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Antonio Fogazzaro
MALOMBRA
PARTE PRIMA
Cecilia
1. In paese sconosciuto
Uno dopo l'altrogli sportelli dei vagoni sono chiusi con impeto; forsepensa un viaggiatore fantasticodal ferreo destino cheormai senza rimedioporterà via lui e i suoi compagni nelle tenebre. La locomotiva fischiacolpi violenti scoppiano di vagone in vagone sino all'ultimo: il convoglio va lentamente sotto l'ampia tettoiaesce dalla luce dei fanali nell'ombra della nottedai confusi rumori della grande città nel silenzio delle campagne addormentate: si svolge sbuffando mostruoso serpentetra il labirinto delle rotaiesinchétrovata la viaprecipita per quella ed urlatutto battiti dal capo alla codatutto un tumulto di polsi viventi.
V'ha poca probabilità d'indovinare che cosa pensasse poi quel viaggiatore fantasticorapito tra fiotti di fumostormi di favilleoscure forme d'alberi e di casolari. Forse studiava il senso riposto dei bizzarri ed incomprensibili geroglifici ricamati sopra una borsa da viaggio ritta sul sedile di fronte a lui; poiché vi teneva fissi gli occhidi tanto in tanto moveva le labbracome chi tenta un calcoloe quindi alzava le sopraccigliacome chi trova di riuscire all'assurdo.
Eran già passate alcune stazioniquando un nome gridatoripetuto nella nottelo scosse. Una folata d'aria fresca gli disperse le fila sottili del ragionamento; il convoglio era fermo e lo sportello aperto. Egli discese in fretta; era il solo viaggiatore per...
«Signore» disse una voce rauca e vibrata «è Lei che va dai signori del Palazzo?»
Questa domanda gli fu tratta a bruciapelo da un uomo che gli si piantò di fronte con la sinistra al cappello e una frusta nella destra.
«Ma...»
«Ohper bacco» disse coluigrattandosi la nuca «chi dev'essere allora?»
«Ma come si chiamano questi signori del Palazzo?»
«Eccovededa noi si dice i signori del palazzo e non si dice altro. Per esempioa dire cosìper un dieci miglia tutto all'ingirocapiscono; Leimettiamoviene da Milanoè un'altra storia. Queste sono sciocchezzeio lo so benissimo il nome; ma adesso piglialo! Noi povera gente non abbiamo tanta memoria. È poi un nome tanto fuori di proposito!».
«Sarebbe...»
«Aspetti; Lei che taccia e che non mi confonda. Ehidalla lanterna!»
Un guardiano si avvicinò lentamente con le braccia penzolonifacendo dondolare la sua lanterna a fior di terra.
«Non bruciarti i calzoniche Vittorio non te li paga» disse il giovinotto di poca memoria. «Tira su quell'empiastro di una lanterna. Quaprestamela un momento.»
Edato di piglio alla lanternala sbatté quasi sul viso al forestiere.
«Ahè luiè luiè lui tal e quale come mi hanno detto. Un giovinottoocchi nericapelli nerinera mica male anche la faccia. Bravo signore.»
«Ma chi ti ha detto?...»
«Luiil signoreil conte!»
"Ohdiavolo" pensò coluiun uomo che non ho mai visto e che scrive di non avermi mai visto!
«To'!» esclamò l'altro lasciando cader la frusta e cacciandosi la mano in tasca. «Proprio vero che più asino di così la mia vecchia non mi poteva fare neanche a volere. Il signor conte non mi ha dato un coso per farmi riconoscere? Ce l'ho ben qui. Tolga!»
Era un biglietto di visita profumato di tabacco e di monete sucide. Portava questo nome:
CESARE D'ORMENGO
«Andiamo» disse il forestiere.
Fuori della stazione c'era un calessino scoperto. Il cavallolegato alla palizzatacol muso a terraaspettava rassegnato il suo destino.
«S'accomodisignore: non c'è troppo morbidoma capiscesiamo in campagna. Ih!»
Il lesto vetturaleafferrate le redinibalzò d'un salto a cassetto e cacciò il cavallo a suon di frusta per una stradicciola oscuracosì tranquillamente come se fosse stato mezzogiorno.
«Abbia mica pauravede» diss'egli «benché sia scuro come in bocca al lupo. Questa strada la cavalla e io l'abbiamo sulla punta delle dita. Ih! Ho menato giù due forestieri anche la notte passatadue signori di Milano come Lei. Gran brava persona il signor conte!» soggiunse poitirandosi a sedere di sghembo e cacciandosi sotto le coscie il manico della frusta. «Che brav'uomo! E signoreehi! Ha amici in tutte le sette parti del mondo. Oggi ne capita unodomani un altrotutti fior di gentegran signorisapientiche so io. Già Lei sarà pratico!»
«Io? È la prima volta che vengo qua.»
«Ahvedo. Ma conoscerà il signor conte?»
«No.»
«O belloo bello!» disse il vetturale con accento di profonda meraviglia. «Una brava personasa! Sono suo amico»soggiunse senza spiegare se appartenesse alla categoria dei gran signori o a quella dei sapienti. «L'ho servito tante volte. Mi ha fatto bere un bicchiere anche oggi. Non so se fosse vin di Francia o d'Inghilterrama che vino! Ih!»
«Ha famiglia?»
«Signor no. Cioè...»
A questo punto le ruote di destra saltarono sopra un mucchio di ghiaia.
«Taci e guarda dove vai» disse il viaggiatore.
Colui tirò giù bestemmie e frustate a furia sulla povera bestiache prese il galoppo.
Passarono sopra un torrente. Sul ponte faceva chiaro. A destra si vedeva la striscia biancastra delle ghiaie perdersi per campagne sterminate; a sinistra e di fronte umili colline appoggiate ad altre maggiori; dietro a questegioghi cornuti che spiccavano sul cielo grigio.
Non si udì più che il trotto del cavalloedi tempo in tempolo scrosciare della grossa ghiaia sotto le ruotee l'abbaiar pertinace dei cani rinchiusi. Cavallococchiere e viaggiatore procedevano silenziosi insiemecome portati dallo stesso intento allo stesso fine: porgendo immagine così dei fragili accordi e delle meditate alleanze umanepoiché il primo tendeva segretamente alla dolcezza della tepida stallail secondo a un certo vino di certa rubiconda ostessabuon vinospumante di risate e di franchi amori; e colui ch'era il più intelligente e il più civile dei trenon conosceva affatto né la propria via né la meta.
Corsero fragorosamente attraverso paeselli oscuridesertidove le case pareano difendere accigliate il sonno della povera gente; passarono davanti a giardinia piccole ville vanitosein fronzoliche avevano un'aria sciocca nell'ombra solenne della notte. Dopo un lungo tratto di pianura la strada saliva e scendeva poggi che parlavano del sole e parevano guardar tutti là verso l'oriente; finché sguisciò dentro una valle angusta e scura tra selvosi fianchi di monti. Ne radeva talvolta l'unghia estrematalvolta se ne torceva lontano come per ribrezzo di quell'ispido tocco; alla fine vi si gettò risolutamente addosso. Il cavallo si mise al passoil vetturale saltò a terra e disse chiaramente colla sua frusta sbaldanzita: è un affar lungo.
«Dunque» chiese il forestiereaccendendo un sigaro «ha famiglia o non ha famiglia?»
«Altro che avernecaro Lei. Ho una donna bruttavecchia e rabbiosa come il demonio.»
«Non teil conte!»
«Ahil signor conte! Chi ha da saperlo? Dei signori non si sa mai niente. Alle volte pare che ce l'abbiano la famiglia; c'è la donnac'è i figli; e poi quando lui è lì per metter giù il capogli sono addosso i corvie alla donnavatti a far benedireci tocca di cavarsela; alle volte vivono come i fratie quando siamo lì al busillistràccheteè qua la signora con le lagrime e con le unghie. Fortunata in tutto quella gente lì! Iose faccio un'amorosadopo quindici giorni mi pianta; ma la donna l'avrò ai panni fin che non iscoppia. Il signor conte ha vissuto solo per un pezzo; ora ci ha insieme una ragazza. Chi la dice sua figliachi sua nipotema è la sua amorosa senza dubbio. Queste bestie ignoranti di paesani dicono ch'è brutta. Vedrà se è brutta. Ahio già dovevo nascere un signore!»
Quiper consolarsiil bizzarro giovinotto tirò una furiosa frustata alla cavalla che portò via correndo l'altro interlocutore e ruppe così il dialogo. Giuntadopo lunga faticaal collo dell'ertasi fermò a prender fiato. Lassù la scena mutava. Monti ripidi salivano a destra e a sinistralasciando appena posto alla strada; altri monti si mostravano a fronte della discesaun po' sfumati sopra le vette nere degli alberi che cominciavanopoco sotto il colloa fiancheggiarla.
Il vetturale risalì a cassettoscese di trotto alle grandi fauci fronzute del viale che gli si aprirono rapidamente. Fra tronco e tronco la veduta veniva allargandosi; cresceva la lucecomparivano distese di vigneti.
Un lumespiccatosi dal lato destro della stradavenne di fronte al cavalloche si fermò.
«Ebbene?» chiese una voce.
«Ohc'èc'è» rispose il vetturale saltando a terra. «Se comandasignoreè qui. Pagatosignore. S'è per un bicchieresignore. Lei è buono padronenessuno Le può dir niente. Tante grazie. Ehipiglia la borsa del signore. Felice notte. Ih!»
«Il signor Silla?» disse l'uomo della lanternaun domesticoall'aspetto.
«Appunto.»
«Servitosignore.»
S'avviò silenziosocon la borsa nella destra e la lanterna nella sinistragiù per un viottolo fiancheggiato di rozzi muricciuolidove la luce balzellante saltava e guizzavacacciandosi avantitraendosi dietro le più nere tenebre.
Invano il signor Silla guardava curiosamente al di sopra dei muri; appena poteva discernere qualche fantasma d'albero proteso dal pendìoa braccia sparsein atto di stupore e di supplica. Un tocco vibrato di campanello lo fe' trasalire; la guida s'era fermata a un cancello di ferro. Tosto qualcuno aperse; i ciottoli del viottolola soglia del cancello furono inghiottiti dall'ombra; ora passava sotto la lanterna una sabbia fine fine eai latinegre piante dai rami foltiimpenetrabili. Dopo la sabbiaerba e vestigia incerte di un sentiero tra un denso fogliame di viti; poi larghi scalini nerastrisconnessia cui si giungeva per fianco. Non se ne vedeva né principio né fine; solo si udiva verso l'alto e verso il basso un discorrer modesto di acqua cadente. La guida scendeva cauta per quelle pietre mal ferme che rendevano un suono metallico. Nella fioca luce della lanterna apparivanoa intervalli regolaridue tronchi enormi e due grigie figure umaneritteimmobili a fianco della scalinata. Finalmente gli scalini cessavanominuta ghiaia rosea passava sotto la lanternagrandi foglie di arum le passavano a fiancoe lì pressonel buiouno zampillo gorgogliava quietamente il suo racconto blando. La guida prese a sinistragirò il canto di un alto edificiosalì due scalini e introdusse ossequiosamente il nuovo arrivato per una gran porta a vetri.
Nel vestibolo illuminato c'era un signore vestito di nero da capo a piediche gli venne incontro facendo inchini profondi e stropicciandosi le mani a tutt'andare.
«Benvenutosignore. Il signor conte si è ritiratoperché l'ora è un pococome si dice?... un poco tardatarda; il signor conte ha incaricato me di fare le sue scuse. Appunto ho l'onore di essere il segretario del signor conte. Pregosignoresi accomodiprego. Io credo che il signore avrà bisogno di un poco di ristoro: oh! pregoprego.»
Il cerimonioso segretario mise l'ospite per una scala signorile e lo accompagnò sino al primo piano. Colàottenutane la promessa che sarebbe ridisceso a cenalo affidò al servoed andò ad aspettarlo in un salotto dove era preparato da cena per due e dove l'altro commensale non tardò a comparire. Questi non aveva accettato di sedere a cena per desiderio di ciboma per curiosità dell'uomo singolare che ne lo richiedeva.
Il signor segretario mostrava di essere sui cinquant'anni. Due occhietti azzurrognoli gli fiammeggiavano nel viso rugoso e giallastro fra due liste di capelli non più fulvi e non ancora grigi. Portava la barba intiera che gli durava infuocata. Il pelo e il visola rigida rapidità degli atticerte consonanti petrificate e certe vocali profonde che gli uscivano di bocca come d'un burronelo scoprivano tosto per tedesco. Anche il taglio antiquato e la nitidezza dell'abito neroi solini inflessibiliil candido sparato della camicia erano da tedesco e da gentiluomo. Se non chestrana cosaa' polsi il gentiluomo finiva. Le mani erano grandifosche sparse di cicatricicon la pelle avvizzita e screpolata sul dossocallosa nel palmo. Vi erano incise lunghe ore di soledi gelodi lavoro faticoso. Aveano perduta ogni pieghevolezza; non sapevano più esprimere il pensiero come lo esprime la mano intelligente dell'uomo colto. Parlavano in vece lorocon brusca energiacon passionele braccia e le spalle mobilissime. Parlavasopra tuttoil viso.
Era un viso brutto e gaioridicolo e genialesfavillante di vita: un labirinto di rughe sottili che si contraevanosi spianavano intorno a due occhietti chiariora aperti e graviora strettiper ilarità o per collera o per dolorein due scintillesempre vivacissimi. Subiti rossorisoffi di sangue gli salivano dal collosi spandevanosfumavano per la fronte lasciando il giallore di prima intorno al nasosempre porporino e lucente. Insomma l'anima del segretario era tutta lìsul viso; la si vedeva sentiredolersigoderefremere come un lume agitato dal vento dietro una tela chiara. Parlava con voce sinceravaria di toni e focosa più di una voce meridionalecomica spesso nell'accentonei salti dal basso all'acutoma efficacissima. E parlò molto quella sera a cenaassaggiando appena i cibivuotando spesso il bicchiere. Incominciò con un profluvio di cerimoniedi amabilità un po' rigideesagerateche non trovavano eco nel riserbo freddo dell'ospite; entrò quindi in qualche discorso generaleparlò dell'Italia da uomo cheavendo veduti molti costumi e molte cittàpossiede larga conoscenza d'uomini e di cose contemporaneee porta in ogni argomentocon tranquilla sicurezzagiudizi insolitivedute nuove che forse non reggono sempre alla critica pacatama sorprendono il volgo. Non mostrava però lo scetticismo di chi ha viaggiato moltoné la manifesta propensione al nihil admirari. Tutt'altro; le cavità sonore della sua gola eran piene di vocali esclamative ch'esplodevano ad ogni momento. Quel commensale gli doveva esser molto simpatico per mettergli tanta parlantinaserbando dal canto suo un contegno asciutto che poteva parere altero. Il segretario lo guardava con occhi sempre più dolcipiù affettuosiinsisteva perché pigliasse di questo e di quellocominciava ad arrischiare qualche famigliaritàqualche domanda che lo costringesse ad uscire dalle sue trincee.
«E che cosa si dice a Milano» esclamò a un tratto gittandosi addietro sulla spalliera della seggiola e piantando ritti sull'orlo della mensa forchetta e coltello stretti ne' pugni«cosa si dice a Milano di Ottone il Grande?»
Vista la stupefazione dell'ospite a tale inattesa domandadiede in una grottesca risata. «Io voglio parlare di questo Bismarck» soggiunse poi pronunciando la parola Bismarck a gola pienacon un fremito di voluttà da' capelli a' piedicome senella tortura del parlare italianoquelle due sillabe gli portassero un refrigerioun soffio d'aria natía.
Il nobile conte era ancor lontano in quella notte estiva del 1864 dal successo e dalla gloria: ma il suo compatriota ne parlòsenz'attendere rispostaper dieci minuticon fogacon ammirazione mista di odio e di terrore.
«In Europa lo credono un pazzo» conchiuse. «Ma per Dio...! Wir haben sechs und dreissig Herrensignor. Un altro pezzo di questa trota? Noi abbiamo trenta e sei padroni; vedrete fra dieci anni. Avete mai bevuto Johannisberg? È una vergogna per quest'uomo che il primo vino del mondo si fa in Germania e non è suddito del suo re. Non è uomo da soffrire lungamente simili cose!»
«Oh» esclamò il loquace segretario cacciandosi le mani nei capellitirandoseli su fra le dita con uno slancio di desiderio. «Ohquesto Johannisbergoh!» E stringeva ridendo gli occhietti brillanti come se assaporasse il nettare sospirato. «In una stanza Voi sentite se si è sturata una bottiglia di Johannisberg. Un altro bicchieresignor; io prego. È solamente Sassella e non ha più odore che se fosse acquama per vino italiano può passare. Scusate molto mia franchezzasignor; in Italia il vino non si sa fare né bere.»
«Neppur bere?»
«Noohnoneppure bere.
Wenig nur verdirbt den Magen
Und zu viel erhitzt das Haupt.
Voi conoscete la mia lingua? No? Beneè Goethe che dice questo: "Poco guasta lo stomaco e troppo infiamma la testa". Gl'Italiani o s'ubbriacano o bevono acqua. Dico per esagerazionesignorper esagerazione. Bere una bottiglia al giorno è come bere acqua. I più savi lo bevono per igiene del ventricolo: capite? Nessuno per igiene del cuoread exhilarandum cor! Ridete? Siamo così tutti un poco latinisti in Germaniaanche questi pitocchi e questi cani principi! Ebbenetutti dovrebbero bere fino alla letizianessuno fino alla pazzia. Il vino è una gioventù perpetua. Finché io vivo voglio avere vent'anni per tre o quattro ore al giorno; ma io non ne avrò mai dieci: questa è la differenza.»
Intanto il limpido Sassella scendeva dalle bottigliegli anni del segretario si staccavanospiccavano il voloa quattro a quattrodalle sue vecchie spalle. Queste si rialzavano baldanzose dalla virilità declinante alla perfettache poi cedeva alla giovinezza matura. Scendeva il limpido Sassella; ed ecco arrivare l'età felice degl'impeti subitanei d'affettodel facile intenerirsidelle pronte e cieche amicizie. Il segretario stese le bracciaporse la barba sveva verso il compagno suo temperante e taciturnogli afferrò una mano con ambe le propriegliela strinse forte.
«Perbaccosignornon avremo diviso il pane e il vino senza sapere i nostri nomieh? Il signor conte mi ha ben detto il vostroma l'ho dimenticato.»
«Corrado Silla» rispose il giovane.
«SillaahSillabene. Io spero che non scriverete mai sulle Vostre liste di proscrizione Andreas Gotthold Steinegge di Nassaubandito dal suo collegio per aver troppo amato il vinodalla sua famiglia per aver troppo amato le donnedal suo paese per avere troppo amato la libertà. Sapetecaro signor Sillal'ultima è stata la pazzia. Ohadesso sarei Kammerrath a Nassaucome il fu Steinegge mio padreo colonnello come quella canaglia di mio fratello. Ma la libertàdie Freiheitcapite? È una parola pneumatica.»
Detto questoil signor segretario abbracciò rapidamente con ambo le mani la seggiolase la portò dietro con impeto; posciaincrociando le bracciastette a guardar Sillache non capiva.
«Comeuna parola pneumatica?»
«Ohgià! già! Voi non capite? Infatti è un poco difficile. Ci sonocarissimo amico signor Sillale parole algebrichele parole meccaniche e le parole pneumatiche. Io vado a spiegarvi questo che mi ha insegnato un amico mio di Wiesbadenfucilato dai maledetti prussiani nel 1848. Le parole algebriche discendono dal cervello e sono segni di equazione tra il soggetto e l'oggetto. Le parole meccaniche sono formate dalla lingua come articolazioni necessarie del linguaggio. Ma le parole pneumatiche vengono bell'e fatte dai polmonisuonano come strumenti musicalinessuno sa cosa vogliano dire e ubbriacano gli uomini. Se invece di Freiheitinvece di libertà si dicesse una parola di dieci sillabequanti eroi e quanti matti di meno! Sentitecarissimo giovaneio sono vecchioio sono soloio non ho denaroio potrò morire sulla strada come un canema se stanotte mi dicessero: Steineggealter Kerlvuoi servire domani la reazioneessere Kammerrath a Nassausedere al tuo focolarevedere tua figlia che non vedi da dodici anniiovecchio pazzodirei: "Noper Dio! Viva la libertà"»
Diede un gran pugno sulla tavolaansandosoffiando rumorosamente con le naria bocca chiusa.
«Bravo!» esclamò Sillacommosso suo malgrado. «Vorrei essere un vecchio pazzo come Lei.»
«Ohnononon desiderate questo! Non dite questo così a cena! Bisogna sapere quanto costa di gridare "viva la libertà" e quanto valeoh! Non parliamo.»
Seguì un momento di silenzio.
«Lei è del Nassau?» disse Silla.
«Sìma lasciamo; questa è un'idea triste. Io non voglio idee tristiio sono molto ilare adessomolto feliceperché voi mi piacete immensamentesìsìsìsì!»
Batteva e ribatteva il mento al pettocome se avesse una molla nella nuca; scintille di riso gli schizzavano dagli occhi.
«Voi non partirete già domani» diss'egli.
«Ma! Lo vorrei certo.»
«Ohil signor conte non Vi lascerà.»
«Perché?»
«Perché io credo che Vi vuole molto bene.»
«Se non mi conosce neppure!»
«Uuuhffff» sibilò Steinegge chiudendo del tutto gli occhi e chinandosi fino a metter la barba nel piattocon le braccia allungate sotto la tavola.
Pareva un testone di gnomo.
«Mi conosce?» disse Silla.
«Io credo che mi ha parlato per un'ora di Voi oggi.»
«E che cosa Le ha detto?»
«Ah!» esclamò il segretario rizzandosi e alzando le mani al soffitto «non sono a questo puntosignornon sono a questo punto. Vi è ancora posto per molto Sassella fra la vostra domanda e la mia risposta.»
Diede di piglio alle due bottigliefece atto di pesarlele scrollò e le depose. Erano vuote.
«Non vi è più amicizia» diss'egli sospirando «né sinceritàné cuore. È forse meglio di andare a lettosignor.»
Benché sul pianerottolo della scalafra il primo e il secondo pianoun orologio da muro suonasse il tocco e mezzo quando Silla si trovò nella stanza che gli era stata assegnataegli non aveva punto sonno. Ritto in piedi e immobilefissava la fiammella della candelacome se quella chiara luce avesse potuto dissipare le ombre del suo cervello. Si scosse a un trattopigliò il lume e intraprese un viaggio che riuscì forse meno istruttivoma più commovente di quell'altro famoso del conte De Maistre. La stanza era grandealta e quadrata. Un pesante letto di legno scolpito; di fronte al lettofra due larghe finestreun cassettone coperto di bianco; sopra il cassettoneuna cornice dorata intorno a certa figura curiosamezza in lucemezza in ombrache si moveva con una candela in mano; una scrivania; alcune grandi seggiole a bracciuoli: ecco quanto uscì dall'ombra sotto il lume indagatore che andava lungo le paretiora salendoora scendendoora a curvea zig-zag come un fuoco fatuonon senza molte incertezze. A capo del letto pendeva un'ammirabile testa d'angelo pregantedipinta alla maniera del Guercino. Quasi supinasi sporgeva per iscorcio. Nella bocca socchiusanelle nari dilatatenegli sguardidirei quasi veementi passava lo slancio della intensa preghiera. Si sarebbe detto che quei guanciali fossero usi sorreggere la testa di grandi peccatorie che nelle ore del sonnoquando giacciono interrotte le immagini e le opere della colpauno spirito pietoso alzasse le grida a Dio per costoro. La fiammella della candela di Silla pareva affascinata da quel quadro. Se ne ritraeva talvolta con impetoma per fermarsi tosto e tornargli appresso e percorrerlo di sudi giùper ogni versoguardarlo da destraguardarlo da sinistra. Poi se ne staccò lentamente e rifece la via di primaquasi ne fosse rimasta in aria la tracciaseguendo le stesse giravolteprendendo le stesse salite e le stesse discese. Stavolta qualche cosa era mutato lungo la via. Quando il lume giunse di fronte a quella tal cornice sopra il cassettonevi apparve tuttavia dentro la figura mezza in lucemezza in ombra; ma non si esprimeva curiosità bensì commozione e stupore. Difattise quello specchio avesse potuto serbare le immagini ripercosse durante la sua vita sterile e vanavi sarebbero apparsefra le altreuna testa malinconica di donnauna testolina gaia di fanciullo molto simili tra loro nei lineamenti e negli occhi. Come talvolta in un'acqua cheta le montagne si contemplano ridenti al mattinoindi la nebbia le oscura sì che lo specchio pare voltato col piombo all'insù; finalmente quel velo si solleva alquanto e ricompaiono nell'acqua le facce brune dei monti; così ricompariva nel vetro fedeledopo molti annila immagine del fanciullofatta pensoso viso virile.
Silla si voltòsi avvicinò tremando al lettolo guardò lungamente; deposta la candela a terragiunse le manisi piegò a baciare il legno freddo e lucente. Posciarialzatosiuscì in due salti sulla scalasenza prendere il lume. Un cieco istinto lo spingeva a cercare il conte all'istantea parlargli. Ma tutto era buio e silenziosonon si udiva che il tic-tac dell'orologio. Il signor Steinegge era già sicuramente a letto; e poiavrebb'egli saputo rispondere? Silla tornò pian piano in camera. Sul chiarore della candelaposata a terra di là dal lettoquesto si disegnava come un gran dado nero. Se qualcuno vi fosse stato a giacerenon lo si sarebbe vistoe la fantasia di Silla poteva ben comporvi tal persona che vi aveva riposato un temporaffigurarvela malataschiva del lume tristesopita forsema viva. S'avvicinò al letto in punta di piedivi si buttò su a braccia distese.
Ella dormiva altrovein una camera più angustasopra un letto più freddola madre sua pura e forte; ma a lui pareva sentirvela ancora; si sentiva tornare nel cuore la fanciullezzatante minute memorie del letto e della stanzal'odore di una cassettina di sandalo cara a sua madretante parole indifferenti di leidella gente di casatanti diversi aspetti di quel viso scomparso. Quando si rialzò etolta la candelasi guardò attornogli parve impossibile non avere riconosciuto a prima giunta il quadrole sedielo specchioche lo guardavano tuttine lo rimproveravano.
Ma come maipensava Sillacome mai quegli arredi dell'antica stanza di sua madre si trovavano essi lìin una casa sconosciutapresso un uomo di cui egli non aveva mai veduto il visoné tampoco udito proferire il nome da chicchessia? Veramente erano stati venduti parecchi anni prima della morte di sua madree il conte d'Ormengo poteva bene averli acquistati per caso. Per caso? Ah nonon era possibile.
Sedette alla scrivaniatrasse dal portafogli una lettera di gran formatola lessela rilesse con attenzione febbrile.
Diceva così:
R... 10 agosto 1864
Signore
noi non ci siamo mai visti e Leimolto probabilmentenon ha mai inteso il mio nomebenché appartenga a una vecchia razza italiana che lo ha sempre portato in casa e fuoria piedi e a cavallomolto come si deve. È tuttavia necessarioper Lei e per meche noi ci parliamo. Siccome io ho cinquantanove anniLei verrà da me.
Troverà un calesse posdomani sera alla stazione di... sulla linea Milano-Camerlata; e troverà alla mia casa l'ospitalità poco cerimoniosa che io pratico con gli amici più saldii quali hanno poi la compiacenza di rispettare le mie abitudini. Mi permetto di dirle che vi è tra queste l'abitudine di aprire la finestra se un camino fuma in casa miae di aprirese vi fuma un uomola porta.
Io l'aspettocaro signorenel mio romitaggio.
Cesare d'Ormengo
Null'altro. La sapea pure a memoria quella letterama avrebbe voluto cavarne fuori qualche parola sdrucciolata forse dietro le altrescoprirvibattendo e origliando a' vocabolidelle cavità copertede' doppi fondi. Nulla; ossia il doppio fondo v'era e si sentiva; ma tanto fondo da non potervi arrivare né manoné occhi.
Era un amico o un nemicoquesto signore che gli gettava silenziosamente in viso la memoria di sua madre e del tempo felice?
Nemico no. Scriveva con la franchezza rude d'un gentiluomo antico; i suoi grandi caratteri inclinati nell'impeto della corsaspiravano sincerità. La sua ospitalità era poco cerimoniosa davvero; non lasciarsi vedere! Anche per questo bisognava credere alle parole cordiali che ne accompagnavano l'offerta; originaledunquema benevolo.
E quali ragioni poteva egli aver avuto di raccogliere quegli oggetti in casa suatanti anni addietroe di chiamar luiadessoa colloquio? Maimai Silla non aveva udito quel nome né da sua madrené da suo padrené da altri. Lasciò cadere la lettera e si coperse il viso con le mani. Un barlume sorgeva nella sua mente. Forse un barlume del verosì. Quegli arredi erano stati venduti all'indomani di un rovescio economico; certa gente di rapinaSilla lo ricordava confusamenteera calata in casa sua nell'interesse proprio o di potenti creditoriche si tenevano all'ombra per essere amici di famiglia o per altre men disoneste ragioni; oltre allo sperpero de' beni stabiliquadri e suppellettili di gran valore erano state portate via a vilissimo prezzorubate quasi in un piglia piglia indecente. Il conte d'Ormengo poteva essere stato uno dei creditoriavere troppo approfittato in quei momenti dell'opera di qualche rapace agentedesiderare adesso di aggiustare i conti con la propria coscienza. Qualcuno forse gli aveva detto ch'egliSillaera rimasto senza impiegoe versava in angustie. Perciò s'era fatto avantiparlava di necessità per l'uno e per l'altroinalberava sulle prime righe della sua lettera la bandiera dell'onoratezza; e l'avergli assegnata quella camera era un modo d'entrare in discorso prima di vedersi.
Il rumore sordo di un passo sopra la sua testa lo scosse. Stette alquanto in ascolto e gli parve di udir aprire una finestra. La sua camera ne aveva due: pensò un momento e ne aperse risolutamente una.
Rimase stupefattocon le mani alle imposte. Il cielo era lucido come il cristallo. La luna falcata sorgeva a sinistra sopra alte montagneilluminava debolmente a' lati della finestra una grande muraglia grigiaseveri profili di altre finestre; la grande muraglia cadeva a piombo in uno specchio terso d'acqua distesa e chiara a ponente verso umili collineoscura dall'altra parte. Si udivano alle spalle stormire foglie non viste; soffi leggeri correvanosi spandevanosvanivano sull'acqua.
«Piace?» disse una voce che partiva dall'altoun po' alla destra di Silla. «Un piccolo Foehn un piccolo Foehn.» Era la voce di Steinegge cheappollaiato lassù a una finestrafumava come un piroscafo. Il conte dormiva molto lontano e molto sodose il suo segretario si attentava di parlar così a voce altamalgrado il silenzio notturno e la eco sonora del lago sottoposto. Egli si affrettò di raccontare a Silla ch'era stato in galera a Costantinopoli per cause politiche e che le maledette sentinelle turche gli rompevano il sonno ogni due ore col loro fastidioso grido: Allah-al-Allah! Da quel tempo gli era rimasta l'abitudine di svegliarsi ogni due ore per tutte le notti. Veniva alla finestra in camicia e fumava: guai se lo sapesse il conte! Egli era stato avvezzo a fumare sino a diciotto virginia il giornoquando servivacome capitanonegli usseri austriaciprima del 1848. Aveva passato poi qualche giorno senza mangiaresenza tabacco mai. Il regime del conte lo faceva soffriregli metteva i nervi sossopra.
«La prego» gli disse Sillainterrompendone le chiacchiere «sa Lei perché il signor conte mi abbia fatto venire?»
«Voglio tornare in galera turca se so una parola solasignor. So che il signor conte Vi conosce; non altro.»
Silla tacque.
«Aaah! - Aaah! - Aaah!» soffiava Steinegge esalando fumo e beatitudine.
«Che lago è questo?» disse il primo.
«Non sapete? Non siete mai stato? Moltimoltissimi italiani non sannoio credoche vi è questo piccolo lago. È curioso che lo debba io insegnare a Voi.»
«Dunque?»
«Ohil diavolo!»
Un colpo di vento sul viso strappò quella esclamazione a Steinegge che fu appena in tempo di gettare il sigaro e di chiudere la finestra. Il sigaro passò come una stella cadente sugli occhi di Sillai vetri suonarono in altole foglie stormirono dietro la casa. Steineggetremando d'aver lasciato entrare una boccata di fumofiutando l'aria infidatornò a lettoa sognar che usciva dalla galera turca e che il padischah sorridente gli offriva la sua pipa imperiale colma di buon tabacco di Smirne.
Silla rimase lungo tempo alla finestra. La notte purail ventol'odor delle montagne lo ristoravanogli versavano silenzio nei pensieripace in fondo al cuore. Non si avvedevaquasidel passar del temposeguiva con attenzione inconscia i ghiribizzi del vento sul lagole vociil sussurro del fogliameil viaggio della luna limpida. Udì una campana solenne suonar le ore da lontano. Le due o le tre? Non sapeva benesi alzò sospirando e chiuse la finestra. Bisognava coricarsiriposare un poco per avere la mente lucida all'indomani quando si troverebbe con il conte. Ma il sonno non veniva. Riaccese il lumecamminò un pezzo su e giù per la stanza; non giovava. Cercò risolutamente ricordi e pensieri lontani dalle incertezze presentie parve finalmente aver trovato qualche cosaperché sedette alla scrivaniaedopo riflettuto a lungoscrisseinterrompendosi cento voltela seguente lettera:
A Cecilia
Fu il mio libro Un sognoche mi ottennesignoral'onore gradito della Sua prima lettera. Mentre Le rispondevo facevo appunto un sognoun altro sogno assai miglioreassai più alto del libro. Le dirò quale? No. La farei sorridere; ora lo pseudonimo che sta in fronte a quel libro e a piè di questo scritto copre uno spirito non vano ma orgoglioso. Ebbi la Sua seconda letteraecome molte illusioni che hanno già tentato e deriso la mia giovinezzaanche quel sogno si è perduto davanti a me; io vedo vuotasquallidasenza fine la via faticosa. Noi non ci possiamo intendere e ci diciamo addio; Ella nascosta nel Suo domino eleganteCeciliaio chiuso nel mio Lorenzo ch'Ella dice volgare e mi è caro per essere stato portato qualche giornocinquant'anni addietroda un grande poeta che io amo. Per parte mianessuna curiosità mi pungerà maisignoraa ricercare il Suo nome vero; Le sarò grato s'Ella non farà indagini per conoscere il mio.
Quando Ella mi scrisse chiedendomi la mia opinione sulla libertà umana e sulla molteplicità delle vite terrestri di un'animapensai che solo una donna di gran cuorepoiché si diceva damapotesse commuoversi di problemi tanto superiori alle cure consuete del volgo signorile. Mi parve intendere che la Sua non fosse vaghezza di mente oziosa che tra un piacere e l'altroforse tra un amore e l'altroentra per capriccio a veder cosa fa chi pensastudia e lavora; eper capricciovuole assaggiare il liquore amaro e forte della filosofia o della scienza. Dubitai persino che qualche avvenimento della Sua vitataciuto da LeiLe avesse posto in cuore il sospettol'ombra di quegli arcani intorno ai quali mi domandava un giudizio. E risposi con folle ardorelo confessocon una ingenuità di espressione che dev'essere di pessimo gusto nel Suo mondo falsoperdoni la licenza d'una maschera che non vuole offender Leinel Suo mondo falsodove le donne dissimulano le rughe e gli uomini la giovinezza. È veroho fatto da zotico borghese che stende amichevolmente la mano a una nobile signora cui non fu presentato. Ella ritira la Suami punge con piccoli spilli brillanti che non fanno sangue ma doloremi sprizza in viso il Suo spiritolo spirito di cui vive la intelligenza della gente raffinata sino alla massima sottigliezza e leggerezzacome certe creature gracili vivono di dolci. Io apprezzo e non stimo lo spiritosignora; peggio s'è spirito alla francese come il Suoscettico e falso. Eccolo là davanti a me nello specchio d'un'acqua che ondulando sotto la luna ne volge il dolce lume in vano riso e in fugaci scintille. I suoi sarcasmi non mi feriscono; sarò cinico; dirò che ho visto delle donne preseforse malgrado lorod'amoredifendersi cosìcome poveri uccellini prigionieria beccate innocue; ma davvero non era una flirtation da ballo in maschera che mi poteva tentare; era la corrispondenza intimaseria con un'anima appassionata per quelle stesse alte cose che affascinano il mio pensiero. Avevo deciso di non risponderle più; attribuisca questa lettera ad una notte insonnein cui mi giova riposare il cuore stretto da certe penose incertezze. Non ricordo se ci siamo incontrati mai in una vita anteriore; non so quale aristocratica stella di madreperla sarà degna di accogliere Lei quando avrà fuggito questo nostro borghese pianeta ammobigliatoquesto sucido astro di mala fama dove non c'èper una deada posare il piede; ma...
Forse venne meno in quel punto il lume della candelao una nube di sonno si levò finalmente nel cervello dello scrittore. Comunque fosseal mattino Silla dormiva e a mezzo foglio si protendeva tuttavia nel vuoto come una lama dentata in atto di ferirel'ambigua parola: ma...
2. Il Palazzo
«Di quasignore» disse il servo che precedeva Silla: «il signor conte è in biblioteca.»
«È questa la porta della biblioteca?»
«Sìsignore.»
Silla si fermò a leggere le seguenti parolelibera citazione del profeta Oseaincise in una lastra di marmo sopra la porta:
Loquar ad cor eius in solitudine.
Parole poetiche e affettuose che prendevano dal marmo una solennità austeraparevano più che umane nel loro senso indefinitonella rigidezza grave delle morte forme latinemettevano venerazione.
Il servo aperse l'uscio e disse forte: «Il signor Silla». Questi entrò frettolosotrepidante.
Parecchi eruditi e bibliofili lombardi conoscono la biblioteca del Palazzo; una vasta salapresso che quadratailluminata da due ampie finestre nella parete di ponenteverso il lagoe da una porta a vetri che mette al giardinetto pensilesopra la darsena. Un grande camino antico di marmo nerosormontato da putti e fregi di stuccosi apre nella parete di fronte alle finestree una colossale lampada di bronzo pende dal soffitto sopra un tavolo rotondozeppoper solitodi giornali e di libri. Il mobile più singolare della sala è un grande orologio da murobellissimo lavoro del XVIII secoloritto fra le due finestre. La cassascolpita a mezzo rilievomostra scene allegoriche delle stagioniche da una Fama volante e suonante scendono ad un'altra Fama addormentatacui cadono le ali e la tromba. Il quadrante è sorretto da vaghe danzatricile ore; e sopra di esso si vede spiccare il volo una figurina alata col motto a' piedi:
Psiche
Ignoro se la nobile famigliacui appartiene da pochi mesi il Palazzovi abbia lasciata intatta la biblioteca; allora grandi scaffali altissimi ne nascondevano le pareti: i libri vi si erano andati accumulando da più generazioni di signorimolti disformi tra loro di opinioni e di gusticosicché ne durava la contraddizione in quelle scansiee certe categorie di libri parevano attonite di sopravvivere a chi le aveva raccolte. Non vi era un libro di scienza fisica tra moltissime opere forestiere e nostrali di scienze occulte: dietro a libri d'ascetica o di teologia si celavano opuscoli soverchiamente profani. La biblioteca deve la sua fama a copiose e bellissime edizioni antiche di classici greci e latininon che a un ricchissima collezione di novellieri italianidi scritti matematici e d'arte militaretutti anteriori all'Ottocento. Il conte Cesare scompigliò la raccolta dei classici greci e latini; cacciò i filosofi e i teologi verso le nuvolecome diceva luisi tenne sotto la mano storici e moralisti; fece incassare e gittare in un magazzino umido i novellieri e i poetitranne DanteAlfieri e le canzoni piemontesi di Angelo Brofferio. Vennero a prenderne il posto parecchie opere straniere di soggetto storicopolitico o anche puramente statisticoper lo più inglesi; nessun libro entrò sotto il regime del conte che trattasse di letteraturané d'artené di filosofiané di economia pubblica; quasi nessuno che venisse di Germaniaperché egli non sapeva il tedesco.
Era làseduto al tavolo; una lunga e magra figura nera. Si alzò all'entrare di Sillagli venne incontro e gli disse con accento piemontesespiccatissimo:
«Voi siete il signor Corrado Silla?»
«Sìsignore.»
«Vi ringrazio molto.»
Proferite queste parole con voce dolce e graveil conte strinse forte la mano al giovane.
«Suppongo» riprese poi «che Vi siate meravigliato di non avermi veduto iersera.»
«Di altre cose piuttosto...» Continuò Sillama il conte gli troncò le parole.
«Oh benebenemi fa piacere perché sono gli asini e i furfanti che non si meravigliano mai di niente. Però il mio segretario Vi avrà dettoin italiano o in tedescoche io uso di coricarmi prima delle dieci. Vi pare un'abitudine meravigliosa? Lo è veramenteperché la tengo da venticinque anni. E come Vi ha condotto quel briccone di vetturale?»
«Benissimo.»
Il conte fece sedere Silla; sedette egli stesso e soggiunse:
«Ora vorreste sapere dove Vi ha condotto?»
«Naturalmente.»
Silla tacque.
«Ohcomprendo bene il Vostro desiderioma mi permetterò di non dirvi niente fino a stasera. Intanto Voi mi fate il favore d'essere un amico che viene a regalarmi il suo ozio annoiatoo un letterato che vuole assaggiare dei miei libri e del mio cuoco. Che diavoloio non parlo di affari con un ospite appena entrato in casa mia. Questa sera chiacchiereremo. Credo che non starete poi tanto male qui da non poter trattenervi ancora.»
«Tutt'altro» rispose Silla con impeto «ma Lei deve dirmi...»
«D'una sorpresa che avete trovato qui? Sìpuò essere che io Vi debba quello; ma io mi rivolgo alla Vostra cortesia per pregarvi di non parlarmene prima di stasera. Intanto venite: Vi farò vedere il mio Palazzocome dicono questi zoticoni di paesani che potrebbero lasciare alla gloriosa civiltà moderna i nomi molto grandi per le cose molto piccole. La mia casa è una conchiglia» diss'eglialzandosi in piedi. «Giàuna conchiglia dove son nati molti molluschi che hanno avuti umori differenti. Forse il primo aveva sìdegli umori un poco ambiziosi; Voi vedete qui dentro che ha lavorato il guscio alla diavolasenza risparmio. Non ce ne fu poi nessuno che avesse umori epicureiper cui la conchiglia è molto incomoda. Quanto a meho l'umore misantropo e faccio diventar nero il guscio ogni giorno più.»
Silla non osò insistere nella sua domanda; subiva un fascino. Il conte Cesarelungo e smilzo oltre il credibilecon quel suo testone d'irti capelli grigicon quegli occhi severi nel volto ossutoolivastro e tutto rasosorprendeva. Nel suo vocione di basso profondo si sentivano tesori di dolcezza e di collera. Questa voce si muoveva sempre con un'onda appassionatagettandopiene di vita e di originalità le frasi più volgari; veniva vibrante su dalle cavità di un gran cuoredi un petto di bronzoall'opposto di certe malfide voci acute che scoppiettanosi direbbealla punta della lingua.
Egli vestiva un soprabito nerolungo sino al ginocchiocon certe manicacce sformate da cui usciva la mano bianca e bellissima. Portava un cravattone nero; de' solini si vedevano appena le punte.
«Prima di tutto» diss'egli additando le librerie «mi permetto di presentarvi la società dove passo molte ore tutti i giorni. Vi è della gente come si devevi sono dei furfantoni e una forte maggioranza di imbecilli che io ho mandatoda buon cristianoquanto più vicino al regno dei cieli ho potuto. Là ci sono poetiromanzieri e letterati. Posso ben dire questo a Voi sebbene siete un poco uomo di lettereperché l'ho detto anche al cavalier d'Azeglioil qualecon tutte le sua manie di scombiccherar tele e di scriver frottoleha un certo fondo di buon sensoe si è messo a ridere. Ci sono anche molti teologi lassù. Làquei domenicani bianchi. Vengono da un Vescovo di Novaramio prozioche aveva molto tempo da buttar via. Quanto a' miei amicispero che ne farete la conoscenza Voi stesso. Sono tutti sotto gli occhi e sotto la mano. E adesso andiamose Vi piacea fare questo giro.»
Prese il braccio di Silla e uscì con lui.
Il Palazzo sta sull'entrata di un recondito seno dove il piccolo lago di... corre ad appiattarsi fra due coste boscose. Costrutto nello stile del XVII secolofronteggia il mezzogiorno con l'ala sinistra e con la destra il ponente. Una loggia di cinque arcate verso il lago e tre verso il montecorre obliqua tra le due alicongiungendone i primi piani sopra un enorme macigno nero che si protende sull'acqua. Morso dallo scalpello del giardinierequel masso ha dovuto accogliere qua e là del terriccio dove portulacheverbene e petunie ridono alla spensierata. L'ala dritta dov'è la bibliotecaedificata forse per dimora d'estatesi specchia gravemente nelle acque della cala. In facciaa cinquanta passiha una solitaria costa vestita di nocciuoli e di carpini; a destra un vallone erboso dove il lago muore; vigneti e cipressi le salgono dietro il tetto a spiar nell'acqua verdetanto limpida che quando d'estatesul mezzogiornovi entra il solelo sguardo vi discende lungo tratto per le grandi alghe immobili e vede giù nel profondo qualche rara ombra di pesce passar lentamente sui sassi giallastri.
L'ala sinistra guarda il lago apertomontagne in facciamontagne a levante; a ponenteverso la pianurauno sfondo di collinedi prati rigati di pioppe cui si curva un arco di cielo. Tra levante e mezzogiorno il lago gira dietro un promontorioun alto scoglio rossastroa nascondervi la sua fine oscura; piccolo lago di misura e di famaambizioso però e orgoglioso della sua corona di montiappassionatomutabile; ora violettoora verdeora plumbeo; talvoltaverso la pianura anche azzurro. Là è il suo risolà si colora delle nuvole infocate al tramonto e brilla d'una sola fiamma quando il vento meridiano lo corruga sotto l'alto sole d'estate. Da tutte l'altre parti si spiegano i manti delle montagne boscose sino alla cimamacchiate da cenerognole scoscenditure di scoglida ombre di vallonida praticelli di smeraldo. A levante il lago mette capo a una valle; i monti vi ascendono a scaglioni verso l'Alpe dei Fiorilontane rocce dentate che tagliano il cielo. Dentro quella vallea breve distanza del lagosi vede la chiesa di un paesello; e anche dal lato oppostosul ciglio della costa che scende a morir nelle prateriebiancheggia un campanile fra i noci.
Alle spalle del Palazzo il piccone e il badile hanno vigorosamente assalita la montagna e conquistatone il cortile semicircolaredove mormora un getto cristallino che ricade ondulando tra gli eleganti gynereum e le ampie foglie degli arumquasi fiore animato di quella vegetazione tropicale. Altri due grandi mazzi ovali di fiori e di foglie si spandono ai lati di questofuor dalla ghiaia candida e fine. Per le muraglie di sostegno addossate al monte serpeggiano e s'incrocicchiano le mille braccia delle passifloredelle glicinede' gelsominifragili creature amorose che cercano dappertutto un sostegno e lo vestonogratedi fiori. Due fasci di passiflore si abbrancano pure agli angoli interni dei due fabbricati e salgono a gittar le frondi scarmigliate sin dentro la loggia.
A mezzo della muraglia di sostegnopropriamente in faccia alla loggiasale il monte tra il versante di mezzogiorno e quello di ponente un'ampia scalinata a ripianifiancheggiata di cipressi colossali e di statue. A destra e a sinistra si stendono reggimenti di vitiallineate in ordine di parata. Alcuni dei cipressi han perduto la cima e mostrano la fenditura nera d'un fulmine; i più sono intatti e potenti nella loro augusta vecchiaia. Paion ciclopi enormi che scendano solennemente dal monte a lavarsi; e mettono intorno a sé il silenzio dello stupore.
Delle statueappena otto o dieci durano su piedestallimascherati da fitti domino d'edera. Ne stendono fuori le braccia ignude e accennanosimili a minacciose sibille o piuttosto ninfe già sopraffatte e irrigidite da una strana metamorfosi. Il figlio del giardiniere seguiva quest'ultima interpretazione e usava porre loro in mano dei fasci di erbe e di fiori. A sommo della scalinata sta un'ampia vasca appoggiata ad una elegante parete greggia a mosaico biancorosso e neroripartito in cinque arcate intorno ad altrettante nicchieciascuna con la sua urna di marmo; in quella di mezzo una Naiade ignuda e ridente si curva sull'urnala inclina col piede; e n'esce a fiotti l'acqua che dalla vasca è condotta per un tubo nascosto a zampillare nel cortiletra i fiori. Sul piedestallo della statua sono incise le famose parole di Eraclito:
panta rei
Dalla bibliotecaposta all'estremità di ponente della villasi esce ad un giardinetto pensile coperto quasi tutto dall'ombra d'una superba magnolia. Una scaletta scoperta ne discende al cortile presso alla porticina della darsena e al cancello d'uscita. Si va di làper un'umile stradicciuolaa R...
All'altro capo della villa una massiccia balaustrata corre sul dorso agli scogli sporgenti dall'acqua. Dentro dalla balaustrata è un gran viale; dentro dal viale una lista di aiuole fioritequindi un'alta e spaziosa serra d'agrumi che nella buona stagione manda i suoi avamposticerti enormi vasi di limonea specchiarsi dai pilastrini della balaustrata nel lago chiaro. In fondo al viale il muro di cinta è dissimulato da una selvetta di abeti che lo accompagna su pel montecome un nastro neroavvolgente la casetta del giardiniere presso il cancelloche metteper un ripido viottolo conosciuto da noialla strada provinciale.
Con i suoi cipressicon le vignecon la collana d'abeticon il lago a' piedila villa sarebbe assai graziosa a guardare in fotografia a traverso le lenti d'uno stereoscopiose la scienza sapesse riprodurvi i verdi cupi e i brillantile acque diafane e il mobile riverbero del sole sulle vecchie mura. Si potrebbero immaginare davanti alle sue finestre ampie distese di lagofelici paesialtre villealtri giardini ridenti fra l'acqua e il cielo. Anche veduto con la sua scena solitaria e severail Palazzo non è triste. Fuori del recinto le sponde che guardano mezzogiorno verdeggiano di ulivi frequentiparlano di dolci invernate; e per la gran porta aperta laggiù verso la pianura dove il sole tramonta entrano le immagini e quasi il suono della intensa vita delle opere umane; per là escono gli occhi e l'anima quando hanno bisogno di veder lontanod'immaginare liberamente. Il Palazzo domina quel deserto con la sua grandiosità signorile; chi vi abita può credersi padrone di quanto vede; credersi un re superbo a cui nessuno osa accostarsii monti difendono il trono e le onde lambiscono i piedi.
«Dicono che non è male la vista qui» disse il conte entrando in loggia con Silla. «Pare anche a me sufficientemente passabile. Leggete là.» Gli additò una lapide sopra l'arco posteriore di mezzo.
Silla lesse:
EMANUEL DE ORMENGO
TRIBUNATU MILITARI APUD SABAUDOS FUNCTUS
MATERNO IN AGRO
DOMUM
MAGNO AQUARUM ATQUE MONTIUM SlLENTIO CIRCUMFUSAM
AEDIFICAVIT
UT SE FESSUM BELLO
POTENTIUM INGRATITUDINE LABORANTEM
HUC
VESPERASCENTE VITA RECIPERET
ATQUE NEPOTES
IN PARI FORTUNA
PARI OBLIVIONE
FRUERENTUR
MDCCVII.
«Eh!» esclamò il conterittodietro Sillasulle gambe aperte e con le mani congiunte sul dorso. «Questo mio buon bisavo ha assaggiati e sputati i recome vedete. È per questo che io non ne ho mai voluto rigustaree credo non servirei un rese non quando dovessi scegliere tra lui e il canagliume democratico. Un uomo di ferroquello lì. Non c'è che principi e democrazie per rompere e buttar via uno strumento simile. Uuh! Voi non credete quello?»
«Io sono devoto al re» rispose commosso il giovane «e mi sono battuto con lui per l'Italia.»
«Ahper l'Italia! Molto bene. Ma Voi mi dite il caso di un giorno e io parlo di istituzioni che si giudicano sulla testimonianza dei secoli. Anch'io tengo un segretario democratico e gli voglio molto bene perché è il più buono e onesto bestione della terra. Del resto se avete un ideale non lo voglio guastarequalunque esso siaperché senza ideale il cuore cade nel ventre.»
«E il Suo ideale?» disse Silla.
«Il mio? Guardate un poco.»
Il conte si affacciò al parapetto verso il lago.
«Voi vedete dove ho scelta la mia dimoratra le manifestazioni più alte della naturain mezzo ad una magnifica aristocrazia che non è punto riccama è potentevede molto lontanodifende le pianureraccoglie forza per la vita industriale del paesegenera aria pura e vivificantee non prende niente per tutti questi benefizialtro che la sua preminenza e la sua maestà. Io non so se Voi capite ora qual è il mio ideale politico e perché vivo fuor del mondo; res publica mea non est de hoc mundo. Andiamo.»
Il conte era un cicerone diligentissimofaceva osservare a Silla ogni menomo oggetto che potesse parer notevolespiegava i concetti dell'antenato di ferrofondatore del Palazzocome se avesse abitato nel suo cervello. Quel vecchio soldato aveva fatto le cose da gran signore. Casa d'invernocasa d'estate; tre piani per ciascuna: cucinecantinemagazzini ed altre stanze di servizio affondate a mezz'altezza nel suolo; scalone architettonico nell'ala di levante; grandi sale di parata ai primi piani. Queste erano state dipinte con fantasia sgangherata da un ignoto pittore che vi aveva tirato giù delle architetture romanzeschetutte loggeterrazze e obelischiroba dell'altro mondo; e delle farraginose scene militaricerte zuffe di cavalleria assai lontane dai precetti di Leonardoscorrettissime nel disegnoma non prive di vita.
«Sento» disse il conte facendole vedere a Silla «sento dai miei buoni amici che questo pittore è stato un goffo; anzi qualcuno si degna di dire un bue. Io non me ne intendo nientema mi fa molto piacere di udire quelloperché non amo gli artisti.»
Verissimo; non li amavané li intendeva. Possedeva molti quadrialcuni dei quali eccellentiraccolti in gran parte da sua madrenata marchesa B... di Firenzeche amava la pittura con passione. Il conte non ne capiva un iota e faceva sbigottire i suoi amicisnocciolando pacatamente le maggiori empietà. Avrebbe voltato di buon grado con la faccia al muro un ritratto di Raffaello e fatto fodere di un Tiziano; non ne gustava la vista più che della tela greggia e non avrebbe nascostoper tutto l'oro del mondoil suo pensiero. Gli erano meno odiosi i pittori arcaiciperché li trovava meno artistipiù cittadini. Non sapeva poi ragionare questo suo giudizio. Aveva invece in uggia particolare la pittura di paesaggio che stimava indizio di decadenza civilearte ispirata dallo scetticismodal disprezzo dei doveri sociali e da una specie di materialismo sentimentale. Non era uomo da disperdere i quadri prediletti da sua madrema li teneva prigionieri in un lungo corridoio al secondo piano a tramontanasopra la sala da pranzodove aurore e tramonti s'intirizzivano nelle loro cornici dorate.
Nell'entrare per uno dei due usci che mettono capo a questo corridoioparve a Silla che qualcuno fuggisse per l'altro; vide un lampo negli occhi della sua guida. Le tre finestre del corridoio erano spalancate; mapoteva venire dalle finestre quell'odore di mown-hay?
Uno degli antichi seggioloni di cuoio addossati alle pareti a eguali intervalli e spiranti gravità prelatiziaera stato trascinato per isghembo vicino alla finestra di mezzoin faccia a un Canaletto meraviglioso; e sul davanzale della finestra c'era un libro apertotutto sgualcito ma candidissimo.
«Vedete» disse il contechiudendo tranquillamente le invetriate della prima finestra «io tengo qui delle possessioni strabocchevoli. Tengo montagneboschipianurefiumilaghi e anche una discreta collezione di mari.»
«Ma qui» esclamò Silla «vi sono tesori!»
«Ah! la tela è molto vecchia e d'infima qualità.»
Così dicendo il conte mise il seggiolone a posto.
«Ma cometela! Ma questo soggetto venezianoper esempio?»
«Neppure Venezia mi piaceche pureassicuranovale qualcosa. Pensate questo!»
Prese il libro ch'era sul davanzale della seconda finestralo chiuseguardò il frontespizioecome facesse la cosa più naturale del mondolo gettò nel cortilee chiuse la finestra. In quel punto si udì un colpo furiosoun frangersi di lastreun grandinar di vetri rotti sulla ghiaia. Il conte si volse a Silla continuando il suo discorso come se nulla fosse stato. «Io non ho mai potuto soffrire quella luridapuzzolentecenciosa città di Veneziache perde a brani il suo manto unto e bisunto di vecchia cortigianae mostra certa biancheria sudiciacerta vecchia pelle schifosa. Voi dite in cuor vostro: Quest'uomo è una gran bestia! Non è vero? Sìme lo hanno fatto capire degli altri. Ooh! naturalmente. Notate che io sono un grande ammiratore de' veneziani antichiche ho parenti a Venezia e forse qualche poco di sangue veneziano nelle venedel migliore. Cosa volete? Sono un animale grosso ma nuovo in Italiadovegrazie a Diole bestie non mancano. Dove trovate un italiano bastantemente colto che vi parli come vi parlo io dell'arte? La grande maggioranza degli uomini educati non ne capisce nientema si guarda molto bene dal confessarlo. È curioso di star ad ascoltare un gruppo di questi sciocconi ipocriti davanti ad un quadro o a una statuaquando fanno una fatica del diavolo per metter fuori dell'ammirazionecredendo ciascuno di aver che fare con degli intelligenti. Se potessero levarsi la maschera tutti ad un trattoudreste che risata!»
S'affacciò alla terza finestrae chiamò:
«Enrico!»
Una voce quasi infantile rispose dalla cucina:
«Son qui! Vengo!»
Il conte attese un pocoe poi disse:
«Portami su quel libro.» Quindi chiuse la finestra.
Silla non si poteva staccare dai quadri.
«Starei qui un giorno» diss'egli.
«Anche Voi?»
Anche! L'altro chi era? Era forse la giovane signora di cui gli aveva parlato il vetturale? Il seggiolone fuor di postoil libroil profumo di mown-hay erano indizi del suo recente passaggio? Quella porta chiusa in frettaquel lampo degli occhi del conte?... Silla non aveva ancor visto al palazzo che il conteSteinegge e i domestici. Nessuno gli aveva nemmanco parlato d'altre persone.
Alcune ore più tardidopo aver girato per lungo e per largo il palazzo e il giardino senza trovar nessuno ed essersi ritirato per qualche tempo nella sua stanzanotòentrando nella sala da pranzo con il conte e Steineggeche quattro posate erano state disposte ai quattro punti cardinali della tavola. I commensali nordsud e ovest presero il loro posto; ma l'ignoto commensale dell'oriente non compariva. Il conte uscìtornò dopo dieci minuti e fece portar via la posata.
«Credevo che avrei potuto presentarvi mia nipote» diss'egli a Silla «ma pare ch'ella non si senta bene.»
Silla disse una parola di rammarico; Steineggerigido più che maiseguitò a mangiaretenendo gli occhi sul piatto; il conte pareva molto rannuvolatoe persino il cameriere che serviva aveva una fisionomia misteriosa. Per quasi tutto il pranzo non si udì nella sala scura e fresca che il passo ossequioso del cameriereil tintinnìo delle posate e dei bicchieri che si allargava tra gli echi della volta. Per le finestre socchiuse entrava un ampio strepito di cicalesi vedevano brillar nel sole le frondi del vignetocangiar colore l'erbe piegate via via dal vento. Là fuori si doveva stare più allegri.
3. Fantasmi del passato
Il sole era tramontato e le cicale non cantavano più. La costa boscosa in faccia alla biblioteca si disegnava nera sotto il limpido cielo aranciato che posava un ultimo lume caldo sul pavimento della sala presso alle finestreefuorisulle foglie lucide brune della magnoliasulla ghiaia del giardinetto. Per la porta aperta entrava l'aria fresca del vallone e lo stridìo dei passeri intorno ai cipressi.
Il conteseduto allo stesso posto della mattinasi teneva coperto il viso con ambe le maniappoggiando i gomiti al tavolo. Sillain faccia a luiaspettava che parlasse.
Ma il conte pareva di pietra; né parlavané si moveva. Solo qualche volta le otto magre dita nervose si alzavano dalla fronte tutte insiemesi tendevano; poiripiegandosiparevano volersi imprimere nell'osso. Silla guardava rotear sul pavimento l'ombra d'un pipistrello che non trovava la via di uscirebatteva le librerieil soffitto angosciosamente.
Anche dentro alla fronte severa del vecchio gentiluomo v'era un'angoscia di parole che non trovavan la via di uscire. Era l'ora che turba il cuore; quell'ora in cuimancando la lucele cose e le anime si sentono liberequasida una vigilanza fastidiosa; i monti paiono coricarsi a grande agio sul pianole campagne dilagano sopra i villaggi e casalile ombre pigliano corpoi corpi sfumano in ombranel cuore umano affondano le impressionii pensieri del presentee vien su un movimento confuso di ricordanze lontanedi fantasmi che inteneriscono e fanno sospirare in silenzio.
Ad un tratto il conte alzò con impeto il viso e disse:
«Signor Silla!»
Tacque un momento e riprese lentamente:
«Quando avete letto la mia letterail nome che vi trovaste sotto Vi era sconosciuto?»
«Sconosciuto.»
«Non era nella memoria Vostra la traccia più lieve di questo nome?»
«Nessuna.»
«Dalle persone con le quali avete vissuto non udiste mai parlare di qualcuno il cui nome non era pronunciato e che avrebbe potuto trovarsi un giorno nelle circostanze più difficili della vita?»
«No. Da chi ne avrei inteso parlare?»
Il conte esitò un istantepoi ripeté a voce bassa:
«Dalle persone con le quali avete vissuto.»
«Mai.»
«Vi ricordate almeno di aver veduta la mia fisionomia?»
Silla era sorpreso di tanta insistenza.
«Ma no» diss'egli.
«Eppure» ripigliò il conte «or sono diciannove anniun giorno in cui vi si era punito severamente per avere spezzato un vaso di cristalloall'uscire da uno stanzino buiodove Vostro padre vi aveva tenuto chiuso per parecchie orevedeste un momento il mio ritratto.»
Silla balzò in piedi; il conte si alzò pure edopo un momento di silenziogirato il tavoloandò a piantarsi presso il suo interlocutorevoltando il viso al chiarore morente del crepuscolo.
«Vi ricordate?» diss'egli.
Silla rispose stupefatto. Non ricordava il ritrattoma sapeva benissimo d'aver spezzato il vaso di cristallo e d'essersi rifugiatodopo il castigonella stanza di sua madre.
«Vedete che Vi conosco da lungo tempo. Ne dubitate? Adesso vado a dirvi quello che so di Voi.»
Il conte si pose a camminare su e giù parlando. Si udiva il suo vocione andare e venire per la sala piena d'ombra: si vedeva la sua figura bizzarra illuminarsi e oscurarsi a vicendaquando passava davanti alle finestre.
«Voi siete nato nel 1834 a Milanoin via del Monte di Pietà. Vostra madre Vi diede il suo latteVostro padre vi diede una culla d'argento e una bambinaia brianzuola che doveva esser creduta dal mondo la Vostra balia. Questa donna è morta appena lasciato il Vostro servizio. Voi non la potevate soffrirenon è vero?»
«Non lo ricordo; me l'hanno dettoperò; me l'ha detto più volte mia madre.»
«Sicuramente. Volete sapere qual è il Vostro ricordo più lontano? Questo. Avevate cinque anni. La sera di un giorno in cui vi era stato in casa Vostra un insolito affaccendarsi di serviun trambusto d'operai e si eran portate montagne di dolci e di fioriVi posero a letto prima dell'ora solita. A tarda notte foste svegliato da un suono di musica. Poco dopol'uscio della camera si aperse. Vostra madre venne a chinarsi sopra di VoiVi baciò e pianse.»
«Signor conte!» esclamò Silla con voce soffocata «come fa Lei a sapere queste cose?»
«Alcuni anni più tardi» continuò senz'altro il vocione del conte «quando Voi ne avevate tredicinel 47 insommaavvenne in casa Vostra qualche cosa di straordinario.»
Il vocione tacqueil conte si fermòlontano da Sillacon le spalle alla porta del giardinetto.
«Non è vero?» diss'egli.
Silla non rispose.
Il conte riprese la sua passeggiata.
«È forse crudele» proseguì «di ricordare queste cosema io non sono amico di certe mollezze sentimentali moderne; io credo che è molto bene per l'uomo di ripassare ogni tanto le lezioni e i precetti ch'egli ha avutodirettamente o indirettamentedalla sventurae di non lasciarne estingueredi rinnovarne il doloreperché è il dolore che li conserva. E poi il dolore è un gran ricostituente dell'uomocredete; e in certi casi è un confortante indizio di vitalità moraleperché dove non vi è dolorevi è cancrena. Dunquenel 47 accadde in casa Vostra qualche cosa di straordinario. Andaste a dimorare parecchi giorni a Sestoin casa C... La carrozza che vi ricondusse a Milanosi fermò davanti ad un'altra casain via Molino delle Armi. Era una casa molto diversa da quella del Monte di Pietà e vi avete fatto una vita molto diversa. Non più servinon più ricche suppellettili. Voi sapeteuna parte di quelle suppellettilidove si trova.»
«Ma come?..» interruppe Silla.
«Furono vendutenaturalmente.»
«Ma perché Lei?..»
«Quello è diversone parleremo in seguito. Cosa dicevo? AhVoi siete dunque andato ad abitare un quinto piano in via Molino delle Armi. Dalla finestra di una camera da letto si vedevano queste montagne. Lassù avete cominciato a fare anche Voi il solito sogno di diventare qualche gran cosa e di empire il mondo del Vostro nome.»
«Signor conte» disse Silla «mi pare che basti. Dica cosa desidera da me!»
«Più tardi. Non è vero che basti. Vado a dirvi dei fatti della Vostra vita che non sapete Voi stesso. Vi è dunque venuta questa salutare follìa della gloriache Vi ha preservatocon una promessa fatta di nientedalle solite corruzioni. Sciaguratamente avete pensato a procacciarvi la gloria con gli scritti invece che con le azioni. Lasciatemi dire; sono un vecchio. Con gli scritti letteraripoi! E non avete avuto la forza di caratterela fiducia in Voi stesso che ci voleva per seguire da uomo questo proposito. Invece di chiudervi nel Vostro bozzolo della letteraturasiete andato a Pavia. Cosa avete studiato a Pavia?»
«Leggi.»
«Tutto fuorché leggi avete studiato. Lo sovolevate una carriera proficuapensando a Vostra madre; ma allora bisognava volere virilmente: tagliarsi via mezzo il cuore e andare avanti col resto. Cosa avete fatto al vostro ritorno da Pavia? Avete pubblicato un romanzo. Ecco il fatto che non sapete. Quel poco di oro che Vostra madre Vi diede perché servisse alla stampa del libronon era puntocome ella Vi disse e Voi avete credutoun dono de' suoi parenti; il giorno prima ell'aveva portato al gioielliere i suoi ultimi brillantiuna memoria cara di famiglia.»
«Il Suo diritto?» esclamò Silla slanciandosi verso il conte. «Il Suo diritto di sapere queste cose?»
«Il mio diritto? Questione molto oziosa. Vostro diritto è sicuramente di vedermi in faccia.»
Il conte suonò.
Silla tacevaansante. Il conte andò ad aprire l'uscioe aspettò fin che udì il passo nel corridoio.
«Lume!» diss'egli; e andò a sedersi al tavolo.
«Non è veronon è vero!» disse Silla sottovoce. «Non fui questo sciagurato ch'Ella dice! Me lo provise può.»
Il conte non rispondeva.
«Io» continuò Silla «che avrei dato il sangue per mia madreche l'adoravoche non volevo neppure quel denaro perché i parenti di mia madre non potevano soffrire ch'io scrivessieconoscendolitemevo s'irritassero contro mia madre per causa mia!»
Il conte si pose l'indice alle labbra. Un domestico entrò con il lumelo pose sul tavolo e si ritirò.
«Quando io affermo una cosamio caro signore» disse il conte «è provata.»
«Ma in nome di Diochi!...»
«Adesso lasciamo stare. Io non voglio accusarvi di avere accettato un sacrificio simile. Voi non lo sapevate. Del resto la vita è così. Vi è sempre nei giovani questa baldanza ridicola di credere che la terra è beata del loro piede e il cielo del loro sguardomentre i loro genitori pestano fango e spine per portarli avantinascondendo quello che soffrono proprio negli anni in cui il loro corpo invecchiail loro spirito è stancoe tutte le dolcezze della vitaad una ad unase ne vanno.»
«Dio! Se fosse veromi vituperim'insulti!»
«Io non vi ho fatto venire in casa mia per vituperarvi. E poise avrete figlipagherete. Bisognerebbe vituperar Voime e tutta questa buffonesca razza umana. Proseguiamo. Il Vostro libro non ebbe fortuna; per verità mi pare di potermi rallegrare con Voiche la fortuna non è Vostra amica. Nel 58...»
Il conte si fermò e poi riprese a voce bassissima:
«Non è a temere che Voi dimentichiate mai il colpo che riceveste nel 1858.»
Tacque daccapoe per qualche momento durò non interrotto il silenzio.
«Devo pur dirvia questo punto» riprese il conte «che se io V'intrattengo sui casi della Vostra vita oltre quanto sarebbe necessario per dimostrare che Vi conosco benesi è perché intendo di meglio giustificare in tal modo le proposte che vado a farvi. Dunquenel 59 avete fatto il Vostro dovere e Vi siete battuto per l'Italia. Vostro padre...»
«Signor conte!»
«OhVoi mi conoscete molto male se potete credere che io voglia offendere davanti a un figlio la memoria di suo padreanche se quest'uomo ha commesso degli errori e ha meritato delle censure. State tranquillo. Vostro padre non era più a Milano quando vi siete tornato Voi. Era nel paese straniero dove intendo che ha cessato di vivere due anni sononel maggio del 62. Vi trovaste solo colla Vostra letteratura. Allora foste improvvisamente chiamato a insegnar lingua italianageografia e storia in un istituto privatodi cui non conoscevate neppure il nome. Avete mai saputo come quei signori abbiano scelto appunto Voi?»
«No.»
«Non importa. In quel tempo avete avuto una offerta dai parenti di Vostra madredai Pernetti Anzatinon è vero? Volevano che entraste nella loro Filatura e Vi offrivano un lauto assegno; non è così?»
«Sìma è forse Lei che mi ha fatto eleggere?...»
«Non importaVi dico. Avete rifiutata l'offerta dei Pernetti Anzati. Fatto benemolto nobilmente. Meglio un lavoro che frutta poco pane e molta civiltàdi un lavoro che converte in denaro il tempola salute e una buona parte dell'anima. Ma adesso l'istituto al quale appartenevate ha fatto cattivi affari e venne chiuso. Io credo che Voi non sarete malcontento di occuparvi in qualche altro modo degnoed è per questo che Vi ho pregato di venire da me.»
«La ringrazio» rispose Silla asciutto asciutto. «Prima di tuttoposso vivere.»
«Oh!» interruppe il conte. «Chi parla di questo? Lo so benissimo. I Pernetti Vi passano l'interesse di una parte della dote di Vostra madre che si trattennero sempreun migliaio e mezzo di lire circa. E poi?»
«E poi» proruppe Silla con forza «voglio sapere finalmente chi è Leiperché si occupa di me!»
Il conte indugiò un poco a rispondere.
«Io sono un vecchio amico della famiglia di Vostra madree Vi porto molt'affezione per la memoria di persone che mi furono assai care. Le circostanze della vita ci hanno tenuti lontani fino ad oggi; un male che noi ripareremo. Vi basta quello?»
«Perdoninon mi può bastare; è impossibile!»
«Ebbenemettiamo un poco da parte la mia amicizia. In fine dei conti non è un beneficio che io Vi offroè un favore che Vi domando. Io so che avete molto ingegnomolta culturache siete probo e che Vi è mancata la Vostra occupazione ordinaria. Io ho a proporvi un lavoro di lunga lenamezzo scientifico mezzo letterariodi cui ho raccolto i materiali e che amerei fare io stesso se fossi mai stato uomo di pennao almenose avessi l'età Vostra. Questi materiali sono tutti quipresso di mee io desidero mantenere una continua comunicazione d'idee con la persona che scriverà il libroil quale dovrà quindi essere scritto in casa mia. Questa persona mi farà le sue condizioninaturalmente.»
«Io non esco di quasignor conte» rispose Silla «se Ella non mi dice come ha potuto sapere le cose che ha narrate!»
«Dunque non volete che trattiamo di questo lavoro?»
«Cosìno.»
«E se io adoperassi i buoni uffici di una persona che ha grande autorità sopra di Voi?»
«Pur tropposignor contenon vi è nessuno al mondo che abbia grande autorità sopra di me.»
«Io non Vi ho detto che questa persona sia viva.»
Silla provò una scossaun formicolìo freddo nel petto.
Il conte aperse un cassetto del tavolone trasse una lettera e gliela porse.
«Leggete» diss'eglie si gettò addietro sulla spalliera della seggiola con le mani in tasca e la testa china sul petto.
L'altro afferrò rapidamente la letterane lesse la soprascritta e fu preso da un tremito violento che gli tolse di proferir parola. V'era scritto di pugno di sua madre:
PER CORRADO
Tremava così forte che poté a mala pena aprir la lettera. La voce cara di sua madre gli pareva venir dal mondo degli spiriti per dir parole non potute dire in vita e sepolte nel suo cuore sotto una pietra più grave di quella della tomba. Le parole erano queste:
Se ti è cara la memoria miase credi ch'io abbia fatto qualche cosa per teaffidati all'uomo giusto che ti dà questa lettera. Dal paese della pace dove spero m'abbia posato la misericordia di Dio quando la leggeraiti benedico.
La mamma
Nessuno dei due parlò. Si udì un singhiozzo disperatoprepotente; poi più nulla.
Ad un tratto Sillacontro la sua ragionecontro la sua volontàil suo cuore istessoguardò il conte con tale angosciosa domanda negli occhi sbarratiche quegli menò un furibondo pugno sul tavolo esclamando:
«No!»
«Dio! Non ho voluto dir questo!» gridò Silla.
Il conte si alzò in piedi e allargò le braccia.
«Amica venerata» diss'egli.
Silla piegò la testa sul tavolo e pianse.
Il conte aspettò un momento in silenzio e poi disse a bassa voce:
«Vidi Vostra madre per l'ultima volta un anno prima del suo matrimonio. Ella mi ha scritto poi molte lettere di cui Voi eravate il solo argomento. Ecco perché io conosco molti particolari intimi della Vostra vita. Dopo il 58 sono stato informato da certi amici miei di Milano. Voi comprenderete facilmente perché abbiate ritrovato in casa mia quelle suppellettili; esse mi ricordano la persona più virtuosa e più rispettabile che mi abbia onorato della sua amicizia.»
Silla stese ambedue le mani verso di lui senz'alzare il capo dal tavolo.
Il conte gliele strinse affettuosamentele tenne qualche momento fra le sue.
«Dunque?» diss'egli.
«Oh!» rispose Silla alzando la testa.
Era detto tutto.
«Bene» rispose il conte «adesso usciteuscite subitoandate a pigliar aria. Vi faccio accompagnare dal mio segretario.»
Suonò e fece venire Steinegge che si misetutto sorridenteagli ordini del signor Silla. Egli si professava lieto dell'onorevolissimo incarico. Non sapeva se gli abiti che si trovava indosso fossero degni dello stesso onore. Sì? Ringraziava. Se n'andò finalmente con Sillastrisciando inchini e facendo infinite cerimonie ad ogni usciocome se al di là della soglia vi fosse stata una torpedine. Appena uscito dal cancello del cortilemutò modi e parole. Prese a braccetto il compagno: «Andiamo a R...» disse «bisogna bere un pococaro signor.»
«No» rispose Silladistrattonon sapendo ancora bene in che mondo si fosse.
«Ohnon dite noio vedo. Voi siete seriomolto serio; io poi sono serissimo.»
Steinegge si fermòaccese un sigarosbuffò una gran boccata di fumobatté con il palmo della destra la spalla del suo interlocutore e disse ex abrupto:
«Oggi sono dodici annimia moglie è morta.»
Fece un passo avantipoi voltossi a guardar Sillacon le braccia incrociate sul pettole labbra strettele sopracciglia aggrottate.
«Andiamovoglio raccontarvi questo.»
Eripreso il braccio di Sillatirò avanti a passi sgangheratifermandosi di tratto in tratto su' due piedi.
«Ioper il mio paesemi sono battuto nel 1848Voi sapete. Io lasciai il servizio austriaco e mi battei nel Nassau per la libertà. Benequando si calò il sipario fui gittato per grazia alla frontiera con mia moglie e mia figlia. Sono andato in Svizzera. Là ho lavorato come un canecol picconesopra una linea di ferrovia. Non dico nientequesto è un onore. Sono di buona famigliafui Rittmeisterma fa nientequesto è un onoredi aver lavorato con le mie mani. Il male era che non guadagnavo abbastanza. Pensatesignormia moglie e mia figlia pativano la fame! Allora con l'aiuto di alcuni compatriotisi andò in America. Sìsignorsono stato anche in Americaa New York. Ho venduto birraho guadagnato. Ohandava bene. Es war ein Traum. Sapete? Era un sogno. Mia moglie ammalò di nostalgia. Si stava bene a New Yorksi prendevano dollarisi avevano molti amici. Ebbenecosa è tutto questo? Partiamoarriviamo in Europa. Io scrivo a' miei parenti. Sono tutti reazionari e bigotti; io sono nato cattolicoma non credo ai preti; non mi rispondono. Che importava loro se mia moglie moriva? Scrivo ai parenti di mia moglie. Cose da rideresignor. Quelli mi odiavano perché avevan creduto dare la ragazza a un ricco e il poco che mio padre non aveva potuto togliermi era stato confiscato dal governo. Ohè bellissima. Però mio cognato venne a Nancydov'ero io. Mia moglie partì con la bambinasperando guarire presto e ritornare. L'accompagnai alla frontiera. Stava male; dovevamo lasciarci a mezzogiorno. Un'ora prima mi abbracciò e mi disse: "Andreaho visto il paese da lontano: bastarestiamo insieme." Capitesignor? Voleva morire con me. Otto giorni dopo...»
Steinegge compì la frase con un gesto e si cacciò a fumare furiosamente. Silla taceva semprenon gli dava rettaforse non l'udiva neppure.
«I parenti di mia moglie» continuò l'altro «hanno preso la bambina. È stata una carità perché la piccina non sarebbe stata bene con me soloe con questo pensiero ch'ella si trovava meglio io ho potuto soffrire molto allegramente. Ma credete che non mi hanno mai data una notizia? Io le ho scritto ogni quindici giornisino a due anni or sono; non mi ha risposto mai. Potrebbe anche non essere più al mondo. Cosa è questo? Si bevesi fumasi rideooh!»
Dopo questo epilogo filosofico il segretario tacque. Era notte oscura. La stradicciuola tagliava per isghembo un pendìo cespuglioso dal vallone del palazzo alle prime nere casupole di R... Abbassoil lago dormiva. Nel Palazzo si vedevano ancora illuminate le finestre della biblioteca e altre due nella stessa alasull'angolo del secondo piano; una verso ponentel'altra verso mezzogiorno. Prima di toccar le casupoleil sentiero svoltava fra i due muricciuoli bassiin un avamposto di granoturco e di gelsi.
«Dove andiamo?» domandò Silla affacciandosi all'entrata scura del villaggio.
«Solo un poco avanti» rispose Steineggeincoraggiandolo.
«Le sarei grato se ci fermassimo qui.»
Steinegge sospirò.
«Come volete. Fuori del ciottolatoallora.»
Ritornarono un passo indietro dai muricciuoli e sedettero sull'erbadalla parte del ponte.
«Io faccio come voletesignor» disse il segretario «ma questo è molto male per Voi di non bere. Gli amici delle ore tristi sono pochi e il vino è il più fedele. Non bisogna trascurarlo. Mostrategli di vederlo volentieriVi accarezza il cuore: trattatelo male ese un giorno ne avrete bisognoVi morderà.»
Silla non rispose.
Era dolce a contemplarenello stato d'animo suola notte senza luna e senza stelle. Dal vallone spirava una tramontana frescapregna d'odor di bosco.
Erano lì da pochi minuti quando udirono a destra fra le casupole un suono cupo di molti passiche si allargò subito all'aperto e si fermò.
«OohAngiolina!» chiamò qualcuno.
Silenzio.
«OohAngiolina!»
Una finestra si aperse e una voce femminile rispose:
«Che volete?»
«Nientevogliamo. Siamo qui al caffè della valle a prendere come i signorie vogliamo far quattro chiacchiere.»
«Maledetti ubbriaconiè questa l'ora di far chiacchiere? Dovevate stare all'osteria a far chiacchiere.»
«Ci è troppo caldo» saltò su un altro. «Si sta meglio qui a cavallo de' muri. Non sentite che bel freschino? Come volete fare a dormire? L'è pazzia stare a letto con questo caldo. Non è andato a letto neppure il vecchio del Palazzo stasera. Non vedete che ha ancora acceso il lume?»
«Non si vede da qui. Sarà il lume della signora donna Marina.»
«Oh adesso! Mai più. C'è bene anche quelloma le due finestre chiareabbassosono quelle dei libri. Ho mica da saperlo? Sono stato giù l'altro giorno a metterci due lastre.»
«Ci hanno ad essere de' forestieri» disse un terzo.
«Sìc'è un giovinotto di Milano. L'ha detto il cuoco stasera alla Cecchina. Ci deve essere per aria di combinar qualche cosa con la signora donna Marina.»
«Stia allegro chi la togliequella lìche toglie un bel baloccosì!» disse la donna. «Ha detto così la signora Giovanna alla Marta del signor curatoche hanno attaccato lite anche oggi e che luiil vecchiole ha sbattuto giù il libro dalla finestrae lei allora ha fatto il demonio. La signora Giovanna tiene dal suo padronema già sono matti tutti e due. Solo per il nome non la vorrei quella lìse fossi un uomo. Ha un gran nome da stregasapete. Malombra!»
«Oh sìsìcome ha ragione quella donnada strega!» disse piano Steinegge. «Questo è divertente.»
«E mica Malombraè Crusnelli.»
«Malombra!»
«Crusnelli!»
«Malombra!»
Si riscaldavanogridavan tutti insieme.
«Andiamo via» disse Silla.
Si alzarono e ridiscesero verso casa.
Quando giunsero in fondo al seno del Palazzodove faceva tanto buio che Steinegge si pentì di non aver preso seco la lanternasaltò su nel silenzio il suono chiaro e dolce d'un piano. Rischiarò la notte. Non si vedeva nulla ma si sentivano le pareti del monte intorno alle note limpidesi sentivasottol'acqua sonora. In quel deserto l'effetto dello strumento era inesprimibilepieno di mistero e di immaginazioni mondane. Era forse un vecchio strumento stancoe in cittàdi giornosi sarebbe disprezzata la sua voce un poco fessa e lamentevole; pure quanto pensiero esprimeva lì nella solitudine buia! Pareva una voce affaticataassottigliata dall'anima troppo ardente. La melodiatutta slanci e languori appassionatiera portata da un accompagnamento leggerocarezzevolecon una punta di scherzo.
«Donna Marina» disse Steinegge.
«Ah» sussurrò Silla «che musica è?»
«Ma!» rispose Steinegge «pare Don GiovanniVoi sapete: Vieni alla finestra. Suona quasi sempre a quest'ora.»
In biblioteca non c'era più lume. «Il signor conte arrabbia adesso» disse Steinegge.
«Perché?»
«Perché non ama la musica e quella lo fa apposta.»
Silla zittì con le labbra.
«Come suona!» diss'egli.
«Suona come un maligno diavolo che abbia il vino affettuoso» pronunciò Steinegge. «Vi consiglio di non credere alla sua musicasignor.»
4. Cecilia
Donna Marina Crusnelli di Malombra alla signora Giulia De Bella
... 26 agosto 1864
Graziosissima toilette! Ma come t'è venuta la povera idea dei myosotis? Non ti scordar di mea destra; non ti scordar di mea sinistra; non vi scordate di mesignori e signore. Forse uno è caduto sulle spalline di quel caro D... - un altro ha preso fuoco nei favoriti rossi del conte B... - un terzo l'ha raccolto da terra il bambino lungo della padrona di casa e lo custodisce nella grammatica latina. Buon Diose non ne fosse rimasto alcuno per tuo marito! Quando lo darò io un ballo campestrevedrai come sarò.
Mandami una boccettina d'egnatia; ho i nervi scordati come un pianoforte di collegio. È mezzanotte e non possiamo dormire né io né il lago che se ne lagna qui sotto. Vi è Saetta qui grogne nelle sue catene e vorrebbe farsi scioglierepartire con me. Bell'idea! Vi verrebbero i brividi a te e ai prodi che pasci a quest'ora di cigarettes e di thèse mi poteste vedere vagar sola per le ondein lanciacome una selvaggia. Ma noti sacrifico il capriccio di Saetta e anche il mio: perché davverose non ti avessi a scrivereuscirei volentieri.
Dimmiperché l'inchiostro di mio zio non asciuga mai? Dimmiperchéin settembreviene al Palazzo mia cugina la contessa Fosca Salvador e Sua Eccellenza Nepomucenodetto Nepofiglio della medesima?
Sìci penso. Perché no? Perché non potrei sposare il sior Nepo e andarmene lontano e dimenticare persino il nome di questa prigione odiosa? I Salvador hanno in Venezia un palazzo tra bizantino e lombardocolor mattonepiantato nell'acqua verde fra due rii deserti e puzzolentitutti belletta e cenci. Saiuna macchia d'Orienteun Canalettoun Guardi vivo da starvi volentieri due mesi all'annonon però con la vecchia contessa ch'è un gran sacco scucito di chiacchiere trite e peste. Nepo non so che sia. Lo vidi una volta a Milano. Ha un'aria soddisfattaun parlar molle e rotondo che me lo fece parer di fior di latte sbattuto. Intesi dire allora ch'era studiosissimo di economia politica e cheaspettando la liberazione del Venetosi preparava a farsi eleggere deputato del paese dove ha la sua contea di risaie. Perciò G...che non lo poteva soffrirelo chiamava un personaggio d'anticamera. La contessa Foscache io ho udita parlare di mio zio con orroreha annunciata questa visita con due lettereuna per mio ziouna per metenerissimatanto che non ha creduto di metterci neppure una consonante doppia.
Altra novità: abbiamo al Palazzo un principe nero. Ti parlerò di lui: un tema che potrà forse conciliarmi il sonnofermare la mia penna che va e va come punta da una tarantola.
Neroprima di tuttosìlo è moltotranne forse ai gomiti della redingote; principenoin nessun modo. È un piccolo borghesein apparenza. Lo chiamo "principe nero" per il suo contegno chiuso di personaggio misterioso.
E poi per la leggenda. Ohc'è una leggenda! Sai che la munificenza di mio zio mi ha concesso per barcaiuolo il figlio del giardiniereun paggio malizioso di tredici anni. Un po' da luiun po' dalla mia camerieraun po' dai muri che ne sono pieniho udito i sussurri che seguono alle spalle questo signore. Egli sarebbe figlio di un'antica amorosa di mio ziomorta a Milanoanni sonoin miseria; lo si sarebbe richiamato qui per predisporreadagio adagioun matrimonio di famiglia.
CapisciGiulia? L'austero anacoreta avrebbe avuta la sua Capua! Giuliaio non ho ancora conosciuto un uomo degno d'essere amato da mema io amo l'amorei libri e la musica che ne parlanoe non mi lascerò far la morale da un libertino depurato nel vuoto! Quanto al pericolo che si pretenda tingere la mia mano di questa roba poco pulitalo sai bene: è un pericolo per loronon per me.
È arrivato al Palazzo un quindici giorni sonoprima della nottecome un vero pacco di contrabbando. Il giorno dopo ebbi una gran scena drammatica con mio zioil quale pretende aver diritto di vita e di morte sui miei libri francesipresi fuori delle mie camere; e mi buttò orsinamente dalla finestra un de Musset che avevo lasciato davanti al mio caro Canaletto. Quel giorno vidi il principe nero da lontanoma non discesi a pranzo benché mio zio venisse a pregarmenetutto mansueto come diventa sempre dopo le sue violenze. Il giorno dopo quel signore partì; ritornò il 18 con armi e bagagli e si accampò definitivamente qui. Comprendi che in questi dieci giorni ho pur dovuto trovarmi con lui.
Io credo tuttosaiquello che se ne dice: ma mio zio mi conosce e mi fa della diplomazia. Non mi ha mai parlato di lui né avantiné dopo il suo arrivo. Già le relazioni nostre sono tali che tutto il mondo può andare e venire dal Palazzo senza ch'egli me ne parli. Lo tiene sequestrato quasi tutto il giorno in biblioteca. A tavola non discorrono che di studi. Chi non sapesse il fondo delle cose direbbe che vuol fargli sposare il signor Steinegge e non meperché li fa lavorare insiemeli manda a passeggiare insiemeogni dopo pranzoanche quando piove. Del restoquesti due signorisono stati presi d'amicizia fulminante l'uno per l'altro. Te l'ho già descrittami parel'antipaticissima figura che sta qui a tradurre dal tedesco per mio zio? Les deux font la paire. Tempo addietro colui voleva far meco il grazioso e lo spiritosoma l'ho messo molto bene a posto; e ora ci ho messo anche il suo amico cheil giorno dopo la sua presentazionesi è dimenticato sino a stendermi la mano. Per verità mi ha inteso in aria e si è trattenuto prima di stenderlama ne cominciò l'atto. Una mano niente affatto borghese; simile a quella di mio zio che l'ha di razza. Dopo si è tenuto beneorgogliosamente; debbo rendergli questa giustizia. Nota che gli ho fatto impressionesenza mia colpa. L'ho sentito fin dal primo momento e posso ben dirloperché la cosa è tanto poco lusinghiera! Io non sono come tecara Giuliache per cinque minuti civetterestisii sinceracon un commesso viaggiatore. Il principe nerose vuoi saperlomostra una trentina d'anni; non è belloma neanche si può dir brutto; ha degli occhi non privi d'intelligenza; alla mia cameriera potrebbe anche piacere. A me è antipaticoodiosoodiosissimo. Bada benenon per gelosia di ereditiera in pericolo; non so abbassarmi a queste cosenon le comprendo neppure. E basta.
Cosa faccio? Sempre la stessa vita. Leggosuonoscrivopasseggiovado in barcae adesso mi batto anche alla pistola con la noia. Alla lettera! Sai le belle pistole da sala che il povero papà aveva regalate a miss Sarah e a me? Dopo quattr'anni mi son ricordata d'aver qui le mie e tiro sulle statue del giardinospecialmente sopra una Flora annerita che somiglierebbe tutta alla mia istitutricese riuscissi a farle un viso butterato come aveva lei. Mi piglio poi dei divertimenti extra. Per esempiouna sera o l'altra voglio andar io al rendez-vous notturno che il vecchio medico ridicolo del paese cerca ottenere da Fanny. Mi affretto di dirti che aspetto la luna.
Ohe la corrispondenza amorosa? Troncatamia caratroncata netta dall'ultima lettera di Lorenzo che mi hai spedita. Così non avrai più scrupolinon farai più ritirar lettere ferme in postaalmeno per conto mio. Egli voleva una passione azzurraun legame filosofico sentimentale alla tedescafigurati! e si è offeso del mio tono leggeromi ha scrittoper rompereuna tirata piena di fuoco e d'orgoglio con certe sciabolate che vi gettano un ghiaccio nel sangue. Mi fa l'onore di attribuirmi qualche spirito; e poigiù una sciabolata: cos'è lo spirito? Un vano e freddo luccicare di acque percosse dalla luna. Io domando: se le acque che luccicano sono lo spiritocos'è la luna? Anch'essa è freddama non è vanaè reale e solida. Che il luccicare dello spirito non venga da qualche freddo lume di veritàda qualche alta e desolata negazione! Allora lo detesto anch'io come questo pedante di Lorenzoperché credonon però come quando ci trovavamo all'ultima messa di S. Giovanni alle Case Rotte; molto diversamente. Non c'è più nessuno che mi possa dire: Mademoiselle! Ah se tu sapessiGiuliacosa vi è nel mio cuore e quale tormento sono le insonnie per me! Ma né tu né altri mai lo saprà.
Perdonamiti bacio un momento e vado alla finestra a sentir discorrere le onde.
Ritorno a te. - Fortunatamente le onde hanno una voce monotonasono poverissime d'idee e si ripetono a sazietà; pare che recitino il rosario. E il sonno vieneviene con le ombre leggere della contessa Foscadel conte Nepo e dei loro bauli.
Addiomyosotis.
Marina
Poi ch'ebbe scritta questa lettera nervosadonna Marina si alzòandò a contemplarsi in uno specchio. Dall'ampio accappatoio uscivacome da una nuvola biancail collo sottileelegantee fra due fiumi di capelli biondo-scuriove lucevano due grandi occhi penetrantifatti per l'impero e per la voluttà. Il visoil colloil senodi cui si vedeva una riga tra il biancoavevano lo stesso pallore caldo. Si guardò un momentosi gittò alle spalle con una scrollata di testa i due fiumi di capelli e chi sa quanti pensieri torbidiandò a posar la candela sul tavolino da nottepicchiando forte il marmo con l'argentocome per fare oltraggio al silenzio e alla solitudine.
Ed ora cheperseguitata nel sonno da qualche tenace inquietudineelle dorme agitando di frequenti sussulti le lenzuolamentre tutti gli abitatori del vecchio Palazzo dormono pureparliamo a voce bassa di donna Marina e di quello che aveva in cuore.
5. Strana storia
Ell'era figlia unica di una sorella del conte Cesare e del marchese Filippo Crusnelli di Malombragentiluomo lombardo che visse in Parigi tra il 49 e il 59sciupandovi un pingue patrimoniomobilizzato in fretta e in furia dopo Novara. Marina perdette colà sua madre e passò dalle mani di una severa istitutrice belga a quelle di una governess inglesegiovanebella e vivace. Quando il marchese tornò a Milanonel novembre del 59Marina aveva diciott'anniuna flora romantica in testauna guida stordita al fianco e sulle labbra un sorriso sarcastico che le faceva pochi amici. In quell'inverno 1859-60 che lasciò a Milano splendida memoria di sélo spensierato marchese Filippo volle rientrare da Parigi nella società milanese col fracasso d'una vettura da Posta che tuona per le borgate. Diede pranziballi e cene dove miss Sarah faceva gli onori di casa. Alcune vecchie dame parenti del marchese mossero gravi rimostranze al «caro Filippo» con la solennità di chi adempie un alto ufficio ed esprime in pari tempo il giudizio di una casta venerabile. Cadute a vuoto le loro paroleruppero le relazioni diplomatiche e non vollero più sapernedi quel «povero Filippo». Così almeno usavano dire agli amiciprovocandone la maldicenza adulatrice a carico del marchesedi miss Sarah e di Marina; sopra tutto di miss Sarah. E gli amici venivano spesso a portar loro qualche ghiotta primizia di scandalotutta avvolta di parole blande. - La X e la Y hanno rifiutati gli inviti del marchese; altre lettere dell'alfabeto li accettanoma sono sempre d'un freddo con miss Sarah! La R. le ne ha fatte intendere di ben chiarecome sa far lei. Pare che miss ricondurrà presto Filippo a Parigi: forse con l'esercito francese. Corrono dei mauvais propos che sentono il punch e i sigari; si dice che miss partirà con la cavalleriadonna Marina con l'artiglieriae Filippopovero Filippo! lo fanno partire con la fanteria.
Perché con la fanteria?
Perché nei suoi affari si comincia a non veder chiaroanzi a vederci molto scuroun buco neroun pozzouna voragine. Pare che questo gran train gli pesiche lo subiscache sia voluto da Sarahla quale non sa il vero stato delle cose e amerebbe gittar Marina sulla testa di qualcheduno e poi fare il gran colpo... si capisce! S'è fatto avanti per Marina quello sventurato del ragazzo Ratti; ma suo padreavute certe informazioni da Parigilo ha spedito a Costantinopoli. Quell'eterno freddurista di R... ha detto che se i ratt scappanoè segno che casa Crusnelli sta per affondare.
Queste cose raccontavano alle vecchie dame gli amici. Infatti si cominciava a parlar cosìin Milanodelle condizioni economiche del marchese; ma erano voci timide ancoravaghe e non credute da molti. Dicevanoin gran parteil vero; tuttavia Dio sa quanto champagne avrebbe potuto scorrere ancora in onore di donna Marinase un temuto aneurisma di suo padre non fosse scoppiato come la folgore portando via luilo champagne e miss Sarah.
Il conte Cesare d'Ormengo fu chiamato a far parte del Consiglio di famiglia per Marina. Il Consiglio fu ancora in tempo di salvare l'onore del nome e una piccola dote. Il conte Cesare e il defunto marchese non erano stati amici mai; da moltissimi anni non si vedevano neppure. Ma il conte era il parente più prossimo di Marina e fu il solo che le offrisse la propria casa. Marina avrebbe rifiutato se le fosse stato possibile. L'aspettoi modii discorsi austeri dello zio le ripugnavano; ma gli amici del tempo felice s'erano dileguati; i parenti di suo padre le mostravano certa grave commiserazione con un nocciolo nascosto di rimproveri che ella indovinava fremendo di sdegno; sola non poteva vivere; quindi accettò. Accettò freddamentesenza ombra di gratitudinecome se il conte Cesaresuo zio maternoadempisse un dovere e si procacciasse per giunta il beneficio di una compagna nella tetra solitudine che abitava. Ella non vi era andata mai: aveva però inteso descrivere più volte la tana dell'orsocome diceva suo padreche l'orso aveva abbandonata nel 1831per tornarvi ventott'anni doponel 1859. Non si sgomentava della futura dimora; anzi si compiaceva dell'idea di questo palazzo perduto fra le montagnedove vivrebbe come una regina bandita che si prepari nell'ombra e nel silenzio a riprendere il trono. Il pericolo di seppellirvisi per sempre non si affacciava neppure al suo pensieroperché ella aveva una fede cieca e profonda nella fortunasentivasi nata agli splendori della vitaera disposta ad aspettarne con altera indolenza il ritorno.
Arrivò al Palazzo con suo zio una sera burrascosa. Il conte l'accompagnò egli stesso alle camere che le aveva assegnato nell'ala di levanteverso il monte. Le aveva fatte arredare con semplicità eleganteaveva provveduto al loro riscaldamento per l'inverno e nella camera da letto aveva collocato il ritratto di sua sorellalavoro dell'Hayez. Marina vi si lasciò accompagnareguardò senz'aprir bocca le paretiil soffittogli arrediil quadroascoltò le spiegazioni di suo zio su questo e su quelloaperse le finestre e disse tranquillamente che voleva una camera sul lago.
Ella amava le onde e la tempestané le fecero paura la fronte corrugata e gli occhi lampeggianti del conte: tenne fermo freddamente contro le osservazionisempre più acri ch'egli le venne facendo e che troncòa grande sorpresa di leicon un risoluto: «Sta bene».
Dato a bassa voce un ordine a Giovannala sua vecchia governanteil conte uscì. Allora la governante si pose in camminocon il lume in manoseguita da un lugubre corteo di servi e di bauli. Marina volle venir ultima con Fannyla sua giovane cameriera. Attraversarono tutto il palazzo da capo a fondo. Spessonel passare da una camera a un'altraMarina si fermava a guardar indietro nel buiocostringeva la intera carovana a sostare. Tutte le facce si voltavano a leiquella della vecchia governante seria seriaquelle dei servi tra torbide e sgomente.
Quando il convoglio entrò nella loggia che congiunge le due ali del palazzoMarina affacciossi alla balaustrata verso il lagodiede un'occhiata alla scura costa che fronteggia l'ala di ponenteaggrottò le ciglia e disse alla governante:
«Dove mi porti?»
Immediatamente gli uomini posero a terra i bauli. La vecchia posò il lume sopra un baules'accostò a Marinagiunse le manie crollando il capo chino sulla spalla destrasussurrò con accento di commiserazione profonda:
«In un gran brutto sitocara la mia bella signora.»
«Allora non ci vado.»
«Sarebbe ben meglio» interruppe uno dei portatori.
«Oh sìvoialtri» gli rispose la vecchia in aria severa «e il signor padrone? Dio ce ne guardi.»
«Ma insomma» esclamò Marina con impazienza «è un granaioè un armadioè un pozzo questa camera?»
«Ohla camera è bella.»
«Ma dunque?»
«Ma dunque» saltò su l'oratore di primaun vecchio contadinomezzo letterato «mi perdoni se mi prendo l'arbitrio di loquire in tre; c'è dentro il diavoloeccola; non so se mi spiego.»
«Zittovoiandiamoprudenza! Che c'entrate voialtri!»
«Prudenza? L'è cosìgiàsignora Giovanna: la prudenza insegna che non c'entriamo né noi né lei.»
«Avanti tutti!» disse Marina. «Obbedite al signor conte.»
E andò con Giovanna.
Colui si volse a' compagni e fe' con la mano destra l'atto di cacciarsi le mosche dalla fronte.
Entrarono in un lungo corridoio epercorsane la metàsi misero per una scala a sinistrasalirono ad un altro corridoionel piano superiore.
Quando Giovanna aperse l'uscio temutoMarina le strappò di mano il lume ed entrò rapidamente. Vide una stanza discretamente ampiamolto altacon il pavimento di mattonile pareti mal vestite d'una sdrucita tappezzeria giallail soffitto a mezza volta con un affresco nel mezzoun gran carcame di lettocon il suo padiglione che pareva una corona di vecchio nobile spiantatoe pochi seggioloni antichifidi compagni di quella grandezza decaduta. Marina fece aprir le imposte e si gittò sul davanzale di una finestratuffando il capo nel buionel ventonel fragore misto delle onde e dei boschitutto voci di rampogna e di minaccia che le parevano amiche dell'irritato conte; piene in pari tempo di una potenza superiore e malvagia.
Marina restò lì lungo tempoaffascinatasenz'avvedersi dell'affaccendarsi febbriledelle commosse esclamazioni di coloro chedietro a leimettevano all'ordine la cameravi portavano masserizie e biancherie. Più volte in passato le erano comparse immagini non evocate di luoghi solitari e selvaggi in cui il suo pensiero posava un momentosenza desiderio né ribrezzo. Adesso le tornavano a mente. Ricordava qualche cosa di simile a questo nero deserto. Alla Scala? Sìuna notteal veglione della Scala; un'altra nottein casa suacoricandosi dopo una gran festale era balenata una tetra visione di solitudini montane. Non s'era curata di quei fantasmi. Ed oraecco il vero.
«Signora» disse timidamente Giovanna.
Marina non rispose.
«Signora!»
Silenzio.
«Signora donna Marina!»
Questa trasalì e si voltò bruscamente.
Non c'era più che la vecchia in camera: gli altri se n'erano andati.
«Ebbene?» diss'ella.
«Per questa sera avrà pazienza così. Domani speriamo che il signor padrone cambierà idea. Se nocercheremo di fare un po' meglio. Comanda qualche cosa?»
«Sicuro.»
Data questa laconica rispostaMarina piantò lì l'attonita vecchierellafece due o tre giri per la stanza e le tornò davanti.
«Questo diavolo? Dov'è questo diavolo?»
«Ahcara madonnanon lo soio. Son cose che si dicono così... sa bene. Io non so.»
«Cosa dicono?»
«Ohnon abbia paurasa!»
«Cosa dicono?»
«Dicono che qui dentro c'è l'anima d'un povero morto che sarebbe poi il padre del signor conteil suo papà grande di Lei.»
Marina rise.
«Dunque mio zio è figlio del diavolo!»
«Ah Signorecosa dice mai questa signora qui! No che non era il diavolo il papà del padrone; però era forse un poco suo parente. Ha da sapere ch'egli tenne qui dentrocome in prigionela signora contessamica la mamma del padronela prima ch'era una genovesegiovane un bel pezzo più di lui. C'era un vecchio qui a R... che si ricordava di averla veduta e diceva che era così bella che somigliava un bambino. È bene che questa povera signora è venuta matta; e alla nottenehfaceva dei versi e cantava delle ore e delle ore sulla stessa musicache i pescatori di R... quando andavano fuori di notte la sentivano lontano un miglio. Si figuri che hanno persino dovuto mettere le inferriate alle finestre. Mi ricordo io quando il povero conte vecchio la fece tirar giù. Perché ioLa vedesono nata quial Palazzo. Questa povera signora se ne andò presto all'altro mondo. Quandodegli anni dopoè morto anche luiil signor papà grandela gente cominciò a dire che nella casa ci si sentiva e che i rumori venivano proprio da questa camera. E dissero che l'anima del maritoin pena d'essere stata così cattivail Signore l'aveva condannata a star qui dentro settantasette volte tanti anni quanti vi era stata la moglie. Ancora adesso non c'è uno di questi paesani che si possa far dormire qui per un milione.»
«Storia insipida» mormorò Marina. «Cosa c'è qui sotto?»
«Una camera da letto ch'era poi quella della Sua nonna; dopo non c'è stato più nessuno.»
«E sopra?»
«La stanza della frutta.»
«E quella finestra lì dove guarda?»
«Guarda verso il largo del lagoperché qui siamo sull'angolo.»
«E quella porta lì?»
«Quella porta lì mette a una camera grande come questasulla facciata come questadove potrà dormire la Sua signora donzella.»
A questo punto s'udì nel corridoio vicino uno scoppio di pianti e di lamenti. Era Fanny che singhiozzava disperatamente addossata al muro. Ripeteva fra i singhiozzi di voler andar viadi voler andare a Milano subito subito.
Giovanna rimase stupefatta della pazienzadella bontàdella grazia che Marina pose in opera con quel la ragazza caparbia e irragionevoleriducendola poco a poco alla calma senza ottenerne mai una risposta diretta. Voleva andare a Milano a casa sua; casa suaè veronon l'avevama sarebbe andata a casa di qualchedun altro: a Milano c'erano almeno cinquanta case di signori da carrozzadove andare leisarebbe come pioverci la manna dal cieloe le si erano già fatteprima di lasciar Milanodelle magnifiche offerte: un luogo simile non lo avrebbe mai potuto immaginare; più di una settimana non resterebbe per tutto l'oro del mondo; l'idea di dormire in quell'orrore di camera l'avea fatta impazzire; i regali eran belli e buonima più di quindici giorni o di un mese lei non resterebbe per tutti i regali della terra anche in un'altra stanza; del salario a lei non importava nulla; se restasseresterebbe per affetto alla sua padrona e non per aumento di salario; del restonon si sentiva poi neanche bene; provava un gran bisogno di mangiare qualche cosa di sostanzioso e di bere qualche cosa di forte. Cosìlasciato a Giovanna l'incarico di trovare per Fanny una camera da letto meno vicina alla dimora degli spettrifu fatta la pacee Marina prese possesso del suo appartamento.
Anche il burbero zio fu in seguito ammansato da Marinasenza umili scuse né moine a cui non avrebbero piegato né lui né leima con un riserbo dignitosoequando il rigido conte cominciò a dar qualche segno di sgelocon certi discorsi studiaticon certe attenzioni appena accennate che lo ruppero e lo sconvolsero affatto. Sulle prime l'atteggiarsi di Marina gli riusciva misterioso e sospetto; poi fu il bizzarro contegno di lei in quella sera burrascosache diventò nella sua memoria un enigma inesplicabile. Allora offerse a Marina un'altra stanza più gaia nell'ala sinistra del Palazzo. Marina rifiutò; si compiaceva della leggenda paurosa narrata da Giovanna. La solitudine stessala tristezza del vecchio Palazzo pigliavano fra le pareti della sua camera un che di fantastico e di patetico; ed ella sentiva gli occhi de' domestici e de' contadini che bazzicavano per casa seguire la sua persona con ammirazione mista di spavento. Ottenne invece dal conteche alla Giovanna parve opera di stregoneriadi fare alto e basso nella sua camera a piacer suo. Ne strappò le sdrucite tappezzerie gialle e vi stese in luogo loro certi bellissimi arazzi che il conte serbava in granaiostimandoli poco o nulla; sovrappose ai mattoni un tavolato lucido a scacchieracui gittò sudi fianco al letto e a piè di una greppina di velluto marronedei tappeti di arazzo. Il vecchio letto coronato rimasema la sua corte venne ruvidamente congedata. Una combriccola più pomposa di suppellettilidame e cavalieri dell'antico regimetutti boria e sorrisi studiatiultimo avanzo invenduto degli splendori di casa Crusnellivenne da Milano a pavoneggiarsi intorno al malinconico monarca.
Quando si moveva tra queste eleganze invecchiate e tetre la delicata figura di Marina nell'abito celeste a lungo strascico che talvolta indossava per capriccio nelle sue camereella pareva caduta dall'affresco del soffittoda quel cielo serenodal gaio seguito di un'Aurora ignuda che vi guidava i balli delle Oreadi e delle Naiadi: caduta in un tenebroso regno sotterraneo dove il suo fiore giovanile brillava ancorama di bellezza meno gaia e meno ingenua. Quella dea lassùtutta rosea da capo a piedinon aveva negli occhi come questa il fuoco della vita terrena né il fuoco del pensiero; e benché pigliasse nel cielo uno slancio superbo con tutti i simboli della sua divinitàparevarispetto a Marinauna sguattera glorificata.
Nella stanza vicinache aveva ispirato tanto orrore a FannyMarina fece collocare il suo Erardricordo del soggiorno di Parigie i suoi libriun fascio di ogni erbamolto più di velenose che di salubri. D'inglese non aveva che Byron e Shakespeare in magnifiche edizioni illustrateregali di suo padrePoe e tutti i romanzi di Disraelisuo autore favorito. Di tedeschi non ne aveva alcuno. Il solo libro italiano era una Monografia storica della famiglia Crusnelli pubblicata in Milano per le nozze del marchese Filipponella quale si facean risalire le origini della famiglia a un signore Kerosnel venuto in Italia al seguito della prima moglie di Giovan Galeazzo ViscontiIsabella di Francia contessa di Vertu. C'era pure un Dantema nella tonaca francese dell'abate di Lamennaische lo rendeva molto più simpatico a Marinadiceva lei. Non le mancava un solo romanzo della Sand; ne aveva parecchi di Balzac; aveva tutto Mussettutto Stendhalle Fleurs du mal di BaudelaireRené di ChateaubriandChamfortparecchi volumi dei Chefs d'oeuvre des littératures étrangères o dei Chefs d'oeuvre des littératures anciennes pubblicati dall'Hachettescelti da lei con uno spirito curioso e poco curante di certi pericoli; parecchi fascicoli della Revue des deux Mondes.
La grossa barca di casa dovette stringersi alla parete per far largo a Saettalancia elegante venuta dal lago di Comoche ci aveva l'aria di un'allieva della scuola di ballo accompagnata dalla mamma. Il signor Enricodetto Ricofiglio del giardinierediventò ammiraglio della squadra. Speròsulle primein una divisa degna di Saettasollecitata da Marina; ma su questo punto il conteun aristocratico pieno di generose contraddizionifu irremovibile; dichiarò che per l'onore della dignità umana avrebbe preferito un Rico senza calzoni e senza scarpe a un Rico in livreafosse pure livrea di battelliere. E lo stesso Ricoessendosi un giorno arrischiato a dirgli che a Como e a Lecco aveva veduto parecchi suoi simili molto contenti della loro livreasi udì risponderein onore della dignità umanach'era un grandissimo asino. Marina gli fece allestire un abito scuro da signorinonel quale il vanitoso Rico entravarosso come un gamberosprizzando riso da tutti i pori; fino a che gli diventò famigliare come le solite brache paterne ad usum delphini. Anche il vecchio giardino ebbe un ritorno di giovinezza e di civetteria dopo la venuta di Marina. Nuovi fiori si addensarono nelle aiuoleuna fascia di ghiaia immacolata le cinse. E foglie e fiori furono composti all'ossequioso giardiniere nel nome della marchesinain mezzo alla grande aiuola ovale tra l'aranciera e il viale lungo il lago. Perché il giardiniere e gli altri servi guardavano a lei come all'avvenire e gareggiavano di zelo per conciliarsene il favore. Tranne Giovannaperò. Giovanna non guardava così lontanonon aveva timori né speranzedevota al padronerispettosa verso la «signora donna Marina»seguitava quietamente la sua vita.
Del conte non si può dire che andasse rimettendosi a nuovo come parte della sua casané che rifiorisse come il suo giardino. Ma pure anche la sua persona e il suo volto riflettevano qualche nuovo lumeperché la gioventùla bellezza e la eleganzaunite in una personairradiano intorno a sévolere o non volereuomini e cose. Si radeva più spessonon gli si vedevano più certi cappelli archeologici da spaventare le passerecerti zimarroni ereditati in apparenza dall'antenato di ferro.
Steineggecon Marinaera ossequioso e freddo. L'aveva preceduta al Palazzo d'un mese appena: strano segretarioincapace di scrivere due righe d'italiano corretto. Il conte l'aveva presosulla raccomandazione del Marchese F. S. di Cremaper spogli e traduzioni sì dal tedesco che dall'inglesela quale ultima linguaSteineggefiglio di una istitutrice di Bathconosceva perfettamente. All'arrivo di Marina il pover'uomo si era creduto in dovere di fare lo spiritoso e il galante. Tante amarezzetante miserie patite non avean potuto spegnere del tutto in lui i sentimenti cavallereschi della sua gioventù. Era stato un ardito ufficialede' primi a cavallode' primi con la sciabola in pugnode' primi nei nobili amori; poteva egli diportarsi con Marina da scriba melenso? Si diede a sfoderarle complimenti antiquati e galanterie fuori di corsoversi di Schiller e di Goethe. Il successo non fu splendido. Marina non degnava avvedersi del segretario che per significargli con un gesto del visocon una parola ironicaquanto poco stimasse le sue cortesieil suo spiritola sua vecchia e magra persona; e chese le piaceva di essere amabile col contenon voleva dire che lo sarebbe con tutti. Da quanto lo zio le aveva detto di Steineggeella lo giudicava un avventuriero volgare; a leivissuta a Parigi tra una società spesso mescolata di queste figure torbideil tipo non ispirava curiosità di sorta. Aveva in odioper giuntala lingua tedescalo spirito tedescol'amore tedescola musica tedescala genteil paeseil nometutto. Diceva d'immaginare la Germania come una pipauna enorme testa rotta di gessodal muso di borghese obesoa cui bruci senza fiamma nel cervello aperto del tabacco umidomalsanoe n'escano spire di fumo densoforme azzurrognolemobili dal grottesco al sentimentalenuvolette che diventano nuvolenuvoloni; i quali poco a poco vi calano addossovi avviluppanovi tolgono di vedere e di respirare. Un giornomentre Steinegge le parlava con molto calore d'ideali femminili tedeschidi Margherita e di Carlottaella gli disse con la sua indifferenza aristocratica: «Sa che effetto mi fanno Loro tedeschi?» E gli espose quell'amabile paragone. Mentre parlavasul viso giallastro di Steinegge correva fuoco sino alla radice dei capellie gli occhi gli si stringevano in due scintille. Quando Marina ebbe finito rispose: «Signora Marchesinaquesta vecchia pipa rotta ha avuto fiamma e avrà: intanto io Vi consiglio molto non toccare perché brucia.» Da quel giorno Steinegge tenne per sé complimenti e squarci poetici.
Marina aveva il suo disegno: conquistar lo zioimpadronirsene del tuttofarsi portare almeno per qualche mese a Parigi o a Torino o a Napoliin qualunque gran corrente di vita e di piacere che non fosse Milano; navigare con questa e commettere il resto alla fortuna. Lo aveva concepito la sera stessa del suo arrivo al Palazzodopo essersi misurata con il conte e averne assaggiato il metallo. Lottò prima di decidersicon il cuore altero che non voleva piegarsi a simulazionibenché si sentisse morirelì dentrodi scoramento. Rimediato allo strappo di quella prima sera con un contegno dignitoso e tranquillocominciò poco a poco a lodare il Palazzoil giardinoi cipressi aristocraticiil lagole montagneil soggiornocome persona che s'adagia in un riposo nuovone piglia volentieri le abitudini e sente penetrarsi di benevolenza per le cose stesse che la circondano. Lasciò cadere ad una ad una quasi tutte le numerosissime corrispondenze. Il conte non ebbe più ad aggrottar le ciglia sulla pioggia di lettere cifratestemmate e profumate che il Rico portava dalla Posta nei primi tempi. Le parole pungenti sfuggitegli qualche volta all'indirizzo di queste amichedi queste complici delle follie passateper poco non avevano scompigliato i disegni di Marinacui facevano groppo alla golain quei momentirisposte sdegnose da soffiar via d'un colpo il lavoro paziente di mesi. I suoi cari libri francesiromanzi e poesienon uscirono dalla loro stanza che di soppiatto o quando il conte non avrebbe potuto vederli. Egli era un fiero dispregiatore d'ogni cosa francesesalvo che del vino di Borgogna e di Bordeaux. Alto repubblicanosoleva dire che i Francesi fanno all'amore con le idee belle e grandile guastano senza rispetto come fanteschee finalmente le piantano malconce e svergognate per modo che gli altri perdono la voglia di toccarle. Li detestava come inventori della formola: libertéegalitéfraternitédove il secondo terminediceva luisi caccia dietro al primo per ammazzarlo a tradimento. E poiché nel disprezzo come nell'ammirazione non aveva misuradiceva che tutti gli scrittori francesi insieme non valevano la nota del bucato di Giovanna; che Voltaireper esempioera uno smisurato buffone; che lo scriba Thiers con la sua strategia era un ridicolo retore Formione e sarebbe insultato da Bonapartese tornasse al mondocome colui lo fu da Annibale. Quando parlava di Lamartine «questa gran chitarra che una repubblica ebete si pose in capo sul serio»certi rudi e gagliardi paroloni piemontesi mezzo sepolti nella memoria gli si smuovevano dentrovenivan su con lo sdegno e gli uscivano come cannonate. Picchiava poi sodo sulla follapicchiava su i poeti e i romanzieri francesi con furoreperché la poesia moderna e il romanzoin qualunque linguagli erano odiosi. «La società è inferma»soleva dire«e questi asini poltroni di letterati non fanno che eterizzarla continuamente». Per questo Marina non gli faceva vedere i suoi libri francesi. Gli parlava invece spesso e sinceramente di religione.
Il conte aveva una religione tutta propriaforse non troppo logicama ben salda e tenace come le altre sue opinioni. Credente in Dio e nello spirito immortalepartiva dal testo «gloria in excelsis Deo et in terra pax hominibus bonae voluntatis» per dividere nettamente le cose del cielo dalle cose della terrae operaresecondo la sua espressioneil decentramento religioso. «Sappia» disse una volta ad un cattolico troppo zelante«sappia che Domeneddioper festeggiare la nascita di suo figlioha dato agli uomini la costituzione.» E poiper dimostrargli che Dio regna glorioso in excelsis e non governa in terragli citò imperturbabilmente Lucrezio come se costui fosse un redattore della Civiltà Cattolica. Ciò postoaffermava che gli uomini sono liberi di vivere sulla terra seguendo quella idea del vero e del bene che ciascuno è in grado di formarsi.
Le opinioni di Marina non erano così nette e precise. Aveva seguite le pratiche cattoliche per inconscio moto del sangueper l'impulso della vigorosa fede di lontani antenati. Tali fredde pratiche eran bastate lungo tempo a far sì ch'ella si credesse cattolica e bastarono perché le ribellioni del pensiero e del senso cui fu presto in grado di conoscere sia nei librisia nel verole comparissero gloriose e calde di gagliarda vita di fronte al suo sterile cattolicismocome la divina ribellione di foglie e di fiori che rompe i vincoli dell'inverno. Nel suo nuovo soggiorno troncò risolutamente ogni pratica religiosa. Ella vedeva che suo zio non ne seguiva alcuna ed era curiosa di penetrarne le ragionidesiderava udirsi approvareconfermare nel suo propositoscoprire tanti sicuri argomenti di non credereonde il pensiero modernoella lo sentivadoveva esser padrone. Ma il conte secondava poco e male i suoi desideri: non era forte in filosofia religiosagiudicava la religione piuttosto storicamente che filosoficamente. Erano i mali relativi alla lotta delle religioni positive e l'aspetto delle loro evoluzioni regolariconformi ad una legge generale di sviluppo e di decadenzache lo avevano reso scettico. Non amava però fare propaganda del suo scetticismo; anzi gli avvenne una volta di dire a Marina che non sarebbe forse un gran male se tutte le donne andassero a messa. Ella rispose che oramaise credesse e andasse a messavorrebbe anche poterla dire; ma che la parte attiva dell'impostura era tutta presa dagli uomini.
A lei la uguaglianza della chiesa ripugnava quanto a suo zio la uguaglianza politica. Non era irreligiosa di natura; pensava qualche volta che vi dovrebbe essere una religione speciale per le classi più alteuna religione liberissimasenza pratichequasi senza legge morale o almeno con una legge morale trasformatadove al concetto del bene e del male fosse sostituito il concetto meno volgare del bello e del bruttodel buono e del cattivo gusto. Lo squisito intelletto della bellezza e dell'armonia starebbe invece della coscienza morale; i sensi non sarebbero combattutima governati con l'intelletto della loro poesia. Un Diosìci vorrebbe per l'altra gioventùper l'altra bellezza al di là della tomba.
Il conte abborriva la musicae Marina si guardava bene dal toccare il suo piano quand'egli era in biblioteca. Però gli contraddiceva risolutamente in fatto di pitturaesprimendo senza ritegno la sua ammirazione pei quadri ch'egli apprezzava meno. Marina si compiaceva d'un dipinto arcaico come d'una suppellettile di lussoma comprendeva soltanto le opere del gran secolo dello splendore e della forza. Quelle dei migliori maestri veneziani le affrettavano il sangue nelle venele ispiravano uno strano turbamento di ambizioni e di desideri ch'ella non sapeva spiegare a se stessa. Il conte aveva in salotto uno stupendo ritratto di gentildonna attribuito a Palma il Vecchio. Gli occhi di Marina scintillavano posando su quella bellezza dal viso ardito e sorridentedalle spalle possenti ch'emergevano col seno dall'abito sfarzoso di broccato giallo. In questo argomento dell'arte il conte si mostrava assai mansueto; neppure le contraddizioni vivaci lo irritavano; anzi gli avveniva spesso di guardar Marina con dolcezza mentr'ella combatteva focosamente pe' suoi pittori prediletti; il vecchio si ricordava allora della propria madre e taceva.
Malgrado il favore che veniva acquistando presso lo zioMarina provava un'avversione sempre crescente per quest'uomo austerosprezzatore delle letteredelle artid'ogni eleganzache le infliggeva la vergogna di nasconderealmeno in partel'animo suo. Ella non era nata ipocrita e fu mille volte per prorompere e dire al conte che non lo poteva soffrireche non intendeva dovergli gratitudine alcunané rispettoné ubbidienza. Ma non lo fece. Dopo quest'impeti frenati a faticapigliava Saetta e partivaora solaora col Ricosi gettava a qualche riva solitaria e saliva rapidamente la montagna con un vigore cui nessuno avrebbe attribuito alla sua graziosa persona. I contadini che la incontravano ne stupivano. Gli uomini e le ragazze la salutavanole donne no. Dicevano tra loro che colei andava sempre per demoni di boschi e di sassie a messa non ci aveva mai portati i piedi: ch'era un'altra scomunicata come la Matta del Palazzoquella di una volta.
Quando era giunta a chetare i nervi con la stanchezzaMarina ridiscendeva al lagodove Saetta l'attendeva pazientementecustodita spesso dal giubboncello e dalle scarpe del Rico: mentre questo operoso signore correva i dintorni a coglier fruttao a disporre trappole per ghiriarchetti per gli uccellicon una destrezza che tutti i monelli del paese gl'invidiavano.
Curioso ragazzoquel Rico. Era il primo de' primi alla cacciaalla pescaal nuotoalle sassate e alla scuola. Leggeva e rileggeva con passione i libriccini toccati in premio e il Guerrin Meschinoprincipio e fine della biblioteca di famiglia. Copriva qualche volta con grande onore le funzioni di chierico della parrocchia e si vantava di declamare il suo latino come «on scior curât»; per cui passava sdegnoso e altero nella sua tonachella bianca fra la minor caterva dei sudici marmocchi ammucchiati alla balaustrata dell'altare maggiore. Ai padroni era devoto ciecamente. Diceva di voler bene prima al Signorepoi alla mammapoi ai «sciori»poi al papàpoi alla «sciora maestra»poi al «scior curât». Non c'erano per lui altri «sciori» al mondo che quelli del Palazzo. Ne parlava come se fosse una cosa sola con essiopponendo sempre «il nostro palazzo»il «nostro giardino»la «nostra lancia» alle cose di cui gli si raccontavano meraviglie. Aveva la lingua d'un passero; giuocasselavorasse o mangiassegli era uno scoppiettìo continuo di chiacchiere e di risasalvo quando si trovava in presenza del conteche allora ammutoliva. Conosceva tutti i pettegolezzi del paese e possedeva un fondo inesauribile di fiabedi leggende popolari. Marina lo interrogava spesso sulle tradizioni relative alla Matta del Palazzo. Egli le raccontava in mille modiintrecciandovi il lavoro della sua capricciosa e poetica fantasiaspecialmente nella catastrofe del dramma. Un giorno l'eroina scompariva insalutato hospiteper andarsene «drizza» a casa del diavolo; un altro giorno il marito la faceva buttar giù nel Pozzo dell'Aquafonda in Val Malombracome la gente del paese chiamava un vallone deserto della montagna di fronte al Palazzo; l'ultimo feudo di Marinadiceva lei. Ma lo scioglimento preferito dal poeta era questo: l'infelice prigioniera usciva di notte dal suo carcere attorcigliata intorno a un raggio di luna e si dileguava nell'azzurro.
Marina si divertiva di questi racconti e della cronaca del paese che il ragazzo le narrava con una mistura incredibile di malizia e d'ingenuità. Ella era da quasi un anno al Palazzo e di viaggio non si parlava. La sua salute se ne risentiva veramente. Sofferenze nervose non gravima frequenticominciarono a travagliarla. Ella disegnò subito di trarne profitto; intanto ogni lieve distrazione le era carapersin quelle che le fornivano le chiacchiere del Rico.
Giunse così l'aprile del 1863giunsenei tranquilli splendori del tramontouna sera sinistra per Marina.
Laggiù a ponentenubi colossali ardevano nel cielo e nel lago divisi dall'umile striscia nera dei colli; ardevano le cime verdi in faccia al Palazzoea levantei picchi inaccessibili dell'Alpe dei Fiori. Al basso durava nell'ombra un qualche lumeun tepore del sole recentevestigia risus; e da ogni valloncello calavano ad increspar il lagoper breve trattosoffi pregni degli odori primaverili. Vi si spandeva pure ed entrava per tutti gli echi delle valli il suono festoso delle campane di R... La gran porta nera della chiesa parrocchiale versava sul sagratoche tocca a levante il ciglio della costa verso il lagoun lento fiume di gente accalcata che si spandeva poi rapidamente. Gli era un rimescoliouno schiamazzo come d'una gran frotta di pulcinidi paperi cui la gastalda abbia aperto l'uscio dei campi. Folla e grida intorno ai rivenditori di ciambelle e di confetturefolla e grida intorno ai venditori di zufoli e di trombette che si spargevano sonando dappertutto. Sotto i noci e fra le macchie d'alloro che pendono sopra la chiesastrepitavano bevitori e mangiatori. Un po' in disparte si raccoglieva il fiore del bel sesso di R... e dei dintorni; mamme e nonne tutte linderidenti nelle loro cuffiespose poderose chiuse in certe campane di seta nera con tanto di catena d'orodi pendenti d'orodi spilloni d'oro; ragazze serie e pudibonde sotto i cappellini e nastri di una civetteria furiosa. I preti giravano lentamente tra le ondate della follapettorutiaccesi in facciacol berretto a croce sulla nucae il sigaro di virginia in bocca. Un branco di monelli s'era precipitato per l'uscio del campanile ad avvinghiar freneticamente le corde delle tre campane che suonarono e suonarono senza misura né decorocome vecchie impazzitesinché il sagrestano assalì quei demoni a moccolia scappellottia strappate; e fattili rotolar fuori dall'uscio in un mucchioassestò loro un calcio collettivo e diede alla chiave una furibonda mandata. Il Ricoch'era lì presso col suo zufolo in boccaaiutòci duole il dirlole prepotenze dell'autorità ecclesiasticae si mise ad inseguire i rei gridando: «Aspetta me! Aspetta me!». Ma nessuno lo aspettòed eglicorrendo all'impazzatacapitò invece come un montone tra le gambe del cappellano di...il quale gli diede del «maledetto asino»una buona scrollata e uno scapaccione di congedo. Il Rico se ne andò mogio mogioa guardar gli strumenti della banda di V... che aveva suonato in chiesaalla bravafior di polke e di galopp e s'era attavolata a bere lì presso. Il ragazzofiutando gli ottoni sfolgorantiudì quella gente che parlava d'andar più tardi al lago a suonare. Gli venne in mente di domandare subito alla sua padrona se volesse prendere Saetta e godere lo spettacolo. Corse via come una lepresaltò il muricciuolo del sagrato e sparve giù pel bosco verso il sentiero del Palazzoche passa a mezza costa.
Marina passeggiava quella sera in giardino lungo la balaustrata del lago con un signore piccolo dal lungo soprabito scurodai vasti piediche non sapeva come camminare né dove tener le mani e sorrideva di continuo. Era il povero mediconzolo di R... che tutti chiamavano el pitòr per la sua debolezza di tingersi la barba.
«Che peccatodottore» diceva ella appoggiandosi alla balaustrata e guardando il tramonto «che peccato che quest'aria mi faccia così male! Com'è cattivo Lei a non metterci dentro qualche cosa per me!»
Il pitòr ci mise dentro un sospirogiunse le manipiegò il capo sulla spalla destrae cominciò col suo solito risolino:
«Se potessisignora marchesinase potessi...»
E non poté dir altro.
«Pensi. Non si potrebbe farmi una casina di ferro e vetro come si fanno per le palme e per le muse e soffiarvi dentro un'aria molleun'aria tenera e non celestiale? Perché non parladottore? Dicase non mi fanno la casinacosa succederà del mio cuore e dei miei nervi?»
«Non si può saperesignora marchesinanon si può sapere: possono soffrir moltospecialmente il cuore. ("Se non fossi tanto asino" pensò il pitòr "qui potrei dire qualche cosa di grazioso.") Sicuro; quandoLa vedesi ha un cuore sensibile...»
«All'aria...» suggerì Marina.
«All'aria» capitombolò il pover'uomo «si può andar soggettinei paesi di montagnaa frequenti palpitazioni che poinehrinnovandosi spesso e con violenzafiniscono con generare una viziatura organicala quale può condurre quando che sia a un precipizio.»
«Quanto è amabiledottore! E i nervi?»
«Ma sicuroci sono anche i nervi. I Suoi nervistando sempre in quest'ariafarebberoLa vedela rivoluzione. Vorrebbero comandar loro e far da prepotentiLa mi capisce? Quest'aria Le va benissimo per tre o quattro mesetti l'annomica di più.»
«Proprio cosìdottore?»
«Proprio così.»
«Si guardi bene» disse Marina facendo il viso serio serio «si guardi bene dal ripetere queste cose a mio zio. Mio zio penserebbe che io desidero cambiare soggiorno. Io non gli chiederò mai questo sacrificiocaro dottore; respirerò piuttosto il veleno della buona madre natura. Non sono né vecchia né bruttae non ci tengo affatto a diventarlo. Ci tieneLeidottorea invecchiare?»
Come uno zuccherino di menta inglese al primo posarsi sulla punta della vostra lingua vi irradia per le viscere un'aura non capite bene se di fuoco o di gelouna specie di puro lume sensibile al gustoche sembra invader tutto l'esser vostrocosì le ultime inattese parole di Marina e lo sguardo che le accompagnòirradiarono nelle viscere del turbato pitòr un'aura di refrigerio insieme e di ardoreun arcano lume sensibile a quell'occhio interno che ciascuno di noi possiede. Dio sa in quale recondita occhiaia. Benché vecchio e bruttoegli era di temperamento amoroso; inclinato a spicce e caute galanterie campagnuoleera pur capace di fiamme donchisciottesche. Si figurava d'essere innamorato di Fannyuna ghiottornìa squisita per lui; ma ora quel complimento di Marinadi una dea a cui non aveva mai osato alzare il pensierogli fece perdere il lume dell'intelletto. E non vide agli angoli della bocca di lei l'impercettibile riso. Non vide neppure il conte Cesare che si accostava lentamentea capo chinocon le mani congiunte tra la schiena e il soprabito tutto aperto e rovesciato all'indietro.
«Che sta scritto sulla ghiaiazio?» gli disse Marina sorridendo.
«Vi sta scritto» rispose il conte «che voi avete camminato troppo e che questo diabolico dottore vi ha fatto furiosamente la corte. Non è verodottore? Mettametta il Suo cappello. Dunquecome ha trovato mia nipote?»
«Quasi benissimo» interruppe questa. «Glielo dimostri Lei con i suoi terminidottore. Quanto a menon posso soffrire il discorso orribile ch'Ella faràe Le do la buona sera.»
Così dicendoMarina stese al dottore una sottile manina profumatariccanel suo candore quasi trasparentedi occulte maliziedi elettricità senza nomedi espressioni potenti e rapide oltre alla parola; esignificatogli con essa di non parlaremosse verso casa. Ell'aveva un lume singolare negli occhi. Si teneva sicura che il dottore avrebbe rappresentato al conte la necessità di portarla per qualche tempo in aria diversae non avrebbe taciuta la eroica abnegazione di lei che si disponeva di affrontare una legione di malattie pur di non chiedere sacrifici allo zio. Da questo sperava molto.
Stava per entrare in casa quando le comparve davanti il Rico trafelatoche buttò fuori in fretta e in furia le sue luminose idee eavuta la rispostasaltò nel vestiboloricomparve carico di cuscini e di sciallie via come il lampo alla darsenaseguito lentamente da Marina.
Quanto era dolce la sera e come scivolava bene sull'acqua chiara la piccola Saetta! Il Rico era in lena; la sottile prora nera parea volare tra cielo e cielo e la poppa correva tra i grandi ovali segnati dai remi. Ad ogni tratto il rematore si fermava a guardare verso la riva di R... Le barche non venivanoma si udivano dall'alto ondate di musica ora più ora meno sonore. Certo la banda s'era fermata in piazza a far ballare le ragazze e i giovinotti. Il Rico propone di andar verso rivama donna Marina gli ordina di fermarsi al largo e di aspettare. Egli comincia un'enfatica apologia della banda forestieradel famoso suonatore che ha imparato a Comodi quell'altro prodigio che ha imparato a Leccodei loro strumenti; donna Marina gli ordina di tacere. Tacere lui? «Non suonano piùeccovengonoson qua; nonon vengono ancoraadesso s'imbarcano; ohdei lumi! Son lanterne! Son palloni! Ora sì che vengono proprio. Suonanosuonano.»
«Rema» disse Marina «verso la musica.»
Vengono prima a paro due barche illuminatepiene zeppe di suonatori ritti in piedi che soffiano a più potere nei flautinei clarinettinelle trombetenuti in riga a cannonate di gran cassa; poi vengono altre barche oscure col pubblico. Dopo ogni pezzo scoppia da quest'ultime barche un subisso di gridadi applausidi apostrofi ai rematoriai timonieriall'unoall'altrodi strilli modulati acutissimi. La flottiglia si avanza lenta per la quiete del lago tutto brunopassa davanti a Marina.
Suonano un pot pourri di canzoni popolari lombarde e a tutta quella buona gente ci si rimescola il sangue di tenerezza e d'orgoglio. Sono i loro amorile loro allegrezzeè il loro fiore d'un giorno; è il canto uscito dalle loro viscere che si spande glorioso e potente fra le care montagne. I suonatori ci mettono uno slancioun fuoco insolitoi remi rompono l'acqua tuonandole vecchie barche saltano avantitutti cantano colla musica
L'è sett'anni che son maridada
Perché s'era la bella biondin.
Forza ai remi! Anche quel vecchio battelliere di poppa si ricorda del suo buon tempoe si mette a remar con l'arco della schiena e mette fuori anche lui la sua voce sconnessa:
Passeggiando per Milan
L'era un giorno ch'el pioveva
La mia bella la piangeva
Per vedermi andà soldà.
Cantacantavecchio battelliere di poppa. Spendi nel canto l'ultimo vigore della tua vocel'ultimo fuoco del tuo cuore. Non fosti chiuso tu purequand'eri giovane e belloda due braccia amorose?
Il Rico si lascia trasportare dall'entusiasmoe dimentico dei doveri del proprio statomette a profitto i suoi polmoni di acciaio per remare e cantare ad un punto:
Oh che penaoh che dolore.
Che brutta bestia che l'è l'amore!
Non si muove un atomo d'aria. Sui fianchi ombrosi delle montagne ogni fil d'erbaogni fogliolina recente ascolta immobile la dolce musica lontana che parla d'amore; sui pioppi dei prati ascoltano gli usignoli; al chiarore delle fiaccole e delle lanterne salgono a fior d'acqua grossi pesci attoniti; e il lagozitto come oliopalpita lievemente sulla traccia chiara delle barche rigata dal raggio azzurrino di Vespero.
Quella sera l'aria dei monti non nuoceva a Marina. Ell'avrebbe forse preferito un fresco sul Canalgrande o una serenata a Bellagiodove la fragranzaper così diredelle più squisite voluttà mondane è nell'aria ed entra sino al cuore; ma tuttavia sapeva apprezzare l'agreste poesia di quella sera d'aprile sul lago e la ingenua semplicitànon sempre volgaredei canti usciti dalla fantasia del popolo. Epensando che probabilmente avrebbe presto lasciato lago e montagnepensiero pieno d'inquiete speranzeli giudicava senza inimiciziaassaporava la musica e ammirava la scena come ghiottornìe raregratissime per una volta a palati fini e curiosi come il suo; così avrebbe gustato un quadrettino fiammingoun'aria di Cimarosa.
Poiquando i suoni e i canti si andarono dileguando da lontano e Saetta mosse lentamentequasi a malincuoreverso il Palazzole impressioni di quella sera si addentravano poco a poco nell'anima sua rammollita dal voluttuoso languore che l'aprile ispira: e vi si mesceva una gran sensazione di sgomentosimile a certe doglie che ci saettano e passano e passano e poi ce ne scordiamo: e si trova in seguito ch'erano frettolose messaggere di un grosso male in cammino. L'orologio di R... suonò le nove. Non le parve la solita campana. Come poteva avere un'altra voce? Stette in ascolto. Le balenò alla mente d'essersi trovata un'altra volta sul lagoesattamente nello stesso luogo e alla stess'orad'aver ascoltata la campana e fatto lo stesso pensiero che il suono era diverso dal consueto. Ma quando?
Le era accaduto parecchie altre voltespecialmente nell'adolescenzadi venir sorpresa da simili riproduzioni di circostanze e di pensierisenza poter ricordare l'epoca del suo primo passaggio. Ne aveva parlato. Suo padre s'era stretto nelle spalle: che si ha a fare attenzione a simili sciocchezze? Miss Sarah aveva detto: «E dunque?» Le amiche l'avevano assicurata che a loro succedeva la stessa cosa ogni giorno. Marina non ne parlò piùma ci pensò ancora.
Questi lampi di reminiscenza solevano riferirsi a circostanze tra le più indifferenti della vita. Le rimaneva perciò sempre dubbio se si trattasse di reminiscenze vere e proprie o di allucinazioni. Stavolta non era così. Pensando e ripensandosi persuase di non essersi trovata mai sul lago a quell'ora; era dunque un'allucinazione.
Quando scese al Palazzoil conte si era già ritirato. Ella passeggiò un tratto su e giù per la loggiaentrò nelle sue stanzeprese un librolo gettò viane prese un altrogittò anche quellosi provò a scrivere una lettera edopo aver pensato alquanto con la penna in manostracciò il fogliosi trasse due anellinili buttò sulla ribalta abbassata dello stipo antico che le serviva di scrivaniae andò al pianoforte. Suonò uno dei suoi pezzi predilettila gran scena dell'evocazione delle monache nel Roberto. Ella non intendevanon suonava che musica d'opera.
Suonò come se gli ardori delle peccatrici spettrali fossero entrati in leipiù violenti. Alla tentazione dell'amore si fermònon poté proseguire. Quel foco interno era più forte di leila opprimevale toglieva il respiro. Chinò la fronte sul leggìo. Pareva che ardesse anche quello. Si alzò in piediguardando nel vuoto. La divina musica vibrava ancora nell'ariale pareva di respirarladi sentirla nel petto: ne le correva uno spasimo voluttuoso per le braccia.
Finalmente abbassò gli occhi sul pavimentoli posò involontariamente su qualche cosa che brillava a' suoi piedi. Guardòsenz'averne coscienzaquel punto brillante che a poco a poco le venne fermando la fantasiafinché lo vide e lo raccolse. Era uno degli anellini buttati da lei sulla ribalta dello stipo. Cercò l'altro. Sulla ribalta non c'eranell'interno dello stipo non c'erasul pavimento neppure. Marina s'irritòfrugò persino sotto lo stipo. Nulla. Cacciò ancora la mano nel vuoto che si apriva sopra il piano stesso della ribaltafra due ordini di cassetti. Frugando là dentro si accorse di un piccolo foro nel pianoeintrodottovi l'indicevi sentì l'anello. Non potendovi entrare con due ditacercò levarnelo serrandolo tra il polpastrello dell'indice e il legno. Con sua meraviglia non le riuscìl'anello pareva preso e trattenuto da un uncino. Mentre Marina faceva ogni sforzo di vincere questa resistenzas'udì lo scatto di una molla; il pianodove posava la mano di Marinacadde di alcuni centimetril'anello vi ruzzolò su. Marinasorpresaritirò la mano in fretta; poirifrugandotrovò chein fondola mano entrava più addentro di prima e che v'eranoin quella ultima cavitàdegli oggetti.
Ne li trasse ad uno ad uno. Erano un libro di preghiereuno specchietto piccolissimo con la cornice d'argentouna ciocca di capelli biondi legati con un brandello di seta nerae un guanto.
Marinaattonitafaceva passare e ripassare ciascun oggetto sotto la fiammella della candela. I capelli erano finissimi; parevano d'un bambino. Il guantoa un bottone soloera piccolostrettoallungato; aveva l'atto d'una cosa viva: conteneva ancoraper così direlo spirito della mano delicata che l'aveva portato un giorno. A chi erano appartenuti quegli oggetti? Quale amorequale occulto disegno li aveva nascosti là dentro? Marina frugò da capo nella cavità misteriosa sperando trovare uno scrittoma senza frutto. Riprese a esaminare gli oggetti. Le pareva che ciascuno d'essi si struggesse di parlaredi gridare: «Intendi!». Finalmentevoltando e rivoltando per ogni verso lo specchiettos'avvide di qualche segno tracciato a punta di diamante sul vetro. Erano lettere e cifre segnate da una mano incerta. Con paziente attenzione Marina arrivò a leggere la seguente laconica scritta:
IO - 2 MAGGIO 1802
Parve a Marina che una luce lontana e fioca sorgesse nell'anima sua. 1802! Non viveva in quel tempo al Palazzo la infelice prigionierala pazza della leggenda? Forse era lei. Quel guantoquei capelli erano reliquie sue.
Ma nascoste da chi?
Marinaquasi senza sapere che si facesseafferrò il libro di preghiere e ne sfogliò le pagine.
Ne cade un foglio ripiegatotuttotutto coperto di caratteri giallognolisbiaditissimi. Ella lo apre e vi legge:
2 MAGGIO 1802
PER RICORDARMI
Ch'io mi ricordinel nome di Dio! Altrimenti perché rinascere? Ho pregato la Vergine e Santa Cecilia di rivelarmi il nome che mi sarà imposto allora. Non vollero. Ebbenequalunque sia il tuo nometu che hai ritrovato e leggi queste paroleconosci in te l'anima mia infelice. Avanti di nascere hai sofferto TANTOTANTO (questa parola era ripetuta dieci volte in caratteri assai grandi) col nome di Cecilia.
Ricordati! MARIA CECILIA VARREGA di Camogliinfelice moglie del Conte Emanuele d'Ormengo.
Ricordati la sera del 10 gennaio 1797 a Genova in casa Brignole; ricordati il viso biancoil neo sulla guancia destra della santa ziasuor Pellegrina Concetta.
Ricordati il nome RENATOl'uniforme rosso e azzurrogli spallini e i ricami d'oro al collo e la rosa bianca al ballo Doria.
Ricordati il carrozzone nerola neve e la donna di Busalla che mi ha promesso di pregare per me.
Ricordati la VISIONE avuta in questa cameradue ore dopo mezzanottele parole di fuoco sfolgoranti sulla pareteparole d'una lingua ignota e tuttavia chiarissime in quel punto alla mia intelligenza che vi intese il conforto e la promessa divina. Mi è impossibile trascrivere quei segninon ne ricordo che il senso. Dicevano che rinascereiche vivrei ancora qui fra queste muraqui mi vendichereiqui amerei Renato e sarei riamata da lui: dicevano un'altra cosa buiaincomprensibileindecifrabileforse il nome che egli porterà allora.
Vorrei scrivere la mia vita interanon ne ho la forza: bastino quei cenni.
Cambiati nome! Che io torni a essere Cecilia. Ch'egli ami Cecilia!
Questo stipo era di mia madrenessuno ne conosce il segreto. Vi pongo lo specchietto a cornice d'argento che la mamma ha avuto a Parigi da Cagliostro. Mi vi sono guardata a lungoa lungo: lo specchietto ritiene la fisonomia dell'ultima persona che vi si è guardata. Vi ho incisa la data con la pietra del mio anello.
Questi sono i miei capelli. Non li conosci? Pensa. Strana cosa parlare a te come se tu non fossi io stessa! Come son belli e fini i miei capelli! Vanno sotterra senza un bacio d'amoresenza una carezza. Come son biondi! Vanno sotterra.
Anche tupiccola mano mia! Metto coi capelli un guanto per ricordarmi di tepiccola mano. Nota che il pollice del guanto mi è corto. Chi sa se avrò una manina così bellacosì morbida? La bacio. Addio!
Ho pochi giorni a vivere. È la sera del 2 maggio 1802. Non so l'oranon ho orologio.
Le finestre sono aperte. Ecco le mie sensazioni: un'aria tepidaun odor di boscoun cielo verdognolocosì soave! E queste voci sul lago e queste campane e queste lagrime mie caldepossibile non le ricordi?
Anima miaimprimi bene in te stessa questo. Il conte Emanuele d'Ormengo e sua madre sono i miei assassini. Ogni pietra di questa casa mi odia. Nessuno ha pietà! Per un fioreper un sorrisoper una calunnia! Ohma adesso no! Adesso con la volontàcol desiderio immensoson tutta suatutta!
Son cinque anni e quattro mesi che son quiche essi non parlano a me e che io non parlo ad essi. Quando mi porteranno in chiesaci verranno anche loroforse. Saranno vestiti a luttomostreranno alla gente un viso triste e risponderanno ai preti: lux perpetua luceat ei. Alloraallora vorrei rizzami sul cataletto e parlare!
Madre miapadre mioè vero che siete mortiche non potete difendermi? Ahd'Ormengovilivilivili! Almeno non soffrono.
Debbo arrestarmi un momento. I miei pensieri non mi obbedisconosi muovono tutti in una voltasi aggruppano qui in mezzo alla frontevi fanno una smania che non ha sollievo.
Addiosole; a rivederci.
Porta neraporta neranon aprirti ancora!
Calma. Alcune regole per quel giorno.
Quando nella seconda vita avrò ritrovato e letto il presente manoscrittom'inginocchierò immediatamente a ringraziar Dio; quindiparagonati i miei capelli d'adesso a quelli d'alloraprovato il guanto eguardata la immagine nello specchiospezzerò a quest'ultimo il vetro che dev'essere rinnovato per poter servire un'altra voltae riporrò tutto nel segreto. Poi converrà premere sull'uncino per far tornar su il piano orizzontale.
Aver fede cieca nella divina promessa: lasciar fare a Dio.
Sieno figlisieno nipotisieno parentila vendetta sarà buona per tutti. Qui aspettarlaqui.
Cecilia.
Marina lesse avidamente e non intese.
Rilesse. Al passo: «Tu che hai ritrovato e leggi queste paroleconosci in te l'anima mia infelice»si fermò. Prima non le aveva notate.
L'occhio suo si fermò su quelle parolee le maniche tenevano il fogliotremarono. Ma per poco. Ella proseguì a leggere e le bianche mani tremanti parvero pietrificate.
Giunta alle parole «m'inginocchierò immediatamente a ringraziar Dio» chiuse il manoscritto tenendovi dentro l'indice della mano destra e rimase immobile in piedicon la testa china sul petto.
Riaperse il manoscrittolo rilesse per la terza volta. Poi lo depose e prese la ciocca di capelli. Le sue mani si movevano lentamentenon avevano più nulla di nervoso. La fisonomia era marmorea; non v'erano scritte né incredulitàné fedené pietàné paurané meraviglia.
Un passo pesante nel corridoio. Marina si trasformò. I suoi occhi scintillaronoil sangue le corse al visochiuse con impeto la ribalta dello stipo e si slanciò alla porta.
Era Fanny che aveva un passo da corazziere.
«Vattene» disse Marina.
«AhSignoreche furiacos'è accaduto?»
«Nullanon ho bisogno di te staseravattene a letto» ripeté Marina più ricomposta nella voce e nel viso. Fanny se ne andò.
Marina stette in ascolto de' suoi passi finché la udì scendere le scale. Allora tornò allo stipo.
Esitò a riaprirlone considerò i geroglificile figure enigmatiche d'avorio intarsiato nell'ebanoche avevano in quel momento per lei la espressione funebre di spettri saliti a galla in una nera corrente infernale. Si decise e riabbassò la ribalta.
Trasalì; lo stipo era stato chiuso in furia e lo specchietto era andato in pezzi secondo la volontà di Cecilia. Rilesse l'ultima pagina del manoscrittosi sciolse i capelline tolse in mano una treccia e l'accostò alla ciocca di Cecilia; i vivi e i morti non si rassomigliavano affatto.
Prese il guanto. Come n'era fredda la pelle! Metteva i brividi. Noneppure il guanto andava bene: era troppo piccolo.
Marina ripose nel segreto il manoscrittoil libroil guantoi capellila cornice con i pezzi dello specchietto e premette forte sull'uncino. La molla scattòil piano risalì a posto. Ciò fattocadde ginocchioniappoggiò le braccia sulla ribalta dello stipo e si nascose il viso. La candela che ardeva sopra di lei e le illuminava di riflessi dorati le onde diffuse dei capelliparve allora la sola cosa viva nella camera. La fiamma aveva delle strane inquietudinidei sussultidegli slanci e dei languori inesplicabili; si veniva lentamente abbassando come se fosse ansiosa di calare all'orecchio di Marina e sussurrarle: «Che hai?» Ma neppure se lo spirito di luce avesse parlato così al piccolo orecchio di rosasi sarebbe udita risposta. Quella figura inginocchiata non aveva più sensi né voce. Il cuore le batteva appena; il sangue stessoforseera quasi fermo. La sua forte intelligenza e la sua volontàchiuse nel cervellofatto intorno a sé un gran silenziocombattevano il fantasma uscito dallo stipo aperto davanti alla graziosa persona col truce proposito d'infiltrarlesi nel sanguedi avvinghiarlesi alle ossadi suggerle la vita e l'anima per mettersi al loro posto. In altri momenti lo scetticismo che Marina teneva dall'uso del mondo non l'avrebbe nemmeno lasciata accostare da qualsiasi fantasma; ma quel sottile velo di scetticismo che copriva sempre il pensiero in tempo di calma come una crittogama di acque stagnantisi era squarciato e disperso nell'incomprensibile turbamento di spirito che l'aveva assalita tornando al Palazzo.
La sua prima impressione nell'afferrare la strana idea suggerita nel manoscritto era stata di sgomento. L'avea vinta subito con un atto di volontàcon il proposito di esaminar freddamented'intender ogni parola. Raccoltasi poi nella meditazione intensa di quanto aveva lettoudì una imperiosa voce interiore che le disse:
«Nonon è vero.»
E subito dopo diffidò di questa voce stessa che non parlava più. Ella non poteva aver valore che per essere la conclusione di efficaci argomenti attraverso i quali fosse passato il suo pensiero con la rapidità del fulmine. Bisognava farlo tornare indietrofargli rifarepasso passola via.
Quella donna non era sana di mente. Lo diceva la tradizionelo confessava lei stessalo significava la concitazioneil disordine febbrile delle sue ideequand'anche il concetto sostanziale dello scritto non bastasse per sé a dimostrarlo. Questo concetto di una seconda esistenza terrena aveva esso almeno qualche cosa di originale che potesse far sospettare un'ispirazione superiorefar prendere sul serio le visioni di Cecilia? Noera una ipotesi antica come il mondonotissimache l'infelice poteva assai facilmente avere udita o lettache aveva trovatoal dì del dolorenella propria memoria. Allora essa l'aveva afferratane aveva tratto il suo ristorone aveva vissuto: l'idea era diventataa questo modosangue del suo sangue. Visioni? Le pareti avevano risposto alla povera demente ciò ch'ella chiedeva loro con la più grande energia di volontà e di immaginazione. Avean risposto con fuocosì. Con chiarezza? No. Che significavano i capelliil guantolo specchio? perché far paragonare la manoi capelli morti con la mano e i capelli vivi? Sperava costei di rinascere o di risorgere?
Lo scritto era dunque un frutto del delirio. Solo qualche ricordo della vita anteriore che si destasse ora nell'animo di leiMarinapotrebbe dimostrare l'opposto.
Apritianima! Ella interrogò se stessa sui ricordi accennati nel manoscritto come chi si curva sopra un pozzo buio e profondo e chiama e sta in ascolto se qualche vocese qualche eco risponda.
Camogli? Nessuna econessuna memoria. Genova? Silenzio. Suor Pellegrina ConcettaRenato? Silenzio. Palazzo Doriapalazzo BrignoleBusallaOleggio? Silenziosempre silenzio. Così talvoltaad alta nottein qualche sala d'aspetto ingombra di gente e male illuminata da un fumoso lume a petroliosi grida una sequela di nomi di paesi e di città lontane; nessuno si move; nessuno risponde. Aspettano un altro treno. Ma chi sa se vi hanno viaggiatori per quella linea che non hanno udito perché dormono nei loro mantellilaggiù all'altro capo della salaseduti dietro la gente ritta?
«È una pazzia» si disse Marina«e io che mi stillo il cervello a questo modosono ridicola! Ridicola!» ripeté ad alta voce e balzò in piedi.
La parola uscita dalle labbra le parve più aspra della parola stessa concepita nel pensiero. Più aspranon solo; anche eccessiva e falsa. Ne rimase ferita come se non l'avesse pronunciata lei. In pari tempo le entrò prima nel cuorepoi per tutte le membra una agitazione sordaun'alternativa di stanchezza e d'impaziente ardoreuna cupa resistenza alla volontà.
Meraviglioso il caso che l'aveva portatanel fiore della gioventù e della bellezzada Parigia quella stanza disabitata da settant'anni! Meraviglioso il caso che aveva appiccato l'anello all'uncino del segretosì che ella potesse leggere: «Tu che hai ritrovato e leggi queste paroleconosci in te l'anima mia infelice!»
Delirio! Ma dove era una traccia di vaniloquio in quello scritto? Concitazione sìdisordine sìma una prigionia di cinque anniun concetto così straordinario nella mente! Concetto antico! Ma non sarebbe questa una ragione di credere? Marina tremòle parve sentirsi chiamarepregare da tante anime ignote che avevano avuta questa fedele parve seguire un momento il loro slancio. E il sangue le correva sempre più tempestosola intelligenzala volontà venivano mancando.
Non ricordava Camogli né GenovaRenato né Pellegrina Concettanon un giorno della esistenza precedentenon un'ora; ma quanti istanti! Quante volte non le era balenata la ricordanza di istanti perduti fra le tenebre d'un passato ignoto! Quella sera stessale campane! Le corse un ghiaccio pel sangueun'oppressione indicibile la strinse alla gola. Ebbe allora lo sgomento di affogarel'istinto di salvarsi. Abbracciò quest'idea che non poteva esser lei Ceciliaperché c'era del sangue d'Ormengo nelle sue vene; ma il cuore implacabile disse: «Noche importa il sangue? Tu odiihai sempre odiato tuo ziola vendetta è più squisita così; Dioperché tu la compia meglioti ha posto dentroirriconoscibilealla famiglia del nemico.»
Ma ella adesso aveva pauravoleva sottrarsi alla lotta; diè di piglio al lume e passò nella camera da letto. Le finestre erano aperte; un soffio di vento le spense la candela. Volle riaccenderlama non sapeva che si facessee non vi riuscì. Si gittò spossata alla finestra per aver ristoro. Colà le tornò subito a mente comela sera del suo arrivo al Palazzoguardando da quella finestranella notteavesse creduto riconoscere un antico sognouna immagine sinistraapparsale altre volte nelle ore gaie della sua vita mondana. Fu l'ultimo colpo; una commozione senza nome le oscurò il pensiero e la vistacredette udire mille sussurri levarsi intorno a leimescolarsi per l'ariaconfondersi in una voce sola; si portò ambe le mani alla fronte e cadde a terra.
Nell'oscuro lume delle stelle diffuso sul pavimento davanti alla finestra giaceva la bianca persona come sciolta dal sonno. Chi avrebbe detto che vi fosse là una donna svenuta? Nel palazzo tutti dormivano; i grilli e gli usignoli cantavano allegramente; i soffi brevi e vivaci della chiara notte di aprile entravano curiosi per le finestre apertefrugavanobisbigliavano dappertutto; e da una barca lontana indugiatasi più delle altre sul lago veniva il canto spensierato:
E cossa l'è sta Merica?
L'è un mazzolin di fiori
Cattato alla mattina
Par darlo alla Mariettina
Che siamo di bandonar.
Solo lo zampillo del cortile raccontava in aria di mistero agli arum una storia lunga lunga ch'era ascoltata con religioso silenzio. In tutto il cortile non si moveva fronda. Era forse la storia della donna svenuta là pressoma non riusciva possibile a orecchio umano intenderne sillabané sapereperciòse la donna vi fosse chiamata Marina di Malombra o Cecilia Varrega.
Conseguenza di quella notte fu per Marina una violenta febbre cerebrale di cui nessuno poté indovinare la causa. È quasi impossibile che l'inferma non si sia fatta sfuggire durante il delirio qualche allusione al fatto straordinario onde avea riportato impressioni sì gravi; ma quelle allusioni dovettero essere assai rade e vagheperché non fecero sospettare di nulla. La volontà gagliarda di Marinabenché sconnessa e rotta dal malelavorava ancora per un impulso ricevuto prima. Essa voleva tacere. La presenza del conte Cesare era il più terribile cimento per lei. Quando vedeva il contee anche solo all'udirne i passi pel corridoio vicinol'ammalata diventava furibondaurlavasmaniava senza articolar parola; per modo chedopo i primi giorni di malattiale visite dello zio cessarono. Questa ripugnanza fu molto commentata dai domestici e dalle comari pettegole di R... Si fabbricarono parecchie novelle assurde. La interpretazione più creduta fu che il conte voleva sposare Marinacontro la inclinazione di leie che la ragazza n'era impazzita. Il chiarissimo professore B...chiamato da Milano in aiuto del povero pitòr che non sapeva più in qual mondo si fossecredette di dover tastare il conte su questo delicato argomento dell'antipatia violenta che l'ammalata gli dimostravae lo fece con moltissimo garbomettendo avanti l'interesse medico della questione. La risposta del conte non fu altrettanto diplomatica.
«Mia nipote» diss'egli «mi deve forse qualche beneficio; non però tanto grande da odiarmi per questo. Ella è una giovane molto intelligente e io sono un vecchio quasi rimbambito; ho motivo di credere che siamoin molte coseagli antipodi; malgrado tutto questo non mi è mai passato pel capo di sposarlacome probabilmente vi avrà detto il nostro medicoil quale beve come una spugna tutto quello ch'è stupido; e non lo fa apposta. Tornando a mia nipotele nostre prime impressioni reciproche furono disgustose più del necessario; però ci abbiamo versato su molto zuccheroeper parte mianon sentivo più quel sapore. Del resto io credocaro professoreche quando uno ha messo il suo cervello a rovesciose dice nerobisogna intender bianco.»
La scienza del prof. B...aiutata dall'umile ignoranza del suo collegavinse il male. Dopo un mese e mezzo Marina comparve in loggia. Era pallidaaveva gli occhi assai più grandi del solito e velati da un languore attonito. Si sarebbe detto che il vento dovesse curvarla come un sottile getto di acqua. Il vigore e la bellezza tornarono rapidamentema un osservatore attento avrebbe notato che l'espressione di quella fisonomia era mutata. Tutte le linee apparivano più decise; l'occhio aveva tratto tratto degli stupori insolitioppure un fuoco triste che non gli si era mai veduto. Quel velo di dissimulazionein cui Marina si era venuta avvolgendoscomparve. La memoria delle sue piccole ipocrisie d'una volta la irritava. La sua eleganzaprima correttissima per non offendere l'austero zio e per accordarsi con l'ambientepigliò un accento stranoprovocatore. Candidi stormi di biglietti stemmaticifrati e profumati si incrocicchiarono daccapo nel regio antro postale di R... Uno stillicidio di drammi e di romanzi francesi si avviò dalla libreria Dumolard al Palazzo. Il piano gittò a tutte le orefosse o no il conte in bibliotecaun fuoco vivo di Bellinidi Verdi e di Meyerbeer e Mozart. Meyerbeer e Mozart erano i soli due maestri cui Marina perdonava d'esser tedeschi; al primo in grazia della sua cittadinanza franceseal secondo in grazia del solo Don Giovanni.
Ricominciarono le corse sfrenate pel lago e pei montimalgrado venti e pioggedi giorno e di notte; corse nelle quali il Rico faceva con entusiasmo la parte di guidadi cavaliere devoto e di cane fedele. Inoltrecon grande stupore degli abitanti di R...Marina si pose a frequentare la chiesadove in passato non aveva mai posto piede. Per vero dire questo suo risveglio di pietà era assai bizzarroperché alla messa festiva non la si vedeva mai comparire. Andava in chiesa quando non c'era nessunotalvolta di mattinatalvolta di sera. Un giorno che la trovò chiusa andò risolutamente dal curato a cercar la chiave. La serva del curato ebbe a rimaner di stucco aprendo l'uscio alla «Signora del Palazzo»e più ancora udendosene chiedere la chiave della chiesa. Il suo primo istinto fu di chiuderle la porta in faccianon che di rifiutare la chiave; ma le labbra osarono solo dire che ne avrebbe riferito al padroneal quale corse subito raccomandandogli di trovare un pretesto per non dar la chiave a quella strega. Il padrone la rimproverò aspramente e andò egli stesso ad aprir la chiesa a Marinache aveva già conosciuta in qualcuna delle sue rade visite al Palazzo.
Non è difficile immaginare come procedesseroin tale stato di cosele relazioni fra zio e nipote. Essi potevano paragonarsi a due punte metalliche fortemente elettrizzateche non s'accostano mai l'una all'altra senza scambiare scintille che vorrebbero essere folgori. A viaggiare Marina non ci pensava più. Durante la sua convalescenza il medico gliene aveva parlatofacendole presentireper incarico avutonel'assenso del conte. Ella rispose che non intendeva affatto muoversi dal Palazzoche l'aria le faceva benissimo e che il signor dottore non ne capiva niente.
Ella e il conte non si vedevanosi può direche a pranzoma si combattevano sempre. Persino le suppellettili del palazzo erano penetrate di quella sorda inimicizia e parevano pigliar parte quando per l'uno quando per l'altra. Certe finestrecerti usci si pronunciavano due o tre volte al giorno. Marina li faceva aprireil conte li faceva chiudere. Un povero vecchio seggiolone del corridoio dei paesaggi vi perdette il suo decoro e la sua quiete. Quasi ogni giorno un decreto lo traslocava in faccia a un grande Canalettoe un altro decreto lo ricacciava al posto di prima. Fannynell'esercizio delle sue funzioniportava sempre alto il nome e i voleri della sua «signora»; gli altri domestici accampavano quelli del padrone; la buona Giovanna cercava di metter pacema non riusciva spesso che a guadagnarsi qualche impertinenza di Fannye se ne struggeva in silenzio. Il conte abborriva i profumiper cui Marina ne usava un po' più che non permetta il buon gusto. Libri francesi dimenticati qua e là per la casa ridevano in viso al vecchio gallofobo che ne fremeva sino al vertice de' capelli. I fiori più belli del giardino sparivano appena sbocciatimalgrado il tempestare del conte contro il poco vigile giardiniere e contro Fanny a cui gli piaceva attribuire quei guasti. Con leinaturalmentenon si imponeva ritegni; per poco un giorno non la gittò nel lago. Fu una fortuna per Fannyperché il contepentito di quell'eccessonon mandò ad effetto il suo proposito di farla inesorabilmente cacciare. Però i rabbuffi spesseggiavano sempre e violentimolte volte più del ragionevoleperché miravano a passar lei da banda a banda e cogliere Marina.
A fronte di questa il contedi solitosi frenavafosse per la memoria di sua sorella che aveva molto amatao per un sentimento cavallerescoo per timore di uscire da' giusti limiti. Il nuovo contegno della giovane aveva provocato sulle prime recisi rimproveri fatti da lui con un tono tra il grave e l'acerboribattuti da lei con freddezza nervosapiena di recondita emozione. Il conte si ritrasse tosto da quella via pericolosa e si appigliò al sistema del silenzio accigliato; silenzio carico di elettricitàinterrotto soltantocome si è già dettoda fugaci scintilleda lampi di sdegno per parte dell'altra. Qualche volta scoppiavano dei mezzi temporali che lasciavano il tempo scuro di prima. Il povero Steinegge non godeva punto fra questi due litiganti: Marina trovava modo di offenderlo a ogni momento. «Signor conte» diss'egli un giorno al conte Cesare «so che ho la disgrazia di dispiacere molto alla signora marchesina. È forse la mia vecchia fisonomia che non posso cambiare. Se la mia presenza può aumentare i vostri piccoli differenti di famigliaditemelo! Io vado.» Il conte gli rispose cheper orain casa sua ci comandava lui; che se il principe di Metternich offrisse al signor Steinegge il posto di direttore delle sue cantine di Johannisbergsi permetterebbe al detto Steinegge di partirealtrimentino.
Circa un anno dopo la scoperta del segretoMarina ebbe dal libraio Dumolardinsieme a quattro o cinque novità francesiun libro italiano. Era un racconto stampato dalla tipografia V... - Portava per titolo: Un sognoracconto originale italiano di Lorenzo. - Possiamo aggiungere che la copia spedita a Marina e trattenuta da lei per noncuranzaera la trentesima spacciata in due mesi dalla pubblicazione.
Marina non aveva punto stima de' libri italiani e pochissima voglia di legger questo. Se lo lesse fu per una storditaggine di Fanny che glielo portò una mattina a bordo di Saetta invece dell'Homme de neige. Giunta nella sua rada prediletta della Malombrasi accorse dell'erroree dopo la prima dispettosa sorpresasi rassegnò a tentar di leggere.
Il soggetto del libro è questo: Un giovanotto spossato ed esaltato da soverchie fatiche cerebraliha un sogno di straordinaria vivezza nel quale egli crede vedere rappresentato sotto forme allegoriche il proprio avvenire. I fattiinterpretati da lui secondo questa convinzionevengono confermando la prima parte del sogno. Passano quindici anni. Tutta la prima parte del sognoserena e lietasi è avverata. Ora è la seconda partedi cui si aspetta il compimento. Questa seconda parte predice un amore impetuosoviolentoun delirio dello spirito e dei sensi onde il protagonista dev'essere tratto a catastrofi spaventose. A trentasei annicostuipadre di famigliauomo grave che vive ritirato dal mondo per la segreta paura del suo sognosi trova con grande angoscia preso d'amore per una donna cui fu avvicinato da necessità ineluttabili. Questa donna è per altezza d'animo un ideale più facile a trovarsi oggidì nella vita che nei romanzi. Essa divide la passione di lui malgrado sforzi eroici di volontà. Lottano ambedue per dividersiper salvarsi; ma il cielola terra e gli uomini cospirano per farli cadere. Sull'orlo dell'abisso in cui troveranno la sventurail disonore e fors'anco la mortesfugge all'uomo il segreto della fatalità misteriosa che lo perseguita e cui non vale a resistere. In quel momento supremo la donna magnanima si sdegna di cedere al destino e non al proprio cuorenon alla felicità dell'amante. Con lo sdegno la sua coscienza religiosa si rialza. Gli amanti si dividono innocenti. L'uomo a poco a poco dimenticavive tranquillo e felice. La donna muore.
Il racconto è scritto con pochissima esperienza della società e delle cosema con qualche acume d'osservazione psicologica. Le descrizioni della natura sono tollerabilil'elemento fantastico non vi è adoperato troppo male. Insommase non vi fosse tanto calore virtuosose non vi mancassero affatto gli studi fotografici di appartamenti e di vestinon che le prove che l'autore conosce un poco anche il nudose lo stile fosse più facile e borghese; sovra tutto se vi si dicesse bono e bona invece di quel buono e buona che bastano a rivelare un povero ingegnoun uomo vergognosamente sfornito di dottrina filologica e di gusto affatto indegno di comparire tra gli scrittori odierniuna testa da parrucca; se tutte queste condizioni si fossero avverate e se l'autore si fosse date le mani attornoUn sogno avrebbe probabilmente trovato miglior fortuna.
A Marina parve andare a sangueperché quando l'aperse l'ombra violacea della montagna copriva gran tratto di lago oltre la rada; quando lo posòil sole brillava per le vette dei boschi pendenti sopra il suo capo e l'ombra violacea moriva a pochi passi dalla sponda in un bel verde smeraldo.
Tornò al Palazzo con la mente piena di quel libro. Avrebbe voluto conoscerne l'autoreparlargli. Credeva egli in quello che aveva scritto? Credeva si potesse resistere al destino e vincerlo? Se il destino era stato vintopoteva dirsi destino? Se non poteva dirsi destinov'hanno dunque spiriti maligni che si pigliano giuoco di noirappresentandoci il falso colle apparenze del vero e rappresentandocelo in modo da colpire fortemente la nostra fantasia?
Nessuno rispondeva a tanta furia di domande e Marina voleva risposta. Non indugiò un momento. Senza neppur pensare a chi né come avrebbe diretta la letterabuttò giù d'un fiato otto fitte paginette di una calligrafia inglese alquanto irregolarebattezzata già da miss Sarah per angloitaliana. Le otto paginette sfolgoravano di brio. Marina vi aveva preso un tono di maschera elegante che sa mescolare con garbo aristocratico le parole ironiche alle seriee colorire la grazia con l'alterezza. Sottoscrisse «Cecilia» edopo un istante di incertezzaaggiunse il seguente poscritto:
Vorrei pur sapere se credete possibile che un'anima umana abbia due o più esistenze terrestri. Se l'etereo autore di Un sogno non usa di colombe né di rondinelle postalicome si potrebbe sospettaremandi semplicemente la sua risposta al dottor R.... ferma in posta. Milano.
Poi Marina scrisse quest'altro biglietto alla signora Giulia De Bella:
Aiutami a fare una piccola follìa ben timida e ben savia. Sono tutta meravigliata di aver lettonon so più bene se per amore o per forzaun romanzo italiano. Arriccia il tuo nasino ma ascolta. Questo romanzo è un buon signore timido con i guanti troppo scuri e la cravatta troppo chiara ch'entra impacciato nel tuo salonsaluta mezza dozzina di persone prima di teoscilla un quarto d'ora tra una poltronauna seggiola e uno sgabelloe si decide finalmente pel posto più lontano dalle signore. Ma poiquando parlanon somiglia a nessun altro del tuo circolo. Ha delle ideedel fuocoè un uomo. Ne haicaradegli uomini nel tuo circolo? Se ne haipardon.
Non importa punto conoscere il nome né la persona dell'autore che ci si dice semplicemente Lorenzo. Potrebb'essere borgheseMatteo e biondo. M'è venuto invece il capriccio di una corrispondenza letteraria e ne posso avere tanto pochi dei capricciche li soddisfo tutti subito. Y. che scrive a X.! Deve essere deliziosospecialmente se X. risponderà a Y. Potrebbe accadere che X. fosse una consonante di spirito; questa divertirebbe assai la povera Y. che si annoia come una regina. Ora X. non ha nemmanco a sapere di dove gli piova la mia lettera; vedi se non è una follìa savia! Tu dunqueamica miafarai gettare alla posta l'accluso dispaccio diretto all'autore di Un sogno presso la tipografia V... Macome pensi benenon basta. Ti compiaceresti di far cercare fra qualche giorno alla posta se vi fossero lettere per il dottor R... e di spedirmele se ve ne sono? Gli ho datocontando sopra tequesto indirizzoil meno compromettente possibile. La cosa è tanto innocente che potresti desiderar di chiedere il permesso di tuo marito per farla. In ogni caso taci il mio nome. Vi sarà poi qualche cosa per te. Ti manderò un pezzo di lago pel tuo giardino di via Bigliper le manchettes della S... e per le mani illustri del professor G...
I miei omaggi à ton très-haut seigneur et maîtrese lo vedi.
Addiocara. Sto rileggendo un libro vecchiol'Amour di Stendhal. È scritto au bistouri.
Marina
La signora De Bellache aveva fatto per curiosità qualche follìa meno savia di questarispose tra scherzosa e corrucciataminacciò l'amica con la punta della sua morale di gomma e conchiuse accettando; con la riserva sottintesa di leggere le lettere prima di spedirle. Ell'erasovra tuttouna donna di coscienza.
La risposta dell'autore di Un sogno non si fece attendere lungamente. Egli vi sosteneva con maggior cuore che vigore logico le opinioni espresse nel suo romanzo intorno alla fatalità e alla potenza invincibile dello spirito umano che vuole. Dimostrava comenegli avvenimenti a cui deve necessariamente concorrere la volontà dell'uomo con atti che toccano la sua coscienza moralequesta volontà sia un elemento principale che ne determina la forma; un'incognita variabile che introdotta nei calcoli fondati su leggi naturali fisse ne rende sempre incerto il risultato. Negava poscia l'azione prestabilita e necessaria della volontà che assente al male. Posto in sodo come basti alla dimostrazione della libertà umana che l'uomo possa sempre decidersi per il benesosteneva che lo può. Diceva che può sempre attingere l'impulso determinante al benedal fondo dell'anima sua stessada un punto di misterioso contatto con Dio ond'entra in lei una forza non calcolabile. È un gran tortosoggiungevadella psicologia modernadi non avere sufficientemente osservato i fatti interiori che vengono in appoggio di tale contatto. Colà sta la grande guarentigia della libertà umana.
Quest'azione divina ch'entra dunque innegabilmente nell'origine delle azioni umanenon si oppone ella per sua natura al male moralee non escludea prioriche sia mai necessario? Il mistico scrittore cercava poi dimostrare che neppure alla prescienza divina potrebbe appoggiarsi una teoria fatalistaperché prescienza e divinità sono due termini contraddittoriinconciliabilicome tempo e infinitoe nulla se ne può dedurre.
Tutti questi argomenti erano posti innanzi con una ingenua foga che poteva salvare l'autore di Un sogno della taccia di pedantema generava il sospetto che egli volesse convincereoltre alla sua corrispondentese stesso.
Spiriti maligni che si pigliano giuoco di noiproseguivave ne hanno certoe possono anche illudere con le apparenze della fatalità. Tutto fa credere checome noi esercitiamo un potere sopra gli esseri che ci sono inferioricosì siamo soggettientro certi limitiall'azione di altri esseri che ci superano in potenza. Siamo forse soliti attribuire al caso quello che è opera loro.
I sogni profeticii presentimentile subitanee inspirazioni artistichele illuminazioni fugaci della nostra mentei ciechi impulsi al bene e al malecerte inesplicabili allegrezze e malinconiecerti movimenti involontari della nostra memoriasono probabilmente opere di spiriti superioriparte buoniparte malvagi.
Tali considerazioniscriveva Lorenzocadono tutte se non si ammette Dio. Esprimeva quindi la speranza che Cecilia non fosse ateanel qual casoavrebbea malincuoretroncato ogni corrispondenza con lei.
Veniva in seguito alla pluralità delle esistenze terrestri.
Lorenzo credeva alla pluralità delle esistenze. Lo stato dello spirito nel corpo umano è indubbiamentedicevauno stato di repressioneuno stato di penala quale non può riferirsi che a colpe commesse prima della incarnazione terrestre. I dolori degli innocenti ein generela distribuzione ineguale del dolore e del piacere tra gli uominisenza riguardo ai meriti e ai demeriti della vita presente; la sorte delle anime che escono pure dalla vita dopo un'ora della loro venuta ottenendo quel premio che ad altri costa lunghi anni di lotte durissimenon possono meglio spiegarsi che con l'attribuire alla nostra esistenza attuale un carattere di espiazione insieme a quello di preparazione. Ammesso il principio della pluralità delle esistenzel'autore di Un sogno diceva che la ragione umana non può andare più avantie che il problema se le nostre vite anteriori sieno state terrestri o siderali va lasciato alla fantasia.
La lunghissima letteraun volumefiniva col voto molto poeticamente espresso che la corrispondenza misteriosa avrebbe continuato. La signora De Bella venne presto a capocon le sue dita industriosedella bustama non resse a tanta filosofia e dalla prima pagina saltò alla chiusa: poi scrisse sulla sopraccarta: «Sono sicura ch'è perfettamente morale; è così pesante!»
Marina invece divorò lo scritto. Sorrise appena dell'ingenuità di quell'uomo che rispondeva con tanta foga a un'incognita. Palpitò leggendo il nome di Cecilia a capo della lettera e nella chiusa. Naturalissimo che ci fosse; ma pure n'ebbe una impressione profonda.
Passato qualche temporiscrisse dissimulando affatto le sue vere impressioni. Non parlava più in questa seconda lettera di fatalità né di esistenze precedenti; come per trarre scintille di spirito dal suo corrispondentese ne avevalo veniva pungendo in mille modi. Scherzava sulla pedanteria della sua rispostasulla sua pietàsulla goffaggine del suo pseudonimo: gli chiedeva con un tono di curiosità impertinente se vi fosse qualche cosa di vero nel suo raccontose avesse pubblicati altri lavoriperché si tenesse celato. La lettera fu ricevuta da Corrado Silla un quindici giorni prima della sua partenza per il Palazzo. Noi sappiamo come rispose.
6. Una partita a scacchi
«Sìil Cristianesimolo capisco bene» disse il contepigliando in mano un alfiere e guardandolo attentamente. «Non so chi sia la bestia che vuol tenerci così al buio.»
Le imposte erano socchiuse e le tendine calate. Silla si alzò per fare un po' di luce.
«NoVi prego; vengano loroquesta gente! Volete aver la compiacenza di suonare? Lìpresso alla portaquel bottonedue volte. Il Cristianesimo! Ohio non Vi propongo di scrivere contro il Cristianesimo. Voi mi dite che finalmente il principio d'eguaglianza è stato portato nel mondo dal Cristianesimo. Cosa volete dire con questo? Che prima del Cristianesimo non vi fossero democrazie? Io intendo che il nostro libro consideri il principio di eguaglianza dov'è più mostruosoossia nel campo politico; e fra gli altri pregiudizi da fare in polvere vi sarà anche il pregiudizio che l'autore di questa brutale eguaglianza politica sia stato Cristo. Del restosentite: uguali davanti a Dio sarà benissimo; quello è un punto di vista molto lontano; ma uguali tra di noi! Ci vuole una grande durezzauna grande miopia fisica e intellettuale per sostenere che siamo uguali tra di noi. Se vi è qualche cosa che colpisce gli uomini è la loro disuguaglianza naturale nel corpo e nell'anima. Il mio cuoco è molto più simile ad Annibale e a Scipione Africano di un gorillama non è loro eguale; e tutti i retori dell'89 e gli ambiziosi leccapopolo di poi non lo faranno diventare tale. Scacco al re.»
«Non si può. Mascusici son pure negli uomini i grandi caratteri fondamentali comuni che tutti conoscono e tante altre uniformità più nascoste. Io credo che gli uomini si rassomiglino moralmente assai più di quel che pare. E queste uniformità non devono essere riconosciute dalle legginon giustificano il principio di eguaglianza e le sue applicazioni ragionevoli? C'erano democrazie anche prima del Cristianesimosì; tutti i principii del Cristianesimo c'eranosi può direanche prima; ma esso ha loro fornitovolere o non volereuna baseuno stimolo e un ideale. Guardi l'immensa importanza attribuita a qualunque anima: guardi il precetto dell'amore tra gli uomini; nulla uguaglia più potentemente dell'amore!»
«Scusatemivi è ancor molto fumo di gioventù in questo che dite. Lasciamo stare che la democrazia moderna è fatta di cupidigia e di superbianon di amore; io Vi dico che l'amore tende a mantenere la ineguaglianza! io Vi dico che più un servo ama il suo padronepiù un soldato ama il suo generalepiù una donna ama un uomopiù un debole ama un fortepiù un piccolo ama un grandepiù queste disuguaglianze sono rispettate. È la cupidigiaè la superbia che tende a distruggerle.»
«Ma Lei suppone l'amore da una parte sola» esclamò Silla «dalla parte dell'inferiore. Lo supponga un po' anche dall'altra.»
«Sicuramente lo suppongo. Volete Voi dirmi che Dio per amore si è fatto uomo? Io non entro in questo campo. Io dico che chi amase è intelligentenon si spoglianon può né deve spogliarsi della funzione sociale che gli spetta. Io dico che la Vostra religionese aiuta a far rispettare le disuguaglianze create dalla legge umanamolto più deve far rispettare le altre che portano la impronta di una volontà superiore. Ha ben altro a fare il Vostro amor del prossimo che impastare repubbliche democratichepredicar l'eguaglianza fra i pedoni e gli altri pezziperché son tutti di legno e abitano un solo scacchiere! Mio caroè mezz'ora che Vi ho detto: scacco al re.»
«Non si può: c'è il cavaliere.»
Il conte chinò sullo scacchiere il suo testone selvoso.
«Già!» diss'egli. «Non ci si vede. Ma guardate un po' s'è venuto nessuno! Nonon voglio che apriate Voi.»
Si alzò e suonò egli stesso.
«Mi perdoni» disse Silla «è necessario che io Le faccia una domanda.»
«Fate.»
«Secondo Leiè anche la nascita... fra le disuguaglianze da rispettare?»
«Per Dio! Lo credo bene. Vi regalo delle centinaie di gentiluomiciattoli d'adesso per un quattrino al paioma non capite che la disuguaglianza degl'individui crea la disuguaglianza delle famiglie e che le grandi famiglie sorte per un potente impulso e tenute alte lungo i secolihanno una funzione organica nella società umanasono in certo modo esseri superiori che vivono quattrocinqueseicento anni e dispongono perciò di una forza assai più grande della comunepossono conservare lungamente molte buone abitudinicontrapporre l'interesse della patria a quello di una generazione passeggeraacquistare in pro dello Stato una esperienza straordinariamente lungaservire di guida e di esempio al popolo?»
«Ha suonato?» disse il cameriere entrando.
«Chi diavolo vi ha detto» esclamò il conte «di tener le finestre chiuse a questo modo?»
«Non sono io che ho chiuso; deve essere stata la signora Fanny.»
Il conte calò un pugno sul tavolo.
«Dov'è questa signora Fanny?»
«Credo che sia giù lì nel cortile.»
«A far chenel cortile?»
Il cameriere esitò un momento.
«Non lo so» diss'egli.
Il conte si alzòandò ad aprire bruscamente la finestraguardò giùbrontolò un'esclamazione piemontese e disse al cameriere:
«Vengano su tutt'e due.»
Il cameriere s'inchinò.
«Ahnon lo sapevate!» esclamò il conte.
Queglimogio mogiouscì.
«Pare impossibile!» disse il conte. «Quell'asino di dottore che fa la ruota intorno alla cameriera di mia nipote. In giardino come due colombi!»
Un minuto dopo entrò il pitòr tutto rossoed esclamando «Che combinazione! che combinazione!» disse di essere giusta venuto per fare una partitina...
«Con Fanny» interruppe il conte.
Il dottore rise molto e disse che il conte aveva voglia di ridere. Non parevaperòa guardarlo; e il dottoreridendo di menolo guardava sempre.
Disse poi che la signora Fanny non aveva volsuto venire perché era stata chiamata dalla sua padrona.
«Cedo il mio posto al dottore» disse Sillaalzandosi. Il dottore protestò che non voleva assolutamenteche gli bastava di stare a vedere e che già il conte a giuocar con lui non si divertiva. Ma Silla insistette; temeva una scena e non gli garbava di assistervi.
«Tornerò» diss'egli «ripiglierò la partita più tardi.»
Uscito luiFannytutta imbronciataporse il viso per la porta e disse:
«Cosa comanda?»
«Che veniate avanti.»
Fanny aperse l'uscio un po' piùma non si mosse.
«Che veniate avanti!» gridò il conte.
Ella fece un passo.
«E che non v'immischiate di aprire né di chiudere imposte nelle mie camere! E che non perdiate tanto tempo in giardino dove non c'è niente per voi!»
Il povero dottoresulle spineaveva insinuata la punta del naso fra il re e la reginae fissava fieramente il pedone avanzato del re nemico.
«È la marchesina...» cominciò Fanny provocantefacendo girar la maniglia dell'uscio.
«Dite alla marchesina di venir qua» interruppe il conte.
Fanny se ne andò battendo l'uscio e brontolando.
«Sciocca!» disse il conteritirando la sua regina dalla seconda casa dell'alfiere del re avversariodove l'aveva portata senza avvedersi che un cavaliere la minacciava.
Fece un'altra mossa e soggiunse:
«Non le paredottore?»
«È magari un po' leggerinasìgià» rispose vigliaccamente il pitòrspingendo due passi il pedone della regina e offendendo il pedone del re avversario.
«Tenga bene a mentecaro dottore» disse il conte «non si perda colle pedinespecialmente quando giuoca in casa mia; non Le tornerebbe conto davvero.»
Il dottore fece fare al suo cavaliere un salto fantastico.
«Cosa fa?» disse il conte.
Quegli si batté la fronteritirò il pezzo e disse ch'era ottuso per il gran caldoch'era partito di casa alle undici e aveva fatto quattro o cinque visite sotto il sole bruciante.
«Oh!» esclamò il conte trasalendo e guardando l'orologio. «E io che dimenticavo! Debbo andar a incontrare alcuni amici.»
Al dottore non parve vero di poter troncare quella partita penosa.
«Tralasciamotralasciamo» diss'egli «verrò bene un'altra volta.»
Ed ecco da capo Fanny.
«La signora marchesina desidera sapere» disse ella «cosa il signor conte vuole da lei.»
«Ditele che la prego di voler finirein vece miauna partita a scacchi con il signor dottore.»
«Ah Signore» esclamò questi «che non si disturbi mica per me!»
«Andate» disse il conte.
Gli occhi del dottorepoi che rimase solobrillarono.
«Ah che non mi perda con le pedine?» disse egli tra séfregandosi le mani. «Per la tua bella faccia! Togli su.»
Aveva poc'anzi ottenuto da Fanny un appuntamento per quella notte alla cappellettaun luogo solitarioa riva del lagopoco discosto dal Palazzo. Fanny avea promesso che vi sarebbe venuta con la lancia dopo mezzanotte. Era irrequietogirava pel salottocercava uno specchio per vedersi felice e farsi delle congratulazioni. Non c'erano specchi lànon c'erano che i vetri aperti della finestradove gli riuscì d'intravvedere una languida immagine del suo viso beato. Guardò giù nel cortile dove era stato visto dal conte a colloquio con Fannye mormorò:
«Maledetta finestra!»
Il conte attraversava il cortile e saliva imperterrito la scalinata arsa dal solefra le grandi ombre ferme dei cipressilo stormireil luccicar delle vigne corse dal vento meridiano. Il dottore gli diede un'occhiata esicuro del fatto suose la svignò in cerca di Fanny.
Intanto il pedone della regina bianca e il pedone del re nerostretti corpo a corpo per obliquo e immobilisi domandavano se vi fosse pace o armistizio o Consiglio di guerra. Ma né loro né altri in tutto il campo ne sapeva nulla. Si diceva bensìtra i neri come tra i bianchiche la campagna era male condottasenza energiae che l'azione militare era subordinata a una azione diplomatica molto variamolto estesaa cui prendevano parte successivamenteper diversi scopiparecchie Potenze. Infatti la era una partita come quelle che i venti giuocavano qualche volta sul piccolo lagosfiorandolo appenafacendovi correr su le velocida opposte partipiccole macchie brunementre la guerra grossa urlava in altosopra le cime delle montagne fra i nuvoloni pieni di mistero e di inimicizie.
«Sono qui» disse Silla entrandoe si fermò sui due piedi. Come mai non c'era nessuno? Si accostò allo scacchiere. La partita non era terminata: tutt'altro; dopo che l'aveva lasciata lui non s'erano fatte che due mosse. Si guardò attorno evisti sopra una sedia il cappello e la mazza del dottoresuppose che almeno costui sarebbe tornato presto e si mise alla finestra.
Pensò alle parole del conte sulla uguaglianza politicasui privilegi della nascita. Era una fosca nube che sorgeva davanti a lui. Veramentenon aveva studi speciali in questi argomentima dall'Università in poi era stato nutrito d'idee opposte a quelle del conteavea respirato la vibrata aria democratica della società moderna e ora non credeva quasi possibile che un repubblicano come il conte avesse simili convinzioni. Adesso intendeva certe frasidiscorsi precedenti del contedi cuia prima giuntanon aveva potuto afferrare il senso e rimproverava se stesso di aver troppo leggermente accondisceso a farsi suo collaboratore.
Quando il conte gli aveva manifestato il tema del lavoro che aveva in animo di affidargli e a cui proponeva questo titolo: Principii di politica positivaSilla avea bene espresso le sue riserve sulla questione che vi si dibattesse fra la repubblica e la monarchiama non aveva pensato a quest'altro dissidio. Il conte aveva subito accettate queste riservedichiarando che maiin nessun casogli avrebbe proposto di sacrificare le proprie opinioni; che forsetrattando l'argomento in generale e con principii positiviavrebbero potuto accordarsi molto più facilmente di quanto paresse probabile; che ad ogni modo avrebbero discusso tutto. E s'eran posti immediatamente all'opera incominciando con una esposizione rapida delle vicissitudini della scienza dai Greci in poi. Ma ora Silla sentiva aprirsi un dissenso molto più profondo. Che fare? Accettare una discussione nella quale potrebbe rimaner vinto per mancanza di studi? Era un pericolo grave. D'altra partequale fierezza e quale audacia nelle idee del contequale disprezzo delle opinioni volgari e della corrente umana! Sarebbe stata un'umiliazione inesprimibile ritirarsi senza lottariconfondersi con la moltitudinelasciando solo quest'uomo nell'attitudine così nobile di uno contro tutti. Nobisogna stare a fronte di luie non a fianco delle passionidei pregiudizi democratici; sostenere la nobiltà e la grandezza del principio di eguaglianzacon l'aiuto di quello stesso spiritualismo religioso che deve poi regolarne l'applicazionesecondo un ideale elevatissimo di fraternità; ammettere di buon grado gli errorile ingiustiziela cecitàle insopportabili pretese del sentimento democratico moderno; ma poi combattere; combattere sopra tutto l'orgoglio aristocraticoi privilegi della nascita. In quest'ultimo pensiero il sangue di Silla si veniva riscaldandoil cuore gli batteva più rapidobuttava fuoco dal petto e fiere parole di passione che non erano dirette al conte.
NoSillapoco a pocoinvolontariamentes'immaginava di fronte a donna Marinala vedeva passare con la sua indifferenza alteratanto più pungente quanto più la persona era delicata e graziosacon il suo freddo sguardo che scintillava solo talvolta incontrando quello del conte. A lei Silla dirigeva mentalmente la sua eloquenza. Non ne aveva ottenute tre parole in venti giorni; anche senza parlare ella gli aveva ben fatto intendere che non lo stimava degno né di cortesia né di attenzione. Almeno Silla credeva cosìe fino dai primi giorni si era regolato con lei secondo questa ideaopponendo alterezza ad alterezzanon senza soffrirne perònon senza una specie di voluttà amara che in presenza di lei gli stringeva forte il cuore. E ora gli pareva di attraversarle il camminodi fermarlavolesse o nodi chiederle cosa credesse mai...
«Dunquedottore?» disse una voce dietro a lui.
Silla si voltò in fretta. Era ben leidonna Marinaseduta davanti allo scacchiere.
«Io prendo il nero» diss'ellaguardando attentamente i pezzi.
Ell'era dunque venuta leggera come una fatao Silla si era ben lasciato affondare nei suoi pensieri!
Egli non si mosse.
«Dottore!» disse Marina con accento di sorpresa. Alzò la testa e vide Silla.
Aggrottò un istante le sopraccigliatornò a guardare attentamente lo scacchieree disse con la sua voce gelida:
«Dov'è il dottore?»
«Non lo sosignorina.»
«Avvicini un poco le imposte» soggiunse Marina quasi sottovocesenza guardarlo.
Silla finse di non aver intesosi staccò dalla finestra e passò dietro a leiper uscire. Ella non alzò il capoma quando Silla fu presso all'usciogli dissesempre sullo stesso tono:
«La pregoavvicini un poco le imposte.»
Silla tornò indietro silenziosamentesenz'affrettarsiavvicinò le imposte e si avviò da capo alla porta.
«Sa giuocare?» disse donna Marina.
Silla si fermòsorpreso.
Ell'aveva alzata la testafinalmente; ma adesso faceva scuro nella camera e non si poteva vedere l'espressione del suo sguardo. La voce suonava tuttavia di fredda insolenza. Silla s'inchinò.
Donna Marina aspettava forse che si offrisse per finire la partita con lei; ma questa offerta non veniva. Accennò allora la sedia vuota in faccia a lei e con un gesto della mano destrasenza muovere affatto la testa. Evidentemente quella mano non aveva detto «prego» ma «permetto».
Silla si sentì vile. Era forse la sottile fragranza entrata nella camerala stessa fragranza sentita il giorno del suo arrivo nella galleria dei paesaggiche ora gli ammorbidiva l'orgogliogli dicevaa nome di Marinatante cose blande. Voleva rifiutare e non poteva.
«Ha paura?» disse donna Marina.
Silla prese la sedia vuota.
«Di vinceresignorina» rispose.
Ella alzò gli occhi in viso. Adesso Silla poteva quasi sentire il tepore di quel viso; adesso vedeva bene i grandi occhi freddi che lo interrogavano insieme con le labbra.
«Perchédi vincere?»
«Perché non so farmi inferiore se non lo sono.»
Ella alzò impercettibilmente le sopracciglia come altri avrebbe alzato le spalleguardò lo scacchiere tenendo l'indice arcuato sul mentoe disse:
«Movo io.»
Porse la manola tenne un momento sospesa sui pezzi.
La lama di luce ch'entrava fra le imposte socchiuse le batteva sui capelli capricciosisulla guancia pallidasull'orecchio delicatissimosulla piccola mano bianca sospesa in arialumeggiatanell'ombradi trasparenze roseemostrava una bella figura tranquillaintenta al giuoco. Silla non era così tranquillopensava involontariamenteguardandolache l'avrebbe baciata e morsa. Donna Marina prese il pedone della regina bianca e lo gittò nel bossolo.
«Crede proprio di non essere inferiore?» diss'ella.
«Non so come Lei giuochi» rispose Silla movendo un alfiere.
Ella mise un breve riso metallico guardando l'alfiere nemicoe disse:
«Vedeio so invece come giuoca Lei. Lei giuoca prudente. Ha paura di perderenon di vincere.»
A questo punto il dottore spinse l'uscioe vista la partita impegnatasi fermò. Marina parve non vederlo. Quegli richiuse l'uscio piano piano.
«Cosa fa adesso?» proseguì Marina con accento più vibrante. «Perché non esce fuori con la Regina? Perché non attacca sinceramente?»
«Io non attacco. Mi basta difendermie Le assicuromarchesinache lo posso fare abbastanza bene. Perché vorrebbe Lei che attaccassi?»
«Perché allora la finirei più presto.»
«Secondo.»
«Si provi» disse Marina.
Silla chinò la testacon intensa attenzionesullo scacchiere.
Donna Marina fece un atto d'impazienza e si alzò in piedi.
«È inutile che studii tanto» diss'ella. «Le assicuro che non vincerà. Non vincerà» ripeté scompigliando con la mano e rovesciando i pezzi.
«Io non ho giuocato contro di Lei altra partita che questae credo che non giuocherò più.»
«Meglio per Lei.»
«Ohné meglio né peggio.»
«Sicuro» diss'ella con accento sarcastico. «Ella non è qui per giuocare contro di me; è qui per fare degli studi profondi con il conte Cesarenon è vero? Che studi sono?»
Silla godeva di sentirla irritata; era una vittoria.
«Di nessun interesse per Leisignorina» rispose.
Ella restò un momento pensierosa e poi tornò a sedere.
Quali dubbiquali pensieri di conciliazione le passavano pel capo? Recò ambedue le mani a una crocettina d'oro che le pendeva dal collo tra l'abito aperto e giocherellò con essa piegando il mento al senoscoprendo un po' delle braccia tornite.
«Molto bassi questi studidunque» diss'ella.
«Ohno.»
«Ah. Lei crede allora che sieno troppo alti per me?»
«Non ho detto questo.»
«Vediamo; è matematica?»
«No.»
«Metafisica?»
«No.»
«Scienze occulteforse? Il conte ha bene dello stregone; non trovasignor... signor... Come si chiama Lei?»
«Silla.»
«Non trovasignor Silla?»
«Nosignorina.»
«Molto recisoLei.»
Seguì un momento di silenzio. Si udì la voce del conte mista ad altre voci di persone che scendevano per la scalinata.
Silla si alzò in piedi.
«Aspetti un poco» diss'ella bruscamente. «Non voglio sfingi davanti a me. Cosa scrive Lei con mio zio?»
«Un libro noioso.»
«Capisco; ma di che tratta?»
«Di scienza politica.»
«Ella è uomo di Stato?»
«Qualche cosa di meglio: sono artista.»
«Di canto?»
«La marchesina ha un grande spirito!»
«E Lei è molto orgoglioso!»
«Forse.»
«E con quale diritto?»
Dicendo queste parole Marina sorrise di un enigmatico di cui Silla non capì il veleno.
«Di rappresaglia» rispose.
«Oh!» esclamò Marina. Un lampo di sdegno le passò negli occhi.
L'uno e l'altro pensarono in quel momento a un predisposto legamefosse pure d'antagonismodi inimicizianel loro futuro destino.
«È dunque vero» disse Marina sottovoce «che Lei giuoca un'altra partita qui al Palazzo?»
«Io?» rispose Sillasorpreso. «Non so cosa Lei voglia dire.»
«Ohlo sa! Ma Lei giuoca copertogiuoca prudentenon ha ancora mosso la Regina. Povero orgoglio il Suo! E parla di rappresaglie! Non mi conosceLei. Mi hanno scritto poco tempo fa che sono superbache vorrei vivere in una stella di madreperlae che in questo pianeta borghesein questo sudicio astro di mala famanon c'è postoper meda posare il piede. Risponderò che il posto l'ho trovato e...»
«Ecco mia nipote» disse il conte entrando con alcune persone.
Silla non si mosse. Guardava Marina con gli occhi sbarrati. La sua corrispondenteCecilialei!
«Il signor Corrado Sillamio buon amico» soggiunse il conte «il quale ha ancora la testa negli scacchia quanto pare».
7. Conversazioni
Quel giorno la gentildonna veneziana di Palma il Vecchio fu scherzosamente pregata di uscire dalla sua cornice e di sedere a pranzo. La bella donna rispose col solito sorriso. Benché la mensa brillasse di argentidi cristalli e di fiorinon valeva ad allettare leicresciuta fra magnificenze orientali. E poiquale squallida comitiva di adoratori a' suoi piedi! Chi la pregava di scendere era il comm. Finottideputato al Parlamentoprossimo alla sessantinacon gli occhi tutti fuoco e il resto tutto cenere. C'era pure il comm. Vezzaletteratoaspirante al Consiglio superiore d'istruzione pubblica e al Senatopiccolotondoimbottito di dottrina e di spiritocaro a molte signore ma non a quella lìche non era letterata né ipocrita e rideva di quegli occhiali d'orodi quel carnierino grigio cortodi quelle forme da soldatino di gomma. C'era il prof. cav. ing. Ferrieri: fisonomia nervosaocchio intelligentesorriso scetticocervello e cranio perfettamente lucidi. Neppure costui poteva allettare la bella veneziana. Ella era troppo del XVI secolo e lui troppo del XIX. Nato con una scintilla di poeta e d'artistal'avea convertita in agente meccanico. C'era l'avvocatino Bianchigiovinotto elegantetimidocon un'aria di sposina imbarazzatatutto tepido ancora del nido di famiglia. Anche di lui sorrideva dall'alto la esperta dama. Altre facce nuove non c'eranoperché non poteva contarsi fra queste la trista figura del dottoresdrucciolatosenza invito nella sala da pranzo.
Chi aveva portato quegli ospiti al Palazzo era stato il solitario fiumicello ch'esce dal lago a ponentefra i pioppi. Alcuni capitalisti di Milano avevano incaricato il prof. Ferrieri di recarsi a visitare l'emissario del piccolo lago di... e a studiare se ci fosse forza bastante per una grande cartiera. Il professore doveva schizzare un progetto sommariotastare il Municipio di R... per la costruzione di un tronco di strada e fors'anche per la cessione gratuita di un fondo comunale. Egli era un ingegnere di molta fama; quattro sgorbi col suo nome avrebbero fatto piovere gli azionisti. Aveva portato con sé suo nipote avvocato per la parte legale dell'affare. Il commendatore politico e il commendatore letteratovecchi amici del conte Cesare e dell'ingegneresi erano accompagnati a questo per fare al Palazzo una visita promessa fino dal 1859.
Il pranzo fu eccellente e largamente inaffiato di spirito. I motti dell'onorevole deputato si urtavano con le freddure dell'uomo di letterecon gli epigrammi incisivi dell'ingegnere professore. Il vocione del conte copriva spesso le altre vociil tintinnìo delle posate e dei cristalliil cozzo sguaiato dei piatti e tutto quanto. Il giovane avvocato tacevamangiava pocobeveva acqua e guardava Marina. Steinegge e il dottore bisbigliavano insiemescambiavano qualche rara parola con Silla. Questidistrattoassorto in altri pensieritante volte non rispondeva loro nemmenoo rispondeva a sproposito.
Marina pure era taciturna.
I due commendatori suoi vicini chiedevano aiuto alla Naturaall'Arteal cielo e alla terra per farla parlare e non riuscivano a trarle di bocca che radi monosillabi. Però il suo visoil suo sguardoche non si rivolse mai a Sillanon esprimevano preoccupazione alcuna. Il commendator Vezzache aveva la manìa di saper tuttole domandòper ultimo tentativose conoscesse un certo punto di ricamo di nuova introduzioneche a Milano tutte imparavano. Ella gli rispose con una sommessa esclamazione di meraviglia sdegnosa che turbò molto il dotto uomo e lo spinse a buttarsi subito fra i discorsi degli altri. Si parlava della futura cartiera. L'ingegnere vantava le nuove macchine che si sarebbero introdotte per fare e adoperare la pasta di legno. Steinegge si stupiva che la pasta di legno fosse una novità per l'Italia; secondo lui l'uso n'era divulgatissimo in Sassonia. Il Vezza osservò che in Italia usavano gli azionisti di pasta di legno e le azioni di cenci; fece poi dei commenti agrodolci su questo germanismo industriale tanto riprensibilesecondo luiquanto il germanismo letterario. La discussione s'infervorò subito. Il Finotti sosteneva il Vezza; l'ingegnere lo combatteva. Steineggerosso rossofremeva in silenzioversava Sassellaversava Barolo sulle piaghe del suo amor proprio nazionale.
«Quella è la miglior poesia italiananon è vero?» gli disse ridendo l'ingegnere.
Steinegge giunse le manisoffiò e alzò gli occhi al cielo senza parlarecome un vecchio serafino estatico.
«Ben dettosignor Steineggebravo» gridò l'onorevole deputato. «Cesaretra poco ci capita la Giunta di R...non è veroper conferire qui con Ferrieri sotto i tuoi auspici? Bisogna inzupparmela di questo Barolo. Per quanto siano duri quei signoril'amico se li mangerà facilmenteuno dopo l'altro.»
«Ohnon li conosci» rispose il conte. «Essi berranno il mio vino e le ragioni del signor professoreloderanno tutto e non si decideranno a niente. Questa gentepiù la si accarezzameno si fida. E non ha poi tutti i torti.»
«Già! Timeo! Ma intanto luiil professorenon porta nessun donoe poiper fortunaha un profilo così poco greco! Non Le paremarchesina?»
Marina rispose asciutto che non si occupava di greco.
«E lui son quarant'anni che va dimenticando di essersene occupato male» disse il professore. «Non gli dia retta. Del restonon sono greco ma ho il Pattolo in tasca. Duecentocinquanta fra operai e operaieuna dozzina d'impiegati tecnici e amministrativil'esempiosopra tutto l'esempio! Sapete quanti opifici si potranno piantare con quell'acqua lì! Dopo verrà la necessità d'una ferrovia.»
«Prova generale» sussurrò il commendator Vezza.
«Insomma il Municipio di R... mi deve buttare ai piedi la stradail terreno e il diploma della sua cittadinanza.»
«Castelli di carta. Ahuna trotasalmo pharius. Rossadi fiume. Queste ce le guasterai di sicuro con la tua carta.»
Ciò dettoil comm. Vezza impegnò con il contel'ingegnere e Steinegge un dialogo assai vivo sulle trote d'ogni razza e paesesulle retisugli amisulla piscicoltura. Intanto l'uomo politico trovò modo di avviarne uno più intimo col dottoresuo vicinointorno a Corrado Silla; ne raccolse con voluttà le maldicenze che correvano sulla origine del giovane. Quando poteva mettere il dito sopra una debolezza umana di quel genereuna debolezza di puritanoinaspettatacuriosaera felice.
«Dunque» diceva il comm. Vezza «per le trote di fiume s'infilza sull'amo una mosca... o un lombrico...»
«O un poeta tedesco» suggerì l'ingegnere.
«Nochi ne mangia? Neppure un ingegnere. Gli è per pigliare i sindaci lacustri che s'infilza sull'amo un pezzo grosso dell'Università incartato in un progetto...»
Qui il commendatore si cacciò in fretta una mano sulla boccaperchéannunciati dal cameriereentravano il Sindaco e la Giunta di R...
Movimento generalestrepito di sediepresentazioni cerimoniosesilenziotintinnìo di tazzebrindisi eloquente del commendator Vezza alla futura prosperità del Comune di R... «così degnamente e sapientemente rappresentato». Dell'amo non parlò. Il Sindaco e la Giunta lo guardavano trasognaticon la vaga inquietudine di chi sente farsi gran lodi e non sa perchée teme d'esser caduto in qualche imbroglio. Poi tutti si alzarono. Il contel'ingegnerel'avvocatino e la Giunta si strinsero a conferire insieme.
Il comm. Finotti diede il braccio a donna Marina sussurrandole alcune parole francesi e sorridendoprobabilmente all'indirizzo delle autorità che spandevano un disgustoso odore di fustagno. Si respirava uscendo da quel caldo nell'ombra fresca della loggiadove veniva su dal cortile un soave odore di rhynchospermum fiorito. Anche il lago davanti al Palazzo taceva per un gran tratto nell'ombra. Le montagne in faccia e l'acqua in cui si specchiavano eran dorate. Il ponente splendevasereno. A levantel'Alpe dei Fioriinfocatatoccava il cielo nerotempestoso.
«Bello!» disse il comm. Finotti appoggiandosi alla balaustrata; «belloma troppo deserto. Come Le passa il tempo in quest'èremomarchesina?»
«Non passa del tutto» rispose Marina.
«Ci sarà però nei dintorni qualche essere umano lavato e pettinato da poter dire due parole.»
«Ce n'è uno dipinto.»
Accennò il dottore che stava presso l'entrata della loggia ascoltando a bocca aperta un vivacissimo dialogo tra il Vezza e Steinegge. Silla si teneva in disparteguardava il getto d'acqua nel cortile.
«Ma Cesare» insiste il Finotti «ha sempre ospiti. Anche adessomi pare...» soggiunse con una voce piena di domande sottinteseguardando la giovane signorache sporse il labbro inferiore senza rispondere.
«Come mai è amico di Cesare?» disse il commendatore sottovoce.
«Non lo so.»
«Io però lo invidio».
«Perché?»
«Viver vicino a Lei!»
«Può essere assai poco piacevole agli altri se non garbano a me» disse Marina con l'accento e l'atto di chi vuol troncare un discorso.
«Vezza!» gridò forte il Finotti «come puoi star a parlare di troteperché tu già parli di trote o di granchidove c'è una dama? Vedo che al mio garbatissimo amico dottore ci fai una pessima impressione.»
Il garbatissimo amico si sviscerò in proteste.
«Marchesina» disse il Vezzaavvicinandosi «oda come si ricompensa l'abnegazione di un amico che vi cede il primo posto!»
«L'aveva Lei?» rispose Marina con uno dei suoi sorrisi; e senz'attender la replicasi rivolse a Steinegge:
«Tre sedie» diss'ella.
V'erano cinque persone in loggia e neppur una sedia.
«Quando una signorina ordina» rispose Steinegge dopo un momento di silenzio «un capitano di cavalleria può portarne trenta.»
Il commendatore Finotti osservò Silla. Era pallido e guardava Marina con fuoco così sdegnoso che parve sospetto a quel dilettante di psicologia pratica.
«Tutti in piedi?» disse il conte affacciandosi in quel punto alla loggia con l'ingegnerel'avvocato e le Autorità. «Caro Steineggeabbia la bontà di dire che portino delle sedie. Il professore desidera vedere se e come si potrebbe stabilire un barraggio regolatore delle piene del lago; se occorra qualche altra operazione alla soglia dell'emissario. Io lo accompagno. Questi signori preferiscono rimanere.»
«Noi leveremo l'incomodo» disse uno degli assessori.
«Che diavolo!» replicò il conte. «Bisogna far visita a mia nipoteadesso. Quando credeprofessore...»
Il professore distribuì in fretta sorrisi e strette di mano ai cinque dignitosi municipali e partì col conte.
«Noi faremo ballare gli orsi» sussurrò il commendator Finotti a donna Marina.
Ma gli orsi non erano tanto orsi quanto s'immaginava lui. Tre di essigli assessori supplenti e il Sindacosi conoscevano abbastanza per non aprir bocca mai. Gli altri duegli assessori effettivipotevano dar dei puntiper furberiaal signor commendatore. Per scioltezza di scilinguagnolo non gli stavano troppo al disottoposto ch'erano contadini; grassi se si vuolema contadini da gerla e da zappa. «Siamo poveri alfabeti di campagna» diceva uno di loro. Avevano finissimo il fiuto della canzonatura.
Si parlònaturalmentedella cartiera. Il Finotti fece una pitturaa gran tratti di scopadelle meraviglie industriali che si sarebbero vedutedei favolosi guadagni che avrebbe fatto il paese. I due approvavano col capo a più poterefregandosi i ginocchi con le mani.
«Com'è diventato aguzzo il mondo!» disse il più vecchio.
«E noi restiamo sempre tondi» rispose l'altro. «Almeno se non ci piallano un poco.»
«Comune riccogià» disse il Finotti.
«Sìquattro sterpi e un paio di viaggi d'erbasu quelle croste là in facciadove tutti si servono. Quando li avremo mangiati per far la strada della cartieraallora diventeremo ricchi; ma per adesso... Allora sì. Sarà forse per quel vino che ci ha favoritoper sua graziail signor conteallora mi pare che abbiamo da diventar signori bene. È un gran vino; ma sarà mica traditore? Cosa ne dice Leisignor tedescoche lo vedo qualche volta dalla Cecchina gobba?»
«Ah! Ah!» soffiò Steinegge senza capir bene.
«Ehi!» esclamò il Vezza accorgendosi dei nuvoloni neri che ingrossavano a levante. «Vuol far temporale.»
«Oh signor no» disse l'assessore che aveva parlato prima «per adesso no; stanotteforse.»
«Come si chiamano quei sassi là in alto dove batte il sole?»
«Noi li chiamiamo l'Alpe dei fiori. Da ragazzo ci sono stato anch'io lassùa far fieno. Potevano metterci nome l'Alpe del diavolo ch'era più meglio.»
«C'è benelassùil buco del diavolo» disse l'altro assessore.
«Ahc'è un buco del diavolo?» disse Silla «E perché lo chiamano così?»
«Maio non saprei micavede. Bisogna domandare alle donne. Loro contano un sacco di storie!»
«Per esempiodicono che per quel buco si va all'infernoche è un piaceredritti come ie che i beniamini del diavolo piglian tutti quella strada là. Ci fanno anche il nome a tre o quattro che ci son passati.»
«Ah sì?» disse il commendator Finotti. «Sentiamo.»
«Proprio non mi ricordosa...»
«Gente del paesegià?»
«Del paese e mica del paese. Non mi ricordo.»
Qui l'onorevole Sindaco uscìin mal puntodal suo prudente silenzio.
«Pare impossibilePietro» diss'egli «pare impossibile che non vi ricordiate. La matta!...»
«Che asino!» mormorò fra i denti il poco riverente assessore; e non disse altro.
«Bravo Sindaco. A Lei! Lei deve ben sapere da che parte vanno all'inferno i Suoi sudditidiavolo! Racconti dunque! Non sarà mica un segreto d'ufficiospero.»
Il Sindacoaccortosi troppo tardi di aver posto un piede in fallosi andava contorcendo sulla sedia.
«Storie vecchie» rispose «storie vecchie. Sarà un affare di forse seicento anni fa.»
«Oufseicento! Non saranno neanche sessanta» disse un altro municipale che fino allora era stato zitto.
«Benebenesessanta o seicentoè sempre una storia vecchiae qui ai signori può interessar poco.»
Ma il povero Sindacopreso alle strettenon trovò modo di schermirsi; eper non aver più quel peso sullo stomacolo buttò fuori a un tratto.
«Eccoquesta matta era la prima moglie del povero conte vecchioqui del Palazzo; una genoveseche ha scappucciatopareun tantinoe suo marito l'ha condotta quil'ha tenuta come in castigoed è stato qui anche lui finché è morta; la gente dice che il diavolo se l'è portata a casa per di là.»
Mentr'egli parlavaMarina si alzògli voltò le spalle. I suoi colleghi gli fecero gesti di rimprovero. Il Vezza disse a caso:
«È la barca di Cesare quella là?»
«Bei tempi!» esclamò Silla con voce sonora.
Tuttitranne Marinalo guardarono sorpresi.
«Tempi di forza morale» proseguì senza badare a quelle occhiate. «Di forza morale organica. Adesso si hanno le convulsionigl'impeti di passione sfrenataein fondoegoista. Se una donna tradiscela si ammazza o la si scaccia. Vendicarsi e liberarsi: ecco lo scopo. Allora no. Allora vi era qualche gentiluomo capace di seppellirsi con la colpevole in un deserto e di dividere la espiazione senz'aver divisa la colparompendo tutti i vincoli del mondoper rispetto a un vincolo sacrobenché doloroso.»
Marinasenza voltarsisfrondò nervosamente con la destra un ramo di passiflora.
«Può essere stata una vendetta atroce» disse il Finotti «un omicidio lento e legale. Che ne sa Lei?»
«Non lo so; non credo che il padre del conte Cesare sia stato capace di questo. E poici occupaci commuove la pena; ma la colpa? Chi era questa donna? Chi ci può dire?....»
Donna Marina si voltò.
«E Lei» diss'ella con voce rotta dalla collera «chi èLei? Chi ci può dire neppure il Suo vero nome? S'indovina!»
Aperse con impeto l'uscio che metteva nell'ala di ponente e scomparve.
Medusa non avrebbe impietrato meglio di lei quel gruppo d'uomini.
Silla sentiva di dover dire qualche cosae non sapeva che. Gli parve di aver toccato un gran colpo di mazza sulla testa e di barcollare. Finalmentea stentoraccapezzò un pensiero.
«Signori» diss'egli «sento che mi si è gettata un'ingiuria: non so qualenon intendo!»
Le parole noma l'accentole bracciagli occhidicevano: Se avete intesoparlate. I commendatori e il medico protestarono silenziosamentecol gestodi non saper nullagli altri stavano a bocca aperta. Steinegge prese Silla a braccettolo trasse via dicendogli: «Adesso conosceteadesso conoscete.»
La Giunta di R... e il dottore si ritirarono subito.
«Bel finale!» disse il commendator Vezzapassato il primo sbalordimento. «Hai capito tu?»
«Eh altro» rispose il Finotti. «È chiaro come l'acqua.»
«Torbida.»
«Ma che? vuoi sentire? Quel giovinotto lìpiovuto al Palazzo dalle nuvoleè un peccatuccio dell'amico Cesare. Alla damigella ci ha seccato mortalmente. Capiscivedersi portar via sotto il naso uno zio siffatto! Ci sarebbeper salvar tuttola solita combinazionee questa scommetto che è l'idea di Cesarema!... A Parigi o a Milano o nel mondo della luna ci deve essere un ma con un cilindro etereo e dei calzoni ideali. Sarà biondosarà brunosarà quel diavolo che vuoi: c'è sicuramente. Dunqueniente combinazione; guerra! Non è chiaro?»
«Non sai nientecaro mio. Che si possa arrischiare un sigaro?» Qui il commendator Vezza si divertì ad accendere il sigarosciupandovi silenziosamente una mezza dozzina di fiammiferi. «Sìla Mina Pernetti Sillabella donnabellissima donna! è stata veramente amica di Cesarema una amica!...»
Il commendatore gittò in alto una boccata di fumol'accompagnò su con l'occhio e con la mano disegnando in aria degli zeri allegorici.
«Lei» proseguì «era figlia di un consigliere d'appello tirolese. Sai che Cesare fu espulso di Lombardia nel 1831? Credo che volesse liberarar l'Italia per potersi sposare poi senza scrupoli quella tirolesina bionda. Ell'avrà avuto un ventidue anni. Il papà l'avrebbe arrostita piuttosto che darla a un liberale. Lei tenne saldopovera ragazzaa non volersi maritarefino a ventisei anni. Suo padreun mastinocredo che la mordesse. Un bel giorno piegò il capo e prese un figuroun austriacante marcio che fece denari con le imprese e poi se li mangiò tuttiandò via con i tedeschi nel 59 e dev'esser morto a Leibachcredo. La Mina e Cesare non si videro mai piùma si scrissero sempre non d'amoreveh! neppur per sogno. Quello lì? Quello lì è un giansenista che non va a messa. Ella non gli scriveva che di suo figliolo consultava. È morta nel 58e tutto questo io l'ho saputo dopoda un'amica sua. Ora domando io se è chiaro. Domando io cos'ha da temere la marchesina di Malombrache ragioni aveva...»
«Sìsìsarà tutto verovuol dire che lei non sa le cose a questo modo. Ma poicome mi parli di ragioni in una testolina così bella? Non vediperdio! che occhi? Lì dentro ci sono tutte le ragioni e tutte le follie. Averla per un'orauna donna così bella e così insolente. Si deve impazzire di piacere.»
«Peuh!» disse il letterato «è troppo magra.»
Ma l'onorevole deputato fece di questa censura una confutazione così scientifica che non può trovar posto in un lavoro d'arte.
8. Nella tempesta
«Debbo accendere il lumesignor?» disse Steinegge a bassa voce.
Era notte fatta. Da un gran pezzo Steinegge e Silla stavano seduti nella stanza di quest'ultimouno in faccia all'altrosenza parlare. Pareva che vegliassero un morto.
Steinegge si alzòaccese in silenzio una candela e tornò a sedere.
Silla teneva le braccia incrociateil capo chino sul pettogli occhi a terra. Steinegge era inquietoguardava Sillaguardava il lumeguardava il soffittometteva una gamba a cavalcioni dell'altra che poi pigliava bruscamente la rivincita.
«Presto bisognerà scenderesignor» diss'egli. «Credo che il signor conte è ritornato da un pezzo.»
Silla non rispose.
Steinegge aspettò un pocopoi si alzòtolse il lume e si avviò adagio alla porta.
L'altro non si mosse.
Steinegge lo guardòritirò il collo tra le spalle con un ah di sommessionedepose il lume e venne a piantarsi davanti a Silla.
«Sono un imbecillesignornon so dir nientema sono amico. Vi giuro che se potessi rispondere io per leifarvi sortire quel colpo di sciabola che dovete aver nel cuoreme lo piglierei volentieri pur di vedervi più contento.»
Silla si alzògli gettò le braccia al collo.
Steineggerosso rossoimpacciatoandava dicendo:
«Oh no... signor Silla... io ringrazio...» e si sciolse piano piano da quell'abbraccio. La sventurala miseriale amarezze d'ogni sorta lo avevano umiliato sino a renderlo schiavo della familiarità di coloro cui egli attribuiva una condizione sociale superiore alla sua.
«Bisogna esser così un poco filosofi» diss'egli. «Bisogna disprezzare questa persona. Credete che non ha offeso me otto e dieci e venti volte? Non ricordate stasera quando mi ha parlatocome a un servo? Io ho disprezzato sempre. Quella non ha cuorené una briciola. Voi dite quellavoi italianiuna donna onestaperché non fa questo che sapete. Voi dite donne vili le altre. Ma io dico: questaquesta» (Steinegge batteva rabbiosamente le sillabe) «questa è vile. Insulta me perché sono poveroinsulta Voi per passione avara.»
«Per passione avara?»
«Sìperché immagina che il signor conte vuol porre Voi nel testamento.»
«Dunque» diss'egli «ha proprio voluto dire...»
«Ma!»
«Comecome mai?» ripeté Silla angosciosamente.
«Eh! Qui lo hanno detto tutti.»
«Lo hanno detto tutti?»
Dopo un lungo silenzioSilla si avvicinò lentamente a Steineggegli posò le mani sulle spalle e gli disse con voce triste e tranquilla:
«E Leicrede Lei che se vi fosse una macchia sulla memoria più sacra ch'io m'abbiasarei rimasto qui a farne testimonianza?»
«Non ho mai creduto questo. Il signor conte non Vi avrebbe chiamato qui; conosco molto bene il signor conte.»
«Caro Steineggese noi ci lasciamo per non rivederci piùcome potrebbe accaderesi ricordi di un uomo che si direbbenon perseguitato come Leinoma derisocontinuamenteamaramente deriso da qualcheduno fuori del mondo che si diverte a vederlo soffrire e lottarecome i bambini guardan soffrire e lottare una farfalla che han gettata nell'acqua con le ali malconce. Mi si diede un cuore ardente e non la potenza né l'arte di farmi amareuno spirito avido di gloria e non la potenza né l'arte di conquistarla. Mi si fece nascere riccoe nell'adolescenzaquando avrei cominciato a godere i vantaggi di quello statomi si precipitò nella povertà. Mi si promise testé quietelavoro e amiciziaquello che l'anima mia sospiraperché alla gloria ho rinunciato; e adesso mi si strappa via tutto d'un colpo. Vedeho avuto una madre santal'ho adorata e sono io la causa che si oltraggi la sua memoria; io che dovevo immaginar quest'accusa e non la ho immaginata per una incurabile inesperienza degli uomini e delle cose! Mettiamo tutto in due parole: sono inetto a vivereme ne convinco ogni giorno più. E ho una salute di ferro! Le dico queste cose perché L'amocaro Steineggee voglio ch'Ella mi porti nel Suo cuore. Non le ho mai dette a nessuno. Dicanon Le pare una derisione? Bene» qui gli occhi di Silla sfavillarono e la sua voce diventò convulsa «non lo è. Io ho la forza in me di resistere a qualunque disingannoa qualunque amarezza; e questa forza non me la sono procurata io. Ne useròlotterò con la vitacon me stessocon la sfiducia terribile che mi assale di quando in quando; e sono convinto che Dio si servirà di me per qualche...»
Si bussò all'uscio.
Il conte Cesare faceva dire a Silla ch'egli era con gli ospiti e lo pregava di scendere. Silla pregò Steinegge di andar lui in vece sua e di portare le sue scuseallegando alcune lettere urgenti da scrivere.
Steinegge uscì tutto impensierito. Che intendeva mai fare il signor Silla?
La stessa questione si agitò lungamente nelle regioni inferiori del palazzo. Madamigella Fanny aveva informato per la prima i suoi colleghi della «gran lezione» data dalla sua signorina a quel «tulipano nero»il qualeagli occhi di Fannyaveva il gran torto di non essersi mai avveduto che erano belli ed arditi. Il cuoco possedeva le informazioni della Giunta con parte della quale aveva bevuto un litrodopo il fattodalla Cecchina gobba. Raccontò che in quel punto il signor Silla tremava tuttoera più bianco di un foglio di carta. «Chi sasignor Paolo» gli disse Fanny «chi sa che faccia faranno adesso a trovarsi insieme quei due lì! Già la mia marchesina non ha paura di nessuno.» Allora qualcuno disse che il signor Silla si era ritirato in camera e che per quella sera non sarebbe disceso. Il zuruch che gli aveva tenuto compagnia un pezzon'era uscito tutto stravolto. Altro fatto strano; il signor Silla aveva mandato a riprendere i suoi rasoi che il giardiniere doveva portar seco a Como per farli affilare.
«Sta a vedere» disse Fanny «che quello stupido lì è capace di ammazzarsi senza dare un quattrino di mancia a nessuno!»
«Zitta! Andiamo!» disse la Giovanna. «Se il signor padrone avesse a sapere di questi discorsi! E poiper quel che ci ha fatto Lei!»
«A me non tocca» rispose Fanny. «Sicuro che non mi degnerei di attaccargli neppure un bottone. Ho visto la bella roba da straccione che ha! più chic il dottoredi quello lì.»
Appena nominato il dottoreFanny fece una risatina.
«Povero dottore!» diss'ellae giù un'altra risatina; poi un'altrapoi un'altra; né volle mai dire perché ridesse.
E anche nella sala dov'erano riuniti gli ospiti del Palazzoa chi si pensò se non a Silla e a quello che farebbe? Nessuno ne parlòperché donna Marina era presente e il conte non sapeva ancor nulla dell'accaduto. Il conte non capiva queste lettere urgenti dodici ore prima della partenza della postama tacque. Marina era gaia. Nel riso argentino che saltava spesso dalla sua voce dolce e vellutatacome il sonaglio di un folletto nascostosi udiva una nota trionfante. Qualche volta rideva anche lei come Fannysenza ragionedistratta. Rise molto appena partito il dottore. Insomma non pareva punto preoccupata dell'assenza di Silla.
Le ore passavano e la luna veniva su piano piano dietro i nuvoloni ancora fermi a levanteche si squarciavano qualche volta sotto di lei agitando frange d'argento intorno alla sua faccia regalee si richiudevano. Ella sfolgorava in quei brevi momenti sui vetri della finestra di Sillaguardava nella camera sino al fondo.
Quegli scriveva. Il ronzio della sua penna rapida era interrotto da slanci veementi e da radi silenzi. Le pagine succedevano alle pagine; doveva averne riempite parecchie quella pennaquando si fermò. Silla le rilessepensò un poco.
«No!» diss'eglie stracciò lo scritto.
Prese un altro foglio. Stavolta la penna non correva più. Il pensiero dell'uomo lottava con la parolacon se stesso forse.
Suonarono le undici e mezzo. Silla aperse la finestra e chiamò Steinegge. Lo aveva udito camminare.
«Scenda subito» diss'egli.
Steinegge corse alla finestrafece attonel primo impeto del suo generoso cuoredi gittarsi abbassopoi scomparveein meno che non si dicefu nella camera di Sillacon il soprabito male infilato e senza calzoni. In quel momento né lui né Silla pensarono che fosse in arnese ridicolo.
Silla gli andò incontro. «Parto» diss'egli.
«Parte? Quando parte?»
«Adesso.»
«Adesso?»
«Credeva Lei ch'io potessi dormire ancora sotto questo tetto?»
Steinegge non rispose.
«Vado a piedi sino a... e là aspetterò il primo treno per Milano. Lei mi farà il favore di consegnare questa lettera al conte Cesare. Qui ci son pochi denari che La prego di distribuirecome crederà meglioai domestici. Per fortuna non avevo ancora fatto venire i miei libri; ma lascio qui un baule. Avrà Ella la bontà di spedirmelo?»
Steinegge affermò del capo; ma non poteva parlareaveva un groppo alla gola.
«Grazieamico mio. Quando avrà fatta la spedizione me ne avverta con una lettera ferma in posta e vi unisca la chiave che Le lascioperché vi sarà ancora qualche cosa di mio da raccogliere.»
«Ohma volete proprio partire così?»
«Proprio così voglio partire. E sa cosa ho scritto al conte? Gli ho scritto che le mie idee sono troppo lontane dalle sue perch'io possa accettare la collaborazione offertami; e che onde evitare spiegazioni spiacevolionde sottrarmi al pericolo di cedereparto a questo modo chiedendogliene perdono e protestandogli la mia gratitudine. Uno scritto cortese nella forma e villano nel fondouno scritto che lo deve irritare contro di melo sdegno di accusarla; le avevo scritto e poi ho stracciata la lettera: ma ella intenderà che ho voluto rispondere a lei spezzando netti d'un colpo i legami che le han dato argomento d'insultarmi. E tutti gli altri intenderannospero.»
«Per questa donna!» fremé Steineggescotendo i pugni.
«Ma Lei non sa il peggio» mormorò Silla. «Lei non sa quanta viltà v'è in me. Glielo voglio dire. Il solo pensiero di posar le labbra sopra una spalla di questa donna mi fa venir le vertiginimi mette i brividi sotto i capelli. È amore? Non lo sonon lo credo; ma guai se per soffocare l'angoscia e la collera di esserne odiatonon ci fosse ancora in me qualche forza indomita di cui ringrazio Dio! Sìè così. Lei n'è stupefattolo comprendoma è così. Peròvedesono un uomoil sangue vigliacco deve obbedirmivado via. Mi stringa la mano; qualche cosa di piùmi abbracci.»
Steinegge non seppe proferire che tre ooh soffocatiabbracciò Silla con un cipiglio da nemico mortale e l'affetto tempestoso d'un padre. Poi trasse di tasca un vecchio portasigari sdruscito e lo porse con ambo le mani all'amico. Questi lo guardò attonito.
«Vostro a me» disse Steinegge.
Allora l'altro intese e trasse egli pure un portasigari ancora più vecchio e sdruscito. Se li scambiarono tacendo. Prima di partireSilla diede un ultimo sguardoun appassionato saluto mentale alle memorie di sua madre; gli parve che l'angelo pregasse per luiper l'aiuto di Dio in altri cimenti ancor più gravinascosti nel futuro. Uscì nel cortile per una finestra a piano terreno. Non volle che Steinegge lo accompagnassegli strinse ancora la manoe attraversata in punta de' piedi la ghiaia traditricesalì lentamente la scalinata fra i cipressifermandosi nelle nere ombre oblique che fendevanocome grandi crepaccile pietre illuminate dalla luna.
Egli si voltava allora a guardar la vecchia mole severa da cui si partivasecondo le previsioni umaneper sempre. Ascoltava il tenero lamento dello zampillo giù nel cortilela voce grave della grossa polla su in capo alla scalinata. L'una e l'altra voce chiamavan lui; quella sempre più fievolequesta sempre più forte. Non gli era più possibile veder la finestra di lei; ma guardava là quell'angolo del tetto che copriva la stanza sconosciutae la immaginava nei più minuti particolari con la rapidità e la vigoria intensa della passione. Ne respirava veramente il tepore odorosovedeva saettarvi per la finestra di levante un raggio di lunarigare il pavimentosfiorar un'onda di vesti vôtebrillar sopra uno spillo cadutosulla punta brunita d'uno stivaletto aduncoscivolar sul letto biancobattere a una delicata mano sottile e morirvi mandando fiochi bagliori su pel braccio ignudo. A questo punto gli si oscurava la fantasiauna stretta nervosa gli si propagava dal petto a tutta la persona ed egli riprendeva frettolosoper liberarsi da quello spasimola via.
Non è a stupire se la sbagliò. Non era facileper veritàfra parecchi sentieri che fuggono in mezzo agli uniformi filari di vitiscegliere quello che conduce al cancello. Silla ne prese uno alquanto più basso. Si avvide dell'errorequando trovòdopo un tratto abbastanza lungoche scendeva verso il lago. Pensò che al postutto non era sicuro di rinvenire la chiave del cancelloposta di solitoma non semprein un buco del muro di cintae ricordò che ci doveva esser lì presso un'altra uscita per la quale passavano qualche volta i coltivatori del vigneto. La trovò infatti. Il muro di cinta era diroccato per metà e dal campo vicino un gelso spingeva i rami per la breccia. Silla fu presto dall'altra partea pochi passi da un approdo che serviva ai coloni del campicello lungo il lago. Un sentiero piano move da quell'approdo a raggiungere nel suo punto più basso la strada provinciale di Val... ora toccando l'orlo del lagoora appiattandosi fra siepi e muricciuoliora tagliando qualche pendìo erbosorotto da radi ulivi.
Silla si sforzava invanocamminandodi pensare all'avvenirealla vita di sacrificio e di lavoro indomito che l'aspettava. Malediva la notte piena di voci lascive e la luna voluttuosaormai alta nel sereno. Appoggiò la fronte ardente ad un tronco di ulivosenza sapere che si facesse. Quel tocco ruvido e freddo lo ristoròlo acquietò come avrebbe acquietato un metallo vibrante.
Si ripose tosto in cammino perché lampeggiava. In faccia a lui nuvoloni torvi di levante si movevano finalmentesi allargavano verso le montagneinvadevano il cielo con tante cime rigonfiefluttuanti come una marea furiosa che volesse salire fino alla luna. Gittavano lampi continuisilenziosamenteverso il lume di leifuggitiva. Ad un tratto Silla si ferma e tende l'orecchio.
Ode il sommesso borbottar del lago ne' buchi dei muricciuoliil lamento dell'allocco nelle selve della riva oppostail canto dei grilli e il lieve sussurro di un soffio per le viti folteper le frondi bigio-argentee degli ulivi.
Null'altro?
Sìdue remi cautilenti che tagliano l'acqua a lunghi intervalli. Se vicini o lontaninon s'intende bene; sul lagoa quell'orasolo un orecchio esperto può misurare le distanze dei suoni.
I remi tacciono.
Ecco il sordo rumore d'una chiglia che striscia sui ciottoli della riva. Anche i grilli ascoltano. Poipiù nulla. I grilli uniscono ancora il loro canto a quello dell'allocco lontanoai borbottamenti del lago pei buchi dei muriccioli. Silla non poteva discernere questa barca che approdava; vedeva soltanto l'acqua chiara tremolar tra le foglie. Andò avanti. Il sentiero sbucava presto sulla ghiaia d'un piccolo golfoall'altro capo del quale grossi macigni neri si protendevano nell'acqua. Si rizzava sopra quellifra caprifichi e roviuna cappelletta; e ne sporgeva a piè della cappellettala sottile poppa nera d'una lancia. Doveva esservi una cala tra i macigni. Non c'erano altre lance che Saetta sul lagoe Silla lo sapeva. Ma chi era venuto con Saetta?
Sospettò del Rico e si fermò per non essere scoperto. Vide un'ombra levarsi tra gli arbusti dietro la cappellettacorrer giùscomparire. Subito dopo sprizzò di là un riso argentino. Impossibile non riconoscerlo; donna Marina! Sillaper istintosi slanciò avantiudì una esclamazione di terrorevide l'ombra di prima ricomparire alla cappelletta e fuggir su tra gli arbustimentre donna Marina chiamava invano: «Dottore! dottore!». Silla riconobbe il medicoma non stette a pensare neppure un momento perché si trovasse lì. Udì la chiglia della lancia strisciare indietro dalla riva e saltò alla cappelletta quando la proraormai silenziosaera per uscire dalla cala e Marinadeposto il remo di cui s'era fatta puntellostava assettandosi i guanti.
«Si fermi!» diss'egli ritto sul ciglio del macigno.
Ella diè un lieve grido e impugnò i remi.
Non era possibile lasciarla partire così. A piè del macigno la ghiaia rideva a fior d'acqua. Silla saltòafferrò la catena della lancia. Marina diede due colpi disperati di remoma Saetta obbedì presto al pugno di ferro che la tratteneva.
«Bisogna udirmiadesso!» disse il giovane.
«Lei mi dirà prima di tutto» rispose Marina fremendo «se il nobile mestiere che ha esercitato stanotte è un Suo passatempo consuetoo se Ella è ai servigi di mio zio!»
«Fra che abbietta gente ha vissutosignorina? È questa la Sua nobiltà? Allora Le giuro che la mia vale di più; e ho ben ragione di sperare che il mio nome venga ricordato ancora con onore quando non vi sarà più memoria del Suo!»
Salito sopra un sasso sporgentescoperta la maschia fronteSilla dominava la barchetta e la donnapalpitanti dinanzi a lui.
Marina non voleva lasciarsi dominarebatteva l'acqua con un remorabbiosamente.
«Avanti» diss'ella «alla seconda scena. Intanto Lei fa una vigliaccheria di tenermi qui per forza.»
Silla gittò la catena. «Vada» diss'egli «vada pure se ha cuore. Sappia solo che non recito una commediarecito un oscuro dramma di cui la seconda scena Le è indifferente.»
«Ahe la prima no?» riprese Marina lasciando cadere i remi e incrociando le braccia.
«La seconda scena» proseguì Silla senza badare all'interruzione «non ha luogo qui. Stia tranquilla; da questa notte in poi non vedrà più né il drammané il protagonista. Se ha sospettatonel candorenel disinteresse dell'anima Suach'io fossi più d'un amico per l'uomo di cui Ella è nipote ed eredesi rassicurineppure amico gli sono più forse; perché pochi momenti or sonodi nascostocome un malfattoreho lasciato per sempre la sua casa ospitaledov'è spuntatoin qualche angolo freddo e ombrosoquesto vile sospetto. Se lei poi ha temuto» qui la voce di Silla tremò «di qualche sinistro disegno su donna Marina di Malombra e Corrado Sillaè stato un inganno ben grande il Suo. Se il conte me ne avesse parlatogli avrei tolta questa illusioneperché Lei è troppo al di sotto di quell'altero cuore ch'io vogliocapace di disprezzarecome le disprezzo iola ricchezza e la fortuna. E adessomarchesinaho l'onore...»
«Una parola!» gridò Marina avvicinandoglisi di fianco con due colpi di remiperché una repentina brezza di levante portava via adagio adagio la lancia. «Il Suo dramma fantastico non va. Ella ha la bontà di farsi una parte eroica. Facile; ma c'è la criticasignor Silla. Dove ha scoperto Lei questa cosa ridicola che io sono una ereditiera sospettosa? Non ha mai veduto quanto mi curo di mio zio? E come osa Lei parlare di progetti sulla mia persona? Le pare che voglia turbarmi di quanto mio zio e Lei possano aver l'impudenza di pensare e di dire?»
Intanto Saetta dilungava da capo per la brezza ringagliardita. Marina diede un colpo di remi e si voltò a guardar Silla. La lancia corse un istante contro il ventocontro le onde che gorgogliavan forte sotto la chigliae girò subitorespintasul fianco sinistro. La luce della luna mancava rapidamente. Fiocchi veloci di nubicome spumel'avevan raggiuntaoltrepassata: ora giungevano i cavalloni grossi ed ella vi affondavanon pareva più che un fanale rossastroperduto nella tormentavicino a spegnersi.
«Allora?» esclamò Silla «perché?»
Le altre parole si perdettero nello schiamazzo improvviso delle onde intorno a lui. Una raffica violenta gittò Saetta sul sasso dov'egli stava. «Scenda!» gridò curvandosi ad afferrar la sponda della lancia perché non vi urtasse. «Subito!»
«Nospinga viavado a casa!»
Benché fossero tanto vicini da potersi toccareriusciva loro difficile intendersi. Le ondecresciute di botto smisuratamentetuonavano sulla riva con un fragore assordante; il timonela catenai remi della lancia abballottata strepitavano. Silla vi si stese sul'allontanò dalla riva con una disperata spinta e vi cadde dentro. «Al timone!» gridò afferrando i remi. «Al largo! Contro il vento!» Marina obbedìgli sedette in faccia stringendo i cordoni del timone. Ormai il cielo era tutto neronon ci si vedeva più. Si udiva il tuonar delle onde sulla riva sassosasui muricciuoli. Là era il pericolo. Saettaspinta troppo vigorosamentealzava la prua sull'ondala spaccava cadendo a gran colpi sordi; entrava nelle più grosse come un pugnale; allora la cresta spumosa ne saltava dentrocorreva sino a poppa. La prima voltasentendo l'acquaMarina alzò in fretta i piedili posò su quelli di Silla. Nello stesso punto un lampo spaventoso divampò per tutto il cielo e pel lago biancastroper le montagne di cui si vide ogni sassoogni pianta scapigliata. Marina sfolgorò davanti a Silla con i capelli al vento e gli occhi fissi nei suoi. Era già buio quando egli ne sentì nel cuore il fuoco. E quei piedini premevano i suoi: premevano più forte quando la poppa si alzava; ne sdrucciolavan quindi e vi si riappiccicavano. I due remi gli saltarono in pezzi. Cacciò fuori gli altri due ch'erano nella lanciaremò con furoreperché la nottele voci della natura sfrenataquel tocco bruciantequell'inatteso sguardo gli gridavan tutti di esser vile. E i lampi gliela mostravano ogni momentolìpalpitantecol viso e il petto piegati a lui. Non era possibile! Fece uno sforzosi alzò in piedi e passò sull'altra panca più a prua.
«Perché?» diss'ella.
Anche nella voce di lei v'era una commozioneun'elettricità di tempesta.
Silla tacque. Marina dovette comprenderenon ripeté la domanda. Si vide al chiarore dei lampi un denso velo bianco a levanteuna furia di piova in Val... Non veniva però avanti: la rabbia del vento e delle onde diminuiva rapidamente.
«Può voltare» disse Silla con voce spossataaccennando del capo «il Palazzo è là.»
Marina non voltò subitoparve incerta.
«La Sua cameriera l'aspetta?»
«Sì.»
«Allora torneremo alla cappelletta. Fra dieci minuti il lago è quieto: io scenderò lì.»
«No» diss'ella. «Fanny non mi aspetta. Dorme.»
Voltò Saetta e mise la prora al Palazzo. Non parlarono più né l'uno né l'altra. Quando giunsero al Palazzo faceva meno scuro e il vento era caduto affattoma le onde strepitavano ancora lungo i muritanto da non lasciar udir la barca.
Anche il sangue di Silla si veniva chetando. Passarono sotto la loggia. Quella vista gli rese la sua freddezza altera.
«Lei mi ha detto stamattina» diss'egli «che non La conoscevo. La conosco invece molto bene.»
Marina credette forse che volesse alludere alla scena avvenuta lìe non rispose.
«Guardi com'entra in darsena» diss'ella dopo un momento di silenzio.
«Io lascio i cordoni.»
Silla entrò con precauzione. Solo passando adagio adagio per l'entrataella gli rispose piano:
«Come può dire di conoscermi?» Ma bisognava ora badare a non urtar il battelloapprodar benepresso la scaletta. Ed era così buio! Saetta strisciò sul fondo sabbiososi fermò. Silla uscìtentò con la mano la parete grommosa dello scoglio in cui è scavata la darsenatrovò questa scaletta che mette al cortile e continua poi nell'ala destra del Palazzosino all'ultimo piano.
«La scala è qui» diss'egli porgendo la mano a Marina che ripeté nel prenderla:
«Come può dire di conoscermi?» E saltòdalla prua a terra: maimbarazzatasi nella catenacadde in braccio a Silla. Egli se ne sentì il petto sul visostrinsecieco di desideriola profumata personacalda nelle vesti leggere: la strinse fino a soffocarlale sussurrò sul seno una parola; e lasciatala scivolare a terra corse via per la scalettasaltò nel cortile.
Marina rimase immobilecon le braccia stese avanti. Non era un sognonon c'era ingannonon c'era dubbio possibile; Silla aveva detto: «CECILIA.»
9. Piccola posta
Donna Marina di Malombra alla signora Giulia De Bella
Dal Palazzo2 settembre 1864
Sospetto di aver indovinato il nome dell'autore di Un sogno. Mi occorre di saperlo con sicurezza e di sapere il suo indirizzo. Ti do la mia parola che non è per andarlo a trovare! Sguinzagliati pregoi tuoi cortigiani. Alla tipografia V... con un po' d'arte si deve trovar tutto.
Marina
La signora Giulia De Bella a Donna Marina di Malombra
Varese4 settembre
Hai pigliato fuoco? I miei cortigiani son tutti dispersi. Qualcuno m'ha detto iersera che la tipografia V... è chiusa da un mese. Direi di voltare pagina. Però ti prometto chese ne saprò qualche cosati scriverò tosto.
Giulia'
PARTE SECONDA
Il ventaglio rosso e nero
1. Notizie di Nassau
Il 6 settembre grande aspettazione al Palazzo. I raditimidi fili d'erba che bucavano la ghiaia bianca e rosea del cortileeran tutti scomparsi. Una pompa nuova di vasi schierati vi ostentava fiori e fogliami signorili; parevano dignitari e dame in attesa di un corteo reale. Il popolo delle passifloredei gelsominidelle altre piante arrampicate a' muriguardavadall'altocon mille occhi.
Per ora il solo Steineggetutto azzimatopasseggiava gravemente tra questa curiosità rispettosafermandosi a guardar su per la scalinata se comparisse qualcheduno a parlareattraverso le inferriate della cucina sepolta per metà nel suolocon il «signor Paolo» che si vedeva passare e ripassare da un fornello all'altro dietro le sbarre come un orso bianco.
Guardò l'orologio. Erano le una e mezzo. Il conte aveva detto che sarebbe stato di ritorno dalla stazionecon i Salvadorpresso a poco a quell'ora. Steinegge s'incamminò facendo un viso ossequioso su per la scalinata.
Ecco gente lassù. Ecco il gran cappello del conte che copre quasi anche il suo domestico. E la contessa Fosca? E il conte Nepo?
Nessuno era disceso dal treno di Milano. Il conte Cesarearrabbiatissimo colla cuginacol cuginocon tutti i cugini screanzati dell'universotrovò modo di tempestare col cuocofece disfare i letti apparecchiatiandò in bestia con Steinegge perché gli era venuto incontro e con Marina perché non era venuta. Durante le sue diatribe Saetta brillava al sole da lontano e non s'affrettava punto. Gli giovò di sfogarsi a questo modo. Mezz'ora dopo rianimò con una parola gentile lo sbalordito Steinegge e disdisse gli ordini dati ab irato a Giovanna. Con Marina le cose procedettero diversamente. Cinque giorni eran passati dopo la partenza improvvisa di Silla; il conte e sua nipote non avevano ancora scambiato parola. Egli era stato in procinto di partire per Milano; poimutato pensieroforse per il prossimo arrivo dei Salvadoraveva scritto a Silla. Di questo arrivo s'era occupato moltissimo. Aveva persino fatto il miracolo di andare alla stazione. La Giovanna pensò che quei signori di Venezia dovevano essere qualche cosa più del re; e gli altri domestici dissero al giardiniere che poteva far a meno d'annaffiareperché sarebbe infallibilmente piovuto prima di sera.
Marinanei primi quattro giorni dopo la partenza di Silla non si lasciò vedereneppure a pranzo. Fanny disse al conte che la sua marchesina aveva l'emicrania; agli altri disse che era una luna tremendache non ci capiva niente e che a momenti anche lei non ne poteva più.
Quel giorno Marina uscì con Saetta e comparve poi a pranzo mentre il conte e Steinegge parlavano dell'opera di Gneist sul Self-governmentdi cui Steinegge stava facendo un sunto. Il conte seguitò a discorrere senza volger il capo né gli occhicome se il suo interlocutore non si fosse alzato in piedi e non avesse fatto un profondo inchino verso la porta. Solo quandofinito il pranzosi alzòegli le disse con insolita freddezza e tranquillità:
«Favorite di passare da me fra un'ora.»
Marina lo guardò come sorpresa; poi disse con un leggero scatto d'ironia sulla prima sillaba:
«Favorirò.»
Aspettò quasi un'ora e mezzo; poi mandò Fanny a vedere se il conte fosse in biblioteca. La risposta fu che ve l'aspettava da mezz'ora.
Ella entrò nella biblioteca a passo lentocon l'aria di chi pensa al mondo della lunafece un largo giro verso la porta che mette nel giardino e venne a lasciarsi cadere sopra una sedia a bracciuolidi fronte al nemico.
«Vi avverto prima di tutto» cominciò il conte «che coloro i quali mi fanno l'onore di abitare in casa miami debbono di essere civili. Non è una pigione troppo forte e da oggi in poi me la paghereteperché io ho la debolezza di esigerepresto o tardii miei crediti. Se non conoscete le monete potrò darvi qualche piccola lezione.»
Gli occhi di Marina scintillaronole sue labbra si apersero.
«Non rispondete» tuonò il conte.
Ella balzò in piedi. Voleva ribellarsiparlaree non poteva. Forse troppe parole le facevan ressa alla gola; forse nel momento di prorompere temé tradire il segreto di cui sentiva confusamente che doveva riserbarsi per un giorno premeditatoper un'ora invariabileprefissa dalla sua volontà e dal destino.
«Non rispondete» ripeté il conte. «Voi odiate me e la mia casama non vi tornerebbe comodoio credoessere pregata di partire subito. Non rispondete.»
Marina ricadde a sedere in silenzio.
«Non potete supporre che io ignori l'oltraggio fatto da voi al mio amico Sillail quale è andato via per causa vostrae non potete supporre checonoscendoloio vi sia rimasto indifferente. Non so se la parola umana possa esprimere tutto quello che il vostro atto m'ispira. Beneio non ricercherò i motivi molto oscuri della condotta che voi tenete. Certo non conviene né a voi né a me di convivere a lungo. V'è una frase enormemente stupida: i legami del sangue. Io non credo che il vostro sangue abbia due globuli simili ai miei. Ad ogni modonon è indispensabile appiccarsi con questi legami. Meglio tagliarli. Oggi non vi siete curata di trovarvi a casa quando dovevano arrivare i miei cugini Salvador. Vi avverto che mio cugino ha un gran nomeuna bella sostanza e pensa a prender moglie.»
«Ah!» disse Marina e sorrise guardandosi la piccola mano bianca che tormentava il braccio della poltrona.
«Non fate esclamazioni drammatiche. Non andate a pensare che vi si vogliano far violenze. Io non so se il colore dei vostri occhi piacerà a mio cugino e non posso neanche sapere se la sua voce vi toccherà il cuore. È utileio credonel vostro caso conoscere le disposizioni di mio cugino. Potete approfittarne o nocome vi piacerà meglio.»
«Grazie. E se il signor cugino non mi vaquando debbo partire?»
Marina aveva parlato pian pianoguardandosi gli anellia mano spiegatal'uno dopo l'altro; poi serrò il pugnose l'accostò al visoquasi per numerarvi le vene azzurrognole; lo lasciò finalmente cadere e alzò sul conte due grandi occhi ingenui.
«Ma» disse il conte «quando debbo! Mi pare siate in fatto voicol vostro contegnoche mostrate desiderio di andar via. Sarebbe forse più leale e più sincero dire: Quando posso?».
«Nolo posso sempre. Sono maggiorenne e possiedo abbastanza per mantenere me e una vecchia dama di compagnia che mi lasci sola. Quando debbo? Io non desidero andar via.»
Il conte la guardò attonito. Quei grand'occhi limpidi non dicevano nullaproprio nulla. Aspettavano una risposta.
«Non desiderate andar via? Desiderate dunque che me ne vada io? Eh? Quello vi farebbe comodo? Ma per Dio santoparlate chiaro. Se non desiderate andar viache diavolo desiderate? Perché vi comportate con me come se io fossi un carceriere? Che vi ho fatto io?»
«Lei? Niente.»
«Chi dunque? Steinegge? Che vi ha fatto Steinegge?»
«Paura.»
«Comepaura?»
«È tanto brutto!»
Il conte si rizzò sul suo seggiolone eimpugnandone con violenza i bracciuoliporse verso sua nipote la fronte corrugata e gli occhi fiammeggianti.
«Oh» diss'egli «se credete farvi gioco di mela sbagliate: se avete voglia di scherzarescegliete male il vostro momento. Quando ho la compiacenza di domandarvi cosa vi offende in casa mianon bisogna mica rispondermi come una cingallegra parigina; bisogna parlare sul serio!»
«A che serve se Ella ha risoluto che io parta?»
«Chi ha detto questo? Io ho detto che non siamo fatti per vivere assieme e vi ho indicato una possibile occasione di mutar soggiorno e compagnia. E prima di tutto ho dichiarato che dovrete in avvenire essere civile con me e con i miei ospiti onde non costringermi a un pronto provvedimento.»
Marina non aveva ancora rispostoquando entrò la Giovannatutta commossa.
«Signor padronequei signori sono qui!»
«Diavolo» esclamò il conte alzandosie uscì in fretta.
Marina andò a gittarsi sul seggiolone rimasto vuotovi si dondolò con le braccia incrociateil capo appoggiato alla spallierale gambe accavalciate e la punta brillante d'uno stivalettino nero slanciata in aria come una sfida.
Si udivano parecchie voci al piano terrenoo meglio una voce solaa getto continuosonoracoloritacon accompagnamento di altre voci note e ignotedi risa brevirispettose.
«Oh che viaggio» diceva quella voce «oh che paesioh che gente! Hai la mia borsaMomolo? Vi racconteròcreature. Chi sei tubellezza? La sua cameriera? Bravacara. E dov'è questo benedetto Cesare? Sta sulle tegole a quest'ora? Dimmitesorocos'hai nome? Fanny? SentiFannyquel palo bianco là è un frate o un cuoco? Ma che ci prepari un brodobenedetto da Dio. Neposei languidofio? Oh DioCesareche vecchioche brutto!»
Con quest'ultime parole gridate nelle palme delle mani di cui s'era coperta il visola contessa Fosca Salvador salutò il conte Cesare che le veniva incontro frettoloso con una faccia che voleva e non poteva essere allegra. Peggio fu quando la contessa volle fargli un bacio e lo affogò in un diluvio di chiacchiere. Egli ne perdette quasi la testa. Continuava a rispondere sì sì sì col suo vocione più grossostringeva la mano a Nepo e stava per fare lo stesso col vecchio domestico della contessamalgrado i suoi grandi inchini e il suo ripetere: «EccellenzaEccellenza».
«Ciò» gridò la contessa «sta a vedere che mi bacia Momolo. C'è di meglio se volete baciare: ma voi già siete un orso.»
Il conte Cesare stava sulle brage. Avrebbe volentieri mandato al diavolo tutta la compagnia. I discorsi della contessa gli mettevano rabbia. Momolo e le due donne che stavano silenziosi dietro Sua Eccellenza ebbero pure da lui uno sguardo poco benevolo. Se avesse poi veduto nel cortiletra le macchie di fiorila nuova macchia nera di baulicasse e borse accatastate!
«È una invasionecaro conteuna invasione» ripeteva Nepo girando per il vestibolo quasi a tentoni perché ci si vedeva pocoe frugandone ogni angolo col naso per trovar posto al suo bastoneal soprabitoal cappello.
«L'ho proprio detto alla mamma ch'era un abusare...»
«Sìme l'ha detto e io gli ho risposto: Abusiamobenedetto. Cosa sarà? Mio cugino non ha egli un cuor di Cesare? Oh se avessi mai saputo che bisognava fare questo dio di stradavi dico in fedenon avrei abusato. Caro il mio caro pampanonon dite niente che si doveva venir stamattina? Non sapete?»
«Sìsìmi racconterete quello» disse il conte che non ne poteva più. «Intanto venite di sopra.»
«Vengoanima miase posso. Vi raccomando il mio Momolo e la mia Catte. Son vecchiettipovere creaturecredo che saranno mezzi morti. Tiratemeli su. A propositoCattedov'è quella ragazza? Non ha vedutosignor orsoche cocola le ho condotto?»
Non era dunque una seconda cameriera la giovinetta vestita di nero che stava dietro la vecchia Catte? Noell'aspettava che la prima tempesta dell'incontro si chetasse. Si fece avanti e disse al conte Cesare parlando in buon italianoma con un forte accento straniero:
«La pregosignoredi volermi dire se il signor capitano Andrea Steinegge abita qui.»
«Sicuramentesignorina» rispose il contemeravigliato. «Il mio buon amico Steinegge sta qui. Egli non usa veramente di farsi chiamare capitanoma...»
«Era capitanosignore. Capitano austriacoagli usseri di Liechtenstein.»
«Ohnon ne dubitosignorina. Credo anzi che una volta il signor Steinegge mi ha raccontato quello. E Lei desidera vederlo?»
La voce ferma della giovinetta parve mancare. Si udì appena un bisbiglio.
«Eh?» ripete il conte con accento benevolo.
«Sìsignore.»
«Ora è fuorima verrà presto. La prego di salire ad aspettarlo.»
«Graziesignore. Rientrerà egli da questa parte?»
«Da questa parte.»
«Allora se permetteresto qui.»
Il conte s'inchinòordinò di portare un lume per la signorina e si avviò di sopra con gli ospiti. La contessa Fosca gli raccontò che quella ignota signorina era discesa con loro dal trenoe aveva chiestocom'essiuna vettura per il Palazzo; che vedendolapover'animasola soletta (e alla stazione non c'era mezzo asino da farsi trascinar via) le aveva offerto di venirese volevacon loroposto che in paese si fossero trovate vetturecome infatti a grande stento se ne trovarono. «Chi sia e cosa voglia» aggiunse la contessa «non l'ho inteso. Già ha detto pochissime parole; evolete che ve la dica? Mio fio sostiene che parlò italiano e io ho sempre creduto che parlasse tedesco. Estenuata poi! Questo sì l'ho capito. Grazie tante: un viaggio di questa sorte!»
Il conte non fiatò. «Che durola mia anima» mormorò Sua Eccellenza tra sé. «E Marina! Dov'è questa briccona di Marina? È a cena forse? Perché dico...»
In quella entrò Marina. Ella abbracciò la contessastrinse la mano al cugino con grazia disinvolta e si lasciò dire dalla prima un mondo di dolcezzedi complimentisulla sua bellezzacon dei risolini pazientidelle strette a quattro manidei brevi: «Cara! Che cara!». Sua Eccellenza Nepo parlava intanto con il conte Cesare. Sua Eccellenza era un giovanotto sui trent'annibianchissimo di carnagionecon un gran naso aquilino male appoggiato a sottili baffetti nericon un paio di occhioni neri a fior di testail tutto incorniciato da una ricciuta zazzera nera e da un collare di barba nera che pareva posticcia su quella pelle di latte e rose. Aveva le mani assai piccole e bianche. Parlando sorrideva sempre. Il suo passo breveondulatoi gomiti quasi sempre stretti alla vitail parlare stridulofrettolosomettevano intorno a lui un'aura femminile che feriva subito chi lo incontrava la prima volta. A Venezia lo chiamavano il conte Piavola. Non mancava però d'ingegnoné di colturané di ambizione. Aveva emigrato nel 1860 ed era venuto in Torino per educarsi alla politica. Colà studiava economia e diritto costituzionalefrequentava le sale dei pochi ministri che tenevano societàle Camere e le tote dei baracconi di piazza Castello. Gli era venuta l'idea di entrare in diplomaziama non aveva ancor preso gli esami: si teneva sicuro cheliberato il Venetoun collegiodove era grande proprietariolo avrebbe inviato alla Camera.
Ed oramentre la vena inesauribile della contessa Fosca gittava chiacchiere sul capo di Marinaeglidal canto suotorturava già il conte Cesare con la propria biografiacon la relazione de' suoi studidelle sue speranze. Il conteche sapeva poco dissimularestava lì ad ascoltarloquasi sdraiato sulla seggiolacol mento sul pettole mani in tasca e le gambe sgangherate; e alzava il capo a ogni tanto per dargli una occhiata fra l'attonito e l'infastidito.
Quando Dio volle un domestico annunciò che la cena per i signori era pronta. La contessa Fosca volle a forza il braccio di suo cugino. Nepo s'affrettò di offrire il suo a Marinache l'accettò con un leggero cenno del capoguardando la contessa e continuando a parlare con lei. S'era fatto un braccio aereo; non toccava quasi quello di Nepo; appena entrata nella sala da pranzose ne sciolse.
Intanto la giovinetta vestita di nero aspettava seduta nel vestibolo. Essa non pareva udire le voci né i passi sopra il suo caponon pareva avvedersi dei servi che andavano e venivano chiamandosiridendogittandole occhiate curiosediffidenti. Si era tratta accanto la sua borsa da viaggio e guardava la porta.
S'udì un passo di fuorisulla ghiaia; Steinegge si affacciò alla porta. Ella levossi in piedi.
Steinegge la guardò un momentomeravigliatoe passò oltre. La giovine signora fece un passo e disse a mezza voce:
«Ich bitte.»
Il povero vecchio tedescocolto così all'impensatasi sentì dar un tuffo nel sangue da quelle due semplici parole pronunciate con l'accento di Nassau. Non seppe dire altro che «O mein Fräulein» e le porse ambe le mani.
«È Lei» rispose la giovinetta con voce tremante e sempre in tedesco «è Lei il signor capitano Andrea Steinegge di Nassau?»
«Sìsì.»
«Credo ch'Ell'abbia laggiù una famiglia.»
«Sìsì.»
«Io ho notizie...»
«Ha notizie? Notizie della mia bambina? Ohsignorina!» Giunse le mani come davanti a un santo. I suoi occhi brillavanole labbra eran convulsetutta la persona esprimeva un desiderio soloangoscioso. Lo aveva ben detto la contessa Fosca che la povera signorina era estenuata. Diventò pallida pallidae mormorò a Steinegge cheansandole aveva cinta la vita con un braccio:
«Nienteun poco d'aria.»
Egli la portò più che non l'accompagnasse fuoril'adagiò sopra un sedile di ferroedivorato da mille angoscieimmaginando dover udire da lei tutte le sciagure possibiliforse la più grandele prese ambedue le maniparlò con voce carezzevoledolcea quella ignota fanciulla del suo paesecosì sola in terra straniera. Ritrovò nella memoria tenere espressioni del tempo andatosante parole paternetaciute per anni e annicolorate ora di soavità religiosa dal rispettoso Lei che le accompagnava. Intese ellarinfrancandosiil rispettoso Lei o intese solamente dirsi mein Kind«fanciulla mia?». Perdette la memoria delle prime parole scambiate o la voce affettuosa le fece credere che tutto il suo segreto fosse stato detto? Gittò le braccia al collo di Steinegge e si sciolse in lacrime.
Pare incredibile; Steinegge a prima giunta non capì. Egli portava sempre viva nel cuore l'immagine di sua figlia quale l'aveva lasciata bambina di otto annipiccina piccinacon due occhi grandi e dei lunghi capelli biondi. L'attole lacrime della giovinetta gli dicevano «è lei»ma egli comprendeva e non comprendeva nel tempo stessonon poteva così rapidamente immaginare una trasformazione simile. «Ohpapà!» diss'ella fra la tenerezza e il rimprovero. Allora solo il suo cuore e la sua mente s'illuminarono insieme. Con parole rotteincoerentisi buttò ginocchioni a' piedi di sua figliale afferrò una manose la strinse alle labbra. Con la infinita gioia che gli faceva veramente male a tutto il pettoalla golasentiva pure una gratitudine umile senza confine.
«Edithcaracara Edithbambina mia» diss'egli con voce soffocata. «Ma è Lei proprio Edith? Ma come puoi esser tu?»
È carità pel povero Steinegge non ripetere le parole assurde che gli uscirono di bocca in quei momenti deliziosi. La improvvisa gioia intorbida il pensierocome certi liquori forti e soavi intorbidano l'acqua pura.
Edith tacevarispondeva a suo padre serrandogli la grossa mano tra le suenervoseappassionate.
Un lume brillò sulla porta del palazzo e vi rimase fermo.
«Papà» disse subito Edith «mi presenti.»
Steinegge si levò a malincuore. Non aveva badato a quel lume impertinente: sarebbe rimasto lì tutta la notte solo con lei e non capiva tanta fretta d'essere introdotta. Non pensò né l'anima sua leale poteva immaginare quali falseperfide parole fossero state sussurrate a sua figlia contro di lui. Edith non le aveva volute crederema qualche dubbio angoscioso n'era ben rimasto in leiella temevaalmenoche anche lì in quella casa sconosciuta si potesse pensar male di suo padre. Essa conosceva già il mondo assai meglio di lui che ne aveva veduto tanto.
Entraronola figlia a braccio del padre. Era la curiosa Fannyche stava sulla soglia con una candela in mano.
«Buona sera» disse Edith.
Fannyche non teneva in gran stima «lo straccione» Steineggearrischiava un risolino beffardo quando Edith passò davanti a lei salutandola. Il risolino le morì sulle labbra ed ella s'inchinò graziosamente senza salutare.
«In qual modo» pensava «il vecchio zuruch può avere dimestichezza con una damigella così?»
Aveva visto una bellezza delicata e seriauna persona elegante; aveva notato il passol'atto di salutola voce dolce e bassala semplicità severa dell'abito; e con la sua esperienza delle vere signoreaveva giudicato assai bene di Edith.
«Fateci lume» disse Steinegge.
Fanny lo guardòmeravigliata. Dove aveva egli preso tanta audacia? Di solito osava appena pregare i domestici. Davvero pareva cresciuto di un palmo e camminava impettito come un soldato che dia il braccio a una regina. Fanny obbedì.
Steinegge presentò sua figlia senza la umiltà ossequiosa ch'è debito di chi presenta una parente ai propri superiori. Il conte Nepo e donna Marina si mostrarono freddissimi. Il conte Cesare fu cordiale. Si alzò in piediprese con sincera compiacenza la mano della giovinetta e le parlò col suo vocione benevolo della stima e dell'amicizia che aveva per suo padre. La contessa Fosca chiedeva spiegazioni all'uno e all'altro e non arrivava mai a capire. Quando ci arrivò «Oh che casooh che caso!» non rifiniva più dal fare esclamazioni di meravigliacongratulazioni e domande di ogni genere.
«Perché va a sedere così lontanobenedetta?» diss'ella a Edith. «Di contentezza non si cenasa; e dopo cenaLa ci vorrà bene più di prima al papà. Venga quacara da Diovenga qua.»
Edith si scusò con garbo. Il conteindovinando che padre e figlia desideravano rimaner soliosservò che forse la viaggiatrice abbisognava sopra tutto di riposo e invitò Steinegge ad accordarsi con Giovanna per la stanza di madamigella Edithla quale avrebbe potuto farsi recar da cena colà più tardise lo desiderasse.
Giovanna condusse Edith in una stanza attigua a quella di suo padre. Questi camminava intanto su e giù pel corridoioentrava e usciva dalla sua cameraparlando forte alle paretial pavimento e sovra tutto al soffittofermandosi ad ascoltare i passi e le voci delle due donne nella camera vicinacon lo sguardo torbido e il viso ansiosocome se temesse di non udire più nulladi trovar che il vero non era più vero. Finalmente Giovanna uscì e discese le scale.
Poco dopo quell'uscio si schiuse da capo e una voce disse piano:
«Papà.»
Steinegge entrò e abbracciò sua figlia. Non potevano parlaresi guardavano. Ella sorrideva fra le lagrime silenziose; egli si mordeva il labbro inferioremostrava negli occhi un dolore pungenteuno spasmo in ogni muscolo del viso. Edith compresegli appoggiò la testa sul petto e mormorò:
«Ella è contentapapà.»
Il povero Steinegge tremava come una fogliafaceva sforzi incredibili per frenare la commozione. Edith si trasse dal seno un piccolo medaglionel'aperse e lo diede al padre. Questi non lo volle guardare e glielo restituì subito dicendo «Sìsì» battendosi una mano sul cuore. Stette muto per qualche minuto ancorapoi andò risolutamente a spegnere il lume.
«Adesso racconta» diss'egli. «Perdonami se faccio così. Voglio solo udire la tua voce e figurarmi che non sono passati tanti anni. Ti rincresce?»
Nonon le rincresceva. La immagine che aveva serbata di suo padre nella memoria era venuta lentamente trasformandosi col tempos'era elevata e abbellita; proprio all'opposto del pover'uomo. Anche per Edith v'era adesso qualche cosa di straniero nell'aspetto di lui; anch'essa aveva bisogno di abituarvisi prima di potergli parlare a cuore aperto. Nelle tenebreinvecela voce di cui tante voltelassù a Nassauaveva cercato di ricordare il timbro esattola cara voce paterna le correva dentro per tutti i nervile riempiva il pettole riportava impetuosamente nel cuore i più minuti ricordi dell'infanzia. Anche a lei piaceva parlare cosìall'oscuro.
E raccontò quei dodici anni passati con il nonno maternodue zii e le loro famiglie. Il nonnomorto da pochi mesiera stato assai buono per leima non aveva permesso mai che in casa si pronunciasse neppure il nome del proscritto. Edith ne parlò con delicata pietà e temperanzadissimulandoscusandoper quanto era possibilegli odii tenaci del vecchioimbevuto di pregiudizi che nessuno della famiglia si era mai curato di combattere. Steinegge non la interruppe mai; era ansioso di udire l'ultima parte del raccontodi sapere come Edithche aveva lasciate senza risposta tutte le sue letteresi fosse poi decisa di abbandonare patria e parenti per venire in traccia di lui. Quest'ultima parte fu la più difficile e amara per la narratrice. Fino alla morte del nonno essa non aveva ricevuto alcuna lettera di suo padre. Morto il nonnone aveva trovata per caso una direttale da Torino e aveva saputo in pari tempo che fino a due anni prima moltissime altre lettere erano arrivate per lei da vari paesi e che tutte erano state trattenute e distrutte.
Qui il racconto fu interrotto da un'espansione di Steinegge contro quei maledetti bigotti ipocriti furfanti vili che son capaci di queste azioni da assassini. Tempestò sbuffando per la camera buia e non si fermò se non quando ebbe rovesciate due sedie. Allora udì un passo leggero venire a luisi sentì una mano sulla bocca. Tutta la sua ira cadde. Egli baciò quella mano e la tolse con ambo le sue.
«Hai ragione» disse «ma è orribile!»
«Oh noè bassobassomolto più basso di noipapà.» Ella continuò narrando come quella lettera vecchia di due anni e mezzol'avesse quasi fatta impazzire. La sapeva a memoria. Ripeté le preghiere appassionate fatte agli zii onde ricuperare qualche altra lettera. Ma erano tutte scomparse e neppure una ne poté tornare in luce. Si spezzarono invece i fragili legami che tenevano unita Edith alla famiglia materna dopo la morte del nonno. Ella ebbe la sua parte dell'ereditàmodicissima perché gli eredi erano parecchi e la famiglianon molto riccaaveva sempre vissuto signorilmente. Chiese di poterne disporre subito e l'ottenne a condizioni inique che ella accettò senza discutere. Partì subito per l'Italiasolacon la sua piccola ereditàseimila tallerie una lettera per un impiegato della Legazione di Prussia a Torinoche prestava i suoi buoni uffici anche ai cittadini del Nassau. Si recò difilata a Torino; quel signore si adoperò molto per lei e fu presto in grado di farle sapere dove avrebbe potuto trovare suo padre. Edith terminò con dire come si fosse accompagnata ai Salvador.
Steinegge osservò allora ch'era forse suo dovere scendere nel salotto prima che gli ospiti del conte si ritirassero. Accese il lume per Edith e la pregò di attenderlosi sarebbe sbrigato in pochi minuti. Escì in fretta e scese la scala senza badare che la lampada sospesa sul pianerottolo del primo piano era spenta e che nessuna voce si sentiva tranne quella dell'orologio. Scoccò da questomentre passava Steineggeun tocco sonoro. Pareva dicesse: «Ferma!». Quegli si fermòaccese uno zolfanello. Le undici e mezzo! Lo zolfanello si spense e Steinegge rimase immobile con la mano distesa in aria. Possibile? Avrebbe creduto che fossero le nove e mezzo. Risalì la scala in punta di piedi e spinse pian piano l'uscio della camera di Edith.
Ella era ritta davanti alla finestra apertateneva stretta alla persona con le mani giunte la spalliera d'una seggiola e curva sul petto la testa.
Steinegge si fermò; gli si era stretto il respiro. Sentiva forse gelosia dell'Invisibile cui saliva alloraoltre le stelleil pensiero di sua figlia? Non lo sapeva bene neppur luiche sentisse. Era un freddoun'ombra fra Edith e sé. Egli non aveva mai nella sua mente distinto Iddio dai pretidei quali parlava sempre con disprezzobenché fosse incapace di usare la menoma scortesia al più zotico e bigotto chierico della cristianità. Aveva spesso pensato con dolore che sua figlia sarebbe stata educata dai pretie orasolo per averla veduta pregaregli pareva che lo avrebbe amato menosi sgomentava del futuro.
Edith s'avvide di luidepose la seggiola e disse:
«Avantipapà.»
«Ti disturbo?»
Ella si meravigliò del tono sommesso e triste della domanda e rispose con un no attonitolevando le sopracciglia come per dire: «Perché mi domandi così?». Lo volle accanto a séalla finestra.
Era una notte senza lunaquieta. Il lago non si distingueva dalle montagne. Appena si vedeva a piedi dell'alta finestra una striscia biancastrail viale di fronte all'aranceralungo il lago. Tutto il resto era un'ombra che cingeva da ogni parte il cielo grigioe dentro a quell'ombra si udiva di tratto in tratto il breve e dolce mormorar dell'acque chetecherotte dal guizzo d'un pescesi dolevano e si riaddormentavano.
Edith e suo padre conversarono ancora lungamente a voce bassaper un inconscio rispetto alla silenziosa maestà della notte. Ella gli domandava mille cose della vita passatadalla separazione in poi; faceva domande disparatissimeperché ne aveva preparato un tesoro da lunga pezza e ora le venivano sulla bocca alla rinfusaalcune gravi come questa: se avesse mai sofferto di nostalgiaalcune puerili come quest'altra: se ricordasse il colore della tappezzeria del salottino dov'ella aveva dormito e sognato di lui per dodici anni. Al povero Steinegge si spandeva nel petto una dolcezza ricreanteun calore d'orgoglio. Raccontando ad una ad una le sue tribolazioni alla giovinetta che ne palpitava e ne piangevaquel che aveva sofferto gli pareva niente a fronte della consolazione presente.
Un suono di campane passò sul Palazzoandò a echeggiare nelle vallia perdersi nei fianchi selvosi dei monti. V'era l'indomani una sagra in Val...
«Perché suonanopapà?»
«Non lo socara» rispose Steinegge. «Die Pfaffen wissen esil pretume lo sa.» Appena pronunciate queste parolesentì di aver detto male e tacque. Tacque anche Edith.
Il silenzio durò qualche minuto.
«Edith» disse finalmente Steinegge «sarai stanca non è vero?»
«Un pocopapà.»
Era sempre tenera quella cara voce argentina; Steinegge si consolò.
Era sempre tenera quella vocema vi suonava dentro stavolta una nuova corda delicatissimamestaappena sensibile. Poi che Steinegge si fu congedato con un bacioEdith tornò alla finestra e parve parlare a lungo con Qualcuno al di là delle nubi. Intanto suo padre non poteva trovar posa. Tornò cinque o sei volte a picchiar all'uscio per chiederle se aveva acquase aveva zolfanellia che ora voleva essere svegliatase le dovevano portare il caffèse desiderava questose desiderava quello. Fu tentato di coricarsi lì all'usciocome un cane fedele; finalmentepoco prima dell'albaandò a coricarsi bell'e vestito sul suo letto.
2. I Salvador
«El xe largo e longoEcelenza» disse alla contessa Fosca la sua fedele Catteversandole il caffè in una tazza larghissimamentre la contessaalzando la testa dal cuscino e facendosi puntello de' gomiticonsiderava con occhi diffidenti il vassoiola tazzala sottocoppala zuccherierail bricco levato in aria e il filo arcuato del caffè cadente.
«Benedetta Venezia!» diss'ella.
«EhEccellenzabenedetta Venezia!»
«La xe aquaciò» disse la contessa con una smorfia deponendo la tazza sul vassoio dopo avervi appena posate le labbra.
«Acqua schiettaEccellenza. Ce l'ho detto io a quella vecchia. Questa è la secchia (Catte accennò alla tazza) e questo è il pozzo (Catte accennò il bricco). Oh che casaEccellenza! La vecchia ha fatto il muso per le lenzuola e io le ho cantato che Sua Eccellenza non può dormire se non è nelle sue lenzuola.»
«Questo ci hai detto?»
«SìEccellenza.»
«Hai fatto benesa. Le ho tolte per l'albergoma già che vi sono... Vestimiche presto sarà ora di Messa.»
«Come La comandaEccellenza. La cameriera giovanequella della marchesina Marinami ha dato ragionese non falloperché tanto l'una che l'altra parlano peggio dei levantini. SaEccellenzacosa si capisce? Che qui padroni e servitoricon buon rispetto parlandoson tutti cani e gatti.»
«Dimmidimmi. Quest'altra calzasiora sempia! Dimmi dimmi. Non c'è male queste gambeancoraah?»
«EhEccellenzaquante sposine vorrebbero...!»
«Sìdimmiveciaconta su. Cani e gattiah?»
«Eh cani e gattiEccellenza. Il signor conte e la signora marchesina non si possono vedere. La si appoggi a me. PianoEccellenzapianoche il letto è alto. Quando si guardano pare che si vogliano mangiare. Così ci ha detto il cuoco a Momoloperché pare che il cuoco non tenga né dall'uno né dall'altra. Ne contano di belle.»
«Conta su.»
«Ma non soEccellenzase possoperché c'entra il signor conte...»
«Ehstupidaquando vi dico di contar suil vostro dovere è di contar su.»
«Come La comandaEccellenza. Eccosi vuole che il signor contetempo favolesse prendere la signora marchesina e che la signora marchesina si disperasse perchéohe poverettagiovane la èanima mia...»
«Contate su senza tante anime.»
«Come La comandaEccellenza. Dunque la signora marchesina si ammalò e andava a torzio colla testa; da quel tempo non ha più potuto vedere il conte; e il signor conte ha dovuto metterla via; ma anche lui è diventato rabbioso con lei. Dopo è nato un altro pettegolezzo d'un giovane...»
«D'un giovane?»
«Per servirlaEccellenza.»
«Che giovane?»
Sua Eccellenza era inquieta.
«Qua vien lo sporchettoEccellenza. Il suo nome di questo giovane non è il suo nome. Pare che ci sia un pasticcio... non so se mi spiego.»
«Ehinsensatafra me e teabbiamo duecento annie pigli tutti questi giri?»
«Come La comandaEccellenza. Questo giovane ha un altro nomema è figlio del signor conte. Eccola tonda.»
Sua Eccellenza si slacciò la cuffia da notte e rimase un momento immobilea bocca apertaguardando Catte. Poi si strinse nelle spalle.
«Sciocchezzeinsulsaggini» diss'ella «bugie. E dunque?»
«Adesso vien l'imbroglio. Non ho capito se ci fosse del tenero fra costui e la signora marchesina o se abbiano trovato da ridire fra di loroe che luivoglio direche lei ne abbia dette quattro a luio se il conte volesse che lei lo togliessequesto giovinee che a lui non le piacesseo che la si fosse messa in pensierosi saper la robaciòe che lui...»
Sua Eccellenza buttò via la cuffia.
«Uffche caldo che mi fai! Cosa vuoi che capisca? Dammi quell'affare! Quell'affaresìquell'affare! Non capisci? Vai alla Sensa?»
Catte andò a pigliar la parrucca di Sua Eccellenza e si dispose a mettergliela.
«E poi?» disse la contessa.
«E poi... La permettaEccellenzache siamo un poco storti. Ecco così. Noancora un pochetto.»
Sua Eccellenza soffiava come una macchina a vapore.
«La sentaEccellenza. Chi è adesso che ha da dire che la è parrucca? Dopo tuttola porta anche la Madonna. La compatiscaEccellenza. Dunque un bel dì non so comeè nato un bordelogrida tu che grido anch'ionon so se si siano anche pettinatil'amico senza dire "cani vi saluto" infilò la calle e chi s'è visto s'è visto. Cose di sei giorni sono. E quel tedescoEccellenzache macia! Stamattina è venuto giù lui a prendere il caffè da portare alla sua tedeschetta. C'era abbasso anche il signor conteperché quello è proprio el massariollo si trova dappertuttopare che vi comparisca di sotto terra.»
«Tacetepettegola» interruppe la contessa Fosca. «Ho tanto di testa. Cosa volete che me ne faccia di tanti pettegolezzi? Fate presto. Specchio. Bravagioia. La Madonna porta ella quell'affare sul naso? Questo si acquista con darvi libertàche non fate più attenzione a niente. Presto. Sua Eccellenza è alzato?»
«Credo di sì. Ho visto Momolo portargli gli abiti.»
«Beneandate a dirgli di venire da me. Presto!»
«SubitoEccellenza.» «Per dianatu puzzi ancora di baccalàciò» soggiunse Catte fra i dentichiudendo l'uscio dietro di sé.
Non era colpa della contessa Fosca se suo padredopo essere stato sbrodegheraveva venduto ai veneziani e alla terraferma uno sterminio di baccalà. Quando il conte Alvise VI Salvador si degnò di sposarlai suoi concittadini le inflissero il nomignolo di contessa Baccalà. Ella sapea tuttavia liberarsene presto per la sua bonarietà disinvoltaper la franchezza con la quale parlava della propria origineper la sua schietta e allegra ignoranza. Con l'andar del tempo si fece voler bene persino dalle gran dame più schizzinose; il tanfo dei negozi paterni andò perdendosi; ci voleano le nari maligne di Catte per coglierlo ancora.
In vent'anni di matrimonio il fu conte Alvise VIbuttando via quattrini a destra e a manca con l'aiuto dell'allegra signoraaveva cominciato a rivedere qua e là il fondo della cornucopiasu per giù come prima del suo matrimonio. Alla sua morte la contessa Fosca si trovò in possesso di latifondi sterminatidi debiti colossalie di un ragazzetto mingherlinoammirato in casa e fuori di casacome un grande ingegno. La contessa volle sapere a puntino in quali acque navigasse; si spaventòsi raccomandò alla Madonna dei Miracoliad avvocatia santia uomini d'affari; ebbe la fortuna di trovare una valente e proba personal'avvocato Mirovichche accettò di mettersi a pope e promise condur la barca a salvamento. Si introdussero grandi economie nella famigliasi mise Nepo in collegiosi vendettero due tenute in Friuli; e certe anticaglie polverosedegne agli occhi della contessa d'esser buttate in riouscirono dal granaio del Palazzo per finire al Museo Britannico.
Mentre le guaste fortune di casa Salvador si andavano racconciandoSua Eccellenza Nepo assodava la sua riputazione in collegio. Aveva memoria prodigiosaparola assai facile; non era sfornito d'ingegnose ne attribuiva con l'aiuto dei maestri e di compagni adulatorimoltissimo. Escito di collegiostudiò leggi a Padova.
Nell'Università il suo nome non si levò sugli altri. Con il grosso degli studentiscapestrati apertidemocratici intus et in cuteeglidelicato e mollenon poteva accordarsi. Non ebbe adulatori; fu addetto a una chiesuola timida di elegantimotteggiatasatireggiata dagli altri. Trovava modo di sdrucciolare spesso a Venezia e d'indugiarvisi. Si occupava di economia politica e sapeva fare l'elegantecomparir signoreapplicando segretamente la legge del minimo mezzo.
I suoi primi passi nella società furono fortunatissimi. Egli era una speranza bianca e rosea di mamme e di figliuoleuna speranza di quei patrioti che desideravano alta la illustre nobiltà veneziana. Quando si annoveravano nei crocchi i giovani più valenti di Veneziaqualcuno cominciava a dire «c'è Salvador». Gli bastava per questoa lui patrizioconoscere il tedescol'ingleseessere abbonato all'Économiste e al Journal des Économistesandare a qualche seduta dell'Istitutospiegare da Florian cosa avessero fatto di tanto noioso i pionieri di Rochdale per seccare l'universo. In pari tempo svolazzava intorno alle gran dame e alle belle dame senza bruciarsi le ali e nemmanco il cordoncino dell'occhialetto; scherzava impunemente con lorole consigliava nelle più gravi minuzieacquistandone a poco a poco certa stima sui generisper cui esse non potevano parlar di Nepo Salvador senza farne gran lodi e sorridere. Il suo nome illustre e la buona opinione che molti avevano di luipiuttosto per desiderio e per fede che per conoscenza dell'uomoprevalsero un pezzo su questi equivoci sorrisi e sui giudizi che poche personea quattr'occhifacevano di lui. Finalmente i sussurri si propagaronodiventarono mormoriibisbiglivoci; il credito di Nepo si sdrucì rapidamente da ogni parte; il suo perpetuo occhialettole fogge esagerate degli abitiil portamento effeminatola vanità ridicolagli stomeghezzile taccagnerie male nascostefurono liberamente derise; i suoi amici si confidarono il gran dubbio che sapesse pochino pochinoe quando uno diceva «talentoperò» un altro rispondeva «ehumemoria». Nepo Salvador diventò il conte Piavola.
Nel 1860 due o tre valentuominiamici di casa Salvador e teneriper l'onor di Veneziadel nome patrizioaccordatisi fra lorosi misero attorno a Nepo onde persuaderlo a emigrare. Bisognava prepararsi all'avvenirecome facevano tanti altri delle migliori famigliecon la esperienza della libertàcon l'amicizia dei pezzi grossi di Torino. Nepo era ambiziosocominciava a sentire un freddo intorno a sé; abbracciò subito l'idea. La contessa Fosca odiava religiosamente col suo grosso patriottismoi tedeschima non poteva comprendere che diavolo fosse questa libertà cui bisognava prepararsi tanto tempo primané quale onore fruttasse l'essere deputatocioècom'ella concluse dopo infinite spiegazionil'essere mandato in tanta malora dal calegherdal fornerdal fraoecc. A una amica che le domandò se partiva lei purerispose stizzita: «Io? Cosa volete che vada a fare? Il deputato?». Non partìma faceva di tratto in tratto delle visite a suo figlio. S'incontravano a Milano per abbreviare il viaggio e perché Nepo amava far conoscere sua madre a' suoi amici. Colà videro spesso i Crusnelli di Malombraloro cugini per parte della madre di Marina. Fra i d'Ormengo e i Salvador v'era stata alleanza fin dal 1613quando Emanuele d'Ormengoinviato di Carlo Emanuele I a Venezias'invaghì di Marina Salvador e la sposò. Nel 1797 Ermagora Salvadoresule da Veneziatrovò a Ginevra i d'Ormengofuggiaschi dal Piemonteeun anno dopocondusse in moglie Alessandrina Felicitazia del conte Cesare e madrein seguitodi Alvise VI. Il lusso tutto moderno del marchese Filippo abbagliò Foscabenché nel suo palazzo di Venezia vi fossero da secoli ricchezze dieci volte maggiori. Ella pensò subito ad un matrimonio e ne parlò a Nepoil quale arricciò il naso e rispose in tono cattedratico che un giovanotto non può legarsi senza una gran passionee che quando si ha l'amicizia delle più belle e colte signorine di Venezia e di Torino non è facile innamorarsi a prima vista di altre persone; cheal postuttolo sfarzo dei Malombra gli piaceva e non gli piaceva. Un oracolo! pensò sua madrequando improvvisamente casa di Malombra si sfasciò. Ella si compiacque assai che Marina fosse stata raccolta dallo zio Cesare. Lo aveva conosciuto a Venezia un trent'anni addietro; lo sapeva ricchissimo e senz'altri eredi che questa nipote. Non osò tuttavia riparlare a Nepo di matrimoniodopo la teoria dei giovinotti dalle belle amiche. Fu Nepo che un paio d'anni dopo la catastrofetrovandosi con lei a Milanoescì a parlarle della povera Marinadelle sue disgraziedei suoi begli occhi; le disse che certe idee respinte una voltaal tempo della prosperità di Marinaadesso gli si riaffacciavanogli entravano meglio di prima nel cuore intenerito. «Tasoma no la bevovissere» disse tra sé la contessa Fosca. Nepo osservò pure che correva loro obbligoessendo in Lombardiadi visitare il conte Cesareparente dei più stretti che avessero. La contessaprima di avventurarsi in paese sconosciutovolle informazioni e consigli da donna Costanza R...una vecchia dama milanese di sua conoscenza. Le informazioni sul cugino furono scarse: stranomisantroporicchissimosenza eredi più prossimi di Marina. Di costei donna Costanza seppe solamente dire che la credeva un follettinoma buona e pia. La vedeva semprequand'era a Milanoall'ultima messa di San Giovanni. «Casa Malombragiànon se ne parlaprincipii buonissimi. Anche il povero Filippotesta un po' fêléema buonissimoneh! Proprio buonoeccopovero Filippo! E poicaragran seigneur!» Donna Costanza concluse che bisognava scrivere primae poisecondo la rispostaregolarsi.
La contessa Fosca scrisse un capolavoro diplomatico. V'erano intarsiati non pochi errorucci di ortografia e di grammatica; ma nessuno si sarebbe atteso dalla contessa uno scritto così artificioso. V'era espresso il desiderio di rivedere il conte dopo tanti annidi stringere con l'amicizia i legami del sangue. Non era eglidopo tante disgrazieil più prossimo dei parenti superstiti del povero Alvise? Tali erano pure i sentimenti di Nepo. Ella avrebbe voluto intrattenersi con lui dell'avvenire di questo suo figlio; e qui grandi elogi al medesimo. Lo vedeva disposto ad accasarsi. Ove cadrebbe la sua scelta? Certo sopra una famiglia degnauna fanciulla virtuosa; ma ellacome madredoveva pur pensare a quello che i benedetti giovani non curano mai. Qui veniva un quadro né troppo scuro né troppo chiaro delle finanze Salvador. Insomma ell'aveva bisogno di amici autorevoli e prudenti. Verrebbe volentieri al Palazzo con Nepose però il tempose la salutese questo se quello permettesse. Desiderava pure tanto abbracciare la cara Marina di cui si ricordava sempre con tenerezza. Aggiungeva uno speciale bigliettino affettuososulle generaliper essa.
Il conte Cesare rispose brevemente che si compiaceva delle buone qualità di Nepoe approvavariguardo al matrimoniole idee della cugina; che avrebbe gradito assai la visita e sperava riuscirebbe gradita anche a sua nipote. Questa mandò due righe di fredda cortesia irreprensibileche diedero un po' da pensare alla contessa Foscaperché gittavano un'ombra sulla lettera dello ziola quale poteva interpretarsi per un assenso anticipato con la solita clausola «se piace». Ma donna Costanza le fece riflettere chenel caso di Marinaun gran riserbo era della più stretta convenienza. Così Sua Eccellenza s'imbarcò e fluttuava in alto marequando dopo le chiacchiere e le inattese rivelazioni di Cattecomparve Nepo.
Sua madre lo accolse con una faccia sepolcralelo fece sedere e dopo un solenne «Fioqui nasce questo» gli spifferò d'un fiato tutta la storia di Cattetenendo indietro il più grossosmorzando e rallentando la voce sempre più. Finì col metter fuori la supposta paternità del conte e ripeté in forma di epilogocon voce sommessa ma solenne:
«Un fio!»
Nepo rimase imperterrito. Disse ch'era ormai interamente sicuro di piacere a Marinapoiché ella si trovava male in casa dello zio. Quanto al figlionon valeva la pena di occuparsene. La contessa non voleva credere a' propri occhi e se lo fece ripetere due volte. «Ehso quello che dico!» esclamò Nepo impazientito. «Se sposerò mia cugina non sarà per i denari. Sciocchezzecara mammaqueste.» Fosca andò sulle furiesempre sottovoce. Nepo si stringeva nelle spalle e taceva; ma quando sua madre dichiarò che sarebbe partita la sera stessaegligiuocando furiosamenteprima delle sopracciglia e del nasopoi del caposcosse via l'occhialinoassalì la contessa a rimproveria sarcasmi e affermò che non sarebbe partito quand'anche si fossero dati la posta al Palazzo tutti i Silla dell'universo.
«Che Silla?» interruppe Sua Eccellenza. «Chi è questo Silla? È quell'amico?»
Nepo si morse le labbra.
«Ma rispondi! È questo il fio?»
«Non c'è figli.»
«To'to'to'» disse Fosca appuntando l'indice a Nepo che le voltava le spalletutto ingrugnato. «Tu lo sapevitu? Come diavolo hai fatto? Tu lo sapevieh? Come lo hai saputo?»
Nepo fece un atto d'impazienza e uscì brontolando dalla camera.
Sua Eccellenza gli guardò dietroalzò le sopraccigliaporse il labbro inferiore e sussurrò:
«Xelo!»
3. Ascetica
Le campane di R... suonavanoun'ora dopoa distesae l'allegro suono cadeva sui tetti del paesellosi spandeva giù per i praticercava per le collineper le montagneogni casupola dispersa. Una riga di fazzoletti oscuri si vide salir lentamente la via tortuosa della chiesascivolar nella gran porta nera come formiche nel formicaio; poi vennero frotte rapide di gai fazzoletti rossi e gialliqualche tardo ombrellino pretensiosoaltre frotte di cappelli a cencio che si aggrupparono nel sagrato.
Steinegge passò anche lui fra quei gruppi con Edithl'accompagnò in chiesa e ne uscì un momento dopo. Prese il sentiero che s'inerpica su pel monte imminente alla chiesa e salì fino a certi sassi imboscati d'allori; là uscì dal sentiero e si gittò a sedere.
Ecco la contessa Foscatutta trafelatabenché sia venuta in barca fino a R...; dietro a lei Giovanna e Catte; poia rispettosa distanzaMomolo guarda trasognato come se fosse nel mondo della luna. Sua Eccellenza è scandolezzata del cugino che non viene a Messa e della cuginetta che ha scelto quel momento per farsi accompagnare a spasso da Nepo. Sua Eccellenza si propone di pregare fervorosamente per sé e per suo figlio che non è in colpa se perde Messa per certi riguardi che il Signore capirà. Essa vede Edith e va a sederle vicino con grande scompiglio delle contadine che per far largo alla grossa signora s'inginocchiano a terra fuori del banco. Ed ecco suona il campanelloescono i chierici in cotta biancaesce il prete affondato nel pivialel'organista pianta mani e piedi sull'organogli uomini entrano in chiesa. Dopo cinque minutiper la porta lateralecompare Marina seguita da Nepo. Passando tra le file degli uomini fa cenno al suo cavaliere di pigliarvi posto ed entra in una cappella. Nepoelegantissimocapita fra due colossi puzzolentisi fa piccino piccino e volta il viso immelensito a guardar giù per la chiesacercando Marina. Trova Catte inginocchiata presso alla Giovannatrova Momolo ritto presso alla porta; trova un pezzo di cielo puro e di verde lucente con certe frondi mosse dal ventoche gli ridono in facciatrova gli occhi attoniti di sua madrema non la crudele che s'è pigliato il gusto di fargli rinnegar la Messa a parole per poi condurvelo e piantarlo lì fra quel tanfo di plebe.
Ella non pensava punto a lui. Il prete aveva intonato Credo in unum Deume il popolofra i suoni dell'organoseguiva: Patrem omnipotentem. Un lampo illuminò nel cuore di Marina la via percorsa; la scoperta del manoscrittole promesse arcane a Cecilial'amore intravveduto negli occhi di Sillala stretta delle sue braccia veementiil nome sussurrato da lui quella nottela probabilità ch'egli fosse il suo corrispondente anonimo portato a lei da un destinoe la passionesìla benedetta passione sordamutalentaprepotenteche dopo tanto desideriotanti barlumi dileguatidopo tanto fastidio di sciocchi corteggiatoriveniva. Ella ebbe uno slancio di fede e di gratitudine verso un Dio ignotocerto diverso da quello che si adorava lì presso a lei: non così freddonon così lontano: benefico e terribile come il soleispiratore di tutti gli ardori onde splende la vita. E si sentiva come presa in mano da questo Iddioportata dal suo favore onnipotente. Teneva il viso tra le palmesi ascoltava il cuore batter fortegustava le sensazioni acutequasi doloroseche le si destavano per tutto il corpopensando all'infallibile compiersi delle promesse divineall'amore fatale che l'avrebbe esaltata tuttaanima e sensioltre alla torbida natura umana. Di questo non le entrava neppure un dubbio. Ripensava tutte le difficoltà da doversi superare per toccar la metale smarrite tracce di Sillalo sdegno di luifors'anche l'oblio; la sepoltura del Palazzo dove il caso non poteva aiutare; la inimicizia dello zioquel ridicolo Nepo. Provava un piacere acre e forte rappresentandosi questi ostacoli; tutti vani contro DioPatrem omnipotentem.
A Luia Lui si abbandonava. Curva sul banco la flessuosa personapareva una Tentazione penitente. La contessa Fosca le dava delle occhiate obliquelavorando a più potere di ventaglio e battendo via con le labbra frettolose un chiacchierio muto di preghiere interminabili. Si compiaceva di vederle quell'attitudine pia. Immaginava gl'inchini che il vecchio nonzolo di S. Maria Formosa avrebbe fatto a sua nuora. Nepo era alla tortura; si portava e riportava al naso il fazzoletto profumatoguardava sottecchi i suoi vicini colossali equando si buttavano ginocchioni con tutti gli altri fedeliegli non osava stare rittocalava adagio adagiopieno di angoscia pei suoi calzoni color tortora. Che differenze dall'ultima Messa di S. Filippoda quel giardino di tote e di madame elegantida quell'ambiente di cristianesimo depurato! Si consolava pensando alla cugina. «Natura aristocratica» diceva tra sé. «Debbo essere il suo idealeil suo Messia. Non vuole che me ne accorga troppoè naturale.»
Suonò il campanello dell'elevazione. Nepoin ginocchiocol capo devotamente chinopensava: «Milleduecento ettari in Lomellinaottocento nel Novaresepalazzo a Torinopalazzo a Firenze.»
Invece Edith non abbassò il viso. Era pallidissimaguardava davanti a sé con occhio grave e tranquillo. Solo un tremito delle mani tradiva il fervore dell'accorata preghiera che passava su tutte le teste chinemoveva diritto a Diogli diceva in faccia: «SignoreSignoretu che sai quanto l'hanno offesonon sarai pietoso con lui?». Il suo viso pensoso non esprimeva la rassegnazione asceticama una volontà ferma e intelligentevelata di tristezza.
E lui intantoil nostro onesto amico Steineggeascoltava Messa in excelsisseduto fra gli alloriabbracciandosi le ginocchia. Egli era proprio uscito di chiesa perché il pavimento gli scottava. Da quanti anni non aveva posto piede nelle prigionicome diceva luidi Domeneddio! Non aveva osato lasciar sua figlia sull'entrata della chiesa; maappena oltrepassata la sogliaquando Edith si avviò a pigliar posto nei banchi riservati alle donneegli si pentì di aver male presunto delle sue forze. Non erano tanto i suoi odii fieri quanto un sentimento d'onore che lo spingeva indietro. Il buon vecchio lupo uscì dal gregge.
Accovacciato lassù come un lupo malinconiconon curava affatto la deliziosa scena di montidi acquedi prati che rideva davanti a lui; né udiva i blandimenti delle frondi che gli sussurravano intorno. Guardava giù il tetto della chiesa e ascoltava il suono confuso di canti e d'organo che ne saliva tratto tratto. Aveva un pensiero solo e lo lavorava per tutti i versi:
«Agli occhi suoi sono un reprobo.»
Pensiero amaro. Aver tanto combattutotanto soffertocustodito l'onore contro la fame atrocecontro tutte le violente voglie del corpo estenuatotutte le viltà della stanchezza; averlo così custodito quasi più per lei che per séamarla come l'amavaed esserne giudicato un reprobo! Dovrebbe egli dunque umiliarsi davanti ai preti che l'avevano fatto maledire dai parenti suoi e da sua moglie ed erano in colpa degli stentidella morte di lei? «Finirò così» pensò «mi avviliròpurché Edith mi voglia bene.» Gli venne un'idea. «Se dicessi una parola a questo Dioposto che ci sia?!» Si alzò in piedi e si mise a parlare in tedescoa voce alta: «Signor Dioascoltatemi un poco. Non siamo amici? Sia. Io ho detto molto male dei pretidi Voiné a Voi non ho mai parlato. Se tuttavia Voi volete trattarmi da nemicoio Vi prego di fare i conti. Dicono che siete giustoe lo credosignor Dio. Guardate nel vostro libro la partita Andrea Steinegge fu Federico di Nassau; guardate se non ho pagato abbastanza. Voi siete molto grande; io molto piccolo; Voi sempre giovaneio sono vecchio e stanco. Cosa volete prendermi ancora? L'amore di mia figlia Edith! Non ho altrosignor Dio. Guardate se potete lasciarmelo. Se non potetespazzatemi viaper Dioe finiamola».
Al suono della propria voce Steinegge si commoveva e s'inteneriva sempre più. Mise un ginocchio a terra.
«Vi conosco pocosignor Dioma la mia Edith Vi vuol bene e io posso adorarvise volete. Vedetem'inginocchio; ma intendiamoci noi e lasciamo da banda i preti. Forse posso darvi qualche altra cosa. Io ho la mia salute ch'è di bronzo. Pigliate questa. Fatemi morire a poco a pocoma non mettetevi fra Edith e me. Io non posso inginocchiarmi davanti ai preti e mentire. Sono lealesono soldato.»
«Signor Dio» qui Steinegge posò a terra anche l'altro ginocchio e abbassò la voce. «Io ho paura d'aver molto peccato nella mia giovinezza. Ho amato il giuoco e le donne peggiori. Tre voltesulle dodici che mi son battuto in duelloho provocato ioho ferito l'altro e avevo torto. Credo che questi siano stati tre peccati; li ho sempre avuti nel cuore. Signor Dio della mia EdithVi domando perdono.»
Non disse altro e tornò a sederecommossoma contento di sé. Gli pareva d'aver fatto un gran passo. Parlando a Diola sua scarsa fede si era tanto accresciuta ch'egli ora ne aspettava qualche risposta. Provava almeno la soddisfazione dell'uomo povero che ha necessità di parlare a un potente di cui teme lo sdegnoeper non essere ribattuto dai servilo affronta sulla viagli dice le sue ragioni con la brusca brevità che il tempo richieden'è ascoltato in silenzio e pensa quel silenzio copra un principio di combattuta pietà. Accese un sigaro per vincere la commozione che gli stringeva la gola. Il capitano Steinegge non doveva piangere. Fumò con furiacon rabbia. Appena chetato l'animoguardando a terra con il sigaro fra l'indice e il medio della destragli parve che i fili d'erba tra sasso e sasso uscissero a dir qualche cosa di solenne o di incomprensibile e che rispondesse loro il mormorar dei cespugli. Ed eglibenché tedesconon aveva mai compreso il linguaggio della naturanon era mai stato sentimentale! Il sigaro gli si spense in mano. Che voleva dir questo? Si scossesi alzò in piedi e discese verso la chiesa.
La gente ne usciva; prima gli uomini che si fermavano sul sagrato in capannellipoi le donne. Steinegge ristette sul sentiero a guardare la corrente variopinta che sboccava dalla porta maggiore; aspettava il cappellino nero di Edith. La corrente si venne rallentando e diradando. Quando cessò il pericolo di urtarsi a gomiti villanicomparvero la contessa Fosca e Marinaseguite da Nepo; poi tre o quattro vecchierelle: poi più nessuno. Anche i capannelli si sciolseroil sagrato si votò. Steineggeinquietovenne a dare un'occhiata in chiesa. Non v'erano più che due personeil curato inginocchiato sul primo banco presso l'altar maggiore eotto o dieci banchi più indietroEdith.
Steinegge si ritirò adagio adagio e sedette sul muricciolo del sagrato. Gli batteva il cuore. Qual viso gli farebbe Edith! Ella uscì subitofrettolosa e sorridente; gli disse che s'era accorta di lui senza vederloperché aveva già imparato a conoscere il passo suoe gli domandò scusa d'averlo fatto attendere. Nella fretta d'uscire aveva dimenticato l'ombrellino. «Signor papà» diss'ella scherzando «Le rincrescerebbe?». Il signor papà corse in chiesa eprima di giungere al banco dov'era stata Edithincontrò il curato che gli veniva incontro porgendogli l'ombrellino e gli fece due o tre inchini.
«È Suo?» disse il curato.
«È di mia figlia.»
«Se volesse vedere il corola sagrestia... Abbiamo un Luinoun Caravaggio... dicose crede...»
«Oh graziegrazie» disse Steinegge che all'udire Luino e Caravaggio era rimasto a bocca aperta.
«Allorase vuol dirlo alla Sua signora figlia...»
Steinegge s'inchinòuscì a fare l'ambasciata e ritornò subito con Edith.
Il curato si fece loro incontro con certa cordialità impacciatastrofinandosi le mani e suggendo l'aria con le labbra strettecome chi ha messo un dito nell'acqua troppo calda. Mostrava presso a sessant'anni. Aveva fronte altasguardo vivace e ingenuoil visola voceil passo della sincerità. Da tutta la sua persona spirava non so quale energia temperata di timidezza. Mostrò a Steinegge e a Edith i due quadriche portavano alla meglio i loro nomi pomposi. Il Caravaggio del coro era un Martirio di S. Lorenzobarocco nel disegno e nei lumima pieno di vita. Steinegge non capiva niente di pittura e ne fece grandi elogi. Edith tacque. Il Luino della sagrestia era una bionda testa della Vergineluinesca senza dubbiosoave. Edith ne fu commossa. Disse al curato con la sua voce quietach'era straniera e che sentiva allora per la prima volta la dolcezza dell'Italia. Come mai quella povera chiesa di campagna poteva possedere un tesoro tale? Il curato divenne rosso e rispose che veramente il quadro era stato suoun ricordo di famiglia; che gli era parso ispirato da Dio e degno perciò di un luogo santo; e che nella sua chiesa tanto povera e umile Maria ci stava opportunamente. Poi chiese permesso alla signorinacon accento d'ingenuo desideriodi farle vedere la biancheria più fine e i paramenti più ricchi. Tutto era distribuito col massimo ordine nel grande cassettone della sagrestiadai purificatori candidi e odorati di lavanda sino al piviale delle maggiori solennità appena giunto da Novara. Il curato spiegava e ripiegava ogni cosa con garbo femminile.
«Vedo benesignore» diss'egli a Steinegge «vedo beneche Ella vorrebbe dirmi: Ad quid perditio haec? Un vecchio prete non deve avere i gusti di una giovane signora. Che vuole? Questa povera gente ha piacere così. Intendono di onorar Dioe Dio vede il cuore.» Non disse quanto avesse aiutato il voto dei parocchiani con le proprie economie pertinaci e dure; perché eglinato da famiglia signorileaveva abbandonata ai molti fratelli la sua parte dell'eredità paterna. I fratelliche lo conoscevano bene e lo amavanogli avevan regalatopoco tempo prima della visita degli Steineggeun bell'organo di Serassi. Al primo Dominus vobiscum della prima Messa solenne celebrata con l'organo nuovodon Innocenzo era rimasto per due minuti fermo con le braccia aperte a bearsi dell'onda sonora e del luccicar delle cannelà sopra la porta maggiore. Ora volle mostrare agli Steinegge anche l'organo. Edith era così affabilesuo padre tanto compitoche don Innocenzo vinse presto del tutto la propria timidezzae uscito di chiesa con essidimenticò il caffè che l'aspettavaper far loro mille domande curiose sulla Germaniasui luoghisui costumisulle artipersino su GoetheSchiller e Lessingsoli autori tedeschi di cui conoscesse il nome e avesse letto qualche opera. Pareva a lui che un tedesco dovesse conoscer tutta la Germania da capo a fondo e ogni fattoogni parola de' suoi compatrioti illustri d'ogni tempo. Un altro nome tedesco ricordavaBeethoven. S'informò anche di quello. Raccontò che a sedici anni aveva sentito eseguire da una signora una suonata di Beethoven che gli era parsa piena di voci sovrumane. Povero don Innocenzo! Arrossiva ancora.
Gli occhietti chiari di Steinegge scintillavano di contentezza. Rispondeva a tutte le domande del curato con una fogauna parlantina vibrante d'orgoglio nazionale. Edith sorrideva talvolta in silenzio e talvolta facevain omaggio al veroqualche osservazione pacata che garbava poco al curato. A lui piacevano i giudizi assoluti e le pitture esagerate di Steinegge che lo portavano violentemente in un mondo affatto nuovoaffascinante. «Lasci stare viasignorina» disse una volta quasi impazientito. «Mi lasci credere alle belle cose che dice il suo signor padre. Io sono un prete che non ha visto nientenon ha udito niente e non sa niente; mi pare però che debba aver ragione lui.» Steinegge al sentirsi dir questo e chiamare signor padrefu per abbracciarlo malgrado la tonaca nera.
Intanto la piccola comitiva era giunta al cancelletto di legno che mette nell'orto della canonica. Don Innocenzo pregò i suoi compagni di entrar a prendere il caffè. Steinegge accettò subito; a lui e al prete pareva già d'esser vecchi conoscenti. Piccinatutta biancaa mezz'altezza fra il paesello e la chiesama alquanto in dispartela canonica di R... volta le spalle al monte e guardaacquattata nel suo orticello fioritoi prati che si spandono fino al fiume. L'ortoquadratoè chiuso da un muricciolo basso. Dalie e rosai vi fan la guardialungo i cordoni di bossoagli erbaggi e ai legumi. Dietro alla casa ascende il declivio erbosoombreggiato da melipeschi e ulivi. Le stanzette sono pulite e chiare. Quelle della fronte hanno un paradiso di vista. Il curato la fece ammirare a' suoi ospiti con grande compiacenzamostrò loro il suo salottoil suo studio dove teneva parecchi cocci di tegami preistorici trovati in certi scavi presso il lago e ch'egli stimava un tesoro. La sua segreta amarezza era di non aver trovato alcun ciottolo sì tagliente da potersi onestamente chiamare arme preistorica. Steinegge pigliava grande interesse alle sue spiegazioni che avrebbero fatto sorridere un dottoperché il povero prete entusiasta si accendeva di ogni novità che penetrasseper mezzo di qualche libro o di qualche giornalenella sua solitudinee su bricioli di dottrina spezzata e guasta tirava su i soliti edifici assurdi del pensiero solitario.
Edith preferiva guardare i prati macchiati dalle ombre di grossi nuvolonii tetti neri del paeselloquasi appiattiti fra gelsi e noci; a sinistra e più abbasso della canonicail lembo di lago che di colà si vedecome lamina d'acciaio brunitomordere il verde chiaro delle praterie.
«Che Le paresignorinadi questa Italia?» disse il curato.
«Non lo so» rispose Edith «ne avevo in mente un'altrapiù diversa dal mio paese. Ho veduto in Germania molti paesaggi italiani di pittori nostrima i soggetti eran presi sempre a Roma o a Venezia o a Napoli. I viaggi di Goethe o di Heine non me li hanno lasciati leggere. Mi vergogno a dirlo; la più profonda impressione me l'ha lasciata un pessimo acquerellola prima cosa che mi colpì in una casa dove sono stata dodici anni. Rappresentava il Vesuvio e v'era scritto sotto Scene d'Italia. Era come una piccola macchia rossa sopra una grande macchia azzurra. Solo guardando ben da vicino si potevano discernere le linee della montagnail mare e una barca piena di figure stranamente vestite. Per lunghissimo tempo non ho potuto figurarmi l'Italia né gli italiani diversi da quella pittura.»
«È naturale» disse don Innocenzoche entrava avidamente in tutti gli argomenti curiosi di conversazione. «Guardi; a ragazzi d'ingegno molto acuto io non farei mai vedere negli anni più teneri immagine alcuna di Dio né di Santiperché quelle immagini possono restar loro profondamenteostinatamente impresse nella fantasiaa segnoin qualche casoda rendere assai difficilepiù tardilo sviluppo di una elevata fede religiosa. Quel vecchione barbuto appiccicato all'idea di Dioaiuta moltosenza che se ne accorganoil loro razionalismo nascente. V'ha chi diffida del culto dei Santi per non poterli affatto concepire come spiriti purioperanti nell'universo; e questo in grazia delle impressioni riportate in fanciullezza dalle immagini che li rappresentano spesso brutti e mal vestitiseduti sulle nuvole a guardar per aria. Non credesignore?»
Steinegge costretto a ragionar di Santi e non osando scusarsenestava per dire qualche grossa corbelleria; ma Edith si affrettò a parlare.
«Pure» diss'ella «se tutte le immagini fossero di Dürer o del Suo Luino! Colla impressione dei sensi resterebbe una impressione religiosa.»
«Non lo credosignorina» rispose don Innocenzo sorridendo e arrossendo. Edith indovinò subito il suo pensiero. Ella riconobbe che in Germania il sentimento artistico era retaggio di pochima soggiunse che lo credeva comune in Italiabenché da quando aveva passato le Alpi fossero apparsi più volte indizi del contrario. Don Innocenzo le confessò ch'egli stesso non ne aveva punto. Il suo Luino gli dava sicuramente gran piacerema questo gli accadeva pure davanti ad altri dipinti mediocrissimi.
«Non sarà così» osservò Edith «ma se fosse cosìLe mancherebbe il buon giudizio artistico e non il sentimento. Sarebbe un fuoco senza luce.»
Don Innocenzo non conosceva la grazia delicata dell'ingegno femminile colto. A prima giunta Edith non gli era piaciuta moltissimo; gli pareva un po' fredda nella sua affabilità. Conversando con lei mutò prestocome sogliono gli uomini della sua temprail primo giudizio. Adesso era ammirato di quella sua parola sempre corretta e semplice ma viva di un sentimento ripostodi un'intelligenza molto finemolto ardita.
«S'Ella venisse al Palazzosignor curato» disse Steinegge «vedrebbe molti quadrioh moltissimi belli quadri che ha il signor conte.»
«Ci vado un paio di volte l'anno e mi pare d'averla veduta anche Leicolà! ci andrei più spessoma so che il signor conte non ama molto i preti...»
Steinegge diventò rosso; gli dispiacque d'aver provocate queste parole. «Eh» disse don Innocenzo facendosi alla sua volta di bragia «ehcosa importa? Non li amo neppure io i pretisa!»
«Ah» esclamò Steinegge stendendogli le braccia come se il curato gli avesse dato una notizia più lieta che credibile.
«Non si scandolezzisignorina» continuò questi. «Parlo degl'italiani. In Italia i preti» (don Innocenzocon gli occhi accesico' denti strettifaceva suonar l'erre come trombe di guerra) «non tuttima molti sae i giovani specialmentesono una trista genìaignorantifanaticiministri di odio...»
«Si capisce che ne fu seminato» disse Edithseveramentre Steinegge metteva la sua gioia in gesti.
«Lo hanno seminato e lo seminano» rispose don Innocenzo «e ci cresce intorno a tuttidico intorno a tutti che portiamo quest'abito; e si perdono anime ogni giorno. Bastabastabasta!»
Guai quando il curato toccava questo tasto; la collera gli saliva alla testale parole gli uscivano aspre e violente oltre ogni misura. Ad irritarlo così bastava poco: un numero di qualche giornale clericale che il vicario foraneogesuita di tre cottegli mandasse facendo lo gnorricon dei segni ammirativi a fianco degli articoli più acri; una lettera fremebonda di qualche collega bandito dalla curia a parole e perseguitato a fatti per opinioni politiche. Allora cominciava a soffiarea bollirea ringhiare sinché rompeva tutti i freni con queste sfuriate gagliarde e finiva come aveva cominciatobuttando fuori frasi rotteinvettive stroncatestritolate dai denti. Si rasserenava poi subito e rideva con gli amici presenti della propria collera.
«Non è mica sempre così cattivo. La vedesignorina» disse piano a Edithin dialettola vecchia serva di don Innocenzoportando via il vassoio del caffè.
Edith non capì.
«Dice che sono cattivoed è purtroppo vero. Non posso frenarmi. Spero che mi compatiranno. Si fermano qualche tempo al Palazzo?»
«Non sappiamo» rispose Edith.
«Non sappiamo» ripeté a caso Steinegge.
«Scusino; è perché spererei di poter trovarmi con Loro qualche altra volta.»
Steineggeconquistatosi confuse in complimenti. «Mio amicoio spero» diss'egli stendendo la mano.
«Certocertissimo» rispose il pretestringendogliela forte. «Ma prima di partire vengano a vedere i miei fiori.»
Questi famosi fiori erano due pelottoni di gerani e di vaniglie schierati lungo il muro della casa; oltre alle dalierosai e ai begliuomini disseminati per l'orto.
«Bellinon è vero?» disse don Innocenzo.
«Bellissimi» rispose Steinegge.
«Prenda una vaniglia per la Sua signorina.»
«Oooh!»
«Prendaviaandiamoch'io non le so farenoqueste cose.»
«Edithil signor parroco...» Così dicendo Steineggecon la vaniglia in manosi avvicinò a sua figliache stava un po' discosto presso il muricciuolo.
Edith ringraziò sorridendoprese la vaniglial'odoròne guardò il gambo spezzatoe sussurrò:
«Questo è mite di cuore.»
Don Innocenzo capì. «Ha ragione» diss'egli umilmente.
«Oh no» esclamò Edithdolente d'aver dette quelle parole e d'essere stata subito intesa. «Mi dicadove sta Milano?»
«Milano... Milano...» rispose don Innocenzo schermendosi gli occhi dal sole con la mano destra. «Milano è laggiù a mezzogiornoun po' verso ponentedritto oltre quel gruppo di colline.»
«Signori» gridò la fantesca da una finestra «se vogliono andare al Palazzosarà meglio che facciano prestoperché vuol piovere.»
Piovere! Splendeva il solenessuno s'era accorto di minacce. Pure la vecchia Marta aveva ragione. Dalle montagne del lago venivan su certi nuvoloni più densi e più neri dei soliti che il vento meridiano vi porta in giro.
«Marta!» chiamò il curato. «Un ombrello per i signori.»
Steinegge protestò. Marta fece al padrone un cenno che l'ingenuo uomo non intese.
«Cosa c'è? Un ombrellodico!»
Marta fece un altro segno più visibilema in vano.
«Eh? Che avete?»
Martaindispettitalasciò la finestra brontolando contro gli uomini di talento che non capiscono niente. Poi comparve in orto con un coso verde in mano e lo porse sgarbatamente al curatodicendogli:
«A Lei! Che tolga! Bella roba da offrire! Cosa hanno a dire di noi al Palazzo?»
«Cos'han da dire? Che non ne ho altri. Gran cosa! Eccoquod habeo tibi do.»
Infatti don Innocenzo aveva più cuor che ombrello. Quello sconquassato arnese di tela verde non ne meritava più il nome. Marta non si tenne da dire piano a Edith: «Ne aveva uno di bello. L'ha dato via. Dà via tutto!»
Gli Steinegge scesero per un viottolo che gira nei prati intorno al paesetocca il lago e risale un poco sino a raggiungere la stradicciuola del Palazzo. Intanto Marta sfogava il suo corruccio col padroneche rispondeva mansueto: «Ho fatto male? Benesìviataceteavete ragione». Egli era contento della nuova amicizia e pensava che per via degli Steinegge gli si aprirebbero forse più spontaneamente le porte del Palazzo secondo il suo vivo desiderio; perché quella casa smarrita fuor del gregge gli stava più a cuore delle altre novantanove raccolte sotto la chiesa.
Il cielo rideva ancora alle spalle degli Steinegge e li minacciava in viso. Ad una volta del sentiero Edith si fermò a guardare indietro.
«Vedipapà» diss'ella sorridendo «andiamo dall'idillio nella tragedia.»
«Ohnononon c'è tragedia:
Drauss ist alles so prächtig
Und es ist mir so wohl!»
«Ancora ti ricordi le nostre canzonipapà?»
Egli si mise a cantare:
Aennchen von Tharau hat wieder ihr Herz
Auf mich gerichtet in Freudund in Schmerz
Aennchen von Tharaumein Reichtummein Gut.
Du meine Seelemein Fleish und mein Blut.
Cantava con gli occhi pieni di riso e di lagrimecamminando due passi avanti a Edith per non lasciarsi vedere in viso da lei. Pareva un ragazzo ubbriacato dall'aria odorosa dei prati e dalla libertà. Edith non pensò più alla tragediamalgrado la faccia scura dei monti e qualche grosso gocciolone che cadeva sul fogliame dei pioppi presso al lago e segnava di grandi cerchi le acque tranquille. Ella fu presa dall'allegria commossa di suo padre. La piova rara e tepidasuscitando intorno ad essi una fragranza di vegetazioneli eccitava. Chi avrebbe riconosciuto la Edith del giorno prima? Ella coglieva fiorili gettava a suo padrecorrevacantavacome una bambina. Si fermò ad un tratto guardando il lago e cominciò una canzone triste:
Am Aarenseeam Aarensee.
«Nono» gridò Suo padree corse a lei. Ella fuggì ridendo e ripigliò più lontano:
Da rauschet der vielgrüne Wald.
Si compiaceva che suo padre non le permettesse quella canzone triste e si divertiva a stuzzicarlo. Inseguita da lui continuò fuggendo: «Da geht die Jungfrau». Rallentò la corsa e la voce sulle parole «Und klagt»si lasciò raggiungere prima di dire «ihr Weh» e baciò la mano che le chiudeva la bocca.
«Maimaipapà» diss'ella poi «sin che mi tieni con te. Non sai che siamo un po' matti tutti e due? Piove!»
Steinegge non se n'era accorto. Aperse a grande stento lo sgangherato ombrello verde che brontolò sotto la piovafra il sussurro dei prati e il bisbiglio degli alberisullo stesso tonopresso a pocodella vecchia Marta. Pure poteva esser contento di quello che udiva sul conto del suo padrone. Steinegge singolarmente non rifiniva di lodarne l'aspetto e le parole onestea segno che Edith gli domandò se l'onestà fosse tanto rara in Italia. Egli protestò con un fiume d'eloquenza per togliere ogni sospetto che potesse pensar male degli italianiai quali professava gratitudine sincera perchéin fin dei contierano i soli stranieri da cui avesse ricevuto benefici.
Da tutte le sue calde parole usciva questoche egli non credeva rara l'onestà fra gl'italianima fra i preti. Questa conclusione non la disseo gli parvenella sua ingenuitàEdith non l'avesse a capire. S'affrettò di soggiungere che sperava poter vedere presto il signor curato.
«Mapapà» disse Edith fermandosi su' due piedi e fissando i suoi begli occhi gravi in quelli di suo padre «possiamo noi restar qui?»
Steinegge cadde dalle nuvole. Non aveva ancora pensato a questo. La felicità d'aver seco sua figlia oscurava nella sua mente ogni pensiero dell'avvenire. Edithcol suo delicato e acuto senso delle cosedovette ricondurlo dalle nuvole in terrafargli comprendere com'ella non potesse lungamente approfittare della ospitalità del contepresa prima che offerta. Disse che le doleva essergli causa di questo e forse di altri sacrifici ancora; e rise dolcemente nel vedere a questo punto suo padre gittar l'ombrello ed afferrarlestringerle le mani senza poter articolar parola. «Hai ragionecaro papà»diss'ella «temo di essere una giovane ipocrita.» Allora gli raccontò che quel signore della Legazione prussiana le aveva consigliato di por dimora a Milanodove c'era una numerosa colonia tedesca molto ricca e legata alla cittadinanza. Affiderebbero a una buona banca il tesoro dei Nibelunghicome chiamava la sua eredità; ella darebbe lezioni di tedesco e il signor papà vivrebbe come un caro vecchio Kammerrathcollocato a pipare dopo lunghe fatiche. Piglierebbe un quartierino lontano dai rumorialto se occorrema tutto aria e luce. Si farebbe cucina tedesca e il signor Kammerrath avrebbe ogni giorno a pranzo la sua birra di Vienna o di Monaco. Steinegge diventò rosso rosso e diede in un grande scoppio di riso agitando l'ombrello e gridando: «noah noquesto no». Edith non sapeva che suo padre era un antico dispregiatore di tutte le birre più famose della gran patria tedesca. Intese quindi male quell'esclamazione e insistettedicendo che si darebbero ben altri sfoggi d'opulenza. Nelle domeniche della buona stagione si uscirebbe di cittàsi farebbero delle corse bizzarre attraverso i campi per finire in qualche solitario paesello silenzioso. Chi sa? Se gli affari prosperassero moltoil signor capitano potrebbe tre o quattro volte l'anno uscire a cavallo con la signorina sua figlia.
«Tu cavalchi?» disse Steinegge stupefatto.
Edith sorrise. «Saicaro papà» diss'ella «da bambina che passione avevo per i cavalli! Quando i miei cugini imparavano a cavalcareil povero nonno ha voluto che insegnassero anche a me. Ho imparato subito. Sa cosa mi dicevaquando mi vedeva a cavalloil mio maestro di musica?»
«Tu sai la musica?» esclamò Steinegge ancora più stupefatto.
«Mapapànon ho mica più otto annisai! Mi diceva che si vedeva ben di chi ero figlia. E del mio italiano non mi parli? Sai che l'ho imparato in questi ultimi sei mesi?»
Appunto di questo suo padre non s'era ancora ben persuaso; ch'ella non avesse più otto anni. E del vario sapere che veniva sorprendendo in lei si sorprendeva come d'un miracolosi intenerivacon quel senso di timida ammirazione che aveva provato insieme alla gioia del rivederla! Povero Steinegge! Al cancello del Palazzo si trasse da banda per lasciar passare Edith e si tolse involontariamente il cappello.
«Papà!» disse Edith ridendo.
«Che?» Steinegge non capiva.
«Mail cappello?»
«Ah!.... Oh... Sì!» Il pover'uomo se lo ripose in testaproprio mentre il conte Cesare salutava Edith e le veniva incontro nel cortile col sorriso più benevolo che abbia illuminato una faccia severa.
4. Intermezzo
Era corsa una settimana dall'arrivo di Edith e dei Salvador al Palazzo. La contessa Fosca pretendeva d'aver avutoi primi due giorniuna gran soggezione sia per il muso lungo del cuginosia per il muso lungo delle montagne. Guaidiceva leise le fosse mancato il conforto di Marina! Sarebbe partita subito. E concludeva che a questo mondo non bisogna mai disperar di nullafuorché di veder Cesare pettinato. Adesso si trovava proprio come in paradiso; Cesare si era sbottonatogli altri si erano sbottonatiaveva potuto sbottonarsi anche lei e - oh Dio - si respirava. Adesso non c'era pericolo che la contessa Fosca avesse soggezione. O per complimenti a Marina o per blandizie a suo figlioo per rabbuffi al conte e a Steineggeo per apostrofi strambe ai domesticio per esclamazioni e soliloquila sua voce era sempre in aria. In questo non somigliava di certo alla gentildonna veneziana del Palmach'ella giurava e spergiuravaPalma o non Palmaessere il suo ritratto fattole a tradimento un trent'anni addietroprobabilmente quando era andata al ridotto da dogaressa del 500. Nepo recitava al conte in tono oratorioper abituarsi alla Cameradelle lunghe tirate d'economia politicagli raccontava di aneddoti politici della capitale. A Marina parlava di mode e di tutte le contessine e le marchesine che aveva conosciuto a Torinoriferendo i dialoghi tenuti con loro e avendo cura di intercalarvi spesso «Voi Salvadorvoi Mariavoi Emmavoi Fanny ecc.» Le dedicava pure le sue goffe spiritosaggini insolenti; le nascondeva i librile mutava un guantofaceva dondolar Saetta quando andavano sul lago. Sfoggiava senza pietà per Marina le toelette più irresistibilia tinte austere la seratenere la mattina; tanto tenere che qualche volta Nepoprofumato come erapareva un boccone di crema alla vaniglia. E il glorioso corno degli avi magnanimiquel corno
che valeva assai più che una corona
si era sciolto
Benché re de tutti i corni
in una minutaglia di cornetti burlapiovuta sui bottonisulle spillesui fazzoletti del pusillanime nipotemalgrado la spiccata antipatia della contessa Fosca per questo emblema che le suggeriva dei motti democraticissimi. Steineggea cui la contentezza sprizzava da tutti i poriera il cavaliere ufficiale di Sua Eccellenza che aveva molta bontà per lui. «Il cucchiaio che va a spasso con la scodella» diceva la contessa quand'egli le dava il braccio. Però prima di accordargli tanta confidenza si era fatto spiegar che non era austriaco né amava gli austriaci; e ci volle del buono perché potesse capacitarsi che l'è todesco e no l'è todesco «Vorrete dire che è todescoma non tiene dai todeschi?» esclamava la povera donna. E finiva con dire: «Mi fidomi fido.» Ne domandò allo stesso Steineggeal qualepoiaccordò sincera amiciziagiungendo fino a raccontargli certi aneddoti molto scabrosi con sì poca prudenza che Steineggese Edith era vicinafremeva.
Steinegge pareva rabbonito con la stessa Marinaforse perché tra pochi giorni avevano a separarsi partendo egli con Edith per andare a stabilirsi a Milano; ed era questo un piacere comune. Marina prendeva qualche volta a braccetto Edith per fare un giro in loggia o in giardino. Edith non sembrava lieta di questi favori e se ne schermiva. Il suo contegno con Marina era freddo quanto glielo consentiva la sua condizione di ospite: e non mancava in quel riserbo un'ombra di alterezza. Non si poteva accusarne il sangue tedesco. Per la contessa FoscaEdith mostrava viva simpatiae anche pel conte Cesarebenché in tutt'altro modo. E il conte Cesare era affettuoso con leiaveva combattuto i suoi propositi di immediata partenzale si apriva più assai che a suo padre: le parlava della sua vita solitaria con l'amarezza pacata che copre dolori profondie le diceva di sentirsi scossa la salute ferrea goduta sin allora. Con i Salvadortanto agli antipodi della sua naturail conte si mostrava paziente oltre il prevedibile. A Marina non rivolgeva quasi mai la parola. I loro sguardi non entravano direttamente l'un nell'altro in nessun caso; correvano obliqui a incrociarsi in un punto X più o meno lontanocome certe linee ipotetiche di teoremi geometrici. L'umore di Marina era dei più mutabili. Da lunghe ore di calma taciturna passava ad impeti di nervoso brio. Civettava un momento con Nepo a segno di stordirlodi levarlo da terra; poi non lo guardava piùnon gli rispondeva. Vivevasi può dired'aria; e non era mai stata così bella. Sotto le due bende ondulate di capelli che scendevano curve fin presso le sopraccigliaquasi a nascondere un segreto pensieroi suoi grandi occhi gittavano fuoco assai più spesso del solito. Nella sua personamusica inesprimibile di curve armoniose dall'orecchio finissimo alla punta del piede arcuatosi vedeano alternarsi l'energia e il languore di una vita nervosaesuberante. Insomma ella era come un nodo di ombradi luce e di elettrico; che cosa chiudessenessuno lo sapeva.
Quasi ogni giorno si facevano gite sul lago o sui monti. Era la contessa Fosca che metteva fuocoper così direalla brigatasenza farne mai parte. Ne aveva abbastanza di girar per casa! Perdeva spesso la tramontana sulle scale o nei corridoi. Allora chiamava Cattechiamava Momolo. Catte era già pratica d'ogni buco quanto un vecchio topo; ma il povero Momolo non ne poteva venire a capo e non era infrequente il caso che all'appello della contessa rispondesse quasi di sotterra la sua voce lamentevole. «ProntoEccellenza; ma non so da che parte». Gli Steinegge erano andati due volte alla canonica e don Innocenzo avea fatto anche lui una visita al Palazzo. Quanto al dottorenon vi si era più veduto.
Bella e allegra compagnia era quella che pranzava nel tinello. Mottiburlegrossi equivocigalanterie berneschebotte e risposte di taglio e di puntasussurri malignirisatestrillimugolii di mangiatori disturbatis'urtavanos'incrociavanosi mescolavano sotto le volte basse. Un tocco di campanello troncava netto quel tripudio di ranocchi indiavolati; poi scappava fuori daccapo una voceun'altrauna terzatutto il concerto. La Giovanna se ne crucciava inutilmente. Chi faceva le spese di tanto chiasso era per lo più Momolo che sapeva dir solo «andiamoandiamoda bravi». Da Momoloi beffeggiatori passavano al parlare venezianoa Venezia stessa; ma allora bisognava sentire e veder Cattericonoscere che cinque o sei lombardi son pochi davvero per azzuffarsi a parole con una brava calèra del buon sangue veneziano. Con quattro frustate in giro li faceva stare indietro tuttipoi ne sceglieva uno e lo tempestava di motti e di frizzivoltandogli addosso le risate della compagniasprecando un tesoro di spirito e concludendoinebetita la vittimache non c'era gusto.
«Andate là» diceva qualche volta Fanny «stiamo più allegri noi che i sciori.»
Allora si chiudeva il torrente delle risate e si aprivano i mille rivoli del pettegolezzo. Tutta la compagnia bisbigliava. Alla Giovanna quei bisbigli non piacevano; ma Catte sosteneva che a nupoariniera lecitolecitissimo ascoltare alle porteleggere le letteredar ordine alle tasche ed ai cassetti dei padroni. Non vanno alla commedia i padroni? Dunque anche la povera servitù ha da potersi godere la sua matta commediagià che in casa la danno per niente. E se non la vogliono dareciòla si prende. Quello non è rubare; agli occhi e alle orecchie non ci resta attaccato niente. Se si mette la mano in un cassetto è a fin di bene e non per brutte coseedopouno si lava nell'acqua dei padroni.
La commedia in scena era questa: S. E. Nepo e il suo matrimonio. Quella gente aveva fiutato il titolo in aria per istinto. Si era ancora al prologo; un prologo occulto da cogliersi negli sguardinegli attinelle parole più indifferentiforse in qualche colloquio recondito in cui gl'interlocutori credevano non essere uditi neppure dall'aria. Catte ne aveva parlato lungamente a Fannyrispondendo agli elogi che la cameriera civettuola faceva della bellèssa di Nepodella bianchèssa di quelle mani da popòla e della sua gran scichèssa in generale. Catte le aveva rappresentata la cosa come un gran beneficio cui la Provvidenzaaiutata dalle Eccellenze Salvadorstava per recare a donna Marina. Ella magnificava non poco le ricchezze de' suoi padronii due palazzi di Veneziadi qua e di là dall'acquala colossale villeggiatura con i porticati lunghi come le procuratiei reggimenti di statuei granai capaci di sfamare tutti i topi e i pitocchi di Veneziae la famosa aia grande come la Piazzetta. Fanny beveva queste notizie e le spandeva tra i colleghi: «Che sentache senta! La dice così e così». Pareva che stesse per ereditar lei tutta questa roba. Gli altri facevano spallucce. Che ne importava loro? E chiedevano a Fanny s'ella credeva di andar a far la principessa. Fannypiccatarispondeva: «Che sciocchezze!». Principessa noma intanta non sarebbe più stata ad ammuffire in quel mostro d'un sitofabbricato dal diavolo per i suoi figli. Allora le si faceva osservare che il matrimonio non era poi mica ancora sicuro; e qui cominciavano le congetturesi avviavano delle conversazioni come questa:
«Lui già è innamorato morto.» «Ho visto io ieri che alzandosi da tavola lei aveva impolverata la punta d'uno stivaletto.» «Oufmica vero.» «Comemica vero? Ce lo dico io. E poi si mangian su cogli occhi.» «Invece no. Lei non ci guarda quasi mai. È lui che è sempre lì a questo modo!» «Storie!» «Già si sa che la signora Fanny non vuol credere.» «Perché non voglio crederesignor Paolo?» «Non ha preso su qualche mezza onciaLeidal signor conte?» «Ebbenecosa c'è dentro?» «Qualche bacio?» «Bugiebugiacce! Non ha vergogna? Nessuno me ne ha fatto dei baci a me.» «Eh lasciate direbenedetta. C'è la libertà qui. Prima se lassa far dopo se lassa dir; voi non c'entrate. E poi cos'è un bacio. Tempo buttato via.» «Oh che süra Catte!» «Cosa dice Momolo? Che si faccia l'affare o no?» «Cosa volete che dica? Bezzi cercan bezzi.» «Ehiguarda un po'è mica da merlo quella risposta lì. Giàl'è così la storia. Lui le fa l'asinotanto per parere; e lei che ci vuol bene al padrone qui come al fumo negli occhilei se lo lascia fare tanto per cavarsela; ma l'è tutta una macchina dei vecchi. Han denari come terra e voglion fare un mucchio solo.» «Taceteha ragione qui lui! Stamattina la contessa ha preso una rabbiaperché sono andata in sala mentre l'era sola col signor conte e poi è venuto il Sindaco e non andava mai viamai via e mai viache bisognava vedere! Certo la ci voleva parlare e non ha potutoperché poi sono tornati a casa gli altri. È chiaranehsüra Catte?» «Come questo caffèvecia.»
Catte aveva poi dei colloqui intimi con Fanny nelle passeggiate vespertine che facevano insieme. Donna Catte
Picoleta ma furbeta
sapeva divertirsi alla commedia per conto suo e recitare per conto degli altri. Perché mai cercava ellacosì acuta e sarcasticail favore della scipita Fanny? Perché la blandiva con tutti i possibili cocolezzi? Perché la faceva sempre parlare di donna Marina? Essa la strizzava come un limoneed ebbe presto finito di spremerne il sugoche non era molto davverobenché contenesse ogni sorta di cose. Le informazioni e i giudizi di Fannyaccomodati e cuciti da Catte a modo suoerano porti a S. E. la contessa Fosca che li accoglieva con gravità solenne come avrebbe fattoin argomenti di Statouno dei Cai antenati di suo marito. Ella seppe così che Marina era amica intima di Fanny e le confidava tutto; che godeva di una salute regolarissima e non aveva in tutta la persona un difettouna cicatriceche non aveva potuto soffrire il signor Silla; che portava biancheria di seta; che leggeva una quantità di libri gialli e rossi; che era mite come un'agnellina. Fanny aveva detto qualche altra cosauna cosina ghiotta che Catte offerse alla contessa con molta artecon uno straordinario sfoggio di segretezzaecco: pareva a Fanny che la marchesina fosse innamoratissima di Sua Eccellenza il conte. Ma la contessa con quell'aria di dabbenaggine spensieratasapea osservare e se ne intendeva di questi argomenti. All'udire la grande notizia alzò gli occhi in viso a Cattela guardò un poco e disse solo:
«Sei vecchiatu?»
«GesummariaEccellenza!»
«Anch'iosa!»
5. Il ventaglio rosso e nero
Una mattina la contessa Fosca e il conte Cesare si trovarono soli a colazione. Tutti gli altri erano andati a vedere il posto della futura cartiera insieme all'ingegnere Ferrierial Finotti e al Vezzaritornatiil primo per gli affarigli altri due per vedere un Orrido vicinopochissimo conosciutodove s'era combinato di andare il giorno dopo.
La contessa Fosca pareva ancora più gaia del solitoaveva la parrucca per isghembo e lanciava al conte delle occhiate serie che non s'accordavano con il suo cicaleccio scherzoso. Parlava di cento cosesaltando di palo in frasca. Il conte le rispondeva a monosillabia brevi parole buttate là per voltar da sé la corrente. A ciascuna di queste risposte la contessa cambiava argomentosenza maggior frutto. Non se ne mostrava stizzita. Tutt'altro; anzi era sempre più amabiletanto che il conte tra i suoi giàcertosicuramentele lanciò due occhiate di cui la prima alquanto lunga voleva dire: «che diavolo c'è?» e la secondaassai breve«ho capito». Poi non la guardò più.
La contessa tacque un momentosi buttò indietro sulla spalliera della seggiola e si pose a giuocare frettolosamente col suo ventaglio verdefacendosi svolazzar i nastri della cuffia intorno al faccione ridente.
«Che peccatoCesare?» diss'ella.
«Ma!»
«Che peccato non esser più giovani!»
«Ohsicuramente.»
«Si sarebbe andati a spasso anche noie invece ci tocca di star qui a guardarci come due trabaccoli marci in cantiere.»
Il conte non poté trattenere un movimento combinato di tutte le rughe del viso.
«Eh» gridò la contessa «pensate voi se io sono andata giù un pochettod'essere un bel capovoi? Che arie!» Qui la contessavociferando sempresi versò da bere.
«Ehperché mi fate quegli occhi? Credete che spanda? Non ho mica la tremarellasapete. È la tovaglia di santa Costanzaquesta? Perchédigocredo che siate di quel tempo. Dunquecosa si diceva? Mi avete fatto perder la testa con le vostre smorfie. Oh Dio che caldo! E star qui con voi! Era ben meglio che fossi andata a vedere questa maledetta cartiera. Quelli si divertono! Viasiate buono! datemi una pesca. Se si divertono! Grazietesoro. Dite sì o no che si divertono?»
«Non lo so.»
«Non lo so? Io sì che lo so. Bello quel non lo so!»
«Vi piace quella pesca?»
«Nonon val niente. Cosa c'entra la pesca? Lasciate star le peschecaro voi. Che uomo che si perde con le pesche! Cosa dicevamo?»
«Io? Niente.»
«Niente fa bene per gli occhi e fa male per la bocca. Parlatedite su. È un'ora che parlo io. Mi fate compassione. A questo modo scoppierete. Contate su. Perché non volete che quei ragazzi si divertano?»
«Udite» disse il conte sorridendo «io mi sono divertito molto da un'ora a questa parte e siete voi che mi fate compassione. Voi volete passare piano piano un'acqua un po' larga e profonda e andate su e giù per la rivacercando il ponte che non c'è. Non vi resta che saltarecara cugina. Saltate purenon vi farete male.»
La contessa diventò scarlattae spinse via bruscamente il suo piatto su cui posava un calice pieno di barolo. Il calice si rovesciò sulla tovagliail conte trasalìcacciò fuori tanto d'occhi e Sua Eccellenza esclamò:
«Nientecaro. Nozze! Ecco».
Il conte sbuffava. Ci vollero tutte le tradizioni cavalleresche della sua casa per trattenerlo dal prorompere contro l'avventata cugina. Le macchie lo irritavano come se avesse avuto per blasone la pulitezza. Suonò furiosamente il campanello e gridò al servo: «Via tutta questa roba! Subito».
Fu una cannonata che gli portò fuori in foco e strepito quel groppo di collera e lo lasciò vuototranquillo.
«Vi è passatacaro?» disse la contessa dopo che fu sparecchiato.
Il conte non rispose.
«Anche a me» soggiunse tosto Sua Eccellenza. «Parliamo dunque di questo affare. SentiteCesare. Voi a quest'oracol vostro gran talento che avetemi conoscete. Io sono ignorantesono una povera scempiama de cuor. Sono tutta cuore. Quando si tratta delle mie visceredella mia creaturami rimescolo tuttaquelle poche idee mi vanno in un mucchionon vedo più nientenon so più niente. Sono una povera femmina così. Aiutatemi voiCesareconsigliatemi voiguardate voidite voitutto voitutto voi. Voi siete del sangue del povero Alvise. È Alvise che mi dice di mettermi nelle vostre mani per nostro fioper il mio Nepo.»
Pronunciato questo nomela contessainteneritasi asciugò gli occhi con un immenso fazzoletto.
«PerdonatemiCesare» diss'ella. «Sono madresono vecchiasono insensata.»
La voce singhiozzante della signora non era piacevole e non divertiva affatto il conte Cesareche aveva tirato indietro per isghembo la sua seggiolaeposta una gamba a cavalcioni dell'altrala dondolava in su e in giùguardando la gentildonna veneziana del Palma.
Gli era nuovo quell'aspetto lagrimoso di sua cuginae gli piaceva ancora meno degli altri. Dopo qualche momento di silenzio in cui la contessa si tenne il fazzoletto sul naso e sull'occhio sinistroil conte voltò il capo verso di lei e continuando nel maneggio della gamba e ribattendo col dito medio della mano destra Dio sa che nota sulla tavoladisse:
«Dunque?»
«Dunqueoh Dioqui vedo certe cose che mi fanno paura. Mi capite. Anche in delicatezza non posso tacere. I ragazzi son ragazzisi sa; ma noi altri dobbiamo aver giudizio anche per loro.»
«Avete paura? Ma ditemi un poconon era la vostra intenzione questa?»
«La mia intenzionebenedetto? Ma no che non era la mia intenzione. La mia intenzione era di farvi conoscere mio fiodi fare che gli voleste beneche gli deste dei buoni consigli anche su questo punto del prender moglie. Mi ha rifiutato due o tre partitoniproprio coi fiocchinon so perché. Ho cercatoho fatto cercare se avesse qualche intrigoqualche pasticcio. Nientenon ha niente. Non è mica un frategrazie a Dioe avrà fatto anche luisi saquello che fanno tutti i ragazzisfido! però con prudenzacon giudizioda vecio. D'impegni neppure l'ombra! Dunque? Questa cosa non mi lascia dormire. Io non posso parlare. Egli crede che si cerchi solo l'interesse. Oh Diomadre sonoe devo pensarle tutte. Lui non vede che il cuorelo spiritoil talentola bellezzail suonareil cantare e tante altre cose fatte di aria e niente come queste. Cose ottimema non bastano. Pensai che forse per ora non volesse legarsi. Ma no: seppi di certo che l'idea l'aveva; un'idealàper aria. Son dunque venutavi torno a direperché gli deste dei buoni consigli. Marina? Ecco il mio torto. Non ho pensato che poteva innamorarsi di Marina. SentiteCesare. Io sono Betta dalla lingua schietta. Parliamoci candidamentebenché la sia vostra nipote. Quella ragazza ha fatto un gran cambiamento. Nepo e io l'abbiamo conosciuta a Milano. Con tutte le sue ricchezzecon tutte le sue grandezzea mio fio non é piaciuta niente affatto. Gli pareva superbaaristocratica. Perché mio fioin punto aristocraziaha tutte le vostre ideeche si usano adessodopo che c'è l'Italia. Mio fio non è mica uno di questi spuzzette che vi tiran di naso se non avete quattro quarti. Allora vostra nipote non gli piacque troppo. Non mi è dunque neppur passato per la testa che cambiasse il vento. E ho avuto torto perché adessolasciatemelo direla è proprio una gioiaun bombon. E poi le sue disgrazie! Non ho pensato alle sue disgrazienon ho pensato al cuore che ha mio fio. Per il cuore Nepo è tutto me. Il gran cuorefiglio caroè un peso che tira a fondochi ha gran cuore...»
«Ebbene?» interruppe il conte a cui pareva tempo di concludere.
«Ebbenenon dovrei parlar così a Voi che siete suo zioil suo secondo padrema Vi ho già detto la confidenza che ho. Ecconon so se si possa lasciar andare avanti questa cosa. Vedo il dirittovedo il rovesciovedo questovedo quellovorrei e non vorrei. Oh Dioche strucacuor!»
La contessa si portò ancora il fazzoletto agli occhi. In quella un uscio si apersee comparve Catte recando la tabacchiera di Sua Eccellenza. Costei si voltò inviperita e gridò tutto d'un fiato con voce stridente:
«Cavève vuche ve lo go dito tante volte che no vogio che stè a secar co se parla!»
Catte posò la tabacchiera sopra una seggiola e si ritirò in fretta.
Il conte restò ammirato delle mobili emozioni di sua cuginala qualeripiegato lentamente il caposi riportava il fazzoletto agli occhi.
«Adesso» diss'egli «posso dire una parola io?»
«Ohbenedettose l'aspetto come la manna del cielo!»
«Tutte queste cose che avete visto Voiio non le ho viste; forse sarò miope. Ma lasciamo stare. Non è poi necessario che due persone perdano prima il sonnol'appetito e la testaper poter poi vivere insieme passabilmente. A ogni modonon ci vedo chiaro neppur io in questa faccenda.»
Gli occhi languidi e lagrimosi della contessa si ravvivarono di botto. Ella si posò il fazzoletto sulle ginocchia.
«Io non so vedere» seguitò il conte «quale razza di felicità possa uscire dalla unione di Vostro figlio e di mia nipote.»
«Ciò!» esclamò Sua Eccellenza sbalordita.
«Mia nipote ha molto ingegno e una testa delle più bizzarre che Domeneddio e il diavolo possano mettere insieme quando lavorano a chi più può.»
«Ma che spropositiCesare!»
«Niente affatto. Non lo sapete ancora che la marca di fabbrica di quei due signori si trova in tutte le cose di questo mondo? Bene; mia nipote avrebbe bisogno di un marito d'acciaioforte e brillante. Vostro figlio non è d'acciaio sicuramente. Ohio non lo disprezzo per questo. Gli uomini di acciaio non si trovano mica a dozzine. Io credo che vostro figlioil qualetra parentesinon ha le mie idee sull'aristocrazianon sia il marito che ci vuole per Marina.»
La contessa Foscach'era venuta slacciandosi la cuffiadondolando il capoe soffiandorispose:
«Cos'è questo fare? Cos'è questo parlare? Cos'è questa roba? sapete che mi fate venir caldo? Non ho capito bene il vostro discorsoma se mai fosse contrario a mio fiocome mi è parsoho l'onor di dirvi con tutto il rispetto al vostro talentoche non intendete niente. Andate a Venezia a domandare di mio fio; sentirete. Noche non è d'acciaio; d'oro è. Di acciaio sarete voi e anche di stagno se occorre. Venite fuori con certe cose che mi fanno proprio uscir dai gangheri. D'acciaio? Si è mai sentito? D'acciaio si fanno le penneanima mia.»
La contessa interpose qui un breve silenzio e alcuni gravi colpi di ventaglio.
«Che roba!» continuò. «Non ve ne intendete. Ohnon ve ne intendetefiglio caro. E quella poveraccia di Marinaneppur quella conoscetesignor orso. Ehno nocaro.»
E giù quattro colpi di ventaglio.
Intanto il conte la guardava con uno stupore troppo espresso per essere del tutto sincero.
«Ma allora» diss'egli «è veroio non comprendo niente. Se avete queste ideeperché diavolo Vi fa paura che vostro figlio faccia la corte a mia nipote?»
«SentiteCesareio avrò tutti i difetti e tutti i torti del mondoma son sincera. Mi prenderete in mala parte se parlo schietto? C'è anche questache se mio fio lo viene a sapere che vi faccio certi discorsipoveretta menon ho più benenon ho più pace. Mi raccomandoCesare. Volete che ve lo dica? Questa cosa mi fa groppo in golastento a buttarla fuori. È una umiliazione grandeè una cosa contraria al mio caratterema i fatti sono fattiil dovere è dovere.»
La contessa posò il ventaglio sul tavolosi ripose il fazzoletto in tascasi riannodò la cuffiae poi ricominciò lenta e grave:
«Ecco qua. Pur troppo la famiglia Salvador di adesso non è più la famiglia Salvador di una volta. Il povero Alvise è stato molto disgraziato nei suoi affari; e poi abbiamo avuto il 48e s'è fatto quel che s'è fatto. Non faccio per direma se non era la roba mia i Salvador sarebbero andati a pescar moleche. La roba miaquando Alvise mi sposòera tanta. Magari fosse vissuto ancorabenedetta l'anima sua! Si sarebbe in malora; ma contenti. Di quei pensieridi quelle fatichedi quelle privazioni ho avutofiglio caroche non Vi dico niente. Sempre mangiacarte per casa. Le campagne in man dei ladri; il fattorecapo. Mangia tu che mangio anch'io. Con duemila duecento campi in Polesinemi toccava di comperare il riso per famiglia; non Vi dico altro. Oh Dioche vita! Bastaa forza di stenti e di sacrificisi drizzò la barca. Ma a questo punto dipende da Nepo che non si torni indietro; tutto dipende dal matrimonio che farà Nepo. E adesso ditemiCesare; se colla vostra bontàse col vostro gran cuore non aveste raccolto quella povera Marinacome vivrebbe? Ditemibenedettocome vivrebbe?»
«Col suovivrebbe.»
«Col suo?»
La contessa Fosca aprì tanto d'occhi.
«Sicuramente. La liquidazione della sostanza di mio cognato ha dato ottantamila lire d'attivo.»
«Benepane e acquaparliamoci schietto.»
«Io non sono veramente così gran signore da dir questo. Io apprezzo ottantamila lire. A me basterebbero.»
«Benediremo: paneacqua e pomi. E poi bisognerebbe vedere se vi basterebbero. E poi prendete una sposina giovanebellatutta fuocopiantatevi a Torino o a Milano con dei maledetti nomacci di questa sortalunghi come da qui a Mestrecon una fila mai più finita di palle e di corniperché ci hanno a essere anche quellivestitelaspogliateladivertitelascarrozzatela e anche... sto per dire... sì insommaarrischiate di far crescere la famigliae mi saprete direcoi vostri ottantamila cossa xeliquanti salti farete. Io vi parlo col cuore in manoperché vi considero di famigliaCesare. La mia prima idea era quella di portar via Nepo sul momento; ma cosa avreste detto di me? Ho pensato di parlarvi prima come farei a un fratello; e così ho fatto.»
«Vi ringrazio molto dell'onore» disse il conte. «Voi mi fate onore assai più che non crediate. Il consiglio che io vi do è di partire subito.»
La contessa tacqueferita al cuore.
Si udirono in quel silenzio mortale due mosche azzuffarsi dentro una zuccheriera.
«Eh certo» diss'ella. Pareva che Sua Eccellenzadopo tante ciarlesi fosse trovata a un tratto senza fiato.
«Del resto» disse il conte «è molto possibile che non partirete. Dipenderà da mia nipote.»
«Comeda vostra nipote?»
«Sicuramente. È la mia coscienza che mi ha imposto di darvi quel consiglioperché non credo che mia nipote e vostro figlio si convengano. Ma voi non avete questa opinioneneppure vostro figlio pare che l'abbiae potrebbe darsi che non l'avesse neppure mia nipotela quale è perfettamente in grado e in diritto di avere una opinione. Allora capite bene che io non potrei né vorrei far prevalere la mia.»
«Andate alla SensaCesare? Dopo tutto quello che vi ho detto...»
Il conte si alzò e la interruppe.
«Volete favorire nella mia biblioteca? Ho la debolezza di trattare sempre gli affari in quel luogo.»
La contessa voleva replicare qualche cosama suo cuginoaperto l'usciole accennò che passasse. Intascò poi la tabacchiera posata da Catte e seguì la contessa. Quando Sua Eccellenza si fu accomodata in un seggiolone della bibliotecail conte si mise a camminare su e giù per la salamutocon la testa bassa e le mani in tascasecondo il suo solito. Sua Eccellenza lo guardava senz'aprir boccasbalordita. Fatti cinque o sei giriil conte le si fermò in facciala guardò un momento e disse:
«Che vi pare di trecentoventimila franchi?»
Il viso di Sua Eccellenza diventò paonazzo. Ella balbettò qualche parole inintelligibile.
«Trecentoventimila miei e ottantamila suoi fanno quattrocentomila. Che vi pare di quattrocentomila franchi?»
«In nome di DioCesarecosa volete dire? Non capisco!»
«Ohvoi capite perfettamente» disse il conte con un accento inesprimibile. «È un mistero pel quale non vi mancava né la fede né la speranza prima di parlare con me. Io ve ne ringrazio molto. Voi mi avete fatto l'onore di credere che provvederei con sufficiente larghezza al collocamento di mia nipotebenché non ne abbia alcun obbligo ed ella non porti il mio nome. Non è questo?»
Sua Eccellenza si slacciò da capo la cuffia e proruppe:
«Sa Leisiorcosa ho l'onore di dirle? Che a questo modo si tratta con i facchini e non con le dame. Mi meraviglio che in quella fresca età Ella non abbia ancora imparato a trattare il mondo. E mi meraviglio che con i suoi strambezzicon i suoi zimarronie con la sua zazzera La creda di poter fare e dire tutto quello che Le salta in testa. Ella sarà nobilecaroma non La è cavaliere. Credete chese si trattasse di menon Vi direi: Teneteveli i Vostri bezzi? Credete che rimarrei un'ora di più in questa casa dove mi si manca di rispetto? Ringraziate Dio che di me non si trattaperché io non ho bisogno né di mio fioné di altrie del mio ne avanza e non saprei che farmi dei Vostri trecento pun! né dei Vostri quattrocentopun pun! E iopovera insulsache vengo a parlarvi come a un fratello! Ringraziate DioVi dicoche sono vecchia e userò prudenza con mio fio; se sapesse che gli si attribuiscono mire d'interesse sarebbe capace di sacrificare il suo cuorela sua felicità e tutto quanto.»
Il calore di quest'arringa non era punto simulato. La contessa Foscadopo aver condotto suo cugino al punto che voleva leisi reputava offesa di sentirselo a dire. E c'entrava forse nel suo dispetto quest'altra piccola delusioneche il conte non avesse detto addiritturacom'ella sperava: «Marina è mia erede».
Il conte stette mansuetamente ad ascoltare le sfuriate di sua cuginacome se non fosse affar suo: e si appagò di rispondere:
«Il vino che versate lascia macchia; le parole no.»
La contessa non parve udirlo. Ella si era già alzata e muoveva brontolando verso l'uscio. Suo cugino in piedichino sul petto il capo formidabilela guardava sorridendo: forse perché Sua eccellenza pareva una papera cheoffesa da qualche villano nel suo pasto o nei pacifici colloqui con le amiche o nella contemplazione solitariadopo una schiamazzata e una corsa se ne va grave e degna ma tuttavia commossamettendo ad intervalli le voci brevi e sommesse dello sdegno suo che si placa. Quando ella fu presso all'uscioil conte si scosse.
«Aspettate» diss'egli.
Sua Eccellenza si fermò e girò un poco la testa a sinistra.
Il conte le venne alle spalleporgendole un oggetto che teneva con la mano e batteva con la destra.
Sua Eccellenza girò la testa un altro poco e gittò un'occhiata obliqua alle mani del conte; dopo di che girò tutta la persona. Era una tabacchiera aperta che il conte le tendeva. Sua Eccellenza esitò un pocofece una smorfiae disse bruscamente:
«È Valgadena?»
Il conteper tutta rispostaripicchiò la tabacchiera con due dita.
Sua Eccellenza porse il pollice e l'indicesoffregandone i polpastrelli uno contro l'altrocon inquietudine voluttuosa; li immerse quindi nel tabacco morbido e disse con voce alquanto rabbonita:
«La fu una grande indegnitàsapeteCesare.» S'accostò alle nari la sua presa. «Una cosa orribile» diss'ella.
E fiutò il tabacco. Lo fiutò unaduetre volteabbassò il capo sulla tabacchieraaguzzò le ciglia e afferrò la sinistra del conte.
«Ohe» diss'ella «anche ladro siete?»
Il conte rise e le diede la tabacchiera dicendo:
«Siamo intesinon manca più che l'assenso di Marina.»
Sua Eccellenza uscì e gli chiusecon poco garbola porta in faccia. Passando per la loggia vide le due barche di casa che tornavano. Allora Sua Eccellenza si affrettò di salire nella sua stanza per lasciarvi il suo ventaglio verde e pigliarne un altro nero a fiori rossicon il quale tornò in loggia e si affacciòfacendosi ventoalla balaustrata.
Le due barche brillavano al solesul lago verdea qualche centinaio di metri. I remi scintillavano nell'entrare e nell'uscir dall'acqua. Un gaio miscuglio di voci e di risa veniva all'orecchio di Sua Eccellenzaquando più quando meno fortesecondo il vento. Quelle barche parevano farfalline cadute nell'acquache vi si dibattessero faticosamente agitando le alilasciando dietro a sé due lunghesottili tracce convergenti. Saetta precedeva con la bandiera ammiraglia; un po' a sinistra si vedeva la coperta bianca del battello. MarinaNepoil Finotti ed il Vezza venivano con Saetta; nel battello stavano gli Steineggeil Ferrieri e don Innocenzoche s'era imbattuto per caso nella brigata e s'era unito a' suoi amici e all'ing. Ferrierianche perché questiconosciutolo per il parroco del paesegli aveva fatto un po' la corte. Nel battello si conversava tranquillamente. Edith difendeva la sua lingua nativa contro l'ingegnere che l'accusavaun po' volgarmentedi asprezza. Ella sosteneva che l'idioma tedesco è capace di una particolare dolcezza a tempo e luogocome nella poesiae ha pei movimenti dell'anima parole dolci come Liebewehfühlensehnenche acquistano dal prolungamento della vocale un suono misterioso e profondo. Diceva queste cose interrottamentetimidamentenel suo italiano freddoirrigidito. Mentre ella parlavasuo padre guardava don Innocenzoguardava l'ingegnereguardava persino il barcaiuolocon certi occhi scintillanti che dicevano: «Ehche vi pare?». Don Innocenzo ascoltava con attenzione vivissima e andava rimasticando fra i denti le parole tedesche citate da Edithesagerandone l'accento onde persuadersi che fossero armoniosemettendo degli hmhmdi dubbio. L'ing. Ferrieri s'imbarazzava nella discussione più che non convenisse a un uomo di spirito; rispondeva breve e anche a sproposito alle chiamate che venivano dalla lancia.
Nella lancia remava il Ricoregnava e governava donna Marina elegantissima nel suo abito di flanella color tortoratutto liscioabbondante e fedele in pari tempo alle linee della bella personacome se ne fosse stato il solo vestimento. Dalla cintura di cuoio giallo chiaro le cadeva sul fianco sinistro una minuta pioggia di catenelle d'oro. Un piccolo medaglione d'oro le pendeva sul gran nodo della cravatta di seta color marrone. Un cappellino rotondo pure color marronea penna d'aquilale posava sul delicato viso un accento di capriccio altero. Portava i guanti del colore della cinturae stringendo i cordoni verdi del timone appuntava i gomiti indietrorivelava intera l'eleganza del bustoil disegno delle gambe di cui l'una si ripiegava indietrol'altra slanciava verso il Rico la punta d'uno stivaletto tutto scuro picchiettato di bottoncini bianchi. Ell'aveva il Finotti a destra e il Vezza a sinistra. Nepo se ne stava seduto malinconicamente a prora. Marina lo trattava male quel giornoil povero Nepo. L'aveva guardato una volta solaentrando nella lanciaper fargli comprendere che cedesse il posto migliore ai nuovi ospiti. I due commendatori non avevan fatti complimentile si eran seduti a' fianchi con prontezza giovanileil Finotti acceso in volto di fuoco mefistofelicoil Vezza irradiato dallo stesso placido sorriso di cui lo illuminava talvolta la visione beatifica di una coscia di tacchino ai tartufi. Non riconoscevano più la Marina fredda e silenziosa dell'altra volta. Questa nuova Marina sfavillava di spirito e di civetteria. Il commendatore politico avrebbe datonon dico il suo collegioma tutti gli amici suoi per essereun'orail suo amante; il commendatore letterato avrebbe dato tutte le vecchie bas-bleu conservatrici di Milano che lo tenevano nella bambagia come una reliquia classica. L'uno e l'altro le parlavano della bellezza e dell'amoretanto per avvicinarsi in qualche modo a leiper sentir meglio la elettricità della sua presenza; il Finotti con un linguaggio fremente di passione sensualemal coperta; il Vezza con la sua rettorica blanda e la sua vanità beata. Parlava di lettere scrittegli da sconosciute lettrici delle sue opere; lettere odoratediceva luidi quei vapori che l'amore esala come il vino delicato e bastano a inebriare chi ha i sensi squisiti. Allora il Finotti lo canzonavadiceva di non invidiargli il vecchio vino santo delle sue venerabili amiche di Milanovino scoloratovino da conviva satur che sta per levarsi dalla tavola e dalla vita. Egli amava il vino giovanepieno di luce e d'ardoreche va come un fulmine alla testaal cuorealla coscienzaperché quello solo sa dove diavolo sia la coscienzail vino che ha indosso tutto il fuoco del sole e tutte le passioni della terracarico di colore e di gasche fa saltare le bottiglie e gli scrupoli.
«Sentasignor Vezza» disse Marina ex abrupto «rispondeva Lei a quelle lettere?»
Il signor Vezzache si prendeva il suo dolce «commendatore» col caffè mattutino della servacome al caffè vespertino della dama e sempre di grande appetitosoffriva della privazione inflittagli da Marina. Ma bisognava rassegnarsi; Marina non accordava a nessuno titoli che non fossero di nobiltà.
«Rispondevo alle belle signore» diss'egli.
«Sentiamo questa meraviglia di finezza» disse Marina guardando con aria negligente il remo del Rico.
«Non c'è finezzamarchesina. Si potrebbe dire che nelle lettere anonime delle belle donne c'è sempre un'ombra di riservatezza e in quelle delle brutte c'è sempre un'ombra di abbandono; ma sarebbe volgarità. È l'istinto che bisogna averel'istinto della bellezza. Quando Leimarchesinaentra in un primo pianobisogna che lo studenteassopito al quarto sul Diritto Costituzionale qui dell'amico Finottitrasalisca! Che ne dice Leiconte?»
Ma Nepo non dava retta alla conversazione. Nepo stava guardando con grande interesse il Palazzo. Pensava se sua madre sarebbe in loggiase avrebbe in mano il ventaglio verde o il ventaglio nero e rosso o il fazzoletto bianco. Se la contessa non era in loggiavoleva dire che non aveva potuto fare il gran discorso; se c'erail ventaglio verde significava mala riuscitail rosso e nero buona; il fazzoletto bianco voleva dire Marina avrà tutto.
Egli si scosse alla domanda del Vezza e rimase a bocca aperta. Non aveva capito. Marina si strinse impercettibilmente nelle spalle e parlò al Finotti. Il Ricoch'era sempre molestato e canzonato da Sua Eccellenzavoltò la testa e lo sbirciò con due occhi scintillanti di malizia.
«Bada a vogareimbecille» gli disse a mezza voce Sua Eccellenza. Il Rico rise silenziosamente mordendosi le labbra e tenne fermi sull'acqua i remi grondantiper aspettare il battello che ad ogni tanto restava indietro. Si udì il Ferrieri discorrer forte. Il Vezza lo chiamòe non avutane rispostadisse qualche cosa su lui e la signorina Steinegge. Marina porse una boccuccia come per dire «cattivo gusto» e l'altro sussurrò sorridendo.
«Matematico!»
«Va!» disse Marina al Rico.
La prora lunga e sottile guizzò avanti dividendo le immobili acque verdi.
Rade foglie addormentate su quello specchio le venivano incontropassavano veloci al suo fianco si dilungavano a poppasi perdevano. Anche il Palazzo le cresceva in facciasi allargavasi alzavaspalancava porte e finestre; i cipressidietro quellosi staccavano dalla montagna e venivano incontro alla barca; la montagna stessa moveva dietro a loro. La macchia nera nel terzo arco della loggia diventava una donnauna matronala contessa Fosca con un farfallone rosso e nero sul petto. Si udì lo zampillo del cortilesi udì la voce della contessa:
«Siete quabenedetti?»
«Siamo qua. Bellissima gitamammaallegria perfettamolti incidentinessun accidente. Ossia mi correggoun accidente solo; mia cugina ha avuto molto spirito e io non ne ho avuto punto.»
Gridando questoNepo si adattò solennemente le lenti sul naso e contemplò Marina.
Pareva un altro uomo. Aveva scosse le braccia per far scendere i manichini sino alle nocche delle dita e guardava sua cugina con un sorriso da trionfatore sciocco. Marina fece mostra di non aver inteso la sua impertinenza e si voltò a vedere se veniva il battello. Intanto la prora di Saetta e Nepo e il Rico e i commendatori e la dama e la bandiera entravano via via nella fredda oscurità della darsenadove la voce di Nepo rimbombava già tra le grandi volte umide e l'acqua verde come una lastra di smeraldo.
Egli scosse il capo per farsi cader le lenti dal nasosaltò vezzosamente a terra con le braccia aperte e le ginocchia piegateporse la mano agli altri e poco mancò non li facesse stramazzar nell'acqua dalla lancia che il freddurista Vezza chiamava bilancia per la sua sensibilità ad ogni squilibrio di peso. Quando venne la volta di Marinale stese ambedue le manistrinse forte quelle di lei; ella corrugò un momento la frontesaltò a terra e si sciolse. Sulle scale la comitiva incontrò Fanny addossata a un angolocon gli occhi bassi. Li alzò con un sorrisetto su Nepoche veniva ultimo. Pareva aspettarsi qualche cosa: ma Nepoche aveva arrischiato i primi giorni ora una parolina ora una carezza silenziosale passò davanti senza neppur guardarla. Ella fece il viso scuro e scese lentamente.
Il conte Cesare vennemolto festosoa incontrare i suoi ospiti a capo della scala e fu gentilissimo con don Innocenzo. La contessa Fosca abbracciò Marina come se non l'avesse vista da dieci anni e non salutò Steinegge che al suo quarto inchino. Marina lasciò subito la sala dove si era raccolta tutta questa gentee così fece Edith.
Intanto il conteil Ferrieri e don Innocenzo disputavanoin un cantodella nuova cartiera in relazione all'igiene e alla moralità del paese chesecondo il contene avrebbe guadagnato poco. Don Innocenzoinesperto entusiasta d'ogni progressosbalordito dalla descrizione del futuro edificiodelle macchine potenti commesse nel Belgioper essoera più roseonon voleva veder guai. Gli altri s'erano aggruppati presso una finestra e discorrevano di politica. La contessa voleva assolutamente sapere dal Finotti per quanto tempo gli austriaci sarebbero rimasti a Venezia. Il Finotti che aveva già seduto al centro sinistro della Camera subalpinaandava a Corteci godeva favore e non poteva soffrire i ministriprese subito un'aria d'importanzadi misteroe disse che a Venezia si sarebbe potuto andar prestoma con altri uomini. La contessa non poteva darsi pace di questa cattiva direzione della diplomazia italianasbuffavavoleva che il Finotti insegnasse la strada buona al reche la insegnasse ai ministri. Se i ministri non potevano impararla si cambiasseroquesti stolidisi buttassero in acqua. Figurarsise a Venezia sapessero queste cose! Giàell'aveva visto a Milano il ritratto del ministro in capo; a cosa doveva esser buonola me animacon quel dio di naso?
Nepo la interrupperossorossodicendole che di politica lei non capiva niente e che la finisse con tante sciocchezze. Fu come un rovescio d'acqua diaccia. Steinegge aggrottò le cigliagli altri tacquero. La contessa Foscaavvezza a questi omaggi filialiosservò tranquillamente che spesso le donne hanno più politica degli uomini.
«Sempre» disse il Vezza «e il gabinetto di Torino non val niente in confronto del Suocontessa.» Anche il Finotti e lo Steinegge si stemperarono in complimenti. Nepo si trovò impacciatosi adattò con ambe le mani l'occhialino sul nasoe facendosi vento col fazzolettouscì in loggia.
Mentre egli vi metteva piedeMarina pure vi entrava dalla parte opposta.
Ella vide Nepoparve esitare un momentoandò lentamente ad appoggiarsi alla balaustrata verso il lagonell'ombra di una colonna: e voltò la testa a guardar suo cugino.
Nepo non poteva dare addietro. Avrebbe voluto parlar con sua madresaper da lei precisamente come fosse andato il colloquio con il conte Cesareprima di muovere un passo avanti; ma poiché sapeva che le cose in complesso eran procedute benecome mai ritirarsi davanti al silenzioso invito degli occhi di Marina! Dicevano chiaro: «Vienisiamo soli».
Malgrado la sua vanità egli era imbarazzato. Non aveva tentato fino a quel giorno che sartinemodiste e camerierelimitandosi con le dame e con le damigelle a colloqui fraterni. Il cuore non gli diceva nulla e la mente ben poco.
Andò a mettersi a fianco di Marinaappoggiò le braccia sulla balaustrata e scosse dal naso l'occhialino.
«Cara cugina.» diss'egli.
Le lenti cadendo sul marmo andarono in pezzi. Nepo ne sciolse le reliquie dal cordoncinole esaminò e le lasciò cadere sul macigno sottoposto sospirando:
«Erano di Fries.»
Recitata questa concisa orazione funebreripigliò:
«Cara cugina»
Dietro a lui uscivano sulla loggia le voci della contessa Foscadel conte Cesaredegli altrimescolate alla rinfusa in un guazzabuglio scordato.
«Caro cugino» rispose Marinaguardando fuori del piccolo golfo il lago aperto dove i primi fiati della brezza meridiana chiazzavano qua e là di rughe plumbee le immagini dei nuvoloni bianchi e del sereno. V'ebbe un momento di silenzio. Bolliva sempre là in sala il guazzabuglio delle voci scordate.
«Quali deliziose giornate non ho passato qui con Voicara cugina!»
«Davvero?»
«Perchéperché non potrebbe esser sempre così?»
Egli aveva trovato il motivo e continuò a voce bassacon accento enfaticocome se recitasse la perorazione di un discorso parlamentare.
«Perché queste deliziose giornate non possono essere il preludio di una vita deliziosa a cui tutto c'invitale nostre tradizioni di famigliala nostra nascitala nostra educazionela nostra simpatia?»
Marina si morse il labbro inferiore.
«Sì» ripigliò Nepoinfervorandosi al suono della sua voce stessa e frenando a stento un gesto oratorio. «Sìperché anch'ioche pure ho vissuto nella migliore società di Venezia e di Torino e vi ho stretto cordiali amicizie con una quantità di belle ed eleganti signorineanch'io sin dal primo vedervi ho provato per Voi una simpatia invincibile...»
«Grazie» sussurrò Marina.
«...una di quelle simpatie che diventano rapidamente passioni in un giovanotto come mesensibile alla bellezzasensibile alla graziaallo spiritosensibile alle squisitezze più recondite e più delicate della eleganza. Perché Voicara cuginaVoi possedete tutte queste coseVoi siete una statua grecaanimata in Italiaeducata a Parigicome diceva con meno ragione il ministro dell'Inghilterra parlando della contessa C... Voi potrete un giorno rappresentare con molto splendore la mia casa nella capitalesia in Torinosia in Roma; perché io finirò certo per avere alla capitale una posizione degna del mio nomedegna di Venezia. Io Vi parlocara cuginaun linguaggio più serio che appassionatoperché qui non comincia ora un romanzoma prosegue una storia.»
Nepo si fermò un momento per applaudirsi mentalmente di questa frase in cui il pensiero e la voce correvano insieme ad un tonfo di tanto effetto nella parola storia.
«È la storia» proseguì «di due illustri famigliesostegno l'una della più gloriosa repubblicaornamento l'altra della più illustre monarchia italianasortela prima nell'estremo orientel'altra nell'estremo occidente d'Italiache strinsero parentela in tempi remoti di prepotenze straniere e di discordie nazionaliquasi preludendo e augurando alla futura Unità; che in tempi più viciniin tempi calamitosi per i loro due Stati rinnovarono il pattoe che stanno per riconfermarlo ancora in mezzo agli splendidi avvenimenti del nuovo gran patto nazionale.»
Nepo era spossato dall'improba fatica di contenere la sua voce e la sua eloquenza. Chi sa dove sarebbe andato a finirecon le migliaia di frasi che aveva in testasenza una buona strappata di redini.
«Marina» diss'egli «volete esser contessa Salvador? Io aspetto con piena fiducia la Vostra risposta.»
Marina guardava tuttavia il lago e taceva. Le voci della sala si spensero in quel momento; la contessa Fosca s'affacciò alla loggia. Ella si ritirò subitorientrò in casa parlando forte; ma gli altri fecero irruzione in loggia.
«Mi appello a Leimarchesina» gridava il commendator Finottiseguito dal commendator Vezza che si stringeva nelle spalle sorridendo e ripetendo: «Ha tortoha torto.»
Soltanto allora Marina si scosse come per uscire dalla corrente dei suoi pensieridisse sottovoce a Nepo «A domani» e lasciò la balaustrata.
Nepo si voltò corrucciato a guardar gl'interruttori e vide dietro ad essi sua madreche gli diceva con un lungo sguardo lamentevole e con le braccia aperte:
«Come si fa?»
6. L'0rrido
Si doveva partire per l'Orrido alle dieci del mattinoc'era da percorrere il lago sino alla sua estremità di levante e poi da salire la valle che lo alimenta con il torrentello di cui appunto sono lavoro le caverne dell'Orrido. Andavano tuttitranne il conte.
Nepo fu in piedi per tempo e scese in giardinodove aveva veduto qualche volta Marina passeggiare prima di colazione. Quel giorno ella non venne. Nepoorbo del suo occhialinogirava a destra e a sinistrafrugando quasi con il lungo naso le macchie e i cespugliodorando l'ariapalpitando al lontano apparire del giardiniere scamiciato. Marina non si lasciò vedere neanche a colazione; non era cosa insolita.
Venne solo Fanny a pregare Edith da parte della marchesina di voler salire un momento da lei. Scesero quindi insieme al battere delle dieci. Nepo non poté avere da Marina che un «buon giorno» svogliatobuttatogli dall'alto come un mozzicone di sigaro. Ella prese il braccio di Edith e discese in darsenalasciando addietro la contessa FoscaNepoi tre grandi uomini e Steinegge. Quando costoro entrarono in darsenaSaetta ne usciva con EdithMarina e il Rico. Vi ebbero proteste. «Buon viaggio» disse Marina «noi procediamo.» La sua voce non poteva essere più dolcenon poteva essere più grazioso il cenno con il quale accompagnò le parole; pure nessuno insistette.
La contessa Fosca guardò Neposeria; questi volle fare il disinvolto e gridò un complimento alle crudeli fuggitive. Il Ferrieri e i commendatori parvero molto seccati.
Le due barche si dilungarono verso quello stretto dove il lago fa un gomito e corre ad appiattarsi dietro un alto promontorio selvosofra salci e canneti. Saetta precedeva il battello d'un buon trattomalgrado le voci supplichevoli che partivano spesso da quest'ultimo perché la lancia bizzarra non avesse a correr tanto. Esso pareva un uomo gottoso che anfanasse dietro un nipotino monello sfuggitogli di mano. Marina non mostrava udire quelle vocie al Rico bastò un'occhiata per intendere che non dovea smettere né rallentar di remare. Prestodi Saetta non apparve ai viaggiatori del battello che un punto biancola bandieraoscillante lontano tra l'azzurrognolo confuso del lago e dei vapori mattutini ancora avvolti alle montagne.
Edith era commossa. Quella gran luce in cui nuotava la barchettai milioni di brillanti che il sole spandeva sulle acque increspate dalla brezzai verdi vivacissimi dei monti vicinile tinte del fondo sfumatecaldenon le ricordavano più la Germania come i prati stesi davanti alla canonica di don Innocenzo. Ella non poteva parlare; sospirava.
«Qual sentimento prova?» le chiese Marina dopo un lungo silenzio.
«Non lo so; desiderio di piangere» rispose Edith.
«E io di vivered'esser felice.»
Edith tacquesorpresa dal subito fuoco che brillò nel viso e sollevò il petto di Marina.
«Ho molta stima di Lei» soggiunse questa bruscamente.
Edith la guardò attonita.
«So benissimo» ripigliò l'altra «di esserle antipatica; fa niente.»
«Ella non mi è antipatica» rispose Edith con voce ferma e grave. Marina si strinse nelle spalle.
«Va come puoi» gridò al Ricogettando i cordoni del timone e voltandosi a Edith per parlare. Ma Edith la prevenne.
«So» diss'ella «che non è stata gentile con mio padree per questo non posso essere affettuosa con Lei. Vorrei dire la cosa in tedescoperché in italiano non so se dico bene. Ella tuttavia intenderà il mio sentimento; non ho nessuna antipatia.»
«Ella si stabilisce a Milano?» chiese Marina.
«Sì.»
«Mi scrivada Milano.»
Edith pensò un momento e rispose :
«Non posso scriverle come amica.»
«Ella è schiettasignorina Edith; non più di meperò; non ho detto di avere amicizia per Leiho molta stima. Già non c'è amicizia fra donne. Non domando lettere sentimentalivuote e false. Cosa vuole che ne faccia? Domando alcune informazioni. Non c'è bisogno di amicizia per questo.»
«Né di stima.»
«Di stima sì. Non domando servigi a persone che non stimoe sono sicura ch'Ella mi renderà questo malgrado i Suoi risentimenti. Non mi ha già fatto il piacerestamattinadi venire in barca con me sola?»
«Quali informazioni desidera?»
«Vede? Lo sapevo. Le dirò più tardi quali informazioni.»
Dopo qualche tempo Marina uscì con quest'altra domanda:
«Sua madre era nobile?»
«Sì.»
«Si capisce.»
Edith si fece di fuoco. I suoi occhi intelligenti lampeggiarono.
«Non conosco persona più nobile di mio padre» diss'ella.
«Che Le pare di mio cugino?» domandò Marina senza curarsi di quella rispostacome se non potesse pervenire all'altezza sua.
«Non lo conosco.»
«Non lo ha vistonon lo ha udito parlare?»
«Ohsì.»
«Rema»disse Marina al Ricobattendo forte un piede sul fondo della lancia. Udendo parlare di Nepo quegli porgeva la sua testolina curiosa e muoveva appena le braccia. All'ordine di Marina rise arrossendopoi fece il viso serio e diede due gran colpi di remocacciando indietro a destra e a sinistra due gran vortici di spume. Tacendo le signorecominciò lui a metter fuori qualche parolanomi di paesi e di montagne. Marina aveva ripigliati i cordoni del timone e non gli badava; Edith gli fece delle domande; allora la sua parlantina ruppe gli argini. Dai monti di Val... si udivadi quando in quandoun fioco squittir di bracchi portato dal vento. Il Rico spiegò ad Edith che quelli non eran canima spiritigli spiriti della Caccia selvatica. Chi si fosse abbattuto a vederla doveva morire entro pochi giorni. Edith si compiacque di ritrovare la tradizione tedescae domandò se ci fossero strade per quei monti. Il ragazzo rispose che v'erano dei sentierifra i quali uno buonissimo che si poteva prendere per ritornare a piedi dall'Orrido al Palazzo.
Intanto la lancia passava davanti a Val Malombraradeva l'alto promontorio coronato di selve. L'acqua vi era profondissima sotto gli scogli protesi. Il Rico sosteneva che il lago vi s'inabissava dentro caverne smisurateperché sopra quegli scogli v'era una buia fessuradetta il Pozzo dell'Acquafondadove gittando pietre le si udivano schiaffeggiar l'acqua. E cominciò a dire come converrebbe esplorar quelle caverne occulte. Marina si impazientì e lo fe' tacere.
Saetta entrò poco dopo nell'ombraapprodò fra due salici grigiastrisulla ghiaia bianca di un torrentello che versava al lagodi pozzanghera in pozzangheratremole fila d'acqua silenziosa. Dietro ai salici tacevano prati oscurifreddi; e si celavano a manca insieme al torrentenelle ombre azzurrognole della valle tortuosa. Ardeva in altoal soleil dorso delle montagne; quel buco nero lì pareva la tana del novembre. Quando anche il battello ebbe girati gli scogli del promontoriosi udì la contessa gridare «che freddo! che orrore!»si vide un agitarsiuno stendere di braccia che infilavano soprabitie il conte Nepo che si avvolgeva al collo un fazzoletto bianco.
Il Rico doveva guidar la compagnia all'Orridoma prima di partiresorse la questione della contessa Fosca. Sua Eccellenza aveva creduto che l'Orrido fosse quello lì; interrotta da un baccano di protestesi meravigliava delle meraviglie altrui; il luogo le pareva brutto abbastanza. E ora cosa si pretendeva da lei infelice? Che sgambettasse per due o tre ore su quel dio di sassi? Che stesse lì ad aspettar gli altri in quella sorbettiera? Nepo sbuffavala rimproverava di non esser stata a casa. Steinegge protestò con enfasiil Vezza a fior di labbrache non avrebbero mai lasciata sola la signora. Né il Finotti né l'ingegnere dissero parolala conclusione si fu che Sua Eccellenza avesse a recarsi con Steinegge a un'osteria che si vedeva brillare al sole a un chilometro lontano dove la strada provinciale tocca il lago. Il Rico affermava che si poteva calarvi direttamente dall'Orrido per un altro sentiero. Quando il battello si staccò dalla riva il commendator Finotti domandò qualche cosa al Rico e si voltò poi a gridare:
«Coraggiocontessa! È qui vicino l'Orrido!»
«Xelo colù?» chiese Sua Eccellenza agli altriadditando il commendatore.
La comitiva si pose in cammino pel torrente seguendo il Rico che saltava di sasso in sasso come un ranocchio. Prime gli tenevano dietro Edith e Marinapoi veniva il Ferrierigran camminatoregran valicatore di montagne. Alle sue spalle trottava Nepotutto sbilencosudando per l'angoscia di camminar frettoloso sui ciottoli aguzzi. Egli si studiava d'intenerir Marina sul fatto dei due commendatori di retroguardia che mettevano veramente pietà. «Caro cugino» disse Marina voltandosi indietro e fermandosi. «Vi prego di rappresentar qui mio zio e di tener compagnia ai suoi tre ospiti.»
Nepo e il Ferriericapìta l'antifonarallentarono il passo e si raccolseromogi mogia' commendatori che avanzavanoil Finotti bollente e ansantel'altro seccato e scorato. Come videro le signore dilungarsi anche dagli altri duecadde loro la speranza di raggiungerle e sostarono a respirare un pocofremendo contro Marinamaledicendo chi aveva messo fuori pel primo la bella idea di venire a quello sconsolato massacro di piedi. Intanto sopravvenne loro il Ricomandato da Marina perché non avessero a smarrire la strada. Marina stessa non la conoscevama se l'era fatta insegnare dal ragazzo e camminava rapidamente senza parlare.
Edith le teneva dietrosilenziosa e nervosa essa purema per altre cagioni. Intorno a lei e più ancora dentro a lei suonava una sola parola: «Italia! Italia!». Da quando era venuta al Palazzose si trovava solase le sfuggiva un momento il pensiero di suo padre e dell'avvenirele sfolgorava subito il cuore questa parola: «Italia!». Allora stendeva la mano per toccare qualche cosa di verodi solidoe guardando l'orizzonte o qualche striscia bianca di strada lontanapalpitava e si perdeva in un desiderio indistinto. Adesso ell'aveva bisogno di fermarsi spesso per guardare a misura che la via salivalo svolgersi lento e maestoso delle montagnein alto il verde pieno di sole che saliva fino al cielo serenodietro a leial bassoil lago che s'allargava sempre più verso ponente.
«Ah» disse Marina entrando nel sole «ci siamo.»
Ella saltò di gioia tuffandosi nella luce e nel calore. Passava allora fra due campicelli di grano saraceno. Una nuvola di farfalle si alzò dai fiori bianchi del granovi aleggiò sopra per breve tempo e tornò a posarvisi.
«Pare neve» disse Marina volgendosi per la prima voltaa Edith.
Ma Edith era rimasta qualche passo addietro.
«Vengono?» le gridò Marina.
«Odo la voce di Suo cugino e del ragazzo»rispose Edith.
Marina fece una piccola smorfia.
«Venga con me» diss'ella.
Il sentiero toccavadue passi più suun gruppo di stalle seduto sullo spigolo del monte che si gira per andare all'Orrido. Quelle rozze stalle sedevano dentro una larga macchia di fango puzzolenteall'ombra chiara di alcuni noci tutti sforacchiati di raggi di sole. Non ci si udivanon ci si vedeva anima vivente; tutto taceva. Qualche gerla abbandonata presso gli usci chiusiqualche pezzo di corda accavallato al pozzale della cisternal'aspetto della profonda valle e un sussurro di lontane cascate invisibili accrescevano il silenzio. Il sentiero indicato dal Rico passava tra le stalle; Marina pigliò un altro viottolo che sale dritto a una cappelletta. Ella fe' cenno a Edith di sedere e disse piano:
«Aspettiamo che passino.»
In quella cappelletta era dipinto un Redentore coronato di spinebruttissimoa' piedi del quale si leggeva:
Quantunqueo passeggerti sembri un mostro
Io sono Gesù CristoSignor Vostro.
L'erba intorno brillava ancora di rugiada e di vento purovivificanteche faceva lievemente stormire le foglie dei noci.
Edith guardava quell'immagine piaomaggio di gente semplice al re del del dolorele veniva in cuore una dolcezza teneratriste; mille pensieri le venivano in mente sulla fede del povero pittoredel povero poetadelle donnicciuole che andando ai campi o tornandone affaticate dovevano alzare gli occhi a quegli sgorbi con maggior devozione ch'ella non avesse provato guardando Maria dipinta dal Luini. Avrebbe voluto profondarsi in questi pensierie non poteva; si sentiva legata da una catena dura e freddacomprendeva confusamente di soffrire della vicinanza di uno spirito umano affatto discorde dal suoappassionato di altre passionichiuso e superbo. Fra lei e il soleMarinarittascalfiva il suolo con la punta dell'ombrellinofiggendovi gli occhi e serrando le labbra; la sua ombra cadeva pesante sopra Edithle entrava nel sangue.
Intanto le voci dell'altra comitiva salivano sempre più distinte. Si udì un passo frettoloso fra i muri delle stalle e subito dopo sbucò dietro la cappelletta il viso sfavillante del Rico. Vedendo le signore si fermò di bottoaperse la bocca; ma un'occhiata fulminea di Marina gli troncò la parola. Spiccò un salto verso alcuni cespugli di morene colse e ridiscese di corsa. Le grosse voci dei commendatori gorgogliarono fra le stalle. Il commendator Finotti raccontava delle oscenità con la più franca energia di linguaggioda libertino mezzo che fruga nelle immondizie della parola per trovarvi la sua giovinezza. Si udì il Ferrieri dirgli ridendo:
«Il letame t'ispira.»
Marinaindifferentediede una rapida occhiata a Edith: ma Edith non poteva conoscere quella feccia di linguaggio e non batté ciglio né mutò colore. La sua compagna si strinse nelle spalle e aspettò in silenzio che le voci si spegnesseroquindi sedette presso Edith.
«Le informazioni» diss'ella «riguardano una persona che Lei conoscerà a Milano.»
«È sicura» rispose «che conoscerò questa persona?»
«Lei dovrà conoscerla.»
«Dovrò?»
«Dovràdovrà. Non per far piacere a mesaperché succederà così. Insomma non importa. Lei conoscerà a Milano questa persona ch'è un amico di Suo padre.»
«Si chiama Silla?»
Gli occhi di Marina lampeggiarono.
«Come lo sa?» diss'ella.
«Mio padre mi ha parlato di questo signore suo amico.»
«Che Le ha detto Suo padre?»
Edith non rispose.
«Ha paura?» disse Marina duramente.
Edith arrossì. «Non conosco questa parola» diss'ella.
Dopo un breve indugio Edith alzò il viso e guardò Marina:
«Sicuramente il vero» diss'ella.
«Il vero! Non parli del vero. Nessuno lo sail vero. Suo padre Le avrà detto che io ho insultato questo signore?»
«Sì.»
«E ch'egliuna notteè andato in fumo?»
«Sì.»
«Proprio in fumo? Non le ha detto dove si trova ora? Sì che glielo ha detto; Lei non vuole ora ripeterlo a mema Suo padre glielo ha detto sicuramente.»
«Io credo» rispose Edith con un leggero accento d'alterezza offesa «io credo che i miei discorsi con mio padre le debbano essere affatto indifferenti. So che un signor Silladi Milanoè amico di mio padreil quale non ha forse altri conoscenti in quella città. Per questo ho pensato ch'Ella volesse alludere a lui e ho proferito il suo nome. Mi dicaorase credecosa desidera da me pel caso che io conosca a Milano questo signore.»
Marina stette un momento pensosacon l'indice al mentocome se un sì e un no si dibattessero nel suo segreto; indi parve salir dalla terra una vampa nella bella persona. Ella fremé da capo a piediprotese il petto ansantele sue labbra si aperseronessuno può dire quello che dissero gli occhi. Edith trasalìattese parole imprevedute.
Ma le parole non vennero. La bocca si chiusela persona si ricomposela strana luce degli occhi si spense.
«Niente» diss'ella. «Andiamo.»
Edith non si muoveva.
«Venga» ripeté Marina; «Ella è troppo tedesca. Mi basta di sapere dove il signor Silla abita e cosa fa. Me lo scriva subito. Vuole?»
«Signorina» disse Edith «anche in Germania si può comprendere e sentire qualche poco. Non desidero sapere i Suoi segretima se posso fare un'opera buona per Lei...»
«Ahvirtù! Egoismo!» disse Marina. Una vecchierella curva sotto una gran gerla di fieno sbucò tra stalla e stalla davanti a leisi fermò e a gran fatica le alzò incontro la testa con un sorriso di bontà e di meravigliadicendo:
«Reverissi. Son venute a fare una passeggiata?»
Era un'immagine di miseria sucidasorta dal suolo fetido e dalle vecchie stalle diroccatescalzacon degli stinchi magri e neri di uccello da predacon il mento appoggiato a due lisci gozzi rossicci e un guazzabuglio di cernecchi grigi sulla fronte. L'occhio era dolce e sereno.
«Che vitapovera donna!» disse Edith.
«Non sono mica poi tanto povera. La vede. Son mica signoramagarima il mio vecchio guadagna ancora qualche cosae iocome possonehperché son già settantatré e passala gerla voglio portarmela qualche anno ancora. E poi il Signore ci sarà anche per noi due. Dunquereverissinehstieno benefacciano una buona passeggiata.»
Ella curvò il capo sotto il carico e fece atto di riprendere tentennando il cammino fra i ciottolii frantumi di tegole e le immondizie. Marina trasse il suo portamonete d'avorio e glielo pose bruscamente in mano.
«Ahcara Madonna!» esclamò la vecchierella «io non lo voglio. Non lo vogliocara Lei. Non lo voglio proprio mica. Ciaociao» soggiunse poi intimorita da un gesto e da un'occhiata di Marina. «Ahsignèliè troppo. Ciaociaocome vuole Lei. Ahsignèli!»
«Buon giorno» disse Marinae passò avanti.
Escita dal tanfo di letame e di putredineella si voltò; dovette leggere una parola benevola sul viso di Edith.
«Io non sono virtuosa» diss'ella «io non ridomanderò questo a Dio. Io non sono amichevole verso coloro che non amocon il nobile fine di acquistare un biglietto pel paradiso. Del restoLei non può fare per me che quanto Le ho detto; scrivermi dove abitache fa il signor Silla.»
Edith tacque.
«Teme» disse Marina «ch'io voglia farlo assassinare?»
«Oh noso bene che non lo ama» rispose Edith sorridendo.
Marina si sentì afferrare il cuore da una mano fredda. Ella passava allora presso la cisterna. Buttò le braccia sul parapetto e porse il viso al fondo. Il solo suono della parola ama le riempiva l'anima. Non lo ama aveva detto Edith: ma la negazione era caduta inavvertitanon la magica parola ama. Avvenne allora di Marina come di una corda musicale inerte che chiude in sé la sua nota silenziosama se una voce ignara di lei passa cantando nella stanza ove giacee tocca tra l'altre questa notasull'istante tutta la corda vibra. Amaamaama! In fondo al nero tubo della cisterna brillava un picciol disco sereno rotto da una scura testa umana. Marina chiamò involontariamente a mezza voce:
«Cecilia!»
La voce percosse l'acqua sonora e tornò su con un rombo sinistro. Marina si rizzò e riprese il cammino senza parlare.
Girarono le coscia della montagnadiscesa giù a destra fino ai greti del torrente. Il fragore di cascate lontaneche si udiva dalle stalleparve saltar loro in faccia col vento della vallata. Acque potenti non si vedevano; s'indovinavano là davanti in una gola strettachiusa da altri monti carichi di fosche nuvole meridiane e nell'ombra di una lunga spaccatura tortuosa che discendeva da quella gola nella valle fra una nera costa imboscataa frane rossastree una massiccia cornice di campicellidi pratelli verdiilluminati dal sole. A fianco della gola si vedeva una chiesa bianca appollaiata sopra un sasso eminente: sotto di lei una spruzzaglia di tetti scuridi capanne accovacciate nei prati. E praterie nitidearrotondateerano gli alti dorsi delle montagne a destra e a sinistrasparsi di macchiuzze neredi mille tintinnii che facevano una larga voce solaoscillantepura. Il sentiero fendeva i declivi erbosidrappi di fiori tremanti nel vento fresco d'autunno.
Marina si fermò guardando la gola in capo alla valle.
«Dev'esser là» diss'ella.
«Cosa?» domandò Edith.
«L'Orrido. Questo rumore vien di là. Oggi l'Orrido ha un gran fascino per me.»
«Perché?»
«Perché ci voglio entrare con mio cugino. Lei tacenon si commuove. Non pensa quale emozione trovarsi solain una cavernacon lui? Ha resistito Lei al fascino di mio cugino? Due occhi che vanno al cuore. E che spirito! N'è inzuppatopoverino. Non parliamo d'eleganza. È un Watteaumio cugino. Dev'essere tutto bianco e rosaun impasto di cold-creamun fondant! Non le pare? Dicanon m'invidierebbe se diventassi contessa Salvador?»
«Vedo che non lo diventerà» rispose Edith.
«Perché? Conosco una persona che si sposò per odio.»
«Non per disprezzoio credo.»
«Per odio e per disprezzo insieme. Son due sentimenti che si possono incontrare benissimo nel tallone acuto d'uno stivaletto. Questa persona se ne servì per fouler aux pieds con quattro colpi suo marito e parecchie altre cose odiose e spregevoli.»
A Edith pareva impossibile che si avesse a tenere questo linguaggio là in altodavanti alla innocenza solenne delle montagne. Pensò alla povera mamma sepolta lontano; se vedesse la sua figlioletta in tale compagniase udisse tali discorsi! Ma Edith non correva pericolo. Ella non ignorava il maleviveva sicura nella propria conscia purità. Lasciò che Marina continuasse a sua posta.
«Quest'amica mia si era innamorata di un altro. Si scandolezza?»
Edith non rispose.
«Vianon facciamo come se ci fosse qui il signor papà o il signor zio o un qualunque signore in calzoni. Quanti anni haLei?»
«Venti.»
«Dunque! Deve ben sapere quello che succede nel mondo. Tacciami lasci dire. Non credo a certi candori. Dunque l'amica mia aveva un amante e volleil perché non importavolle arrivare ad esso passando col suo stivaletto acuto sopra un marito spregevolesopra una razza odiosa. Che male c'è? Gli uomini proibiscono questo e quello. Bravi. Ma con quale diritto? Coloro che Iddio congiunse nessuno divida. Non è così? Presso a poco. Benequesto è belloquesto è grande. I preti sono stupidi con le loro spiegazioni. Domando se è Dio che mette cotta e stola e borbotta quattro parole per congiungere alla cieca due corpi e due anime. Dio li congiunge prima che si aminoprima che si vedanoprima che nascano; li portaattraverso tuttol'uno all'altro! Quelli poi che congiunge l'uomoossia le famiglieun calcoloun erroreun prete che non sa che cosa si facciaquelli Dio li divide! Cosa dicevo? quest'amica mia sposò con odio e con disprezzo; passò così!»
Slanciò avanti la persona fremebondae batté col piede a terra con tanta energia che parve a Edith ne dovessero saltar scintille.
S'udì una voce acuta da lontano:
«Signora donna Marina!»
Era la voce di Rico. Egli comparve prestocorrendo; quando vide la sua padrona smise di correre e gridò:
«Han detto così di far piacere...»
Marina gli accennò bruscamente con l'ombrellino di venire avanti.
Egli tacque subitospiccò altri due salti e giunse ansanteaccigliato nella sua gravità di ambasciatore e nella paura di lasciar cadere qualche briciola del messaggio.
«Han detto così di far piacere a venire un po' più in frettaperché è tardi e c'è giù la signora contessa che aspetta.»
«Dove sono?» disse Marina.
«Uno è qui vicino che viene incontro a Loroe gli altri sono nel paese.»
Non andò molto che apparve sua Eccellenza Nepo seduto sul suo fazzoletto accanto al sentiero. Si guardava attorno con un'aria sgomentata e si faceva vento con un piccolo ventaglio giapponese. Quando sopraggiunsero le signorine precedute dal Ricosi alzò in piedi escordandosi per un momento di essere gentiluomogridòprima di salutareal ragazzo:
«Perché non mi hai aspettatoimbecille?»
«Pare che avesse ragione di non aspettare» osservò Marina freddamente.
«Voi siete molto cattiva con me» rispose Nepo a mezza voce.
Marina non parve gradire quel tono intimopieno d'allusionie disse asciutta asciutta:
«Quanto c'è di qui all'Orrido?»
«È subito qui» mormorò il Rico fra i denti.
«Cielo clementeun'eternità c'è!» gemette Nepo. «Non è stata un'idea molto felice quella di farci arrampicare fin quassù. Il commendator Vezza e il commendator Finotti sono mezzi morti. Io sono un grandissimo camminatore e mi ricordo d'esser salito a piediquand'ero studenteda Torreggia al convento di Ruanegli Euganeiche non è piccola bagatella; ma qui non soè un camminare diverso: si fa meno strada e più fatica. Cosa volete che vi dica? Da noi anche i monti hanno più creanza.»
Approfittò d'un momento ch'Edith era uscita di strada per cogliere un ciclamino e disse a Marina non senza un dispettoso lagno nella voce e nel volto:
«E la vostra risposta?»
«Presto» diss'ella.
«Quando?»
«Venite nell'Orrido con me.»
Nepo non parve contentoma non poté chiedere spiegazioniperché Marina aveva preso il braccio di Edith e a lui appena bastava la lena di tener loro dietro.
I commendatori e il Ferrieri erano seduti presso la porta dell'osteria di C... sopra una pancaccia addossata al muroe parlavano a un vecchio calvoscamiciatodalla pelle color mattoneaccoccolato sulla soglia dell'osteria con una lunga pertica fra le gambe ignude; era il navicellaioil degno Caronte dell'Orrido.
L'Orrido sta a poche centinaia di passi dal paese. Il fiume di C... nasce qualche chilometro più in susi raccoglie lì tra le caverne immani in cui scendono a congiungersi due opposte montagnecorre per breve tratto in pianoall'apertopoi trabocca sotto il paese di rapida in rapidadi cascata in cascata sino in fondo della valleper morire ignobilmente nel lagolà dove approdò la brigata del Palazzo. Uscendo da C... si trova presto un ponticello di legno che gitta la sua ombra sopra una luce di sparse spumedi acque verdidi ghiaiottoli candidi. Non si passa il ponticello; si piglia invece a sinistra pel letto del fiume. Colà le acque blande ridono e chiacchierano correndo via tra la gaia innocenza dei boschi con certi brividi memori di passate paure. Di scogli non appariscono che striscie oblique a fior di terratappezzate di scuri muschidi fiocchi d'erbadi ciclami pomposi. Guardandolo in su dalle ghiaie si vedono a dritta e a manca disegnarsi sul cielo le due sponde come due colossali ondate di vette fronzutedue alte dighe viveluccicanti al soledi roveridi faggidi frassinidi sorbi che si rizzano gli uni dietro gli altrisi curvano in fuori per veder passare l'onde allegreagitano le braccia disteseplaudendo. Presto si giunge a un gomito del fiume. Non più solenon più verdenon più riso d'acque: immani fauci di pietra vi si spalancano in viso e vi fermano con il ruggito sordo che n'escecon il freddo alito umido che annera là in fondo la gola mostruosa. Il ruggito vien su dalle viscere profonde; l'acqua passa per la bocca degli scogligrossacupama silenziosa. Una sdrucita barchetta è lì incatenata a un anello infisso nella rupe. Porta due persone oltre il barcaiuolo. Si risale la corrente con quella barchetta che pare non voler sapernetorce il muso ora a destra ora a sinistra e scapperebbe indietro senza la pertica di Caronte. Il fragore cresce; la luce manca. Si passa tra due rupi nerequa rigonfie come strane vegetazionigemme enormi della pietralà cave e stillanti come coppe capovolte; tutte rigate ad intervalli egualiscolpite a gengive su gengive dal fondo alla cima. In altoil cielo si restringe via via tra scoglio e scoglioe scompare. La barchetta salta in una fessura buiapiena d'urlasi dibatteurta a destraurta a sinistrafolle di spaventosotto gli archi echeggianti della pietra chemorsa nelle viscere dal flutto velocesi slancia in altosi contorce. Dal sottilissimo strappo che fende il manto boscoso di quelle rupi filtra nelle tenebre un verdognolo alboreun lividore spettrale che macchia cadendo le sporgenze della rocciavien meno di sasso in sasso e si perde prima di toccar l'acqua verde cupa; si direbbe un raggio di luce velata di nuvolesull'alba.
Da quell'andito si entra nella «sala del trono» rotondo tempio infernale con un macigno nel mezzoun deforme ambone per la messa neraritto fra due fascie enormi di spuma che gli cingono i fianchi e gli spandono davanti in una gora largatutta bollimenti e spume vagabondelevando il fracasso di due treni senza fine che divorino a paro una galleria. È da quel masso che viene alla caverna il nome di «sala del trono». Si pensa ad un re delle ombremeditabondo su quel tronofisi gli sguardi nelle acque profondepiene di gemiti e di guaipiene di spiriti dolenti. Per una spaccatura dietro al trono sprizza nella caverna un getto di luce chiara.
Caronte staccò la barchetta dall'anello e con un urto poderoso la fe' scorrere dalla ghiaia nell'acqua. Intanto il Rico saltellava come una cutrettola pe' sassi sporgenti del torrente e otto o dieci marmocchi s'erano appollaiati dietro la comitiva a guardar fiso come uccelletti curiosi di un grosso gufo. Il Vezza che capiva pochino le bellezze naturalie il Finotti che non le capiva affattoammiravano rumorosamente l'orrida magnificenza del luogo. Il Ferrieri non si curava di unirsi a' loro entusiasmi e ne parlava tranquillamente a Edith. Le diceva di sentirsi freddo più del ghiaccio davanti a simili scenesin da quandonella prima giovinezzasi era schiacciato e ucciso dentro al cuore un poetaincomodo inquilino; soggiungeva però di dubitare oraper la prima voltache quello spregevole parassita fosse ben morto; gli pareva di sentirlo a muoversidi sentire un calore insolito...
«Avantisignori» disse Marina.
Infatti Caronte aveva terminato di disporre la navicella e accennava alle due signore di entrarvi.
«Mio cugino ed io» disse Marina «saremo gli ultimi.»
«Allora noi due saremo i primisignorina Edith.»
Così dicendo il Ferrieri avvolse alle spalle della sua bella compagna lo scialletto celeste ch'ella portava sul braccio. Edith non se ne avvidequasi; pareva affascinata dalla bellezza nera delle rocce spalancate davanti a lei. Entrarono ambedue nella barchetta e si allontanarono. Era bello veder passare tra quelle porte infernali la barchettalo scialle celesteil vecchio pittoresco ritto sulla prora colla sua lunga pertica. Presto scomparvero; prima Carontepoi lo scialle celestepoi la piccola poppa bruna. Dopo una decina di minuti ricomparvero la pertica ferrataCarontelo scialle celeste. «Dunque? Dunque?» gridarono il Vezza e il Finotti.
Nessuno rispose. Appena nello scendere a terra Edith e il Ferrieri dissero qualche fredda parola di ammirazione. Edith era triste e gravel'ingegnere rosso fino al vertice del cranio; il barcaiuolo attendeva impassibile che si raccogliesse la seconda spedizione. Edith restò presso Marina e il Ferrieri si allontanò a capo bassostudiando i ciottoli. Il Finotti e il Vezza partirono insiemedi mala voglia.
Nepo era inquieto. Non parlavama si moveva di continuoguardava quaguardava làcrollava la testa per iscuoter via l'occhialino che non aveva più; tuffò due o tre volte i piedi nell'acqua per andare di sasso in sasso in mezzo al torrente a spiar il ritorno della barchetta. Quando fu discostoMarina disse sottovoce a Edithaccennando il Ferrieri:
«Anche luiehcon i suoi modi di gentiluomo! Ho capito quando siete usciti di barca. Tutti eguali.»
«È una vergognauna vergogna!» disse la giovinetta fremendo.
«È stato molto audace?»
Edith arrossì. «Chi mi manca di rispetto solo per un momentoe con il menomo attoè molto audace» diss'ella.
«Signor Ferrieri» disse Marina ad alta voce.
Il Ferrieri si voltò. Voleva parere impassibile e non poteva.
«Favorisca di scendere dalla contessa Foscache si annoierà molto. La signorina ed io scenderemo dopocol ragazzoprobabilmente da un'altra parte.»
V'era nella voce vibrante di Marina il risentimento involontario della donna che coglie un uomoanche indifferenteai piedi di un'altra.
Il Ferrieri s'inchinò e partì.
«Non si usa fare quello che ho fatto io adesso» disse poi Marina a Edith. «Appena un vecchio chaperon lo farebbe. L'ho fatto per Leiperché Ella non abbia più a trovarsi con quel calvo Lovelace che Le mette tanto ribrezzo; e perché qualche volta non m'importa di quello che si usa.»
«Grazie» rispose Edith.
La barchetta ritornò con i commendatori.
«Conte!» disse Marina.
Nepo fu per rispondere «Contessa!» ma non fece che aprire le labbra ed entròdopo Marinanella barchetta.
«E Ferrieri?» chiese il Vezza.
«Ci precede abbasso» rispose Marina.
Ma ella era già a quattro passi dalla riva e le sue parole confuse al ruggito sordo del fiume non si distinguevano quasi più.
Si strinse nello sciallepiegò il viso per schermirsi dal vento freddo che la spruzzava di minute goccioline d'acquastillanti dalle rocce. Guardava con occhi vitrei venirle incontro nell'ombra l'acqua grossaveementesenza una vocesenza una ruga.
La barchetta si accostava all'andito tenebroso che precede la «sala del trono». La figura del vecchio ritto sulla prora pigliavatra gli scogli lucidi e neriun colore sempre più foscoi colpi della pertica ferrata sparivano nel fragore assordante delle cascate interne. Non ci si vedeva quasi più. Nepo si chinò verso Marinale prese una mano.
«Ah!» diss'ellacome offesa; ma non ritrasse la mano. Nepo la strinse fra le suefelice; non sapeva che dire; gli pareva tutto fosse detto; stringeva a più riprese quella mano freddainertecome se volesse spremerne un concettouna fraseuna parola. Ebbe un'idea. Tenne con la sinistra la mano di Marina e le cinse la vita col braccio destro. Marina si strinse in sé e si slanciò avanti.
«FermoCristo!» urlò il barcaiuolo. Non ci si udivanon ci si vedeva più. Il fragore uniforme metteva nella fronte e nel petto una contrazione penosa.
Nepo rallentò la sua stretta. Non comprendeva quel guizzo di Marina. Parlò. Gli era come parlare con la testa tuffata nella corrente; ma eglisbalorditoparlava egualmente. E sentì la vita di Marina ribattere indietro al suo braccio. Trasalì di piacereallargò avidamente la mano che le cingeva il bustocome una branca di bestia immondafatta audace dalle tenebre; allargò le dita nella cupidigia di avvinghiare tutta la voluttuosa personadi trapassar le vesti e profondarsi nella morbidezza viva. Marina s'era ricacciata indietro con la cieca bramosìa di stritolare quel braccio che la irritava come una sferza e s'era volta a insultar Neponon udita e non vista. L'acquail ventole pietre stesse urlavano cento volte più fortesempre più forte. Schiacciavano con la loro colleracon la loro angoscia colossalela piccina collerale spregevoli angoscie umane. Schiacciavanobuttavano via sottosopra le parole come polvere. La brutale natura prepotente voleva parlar sola. Nepo sentiva il caldo busto di Marina stringersi e dilatarsi ansante sotto la sua mano; gli pareva di discernerenel frastuonouna fioca voce umana; immaginava parole d'amore e porgeva le labbra in cerca delle labbra di leifiutando le tenebreaspirando un tepore profumatopieno di vertigini.
Allora un vigoroso colpo di pertica fece che la barca girasse l'ultima svolta dell'andito buio saltando in un diffuso chiarore verdognolo che pareva ascendere dall'acqua trasparente. Nepo non ebbe tempo di veder Marina in viso. Il barcaiuolo ritto sulla prora si era voltato verso di loro. Nepo lasciò prontamente Marina e finse di guardare in alto. Il vecchio barcaiuolo aveva addossato lo scafo allo scoglio puntando la sua pertica alla parete oppostaecon il braccio liberotrinciava di gran gestimostrava la cavitàle gobbe mostruose della pietra.
«Bellissimo!» gridò Nepo.
Caronte si toccò l'orecchio e fe' con l'indice un segno negativo: indi agitò in su e in giù la mano distesaaccennando in pari tempo del capo come per promettere qualche cosa di più belloe ricominciò a lavorar di pertica.
Marinapallidaserrate le labbrachiusa nello scialle bianco che le stringeva le spallepareva un'anima peccatricefuggita nello sdegno alle ombre dei fiumi infernalimezz'irritatamezzo stupefatta.
La «sala del trono» si spalancò a prora come una visione verde dorata con la sua gran cupola informe. il macigno nero nel mezzoi tonanti fiotti di spuma e i bollimenti dell'acqua lungo le pareti gibbose; ma la barchettainvece di entrarviscivolò a destra in un seno cieco di acqua tranquilla e si arenò. Una gigantesca cortina di pietra cadeva dall'alto a formar quella calaschermandola in parte dal fragore dell'acqua. Colàparlando fortesi poteva farsi intendere. Il barcaiolo domandò a Marina se l'Orrido le piacessee soggiunsesorridendo con cert'aria di benigno compatimentoche piaceva a tutti i signori. Quanto a lui non ci trovava di buono che le trote. Diceva che in quel posto lì eran frequentie volle che Nepo e Marina si voltassero a guardar nell'acquapromettendo ne avrebbero visto balenar qualcuna sul fondo.
Nepovoltandosivenne a sfiorar la guancia di Marina. «Non mi toccate» diss'ella duramentesenza guardarlo.
Egli attribuì quelle parole alla luce indiscreta e non se ne commosse che per dire con mal piglio al barcaiuolo:
«Cosa ne facciamo delle tue troteimbecille? Andiamo!»
I suoi modi con gl'inferiorida gentiluomo maleducatogli avevano già procacciato uno schiaffo a Torino da un garzone di caffè e potevano procacciargli altrettanto e peggio da Caronte; ma costui non intese che l'ultima parolae risospinta indietro la barca nella correntela fece entrare nella caverna grandel'addossò al tronodove l'acqua era più tranquillae ricominciò la sua mimica di cicerone muto. Accennò con la mano che si poteva salire sul macigno e uscir quindi per la spaccatura della rupe dall'Orrido. Marina si gettò addietro lo sciallebalzò in piedi sul sedile della barchettarespinse l'aiuto dell'attonito barcaiuolo eposando i piedi sopra i risalti del massoin due slanci gli fu sopra. Di là accennò imperiosamente a Nepo di seguirla. Neporitto in barcaandava tastando il sassotitubava e guardava di sbieco Caronte. Questi lo levò di peso e l'appoggiò allo scoglio; come a forza di raspar con mani e piedi vi si fu appiccicatolo urtò sucon la palmealla cima.
L'acquaentrando furiosamentepiena di luceper la fenditura della rocciasi frangevaa tergo del tronoin due branche spumose che lo allacciavano. Dal trono si passava oltresi usciva all'aperto per una assicella lunga e sottile gittata sopra i sassi sporgenti dell'acqua. Tenevano quella via i pescatori di trote.
Marinaseguita da Neposi avviò per l'assicella dopo aver accennato al barcaiuolo che l'attendesse. All'uscita dell'Orrido si apriva una scena severa che sarebbe parsa selvaggia a chi non vi fosse salito dalle caverne inferiori. Il torrente saltava giù allo scoperto per immani scaglionibrillando al sole come una rete di fila d'argentoa grandi maglie irregolaripiene di fragorefra due scogliere protese in atto di chiudersi una sull'altramezzo ignudemezzo cenciose nei loro brandelli di bosco. Marina salì presso alcuni tassi rachitici che uscivano a lambir con le loro frondi nere un pietrone ritto a fianco della bocca dell'Orridoove il terribile fragore era grandemente affiochito. Si sdrucciolava assai per quel ripido pendìo erboso inzuppato di rugiada nella sua ombra perpetua. Non v'era sentieroma solo qualche forte impronta di passi nella terra rossastra.
Nepo saliva a grande stentoabbrancandosi con le mani ai ciuffi d'erba. Sostò a pochi passi da Marina per pigliar fiato.
«Fermatevi lì» diss'ella. «Avete più coraggio all'oscuro.»
«Ohadesso poi» disse Nepo «non mi fermo certo.»
«Fermatevi!»
Nepo si fermòrannuvolatoinquieto. Aveva prima pensato ch'ella volesse procacciargli un colloquio fuori della vista importuna del barcaiuolo. Ora non comprendeva più. Si stizziva in cuor suo con Marina; ma gli era pur entrato da pochi minuti un sentimento oper meglio direuna sensazione nuova.
Dalla piccola mano di vellutodal busto caldoansante che aveva strettigli si era infiltrato nel sangue un turbamento insolito per luiche usava dire di sentirsi uomo con le pedineangelo con le dame.
Tacquero un momento tutti e due.
«Dunque lo volete?» disse Marina.
«Ah» rispose Nepo allungando le braccia.
Nuova pausa.
«Perché lo volete?»
«Che domandamio Dio!»
«Non è vero?» diss'ella sorridendo. «Avete ragione.»
Lo guardò ben fiso con lo sguardo penetrante che le compariva e scompariva nella pupilla a suo talentoe disse con voce più forte:
«Ma io non Vi amo!»
«Oh anima mia!» disse Nepo intendendo male. E si arrampicò fino a lei.
Ella fece un passo indietrosorpresa.
«Non Vi amo!» ripete.
Nepo impallidìammutolì; poi proruppe a voce bassama concitata:
«Non mi amate? comenon mi amate? E cinque minuti fa in quella barca all'oscuro...»
«Ah sì? V'è parso?»
«Mamio Diose quella barca potesse parlare!»
«Direbbe male di Voi. Vi siete ingannato; non Vi amo!» Nepo la guardava con le sopracciglia inarcate e le labbra semiaperte.
«Però Vi accetto» diss'ella.
Nepo mise un ah soffocatosi trasfigurò nel viso e stese le mani verso di lei.
«Dunque Vi basta?» diss'ella.
Nepo volle rispondere con un abbraccioma ella fu pronta ad appuntargli l'ombrellino al petto.
«Scendete subito» disse. «Il barcaiuolo potrebbe andarsene. Io non vengo con Voi; giro l'Orrido di fuori. Nonon ci vengo. Voivenire con me? Non Vi voglio. Andate. Non siete contento adesso? Dite alla signorina Steinegge e al ragazzo che mi aspettino al ponte. Voialtri precedeteci. Non ci aspettate laggiù alla barca. Non aspettateci neppure a pranzo. Quando sarete a casa parlate pure a Vostra madre e a mio zio. Subitoprima che io ritorni. Andate.»
Egli non ne voleva sapere di andarsene. Implorò un bacionon l'ebbe; anche la piccola mano di vellutoanche un lembo della veste furono negati alle sue labbra.
Afferrò l'ombrellino e baciò quelloimpregnato esso pure dell'odore di lei. Le acque e le frondi ne risero; ed egli se ne andò contento e malcontento insiemeagitato dalla torbida poesia de' sensi che non è del tutto abbietta e mette almeno qualche volta in ogni anima il suo fervor vitaleil suo cupo fiore di un giorno.
Quando Marina arrivò al ponteEdith era là ad attenderla con il Rico. Rifecero in silenzio la via percorsa il mattino sino ad una vecchia pietra ove era scrittocon la relativa freccia: «Ai monti». Lì presero per una stradicciuola che accennava ad un collo assai depresso tra la scogliera che è sopra C... e altri dorsi erbosi.
Erano presso al collo quando Marinache precedeva Edithsi fermò e le disse bruscamente:
«Sa? Sono stata leale.»
Edith non comprese e non rispose. Ella non pose mente alla emozione febbrile che vibrava nella voce e luceva negli occhi di Marina. L'anima sua era tutta nello spettacolo della valle che si trasformava salendonegli orizzonti che si allargavano tra le ondulazioni delle cime verdi ed altre cime azzurrognolenella tremula nota continua delle campanelle vaganti per i pascolinelle voci acute e gravi di acque che passavano cantando sul fondo di riposti valloncelli e fra l'erba dei prati cadentionde saltavano talvolta sulla via per fuggire dall'altra parte. Ella camminava più lentacontemplando il cielo così puro al di sopra delle passioni di tante montagne sfolgorate in fronte dal sole obliquo a cui tutte parevano guardareunite in qualche grande pensieroin qualche sublime preghiera senza parole. Sospirava e sentiva scendersi al cuore l'aria piena di questo spirito muto delle montagne. Non comprendeva come si potesse pensare ad altronon sentiva piùcome al mattinol'influenza penosa di Marina; era libera. Giunta sul collo del montedisse guardando la nuova scena che le si apriva davanti:
«È una poesia.»
Marina non aperse bocca. Edith videaccostandoseleche ella aveva gli occhi pieni di lagrime; si fermòsorpresa. Marina le prese il braccio con forzaeaccennato al Rico di andare avantiuscì con lei di stradarapidamentecamminando sul prato; ad un tratto abbracciò la sua compagna e proruppe in singhiozzi disperati. Singhiozzòsinghiozzò sull'omero sottile di Edithstringendole convulsa le bracciaparlando con le labbra impresse nelle sue vestiscotendo fortea ogni trattola testa. Edithcommossatremava da capo a piedisi sentiva vibrare nel petto il rombo di quella voce soffocata e non poteva coglierne alcun suono distinto; provava nel cuore una pietà grandecome se il cuore avesse intese le cose singhiozzategli sopra; provava un affannoso bisogno di trovar parole di confortoe non sapeva. Ripeteva: «Si chetisi calmi» ma senza fruttoche Marina scoteva allora la testa con maggior violenza. Chinò il volto e le posò la bocca sui capelliesitò un momentolottando con qualche occulto pensierobaciò finalmente quella testa alteracosì umiliatae ne provò consolazione come d'una vittoria. A poco a poco i singhiozzi si chetarono. Marina alzò lentamente il capo e si staccò da Edith.
«È passato» diss'ella «grazie.»
«Mi parli» disse Edith affettuosamente. «Se Lei mi vedesse il cuore...»
«Le ho parlato» rispose Marina. «Le ho detto tutto.»
Ella ebbe ancora due o tre singhiozzi convulsisenza lagrime. Edith voleva che sedesse. «Nono» rispose «è passato.» Si morse il labbro sino a sangue e si affrettò a ripetere: «È passatoè passato.» Ella s'era appoggiata a un grosso macigno bianco intagliato a traforo dai ghiacciche usciva dal prato fra cespugli di mugocome una scapola enorme di qualche mostro fossile mai sepolto. Ci aveva posate ambedue le spallee volto il viso sulla spalla destrasi guardava la mano rabbiosamente attorta agl'intagli bizzarri del sasso.
«Mi dica...» ripeté Edith.
Marina voltò la testa e strappò il fiore azzurro da un lungo stelo che saliva presso a lei.
«Che fiore è?» diss'ella bruscamente. «Pare aconito.» E lo porse a Edith.
Questa prese il fiore senza guardarlovolle insistere. Marina fu ripresa da un assalto nervoso violento. Stavolta abbracciò il massovi soffocò i singulti. Pareva sitibonda di entrar nella pietradi gelarvidi irrigidirvi per sempre.
E intorno a lei era tanta pace!
Le campanelle delle vacche empivano del loro tremolìo i silenzi solenni della montagnamettevano voci di vita innocente nei pascolinelle selvette compatteverde-dorate di giovani faggiin giro a rade macchie metalliche d'abbeveratoi stagnanti. Presso quel sasso gli aconiti rizzavano nel sole fuggente la loro pompale felci curvavano le grazie leggere del fogliame color di aprileciclami vanitosi gittavano i lunghi gambi ignudi de' loro fiori. Tutti circondavano Marina di pacedi dolcezza gravesilenziosa.
Si udì la voce lontana del Rico che gridava:
«Uuh-hup! Uuh-hup!»
Voci di mandriani rispondevano:
«Uuh-hup! Uuh-hup!»
Parean saluti al sole che aveva levato il suo raggio dall'erba e saettava la cima del sasso bianco. Il tremolìo diffuso delle campanelle s'avvicinava da tutte le parti all'alpe di C... accovacciata in un seno erboso sotto le scogliere. Le vacche vi si avviavano a filea drappelliaccodandosi le une alle altre sugli angusti sentieritrottando giù dai brevi pendiisbracandosi lente nei pratifermandosi di tratto in tratto a levar il muso e muggire.
Il Rico gridava sempre:
«Uuh-hup!»
Marina si scossesi volse a Edith e le disse:
«Andiamo. Adesso è passato davvero.»
Edith la pregò ancora di parlaredi confidarsi a lei.
«Le ho detto tutto» rispose da capo Marina. «Non potrei ora ripeter quello che Le ho detto. Non lo sento più. Metta che vi fosse in me un sentimento ch'io ignoravo. Ad un tratto ha divampatomi ha preso alla golaal cervellodappertutto. Ma è stata una vampa sola. Adesso è morto. Non lo sento più. Non so più nemmeno se fosse dolore o sgomento. Saquando si entra in una via sconosciuta viene sempre questo dubbio: "E se sbaglio? Se mi perdo?" Non durama viene. Senta; se in avvenire udrà parlare di mecontro di mesi ricordi questa sera. Allora capiràforse.»
«Spero che non udrò parlare contro di lei.»
«Oh!»
Tornate sul sentierotrovarono il Rico fermo ad aspettarle. Si faceva tardiera freddo. Scesero in fretta verso Val... Marina non parlavaseguiva i suoi pensieri. Solo dopo una mezz'ora di cammino prese il braccio di Edith e le disse:
«Glielo racconti.»
«A chi?» rispose Edith.
Marina trasalìle lasciò andare il braccio e non disse più nulla.
Il sasso biancosgretolato dal geloritto fra il mugole felci e gli aconiti sotto il cielo pallido della serasapeva forse per quali angoscie oscure un corpo e un'anima si fossero dibattuti insieme sopra i suoi fianchi durifreddisenza pietà. Se vi dormiva il torbido spiritol'insensatum cor della montagnapoté sognare che un altro coreappena incatenato alla colpa e alla sventura era corso a palpitar fortequasi a frangersi addosso a luiin un impeto di dolore atroce scoppiatogli su da profondità che oltrepassano la coscienza; poté sognare quanto si soffra anche fuor del suo carcere ciecoanche nel mondo sperato dei sensidel pensiero e dell'amore. Non si udivano più le campanelle delle vacchesalivano dalle valli fiocchi di nebbiasaliva dall'Orridocome un gran piantola voce del fiumee là in alto il sasso bianco si faceva sempre più tristesempre più cupotra il mugole felci e gli aconitisotto il cielo pallido della sera.
7. Un passo del destino
Suonavano le otto quando Edith e Marina giunsero alla scalinata dei Cipressi. C'eran le stellema i vecchi alberi colossali le nascondevanotanto che il Ricoda buon cavalieresi fermò a gridare con quanto fiato aveva:
«Lume!»
Dopo di che scese a salticome un gattoper le tenebre.
Un lume comparve nella loggia e una voce gridò:
«Son qui?»
Poi il lume scomparve.
«Ohsignora Fanny!» rispose il ragazzo. «Porti giù il lume! Faccia in fretta!»
Il lume ricomparve subito nel cortile.
Edith e Marinache scendevano adagiopoterono udire un battibecco tra il Rico e Fanny ea quando a quandola voce della contessa Fosca. Fanny aveva una candela e il Rico voleva un lanternino. La contessa ripeteva: «Non avete trovato Momolo? Non avete trovato Momolo?»
«Signora none abbiam mica trovato di Momoli. Leisignora Fannyvada colla candelache io andrò a pigliare il lanternino.»
Fanny e la contessa si avviarono alla scalinata.
«Marina!» chiamò Sua Eccellenza.
«Contessa!» rispose Marina ancora invisibile.
«Non hai trovato mio fiotesoro? Non hai trovato Momolo? Oh Dioche scala di Ponzio Pilato! Mi sorprendo di Momoloperché te l'ho mandato incontro cinque minuti fa. Mio fio sarà mezz'ora che ti è andato incontro. Aspettatu col lumecosa sei tuviscereche c'è un maledetto scalino mezzo rotto. Ecco. Dove seiMarina! Vienicara! Alzate quella candelabenedetta! Oh DioMarinanon ti vedo ancora!»
Il Rico le passò avanti con il lanterninofacendo gli scalini a tre a tre. Lo si vide fermarsi tosto e ridiscendere. Dietro al lanternino luccicavano nell'ombra certi grandi bottoni d'acciaio che la contessa conosceva. Ella si fece avanti e abbracciò Marina.
L'abbracciò con impeto a più riprese e le sussurrò all'orecchio:
«Dio ti benedicadeliziaeri il sogno del mio cuore.»
E non finiva di baciarla.
Marina taceva. Edith chiese a Fanny se suo padre era in casa. Fanny non lo sapeva.
«Notesoro» disse la contessa spiccandosi da Marina. «Noè uscito da un pezzetto con uno di quei tre re magi; non con quell'asino di stamattina che voleva farmi veder l'Orrido; con quell'altro lungoquel della piazza.»
La contessa Fosca non ricordava mai o quasi mai il nome delle persone che conosceva da poco tempo. Parlava sempre di quello dal naso lungodi quello dalla bocca stortadi quello dagli occhiali.
Marinaappena sciolta dagli amplessi della contessale gittò un frettoloso «a rivederci» e discese con Fanny.
Sua Eccellenza prese il braccio di Edith e scese con lei adagio adagiodiscorrendo e interrompendosi ogni momento per la paura di cadere.
«Che angeloquella Marina! Piano. Che sentimentoche talento! Pianobenedettapiano. E bella! Un momentoviscere; non son mica un saltamartino come Voi. Dunquecosa vi pare? Non sapete? Non vi ha detto niente quella briccona? Neppure una parolina? Tutta delicatezza. Oh Dioio rotolo giùfiglia cara. A piano. Dimmitesoroera ella di buon umore adessovenendo giù da quelle maledette montagne?»
Edith capiva sempre poco il linguaggio della contessa. Ora lo capiva meno che mai.
«Beatanon è vero?» riprese la contessa. «Beatapoveretta. Ehla ho vista. È l'ultimo scalino questo? Commossala me anima. In nome di Dio che siamo abbasso.»
Attraversarono il cortileprecedute dal lanternino del Rico. I raggi lunghi e sottili si trascinavano barcollando per la ghiaia candidasaltavanosi allargavano sulle grandi foglie vellutate degli arumscintillarono un momento sulle perle e i brillanti del getto d'acquail quale raccontava e raccontava la sua vecchia storia monotona e malinconica.
Presso alla porta del Palazzo la contessa si fermòtrasse Edith a sé e le disse sottovoce:
«OhinsommaVe lo dico io. Io ho già in testa che siate una furbaccia e che sappiate tutto. Marina sposa mio fio.»
In quella una voce flebile chiamò dall'alto:
«Eccellenza!»
«Chi è! Cosa è nato?» disse la contessa guardandosi alle spalle.
«Son MomoloEccellenza.»
«Dove diavolo vi siete ficcato!»
«Son quaEccellenza.»
«È su lì» disse il Rico ridendo come un matto del suo riso argentinomalizioso. Corse sotto la muraglia che sostiene il vigneto e alzò la lanterna quanto poté.
«Eccolo su!» diss'egli.
Si videro le gambe nere di Momolo.
«Come hai fattobestiaper andar lì?»
«NienteEccellenzaho perso la strada... Mi pareva anche a me adesso che non dovesse andar bene. Se ha la bontàEccellenzadi mandarmidopoil putto col lumemi trovo subitonon la dubitiEccellenza.»
Il putto dal lume rideva a crepapelle.
«Il conte Nepo lo hai visto?»
«NoEccellenza.»
«Beneadesso verrà qua questo birichino a farti lume e dopo andrete insieme incontro al conte Nepoe gli direte che la marchesina è arrivata.»
«ServirlaEccellenza.»
Il Rico risalì la scalinata col lanternino e la contessa entrò in casa senza badare se Edith ve l'avesse preceduta o no.
Edith era immobile al posto e nell'atto in cui l'avevano colta le parole della contessa Fosca. N'era rimasta sbalordita. Ripensando gli strani discorsilo strano contegno della sua compagna di passeggiocomprendeva questo solo: che i Salvador facevano compassione e che Marina faceva paura. Finalmente alla voce di Nepo che tempestava per la scalinata con Momolo e il Ricosi scosseentrò in casa pensando un altro pensieroil pensiero del Ferrieri. Il Ferrieri non era poi stato tanto temerario quanto Marina avrebbe potuto credere. Lo aveva tocco la bellezza quieta e intelligente di Edithil suo contegno così diverso da quello delle ragazze troppo timide o troppo ardite ch'egli conosceva. Sognava aver trovato una donna simile all'alta idea che portava in mente al di sopra degli opificidelle macchinedelle ferroviede' suoi scolaride' suoi maestridella sua fredda scienza. Stimava che quell'incontroa quarantadue annifosse l'ultima offerta della fortunae tutta la sua giovinezza inaridita rinverdiva. Aveva presso a che deliberato di parlare a Steinegge prima che a Edith. Nel buio dell'Orridostando presso a leismarrì il suo sangue freddole prese le mani con forzale parlò e non potépel gran fragoreessere inteso. Compreseprima dalla violenta ripulsapoi dal volto di leiquanto l'avesse offesa; comprese troppo tardi come in quel luogo una violenta dichiarazione d'amore potesse venir male interpretata. Infatti Edith l'aveva interpretata male e ora andava pensando perché mai suo padre fosse uscitocosa insolitacol Ferrieri.
Intanto sopraggiunse Nepo infuriato per non aver saputo combinar Marinae gridando «non è possibilenon è possibile» oltrepassò Edithsenza salutarlanel vestibolomentre il Ricofermo sulla porta con il suo lanterninose la rideva di cuore e Momolo brontolava: «Ohebardassarispettiamo Sua Eccellenzadigo.»
Nepo si abbatté sulle scale in Fanny che scendeva in fretta a cercare di Edith per il pranzo. «Dov'è la signora marchesa?» diss'egli senza fermarsi. «Dov'è?» rispose Fannysaltando giù per una diecina di scalini. «Nella sua camera» gridò dal fondo della scalamentre lui n'era già al primo pianerottolodove sua madre lo attendeva impaziente.
«Dov'è?» diss'egli sottovoce. «Cosa ti ha detto? Sa che hai parlato al conte Cesare?»
A tante domande la contessa rispose con altrettante:
«E tu cos'hai fatto che non venivi più? Dove ti sei perso? Hai trovato Momolo? Va làdiglielo tu che ho parlato al vecchio. Fa presto. L'hanno chiamata a pranzo. In salotto la non c'è ancora. Sarà in camera sua. Aspettala in loggia. Va là!»
Quale ignoto spirito d'inquietudine si era infiltrato per le pietre del palazzo? Tutti vi erano nervosi come Nepo e la contessa Fosca. Il signor Paolo rumoreggiava in cucinaindispettito di dover servire un secondo pranzo. Catte aveva toccato una ramanzina dalla contessa per certo bottonee girava di quadi làcercando non so che cosaborbottando fra i denti di non aver mai visto la padrona così cagna come quella sera. Un domestico correva su e giù dalla cucina al salotto con piattibottiglie e bicchierisbattendo gli usci co' piedialla disperata. Ferrieri e Steinegge rientravano dalla passeggiata agitatissimi l'uno e l'altro. Il conte Cesareil Finotti e il Vezza discutevano in sala il primo annuncio della Convenzione di settembre. Il Vezza le saettava freddi sarcasmi da spettatore indifferentespruzzati d'aceto clericale; il Finottifuturo membro della Permanentela combatteva con furore; e il conte Cesare la giudicavacon le sue idee da patrizio romano anticoun colpevole mezzo termineun dire al nemico «non ho paura solo delle tue armima anche della tua ombra» e si riscaldava contro il reil Ministeroil Parlamentole classi dirigenti che governando a quel modofornivano un pretesto al ribollire del democraticume balordo e borioso. Il conte Cesare parlava più acre del solitotemeva che il Finotti ed il Vezza lo pigliassero per un alleato e non risparmiava nelle sue invettive gli amici politici dell'uno né dell'altro.
Marinamalgrado l'avessero avvertita di scendere a tavolasedeva ancoranella sua camera da lettoal tavolino ovale che le serviva qualche volta da scrittoio e a cui ora appoggiava i gomitireggendosi le tempie con le palme. La candela che ardeva davanti a lei le metteva de' bagliori aurei nei capelli e rivelava fila azzurrognole di vene all'angolo della sua fronte biancamezzo coperto dal mignolo roseo; gittava sugli arredi lucidi dispersi nella stanza oscura dei fiochi riflessicome occhi di spiriti che guardassero la donna pensosa. Sul velluto azzurro d'uno scannello aperto fra i suoi gomiti c'era un foglietto cenerognolo con un grande viluppo di rabeschi d'oroun'orgia di quattro lettere attorcigliate insieme; sotto a questeun drappello di zampine di moscain battaglia: più giùal posto del capitanoun nome solo: Giulia. Le zampine di mosca dicevano così:
Sai che trasporto anch'io la mia capitale da via Bigli a Borgonuovo? Così ha voluto l'imperatore. Son corsa ieri a dire addio alla mia buona vecchia via erbosa. Che orrore i trasporti di capitale! Ho lasciato Sua Maestà nella polvere con gl'imballatori e i tappezzieri e son tornata qui per mandarti subito un petit pâté chaud. È un gruppettino di casi di romanzomolto bene impasticciatie ha in mezzo il signor Corrado Sillaautore di Un sognodomiciliato in Milanovia S. Vittore.
Ti racconterò il gruppettino di casi che me l'han fatto scoprirema un'altra volta; quando potrò dirti qualche cosa di più.
Adieuma belle au bois dormant. Domani viaggio per affari: vado a ballare a Bellagio. Poveri myosotis! Chi se ne ricorda? Stavolta sarò in bianco. Avrò dei coralli e avrò anche delle magnifiche alghe del Baltico che mi manda G... da Berlino con un sonetto. Quello non l'avrò.
Giulia
Si batte alla porta e la voce di Fanny disse:
«La non viene? La non si sente bene?»
«Vengo» rispose Marina. Balzò in piedi e con un impeto d'orgogliosa gioia stese all'indietro le braccia apertealzò il viso trionfanteguardò in altodavanti a sé. Si slanciò fuoriscivolò giù dalle scale e in loggia trovò Nepoinquieto.
«Finalmenteangelo mio!» diss'egli. «La mamma ha parlato allo zio. È contentissimo. E Voi?»
Le cinse con un braccio la vitaaspettando.
«Felice!» diss'ella e gli sgusciò di mano con una delle sue risate argentine che suonò via per la loggia e al di là dell'altra porta nella sala di conversazionedove tuttitranne il conte Cesaresi alzarono in piedi ed ella passò correndo leggera come una fatacon un cenno del capo e un sorriso.
«AtalantaAtalanta» disse il commendator Vezzaguardandole dietro. Nepo entrò a precipiziotutto rossocon gli occhi che gli schizzavano dalla testaincespicò sulla soglia e venne ad abbracciarsi al Vezza per non cadere.
«Scusicaro commendatore» diss'egli con un impertinente tono corbellatore «speravo abbracciare qualche cosa di meglio.»
"Maledetta bestia!" pensò il commendatore. «Si figuri!» diss'egliasciuttoasciutto.
«Non è verozio?» rispose l'altro pigiando sulla parola zio. «Lei se lo può bene immaginareziochi speravoa buon dirittoabbracciare. Onorevoli signoriloro sono liberi di trarre dalle mie paroleda tutte le mie parolele induzioni... più legittimele induzioni... più ragionevoli!»
Egli strascicava e ripeteva i sostantivimeditando l'epitetovibrando poi con un ampio gesto oratorio.
«...Le induzioni... più naturali! Io credo di non poter meglio... sviscerare! diròquesto vocabolo.»
E passòtronfionel salotto.
Il conte non si poté tenere:
«Burattin» diss'egli fra i dentiin piemontese.
«Eueueuh!» sbuffò il Vezzasfogandosi. «Lo hai sviscerato.»
«Ma!...» disse il Finotti accennando il salotto alle sue spalle col pollice della mano destra e facendo una smorfia eloquente.
Il conte tacque.
«Dobbiamo...?» riprese l'altro stendendogli la mano.
«Uuuh» esclamò il conte.
Era una smentita o un rifiuto sdegnoso di felicitazioni?
Nessuno lo domandò. Non si udirono che le voci del salotto.
Nel salotto la contessa Fosca e Nepo assistevano al pranzo di Marina e di Edithla quale comprendeva essere di troppo e non vedeva l'ora che il pranzo fosse finito per raggiungere suo padre. Questi passava e ripassava in saladavanti alla porta aperta del salottogittando a Edith delle occhiate strane.
«Dioche deliziaquesto paesecugina!» disse Nepoispirato. «Quell'Orridoche luogo indimenticabile!»
Egli guardava Marina con i suoi grandi occhi miopia fior di testaappoggiando i gomiti sulla tavola.
«Il cuore mi palpita quando vi penso. Questa notte non scenderà sonno sulle mie pupille. Ah! È inutilemammatu non puoi comprendere con la tua anima il segreto incanto di quella grotta. Ah!»
Si alzò in piedi e dimenò le braccia come un forsennato estatico; dopo di che abbracciò sua madre che si mise a gridare:
«Mattomattolasciami stare coi tuoi spiritessi.»
«Senti questasenti questamamma» diss'eglirizzandosimentre la contessa ripeteva a Marina «è in boressoè in boresso.» Marina chiamò il Finottiche guardava curiosamente dalla sala.
«Lascialo starecolui»disse la contessa.
«Finotti!» ripeté Marina.
Quegli entròtutto ringalluzzito.
«Sentite questasentite questa» gridava l'infatuato Nepo.
«QuaFinotti.»
Marina lo fece sedere fra Edith e sé.
«Sentite questa. Ero tanto esaltato dalle bellezze dell'Orrido chequando siamo giunti con mia cugina sotto il gran pietrone nero dell'ultima grottaiocomunque profano alle discipline di quella nobile arte ch'è la ginnasticasaltai!...»
«Oh!» interruppe Marina.
«Non è verocome saltai?» riprese l'altro guardandola e aspettando con le braccia in aria.
«Quite a new way of leaping» gli rispose Marina.
«Per caritàMarinanon starmi a parlar franceseviscereche a Veneziacon questo maledetto francese non si può vivere. Cosa hai detto?»
«Le tue solite sciocchezzemamma! Marina ha parlato inglese e non francese.»
«Scusi» uscì a dire il Finotti per riconciliarsi la signora contessa Fosca ch'era diventata rossa rossae si versava un conforto di Barolo. «Scusi conte; che inglese! che francese! Quando si ha la fortuna di nascere col miele profumato in bocca di quel caro dialetto fatto per le Grazie a scuola di Venereperché guastarsi il palato col francese e coll'inglese? La contessa ha ragione.»
«Andate là che vi credevo peggiore. Sì davvero vi credevo peggiore. Così mi piace; difendere anche mepovera Giopa. Sarà quel che volete la nostra linguama almeno non è piena di ossi e di spine come le altre. Non dicono che i nostri vecchibenedetta l'anima suaparlavano veneziano anche al Papa? Io non sono nata nobilema sono veneziana vecchiasa. Mio bisnonno è morto pescando cape da deoe mio nonno ha servito sotto Sua Eccellenza Anzolo Emo. Parlerò turcoma francese no e inglese manco. Il povero Alvise la pensava come me. Sbattezzatemi se ha mai detto due parole altro che in veneziano. Ma adesso non tocca più far così. Adesso tocca vergognarsi di esser veneziani. Andate dalla... e dalla... e dalla... sentirete che musica. No no no. Con il forestierenon dicopazienza; ma tra noi altre? Scisciscisciùsciùsciù? Povere squinzie!»
Qui la contessa Fosca volle prender fiato col Barolo; maappena accostato il calice alle labbralo posò sputando e schiamazzandotra le risate di Nepo che aveva trovato mododurante la sua filippicadi versarle nel vino mezza saliera.
«La ho chiamata come uomo di spirito fra questa gente di spirito» disse piano Marina al Finotti.
«Ahmarchesina» rispose questi sospirando «a che serve lo spirito? Vorrei essere un imbecille di venticinque anni.»
Intanto la contessa e Nepo facevano un tal baccano che il conte Cesareil Vezza e Steinegge entrarono anch'essi nel salotto. Il Ferrieri si affacciò un momento all'uscioma non entrò; colse anzi il destro di allontanarsi inosservato e non comparve più per tutta la sera.
Marinavisto entrar lo ziosi alzò da tavola e si avviò alla sala a braccio di Nepo.
«Carino coi Vostri salti» gli diss'ella ridendo. Mentr'egli rispondeva solennementeore rotundola coppia passò davanti al conte Cesare e Marina fissò lo zio con due occhi scintillanti di gaiezza. La contessa Foscaancora indispettita del brutto tiro giuocatole da suo figliopassò senza guardarlofacendosi vento.
Il conte trasse l'orologio. Erano le nove e mezzoun'ora affatto straordinaria per lui.
«Questi signori avranno bisogno di riposo» diss'egli volgendosi agli Steinegge e ai commendatori. Poisenz'attendere la rispostaordinò di approntare le candeleed entrò in saladove ripeté l'antifona.
«Io penso» diss'egli ai Salvador «che dopo tante fatiche e tante emozioni avrete bisogno di riposo.»
«Ma carissimo zio...» cominciò Nepo avanzandosi verso di lui con le braccia apertea passi brevi e frettolosi.
L'altro non lo lasciò proseguire.
«Ohsicuramenteche diavolo!» diss'egli. «Adesso si approntano le candele.»
Nepo fece un voltafaccia e tornò verso Marinaritirando il capo tra le spalle e alzando le sopracciglia.
La contessa Fosca s'interpose.
«Ma viaCesare» diss'ella piano al conte «che originale che siete! Stasera che i miei putti avrebbero tanto gusto di parlarvidi dirvi...»
«Sìsìsìsì» s'affrettò a rispondere il conte «intendo molto bene quellointendo molto bene quello. Ecco le vostre candele.»
Non c'era da replicare.
«E voi» disse il conte quando si trovò solo con Marina «non andatevoi?»
«Non ha niente da dirmi? Non è contento che io abbia seguito i Suoi consigli?»
«I miei consigli? Comei miei consigli?»
«Ma certo.»
Si parlavano a dieci passiguardandosi a sbieco.
«Spiegatevi» disse il conte; e posata in furia la candela che aveva presale si voltò a fronte.
Presso Marinasopra un tavolino di marmo addossato alla paretev'era un vaso di cristallocon frondi d'olea e fiori sciolti. Ella piegò il viso dicendo: «Non se ne ricorda?» e odorò i dolci profumi moribondi.
«Io?» rispose il conte recandosi la mano al petto. «Io vi ho consigliata?»
Marina rialzò il capo dai fiori.
«LeiLei» diss'ella. «Poche ore prima che i Salvador arrivassero qui. Fu in biblioteca. Lei mi disse che noi due non eravamo fatti per vivere insiemeche Suo cugino aveva una posizione splendida e pensava a prender moglieche vi pensassi.»
«Benebenepuò essere che io abbia detto quello» replicò il conte imbarazzatofrugandosi con la mano i capelli. «Ma io allora non conoscevo appunto mio cugino e voi non avete creduto consultarmi prima di accogliere la sua domanda.»
«Adesso lo conosco. Lo trovo un perfetto gentiluomo pieno d'intelligenzamolto distintomolto briososimpaticissimocome lo trova Leiinsomma.»
«Come lo trovo io?»
«Masì! Non ha dichiarato stasera alla contessa che Lei è contentissimo del matrimonio?»
«Sicuramente. Poi che voi non avete stimato di dover prendere la mia opinione e avete deciso da solaio ne sono contentissimo. Ma mi preme affermare...»
Il conte si fermò per l'entrata di Catte.
«Ohper amor di Dio» esclamò costei tutta sorpresa e quasi ritraendosi. «Mi scusino tanto. Credevo che non ci fosse più nessuno. Ero venuta a prendere il ventaglio di Sua Eccellenza.»
«Qui non c'è ventagli» disse il contebruscovibrandole un'occhiata che la sgomentò.
«Ehnossignorenossignore» mormorò la povera innocente Cattee ritirò per la porta la sua magra personail suo lungo naso.
«Mi preme affermare» ripigliò il conte dopo un istante di silenzio «che io non vi ho consigliata.»
Marina sorrise.
«Ma io La ringrazio» diss'ella «del Suo consiglioio sono felicissima.»
Il conte avrebbe voluto adirarsi e stavolta non poteva. Vero che Marina aveva deciso senza consigliarsi prima con lui; ma restavano sempre sulla coscienza sua le parole dette in biblioteca e ora ricordate da lei. Non era uomo da cavillare con la propria coscienza per acchetarla. Soltanto adesso quelle parole gli tornavano a mente; ne esagerava la gravità e si doleva di averle proferite.
«E siete contenta?»
«Rispondere di noadessosarebbe un po' tardima io sono felicissimal'ho già detto.»
«UditeMarina.»
Da gran tempo il conte non aveva parlato a sua nipote con la grave dolcezza che pose in queste due parole. La figlia della sua cara sorella morta avea preso una risoluzione che l'allontanava per sempre da lui. Non credeva che sarebbe stata felicee ora temeva essere in colpa egli stesso di queste nozze male promettenti. Temeva essersi lasciato trarre a imprudenti parole dal risentimento delle gravi offese recategli da sua nipotedal desiderio di non vederla piùdi non udirne la voce irritante. Tale desideriofitto e saldo nell'animo suo fino a quel puntoorain sul compiersiveniva meno.
Perché Marina non si movevafece egli stesso alcuni passi verso di lei e le disse:
«Per il Vostro decoro in questa circostanza penso io.»
«Per il mio decoro?»
«Sicuramente. Voi entrate in una famiglia molto ricca. Dovete entrarvi a fronte alta.» La mano destra del conte gli era uscita di tasca per metànell'aspettazione istintiva di un'altra mano che venisse in cerca di lei. Ma l'aspettativa riuscì vana e quella mano ridiscese lentamente. Zio e nipote rimasero un momento immobili a fronte. Poi egli prese una candela e andò a caricar l'orologio a pendolo sul piano del caminetto.
Intanto Marina prese l'altra candela e uscì silenziosamentesenza che il conteintento a girar la chiavemostrasse avvedersene. Ella non chiuse neppure l'uscio dietro a sé; tuttaviaappena fu uscitail conte s'interruppevoltò la testa e stette un poco a guardar la porta semiaperta. Indi terminò di caricar l'orologio e uscì egli purea capo chinomeditabondoper andarsene a letto.
La vecchia casa dormiva inquieta. Più d'una gelosia chiusa appariva rigata di lume; da più d'un uscio sfuggivano bisbiglis'incontravano nei corridoi vuotisulle scale deserte; come quando ciascuno di noi si dispone nel silenzio e nella solitudine al riposo notturnoche i nostri segreti escono dalle loro celle reconditesi spandono bisbigliando per tutta l'anima.
Steinegge era nella stanza di sua figlia. Le aveva dato una grande notizia; la domanda formale della mano di leifattagli poche ore prima dall'ingegnere Ferrieri. Il povero Steinegge aveva la febbre addosso. Sentiva confusamente cheavuto riguardo al valore e alla condizione sociale del Ferrierila era una grande fortuna; sentiva che l'ingegnere doveva essere un onest'uomo: di questo lo persuadeva il colloquioavuto con lui. Il Ferrieri gli aveva lealmente aperto il suo cuoregli aveva narrato l'episodio dell'Orridoesprimendo la speranza che Edith avrebbe accettate le sue scuseparlando di lei col toccante rispetto di un fanciullo di sedici anni. Poi gli aveva lungamente ragionato di sédella sua famiglianulla celandogli né del bene né del male; gli aveva tratteggiata la vita seria e tranquillama signorileche offriva a Edith. Steinegge sentiva che avrebbe perduto per lo meno gran parte di sua figlia; n'era accorato e si sdegnava in pari tempo seco stesso di questo egoismo invincibile. S'era fatto quindi uno scrupolo di magnificare a Edith l'uomo e le sue parole. Ma egli era troppo commosso per potersi spiegare a dovere. Le aveva impasticciato il discorso del Ferrierimettendone a fascio il capo e la codalardellandolo di esclamazioni: «Un uomo nobile! Un uomo grande!» confondendosiripigliandosi ad ogni momento.
Quand'ebbe finitoEdith venne a posargli le mani sulle spalle.
«Che mi consiglipapà?» diss'ella.
Il povero Steinegge non fu in grado di rispondere a parolema fece un gesto energicoun'affermazione disperata con il capo e con le braccia.
Finalmentea furia di volontàpoté articolare queste due parole:
«Grande fortuna.»
Edith gli posò il capo sopra una spalla e parlò; le cose che aveva in cuore non osava metterle fuori mostrando il viso.
«Sa? C'è qualcuno che mi dice: "Non ha più il suo paesenon ha più vecchi amicinon ha più la sua giovinezza; ma io sono tranquilla perché tu sei al posto miopresso di luie gli darai tutto il cuoretutta la tua vita"»
«Ohnononono!» interruppe Steinegge.
«Mi dice cosìpapà. E poi aggiunge: "Non ti dividerai ora da tuo padrese..."»
Qui Edithabbassò la voce:
«"...se speri che siamo tutti uniti un giornomeglioohmolto meglio che negli anni tristi in cui il papà ha tanto faticatotanto sofferto per meper te stessa"»
Steinegge chiuse le braccia intorno a sua figliaripetendo:
«Nonono!»
«Ma... e poipapà» disse Edith rialzando il viso sereno. «c'è anche un'altra piccola cosa. Questo signore non mi piace.»
«Ohimpossibile! Pensabambina miache forse si potrebbe restare insieme lo stesso.»
«Nono! Sai benedovrei essere prima una moglie e poi tua figlia. Figurati! E i nostri progetti? La nostra casettinale nostre passeggiate? E poidavveroio posso perdonare se vuoial signor Ferrieri: ma egli non mi piace. Gli dirai così: la mia signora figlia non può accettare che le sue scuse. Non è vero che gli dirai cosìpapà?»
«Nonon è possibilenon farai questo. Io sono vecchio; e se...»
Edith gli pose una mano sulla bocca.
«Papà» diss'ella «perché addolorarmi? È inutile.»
Steinegge non sapeva se mostrarsi allegro o dolente. Gesticolavafaceva mille smorfiebuttava esclamazioni teutonichecome tappi di champagne che partissero uno dopo l'altro. Prima di lasciar la camera tornò a supplicare Edith di pensarcidi riflettered'indugiare. Uscito finalmentebussò pochi minuti dopo all'uscio per dirle ch'ell'era ancora in tempo di mutare la sua rispostae che avrebbe potuto consultare il conte Cesare. Ma Edith gli troncò le parole in bocca.
«Almeno» diss'egli obbedendo alle sue abitudini cerimoniose «almeno lo ringrazierò a nome tuo il signor Ferrierigli dirò: "mia figlia Le è riconoscente...".»
«Non mi pare necessariopapà. Digli che accetto le sue scuse.»
«Ahbene.»
E Steinegge rientrò nella sua camera proprio nel momento in cui la contessa Foscaassaporando voluttuosamente con la sua vecchia pelle la morbida frescura delle lenzuola di casa Salvadorcongedava Catte così:
«No la me piase gnenteno la me piase gnenteno la me piase gnente. Stùa.»
Tacevano i bisbigli nei corridoile persiane rigate di luce si oscuravano di bottouna dopo l'altra; ma la vecchia casa non dormiva ancora quieta. Nell'ala di ponente le finestre della camera d'angolo verso il lago erano aperte e tuttavia lucenti come occhi giallastri d'un gufo mostruoso. Marina vegliava.
Era uscita dalla presenza del conte con il cruccio d'un pensiero molestocon l'ombra sul cuore delle ultime parole pronunciate da lui. Il cruccio si sprofondaval'ombra si allargava sempre piùa misura che quelle parole velate pigliavano nella sua mente il loro significato certosuonavano e risuonavano nella sua memoriachiareirrevocabili; come quando una stilla d'inchiostro cade quasi inavvertita sulla carta umidache si allarga presto per ogni verso e si profonda. Mentr'ella attraversava lentamente la loggia col lume in manoil pavimento che la reggevail tetto sopra il suo capole colonnegli archi eran pieni di una voce solaed era la voce stessa di quel molesto pensiero fermo in fondo alla sua coscienza: beneficio. Beneficio dell'uomo che odiava e doveva odiare. Nonon avrebbe riconosciuto questo debito mai. Non sarebbe mai giuntaquesta bugiarda vocea toccare i suoi odiii suoi amori. Mai. Passò nel corridoioe le parole dello zio le rimorsero il cuore tormentosamente; davantisull'altra scalale appariva la smilza figura di luila gran testa severa illuminata di dolcezza.
Solo quando entrò nella propria camerafra le pareti pregne de' suoi pensieri più occultidella essenza di lei stessacustodi di tante cose sue e delle segrete voci de' suoi libri predilettidelle sue letteresolo allora si sentì fortee la sorda irritazione del suo cuore trovò un concettouna via.
Un pugno d'oro nel viso; ecco le parole del conte; ecco il beneficio. Gratitudine per questo? Le pareva di levarsi da terra in un impeto d'alterezzadi scuotere da sé il denaro immondodi scuoterlo addosso a Nepo Salvador. Li disprezzava egualmente l'uno e l'altro; li odiava; più dell'uomoil denaro. Non ne aveva mai sentito come ora il tocco ributtante; era vissuta lungo tempo nel suo splendore senza vederlosenza voler pensare che la luce intorno a sé fosse luce di una rapida corrente d'oroversata da mille mani sucide e volgariportata via da mille altre; e non luce della sua nobiltàdella sua bellezzadel suo genio elegante. V'era bene stata un'eclissi momentanea dopo la morte di suo padre ma più sul volto delle persone che su quello delle cose intorno a lei. Sapeva che nel mondo il denaro è un dio; è voluttuoso sprezzare un dio. Era voluttuoso per lei irritare con le sue freddezze di gran dama la borghesia opulentabene aristocratizzata nelle donnemale negli uomini. Pretendeva che a questa gente si vedesse negli occhi e sulla fronte il bagliore dell'oroche la loro voce avesse un suono metallicoche lo strascico d'ogni signora borghese ripetesse una fila di cifre.
Schizzar su lei un getto d'oro non era beneficarla: altra gente si benefica così. Era piuttosto ferirla perché il denaro del conte Cesare doveva essere avvelenato d'inimicizia. Peggio ancora; intendeva egli forse saldare a quel modo la partita di tante prepotenzedi tante offese oblique e dirette? Certo lo intendeva. Come mai non l'aveva ella pensato prima?
Suonò il campanelloper Fanny. Fanny faceva dei risolini in quella seraapriva ogni tanto la bocca come se volesse parlare e non osasseattendesse un invito.
«Spero» diss'ella finalmente sciogliendo una treccia della sua padrona «che se Lei avesse ad andar via di quanon mi abbandonerebbe micanon è vero?»
«Fa presto» rispose Marina.
«Faccio prestofaccio presto. Come la mi piace mai quella signora contessa! Come la mi è cara!»
E pigliò a sciogliere un'altra treccia.
«È vero che a Venezia non ci sono carrozze? Sarà però sempre meglio di quadico io. Non è vero?»
Marina non rispondeva.
«Com'era contenta la signora contessa stasera! Mi ha fatto quasi un bacio. Povera donna! Mi vuol proprio bene. Mi ha detto che sono un tesoro. Povera signora! A me non sta bene di ripeterloma mi ha proprio detto così. Lo dice anche la signora Cattepovera signora Catteche di cameriere come me ce ne son poche dalle sue parti. È brava anche lei però. Bisogna vedere come cuce bene. Cuce quasi tanto bene come me. La mi ha detto adesso...»
«Fa presto.»
«Faccio prestofaccio presto. La mi ha detto adesso che il signor conte ha voluto mangiarlaperché...»
«Hai finito?»
«Sìsignora»
«Benevattene»
«Non vuole che La spogli?»
«Nonon voglio niente. Vattene.»
Fanny esitò un poco..
«È in collera con me?»
«Sì» disse Marina per sbrigarsene «sìsono in collera. Vattene.»
E si alzò scuotendo il fiume dei capelli biondo bruni che le cascava alle spalle sull'accappatoio.
«Perché è in collera?» disse Fanny.
«Per nienteper nientevattene.»
«Che La senta» ripigliò Fanny rossa rossa «se fosse per certi bugiardoni qui di casa che Le avessero contate delle storienon stia a crederciperché dei signori giovani e belli ne ho conosciuti tanti e nessuno mi ha mai toccato un dito...»
«Bastabastabasta!» la interruppe Marina «non so che cosa tu voglia direnon voglio saperlo. Non sono in collera. Ho sonno. Vava.»
Fanny se ne andò.
«Ohcarino» mormorò Marinapoi che rimase sola«Benissimoquesto.»
Ella rilesse il biglietto della signora De Bella.
Non ritrovò le impressioni di prima. Tutt'altro. Giulia aveva scoperto la traccia di Corrado Sillaaveva scritto subitola lettera era giunta poco dopo che leiMarinaaveva promesso a Nepo di sposarlo. E che perciò? Era un caso straordinario da vederci quello che ci aveva visto lei sulle primeun passo del destino? Ella sapeva ora che Silla era a Milanoconosceva la sua abitazione. Gran cosa! Lo avrebbe saputo egualmente pochi giorni dopoda Edith. Ma c'era solo un'ombra di lontano indizio che Silla dovesse tornare presto o tardi al Palazzo? Non v'era. Dunque? A che poteva riuscire questo aspettare inerte un dubbio destino?
Su tale domanda il suo pensiero si fermò e poi si annientò ad un trattolasciandole la impressione di un gran vuoto e tutti i sensi tesi nell'aspettazione istintiva di qualche segnodi qualche voce delle cose in risposta. Udì il colpo sordo di un uscio chiuso da lontano; poi più nulla. Neppure un atomo si moveva nel silenzio grave della notte. Le scure paretile suppellettili sparse nella penombra della stanzachiuse nella loro immobilità pesantenon parlavano più a Marina. I fiochi bagliori accesi come occhi di spiriti nelle arcane profondità del lago lucidola guardavano senza espressione alcuna. Subitamente le si ridestò il pensiero e insieme le cadde il cuore.
Ella si vide salire in un carrozzone da viaggio con Nepo Salvadorsentì una frustata che sperdeva tutte le sue illusioni stupidesentì la scossa della partenzale ingorde braccia di Nepo; a questo punto si rialzò nello sdegnoconfortata; non era possibilenelle braccia di Nepo non sarebbe caduta maisposa o no. Ma questa idea ne trasse un'altra con sé.
Ella aveva chiuso la lettera nello scannello ed era venuta a deporre l'accappatoio sulla sua bassa poltroncina di toelettadi fronte allo specchio. Vi cadde a sederesi guardò per istinto nello specchio illuminato da due candele che gli ardevano a lato sui loro bracci dorati. Si contemplò in quella tersa trasparenza sotto l'alto lume delle candele che le batteva sui capellisulle spallesul senoe pareva rivelare una voluttuosa ondina sospesa in acque pure e profonde. Sotto i capelli lucenti il viso velato di ombra trasparente pendeva avantisorretto al mento da una squisita mano chiusapiù bianca del braccio rotondo che si disegnava appena sul candore dorato del senosulla spuma sottile di trine che cingeva le carni ignude. Le spalle non somigliavano punto a quelle opulente della gentildonna del Palma. Non vi appariva però alcun segno di magrezzae avevano nella loro grazia delicatanel contorno alcun poco cadenteuna espressione di alterezza e d'intelligenzaquali splendevano nei grandi occhi azzurri chiarinel viso leggermente chinato al seno. E maimailabbro di amante vi si era posato! Allora Marinapalpitandolo immaginò. Immaginò che qualcunoil cui viso ell'aveva veduto l'ultima volta al chiarore dei lampivenisse da lontanoper la notte oscura e caldaebbro di speranza e delle voci amorose della terra; che avanzasse sempresempresenza posa; che varcassepiù muto d'un'ombrale porte obbedienti del Palazzoascendesse brancolando le scalespingesse l'uscio...
Ella si levò in piedi soffocata da un'oppressione senza nomeemise un lungo respirocercando sollievo; ma l'aria tepidaprofumataera fuoco. Ah lo amavalo amavalo invocavalo stringeva nelle sue braccia!
Spense in furia i lumi dello specchioricadde di fianco sulla poltrona eabbracciatane la spallieravi fisse il visola morse.
Giacque lì un lungo quarto d'oratutta immobile fuor che le spalle sollevate da un palpitar forte e frequente. Si rialzòalfinecupa; e pensò.
Perché non aver trattenuto Silla dopo udito il nome terribile? Perchés'ella aveva perduto in sulle prime e moto e senso e volontànon s'era slanciata poi quella notte stessa dietro a luia caso ma con l'istinto della passionedietro a lui ch'ella aveva amatocome dubitarne? al primo vederlomalgrado se stessacon dispetto e rabbiadietro a lui che l'aveva stretta nelle braccia chiamandola Cecilia? Non si compiva così la predizione del manoscritto ch'ella sarebbe amata con questo nome? Perché non fuggirenon cercare di lui subito? Perché questa commedia con Nepo Salvador?
C'era bene il perchée Marina non poteva dimenticarlo a lungo.
Quelle ultime parole del manoscritto! «Lasciar fare a Dio. Sieno figlisieno nipotisieno parentila vendetta sarà buona su tutti. Quiaspettarla qui.» E i fatti non accennavano già confusamente da lontano com'ella potrebbe raggiungere insieme la vendetta e l'amore?
Le tornò la fede. Si alzòprese la candelavenne sulla soglia dell'altra stanza e porse il capo a guardare lo stipo del secretoalzando il lume con la sinistra. Era làappena visibile nell'ombra della paretenero a tarsie bianchecome un sarcofago dove fossero incisi caratteri arcani. Marina lo contemplòdorata i capelli e le spalle ignude dal vivo chiaror tremulo che si spandeva intorno a lei per breve spazio di pareti e di pavimento. Ai suoi piedi oscillava l'ombra rotonda del candeliere. Fu assalitapietrificata da una delle sue reminiscenze misteriose. Le pareva esser venuta su quella soglia un'altra voltaanni ed anni addietro di nottediscintacon i capelli scioltiaver visto ai suoi piedi l'ombra oscillante del candeliereil lume intorno a sé per breve spazio di pareti e di pavimentoelà davantilo stipo neroi caratteri arcani.
PARTE TERZA
Un sogno di primavera
1. In aprile
Il cane è fedele.
«Der Hund treu ist.»
«Oh notreu istfffcaro Sillaquesto è un grande sproposito. Se io dico dass der Napoleon kein treuer Hund istquesto è molto bene anche in grammatica. Egli vuole il Renoder Kerl! Avete fuoco?»
«Sìma lasciate stare la politica.»
«Oh» rispose Steinegge allungando il collo e porgendo il mento sino a posar il sigaro sul fiammifero acceso che Silla gli tendeva «ooh...» Tirò quattro o cinque frettolose boccate di fumo. «Io non parlavo per voi italiani» diss'egli. «Der Hund ist treu.»
Silla prese la penna e scrisse.
Erano seduti uno in faccia all'altro ad una tavola quadrata d'abeteonestamente solidasenza tappeto né vernice.
Steinegge si teneva aperta dinanzi una vecchia grammatica scucitasciupatatutta sgorbi e disegni grotteschi. Silla aveva un calamaio e dei fogli.
«Che vi pare di quella grammatica?» disse questi scrivendo.
Steinegge voltò e rivoltò il libro con un sorriso malizioso.
«Io non so» diss'egli «se posso domandare quanto costa.»
«Quarantacinque centesimi.»
«Ahquarantacinque centesimi. Questi sono cinque sigari. Molto. Basterebbero dieci giorni per me. Il bue è malatocaro amico.»
«Der Ochs ist krank. Dieci giorni?»
«Va benescrivete. Dieci giorni. Io non fumoio profumo così un poco ogni tanto per il mio naso il mio cervello.»
Steinegge rise allegramente.
«Mia figlia crede» soggiunse sottovoce «che io fumo due sigari al giorno... Oohfff! sarebbe una pazzia. Io accumulo denaro. In cinque mesi venti lire! È qualche cosa. Eh? Non è male. Avete scritto? L'asino... l'asino... l'asino... Dov'è quest'asino? Ahl'asino è magro.»
«Der Esel ist mager.»
«Scrivete. Questo è l'ultimo; questo è profondo. Dunque io voglio fare un piccolo regalo...»
Steinegge accennò col pollice rovesciato all'uscio cui voltava le spalle.
«Voi mi consiglierete. Voi siete un giovane molto elegante.»
Silla sorrise. Tutta la sua eleganza brillava in una spillauna grossa perla cinta di rose d'Olanda legate in argentoricordo di sua madre. Portava sempre guanti scuricravatte scureabiti scuri. Aveva bensì la persona elegantee le vestianche dozzinaline pigliavano nobiltà. Ma in fatto gli si vedevano certe lumeggiature sul dorso delle maniche da' gomiti in giùe certe sfumature di colore intorno al bavero punto richieste dall'eleganza.
«Guardate» diss'egli spingendo a Steinegge il foglio di carta dove aveva scritto.
«Prego perdonareperché io sono cieco come un conte Rechberg» rispose Steineggetraendo la busta degli occhiali e applaudendosi con una risata. Spense il sigaro e inforcò gli occhiali sulla punta del naso. Leggeva con le sopracciglia alzate e con la bocca aperta: pareva si studiasse di guardarvisi dentro.
Silla prese la grammatica che aveva trovata in una tana di libri vecchi presso il Duomo. Era certo appartenuta a qualche allegro scolaro dei tempi austriaci che l'aveva tutta imbrattata di nomidi datedi caricature e aveva scritto attraverso le file delle coniugazioni:
Su nell'irtoincrescioso Alemanno
SuLombardi...
Dopo qualche momento di silenzio l'uscio cui aveva dianzi accennato Steinegge si schiuse adagioadagio. Silla si alzò in piedi. Al rumore della sua sedia l'uscio si chiuse da capo.
«Molto benecaro amico» disse Steinegge posando il quaderno. «Voi scrivete più bene che io il carattere tedesco. Non è credibile come il piccone e il badile mi hanno rovinata la mano. Sapetein Svizzera.»
«Caro professore» disse Silla «siamo alla dodicesima lezione.»
«Ebbene?»
Silla trasse dal portafoglio un piego.
«Oh!» esclamò Steineggevoltandogli le spalle e correndo per la stanza a capo chino e a braccia aperte. «Das nehme ich nichtdas nehme ich nicht! Non voglionon voglio!»
«Ma come? Non Vi ricordate i nostri patti?»
«Ohcaro amicoio sarei vile di prendere il Vostro denaro. Io voglio chiamare mia figlia...»
«Fermo! Se non accettateesco di qua e non ci vediamo più.»
«Datedatedate a me questa maledetta canaglia di soldi. Voi non volete un piacere da un povero vecchio amico.»
«Nonon lo vogliosono orgogliosoho un cuore di ferro.»
«OhVoi avete un cuore molto meglio che di oroe anche io. So che mi amate; prenderò. Ma perché studiate questo tedesco?»
«Per capirvi quando parlate italiano.»
Steinegge rimase un pochino mortificato.
«Nonoè uno scherzo» disse Silla prendendogli affettuosamente le braccia. «Lo studio per capire Goethee un certo... scrittore nostroitaliano; ma più Goetheforse. Non Ve l'ho già detto?»
«È veroma io temevo adesso un'altra cosa. Sapetemia figlia è ricca e guadagna denari con le sue lezioni. Il conte mi manda sempre roba tedesca da tradurre in francese e manda anche cento lire per mese. Cento lireeh? Voi vedeteio sono ricco.»
«E io dunque?»
«Scusatemi» disse Steinegge inchinandosi «io credo beneio credo bene; anche Voicerto.»
Non abbagliava peròin casa Steineggelo splendore della ricchezza. Quella lì era una stanza bassa d'angolosotto il tetto. Aveva due balconi a ringhiera di ferrouno a mezzogiorno e l'altro a levantele pareti tappezzate di carta azzurra a righe più scureil soffitto dipinto a cielo sereno e nuvoli. Un letto di ferro pure inverniciatocoi suoi pomi lucenti d'ottone alle spallierecoperto di percallo perlato a fiori rossistava accostato alla parete di ponente sotto un quadrettino piccino dove una ciocca di capelli biondi si disegnava sul raso bianco incorniciato d'ebano. Tra l'uscio della scala e l'altro che metteva nella camera di Edithun caminetto di pietra grigia portava con civetteria due lucernine a petrolio a' due capi e nel mezzo un bicchiere modestoun mazzolino di viole mammole ignude. In faccia al caminettosopra la mole tozza di un massiccio cassettone a piano di marmo cenerognoloodoravano pochi calicanthussimili a delicate fantasie meste di un poeta convalescente. Tra il balcone di levante e la porta della camera di Edithsi rizzava una stretta palchettiera a tre pianizeppa di libri e sormontata dal bustopiccinodi Federico Schiller. In mezzo alla stanza la bianca tavola di abete strillava per avere il suo tappeto azzurro e neroil suo manto di ricchezza e di nobiltà da nascondervi sotto le quattro gambe.
Pei due balconi si spandeva sino al fondo della stanza la gran luce vitale dell'aprilemettendo dal cielo sereno un bagliore azzurrognolo sui fogli sparsi per la tavolae sul soffitto un riflesso caldo di opposte casearse dal sole cadente. Quand'anche non si fosse veduto per quei due meravigliosi quadri dei balconi tanto arco di cielo e tanto mare disordinato di tetti sconvolti per ogni verso fra poche fenditure di grandi vierappezzati di vecchio e di nuovod'ombra e di lucerotti da ciuffi d'alberi verdognolida striscie di muri bianchiirti di fumaiuoli e d'abbainiquand'anche non si fosse veduta a piè dei balconi la nera fascia del Naviglio e un lungo arco di via parallelapunteggiato di moscerini umani che si traevano dietro lentamente il loro lungo filo d'ombrasi sarebbe pur sempre sentita la smisurata altezza di quella camera nella lucenell'arianei suoni vasti e sordi che ascendevano lassù in un'onda solacontinua.
«Vi prego» disse Steineggetogliendo calamaio e fogli dalla tavola e posandoli sulla palchettiera «aiutate me a mettere il tappeto. Mia figlia ama molto questo.»
Presero il tappeto azzurro e nero e lo spiegarono sulla tavolache non strillò più. La stanzetta prese un'aria quietacontentache si rifletté sul viso del nostro vecchio amico.
«Grazie» diss'egli. «Molte grazie. OhVoi non sapete con quanto piacere io faccio queste cose. Non sapete cosa io provo quando tocco solo una di queste sedie. Erano diciassette anni che non toccavo una sedia miaeh? Capite? Diciassette anni. Questo legno è così dolce! Io ringrazio Diocaro amico. Voi siete giovaneVoi non pensate a questo vecchio signore; anche io per un pezzo non ho pensatoma adesso io ringrazio...! Sentite.» Steinegge afferrò Silla pel braccio e se lo trasse vicino. I suoi occhi scintillavano sotto le ciglia aggrottate; una fiamma sola gl'infocava il collo e il viso.
«Io ringrazio...» ripeté con voce soffocata e stesetacendol'indice della destra prima verso il quadrettino dai capelli biondipoi verso la stanza di Edith. Finalmente lo alzò al soffitto.
«E Dio» diss'egli. «In passato io credeva vi fosse làsopra le nuvoleun re di Prussia.»
Qui Steinegge scosse violentemente il pugno sempre a indice teso.
«Nonocredete me» soggiunse.
«Io l'ho creduto semprecaro Steinegge» rispose Silla. «Guai a me se non lo credessi.»
«Se Voi sapeste» disse Steinegge «come sono contento! Alle volte ho paura perché lo sono troppo e non lo meritooh no! Ma poi mi consolo perché tutto il merito è di mia figlia. Ohmia figliacaro amico...!»
Steinegge giunse le mani.
«Io non posso» diss'egli «questo mi muove troppo il cuore di dir cosa è mia figlia.»
«Lo credo» disse Silla stringendogli forte la mano. «La conosco.»
«NonoVoi non conoscete niente. Bisogna sentire come parla con me di queste cose di che parlano i preti. Pensatei discorsi dei preti sono cattivi organettie questi di Edith sono come musica che si sente in sogno quando si è giovani. Noi andiamo qualche volta in chiesama noi non parliamo mai di preti. E di arte come intendeoh! Io nasco adesso per quest'arte; io non capivo niente. Siamo andati ieri... Come si dice? A Breraa Brera. Pensate Voi se aveste ad aprire adesso un libro tedescoqualche grande libro come Goethe. Voi capireste ottodieci parole per pagina. Questo Vi farebbe senso. Vi farebbe battere il cuore di cominciare a vedere otto o dieci lumi nelle tenebree andreste pensando cosa può dire Goethe in quella pagina. Così ha fatto senso a meieridi cominciare a capireascoltando Edithqualche cosa di quadri. E di letteraturamio caro amico! Questo Klopstock! Questo Novalis! Questo Schiller! Ma non parlerà mai con Voi; non credete! Bene!»
Qui gli occhi di Steineggecapitano o nos'empirono di lagrime; la sua voce discese a un tono sommessoma vibrato.
«Noi abbiamo una domestica per poche ore al giorno. Poi Edith fa tutto leicosì semplicementecosì allegramente come uno va a passeggio. Io sono un vecchio poltrone goloso e prendo il caffè a letto. Io Vi assicuronon sono goloso del caffè; sono goloso di veder entrare mia figlia e sentirmi dire: "buon giornopapà" in tedesco. Ogni mattina è come se la ritrovassi dopo dodici anni. Ella mi porta il caffèmi pulisce gli abiti e anche deve qualche volta cucirli! Intanto noi parliamo del nostro paesedi tante cose passatelontanee anche un po' dell'avvenire. Edith ha tre lezioni quasi tutti i giorni. Vi sono due signorela signora Pedulli Ripa e la signora Serpidue signore ohfff!» Steinegge spalancò gli occhi e alzò le mani soffiando«che sono innamorate di lei e le loro figlie anche; e tante volte vorrebbero rimandarla a casa con la loro carrozzama ella non ha mai accettatoperché sa che io non vorrei salire in carrozza.»
«Voi?» disse Silla. «Che c'entrate Voi?»
«Oh sìperché io aspetto nella strada tutto il tempo.»
«E perché non vorreste salire in carrozza?»
«Questo non sarebbe convenientecaro amico. E così mia figlia è sempre venuta con mesia ventosia pioggia. Io sono orgoglioso allora e ho piacere che così mia figliaquando esce dalla porta di questi signorinon è più maestra. L'hanno invitata a pranzovolevano condurla a teatro. Non è mai andataper fare compagnia a me; nono!»
Gli brillavano anche i capelli mentre diceva «nono» e il naso gli si raggrinziva su fino alla radice.
«Sapete cosa facciamola sera? Prima Edith lavora e io faccio il sunto francese di questo Gneist per il signor conte. Dopo Edith mi legge Schiller e Uhlandoppure mi dice poesie moderne che io non conoscopoesie di Freiligrathdi Geibeldi... di...»
«Di Heine.»
«Nomia figlia non legge questo Heinrich Heine. Lo ho conosciuto questo uomo a Parigi. Non è stato buon tedesco. Se Voi veniste qualche volta di seraio Vi tradurrei queste poesie e Vi darei una tazza di thèperché Edith mi fa il thè ogni sera.»
«Voi» disse Silla sorridendo«Voi pigliate il thè?»
Steinegge si pose a ridere d'un riso mutocontorcendosigesticolando.
«AhVoi siete un maligno uomo. Capiscocapisco. È come se der König in Thuleil Re in TuleVoi sapete? si mettesse a bere un decottonon è vero? Io bevo adesso due bicchieri a pranzo e non altro.»
«È vostra figlia che lo desidera?»
«Nonovoglio io. Mia figlia mi pregava di prender vino la serae mi prega ancora adessoma io ho visto una volta per i suoi occhi il suo cuore e io prendo thècaro amico.»
«V'invidio» disse Silla e prese il cappello per andarsene. Steinegge lo trattenne.
«Aspettatevenite a passeggio con noi.»
Silla esitò a rispondere.
«Ohvenitevenite!»
Steinegge andò a battere alla porta di Edith e la prego di uscire un momento.
Edith venne tosto e porse affabilmente la mano a Silla.
«Buon giorno» diss'ella. «Che lezione lunga!»
Era graziosa nel suo abito nerosemplicissimocorto ma non troppocon un mazzolino di viole alla cinturail suo medaglione d'oro e onice sul petto e una stretta golettina bianca che le rifletteva sul collo un candore diffusotrasparente. Le ricche trecce eran raccolte sopra la nuca. Nel viso delicatoleggermente roseola bocca e gli occhi avevano una espressione più spiccata di fermezza. È strano come quegli occhi esprimessero intelligenza della vita realecontemperata di bontà: come nello scherzonel sorriso che li illuminava soventevi apparisse sotto all'iride un color di dolcezza triste; quale se un altro spirito infuso al suouno spirito malinconico si ravvivasse qualche poco nella gaiezza di lei.
Ella e Silla si parlavano con certa familiarità amichevole in cuiper un sottile osservatoresi disegnava più evidente il riserbo; come due persone unite e in pari tempo divise da mutuo rispetto mostrano meglio lo studio di non toccarsi quanto più si camminano accosto. Il contegno di Silla tradiva maggiormente queste cautele talvolta eccessivequesta cura di trattenersi; Edith aveva modi più spontanei ed egualimisurati da un riserbo tranquilloingenito. Si conoscevano oramai da oltre sei mesi; si vedevano spessonon in un freddo salone di ricevimentoma nella intimità violenta d'una stanza tepida di vita domestica; li univa una persona carabenché in diverso gradoad ambedue. Sin dai primi giorni della loro conoscenza Edith aveva parlato a Silla del Palazzo e dei suoi abitanti. Di Marinaconoscendo tutta la coperta storia delle relazioni lorogli aveva toccato il meno possibile. Silla s'era ben avvisto di tale studio; né Edith poteva dubitare ch'egli non ne indovinasse la causa. Quel conscio silenzio serviva purein qualche mododi occulto legame tra loro; essendo quasi un accordo ignoto a tuttistretto senza la parola fra le animein argomento d'amore. Simili segreti fra due persone che si stimano e si vedono spessocongiungonoin sulle primecon qualche dolcezza; ma poi cresciuta la familiaritàl'amicizia ch'essi aiutanoil silenzioin luogo di congiungeredividequella dolcezza diventa penadesiderio inquieto; e il desiderio comincia a tradirsi con i discorsi che tentano obliqui l'argomento proibito. Allora come fra due gocce vicine sopra un piano liscio basta il tocco di un capello perché trabocchino l'una nell'altracosì il tocco di una parola sola rompe gli ultimi ritegni alla effusione del cuore e l'amicizia diventa piena.
Ma Edith e Silla non parevano vicini a questo punto.
Ella accettò ben volentieri la proposta di suo padre e andò a mettersi il soprabito ed il cappello. Anche Steinegge chiese licenza a Sillacon grandi cerimoniedi attendere all'ornamento della propria persona. Silla andò intanto ad affacciarsi al balcone sul Naviglio.
L'aprile brillava quella sera nel cielo lucido e soffiava la lieta novella di primavera sulla vecchia città che beveva i soffi tepidi per ogni finestra. Quei soffi si spandevano blandi per le piazzesaltavano per le viesibilavano ai canti. Lassù in alto passavano a grandi ondate silenziosemovendo per le finestre degli abbaini biancherie pendenti dalle impostefiori schierati sul davanzaleche nella dolcezza infinita del tramonto primaverile ridevano al cieloinnocentidalle vecchie case piene di colpa. Il sole cadeva alle spalle di Silla. La casa dove egli stava e le altre sulla stessa linea a destra e a sinistracupo bastione colossalegittavan ombra sui giardinetti ai loro piedisul Navigliola via e parte delle case di fronte. Sotto il balconea sinistrasi spiccava dal primo pianofra due macchie di grandi magnolieuna terrazza a quadroni bianchi e rossi e balaustrata di granito rosa. Cinque o sei uomini in giubba e cravatta biancasenza guantivi passeggiavano fumando. Una signorauna lunga cometa di velluto azzurro con una camelia bianca in testavi comparve a braccio di un signore piccolograssoanch'egli in giubba e cravatta bianca. I fumatori le si fecero tosto attorno con rispettosa premura. Dal balcone di Silla non si potevano intendere le parolema si udivano le voci e si distingueva benissimo quella del piccolo signore grassoil commendatore Vezza. Silla conosceva quella damatenace bellezza di quarantacinque annidivisa da pochi anni da un marito giuocatore e nota per le sue velleità letterarieper i suoi cuochi di prima riga e per gli amanti di quarta che le si attribuivano. Un acre sapore di sensualità elegante saliva da quel terrazzo nella purezza della seraun'aura di mille piaceri squisitiraffinati dallo spiritocome l'odore indistinto di leccornie che dalle cucine sotterranee d'un grande albergo fuma nella via. Ma lassù nelle grandi ondate del vento questo filo di fumo mondano si perdeva. Lassù si respirava una dolcezza simile alle malinconie indefinibili dell'adolescenza castaun turbamento d'affetto che non ha uscitaun desiderio di aprire il cuore. Silla non pensava a cosa alcuna: gli tornavano in mente i ricordi di paesi lontanivaghe sensazioni amorose della sua prima giovinezzacadenze in minore e versi di canzoni popolari; uno fra gli altri che lo perseguitava quel giornoun verso marchigianoquanto dolce!
Boccuccia riderella spandifiori.
«Signor Silla» disse Edith sorridendo «Ella resta qui?»
Egli si scossesi voltò in fretta e si scusò della sua distrazione.
Edith e Steinegge non attendevano che lui. Edith aveva un soprabito grigio scuro e una toque neracon il velo calato.
«È un peccato» le disse Silla «di dover scendere.»
«Lei amerebbe camminare nelle nuvole?»
Egli la guardò un po' piccatonotò la recondita tristezza del suo sorrise e tacque.
«Scusi» diss'ella «non ho poesia.»
Non aveva poesiaforsema ve n'era tanta nella voce con cui lo dissenella graziosa persona illuminata dal sole cadente.
«Andiamodunque» disse Steinegge.
«Non è possibile» rispose finalmente Silla a Edithnell'uscire.
Ci aveva pensato molto. Edith non parlòné si poté vedere con qual viso accogliesse la tarda risposta di Sillaperché ella era già sulla scala e vi faceva scuro.
Era una consolazione uscire da quella scala fredda e buia nella strada ancor chiara del sole recentenitida dopo una giornata di ventoquanto il cilindro di Steinegge. Questi camminava a sinistra di sua figliarigido come un Y capovolto.
«Oh» diss'eglifermandosi a un tratto «sapetecaro amico? Oggi mi ha scritto Innocenzo.»
Fece atto di cercarsi la lettera nelle tasche del soprabitomaad una rapida occhiata di Edithdisse di averla dimenticata a casa e ne parlò a Silla con entusiasmo.
«Molto affettuosa» disse Edith «e molto...»
Non trovava la parola.
«Non spiritosano. C'è un'altra parola italiana che mi parecosì per istintomigliore in questo caso.»
«Arguta?» disse Silla.
«Sìarguta.»
Edith seppe ripeterne gran parte a Silla. Non era la prima volta che don Innocenzo aveva scritto al suo buon amico tedescoappagando così un desiderio segretamente confidatogli da Edith prima di lasciare il Palazzo. Le sue lettere improntate di bontà e di arguzia erano scritte classicamentein forma alquanto artificiosacome usa l'uomo colto che ne scrive poche. Toccava stavolta di tristi casi avvenuti nella sua parrocchiadi grandi dolori sopportati con la umile pace cristiana. Parlava con riverenza di queste virtù dei suoi poveri contadini punto democratici; parlava della fede come un uomo che nella sua giovinezza ha combattuto per non smarrirla eavendo pur vintoguarda con grande indulgenza a chi ha lottato e perduto. Narrava che la neveil gelo e le grandi pioggeavevano danneggiato il soffitto della sua chiesa e chela domenica precedentevi era venuto per caso a suonare l'organo un giovane maestroil quale aveva magistralmente eseguita certa musica di un tedescodi Bachgli pareva. Al popolo la musica era piaciuta poco: ma lui n'era ancora imparadisato. Raccontava che i lavori della cartiera erano molto avanzati e che parecchi tegami e cocci preistoriciscoperti nello scavo delle fondamentafregiavano adesso il suo museo privato. Annunciava che le tepide coste de' suoi montile rive settentrionali del lagoerano in piena primavera e ne descriveva l'aspetto con studiata eleganza di stile. Chiudeva con un caldo invito agli Steinegge di venir a passare qualche giorno da lui prestopresto.
Edith ripeté quasi alla lettera lo scritto del curatoomettendone solo una certa parte. Era strano udir parlar di lagodi montagnedi vita semplicesul corso di Porta Venezia tra il doppio flutto della gente che calava ai bastionitra il fragor sordo delle ruote sulle trottatoie e il calpestìo vibrato dei cavalli di lussodavanti alle cantonate biancherossegialle di affissi d'ogni genere. Non c'era più sole; le nubi dorate riflettevano da ponente una luce calda sulle case più alte e il vento portava in viso tratto tratto odore di primaveradi sigaridi profumeria. Le signore che scendevano il bastione in carrozzaparevano correr giù verso l'orizzonte limpidoabbandonarsi con insolito languoresilenziosealle carezze dell'aria tepida. E due lunghi rivi neri di gentepicchiettati d'abiti chiari femminiliscendevano a destra e a sinistra del Corso con un gran rombo confuso di passi e di vocicome due lunghe striscie di stoffa pesante trascinate pei marciapiedi fuori del fitto ombroso della città. Tutte le finestre erano aperte. Pareva a Silla che tutti i cuori lo fossero pureche quella corrente di uomini portasse tesori di pensieri gaid'immagini ridentiche riflettesse la ingenua giovinezza eterna della primavera. Anche nel color delle pietretuttavia calde di soleegli sentiva il prepotente aprile che non valendo a mettervi la vitave ne metteva quasi il desideriola speranza lontana. Non gli toccava il cuore udir parlare del lago e delle montagne; nessuna voce del passato si ridestava in lui.
«Non scrive altro quel signor curato?» disse egli a Edith.
«Null'altro» rispose per lei Steinegge.
«Come? Non parla del Palazzo?»
«Ohqualche parolasì.»
«Non parla del matrimonio di donna Marina?»
Steinegge non poté rispondereperché un tilbury sopravvenne di gran trottotuonando sul ciottolato vicino a Silla che si voltò a guardare il cavalloun bel sauro snello.
«Bello» s'affrettò a dire il capitano di cavalleriaappena passato il tilbury «belloma troppo leggero. Cavallo ungherese; io conosco. Migliore da sella.»
«Dunque» ripeté Silla «non parla del matrimonio?»
Steinegge lo guardò. Non gli pareva vero che fosse così indifferente.
«Sì» diss'egli «mi pare che scriva qualche cosa.»
«Suo padre fa il diplomaticosignorina.»
«Non lo credo» rispose Edith. «Lo faresti troppo malepapà; non è vero? Mae Leisignor Sillacosa fa?»
«Faccio il curiosovuol dire. Ha ragione. Ma è curiosità innocentissimalo creda.»
Disse queste ultime parole con enfasicome per far loro esprimere più di quello che potevano. Allora Steinegge uscì dalle sue trincee; con qualche cautelaperò spiegandosi lentamente.
«Ecco» diss'egli «pare che le cose vadano liscie e che il matrimonio non tarderà molto a farsi.»
«Lo credo bene. Non è combinato da sei mesi?»
«Sìsìma capite benecaro amicoi preparativiquesto è lungo. Adesso poi si fa prestopare; prestissimo.»
«Me ne rallegro assai» disse Silla tranquillamente.
Steinegge fece uscire anche le sue riserve.
«Il matrimonio» diss'egli «si faparequesta seraventinove aprile. Pare che il popolo vuol fare grandi cose; musichefuochi d'artificio. Ci è stata la scritta. Si dice che il conte Cesare voleva costituire a donna Marina una dote di trecentoventimila lirema che essa ha preferito un'obbligazione diretta del conte allo sposo per questa sommada sottoscriversi all'atto del matrimonio. Il conte Cesare non è stato bene due giornima ora è guarito. Il conte Nepo si è fermato al Palazzo una settimanain principio di questo mesee i domestici vanno dicendo che è molto avaroma il parroco afferma che non è vero e racconta di aver ricevuto cento lire per i poveri.»
Steinegge scherzò su questo splendore di munificenza che aveva abbagliato il povero prete; ma Silla lo contraddisse risolutamentesostenne che alle buone azioni non si piglia la misurache non si arrovesciano per guardarne la fodera. Parlava vivacissimodi venainterrompendosi spesso per salutare i suoi conoscentiper fare a Edith osservazioni gaie su persone e cose che gli passavano sotto gli occhi. Tutti coloro che lo salutavanoguardavano poi Edith curiosamente. Edith gli rispondeva brevesenza guardarloo solo quando non ne poteva a meno. Ella non sorrideva piùsi era fatta grave. Prese il braccio di suo padre.
Silla ammutolì poco a poco esso pure. Sospettò che Edith avesse attribuito un significato preciso alla sua dichiarata indifferenza per il matrimonio della marchesina di Malombrae che volesse tenersi in guardia. Il cuore gli batté forteuna oscura dolcezza gli confuse i pensieri. Qualcunodall'onda della gentelo salutò in quel momento; non rispose. Camminava in mezzo alla folla come se né vedesse né udisse alcuno.
Erano giunti presso al bastione. Vi spirava un'aria men tepidapregna dell'odor de' prati; ma la folla saliva tuttavia densa al viale di sinistraeal di sopra de' cappelli si vedevano sfilar lentamente nel viale di mezzofacendo il girococchieri pettoruticocchieri umilicocchieri appaiati a staffiericocchieri solitaricocchieri soddisfatticocchieri rassegnaticocchieri scuricocchieri giallirossiazzurrie verdi. Edith avrebbe voluto ritornare indietro; l'aria le pareva umida; temeva che suo padre ne soffrisse. Steinegge ne rise. Quando mai aveva notato sua figlia ch'egli si curasse del secco e dell'umido? E il Corso lo divertiva tanto! Edith non insisté.
All'entrata del viale Steinegge alzò in aria tutte e due le braccia e tirò una allegra mitraglia d'interiezioni tedesche a un signore piantato lì a vedere sfilare le carrozze. Questo signoreun tal C... col quale Steinegge aveva tentato fondare tempo addietro una Corrispondenza litografica si voltòlo guardò e gli venne incontro stendendogli la mano.
«Scusate» disse Steinegge a Edith e Silla «questo è C... Io debbo parlare. Andate avanti; vengo subito.»
Edith non ebbe tempo di rispondere perché suo padre era già sgusciato via attraverso la gente chesopravvenendo fitta e continuanon consentiva di fermarsi. Fatti pochi passiella volle uscire sul gran viale a guardare indietroma non vide suo padre. Fermarsi lì ad aspettare non le garbava; le pareva di sentirsi più imbarazzatapiù sola. Silla le consigliò sommessamente di andare avanticome le aveva detto suo padreond'eglipassando oltre fra la gentenon li avesse poi a cercar senza frutto.
Essi camminavano fra il viale affollato e il lungo cordone di curiosi intenti a guardar le carrozze che andavano al passofermandosi di tempo in tempo. Camminavano discosti l'uno dall'altrasenza parlareguardando tutte le carrozze con grande attenzionefossero calessi alla Daumont o sudicie cittadine. Ad ogni tratto Edith voltava il capo a guardar indietro.
Intanto le sconfinate campagne di levanteal di là del bastionesi vedevano nelle ombre della sera sotto l'azzurro pallido del cielo che si confondeva quasilaggiù all'orizzontecon essedisteseaperte avidamente agli inenarrabili amori della notte di aprile. Apparivano fra una carrozza e l'altrascomparivanoriapparivanogrande immagine di paceal di là di quel brulichìo mondano. A ponente le case oscure della città si disegnavano sul cielo aranciato che posava una languida luce calda nei bassi prati dei giardiniil margine scoperto del viale. La striscia nera della gente a piedi moveva lentaassaporando l'ora dolcel'aria puraodorata di primavera e di eleganzail rumor soffice delle carrozzemusica della ricchezza indolentepiena d'immagini tentatrici. E le signorenegli equipaggi di galapassavano e ripassavano sotto la nebbia verdognola dei grandi platanicome Dee infingardefra gli sguardi ardentila curiosità invidiosa del pubblicoblandite da questi acri vapori d'ammirazionefiso l'occhio al di sopra di essiin qualche invisibile. Quel moto lento e mollequella stanca inquietudine umana pareano consentire col nuovo turbamentocon le nascenti passioni della terra. Silla avrebbe voluto parlareinterrompere un silenzio pieno d'imbarazzo e di trepide immaginazionima non ne trovava la via. Arrivarono davanti al caffè dei giardini mentre molte persone se ne rovesciavano sul vialerompendo la corrente del passaggio. Egli offerse allora il braccio alla sua compagnache lo ringraziò e vi pose appena la mano. Silla sentì sul cuore quel tocco leggero. Fendette la gentefacendo strada a Edithguardando alla sfuggita la piccola mano che gli pendeva inerte sul braccio. Strinseper istintoil braccio esenza saper bene quello che si dicessesentendo confusamente di fare un discorso avventato:
«Scusi» cominciò «donna Marina Le ha mai parlato di me?»
Edith non s'aspettava una domanda simile. Non ritirò più la mano e rispose semplicemente:
«Sì.»
Certo ella stava preparando qualche spiegazione cauta per una seconda domandainevitabile; ma la seconda domanda non venne.
«Che sera soave!» disse Silla. «Si rinasce. Si sente l'aprile nel cuore. Lei non voleva dirmi tutto quel che ha scritto quel signor curato: e io ho avuto tanto piacere di udirlo da Suo padre!»
Il braccio di Edith si mosse un pocoma non si ritrasse.
«Ella non saquando si ha una mano feritacome si eviti ogni strettaanche d'un'altra mano amicae quale consolazione sia sentirsela afferrare un giorno e non provare più dolore!»
«Vuol dire» rispose Edith «ch'era una scalfittura e che questa persona teme molto il male. Se son poi ferite dell'animaallora per me sarebbe un grande avvilimento non sentirle piùguarire come si guarisce da una febbrecome queste piante guariscono dall'inverno. Non le pare? Quanta gente! E papà che non viene?»
Ella si sciolse pian piano da Silla e si fermò; Steinegge non compariva.
«Perdonisignorina Edith» disse Silla con voce leggermente tremante. «Ella mi giudica male. Ad esser giudicato male ci sono avvezzo sin da quando è morta mia madre. La colpa n'è in gran parte miadel mio carattere; però è una cosa amara! Con un po' di orgoglio e di fede in altri giudici o qua o via di quasi resiste; ma qualche volta anche l'orgoglio e la fede cascano in fondo al cuore; il cuore stesso pare che si sprofondi. Mi lasci dire una parolasignorina Edith. Io non trovo negli uomini che indifferenza e nella fortuna che derisione. Vado tuttavia avanti a fronte altafinora; macredaè crudele di ferire uno cui tutti voltan le spalle. La prego di darmi il Suo braccio e di ascoltarmi un momento.»
«Non credo d'averla offesa» disse Edithappoggiando ancora la mano al braccio di lui «son cose umane.»
Egli prese risolutamente con la sinistra quella mano restìaallargò il bracciola trasse avanti e parlò tra la folla indifferentea voce bassacon maggior effusione di cuorecon maggior franchezza di spirito che se si fosse trovato solo con Edith in un deserto:
«Cose umane? Sìcertoma non la cosa che Lei crede. Non sono guarito come una piantaa forza di sole e d'ariadimenticando; ho voluto guarirecon indomita volontà; mi sono strappato dal cuore una febbre maligna che mi avviliva. Perché io non la stimo e non l'ho stimata mai.»
«No?» disse Edith con vivacità involontaria.
«Nomai. Mi credaLei che ha l'anima tanto alta. Ho bisogno che qualcheduno come Lei mi creda e abbia un poco d'amicizia per me. Non ne parlo mai a nessunosama mi succede spessosolo come sonosenz'amiciziesenz'amoresenza geniosenza riputazionesenza speranzemi succede di sentirmi morire nell'altezza in cui mi sforzo di tenere il mio spiritostudiandolavorandopensando a Dio. Sento allora tante voci sinistresempre più fortisempre più fortichiamarmi giù abbassoin qualche fango che spenga il pensiero. Scusisignorina EdithLe dà noia che io parli tanto di me?»
«Oh no» diss'ella piano. «Non avrei creduto quello che dice.»
«Lo so; il mio cuore è ben chiuso di solito. Questa sera parlo perché mi pare di essere in sogno.»
«Ella sogna» disse Edith «di parlare ad una persona morta da lungo tempocui si può confidarsi.»
«Nofaccio un sogno da notte di primaveracome ne potranno fare questi vecchi platani pieni di speranzequando si alzerà la luna e la gente andrà via. Sogno di mettere anch'io una volta foglie e fioridi parlar sottovocedopo tanto silenziocon la primavera blandadi raccontarle tutte le tristezze dell'autunno e dell'invernocome se fossero passati de' secoli. Dunque senta. Io non la stimavo. Premetto questo: nelle mie ore di sconforto ho sempre avuto lo stolido istinto di qualche fatalità oscura che mi domini. Ora Suo padre non ha potuto raccontarle tutto perché non sa tutto. Io mi confido alla primavera blanda. Qualche tempo fa ho publicato un libro anonimointitolato Un sogno.»
«Si potrà leggere?» chiese Edith.
«Lo leggerà. Poco tempo prima ch'io partissi pel Palazzocapitòalla tipografia ond'era uscito il librouna lettera diretta all'autore di Un sogno e sottoscritta Cecilia. Era una lettera sfavillante di spirito sarcasticointarsiata di motti francesiprofumatain cui si parlava molto di fatalità e di destino. Il tono di questa signora Cecilia non mi era pienamente simpaticoma pure la lettera aveva un certo fascino d'ingegno e di stranezza: e poi sorrida purablandiva il mio amor proprio che ha ben di rado assaporato la lode pubblicae trovava una dolcezza molto più delicata nelle parole direttemi segretamente da una lettrice sconosciuta. Vede se Le confido anche le mie miserie. Insomma risposi. La replica di Cecilia mi capitò la vigilia della mia partenza per il Palazzo. Era piena di frizzi e di domande curioseimpertinenti. Decisi di rompere: le scrissi un'ultima lettera che cominciai a Palazzo e spedii qui nei due giorni in cui venni a prender i miei libri. Lei sa da Suo padre per qual cagione e in qual modo partii dal Palazzo. Quel giorno stesso avevo scoperto per casoindovini!... che Cecilia era donna Marina. Nella notte partotrovo lei nella sua lancia. Avemmo un colloquio violento. Sopravvenne un temporale: dovetti ricondurla a casa. Non Le dirò come né perchéma fui tentato fieramente di non partire più. Mi strappai da lei gittandole il suo finto nomeCecilia. Fuggii pieno di sgomentopieno della stolta idea che mi perseguitad'esser giuoco di una potenza nemica che mi mostra ogni tanto la felicità viciname la offreme la porta via quando sto per afferrarla. Ci volle tutto il mio orgoglio... Lei mi crede modestosignorina Edith?... Nonon lo sonotranne qualche voltanelle ore di scoramento; allora mi sento abbietto addirittura. Ci volle dunque tutto il mio orgoglio spiritualista per giungere a calcarmi ai piedi queste paure vigliacche; ci volleper liberarmi da sentimenti non degniun lavorar ferocesia tuffandomi ne' libri antichi come in acque freddesia scrivendo di cose ideali in cui il mio pensiero si esalta e si riposa. E così ho vinto. Solo questa sera potei comprendere quanto pienamente ho vinto. E Lei...»
«Oh» disse allora Edith fermandosi «dove siamo?»
Erano soli sul viale. Avevano oltrepassato senza avvedersene il punto dove le carrozze e la gente giravano indietro.
Edith arrossì della sua distrazione e si voltò in frettalasciando il braccio di Silla. Poi temé forse di averlo offeso con quell'atto brusco.
«Non potevo sapere queste cose» diss'ella. «Non ho compreso tutto quello che ha raccontatoma lo credo. Se sapesse quale concetto ha di Lei mio padre! Non sono italiana» soggiunse con forza «non so se è vero ch'Ella non ha riputazione; ma non è certo vero» continuò abbassando la voce «che Ella non ha amicizie.»
Fosse per la tenera poesia d'aprile o per la emozione delle confidenze recentiSilla era così disposto che le semplici parole di lei gli abbuiarono la vista. Le riprese il braccio.
«Ah» disse «è veroè vero ch'Ella mi crede anche se non mi comprende interamenteè vero che ha fede in me? Ebbenela riputazionela fama più splendidaio la darei centomille volte se l'avessinon per un'amicizianon basta...»
Il braccio di Edith tremò nel suo.
Egli proseguì con voce incertadiversa dalla sua solitacamminando come se le gambe non sapesser tenere la via diritta né la misura del passo:
«Per un'anima. Per un'anima che accettasseche volesse da meper sé solale creazioni del mio ingegno e del mio cuore; per un'anima chiusa a tutti fuor che a mecom'io sarei chiuso in lei. Dovrebbe essere appassionata e pura come il puro cielo. Noi ameremmo insiemeuno attraverso l'altroDio e il creato con un amore di potenza sovrumana. Pare a me che saremmo forti nella nostra unionecome tutta questa gente non sospetta neppure che si possa esserlopiù forti del tempodella sventura e della morte; pare a me che intenderemmo l'essere delle coseil loro spirito; che ci attraverserebbero la mente visioni del nostro avveniresplendori incredibili di visioni. La troverò quest'anima?»
«Sarebbe un'anima egoista» disse Edith«se volesse tutte per sé sola le opere del Suo ingegno e del Suo cuore. La glorialo sentodeve avere in sé qualche cosa di vuotopersinodi triste forseper uno spirito come il Suo; ma aver la potenza di far amaredi far piangeredi muovere le anime al bene e non usarla! Avere della luce nel pensiero e nasconderlanon inviarla dritta a traverso questa gran confusione torbida del mondo!»
«Questo non è per mesignorina Edith. Il poco che ho scritto è affondato in silenziopartecipando della mia sfortuna. Forse qualcunoun giornofrugandoper farsi del meritotra le cose dimenticate...»
Ecco Steineggerossotrafelato.
«Finalmente!» diss'egli. «Io credeva che eravate saliti sopra qualche albero. Io ho corso su e giù come un bracco.»
«Perdonamicaro papà» disse Edith soavementestaccandosi da Silla e prendendo il braccio di suo padrebenché questisempre cerimoniosoprotestasse. «Siamo esciti per un breve tratto dalla gente.»
Ella gli parlò carezzevolein tedescostringendosi a lui quasi volesse compensarloprovasse un rimorso. Il povero Steineggeimparadisatosi scusava di non averli raggiunti primacome se la colpa fosse sua. Silla non parlava.
Passeggiarono così un pezzo. La gente e le carrozze si venivano ormai diradando. I vialii giardinile case lontane s'intorbidavano di mistero. Le donnecamminando languidamenteguardavano i passeggeri con occhi fatti audaci dall'ombra. Si udiva parlare sotto i vialida lontano; di là dai giardinilungo le case tenebrosei fanaliocchi ardenti della grande città pronta al piaceresi aprivano uno dopo l'altro. Sopra le case il cielo serenosenza stelleaveva ancora un tepido chiaror di perla che si stendeva blando sul margine scoperto del bastione e sulla spianata bianca del caffè dei giardinia cui Steinegge si avviava con propositi di munificenza. In faccia al cavalcavia era fermo un elegante calesse vuoto. Uno staffiere teneva aperto lo sportellovolgendo il capo a due signore che venivano dal caffè. Silla salutò. Una di quellenel passargli vicinogli disse con una vocina piena di grazie:
«Si ricordi. Dopo il Re.»
«Io mi congratulo moltocaro amico» disse Steinegge.
«Ohdi che?» rispose Silla sdegnosamente. «È la signora De Bella. Un'antipatica bambola di Parigi. Non ci vado mai. Se sapeste come l'ho conosciuta! Lo scorso autunno un certo G... che studia filologia a Berlinomi manda dei versi di un nostro antico poetaBonvesin de Rivastampati colà. Contemporaneamente manda degli altri libri fors'anche delle fotografiea questa signora che allora era a Varese. Per un equivoco della Postaanche il mio libriccino fu portato a casa suaqui a Milano. Ella fa una corsa da Varese proprio quel giorno e m'incontra in via San Giuseppe con mia zia Pernetti che accompagnavo. Mia zia si fermae dopo molte chiacchiere ha la bontà di presentarmi. Questa signora fa un atto di sorpresa. "Ma io" dice "ho della roba Sua!" Io non capisco e non rispondo. "Lei" soggiunge "è ben l'autore di Un sogno?". Rimasi sbalordito. Allora ella mi parlaridendodel libriccinoe mi dice candidamente che G... ci aveva posto dentro un biglietto dove si leggeva: "Mandami una copia del tuo Sogno". Mi fece mille premure perché andassi a trovarlae vi andai difatti un paio di volte in dicembre. Poi non ci tornai più. Oggi mi ha scritto che desiderava parlarmi e che ci vada domani sera dopo il teatro.»
Silla raccontò tutto questo con calorecome se volesse giustificarsi di quella relazione.
Sedettero fuori del caffè. I fanali non v'erano ancora accesi e i tavoli quasi deserti. Uscivano invece dall'interno con la gran luce del gasle voci vibrate dei garzonil'acciottolìo delle tazze e delle sottocoppeil tintinnìo dei cucchiaini e delle monete buttate sui vassoi. Steinegge cominciò a parlare di quel tal C...che aveva conosciuto in Oriente. S'erano trovati a Bukarest nel 1857 el'anno dopoa Costantinopoli; quindi nel 1860 a Torino. Steinegge parlava assai volentieri del suo soggiorno nei dominii del "sublime portinaio". Da C... passò a Stambul e al Bosforo. Tocca il cuore udir parlare nelle ombre del crepuscolo di paesi lontanidi costumi bizzarridi strane lingue sconosciute. Silla guardava spesso Edithascoltava il narratore come chi ascolta una dolce musica leggendo e pensandoche le sue lettere e i pensieri si colorano di poesiae neppure una nota gli resta nella memoria. Era la elegante forma bruna di Edith ch'egli vestiva di poesiaudendo parlare di cipressidi fontane moreschedi palazzi bianchidi mare brillante. Ogni linea della bella persona gli appariva improntata di grazie nuovegli pareva segno di un'idea attraenteimpenetrabile. Non vedeva l'occhiolo immaginava; ne sentiva sul cuore lo sguardo con la sua dolcezza. Immaginava pure i pensieri di lei; nonon i pensierima piuttosto vagamentela dignità e la tranquillità lorola purezza altera. E sentiva in se stesso una luce serenaun calore così lontanogli parevadall'indifferenza come dalla passioneun sorgere di non so quale indefinibile fede. Provava la sensazione di salirealla lettera; e un singolare esaltamento della potenza visiva per cui le grandi ombre degli alberi del bastionei profili taglienti delle macchie brune intorno a luigli oggetti vicinitutto gli riesciva straordinariamente netto e vivo; nuovoperciòinteressante come al tempo della sua fanciullezza.
Steinegge intanto parlava. Descrisse un episodio comico della sua traversata da Costantinopoli a Messina. A quel punto il gas del fanale vicinotocco dal lume dell'accenditoredivampò sonoroarse in viso a Edith.
Ella era pallidissimagravee non guardava suo padre. Si scosse allora e si pose ad ascoltarlo con attenzione troppo subitanea ed intensa per essere sincera. Silla se ne avviden'ebbe un lampo di piacere nel petto.
Quando più tardi riaccompagnò a casa il padre e la figliapochissime parole furono scambiate fra loro. Nel separarsiSilla stese la mano a Edithche esitò ad accordargli la sua e la ritrasse tosto. Egli udì appena i saluti chiassosi di Steinegge: se n'andò via dolente e insieme avido di esser solo. Si allontanò a capo chino e a lenti passiimmaginando fortemente il viso pallido e gli occhi di lei quando il divampare del gas la sorprese; ripensando ad una ad una le parole scambiatele proprie confidenzela protesta d'amiciziacosì singolare sulle caute labbra di Edithla sua evidente trepidazionenello staccarsi dal padredimenticato poi mentr'egliSillale dava il braccio e le parlava. Non ne traeva nessuna espressa conclusione; si guardava il braccio là dove s'era posata la mano di Edithodorava queste memorie come un profumo. E pareva che a poco a poco se ne inebriasse. Dalla via poco frequentata dove abitavano gli Steineggemoveva inconscio verso il cuore della città. La gente cominciava a spesseggiarecrescevano gli splendori dei negozilo strepito delle carrozze. Alzò la testa e affrettò il passo. Gli saliva dentro una foga d'orgoglio non del tutto insolita in lui che in tali condizioni di spirito cercavagodeva la folla per la voluttà acuta di sentirsele ignoto e di disprezzarladi dominarla col pensiero. Trovatosi a un tratto sul corso Vittoriosi gettò nel fiume della gente.
Egli aveva detto a Edith: «Un'anima! Un'anima sola che accetti le creazioni del mio ingegno!». Ma questo era il grido delle sue tristezze scoratequando si sentiva debole a fronte del mondo indifferente e di un sinistro demonio confitto nel suo fianco. Grido dell'ora neravôta di fede e di speranza. Non sarebbe stato sincero quando l'ingegno gli ardeva di vigore audace e il demonio sinistro taceva; che allora l'uomoebbro di felicità fieradisprezzava le dimenticanze del pubblicole ingiustizie amare della criticala insolenza dei fortunatiil maligno volto della stessa beffarda fortuna; scrivevanon per ambizionené per dilettoné pel sublime amore dell'Arte ch'è la musa dei grandi ingegnima per la coscienza di un dovere ideale verso Dioper obbedire alla vasta mano prepotente che gli si piantava tra le spallelo curvavalo schiacciava sul suo tavolo di lavorospremendogli dal cuore il sangue vitale che ora ingiallisce ne' suoi libri dimenticati. Tra queste rade ore splendide gli correvano lunghi intervalli bui. La vasta mano si alzava dalle sue spalleogni luce di pensiero si spegneva in una tenebra pesante d'inerzia; tutte le passate delusioni lo rimordevano al cuoretutte le vecchie ferite sanguinavano; egli numerava con acre piacere doloroso le fallite speranze della prima giovinezzale contrarietà straneincredibili che aveva provatesempre e dovunquesul suo camminole funeste contraddizioni insite nella sua stessa natura; poco a poco non lavoravanon pregava piùnon sentiva più Dio. Allora il suo paziente nemico mortaleil demonio confitto nel suo fiancosorgeva e gli strideva nel sangue.
Era il demonio della voluttà tetra. L'adolescenza e la prima giovinezza di Silla erano state pure. La santa protezione di sua madrele tendenze artistiche e la squisita nobiltà del suo spiritola fatica degli studil'ambizione letterarialo avevano preservato dalle corruzioni grossolane che avvelenano quell'età. Aveva allora il sangue tranquillola mente illuminata di bellezze femminili idealisovrumane per l'intelligenza ancor più che per la perfezione delle forme. Di tempo in tempo si credeva innamorato. I suoi amori cercavano sempre lo sconosciuto e l'impossibile. Uno sguardoun sorrisouna voce di qualche dama di cui non sapeva il nomegli si figgevano in cuore per mesi. Allora il solo pensiero degli amori vili gli metteva orrore; tutto il fuoco della sua giovinezza bruciava nel cuore e nel cervello. Dopo le prime disillusioni letterarienell'abbattimento che ne seguìquel fuoco divorante gli scese intero ai sensi. Egli vi ripugnò lungamente e quindi si gittò abbasso. Non cercò facili amorigli era impossibile piegar l'anima alla ipocrisia di parole menzognere: volle il tetro piacere muto che si offre nelle ombre cittadine. Ne uscì tosto stupefattopalpitantein ira a se stesso; ritrovò il calore perduto dell'ingegno e dell'affettoritrovò i suoi amori idealiriprese la pennaafferrò il concetto del dovere verso Dio come una fune di salvamento. Ricadde quindi e si rialzò più voltelottando sempresoffrendo nella sconfitta incredibili prostrazioni di spiritocol presentimento angoscioso di un'ultima caduta irrimediabiledi un abisso che lo avrebbe finalmente inghiottito per sempre. Perché in lui l'antagonismo dello spirito e dei sensi era così violento che il prevalere di una parte opprimeva l'altra. Non aveva mai conosciuto il giusto equilibrio dell'amore umano né potuto trovar durevole corrispondenza di quell'affetto sublime e puro ch'egli invocava con angoscia quando Iddio si ritraeva da lui. Gli era toccata due volte la rara e inestimabile ventura di essere amato come voleva eglicol fuoco dell'anima. Uno di questi amori fu troncato subito da necessità fatali e ineluttabili; l'altro scomparve misteriosamentelasciando Silla pieno di terrorecome se avesse veduta l'ombra e udito il sarcasmo del destino. La passione di sensi e di fantasia ispiratagli da Marina lo attraversò quale una vampa di polvere. Tornato a Milano spense a forza il bruciante ricordo di lei in ostinati studi di greco e di filosofia religiosa alternati con un lavoro fantastico e uno studio morale. Non fu mai colto in quell'inverno dal cupo silenzio interiore che soleva precedere in lui le tempeste furiose dei sensi. Una così lunga tranquillità gli ritemprò lo spiritogli rese quasi la freschezza dell'adolescenza; e oracon lo sguardo e la dolce voce di Edith nel pettoegli si sentiva casto e potenteguardava in faccia all'avvenire apertovôto di fantasmi paurosi. Andava fra la gente colla voluttà del nuotatore gagliardo che fende da padrone la spuma e il fragore delle onde. Sentiva la stolta fede che sarebbe giunto un giorno a signoreggiar con l'ingegno quella folla così avida negli occhi di bellezza fisicadi piacereferma e densa intorno al fulgore dei gioielliferma e densa intorno alla ridente luce di certe altre vetrineparadisi della gola; palpitante nel sinistro fascino dell'oroabbrutita nelle cupidigie del ventre. Qual sogno opporsi a leisfidarne la viltà e la superbiafrustrarla in viso come una fieragittarla indietro sgomenta e domacon la potenza di una divina ispirazione interiore e della parolaamando ed essendo amato senza fine da una donna come Edithsicuroin questa fiammadal fango ignobile!
Passavacosì fantasticandolungo il Duomo. La tacita mole enormeassediata dai fanali a gaspigmee scolte del secolo nemicone portava sul fianco il picciol lume che moriva a breve altezza nell'ombra; e l'ombra sfumava più in su in un fioco albor purodove salivano gugliepinnacolitrine marmoree color di neve lontanaprima dell'aurora. Quella visione di marmi e di lunainutiliadorabili magnificenze dell'idealeruppe a Silla le fantasieforse non vôte di ambizione e di rancori contro gli uominigli refrigerò il cuorevi mise un gran desiderio di silenzio. Egli si avviò verso casa sua. Abitava lontanopresso Sant'Ambrogio. Quando entrò nella chiara piazza deserta gli si affacciòalta sopra le case di via S. Vittorela luna. Silla trasalì e si levò il cappello involontariamente. Aveva ella presieduto alla sua nascita la fredda e solenne signora che veniva a guardarlo tristamente in faccia nei momenti gravi della vitaadesso come un'altra seraquand'ella usciva tra i nuvoloni sull'Alpe di Fiori e gittava nelle acque nere del lago una spezzata lama d'argento? Silla rise di se stesso e si disse che era un saluto di congedo alla vecchia amante.
Egli vegliò a lungo nella sua cameretta al quarto pianoche guardava in un cortile quadratostretto e profondo. Tenne la finestra aperta. Fuori della finestra sul ballatoio c'eran de' vasi fioriti di violaccioccheche mandavano odore nella stanza. Dal suo tavolo Silla vedeva sopra la opposta muraglia biancatra gli abbaini e i fumaioli del tettouna lista di cielo e qualche stella pallida nella luce lunare. Egli trasse il manoscritto di un racconto incominciato durante l'inverno con questo titolo Nemesine rilesse alcune pagine e non gli piacquero. Depose il manoscrittopensò a Edith. «Buona sera» disse una voce dalla finestra.
Era uno studente dell'Istituto Superiore che alloggiava in fondo al ballatoio. Silla lo salutò.
«Vengo di làsa» soggiunse l'altro che si compiaceva di raccontargli i suoi amori. «Mi ha congedato subito e non vuole che ci torni prima di posdomaniperché dice di essere andata oggi a confessarsi. Ma che fatica ha fatto! Che fatica!»
Il giovane pareva ubbriaco di questo pensiero. Parlava ridendoansando.
«Sasono sentimentale per forza questa sera. Farò un po' di musica. Farò uscire dalla finestra quella biondaquella ch'è venuta l'altro ieri. Come? non la conosce? Al terzo pianoprima finestra a dritta. Dove c'è lume. Una francese. Buona sera.»
Se ne andò cantando a mezza voce sopra un motivo dei Lombardi certa strofetta composta per il prof. B...
Per ridurre all'orizzonte
La pendenza del terreno
Si moltiplica il coseno
Per la stessa inclinazion.
Entrato nella sua cameralasciò l'uscio spalancato e tempestò sul piano un walzer diabolicoda far ballare i morti. Sillainfastidito dal dialogo e dalla musicasi alzò per chiudere la finestra. Ma era così soave l'odore dei fiorigli piaceva tanto quella muraglia tutta bianca di lunaquel cielo puro! Guardò abbasso. La signorina francese era uscita sul ballatoio del terzo piano e si appoggiava alla ringhierafumando. Due cameriere ballavano da un'altra parte e rispondevano a interlocutori invisibili; un capitano in pensione stava alla finestrain berretto da nottecon la sua giovine governante. Silla chiuse la finestra. La santa notte di primavera gli pareva ammorbata e guasta. Chiuse vetri e imposte con impetotornò al suo tavoloe dopo aver pensato a lungo con il capo tra le maniafferrò un foglio di cartascrisse precipitosamente:
«È amore? Quale amore? Sono ancora tranquillo abbastanzavoglio rifletterestudiarmi finché mi è possibile. Io sentopensando a leidi desiderare qualche cosa di ignoto a me stessod'inconcepibile dal pensiero umano. Il mio desiderio è tanto puro che lo scrivere - è puro - mi costa uno sforzomi ripugna. Ma tuttavia vi è veramente una commozione fisica in mespecialmente nel petto. Vi è un reale movimento nel sangue o nei nerviche corrisponde alla esaltazione del mio spirito. Sono incapacein questo puntodi ragionamento freddoma sento invincibilmente che se quello che io provo è amoreesso non è solamente spirituale. Lo pensolo credosono barlumi di una vita futura più nobile che si destano in mepresentimenti d'uno squisito amore fisiconon concepibile in questa tenebra. Solo questo io soche dev'essere immensamente più degno dello spiritobenché forse capace ancora di altre sublimi trasformazioni. Tento immaginare la unione interail mio sguardo nel suoil cuore nel cuoreun fuoco di pensieri commistiun palpito che ad ogni momento ci divida e ci unisca. Sento altresì che queste idee esaltano la mia intelligenza e abbattono il corpone troncano i desideri più vili.
«Signore degli spirititu me li doni questi divini fantasmiombre del futuroquesti ardori che mi levano dal fango verso te. Non abbandonarmifa ch'io sia amato. Tu lo sainon è solo dolcezza che io cerco nell'amore; è lo sdegno d'ogni viltàè la forza di combattere per il bene e per il vero malgrado l'indifferenza degli uominil'occulto nemico esternoi tuoi silenzi paurosi. Padrerispondi al grido dell'anima miafa ch'io sia amato!
Veditra queste sublimi speranze mi assalta l'angoscia che siano una derisione ancora e mi stringo ad esse e sospiro.»
«Ah no!»
Gettò la pennaspiegazzò fra le dita lo scritto e lo arse alla candela. Prese poscia un libriccino di note. Rilesse queste parole tracciatevi anni prima:
«È finito. Creare ancoracreare fantasmi di quanto ho desiderato invanolasciare un ricordoun'eco dell'anima mia profonda e partire attraverso gli abissi per qualche stella lontana da cui questa terra dura non si veda nemmeno! Diogli uominila giovinezzala fedel'amoretutto mi abbandona.»
Vi scrisse sotto: «29 aprile 1865.»
«Spero.»
2. Quid me persequeris?
Egli dormì poco quella notte. Da S. Ambrogio la gran voce solenne delle ore gli riempiva la stanzasi confondeva al suo sopore inquietomettendovi l'aspettazione del domani sconosciuto. Verso l'alba si addormentò profondamente e non si svegliò che a giorno inoltrato. Una luce grigia entrava dalla finestra. Pioveva.
Silla si sentiva rotta la persona come se avesse fatto quella notte venti leghe a piedi per domare un'agitazione febbrilecresciuta invece con la spossatezza del corpo. Gli venne l'idea di uscire per una lunga corsa sui bastioni ma poi non ne fece nulla. Rimase un pezzo seduto sul letto a guardar dalla finestra il cielo freddouggioso come di febbraioi tetti lucidie contro le scure finestre oppostei fili tremoli della piova che sussurravano sulle tegole come uno strascico di veli leggeri e schiamazzavano nel cortile sotto i canali.
Guardavasi può dire senza pensare oalmenopensando senza il governo della volontàdisordinatamente. Era la penombra di un sogno in cui le idee duravano a muoversi a caso come ospiti stupefatti di stanze signorili dove il padrone non compare. Egli sentiva però nel cuore qualche cosa che la sera precedente non c'era ancoraun misto di stanchezza e di eccitazioneuna sorda sofferenza che si ravvivava quando negli occhi intenti alla piova gli entrava lo sguardo immaginato di Edith. Era un triste dubbio che gli faceva male. Le nuvole grigie lo sapevanola piova lo diceva e lo ripeteva:
«Piangipianginon ti amanon ti ama.»
Egli durava fatica a difendersi dallo stolto sospetto che anche Edith avesse cangiato dalla sera precedentecome il cielo; che la notteil sonnoaltri pensieri avessero spenta la sua inclinazione nascentese pure questa inclinazione non era un abbaglio visionario. Sarebbe andato da lei quel giorno stesso a portarle Un sogno; gliel'aveva promesso. Come ne sarebbe accolto?
Teneva presso di sé quasi tutta l'edizione del suo libroun gran fascio di copiepolverose al di fuoricandideintatte al di dentrocome vecchie monachelle innocenti. Ne tolse una e pensò alla dedica che avrebbe dovuto scrivere. Ne preparò otto o dieci. Quale gli pareva freddaquale pretensiosa. Finalmente scrisse sulla guardia del libro:
Alla Primavera blanda
C.S.
Subito dopo ne fu malcontentosentì che bisognava dire di piùfarle intendere quel che sentiva. Sul libro stesso? Nonon era conveniente. Perché? Non trovò un perché abbastanza imperioso e scrisse sotto la dedica:
«La Primavera blanda è amata da uno scrittore oscuro cui nessuno ama. Per leiper lei sola egli potrà esser grande e fortevincer la fortuna e l'oblio. Se n'è respintosi lascerà cadere a fondo».
Appena scritto volle troncare con un lavoro pacato quell'agitazione che lo spossava. Ricorse a un vecchio manoscrittosuo fedele compagnoche gli cresceva sotto lentamentefra gli altri lavorinutriti in parte con la meditazione astrattain parte con la esperienza quotidiana degli uomini e della vita. Erano studi morali dal vero. Pareva a Silla che la letteratura moderna fosse soverchiamente scarsa di questi libriin cui parecchi grandi scrittori del passato hanno ritratto l'uomo interno con tranquillità scientifica e con arte squisita di stile. E gli pareva che in tale studio i fatti e le osservazioni contemporanee dovessero raffrontarsi a fatti e osservazioni anticheonde misurare il valore moralerelativo e assolutodella nostra generazione. Per lui il valore delle trasformazioni religiose e politichedegli stessi progressi scientifici e materiali si risolveva nella sommanon di verità o di prosperitàma di bene e di male morale che ne discende; perché se il bene in generale è lo scopo a cui tutta la molteplice attività umana intendeil bene morale è la sua legge stessala condizione della sua potenza durevole; senza dire che per mezzo di essotermine d'una equazione misteriosal'uomo si accosta alla essenza della verità e della bellezza assai più che per mezzo della scienza e dell'arte. La quale arte egli giudicava a questa stregua medesimapure disprezzandocome puerile e falsala teoria dell'insegnamento morale diretto. Teneva ch'esatte cifre misuratrici del valore morale esistessero veramentema fossero impenetrabili in questa vita allo spirito umano; non pregiava come elemento di ricerca quelle delle statistichein cui le unità vengono aggregate arbitrariamente per certi caratteri comuniaffatto esterni e propriper alcuni rami di statisticapiù della legge che dei fatti umani; tutti più o meno disformi tra loro nell'aspettoe di cui non si può cogliere la vera misura morale che là dove si generanodove la statistica non sa entraredove la osservazione psicologica può trovare argomento di classificarli in modo affatto nuovoaffatto impensatoda sconvolgere molte tabelle e molte opinioni. Preferiva perciò a grossolani indizi aritmetici l'opera degli osservatori moraliattenti a cogliere negli attinelle parole umane i motivi interni; l'opera di pensatori acuti nel coordinare queste osservazioni praticate da molti in ogni campo della vitanel dedurre giudizi quasi scientifici. Voleva che le osservazioni si facessero e si esponessero con la massima precisione possibile; attribuiva perciò poco valore a quelle che sono nei romanzi. Ingegno non lucidomistico di tendenzepotente per certe intuizioni fugaci piuttosto che per nerbo suo proprio e costanteegli aveva idee poco definitepoco pratiche; ardente spiritualista e perciò proclive a considerare di preferenzanell'umanitàla origine e il fine; amavaanche in tenue materiaappoggiarsi a qualche grande principio generale. Era quindi male atto alla fredda osservazione scientificase pure ella è completamente possibile in tali argomenti e se il solo vero frutto da sperarne non è la conoscenza dell'osservatore stesso.
Ma egli non obbediva soltanto a un concetto filosofico; cercava pure in quel lavoro certa consolazione delle offese recategli dal mondo. Tenuto in poca stima dai suoi congiunti che l'avevano per un sognatore ozioso; negletto dagli amici che si dilungavano da luiamico inutileseguendo la propria fortuna o le cure domestiche; ferito da inciviltà disdegnose di criticidi letteratidi editorisi compiaceva di studiare questi tipi familiarisine ira et studiocon equa temperanza. Era il suo conforto orgoglioso tenerli sotto la penna e perdonar loro.
Stava ora lavorando a un saggio sull'ipocrisia. Inconscio seguace d'idee preconcette e assolutevoleva dimostrarvi che la menzogna e la debolezza morale sono caratteristiche di questo temposalvo a dedurne in seguito che discendono dalle sue tendenze positivisteossia dall'essersi oscurato nelle anime il principio metafisico del vero; e che le verità conquistate nell'ordine fisicoinfinitesimali raggi di quel principionon hanno né possono avere il menomo valore di sostituirlo quale generatore di salute morale. Molto più grave gli pareva questo prosperare della menzogna in tanta libertà di parola e d'azione. Perché ne trovava infetta la vita sociale e politicacome le artile lettere e le industrie stessenelle quali discende a complice abbietta d'inganno persino la scienza. Osservava ne' suoi conoscenti il fenomeno frequentissimo dell'ipocrisia a rovescioossia la dissimulazione dei sentimenti più retti e più nobilidelle opinioni più ragionevoli; l'opposto linguaggio che erano usi tenere sulle persone e le cosesecondo il numero e la qualità degli uditori. Ne induceva che se le vere opinioni umane avessero improvvisamente a scoprirsiil mondo sbigottirebbe di trovarsi tanto diverso da quello che crede. Una sì larga infusione di falsità volontariacorrompendo interamente le parole e le azioni umanedeve generare il falsoche è quanto dire il malenell'organismo della societàpoiché questo si modifica senza posa per le paroleper le azioni umane. Silla preferiva la sinceritàanche nell'errorea qualunque men disonesta ipocrisia. Citava esempi in appoggio al suo assuntoe aveva ora per le mani il suo amico Steinegge.
Steinegge era un esempio singolare di rettitudine morale accoppiata alle opinioni più false in ogni argomento. V'erano nei suoi errori un candoreuna sincerità leale senza pari. Egli non poteva neppur crederein fattoalla menzogna né alla disonestà negli altri benché dicesse malein astrattodi mezzo mondo. Parlava da scettico e sarebbe caduto in ogni trappola di briccone volgare. Il suo calor generoso si apprendeva altruila sua schiettezza provocava schiettezza; e le opinioniviolente e zoppelungi dal nuocerenon si reggevano in piedi. Pareva a Silla che se fosse possibile rappresentare una generazione con un uomo solocome altri ha fatto per la umanità interala generazione presente verrebbe raffigurata in un uomo coltoacuto di mente e basso di animoattivoambiziosodoppiosensuale senza passioneforte di molta fede in se stessovantatoremalato d'umori vaganti che lo molestanosempre a fior di pelle e talvolta gli minacciano i visceri. Steinegge era molto migliore di questo tipo. Sotto il suo cerimonioso abito nero del secolo decimonono v'era un gran cuore barbaropieno di idee sbagliate e di sangue sano. Silla pensava a lui con la penna inerte sulla carta e lo sguardo a' fili tremoli della piova. Non poteva continuare la sua tranquilla analisi psicologica; gli pareva di offendere quell'uomo ingenuo che gli voleva tanto benee certo non avrebbe sospettato mai che l'amico suo gli volesse praticare una vivisezione sul cervello e sul cuore. Se lo vedeva là ritto davanti col suo onesto viso cherusco e gli occhietti scintillantigli udiva dire con impeto soffocato: "La meritate voi?".
E luiSillasi alzava in piedigli rispondeva: "La meriterò. Sarò il suo sostegnola sua difesa e il suo orgoglio. Non si troverà in me un atomo di falsità mainon un pensiero ond'ella sia esclusa. Combatterò per le alte cose ch'ella amasotto gli occhi suoivirilmente".
Poi quella voce gli faceva delle altre domande. Egli si commosse nel pensiero di tante fredde difficoltà amarepronte per lui da ogni parte. Immaginò un altro colloquio intimo con la propria madre. Ella gli diceva con indulgente calma tante cose savie che a lui non sarebbero mai venute in mentelo sgomentava e lo rincorava insieme con la sua pacata scienza della vitacon l'elevato concetto del dovere e la ferma fede nella volontà umana e nella provvidenza. Nonon era facile l'avvenire. Dai suoi parenti materni non poteva attendere appoggio se non lasciando gli studi per il commercio. Gli avevano già detto chiaro che non sperasse essere incoraggiato da loro a vivere oziosoa leggicchiare e scribacchiare senza costrutto. Gli pagavano il modico assegno di cui viveva stentatamentefrutto di una somma di ragione di sua madre che essi avevano trattenuto presso di sé salvandola dal naufragio di Silla. Più di così non era da aspettarsi da costoro che avevano edificato del proprio la canonica e le scuole comunali del paese dove filavano seta e villeggiavano. Ceder loro? Si sentiva portare in aria dallo sdegnosolo a pensarvi. Avrebbe dovutoaccasandositrarre denaro dal proprio ingegno. Come? I suoi libri non gli avevano ancora fruttato un soldoe il loro successo non lasciava presagire migliore fortuna per l'avvenire. Avrebbe tradotto qualche ora al giornodal francese e dall'inglesea un tanto la pagina; ma era poi sicuro di trovar lavoro? Come correva la sua fantasia! E la grigia piova tremola gli ripeteva in fondo al cortileper le grondaiesui tetti lucidi:
"Piangipianginon ti amanon ti ama."
Si alzò e uscì di casa.
Più tardi egli non seppe ricordar bene che avesse fatto durante le lunghe ore trascorse da questo punto al momento in cui pose piede in casa Steinegge. Camminò trasognatosui bastioni desertisotto i platani grondanti e per vie remote della cittàsenza riconoscerle; attraversò quartieri opposti a quello abitato dagli Steinegge. Si trattenne lungamente in un piccolo caffè tetrodove due vecchi giuocavano al domino e la padronaseduta accanto ad essi con un grosso gatto grigio sulle ginocchiaguardava piovere nella via stretta. Dietro il banco un orologio scandeva col suo tic-tac minuti interminabili.
Questi minuti eterni venivano sempre accelerando il passo; all'accostarsi del momento prestabilito battevano via a precipizio come il suo cuore.
Giuntoper la più lunga via possibilealla nota portanon vi entrò né si fermò. Gli parve che il suo destino l'attendesse là dentro. Andò avanti per qualche centinaio di passipoibruscamentetornò indietropassò la soglia disprezzandosiparagonandosi a un fanciullo ridicolo che desidera da lontano la donna amata e la teme da presso. Si volse alla portinaia senza parlare. Ella lo conosceva e disse alzando la testa dal lavoro: «In casa».
Salì le scale adagioaggrappandosi nervosamente alla branca. Suonato il campanello si sentì chetare i nervisi meravigliò seco stesso d'essersi lasciato tanto turbare dalla fantasia.
«Oh! Oh! Caro amico! Date! Oh! questa è una grande fortuna con questo tempo tedesco. Date!» vociferò Steineggeche gli aveva aperto e gli toglieva di mano a forza l'ombrello e il cappello.
«Buon giornosignor Silla» disse Edith quietamente. Ella era seduta presso la finestra e lavorava. Aveva alzato il visoné roseoné pallidoper il breve saluto e s'era volta quindi a guardar dalla finestra il "tempo tedesco".
Entrava lassù dallo sterminato cielo bianco una gran luce quasi nervosa. Sul tavolospoglio del suo bel tappeto azzurro e neroposavano due o tre grossi volumiun calamaio e un manoscritto aggruppati presso la sedia da dove s'era alzato Steinegge.
«Voi vedete» disse Steinegge «questo Gneist è un grande uomograndemente stimato in Germania. Bisogna leggere un articolo di questa Rivista Unsere Zeit. Voi sapete? Ohff! Ma io sono un piccolo uomoe quando ho tradotto cinque o sei paginenon è possibile andare avanti; è questo. VoiVoi dovreste imparar presto il tedesco e tradurre il Self-Government per la Vostra nazione. Io lavoro per il signor conte perché io devo mangiarema io getto questa fatica in un pozzoe poi io traduco in francese molto male. Io credo che guadagnereste molti denari perché tutti gl'italiani comprerebbero. No? Voi non credete? Voi non credete? Ooh! Questo mi meraviglia moltocaro amico. Se avessi denarifarei tradurre per speculazione a mie spese. No? Ahno. Questo mi meraviglia molto. Sedete. Voi avete un libro?»
«È un libro che mi permetto di offrire alla signorina Edith» rispose Sillaposando il volume sullo scaffaletto accanto al busto di Schillere guardando Edith.
«Ohmolte graziecaro amico» disse Steinegge.
Edith posò le mani sul lavoro e volse il capo a Silla.
«Grazie» diss'ellatra attonita e curiosa. «Che libro è?»
«Il libro di cui Le ho parlato iersera.»
«Iersera?»
«Guardalo dunque!» disse Steinegge porgendole il volumetto con un leggero atto d'impazienzail primo forse che gli sfuggisse parlando con sua figlia.
«Ahil suo libro Un sogno! Lo leggerò volentiericerto. Lo leggeremo insiemepapàper riposarti del tuo Gneist. Ti prego.»
Gli rese il librosenza sfogliarlonon senza però aver intravvisto la dedica e le quattro righe scrittevi sottoe si ripose al lavoro.
«Io sono sicuro che sarà bellissimo e che ci troveremo grande piacere» disse Steineggerosso rossoper cercare di supplire alla freddezza di sua figlia. «Versi?»
«No.»
«No? Io credeva che Voi foste poeta.»
«Perché?»
«Scusatemio caro.» Steinegge prese con ambo le maniridendoil braccio del suo interlocutore. «Per la Vostra cravatta che è sempre fuori di posto. Io ho dato lezione in Torino a un giovaneil quale diceva che i poeti in Italia si conoscono dalla cravatta non in prosanon a posto. Non fate versi Voi?»
«Mai.»
«Questo è un racconto?»
«Sì.»
«Sarà stato molto lodatoio credodal pubblico e dai giornalinon è vero? Avrà fatto rumore?»
«Sìil rumore di un sasso che cade in un pozzo. È stato accolto gelidamente. Non ha trovato una sola personaneppure tra le poche a cui l'offersiche l'abbia accolto come si accoglie un forestiere raccomandato da qualche amicoun visitatore onestocivilesenza ingegno forsema non senza cuoreposso dirloil quale vi domanda solo di essere udito quando vorrete Voi.»
«Come mai? Questa sarà invidiaio credo.»
«Nonono. Ci sono uomini e libri sfortunati che spirano antipatia persino a' cuori più gentili.»
«Questo è veromio caro amicoquesto è vero sempre.»
«Mi pare che un autore non lo dovrebbe credere» osservò Edith senza alzare il capo dal lavoro.
Silla tacque.
«PerchéEdith?» chiese Steinegge.
«Perché questa opinione gli deve togliere la fedela forza; gli deve impedire di studiare bene i difetti delle sue opere.»
«No» disse Silla. «Per un pezzo si dura saldianzipiù la fortuna ci combattepiù la si disprezzapiù si lavorapiù si cerca di appagare noi stessila nostra coscienza. Le ferite stimolano quasidanno vigore; ma poi ne capita una inaspettata nel fiancoe allora non c'è più che da cader benea fronte altasenza chieder pietà.»
«Sarà veroma direi che bisogna diffidar molto della nostra fantasiae badar bene di non attribuire alla fortuna quello che non le va attribuito. Non Le pare? Non è più virile di crederci poco alla fortuna?»
«Oh» esclamò Steinegge «come non vuoi credere alla fortuna? Saresti tu esulequasi poverae sola con un vecchio poltrone se non ci fosse la fortuna?»
Gli occhi di Edith scintillarono.
«Papà!» diss'ella.
Egli non ebbe il coraggio di confermar colla vocema confermò col caporidendo silenziosamentequello che aveva detto.
Edith si alzò e gli si avvicinò.
«Scusisignor Silla» diss'ella appassionatamente. «Lei è nostro amico e mi permette di dire una parola a papà. Puoi tu ignorare» soggiunse rivolta a quest'ultimo «che non v'ha per me felicità maggiore di vivere con tesempre con te soloamar teservir tesentirmi protetta da tesapere che tu mi vuoi bene?» Ella disse questo in italiano e poi continuò in tedesco la sua effusione affettuosa. Intanto suo padre la interrompeva con esclamazioni e gestibatteva con le mani su Gneist e sul tavolo; ogni muscolo del suo viso grinzoso lottava con la commozione. Stava per essere vinto. Trarre l'orologioesclamare «OhC... che mi aspetta»correre a pigliarsi il cappellofare un gran gesto di saluto a Silla e infilar la portafu un punto solo. Edith lo chiamò; non le rispose; corse per trattenerloegli era già in fondo alle scalesenza ombrello. Ella rimase sospesa un momento pallidissima; si compose tuttavia subito e invece d'avviarsi alla sua sedia presso la finestras'indugiò a disporre meglio le lucernine e i fiori sul piano del caminetto.
«Signorina Edith» cominciò Silla con voce alterata.
Ella si voltògli tese la mano e disse:
«Buon giorno.»
Silla tacque un momentopoi soggiunse:
«Scusi. Le rubo un minuto di più. Volevo dirle che solo adessodopo molte incertezze e ripugnanzecomincio a credere alla fortuna.»
Edith tacque.
«Può intendermisignorina Edith?»
«Signor SillaLei è amico di mio padre e quindi è amico mio. Io non capisco perché Lei mi faccia tali discorsi. Non conosco bene la Sua linguama se Lei vuole far dire alle parole più del doverequesto non è bene e io non voglio.»
Ella disse «non voglio» con altera energiacon agitazione. Non parve comandare a Silla soltanto.
Silla s'inchinò.
«Non intendo» rispose «far dire alle parole più del dovere e non me ne rimprovero una sola. Del restoero venuto per dire a Suo padre che domani non posso pigliar lezione. Vorrebbe Lei avere la estrema bontà di avvertirnelo?»
«Lo farò certo.»
«Mille grazie. Buon giornosignorina.»
Egli andò e riprese il suo povero libro sullo scaffaletto.
«Perché?» disse Edith.
Egli sorrise scotendo la testa come per dire «che Le ne importa?»
«Mio padre l'ha veduto» diss'ellaquasi timidamentema senza emozione. Silla posò il libro sul tavolo efatto un saluto profondoa cui ella rispose appenauscì.
Edithrimasta solatornò a sedere presso alla finestra e riprese sulle ginocchia il fazzoletto che stava orlando per suo padre. L'ago era caduto a terra e n'era uscito il filo. Ella volle infilarlo di nuovo. Le tremavano le mani; era impossibile venirne a capo. Allora chinò il viso come se lavorassee andò poco che due grosse lagrime caddero sulla tela. Si alzòdepose il fazzolettoandò a pigliare Un sognoaperse stando in piedi presso il tavolo etosto vista la dedica manoscrittavoltò senza leggerealcune pagine. Quindisfogliando pagina per paginatornò alla dedicavi si fermò. Per quanto tempo!
Finalmente chiuse il libro con violenzaandò a metterlo sullo scaffaletto dietro il busto di Schiller. Se ne pentìlo ripreselo pose accanto al busto dove l'aveva messo prima suo padre. Aperse il balcone e si appoggiò alla ringhiera.
Pioveva sempre e tirava vento. I ciuffi verdognoli degli alberi che rizzavano il capo tra casa e casalontanosi dondolavano malinconicamente. Una cortina biancastra chiudeva l'orizzonte tutto all'ingiro; dal lembo inferiore trasparivano le campagne fosche. Era un grande spettacolo di tristezza appassionata. Ma Edith non guardava né vedeva. Era venuta a cercar l'aria liberavivarinnovatrice di tuttogradiva il battere delle fitte punterelline fredde. Si tolse di là dopo lungo tempo e andò a scrivere la lettera seguente a don Innocenzo.
Milano30 aprile 1865
Onoratissimo signore ed amico
accetteremo la cara amichevole offerta di venir qualche giorno in casa Sua. Le siamo tanto tanto grati! Mi pare che il signor conte non potrà offendersi se non andiamo al Palazzo; avrà bisogno di riposo dopo tanta confusionetanta gente in casa per il matrimonio. E mio padre e io abbiamo pure bisogno subito di quiete e di verde. Scusi il cattivo italiano; non so come esprimere il mio concetto. Voglio dire che abbiamo bisogno di quel silenzio e riposo che si trova nei campi verdiatto a quietare certi pensieri non del tutto sani e farne nascere altri così freschi e semplicicosì vogliosi di aria pura come le foglie degli alberi e dell'erba. È quasi certo che partiremo posdomani.
Da qualche tempo mio padre non ha progredito come speravo e io sono in sospetto doloroso di me stessa. Io temo di non aver scelta la buona via e di non avere adoperato bene il grande amore di mio padre per me; mi viene nel pensiero che sarebbe forse stato meglio entrare risolutamente su quel terreno sin da principiorichiamarepregareesigeree che non avrei perduto parte della mia influenzacome dubito averla perduta ora con le mie cautele forse troppo mondanecon mostrargli che sono tranquilla e contenta come se non avessi nessuna nube nell'anima.
Ho credutoonoratissimo e caro signoredi domandare consiglio a un buon vecchio prete dal quale sono andata a Pasqua. Egli mi ha consigliato di fare speciali divozioni alla Vergine e a molti santi. Credo umilmente che questo è buono; ma io ho bisogno di sapere come farecome parlare con mio padre tutti i momenti e non può essere poco importante se commetto errore o no. Non mi pare di poter avere aiuto superiore se non adopero ancheil meglio che possola mia ragione. Dio mi ha molto concesso perché mio padre ora viene in chiesa e so che sicuramente prega; ma questo è stato ottenuto assai prestoin principio. Egli ascolta molto volentieri parlare di cose religiosecome cerco io qualche voltae pare allora disposto alla fede; ma se si tocca di quelle pratiche in cui entra necessariamente il sacerdoteio vedo quanto egli soffre di non esprimere la sua ripugnanza violenta. Forse nei primi tempi e forse ancora adesso egli vincerebbese io lo pregassiquesta ripugnanza: ma debbo io pregarlo? Posso io mettere alla tortura il mio spirito? Può esser mai questo il mio dovere filiale? E ne verrebbe un frutto buonoaccetto a Dio? Quando penso le grandi sventure che ha sofferto mio padre e il suo lungo vivere fra uomini che non curano le cose dell'anima e penso la sua onestà di ferroil tenerissimo amore ch'egli ha per mia madre ancora adesso e per mela fede in Dio che gli è tornataio sento di riverire mio padre come una persona santabenché non pratica come io e tanta piccola gente che io conosco; e mi pare male costringerlo ad atti che il suo cuore non desidera. Questi sono i miei intimi combattimenti.
Ho bisognoonoratissimo signoredella Sua parola vivanella quale è un grande lumeuna forza. E sovra tutto desidero che mio padre si trovi con Lei qualche tempo. Mio padre ha veramente simpatia per Leisentimento impossibile a conciliarsi con altri suoi. Questo è per me come un muto indice scolpito al principio di una via.
Credo che vi sarebbe poca sincerità in me se Le dicessi ora che io ho bisogno del suo aiuto pure per me stessa.
Lei sa come io comprendo il mio dovere verso mio padre. Sono convinta checomprendendolo io cosìcosì è. Io devo essere intera per mio padreil quale non ha nessun'altra persona al mondo. Per lunghi anni egli ha vagato tutto solo sulla terrasoffrendo faticheingiurie e famementre io vivevo a Nassau come una damigella riccasenza mandargli neppure un saluto. È poca cosaper compensarlo di questotutto l'affetto umano ch'è nel mio cuore. Io non mi esprimo qui come vorrei; Le spiegherò meglio tutto questo a voce nella Sua casetta solinga tra i prati innocenti.
Le dirò ch'io sono stata per un momento un misero cuore fragileaperto alla sorpresae che il mio spiritorialzatosi con violenzaè ancor intorbidato di doloredi paura e anche di alcuna dolcezzadi alcuna compiacenza nel soffrire almeno una piccolissima cosa per il mio povero vecchio padre. È una confessione affatto non religiosa che io farò a Leionoratissimo signoreper trovarvi gradevole umiliazione e sollievoombre del divino che sonoio credoanche nelle confessioni umane; e altresì per sciogliermi dalla poesia bruciante del segreto. Mi perdoni questa lunga lettera. Mi parescrivendo a Leiacquistare maggior fede e maggiore speranza. Quello che io sento e vedo della religione in Italia non è spesso secondo il mio cuoreforse perché io sono un freddo carattere tedesco; se v'è qui dentro fumo d'orgogliome lo dicaè la mia mala inclinazione; certo io trovo nella Sua parola un raro suono d'intimo argentoa cui tutta l'anima mia si apre.
Preghi Dio per noi e ci voglia bene.
E.S.
Silla discese le scale con amara calmagonfia di ironia verso se stessocome se godesse ad ogni scalino calcare qualcuna delle stolide illusionidelle folli fantasie portate lassù pochi momenti prima; calcarle con orgoglio virilealzando fronte e cuore contro al nemico invisibile. Anche lì in quel cortile la perpetua piova ripeteva "piangi"ma non egli era inclinato a piangere. Per la terza volta gli falliva la speranza di un amore in cuiplacato l'angoscioso grido dell'animasentirsi fortesentirsi purosicuramente e per semprenon vedersi più davanti nella veglia e nei sogni il sinistro fantasma di un'ultima caduta senza rimedio nel buio. Per la terza volta Dio gli diceva: "Vedi come è bello? Non l'avrai". Ma avrebb'egli pianto come un bambinocome un vile? Nomai. Il suo orgoglio e i cupi presentimenti non gli permettevano neppure di pensare quello che altri si sarebbe proposto; combatterevincere Edith con lunga guerra. Che Edith potesse dissimulare non sospettò neppure un istante. Essere amatolui? Impossibilelo sapeva bene.
Nella viaa pochi passi dalla porta degli Steinegge incontrò un editore di seconda rigaa cui era stato presentato e raccomandatocome autorepochi giorni prima. Colui guardò da un'altra partepassò senza salutarlo. Che importava mai a Silla di questoadesso? Si strinse nelle spalle. Poteva ben resistere anche a questopoteva ben disprezzare quel signore che si credeva lecito d'essere incivile con gli autori di cui non voleva pubblicare gli scritti. Lotterebbe finché avesse sangue nel cervello e nel cuore. E ne aveva ancor moltoricco di vigorosi pensieridi dolcezza e di collera. Egli sentiva d'avere molte cose a dire in servizio del veromolte belle e forti pagine di coseprima di scendere ignorato e sdegnosoalla fine della sua giornatanel sepolcrocon l'altera coscienza di essersi serbato equo a un Dio ingiusto.
Concetto fiero e superbo chesorto nella solitudine del suo spiritometteva stupore in lui stessogl'infondeva una forza demoniaca. N'era stato tentato altre voltema lo aveva respinto sempre. Adesso gli cedevase ne ubbriacava. Passando presso il Duomo volle entrarvicome soleva fare talvolta nelle sue battaglie interne.
Andò a sedere nella navata di mezzopresso alla croce. Due o tre vecchie signore vestite di nero pregavano allo Scurolo nella luce piovosa delle alte finestre; il passo frettoloso di un chierico si udiva da lontano verso la porta di fianco nelle tenebre; qualche figura esotica si moveva lentamente nel chiarore caldo dei finestroni dell'abside. Sillaraumiliato a un trattoappoggiò sul banco le braccia e sulle braccia il capochiese dal profondo del cuore al Re degli spiriti: Quid me persequeris?
Allora si fece dentro a lui un gran silenzio freddo come quello della cattedrale e più nero. Pareva che l'ombra delle colonne formidabili fosse penetrata a schiacciarvi ogni pensiero. Quello stesso interno del Duomoquella mente colossale nel poema di granito che si effonde magnifico al solemente ordinatasolida e misteriosa come la mente della Divina Commediadivenne allora del tutto muta per lui. Un senso di uggia pesante l'oppresse. La sua volontà resistette inutilmente; non poteva scuotere quel mantello di piombo. Cercò ricordarsi del tempo passatoquandofanciulloveniva in Duomo con sua madreimmaginando al suono dell'organo i deserti di orientele palmeil marela vita contemplativa. Nientenienteniente; la memoria era intorpiditail cuore vuoto e senza eco. Qualcuno gliel'aveva percosso col fuocodisseccato. Egli seguiva con l'occhio assopito i pochi forestieri che venivano dall'abside col cappello in manolentiguardando in alto. Le colonne accigliate spiravano tediovapori di sonno salivano dal pavimentole portetratto trattosbadigliavano. Era come una plumbea calma in fondo ad acque morteche non sentono il passar dei secoli. Silla non ripeté la sua domandapoiché non gli si voleva rispondere. Cercò deliberatamente nella memoria qualche profana imagine voluttuosa. Si rivide nella lancia Saettafra le grandi onde accorrentiin faccia a Marina che gli piegava incontro il visodisegnandosi sul chiarore abbagliante del lago sfolgorato dietro a lei dai lampi. Ne sentì i piccoli piedi appoggiati a' suoi. La fredda chiesa piena di tedio s'intepidivasi ravvivava; era un acre piacere fissare le pietre ascetichetrarne questa lucequesto calore dei sensiconoscer la voce dolce e forte del tentatore; abbandonarsi a lei. La fantasia correva ad altre imagini febbrili. Marina era con luinon più fra le ondema nella sua stanza del Palazzogli diceva "finalmente!"gli prendeva la manolo traeva a sé sorridendo con un dito alle labbranella notte profonda... Si alzò e uscì di chiesavacillando. Dio gli aveva risposto.
3. «Ho pianto in sogno»
«Ah DioSillache orrore!» disse la signora De Bella entrando come un nembo di seta in cui due piedini nervosi tempestavano a colpi sordi. «Buona sera. È un pezzo che mi aspetta? come va?» Ella gittò sulla spalliera d'una poltrona la sua pelliccia bianca e porse a Silla una manina nudaluccicante d'anelli. Anche la sua bocca ridentei suoi occhi celesti scintillavano. Ella era in tulle nero e sott'abito di seta azzurrascoperte le spalle e le braccia che aveva bellissimesenza un braccialettoné un medaglionecon due grandi anelli di turchesi e perle agli orecchiun fiore azzurro in senoun altro nei capelli biondimolto incipriatiraccolti sopra la nuca come un gruppo di grossi serpenti. Aveva un profumo tepido di veloutine che parlava della sua pelle morbida.
Silla s'inchinò.
«Come va? Che bravo Silla! Non si pentirà d'esser venutosa? Ho tante cosettine carine carine a dirle. Sieda! Ma che orroreneh! Comenon era in teatro Lei? Ahnon c'era. Senta bene. Adesso verrà qualcuno. Sadopo teatro ho dei buoni amici che vengono a prendere il thè. Stasera ci sarà M... chequando vienefa sempre un po' di temporale sul mio piano. Lo conosce? Non ha niente del pianista tipoma suona bene. Lei prenderà un posticino vicino a me: vicino vicino. - Cara! (Si ricordiparleremo).»
Ella si alzò e andò incontro a una signora annunciata in quel momentoche al primo entrare artigliò Silla con una occhiata fredda e poi si rivolse sorridendo a salutar la padrona di casa.
«Che orroreeh?» disse donna Giulia.
Presentò Silla e riprese:
«Che orrorecara te!»
«Io lo sapevo prima. Hai visto la Mirellina?»
«Euheuh! Doveva venir qua stasera. Ma come hai fatto a saperlo?»
Il cameriere tornò ad annunciare. Entrarono quasi di seguito parecchie signore e parecchi cavalieri. Le signore cinsero Giulia di un grazioso cicalio di salutinidi risatine discretedi parolette sfumate morbidamente. Le curve spalle bianche raccolte in mezzo alla sala parata di raso azzurrosotto la opaca luce aurea che si spandeva dai globi smerigliati delle lampadeparevano petali caduti là da un'alta invisibile magnolia grandiflora. Degli occhialetti scintillanti di curiosità obliquedelle sgraziate braccia nere s'insinuavano nel gruppo cercando un sorrisouna stretta di mano di Giulia. La sua testolina bionda oscillavacome la testa di un uccellino vispo. Il gruppo si sciolsesi disperse nella sala.
Silla aveva incontrata quella gente in altre casetempo addietroquando soleva frequentare la società molto più che non facesse ora. Le signore appartenevano alla nobiltà di secondo ordine e alla alta borghesia. Giovani e belle quasi tutteavevano in gran parte l'aura di nascosti amori passati e presentidi cui la gente sapeva quel tanto che basta ad accendere le fantasie sensualia mostrar loro negli occhi d'una donna certi languoricerti ardori che forse non ci sono. Tre o quattro di quei giovani stessi che prima attorniavano le dame e poi s'erano aggruppati intorno all'una e all'altra di essevenivan creduti amanti felici di altrettante signore presenti. Nessuno l'avrebbe indovinato al loro contegnosalvo forse a qualche rapido sguardo di sospetto gelososaettato di quando in quando da un capo all'altro della sala. La meno prudente era una nobile signora sui quarant'anniscollata sino a mezzo il dorsosfoggiatamente elegante. Ell'era venuta dopo le altresolaun momento prima del suo amanteun giovane ufficiale d'artiglieria. Quando l'infelice parlava a qualche signoracolei lo mordeva cogli occhi.
Faceva caldo là dentrobenché fossero aperte due larghe porte che mettevano in due altre sale illuminate: la sala dei grandi ricevimentigiallagrandissimazeppa di suppellettili e quadri antichi: e la sala da musicarosso-cupadove s'intravvedeva la voluttuosa Baiadera di C...in marmo di Carrara. Nella sala azzurra v'era un tepore profumato di bellezza vivasegretamente disposta ad amare. Quei vapori salivano al cervello di Silla esopravvenendo dopo lunghi mesi di vita solitaria e studiosaglielo offuscavanogli dicevano quale fosse la felicità intensala verala solasia pur fugaceche è offerta all'uomosia pur da un cattivo genio; essere follemente amato da una di quelle donne altere con lo squisito condimento di tutte le eleganze e della colpa.
«La Mirellina non si vede» disse qualcuno.
Era la terza volta che si ripeteva questo discorsoma la nobile signora venuta per l'ultima non l'aveva inteso.
«Che orrorenehLaura?» le disse la padrona di casa.
«Cara...» rispose donna Laura che badava ad altro. «Giboyerneh?»
«Oh giusto!» rispose Giulia ridendo. «Non parlo mica della commedia.»
«Laura non poteva vedere» osservò un'altra signora.
«Ahsicuroperché ci stai sopra.»
«Ora capisco!» esclamò donna Laura. «Altro che orrore. Me l'ha detto mio marito. Vi vedevo tutti guardare e non capivo il perché. Vedevo un ciuffo de' capelli rossi di don Pippo e un braccio nudo dall'altra parte.»
«Io però» osservò un'altra signora dopo aver dato un leggero colpo di ventaglio al suo vicino che le sussurrava qualche cosa all'orecchio «io trovo che la Mirellina ha avuto torto di andar via.»
«Si è tradita da sé» soggiunse un giovane elegante che afferrava sempre l'occasione di tradurre le frasi degli altritanto per parlare.
Ne seguì un dialogo animato fra tutti. Chi biasimavachi scusava questa "Mirellina" ch'era partita dal teatro perché il suo amante v'era comparso con una signorina di ventura. Si parlava molto ma evitando ogni espressione troppo viva riguardo alla damavelando e smorzando le parole per non offenderesenza volerloalcuni dei presenti di quelli che avevano simili intrighi.
«È stato un capriccio di Pippo» disse un giovinotto. «Ella ne ha perdonati tanti a suo marito; dunque?...»
Ci fu un breve silenziocome quando taluno dice cose poco opportune.
«E leichi èpropriamente?» chiese la signora che non aveva capito bene.
Parecchie voci le risposero; qui non c'eran più riguardi. Era una russanoun'inglesenoun'americana. Ciascuno degli uomini pretendeva essere informato meglio. Si chiamava Sacha Ferline. Nome falso. Era venuta a Milano a studiare il cantostava all'Hôtel de la Villee spendeva moltissimo: in questo eran tutti d'accordo. Don Pippo n'era innamorato. Tutt'altro! Alcuni parlavano di certe attrattivesorridendo misteriosamente. Le signore pigliavano un'aria seriasi parlavano tra loro con gli occhi maliziosi.
Il cameriere annunciò la signora Mirelli.
Fu un soffio agghiacciato. Giuliache stava preparando il thècorse rossa rossa incontro a donna Milla Mirelliuna bella piccinarotondapallidacon gli occhi neri.
«Ohcaracara!» diss'ella. «Non ti speravo più.»
«Che vuoi? Mio marito ha mandato a chiamarmi a teatro per Max. Sai com'è mio marito. Max aveva tossito una voltanon era niente. Intanto io mi son tutta rimescolata... Buona seraLaura... E son venuta a compensarmi da te... Buona seraEmilia... Ho fatto bene? Buona serabuona sera.» Tutti si erano ricompostifacevano ressa intorno a donna Mina per salutarlacon un fervore insolito. Giulia tornò al suo thè. Dame e cavalieri rimasero in piediconversando di certe cosedella commediadel principe di Piemonte che vi assistevadi madamigella Desclée a cui le signore facevano qualche piccola censura. Gli uomini approvavano per cortigianeria; in cuor loro andavano tutti pazzi della Desclée. Silla che l'aveva udita una volta solane prese la difesa; parlò del suo sguardo magneticodel sorrisodella voce intelligentedi quel je t'aime dolce e grave che faceva pensare alla voce della regina Yseult nel verso di Maria di Francia:
La voix douce et bas li tons.
Non era correttoin quella riunioneil calore del suo parlare. Molti ne sorrisero; purea talunaquesto giovane che ragionava con tanto fuoco della grazia e della bellezza non dispiacque. Lo punsero con qualche epigramma a fior di labbroaccentato di freddezza beffarda; ma poi più d'una gli rivolse la parola chiedendogli a bruciapeloindiscretamentedelle sue opinioni e dei suoi gusti. La contessa Antonietta V...una brutta sentimentaleamante di Heine e di Schumannse lo trasse vicino per dirgli in segreto che lo approvavache la Desclée era la donna da lei più invidiata sulla terrache quella gente lì non capiva niente. Disse che avrebbe voluto sapere da lui se andassero d'accordo in tante altre coselo invitò ai suoi lunedì e finì porgendoglicon un sorrisola sua tazza di thè vuota.
«Guarda l'Antonietta» disse una signora a donna Mina.
«Adesso comincia a parlar d'amicizia. Non credi?»
«Ma luichi è?» rispose donna Minadistratta.
«Un certo Sillanipote di filandiericredoche fila dei libri clandestini.»
Giulia gittò due parole nell'orecchio a un giovaneche andò quindi spargendole qua e làsottovocee poi s'accostò sorridendo al maestro M... che sorseggiava il suo thè in disparte. Il giovane pareva domandare qualche cosa e il maestro schermirsi. Più persone gli si strinsero attorno insistendo con la voce e il gesto. Donna Giulia gli mandò senza muoversi una delle sue vocine toccanti. Allora colui si arrese e mossetra i "bravo" sommessiverso la sala da musicagemendo:
«Ma... non saprei... veramente.»
Giulia gittò altre due parole nell'orecchio del suo primo ministro epassando presso a Sillagli disse piano e rapidamentesenza guardarlo:
«Lei resti qui con me.»
Tutti si avviarono nella sala da musica.
«Cosa suonerò?» disse il maestroseduto davanti a un magnifico Érardcon le mani sulle ginocchiaguardando la candela di sinistra.
«Ci suoni Frühlingsnacht» gli sussurrò con la sua voce timida la contessa Antoniettache suonava ella pure stupendamente.
«Ohtroppo poco» disse l'agente segreto di donna Giulia. «Ci vuole un gran pezzo di concerto.»
A quel tempo regnava ancora Thalberg. Qualcuno propose la sua fantasia sulla Sonnambula.
«Ecco il temporale» disse donna Giulia a Sillamentre il maestro tuonava sulla tastiera per isgranchirsi le ditacome un Giove invecchiato.
Ella si gittò in una poltrona dove non potevano vederla dall'altra sala. I suoi capelli biondile spalle ignude spiccavano mirabilmente sul raso azzurro. Batté con la punta del ventaglio di madreperla e pizzo una scranna vicina. Silla obbedì.
«C'è una signorina» diss'ella «che s'interessa molto di Lei.»
«Di me?»
«Di Lei. La pregoSillanon faccia il modesto. Non mi piacciono gli uomini modesti. Di leisicuro. Una signorina molto bellamolto nobilemolto elegantedi molto spiritomolto amica mia insomma. Faccia un inchino. Questa signorina ha letto il suo Sogno anonimo e le è piaciuto moltoparecome è piaciuto a me.»
Silla fece un secondo inchino.
«E questa signorina» diss'egli sorridendo «si chiama...?»
«Oh come correcome corre!» rispose donna Giulia con una risatina sottovoce. «Questa signorina non si può sapere come si chiama. Questa signorina non conosce Lei. Sa appena il suo nomeperché gliel'ho fatto sapere io l'anno scorso dopo quel giorno che ci siamo incontrati in via San Giuseppe. Me lo aveva chiesto pochi giorni primama se non era il nostro amico di Berlino e un po' così...» (Donna Giulia si fece scintillare sulla frontecon un atto grazioso della manogli anelli) «non l'avrei saputo certo. Convien dire che il nome le sia andato molto a genio perché le ha messa attorno una curiositàun interesseuna cosa insomma! Sa? Voleva conoscere la Sua vitale Sue abitudinile Sue relazionitante cosettine a cui ci teniamo noi donne. Io le avevo promesso un monte di informazionisperando che quest'inverno Lei si sarebbe lasciato vedere un po' di frequente. Ma Lei ha fatto l'orso. DioSillacome ha fatto l'orso! Dunque senta; adesso deve venire spessospessospesso e lasciarsi studiare un po'.»
Ella gli stese la mano sorridendo e trattenne quella di Silla.
Donna Giulia aveva una bella riputazione di civetta.
Si diceva però ch'ell'era una farfallina d'amianto.
La definizione era attribuita a suo marito che non le si vedeva mai accanto né in casané fuorie che avrebbe giustificato a questo modoin un colloquio intimola sua fiducia indolente. Silla lo sapeva; gli balenò che la signorina ignota fosse una ispirazione poeticama egli presumeva troppo poco di sé per affermare risolutamente quest'idea.
«Verrò certo» diss'egli «ma non per una x così nebulosa...»
«Nonono» lo interuppe Giulia. «Non complimenti. Dione sento tantiSilla! Dica che verrà molto per la x e un pochino anche per menon è vero? o per mia cugina Antonietta» soggiunse con un malizioso sorriso «La conosceva?»
«L'ho vista una volta in casa B...»
«Ahva dalla B...Lei? Sentanon cerchi mica la x fra le mie amichesa! Non sta a Milano.»
«Non sta a Milano?» disse Silla trasalendo.
«No. Zitto adesso. Come è bello questo.»
Il piano cantava:
Ah non credea mirarti.
La lenta melodia saliva saliva affannosamente una via dolorosacadeva spossatarilanciavasi avantiricadeva con la sua divina grazia di movenze.
«Diocome pesta» disse Giulia. «Capisco niente» soggiunse in milanese sospirando. «Senta adesso se non pare una canzone napoletana:
Piangeva sempre ca dormiva sola.»
Ella si commovevail suo pettole spalle si sollevavanotradivano un flutto interno. Alla ripresa della melodia mormorò:
«Questo lo fa bene.»
Infatti M... eseguiva la variazione del trillo perfettamente. Pareva un tremito melodioso di due ali prigionierefolli di dolore.
«Non sta a Milano» riprese Giuliatranquillissimaquando ricominciò più furiosa che mai la tempesta degli accordi. «Ohsta in una cornice romantica. Si figuri un laghetto perduto tra le montagneun castello nero nero seduto sulla riva verdeun castellano nerissimoinsomma un'occhiata di Scozia. Io non ci sono statasama me lo figuro così. Ci devono essere dei grandi cipressi. D'un solitario poi! Il lago è impossibilesenza ville tranne questa. Se non fa lui un po' di causerie quando c'è ventosilenzio profondo sempre sempre. La mia amica ha una barchettina e gira solamagari la nottecome una dea selvaggia. Saun magnifico posto per un capriccioper passarvi un quindici giorni in buona compagniadormant peurêvant beaucoupleggendo qualche libro amicodolce e tranquilloerborizzando sulle montagnefacendo musica la serasul lago; non di questaperò! Povera Sonnambulache eccidioquel Thalberg! Ma leila mia amicaci fu relegata solacon uno zio tiranno...»
Giulia balzò in piediinterrompendosie corse nell'altra salamentre M... rossosudatocoi capelli cadenti sugli occhischiacciava gli ultimi accordi. Ella battépianole mani.
«Perfetto» disse.
Vi fu qualche altro sommesso applauso e molti "benissimo" detti più o meno forte secondo la riconosciuta autorità del giudice. Quelli che non capivano affatto si sussurravano fra loro:
«Benissimoeh?»
«Perfettamente.»
La contessa Antonietta cercava Silla con gli occhi. Egli comparve qualche momento dopopallidotrasognato. Andò a contemplare la Baiadera di marmo.
«Che le pare di questa musica?» gli sussurrò a fianco la vocina morbida di donna Antonietta.
Egli si voltò bruscamentecome sorpreso; credette che la signora gli avesse parlato della statuae rispose a caso:
«Bellissima!»
«Ohanche Lei! No noè un orrore. Voglio rifarla io la Sua educazione musicale.»
«Antonietta!» disse donna Giulia. «Mi accompagni un po' di Schumann?»
«Certo cara. Lei stia attento» disse donna Antonietta a Sillasottovoce; e andò al pianolevandosi i guantifra un fuoco vivo di complimenti.
Allora l'ufficiale d'artiglieriaun piemontesepiccolosnellocon due occhi sfavillanti di brio diabolicovenne a stringere la mano a Silla.
«Tu qui!» diss'egli.
Conoscenti d'Universitàsi erano poi rivedutima di rado.
«Sediamo qui in un angolo» soggiunse l'ufficiale «e chiacchieriamo un po' mentre quegl'imbecilli si rompono la testa col loro Schumann. Come va che ti trovo in società? In tre mesi che sono a Milano non ti ho veduto mai. Qual è la tua?..»
«La mia?»
«EhCr...sì la tua maîtresse? Sai qual è la mia? È quel pezzo là in bianco e mauve (malva) con quel monte Rosa di spalle. La conosci? È contessabaronessamarchesache so ioil diavolo che la porti. Cambio prestoè troppo gelosa. Un pezzo da quaranta suonati. Ma è ancora bella donna. Cr... se è bella donna! E come sente! La tua non sarà mica quel gambero che suonaeh!»
«Sei pazzotaci» rispose Silla.
«È forse la... la... è inutileio dimentico tutti i nomi; quella bruna in rosainsomma? Ah no no! quella lì è di B... La padrona di casacanaglia?»
«Ma noviataci.»
«Bravoa quella lì ci voglio far la corte io. Toujours de l'audace. Ma è impossibile che non ci abbi anche la tua. Cosa si viene a far qui se non si viene a fare all'amore? Guarda che gruppo di belle donne! Posson dar dei puntiper formea quel pezzo di marmo lìci scommetto; almeno la mia certo; e sono di marmo caldo. Vedi la brunache magnifiche occhiate a B.... Guarda tre passi a destragira gira adagio finché trova gli occhi di luivi getta dentro un bacio e finisce piano piano il suo quarto di giro.»
Intanto donna Giulia cantava con poca voce ma con molta arte un'appassionata musica scritta da Schumann su parole di Reine. Ella usava questa inelegante versione fatta per lei da un poetucolo giovinetto che palpitava presso il pianoguardando la dolce bocca onde uscivanoebbri di amorei suoi versi.
Ho pianto in sognoho pianto:
Giacevi nell'avel.
Balzai dal sonno; il pianto
Spandeami a' cigli un vel.
Ho pianto in sognoho pianto:
Ero tradito e sol.
Balzai dal sonnoe tanto
Piansi d'amaro duol.
Ho pianto in sognoho pianto:
M'eri fedele ancor.
Balzai dal sonno; il pianto
Pioveami a fiumi ognor.
«Lasciami ascoltare» disse Sillae andò all'angolo opposto della sala. Si trovò presso alla signora Mirelli ch'era pallidissima e aveva le lagrime agli occhi. Donna Giulia cantava:
Ho pianto in sognoho pianto:
Ero tradito e sol.
Pareva veramente una musica mista a qualche triste sognocon le sue prime note insistenti dolorose. Diceva a Silla come la piova in casa di Edith: «Piangiil tuo sogno è finito». Ma eglisbalorditocredeva di sognarne un altroamaro anche questo. L'amica di donna Giulia era Marina. Marina avea tanto pensato a lui! Ahquello sguardo sorpreso al chiaro dei lampi! Forse lo aveva amato. Sperarlo adesso quando egli avrebbe avuto bisogno di dimenticare il mondo e l'anima nelle braccia di una donnaed ella viaggiavanovella sposachi sa per dove! Derisionederisione! Gli altri erano felici! Gli altri avevano l'amore voluttuoso di cui respirava il profumol'amore appassionato di cui ascoltava lo slancio nella musica che mirava su verso il cielospossatain un grido:
Balzai dal sonno; il pianto
Pioveami a fiumi ognor.
Gli altrigli uomini come quell'ufficiale!
Gli applausiassai caldi stavoltalo scossero. Si avvicinò al pianocon la febbre addosso.
Tutti lodavano la musica e le esecutrici che invocarono una parola di lode per il poetucolorosso rosso. Egli ebbe da donna Giulia uno special sorriso a cui parve tenesse molto.
«Dunque?» chiese donna Antonietta a Sillariassettando i guanti alle sue dita affusolate. «Ha pianto?»
«Noperché non piango mai; ma ho sognato di piangere.»
«Malheur à qui n'est pas ému» diss'ella. «Lunedì le faremo sentir qualche altra cosa.»
Ella andò quindi ad abbracciare Giulia.
«Addiocara» disse.
«Così presto?»
Fu il segnale dello scioglimento. Tutte le carrozze erano state annunziate. Bacisorrisiparoline affettuoseringraziamenti. Silla fu degli ultimi che vennero a stringer la mano a donna Giulia. Ella gliela rifiutò.
«Aspetti lì» disse. «La sequestro per due minuti ancora.»
Si voltò quindi al prigioniero. «Pensare» diss'ella «che io ho fatto una brutta parte per Leiprima di conoscerla! Non mi domandi nientenon voglio essere indiscreta. Dica un pocoSillanon piglia fuoco per le mie rivelazioni di stasera? Ne aggiungerò un'altra; quest'inverno la signorina voleva il Suo ritratto. Io ho detto: nocarinasi va troppo avanti. Adesso poise ha pigliato fuocospengo. La signorina dev'essersi fatta sposa ier sera ed è felice. Lo porti a meil ritratto. Sempre il venerdìsa benetra le quattro e le sei.»
«Ma...»
«Non c'è ma. Vadavada che non facciamo dire cattiverie. Venerdì!»
Egli discese le scale dietro la Mirellich'era con donna Laura. Pareva che avessero lasciato in sala il loro viso amabile e presone uno brusco nell'anticamera. La Mirelli parlava pianoin frettaguardando in basso.
Silla non intese che queste parole:
"Ho capito benissimo."
C'erano cavalli nell'atrio che si impennavanoscalpitavanofacevano il fracasso d'uno squadrone. Gli staffieri chiamavano le carrozze. Silla scivolò in mezzo a quella confusione e uscì solo.
Stava per mettere la chiave nella toppa della sua portaquando fu accostato da un fattorino del telegrafo.
«Di grazia» disse questi«un certo signor Corrado Silla la sta in quella porta lì?»
«Sono io.»
«Tanto meglio. Telegramma urgente. Vuole un lapis?»
Silla scrisse la ricevuta sotto un fanale vicino. L'altro se ne andò. Silla aperse il telegramma e lesse:
Il conte Cesaregravemente infermodesidera che Ella venga al Palazzo. M. di Malombrane La prega. Domani alle 10 ant. Vi sarà un calesse alla stazione.
Cecilia
Egli partì alla mattina.
PARTE QUARTA
Malombra
1. Lo solo soegli è qui ancora
Silla arrivò alle dieci e mezzo alla stazione di... Il mattino era caldo e ventoso. Le vette dei grandi abeti che nereggiavano lì presso in un giardinoi nitidi profili de' monti lontani spiccavano nel cielo vitreo. Molti viaggiatori salivano sul trenoaspettatisalutati da' loro conoscenti. In tutti i vagoni si chiacchieravasi ridevasi vociava. Quando la locomotiva ebbe trascinato via quegli strepiti con il soffio leoninoparve a Sillanel silenzio vôto della stradaesser colto dalla stessa ferrea mano di cui otto mesi prima aveva immaginatopartendo in ferrovia di notteche chiudesse inesorabilmente gli sportelli dei vagoni e portasse via tanti esseri umani nelle tenebre. Guardò il treno già lontanobramò per un istante seguirne la fuga disperata.
Fuori della stazione c'era il giovinotto dell'altra volta con la sua cavallina.
«To'» diss'egli quando vide Silla «è il signore di quella sera. Andiamo al Palazzonon è verosignore?»
«Sei qui per metu?»
«È quello che vorrei sapere anch'io. Era di venire ieri mattina coi bagagli degli sposilà del Palazzo. Vado a prenderli. Fronte indietro. Non si parte più. E poiieri seraio dormiva pacifico come un "tre lire"mica ubbriacovede! È l'acqua che mi mette sonno a me. Basta. Si sente un maledetto "toc-toc"la donna (ce l'ho ancora quell'impiastro) la va ad aprire; cosa l'èl'è quel Ricoquel figlio del giardiniere del Palazzo con un dispaccio di esser qui stamattina con la cavallavuotoalle 10. Trovarmi vuoto a quest'oramagariè una di quelle asinate che io non ne faccio. Sicché...»
«Bastabasta. E il conte come sta?»
«Sta bene.»
«Come! Non è ammalato?»
«L'ho visto io l'altro giorno. Era un po' giùun po' vecchioun po' bruttoun po' gobboche so io! un po' mezzo andatoma stava bene. Se però non si è ammalato ieri.»
«Cosa t'hanno detto ieri mattina quando sei andato al Palazzo per i bagagli?»
«M'han detto niente del tutto. C'era il giardiniere al cancelloche quando mi ha visto venire da lontanosi è piantato in mezzo alla strada e ha cominciato a far di no col braccio a questa maniera qui e poi a fare a questa maniera qui che andassi fuori dai piedi: ed io allora ho fatto "piglia!" a quest'altra maniera quiho voltato la bestia e sono andato a fermarmi a Lecco. Son venuto poi a casa tardi e sono andato a letto subito.»
Intanto s'eran posti in viaggio e la cavalla trotterellava a capo chinofiutando la stradaspazzando via con due noncuranti colpi di coda a destra e a sinistra le frustate tra serie e scherzose del padrone. Questi smise di parlare. Passavan gli alberile siepi fiorite. Casupole sedute nei campi si venivano alzando su tra i gelsiguardavanoe poiadagio adagiosi riacquattavano. I monti giravanomutando aspettointorno alla strada serpeggiante. Le note cime imminenti al lago nascosto si affacciavano a Silla ora da destra ora da sinistragli crescevano sugli occhicome le inquietudini febbrili nelle vene.
Il vetturino non poteva tacere a lungo.
«Ah» diss'egli «l'altra sera era bello trovarsi al Palazzo!»
«Perché?»
«Perché la signora donna Marina si è fatta sposa ieri mattina; non lo sa! Prima anzi la era di sposarsi l'altra sera e poilo so io! han come cambiato. Insomma l'altra sera ci fu una casa del diavolo.»
Egli continuò un pezzo a descrivere enfaticamente le luminariei fuochile musiche; ma Silla non ne ascoltò parola.
Ella era dunque già sposa davvero e gli scriveva in quel modo con quel nome! Ma la parola Cecilia a piè del telegramma aveva pur vitavocepassione; gridava «ti amo; vieni!». Un giorno dopo le nozze! E il conte era veramente ammalatoo no? Se non era ammalatoperché gli sposi non erano più partiti? La sua fantasia si perdeva; egli trasaliva quandoin mezzo a dubbi d'ogni sortagli lampeggiava in mente con una tagliente nettezza di dettaglila immagine del Palazzodel giardinodel lagoquali li avrebbe veduti fra due orefra un'ora e tre quartifra un'ora e mezzo. Ne provava una contrazione nervosapensava chi avrebbe veduto primaquali parole avrebbe uditecome si sarebbe comportato con lei. E se il conte non avesse nullase fosse un inganno! Ad ogni svolta della via tutti questi pensieri lo martellavano più forte. Tratto tratto ne balzava fuoririnnovando il proposito di andar ciecamentea coscienza mutalà dove lo portassero la occulta violenza delle cose e le passioni sue libereoh sìlibere finalmente dopo tante stolte lotte inutili che non gli avevano conciliato né gli uomini né Dio. Non era una strada quella striscia biancanitida innanzi a luifumante di polvere alle sue spalle; era una furiosa corrente che non risaleuna corrente da seguire oramai nel piacere e nel dolore sino a qualunque abissotanto più avidamente bramato quanto più profondo. Attraverserebbe forse qualche ora splendida come quel magico paese lìquel verde poema ariostesco di folli colline che dalle montagne saltavano al piano in disordineportando in collo e sui fianchi villetorrigiardiniinghirlandate di vigneticurve intorno a laghetti pieni di cielo. E poi...
«Dica un po' Leisignore» saltò il vetturino «è vero che lo sposo ha questo gran mucchio di denari?»
«Non lo so.»
«Ma lo conosceperòLei?»
«No.»
«Vedo. Io l'ho visto un paio di voltema stando al mio poco talento di medev'essere un... Che pazziaun fior di ragazza come quella lì! Segno che i denari son tanti. E io devo esser nato pitocco! Ci promettono sempre il mondo di làa noi; ma io ci ho una maledetta paura che sia ancor peggiore di questo. Se in paradiso non si hanno a trovare che pretivecchiebambini da mammella e straccionicaro il mio signoreè proprio mica il mio sito. Ih!»
Egli tirò una frustata rabbiosa alla povera bestia che toccava allora una strada selciata fra due file di casel'ultima borgata sulla via del Palazzo.
Faceva caldo. La cavalla si fermò davanti a un'osteria e il suo padrone gridò che gli portassero il solito «calamaio e inchiostro».
«E così» disse l'ostessa che venne a servirlo «è mortoeh?»
«Chi è morto?».
«To'il signorelà del Palazzo.»
«Chi l'ha detto!» esclamò Sillapallido.
«L'uomo della Cecchina gobba che è passato adessosaranno cinque minuti. L'hanno mica incontrato?»
«Andiamopresto!» disse Silla.
«Andiamo pure» rispose il vetturino rendendo il bicchiere all'ostessa «ma se è andato avanti luiper me non gli corro dietro.»
«Prestoti dico!»
L'altro si strinse nelle spalle e frustò la cavalla.
«Morto!» disse tra sé Silla. «E io che non ci pensavo nemmenoa lui!»
Si rimproverò acerbamente questa dimenticanza di egoistae gli riempì il cuore una dolorosa tenerezza per l'intemerato amico della madre suaper il vecchio severo che gli aveva aperto le braccia in nome d'una memoria santa. Egli lo aveva offeso con la sua fuga occulta dal Palazzo; lo sapeva per una lettera ricevutane subito dopoa Milano. Non ne provava rimorsoparendogli aver operato allora onestamente; ma pure gli era acerbo che il conte fosse sceso nella tomba con questo risentimento. Morto! Mezz'ora ancora e vedrebbe il Palazzotetrosolennepieno di freddo e di silenziocircondato dalle austere montagne; come uno a cui la morte portò via qualche persona carasiede impietrato dal dolore fra gli amici muti. E le proprie avversità incomportabilicome le sentiva oranello stupore di quell'annunciostranamente attenuate! Una porta segreta gli si era spalancata davanti improvvisamente; non vi si vedeva che ombra; ma ne spirava un'aria freddapiena di calma. Goderesoffrireamarequanto durano? Ove finiscono? Esovra tuttocosa ne resta?
Il cuore gli batteva forte forte quando dal colle dell'ultima salita cominciò a discendere verso il lagoche si vedeva luccicare in fondo alla valle tra le frondi dei vecchi castani.
A mezzo il viottolo che dalla strada provinciale mette al giardino c'era il Ricogravecol berretto in mano.
«Dunque?» disse Silla.
«Sempre lo stesso» rispose il ragazzo.
«Ahè vivo?»
«Signor sìsignor sì. Adesso ci sono già i signori dottori.»
«Quali dottori?»
«C'è il nostroquello nuovoe il signor padre Tosi. È arrivato da Lecco stamattina. Aspetti. Ci ho un biglietto per Lei dalla signora donna Marina. Lei non deve dire a nessuno che ha trovato mee io ho da dir niente che ho trovato Lei.»
Silla prese il biglietto che non aveva indirizzo. Non poteva venir a capo d'aprirlotanto le mani tremavano. Finalmente lo aperse e vi lesse. «Silenzio sul telegramma». Intanto il Rico mise un fischio acutissimo.
«Perchésilenzio?» pensò Silla«e come è possibile?»
Ripose il biglietto e chiese al ragazzo della malattia del conte. Il conte non si sentiva bene da qualche tempo. La mattina del giorno prima era stato trovato a terrafra il suo letto e l'usciosvenutocon la fisionomia stravolta. Soccorsosi era un po' riavuto. Però la Giovanna diceva che non aveva più ricuperato la parola né l'intelligenza. Era una testimonianza gravissima che colpì Silla. Se il conte non parlava né intendevacome spiegare il telegramma di Cecilia? Poteva esserci stato un lucido intervallo. Ma se il telegramma era menzognerosi spiegava bene il biglietto.
«Chi c'è adesso nel Palazzo?» diss'egli.
«C'è il signor sposola sua signora mammala signora Catteun signore vecchio di Veneziache è poi uno dei signori comparie un altro signore che è stato qui ancora quando c'era Lei.»
«Finotti?»
«Signor no.»
«Ferrieri?»
«Signor no.»
«Vezza?»
«Vezzasignor sìVezzache è poi l'altro compare.»
Il cancello del giardino era aperto. Il Rico si cacciò fra gli abeti e scomparve. Silla discese verso la scalinata.
Ed ecco i cipressila voce quieta del fonteecco laggiùtra il verde vigneto e il verde lago scintillante di solei tetti neri del palazzo. La voce uguale diceva nel gran silenzio del mezzogiorno: «Lo solo sol'ho saputo sempreegli è qui ancoranon v'è stupore per l'acqua indifferente che passa senza posa. So la sua storiaso il suo destino e quello di Lei e quello dell'uomo che giace nella stanza buianell'ombra della morte. Lo solo so. So qual mistero hanno nel cuore colui che più non parla e la donna che palpitasolacon la fronte appoggiata all'ebano freddoagli avori dello stipo antico. Questo non può turbare la mia pace. Vava discendiconfondi ad altre parole il suono delle tuead altre passioni il rivo torbido di quelle che gitta il tuo cuore finché passino e si dileguino insieme. Tutto questo è simile alla mia sorte. Lo solo solo so».
Arrivato all'ultimo ripiano della scalinatavide la Giovanna attraversar la loggia in punta di piedi e a capo chinodall'ala destra alla sinistra. La vide levare il braccio a un gesto sconsolato in risposta a qualcuno che le era venuto incontroe tirar via.
Nel cortile non c'era nessuno. Nel vestiboloneppure. Salendo le scale Silla udì camminare in alto ea intervalliuna voce maschia che parlava forte. Un domestico venne sucorrendodietro a luilo inquadrò nel passargli a fiancolo salutò meravigliatolo accompagnò sino alla porta del salotto da cui usciva la voce forte. Silla si dispose di veder Marina; entrò.
Marina non v'era. V'erano la contessa Foscasuo figlioil comm. Vezzaun altro signore attempato vestito di nero e il padre Tosi dei Fatebene-fratelliche Silla conosceva di vistaun bell'uomo maestososui cinquantadalla gran fronte piena d'animadal profilo falcatodagli occhi pregni di volontà veemente e di umorismo bizzarro. Egli diede appena un'occhiata allo sconosciuto che entrava e continuò a parlare col comm. Vezza. Il signore attempato si alzò rispettosamentela contessa Fosca e Nepo si guardavano attonitiil Vezza inarcò un momento le sopracciglia e fece un freddo cenno di saluto.
Per fortuna entrò la Giovanna. «Ahcaro Signore!» diss'ella «il signor Silla!» Ella gli andò incontro con gli occhi lagrimosi e le mani giunte sul petto.
«Ahcome ha fatto bene a venire! Dev'essere stata la Provvidenza che gliel'ha posto in cuore. Venga a vederlo! Può veniresignor padre Tosi?...»
«Per caritàcosa vi pensateGiovanna?» esclamò la contessa. «Bisogna lasciarlo quieto.»
«Lasciarlo quietoquieto per carità» ripeté Nepo.
Silla si voltò al frateche guardò un momento la Giovanna con singolar espressione di dolcezzae disse quindi a Silla bruscamente:
«Lei conosce l'ammalato?»
«Sìsignore.»
«Se le fa piacere di non conoscerlo più e di non esserne conosciutovada pure. Per l'ammalato fa lo stessofinora.»
La Giovanna fece un gesto supplichevole.
«Cara vecchia!» disse il frate. «Conducilo purema non bisogna mica mettere tanto in moto la Provvidenza. Cosa fai?»
Quest'apostrofe era diretta al cameriere che gli disponeva davantisulla mensaun gruppo scintillante di vasellami d'argento e di cristallo.
«Per qual frate mi pigli? Portami un pane e un bicchier di vino.»
«Mi pare un'imprudenza» insistette Nepo vedendo la Giovanna uscir con Silla.
«Se fosse un'imprudenza non l'avrei permessa» rispose il frate.
«Ci farei un bacio» diss'egli al Vezza «ci farei un bacio a quella vecchiettinapovero topolino belloche trotticchia sempre di qua e di làcon quella cuffiettina a puntacon quella faccetta piena di magon. È una bellezza.»
La contessa lo guardava con tanto d'occhi.
«Che tomo ch'el xe!» diss'ella al signore attempatomentre il frate si sbrigava rapidamente della parca refezione. «Bisognerebbe anche ridere se si potesse. Non La parte mica subitopadre?»
«Non lo so» rispose asciutto il frate.
«Ehperché si diceva che La volesse partir subito.»
«Si diceva.»
«Ma non La parte più?»
«Non lo so.»
«De dia!» mormorò la contessa indispettita.
«Signora» disse il frate con forza e solennità «la malattial'ho già dettoè semplicissima. Una emiplegia destra. L'ammalato può riaversi o morire di questo primo assaltocome Dio vorrà. La causa della malattia è oscura e io vorrei conoscerlaondese l'ammalato guarisceimpedire una ricaduta.»
«Maoh Diola causabenedetto...»
Il frate le piantò in viso due occhi sfolgoranti.
«Sìnon servecaroche La mi tiri quegli occhi» saltò su la contessa inasprita. «Ella è una cima di professore ma ne ho conosciute anch'io delle cime e ho sempre udito dir lorochequanto a cause di malattieè un brutto discorrere.»
«E poi lo zio non può parlare» disse Nepo.
«Signora» rispose il frate senza badare a costui «il padre Tosi non è una cima e ha fatto due grandi corbellerie; ha voluto esser medicoha voluto esser frate; ma L'avverto che se si fosse fatto commissario di poliziasarebbe diventato grande. Ho l'onore.»
Egli si toccò la calottasi alzò e uscì.
«Bel discorso!» disse la contessa. «Mi pare un bel matto! E quell'altro? Come è capitato qua quell'altro? Non capisco. Vedete» diss'ellavolta al signore attempato «colui è quell'amigo. Vi ricordateche v'ho raccontatoquel tale che si temeva... sìmi capite. Vi pare un bel momento di venire qua? Ed era convenienzadomando ioche quella pettegola di quella siora Zanze lo facesse entrare in camera così sui due piedi? Per caritàper amor del cieloZorzinon andate vianon piantatemi qua. Non la può andar lungasi capisce.»
«Come posso faredama?» rispose il vecchio cavaliere giungendo le mani. «A Venezia mi aspettano fra due giorni.»
«Zitto!» disse Nepo accostando l'orecchio alla porta ond'era uscito il frate.
Il signor Zorzi tacque. La contessa Fosca guardava suo figlioansiosatrattenendo il fiato.
«Niente» disse Neposcostandosi dall'uscio.
«Cosa c'era?» chiese la contessa.
«Mi pareva udir parlarema non è stato vero. Sentaavvocato; come intende Lei quel discorso di quel cialtrone di frate sul commissario di polizia? Che intende dire? Che siamo assassini? Che rubiamo? È una cosa intollerabile.»
«Oh no» rispose il signor Zorzi «si capisce che è uno stramboche tante volte gli vien da dire una spampanatae luifuori!»
«Commissario di polizia! Bel discorso» ripeteva Nepo camminando a gran passi su e giù per la stanza e facendosi vento.
Un uscio si aperse pian pianone spuntò il naso di Catte.
La contessa Fosca e Nepo corsero a lei. Si mosse anche l'avvocatoma sostò riguardoso qualche passo indietro dagli altri due che scambiarono con Catte poche parole sommesse. Catte si ritiròl'uscio fu chiuso; madre e figlio si voltarono accigliati all'avvocato che chiese premurosamente:
«Dunque?»
«Nientefio» rispose la contessa sconsolata. «Non mi vuole.»
«Neppure Leicontessa?»
«Ma no. Oh Diohanno da toccare a me queste storie. Ne capite qualche cosa Voi?»
«In coscienzacontessanon potrei dir di sì.»
«Ahqua bisogna finirlaqua bisogna finirla. Nepo miobisogna che tu La vedaper amore o per forza; bisogna che tu Le parliche La si spieghiche si sappia se La è malatacosa La pensacosa La vuole; sapereinsommain nome di Diosapere!»
Nepo scosse l'occhialino dal naso. «Tu non capisci niente» diss'egli.
«Zitto!» soggiunse vedendo ch'ella voleva parlaree continuò col suo fare cattedratico: «Non facciamo sciocchezze. Non c'è da insistere. Non si farebbe che irritare. Io ho abbastanza cuorecara mammaper comprendere che bisogna rispettare in questi momenti il dolore di una nipote affettuosa. Vorrà che si ritardi il matrimonio! Sia. Non son micaavvocatoun ragazzo impaziente. Capisci bene cara mammaun giovinotto...!»
L'avvocato ebbe negli occhiguardando la contessaun lampo d'ironia e di pietà.
Nepo gli si avvicinòlo pigliò per un bottone del soprabitogli parlò mettendogli quasi il naso sul viso:
«Ella che a tanta probità congiunge tanta oculatezza e comprende così bene fino a qual punto possano andare insieme i legittimi interessi e le convenienzeElla non vorrà certo censurarmi se io dico che un altro grave affare si impone in questo momento. Io sono disinteressatopremetto; ma... Bravo!» esclamòritirando la mano e il naso. «Vedo che mi capisce. L'obbligazionecapperi! Io prego Dio che conservi lo zio al nostro amore per lunghi annima se succede una disgrazia! L'obbligazione a mio favore doveva essere sottoscritta ieri mattina. Sarà più in grado di sottoscriverla? Ci vuole una sorveglianza d'ogni ora. Non bisogna lasciar passare un lucido intervallo!»
«Sìmaohe» disse l'avvocato serio serio «patto avantiche sia lucido questo intervallo; patto avantiche sia molto lucido; e che ci sia il dottore; sìperché tutto va benema che non andiamo in un imbroglio.»
Si udì la voce di padre Tosi che parlava in loggia.
«Vado a vedere dello zio» disse Nepo; e uscì.
«Dopo tutto» disse la contessa «mio fio aveva ragione con quell'affare del commissario di polizia. È stato un bel tirosapete.»
«Altro se è stato un bel tiro! Parlerò io a quel signor fratese la contessa permette.»
«Sìsìfateparlatetutto ciò che volete. Oh DioZorziche monte di pasticci! Qua non si sa in che mondo si sia. Qua non si capisce niente. Qua ci si marita e non ci si marita. Qua non c'è ora di mangiarequa non c'è ora di dormire. E tuttoin nome di Dio...! Oh che vitaoh che vita!» Entrò il cameriere a sparecchiare. Non si sbrigava mai; pareva che giocasse con le posate e il vasellame.
«Andate làandate là anche voiZorzi» disse la contessa. «Io vado a riposare un pochetto. Non ho chiuso occhio stanottenon ne posso più. E tu chiamami Cattebenedetto. Zorzi» diss'ella poi che il cameriere se ne fu andato in cerca di Catte «guardate di cavarci qualche cosa a quel signor Silla.»
Silla non era entrato subito dal conte. S'era fatto prima raccontar dalla Giovanna i casi di quei due giorni. Povera Giovanna! Parlava con una fioca voce accorata che pareva venir da lontanoda lontanoda un mondo di dolore.
Il matrimonio era stato fissato per la sera del 29. La signora donna Marinaall'ultimo momentolo aveva fatto differire al mattino del 30. Però la sera del 29 vi erano stati ugualmente i fuochi sul lago e la musica. Il conte vi si era divertito e stava secondo il suo solito. Giorni addietro aveva sofferto di un leggero malesserema non ne parlava più. Di aspetto era giùquesto sìma da un pezzoohda un gran pezzo! La Giovanna ebbe una reticenza espressiva; pare che facesse risalirenel suo pensieroquesto crollo del conte all'epoca in cui Silla aveva lasciato il Palazzo. Insomma quella sera non c'erano novità. Il matrimonio si doveva fare alle sette del mattino. Alle cinque Giovanna aveva dovuto entrare dal conte per certe chiavi e lo aveva trovato a terra semivivocon tutti i segni dell'apoplessia. A questo punto del suo raccontofosse commozione o altros'interruppe. Ripigliò dicendo che s'eran chiamati subito il medico e il parroco; che il primoun brav'uomo succeduto da pochi mesi al vecchio dottoregiudicando il caso gravissimoaveva chiesto subito un consultoe consigliato di provvedere alle cose di religione. Purtroppo non c'era né parola né intelligenza; il parroco non aveva potuto far altro che amministrare l'olio santo. Fatalmente il padre Tosi non era stato trovato nella sua residenzae non era venuto che un paio d'ore prima di Silla. Durante la giornata il conte non aveva migliorato né peggiorato. Alla sera il medico era stato contento di trovare un po' di febbre che si era forse anche accresciuta nella notte. La fisionomia pareva alquanto ricompostal'occhio era meno vitreoe anche le labbraogni tanto si provavano di articolare qualche parola. La Giovanna sperava che se potesse riconoscere Sillane avrebbe un gran conforto. «Non può averne altri» diss'ella.
«E il matrimonio?» chiese Silla.
«Ah signore!» rispose la Giovanna. «Non so niente. La signora donna Marina non ha mai posto piede fuori della sua camera dal 29 di sera in poi. Pare che sia ammalata perché ieri mattina s'è fatta portare una quantità di ghiaccio. Non vuol vedere né il suo fidanzato né la signora contessa. Da lei non ci va che la sua cameriera e il ragazzo; sail barcaiuolo. Oh Signoreper me già desidero solo che guarisca il signor padrone e poi per tutto il resto...! Vengavenga. Chi sa come sarebbe contento se lo potesse riconoscere!»
Appena si vedevaentrando nell'afa della camerala testa dell'infermo come una macchia oscura sul cuscino biancastroe sedutopresso alla finestra socchiusail medico curante. La Giovanna si accostò al letto con Sillasi chinò su quella povera testa e sussurrò qualche parola. Il conte guardò Silla con due occhi torbidipoi si volse lentamente a Giovanna e mosse le labbra. Ella vi accostò l'orecchioraccolse a stento questa parola:
«Beive.»
Per lunghi anni non gli era venuta alla bocca parola alcuna nel dialetto natìose non in qualche momento di sdegno; tornavano adesso nelle ombre sinistre della morte. La malattia fulminea lo aveva atterratospogliato in un secondo della sua forza imperiosadella sua intelligenza rapidadella sua memoria tenace di tante cosedi tante persone: lo aveva risospinto dalla forte vecchiaia alla infanzia radendogli dalla mente tuttofuor che le prime voci apprese ne' primi anni.
La Giovanna gli diede da berepoi tentò di richiamare la sua attenzione a Silla.
«Basta» disse la voce del medico nelle tenebre.
La donna uscì con Sillaaccorata. Incontrarono il frate nel corridoio.
«E così» diss'egli. «Nienteeh? lo sapevo bene.»
«E cosa ne dice?» gemette la Giovanna.
«È prestocara la mia tosa. Bisognerebbe sapere se avremo o no un secondo attacco. Certo occorre che il giuoco non si rinnovialtrimenti me lo ammazzano di colpo. Ci hai detto nulla a questo giovinotto?»
«Signor no.»
«BenesentiGiovanninettavorrei che mi accompagnassi a veder la casa. Dopo mi farai preparare una sedia in loggia perché possa fumare un poco. Se non fumotra un quarto d'ora scoppio.»
Mentre Giovanna e il frate giravano per la casaSillaappoggiato alla balaustrata della loggiaguardava il lago verde dormente al sole. Eran proprio passati tanti mesi? Le montagnela quiete profonda lo riprendevano come cosa loro; e gli pareva non essere mai andato viaaver sognato Milanoun lungo invernopenosi pensieri. Ma dalle pietredalle vecchie pietre austere prorompeva subito il vero presentelo sgomento che una malattia mortale diffonde intorno all'uomo colpitosopra tutto la immagine di leichetenendosi nell'ombraempiva la casa di sé. Perché si nascondeva? gli pareva ad ogni momento udirne il passoil fruscìo delle vestiveder avanzarsi da quella parte quella sua bellezza altera e fantastica. E si voltava a guardare la loggia vuotastava in ascolto.
Eccolaforse! Noera l'amico dei Salvadorl'avvocato Giorgio Mirovich. Passò camminando in punta di piedisalutò Silla con un cerimonioso «servo» e s'avviò verso la camera del conte. Ne ritornò subito e chiese a Sillaparlando mezzo venetomezzo italianose avesse visto quel signor frate. Avutane risposta che era in giro per la casa con la Giovannasoggiunse: «ha un certo linguaggio quel signor frate!» e si fermò lì a conversare. Perla d'onest'uomoma cortigianescamente devoto alla contessa Foscaantica fiammaaveva modi quando burberiquando cerimoniosiun parlar francoe insieme cauto. Mirava a scoprire come Silla avesse risaputa la malattia del conte. Silla gli disse che se ne parlava da tutti nei paesi vicini e ch'erano persino corse voci di maggiore sventura. Non lasciò intendere dove precisamente avesse attinta la notizia egli stesso né di dove fosse partito quella mattinabenché non dubitasse che per mezzo del vetturale lo si avrebbe facilmente conosciuto. L'avvocatoa cui ripugnavano le investigazioni obliqueuscì presto di argomento. Confidò a Silla la profonda avversione per quei luoghi inospitiper le montagne dritte come muriper quella casa della malinconia. Anch'eglicome la sua vecchia amicanon ne poteva più; non vedeva l'ora di sentirsi gridare «sià premi» e «sià stali» sotto le finestre.
Finalmente il frate ritornò e Silla discese in giardino.
V'era il commendator Vezza che si divertiva a gettare del pane ai cavedini. Silla lo evitòattraversò il cortile per uscire dal cancello. Passò accanto alla porticina della darsenaguardò le barcheguardò su per la scaletta segreta che serve all'ala destra del Palazzo. Vuoto e silenzio. Oltrepassò il cancello efatti pochi passi sulla strada di N... si voltò.
Lassù la nota finestra d'angolo era chiusa. Il soledeclinandobatteva sulle persianesulla grande muraglia grigiascintillava sulla magnolia lucida del giardinetto pensile. Di vita umana non vi era indizio. Silla fece un lungo passeggio vagando per i sentieri più solitari e tornò al Palazzo dalla stessa parte. La finestra era ancora chiusa benché il sole non battesse ormai più che sui tetti. Silla rientrò in casacon il presentimento che Marina non avrebbe dato segno di vita durante il giornoma che la vedrebbe nella notte.
2. Un mistero
Il pranzo fu triste. Il padre Tosi si alzò da tavola subito dopo la minestra per andare dal contee non ritornò più. La contessa e Nepo mangiavano compunti. Il signor Vezza aveva voglia di chiacchieraretemendo che quel silenzio malinconico gli preparasse una digestione laboriosa. Scelse a interlocutore l'avvocato Mirovich e gli parlò di Veneziade' suoi amici di colàdel caffè e pannera in gelodell'Istituto Veneto e delle gondoletirando in mezzo Virgilio per amore o per forza:
Convolsum remisrostrisque tridentibus aequor.
L'avvocato si seccava e rispondeva cortoma il commendatore tirava via a ronzarefra un boccone e l'altroarrischiando qualche sorrisotanto sano a pranzo. Silla taceva come i Salvador. La contessa lo squadrò ben bene fin dalla minestranel chinarsi sul cucchiaioe poi ogni volta che il cameriere gli presentava le vivande. Ella soffriva evidentemente di dove taceregittava a Nepo delle occhiate espressiveche dicevano «parlonon ne posso più» ma Nepo la fissava con i suoi grossi occhi miopile chiudeva la bocca.
Alla fine del pranzo venne la Giovannale disse all'orecchio che il padre Tosi si disponeva a partire e desiderava avere prima un colloquio colle persone di famigliacom'era inteso col signor avvocato.
«Avvertite la marchesina» rispose Fosca.
«L'ho già avvertitama dice che non può venire.»
«Ditele che si andrà noi da lei.»
«Ohha già detto che non vuol nessuno.»
Silla si levò subito da tavola efatto un tacito salutose n'andò.
«L'ha capita» disse Nepo. «Potete dirci voiGiovannacome è venuto quel signore lì e chi gli ha detto di fermarsi?»
«Come sia venuto non lo so. Di fermarsimagari l'ho pregato anch'io perché so che al signor padrone gli è tanto rincresciuto quando è andato via e ho idea che se lo potrà riconosceregli farà tanto bene di vederlo. Mi aveva fin detto il signor padrone di tenergli la stanza sempre pronta pel caso che avesse a ritornare.»
«Voi non dovete pregarlo niente affatto» disse Nepo. «In questa circostanza dovevate prendere gli ordini dalla marchesina e quasi anche i mieiposso dire. E adesso avvertite il padre che noi lo aspettiamo nella camera della contessa Salvador. - Anche Leisacommendator Vezzacome amico di mio zio. Intendiamociamico vero; perché certi altri amici non li pareggerei davvero alle persone di famiglia.»
Il commendator Vezzafelice nella sua curiositàfece un cenno di gradimento.
Il frate entrò subito dopo gli altri nella camera della contessa etoccandosi la calottasedettesenza aspettare invitosopra un seggiolone a fianco del canapè dove la contessa Foscairrequietasgomentatabatteva nervosamente sulle ginocchia il suo gran ventaglio chiuso. L'avvocato Mirovichimbarazzatoguardando ora il frateora il pavimentocominciò a dire:
«A spiegazione delle parole... delle parole... non chiareeccodelle parole non chiare che il padre ha pronunciato stamattina in presenza del contedella contessa e... sìinfattidi altre persone... egli desidera fare alcune comunicazioninon é vero? alcune comunicazioni circa la malattia per la quale venne invitato a consulto.»
«Cioè» disse il frate «desidero! Niente affattodesidero. È mio dovere. Io vado per le cortesignorie chiamo le cose col loro nome. Il mio dovere è d'informare Loro signorichea mio avvisoil conte d'Ormengo è stato...» Prima ch'egli compiesse la frase la contessa Fosca lasciò cadere il ventaglio. Nepo si alzò in piedi. Gli altri due non si mossero.
«Assassinato» disse lentamente il fratedopo un istante di esitazionelevando gli occhi a Nepo con il pugno sinistro sopra una coscia e l'avambraccio destro attraversato all'altra.
«Oh Diooh Diooh Dio!» gemé la contessa spalancando tanto d'occhi spaventati. Nepo alzò le bracciamise un'esclamazione d'incredulità sdegnosa. L'avvocato procurava di chetarli con gran gestidiceva con le mani e il capo che non si spaventasseroche aspettassero. Nepo cedette; ma la contessa ripeteva «oh Diooh Dio!» sempre più forte e scoppiò in lagrime.
«Ella poteva essere più prudentepadre» osservò bruscamente il Mirovich accostandosi alla contessa per sostenerla e farle animo.
«Santo Dio benedetto» singhiozzava costei. «Questi orrori... di parole!... Dopo pranzo anche!»
«Signora mia» disse il frate «l'interesse dell'ammalato vuole che si parli chiaro e presto. Io poi ho l'abitudine di dire la verità anche dopo pranzo.»
«Continuicontinui!» esclamò l'avvocato. «Si spieghi presto.»
«Lo avrei già fatto se il signore e la signora fossero più pazienti. Non intendo dire che si sieno adoperati armi o veleno. Un ragazzo conosce l'apoplessia; nel nostro caso si tratta veramente di apoplessia. Dico "assassinato" perché sono convinto che vi è nell'origine di questo male l'azione violenta d'una persona.»
«Questo è assurdo!» gridò Nepo.
«Lei è assurdosignor mio bello» riprese il fratebattendo le sillabe ad una ad una e guardandolo tra ironico e serio. «Lei è assurdo. Ioper esempiosono malato di cuore e non Leima le persone che amo possono uccidermi senza veleno né armi.»
«Dunque Lei dice...» suggerì il Vezza per tagliar corto alla discussione irritante.
«Io dico» rispose il frate «che l'ammalato fu colpito d'apoplessia durante un'emozione violentaterribile.»
«Ma cosa? ma come?» chiese la contessa tutta lagrimosa. «In nome di Diocome? Non la ci tenga qua sulla corda per tanto tempo! La parliche Dio la benedica. Ci vuol Ella far morire a once?»
«Prima di proseguire» disse il frate «vorrei sapere se tutte le persone della famiglia sono presenti.»
Nessuno parlò.
«Ci sono tutti?» ripeté il frate.
Qualcuno disse piano:
«Manca la marchesina.»
«La marchesinamia promessa sposa» disse Nepo enfaticamente «è indisposta.»
«Come si chiama questa marchesina?» chiese il frate.
«Marchesina Crusnelli di Malombra.»
«Il nomeil nome di battesimo!»
«Marchesina Marina» disse Nepo.
Il frate tacque un momentopoi soggiunse:
«Marina. Non ha altri nomi?»
«Sì. È Marina Vittoria. Ma che importa?»
«Importa moltosignor conte. Moltissimo importa. Come si chiamano le donne di servizio che sono in casaoltre a Giovanna?»
«Catteintanto» rispose la contessa.
«Fanny» suggerì il commendator Vezza. Nessun altro nome fu pronunciato.
«Dunque» continuò il frate «non v'è donna in casa che abbia nome Cecilia?»
«No» risposero tuttiuno dopo l'altro.
«Ebbeneio sono convinto che l'altra notte una donnauna Ceciliaé entrata nella stanza del conte Cesare e lo ha spaventatolo ha irritato a morte.»
Nessuno fiatò. I Salvadoril Vezza guardavano il frate a bocca aperta; il Mirovich teneva gli occhi bassiil mento sul petto; pareva sapesse già da prima quello che il frate veniva dicendo. Questi si alzò e andò a piantarsi in mezzo alla camera.
«Ecco» diss'egli accennando alla parete sinistra «quello è il letto; il conte fu trovato qui in camiciabocconi sul pavimentocon le braccia distese verso l'uscio. Questo lo sanno anche Loro signori. Ma vi sono delle altre cose che non sanno. L'uscio del corridoioche il conte chiude sempre quando va a lettoera aperto. Sul letto fu trovato da Giovanna un guantoquesto.»
Egli trasse di tasca un guanto piccolissimo. Il Vezza e Nepo lo afferrarono insiemecorsero alla finestra per esaminarlo bene. Nepo esclamò subito:
«Buon Dionon è un guanto. Fuchissà quandoun guanto 5 1/4 o 5 1/2a un sol bottone; un guanto da ragazzina di dodici anni: adesso è un cencio scoloratoammuffito.»
«Benequel cencioche non può appartenere al contenon cadde sul suo lettoma vi fu gettatoperché il letto è assai largo e il guanto si trovò confitto fra il capezzale e la parete. Il candeliere del contelo smoccolatoiola tazza che egli è solito tenere sul tavolino da nottesi trovarono sparsi a terrapresso l'uscio. Deve averli scagliati lui in un impeto d'ira dopo aver cercato invanoa tastonigli zolfanelli che dovette rovesciare dal tavolino perché si trovarono disseminati a piè del letto. La tazza fu certo scagliataed era piena d'acquaperché se ne trovarono spruzzi sul pavimentose ne trovò bagnata la manica destra della camicia del conte. Io poi vado avantie siccome la tazza era tuttavia interadico che percosse un corpo molle e cedevoletale da spegnere il colpo e da render possibile ch'essa cadesse a terra senza spezzarsi. Cosa poté essere? Ma è evidente cosa potécosa dovette essere. Dovette essere l'abito a cui apparteneva questo bottone.»
Nepo afferrò il bottone che il frate gli tendeva. Era un grosso bottone coperto di stoffa azzurra e bianca. Nepo lo riconobbe subito. Apparteneva a una veste da camera di Marina.
«Hum! Non lo conosco» diss'egli guardandolo attentamente.
«La signora forse potrebbe dircene qualche cosa. Faccia vedere alla signora.»
«La contessavuol dire? Oh non lo conosce certo. Non è veromammache di queste cose io m'intendo più di te? Non è vero che se avessi veduti anche una volta sola bottoni simili addosso a qualche persona di casaadesso riconoscerei questo?»
La contessa Fosca ardeva di vederlo e leggeva in pari tempo negli occhi di Nepo un divieto. Non sapeva risolversi.
«Oh Dio» diss'ella «questo sìsei famoso. Ma... in due... ah? Un'occhiata ce la posso dare anch'iono?»
«Figurati» rispose Nepoe le parlò con gli occhi fissi. «To'» diss'egli «guarda pure. È inutilegià.» La contessa prese il bottonesi alzò dal canapèe andò alla finestra dove s'indugiò qualche tempotoccando quasi colla fronte i vetrivoltando le spalle agli altri che tacevano e aspettavano tutti in piediimmobili.
Ella si voltòfinalmenteporse il bottone a Nepodisse al frateche la guardava col capo chino e le mani sui fianchi:
«Niente.»
Il frate non parlò né si mosse. La guardava sempre. Osservava come ogni curiosità fosse interamente scomparsa da quel volto mentre la bocca diceva: «Non ho inteso».
«Proprio niente» ripeté la contessa con voce tranquilla.
«Dove fu trovato?» chiese frettolosamente Nepo.
Il frate durò a girar gli occhitacendosulla contessa che tornava al canapè. Quindi si scosse e rispose a Nepo:
«Fu trovato nel pugno chiuso del contenel pugno sinistro. Avranno veduto un piccolo brandello di stoffa attaccato al bottone? È chiaro che fu strappato dall'abito a forza.»
«Ehsì» disse l'avvocato.
Il Vezza gli lanciò un'occhiata ironica. Il sagace commendatore sospettava che il bottone fosse stato riconosciuto e giudicava quindi prudente non interporsi in quel momento fra il Salvador e il frate.
«La Giovanna» proseguì costui «che è entrata per la prima nella cameraha osservato parte di queste cosesenza capire. Prima ha creduto a un ladrocosa inverosimile; poi ha trovato chiavidanariportafogli intatti sul cassettone dove sono ancora adesso; dunqueladri no. Allora ha pensato che il contesentendosi maleavesse voluto chiamareuscire in cerca d'aiuto: cosa assurda perché non si spieganolasciando stare il guantoneppure la tazza e il candeliere gittati lontano: non si spiega sopra tutto che il conte non ubbia suonato il campanello. A ogni modo la Giovanna ha intesocosì confusamenteche c'era del mistero. Non ha parlato a nessuno per non sparger inutilmente sospetti temerarima si è confidata a meforse per l'abito che porto. Io allora ho fatto questo.»
La contessaNepoil Vezza pendevano dal suo labbro; non respiravano neppure.
«L'intelligenza dell'ammalato è oscuratamoltissimo oscurata: tuttavia qualche barlumeda ieri sera in poimi dice il medico curantene appare ancora. Quando io ho saputo queste coseho esaminato bene bene la Giovannaho fatto le mie induzioni e mi sono formato il mio convincimento. Poi ho interrogato l'ammalato.»
Il gran ventaglio della contessa Fosca le uscì di manole cadde dalle ginocchia. Né lei si piegò né altri si mosse a raccattarlo.
«Ho dovuto interrogarloper la sua condizionea più riprese. Già non si poteva pretendere che rispondesse più di sì e no. Ho cominciato con domandargli se qualcuno era stato in camera durante la notte. Niente. Ho ripetuto la domanda. Era forse troppo lunga; mi guardava e non tentava neppure di risponderené con le labbra né col capo. Allora ho provato a dirgli addirittura: "Un uomo?". Non risponde ancora. "Una donna?" Oh! L'occhio e le labbra si muovonoqualche cosa vogliono dire. Lo lascio quieto un'ora. Intanto ci fu progresso nelle condizioni della intelligenza e della lingua. Domandò alla Giovanna da bere. Appena partito il medico tornai alla prova. Dico: "Il nome di quella donna!" Non mi rispondema un momento dopomentre mi chinavo sopra di lui con un cerino per esaminare la cutesi mette a fissarmi e a tartagliare. Gli accosto l'orecchio alle labbrami par di capire: "famiglia"; io suppongo che desideri veder lorogli rispondo qualche cosagli dico di star tranquillo. Egli seguita; l'ascolto ancoracredo intendere un'altra parolaprovo a dirgli: "Cecilia?". Tace subitoe vorreisignoriche aveste veduti quegli occhi come si dilataronocome mi riguardaronoquale espressione prese il viso sfigurato di quell'uomo. Adesso un'altra cosa. Chi dorme nell'ala destra del palazzooltre il conte?»
«Perché domanda questo?» disse Nepo.
«Posto che una personaoltre l'ammalatodorma nell'ala destra del palazzoquesta persona...»il frate alzò la voce ed aggrottò le sopracciglia«molto più se indispostadeve avere uditodeve sapere qualche cosa. Consiglio Loro signori di interrogarla bene.»
«Io ho l'onore di assicurarlapadre» disse Nepo acceso in voltoparlando ex cathedra «che s'Ella intende con tali parole insinuare sospetti poco leciti e niente affatto convenienti a carico di una dama che sta per appartenermi strettamenteElla s'inganna a partito e offende le stesse persone alle quali parla.»
«Lei non sa quello che si dicemio caro Signore» rispose il fratea voce bassa e con forzata calma. «non sa che io sono avezzo a cercare la veritàmagari frugando con il coltello nelle carni e nelle ossa della gentetanto d'una gran damaquanto d'un facchinocolla stessa freddezza. Taglio e squarcio per trovarla e la trovo quasi sempresaimpassibile come un dio; poco m'importamentre cercoche mi scongiurino o che mi bestemmino. E Lei pretende ch'io mi guardi dall'accennare anche da lontano a quello che può essere il veroper non offendere una signorai suoi parenti e i suoi amiciquando sono convinto che c'è di mezzo un ammalato che assisto? Ma Lei mi fa ridereper Dio! Del restoadessoloro signori conoscono i fatti. Si ricordino che se l'ammalato si ricuperauna nuova emozione simile alla passata lo ucciderà sul colpo. Il padre Tosi ha fatto il suo dovere e se ne va.»
Egli si alzò e guardò l'orologio. Il suo legnetto doveva già trovarsi sulla strada provincialeallo sbocco del viottolo del Palazzo.
«S'intende» disse l'avvocato «che il padre non farà parola fuori di qui...»
«È il primo consiglio di questo genere che mi si dà» rispose il frate «e non lo ricevo. Buona sera a Lor signori.»
«Chi lo paga?» sussurrò il Mirovich a Nepo dopo che quegli fu uscito.
«Cosa è mai venuto in mente al medico di suggerir quel cialtrone lì!» disse Nepo evitando di rispondere. «Se avessi saputo che doveva poi anche tardar un giornoavrei fatto venire io Namias da Venezia! Adesso tu starai malemamma.»
«Altro che malealtro che male!» gemette la contessa.
«Già; matto villano! Avrai bisogno di quiete» disse Nepo con un accento nuovo di premura filiale. «Andiamoandiamolasciamola sola. Vi dico la verità che anch'io non ne posso più di prendere un po' d'aria. Mi fa piacere Leiavvocatodi andar a vedere dello zio. Io vado a prendere il mio cappello e passo dal cortile. Lei mi dirà dalla loggia se le cose vanno in ordinecome spero.»
Dopo le dieci di sera i Salvadoril Vezzal'avvocato e Silla erano aggruppatiin piedipresso al tavolo del salotto. Ascoltavano il dottore che rendeva conto dello stato dell'infermo prima di andarsene a casa. Costuivestito di nero alla moda di vent'anni indietroragionava sulla malattiagittando in viso a quei diffidenti signori di città parecchi nomi greci e barbariparecchie citazioni di autori e di giornali scientifici. La lucerna posata in mezzo alla tavolacol suo gran paralume scurolasciava nella penombra le persone e la camerametteva sul tappeto una macchia luminosa circolare dov'entravano le grosse mani rubiconde del dottore che parlava. A suo avviso le cose procedevano in modo abbastanza soddisfacente. La gamba destra aveva riacquistatiin partealcuni movimenti e anche il braccio non era più completamente inerte. Nell'intelligenza e nella favella i progressi eranoper veritàmeno sensibilima si potevaanzi si doveva ritenere che col tempo si sarebbe ottenuto molto; se non la guarigione completaalmeno...
Colui era giunto a questa svolta promettente della sua prognosi quando si fermò alzando il mento e guardando con gli occhi socchiusi oltre alla cerchia dei suoi uditori. Fece quindi un cenno rispettoso di saluto. Tutti si voltarono; era donna Marina.
Il gruppo allora si agitò e si scompose in movimenti diversi.
La contessa Fosca e Nepo si avvicinarono a Marinagli altri fecero posto; tutto questo lentamente e senza parole. Nepo guardava la sua fidanzata con due grossi occhi stupidisgomenti.
«Buona sera» sussurrò Marina. Poiché il medico tacevagli disse un po' più forte con la sua voce noncurante: «Prego».
Ell'era vestita di nero o di azzurro carico; non si poteva distinguer bene.
Appena si vedeano le linee eleganti della bella personai grandi occhiil pallore uniforme del viso e del collo. Si guardò un momento alle spallequasi cercando una sedia. Nepo insistette perché sedesse sul canapèma ella scelse una poltrona proprio in faccia al medico.
«Almeno» proseguì costuiincertomagnetizzato dagli occhi grandi che lo fissavano «l'uso delle gambe... fors'anchein partel'uso del braccio... dico in partein parte... si potranno ricuperare... e anche l'intelligenza... peròper l'intelligenzaè difficilemolto difficile.»
Pareva pigliar involontariamente la intonazione dagli occhi di donna Marina.
Il commendatore Vezza li studiava da vicino quegli occhiprocurando di non farsi scorgere dai Salvador. Aveano un fuoco vago e febbrileuna espressione di curiosità intensaqualche cosa di nuovo che colpì il commendatore.
Qualcuno entra; il signor parroco che viene a prender notizie. Il povero don Innocenzomiopeimbarazzatonon riconosceva nessunosalutava a spropositosi scusavasuggeva l'aria con le labbraserrate come se il pavimento gli scottasse. Intanto il dottore si congedò. V'era un ghiaccio nella stanza: nessuno parlava forte. Nepocurvo sulla spalliera delle poltrona di Marinale chiedeva sottovoce della sua salutesi doleva di non averla mai potuta veder in quei due giorni. La contessa Fosca dall'altra parte tentennava. Si piegava verso Marinale sussurava una frase; si ritraeva per non porsi troppo avanti fra lei e Nepo; quindi cedette alla tentazione. Il parroco prendeva le notizie del conte dall'avvocato Mirovichin disparte. Silla non s'era mosso mai. Marina nell'entrare lo aveva guardato un momentolo aveva confittoquasi impietrito al suo posto.
Ella si alzò.
«Amerei dire una parola al signor Silla» disse.
Questipallidissimos'inchinò.
La contessaNepoil Vezzastupefattiguardavano Marinaaspettando uno scoppiouna scena come quella dell'anno prima. L'avvocato interruppe la sua relazione; Don Innocenzo non capiva; gli diceva: «E dunque?»
«Non qui» disse Marina.
Il Vezza e il Mirovich fecero attoun po' tardidi ritirarsi. I Salvador non si mossero.
«Restino pure» soggiunse Marina. «Ho bisogno di prendere aria. Scende in giardinosignor Silla?»
Questi s'inchinò daccapo.
«In giardino?» esclamò la contessa Fosca con uno scatto di malcontento.
«Con questo fresco?» soggiunse poi. «Non mi pare...»
«Con questo umido?» disse Nepo. «Piuttosto in loggia.»
«Buona sera» disse Marina. «Faccio un giro e poi rientro nelle mie camere.»
Nepo volle replicare qualche cosas'imbarazzòbalbettò poche parole. Donna Marina fece un passo verso l'uscio e guardò fisso Sillache venne ad aprirglielo. «Buona sera» diss'ella ancorauscendo.
Nessuno le rispose.
Marina discese lentamentecon piedi silenziosi di fatain mezzo alla larga scala semioscura. Silla le teneva dietrostretto alla gola da commozioni inesprimibiliquasi cieco. Ancora un momento e sarebbe stato solo con leinella notte.
La porta a vetri che mette in giardino era spalancata. Il lume del vestibolooscillando all'aria notturnamostrava di fuori un lembo di ghiaia rosea; presso all'usciosopra una sedialo scialle bianco di Marina. Ella lo porse a Sillasi fermò perché glielo posasse sulle spalle. Le loro mani si incontrarono; eran gelate.
«Fa freddo» disse Marinastringendosi lo scialle sul petto. Pareva un'altra voce; quasi tremante. Silla non rispose; credeva ch'ella gli sentisse il cuore a battere. Le posò un momento le mani alle braccia quasi per ravviarle lo scialle. Ella trasalì; le spalleil seno le si sollevarono. Uscì senza dire parolafece una cinquantina di passi nel viale e s'appoggiò alla balaustrataguardando il lago.
La notte era oscura. Poche stelle lucevano nel cielo nebbioso fra le enormi montagne nere che affondavano l'ombre nel lago. Il gorgoglio delle fontaneil canto lontano dei grilli nelle praterieandavano e venivano col vento.
Silla non vedeva che la elegante figura biancacurva sulla balaustrata presso a lui.
«Cecilia» disse piano accostandosele.
Ell'appoggiava il mento alle mani congiunte. Ne stese una a Silla senza voltar la testae gli disse appassionatamente:
«Sìmi chiami sempre così. Si ricorda?»
Egli strinse con ambedue le proprie quella mano di raso odoroso. Temeva di esser freddodi non aver neppur sensi in quel momento. Se la recò alle labbrave le impresseveementisul polso.
«Mi dica: si ricorda?» ripeté Marina.
«Oh Cecilia!» diss'egli.
Le voltò la manovi abbassò rapidamente il viso sul palmose la serrò sugli occhiparlò convulso:
«Non v'è più mondose sapesseper me! non vi son parentiné amiciné passatoné avvenire: nienteniente; non v'è che Leimi prendami prenda tutto!»
Voleva esaltarsi e vi riusciva. Si trasse quel piccolo palmo sulla bocca; pensò alla propria vita amaraal mondo ingiustovi soffocò uno spasimo di passione che dovette entrar nel sangue di leiattraversandolo sino al cuore.
«Nono» diceva ella con voce interrottamancante«adesso no.» Avevan la febbre tutti e due.
«Quando si è ricordato?» disse Marina.
Ella era fissa nell'idea di Cecilia Varregache avrebbe ritrovatonella seconda esistenza terrenail suo primo amante.
«Iersera» diss'egli credendo aver intesa la domanda. «Ierseradalla signora De Bellache mi parlò di lei; dopo hanno fatto una musica che mi ha rotto il cuoreme ne ha tratto fuori tante cose. Esco di là mezzo pazzotrovo il Suo telegramma. Allora mi si è illuminato tuttoho sentito il destino prendermiportarmi qua. Mi lasci questa manoquesta dolcezza infinita. Lei non sa che passione è la mia. Mi par di morire a non spiegarmi e non posso parlare. Vorrei esser tratto giù per semprecon Leiin quest'acqua che mi chiama.»
Egli tirò a sé la inerte mano prigionierail bracciola persona.
«Domani» sussurrò Marinaresistendo «domani sera dopo le undicisulla scaletta della darsena.»
Egli non voleva lasciar quella manovi figgeva le labbra insaziabili.
«Venga» diss'ella a un tratto concitata «mi seguadiscostonon mi parli esulla portami lasci. Lo sapevo.»
Silla comprese e obbedì. Fatti due passivide qualcuno nell'ombra. Era Catte.
«Ahè quimarchesina. L'ho cercata dappertutto. Sua Eccellenza mi aveva dato questo scialle per Lei.»
Marina non degnò rispondere né tampoco guardar la cameriera: fece dalla porta un saluto freddo a Silla e sparve nel vestibolo.
Silla attraversò il cortilesalì la scalinata ed escitone di fianco sedette sull'erba sotto un cipressovi rimase un pezzo bevendo il forte odore dell'alberoascendendo con gli occhi per l'alta colonna nera sino alle stelle.
Più tardi la contessa Foscachiusa con Nepo nella sua camera da lettosmaniavasinghiozzavaesclamava contro il frate che aveva raccontato quelle cose orribilicontro la dama milanese che le aveva date le prime informazioni di Marina; si domandava cosa mai vi potesse essere fra Marina e suo ziocosa mai ella avesse dettocosa mai avesse fatto quella notte; protestava di perder la testadi volerne usciredi volerne far uscire Nepo a ogni costodi voler piantare quella benedetta casa e il suo padrone e la sua padronae i denari e tutto. Quando aveva finitoricominciava. Nepo taceva sempreingrugnato; solamentese sua madre alzava troppo la vocele faceva un gesto iracondo. Ella resistevasulle prime; gli diceva: «E cosa fai tu col tuo tacere?» Ma Nepo s'inviperiva. Allora la povera donna diventava umilepiagnucolosa; ripeteva: «Nepola è matta! Nepola è matta!»
Voleva chiamar l'avvocatoconsultarlo. Nepo si oppose tanto risolutamente ch'ella credette leggergli in viso un propositoun piano bell'e pronto. Gli domandò che intendesse fare.
«Aspettare» diss'egli «non comprometter niente.»
«Per la donazionecaroho paura. Adesso la va peggio.»
«Aspettare» ripeté Nepo.
«Bel discorso!»
Egli scosse via l'occhialetttoprese sua madre per le bracciale immerse gli occhi negli occhi e disse con voce soffocata:
«Se non c'è testamento?»
La contessa pensò un pocoguardandolo.
«Resta tutto suo?» diss'ella. «Tutto di Marina?»
Nepo si tirò indietroallargò le braccia.
«Eh!» diss'egli: e soggiunse: «Allora ci penseremo.»
Seguì un lungo silenzio.
«Perdi un bottoneviscere» disse la contessa piano con dolcezza.
Nepo si guardò il bottone che gli penzolava dall'abitorispose nello stesso tono:
«Momolo che non guarda mai. Vado a vedere del conte.»
«E il tiro di stasera?» disse la contessa mentre egli se ne andava. «Bellosai!»
«Per quello non ho nessun pensiero» disse Nepo. «Intanto hai sentito Cattecome li ha visti tornare a casa. Credo poianche a giudicare dalle parole di Marinache né scuse né complimenti gliene abbia fatti certo. Vedrai che domattinaper non dire stanottel'uomo se ne va. Cosa vuoi pensare? Dopo che è partito l'altra volta a quel modo e per quella cagione!
Lui lo ha detto a Mirovich come è venuto; ha detto che ha saputo in un paese qui vicino della malattia del conte. - Dunque vado.»
Nepo trovò in galleria Catte a chiacchierare con l'avvocato e col Vezza che fumavano. Catteveduto il padronese la svignò; gli altri due non avevano notizie precise dell'ammalatodopo la partenza del dottore. Nepo si avviò in punta di piedi a pigliarnee coloro ripresero il loro dialogo. Parlavano degli strani casi cui assistevano: il Vezza con l'interesse d'un egoista curioso; il Mirovich con qualche pena per la devozione che portava alla contessa Fosca. Facevano mille supposizioni diversericadevano sempre a direcome la contessa Foscadi non capirci nulla. Il Mirovich concluse:
«È proprio il caso di dire come i chioggiotti: Co se ga rasonao se ga falao.»
Il Vezza disse qualche cosadopo un lungo silenziosulla pace profonda della notte; e il suo compagnopensando a Veneziaa' tempi passatimormorò la prima strofa della canzonetta che comincia:
Stanote de Nina...
«Bellabellabella! Avantiavanti!» disse il commendatore. Nepo rientrò in loggia.
«Come va?» gli chiese l'avvocato.
«Peggiopeggio assaipur troppo» rispose Nepo e passò oltre.
«Che brutto affare» sospirò l'avvocato.
«Ma!»
Lo zampillo del cortile parlò solo per un momento dietro a loro.
«Era malandatogiàin salute» disse il commendatore.
«Ehsì.»
«Adesso restava anche solo» tornò a dire il Vezza.
«Ehquesto sì.»
«Quasiquasi...»
«Ohlo credo anch'io.»
Parlò ancora solo la voce blanda. Il Vezza gittò il suo sigaro.
«Che veleno!» diss'egli.
«Dunque?» soggiunse dopo una breve pausa.
«Cosadunque?»
«La canzonetta?»
«Ahecco - Stanote de Nina...» L'avvocato abbassò la vocee la tramontana leggera che attraversava gli archisciolseportò via le parole voluttuose.
Nella sua stanzadove un fioco lumicino posato a terra spandeva nell'aria calda e greve certo chiarore sepolcraleil conte Cesare supinoimmobilenon vedeva la Giovanna seduta presso il letto con le mani sfiduciate sulle ginocchiae gli occhi fissi in lui. Credeva invece veder la figura di sua nipote ritta in mezzo alla camera. Era sua nipote e un'altra persona nello stesso tempociò gli pareva naturale. Si movevaparlavaguardava con due occhi pieni di delirio; come mai se quella persona era morta e sepolta da lungo tempo? Egli lo sapeva bene ch'era stata sepoltaricordava d'averlo inteso da suo padre; ma dovedove? Tormentosa dimenticanza! C'era pure nella sua memoria quel luogoquel nome; ve lo sentiva muoversisaliresalire finché ne scattò suin lettere visibili.
Credette allora cavar di sotto le lenzuola il braccio destrostenderloappuntar l'indice a coleidirle ch'ella mentiva e ch'era ben sepolta ad Oleggionella cappella di famiglia. Ma la donna lo minacciava ancoralo sfidavagli gettava un guanto; pareva Marina ed era la prima moglie di suo padrela contessa Cecilia Varrega. Ella lo sentivaparlava di antiche colpedi una vendetta da compiere. Allora egli immaginava lanciarsi smanioso d'ira dal lettoe tutto si confondeva nella sua mente in una torbida visione a cui intendeva ansandocome se sulla porta della morte gli apparisseal di làun pauroso dramma sovrumano.
C'era un peggioramento improvvisola paralisi minacciava il polmone.
Il Palazzo non era parso mai così cupo come quella nottemalgrado i lumi che vi vegliarono fino all'alba.
3. Quiete
«Come hanno fatto bene! Come hanno fatto bene!» ripeteva Marta correndo su per la scala della canonica a portar le valigette di Edith e di suo padre nelle stanze preparate per essia spalancar porte e finestre. Gridava dall'alto a don Innocenzo:
«È contentomo?» Tornava giù in furiatutta scalmanataveniva a protestare che la canonica non era il Palazzoche non avrebbero trovato questoche non avrebbero trovato quello. Ardeva dalla voglia di dare un bacio a Edithma non osò. Steineggeimpolverato come una vecchia bottiglia di Bordeauxprotestava dal canto suo contro tanti complimentiesclamandogiungendo le manigesticolando: e don Innocenzocui lucevano gli occhi dal piaceregli dava ragione contro Martadiceva di credere che sicuramente i suoi ospiti si sarebbero trovati bene in casa sua: altrimenti non li avrebbe pregati di venire. Allora Marta si voltava contro il padrone. «Ma ha da dire queste cose Lei? Ma tocca a Lei dire queste cose?» «Bene bene» rispondeva il povero prete vedendola inalberarsi «viaviachetatevi. - Oh bella» soggiungeva poivolto agli Steinegge «ho visto che ha lavorato tantoche ha preparata tanta roba!»
Qui Steinegge esclamava daccapoe Martadisperata di aver un padrone similescappava in cucina per non perdergli il rispetto.
«Mi dica Leisignorina» chiese don Innocenzo a Edith «ho detto male? Lo sanno anche Loronon è veroche sono un povero parroco?»
«Noi gran signori amiamo qualche volta discendere» rispose Edithscherzando.
La piccola casa rideva tutta. Non c'era granello di polvere sugli arredi né sulle invetriate: le tendine di percallo biancoappena lavate e stiratediffondevano nelle stanzette una luce color di perlamandavano odore di nettezza. Nel salottino da pranzo a pian terreno un passero solitario gorgheggiava festosamente fra le due porte che mettevano nell'orto; in mezzo alla tavola un vasetto di porcellana bianca portava dei fiori. Da quelle due porteda ogni finestra della casa entrava il verde tenero della campagnaentrava un senso profondo di riposo per chi veniva dalla città e aveva ancora negli occhi il frastuono del trenonelle ossa la stanchezza di una lunga corsa in carrozza. V'era tranquillità e pace perfino nell'alto canapè di vecchio stamponelle antiche incisioni giallognole del salottonegli uccelli impagliati che nidificavano dentro due campane di vetrosopra il caminetto dello studio. Anche l'orologio a pendolo fra le due campanecon la sua raucedine acuta e sfiatata di vecchione sordoriposava lo spirito. E v'erasotto a questo sorridere pacato della casettauna castità verginalesenza sospettoposata innocentemente in seno alla natura amorosaaperta alla contemplazione della vita. La si leggeva perfino nella forma incomoda di certe suppellettili: perché se tutto là dentro diceva pace e quietené gli alti canapè strettiné le seggiole impagliate a spalliera verticale permettevano la voluttà del riposo spensierato e delle immagini vagabonde. Dallo studiozeppo di libriusciva uno spirito di austerità pensosa; cosicché l'aspetto della casa rendeva immaginein qualche mododell'aspetto di don Innocenzoilaresemplicepieno di pensiero.
Questi era beato di aver seco gli Steinegge. Gli ravvivavano un po' la solitudine di cui soffrivain fondonella sua ingenua ammirazione della società modernanella sua passione per conversare di politicadi letteraturad'ogni novità curiosa. Di Steinegge s'era innamorato di slancio; per Edith sentivaspecialmente dopo l'ultima sua letteraun alto rispettomisto però di soggezione. La fiducia di uno spirito così nobile lo sgomentavaquasi. Temeva di non sapervi corrisponderedi non poter afferrare certe finezze femminilidi non intender bene certe squisitezze di sentimento in cui bisognava entrare per consigliar quell'animaper esercitare l'ufficio religioso che gli veniva chiesto. Sentiva in pari tempo un vago sospetto che vi fosse nell'ascetismo di Edith qualche cosa di eccessivo e di tenace da doversi combattere. Era insomma il suo compito attraente ma gravedi quelli che lo trasformavanoche lo facevano pensar con calmaparlar con misuraoperar con cautela.
Prima ancora che Edith e suo padre salissero alle loro stanzeil parroco volle condurlimalgrado le osservazioni di Martaa veder i rosaile fragole e i piselli dell'orto. Il suo orticello gli pareva meraviglioso e se ne teneva: parlava del grossolano coltivatore come se il verde uscito dai pochi granellini sparsi sulle aiuolee i fiori usciti dal verdee i frutti dai fiori fossero tanti miracoli suoi. E ora Steineggeun altro botanico profondospargeva a destra e a sinistrasulle fragole e sui pisellii suoi grossi complimentidifendendosi con altri complimenti da Marta che gli veniva dietro per spazzolargli il soprabito. Edith s'indugiava a guardar distratta il verde un po' freddo dei prati sotto il cielo nuvolosoa odorar i bottoni di rosa. Puro odore pio! Faceva pensare alla preghiera d'un bambino. Ma don Innocenzo beveva voluttuosamente le profane lodi di Steinegge con dei: «Non è vero? Eh! dica la verità!» Dopo i piselli fece vedere a' suoi ospiti le novità della casa. Prima Veuillotun passero solitariochiacchierone impertinenteal quale era rimasto quel nomignolo dopo che un allegro preteseccato dal suo cicaleccio continuosi era voltato a gridargli: «TaciVeuillot.» «E io mi godo di tenerlo in gabbia» soggiunse ferocemente don Innocenzoraccontato l'aneddoto. Aveva pure a mostrare de' nuovi tegami preistorici trovati scavando le fondamenta della cartieradel gran dado bianco che si vedeva sorgere laggiù oltre i pioppi del fiumicelloin mezzo a una chiazza nerastraa una piaga schifosa del verde. Don Innocenzo era ancora entusiasta della cartieraforse anche un po' per la scoperta dei suoi tegami. Passando per lo studioSteinegge chinò un momento il capo a un libro aperto sullo scrittoio davanti al seggiolone di Don Innocenzo. Questo saltò lesto come un ragazzo a ghermire il libro e se lo strinse al pettoridendorosso fino al vertice del cranio. Steineggerosso anche luifece le sue scuse.
«A Lei! A Lei! Vada là! Lo prendalo prenda!» rispose don Innocenzo porgendogli a due mani il libro che l'altro non voleva pigliare.
«Ah!» diss'egliappena v'ebbe data un'occhiata «Mein GottMein Gott! Non avrei mai creduto questo.»
Era una grammatica tedesca.
«Tacciavada làvada là che non capisco niente!» esclamò don Innocenzo ridendo sempre; e gli ritolse il librolo gittò sullo scrittoiovi posò su il suo berretto a croce e scappò a raggiungere Edith.
Adesso non c'era proprio più nulla da vedere e la casetta tornò silenziosaperché gli Steinegge si ritirarono nelle loro stanze al primo pianomentre Marta stendeva la tovaglia.
Placido silenziointerrotto appena dal tintinnìo delle posate di Martada qualche passo pesante sulla stradicciuola di là dall'orto. Edith era felice di sapersi così lontana da Milanoin mezzo a tanta quiete e a tanto verdecome ella stessa aveva scritto; enel disfare la valigettachiamò suo padregli domandò s'era contento. Egli venne dalla sua camera con la cravatta in mano e gli occhietti scintillanti. Altro che contento! Edith gli fece vedere due bei bottoni di rosa in un bicchiere posato sul cassettone e un volume di Lessing: Nathan der Weise. Li aveva anche suo padre i fiori sul cassettone e aveva la storia della guerra dei trent'anni di Schiller in tedesco. Che gentilezza di quel don Innocenzo e che accoglienza cordiale! A Edith pareva un po' invecchiato; a Steinegge no. E Martache cordialitàpovera donna! Si scambiavano le loro impressioni a bassa vocementre Edith disponeva nel cassettone la sua roba. Aveva portato alcuni libri tedeschi e italianima non Un sogno. A suo padre che si dolse un poco di questa omissioneella non rispose parola; gli passò invece una mano sotto il bracciolo trasse alla finestra che guardava l'ortola stradicciuolai pratii pioppi lontani dal fiumele colline al di là e tanta distesa di nuvole bianche.
«Mi par d'essere una fanciulla» disse Edith «e trovarmi la sera nel mio letto dopo essermi smarrita il giorno fuori di casae aver piantoaver provate tante angoscie. Non ti sentipapàmeno straniero qui che a Milano?»
Qualcuno parlava nell'orto. V'era don Innocenzo con una vecchia contadina che si lagnavapiagnucolandodella sua nuora. Il parroco cercava di chetarla; allora la vecchia cominciavachinando il capoun'altra storia più segreta ed egualmente triste che don Innocenzo interrompeva con dei bene bene soddisfatticome se a questo nuovo malanno gli fosse più facile trovar il rimedio. Le cacciò di fretta in mano alcune monete e la mandò via bruscamente.
«Che strega quella donna lì!» disse Marta di dentro. «Spero bene che non le avrà dato niente.»
«Cosa vi viene in testa?» rispose don Innocenzo.
«Anche le roseanche i libri tedeschi» disse Steinegge dalla finestra. «Questa è troppa attenzionesignor curato. Noi non sappiamo...!»
«Ohson libracci vecchi di casa mia. Vengano giùvengano giù che si desina subito.»
Il desinare cominciò allegramente. Marta si moltiplicava. Aveva il suo posto a tavolama andava e veniva continuamente dalla cucinamalgrado le preghiere degli ospiti e le osservazioni del padrone. Edith le dichiarò che per quel primo giorno lasciava farema che all'indomani si sarebbe presao per amore o per forzala sua parte dell'azienda domestica. Marta rispose con una fila di mai più acuti. Steinegge si offerse come aiutante cuocopromise i Klossedisse di averli insegnati a Paolo del Palazzo. Il povero don Innocenzo non sapeva che riscaldare il caffè e si proposemodestamenteper questo.
«A proposito!» esclamò Steineggeguardandolo parlare senz'ascoltarloimpaziente che finisse«Non abbiamo ancora domandato del signor conte!»
«Sono stato al Palazzo due ore fa» rispose don Innocenzo. «Andava un po' meglio di ieri sera.»
«Comeun po' meglio?»
Steinegge si piegò in avantiansioso.
«Malato?» esclamò Edithsorpresa.
«Non sanno niente?» replicò il curato.
«Ma no!»
«Credevo che Martanon soche qualcheduno lo avesse detto Loro. Euhcose tristissimedolorosissime!»
«AhSignorenon sanno niente!» disse Marta in piedicon le mani appoggiate alla tavola. «Ma sicuro! Come han da fare Loro a saperlo? Non son che due giorni.»
«Ma in nome di Diocosa è questo?» disse Steinegge.
«Ecco» rispose don Innocenzo «cos'è oggi? Mercoledì. Benelunedì mattinaanzi nella notte dalla domenica al lunedìil conte ebbe un attacco d'apoplessia.»
«Oh!»
Don Innocenzocorretto qualche volta da Martaraccontò quello che sapeva della malattia. Steinegge non poteva darsi pace di questa sciagura; Edith pure n'era dolentissima.
«E gli sposi?» diss'ella.
«Ohnon sono ancora sposi» rispose il curato.
«E lo diventeranno giusto il giorno del Giudizio» soggiunse Marta.
Il suo padrone la sgridòdisse che il matrimonio era solamente differito e che c'erano bene state tutte le ragioni per differirlo. Marta se n'andò in cucina brontolando.
«Ci sono poi degli altri pasticci» disse don Innocenzo a mezza voce.
Steinegge non pensava più a mangiare; posò le braccia sul tavolo aspettando.
«Dopodopo» sussurrò il prete con un gesto e un'occhiata verso la cucina.
«Ohnon mi attendevo questo!» esclamò Steinegge.
Edith domandò di donna Marina. Il parroco disse che stava beneche l'aveva veduta la sera prima.
Intanto Marta aveva portato l'allesso e non parlava piùindispettita pel rabbuffo del padronedolente che quel vitello così tenero e saporito e i capperi in aceto preparati da lei avesseroper il malaugurato discorsoa passar senza lodi; prevedendo che la stessa sorte sarebbe toccata all'arrosto.
«Dopo pranzo andremo a Palazzonon è veropapà?» disse Edith.
«Certooh!»
Il solo Veuillot non aveva perduto la sua loquacità allegra: a furia di chiacchiere si fece ascoltare dai commensalifece parlare di sédell'ingiusto nome di guerra che gli avevano dato. Il sole cadente rideva sul soffitto. Don Innocenzo cominciò a parlare de' suoi cocci preistoricidei dotti che dovean venire a vederli.
Edith faceva delle osservazioni critiche di cui suo padre si scandolezzava. Egli prestava intera fede ai cocci e ai dottiparlava delle palafitte svizzere che conosceva. Ad un tratto s'interruppe ricordandosi che doveva andare al Palazzo.
«Aspetti» gli disse don Innocenzo «aspetti il caffè. Mi pare che si potrebbe uscire a prenderlo nell'ortonon è vero?»
Uscirono nell'orto all'aria dolceodorata di primavera. Il sole avea rotto le nuvole e toccava quasi le colline di ponente: la casetta ne ardevai vetri ne sfolgoravano. Edith volle portar lei il caffè. Steinegge e don Innocenzo sedettero ad aspettarlo sul muricciuolo dell'orto in faccia al salotto.
«Marta è una buona donna» disse don Innocenzo «ma è una gran chiacchierona. Ci sono de' pasticci al Palazzo. Intanto è tornato quel tale Silla.»
Steinegge diè un balzo.
«Oh scusinon è possibile! Se l'ho visto io a Milano l'altro giornoin casa miae non mi ha detto niente!»
«Tant'è; adesso è qui.»
«Lei lo ha veduto?»
«Certo.»
«Ohma questo!... Scusi moltoio credo che i Suoi occhi non L'hanno servita bene! Ohè impossibile questa cosa! Lui quial Palazzo?»
Si alzò e si pose a camminar in fretta su e giù lungo il muricciuoloborbottando in tedesco.
Si fermò su' due piedi. Gli era balenata un'idea.
«Forse è stato richiamato?» diss'egli. «Forse per telegrafo?»
«Può esserema non credoperché il conte Le ho detto in che stato èla marchesina non lo poteva soffrire quando fu qui l'altra voltae i Salvador non lo conoscono.»
«E che cosa fa qui?»
«Ma! Sa bene cosa si diceva di lui? Pare che venendo in questo momento abbia messo una spina negli occhi della marchesina e dei Salvador.»
«Per l'eredità? Oh questa è bugiaquesta è calunnia!» disse Steinegge concitato. «Mi scusiElla non sasignor parrocoElla non creda. Il signor Silla non è niente affatto quello che si diceva e giuro che non è venuto qua con questa cosa vile nel cuore.»
Don Innocenzo gli accennò di tacere. Marta sulla porta della cucinacontendeva a Edith il vassoio del caffè.
«Ma no» diceva «ma noson mica cose da far Lei queste: Benefaccia un po' come vuolelà!»
Edith veniva a passi cortisorridenteun po' compresa della sua missionetenendo gli occhi sulle chicchere a fiorami rossi e verdisulla zuccheriera pure a fioramisul bricco che traballava. Il fuoco del tramonto le batteva in visobatteva sul vassoiosulle mani sottili.
«Non sai» le disse suo padre in tedescoimpetuosamente «che il signor Silla è qui?»
Ella si fermò e tacque un momentosenza fare altro segno di sorpresa.
Poi chiese quietamente:
«Dovequi?»
«Al Palazzo.»
Venne a posar il vassoio sul muricciuolo e domandò a don Innocenzo se il caffè gli piaceva dolce o amaro.
Suo padre si stupiva di una tale indifferenza. Forse ella sapeva qualche cosa? Forse Silla le aveva detto una parola l'altro giorno?
NoSilla non le aveva detto nienteed ella non sapeva niente. Osservò che il signor Silla poteva essere stato richiamato per telegrafo.
«Signora noper quel signore là non l'hanno mica fatto battere il telegrafo» disse dietro a lei Marta ch'era venuta a portare un cucchiaino. Don Innocenzointento al caffè e alla discussionenon s'era avvisto di lei.
«Che ne sapete voi?» diss'egli.
«Perché non ho a saper qualche cosettina anch'iopovera donna?» rispose la petulante Marta. «Quel signore lì è proprio caduto dalle nuvole. Nessuno se l'aspettavacari Loro. Non c'è che la Giovanna che sia contentaperché sanehche il signor conte gli voleva così bene. Gli altri non lo possono vederespecialmente la signora donna Marina. Il mio signor padrone a memagarinon dice niente; ma lui lo sa bene che ieri sera la signora donna Marina l'ha fatto andar giù in giardinoquesto signor Sillaper dargli una ramanzina!»
«Come sapete voi queste cose?» disse don Innocenzo stupefatto.
«Ne so così delle cose io. È mica vero forse?»
«Che lo ha fatto scendere in giardino sìè vero; ma cosa gli abbia poi detto non la so io e non lo sapete neanche voi.»
«Che abbiamo uditonomagari; nessuno ha udito; ma chi può saperlo dice che gli avrà detto d'andar via perché è lei che lo ha fatto andar via l'altra volta.»
«Ma non è partito?» disse Edith.
«Nosinoranonon è partito; almeno credo. Lo ha visto Lei oggisignor curato?»
«Sìl'ho incontrato sulla scala.»
«Vogliamo andareEdith?» chiese Steinegge.
«Oh nopapàho pensato che il momento non è opportuno per la mia visita. Vacci tu. Io resto con don Innocenzo.»
«Stasera abbiamo il mese di maggio» le disse questi.
«Beneverrò in chiesa.»
A Steinegge dispiaceva andar soloma non insistette e partì. Marta rientrò in casa col suo vassoiolasciandoli soliseduti sul muricciuoloil parroco e Edith.
«È buono sa» diss'ella con passione. «È buono; oh tanto più di me! E le vuole un bene a Lei! Desiderava immensamente di venir qua. È una provvidenza questa simpatia che ha per leimalgrado la Sua veste. Anche ieri a sera si parlava di religione. Io dicevo che vi sono delle anime naturalmente mediatrici fra il comune degli uomini e Dioqualunque sia la forma della loro vita terrenae che Leiper esempiosignor curatoanche se non fosse sacerdote...»
«0hsignora Edith!»
«SìsìLei è una di queste anime. Lo credo e mi fa bene il crederlomi fa bene il dirlo. Se sapesse quanto abbiamo bisogno di Lei! Benemio padre diceva anche lui di poterlo credere.»
Parlava con emozione tanto forte quanto era stata subitanea.
«Si consoli» disse don Innocenzo «si consoli. Suo padre è forse più vicino a Dio di molti che esercitano il mio ministerodi me per il primo che ho sempre vissuto una vita blandauna vita neghittosasenza vere tribolazionisenza operecon frequenti languori di spiritobenché da tanti anni io entri ogni giorno nella profondità di Diobenché io vivasi può direnel calore di tante anime grandi che lo hanno amato. Sono meno che nientesignora Edith. Ma sa cosa c'è di vero in questo che Lei ha detto? C'è che un sentimento puro d'interessi terrenianche per qualche persona indegnaanchearrivo a direper le cose inanimateo almeno che noi crediamo inanimatealza l'anima. E quest'anima che si alzavedenaturalmente più in là; se lo slancio è molto fortepuò vedere addirittura la meta; non vedrà la viama vedrà la meta. Il Suo signor padre mi vuol benenon so come né perché. Non c'entra il sangue in questo affettoné la consuetudinené alcun interesse. Non c'entra neppure quella comunanza di opinioni ch'è il solito fondamento dell'amicizia e che pure vi mettenon Le pare? un'ombra di egoismo. Il suo affetto per un povero disutile come me gli allontana il cuore da quei rancori iracondi che sonocredoil più grande ostacolo sulla sua via verso la Chiesa e anchediròstando nel campo della religione naturaleverso Dio. Mentre egli è con me e sente piacere d'essere con mesono sicuro chesenza alcun merito da parte miauna certa pace si fa nel cuore; se gli viene in mentealloraquel tale passatogli parrà un po' più lontano di prima. Lavoreremo. Otterremovedrà. Lei ha fatto benissimo intanto a non insisterea non premerea non molestarlo con troppo zelo.»
«Povero papà!» disse Edithsospirando. Lo immaginava con il suo caro viso onestolo vedeva contentoserenolontano dal sospettare di malinconie segrete nel cuore di sua figlia.
«Gli ha mai parlato di pratiche?» chiese don Innocenzosottovoce.
«Direttamentemai» rispose Edith nello stesso tono. «Cosa vuole? La confessioneper esempio! Io comprendo che per lui è l'atto più odiosopiù ripugnante che si possa concepire. Quando vado in chiesa vuol sempre accompagnarmi. In questo tempo io sono andata due volte alla confessione. Saio ci vado assai di rado.»
«Non biasimo!» disse don Innocenzo.
Parlar di religione all'aperto nelle prime ombre della sera move l'anima. N'escono allora certe intime opinioni timide che di giorno stanno nascoste per paura della gente e anche un poco di altre opinioni imposte alla nostra coscienza docilevenute dal di fuori con autorità di maestri o di libri o di esempi.
«Egli non parlò né la prima né la seconda volta» proseguì Edith «ma soffrivas'intendeva bene: e dopoper un po' di tempo restava tristetaciturno. Io vedo i suoi pensieri. Povero papànon può immaginarli Lei i cattivi compagni che ha avuto. Non han potuto guastare il suo cuorema gli hanno empita la mente di tante vecchie volgarità misere!»
Il sagrestano entrò nell'orto esalutato il parrocoandò a prendere le chiavi della chiesa. Don Innocenzo tolse commiato da Edithche rimase seduta sul muricciuolo. Appena fu solasi sentì spossata da un accoramento profondo. Ell'aveva amato e rinunciato all'amor suoma pure solo allora le pareva di aver interamente perduto Sillasolo allora che lo sapeva tornato al Palazzopresso Marina. Pochi minuti dopo le campane della chiesacolorata ancora dall'ultima luce calda del tramontosuonarono. A Edith pareva che dicessero «Addioamoredolce amore; addiogiovinezza soave». Si alzò e rientrò in casa; ma anche lì penetrava la voce delle campane benché più languida. «Addio addio». Edith salì nella sua stanza. La finestra n'era apertae le campane vi ripetevano più forte che mai «Addio». Fra le cortine bianchenel ponentescintillava la stella della sera. Edith non voleva intenerirsi: andò nella camera di suo padrevi si sentì tranquilla e vi chiuse la finestra senza sapere bene il perché. Si pose a spazzolar un soprabitoguardò se i bottoni eran saldi; poi lo ripiegòlo posò sopra una sediasi fece a comporre i guanciali sul suo lettoa spianare e rincalzar le lenzuola col tenero studio di una mamma che rifà il letticciuolo del suo bambino convalescente. Stette quindi a guardare la stella purain pacestavolta; e udì Marta che chiamava dall'orto:
«Signora! OhSignora!»
Marta desiderava sapere se la signora Edith sarebbe andata anche lei in chiesaperché allora avrebbero potuto uscire insieme e chiudere la porta di casa.
Si confusero alle poche donne che salivano dal paesellocoperte il capo di grandi fazzoletti scurientravano una dopo l'altra nella chiesa mutaporgevano la destra alla pila dell'acqua benedetta epiegato il capo a pochi lumi dell'altar maggiore si perdevanoquale a destraquale a sinistranelle tenebre dei banchi. Don Innocenzo uscì presto in cotta e stola a leggere le preghiere alla Verginealternandole con parecchi pater e ave.
Edith avrebbe voluto seguir quelle preghiere col cuore e non lo potevatanto erano pomposamente false e sdolcinate. Le pareva impossibile che don Innocenzo non avesse potuto trovar nulla di più degno del grande spirito puro di Mariala impersonazione cristiana del femminile eterno. In fattodon Innocenzo aveva tentato in addietro d'introdurre altre preghiere di sua fatturamolto più semplici e severe; ma quelle prime si recitavano da anni ed annipiacevano alla gente assai di più. Gli arroganti santocchi e le santocchie del paese fecero una tale devota sommossaseccarono tanto il povero curato per avere daccapo i tronii mantile corone di stelleche bisognò cedere. Edith non si accorse di allontanarsi col pensiero dalle preghiere e dalla chiesa. Tornava all'Orridoudiva Marina chiederle di Sillaparlare di suo cuginodelle sue idee sul matrimoniodirle: «Se in avvenire udrà parlare di mecontro di mesi ricordi questa sera». Poi passeggiava sui bastioni di Milano con Sillalo ascoltava parlar di Marinarileggeva la dedica manoscritta di Un sognole parole «se n'è respintosi lascerà cadere a fondo». Una gran luce le spiegava tutto. Si scossesi dolse della sua distrazione echino il viso sul bancochiusi gli occhicon uno sforzo del pensiero e del cuoresi slanciò a Dio.
Ma non poteva perseverarvi. I pensieri di prima la riprendevano tostola portavano lontanocedevano per poco a un altro sforzo di volontà. Così lottando non udì la voce di don Innocenzoné il mormorio graveuniforme della gente nell'oscuritànon ascoltò il canto delle litanie che uscì per la porta apertaandò lontano sopra i sussurri del vento vespertino.
Una mano le si posò sulla spalla; era suo padre.
«Sono venuto adesso» le diss'egli all'orecchio. «Vuoi che mi fermi un poco qui con te?»
«Oh sìpapà. Sarai stancosiedi.»
Sedette ella pure e gli prese una mano fra le sue. Steinegge tacque un momento poi disse timidamente:
«È finito?»
«Sìpapà. Vuoi aspettarmi fuori?»
«Nono. Non possiamo noi dire qualche cosa insieme?»
Ella gli strinse la mano.
«Parla tu» diss'egli.
«Pensiamo alla mamma» rispose Edith. «Parli lei al Signoregli domandi per noi la sua luce e la sua pacesempre. Gli dica che perdoniamo a tutti coloro che ci hanno fatto del male; e non è veropapà? A tutti.»
Steinegge non rispondeva; la sua mano tremava fra quelle di Edith.
«Dimmi di sìpapà. Siamo così contenti!»
«OhEdiths'è per quelli che han fatto del male solo a me!»
«A tuttipapàa tutti.»
«Farò il possibile» diss'egli.
La chiesa era vuotail sagrestano aveva già chiusi i chiavistelli della porta laterale e don Innocenzo scendeva verso la porta maggiore. Gli Steinegge si alzarono e uscirono con lui. Edith si fermò un momento sulla soglia.
«Come è bello!» diss'ella.
Tutto il cielo era terso fra i profili taglienti dei monti e delle colline sin giù nel ponentedove la stella della sera discendeva scintillante. Tirava vento. Dietro alla chiesasul montele macchie stormivano. La valle pareva un immenso drappo scuromal disteso a piè delle limpide stelle ignude.
«Peccato che non è luna!» osservò Steinegge.
Edith disse che qualche volta preferiva alla luna la luce non sentimentale delle stelle. Il suo pensiero era che la lunapiccola terrapiccola schiava nostraforse un tempo congiunta al pianetablandisce col suo lume certe passioni terreneammollisce i cuori; mentre le stelle austereindifferentia noiesaltano lo spirito. Questo era il suo pensieroma non lo spiegò. Fece solo osservare a don Innocenzoche quella sera la luce di Venere era tanto forte da segnare ombre sul muro bianco della chiesa.
«È quasi come la luna» diss'ella «e dolce anche questama a me pare più pia.»
Tutto le pareva pio in quella disposizione di spiritoanche la voce del vento dietro la chiesa.
«Come va al Palazzo?» chiese don Innocenzo che doveva scendere a visitare una ragazzina inferma.
«Un poco megliopare un poco meglio; pare che l'attacco al polmone è passato.»
«Oh Edithquesta casaquesta casa!» esclamò Steinegge dopo che don Innocenzo se ne fu andato.
«Oh!»
Egli fece tre gran passi avantialzando le bracciaagitando le mani distese.
Edith non parlò fino al cancello della canonica.
«Credevo che non venissero più» disse Marta aprendo.
«E cosìsignore?»
«Va un poco meglio. Vogliamo fare ancora due passiEdith?»
Ella acconsentì. Invece di scendere direttamente al villaggiopresero la stradicciuola che gira sotto l'orto e cala di sghembo a raggiungere la strada comunale a poche centinaia di metri dalle prime case.
Steinegge raccontò la sua visita al Palazzodove aveva visto la contessa Fosca e Giovanna. La Contessaprima di salutarloaveva esclamato: «Ohnon è qua anche quest'altro adesso?». Ma poi saputolo ospite della canonicagli si era mostrata cordialissima. Steinegge non aveva inteso un terzo de' suoi discorsi sul triste fattodelle sue lamentele sulla «babilonia» che regnava al Palazzo. Secondo la contessaMarina era inconsolabilenon usciva mai o quasi mai dalle sue stanze. Del matrimonio non gli aveva detto verboma gliene aveva parlato Giovanna. La povera Giovannasparutalagrimosagli aveva fatto infinita pietà. Il suo gran pensiero era il conte; del resto si curava soltanto per le impressioni che potesse riportarne il suo ammalatoricuperando la intelligenza. Ell'avrebbe voluto che il matrimonio si facesse subito e se ne andassero via tutti. Secondo leiquella signora contessa e quel signor conte di Venezia non miravano che ai denari. Le avean già domandato s'ella sapeva che il suo padrone avesse fatto testamento.
«Ma vi è qualche cosa che mi mette più angustia di tutto questo» soggiunse Steinegge. «Ho veduto Silla.»
Edith tacque.
«Ohmi ha fatto una impressione di trovarlo lì! Parve sorpreso anche luima mi sfuggìmi salutò appenanon mi chiese di teniente!»
«Non c'era bisognopapàche ti chiedesse di me.»
«Ma eravamo pure buoni amiciio credo? Non è naturale questo. Temo di saper troppe coseEdith. Temo... Tu puoi capire cosa temo. D'altra partequella seraa Milanopareva ben guarito quando si parlò del matrimonio. Non è veromi pare di averti già raccontato...»
«Sìsìlo sopapà. Dove andiamo? Qui non è piacevole.»
Avean raggiunta la strada comunale. Vi faceva scuroVenere era scomparsa; l'aria portava dalle bassure della valle uno sparso gracidar di raneun odore grave ai prati umidi.
«Prendiamo a sinistra» disse Steinegge «faremo il giro e torneremo a casa per il paese e la chiesa.»
Si avvicinarono pian piano verso il villaggioa braccetto. Edith parlò della cara Germania e del passato. Avea sempre da raccontar qualche cosa di nuovo sulla sua adolescenzaqualche cosa che le tornava alla memoria a casospecialmente nelle ombre della sera. Suo padre se ne commovevas'intenerivanon tanto per le piccole vicende narrategliquanto per l'idea che adesso gli anni tristi eran passatiche ella era lì al suo fianco.
Nel villaggio trovarono don Innocenzo che usciva da una povera casupola. Udirono una donnache lo avea accompagnato col lume sulla viadirgli angosciosamente:
«E cosìsignor curato?»
«Fatevi coraggioMaria» rispondeva don Innocenzo «donatela al Signore.»
La donna appoggiò il capo al muro e pianse.
«AndateMariatornate su» disse don Innocenzo dolcemente.
La donna piangeva sempre e non si moveva.
«Si conforti» disse Edith. «Pregheremo per lei.»
Quella si voltò al suono della voce sconosciuta e rispose come se avesse dimestichezza con Edith.
«Venga su anche Leivenga a veder com'è bella.»
Don Innocenzo sulle prime si opposema Edith volle contentar quella povera donna e salì con lei dall'inferma. In cucina due fanciulle giocavano sedute a terra. Il padrecurvo sul fuocostava riscaldando un caffè; non si mosse né a salutare né a guardare. Chiese bruscamente a sua moglie:
«Devo portarglielo?»
«OhSignore!» diss'ella sconsolata.
Egli proferìcon voce rottapoche parole iraconde e sedettecuposul focolare.
L'ammalata era una fanciulla di dodici annibiondadelicatache moriva tranquillacredendo di guarire.
Edith ridiscese pochi minuti dopo nella via dove suo padre e don Innocenzo l'aspettavano.
«È da vergognarsi» diss'ella «di tanti nostri piccoli dolori.»
Nessuno dei tre aperse più bocca a casadove si divisero. Steineggesentendosi stancoandò a lettodon Innocenzo si ritirò nel suo studio a dir l'ufficio. Edith andò in cucina ad ascoltare una conferenza di Marta su vitali argomenti d'economia domesticasui prezzi dello zucchero e del caffèsul modo di «metter là» i pomidoro e i capperi in acetosulla tela più robusta e a buon mercato. Dopo mezz'ora di chiacchiere Edith lasciò la cucina e venne a bussar sommessamente all'uscio dello studio.
Don Innocenzo non si aspettava la sua visita; le domandò sorridendo se fosse accaduta qualche cosa. Ella rispose:
«Novolevo dirle una parola.»
Il prete comprese tosto dal volto di lei che doveva essere una parola gravee si compose pure a gravità.
«Prego» diss'eglialzandosi a mezzo e accennando una sedia presso di lui. Quindi attese in silenzio.
Passarono due minuti prima che le labbra di lei si aprissero. Don Innocenzo si pose a guardare attentamente il piano della scrivaniaa spazzar col mignolo della destraa soffiar via leggermente una polvere immaginaria. Finalmente Edith parlò.
Ella non fece alcun preambolo e cominciò subito a raccontare quello che suo padre le aveva detto intorno alla passione concepita da Silla per Marina prima della sua fuga dal Palazzo; proseguì a dire dello strano contegnodegli strani discorsi tenuti da Marina durante la gita all'Orridodelle proprie impressioni nell'udir annunciarequella stessa serail matrimonio Salvador. Narrò quindi con voce men sicura il passeggio sui bastionila indifferenza ostentata con la quale Silla avea accolto la notizia che le nozze stavano per celebrarsile confidenze che le aveva fatte poi. Soggiunse risolutamentelottando con la emozione interna e vincendoche si era confermata quella sera in un sospetto concepito qualche tempo prima riguardo alle disposizioni di Silla verso di lei; che non v'era stato un discorso diretto ma molti indizie che il proprio contegno era forse apparso tale da lasciar credere a una corrispondenza di sentimenti. Dissecoprendosi il viso con le maniche n'era dolentissima e se ne trovava ben punita.
«Oh Dio» disse don Innocenzo con voce imbarazzata «fin qua... poi... non so... ma non mi pare...»
Allora venne il racconto della mattina seguente della visita di Silladella gelida accoglienza fattaglidelle parole trovate nel suo libro. Qui don Innocenzo si scosseindovinandoassai tardia quale sospetto conducesse il racconto di Edith. Ella non tacque il recente incontro di Silla con suo padre e la impressione riportatane da questo. Temeva di qualche triste mistero nascosto nell'ombra del Palazzo!si rimproverava di aver favoritoper poca vigilanzaun sentimento chenon accoltopoteva spingere Silla a men che onesti propositi.
«Ho creduto» diss'ella «di dover raccontare tutto a Lei perché mi pare bene che Leiandando al Palazzosappia queste cose quantunque vi sia del biasimo per me.»
Don Innocenzo si fregava le mani lentamentesuggendo l'aria come se gli dolessero.
«Non so proprio» diss'egli «quale biasimo vi possa essere...»
Pareva tuttavia che una lieve ombra fredda ve ne fosse dentro di lui. Masticava parole vaghe come chi non arriva a raccapezzarsi bene. Domandò a Edith che uomo fosse questo signor Silla. Ella disse che lo credeva uno spirito nobilema ammalatooffeso dalle contrarietà della vita.
«E Le pareva che avesse inclinazione per Lei?»
Edith non rispose.
«Ma Ella dal canto Suo non ne provava alcuna per luie solo per un equivoco il signor Silla poté sperare d'essere corrisposto?»
«Nosignoretemo di nonon per un equivoco.»
Ella pronunciò queste parole a voce bassissimachinando la fronte alle mani conserte sulla scrivania.
Don Innocenzo tacque guardando i capelli giovanililucenti di bagliori dorati. Quella scoperta gli faceva pena; gli doleva trovar passione dove aveva pensato non esser che pacegli doleva veder piegarsi afflitta la bella testa intelligente. Al tempo andatonelle lunghe ore ch'egli soleva passare meditando e leggendonel suo studioloaltre immagini di donne pensose e vereconde erano salite dalla terra o uscite dai libri santi innanzi agli occhi suoi. Gli pareva ora che la rauca voce dell'orologio gli dicesse «ti ricordi?». Eccodopo tanti anniuna di queste figureviva e veranon più pericolosa ormai per lui che per un fanciulletto innocente. E soffriva di vederla feritaperché vi era pur qualche cosa in lei della sua propria giovinezza intemeratadi certi ideali femminili contemplati a quel tempocon trepida riverenzada lontano.
Edith alzò il viso e se lo coperse con le mani.
«Temo» diss'ella «di non aver fatto tutto il possibile per nascondere l'animo mio.»
«Mase questo giovine signore ha uno spirito nobilese aveva inclinazione per Leise Ella stessa... scusisto alle Sue parole... se Ella stessa... ma perché allora?»
Le mani le caddero dal visodue occhi umidi brillarono davanti a don Innocenzo.
«Ohsignor curatoLei che sacome può credere? Come farei ciò mentre mio padre ha tanto bisogno di me? Mettere accanto e forse contro al mio dovere di figlia un dovere più forte! Sarei venuta in Italia per questosignor curato? Non è poi neppure la mia vocazione; ne sono convinta.»
«Veramente convinta?» disse don Innocenzograve. «Sa veramente quanto è grande oggiquanto lo può essere domani il sacrificio che si propone?»
«No» rispose Edith giungendo le mani «non dica questonon dica questo! Ciò che faccio è niente rispetto a quanto io debbo a mio padre. Così Dio mi accordi ch'egli venga alla fede! Intantoson felice che non abbia sospettato di nulla. Quanto a me potrò anche dimenticare. Lei mi aiuti!»
Povero preteaiutare a combatter l'amore! Nella sua grande bontà ingenuail sacrificio di Edith gli pareva irragionevole. Se quest'uomo era nobilese l'amavacerto avrebbe amato egli pure con affetto filiale il padre di leicerto avrebbe cooperato al santo fine che Edith si prefiggeva.
«È necessario» diss'egli «è utile davvero questo sacrificio? Pensiamo bene. Potrebb'essere che Suo padre desiderasse veder Lei collocatache questo pensiero gli procacciasse delle angustie segrete. Anche questo; sa Ella di quanti e quali mezzi si può servire Dio per condurre alla fede un'anima? Forse nell'ambiente di una famiglia cristiana ve ne sono tanti che Lei adesso non immagina neppure. Parlo per l'avvenire. Per quello che è stato metta il Suo cuore in pace. Se qualche male avesse a succederenessuna colpa può ricadere sopra di Lei. Nonessunalo creda. Quand'anche Ella avesse dato a questo signore segno... non so... di simpatiainsommaElla non sarebbe mai responsabile davanti a Dio delle azioni disoneste che colui ora commettesse.»
«No» diss'ella «ma però sarebbe un gran dolore.»
Don Innocenzo tacque; cercava parole che non venivano. Gli facevano invece violenza altri pensieri generati dal racconto di Edith; il sospetto di una trama disonestail dubbio di dover fare qualche cosa prestofors'anche subitoper combattere i disegni che Edith pareva attribuire a Marina e che Marina stessa le aveva manifestati indirettamente dal settembreparlando di un'amica sua sposatasi per odio e per disprezzoper giungere all'amante attraverso il marito.
«Mi parli con piena sincerità» diss'egli ex abrupto: «è convinta o no che vi sia un accordo tra il signor Silla e donna Marina? Non abbia riguardi: non si tratta qui di maldicenze né di quei giudizi che il Vangelo riprova. Il mio ministero potrebbe forse venir esercitato per il bene e io debbo sapereper quanto è possibilela verità. Ella che conosce le persone e i fattimi dica schiettoche convinzione ha?»
«Due giorni fa non c'era di sicuro» rispose Edith «ma oggi temo di sì.»
«Come? Che ci sia accordo?»
«Temo che succeda: ho questo presentimento.»
«Teme che succeda» disse don Innocenzo parlando a se stessoefattosi puntello d'un gomito alla scrivaniacon il palmo della mano sulla fronte e le dita inquiete sul craniorifletté. Dopo qualche tempo aperse il cassetto della scrivania e ne tolse della carta.
«Ella non ha risposto» diss'egli «alle parole che il signor Silla scrisse in quel volume per Lei?»
«Nosignore.»
«Come?» chiese don Innocenzo.
Ella presentiva forse la proposta del curatoparlava così piano!
«Nonon ho risposto.»
Il prete si alzò in piedi.
«Benerisponda» diss'egli.
Anche Edithinvolontariamentesi alzò; videsenz'altre paroleil concetto di don Innocenzo.
«Subito» disse questiaccostando il calamaio alla cartache aveva posta sulla scrivania.
«Credesignor curatoche questo possa essere un dovere per me? Subito?»
«Lo credo. Il mio dovere sarà poi di giudicare se e quando la lettera debba essere consegnata. Sieda al mio posto.»
Edith sedette tacendoprese la penna con mano ferma e guardò il curato.
Gli occhi di lui presero un'espressione solennela fronte diventò augusta.
«Non so di queste cose» diss'egli commosso «ma ho sempre avuta l'idea che invece di un legame di passionesantificato o novi possa essere fra due anime veramente nobiliveramente fortiun altro legame d'affettosanto in se medesimo; un amorediciamo pure questa parola tanto grandeinteramente conforme all'ideale cristiano dell'intima unione fra tutte le anime umane nella loro via verso Dio. Arrivo a dire che non v'è sulla terra niente di più bello di un legame similebenché il legame coniugale sia sacro ed abbia un significato augusto. Ella vuol fare questo sacrificio a suo padre: sia; ma perché svellersi dal cuore anche la memoria della persona che Le fu cara? Perché rinunciare a un sentimento vivificante che Le fa desiderare il bene temporale ed eterno di questa persona quanto Lei stessa? Perché l'altra persona non potrebbe serbare un sentimento simile verso di Leisì che ambeduesapendo l'uno dell'altrobattessero vie diverse nel mondo e compiessero i propri doveri con questo gran vigore nel segreto dell'anima? Scriva cosìscriva così.»
«Lei è un santo» disse Edith. V'erano sul suo viso e nella sua voce dei tristi ma.
«Io sento bene» soggiunse «la bellezza di questa unionema gli basterebbea lui? Non combatterebbe poi con tanto maggior violenza il mio propositonon mi porterebbe a cimenti dolorosi?»
Don Innocenzo rimase mortificato. Sentiva di conoscere il mondo tanto meno di leidi non poter sostenere la discussione; ma il suo convincimento rimaneva.
«Sarà» diss'egli sospirando. «Scriva come vuoleanche poche parolepurché gli rialzino il cuore.»
Ella non disse nientesi mise a pensare con la penna in manoguardando il lume. Il curato aperse la finestra e appoggiò le braccia sul davanzale. Le stelle lo guardavanodavano ragione a luima la terra nera gli dava torto.
Dopo brevi momenti Edith lo chiamògli porse spiegato il biglietto che aveva scritto.
«No» diss'egli «non leggerò certamente; mi dica solo se son parole che possano infondere...»
«0h don Innocenzo» esclamò Edithsupplichevole «ho scrittoho fatto il Suo desiderio. Legga se vuolema non mi faccia più domandenon me ne parli più!»
«Benebenestia di buon animosi ricordi che il Signore ci dice di non abbandonarci alla tristezza e vada a riposare che è tardi.»
Prima d'entrare in camera Edith origliò all'uscio socchiuso di suo padre. Dormiva. Non vi poteva esser per lei sonno più dolcepiù commovente del suo respiro placidoeguale come quello d'un bambino. Andò a posar il lume nella propria cameratornò lì al buioappoggiò la fronte allo stipite ascoltandocercando una paceuna forza di cui aveva bisogno.
In quel momento le ore pesanti caddero a una a una dall'orologio del campanilebatterono con la loro gran voce solenne sul tettosulle scalesui pavimenti sonori della piccola casa addormentata. Edith alzò il capo a contarle con sgomentocome se fossero colpi menati a una porta di bronzo da qualche formidabile ospite inatteso.
Erano le dieci e mezzo.
4. L'ospite formidabile
Sillach'era sdraiato sull'erbabalzò a sedere e contò le ore. Dieci e mezzo. Trasse l'orologiolo guardò al fioco lume delle stelle. Dieci e mezzo. Lo sapeva che dovevano essere le dieci e mezzo: aveva guardato l'orologio due minuti prima per la centesima volta. Abbrancò l'erba con le dita convulsene strappò due manciate. Marina aveva detto: dopo le undici.
Lasciò cader le braccia inertipiegò il collosi accasciò tutto come se un piede enorme gli calcasse le spalle. Pensò in quel momento con certa stupidità fredda e lenta all'atto sleale che stava per compiere sotto il tetto d'un amico ammalato gravemente; pensò ai propositi del passatoalla vicenda di cadute e di vittoriesovra tutto al sinistro presentimento antico di un'ultima caduta senza rimediodi un abisso orribile predisposto chi sa in qual punto della sua vitadove si sarebbe perdutoanima e corpoper sempre. Sentì senza sgomento d'esservi giuntod'avere un piede proteso nel vuoto.
Un'amara energia gli corse le veneogni pensiero scomparve dalla sua mentetranne il pensiero dell'ora che incalzava.
Era lì da un'ora allo stesso posto della sera precedente sull'erba del vignetoaccanto a un cipresso. Quelle cinque ore eterne del dopopranzoche pareva non avessero a passar maieccole corsesvanitecome un secondo. Guardò l'orologio; mancavano venticinque minuti alle undici.
Andrebbe subito? Aspetterebbe là? Si crucciava di non sentire ardere il sangue di un desiderio più violento. Gli pareva esser torturato nel cervello e nei nervi dall'aspettazione febbrile; non altro. Forse l'incontro di Steinegge?... Nonon voleva pensare a quel nome.
Si alzò ad abbracciare il gran tronco del cipressoechiusi gli occhiimmaginò di origliarefermo sulla scaletta; assaporò più volterinnovandone la immaginazioneil venir lento di un sussurro; sentì un'aura profumatadue piccole mani che prendevan le sue protesee lo traevano sunelle tenebre. Ella saliva a ritroso ed egli seguivalamuti l'uno e l'altra; ma le mani intrecciate parlavano insieme un linguaggio tanto inesprimibilmente forte e dolce che essi ristavano ansanti; quasi folli; e...
Si spiccò dal cipresso con una spinta impetuosa. Guardò ancora l'orologio: erano le undici meno un quarto. Passò dal vigneto sulla scalinata e discese adagio adagioin punta di pieditrattenendo il respirosostando ad ogni rumore che si mescesse al gorgoglìo delle fontane. Giunto nel cortile si fermò un istante. Nessun lumenessuna voce usciva dal Palazzo nero. Prese a drittarasente il murosotto le sparse braccia pendule delle passiflore e dei gelsominispinse la porticina della darsenaentrò nel buio. Si vedeva soloa sinistrail principio della scaletta e sulla bocca della darsena l'ondular vago dell'acqua che di tratto in tratto posava sulla chiglia delle barche un bacio quieto. Allora balenò a Silla che forse quel convegno avrebbe potuto riescir diverso dalle immaginazioni sueche forse Marina non l'amavach'era mossa da qualche strano capriccio. Avrebbe ella voluto prendersi giuoco di luilasciarlo lì tutta la notte?
Sedette sulla scalettaguardandoper l'alto finestrino ovale che la rischiaravauno spicchio di cielola punta di un cipressouna stellina pallida.
Mancavano sette minuti alle undici. V'erano due minuti di differenza tra il suo orologio e quello della chiesa. A quest'ultimo dovevano essere le undici meno nove. Pensò che quando il suo facesse le undiciegli avrebbe ad aspettare due minuti ancoradue minuti eternitormentosi. Ed ecco sopra il suo caponelle profondità del Palazzoda qualche orologio più affrettato degli altriun batter di ore stridenti. Per donna Marina erano le undici.
Si alzòsalì la scala sin dove non giungeva più il chiarore del finestrinopuntò le mani alle due pareti eproteso in avantistette in ascolto.
Silenzio.
Il gemer lieve d'un uscio gli fermò il respiro. Seguì un sussurro di passi cautiuna voce; non una voceun soffio rapido:
«Renato!»
Silla si gittava già in avanti e gli ricadde il piede.
Un momento dopo udì chiamare ancorama più fortestavolta:
«Renato!»
La voce gli pareva e non gli pareva di donna Marina. Diede un passo addietro.
Allora udì scender veloce un rumore di vestiristar di botto.
«SillaSilla!» disse donna Marina.
Era ben lei; non poteva vederlama la sentiva in facciaa pochi scalini di distanza.
«Non sono Renato» diss'egli senza muoversi.
«Ahnon ricorda il nome! La vostra mano!»
Balzò giù con impetocadde sul braccio sinistro di Silla che la strinsel'alzò quasi da terra.
«Era vero» diss'ella con voce morentetenendogli le labbra sul collo «era vero quello che mi avete detto ier sera?»
Silla non risposela strinse più fortele baciò la spallasi sentì premer forte la guancia da un'altra guancia di vellutoda un piccolo orecchio caldo.
«Era vero?» ripeté Marina teneramente.
Non si poteva sentirsi palpitar sul petto quella bellezza alterarespirare il tepore odoroso che le usciva dal senoudirsene al collo la fioca voce e non perdere ogni lume di pensiero. Silla poté dir appena:
«E tu?»
«Dioda quanto!» rispose Marina. Poicome per subitaneo pensierosi sciolse con impeto da Sillagli appuntò le mani alle spalle.
«Dunque non ti ricordi tutto!» diss'ella.
Egli non capìrispose a casoebbrotendendo le braccia:
«Tuttotutto!»
«Anche di Genova?»
Le parole strane non entrarono nella mente di Sillache ripeté impaziente:
«Tuttotutto!»
Marina gli afferrò le manigliele congiunse con impeto.
«Ringrazia Dio» diss'ella.
Stavolta il nome terribile gli strinse le viscere come un pugno freddo.
Egli tacque stupefattoa mani giunte. Marina tacque pure per pochi momentiaspettando ch'egli pregasse col pensiero; quindi gli passò la mano destra sotto il braccioe sussurrò: «Adesso andiamo!» e si volse a risalir la scala.
Egli si lasciava tirar surestando uno scalino indietrotacendo.
Trovarono un pianerottolo dove la scaletta svoltava a destra.
«Vienidunque» disse Marinalasciando il braccio di lui e cingendogli col proprio la vita. Gli posò quindi la bocca all'orecchiovi gettò dentro un bisbiglio.
Egli dimenticò le parole incomprensibili di primatornò ciecole rispose.
«Zittoadesso» diss'ella mettendogli la sinistra sulle labbra.
Spinse una porticina ed entrò in un corridoio. Teneva Silla per mano e lo precedevacamminando cauta rasente la parete. Ad un tratto si fermòcredette udir passi e vocistette in ascolto.
Le voci venivano dal piano inferioredal corridoio vicino alla camera del conte.
Non vi badò piùandò avanti. Si udì la sua mano tentar un usciogirar una maniglia. Una lama di luce brillò nel corridoioun odor di rose avvolse Silla. Entrarono.
V'erano candele accese sulla ribalta calata dello stiposul piano apertosopra una libreria bassa. Dalla porta spalancata della camera da letto entrava pure un debole chiarore. Grandi mazzi sciolti di glicine celestidi rose bianche e gialle erano sparsi un po' dappertutto.
Marina saltò nel chiarore delle candeletrasse dentro Sillachiuse l'uscione girò la chiavetutto in un lampolucente gli occhi di riso mutolucente d'oro il collo e i polsi ignudibiancaa grandi ricami azzurrila persona. Lasciò Sillabalzò in due slanci al piano e prima che egli ne la strappasseattaccòcon fuoco demoniacola siciliana del Roberto.
«Li sfido!» diss'ella lasciandosi trascinar via. «Li ho sfidati bene anche ieri sera: no? E non hanno inteso niente.»
Silla aspettava che qualcunointeso il pianosalisse.
Marina si strinse nelle spallesi sciolse da luicadde quasi supina in una poltrona.
«Qua!» diss'ellaaccennandogli di sedere a terra presso a lei. «Tutte le tue memorie.»
Silla non rispose.
«Il balloprima» soggiunse subito Marina. «Non comprendi? Il ballo Doria!» ella batté il piede a terra impaziente.
«Non comprendo» diss'egli.
Marina si rizzò di schianto a sedere.
«Non m'hai detto che ti ricordi?» V'era in lui un demonio che s'irritava di queste ciance vanenon si curava di comprenderle o no. Prese colle mani di ghiaccio quelle di leila piegò a forza sulla spalliera della poltronasi curvò a risponderle.
«Non so nullanon ricordo nulla. Non ho vissuto maimai tranne adesso. Sapevo solo che sarebbe venutoquesto momento! Ho la frenesia di goderlo.»
Egli provava la sensazione vertiginosa di scendere in un gran vuoto senza fondodesiderava avidamente di precipitare sempre più giùsenza rimedio.
«Non stringermi così» disse Marina cercando svincolar le mani. «Non voglio!» esclamòpoiché l'altro non l'ascoltava. Fu tanto superbo l'impero del suo sguardo e della sua voce che Silla obbedì. Si alzò in piedisi allontanò da lui lentaa capo chino. Si voltò improvvisamentebatté il piede a terra.
«Pensa! Ma pensa!» disse.
Un brivido corse pel sangue a Sillaglielo raffreddò. Non so quale informe presentimento pauroso sorgeva in lui.
Marina gli chiese precipitosamente:
«Perché mi hai chiamato Cecilia quella sera?»
«Perché avevo scoperto ch'eri la Cecilia delle lettere.»
Ella rifletté un istante e disse con calma:
«Certome l'ero ben immaginato. Ma ieri a sera» soggiunse con l'impeto di prima «ma poco faperché dirmi che ti ricordi?»
«Perché ho creduto che parlassi della nostra corrispondenza e del momento in cui ti strinsi fra le bracciaqui sottoin darsena.»
Ella sedette allo stipone cavò il manoscrittoparve immergersi per qualche minuto nella lettura delle vecchie carte giallognolesi alzò bruscamente.
«Ti dirò un segreto che riguarda anche te» diss'ellae spense prima le due candele dello stipoquindi le altre del pianodella libreriatranquillamentesenza proferir parolacome se quelle fiamme fossero vive e potessero udire. Solo dalla porta aperta della camera da letto entrava un chiaror languido sul pavimentosui mobili più vicini.
Marina prese Silla pel bracciolo trasse nell'angolo più oscuropresso la porta del corridoiogli sussurrò:
«Tu non sai chi sono.»
Egli non comprendevanon rispondeva: quell'informe presentimento saliva in lui angoscioso.
«Ti ricordi quella sera in loggiala dama che tu accusaviper cui mi sdegnai?»
Silla taceva sempre.
«Non ti ricordi? La contessa Varrega d'Ormengo?»
«Sì» diss'egli ricordandosi a un trattoaspettando ansiosamente che Marina si spiegasse. Ma ella gli posò la fronte ad una spalla e ruppe in singhiozzi dicendo due parole che Silla non intese. Piegò il viso sui capelli di leila pregò di ripeterle.
«Sono io» diss'ella singhiozzando ancora. E tosto un movimento involontario di Sillauna sommessa esclamazione dolorosa la scossero. Dié un passo indietroesclamò:
«Dunque mi credi?...»
«Oh no!» interruppe Silla.
La parolanon proferitaindovinatarisuonò più forte.
Marina non piangeva più. Disse piano:
«Come siete tutti bassi. Dio!»
V'era stato un tempo in cui nessuno avrebbe potuto dir basso Corrado Silla; ma questo tempo non era più ed egli lo sentì acutamente.
«Tutu» continuò Marina «tu mi hai scritto che questa era la tua fedeuna vita precedente. Ma che fede era mai? Era una fantasiae non una fede. Ti dico "è vero" e tu hai paurami credi pazza! Chi ti aveva dettopiccolo cuor viledi fare il grande? Va!»
Una dopo l'altra le parole fiere frustavano Silla in visolo avvinghiavano nella loro logica veementelo irritavanogli mettevano un'avidità crescente di saperedi udire. Egli la incalzò di domande violentepassando dalla preghiera allo sdegno. Ella lo ribatteva indietro colla sua sillaba dura:
«Va! Va!»
Finalmente si arrese.
«Ascoltami!» disse «camminiamo.»
Si avviarono lentamentegirando intorno al pianopassando ad ora ad ora nel chiarore che veniva dalla camera da lettoperdendosi nell'ombra. Marina parlava rapidamentetanto sottovoce che Sillaper udirne le paroledovea piegar l'orecchio alla bocca di lei.
V'era sul suo visole prime volte che passò nella luceuna curiosità febbrile: quindi vi ripassò con gli occhi vitrei sbarrati. Marina parlava tenendosi sempre un pugno stretto alla fronte. Ad un trattonell'ombrasi fermarono. «Ma come?» diss'egli. Marina non rispose. Un momento dopo si udì lo scatto di una molla. Poi egli fece un'altra domanda sommessa. Marina andò nella camera da lettoritornò con una candela accesala posò sullo stipo. Anche ella era livida e gli occhi suoi avevano una cupa espressione indefinibile. Silla afferrò il manoscritto avidamente. Marina seguivaattentala sinistra storia sulle labbra mutesulle sopraccigliasulle mani tremanti di lui. Durante quel mortale silenziopassi precipitati suonarono a più riprese nel corridoio del piano inferiorema né l'uno né l'altro li udirono. Di tempo in tempo Silla fremevapronunciavaleggendoalcune parole; ed ella alloraalitando affannosamenteappuntava l'indice sul manoscritto.
«Ti ricordi questo?» le diss'egli una volta. continuando a leggere.
«Tuttotutto» rispose. «Leggi quileggi forte.»
Silla lesse: "Dicevano che rinascereiche vivrei ancora qui tra queste muraqui mi vendichereiqui amerei Renato e sarei amata da lui; dicevano un'altra cosa buiaincomprensibileindecifrabile; forse il nome ch'egli porterà allora".
«E tu non ricordi!» diss'ella dolorosamente.
Egli non la intesesoggiogato dal fascino del manoscritto: tirò via a leggere in silenzio. Un altro passo lo fe' inorridirelo costrinse ad alzar la voce leggendo:
"Alloraallora vorrei rizzarmi sul cataletto e parlare."
«E ho parlato» diss'ella «l'altra nottecome se fossi appena uscita dal cataletto; l'ho ferito a morte.»
Silla non le badòcontinuò a leggere. Giunto alle parole: "Quando nella seconda vita"si vide strappar di mano il manoscritto da Marinache gli prese poi a due mani la testagliela curvògliela strinse.
«E tu non credevi!» disse. «Ma poi ti ho perdonato perché ti amoperché DiovediDio vuole così; e poi perché anch'iosulle primenon ho creduto. Eccomi sono inginocchiata qui. Così.»
Cadde ginocchioniappoggiò le braccia e il capo sulla ribalta dello stipo.
«E ho pensatoho pensatoho cercato nella mia memoria. Niente. Ma poi la fede m'è venuta come un fulmineho creduto» soggiunse balzando in piedimettendo una mano sulla spalla di Silla «e adessoda pochi giornimi ricordo di tuttodi ogni minuzia.» Si fermòlo guardò un momento negli occhiepiegato il capo sul pettodisse teneramente:
«Non comprendi che sono statache l'anima mia è stata nella tomba tanto e tantonon so quantoprima di sciogliersi da quell'altra cosa orribile? Parlami d'amorevedi quanto ho sofferto. Spero che ti ricorderai anche tu. Ti ho le labbra sul cuore; vorrei vedervi dentroaiutarti a trovare. E t'ho amato subitosai; appena ti vidila prima volta.»
La ragione di Silla si oscurava ancora per il turbamento della letturaper la molle bellezza di Marinaper la voce blandapiù voluttuosa del tocco.
Ella rialzò il capo. «Ma non volevo» disse. «Bisogna pure che ti dica tutto. Credevo che il conte Cesare ti avesse fatto venire per me; volevo odiartimi sarei morsa il cuore perchéquando ti vedevoquando ti udivopalpitava. Ahquella sera in barcadopo le tue parole superbeinsolentise tu avessi osato! Quando mi riconducesti alla cappelletta...»
«Alla darsena» diss'egli involontariamente.
Ella fece un gesto d'impazienza.
«Ma no! Alla cappelletta: non ti ricordi? Quando mi riconducesti là e mi lasciastigittandomi il mio primo nomecaddi come morta. Ripensai e compresi; mi dissi: è luisarà lui; presto o tardicontro tuttocontro tuttisarà luiqui. Vengono i Salvadorper me. Lo sai che son parenti della famiglia d'Ormengo? Allora Dioperché la volontà di Dio sfolgora in tutta questa cosaDio mi fece vedere la vendetta che veniva da sé. Guardala sera stessa in cui fu conchiuso il matrimonio... saidopo avergli detto sìebbi un'ora di sfiducia terribile... seppi che Lorenzo eri tu. Si stabilì il 29 aprile per il matrimonio. Io scrissi a Parigi... nonon a Parigia Milano; come mi si confondono i nomi! Volevo sapere mille cose di te. Tu non ci andavi maida Giulia. Intanto il 29 aprile si avvicinava. Quando penso com'ero fredda e sicura in principio! Negli ultimi giorni non lo ero più. Avevo la febbre tutte le notti: la febbre! Volevo sposarlo e poi calpestarloper amor tuoma tu non venivi mai. Feci differire il matrimonio di un giorno. La notte primache notte! alzai le mani a Dio dal mio letto. Allora Dio mi ha toccato qui.»
Ella prese una mano di Sillase la pose sulla fronte.
«Mi ha toccato qui e ho visto quel che dovevo fare. Sono andata giùgli ho parlato. La sera dopo ti mandai il telegramma. E tuallora?»
Silla si sentiva assalire furiosamente alla sua volta dalla follìa. Le paretilo stipogli occhi di Marinala solitaria candela gli rotavano in giro vertiginosamente. Non ebbe il tempo di rispondere perché l'uscio che dalla camera da letto metteva nel corridoiosonò di più colpifu aperto con violenza. Una figura che per lungo tempo non si era fatta vedere al Palazzovi aveva fatto ritorno nel cuore della notteun'ora primamentre Silla attendeva Marina sulla scaletta. Giovanna vegliava presso il conte sopito. Gli altri dormivano sognando nel dolce sonno primaverilechi il fragor di Milanochi la quiete di Veneziachi ereditàchi pranzichi Nina dalle braccia di neve. Ogni cancelloogni porta s'erano aperti a quest'ospitecon l'atterrita obbedienza muta di servi sorpresi dal ritorno impensato del signore. Era salito sino alla camera del contee ciascuna pietra della casa aveva intanto sussurrato alla vicina il suo funebre nome:
"MORTE"
«Marchesinamarchesina!» esclamò Fanny entrando. Vide Silla e tacquefulminata. Silla si staccò da Marinasi trasse un passo indietro. Marinasorpresa un momentosi riebbe tostogli riprese la mano sdegnando dissimularevibrò a Fanny un imperioso:
«Che hai?»
«Il signor conte!» rispose Fanny.
«Ebbene?»
«C'è venuto un altro accidente un'ora fa e adesso è dietro a morire! Han detto di venir giùdi far presto.»
Marina spiccò un salto verso la cameriera.
«Muore?» diss'ella.
Fanny aveva ben visto alla sua padronada tre giornidegli occhi strani; mai come in quel punto. Sgomentatanon rispose. Stava sulla porta col lume in manoscarmigliatanudo il colloguardando Marina con occhi stralunatitorbidi ancora di sonno.
«Vieni!» disse Marina a Sillae si slanciòtenendolo per manonel corridoio oscuro.
«C'è giù anche il prete» disse Fanny ripigliando fiato.
Silla aveva volutoal primo momentoresisteregittar da sé la mano nervosa che lo stringevama una voce gli aveva gridato dentro: "Vile! adesso l'abbandoni?". Seguì Marina. Fanny veniva lor dietro tenendo alto il lumestupefattaricacciandosi in gola una fila di esclamazioni.
Il lume stesso pareva agitarsi pieno d'angoscia come se giungesse incontro ad essopel corridoio neroil soffio grave e solenne della morte.
Veniva su per la scala il chiarore d'un altro lume. Qualcuno chiamò dal basso:
«Signora Fannysignora Fanny!»
Era il cameriere che saliva affannato col lume in mano. Domandò a Fannysenza badare agli altri duese avesse un crocifisso.
«Nononella camera della signora Giovannanella camera della signora Giovanna!» gli gridò dietrodal fondola voce di Catte. Fanny si mise a singhiozzaree il camerierefatto un gesto di fastidioridiscesescambiò parole veementi con Catte. Una porta lontana s'apersequalcuno zittì sdegnosamente. Subito dopo la voce tranquilla del medico disse forte:
«Ghiaccio!»
Voci sommessefrettoloseripetevano:
«Ghiaccioghiaccio!»
Marina non correva piùscendeva adagio adagiotrepida suo malgrado. Le ombre del Palazzo erano piene di terrore augusto; quelle voci spaventatequei lumi di cui si vedevan qua e là fugaci riverberilo accrescevano. Prima ch'ella mettesse piede sul corridoio del piano inferiorepassarono il Vezza ed il Mirovichsenza cravatta né solino; curvifrettolosi. Il giardiniere che recava il ghiaccio li raggiunseli urtò col gomitopassò loro
davanti. Improvvisamente si udì la voce sonora di don Innocenzo:
«Renova in eopiissime Paterquidquid terrena fragilitate...»
Poi più nulla. Certo un uscio era stato aperto e richiuso.
Marina e Silla uscirono sul corridoio seguiti da Fannyvidero il Vezza e il Mirovich aprir piano piano l'uscio del contescivolar dentro; udirono ancora per un istantela voce di don Innocenzo:
«Commendo te omnipotenti Deo.»
Fanny die' in uno stridoposò il lume a terra e fuggì.
Marina si fermòsi voltò a guardarla.
«Stupida!» diss'ella. Poi sussurrò a Silla:
«L'altra notteandando da lui a vendicarmison caduta quia quest'ora stessa. Non te l'ho detto che l'ho ferito a morte?»
E fe' un passo avanti. Ma in quel punto si sentì cinger la vita dalle mani poderose di Sillariportar di peso sulla scala. Tacque un momentosbalordita; quindiingannandosi sulle intenzioni di luigli disse sorridendo:
«Dopo!»
Egli non parlò.
«Lasciami dunque!»
«No» rispose Silla. Non era più la ebbra voce di prima; era la voce d'uno che vede subitamente qualche cosa orribile.
«Come?» diss'ella.
Si contorse tuttasi divincolòquale una serpe nell'artiglio dello sparviero. Si racchetò subitocupa.
«Ohequel lume! Chi ha lasciato lì quel lume?» disse Catte che veniva dal lato opposto alla camera del conte. Un'altra voce commossa ripeteva: "GesummariaGesummaria!"
Fanny aveva posato il lume sul primo scalino. Catte e la contessa Fosca passaronoguardarono su per la scalasi fermarono. Allora Sillaquasi involontariamentelasciò libera Marinache saltò nel corridoio sugli occhi attoniti delle due donne e passò loro davantisenza salutarle. La contessa Fosca tutta imbacuccata in un gran scialle neroguardò Silla con un lamposul suo faccione volgaredi severa dignità; non disse motto e passò oltre. Silla discese nel corridoiola vide entrare con Catte nella camera del conte. Non vide Marinacapì che doveva esservi già entratasi batté rabbiosamente i pugni sulla fronte. Balzò quindi in punta di piedi all'uscio del moribondo e origliò.
«SuscipeDomine» diceva don Innocenzo «servum tuum in locum sperandae sibi salvationis a misericordia tua.»
Una larga vocebreve e grave come un soffio di organo appena toccorispose:
«Amen.»
Silla strinsecome chi affogala maniglia dell'uscio. Questo fu aperto; si sussurrò: «Avanti!».
Egli entrònon guardònon vide; cadde ginocchioni presso una sediaaccanto alla porta.
La luce d'una candela posata a terra presso il letto batteva sulle bianche lenzuola cadentisui pomi d'ottone della lettierasui frantumi di ghiaccio sparsi pel pavimento; gittava attraverso la camera la grande ombra di don Innocenzoritto presso al moribondo di cui si udiva il rantolo affannosoprecipitato. Da piè del lettonella penombrastava il medicoritto; accanto a lui Giovannainginocchiatasoffocava i singhiozzi nelle coltri. Dispersi nelle ombre dell'ampia camera erano inginocchiati la contessa Fosca e suo figlioil Vezzai domesticiil giardiniere. Questi e il cameriere del conte piangevano. Il Mirovichvecchio mondanostava appoggiato alla parete in un angolo. Se ne sarebbe andato volentieri; restava per un riguardo alla contessa.
Un'altra persona era in piedi in mezzo alla cameraa pochi passi dall'uscio: Marina. Le si vedevan bene la punta lucidavibrante d'uno stivalettola gonna bianca a ricami azzurri; pareva tener le braccia incrociate sul petto; del viso nulla discernevano né la contessa Foscané suo figlioné il Vezza che le avean gli occhi addosso.
Don Innocenzo proferiva ad alta voce le preghiere commendationis animae con Rituale alla manosenza leggervi mai. Non mostrò avvedersi di Marina né di Silla. Non dipartiva lo sguardo da quella testa con la bocca aperta e gli occhi chiusicoperta di ghiaccioinclinata sull'omero sinistrocadaverica. Parlava con accento di profonda pietà: quando disse «ignorantias eiusquaesumusne meminerisDomine»le parole suonarono più alte e commosseparvero esprimere un'appassionata fedeche Dio accoglierebbe nella sua pace quello spiritoil qualedopo aver operato il bene sulla terra senza pensare a LuiGli giungeva davanti come chi navigando diritto e fermo verso una mèta conosciutatrovò invece gran terre nuove e gloria imperitura. In quella notte d'angoscia e di trepidi bisbiglile sonore parole sacre volte con tanta fede a un Essere affermato presente e invisibile sopra l'uomo colpito da Luiaffermato padrone di chi Gli parlava e di tutti i circostanti credenti o noempivano la camera di sgomento. Si sentivano due potenze sovrumane a fronte: una luminosaeloquenteinfocata di pietàtenaceinstancabile; l'altra buiamuta. E questo appariva grandeche la primadisconosciuta dal giacente e in vita e in morteoffesane con parole d'indifferenzafors'anche di spregioveniva nell'ultima sua oranon richiesta da luinon potendone più attendere né bene né malea coprirloa difenderloa parlare alto per esso in un giudizio terribile. Quando il prete sostava per qualche istantes'udiva il moribondo ansar precipitosamente come se un leone gli si fosse accosciato su. A un tratto quel rantolo parve mancare.
«È la fine» disse don Innocenzo volgendosi agli astanti. Vide Marina in piedile accennò che s'inginocchiassepoi si curvò sul lettopronunciò con voce chiara le ultime preghiere.
Marina fece due passi avanti; il lume della candela ascese fino al suo viso pallidoalle nari frementialle sopracciglia contratte.
«Conte Cesare!» diss'ella.
Tutti trasalironosi rizzarono sulle ginocchiaesterrefattia guardarla: tuttitranne don Innocenzo. Questi non fece che un gestocon la sinistraverso lei.
Ella non indietreggiònon piegò. Stese le bracciaappuntò gl'indicicome due pugnalial morenteesclamò:
«Cecilia è qui...»
Un fremito d'esclamazioni sordeuno scricchiolar di seggioleun fruscio di piedi corse per la stanza. Don Innocenzo si voltò:
«Via!» diss'egli.
Nepoil Vezzail Mirovich fecero un passo verso la donna ritta in mezzo alla camera come un fantasma.
«In nome del Signore la conducano via!» singhiozzò Giovanna. «È lei che l'ha ucciso!»
Nello stesso istante Marina gittò indietro le braccia coi pugni chiusipiegò avanti il viso e il petto. Nessuno dei tre osò avvicinarselefermarle parole stridenti:
«Con il suo amante!...»
Allora fu visto Silla slanciarsi a leilevarla tra le braccia.
«Per vederti morire!» gridò ella in ariadibattendosi. Fu un lampo; si udì un'usciata violenta. Silla e Marina sparverola camera tornò silenziosa. Nepoil Vezza e l'avvocato mossero in punta di piedi verso la porta.
«Nepo!» disse la contessa Fosca sottovocecon forza. «Qui!»
Egli obbedìle andò vicino. Gli altri due uscirono.
«Il conte Cesare non ha potuto udir parola» disse don Innocenzo pigliando la candela e posandola sul comodino. «Egli dorme in pace.»
Il medico si avvicinòposò una mano sul cuore del contetrasse l'orologio e disse forte:
«Un'ora e trentacinque minuti.»
Don Innocenzo cominciò subito le preghiere per l'anima partita.
Una voce chiamò dalla porta il medicoche uscì. Anche i domesticiper ordine di Nepouscirono tuttitranne Giovanna cheinginocchiata al letto del suo padronerispondeva con voce deboledesolataalle preghiere del curato. Nepo accese due candele che erano sul cassettone. Le fiammelleallargandosi come due occhi spaventatimostrarono poco a poco al suo viso cupido le chiavi del conte sul cassettonela contessa Fosca pochi passi discostoil Mirovich che rientrava pallidocol ribrezzo sul volto della cosa stesa sul lettoa sinistra. Costui si fermò sulla porta e guardò Nepoaggrottando le sopracciglia. La contessa lo videruppe in singhiozziandò a stendergli il braccio che il vecchio cavaliere prese ossequiosamentee uscì con esso.
Nepo tolse le chiavi e una candela: si provò pian piano ad aprire uno stipo addossato alla parete di fronte al letto tentando tutte le chiavi senza riuscirvi.
«Oh Signore!» disse la Giovanna con accorato sdegno. Don Innocenzo s'interruppe.
«0 pregare o uscire» diss'egli.
Ma Nepo non gli badò. Curvo sullo stipogirando la chiave nella serraturafiggendovi quasi il lungo nasopareva una donnola fremebondainarcata a spiarea odorar per qualche pertugio la preda.
La collera salì al viso di don Innocenzo.
«Vado io» disse.
Avrebbe afferrato coluilo avrebbe gittato alla porta se Giovannasupplichevolenon lo avesse trattenuto.
«Lasci stare» diss'ella «seguitiseguitinon me lo abbandoni»
Intanto Nepo aveva trovata la chiave buonaaperto lo stipo e trattanedopo breve frugareuna carta piegata. L'accostò alla candela cui reggeva con la sinistravi lesse una soprascrittaabbruciandosi i capelli. Il Mirovichrientrato allora senza ch'egli se ne avvedessegli si avvicinògli disse con la sua severa voce proba:
«A me.»
«Bisogna leggere subito» disse Nepoconfuso. «Voglio sapere dove sonoin casa di chi.»
Uscirono insieme.
Anche le preghiere in expiratione erano finite. Don Innocenzo pregò ancora per qualche tempoindi tolse congedo da Giovannache non fu in grado di articolar parola.
La povera vecchia rimasta sola col padronepose sulla testiera del letto le candele accese da Nepomise a posto le seggiole sparse per la stanzastudiandosi di non far rumore come se il conte dormisse. Sedette poscia presso al letto guardando il crocifisso posato sul petto del cadavere. Ella aveva fedelmenteumilmente servito il conte per quarant'annisenza toccarne mai parole aspre né affettuosema sentendone la intiera fiducia e una coperta benevolenza. Gli aveva sempre volutoin vitaun bene rispettosoda essere inferiore. Mai mai non gli era stata così vicina come adesso ch'egli non era più il padrone in casa suache gente estranea metteva mano liberamente alle chiavimentre ella sola di tanti servidi tanti amici gli rimaneva accantodevota come nei giorni passati della sua alterezzadella sua forza. Mai mai non gli era stata così vicina come adesso che la croce gli posava sul cuore; una piccola croce tolta quella notte dalla camera di lei. Si alzòvenne a baciar per la prima voltauna dopo l'altrale mani inerti fra cui la croce posavane provò consolazione infinita e pianse.
Don Innocenzoescito nel corridoiolo trovò scuro. Fatti pochi passi pian piano tastando il muroperdette la tramontana e si fermòdisposto a retrocedere in cerca di lume. Stette in ascolto. Udì strida e lamenti che venivano dall'altoa intervalli; anche parolema non gli riuscì di afferrarne alcuna. Riconobbe però la voce di donna Marina. Nessuno rispondeva. Colpi sordi di passi frettolosi attraversavano il soffitto del corridoiopoi tacevano. Al di sottoa fronte di don Innocenzotutto era silenzio come alle sue spalle. Che accadeva lassù? Le strida i lamenti continuavano. Ore d'angoscia in cui il cuore della casa tacevuoto di vita e un'agitazione mista di stupore e disordine invade le membra senza governo! Don Innocenzocalmo al cospetto della mortecalmo durante la terribile apparizione di Marinaqui si turbava.
Un passo rapido risuonò sul soffittotraboccò per la scala nel corridoio.
«Lume!» disse don Innocenzo.
«AhSignore!» esclamò colui ch'era discesocorrendo via a precipizio nel buio.
Il curato riconobbe il Ricolo chiamòma inutilmente.
Si vide aprire e sparire a fronte una luce deboleandò avanti a caso espinto un usciosi trovò in loggia.
«Ahil signor curato!» disse il Rico che stava per scappare dall'altra parte.
Potevano essere le due. Faceva fresco. Il cielo si era tutto coperto daccapo di nuvole malinconicamente chiare fra la luna invisibileappena spuntatae il tacito specchio del lago.
«Vien qua!» disse il curato. «Dove vai?»
«Vado a pigliar la medicina.»
«Cosa c'è?»
«Che senta!»
Le grida ricominciaronoin quel momentopiù distinte. Don Innocenzo s'affacciò alla balaustrataguardò in alto a destravide illuminata la finestra d'angolo del piano superiore. La voce veniva di lassù. Adesso parevano rimproveriimprecazionipoi lamentipoi silenzio.
«È la signora donna Marina» disse il Rico sottovoce. «È come matta. C'è su il signor dottore e il signor Silla. La gliene dice di tutti i colori al signor Silla.»
«Non c'è nessun altro?»
«C'è anche la mia mamma. C'è stata un momento la signora Fannyma è scappata.»
«E tu cosa vai a prendere?»
«Lo so io? Il signor dottore ha detto un certo nome come corallo. E mi ha detto di chiamare la Luisa del Battista per venire a curarla.»
Don Innocenzo si tolse la lettera di tasca e la diede al ragazzo.
«Portala» diss'egli «nella camera del signor Silla e poi discendiamo insieme.»
Anche nell'altr'ala del Palazzo cominciava allora un'agitazione sorda.
Da più d'una fessura d'uscio trapelavan lume e bisbigli. I fili dei campanelli trasalivanosussultavano impazienti: se ne udiva strillar lontano la voce chiaraimperiosa. Sulle scale don Innocenzo e il Rico trovarono Momolo che scendeva con un lume.
«Forse si va!» diss'egli. Essi non risposero.
Esciti che furono dal Palazzoil Rico partì di corsa per la sua missioneil curato si incamminò lentamente guardando i grandi cipressi pensosi. Al cancello incontrò Steinegge. «Lei qui?» diss'egli.
«La campana: ho inteso la campana» rispose Steinegge con voce commossa. «Ohquesto è un dolore! Io dovrei piangere per quest'uomo.»
Egli abbracciò e baciò don Innocenzosoffocando un singhiozzopoi disse in fretta:
«Si può andare avanti? Ha visto il signor Silla?»
«Eh!» rispose don Innocenzo. «Altro che visto!» e raccontò la lunga scenapoi quanto gli aveva riferito il Rico.
Steinegge fremevasbuffava; non lasciò quasi che don Innocenzo finisse e corse via con un gesto risoluto che voleva dire: «Vado io». Entrò nel Palazzo mentre ne usciva il giardiniereche pareva aver gran fretta e non lo riconobbe.
Salendo le scale incontrò Fanny che scendeva con Catte singhiozzandoripetendo:
«Voglio andar viavoglio andar via!»
«Andreteandrete» rispondeva Catte «ma pazienzabenedetta. Volete lasciar la vostra padrona in quello stato?»
«So di nienteiovoglio andar via!»
«Madre santache vita!» disse Catte a Steineggeche stringendosi alla ringhiera per lasciarle passarele guardava attonito. Egli stava per domandar loro qualche cosaquando la contessa Fosca gridò dall'alto:
«Ohequesto Momolo!»
«SubitoEccellenza!» rispose Cattee scese in frettatrascinando giù Fanny. Steinegge continuòpure in frettaa salire.
«Momolo» disse la contessascambiando Steinegge pel suo servitore «avrà inteso beneehquell'altro? Un legno e un biroccino alle sei. Ahsiete voi? Scusatecaro voi.»
«Partela signora contessa?»
«Sìsìe maledetta quella volta che son venuta.»
Nepo chiamò sua madre all'uscio del salotto. Si vide dietro a lui l'avvocato Mirovich seduto al tavolo con una lucernaun calamaio e due gran fogli davanti a sé. La contessa entrò in salotto e l'uscio ne fu richiuso sul viso a Steinegge. Questi trovò nella loggia il Vezza appoggiato alla balaustrata verso il lago; gli si avvicinò col cappello in mano per parlargli; ma coluiguardatolo appena e accennatogli di tacerevolse il capo dall'altra parteascoltando.
Si udì un gemito lungodebole.
«Donna Marina?» disse Steinegge.
L'altro non risposeascoltò ancora. Non si udì più nulla. Allora queglicome uscisse da un sognosi mise a parlare affrettatamente:
«Cose orribilisa. Le hanno detto?...»
«Sìmi ha detto qualche cosa il signor curato.»
«OhLei non ha idea di quel momento! Guardi.»
Il Vezza rappresentò tutta la scena appuntinoparlando sottovoceinterrompendosi tratto tratto per ascoltare.
«Io esco» diss'egli poi «con l'avvocato Mirovichsal'avvocato dei Salvador. Trovo nel corridoio donna Marina in preda a convulsioni terribili. Non gridava perché aveva addentato l'abito dell'altro qui al pettogemeva. Si chiama il medicola camerierala moglie del giardiniere. A gran pena riescono a trarla su per la scalasenza poterle aprir la bocca.
Dopo non so più niente di positivo; deve aver continuato il delirio violento. Adesso si capisce che è più tranquillama fino a poco fa sono statemi diconourlamaledizionisuppliche incomposte. Parlava sempre a quell'altro. Ed egli è làcapisce? Non è disceso mai. Oh! cose incredibili. Quando si pensa quella scenaqui in loggia l'anno scorso! A propositolo sa che stanotte quando il povero Cesare ebbe l'ultimo attaccoloro due erano insieme?»
«Erano insieme?»
«Insiemeinsieme! Li ha trovati la Fanny in camera da letto.»
«Oh!» esclamò Steinegge. Gittò via il cappellorimase a braccia aperte.
«Insieme» riprese il Vezza dopo un breve silenzio. «E in un momento lo hanno saputo tutti.»
«Commendatore» disse Nepo dall'altro capo della loggia «vuol favorire?»
Il commendatore uscìrientrò pochi minuti dopo.
«Che confusione!» diss'egli. «Lo sa che partono?»
«Chi?» rispose Steinegge distratto.
«I Salvador; alle sei. Che vuole? Appena successa la disgraziail conte Nepo non ha perso tempoha cercato e trovato il testamento ch'è olografo e ha la data di quindici giorni sono. L'ospitale di Novara è erede universale. Per i Salvador ci sarà forse questioneperché c'è ordine all'erede di vender la possessione di Lomellinaonde soddisfare entro due anni le trecentoventimila lire di cuidice il testatorefaccio donazione a mio cugino il conte Nepomuceno Salvador di Venezia. Donna Marina non ha niente. C'è poi una infinità di legati. Cesare si è ricordato di tuttida gentiluomoveramente. C'è anche un assegno vitalizio per Lei. Io sono esecutore testamentario. Del resto è ben naturale che i Salvador se ne vadano; non c'è neanche onoreper loroa restar qui. Il conte avrebbe voluto fare del chiassoche so iobattersi; ma se n'è lasciato dissuadere subito.»
Catte venne a pregare il commendatore di andare ancora dalla contessae Steinegge rimase solo.
Non era stato mai un gran sognatore il povero Steineggepure qualche sognodurante il suo mezzo secolo di vital'avea fatto anche luidi tempo in tempo; qualche piccolo sogno come la libertà della patriala pace della famiglia. Il suo ultimo sognoumile e timidoera stato che sua moglie sarebbe guarita e che avrebbero trovato un pane in Alsazia; soffiatogli via dalla fortuna anche questonon aveva sognato più.
Per meglio direnon aveva più creduto di sognareperché adessoguardando il lago dalla loggia del Palazzoe sentendosi il cuore tutto amarocapì che un'altra speranzanatagli spontaneamenteinavvertita da luigli si era rotta e gli faceva male. Chi avrebbe pensato che Silla potesse dissimulare a quel modo? Deliberò di aspettarlo.
Nessuna voce veniva più dalla camera di Marina; tutta quell'ala del Palazzo era muta. Dall'altra parte si udivano ancora spesso colpi d'usci sbattutistrilli di campanelli. Spesso si apriva la porta della loggiasi chiamava sommessamente un nome o l'altro. Nessuno rispondeva; una testa usciva a guardarepoi spariva e l'uscio si richiudeva lentamente. Voci di donne si alzavano un momento in litigioma erano fatte tacere subito. Passi frequenti crosciavano sulla ghiaia del cortilesalivano la scalinata; in altopei sentieri del vigneto si gridava e qualche volta si rideva. Per fortuna i bagagli dei Salvador eran quasi pronti fin da due giorni prima; la contessa li faceva portar su alla casetta del giardiniere.
Steineggefermo in loggia all'ultima arcata di ponentecon le spalle al lagole braccia incrociate sul pettoaspettò a lungocon gli occhi sulla porta onde sperava veder uscire Silla.
Finalmente udì venire pel corridoio i passi di due persone. Ascoltò trattenendo il fiato; non parlavano. La porta si aperse.
«Siamo intesidottore» disse Silla. «Riferisca le condizioni gravi in cui ho dovuto prestare la mia assistenza; riferisca lo stato di sopore e di abbattimento in cui ella si trova presentementee se qualcuno Le domanda di meLa prego rispondere a nome mio che per un'ora mi si troverà qui in loggia.»
La voce era sinistramente fredda. Qualcuno che portava un lume tornò indietro; il medico attraversò la loggiaSilla vi entrò dopo di lui.
Steinegge gli si fece incontro.
«Signor Silla!» diss'egli.
L'altro non gli risposenon si voltò nemmanco a guardarloandò a buttar le braccia sulla balaustrata verso il cortile.
Steinegge fece un altro passo.
«Signor Sillanon mi riconoscete?»
Silenzio.
«Ahquand'è cosìbene.»
Egli tornò dov'era prima e tacqueguardando Silla che non si muoveva.
«Io non so» diss'egli. «Io non credo aver meritato questo.»
Nessuna risposta.
«Questo è amarosignor Silladi venire come amico ed essere accolto così! Io voleva solamente dirvi che io avrei preferito non vedervi più mai qui; anche adesso io vorrei piuttosto vedere una buona onesta bocca di fucile sul Vostro pettoper Dio! Ero venuto per dire a Voi questo e altre cosema poiché Voi non volete ascoltarmiio vado. Addio.» S'incamminò per uscire. Allora Sillasenza voltare il capogli disse freddamente:
«Dica a Sua figlia che ho tenuto parola e son caduto a fondo.»
«A mia figlia! Questo?»
«Sìe adesso vada. Vadavada via!» ripeté Silla con passione improvvisa perché Steineggesorpresotornava verso di lui. Questi piegò il capo in atto di rassegnazione e se n'andò.
Due lanterneun corteo silenzioso attraversano il cortile. Subito dopo il commendatore viene ad avvertire Silla che i Salvador sono andati ad aspettar la carrozza in casa del giardinieree ches'egli desiderapuò comunicargli una disposizione del conte che lo riguarda.
L'uscio si chiuse dietro a lorola loggia rimase vuota.
5. Inetto a vivere
L'alba nasceva sopra i grandi sassi malinconici dell'Alpe dei Fioricirconfusi da ondate di nebbia; scopriva le alte cime grigiesonnolente nei loro umidi mantelli di boschile ultime colline di ponente sfumate in un chiaror di piovail lago plumbeo. Lì sul lago non pioveva ancora. Non si moveva fronda de' fichide' gelsidegli olivi pendenti dai campicelli delle rive sull'acqua morta; le loro immagini e quelle dei muricciolidelle rade casupoledei sassi cespugliosi vi tacevano fermeintere. Ma da ponente la piova veniva avanti come una vela obliqua dal cielo alla terrasempre più grande. I pioppi delle praterie la sentivano vicinane avevano i brividi. Anche il lago cominciava laggiù a fremerea picchiettarsi di brevi macchie scure. Queste corsero avanti spandendosi rapidamentesi confusero in una sola striscia rugosain una fila di ondicine tremole che si spiegavano a ventagliosilenziose nell'altobisbigliando lungo le sponde. E in queste sponde solitarienel lago stesso diviso più che mai dal mondodivisoparea per sempredal soleera un arcano raccoglimento pieno di pensieri gravid'intimi colloqui sommessiuna quiete di chiostro in cui l'aria e le pietre parlano di alti misteri e di occulte passioni.
Le colline sparvero del tutto dietro il bianco velo della piova su cui si disegnavano neri i pioppi delle praterieche uno dopo l'altroda' più lontani a' più vicinidiventavan grigi essi puresi dileguavano come fantasmi fugati dal giorno. Intanto le ondicine venivano avantisempre avantimovevano in file serrate al Palazzo. E vennero a battere gorgogliando le muraentrarono a sussurrare curiose nella darsena. Nessuna voce rispose loro. L'ala di ponente aveva tutte le finestre chiusema l'altra le aveva in gran parte spalancate. Pure nemmeno da questa veniva voce né segno alcuno di vitabenché vi parlasse un disordine di letti sfattidi cassetti apertidi sedie scioccamente ritte in mezzo alle stanze; benché vi apparissea una finestra del secondo pianouna figura umana pietrificatapiù pallida di quell'alba.
Appena lasciato il Vezza che gli aveva partecipate certe disposizioni del conteSilla era venuto a cadere sul davanzale della finestra. Sapeva ora che Marina non era nemmeno nominata nel testamento e che a lui il conte aveva legate le suppellettili appartenute a sua madreuna cassetta di lettere e diecimila lire a titolo di compenso per il lavoro scientifico incominciato l'anno precedente e da proseguire come e quando Silla crederebbe meglio. Ma egli non pensava a questo; guardava venire avanti lentamente il giornola piovale onde. Gli occhi vedevano male: si sentiva la testa grave più del piomboil petto voto d'ogni sentimento. Si conosceva affondato nel disonore della sua azione slealein una cupa necessità: legarsi a Marinapazza o no. Ed era tranquillofreddo sino al cuore. Il cieloil lagola piova vicina gli consigliavano sonno. Chiuse la finestrasi gittò vestito sul letto. Lo trovò sofficemorbido più che maisentì dolce come una carezza la tela del guancialedesiderò dormiredimenticare; si assopì e vide uno sconosciuto che lo guardava.
Lo guardava placidamenteper qualche tempo; quindi alzando le spalle e le sopraccigliaporgendo le mani apertescoteva il capo quasi per dire: non c'è verso. Silla credette capirecome a cosa più naturale del mondoche colui gesticolava sìma non poteva parlare perché era morto. Allora lo riconobbe tosto per un vecchio amico di famiglia suicidatosi quindici anni prima. Ne riconobbe la gran fronte calvail mento rasoaguzzo fra due solini dirittisopra una cravatta nera con la spilla di malachite. Meravigliò in pari tempo di non averlo riconosciuto subito; dovea saperlo che sarebbe venuto. Infatti il fantasmaleggendogli nel pensierogli sorrise. Quel sorriso fu per Silla un'altra rivelazione. Vide in se stesso tutta la occulta via di un pensierodai giorni dell'adolescenza sino a quel momento. Aveva cominciato da una dolce malinconiadal desiderio vago di una patria lontana: era diventato poscia presentimento fugacequindi sospetto sempre combattutosempre più gagliardosempre coperto di segreto come qualche lento male orribile che ci rodedi cui si vede il nome col pensiero e non vogliamo confessarlo mai; prevaleva finalmentealla volontàdiventava un ragionamento irrefutabileuna sentenza opprimente in tre parole: INETTO A VIVERE. Silla se le vedeva dentro chiare queste tre parolee il fantasma sorrideva sempresi avvicinavagli procedeva pesante su per la personacon gli occhi sbarratimettendogli un gelo nelle ossafermandogli il respiro. Quando giunse al cuoreSilla non vide né intese più nulla.
Gli parve svegliarsi soloprovare una dolcezza infinita e dire fra sé "adesso non sogno". Era in un altro mondoquasi senza lucetutto silenzio e riposo. Guardavasteso bocconiin un'acqua immobilevedeva passarvi dentro lentamente la immagine di un globo alto nel cielocolor d'alba piovosa: e ripeteva seco stesso: "Eccolone son fuorison pur fuori di un gran mondo tristo". Era una consolazione profonda e tenera la suacome si prova in un sogno d'amore. Ma gli parve a un tratto che quel globo color d'alba piovosa non procedesse più pel suo camminosi avvide che ingrandiva rapidamentesmisuratamente: colto da indicibile terroresi svegliò.
Si vide davantiper la finestra apertaun largo chiarore biancoalzò la testa inorriditosognando ancora. Quandoraccapezzatosisi rizzò a sedere sul lettosentìpoco a pocoche il cuore gli dolevala testa pesava tuttavia come il piombole membra erano tutte intirizzite dalla fredda aria umida della finestra; e disse a mezza voce rispondendo al proprio sogno: "È veromorirenon c'è altro; dormire ancora. Dormiredormire". Sopra il capezzale l'angelo appassionato del Guercino pregava per lui con ardor veementegridava a Dio: "Chi lo ha gittato sulla terra? Chi gli negò il sospiro dell'anima sua? Chi lo mise inconsciolo trattennelo ricondusse sulla via di quest'ora angosciosa?".
Silla si guardò involontariamente nello specchio scuro di fronte al letto. Vide appena un viso pallidodue occhi spenti. Pensò che pareva già morto e ch'era stato così pallido altre volte dopo un'ebbrezza tetra di sensinel doloroso sdegno dell'anima. Ora non v'era più sdegno in lui né forza alcuna; lo stesso proposito di morire che lo invadeva era come un infiacchimentouno sfacelo dello spirito. Scese dal lettoandò barcollando a sedersi al tavolosi appoggiò i gomitireggendosi con le mani il capo addolorato pieno di confusione. Comprendeva in nubeche bisognava pure scrivere qualche cosa a' suoi parentialla sua padrona di casae non se ne sentiva la forza. Lottò ad occhi chiusi per raccogliere le ideene represse con violenza il disordinestese la mano alla penna e solo allora vide la lettera portata su da Rico. La guardònon ne riconobbe il caratterela depose senza aprirla e cominciò a scrivere al cav. Pernetti Anzatisuo zioinvitandolo a sospendere l'invio dei soliti interessipoiché luiSillaera fortunatamente in grado di far dono del capitale alla famiglia Pernettistatagli tanto amorosa. Prima di voltar pagina riprese quella lettera e l'aperse.
V'erano scritte queste poche linee senza intestazione e senza data:
"Edith S. risponde allo scrittore oscuro ch'egli può diventare grande e fortecontro la fortunamalgrado l'ingiustizia degli uomini. Edith ha promesso non appartenere ad altri che al suo vecchio padreil quale ha gran bisogno di lei; ma è libera di portare nell'intimo del suo cuore un nome che le è caroun'anima che non affonderà mai se ama come lo dice."
Silla sorrise. "Adessoadesso!" diss'egli. Rilesse il biglietto e si sentì morire.
Trasse il portafogli per chiudervelostette sospesoconsiderando i caratteri netti e slanciatipensando alla manoalla mente pura; e pentitosi della prima ideacompreso della propria indegnitàripose il portafogliaccese una candelavi arse lo scrittone sparse dalla finestra i brandellini neri al vento e alla pioggia. Mentre li guardava svolazzar via lungo la muragliaun domestico entrò a dirgli che commendatore gli voleva parlare e lo attendeva nella sua camera. Silla ripose la lettera incominciatae uscì come stavacon i capelli arruffaticon le vesti in disordine. L'orologio della scala suonòmentr'egli passavale nove.
«Qui» disse il commendatore «una sorpresa non aspetta l'altra.»
Silla non fece domande: attendeva che colui parlasseche anche questa noia fosse passata per sempre. Ma il panciuto soldatino di gommainvece di parlarelo guardò fisso con le mani in tasca e la testa piegata sul petto.
«Cosa vuole» diss'eglilasciando improvvisamente quella attitudine scrutatrice «sono in una condizione penosissima. Si soffoca poi anchequi dentro.»
Aperse una finestra e andò a cadere in una poltrona di fronte a Silla.
«Penosissima» ripeté.
Silla non aperse bocca.
«E pure» soggiunse il commendatoresospirando «bisogna starci. Io sono un ambasciatore sa. Un'ora fa donna Marina mi ha mandato a chiamare.»
Silla trasalì.
«Lei si meraviglia. E io dunque? Ma! È così. Potevano essere le otto e un quarto; la moglie del giardiniere viene a svegliarmi e a dirmi che la marchesina mi aspetta. Io sono rimasto di sasso. Come mai? dico. Mi dice che ha dormito senza avere preso medicine di sorta e che si è svegliata circa alle settetranquillaperfettamente in sé. Solo non ha voluto che si aprissero le persiane; ha preferito tenere accesa la candelaanzi farne accendere altre due o tre. Ha domandatola prima cosase Lei è ancora quial Palazzo. E poi si fece ripetere i discorsi del suo deliriotutto l'accaduto dopo...»
Il commendatore si fermò esitando.
«Parli pure» disse.
«Dopo che Lei l'ebbe portata via dalla camera del povero Cesare. E specialmente... scusiLei l'ha rimproverataper quello che ha detto là?»
«A parole non l'ho rimproverata veramente: ma deve aver compreso che mi faceva orroreperché mi ha vituperato nel suo delirio.»
«Beneè su questo orrore manifestato da Leimi diceva la donnache la marchesina fece più insistenti domande. Poi si alzò e mi mandò a chiamare. Adessosenta. Premetto: per me è malata ancora: malatissima! Sta peggio ora di stanotteper me. Lo si vede quasi più nella bocca che negli occhi; la bocca è alla gran tempesta. Ma è un fatto che mi ha parlato con una freddezzacon una calma da fare sbalordire. Era pallidase vuolecome un cadavere; ma non importa. Mi domanda perdono di avermi incomodatocon un'affabilità insolita in leipoi mi dice che nella posizione stranissima in cui si trovanon ha nessuna guidanessun aiuto; che io sono il migliore amico del suo povero zio e che stima doversi rivolgere a me per consiglio. Ionaturalmentemi metto a sua disposizione. Ella mi domanda allora... scusisignor SillaLei è disgraziatamente immischiato nelle cose che sono successe qui stanotte. Abbia pazienzaio non voglio farmi suo giudice. Non si offenda se sono costretto di ricordarle queste cose e forse anche di dirne altre che potranno spiacerle.»
«Parliparli» disse Silla.
«Bene. Mi domanda dunque dei Salvador: perché sono partiti? Io la guardo. "Eh" dico "per questo e per questo. Perché dopo gli avvenimenti di stanotte hanno creduto di non avere più niente da farequi." Allora ella mostra di turbarsi un pocomi dice che comprende e scusa questo procedereche pur troppo ha tutte le apparenze contro di séma che non è colpevole affatto. E quipoverettami fa un racconto dal quale mi son ben persuaso che c'è ancora follìa e follìa più pericolosaforsedel delirio violento. "Per otto giorni" dice "non sono stata responsabile delle mie azioni. Ho avuto da una persona morta comunicazioni che mi hanno scombuiato il cervello. Queste comunicazioni" dice "il signor Silla le conosce."»
«È vero» disse Silla.
«Euh!» esclamò il commendatore stupefatto. Non si aspettava questa conferma; gli sconvolgeva le ideegli suggeriva il sospetto che neppur quell'uomo pallido dai capelli arruffatidalle vesti scomposteavesse il cervello interamente sano.
«È vero» ripeté Silla
«Spiritismo?» chiese il commendatore.
«No. MaLa pregocontinui.»
Il Vezza aveva perduto la bussola e il filo del discorso; ci volle del buono perché potesse raccapezzarsi.
«Dunque» diss'egli «ella sostienecontinuandodi aver vissuto otto giorni in una specie di sonnambulismodurante il quale ha fatto cose inesplicabili di cui ora è dolentissima. Protesta della sua indifferenzaanzi della sua ripugnanza per Leicomunque si sia comportata durante questo periodo di allucinazione. Soggiunge che spera di persuadere di tutto questo il conte Salvadore mi pregain due paroledi aiutarla. Cosa vuoleche le rispondessi? Che per parte mia credevo tuttoma che non vedevo probabile di far credere nulla al conte Salvador. "E poi" le dico "capisce bene. Fanny non ha taciuto..."»
Silla lo interruppe impetuosamente.
«Quanto a questo» diss'egli «posso dare la mia parola d'onore...»
«Benissimobenissimosi calmi. Capisce bene che in ogni modo per allontanare Salvador ce n'è più che abbastanza. Tornando alla marchesinami domandò allora con un sorriso sarcastico se si conosceva il testamento. Io glielo riferii ed ella non si turbò affatto. "Se io sono esclusa" dice "questa è una ragioneper un gentiluomo come mio cuginodi non abbandonarmi." Dopo di che mi fa un discorso riguardo a Lei: debbo confessarlo. Un discorso sensatissimo. Vi sono proprio delle convenienze imperiose che danno ragione a donna Marinae Lei vorrà non dolersicredose ho accettato di esporle il suo messaggio. Le assicuro che sono convinto di fare un'opera buona verso tutt'e due.»
«Ch'io parta?» disse Sillaconcitato.
Il commendatore tacque.
«Ma cosa crede Leiche il conte Salvador possa tornareche voglia prendere una moglienon foss'altroinferma di mente e diseredata? Come si posson pigliar sul serio i discorsi di una donna in quello stato? Ma si metta una mano sul cuore e mi dica se ioche purtroppo sono stato immischiato nelle vicende di questa nottemi dica se adesso che donna Marina è lasciata dal suo fidanzatoanche per causa miaadesso che cade dalla ricchezza nella povertà perché di suo deve aver poco o nullaadesso che è malata di una malattia terribilemi dicaripetose posso abbandonarla di cuor leggero e tornar nel mondo come se niente fosse statosolo perché questa donna inferma si sveglia dal delirio e mi dice: "andate pure". Andar vialasciarla sola con la sua sventura spaventosa? Leicommendatoremi consiglia questa viltà?»
«Pianopianopiano» disse il commendatore piccato. «Non adoperiamo parolone e riflettiamo un po' di più. Lei crede in coscienza doversi costituir protettore della marchesina di Malombra? Non voglio esser severo con Lei perché in affari di cuore non lo sono maie perché dopo una notte similechi può avere la testa a segno? Ma mi spieghi un pocoscusi sache sorta di protezione può offrire alla marchesina? Ci pensi bene; una protezione poco efficace e poco onorevoleuna protezione che le allontanerà tutte le altre. Perché la marchesina ha dei parenti che l'assisteranno se non per affezionealmeno per un sentimento di decoro. Ma bisogna che Lei esca di scena. Vedenon è neanche il casoparlando chiarodel matrimonio per riparazione; con una donna che vi respinge? Con una donnasopra tuttoche non ha la sua ragione intera? Dunquecosa vuol far Lei qui? Lei non ha che a partire.»
Silla lottava fieramente per serbarsi freddoper soffocare un lume indistinto di speranza che gli entrava nel cuoree poteva turbargliin quel frangenteil giudizio.
«Sul Suo onoresignor Vezza» diss'egli «crede buono questo consiglio?»
«Sul mio onorelo credo l'unico. Ella potrà accertarsi delle disposizioni di donna Marinaparlando con lei stessa. Così giudicherà anche del suo stato di mente.»
«Io? Nemmeno per sogno. Se partissinon vorrei rivederla.»
«Un momento. La marchesina mi ha pregato di riferirle questo nostro colloquiociò che farò con la debita discrezione; e mi ha pure espresso il desiderio di parlarea ogni modocon Lei.»
«Perché?»
«Ma! Bisognerebbe domandarlo a lei. Vadasi faccia coraggio. Io ho il dirittoper la mia etàdi parlarle come un padresignor Silla. Mi spieghi questa cosa che non posso comprenderericordando una certa scena dell'anno passato. Ha Lei una vera affezione per donna Marina?»
«Perdoninon si tratta de' sentimenti mieiadesso.»
«Bastabasta. Dunque le dico che Lei è persuaso di partire?»
«Nole dica solo che mi faccia saper l'ora in cui dovrò recarmi da lei.»
«Sì. Per dirle la veritàil mio interesse personale sarebbe ch'Ella restasse qui ancora qualche ora. La pregherei di aiutarmi. Ho tante cose da fare. C'è da chiedere al pretore l'apposizione dei sigilli. Capiràqui c'è tanta gente! C'è da scrivere alla Direzione dell'Ospitale di Novara. Ho già spedito un telegrammama non basta. Anche sul funerale avremo a discorrere. La cappella di famiglia è a Oleggio. Il conte dev'essere trasportato là? Dev'essere sepolto qui? Mi han promesso che prima delle due arriveranno gli annunzi stampati da diramare: un bel lavoro anche quello! Era più o meno cugino di mezzo Piemonteil povero Cesaree di mezza Toscanaanche. Insommaquanto a mese Lei restasse fino a staserane avrei certo piacere.»
Un forte soffio di vento entrò dalla finestra apertagonfiò le cortine.
«Ohil vento cambiameno male» disse il commendatore. «Anche questo tempaccio è una cosa orribile.»
Silla non risposesalutò in silenzio e tornò nella propria camerameditabondo.
Cos'era adesso quest'altro enigma? Cos'era quest'altra commedia del destino? Egli ripensava certi esempi di maniaci risanati da un momento all'altronello svegliarsi. E forse il delirio di donna Marina non era stato che un eccesso passeggerouna esaltazione nervosa prodotta da circostanze veramente strane.
Se il Vezza s'ingannasse? Se fosse veramente guarita? Essa lo sdegnava adessolo respingeva: la catena dura sarebbe spezzata senza dubbio.
Restavano i rimorsila vergogna d'esser tornato al Palazzo in onta alla propria dignità con un coperto proposito di colpaper farvisi complice di una mortale nemica del contementre quest'uomo che lo aveva amato e beneficato giaceva oppresso dalla infermità. Ma purese rimanesse liberonon vi sarebb'egli modo di rialzarsi ancoradi purificarsi questa lunga espiazione amara? Una voce occulta gli sussurrava nel cuore qualche speranzagli ripeteva le parole di Edith: "Non affonderà maise ama come lo dice". Non era più il Silla di prima che fantasticava cosìseduto sul lettomentre l'angelo del Guercino pregava sempre. Adesso l'idea del suicidio si era allontanata dalla sua mente. Non voleva ancora pigliare alcuna risoluzione per l'avvenire: aspetterebbe di aver visto donna Marinadi averle parlato. Ohse Dio volesse essergli pietosorialzarlo una volta ancora! Il suo sentimento religiosola sua fede in un segreto contatto di Dio con l'anima e nella salutare potenza del dolorerinascevano. Si coperse il viso colle mani e si sovvenne di un'ora triste in cuiaperta la Bibbia a casovi aveva letto: Infirmatus est usque ad mortemsed Deus misertus est eius. Quanta consolazionequanta energia di vita in questo pensiero! Immagini di un futuro migliore gli sorgevano spontanee nella mente ed egli le combattevatemendo illudersiprepararsi disinganni più amari. Entrareper punirsinella manifattura de' suoi parentidare il giorno al lavoro più ingratola notte agli studipoter dire a quella persona «sono ancor degno ch'ella mi porti nell'intimo del suo cuore!»
Queste immagini suscitavano dentro di lui una burrasca simile a quella che flagellava i tetti e le mura del palazzo. Lì pioveva ancorama le scogliere dell'Alpe dei Fiori nereggiavano sul cielo bianconitidespazzate dal vento del nord che copriva pure le altre cime di fragoreinfuriavavolendo sereno.
6 Sereno
«Ecco l'agave che volevo farle vedere» disse don Innocenzo a Steinegge. «Bella eh?»
Era lì a godersi il solesuperba e tristenel mezzo di un gran pietrone grigiofra due brevi quinte di bosco. In alto fra il ciglio del pietrone e il cielo azzurromagri arbusti si divincolavano ridendo nel vento trionfante che saltava sopra il valloncellosibilava giù nel frutteto di don Innocenzosul tetto della canonicasi spandeva nei prati a ondate. Ciuffi di rovi penzolavano dalle fessure del sassolunghe e torte frange d'edera ascendevano dalle sue radici affondate nell'erba che brillava ancora di pioggia. Quel mostruoso scoglio mezzo nudotanto amato dall'ederetanto paziente dei roviera la vitala parolala passione del paesaggio. Don Innocenzo aveva fatto portar lì un sedile rustico e vi passava delle ore a leggerea pensare.
«Ci ha un che di meridionalequell'agavenon è vero? Vedeio ci vengo spesso quicon un libro e con i miei pensierirespiro in quest'aria una innocenza che purifica il cuore. Ne ho bisogno perché sono astiosorabbiosoforse anche malignoambizioso: noambizioso noma avaro forse: qualche volta mi par d'essere avarodi affannarmi troppo per certe miserie d'interessi. Senta che mi confesso a Lei. Mi assolveràpoi? Io parlo intantoperché mi fa bene; e Lei poi faccia quel che crede. Dunquequando vedo campi coltivatisento tanta gente fra Dio e me; qui non ci sento più nessuno e parlo col Signore da solo a solopiù volentieri perché si tratta di guai tutti miei propri. Ne avrà anche Leigiàdi questi momenti. Non ha mai niente che La inquieti?»
Steinegge confisse d'un colpo il bastone in terra.
«Ohche cieco!» diss'egli. «Che stupido sono stato! Non aver capito niente! Non aver sospettato di niente! Credete ch'ell'avesse molta inclinazione per lui?»
«Oh nonon moltissimasperoma via!» disse don Innocenzomortificato della poca attenzione ottenuta dal suo discorso. «Si calmi. Non mi faccia pentire di averle raccontato tutto. Ho parlato per impedire che Lei domandasse spiegazioni alla signorina Edith di quel discorso del signor Silla. La signorina non deve conoscerlo: ne avrebbe troppo dispiacere. Del resto è forse meglio cosìanzi diciamo addirittura; è meglio così. Ha visto che uomo eraquesto signor Silla?»
«Che uomo era? No; cosa voletelo amavo tanto! Non posso ancora giudicarlo come Voi.»
Si percosse la fronte come se volesse stritolarvisi dentro tante idee penose.
«Per me!» diss'egli «per me! Io bacerei di gratitudine il posto dove ella mette i piedi e dopo le direi "calpestatemi perché io non capisco". Non sapetesignor curatoche mi è troppo aver tutto il cuore di Edithche io ne sento rimorsoqualche voltacome di un grande egoismoe che sarei felice di un matrimonio così; perché poi io sono vecchio e c'è anche altre cose da pensare!»
«Venga» disse don Innocenzocommossopigliando Steinegge pel braccio e conducendolo al sedile rustico «fermiamoci quipensiamocerchiamo quali ragioni può aver avuto Sua figlia.»
Steinegge si fermò su' due pieditemendo qualche rivelazione impreveduta.
«Cosa?» diss'egli.
«Vengavengasieda qui.»
Don Innocenzo non trovava la prima parolastringeva convulsamente una mano con l'altrasuggeva l'ariasecondo il suo solitoper le labbra serrate.
«Si sarebbe mai accorto» cominciò finalmente «di qualche preoccupazionedi qualche angustia nell'animo di Sua figlia?»
Steinegge trasalì.
«Denaro?» diss'egli.
«Nono.»
Uno sgomento angoscioso contrasse il viso del povero uomo mentre diceva:
«Salute?»
«Nono. Senta. Potrebbe darsi che Sua figlia volesse pensare a Lei solooccuparsi di Lei solovivere insomma per lei solofino a che Ellaamico mioottimo e carissimo amico mio...»
Don Innocenzo gli preseparlandouna mano.
«...intendesse quale sia quest'angustia segreta che c'èlo sonel cuore della signora Edithpovera signorina.»
«Lo sa!» disse Steineggepallidostringendo forte la mano del preteguardandolo a bocca aperta.
«Metta che io non sia prete» continuò il curato. «Adesso non sono pretesono un amico. Va bene? Mi ascolterà come un buon amico?»
Steinegge accennò di sì con la testaimpetuosamentesenza poter parlare.
«Beneviabravo. DicaElla ha sofferto moltonon è veronella vita? È stato perseguitatocalunniatonon è vero? e specialmente da persone che portano quest'abito? Sìlo dica pure francamente. Crede che non ne conoscaiode' preti furfanti? Dunque Lei ne ha concepito un grande aborrimento contro tutti... Noglielo credocontro di me no; ma è un'eccezione. Ha concepito poi anche un gran dispregio per altra cosa infinitamente superiore a questi preti miserabiliper la Parola di cui dovrebbero essere custodi e ministri. Mi lasci direLei parlerà dopo. Credo benissimo che dopo la venuta della signora Edith Ella si sia molto avvicinato alla Parola; come non sarebbe? Deve averne provatostando con Sua figliail calore e la luce: ma finoratra le opere della signorina Edith e le Sue in questo argomento della religionequale somiglianza c'è? Nessunanon è vero? Ella non può dire di essere un cattolico e forse neanche un cristiano. Ora la signorina Edith crededeve credere che se Lei non si sottomette di cuore e di fatto alla ChiesaLoro non potranno poi aver parte insieme nella Risurrezione e nella Vita. Ecco il segreto doloroso. Tutto il cuoretutti i pensieri di Sua figlia sono qui. Vuol vivere per quest'opera sola; sono certo che cerca il sacrificio di se stessa; che vi assapora una contentezza particolareuna vena nuova di speranza. Lei può andar superbo d'essere amato così. La signorina confida in Dio per toccare il suo sogno; comprende? Non vuol dirle: "se mi ami fa questo". Mai! Vuole che le loro due anime vivano chiuse una nell'altrain comunicazione continuaonde poco a pocoinavvertitamenteogni giornoogni momentola Fede possa entrare in Leiamico mio. Forse non dovevo dirle questo.»
«Oh!» esclamò Steinegge con voce soffocataprotestando.
«Forse non dovevono; ma adesso quando Lei ha detto "non capisco" mi si è mosso dentro qualche cosa che ha mandato sossopra la mia prudenza; ho pensato: qui bisogna parlarebisogna fargli sapereun sacrificio così ha da essere apprezzatonon gli parlerò come pretema come amico. E come prete non Le parlo; Le dico solo che io non avrei mai consigliato questo sacrificioe che ho venerazione per Sua figlia.»
Steinegge si buttò indietro il cappello sulla nuca e giunse le manile scosse nervosamente guardando il cielo; poi se ne coperse il visoappoggiò i gomiti alle ginocchia.
«Avevo capito» mormorò «la prima sera... ma poi adesso... credevo che fosse contenta...»
Don Innocenzo si chinò a raccogliere le parole inintelligibili.
«Cosa?» diss'egli affettuosamente.
«Credevo che fosse contenta» ripeté l'altro senza toglier le mani dal viso. «Adesso prego con lei... vado anche in chiesa... ho perdonato a tutticredevo che bastasse.»
Il curato fu per buttargli le braccia al collo e dirgli: "Sìva in paceper tepovero tribolatoper tesemplice e umile cuorebasta. Tu sei come un figliuolo mandato da suo padre nel mondo a lavorarecheferitoperseguitato da' suoi compagnitorna senza aver appreso né guadagnato nulla verso la casa paternabatte piangendo alla porta che i servi gli han chiusa in faccia come a un indegno. Suo padre ha vedutoha saputo tutto; ma non vuoisanto Dioche lo raccolga e lo consoli?". Fu per dirgli cosìma si guardò l'abito e si trattennemordendosi le labbra; si strinse le parole nel cuore gonfio.
Steineggeimprovvisamentescattò in piedi.
«Andiamo da leiamico mio» diss'egli «andiamo da lei subito. Io farò tuttoandiamo subito.»
«No no no» rispose don Innocenzo. «Non accetterebbe un atto compiuto per amor suo e non per convinzione. Ci pensinon parli alla signorina del nostro colloquio d'oggipoiché mi dice che pregapreghidomandi a Dio una parola nel cuore e se questa parola vieneallora sìallora dica pure a Sua figlia: "Sappiho pensatoho pregato e credo". Prima no. E adesso mi permetta di tornare pretedi dirle: «son qua tutto per Lei: parleremoleggeremodiscuteremo... diremo male dei pretise vuole!»
Don Innocenzo aggiunse sorridendo queste paroleperché gli pareva di veder Steinegge incerto.
«Scusate» disse questi «scusate moltoamico mio; noi non leggeremo e non discuteremo. So che i Vostri ragionamenti mi farebbero maleperché io ho uditi e letti nella mia vita troppi ragionamenti su queste cose della religionebenché io non sono filosofo né letterato. Io temerei udire da Voi argomenti uditi ancorami capite? argomenti che io ho inteso mettere in polvere altre volte e che mi farebbero cadere il cuore comescusate molto la mia franchezzase Vi vedessi armato di carta pesta. Io credo che avrei migliore impressione da una critica come ho letto pochi giorni sono in un libro tedesco recentissimoun libro di un tale Hartmannmolto empio per Voidove si dice che il cristianesimo finirà come ha cominciatoder letzte Trostl'ultimo conforto dei poveri e degli afflitti. Questo mi ha colpito come una gran luce sulla Vostra fede. Notate che secondo lo scrittore tutto il genere umano dovrà un giorno trovarsi afflitto dalla vanità delle cose e della vita. D'altra parte Voi non potete avere ragionamenti che prendano gli uomini come tenaglie. Voi terreste il mondo in pugnoVoi avreste il pensiero per Voi e le passioni contro di Voi. Ma è il contrario che succede; Voi avete molto più gente di passione che gente di pensieromolte più donne che uominipiù popolo che intelligenze. Noquello che potete prendere è il cuorecredo: quando avete preso il cuore e lo tirate a Voibisogna bene che tutto l'uomo venga. Così sta per accadere a meperché il mio cuore non è in mio potere. Anche Voiamico mio ne avete una parte: anziposso dirvi una cosa? la Vostra facciache io amocosì buona sopra il vostro abitoè un molto più forte argomento per me che tutta la Vostra teologia.»
Pronunciando la parola "teologia" Steinegge arricciò il naso come se fiutasse qualche putredine.
«Che spropositi!» disse don Innocenzo con le sopracciglia aggrottate e la bocca ridente.
«Non spropositino!»
«Spropositispropositi. Non è vero che non abbiamo argomenti. Naturalmente una fede religiosa fondata sul misteronon si può dimostrare con argomenti logici che stringano come tenaglie. Non si può trattare questo problema come i problemi di geometria; ma vi ha pure un procedimento che porta avanti verso il misteroun procedimento assai più rapido e potente del Vostro gottoso procedimento logico che dopo tuttocaro Steineggenon ha mai trovato da sé solo niente di molto grande. Vedeprendiamo pure la distinzione triviale della mente e del cuore; diciamo invece se vuolel'intelligenza e l'amoree ricordiamoci che non son mica due parti dello spirito. Vi è forse un pezzo di sole che scalda e un altro che splende? Bene. Loro signori filosofiquando cercano la veritàdicono: noi abbiamo queste due gambeuna delle quali fa passi e slanci smisurati e sarebbe anche capace di saltare qualche ampia fenditura della via. Noi non vogliamo correre questo pericolonoi vogliamo sentirci sempre la terra sotto i piedi. Noi non la terremo in freno questa gamba sinistraquesta gamba sentimentalenon la riporteremo al bisogno indietro appoggiandoci sull'altranoma ce la taglieremo via senz'altro e andremo con una gamba solaadaginosin dove potremo. E così fannocaro amico; vanno a conquistar il cielo e la terra con una gamba solae lo chiamano positivismo. E questa gente guiderà il mondo? Male lo guiderà.»
Don Innocenzo si alzò in piediinfuocato in visocon gli occhi pieni di lucebello.
«Io poi Le dico» proseguì più calmo «che il pensiero umano non puònon deve occuparsi di ricerche religiose senza una preparazione morale. Senza cuor puro nessuna visione delle profondità di Dio. Bisogna che lo strumento di ricercail pensierosia ben predisposto; che abbiastia attentotutta la sua originale potenza di tendere al beneai principii del bene che sono poi anche i principii del vero. Ogni passionea cominciare dall'orgogliodetermina un movimento diversoaltera quella tendenza; e alloradove si va? Lo vediamo dove si va. Ecco perché l'insegnamento morale ha preceduto nella nostra religione l'insegnamento dogmatico. Ed ecco il primo grande aiuto del cuore nella indagine religiosa: ne determina la direzione dal punto di partenza. Partite con l'orgogliocon la sensualità; andrete logicamente verso la negazioneil nullail maleperché vi è una terribile strada logica che conduce là. Partite con il cuore puro e anchediròcon le opere pureaccordo necessarioe andrete verso il vero. Ma come? Con la logica sola? No. Con il cuorecon il sentimento solo? Ma neppureno certo; con tutte le facoltà dell'animacon la ragionecon la immaginazionecon l'amore. Parlosaoradei mezzi umani di ricercalascio da parte la grazia. Non si tratta d'indurre né di dedurrema di slanciare grandi ipotesi davanti a noi. Ci vuole fantasia per questocalore e purezza di sentimentoci vuole sopra tutto la facoltà più sublime dell'anima nostrache non so come venga spiegata dai razionalistila facoltà d'intravvedere per subitanei chiarori interni...»
«Io non ho questa cosa» disse Steinegge.
«D'intravvedere idee superiori alla potenza ordinaria della mente in cui sorgonosorprendenti per lei stessa. Allora comincia intorno a questa ipotesi il paziente lavoro logico della ragione per veder se combaciano con le verità note e tra loroper modificarleabbandonarle ove occorra. Certo neppur con questo procedimento si spiegano i misterima si ottiene però qualche volta il risultato mirabile d'indicarli dove la Rivelazione ci dice che realmente sonopresso a poco come quel pianeta indicato da un astronomo là dove poi fu visto. E allora sopravviene la fedese non è giunta prima. So cosa rispondono i suoi razionalisti.»
«Ooh!» disse Steinegge come per iscusarsi.
Un veemente soffio calò stridendo sui rovi del sassomise nel bosco una follìa freneticauno strepito che impediva di udire le parole. Don Innocenzo sempre acceso in visonon potendo parlarescoteva l'indice teso verso Steineggeintendendo di dire che la risposta dei razionalisti non valeva nulla; poi alzò la testaquasi a guardar in faccia quel diavolo di vento saltato senza riguardo in mezzo alla discussione per soffocarvi le buone ragionicome un gran chiasso e un voto di volgo sovrano. Appena potéproseguì a parlare.
«I razionalisti rispondono che questo modo di argomentare può essere buono per chi lo adoperama non prova nullanon può servire a stabilire la verità. Stoltezza. Per essi non può servireche sono induriti nel loro gretto sistema impotenteper altri sì. Noi parleremo e leggeremocaro amico. Io spero di arrivare a persuaderlacon l'aiuto di Dioche vi è una bellezza nella verità in cui si commuove e si appaganon il cuore soloma tutta l'anima umana; una bellezza che noi possiamo vedere solamente in ombra e per immaginema con qual divino piacere! Vederesia pure in confusogli occulti accordile convergenze fra il creato e l'increatoper esempio fra i misteri più eccelsi della Divinità e i misteri più reconditi delle anime! Meditiamo e contempliamo insiemesì. E adesso basta; non Le dico altro.»
«Caro amico» rispose Steinegge sospirando «può essere che Voi parlate molto benema Voi non conoscete me. Questo che mi proponete sarebbe assai buono per un giovaneil quale sente bisogno di muovere il suo pensieroha una grande curiosità di mente e si compiace più di aver fatto da sé una piccola scoperta con travaglioche di aver comodamente preso molto sapere preparato sul suo tavolo. Ohio ho conosciuto e un poco sono stato anch'io così una volta. Adesso io sono un vecchio stanco; io ho la testa piena di opinioni contro di Voiche forse non sono giuste perché gli uomini e i libri dai quali le ho prese non valevano forse moltoma che non potrei mandar fuori con ragionamenti perché non ho la forza. Io devo dire il veroche alcune sono già partite da quando mia figlia è con me; io non so come sono partite; per ragionamenti no certo. Potrò dividermi amichevolmente anche dalle altrepotrò dir loro: taceteperché mia figlia vuole; tacete interamentequando io dirò questo e quando io farò quest'altroperché non vi posso scacciarema sono risoluto a non ascoltarvi. Forse alloracol tempopartiranno anche sole. Permetteteamico mio; io credo che avrò molta maggiore compiacenza facendo cosìche se Voi mi persuadeste con dimostrazioni. Cosa posso io dare a Edith se non do questo? Cosa posso io lasciare a mia figlia quando muoiose non le lascio una memoria interamente dolceinteramente cara? Guardatenon mi è mai passato per la mentequando vedeva Edith andare a confessarsiche sarei diviso da Lei nell'altra vitaperché non andava anch'io a inginocchiarmi davanti a un prete: è quello che più mi ripugnama se Edith lo desidera...! Ohma comecome mi ha nascosto questo!»
Alzò le mani giunte al cielole scosse nervosamente.
«La prima serasìm'era venuto in mente e anche il mattino dopoquando l'ho accompagnata a Messaqui nella Vostra chiesa: ma poi ella era sempre così affettuosacosì tenera con me! Mi parlava spesso di religionema solo raccontando i suoi pensierii suoi sentimenticome se questa cosa riguardasse lei e non me. Io ascoltava con gran piacerecome Voi che siete Italiano e volete restare italiano ascoltereste mia figliase vi parlasse del nostro mondo tedescodella nostra poesia e della nostra musica. Quando ho cominciato a venire in chiesaa pregare con leigodeva sìma pareva quasi temere che io mi tediassiche io facessi per compiacere a lei. Solo di una cosa mi pregava con passione: ch'io perdonassi.»
«E ha perdonato?» disse don Innocenzo.
«Io ho fatto i più grandi sforzi» rispose Steinegge commovendosi. «Io honon perdonatodimenticato quelli che hanno fatto male a me; e anche per gli altri...» La voce gli morì in gola soffocata. «Ho fatto quel che ho potuto» diss'egli.
Don Innocenzopure commossotacque. Forse la coscienza lo accusava di ricordare con soverchio sdegnoegli pretecerte offese troppo men gravi di quelle patite dal povero Steineggecristiano senza saperlopiù cristiano di lui.
Il vento parlava per le macchieper i capi frondosi degli alberi: lo si vedeva correre sul velluto dell'erbacangiarne il verde.
«Bel tempo!» disse Steineggelottando ancora con l'emozione.
«Bello» rispose il curato.
Steinegge stette un po' silenziosopoi abbracciò appassionatamente don Innocenzolo baciò sulla spallagli disse con voce inintelligibile:
«Andiamo da Edith.»
«Benema non gliene parli per adessoaspetti e poi mostri che la Sua risoluzione è spontanea.»
Steineggeper tutta rispostaprese il braccio del suo interlocutoreglielo strinse forte e si pose in cammino.
Fatti pochi passiudirono Marta che gridava in su dall'orto della canonica. «Ohsignor curato! Ohsignor curato!» C'era della gente nell'ortouomini e donne. Don Innocenzo sorpresoaffrettò il passo.
V'erano la Giuntail presidente della Congregazione di Carità e il capitano della guardia nazionale venuti per parlare al curato delle esequie del conte che dovevano seguire l'indomani mattina. Era corsa voce di grossi legati ai poveri del paese. Il capitanoun ex garibaldino barbutoaveva prese informazioni dirette al Palazzo. C'erano infatti 70.000 lire per un asilo d'infanzia e 30.000 lire per tre doti annue alle ragazze povere del paese. Il capitano avea subito fatto il suo programma di onoranze funebri al generoso testatore e intontitone il sindaco e il presidente della Congregazione di Caritàchiamandoli con amichevole compatimento "gran villanacci p..." perché essi imbarazzati e non avendo la menoma idea di "quel che si fa adesso"come diceva luiesitavanosi guardavano in facciabrontolavano che non erano pratici che la era "pazzia" buttar via dei denari per un morto che finalmentediceva il sindacoal Comunepropriamente al Comunenon aveva lasciato nulla. Per movere quei due fossili il capitano avea dato fuoco all'opinione pubblicali avea portati con un gruppo di amici suoi dal curatoa domandarne l'autorevole parere. Costoro attorniavano don Innocenzoparlandogli tutti in una voltagridandosi l'un l'altro di tacerediscutendo un guazzabuglio di progetti e di emendamenti. Guardia nazionalepiccola tenutaalta tenutauna salvatre salvemusica del tal paesemusica del tal altrodiscorso in chiesadiscorso al cimitero. Don Innocenzo ottenne a stento che si chetassero e lo seguissero in casa. Allora si fecero avanti cinque o sei ragazzele più briose civettuole del paeseche avevano prima assalita Marta e ora affrontarono il signor curatorosserossecon gli occhi ancor lucidi di riso. Venivano a nome delle ragazze del paesea domandar fiori da farne ghirlande pel feretro del loro benefattore. Marta aveva dato loro un rabbuffoaveva detto ch'erano "sfacciatone" di venir lì dal curato a portar via fiorimagari per metterseli in testa o per donarli a quel mucchio di amorosi che avean sempre alle sottane. Una delle ragazze le aveva risposto per le rime tra le risate della compagnia. Il curato non badò alle occhiatacce né ai borbottamenti di Martaabbandonò senza difesa i suoi poveri fiori.
Steinegge era impaziente di vedere Edithnon per parlarlema per leggere attraverso quel visoper assaporare meglio la compiacenza segreta di aver in cuore una buonainsperata notizia da confidarle alla prima occasione; prestosenza dubbio. Ella non era nell'orto. Steinegge si congedò con profonde scappellate dalle autorità e corse su nella camera di sua figlia.
Non era neppur lì. C'erano però sul letto il suo cappellinoi guanti e un piccolo album. Steinegge l'apersevide uno schizzo preso dalla riva del lagosotto i pioppi. Riconobbe subito i denti pittoreschi dell'Alpe dei Fioriquelle stesse cime che otto mesi primacoperte di nuvoloni minacciosiavean fatto dire a Edith: andiamo nella tragedia. La disegnatrice avea scritto in un angolo «Am Aarensee». A Steinegge venne subito in mente la canzone malinconica:
Ach tief im Herzen da sitzt ihr Weh
Das weiss nur der vielgrüne Wald.
Il paesaggio mortofreddoa luci di neve e ombre di piomboricordava più lo spirito afflitto che il bosco verde. Steinegge si accoròsentì confusamente che il male doveva essere più profondo di quanto gli avesse detto don Innocenzo. Dov'era dunque Edith? Perché non poteva egli porgerle subito almeno una consolazionealmeno il premio del sacrificio ch'ella aveva compiuto? Il chiasso che si faceva in salotto e nell'ortole voci rozze dei contadinile risa spensierate delle ragazze lo irritavano. Se Edith udisse tutto quello strepitocome si sentirebbe amaramente sola! Gli parve di udir camminare nell'ortoe andò alla finestra. Era Edithuscita dal salotto dove stava apparecchiando la tavola prima che entrasse il curato con le autorità. Steinegge la rimproverò amorosamente di stare al sole senza ombrellinovolle portarglielo malgrado le sue proteste; ma sceso nell'ortonon la vide più. La cercò in casanon v'era; finalmente la scoperse presso il cancello dell'orto che parlava con le ragazze affaccendate a spogliare i rosai. Non la chiamò ne le portò l'ombrellinotemendo riuscire importunofigurandosi che non amasse ora trovarsi con lui.
Si ritirò dietro l'angolo della casa per non farsi nemmeno vedere da sua figlia. Gli parveguardando l'orizzonte lontanoche sarebbe andato via per sempreavrebbe rinunciato a Edith pur di tornare indietro a quel momento in cui Silla avea portato il suo libro. Sìsìcome ricordava adesso le proteste appassionate di lei! E dire che tanto maletanto dolore veniva dalla cecità suadal non aver egli mai capito l'angustia segreta di sua figlia!
Intanto nel salotto si giunse a un accordo. Le voci si chetaronosi abbassaronoil curato e gli altri uscirono nell'orto discorrendo tranquillamente.
«Niente di meglio» diceva don Innocenzosoddisfattoguardando Steinegge.
«Ma!» rispose il capitano «a me l'ha proprio detto il signor commendatore Vezza. Io non gli domandavo niente; mi disse lui che stasera il signor Silla va via e che non bisogna credere a tutte le chiacchiere.»
«Oh!» esclamò Steinegge con due occhi scintillanti di lieta sorpresa. «Perdonate se io entro nei vostri discorsi. Come vi ha detto veramente il signor Vezza?»
Il capitano ripeté quanto aveva detto primasoggiunse poi quel che sapeva dello stato di Marina. Seguirono i commenti degli uditoriciascuno dei quali aveva un'ipotesi diversa.
Edith avea messo un po' di soggezione alle ragazze turbolente. Le raccontarono che il signor capitano aveva suggerito di far venire la ghirlanda da Como o da Milanoma che loro avean voluto fiori del paese. L'armatura della ghirlanda si stava già preparando; quanto a' fiorinon avevano ancora pensato come li disporrebbero. Edith consigliò un intreccio di frondi d'ulivo e di rose bianche con una croce di viole. Volle coglier le rose ella stessa perché le povere piante non fossero straziate e i bottoni sciupati senza necessità. Udiva gli altri parlareeimmaginando che parlassero del Palazzosi pungeva le mani senza avvedersenetagliava gli steli o troppo lunghi o troppo corti. Era tanto pallida che le ragazze credettero si sentisse male e la pregarono di smettere. Ella confessò d'avere un po' di mal di capoma non volle smettere temendo esser chiamata da suo padreavere a restar sola con lui e non sapergli nascondere il suo turbamento. Sopraggiunsero gli uominila salutaronosi fermarono a guardare i fioria chiacchierare con le ragazze della loro fortunadei tanti matrimoni che si farebbero quind'innanzi in paese. Steinegge era rimasto indietro. Edith lo vide. Egli pareva impaziente che il crocchio si sciogliesse. Camminava in su e in giùdava un'occhiata ogni tanto alla gente che aveva preso radicefra i rosai. Anche Marta venne a guardar dall'angolo della casafacendosi schermo agli occhi con la sinistra. Ella disse poi qualche cosa a Steineggeil quale accennò a Edith di veniree le andò incontro porgendole l'ombrellino aperto. La rimproverò di volersi pigliare per forza un mal di capo e le disse scherzosamente ch'era in collera con lei perché quella mattina lo aveva abbandonato ed era corsa via come una farfallina capricciosa. Dove mai avea svolazzato la signorina? Già si saran fatte delle imprudenzesi sarà andati in qualche luogo pericolosovicino a qualche acqua infidapiena di malinconieper raccogliervi canzonette gittate via mesi addietro.
«Ohpapà» disse Edith «non va beneprima di tutto andar a guardare nel mio albume poi non va bene far certe supposizioni. Le ho lasciate dove sonoiole malinconie; nel lagonell'Aarensee. E della canzonettalì sulla rivanon ho trovato che il titolo. Quello non fa male. E poi non ti ricordi come abbiamo riso l'anno scorso? Lo finirò quello schizzo e ci metterò Leisignoreche corre poco rispettosamente dietro sua figliacon l'ombrello sotto il braccio. Vorrei poterci mettere anche quelle risate.»
«Ne metteremo delle altre» disse Steinegge. «Vedi questo solequesto verdequesto vento se non è tutta una grande risata! Pensa se noi fossimo a Milano! È giovinezza che si beve qui. Non vogliamo camminareoggi. Sei stanca?»
«Nopapà; ma dove vuoi andare?»
«Cosìa passeggio. Signora Marta! Signora Marta! Posso io domandare quando si pranza?»
«Alle tre» gridò Marta dalla cucina.
«Allora possiamo andareper esempiofino alla cartiera.»
«Bravibravi! Vengo anch'io» disse don Innocenzoche avea congedato allora allora tutta la brigata. «Devo parlare all'ingegnere direttore dei lavori.»
Edith salì alla sua camera per il cappellino e i guanti. Quando ridiscesesuo padre ed il curatoche parlavano insiemes'interruppero. Ella vide loro in viso una contentezza nuovasi fermòinterrogandoli con lo sguardo.
«Andiamo! Presto!» disse Steineggee dimentico questa volta delle solite cerimonies'incamminò per il primo.
Don Innocenzo colse il destro di sussurrare a Edith: «Non c'è più niente tra quei due: egli parte stasera». Edith aperse la bocca per domandare qualche cosama suo padre si voltò a chiamarla e anche Marta gridava dalla cucina: «Facciano presto che non hanno mica tanto tempo!».
Edith non ebbe più modo di domandare spiegazioni. Solo all'uscir dal cancello il curato le gittò nell'orecchio altre due parole. «Forse il Suo biglietto!» «Il mio?...» rispose Edith. Don Innocenzo fe' cenno di sì e andò a prendere il braccio di Steinegge.
Edithtrasalì. Il curato non le aveva detto che il suo biglietto era stato consegnato. Come maidopo quei fatti? Anche questa partenza di Silla era ella una fortuna così grande? Non veniva dopo mali irreparabili? Sìma però era un benesenza dubbio. Pazienzapensavase il suo biglietto aveva fatto del benepazienza essersi posta senza saperlofra così turpi intrighiaver parlato meglio che amichevolmente a chi se n'era reso indegno. Vi si rassegnavaringraziava Dioche si fosse servito di lei per un atto di misericordia. Ma sentiva in pari tempo che il sacrificio proprio sarebbe diventato in avvenire più difficiletormentosoche quest'uomo avrebbe tentato riavvicinarsi a leidiscolparsi de' suoi errori. E allora? Allora la lotta sarebbe ricominciata nell'animo suoquanto fiera! Perché se a Milano avea sperato esser tocca nella immaginazione soltanto e s'era studiata di convincersene con un attento e forse imprudente esame di se stessaadesso non s'illudeva più: era il cuore che mandava sangue.
«Edith!» chiamò suo padre perch'ella era rimasta qualche passo indietro.
Ella alzò gli occhilo vide a braccio del curatoun lampo di speranza le attraversò l'anima. Balzò a fianco di suo padre.
«Eccomi» disse.
Entravano allora nella strada nuova che spiccandosi dal villaggio recideva i prati sino al fiume: una brutta cicatrice a vederla dall'altocome di qualche gran fendente calato sul verde: biancadrittafra due righe di pioppi nanisottili. Piacevole passeggioperò. Era voluttuoso mettersi per quell'ampio mar verdemorbidomagnifico nel suo disordine di fioripotente nell'odor di vita che ne salivanelle ondate d'erba che slanciava da destra e da manca ad assalir l'argine della stradaad ascenderlo per ricongiungere un giorno sopra di esso la sua pompai suoi amori eterni. I piccoli pioppi si movevano al vento; qualche grossa nube bianca vagava pel cieloe l'ombre ne correano sui pratisulla celeste lama scintillante del lagola tingeano di viola.
«È magnifico tutto questo verde» disse Steinegge guardandosi in giro. «Pare di essere in fondo a una tazza di Reno.»
«Vuota» osservò don Innocenzo.
«Ohquesta è un'idea tristenon affatto necessaria. Vi è pure in questa tazzache Voi dite vuotauna fragranzauno spirito che exhilarat corche rischiara il cervellonon è vero? Io mi meraviglio di Voi: io sono molto spiritualista adessoamico miosono capace di trovare che l'acqua del fiume dove andiamobevuta lì sulla riva sotto quei grandi pioppicontiene soleha un sapore di primavera ilare che inebbria meglio del Johannisberg.»
«Si voltino» disse don Innocenzo «guardino la mia casetta come sta bene.»
Stava bene infatti la piccola casettaal di sopra delle altre e in dispartebianca sotto il suo tetto inclinato.
«Pare che ci guardi anche lei» osservò Edith «e ci sorrida come una buona nonnina che non si può muovere.»
«Oh» esclamò Steinegge «io sarei felice di viver qui.»
«E iopapa? Pare di sentirsi voler bene da tuttoqui. A Leisignor curatoci trovi un nido.»
«C'è il mio» diss'egli. «Bravivengano a stare col vecchio prete. Perché no? Non sarebbe una bella cosa? Non starebbero bene in casa mia? Mi par che Marta s'ingegni abbastanzanon è vero?»
Edith sorridevasuo padre si confondeva in esclamazioni e proteste di gratitudine.
«Nono» disse Edith. «Primaè una cosa impossibile per noi lasciar Milanoe poi così non andrebbe. Ci vorrebbe un'altra casettina.»
«Veramente? Lei starebbe quiper semprein questa solitudine?»
Edith rispose con gli occhi gravimeravigliati. Don Innocenzo ammutolì.
«Non sarebbe il solo tesoro sepolto in questo paese» disse Steinegge volgendosi al curato con un gesto ossequioso.
Don Innocenzo si schermìarrossendo e ridendodall'incensata.
«Anche Lei ci sarebbenon è vero?» diss'egli.
«Oh noio sarei qui un tegame preistorico. Io vi starei molto benema mia figlia non deveoh no!»
«Perché maipapà?»
Egli rispose impetuosamente in tedescocome faceva sempre nel bollore dell'affetto o dello sdegno. Si voltò quindi a don Innocenzo senz'aspettare la replica di Edith.
«Non è vero» diss'egli «che questo paese non è per una giovane signorinaa meno che non fosse una Nixe?»
«Una Nixe? Chi sa?» disse Edith. «Amo le acque limpidei pratii boschi...»
«Oh sìma io non credo che le Nixen amino anche dei brutti vecchi gialli come me e vadano a spasso col signor curato. Sai cosa vedo io adesso nella mia fantasia?»
Il bizzarro uomo si fermòallargando le braccia e chiudendo gli occhi.
«Vedo il molto onorevole signor Andreas Gotthold Steinegge che ha i capelli un poco più bianchi di adesso e sta in casa del suo carissimo amico qui vicinoil quale non ha affatto più capelli. Io vedo questo signore tedesco che tiene un giornale in mano e sta fortemente discutendo sulla questione dello Schleswig-Holstein con il suo amico il quale gli fa portare... un ditoun solo di Valtellina per mandar giù il duca di Augustemburg. Eh? Non è questo?»
Aperse gli occhi un momento per guardar don Innocenzo che rideva e tornò a chiuderli.
«E adesso vedo... Ohcosa vedo? Una giovane Nixe vestita da viaggio che entra in salotto come una stella cadenteabbraccia il vecchio gufo tedesco e dice che è venuta a passare due giorni fra le acque limpidei pratii boschi. "Sola?" dice il gufo. Allora questa Nixe fa un piccolo gesto con un piccolo dito che io conosco...»
Steinegge aperse gli occhiprese la mano di Edith per baciarla; ma Edith la ritrasse in fretta ed eglilasciatalafece quattro gran passi avanti ridendoe si voltò a guardarla.
«Non è una bella visione?» diss'egli.
Edith tardò un momento a rispondere. Non sapeva che pensare. C'era in quel discorso di suo padre una occulta intenzioneun proposito deliberato?
«Dunque sei stanco di me?» diss'ella. «Vuoi viver solo?»
«Come solo?» esclamò don Innocenzo. «Non sente che vivrebbe con me?»
«Io sono stancomolto stanco di te» rispose Steinegge «ma non vorrei vivere solo. Verrei a riposarmi della tua compagniaqui con il signor curatoper qualche mese dell'anno. Vediio non scherzo più adessoio avrei bisogno di stare moltomolto tempo qui con il signor curato.»
Edith guardò quest'ultimo. Era egli entrato nel grande argomento? Si avviavan bene le cose? Il curato guardava con attenzione un baroccio che veniva dalla cartierafaticosamentesulla strada male assodata.
«Noi vogliamo cercare una pietra filosofale» continuò Steinegge «una pietra che cangi in oro tutto quello che è bruttoscuro fuori di noiemolto piùdentro di noi.»
«E la si trova quiquesta pietra preziosa?» disse Edithpalpitando.
«Io non soio spero.»
«E perché non la cercherei anch'io con voi?»
«Perché non ne hai bisognoperché non vogliamo.»
«Ma cosa ne farai di mepapà?»
«Ohnon si sa ancora.»
A queste punto sopraggiunse il baroccio e divise Edith da' suoi due compagni. Don Innocenzo si accostò rapidamente a Steinegge e gli disse all'orecchio:
«Non vada troppo avanti.»
«Non posso» rispose l'altro.
Il barroccio passò.
Erano giunti presso al fiume dove la strada faceva un gomitoscendeva per la sponda destralungo i grandi pioppifino alla cartiera.
«Lei va» disse Steinegge al curato. «Noi L'aspetteremo qui.»
Scese con sua figlia dal ciglio della strada sul pendìo erbososino all'ombra d'un macigno enorme ch'entrava dritto nel fiume. Erano un delizioso poema le acque verdi e pureun poema popolare anticodi quelli che l'ingenuo cuore umanotroppo pieno di amore e di fantasieversava. Passavano tra i margini sassosi o fioritisaltandoridendocantandoserene sino al fondo scabro. Blandivan l'erbemordevano i sassi; anche dal filo della corrente venivan su tratto tratto de' fremiti appassionatisi spandevano in leggere spume. A tante voci rispondeva dall'alto il gaio stormire de' pioppi appuntati al cielo di zaffiro.
«Ah» disse Steinegge.
So viel der Mai auch Blumlein beut
Zu Trost und Augenweide...
Edith lo interruppe:
«Perchépapàmi hai detto quella cosa?»
«Quale?»
«Che vorresti un giorno esser diviso da me.»
«Oh nonon diviso. Solamente io verrei a passare qualche tempo qui. Mai diviso. In niente diviso. Capisci? In niente.»
Disse quest'ultime parole sottovoceprendendole ambedue le mani.
«Sìio penso ora per la prima volta che non dobbiamo più esser divisi in qualche cosa qui dentro.»
Si strinse quelle mani sul cuore.
Le labbrale nari di Edith si contrassero; le si strinse la gola. Egli la trasse giù senza parlare a sedere sull'erbasedette accanto a lei.
«Io non posso» diss'egliquasi parlando a se stesso. «Ho il petto pieno di questa cosa. È veroEdithnoi non siamo stati bene uniti mai. Ti ricordi la sera che sei venutaquando io entrai in camera e tu pregavi alla finestra? Che angoscia fu per me allora! Io pensai che non mi avresti amato perché non credevo come te. E il giorno dopomentre tu eri a Messati ricordi che io sono uscito? Sai cosa ho fatto durante la Messa?»
Egli parlava come uno che non sa se deve ridere o piangere.
«Ho parlato a Diol'ho pregato di non mettersi fra te e medi non togliermi il tuo amore.»
Edith gli strinse convulsamente la manoserrando le labbrasorridendogli con gli occhi umidi.
«E tu sei poi sempre stata così teneracosì buona con me che mi hai fatto il paradiso intorno e io ho inteso che Dio mi aveva ascoltato. Questo mi ha commosso perché sapevo di non meritar niente. Oh nocredi. Mi ha commossodunquedi vedere che Dio ti permetteva di essere tanto amorosa con me. Ero felicema non sempre. Quando noi andavamo in chiesa insiemeio pregavoringraziavo Diovicino a te; ma pure vi era qualche cosa nel mio cuorequalche cosa di freddo e di penosocome se io fossi fuori della porta e tu avanti a tuttipresso l'altare. Insomma mi pareva esser tanto lontano da te. Mi odiavo in quel momento ed ero così stupido di amar meno anche te. Quando poi...»
Esitò un istantequindi accostò la bocca all'orecchio di Edithle sussurrò parole cui ella non rispose e ripigliò forte:
«Quanto soffrivo! Una cosa che mi ripugnava tanto! Forse per le memorie irritanti ch'erano nel mio cuoreforse perché ero geloso di quell'uomo nascosto a cui tu confidavi i tuoi pensieri. Non sologeloso; pauroso anche. Sentivo che anche restando invisibilesconosciutopoteva ferirmitogliermi un poco della tua stimadel tuo amore. Sai che qualche notte non ho dormito per questo? Dopo ti vedevo sempre uguale con medimenticavotornavo ilare. Ieritrovandomi ancora con don Innocenzostando nella sua chiesaho sentito quanto lunga strada avevo fatto in pochi mesiquasi senza saperlo. Ho avuto l'impressionecome di essere sulla porta aperta di un paese sospirato e non poter entrare. Adesso... senti. Edithfiglia mia.»
Ellasilenziosapiegò il viso verso di luistringendogli sempre una mano fra le sue.
«Sono entrato» diss'eglia voce bassa e vibrata. Edith abbassò la testa su quella manovi fisse le labbra.
«Sono entrato. Non domandarmi come. So che il mondo mi pare inesprimibilmente diverso da quello di primaora che ho nell'anima il proposito di abbandonarmi interamente alla tua fede. Come si può dir questoche io riposo sopra tutto quello che io vedo? Eppure è così; io non ho mai provato una sensazione di riposo simile a questa che mi viene per gli occhi nel cuore. Tu riderai se io ti dico che sento un grande amore per qualche cosa che è nella natura intorno a me. Cosa ne diciEdithdi tutto questo?»
Ella alzò il viso bagnato di lagrime.
«Mi domandipapà? Mi domandi?» Non poté dir altro. Il suo sacrificio era stato accettato da Dioricompensato subito. L'anima sua traboccava di questa fede mista allo sgomentoallo sdegno di non sentirsi felice.
«Contenta?» disse Steinegge. Scese a intingere il fazzoletto nell'acqua e lo porse a Edith che sorrisese ne deterse gli occhi.
«Sai» diss'egli «sono contento per un'altra cosaanche.»
Ella non parlò.
«So del nostro amico Silla che va via dal Palazzo. Pare che non ci è stato affatto il male che si credeva.»
«Papà» disse Edith alzandosi «lo sa don Innocenzo quello che mi hai detto prima?»
«Un pocosolo un poco.»
Ella guardò un momento il grosso macigno a cui era quasi appoggiata e si rizzò sulla punta de' piedi per cogliere un fiorellino che usciva da un crepaccio. Lo chiuse nel medaglione d'onice e disse quindi a suo padre:
«Un ricordo di questo luogo e di questo momento. Dimmelo ancora» soggiunse teneramente «dimmi che sei felice e che questi pensieri sono proprio nati nel tuo cuore. Tornamelo a dire. papà.»
«Guarda dove sono!» disse una voce dalla strada. Edith non la udìsi ripose a sedere sull'erba presso a suo padreche riconobbe la voce di don Innocenzoed esclamò volgendosi a lui raggiante:
«Così presto?»
Don Innocenzo videcompresenon rispose.
«Signor curato» disse Edith risalita con suo padre sulla strada. «Ella ritrova un'altra Edith.»
Don Innocenzo si provò a far l'ingenuoma ci riusciva solo quando non lo faceva apposta.
«Possibile?» dissecon tale accento di meraviglia da far credere che prendesse alla lettera queste parole: un'altra.
Ma poi non vi ebbero più domande né spiegazioni. Edith camminava a braccio di suo padreappoggiandogli quasi il capo alla spalla. Don Innocenzo teneva lor dietro soffiando perché il capitano aveva preso un passo di carica. Attraversarono così i prati senza parlare. Don Innocenzo non ne poteva più; si fermò trafelato.
«Bella» diss'egli «quella striscia di lagonon è vero?»
Forse non la vedeva neppure. Gli Steinegge si fermarono.
«Povero conte Cesare» disse il padre dopo un momento di contemplazione. «A propositosignor curatoavete inteso anche voi che il signor Silla parte questa sera dal Palazzo?»
Edith si staccò da luisi girò a guardar i prati da un'altra parte.
Ohfuria amorosa di fiori protesi al sole onnipotenteerbe tripudiantiubbriache di ventoqual ristoro esser voiviver la vostra vita d'un giornosentirsi tacere la memoriail cuorequel tumulto faticoso di pensieri assidui a lottar insiemea fare e disfare l'avvenire; non essere che polvere e solenon aver nel sangue che primavera!
«AndiamoEdith» disse Steinegge. Quella cara voce la scossela tolse al pensiero non degno.
Salendo alla canonicaEdith precedeva d'un passo a capo chinoil curato e suo padrevedeva le loro due ombre spuntarle a fianco sulla via. Steinegge incominciò ancora a parlare del Palazzoed ella vide l'ombra del curato accennar con la testa; dopo di che Steinegge lasciò cadere il discorso.
Quando rientrarono in casaMarta li avvertì che il pranzo sarebbe pronto fra pochi minuti. Edith si fece dare da lei la chiave della chiesacorse viasorridendo a suo padre.
Tutto era vivo per la campagnatutto si moveva e parlava nel vento; tutto era morte nella vôta chiesa freddatranne la lampada dell'altar maggiore. Una luce debole si spandeva dagli alti finestroni laterali sugli angeli e i santi vinosi del soffitto estatici nelle loro nuvole di bambagia. Edith si inginocchiò sul primo bancoringraziò Diogli offerse tutto il suo cuoretuttotuttotutto; e più ripeteva il suo slancio di volontà devotapiù la fredda chiesa muta e persino la fiamma austera della lampada le dicevano: nonon lo puoinon è tuo; tu speri che quegli ti ami ancora e torni degno di tesino a che tu possa appoggiarti per sempre al suo petto virileaffrontare con esso e attraversar la vita. Ma ella non voleva che fosse cosìe pareva ritogliere quello che aveva liberamente offertoe si sentiva invadere il cuore da un arido disgusto di se stessa.
Marta venne a chiamarla.
«Signora! Oh signora! Presto ch'è in tavola! Oramai il Signore lo sa cosa ci vuole per lei.»
Edith sorrise.
7. Malombra
Alle due pomeridiane il commendatore e Silla lavoravano in biblioteca. Preparavano lettere e telegrammi d'affariliste di persone a cui mandare la partecipazione di morte. Il Vezza aveva una parlantina inesauribile. Seduto al tavolo del conte Cesaredi fronte a Silladiscorrendoscrivendobuttando da parte una cartapigliandone un'altranon taceva che per guardare la punta della pennaper rileggere con un tal brontolìo inarticolato quello che aveva scritto o per spremersi con la sinistra dalle gote e dal mento qualche frase che non gli veniva pronta come le altre. Ogni tantodiscorrendodava un'occhiata a Silla e un tocco discretissimo nell'argomento della misteriosa comunicazione avuta da Marina. Ma quegli rispondeva a monosillabi o non rispondeva affatto. Pensava al colloquio avuto lì col povero conte nell'agosto precedentela sera dopo il suo arrivo al Palazzo. Gli pareva udire ancora il vocione solenne e quel furibondo pugno sul tavolo. Adesso il sole fendeva obliquo la sala dalle finestre verso il lagola empiva d'un chiaror verde dorato; e l'uomo giaceva in una camera vicinasenza vita. Quale mutamento! Scrivevascrivevabuttando egli pure una carta per pigliarne un'altranon rileggendo maitrasalendo a ogni tratto nell'accorgersi di una parola omessa o sbagliata. Richiamava i pensieri a raccolta e tosto gli sfuggivano daccapo.
«I telegrammi son fatti» disse il Vezza. «Adesso suoniamo per farli portare. Vuol favorire? Grazie. E le lettere per gli agentiper i fittabili? Almeno quelli là di Oleggio bisognerebbe informarli subito. Chi ne sa il nome? Mi secca cercare i registri prima che venga il pretore da C... E cosa fa quel benedetto uomo? Sa ch'è anche organista quel pretore lì? Capacese v'è per caso una funzione in chiesadi non venire ad apporre i sigilli prima di stasera. E verrà pescandoprobabilmenteper guadagnarsi la cena. Non Le pareSillache vi sia un certo odore qui? No? Le assicuro che non vedo l'ora di essere a Milano. E Leiscusiche progetti ha?»
Silla rimase un po' sorpreso.
Entrò il cameriere.
«Questi telegrammi» disse il Vezza. «Mandare qualcuno subito.»
«Sa?» ripigliò parlando a Silla «desideravo sapere se ha progettiperché io avrei una proposta a farle.»
«Quale proposta?»
«Non si prenderebbe intanto una boccata d'aria pura?»
Uscirono nel giardinetto pensile. Il vento passava alto nel vignetoscendeva a sfuriare nel cortile curvando in qua e in là sulla ghiaia lo zampillo ondulante della fontana: lì taceva.
«Che bellezza e che allegria!» disse il commendatore. «Mi dica un po' se pare che sia morto il padrone?»
«A me sì» rispose Silla.
«A me no. Fa nientesenta. Io ho l'incarico di cercare un insegnante di storia e di letteratura italiana per un eccellente istituto privato di Milano. Ventidue ore alla settimanadue mesi di vacanzeduemila e duecento lire di stipendio. Ci va?»
Silla gli stese la manolo ringraziò con effusione.
«Ma» diss'egli «non ho abilitazione.»
«Peuh! non è una difficoltà. M'impegno io per questo. Che diavolo fanno quelli là?»
Quelli là erano il giardiniere e Fanny affaccendati a cogliere fiori nelle aiuole di fronte all'arancerache di lì s'intravvedevano con una striscia di lago fra l'ala sinistra del palazzo e la muraglia verde semicircolare del cortile.
Il Vezza accennò con la mano a Fannyche attraversò correndo il cortile e venne sotto la ringhiera del giardinetto.
«Cosa fate?» diss'egli.
«È la mia signora» rispose Fanny in aria di mistero inarcando le sopracciglia e porgendo le labbra.
«Perché? Per il funerale?»
«Off! Sì che gliene importa del funerale! Per il pranzo! Comenon lo sa? Non gliel'ha detto il signor Paoloche la ci ha ordinato un fior di pranzoche anzi lui ha detto in cucina che non avrebbe fatto niente senza un ordine suodi Lei?»
«Signora Fanny?» chiamò il giardiniere.
«Vengo! - E lo sa dove c'è l'ordine di preparare il pranzo? In loggia. Dico iocon questo vento! E io devo star qui a cogliere fioriche patisco tanto il ventoio!»
«Signora Fanny!» gridò ancora il giardiniere.
«Vengo! - Una bella roba anche questaneh! Io già a momenti pianto tutto. Non voglio mica diventar come leicon quest'ariaccia e questo demonio di sole sulla testa.»
«Signora Fanny!» chiamò il giardiniere per la terza volta. «Viene o non viene?»
«Vengovengo! - L'è perché se non faccio ioquell'altro là non sa far nulla con garbo. - Me lo diceva anche il signor don Cecchino Pedrati che Lei già lo avrà inteso nominareperché è una casa grande quella...»
«Sì sìvada pure» disse il Vezza.
Fanny andò via gridando al giardiniere se non vedeva che i signori le parlavano.
Il commendatore si voltò a Silla.
«Voglio andar a sentire di questo pranzo» diss'egli. «Quella bestia del cuoco che non viene a dirmi niente!»
«È una cosa impossibile» disse Silla.
«Lo credo bene. Non gliel'ho dettoiostamattina? Tutt'altro che guarita! E il dottorequando viene.»
«Veramente dovrebb'essere qui a momenti. È venuto stamattinaun minuto prima che la si svegliasse e ha detto che non poteva tornare prima delle due. Adesso c'è a letto con la febbre anche la Giovanna.»
«Signor Silla» disse il Rico dalla porta della biblioteca «ha detto così la signora donna Marina di far piacere ad andar su da lei un momento.»
"Ci siamo" pensò il commendatore. "Bel drammaperò".
Silla entrò in casa senza dir parola.
Il Rico lo accompagnò di sopragli aperse l'uscio della camera dello stipo antico.
Marina era ritta in mezzo alla cameranella luce delle finestre spalancate.
«Lascia aperto» diss'ella al ragazzoprima di rivolgersi a Silla. «E adesso scendi in giardinova ad aiutare tuo padre e Fanny. Subito!»
Ella uscì nel corridoiovi si trattenne un momento ascoltando il ragazzo scender le scale; poi si voltò rapidamente a guardar Silla.
Portava la stessa veste bianca a ricami azzurri della sera precedente; aveva i capelli in disordineil viso livido.
Silla s'inchinòossequioso. Rialzando il visola vide voltargli le spallemuover lenta verso la finestra. Ella tornò poi a furia sulla porta del corridoiochiamando:
«Rico!»
Ma il ragazzo era già lontano e non intese. Si fermò allora a guardar Silla per la seconda volta e disse:
«Nessuno. Non c'è nessuno.»
Egli non poté fraintendere il lungo sguardo pieno di appassionate domande mutesentì ch'ella aveva ingannato il Vezzama rimase impassibile.
Tutto il fuoco degli occhi di lei si spense a un tratto.
«Buon giorno» diss'ella.
Il saluto parve cader gelato dal terzo cielo.
«Vezza Le ha parlato» soggiunse.
«Sarei partito subitomarchesinase...»
«Lo solo so.»
Silla tacque. Lo stipo d'ebano a tarsie d'avorioi fiori ancora sparsi per la camera gli ripetevano la terribile storia della notte precedente.
«Lo so» ripeté Marina con voce risoluta e sdegnosa «ma non basta.» E fece un passo verso Silla.
«Lo ha intesodunque» diss'ella «che la mia fu una allucinazione?»
Silla accennò di sì. Era a qualche distanza da leidall'altra parte del piano. Essa si rovesciò quasi bocconi sul pianoalzando il viso a guardar l'uomo.
«E lo ha creduto?» disse. «Ed è contento di andarsene?» Silla non rispose.
«Già» mormorò Marinasocchiudendo gli occhi come una fiera blandita. «Una cosa naturaleuna cosa sempliceuna cosa comoda! Va bene!» esclamò rialzandosi.
V'era sul piano un vaso con delle rose e de' grappoli di glicinesciolti. Ne strappò una manciatali avventò sul pavimento.
«Partire va bene» diss'ella «ma non basta. Non si sente in dovere di fare altri sacrifici per me?»
La sua voce fremevacosì parlandod'ironia amara.
«Sono ai Suoi ordinimarchesina» rispose Silla gravemente. «Qualunque sacrificio.»
«Grazie. Dunque sarebbe anche disposto di scrivere al conte Salvador!»
«Al conte Salvador?» esclamò Silla sorpreso. «Cosa dovrei scrivergli?»
«Ch'Ella parte di qua per sempre e non cercherà mai di rivedermi.»
«Questo Le basta?»
«Com'è buono!» disse Marina sottovoce.
«Posso esserlo col signor conte Salvador» rispose Silla freddamente. «Mi sono posto stanotte a sua disposizionel'ho aspettato un'oraed egli non si è lasciato vedere.»
«Ahlo odiaLei?»esclamò Marina con due occhi lampeggianti.
«Io? No.»
Ella si pose a camminare su e giù per la camerasi fermò un trattodicendo:
«Ma iersera sìehche lo odiava? Iersera alle undici?»
Silla pensò un momento e rispose:
«Marchesinaè stata un'allucinazione anche la mia.»
Ella rise forted'un riso che strinse il cuore a Silla.
«Allora» disse «Le perdono tutto ed è affare finito.»
«Dunque la marchesina non desidera più nulla da me?»
«Grazie» rispose Marina sorridendo amabilmente. «Nulla. Ci vedremo ancora a pranzonon è vero? Lei pranza qui? Ne La prego» soggiunse perché Silla esitava.
Egli sapeva che questo pranzo non si farebbema non credette prudente di entrare nell'argomento e s'inchinò ringraziando.
Mentr'egli uscivaMarina batté con la mano sullo stipo anticoe disse:
«Sa? Distrutto!»
Silla si voltòvide la bella mano bianca ch'esprimeva in ariacon un breve gestolo sparir di qualche cosala bella testa che salutava ancorasorridendo.
«Meglio» diss'egli.
Appena percorso il corridoio e posto il piede sulla scala si udìalle spalleun grido acutissimo. Balzò indietro alla porta ond'era uscitovi stette in ascoltotrattenendo il respiro. Udì accorrere un fruscìo d'abitila chiave girò nella toppa. Silla si allontanòdiscese le scale pieno d'inquietudini.
Era Marina che aveva gettato quel grido e poi chiuso l'uscio a chiave. Si diede dei pugni nella fronte per domarsiaperse lo stipotrasse il manoscritto sulla ribalta calatae puntosi il braccio sinistro scrisse col sangue sotto le ultime parole di Cecilia:
C'est ceci qui a fait cela.
3 Mai 1865
Marquise de Malombra
jadis comtesse Varrega.
Dopo di che aperse un cassetto dello stipo e ne tolse un elegantissimo astuccio da pistolein cuoiocon lo stemma della famiglia di Malombrauno scudo d'azzurro alla cometa d'argentoal canton franco di nerocaricato d'un giglio d'argento.
«Sapete» diss'ellaparlando alle armi «ha accettato di partire. Non ha inteso ch'era una prova.»
Silla trovò in biblioteca il commendatore che lo aspettava frugando gli scaffali con il naso e con gli occhi ghiotti. Gli raccontò il colloquiole ultime parole cortesi di donna Marinail grido udito dal corridoio; disse che non aveva rifiutato espressamente l'invito a pranzo perché vedeva una donna malataverso la quale bisognava procedere con le maggiori cautele.
Secondo lui era necessario un sollecito provvedimento medico. Suggerì di telegrafare a questi parenti di Milano che procurassero di portarla via subito dal Palazzosoggiorno pessimo per lei. Il Vezza rispose che lo farebbeche intanto aveva sospeso il pranzo e contava sul medico onde persuadere donna Marina di rinunciarvi spontaneamente. Mentre diceva questocomparve il medico.
Questi ascoltò la relazione dello stato di tranquillità relativa in cui s'era trovata la marchesina svegliandosi e accettò di adoperarsi per farle abbandonare l'idea del pranzo. Promise che sarebbe tornato a dar conto della sua missione.
Stette assente a lungo. Quando ricomparve aveva la sua faccia de' sinistri presagila più scura.
«Dunque?» gli chiese il Vezza.
Il medico guardava Sillaesitava a rispondere.
«Ella può parlare liberamente» osservò il commendatore.
«Bene. Iogiàsignoriparlo da medicosenza riguardi personalie dico: andiamo maledipende da Loro che non vada peggio.»
«Ma guardi!» disse il Vezza. «Pensare che stamattina era tranquillissima!»
«Ohanch'io l'ho trovata tranquillissima. Al primo vederla mi sono consolatomeravigliato anzi; un minuto dopola sua calma non mi piaceva più. Vedonodopo il travaglio nervoso di stanotte quella donna lì doveva essere a terraoggisfasciata. Ma no; non abbiamo che il pallore veramente straordinario e la cerchiatura livida degli occhi. Manca ogni altro sintomo di stanchezzadi depressione. Abbiamo apiressi completa e un polso di cento battute almeno. Quimi son detto subitol'accesso nervoso sussiste ancoraquesta calma non è fisiologicaè una coazione della volontà; e forse tale antagonismo esagera alcuni fenomeni nervosila frequenza del polsoper esempio. Le ho parlato di quel tale argomento. La presi pel verso della salutele dissi che aveva bisogno di quieteche farebbe bene a restare tutto il giorno in assoluto riposoe non uscire di camera neppure pel pranzo. Ah!»
Qui il dottore agitò le braccia come se la parola non bastasse più al racconto.
«Confesso che due occhi simili non li ho mai visti. In un minuto secondo è cresciuta un palmo. Mi ha investito con una veemenza! Anzise debbo dire il verosi è scagliata più contro di leisignor commendatoreche contro di meperché ha compreso subitocon l'acume de' monomaniaciche dovevo aver parlato con Lei. Si vede ch'era in sospetto d'una opposizione. Ha detto che si vuole imporleche non prende lezioni da nessunoche le rincresce non aver invitate cinquanta persone; e via di questo passo con una irritazione che la soffocavala faceva tremare come una foglia. Io cercavo di chetarla. Ohsìnon era possibilesi adirava sempre più. Finalmente dovetti prometterle che tutto si sarebbe fatto secondo i suoi desideri e che anzi mi sarei fermato a pranzo anch'io; e credanosignoribisogna finirla così. Non consiglierei a nessuno di contraddire una donna che esce da una crisi come quella di stanotte e offre indizi così minacciosi di ricadervi. Ecco.»
«Dunque?» domandò il commendator Vezza.
«Dunque ioper parte mia» rispose il dottore con fermezza «farei quello che desiderabenché non ci avrò davvero tutti i gusti.»
«E se noi due ci astenessimoLei crede...»
«Ma! Ripeto che non lo farei.»
Il commendatore consultò Silla con gli occhi.
«Quanto a me» disse questi «non c'interverrò in nessun caso. Si potrà dirle che non sentendomi bene non ho voglia di pranzare e che sono ancora occupato in queste lettere. Meglio ancora; potrò partir prima del pranzo. Del restodottoresupponga che donna Marina abbia subìto sino a stanotte l'influenza di una forte scossa moralee che adessoper una ragione o per l'altrase ne sia liberata: non ammette Lei che dei nervi tanto turbatiquantunque rimessi a postovibrino ancora per un po' di tempo? Non ammette chese la causa del male è distruttadebba ritenersi improbabile una recidiva?»
Il dottore considerò per qualche tempo Sillaprima di rispondere.
«Badisa» diss'egli «che quand'anche la causa del male fosse distruttanon ne discenderebbe mica che adesso si potesse impunemente irritare questa donnai cui nervicome dice Leivibrano ancora tutti: una donnanotimolto mal disposta inizialmente se ha potuto accogliere certi fantasmi. Madomando io se n'è poi liberata?»
«Parrebbe di sì» rispose Silla «o almeno c'è qualche ragione di sperarlo. Lei stessa lo diceintanto.»
«E io» replicò il medico «mi perdonine dubito.»
Gli altri due lo guardarono silenziosiaspettando.
«Stavo per lasciarla» diss'egli «ero già sulla sogliaquando mi richiamò "Dottorevenga qua." Me le avvicinoella si scopre l'avambraccio sinistromi dice: "Vuol vedere delle ferite profonde?". Mi mostra due o tre punture di zanzara e soggiunge: "Si può morire di questo?". Io non capiscoeh; la guardo. "Non crede" dice lei "che un'anima possa passare di lì? Pure le assicuro" dice "che ha cominciato; un pensiero e un segreto ne sono già usciti." Così mi ha detto. Ma facciano graziasignoriqueste parolenella loro assurditànon generano il sospetto che sussista sempre la forte preoccupazione morale di cui parlava il signore? Del restoa quella signora bisogna pensarci sul serio e subito. Qui non può stare.»
«Provvederemo» rispose il Vezza. «Adesso Lei va dalla Giovanna?»
«Vado dalla Giovanna.»
«E ci rivedremo alle cinque?»
«Alle cinque.»
«Oh sìho un gran piacere che allora Lei si trovi qui.»
«Io partirò alle cinque» disse Silla.
Il commendatore parve poco contento.
«A che ora» diss'egli «passa da... l'ultimo treno per Milano?»
«Alle nove e mezzo.»
«Ohallora può partire anche dopo le sei. Così vede come va questo pranzo.»
Il dottore uscì. Gli altri due sedettero al tavolo e ricominciarono a lavorare.
Il vento durava a fischiare e urlarele onde schiamazzavano intorno al Palazzoselvaggi spettatori accorsi a un dramma che non cominciava maiinvasi dalle furie dell'impazienza. Eraintorno alle vecchie mura impassibili uno scatenamento di passioni feroci che volevano subito lo spettacolovolevano veder soffriremorirese possibileuno di questi piccoli re superbi della terra. Che si aspettava? Le onde schiaffeggiavanoinsultavano l'edificiobalzavano sullo scoglio a piè della loggiatempestavano su tutte le rivesi rizzavan lontanole une dietro le altrecon un largo clamore di folla fremebonda. Il vento saltava a destraa sinistrain altoin bassoimpazzitofuriosopassava e ripassava per la loggia stridendoingiuriando gli attori invisibili. Anche i cipressi grandi dondolavan la puntale viti stormivanoi gelsi e i miti ulivi sparsi pe' campicelli si contorcevanosi dimenavanocolti dalla stessa follìa. Le montagne guardavan làsevere. Ma la scena taceva sempre: i personaggi si tenevano ancora nascosti.
Dopo le treinfuriando sempre il ventoentrarono in loggia Fannyil cameriereil giardiniere e il Ricosi affacciarono alle arcate verso il lagoguardando un po' il cieloun po' i montiun po' le onde tumultuanti al bassoche urlavano "nononon voi!". Parvero consultarsi. Fanny uscì dalla porta di destra gittando col braccio sinistro una imprecazione al cielo ed alla terra; gli altri rimasero. Ella tornò subitoprobabilmente con gli ordini della sua padronae i tre colleghi le si raccolsero attorno. Uscirono poi tutti insieme da sinistra e rientrarono con un gran tappeto scuro quasi neroche stesero dalle tre arcate posteriori della loggia a tre delle cinque anteriorilasciando scoperti a destra e a sinistra due spicchi di pavimento. Poi il giardiniereaiutato da suo figlio e da due garzoniportò su dal giardinocon due barellemoltissimi vasi di camelied'azaleedi cinerarie e di calceolarie in fiore e quattro grandi dracene australes. Si portarono pure due gradinate rustiche di legno e si addossarono ai fianchi della loggia tra le due porte e la balaustrata posteriore. Fanny e il cameriere portarono tre piccoli tavoliquattro poltrone cremisine e una elegantissima giardiniera di metallo doratodono giunto a Marina due settimane prima dalla signora Giulia De Bella. Poi donna Marina stessastretta nel suo scialletto bianco che le disegnava le formeentrò lentamentenegligentemente in loggiasi fermò davanti all'arcata di mezzo e cominciò a dare degli ordini senza muovere un ditoindicando i luoghi e le cose col girar della persona e del viso.
L'ombra della costa boscosa a ponente del Palazzo avanzava rapida verso levante. Il vento si rabbonivale onde si azzittivano come se avessero visto Marina entrar in scena.
Ella vi si trattenne fino a che fu bene avviata l'esecuzione de' suoi ordinipoi si ritirò accennando al Rico di seguirla.
Una scena sontuosaelegante apparvea opera finitadentro dalle colonne austeredal cornicione accigliato della loggia. Agli angoli le dracene sprizzavan su come getti verdi dall'enormi azalee in fiore aggruppate a' lor piedispandevano in alto una piova di sottili foglie ondulatericadevano graziosamente. A destra e a sinistra le due gradinate gremite di cinerarie e di calceolarie versavano dall'alto due cascate di mille colori sul tappeto cupo. Sei grandi vasi di camelieritti sulla balaustrata posteriorechiudevano il fondo della scena. Il meno piccino dei tavolicon due posatestava quasi addossato all'arco di mezzo; gli altria una posata per ciascunoposti per isghembo a' lati del primosi fronteggiavano. Tovaglie grigio giallognole di Fiandra li coprivano tutti e tre sino a terramettevano in quella nervosa musica di colori tre note quiete e gravi su cui si smorzavano anche i toni acuti dei cristalli e degli argenti. Sul davanti e nel mezzola giardiniera dorata di donna Giulia posava sul fondo scuro del tappeto una tenera nudità di giacinti delicatispogli d'ogni verdestretti nel baglior del metalloche tentavanocome un dolce odorosoil palatopromettendo squisitezze voluttuosepenetranti nel sangue.
«Ai signori e ai matti obbedisce anche il vento» disse Fanny che aveva pensato veder tutto l'apparecchio sossopra in un attimo.
Dopo le quattro e mezzo il commendatore e Silla entrarono in loggia dalla biblioteca; quasi contemporaneamente vi entrò dall'altra parte il medico. Tutti e tre si fermarono attoniticonsiderando l'ordine elegante della scenala pompa dei colori che spiccavano sul tappeto oscuro.
«Tutto leicapite!» disse il Vezzaancora più sgomentato che sorpreso.
Era leisìche aveva disposto tutto e vi si vedeva l'immagine sua; un cuor nerouna fantasia accesauna intelligenza scossa ma non caduta.
«Io torno in biblioteca» disse Silla«finisco quegl'indirizzipoi me ne vado dalla scaletta.»
«NonoLa prego!» esclamò il Vezza. «Se assolutamente non vuol pranzare con noialmeno ci stia vicino. Io le assicuro che ho la febbre addosso. Avremo fatto maledottorea essere condiscendenti? Ho dovuto far avvertire i domesticisach'era ordine Suo di accontentare donna Marina. Per caritàSillastia vicinostia lì nel salottoalmeno. Faccia questo favore a me.»
«Bene» rispose Silla «mi porterò là da lavorare; ma si ricordiappena finito il pranzo vado via.»
Il dottore era agitatissimosi giustificava del consiglio che aveva datoadduceva una quantità di ragioni buone e cattive. Si capiva che dubitava egli stesso di avere sbagliato.
«Non sapevo poi tuttostamattina» diss'egli «non avevo parlato con la Giovanna.»
Accennò agli altri due di avvicinarglisi.
«Lo sanno Loro come la è stata del povero conte?»
Sapevano e non sapevano. Il dialogo continuò sottovoce.
Silla guardò l'orologio; mancava un quarto alle cinque. Andò in biblioteca a pigliarsi le carte e passò poi nel salotto a lavorare.
Gli altri duediscorrendovidero passare sotto la loggia il battello di casa condotto dal Rico.
«Dove vai?» gli gridò il Vezza.
«A R... Ordine della signora donna Marina» rispose quegli.
«Doveva ben parlare con meprima di obbedire a lei» brontolò il commendatoree riprese il suo discorso.
«Ecco» diss'egli «io lo avrei preparato cosìil telegramma. Noti che la persona cui lo dirigo ha molto cuore e una coscienza scrupolosama stenta un poco a muoversia pigliare risoluzioni gravi. Dunque direi così: "Per espresso volere medico curanteonde togliermi grandi responsabilitàavverto Lei più stretta parente signorina di Malombra sua salute esige pronto allontanamento questa dimora".»
«Metta prontissimo» disse il dottore.
«Metterò prontissimo.»
«Metta anche...»
Il dottore non poté compir la fraseperché donna Marina comparve sulla soglia.
Vestiva un abito ordinato da lei alla sua antica sarta di Parigi che ne conosceva bene l'umor bizzarroun ricco e strano abito di moire azzurro cupoa lungo strascicoda cui le saliva sul fianco destro una grande cometa ricamata in argento. Sul davanti della vita accollataattillatissimaera inserto un alto e stretto scudo di velluto nero arditamente traforato nel mezzoin forma di gigliosulla pelle bianca. Marina non era più così pallida; un lieve rossor febbrile le macchiava le guance; gli occhi brillavano come diamanti.
«Musica!» diss'ella sorridendo e guardando il lago. «Quella che vuoilago mio! Non è veroVezzache la musica è ipocrita come un vecchio ebreo e ci dice sempre quello che il nostro cuore desidera? Non è per questo che ha tanti amici?»
«Marchesina» rispose quegli cercando di fare il disinvolto «fuori di noi non c'è musicanon c'è che un vento. Le corde sono dentro di noi e suonano secondo il tempo che vi fa.»
«Da Lei ci deve far sempre serenoeh? Un sereno cattolico: e queste onde Le dicono: come è dolce riderecome si balla benequi! - Dov'è il signor Silla?»
«Ecco...» incominciò il Vezza imbarazzato.
«Partito no!» esclamò donna Marina fieramenteafferrandolo per un braccio e stringendoglielo forte.
«Nononoè qui» rispose colui in fretta «ma debbo fare le sue scuse. Non si sente benenon potrebbe pranzare; e siccome ha avuto la gentilezza di offrirmi il suo aiuto per alcune faccende urgenticosì adesso...»
Ella non lo lasciò finiregli chiese imperiosamente
«Dov'è?»
Le tremava la voce.
«Ma» rispose il commendatoretitubante. «Non so... poco fa era in biblioteca...»
«Vada e gli dica che lo aspettiamo.»
«È nel salotto» disse il medico. «È occupato a scrivere. Accetti le sue scusemarchesinane La prego.»
Ella rifletté un istante e poi rispose con voce vibrata:
«La Sua parolach'è nel salotto!»
«La mia parola.»
«Bene» diss'ella pacatamente «verrà più tardi senza esser chiamato. - Del restocaro Vezzada me ci fa nuvoloun tempo triste. Dica Leidottorenon è una malattia la tristezza? Non abbassa la fiamma della vita? Ella mi darebbe dei cordiali se mi sentisse il sangue scorrer più lento; qualche sinistro alcool mascherato. Ma se io prendo invece gli spiriti vitali dei fioril'aria purala conversazione degli uomini sereni come il nostro amico Vezzadegli uomini esperti del dolore come Leichi vorrà censurarmi? Ecco scioltosignoril'enigma di questo pranzoe pranziamo. Lei quaVezzapresso a me; e Leidottorelìalla mia destra.»
Il pranzo incominciò.
I commensali di donna Marina tacevanogustavano appena delle vivande. Il commendatore deplorava in cuor suo che il pranzo finissimoservito con eleganza squisitatra i fiorida una giovane e bella donnagli fosse capitato in un momento disadatto e in circostanze tali da non poterlo affatto gustare né con il palato né con lo spirito. E accarezzava la sola idea piacevole che gli sorridesse in mente: raccontar la scena nei salotti di Milanocon artea cuore placido. Si guardava cautamente attornoimparava a memoria le dracene e le azaleele cascate di cinerarie e di calceolariesbirciava il moire della sua vicinae per quanto potevail giglio bianco nello scudo di velluto. Ma gli occhi curiosi dei fiori schierati sulle gradinate come in un teatrogli dicevano che lo spettacolo non era finito.
Il dottore studiava continuamente Marinatemendo qualche accesso come quello della sera precedente o della notte in cui era entrata la prima volta dal conte. Si teneva prontospiavasenza parereogni movimento di lei. Egli comprendeva solo adesso l'importanza attribuita da Marina a questo pranzo e si rimproverava di avervi acconsentito. Non poteva difendersi da tristi presentimenti. Il luogo così aperto sul cortile e sul lago gli metteva paura. E gli metteva paura il contegno sempre più inquieto di Marinache dopo un cucchiaio di zuppa non aveva mangiato punto.
«Che silenzio» diss'ella finalmente. «Mi par d'essere fra le ombre. Somiglio a Proserpina?»
«Oh!» rispose il commendatore storditamente. «Lei farebbe risuscitare i morti.»
Subito gli venne in mente l'uomo sfigurato che giaceva sotto un lenzuolo a pochi passi dalla loggia; gli corse un brivido nelle ossa.
«Pure» replicò Marina «i miei ospiti sono lugubri come giudici infernali. Versatemi del Bordeaux» diss'ella al vecchio cameriere che serviva solopiù lugubre ancora dei convitati. «Anche a questi signori.»
Il cameriere obbedì. Devoto al povero conte da lui servito per ventidue annigli pareva d'essere alla tortura. Versava con mano tremantefacendo tintinnare il collo della bottiglia sull'orlo dei calici.
«Vi prego di assaggiar questo vino» disse Marina.
«Pensateloadesso. Non vi trovate un lontano sapore d'Acheronte?»
Il commendatore alzò il calicelo speròvi posò ancora le labbra e disse: «Ha qualche cosa d'insolito.»
«Supponga dunquecommendatore Radamanto» disse Marina con voce commossacontraendo nervosamente gli angoli della bocca «che per certe mie ragioni io abbia pensato...»
Si lasciò cadere sulla spalliera della poltronaporgendo le labbrafacendo con la mano l'atto di chi butta via sdegnosamente una cosa spregevole.
«Sa» diss'ella «questa vita è così vile! Supponga dunque ch'io abbia pensato di aprir la porta e uscire quando muore il solein mezzo ai fioriportando meco alcuni amici di spirito pel caso che il viaggio fosse troppo lungo. Supponga che in quel Bordeaux...»
Il Vezza trasalìguardò il cameriere ritto presso la porta di sinistraimpassibile.
«Oh!» esclamò Marina «come mi crede subito!»
Si fe' versare dell'altro vino e si recò il calice alla bocca.
«Sapore insolito?» diss'ella. «Se è puroquesto Bordeauxcome un'Ave Maria! È stato uno scherzo di Proserpina. - Bevete» proseguì concitata «cavalieri dalla triste figura. Provvedetevi di cuore e di spirito»
Il dottore non bevve. Sentiva venire una tempesta. Il Vezza si accostò invece al consiglio di donna Marina e vuotò il suo bicchiere.
«Bravo!» diss'ella facendosi pallida. «Si ispiri per una risposta difficile.»
«Di Proserpina in Sfingemarchesina?»
«In Sfingesìe vicina a diventar di pietra o più fredda ancora! Ma che prima parleràdirà tutto. Dunque...»
Ell'era andata diventando sempre più pallida. A questo punto un tremito di tutta la persona le spezzò la voce. I due uomini si alzarono in piedi. Ella strinse il coltellone ficcò rabbiosamente la punta nel tavolo.
«Quietaquieta» disse il medico pigliandole una mano gelatapiegandosi sopra di lei. Ella si era già vintarespinse la mano del medico e si alzò.
«Aria!» diss'ella.
Passò con impeto fra il tavolo suo e quello del dottoree si slanciò alla balaustrata verso il lago.
Il dottore le fu addosso d'un salto per afferrarlatrattenerla.
Ma ella si era già voltata e piantava in viso al Vezza due occhi scintillanti.
«Dunque» esclamò affrettandosi di parlaredi far dimenticare un momento di debolezza «crede Lei che un'anima umana possa vivere sulla terra più di una volta?»
E perché il Vezzasmarritosgomentotacevagli gridò:
«Risponda!»
«Ma noma no!» diss'egli.
«Sìinvece! Lo può!»
Nessuno fiatò. Il giardiniereil cuocoFannyavvertiti dal camerieresalirono frettolosi le scale per venire ad origliarea spiare. Il vento era caduto; le onde lente sussurravano a piè dei muri: "Udite! udite!".
E nel silenzio vibrò da capo la voce di Marina.
«Sessant'anni or sonoil padre di quel morto là» (ell'appuntò l'indice all'ala del Palazzo) «ha chiuso qui dentro come un lupo idrofobo la sua prima mogliel'ha fatta morire fibra a fibra. Questa donna è tornata dal sepolcro a vendicarsi della maledetta razza che ha comandato qui fino a stanotte!»
Teneva gli occhi fissi sulla porta a destrach'era aperta perché avean disposto la credenza nella sala vicina.
«Marchesina!» le disse il dottore con accento di blando rimprovero. «Ma no! Perché dice queste cose?»
In pari tempo le pigliò il braccio sinistro con la sua mano di ferro.
«Là c'è gente!» gridò Marina. «Avantiavanti tutti.»
Fanny e gli altri fuggironoper tornar poi subito in punta di piedi a spiarenascondendosi da lei.
Silla venne sulla porla del salotto. Di là non poteva veder Marinama la intendeva benissimo. Adesso diceva:
«Avanti! egli non viene perché la sa la storia. Ma non la sa tuttanon la sa tutta; bisogna che gli racconti la fine. Tornata dal sepolcroe questo è il mio banchetto di vittoria!»
La vocesubitamentele si affiochì. Ell'abbracciò la colonna presso cui stavavi appoggiò la fronte scotendola con veemenza come se volesse cacciarvela dentromise un lungo gemito raucoappassionatoda far gelare il sangue a chi l'udiva.
«L'infermierala donna di stanotte!» disse forte il medico verso la portae si voltò poi a Marinadi cui teneva sempre il braccio.
«Andiamomarchesina» diss'egli dolcemente «ha ragionema sia buonavenga vianon dica queste cose che le fanno male.»
Ell'alzò il visosi ravviò con la destra i capelli arruffati sulla frontetrapassando ancora con l'occhio avido la porta e la sala semioscura. Sul suo petto ansante il giglio scendeva e salivapareva lottar per aprirsi. La moglie del giardiniere si affacciò alla porta. Ella le accennò violentementecon il braccio liberodi farsi da bandae disse al medico parlando più con un gesto che con la voce:
«Sìandiamo viaandiamo nel salotto.»
«E nella Sua camera non sarebbe meglio?»
«Nononel salotto. Ma mi lasci!»
Ella disse quest'ultime parole in atto così dignitoso e fiero che il dottore obbedìe si accontentò di seguirla. A lui premeva sopra tuttoin quel momentoallontanarla dalla balaustrata.
Marina s'incamminò lentamentetenendo la mano destra nella tasca dell'abito. Il Vezza e il cameriere la guardarono passareallibiti. Il dottore che la seguivasi fermò un momento per dar un ordine all'infermiera. Intanto Marina arrivò alla porta.
Fannyil cuoco e il giardiniere s'erano tirati da banda per lasciarla passare senza esserne visti. In sala le imposte erano chiuse a mezzo e le tende calate.
Silla stava sulla soglia del salotto. Vide Marina venire ed ebbe un momento d'incertezza. Non sapeva se farsi avanti o da parte o ritirarsi nel salotto. Ella fece due passi rapidi verso di luidisse «Ohbuon viaggio» e alzò la mano destra. Un colpo di pistola brillò e tuonò. Silla cadde. Fanny scappò urlandoil dottore saltò in salagridò agli uomini - tenerla! - e si precipitò sul caduto. Il Vezzail camerierel'altra donna corsero dentro gridando a veder chi fosse. Il giardiniere e il cuoco vociferavanosi eccitavano l'un l'altro a trattener Marinache voltasi indietropassò in mezzo a tutticon la pistola fumante in pugnosenza che alcuno osasse toccarle un ditoattraversò la loggiane uscì per la porta oppostala chiuse a chiave dietro di sé. Tutto questo accadde in meno di due minuti.
Il giardiniere e il camerierevergognandosi di sé irruppero sulla portala sfondarono a colpi di spalla. Il corridoio era vuoto. Si fermarono incertiaspettando un colpouna palla nel pettoforse.
«Avantivili!» urlò il dottore slanciandosi in mezzo ad essi. Si fermò nel corridoiostette in orecchi. Nessun rumore.
«Fermi lìvoi» diss'egli e saltò nella camera del conte.
Vuota. Le candele vi ardevano quiete.
Entraronoegli nella camera da lettogli altri due in quella dello stipo. Vuote.
Il dottore si cacciò le mani nei capelliesclamò rabbiosamente:
«Maledetti vili!»
«In biblioteca!» disse il giardiniere.
Saltarono giù per le scaleil dottore primo. Toccato il corridoioudì un urlìodistinse la voce del commendatore che gridava:
«La barca! la barca!» Corse in loggias'affacciò al lago.
Marinasola nella lanciapassava lì sottopigliava il lago piegando a levante. Sul sedile di poppa si vedeva la pistola.
«Al battello!» disse il dottore.
Il Vezza gli gridò dietro:
«Per la scaletta segreta!»
Scesero per la scaletta segreta. Il dottore cadde e ruzzolò sino al fondo; ma fu tosto in piedia tempo di udire una imprecazione del giardiniere che si fermò di botto sulla scala.
«Il battello non c'è» diss'egli. «L'ha mandato via col Rico prima di pranzo.»
«Sarà tornato!» disse il dottore e spinse palpitando l'uscio della darsena.
Vuota. Le catene del battello e della lancia pendevano sull'acqua.
Fu per stramazzare a terra. Lì vicinolo sapeva benenon vi erano altre barche.
«Giardiniere!» diss'egli. «Al paese! Una barca e degli uomini.»
Il giardiniere sparve per la porticina del cortile.
«DioDioDio!» esclamò il dottore alzando le braccia.
Gli altri continuavano a gridare dalla loggia «Presto! Presto!»
Ed ecco il giardiniere tornare di corsa.
«Occorre anche il prete?» diss'egli.
Il dottore gli mise i pugni al viso.
«Stupidonon vedi che sono venuto via io?»
Colui non capì benema tornò viae il dottore corse di sopra.
Una finestra dell'ultimo piano si aperseuna voce debole domandò:
«Cosa c'è? Cos'è accaduto?»
Era la Giovanna.
Qualcuno rispose dal cortile:
«È succeduto che hanno ammazzato il signor Silla.»
«Oh Madonna Santa!» diss'ella.
Si udì il giardiniere gridare da lontano. Altre voci gli rispondevano. Il passo d'un contadino che scendeva a salti suonò sulla scalinata; lo seguì un altro. Venivan curiosiavvertiti da una scintilla elettrica. Il padrone era morto; entrarono in casa arditamente. De' ragazzi passarono il cancello del cortilescivolarono in casa essi puresaliron le scale. Volevano entrare nel salottosapevano che l'uomo era là. Ne uscì il dottore entratovi un momento prima.
«Via» diss'egli con voce terribile.
I ragazzi fuggirono.
Quegli parlò a qualcuno ch'era rimasto dentro.
«Fino a che non venga il pretorenessuno!»
Poi chiuse l'uscio.
Il Vezza e gli altri si strinsero attorno affannati.
«Euh?» diss'egli. «Non ve l'ho detto prima? Passato il cuore.»
Una finestra della sala era stata spalancata. Egli vi accorse e dietro a luiin silenzio angosciosotutti: il Vezzala gente di servizioi due contadini. Fu aperta anche l'altra finestra. Saetta era già lontana a capo d'una lunga scia obliqua sul lago quasi tranquillo. Marina si vedeva benesi vedeva l'interrotto luccicar dei remi. Il Vezzach'era miopedisse:
«È ferma.»
Intatti non pareva avanzasse.
«Nono» risposero gli altri.
Uno dei contadinisoldato in congedoch'era salito sopra una sedia per veder megliodisse:
«Con una carabina la butterei giù.»
Fanny andò via singhiozzandopoi tornò a guardare.
«Maper Diodove va?» esclamò il dottore.
Nessuno rispose.
Un minuto dopoil contadino ch'era in piedi sulla sediadisse:
«Va in Val Malombra. È dritta in mira alla valle.»
Fanny ricominciò a strillare. Il dottore l'abbrancò per un bracciola trascinò via e le impose di star zitta.
«Perché in Val Malombra?» diss'egli.
«C'è un sentiero che passa la montagna» rispose l'altro «e mena poi giù sulla strada grossa.»
«Non si può prenderlo quel sentiero dalla riva di Val Malombra» osservò il secondo contadino.
«Si può sì. Basta andar su al Pozzo dell'Acquafonda. È un affare di cinque minuti.»
«Eccoli!» gridò la moglie del giardiniere.
Un battello a quattro remi usciva rapidamente dal seno di R... per gettarsi di fianco sulla lancia.
Il dottore si accostò le palme alla boccaurlò a quella volta: «Presto!»
«La prenderanno?» chiese il commendatore.
«In acquano» si rispose. «La lancia in quattro colpi è a terra: per quelli là ci vogliono dieci minuti.»
Saetta si avvicinava al piccolo golfo scuro di Val Malombra. Il battello era in faccia al Palazzo. Ad un tratto due uomini lasciarono i remi e saltarono di prora gridandonon s'intendeva che.
«Una barca!» esclamò il dottore.
«Ferma!» urlò con quanto fiato aveva. «Ferma la lancia!»
Poi si volse ai due contadini.
«È il pretore. In fondo al giardino voialtri! E gridate!»
Urlò ancoraspiccando le sillabe:
«Assassinio! Ferma la lancia!»
Infatti un'altra barca veniva da levante verso il Palazzopassava allora a un tiro di fucile da Saetta. Malgrado il vociar disperato dal battello e dal Palazzoquella barca seguiva sempretranquillamentela sua via.
«Non sentono» disse il dottore. «Gridate tuttiper Dio!»
Egli stesso fece uno sforzo supremo.
Il Vezzai domesticile donne gridarono con voce strozzataimpotente:
«Ferma la lancia!»
La barca veniva sempre avanti.
Saetta scomparve.
7. Finalmente amato
Un'ombra nera comparve sulla porta aperta del salotto di don Innocenzonascondendo il cielo stellato; una voce disse:
«Niente.»
Il curato non la riconobbealzò il paralume della lucerna.
«Ah! Niente?» diss'egli.
«Niente?» ripeté Steinegge.
Si alzarono ambedue in frettasi accostarono al nuovo venuto.
«C'erano sei uomini» disse costuiil sindacocon la sua soffice e solida placidità lombarda. «Quattro guardie nazionali e due carabinieri. Han girato tutto il bosco. Giàse ci fosse statal'avrebbero trovata anche i primi quattro del battello che sono arrivati a terra un dieci o dodici minuti dopo di lei. È bell'e da vedere dov'è quella lì.»
Steinegge gli accennòcon una faccia supplichevoledi taceredi uscire. Il sindaco non capivama seguì nell'orto gli altri due chefuorigli sussurravano una parola.
«Ah!» diss'egli.
Non aveva veduto nel salotto un'altra persona seduta in un angolo tra il canapè e la parete. Ella non aveva dato segno di vita all'apparir del sindaco né durante il suo discorsoma si alzò poi che il salotto rimase vuoto e venne sulla porta dell'orto dove il lume della modesta lucernetta moriva nelle grandi ombre chiare della notte serena senza luna.
«C'è chi vuol sostenere» diceva il sindaco dilungandosi con il curato e Steinegge verso il cancello «che abbia preso i monti. Ma s'immagini un po' una donna come quella se vuol prendere i monti! Per andar dovepoi? Io non ci metto nessun dubbio. Leiè giùquieta come un olionel Pozzo dell'Acquafondasa benequel buco che c'è là in Val Malombra.»
Edith non poté udire altroperché coloro svoltarono il canto della casa e in cucina c'era crocchiosi parlava forte. Ell'andò a sedere sul muricciuolo in faccia alla porticina chiara che gittava tante chiacchiere nella notte solenne.
Erano tutte donne là in cucinavecchie comari linguacciuteamiche di Marta.
«Maledette zucche» diceva una voce rudesoverchiando le altre «non capite che la è sempre stata mattapeggioquasidi quella d'una volta? Lui era il suo amorosoche anche l'estate passatoquando fu quisi trovarono insieme di notte fuori di casae questo lo ha raccontato anche il pitòr se vi ricordate bene. Adesso lui voleva piantarla e lei non ha detto né uno né duee ha fatto il colpo. Eh! Ce ne sono bene tutti i giornisulle gazzette di quei fatti lì!»
«Oh anima!» disse un'altra comare. «E come faceva ad averci le pistole?»
«Ce l'ha sempre avute le pistole. Almeno questo agosto ce le aveva di sicuroperché il giardiniere lo raccontava che la sua padroncina si divertiva a sparare addosso alle statue.»
«E il signor dottore» saltò su una terza «dice che aveva paura che la si volesse ammazzar lei; ma che non ci è mai venuto in mente che volesse ammazzar quell'altro.»
«Non avrà saputo bene la storia. Sì che si voleva ammazzare quella lì! Dicono ch'è giù nel Pozzo dell'Acquafonda. Credeteci voialtre. So anch'io che non l'hanno trovata. Una gamba di quella sorta! L'ho incontrata io due o tre volte su per i boschi. Bisognava vedere che demonio! Chi sa dove l'è a quest'ora. Guardatese ha incontrato quella compagnia di zingari che c'è intornonon mi stupirei niente che si fosse messa con loro. E non son mica io sola che la pensi così.»
Le altre non credevanodicevano che bisognerebbe scandagliare il Pozzo dell'Acquafonda. Ma questo non era possibile per la profondità grande e perché il Pozzo era tutto a gomiti.
Intanto il sindacoil curato e Steinegge ritornaronosempre discorrendosui propri passi. Essi dovettero vedere bene Edith sul muricciuoloperché dalla porta della cucina un poco di chiarore giungeva sino a lei.
«Credano pure» diceva il sindaco «qui la è una voce sola: se lei era mattalui era un poco di buono anche lui. Perché già è stata una gran figura quella di venir qua a far l'amore con la signora donna Marina intanto che il povero signor conte era in punto di mortee proprio quando lei doveva sposarsi con un altro. Ci pare? Diceva giusto il pretore stasera che la ci sta bene d'aver fatto quella fine.»
Steinegge avea visto Edithma pensò che fosse meglio per lei udire queste cosepoiché il curato gli aveva fatto sperare che non si trattasse di una passione profonda.
«Mi sono ingannato anch'io» diss'egli «ed era facile ingannarsi su quest'uomoperché era simpaticoassai simpatico. Io credo che era infinitamente meglio in parole che in fatti. Non ha mai avuto sentimento vero né per la marchesina di Malombra né per altra personaio direi. Vedeteho conosciuto molti di questi letterati. Sono tutti così. Sentono l'amore ora qui ora lì come un male nervoso che non è mai serio. L'altro giorno è corso al Palazzooggi andava viachi sa domani dove si sarebbe attaccato!»
«Bene» disse don Innocenzo «parce sepulto.»
«E ha sentito della lettera?» disse il sindaco.
«No. Che lettera?»
«Questo è il bello. Quel signor commendatore ha come frugato nella roba del signor Silla e ci ha trovato dentro una lettera incominciata. Non c'è su nominon c'è su che "caro zio" e poi una pagina di scritto che somiglia a un testamento. Pare proprio che sapesse di esser vicino a fare la fine che ha fatta. Come la spiegano loro?»
«Lo avrà minacciato di ammazzarlo» disse don Innocenzo.
«Gran brutte cose» concluse il sindaco «gran brutti pasticci! Anche viver da galantuomini è una bella robanon è verosignor curato? Di quegli affari lì non ne capitano.»
«Non giudichiamo nessuno» rispose il curato.
Dopo un breve silenzio il sindaco tolse congedo. Gli altri due lo accompagnarono sino al cancello. Quando egli si fu allontanatoSteinegge cinse col braccio la vita di don Innocenzogli posò la fronte sopra una spalla.
«Povera Edithpovera Edith» diss'egli.
«Non temaè forte la Sua Edithe ha poi in sé un'altra forza che vince tuttoanche la morte.»
«Sìma soffriràsoffrirà! Non Le pareva però che gli fosse molto attaccatanon è vero? Me lo ha già dettoma me lo dica ancorami dica proprio sinceramente quel che pare a Lei.»
Era scuroper fortunae Steinegge non poteva vedere sul viso sincero di don Innocenzo i suoi veri convincimentiil dolore d'aver incoraggiato esso pure l'affetto di Edith per quell'infelice.
«Mi pare di no» rispose strascicando le parole. «Spero di no. Era una conoscenza molto recente. Spero che potrà dimenticare presto ogni cosa come un brutto sogno. Ha pensato bene Leidi partire domattina. Me ne dispiacema è necessario. Là a Milano bisogna non parlarne piùmai più. E adesso zitto.»
Si avvicinarono a Edith camminando adagiosenza parlare. Quando arrivarono a leiella si alzòsi unì ad essi. Tornarono insiemelungo il muricciuolosino in faccia alla porta del salotto. Steinegge piegò a quella voltaEdith sedette sul muricciuolo.
«Ah» diss'egli fermandosi «io credeva...»
«Non quipapà?»
«Mi pare che per te fosse meglio entrare.»
Ella si alzòabbracciò silenziosamente suo padre e rientrò in salotto con luiandò a sedere nell'angolo di prima. Steinegge e il curato sedettero anch'essi mutiguardando oscillar l'ombra intorno al piedestallo della lucerna. Le voci della cucina si spensero. Una dopo l'altra le amiche di Marta passarono nell'ortocome ombre di lanterna magicadavanti al salottosussurrandovi dentro un riverisco. Si udì il canto dei grilli e delle rane giù per le bassure dei prati.
«A che ora gli hai dettopapàal vetturino?» chiese Edith.
«Alle cinque e mezzocaraper il treno delle otto e mezzo.»
«E adesso che ore sono?»
«Le dieci.»
Non parlarono più. Un quarto d'ora dopo entrò Marta per vedere se vi fossero disposizioni di andare a letto. Guardò un momentoesitanteil suo padrone e si ritirò in punta di piedi come sarebbe uscita di chiesa in un momento solenne. Poco dopo rimise dentro la testa e domandò se doveva chiudere le imposte.
«No no» rispose Edith.
«Non è un poco umido?» disse Steinegge volgendosi a don Innocenzo.
«Oh noa quest'altezza no» rispose il curato.
Ma Edithsi curava ella se fosse o non fosse umido? Per quella porta si vedeva un arco di cielo azzurrotutto occhi scintillanti.
Stellesoggiorno di pacecome siete lontanedolcezza e speranza nostra! Come si senteguardandovi quando il cuore è purola piccina vanità odiosa di tante cose che paiono grandi al solela bellezza sublime della morte! Indefinita via delle anime che salgono eternamente di vita in vitadi splendore in splendorecome si sospiranella tristezzache la notte veridica tolga via dagli occhi nostri il chiarore cieco che nasconde te e le tue case lucenti! Allora lo spirito vien meno di desideriosi figura essere atteso lassùesser compiantoesser guardato con dolcezza grave da gente che ci amaconosce il mistero che ci condanna qui al doloreconosce i nostri pensieri e vede i nostri errori tacendoperché un'alta potenza inflessibile lo vuole.
Marta girava per la cucinasprangava gli uscitossivapreparava i lumibattendoli sulla tavola. Allora Edith ruppe il silenzio.
«Sarai stancopapà» diss'ella «e domani devi svegliarti per tempo.»
Steinegge fu lievemente commosso di udir così calma la dolce voce.
«Io credo che andrò a lettosì» diss'egli. «Domattina prima di partire debbo stare anche un poco qui col signor curato.»
Questi chiamò Martale disse di portare un lume e di porre le chiavi della chiesa in salottosul tavoloprima di andare a coricarsi.
Edith non si moveva.
«E tu» disse Steinegge «non vieni?»
Ella rispose che non aveva sonnolo pregò di lasciarla ancora un pochino con don Innocenzoper quest'ultima sera.
Suo padre si dolse affettuosamente che lo mandasse a letto lui.
«Ma tu ne hai bisogno» diss'ella.
Lo abbracciògli sussurrò all'orecchio un saluto commosso. Egli balbettò poche parole incomprensibiliprese il lume e salì le scale come se andassecolla sciabola in pugnoal nemico.
Marta recò un altro lume pel suo padrone; ma don Innocenzoa un cenno di Edithcongedò la domesticale disse di andare pure a letto.
Appena si dileguò su per le scale il rumore de' passi di costeiEdith giunse le mani e guardò il curato.
«Dio L'ha esaudita» diss'egli. «Ha accettato il suo sacrificio.»
Ella lo guardava semprea mani giuntee non parlava; ma le si vedevano lagrime negli occhi. Don Innocenzoguadagnatooppresso da quel dolore intensotacque.
Edith piegò la fronte sul braccio del canapè e disse pianocon voce soffocata:
«Non poterlo difendere!»
Riprese dopo un momento di silenzio.
«Anche mio padre! Tanto ingiusto!»
«Ma noingiusto» si provò a dire don Innocenzo.
Ella alzò una mano senza rispondereindi la posò sul legnolo strinse nervosamentemordendosi le labbra evinto il singhiozzo che l'assalivadisse:
«Venga qua.»
Il curatostretto egli pure alla gola dall'emozionesedette sul canapèvicino a lei.
«Vengo» diss'egli «ma non parliamo di questoparliamo dell'altra buona notizia che Suo padre Le ha dato e che ha dato anche a me. Tutto il resto è stato un cattivo sogno di cui non abbiamo colpa; dimentichiamolo.»
«No» rispose Edith con passione «non me l'ha detto Lei ieri sera che dovevo portarlo nel cuore? E adesso che tutti lo accusanolo insultanoed egli non può dire una sola parola di difesaavendone tanteiodon Innocenzolo dimenticheròlo abbandonerò anche col pensiero? Mai fin che avrò vitae spero che lo potrà sapere nel mondo più giusto in cui si trova. Lui senza sentimento? Ascolti.»
Il curato piegò il fianco e il capo verso di lei che sempre china sul braccio del canapèparlava con un fil di voce.
«Vorrei che lo avesse conosciuto come l'ho conosciuto io. Aveva un sentimento verosapiù delicato di quello di una donna. Ed è stata la sua sventuraperché così non poteva riuscire nel mondo né intendersi con la gente solita. E si è chiuso in sénelle sue amarezze. Quando poi gli è mancato un ultimo appoggioè caduto. Io credo che avesse religione: ho inteso da lui discorsi pieni di sentimento religioso. Quando parlava di Dio e dello spiritosi esaltava. Aveva capitoeglii miei segreti pensieri circa mio padre e li approvava nel suo cuore. Me ne sono accorta un giorno dal modo che mi guardò incontrandoci mentre uscivamo dal Duomomio padre ed io. Veniva da noi quasi tutti i giorni e non ho mai udita una parola che fosse da riprendere. Era scrupoloso in questo. Noi in Germania non siamo educate come le giovani italiane e conosciamo più il mondo: ma egli aveva un tal rispetto per meuna tal prudenza in tutti i suoi discorsicome se io fossi una bambina di dieci anni. Anche nella sera al passeggio mi parlò con effusione di cuoresenza una parola sola diretta che potesse turbarmi e farmi arrossire. E adesso sentir quel sindaco fare quei discorsi orribili!»
«No... non mi pare...» balbettò don Innocenzo.
«Ho udito tuttotuttosignor curato. Io sono sicura che se egli è ritornato al Palazzovi fu richiamato da leichi sa in che modocon quali istanze! Mi ricordo troppo i discorsi che mi ha fatto andando all'Orrido. Le dico che sono sicura come se avessi veduta la lettera o il telegramma. E lui allora era negletto o respinto da tutti. Chi sachi sadon Innocenzoche cattivi pensieri avrà avutopovero giovanevedendosi trattar così bruscamente da mecon tutti i miei principii religiosi! Lui che domandava aiuto per non affondare! Potevo ben fare diversamenteesser sinceraparlargli allora come gli ho scritto dopo; ma ho creduto...»
Non poté continuare.
«Nosignora Edith» rispose don Innocenzo «non bisogna mettersi in mente queste cose. Come poteva Ella prevedere un caso simile? Volendo compiere un sacrificio tanto nobilesi è comportata nel modo più saggiocon lo scopo di non favorire illusionidi lasciare il giovane interamente libero. La sua coscienza è purissima e dev'essere tranquilla.»
Dopo qualche tempo Edith levò il viso.
«E non esser qui domani!» diss'ella.
«È megliocreda. Non potrebbe dissimulare con suo padre: e chi sa quanto soffrirebbe di vederla così.»
«Almeno» sussurrò Edith «guardi che qualche pietosa creatura lo segua anche lui. Preghi anche dopo» soggiunse «e faccia pregare.»
Don Innocenzo glielo promisema ella non era contenta ancoraaveva qualche penosa parola da aggiungere.
«Hanno scritto a' suoi parenti?»
«Non lo so.»
«Già non lo amavano neppur essi. Vorrei pensare io per una memoriacome posso. Bisognerebbe che mi aiutasse Lei perché nessuno ha da saper niente e mio padre meno di tutti.»
Don Innocenzo le prese una manogliela strinse silenziosamente.
«Le manderò un piccolo disegno da Milano» disse ella. «Per questa cosa Lei mi scriverà ferma in posta.»
«Farò tutto» rispose il prete «come per un fratello.» L'olio della lucerna veniva menola notte entrava nella camera.
Don Innocenzo si alzò.
«Adesso vada a riposare» diss'egli. Ma Edith chiese di aspettare un poco onde ricomporsi pel caso che suo padre non dormisse ancora e la chiamasse.
«Guardi» disse affacciandosi alla soglia «che pace!»
S'appoggiò allo stipite contemplando il cielo che si veniva coprendo di nubi. Però molte stelle scintillavano ancora in mezzo a grandi finestre azzurre. L'orologio della chiesa suonò le undici.
«Un'ora» disse Edith «e poi è finito anche questo giorno. Mi pare che domani il sole nascerà di un altro colore e che lo vedrò poi sempre così. Quanti anni ancora?»
«Oh moltimolti. Glielo auguro con tutto il cuore.»
«Non so. Penso a mia madre.»
«Perché a Sua madre?»
Edith non risposeprese un bastone ch'era lì fuori appoggiato al muro e tracciò con la punta dei segni sulla ghiaia.
«Cosa fa?» chiese il curato.
«Nulla» diss'ella e colla punta stessa diede di frego a quei segni.
La finestra di suo padre fu aperta in quel momento. Lo si udì esclamare:
«Cosa è questo? Ancora alzati?...»
«Ancorapapà. Non senti che notte dolce? Non abbiamo sonno.»
«Si fa scuro verso i montieh? Io ho paura che avremo acqua domattina. SaiEdithho pensato che a Milano bisogna ricordarsi della lezione in casa Pedulli-Ripa poiché siamo partiti senza avvertire la signora.»
«Sìpapà.»
«Sarebbe bene anche andare dalla signora M...che riceve domani.»
«Volentieripapà.»
«Scusaavresti per caso veduto il mio bastone?»
«È qui.»
«Vuoi essere così buona di portarmelo su per unirlo all'ombrello e di portarmi anche il portasigari che ho dimenticato in salotto?»
«Vengo subitopapà.»
Ella entrò nel salotto e fece a don Innocenzo un saluto silenzioso con la mano. Quegli raccolse il portasigari lasciato da Steinegge sopra una sedia e lo porse a lei checonoscendone l'originelo prese senza guardarlo.
Il curatorimasto solopensò:
"Cos'avrà scritto?"
Spense la lucernaaspettò che Steinegge chiudesse la finestra e che tacessero i passi sul soffitto del salotto; quindi tolse il suo lumicinoandò fuori e si curvòinchinandolo sulla ghiaia a guardare.
Certo era stata tracciata una parola nella ghiaiama non si poteva decifrarla perché la prima metà n'era cancellata. Ne rimanevano intatte le quattro ultime lettererigide lettere straniere che il curatodopo molto studiolesse così:
...mweh.
Il resto era illeggibile.
«Weh deve significare male in tedesco» disse tra se don Innocenzo. «Ma l'm?»
Finì di cancellare la parola e rientròpensosoin salotto.
Intanto nell'ombre sinistre del Palazzol'angelo del Guercino pregava senza posa per l'uomo gettato d'un colpoa tradimento. nell'eternità. La sua vita era stata brevepovera di operemacchiata di molte segrete miserie esulla finedi errori già misurati dal duro giudizio umano. Tuttaviaegli aveva sostenute virilmente le battaglie dello spiritocadendo a ogni trattoma rialzandosiferitoper combattere ancora; aveva amato sino alla febbre e alle lagrime divini fantasmi che non ha la terraideali di una vita sublime che intravvedevatribolato e solonel futuro; era passato più volte con amaro cuore ma con fermo viso tra la noncuranza degli uomini e il silenzio di Diosentendosi sulla testa l'ombra di un nemico derisore; peggio ancorasentendosi mal connesso nell'intima sua essenzaafflitto da dolorose contraddizioniinetto alle opere grandi che vagheggiavaalle piccole che lo premevanoa farsi amarea vivere; sospinto quindi ogni giorno un passodalla violenta malignità delle cose e dalle infermità della propria naturaa qualche paurosa rovina.
Scoprendogli il volto lo si sarebbe veduto placido. Forse lo spiritodeposti gli uffici del moto e del sensosciolto da ogni legame vitalevi posava ancora tranquillo; come chi è sul punto di lasciar per sempredopo lungo soggiornouna casa onde pur desiderava partirsiche sta sulla soglia contentoma senza rancori ormai né impazienzeanzi con un'ombra di pietà per le camere chiuseabbandonate al silenzio. Sapeva di andare alla paceal sospirato riposo; e sapeva purenella chiara visione appena incominciata per essodi essere finalmente amatosecondo i suoi sogni della vita terrestreda un cuore tenero e forte che gli sarebbe fedele senza fine. Sulla faccia opposta di tante cose che guardate da questo nostro lato della morte gli eran parse iniquamente scureammirava un ordinato disegnouna luce di bontà e di sapienza.
Ma le fontanediscorrendo tra loro nella notte quietadicevano che Marina era passata come Ceciliail conte Cesare come i suoi aviche nuovi signori verrebbero per passare alla loro volta e non valeva la pena di turbarsene. Quandopresso l'albauscì la luna e si posò sul pavimento della loggiasulla pompa delle dracene e delle azalee che nessuno avea pensato a rimuovereella parve cercar là dentrocol suo sorriso voluttuosociò che non si trovava ancoraquella nottenel Palazzoma che la vicenda delle cose umane vi ha quindi portato: degli altri occhi da empir di chimeredegli altri cuori da muovere alla passioneinvece di quelli che se n'erano appena liberati per sempre.