” QuiBerardini abbassò la vocee con un sorrisetto stupido cercòprender le mani di Jeanne cheprontagli volse le spalle. QuandoChieconella sala d'Ifigeniavide l'uomo comparire alquanto mogiodietro la dama accigliatasi mise a gridare da capo: “Paronbenedetognentegnentela montagna voravema el mar no laintende!”. Ella raggiunse gli altri e si dispose a fare il thè.Carlino e Fusarin parlarono del futuro ballodiscussero l'idea diprescrivere agli invitati i costumi degli affreschidi confonderenelle sale lucenti le Ifigenie ai Rinaldigli Agamennoni alleArmidei Medori alle Didoni. Parlarono del progetto di coprire conferro e vetro le due terrazze della villadi ridurre l'una avestibolo e l'altra a buffet. Carlino non voleva sapernedell'odiosissimo ferroFusarin pretendeva di poterlo dissimulareinteramente con arazzi e stoffelo snobino Fanelli posava qua e lànella contesa il suo pizzico di sapienza mondanasfoderava la suaconoscenza di sale illustridi grandi poeti dell'arredamento.

ACarlino piaceva solamente l'idea degli arazzi perchè ne avevadei superbidel Cinquecentoche a villa Diedo non poteva collocare.Però i suoi arazzi avevano da esser diventati seminari dibatteri! C'era da prendere un malanno del secolo decimosesto! Comedisinfettarli per bene? Potrebbe la loro sublime pelle sopportare ilsublimato?

“Ciò!”gridò il bizzarro Fusarin. “E quela barbassa de quelcapussin de Calcantee quela giaca onta de quel maledeto barbieroinzenocià col so caìn sporco in man per tor su elsangue de Ifigeniae tuti quei tabaroni longhi de quei prinsipigreçi co quei musi da ciche e da cicheticredistuanima miache no i ghe n'abia dei batteri? E mi che me piasaravevardèvualtricrepar da la peste del mille e sinquessento! Saria belociò! Saria novo!”

Seguìun torneo di sentenze pazze sulla morte e sulla vita. Berardinischerzava e rideva con la più bronzea delle facce e Jeannedurava fatica a ricordarsi ch'era in dovere di trattarlo un po' maletanto poco si curava di lui e tante simili audacie di sciocchi ed'intelligenti aveva conosciute. Egli sostenne che non aveva lacoscienza di esisterema soltanto di parere esistente e che questoera il balsamo di tutti i malidi tutte le paure e gli diminuivaniente la facoltà di godereanzi gliel'accrescevatoglievadi mezzo o almeno riduceva a una semplice apparenza quella diversitàfra la vita e la morte che spaventa il comune degli uomini. Fanelliprese le sue parti contro i due artistisoli a difendere l'assolutocon una mitraglia punto metafisica d'improperi. Jeanne ascoltava insilenzioattendendo al tèma gli occhile sopracciglialafrontepersino talvolta le spalledicevano consensi e dissensivivacia vicenda; più vivaci i dissensi da Chieco e Fusarincome se la infastidisse che proprio quei due fossero nel torto.Fusarin se ne avvide il primo e disse sdegnosamente:

“Ehza se saciò! Go torto mi.”

“Macerto” esclamò Jeanne accesa in volto. “Pareimpossibile! E` una cosa tanto evidente che ogni nostra certezza èuna certezza solamente per noiè una certezza relativae cheil pretendere di possedere qualsiasi certezza assoluta è unaillusione.”

Fanellie Berardini batterono le mani.

“Forseci sono” disse Carlino “e forse non ci sono. Questa èla mia gioiadi non saperlo. Ma badaJeannetu mi hai l'aria diriscaldarti non tanto contro Chieco e Fusarinquanto controun'opposizione segreta di mia sorellanon so se m'intendi.”

Ellacrollò le spalle: “Sciocchezze!”. E sorrise a Chiecoche domandava una illusione di thèmezza illusione di lattetre illusioni di zucchero e sei o sette illusioni di gauffrettesperchè forse aveva cenato e forse non aveva cenato alle diecie mezzo. Fusarinpiù innamorato che logicoinghiottírassegnatamente col thè la certezza che non vi ha certezzaesi accontentò di brontolare a Jeanne:

“Seno La ghe xe Elano ghe son gnanca miciòintendemose!”


Partironoall'albacon grande sollievo di Jeanne che si pose a lettomortalmente stanca ma beata di pensare luilui soloin pace.

Sidomandò: sogna egli di me adesso? E rise di se stessadelromanticismo convenzionale che si assorbe nei libri e ci passa nelsangue. Noegli sognava forse il Municipio o qualche altro sognostupido. A lei sarebbe piaciuto di sognare l'ignoto lago di Valsoldanel chiaro di lunauna gita in barchetta con lui. Chiuse gli occhicercò disporsi al sonno e a questo sogno: vedersi nella menteil lago e le montagne di cui non aveva un'idea. Non seppe immaginareche la barchettale carezzela voce amorosa di lui; ma cosìnon le riesciva di dormire. Allora si mise a pensare alla fama chequalche vendicativoforse uno dei tanti libertini respintiforsesuo marito stessodoveva averle fatta perchè gli uomini chenon la conoscevano fossero tanto audaci con lei. E pensò pureal discorso di Berardinial marchese Zanetoall'uomo politicoinfluente che le sarebbe piaciuto di conoscere per farlo amico diMaironiperchè gli combattesse le tendenze socialiste che alei dispiacevanoche le parevano pericolosenon convenienti allasua natura delicata e misticafrutto di fantasia. Non un brividonon una lieve inquietudine le diedero segno che in quell'ora stessail suo amante vegliava immobile e cupofissando uno spettro.


CAPITOLOIV


ILCAFFÈ DEL COMMENDATORE


I


Lamarchesa Nenevestita di nerocurvasevera nel viso rugoso ecereoentròseguita da Maironicon la sua grossa Filoteain manonella cappella del Duomo dove aveva desiderato che sidicesse una messa in ringraziamento della nuova luce di speranza chespuntava sul triste innominato Asilo. La cappella era vuotai ceriancora spentil'altare coperto. Ma quando un chierichetto venne ascoprir l'altare e ad accendere i cerile poche figure nere sparseper i banchi della unica grande navata mossero verso la cappella. Duefra le amiche umili della marchesapiccolinevestite di scuroduevecchi pretini femminele si accostarono: “Se consolemo chegavemo sentìo”e fatto a Piero un lievecontegnosocenno del capoentrarono nel banco di faccia. C'era pureper casol'uomo acidouso ascoltar la messa ogni mattina. C'era la moglie delgiornalista Soldiniuna bella signora dai capelli bianchi e dagliocchi vivaciche salutò la marchesa ma con discrezionesenzaaccostarlesi. C'erano finalmente due vecchie accattone. Ultimo entrònella cappella con passo cascante e con viso modesto un omino grigiodal zimarrone vastol'omino potente sui destini di Zaneto Scremin edi molti altriil Commendatore. Miopenon si avvide a prima giuntadella marchesa nè di Maironinè della Soldininèdell'uomo acidotutte persone a lui note. Si sarebbe umilmenteinginocchiato sul gradino di un confessionale se la Soldini per unossequio spontaneo e le accattone per un ossequio meditato non sifossero affrettate a fargli posto. La Soldini gli sussurrò chea messa finita gli avrebbe chiesto un minuto di udienza fuori dellachiesaciò che fece rannuvolare la fronte e inasprire laguardatura del prossimo uomo acidoil quale meditava pure diafferrare il Commendatore all'uscita della chiesaper certi suoifini profani. Il Commendatore s'inchinò alla signora con unmite sorriso di assenso. Soltanto a messa inoltrata gli venne ilsospetto che l'uomo ritto in piedi presso la vecchia signora dal visorugoso e cereo fosse Piero Maironi. Ne fu così durevolmentedistratto che poi se ne giudicò reo di colpa veniale attenuatadalla bontà del movente; perchè l'ex-sindacogl'ispirava molta simpatiagli sarebbe piaciuto che s'avviasse perun cammino miglioregli sorrideva di aiutare a porvelo e oracompiacevasi molto di vederlo in quel luogo e in quella compagniapensava qualche pretesto per parlargli dopo la messaqualche modo ditenersi in comunicazione con lui.

Pieroaveva cercato per tempissimo della suoceravolendo sapere che avesseveramente detto il medico dello Stabilimento. Arduo problema con unainformatrice impacciata e tarda nella lingua come la marchesa; tantopiù impacciata e tarda quanto più combattuta dal doveredi dire la verità e dal desiderio di non dirla intera.Ell'avrebbe voluto che Piero si accontentasse delle parole scrittedall'infermache ne godesseche non curasse di sapere altro; e atutte le sue domande rispondeva annaspandoannaspandoper metterpoi fuori sempre da caposempre con rinnovato desiderio e sollievoquel pezzetto di carta.

Espertodi leidelle sue vie mentali coperte e delle coperture caotichePiero comprese che il barlume di coscienza balenato nella paroladolorosa doveva essere svanito subito. Poi la suocera gli aveva dettocon il suo apparente candore: “Andemo che xe ora”come senon sapesse delle nuove abitudini di Pieroil quale da Praglia inpoi aveva rottoper un sentimento di fiera lealtàcon tuttele pratiche. E la marchesa lo sapeva. Colto all'improvvisoPiero nonseppe trovare lì per lì un pretesto di scusarsinonosò ferire la vecchia signora che in cuor suomalgrado tuttoveneravae l'accompagnò in Duomo.

Stancodella lunga vegliadelle angoscie patite nella immaginazioneavevapieno il capo di sonnodi stupore e di tedioil cuore intorpidito.Anche la passione vincitrice taceva in luicome spossata. Nonsentiva che uggia di sèdel luogo sacrodi doverci stare aforza. Gli davan fastidio le occhiate bieche dell'uomo acidolefacce compunte dei devoti stupidamente prostraticome a lui parevaciascuno davanti a un piccolo specchioguardandovi un piccolo Iddiodella propria mente. Gli dava fastidio l'idea che quelle vecchiette ela signora Soldini e il Commendatore facessero in cuor lorosecondoera probabilecommenti alla sua presenza nella chiesa. Persino ildevoto pregare della suocera gli pareva un eccessivo sdilinquimento.Mentre s'inacerbiva così contro tutto e contro tutticedendoa un soffio demoniaco di perversitàentrò nellacappellaa passo lentopreceduto dal chiericoil celebrante. Pieroriconobbe don Giuseppe Flores. A questo incontro non si attendeva ene fu seccato. Avrebbe preferito un pretoccolo antipatico. Non gliera possibile di riversare anche su don Giuseppe il fastidioildisprezzo di cui era tutto amaro; e guardare quel viso con desideriodi luce e di pace come l'aveva guardato un giorno là nellavilla solitarianon volevanon poteva più. Nemmanco potevaperòchiuder gli orecchi alla voce grave e dolce che gliriconduceva le memorie della solitudine pastorale intorno alla villasilenziosadello stanzinodel colloquio sul canapè rossodelle parole santedelle sante labbra posateglisi un momento suicapelli. Se durante le tentazioni antiche la sua volontà siannientava per non consentirvi nè perderne la dolcezzaadessogli avveniva di non poter cacciare da sèper una simileparalisi della volontàquelle imperiose memorie moleste. Nonpoteva non aderire col senso alla voce dolce e gravenon poteva nonaderire colla mente alla visione di don Giuseppe seduto accanto a luisul canapè rossopieno la gran frontegli occhi accesi ecalda la parola di Spirito Santo. Cosìudendo la voce delcelebrantecontemplando le immagini della propria menteincominciòa sentirsi in fondo alla gola e più giù verso il cuoreun dolor sordo simile al dolore che sotto una pressione fissalentamente si generadilata e profonda. Era un dolore anche mutonon diceva la propria originela propria naturasi dilatava e sisprofondavaera tormentoe anche spossatezza amaraimpazienzadella Forza fissa e premente.

Quandoil celebrante incominciò la lettura del VangeloPieroavvinto al suono e non al senso delle parolesentì unmutamento del suono.

Neldir le parole di Gesùil celebrante si congiungeva inispirito a Gesù con amore e tremore. Il sentimento del suoalto ministeroil sentimento della sua indegnitàilsoverchiar del divinonel suo pettosulle forze umane; tutto dicevaquella vocenon colorita nell'esterno ma penetrata d'anima e quasiansante. Piero non potè a meno di volgere il capo a guardar lasolennità umile del noto viso anticosentì che il suomalessere interno si trasformava in un cupo ribollimentoin unacommozione violentan'ebbe terrores'irrigidì contro sestesso con tutto il nerbo della ridesta volontàsi rifecedentro il silenzio. E per non ricadere pensò a Jeannepensòche forse in quel momento ella usciva dal lettoriuscì adaccendersi la mente di un fuoco piuttosto lascivo che amorosoqualenon lo aveva bruciato ancora stando egli con Jeanne o pensando a lei;quale un esperto medico di anime avrebbe giudicato indizio dipassione declinante. In quella cupida fiamma il tedioil malessere einsieme anche le immagini suscitate dalla voce di don Giuseppetuttii germi vitali dell'animasubito arsero.

Uscironodi chiesa in un gruppola Scremin tutta sorridente e pacificaMaironi accigliatola vivace signora Soldini pronta nel viso aparole che già le sfuggivano dagli occhiil Commendatoremodesto e mansueto. Quest'ultimoriverite ossequiosamente lesignoredisse a Maironi con un sorriso tra benevolo e scherzosoconun'artificiosa peritanza nel metter fuori la facezia come se fossearrischiata molto:

“Adessoche Lei è in disponibilità... in disponibilità...si lasci vederesi ricordi degli umili e dei derelitti. Ho a dirlequalche cosa ma con tutto il Suo comodo. Oggi vado a Roma. Ritornolunedìnon della settimana venturadella successiva; lunedìfra le quattro e le quattro e mezzose credemi trova certo.”

Lamarchesa e il genero si allontanarono subito. La Soldiniinfocandosia un tratto di commozionedomandò al Commendatore se avessenotato il pallore cadaverico di Maironi. E la marchesainvecechearia serena! Era un vero enigmaquella marchesa! Gli amici di casaScremin dicevano "virtù'. Santo cielouna virtùtroppo simile al gelo! Siccome al Commendatoreil quale non avevapoi notato nè pallorinè arie serenequesto nonnecessario giudicar veemente di sentimenti altrui non pareva andartroppo a genioe non gli uscivano di bocca che monosillabi stentaticosì la signora mutò discorso e gli disse ridendo chele rimordeva di esser venuta in Duomo quasi più per incontrarlui che per udirvi la messa. Suo marito desiderava di parlargli e glifaceva chiedere quando avrebbe potuto riceverlo. Il Commendatorerisposeforse non tanto cordialmente: “Con piacereconpiacere”. Si fermò sui due piediaggrottò leciglia per un soliloquio in parte mentalein parte espressoper uncalcolo di giornidi oredi sedutedi convegnidi elementi certidi elementi probabilidi elementi possibilidal quale ricavòdopo qualche tentennamentoche avrebbe ricevuto il signor Soldinialle tre e tre quarti dello stesso lunedì indicato a Maironiossia venticinque minuti dopo il suo arrivo da Roma.

Dettociòfece un inchino umilepiantò in asso la signorache non se l'aspettava e ne rimase un po' male. L'uomo acido il qualeaveva gironzato al largo non senza rabbiosi moti di sopracciglia e dimandibolegli si fece subito incontro.

“Sonqua” gli disse il Commendatore. Ma intanto qualcuno gli sbucòalle spalle dall'imboscata di un chiassuologemendo: “Comendatoreme racomando! Son BisataComendatore; quelo che sona el pelittone inmi. Sperava tanto intel sindaco Maironiper la banda. Adesso i dise che lo faràsindaco i liberali. Me racomando una So paroletaComendatore!”.L'uomo acido gli intimò così bruscamente di levarsiloro dai piedi che il buon Commendatoretutto turbato al vederBisata volgersi fosco verso l'interruttoregli cacciò in manodei soldi e lo congedò più benignamente che potè:“Va làcarova là”. Ma ecco un'accattonaflebile. “Lo go spetà tuta la messabenedeto! S'elgavesse delle scarpe vecie!” Nuove escandescenze dell'uomoacido: “A sì una dona e ghe dimandè le scarpe alu?”. Nuovi allarminuovi soldi e miti consigli dell'ottimoCommendatore. “Va làcarava là!”Finalmente l'uomo acido potè avere il suo colloquiopromessogli in chiesanell'uscire dalla cappella. Era un accattoneanche luichiedeva una rivendita di sale e tabacchi per certa suaparente a corto di quattrini. E chiedeva per sè aiuto in unaquestione col Ricevitore del Registro. “La lo fazza far cavalierquel fiol d'un can! Chi sa ch'el deventa più molesin!” IlCommendatore ascoltò tutto con santissima pazienzachiesenotiziediede consigliriprese sorridendo le escandescenzescusòil R. Ufficio del Registro e venne finalmente a un quiache certo gli premeva. Domandò in tono scherzoso a che puntofosse la crisi municipale. Che stava per succedere dopo le dimissionidel sindaco? L'uomo acido si meravigliò delle domande. Nonaveva il Commendatore udito le rivelazioni strepitosedell'illustrissimo sior Bisata? “Ah ta ta ta!” fece ilCommendatore come un altro marchese Zaneto. “Mi dica Leisulserio!” Qui l'uomo acidofiutato un pericolo nello scandagliaredel Commendatore e visto il marchese Scremin mover loro incontrocome evocato da quel "ta ta ta'con una faccia pregna di parolepronteesclamò che adesso il Commendatore aveva faccende e“servitor suoservitor suo” lo piantò malgrado irichiami ufficiosi dello Scremin.

Ancheil marchese accattava un colloquio per accattare altre gravissimecosema il Commendatore non lo potè accordare lì perlì e lo rimandò alle cinque di quel famoso lunedì.Colui parve un po' seccato dell'indugioavrebbe voluto parlareall'omino prima ch'egli partisse per Roma e non dopo. Intanto i duepasso passoerano giunti al palazzo del Commendatore. Un vecchiodomestico stava sull'entrata confabulando con un fattorino postaleche subito mosse incontro all'umile onnipotente e gli porsesberrettandosiuna carta. “Il pro_memoria per mio figlioCommendatore. Mille grazie.” Mentre il Commendatore pigliava lacarta col solito sorriso benignoil domestico gli annunciòche lo aspettava nell'anticamera del suo studio il signor RicciottiÇeóla; e perchè il padronenon conoscendo ilsoprannome del Pomatopareva non raccapezzarsisoggiunse: “Pomatoquel de la Bibliotecaghe dirò”.

All'udireil minaccioso nomeil Commendatore ritirò il capo fra lespallechiuse gli occhiarricciò il naso e soffiò“pff!” come se avesse immaginato la puntura di un agorovente nella parte più delicata del proprio individuo.

Pensòun poco e poi commise al domestico di riferire al signor Pomato cheadesso il padrone doveva recarsi in Biblioteca e poi partire perRoma. “E se il signor Çeóla” insistette ildomestico “volesse sapere...” Ma intanto il padrone trottòvia senz'altro verso la Biblioteca.

Trottòvia con la segreta speranza di liberarsi anche dal marchese al qualenon poteva promettere alcun balsamo per il suo ulcussenatorium. Lo Scremintagliatopresso a poco sulla misura del Commendatoreperò alquanto piùvecchioallegando di aversi a recare in Biblioteca egli purepigliòlo stesso trotto e parve una pariglia sconnessa mostrata in fiera.

“Avreitante cose a dirti” cominciò il ronzino arrembato disinistraansandosulla scala della Biblioteca. “Saràper lunedì. Intanto ti raccomando...” Quiusando illinguaggio insolitamente ellittico e rotto cui lo costringevano latrottata e la scala faticosanominò il ministro formidabileal quale avrebbe voluto invece venire raccomandato lui.

“Anchel'affare Dessalle” soggiunse prima di entrare nella stanza delbibliotecario. Il Commendatore fece un impercettibile segno disorpresa. I Dessalle avevano ereditato dal padre certa lite con unpiccolo Stato americano e ottenuto due sentenze favorevolima nonerano ancora riusciti a farsi liquidare il credito. La faccenda eraentrata nelle vie diplomatiche e occorreva che alla Consulta nondormissero. Tempo addietroprima dell'incontro di PragliaCarlinone aveva fatto parlare al Commendatore dal marchese Scremine ilCommendatore s'era adoperato a favore dei Dessalle in Roma con ilsolito caritatevole zelo a cui ogni specie di prossimo piùlontano traeva elemosinando. Divulgatesi poi le voci scandalose suMaironi e la signora Dessallela marchesa Nenepur tacendo contutti le proprie angoscieaveva opposto un tale contegno alleeffusioni affettuosealle pressanti cortesie di Jeanneche Jeannenon aveva osato insistervi; e il Commendatoreun grande silenziosocinto d'informatori minutisapeva tutto ciò. Adessoall'udire la nuova raccomandazione del marchese per l'affareDessalleebbe un sorriso interno di spettatore savio delle debolezzeumane; perchè sapeva pure che a favore di Zaneto erano ingiuoco presso il ministero influenze mosse da casa Dessalle. Zanetodivinò e parò la frecciata invisibile.

“Inverità” diss'egli“nell'interesse della cittànon dovrei farti questa raccomandazioneperchè se i Dessalleottengono quello che domandanosi tratta di milioninon mi parepossibile che abbiano a restare qui e per la città sarebbe unaperdita.”

Parevaun capolavoro di finezza questa rispostae lo erama sincero; erail capolavoro di una coscienza industriosa e non d'industrioselabbra. A furia di ragionare col marchese scrupoloso del lobocerebrale destroil marchese dottor sottile del lobo cerebralesinistro lo aveva persuaso che facendo al Commendatore laraccomandazione Dessalle in ordine al meditato fine principale diallontanare Jeanne da suo generosi potevano accettare in pace ibenefizi accessori che ne venissero naturalmentecome l'appoggio deiDessalle per ottenere al modesto panino Zaneto un posto sulla palaministeriale delle infornate.

“Benebeneaddio addio” fece il Commendatorelottando asceticamentedentro di sè con il proprio buon giudizionon riconoscendoloscambiandolocausa l'andatura affrettataper un giudizio temerario.

Eglisi recava in Biblioteca per sollecitarvi certe ricerchenell'interesse di certe persone pratiche e di altre persone poetiche:di persone che gli avevano chiesto aiuto per comprovare il possessolegittimo di qualche decima e di persone che gli avevano chiestoaiuto per comprovare il possesso legittimo di qualche titolonobiliare.

“Midica la santa verità” esclamò il bibliotecariomezzo infastidito“vengono anche le balie a spasso da Leiperraccomandarsi?”

“Ancheanche anche! Sissignore sissignore sissignore!”

Eil Commendatore raccontò che proprio allora era venuto a casasua il signor Ricciotti Pomato.

“Leivuol dire Çeóla?” fece il bibliotecario. NoilCommendatore non chiamava mai la gente con nomignolispecie seridicoli. Pomato usque ad finem.Come andava quella faccenda di Pomatodunque?

“Uhl'affare si fa grosso” rispose il bibliotecario. “Finiremoprima noi di rimettere in piedi un esercito di decime cadute indeliquio e di fabbricare un altro esercito di conti e di contesseche il Municipio di allestire un paio di brache miracolose che vadanoegualmente bene a un Prefettoa un deputatoa un senatoreaQuaiotto e a Ciotti Çeóla.”

Eproseguì narrando che quella stessa mattinamolto per tempogli era pervenuta in casa una Nota municipalesottoscritta daldottor Záupacon l'ordine di non ammettere il Pomatoall'esercizio delle sue funzioni fino a che non si presentasse inuniforme. Çeóla era venuto all'ora solitaaveva fattouna scenata e annunciato che si sarebbe immediatamente rivolto alPrefetto per far mettere a Záupa e Comp. il capo a partito. LaGiunta si doveva riunire alle tre per deliberare ufficialmente circale dimissioni del sindaco. Qualcuno andava dicendo che la crisimunicipale sarebbe terminata come la crisi della lunama ilBibliotecarioconsiderato l'ordine draconiano "o brache omorte' che tagliava i ponti fra sindaco e colleghinon lo credeva.Del resto alcuni pezzi grossi della maggioranzaalcuni Caicome venezianamente diceva il Bibliotecariosi erano raccolti lasera primaforse per contemplare l'eclissiforse per altre ragionie avevano chiamato a sè il giornalista Soldini. Siccome ilSoldini è temperatissimo e in relazione col sindacosi ècreduto da taluno che i Caivolessero aprire trattative di pace.

“Mase il sindaco torna pregato” ragionò l'acutobibliotecario“vuole che ceda sull'affare delle brache? E senon cedeche figura ci fa il buon Záupa? Mo!”

Quiil Bibliotecario sorrisefissò il suo interlocutore con unreiterato sobbalzare della persona che significava il complicatogarbuglio di problemi da scioglieree conchiuse: “Vedràche Soldini verrà da Lei”.

IlCommendatore osservò ch'egli non c'entrava. Pensò inpari tempocon un visibile malumoreal colloquio chiestogli dallasignora Soldini per suo marito. Aveva speratosulle primeche ilSoldini desiderasse parlargli per interessi suoi personali.

Loconosceva per un logico acutoper un politico fineper un carattererigidodissimulato sotto maniere squisite e sotto molta tolleranzanon delle opinioni avversema delle persone che le professavano. Gliavrebbe reso assai volentieri un servigio personale che sarebbe statoil primo; trattare con lui di cose pubbliche gli garbava menoalienocom'era dall'affrontare certe rigidezze inflessibili anche fuori diquei convincimenti sostanziali nei quali era egli pureinflessibilmente rigido.

“Vadopoi anche a Roma oggi” diss'egli rasserenandosi nella speranzache una lunga necessaria dilazione del colloquio lo facesse sfumare.

Allorail bibliotecario lo pregò di non partire senz'aver parlato conuno degli assistenti distributori; suonò il campanello perfarlo venire e sussurròridendofregandosi le mani: “Unabalia!” mentre l'assistente s'inoltrava timidettorispettosetto.

“Scusisignor CommendatoreLei è presidente della Giunta divigilanza dell'Istituto tecnico.”

“Sì.”

“Houdito dire che viene un professore nuovo.”

“Sì.”

“Eccoperchè avrei una camera da affittarese volesse dirgli unaparolina!...”

IlCommendatore se la cavò come potè e l'altro annunciòal bibliotecario che il marchese Scremin chiedeva di parlargli quandofosse libero.

“Parlarmi!Non vorrà mica soldispero!” Il Commendatore trasalì.Quattrini? Perchè? Andavano male gli affari di casa Scremin?Malemale; proprio adesso che sua figlia guarisce. Guarisce? Ma! Lanotizia del giornonella sagrestia del Duomoera questa. Guarisceviene a casa fra pochi dì.

Ilpovero Commendatore che avevanella sua grande bontàviscereparticolarmente affettuose per tutti i nati dentro la cerchia dellemura cittadine e anche nei borghi e anche oltre il selciatoinquelle terre suburbane del Comune dove non era giunto l'affetto diantichi pubblici benefattorise ne andò tutto rannuvolato perl'intravvista rovina di una illustre famiglia della sua patria ecrucciato nella coscienza di rattristarsi troppo della rovina e dirallegrarsi troppo poco della guarigione annunciata. Forse non eraveroma se fosse veroaltro che Senatoaltro che Senato! Presso acasa lo raggiunse arrancando un ometto in occhialiun acuto e onestodottor di leggisempre febbricitante per nobili emozioni politiche oamministrativedel tutto platoniche.

“DunqueCommendatoreil Prefetto se ne va?”

“Nonlo so.”

“Mase la gente dice che lo fa traslocare Lei?”

“Io?”

“Sissignoreperchè il Prefetto vorrebbe arrivare allo scioglimento delConsiglio comunale e Lei no.”

El'ometto rise d'un grosso riso per dare all'aspetto del proprio direquel gaio e quel morbido che serve a far inghiottire altrui parolepiuttosto durette e amarognole nella midolla.

í“Sa cosa?” replicò il Commendatoremolto seccato.“Io faccio come la luna: mi eclisso!”

Esparì nel suo atrio.



II


DonGiuseppe Flores pregava nella chiesina della sua villasoloimmersoin una doppia visione. Gli avveniva spessosui sentieri del suocolledi sostare meditando le profondità di Dio e insiemecontemplando la bellezza magnifica e pia delle cose. Cosìadesso il suo pensiero si affisava nell'eternità santaimminentealtaoscura sopra la visione distesa della sua lunga vitaarrovesciata per modo da mostrare la faccia interiore come la solache valesse. Non ne vedeva il gran bene irradiato a tante anime pervie nascoste alla sua stessa coscienzasenza operesenza espresseparole di consiglio e di ammaestramentosolo con l'aura dell'esseresuo puroumilepieno di Dio. Ci vedeva infiniti torporimiserieinerzie e persino mollezzeegliaustero a sè circa idesideri del corpo quanto mite agli altri. Ci vedeva tracce di mortiaffetti inutilmente dati a fantasmi d'illusione e svaniti con essiedi altri affetti dati con troppo ardore a cose terrenepersino allacasa dove stava pregandoagli alberi del colleai fiori delgiardino. Ci vedevacome ombre di tristi vuotile perdute occasionidi opere buone e sminuite le opere buone dall'assenza del sacrificiodall'obbedir fiacco al divino impulsoda compiacenze caduche delbene operatose non viziose neppur virtuose. Vedeva tale la interasua vita e non gliene veniva tristezza nella preghierama tenerofervore. Segreto premio di quel suo riferire a Dio tutto il benefattosi manifesto in lui e invece a sè tutte le lacune delbeneera una intima gioia di affidarsi povero alla MisericordiaInfinitadi sentire Iddio con tanto maggior tenerezza di amorequanto più si riconosceva indegno. Quando per effetto dellanaturalecomune debolezza umana gli si allentava la tensione dellospirito e altri pensieri lo traevano inconscio con sèeranopensieri della famiglia sua che intera lo aveva preceduto nelmisteroparte per manifeste leggi di naturaparte per occulte leggidi sventura. Anime austereanime gaieanime tranquilleanimeardentierano tutte passate sulla terra con la fiaccola della fedetutte partite con il presidio soave di Cristo; e nella semplicechiesina modeste lapidi ne ricordavano i nomi. Don Giuseppe avevaamato i suoi del più vivido amoreli aveva pianti appena conqualche rara lagrima tutta santa di affetto alla Divina Volontà.Ora la sua mente si perdeva dietro care figure use tener sempre nellachiesina lo stesso posto. Si perdeva nella memoria del visodegliabitidelle attitudinidei saluti sommessi nel luogo santo. Allorail senso del silenziodel vuoto presente lo richiamava alla tristerealtà e alla preghiera. Quindi gli s'infondeva nellapreghiera un'aura delle persone nascoste ai viventiun vagorimpianto di non averle forse appagate in qualche loro desiderioinnocente nè ben taciutonè ben dettodi non averesufficientemente aperto loro le vie a qualche confidenza difficiledi non esservi ritornato il primo quandoaperta la viaciòsarebbe stato bene. E da quest'ultimo ricordo trapassòsenz'avvedersenementre la bocca pregava e pregavaall'altro delcolloquio con Piero Maironidel quale aveva udito poi cose tristisenza tentare alcuna mossa di soccorso.

Iltrotto di due cavalli e ruote correnti suonarono sulla via davantialla porta maggiorechiusadella cappella. Don Giuseppe udìtrotto e ruote svoltare nel cortile della villa. Poco dopo ildomestico venne ad annunziargli la marchesa Scremin.

Egliuscì a incontrar la marchesa sulla gradinata che sale dalcortile alla villa. La vecchia signoranobilmente vestita di neroun po' più magraun po' più rugosa e cerea del solitosi affrettava sugli scalini faticosi per ossequio al vecchio preteche alla sua voltaper ossequio a leisi affrettava sulla discesamalfida. Don Giuseppe non osava nè ringraziare nèmostrar letizia per una visita ch'era presuntuoso attribuire asemplice cortesia e non temerariopur troppoattribuire a qualchecagione poco lieta. La marchesa gli aveva parlatoin cittàdi certa iscrizione da far incidere in una medaglial'aveva pregatodi dettarladi commetterne il lavoro all'artefice; ma non erapossibile che fosse venuta per questo.

Dalcanto suo la marchesa pareva infervorata a coprire il fine della suavenuta con un arruffìo di frasi mozze e incongruedicomplimenti sull'aspetto florido del vecchiodel suo giardinosullabellezza del laghetto giallognoloingrossato dalle piogge recentiedi certe ochesue tronfie navigatrici; le quali la condussero aparlare delle anitre che teneva lei e dei taglierini al brodo dianitre e dei gusti di Zaneto cui non piaceva l'oca. Don Giuseppesorridevanon sapendo che diresecondava con qualche blandomonosillabo quella parlantina disordinata e nervosa che finalmentequando la povera signora sedette stanca sul canapè della salasi spense. Allora toccò a don Giuseppe di parlaredi chiedernotizie del marchesee poicon voce sommessaesitanteanchedell'altra persona per la quale aveva celebrato pochi giorni primain Duomo.

Unatristezza quieta comparve sul viso squallido della povera vecchia.“Ma!...” diss'ella. “Ecco!...” Non soggiunseparola edurante il silenzio lungo che seguìdue lagrime lespuntarono negli occhi. Don Giuseppe sospirò accorato e chinòil viso riverente davanti alla grandezza recondita di quella creaturaumile dalle parole incomposteche celava il suo inesplorabiledolorecurva e mansueta sotto l'impero amaro della Divina Volontà.

“Sofferenzedon Giuseppe” diss'ella finalmente. “Ecco... sìgiàsofferenze; e nessun vantaggio... Ma giàquasiquasi...” Tacque e gli occhi le brillarono ancora di pianto. DonGiuseppe credette intendere il suo pensiero; ella non desideravaquasiche sua figlia guarisseche sapesseche vedesse. Parve chela marchesa non dubitasse di essere stata intesaperchèsenz'aver proferite le parole amare le confermò con un“proprio!” pieno di doloredi severità e didisgusto. Diceva tuttoquel proprio;e don Giuseppe fece il gesto di chi vorrebbe pur contraddire e nonsa. "Possibile' pensò"recar tale afflizione a unapoverasanta creatura sventurata come questa!' Mansueto allafragilità umanasi astenne da giudizi più acerbi dicosì; ma la faccia dilettosa della passione colpevole mai nongli era parsa meno lusinghieranè più spiacentel'altra egoistica sua faccia crudele.

“Eppure”diss'egli“quel giorno in Duomo l'ho veduto nella cappella conLei...”

Piùdal volto che dalle avviluppate risposte della marchesa don Giuseppecapì che se quel giorno il contegno di Maironi era statobuononulla di mutato appariva nelle sue relazioni con la Dessalle.L'eloquio della marchesa era sempre difficilema poi a nominare nonche a descrivere le passioni illegittime le mancavano addirittura ivocaboli o almeno essi le bruciavano le labbra e nessuno ne aveva maiudito da lei.

Devotareligiosamente al marito dal dì delle nozzeprofessava nelcuore il più duro disprezzo per le colpe di amorenonavendone conosciuta mai la tentazionenon avendo saputo maineppureal tempo della sua florida giovinezzache fosse immaginazione. Alsuo sesso era più severa e severissimamente giudicava Jeannebenchè non con parolechè ne la tratteneva un altosenso di dignità signorile. Nel nominarlanell'alludere aleisi faceva tetra in viso e la sua voce si coloriva della stessaombra; niente altro. Agli uomini era meno severa perchèsecondo una delle sue massime piuttosto ferree che aureeli credevatutti per lo meno altrettanto sedotti quanto seduttorinon ammettevache alla vera virtù femminile alcuno ponesse assedio. Peròse giudicava Piero un sedottoneppure le veniva in mente che lalunga separazione dalla moglie potesse scusarlo nè poco nèmolto. Chi gliel'avesse detto non sarebbe riuscito che a nausearla ea perdere la sua stima.

“Iolo tratto sempre” diss'ella “come se non sapessi niente. Ecosì parlo di lui agli altri: questa è la mia regola”.

Infattiin città chi ridevachi sorridevachi si rattristavapietosamente di certe ingenue frasi della marchesa in lode delgenero.

“Hoanche pensato” soggiunse con infiniti stenti“sì...non so... eccosìtante cose... tante piccole cose... tantipiccoli mezzi... sìnon so... m'intendadon Giuseppe!”

“Sìsìeh sì” fece don Giuseppe che non aveva intesonientecercando d'indovinare o almeno di aiutare con una spintaspirituale.

“Eccoquesto!” ricominciò la vecchia signora; e si pose a diree non direnel suo inimitabile stilele fini trame ordite da leiintorno al generofinora invanoper tirarne quindi a sètutte le fila e staccarlo dalla Dessalle. Piero si era sempreoccupato pochissimo delle proprie faccendeaffidate prima almarchese Scremincattivo amministratore anche luie poi ad agenti.Il grosso patrimonio gli rendeva assai meno del ragionevole. Primadella malattia di sua moglie la suocera gli era sempre ai fianchi colpungolo delle campagne da visitaredegli agenti da sorvegliaredeiregistri da esaminare. Poi lo aveva lasciato in pace. Appenainformata del pericolo di villa Diedosi era accinta ad un occultomolteplice lavoro. La sostanza stabile di suo generotutta nellaprovincia di Bresciaera amministrata da un vecchio ragioniere cheveniva di tempo in tempo a conferire con Maironi come prima avevaconferito col suo tutore Zaneto. Persona proba e devota al nomeMaironicostui non aveva taciuto a Piero in passato la propriaopinione che il miglior partito di provvedere ai suoi interessi fosseanzi tutto quello di prendere dimora nella stessa loro sedeprincipale: discorso ingratoin quel tempoalla marchesae che leaveva fatto prender l'uomo in uggia.

Piùtardisimulando preoccupazioni sue proprie circa gli affari delgenerola vecchia signora fece dire da un amico di casa alragioniere che quanto più egli insistesse per attirare Maironia Bresciatanto più si renderebbe gradito; e in pari tempoconoscendo non in tutto ma in parte gl'imbarazzi finanziari diZanetocominciò a insinuargli che sarebbe opportuno di mutaredimorache lontano dai parenti e dai conoscenti certe economiesarebbero riescite più faciliche l'Elisa avrebbe preferitoritornando in famigliaun soggiorno dove non fosse tanto conosciuta.Il sindacato di Piero era un enorme macigno nella sua via. Appenasaputo della crisi e ringraziatone Iddio nel suo cuoreebbe spaventodei paceri che si sarebbero interposti fra il sindaco e i suoicolleghipensò all'uomo acido e senza fiatarne con lui glifece dire all'orecchio ch'era impensierita dallo stato degli affariMaironiche considerava la crisi una vera fortuna per suo generonèsarebbe affatto riconoscente a chi cercasse di mettere pace nelMunicipio: un modo questo di aizzar l'uomo a spruzzar il suo acidocon zelo anche maggiore del solito. Al genero aveva parlato due voltedegl'imbarazzi economici nei quali si trovava impigliato il marito.La prima volta gli aveva fatto balenare con placidezza quasischerzosa la sua idea: un giorno o l'altrocaro teandiamo tutti astar a “cossa xela”intendendo Brescia. La seconda voltaera stata più ardita e più assurdaaveva parlato divender palazzi e poderidi andar a vivere a Bresciain casa diMaironi: “E se no te voli vegner ti andaremo noaltri pori veci”.

Neldire e non direa modo suotante sottili fila di artifici santileingarbugliò siffattamente che a un certo punto don Giuseppenon ne aveva capito nulla ed ella stessa vi si era avviluppata dentroa segno da togliere al suo interlocutore ogni speranza che potesseuscirne. Ella continuò invece senza scomporsi il suo discorsorotto e oscuro peggio che maiannaspandoannaspandospremendosidalla gola parole che cozzavano insiemeferma in qualche idearecondita della sua mentecui pure voleva dire e non dire. DonGiuseppe si fece un po' inquieto. Lo stesso crescente annaspare dellamarchesa dentro a tenebre sempre più fitte e il lampo diqualche "bisognerebbe' gli diedero l'idea di un disegno chiaronella mente di lei cheper abitudinenon metteva mai fuori il suopensiero intimo alla primae l'idea ch'ell'avesse assegnato uncómpito anche a luiun cómpito non facilenonrispondente al reale poter suo. La marchesa venne a questaconclusione tanto più paurosa quanto più inattesa:“Capiscedon Giuseppequel che m'intendo?”

“Eh!”diss'eglinella sua riverenza; e tacque. Poichè il silenziosi prolungavariprese imbarazzato: “Eccoforsetutto no”.

Lamarchesa ebbe un triste sorriso di preghiera: “Bisognerebbe cheparlasse Leidon Giuseppe”. Parlare a chi? Don Giuseppedopoessersi passata replicatamente la mano sulla fronte come per pulirsie liberarsi d'una preoccupazione molestasi arrischiò adomandarlo.

“Ecco”rispose la marchesa“intanto a Zaneto.”

DonGiuseppe tentennòstorse un poco la bocca. La marchesaricominciò pazientestavolta molto meno nebulosail suo diree non dire.

“Eccomi no so. Lu ga in mente sto Senato. Una fissazionghe digo mi.Metemo che i lo fazzache no credo. Cossa vien fora? Spese.”

Quila marchesa espresse come potè una sua particolare amarezza.Zaneto mendicava raccomandazioni in quella casa! “Lu el dise checosì se fa capir che no ghe xe gnente de malema mi digo cheno ghe andaria.” E ritornò alle spese. Parlò degliimbarazzi del marito. Tutto per soverchia bontà “perchèlu caritàperchè lu tegner afituali che no pagaluquesto e lu quelo.” Guai se non avesse messo lei un po' di frenoa tante larghezze! Adesso veniva il peggio.

Ungalantuomo innominato“un berechinghe digo mi”avevasoffiato nell'orecchio di Zaneto che non lo si creava "cossaxelo'ossia senatoreper la cattiva riputazione delle sue finanze ech'egli per esser sicuro della nominadovrebbe regalare “mi noso quanto a mi no so chi”ai cronicio agli orfanio aiderelittio ai tignosi“a quelo che ghe comoderà a lumi digo.” Figurarsi!

Sìdon Giuseppe si rammaricava di questi guai ma non vedeva qualerimedio ci potesse recar eglicon qual veste si sarebbe presentatoal marchese per sciorinargli un sermone.

“MaLeimarchesa?” diss'egli. “Come potrei riuscire io asmuoverlo se non ci riesce Lei?”

Lamarchesa scosse il caposospiròconfessò la propriaimpotenza. “Mi nosaladon Giuseppe. Bonissimoma no seintendemo.”

Infattise la eloquenza della povera vecchia signora era scarsa e grossaquella di suo marito era invece delle più sottili e pronte.Ella vedeva in ogni questione le diritte ragioni della semplicegiustiziaegli ci vedeva le ragioni contorte di una giustizia chefacesse alle braccia con l'opportunità. Ella pigliava i propriargomenti in un'angusta cerchia di notizie e d'ideeegli nel campomaggiore della sua cultura e della sua retorica.

Perlei il seggio di senatore significava soltanto vanità e spese.Il suo più filosofico argomento contro le ambizioni del maritosomigliava moltoper un curioso incontronel suo scetticismopraticoall'argomento col quale Jeannenel suo scetticismo teoricoaveva quasi deriso le nascenti idee socialiste dell'amico: per lapresenza di Zaneto nel palazzo Madama e in fondo neppure per lechiacchiere degli altrila menoma fra le incamminate cose del mondonon avrebbe certo mutato strada! Invano il buon Zanetonon osandorispondere ch'egli era dispostissimo a rispettare del tutto iprefissi itinerari delle cose del mondosi metteva a distinguerel'ambizione legittimasentimento doverosodalle ambizioniriprovevoli; invano le parlava di servigi alla religionepossibili arendere anche col semplice voto. Nel dir questo egli si credevasincero e arrivò sino a dimostrarlo alla incredula sposa chebatteva e ribatteva il chiodo dell'ambizione e della vanità.Le spiegò ch'egli era della stessa pasta di tutti gli altriuomini e non si credeva immune da certi stimoli non tanto nobili; mache siccome sopra gli stimoli forse nascosti gli appariva nellacoscienza una bellezza di buone ragioniegli non aveva obbligod'investigar se stesso più a fondo perchè anche a sèstesso l'uomo deve usare caritàanche in sè stessodeve astenersi dalle investigazioni che sarebbe odioso di praticarein altrui.

Suamoglieintontita e sdegnosarespinse da sè tutta questapsicologia e questa casisticacome incomprensibili logogrifi.

Ell'avevadunque rinunciato a tentare direttamente la conversione di Zaneto elo ripetè a don Giuseppeil quale fece e rifecesospirandol'atto di alzar con le spalle e con il capo un gran peso.

“Comefaccio?” diss'egli. Senza tener conto de' suoi gesti nèdella sua parolala impavida vecchia signoracome se fosse bell'einteso che don Giuseppe sarebbe l'ambasciatores'incamminò ametter fuori un'ambasciata nuovache quegli era ben lontanodall'immaginare. Annaspò un bel pezzo intorno ai suoi beniextradotali che aveva gelosamente e quasi avaramente amministrati aparte per amore della figliuolaperchè non andasserocomeella disse a don Giuseppe“nel caldieron”nel caldaioneScremin tutto screpolato di debiti. Era una sostanza ragguardevole efinora la brava marchesa non aveva mai voluto aiutare a saldar ilcaldaione nè con un soldo nè con una firma.

“Mase occorredon Giuseppe” diss'ella“vada.”

Eccol'intimo pensiero della marchesa Neneil pensiero taciuto finoall'ultimocagione veraunicadella sua visitaera finalmentegiunto per le vie più strane e distorte sul suo labbron'erauscito quasi a casoquasi come un'idea che le fosse germinata alloraallora nel cervello.

Ellalo aveva concepito da lungo tempo e condotto silenziosamente amaturità nell'attesa di metterlo alla luce quando ne venisseil destro. Il pensiero era questo: offrire a Zaneto il versamentodella propria sostanza nel famoso “caldieron” del quale unabile amministratore avrebbe poi tenuto il mestoloa patto divendere tutta la sostanza stabile Screminpalazzo e fondie ditrasferirsi a Brescia. Aveva in pari tempo intrapreso indaginiocculte sul reale stato degli affari di suo maritosul valorecommerciale dei beni stabili di lui e dei propri. Udito che il GenioCivile stava cercando una residenza più comodasi eraarrischiata a muovere una pedina in Prefettura per saggiarecautamente il terreno con la mira di offrirequando ne fosse ilcasoil palazzo Scremin. Aveva persino portato a Venezia i propribrillanti per farli stimare. Dal medico che le aveva recato la parolapreziosasi era fatto scrivere una specie di monito ufficiale che sel'Elisa uscisse guarita converrebbe collocarla in un soggiornoaffatto nuovo per essa. Quando le fu riferito che certoamministratore di un Istituto piopersona intima di Zanetolavoravaper indurlo a una munificenzasi spaventòstimògiunto il momento di agire e parlò a Zaneto. Zaneto sicommossepianse di gratitudineabbracciò sua moglie e ledisse in tono pateticochiamandola “vecia mia”il suoaffettonon tanto alla casa e alle terre de' suoi avi quanto allacittà nativa. Se Iddio concedesse loro la straordinaria graziadi quella guarigionepoteva bastare un'assenza temporaneaunviaggioun breve soggiorno altrove. A ogni modo ci si sarebbepensato allora. Perchè affrontare un trambusto simileun verocataclismanella previsione di avvenimenti pur troppo incerti? Lamarchesa volle far allusione al pericolo di villa Diedo ma si spiegòcosì disgraziatamente male che il bravo Zaneto non duròfatica a sgominarla con una carica di rettorica ottimista.

Eglichiese poitutto umileil perchè di questo imporglicondizioni. Qui trovò duro. La cara “vecia mia” glirispose risolutamente che voleva vederlo “meterse quieto” eche il solo modo per lui di “mettersi quieto” era quelloproposto da lei. Allora Zaneto si ritirò accigliato dentro letrincee della propria dignità. Nemmanco intendeva ciòche questo “mettersi quieto” significasse. Non sapeva diaver mancatoper grazia di Dioai suoi doveri familiari. Se undovere familiare gli prescrivesse di trasferirsi altrovesaprebbecompierlo senza bisogno di condizioni e di patti fermati prima. Noncapivamadamache questa sua condizione era un'offesa? Madama nonvolle saperne di capirlo e tenne più duro che maicosicchèZaneto non volle saperne alla sua volta di continuare il discorso.

Oraella espose a don Giuseppe il suo pianoil messaggio ch'egli avrebbedovuto portare a Zaneto; efedele all'abitudine sua della reticenzanon fiatò del suo tentativo direttodella disfatta. Temevache don Giuseppese sapessedeclinasse l'incarico o almeno loeseguisse senza quella fiducia ch'è sempre una forza. DonGiuseppe guardava stupito e ammirato la vecchia signora della qualeaveva creduto sino a quel momento che apprezzasse sufficientemente ibeni terreniche avesse un certo affetto alla proprietà esopra tutto che sarebbe morta prima di lasciare la sua casala suachiesale sue vecchie amichele sue abitudini. Ellache solo peraffetto alla figliuola e per una ascetica devozione all'ordine si erasempre governata da custode tenace degli interessi proprise nestava lì confusa davanti a luilontana dal pensare di averdetto cose ammirabili come dal credere di aver parlato greco. DonGiuseppe non sapeva come avrebbe fatto a compiere la missionepropostagli ma sentìdavanti a Diodi non poterla rifiutare.Accettò e ricominciò ad abbrancarsi la fronte con lecinque dita spiegate della destrapremendole forte e lentamenteraccogliendole in un cuneo per dispiegarle e raccoglierle ancoracome uno che si trova invischiato in calcoli astrusi e non ci siraccapezza. Durante questo suo faticoso meditare la marchesa uscìmolto impensatamente a dirgli che aveva bisogno di un altro favoreda lui; ed egli alzò il viso con una ingenua espressione disbalordimento come se dicesse: un altro? Le par poco quello che hogià sullo stomaco? La marchesa non parve avvedersenee gliparlò imperterrita dell'altissima stima in che Piero teneva ilCommendatoreper le relazioni avute con esso durante il sindacato.Se il Commendatore volessepotrebbe forse esercitare su Piero unainfluenza buona. Bisognerebbe raccomandarglielofar sì cheegli procacciasse di vederlo spessodi legarselo quanto fossepossibile. Si sapeva che il Commendatore professava il piùriverente ossequio a don Giuseppe; chi prendere per quest'ufficiomeglio di don Giuseppe? Qui non c'erano difficoltà e donGiuseppe non ebbe a ridire che sul riverente ossequio.Per verità non disse parolafece solamente un atto dicompassione per il triste inganno sul conto suo in che viveva quelbravo signore. Intanto venne il solito domestico rurale con il solitocaffè e la cauta signora tirò subito in camporifacendosi un viso placidole oche del laghetto.

Bisognavapoi vederle da vicinoquelle ocheprima di partire! Nell'alzarsiinsieme a don Giuseppenel disporsi a una passeggiata in giardinola marchesa pregò il domestico rurale di avvertire Giacomo estimò di aver così trasmesso a Giacomo l'ordine diattaccare. “Giacomo?” disse fra sè il rurale. “Saràil cocchiere. Avvertirlo di che? Ci penserà lui.” E se neandò con la intenzione lodevole di riferirgli tal quale ilmessaggio della sua padrona. Ma Giacomo non era il cocchiere cheaveva condotto la marchesa Nene a villa Floresera il nome di undefunto cocchiere antico di casa Screminl'emblematico nome colquale la marchesa chiamava imperturbatanove volte su diecipiacesse o non piacesse loroi Beppii Tonii Tita venuti poiilChecco attuale.


Limpidiricami di note intorno al mover pacato di una melodia tranquillanèlieta nè tristeavrebbero potenza di esprimerequell'inafferrabile interno che sfugge al poeta nel dire l'andarlento di don Giuseppe e della marchesa per l'erbe tutte vive di ventonell'ombra chiara delle nuvole argenteefra le macchie tuttebisbigli di frondirotti dalle note insistenti e gravidalle volateacute degli usignoli. I due non scambiavanoquasiparola; e appuntola sola musica potrebbe dire il loro silenzio pieno di sensolecomunicazioni non inconscie delle loro animecomunicazioni di pietàvicendevolepensando la marchesa come il vecchio pretecon soavepoesia di speranzeavesse preparato ai suoi caridiscesi poi nelsepolcrotanta bellezza di cose; pensando don Giuseppe quanta bontàfosse nella donna addolorata e stanca che per essergli cortesemostrava interesse al suo giardino; blanditi l'una e l'altroin paritemponel cuoreda un'ultima dolcezza terrenada un gentilecompiacimento della bellezzanon ancora fatto straniero alle loroanime afflitte. Perchè la marchesa nel suo complicato cervelloci aveva pure una cellula per il senso della bellezza dei fioridegli alberi e dei giardini; alla quale cellula mettevano capo moltifinissimi nervi del pensieroun solo grosso paralitico nervo dellaparola.

“Eccole oche” diss'ella con la sua serenità blandanell'appressarsi al microbo giallognolo e inquieto che si pigliavacon beata vanagloria il nome di lago. “Ecco le oche. Le xearene.” Don Giuseppe le spiegò pazientemente che le ochenon erano anitreche i suoi palmipedi erano un duplice popolo.

Inquel momento un languido raggio di sole avvivò la scenapastoralele acque inquieteil gruppo di pioppi tremoli che lefiancheggiail verde ovale della prateria cui l'obliquo poggioboscoso e una diga di alta verzura corrono a chiudere insieme in unosfondo nero di abeti. Quel tale grosso nervo paralitico dellamarchesa si contrasse un poco. “Belo” diss'ella “donGiuseppeel cossa xeloel prà.”

DonGiuseppe non rispose. Contemplava. Quel posto del giardino era il suoprediletto. Aveva sognato un tempo giuochi e risanella prateriadibambini del suo sanguenipoti e pronipoti. Adessoammirando con lasua perenne freschezza di spirito i capricciosi amori della luce edel verderipensava il proprio testamentofatto da pochi mesidopolunghe incertezze e meditazionila villa e il podere diventatiresidenza e ricchezza di sei vecchi parroci della diocesi e di seivecchi medici condotti della provinciaimpotenti e bisognosi;immaginava i suoi eredi squallidi a passeggio nel prato.

Lamarchesa soggiunse che per l'Elisase mai avesse a uscire di làci sarebbe voluto un soggiorno simile. Don Giuseppe s'infiammòsubitoofferse villa e giardino con tanto fuoco che la marchesasorridendo fra le lagrimegli prese un braccio al polsoglielotenne stretto a lungo in silenzioper fargli capire che loringraziava e insieme che non c'era da correr tanto con le speranze.Don Giuseppeturbato del turbamento di leis'imbarazzònonsapeva che dire. Ella era fortetanto forte che molti la credevanopoco sensibilema ora che aveva aperto il cuore a don Giuseppe comea nessuno maila sua forzafatta in gran parte di silenzioeravenuta meno. Vide a due passifra i pioppialcuni sedili.

“S'elpermete” diss'ella con voce soffocata “qua xe belo.”

Esedette. Don Giuseppe le sedette accanto e il suo smarrimentola suainquietudineil suo timore di peggio dovettero apparir tanto che lamarchesa gli disse con uno sforzo: “Gnentesalodon Giuseppe”.

Pocoa poco la innocente pace del verde e delle acque solitarieisussurri miti degli alberi chetarono l'afflitta come in una casaov'entrò la sventurainconscia festività di bambinitalvolta chetapoco a pocoun amaro pianto.

“Ecco”diss'ellaasciugandosi gli occhi con il fazzoletto. “Figurarme!”

Volevadire che s'era commossa nell'immaginar l'Elisa in quel giardino. DonGiuseppe non capì e non cercò di capire. La pregòun po' a casoad aver cura della propria salute. “Ghe n'òtanta!” gli rispose: e soggiunse con insolita energia che nonvoleva morireproprio no.

Ohpovera grama creaturasarebbe stata beata di riposare nella mortepoichè credeva in Dio! Ma se la sua cara uscisse? Chi laproteggerebbechi la difenderebbe contro colei? Che saprebbe fareZaneto? Non c'era che la sua mamma per assisterlae la sua mammadovevavoleva vivere.


Piùtardi il contadino di don Giuseppe interrogato dalla marchesa seavesse avvertito Giacomobalbettò parole incomprensibili; einvitato dal suo padrone a spiegarsi meglioinvece di risponderealla marchesa rispose a luisottovocecon una faccia sbalordita:“Signorel ga dito ch'el xe morto”. Infatti il cocchiereimpertinenteuditosi chiamare “OheGiacomo!” avevagridato: “El xe morto!”. La marchesa capìsorrisecon serena commiserazionescotendo il capodel bello spirito suococchiere.

Primadi salire in carrozza ella raccomandò alle preghiere di donGiuseppe la sua figliuola.

“Elme credadon GiuseppePiero no la ga mai conossuda.”

Solamentelei la conoscevasolamente lei sapeva i tesori di quell'anima.

Rimastosoloil vecchio prete ricordò che un amico suopoetaparlando un giorno con lui della marchesa Nenel'aveva rassomigliataa un cartoccino di gemme come ne tengono i gioiellieria ungruppetto di sassolini preziosichiusi in un pezzo di vecchioquaderno da scuola strappato a casorabescato di storti caratteripuerili senza senso; e anche a un ordine mirabile di cavitàsotterranee disposte per qualche occulto lavoro sapiente e beneficosotto il disordine di vecchie culture mezzo abbandonate.

Madileguato appena il rumore delle ruote che si portavan lontano quelriverito problema psicologicodimenticò le similitudinipoeticherientrò in casa pensosocurvosotto il peso dialtri problemidi un messaggio difficile.



III


Dieciminuti dopo il suo ritorno da Romal'ottimo Commendatore sedettefrescoserenodavanti a un mucchio enorme di lettere e stampesuonò per la cameriera e le ordinò un caffèforte. Nello stesso momento il cuoco annunciò il signorSoldini. “Portane due” disse il Commendatore allacameriera. La cameriera capitò a suo tempo con due caffèma tosto aperto l'uscio alle spalle del Soldinivide ch'era venutacon lui anche la sua signoraripiegò silenziosamente incucina e si consultò con il collega. Doveva tornar dal padronecon tre caffè? “Per quei musi?” rispose il cuocoradicale. “Ma noma no!” Non sarebbero più partiti!E Ciotti Çeóla saliva le scale in quel momento peravere anche lui la sua udienza. Il secondo caffè potevaservire benissimo per lui. La camerieraliberale moderatacedettesul primo punto ma protestò che sarebbe morta piuttosto diportare il caffè a Ciotti Çeóla.

Soldiniera venuto infatti con la signora e con molte scuse per questasopraggiunta complicazione del colloquio. Siccome fra la signora elui c'era qualche disparità di vedute circa l'argomento di cheavrebbero parlato in seguitosiccome la signora credeva fosse inpotere del Commendatore un modo di togliere ogni ragione di dissidiosiccome confidavano entrambi pienamente nella rettitudine della suacoscienza morale e religiosacosì il marito aveva detto allamoglie: “Vieni anche tuparliamogli insieme”. MentreSoldini spiegava ciò al Commendatore con la sua parola elettae lucidachiamandolotra scherzosamente e rispettosamenteavversario politicola signoratutta confusarossaridentesiscusava di una propria supposta sfacciataggine con dei “cosadirà Lei? cosa dirà Lei?” e il Commendatoreripetendo “un piacere! un piacere!” si cercavafrettolosamentecon qualche angustianel capo tutte le possibiliviefacili e difficilipacifiche e malsicureche il discorsoavrebbe potuto prendere.

Eccointanto; proprio di politica non si trattava. A questo esordio delmarito la signora esclamò che se si trattasse proprio dipolitica ella non se ne vorrebbe immischiare. Il Commendatoreesperto degli uomini e delle cosepensò tostopureammettendo la buona fede degli interlocutori suoiche dunque neldiscorso atteso la politica c'entrava molto. Infatti gli amicipolitici del Soldini credevano sapere che gli avversari lavorasseroper lo scioglimento del Consiglio comunale e predisponessero lacandidatura liberale di Maironi servendosi del consigliere delegatoBassanellireggente la Prefettura da pochi giornicompagno d'arminel 1859di Maironi padre. Se ciò avvenisseil giornaleclericale avrebbe fatto a Maironiper volontà di certi capidel partitouna guerra a coltello.

“Tuno!” esclamò la signora.

“Eccoil punto!” rispose il maritosorridendo. E proseguì adimostrare che in quel caso il diritto di guerra a coltello cisarebbe stato.

Quindispiegò al Commendatore che mentre le altre signore del partitoerano inviperite contro Maironi e lo avrebbero mangiato vivosuamoglie non pensava che alla salute di quell'anima e tremava divederla buttarsi senza ritegno all'errore e al maletremava che unaparte di responsabilità ne avesse a pesare anche su di luiSoldini; forse la parte maggiore perchè Soldini non userebbemai l'ingiuria spregevolema con la sua freddamisurata urbanitàrecherebbe ferite più profonde.

“Miamoglie mi fa quest'onore” diss'egli ridendo. E soggiunse che asuo avviso ell'aveva torto. “La diserzione al nemico èsempre atto moralmente colpevole. Un atto immorale pubblicodev'essere pubblicamente e severissimamente biasimato nella forma cheil tempo e il luogo consentono. Questo me l'accorderà. Ebbeneabbia pazienza. I liberaliquando ci combattonoamano fare ungrande sfoggio di Vangelo. Non parlo di Leiche non lo fa; ma glialtri ho paura che ne sappiano di Vangelo quanto ne so io diastronomiacioè quattro o cinque cose grossela strapazzataai Fariseiil perdono dell'adultera esopra tuttoregnum meumnon est de hoc mundo. Ora nelVangelo si vede usata da Cristo l'invettiva senza femminilitimidezzecontro quei colpevoli appunto che lo movevano a sdegno perun carattere di viltà che aveva la loro colpa; solamente...badi beneperchè io non voglio essere accusato di scarsacarità cristiana verso Maironi! solamente non contro Giuda. IFarisei avevano molto del buonoper essi ci poteva essere rimedioancora e Cristo scagliò l'invettiva. Contro Giuda no perchèlì non c'era più rimedioin Giuda era entrato Satana.”

“Peuhpeuh peuh” fece il Commendatoremostrando di gustar poco questisottili ragionamenti. “Ci sarebbe alquanto a ridire su alcunecose che Lei ha detto; sulla viltà di certe diserzioniperesempioe sulle invettive evangeliche paragonate con le invettivegiornalistiche.” Qui il Commendatore cominciò a gonfiarsidi riso. “Se Lei” diss'egli “vuole assumersi la partedi Cristoci pensi Lei; ma insommacosa c'entro io con Satana?”E diede in una risata sonora.

“Nonha mai picchiato al suo uscio?” disse la signora ridendo pure.“Almeno perchè Lei gli faccia avere una commenda dei SS.Maurizio e Lazzaro? o un posto al Ministero dell'Istruzione pubblica?Adesso parlo iovero? Vedecerti amici di mio maritoottimepersone ma poco pratiche del mondohanno condotta male tutta questafaccenda di Maironi fin da principio. E l'hanno condotta male per nonavere ascoltato mio marito.”

Soldinila interruppe. “Ehse non mi ascolta sempre neppure miamoglie!”

“Parliamo”continuò la signora “con la libertà dei nostricapelli grigi.”

“Ilprimo chiasso grande per questa disgraziata relazione lo hanno fattoi liberalie si capiscetrattandosi di un clericale. Io sonoconvinta che il chiasso era peggiore del male e che usando prudenza ecarità verso un uomo fortemente tentatobisogna dirloversoun giovine in quelle condizionisi poteva salvare tutto. Invecequegli amici hanno incominciato con imprudenti smentitequasisolennipoi hanno avuto una reazione di ferocia piùimprudente ancora e adesso Lei sente che intenzioni hanno. Saràil loro diritto ma questo è il modo di perdere le animenondi riguadagnarle. Lei dirà: perchè questa donna ci siriscalda tanto? Mi ci riscaldo perchè Maironiprimavenivaqualche volta da noi e mi ero posta in capo che quel giovanechepure trovavo un po' eccessivoimpulsivocome dicono adessoungiorno o l'altro sarebbe diventato qualcuno.”

Lacameriera fece capolino da un uscio laterale e disse piano al padronecon un sorrisetto sarcastico:

“Ghexe el signor conte Çeóla.”

“Santinumi!” brontolò il Commendatore mentre a Soldini sfuggivaun lievissimo sorriso. “Aspetti! Aspetti!” E accennòalla signorache si era alzatadi rimettersi a sedere.

“AhCommendatore!” diss'ella“Lei solo può mettercid'accordo!”

“Io?”

Questapoidavveroil Commendatore non se l'aspettava.

“Certamente”fece Soldini. E pigliò a spiegare l'enigma. Si sapeva che loscioglimento del Consiglio comunale stava sul tappeto dellaPrefettura. Qualcuno pretendeva che Bassanelli avesse giàsollecitato il decreto reale. Ora se il decreto reale venivaoccorreva che il Commendatore persuadesse Maironi a declinare lacandidatura. “Il pensiero di mia moglie” conchiuse ilcavaliere Soldini “è questo: se non si posa unacandidatura liberale Maironiil giornale cattolico sta zitto. IlCommendatore impedirà in qualunque modoo premendo sullostesso Maironi o premendo sul partito liberaleche quellacandidatura si posi.”

“EhehehLei mi fa un'intimazione da barcaiuolo veneziano!” disseil Commendatorecacciandosi ridente le mani in tasca e articolandoquasi con uno sforzo le parole scherzose. “Sciàpremi! Scià premi! Ma ioho voglia di stalìr!Di stalìr!”E fuori la sua solita risatina. Soggiunse poiserioche di elezioninon si era mai occupato e non intendeva occuparsi.

“Abbiapazienza” replicò il cavaliere. “Quello è ilpensiero di mia moglie. Francamenteil pensiero mio è un pocodiverso. Ecco. Io non credo nè che Maironi ascolterebbe Lei nèche accetterà una candidatura liberale. Vi è una cosache non ho detta neppure a mia moglie e che dirò adesso. Iodubito che Maironi sia per entrare in quella strana categoria di gransignori socialisti che abbiamo in Italia. Badisa; fra quelli dibuona fede e non fra quelli che si fanno socialisti per assicurarsidall'incendio; eccoLei mi capisce. Maironi è appunto unimpulsivo di buona fede. Io questo lo desumo da varie piccolepiccolissime cose che so e anche da certo discorso ch'egli deve averfatto al Bassanelliil quale non gli è poi tanto cordialeamicoper certe sue intime ragioni...”

“Nonso nientenon so niente” s'affrettò a dire ilCommendatore con il tono di uno che neppure vuol sapere. “Ma ioso” riprese l'altro. “Ora se per casoavendo luogo leelezioni generaliMaironi fosse portato e si lasciasse portare daisocialistipensi come lo dovrei garbatamente malmenare! Lei vedeoraCommendatoredove riesco e in qual modo Ella può evitarea mia moglie e a meforse per la salute di un'anima e certo per lanostra pace domesticail dissidio di cui abbiamo parlato!”

Cosìdicendoil cavalier Soldini rideva e il Commendatore rispose “nono nonon vedonon vedonon vedo” ridendo anche luicome unoche vedesse benissimo.

“Hosbagliato di grosso” riprese il primo “poco fa. Loscioglimento del Consiglio non è sul tappeto della Prefetturaè sul tappeto di un tavolino molto più visibile agliocchi miei!”

“Ohche salti!” esclamò il Commendatoreridendo ancora. “Ohche salti! Lei mi creaun momento fagondoliere veneziano e adessomi nomina ministro dell'interno.

“Ohche salti!” E più di questa esclamazionecinque o seivolte ripetuta di poi“oh che saltioh che salti!” ilcavalier Soldini con tutta l'abilità sua e la signora Soldinicon tutta la sua foga sincera non poterono cavare al Commendatore; ilqualemalgrado quel fare scherzosoera stato fin da principio delcolloquio attentissimamente in guardianel dubbio di una premeditataarchitettura di tutta la scena per lo scopo clericale: evitare loscioglimento del Consiglio. In questo egli faceva torto almeno allasignora. Per compenso ricondusse cavallerescamente fino alla scala isuoi visitatorimolto curiosi di vedere l'annunciato autore putativodella crisi municipaleun giovinotto dalla faccia poco simpatica chestava nell'anticameraduro come uno che non può liberarsi dacerto imbarazzoda certa soggezione e non vorrebbe parere timido nèossequiente e ha per giunta in testa un discorsino da recitare. Eglicominciò la sua recita troppo prestoappena il Commendatorerientrò nell'anticamera dall'aver accompagnato il Soldini allascalala interruppela ricominciòparlando in italiano:“Prima di tutto... Ella crederà... prima di tutto... Ellacrederà forse...” mentre il Commendatorecon la suaumile affabilitàinsisteva perchè egli entrasse nellostudioperchè sedessecostringendolo a rifarsi da capo ognimomento. Finalmente gli riuscì di condurre innanzisotto gliocchi pacifici e benevoli dell'onnipotente abbandonato fra le bracciadella sua poltronail discorsino.

“Primadi tuttoElla crederà forse che io sia venuto araccomandarmima questo non è vero. Io son venuto per lagiustiziaper causa della iniquità di persone che nonmeritano di essere il Municipionon meritanodi una cittàinfattigloriosadirò. Credo che Lei saprà chi sono ecosa mi è toccato a me.”

Ilpaziente Commendatoreche lo guardava sempre tra blando e serioaccennò di sì. Egli sapeva che Ricciotti Pomatodaragazzosi era gittato nel fiume per salvare un compagno e che ilsuo bell'atto gli era stato fatale perchètrattandosi di unpovero figliuoloil Municipiola stampai cittadini cospicuiaforza di suonargli intorno tutte le trombe dell'adulazionegliavevano intronato in piena regola il cervello che continuava asuonare e suonare di queste lodicome una conchiglia marina suona esuona in perpetuo dell'Oceano che un giorno la empì difragore.

Laprima iniquità del Municipio clericale era questa che dopo lasciagurata faccenda delle bracheil tale assessore non voleva piùfavoriresecondo aveva prima promessonel conferimento di certedoti municipalil'Annetta Pomatosorella di Ciotti. La seconda erache il tale altro assessore intendeva proporre per una di quelle dotila figlia di una sua ganza. “Ohiohi!” fece ilCommendatoresgomentato: “Nonono! non dica di questecose!”. “Sacrosanta!” esclamò l'altro econtinuò a snocciolare il rosario delle iniquità. Sipreferisce il tal fornitorecon danno del Comuneperchè èclericale o anche solo perchè la domenica tiene il negoziochiuso. Si nega una gratificazione al tale impiegato perchèscrive nel giornale dei socialisti.

AllaBibliotecainvece di Ricciotti si nomina il fratello di unsagrestanoche neppure sa parlare in buona lingua. Chi sa quando labuona lingua di Çeóla si sarebbe chetatase ilCommendatoreche pareva stare sui carboni ardentinon l'avesseinterrotto.

“Tuttoquesto sarà e non saràma che ci posso far io?”

L'altrofece il sordo e tirò via. Si era licenziato un libraioinquilino del Comune perchè vendeva le Memoriedi Garibaldi.

Eccoall'uscio il naso della cameriera.

“Signorghe sarìa el signor Maroni.”

IlCommendatore significò a Çeóla piuttosto con ungesto che con parole come non vedesse alcuna ragione di prolungare untale colloquio. Allora finalmente Çeóla voltò lasua carta coperta. “La perdoni!” diss'egli. “Tutto ilpaese dice che lo scioglimento del Consiglio comunale dipende da Leie che Lei è contrario.” “Ma chema che!”esclamò il Commendatore. L'altro continuò imperterritomalgrado interruzioni continue. “Adesso io Le dico che siamomolti...” “Ma sìma sì...” “...che se le elezioni si fa subito voteremo per i liberali senzadomandare posti per noisenza domandare...” “Va benevabenema se io non c'entro!” “... e se le elezioni non sifa subito ci teniamo liberi...” “Ma sìma sìè inutile dirle a mequeste cosefacciano quel chevogliono!” “... e se ci teniamo liberi vuol dire che cisarà dei conti da fare perchè potrebbe succedere fattistrepitosie questa è una cosa che potrebbe anche interessaregiusto il signor Maironi che credo che sarà lui e che la servaavrà fallato a dire.”

Sela cameriera Rosina avesse udito Ricciotti Çeólachiamarla servalo serviva lei. Ma la Rosinaconsiderato che adessonell'anticamera ci stava un signore per bene e non mal veduto dalferoce collega di cucinasi disponeva lietamente a portare i duecaffè nello studio di quel povero santo Giobbe del padroneappena fosse partito l'odioso Ciotti. Uditolo scender la scalasimosse dall'alto del terzo piano. Appena toccato il secondo incontròun amico e parente della famigliache allungòcon un visobeatole mani cupide al vassoio: “Brava ciò! quel cheghe vol per mi che go magnà i gnochi!”. La Rosina sidifese accanitamente e l'altro incalzò con l'attacco. “Noche l'è per el signor Maroni!”

“Teghe ne scaldarè un altro.”

“Noghe n'è più!”

“Eti falo fresco!” L'amico si trangugiò la sua tazza dicaffè caldo con molti voluttuosi muggiti e soffi e la Rosinaritornò brontolando in cucina.

Maironiaveva fatto alcune visite al Commendatore durante il suo sindacatoper consultarlo in argomenti di amministrazione o per raccomandargliqualche interesse pubblico. N'era sempre stato accolto cordialmente.Adesso era venuto a malincuoresospettando che gli si volesseparlare di politica. Sapeva che i liberali speravano di approfittaredella sua defezione dagli amici antichi e gli sarebbe spiaciuto diaver a sostenere un assalto condotto da quell'uomo tanto rispettabilee buonoal quale non avrebbe potuto rispondere così vigorosocome ad altri. E dal cedere abborriva. Ne abborriva non solamente perl'attrazione che l'idea socialista esercitava sopra di luima piùancora perchè la compagnia dei liberali gli pareva sonnolentae il programma impotente a generare l'azione intensa di cui sentivapiù e più il bisogno nella inquietudine divorantedell'anima tormentata dalla più profonda scontentezza di sèdalla impotenza dell'amore a infonderle la pace.

IlCommendatorelicenziato Çeóla non bruscamente matuttavia senza troppe cerimoniesdegnando i sommessi lamenti deipropri nervi per il caffè loro negato malgrado tanti fedeliservigifece al nuovo venuto un'accoglienza festosissima. Andòa raccoglierlo nell'anticamerae prima di farselo sedere vicinoglimostrò dei libri pervenutigli di recente; fra gli altriuntrattato di trigonometria.

“Vedevede?” diss'egli. “Tu non credevi ch'io geometrafossi.” Ci aveva pure Lesocialisme intègral.“Questo lo conoscerà? Sognisogni sentimentali!”

Maironilo conosceva infatti. Già nell'anteriore suo stato d'animopreso dalla curiosità del socialismoaveva letto un compendiofrancese del Capitaledi MarxProgress and Povertydi George e il libro di Benoît Malon.

“Sarannosogni” diss'egli vivacemente “ma Lei creda pure che ci èstato qualche sogno rivelatore del futuro!”

“Siaccomodisi accomodi” fece il Commendatoreritraendo in frettala mano indagatrice dal tocco di quel sangue che bolliva.

Edentrò subito nel discorso delle due cose per le quali avevapregato Piero di venire. A sussidio di certi suoi studi storiciintantogli occorrevano alcune copie di documenti dell'archiviomunicipale di Brescia. Si rivolgevaper averlealla cortesia diMaironi. Supponeva che Maironi facesse gite frequenti a Brescia; nonpossedeva egli grandi poderi nel Bresciano? Pigiò molto suquesti grandi poderi e poi toccò dei fastidi della vitacittadinadella sorte beata di chi può vivere sulle proprieterre occupandosi di essestudiandomagari anche sognando un poco!E qui mise a posto una delle sue risatine discrete. Queste parolecercate con intenzione più profondavolendo dire e non diregli servirono di passaggio all'argomento delicato dove poiconabbondanti cautelemise il piede.

L'argomentoera la candidatura senatoria di Zaneto. Il Commendatore pigliòle mosse appunto da Bresciadalle condizioni politiche di quellacittà e della provinciadalla importanza che il Ministeroattribuivaragionevolmentea certa elezione politica che avrebbeavuto luogo colà in epoca non lontana. Egli calò conlente e larghe ruote del discorsocome un alato diffidenteatoccarea sfiorare appena certo messaggio portato da un membro delParlamento circa supposte condizioni alla nomina di Zanetosoffiateda un ministro nell'orecchio dell'onorevoletra le quali vi eral'appoggio di Maironi al candidato ministeriale in quel collegio delBresciano. Maironimal soffrendo gli avvolgimenti di parole delprudente Commendatoresentendo che sola cagione del suo parlareinvoluto era la paura di toccare Jeannedi alludere a Jeanne cuil'onorevole Berardini aveva tenuto quel discorsorisentendosi diquesti riguardi quasi offensivi per Jeanne e per luinon attesealtro e protestò che questo non era possibileche egli nonprendeva impegnoassolutamentenè di sostenere nè dicombattere alcuno. “Abbia pazienza” fece il Commendatoredesiderosoin quel momentonon tanto d'indurre Piero a unarisoluzione qualsiasi quanto di appagare se stesso conducendo ipropri studiati periodi a fine.

Eli condusse a fine spiegando lungamente e minutamentenon senzarifarsi talvolta da capo per amore di chiarezzache forse in tuttoquesto vi eraquanto all'esitoun eccesso di ottimismoche neppurequel ministroforseera in grado di prometterema che unaprobabilitàuna probabilità - il Commendatoreinsistette sul vocabolo - c'era senza dubbio e chesenza dubbiol'elezione di Brescia poteva pesar molto sulla bilancia.

“Ecco”diss'eglisoddisfattosorridenteliberato dal suo gomitolo diragionamentida ogni scrupolo di silenzi male serbati. “E sperodi non aver meritato l'epigramma di un mio carissimo amico bricconemolto briccone: longus esse laboratobscurus fit.”

L'altrorinnovò anche più vibrante le sue protestele qualiadesso vennero accolte in pace con un “faccia Leifaccia Leicosa Le posso dire?”. Tanto in pace che Maironi n'ebbel'impressione di certa spiacevole indifferenza e gli venne una granvoglia di scuoter l'uomo con qualche audace parola.

“Nonè per la questione di Brescia” diss'egli “èperchè ho fatto altre idee.”

“Bene!bene! bene!” fece il Commendatore col viso di chi pensasse"male! male! male!' come certo confessore veneto andava dicendo- ben! ben! - ad ogni nuovo peccato che gli snocciolava il penitente.

“Senta”diss'egli alquanto solenne e come uscendo con autorità da unabreve meditazione: “non s'impegni troppo presto con queste ideeche dice. Vita doctrix!Frequenti un poco di più la scuola della vitama proprio dascolaro che sta sul banco ad ascoltare e guardare. E poi... e poi...e poi!...”

IlCommendatore scosse la mano destra in aria come benedicendo ilsoffittoper significare che poi gli avrebbe dato anche licenza disalire sulla cattedra.

Ilnaso di Rosina. “Signorghe xe el signor Prefeto.”

Maironisi alzòpromise di occuparsi dei documenti desiderati e partìcontento di aver detto abbastanza chiaroposto quel buonintenditorel'animo suo. S'incontrò nell'anticamera con ilzoppicante Bassanelliconsigliere delegato reggente la Prefetturadopo il trasloco del Prefetto. Si scambiarono un saluto freddo.

"Cheghe porta el cafè a quel zoto?' pensò Rosinariparatoil guasto di quell'altro libero bevitore. Il padrone suonò perordinare che non si lasciasse più passar nessuno e Rosina ebbesoltanto il coraggio di origliar un poco all'uscio. UdìBassanelli dir forte: “Commendatore mioandemo zoti!” e ilpadrone ridere. Poi non le riuscì di afferrare altro e se neandò brontolando contro il Governoche nominava Prefetti diquel generesenza un po' di sussiegodi dignità.

Lafacciail pelo e la gamba sinistrala gamba di Palestrodelcavaliere Bassanelli avevano cambiato molto da quella sera del 1859passata trincando nella gaia compagnia dei Sette Sapienti all'IsolaBelladove uno dei SetteFranco Maironiera venuto ad abbracciarsua moglie prima di arruolarsi per la guerra. Nello spirito egli eraancora il bonario e rude originale dell'Isola Bella. La moltaculturala qualità dell'ufficiola dimestichezza con personeaffabili e corrette gli avevano alquanto levigato il linguaggio senzacancellarne tutte le pittoresche audacie.

Scetticofino all'ossosaturo fino alle midolla di senso del reale e delpraticomangiaradicali quanto pochi e mangiapreti nell'intimo delsuo stomaco quanto nessunocorteggiatore e disprezzatore delledonneil padovano copriva i propri sentimenti sin là dove leconvenienze dell'ufficio volevano e non più oltre. Avevamoltissimo rispetto e non altrettanta simpatia per il Commendatoreuomo troppo religioso per luitroppo legato con ecclesiasticitroppo cauto nella parolatroppo schivo del giudicar francodelchiamar le cose con il loro nome. Non gli piaceva interamente diaverlo nella sede della Prefetturabenchè lo conoscessemitissimo e il navigare fra i deputati gli riuscisse piùdifficilepiù pericoloso assai che l'accordarsi con luialquale il Ministero rinviava sempre la Prefettura nelle faccende piùdelicate. Ora la faccenda delicata era lo scioglimento del Consigliocomunaleinvocato dai liberali e possibile a giustificarsi con lacomposizione del Consiglio stesso dove la maggioranza clericaleprevaleva per pochi voti e pareva impotente a trovare un sindaco.Bassanelli era trattenuto nella sua buona volontà di mandare iclericali all'aria dal timore di una coalizionenelle elezionigeneralidel partito costituzionale con i partiti estremi. Perquesto gli importava di assicurarsi che la direzione del movimentoelettorale capitassenel casoin mani sicure. E qui le faccendezoppicavano per causa di certe iniziative prese da persone ambiziosedi nessuna autorità: gente che faceva montare in furoreBassanelli. “Almancose no se pol drizzarghe la testache sepotesse slongarghe el colo!” Erano liberali avanzatiliberali“non dei miei”diceva Bassanelli con il suo sale grosso“ma dei calzoni altruidei calzoni senza filettatura”.Avevano applaudito all'eroe della Bibliotecaavrebbero fatto anchepiù per un sorrisettoper una parolettaper un articolino diPomato padrefiglioe comp.

“SentaCommendatore” proruppe il feroce spirito padovano “ieri unmoderato marmotta mi diceva: "Se la va da petrolio a candelotomeio el candeloto!' Beneio non solamente sono anticlericalema nonho neppureper mia disgraziala fede che ha Leiquesto mondo canemi pare tanto sconfinato che non so capire come ve ne possa essere unaltro; per vivere da galantuomo non mi sento alcun bisogno di preti;ma in verità di Dio quasi quasipiuttosto che vedere inMunicipio certi liberalimi terrei questo povero mucchietto disacrestanelli mezzo rabbiosi e mezzo tabaccosi!”

Duranteun discorso tanto eretico il povero Commendatore si era moltorannuvolato. “Adesso concludiamo qualche cosa” diss'egligravesenza guardare Bassanelli. E consigliò di non fareancora proposte al Ministerodi star a vedere. Avvertì che ildeputato del collegio si adoperava moltoa Romaper lo scioglimentoe che poteva forse venire all'improvviso da Roma l'ordine piùo meno esplicito di proporlo. Nell'alzarsi per partire Bassanelli glichiese perdono di averlo scandolezzato con il suo ateismo e ricordòFranco Maironiil padre dell'ex-sindacoche lo strapazzava perl'ateismo come per “certe altre cosettine” ma gli voleva ungran bene; e quando lo strapazzava pareva insieme un diavolo e unsanto.

“Apropositobravo; cosa mi racconta dell'ex_sindaco?” disse ilCommendatore scrutando il viso dell'altroanche per certa curiositàdel segreto al quale aveva accennato il Soldini. Bassanelli esploserosso come un gambero: “Non me ne parli! Non me ne parli! Quelloè un pazzo! Quello non è degno...”.

“Ahta ta taohi ohi ohi” interruppe il Commendatore.

“...Non è degno di suo padreno! Gli ho già detto qualchecosa di simile e un'altra voltase mi capitaglielo dirò piùchiaro! A meno che non ritorni indietro!”

“Comecome come come? Che non torni clericale?” Il buon Commendatorerideva sperando ammorzare con un po' d'ilarità quel furore.

“Mache clericale! Se va dritto ai socialisti! Quello è un pazzoLe dico. Mi ha fatto discorsi da pazzouno di questi giorniappuntosulle elezioni comunalicon certe idee impossibili ad afferrare. Lase provi a rancurar col cucchiaio il chiaro d'uovo ne la supa:istesso! Il clericale era la crisalide di un anarchico; vedrà!E ci farà del malequi. Ci farà del maleper iquattriniper il nome e per un certo ingegno che ha.”

IlCommendatore afferrò il momento buono.

“Mandiamolovia” diss'egli.

“Iolo manderei al Polo antarticoanima miacol diretto delle cinque;ma come si fa?”

Incittà si diceva che Bassanellimalgrado i suoicinquantaquattro anniil suo cinismole sue affermazioni di nongustarein fatto di donneche “le ochete bianche e molesine”fosse innamorato di Jeanne Dessalle ch'egli aveva conosciuto daragazza e visitava spesso a villa Diedo. Bassanelli non sapeva checiò si dicesse e neppure lo sapeva il Commendatore.

“Ese... e se... e se...” cominciò quest'ultimo. Si arenònel terzo se. “Pensavouna cosa” diss'egli. “Se Leich'è in relazione convilla Diedocercasse di persuadere quella benedetta signora... santocielo!... basta!” Espresso con queste due esclamazioni dibiasimo e di carità il suo giudizio sulla condotta della“benedetta signora” egli proseguì a dire che forseBassanelli avrebbe potuto persuaderla della convenienza per Maironidi allontanarsi dalla città quando si aprisse il periodoelettoralee di non accettare alcuna candidatura.

“Io?”fece Bassanelli. “Glielo dirò a nome Suose vuole.”

“Misericordia!”esclamò il Commendatorespaventato. “Nonocosa Leviene in mente! Misericordia!”

“CaroCommendatore” disse Bassanelli “la femmina èl'impugnatura del maschio; Lei lo saprebbe se non vivesse fra i coridegli angelidei Principati e delle Dominazioni; e se mostrasse disaperlo non intendo come si farebbe torto. Questa impugnatura puòessere l'amantema può essere anche la mogliepuòessere la cuoca. Si figuri che la mia cuocala quale sta in casa miada trent'annifa di me quello che vuole; e i suoi seduttori sonoquindi miei padroni. Se fosse un cuoco gli vorrei forse bene ma nonsarebbe il mio padrone. È la femminilità di quelpiccolo cartoccio di grinze che mi soggioga.”

Ancorail naso di Rosina. “Signor! Don Giuseppe Flores!”

“Siamointesidunque!” disse Bassanelli.

“Parloin Suo nome!” E mentre il Commendatore lo inseguiva con la voce“no nonon facciamo scherzi!”e gli giungevano sempre piùfievoli i “sì! sì! sì!” del padovanofuggente per le anticameredon Giuseppe Flores entrò nellostudio. Il Commendatore si affrettò a incontrarlo col piùsorpreso e riverente viso. Alle spalle di don Giuseppe Rosina facevadei gesti al padrone per chiedergli se dovesse portare ora i duecaffè. Il Commendatore non pose attenzione ai suoi gesti eimmaginando che don Giusepperarissimo visitatoreavesse a fargliqualche discorso riservatole rinnovò invece l'ordine di nonlasciar entrare nessuno. Seduti l'uno accanto all'altro nellaricreante coscienza dei loro felici consensi religiosi e moralidiuna mutua devozionesenza familiarità ma tuttavia profondaidue uomini di Diotanto diversi fra lorotanto bene conformatinella loro natura e anche nelle particolari virtù ai cómpitipure affatto diversiloro assegnati dal Padresi parlarono a lungosottovoce. Prima parlò don Giuseppeporgendosi tuttotrattotrattoe sorridendo allora di un vivo sorriso al Commendatore chel'ascoltava più gravepensava cose attinenti al soggetto deldiscorso e non sapute dal pretele cose apprese dalla bocca delSoldini e del Bassanelliche gli lasciavano poca speranza di potercorrispondere ai desideri della marchesa Nene. Egli le disse poiqueste cose. Disse anche del consiglio dato a Bassanellie dellabizzarra pensata di costui che gli procacciava della molestia. Viaquesto invocare l'azione della signora Dessalleera in certo modo unriconoscere ufficialmenteper trarne giovamentouno stato di coseche per nessun conto andava riconosciuto. Che ne diceva don Giuseppe?Don Giuseppe parve un poco incertomasticò alquantonon sispiegò beneparendogli che in fatto non fosse opportuno dicercare quell'appoggio e insieme non volendo troppo turbare ilvenerato amico.

“ELeidon Giuseppe?” disse questi. “Lei che conosce Maironiche ha conosciutocredoi suoi genitoriperchè non potrebbetentar qualche cosa?”

DonGiuseppe sospiròsi passò una mano sugli occhi.“Povero me” rispose“non so far nientenon so agirenon so parlare; una miseria!”

IlCommendatorepur protestandosi tenne sicuro ch'egli avrebbe invecefatto qualche cosa. Tacqueperòquesta fiducia.

“Allora”diss'egli“se noi non ci possiamo far nientesperiamo bene.Vedrà che adesso il Signore piglia in mano la cosa Lui.”


Finalmenteliberato il campola Rosina entrò portando il caffè.

“Xelastà una processionsignor!”

“Tipare?” fece il mansueto padrone.

“Midigo!” rispose Rosina. “E l'ultimo xe stà el santo.”

Soggiunseche un momento prima si erano trovati a salir la scala insieme ilmarchese Scremin e quel tale ch'era venuto a raccomandarsi un'altravolta per l'appalto dei pozzi neri delle caserme di Verona. Ella liaveva licenziati ambedue.

Lafedele cameriera stette a guardare con materna compiacenza il padroneche sorbiva pian piano i meritati conforti della bevanda spirituale.Gli propose di aprire le finestre; c'era un tale odore! Di che? IlCommendatore non sentiva niente.

Altroche odore! Odore “de siori e de poaretidel mistrà deÇeóla e della tintura del Prefeto”. Il padrone noncredeva a questa tintura del consigliere Bassanelli e Rosina risearditamente della ingenuità di lui. E non meno arditamente glidomandò cosa gli avesse raccontato “quel dallaBiblioteca”. Intanto gli avrà raccomandata la sua sorellaArtemide. Rosina sapeva che quest'Artemidecameriera pur leiavrebbe dovuto venire col fratello ma che la sua signora l'avevafatta stare a letto perchè il medico condotto le ordinassel'olio di ricino. L'Artemidenella sua qualità di poveraaveva diritto alle medicine gratuite e l'olio di ricino ordinato alei lo avrebbe invece preso il padroncino che s'era rimpinzato dipaste.

“Ohiohi ohi!” fece il Commendatoreridendo.

Rosinacantò poi le lodi dei Soldini. Clericali ma però bravepersonetanto di buone manieretanto nobili. E quel Quaiotto chevoleva farli andar via! “Un vilanmadre mia!” E ilCommendatore: “Zittozittozitto!”. E il signor Maironi?Aveva egli raccontato che sua moglie stava molto meglio ma per causadi quella brutta... E il Commendatore da capo: “Zittozittobastabasta!”. Rosina si meravigliò. Che male c'era?“L'è tropo santoElo.” E quell'altro povero zoppocon la sua cuoca che gli rubava fin le camicie per regalarle al suoamoroso vecchio!

“Bastainsomma! Porta via!”

IlCommendatore diede una spinta al vassoio del caffèintendendospingere così anche Rosina fuori dell'uscio. Rosina si difese.Non era meglio di saperle le cose? “Saperle sì; dirleno.” E come avrebbe fatto lui a saperle se nessuno glielediceva?

“Ma!figlia miac'è molti modi di venire a sapere le cose.Ascoltadel resto.”

Quiil Commendatore mostrò a Rosina un libriccino legato in pellenera. “C'è più sapienza in una paginetta di questolibro che in tutte le teste di tutti i commendatori e di tutte leloro cameriere. E se tu potessi capire il latino ti darei da leggerequi de evitatione curiosae...”

“Sìsignore” saltò su a dire la Rosinapronta“ma mino son curiosa!”

“Vava va!”

QuandoRosinamogia mogiasi fu incamminata verso l'uscio brontolando “mino che no son curiosa”il padrone la richiamò.

“SentiRosina. Chi ti ha detto che la signora Maironi sta tanto meglio?”

Trionfodell'ancella. “Vèdelo vèdelo vèdelo che l'ècurioso anca Lu?”

Ela impertinente creatura trottò via senz'altra risposta con ilvassoio del caffè.




CAPITOLOV


NUMINANON NOMINA


I


“Cara”disse Carlino Dessalle“e i fiori? Sono quasi le cinquesai!”

Jeannestava scrivendo nella sala dell'Ariostoin faccia all'affresco dovela bellatenera Angelicalegata le gambe ignude allo scogliospasima fra la mostruosa Orcala ghiottona del mareche salee ilmostruoso ippogrifo con Ruggeroil ghiottone del cieloche scende.

“Nonsi pranza alle sette?” diss'ellasenz'alzare il capo.

“Stabenema ti hai poi anche a vestireeh?”

Jeannenon rispose e non si mosse.

“SentiJeanne” fece suo fratello un po' stizzito. “Io non te li hoimpostiquesti ospiti. Ti ho domandato s'eri contenta di averlitumi hai detto di sìdunque...”

“Masìma sìson contentaeccovado” risposeJeannenervosa. Si alzò di bottopiegò il foglioscrittolo pose in una busta frettolosamentevibrando d'impazienza.Carlino la guardò; aveva gli occhi rossi. “Oh santocielo!” diss'egli sottovoceseccato. “Bella disposizioneper un pranzo!”

“Mache? Ma cosa? Ma se non ho niente! Se sono contentacontentissima!Se sono allegra! Adesso vado a far cogliere i fiori. Dimmi che fiorivuoi.”

Ellaprotestava cosìpentitaquasi atterrita di avergli datosegno del suo soffrire internotenendogli le mani alle spallefissandolo negli occhiansiosa di vederlo rasserenarsidi udire unaparola buona.

“Staizittaè una cosa che non può andare!” replicòCarlino. “Te l'ho detto sempretu ti figuri quello che non è.Tu ti struggi per uno che non si strugge niente affatto per te. Oforse aveva in principio certe idee e ha capito che con te non siriesce!”

Jeannearrossì fino al collogli turò la bocca.

“NoCarlonon dir queste cose!”

“Beneche ti ha scrittoallora? Perchè piangi? Tu piangi per causadella lettera ch'è venuta ogginon dire di no!”

“Primanon piangopoilo so io perchè piango!”

Carlinorise. “Bellinaquesta!” Rise anche Jeanne e ne approfittòsubito. “Vedi se sono allegra! Dimmidimmi che fiori vuoi!”

Egliscosse il caporassegnatonon persuaso: e rispose negligentementedopo un silenzio lungo:

“Rose.Niente altro che rose. Rosema in copia grande.”

“Incopia? Dove sono? Sono sfiorite tutte.”

“Che!Queste della terrazzasono sfiorite. Le spalliere sotto laForesteria sono cariche di fiori bellissimi. Ma dunqueperchèpiangevi?”

“Piangevodi tenerezza. Sì sì sì! Sono felice!”

Ellagli diede un bacio impetuososonororitrasse un po' il viso aguardarlo sorridendosussurrò: “Quando vai a Milano?”.

“Io?Domani.”

“Seti accompagnomi porti posdomani al Quartetto?”

“Cosac'è posdomani al Quartetto?”

Jeannenominò un grande artista straniero.

“Benissimonon lo sapevo. Felicissimo di accompagnarti. Ma sai che per i mieiaffari mi occorrono almeno quattro giorni.”

“Iome ne vengo via il terzosabato.”

“Sola?”

“Credo!”

“Esia. Ma che capriccio ti è venuto?”

“Grazie!”fece Jeanne e corse via.

Suofratello la richiamò. “Scusa” diss'egli. “E`per un incontro?”

“Ancheper un incontro.”

“Potevidirlo.”

“Manon sono sicura.”

“Senticorrergli dietrono!”

“Nongli corro dietro!”

Carlinoparve poco persuaso e insistette. “Capiscila tua dignitàanche in faccia al mondo!”

Jeannefu per rispondere: “Che me ne importa?” ma si trattennedisse solo:

“Nontemere.”

“Basta.”

Ellauscì rapidapalpitantenella speranza inattesa di questoprossimo incontro.

Maironiera partito da otto giorni e proprio per le istanze pressanti di lei.Bassanelli non s'era tenuto dal comunicarle l'opinione delCommendatore che fosse bene di allontanare il giovaneposto che ilConsiglio venisse scioltodurante il periodo elettorale. Avevasoggiunto che il decreto reale di scioglimento era in viaggiochesarebbe savio di prevenirlo perchè molto probabilmente ilCommissario Regioa fronte di certe questioni cittadine gravibandirebbe le elezioni assai presto e l'agitazione comincerebbesubito. Jeanne non s'illuse circa le intime cagioni di questo zeloma si compiacque molto che il Commendatore pigliasse interesse aPiero. Ambiva un tale patronato per l'amico suouna guida tantoautorevole che lo avrebbe trattenuto sulla via dove lo vedevaincamminarsiverso un partito spiacente a lei per le idee e piùancora per la gente poco pulita. Ambiva di entrare in grazia delCommendatore per poter un giorno congiurare insieme. Comprendeva benequanto poca speranza vi fosse di riuscire a ciò con quell'uomorigido e pio. Ma insommasentendosi degna della stimadel rispettodi chicchessianon voleva disperare e intanto aveva promesso aBassanelli di fare del suo meglio perchè il desiderio delCommendatore venisse soddisfattolo aveva pregato di non tacere alCommendatore stesso questa sua buona volontà.

Siera indotta più facilmente al sacrificio per veder Pieromalcontento di sèdella vita inerte che conducevarôsoda inquietudini stranech'egli le diceva di non sapere spiegare a sestesso. Ella lo amava ora immensamente più di quando avevadato al vento l'immaginario veleno dall'alto della loggia di Pragliasignificando in silenzio il proposito di vivere per lui. Lo amavamolto più di quandola sera dell'eclissigli aveva porte lelabbrapremendoper prudenzail bottone del campanello elettrico.Le pareva che il suo amore non potesse più crescere e insiemeche crescesse sempre. Non pensava che luinon sentiva che lui e senei primi tempi la tormentava inesprimibilmente il sospetto di nonessere amata che a parole o come un fantasmaun'idea impersonaledell'amoreo come un vaso chiuso di piacereadesso le parevapersinoqualche voltache le sarebbe bastato di amaredi amarediamarele pareva di poter rinunciare a essere amata. Quando la suasalute delicata era buonal'aspettazione di lui e la sua presenza eil partirsene la facevano soffrire; quando invece non si sentiva benenon vi era per lei ristoro maggiore che il vederlo. Le avveniva disognare ch'erano sposi in un altro paesein un'altra casain mezzoad altra gentech'egli le parlava sottovocecon dolcezza ma conautoritàdi cose serieche ciascuno aveva le proprie stanzech'ella neppure osava di fargli una carezza e ch'era tuttavia beatadi appartenergli così.

Amavatanto e non però ciecamente. Credeva conoscere Pieroidifetti e gli eccessi della sua naturameglio di qualunque altromegliosopra tuttodi lui stesso. Credeva leggergli nel cuore ilsegreto di quelle inquietudini ch'egli forse non sinceramente lediceva di non sapere spiegare a se stesso. Confidava sì diessere amata ma si teneva sicura che l'amore di lui non pareggiassepiù nel cuore le proteste che le labbra ne facevano ancora; ela coscienza di questa scarsa sincerità doveva riuscirglitormentosa. Si teneva pure sicura che tanti anni di educazionereligiosadi ardente fede cattolicadi pratiche pie avesseroimpresso a quell'anima una forma chemodificata dalla ragione dentrol'ambito della coscienzale permaneva intatta nelle inconscieprofondità; e attribuiva le inquietudini strane a un vagosentimento di rimorso asceso da quel Profondoreligioso ancora.Certa di possedere l'amara veritàella non desideravatuttavia di comunicare all'amico uno scetticismo cui lo vedevaripugnante; le piaceva di udirlo difendere con appassionata parola lesue convinzioni religiose superstitiIddio e l'anima immortale;desiderava soltanto e sperava che nella innocenza del loro legamequei vapori di rimorso finissero con venir meno.

Loaveva dunque incuorato a occuparsi sul serio de' propri affariadassecondare gl'insistenti richiami onde l'agente di Bresciasobillato dalla marchesa Nenelo molestava senza posa. E gli avevaricordato la sua consueta gita del maggio in Valsolda. Egli era giàin ritardoquest'anno! Qui seguì fra loro un po' dicontrasto. Piero non pareva disposto ad andare in Valsolda. Perchè?Non lo dissenon lo sapeva. Non ne aveva vogliaecco. Jeannesospettò di esserne involontariamente in colpa. Se nel bolloredella passione Piero le aveva parlato del lago come la nottedell'eclissisui colliadesso invece i vapori del rimorso glisuggerivano forse di star lontano dalla casa di suo padre e di suamadredove si sarebbero fatti più neri e acri. Lo incalzòdi domanded'istanzevolendo strappargli qualche espressionedell'ingiusto sentimentoche le permettesse di lottare apertamentecon esso. Non le riuscì. Giunse a pregarlocon parole ditenerezza e di riverenza per le memorie a lui sacre. Egli laringraziò affettuosamente e troncò il discorso.

Sulleprime neppure voleva saperne di andare a Brescia. Meditava un viaggioin Francia e nel Belgioa scopo di studiarvi certe societàcooperative di produzionele case fondate da Leclaire e da GodinilVooruit di Gandnon alieno dall'indossarvi per qualche temposeoccorressele blusa dell'operaio. Non tenendosi ancorasufficientemente preparato a questo viaggiofinì con piegaree partì per Brescia. Aveva scrittodopo la partenzatrevolte e l'ultima sua lettera era veramente in colpa degli occhi rossidi Jeanne.

Ellascese per questa gran vendemmia di fiori nel viale che corre dirittofra una lunga riga di thuye ele spalliere delle rose aggrappate a quel fianco della Foresteriache guarda la valle del Silenzio. Il giardiniere Pomatoche contutto il suo anarchismo coperto aveva una soggezione manifesta dellapadronacosì buona conoscitrice di fioricosìragionevole e ferma negli ordinicosì dignitosa e umana neimodicosì signorile nella figura e negli attiquel giornoera nero addirittura e si nascondeva poco.

Siera portata con sè alla vendemmia la sua figliuola maggiorePartenopemaestra disoccupata da due anni. Poichè Jeanneveduta una lagrima negli occhi di Partenopele ne aveva domandatodue voltee sempre invanola ragionerispose lui per la figliuola.Risposestroncando rabbiosamente disgraziati gambi di fioriche lecanaglie della Commissione scolastica municipale l'avevano respintain un esame di concorso perchè sorella di Ciotti e perchè“no la xe sampatica.” La povera Partenopeuna ragazzonatozzainfagottata negli abiti civilicon la tinta giallognola dellagrammatica e dell'aritmetica sulla grossa faccia villananon eraperò antipatica; solo faceva pensare a una puledrona dacarretta nei finimenti di un cavallo da calesse. Jeannebenchèavesse pieno il cuore della lettera di Pierodi ansiedi foschipresentimentidel vicino sperato incontroparlò con pietàsorridente a quell'amaro dolore che a lei pareva tanto piccola cosatanto indegna di lagrimee non eraperchè la vita difamiglia correva ben dura per la grossa Papecome la chiamavano isuoifra il padre violentoil fratello sprezzantela madre avara;e qualche gentilefragile sogno era pur fiorito nella sua rozzamente come le rose su quella rustica muragliae come le rose necadeva stroncatopovera Pape. Jeannesoddisfatta di averle dettodue parole con bontàsi avvicinòin attesa che ipanieri fossero pieni di fioriverso il gran leccio del boscochele faceva invito laggiù in capo al viale caldo nell'ombradorata delle thuyenel riflesso dei muri sfolgorati in alto dal sole scendente. Giuntanel bosco fresco e scuropendente alla valle del Silenziodove lepareva che l'erbe e le frondi basse le mormorassero “sola?”si levò dal seno la lettera di Pieroincominciò arileggernetremandole le manil'ultima pagina e subitocomevolendo sfuggire a qualche amaro di quella chiusarisalì alladata - Oria - vi fermò lungamente gli occhiridiscese alleparole prime:


“Vedidove sonoperdonami di non averti scritto che ci venivoèstata una cosa inesplicabile. L'altra nottea Bresciami sonosvegliato di soprassalto con quest'ideacon la memoria viva delleparole tue quando mi esortavi al viaggio di Valsoldaforse le avevoriudite in un sogno che non ricordocon la trepidazionequasidisubire un impulso del soprannaturale. Cercai di liberarmeneavreivoluto andarela mattinaa Monzambano. Non ci fu versodovettipigliare il treno di Lecco.

“Viaggiaisino a Leccoin uno stato di torpore che si mutò inagitazione grande appena fui sul battello. Mi sono domandato se nonero sulla via d'impazzire! A Menaggio mi tranquillai alquanto. Invecequando il lago di Como disparve in basso e il treno entrònella valle altafra le montagne ombroseguardando passarepratellicampicellimacchie di boscocasine attorniate di abetistradicciuoletetti lontanitante cose note al loro noto postomisentii un intenerimentouno struggimentouna voglia di piangere danon dire; e insiemeDio sa perchèun disgusto immenso degliuominiuna stanchezza immensa della vita.”

Ellasi ripose la lettera in senopensò a quel che veniva inseguitoferma sul sentierocon la mano inquieta in un frescofogliame di alloro; e solo si mosse quando udì il giardinierechiamar la Papedimandarle se là dov'ella era fossero ancoramolte rose da cogliere e la Pape rispondergli che v'erano soltantospine. “Boni per nualtrii spini!” replicò suopadre. "E per me no?' pensò Jeanne con un intimo sorrisoamaro.


Mentrenella sala dell'Eneide il giardiniere disponeva le rosesecondo icenni di Jeannenel grande vaso antico sulla consollein faccia a Didone in tronointorno all'erma di Virgilio nell'angolofra le due finestre di ponente e di mezzogiornonei cristalliopachinegli argenti brunitisulla stessa tovaglia cenerognoladella mensa onde Carlino voleva bandito ogni candore vivoellaconfessò a se stessa che non avrebbe volentieri scambiatospine con la Pape. Noera un soffrire caldo e caroil suo. Era comeun fuoco di febbre senza dolore che assopisce i sensi e travaglia lospirito in un lavoro d'immaginazioni intense e vane. Se la pungevauna vera e propria spinaera l'idea di non poter più averesino a tarda notte un momento di solitudine o almeno di doverlorubare. Benedetto Carlino che non poteva vivere senza societàsenz'aver gente a colazionegente a pranzogente alla sera! Adessogli era venuto in mente d'invitare una brigata di conoscentifiorentini avviati al Garda. Erano giunti alla mattina da Veneziaegli aveva mostrata loro la cittàli aveva ricondottiall'albergo e li aspettava a pranzo. La società indigena erainvitata per le nove e mezzomolto largamentea udire della musicae una conferenza di Carlino stesso sul tema misterioso Numinanon nominacon proiezioni.Carlino aveva pensato questa conferenza per il Circolo cittadino diletturema poi aveva smesso l'idea di tenerla in quel postosia percerto carattere personale della conferenzasia perchè la saladel Circolo gli era parsa tanto umida da fare ammuffire le fiamme delgassia perchè ci era andato una volta con sua sorella e unagraziosa brunetta dell'uditoriovedendo passare Jeanne col mantelloguarnito di chinchillaaveva udibilmente sussurrato a una graziosa biondina: “Gnaociò!”.


“Comeli metti a postoquesta gente?” diss'egli a Jeanne. “Badache io non vorrei vicina quella iettatrice terribile di Bertha.”

Jeannegli rimproverò la sua ingratitudine verso la signorina BerthaRothenbauml'antica istitutrice di Jeanneadesso traduttrice diromanzi italiani e corrispondente di giornali tedeschich'era semprestata buonissima per Carlino. “Non sarebbe neanche possibile!”diss'ella.

Adestra e a sinistra di Carlino ci dovevano stare le due dame dellacompagnia che i Dessalle chiamavano familiarmente Laura e Bice. “Nonci mettere Destemps accanto a Bice” disse Carlino“altrimentiaddio Biceio dovrò prendermi un torcicollo e un torcicuorecon Laura che mi parlerà tutto il tempo di bouchéesde pain o di crècheso di asili per tifosi o di ospizi per catarrosi o di altreporcheriole piese non sarà invece del voto plurimo e dellariforma del Senatoo di qualche uomo celebreesquimese o cafrocheavrà pranzato da lei.”

Erapure facile non mettere Destemps accanto a Bice. La comitivaforestiera si componeva delle due nobili dame e dell'anticaistitutricesempre chiamate dai Dessalle con il solo nomed'unadamigella e di quattro cavalieri borghesisempre designati con ilsolo cognome. Oltre a quella turbolenta mouche du cochedi Lauradanzante sulle ruotesul timonesulle briglie dello Statoe qualche volta intorno agli automedonti impassibili della Chiesa;oltre alla sventatabonaria Bicemolto franca e audace nella suamaturità ufficiale di suocera e di nonnamaturitàproclamata con le labbra tanto più volentieri quanto piùla rinnegava il cuore fidente in una tenace bellezza; oltre alterribile Destemps dai capelli di biondo anticodagli azzurri occhimistici e sarcasticiv'era il fiorentino professor Gonnellil'Yorick delle allegrebrigate a cui si concedeva ogni libertà di parolav'era lasua figliuolauna Gonnellina di diciassette annicon la lingualegata e i vivacissimi occhi sciolticon un'ardente sete di viverela qual setetuttavia nel primo stadiole bruciava il cervello informa di entusiasmo per i libri che rispecchiavan la vita e percoloro che li scrivono. V'era la signorina Berthapiccola magrasenza sopraccigliacon un nasetto vermiglio e due occhietti grigicon un sorriso fine pieno di bontà. V'era il grandegrossobarbuto e occhialuto Bessanesiil paesista sempre intento a coglierele finezze recondite negli aspetti volgari delle cose ossia quellabellezza che gli eletti sono sicuramentefelicementesoli asentire; Bessanesil'uomo curioso di ogni arte e di ogni scienzailparlatore argutoproclive alla freddura ma correttissimo nel gusto.V'era finalmente il professore Dane della Università diDublinoil celebre professore Danedagli abiti mezzo mondani emezzo ecclesiasticisempre ben ravvolto e chiusoper cura di moltefini mani femminilinella bambagia di un'adorazione perpetuasquisito alla sua volta con le signoree con cinque o sei delle piùintellettuali fra i trenta o i quarant'anni addirittura petrarchescostorico illustreconoscitore profondo di pittura e di musica. Danefigurava il sacro e venerabile stendardo della comitiva.Convalescente in Fiesole di una colica epaticaaveva espresso adonna Laura il desiderio di un viaggetto al Garda e molto ribrezzo diandarvi solo. “Solo?” rispose donna Laura. “Mai!”La turbinosa dama cui non sarebbe garbato affatto un lunghetto passoa due con il prezioso invalidosaettò per ogni versobiglietti e bigliettini invitando mezzo mondo a pigliar posto nelcorteo del professore. Donna Bice e Bertha acconsentirono in omaggioa DaneDestemps accettò perchè accettava donna BiceBessanesi per una curiosità estetica della compagniaGonnelliper far divertire la sua Eleonora e anche per pigliarsi spassodell'idolo e delle svaporate adoratrici. Alla Gonnellina poi l'ideadi viaggiare con Destemps aveva messo la febbre addiritturabenchèil biondo genio fosse sdegnoso dei palpiti immaturi d'un Backfischcome lei.



II


Inprincipio del pranzosiccome i fratelli Dessallele damelasignorina Bertha e il professore avevano avviato la conversazione iningleseGonnelliun Yorickche non sapeva l'ingleseapostrofò così a mezza voceil magnifico Enea di Tiepolo: “EheuTroiae filinonne tibi quoque...”esprimendo il suo fastidio dell'inglese con un latino gonnelliano chenè le dame potevano intendere nè i cavalieri tradurre.Donna Laura e donna Bicevedendo Destemps e Bessanesi ridereCarlino Dessalle arricciare il nasocapirono benissimo che non eralatino spiegabile. Invece Berthapuntacuriosa e ingenuasi volseper aiuto all'onnisciente Dane il quale non aveva raccapezzato nientedell'apostrofe maccheronica e disse a Gonnelli col suo sottilesorriso e col suo italiano grosso: “Questa era forse linguatroicasignor?” - “Sìsìlatino troico”fece Gonnelli. “Troicissimo. E giuro per quella sperlungona diDidonescusamiCarlinonon l'hai dipinta tuche DestempsBessanesi e io si parlerà e mia figlia tacerà troicotutto il pranzovivaddiose non la smettete con l'anglico! C'èqui la signorina Bertha che parla lungarnico come il Baccelli diPalazzo Vecchio o come una Bertuccia di Mercatoc'è il nostroveneratissimo professore Dane che si arrabatta per benino in unfiesolaico un poco suo propriodiciamolain un dannato difiesolaicoche però insomma è toscanico. Eh dunque!”

Riseanche il professore e la conversazione continuò in italianovivacissima. Le due dameche nei convegni aristocratici portavanocon dignità cosciente l'uniforme idealeper così direprescritta dal luogo e dal gradose ne scioglievano qui assaivolentieri nella società preferita degl'intellettuali. Traloro e Jeanne non correva troppa simpatiama di Carlino andavanopazze apertamente come tutte le signoreforse perchè con unuomo come luidi maniere squisitemusicista eccellenteintelligente di ogni arteparadossale nelle idee e pieno di vitanella parola ma gelido nel fondo e schivo della passionenon v'erapericolo di andar oltre un piacevole vellicamento dello spirito.Lauradel restovedova da qualche annosdegnava la galanteria. Isuoi amici dicevano ch'ella permetteva a Dane di petrarcheggiare unpo' con lei per ricordarsi di esser donnaperchè non leavvenisse di mettere in isbaglio un cappello di ministro o unzucchetto di cardinale; e più innocuo mementonon si sarebbe trovato. Biceorgogliosa di aver ispirato un veroamore a Destempsmolto più savia che talvolta non sembrasselo teneva legato ma in rispetto.

Siparlò della piccola città dove Bessanesi diceva disentireDio sa perchèuno spirituale odore di maretanto daimmaginare il malinconico Adriatico dietro a ogni cresta diroccata dimuro tagliante il cielo. Destemps era innamorato di tutto che avevavistoanche di un vecchio sagrestano guerciostorpiogobbosudicioadoratore devoto della sua chiesache a un'uscita diGonnelli “Puzzolenta la tua chiesa!” aveva risposto: “Ehno signorson mi che spuzzo”.

Gonnelliche non aveva mai passato il Pocompativa molto. “Carinoquestocarino quelloma non è Toscanavia! Somigliama nonè!”

“Eppure”gli disse Carlino Dessalle“hai veduto sulla facciata di quellabella chiesa gotica gli avelli dei fiorentini che posero dimoraproprio quinel Trecento.”

“Sìma per forzae che moccoli fiorentini avran tirato! Non vedi chel'arciprete li ha posti fuori?”

AlloraBice protestò ch'era fiorentinache adorava le cittàpiccole e che sarebbe stata felice di abitare quella lì seimesi l'anno. Danestentando le parolecompiendole in aria con ilgesto della mano femminilmente bella e biancafece un discorsinofinissimo. La città era incantabile. Aveva una piccola vecchiaanima geniale di vecchio prete italianofurboculto di classicispirituosovoglioso del queto vivere bene nonchè con qualchepiccolo episodio teneroun poco scetticoun poco unto la collanaun poco bianco i gomiti de' manichi. Tale idea curiosa suggerivano aDane “tutte queste piccole strade perfidette che fingono sempreandare a destra per arrivare a sinistra e andare a sinistra perarrivare a destrae tutto questo vecchio latino un poco diSeminarioun poco rimasticato dall'anticodi tutti questi vecchipalazzi di Cinquecento e anche di Settecentoe questi contrastimolto spirituosi di queste piccole architetture eccessivamente prettycon vicine case stupidee questi silenzi dove qua e là spuntaerba con un verde così dolce che uno si sente anche dolcementevivere con esso e non pensare niente e diventare dentro tutto teneroe primaverico.”

Lacittà morta era cosìma com'era la cittàvivente? Com'era la società? Bice voleva pure saperlo. “Seci vengo a stare!” E rise del suo riso brevegiovanile ancorache faceva palpitare e impallidire Destemps. Carlino rispose che lacittà vivente era un mondo infinitamente più grandevario e curioso di quel mondo piccolo dove “si vive noi”nelle città grandieccetto forse in Roma e in Parigi. “E`questo delizioso mondo provinciale” soggiunse “che vedretealla mia conferenzastasera; e qui ne sarà tutto pieno.”

“Nonla farela conferenza” disse Jeanne. “E` una cosa che nonva. Vedraiaccontentati delle proiezioni. Saranno cancansda non dire. Si è già cominciatoio lo so. Scandaliaddirittura!”

Bicebattè le mani. “La facciala faccia!” Gli occhidella Gonnellina scintillarono e le sfuggí un “sìsì!” fra le risate di tuttile proteste di suo padre“birbaccione di Carlino che mi ammalizia la figliuola!” e igiuramenti di Carlino: “Ma se la mia conferenza sarà unaFilotea dell'amabilità e della verecondia!”.

“Conquelle proiezioni?” fece Jeanne. Qui successe uno scoppio diallegra curiosità. Anche la franca Bice voleva sapere. LaGonnellina taceva rossa rossae Laurala gelidataceva conindifferenza sprezzantementre Carlino si sbracciava a protestarecontro sua sorellala quale spiegò subito che nemmancoavrebbe supposto di poter venire fraintesa a quel modoche leproiezioni rappresentavano persone conosciute della cittàcosa innocente senza commenti del conferenziere ma pericolosa con icommentiper quanto amabili. Appena caduto questo discorsodonnaLaura uscì a dire:

“Esocialismoquine avete molto?”

Carlinorispose che non ne sapeva nienteche viveva perfettamente fuoridella politica. Sapeva solamente che il Municipio della cittàera in mano dei clericali e che il suo proprio giardino era in manodegli anarchici.

“Sì”fece la dama“ma per poco tempo ancorail Municipio.”

Parlavacol tono di una persona sicurache sa tuttol'avvenire come ilpassato. Ne sapeva infatticirca le condizioni politiche dellapiccola cittàmolto più di Carlinoe perchèquesti n'era ammiratovolle abbagliarlo addirittura.

“Ecome sta quel vostro raccomandatoquel marchese ambiziosetto che hauna figlia pazza? E come sta il generoex-sindacoex-clericale? Èa Brescia? Ci lavora per noi?”

Uditoda Jeanne che il genero era infatti andato a Bresciama per affarisuoi e non per occuparsi di elezioni politichela dama scattò:

“Macome! Bisogna che lavori! Si lavora tutti per quel collegio! E` unafebbre!”

JeannefremevaBice rideva. “Ehsi capisce!” disse Gonnelli.“Una Vittoria di Brescia! Capperinon sarebbe piccola cosa.”“Una Vittoria di stucco” osservò Bessanesi. DonnaLaura si adirò: “Già LeiBessanesiper uncalembour darebbeanche quella di bronzo!”. “Forsecontessa: ma la darei aLei! Al Ministero darei quella di stucco.” Donna Laura siriscaldò tanto che Carlinoper placarlale promise di mandarsubito un biglietto al marchese con l'invito di salire a villa Diedoper un affare urgente. Donna Laura gli parlerebbelo impegnerebbecon paroline verdeggianti di lusinghea lanciare il genero sul campodi battaglia. Donna Lauradissimulando una vaga notizia degli amoridi Maironipervenutale attraverso il Ministero dell'Internodomandòse questo signor Maironi avesse ingegnose si occupasse di studisociali. Invece Destemps domandò della Demente. Egli e donnaBice credevano aver conosciuto i Maironi ai Bagni di Bormio. Luinonera un giovane altobrunocon una selva di capelli indocili e congli occhi grigi che avevano una espressione singolare di aviditàintellettuale? Lei era sottile e di statura mediasecondo Destempsaveva gli occhi color del Rodanouna fisionomia di Sfinge che nonvuol proporre il suo enigma. Gli altricompresa donna Bicelatrovavano insipida; Destemps no. Vero che parlava poco e che le sueparole non avevano mai un'individualità; ma Destempsparagonava queste parole bigie a crittogame di un'acqua stagnanteche ne celano il colore vero e la profondità. Egli lagiudicava infatti una creatura profonda e chiusa certo anche a suomarito. Donna Bice si burlava di questa psicologia. Già donnaBice e Destemps si contraddicevano sempre a questo modoregolarmente. “Sì” diss'egli“una creaturasingolareprofonda e chiusa. E infatti è impazzita. Horagione io. E scommetto che nessuno sa perchè sia impazzita.”Noi Dessalle non lo sapevano. Carlino aveva udito che si trattavadi eredità. Jeanne l'aveva udito smentire. Bessanesi ledomandò se ci fossero speranze di guarigione. “Eh no”diss'ella con una conveniente gravità del volto e della voce.Si dubitò ipocritatrasalì nel cuore e passòoltre: “Non c'è speranza”. Allora Dane raccontòd'una sua conoscente russaguarita dopo vent'anni di manicomio euscitane in mal punto perchè i suoi l'avevano pianta come unapersona morta e poi se n'erano consolatine godevano i benisierano accomodati nella vita come s'ella non esistesse più.

Danedescrisse con arte delicatasquisitamenteil momento in cui lapovera signorarientrando in casapotè osservare tracce dimutamenti fatti scomparire in fretta e senza parlarnetracce dellasala da musica che l'antica sua camera da letto era diventataindizie segni di altri mutamenti più offensivi ancora che cercavanocelarsi a lei. Jeanne parve pigliare al racconto lo stesso interessetranquillo che ci pigliavano gli altri. In fatto ascoltava con quelmisto di raccapriccio e di piacere con cui ci s'immagina una cosaterribile che non succederà mai. Ma un'occhiatauna solainvolontaria occhiata di Carlino le diede noia come un raggioelettrico saettatole nelle ombre del cuore. Tolse dal calice dicristallo davanti a lei una rosa e la porse a Dane.

“Perl'artista” diss'ella sorridendo; e si alzò da tavola.

Uscironoa fumare sulla terrazza di levante. Nell'attraversare la salad'Ifigeniadonna Bice disse a Destemps: “Guardate che questosignor Maironi e la padrona di casa... credosì. Ditelo anchea Laura”mentre alle loro spalle Bessanesi esclamava: “Eccoil mareecco il mare! Thalattathalatta!”.

Nonera il mare la sterminata pianura che appariva per l'uscio apertodella salalaggiù nell'Orientefasciata in giro al curvoconfine del cielo di freddi vapori; ma tutti lo sentivano il mareinquel foscoprofondo Orientee Bessanesi chiedeva se qualche voltanon se ne vedesserosplendendo il sole o la lunascintille. Altrinominò Venezia. La Gonnellina sfavillò negli occhi didesiderioosò sussurrare a suo padre che si sarebbe potutotornare a Veneziapoi fare l'Adriatico fino a Ravennasi udìrispondere secco:

“Iofaccio l'Oceano indiano.”

InveceDestemps ammirava le volute bianche di una grossa fumata di nuvolesospesa là di controsopra l'angolo della Foresteria con ilpomposo colonnato che vi si appoggiasopra più lontane chiometondeggianti d'ippocastanitagliate da sottili aste di cipressiesopra una villetta giallognolaritta sull'orlo dei poggiscolta delpalazzo signorilevigile sul piano immenso.

“Comeè goethiano questo Settecento!” disse Carlino. “Quellenuvole mi figurano la sacrosanta parrucca del dio.” Le bianchenuvole diedero un baleno d'orosi gridò alla parruccamiracolosasi pose mano ai turiboli e all'incenso. Donna Bicechedell'opera goethiana serbava memorie lontane e non l'avevadelrestoben penetrata maiche andava a messa quasi tutte le domenichee pigliava Pasqua regolarmenteplaudì a Carlino incensanteGoethe come il vero Uomo-Dio di una religione superiorefatta perchi sente tutta la bellezza di tutto l'umanocompreso il senso deldivino. Difese poi contro Destemps gli esteti moderni che eglichiamava piccoli concertisti di flauto e clarinettopiccoli bravigonfiagoterispetto alla grande orchestra del Goethe. “Gonfiagoethetu!” gli fece Bessanesi. Bice difese gli estetigodendo in cuorsuosentendo che Destemps parlava per gelosia di un giovanissimoesteta fiorentinoammiratore di lei. Il discorso passònaturalmente all'amore nella religione goethiana e nella religionedegli esteti e donna Laura si pigliò la Gonnellinascese conlei dalla terrazza nel giardinoperchè i signori avevanopreso a discutereBice inorridendo forte per il suo diritto di donnadesiderabilee ridendo più forte ancora per il suo diritto disuocera e di nonnaintorno a ciò che chiamavano la moralitàsessuale.

Bessanesinegava la validità delle leggi religiosecon parole velatedi fronte alle leggi fisiologicheDestemps voleva che l'amore tuttorenda lecitopuro e santoCarlino sosteneva che l'amore verrebbecosì a distruggere il suo proprio piacereche una legge ènecessaria per la deliziosa trepidazione dell'infrangerla e per ildolor piacevole dell'averla infrantain che uno sentiva il poterepropriosi sentiva uomo veramente. Il solo Gonnelligranraccontatore di storielle allegredifendeva il concetto moraleanticoprotestando però di non farlo per bigottismo.

“Scusatemolto” gli disse Daneche aveva ascoltato fumandosilenziosamente. “Io dico quello che dite voi del concettomorale cristiano. Lo dico perchè lo penso ed anche perchèsono bigottista nel modo che voi fareste bene di esseree anchetutti questi signori pagani che hanno detto cose tanto eleganti e dicolori vivicome fiori giovani spuntati di rovine vecchieun pocoimputrite; belli fioriscusate moltoche io non vorrei mettere inocchiello. Ma dov'è la signora Dessalle?”

“Già”esclamò donna Bice. “Jeannedov'è?”

“E`andata a scrivere un biglietto” disse Carlino. “Temo chestarebbe col professore Danee particolarmente contro di me.”

“Locredo bene!” fece la signora. “Lei ha detto cose orribili!”

Esu queste cose orribili la discussione continuò.


Appenastaccatasi dal professore Daneche nell'uscire dalla sala da pranzole aveva piuttosto cavallerescamente che teologicamente offerto ilbraccioJeanne salì nelle proprie stanze per scrivere almarchese. Avida dei brevipreziosi momenti di solitudinenon sisentiva più nella memoria quel che aveva detto Destemps dellaMaironi e l'altro racconto della pazza guaritase non come ombrelanguide nello sfondo di un quadro che son vedute ma non richiamanol'occhio a sè. Il pensiero della letterail pensierodell'incontro l'avevano ripresa con violenza; e smarrìaffissandosi nel proprio internoil senso delle cose esteriori e deltempo. L'improvviso rombo delle grandi campane del Santuario non lascosse ma le entrò nel cuorevi fece vibrare un ricordo dellalettera. Sospiròtolse quella lettera e ne riprese lalettura.

“Nessunomi aspettavanaturalmente. La casa era chiusadovetti mandare adAlbogasionon c'eran candele e neppure acquaci volle del tempo nonpoco a prepararmi un caffèuna stanza per la notte e quandofinalmentemi trovai solo col custodeverso le diecinella casasilenziosal'emozione del viaggio mi era passataun po' per lafaticaun po' per la seccaturainteramente; anzi mi meravigliaiquasi mi dolsidi trovarmi così freddo. Uscii sul terrazzinoche fu costruitosecondo mi raccontò una vecchia del paesecerta Leuda mio padree dove il mio povero zio Ribera"elpoer scior ingegner' come qui lo chiamano ancoramorto prima ch'iovenissi al mondosoleva passare lunghe ore e prendere qualche voltasulle ginocchia la mia povera sorellinaquella che annegò aquattro anni. Mi vennero in mente certe espressioni affettuose dellaLeu a loro riguardo: "lü che l'era inscí mai bonlee che l'era inscí mai graziosa!'.

Pensandoqueste parole così solettoin quella casa vuotasu quellaterrazza dove la passiflora che diede ombra in antico a mio padreamia madrea mio zioalla mia sorellinasi abbarbica tuttaviamortaalle aste di un padiglione di ferromi si cominciò amover dentro qualche cosa che non so dire e finalmente ho pianto unpianto amaro sulla mia casa derelitta e taciturnasulla mia famigliaspenta e anche su me stessonon degno di quelle anime. "Lüche l'era inscí mai bonlee che l'era inscí maigraziosa!' Povera cara sorellina innocente! Era una notte delle piùbuieneppure si vedeva sotto la terrazza il lago nero e immobilecome le montagne avviluppate la fronte di mostruose nuvole che soleavevano un fioco albore. Dato sfogo a quel gran bisogno di piangereprovai l'intenso desiderio accorato di un segno che mi dessero di sèi miei mortistetti sospesoin ascoltopur con la coscienza dellamia follia. Mi parve udir un bacio dell'acqua sulla rivaprima; poiuna voce di uccello notturno nei boschi della sponda opposta; poinientenienteniente. Stavo per levarmisospirandodi làquando udii per un momento suoni fievoli di campane grandi...”

Jeannenon proseguì a leggeresi alzò pallidaquasi cupascrisse in fretta il biglietto al marchese Scremin e discese in tempodi udire Carlino difendere contro Dane e donna Bice la sua tesisull'amore e la legge. Sentì che in quel momento Maironiavrebbe sofferto di vederla prendere le parti di Carlino epursapendo che poi se ne sarebbe pentitacedette a uno spirito diribellionedisse con voce vibrante che certi sentimenti erano moltobellimolto buonimolto poeticiche la verità era cattivadura e fredda ma che l'aveva detta Carlino. Donna Bice ebbe un toccodel suo riso argentino e guardò Dessalle.



III


Gl'invitatidella cittàun nuvoloperchè Carlino voleva riempireper la sua conferenza la sala grandissima della Foresteriacominciarono a venire dopo le nove e mezzoa piedi e in carrozza.Venivano per le due stradicciuole che mettono a villa Diedocosìatrocemente selciate che la nobile signora Colomba Rasellipalpitante di timidezza e di orgogliocome un vero piccionenellasua toeletta cenere guernita di pizzi neriscendendo di carrozzapresso la scuderia e affacciandosi al ciottolato che salesospiròdisse a due signorine di cui teneva faticosamente la tutela: “OhDiotosegavìo cali? Mi sìsavìo”. Ealla sua volta l'uomo acidonel mettere il piede col maestro dimusica Bragozzo sul ciottolato che scende dal collestorseincredibilmente la boccail nasole sopracciglia e dolendosi di nonpossedere le estremità marmoree di certo illustre uomograndeggiante nel mezzo di una piazza della cittàbrontolòcontro la buaggine propria di venire a rompersi i piedi per avere poiil piacere di rompersi anche le tasche. Le carrozze salivano carichedi dame sfarzosedi nereggianti e biancheggianti cavalieri. Lacontessa De Altis ne aveva tre nel suo landau.Due di costoro in abito nero e cravatta biancatorturavano il terzoper il suo smoking ela sua cravatta nera. Non sapeva egli che la sera primaal caffèsi era deciso di andare tutti in frac?Il disgraziatouso venerare nonchè le sacre sentenze anche leauguste opinioni del caffèsi difendeva tra umilmenteallegramente e dispettosamentedescriveva con brio la scena dellasua "vestizione' in casale apostrofi delle figliuole: “Papàla veladasètu!”. “Nopapàche la xeonta!”; i consigli della moglie: “El veladon ch'el te stàtanto ben!” e finalmente i bisbigli della cameriera: “El semeta el smochiconte!”. “E mi aseno” conchiudeva ilnarratore “meteme el smochi.”

Intutte le carrozze si criticavano i Dessalle per non aver indicatol'ora in cui sarebbe finito il trattenimento e per gl'inviti troppolarghi. Il cavalier faceto supponeva di aver a star in cucina. Nellecarrozze di soli uomini si passavano in rassegna i relativi abitinerise ne pubblicavano l'etàle origini e i fasti e nonmancò chi vi andasse fiutando la carbolina. Ma tutticavalieri e dameerano curiosissimi della conferenza e delleproiezioniperchè si diceva che la conferenza fosse in parteun madrigale all'indirizzo di parecchie belleamabili e spiritosesignore della cittàdelle quali si sarebbero visti iritrattie in parte una pittura innocentemente scherzosa di parecchisignori che pure sarebbero comparsi in effigie.

Sipretendeva di conoscere i nomi delle signoresi parlava di peccatimortali di ommissione e di indiscrezionedi miscele inopportunedicerte signorine molto leggiadremolto mondanefieramenteimpermalite per la risaputa esclusione di tutte le signorinetranneunadalle proiezioni e dalla conferenza. Si commentava l'assenza diMaironisi discuteva di una possibile rotturacon accenni agliScremin e a un miglioramento della Demente. Il cavalier facetoprometteva raccontare cose graziosissime durante la musica noiosa delmaestro Bragozzo.

Sirideva della signora che la sera dell'eclissi andava giurando di nonrimetter piede a villa Diedo e chericevuto l'invitoavevatelegrafato a Venezia per una toilette.Si rideva degli infruttuosi sforzi della contessa Importanza perappioppare a Carlino la contessina Importanzètasforzicaritatevolmente secondati da certa benigna dama senza figliuole.

LaRaselli entrò ultima con le due signorine nella villa perchègiunta al cancellosi avvide di avere smarrita la nappina delventaglioe con grandissima rabbia delle compagne volle a ognicostomalgrado le confessate imperfezioni delle pianterifare lavia sino al fondo: “Viatosetasìch'el gera tanto unbel fiocheto. Tasìçerchèdisì el siquaeris anca vualtre”chefu poi tutto invano.


VillaDiedoil bel dado a trafori dal diadema di statuesalivabiancastrocon i trafori tutti accesisopra le due terrazze brunedi genteverso un caos fosco di nuvole senza lunasimile nel suoculminare a un altoenorme fiore del poggio. E nel fiore e intornoal fiore animato di fiamme era un fervore di piccoli viventiaccorsial lume e all'odore di godimento. Molte farfallucce vanequalchefatua falenamolti moscerini curiosiqualche maligna zanzaranonpochi scarabei di pregionon poche nobili api vi facevano un ronzìocontinuomolestoforsealle cose immobiliadorantinella notteaugustacome ai devoti nelle cattedrali un pertinace battibecco disagrestani e di femminucce. Solo i rosai abbracciati ai balaustridella terrazza di ponente avevano fremiti e moti come se ladomesticità lunga avesse loro propagato il senso del piacereumano. Così osservò passeggiando sulla terrazza unpoeta indigeno alla dama pure indigena cui dava il braccio. “MaLei” diss'ella “trova che c'è tanto piacere umanoqui? Tranne ioin questo momento” soggiunse con una vocestrascicata e ridente che attenuava la dolcezza delle parole “tranneforse un pochino anche Leipiù o meno si seccan tutti. Non havisto che mutrie? Pare gente che aspetti il suo turno nella sala diun dentista. Per fortuna c'è quel signore color carota che sidiverte!”

Quelsignore color carotal'uomo acidoerrava soletto per le saleinabito di mattinafra le code di rondine e le toiletteschiarescollatefiutando i mobili a uno a unoregalando a ciascunouna particolare smorfiae non pareva infatti il ritratto del piacereumano; ma convien dire che la bellanobile damasquisitamentearistocratica nell'intelletto e nel gustonon molto riccasoffrivaun pochino del lusso sfoggiato da questi Dessallesangue dibanchierie del prosternarsicome diceva leidi una cittàintera ai loro milioni. Perciò il suo giudizio che tutti siseccassero era volontariamente malignetto e fece sorridere il poetanel proprio non meno maligno cuore. La folla degli invitatialcunidei quali non erano mai entrati nella villa e moltissimi nonl'avevano visitata dopo che n'era stato rinnovato l'arredamentofluivafinite le presentazioniper le cinque sale tiepolesche e sidivertiva di se stessadel magnifico ambientedove la signoramalignetta non faceva grazia che a Tiepologiudicava piuttostopretenzioso che ricco il mobiliovedeva punte borghesi in ognieleganza.

Giovavaa lei e a qualche altroper malignareche certo borghesucciovanitosettoper aver conosciuto i Dessalle da qualche settimana eaver veduta la villa minutamentesi affannasse a gittar qua e làrapidi bisbigli: “Tutte stoffe tessute apposta perchèarmonizzassero con le decorazioni di Tiepolo - qui tutto èanticopreso a Roma - qui tutto è copiato da una sala delpalazzo X di Venezia - qui tutto è lavorato su disegni delpittore Fusarin. - L'erma di Omeronella sala da musicaèantica. - L'erma di Virgilionella sala da pranzoè di unoscultore russo - quelle dell'Ariosto e del Tasso sono di... di...di... adesso lo domando a Carlino”. Subito il cavalier faceto lobattezzò per queste sue ambiziose familiarità ridicole"el fiolo de la balia de Carleto' e per tutta quella sera ilnomignolo gli rimase.

C'eranbene alcuni buoni conoscitori e alcune fini conoscitricichegustavano le armonie squisite degli arredi e delle pitture esostavano a considerare i fregi dorati sul cuoio bianco degli usciantichinè attraversavano il corridoio fra la sala diVirgilio e la sala del Tasso senz'ammirare alle pareti il ricchissimosoprariccio di Venezia. Ma i più si compiacevano di altrecosedella folla elegantedella gran lucedella grande ricchezzadi trovarcisi come invitati; benchè quest'ultimo godimentofosse molto attenuato dalla copia degli invitinon fosse condito diesclusioni saporose. Molti signori si compiacevano inoltreindiversa misurasecondo il gradola bellezza e la giovinezza dellacompagnadi dare il braccio a una dama; e altri signori sicompiacevano di piantarsi ai passaggi fra sala e salaindagandodall'alto le spalle e i palpiti di quelle che talvolta eranocostrette a sostarvi.

“Ilnostro Olimpo” disse con voce nasale un vecchio signore elegantea Gonnellipassate che furono quattro o cinque dameuna dellequalil'ultimaera molto scollata. Bessanesiche stava dietroGonnellibrontolò: “Quello mi pare l'Ossa”.

Lavoce nasale: “Perdonidice?”.

“Ohniente.”

Lesignore tuttetranne qualcuna poco soddisfatta della propriatoilettesicompiacevano pure della riunionema si mostravano ancoranellagravità e nella solennità del contegnomolto compresedei loro strascichidelle loro gemmedell'avvenimento cuipartecipavano. Invece le signorine erano raggiantiperchè il"fiolo de la balia' aveva raccontato a qualcuna che nella saladella conferenza si era stesa una tela e portato un piano; e perchèfra i possibili ballerini vi erano alcuni giovani ufficiali dicavalleria non mai venutiprima di quella serain società.Un gruppo di essenella sala dell'Ariostocommentava questenotizie. Un signore maturo che passava di lìallargate lebraccia a cingere confidenzialmente due sottili vite che trasalironoficcò il naso nel gruppo: “Ohe digosémoi boneputele? Sémoi de religion? Quanti Ave marìogavemoi dito ancò?”. E scappò ridendocon unaventagliata della più anziana sul viso. Le signorineripigliarono a parlare degli ufficiali ponendo in comune la loroscienzaindicandoli per nomecognometitoliquattrinietàspiritoabitudini e peso.

Ilprimato del peso era stato tenuto per un pezzo dal capitano X connovantatrè chilima ora c'era il tenente Y che ne pesavanovantacinque. Peccatoil tenente non aveva altro difetto che questoeccesso. Jeanne aveva raccolto la Gonnellina in un angolo dellaterrazza di levante dove stava con la signorina Bertha e conDestempsl'aveva portata alle pupille della Raselli perchè lapigliassero nella loro compagnia; ma Eleonoravenutaci controvoglianon fu briosa nè troppo amabilecosicchè le fupresto conferito graziosamente il titolo di "palo numero uno'.Jeannedel restorecitava la propria parte da eccellente attriceconcedendosi poco a chi l'avrebbe desiderata moltoscusandosi con leamichedistribuendosi largamente agli invitati più modesti emeno conosciuti da leicomponendo acconce conversazioni alprofessore Dane e a donna Lauralasciando che BiceDestempsBerthaBessanesi e Gonnelli se la sbrigassero come volevano epotevano.

S'eradovuto modificare il programma della serata. Non si cominciava piùcon la conferenzasi cominciava con la musicaper causa del maestroBragozzoil qualefiutato in aria l'odor di balloaveva dichiaratonetto a Carlino di non voler far udire il promesso atto della suaopera inedita dopo la conferenzaquando tutti sarebbero statiimpazienti di ballare. E per la musica non c'era da uscire dallavilla perchè il maestro preferiva quella piccola sala allagrande sala della Foresteria: pochi uditori ma scelti!

“Cosavuole?” diss'egli alla contessa malignetta. “Qui saremosifiguricento persone. Di cinquanta uomini che mi applaudirannovene saranno venti capaci di dirmi quando saremo fuori: "La digamaestro; bela quela robama longheta'. Altri ventie questi sarannoi miei amicimi diranno: "Fiol de na pipala finivistu gnancapiù!'. Altri cinque mi domanderanno se ho suonato Wagner o seho suonato la Traviata;per loro è presso a poco la stessa cosa. Gli ultimi cinque hopiacere che vengano a udirmi. Quanto alle signoremettiamo da parteLeila De Altisforse anche la padrona di casanon lo soe tre oquattro delle quattordici o quindici allieve che ho quimettiamodieci in tutto. E` molto! Per le altre quarantaquand'anche sapessifar cantare e piangere il pianoavrei la consolazione di vederequaranta ventagli andare e venire regolarmentecome quarantametronomidal principio alla fine. Qualche signorinapoisarebbecapacissima di venirmi a direcome mi è toccato ancora dopoaver suonato Beethoveno Schumanno Mendelssohn: "Bravomaestro: ma ora ci suoni qualche cosa di bello'.”

“E`così dappertuttosa” gli rispose la contessaridendo.


Mentr'eglisuonava econtro il suo desideriola piccola sala era stipata e duegrosse code di pubblico vi restavano prese negli usci apertiilcavalier faceto raccontava in un angolo della terrazza di levanteaun piccolo gruppo di uditori e di uditricile scene di casa Screminpromesse alla contessa De Altisla quale aveva preferito la musica.Egli le sapeva dalla propria camerierauna sorella della quale avevasposato il figlio di Federico di casa Scremin.

Dunquescena prima. Personaggi: il marchese Torototèlacome ilcavaliere chiamava Zaneto per certe sue antiche colascionatepoetichela marchesa Nenedon Giuseppe Flores e un topo. Arriva donGiuseppe in carrozzadalla sua villadomanda del marcheseèintrodotto e Federico riceve l'ordine di non lasciar passare nessuno.La marchesa suona il campanello. Chi è venuto? Don GiuseppeFlores. Dov'è? Nello studiocol padrone. Passano cinqueminuti. La marchesa esce dalla sua camera e "roa' ossia girainquieta per la casa. Va finalmente a capitare scura e ansiosa inviso presso uno dei due usci dello studio del marchese. Cosa succedemai? Federico si trova per caso presso l'altro uscio. Ode donGiuseppe che parla; non si capisce niente. Torototèla "fifòta'ossia piagnucola. Federicoper casoaccosta l'occhio al buco dellachiave e vede la padrona entrare tutta blanda e sorridente. Proprioin quel momento il padrone si alza spiritatotira una scampanellatafissando qualche cosa in un angolo dello studio. Federico fa un giroentra dall'altro usciodietro la padrona. “Comandi?” “Unsorze!” La padrona che solo teme Iddio e i topivoltasilenziosamente le spalle e via. “Un sorzesignor?”esclama Federico. “Ma sìun sorzeun sorze!” Ilmarchesetutto tremantesi fa una barricata della sedia. “Lascusidon Giuseppe! La scusidon Giuseppe!” Don Giuseppe alvedere quella baraonda per un toporesta di stucco. Federico nonriesce a veder topi. Il marchese non si rassicuravuole continuarele ricerche: “La scusidon Giuseppe! La scusidon Giuseppe! Mirincresce!”. E tanto dice e tanto ripete “mi rincrescemirincresce” che il povero don Giuseppemogio mogiose ne va.Trova la marchesa nell'anticameradiscorrono.

Aquesta placida svolta del racconto si udirono gli eroi del maestroBragozzo delirare di passione con lo strepito più indiavolatoe un signore grosso uscì sulla terrazzasi accostò algruppo. “Mi son sordo” disse egli. Poi raccontòch'era arrivato Zaneto Scremin con un fracdel quarantotto e una cravatta bianca che pareva una salvietta.

Lavenuta di Zaneto aguzzò l'appetito curioso degli uditori e ilracconto fu ripreso. Cosa si fossero detto la marchesa e don Giuseppenon si sapeva. Certo la marchesanel congedar il preteavevasospirato: “Ga d'esser anca i sorzi!”quasi quasicompassionando Domeneddio per questa debolezza di aver inventato itopi. Quanto poi al fondo della cosa...

“Miso tuto!” interruppe il signore ch'era diventato sordo. Erainfatti abbastanza bene informato. A Zanetoper esser fattosenatoreoccorreva regolare i propri affariunificare i debiti conun grosso mutuo per ridurne l'interesse e per non avere intorno tantelingue inquietetanti occhi attenti di creditori. Un'operazione colCredito fondiario della Cassa di risparmio di Milano non si erapotuta concludereper difetto di cauzione. L'avvocato di Zanetoaveva proposto a Carlo Dessalle un mutuo di settecentomila lire alquattro per cento. Dessalle per il momento non aveva fondi e a ognimodo voleva il quattro e mezzo.

Saputociòla marchesapiuttosto di vedere suo marito legato aiDessalleaveva deciso di sacrificarsi e di cedergli una larga partedei propri beniperò a condizione di far sapere in alto chenon si aspirava più al senatodi trasferirsi a Bresciadiviverci quietamente con il genero. Don Flores era l'ambasciatore. “MaZaneto duro; e fra lu e el sorze i ga mandà a monte tuto.”Nel dialetto del paese "sorze' si dice un uomo astuto e a questofondamento filologico il cavalier faceto appoggiò larispettabile ipotesi che gridando "un sorze!' il buon Zanetoavesse voluto designare non un topo ma se stesso.

IntantoJeanne aveva presentato il marchese a donna Laurali aveva avviatientrambisenza parerealla terrazza di ponente dove potevanodiscorrere in pace. All'orologio del Santuario suonavano le dieci emezzo. Jeanne scivolò nella sala da pranzosi affacciòa una finestra aperta sulla valle del Silenzioguardando i collifoschile nere nuvole pesantiimmaginando la terrazza lontanaaltasopra le acque oscurela passiflora mortail suono delle grandicampaneil cuore a lei caropieno di memoriedi rimpiantiditerroridi desideri indistinti che lo contendevano a lei. Si slanciòmentalmente colà dov'egli era e sentendo che non avrebbe osatoserrarlo nelle sue braccia per timore di riuscirgli sgraditatuttadentro si rammollì di pianto e lasciò la finestra.

Nelvoltarsi vide Bassanelli fermo davanti a lei. “Sono indiscreto?”diss'egli. “Ho pensato che forse questa sera avrete tempo eorecchi anche per gli amici. Vorrei dirvi una parola.”

Jeannenon si sdegnò dell'allusione all'assenza di Maironiavvezzacom'era da un pezzo alle punture gelose del povero Bassanelliper ilquale aveva molta stima e anche simpatia.

“Ela mia società?” diss'ella.

“Cipensa Bragozzo” rispose Bassanelli. “Sentite; ieri l'altroa Veneziaho veduto vostro marito.”

Jeanneebbe un sussulto di appassionato disprezzo. “Ebbene!”diss'ella. “Che me ne importa?”

Bassanellinon pretendeva che le ne importasse moltoma in fin dei conti l'uomogli aveva fatto pietà. Era in pessime condizioni di salutepareva mutatoconscio delle sue abbiezioni passatesoffrivasoffriva moltoanche di certe voci arrivate sino a lui.

“Diquali voci?”

“Ehmia cara!”

“Bassanelli!Siete venuto per dirmi questo?” fece Jeannefieramente.

“Noma insomma trovo che stasera vi si legge troppo nel viso l'assenza diqualcunoe trovo che non è necessario di mettersi poi anche asospirare alla finestra!”

“Bassanellivi ho permesso finora di maltrattarmi circa questo punto perchèsiete un vecchio amicoma badate di non farmi pentire! Del restonon è vero che si legga. Non si legge niente. E poiquandoanche si leggesse? Io non faccio il male!”

Bassanellila fissò negli occhipallidoin silenziol'afferròbruscamente al polsole alzò il braccio. “Non fate ilmale?” diss'egli. “Sentite! Sono sempre stato un asino daquando ho sofferto la fame e mi sono fatto storpiare per questamaledetta Italia. Sono un asino anche in questo momento e il perchèlo so io; ma vi giuro che quando penso al povero Franco Maironialpadreun cuor di leonepuroper D...come il cuor d'un santoemi figuro quel che soffrirebbe se vedessese sapessepreferiscoesser io che voi!”

Cosìdicendo liberò e scosse da sè il polso prigioniero.Nello stesso momento si udì un sonoro applauso salutarl'ultima battuta dell'opera di Bragozzo.

“Zitto!”disse Jeannequasi atterritapallida quanto lui. “Voi siete uncattivo geloso e niente altro!”

Ellacorse nella sala d'Ifigenia; e Bassanelli la seguì frementemezzo contentomezzo malcontento di essersi sfogato.

DonnaLaura e il marchese Scremin conversavano ancora sulla terrazza diponente quando tutta la società si rovesciò a coppiesulla terrazza di levantescese la gradinatasi avviò per ilgiardino alla porta lucente della Foresteria. Alcune coppiearistocratiche si sbandarono per aggrupparsi poi fra loro secondoun'intesadesiderando pigliar posto nella sala a parte dagli altri.Subito ne corse per le ombre qualche femminino dispettoso sussurro.Sussurri correvano pure nel gruppo eletto; sussurri sull'assenza diMaironisussurri sulle toilettesdelle due gran dame forestiereche parevano insolentemente semplici.Una signora che aveva trovato modostando seduta presso un usciodella sala di musicadi farsi vento con la destra e di saggiareoccultamentecon la sinistrala stoffa delle toilettesche passavanoera fuori di sè contro certe sue amiche avare.Un'altra signora si compiacque di osservare alle due fanaticheadoratrici di Jeanneperchè non si illudessero circa gliaffetti di leiche l'assenza di Maironi la rendeva persino brutta.

Jeanneentrò l'ultima nella sala della conferenza con il professoreDaneche un bello spirito indigeno aveva già battezzatoperi calzoni laici e per certa femminilità del vecchio visoimberbepretoides brachyfera.Quando essi entravanoCarlinoaddossato al quadrato bianco delleproiezionistava spiegando al pubblico che il suo discorsodisoggetto fantasticorichiedeva una introduzione musicale. Pregòdi non applaudire la musica quantunque di un grande maestro e beneseguita. Le lampade elettriche mancarono a un puntosul quadratobianco apparvero nuvole notturne soffuse di albori lunari eun'orchestrina invisibile attaccò le prime battute del Sognodi una notte d'estate diMendelssohn. Donna Bicela buona signora Colomba RasellilaGonnellinasuo padreDaneBessanesiil maestro Bragozzo fecero:“Oh!”. Destemps disse forte: “Bene!”. Tutti glialtrisignore e signoristettero duricon l'aria di gente avvezzae difficile. La Raselli si attentò di domandar sottovoce a unamaestosa vicina impassibile: “Cossa xelicontessaqueispegazzi?”.

Lavicina rispose maestosamente:

“Mino so.”

Unavispa signorina seduta presso la Raselli mormorò:

“Elsarà el caldiero de le strie che fuma.”

"Almanco' pensò la Raselli "che le strie me trovasse el mefiocheto'. Appena finita la musicale nuvole notturne tremolarono esparverole lampade elettriche mandarono una fioca luce crepuscolaree Carlino salì sopra una piccola tribuna che tagliava l'angolodella sala fra il quadrato delle proiezioni e l'uscio aperto dellastanza battezzata da lui per le decorazioni tiepolesche LaCina dei mostridove stavano imusicisti.

“Labaraca de Purincinèla” mormorò l'uomo acido.

“Portadei sogni” incominciò Carlinosenza enfasicon quelnervoso accento toscano che agli orecchi veneti suonava giàsingolare e magico. “Porta delle Sfingijanua clara!Apparisci!”

Lelampade si spenserotremò sul quadrato luminoso e vi si fermòla immagine di una elegantissima porta fine Quattrocento. La base delpilastro destro recava sul plinto: JANUA CLARA.


Qualcunoriconobbe il motto e le sfingi dell'architravemormorò ilnome di un palazzo della città.

“Degna”continuò Carlino “del palagio di Atlanteio ti scelgoper esordio. Sanguigneinformidall'utero di un'alpe selvaggia cavòle tue membra il nerbo di braccia violente; e l'anima tua purabalenava intanto nell'anima dell'antico artefice come favilla infiamma e nel faticoso congiungimento dello spirito con la pietralento ascese e declinò l'arco tuosimile al corso di una vitaflorida e pienaalla via della bellezza nel tempodella speranza inun cuor sapiente.”

“Vardèl'orologio” mormorò l'uomo acido al suo vicino “cavedemo quanto che se ghe mete a passar sta porta.”

“Comeora” proseguì nell'ombra la voce di Carlino “nel dìsacro al Tonantetu cingi di un pago sorriso le turbe che per teaffluisconorecando incensiall'interna Dea...”

Quila porta tremò e disparve. Scattò al suo postofra gliohle risa e gli applausiil busto splendido di una dama presentedal profilo imperatoriodalgrande occhio nerodall'omero potente e squisito. “Somiglia unpoco a donna Laura” disse il professore Dane. Jeanne trasalì.Donna Laura e il marchese Scremin erano in sala? Sarebbero statidimenticati sulla terrazza? Mentre si applaudiva e si ridevamentrela dama si schermiva dai complimenti degli amici e Carlino attendevadi poter ripigliare la sua stiracchiata similitudine dell'adornaporta con l'adorno esordio di una favola romanticaJeanne uscìlesta e incontrò in giardino donna Laurasola. Il marchese(Dioche senatore meschinetto!) era partito lasciando molte scuse. Edunque? Dunque Scremin si era impegnato a far lavorare suo genero perla elezione di Brescia. Siccome Jeanneudito questofece un piccolo"hm!' dubitativodonna Laura si arrischiò a diresorridendo: “Basta che tu voglia!”. Era forse piùfacileal buiodi osare così.

“Tel'ha detto Screminquesto?” fece Jeanne.

“Nolo penso io.”

“Benenon è vero.”

Eche non fosse veroJeanneaffermandoloera convinta.

“Deisuoi imbarazzi non ti avrà mica parlato?” soggiunse.

“Nogliene ho parlato io.”

“Tu?”

Giàdonna Laura era famosa per le sue prudenze di educatrice e per le sueaudacie di maleducata.

“Quandosi vuole un fine straordinario” diss'ella “bisogna gittarei riguardi ordinari.”

Avevafatto cenno al marchese di altre difficoltà che il suo nomeincontravadifficoltà di carattere molto positivoforse pereffetto di voci sicuramente false ma ch'era necessario di ridurresubito al silenzio. Il marchese si era turbato alquantoavevarisposto con un tortuoso viluppo di frasi mal connessevolendo farintendere che per effetto di certe trattative i Dessalle conoscevanola solidità della sua posizione economica e avrebbero potutoattestarne.

“Èvero?” chiese donna Laura. Jeanne credeva infatti che suofratello fosse stato richiesto di un grosso mutuoche la cauzioneofferta fosse non larga ma sufficienteche l'affare avessenaufragato per il saggio dell'interesse.

“Ecco”disse donna Laura “egli vorrebbe che io inducessi il ministro achiedere informazionicirca questo puntoal Prefetto o che alPrefetto ne parlaste voi. Del resto” soggiunse “capiscibene che io non ci tengo. Io tengo alla elezione di Brescia.”

Jeannenon rispose. L'altra sentì il gelo di quel silenzio e ilpregio del momento fugace.

“Scusa”diss'ella “parliamo un poco. Non voglio entrare nelle tuefaccendema insomma credo che dovresti aiutarmi.”

“Ancora?”

“Sìancora. Questa volta si fa conoscere nel collegio lavorando per unaltro; un'altra volta lavorerà per sè. E lo aiuteremo.”

Questoparlare senza riguardi e il tono di protezione irritarono Jeanne.

“Scusasai” diss'ella “t'inganni molto e poi è un discorsoinutile. Andiamoio debbo rientrare.”

DonnaLauradelusapensò: che si sieno guastati? E si propose disaperne qualcosa la sera stessa.

Intantoil successo di Carlino andava crescendo. Egli aveva imbastita la piùassurda delle fiabe e intorno alla bocca dell'uomo acido il muscoloorbiculareil buccinatorio e il risorio facevano insiemea ragioneuna tregenda furiosa. Ma le proiezioni levavano il pubblico a rumore.Il soggetto della fiaba era questo. Una bellagentile e nobilegiovinetta della cittàpresente nella sala e realmentefidanzata a un signore stranierofigurava già sposa in uncastello superbo sul Reno presso allo scoglio della Loreleifelicema non senza qualche ombra di mestizia per il ricordo della patrialontana. La Loreleiimpietosita da quei sospirettile recava indono e le piantava in giardino la svelta vecchia torre all'ombradella quale era natala Torre di città. Seguiva ladesolazione dei cittadini per la scomparsa della loro Torre. Quic'era un anacronismo. Maironi usciva sul bianco quadrato con lasciarpa da sindaconell'atto di andar cercandocon una lanterna inmanola Torre. Jeanne si crucciò di quest'apparizionechefece ridere assaie del silenzio serbatone con lei da Carlino chepure le aveva prima raccontata la fiaba. Si vide l'arresto di un notosignore altissimo sospettato di aver inghiottito la Torrelo sveniredi un altro signore erudito che aveva pubblicato una Biografiadocumentata della Torre di cittàil suicidio di alcuni patrizi amici di Carlino che saltavanocapofitti nel profondo buco aperto al posto del patrio monumento.Seguiva un concilio di Fate protettrici della città. Mainelracconto che le proiezioni commentavanoil conferenzierefedele altitolo della sua cicalatanon aveva pronunziato nomi. I nomi liproclamava il pubblico davanti alle figure dei Numi. Anche la Loreleiera una bella signora di Rolandseckaccasata nella cittàdella Torre. La galanteria e insieme la prudenza di Carlino furonoparticolarmente ammirate nella descrizionedetta e figuratadiquesto concilio dove il potere magico era conferito alle piùbelle e illustri dame della cittàle qualidescritte una peruna con frasi ampollose ma enigmatichecomparvero sul quadrato purein una forma enigmaticacol viso in tutto o in parte velatoe nebalenarono via rapidamente nè vi ricomparvero malgrado irichiami del pubblico.

Eranododici. Delle trentasei signore presenti trentacinque speraronoessere del numerofidando anche le vecchie nei titolinei palazzinella cortesia cavalleresca dell'oratore e nel velo completo. La solacarissima signora Colomba Raselli era umilmente persuasa di nonpotersi consolare con tali speranze del perduto “fiocheto”.Le fate congiuravano nel palazzo della janua clarae con incantesimi riportavano la Torre dal Reno a casaconducevanola giovine sposa e lo sposo a dimorarvi pressofacevan prigione laLorelei e graziosamente l'assumevano a loro compagna e sorella. Ilracconto e lo spettacolo finivano con un frenetico ballo pubblicointorno alla Torre rimessa in posto.

Cancaneggiavanocon la folla il sindacoil signore altissimoil signore erudito eanche i patrizi suicidi. Un inno alla gentile città ospitalesoggiorno eletto di Grazie e Geniifu la chiusa gradita dellaconferenza. L'orchestrina intuonò un'aria popolare localeallargandone il tempo a segno di renderla solennenon riconoscibilea prima vista; e sul quadrato uscì la immagine di Carlinostessoinclinata verso il pubblico in atto di riverenzacon lebraccia conserte e una piccola Torre stretta sul cuore. Tutte lelampade brillarono a un punto fra lo scrosciar degli applausi.

Lasala era già sgombra per il ballo e poche persone vipasseggiavanomentre gli altri invitati si pigiavano ancorafumandosigarettesorbendo gelatinelle stanze che fronteggiano la valledel Silenziodipinte pure dal Tiepolo con l'estro piùfantasioso e denominate da Carlino la Cina dei mostrila GeorgicalaGalantel'Olimpola Darwinianal'Anacreontea. Ilsuccesso della fiaba era stato così grande che soltanto lesignorine parevano impazienti di ballare. Si faceva un gran chiassointorno a Carlino e intorno alle più sicure delle presuntefate.

AhLorelei

Rapirvorrei!

mormoròa Gonnelli il cupido Bessanesimolto ammirando lo scollato dellasignora tedesca. “AhBessanesiBessanesiche dice mai?”fece alle sue spallebattendolo col ventagliodonna Bice.

“Sìlor e Lei - Rapir vorrei!”rispose il pittorepronto.

DonnaLaura prese a braccetto una delle fateuna piccola fata irrequieta enervosasua compagna di classe a Poggio Imperialee col pretesto divedere i Tiepolo si fece portare nell'Anacreonteail mirabilesalottino dei puttil'ultimo delle stanze verso levantedove nonc'era nessuno. La interrogò sugli amori di Maironi e diJeanne.

“Manon se ne parla più!” rispose la fata spensieratellatutta scintillante per essersi fatta vedere a braccetto della grandama. “Me ne domandi perchè non lo vedi qui? E` a Bresciaper affari. E` una cosa accettataun matrimonio. Si trova che leipotrebbe qualche volta dissimulare un po' megliofare come fa luich'è irreprensibile in questoma poi in fondo si pensa: unmarito senza moglie... una moglie senza marito... non per lorocolpa... giovani... scusasiamo proprio sincericosa tantodifficile!... è una fortuna che si siano legati fra loro e nonabbiano guastate delle altre unioni. Se si è morali ma nonipocriti bisogna dire così! Qualcuno critica Dessalle chedovrebbe faredovrebbe dire! Ohè tanto simpatico Dessalle!Come è simpatico! Ma qui si è severipedanti! Ohnonne hai un'idea come si è severi! Ma senza giustiziaperò;a qualcuna si perdona tuttoma proprio tuttoe a qualcun'altra siperdona niente.”

Ell'aveval'ariacosì parlandod'insinuare un po' con risentimentounpo' con soddisfazioneche era esperta particolarmente di taleseverità e di tale ingiustizia. Infatti era di quelle cheaccostano volentieri la mano al frutto vietatoma nel punto dispiccarlo si sentono forsecon un'ombra di rammaricopiùoneste di quanto avrebbero creduto e ritirano la mano.

Proprioin quel momento il maestro Bragozzo e una giovine signora suaallievadue pure cellule sane di quel mobile tessuto umanosiconfidavano certi loro ingenui comuni moti religiosi e moralidell'animo. Il maestro era beato di non vedere "quell'amigo' cheeglicome buon cristianocome buon marito e come buon clericalenon poteva soffrire.

“Mepar de respirar” diceva.

Ela giovine signoratutta fremente di speranze sante:

“Credemaestroche ci sia un principio di rottura?”

“Mino so gnente. So che stasera no se sente quel solito odorin depastizzo vecio che a mi me rebalta el stomego. Ghe xe un prete co lebragheghe xe tre o quattro vergognose de signore che a meterghe unpiè su la coa intanto che le camina se ghe tira zo tutomabasta!” La giovane signora sorrise.

“Credepropriomaestroche qui non ci siano altri pasticcetti stasera?”

“Ghene saràma i xe in credenzae quell'altroinveceel sariain tavola.”

Ilmaestro concluse che non vedeva l'ora di essere a casa sua dove nonc'erano pasticci nè in tavola nè in credenza e dove lesue donne “siben che le ghi n'a puchi” benchèavessero pochi quattrinivestivano più abbondantemente diqueste.

SopraggiunseJeannesorrise al maestro e disse alla giovine signora che forseavrebbe il piacere di passare una parte dell'estate a Vena di FonteAltavicino a lei che ci aveva una villetta. Alla giovine signorabalenò subito che ci sarebbe venuto anche Maironi. Arrossìmolto nel rispondereintimiditauna parola gentiletantoquell'idea la turbava; benchè Jeanne le ispirassecon lasoggezioneuna segreta simpatiauna idea vaga che quel cuore nonfosse mondano quanto le abitudini esterneun senso pietoso delletentazioni preparatele da sfortunati casidal piccolo presidio cuiprobabilmente aveva trovato in una religione male insegnata con laparola e punto con gli esempi.


Ilballo fervevail “fiolo de la balia de Carleto” si coprivad'ignominia conducendo a rovina una quadrigliae intanto alcuniuomini seriiconsiglieri del Comuneliberalistavano a fumareadiscorrere di elezioni sul terrazzo attiguo all'Anacreontea. Untelegramma del deputato aveva loro appreso lo scioglimento delConsiglio e l'avvocato Moretti era poco persuaso di una candidaturaliberale Maironi che taluno intendeva porre innanzi. “Che uomo ècostuiin fatto?” si diceva l'avvocato. “Lo si era vistosindaco clericale e come sindaco faceva benenon c'era che dire.S'innamorafa benoneperchè la Dessalle è unabellissima donna e perchè a trent'anniquando si ha e non siha moglienon si può fare che di peggio. Se la Dessalle fosseuna signora del mondo clericale tutto sarebbe passato in silenziocome una cosa di famiglia.

Cosìinveceper il fatto più naturale del mondoi clericaliferocinotate benei feroci e non gli altrihanno condotte le cosein modo da costringere quest'uomo a ritirarsi. Quest'uomo si èritirato e ammettiamo pure che abbia rotto col suo partito del tuttoe sinceramentema in fondo in fondo sarà egli propriotrasformato? Il commercio che ha qui è affare di fisiologia enon conta. Si dice che ha smesso le pratiche religioseche si èdato al libero pensieroalla filosofia positiva o che so io. Soncose che non si sanno mai bene e sopra tutto non si sa mai benequanto possano durare certi eccessi. Per me dubito molto che un uomoallevato nelle idee in cui fu allevato Maironie nutrito di esse perventotto anni o giù di lìpossa repentinamentediventare un altro uomoe in questo caso consiglierei il cautenegotiari. Aspettiamo una provapiù lunga e più decisiva. Ecco.”

Ildottor Pinton non era di questo parere. Secondo luiappunto per ildubbio che i nuovi sentimenti di Maironi non fossero solidi eduraturiconveniva prenderlo subito e legarlo. Prenderlo e legarloanche per impedire che lo prendessero i socialisti. A lui constavache Maironi aveva tenuto discorsi molto sospettiche quel pericoloc'erache il maggior freno era per Maironi una certa aristocraziad'ingegnodi cultura e di camicia pulita. Bisognava legarlo! I duenon si poterono accordare e alzarono la voce per modo che il terzol'avvocato Bonatodovette ammonirliper prudenza. Qualcuno siaffacciò in quel punto al terrazzo del salottinochiamò:“Cavaliere!”. Tutti e tre gl'interlocutori si mossero a untempo. In fatto si voleva il più giovaneil cavaliereMorettiper una coppia di lanciersche mancava.

“Tunon sai” disse il cavaliere Pinton al cavaliere Bonatoappenauscito il cavaliere Moretti “perchè si riscaldava!Quaiotto deve aver detto che se i liberali non portano Maironiiclericali non combatteranno Moretti. Altrimenti lo combatteranno aoltranzae Moretti... insomma... ha paura.”

L'avvocatoBonato sapeva perfettamente che il dottor Pinton alla sua volta eramalcontento di Morettimembro della Commissione direttivadell'Ospitaleperchè aveva osteggiato la nomina di un suofratello a ragioniere dell'Opera Pia.

“Hocapito” diss'egli. “Vuol dire che si potrebbe portareMaironi e non Moretti.”

Ciònon gl'impedì di dire più tardi a Moretti che sisarebbe potuto rinviare la candidatura Maironi alle prime elezionisuppletiveossia portare Moretti e non Maironi. Egli non eradisonestoma filosofo e amico del quieto vivere. Non si accorsedella contraddizione che dopo esservi incappato e si liberòdel brucior lieve della coscienza con una ideale scrollatina dispalle e con un bicchiere di Rüdesheimer centellinato nellaDarwiniana. Il battesimo strano di quella stanza era stato ispirato aDessalle dalla scimmia che Tiepolo vi mostra aggrappata ai balaustridi uno scalone e dal negro che ne sale faticosamente un altro. Lepareti hanno quadretti deliziosi di costumi veneziani e chioggiotti.

"Bellacosa l'ascendere!' pensò l'avvocato guardando l'aguzza nerabarbetta di un sottilenero Pantalone dei Bisognosi che inarcaossequioso la flessibile spina dorsale davanti a sfarzose dame.

"Mase si deve faticar tanto per arrivare poi a far la commediamascheratacome la fa quel Pantalone lì o comein fondolafacciamo tuttiio e gli altriho paura che quest'idea di ascenderesia stata proprio l'idea di una bestia. Di buono c'è questo.'

Volevadire il Rüdesheimer.

Anchedonna Bice aveva trovato un'amicala moglie del maggiore diartiglieria Alberto D'Ambiveriuna giovane signora romanabuona dicuore enei momenti gaiterribile di lingua. Seduta accanto a Bicesur un divano della Cinaaveva un mottoun maligno sussurro perciascuna delle signore e per molti fra i cavalieri che sfilavano lorodavantientrando nella sala da ballo. Bicenaturalmentenonconosceva nessuno e la D'Ambiveri le faceva sottovoce lepresentazioni. “Signorina... rapa - Conte... oca pomposa -Signorina... suor Preziosaguardatemi e non toccatemi - Contessa...suor Severatoccatemi e non guardatemi. - Signora... suor Teneraguardatemi e toccatemi. - Contessa... sangue realeimperatrice diCiampino - Tenente... uccellin bel verde - Signorina Carolina...Carlamagna - Signorino e signorina... scoiattolo e scoiattola -Madama... la virtù in gloria.” Quando passòDestemps che dava il braccio alla padrona di casanon si tenne dalmormorare: “Baciate il piede al successor di Piero”. DonnaBice sorrise di un sorriso profondo e si affrettò a informarsidi Maironi. Era veramente interessante?

“Quinon piace” rispose la D'Ambiveri. “Lo trovano troppo serio.Adesso questo amore lo ha riabilitato un pocoma non basta.Bisognerebbe che piantasse Jeanne e ne pigliasse un'altra.”

“Tilasceresti pigliaretu?”

“Io?Ma che dici? Povero Alberto! Capisco Jeannedel resto. Poichèpoi Maironi ha una figura aristocraticissima e non è belloveste bene e non è un elegante nè dev'essere di quelliche ti schiccherano una dichiarazione due ore dopo averti conosciuta.Aggiungi che quell'uomo lìcon la rapa di moglie che haavutodiconoecon la vita che ha fattodeve aver portato aJeanne tesori intatti di passione. Insomma capisco Jeanne e non farmidire altre sciocchezze.”



IV


Unimprovviso rombo di tuono troncò il ballo. Invano BerthaRothenbaumcon una familiarità di zitellona esperta ebonariapropose alle pupille della Raselli di aspettare la pioggiaper battezzare un bel giovane israelita che ballava il dancinga meraviglia. Le carrozze erano state annunciate da un pezzo e gliinvitati presero la fuga. Ad una ad una le coppie di fanali sivennero spiccando dal mobile guazzabuglio che ne luceva davantiall'ingresso della villacorsero via velocemente lungo il muro dicintascomparvero nelle tenebre. Un altro lungo rombo di tuono empìle ombre del giardinoentrò per le finestre aperte nelle saledella villa come la voce formidabile di un minaccioso Padrone chedalla sua nera tenda di nuvole chiedesse conto alle vanitàumanealle cose spaurite e mutedi averlo dimenticato. Le finestrefurono chiusegli ultimi passi e le ultime voci dei servi tacquero.Appoggiata al balcone della sua camera da lettoJeannestanca einsonneascoltò inconscia i fremiti delle frondi inquiete nelbassoguardando il continuo lampeggiar silenzioso sul ciglio nerodei collisimile a un continuo febbrile chiudersi e aprirsi di ungrande occhio di fuoco nel cielo. Assaporava la solitudine liberaildolce alleviamento di un incomportabile peso di simulazione. SeMaironi fosse stato presente ella non avrebbe sentito che il piaceredi venire ammirata davanti a lui per la sua bellezzaper l'eleganzaper lo splendore dell'ospitalità. Tutto gli avrebbe offertonella sua mente questo tributo di omaggi altrui! Anche a lui assenteavrebbe potuto offrirli con gioiasenza la lettera dolorosa. Cosìquelle lunghe ore non le avevano dato che fatica e tedio. Mai lagente non le era parsa tanto sciocca e falsamai non si era parsatanto sciocca e falsa ella medesima. Il fragore del tuonoi frusciidelle frondil'occhieggiare continuo dei lampi la ristoravanoconla sincerità lorodi tanto simulare e veder simulare. Epiacevano a lui! Dioche le aveva detto Bassanelli? Suo padre! Inpassato ella ne avrebbe sorriso; ma ora! Incominciò a pioverequietamentesilenziosamente. Si ritrasse dal balconeaperse ilcassetto dello scrittoio. La lettera era lìpresso la teca diargento dove Jeanne custodiva le altre di luiil suo tesoro. Nesoleva rileggere qualcuna ogni serae il profumo di héliotropeche usciva dal cassetto aperto le ridiceva le parole dolcissime a cuiera solita di ritornare. Oh non questa sera! Questa sera gli occhisuoi ritornarono alle parole tristi.

“...quando udii per un momento suoni fievoli di campane grandi cheparevano incommensurabilmente lontane. Venivano dall'alto e non sodire la impressione che facevano in quel gran buioin quel gransilenzio. Stetti in ascolto con la mano all'orecchiotrattenendo ilrespiro. Non udii più niente. Ossiaudii una voce vicina direnel dialetto del paese: "I campann de Püria'. Era ilcustode della casail sindaco di Albogasio. Pensai che si fosseannoiato di aspettarmigli dissi che poteva andarsi a coricare. "C'èqui la Leu'dice. "La Leu?' faccio io. "A quest'ora?' -"Ma'dice"è un po'!...' e compie la frasesorridendocol solito gesto della mano alla fronte.

"Èun pezzo' dice"che va dietro a domandarmi quando viene equando viene perchè ha da dirgli delle cosedelle cosevecchie e io domando cosa sono e lei risponde che non le puòdire a nessunoma iogià credo... eh!' Gli diedi l'ordine dicondurmela. Poco dopo udii la voce della Leu: "Avete capito chenon dovete star quivoi? Avete capito che non dovete stare adascoltare? Eh? Avete capito?'. Infatti il sindaco se ne andòridendo.

“Lapovera vecchia incominciò con offrirmi un canestro di prugneverdi e poi mi fece un mondo di ciarle sulla buona salute mia e sullacattiva salute suasul desiderioche la tormentavadi vedermi esulla paura di morire prima ch'io venissisulla malignità de'suoi parenti e anche del Togninil custodeche la credonomentecatta. Si commossericordandocome sempre me lo ricordailcaffè che aveva portato a mio padre proprio lì dovestavamola notte ch'egli venne segretamente da Luganoper lamontagnae trovò la mia povera sorellina morta. Io nonpensavo che avesse cose nuove a dirmisupponevo che finisse coldomandarmi qualche soccorso e mi feci raccontare da capo tante cosedei miei genitori che sempre mi fa piacere udire da leila condussia ripetere certo suo discorso abituale: "Lü l'è onbel scior e on bon sciorma i Soeu vecc i eren bej e bon al doppi'.Finalmente mi disse che aveva paura di venire sgridata dal Tognin sesi fermava troppo e che doveva darmi la cosaper la quale eravenuta.

“Quicominciò a parlarmi di quel che accadde in casa mia negliultimi giorni della malattia di mia madre e nei primi giorni dopo lasua morteavvenuta il 26 gennaio 1862 per una polmonite presa alcimiterodi ritorno da una corsa al villaggio nativoCastellosoffiando la breva.Secondo la Leu ci sarebbe stato allora qui un vero saccheggio. Lacasa era sempre piena di gente e chi pigliava una cosa e chi nepigliava un'altra. Mio padre era morto due anni primaio avevo pocopiù di due anni. Venne da Brescia un incaricato di mia nonnachiuse la casanominò un custodeil padre di Tognine miportò via.

“LaLeu pretende avere avuto in dono da questo incaricato i mobili dellasua camera da letto e un vecchio tavolino ch'ella giura e spergiuraesserle stato promesso dalla povera mamma. In questo tavolino trovòun grande portafogli ricamato dalla mamma per mio zio Ribera. Danaronon ce n'eradice lei. Lo credette vuoto e lo tenne anche permemoria del signor ingegnere. L'inverno scorso capitò a Oriaun notaio di Porlezza e la Leuche ha una casettaun po' di bosco equalche piccolo risparmiopensò di fare testamentodilasciare a meforse per uno scrupolo di coscienzaquei mobili eanche il portafogliche mostrò al notaio. Il notaio vi frugòdentrosi accorse che vi erano delle cartediede loro un'occhiata ele disse di restituirmele subito perchèsenza valore per leia me sarebbero state care. Ella mi pregò di accettare larestituzione delle carte e anche del portafogli. Mi disse che loaveva portato di nascosto per non lasciarlo vedere dal Tognin.

Infattilo levòper darmelodi sotto le prugne.

“Lacongedai e salii palpitante a chiudermi nella mia camera con ilprezioso portafogli. Non è veramente un portafoglièuna cartella montata in velluto nerocon la scritta ricamata in oro"Ingegnere Pietro Ribera' e con molte guaine internedue delle quali contenevano appuntodelle carte.

“OhJeanneJeannequale lettura! Quale tenerapacata commozione inprincipio e poi quale caldatorbida tempesta!

“S'indovinache mio zio non si serví mai della cartella e che dopo lamorte di luiavvenuta alla Isola Bellapochi mesi prima ch'ionascessise n'è servita la povera mamma come di unreliquiario.

“Primami vennero alle mani alquante lettere scambiate fra lei e mio padrequando mio padre era emigrato e mia madre con la mia sorellinaconlo zio e la sua governante dimorarono a Oriastentando la vita eglia Torino e loro qui. Son lettere piene di vita e di freschezzaspecialmente quelle di mia madreche mi hanno fatto spesso sorridereper certi tocchi di vivace comicitàper certi schizzi difigure umane tanto vive ch'ella vi butta giù alla bravasenzapretesementre mio padre adopera un linguaggio piùletterario. La figura patriarcale dello zio Pierola figura soavedella piccola Ombrettacome la mia sorellina Maria è chiamatain queste letteren'escono così piene di bontà e digrazia! Ah! e anche così semplici! Sentivoleggendocome unanostalgia di quel mondo povero e puro e un disgusto del nostro; nonsolamente di quello tanto moderno dove vivi tu ma di quell'altro puredove fui allevato iodel mondo Scremin con la sua vecchia parrucca ela sua vecchia cipriacon le sue grettezze segrete e le sue livreepubbliche. Ma poi un'altra rivelazione mi sorprese e mi commosse; larivelazione di un profondo dissidio religioso tra mio padre e miamadre. Mi pare che mia madre avesse presso a poco le idee alle qualisono venuto io adesso. Invece mio padre era un fervido credente. Maquanta vita nella sua fedequanta purezzaquanto calorequantoumiletenero amore per la sua compagna incredula! Niente la superbiadi chi si pretende solo possessore della verità; fedesemplice fedefede di uno che crede come una pianta piega verso ilsoleperchè non potrebbe fare altrimenti. Quindi trovailettere dello zio e della nonna Rigeymeno interessanti. Poi unabusta con una ciocca di capelli di mia sorella. Quale commozione dopoaver letto di lei quello che avevo lettopovera piccina! Ma piùancora pensando a mio padre e a mia madre che a lei. Poi un'altrabusta con la scritta di pugno della mia povera mamma: Preziosereliquie.

“L'apro;un poco di cenere in un foglietto bianco. Preziose reliquie! Cosapotevano essere? Pensai e mi venne in mente questonon so dire conquale tremito di riverenza; le lettere di amore di mio padre. Ah checosaJeanneche paroleche cenere casta e santa! Che unione èstata quella di mio padre e di mia madrequanto era dolce questo miopensiero e quanto era amaro! Mi son sentito come soffocareprendervia dal mondo dei viviportar là dentro fra quelle ombre diun mondo passato.

Dovettiaprir la finestrastar lì un pezzo con le mani alle imposterespirar l'aria notturnasentendo la realtà delle cosepresenti senza pensare a niente. Non vi erano più che duecarte da guardare. Fui incerto se leggerle o nomi pareva di essereesaustodi non poter più accostarmi a quelle reliquie conattenzione degna. Vinse un sentimento di ossequio. La prima delle duecarte era di affarimolto importantetale da poter influireprofondamente sulla mia vita. Ora non è il momento diparlarne. L'altra era un foglietto apertocon questa intestazione dipugno della povera mamma:

Parolescritte da lui per mia preghieraun giorno felice.

“Jeannesono brevima io non le posso trascrivere. Forse lo potrò ungiorno; nello stato presente dell'animo miotenebroso e tempestosonon ne son degno. Non voglio dare la mia mano alla parola religiosadi mio padre e sentire che non posso darle impero nella mia mente. Il"giorno felice' era il 15 ottobre 1859. Le anime di mio padre edi mia madre si erano ricongiunte nella stessa fedein un attosincero di cultonel giorno di S. Teresaonomastico della poveranonna Rigey. Mio padre si sentiva megliosperanze fallacirinascevano in lui e intorno a lui; le sue parole sono soavissime evi ho parte anch'io che stavo per nascere.

“Quandoil foglio mi cadde di mano e io mi volsi per un istintivo moto allafinestra apertaa guardar le cose stesse che avevano guardato miopadre e mia madreecco ancora il fievole suono delle campane grandiche parevano incommensurabilmente lontane. Oh Jeanneio vi hosentita la voce di mio padretanto tristetanto severa! Comprendi?

“Partiròsabato col primo battelloper Lecco e Rovato. Vorrei pure informarmidi tante coseprimadi tante persone del tempo passato. Addio! Comepenso io a te e all'avvenire? Lo so io ancora? E sarebbe stato degnosarebbe stato possibile che io tacessi con te tutte queste cose e lamia dolorosa tempesta interna?”

LeFateche in quel momentofelici della loro serata trionfaleneparlavanofacendosi spogliarealle cameriere dormigliose e lorolodavanoper pungerne l'amor propriol'acconciatura di Jeannenonsospettavan certo che leila maggior trionfatricechiusa la personain una veste da camerasciolti i capelli magnificipiegata lafronte sopra una letterapiangessecome la notteun silenziosopianto.




CAPITOLOSESTO


VENADI FONTE ALTA



I


Iltreno diretto diurno di Milano giunse a Rovatosabatocon ventiminuti di ritardoperchè a Treviglio s'era dovuto aggiungereuna carrozza. Jeanne aveva telegrafato a Maironi da Milanovenerdìmattinache sarebbe partita sabato con quel treno e che speravaincontrarlo a Rovato dove il treno ch'egli avrebbe preso a Leccoarriva in coincidenza col diretto per Venezia. Nessuna risposta eragiunta. Per verità il telegramma non richiedeva risposta;tuttavia le angoscie di Jeanne si erano strette ora in una solaneldubbio di non trovare Maironi a Rovato. Ella era venuta alla Stazionecentrale assai per tempo e aveva preso posto in un coupévuoto; ma prima della partenza vi eran salite altre cinque personeun cruccio! E il treno era zeppo; impossibile allogarsi meglio. Isuoi compagni di viaggio eranoper giuntaitalianiloquaci ecuriosi. Due signore noiosemolto elegantistudiavano la suatoilettee un signorenoiosissimoelegantissimostudiava lei. Ell'aveva preso un angolodi sinistrae appena il treno fischiò appressandosi allastazione di Rovatosi alzò in piedisi affacciòpallidaalla portiera. Ahc'erae la cercava con gli occhi. Lavideed ella gli accennò con un sorriso di venire; gli disseche c'era posto. Nel sorrisonel saluto ell'apparve padrona di sèpiù assai che non lo fosse lui. Ma poidietro al dorso delfacchino che gli collocava la valigetta nella rete si trasfiguròin una larva di angoscia; gli sussurrò presso al volto: “Pietàdi me!”.

L'angoloin faccia era occupato. Piero le sedette accantoscambiando alcunefrasi indifferenti con il lei.Ella lo fece meravigliare dicendo che aveva il biglietto per Venezia.Per Venezia? Sìcerto. Jeanne sorriseaperse un giornalesussurrò dietro il foglio “per riguardo a Lei”egli occhi le si velarono di lagrime. Si morse le labbrasi vinsesubitosorrise ancoraparlò della serata di villa Diedoriuscita così benedella graziosa fiaba di suo fratello.Piero non sapeva ascoltareneppure le domandò il soggettodella fiaba. Ed ella continuò a discorrere. Carlino intendevaritornare da Milano martedì. Giovedìo al piùtardi sabatosarebbe ripartito con lei. Per dove? Per Vena di FonteAltaun bel nome di una bella montagna. Carlino s'era fattoanalizzare una goccia di sangueaveva voluto che il dottore pungesseun dito anche a sua sorellache analizzasse ancora. E il dottoreaveva trovato poveri di globuli rossi l'uno e l'altro sanguevolevamandare i fratelli a Recoaro. Jeanne non aveva voluto saperne diRecoaronè di Saint_Moritz nè di altre acque; e cosìera stato deciso di andare a Vena per una semplice cura climatica.Piero non sapeva dove questa Vena fossequale via si dovesse tenereper andarvi. Ne parlarono quietamente. Cinque ore dalla cittàdue di ferrovia e tre di vetturamille metri sul mareboschi diabetiboschi di faggisolitudinequiete. I Dessalle avevanoimpegnate quattro stanze dell'unicopiccolo albergo. Altre sei eranolibere. Jeanne disse queste ultime parole quasi timidamente.

Pieronon risposee la conversazione cadde. Guardando l'uno e l'altra perlo stesso finestrino il verde fuggenteluccicante di solesentendoche làin una linea dei campi parallela al corso del trenoiloro sguardi s'incontravanosi univanocorrevano insieme. Forseanche nel ritmico fragore che li portava con sè si toccavano iloro segreti pensieri. Faceva molto caldo. A Brescia Piero offerseuna bevandache fu accettatanon per setecon un sorriso digratitudinetanto umiletanto parlante che il viaggiatore sedutodirimpetto a Jeanne guardò subito negli occhi l'uomo a cui labellissima signora sorrideva così.

“El'elezione?” diss'ella. Sulle prime Piero non intese. Ahsì!Il suocero gli aveva scritto e telegrafato a Brescia supplicandolo dilavorare o almeno di far lavorare. Lettera e telegramma gli eranostati trasmessi in Valsolda. Proprio per questoneppure volevafermarsi a Brescia fra un treno e l'altro. Nella galleria di LonatoJeanne gli prese una manose ne recò il polso scoperto allelabbra e poi agli occhi umidi. La mano si arrendeva senza resisterenè secondare. Usciti dalla galleriaguardavano entrambi insilenzioper il finestrinoi poggi ridentima un lieve ansare litradiva. Quando apparvero le sfumate montagne grandi e il marinoazzurro del GardaJeanne domandò: “Com'era il Suo lagostamattina?”. Piero rispose ch'era drammaticotutto un tremoliodi brillanti a levante nei vapori azzurrinitutto verde cupo aponente sotto nere minacce di nuvoloni. Descrisse le battaglie dellaluce e dell'ombra sulle montagne che cingono il lagocon moltocalorecon abbondanza di parolecome rifacendosi del silenzioserbato riguardo ad altre battaglie. Jeanne si fece coraggio. “Quellapersonacome l'ha lasciata?” E accennòimpercettibilmente del capo a lui stesso. Piero sospirò erispose con un atto silenzioso di sconsolata incertezza. “Dio!”fece ancora leicome tra sèdolorosamentema pure rianimatanell'intimo. “E` una cosa tanto diversa!” Piero lainterrogò con gli occhi ed ella gli chiese quanti minuti difermata si avessero a... Venti minuti. Piero intesesi affrettòa dire che aveva colà un convegno col dottor... e gli eranecessario di trattenersidurante la fermatacon lui. Jeanneconosceva il nome del dottor... e il suo ufficio presso la Demente.Approvò di cuoremostrando che posponeva il desiderio proprioe se stessa all'interesse doveroso di lui per sua moglie.

“Sìsìfa bene.”

Ecercò da capo lo sguardol'anima cara là fuorisulleacque serene del Garda. Aveva temuto il peggioadesso le pareva disentire indecisa quell'animae speravasperava appassionatamentepronta ad incontrar con gioia ogni sacrificioa vederlo menoainterdirsi la dolcezza delle carezzela dolcezza del tus'egli lo avesse chiestopur di non perdere il suo amorepur di nonesserne abbandonata. Sperava con timore e tremorecoprendo di tristesoavitàchiudendosi nel cuore la sua fragile speranza. Infatto Piero fluttuava tuttavia. Nello scrivere a Jeanne lo avevaagitato un tempestoso ritorno della sua giovinezza credenteunassalto di dolore e di amoreun inenarrabile anelare dello spirito aDio.

Passatala prima violenza di quest'ondaegli si era posto in difesa controse stessocontro le proprie tendenze mistichecontro tutto chepotesse condurlo ad abbandonare la sua prefissa via di un apostolatoper la giustizia socialesenza odio alla Chiesa cattolicama deltutto indipendente da essa; la via che avrebbe dovuto sognare per luisua madre quando non credeva che nella idea di giustizianon adoravache l'idea di giustizia. Egli riconosceva in se stesso il sangue dilei e il sangue del padreil loro fatale conflitto rinascente. Glivenne il sospetto che la sottomissione di sua madre fosse statapiuttosto amorosa e pietosa che sincera. Subito pensò a quellagran lealtà di leia quella fierezza. Come avrebbe mentito?Malgrado tuttoil sospetto ritornava. Gli era tuttavia duro illottare contro il sangue di suo padre. Gli balenavano nel cuoreincerto immagini di vita solitariacontemplativaconsolata dipratiche religiosenella casa de' suoi vecchigli balenava nellamemoria il consiglio di don Giuseppe Flores. E tosto rompeva conquesti sogni. A poco a poco si venne formando in lui la convinzioneche il cimento fosse decisivoche se gli riuscisse di vinceresarebbe poi rimasto fermo per sempre nel concetto piùrazionale della vita e del suo fine; che in luisciolto da vincolidi dogmi e di Chiesema interamente sacro a una causa di giustiziail sangue di suo padre si sarebbe alfine pacificato; molto piùse sapesse prendere certa risoluzione coraggiosacompiere certogrande sacrificio alla giustizia di cui aveva trovatoe non riferitoa Jeannela ragione e la proposta nel portafogli. Ma quando ancheJeanneda lontanogli avesse letto nell'animo questa vittoriosariscossa dell'elemento razionale sul misticonon ci sarebbe statoper leida rallegrarsene molto. Poteva il suo amore accordarsi con idoveri di un apostolato sociale quale Piero lo concepiva? Non era dasacrificare questa debole passione per una donna che non sapevacomprendere la grandezzala bellezza della sua idea? Non ne sarebbepure contenta sua madrese sapesse? Doveva essere austerasuamadredoveva essere inesorabile per chicedendo alla passionerompeanche solo momentaneamenteuna fede giurata e stringe legaminon confessabililegami che non si coprono senza mentire.

Sedutonel pomeriggio del venerdìsul muricciuolo dell'orto fra lerose piantate da suo padreche gli parevano tanto piùsoavemente spirituali di quelle voluttuose e orgogliose di villaDiedoegli stava pensando chese Jeanne non gli avesse resistitonon sarebbe stato possibile di lasciarla mai piùquando gliportarono il telegramma di lei da Milano. Molestoquel telegramma.Gli garbava poco d'incontrarsi con Jeanne così prestoprimadi aver fermata dentro di sè la via da tenere. Riflettendo suquesta impressione sgradevolesi domandò: "L'amo ioancora?'. E subito sentì dentro di sè il freddo dellarispostalo sgomento di una propria possibile ipocrisia. Altrevolteperònel contatto dello scetticismo di leidel suospirito di contraddizionegli era parso di non amarla più ederano state freddezze passeggere.

Partireo non partirel'indomani mattina? Finì col dirsi ch'erameglio affrontare presto questo incontro quasi temuto. Rientrandopensoso in casa dove un giardiniere di Lugano lo attendeva perintendersi circa i rampicanti da sostituire alla passiflora mortanon potè a meno di paragonare il sentimento proprioanche nelpassatoa quello di Jeannedi riconoscerlo tanto minore di forze edi nobiltàdi dubitare che se non fossero statenelprincipiole appassionate audacie di leise non fosse stato in luiun cieco desiderio di libertàdi vita e di amoreil primoincontro in ferrovia non avrebbe avuto alcun seguito.

Ilsabato mattinavenuta l'ora della partenza voci pie di memorievocitenere di cose gli ammollirono l'anima come nella sera memorabile.L'arancioil mandarino del giardinettole finestre aperte della suapovera casetta vuotale roseil bel pino dell'orto gli parevanguardare a lui mentr'egli passava sul battellocon il dolce sguardoaccorato dei dolenti che non han voce. A misura che si allontanavairichiami del presente più e più potevano contro irichiami del passatodel romito asilo di pace; ma correndo inferrovia Val Porlezzalo riprese improvviso nella memoria il sensodel turbamento premonitorio chegiorni primapassando di làe durante tutto il viaggioaveva provato. Era egli dunque statotratto in Valsolda da una energia soprannaturale? O forse il primoimpulso n'era venuto da un sogno dimenticato? Forse gli eccitamentidi Jeanne e l'abitudine di recarsi sul lago in primavera erano staticausa del sogno? Passata Grandolaall'apparire dell'orientale senodi cielo che oltre il sottile colle di Bellagio si sprofonda fra dueali di montagne in fuga più giù verso Leccotrasalìcome se già gli fosse apparsa Jeannenon pensò piùche lei e il prossimo incontro. A Rovatopasseggiando in attesa deltreno di Milanoil cuore gli batteva forte. Al primo vederla sisentì più tranquillo. Gli fu gradito di non trovarlasola. Il mormorato "pietà di me'benchè giungesseprevisto in quella o in una simile formagli strinse il cuore. Ellaera bellissima nel suo abito di crêpe crèmeguernito di velluto nerocol suo cappello Rembrandt a piume nerecon i guanti neri e due larghi cerchi d'oro liscio ai polsi. L'umidofuoco dolce de' grandi occhi aveva una mestizia implorantee se ilbraccio si scostava timido da un lieve contatto col braccio di luiera con un visibile palpito del senocon un commento di soavitàinfinita. Quando ellanelle tenebregli prese e gli baciò ilpolsose ne sfiorò gli occhi umidiegli non ne provòalcuna dolcezza voluttuosama piuttosto una tenerezza riverente. Chilo avrebbe amato di un amore tanto umile e grande? Non era esso degnodi riverenza quanto ogni altra cosa al mondo? E che succederebbes'ella ora gli dicesse: "Non sono più scetticami sonoconvertita agli ideali tuoine ardo come teenonchèimpedirti nell'azioneti resisterei se tu posponessi il tuo dovereall'amore'?

Allastazione di... che precede di pochi minuti quella dove Piero avevadato convegno al medicoil viaggiatore seduto dirimpetto a Jeannediscese e Piero si alzò per chiudere lo sportello.

Ilmedico era lìlo videsalì nella carrozzasedette afianco di lui cheper non parere accompagnar la signoraaveva presoil posto rimasto libero. Subito venne in mente a Piero che forse ildottorepensando essere tra sconosciutientrerebbe in argomentosenza riguardi e fu per presentarlo a Jeanne o per rivolgerle laparola; ma poi non lo fece. Il dottorenon udendosi interrogaresiguardò attorno e solo quando il treno si mossedissesottovoce:

“Qualchepiccola novità; non buona.”

Pierorisposepure sottovoce:

“Parleremo.”

Gliocchi suoi e quelli di Jeanne s'incontraronos'interrogaronosisfuggirono. Alla prossima stazione il medico e Maironi sceserosiperdettero nel viavai della gente. Maironi ritornò allacarrozza cinque minuti prima che il treno ripartisse. Jeanne era solaora. Aveva mutato postosi era seduta nell'angolo di destracon lespalle alla locomotivaper la stessa ragione che le avevaconsigliato di prolungare il suo viaggio fino a Veneziaper nonessere vedutapossibilmentequando egliforse atteso da qualcunodiscenderebbe a sinistra. Era un riguardo per luinuovotristementenuovo.

“Vengavenga venga” diss'ellapiano. E quando Piero le sedette accantogli piegò la fronte sur una spallagli prese una manose lastrinse al pettodimenticando adessosecondo la propria naturaogni cautelarispondendo alle prudenti rimostranze di lui con vocepiena d'affanno e di lagrime: “Non importanon importanonabbandonarminon abbandonarmiquanto male mi hai fattoDioquantomale! Non senti che cosa diversa ènon senti che il tuomatrimoniola tua unione non ènon ha mai potuto essere comequella di tuo padre e di tua madreli amo tanto anch'iosaicaroi tuoi mortitanto tantoma perchè devono desiderare la miadisperazionenon importanon c'è nessunolasciami direperchèperchè? Cosa ho fatto io a loropoveracreatura? E` mia colpa se loro sono morti e se io sono una poveracreatura viva che ti ama tantonon ama che tenon pensa che tenonvive che di tecaro amore mioamore amore amore?...”

S'interrupperialzò il capo un momentostava per cingere con un braccio ilcollo dell'amatoma egli lo impedì; qualcuno entrava. Jeannesi ricomposeil treno partì. Ella tacquecon gli occhilagrimosifino alla prima stazione. Allora mormorò:

“Quelloera il medico?”

“Sì.”

“Ecosa c'è di nuovo?”

“Qualcheleggerofugace segno di intelligenza da capo e lagrimemoltelagrimementre in passato non ha mai pianto; ma un grave deperimentofisicoprogrediente.”

Lasommessa voce di Piero suonò accorata.

“Vorreiche guarissesa?” disse Jeanne. “Non mi creda cattiva!”

Eglile strinse la mano così forte ch'ella ne fremè digioia. Per lungo tempo nessuna parola fu più scambiata fraloro.

Jeanneruppe la prima il silenzio.

“Verràbene a Vena?”

“Ma...”

“Sìsì sì sì!” Ella aveva preso coraggio einsistette. “Me lo prometta! Che progetti haLeiperl'estate?”

“Io?Un viaggioma non per l'estate solo.

Ilviaggio ch'Ella sa.”

Jeannefece una boccuccia fra crucciata e sdegnosa.

“Ancoraquell'idea?” diss'ella in uno de' suoi accessi inesplicabili dimalignità contro gli altri e contro se stessanon sospettandofino a qual segno fosse disgraziata la sua uscita. Piero si accese invisoguardò l'altro viaggiatoretenne deliberatamenteostinatamente volto il capo a quella parte mentre leipentitasiaccusavachiedeva perdonosupplicavascongiurava con una rapiditàfebbrile di parole sommesseconcitatetanto ch'egli alfine aperserumorosamente un giornale e le intimò: “Basta!”.

Jeanneobbedì sull'atto e Piero sentì di essere stato troppoaspron'ebbe rimorso.

“Nonmi parli più così” diss'egli con dolcezza. Ellanon rispose; volto il viso al finestrinopiangeva. Piero mormoròdietro il giornale: “Mi perdoni Lei adesso”. Jeanne risposequasi inintelligibilmente “grazie” senza togliere il visodal finestrino. Egli riprese con dolcezza maggiore ancora: “Sepuònon pensi più così”. La risposta fu:“Vorrei morire”.

Eglinon osò replicar parola. Parvero assorti l'una e l'altro nelritmico battito che durante il loro silenzio mortale misuravaprecipitosamente la fuga degli angosciosi momenti.

Quandoil treno rallentò e Piero si alzò a raccogliere ilproprio bagaglioJeanne trovò modo di chiedergli sottovoceamani giuntela promessa di salire a Vena. Lo guardòperchèegli esitavacon una inesprimibile supplica negli occhiebbe lapromessala volle ripetutasolennebaciò con soavitàumile di gratitudine la mano amata. Si lasciarono così.


II


Pierorecò subito alla suocera le notizie della figliuolaun po'attenuate nella parte più triste. Ella lo accolseaffettuosamenteserena come sempreascoltò il suo raccontoe poiplacidaquasi sorridentedisse una parola di fede: “Midigo che el Signor ne fa la grazia”come se avesse uditosolamente le parole più gradite e non le altre. Negli occhi letremavano due lagrime: due lagrime dolci per la consolazione diquell'atto di suo generodi quella gravità commossa ch'egliaveva mostrato parlando: due lagrime anche pregne di affanno per leparole cui pareva non avere udite. Lo pregò di restare apranzoma egli si scusò non garbandogli la compagnia delsuocero che avrebbe tirato in campo le elezioni di Brescia e provandoun gran desiderio di solitudine. Allora la marchesa volle chiamare ilmarito perchè udisse le notizie dell'Elisa dalla viva voce diPiero. Il suo studioparlando col generoera sempre stato diguidarlocon un roseo lumicino in manonelle viscere di Zanetoindicandogli una per una le finezzele squisitezze di pensiero ed'intenzione cui la gente non poteva vedere in certi attiin certeparole di luicui vi scorgeva lei e che in fatto erano molto spessoinfuse al vetro della lanterna. “Tuto el resto” soggiunsenel suo linguaggio ellitticointendendo chi sa cheforse anche illavoro per il Senato“no xe che per distrarse.” Zanetovennefece a suo genero molte dimostrazioni affettuose eudite lenotiziesi mise a singhiozzare rumorosamente. Quando Piero sen'andòlo accompagnò fuori e sul pianerottolo dellascalagli domandòcon voce ancora lagrimosase avessericevuto una lettera dell'avvocato Marchiaro. Piero non l'avevaricevuta. Allora Zaneto si diede a masticarea masticaretentennando fra il desiderio di parlare della lettera e il senso delmomento inopportuno. “Bene” diss'egli troncando ilmasticare. “Insommal'avrai.” E passò all'argomentoBrescia. Aveva Piero fatto qualche cosa? Piero rispose “scusano” risolutamentepronto a rendere ragione della risposta. MaZaneto non la chiese. Voltò le spalle e trottò viacurvo con un trotto conforme di “benbenben.”


Dopopranzomentre Piero stava leggendo le lettere rimandategli daBrescia durante il suo soggiorno in Valsoldacapitò da lui lamarchesa. Le prime parole che dissecon l'aria di annunciare unanovità interessante e di metterci anche della frettafurono:

“Elpapà ga pianto tantodopoporo omo.”

Pierocapì subitoseccandosi di questi avvolgimenti eterni dellavecchia signorach'ella non era venuta per apprendergli un taleavvenimento. Per verità ell'aveva indovinate le occultecagioni dell'uscita di Zaneto sul pianerottolo della scalatemevache di queste importunità fuori di luogo e di tempo il generoserbasse una impressione sinistra e voleva passarvi sopra la suaspugna ottimistainzuppata di lagrime del marchese. Ma c'era di più.Pranzandoo piuttosto simulando di pranzareperchè non toccòciboaveva escogitato uno de' suoi sapienti artifici per allontanarePieroadesso che le sue disposizioni parevan buoneda villa Diedo.

Dettodelle lagrimesoggiunsenel consueto stileche Zaneto avrebbevoluto andare ma ch'era meglio di no.

“Doveandare?” fece Pieronon senza malignità. “ABrescia?”

“Ehnono! A cossa xeloa...”

Lasignora nominò il luogo doloroso. Piero non parlò edelladopo un lungo silenzio imbarazzatofece:

“Ecco.”

Pierola sentiva impigliata nelle spine di un esordio e non aveva voglia diaiutarla. Tuttaviaessendo entrato il domestico per accendere ilgaslo licenziò. Era quasi un invito a parlare. Infatti lasuocera gli domandò se fosse contento.

“Dichemamma?”

“Delservitor.”

Unarisposta indifferente e un'altra pausa. Pierotanto per fare qualchecosagettò nel cestino alcune buste lacerate. Allora lamarchesa fece questa osservazione acuta: “Lettere. Ghe n'òavudo una anca mi”.

Ellasi mise a parlare confusamente di una lettera scrittale dalla villadov'era venuta apprestando un quartiere per la sua figliuolaquandouscisse dal manicomio. I bambini del gastaldo avevano il morbillo.“Dunque mi digo che no convien.” Questo primo piccologarbuglio uscì alla luce dalla occulta matassa dei suoipensieri.

“Checosa non convienemamma?”

“Decondurla là.”

Pierofece per domandare: chi? ma comprese in tempo che si trattavadell'Elisacerto. Silenzio.

“Cheghe sia malanni a cossa xela?”

“Dove?”

“AValsolda.”

L'inattesonomel'inattesa proposta che balenava nei disordinati discorsi dellamarchesalo colpirono.

“Nonlo so” rispose. E si vide nel paese misticonella conscia casasulla terrazza dello zio Piero e di Ombrettacinto di solitudinedisilenzio insieme a sua moglie stupefattacome uscita da un sogno.Per un istante; il sognoadessoera la guarigione di Elisa. Lamarchesa mise finalmente fuori la segreta sua idea: non potrebbe ilgenero recarsi in Valsoldadisporvi la casa per un soggiorno ancheinvernale? Ellache non aveva mai veduto la Valsoldasi pose adiscorrere come se l'avesse familiaremettendo assieme brandelli dicose udite e rimastele malconce nella memoriaconfondendo la casa diOria con la casa di Cressognoil lago di Lugano con quello di Comol'Italia con la Svizzerama tirando via impavida a scovar tutte leperfezioni di quel paese per la congiuntura presentese le speranzesi avverassero; a trovarvi ogni possibile accordo con i gusti dellasua figliuolache in fatto ne aveva riportato una impressione moltosfavorevole. Chiuse gli arruffati ragionamenti con pregare il generodi allestire una camera in Valsolda anche per leima non verso illago; perchè a Venezia - ella disse così - il tremolìodell'acqua le faceva venire il capogiro. Il generodurante undiscorso tanto fantasticoera venuto pensando altra cosa: e invecedi rispondere alla povera vecchia signorala interrogò:

“Sentamamma. Per tutto questo c'è tempo a pensarvi. Adesso Le vorreidomandare di una cosa molto antica. Nei primi anni del Suomatrimonioavrebbe Lei mai udito parlare in casa Scremin di unagrossa lite che i vecchi Maironi avrebbero vinta contro l'OspitaleMaggiore di Milano?”

“Io?”fece la signoratrasognata.

“SìLei. Ci pensi bene.”

Cipensò e rispose: “Non saprei.”

Appenaebbe risposto cosìricordò di avere udito il suoceroScremin parlare delle ricchezze di casa Maironi come di roba maleacquistatamale sottratta a un Istituto pio.

“Aspetta”diss'ella. “Forse.”

Lebalenò il sospetto di essere stata imprudente e soggiunse:“Nonon so”.

Pierosi tenne sicuro ch'ella sapesse.

“Hotrovato qui una lettera dell'avvocato Marchiaro” diss'egli.“Questo sìlo sa?”

Questonon lo sapeva davvero.

“L'avvocatoMarchiaro” riprese Maironi “mi scrive che ha negoziato conCarlo Dessalle un mutuo per papàgrossissimo; che per ilmomento le trattative sono interrotte e che vorrebbe riprenderleoffrendo la mia firma. Ora io non potrei dare oggi la mia firmaneppure se in massima vi fossi dispostoperchè di questigiorni ho scoperto certe cose gravi che riguardano la mia sostanza eche m'impedisconoalmeno per oradi disporne. Lo dica Lei a papà.”

Allapovera donna cadde il cuore. Un mutuo con i Dessalle! AhZanetoZaneto! Non trovò niente a dire e si alzòangosciatascura. Oltre al maggior dolore le cuoceva di non poter cavare adifesa del marito i soliti arzigogoli d'interpretazioni benigneditrovarsidavanti a Piero e per opera suacosì disfatta. Sene andò silenziosaseguita rispettosamente da lui fino allasoglia del suo appartamentodove lo congedò con questeasciutte parole senza voltarsi:

“Mino ghe digo gnentesètu.”


Pieroritornò alle sue lettere. Gli era venuta prima fra le mani unacarta da visita di don Giuseppe Flores. Ecco adesso anche una letterasua. La guardò a lungoinvaso come quel giorno in Duomo daredivive immagini e ombre della sua confessione al vecchio pretelànello stanzino della solitaria villadal senso molesto del giudizioche quell'uomo doveva portare di lui. V'era tuttavia una differenza.In Duomo l'incontro con don Giuseppe gli era stato sgradevole; adessola vista dei suoi caratteri lo turbava di un turbamento che non erasenza mistura di un desiderio e di una particolare commozioneperchèsempre don Giuseppe gli aveva ricondotto le immagini dei suoigenitori e ora gliele riconduceva tanto più note e vive eparlanti all'anima sua parole di amore imperioso. Aperse la lettera elesse:


Carosignore e amicoero venuto da Lei per la silenziosa preghiera d'unapoveretta che il Signore ha creato augusta evorrei diresacracondoni mirabili di dolore e di sommessione al dolore. Essa non osòespressamente affidare a questo disutilecadente prete un messaggioper Leiprezioso e grave di sapienza non umana. Altre mani erano daquestoio lo tolsi all'insaputa della persona che dico; e adessolodo Chi non permise che io lo portassi con la mia voce malvivaconla mia parola rotta. Penso perciò di non ritornare a Leid'inviarle dove mi han detto ch'Ella ora è il messaggioprezioso senza pronunciarlochiuso in un ideale vaso suggellatoch'Ella facilmente aprirà se mi ascolta bene. Pensi anzi tuttole confessioni dolorose che in un'ora di travagliata coscienza Ellavenne a portarmi nella mia solitudine con tale generoso abbandonocon tale generoso impeto che in quel momento io mi sentii umiliatodavanti a Dio di accettare da Lei parole riverenti.

Pensiquindi la creatura desolata chenon lontana da Leisoffre nel suocuore materno più di quanto il mondo veda e creda o possa maicredere. La pensi ora se mai qualche volta l'avessenon del tuttoinvolontariamentedimenticata. Pensi quanto Ella è pur tropposola nel suo dolore immenso nè dubiti che labbra crudeli nonLe sussurrino continuamente crudeli parolenon Le parlino di amareoffese alla sua diletta infelice. Pensi finalmente che la silenziosapreghiera mi viene da Leie altro ad aprire il vaso chiusoaleggere il messaggio ascoso non Le bisogna. Prossimo al sepolcroiosento con tremore e speranza venirmi incontro anime care e sante chepartirono prima di me. Stamani all'altare pregai la DivinaMisericordia che mi concedesse di partire alla mia volta con un altromessaggiocon un messaggio dolcissimo per due di quelle anime ascesein Dioper due anime che nel loro cammino terreno santificarono aLeicaro amicouna simile casa fra due cipressiin riva ad acquesolitarieaccanto a una povera chiesina che neppure io sodimenticare. Suo D.Giuseppe Flores


Erauna commovente lettera e aveva in sè dolcezza di conforto chelo scrittore non aveva sospettata. Non era Piero già dispostoad allontanarsi da Jeanne? Non era egli anche avviato a compiere ungrande atto di giustiziail sacrificio di quella ricchezza che suopadre e sua madre non avevano toccatae non era questo pure un attodi figlio degnonon era un messaggio di gioia da portare alle dueanime ascose in Dio? Veroa suo padre ciò non sarebbebastato. Forse neppure a sua madre. E neanche poteva bastare a quelvenerando don Giuseppe. Ma! Ah s'egli non avesse conosciuto altricattolici! Se non fosse vissutoda bambino in poinel contatto ditanta meschinità cattolicaintellettuale e morale! Come nonpensare che suo padredon Giuseppe Flores e qualche altro cuorealtoqualche altro intelletto fortese la Chiesa cattolica nepossedevanon si potevano propriamente dire cattoliciche la loroera un'altra religioneuna religione superiore al comune grettocattolicismopauroso della ragioneschiavo in tutto dell'autoritàdispotica deificatatanto aspro a chi ne sta fuoritantoimpastoiato negl'interessi terreniantiquato nello spirito come nellinguaggio! Egli aveva una volta discorso di religionea villaDiedocon un certo scrittore francesedi grande ingegnoche siprofessava cattolico e concepiva il dogma cattolico in modo cosìardito e nuovo che Piero gli aveva detto: “Ma Lei non ècattolico!”. Colui aveva risposto: “Come il vocabolo ècomunemente intesononon lo sono”. Don Giuseppe Flores eraprudentissimoma si poteva giurare che non intendeva il cattolicismoalla maniera dei Quaiotto nè dei Záupanè dellateologia ufficialenè dei temporalisti vaticani. E alloraperchè gli uomini come luicome quel francesenon parlanoalto? Perchè non richiamano i loro fratelli al vero? Perchènon tentano una riforma della loro Chiesaperchè non silevanose occorrecontro i despotialmeno contro quelli anonimi?Piero lo aveva detto a quel francese e il francese aveva risposto:“Per far questo bisogna essere santi”. E perchè nonlo sonosanti? Perchè non lo diventano? E` tanto difficilespogliarsi degli averi e dei piaceri?

Egliebbe un momento di orgoglio pensando che questo appunto stava perfare benchè non fosse santo nè legatodi fattoadalcuna Chiesaad alcun Credoufficiale.



III


Quellasera stessamolto più tardiscrisse al suo avvocato perchiedergli un colloquio. Era una notte afosain casa si soffocava.Piero sentiva che se si fosse coricato non avrebbe potutoun po' peril caldoun po' per l'agitazionepigliare sonno. Risolse di recaregli stesso il biglietto alla Posta. Ma prima tolse dalla valigia erilesse per la centesima volta la carta d'affari trovata nelportafogliche gli era stata causa di scrivere all'avvocato. Era unalettera di sua madre incominciata a scrivere il 17 gennaio 1862novegiorni prima che morissee non finitanella quale affidava ad unacara amica l'incaricod'informare suo figlioquand'ella venisse a morte durante l'infanziadi luiche a detta del povero padre suo la sostanza Maironi avevaorigine da una lite mal vinta contro l'Ospitale Maggiore di Milano.Le ultime parole della lettera interrotta erano queste: "Iospero...'. Certo ella aveva sperato in un cuor fiero e forte delfiglio suo. E il figlio suo si proponeva di conferirel'indomanicon l'avvocato X per incaricarlo di ricerche nell'Archiviodell'Ospitale Maggiore circa questa lite con la famiglia Maironi ein quanto fosse possibiledi un platonico giudizio di appello. Delleproprie intenzioni nel caso che il giudizio riescisse favorevoleall'Ospitalenè scrisse nè intendeva parlarneall'avvocato.

Sirecò alla Posta dopo le undici. Il cielo era minacciosolestrade vuote risuonavano al suo passo nello scarso lume dei radifanali accesi per la intera notte. Dalla Posta si avviòlentamente verso la Piazza Maggiore per un indistinto desiderio dipensaretratto quel dadoal futuro nelle ombre della notteincospetto delle nuvolefra i silenzi solenni di case dormentidovesi sentiva più solo che nella propria camera. Aveva il sensodi un imminente ingrandimento delle proprie sortid'una imminenteprofonda trasformazione di sèd'un prossimo compiersidell'antico presentimentod'un prossimo apparire della viaprefissagli dall'Inconoscibile. Il cuore gli battevadilatato efortebattiti di aspettazione avida incontro a questa volontariauscita dalla ricchezza nella povertàincontro alla duranecessaria lotta per la vitanon disgiunta dalla lotta per l'idea.Un sottile piacere d'orgoglio gli tendeva tutte le corde del volere edell'ardire. Si fermò serrando i pugni; avrebbe giurato chegli occhi gli lucessero. Ebbe allora il conscio senso di unaessenziale deficienza di Jeanne come amante poichèamandopiuttosto con lo spirito che con i sensinon aveva peròpotuto unificarsi con lui nel più altonel piùprofondo dell'anima sua. Le vampe dell'orgogliodellasovreccitazione intellettuale gli assorbivano il calore della vitainferiore. Egli considerava con disprezzo superbo il pericolo dicaderelasciando Jeannenelle sensualità bassesi credevaimmune per sempre da quelle febbri. Lo colpì bene il ricordodella fallace sicurezza cui gli aveva dato nelle ore mistiche loschifo delle colpe sensuali; ma perchè non avrebbe fine unavolta la vicenda degli ardori e chi poteva dire che non fosse giàfinita?

Cacciòquel ricordo ed entrò nella deserta Piazza Maggiore in facciaalla magnificenza spettrale delle grandi occhiute logge nere che unglorioso maestro antico cinse all'opera decrepita e cieca di unconfratello antichissimocome qualche umanista potè cingeredi splendore idee medioevali.

Pensòch'era forse suo destino di abbandonare fra poco e per sempre lacittà onde il genio tutelare risiede in quelle meraviglioselogge e nella sottilealtissima torre che vi sorge accanto e servelorosecondo diceva Carlino Dessalledi punto ammirativo.Venticinque anni di ricordi gli s'illuminarono nella mentecome aimoribondi il corso intero della lor vita. Rivide nel bagliore di unlampo infiniti luoghi della città congiunti a memorieindelebilidal cortile di casa Scremin dove fanciulletto avevagiocato col figlio dell'autentico Giacomoal caffè dov'eracondottole domeniche di quel tempo anticoa prendere il gelatoaipasseggi suburbani che don Paolo prediligevaalle chiese chefrequentavano insiemeal Seminario doveper desiderio dello stessodon Paoloaveva più voltecon vere angosciesubìtoesami di latino e d'italianoalle stanze dei giorni piùfelicidei più dolorosi e dei più aridiagli ufficidel Municipioalla sala delle adunanze consiliaria villa Diedo.

VillaDiedo! E Vena di Fonte Alta? E la promessa data? Farebbe una visitadi poche oreil più tardi possibile fra quindici o ventigiorniverso la metà di luglio. Sarebbe stato piùopportuno astenersene poichè il legame si doveva allentare; mala promessa? Una semplice visitaun saluto! Sìuna semplicevisitaun saluto; però l'idea di questa visitadi questosalutoche poteva essere l'ultimogli tolse la voglia difantasticare più oltre.



IV


Pensateun cornuto arcavolo mostruoso degli elefantiinvadente a muso bassol'ampia sua viapôrto l'occipite nel sole di sotto la somad'una piramide enormeaffondati i fianchi rigonfi nell'ombra. Cosìfra le due strette valli incise dai fendenti di un diolo speroneche porta Vena di Fonte Alta si protende dalle radici di Picco Astorea fronteggiar con due corna il gran cavo di Villascura. Lassùnella loro cintura di abissi ondulano supini al cielo i pineti e ifaggeti di Venamacchiati di smeraldo chiaro dove il prato li rompee dilagapicchiettati di rosso e di bianco dove stormi di casucce siannidano. Chi li contempla dall'alto dell'obliquo alato Picco Astoreo delle grandi montagne nubifere di Val di Rovese e di Val Posinanon legge il loro minuto poema squisito. Ma il viandante vagabondoper i sinuosi lor grembi si domanda se ivi non siansi amate unmomentosull'aurora del mondomeste Intelligenze delle montagne egaie Intelligenze dell'aria; se la terra obbediente ai loro mobilisensi non siasi composta e ricomposta intorno ad esse continuamentein talami oscuriin alti seggi di riposo meditabondoin scene dimalinconia e di risodi alti pensieri e di scherziche poi fermateal repentino sparir degli amanti abbian serbato per sempre l'ultimaforma. Ogni cosa vi ha l'impronta di un sentimentodi una personaleidea di bellezzache ci movono a sospirare per un tristeindefinibile senso dell'assenza di qualcuno che ivi passò eche avremmo amato. All'erboso velluto di un pratolino appuntato nelfaggeto fra due curve ali di scaglioni petrigni dove grandi abetimontaronoscena di preludi amorosiseguesotto le densedistortebraccia dei faggiun dedalo cadente di muscosi giacigli cavinell'ombra chiara e verde come acqua immobile di lago in un vallonedel fondo. Il sentiero che gira l'omero ignudo di un colle a scoprirlontane conche di pascolilontane guardie di acuti abeti allineatisu alture terminali di quel paradisosdrucciola di là versol'orlo di una coppa vuota incavata nel prato quasi dal roteare di unvorticeove fu dolce a qualcuno giacer sul fondocontemplar ilcratere imminente in girole felci pendulegli elleborii ciclamie sopranel bianco disco di cieloil veleggiar eterno delle nubi.Il viandante ode tratto tratto nel vento vagabondo le diverse vocidegli alberi diversile umili e le superbele tenere e le gravi.Vede sparsi nel bosco sedili di pietre candideradi sedili dicontemplatori solitariadunati sedili di assembleescolpiti digeroglifici indecifrabili come i colloqui degli alberiforse lavorodi uditori antichinote di canti aerei fermate nel sassoforsericordo ai venturi di chi passò. Ma sopra il verde lucente deifaggisopra le conche dei pascoli e gli omeri ignudi dei colliricompare uniforme ad ogni passo il pensiero dominante del poemal'obliquo alato Picco Astore; e in giro alle alte sue tristi nuditàricompaionodovunque i sentieri cavalcano un dorso prominenteassise nei loro manti come gli amici di Joble grandi montagnenubifere di Val di Rovese e di Val Posina. E in un selvaggio burratodell'Astore che si cercano piangendo nel nascere le polle divisedell'Acqua Barbarenala Fonte Altae tosto si appagano nel vaso dipietra onde corrono quindiridivisea dolersi dolcemente ancoranegli sparsi casali di Vena e nel giardino della signora che a villaDiedofra la conferenza di Carlino e il balloapprese coninquietudine pia il progetto di Jeanneil pericolose Maironi laseguissed'una infezione mondana nella sua casta solitudinealpestre.

Pressola chiesasull'orlo di Val di Roveseè un piccolo albergonon posto dalle Intelligenze delle montagne nè da quelledell'ariarustico al pian terreno dove il vino fermenta la domenicain canzoni e vociiborghesemente lindo le scale sonore di abetelestanze dall'impiantito di abeteche assiti di abete dividonoodorate di abetedov'è gradevoleforse per la funebresomiglianzasentirsi vivere. Capitano colà l'estate dal pianomodesti clientivisini anemicistomacuzzi inertipiccole borse diartisti e di poetiuno dei quali ultimiinnamorato di Venadell'Acqua Barbarena e di Picco Astoreci viene tutti gli anni e haimposto a ciascun sassoa ciascuna zolla dell'altipianonomi chenessuna carta topografica riproduce e che tuttavia trovano favore.Così si spiega lo sbalordimento di un ingegnere del Catastoche recatosi all'Hôtel Astorein cerca di Carlinouna domenicaquindici giorni dopo l'arrivo deiDessalle a Venasi udì rispondere dalla cameriera che ilsignore non era in casa e che forse lo avrebbe trovato nel Covile delCinghiale.

IlCovile del Cinghiale si cela tra gli anfratti di una costa selvosa apochi passi dall'albergo e dal villino dei Faggi dove la signoraCerrila confidente del candido maestro Bragozzostava con la suafamiglia da dodici giorni. Fra una lama scoperta di ripido prato euna profonda coppala "Pentola degli Stregoni'onde sopraminute plebi di arbusti salgono abeti a glorificarsi presso lenuvoletre macigni si porgono dal pendio come tre scarnati menti divecchioni. Nel mediano il poeta fantastico raffigurò un grugnodi cinghiale. Dal destro e dal sinistro pendono i due capi dellabreve semicorona di faggi che forma il Covile. Due giovani abeti nefiancheggiano la stretta boccaaltri due si disegnanonell'intervallo dei tronchi un finestrino che guardaoltre la lamaverdeuna muraglia di tozzi faggi fogliuti e bassi.

Nell'ombramobile del Covilesforacchiata di solestavano a conversaresedutiCarlino Dessallela signora Cerriil maestro Bragozzoospite dei CerriBassanelli sfuggito per due giorni alle cure delGovernoil poeta fantastico e il notaio di Venaun saviolento digambe e di parola. I cinque bambini della signora Cerri facevano ilchiasso nella "Pentola degli Stregoni'.

Lasignora lodava l'aria di Venacosì penetrata di spirito puroe anche ilare. Soggiunse timidamentearrossendo nel dubbio di fareun discorso pretenziosoalcune parole sulla purezza ilare di certiSantidi certe anime elette che tuttavia s'incontrano qualche voltanel mondo. Allora il candido maestro la guardò con una facciailluminata di ricordi sottintesi e le dissepensando allaconversazione di villa Diedoche nell'aria di Vena non c'era odoredi quei tali pasticci.

“Apian!” fece il notaioesperto dei costumi venaschi. Non potèmetter fuori la sua esperienza perchè Bassanelli saltòin mezzo a dire che l'odor di pasticcio a lui non dispiaceva e cheinvece l'aria di Vena era salubre perchè non vi era mai odoredi abiti neri nè a coda nè senza coda; “nède velade nè de veladoni!” La signora Cerri osservòapprovando la chiusa del discorso Bassanelli e deplorando in cuor suol'esordioche già nel paese degli abiti neri una punta diputrido c'era sempre nell'aria.

AlloraCarlino ribattè che si doveva dire molto maturoinvece di putrido eche questo odore di avanzata maturità non era un difetto mauna squisitezza perchè conteneva in sè l'idea dellaperfezione più che perfetta. Perciò gli faceva moltopiacere di apprendere dal signor notaio che fra l'aria di Vena el'aria della cittàriguardo a certi odorinon ci fossedifferenza. “A piana pian!” esclamò il notaio. Esubito la signora invocò il poeta. Che ne pensava il poeta?

Ilpoetache solo appariva tale nella zazzera e nella cravatta malecompostache si chiudevaquando la gente pareva curarsi poco diluiin accigliati silenzi e invece quando gli si mostrava deferentesfrenava subito la sua parola incomposta quanto la cravatta e lazazzeracominciava a rodersi che nessuno lo introducesseossequiosamente nella discussione; per cui lodò molto in cuorsuo la intelligenza superiore della signora Cerri e prese le parti dilei con tutto il fervore delle sue opinioni e del suo irritabile amorpropriomescolati insiemespumanti. Mediocre artistasi dicevapiccolo a parolesi teneva grande nel cuore. Gli pareva esser maleapprezzato nel paese degli abiti neri mentre negli alberi e neimacigni di Vena aveva trovato semprequando parlava a voce altaneisuoi vagabondaggi solitariun'attenzione piena di stima e disimpatia. Egli disse che realmente quest'odor di putrido l'ariacittadina lo aveva ma ch'era un odore gradito al suo naso e non perle considerazioni estetiche dell'amico Dessalle. Gli era gradito comel'annuncio ufficiale che tante cose odiose e fastidiose marcivano eche una salutare fase della evoluzione nuova era prossima; perchèil poeta era un trasformista fanatico e non sapevaquasiordinarsiil pranzo senz'arringare il cameriere con l'evoluzione. Puzzava diputrido nel paese degli abiti neri l'accattonaggio universalequellolurido delle stradequello poco pulito delle anticamerequelloschifoso dei gabinetti. Il puzzo annunciava che gli attuali ordinieconomicigli ordini amministrativigli ordini parlamentari eranomarci e si sarebbero presto sfasciati. Puzzavano i partiti politici;il partito socialista con le sue camicie sporche plebee e i suoi capiunti di grasso borghese; il partito liberale con la sua rettoricaammuffita della bocca e la sua feccia scetticaegoistadel cuore(qui il notaio fece invano “a pian!”)il partito clericalecon la sua religione guastamal conservata nell'aceto. Il triplicepuzzo annunciava una prossima trasformazione pure di questiorganismi. Puzzavano di putrido le classi ricche con i loro titolimorticon i loro fumi di vanitàcon le loro corruzionieleganti del corpo e dello spirito. Il poeta aveva tartassato isocialisti ma in fondo parlava come un socialista e la conversazionepassò dai malanni sociali alle medicine socialiste. Anche ilbuon maestro volle dire la sua: se tutte le note musicali volesseroessere il la perchèil la comandaaddiomusica! La signora batteva il chiodo della giustiziadei torti chele sono pur fatti nella società del nostro tempo; e Carlinodopo avere rimbeccato il poeta mettendo avanti che praticamentel'avvenire non esiste ma esiste soltanto una serie di presentisostenendo quindi che vera scienza della vita è il godimento ela interpretazione ottimista del presenteuscì a dire che infin de' conti esistono infiniti concetti individuali della giustiziama proprio la giustizia non esiste.

“Apian!” fece il giureconsulto. Era destino ch'egli non potessemai passare oltre il suo consueto esordio. Jeanne si affacciòall'entrata del Covile con Maironi.

Lasignora Cerri arrossì. Ella non sapeva che Maironi fosse aVena. Non vedendolo comparire aveva sperato e osservato Jeanne.Jeanne assistevaogni domenicaalla messa parrocchiale e vi tenevaun'attitudine perfetta. Veniva quasi tutti i giorni da leilemostrava tale simpatia da potersi dire affezionee ne ricercava laconfidenzasi era amicata i bambinis'intratteneva volentieri colsignor Cerri di agricoltura e di politicasi compiaceva visibilmentedi un ambiente nuovo per leisemplice nella larghezza degli agigaio dentro le frontiere severamente custodite della morale edell'ortodossia cattolicacristiano e moderno. La giovine signoranon intendeva quanto potesse ella stessa sull'animo di JeanneDessalle con il suo alto candore rilucente nella dolcezzadell'aspettocon la sua religiosità penetrante in tutti gliatti della vitapura di piccinerie ascetiche e di piccinerie morali.Era lieta e quasi sorpresa della serietàdelle buoneinclinazionidei sentimenti elevati che veniva scoprendo in lei. Nonle pareva possibilenella sua rettitudinenella sua inesperienzadelle cose umaneche una persona impigliata in relazioni colpevolimostrasse tanta bontà; e fantasticava di un pentimentodell'amicadi una rottura già successa. Perciò quandovide Maironi alle spalle di Jeanne non potè nascondere ilproprio turbamento doloroso.

Jeanneaveva negli occhi quella luce indicibile che la presenza dell'amatovi metteva sempre.

“Certo”diss'ellaprima di mettere il piede sull'entrata del Covile “certoche la giustizia è un'opinione! Chi è l'avversario dimio fratello?”

“Io”rispose la signora Cerri con voce fredda di celato rimprovero. Jeannenon l'aveva veduta e la intese sino al fondo. Appena scambiati isalutisi dolse di Carlino che non l'avesse avvertita prima diusciresi dolse di non aver saputo dove raggiungere la comitiva evantò la propria intuizione. Al fremente Bassanelli sfuggíun ironico “famosa!”. Carlinoseccato della parte didistratto affibbiatagli dalla sorella per coprire l'ottenuto suointento di restar sola con Maironimise il broncio. La Cerri sialzòricordò al maestro ch'era vicina l'ora dellalezione alle bambine e prese commiato. Il buon Bragozzoscandalizzato dalle tesi di Carlinodalla simpatia di Bassanelli peri pasticcidal discorso del poeta sui clericali e dalla comparsa diPiero in quella compagniasi sfogòappena passata la Pentoladegli Stregonicon la signora e le confessò che a lui quelcosì detto Covile del Cinghialeera parso un bel porcile: “El staloto del mas'cio”.

IntantoJeanne cercava di riaccendere la discussione. Bassanelli dichiaròruvidamente che se altri voleva la giustizia non assolutaa luibastavano i carabinieri assoluti e che intendeva ritornareall'albergo col notaio per bere un'assoluta porcheria qualsiasi chegli facesse digerire la metafisica. Zoppicò giù per ilsentiero con tanta sdegnosa fretta che il povero notaionon potendotenergli dietro e volendo pure comunicargli una sua riflessionefrutto prezioso del silenziolo richiamò.

“Apian! La diga! A pian! Per quela signora xe relativi anca i marii.”E spruzzate sull'arguzia due risate grosse e cortedescrisse con uncipiglio severissimo lo scandalo dato da "quella signora'cheall'arrivo di Maironila sera precedentesi era tradita per mododavanti alla gente dell'albergo da imbarazzare visibilmente il suostesso amante. “Che amante!” fece Bassanelli. L'altro siscusò. Aveva detto quello che tutti dicevano.

Maironinon desiderandonel suo stato d'animonè parlare nèudir parlare accademicamente di giustizia quasi per passatempolasciò in asso il poetache combatteva i fratelli Dessalleguardando spesso lui come uno sperato sostegnoe uscì aconsiderare la Pentola. Jeanne lo raggiunse.

“Ripigliamoil nostro discorso” diss'ella sottovocemovendo un passo ditacito invito ad allontanarsi di lì. “Se ciascuno di noiandasse a ricercare le origini del proprio averenon crede che sitroverebbe tutti della roba mal venuta? Scusinon vi sarebbe qui unpo' di romanticismo? Può far tanto più bene LeicollaSua ricchezzache l'Ospitale Maggiore di Milano!”

Invecedi risponderePiero la interrogò fremente:

“Comesi può dire che la giustizia è un'opinione?”

“Ehsicuro!” diss'ellapure concitata. “Ed è proprioquesto il caso! A Lei pare giustizia spogliarsi del Suo contro unasentenza di giudici e a me pare giustizia di non sostituirmi aigiudici. Opinione la Suaopinione la miaopinione quella deigiudici!”

Appenadetto questo si raumiliò al solitochiese perdono contenerezza affannata.

“Nonso pensarla povero” diss'ella“non so pensare che Lemanchino gli agi cui è abituatosarei contenta di viveremiserabilmente io in uno di questi abituri purchè a Lei nonmancasse la pienezza della vita e il mezzo di essere generoso secondoil Suo cuore e la Sua mente!”

Vollesapere come proprio si fosse espresso l'avvocato. Piero le risposefreddocol tono di chi non è più disposto a discutere.Secondo l'avvocatol'Ospitale Maggiore aveva perduto la lite controi Maironi per un puro vizio di forma nel testamento di un marcheseReynacugino di Alessandro Maironibisavolo di Piero.

“Nessunsocialista” diss'ellapiano“farebbe quello che vuol fareLei e come socialista...”

Nonsi arrischiò a compiere la frasea dire che un socialistaavrebbe ragionecome taledi non agire secondo un religiosorispetto dell'idea di proprietàdel diritto di testarecheavrebbe ragione di non favorire Opere pieistituzioni che attenuandoi guai prodotti da un sistema economico ingiustolo tengono in vita.

“Ionon sono un socialista come gli altri” disse Piero. “Certeteorie non comincio ad applicarle a mio beneficio.”

Pressoal fondo del valloncello che va da settentrione a mezzodìfrail Covile del Cinghiale e la chiesasull'orlo di un pendio breve maripidissimoJeanne si fermò.

“Midia la mano!”

Afferròla mano concessasorrisela strinsediscesesussurrò:“Come sei forte!”.

Erala prima volta che ritornava al tudopo l'arrivo di Piero. All'ultimo passotoccando il pianosiabbandonò col petto sul dolce sostegnoavviluppò lapersona cara con l'aura odorosa e tepida della propria.

Avevatanto tremato ch'egli mancasse alla promessa! Gioiva tanto della suapresenzasperava tanto! Dirimpetto a lorosul ciglio dell'altacostal'albergo biancheggiava fra gli abeti. Pieropallido esilenziosoprendeva già quella via. “No!” diss'ellacon una vocecon una boccuccia di bimba viziata; e accennòdel capo al sentiero che risale il valloncello verso mezzodì.“All'albergo c'è Bassanellic'è tanta gente! Leimi deve dire cosa farà poi che avrà ceduto tutto ilSuo.” E non potè a meno di trasalire ancora all'idea diquesta follia.

“Bene”disse Pierorisoluto a un discorso definitivo. “Andiamo. Leinon ha ombrello?”

Unvelo era sceso sullo smeraldo dei pratile ombre degli alberi sierano sciolte nel chiaror diffuso del sole nascostoil nebbionefumato su dalle vallisi riversava lento per gli alti grembi diVenaper le vette delle selveaffiochiva nei pascoli i suoni sparsidei campanifasciava le pendici nereggianti di Picco Astore. AJeanne pareva che un bianco mantello umido venisse avvolgendosilenziosamente lei e Pierosul prato sofficedentro le sue lanefloscevenisse dividendoli pian piano dal mondo delle cure umanedal passatodall'avvenirespirando loro il dolce senso di essereanime d'un altro pianeta. Sentì che giungeva un'ora supremache erano in giuoco non tanto la felicità propria e le propriesortiche importavano mai?quanto le sortila felicitàdell'amatoilluso da funesti sogni. Gli passò timidamente unamano sotto il bracciomormorò: “Ti dispiace?”. Ebenchè il “no” di lui sonasse freddogli serròforte sul braccio la bella persona. “Caro!” diss'ella.

Inquel momento Piero si diceva: “Come questa donna noncomprende!”. La resistenza dura di lei alle sue ideeil tenacescetticismoquelle fredde ragioni opposte al suo divisamentogeneroso e che in fondopur non volendolo confessare a se stessotrovava giustealmeno in parte; sopra tutto quel non avergli dettouna sola parola di ammirazionefinivano di staccarlo da leilorendevano quasi sdegnosoimpaziente dei dolci atti e dei dolcidetti.

“Intanto”diss'egli ex abruptoper troncare le dolcezze“non cederò tutto il mio.Conserverò una piccola proprietà Maironianticanonvenuta da casa Reynae conserverò la casa di Oria che miamadre ha ereditato da mio zio Ribera. Sarà la povertàma non la miseria. Appena stipulata la cessione andrò inFrancia a studiare e forse anche a lavorare con le mie mani. Saràil primo passo per servire la mia opinionedella giustiziaper diventarein tuttol'uomo che l'anima grandeunicadi mia madre deve avere desiderato in me. Perchè oramaila mia stella è d'incarnare l'ideale di mia madre. Mia madresarebbe felice di vedermi abbandonare una classe sociale dove non sivuol saperne della giustizia eterna per non sentirsene obbligati asacrifici durioppure se ne fa un Dio personale col quale non èpoi tanto difficile di accomodare i conti; una classe dove non sivuole che godere giorno per giornonon si vuole che...”

Noncompiè la frase. Alle prime parole crude Jeanne aveva lasciatoil suo braccio; alle ultimesentendosi mancaresmorta socchiuse gliocchicercava con mano incertavagantedi aggrapparsi a lui pernon cadere.

Atterritoegli le cinse la vitasi guardò attornonon vide nessunoilnebbione era tanto denso! La sostennela incuorò e larimproverò insiemeaffannato. Ella si provava di respingereil suo bracciomormorava quasi inintelligibilmente: “Nonomilascinon son degnanon son degna...”. Cingendole sempre lavitaPiero si mosse pian piano per ritornare all'albergo. La poveraJeanne aveva orrore dell'albergo. “Nono!” Piero volevafarla sedere un momentoalmenosul prato. “Nonomi conducaalla fontanami conduca alla fontana!” Pareva rianimarsilavoce si rialzava e si rinfrancava. Piero non sapeva dove questafontana fosse e Jeanne non riusciva a spiegarsi.

Siprovò di camminaredi guidarlo. Questo le riusciva menodifficile che il parlare. Si avviò sorretta da luivacillandoansandosostando a ogni passo. Avrebbe voluto ancheparlarema non potevae allora lo guardava in viso con il dolore diquesta impotenzacon uno sguardo indimenticabile. Ebbe anchenelfar sosta per lo sfinimento mortaleun sorriso infinitamente triste.Una volta le parve udir voci che le venissero incontro per la nebbiasi tolse dal sentierosgomentatacon uno sforzo. Le voci sidileguarono. “Vuole aspettar un poco?” diss'ella affrantadallo sgomento e dallo sforzo. Passarono certi casolari e piegarono adestra in un picciol cavo ombreggiato di noci dove convergono altrisentieri e chiama con fioca dolente voce una sottile polla dell'AcquaBarbarenacascando nella vasca disposta ivi per le mandre. Pierofece sedere Jeanne sull'orlo della vasca. Non aveva tazzaraccolsel'acqua della polla con le mani. Ella bevveimpresse la bocca nellacommessura delle palmeebbe un singhiozzo arido e alla domanda dilui se desiderasse bere ancorascosse il capo senza levarlo. Eglidisgiunse le mani adagio adagiole ne sfiorò il visopietosamente ed ella subito se lo coperse con le proprie. Poi cavòil fazzoletto e glielo porse tenendosi ancora l'altra mano sugliocchipregò di bagnarlose ne deterse le cigliatacque colviso basso e le mani giunte in grembo. Egli cercò una parolapiale disse accorato che non aveva creduto di farle tanto male.

“Mipermette” mormorò Jeanne “di seguirla dove andràsenza mai farmi vedere da Lei?”

Eglinon rispose ed ella lo interrogò da capo con l'oscuro fuocodei grandi occhi aridi.

“Jeanne!Come può pensare a questo se mi disapprova?”

Ellagli sarebbe caduta ai piedi se Piero non l'avesse impedito a forza.Gli prese e raccolse i polsigli parlò affannosaporgendogliil visoaffissandosi in lui con la espressione di un morente checerchi negli occhi del medico la speranza:

“NonoDioDio mionoLei non saLei non sa! Io ho nella mente delleoscurità disgraziateio La contraddico anche qualche voltaper una specie di spirito maligno che mi prendeche mi fa parlareper la mia sventurama L'ammiro tanto tanto tantoonoro tanto inLei quella fede in un ideale che vorrei pur avere e non possosentoquanto è bello il Suo propositoquanto è grandedareitutto il mio perchè servisse ai Suoi studial trionfo delleSue ideedi ciò ch'Ella chiama la giustizia assoluta.

Nonvi è sacrificio che non farei! Non merito propriocredacredach'Ella mi dica quelle cose terribilinon tengo allaricchezzanon tengo ai godimentinon tengo al mio ambientelodomandi alla signora Cerrinon tengo neppure all'eleganza se non perLeiperchè anche se Lei non mi vedevoglio sempre figurarmidi esserle presente. Se Lei me lo permetteio lascio tutto. Cedotutto a mio fratello e vengo a servire Lei se vuole; se non vuolevengo a starle vicinovivrò di lavoro e forse Lei qualchevolta avrà pietà di me!”

Ellas'interruppelasciò le mani di Piero; i belli occhi parlantisi velarono di pianto. Maironi ebbe il senso di un'anima che nonavesse mai conosciuto beneresistente per la sua potenza di amore auna profonda infezione di scetticismolampeggiante dall'internodelle sue nuvole una luce purissima.

“Inprincipio” riprese Jeanne “l'idea di lasciare mio fratellonon mi avrebbe potuto venir in mente. Leiper le discordanze nostremi ha amato sempre meno e io l'ho amato sempre piùperchèio non avrei mai voluto ch'Ella diventasse come meavrei volutoinvece diventar io come Lei!”

Tacquee dopo brevi momenti di silenzio alzò gli occhi lagrimosiaspettando una risposta. Piero teneva i suoi fissi nel vaporar lentodella nebbianelle foglie dei nocigravi di umidore. La tristezzadelle cose pareva conscia di quel silenzio doloroso. “DioDio!”gemette Jeannesottovoce. “Oggi” soggiunse dopo un'altrapausa “se quest'acqua fosse veleno non Le chiederei se la dovreibere.” Piero la guardòattonito. Appena ella ebbe dettoamaramentecome parlando a se stessa“Neppure si ricorda!”gli venne in mente Pragliail bicchier d'acqua sparso.

“Sì”diss'eglicommosso. “Mi ricordo. Neppure oggi Le direi dibere.”

Ellasospirò: “Per pietàforse”.

“Ohno!”

Jeanneebbe un sussulto di speranzama poi ripetè malinconicamente:“Sìsìper pietà”.

Parolecalde parvero salire alle labbra di lui e arrestarsi. Non ne uscironoche queste: “Non lo dica!”.

Jeannesi voltò sul fianco e con la punta dell'indice tracciòsull'acqua la parola: pietà.

“Lei”disse con una tranquillità nuovaguardando lo specchiodell'acqua ricomposta “ha perduto la poesia dell'amorericadrànelle tentazioni di primasi cercherà delle amanti opiuttosto se ne compererà.”

“Nonho perduto la poesia dell'amore.”

Ricominciòun silenzio eterno.

Pieroguardò l'orologioosservò sommessamente ch'erano quasile tre e mezzo. Aveva ordinato che la vettura fosse pronta per lequattrovolendo prendere a Villascura il treno delle sei. Jeanne nonlo sapevatrasalìma si chetò subito. Però nonsi mosse e siccome egli pareva stare in attesadisse:

“Vadaio resto qui.”

Alui quella tranquillità parve sospetta. Aveva udito parlare diprecipizi vicinivaghe apprensioni gli salirono in cuore. Insistetteperchè Jeanne si alzasseperchè scendesse all'albergo.Jeanne ripeteva: “Vada! vada!” senza muoversi.

“Manon posso” diss'egli “lasciarla così!” Esoggiunse teneramente: “Vienivieniforse un giorno...”.

“Forseun giorno...?” diss'ella in un lampo di dolcezza e di amore.

“Forseun giorno ci sarà fra noi quella concordia di anime che puògiustificare una unione stretta.”

Esprimevaegli il proprio intimo pensiero oppure lo avevano quelle apprensionivaghe tratto più in là? Jeanne tornò aoscurarsimormorò scuotendo incredula il capo:

“Pietà.”

Eglisi guardò attornosi chinòle pose sui capelli unbacio e sussurrò:

“Nocarasperanza.”

Ellapiegò la testa per prendere quanto poteva del bacioun fugacelume di beatitudine le si diffuse sul viso.

“Seè vero” disse “che lo speriresta fino a domani.Altrimenti penserò che non è vero.”

Egliaveva respirato i sofficimorbidifragranti capellila dolceoffertae gliene tremava il cuore. Rispose con voce malferma:

“Resterò.”

Jeannesi alzò in piedifece “grazie!”mise un lungosospiroguardò Piero come talora una madre guarda scherzandoil suo bambinocon un tenerogioioso viso infantile; perchèa lui piacevain passatodi farsi guardare da lei così. Glipiaceva ancora! Ella rise un breve sommesso risoun risoinconsciamente voluttuoso che pareva dire: “Riconosco la fiammadegli occhi tuoiun giorno a me sgraditaadesso mi dai un baciolosoe non sui capelli”. Infattilentamente lentamenteil visodel giovane si accostò al suo che lentamente lentamente sidisponevasi porgeva grave all'incontro.

Allorale due anime salite sulle labbra si dissero tale una cosa che poiquando le labbra si disgiunserogli occhi non sostennero diguardarsi. Altre volte Jeanne e Piero si erano incontrati senzaparole in quel pensiero segretoma ostilmente. Ora non fu così.Ora la donna sentiva che vi era un ripugnante modo di trattenere ilsuo amore per sempre; l'uomo sentiva che vi era un dolce modod'incatenarsi per sempre e che lei non era più tanto fermanella sua resistenza. Ambedueattratti e respintitrepidavano.

Intantosi era levato un vento molesto che soffiava loro la nebbia in viso.Campani di mucche scendenti all'abbeveratoio suonaron vicino. Jeannee Piero si avviarono verso Rio Freddola prima breve passeggiata ditutti i visitatori di Venalei camminando avantiin silenziocolsenso dello sguardo fisso di luivolgendosi con un sorriso quando losentiva tanto forte da soffrirne. Poco a poco la nebbia si aperseapparve a destraneroimminenteil tragico Picco Astoreapparveroin un chiarore di sole pallido pendenti grembi e molli dorsi dipascolialture nere gremite di abetiprofili grandi delle creste diVal Posina. E presto intorno ai due silenziosi ruppe il sereno daogni partel'erbe imperlate brillaronolo smeraldo dei pascoli siravvivòle cervici calve di Picco Astore diventaron fulvegli umidi aromi della montagna odorarono. Jeanne sedette sur unmuricciuolo diroccato che troncava il sentiero dove si gitta dalprato in una macchia. Pallidaspossata dall'ultima ripida salitanon poteva parlaresorrideva guardando lui. Lì presso era uncespuglio di nascenti faggi misti ad abeti. Jeanne sospiròguardandolo: “Che piacere vivere uniti quisempresempredimenticare il mondo basso! Ah! che gioiache gioia!”. Atteseinvano una parola di Pieromormorò ancoracon gli occhibassi: “Non dici niente?”.

Pieronon parlò.

Neppureparve udirla. Pareva guardasse l'ombra del proprio capo sull'erba.Ella si alzòsi fece aiutare a scavalcare il muricciuolosimise risolutamenteseguita da luinella macchia. Pochi passi perintricati ramisu pietroni affondati nei muschisconnessi dalleradici degli abeti e dei rododendri ed eccoa destra e a sinistral'orribile Profondola mostruosa cintura di scoglilunata erientrante sotto le creste coronate di abeticome una colossale ondache frangendo si rovescia all'indietro; ecco Rio Freddoil paurosoconfine del paradiso verde di Venala valle dell'Ombra della Morte.Jeanne mise il piede sopra un lastrone sporgente fra gli abissi.Piero l'afferrò alla vita ed ella si rovesciò indietroalle sue bracciachiudendo gli occhi. La strinse a sèlacopersetacendo sempredi carezze così violenteche Jeanneatterritasupplicò:

“Nonono!”

Allorail giovinedi bottolottando con se stessoristette; ella glisgusciò dalle braccia e scavalcato il muricciuolosaltòdalla macchia sul prato aperto.

Qualcunosaliva verso di lei e le domandò da lontano del "signorconte'. Era il vetturale piantato in asso da Piero. Il signor contepartiva o non partiva? Perchè lui doveva partire a ogni modo.Piero cercò inutilmente di persuaderlo a restare finoall'indomani mattina. Quegliregolato il suo contose ne andò.Maironi guardò Jeanne.

“Dovevopartire stasera?” diss'egli.

Ellachinò gli occhi e non rispose.

Disceseroin silenzioella seriaegli triste. Ripassando presso la fontanadei noci Jeanne lo guardò alla sfuggita come per dire: "Ilprincipio è stato qui'. Poi non lo guardò più.Raggiunto il posto doveper andare al Covile del Cinghialeconveniva prendere a sinistraesitò un momento. Prese inveceil sentiero che sale verso il villino dei Faggi e di làconduce all'albergo. Non una sola parola fu scambiata fra loro finpresso al villino. Allora Piero domandò alla sua compagna sefosse proprio in collera con lui.

“Nonlo so” diss'ellae lo guardò teneramentedubitando diaverlo offeso. Lo vide così turbato che si smentìsubitoaffannosamente:

“Nonocaronon sono in collerati amo troppo!”.

Nelvillino si faceva musica. Jeanne si fermò al cancelloascoltando. Era un pezzo per violino e piano. L'arcoimpugnato dauna mano potentestrappava dallo strumentoalternandole a un finecinguettio di sussurriapostrofi grandiose che parvero a Jeanne ditragico rimprovero e di scongiuro. Un attimo le bastò perpensare che la signora Cerrise sapessele parlerebbe così eche se leiJeanneavesse avuto la sorte di suggere col latte lafede religiosa e la rigidezza morale come la signora Cerrinonavrebbe meritatonè sarebbe per meritareun tale rimprovero.I bambini giuocavano in giardinola viderocorsero a lei battendole manigridandole di entrare. Ahentrare lìin quelmomento! Ella fe' loro cenno che tacessero e si allontanò conPiero mentre il violino riattaccava l'apostrofe ardente che parveadesso quel che forse immaginò l'autore del pezzoil vecchioTartiniun demoniacoamaro grido di trionfo.




V


Quellasera gli ospiti dell'Hôtel Astoresi ritirarono di buon'ora. Carlino era molto seccato della scomparsadi sua sorella con Piero dal Covile del Cinghialeera seccato chefosse andata fino a Rio Freddo con la nebbiasenza mantellosenzauno scialle; era seccato che non avesse preso con luiall'orasolitail Kephirilportentoso farmaco orientale che di lui doveva fare un Ercole e dilei una Giunone; era seccatissimo che Bassanelli avesse osatoalludere con lui alle imprudenze di sua sorella. Bassanellivenutocon la certezza di trovare Jeanne e di non trovare Maironiera nero.Jeannedopo ritornata all'albergonon aveva più potuto starsola con Piero se non un momento prima del pranzo. Allora gli avevadetto in frettacon un'appassionata stretta di manoquasi furtiva:“Non partiràverodomani?”. E a lui era mancato iltempo di rispondereo forsenel tumulto dell'animogli era mancatala parola. Dopo pranzonel salottino dove i Dessalle tenevanoconversazione e offrivano il thè ogni serasi era conversatopoco e non piacevolmente. Bassanelli aveva condotto il discorsoall'elezione di Bresciaandata bene per il Governo grazieall'attività del candidato ministerialenon d'altri. Si capìche voleva alludere a Maironi e questi cominciò a bollire.Certe nebulose frasi dello stesso Bassanellivenute poigli parveroaccennare a un altro aiuto invocato inutilmente da quel pover uomodel marchesecui era pur lecito aver debolezze che tanti hanno.Allora egli scattòeccitò Bassanelli a parlar francogli negò il diritto di giudicare atti privati di cui nonconosceva le ragioni. Bassanelli lo rimbeccò aspramente: chigli aveva detto di prendere quelle parole per sè? Carlinovedendo sua sorella fremeretenersi a stento dal pigliar con impetole parti di Maironitroncò il discorso:

“Basta”diss'egli “adesso si prende il thè.”

Mentresi prese il thè non furono scambiate che poche parole gelide.Poi tutti si ritirarono.



VI


Lacamera di Piero metteva sul largo andito centrale dell'albergo infaccia a quella di Jeanne. Accanto a Piero dormiva Bassanelli e ledue camere erano divise da un semplice assito. Il geloso Bassanelliuscì dal salotto Dessalleappena uscito Pierovolendo saperedove questi dormisse e non piacendogli di domandarlonè a luinè ad altri. Trattenuto un momento sull'angusta scala da unacameriera che scendevanon vide in quale camera fosse entrato efinse di sbagliareaperse più di un uscio prima del buonoebrontolata una scusaentrò rumorosamente nella camerapropria. Quell'appartarsi replicato di Piero e di Jeanne la mattinae a pranzo un che d'inquietodi febbrile negli occhi lorocertisguardi scambiaticerte distrazioni dell'una e dell'altrogliavevano ispirato amarissimi sospetti da vecchio conoscitored'intrighi notturni. Era fermo di vegliaredi spiared'impedire.

Pierosi buttò in un seggiolone davanti alla finestra apertaallestelle tremolanti là in faccia sopra un nero culmine di boscoimmaginando la cosa detta senza parole da labbro a labbrosentitasull'orlo degli abissi di Rio Freddonello stesso sfuggirgli diJeanne dalle braccia e poi nei suoi silenzinel turbamento del suosguardoquando lo incontravanelle strette di manonell'ultimasopra tuttocosì lungaparlante. La cosa era fataleforse;era diritto e volontà ineluttabile della natura. Il suo sangueaccesopieno di violento impetosi sottometteva la sua ragionelefaceva dire così. Intanto al pianterreno dell'albergo le vociandavano spegnendosi. La porta di strada fu chiusapassi pesantisuonarono sulle scale di legnopoi sopra il suo capo. Finalmente lacasa si addormentò. Piero spense la candela. Non senzarifiutare ascolto ai deboli richiami della coscienzanon senza unoscuro disprezzo di se stessosi stese a terra per vedereprima diaprir l'usciose fra l'uscio e il pavimento entrasse lumese lalampada a petrolio del corridoio ardesse ancora. Era spenta. Sirialzò palpitando. A misura che si preparava cosìl'idea che Jeanne vegliasseche immaginasseche stesse in ascoltopalpitando come luilo guadagnava sempre più. Nell'alzarsi daterra fece scricchiolar lievemente l'impiantito. Tosto udìrumore nella camera di Bassanelli. Ascoltò trattenendo ilrespiro; Bassanelli si era messo a camminare su e giùdall'uscio alla finestrasenza riguardi. Alla fine si chetò.Quando Pierodopo avere lungamente aspettatosi mosse ancoraquegli ricominciò il passeggiosi fece ad aprire il suouscioa camminare anche nell'andito. Piero sapeva della sua passioneper Jeanne e non dubitò di una intenzione gelosadi unavvertimento diretto a lui. Si buttò a giacere sul letto ebenchè avesse cura di non muoversi affattoBassanellicontinuò a dare segnidi tempo in tempodella sua insonnia.

Frail tocco e le duePiero si lasciò prendere da un sopor lieveda un'ombra di sogno. Gli parve che venisse leiche toccasse il suouscio con un dito e scese affannoso dal letto per aprirleper dirleche Bassanelli spiava. Appena ebbe i piedi a terra dubitò diaver sognato.

Eccoinvece due colpettini secchi all'uscio. Trasalìaperse pianpiano senza domandare chi fosse. Vide il padrone dell'albergovestito a metàcon un lume in una mano e una letteranell'altra. Trasognatotardò molto a capire che la letteraera per luiche l'aveva portata un vetturinoil quale gli facevadire di esser pronto a scenderese il signore lo desiderasseanchesubito.

Lessespalancando gli occhiil brevissimo scrittorimase interdettoimmobile. L'altro attese un poco e poi gli domandò se avesseordini. Piero si scosserispose che ci avrebbe pensatoche intantoil vetturale aspettasse; e si fece accendere il lume.

Uscitol'albergatorerilesse. Scriveva la marchesacosì:

Domenicaore 7 p.

CarissimoPiero

ildirettore telegrafa a papà: - Condizioni fisiche aggravate.Oraperfettamente lucidachiede vedere genitorimaritodonGiuseppe Flores - Noi partiamo subito. Don Giuseppe ci raggiungeràquesta notte. Prega!

Lamamma


Pierosi strinse i pugni sugli occhitanto forte che le braccia glitremarono. Dopo due minuti scostò e alzò lentamente ipugnifissando il lumeansando. Poicome per uno scatto improvvisodi volontàraccolse le sue robe a precipizioa precipiziodiscesechiamò il vetturalecommise all'albergatore discusarlo presso i signori Dessalledicendo che un richiamo dallacittà lo aveva costretto a partire così. E saltònella carrozzella pronta davanti alla porta dell'albergo.

Giùgiù nelle tenebreal trotto di una brennasopra un biroccinosconquassatoaccanto a un compagno muto; spariscono in alto persempre i boschii pascoli con i sentierile macchie e le fontaneche tanto sannosparisce Picco Astore; giùgiù sottole stelle pureper una costa ignudaper nere strette di capanne;sparisce in altoper semprela casa dove dorme Jeanneinconsapevole; giùgiùal trotto stanco della brennaper un fitto di faggi addormentatiper avanguardie di radi abetivegliantiper orli di baratri; giùgiùda destra asinistra e da sinistra a destracon l'orrore di aver cupidamentepensato al tradimento mentre la poveretta fedele lo chiamava al suolettocon il senso di una potenza oscura che lui cieco fosse andatalentamente avvolgendo nelle sue fila e ora lo afferrasse violentacon l'amaro ineffabile di quella vana parola: prega;giùgiùdal vento freddo delle alture nell'ariasempre più afosacon la visione di tutta la triste sua vitadella lugubre meta; giùgiùda sinistra a destradadestra a sinistrasenza fineal trotto stanco della brennacolbiroccino sconquassatoaccanto al compagno muto; giùgiùsino al fondoal suono di ombrose correntia una prima sosta.

Quanteora ancora?

Seiore.




CAPITOLOVII


INLUMINE VITAE


I


Arrivòallo Stabilimento poco dopo le nove. In portineria c'era l'ordine diaccompagnarlo dal Direttore. Questiavvertito col portavoceglivenne incontro sulla scalaripetendo premurosamente “bravobravobravo” e alla muta domanda di lui rispose con un sospirocon un gesto di dubbio e di sconforto! Era dunque in pericolo? Eh sìpur troppo lo era. E la mente? Perfettissima.

“Oh”soggiunse il Direttore con l'affettuosa deferenza del medico di cuoree insieme con il sorriso sereno dell'uomo avvezzo: “domandatanto di LeiLa desidera tantopoveretta!”.

Egli fe' cenno di entrare nel suo studio. Piero sapeva che quella nonera la via.

“Macome?” diss'egli. “Non andiamo là?”

“Nonsubitose permette” rispose il Direttoresorridendo condolcezza. “Non subito. Le ho fatto preparare qui nel mio studioda rifocillarsi un po'. E` Sua suocerasache ci ha pensato. Oh chedonnaSua suocera! Che santa!” Piero protestò che nonaveva bisogno di nienteche non voleva prender nienteche volevavedere sua moglie subitosubito! E perchè l'altro insistevacominciò a presentire qualche misteroa temere che gli sivolesse forse nascondere...

“Nono” fece il Direttore vivacemente “nemmeno per sogno!”e proseguì con un certo imbarazzo appoggiandogli le mani allebracciafissandolo negli occhi:

“AdessoLe dirò tutto. C'è qui un vecchio sacerdote desideratodalla Sua signorache ci terrebbe a parlare con Lei prima ch'Ellaentrasse in camera. Questa sarebbe pure l'idea della signoramarchesa. Ecco!”

“Vabene.”

Primadi far avvertire don Giuseppeil Direttore informò Pierosommariamentedella malattia. Il deperimento risaliva al maggio enelle due ultime settimane si era fatto più rapido. La nottedal sabato alla domenica era sopraggiunta la febbre. Nel primoentrare del male l'inferma aveva molto parlato di un bambinodi unsuo caro bambino che aveva portato in casa la pace. Il Direttore siscusòripeteva parole dell'ammalata. Essa ne aveva quindiparlato sempre meno e finalmente non più. Nel pomeriggio delladomenicacon la febbre a 39.5avevadopo un lunghissimo silenziodomandato improvvisamentecon intelligenza pienadi vedere igenitoriil marito e don Giuseppe Flores. “Povera signoraavrebbe voluto venire fuori dello Stabilimentoin qualche casavicinama io proprioconsiderando il grado della febbre e altrecosenon ho creduto di consentire. Stamattina è ritornata suquesto punto. Bastòpoverettache quel sacerdoteun santoanche luile dicesse di offrire il suo desiderio al Signore per isuoi peccati; ha subito risposto di sìdi sì e che neha tanti.”

Pierostrinse convulso la mano al Direttoreche uscìvolle andaregli stesso in cerca di don Giuseppe.

Rimastosoloil giovine si sforzò di fare attenzione alle coseesterne per dominarsi. Si accostò a una finestra. Faceva giàcaldofuori le cicale cantavano nel gran solenella gran tristezzadelle campagne deserte. Quando si sentì più sicuro disèPiero si avvicinò all'usciolo aperse un pocoaspettando il noto passo di don Giuseppe.

Chemaiche mai gli voleva dire don Giuseppe? Stette in ascolto.

Silenzio.

Vocid'inservienti. Si ritrassesi chinò macchinalmente a guardareun libro aperto sulla scrivania del Direttore. Hamletnell'originale inglese: la scena del teatro. Aperse l'uscio da capo.Dioquelle cicale! Altre voci; finalmentela voce del Direttorelavoce di don Giuseppe. Lo prese un tremitoritornò allafinestra per ricomporsisi voltò ed ecco davanti a luisolocon la gran fronte piacon gli occhi scurisolenne e dolceilvecchio prete. Egli alzò le braccia senza proferir parolaesenza proferir parola Piero aperse le suegli si avvinghiò alcollo. Don Giuseppe si sciolse il primo dall'abbraccio mutoetenendo le mani sulle spalle di Piero gli disse a voce bassa cheavrebbe trovato l'inferma in uno stato di spirito da non potersiimmaginaresicura di morirepiena di gratitudine verso Dioditenerezza per i suoie così alta nella espressione di questisentimenticosì acuta nei riflessi sul suo stato presente epassatonei consigli a sua madre e a suo padrenelle osservazionisu quanto si diceva e si faceva intorno a lei! Oh! Una cosa! La vocedi don Giuseppe si abbassava così parlandogli occhis'ingrandivanosi accendevanoil gesto commosso accompagnava leparole. Si capiva ch'egli era stupefatto di aver trovato una Elisadiversa dalla Elisa conosciuta in casa Scremin.

Sedettesul canapè destinato ai visitatori del Direttoresi fecesedere Maironi accantosi passò una mano sugli occhi.

“Senta”diss'egli.

Parvedibattere fra sè con qualche rotta vocecon qualche scossadel capocon gli occhi raccolti in basso le parole da dire o ilpunto dal quale muovere il discorso.

“Bisogna”riprese finalmente ritornando al suo gesto familiare della mano allafronte onde spremeva stentatamente le parole difficili “che Lainformi di qualche cosa.”

Trovatala viacontinuòun poco più scioltopenetrato peròsempre la voce e il viso quasi da un riviveredentro di luidellecose passate che narrava.

“Ricevetteil viatico” diss'egli “alle cinque di stamattinacon laserenità di un angiolettosi raccolse per qualche minuto epregò i suoi genitori di lasciarla sola con me.”

Quidon Giuseppe cinse con un braccio il collo di Pierogli sorrise congli occhi umidi.

“Miparlò di Lei” diss'egli. Piero si celò il viso frale mani.

“Pare”riprese don Giuseppe sospirando “che qui o gli assistenti o leinfermierechi saudendola delirarenon pensando mai che potessecomprendereabbiano parlato fra loroin presenza sua... di cose chela poveretta non avrebbe dovuto sapere. Ha uditoha compreso tuttoricorda tuttomi ha ripetuto tutto. Si figuri se non cercai dirimediaredi smentire! Mi troncò la parola in bocca. "Nondicanon dicaso che è vero. Le leggo negli occhi che èvero.' Volle sapere se quella signora fosse libera e si afflissemolto che non lo fosse. Mi domandò se credevo che Lei sarebbevenutoche avrebbe accolto bene una parola sua di perdono e dipreghiera.

Lerisposi che n'ero certo.”

DonGiuseppe tacque. Piero piangeva.

“Diomiodon Giuseppe” diss'egli “non potrebbe Lei evitarlequesta penadirle che io considero la sua parola come dettacomeuditadirle a nome mio tutto quello che la può consolare?”

DonGiuseppe gli pose una mano sulle ginocchia ed ebbe ancorasenzaguardarloun lievissimo sorrisoun sospirouna inarticolata vocesommessa di dubbiouna voce che Piero intese a questo modo: “Nonè meglioper qualche ragione da tacereche parli proprioLei?”

Sibussa all'uscio. Un'inserviente avverte ch'è giunto ilprofessore chiamato per telegrafo da Bologna.



II


Erauna lunga via dallo studio del Direttore al piccolo quartiereappartato dove la povera Elisa aveva così lungamente soffertoe ora stava morendo. C'erano scale da scendere e salirelunghicorridoi da percorrerecortili da attraversare. Vi passeggiavanopersone tranquille di aspetto assai civilemolte delle qualisalutarono rispettosamente don Giuseppe. Una di questeun vecchiosignore dall'aria distintariconobbe Maironi per essergli statopresentato una volta dal Direttore e lo fermò.

“Comesta la Sua signora? Soffre tantoehpoverina. Già la fedeltàè femminanon può essere mascolina. Qui ci diconomatti ma si sa tutto di tutti. C'è qualcuno che veramente nonha prudenza nel parlare. Bisogna compatire! Grazie a Diose sonostato anch'io cosìadesso non lo sono più. Vedo cheLei è con lo Spirito Santo; dicanodicano al signor Direttorecome ragiono benee ch'è un delitto di tenermi ancora qui!”

Ilsignor Direttore era poco lontanoudìpromise amorevolmentea colui di licenziarlo prestogli consigliò di andare intantoa pigliar il suo caffè e latte. L'infelice obbedìsilenziosamentedominatocome un essere inferioreda un sensofrapauroso e sdegnosodell'autorità. Il Direttore si unìai dueparlò allo smarrito Pierocon la sua filosofiaserenadi Amletoche stavaleggendodelle geniali divinazioni di Shakespeare nel rappresentarele frenosidi quel curiosissimo Amleto che simula la pazzia e non siaccorge di essere davvero non solamente un nevrastenico ma proprio undeficiente.

Sullapiccola scala del quartierino abitato dalla inferma incontrarono lamarchesa Neneche accolse il genero con un sorriso tranquilloconun che di risoluto nel viso e nella vocenon riuscendo però areprimere e nascondere quella sovreccitazione nervosa che la tenevacontinuamente in moto. Gli accennò di affrettarsi. L'Elisadesiderava vederlo almeno un momento prima di essere visitata dalprofessore di Bologna. Presto! Si capiva che la marchesa non volevaparole affettuose nè lagrimeche resisteva eroicamenteall'angoscia perchè intorno all'ammalata tutto fossetranquillonessuno perdesse la testa. Aveva mandato il piagnolosoZaneto a riposare. Resistette al genero che voleva abbracciarla.“Vienivieni!” diss'ella. “Sii forteforte!”come se parlasse al più innamorato dei mariti.

Ellalo precedette nella stanza sacra del dolorecaldascurasilenziosa. Mormorò con tenerezza sorridente: “Èqui Pierosai; un momentoun momento solo!” e si fece daparte. Egli entròscorse appenanell'ombrail biancor fiocodel lettola figura fosca della suora infermierache si era levatain piediudì una debole voce dolce dire: “Apra un poco”e mentre la marchesa diceva piano: “un pochettosa suoraunpochetto solo” si appressò in punta di piedi al lettolavide.

Eranoquasi tre anni che non la vedeva così da presso e gli parvetrasfigurata. Il visoda bianco e roseo ch'era statomostrava orasotto le accensioni della febbre il pallore caldo dell'avorioilnaso si era venuto affilandogli occhi parevan tanto piùgrandipiù scuri e più lucenti.

Maiquel viso non era stato così bellocosì penetratod'anima.

Glitese le bracciagli prese il capolo raccolse a sèglisussurrò sulla bocca “grazie” ed egli la baciòappenaquasi non osando.

“Cheti veda!” diss'ella a stentotanto il respiro era affannoso; eravviandogli lentamente con la mano i capelli sulla fronte ch'egliaveva rialzatalo guardòlo guardò con i grandi occhiscuri fissidove scattavanoalternandosiscintille di dolorescintille di tenerezzasorrisi di pace.

“BastaElisabasta” mormorò la mamma.

L'infermapiegò il viso a destraposò le labbra sul braccio delmarito.

“Addio!”diss'ella. “Dopoverotorni? Ho tante cose!”

Pierosi chinò a baciarle l'orecchio scopertovi mormorò:“Per sempre tuosai”.

Ellachiuse gli occhibeatae rispose:

“DelSignore.”



III


Nelcorso della giornata si manifestò un lieve miglioramento. Ilprofessore di Bologna aveva necessariamente stancata l'inferma congl'interrogatori e le auscultazioni; le aveva quindi prescritto ilpiù assoluto riposo. La diagnosi era stata conforme a quelladei due medici curantila prognosi meno pessimista. Il pericolo erache al cader della febbre l'ammalata si spegnesse per esaurimentomail professore confidava nelle risorse di un organismo giovane e anchenei mezzi dell'arte. Egli aveva tenuto il suo discorso nel salottinoattiguo alla camera dell'ammalatarivolgendosi particolarmente allapersona che gli era stata presentata come il marito. Riuscìduro a Piero di sostenere quello sguardodi accettare quellapreferenza immeritata. Avrebbe voluto dire: "Parli a sua madreio non son degno'. Neppure si credeva degno di mostrare la suacommozione vera; ne vergognava quasi come d'una ipocrisia. Ilprofessore non intendeva ripartire prima di sera. In città siera subito saputo della sua venuta e tre o quattro richieste diconsulti erano arrivate allo Stabilimento prima di lui. Pierodesiderava che ritornasse da sua mogliee uscì con esso dalsalotto per dirglielo fuorida solo a solocon tutto quel fuocod'affanno che sentiva in sèche non avrebbe voluto mostrareagli altri. E lo supplicò di aprirgli la verità intera.Il professore l'aveva dettanon poteva che confermare le sue paroleprecedenti. “Speriamosperiamo” diss'egli. “Vedo chelo meritano tanto tutti e duepoveretti.” Piero strinse escosse le manisenza parlarea quell'uomo buono che sempre piùsi persuase del proprio intuitodella diagnosi morale improvvisatacosì sui due piedi.

Versole quattro del pomeriggio l'inferma dormivavegliata da sua madre.Nel salottino don Giuseppe stava leggendo il breviario e Zanetomolto confortatoparlava sottovoce a Pierorimescolava certi suoivecchi ricordi del luogod'una sua zia che vi era stata curata ingioventù. Egli mise poi il discorso sull'asilo campestre chesua moglie era venuta disponendo per la figliuolasulla opportunitàdi passarvi l'autunnosul soggiorno da scegliere per l'inverno.Quando ebbe sparse tutte queste rose sull'entrata d'un discorsospinososi arrischiò a mettervi un piede.

“Miè stato parlato” diss'egli “di dubbi che avresticirca la provenienza della tua sostanzadubbi che ti impedirebberoun atto di assoluta proprietà. Non lo dico per nientesai!Non lo dico per niente! Te ne parlo per il puro tuo interesse. Sitratta di una questione che conosco. Ne ho udito discorrere in casamia da giovinettopiù voltee anche poida uomo. E` unaquestione che non è questione. Si tratta di un testamentoannullato per non so quale difettose di datase di formased'altro. Ora questo considerar poco i difetti di forma saràgeneroso ma non è giusto. Il difetto di forma riflette sempreun dubbio sulla sostanza! Domanda a qualunque direttore dicoscienza...”

"Nessunodi costoro farà mai per me' pensò Piero; notò inpari tempo che l'ascetico suocero e la scettica Jeanne venivano pervie diverse a incontrarsi con l'egoismo sulla stessa cattedra diconsiglio.

Lamarchesa Nene porse il capo dall'uscio e chiamò Piero. L'Elisasi era svegliatalo voleva. Mentre il genero entrava ella uscìgli disse sorridendo con un'aria di compiacenza quasi affettata chel'Elisa la cacciava di camera. E soggiunse piano: “Pocopocopoco!”.

Lasuora era uscita prima. L'inferma accennò al marito di sederepresso il lettodal lato opposto alla finestragli sorriseglistese la mano. Egli baciò la piccola mano di avorioaridacaldae la tenne fra le sue.

“Meglionon è verocara?”

Ellaporse le labbra nel disegno di un bacio e mormorò come se nonavesse udito:

“Mirincresce tantoadessodi non avere avuto un bambino.”

Pieroprotestò. Perchè parlava così? Non sapeva cheguarirebbe? Che i medici n'erano sicuri? L'inferma non risposegliaccarezzò le maniguardandolee dopo un momento disse convoce appena intelligibile:

“Domanisera...”

“Cosadomani sera?”

“Frale sette e le nove” diss'ella.

Pieroebbe una stretta al cuore. Forse la mente di lei si oscurava da capo?La richiamò:

“Elisa!”

Alloraella lo guardò un momento in viso e gli ridiscese quindi congli occhi alle mani continuando l'amoroso moto delle sueaperse lelabbra. Piero non intesesi chinòraccolsedurando ellasempregrave in visoa guardargli e accarezzargli le maniquestoalito:

“Domaniserafra le sette e le novevi lascio.”

Eglisi sentì gelare il sanguepensò alla divinazione deimorentinon seppe lì per lì articolar parola. Poi lacontraddisse appassionatamente. Ella gli fe' segnocol dito allelabbradi tacerecome s'egli alzasse la voce contro Dio che volevacosì. Poi mosse un po' il capo su per il guancialegliabbandonò la mano sul bracciolo guardò affannatasupplichevole. Non gli pareva che Dio fosse stato abbastanza buonocon lei?

“Unagrazia grandesaidel Signoreavermi svegliataavermi chiamatacosì. Una grazia grande avervi qui tuttianche quel santo donGiuseppe che mi aiuta. Zittocarozitto.”

Ellatacquelo trasse a sèfece un visino afflittogli bisbigliòsenza guardarlo:

“Nonsono stata una buona moglie - zitto carozitto - noti volevo tantobenetanto tanto e non ho saputo dimostrarlodevi avermi credutafreddaè stato un gran maleadesso lo capisco.”

Glicinse il collo con ambe le bracciagli mormorò all'orecchio:

“Carovuoi che ci perdoniamo tutto? Proprio tuttotutto? Anche quello chetu non sai di me? Anche quello che io non so di te?”

Eglisi staccò dolcemente dal collopiangendole sottili braccias'inginocchiòsi strinse sulle labbra una mano di lei chepure lacrimava. In quel momento la marchesaimpaziente della lungadimora di Pieroaperse l'uscio per richiamarlo. Videtacquesiritirò. Don Giuseppe alzò gli occhi dal breviario aleicredette che uscisse dalla camera dell'infermale domandònotizie. Ella rispose col suo solito sorriso: “Non sovedo chenon mi vogliono”. E anche a lei caddero due dolci lagrime.

Intantol'inferma fece alzare suo maritogli parlò ancora:

“Seitanto giovanenon hai nessunocol tempo...”

Sicommossenon potè compiere la frase. Finalmente gli cinseun'altra volta le braccia al collogli disse ansando:

“Tiricorderai di mevero? Pregherai per me anche allora? Preghi comeuna voltacaro?”

Pieronon rispondeva.

“Nonpreghi più come una volta?”

Nessunarisposta.

“Nonpreghi più? Hai perduto la religione?”

Eglinon potè mentirebenchè ne fosse tentato.

“Perdonami!”supplicò accorato. “Perdonami!”

Soloudìnel silenzio mortalel'affannoso respiro dell'inferma.Ella giunse alfine le mani dicendo piano:

“OhPiero!”

Alzògli occhi pieni di angosciapregò dal fondo dell'animaineffabilmenteofferse per lui le pene sue presenti e quelle attesedella purificazione futura.

"SignoreSignore' pensò "non lasciatemi morire così!' Esubito ebbe un momento quasi di rimorsosi affrettò asoggiungere dentro di sè: "Però sia fatta laVostra santa Volontà'.

Poichiamò con voce fievole:

“Caro.”

Chieseil fazzoletto. Avutolocercò di recarselo agli occhi e lamano le ricadde sulle lenzuola.

“Nonho più la forza” diss'ella. E aperse la mano.

Alloratremantestraziatovolendo pur dire una parola consolatrice e nonriuscendoviegli le terse col fazzoletto gli occhi lagrimosi. Lapoveretta potè appena dirgli:

“Grazie.Chiamami la mamma.”



IV


GliScremindon Giuseppe Flores e Maironi alloggiavano in un piccoloalbergo vicino allo Stabilimento. Dopo la visita del professorechetrovò la febbre ancora piuttosto altauna penosa inquietudinee il cuore depresso ma nessun pericolo imminentedon Giuseppe eZaneto si ritirarono. La marchesa si accinse a passar la notte nellacamera di sua figlia con la suora. Piero rimase nel salotto attiguosdraiato sul canapèsoloal buio. Era stancoaveva il capograve di sopore e tuttavia non si era voluto allontanare di lì.Si addormentò verso le duesognò un caos di figureassurdedi avvenimenti impossibilitanto complicati e lenti cheallo svegliarsi credette aver dormito un secolo. Si rizzòquasi atterritoa sedere sul canapèchiedendosi dove fosse.Nel vano della finestra spalancata luceva un grande pianeta. Tesel'orecchio. Dalla camera dell'ammalata non il più lieverumore; dalla finestra fievoli vocii confusi come di una moltitudinediscorde. Andò ad ascoltare: gridaurla delle agitateda unacasa lontana. Ora si udivan forteoracol mutar dell'ariavenivanomeno. La campagna scuraimmensaera silenziosa come il cielo.Nessun segno di vita. Piero aveva dormito mezz'ora. Gli vennelanguida in mente l'idea che le medesime stelle lucevano sui pascolisui boschi di Vena; e passò. Gl'infiniti occhi delle stelleparevano conoscere la domanda dell'inferma: “Hai perduta lareligione?” e guardar tutti a lui tristamente. Cosa volevano dalui? Egli pure guardò fiso il pianetapensandosenzavolontàpensieri che avevano un ordine in sè ma glivenivano disordinati nella coscienza e misti ad impressioni deisensicomeinsieme a qualche curiososi affrettano confusi gliinvitati di ogni grado al convegno d'un corteo predisposto in ognisua partegiusta norme fisse di precedenza.

"Potevodire: ho la religione della giustizia.' Diose a Vena fosse successaquella cosa! Che orrorepoiesser baciatoesser abbracciato da tepovera creatura! "Che vileche vileche vile!'

Inquesto violento disprezzo di sè gli occulti pensieri glisalivano stridenti sulle labbra. Poi ridiscesero.

"Chesarebbe successo di me? - Tutto sarebbe caduto. Che vile! - Nienteniente niente; la religione della giustizia non mi ha difeso niente.- E` stato il caso: Bassanelli. Proprio un caso? - Jeanne ètanto migliore di mecon tutto il suo scetticismo. Se Jeannecredesse in Dio sarebbe tutta sua. - E i miei presentimenti? Dovefinivano i miei presentimenti? - Tutto un giuocotutto un caso? -Dio mioDio miose io perdessi la mentese io dovessi proprio starper sempre qui dentrofinire come queste che urlano! - Padre miosei tu in quel pianeta? - No no nopadre miopadre miocredosaicredo in Diocredocredoho creduto sempreforse vengo anch'iodove sei tudov'è la mamma! L'Elisa viene da voi ma forse ungiorno vengo anch'io!'

Repressea forza l'onda dei singhiozzi irrompenti dalla gola. Si strinse sulpetto le braccia incrociatesi morse il labbro inferiorele grosselagrime gocciarono silenziose.

Quandoinfine potè dischiuder le labbra eansandoasciugarsi ilpiantoripetè più voltecon infinita dolcezza internama piuttosto ancora macchinalmente che con deliberato consensochecon deliberato propositole parole di Elisa: “Del Signore - delSignore - del Signore”. I singhiozzi ritornavanoli soffocòalzò il viso al grande spettrale pianetaalle stelle. Ahlamorte d'Elisa era scritta negli infiniti occhi tristi del cielo!Pensòpensòpensògli attraversò ipensierilentala visione di Pragliadel grande monasteroabbandonatodelle logge dove fanciullo aveva creduto sentire unappello arcano. La visione passòil pensiero gli venne menoin una nebbia internale stelle gli si oscurarononon ebbe piùsenso che del proprio smarrimentodella frescura umida e dellegridadegli urlidei pianti dal riparto delle agitate.

Trasalìuna mano gli si era posata sulla spallalievemente. Si voltò;la marchesa. Era entrataaveva acceso il lume senza ch'egli se neavvedesse. Elisa desiderava don Giuseppe. Niente di nuovo. Era undesideriocosì; voleva dirgli qualche cosatemeva forse discordarsene. “Che bellezza di notte!” soggiunse dolcementela vecchia signorauditi i gridii lontani delle pazze; e chiuse lafinestra. Dopo aver veduto Piero ginocchioni al letto della suafigliuola in quell'atto di amore e di doloreella gli parlava comeun forte a un debolecon una profonda vena di tenerezzacon la piùdelicata cura di non allarmarlodi non affliggerlo. Gli disse diandar a chiamare don Giuseppedi restare poi all'albergodi dormireun paio d'orealmeno.

“Faichiamare il papà verso le sei” diss'ella“e guardache col caffè gli portino un po' di latte perchè c'èabituato.”

Pierole baciò la mano ch'ella ritiròin frettapertroncareper tornarsene subito dalla figliuola. Le sarebbe cadutoginocchioni ai piedi perchè sentiva che la povera donna nonsperava piùche la sua calmala sua dolcezzale sue vigiliattenzioni erano un miracolo di volontà santa. Andòall'albergo e ritornò con don Giuseppe. Questi entròdall'inferma; la marchesa e la suora vennero ad attendere nelsalottinocon Pieroche il colloquio finisse. La suora cercavastentatamente qualche parola buona; la signora aveva preso benequestoaveva preso bene quelloaveva la sua fisionomia solita. Sistancava col continuo pregarepoveretta. Dopo che ci era stato ilsignorenon aveva fatto che pregare. Mentalmentemagari; ma sivedeva lo sforzopovera creatura.

Lamarchesa osservò che in complesso la notte non era statacattiva. Avrebbe voluto poter pigliare una messala mattina. Lachiesa del villaggio era a due passi. A che ora si diceva la primamessa? Meglio non andare a quella di don Giuseppeper non trovarsifuori nello stesso tempo. La prima messa si diceva alle quattro emezzo.

Nessunotrovava parole piùe si fece un silenzio penoso perchèciascuno sentiva che il colloquio dell'inferma con don Giuseppepareva lungo a tutti. La finestramal chiusasi aperse a un soffiodi ventofurono uditi i gridii confusi.

Inquel momento il vecchio prete rientrò. Subito la suora siavviò a ripigliare il suo posto e la marchesa non potètrattenere un “dunquedon Giuseppe?”non potèinteramente dissimularesul suo povero vecchio viso stancol'ansiadell'aspettazione. Don Giuseppe rispose tranquillo:

“Nientepoveretta. Cose di pietà.”

“Eche Le pare?”

“Ohnessun cambiamento. Forse forse un po' di maggiore debolezza.Vorrebbe avere l'Estrema Unzione fra le sei e le settediceperchèa quell'ora si sente sempre meglio. Questo non può chegiovarele ho detto di sì.”

Lamarchesa fece sommessamente “sì”. Nei grandi occhigravi si dipinsero la riverenza del sacramento e la rassegnazione.Non disse più nullarimase per qualche momento immobileaccasciata; poiper la prima voltasi asciugò gli occhi.Mosse in pari tempo verso quell'uscio e le sue spalle curveil suocapo basso esprimevano il piegar mansueto di un dolore immenso aivoleri di Dio.

Rimastosolo con Pierodon Giuseppe lo fissò silenziosamente involto. Piero non se ne accorseprima; quindi credette che gli sivolesse leggere nel pensiero. Poi nel vederlo mutatopiùtristepiù solennegli balenò cheparlando allamarchesale avesse taciuto qualche cosa. Lo interrogò ansiosocon gli occhi.

“Hail presentimento” disse piano don Giuseppe “di morirestasera; indica persino l'ora.”

Pierochinò il viso.

“Loso” diss'egli.

“Losa? Ma poi c'è un'altra cosa.”

Silenzio.Parve che il vecchio non osasse direche il giovine non osassechiedere. Finalmente don Giuseppe si fece animo.

“Prega”diss'egli “di venir sepolta in Valsolda.”

Pierogiunse le manisbalordito.

“InValsolda? In Valsolda?”

“InValsoldaper due ragioni. Per il rimorso di non aver secondato ilSuo affetto a quel paesedi aver mancatoin certo modoanche versola memoria de' Suoi genitori che sono sepolti là; e poi perchèdice di sentirsi ora tanto unita ad essi nel domandare al Signore unagrande grazia. Sìsì - m'ha detto - preghi Piero chemi lasci andar con loro...”

Lavoce del vecchio discese a un soffioa un lieve alito.

“...come una figlia.”

Pierolo abbracciò stretto singhiozzando.

“Credo...che la grazia...” E più non potè dire.

Rimaserocosì abbracciatia lungo. Finalmente il giovane rialzòil visomormorò:

“Emia suocerapoveretta? Cosa dirà? Non sarà un altrodolore?”

“Neho detto una parola anch'io alla Sua signora. Mi ha risposto: "Ohla mamma è una santa'. E adesso zitto che non ci sentano.”


Lecampane della chiesetta vicina suonano l'Ave Mariadell'albal'inferma chiede che ore sonochiede di vedere il cielodice alla sua mamma che ha dormitoche ha sognato di stare inparadiso con il suo Pierocon leicon il suo papàe anchesoggiunge sorridendo alla suoracon suor Eletta; che la mamma e suorEletta erano tanto luminose ma Piero molto più ancora. Lamamma dice “va làva là” con bonariaplacidezza. Essa le risponde di prepararsi e che sarà prestopresto e che n'è tanto contenta.

Lamamma tacele campane suonanosuor Eletta apre un poco le impostel'inferma vede l'oriente imbiancarsi per lei l'ultima volta.



V


DonGiuseppe celebrò la messa verso le cinque e mezzo. Il parrocodel luogo raccontò poitutto edificatoche non aveva vedutoalcuno celebrare con tanto fervore nella vocecon tanta pietànel voltocon tanto profondi sospiri e aneliticome quel vecchioprete forestiero. Parevadiss'egliche avesse la visione di Cristo!Dopo la messacome lo ebbe aiutato a spogliarsilo lasciò.

Immersonelle preghiere di ringraziamentodon Giuseppe non s'accorse chealcuno entrasse in sagrestia. Alzandosi dall'inginocchiatoio restòsbalordito e sgomento; Piero gli stava davantitanto acceso nelvolto di ansia e di supplicatanto visibilmente tremante le manicongiuntech'egli subito pensò: "è morta!' e isuoi occhi atterriti lo dissero. “Nononodevo parlare!”fu l'affannosa risposta. Don Giuseppe mandò fuori dallasagrestia il chierichettoche aspettava. Intanto Piero si buttòsull'inginocchiatoio ecopertisi con una mano gli occhibatteva eribatteva con l'altra la logora poltrona disposta lì accantoper le confessioni.

DonGiuseppenon sapendo cosa fosse per succederefra proclive erenitentedopo un momento di esitazioneobbedì.

“Nonposso parlar che quinon posso parlar che qui” singhiozzòPieroraccoltesi ambo le mani sul viso. “Ero giàscosso... quando Lei stanottemi parlava della grazia... ma dopo...ma dopo...”

Nonpoteva proseguire. Don Giuseppe gli passò e ripassò unamano sui capellidolcemente...

“Aspettiaspettisi sfoghisi calmi.”

MaPiero neppur poteva tacere e la sua vocepoco a pocosi rinfrancò.

“Dopo...appena Lei era uscito per venir qua... mi son sentito prendere a untratto da un'inquietudineda un'aspettazione ansiosa senza saper dicheda uno struggimento internoda un desiderio di piangere senzapoter piangere. A un tratto mi vidi dentro la fronteo dentro ilpettonon lo soper un momentoper un solo momentoqueste parole:"perchè mi resisti?'. Me ne sgomentaima poi mi sondetto subito: sarà un casouna reminiscenza involontarianiente altro. Mia suocerarientrando dalla prima messaaveva posatosul tavolino del salotto il suo libro di preghiere. Lo apro. Era unaImitazione. Gli occhi micadono sul principio del libro quarto dove sono le parole di Cristo:Venite ad me omnes qui laboratis et onerati estis et egoreficiam vos”.

Adon Giuseppe sfuggì una esclamazione sommessa. Piero lointerrogòavido. Nienteniente; don Giuseppe non avevaniente a dire. Il giovine continuò:

“Miprese un tremitoun gran tremitocome se avessi udito il Signorechiamarmi. Venni diritto in chiesa. Per la strada mi pareva dicamminare dentro un'aria piena di Dio. Mettere il piede sulla sogliadella chiesaveder Lei all'altare e sentire un risveglio di tutta lamia fede di fanciulloun dolore acuto del mio allontanamento da Diodelle mie ripulse ai suoi richiamiuna tenerissima gratitudine dellasua paziente bontàè stato un punto solo.

“Lamessa era al Sanctus.Mi sono inginocchiato. Alla consacrazione mi copersi il viso con lemani e mi vidiveramente mi vidi scritte nel palmo delle mani cinqueparoleproprio le parole che da giovinettonei miei fervorimisticiquando mi figuravo di morireavrei desiderato leggere sullaparete in faccia al mio letto: MAGISTER ADEST ET VOCAT TE.

“Levedevo grandibianche sopra un fondo nero. Poiverso la fine dellamessastando sempre inginocchiato e con gli occhi copertimisuccesse questa cosa terribile: ebbi la visione istantaneafulmineadella mia vita nel futuro e della mia morte. Se chiudo gli occhi lavedo ancora! O mi dicami dicadon Giuseppeho sete di darmi tuttoa Dioma debbo proprio credere che la visione mi viene da Luichesignifica la sua volontà? Perchè se credo è uncomando preciso. Si tratta per ora di una rinuncia completa epiùtardiquando Iddio vorràdi una responsabilitàgravissima da impormidi un'azione personale straordinaria daesercitare pubblicamente nella Chiesa. Sìnon è vero?Debbo crederlo!”

“Deveprima di tutto rimettersi l'anima in pace” rispose don Giuseppe.“Deve ringraziare il Signore che La richiama e pregarlopregarlo con la maggiore insistenza che La illuminiche Le facciaconoscere la sua volontà con tutta quella certezza di cui ècapace la natura nostrafinita com'è nelle sue comunicazionicon la sapienza infinita. Perchè tante volte certa presunzioneumana trova modo di mescolarsi a movimenti pii dell'anima nostra e ciinduce a scambiare per fatti di origine soprannaturale fatti chederivano invece da condizioni anomale del nostro spirito e del nostrocorpooperati da Dio sempreperchè Dio opera tutto in tuttos'intendecon i suoi metodiper i suoi fini imperscrutabilimafatti non diretti a farci conoscere la sua volontà. Vede...”

Quidon Giuseppe parve esitare per un certo imbarazzo e la sua vocediventò più tenera: “... non domandiamo noi alSignore che ci conservi la Sua Elisa? Pensiquesta graziaquantodeve influire sulla Sua vitase ci è fatta o non ci èfatta!”

“OhsìsìDio mioè veroma la visione l'hoavuta!”

“Masìma sì!” fece don Giuseppe. “E il Signorepotrà confermarla. Intanto vi hanno cose che egli sicuramentevuole: rimetterle tutto il Suo debitopiccolo o grande che sia...”

“Grandegrandegrande!” interruppe il giovinedesolato.

“...essere conosciuto e amato da Lei come una voltameglio di una volta.Forse ha qualche altro gran dono in serbo per Lei. Preghiamo esperiamo! E adesso andiamo a consolare quella poverettanon èvero? Andiamo a dirle che le sue preghiere sono state esaudite!”

Pierosi recò alle labbra una manoriluttantedel vecchio:

“VadaLeivada Lei” rispose. “Glielo dica Leiadesso!”

Ilchierichetto entrò per avvertire don Giuseppea nome delparrococh'era vicina l'ora fissata per l'amministrazione dell'OlioSanto all'inferma. Piero uscì dalla sagrestia sentendo che donGiuseppe inclinava a prender le sue visioni per effetti di unasovreccitazione nervosaper apparenze vane. Malgrado se stessonesoffriva. Mentre don Giuseppe gli aveva esposte quelle considerazioniprudentiaveva dubitato anche lui. Poi l'anima sua si vennelentamente componendo in una pace piena di certezzacome acqueagitate posando poco a poco fermano in sè le immagini dellecose imminenti.



VI


Ilsacramento è amministratoil male precipital'inferma nonparla piùla speranza terrena esce a capo chino dalle cameresilenziosele speranze celesti entrano solenni e soaviannunciandocol dito alle labbra un angelo vicinospirando pace e mansuetariverenza persino alle cose. In ogni volto è una compostezzagravenulla si domanda più ai mediciessi pure hanno in visoil rispetto del mistero; don Giuseppe leggepresso al lettoparolesantenon si ode altra voceneppure si osa piangere. Di fronte allamorenteall'arcano che si compie su quel lettoalla solennitàdelle sante parolesolo grandeggia la madre. Hanno studiato diprepararlale hanno detto vagamente il presentimento dellafigliuolatacendo l'ora; ed ellacome se non volesse sapere o segià sapesseneppure volse a chi le parlava i suoi grandiocchi neri sgomenti e severifissi nella divina Volontà. Harisposto in piedipiegata sulla spalliera di una seggiolaallepreghiere del rosario che don Giuseppe disse nel salottino. Nessunaparola le esce più di boccanon si move ad atti di doloremai. La prima volta nella sua vita siede per lenteinterminabili oreallo stesso posto e i medicil'infermiera la guardano di tratto intratto come un'augusta cosaevitando di passarle troppo vicino e nelpassare piegano la fronte.

L'infermanon parla più ma comprende ancora. Ha compreso dolcissimeparole di letizia che don Giuseppesubito dopo il sacramentole hadette all'orecchio; ha sorrisoha cercato Piero con lo sguardoloha visto ritto làle povere labbra si agitarono a piùriprese per parlarenon lo poterono; gli occhi allora dissero tuttola gioiala tenerezzapersino un umile ossequio; si alzarono alcielo; ridiscesero; ancora le povere labbra si mossero invano. E adon Giuseppeche lo guardavail viso di Piero apparve trasfiguratonon dal doloreda un'energia spirituale sovrumanaluminosa e muta.

Leore passano lenteinterminabilibrevi soste interrompono il camminodella mortei medici tentano qualche penosa inutile difesa; Piero liprega con autorità che lascino il bramoso spirito uscire inpace. Vengono letterevengono telegrammi chiedenti notiziebeneaugurantinè la marchesa nè Piero li voglion vedereson messi da parte. Viene dalla stazionealle cinque di serailfattore di casa Scremin col pretesto di prender notiziein fattoperchè pensa che se la signora muore si avrà bisogno dilui. Domanda se si debba trattenere. Si tremasi evita di guardarsinon si risponde. Quegli si ritira senza richiamo nè saluto edè il Direttore che gli dice di restaredi aspettareall'albergo. Suonano le sei. Coloro che sanno pensano:

"Forseun'oraforse dueforse tre ancoranon più.'

IlDirettore insiste perchè la famiglia e don Giuseppe prendanoqualche cibo ch'egli ha fatto preparar loro nel suo proprioquartiere. Don Giuseppe e il marchese si fanno portar qualche cosanel salottino; Piero e la marchesa non si muovono dalla camera.Suonano le sette. Forse due ore ancora.

Perle finestre spalancate si vedono spegnersi nel settentrione ad una aduna le cime accese delle montagnesalire l'ombra.

Lecampane della chiesetta vicinadella città lontanasuonanol'Ave Maria della sera eposano. Stellestellestelle si accendono in oriente. La campanadella chiesetta ricomincia a suonaresuona ad agonia.

Sonole otto e cinquanta minuti. Don Giuseppe recita ad alta voce lepreghiere per i moribondiaccosta e riaccosta il crocifisso allelabbra smorte della travagliata che non odenon vede piùtutti della famiglia e suor Eletta pregano ginocchionil'angelo diDio entra. Si fa un silenzio sepolcraleè udito il passo diun viandanteun canto lontano nei campi. Il medico si china sulvolto più bianco del guanciale ove posailluminato da unsorrisosemiaperta la bocca e immobile; guarda don Giuseppetacendo. Don Giuseppe si china puregiunge le manisi rialzadicecon voce sommessadevota come all'altare:

“Nonè morte. E` lume di vita eterna.”

Unsolo fiore non perdette per lei l'ora sua brevela madre non nevolle sul letto funebre.



VII


Versomezzanottein uno stanzino dell'albergo ammorbato di muffeal lumedi una candela di segoPiero e don Giuseppe ragionavano insiemeabassa vocedella mortadell'occulto tesoro spirituale ch'era statoin lei.

“Avevain questo la natura di sua madre” disse Piero.

Alloradon Giuseppe sospirò.

Stetteper qualche momento immobile e mutoquasi a considerar mentalmentela madre mirabilee poi si levò di tasca un astucciodicendoche gli doveva consegnare qualche cosa da parte di lei appunto. Tempoaddietroquando era venuto dal manicomio quel s'ofropieno di angoscia e di speranzala marchesa aveva segretamenteincaricato don Giuseppe di far incidere in una medaglia d'oro paroleappropriate a un dono che l'Elisa risanata ne farebbein memoria delbeneficio divinoal marito. Partendo al richiamo del Direttoreell'aveva preso con sècome un auguriola medaglia che oradon Giuseppe era per consegnare in nome di lei a Piero come unareliquia. Sopra una faccia della medaglia si leggevanoin giroleparole di Cristo:

VENITEAD ME OMNES QUI LABORATIS ET ONERATI ESTIS ET EGO REFICIAM VOS.


Sull'altraera incisonel mezzo:


REFECITNOS

MEREDDIDIT TIBI

ETTE MIHI.


Pieroprese la medaglia eleggendovi le parole di Cristomise unaesclamazionecome nella sagrestia della chiesetta l'aveva messa donGiuseppe udendo da lui che il caso gli aveva posto sott'occhio quellestesse parole. Le considerò a lungo eabbracciato ilvenerando vecchiolo pregò di farvi aggiungere qualche cosauna cosa ch'egli stesso aveva detto.

“Vorrei”soggiunse “che si leggesse così:


REFECITNOS

MEREDDIDIT TIBI

ETTE MIHI

INLUMINE VITAE”.


Stavoltafu don Giuseppe che cinse d'un braccio il collo del giovaneteneramente.

“Esa la mamma” disse Piero dopo un lungo silenzio “dove saràportata?”

“Losa.”

“Quandocrede che partano i miei suoceri?”

“Domattinaalle cinque. Partiamo insieme.”

“Ohdon Giuseppedon Giuseppe!” esclamò Piero. “Io hobisogno di Lei!”

“Possorestare fino alle undici” disse don Giuseppe “o anche finoalle quattro.”

“Nono! Ho bisogno ch'Ella venga in Valsolda con me. Con me e con lei!Ne ho bisogno per cominciare quello che Iddio mi comanda!”

“Bisognodi me?” Don Giuseppe esitava.

“Nonho dubbiorasa” disse Piero interpretando quell'esitareappunto come un dubbio circa il carattere delle sue visionidellasua vocazione.

“Mase non son buono a nulla! Se non ho nè attivitànètestanè...”

DonGiuseppe s'interruppe. La mano del Signore pareva essere su quelgiovaneadesso. Poteva il più guastoil più miserostrumento dire a una tal Mano: "Con me tu non farai niente'? Lesue proteste finirono in un borbottamento di parole rotte come la suaresistenza. Intanto nè lui nè Piero si erano accorti diun reiterato bussare. La persona che bussavanon ottenendo ascoltoaperse l'uscio. I due si alzarono in piedi; entrava la marchesacurva e neracol cappello in testacol velo calato. Come? Adessopartiva? Sìavevano pensatosuo marito e leiper tanteragionidi rinunciare alla ferroviadi prendere una carrozza.

Sipoteva così partire subitoarrivare a casa prima del sole.Detto questo con voce gravema tranquillasedette e tacqueansando. Don Giuseppe sentì che la sua presenza in quelmomento non era opportunauscì silenziosamente.

Pieros'inginocchiò ai piedi della suocerale prese una manose lastrinse sulla boccaed ella gli posò sul capoansando un po'più di primal'altra manoil muto suo perdonola sua mutabenedizionela sua muta carezza nel nome della figliuola morta.Tutto quello che i due avevano a dirsi fu detto cosìa lungoa lungosenza vocesenza moto. La vecchia signora non avrebbevoluto parlare altrimenti.

Finalmenteanche per liberarsi dal timore che parlasse luiche toccasse ilpassatol'argomento abborritogli consigliò di andar ariposare.

“Avraiil viaggio” diss'ella.

Intendevail viaggio in Valsolda con la salmail viaggio che non era possibileprima di altre ventiquattr'ore almeno. Ma Piero non si mosse. Parevapure attenderlauna parolao forse volerla dire. La marchesa cercòritirar la mano ch'egli stringeva fra le proprie e poichè lasentì trattenutasuppose uno spasimo di doloredisseteneramente che certo il Signore aveva disposto così per ilmaggior bene.

MaPiero non voleva liberarle la mano. Ell'attese un poco e poi gliosservòesitandoch'era forse venuto per suo marito e perlei il momento di partire.

Pieronon lasciò la mano. La marchesa pensò che per ilgiovane ella era come una parte sopravvissuta della sua Elisachedoveva riuscirgli amaro di separarsi da lei oraper questo. Glidomandò quando sarebbe ritornato; e subitosenza confessarnea se stessa il pauroso perchèsi affrettò asoggiungere che sarebbe andata lei a trovarlo in Valsolda. Primadisse pietosamente: “A trovarvi”. Poi si corresse: “Atrovarti”. E parlò di un'epoca lontanadel novembreammettendo che l'assenza di lui si protraesse anche più in là.

“Unaparolamamma. Non so quando ci rivedremo.”

“Come?”

Pierosi rizzò in piedi e appoggiate lievemente le mani alle spalledi leile parlò sottovoce all'orecchio.

Ellasulle prime non comprendeinterroga. Non comprende ancora e da capointerroga. I grandi occhi neri si empiono di stuporedi sgomento efinalmentedi lagrime. Qualche altra domandaqualche breve sommessadomanda; egli le parlale parla all'orecchiole lagrimesdrucciolano sul volto rugoso.

Unadomanda ancora.

“Dove?”

Egliancora non risponde.

“Haiparlato a don Giuseppe?”

“Sì.”

Sonaglieredi cavalli al piccolo trottolontane; crescente suono di ruote e dizoccoli sul ciottolato: rallentar del trotto e del fracasso fin sottola finestra; silenzio.

“Allora”dice alzandosi la marchesa “vedertimai più?”

“Questolo sa il Signore.”

Ohanche per leianche per leiadessoPiero era come una parte diElisa! Si asciuga gli occhiil fazzoletto le trema nelle manipovera creatura. Abbraccia suo genero così stretto che diquesta cosa tanto nuova egli ha una commozione infinita. Passi sullascala.

Ilmarchese che viene in cerca di sua moglie. Ella riprende subito ilferreo dominio di sèsi richiama al dovere verso il maritoquale lo ha sempre inteso. Mormora:

“Nondirlo al papàpovero papà.”

Zanetoentra.



VIII


DonGiuseppe si meravigliò moltoritornando nella sua cameraditrovarvi il Direttore del manicomio che lo aspettava. Aveva undiscorso riservatissimodelicatissimoa fargli. Don Giuseppe nonsapeva immaginare di che potesse trattarsi.

“Lofaccio a Lei” disse il Direttore “per il concetto che mison fatto di Lei in questi due giorni e perchè proprio non mison sentito il coraggio di farlo agli Scremin in questo momentonèforse sarebbe mai stato opportuno. Mi dicadon Giuseppe; cosa pensaLei di Maironi!”

“Io?”

DonGiuseppesbalorditosi domandò il perchè di unadomanda simile.

“Nonso” diss'egli. “Penso che ha sentito molto questo colpomolto piùforsedi quanto si sarebbe potuto credere.”

“Eniente altro?”

Possibilepensò il preteche sappia delle visioni? Nonon èpossibile. “Niente altro” diss'egli.

IlDirettore sospirò e don Giuseppe gli domandò cosa fossenel suo pensiero.

“Nelmio pensiero” rispose quegli “vi è che bisognaportar via quell'uomo il più presto possibilee poi nonabbandonarlo a sè.”

“Perchè?”

DonGiuseppe non riusciva ancora a capire.

“Perchèa mio vederele sue disposizioni di spirito sono tali da nonescludere la possibilitàlo dico chiaroche un giorno ol'altro egli prenda qui il posto lasciato da sua moglie.”

DonGiuseppe mise un'esclamazione di stupore e di protestama ilDirettore non ne fu scosso.

“Senta”diss'egli “Piero Maironi m'interessa da un pezzoper il miomestiereequando veniva qui spessol'ho studiato molto. Non dicoche sia un nevrastenicoma insommalasciamo i termini scientificida parteè un nervoso per eccellenza. Quando veniva piùspessoiostudiandolo in certi suoi fervori religiosiperchène ho avuto prove anche qui nella nostra chiesetta internain certeintolleranze di ogni minima parola un po' liberain certi attistrani come il costante suo rifiuto di visitare il riparto dellepazzemi sono formato un concetto di lui come di un uomo pioausteroma non fatto per il celibatoche soffrisse della suaforzata separazione dalla moglie e ne soffrisse tanto da poterneavere il sistema nervoso profondamente offeso. Poiavendo uditoparlare di una relazionepensai - mi perdoniparlo da medico - cheforse tutto il male non veniva per nuocere. Ma oggi qui èsuccesso qualche cosa che mi ha fatto paura. Stamattina fra le diecie le dieci e mezzoforse Loro non se ne sono accortiMaironi èandato nella nostra chiesina dove credeva che non ci fosse nessunomentre invece in sagrestia v'era un inserviente. Ora l'inservientegli ha veduto fare delle stranezze gravissimegemereguardar ilCrocifisso con una faccia di allucinato. Lei mi dirà che anchei santi facevano cose simili. Io rispetto i santinon vogliodiscutere nemmeno santa Teresa; ma crede Lei che ve ne siano ancorasanti? Ne dubito! Adesso vi è l'isterismo e vi è lamanìa religiosa. Per mequelli di stamattina erano atti dimanìa religiosa; può darsi benissimo che restino sempredentro certi limiti di tempo e di misurama può anche darsiche progrediscano.

Eadesso Lei capisce la ragione del mio discorso. Credo proprio di avercompiuto un dovere.”

“Eh!”fece don Giuseppetristementea capo chinocome persona che inmateria grave non ha nè può avere la certezzadesideratama inclinerebbe a un'opinione diversa da quella che lo fapensoso: “Grazie”.

L'altroprese congedo.



IX


Finitodi recitare il rosario col maritoconsigliatogli di prender sonno sepotevaaccomodatogli il suo scialle sulle ginocchiala poveravecchia marchesa si rincantuccia in un angolo della vettura chiusa eprega tuttavia. Prega per l'Elisa benchè non dubiti che sia inparadiso; e prega perchè Piero non s'inganniperchèmaturi una risoluzione che a lei pare quasi pazza. E pensapensaquesta cosa incredibilepensa che ne scriverà a don Giuseppe.La sua mente va mulinando disegni di avvenire per il generoper ilmarito. Se lei morisse e Zaneto restasse solo! Lo colloca nella suavillacolloca Piero nel quartierino ch'era disposto per l'Elisaordina la loro vitafa e disfà combinazioni senza fineordiscepure senza finesottili fila di complicati disegni che ilvento notturno disperdesecondata dall'eguale monotono trotto deicavallidalle scosse cadenzate delle sonagliereche paiono battereanch'esse una via senza finesenza fine.



X


Pocoprima di quella stessa mezzanotteJeanne esce quasi furtivamente dalsalotto di villa Cerri dove il maestro e una violinista fortissimasuonano un turbinoso allegroche vaper le finestre aperteai boschi e ai prati della montagna.Esce nelle tenebre freddesi appoggia alla sbarra che corona ilbastione semicircolare sulla fronte della villa. Non sa perchèPiero sia partito; sa che non ha scritto poiche non vorrebbe piùamarlo e invece non può amare altro al mondonon puòpensare ad altro. Si china verso l'abisso profondo e piange. Sentech'è finitoche quell'ultimo baleno di passione èpassato invanopiù nei sensi che nel cuore di lui. Si diceche forse potrebbe riconquistarlo simulando una conversionema cheil morire le sarebbe possibileil mentire no. Dalla nera valle aisuoi piedi risale con lo sguardo l'opposta montagna fino al cielotrova una fascia di nebbionel'aperto sereno e le stelle. Dafanciulla credeva in Dio. Sarebbe un dolce rifugioadesso! Ma comecredere in Dio? Come da esseri così mobilicosìmisericosì effimeri può essere fondato un Assolutocosì grande? Come può essere Dio altro che un desideriodi quello che a noi manca? E se veramente Dio esistesse anche solocome quell'assoluta giustizia di cui Maironi è diventatofanaticonon si dovrebbe vedere questa giustizia in tutto che nondipendeneppure in partedalla volontà umanain tutto chedipende da lei sola? E invece dov'è? Perchè dovrebbesoffrir tantolei? Questo amorese lo è forse dato?

Ilpezzo è finito ed ella si ricompone quanto puòrientrachiede distrattamente:

“Chemusica è?”

Suofratello si scandolezza. Come non ha riconosciuto il primo allegrodella Kreutzersonate?

“Lochiamano un allegro”soggiunse. “Io lo chiamo un impasto dei dolori di due animequella del piano e quella del violinodolori che sono necessari perfar nascere una cosa grande.”

“Mipare” osserva timidamente la signora Cerri parlando a Jeanne“che qualche volta succeda così anche nella vita. Non tipare?”

Jeannetace.




CAPITOLOOTTAVO


SENZATRACCIA


I


Datre giorni la gracile spoglia dello spirito asceso alla Vita posavadentro il piccolo cimitero bianco fra le vitigli ulivi e gli alloridella terra gentilepoco sopra lo specchio del lago. La nottecadente era inquieta. Raffiche alternate a lunghi silenzi delle cosesuonavano sul lagoper le riveper gli oleandri e i rosai dell'ortoMaironichini sulle onde; rombavano nel pino a ombrello sopra lapanca dove Piero e don Giuseppe stavano a colloquiocurvavano lesottili aste nere dei cipressi allineati a monte dell'ortolungo ilmuro di cinta. Il chiarore della luna traspariva per un latteo drappodi nuvoleteso dai profili morbidi della Galbiga e del Bisgnago allerupi selvagge del picco di Cressogno e alla fronte uniforme delBoglia; e talvolta ne traspariva un momento la stessa velata immaginedell'astroimbiancando la neve degli oleandri in fiorefogliami erosela ghiaia del vialel'alto fianco della chiesetta di Oriailvecchio rustico campanile imminente all'orto. Era una notte inquietanel cielo come sulla terra; e anche il colloquio sotto il pino erainterrotto da silenzi pieni di aspettazioneagitato da repentinisoffi dello Spiritoilluminato da qualche cosa di nascosto che oratraspariva ora si ritraeva. Don Giuseppe di tratto in tratto parevaaccasciato sotto un gran pesooscurato nell'anima; di tratto intratto si trasfiguravasi rialzava tutto acceso la gran frontegliocchil'accentoil gesto. Il contegno di Piero era invececostantemente grave; il fuoco de' suoi occhi ardenti pareva piùinternole parole avevano un che di pacato e di fermoaffatto nuovoin lui. Semprequando tacevan le cosedon Giuseppe era il primo arompere il silenzio in cui egli e Piero si accordavano quando esserumoreggiavan più forte nel vento. E allora era quasi sempreuna specie di soliloquio che gli usciva di boccaun crucciosoritorno del pensiero alle difficoltà di certo còmpitoaccettato irrevocabilmenteoramai. Cinque ore primamediante unatto rogato dal notaio di PorlezzaPiero gli aveva ceduto tutti isuoi beni; e la intelligenza fra loro era che don Giuseppe si sarebbeassociate certe persone già designateglile quali loavrebbero aiutato a istituire una specie di Cooperativa di produzioneagrariacapace di estendersi e apertaentro certi limitiaivolonterosinella quale la terraconsiderata come uno strumento diproduzionefinirebbe col diventare proprietà sociale e lenorme statutarie avrebbero un carattere cristianocosicchè ilfine cristiano dell'associazione compenetrerebbe in sèdominandoloil fine economico. Se l'esperimento non venisseapprovato dai consiglieri di don Giuseppe o non riuscisselasostanza mobile e stabile verrebbe divisa in lottiche siassegnerebbero prima in usufrutto edopo un certo periodo di provain proprietàa famiglie scelte di contadini. Quest'ultimadisposizione era stata suggerita da don Giuseppe che solamente cosìsi era indotto ad accettare la cessione e l'incarico di unesperimento nel quale non aveva fiducia. Se Piero non lo aveva benfatto persuaso della opportunità di creare un tipo diassociazione apertadentro i limiti del possibiledove il capitalesociale fosse essenzialmente la terralo aveva però fattopersuasocol tranquillo vigore del ragionare e con la gravitàdel contegnoche l'intelletto suo era ben solido e fermo.

Glieneaveva dimostrato l'acume sereno anche con lo scrupolo espressogli chequesto suo disporre dei beni ceduti per date opere fosse untrattenerne indebitamente la proprietà ideale; ciò chein coscienza don Giuseppe non aveva potuto ammettere.

“Miperdoni” uscì a dire il vecchio prete “se ardiscofarle una domanda indiscreta. Nella Sua visionec'era questa idea?”

Mainon si era accennato fra loro alla visione dopo il giorno doloroso esolenne. Nè don Giuseppe si era più avventurato aparlarnenè Piero vi aveva alluso.

“No”diss'egli “quest'idea è frutto di un lungo lavoro mentalee si è ora come rinvigorita in me di sentimento cristianoperchè io penso che realmente la confisca della terra abeneficio di pochi sia una cosa ingiusta e che se si formassero deinuclei così ordinati sarebbero elementi di risanamentosociale. Ma per me si tratta solamente di dare il mio ai poveri non acasodi darlo secondo un'idea di giustizia. Ho avuto in mente unmese fa di spogliarmisenza sentimento religiosoper una giustiziaparticolarecome Le ho raccontato. Adesso comprendo che non eraragionevole e che faccio meglio a spogliarmi per una giustiziagenerale. La visione non riguarda che il mio avvenire dopo larinuncia.”

“Mipare” osservò don Giuseppetimidamente “ch'Ella miaccennasse a due parti distinte della visione.”

“Sì”rispose Piero “ma nella seconda parte...”

Rumoridi remi e di voci. Una barca si appressavapassò lenta sottoil muro dell'orto. Ritornato il silenzioPiero cinse d'un braccio ilcollo a don Giuseppe.

“Miperdoni” diss'egli “preferisco non parlarne. Intendo dellamia visione. Me ne sento anche indegno!”

“Unasola parola: Ella persiste a crederla soprannaturale?”

“Quelloche m'appare oggi è che la visione sia soprannaturale inquanto si accorda con certe voci misteriose che mi hanno parlato ditempo in tempouna volta; e in quanto mi addita una via di povertàdi penitenza e di preghiera. La credo anche soprannaturale in quantomi addita un'azione futuraesterna. In quanto invece mi preannunciadati avvenimentiio non presumo nienteaccetterò dalla manodi Dio quel ch'Egli vorrà. Ho però creduto debito miodi scrivere la visione. Sta già in un plico suggellato ch'Ellacustodirà perchè si apra dopo la mia morte.”

DonGiuseppe sorrisefece un gesto come per dire ch'egli morrebbecertamente prima.

“Ellasceglieràin ogni caso” soggiunse Piero “la personafidata che lo apra.”

Leombre che il nome della morte sempre vaporale ombre di unimmaginato avveniresolenne e tragicoavvolsero i seduti. DonGiuseppe venne ripensando e comparando certe parole dettegli da Pierosubito dopo la visionecerte parole del colloquio presente. A qualemissione nella Chiesa di Dio poteva essere chiamato quel giovane? Glisorgevano nella mente profonda tante supposizioni diversevi silevavano tanti dubbiosi desideri antichi circa una riforma cattolicadella Chiesanon espressi mai chiaramente ad alcunoforse neppurechiaramente concepitianche per impedimenti di ossequio e di umiltà.Uno stormir fischiante corse per la costauno strepito per le riveuna veloce ombra nera sul lagocui l'alto fragore del pino rispose;e in pari tempo uscì la luna curiosairradiando le nevi deglioleandri in fiorefogliami e rosela ghiaia dei vialil'altofianco della chiesail rustico campanile imminente all'orto.

Nelpensiero profondo di don Giuseppe disposto alle intime comunioni conla natura come alle intime comunioni con Dioil dramma del ventodella luna e delle ondeil dramma di quell'animaprima oscuratadalle passioniora misteriosamente illuminata dallo Spiritosiconfondevanosi compenetravano in uno solo.

Qualcunoentrò nell'orto. Il custode veniva a dire che le chiavi delcamposantorichieste dal signor padroneerano state portate in casae che vi era pure stato portato per lui da S. Mamette un paccopostale.

Passandonell'avviarsi verso casapresso il vecchio rosaio dalle roseincarnatinePiero si fermò.

“Lelascerò scritto anche questo” diss'egli “ma Leraccomando pure a voce che le suore abbiano ogni cura degli oleandriche sono ancora quelli piantati da mio padredelle rose eparticolarmente dell'arancio e del mandarinonel giardinetto.”

Lavilletta dove Franco e Luisa avevano tanto amato e soffertodove laepica bontàla serenità magnanima dello zio Piero eranpassate beneficandodove la piccola Ombretta era mortaavrebbeaccolto le suore convalescenti di un Ordine scelto da don Giuseppecon una scuola di lavoro e di economia domestica per le giovinettedel Comune di Albogasio.

“Ellapotrà tenersene informato” suggerì don Giuseppe.Il giovaneper tutta rispostasi chinòposò lelabbra sopra una rosa.

“Ahdon Giuseppe” diss'egli uscendo dall'orto “quanto possodire al Signore: quaerens me sedisti lassus!Quante volte non mi ha richiamato e io mi ostinavo a perdermi! Anchecon la Sua cara ultima lettera! E` stato perchè tutto io debbariconoscere da Lui e nienteproprio nienteda me.”



II


Ilpacco venuto dalla posta era in sala. Piero lesse sul timbroaccostandolo al lume: VENA DI FONTE ALTA.

Loposò eprese le chiavi del Camposantodisse a don Giuseppeche usciva per alcuni minuti. Rincasandolo troverebbe alzato? DonGiuseppe si sentiva stanco e desiderava scrivere una lettera prima dicoricarsi. A proposito di questa lettera: che intenzione aveva Piero?Don Giuseppe avrebbe desiderato partire presto e intanto annunciareil suo arrivo.

“Facciacome crede” rispose Piero “scriva come vuole.”

Ilvecchio riguardoso amico non osò domandare più in là.

Pierosi avviò soletto al Camposanto. Il vento e il lago tacevano.Colonne di cipressifrondose vette di ulivifronti di montagnenereggiavano sull'eguale albore del drappo sottile di nuvole. Ilsentieroil pendìo erboso a sinistrai campicelli a destralungo l'acqua dormente eran grigi di luna velata. Per via Piero nonincontrò anima viva. Sugli scalini del Camposantopresso ilcancelloera inginocchiato un vecchione cencioso cheudito Pierosaliresi alzò e guardatolo gli disse timidamente con unsorriso d'idiota: “S'era chí a di sü on poo de benper i me vecc. Lü l'è ben el fioeu de la poera scioraLüisa? La me n'a faa inscí tantodel benla Soa mamm!L'era ona gran donna!”

Avutauna copiosa elemosina se ne andò zoppicando e borbottando:“Vardè on poovardè un poo!”.

Pieroaperse il cancello escopertosi il capoentrò. Quasi infaccia al cancelloa sinistranel muro addossato al monte stavanoquattro lapidi di marmo bianco. Nella prima era inciso:

LAPICCIOLETTA VESTE GENTILE

DIMARIA MAIRONI.



Nellaseconda:


INGEGNEREPIETRO RIBERA

GRANDECUORE PROBO

INPACE.



LaMorte aveva dispostocon le sue discese ordinateche la bambinasoave e il vecchio uso tenerla sulle ginocchiacantarle “Ombrettasdegnosa” fossero ancora vicini. Nella terza lapide si leggeva:


AFRANCO

INDIO

LASUA LUISA.



Nellaquarta:


ALUISA MAIRONI RIGEY

PIEROMAIRONI

IGNARODELL'ASCOSO MATERNO VOLTO

SOSPIRANDO

POSE

1882



Nellanotte chiara i caratteri neri delle epigrafi si leggevanodistintamente. A sinistra dell'ultima lapide la terra smossa indicavail riposo della povera Elisa.

Pieros'inginocchiò sull'erba e piegò il viso. Le sue labbranon si movevanoneppure una fibra della persona si moveva. Parveimpietrato nella preghiera riverentenell'attitudine di chi sentissependersi sul capo diafane mani benedicenti. Quando alzò ilviso la luna era discesa occultamente al tramontoil campo sacro ele mura si erano oscuratele quattro epigrafi non si leggevano piùle mani benedicenti si erano raccolte su al loro soggiorno dimistero.



III


DonGiuseppe si attardò a contemplare il lagole ombre dellanotteun lontano lume alle falde del San Salvatore. Quantopensavaerano mutati gli uomini in Valsoldada buon tempo antico e quantopoco le cose! Al tornare di Piero gli porse le mani per una strettasilenziosa che significava: so di dove vieni.

“Leinon ha aperto ancora il Suo pacco postale” diss'egli.

Ilcustode si offerse di aprire questo pacco e Piero gli disse chefacesse pure. Poiaccesa una candelacondusse don Giuseppe nellavicina camera dell'alcovagli disse che il pacco veniva certamenteda “quella persona”. Erano certamente fioriper ilCamposanto. Egli non ve li avrebbe portatisi era interdetto pocoprimanell'ortodi cogliere una rosa per suo padre. Ma desideravaparlare a don Giuseppe della “persona”.

“Credo”diss'egli “che tornerà in principio di settembre a villaDiedo e allora vorrei che Lei la vedesse.”

Entròil custode con il pacco aperto. Era infatti una scatola di fiorisciolti. Accompagnava i fiori questa sola carta di visita:

CARLODESSALLE.

DiJeanne vi era l'anima; e i recisimoribondi fiorii ciclami odorosidei boschi di Venai rhododendron di Rio Freddogli edelweiss diPicco Astore non dicevano che leil'amoreil dolorela timidaoffertail silenzio di lei.

Pierolesse il bigliettoguardò i fioripensoso.

“Lacarta è di suo fratello” diss'eglidopo un brevesilenzio. “Così Ella potrà presentarsi a villaDiedo per ringraziarlo in mio nome. Ma cerchi di vedere anche lei;meglio se la può vedere sola. Probabilmente questo saràdesiderato da lei stessa. Le dica che lascio i miei amici ma chespero di rivederli nella vita vera e che intanto domando loro perdonodel male fatto ad essiin qualunque modo. Le dica che uscito dalmondo pregherò particolarmente per qualche anima inferma discetticismochese ponesse in Dio l'amore posto in una creaturadiventerebbe sublime. Gliel'ho dettodon Giuseppeche se il miopeccato mentale non è stato anche reale lo debbo a lei?”

DonGiuseppe taceva a capo chinopensoso non di questo difficilecolloquio con la signora Dessallema del mistero nel quale Pierochiudeva le sue risoluzioni future. In quale Ordine religiosointendeva egli entrare? Anzientrerebbe egli in un Ordine odisporrebbe liberamente la sua vita? Come? Quando? Finalmente sialzarono ambedueuscirono insieme dalla camera. Mentre sicongedavano per la notte il custode chiese a don Giuseppe da partedel parroco d'Albogasio a quale ora desiderasse di celebrarel'indomani mattina. Don Giuseppe guardò Piero come perconoscere il suo desiderioma Piero non parlò. Egli risposeallora:

“Allesette.”

Ifiori delle montagne lontane rimasero nella camera dell'alcovatristi e deserti come la donna che aveva loro spirato in segreto ilsuo cupo affanno. Così tanti anni primain quella stessacamera dell'alcovasi era infuso a recisi moribondi fiori l'affannocupo di Luisa.



IV


Primadi coricarsi don Giuseppe scrisse alla marchesa Nene la seguentelettera:


Ottimasignora Marchesa

abbiamodeposto la diletta Sua nel campo di riposo che il santogentiledesiderio di lei nominò. E` stato un momento solenne. Ilcampola gradinata che vi salel'angusta via di sotto eran gremitidi gente silenziosacommossa. Io dissi alla Eletta del Signore pocheparole come seppinel nome di noi ch'ella precedette nella morteenel nome di coloro ai quali ascese come una pia figliuola. Vidi lagente piangere per la pietà di questa giovine sconosciuta cheha scelto il loro umile Camposanto a sua ultima dimora e anche perl'affetto che tutti qui portano ancora alla memoria delle persone chele sono vicine in terra come nel cielo. Il luogo è bellofraviti e ulivipresso alla riva del lago. Il cielo serenoil lagotutto lucente nel vento estivoil gaio stormir delle frondi parevanodirci di non piangere perchè la nostra morta era nella gioiaimmensa della visione divina. Ricevetti oggi la Sua lettera. Credache io stesso accolsi con certa diffidenza l'annuncio del propositoconcepito da Suo genero di uscire dal mondo per abbracciare uno statodi assoluta povertà e penitenza; nè penso aver mancatoal mio dovere di consigliargli riflessionepreghierepazienteattesa di una conferma della divina Volontà. Le confesseròpure che forseposto il suo ingegnola culturala condizionesociale e questo inatteso ritorno alla fede cristiana che Iddio haoccultamente dispostoio avrei desiderato da lui un'attivapartecipazione alla vita pubblicaanche per il bene particolare diquesta nostra povera patria. Ho presto conosciuto incrollabile larisoluzione del signor Pieronè sarei ora sicuro di farecombattendolaopera buona. Egli è impazientissimo di recarlaad effetto e io accettai ch'egli mi cedesse la proprietà de'suoi beni perchè ne disponessi secondo le sue intenzioni.L'atto fu rogato dal notaio di qui oggi stessoe il signor Piero midarà domani in iscritto le istruzioni che mi hadel restogià fatto conoscere a voce. Forse domani mi dirà purqualche cosa circa la sua partenza di qua come circa l'Ordinereligioso che avrà scelto. Fino ad ora non ho potuto penetrareaffatto nulla. A rigoreneppur potrei asserire ch'egli abbia ilproposito di entrare in un Ordine religioso. Comunque sialedisposizioni del signor Pierocerte sue oscure allusioniall'avvenire che Le riferirò a vocee sopra tutto il grandedoloregli eventi mirabili ond'è nato questo mutamentomifanno sperareottima signora Marchesatale un fruttodell'afflizione Sua che Ella ne debba dar lode a Dio per vista comedi tutto che Le accade gli dà lode per fede; tale un fruttoche dissipi certi giudizi e sospetti e timori circa il carattere delfervore religioso di Suo genero pervenuto sino a me esecondo lasapienza del mondonon del tutto infondati nelle parvenze.A fructibus eorum cognoscetis eos. Iddio continui abenedirla di santi pensieri e conservi a noi lungamente chi tanto ciriflette della sua luce e della sua pace. Domani celebrerò insuffragio della Sua Elisa.


DevotissimoDon Giuseppe Flores



V


L'indomanimattinaprima di uscire con la messadon Giuseppe domandò seil signor Maironi fosse in chiesaeudito che noattesecosìparatoalquanto. Finalmentetardando ancora Maironi a venireuscì.Rientrato in sagrestia vi trovò il custode il quale aspettòa mala pena che finisse il ringraziamento per dirgli con vocetremante e con faccia turbata di venire a casa subito subito. Cosaera mai successo? Il custode non rispose che quando ebbe chiusodietro di sè l'uscio di casa. La risposta fu uno scoppio dipianto.

“Masanto cielocosa c'è?” esclamò don Giuseppe“parlate!”

Impossibile;il pover uomo non riuscivafra i singhiozzia spiegarsi.

“Guardiqua!” diss'egli a stento. E gli porse un biglietto.

DonGiuseppe lo lessecompresenon mostrò meravigliasi feceaccompagnare nella camera dove Piero aveva dormito.

Erauna cameretta dell'ultimo pianocon due finestreuna a mezzogiornosopra il tetto della salaverso monte Bisgnagol'altra a ponentesopra il giardinetto pensilein faccia allo specchio lungo e strettodelle acqueche va sino a Gandria e al San Salvatore. Ambedue lefinestre erano apertela pace del lago e delle montagne entravanella camera vuota. Una valigetta e un soprabito di Piero erano sulcassettonel'ombrello e il bastone in un angoloonde a prima giuntadon Giuseppesorpresoesclamò:

“Sela sua roba è qui!”

Mapoi trovò sulla scrivania una lettera con questa soprascritta:

PerLeidon Giuseppee Iddio Le renda il bene che mi ha fatto.

Illetto era intattodon Giuseppe domandò al custode se nonavesse udito alcuno scender le scale durante la notteaprir la portadi casa. Nonon aveva udito. In fatto alle sette e mezzo la portaera ancora chiusa. Invece don Giuseppealle sei e mezzoavevatrovato aperto il cancello del giardinetto. Piero doveva essereuscito di là. Don Giuseppe lesse la sua lettera; non vi eranoche le istruzioni promessela conferma delle intelligenze prese avoce e una busta suggellatacon la scritta: Da aprirsidopo la morte di Piero Maironi.Il biglietto al custode conteneva un affettuoso saluto di commiatouna lodeun ringraziamento e l'ordine di considerare don GiuseppeFlores come suo padrone. Il custode non sapevanon capiva nientetemeva un atto disperato per la morte della signoraparlava di farsubito ricerche a Porlezza e a Lugano.

“Nono” gli disse don Giuseppe“non temete disgrazie. E` ilSignore che lo conduce. Se il Signore vorràlo rivedremo.Egli desidera intanto nascondersi al mondo. Rispettiamo il suodesiderio.”

Inquel momento il fedele custode tacquema poi non si tenne dall'andarcercando le tracce del padrone. Mai non gli fu possibile di trovarnealcuna. Nessuno lo aveva incontratonessuno lo aveva vedutonessunone aveva udito i passi. Se mai sia per venire il giorno in cui laocculta via dell'uomo scomparso si riveliin cui ci si apprenda ilperchè di tanto misterosolo Chi lo ha chiamato alle propriebattaglie lo sa.