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Antonio Fogazzaro


LEILA



Sommario

Cap. 1: Preludio mistico.

Cap. 2: Fusi e fila.

Cap. 3: Trame

Cap. 4: Forbici

Cap. 5: Spunta l'ombra del sior Momi

Cap. 6: Nella torre dell'orgoglio

Cap. 7: Verso l'alto e verso ilprofondo

Cap. 8: Sante alleanze

Cap. 9: Nel Villino delle spine

Cap. 10: In giuoco

Cap. 11: Contro il mondo e control'amore

Cap. 12: Intorno a un'anima

Cap. 13: "Aveu"

Cap. 14: Una goccia di sangue paterno

Cap. 15: O mi povr'om!

Cap. 16: Notte e fiamme

Cap. 17: La Dama bianca delle rose


"A mia figlia Maria".


Capitolo Primo


PRELUDIOMISTICO.


1.

"SIGNORINA" disse Giovanniil domesticoentrando frettolosoansantenella sala da pranzo.Aveva cercato inutilmente la signorina Lelia nel giardinonelsalonenella sua camera. Erano le nove di serail padrone e lasignorina avevano finito di pranzare prima delle ottoil padrone siera chiuso quasi subito nel suo studiola signorina era uscita ingiardinoa Giovanni non poteva venire in mente che fosse ritornatanella sala da pranzo. Ella era lìalla finestra.

Pareva guardare l'oscuro bosco dicastagnia levante della villaoltre il borro dove un'acquicellaquerula scende dal piccolo lago nascostopiù sudietro ungiro di erbosi dorsicinto alla grandesevera montagna di Priaforà.Tendeva in fatto l'orecchio a un remoto fragore che cresceva emancava collo spirare del vento: al fragore di un treno ancoralontanoin corsa verso quella conca della Val d'Astico che la villasignoreggia. Intanto si sgualciva lentamente una lettera nella manoinquieta. Alla chiamata del domestico si voltò di soprassaltostringendosi la lettera nel pugno.

"Che c'è?" diss'ellacorrucciata.

"Credo" rispose il domestico"che il signor padrone non stia bene."

La signorina Lelia mise unaesclamazione di sgomento:

"Cosa?"

L'altro rimase lìscioccoaguardarla. Ella diede un balzo verso l'uscio del salonesi arrestòdi bottosi voltò al melenso uomolo interrogò:

"Dov'è?"

"Nello studiocredo."

"Cielo!" ripeté Leliasdegnosamente. Corse nel salone. Sull'entrata della sala delbiliardoche mette allo studioincontrò la camerieraTeresina. La cameriera le si fece incontro accennandolea manispiegatedi fermarsi.

"Niente niente" diss'ellasottovoce. "Non è niente." Avvertì lasignorina che le si era aperto il medaglione pendente dalla cinturaglielo chiuse. Lelia s'impazientì che si occupasse delmedaglione invece di raccontarle l'accaduto; ma ne fu tranquillata.

"VadaLeiGiovanni" disseTeresina al domesticoche aveva seguito la signorina e ascoltava frastupido e curioso. "Prepari l'acqua fresca nella camera deiforestieri."

Lelia tremò daccapo. C'eraqualche cosa che Giovanni non dovesse sapere? "Non signora no"rispose Teresina al suo modo trentino. Però parve a Leliach'ella tardasse troppo a spiegarsiche fosse preoccupata di nonspaventar lei.

"Ma insomma?" diss'ellaimpaziente.

Infatti la camerieramolto superioreper criterioper tattoper educazioneal proprio statoaveva cosepiuttosto gravi a dire e le faceva pena la signorina cosìdelicatacosì nervosacosì eccitabile.

Diede un'occhiata all'uscio dellostudio.

"Se vien fuori" disse piano"ci trova qui a discorreres'insospettisce. Sarebbe megliopassare di là."

Lelia attraversò rapidamente ilsaloneritornò nella sala da pranzocolla cameriera. Benchéfosse impaziente di udirne il raccontofece attenzione per unmomento al fischio del trenosi domandò se fischiasse da SanGiorgio o dalla stazione di Seghe.

"Dunque?" diss'ella.

Dunque; Teresina aveva recato alpadrone la corrispondenzasecondo il solitonello studio. Proprionel momento dell'entrarvilo aveva veduto piegare il capoprimaall'indietro e poi sulla spalla destrachiudere gli occhiaprirlistralunatichiuderli daccapo e daccapo mostrarne il bianco.. Alloragli aveva spruzzato il viso d'acquaaveva suonato per il domesticolo aveva spedito in cerca della signorina; perchéa dir veroun po' di spaventoda principiolo aveva provato. Intanto ilsignoredato un gran sospirosi era ricompostoaveva parlato di unassalto di sonno. Poi si era messo ad aprire i giornali e le lettere;e perché Teresina stava lì dubbiosa se uscire orimanerese fargli qualche domanda o nol'aveva congedata.

Ella si era trattenuta fuoridell'uscioa origliare. Non aveva udito che spiegazzar carte.Perciò...

Due tocchi di campanello elettrico.

"Il signor padrone!" esclamòTeresina. "Per me!"

E corse via.

Lelia la seguì per alcuni passisi fermò nel salone a guardarle dietroa guardar l'usciodella sala del biliardo che tornava lentamente a chiudersistette inascoltoaspettando ch'ella ricomparisse. Intanto il treno fischiòsotto l'altura di Santa Mariapoco prima di entrare nella stazionecapolinea di Arsieroa dieci minuti dalla villa dove Lelia vivevacol signor Marcello Trentodetta "la Montanina" perchéassisa sotto un cappello di tetti acuticol dorso alla montagna fraselvette e prati pendenti al Posina profondoha l'aria di unaboscaiuola discesa dai dirupi della Priaforàche riposiseduta sotto il grave carico e guardi.


Teresinadevota al signor Marcellocome lo era stata per vent'anni alla sua povera moglie morta da dueannibussò all'uscio dello studiotremando che il padrone sisentisse male. Udito un franco "avanti!" si rincoròentrò sorridente perché non le si scoprissero in visole tracce del passato sgomento.

L'uscio dello studio si apriva asinistra del seggiolone dove il signor Marcello sedeva davanti a untavolo ingombro di cartenella luce dell'antica lucerna fiorentinadi ottone a tre beccucciche aveva illuminato il capo canuto di suopadre e ora illuminava il suo.

Il suo portava una selvaggia crinieramista di grigio e di fulvoirta come forse ne gittano i cranii ditempra più maschia. All'entrare di Teresina egli giròverso di lei il visodove i baffi e il pizzo duravano piùaccesi dei capelliesotto la breve fronte rugosasi aprivano gliocchi quasi bianchiterribili nella colleradolcissimi nellatenerezza: un duro visoin quel momentod'inquisitore. Ella sentìcrucciandosene invanodi arrossire fino al collo.

"Come va" diss'egli "chequi è tutto bagnato?"

"Non so no" rispose lacamerieraarrossendo ancora di più.

"Come"non so no"? Imiei capellichi me li ha bagnati. Chidicochi? Non capite? Cosaserve che facciate l'oca?"

La cameriera comprese che a negareancora avrebbe fatto peggio.

"Lei aveva preso un po' di sonno"diss'ella. "Ho creduto che si sentisse male e Le ho spruzzatoaddosso dell'acqua. Scusi tanto!"

"Che oca!" fece il signorMarcello. "Prima non capivoma poi me lo sono immaginato chedoveva essere successo così. Siete una grande ocaperò!"

"Ehsissignore."

Teresina era contenta. Non le parevavero che il padrone continuasse a credere di aver dormito. Si ritiròin frettama il signor Marcello la fermò con un gesto.

"Chi vi ha ordinato di andar via?Ditemi se il treno di Schio è arrivato."

"Non so no" rispose Teresinae si scusò tosto del suo modo trentino che irritava sempre ilsignor Marcello. Girò adagio davanti al padrone e prese losmoccolatoio per un lucignolo della lucerna fiorentina che fumava.

"Lasciate stare!" esclamòil padroneincollerito. "Volete che non sappia smoccolaremeglio di voi?"

La cameriera si scusò daccapoumilmenteecamminando in punta di piedi per non irritare ilpadrone anche col suo passouscì. Aveva appena incominciato ainformare Lelia di questo colloquioquando due nuovi tocchi dicampanello la richiamarono.

"Cosa vuoleadesso?" pensòTeresinaturbataritornando in fretta verso lo studio.

Vide subito che il signor Marcelloaveva un'altra facciauna faccia mansueta.

"Scusate" diss'egli quasisottovoce. "Forse sono iola bestia. Come avevo gli occhiquando dormivo?"

"Chiusi."

"Non li ho aperti mai? Non neavete veduto il bianco?"

Teresina si sentì gelare. Negòma dopo un istante di silenzio. Il padrone le piantò in visoquel suo sguardo investigatore che le dava i brividi. Ella siconfuse. Invece di negare ancoradisse che non ricordava.

"E dove avete trovata l'acqua?"riprese il signor Marcellotranquillamente.

Teresina ne aveva preso un bicchierenell'attigua camera da letto di luial robinetto del lavabo. Capìchedicendoloveniva ad ammettere una tal quale durata di queldubbio sonnonon trovò lì per lì bugieopportunerispose la veritàma col tono incerto di chi lamette fuori a malincuore. Il signor Marcello la guardò ancoraun pocodisse dolcemente:

"Andate purecara. E quandoarriverà il signor Albertiavvertitemi."

Teresina uscìtutta sgomentatasenza saper perchédi quella gran dolcezza. Era la terzavoltain ventidue anni che il padrone le diceva "cara".Gliel'aveva detto la prima voltacon indifferenzasalutandolaquando si era presentata per entrare al suo servizio.

Gliel'aveva detto la seconda voltaconun impeto di commozionequando gli era morto l'unico figliuoloAndrearingraziandola dell'assistenza che gli aveva fatta insieme aluila madre essendo inferma del male che la uccise un anno e mezzopiù tardi. La dolcezza tranquilla del terzo "cara"era una cosa nuova.


Rimasto soloil signor Marcello sialzò lentamente in piedipallido.

Voltosi alla grande finestragiunse lemani in atto di preghieraguardando il cielo tenebroso sul Torrarosulla folla dei grandi castagni scendenti per la costa di Lago diVelo al burrone del Posina.

Le sue labbra non si mossero; parlaronogli occhi gravisolenniriverenti. Egli toccava i settantadue annicome suo padre quandouna seraquesti era stato visto piegar ilcapo mentre conversavastralunar gli occhi e riaversipersuaso diaver dormito. Il medico aveva avvertito la famiglia che si trattavadi arteriosclerosi e che conveniva prepararsi al peggio. Cinque mesidopoil giusto pio vecchio era stato trovato morto nel suo lettoardendogli a fianco la stessa lucerna di ottone che ardeva ora sultavolo del figliuolo.

La fiamma silenziosa pareva vivere ericordarepareva intendere il tragico momento. Esso non era tragiconella mente del vecchio; era solenne. Era il vago annunciodell'approssimarsi di un altro momentoil più feliceoramaiche Iddio potesse concedergli sulla terrail momento di partirsenedi ricongiungersi per sempre alle care anime desiderateil momentoper il quale aveva tanto pregatocon tanto ardenti lagrime. Ora ilsuo cuore era pieno di dolcezza e anche di tremore; era pieno di Diobuono e anche di Dio giudice. L'anima sua ardeva e tremavasenzaformar parolecome la conscia inquieta fiammella della lucerna.

La cameriera dubitò che ilpadrone potesse aver pensato al modo della fine di suo padreda leiconosciuto. Non ne parlò alla signorinache probabilmente nonsapeva. Solo le propose di avvertire il medico e di evitare al signorMarcello per quella serala commozione di un incontro con questogiovine Albertil'amico prediletto del suo povero Andrea. L'Albertiveramenteveniva a Velo per visitarvi il curato di Sant'Ubaldo; mail pretenon lo potendo alloggiareaveva chiesto per luil'ospitalità della Montanina.

"Proprio stasera" brontolòTeresina "ha da venire!"

Lelia credette udire un passo ingiardino.

"Lui sicuramente" disse lacameriera. "E' un pezzo che il treno ha fischiato..."

Lelia scattò. "Nonchiamarmi!" diss'ellae corse via per l'uscio che mette allascala di serviziosalì adagio adagiosostando spesso atender l'orecchionella sua camera. Si affacciò allafinestra. Nessun passonessuna voce. Pensòmalcontenta disé: "che me ne importa?".

Elasciata la finestrarilesse lalettera sgualcita che si era stretta nel pugno alla chiamata diGiovanni. La rilesse corrugando le sopracciglialevandone talvoltagli occhidue occhi singolarid'indefinibile colorea guardarfieramente qualche proiezione del suo pensiero nell'aria. Poi se lastrinse ancora in pugnola gittò a terra.

In quel momento entrò dallafinestra aperta un suono di voci lontane.

Lelia trasalìporse il visoascoltando. Le voci venivano dal bassodal fondo del giardinodovepresso la chiesina di Santa Maria ad Montesè l'entrata deipedoni. E subito le sopracciglia bionde si corrugarono ancorailpiccolo viso capriccioso riprese una espressione indicibile difierezza altera. Ella si alzòraccattò la lettera echiuse la finestra Che le poteva importare di questo Alberti?

Non era né figlia nécongiunta del signor Marcello. Era il fiore puro di uno stelo amarospuntato fra la putredine. Il figlio unico dei Trentoil poveroAndreal'aveva amata quasi bambinavoleva farla sua sposa. Mortoluii suoi genitoriche gli avevano sempre contrastatorisolutamente questo matrimoniosi erano presa in casa Leliacomperandolasi può direa denariperché lafanciullastatagli così carafosse preservata dallecorruzioni del mondo; e anche per un rimorsonon della coscienza madell'amoreper il dolore di aver fatto soffrire il loro diletto.

Fin da giovinetta ell'aveva conosciutoi suoi a fondosopra tutto sua madrecon acume precoceperl'esperienza di se stessadelle tendenze che sentiva nel suo propriosangueavvertite a dodici anniquando la vitagrazie a quel chevedeva e udiva in casanon aveva più misteri per leitendenze disprezzate e odiate con tutta la forza del suo spiritoalterocome nell'intimo suo disprezzava la madretanto che ildisprezzo le sprizzava talvolta di sotto i modi corretti duramente.Tra i dodici e i quindici era stata in collegioal Sacro Cuoredistinguendovisi per ingegnoamore allo studiosingolari attitudinimusicali. A sedici aveva creduto riamare Andrea Trento.

Egli era sui diciotto e studiavamatematiche a Padovapatria di Lelianatavi dal signor Girolamo edalla signora Chiara Caminche si facevano chiamare da Camin. Ilsior Momi era un volgare affaristafallito più di una voltamescolatosi anchein vario modoalla politica.

La signora Chiara aveva militatononsenza glorianella galanteriasi era divisa dal maritoin viasommariaquando appunto lo studente Trentovicino di casa deiCaminaveva incominciato a innamorarsi della figliuola. Giàmaturasi era stabilita a Milano con un vecchio signore austriacomorto poi quasi subitoe ne aveva ereditata una discreta fortuna.Allora si era data alla pietàaveva aperto la sua casa apretia fratia suoreche facilmentesenza tanto indagarel'avevano creduta vedova e nulla sapevano del marito di Padova.

Questialla sua voltasi teneva incasa una donnaccia per governantedissimulando molto le propriedebolezze ma tollerando troppo che la rozza creatura prendesse dellearie da padrona.

Lelia aveva accettato l'amore di Andreaper gratitudineper compiacenza di giovinetta ammirata e desideratapiuttosto che per un vero ricambio di sentimento. Egli era troppogiovaneper leitroppo gaiotroppo immaturo a penetrare conadeguato sentimento in quel dramma morale che si agitava nel profondodell'anima di lei. BellointelligentegenerosoAndrea Trento eraun umile di cuore; ingiusto verso il proprio ingegnoera pronto adammirare l'altrui.

Fra i suoi amici prediligeva MassimoAlbertidi Milano cui era legato piuttosto per vecchie relazionidelle due famiglie che per consuetudini di Università. MassimoAlberti maggiore di parecchi annistava compiendo a Padova gli studidi medicinacominciati a Romaquando Andrea passò dal liceoall'Università. Questi ammirava l'amico per l'ingegno e lacultura singolariper la severità del costume.

Stimava grandemente superiore a séanche Lelia e le parlava molto di Albertich'ella non aveva vedutomai. Era giunto a dirlein un impeto di amore e di umiltàche Alberti sarebbe stato per essa un marito più degno. Leliapunto umile di cuoreusa correr diritta alle ultime conseguenze diun principio accoltoaveva pensato: "discorso virtuosomaspiacente e inopportuno". Ella non intendeva l'amore così.E si era rifiutata semprecon pretestia conoscere questo amico delsuo innamorato. La morte di Andrea l'addolorò tanto ch'ella sifece allora un concetto esagerato del proprio amorelo misuròinsieme alla pietàsenza distinguere. Quando suo padre ledissepiagnucolandoche gli s'imponeva un grande sacrificio per ilbene di leiche i vecchi Trento la desideravano per figliuola inmemoria del loro caro perdutoe chequantunque gliene sanguinasseil cuoreegli era pronto ad accettare una proposta cosìvantaggiosa per leiella indovinò il mercato che suo padre letacevaebbe uno scatto di ripulsaun impeto di offesa dignitàrivendicò a sé per un momento la tutela dell'onorefamiliareaffidata male a un padre spregevole; ma poi lo sdegnocontro di essolo schifo delle lordure da lui portate nel focolaredomesticofurono così grandi ch'ella ritornò sulla suaripulsa epensando al povero caro mortoaccettò.

Accettòma l'atto dell'entrarecomperatain casa Trentole fu durissimo. Capì subito cheuna condizione del mercato era stata il divieto a suo padre di metterpiede alla Montanina. Ne godette e ne soffrì al tempo stesso.Il suo contegno verso i Trento fusulle primefreddo. Ella ebbel'aria di significar lorosenza paroleche non sentiva gratitudineche sapeva di essere stata desiderata soltanto come una specie direliquia del loro figliuoloche i beneficati erano essich'ellapure si era fatta loro benefattrice solo in memoria di lui e non peraffetto. Posto il carattere focoso del signor Marcelloc'erapericolo di una rottura. Vi ebbero infattidopo le prime tenerissimeaccoglienze di luialquante burrasche. La dolce mansuetudine dellasignora Trento e il talento musicale di Lelia salvarono il nuovolegame. La signora Trento ammansò il marito coll'autoritàdella sua virtù e anche delle sofferenze che in breve lacondussero a morte. La musica fece il resto. Il signor Marcellodiscreto pianistavi cercava le parole impossibili degl'intimi suoisentimenti del doloredella speranzadei vaghi ricordi e rimpiantidella emozione mistica. Lelia ed egli portavano al piano la stessaintensa passione e gli stessi gusti. Certo antagonismo segreto potérestare lungamente nel cuore di entrambi; ma il caldo consenso neigiudizi e nei godimenti musicali rese loro più facile ilreciproco riconoscimentomisurato sì e intermittentediquanta morale bellezza era nelle loro naturee la reciprocatolleranzapure misurata e intermittentedi quanto all'uno spiacevanell'altro.

La morte della signora Trento determinòuna crisi nelle loro relazioni. Lelia si era lasciata prenderepocoa pocodalla mansuetudine dolce della signorae le sue curele sueattenzioni affettuose per la povera ammalata avevano intenerito ilcuore del signor Marcello. Ogni giorno più mitemente paternocon essaogni giorno più declinantenell'aspetto e nelportamentoverso l'ultima vecchiaiaogni giorno piùindifferente alle cose terrenefuorché alla musica eunpocoai fioripiù raccolto nei pensieri delle cose eterneegli aveva finito con ispirarle riverenza filialecon farle spessodimenticare i sentimenti provati al primo suo ingresso in casaTrento. Il caso del deliquio inavvertitola facciapiù chele paroledella cameriera Teresinala turbarono di un'afflizionesincerabenché la sua mente fosse tanto presa dall'annunciatoarrivo di Massimo Alberti. Tre anni erano trascorsi dalla morte diAndrea edopo i funerali dell'amicoAlberti non si era piùfatto vedere alla Montanina. Solo si ricordava negli anniversarii e acapo d'annoaffettuosamenteal signor Marcello. Questi glien'erariconoscentene parlavain quelle occasionia Leliasi dolevaqualche altra volta con lei di non averlo più riveduto. Lelialasciava sempre cadere il discorso. Le spiacenti parole del poveroAndrea non le erano mai uscite dalla memoria e la tenacità diquesto suo ricordo le dava noiadisgusto di se stessa. Se udiva quelnome dalle labbra del signor Marcellovi sentiva una specie dipersecuzione; e difficilmente il signor Marcello lo pronunciavasenz'aggiungervi qualche parola di stima o di simpatiache lairritava di più. Tale istintiva repulsioneinvece diattenuarsi coll'andar del temposi era venuta aggravando. Ella nonpoté a meno di associarlanelle sue riflessioniall'impallidire dell'immagine di Andrea e ad altri oscuri motidell'anima sua: tristezze senza nomefiamme di allegrieinesplicabili ch'ella durava fatica a comprimerelagrime provocatedalla musicaebbrezze brevi ma quasi paurose comunicatele dalla vitadella naturada prati in fioreda boschi nel rigoglio fresco delgiugno. Il senso di questi moti oscuri non le sfuggiva interamente.L'idea di tendere all'amoredi esservi tratta da istinti ciechi delsangue trasmessole da sua madre e da suo padresi associava nellasua mente al dubbio di un particolare germe di passione che potesseannidarsi in leimetter radice. Si spiegò cosìl'avversione a quel nome a quella persona; e il veder chiaro nelproprio interno la irritò maggiormente contro di sé.

Era dovere per lei di non amare maipiù: dovere verso la memoria di Andrea; dovere verso il signorMarcellotacitamente accettato coll'accettare la parte di reliquiaviva del morto; doveresopra tuttoverso se stessa che non siabbasserebbe mai a essere una delle soliteuna delle infiniteavendo sortito dal destinocon i genitori disonorati e il sangueinfettola offerta di una purezza gloriosa.

Nello stato del suo spirito e de' suoisensiil solo considerarsi nel fondo della memoria la materia oscuradove si poteva celare un germe di passionefaceva affluire il sanguea quella cellula cerebrale e qualche cosa vi si formava realmente perla potenza plastica del sangue. L'annuncio datole dal signor Marcellolietamenteche Massimo Alberti era per venire alla Montanina comeospitela fece rabbrividire. Seguì una reazione di sdegnoquasi di rimorso; ma insomma nell'esclamare "cosa m'importa diquesto Alberti?" Lelia sapeva di non esserepur tropposincera.

Prima di porsi a lettobaciò ilritratto di Andrea che portava nel medaglionebaciòl'anellino ch'egli le aveva donato in segno di pace dopo una vivacontesa. Spento il lumesi voltò sul fiancoverso il murosi tirò il lenzuolo fin sopra i capellie pianse.


2.

Massimo Albertiarrivato da Milanodopo un viaggio di quasi ott'ore nel caldo di un giugno ardentenella polverenel fumonello strepitocredevasalendo a piedidalla stazione di Arsiero alla Montaninasognare. Il cielosenzalunaera coperto; grandi fumate di nebbia pesavanobiancastresulla fronte della Priaforàsulle scogliere del Summanoaguzze nel cielo come una sega adagiata sopra le morbide vette delleboscaglie; la brezzolina del monte spandeva sull'erta sentoriselvaggimolte voci di acquicelle cascanti nei cavi dei burroni enon una sola nota di vita umana. La strada odorava di fango;piacevolmentedopo tanta polvere. Dove essa svolta dentro un vallonee tutto si discoprenell'altol'ammasso lunato di castagnicheporta un diadema nero di vette d'abetiil contadino di Lago di Velocerto Simonedetto Ciociche precedeva Massimo con le valigiesifermò per domandargli se andasse a Veloo a Sant'Ubaldooalla Montanina.

"Ma come?" fece Massimosorpreso. "Vado da don Aurelioa Sant'Ubaldo."

Allora quella testa fine che allaStazione gli aveva solamente fatte le scuse di don Aurelio rimasto aLago per assistere un vecchio infermogli disse tranquillamente:

"Perché nol ga postosaloel prete."

Massimo restò sbalordito. Comenon aveva posto? Se gli aveva scritto di una camera preparata perlui? Cioci gli spiegò la cosa a suo modo:

"Per via de Carneseccasalo".

Peggio che peggio. Carnesecca? Cos'eraCarnesecca?

"Per via ch'el se l'à toltoin casasalo."

Massimo rinunciò a capire.Insommadove lo mandava don Aureliopoiché non gli potevadare alloggio? Cavò stentatamente alla sua guida che donAurelio le aveva dato l'ordine di accompagnare il forestiere allaMontanina. E perchésanto cielonon lo aveva detto subito?

"Sempre che La comandassemeintendeva mi" disse Cioci.

Massimo lo pregò di tirareavanti verso la Montanina. Era malcontento.

Pensò che i pretianche imigliorianche i più carimancanoalmeno un pocodi tatto.Venerava il signor Marcello ma gli seccava di prendersi unaospitalità non offertagli seccava d'incontrarsi forseallaMontaninacon altri ospitigli seccava di non potervi godere lalibertà e la quietetanto sospirateche si era ripromessepartendo da Milanogli seccava di non essere stato avvertito intempo. Avrebbe ritardato. Fatto un centinaio di passiil bravo Ciocisi fermò e si voltò da capo a parlargli.

Il "prete" gli faceva direche il signor Trento lo ringraziava tanto di andare a casa sua.

All'ultima svolta. dove la strada dellaMontanina si diparte da quella di VeloCioci fece un'altra sosta eun'altra commissione tempestiva.

Il "prete" faceva dire alsignore di avvertirese avesse bagaglio speditoil signorcapostazione che lo si sarebbe mandato a prendere l'indomani mattinacon un carretto.

Massimo sorrise. Nononon avevabagaglio spedito. Rise anche Ciociquesta volta.

"Cossa vorlasior! Le geratante!"

Alla Montaninadunque. Il primomalumore di Massimo cedette ad altri pensieri. Gli strinse il cuorela memoria del morto giovinetto amicotanto carobuonofrancobriosoche gli parlava con entusiasmo di Velo d'Astico e dellaMontaninadella sua fiducia nella dolce bontà di sua madreche avrebbe piegato presto ai suoi desideriche poi gli avrebbeottenuto anche il consenso del padre alle nozze sospirate. E glidescriveva il quartierino della sua futura felicitàtrestanze e una terrazza sul lato di ponente della villa. Dov'erano lagioia e la dolcezza di tante speranzedov'era quel capo biondodov'era quel bel viso scintillante di vita e di gaiezzadov'era quelcuore aperto e caldo? Sotterra; e le montagnee i boschi e la vocedel Posina profondoe i sussurri delle acquicelle queruletuttodurava come primaamaramente. Ecco il castagno anticodal troncotripartito a candelabroeccosullo svoltar della salitail biancorfioco della chiesetta bizzarraecco il biancor fiocoin altodellavilla e il fosco sopracciglio della grandepensosa Priaforà.

Un anno prima che Andrea morisseMassimo ed egli avevano discorso insiemesotto il castagno anticodella famiglia Camindella necessità di tener lontano daLeliadopo il matrimonioanche suo padre. Andrea n'era persuaso ediceva che la fanciulla lo desiderava quanto egli. Si era sfogato aesaltare la nobiltà d'animo di lei e anche la maturitàprecoce della sua intelligenza. A questo proposito aveva confessatodi non essere stato sincero con i propri genitoriindicando lorol'età della ragazza. Lelia era sui sedici anni ed egli avevadetto diciotto.

Massimo si fermò istintivamentea toccare il tronco del castagnotestimonio superstitepensòil giovinetto in Diogli parve che l'albero e la umile chiesina el'accigliata montagna lo pensassero con lui.

"Xela stracosignor?" glichiese Cioci che si era fermato anch'egli.

Massimo si scosse.

"No noandiamo" diss'eglieanche per levarsi dai tristi pensieridomandò a Cioci delsuo curato. Dovevano essere contentia Sant'Ubaldodel loro curato!

"Ahcossa vorla!" esclamòCioci. Era un panegiricoera come dire:

"In qual modo vorrebbe Lei che ioesprimessi l'inesprimibile?". E soggiunse: "Un capo grandosalo!".

Mentre i due passavano davanti allachiesina di Santa Maria ad Montesuna voce femminile chiamòdall'alto:

"Cioci! QuaCioci!"

"Siora!" rispose Ciocisostando.

La "siora" era Teresinachecomparve presto al cancello del porticodi fianco alla chiesadov'èl'entrata dei pedoni. Fece entrare Ciocilo avviò alla villacol suo carico e trattenne Alberti.

Ella gli si ricordò come lacameriera che gli aveva fasciata una distorsione buscatasi nelloscendere dal Colletto Grande col povero signor Andrea. Le premeva diavvertirlo che il suo padroneil signor Marcelloera tanto felicedi ospitarlo ma che le sue condizioni di salute non erano troppobuoneche questo incontro lo avrebbe certamente commosso. Perciòsi permetteva di pregarlo a fingersi molto stanco del viaggio e aritirarsi prestoperché si ritirasse anche il padrone. Taleera purediss'ellail desiderio della signorina.

La signorina? Certo; Massimo non ciaveva pensato. Adessoalla Montaninac'era la signorina da Camin.Massimo sulla fede di Andrea e Andrea sulla fede del sior Momil'avevano sempre chiamata così e non col suo vero nomeCamin.Lelia stessa si credeva da Camin. Massimo non l'aveva veduta che unavoltaper viada lontano. Ne conosceva due fotografie mostrateglidall'amico e ricordava perfettamente le due impressioni del tuttodiverseche gli avevano fatte. Ricordava una testolina didieciott'anniben pettinatadalle linee non tanto regolaridagliocchi sorridenti che guardavano l'obbiettivo dicendo "va benecosì?".

Ricordava un'altra testolina daicapelli un po' scompostichinata leggermente in avanti e cheguardava bassoper cui gli occhi non le si vedevano. Alla prima nonaveva fattoquasiattenzione; la seconda lo aveva colpito. Ilsecondo viso poteva essere il viso di una creatura conscia di qualchesua colpa grave oppure di un triste destino; poteva essere un visoguardato con amore e inteso a celare amore; poteva esseresemplicemente il viso di una giovinetta che pensa. Erain paragonedell'altroun viso più giovanile di un'anima piùprofonda; era il viso di una bambina di quindici anni moralmente eintellettualmente matura quanto una donna di trenta. Anche l'idea difarsi un ritratto simile indicava qualche cosa di strano e di fortenella intelligenza che l'aveva concepita. Massimo n'era stato presoe restituendolo all'amicogli aveva taciuto il dubbio che quellatentante creaturadall'aria di sfinge pensosa e tristeconvenisseal suo caratterepotesse renderlo felice. Per molti giorniora sene rammentòla figura della giovinetta sfinge gli si eraaffacciatanella immaginazionecon insistenza tormentosa. Mentreseguiva Teresinale due testoline differenti gli balenarono ancorain mente.

La domanda se avrebbe trovato l'una ol'altra fu per formarsi nel suo pensieroma egli non la stimòconveniente e non se la permise. Ne lo distrasse anche Teresinaparlandogli del desiderio inquieto col quale lo attendevafin dallamattinail signor Marcello. Avevacon pretestiallontanato leiallontanato il domesticoallontanata pure la signorinache tuttaviase n'era accortacon lo scopo di non essere veduto entrare nellacamera preparata per l'ospite. Prima era disceso in giardino acogliere colle proprie mani delle rose. Le aveva portate in quellacamera di furto. Non che presumesse tener segrete queste sueattenzioni; le persone di servizio dovevano pur entrare nella cameraprima dell'ospiteall'ultimo momentoper l'acqua frescaper vederese tutto fosse in ordine. Soltanto non voleva che lo vedessero mentrevi entrava e vi stava eglicerto perché gli pareva essernespiato nell'animamostrare il suo sentimento intimo; e da questoabborriva.

Prima di raggiungere la villaTeresinae Alberti incontrarono Ciocisciolto del suo caricochedesiderandoper fini poco reconditiossequiare il forestiereavevapreso quella via molto viziosa di salire a Lagoinvece di andarvidiritto attraverso la parte superiore del giardino. "Bensior"diss'eglisberrettandosi: "felice nottesalo".

Avuto quel che aspettava e ringraziatoil munifico viaggiatoreannunciò a Teresina che il suopadrone stava scendendo dietro a lui.

"Ecco!" esclamò lacameriera. "Me lo immaginavo!"

S'incontrarono a pochi passi dallaspianata dove sorge la villa.

Faceva scuroil signor Marcelloscendeva curvocon passo malfermo.

Massimo gli salì rapidoincontrone fu abbracciato strettamentesilenziosamentecominciòsubito a scusarsi della intrusione accusandone don Aureliomentre ilvecchio ripeteva commosso:

"Lei non saLei non saLei nonsa che gioia mi è di vederla e di abbracciarla!" E se lostrinse al petto un'altra volta.

Dalla spianata entraronoper la salada pranzonel saloneil signor Marcello appoggiandosi al braccio diMassimo. Egli volle che l'ospite fosse subito accompagnato nella suacamera. Sarebbero stati insieme più tardi. Massimo avrebbepreferito rimanere allora un poco perché poi il signorMarcello se n'andasse a letto; ma il signor Marcello non ne volevasaperee Teresinaconoscendo il cuore di fanciullo del suo vecchiopadronelo indovinò impaziente che l'ospite vedesse cosa gliaveva preparato in cameradesideroso di affrettargliene laimpressione. Perciò unì il suo sommesso invito alleinsistenze del padroneper modo che Massimo intese la opportunitàdi cedere.

Il signor Marcello gli dissenelcongedarloche lo avrebbe atteso lì per prendere il caffèinsieme.

Teresina accompagnò l'ospiteproprio nel quartiere dove il povero Andrea si era vistosognandol'avvenirecon Lelia. Lo introdusse nella cameretta che si apreatramontanasulla terrazza. Accese la lucevide il lavoro del suopadronedisse sottovoce "povero signore!"diede aMassimocon molte scuseil consiglio di far capire al padrone cheaveva veduto ma di non parlaree si ritirò.

Sul piano di marmo del cassettone unasola splendida rosa bianca si piegavadall'orlo di un alto e sottilecalice di cristallosopra la fotografia del povero Andrea. Sultavolino da notte un piccolo fascio di letterelegato con un nastronero. Massimo lo aperse curiosamente.

Erano lettere sue al povero Andrea.Aperse poi l'Imitazioneimmaginando che fosse pure un ricordoe vitrovò scritto:

"Al caro Andreanel giorno dellasua prima ComunioneRachele Alberti Vittuoni."

Era il nome di sua madremorta ellapure da parecchi anni. Vi posò le labbra. Entravano per lafinestra apertacol vento della nottela voce grave del Posinalavoce sommessa della Riderella che fugge per il giardino a pochi passidalla villa; nessun altro suono. Nel senso di quel silenziodi quelriposodella natura innocentedella maestà della nottelacameretta gli fucon i suoi ricordiuna chiesa. Levò lelabbra dallo scritto pregando ancora espenta la luceuscì.Sul corridoio lo aspettava Teresina. Il padrone le pareva un pocosovreccitato. Premeva che si ritirasse presto. In fatto il signorMarcello si era doluto dell'assenza di Lelianon se ne dava pace. Maquestola cameriera lo tacque.

Massimo non lo trovò piùnel salone. Era in giardino sopra uno dei sedili disposti a ponentedella villa. Aspettava Massimolìperché l'incontroavvenisse al buio. Massimo volle baciargli la mano. Egli non lopermiselo abbracciòse lo fece sedere vicinogli passòun braccio intorno al collo.

Stettero lungamente silenziosinelfreddo alito della nera imminente Priaforàil signor Marcellofissandosenza sguardol'ombraMassimo ascoltando le voci delPosina e della Riderellache lo riconducevano nella camera deiricordi guardandoanch'egli senza attenzionei lumi di Arsierodisseminati come uno sciame di lucciole per le tenebreun po' inbasso e a destraoltre il vallone del Posinanel grembo scendentedal colle di San Rocco e dalle balze del Caviogio acuto nel cielo.Dopo un tratto il giovine accennò timidamente all'ora tarda.Il signor Marcello gli trasse il capo impetuosamente a sé.

"No no no!" diss'egli. E glifu addosso con una subita foga di domande intorno a don Aureliointorno a lui stesso. Massimo dovette pure raccontargliil piùbrevemente che potécome si fosse incontrato in Romadastudente di medicinacoll'attuale curato di Lagocome don Aurelioed egli avessero per comune amico un uomo di cui si era parlatomoltoin bene e in maleuna specie di apostolo laico.

Massimo supponeva che il signorMarcello ne avesse udito qualche cosa da don Aurelio e si meravigliòche tanto il nome di Piero Maironi quanto il nome di Benedetto glifossero invece del tutto sconosciuti.

Massimo non credette opportuno dientrare in quel discorso che lo avrebbe condotto per le lunghesilimitò a dire come don Aurelionon avendo in Roma occupazionestabilefosse stato accoltoper i buoni uffici di un sacerdotedalvescovo di Vicenza nella propria diocesi e destinato alla curazia diLago di Velo. Lo disse un uomo di Diotutto dato al proprioministerotutto carità e amor divinoalieno da ogni disputareligiosa. Nelle lodi il signor Marcello consentì con emozionecosì forte da soffocargliquasila voce. Era sopra tuttolosi sentiva nei sospiri uniti alle paroleemozione di desiderio chela Chiesa potesse avere molti sacerdoti simili a don Aurelio.

La voce di Teresina nel buio:

"Signor padroneguardi che ilsignor Alberti sarà stanco."

"Andateandate" le disse ilsignor Marcelloabbastanza pacificamente. "Lo solo soquelche volete. E' tutto lo stessonon mi fa niente."

"Gesù!" si gemette nelcuore la povera cameriera sbigottita: e non osò insistere.

Massimo fu ora costretto a dire di sédella sua renitenza a esercitare la professione benché avesseormai compiuto e studi e praticadelle occupazioni che ne lo avevanodistratto. Anche qui si figurò che don Aurelio avesse parlatoche il signor Marcello sapesse delle sue conferenzedelle suepubblicazioni di carattere filosofico- religiosodelle aspre guerredelle contumelie che si era tirate addosso da diverse partidellastanchezza di spirito e del desiderio di pace che lo avevano condottoalle solitudini montane di Velo d'Astico.

Il signor Marcello non sapeva e se nemostrò assai turbato. Strinse nuovamente a sé il capodel giovine.

"Sì sì"diss'egli"stia qui e lasci andare la filosofia. Quei lumicinilà nel buioecco la filosofia. Chi va intorno la notte con unlume così non vede più le stelle. Ah le stellelestelle!"

Massimo osservò sorridendo chequella seralumi o non luminon si vedevano stelle.

"Oh io le vedo!" esclamòcon fuoco il signor Marcello. "Ho visto anche stasera una caraparola che vi è scritta per me! L'ho vista làlàproprio là!"

Indicò le nubi grigie sopra ilnero Torraro. La frase e il gesto furono i soli segni di una lievesovreccitazione mentaleche Massimo potesse notare nel vecchiodurante tutta la conversazione. Furono però tali checollegandoli col discorso della camerierase ne sgomentò.

Si alzò risolutamentesiconfessò stanco e chiese licenza di ritirarsi.

"Non abbiamo preso il caffè"disse il signor Marcello.

Massimo non prendeva caffèlasera. Il vecchio lo pregò di fargli almeno compagnia mentre loprendeva egli. Massimo tentava di resistere temendo essere ancoratirato a discorrerequando Teresina che stava in agguato nellaveranda aperta sulla fronte della villaa due passi dai sedilineuscì fuori e disse al padrone che gli aveva portato il caffèin camera. Prima ancora che il padronesorpresoprotestasseellacorreva già verso la cucina per fare della sua menzogna unaspecie di profezia. Vinse così la partita. Massimo salìla scala di legno che mette dal salonecon due brancheal primopiano e il signor Marcello si avviò alla sua camera del pianterrenoattigua allo studiovolta alle immediate pendici dellaPriaforà.


3.


Tutta la casa dormivaoscurata da unpezzoquando egli uscì di cameraalta figura curvaspenzolando la lucerna fiorentina nella sinistra e tenendosi sulpettonella destraun portafogli chiuso.

Passò lentamente per lo studio eper la sala del biliardoentrò nel salonelevò lalucerna sul piano posato per isghembo quasi sotto una branca dellascala uscendogli allora dall'ombra il rugoso volto soffuso didolcezza e di beatitudine. Posò sul leggio il portafogli e loaperse pian pianocon mani tremanti. Apparve un ritrattoilritratto di suo figlio. Vi si affisò lungamente. Anche lelabbra gli tremavano; gli occhi erano pieni di lagrime. La lucerninadi ottonea lui più cara delle eleganti lampade che pendevanodal soffittoparve contenta di mostrargli il bel viso delgiovinettospirante in quel momento una dolce parolauna parolanuovamisteriosa. Il signor Marcello riprese il portafoglibaciòil ritratto in frontelungamentelo ripose adagio adagioconriverenzasul leggiocalò alla tastiera le grandi maniscarnecominciò a suonare a faccia levata e a occhi chiusi.

Non era un forte pianista ma possedevaun'anima di musica. La sua profonda fede religiosai suoi affettiil suo caldo senso di ogni bellezza di arte e di naturatendevanoalla espressione musicale.

Venerava Beethoven non meno di Dante equasidi San Giovanni Apostolo; HaydnMozart e Bach non meno diGiambellino equasidi San Marcodi San Matteo e di San Luca. Ecome nel Vangelocosì leggeva ogni giorno qualche pagina deiquattro evangelisti della musica. Spesso la seranell'ora deiricordi e del fantasticaresi abbandonavasul pianoall'estro.Trovando accenti commossicommovendosi della sua commozione stessasuonavasuonavatutto nello sforzo di adeguare la parola musicaleal proprio senso internodimenticava le cose presentiil passar deltempo. A faccia levataa occhi chiusiegli adesso tentava latastiera con le grandi mani scarnecome il cieco tenta l'aria.Cercava l'ultimo canto del Pergolese:

"Quando corpus morietur

Fac ut animae donetur

Paradisi gloria."

Non seppe trovarlotentòaffannosamente la ricerca di un simile cascar di suonipiù epiù gravinel profondoche dicesse uno sfasciarsi lentodelle fibre mortaliuno stanco tramontar di giornata; cercòun risalire dei suoniincalzanteansantedeliranteverso visionidi gioia. Lasciò allora le tracce del Pergoleseeffuse inmusica l'anima piena ed ebbra delle parole "Paradisi gloria"

colandogli per le gote lagrimesilenziose. Egli s'infondeva col suo Andreacol suo carocol suoamoredentro un altro infinito amoretutto lucetutto musicaforse; e la sua musica terrestre fremeva di desiderio verso la musicadivinacome il getto d'acqua che fiotta spumante al vertice nellabrama impotente dell'altezza originaria. Poi lo stringevano altrisubiti ricordi dei suoi peccatidelle debolezze della sua carnebalzanti sututti insiemedalle ombre della memoria con una vivezzapaurosacome nemici dimenticati che gli corressero sopra in folla daun agguatogridando ciascuno il proprio nome sinistro. La gloria delParadisol'incontro col suo morto dilettoper quanto fosse forte lasua fede in Dioper quanto salda fosse la sua previsione di unamorte vicinaerano realtà senza forme distintenucleiluminosi nascosti nei vapori della propria luce. Gli era facilepensarne e parlarne in musica. Non fu così per i ricordimordenti del peccato. Le mani gli piegaronopendettero senza motoaggrappate alla tastiera muta; la testa gli si chinò sulpetto.

Per brevi momenti. Nell'umiltàsuaignara dell'orgoglioso sdegno che rende tanto amare le cadutemoraligli era facile l'abbandono alla divina pietà. Rialzòil visorialzò le manitrasfuse nel piano la preghieradell'animaun "Miserere" pieno di passionesìmapuranco di soavitàpieno del senso di un lavacro largo chefluisse sulle colpepieno di gratitudinequasie di letizia; comese il penitente si compiacesse della propria necessità che ilPadre Celeste fosse a lui più amoroso e pio di un padre umano.Le mani svolgevano una melodia di dolore e di amorenata da inconsciricordi belliniani:

"Vienidiceaconcedi

Ch'io mi prostri ai tuoi piedi."

Maicerto in vita suaMarcello nonaveva costretto il suo piano a cantare così: Lo sentiva e negodevapur non fermando in questo il pensiero; e alla sua commozionesi confondeva un'ombra di tenerezza per il vecchio strumentosfiatatoper il confidente dei suoi sognidisprezzato da Leliaprossimo a qualche miserevole fine.

Suonavasuonavané gli venivain mente che altri lo ascoltasse.

Teresinache per quella notte si eraprudentemente preparato il letto in una camera a terrenoudito ilpianocorse fuori a spiarevide il padronesalì tremantesmarritaad avvertire Lelia che dormiva al primo pianoversolevantesi consultò con lei. Era in séil padrone? Ocominciava un processo mentale morboso? Non sarebbe opportuno discenderedi persuaderlo a coricarsi? Chi dovrebbe scendere? Lei o lasignorina? Aiutò Lelia a vestirsi in frettaripetendosottovoce: GesùGesù! Lelia non disse nienterisolutadi vedere e di udireanzi tutto. Scivolarono ambeduepian pianoinpunta di piedinella galleria ove montano dal salonecongiungendosipochi gradini più sottole due branche della scala di legno.Dalla galleria si guarda giù nel salone per l'apertura dellascala e anche fra le colonnette che leganoai due lati diquell'aperturaun parapetto al soffitto. Ma neppure sporgendo ilcapo fra colonnetta e colonnetta era possibile vedere il piano. Ledue donnepoiché il signor Marcello era un po' sordastroosarono calare per la scalaprendere la branca di destra fino alpunto in cui videro bene il dorso del suonatorecurvo nel fioco lumedella lucerna posata sul coperchio del piano. Anche quel dorso curvoe quel gran caposeguendo l'onda della musicaparevano penetratiin qualche oscuro mododi passione.

"Oh Diosignorinaio scendo"mormorò la cameriera. Lelia le afferrò un bracciolatrattenne con impetoaggrottando le ciglia. Teresina la guardòattonita; le vide accostare l'indice alle labbra. Non potéintendere quanto sicuramente la signorinamusicista squisitasentisse in quelle note una mente accesa di estro e non torbida didelirio. Intese solo che non doveva muoversi e che non era credutacapace di capirne il perché.

Marcello pose fine alla suaimprovvisazionemistico preludio di un futuro drammacon accordigravi. Chiuse il portafogli eincrociate le bracciavi posòla fronte su. La cameriera trasalì. "Gesù Signore"

diss'ellafacendo l'atto di scendere.Lelia la trattenne ancorale sussurrò "vado io" ediscese.

Discese lentamente colla mano allaringhierafacendo scricchiolare gli scalini di legnofermo l'occhioa Marcello. Non aveva sospetti paurosivedeva nell'attitudine di luila emozione vibrata prima nella sua musicaattribuiva questaemozione all'incontro coll'amico del povero Andrea. Scendeva perindurlo a coricarsi senza mettergli spaventocome forsegliel'avrebbe messo Teresina. Non era giunta a metà dellascala che Marcello la udìalzò il capo e chiesebruscamente:

"Chi è?"

"Iopapà" diss'ellae scese leggeracorrendogli fu in un momento a fianco.

"Tu? Qui? Non sei a lettotu?"

Marcello pareva sorpreso ma contento.

Lelia sorrise.

"Eh!" rispose "nonpare!"

E soggiunse con certo delizioso accentoche aveva imparato in collegio da una ragazza di Romaper certespeciali parole:

"Ci tiene svegliati tutti!"

Le sovvenne allora che nel primo tempodella sua dimora in casa Trento le era avvenuto di dire al signorMarcello le stesse parolenon sapeva più a quale propositocollo stesso accento esprimente una necessità cui èforza piegare. Il signor Marcello se n'era divertitoma poiavendogli ella detto distrattamente che quella inflessione di vocepiaceva molto al povero Andreasi era oscurato in silenzio.

Adessoappena pronunciate le parole"ci tiene svegliati tutti!" le risalì alla memoriaquel silenzio scurocredette leggere in viso al signor Marcelloch'egli pure ricordasse e abbassò gli occhiconfusa.

Marcello la guardò fisoteneramenteposò le mani sulla tastieraaccennòsempre guardando leila melodia di Schumann che il povero Andrea erasolito canterellareche Lelia gli suonava qualche volta all'oscurosenza parlarne né prima né poi:

"Almen ch'io mora sognando

Che stretta al suo petto sto..."

Lelia trasalì. Le parve che ilsignor Marcello le dicesse colle note dolcissime: parlami pure dilui. Egli tolse gli occhi da leili alzò come se cercasse lenote nella memoriamentre le grandi mani ossute dicevano con subitapassione:

"In estasi spasimando

Contenta allor morrò."

Ella ne trepidògli posòdolcemente una mano sulla spallamormorò piano piano:

"Bastapapà! Lei sicommove troppo. E' tardi. Vada a letto."

Marcello smise di suonareprese lamano che si veniva ritraendo dalla sua spallala tenneaffettuosamente fra le propriegelate.

"Sto benesaiLeila"diss'egli. "Sto tanto bene."

Negli ultimi due mesi della sua vitadopo un piccolo litigio con Leliail povero Andrea l'aveva chiamataquasi sempre "Leila". Per Marcelloche lo aveva saputodalla sua povera mogliedire "Leila"

era quasi un dire "Andrea"quasi un pronunciare un nome ch'egli non sapeva udire senza soffrirnecome di una profanazioneil nome che si diceva nel cuore semprecolle labbra soltanto nel segreto della sua cameraquando nessunopotevanon che udirlovederlo.

"LeilasìLeila"soggiunsesorridendo dello smarrimento di lei che si domandavacos'avvenisse in quella mente di cui si veniva scoprendo il piùchiuso profondo.

"Sìpapà"diss'ella. "Ma ora non si stanchi piùsi ritiririposi."

Non sapeva trovare parole adatte apersuaderlotemeva di parere indifferente alla sua tenerezzatemevadi parere sgomentata dalle sue parole nuove. E quella sera sentivauno strano bisogno di stringersi spiritualmente al padre di Andreacome a un difensorea un rifugio.

Egli si alzò dal piano ma nonaccennò a ritirarsinon prese la lucerna. InvitòLeliacorrugando la fronte come soleva per ogni comunicazione gravea uscire con lui sul terrazzino che corre lungo la fronte del salone.Lelia non osò resisterelo seguìpalpitante.

Certo il signor Marcello voleva parlaredel povero Andrea. E Teresinache stava lassù in vedettachepoteva scendere male a proposito!

Malgrado la poca speranza di esservedutaLelia si voltò a gittarle un gran gesto rapidounsilenzioso "via!" e raggiunse Marcello alla balaustrata delterrazzino.

"Piove" diss'ellatentandoancora sottrarsi.

Il nebbione fasciava le scogliere delBarco e del Caviogioun venticello umido tirava da Val di Posina; manon pioveva.

"No" fece Marcello"vieni."

Volevainfattiparlarlepoichéell'eradiscesaquasi provvidenzialmentealla sua musica; ma non trovava lavia di cominciare.

"Se mai" disse alfine "tudesiderassi disfare quelle scogliere artificialiche tidispiaccionoa fianco del ponte e lungo la Riderelladisfàpure senza scrupoli. Forse le avrei disfatte anch'iomadopo... nonmi sono più curato di niente."

Anche la paroletta "dopo"tanto piena di sventura e di anni amarifu pronunciata placidamente.

Lelia comprese lo scopo intimo deldiscorson'ebbe un brividoesclamò:

"Io?"

E non soggiunse altro per non provocareparole che non desiderava udire. Questo sospetto che il signorMarcello la volesse sua eredele stava confitto nella mente da moltotempocome uno spino avvelenato.

Sapeva che i domesticii dipendentiil paesetutti n'erano persuasiperché parenti stretti delsignor Marcello non si conoscevano ed ella era considerata come unasua figliuola di adozionebenché non fossero intervenuti népotessero intervenire atti legali. Ora ella era ferma di non volerele sostanzenon grandi ma ragguardevolidi casa Trento. Se suopadre l'avesse vendutanon si venderebbe lei! Aveva inteso donarsiai genitori di Andrea in memoria di lui. Averne gratitudinesì;altri compensino. Possibile che il signor Marcello non avessequalche parente lontano? Egli era molto benefico. Se non avevaparentipoteva lasciare il suo ai poveri. Le piaceva giustificare ase stessa il proprio sentimento con quella prima ragione; in fatto lefaceva orrore anche l'idea di venire giudicata un'astutalusingatriceuna cacciatrice di eredità. Altro motivo ditemerlaquesta eredità: se alla morte del signor Marcello sitrovasse un testamento a suo favorese fosse costretta a un rifiutoquale disgustosa lotta con suo padre! Egli simulava miseria con lei;le scriveva spesso lettere ignobilichiedendo denaro. Ne avevaricevuta una quella sera stessa. Lo vedeva già piombarese ilsignor Marcello morissealla Montaninainfettarla colla suapresenzaaggrapparvisi. Confidava nella propria energianon avevapaura di suo padre; ma ribrezzo sì.

Tutto questo sentì e pensòesclamando "io?". Marcello le prese una manoglielastrinsecon intenzione che le dita parlassero.

"Sìcara" diss'eglitranquillo. "Tu."

Gli rispose un sussurroun alito lievelieve:

"Nopapà."

Marcello sorriseingannandosi sullaqualità di quel diniego.

"Sono vecchio" diss'egli "enon tanto robustocredo. Potrei vivere degli annima il Signorepotrebbe anche chiamarmi presto. Ti pare proprio che mi debbarincrescere di partire prestocolla speranza che ho?"

Leliaper tutta rispostasi chinòa baciar la mano che stringeva sempre la sua.

"Dunque!" proseguìMarcello. "E' naturale che si parli insieme di certe cose. LaMontanina gli è stata cara e io ho fatto tanto perchégli fosse cara! Sarà carasperoanche a te. Volevo dirtidelle scogliere. E volevo anche dirti che se ti si offre occasione dicomperare i castagni oltre la stradadevi farlo; perché lopotrai farelargamente."

Lo interruppe un appassionato gemito:

"Nopapànopapànon mi parli di questo!"

Marcello tacque ed ella sentì ilbisogno di chiarirgli il suo inganno:

"Non pensi a me per Sua erede! Nonpossoioessere Sua erede!"

Marcellooffesosi turbò.

"Perché?" diss'eglisevero.

"Nocaro papànon possonon posso! Non parliamo più di queste cose!

Si ritirivada a riposare!"

"Ma perché?" replicòMarcello. "Dimmi perché!"

Lelia gli prese il bracciolo supplicòdi non parlarne piùalmeno quella sera.

"Ma bisogna che tu ti spieghi!"esclamò egli. Il cruccio gli salivapiù e piùscuronella faccia sepolcrale.

Allora Teresinache spiava tuttaviadall'altoudendo il padrone alzar la voceaccese la luce nellagalleria dove stavachiamò la signorinadisse di averlacercata in camera inutilmente. Le occorrevano certe chiavi perl'indomani mattinaper il caffè del forestiere. Lelia sicongedò timidamentepian piano: "papà... buonasera..." come supplicando di essere lasciata partire. Il signorMarcello non parlòmosse lentocurvoverso il pianopresela lucernase ne andò spenzolandolasenza saluti.

Chiuso dietro a sé l'uscio dellasua cameraposata la lucerna sul tavolino da nottesi svestìadagiopieno di malcontento come uno che avviandosi stancoassonnatoal letto del suo riposolo veda tanto sossopra da doverespender fatica e tempo a rifarlo. I muscoli della faccia sepolcralesi contrassero in un afflusso di pensiero iroso e duro. Dubitava diaver letto nel cuore di Lelia le ragioni della ripulsa chel'offendeva. Lelia non voleva essere sua erede perché non sisentiva la forza di tener lontani i suoi genitori e capiva che laloro presenza alla Montanina sarebbe stata una offesa mortale allamemoria di lui. Gli bastava di pensare a quei due per intorbidarsinell'anima e nel viso. La fantasia glieli mostrò un momentotrionfantispadroneggianti nella sua casa. Oh questo nomai.

Benedetta ragazza che non aveva saputoaspettare! Era bene a quel punto lì ch'egli voleva condurre ildiscorso. Si era stillato il cervello per trovare un modo decented'impedirecon una disposizione testamentariache il padre e lamadre della sua erede mettessero piede alla Montaninanon lo avevatrovato. Conosceva Lelia. Lelia non avrebbe accettato una clausola inquesto sensoun obbligo espressopubblico; molto menoun obbligosancito da una penale. Avrebbe rifiutata l'eredità. Non c'erache parlargliene primaottenere una promessa. Discorso difficilemainsomma quello appunto cui intendeva venire. Ripigliare laconversazione l'indomani: altro non gli restava.

Come fu a lettoincrociate le manidietro la nucaappoggiato il capo alla spallierapensò: e seLelia avesse in mente di prender maritose rifiutasse per questo?Era un caso previsto. Ne avevano discussoegli e la sua poveramoglie.

La mogliepersona praticaprevedevache la fanciullapiacente e intelligentesarebbe stata ricercata echeun giorno o l'altroavrebbe amato ancora. Secondo leiMarcelloavrebbe dovuto limitarsi ad assegnarle una rendita fino al giorno incui prendesse marito.

Marcello non se n'era persuaso. Sicompiacqueda poetadella bellezza ideale di un sacrificio al qualeassociava l'anima del figliuol suosciolta da legami terreniamorosa tuttavia certoma di affetti sovrumanipuri di egoismonond'altro desiderosi e paghi che di saper felici le creature amate.Volle che Lelia avesse la ricchezza offertale dal povero Andrea. Gliera dolce d'immaginarla fedele ad Andrea; desiderò cheanchecedendo a un altro amoreavesse a benedire la memoria del primoladesiderò felice e non le prescrissenell'istituirla eredecondizione alcuna. Gli conveniva ora di parlaredi farle conoscereil suo sentimento?

Sospirò all'idea che se la mortefosse venuta quella nottela sua casa sarebbe caduta nelle mani delsior Momi Caminil padre di Leliaoppureove Lelia non accettassel'ereditànelle mani di un suo giovine cugino in terzo gradorovinatosi col giuoco e colle donne. Il pensiero che le camere di suamoglie e di suo figlio fossero un giorno abitate cosìgli fucome una puntanel cuoredi dolor sordo. Pensa e pensaquestastessa molesta inquietudinegli fece comprendere ch'era piùattaccato alla vitaalle cose della Terradi quanto avesse credutopoche ore prima. Se ne rimproveròmeditò le parole cheil suo avoedificatore della Montaninascrisse sulla meridianadella villa: "Terrestres horaefugiens umbra". Feceproposito di andarsi a confessarel'indomani mattinaa Lago diVeloepreso il suo caro piccolo Kempis che si teneva sempre sultavolino da nottevi lesse con intensa compunzione il capitolocinquantesimo secondo del Libro Terzo. Nel prendere lo spegnitoiopendente da una catenella della lucernapensò che suo padreera stato colto dalla morte prima di spegnere e rimase un momentocolla mano sospesa in ariasenza saper perché. Sorrise di sestessospenseguardò un poco nel chiaror fosco della grandefinestra il monte imminentecosì pieno di quella indifferenzache riposasi distese sotto le coltri e aspettò il sonnocolle braccia incrociate sul pettocome un bambino.


4.


Rientrato in cameraMassimo disfecebuona parte delle sue valigiementrenel primo malcontento di nonpoter venire ospitato da don Aureliosi era proposto di levarne ilpuro necessario per la notte.

Ora gli rimordeva di quel malumoreegoisticotanto lo aveva commosso l'affetto del signor Marcelloilgentile affetto presente anche lìnella cameretta stata caraal povero Andreanei mesti ricordi del passatonella rosa biancadisposta a piegare sopra il reciso fiore di quel passato la suamorente bellezza. Spense la lucesi affacciò alla finestraeappoggiati i gomiti al davanzaleguardò le nubi dove ilsignor Marcello aveva letto parole di stelle. Sotto quelle nubi ilsopracciglioappena curvodel Torraro tagliava lo sfondo aperto frai due grandi profili neri della Priaforà e del Caviogiodiscendenti con maestà l'uno incontro all'altrosimili amanti di giganteschi sovrani. Era una scena di pace pensosarispondente alla sete dell'anima sua.

Oh sìche gran ristoro averlasciato Milano almeno per qualche settimanaaver lasciato il tanfoe la viltà delle plebi libere pensatriciche lo vituperavanocome un debole perché professava fedeltà militare alleleggi della Chiesaaver lasciato il tanfo e la viltà delleplebi fariseeche lo vituperavano come un eretico perchépensavaparlavascriveva da uomo del suo tempo! Che gran ristoroaver lasciato una società oziosa che pretendeva imporgli unaparte qualsiasi nella sua eterna commediache gli faceva sentireora con sorrisiora con lodi sarcasticheora con noncuranzeilproprio disprezzo per un giovine schivo del piacere da leidiscretamente offerto e protetto come lo scoponon sempreconfessabile ma unicoin fattodella vita! Oh dimenticarealmenoper qualche giornole lotte del pensierofaticoseingloriosecombattute spesso col tragico sforzo di nascondere le eclissi dellasperanza e anchenon tanto di radoquelle della fede! Gli siriaccese nell'anima la vampa di una tentazione soffocata piùvoltegiammai spenta: la tentazione di ritrarsi dal campo di azionereligiosa dov'era entrato col suo morto Maestro di Romadove si eraspinto alquanto più avantiinsieme ad altridi quel Maestrodove non aveva riportato che feritedisinganniumiliazioni perservire una causa forse perduta fin dal principiouna religionecondannata forsefatalmentea perire; per servirla contro farisei econtro liberi pensatori. Perché non lasciarli a sbrigarselafra loroperché non vivere per tanta bellezza ch'è nelmondo e nella vitaper l'amore e per la gioiaper il piaceresquisitoarmonico nei suoi elementi di intellettodi cuore e disenso?

Erano una forma di sfogo amaroquestipensieri; non una tentazione vera e propria. L'attitudinepubblicamente presa nelle questioni filosofico-religiose con saggi dirivisteconferenzearticoli di polemicagli aveva composto unafigura morale chese gli era sostegno e decoroanche gli eracarcerein certi momenti. Lo sapeva epensandolosi alzava giàdal davanzale della finestra per rompere il corso delle immaginazionivanequando udì voci dalla strada chesbucando da un foltodi castagniscende lungo la rete di cinta della Montanina. Gli parvedistinguere la voce di don Aurelio e una voce di donna. I dueparlavano forte a un terzoentrato nel recinto. Pareva che glidessero degli ordini. Infatti un individuo comparve sul ponte dellaRiderella. Nei lievi chiarori stellari che ora rompevano le nuvoleMassimo credette discernereoltre il pontedue figure fermeunanera e l'altra bianca. Quell'individuo avanzò dal pontesiarrestòperplessoa guardare la villane fece il giros'indugiò un poco dalla parte della cucinaricomparve; siallontanò verso il ponte e Massimo lo intese dir forte chedormivano tutti. Allora i due si ritirarono verso il cancello. PoiMassimo credette vedere sulla stradafra il gruppo di betulle chefiancheggia il cancello e il gruppopiù in basso; di pioppila figura bianca coll'individuo stesso che aveva fatto il giro dellavilla.

Don Aureliose era luidoveva essererisalito verso Lago. Il giovine suppose che la signora fosse una taleVayla di Breadella quale don Aurelio gli parlava nelle sue letterecome di una donna singolare per ingegno e nobiltà di animo.Tutto ritornò nel silenzio.

Eccodall'interno della villala vocedi un piano; almeno pareva.

Massimo aperse cautamente l'usciostette in ascolto. Sìun pianoun cattivo strumento. Chisuonava? Il signor Marcello no; il signor Marcello era andato aletto. Il povero Andrea gli aveva parlato con ammirazione del talentopianistico della sua Lelia. Gli parve di conoscere il pezzo lamentosoe appassionato; ma poi vi si smarrì. Un momento era lo"Stabat" del Pergoleseun momento era altra cosa. Uscìpian piano nel corridoioper udir meglio. Il suono veniva dal bassoe da sinistracerto dal salonedove Massimo aveva veduto un piano.Che strano suonareche potenza espressiva di toccoche passione eche disordine!

Un'improvvisazionesenzadubbio.Qualeanima di fuocol'improvvisatricese proprio fosse la signorinaLelia! Massimo si rivide in mente la piccola testa enigmatica daicapelli scompostidagli occhi raccolti in basso. Quella musica nondiceva un'anima chiusa nel doloreun'anima che nulla piùattendesse dalla vita; diceva doloresìma seteanchediamore e di gioia. Una sosta della musica; passi e bisbigli vicini alcorridoio dov'era Massimoche si ritirò fino al suo uscio;musica daccapo. Accenti gravi e soavi di lamentostavoltae dipreghiera. E passionequindiancora passione teneraardente. AhNorma!

"Vienidiceaconcedi

C'io mi prostri ai piedi..."

Diopareva una confessionequestamusica! Perché quello che seguì non era piùNormaera fantasia. Dunque la suonatrice aveva voluto esprimere conle note divine un sentimento suo proprio. Ma comema perchéquesto sfogo musicale nel cuore della notte? Ripensò il belviso di Sfingele palpebre calate come veli sopra un mistero. Ma eraveramente leila suonatrice? Da un lato gli pareva troppo strano chefosse leida un altro lato la qualità della musica e l'orarispondevano appunto alla stranezza del piccolo viso. E se non eraleichi poteva essere? Forse una sua damigella di compagniadi cuiMassimo ignorava la esistenza. O un ospite che non si era lasciatovedere. Oh ma era leiera una creatura dolorosamente avida di amareancora e di essere amatache amava giàforse.

La musica tacque ed egli si ritiròin camerachiuse l'uscioritornò alla finestraimmaginòquasi automaticamenteun amore di fuocol'oblio del mondo fra queltacito dramma di montagne atteggiate quasi a fronteggiarsi conpassione e sfida. Si scossemise un sospirochiuse la finestrasirimproverò il vano fantasticare. Guardò lungamente lafotografia di Andrea. Era bello e gaio nel voltoil poverogiovinettocome un raggio di sole. E quanto gli aveva voluto bene!Sentì un dolente desideriosenza sapere perchédigiunger le mani e di piegar il viso davanti a quella fronte serena.Coricatosisi figurò di non poter dormirecausa la musica.Invece il sonno lo prese abbastanza presto. Chi non chiuse occhio pertutta la notte fu Lelia.









Capitolo Secondo


FUSIE FILA


1.


La mattina seguente Massimo discese insalone alle sei e mezzocon grande sgomento del domestico Giovanniche lasciò di strofinarefra un gran disordine di mobilil'impiantito e corse per il caffè.

Soffiavano da ogni parte nel saloneventolini freschi per le grandi aperturespalancate a mezzogiornosullo smeraldo dei ripidi pendii che i castagni coronanoatramontana sulle nude scogliere enormi del Barcoa ponente sui dividel giardino pendenti alla via di Lagosul tremolio brillante dellebetulle e dei pioppi aggruppati lungo la rete di cintasui burronidel Posinasul greggeoltre i burronidelle case di Arsieroraccolte nel verde a piè della chiesa signoreggiantesullagola scuratagliata nello scogliodietro la quale si accavallanodorsi su dorsivarii di luce e di ombrefino al Torraro sovrano.

"Bella giornata" disse ildomesticoritornando col caffè. Intanto Massimopiùche alle visioni di monti e di vallidi sole e di verdeavevaguardato alla musica sparsa sul piano. Un grosso volume di Clementi eun fascicolo di Corelli portavano scritto a grandi caratteri:"Leila".

Mentre sorseggiava il caffèseppe dal domestico che il signor Marcello era uscito da un pezzo. Sefosse in giardino o in chiesase avesse preso la via di Velo o lavia di ArsieroGiovanni lo ignorava.

Massimo uscì pureper andare dadon Aurelio. Stava chiedendo al custodeche gli teneva aperto ilcancellola via di Lagoquando colui salutò rispettosamentequalcuno che passava dietro le spalle di Massimo. Questi si voltò.Passava una signoranon giovanealta e magracol capo scoperto eun ombrellino in manochiuso benché il sole ardesse giàla stradicciuola sassosa. Con grande meraviglia del giovinelasignora si fermò e gli sorrise.

"Signor Alberti?" diss'ella.

La voce soave parve a Massimo quellache aveva uditonella nottealternarsi colla voce di don Aurelio.Salutò imbarazzatoguardando la signora come uno che si scusadi non riconoscere chi gli parla. Gli stava davanti una nobile figuradi donna fra i cinquanta e i cinquantacinque annipallidaquasiolivastradall'aria sofferentedai capelli interamente bianchidaigrandi occhi luminosimolto giovani ancoraspirante dignitàsignorile e dolcezza dai modi come dalla voce e dal parlar lento.

"Sono amica di don Aurelio"diss'ellasorridendo. "Siamo passati di qua insieme ierseracolla speranza di vederlama Lei dormiva già."

Massimo confessò che avevaveduto dalla finestra una figura nera e una figura bianca.

"Infatti" disse la signora"avevo uno scialle bianco. Lei va da don Aurelio? Ci vadoanch'io."

Massimo s'inchinòla interrogòpiù cogli occhi che colla bocca.

"Allora Lei?"

"Vayla di Brea" rispose lasignora col suo dolce sorriso. "Don Aurelio Le ha scrittoqualche cosa di me? E il mio nome Le è riuscito nuovo?

Affatto nuovo?"

Massimo riconobbe umilmente che gli erariuscito nuovo.

"Vede" riprese la signora"io mi sento un poco nonna con Leiquasi.

Sua madre non era una Vittuoni? Nonaveva nome Rachele? Sono stata in collegio con Sua madre a Milanodamadama Bianchi Morand. Sua madre era delle piccoleio ero dellegrandi. L'avevo molto cara e mi divertivo qualche volta a fare lamammacon lei."

Si avviarono insieme sullastradicciuola chea due passi dal cancelloentra in un fresco diombrefra i castagni grandi della costa precipitante al burrone ondesalgono i colpi misurati e sordi delle turbine di Perale.

La signora parlò subito del grandispiacere di don Aurelio per non aver potuto alloggiare Massimo eneppure andargli incontro alla stazione. Raccontò che si erapreso in casada due giorniun infermoun povero reiettounvenditore di bibbie protestantiche a Posina era stato malmenato afuror di popolo e cui nessuno voleva ospitare.

"Poveretto!" esclamòla signora. "E' un tipo! Un tipo!" E rise di un riso brevetosto represso perché la pietà prevalse al senso delcomico e alla voglia di sfogarlo.

"E' un certo Pestagran"diss'ella"ma qui gli hanno posto nome Carnesecca perchénei suoi discorsiche sono sempre liricinomina spesso Carnesecchi.Egli si rifàdel resto. Una volta chiamava "pesci"i suoi concittadini di Lago: pesciolinianguillepesce popolomarsoniqualche volta gamberi. Adesso li chiama pescicani."

Ella continuò a parlare deldisgraziato Carnesecca con un umorismo placido e fineche divertìMassimo e non gli lasciò indovinare in lei un'assiduavisitatrice pia dell'infermo. S'interruppe tre volteper incontridiversiprima all'uscita della selvetta di castagnipoi nel verdegrembo fiorito che i meli e i noci ombreggianodove le donne di Lagohanno il lavatoio e la maestà delle pendici silenziose incombesull'idillio. Prima una vecchia miserabilepoi un povero sciancatotrattennero la signora per raccontarle guai. Ella stessa fermòuna fanciullina scalzasudiciache portava un canestro. Parlòa ciascuno affabiledolcechiamandolo per nomechiedendo di altrepersonedi malatidi lontani. Alla fanciullina disse una parola dirimprovero.

Aveva saputo da un uccelletto certecose! Congedati con bontà i poveririprendeva apennelleggiare la figura e le varie gesta eroicomiche di Carneseccaintercalandovi di tempo in tempo un "poveretto!" come asoddisfazione della coscienza che le rimordesse di questo umorismopoco cristiano.

Le prime casucce e stallucce di Lagoguardate dai noci e porgenti fresche ombre di viti sui vicoli chesanno di fieno e di fimola signora e Massimo toccarono ilpiazzaletto dove poche abitazioni linde ascoltano rispettosamente ilsermone sulla pulizia che una fontana recita proprio a loro mentre lacanaglia delle catapecchie sporche si tiene alla largacome lacanaglia viziosa dai sermoni del prete. A sentire la contadinaintenta ad attinger acquaCarnesecca era morto nella notte. Unoscamiciato in zoccoli che se n'andava per i fatti suoi colla falce inspallala rimbeccòsenza degnare di fermarsiné diguardarlané di smentirla.

"Cossa volìo saver vu ca sìforesta?"

La donna stridette le sue protestenongià perchésebbene forestierapoteva saperemaperché era di Masoun casolare lontano mezzo chilometro. Ilpasso pesante dell'uomo si perdette giù per le casuccesporchementre la voce insolente ripeteva:

"Forestaforestaforesta!"

Allora una ragazza che stavaannaffiando dei garofanisi porse dalla finestrasalutò lasignorale disse che aveva portato il latte a don Aurelio un'oraprima e che Carnesecca si sentiva molto meglio. L'altra si scusòa questo modo: aveva sperato che fosse mortoil brutto uomo!

E siccome la signora le fece rimproverodella speranza crudeleprese la sua rivincita sopra di lei.

"Parché no La saEla!Parché la xe foresta! E anca el preteme par misiben chel'è un santo omo..."

"E' foresto" disse lasignora. E soggiunse volgendosi a Massimo con un sorriso: "E'samaritano".

"Eccu!" conchiuse acutamentela forestiera di Maso. "El sarà de quel paese che La diseEla."

Massimo e la signora presero ridendol'erta che conduce alla chiesuola di Sant'Ubaldopresso la quale èl'abitazione del curato. Videro aperta la porta della chiesaudironola voce di don Aurelio ed entrarono. Egli celebrava. La messa era al"Pater". Due sole persone assistevano; una vecchiettanell'ultima panca; sulla primadavanti all'altarechina la testaselvosaraccolto nell'atto della preghiera intensail signorMarcello. I due sopraggiunti s'inginocchiarono accanto allavecchietta.

Quandopoco prima della comunioneilsignor Marcello sorsequasi a stentoin piedie andò curvoa inginocchiarsi davanti alla balaustratadonna Fedele Vayla di Breapose a quel vecchio capo grigio-fulvo gli occhi pieni di dolcezzagrave e solo ne li tolseper abbassarliallorché ilcelebrante gli si accostò con l'ostia consacrata e le paroledi vita eterna.

Ell'aveva conosciuto Marcello dabambina. Era sui dieci anni quandoall'indomani della liberazionedel Venetoil colonnello Vayla di Brea comperò il villinodelle Rosepresso Arsiero. Marcello aveva passati i trenta. I suoigenitori vivevano ancora e le due famiglieuse godersi le vacanze inVal d'Asticosi legarono subito. La piccola Fedele diede segno diuna simpatia strana per Marcello. Egli si divertiva spesso a suonarecon lei a quattro manitocco da quel sentimento infantile. Quando sifidanzòla bambinach'era sui quindici anni e si facevaassai grandemutò contegnoparve evitare Marcello anzichéricercarlo come in passato; ed egli fu il solo a sospettare volutoquesto mutamentoa sospettarvi una di quelle vere e proprieinclinazioni amoroseche qualche volta si son vistedi ragazzegiovanissime per uomini maturi. Quindinon per diffidenza di séche anzi n'era annoiatoma per riguardo alla ragazzasmise ognifamiliarità con essa. A diciott'anni donna Fedele era unabella brunaaltaslanciatadai magnifici occhidalla voce soavemolto elegantescarsa di paroleprofonda e inesplorabile neisentimentiun po' bizzarra di gusti e di abitudini. Le relazioni fralei e la moglie di Marcello erano buoneaffettuose. Solamente lamusica pareva ancora legare Fedele e Marcello; e da questo legame lasignora Trentoche non sapeva di musicaera esclusa. Donna Fedelecominciòpoco a pocoa ricercare da capo la compagnia diMarcello e Marcello a goderne. I loro sguardi s'incontrarono piùspesso che non convenisse.

Un giornodurante una gita sullealture alpestri di Luserna e di Monterovereil caso divise perqualche tempo lei e lui dagli altri della brigata. Si smarrirono inuna foresta di abeti. L'appassionata fanciulla aveva forse primasognato un sogno di gioia e di tempesta.

Si aggirarono per il bosco palpitandotremandosenza parlarsisenza guardarsi mai. Nell'uscirneMarcellocolse un ciclamino e lo porse alla fanciullain silenzio. DonnaFedele lo presevi posò le labbrabrillandole negli occhidue lagrime.

Non suonarono più a quattromaniquasi per una tacita intesa; ma donna Fedele non dimenticò.Indusse suo padre a lasciare Arsiero e le rose che tanto amavachecoltivava colle sue mani e aveva prodigiosamente moltiplicate intornoal villino rosso. Andarono a villeggiare presso Santhià doveavevano dei parenti. Passavano l'inverno a Torino e donna Fedele vifu molto corteggiataparve talvolta non insensibile agli amori chedestava. Si parlò anche di passionidi qualcuno cherespintosi era ammazzato per lei. In fatto non si decise mai aprender marito. Le imbiancarono i capellile morirono i genitori.Rimasta sola a quarant'otto annistanca della vita cittadinasiricordò di Arsieroabbandonò Torino e Santhiàper il villino delle Rose. Il povero Andrea Trento era giàmalato. Nel tempo breve che corse fra la morte di lui e la morte disua madredonna Fedele si recò spesso alla Montanina. Delsentimento antico per Marcello le restava una specie di rispettosadeferenzacresciutaper la sventura di luiquasi a venerazione.

Madopo la morte della signora Trentoe un primo scambio di visitené Marcello venne più alvillino delle Rose né donna Fedele si recò piùalla Montanina. Il raffreddamento seguì per causa di Lelia.Lelia aveva provato una impetuosa simpatia per donna Fedele al primovederla e donna Fedele era stata involontariamente glaciale con leio per distrazione o per qualche nube di malumore che le offuscasse ipensieri. Ciò le accadevai suoi geli incomprensibili avevanospesso fatto stupire la gente. Aveva sorriso alla fanciulla unmomentole aveva dato un languido buon giornopoi non le avevaparlato più durante tutta la visita. Lelia la giudicòaltera e si persuase di esserle antipatica. Tenne quindi con essa uncontegno tanto più fieramente freddo quanto più sisentiva portata a un'amicizia calda. E donna Fedelelontana dalsospettare il verocredette alla sua volta di averle ispiratoantipatia. Se ne dolse in cuorema non era nel suo caratterepocoespansivodi fare qualche cosa per guadagnarsi l'animo dellagiovinetta. Dopo la morte della signora Trentovedendosi mal graditadalla persona che a Marcello era cara e sacra come una partesuperstite di suo figliosi astenne dal recarsi alla Montanina.S'incontravano abbastanza spessoella e Marcellosulla strada cheda Velo mette ad Arsiero passando poco sotto la villa.

Allora conversavanofacevano camminoinsieme. Di Lelia non parlavano mai. Quello era un punto freddo cheneppure Marcello amava toccare.

Perché conosceva le singolaritàdi donna Fedeleinclinata a sentire fortemente simpatie e antipatiesi era persuaso che Lelia le fosse antipatica e n'era ferito nellareligione di suo figlio. Come da piccoli fori profondi sino alleviscere di certe montagne fiatal'estateper l'erba un freddo chel'esperto avverte anche nel solecosì nell'amicizia diMarcello per donna Fedele spirava da quel punto oscuro una lievefreddezzaocculta ma sensibile. Donna Fedele lo comprendeva etaceva. Non avrebbe voluto che il vecchio sapesse di chi eraveramentesecondo leila colpase colpa v'era. Mai non gli avrebbedetta una parola contro Lelia. Nel riverente affetto di lei nessunfreddo era spirato.

Ella rialzò gli occhi sul voltodel vecchio che ritornava dalla balaustratatutto raccolto in séalla sua pancamentre don Aurelio si voltavaa dire: "Dominusvobiscum". Massimo guardò l'amicopensando esserneveduto; ma l'amico non lo vide. I suoi occhi mistici non parevanovedere le cose della terra. Il giovine lo trovò dimagrato einvecchiato dopo l'ultimo loro incontro. Era dimagratoinvecchiato epiù illuminatonel visodi spirito.

Finita la messadonna Fedele sussurròa Massimo:

"Lei aspetterà don Aurelio.Io vado dal mio amico. Verrà anche Leiveropiùtardi?"

Lì per lìMassimo nonintese che l'amico era Carnesecca. Fecea casoun cenno di assensoe sedette aspettando don Aurelio.

Dovette aspettare un pezzo. Il ragazzoche aveva servito la messa spense le candele e se n'andò per ifatti suoi. Il signor Marcellodopo avere pregato alquantosi alzòdalla sua pancaentrò in sagrestia. Massimo udì unbisbiglio e poi più nulla. Passavano i minutiné ilsignor Marcello né don Aurelio ricomparivano. Egli non n'eraimpaziente. Godeva il senso di pace diffuso intorno a lui nellepovere muranei poveri vecchi arredi che gli suggerivano immagini dicase anche più poveredi gente semplicedi feste della fedeingenua; mentre il vento vivo della porta aperta gli portava odorifreschi di bosco e di pratovoci dai campilontane. Godeva ilristoro dagli strepiti e dalla polvere di Milano infocatacome lasera primasalendo alla Montanina sul fianco del vallone scuro dovecanta l'acqua cadente nel folto delle macchie. Gli era dolce disentire e di non pensare. Anche gli suonava nella memoriacome uncanto lontano lontanola musica della notte. Lo invasepoco a pocoun sopore pieno di vaghe immaginazioni. Le voci di un corosotterraneo empivano soavemente la chiesamentre una giovine donnacon i capelli scomposti e le palpebre abbassateusciva dallasagrestiaveniva lenta fino a luisi chinava a toccarlo sullaspalla destra. Trasalì dal cuoreaperse gli occhivide donAureliosoloche lo aveva toccato e sorrideva.


Chiusa a chiave la porta della chiesadon Aurelio infilò il braccio sotto quello di Massimo estrinse affettuosamente il giovine a sé. Don Aurelionativodi Romaaveva studiato a Propaganda col proposito di farsimissionario. Una lunga malattia e la volontà dei Superioriche diffidavano della sua resistenza fisicalo avevano costretto arinunciarvi. Amico intimo del benedettino don Clementedi SantaScolastica in Subiacoaveva conosciuto Benedetto a Subiacolo avevarivedutoanche per desiderio dell'amicoa Romasi era legato digrande affetto a lui e a Massimo. Nella convalescenza di una recidivail suo medico gli consigliò l'aria di montagna. Un pretevicentinostato suo condiscepolo e suo estimatore a Propagandavolle adoperarsi perché il vescovo di Vicenza lo accogliessenella sua diocesi e lo destinasse alla curazia di Lago di Velo. Ilmansueto don Aurelio lasciò farecontento che la Provvidenzadisponesse di luicontento di avere a comunicare in Cristo con animesemplicicontento di conservarsi nella sua nativa povertà. Evenne a Lagosolamente questo sapendo della sua nuova residenzach'era ben povera. Non dimenticò l'anima cara di Massimo. Gliscriveva spessovegliava sopra di luinon come un padre disposto adassisterlo nelle sue lotte di fervente discepolo dell'uomo sepolto aCampo Veranoma come una madre che trepidasse per l'anima sua. Losapeva tentato fieramente d'ira e di odio per la ingiusta guerra chegli era mossa da opposti lati; lo sapeva tentato di deviare dallaretta dottrina religiosa come ne avevano deviato non pochi amicisuoiquali per innato orgoglioquali per impeti di reazione; losapeva tentatofinalmenteanche dalle corruzioni del mondo. Sapevaper confidenze dello stesso Massimodi donne belle ed eleganti chegli si erano offerte. Sapeva com'egli avesse a lottare col proprioprofondo senso poetico della donnaforse più duramente ancorache col proprio corpo. Lo vedeva in pericolo grave fino a che nonavesse incontrato e amato di amore una donna degna di diventare suamoglie; la qualeliberandolo dalle tentazionigli creasse intornouna rete di affetti e d'interessi familiariche valesse anche adappartarlo dalle lotte religiose. Don Aureliosia per la mitezza delcaratteresia per il suo concetto dei particolari doveri impostiglidall'abito ecclesiasticonon era uomo di combattimento. Nellequestioni religiose non apriva la sua mente che a Dioda Lui soloaspettavapregandoil trionfo della verità e della Chiesa.Una conferenza di Massimo sugli eretici italiani del secolosedicesimotenuta recentemente a Milanogli aveva suscitato controuna tale tempesta d'insulti rossi e neriun tale putiferio dicommenti anche dalla gente amica del quieto vivere e ostile a chi nonle somigliache don Aurelio consigliò il giovine amico ditogliersi per qualche tempo da quel trambusto e gli offerse lapropria ospitalitàpovera di agiricca di pace.

"Bravo che sei venuto!"esclamò. Poicome per un sopraggiunto moto dell'animostrinse ancora più forte il braccio che già tenevastretto a sé. Massimo sentì nella stretta qualche cosache lo turbò. Dubitò che quella tacita dimostrazione diaffetto intenso coprisse giudizi non voluti esprimere o forse liprecedesse: giudizi non scevri di biasimo. Gli parve un'antecipatascusauna protesta di non volerlo offendere.

"Mi ha disapprovato anche Lei"diss'eglitriste.

"Caro" rispose don Aurelio"posso non averti approvato in tuttoma in questo momento pensosolamente che hai sofferto."

- "Posso non averti approvato intutto". - A queste parole Massimo si sentì nel petto comeun arresto del sangue e poi un freddoun formicolioun peso ditristezza. Non replicò nientelì per lì. Soloquando don Aurelio entròavanti a luinel recinto doveoltre una legnaia mezzo diroccataè la povera casuccia delcuratomentre l'amico gli diceva il suo dispiacere di non averlopotuto alloggiarelo trattennegli chiesequasi angosciosamentecosa non avesse approvato. In quel momento venne loro incontro donnaFedele. Don Aurelio fece le presentazionimeravigliandosi prima epoi rallegrandosi di vedere i due sorriderne. Carnesecca stavabenino; era però inquietodomandava continuamente di donAurelio. Don Aurelio non avrebbe voluto che lo si chiamasseCarnesecca; ma donna Fedele protestò vivacementealzando lesopracciglia e parlandocontro l'usatofrettolosadi essere popoloe di voler esprimersi come il popolo.

"Vuole che lo chiami come lochiama l'arciprete?" diss'ella.

L'arcipretescherzando sul nomePestagranlo chiamava Gran Peste.

Don Aurelio diventò rosso. Nongli piaceva il nomignolo appioppato dall'arciprete a quel miseroerrante di buone intenzioni; ma neppure gli piaceva udir parlaredell'arciprete in tono di biasimo e d'ironia.

"Eccomi" diss'eglientrandocon Massimo dal fresco vivo della scala nella camera dell'infermoinun'afa appestata di puzze farmaceutiche.

Donna Fedele era rimasta fuori. Unavecchietta seduta accanto al letto dove la vecchia faccia raggrinzitadi Carnesecca sporgeva giallognolacome un pugno di cretafra ilberretto da notte e la rimboccatura delle lenzuolasi alzò inpiedigiunse le manibeataesclamò:

"Oh sia lodatoch'el xe qua!"

L'infermo alzò un poco il capo eil bustopuntellandosi sopra un gomito e alzando l'altro braccio arecar la manomilitarmenteal berretto da notte. Poivolto allavecchiale dissesolenne:

"Lùzia."

Distese il braccio con un maestoso elento girar della mano fino a mostrarne alto il palmo verso l'uscio;e proseguì:

"Andate pure a fare i vostrimistieri."

La vecchietta se n'andòripetendo "vago vago" e il palmo levato ricaddecon ungran colpo sordosulle coltri.

"La buona donna soffriva della mianaturale impazienza."

Così dicendoil signor IsmaelePestagran soffiò forte per le narici e strinse i suoi piccoliocchi in due faville nere. Si accorse di Massimo entrato alle spalledi don Aurelio e si recò ancora la mano al berretto da notte."Questo signore?..."

Non pareva contento della presenza di"questo signore". Massimo capì e si affrettòa ritirarsi. Carneseccavedendolo movere verso l'usciogli dissesolamente "scusi!". Nello stesso tempodonna Fedelechelo aspettava sul pianerottolo della scalalo invitò ascendere con lei.

Accadeva qualche cosa che Massimodoveva sapere. Mentre don Aurelio stava celebrandoera venuto ilsagrestano di Velo con una lettera dell'arciprete. Aveva lasciato lalettera e parlato colla Lùziala quale poi si era espressacon Ismaele così: "Coi vostri malegnazi librivu andarìall'inferno e mi me farì andar per carità". Nonaveva voluto spiegarsi di più ma Ismaele era convinto che ipreti di Velo volevano cacciare don Aurelio da Lago per causa sua.Massimo domandò se vi fosse realmente questo pericolo. Comesaperlo? La Lùzia aveva portato il messaggio dell'arcipretenello studio del padrone e don Aurelio non vi era ancora entrato. Madonna Fedele che ne pensava?

Donna Fedele temeva moltissimo. Forseper confidenze di don Aurelio?

Nemmen per sogno. Don Aurelio nonparlava dei Superiori che per dirne bene. Secondo lei c'era piùa temere del cappellano di Velo che dell'arciprete e piùdell'arciprete che del vescovo. Il vescovoanzipareva moltobenevolo a don Aurelio. Questo cappellanoquesto arcipretecheuomini erano? Del cappellano donna Fedele non volle dir niente.Dell'arciprete disse ch'era un uomo difficile a conoscere. Ora parevabonarioora duro; ora giovialeora sarcastico; ora liberaleoraretrivo. Come preteincensurabile. E qui donna Fedele dichiaròper debito di coscienzache anche i costumi del cappellano eranoincensurabili. Don Aurelio diceva l'arciprete buon teologo e buonlatinistagli attribuiva tutti i meriti di cui essa non potevagiudicare. Fra lui e il vescovouomo di cuore caldodi grandecarità verso amici e nemicinon c'era buon sangue. Si potevascommettere che l'arciprete avesse subito don Aurelio a Lago perforza e con dispetto.

Secondo leidon Aurelio era sospettoda un pezzo per la sua predicazionecontinuamente sorvegliatadellaquale il cappellano aveva insinuato che fosse troppo abbondante dimorale pura e di sentimento misticotroppo scarsa di teologia e diascetismo.

Stando Massimo e donna Fedele adiscorrere così sull'entrata della casapassò la Lùziache andava nell'orto a coglier piselli. Donna Fedele la trattenne.Dunquecos'aveva dettoveramentequesto sagrestano? Aveva detto:"Fèghe driofèghe driovua Gran Peste!

Stavolta el vostro prete el trota"."Curatecurate Gran Pestevoi!

Questa volta il vostro prete se ne va."

Donna Fedele si accese in viso dicollera e un fuoco amaro salì anche nel cuore di Massimo.L'erba del pratole foglie dei gelsitremolantiluccicanti nellabrezza purale facce placide delle montagne beate nel soleil granserenotuttoanche l'orticello colle selvette dei pisellierapieno di bontàera una musica di bontà intorno allapovera umile casa dell'uomo di Diodell'anima penetrata di Cristo.Adesso niente aveva più espressione. Le buone voci delle cosetacevanocolte da un gelo. Né Massimo né donna Fedeleosarono dire il loro sdegno nella vicinanza di don Aurelio come nonl'avrebbero detto in chiesa. Udirono il passo del curato sulla scalae la voce di Carnesecca che gridava: "Vogliosignore! Voglio!".Udirono don Aurelio rispondere: "No! No!". Poi piùnulla.

"Vorrà partire"mormorò donna Fedele "per causa della lettera.

Figurarsi se don Aurelio lo lasciapartire in quello stato!"

Don Aurelio non compariva. Donna Fedelesi spiccò da Massimoprese la scalaentròsenzabussareda Carnesecca. Massimo fu molto meravigliato di vederlascendere tostoridendosi nelle mani strette sul viso. Aveva trovatoCarnesecca colle gambe nude fuori del letto.

Erano due tali trampoli neri e secchidi gambe e il pover uomo si era messo a gridare cosìdisperatamente "via! via!" tirandosi addosso le lenzuolache donna Fedelecol suo caratterenon avrebbe potuto trattenere lerisa neppure se le fossero morti il padre o la madre quella mattina.

Ella raggiunse la Lùzia fra ipisellila consigliò di andare ad assistere il suo ammalato.La Lùzia non volle saperne. Faceva sempre cosìquell'uomo. Voleva scendere dal letto senza aiuto. Mandava fuorianche leiallora. Ma se gli venisse un capogiro? Se cadesse? Se sirompesse un braccio? Se si rompesse il femore?

"Vergine benedetaquante robe!"fece la Lùziadura.

"Ehquante robe!" ribattédonna Fedeleridendo. "Mi pare che basterebbe una."

Rise anche la Lùzia e continuòla sua vendemmia di piselli. Allora Massimo si avvicinòpropose di andar egli. La Lùzia approvò subito.

"El vadeEl vade!" Invecedonna Fedele fece "hm!" e sorrise di un sorriso enigmaticoche punse la curiosità di Massimo. Ella gli spiegòallora con parecchi altri sorrisi e parecchie reticenzech'egli nonera affatto sul buon libro di Carnesecca. Carnesecca leggeva igiornalicredeva che Massimo fosse un modernistauno di coloro chestudiano la Bibbia per trovarvi delle falsitàdegli erroridelle contraddizionidelle interpolazionimentre per lui tutto viera scritto dalla mano di Dio. Era molto contento che don Aurelio nonavesse simpatia per la critica biblica. Diceva che circa questo puntogli piacevano più gli ebrei di tanti cattolici. Infatti unodegli amici suoi più cari era un rabbino di Londra. Massimonon occupatosi mai di critica biblicasi divertì moltodell'orrore che ispirava e anche di quest'amicizia col rabbino diLondra. Donna Fedele gli raccontò che Carnesecca aveva passatoparecchi anni in Inghilterradove si era fatto protestantee che viaveva conosciuto un rabbinouomo di scienzadal quale aveva appresocome il corpo umano si componga di trecentosessantacinque ossa.Soggiunsecolorendo forse un poco la cosa colla propria fantasia diumoristachein seguito al suo martirio di sassate e di legnatecattolicheIsmaele sosteneva di sentirsene doleretrecentocinquantanove. I due discorrevano cosìquietamentefra i pisellimentre la Lùzia era intenta a coglierli. A untratto li scosse la voce di don Aurelioaffacciato a una finestradel suo studio:

"Massimo! Vieni?"

Massimo corse in casa e donna Fedelemezzo morta di stanchezzapregò la Lùzia che leportasse fuori una sediasi dispose ad aspettare lì qualchenotizia del messaggio arcipretale.

Don Aurelio venne incontro a Massimosul pianerottolo della scalagli tese le manile tenne un poco frale proprieguardandolo in silenzio e sorridendo. Poi lo introdussein un povero studiolo pieno di lucedal soffitto di graticciimbiancatidall'impiantito di mattonidove non erano che unalibreriaun tavolo di abetepoche vecchie seggiole impagliateunseggiolone di cuoio sdrucito onde scappavano ciuffi di stoffa; esopra il seggioloneun crocefisso di legno. In faccia alla libreriasi apriva un camino. La libreria era piena zeppa di libriil tavolon'era carico e così la caminiera e così le seggiolemeno una.

Non v'era però disordine; eranocataste regolaridisposte simmetricamente. E non v'era polveretutto era mondo come la tonaca e le mani signorili di don Aurelio.Sopra il caminofra le due finestresi vedevano due fotografie; unadel Sacro Speco di Subiaco e l'altra del Chiostro dei Cosmati a SantaScolastica. I libri erano in grandissima parte di argomentoreligioso. Don Aurelio teneva molto alla sua collezione di grandimistici e alle opere complete di Antonio Rosmini e del padre Gratry.Queste ultimecome pure la raccolta degli oratori sacri di "NotreDame" e i molti volumi di moderni scrittori cattolici francesierano dono della Vayla e avevano appartenuto a suo padre. Don Aurelioveniva mostrando le proprie ricchezze con tanto sereno compiacimentotrattenne con tanta pace il suo giovine amico alla finestraindicandogli le montagne per nomei casolarile vie lontanecheMassimo pensò: o non sa o non è vero. Sentiva intantodi avere un'aria così distrattadi mostrare un interesse cosìscarso per le cose di cui don Aurelio gli parlavada trovarsene maleegli stesso.

Colse un momento in cui don Aurelio glinominò Velo d'Asticoper chiedergli quali fossero le suerelazioni coll'arciprete.

"E' un buonissimo uomo"rispose don Aurelio. E soggiunse sorridendo:

"Forse non ha una grande simpatiaper me".

Non v'era una ragione di sorridere.Massimo capì che don Aurelio sapeva.

"Perché sorride?"diss'egli.

Il curato non rispose.

Si udì la voce della Lùziache saliva le scale gridando:

"SmèleSmèle! XelolàSmèle?"

Ella entrò in furia eguardatosi attornoparve tramortiregiunse le maniesclamò:"Gèsumarìte che nol ghe xe!"

Chinon c'era? - MaSmèle! -Che Smèle? - CapeCarnesecca!

Sicuroentrando nella cameradell'ammalatola Lùzia non lo aveva trovato più. DonAurelio intesediede un balzo precipitò dalle scaleseguitoda Massimo e dalla Lùzia. Proprio verola camera era vuota. Egli abitigli abiti? Gli abiti erano scomparsi.

"Gèsumarìteporocan!" fece la Lùzia. "El me ga lassà unfranco."

La moneta brillava sulla paglia dellasediaaccanto a un gomitolo e a due ferri da calze.

"El se ga desmentegàl'orologio" soggiunse.

"Massimo!" esclamò donAurelio. "Vieni con me!"

Incontrarono sulla porta di casa donnaFedelecheudite le grida della Lùziale voci commossedegli altriveniva a vedere di che si trattasse. La informaronorapidamente. Allibì. Allora era vero? La lettera portata dalsagrestano?.. Carnesecca era partito per questo?

Oh Signore!

Donna Fedele parve annientata.

"E' vero" rispose don Aurelioplacidamente"ma quel pover uomo non c'entra per nulla e adessosi fa del male stamattina aveva ancora febbre. E Lei non lo ha vedutouscire?"

Donna Fedeleintenta a guardare laLùzia che stava raccogliendo pisellinon aveva veduto néuditocome non aveva veduto né udito la Lùzia.

Don Aurelio pensò un pianod'inseguimento. Conveniva decidersi. "Io non posso correre"disse donna Fedelesorridendo. Poteva correre tanto poco chedopoavere stretto in silenzio la mano al curatosi ricondusse alla suaseggiola. Più tardi le bisognò pregare la ragazza diLagoportatrice del latteche le desse di braccio fino al castagnocandelabro dove l'attendeva una carrozzella da nolo.

Don Aurelio scese di corsa verso Lagocoll'idea che Ismaele si fosse diretto alla Montanina. Massimo salìverso Maso. Il curato giunse fino ai castagni della costa dovebiancheggia la villa Trentosenza incontrare anima viva. Possibileche Ismaele fosse già passato? Un uomo sulla sessantinafebbricitantequasi digiuno? Impossibile. Don Aurelio si fermòcolpito da un'idea. Se quel diavolo d'uomosupponendo tutto quelloche supponevafosse andato ad affrontare l'arciprete? Pensandocilacosa gli parve più che probabile. Pur troppo! Si battéla fronteritornò frettoloso sui suoi passi invece di saliredirittoper l'accorciatoiada Lago a Sant'Ubaldoprese la via chea pochi passi dalla Chiesaraggiunge l'altrascendente a Velo. EccoMassimo che ha trovato gente sulla strada di Maso. Nessuno ha vedutoCarnesecca. Don Aurelio non dubitò più.

"Vado ioa Velo" diss'egli"e ci devo andare solo. Tu va alla Montaninadove tiaspetteranno."

Massimo gli domandò sequandonon gli riuscisse di ricondursi Pestagran a casala camera diPestagran restando vuota...

Don Aurelio lo interruppe.

"Nocaronon è possibileti dirò..."

E perché leggeva nel viso diMassimo altre domandealtri sospettiparole di doloreparole disdegnolo spinse via:

"Va va dal signor Marcello chet'aspettavaparleremoadesso devo cercare quel disgraziatodevoimpedire che faccia qualche sciocchezzavava! Il signor Marcellomi ha invitato a colazione. Se possovengo."

Il messaggio dell'arciprete contenevauna lettera della Curia Vescovile di Vicenza coll'asciuttolicenziamento di don Aureliodentro il termine di quindici giornidalla curazia di Lago di Velo.

Conteneva inoltre alcune corrette righedell'arcipreteil qualedicendosi dolente della inattesacomunicazionepregava don Aurelio di voler provvedere a chedentroil termine stabilitola casa fosse libera da mobili e da persone; ilsuo successore dovendo portare con sé la madre e una sorella.

Era un'amara cosa venir cacciato daquel nido di paceseparato dal piccolocaro greggenon saper dovetrovare un tettoun pane.

"Libera da mobili e da persone".Non era possibile che lo cacciassero per causa d'Ismaelema qualchecosaposte le circostanzequella parola "persone"significava.

Passato il primo momento di stupore edi doloredon Aurelio si era sentito nell'anima una dolcezza serenaquasi per le maniamorose di Cristoche gli posassero sul capo.Adesso non pensava più affatto al suo triste casopensavasoltanto a due cose: a trovare il venditore di Bibbie e a certodiscorso gravissimodelicatissimoche il signor Marcello gli avevafatto in sagrestiadopo la messa.

Passòcamminando in frettadavanti a un'osteria solitaria. L'osteun lombardo barbutostatogiardiniere al villino delle Rosefumava la pipascamiciatosullaporta. All'avvicinarsi di don Aurelio gli voltò le spalleentrò nell'osteriadicendo abbastanza forte:

"Porci di pretibuttano unmoribondo in strada e poi vanno a vedere se è crepato."

E sputò con disprezzo. DonAurelio mosse difilato alla volta dell'uomolo affrontò.

"Galantuomo" diss'egli.

Coluistupefattosi levò lapipa di bocca.

"Mezzo litroreverendo?"

"Dov'è" chiese donAurelio con piglio risoluto "il moribondo che ho buttato inistrada?"

"Ahl'uomo delle Bibbieneh?"rispose l'ostepacifico. "Scusi se ho detto quella cosa. Non laho detta per Lei. Del restoper memeglio i preti che quel Bibbialì. E' quiè qui. Lo ha trovato la donna sulla stradamezzo morto. Ma non ci sta micasa. Se l'è per quellostiatranquilloel dicache se non va via con i piedi suoilo faccioandare cont'i mieidi piedi. Eh? Se prima ho parlato maleparlomica beneadessoforsi? Buon giornogiovinotti!"

Entrava nell'osteria una frotta dialpini assetati. L'oste li accolse fregandosi le mani: "Buongiornobuon giorno! Rampicanti! Rampicanti sempreverdi!".

Intanto don Aurelio era svoltato nelcortile a fianco dell'osteriaonde venivano grida femminili quasiangosciose. A due passi dal letamaiosopra un vecchio carcame disedia mal piantato nella fanghiglia neraposava l'altro vecchiocarcame di Carneseccamal sorretto dalla moglie dell'ostechegridava: "Checa! Checa! Presto!

presto!" con quanto fiato aveva incorpo. Don Aurelio si precipitòrimise alla meglio inequilibrio il povero Carnesecca che rovinava da tutte le partismorto come un cencio lavato male; rimproverò la donna di nonaverlo portato in casa. La donnaun po' gridava "Checa!"un po' si scusava. Era il suo uomoGesummariache non aveva voluto.E neanche CarneseccaMaria Vergine. Pareva rinvenutoappena toltosu dalla strada. Non era come adesso. Anzi aveva detto: "Mettìtimisul letamaglioche son Giopoio". A questo punto Carneseccaaperse un poco gli occhi e brontolòcol mento sul petto:

"Giobeno giopo!"

"Sì sì" fece ladonna. "Tasìche adesso i ve porta el cafè."

Ecco la Checcafinalmenteunapollastrona flemmatica di sedici annibianca e rossache arrivalemme lemme col caffènon il caffè del padrone e deiclientima quello della padrona e della servaun caffèsimboliconel quale il frumento tostato entra per quattro quinti.

Ma intanto una gallinache fino a quelmomento era andata placidamente a diporto sul letamaioora guardandocon orgoglio ora beccando con umiltàimpaurita dal cane dicasastarnazzò le ali giù nel cortile e s'imboscòin una siepe.

"Gèsula galinaparona!"fece la Checcafermandosi sui due piedi.

"Gèsuciàpelaciàpela!" gridò la padronaconscia di un buconella siepe e di certi feroci propositi del vicino contro leincursioni gallinacee.

Don Aurelio strappò alla Checcail vassoio del caffè e le due donnela padrona davantilaChecca dietrovia come il vento ciabattando per la fanghiglia nera.Un sorso di caffè bastò a rianimare il venditore diBibbieche fissò don Aurelioa bocca apertasenza dirnullacon uno sguardo fra trasognato e ridente.

"Cos'avete fattobenedetto uomo?Cos'avete fatto? Cosa vi è venuto in mente?"

A questa domanda del curatoCarneseccasorrise e rispose nel suo italiano di Val d'Astico:

"Gliela ho fatavede. Glieloavevo deto. Gliela ho fata."

Un altro sorso di caffè.

"A me? A voi l'avete fatta. Madove volete andare?"

Ancora un sorsodopo il qualeCarnesecca affondò lo sguardo indagatore nel liquidocon unaeloquente contrazione delle labbra.

"Dove voglio andare?"diss'egli guardando ancora nel caffè di frumento. "Primadal Sommo Sacerdote di Velo."

"Questo lo proibisco!"esclamò don Aurelio.

"Vado con rispetto e mansuetudine"riprese placido Carnesecca "dal Sommo Sacerdote di Velo e glidico: saziati di mefammi crocifiggereperché questa èGerusalemmetu sei Caifasso e io sono il figlio dell'Agnello."

Don Aurelio andò fuori deigangheri:

"Non dite stupidità! E'tutta una stupidità vostra quello che supponete! Non èvero niente! Voi ritornerete subito a casa mia!"

Il figlio dell'Agnellocolpito dalvolto acceso e dall'accento furioso di Don Aureliolo guardò:

"Ben! - Ben! - Ben!"diss'egliparlando a colpi di pistole. "Se non è veronon vado. Ma piuttosto morire sul quel letamaio che ritornare da Lei!Domanderò asilo alla Dama bianca delle Rosela quale..."

"Calàpo!" gridòl'ostessa che aveva acciuffata la gallina e se la riportava fra lebraccia. "Calàpo! Calàpo! Cosa feuCalàpo?"

Calàpoun omiciattolo tozzoscamiciato e scalzoche stava tirando una carrettella fuori dellarimessavociò alla sua volta che attaccava l'asino per andarea Piovene. L'ostessa andò sulle furie.

"Gnentegnentech'el ga i duluriel mussobestiulo!"

Carneseccadisturbato all'inizio di unpanegirico della Dama bianca delle Rosecom'egli chiamava la Vaylacercò di alzarsi per andarsene. Don Aurelio lo trattenne.Aveva pensato cheposte le circostanzefosse meglioper molteragionilasciarlo andare al villino delle Rose. Ma non era possibilelasciarvelo andare a piedi.

Pregò l'ostessa di permetterealmenose non voleva ospitarloche Calàpo lo conducesse alvillino coll'asino. Ma l'ostessa allegava le sofferenze del"bestiulo"Calàpo urtava la carrettella indietro alsuo posto e Carnesecca pretendeva di poter andare a piedi. DonAurelio si mosse per affrontare l'oste e chiedergli di ricoverarequell'uomoalmeno fino a sera. Calàpo gli si avvicinòe si offerse di fare da "musso". S'impegnava di tirare lacarrettella fin al villino. Intanto un alpino aveva chiamato laChecca sulla stradadietro a quello n'erano venuti degli altril'avevano presa in mezzorossa e ridente.

L'ostessa chiamò "oheCheca!". La Checca rientrògli alpini la seguirono e unodi essiudendo l'amico Calàpo insistere nella sua offerta chedon Aurelio esitava ad accettaregli gridò:

"Vusto? Te juto!" Anche isuoi compagniper far chiassooffersero il loro aiuto. Si combinòche avrebbero tiratatutti insiemela carrettella fino a Velodovesi sarebbe cercato un asino sano. Calàpo entrò fra lestanghe della carrettelladue alpini levarono Carnesecca di peso eve lo adagiarono dentro. Proposeroad alte gridadi farvi salireanche la Checcama la Checca scappò da una parte e Carneseccafece l'atto di buttarsi giùsdegnosamentedall'altra.L'ostessa accomodò le cose. "Del pesotusi? ve servo!"Mandò Calàpo per due sacca di grano da portare almugnaio. Ma Carnesecca chiamò Calàpo a séglidomandò se veramente si sentisse in grado di trascinare dasolo la carrettella fino a Velo. "Fino a Velo?" risposeCalàpo. "Fino a Piovene!"

Allora Carneseccaal quale ripugnaval'accompagnamento chiassoso degli alpinisi voltò ad essi echinando il capo fra le mani spiegate come due grandi appendici degliorecchiringraziò a destraringraziò a sinistrafececapire che non occorreva si disturbassero. Pareva un Papa in sediagestatoriache benedicesse.

Gli alpinimalcontenti della Checcanegativa e delle sacsa positivesi scostarono.

"AndiamoCalàpo" feceCarneseccadolce dolce. "La benedico" disse a don Aurelio"per la Sua ospitalità." E all'ostessa: "Vibenedico anche voi per questa carrettellaper la sedia e... siamomisericordiosi...

anche per il caffè". Eccol'oste che sbuca da una porticina laterale dell'osteriavede esbuffa: "Cosa l'è questa commedia?". Carnesecca loguardaplacido. "Vi benedico" dice "anche voigalantuomoperché avete una moglie cristiana e la mogliecristiana giova al marito idolatra. AndiamoCalàpo."

L'oste rimase di stuccoCalàpogobbo sotto l'arco delle cinghiesvoltò dal portone instradagli alpini gli tennero dietro motteggiandolo: "ArriCalàpo! ArriCalàpo!". Don Aurelioguardato unpoco il bizzarro gruppo che si allontanava verso Veloriprese la viadi Sant'Ubaldo.


2.


Egli aveva nel cuoreadessoe nellamentesoltanto il colloquio avuto col signor Marcellodopo lamessain sagrestia. Il signor Marcello gli aveva parlato come unoche si crede vicino a moriresenza volerne spiegare il perchésolo accennando ai suoi settantadue anni. Qualche mutamento dovevaessere avvenuto in lui. Lo dicevano certa placiditàe certadolcezza nuova della voce e degli occhi. E gli aveva fatto undiscorso tanto impensato! Il discorso del signor Marcello era statoin sostanzaquesto. Inquieto circa l'avvenire della persona checonsiderava come figlia propriapreso dal timore che non volesseaccettare di venir beneficata da lui per testamentoche ricadesse inbalia dell'uno o dell'altro dei suoi genitoriaveva pensatosuperando le renitenze del suo cuore mortale coll'immaginarsinell'eternitàchese fosse possibile un matrimonio dellaragazza coll'amico del suo povero figliuolocon Massimo Albertialmeno il più grave di quei pericoliil secondoverrebbesicuramente evitato.

E sarebbe probabile che si evitasse inparte anche il primo; perché egli potrebbesoddisfacendo inparte il desiderio di Lelialegarle solamente la villa. C'era dasperare che né lei né il marito volessero offendere lasua memoria rifiutando il legato.

Non si poteva domandare a una ragazzadi ventidue anni un lutto eternouna rinuncia irrevocabile almatrimonio. E bisognava farle intendere che si prevedevache siaccettava per lei un'altra sorte.

Forsealmeno vivo luiMarcelloellanon avrebbe voluto far cosa che paresse quasi oltraggio alla memoriadel povero Andrea. Incoraggiatafatta persuasa che il povero Andreanon poteva disapprovaredal cieloquesta unionesi sarebbe decisa.Il signor Marcello lo credeva. L'incognita del problema era MassimoAlberti.

Il signor Marcello ne aveva udite moltelodi da don Aurelioma non sapeva se avesse legamise avesseaffettise intendesse prendere moglie o no. Per questo aveva apertoil cuore a don Aurelioper questo gli chiedeva aiuto: aiutod'informazioniaiuto di consigliaiuto più direttose lacosa fosse possibilepresso il giovane che lo amava tanto.

Il discorso aveva fatto salire fiammedi turbamento al viso del curato. Massimo non aveva legami nonconfessabili. Di questo si teneva sicuro. Neppure lo credevainnamoratobenché non l'avrebbe potuto giurare. Lo conoscevafacile alle simpatie. Il giovine non gli aveva taciutoscrivendoglii sentimenti fugaci che uno sguardo accendeva in lui e unaconversazione spegneva. Quali erano le sue disposizioni rispetto almatrimonio? Contrarietà certamente noma volontàfermissima di non legarsi senz'amoredi non lasciarsi suggerire lascelta da chicchessia. Un consiglio di questo genere lo avevadistolto da certo matrimonio chesenza lo zelo del consigliereforse si sarebbe fatto. Ci voleva qui un'arte che don Aurelionuovoa siffatti negoziiconosceva di non possedere. Sarebbe statocontento di averladesiderava che Massimo prendesse moglieglipareva capace di formarsi una famiglia idealema...

Disse al signor Marcello tutto ciòe gli tacque la spina che lo pungeva di più. La signorinaLelia gli era un enigmaun astuccio chiusoche poteva conteneregioie buone oppure gioie false. Il signor Marcello insistettemostrando frettaanche. Don Aurelio aveva imparato a venerarenelbreve tempo da che lo conoscevaquel vecchio dall'anima caldaapertaumiletutta fede candida e amore della Parola Divina. Nonseppe rifiutargli la grazia che gli domandavapromise di fare delsuo meglio.

Faresì; ma cosa?pensavacamminando lentamente sulla via bruciata di Sant'Ubaldo. Scoprireintantose Massimo avesse o no il cuore libero. Questo non eradifficile. E poise aveva il cuore liberocome avviarlo a quellaparte senza aver l'aria di una intenzione? E il tempo? Quando avevaparlato col signor Marcello non sapeva di dover partire fra quindicigiorni. Non vorrebbe partire anche Massimo? Ed era impresaquellada condurre a fine in quindici giorni? Qui era il caso di confidarsia donna Fedele. Donna Fedele s'intendeva di queste cosepotevaconsigliarlo bene. E donna Fedelebenché non frequentasse laMontaninapoteva sapere della signorina Lelia più cose chenon ne sapesse egli. Guardò l'orologio. Dieci e mezzo. Avevail tempo di andare al villino e di ritornare alla Montanina per l'oradi colazione. Le occasioni di studiare da vicino la signorina Lelia edi vedere i due giovani assieme erano adesso preziose. Affrettòil passo e prese la strada che scende a Lago prima di toccareSant'Ubaldo. Attraversando il verde girone ombreggiato di meli e dinocicorso da rivolettidove il montefra la costa di Lago e lacosta della Montaninariposasi cercò nella memoria le pochetracce lasciatevi dalla signorina Lelia. L'aveva udita suonare ilpiano con molta espressione. L'aveva veduta qualche volta scendereper la strada che da Sant'Ubaldo conduce alla Batteriarecando fascidi fiori selvaggi. Parole ne ricordava ben poche e insignificanti.Quando gli avveniva di celebrare a Santa Maria ad Montesella c'erasempreaccanto al signor Marcello. Presente a una conversazione frail signor Marcello e lui circa la lettura abituale del Vangelononaveva mostrato alcun interesse per l'argomento. Anziora se nesovvenneglien'era rimasto il dubbio che non avesse letto il Vangeloper intero. Non gli pareva brutta ma neppure sufficientemente bellaper conquistare Massimo d'un colpo. La sua impressione dell'aspettoera che rivelasse molta intelligenzaun carattere misto di schivo edi capriccioso.

Assorto in questo problemasarebbeforse passato accanto a donna Fedele senza vederlas'ella non avesseesclamato: "Ohdon Aurelio!".

Era seduta colla ragazza di Lago sopraun grosso tronco atterratopoco più su della svolta che piegaverso la Montanina.

"E dunque?" diss'ella. "Loha trovato?"

All'udire che Carnesecca era in viaggioverso il villino delle Rosesi alzò in piedi stupitacontenta che fosse cosìdesiderosa di affrettare il ritornoal villino. Congedòbenché mortalmente stancalaragazza di Lagoper poter discorrere con don Aurelio del suolicenziamentodelle formedelle ragioni. C'era poco a dire e donAurelio troncò anche le congetture ch'ella proponevasiaperché gli stava sul cuore un altro discorsosia perchétemeva parole di lei troppo sdegnose contro i preti di Velo. E misesubito in campo la sua necessità di conferire con lei circa unargomento assai grave. "Più grave di questo?" chiesedonna Fedele. Sìpiù grave. Questo era semplice el'altro era complicatissimo. Avevano quasi raggiuntadiscendendolacarrozzella da nolo che dal castagno candelabro era salita fino alcancello della Montanina. Il curato si fermòvolendo parlaresubito.

"Don Aurelio" disse lasignora "se ha il coraggio di darmi il bracciomi fermo;altrimenti vado a sedere in carrozza." Era pallidapallida;eppure i dolci grandi occhi sorridevano.

Poiché non erano ancora leundicidonna Fedele trovò che il curato poteva venire alvillino con lei e farsi ricondurre alla Montanina per mezzogiorno.Anche se la presenza del vetturino impedisse loro di discorreredurante il tragittopotevano avere al villino un quarto d'ora dilibertà. Cinque minuti prima di mezzogiornodon Aureliospingeva il cancello del portichetto che fiancheggia Santa Maria adMontes e mette nel giardino della Montanina. Quel gran peso di primagli si era alleggerito non poco. Donna Fedele aveva accettato diaiutarlo con tale una commozione di buona volontàch'egliignaro del profondo cuore di leine fu alla sua volta commosso diriconoscenzacome se quella buona volontà si fosse accesasolamente per lui.



3.


Massimo discese da Sant'Ubaldo colcuore amaro per don Aurelionon dubitandocome Carneseccacheoccasione del colpo fosse stata l'ospitalità concessa alpropagandista luterano. E si domandava con pena dove potesse il suopovero amico trovare appoggio. Se il povero prete dovesse andarnerandagio in cerca di un'altra diocesinon lo seguirebbero lecalunnie dappertutto? Non troverebbe dappertutto malvolereodiffidenzao timidezza?

Appena toccato il cancello dellaMontaninaun'ansia differente gli salì dentro questa e losoverchiò. Pensò all'incontro imminente collasignorinadesiderandolo e temendolo. La scenaintorno alla villabiancadi verdi rivedi alberi lentamente mossi dal ventodiruscelli mormorantidi rose arrampicate ai massi o pendentiaciuffisull'acqua corrente aveva per lui un'anima segreta di paurosoincanto. Invece di movere diritto alla villaprese a sinistrapassòil drappello di pioppiil ponte quasi affogato nelle roseandòlungo la Riderella fino ai nocidove un picciol salto dell'acquacanta presso alle ombre. Poi si domandò con impazienza laqualità del suo turbamento per una creatura non mai veduta.Non trovò risposta. Invece gli si riaffacciarono le duefotografie colla domanda: quale delle due vedrò? L'idea divedere il viso marmoreo dagli occhi bassi gli fece paura. Si alzòdal sedile e si avviò alla villacercando penetrarsid'indifferenza. Non incontrò nessuno; né padroninédomestici. Vide da lontanoverso la scuderiaTeresina che parlavacon un signore.

Seppe da lei più tardi che quelsignore era il medico del paeseil quale non aveva creduto opportunodi visitare il signor Marcello fino a che non se ne trovasse unpretesto. Salì nella sua camera eguardato a lungo ilritratto di Andreacambiò riguardosamentequasi conrispettol'acqua del vaso alla rosa che pendeva più curvapiù languidatocca nell'esterno dai primi lividori dellamorte. Rilesse le sue lettere al perduto amicoancora piùavvizzite del fiore. Stava contemplando dalla finestrasenzapensierola festa del soledel ventodelle cose vive esortanti aviverequando udì un camminar pesante nel corridoioun lievespingere dell'uscio. Era il signor Marcellochevedendolomiseun'esclamazione di scusa.

"Non sapevo che fosse rientrato"diss'egli.

Teneva in mano una rosa frescaunamagnifica rosabianca come l'altra. Si guardaronos'intesero cogliocchiin silenzio. Massimo presecommossola rosa e il signorMarcello si ritirò.

Verso le undici e mezzomentre Massimostava scrivendo lettereGiovanni venne a pregarlo di scenderedaparte del padrone.

"E' nel salone colla signorina"diss'egli.

Massimo pensò subito: "qualedelle due vedrò?" e si avviò a discendere per lascala di legno.

Lelia sedeva alla scrivania posta perisghembo fra la grande vetrata e il camino a cappae voltando lespalle alla scala. Ella fremeva di sentirsi tanto battere il cuorenon voleva confessare a se stessa la curiosità ardente divedere l'uomo che stava discendendo le scalenon avrebbe mosso ilcapo a guardarlo né allora né poi se lo avesse potutofare senza taccia di pazza villania.

"Lelia" disse il signorMarcellodolcemente.

Ella depose la pennaaperse ilcassetto per posarvi qualche cosavi frugò dentroefinalmentesi alzòsi voltò.

Il signor Marcello la presentò:

"Mia figlia."

Ella salutò appena. Massimo feceun inchino mormorando qualche cosa d'indistinto di cui s'intese solo"piacere".

Sìpiacere. Non era nél'uno né l'altro viso. Era il viso compunto della fanciullache accoglieper la prima voltaun amico del suo fidanzato morto.Era il viso di una persona che fu tutta per l'amore ed è tuttaper la morte. Massimo sarebbe stato severo alle irregolaritàdi quel viso se l'espressione ne fosse apparsa diversa.

Invecenon parendogli tale dadoversene guardarelo trovò quasi bello. E trovògraziosa la personanon alta ma perfetta di forme nel semplicevestito cenere guernito di nerobasso di accollatura. I capellibiondi gli parvero magnifici sulla testa piccola e il collo d'avorioelegante. Egli prese tosto un'aria più sciolta.

Invece Lelia parve farsi anche piùrigida. Il signor Marcello si avvidea un impercettibile moto dileiche stava per prendere il volo come un bambino atteso al giuococui brucia il pavimento. Volle trattenerla parlando di lei.

"Si è sacrificata per lamia povera moglie e per me" disse egli.

Raggiunse l'effetto opposto. Leliaesclamò in tono di rimprovero:

"Papà!" e corse viaverso la sala da pranzo. Il signor Marcello la richiamòdolente: "Lelia!".

Ella si fermò proprio sullasoglia della sala da pranzo si voltò e stettecolle mani aglistipiti. Massimo trasalì. Era il viso temutola Sfingemarmorea dagli occhi bassi. La visione non durò tre secondi.

Lelia alzò gli occhisorrise diun sorriso forzato.

"Devo andarepapà"diss'ella"se vuole far colazione."

"Allora..." fece il signorMarcellopiù malcontento che rassegnato.

Appena ella fu scomparsane fecegrandi elogi. Era buonaintelligentemusicista nell'animaabilenella direzione della casache teneva lei. Massimo ascoltava etaceva. Misequando potéil discorso sul licenziamento didon Aureliodel qualenaturalmenteil signor Marcello nullasapeva. Massimo non ne conosceva ancora i particolari ma il fatto eracerto.

Il signor Marcello ne fu piùsbigottito e dolente che irritato.

Ventiquattr'ore prima non sarebbe statocosì. Di CarneseccaMassimo non poté riferire che lafuga. Era molto dubbiosecondo luiche don Aurelio potesse tenerel'invito a colazione. Parlò anche di donna Fedelesenzasapere quali fossero le relazioni di lei colla Montanina. Il signorMarcello mostrò di compiacersi molto che vi fosse fra loro unlegamev'insistette senza dirne il perchésenza lodispeciali delle persone e prese a raccontare come i Vayla di Brea sifossero stabiliti ad Arsiero. Intanto sopraggiunse don Aurelio.

Egli entrò lieto. Alle domandeansiose di Massimo e del signor Marcello rispose corto. Sì sìera verodoveva lasciare la curazia dentro quindici giornisì.Ma non c'era da accusare nessuno. Ismaele era un povero uomounvisionario. Le sassate di Posina gli facevano vedere persecutoridappertutto. A Lago sarebbe venuto un prete con famiglia: madre esorella. Probabilmente si trattava di procurargli un panepoveretto;mentre eglisolo soletto com'era... E si strinse nelle spalle comese per lui trovar pane fosse affare da nulla. Si dilungòinvece a raccontare l'odissea di Carneseccach'era giàbeatamente a letto in una bella cameretta del villino. Ossiabeatamente noperché le trecentocinquantanove ossa gliavevano ripreso a dolere forte; ma insomma...! Il domestico annunciòche la colazione era servita. Lelia aspettava nella sala da pranzo.

I quattro commensali sedettero allatavola quadratauno per lato:

Lelia in faccia alla porta vetrata chemette in giardino e guarda le scogliere del BarcoMassimo alla suasinistrain faccia alla finestra che si apre sulla imminentescuraprofonda selva di castagni. Alla destra di Lelia era don Aureliochele rivolse presto la parolale disse di averla veduta spessodiscendere per la strada militare della Batteriarecando fiori. Leparlò dei molti rododendri che macchiano le frane dellaPriaforà. Ella li conosceva pure e confessò diprediligere quei luoghi selvaggi. Aveva una voce più gravemeno dolce della voce di donna fedelemorbida e caldamossadentroi confini delle note femminilida una corda di violoncelloricca dicontenuto passionale in potenza.

Alla domanda di don Aurelio se amassele solitudinirispose di slancio che sìmolto. Soggiunseper timore di un equivoco:

"La solitudineLei dice?"

"Dicevo "le solitudini"veramente."

Ella si avvidesenza guardare daquella partedi un movimento delle labbra di Massimo. Si affrettòa riannodare il discorso con don Aureliogli chiese se avesse vedutofioriti i rododendri della Priaforà. Eh nonon era possibilela signorina dimenticava che don Aurelio era venuto a Sant'Ubaldonell'ultimo ottobre.

"Li vedrà in luglio"diss'ella.

Don Aurelio sorrise.

"Sai" disse il signorMarcello malinconicamente"don Aurelio ci abbandona."

"A dire il vero" osservòMassimo"non è lui..."

"Ci abbandona?" interruppeLelia più sorpresa che dolente.

"Lo cacciano via" disseMassimo con una punta di dispettovolendo imporsi all'affettatanoncuranza della signorina. Ella gli lanciò uno sguardo freddocome per dire: cosa c'entra Lei? E ripeté la domanda:

"Ci abbandona?".

Maquando Alberti s'impuntavanon erafacilemetterlo da parte così.

"Eh sìlo cacciano via!"ripeté alla sua voltaparlando piuttosto allo stesso donAurelio che a Lelia. "Lo caccia via l'arciprete! Lo caccia viaperché si è tenuto il protestante in casa! Oppure locaccia via perché lo crede modernistanon dica di no!"

A Massimo la umile mansuetudine di donAurelio verso i suoi nemici pareva qualche volta soverchiariuscivairritante. Gli era parsa soverchia un momento primaquando l'amicoaveva parlato del suo successore bisognoso di pane per la famiglia.Bruciava di dirglielo in facciadi fargli riconoscere espressamentela verità. Durante la sua sfuriatadon Aurelio non fece cheprotestare a monosillabi; poi espresse il vivo dolore che glifacevano quelle violenze di linguaggioquelle accuse non dimostrate.

"Eh capace!" si brontolavaacapo chinoil signor Marcellopensando all'arciprete. "Capace!Capace!"

"L'arciprete sa benissimo che nonsono modernista!" esclamò ancoracon un ultimo gesto diprotestadon Aureliocui l'arciprete aveva fatto realmentecircaquel punto le più ampie dichiarazioni di stima.

"Euh!" fece il signorMarcello. "Leimodernista!"

"Non lo è certo" disseMassimo. "E' forse tutt'al più un modernista come potevaesserlo Antonio Rosmini. - Lo dicono anche di me"

soggiunse candidamente.

Don Aurelio ebbe un sussulto di riso.

"Tu... tu... tu...!" esclamòcon una reticenza eloquente.

Massimo sentì evolti gliocchiincontrò il lampo di uno sguardo di Leliache glipassò il cuore come una saetta di fuocosi spense.

N'ebbe annebbiata per un istante lavista e gli fu duro lo sforzo di rispondere abbastanza prontamente adon Aurelio.

"Sì" rispose"saròpiù modernista di Leima modernista non sono."

Non era stato uno sguardo della Sfingemarmoreaun lampo rivelatore?

Il signor Marcello allungò lamano a prendere quella di luistesa sulla tavola.

"Caro caro" diss'egli. "Tengaa mente le parole di un vecchio: non vi ha che un solo modernismobuono ed è quello di Dante."

"Via via!" fece don Aureliosorridendo. "Alberti è più moderno di mema non èmodernista. Che!"

"Dantecaro!" ricominciòil signor Marcello. "Tutta la credenza cattolicafinoall'ultimo iotacon fede intensae tutto il Vangeloa tutti gliuominidi qualunque colore portino l'abitofino all'ultimo iotacon parola franca! DantecaroDanteDante! - E adesso parlate dirododendri."

Invece che di rododendriMassimo parlòdella camera lasciata vuotaa Sant'Ubaldoda Carneseccadisse alsignor Marcello che non aveva più ragione di dargli incomodo.Il signor Marcellosorpresoquasi offeso di tali cerimonieprotestò che non l'avrebbe lasciato partire. Il discorso diMassimo parve dare ai nervi anche di don Aureliocui era piùfacile manifestare il suo animo con un inquieto agitarsi di tutta lapersona che con parole. Massimo insisteva; egli purecome donAurelioaccompagnando parole rotte con moti diversi della persona edel visocon segni visibili di argomenti invisibili.

"Insomma" esclamò ilsuo amicomezzo seriomezzo ridente"stando in casa mia tu mifaresti più male di quell'altro ch'è scappato e non tivoglio! Devi accontentare il signor Marcello."

Massimo ebbe il sensocon una granvampa nel pettodi qualche cosa di grave che maturasse in quelmomentoper lui. Gli si alzarono in mentecon un debole motoleparole "allora vado a Milano" e ricaddero. Tacque.

Lelia non aveva mai aperto bocca dopoincontrato lo sguardo che diceva "prende interesse a me?".Non si perdonava lo sguardo proprio. Capiva il dispiacere del signorMarcello; non capiva che don Aurelio non desiderasse il suo amico aSant'Ubaldo. Questo era un enigmaper lei.

E si lavorava in cuore un artificialedisprezzo per Massimochevolendo veramente partireavrebbedovutoinvece di parlarne a colazionescendere più tardicolle sue valigie fatte e dire al signor Marcello: "Non c'èpiù ragione che lo stia quime ne vado". Naturaleilsignor Alberti preferiva una bella camerauna bella casauna buonatavola alla stamberga e alla cucina penitenziale del curato di Lago.

Anche modernistaeradunque! Dimodernismo Lelia sapeva meno che niente. Le era antipatico il nomeantipatico il senso che gli attribuiva nella sua ignoranza. Ella nonaveva mai considerato il perché del suo fedele seguireautomatico. Le pratiche religiose.

Creatura d'istinti e di passionipiuttosto che di ragionamentonon si sentiva legata per niente daquelle pratiche nei moti della fantasia e delle idee. Concepiva ilmodernismo non come uno sforzo di adattamento del cattolicismotradizionale all'ambiente moderno ma come una dottrina che agliobblighi religiosi antichi della tradizione cattolica ne sostituissedi nuovipiù estesipiù indeterminatipiùpesanti.

Qualche volta pregava di cuoresemprenelle forme tradizionali e non mai mentalmenteper obbiettiimmediati particolari e non per amore divinoper elevazione dellospirito; ma con impeto sincero. Le piaceva di poter pregare così.Si figuravae le era odiosoche il modernismo fosse inconciliabilecolla preghiera tradizionale. Il solo carattere del modernismo chepotesse sedurla era quello di sorgere come una ribellione; ma logiudicava una ribellione a mezzoun aborto di ribellione. E ilsignor Alberti era un modernista! Ciò l'aiutava nei suoipropositi di disprezzo.

Le frutta erano state servite. Ella sialzò.


L'ostinato silenzio di lei dopo losguardo di fuocoche gli bruciava nel cuore sempre più fortecome una ferita nel raffreddarsisi accordava nella mente di Massimocon quello sguardocontinuava la rivelazione lentapaurosa dellaSfinge marmorea. Nell'alzarsi cogli altri all'alzarsi di Leliailgiovine ricordò certe parole volgarucce di un amicodi cui siseccava ancora nella memoria: "Tu non hai ancora preso cotte maquando ne prenderai unasarà fulminea e terribile".Entrando nel salone dietro a leile vide sulla nuca bianca un lievespruzzo di minuti rossori. Gli fece bene di vederli; gli parve chealmeno l'attrazione fisica di quella strana creatura ne fosse un pocodiminuita. E prese a braccetto don Aureliosi dolse affettuosamenteche non lo volesse a Sant'Ubaldo. Don Aurelio aveva trovato lascappatoia buona. "Mi compromettimi comprometti!"

diss'egliridendo di quel suo riso chegli faceva sobbalzare la persona. "Non è verosignorina?"

"Tanto" diss'ellasenzaguardare né l'uno né l'altro"oramai mi pare lostesso."

E si dispose a servire il caffè.Don Aurelio era tardo a raccogliere le scortesie e non raccolseneppure questa che feriva Massimo più di lui. Mormoròumilmente: "Scherzoscherzo" e soggiunse nella suainnocente inesperienza di certi sottintesi:

"Povero Massimonon puòcompromettere nessuno."

Massimo rimase un po' male ma nonfiatò. Lelia ebbe un lievissimo sorriso che rivelò adon Aurelio il suo fallo.

"Ah! sìbenemio Diochesciocchezze!" diss'eglirispondendocon un riso quasi dicompassionea parole non dette. "Io parlo semplicebisognaintendere!"

Il signor Marcello chiamò tuttial terrazzo per vedere un effetto di nubi temporalesche. Asettentrione il sole batteva le cime di Rotzo in Val d'Asticodoratenel limpido azzurro; e il ciglio dello stesso altipiano erasfolgorato a levante da un continuo lampeggiar muto del cieloturchino. Lelia corse al richiamoavidafingendo dimenticare chenon aveva servito ancora il caffè ad Alberti. Quandounmomento dopoquesti e don Aurelio uscirono pure sul terrazzoellase ne ritrassescivolò nella sala da pranzofino alla sogliadell'uscita in giardino. I temporali le mettevano nei nervi untripudio folle.

Allora voleva essere sola a godernearisponder loro come un'altra piccola nube satura di elettrico. Se ilvento avesse soffiatosarebbe corsa fuori ad ogni pattocome facevaqualche volta la notte sciogliendosi i capelli. Poiché non simoveva foglia e udì il signor Marcello domandar di leiritornò sul terrazzo.

"Il caffècara?"disse il vecchio. "Alberti e io non l'abbiamo avuto."

Ella si scusò. Nel servireMassimo non fu propriamente sgarbata; però qualche cosa dipoco gentile nel suo viso e nei suoi atti ci fu. Don Aureliochemansuetamente ma finemente notavapensònel suo ingegnosoottimismoche la memoria del fidanzato non fosse più tantoviva nel cuore di lei s'ella si mostrava tale verso il suo amicoprediletto.

"Lei" disse "ex abrupto"il signor Marcellorivolgendosi a Massimo"quel Benedetto diSubiacodove lo ha conosciuto?"

"A Jenne."

"E com'era?"

"Senta; non dirò che l'hoadorato perché la parola non mi piacedirò che l'hoamato come non ho amato nessuno al mondofuori di mia madre."

Massimo non si attendeva una paroladalla Sfinge.

"Ma era proprio un Santo?"diss'ella.

"Scusisignorina" rispose"non ho affatto bisogno che le persone cui voglio bene sienosante."

Ella insistette.

"Non è vero che facevamiracoli?"

"Nosignorina; non facevamiracoli."

"E' vero che morì nellebraccia di una signora?"

Don Aureliostupefatto che unagiovinetta si esprimesse cosìnon poté reprimere unaesclamazione di protesta.

"Lelia!" fece il signorMarcelloseveramente.

Massimo esclamòinfiammato nelviso:

"E' una calunnia vilissima! Nonl'ho intesa mai!"

"Io l'ho letta" disse Leliatranquillamente.

Don Aurelio intervenne.

"Sentasignorina. L'uomo di cuiparla poté errare in cose di dottrinadi questo non rispondo.Del resto sarebbe stato il primo a riconoscerlo se la Chiesa glieloavesse detto. Quanto a vitadopo la sua conversioneè statopurissimo. Di questo rispondo."

Il signor Marcelloche seguiva ladiscussione con un moto inquieto di tutti i muscolidi tutte lerughe del viso parlantela interruppe con autorità. Allegòun suo desiderio di conferire con don Aurelio e propose a Lelia unapasseggiata in giardino con Alberti. Lelia lo guardòattonitae guardò Massimocome cercando appoggio:

"Fa tanto caldo!" diss'ella.

Il giovine osservò che potevabenissimo andar solo. Ma il signor Marcello non accettò lescuse. Una flotta di grandi nuvole in corsa oscurava rapidamente ilverde intorno alla villa. Era più a temere la pioggia che ilcaldo.

"Lei conosce bene la Montanina?"disse Lelia uscendo dalla porta di mezzogiornoche si affaccia alpendio verdesparso di abetidi larici e di faggicoronatoinaltodi castagni. "Lei ha visto la Meridianail beato AlbertoMagnola testa di caprone che butta l'acqua della Riderella?"Aveva l'aria di recitare una lezione noiosa recitata cento volte. Nonparve accorgersicamminando davanti a Massimoch'egli nonrispondeva. Si avviò per il sentiero che sale a tergo dellavilla. "Conosce anche Fonte Modesta?" diss'ellapassandopresso il piccolo cavo e il mormorio sommesso della fonte. Eprocedette senza curarsi del mutismo di Albertiindicandoseccaseccaora questo ora quellocome un cicerone indifferente.

Mentre stava dicendo "la sorgentedella Riderella"Massimoche soltanto aspettava di essereabbastanza lontano da casala interruppe.

"Signorina" diss'egli"nonho insistito col signor Marcello perché vedevo che gli avreifatto dispiacerema ora Le dico ch'Ella non deve disturbarsi per me.Se permettevado solo."

Lelia rispose gelida:

"Come vuole."

E si fece da banda sullo strettosentieroaspettò fermacogli occhi bassimarmoreach'eglipassasse.

"Grazie" disse il giovine epassòsenza guardarlafremente. Cosa si era messa in capoquesta signorinaper trattarlo così? Ch'egli volesse farle lacorte? Altro non era possibile supporre. Perché anche lesciocche domande su Benedetto erano state impertinenze volute.

Farle la corte? Una bella presunzione!

Peròquello sguardo di fuoco!Collo sguardo di fuocoMassimo ripensò anche la musica dellanotte. Cos'aveva nell'animala misteriosa creatura? Le rigidezzelenoncuranzele impertinenze tacitele impertinenze espresseeranoostentazionia ben considerarleincomprensibili. Perchécome poteva ella supporre in lui la intenzione di farle la corte? Chesegno ne aveva egli dato? Gli passò per la mente un sospetto.Don Aurelio si era fitto in testa ch'egli dovesse prender mogliepresto. Possibile che avesse pensato a questa signorina? Che qualchecosa ne fosse trapelato a lei stessa?

Noimpossibileper cento ragioni. Nonfoss'altroper l'amicizia che legava don Aurelio al signor Marcello.E allora? Allora una sola cosa era chiara: la voluta ostilitàdella fanciulla. Si poteva interpretarla come una difesa control'amore nascentese l'amore avesse avuto il tempo di nascere. Macosì?

Sostò a un sedile rustico sottoil castagno dove la costa gira. Le grandi nubi veleggiavano alTorrarole ombre degli alberi si movevano al vento sulle rivefioritela villa bianca rideva laggiù nel soleil fragoresordo del torrente e delle turbine di Perale saliva nel silenzio delcastagneto. Massimo non godeva l'ombrané il vento fresco néla bellezza gentile e grande delle cose. La sentiva straniera al suocuore amarosi sentiva straniero ad essa. Meditò che dovessefare. Rimanere alla Montaninano. O persuadere don Aurelio aospitarloo ritornare a Milano. Si rimescolò volontariamentenel cuore tutte le amarezzequelle posate al fondoquasi fuoridella memoriainsieme alle ultime. Fermò il pensiero sul casodoloroso di don Aurelio. Perchéinfinenon valeva proprio lapena di turbarsi per le impertinenze della signorina Lelia. Ma donAurelio! La tentazione antica ritornava scuraviolenta: non era daromperla una buona volta con questa gente che perseguitava uominicome don Aureliosale della Terra? Subito sentì sopra di sélo sguardo severo dello stesso don Aureliodel perseguitato mansuetoai suoi persecutori; e quell'impeto di ribellione cadde. Lasciareperò di combattere per la Chiesa contro i nemici di leiincrociare le braccia davanti al conflitto: questa non era unatentazionequesto era un consiglio buonoda seguire. E che farealloranel mondo? Dimenticarloil mondofarsi eleggere medicocondottoperché no?in un bel paese perduto fra le montagnecomporsi un focolare di amorenon sarebbe la felicità? Chiusegli occhiimmaginò due braccia morbide che gli cingevano ilcollodue labbra che s'imprimevano sulle suedue roventi labbra chegli si affondavano nell'animale labbra di una giovinetta semplicedallo spirito gentilepunto Sfingech'egli stesso formerebbe alsenso delle cose belle e dell'alto Divinoall'amore squisito.Riaperse gli occhisospirandonel gran verde. Le ombre mosselentamentein qua e in làsull'erba fioritale voci lievidel ventoil tremolio brillante dei pioppi nel prossimo valloncellonon gli erano stranieri come primalo blandivano di un assenso pio.Vide don Aurelio uscire dalla villaguardare in sumovere versolui. Si alzògli discese incontro. Don Aurelio parve sorpresodi vederlo solo.

"E la signorina?" diss'egli.

Massimo rispose che l'aveva pregata dinon incomodarsi per lui. Si affrettò a soggiungerecherimasto soloaveva pensato ai casi propri. Era risoluto di lasciarela Montanina quella sera stessa.

Sperava ancora nella camera delprotestante. Don Aurelio risposedolente ma fermodi avere promessoproprio allora al signor Marcello ch'egli resterebbe alla Montaninaun paio di settimane almenose non tutto il tempo di cui aveva primadisposto per Lago di Velo. Massimo replicò che restare allaMontanina gli era del tutto impossibile. Se don Aurelio non lo volevaospite in quegli ultimi giorni del suo ministero pastoralesarebberitornato a Milano. Don Aurelio colse l'occasione propizia.

"C'è qualche interesse"diss'egli "per qualche persona che ti richiama a Milano?"

Massimo negò vivacementesorridendo.

"No davvero? Me lo assicuri?"

"Noecco!" rispose ilgiovineporgendogli la mano.

Don Aurelio la strinse.

"Allora" diss'egli "nondevi assolutamente dare un tal dispiacere a questo povero vecchio!"

Poiché Massimo resistevaintuìche qualche cosa di increscioso doveva essere accaduto. Gli domandòse l'avessero offeso le domande della signorina su Benedetto. Nolasignorina non sapevaaveva riferito calunnie di un giornale. - Maforse ne avevano riparlato dopoin giardino? Neppure. - Don Aurelioinsistette tanto che Massimofinalmenteconfessò il vero. Lasignorina non lo poteva soffrire e glielo aveva fatto intendere. DonAurelio non voleva crederesi fece raccontare le ostilità diLeliaben poca cosa a udirle riferire.

Ammise che certe cose si vedono poco esi sentono molto. Ottenne a stento che il giovine differisse la suapartenza all'indomani. Poteva partire l'indomani serase proprio siconfermasse nelle sue impressioni. E gli consigliò unaimmediata visita di congedoper ogni eventoal villino delle Rose.Gl'indicò il villinola casinarossa come una fragolasull'orlo del piano di Arsiero che guarda Seghe Volle che si mettessein cammino subitosenza rientrare in casaper esser sicuro ditrovare la signora.

Quando lo ebbe perduto di vistaandòdiritto dal signor Marcelloebbe con lui un lungo colloquio; dopo ilquale si congedò per ritornarsene a Sant'Ubaldo. Il signorMarcello fece venire Lelia. Le disse che il giovane Alberti gli eramolto caro ed ella ne intendeva bene il perché. Desiderava sitrattenesse alla Montanina un po' a lungo; la pregava quindi aessergli assai gentile. Parlò così con voce sommessacon dolcezza grandecome chi vuole infondere in una preghiera moltagravità di cose sottintese. Lelia lo ascoltò in piedilividaimmobile. Mormorò che non sapeva di essere stata pocogentile.

Il signor Marcello la guardòsenza rispondere. Poi disse soltantocolla stessa dolcezza di prima:

"Ti prego."

Ella risposeappena udibilmente:

"Sìpapà."

Salì a chiudersi nella suacamera e vi ebbe una violenta crisi di lagrime.


4.


Massimo ritornò dal villinodelle Rose poco prima dell'ora di pranzo.

Il signor Marcello gli andòincontrolo prese amorevolmente a braccettogli parlò contenerezza della propria consolazione di averlo alla Montanina. Siproponeva di mostrargli tante vecchie preziose letterenelle qualiera parlato di lui. Solo pochi giorni prima non si sarebbe creduto ingrado di farlo. Adesso si sentiva forte. C'era forse qualche altracagione di questo mutamentoma la prima cagione n'era la presenzasua. Massimoturbatocommossonon sapeva come riavviare il penosoma necessario discorso della partenza.

Cercavacercavaquando suonòla campanella del pranzo. Non osò più parlarerimisele parole difficili a più tardi.

Lelia venne a pranzo in ritardo.Vestiva di nero e portava alla cintura un mazzo di fiori dellamemoria. Pallidissimanon toccòquasicibo. Rivolse aMassimocon visibile sforzoqualche domanda intorno a ciòche aveva veduto e fatto nella giornatasenza prestare attenzionealle risposte di lui. Il signor Marcello le guardava spesso quel neroe quei fiori con un misto di tenerezza e di rincrescimento.

Parlò molto di donna Fedeleconammirazione affettuosa e riverente.

Parlò della sua passatabellezzadella gioventù sopravvivente nei grandi occhi bruninella voce dolcissima. Si dolseguardando Leliache nonfrequentasse la Montanina come in passato.

"Per verità" disse lafanciulla"si dovrebbe andar noi da lei."

Il signor Marcelloirradiato dipiaceredi gratitudinele prese e strinse una manoche rimaseinerte nella sua.

La conversazione si voltò allacacciata di don Aurelio. "Chi è questo arciprete?"domandò Massimo. "Gesummaria!" esclamò ilsignor Marcello.

E si coperse gli occhi colle grandimani ossutesignificando un mondo di cose. Più di"Gesummaria!" non disse né Massimo domandòaltro.

Lelia teneva gli occhi bassima ilviso non era di Sfinge; era piuttosto di persona che non approva e sirattrista. Massimo ne fu punto a dire di don Aurelio come di un preteche gli intransigenti non avevano ragione alcuna di perseguitare. Eraun rosminianonon sospettato di modernismo neppure a Romaquando vidimorava. Qualche domanda del signor Marcello condusse facilmente ilgiovine a discorrere del suo soggiorno in Romadi Subiaco e diJennea raccontare l'origine delle sue relazioni con don Aureliocon don Clementecon Benedettoa dire i casi di quest'ultimodallanotte in cui era scomparso dalla sua casa di Oria in Valsolda e dalmondo per donarsi a Diofino alla sua morte in Romanella casinadel giardiniere di villa Mayda. Fece la storia delle sue ultime ore emise in chiaro la parte presavi da Jeanne Dessalle. Aveva cominciatoa parlare alle frutta. Quand'ebbe finitoimbruniva. Non si erapensato a prendere il caffè né a far accendere lelampade. Il signor Marcello e Lelia tacevanoGiovanni entrò achiedere se dovesse accendere. "No"

disse Leliaprontasottovoce. Domandòa Massimo se avesse conosciuta la signora Dessalle. Egli rispose cheappunto l'aveva veduta quella seraa casa Mayda.

Era bella? Non poteva dirlo. Gli erapassata davanti un momentoin un'anticamera. Non era notte ancora mapioveva fortenell'anticamera c'era poca luce. La figura gli eraparsa elegante. Lelia domandò ancora cosa fosse avvenuto dilei. Nessuno ne sapeva niente. E Benedettodov'era sepolto? Massimoesitò un momento.

"Per ora... a Campo Verano"diss'egli.

"Per ora?"

La stessa domanda stupefatta venne allelabbra di Lelia e del signor Marcello. Massimo non rispose.

"E don Aurelio" chiese Lelia"che farà? Dove andrà?"

"Non lo so."

La sala era piena d'ombra. I tre sialzarono da tavola in silenzio.

Giovanniavuto l'ordine di accenderenel saloneaccese quella delle quattro grandi lampade ad acetilenech'è più vicina al camino. Il signor Marcello pregòLelia di mettersi al pianodi far udire all'ospite qualche cosa. Inpari tempo suonò perché si accendesse la lampada piùvicina al piano. Lelia lo trattennequasi con impeto:

"NopapàLa prego."

Preferiva quella mezza oscurità.Il signor Marcello non insistetteandòcurvoa sedere sulterrazzoa guardareverso ponentele tenebre punteggiate dai lumibrillanti di Arsiero.

"Che musica desidera?" disseLelia. "Seria? Allegra?"

"Signorina" rispose Massimo"non vorrei che Ella s'incomodasse per me."

Lelia pensòricordando ildialogo nel giardino: non sa dire altro.

"Forse non ama la musica"diss'ella.

"Forse no."

Rispondendo cosìil giovineebbe un lieve sorriso che la ferì come un buffetto sullaguancia. Ella era in piediteneva la mano sopra una catasta dimusica. Non disse parolaaperse bruscamente il pianosuonò amemoria un pezzo del Carnevale di Schumann.

Lo eseguì troppo nervosamentesenza dolcezza. Quand'ebbe finitonon si mosse. Massimo ringraziòasciutto. Quello sarebbe stato il momento di avvicinarsi al signorMarcellodi ritornare sul discorso della partenza. Esitò. Ilcontegno della signorina gli veniva prendendo un altro carattere. Ilvestito neroi fiori della memoria lo avevano urtato come unavvertimentofuor di propositoa lui; ma le domande rivolteglidurante il pranzol'interesse posto ai suoi raccontie ora quelmodo di rispondere al suo "forse no"quell'avere inteso ilsuo sentimento e la sua ironiala scelta dell'autore e del pezzoappassionatola stessa nervosità dell'esecuzionequellasuccessiva immobilitàgli davano l'idea di uno stato d'animoche non fosse né ostilità né indifferenza. E nonpoteva a meno di trovare un po' strano anche il signor Marcellocheli metteva insieme e poi si appartava così. Lelia passòun momentopianola mano destra sugli acutigli domandòcon voce indifferentese desiderasse altra musica.

Gli venne in mente la melodiabelliniana che aveva udito la notte.

"Vorrebbe farmi sentire: "Solafurtiva al tempio"?"

Lelia lo guardò.

"Norma?" diss'ella.

Cercò lo spunto colla manodestradopo le prime note ne toccò una falsane tentòaltrea casomormorò "non la so"tolse la manodalla tastiera. Massimo fu per dire "stanotte la sapeva".Intanto la fanciulla ritentò distrattamente la prova. Le fallìuna seconda volta.

Allora dissequasi sottovoceguardandosi nel palmo della mano:

"Non era un ereticoil SuoBenedetto?"

"No" rispose Massimo. "Puòaver detto degli errorima è vissuto nell'obbedienza dellaChiesa e l'ha predicata sempre."

"Vorrebbe spiegarmi allora perchélo combattevano come un eretico?"

L'accento della domanda fu ostile. PeròMassimo rispose:

"Volentieri. Subito."

"No no. Domanidopodomani. Adessosuono per papà."

Lelia chiuse con quattro accordi ildialogo rapido e sommessoattaccò uno studio di Heller.Massimo pensò che la signorina non desiderava le suespiegazionima chea ogni modoera impossibile interromperla perdirle che dopodomani sarebbe stato troppo tardi.

"Per papàsa" disseLeliasuonando. "A me non piace."

Egli stette un poco ascoltandola e poisi alzò per andare dal signor Marcello. Si fermòdavanti al caminodove la luce dell'acetilene batteva in pieno sulfregio di margheritecorso dal ripetuto motto:

"Forse che sìforse cheno". Il motto rispondeva tanto alle sue incertezze ch'egli siaccostò al camino per vedere come finisse.

Pensò: se è troncato efinisce col "sì"parto. Se non è troncato efinisce col "no"resto. Aveva l'idea cosìpensandocheragionevolmentedovesse finire col no. Il mottofiniva:

"Forse che..."

Massimo restò lì aguardareattonito. C'era un'altra via da prendere.

Le margherite si vengonosul fregiosfogliando. Quella dove il motto muore troncato ha tuttavia qualchefoglia. Si poteva sfogliarla idealmentevedere se l'ultima fogliafosse un "sì" o un "no".

Una voce piana e soave sussurròalle spalle di Massimo.

"Lei consulta l'oracolo?"

Il giovine si voltò. DonnaFedele gli sorridevacol dito alla bocca perché lo studio diHeller non era finito. Ella era giunta mentre Lelia stava suonandoSchumann e aveva tenuto compagnia al signor Marcello fino a chevisto Massimo in contemplazione davanti al caminogli era venutaalle spalle.

"Sono qui per Lei" diss'ellasorridendo sempre. Il piano tacque ed ella si staccò dalcamino per movere verso Lelia che si era alzata.

L'abbracciò affettuosamente comese il freddo di un'ombra non avesse mai tocca l'amicizia sua per lafanciulla. La felicitò per la musicaritornòtenendola a braccettoverso il caminomentre il signor Marcellolasciata la sua poltronasi affacciava al salone.

"Sai" diss'ella a Lelia "chela madre del signor Alberti e io siamo state amiche? Domani pranza dameperché ne dobbiamo parlar moltodi sua madre. Era tantocarapoveretta!"

Massimosorpresocommossoseppe diresolamente:

"Graziema..."

"Pensa" continuò donnaFedelecome se non avesse udito il "ma""che ilsignor Alberti oggi ha avuto la bontà di venire al villino eioche avevo tanto in mentefino da ieri serad'invitarlonon gliho detto nientedistratta come sono. Stasera sono venuta invece discrivereperchétantoho dovuto andare ad Arsiero e avevola carrozza. Adesso è tardi e vado."

Abbracciò ancora Leliastrinsela mano al signor Marcellola stese a Massimo dicendogli col suosorriso dolcissimo e con un lieve piegar del mento al seno:

"Alle sette."

"Per un giorno" disse ilsignor Marcellolietamente"concediamo."

Donna Fedele uscì con Lelia chel'accompagnò fino alla carrozzarimasta fuori del cancellogrande.

Massimo si acquietò all'idea dirinunciarealmeno per l'indomanialla partenzapersuadendosi chen'era contento perché ne sarebbe stato contento don Aurelio.Il signor Marcello se lo fece sedere vicino sul terrazzogli posòuna mano sulla spallave l'aggrappò.

"Caro Alberti" diss'eglisospirando. Il giovine gli prese l'altra mano con ambedue le proprierispose:

"Non dimenticosa."

La vecchia mano strinseconvulsalegiovani. Seguì un lungo silenzio. Non si udivano passi sullaghiaia. Il signor Marcello guardò nel salone. Non c'eranessuno.

"Le avrà parlatovero"diss'egli a voce bassa"della famiglia di Lelia?"

Massimosulle prime non si raccapezzònon intese a chi alludesse il suo interlocutore. Poicolpitoesclamò:

"Ahsìpiù volte."

"E cosa Le dicevaproprio?"

"Diceva che Lei era contrarioappunto per questo motivoma ch'egli era sicuro della ragazza e chedopo il matrimonioavrebbe saputo tener lontani i suoi genitori."

"Li conosceva proprio beneigenitori? Domando perchéparlando con mepareva che non liconoscesse bene."

"Sì sìli conoscevabene. Mi diceva che il padre era corrottocopertamentequanto lamadre che ha una storia pubblica."

Il signor Marcello stette ancora inascolto e quindi parlò di Lelia ch'era una smentita viventealle teorie sull'eredità. Ne lodò la purezzaadamantinail cuore ardente che la spingeva non di rado a follie dicarità e la faceva idolatrare dalle persone di serviziomalgrado qualche scatto brusco. Ricordò il fatto di unbambinoorfano di madreche un giorno ella si era portato a casaper sottrarlo alle brutalità del padre ubbriaconedisposta aprenderne cura ella stessabenché non sapessepoveraragazzada qual parte cominciare. Ammise certe singolaritàpiù apparenti che reali del suo caratterela scusò dellinguaggio talvoltaper una fanciullacrudoricordando le suepassate esperienze tristi della vitacosì precoci.

Orapensando all'avvenirepensando aquei genitoriil suo cruccio di lasciare Lelia senz'appoggi eragrande. Sperava solo in Dio. Non gli chiedeva più niente diterreno se non questo: un buon appoggio per lei che gli era piùcara di una figliuola.

"Lei vivrà lungamente"disse Massimo.

"Caro AlbertiLe pare una cosa dadesiderarmi? E poi..."

Il vecchio s'interruppe.

"Scusi" fece Massimo"epoi...?"

"E poicaroso qualche cosa chenon dico."

Passi sulla ghiaiadal ponte dellaRiderella. Il signor Marcello tacque. I sonagli di un uscioannunciarono Lelia ch'entrava nel salone dalla veranda aperta. Ellauscì sui terrazzodiede al signor Marcello il bacio dellabuona notte salutò Massimo abbastanza gentilmente e si ritirò.


Erano passate le dieci. Giovanni portòal signor Marcello il caffè e la lucernina accesa. Quandol'uscio della sala del biliardo si fu chiuso dietro a luiMassimos'indugiò sul terrazzo a contemplare le grandi ombre dellemontagnerespirando il vento freddo della notte e riflettendo aidiscorsi alquanto stranamente confidenziali del signor Marcello; ilquale non aveva pensatosenza dubbioche potevano avere il sensopiù ripugnante al suo cuore di padre. Confessò in paritempo a se stesso che all'udire il passo di Lelia sulla ghiaiaqualche fibra aveva vibrato dentro di lui e che il saluto gentile dicongedo gli aveva dato dispiacere e dolcezza. Meglio non pensarcitanto.

Rientrò nel salone per andare aletto.

Passando davanti al caminoalzòinvolontariamente gli occhi al fregio di margheriteal misterioso"Forse che". Non era più il caso d'interrogare lamargherite sulla partenza e la dimora. Fu tentato d'interrogarle sualtra cosa. non volle. Si allontanò dal caminoe invece disalire le scaleandòsenz'averne coscienzaverso il piano.Accortosenese ne domandò il perchéguardò ilfascicolo di Heller aperto sul leggiocome se fosse venuto làper quello. Ma sentiva e assorbiva l'aura di Leliadi unafemminilità spirante dalle cosecome una fragranza sensibileallo spirito non all'odorato. E vide sul sedile del piano un fioredella memoriacertamente caduto dalla cintura della signorina. Sichinò per raccoglierlose ne ritrassesi allontanòprese a salire la scalaresistendo alla tentazione insistente diridiscendere. Giovanni capitòudendone i passinel salonegli domandò se potesse spegnere l'acetilenespense. Massimolì per lìne fu contento. Entrato nella sua camerasidisse che se avesse raccolto il fiorellino della memorialo avrebbeposato presso la fotografia del suo povero amico. E provòrincrescimento di non averlo raccolto.

Malgrado gli scongiuri di TeresinaLelia si era empita la cameraper la nottedi rosedi fiori dimadreselva e di acacia. Era una sua mania. Si faceva portare incamera quanti fiori potevaall'insaputa del signor Marcelloprediligendo gli odori più acuti. Quella sera ne aveva unmare. Infisse più fasci di acacie fra la spalliera del letto ela pareteun fascio di rose fra la parete e la immagine sacra. Lasua deliziastando a lettoera di sentirsi cadere sui capellisulvisopetali di fiori. Teresina la supplicò di tenere tuttiaperti i tre fori della finestra invece di unocome soleva.Acconsentì. Appena uscita Teresinaspense la lucesi coricòsul fianco ascoltando le fragranze come parole mutecarezzevolidivite amoroseguardando per la finestra la nera lunata corona delboscole Dolomiti aguzze nel cielo notturno; non pensandononvolendo pensare.


Capitolo Terzo


TRAME


1.


Don Tita Fantuzzoarciprete di Velod'Asticodetta la messacome di solitoalle sette e mezzo epregato in sagrestia lungamenteraggiunsesulla scala che dallachiesa mette alla canonicasua cognatala signora Bettina Paganvedova Fantuzzoe il cappellanodon Emanuele Costi de Villatachescendevano insieme e non insiemeil cappellano precedendo di alcunigradini con un passo trattenuto dal senso della persona che seguivala siora Bettina venendogli dietro con un passo trattenutodall'ossequio verso la persona che precedeva e anche un poco dalsenso della sua propria retroguardia.

"Per cossa andeu in fila come icavai de carretta?" disse il gioviale arciprete alle spalledella cognata:

"Se casco mi Caschemo tuti tri".

"Versi de Zanella!"

Sotto la veletta nera della sioraBettina il naso vermiglio si colorò di più vivo cinabroe un lieve sorriso passò negli occhi acquosi di don Emanuelein segno piuttosto di rispetto che di stima per l'umorismodell'autorità.

"Cape!" mormorò lasiora Bettina. Questa sua familiare apostrofe a popolari crostaceimarini significava una dolce difesala debita riverenza che le avevaimpedito di camminare a fianco del cappellano.

Il cappellano non fiatò. Allaporta della canonica egli si fece da banda a destrala siora Bettinasi fece da banda a sinistrae l'arcipreteaffrettata l'andatura"son quason qua"passò trionfalmentecon grandisventolate di tonaca. Nessuno dei tre udìper fortunadueliberi parlatori dire fra loro venendo dal Municipio verso la stradadi Seghe:

"Quelociòxe un terno!"

"Ciòel Padreel Figlio ela Spirita Santa."

Il terno si raccolse nel salottino dapranzo della canonicadov'era preparato il caffè perl'arciprete e per la siora Bettina che si accostava ogni giorno allaComunione. Don Emanuele aveva celebrato alle cinque; chiese licenzadi ritirarsi a studiare. L'arciprete lo trattenne:

"No studiè tantocadiventarè mato" diss'egli.

L'altrobuon simulatorefinse dirimanere per pura compiacenzamentre rimaneva per segreti accordicol superiore; e si mise a parlare di certo malato gravevisitato dalui quella mattina stessa. Intanto l'arciprete prendeva il caffèe latte in una miserabile scodella slabbrataintingendovi poveriavanzi di pane del giorno prima; e la siora Bettina lo prendeva inuna scodella simile ma con i celebrati "pandoli" di Schio.

"Me vergognodon Titade stipandoli" diss'ellanell'accostarne uno alle labbra.

"Vergognève pure"rispose l'ottimo don Titaridendo. "El xe un bon sentimento"e perché ella esitavarossa e silenziosaa mordere la puntadel "pandolo"ripreseridendo tuttavia:

"Andè làandèlà! Non sì dal Dolovu? No xelo pan del Doloquelo?"

"Povero il mio Dolo!" dissela siora Bettinarivolgendosi in italiano a don Emanuele con unsorriso. "Cosa Le pare? Il signor arciprete non me lo perdona!"

"Il signor arciprete non perdonaneppure Udine a me" rispose il cappellanosorridendo anche lui.

"Grazie tante!" esclamòdon Tita. "Udine! Fontane senz'acqua e nobiltà senzacreanza!"

Don Emanuele era udinese e nobilemadon Tita scherzava. Il visola personai modiil linguaggiotuttodicevanel giovine cappellanola nobiltà del sangue e lasquisitezza dell'educazione. Egli eraquanto all'esterioreilcontrapposto di don Tita. Don Titaaitante della personarubicondoilare la facciagrossa come le sue facezielucente gli occhimalgrado una pietà sinceradi astuzia terrestre piùche di desideri celestialiera trascurato assai nel vestiresprezzatorequanto a puliziadegli scrupolibonario e semplice dimoditalvolta rude. Nel giovine don Emanuelealto e smilzosivedeva il virgulto prelatizio. La faccia era di asceta: fronte altasotto un sottile arco perfetto di capelli biondastri; gote magre;occhiaie molto caveombrate di folti sopraccigliocchi ceruleichiaridalle pupille misterioseannacquatinelle irididimansuetudineaperti alla luce e chiusi sull'anima come finestredipinte. Nel portamentonel gestoera una precoce dignitàun senso precoce della misura. E così nel linguaggio tutto erastudio e cautela. Parlava sommessocon voce freddaun po' nasale.Aveva l'erre aristocratico. Si diceva che da giovinetto si fosseproposto di entrare in un Ordine religioso e che il suo vescovo ne loavesse distoltonon si sapeva perché. Dicevano pure che lafamiglia lo desiderasse a Romain Curiae che fosse stata sua fermavolontà di dedicarsi primaalmeno per qualche tempoallacura d'animelontano dai suoiin un'altra diocesi. Nella personainteriore don Tita e don Emanuele erano pure dissimilima non quantonell'esterna. Don Tita era più complicato. Lo spirito di donTita si sarebbe potuto paragonare alla sua faccia ilaredove imuscoli pieghevoli e l'adipe molle celavano l'intima durezza delteschio; oppuremeno lugubrementea un campo verde e fiorito dovea un palmo sotterratrovi la roccia; oppure a certe piccole morbidepesche di montagnadovese metti il denteincontri subito unnocciuolo invincibile.

Tutto molle e tepidoalla superficiedi bonarietàdi condiscendenze verbalidi facilipiacevolezzeegli aveva un nocciuolo freddo e duro di coscienzareligiosa irrigidita nella forma impressale da maestri antiquatidominata dai doveri di carattere intellettualedallo zelo per latradizioneper la lettera della Leggeper l'autorità dellaGerarchia. Era una coscienza convintafusa colla volontà dicompiere il dovere religioso dappertutto e semprea qualunque patto.Ma il religioso dovere di carità verso il prossimo noncoincideva in lui cogl'impulsi del sentimentogli era impero diun'austera legge esterna piuttosto che impero di una legge scrittanel suo cuore e sancita da Cristo. Larghissimoin omaggio alVangelodi elemosinenon amava né stimava i poveri. Ipeccati più gravi e scandalosi dei suoi parrocchianisopratutto le pubbliche mancanze di rispetto alle vesti sacerdotalipiùche non lo affliggesserolo irritavanogli facevano pruder le manich'eran pesantie non affatto inesperte di arte oratoria. Quanto aicostumiera di una purezza scrupolosaquasi ombrosa. Uomo di moltepreghieredisprezzava la religiosità misticache gli parevasentimentalismo umano. Nei Santi e nei libri dei Santino; ma iSanti erano per lui esseri specialierano uomini nati coll'aureolaper effetto della canonizzazione decretata loro dopo la morte. Avevauna sufficiente cultura teologica e non era interamente digiuno dicultura letteraria. Era stato professore di latino e greco inSeminariobenché di greco non sapesse. Non leggeva chegiornaliriviste e libri cattolici. Per conto di lui non entravanoin canonica che stampe italianementre per conto di don Emanuele vientravano le "Stimmen aus Maria Laach" e altrepubblicazioni stranieresopra tutto tedesche. Questo non era paneper i denti dell'eccellente don Titaera pane che gli mettevaun'ammirazione mal celata per i denti del cappellano. Ammirazione enon invidia; perché poi don Tita non era un ambiziososiaccontentava della sua sortedesiderava forse una parrocchia dicittà per uscire dalle montagneche gli pesavano sullostomacoe per ritrovarsi con vecchi colleghi e amicinon guardavapiù in là. Pensava invece che don Emanuelenipote diun Cardinalefiglio di un cameriere segreto di Sua Santitàfratello di una guardia nobile fosse destinato a salire chi saquanto. Se l'umile cappellano di Riese era diventato Ponteficeperché non lo diventerebbe un cappellano favorito dallafortuna come don Emanuele? Il suo contegno verso costui non erafacilmente definibile. Ne aveva soggezionein fondoe ladissimulava con giocose familiarità. Ne subiva l'ascendentenon si sentivacon luiinteramente a suo agio. Lo reputava una cimaperché sapeva il tedesco. Era tuttavia convinto di predicarmeglio di lui. Si compiacevanel suo amor propriodi averlo percappellano; e tante volte gli veniva in mentemal suo gradochepartito don Emanuelein canonica si respirerebbe meglio.

Don Tita avrebbe respirato meglioforse perché don Emanuele non parlava il dialettoaveva modiaristocratici figurava la negazione vivente della giovialità.Erano ambeduein sostanzadello stesso minerale; ma l'arcipreteandava raschiato forte prima di trovarvi la roccia elementarementreinvece il cappellano era un levigato monolito. Tuttochéconoscesse assai bene il diabolico tedescodon Emanuele non arrivaval'arciprete d'ingegno. Figlio di una gentildonna austriacaavevaimparato il francese e l'inglese dalle "bonnes" e dalleistitutrici delle sue sorelle. Si diceva che negli studi teologiciavesse zoppicato alquantopur essendo uno sgobbone. Però ilunghi soggiorni fatti a Roma presso lo zio Cardinaleuomod'ingegnomolto socievolericco di amiciziegli erano giovati comea certi biscotti insipidi un lungo bagno nel bordeaux. Questo granzioil Nume della famigliaera stato un sole perl'asteroide-nipotene aveva attratto il corso al proprio cielosenza volerlosenza saperlofin da quando l'asteroide studiavagrammatica. Vero che questi mostrava nel caratteree anche nel visosingolari predisposizioni all'alta prelatura. A dieci anni era giàun omino educato ai modi della migliore societàalieno daogni giuoco e dalle amicizieordinatorispettosoassennatino nelraro discorreremisurato nella espressione degli affetti ai parentisecondo il grado della parenteladevotochiuso. Sua madrelasorella del Cardinalemolto piaera insieme contenta e malcontentadi questo figliuolo. Le era dolcezza di conoscerlo sinceramentereligioso e inquietudine di non conoscerne che questo. Il Cardinalenon era mai stato cosìaveva un carattere aperto. Il piccoloEmanuelefra i sei e gli otto annia chi gli domandava cosa avrebbefatto da uomosoleva rispondere "il Vescovo"; fra gli ottoe i dodici "il sacerdote"; fra i dodici e i quattordici"non sonon so"ostinatamentecogli occhi a terra.

Allora la risposta sincera sarebbestata "il Cardinale". Non era tuttavia né unipocrita né un conscio ambizioso. Chiamato a servire la Chiesasi sentiva veramente; e si era persuasoragionando con se stessoche la nascita e le aderenze lo predisponessero provvidenzialmente asalire in dignità e in potenza per il servizio della Chiesache questo sentimento superiore gli santificasse i desideriambiziosidei quali sul principio aveva intesa in sé qualchevocee provato quindi qualche scrupolo. Un po' alla volta essi glisi erano talmente avviluppati dentro il mantello del desiderio santoda nascondersi del tutto alla sua coscienza. Il mantello era moltoampio e pesante. Lo zelo religioso di don Emanuele non era menosincero dello zelo religioso di don Aureliole sue convinzionireligiose non erano meno profondela sua vita e il suo pensiero nonerano meno purimeno immuni da qualsiasi macchia di concessioni aconcupiscenze.

Era invece diverso il suo concetto diDio esopra tuttoera diverso il suo concetto della Chiesa. Lapaternità di Dio era per lui piuttosto una formola creduta cheuna verità sentita e cara. Le sue labbra lo chiamavano Padrementre il suo cuore lo sentiva monarca. Il nonno di don Emanuele erastato un imperiosoformidabile monarca della nobile famigliachegovernava imponendole il suo austero ascetismo e un timore di Dio nonriuscito ben distintonei figli e nei nipotidal timore di lui.Invece il padreassai poco intelligenteera mite e debole. Nellatesta di don Emanuele l'idea di Dio aveva preso forma dall'impero edalla pietà del nonno. Il suo Dio era una specie di Nonnoinfinitosanto e terribile. E la Chiesa per luiera la solaGerarchiaera un po' la casa del nonnodove preti e frati venivanosempre accolti come esseri celestisuperiori all'umanità.

Come veramente don Emanuele fossecapitato da Udine a fare il cappellano in Velo d'Asticoil soloarcipretein Velo d'Asticolo sapeva. Era stato volere delCardinale che suo nipoteprima ancora di venire ordinato sacerdoteconoscesse di doversi dedicareper desiderio dello zionon allacarriera prelatizia ma bensì alla cura d'animelontano daisuoi parentidalle sue aderenze aristocratichein una diocesi doveil suo nome fosse affatto sconosciuto. L'arciprete lo aveva saputodal Vescovo di Vicenza. Don Emanuele non gliene aveva detto nientenon parlava mainé di séné della suafamigliané dei suoi piani di avvenire. Non parlavavolontieri neppure del Cardinale.

L'arcipreteche sulle prime si eraingegnato di spillargli tante cose di questo Cardinalefinìcon persuadersi che il nipote non avesse per lo zio tanta simpatiaquanta riverenza; e non gli parlò piùdell'Eminentissimo che a Natalea Capodannoa Pasqua e la vigiliadi San Giovannigiorno onomastico di Sua Eminenzaper dirgli: "Ohedon Emanuelescrivendo a Romasemo intesise credìumilmente". O anche solo: "Ohescrivendo...". Eallora compieva la frase con un riverente piegar del capo e del bustoe un ossequente spiegar delle mani.


2.


"Madre Santacosa dice mai!"esclamò la siora Bettinamolto arrossendo e guardando ilcappellano all'uscita dell'arciprete sulla nobiltà di Udine.Quel montone insolente del gregge di don Tita aveva torto diappiccicare alla siora Bettina il nomignolo di Spirita Santa.

Ella non intendeva ispirare néil cognato né don Emanuelenon attendeva che allasantificazione sua propria. Rimasta vedova a cinquantadue anni deldottor Fantuzzosenza figliuoliprovveduta sufficientementeavevaaccettato di occupare nell'ampia canonica di Velo d'Asticodallafine di aprile al principio di novembreun alloggio del quale pagaval'affitto a don Tita. Faceva cucina a partenon prendeva con donTita che il caffè della mattina. Nata di famiglia civile delDoloera fedele ad abitudini di vita un po' diverse da quelledell'arcipretee gelosacon tutto l'ossequio agli ecclesiasticidella propria indipendenza. Anche la sua ferventissima pietàaveva un fondamentale carattere d'indipendenza dal prossimo. La buonasiora Bettina desiderava e pregavaper la gloria di Dioche ilprossimo buono si conservasse taleche il prossimo cattivo siconvertissema poi non voleva per casa né l'uno nél'altro; non voleva brighe. All'anima sua ci pensava lei; gli altridovevano pensare alla loro. Quando soccorreva i poveri la sua manosinistra non lo sapevama non lo sapeva neppure il suo cuore. Il suocuore sapeva di prendere ipoteche su poderi celesti. E a questi pattiprestava più volentieri a Domeneddioil cognato aiutandocamicipianetetovaglie di altarevasi sacrimesseufficifunebriche opere di carità del prossimo. Il suo cuore nonera sempre stato così. Era stato nella prima giovinezzauncuore pieno di segrete immaginazioni pericolose. Il fu dottorFantuzzobuon diavolo d'uomoparecchio campagnolobevitoreammiratonon aveva corrisposto ai suoi sogni di fanciulla. Uscita dauna famiglia religiosissimaella si era un giorno atterritanellasua sincera pietàdi sentirsi tentata come non avrebbeimmaginato mai. Si rifugiò in un fervido ascetismoin tuttequelle pratiche esterne che meglio le potevano creare intorno unaveste e una fama d'invulnerabilità. Aiutata da un rigidoteologo diffidente di ogni misticismovenne così trasformandoi propri focherelli terrestri in un fuoco uniconominalmente di amordi Diorealmente di desiderio della salute propria. Il mondosempresevero colle persone piesempre disposto a esigerne tutte leperfezioni e tutti gli eroismil'avrebbe facilmente bollata peregoista. Ma che sa il mondo? Un ambiente di famiglia diversounacultura religiosa superioreuna direzione spirituale piùconforme allo spirito del Vangelonon avrebbero atrofizzati nellasiora Bettina gli effetti non pericolosi che avevano resa amabile lasua fanciullezza e l'adolescenza. Ella non somigliava per questoverso a don Tita somigliava piuttosto al cappellano. L'allegro donTita era proclive alle amicizieaveva facili le comunicazioni contutti. Don Emanuele non aveva mai avuto un solo amico; a vederlo frala gente allegra faceva l'impressione di un corvo attonito fra unchiasso di galli e di galline. Ma don Emanuele non aveva ancoratrovata la sua pace e la Fantuzzo sì. Sotto il suo spegnitoioascetico ella non aveva tentazioni altre a temere che quella diprendere tre pandoli nel caffè e latte invece di duequelladi dire all'arciprete che smettesse di pulirsi la penna nei capellidiventati grigie quella di pregare il Signore che facesse morire lagatta scandalosa del calzolaio.

Somigliava più a don Emanueleche a don Tita; e in fattosenza formulare giudizi comparativichéne avrebbe avuto scrupolosentiva per don Emanuele una riverenzaun'ammirazione che non amava esprimeregli professava un cultointerno molto accesomentre il suo culto esterno andavaprincipalmente all'arciprete.Parlando dell'arcipretela sioraBettina poteva talvolta sorridere; parlando di don Emanuelenon lopoteva.

Preso il caffè e lattelaFantuzzo stese la mano alla veletta nera che aveva posata sullatavola.

"Ben!" diss'ella. "DonTita..."

Questa era la sua solita formola dicongedo. Don Tita le stese incontro la mano spiegata.

"A pian! Fermi là! Savìocome i ve ciamasta bona zente de Velo?"

"Géstene mundi! mi no"rispose la cognataarrossendo forte perché lo sapevabenissimo e le pareva che ammettere di saperlodi aver tollerato insilenzio che le si affibbiasse il titolo di Terza Persona dellaSantissima Trinitàfosse quasi confessare una colpa.

"I ve ciama" proseguìl'arciprete "vardè che canaje!la Spirita Santa. Xelecanaje?" E diede in una bonaria risata mentre don Emanuelerimaneva impassibile.

"Un bel postocapìomaghe xe da far. Oh ghe xe da far! E ghe xe da far subito."

"Il signor arciprete èsempre di buon umorenon è vero don Emanuele?"

disse la siora Bettinaalzandosi perandarsene. Ma il signor arciprete non intendeva affatto che se neandasse e mise fuori una fila interminabile di "no no no"di "La favorissaLa favorissaLa favorissa". Siccome inquel momento era entrata la fantesca per portar via il vassoio delcaffèdon Tita le ordinò di andarsene.

"Lassène quieti"diss'egli. Eper maggiore cautelapassò nello studio attiguocol cappellano impassibile e colla siora Bettinaturbata dal timoredi qualche brigache fosse per capitarle addosso.

Lo scherzo dell'arciprete le facevasupporre che si trattasse solamente di dare un consiglio; maperòanche questa era una briga.

Per veritàella non confessavaa se stessa di abborrire dalle brighe; credeva soltanto di abborrireda ogni dubbio di coscienzae certamente ogni brigasia di fattisia di consigliporta con sé qualche dubbio di coscienza. Inpassato il suo direttore spirituale le aveva consigliati certi librifatti apposta per compiere molto benenell'anima sual'opera di unaincipiente paralisi scrupolifera.

"Ecco quacara Bettina"cominciò l'arciprete. "Se no se tratasse de la gloria deDio e del ben del prossimono ve incomodaressimo; verodonEmanuele?"

Don Emanueleche teneva gli occhifissi sull'arcipretecome per dominarne e dirigerne la parola facilealle imprudenzealle sconsideratezze bonarieebbe nello sguardo enella persona un impulso tanto evidente di offertache l'arcipretelo afferrò subito.

"Volìo parlar vu?"diss'egli. "Parlè vu!"

E don Emanuelerientrando prontamentenel suo guscio freddo di compostezza prelatiziaparlòbensicuro di non guastarecome l'arciprete avrebbe fattocertadelicata macchina messa in motoforse con poco utile del prossimoma indubbiamentesecondo il cappellanoper molta gloria di Dio.Egli si credeva più accorto dell'arciprete per la grammaticadi finezze che aveva studiata; ma s'ingannava. L'arciprete era unaccorto per naturaun accorto inconscio al quale giovavanoper isuoi finianche le imprudenze e le sconsideratezze del parlare. Peresso appariva semplice a chi lo conosceva poco; forse non c'era inpaese nessuno che lo conoscesse moltotranne il signor Marcello edonna Fedeleai quali bastavano due o tre conversazionidue o trefatterelliper cogliere una figura morale.

"Ecco" disse don Emanuele"si tratta di salvare una povera figlia."

"Ah! - Sì! - M'immaginom'immagino" fece la siora Bettinailluminandosi di unacontentezza verniciata di compunzione.

"M'immagino."

L'argomento era spinoso e dolorosomala briga era piccola. La giovine sorella della sua donna di servizioera assediata da un corpo del Regio Esercito e dall'anima perversadel medesimo.

Eh lo so!" riprese sospirando. "Loso pur troppo. L'ho saputo ieri e voleva anzi parlarne ioall'arciprete."

"Sì a tòrziosìa tòrziofiola" mormorò don Titavolendo direch'ella prendeva abbaglio. E il tono della vocesommessogravesignificava: "Si tratta di ben altro".

"Può essere che sappiapuòessere che sappia" osservò don Emanuelemellifluoall'arciprete. "Si trattasignora di quella giovinedi quellasignorina che sta col signor Trentoche doveva sposare suo figlio."

L'arciprete guardò sua cognataper vedere che viso facesse. Lo faceva molto brutto.

"Géstenenon la conosco"diss'ella.

Se sperò aver trovato un rifugionella indicata ignoranzala sua illusione durò poco.

"Andè là!"disse l'arciprete.

"Sarebbe meglio che la conoscesse"osservò don Emanuelepensoso. "Non la conosce proprioniente? Proprio niente?"

"Di vista. Di vista sì"rispose la Fantuzzorosea. Ma don Emanueleche la sapeva lungatacque come chi non è persuaso eper discrezionenon insistecon paroleinsiste col silenzio di un'attesa sicura.

"Le avrò forse parlato unavolta" soggiunse la siora Bettinascarlatta.

"Oh brava!" fece l'arciprete.

"Ma non le parlo piùnonle parlo piùnon le parlo più!"

Pareva inorriditala povera Bettina.Continuava a protestare: "Eh no no! eh no no!". L'arcipreteesclamò infastidito: "Ma parché? Ma parcossa?".Ella rispose che quella persona le faceva troppa soggezionetroppasoggezione. Il perché vero era diverso. Lelia le si eraungiornotrovata vicina in chiesa. La povera siora Bettina aveva uncopricapo eteroclito che mise di buon umore il gruppo dellevilleggiantiotto o dieci signorineuna più passeradell'altra.

Lelia se ne avvideprese subito lapovera Fantuzzo sotto la sua protezione. Le offerse la propria sediale raccattò un intero volo di Santi sfuggitole dal libro dipreghiereuscì quando ella si mossetrovò modo dirivolgerlenello scender la gradinata della Chiesaqualche paroladi lode al sermone che aveva tenuto l'arciprete. Chi sa perchéle cortesie della signorina turbarono la Fantuzzo. Parve che con unaondata di simpatia per essa le salisse in cuor anche un riflusso diquei vaghi sentimenti giovanili che l'avevanoa lor tempoatterrita. Farsi amica della signorinacomunicare con un'animagiovaneesperta dell'amore e del mondoriassaggiare ancora diseconda manodell'uno e dell'altro: ecco la tentazione di cui lasiora Bettina sentì un lieve alito. Bastò perchérientrasse in canonica con un precipizionella goladi giaculatoriee di "basta basta basta!" che significavano il proposito dinon avvicinare mai più quella pericolosissima persona.

"Sarebbe meglio che le parlasse"rispose don Emanuele guardando l'arciprete "ma non mi pare chesia proprio necessario."

"No so po" fece l'arciprete.I tre monosillabiveramente magistraliparvero significare ch'eglinon vedeva modo di giungere a un desiderato finese la cognata siostinasse a non voler parlare colla signorina. In fatto un talecolloquio non era per niente nelle vedute né dell'arciprete nédel cappellanoe la loro tattica era di preparare con arte unaproposta che venisse in figura di transazione.

Ma don Emanuele era corso un po' troppoe il "no so po" dell'arciprete era stato un colpettinoartistico di freno. Don Emanuele lo capìretrocesse con un"ma!" pieno di dubbidi rincrescimenti di mezze rinuncedi mezze esortazioni.

Siccomepoitacevano ambeduelasiora Bettina si sperò liberata eavanzando la personanell'atto di alzarsimise fuori un altro:

"Ben."

"Spetèfiola" dissel'arcipretefermandola con un gesto. E si voltò a donEmanuele:

"Tanto fa che ghe disemo tuto.Dopo la dirà ela cossa che la pol far.

Ve pare?"

Don Emanuelememore della lezioncinatoccatagli un momento prima da chi avrebbe reputato scolaro e nonmaestrodrizzò come ventagli le due mani ferme sulleginocchia e mormorò alla sua volta:

"Non so."

Don Tita prese un tono deciso.

"Sìsìcontè"diss'egli"contè."

Allora don Emanuele si raccolse lasottana sulle gambe con un gesto quasi femminile e disse:

"La cosa è semplice."

Evidentementela cosa eracomplicatissima ed egli non sapeva da qual parte cominciare.

"La signorina" disse "havivi i suoi genitori. Il padre... sa..."

Il cappellano soffiò un lungosoffio gentilesenza gonfiar le gotesenza moverequasilelabbracome se del padre ci fosse da dir bene e da dir male etirate le sommeil miglior consiglio paresse quello di tacerne.

"Invece" riprese"lamadre..."

"Sìla madre..."commentò don Tita in tono di basso profondodi soddisfazionegravee scotendo il capo a negare silenziosamente che se ne potessedir male.

"Gesummariadon Tita!"sussurrò sgomentaguardando il cognatola siora Bettinacheaveva uditein addietroben altre campane.

Il cappellano la placò.

"No" diss'egli. "Ecco.In passato ci fu da dire. Certamente. Ci furono delle leggerezze.Adesso è una donna che ripara. E' una donna che pensaunicamente a opere di pietàa opere di caritàchevive a Milano una vita edificantech'è in relazione conottimi sacerdoti. E' divisa dal maritosì; ma forse ci sonodelle ragioni plausibiliforse ci sono dei malintesi. Dopo Diodopola Chiesail suo pensiero è la figlia. Relazioni dirette conessa non ne può avere perché il signor Trentouomo dicuor duroreligioso sì e nonon permette. In questo momentotrepida per la figlia. Me lo ha scritto l'altro giorno un sacerdoteun degno sacerdote che l'avvicina."

"Gavìo la lettera?"interruppe l'arciprete. "Lezìla."

Don Emanuele guardò il Superiorecon una faccia contrita.

"Per verità"diss'egli"è una lettera riservatissima..."

"Gnente gnente!" esclamòdon Tita. "Basta basta!"

Il cappellano proseguì:

"Questo sacerdote scrive che lasignora da Camin è venuta a sapere come si trovipresentementeda parecchi giorniin casa Trento un giovine milanesemolto conosciuto a Milanotristemente conosciuto".

"Un infelice!" mormoròl'arciprete. "Un disgraziato!"

Lo disse coll'accento pacifico di chiconstata una disgrazia irrimediabileuna infelicitàdefinitiva.

La siora Bettina prese timidamente laparola per dire che credeva di aver veduto il giovine in chiesaladomenica precedente. Don Emanuele sospirò e tacque.

"Sì sì!" dissedon Tita. "Lo gavarì visto. Va in ciesava in ciesa.

Ma el xe pezo de quei che no ghe va.Una testafiola! Amigo de quell'altra bela testa del curato de Lago.El xe uno de questi che vorìa cambiar tuto nela Religion."

La siora Bettina sibilòsucchiando aria come se si fosse scottata la lingua. Don Emanuelesospirò da capo.

"Pur troppo!" diss'egli. "Ela madre vive nell'angoscia perché teme che la figliuola possaprendere interesse a questo giovinee che questo giovineessendolei una figlia vistosacon grandi aspettazioni..."

"Mancarìa altro..."esclamò don Tita "ch'el s'inzeregasse qua!"

La siora Bettina sibilò.

"Ora" riprese don Emanuele"il sacerdote che mi scrive ha potuto sapereper una graziadico iodella Divina Provvidenza..."

Pausa.

"Fora fora!" esclamòdon Tita. "Corajo! Benandarò avanti mi. Pare che ghesia un potàcio fra el toso e una siora de Milan. Maridadacapìo"

Sibili e sibili della siora Bettina.

"E se discoreacapìo"riprese don Tita"l'altra seraqua con don Emanuelede cossache se podarìa farperché la tosa lo savesse.

Pensa e pensano se gà trovàgnente. Ossia se ga trovàieriche non ghe saressi che vu."

"Géstenedon Tita!"

L'accento di questa giaculatoriaprofana faceva pietà.

Silenzio.

"No ghin parlemo altro" dissel'arciprete. "La tosa se rovinarà e mi no ghin avaròcolpa."

La Fantuzzoch'era seduta presso lascrivania dell'arcipretevi stese la mano a un libro etrattolo aséparve considerarlo. Era rossa come un gambero.

"Volìo véder"esclamò don Tita "che la sa qualcossa sta malindreta!"

La Fantuzzo protestò che nonsapeva nientema l'arciprete non faticò molto a cavarle chela cuoca di casa Trento amica della sua fantescaaveva parlato aquest'ultima di novità che c'erano in casa dopo la venuta delsignore di Milanodi malumori del padronedi malumori dellacameriera Teresinadi gran pianti della signorina. Una mattina lacameriera era venuta stravolta a ordinare un caffè fortissimoperché la signorina aveva fatta la pazziacon tutti i fioriche voleva in camera la nottedi tener chiuse le finestre e credevadi morire dal mal di capo. La cuoca aveva detto allora:

"Vuole ammazzarsiquell'anima!"La cameriera aveva risposto colle lagrime agli occhi: "Ma!...".

"Credo" soggiunse la buonasignora Bettina "che tutto sarà perché questogiovine era tanto amico del suo fidanzato e glielo farà venirein mente."

"Cara" disse don Tita"vusì una macaca."

Intanto don Emanuele pensava con animograto al visibile favore della Provvidenza per le mire sue edell'arciprete. In fatto né l'uno né l'altro avevamirato a fare della siora Bettina uno strumento unico e diretto dellastessa Provvidenza. Molto soddisfatti di possedere un'arma control'amico di don Aurelioil famigerato Albertiavevano ideato che lasiora Bettina confidasse alla sua fantesca il "potàcio"

dell'Alberti colla signora maritata diMilanonella fiducia che la fantescadella quale conoscevanol'amicizia con quella cuocal'avrebbe confidato e costei e checostei l'avrebbe riferito alla cameriera. Ed ecco che la fiduciadiventava certezza il tubo ideato esisteva giàlavorava giàper la condotta di segreti aeriformi dell'identica specie.

"Allora" cominciò ilvirgulto prelatizio con un'aria innocente "capisco che fra laSua fantesca e la cuoca di casa Trento..."

Fu bussato all'uscio.

"Avanti!" fece il bonario donTita.

Il cappellano ammutolì e abbassògli occhi acquosi senza dare alcun altro segno del propriomalcontento per la interruzione consentita dal Superiore. Era propriola serva della Fantuzzo che veniva in cerca della sua padrona. DonTitailluminato nello spirito da un'idea subitaneala pregòdi aspettare fuori dell'uscio; un momentoun momento solo! Andòegli stesso a chiuder l'uscio con un gran colpo che lo lasciòaperto; poi si mise a declamaresulle facce meravigliate della sioraBettina e del cappellano:

"Sentìcugnàsentìcapelan. Vualtri no parlarèma mi ve la digo.

Savìo quel toso de Milan che xealla Montaninache xe ligà le buele là col curato deLago; savìo che perla ch'el xe? El se la intendecapìoa Milanperché mi lo soco una siora che ga marìotosi..."

"Géstene!" mormoròla siora Bettina. "Anca tosi?"

"Ciò" rispose pianodon Tita "la xe maridàah?" E riprese a voce alta:"Speremo che nol gabia dele ideequel berechinsu sta fiolaqua che xe col vecio Trento. Se lo savesse so mamapora dona!".

Detto questodon Tita si alzòdisse sottovoce "fatofatofato" e guardando don Emanuelecoll'aria di chi a un collega d'arte si mostrò maestroavvicinossi all'uscio in punta di piedilo spalancò d'uncolpogridando:

"Dove xela...? Ahscusè!"diss'egliperché la donna era lìmezzo tramortita dalcolpo dell'uscio. La siora Bettina si alzòbeata della sualiberazione. Il cappellanonon interamente sicuro che l'alzatad'ingegno fosse riuscita benese ne stava meditabondoquando entròin fretta e in furia la serva dell'arcipreteche disse al suopadrone:

"Ghe sarìa la Fedele."

Il nome insolito della Vayla era spessocambiatoin paeseper un cognome.

L'arciprete domandòattonito:

"Quala Fedele?"

"Ehnol sa? Quela de Arsiero.Quela dei cavigi bianchi."

La siora Bettina sgattaiolò viain fretta; l'arciprete chiuse gli occhi e soffiò come se gliavessero offerto un bicchiere d'olio di ricino; il cappellanomormorò: "Arciprete!" e si fece vedere dalprincipale a giunger le maniad alzare lo sguardo al cielovolendoinsieme raccomandare all'uomo di star fermo e al Signore di tenerl'uomo fermo. Dopo di che se ne andò frettoloso a capo basso.

L'arciprete fece entrare donna Fedelecertocome il cappellanoche venisse per parlargli di don Aureliodelle istanze del popolo di Lago che si disponeva di ricorrere magaria Sua Santità perché il curato non partisse.


3.


Donna Fedele era venuta dal villinodelle Rose col suo solito calessino da nolo. Aveva incontrato Massimopoco oltre il ponte del Posina e gli aveva detto ridendo: "Vadodall'arciprete! Per il covo!".

Le erano pervenuteper un tubo affattosimile a quello posto in opera fra la canonica e la Montaninaparecchie notizie interessanti e anche questa chein canonicailsuo villino era stato qualificatoper causa di Carneseccaun covo.Alla esortazione scherzosa di Massimo:

"Gliele canti!" aveva sorrisosenza risponderecol suo sorriso dolce quanto la voce. Svoltato ilcalessino a sinistra sulla salitai nobili lineamenti avevano presauna espressione di tristezza. Non era il viso di chi avesse acantarle a qualcheduno. Però il cuore lo era; e anche ilcervello. Nel cuoredonna Fedele aveva un risentimento altero; quic'entrava forse anche il famoso covo. Nel cervello aveva unacollezione bene ordinata di parole freddechiare e dureda metterea postobisognandoin un altro cervello che non le dimenticasse; equi il covo non c'entrava per nulla.

L'incontro di Massimo le aveva fattosalire al viso un'ombra di malinconia. Non ci vedeva chiaro in quellafaccenda. Vedeva Massimo esser preso ogni giorno piùquestosì; ma vedeva il signor Marcello inquieto e Lelia paurosamenteenigmatica. Le pareva una creatura in lotta con se stessa. Supponevain lei un conflitto di sentimenti enel tempo stessopiù laconoscevapiù si persuadeva che fosse orgogliosissimache avoler influire sulle sue decisioni si farebbe peggio. S'era amicataTeresinada Teresina aveva saputo il fatto dei fiori e dellefinestre chiusenon da prendere troppo sul serioma neppure datrascurare. L'idea di Teresina era che la ragazza fosse innamorata eche si vergognasse di esserloche si tenesse legata nell'onore allamemoria del povero signor Andreaalla fiducia del signor Marcello.Insomma quell'ombra di malinconia saliva da un oscuro gruppo didubbidi penedi supposizionidi presentimenti.


Nel salotto della canonicala sioraBettina e don Emanuele diedero alla visitatrice un'idea cosìviva di due polli spaventati che le sguisciassero a fianco lungo laparetee le venne in mente così rosso certo bitorzolo sopral'occhio sinistro dell'arcipreteche si colorava sempre quando egliera turbatoche un colpo di riso la strinse alla gola. Fu appena intempo di rifarsientrando nello studioun viso serio.

Il bitorzolo era scarlatto mal'accoglienza fu espansiva. Il buon don Tita parve incapace dicontenere nella propria personanon sottile vasouna miscelaeffervescente di sorpresadi piacere e di ossequio.

Don Tita non era un ipocritain quelmomento. Alzandosi e movendo incontro alla signora con una sequeladi: - Oh guarda guarda guarda! - Chi vedo chi vedo chi vedo! -Servitorsuo servitorsuo servitorsuo! - il buon prete non obbediva anessun calcolo. Egli aveva nel sangue una invincibile officiositàchea fronte di ogni persona ragguardevolelo rendeva sull'istantecerimonioso e cordiale. Sentiva allora diminuire in sécomeper miracolole distanze di opinione e di sentimenti che loseparavanoeventualmenteda quella persona; evolere o non volerebisognava pure che con parole e con gesti e col giuoco dellafisonomia le desse a capire di essere molto più del suo avvisoch'essa non avrebbe pensato. Donna Fedele si divertì moltonel proprio internodi queste accoglienze previstepensando almutamento di scena che doveva seguire. Si divertì anche diaccettare la poltrona dell'arcipretedi figurarsinella propriagonna violettaun vescovo e dell'idea di dar mano alla tabacchierach'era lì sul tavolo davanti a leiaperta.

"Sono venuta" diss'ella conuna dolce flemma sonnolenta che pareva velarle anche i begli occhi"per farle vedere che cerco di essere una cristiananon diròbuonama discreta."

L'arciprete rise rumorosamente.

"Oh bella bella bella! Ma chi nedubitasignora? Ma ma ma ma! Chi ne dubita?"

Donna Fedele sorrise. Mentre le labbrasorridevanogli occhi ingrandirono e diedero un lampo di luce viva.

"Eh!" diss'ella. Anche lavoce ebbe un lampo.

Don Tita mostrò di non capiredi non ricordare certa concessione del giardino di donna Fedele peruna festa contadinesca complicatasi di ballonzolicerta suasconveniente predica fattagli rimangiare dalla signora; e ricominciò:

"Ma ma ma ma!"

La bella voce riprese blanda:

"Lei non ha pensato cosìuna volta e neppure adesso quando mi sono presa Pestagran in casa."

Don Tita diventò rosso come unlampone.

"Io?" diss'egli. "Tutt'altro.Caritàsignora! Caritàcarità. Altro era lacasa di un sacerdotecapiràsignorae altro è unacasa laica."

"Un covo laico" si mormoròdonna Fedele fra i denti.

L'arciprete non poté udire edella confessòsempre blandadi non avere saputouna voltache i sacerdoti fossero meno obbligati dei laici alla carità.Oppose alle proteste di don Tita uno sguardo fisso e un silenzioaltero.

Il povero don Titamemore di averdetto che la magra signora era una Carnesecca peggiore di Gran Pestelontano dal pensare che donna Fedelese l'avesse saputose nesarebbe tanto divertita da diventargli più benignastava suicarboni ardenti.

"Ma io" ella riprese "nonsono venuta per parlarle di Pestagran né d'altro dove c'entriPestagran."

"Bensignora. Ben ben ben ben."

L'arciprete disse cosìconcedendosi un piccolo sfogo di dialettoma pensò "malemale" perché almeno quell'altra pillola era inghiottita echi sa cosa diavolo avesse "in pectore" madama Carnesecca.

"Siccome Lei e io c'interessiamodi una stessa personasono venuta per domandarle una informazioneche potrebbein certi casiriguardare indirettamente questapersona."

Adesso donna Fedele aveva parlato convoce chiara e piuttosto altaarticolando bene le parole e guardandorisolutamente don Tita in faccia. Era una faccia attonita. Chi potevaessere questa persona? La Bettinano. Il cappellanomeno. Che fosseproprio don Aurelio?

"Non è vero" chiesedonna Fedele "che Lei s'interessa molto della signorina che stain casa Trento?"

Don Titacontento che non fosse venutofuori don Aureliobatté palma a palma.

"Iosignora? M'interesso...? Nosasignora. Proprio nosa."

Donna Fedele pensò: adessoilbitorzolo!

"Comeniente" esclamòsorridendo"se vuol farle sapere che deve guardarsi da un certoAlberti perché questo Alberti ha un intrigo con una signoramaritata?"

L'arcipretefulminatocredette a unaincarnazione del diavolo in donna Fedele. Balbettò "come.comecome?" eriprendendo gli spiriti smarritichiamòin cuor suo - mostra mostra mostra! la sua serva che sola avevapotuto origliareudirechiacchierare. E intanto non rispondeva.Donna Fedele attese un poco e poi gli domandòcolla sua dolceflemma spietatase negasse o confermasse la cosa.

"Nego" rispose don Titariavendosi dal colpo. "Posso negaresignora.

Nego di avere alcun interesse in questafaccenda. La sapevosignorama il segreto non era mio."

Donna Fedele si rimproveròmentalmente di non avere contatiquesta voltai - signora -dell'arciprete. Un'altra volta ne aveva contati o almeno pretendevaaverne contati cento e uno in mezz'ora. Riprese la sua fredda operadi tortura.

"Vedearciprete" diss'ella"se qui si sa molto di quello che si fa e si dice in casa miaègiusto che in casa mia si sappia un pochino di quello che si fa e sidice qui."

Donna Fedele era convinta che la servadell'arciprete avesse l'incarico di spillare alla sua ortolana tuttoil possibile della padronadi don Aureliodi Carnesecca e diMassimo Alberti. La serva poiper comprarevendeva. E l'ortolanachiacchierava colla cameriera. Donna Fedele non voleva saperne dipettegolezzirimproverava le sue donnema non poteva turarsi gliorecchi; e stavoltaper veritàli aveva aperti bene.

Tutta la faccia di don Tita prese ilcolore del bitorzolo.

"Ah La mi scusi poi tantosignora" diss'egli con voce risentita"ma questa poi...questa... oh...! oh!... oh!"

Dondolava il capo come sopra un pernoaggrottando le sopracciglia.

Si udì un flebile "conpermesso"l'uscio fu aperto pianoecco la delinquente colcaffè e i pandoli per donna Fedele. Era una vecchietta grossadalla voce di pecora e dalla faccia furba. Posò il vassoiosulla scrivania e guardò il padroneaspettando che si alzassecome il solitoimbrandisse il cucchiainoe vociferasse "quantisignoraquanti?". Il padrone si alzò ma non subito elentamente. Le diede poi un'occhiata che la fece tremare di averesbagliato portando il caffè.

"Cape!" mormorò lapovera donnausacome la Fantuzzoappellarsi a quei lontaniinvisibili crostacei. Quella donna trasognataignara della propriasituazione di "lupus in fabula"quella faccia di don Titacostretto a nutrire di caffè e pandoli una creatura odiosa chelo aveva insolentitol'idea della scenata che doveva infallibilmenteseguirepartita leifra serva e padronemisero tanto di buon umoreil piccolo demone comico annidato nel cervello di donna Fedelecheinvece di rifiutare il caffè o almeno i pandolicom'era statoil suo primo sentimentoella prese dell'uno e degli altritanto perridere più gustosamente della sorte amara di don Tita e persorridere di se stessa.

Peròdopo il caffè e ipandolismise di torturare il povero uomo.

Donna Fedele capace di antipatie fierenon sentiva per l'arciprete che indifferenza. Lo credeva piuttostodebole che doppiopiuttosto guasto da una educazione insufficiente emalsana che basso di naturaastuto sì ma di un'astuziagrossafacile a penetrare; e ne riconosceva le qualità buoneil disinteresseil desiderio sincero di servire Iddio. Partita lafantesca ella gli dissemolto pacificamenteche aveva serie ragionidi voler sapere il vero circa le accuse che riguardavano il giovineAlberti. Don Titapresto rabbonitosi trincerò e chiusenella frase del segreto altruima per aprire subito un usciolinocompiacendosi di farequasi di soppiattocosa grata alla suainterlocutrice. Il segreto era del cappellano.

Guai se il cappellano sapesse che ilsegreto non è ben custodito! - E mio padronesa. - La capisce- un scheo de cardinaldigo mi un centesimo di cardinale.L'arciprete chiamava così don Emanuele quando presumeva diparlare con un avversario del cappellano. E ora non s'ingannavadavvero perché nessuno al mondo era tanto antipatico a donnaFedele quanto il cappellano di Velo d'Astico. Ella domandòsubito di parlargli e don Tita si affrettò ad andarne incerca. Donna Fedele si tenne sicura che il cappellano non sarebbevenuto e infatti don Tita ricomparvedopo un'assenza lunghettaadiremogio come un cane frustatoche il cappellano era fuori.

"Ritornerà" dissedonna Fedelealzandosi. Sìcertodon Emanuele sarebberitornatoma difficilmente prima di mezzogiorno. Erano le nove emezzo. Donna Fedele non poteva restare due ore e mezzo in canonica.Uscì senza dire le proprie intenzioni. Domandò a unacontadina seduta sulla porta del suo casolarea due passi dallacanonicase avesse veduto don Emanuele. Quella rispose: "El xepassà adessosignora. El xe andà in ciesa".

Donna Fedele si voltò di scattocredette vedere sparire precipitosamente in canonica la tonacadell'arciprete che avessedall'ingressospiati i suoi passisalìla gradinataentrò in chiesavide il cappellano cheinginocchiato nella prima panca davanti all'altar maggiorepregavafervorosamente. Stese per istinto la mano alla piletta dell'acquasanta e si pentì prima di toccar l'acquaritirò lamanosentendosi troppo cattiva cristiana.

Quell'uomo inginocchiatocol viso frale manile metteva ira Luifare il santoluiquel cuore duroquel cuore malvagioluiil coperto nemicoil denunciatore di donAureliosi poteva giurarlolui che ora tramava perfidie controAlberti perché lo credeva un eretico! Anche questo avrebbegiurato donna Fedele benché non ne sapesse nientebenchéfosse venuta per sapere appunto se l'accusa contro l'Alberti avesseun fondamento reale o no. Entrò in una panca vicina alla portalateralenell'ombra edopo un momento di esitaziones'inginocchiò.Era credente e piaper tradizione antica della sua casa. Aveva unafede semplicenon si occupava né voleva occuparsi dellequestioni religiose che dividono i cattolicidiceva volentieri dipreferire la famosa "foi de charbonnier"come l'avevapreferita suo padre; ma detestava tutto che le paresse doppiezzaipocrisiaperfidia; e oltre al piccolo demone comico aveva nelcervello un piccolo demone stranouno spirito bizzarro che lesuggerì di pregare contro le preghiere di quel prete curvodavanti all'altar maggiore. Inginocchiandosipensò:"Ascoltate meSignoree non lui"poiappena posate lebraccia sulla panca: "forse non prega niente".

Lo credeva un fariseo e non si avvideper questodi attuare a rovescio la parabola del Vangelomeditandocome il fariseo di quellala divina condanna. Il suo sospetto erapoi anche ingiusto.

Don Emanuele pregava con tutte le forzedell'anima sua. Pregava secondo la sua naturala sua educazionecome non avrebbe potuto altrimenti. In casa sua nessuno aveva osatochiedere direttamente alcunché al nonno terribile. Glifacevano parlare da un preteo da un fattoreo da una vecchiacameriera. Così don Emanuele pregavapiù che il Nonnoinfinitoi servi di Lui. Adesso pregava San Luigi Gonzaga; non comealtri potrebbe invocare lo spirito di un giovine nobile e puromortoin servizio di Dio e degli uominiche s'infondesse all'anima delsupplicante per innalzarla seco nella regione della purezza eternama come un principe deificatoche stando sul tronoin pompa magnacinto di fiori e di angioletti alatipiegasse il capobenignamenteverso di lui e comandasse al demonio di lasciarlo. Cosìpregavacome potevail povero don Emanueleinorriditodall'asprezza delle tentazioni dalle quali avrebbe voluto farsicredere immune; ed è da ritenere che Iddiocui sono apertetutte le origini e tutte le cause; gli fosse molto piùclemente che donna Fedele; la qualepregando contro le intenzionidel cappellanoavrebbe fattose Iddio l'ascoltavauna bellafrittata.

Poco dopo aver udito una personaentrare in chiesadon Emanuele finsenel porsi a sederediguardare se il sedile fosse sgomberosbirciò la signora e sipose a leggere il breviario. Egli ricambiavanel suo coperto modoparticolarel'avversione di donna Fedele.

L'offendeva quella sinceritàfranca di leifatta più irritante dal tono mansueto dellavoce. E la sapeva amica di don Aurelioamica del giovine Albertidue persone ch'egli abborriva di un abborrimento pio; credevadetestarne le idee e non le persone. Sentendo fra don Aurelio e séun indistinto ma profondo dissensoprovando per lui un'avversioneistintivaera tratto ad attribuirgliper comodità dellapropria coscienzaidee veramente detestabiliopinioni veramenteindegne di un cattolico qualsiasi nonché di un prete. E loirritava la irresponsabilità sì delle sue azioni chedelle sue parole.

Per luidon Aurelio era un ipocrita.Di Alberti poiper quello che ne aveva letto nei giornaliperquello che gliene avevano scritto da Milanosentiva una specie diribrezzo. L'amica dell'uno e dell'altro non poteva essere troppodiversa da loro.

Udendola annunciare dalla servadell'arcipreteaveva pensato che fosse venuta a perorare la causa didon Aurelio. Adesso sapeva ch'era invece venuta per la faccenda diAlbertiche la serva dell'arciprete aveva origliato e chiacchieratoche quel benedetto uomo ne aveva fatta una delle suelo avevacompromesso. Appena la videne indovinò il propositosichiuse tuttoleggendo il breviarioin un'armatura ideale di piastree di punte.

La placida signora non accennando alevar l'assedios'inginocchiò da capo; e dopo avereimmaginatocolla testa fra le maniil momento dell'assalto epredisposta la difesapassò in sagrestia.

Immediatamente donna Fedele si alzòe lo seguìcom'egli aveva previsto. Non potendo evitare uncolloquioil cappellano lo preferiva in sagrestiaanzichéall'aperto o in canonica.

Donna Fedele gli domandò gelidavelata gli occhi d'indifferenza sprezzantese potesse parlargli.Egli risposeegualmente gelidocon un cenno silenzioso di assenso.

"Preferirei non qui"diss'ella. Egli esitò un poco e poi le propose di aspettarloin chiesa. Sarebbero usciti insieme. Si trattenne in sagrestia dieciminuti almenofece davanti all'altar maggiore una genuflessione chene durò altri due.

"Desidero da Lei una informazionesicura" disse donna Fedele uscendo con lui dalla chiesatuttafremente d'impazienza.

"Se posso" rispose donEmanuelemansueto e duro. "Se posso."

La signora frenò a stento unoscatto.

"S'intendese può. Ma puòcerto. Epotendodeve!"

"Se posso" ripeté ilcappellanopiù mansueto e più duro. "Se posso.

Dica."

Donna Fedelerossa in visogliosservò che si trattava di faccende delicate. Parlarne inpiazza non era conveniente. Allora il prete cavò l'orologio.

"Devo andare a Mea"diss'eglicon quell'aria di gravitàd'impenetrabilitàe di compunzionecon quel tono di "Dominus vobiscum"chedonna Fedele non poteva soffrire. Ella ebbe un altro lieve scatto.

"Va bene. L'accompagneròio. Ho la carrozza."

"Scusi scusisignora; vado apiedi."

Parve a donna Fedele che le parolefrettolosele sopracciglia aggrottategli occhi bassidicessero unpudibondo timorealmeno di dare scandalo. Fu per dargli dellosciocco in viso ma si contenne.

"Verrò a piedi anch'io"diss'ella. "La carrozza ci seguirà."

Don Emanuele si contorse ancora unpocoma non disse parola. Donna Fedele non avrebbe credutodueminuti primadi poter fare mezzo chilometro a piedi. Ora si sentìnei nervi una energia capace di portarla fino a Vicenza. Pescòall'albergo del Sole il suo vetturino cheappena giunto a Veloaveva legato il cavallo a un'inferriata per mettersi a contendereimprudentemente con un vino più gagliardo di lui. Appenaoltrepassata la piazzai due cominciarono a discorrereseguendolia distanzala carrozzella. Il prete camminava come se il suolo glibruciasse i piedicome se cercasse di stancare la sua persecutrice.

Ella gli dichiaròasciutto enettocheper sue particolari ragioniil giovine Alberti le stavamolto a cuore. Sapeva benissimo che gli erano attribuite delle ideereligiose non ortodosse. Sperava che gli fossero attribuite a tortoma insomma non le conoscevanon se ne intendevanon volevaoccuparsene. Ora lo si accusavain canonicad'immoralità.Quianche lei era giudice. Voleva sapere. Le era necessario disapere. Ne aveva parlato all'arciprete. Chi sapevale aveva dettol'arcipreteera il cappellano. A questo punto il cappellano fece ungesto di acquiescenza.

"Lei sadunque?" esclamòdonna Fedele fermandosi su due piedi. Si fermò anche donEmanuele. Sperava cheavuta la sua rispostala terribile signorasarebbe ritornata indietro.

"Pur troppo" diss'egli. "Loso. Cosa grave. Gravissima. Relazione colpevole con persona nonlibera. Pur troppopur troppo."

"Ma Leicome lo sa?"

"Ohfontefontefonte...!"

Parve non trovareper la eccellenzadella fonteun epiteto abbastanza superlativo.

"Mafonte fonte!" esclamòdonna Fedelenon credendo sincera la ricerca dell'epiteto. "Qualefonte?"

"La cosa è" rispose ilcappellanosolenneconvinto. "La cosa è. Non possonominare la fonte."

"Mi dica almeno il nome dellapersona non libera!"

"Non posso!"

Questo non lo poteva davvero e le sueparole suonarono naturalmentepiù convinte che mai. Ma lapazienza di donna Fedele aveva toccato i suoi limiti.

"Sa cosa penso?" diss'ella."Che non vi è fonte ma che vi è fabbrica!"

"Lo pensi pure" fece ilcappellanopallido; etoccatosi la berretta in segno di salutoriprese a gran passi la via di Mea.

"Don Emanuele!" esclamòla signora. Il vetturinomezzo ubbriacoche si era fermato a duepassicolla mano alla briglia della sua bestialasciò andarla brigliapassò donna Fedele correndo e gridando:

"Ca lo ciapa? Ca lo ciapa?"

"Fermo!" gridò lasignora. L'ubbriaco afferrò il cappellano per un braccio:

"El se fermaputélo!"

"Novoi voi fermovoivergogna!" gl'intimò donna Fedele eraggiunto il grupporimandò il vetturino alla sua bestia tanto imperiosamente chequegli obbedì.

"Vada!" diss'ella allosbigottito cappellanocon un'alterezzacon una energiacon unfuocoche le ridonarono quasi lo splendore della sua gioventù."Continui a servire Iddio calunniando la gentefaccia conAlberti come ha fatto col curato di Lago e trionfi pure! io ritornoalla mia casache Loro hanno la bontà di chiamare un covomolto più contenta di me e del mio covo che non lo saràLei di se stesso e del suo palazzo quando diventeràcardinale!" E gli voltò le spalle.

"Siora!" le intuonòtragicoil vetturino recandosi la sinistra al petto e alzando ladestra colla frusta impugnata:

"Se La comandasibene che l'èun preteGesummariaio ci tiro el colo!"

Chi sa dove si fosse assopito ilpiccolo demone comico di donna Fedele. Ella non ebbe neppure unsorriso. Fece voltare il calessino e vi salì non curandol'ubbriachezza del vetturale. Non avrebbe potuto fare altri duepassi. Tutto il suo vigore si era sciolto in un tremito che lascoteva da capo a piedi. Il buon vento di Val d'Asticofresco epuroche faceva stormire gli alberiondulare le ombre sulla stradabiancala ristorò alquanto. Paga del suo sfogosentìpensando al cappellanouna specie di pietà. Ma ne tolsepresto il pensierolo pose alla Montaninaal capo grigio delvecchio venerato amico all'ultimomalinconico desiderio di luilaunione di Lelia e di Albertiagli enigmi dei loro intimi sentimentie della sorte.





Capitolo Quarto


FORBICI


1.


A Lago di Velo la notizia dellapartenza del curato aveva addolorato il popolo. Ch'egli si fossepreso Carnesecca in casaera spiaciutoper dir veroa parecchi; mapoi ch'egli ebbe spiegato il proprio atto dall'altareriprovando ledottrine del venditore di Bibbie e ricordando il Vangelonessuno osòpiù di censurarlo. Si seppe a un punto che Carnesecca erapartito e che il curato doveva partire.

Il Capo della contradacome ivi èchiamato colui al quale i suoi compaesani volontariamente deferisconoper tutte le faccende di comune interessetenne consiglio con ipadri di famigliaparlò da uomo religioso e sensato. Nientetumultiniente disordininiente pressioni sul prete per farlodesistere. Il prete è prete e deve obbedire ai Superiori.Bisogna pregare i Superiori. Questi non erano i sentimenti di tuttinel paese. Le donne parlavano già di non lasciar partire ilcurato a nessun pattodi ricorrere anche al Papase fossenecessario. Il Capo le persuase a chetarsiad attendere in pacel'esito delle prime pratiche. Si recò dall'arciprete con unaCommissione. L'arciprete diede un rabbuffo alla Commissionetrattòquella brava gente da zuccheda ignorantida prepotenti. Se neritornarono scornati e il fermento crebbe.

Don Aureliodopo avere cercato invanodi dissuadere privatamente il suo gregge da qualunque praticaripetéla stessa esortazionecon parole insieme affettuose e severedall'altare.Andarono dall'arcipretea nome del popolo di Lagoanchealcuni villeggiantipersone ragguardevoliperchés'interponesse presso la Curia. A loro l'eccellente don Tita diedeparole buonedisse di non essere entrato per nulla nel provvedimentoincresciosolodò don Aureliopromise di faredi dirediscrivere. Il gregge ascoltò don Aurelio rispettosamentesenzala menoma idea di obbedirgliascoltò le informazioni dellaseconda Commissione senza la menoma fede nelle promessedell'arciprete. Il Capo tenne un'altra riunionei riuniti deciserodi presentarsi tutti insieme al Vescovo per ottenereintantoalmenouna proroga. Appreso ciòdon Aurelio li pregò a volerprima udire una sua parola. Era un venerdì e mancavano ancoracinque giorni al termine dentro il quale egli avrebbe dovuto lasciarela curazia. I contadini intendevano recarsi a Vicenzadal Vescovola domenica mattina. Accettarono di andare da don Aurelio l'indomanisabatoa mezzogiorno. Verso la sera del venerdì don Aureliodiscese al villino delle Rose. Poinel ritornoentrò allaMontanina.

Mancavano pochi minuti alle otto. Uditoda Giovanni che i signori erano ancora a pranzonon volle chefossero avvertitisi trattenne nel salone a guardare labibliotechina di fianco al camino. Non v'erano che libri di botanicae di giardinaggiolibri del signor Marcello. Don Aurelio sapeva benpoco delle letture di Lelia e avrebbe voluto saperne di più. Auna sua domanda direttarivoltale negli ultimi giornila ragazzaaveva risposto che leggeva di preferenza poeti stranieri. DonAureliopoco pratico di poesia stranieranon aveva osato spingersipiù oltre colle domande. Gli era poi stato riferito da donnaFedele il frutto di scandagli suoi. Pareva che i poeti stranieripreferiti da Lelia fossero Shelley e Heine. Il primo era interamentesconosciuto a don Aurelioil nome del secondo gli rendeva un suonodi scetticismo funesto. E che nell'anima di Lelia vi fosse un fondoamaro di scetticismo lo sospettava da qualche dì per undiscorso spiacente di leiriferitoglianche questoda donnaFedele.

Ell'aveva sostenuto contro donna Fedelela tesi che gli atti apparentemente più generosi degli uomininon hanno altro movente che l'egoismo; e qualche sua parola era parsaferire indirettamente l'atto del signor Marcello che si era portatain casa una memoria viva del figliuolo morto.

Don Aurelio se n'era sdegnato el'amicapiù indulgenteaveva durato fatica a pacificarlorappresentandogli l'ambiente nel quale era cresciuta Lelialeorigini dolorose del suo scetticismo. Donna Fedele era meno inquietadi lui circa l'avvenire di Massimose questo matrimonio si facesse.Le stranezze della fanciulla non facevano a lei la stessa penosaimpressione che a don Aurelio. Ella ricordava l'adolescenza propriastata fantastica e appassionata la sua partecomprendeva tante coseincomprensibili a lui. Credeva intravvedere tesori nel cuore di Leliae provava una simpatia vivissima per quella sua intelligenza tuttapenetrata e calda di sentimento.

Finito di esplorare inutilmente i libridella bibliotechinadon Aurelio vide la cameriera affacciarsi allaporta di fondo del salonemovere verso di luisilenziosain puntadi piedi. Le andò incontro.

Teresina aveva un messaggio segreto perdonna Fedelechesofferente più del solito dopo l'assaltoalla canonicanon si lasciava vedere da due dìmentre primanon passava quasi giorno senza una sua visita.

"Se la vede" sussurròla cameriera"le dica che si va peggio."

Don Aurelio non capiva. Teresina sispiegò. Dopo il fatto delle finestre chiuseella si eraincaricata di riferire a donna Fedele tutto della signorina che leparesse degno di nota.

"Adesso" diss'ella "hapotuto avere la chiave del Parco di Velo e da due serequando si fanotteva nel Parco sola solettavi passa delle ore. Cosa faccia lìdentro non lo so. Mi costringe a dire bugie al padronearisponderglise domanda di leich'è a letto col mal di capo.Egli domanda semprenaturalmente. Io poi devo andare ad aspettarlaal cancello del Parco alle undici. E per verità ho anchepaura. Ma guai se parlo! Iersera è rientrata a mezzanotte.DomandiLa pregoa donna Fedelecosa debbo fare! Lo domando anchea Leidon Aurelio."

"Prima di tutto L'avverto"rispose don Aurelio "che a donna Fedele non potrò dirniente."

Teresinastupefattane chiese ilperché.

"Non importa" rispose ancoradon Aurelio. "Lei ha fatto molto male a non parlare. Deveparlare assolutamente. E subito!"

L'uscio della sala da pranzo fu aperto.Comparve il signor Marcello in personavociferando proteste per lecerimonie dell'amico che non si era fatto annunciare. Lo prese abraccettolo condusse in sala da pranzo.

Lelia salutò appena; tanto cheil signor Marcello la richiamò.

"Distratta!" diss'egli. "C'èdon Aurelio."

Da più giorni questi avevacreduto notare che il gelo abituale di lei a suo riguardo fosseancora disceso di un grado. Ora ne fu convinto.

Anche Massimo gli parve rannuvolato.Raccontò la sua visita al villinodescrisse le condizionidella salute di donna Fedeletutt'altro che buone a giudicarnedall'aspetto e da qualche cenno fugace di lei. Leliariconquistatadal fascino e dalle dimostrazioni affettuose della Vaylasi feceattentissima. E don Aurelio parlava veramente in modo da imporreattenzione.

"Quella è una donna"diss'egli "chese non si cura come va e subitosi rovina. Voisiete amici suoiavete il dovere di ottenerlo."

Il signor Marcellocolpito dal tono diquelle parole più ancora che dalle parole stessedomandòche si potesse farequale fosse veramente il male di cui la Vaylasoffriva. Don Aurelio rispose che non lo sapeva ma che lo sospettavaper la stessa renitenza della sofferente a prendere un consulto. E unconsulto era necessario.

Seguìnella salaun silenziodolenteattonito. Don Aurelio si alzòdicendo che dovevarincasare. Massimo si alzò pureper accompagnarlo fino aSant'Ubaldo. Il curato si avvicinò a Leliale dissegravemente:

"Signorinadonna Fedele Le vuolemolto bene. La raccomando particolarmente a Lei. Quella è unavita necessaria a molte persone."

Il signor Marcello si era pure levatoin piedi.

"Dunquedon Aurelio"diss'egli"Lei ha questa riunione domani? Potrà portarviqualche buona notizia?"

"Senta" rispose don Aureliocol suo bell'accento romanocolla sua voce calda: "io non so seil rimanente sia buono. Intanto Iddio mi dice che buono èl'obbedire."

Seguì una lotta fra i due perchéil signor Marcello voleva baciar la mano che l'altro ritiròcon terrore. Si abbracciarono. Don Aurelio sentì lagrime sulviso del vecchiouscì mormorando: "Poverettopoveretto!"

Uscendo dal vestibolo disse a Massimoches'egli non fosse offerto di accompagnarlo a Sant'Ubaldone loavrebbe richiesto. Il giovine non rispose. Don Aurelio lo guardò;pareva che non avesse udito. Nessuno dei due parlò piùfino al cancello. Imbrunivaaltro suono non era nell'aria che ilfioco della Riderella e il profondo del Posina. In quel silenziocome di chiesale montagne grandi e i boschi e l'erbe dei pratiparevan avere un senso sacro dei mondi ignoti che avanzavano da ogniparte nel cielotremandone già qualche fioco lume per leprofondità serene. Fuori del cancello don Aurelio si fermòposò la mano sulla spalla del suo compagnove la calcòfortesenza parlare.

Aveva negli occhi qualche cosa di nuovoche Massimo non vide. Massimo non aveva sensi che per il suo propriointerno. Forse la poesia della sera gli acuiva una febbre; ma eglisentiva la sola febbrenon la poesia. Era penetrato di un'altrapersonain ogni fibrae ogni fibra gli era doloregli eradolcezzaspasimo di confondersi con quella persona senza fine e persempre. Dieci giorni di convivenzamomenti divini di contatto in unosguardoaltre comunicazioni indiretteinvolontariefugacidianima e d'istintoavevano operato questo; né il gelo e letenebre di cui si avvolgeva quasi continuamente l'altra persona loavevano impedito. Oscure parole di donna Fedeleoscure parole dellostesso signor Marcelloparole di favore che gli entravanoripensandole più e più addentro nella mente come gocceassidue nella nevegli avevano attutito quel senso di rimorso chesulle primegli si accompagnava ai moti dell'amore nascente. Glipareva di essere avviluppato da una trama di complici e anche questogli era inesplicabile. Credeva e discredeva cento volte al giornoche il signor Marcellocon quel volerlo trattenere alla Montaninanel nome della persona che aveva tanto amato Leliacon quelleconfidenze sulla famiglia di leisui timori che lo agitavanopensando all'avvenire della fanciullacon altre vaghe allusioniavesse l'intenzione di significargli la speranza che egli volesseprendere il posto del povero Andrea. Ci si perdeva. Per lui nonesisteva in quel momento che Leliaradiante le onde oscuredell'amoreoscura ella stessa e cinta di oscuritàditormentose dubbiezze. Quando la mano di don Aurelio si posòsulla sua spallagli pesava sul cuore che Leliadurante il pranzonon gli avesse rivolto né uno sguardo né una parola.Intese l'atto del suo amico come un ammonimento.

"Lei ha capito" diss'egli."Mi tradisco tanto?"

La sorpresa silenziosa di don Aureliogli rivelò che si era tradito in quel momento.

"Scusi" esclamòturbato"perché mi ha posto la mano sulla spalla?"

"Povero Massimo!" risposesorridendo don Aurelio quando gli parve di aver capito veramente.

"Dunque stavolta è propriouna cosa seria?"

"DioLei ride!" esclamòAlberti.

Così dicendol'uomo cacciatocon amara ingiustizia dalla sua casipola d'infimo pastoreprossimoal momento in cui non avrebbe saputo dove posare il capoprese abraccetto e trasse con séper confortarlol'amico dimenticodi ciòpreso tutto dall'egoismo dell'amore.

"E' una cosavediche fa piacerea me e che farà piacere anche ad altri" gli disseentrando nella buia ombra dei grandi castagni.

Massimo si arrestò di colpo.

"Anche al signor Marcello?Proprio? Proprio vero?"

L'ombra era tanto nera che don Aurelionon si fidò di rispondere. O nella strada stessa opeggionel recinto della Montaninaqualcuno potevasenza esser vedutoascoltare. Solo dove la stradicciuola esce dai castagni e svoltagirando a sinistrasul ciglio scoperto della conca di LagodonAurelio rivelò all'amico tremante il desiderio segreto delsignor Marcello.

Massimo lo abbracciò di slancio.

"Cosa faicosa faicosa fai?"diss'egli svincolandosi a stento.

"Ma la signorina Lelialasignorina Lelia?" chiese Massimopalpitante. "Cosa pensala signorina Lelia?"

"Oh questo poi" rispose donAurelio"io non lo so. Non me ne intendoma mi parescusache dovresti saperlo tu."

Massimo si disperò.

"Ma non capisce che non lo so enon lo so e non lo so?"

Don Aurelio non sapevaalla sua voltacosa dire. Credeva che Massimo avesse ragione di sperar bene perchéquesta era l'opinione di donna Fedele. Massimo ebbe una vampa digioia. Non s'indugiò a domandare come e perché donAurelio e donna Fedele avessero parlato insieme di ciòdomandò per quali ragioniper quali segni donna Fedeleopinasse così. Ma! Avrebbe potuto dirlo solamente lei.

"Vado da lei!" esclamòil giovine Don Aurelio si opposerisoluto.

"Nocaro. Adesso ho bisogno chetu venga con me."

Massimo ne chiese il perché. DonAurelio gli rispose che gliel'avrebbe detto a casa. Fatti pochipassiil giovine si fermòpregò ancorascongiuròdi essere lasciato andare subito al villino delle Rose. Don Aureliogli domandò alla sua voltatristementese proprio per luinon esistesse più che la signorina Lelia. Le parole dolentifurono un tocco di fuoco al cuore di Massimolo fecero rientrare insé. Afferrò a due mani un braccio dell'amiconon ebbepace fino a che don Aurelio non lo baciò in segno di perdono.

Passarono in silenzio fra le casupoletenebrose di Lago. Fuori del villaggiogirando l'alto dorso erbosoche porta la chiesa di Sant'UbaldoMassimo si aperse tuttoall'amicogli disse l'impressione avuta dalla fotografia dellasignorina Lelia mentre ancora viveva il povero Andreaquellariportatane al primo incontro con essale vicende stranetentantidel contegno di leiil fascino delle profondità ch'egliintravvedeva in quell'animai primordi della passioneil rimorsol'attitudine inesplicabile del signor Marcelloil cresceredell'ebbrezzail sogno fisso dei suoi giorni e delle sue notti:uscir del mondodimenticarlopassar la vita con leiin qualchesolitudine di montagnafacendo il medicoservendo gli uominipraticando la religione colla tacita libertà dell'animainespugnabile da qualsiasi dispotismo.

Don Aurelio ascoltò in silenzio.Giunto alla chiesane aperse la porticina lateralevi entròa pregare. Massimo lo seguì ma non pregò.

Pensò Leliamalcontento dipensarla in chiesa e tuttavia cedendo al dolce pensiero. La mattinadi quello stesso giornoLeliadopo averlo trattato con indifferenzaquasi sprezzantesi era improvvisamente seduta al pianoavevasuonato "Aveu" di Schumann. Ferma nel cuore un'acutadolcezzaegli aveva seguito la deliziosa musica guardando in altoattraverso la galleria cui salgono le scale del saloneuna piccolaobliqua punta di dolomia perduta nei vapori azzurrini del cielounaereo profilo di sogno. E adessonelle tenebre della chiesinacercava rievocare quel momento inenarrabilerichiamare i tocchidelicati del capriccio musicale dolcissimola visione della punta didolomia perduta nel vaporoso serenouna punta di passionelanciatasufuori del mondocinta di abissi e di cielo.

La Lùziaudendo venire ilpadroneaveva preparato un lume nel salottino del piano terreno.

Don Aurelio prese il lumesalìcon Massimo la scaletta di legno.

"Prima discorriamo di te"diss'egliposato ch'ebbe il lume sulla scrivania dello studio.Indicò a Massimo una sedia in faccia alla suacon certasolennità che sgomentò il giovine. E riprese:

"Devi rispondere a una miadomanda. Pensa bene prima di rispondere".

Scrutò in silenzio gli occhiattonitiavidiche lo interrogavano.

"La domanda è questa"diss'egli. "Sai che si sia parlato a Milano di una tua relazionecon una signora maritata? Pensa."

Massimo sorriserasserenatodellaingenuità di quel sant'uomovissuto fuori del mondo.

"Ma certo" rispose"enon con unama con dueforse con tre. Lei non sa cosa èMilano. Ma Lei vi ha creduto? Ha dubitato? Non sa tutto di me?"

Don Aurelio si affrettò adichiarare che non aveva creduto. Pareva tuttavia perplesso. AlloraMassimo intuì qualche cosa di funestoesclamòatterrito:

"Ah capisco! E' la signorina Leliache lo crede!"

Nodon Aurelio non sapeva che si fosseparlato di ciò alla Montanina.

Se n'era parlato al villino. Neppuredonna Fedele credeva; ma era necessario che Massimo la rassicurasse.A Massimo pareva opportuno che questo passo lo facesse don Aurelio.

"Iocaro?"

Don Aurelio pensò un poco esoggiunse sottovocegravemente:

"Io parto questa notte."

Massimo diede un balzo sulla sedia.

"Cosa? Parte? No! Dica!"

Il suo primo pensiero fu: mi abbandonain questo momento! Il secondo fu: perché parte quando c'èancora speranza che lo lascino qui? E perché stanotte? Dovevuole andare? Proruppe in tali domande.

Don Aurelio lo fermò subitosimise un dito alla bocca. La Lùzia poteva udire! Nessunosapevanessuno doveva sapere. Non c'era speranza che i Superiori lolasciassero a Lagoe c'era pericolo che il popolo di Lago lo volessetrattenere colla violenza. Il suo dovere precisoassolutoera dipartire subitosegretamente. Sarebbe partito a piedinella notteper prendere a Schio il treno delle cinque per Vicenzapresentarsial Vescovopurgarsi delle accuse che supponeva gli fossero statefatte e poi... affidarsi alle mani della Divina Provvidenza. Egli erapersuaso che il Vescovo lo avrebbe aiutato a trovarsi un collocamentoin qualche altra diocesidove fossero cappellanie di montagnaancora più segregate dal mondo che Sant'Ubaldo.

"In ogni modo" diss'egli"ilSignore non mi abbandonerà." E perché Massimo ebbeuno scatto d'ira contro i suoi presunti persecutorigl'imposesilenzio con impeto. "Credono di far bene. Vedi tu i loro cuori?Vedi le loro coscienze? Bisogna pregare per essi. Prometti!"

Così dicendostese al giovaneuna mano che questi afferrò con ambedue le proprieimpressedelle sue labbra infuocate.

"Adesso aiutami" disse donAurelioalzandosi.

Fecero insieme la separazione dei librida restituire a donna Fedele e al signor Marcello e di quelli diproprietà di don Aurelioche Massimo gli avrebbe spediti làdove il destino fosse per portarlo. Con sé don Aurelio nonpoteva tenere che il Breviariouna piccola Bibbia tascabile el'Imitazione. Nel prendere e mettere da parte i cari libri le manigli tremavanopovero prete; ma non gli sfuggì una parola dilamento. Solo una voltaporgendo a Massimo una bella edizione delleConfessioni di Sant'Agostinoche gli ricordava molte ore di letturae di meditazione religiosa nelle ombre segrete del Parco di Velopresso il mormorar pio di acque correntigli mancò la forzadi dire "questo al signor Marcello". Massimovistagli lafacciaindovinònon prese il libroprese e strinse la manodolorando. "Al signor Marcelloal signor Marcello!"esclamò subito don Aurelio con uno sforzocome se la smarritamemoriae non l'emozionegli avesse trattenuta la voce.

Non ebbe più un solo momento didebolezzaanzi rimproverò Massimo chea mezzo il lavorononpotendone piùsi era rifiutatoun momentodi continuarevoleva tentare ancora di smuoverlo dal suo proposito. Appena ebberofinitola Lùzia entrò col pretesto di vedere se leimposte fossero chiuse. Don Aurelio le ordinò di andare aletto.

"Graziesignor" disseuscendola vecchiache appunto desiderava quest'ordine.

Don Aurelio stette pensoso. Gliconveniva rimunerare in qualche modo la Lùziaoltre alsalario mensilegià messo da parte. Donna Fedele gli avevaregalato una bella svegliatroppo elegante per lui.

"Bellavero?" diss'egli aMassimofacendogliela vedere. "Fammi il piacere di venderla perconto della Lùzia."

AhMassimo non aveva pensato che ilpovero prete non aveva forse tanto in tasca da vivere fuori per duegiorni! Offerse le cinquanta lire che teneva nel portafogli. DonAurelio ne possedeva tre e ne accettòcon semplicitàfrancescanadodici per il viaggio a Vicenza eoccorrendo da Vicenzaa Milanodovenella peggiore ipotesiavrebbe chiesta l'ospitalitàoffertagli più voltedi un suo amico prete. Non ci fu versodi fargli accettare di più.

"Queste dodici te le avreidomandate" diss'egli. Poiarrossendo moltomostrò aMassimo il cassettone dove teneva le biancheriedocumento segretodella sua povertà. Avrebbe scritto da Vicenza indicando illuogo dove spedirgli quelle poche robe e le fotografie di Subiaco.Quanto ai libripensò che il miglior partito fosse incassarlie affidarne a donna Fedele la custodia. Erano da incassare anche ipochi mobili. Gli tornò in mente che la Lùzia gli avevadetto una volta: "S'El va viadon AurelioEl me lassaràel letovero?".

Eccovaleva meglio lasciarle il lettoe non vendere la sveglia.

Povera Lùziadopo quel primodiscorsoinsinuava dolcementea ogni occasioneche il suo lettoera "un strazzon""un covile da bruciare".

"Macaro amico" esclamòAlberti per una ispirazione subitanea"come posso restare io seLei parte?"

Il natio fuoco generoso dell'anima suadiedeattraverso e sopra gli egoismi dell'amoreuna improvvisavampa:

"Ahdon Aurelioperchénon l'ho pensato subito? Parto con Lei!

L'accompagno!"

Don Aurelio aperse le bracciase lostrinse al petto.

"Mi perdona" disse piano ilgiovine "di non averlo pensato subito?"

Don Aurelio lo strinse più fortee non rispose. Alfine lo scostò da sé dolcementelobaciò in fronte.

"Non ti vogliosai"diss'egli.

"Non mi vuole? Perché nonmi vuole? Vengo anche se non mi vuole!"

Il lumicino a petrolio accennava avenir menoDon Aurelio lo spense.

"Ci deve servire più tardi"diss'egli "e io non so né se vi sia dell'altro petrolioin casanése c'èdove sia. Sediamo."

Oscuri volumi di nubi senza lunamacchiavano appena nell'apertura di una finestrale tenebre. DonAurelioinvisibile al suo interlocutoreprese a parlarglisottovocecolla gravità di un padre.

"Sono iocaroche resto con te.Non te l'ho detto ma ho tanto pregato Iddio che ti donasse quello cheora ti sta donandoun amore fortegrandepieno e santo. Tu non seifatto per il celibatotu sei fatto per una unione idealmente umanaidealmente cristianaidealmente bella. Tu sei fatto per avere unaprogenie forte e pura. La tradizione delle grandi famiglie devoteeroicamente al Re è spenta.

Bisogna fondare famiglie devoteeroicamente a Diodove la devozione a Dio si perpetui come un titolodi nobiltàcome il sentimento giustotradizionale dellanobiltà. Tu ne devi fondare una. E' il mio sogno.

Era il sogno..."

La voce di don Aurelio discese asussurrare un nome tacque.

"Davvero?" fece Massimo.

"Sìera il sognoper tedel povero Benedetto."

Il fantasma di un caro viso macilentodagli occhi grandiparlantibalenò a Massimo nell'ombradella camera. Benedetto aveva pensato a una felicità di amoreper lui! Il caro viso gli balenò ancorasupinosenza vitacereo. Un moto di lagrime gli gonfiò il pettoridiscesecompresso.

"Non puoi allontanarti"proseguì don Aurelio. "Domattina per tempo devi vederedonna Fedeleassicurarla di quello che sai. Non dubita di temasiccome le è affidato un incaricodesidera questa parola tua.

Poidomani stesso parlerà allasignorina Leliala interrogherà a nome del signor Marcelloche ne l'ha fatta pregare da me. Domani sera saprai. Donna Fedele sitiene sicura di una risposta buona. Allora parlerai tudirettamente."

Il tavolo sul quale Massimo puntava igomititenendosi le tempie fra le manivibrò come un corpovivo.

"Se tutto sarà andato bene"riprese don Aurelio"mi manderai un telegramma a Vicenzafermoin ufficio. - Tu temi?" continuòperché il tavolovibrava vibrava. "Donna Fedele dice ch'è un'anima chiusadifficile a penetrarema non la crede legata a una memoriacredeche senta bisogno di amoredi avvenire. La crede un tesoro dienergie moraliun poco infetto di fermenti amaridi esperienzetristi della vita; eccoquesto sì. Crede che certesingolarità sparirannoquando queste energie siano benordinateben dirette da qualcuno in cui ell'abbia fede."

Massimo tacque. La credeva egli pure unparadiso chiusooscurato dall'ombratroppo foscadi un alberodella scienza del bene e del maletroppo grande. Richiesto da donAurelio se proprio avesse indizi un po' chiari dell'intimo sentimentodi lei a suo riguardo rispose sospirando:

"Direi che qualche cosa di mel'attragga e qualche cosa la respinga."

"Cosa la respinge?"

"Benedetto."

Don Aurelio ne stupì. Che sapevamai questa ragazza di Benedetto?

Massimo si spiegò. Don Aurelioricordava bene la conversazione del primo giornoa tavolale paroledella signorina Lelia su Benedettoche l'avevano offeso? Ella glieneaveva riparlato poco doposempre con un tono ostile. Lo credeva uneretico. Pareva dispostalì per lìad ascoltare ledifese ch'egli ne avrebbe fattema poi si era sempre sottrattaconintenzioneevidentemente.

"Sìva beneva bene"fece don Aurelio"ma poi!"

Non gli riusciva proprio di credere chequella ragazza ci tenesse tanto a questioni di religione da guastarsila vita per esse. Sentì subito che questo scetticismocolorito apparentemente di mediocre stimaera dispiaciuto a Massimo.Cercò nell'ombra le mani dell'amicole strinsenon parlòpiù di Lelia.

"Dobbiamo appunto parlare diBenedetto" diss'egli. "Oggi mi ha scritto Elia Viterbo.Avrebbe scritto a te ma nessunoa Romasa dove tu sia.

Suppongono che ne sia informato io. E'corsa persino la vocea Romache tu fossi rifugiato a Pragliaguarda."

Don Aurelio non poté a meno dicommentare con un sobbalzo di riso:

"Grazieche Praglia!" Econtinuò. "M'incarica di farti sapere cheper le povereossa di Benedettoi tuoi amici hanno deliberato di accettare la tuaproposta e ti pregano di farti vivo. Perchéa quanto pareconfidano in teche sei vicino a Oriaper aiutare a porla in atto."

Alcuni discepoli di Benedetto avevanodivisatomesi primadi erigergli un modesto ricordo in CampoVeranoaprendo una sottoscrizione. Ad altri discepoli la propostaera parsa inopportuna per lo scarso risultato che si ripromettevanodalla sottoscrizioneperché era tale da spiacere allo spiritodel Maestro. N'era venuto un aspro dissidio. Massimoavverso allapropostaaveva cercato una via di pacegiovandosi di un certodiscorso tenutogli da Benedetto una volta che avevano visitatoinsieme Campo Verano. Gli aveva detto:

"Finirò qui e mi piacerebbeinvece esser portato nel Camposanto di Oria; ma è una vanità".Propose di rinunciare al ricordo e di soddisfare quel desideriotoccante. Un picciol postolontano dalle contese del mondonelcampo dove dormivano i genitori di Piero Maironidove avevadesiderato di riposare anche la sua povera moglie:

ecco il migliore dei monumenti. Oradunque era deciso. Si farebbe così "Ci sarà ancheLeiquel giornoa Oria?" domandò Massimo.

Don Aurelio non poteva prometterlo. Nonsapeva da qual paese avrebbe dovuto venirvi. A ogni modo non cisarebbe venuto che se si fosse dato al trasporto un carattere lontanoda qualsiasi manifestazione religiosa sconveniente per un sacerdote.Ciò detto si alzòriaccese il lume.

"E' tardi" diss'egli. "Tudevi ritornare alla Montanina." Aperse un cassetto dellascrivaniane tolse due letterepregò Massimo di farlepervenire l'indomani mattinadopo averle letteal loro indirizzo.

Una era per l'arcipretel'altra per ilCapo di contrada. Il lume moribondo diede un guizzo e si spense.

"Oh!" esclamò donAurelio. "E io che pensavo adesso di scrivere due righe!"

Massimo accese un fiammifero:

"Faccia" diss'egli.

Don Aurelio prese un fogliettoviscrisse alcune parole mentre Massimo accendeva un fiammifero dopol'altrogli porse il foglietto dicendo: "Per la signorinaLeliaquando ti avrà detto di sì".

Massimo lessetremando per l'emozione:

"Permetta che un povero pretebenedica il Suo amore nel nome dell'Amore infinitoal quale attingavita perpetua.

DON AURELIO."

In quel momento fu bussato forteall'uscio di strada. Don Aurelio si strappò da Massimo che gliaveva gittato le braccia intorno alla personacorse alla finestra.Era Giovannidella Montanina. Il signor Marcello lo aveva mandato avedere se fosse accaduto qualche cosa al signor Alberti.

"No noviene subito!"rispose don Aurelio. Lasciata la finestrasi sentìabbracciare le ginocchia da Massimocadutogli ai piedi.

"Va va" diss'egli. "Dioti benedica!" Non si sarebbero divisi senza uno strappoviolento. Massimo scattò in piediprecipitò fuoridell'uscio e giù per le scalesparì di corsa nellanotte. Don Aurelio si ritirò nella sua camera da letto einginocchiato davanti al Crocifissopregò con affannosoimpetoquasi lottando contro un intimo nemicoper i due preti diVeloper tutti quei Superiori che lo volevano avvilitoramingoaffamato:

"Padre Padrecredono di servirTecredono di servir Te perdonaperdona!"

Il signor Marcelloveramente inquietoandava immaginando possibili cause del ritardo di Massimo cheallediecinon era ancora di ritornopur sapendo come alla Montanina ledieci fossero l'ora del coprifuoco. S'irritò un poco anchecontro Lelia che non ammetteva fosse avvenuto niente.

"E' sempre nelle nuvole"diss'ella. "Sarà andato al villino delle Rosecredendodi venir qua."

Pareva che la simpatia di donna Fedeleper Massimo le desse noia. Il signor Marcello se n'era accorto el'accenno al villino delle Rose gli dispiacque. Le domandò sefacesse colpa a Massimo di andar volentieri al villino. Ella protestòvivacemente. Tutt'altro! Non disse di più ma faceva invececolpa a donna Fedele di proteggere tanto Massimobenché nonavrebbe saputo spiegarne il perché. Ebbe paura di nuovedomande e si ritirò.

Salì nella sua camera colproposito di non rinunciare benché fosse tardiallapasseggiata notturna nel Parcodi aspettarvi anzi l'aurora dellaluna. La luna doveva nascerequella seraa mezzanotte. RitornatoAlbertiil signor Marcello andrebbe a coricarsi ed ella potrebbescendere. Non accese la lucesi buttò in una poltrona infaccia alla grande trifora che guarda il nero alto culmine del boscoesopra quellole scogliere dentate del Summano. Ripensò leparole del signor Marcello: gli faceva una colpa? Dunque sarebbedispiaciuto al signor Marcello ch'ella glielo toccasse appenail suoAlberticon una punta di censura! Non era la prima voltadopo ilsermone di quel giornoche il signor Marcello prendevacontro dileile difese di Alberti a proposito d'inezie. E lo tratteneva allaMontanina con tante istanze! Possibilepovero vecchioch'egli locredesse tanto devoto alla memoria di suo figlio da non essere neppurtentato di un tradimento?

A questo punto del suo lavoro mentalele balenò l'idea di una commedia che si rappresentasse intornoa lei. Se si fosse tutto combinatol'invito di don Aurelio adAlberti e l'ospitalità della Montanina! Se anche ilvoltafaccia di donna Fedelele sue visite quotidiane avessero lostesso segreto fine? Se il signor Marcello fosse stato lavorato dalprete di Sant'Ubaldo e dalla signora del villino? Se lo avesseropersuaso a rassegnarsichi sa con quali argomenti? In un lampo tuttole parve chiarissimo. Il signor Albertiinvitato da persone cheavevano disposto di leiera venuto a conoscere e conquistare laerede del signor Marcello Trento. Strinse con ira i bracciuoli dellapoltronasi morse il labbro per non piangere. Non pianse ma ilcompresso flutto del pianto le urtava e riurtava il petto ansante.Che rabbia se avesse a piangere! Disprezzodisprezzodisprezzo!

Accese la luce e suonò perTeresina che l'avvertisse del ritorno di Massimo. Non s'era veduto.Teresina apprese con terrore che la signorina si era messa in testadi scendere nel Parco anche quella sera. Supplicòscongiuròminacciò di parlaresi prese un rabbuffo terribilefinìcon accontentarsi della speranza che quella sarebbe stata l'ultimavolta. Ella doveva recarsil'indomani mattinaa Schio. Lelia levòdal cassetto della scrivania una lettera chiusache vi stava pressol'altra spiegazzata dalle Sue mani la sera dell'arrivo di Massimo.

"Il solito" diss'ellaconsegnandola alla cameriera. Era denaro che Lelia mandava a suopadre. Faceva queste spedizioni per mezzo di Teresinada Schiotemendo cheper indiscrezioni degli ufficiali postali di Velod'Astico o di Arsieroil signor Marcello venisse a sapere. Teresinagodeva delle confidenze che le permettevano di salire un poco dalladevozione verso l'amicizia. La confidenza di quella sera le servìper avviare piano piano un rivoletto di chiacchiere simile airivoletti naturali che piegano e girano fra gl'inciampi e trovanosempre un varco a quell'acqua grossa cui mirano. Incominciòmolto timidamentea dire del guardaroba assai manchevole dellasignorina che spendeva troppo poco per il vestire. Anche il padronese ne accorgeva e rimproverava lei. Ma che ci poteva far lei? Dirloalla signorina. Eccolo aveva detto. Non lussono; il lusso sarebbestato fuori di postoalla Montanina; ma un po' di eleganza! Ilpadrone consigliava di rivolgersi a donna Fedele per la scelta di unabuona sarta. Donna Fedele si serviva a TorinosìmasecondoTeresinada una sartuzza di quart'ordine. Leliache si serviva aVicenzale domandò se avesse a raccomandare una sarta diSchio. Teresina protestòpiccata. Non c'era Milano? SìMilano! E quale preferivala dotta Teresinafra le grandi sarte diMilano? Qui il rivoletto non trovò uscita da nessuna parte efece uno stagno. Teresina tacque.

Salito alquanto lo stagnoil rivolettone rise a un orlo "Io nosignorinanon le conosco" ardìfinalmente dire la cameriera"ma ci sarà bene chi leconosce."

"Chi?"

Adesso bisognò che il rivolettotraboccasse.

"Suppongo che il signor Albertiavrà delle signorenella sua famiglia."

Cascata.

"Lascia un poco stare il signorAlberti!" esclamò Lelia.

Non per confidenze di donna Fedelemaper un sottinteso indistinto ch'ella sentiva nei discorsi di leicirca la signorinaper certe novità nel fare e nel dire delsignor Marcellol'astuta cameriera aveva fiutato nell'ambiente unoscuro favore al sentimento colto ben presto da lei negli occhi diMassimo. Della signorina non sapeva che pensare. Quando le pareva unacosaquando un'altra; e ora aveva gittato lo scandaglio. Trovatoduroritentò la prova.

"Iosignorina" diss'ella"che lo lasci stare? Vedo che il signor padrone ci ha postoproprio il cuore in quel giovine! Una cosa grandesa."

Lelia troncò bruscamentelamandò a vedere se Massimo fosse arrivato.

Eccon'era certaTeresina non avrebbeparlato così se non gliel'avessero detto. Era nella congiuraanche lei. Ah nosignori!

Nosignor cacciatore di dotino nono! Afferrò sul tavolo una vecchia fotografia del signorMarcellola stracciò d'un colpo. Certo egli pure aveva fattoun mercatocome il signor Albertiaveva venduto un'animatraditauna religione di memorie perché la sua Montanina e i suoiquattrini non andassero in mano dei genitori di lei o chi sa in qualialtre mani simili. Nosignor Marcellonosignoriah no! ETeresina non ritornava Possibile che Alberti fosse giàrincasato e che la perfida non venisse a riferirlo per impedire lapasseggiata nel Parco? Uscì nel corridoioirritata. Eranoquasi le undici e mezzo! Tese l'orecchio. Ecco il passo di Teresinanel corridoio di sotto.

"Dunque?" fremé Leliadall'alto.

"Adessosignorina" rispondel'altramogia. "In questo momento."

Un quarto d'ora dopoquando potécredere che il signor Marcello e Alberti si fossero ritirati nelleloro camereLelia uscì della villa e del giardinosi avviòal cancello di legno che mette nel Parco dalla via pubblicapocosotto la chiesina di Santa Maria ad Montes.

Ferma la mente in un giudizio fierodell'uomo venuto da Milano col suo bel progetto di matrimonio riccoin tascapensò che se suo padre e sua madre non fossero statigente disonestasi sarebbe rifugiata presso l'uno o presso l'altra.Ma non poteva andar a convivere colla ganza del primo né farsimantenere dalla seconda coi denari del vecchio austriaco. E lesoccorse un altro pensieroun vecchio pensierosalitole nel cuore aquattordici anniblanditoaccarezzato come un amico dolcissimoperdutosi nel fondo dell'anima durante l'amore di Andrearisalitonequindi e ridiscesovi più volte: uscire dal mondo. Il sinistropensiero non aveva preso mai la intensità di un proposito.Anche la sera in cui Lelia chiuse le finestre della sua camera pienadi gigli e di tuberosenon credette che ne sarebbe morta. Le erapiaciuto di affrontare alla spensierata un pericolouna possibilità.Infattisvegliatasi con un gran peso in tutte le membracollafronte stretta in un cerchio di ferro col nasola boccala golasatura del profumo acreche le parve sentire persino negli orecchisi era slanciata ad aprire la finestra. Neppure adessomovendo versoil Parco che nelle sue grandi ombre chiude un laghetto profondoinparteoltre a due metrialcun triste proposito era in lei. Lebastava la certezza di avere un rifugio prontole bastava dirsi incuore: quando voglioposso. Perònell'aprire e spingere ilcancellettole tremò un poco la mano. S'inoltrò nellaradura dovefra giganti guardie di alberisi apre l'ingresso alregno del Silenzio. Scendendo sulla ghiaia del giardino e della viapubblicaaveva tremato che il suo passopur tanto leggerosiudisse. Ora ogni suono n'era spento. Ell'andava sull'erba falciata difrescosilenziosamentecome uno spirito. Ogni senso di sgomentol'abbandonò.

Perdersi fra quelle tacite ombreperle molli erbe senza viasotto il cielo buiole fu come un uscir delmondo in seno a tenebre materne. Seguì sussurri di rivi pergrembi ascosiper grembi scoperti del monteaffondò spessoil piede nell'erba pregna di acque segrete.

L'aria era immobilefresca e odoratadi umidore nelle cavità ombrosecalda sui pendii scoperti eviva di fragranze selvaggedi amorose voci mute dell'erbe. Si gittòsupina sopra uno di questi pendiicome vinta dalla tepida dolcezza.Materna materna era la notte alle cose!

Le dolci loro anime vi si effondevanolibere e Lelia stessa era una piccola creatura della notteunasorella delle cose amorose. Giacque nella dolcezza di desideriindistintisenza pensarecome talvolta nel suo lettopiovendolesui capelli e sul guanciale petali di fiori.

Lo spirito voluttuoso che le ascendevanella persona dalla terra tepidafragrantetacendole il cielochiuso sulla faccia supinale ammolliva le resistenze dell'orgoglioall'amore. Ella svelse un pugno d'erba e lo morse.

Si alzò allorariluttante arimanereriluttante a lasciare il giaciglio profumato. Salìpoco più sunel tubo nero di una lunga carpinata. Alla suadestra un piccolo chiarore fioco segnava la bocca lontana del tubo.Alla sinistra le tenebre non avevano fine e suonavano di acquacadente. Prese a sinistra di certo sentiero uscente dal viale a unfolto di acacie dove corre il rivoletto che poi salta e suona. Lotrovòsi fermò fra le acaciesul margine delrivoletto che udiva senza vederlo. All'invito della voce blandacominciòcome per istintoa spogliarsi. Accortasi di quelche facevasostò. Saggiò l'acqua colla mano. Erafredda. Meglio; le farebbe benecosì fredda.

E continuò a spogliarsisenzanemmanco vedere dove posasse le sue robefino all'ultimo vestimentoche non lasciò. Pose il piede nella correnterabbrividì.Ne tentò il fondo: ghiaia e due palmi d'acqua.

Vi pose anche l'altro piede estrettail cuore dal gelochiusi gli occhisemiaperte le labbracalòpiano pianocon piccoli gemitisi adagiòsi distese.L'acqua le corse via intorno alla personatutta carezze gelidelefluì tutta piccole voci soavi intorno al collo e sul pettoansante. Le si faceva meno e meno gelida. Altre voci soavisussurrarono per l'aria. Lelia aperse gli occhisi drizzò asedere stupefatta. Vide se stessa biancavide un chiaror diffuso sul'acqua tremulai marginile sue vestinella selva che moveva levette argenteemormorandoal vento. Era l'aurora della lunaera unmisterioso destarsi delle cose nel cuore della notte. Dalle acaciepiovevano fiori sul ruscellosui margini. La fanciulla si compresseil petto colle braccia incrociategemendonel crescente chiarorelunarenella fragranza del bosconella pioggia fioritadi unospasimo dolcesenza nomeche le gonfiò il petto di lagrime.Lagrime e lagrime le caddero silenziose nell'acqua tremulalagrimeardenti dell'anima rapita nel divino incanto. Risalì sulmargine del ruscellosi vestì alla meglio ebattendole afuria il cuorediscese in fuga la via percorsa nel salirenon diedeuno sguardo alla luna splendentefra nuvola e nuvolasul ciglio delMonte Paùuscì del cancello di legno col senso di unnaufrago che si salva. Teresinache l'aspettava nel portichettodell'ingresso al giardino rabbrividendo di mille paurel'accolse colmedesimo senso di conforto.

"Ha preso paura anche Leiperòsignorina" diss'ella vedendole dare un tremito e non sapendodella camicia inzuppata che aveva addosso.

"No no" rispose Lelia"manon ci ritorno più."


2.


Alle sette e mezzo della mattinaseguente Massimo era già al villino delle Rose. Sapeva chedonna Fedele si alzava sempre alle sei. Quella mattina la trovòa letto. La cameriera gli disse sospirando che la sua signora dovevaessere molto sofferente se mancava così alle sue abitudinimattiniere. Tollerantissima del dolore fisicodonna Fedele nonparlava quasi mai delle proprie sofferenzetali da impensierire chiavesse guardata la morte con minore indifferenza; ma qualche voltanon era in grado di condurre la vita solitamirabilmente attivatutta presa dalla cura della sua casa e delle sue roseda visite amalati e a poveridalla corrispondenzada letture e persino dalezioni. Esercitava nel comporre e nell'aritmetica una ragazza deisuoi portinaiinsegnava il francese a un'altra fanciullinafigliadel medico di Arsieronon sapeva rifiutare a nessunocosìmalatala carità dell'opera propria.

Ella udì Massimo discorrere ingiardino colla camerierasuonò per questagli fece dire diaspettarese aveva pazienzaun quarto d'ora. Massimo sentìbenissimo la malizia di quella frase: se aveva pazienza. Ella disceseinfatti nel salotto sorridendo di un sorriso nel quale continuava ladolce malizia. Era pallidaaveva cerchiati di nero i grandi occhietuttavia pareva gaianiente in lei dava segno di sofferenze. Massimocominciò a scusarsi di essere venuto a quell'ora. Ella lointerruppe subito con un "lasci lasci!". Il sorrisodisparve dal suo volto.

"Dunque è partito?"soggiunse. Massimo rispose che lo credeva.

"AhLei non era con lui quando èpartito?"

"Non mi è stato possibile."

Donna Fedele tacque. Il suo silenzioil suo viso parvero dire: doveva esserle possibile!

"Volevo partire con lui"diss'egli. "Si è opposto. Stamattina sono qui per volontàsua."

"Questo lo capisco" dissedonna Fedeleun po' fredda. Avrebbe desiderato che Massimo restassea ogni modo con don Aurelio fino all'ultimo. Manon conoscendo lecircostanzenon giudicò. Chiese di quel che avesse dettodiquel che avesse fatto il fuggitivo nelle ultime ore. Durante ilracconto di Massimoandava ripetendo: "Povero don Aurelio!Povero don Aurelio!". Massimo raccontò quello che potevaraccontare.

"Adesso saranno contenti"diss'ella amaramentealzandosi. Si assicurò che gli usci delsalotto fossero chiusi e ritornò a Massimodicendo:

"Non mi fido di nessunosiamo nelregno dello spionaggioa onore e gloria della onestà e dellacarità cristiana". Ed entrò subito nell'argomentodelicatoscusandosi di entrarvi. Più diplomatica di donAureliocominciò con domandare al giovine se si fosseingannata attribuendogli una inclinazione seria per la signorinaLelia; eavuta la rispostasoggiunse che per l'amicizia corsa fralei e sua madreposto quanto le aveva detto di lui don Aurelioglioffriva volentieri il proprio aiuto.

"Credo" diss'ella "checol signor Marcello appena ve ne sia bisogno.

Il signor Marcello comprende che nonpuò e non deve esigere dalla ragazza il sacrificio della suavita intera. E per Leipoiha un grande affetto. Ma la ragazzastessa? Io credo che abbia un sentimento per Lei e che lotti controse stessaforse per esser fedele a una memoriaforse per nonoffendere il signor Marcelloforse..."

Donna Fedele abbassò la voce esorrisecontinuando:

"...per qualche fantasia. Perchéè un po' stranasala Sua Lelia"

Sorrise anche Massimo.

"Le pare?" diss'egli.

"Oh sì sì!"esclamò donna Fedeleridendo addirittura. "Lei giàse n'è innamorato anche per questo! Anch'ioguardi. Perchéne sono innamorata anch'ioessendo un poco della stessa famigliaaquello che tanti dicono. I preti di Veloper esempio; e anche unorefice qui di Arsieroal quale il mio custode portò ierseraa mostrare un pezzo da venti lire ch'egli temeva falso e ch'erasolamente fesso. Sa cosa gli ha detto? - El xe come la to paronaciò. El xe bon e el sona da mato. - Mi credono senza testasopra tutto perché mi vedono sempre andare attorno senzacappelloma poi anche perché tengo un pluviometro e perchéla notte non chiudo le mie finestre. Anche Carneseccache se n'èandato finalmente dal covomi ha detto di confortarmi se il mondo michiama pazzaperché lo chiama pazzo anche lui. E adesso michiamerà pazza anche Leicaro Albertise Le faròcerta domanda molto ardita?"

"Riderò" rispose ilgiovine "e i miei conoscenti mondani di Milano riderebbero anchepiù di me!"

Donna Fedele lo guardò un pocoaffettuosaparlandogli cogli occhi.

"Allora" diss'ella "oggivedrò Leliacercherò di capire qualche cosa.

Va bene?"

Massimo si profuse in ringraziamenti.Poi certa sua irrequietudine le significò ch'egli sperava divederla partire subito per la Montanina.

"Ho ordinato la carrozza per lenove" diss'ellasorridendo. "Non Le basta? E vede chefiducia nella Sua risposta di poco fa! Che fiducia in Leiper dirmeglio!"

Massimo le prese e baciò lemani. Ellaridentelasciò fare. Poi si alzò.Aspettava una scolaretta. Massimo poteva ritornareper saper qualchecosaverso le due. Troppo tardi? Allora poteva venire a colazione.S'incaricava lei di avvertirealla Montaninache lo aveva invitato.Intanto egli poteva restareandarefare come gli piacesse.

Se voleva leggerec'era la piccolabiblioteca del villino. Se non voleva restareaveva quattr'ore peruna passeggiata.

"Faccia una bella passeggiatalungadi quelle che rinfrescano l'anima."

Detto così colla sua dolcezzalievemente canzonatoriadonna Fedele stese la mano al suo giovineamico. Questi la pregò di ascoltarlo ancora un momento.Credeva ella che la voce di una sua relazione a Milano fosse giuntaall'orecchio della signorina? Donna Fedele non sapeva che le fossegiunta. Ma chi l'aveva sparsa? Donna Fedele tacquecon uno sforzovirtuosodei preti di Veloaccennò alla madre di Lelia senzaspiegarsi di piùné Massimo osò domandare dipiù.

Soloprima di congedarsidesideròche donna Fedele sapesse dell'antipatia di Lelia per il suo Maestro.Ella non gli lasciò finire il discorso. Che importava mai ciò?Ignara di modernismo e di antimodernismocontenta di credere evivere secondo la tradizione antica della sua pia famigliadonnaFedele vedeva Massimo praticareLelia praticarenon intendeva undissidio religioso fra l'uno e l'altra. Per veritàcerteparole di Lelia le avevano data l'idea di una religiositàinserta in lei meccanicamente e nutrita di abitudine assai piùche di Vangelo. Appunto per questo le sarebbe piaciuto ch'ellasposasse un uomo ricco di sentimento religioso come Alberti.

"Che importa ciò?"diss'ella. "L'amore accomoderà queste cose moltofacilmente. Del restoanche da meche pure Le voglio beneElla nonpretenderà mica del fanatismo per il Suo Maestro. Mi pare cheun Maestro lo abbiamo già da mille e novecent'anni e chequello basti."

Massimo avrebbe voluto replicare madonna Fedele lo licenziò con un "vada vada"accompagnato del suo solito sorriso ironico e dolce.

Massimo prese la via dell'alta Vald'Asticoche più lo allontanava dalla Montanina. Oltrepassòil villaggio di Barcarolasi lasciò a destra il ponte diPedescaladisceseattraverso i pratisulla riva dell'Asticostette lungamente a vedere passar veloce l'acqua verdead ascoltarneil murmure egualea sentirsi battere il cuore. Il cielo era velatodi grigiole montagne imminenti al fiume da destra e da sinistrachiuse nei loro grandi mantelli scuriparevano visitatori muti inun'ora di lutto.


Poco dopo le nove la carrozzellademocratica di donna Fedele saliva lentamente dal ponte del Posinaverso la Montanina. Nello svoltare verso il castagno candelabro ellaudì con sorpresa la campanella querula di Santa Maria adMontes. Chi vi celebrava di tempo in tempo nei giorni feriali erasempre don Aurelio. Possibile che non fosse partito? Scese dicarrozza presso il castagnosalì a piedi fino alla chiesinavi entrò. Era vuotama qualcuno si moveva in sagrestia.

Andò a vederesi trovòfaccia a faccia con don Emanuele. Non poté trattenere un oh!di meraviglia e si ritirò in fretta mentre il cappellanodalcanto suopiombava sull'inginocchiatoio per la preparazione. Ilchierichetto la informò poi che la messa si diceva per l'animadella signora Trentoricorrendo l'anniversario della sua morte. Lapreparazione fu lungala campanella querula suonò altre duevolte. Donna Fedeleseduta presso la piletta di pietra che ha unfregio di stelle alpinepensòcon certa commiserazionequanto dovesse penare il povero cappellano a rimettersi dellasorpresa spiacevole. Ricordando l'arrabbiatura ch'egli le aveva fattoprendereebbe un moto di pentimento e di umiltà. Fra ilfogliame della vigna mistica dipinta nell'abside è visibile laparola di Cristo: "ego sum vitisvos palmites". Ildiavolino sarcastico del suo cervello prese una rivincitale suggerìche don Emanuele era forse un pampano infecondo ma ella si sdegnòdelle idee che le venivano proprio in chiesa e guardando la vigna delSignore. Almenopensòil cappellano sarebbe un pampano verdementre io sono un pampano secco. Entrò il signor Marcello chenon si aspettava di vederla e la ringraziò collo sguardocredendo fosse venuta per l'anniversario. Dopo di lui entròLelia. Don Emanuele celebrò con gravità di asceta e diprelato. Il più raccolto degli ascoltatori fu il signorMarcello cheinforcati gli occhialilesse l'Imitazione dalprincipio alla fine della Messasenza sedere mai. Lelia non pregavaguardava spessoper la porticina di fiancola verde scena del Parcodi Velola chiara lama di pratofra i castagnidove era passatanella notte. Donna Fedele guardava spessocon penail signorMarcello che le pareva dimagrato epeggio che pallidogiallastro.Guardava pure Leliasvogliata e scura. Non poté a meno dipensarepure rimproverandosi della distrazioneal prossimocolloquio con leial dolore del povero Alberti seper casolarisposta fosse negativaalla impressione mista di compiacenza e ditristezza che ne avrebbe il signor Marcello. Perché donAurelio le aveva detto che il signor Marcello si sarebbe certamentecompiaciuto della fedeltà di Leliase rifiutasse; ma cheseconsentissegli sarebbe parso di ricuperare in Massimo Albertiqualche cosa di suo figliodi evitare il pericolo che Leliaricadesse in balia dei suoiche facessetardichi sa qualedisgraziato matrimonio. Ella si acquietò mestamente nellacontinua sommessa parola della fonte che diceva dietro a leinelpiccolo vestibolo: passeranno queste incertezzepasserà ilcolloquiopasserà quel che verrà dopoe di triste edi lietoforse presto passerai tu stessa. E non pose piùmente che alle parole eterne del sacerdote. Un quarto d'ora dicarrozza era bastato ad acuire le sue sofferenze. Alla Comunione fucostretta di sedere. Sentiva di parere un cadavere. Il chierichettoche serviva la messa la guardò mentre attendevacolle ampollenelle maniche il sacerdote gli porgesse il calice; ed ellavedendoil suo sgomentoebbe un sorriso interno. Finita la messasi alzòcon indomita volontàuscì per la porticina lateraleseguita da Lelia. Il signor Marcello si fece aspettare un poco. Isuoi ringraziamenti umiliarono donna Fedelecheperòcredette opportuno di accettarli.

"Sono anche venuta per unapasseggiatina con Lelia" diss'ella. "E poiché sonquivorrei prima pregar Lei di un consiglio."

Egli parve un po' sorpreso.

"Si figuri!" rispose. "Comeposso."

Era nella voce dell'uno e dell'altraquando si parlavanoun tono di affetto contenutoriverente; daparte di lei quasi timido. Mentre salivano alla villasopraggiunseil chierichetto a dire che don Emanuele non sarebbe venuto a prendereil caffècausa un impegno.

"L'impegno sono io" pensòdonna Fedele.

"E che Le pare di don Aurelio?"diss'ella.

Il signor Marcello ebbe un fremitomutole rughe si addensarono sulla sua frontele chiare iridi gliarsero di corruccio.

Donna Fedele credeva ch'egli avesseappresa la notizia da Massimo. NoAlberti non aveva parlatoal suoritorno da Lagoed era uscitola mattinaper tempo. La notizial'aveva portata don Emanuele. E in che modo l'aveva portata! Eravenuto senza dir nienteil signor Marcello l'aveva trovatocon suagrande sorpresain sagrestiacredendo di trovarvi don Aurelio. Ilcappellano gli aveva detto allora di essere venuto a celebrare insostituzione di don Aurelioper ordine dell'arciprete. E c'eravoluto il cavatappi a strappargli che il signor arciprete era statopregato da don Aurelio di sostituirloche don Aurelio non eraammalatoche si era allontanato dal paeseche vi era una sualetteranella quale riconosceva il proprio dovere di partire. Anchela bella fronte di donna Fedele si oscurò e un lampo di sdegnopassò nei grandi occhi bruni. Lelia sapeva il fatto perchéil signor Marcello era risalito subito alla villa e gliel'avevaraccontato. Ora si contentò di osservare freddamente che donAurelio aveva fatto bene. Una fugace fiamma salì al voltopallido di donna Fedele. Ella si contennee preso il braccio dellafanciullale disse chedopo una breve conferenza col signorMarcellol'avrebbe pregata di mostrarle certo vicino angolo romitodel Parco di Velodi cui le aveva parlato con lode. Leliafreddamente ancoraconsentì.

Il signor Marcello chiese all'amica sepreferisse il suo studioper questo consiglioo i sediliall'aperto. Ella accettò lo studiosorridendocome persignificare che si trattava di un consiglio delicatodi carattereintimo. Nello studio il suo viso prese la gravità dolce che lorendeva così nobile così bello di quella bellezzadignitosa che niente ha di giovanile e tanto d'immortaleche vieneilluminando i lineamenti e gli occhi per la virtù lungamenteattiva di una vita interna pura e profonda.

"Caro amico mio" diss'ellausando questi termini la prima volta nella sua vita "se uno cuiElla fosse legato di affetto e di rispetto Le affidasse un incaricoper mezzo d'altrifacendole anche dire di non parlarne direttamentea luie Leieseguito l'incariconon potesse più servirsidell'intermediario per informarne il Suo amicogli parlerebbedirettamente malgrado il divietoo cosa farebbe?"

Mentr'ella parlava lenta lentanegliocchi del signor Marcello conscio di aver dato appunto quelleistruzioni a don Aureliospuntava un sorriso triste.

"Ho avuto torto" diss'egli."Suppongo che questa passeggiata..."

A un cenno di assenso dell'amicariprese:

"Ella verrà qua eparleremomi perdoni!"

Donna Fedele protestòimpetuosamente. Era tanto naturale quel desiderio di silenzio! Ma ilsignor Marcello insistette più impetuosamente ancora:

"No nomi perdonimi perdoni!"

Ella non ebbe lagrime negli occhisolobatté un poco le palpebre. Era il primo ritornodopolunghissimi annidi una intimità contenuta sempre dentro iconfini del doverema conscia del dolce segreto chiuso nelle dueanime. Il dolce segreto n'era evaporato col volger del tempo. Non nerestava che un'aura diffusaappena sensibile nell'anima di luipiùviva in quella di lei. Ma ora tornava lenta e irrefrenabile l'ondadel ricordaremolto dolce al cuore di donna Fedelemolto triste alcuore del signor Marcellocui pareva essere in colpa di quellagioventù sfiorita senza nozzesenza maternità. Eperun momento eternonessuno dei due poté proferir parola.

La prima a rompere il silenzio fu donnaFedele.

"Capisco tanto il Suo sentimento"diss'ella "in questa cosa."

E perché allora il signorMarcello le prese e strinse una manosoggiunse sottovoce:

"Povero amico!"

Egli tacque ancorastringendo semprequella mano. Quindi parlòsufficientemente pacato. Disse comegli fosse venuta l'idea di questo matrimonio. Aveva istituita eredeLelia. La sera stessa dell'arrivo di Albertidiscorrendo con essale aveva dato qualche segno di ciò a proposito dellaMontanina; perché lo avrebbe particolarmente contristatol'idea che la Montaninatanto cara ai suoi caricapitasse in manisconosciute. Ella si era ribellata. Per fierezzaprobabilmenteposto il suo carattere; per non volere un premio della sua fedeltàdi cuore; o forse ancheper essere più libera di séun giorno. Ciò lo aveva molto afflitto. E ripensando discorsiantichifatti colla sua povera mogliesi era persuaso che laragazzamolto appassionata di naturafinirebbe certo con prendermaritoche a lui convenisse perciò di affrettare questoavvenimentoper poter influire sulla scelta ch'essa farebbe. Il casoche gli aveva portato alla Montanina l'amico migliore e piùcaro del suo povero figliuologli era parso provvidenziale. Subitosubitola mattina dopoegli aveva fatto a don Aurelio quellaconfidenza.

"La mia prima idea" conchiuse"è stata ch'Ella scandagliasse i sentimenti di Lelia.Oranon so perchémi ha preso una vera impazienza. Vogliadirle addirittura che se Alberti le proponesse di diventare suamoglie ed ella consentissemorirei in pace."

"Non parli di morirecaro amico."

A queste parole di donna Fedele ilvecchio rispose asciutto:

"Lasciamo."

Ell'aveva desiderato chiedergli dellasua salute e non l'osò più. Si attentò invece aosservargli che se Lelia non intendeva accettare la sua ereditàla Montanina sarebbe pur sempre andatamalgrado il matrimonioinaltre mani. Egli rispose cheappena Lelia e Alberti si fosserofidanzatiavrebbe mutato il testamento e legata la villa ad Alberti.

"Speriamo" disse donna Fedelealzandosi e ritornando al suo abituale sorriso "che tutto vadabene. Dopo che avrò parlato con LeliaLa trovo qui?"

"Sìmi trova qui.Scommetto ch'Ella pensa: Come mai è tanto attaccatoquestovecchioalla sua casa? Come mai pretende di possederla ancorainqualche modoquando..."

Donna Fedele lo interruppe: "Nonozitto zitto!".

E uscì dello studio. Il signorMarcello prese una Bibbia che aveva sempre sul tavolovi rilesse ilcapitolo decimottavo del Libro Primo dei Reil Capitolo delle animecompenetrate di David e di Jonathan.

Fanciullo ancoraegli aveva pianto sulfato del nobile principe Jonathanil suo eroe prediletto. Rilesse lepagine mirabilmente vivepensò che Jonathancadendo aGelboèsi sarebbe rallegrato di vedere nel futuro l'amico suopossedere il trono cui era nato egli.


Donna Fedele trovò nel saloneLelia che l'aspettava sprofondata in una poltronacoll'ombrellinofra le mani.

"Andiamo proprio?" diss'ella.Parve a donna Fedele di sentire nella domanda l'ironia di chi hacompreso ciò che gli si vuole nascondere e lo fa capire. Comeil tono della voce così gli occhi di Lelia dicevano: "Ilpasseggio è un pretestotu sei venuta per farmi un discorsoadesso hai avuto una conferenzaa questo propositocon papàforse non è più il caso del discorso".

"Ma si! Perché mi domandi?"

"Perché" disse Leliaalzandosima senza allontanarsi dalla poltrona "mi pare che Leinon debba aver voglia di passeggiare. Se vedesse com'èpallida! Si guardi nello specchio. Se mi deve dire qualche cosapuòdirmelo anche qui."

Il discorso no ma l'accento di Lelia fuimpertinente.

"Sìcara" risposedonna Fedele con fredda imperiosità"desidero parlartima non qui; dove ti ho detto."

Lelia si mosse in silenzio.

"In questo momento ho l'autoritàdel signor Marcello" soggiunse donna Fedelemolto dolcementetemperando la pressione del suo impero. Ora Lelia non dubitòpiù di una trama cui l'amica avesse parte. L'assenza diMassimol'ostinazione di donna Fedele a volerle parlare in un luogotanto appartatole misero il sospetto che ella tenesse un incaricoda lui col consenso del signor Marcello; consenso strappatogliforsein quello stesso momento. E l'offese lo zelo per Massimol'offese la violenza morale esercitata sul signor Marcello.

Scendeva muta e scura il viottolo delgiardinoprecedendo la compagna che non poté seguirne ilpasso e la pregò di rallentare. Lelia le additò ilsedile fra i nocipresso la Riderella. Non si potevano fermare lì?All'asciutta domanda donna Fedele rispose egualmente asciutta:

"Nocara."

Lelia non replicò. Le duesignore entraronoper il cancello di legnonel Parco.

"Bellissimo!" disse donnaFedele.

Lelia fece una boccuccia sprezzante.Come si poteva dire "bellissimo"

appena passato il cancello? Si aveva lastessa veduta che dalla strada pubblica. Giàdonna Fedele eramolto intelligente ma sentiva poco la natura. Non disse niente. Siavviò eseguendo una traccia appena segnata nell'erbasvoltòa destra fra una verruca del montecoronata di grandi noci ecastagnie la opposta riva di un'acquicella che sbuca lìpresso da folte macchie di faggi e di frassinigira nella strettafugge a saltar di burrone in burrone. Oltre la stretta quella tracciamoriva in un bel cavo di prato fioritodagli alti orli boscosi.Donna Fedele sedetteall'ombra dei nocidove la traccia muorestette un poco a guardar pensierosa nell'acqua scura e poi domandòpianoa Leliache stava in piedi e scriveva nell'erbacolla puntadell'ombrellino:

"Sai di cosa mi ha parlato papà?"

"Forse sì" risposeLelia continuando a scrivere.

"Brava. Sentiamo."

"Nonon lo dico."

"Lo capisco" fece donnaFedeleremissiva. "E' una cosa molto intimamolto delicata. Maè meglio parlarne. Tantola tua volontà tu l'haiespressa e non ti si può mica costringere."

"La mia volontà?"esclamò Leliadi soprassalto. "La mia volontà?"

"Ehnon lo hai dettoa papàche non accetti di essere sua erede?"

"E' di questo che hanno parlato?"

Lelia smise la sua attitudineostilmente svogliata. Non scrisse più colla puntadell'ombrellino.

"Di questo e di altro. Ma èdi questo che desidero parlartiadesso.

Siedinon farmi torcere il collo."

"Discorsi inutili" diss'ellavivacemente.

"Saranno inutilima bisogna chetu mi ascolti. Perché vuoi dare un tal dolore a quel poverovecchio?"

"Perché posso abbandonarglituttoma non la mia dignità."

Donna Fedele alzò un poco lavoceebbe un sorriso diverso dal solitoil sorriso che si ha quandosi ribatte una parola offensiva e non si vuole aver l'aria dipigliarla in tragico.

"Credi che ti possa consigliareuna cosa contro la tua dignità?"

Anche Lelia rispose vibratacogliocchi bassi:

"Lei sentirà in un modo eio sento in un altro."

E alzò gli occhi a donna Fedelecome per dire: "A te! Cosa puoi replicare?".

Donna Fedele non replicò niente.Aspettò un poco e fece il secondo passo della sua viameditata.

"E quando non ci sarà piùil signor Marcellocosa farà la fidanzata di suo figlio?"

"Forse non ci sarà piùneppure lei" rispose Leliapronta.

Donna Fedele non si scompose.

"Forse" diss'ella. "Mase ci fosse?"

Lelia giuocò un po' colla puntadell'ombrellino nell'erba e rispose "Ci penserò allora."

"Bambina bambina!"

"Nodonna!" esclamòLelia. "E mi figuravo che Lei m'intendesse meglio!"

Così dicendole s'inumidironogli occhi. Donna Fedele avrebbe voluto dirle che la intendevama sitrattenne per non guastarsi il piano strategico.

"Pensa anche al tuo avvenirecara" diss'ella con dolcezza.

"Sarà quel che sarà"fece Leliatranquilla.

Donna Fedele mosse il terzo passo.

"E vuoi che questo non sia uncruccio per il signor Marcello?"

Silenzio.

"E' un cruccio tanto grande"proseguì donna Fedele"che se potesse collocarti beneanche subitone sarebbe felice."

La parola "collocarti" fusbagliata. Lelia gelò e arse nel tempo stesso.

"Ah!" esclamò."Collocarmi! Benissimo. E il collocamentoper un caso stranoèpronto."

La punta dell'ombrellino frugònell'erbacon impeto.

Anche donna Fedele ebbe un palpito dicolleraalzò le sopraccigliaguardòseverala suavicina che guardava sempre la punta inquieta dell'ombrellinonescrutò il viso ostile la interrogò.

"Cosa vuoi dire?"

Lelia le gittò alla sua volta unrapido sguardorificcò gli occhi nel proprio giuoco nervoso.

"OhLei lo sa bene"diss'ella. "Per un caso strano qualcuno che doveva andare a Lagoè venuto alla Montanina. Per un caso strano questo tale ègiovineè celibevorrebbe collocarsi anche luinon èuno speculatore troppo cattivo e sa recitare la commedia. Tutti casistrani."

Le sopracciglia di donna Fedele sialzarono più di primae la voceche in quella interrogazioneaveva vibratosuonò mortalmente gelida.

"Ti accorgi che insulti anche me?"

La punta dell'ombrellino quietò.

"NoLei non La insulto. Insultoluiquel signore ch'è venuto per caso. Lei lo credeforseche sia venuto per caso."

"Povera Lelia!" sospiròdonna Fedelesenza colleracon pietà profonda.

"Oh no nosa!" fece Leliapiano. "Niente "povera Lelia!""

Tacquero a lungo l'una e l'altraguardando l'acqua fuggire con accorato lamento. Finalmente donnaFedele ripeté:

"Proprio povera Lelia! E tu nonsai" soggiunse "perché lo dico. Lo dico perchévedo nel tuo cuore."

"Lei non vede niente nel miocuore."

In questo negare donna Fedele sentìuna confessione implicita. Attese ancora un poco e poi domandòalla fanciullacon piglio risolutose le si fosse riferito qualchecosa contro Alberti.

"Cosa vuole che mi abbianoriferito?" esclamò Leliasdegnosa. "E cosa vuoleche me ne importi?"

Questa volta donna Fedele scattò.

"Oh sì che te ne importa!Come puoi negarlo se ti irriti a quel modo contro di lui per questacalunnia stupida ch'egli sia venuto a caccia di una dote!" Cosìdicendola povera malata si sforzò di alzarsi.

"Lì c'entro io!"esclamò Lelia. E non pensò che tardi ad aiutarel'amica. Se ne scusòle propose di far scendere la suacarrozzella ch'era salita alla scuderia della villa. Donna Fedelevoleva rifiutare mafatti pochi passiconfessòcol suostoico sorrisoche l'impresa era troppo dura per lei. E di vedere ilsignor Marcello non poteva a meno. Lelia fece scendere la carrozzellaper lei.


Il signor Marcello le venne ansiosoincontro sulla soglia dello studio. Ella entrò serenadisseche le parole erano state non buone ma chesecondo leicon un pocodi arte si poteva riuscire. Il signor Marcello domandò subitocon un'aspettazione dolcemente commossase fosse ancora troppo vivoin quel cuorel'affetto antico. Donna Fedele gli stese in silenziola mano ch'egli prese ma non strinsepresago di una risposta penosa.Il silenzio parlò.

"E allora ?" diss'egli.

L'amica gli riferì comeappenaveduta Lelia nel saloneavesse indovinate le sue disposizioni dipersona adombrata da sospetti e ostile; come avesse allora cambiato isuoi piani per non arrischiare di guastar tutto per sempre; comefosse venuta poi a parlare di Alberti e l'avesse trovata fiera controdi luitanto fiera da non potersi spiegare la sua violenza che conun conflitto di sentimenti.

La ragazza era persuasa ch'egli fossevenuto a Velo col proposito di tentare un matrimonio ricco. Se siriuscisse a persuaderla del contrariosi vincerebbe la partita. Maci voleva una prudenza grande.

Il signor Marcello domandòconsiglio. Il solo consiglio fu di non trattenere più oltreAlberti alla Montaninadi non tentarlo neppure; perché nonc'era dubbio che Alberti partirebbe subito. Qui donna Fedele credetteopportuno di comunicare il colloquio avuto da lei col giovinecheora stava in attesa di notizie. Poi si offerse quasi timidamentecolsuo sorriso dolcissimoper il compito delicato e difficile cheverrebbe in seguito.

"E' molto naturalecaro amico;no?" diss'ella vedendo la sua gratitudine turbata. Si diviserosenz'altre parolecon una lunga stretta di mano.


Ritornata poscia al villinodonnaFedele non vi trovò Massimo. Non comparve che versomezzogiorno. Incontrò la cameriera al cancello e seppe da leiche la signora era rientrata in casa alle undici e mezzoche avevadimenticato di avvertire alla Montaninacom'egli non vi sarebbeandato a colazione e mandava lei per questo. Nei brevi passi dalcancello al villino Massimo pensòcon alterni palpiti diangoscia e di speranzache gl'indizi erano cattivi perché sele cose si fossero avviate benedonna Fedeleinvece di avvertirelo avrebbe subito spedito alla Montanina; ch'erano buoniperchése le cose si fossero avviate maleella non avrebbe probabilmentedimenticato di annunciare l'assenza di lui. La cameriera gli avevasorriso; questo andava bene. Donna Fedele non gli veniva incontro;questo andava male.

In fatto ella gli venne incontro masolo nella veranda che sporge dalla fronte del villino a guardare ifianchi del Summano e della Priaforà da un latoquelli delBarco dall'altrolo sfondoin facciadel cielo curvo sulle umilialture che fra le aperte braccia della valle ne partono l'estremo dalpiano infinito. Lo aveva visto venire dal cancello e lo incontròlìné proprio in casa né proprio fuorinésorridente né triste. Egli le lesse subito in viso la suasentenzamormorò:

"Sapevo."

Ella non disse subito le parole diconforto che pensavagli porse le mani. Lo vide allora talmenteimpallidire sotto il colpobenché si sforzasse di parereimpassibileche non poté a meno di rincorarlo.

"Le cose" disse "hannouna faccia bruttaquesto non lo posso negaremaforseun'animabuona. Adesso Le dirò tuttovenga venga." E s'illuminòdel sorriso abituale. Gli raccontò minutamentenel piccolostudio del pian terrenoil suo colloquio con Lelianulla omettendonulla velando. Furono frustate che Massimo toccò senza batterciglio.

"Va bene" diss'egliquandol'amica ebbe finito di parlare. "Questa ragazza èscioccain fondo." Nel dir così gli s'infuocò ilviso di tutto lo sdegno che aveva represso.

"Non è sciocca"ribatté donna Fedele. "Ho paurainveceche non siastata sincera. Ho paura che le abbiano parlato realmente di questarelazione che Lei avrebbe a Milano. E penso un'altra cosa."

Massimo non le domandò cosapensasse. In quel momento gli pareva di non amare più. Nonsentiva che desiderio acuto di partire per sempre.

Gli rimorse di avere pensatoanche perpochi giornia lasciare il campo dell'azione per il Bene e per ilVeroa seppellirsi in un amore. Ringraziò mentalmentel'orgoglio meschinosciocco della signorina che lo affrancava. Sialzò in piedigli parve essere cresciuto di un palmo.

"Lei non mi domanda"insistette donna Fedele "cosa penso?"

"Dovevo telegrafare a don Aurelio"diss'egli. "Invece vado."

"Non mi domanda cosa penso?"ripeté l'amicaalzando la vocee strascicando le parole Eglile domandò "cosa pensa?" per farle piacere e non percuriosità che lo pungesse. Allora ella mise fuoriun po'esitante la propria opinione sui sentimenti reconditi di Lelia.

Massimo si mostrò amaramenteincredulo. A colazione non parlòquasiné toccòcibo. Avendo l'amica ricordato don Aureliole disse che lo avrebbeveduto la sera stessa. Presero il caffè nella veranda.

"Credo che Le convenga di partiresubito a ogni modo" mormorò donna Fedele quando lacameriera li ebbe lasciati soli. "Ma Lei non deve giudicareLelia così a precipizio. Lasci ch'io vada un poco al fondo.

Poi La informerò."

Massimo rispose che gli rincresceva diavere chiamato sciocca la signorina ma ch'era inutile di pensarcipiù. Gli era bastato una voltaper guarire dall'amore di unasignorinach'ella dicesse pollìne invece di polline. Fra lasignorina Lelia e lui vi erano disarmonie di pensiero ben piùgravi che qualsiasi disarmonia di cultura.

"Potrei partire subito?"diss'egli a un trattodopo avere guardato l'orologio. Vi era untreno alle quattordici e trentasette. Se mandasse un rigo al signorMarcello scusandosi con un richiamo improvvisopregando di farglispedire la sua roba a Milano?

Donna Fedele protestò. Dovevainvece recarsi subito alla Montaninadire che quando don Aurelio gliaveva confidato il proposito di fuggirela sua prima idea era statadi non lasciarlo partire soloma che l'amico gli aveva dato degliincarichi. Massimo la interruppe.

Certo! questo non era un pretestoeravero. E lo aveva dimenticato!

Doveva recarsi a Sant'Ubaldoperforza. Impossibile partire prima delle sei.

"Vada a Sant'Ubaldo e parli collaLùzia" disse donna Fedele. "I libri penseròio a farli portare qui. E anche i mobili. Vedrà che un giornoo l'altro ritornerà da queste parti. E allora certeconvenienze non permetteranno ch'Ella alloggi alla Montanina.Alloggerà al villino delle Rose."

Sorrisecosì dicendo; e ilgiovine intese l'allusione al costume locale che interdice aifidanzati di dormire sotto lo stesso tetto.

"No no!" diss'egli. Lasignora rise di un riso aperto.

"Come? Non vuole venire da me? Hapaura di compromettermi?"

"Lei mi ha capito!" esclamòil giovine. "Lei mi ha capito!" E prese frettolosamentecongedo senza ricordarsi del cappello che gli fu portato in giardinodalla camerierasuonandole dietro l'argentino riso di donna Fedele.


Dopo il colloquio amaroLelia sirifugiò nella galleria cui mettono capo le scale del salonevi stette in agguatoa spiare l'uscita di donna Fedele dallo studiodel signor Marcellovolendo sapere quanto vi si trattenesse e nondesiderando incontrarsi con lei. La udìpiù presto chenon avrebbe credutoaprire l'uscio che dalla stanza del biliardomette nel salonela vide entrareguardarsi attorno come cercandoqualcuno. Si ritirò per non esserne scopertastette immobilein attesa di una chiamatafino a che la sonagliera dell'usciol'avvertì che donna Fedele partiva senza domandare di lei.

Era finitodunque. Non l'avrebberomolestata più. Non si sentiva contentaperò. Allairritazione di prima era sottentrato un senso di tedio e di fastidio.Sentiva fastidio di staredi leggeredi suonare. Le era piaciutofino a un'ora primadi contemplarsi in uno specchio della mentedivedersi nell'atto di respingere l'amore per orgoglio comeperorgoglioaveva respinto la ricchezza. Adesso la mordeva un dubbiocrudele. Se non vi fossero state tramese Alberti fosse venuto allaMontanina veramente per caso! Volle disprezzarlo a ogni modo perchénon si era spiegato direttamente con lei. Gli diedein cuor suodello sciocco; e nel pensare il silenzioso insulto le parve avereschiaffeggiato e spinto via la passione di cui vergognava.

Le venne in mente di andare a Lago perdistrarsiper sentire cosa vi si dicesse dalla fuga di don Aurelio.E quell'altropensòcome giustificherà la sua dimoraquiadesso che don Aurelio è partito?

Pensò così e le corse nelsangue un doloroso brivido; la passione cacciata ritornava comeritorna l'onda. Prima di arrivare al cancello le nacque il dubbiod'incontrare Alberticambiò ideaprese il sentiero deicastagnisedette sul primo sedile che trovòcercò dinon pensaredi addormentare le proprie inquietudini tormentoseascoltando i sussurri del ventoguardando le inquietudini dell'erbafiorita. Tacque infatti nel suo interno il pensiero ed entròil sogno.

Egli la sorprendevadi nottenelParco di Velo al sussurro del ventoal chiarore incerto della lunanella piova odorosa dei fiori di acacia. Le cingeva la vita di unbracciol'attirava a séle premeva le labbra sulle labbra eil Parcola lunail ventola piova di fioritutto cessava diesistere. Ella piegò sul sedilechiusi gli occhisemiapertele labbraattirata da un fantasmacedendo; e anche il tempo cessòper lei di esistere.


La campanella della colazione larichiamò alla realtà incresciosa.

Incontrò all'entrata della villala cameriera venuta col messaggio di donna Fedele. Il messaggioinquel momento di reazione contro i tradimenti del sognarele fugradito. Trovò il signor Marcello già seduto a tavolacon una faccia che non prometteva niente di buono. La salutòappena. A lei questi modi facevano bollire il sangue. Li attribuìal suo persistente rifiuto dell'eredità anzi che all'altro.

Perché pretendere d'imporlequello che a lui pareva un beneficio e a lei no? Ella si chiuse allasua volta in un ostinato silenzio. Primo si mansuefece alquanto ilsignor Marcellobenché gli pesasse sul cuore che la fanciullaavesse detto a donna Fedele di non voler accettare le sue sostanzeper un sentimento di dignità. Molto orgoglioaveva pensato ilvecchioe poco affetto. Si mansuefece alquantole osservòabbastanza dolcementeche non aveva preso nulla. Quasi piùche dei suoi cipigli Lelia soffriva della susseguente mansuetudinecolla quale egli pretendeva saldare le partite. Si alzò appenapreso il caffè e uscì silenziosamenteanche pernascondere lagrime prossime a cadere; lagrime ond'ella stessa nonavrebbe saputo dire se venissero dal dispettoo dall'angoscia delsuo conflitto internoo da un'acre pietà di se stessa; perchéin fatto bruciavano di tutti questi bruciori.

Il signor Marcello si alzò unminuto dopo di leiandò curvocolle braccia inarcate e lemani sui fianchinel salonesperando trovarvela. Stette un pocopiantato lì ad ascoltare se ne udisse una voceun passo.Nulla. Allora sedette malinconicamente al pianosi mise a suonare.Leliache stava nella galleria superiore affisandosi nella ripidacosta verde coronata di castagnileggendovi i propri pensieririconobbe il tema del Pergolese sul quale egli aveva fantasticato lanotte susseguente al deliquio. Anche adesso le mani frementi dispirito toccavano il piano in un modo inimitabilevi trasfondevanole amarezze interne del suonatore. Il pianto dell'antico poetailpianto dell'antico musicista le suonò pianto del vecchiosolitario che tutto aveva perduto sulla terrache sentiva intorno asé un gelo di opposizioni. Ella gli perdonò i cipiglidiscese lenta lenta in salonestudiandosi di non far rumoresedettepoco discosto dal pianodove il signor Marcello potesse vederlafacilmente. La vide infatti e cessò di suonare. Ella desideròdirgli "continui" e non seppela parola le si ruppe sullelabbramalgrado lei stessacontro un suggello di orgoglio. Ilsignor Marcello non avrebbe potuto a ogni modo continuare. Quellapresenzain quel momentogli legava la vena dell'ispirazione. Stesela mano a un portamusicaprese il pezzo che aveva toccato a casoloaperse sul leggio e stette a contemplarlo senza suonareaspettandonon di proposito ma per istintouna parola. Lelia non poté amenostavoltadi mormorare: "Cos'è?". L'uno el'altra sentirono subito un principio di pace. Il pezzo era un'ariamanoscritta della vecchia opera buffa "Le prigioni diEdimburgo". Il signor Marcello andò a rimetterla nelportamusica ma Lelia credette fargli piacere insistendo perchéla suonasse. Infatti egli si arrese subitocominciòcontentoa suonaree Lelia ascoltò contenta il pezzoindifferente a ciascuno dei due. Ma presto il suonatore provòfastidio di quella musica. "Aspetta aspetta" diss'egli."Senti questo." Buttò via il manoscrittopose sulleggio un grosso volume di Clementivi cercò certa paginatutta segnata di annotazioni a matita.

Lelia conosceva il volumenonricordava quella pagina. Il signor Marcellochino il busto inavantiaggrappate ai tasti le grandi mani adunche come artigli difalcofissi gli occhi accesi sulla musicacorrugata la fronte inuno sforzo di lettura e d'interpretazione che gli fremeva nellemascelle inquiete e persino nei capelli irtisuperò sestesso. Com'ebbe finitoLelia espresse la sua simpatia per Clementiprese in mano il volume.

"Povero Clementi!" disse ilsignor Marcello. "Chi sa dove andrà a finire!"

Ella non capì subito.

"Dove vuole" disse "chevada a finire?"

"Ehin una bottega di librivecchi!"

Le mancò il coraggio diprotestaredi dire che se non accettava la ricchezzaavrebbe peròaccettato il libro. Tacque.

"Ah Signore!" sospiròil vecchiosfiduciatosquadernandosi e premendosi le mani sul visotraendole giù lentamente fino a scoprirsi il bianco degliocchi. Leliainteneritacercò ancora una parola buonaunaparola del suo rifiuto che ne levasse l'acerbità. Non seppetrovarla. Sentivano ambedueella e il signor Marcelloche ciascunoavrebbe volentieri parlato se l'altro cominciasse e tacevanoella inpiedi guardando nel volume di Clementiegli sedutocogli occhi alleggio vuoto e le mani abbandonate sulle ginocchia. Finalmente ilsignor Marcello si alzòdisse con dolcezza triste "addiocara"e si avviò verso la stanza del biliardo perpassare di là nel suo studio.

Leliaassorta nel confuso agitarsi de'propri sentimentinon aveva risposto al saluto inaspettatamentedolce. Si riscossetrasalìseguì pian piano ilvecchio fino all'usciomormorò "papà" equando egli si voltòsorpresogli porse il visoper unbacio.

Egli la baciò in frontelievementecon una espressione di beatitudine. Le prese quindi unamanodicendo: "Vienicara"la trasse con sé. Ellaintese ch'egli avesse interpretato il suo atto come un principio diconsenso ai propri desideriebbe un momento di esitazionelo seguìbattendole il cuore.

Lo seguì nella camera delbiliardo. Egli chiuse dietro a lei l'uscio del saloneritornòa leile pose le due mani sul capole dissesorridendo negli occhiumidi:

"Hai pensato ad Andrea?"

Ella non compreselì per lìla ragione della domanda rispose a caso:

"Sìpapà."

E tremava per il timore di un equivocoprovocato da lei stessatremava per la commozione di avergli uditonominare Andrea.

"Sii benedettacara" disseil vecchio.

Ella rabbrividì. Perchéla benediceva? Avrebbe voluto ch'egli si spiegasse e non erapossibile domandarlo. Il vecchio non l'aveva benedetta per alcunequivocoma solo per l'atto pioaffettuoso di lei. Un attoaffettuosouna parola gentile bastavano sempre a fargli dimenticareogni ragione di corruccio. Certo in fondo al suo cuore prendevaradice la speranza chedi fronte alla preghiera di un mortoLelianon avrebbe persistito nel suo rifiuto. "Addio" diss'eglilasciandola per ritirarsi nello studio. La vide incerta se restare omuoversiparlare o tacere. Alloraper quella sua tenerezzaimpulsiva che gli faceva talvolta passare il segno dellecondiscendenzele prese le manile disse sorridendo:

"Ho visto la Vayla dopo che aveteparlato insieme. Devo direper la veritàche a quella talcosa ho pensato io quando quel tale venne quaper non sacrificarti aun mio egoismo. Mi pareva che anche Andrea ne sarebbe stato contento.Ma poise il restare come sei non è un sacrificio per teione sono felice."

Lelia non risposeparve non volercomprendere. Di fronte a quel silenzioil signor Marcello si pentìdi essere andato nell'ultima parte del suo discorsotant'oltre. Manon c'era da ritornare indietro.

"Va" diss'egli"prendiun po' d'aria. Dovresti andar a vedere cosa succede a Lago dopo lapartenza di don Aurelio"

Ella non avrebbe voluto uscire. Avrebbevoluto chiudersi nella sua camerascrutarein un crogiuolo idealele parole del signor Marcello: "a quella tal cosa ho pensato ioquando quel tale venne qua". Ebbe paura di farlo. Meglio uscireandare a Lago. Uscì in giardino per la veranda apertasisforzò di pensare alla fuga di don Aurelioa quel che direbbee farebbe la gente di Lago. Ma gli stessi alberi presso i qualipassavagli abeti davanti alla scuderiale betulle presso ilcancello parevano dirle col loro rigido silenzio:

non è questo che ti sta a cuoreè un'altra cosa che noi sappiamo e non diciamo. Ella affrettòil passo per liberarsi dalla ossessione della loro chiaroveggenza.Giunta fra i grandi castagnisull'ertadovette rallentarlo. Eallora i grandi castagni bonaridalle pietose braccia sparselemormorarono: "poveratu dicevi no al suo amore quando gli altridicevano sì. Adesso che il signor Marcello dice no anch'eglipoveranon sai più dirlo tunon ne hai più la forzavorresti dire sì e nessuno te lo domanderà piùmaipovera povera povera". Ella respingeva questa voceorgogliosamente; ma sentì che le si serrava la gola e reagìriprese a salir veloce. Là dove si spicca dalla via di Lago ilsentiero che girasul margine della quieta concaverso una scuracorona di carpinipensò il breve lago immobile dentro quellacoronale batté il cuorepassò. Fra le casupole diLago non incontrò anima viva. In piazza una vecchierella stavaattingendo acqua alla fontana. Lelia la interrogò. Propriovero che don Aurelio era fuggito? "Gèsuse xe vero!"E cosa dicequila gente? "La tasasiorache i xe tuti aSant'Ubaldo che i fa un bordèloGèsu! I dise che i volcopar l'anziprete. La vadesioraLa vade. Ghe xe quel sior giovanech'el ghe dise suquelo che sta da Ela. La vade. La ghe diga su ancaEla. La ghe diga."

Leliapallidatrasognataguardava lavecchia senza parlaredubbiosa di ritornare sui propri passi.

"La vadeLa vade!"insistette colei. Lelia si sdegnò di avere esitatovisibilmente. Le pareva di essersi tradita.

"Oh sì sì!"diss'ella. "Vado."

Prese la via di Sant'Ubaldo. A pochipassi dalla carreggiabile che scende a Velo incontrò due donnee un uomo che discorrevano pacificamentecamminando. "Tortotuti!" diceva l'uomo. "El prete che xe scapà cofàun ladrol'anziprete che à volesto cazzarlo via parchél'è stà un bon cristiane le femene che no vol pìandar in cièsadal Santissimoparché no le ghe trovael curato giovine."

"Eccu!" fece una donnaapprovando. E salutò Lelia:

"Serva sua."

L'uomo si toccò il cappello conun secco "oh!". Lelia li trattenne.

Cos'era successo? Il prete di Lago erascappatole "femene" del paesefurenti contro l'arcipretee contro il Vescovosi erano raccoltepresenti anche parecchiuominie avevano giurato di non andare più in chiesa néper domeniche né per Pasque né per battesimi néper matrimonise il curato non ritornava. Un signoreun bel signoregiovine aveva parlato beneda buon cristianoma non era riuscito aniente. Le femmine avevano scritto qualche cosa col carbone sulle dueporte della chiesa. E adesso cosa facevano? Adesso si erano dispersetuttema dicendo di volersi riunire la sera. E il giovine signore?Partito anche lui. "Patronapatronapatrona"la triplicecompagnia si rimise in cammino e Lelia proseguì. Presso lachiesa non c'era nessuno. Si fermò a leggeresulla porticinalaterale: "Ciuso fino che torna don Urelio".

Passi dietro a lei: Alberti e la Lùziacon un catino e una spugna.

Massimoquando Lelia lo videsi eragià composto un contegno d'indifferenza serena e cortese.Aveva fatto il possibile per pacificare gli animiaveva cercato discolpare l'arcipretedi scolpare il Vescovoai quali delle personemaligne avevano certo riferito chi sa cosa. Ripeté su tutti itoni che giurando di non andare più in chiesa non soloavrebbero recato a don Aurelio un dolore mortalema gli avrebberoanche nociuto presso i Superiori. Infatti i Superiori avrebberodetto: che razza di religione insegna questo curato? E poi avevaparlato del Sacramentoal quale si doveva più amore e piùrispetto che a un prete qualsiasi. Non era riuscito a persuaderemasi sentiva pagonella sua coscienzadi essersi levato soprarisentimenti e rancori come si sarebbe levato don Aurelio. E daquesta elevazione gli veniva una serenità grande a fronte diLelia. Si sentiva più alto di leidei suoi giudiziingiuriosipiù fermo nel nuovo proposito di considerare ilsuo periodo di amore come un periodo di debolezzadi soffocare unsentimento che non si accordava colla sua dignitàdi serbarsiper un'altra donnapiù affine a lui di pensiero e di cuore.

"Buon giornosignorina"diss'eglisorridendo. "Non ho ottenuto quel che volevo colleparolevedrò se la cosa mi riesce meglio colla spugna."

E si mise a strofinare gagliardamentela scritta. Leliapallidissimagli domandòcome se nonsapesse nulla di nullachi avesse scritto così. Massimodepose la spugna nel catinoraccontò il fattotranquillamente. In principio Lelia pensò che donna Fedele nongli avesse riferito il loro colloquioma poi quei suo fare scioltole parve troppo diverso dal solitopoco naturale. Intanto uncontadino sopraggiunto dal Masovisto il catinola spugna e illavoro fattosi fece piuttosto scuroconsigliò Massimo dinon continuare perché altrimenti gli potevano toccare deidispiaceri.

"Da chiquesti dispiaceri? Davoi?" fece Massimorisoluto. Quegli rimase un po' sconcertatobrontolò "ehnon signor"se n'andò conaltri sommessi brontolii.

"Signorina" disse Massimonel tono indifferente del primo saluto"Lei prosegue o scende?"

Lelia lo guardòattonita.

"Io devo restare ancora un poco"diss'eglileggendole in viso ch'ella temeva di udirsi offrire la suacompagnia. I nuvoloni che pesavano sulla fronte della turchinaPriaforà diedero un tuono. Non c'era da temere di pioggiaprossimail sole splendevaoltre il piede della Priaforàsui casali e sul verdei denti del Summano ardevano dorati nelserenoma quel tuono aiutò Lelia nel suo imbarazzo.

"Scenderò" diss'ella.

"Allorasignorina" ripreseMassimo"La prego di avvertire il signor Marcello che devopartire alle sei per Vicenza eprobabilmenteper Milano. Ora mitrattengo qui per un incarico di don Aurelio e poi verrò acongedarmi."

Si levò il cappello.

"Non Le do la mano"diss'egli. "Non lo merita."

Lelia trasalì.

"Dico la mia mano sudicia!"

Il giovine sorrise mostrando la manoche aveva tenuto la spugna. Lelia salutò con un solo chinardel capo e prese la scorciatoia che scende direttamente dalla chiesa.Avrebbe pianto di rabbiasicura com'era della intenzione insolentedi luiirritata con se stessa per aver sottolineata l'ingiuria conquel trasalire. A Lago trovò Teresina cheritornata da Schiole veniva incontro per ordine del padronerecando la chiave delParco di Velo. Il padrone aveva pensato che forse piacerebbe allasignorina di cogliervi fiori per la mensa. Lelia preferìscendere direttamente a casa. Non toccò della partenza diAlberti che doveva annunciare. Ne toccò invecemoltoriguardosamentela cameriera. Espresse il dubbiolontano e vagochepartito don Aurelioil signor Massimo intendesse abbreviare lasua dimora. Udito che partiva la sera stessamise un'esclamazione disollievo. Domandòadducendo la ragione di doversi regolareper certe biancherie del giovine mandate al bucatose il signorpadrone non gli avrebbe fatto grandi istanze perché rimanesse."Oh no no!" esclamò Lelia con tanto sdegnosasicurezzache l'altra osò parlar chiaro.

"Allora sono contenta!"diss'ella. Lelia non parlò ma l'esclamazione della camerierale parve assai stranaperché Teresina era solita parlarle diAlberti con un vero lirismo di ammirazione. Teresina attese infattiuna parola di sorpresauna domanda. Poiché la signorina nonaccennava a rompere il silenziosi decise a spiegarsi.

Dissesorridendoche ne aveva uditodi bellequella mattinadel signor Alberti. Era discesa allastazione in compagnia della cuoca che si recava ad Arsiero per leprovviste. La cuoca le aveva riferito un discorso tenutole dalladonna di servizio della signora Bettina Pagandella cognatadell'arciprete. Lo conoscevano benenella canonica di Veloilsignor Alberti. Sapevano che sebbene andasse in chiesa era moltopeggiorequanto a religionedi Carnesecca. Ma poi sapevano pure chefaceva una vita cattivache aveva relazionia Milanocon signoremaritate. "Ah sì ?" fece Leliaindifferente. Ealtro non disse. La cameriera si sgomentò un poco di quelmutismodomandò scusa di avere parlato di cose che non lariguardavano. Leliaper tutta rispostasi strinse nelle spalle.Passavano allora il cancello della Montanina. La cameriera non apersepiù boccase ne andò per le sue faccende. Lelia sifermò al parapetto del ponte sulla Riderellasi curvòa guardar nell'acqua; straziata il cuore da un amaro acre doloredaun amaro acre piacere che vi si torcevano insiemedicevano insieme:era dunque indegnoera dunque indegno. Altro non pensòirrigiditache le tre parole crudementre da diritta e da mancagrandi braccia di rosai le slanciavano grappoli di rose rosse e ilventoodorato di fienile moveva mollemente perché elladesse ascolto ai voluttuosi fiori. Vi è amore ancoradicevanovi è ancora vita. Non li videnon li ascoltò;li avrebbe insultatii bugiardi.

Non lo sapeva ella prima ancora diquesta rivelazione? Per lei non vi era più amorenon vi erapiù vita.


Il signor Marcello accolse la notiziadella prossima partenza di Massimo con apparente soddisfazione. Leliapensò che sarebbe stato anche più soddisfatto se avessesaputo quello che sapevano i preti di Velo. Le parve cheraccontandolone avrebbe fatto anche se stessa più certa. Nelmomento di parlareuna voce contraria le vibrò nel profondo.Ella parlò tuttaviasentìparlandoche faceva malemale maleche avrebbe dovuto interrompersi e parlò sino alfondocol viso in fiamme. Il signor Marcello ascoltòaccigliatoosservò che i preti di Velo avrebbero fatto assaimeglio a non divulgare queste coseche non ne credeva nientecosapotevano saperne loro? ma che del restogiunte le cose a quel puntoera inutile occuparsene. Uscita dallo studioLelia passò nelsalone. Nel vedere la poltrona dove si era seduta qualche ora primacoll'ombrellino in manoaspettandole venne in mente donna Fedele esubito dopo ricordò una parola dimenticata del colloquio: "Tihanno raccontato qualche cosa". La voce profonda disse:

donna Fedele conosce l'accusa e noncrede.


Alberti ritornò alla Montaninacirca alle quattro e mezzo. Vi trovò un telegramma di donAurelio coll'annuncio che partiva per Milano e una lettera di unamico milanesetroppo lunga ecom'egli si figuròanchetroppo poco interessante per leggerla subitoin quella ristrettezzadi tempo. Fece le sue valigie e discese nel salone. Non v'eranessuno. Guardò il pianopensò il fiore della memoriacaduto dalla cintura di Leliala musica di "Aveu"immaginò con impeto di stringere nelle sue braccia la donnache lo aveva illuso cosìla disprezzò subito in cuorecon risoluta volontà. Alzo gli occhi alla punta di dolomiaveli fermò un istante amaramentediede le spalle a tuttod'uncolposi avviò per la stanza del biliardo allo studio delsignor Marcello.

"Dunque Lei parte proprio?"disse il vecchio con un imbarazzo di cui Massimo non afferròil senso che in parte.

"Proprio" rispose. Gli mostròil telegramma di don Aureliogli disse che a Milano don Aurelioaveva un amico ma chealmeno in quei primi momentidesideravatrovarvisi anche luidargli quell'aiuto che poteva. Venendo poi airingraziamenti di prammaticadisse che sentiva una gratitudineimmensa e non per l'ospitalità sola. Tacquevinto dallacommozione.

Il signor Marcellocommosso egli pureavrebbe giudicato che i preti di Velo o erano stati ingannati omentivano. Avrebbe voluto dirgli:

ritorni presto! Ma si contenne. Lopregòinvecedi scriverglidi dargli spesso notizie di sée anche di don Aurelio. Quando Massimoconsultato l'orologiosialzò per partiresi alzò egli purelo accompagnòfuoridispose che le valigie gli fossero portate alla stazionelobaciò due volte: "Uno per lui" disse "e uno perme!".

"Ne sono degnosa" mormoròil giovine.

Si udì rispondere con unaenergia che lo fe' trasaliretanto pareva piena di reconditi sensi:

"Lo credo!"

Massimo aveva già impugnata lamaniglia dell'uscio a sonagli ed esitava ad aprire. Si vedeva chepensava qualche ragione d'indugio e non osava dirla.

"Lei vorrà salutare Lelia?"domandò il signor Marcello.

"Se posso" rispose Massimoinchinandosi lievemente.

Fu cercato di Lelia. Era uscita collachiave della chiesina.

"Allora potrà vederlapassando" disse il signor Marcello; e rinunciòtacitamente al proposito di accompagnare Massimo fino alla chiesa.

Questi discese solochiedendosi sedovesse entrare in chiesa o passar oltre; poichéapparentementela signorina desiderava evitare di vederlo. Giunto alporticosi fermòincerto.

Lelia ne aveva riconosciuto il passo eindovinòudendolo arrestarsila sua incertezza. Si alzòanch'ella dall'inginocchiatoioegualmente incerta se uscire o no.Aveva sperato che passasse oltre. Ebbero ambedue lo stesso pensiero:meglio fare ciò che farebbe un indifferente. Ella si mosse peruscire ed egli per entrare.

S'incontrarono sulla soglia.

"Parte?" diss'ellasenzastendergli la mano. "Buon viaggio. A rivederla."

"Che ci rivediamo non saràfacile" soggiunse Massimosorridendo. "Ma non dimenticheròi giorni che ho passati in casa Sua."

"In casa mia? No" interruppeLelia.

"E Le auguro" proseguìMassimo senza tener conto dell'interruzione "tutto il benepossibile per lunghissimi anni. Proprio di cuoresignorina."

"Grazie" rispose Lelia.

Massimo salutòuscì delcancellosi allontanò a gran passicontento di sédiessersi mostrato più disinvolto e più orgoglioso dileidi averle parlato come se non avesse a rivederla mai piùe gliene importasse meno che nulla.



3.


Lelia era andata in chiesa per evitarese possibilel'incontro di congedo con Alberti. Uscì delbreve colloquio malcontentacome sempredi séirritata deltono d'indifferenza quasi sprezzante che aveva preso egli. Lo torse auna interpretazione voluta. Era il tono di uno che si era vistofallirenon una speranza di amore ma una trama d'inganno. Invece dirisalire alla villaprese il sentiero che costeggia la Riderellacaddemortalmente stancasul sedile rustico all'ombra dei noci. Vifu presa da una crisi nervosa che la scosse di sussulti da capo apiedile diede il senso di una sospensione della vita. Si rimiselentamenteascoltò senza pensierodolendole il cuorelasommessa vocina della prossima cascatella. Quindiil primo pensierofu: se ritornassesarei contenta? Si rispose di no. Teresina leaveva portato da Schio una lettera di suo padre che le solevascrivere indirizzando le lettere al nome della camerieraTeresinaScotzferma in PostaSchio. L'aveva già letta e se l'eraposta nella cintura per gettarla nella Riderella. Non la ricordavapiùla rilesse. Erano poche righe. Suo padre chiedeva se lalettera precedente si fosse smarritadomandava una rispostaquellatale risposta che Teresina aveva recato a Schio. Lelia stracciòil foglio in pezzi minutili gettò nell'acqua.

Ella soleva mandare a suo padre granparte dell'assegno che il signor Marcello le faceva per le sue spesepersonaliaccompagnando le spedizioni con poche parole asciutte. Lodisprezzavasapeva di disprezzarlo e se ne credeva in diritto.Mandava il denaro senza rimproveri né consiglicome cosaspregevole a spregevole persona. Lo sapeva pieno di debiti e tuttavianon credeva un iota delle miserie ch'egli le raccontava. Certe paroleuditecerti fatti osservati durante la sua dimora nella casa paternal'avevano persuasa ch'egli possedesse a fondo l'arte di gabbare icreditoriche ostentasse miseria e nascondesse quattrini. Ma che neimportava a lei? Se sua madre le avesse chiesto danaro ne avrebbemandato anche a sua madre.

Invece sua madre le scrivevadi tempoin tempodomandandole affetto con parole piene di unzione religiosa.Lelia non le rispondeva maiaveva persino rimandato immediatamenteil pio dono materno di un rosario benedetto dal Santo Padre. Bellafinepensòche farebbero i denari di casa Trento se io fossil'erede! Le rinacque il dubbio di un equivoco in cui fosse caduto ilsignor Marcello per causa di quel bacio. In qual modo uscirne? Cessòdal faticoso pensaresi affisò inerte nella cascatella. Conaltre immagini nascenti della mente sua torpida come vapori dipaludele ascese lenta la visione dello stagno brunocinto dicarpini che si piegano a guardarvi dentro; e passò.


Le fu assai gravedue ore dopodoverscendere dalla sua camera per il pranzo. Sentiva di non potermangiareprevedeva l'interrogatorio del signor Marcello cheosservava tuttoindagava tuttovoleva saper tutto; specie quando lesue disposizioni erano affettuose. Perciòse non fossediscesa sarebbe salito egliavrebbe frugato nell'anima suaDio sacon quante domande. Discese e allegòper non mangiareundolor di capo fantastico. Il signor Marcello le fece dire una fila dibugie con una fila di domande. Parte umiliata del proprio mentireparte impazienteella fu per esclamare rabbiosamente che non avevanulla di nulla. Non lo fece e il signor Marcello tacque tristesempre più inclinato a dubitare che donna Fedele avesseragioneche la ragazza soffrisse della partenza di Massimo. Tacquefino a che Giovanniservito il pranzonon li lasciò soli.Appena uscito Giovanniprima che Lelia finisse di prendere il caffèle domandò se avesse veduto Alberti che desiderava congedarsianche da lei. Ella rispose un sì mezzo apatico mezzo annoiatofinì di prendere il caffèsi alzò e chiese ilpermesso di ritirarsi.

"Va purecara" rispose ilsignor Marcello. La richiamò quand'era per uscire.

"Senti" diss'egli. "Ioti benedico fin d'ora a ogni modosia che tu prenda marito sia chetu preferisca di viver sola. Mase vivrai solaspero che non miaccuserai di egoismo perché io avevo pensato..."

E sorrise di un suo sorriso pateticopieno di tristezza e di tenerezza.

"Graziepapà" mormoròLelia. E non si trattenne dal soggiungerepensando al possibileequivoco:

"Non so se merito la Suabenedizione."

Le parole fredde dispiacquero al poverovecchio. Lelia sentì di avergli fatto malegliene dolse manon poté pentirsi di parole che miravano a levargli dannoseillusioni. Scivolò in silenzio fuori della salachiudendol'uscio dietro a sé piano piano.

Il signor Marcello non si mosse. Dagran tempo la casa non gli era parsa tanto tristetanto vuota.Raccolse a sé uno dei due calici ch'erano sulla mensa conpianticelle vive di ciclamini non fioritiun capriccio di Leliadisapprovato da lui. Considerò con affettuosa pietà lefoglie scurestriate di verde chiaroil bottone dall'aereo stelola picciola vita innocente chesvelta dal suo natio nido di musco apiè di un castagnoposta in quella innaturale dimoraera perdonare un fiore ai suoi tormentatori. Il signor Marcello aveva moltoamato e coltivato i fiorise n'era sentito riamare quando tergevaloro le foglie polverose o li dissetava coll'acqua della Riderellafatta intepidire al sole. La pianticella martoriatache lo ricreavacol suo bel verde cupogli era più affettuosa di Lelia cheteneva per sé tanta parte dell'anima propriache difendevacosì gelosamente la propria indipendenza morale. Avrebbevolontieri baciata la piccola vita se non se ne fosse vergognato comedi un sentimentalismo ridicolo.

Un lungo rombo sordo di tuono dallaPriaforàstata minacciosa tutto il dìgli ruppe ilfantasticare. Gli venne in mente che la grande invetriata del saloneera aperta. Per non disturbare Giovanni che stava pranzandoandòegli stesso a chiudere. Fece il giro del piano terrenochiusedappertuttofedele alla sua abitudine di servirsi dei domestici ilmeno possibilee ritornò nel salone. Si faceva notterapidamentequasi un'ora prima del tempo. Un lampo arsesparì;da capo il fragor sordo del tuono fece tremare i vetri. EntròGiovanniper chiudere. Vide il padroneal chiarore dei lampiglidomandò se desiderasse lume. Il padrone non voleva lume lomandò a chiudere le finestre del piano superioresi appressòall'invetriata per guardare le tenebre sferzate dai lampi che glibattevano e ribattevano in facciasilenziosida Val d'Astico. Glisuonava sopra il capo la tumultuaria difesa contro il temporalevocivibratepassi correnticolpi d'imposte. Le grandi scoglieretragiche del Barco balenavano lividescomparivano. Balenavanoscomparivano i pioppi lungo la Riderellarigidi nell'aria senzaventocome avamposti di un corpo di riserva che aspettasseroimmobili e mutil'avanzare della battaglia impegnata sulla lorofronte. Scrosciò a piombodi colpola pioggiacessarono ilampinon si vide più niente. Il signor Marcello restòa guardare nell'ombra sonora fino a che udì Giovanni entrarecollo scalone per accendere le lampade. Gli diede l'ordine di nonaccenderecom'era la regola quando non si avevano ospitio quandola signorina non passava la sera in salone. Bastava portargli la sualucerna.

Quando l'ebbe si piantò sul nasogli occhiali e si mise a leggere un giornale. Cosa insolitase nestancò subito. Non erano che le nove e mezzonon aveva sonno;e poiché da qualche tempo soffriva d'insonnianon desideravacoricarsi presto. Neppure aveva voglia di suonare.

Suonava volontieri nelle ore dimestizia calda. Non era una di quelle; era un'ora di cuor pesante efreddo. Di salute si sentiva benenessun altro segno premonitoreaveva seguito quel deliquio. S'egli si fosse ingannato a quelproposito? Se lo aspettassero lunghi anni di una vita simile? Almenose vivessevivere per qualche cosa di utile! Aveva meditata inpassatoper consiglio di un amicola istituzione di una coloniaagricola. Perché non riprenderebbe quell'idea? Potrebbeintanto scriverne all'amicodomandargli la sua opinione. Pensòcome gli dovesse scriverese impegnarsi o tenersi libero. E ilproposito gli languì nella menteappena concepito. Si alzòcon uno sforzo di volontà per non lasciarlo spegnere deltuttoper andare a scrivere; ma poi non si decisesi impietròcolla lucerna in manopensando. Lo scroscio della pioggia eradisceso a un sussurro egualetriste. Il vecchio posò lalucernaandò nella veranda aperta a guardar la notte.

Pioveva a distesasenza ventocome diautunno. La pioggia velava le montagnevelava anche i lumi diArsiero. Quello era il posto dov'egli soleva prendere il caffècon don Aurelioquando il curato aveva detto messa a Santa Maria deiMonti. Era partito anch'egliil caro don Aureliopartito persempre. Non lo rivedrebbe più.

Ritornò nel salone col cuoregrosso. Parole amare contro i preti di Velo gli montarono alla boccagli mossero silenziosamente tutti i muscoli del visomentreriprendeva la lucerna per andarsene a lettoché di scrivereaveva perduta ogni voglia. Alla vista della Bibbia e dell'Imitazioneche si teneva sul tavolino da nottesi sgomentò di avereceduto agl'impulsi della sua natura focosadi avere mancato dicarità egli stesso che ne rimproverava gli altri. Se neconfessò a Dio con uno slancio dell'anima epresa la piccolaBibbiala strinse a due manisenza aprirlacome il naufrago unacordafino a che si sentì fluire pace nel cuore. Posando laBibbiagli venne l'idea di andarsi a confessarel'indomanipropriodall'arciprete. Tranquillo in questo propositoregistròcomefaceva ogni serale spese della giornata. Poiché era l'ultimodel mese e aveva dimenticato di pagare i salari dei domesticilipreparò con curaben distintisulla piccola scrivania.Preparò anche altri gruzzoli di sussidi mensili a poveri.

Il malinconico sussurro della pioggialo fece risovvenire dei due calici di cristallo colle pianticelle diciclamini che erano nella sala da pranzo. Rovistò in unripostiglio fino a che n'ebbe trovati i due vasetti di terra ondeerano stati levati per collocarli barbaramentecome a lui parevanel cristallo. Ve li rimisecontento dell'atto pio. Come se udisseropiovere e soffrissero di non godere l'acqua vitale del cielodisseloroproprio parlandoche li avrebbe portati fuori. E li portòamorosamente fuorisenza curarsi della pioggiali collocòuno presso all'altro dietro la villasul margine del pendio erboso.Raddrizzando la persona fu preso da vertigini. Non vi badò.Gli era successo più volteanche da giovanedi venir presoda vertigini nell'alzarsi dopo aver frugato nella terra intorno allesue pianticelle. Attese che fossero passateritornò incamerarecitò in ginocchio le preghiere della sera espogliatosisalì sul lettoentrò colle gambe sotto lecoltri. In quel momento lo ripresero le vertiginiviolente. Appoggiòla testa alla spalliera del letto. Lo corse alloradalla nuca finoalle gambeun fulmine. Credette gridare e non gridòsentìfarsi di gelo le bracciaconobbe ch'era la morteagitòinutilmente le labbra per dire "in manus tuasDomine" etutto era già finitonon viveva più nella camera chela fiammella indifferente della lucernailluminando il viso di marmogiallognolo reclinato alla spallieracompostogravela selva deicapelli grigio-fulvi. Solo vi aveva battiti il piccolo indifferentecuore dell'orologio d'orosul tavolino da notte.






Capitolo Quinto


SPUNTAL'OMBRA DEL SIOR MOMI


1.


Donna Fedele arrivò incarrozzellaalle dieci. Aveva saputo alle noveda un bigliettodesolato di Lelia. Discese all'entrata della veranda aperta per nonpassare davanti alla camera della Morte. Lelia le venne incontronella veranda. Le due si abbracciaronosenza parole. Lelia aveva gliocchi lagrimosi; donna Fedele era cadaverica ma non aveva lagrime.Entrarono nel salone. Teresina che vi entrava pure in quel momentodalla sala da pranzovista donna Fedelescoppiò insinghiozzisi coperse il viso col fazzoletto. Come potédominarsiporse a Lelia un telegramma. Donna Fedele la interrogòsottovoce mentre Lelia apriva e leggeva. Si erano accorte di nienteieridurante la giornata o almeno la sera?

Di nientedi niente. Non era stato dibuon umorequesto bisognava dirloma si sapeva che tanto la fuga didon Aurelio quanto la partenza del signor Alberti lo avevano moltoafflitto. Parve che Teresina diventata verbosa. volesse dire altro epoifra i singhiozzise ne pentisse. E come avevano scoperto?

Rispose Lelia. Giovanni era andato aportargli il caffè alle settelo aveva trovato cadavere. Eraa lettosedutocol busto fuori delle coltri e il capo appoggiatoalla spalliera. La morteanche a giudizio del medicoaveva dovutoessere istantanea perché il corpo era compostoil visotranquillonon c'era stato tentativo di scendere né disuonare il campanello. Istantanea e avvenuta quando egli era appenasalito sul lettoprima che si disponesse a prender sonno. La lucernaardeva ancora. Teresina aggiunse altri particolariGiovannichedormiva a pian terrenoaveva uditoprima ancora di porsi a lettoil padrone passare e ripassare davanti al suo uscioaprire la portadella villa verso il monte. E la mattina per temponel mettere inordine la sala da pranzonon aveva trovate certe pianticelle postedalla signorina in vasi di cristallo. Le aveva poi trovate ilcustodein vasi di terra all'aperto. Nessuno di casa ne sapevaniente. Certo le aveva portate fuori il padrone perchéprendessero la pioggia.

Allora due lagrime spuntarono anchenegli occhi di donna Fedeleche parevano insieme sorridere dicommozione tenera.

"Avrai bisogno di aiuto"diss'elladopo un momento di lotta colla sua commozionea Lelia.Questa le porse il telegramma ricevuto allora.

Era l'agente del signor Marcellocheannunciava il suo prossimo arrivo da Vicenza con un notaio.

Donna Fedele domandò se cifossero parenti da avvertire. Teresina sapeva che c'erano dei cuginiin terzo o quarto gradoma il padrone le aveva detto piùvolteperché lo ridicesseches'egli venisse a mortenonfossero incomodati.

Entrò Giovanni e chiamòla cameriera. Costei rientrò a dire che l'arciprete e ilcappellano chiedevano se la signorina li volesse ricevere. Leliaseccatainterrogò donna Fedeleche le diede il consiglio diriceverli.

"Intanto" diss'ella"sepermetti..."

Lelia intesemormorò: "Sifiguri". L'altra si avviògravealla camera della Morteper la sala del biliardo e lo studio. Passando per lo studiola suamirabile fortezza fu per venirle meno. Ella si era trattenuta ivi conlui poche ore prima. Vedeva il viso rugoso e tuttavia parlantegiovanilmentegli occhi tanto mobili agl'impulsi dell'anima caldaudiva la voce sincera. Pareva che ne fosse uscita allora allora. Lasedia a bracciuolidietro il tavoloera spostata per isghembo. Sultavolodavanti alla sediasi vedeva un registro aperto. L'usciodella camera da letto era socchiuso. Donna Fedele lo spinse pianpianocon riverenzaentrò. Vide sul lettofra due ceriardentiil suo vecchio amico vestito di nerocol crocifisso nellemani di avorio. La moglie del custodeseduta in faccia al lettopresso la finestrasi alzò in piedi. Donna Fedele le proposedolcemente di uscire per una mezz'ora. Intanto sarebbe rimasta lei.

Uscita la donnasi avvicinò allettocontemplòstando in piediil volto cereo dell'uomochesoloaveva in gioventù veramente amato. Lo contemplòcon tristezza dolce e serena. La dolorosa sera della sua lungagiornata si era chiusaegli stava col suo diletto. Se la sorte dilui e di lei fosse stata diversas'ell'avesse potuto diventare suamogliel'ora della separazione le sarebbe suonata terribile.Sospiròquasi rimpiangendo che non fosse stata terribile.Chiuse gli occhilo vide giovineripensò il segreto amore dialloracosì delizioso anche nelle sue inquietudini torbide eamareripensò in un baleno le ore di musicale ore diconversazionei momenti in cui più avevano parlato glisguardiin cui si erano quasi dettovelatamenteil loro amoreragionando di racconti d'amoredi poesie d'amoredi drammi d'amorenella vita reale. Avevano erratoalloral'uno e l'altrasi eranotroppo poco guardati da un gran pericolo. Più leipiùleiches'egli avesse parlatos'egli avesse volutogli avrebbetutto sacrificato con gioia! Viveva ancora suo padreallora. Diosefosse caduta cosìquale orrore! Si chinò a baciare lemani di avorios'inginocchiòpregòpromise al mortoamico di essere materna per la donna ch'era stata l'amore delfigliuol suo. E poiché egli aveva desiderataalla vigilia dimorirel'unione che gli pareva buona per leibuona per la propriacasapromise che quella unione sarebbe. Si alzòconsolata.Udiva distintamente il battere dell'orologio d'oro sul tavolino danotte. Era come se qualche cosa di lui vivesse ancorapotesse avereinteso. Fiori erano stati sparsi sul letto. Ella pensò chealtri ne avrebbe tolto uno per memoria. Non seppe farlo néseppe cosa la trattenesse. Baciò ancora le mani di avoriobaciò il crocifissoa suggello della promessa.


2.


Ella fu molto sorpresauscendo dallacamera della Mortedi trovare Lelia nello studio. Era frementeirritata contro l'arciprete e il cappellanosopra tutto controquest'ultimo; tanto irritata che non volle parlarnelìpresso la salma. Passò con donna Fedele nella sala delbiliardo. Sì l'arciprete che il cappellano avevano moltodeploratanel senso religiosola fine repentina del signorMarcello; e alle parole di lei che ricordava la vita immacolata ecaritatevole dell'estintola pietà grandei Sacramentiricevuti pochi giorni primal'arciprete non aveva risposto che deifreddi "speriamo" e il cappellano niente. Poi l'arcipretesi era permesso di accennare ai bisogni della sua chiesasupponendoevidentemente di parlare coll'erede. Finalmente il cappellanotuttocompuntole aveva chiesto se quel giovine fosse ancora allaMontanina: "Ho risposto di sì"

diss'ella "per rabbia e perchésono dei ficcanaso. Sapevano certo che Alberti è andato viaperché l'arciprete diventò rosso e il cappellanodiventò giallo".

Se donna Fedele avesse saputo che Leliaera stata informata delle voci partite dalla canonica circa gli amorimilanesi di Albertisi sarebbe meglio spiegata quella straordinariairritazioneun elemento della quale sfuggiva alla coscienza dellastessa Lelia. Questa si dolse di non aver fatto subito ciò cheintendeva fare adesso: chiudersi nella camera del signor Marcellonon uscirne più che per uscire anche dalla casa. Tantoinquella casaella non era più niente. Il suo dovere era distare col signor Marcello fino all'ultimo. Partito il signorMarcelloper lei alla Montanina non c'era più posto. DonnaFedele cercò di richiamarla a riflessioni diverse. Visto chesi esasperavagiudicò prudente di non insisterepresecongedodicendo che sarebbe ritornata la sera. Lelia non disse digradirlole diede un bacio in silenzio e si avviò alla camerasacra. Donna Fedele non voleva partire senz'avere parlato a Teresina.Non ebbe la forza di andarne in cercasi lasciò cadere in unapoltrona del saloneaspettando che passasse qualcuno. Proprio non nepoteva più. Finalmente udì Giovanni e la cuocadiscorrere nella sala da pranzo. Giovanni si affacciòprudentemente al salone per vedere se la conversazione fosse sicura;e così donna Fedele poté far chiamare Teresinadirledi Lelia che si era voluta chiudere lì dentroche parlava diallontanarsi subito dopo il funerale.

"Spero che verrebbe da me"diss'ella "almeno per qualche tempoma non so cosa possa averein testase voglia andare da suo padre o che fare."

Teresina era tranquilla. Allontanarsi?Ma che allontanarsi? L'erede era lei. Il povero padrone glielo avevafatto intenderea Teresinamolto chiaro. Donna Fedele espresse undubbio: se non accettasse l'eredità? Teresina trasecolò.Come mai non accetterebbe? Non foss'altroaccetterebbe per aiutaresuo padre. E raccontò del denaro ch'ella era solita spedireper incarico della signorina. Anche leila signorina stessacomevivrebbe? "Cara" disse donna Fedele "quando c'entral'orgoglio!..." Ma la cameriera non poteva comprendere un taleorgoglio e la signora rinunciò a spiegarglielo. La pregòinvecedi avvertire il vetturale che intendeva di ritornare alvillino. Teresina la supplicò di rimanere fino a che venisseroil notaio e l'agentee si potesse sapere qualche cosa deltestamento. Non riuscì a persuaderla. Rispose che non volevaparere un'intrusache verrebbe se la richiamassero.

Non fu richiamata. Ricevette verso serale seguenti righe dall'agente del defunto:

"Nobilissima SignoraPer incaricodella cameriera Teresina Scotzmi pregio di farle sapere che stamanemi recai col signor notaio dottor Camilli dal R. Pretore di Schiopresso il quale venne aperto il testamento olografo del povero signorPadronech'era depositato regolarmente presso il suddetto signornotaio. Mi pregio anche di farle sapere che la signorina Lelia Caminè erede universale e che la cameriera Teresina Scotz ha unlegato di giornaliere lire cinquecon esenzione dalla tassa. Lenotifico puresempre a istanza della signora Scotzche è quipervenuto al mio indirizzo un telegramma da PadovasottoscrittoGirolamo da Camincontenente condoglianzela dichiarazione diessere padre della signorina Leliaminorennee l'annuncio del suoarrivo in giornatache potrà verificarsi coll'ultimo treno distasera. La signorina erede ha ammesso di essere figlia del dettosignore e di avere vent'anni e pochi mesi; mentre è a mianotizia che il compianto signor Padrone la credeva piùvecchia. Col massimo rispetto.

Velo d'Astico (Vicenza)1 luglio...

Umilissimo e Devotissimo RAG. MATTEOCARROZZI.



Capitolo Sesto


NELLATORRE DELL'ORGOGLIO

1.


L'ingegnere Luigi Albertizio diMassimodiscendente da un vecchio ceppo della media borghesiamilaneseabitava un quartierino al terzo pianoin via S. Spirito.Modestoordinato all'anticaarredato di vecchi mobilidi vecchiquadri assai buoniricco di vecchi librisfornito di comoditàmodernedi acqua potabiledi gazdi luce elettrical'alloggiorendeva immagine del padrone. L'ingegnere Alberti era veramente nellastruttura monolitica del caratterenella solidità delleconvinzioni religiose moralinella ferrea coerenza delle azionicolle ideenei criteri del giudicare uomini e cosenella fede allatradizioneun superstite di generazioni antiche. Egli stesso siqualificava nel modo milanese che seguecoll'aria di appartarsicontento dal mondo moderno in un suo ideale angolo solitariospregiato e caro: "sont on andeghee"sono un antiquarioun uomo del passato. Nella umiltà del cuorenella noncuranzadei beni e dei piaceri terreninella purezza verginale del costumenella dissimulata generositàera un cristiano dei tempievangelici.

Parsimonioso per séera largoal nipote Massimoorfano e in cattive condizioni di fortuna. Glivoleva bene piuttosto per un dovere di coscienza che per impulso delcuore. Il suo cuore era tutto raccolto in un culto sacronellamemoria della sua povera mogliemorta da qualche anno senz'averglidato figlidonna di esemplari virtù cristianedi vivaceintelligenzadi modi soaviche aveva fedelmente amato il maritomalgrado le sue scarse attrattive fisichele inettitudini alla vitasocialecerte piccole stranezze incomodele resistenze a quelragionevole spirito di modernità cui ella avrebbe volontieriaperta la casa e conformate le abitudini del vivere. Non prese ilnipote presso di sé per non dover modificare ii proprioantiquato regime di vita e quello dei suoi vecchi domesticiun cuocoe una camerierache gli erano affezionatissimi. Gli assegnòinvece tre stanze al secondo piano della stessa sua casadove lamoglie del cuoco gli faceva il servizio. Nel trattare col nipotel'ingegnere era sempre un po' impacciatonon proprio cerimoniosomapiuttosto gentile che cordiale. Il padre e la madre di Massimoavevano sciupate le loro sostanze vivendo troppo signorilmente; edelle abitudini signorili di Massimo lo zio pareva quasi aversoggezione.

Nell'offrirglicome al parente piùprossimoil proprio benefico appoggioun quartiereun assegnolamensa quando gli piacessese n'era quasi scusato come di un'offertainferiore alla sua condizione.

Avrebbe trattato Massimo con piùschietta familiarità se non avesse sentita una gran distanzafra il nipote e sédistanza sentita pure da Massimopenosamente. Non era soltanto distanza di abitudini; era sopra tuttodistanza d'idee. In politica l'ingegnere era un giudice appassionatodei partiti e degli individui di tendenze opposte alle sue.Discorrendone nell'intimità andava facilmentesecontraddettofuori dei gangheriuna irascibilità strana glidivampava così da inceppargliquasi la parola. Modernismo eriformismo religioso gli dispiacevano più ancora chesocialismo e radicalismo. Non era però clericale. Lettoreassiduo della "Perseveranza"votava secondo le indicazionidella "Perseveranza"era sempre andato alle urne politicheanche quando l'Autorità ecclesiastica non lo permetteva.

Voleva i preti in chiesa e insagrestianon nella vita pubblicanon nella stampa politica. Ma inchiesa e in sagrestia ne riveriva l'autorità con soggezioneintera. Perciò quando udì parlare di Massimo come di undiscepolo di Benedetto e di Benedetto come di un eretico e di unribelle se ne turbò molto. Interrogò qualche prete peraverne notizie certenon osando aprirsi direttamente al nipote. Oratrovò chi gli disse che suo nipote si avviava purtroppo per lastessa strada dei ribelli all'Autoritàdi coloro che nonammettevano i dogmi fondamentali del Cattolicismoi Sacramentil'autorità del Pontefice; ora trovò chi credette dipoterlo rassicurare circa tutti questi punti. Rifuggì sempredal parlarne a Massimo per paura di esserne tirato a discutereciòche nella sua candida fedeavida di affermazionenon avrebbe volutofar mai. Una sola volta gli toccòper letteradi questi suoitimori. La risposta del giovinemolto serenaschiettamenteortodossalo rassicuròma solo per qualche tempo. Glidispiaceva pure che Massimo non pensasse sul serio a trar profittode' suoi studi di medicina. Udiva parlare di altri studireligiosi eletteraridi conferenze sulla scienza e la Fedesul socialismocristiano. "Bellissim rob" aveva detto a un tale che glivantava l'operosità di Massimo"bellissim rob checoncluden nient."

Neppure intorno a ciò si aprivacon Massimo. Lo stimava inutilesi rassegnava a non comprenderequesto esemplare della nuova generazione e a non esserne compreso.Ragione voleva che Massimo fosse il suo erede ed egli intendevadisporre dei propri averi secondo ragionema poi il suo ritornellomentale era: "Troverà quel che troverà".

Dopo la morte della moglie l'ingegnerenon teneva nessun conto del denaro. Viveva con una piccola partedelle sue rendite discrete. Il resto eramisuratamente per Massimosenza misura per quanti bisognosi facessero appello alla sua caritàper Istituti pii e persino per il piccolo Comune dove avevavilleggiato con sua moglie durante lunghi anni.

Un mese prima del suo viaggio a Velod'AsticoMassimo tenne due conferenze all'Università Popolaresui Riformatori italiani del Secolo sedicesimo. Vi sostenne la tesiche se quegli uominialcuni dei quali esaltò per l'ingegno ela virtùnon si fossero ribellati all'autorità dellaChiesale loro idee avrebbero fatto maggior camminocon vantaggiodella Chiesa stessa. L'ingegnere ne fu scandolezzato al pari di quasitutti i conservatori milanesiche si accordarono con radicali esocialisti nel gridare la croce addosso al conferenziere.

Per i primi egli era un ereticoipocritaper i secondi un debolequasi un vigliaccoper tutti unsognatore. L'ingegnere si sfogò con qualche amicofra glialtri con un pretecerto don Santino Ceresolageneroso uomoinfervorato nelle opere di caritàche appunto allora nepensava una molto bella ma superiore anche molto alle sue forze.

Egli aveva già ottenutodall'ingegnere somme rilevanti per altri scopi e adesso non potéa meno di pensare chese avvenisse una rottura fra zio e nipotenepotrebbe approfittare il suo futuro Pensionato di studenti dellescuole medie. Quando aveva in mente una Istituzione di caritàda fondareo almeno da soccorrereun'idea buona qualsiasi da porrein attose ne invasava e gli pareva che tutti avessero a diventarneegualmente invasatia profondergli denaro in proporzione delle lorosostanze. E nella sua testa le proporzioni ingrossavano facilmente.L'ottimo uomo non pensava che a quellonon parlava che di quelloriusciva a infastidire mezzo mondoa far prendere in uggia luilesue opereil Bene socialemoraleintellettualeogni altra sortadi Beni seccatori; e anche però a prosciugare le tascheconsoddisfazione vicendevoledi qualche rara persona piacandidadenarosacomedel restosi era da un pezzo prosciugate le proprie.

Cipigli di parenti che si tenevanodefraudati da lui del proprione incontrava molti. Qualche figliuololo aveva messodi nascosto dal padre e dalla madrealla porta. Maquesti non erano dolori per lui chetoccatone unose ne andavafelice del suo minuscolo martiriopieno di cielo nel cuoregiustificando il nomignolo di "Beata Ciapasü"procacciatogli dal suo viso di vecchia monacadalla sua vocesottiledalla eguale beatitudine colla quale si prendeva quattrini estrapazzate. Egli aveva parlato più volte all'ingegnere delPensionatoe l'ingegnerecuor generoso ma testa quadraavevasempre cercato di persuaderlo che sognavache neppure sarebberiuscito a trovare i quattrini per l'area. Partito Massimo per Velod'Asticoegli capitò un giorno tutto gongolante in via S.Spirito colla notizia che una vecchia dama gli aveva regalato duemilametri di terreno a Porta Vittoria; e siccome l'ingegneremeravigliatoesclamò "ovèj!"egli risposetacitamentenei proprio internocon un altro "ovèj!"di rideste speranze e decise di porre l'ennesimo assedio alforzierino che tante volte gli aveva aperto gli sportelli. Cominciòa pregare l'ingegnere di allestirgli un progettoun progettinounoschizzoper oracon un preventivo sommariodue righetteunnumerino.

L'ingegnere capì benissimo dovesi andava a finire con tanti diminutivi. Si schermìsulleprime. "Bench'El senta!" proruppe finalmente alleinsistenze dell'altro "il progettocome possomi ghel foomadenari...!" E rise di un riso eloquente. La Beata protestò- oh dess oh dess! che a domandargli denari non aveva mai pensato. Maintanto l'uncino prese e le visite di don Ceresola spesseggiarono.L'ingegnere dovette recarsi più volte con lui a PortaVittoria. Una volta il prete non lo trovò in casa e sitrattenne colla camerierala Biginsua penitentecandida asessant'anni come lo era stata a dodici. Don Santino la mise a partedei suoi disegni con grandi raccomandazioni di segretezzale insegnòcome dovesse fare per dargli aiutoquasi quasi le prometteva ilParadiso se riuscisse a far mettere il Pensionato nel testamento delpadrone. Toccò il tasto delle relazioni fra zio e nipoteseppe che una volta lo zio aveva detto scioperata la vita del nipote.La Bigin non poté promettere molto perché il padrone"dininguarda a parlagh di soeu rob! El dà mingaconfidenza". Ma insommase si presentasse l'occasione...L'occasione non si presentò anche perché la buonacreatura non avrebbe capito in cent'anni a cosa servisse ilPensionatodel quale credette da principio che fosse un impiegato inpensionecaduto nella miseria.

"Minga minga minga!" fece donSantinosenza ridere. E lei: "Ah no ah no ah no?". Dopo diche si accontentò di stamparsi bene in testa queste cinqueparole: "il Pensionato di don Santino" e di ripetere alpadronea proposito e a spropositoche a don Santinoleise fossestata riccaavrebbe dato persino la camicia; cosa chea dir veroavrebbe potuto fare anche essendo povera e non fece.


2.


Massimopartito da Arsiero alle seidella seraarrivò a Milano dopo le sei della mattina. A SanSpirito non lo aspettavano. L'ingegnerelievemente indisposto da duegiorniriposava ancora. Il cuoco e sua moglie fecero al padroncinoaccoglienze insolitamente festose. Sarebbe stato ben difficileintenderne il perché recondito. I coniugi avevano prestosubodorato la ragione delle visite frequenti di don Santino:

qualche diavoleria da cavar gran danarial padrone. "Vedaret" aveva detto la moglie del cuocolaPeppinaal suo Togn: "quell lì el va adreeel va adreefina ch'el ghe mangia foeura tusscoss". E allora veniva in campola morale: il padrone muore pelato dal pretele pensioncine dellaservitù se ne vanno in EmmausTogn e Peppina d'accordo nonrifinivano di dare alla Bigia della stupida perché magnificavala santità del suo confessore e non si accorgeva che ilconfessore l'avrebbe messa sul lastrico. La buona donna rispondevatutta scandolezzata: "Gavii minga vergogna de pensà aquii rob lì?

Gavii minga vergogna?"

I due fecero dunque accoglienzeinsolite a Massimo che consideravano come un socio del pericolo enell'intervento del quale ponevanoperciòla loro maggioresperanza. Pensarono subito a metterlo sull'avviso. Non credetteroperò conveniente di farlo a bruciapelo e prima di avermeditato bene il modo di entrar in discorso. La Peppinapiùavidapiù biliosapiù inquietaavrebbe volutoparlare quella mattina stessa. Mentre ne discuteva con suo maritoMassimo uscì di casa per andare verso Porta Magentad'oveadue passi dal Monastero Maggioredimorava l'amico di don Aurelio.

Camminava adagiopensando Veloilsilenzio dei castagneti e dei pratiil rumore profondo del Posinapensando Lelia e non volendo pensarlasentendosi stringere l'animafra le facce volgari delle case di destra e di sinistra come da unarigida morsasoffrendo anche di mescolarsi alla gente. Nel suodesiderio di don Aurelio erano pure i ricordi della quiete di Lagodella piccola chiesadella umile canonica. Le pietre dei sentierisolitari di Velo gli erano parse avere senso dell'anima sua. Nellepietre delle vie di Milano sentiva uno spirito di ripulsionelospirito della lunga lettera ricevuta alla Montanina poco prima dipartirelettariletta dieci voltein viaggiocoll'amara crudelecompiacenza di farsi male a sanguedi tentarsi e ritentarsi laferita. Gliel'aveva scritta un amico del quale Massimo dubitava cheoscillasse un pocosegretamentenelle opinioni e nei sentimentiprofessati a voceche piegasse un poco a ogni assalto di avversariche si compiacesse un poco di esagerarsicon luiil dovere dellaschiettezza per riferirgli spiacevoli giudizi sul conto suodifronte ai quali l'amico stessoin fondoaveva tentennato. Lalettera era una minuta relazione di atti e di parole ostili aMassimoche l'informatore aveva raccolto nel campo dei clericaliintransigentiin quello dei modernistinella societàelegante e scettica. La Società di S. Vincenzo de' Paoli avevadeliberato di espellere il socio che per poco non si era fattoapologista degli eretici italiani del secolo sedicesimo. Era statoproibito ai librai cattolici di vendere le conferenze. In una casaclericale si era asserito che Alberti era a Velo d'Astico perpreparareinsieme a don Aureliola pubblicazione di un periodicomodernista. Un frate aveva alluso dal pergamopoco velatamentealDiscorso sugli eretici come a una opera di sottile arte diabolicapiù pericolosa dei libri apertamente blasfematorii e dellepubblicazioni oscene. Un giornale clericale aveva commiseratol'autorechiamandolo infelice. Si erano anche fatte correresemprenel campo clericalevoci poco edificanti sulle sue relazioni concerta signora. Questa fu la sola parte della lettera che divertisseMassimoperché quella povera signorauna bravissima donnaera proprio la negazione della bellezzadella graziadell'amabilità. Nel campo modernista si disprezzava Massimocome un povero untorelloun fiaccoun timidouno che non sapevasciogliersi dalle pastoie della tradizione né far fronte allatirannia esercitata sulle coscienzeun giovine vecchiorimastoindietro di vent'anninon proprio un clericale ma poco diverso da unclericale; e ne ridevano.

La società elegantescetticaera male disposta verso di lui. Le donnesalvo poche eccezioniglierano ancora più contrarie che gli uomini. Gli uomini logiudicavano un indecisouna mediocrità da mezzi termini. Ledonneanche talune di quelle che andavano a messaavrebbero volutoche in tutto esaltasse i ribelli o in tutto li condannasse. Loaccusavano di farisaismo e di viltà. L'amico scriveva diessersi trovato solo a difenderlouna serain certa casa patriziacontra la Dea Maggiore e la Dea Minore del luogomadre e figliaaccaniteinvelenite sue accusatrici. Scriveva di averlo difeso manon era chiaro se il difensore fosse ben convinto delle proprie tesio no. Pareva piuttosto che lo fosse a mezzopareva che ostentassetroppo il suo zeloche volesse troppo evidentemente farsene unmerito.

Niente di tutto ciò potevariuscire nuovo a Massimo che appunto aveva lasciato Milano durante latempesta; ma poiché gli pareva di esserne stato lontano unsecolonon si aspettava davvero di ritrovarvela tanto grossa. Alposto suodon Aurelio avrebbe mansuetamente pregato per i malignioffensorisi sarebbe consolato colle parole dell'Imitazione: "Quidsunt verba nisi verba?". Massimoche non era un tal santodiscese invecea ristoroin una sua interna onda saliente diorgogliosi consolò erigendosi nel segreto del cuorecontacito disprezzosu tutte le plebisulla plebe clericale fanaticasulla plebe modernista presuntuosamalsicura di quel che pensadiquel che vuolesulla plebe dei salotti aristocraticidelle donnineinverniciate di cultura o anche greggeche si arrogavano disentenziare per dritto e per traversosenza intellettoabituatevidalla cortesia servile degli uomini. Se mai negli ultimi tempi avevadubitato della propria fedese mai era stato tentato di appartarsida qualunque lotta religiosaadessoa fronte di tante facce ostilio ironiche o commiserantiarse di mostrarsi loro sdegnosamente fermosulla propria via.

Non trovò don Aurelio presso ilsuo amico prete. Erano usciti ambedue.

La fantesca credeva che fossero andatidall'Arcivescovo. Potevano forse ritornare da un momento all'altro.Infatti Massimo li incontrò sulla scaladiscendendo. DonAureliosulle primenon lo ravvisò. A Milano? Come mai?L'altro pretevedendo Massimosi oscurò in viso.

Era un ottimo uomorigidissimo infatto di dottrina ma non portato a pensar malea fiutare eresie ederetici dappertuttopieno di caritàgiustoincapace dispionaggi e d'ipocrisie. Proteggeva don Aurelio perché neconosceva le opinioni rosminianeavverse all'agnosticismoilcostume e la pietà esemplari. Di Massimo non pensava così.Ne aveva disapprovato il discorsoprestava fedenon conoscendoloche di salutoa certe calunnie di origine farisaica.

Massimo comprese e invece ditrattenersi con don Aurelio lo pregò a voler passare da luiverso mezzogiorno. Malgrado l'ora mattutinaerano appena le diecipensò di recarsi appunto da quella signora il cui nome erastato malignamente accoppiato al suo. Ella gli aveva mandatogiorniprimaun biglietto a San Spirito colla preghiera di passare da leia qualunque oraappena ritornasse a Milano. Massimo vi andòper cortesia ma non volentierimalgrado l'affinità d'ideepolitico-religiose che lo aveva legato un tempo a quella signora inuna comune azione di propaganda. La buona signorache aveva unmarito molto accorato delle sue inquietudini idealistiche e quattrogrossi figliuoliuno più maleducato e sudicione dell'altrolo accolse con una esplosione spaventevole di angoscie affettuose. Mafinalmente! Ma finalmente! Macaro Alberticaro Alberti! Cosa hafatto? Dove si è cacciato? Perché è fuggito?Perché è stato fuori tutto questo tempo?

Cosa Le è venuto in mente? Manon sa come le cose sono andate peggiorando qui? Non sa che sonotutti contro di Lei? Se fosse stato quiavrebbe potuto difendersipersuaderee Lei si eclissanon se ne sa più niente!Qualcuno ha persino detto ch'Ella era entrato in un convento come ilSuo maestro. Chi diceva a Subiacochi diceva a Praglia. E non saquesto? E non sa quello? Qui la signorache professava in teoria undisprezzo mistico del mondo e in pratica si prendeva una scalmana perogni chiacchiera un po' salata che le riferisseroraccontò aMassimo le stesse cosesu per giùche gli aveva riferitel'amico. Quando venne alla più delicata si coperse a due maniil viso quadragenario ed esclamòfra gemebonda e ridente:

"Oh Dio DioAlberti Albertimanon sa ch'Ella non dovrebbe venire da meche forse faccio male ariceverla? Non sa cos'hanno avuto il coraggio di dire?".

La signora aveva una cameriera moltobella. Massimo era tanto seccato da quel torrente di ciarle rotto inmille sprazzisentì così acuto il ridicolo dellasituazioneche gli scappò detto: "Cosa? Forse che vengoper la Sua cameriera?".

La signora rimase un momentointerdettama era troppo buona e semplice per offendersifu anzicontenta dell'equivoconon suppose Alberti capace di malignità.Solamente dopo la sua partenzariflettendo sull'equivocosi domandòcome mai egli avesse notato la gioventù e le grazie dellacamerierasi disse nel segreto del suo cuore candido: "Guardaon poo!". Allora troncò il discorso con un frettoloso"Basta basta bastameglio non parlarne!". E mise in campola proposta che le stava a cuore: una terza conferenza. Bisognavatenere assolutamente una terza conferenzaper spiegare la prima e lasecondacorreggere certe impressionisopra tutto quella di unossequio esagerato all'Autorità.

Ella ne aveva conferito con alcuneamiche. Era in grado di proporgli un tema bellissimo eopportunissimo: "Da Dollinger a Loisy". "Cara amica"rispose Massimo"se riprendo la pennanon sarà perscrivere delle conferenzesarà per farne una striglia. Ma noncredo che la riprenderò."

Ritornato a casa verso mezzogiornotrovò un telegramma di donna Fedele coll'annuncio della mortedel signor Marcello. Ne rimase esterrefattodesolato. Non avrebbecreduto di volergli tanto bene!

Andò a salutare lo zio coltelegramma in mano e la faccia stravolta.

Di solito i loro incontri eranopenosamente silenziosi e tanto lo zio quanto il nipotema il nipoteassai piùsi torturavano il cervello per cercare temi diconversazione che permettessero loro di rompere il silenzio senzacontatti sgradevoli d'idee e di giudizi. Il funebre telegramma diedeloro argomento di discorrere e fuin quel primo incontrounsollievoperché l'uno e l'altro avrebbero avuto la menteimbarazzata di troppi temi da non toccare. Il telegramma neprometteva un altro col giorno e l'ora del funerale. L'ingegneredomandò: "Vai?".

Massimo esitò un momento. Il sìgli salì fino alla gola. Rispose "no"

risolutamenteper legarsitogliersial pericolo di qualche possibile debolezza. L'ingegnere non parlòma gli si vide in faccia che quel "no" gli era parsostrano. "Vorrai mandare un telegramma" diss'eglie offersedi farlo spedire dal cuocodopo colazione. Massimo rispose che nonoccorreva. Ci avrebbe pensato egli. Fece colazione collo zio e salìnel suo quartierepieno il cuore di Lelia in lagrimesola nellavilla ottenebrata dalla Morte. Prese la penna per preparare iltelegramma. Ancora lo strinse alla gola il desiderio di andaredivederla. Gittò la pennadicendo forterabbiosamente:

"Diocome son vile!"

E si guardò intornoatterritoche qualcuno avesse potuto udirlo.

Riprese la pennapensò. Cercòparole diverse dalle soliteparole espressive dei suoi particolarisentimenti verso il morto e verso la viva. Non venivano. Gli parveche sarebbe stato più opportuno un telegramma incolore. E seinvece di un telegrammaspedisse una lettera? Decise di telegrafarea donna Fedele e di scrivere alla signorina. Scrisse queste pocheparolerapidamente:

"SignorinaElla piangeimmaginoun uomo che La beneficò paternamente. Io lo piango piùancora di Lei per il beneficio che n'ebbisuperiore a qualsiasialtro: per un altospiritualeinestimabile beneficio di affetto edi stima. Sia benedettacome la memoria del figliola memoria delpadre.

Dev.mo MASSIMO ALBERTI.


Entrò la Peppina e annunciòdon Aurelio. La triste notizia datagli da Massimo lo addolorònon lo sorprese. Prevedeva; solo non avrebbe creduto cosìpresto. Povero signor Marcello! Dopo essersi confessato da luil'ultima voltagli aveva parlato della signorina Leliadel suodolore di lasciarlaprobabilmente prestosolasenz'appoggioesposta a ricadere in mano di suo padrea finire Dio sa come. DonAurelio non andò più oltreinterrogò Massimocollo sguardo. "Cosa è successo?" dicevano quegliocchi inquietipresaghi di una risposta non lieta. Massimo nonaspettò parolerispose:

"Mi vede qui." Don Aureliotacqueaddolorato. Poi gli domandò sottovoce se non andasseal funerale. "No" rispose il giovine.

"Scrivo. Anzi ho scritto. Vuolleggere?" E gli porse la lettera. Don Aurelio lesseduròa guardare lo scritto dopo averlo letto.

"Va bene" disse finalmente"ma capisco che tu abbia scritto "affetto"noncapisco che abbia scritto anche "stima"."

"E la parola che ci vuole"rispose Massimo. "Lo creda pure"

Don Aurelio gli restituìsospirandola letteranon chiese spiegazioni che sarebbero statelo indovinavapenose. E raccontò la visita fattaall'Arcivescovo cui aveva recato una lettera di presentazione delVescovo di Vicenza. Sua Eminenza lo aveva accolto con molta bontàgli aveva promesso di accettarlo nella sua diocesi.

Certo un po' di tempoper metterlo apostoci voleva. Intantoperché potesse guadagnarsi un panegli si potevano cercare delle ripetizioni. Si avvicinava l'autunnoc'erano gli esami di ottobreil momento era buono. Gli consigliòfinalmente di vivere a sécon grande prudenza. Disse questopaternamente e paternamente anche sorrise dei preti di Velo d'Astico."Me li immagino; buona gentebrava gentema che vede ereticidappertutto. Conosco un prete ch'è venuto a denunciarmi comeeretico un collega che abborre tanto il vino da condire l'insalatacol limone invece che coll'aceto." Don Aurelio era moltocontento. E i suoi libri? Cosa ne succederebbeora? Massimo lorassicurò. Donna Fedele avrebbe pensato a tutto. Egli eracurioso di sapere cos'avesse detto di lui l'amico di don Aurelioquando si erano incontrati sulla scala.

"Ho visto" diss'egli "lafaccia che ha fatto!"

Don Aurelio sorrise.

"Mi ha detto molto male di temain buona fedepover uomoper averlo inteso dire. Mi ha detto chesei teosofoche non credi nella divinità di Cristoche noncredi nella Risurrezioneche non credi nella Presenza reale e via diquesto passo. Insomma ho avuto molto da fare a persuaderlo ches'ingannava. Quando si è persuasone è stato moltofeliceperò mi ha consigliato di vederti poco."

"Ci scriveremo" disseMassimo. "Del resto io non desidero certo di rimanere a Milanolungamente."

Informò l'amico dei fastidi edegli sdegni che gli rendevano grave il soggiorno di Milano. Poi glisi aperse circa certe preoccupazioni di carattere diverso chegl'impedivano di ripartire al più presto. Di proprio nonpossedeva che un capitale di quarantamila lireinvestito in un mutuoipotecario di prossima affrancazione. Dallo zio aveva l'alloggio e ilserviziola mensa quando gli piacessee un assegno di duecento lireil mese. Le milleseicento lire che gli fruttava quel capitale eranola piccola rocca della sua indipendenza. Malgrado l'affetto chesentiva per lo ziola venerazione che gl'ispiravano le grandi virtùdi luitemeva sempre che dal profondo disaccordo latente delle loroideedelle loro tendenze intellettualipotesse venire una crisinella quale gli riuscisse grave il giovarsi ancora della suagenerosità. Perciòinclinando poco all'esercizio dellamedicinanon avendo modo di campare coi lavori predilettigli eranecessario di collocar bene quel danaro. Lo disse a don Aureliosorridendo malinconicamente delle preoccupazioni materiali cui nonpossono sottrarsi neppure i più fervidi idealisti. Nel casosuo gli s'imponevano ricerche di persone che avessero bisogno didanaropratiche con notaicontratti; oppure indagini sulla soliditàdi titoli bancariidi titoli industrialinegoziazioni di quelgenere.

Non poteva pensare alla renditapubblica che al tasso di allora gli avrebbe reso quasi duecento liremeno. "Anche duecento lire"

diss'egli"per me possonosignificar molto."

I due amici uscirono insieme; donAurelio per una visita che avrebbe potuto fruttargli due lezioni lasettimanaMassimo per mettere alla Posta la sua lettera e pertelegrafare a donna Fedele.


3.


L'indomani mattina la Peppina disse aMassimo che suo marito lo pregava di volerlo ascoltare. Il maritovenne e ricomparve anche la Peppinasi tenne presso l'uscioquattropassi più indietro del consortein un'attitudine di sostegno.Il Tognappena oltrepassato l'iniziale "ch'el senta"s'impelagò in un mare di scuse per quello che intendeva direin un mare di - L'à de perdonà - tocariss minga a mi mime sta minga ben - el soo - l'è inscì - ma insomma -eccola - certi rob - mi l'è la premura che goo per Lü -se po minga tasè - certi rob - vera ti? - La mogliinterpellata cosìmormorò "sìgià"

e con un - eccola - finale il Tognchiuse il suo esordio.

Aperse la seconda parte dell'orazionepresso a poco nello stesso modo:

"Doncach'el senta." Evolgendosi ogni tanto a raccogliere le conferme della moglie con dei"vera ti?"si mise a raccontare le gesta della BeataCiapasü. Ne fece la biografiatrattenendosi particolarmentesull'ultimo episodiosul progetto di fabbrica a Porta Vittoriasuldono della damasulle visite quotidianeo quasiall'ingegnere.Preparò così una uscita di effetto nella quale innalzòanche un pochino il linguaggiocolorendolo colla cantilena specialedegli avvertimenti profetici. "E benio ci dico che quelCiapasü lì el sarà la rüina di questa casa.Mi L'avvertissiio L'avvertiscoperché l'è il miodovere che giüsta sem d'accordi anca cont la donna chì -vera ti? - E Lü ch'el se fida de io. Adess el sentirà."

Massimo non udì il raccontoprofetico delle macchinazioni che minacciavano il gruzzolodell'ingegnereperchéquando gli parve di avere afferrato ilsenso intimo del discorsointerruppe l'oratore.

Come? Non era padrone dei suoi danariil signor ingegnere? Che ragione avevano loro di dolersi che lispendesse in un modo o in un altro? Vista la mala paratai dues'infervorarono a protestare che si erano decisi a quel passounicamente per il suo interesse. Allora Massimo andò tantosulle furie che i due malaccorti coniugi - ch'el scüsa ch'elscüsa ch'el scusa - infilarono l'uscio.

Egli si recòpiù tardidal suo notaio. Ritornando a casaincontrò l'amico che gliaveva scritto la famosa lettera. Costui era andato a cercarlo a SanSpiritolo voleva portare a colazione da una dama di conoscenzacomune. Massimo rifiutò. L'amico insistette. Aveva unbiglietto napoleonico della dama: "So che Alberti è aMilano. Me lo porti domani a colazionevivo o morto". Eglistesso era invitato da tre giornisupponeva che vi fosse moltagente. La damaun'egoista intelligentesentimentalecoltasiprendeva talvolta il gusto d'invitare una quantità di personedelle più opposte tendenzeaccontentandosise erano stupideche fossero ricche o titolatese erano intellettualiche avesserola camicia pulitapigliandole anche colla camicia sudicia secelebri. Qualcuno si seccava e non ci ritornava più. Lamaggior parte ci ritornavachi per la conversazione arguta delladamachi per l'eleganza delle salechi per l'abilità delcuocochi per la squisitezza dei vinichi per vantarsene e vantareogni cosachi per vantarsene e dir male di ogni cosa. Massimoimmaginò che la dama ci tenesse tanto ad averloper darlo inpasto ad avversari suoi. Gli pareva già di udirlagiustificarsi. "La ho desiderata per amiciziaperchéElla potesse dire le Sue ragioni"mentre in fatto il solo suofine era di divertirsimettendo alle prese fra loro della gented'ingegno. Ella lo sospetterebbe forse di viltàma che glieneimportava? In nessun caso e da nessuno avrebbe accettato un invito acolazione mentre il povero signor Marcello giaceva ancora sul suoletto funebre. L'amico trovò esagerato questo riguardoma nonlo poté discutere.

Massimo fece colazione collo zio chetrovò perfettamente bene e in colloquio con don Santinoilqualeal comparire del giovanesgattaiolò via quasi aprecipizio. Lo zio non parlò di questa visita se non dopo chefu portato il caffèquando la Biginche aveva servitose nefu andata a far colazione per conto proprio. Allora ne parlòsottovoceesagerando il tono della confidenzacome se il dire solo"t'è vist quel pret?" fosse già mostrare unsegreto della cassaforte. La confidenza continuòsempresottovocebonariainsolitamente affettuosaun po' confusa peròper la preoccupazione di un fine premeditatoper il dubbio di urtarein qualcheduno o in qualche cosa prima di arrivarvi. Il visodell'ingegnere era ilare; anzisulle primefurono più lerisatine che le parole. Le risatine andavano al cuoco e alla mogliedel cuocoche non potevano vedere il prete. Il padrone se n'eraaccortoaveva indovinato i loro timori segreti e rideva; perchéla sua grande indulgenza per i domestici non gli toglieva digiudicarli per quello che valevano e forse anche per meno. Avevadunque indovinato che vedevano di mal occhio il prete "perchécreden de restà in camisa lor". Il cuoco gli aveva dettouna voltaquasi aspramente: "El sa quell ch'el faquel pretlìa vegnì chi!". La cameriera no. La camerieraera tutta cosa di don Santino.

Alla cameriera l'ingegnere aveva dettoun giornosicuro ch'essa lo avrebbe riferito al cuocoche a quelsant'uomo egli sarebbe disposto di dare tutto il suo. Qualcosa disimile aveva detto anche alla Peppina. "Foo a posta!"diss'egli pianoin falsettospalancando la bocca con una risatinadi soddisfazione per la propria malizia feroce.

Poi parlò sul serio dei progettidel prete e delle proprie disposizioni. Intendeva dare per nientel'opera propria d'ingegnere e cinquemila lire. Il prete sperava moltodi più maquanto a questoconchiuse l'eccellente uomo"l'èmatt". Soggiunse che conosceva i propri doveri e non soltantoquelli verso i domestici. Massimo pensò ch'egli avesse saputodelle informazioni dategli dal Togn e che tutto il discorso avesse loscopo di rassicurarlo. Ne fu molto seccato.

Protestò di non conoscerglialtri obblighi oltre a quelli verso i domestici. Mentre parlava cosìlo zio borbottava continuamente: "Ma ma ma ma ma"tenendogli occhi sulla tovaglia e scotendo le manicome per allontanar dasé le parole del nipote. Messo fuoriquando potéun"te vedet?"fececon certo suo particolare tono difermezza blandauna dichiarazione di principii testamentari. Diquello che aveva guadagnato colla professione poteva disporreliberamente; quello che aveva ereditato da parenti doveva andare aparenti. Siccome Massimo protestava più che maisi oscurònel visoparve volergli fare intendere che non era questione diaffetto ma di coscienzaesclamò concitato: "Pientèmelalìpientèmela lìperché adesso io devofare i miei mille passi per la mia digestione" ealzatosi datavolacongedò il nipote. Quando faceva i mille passi per ladigestione percorrendo cinquanta volte in su e in giù quattrostanzette in filavoleva esser solo. Massimo uscìrisolutodi abbandonare Milanodi provvedere a se stessodi fare quantostava in lui perché lo zio non lo considerasse un ostacolounlimitealle sue buone opere.


4.


Prima di pranzo quel tale amico venne acercare di lui. La damadesolata di non averlo avuto a colazionesperava vederlo la sera. Non era una sera di ricevimento. Alberti nonavrebbe trovato che pochi intimi.

Vi andò alle nove e mezzo. Trovòla dama sola con una sua figliuola nubileuna signorina suiventicinque anni. La dama non l'aspettava così presto e quasine parve inquietatanto temé in cuor suo che fosse venutopresto per partirsene anche prestociò non essendo neidisegni di lei. Fu molto gentilegli parlò di questa morteche lo aveva turbatos'informò del mortodella villadelpaese. In breve il povero signor Marcello fu da lei sepolto edimenticato. Passando dallo stile compunto allo stile scherzosoelladomandòsorridendo senza dirne il perchése Pragliafosse molto lontana da Velo d'Astico. Massimo diventò rosso estava per rispondere che era lontana quanto tutte le lingue milanesimeno la sua propriamesse in filaquandoper fortunasopraggiunsero due signore e due signoriaccolti molto festosamentedalla signorinache con Massimo era stata quasi impertinenteavevapersino letto un giornale mentr'egli parlava della Montanina e delsignor Marcello. Le due signore erano straniere. Una di essegiovinee bellaera russa; l'altravecchia e bruttaera svizzera. Il piùanziano dei due signori era un professore di Paviagrande e grossomal tagliatorumoroso e galante. L'altrogiovine e piccoloera unuomo politicomolto curioso di cose intellettualigalanteanch'eglima con assai maggiore finezza del professore.

Massimo li conosceva più o menotutti e quattro. Il nome della bella russauna teosofa misticaerastato accoppiato qualche voltanelle conversazioni milanesial suo.In fatto ella gli aveva mostrato simpatia e Massimo le perdonava lasua mitologia teosofica in grazia della bellezzadell'ingegno eanche del misticismo. La vecchia svizzerafredda positivistaparlava di lui come di un bigottodi un retrivo. L'uomo politicobenché lontano dalle idee religioseda ogni religionepositivaera fortemente inclinato a stimare questo giovine pienod'idealitàche tanti vituperavano; maprivo di coraggiocivilenon avrebbe osato prenderne le difese.

Massimo sentì subitovedendoentrare quella genteche appunto la dama si era proposta di dare asée anche a lorolo spasso di un torneo intellettuale. Fucontento di vedere la vecchia svizzera e il professoreche glieccitavano l'estro bellicoso. Nessuno dei sopravvenuti si occupòsulle primedi lui. Il professore e la vecchia svizzera furonosubito alle prese fra loro. Avevano in tutto le stesse ideema se inuna discussione la svizzera si trovava a fronte una donna giovine enon troppo bruttail professore si metteva subito con questa. Alloral'altra se ne stizziva tantogli diceva tante ingiurie ch'egli ci sidivertiva un mondo. Non mancava maiquando ne aveva l'occasionediprovocare discussioni a questo fine.

In principio la vecchia abboccava; poisi accorgeva del tiro e si chiudeva in un silenzio gelido. Alloraegli blandiva ed ella si liquefaceva; in parole grossema siliquefaceva; e la commedia ricominciava. L'esca che il professoreadoperava spesso per accendere il fuoco era qualche stramberiasull'amore. Oramaiperòl'amore non serviva più. Lavecchia capiva subito. Questa volta il professore aveva adoperatoun'altra escatroppo grossa: la Russia dovrebbe dichiarare la guerraalla Svizzera per causa dei rifugiati nihilisti.

La vecchia lo investì in malomodo: "Sono vecchia" diss'ella"ma crede Lei diessere giovine? Crede di essere seducente? Crede di piacere a questasignorinadicendo stupidità di orso? Lei starebbe bene nellafossa di Berna. Si vergognibrutto uomo. E' facile che la Russia siaconquistata dalla Svizzera con sue piccole manipiuttosto che da Leicon Sua grossa pancia"

Tutti riserola signorina russa e ilprofessore più degli altrimentre la vecchia continuava infrancese il suo sfogo contro "cet homme insupportable"rivolgendosi alla dama. L'uomo politicoal quale la Russia piacevamoltosi offerse negoziatore di pace a Pietroburgo.

La vecchia s'inviperì anchecontro di luifacendosi applaudire dal professore; tanto che lapadrona di casa alzò faticosamente la sua vocina velata comegli acuti di un piccolo piano chiuso dentro un grande imballaggio esuonato da spiriti: "Bastabastala pace la detto io! E leicosa diceAlberti? Dica qualche cosa!".

Non l'imperioso "basta" ma ilnome Alberti fece l'effetto dell'olio sulle onde. Quel silenzioimprovviso parve significare: "Che c'entra lui? Cosa puòdire?". Infatti Alberti rispose che non aveva proprio niente adire e chein ogni casopoiché c'erano conflittiegli siatteneva alla neutralità armata. "Allora ci avràtutti contro" disse la Svizzera. La Russiache non aveva quasiancora aperto boccadisse piano: "Oh sì" e lasignorina di casa ebbe un sorriso significativo.

Il professore prese notatuttocontentodi questi brutti segni: O' ò òqui va malecaro Alberti! "Ma è armatoAlberti" osservòcon simpatia l'uomo politico. La damacontenta ella pure della piegache prendeva la conversazionele diede la spinta definitiva.

"Lei ha fatto bene ad armarsiAlberti" diss'ella ridendo"perché la signorinaGrussli ha delle intenzioni bellicose."

"Oooh siiioooh siii"esclamò la sessantenne signorina Grussli. "E ho piaceredi dirlo al signor Alberti perché in passato avevamo discorsoinsiemeebenché non abbiamo le stesse opinioninon eromalcontenta di lui come adesso. Oooh nooo!"

"Ma perchéperché?"domandò la damaavida di soffiar nel fuoco.

"Inutile dire! Tutti questisignori sanno e anche il signor Alberti."

"Io veramente no" risposeAlberticon un sorriso freddo. "Ma del resto..."

"Lei vuol dire che non importa dime? Ma importerà forse di altricredo. Se Lei non saiodirò. Io sono stata a Sue conferenzesignoresu eretici delsecolo sedicesimo. Non è piaciuto niente né me néaltricome Lei ha detto che quelli dovevano tacereobbedire.

Domandi questi signori."

Il professore protestò. Dichiaròdi essere un positivista troppo lontano dalle idee di Albertidaqualunque idea religiosaper aver piacere o dispiacere che siparlasse degli eretici in un modo o nell'altro. Egli non facevadifferenza fra eretici di qualunque tinta e cattolici di qualunquescuola. Tutt'al più poteva dire che per lui i cattoliciintransigenti erano i più logici e perciò i piùsimpatici.

La svizzera lo rimbeccòaspramente. Anche per lei ereticimodernisti e papisti si valevanoma poi c'era una questione moraleuna questione di dignitàdi sincerità. "Mi pare!" fece la damigella di casa.Ma la bella Làlinala russarincarò la dose.

"Io non sono positivista"diss'ellaparlando francese"e ho avuto una disillusione moltomaggiore di quella della signorina Grussli e ho piacere di dirlodirettamente al signor Alberti. Io ho le idee di Annie Besantmaforse non sarei stata lontana dal farmi cattolica se le idee che holetto negli articoli del signor Alberti fossero state accolte dallasua Chiesa. Io ero entusiasta di quegli articoli.

Credevo che il signor Alberti sarebbestato un apostolo pieno di fede e pronto al martirio. Invece la suaconferenza mi ha fatto intendere ch'egli non era questo apostolocheneanche un piccolo rogo freddo era di suo gusto."

Qui la damigella di casa risecercandometter nel riso tutta l'insolenza possibile; e sua madre credettemedicare le ferite russegemendonon senza ilarità negliocchi:

"Oh povero Alberticome me lomaltrattano!"

"Quanto a rogo" disse l'uomopolitico"mi pare anzi che il signor Alberti lo abbia cercato eche in questo momento vi stia proprio sopra. Non sarà il rogodella Santa Inquisizionesarà un rogo di "bois desandale" ma però io sento odore di arsiccio. Del restosignorina Grussliardo anch'io senza il rogo."

"Oh" esclamò laGrussli "ma Lei non sa di bruciatoLei sa di cotto!"

Intanto Alberti pensava: "Non diròil fatto loro a queste sciocche perché sono signore? Ancora unpo' e lo dico". La dama lo apostrofò:

"E LeiAlbertinon dice nulla!Non si difende?"

"E' bruciato!" esclamòallegramente il professore. "Rispettiamo almen le ceneri!"

"No" rispose Massimocontento di avere trovato una risposta dura.

"Non mi difendo. Avrei paura dipersuadere. Ho fatto il vuoto intorno a me. Ella non puòcredere quanto mi sia delizioso di esser solo. Non sento proprionessun bisogno di difendermi. Mi lasci tacere. Se parlassidireiforse parole troppo poco umili e troppo poco gentili."

"Ma non Le si domanda umiltànon Le si domanda gentilezza" ribatté la dama. "Lesi domandano ragionamenti."

"No nocara signoranon ho uditoche nessuno mi domandi ragionamenti."

"Ma io" esclamò ladonna"ioli domando!"

"AhLei!" fece Massimo.Tacque un poco e riprese sorridendo: "Domando qualche cosaanch'io. Non ho voluto il piccolo rogo freddo della signorina Làlinaperché non mi poteva servire neanche per il thè.

Domando se quest'altro terribile rogosul quale ho udito che stomi possa scaldare una tazza di thè".

"Non sia così rabbiosoAlberti!" replicò la dama.

La damigella mormorò:

"A momenti ci morde."

"Oh nosignorina" risposeMassimo ridendo "In avveniresi guardi; ma per ora ho lamuseruola."

Il thè fu servito in un'altrasala. La dama si prese Massimo in disparte.

"Perché non si èdifeso?" diss'ella. "E' stato male. Il professore ha fattoun gran chiasso contro di Leipersino in iscuola."

"E che me ne importa?"rispose Massimo. E andò a conversare colle due stranierefumolto amabile. Non si curò invece di essere amabile colladamigella di casa. La Grussli e la Làlina erano persone pocoequilibratepoco riflessiveinegualiintellettualmentealla parteche volevano rappresentarema sincere e appassionate per le loroidee. L'ostilità della damigella di casa era menorispettabileera l'attitudine presuntuosa di una donna superiore pernatali e ricchezzemediocre per ingegno e culturachepigliandosul serio gli omaggi resi alla sua femminilità aristocraticaalla sua istruzione più appariscente che solidasi erige agiudice di uomini e d'idee senz'averne la competenzasentenziasecondo un suo semplicismo sentimentalecon gran sicumeradi coseche mal conosce e poco è atta a comprendere. A Massimo chel'aveva udito proclamarein fatto di religionedi non crederquestodi non creder quellocose grossee poi la vedeva correre amessa la domenicaella irritava i nervi assai più delle altredue avversarie. Non le parlò più per tutta la serata.


Nell'uscire gli si accompagnòl'uomo politico. "Senta sentacaro Alberti" diss'egliquando furono in stradaprendendolo a braccetto.

"Lei ha fatto benissimo a nondiscutere. Quella è gente che ragiona poco e male. Ilprofessore è fine come un rinoceronte e le donnettepoverinefanno quel che possono. Anche la russa. Carina tantoma non èdi religione che vorrei discutere con lei. Carina tantodel resto.

Ma lasciamo andare. Illumini un poco meche mi trovo al buio. Mi risponda proprio sul serioproprio secondoil suo pensiero intimo e io prometto di non tradirla. Crede Leidavvero che questa vecchia barca di San Pietro non deva fatalmenteandar a finire in un magazzeno del Ministero della Marina? O almenocrede Lei che possa andare avanti a remi o a velache anche SanPietro non sia costrettoun giorno o l'altrodi prendere un motore?Lei non mi risponda come risponderebbe in pubblico. So bene comerisponderebbe. Si capisceLei si professa cattolico. Tanto sarebbefare una domanda simile al cardinale di Milano. Io Le domando la Suaconvinzione intimaquia quattr'occhi.

Vuol dirmela?"

"Perché no?" feceMassimo. "Le risponderò come Pio nono ai cardinali chegli parlavano della barca sicura fra le tempeste. La barca nonaffondané si arenané finisce in un magazzeno.Quanto ai barcaiuoliè un altro affar."

"Via via" rispose il suointerlocutoremalcontento. "Questi sono dei motti. Io non Ledomando dei motti."

"Mascusianche il magazzenoiremi e il motore sono dei motti. Del restose desideraLerisponderò diversamente. Se io credessi che la Chiesanellaquale stopotesse caderenon aspetterei il terremotone uscireisubito. Ma Le assicuro che neanche un terremoto me ne farebbe usciretanta è la mia fede nelle sue fondamenta e nella coesionedelle sue pietre."

"Beato Lei!" esclamòl'onorevole deputato fermandosi e sciogliendo il suo braccio daquello di Massimo. "Dica un po'. Non ci aveteoltre la Chiesavisibileanche la Chiesa invisibilevoialtri cattolici? Sìvero ? Ebbeneiose fossi Leipensando al terremotomi sentireipiù sicuro nella Chiesa invisibile."

Erano davanti al caffè Cova.L'uomo politico era aspettato lìda un gruppo di amici."Senta" diss'egli"Ella è giovineio sonoquasi vecchio; ho molta simpatia per Leimi permetto di darle unconsiglio.

Non si occupi tanto di religione. Siaccontenti delle Sue credenzedelle Sue pratichema non si occupidi questioni religiose per il pubblico. Il nostro pubblicoaparlargli tanto di religionesi secca. Non capisce che un giovinecome Lei si perda intorno a cose che riguardano un altro mondo e nonquesto. Ha inteso?" In quel familiaresorridente "hainteso?" l'uomo politico mise l'accento caldo della sua simpatiae anche un accento gentile di autoritàdell'autoritàdi quel mondo che non comprendeva Massimodi un grande e potentemondocomposto di uomini arrivati a comodi seggiesperti dellavitapersuasi che il problema dei problemi è viverla il piùgradevolmente possibile; composto di altri uomini non arrivatiancorapresi dalla politicaavvezzi a considerarla come la supremarealtàa stimar poconon a parole ma in cuor lorotutto chenon ha valore politicoch'è fuori della contesa per il poterepolitico.

"Non ho capito" risposeMassimoridendo. "Io ho piaceresadi seccare il pubblico."

"Gusticaro!" disse l'altroentrando nel caffè.

Massimorimasto solosi avviòa casa. Era contento di séamaramentefieramente. Si stavabenea fronte di Lelia a fronte dello zioa fronte del mondonemicodel mondo schernitoredel mondo indifferentenella suatorre di orgoglio. Se la innalzònel pensierofino allenuvolese la rivestì di acciaio e d'orosi compiacque distare nella Inespugnabilesolo. Invece di svoltare da via Manzoni invia del Monte Napoleoneproseguì distratto fino agli archi diPorta Nuova. Adesso la questione era di scegliere il postofuori diMilanodove portarsi la sua torre. Pensandocercandopassòanche gli archi. L'idea di concorrere a una condotta medica inmontagnabalenatagli fra i castagni della Montaninalo riprese. Eandò intanto fino al Sottopassaggiodove il senso dellarealtà topografica lo riafferrò.

Rientrato in casascrisse a donnaFedele per giustificarsi di non andare al funerale. Scrivendo glivenne l'idea di fare invecefra qualche giornouna visita alcimitero di Velo. Si poteva andarvi dalla stazione di Seghe fra untreno e l'altro. Stracciò la lettera e ne scrisse un'altracoll'annuncio che il quattro luglioal toccosarebbe sceso a Segheper questa visitaesprimendo la speranza di avervi compagna l'amica.



Capitolo Settimo


VERSOL'ALTO E VERSO IL PROFONDO


1.


Il quattro luglioalle dodici e trequartidonna Fedele arrivavanel solito biroccino tirato dal solitocavalluccioalla stazione di Seghe. Si divertì a farconversazionenella sala d'aspettocon un vecchio mandrianopuzzolentedal quale l'ostessa del villaggio si era allontanata conuna smorfia di schifo. Udito il fischio del treno da San Giorgiouscì nel sole ardente senza curarsi di aprire l'ombrellino.Prima ancora che il minuscolo treno si fermassevide Massimoaffacciato al finestrino dell'ultima carrozzagli mosse incontrosorridente. Massimo la trovò tanto pallidatanto sofferentenell'aspettoch'ella gli lesse in viso la sua impressione. Nessunodei duenel primo momentocercò parole a quel motodell'anima che li univa nel senso della recente sventura. Uscendodalla stazioneella gli domandò quando intendesse ripartire.Subitocol treno successivoper ritornare direttamente a Milano.Avevano due ore di tempo. Lo invitò a salire nel biroccino chein pochi minuti li avrebbe portati a San Giorgiodov'è ilcimitero. Si avviarono lungo l'Astico grosso e sonante per una granpioggia caduta nella notte. Ella parlò della sventuraricordòi segni premonitorii particolari dell'ultima serail temporaleifiori portati all'apertoil denaro deposto sulla scrivanialalucerna trovata accesal'aspetto del cadavere. Parlava quietaquietanel triste rombo delle acque correntiche stringeva ilcuore. Stringeva il cuore anche il riso dei prati e dei pioppi nelvento. Di Lelia non fu detta una parolaperché il vetturinoavrebbe udito. A San Giorgio il custode del cimitero indicòloro una macchia nera di terra smossa e si tenne in disparte. DonnaFedeleche aveva portato con sé due rosene diede una aMassimo. S'inginocchiarono nell'erbaposarono le rose sulla terrasmossasenza sfogliarlepregarono in silenziomentre il custodeera alle prese con una frotta di fanciulli curiosisdrucciolatidentro il cancello. Quelle voci disturbavanoparevano offendereanche il povero morto. Donna Fedele si alzòordinò aifanciulli di inginocchiarsi e di stare zitti.

Obbedironoaffascinati dal suo imperodolce. Ella ritornò dove Massimo l'aspettava. Rimasero ancoradue minuti. Egli ebbe l'impressione di un sentimentoin leipiùforte del suo proprio. Del passato non sapeva niente e questaimpressione lo distraevalo faceva pensare più a lei che almorto.

Prima di risalire nel biroccinoellagli disse che desiderava parlargli di cose delicate. In carrozza nonera possibile per la presenza del vetturino. Nella sala d'aspetto diSeghe non era piacevole. Propose di passare il ponticello di legnoche congiunge Seghe alle case dette gli Schiri e di prendere ilsentiero ombroso che scende sulla sinistra dell'Astico.

"Devo parlarle di Lelia"diss'ella quandolasciato il biroccino presso l'ufficio postale diSeghesi misero per un viottolo fra casupole nere. "Devo?"pensò Massimo. Perchédeve? Ha un incarico?

Tacquesi mise in difesa.

"Devo domandarle consigli"riprese donna Fedele "non tanto per Lelia quanto per meriguardo a lei."

Il discorso fu interrotto perl'incontro di una brigata di signori e signoreconoscenti di donnaFedeleche salivano dal ponte. Intantoall'uscita dalle casupoleapparvero le correnti largheirritatedell'Astico e il gran verdeil cielo aperto fra le due ali della valle scendenti al piano.

"Questo punto" diss'ella"piaceva tanto al povero signor Marcello."

"Consigli per Lei?" chieseMassimo.

"Eh sìper me"rispose donna Fedele. "Sa che Lelia è in casa miaadesso?"

Massimo si fermò su due piedi.Donna Fedele guardò l'orologio.

"Abbiamo un'ora e un quarto"diss'ella. "Andiamo a sedere."

Passarono il pontesvoltarono adestrasedettero sur una muriccianelle ombre mobili e rotte deicarpini che porgevano frondi agitate sopra la corrente luccicante disolein faccia alle casupole nerealte nel verdeoltre il fiume.Donna Fedele cominciò a dire del testamentodell'errore incui era stato il povero signor Marcello circa l'età dellaragazza. Suo figlio gli aveva detto che toccava i diciott'anni quandone aveva solamente sedici. Forse era stato ingannato anche lui.

"Il padre di Lelia" proseguìdonna Fedele"informato subitonon si sa comefece sapere pertelegrafo che la ragazza era minorenne e che venivanaturalmenteaprendere il suo posto di padre. Lelia ebbe una crisi terribile.Rifiutò di vedere suo padre. Egli mi fece pregare di andarla aprendere. Me la portai a casa. Si fecero i funerali. Ella non viandò. Neppure avrebbe potuto. Passò la intera giornataa lettocon una emicrania violenta. Andai io. Il padre c'era."

"Che uomo è?"interruppe Massimo.

Ella ebbe un'esclamazione di ribrezzo.

"Ah! Schifosoall'aspetto. Sifiguri una testa di cera da parrucchierevecchiamal dipintasporca. Parla come uno stupidoduro duro. Si direbbe paralizzatodalla soggezione. Di mealmenoha mostrato una gran soggezione.Dice sempre di sì a tuttopare incapace di dire di no. Se nonsi sapesse ch'è un volponelo si crederebbe un cretino. Dopoil funerale è venuto a farmi visita: "a far un "dovare"un "dovare". Pronuncia così. Domandò se sipotesse vedere Leliacome lo avrebbe domandato un fattore e non unpadre. Ella non volle saperne e lui "povaretapovareta" sene andò contento egualmente. Un tipo unico. Stamattina mimandò un biglietto per farmi sapere che partiva coll'agenteche sarebbe stato fuori tre o quattro giorni e che speravaritornandodi trovare Lelia alla Montanina. Ma Lelia..."

Donna Fedele pronunciò questedue ultime parole piano piano e tacquesegnando lentamente nell'erbauna domanda che non venne.

"Lelia mi dà un granpensiero" diss'ellaancora sottovoceancora segnandogeroglifici nell'erba"e vorrei un consigliovorrei avere quidon Aureliodomandarlo a lui."

Massimo prese a parlarle di donAureliodelle sue condizioni presentidelle sue speranze. In altrimomenti donna Fedele lo avrebbe ascoltato avidamentegli avrebbefatte mille domande. Adesso lo ascoltò malvolentierisentendolo renitente a parlare di Lelia.

"Dovrebbe domandarglielo Leiperme" diss'ella.

Massimo rispose freddamentechese lodesideravalo avrebbe fatto.

"Ma bisognerebbe che Lei lavedesseLelia."

Il giovine trasalì. Com'erapossibile se non mancava più che mezz'ora alla partenza deltreno?

"Si fermi" mormoròdonna Fedele.

Fermarsi? Oh no! La dura risposta fudata con veemente commozioneparve una protestaquasi unrimprovero.

"Le farebbe piacere."

Malgrado il rifiuto veementedonnaFedele pronunciò queste parole con imperturbata placidezza.Massimo era intrepido quanto lei nel non udire tutto che non volevaudirenel non intendere tutto che non voleva intendere.

"Lei le ha scrittoperò"riprese. "Lo so perché le hanno portata la lettera alvillino mentre stava a letto. La ricevetti io. Cosa le ha scritto?"

"Non vorrei perdere il treno"disse Massimofacendosi sordo alla sua volta. "Ho poco piùdi venti minuti."

"Lo perda!"

Adesso donna Fedele si accaloròalquanto. "Lo perderebbe certo"

continuò "se avesse uditala confessione che Lelia mi ha fatto stamattina."

"Che confessione?"

"Se vuole saperlosi fermi."

Massimo si alzòpallido per iiviolento assalto della tentazioneper la violenta ripulsa che glibatteva nel cuore: nononono.

"Non devo!" diss'egli. "ELeiscusinon dovrebbe domandarmelo.

Sarebbe una tale viltàdopol'insulto! Adesso perdo il treno davvero.

A rivederla!"

"Vada" rispose donna Fedelesenz'alzarsi"ma è un gran bambinoLei."

"Un bambino?"

"Eh sìun bambino. Nonconosce l'amoreancora. Non sa chequando si amasi ama. Non c èviltànon ci sono insulti. Quando si amasi ama."

Il treno fischiò nella stazionedi Arsiero. Massimo salutò e corse via. Donna Fedele sapevache il treno fischiava semprein stazioneprima di partiremanovrando. Si alzò pian piano anche leiripensò leproprie parole: - Quando si amasi ama.

Un lontano momento là nei boschidi Lavaroneil momento in cui se Marcello avesse voluto gli sisarebbe data a occhi chiusidimenticando tuttole risalì dalfondo dell'animanon già in forma di memoriama propriovivocaldo di giovinezzadi amoredi dolcezzadi terrore. Ellapose gli occhismarritanelle acque sonantipiangenti. E ilmomento passò.

Raggiunse Massimo alla stazionequandoil treno vi entravaebbe il tempo di dirgli sottovoce:

"Si fermiLo amame lo ha quasidetto."

"Lo ama." Le due parole lotrapassarono come una saetta di gelo e di fuoco che lo configgesse alsuolo. Non poté muoversi né parlare. La signora speròche rimanesse. Egli si spiccò da lei a un tratto e salìnel treno senza sapere che si facesse. La macchina si staccòper andare a raccogliere dei carri e donna Fedele potéparlargli ancorasotto il finestrino della carrozza di prima classedov'erano altri viaggiatori. Gli domandòper norma dellacorrispondenzase intendesse passare il luglio a Milano. Eglirispose che una lettera da Roma gli affidava un incarico molto pio emolto caroper il quale avrebbe dovuto allontanarsi da Milanosubitorecarsi sul lago di Lugano. E per l'avvenire aveva altreidee. La macchina fu riattaccata.

Donna Fedele accostò il viso alfinestrinovi gittò un ultimo sussurro:

"Lo ama."

Il treno si mosse. Preso da vertigineMassimo chiuse gli occhianche per non esser costretto di salutareun viaggiatoresuo conoscente.

Finse di dormire. Vide Lelia che gliporgeva le labbra. Subito aperse gli occhiper non vederla piùsul verde fuggente della valle incantevole. E li richiuse per vederlaancora. Vide l'ovale biondo della testa chinata sul pettocome anascondere il viso. Vide poi le due piccole bianche mani che sialzavanoche si alzavano lentamentelentamente restando immobilel'ovale biondoche gli si posavano sulle spalle. Riaperse gli occhitrasalendogli parve che le mani si ritirasseroma non vide ilverde lucentevide ancora l'ovale biondo.

Il treno entrò tuonando nellagalleria di Mea. Si sentì allora le dolcissime braccia intornoal colloil dolcissimo viso sul visoe bacie lagrimee unripetere "ti amoti amoti amo". Il respiro gli si fecegreve. Pensòaccorgendosene: "Che stupido sono! E la miatorre di orgoglio?". Mise il viso al finestrinoguardòil fuggire dei rami e dell'erbadicendosi nel cuore: "Stupidostupido stupido!".

Aveva poi detto "quasi" donnaFedelela prima volta. Era leiera leiche cercava di accomodare.Peròse fosse! Gli si riapersero in mente gli occhimagneticidalle subite fiamme. Tolse il viso dal finestrinosicercò in tasca un giornale che non c'era piùsalutòil viaggiatore scusandosi di non averlo riconosciuto e parlòcon lui della ferrovia che sarebbe salita un giorno da Rocchette adAsiago.

A Vicenza dovette aspettare due ore.Non vi conosceva nessuno. Andò camminando su e giùlentamente per i viali che mettono alla Stazione e sotto i platanivolti in colonne oblique dal Caffè Turco al ponte sul Retrone.Erano le cinquefaceva caldoradi oziosi camminavanocom'egliinsilenzio per le ombre afose. Ebbe l'idea di venir a vivere in quellapiccola città pacificaignoto. NoVelo era troppo vicina.Rientrò alla Stazione mentre vi si gridava: "Thiene-Schio!".

Prendendo quel treno sarebbe arrivatoprima di notte al villino delle Rose. Addio addioverdi vallicorrenti limpiderose ondulanti al vento delle montagne! Entrònel caffèvi lesse il "Corriere della Sera" finoagli annuncisi tuffò anche in quelli. Vi trovòquesto:

"E' aperto a tutto agosto ilconcorso alla condotta medicochirurgica dei Comuni consorziati diValsolda. Stipendio L. 3500. Rivolgere istanze e documenti al sindacodi Drano (Como). Mezz'ora dopo fu gridato: "Verona-Brescia-Milano!".

Massimo si alzò trasognatotenendo ancora in mano il "Corriere".


2.


Prima di ritornare al villinodonnaFedele visitò un povero giovine di Seghetisico all'ultimostadioche l'adorava come un essere celeste. L'aveva conosciutalavorando al villino da garzone di pittore. Si era guadagnato il malecon ogni sorta di stravizie ricordando allora la dolcezza gravedegli avvertimenti di donna Fedelegli si erano aperti gli occhisulla sua vita pessimaaveva fatto dire alla signorasapendolavisitatrice di afflittiche andasse anche da lui. Le si era quasiconfessatose n'era lasciato facilmente persuadere a riconciliarsicon Dio e colla Chiesasi mostrava tanto felice delle sue visitetanto riconoscentech'ella andava spesso a vederloa leggergliamostrargli libri illustrati e fotografie. Ora lo trovò tristeinquieto. Il cappellano di Velo gli aveva veduto in camera gliEvangeli pubblicati dalla Società di San Girolamodono dellasignorae lo aveva sconsigliato dal leggerli dicendo che non lipoteva intendere. Donna Fedele nascose il proprio interno bollirepromise al povero ammalato di leggergli e spiegargli il Vangelo ellastessa e se ne andò lasciandolo contentoportandosene via latristezzaun altro peso sul suo cuore amaro. Realmente Lelia non leaveva detto di amare Massimo. Le aveva solamente offerto di lasciareil villino seposto che il signor Alberti era tanto irritato controdi leila sua presenza fosse di ostacolo a una visita desiderata. Leparole non erano state che questema la voceil modoil visoavevano detto altro. Se Massimo avesse cedutose fosse rimastoforse...

Massimo era partitonel cuore di donnaFedele speranze scendevanoangoscie salivano. Nello stato d'animo diLelia ella vedeva il pericolo di un sinistro. Con lei la ragazza nonaveva tenuto propositi che potessero dar sospetto. Aveva dettoinvecepiù di una voltaalla cameriera Teresinain passatoche se fosse costretta di vivere con suo padresi ammalerebbe. Airimproveri di Teresinaseriamente religiosaaveva risposto chevivere con suo padre voleva dire per lei odiarlo a morteperdere ilsenso morale; e chein quel casosi sarebbe ammalata non giàcon disprezzo della legge divinama proprio per obbedire alla vocedel Signore il qualepure non permettendodi regolail suicidioera certamente in facoltà di comandarlo. La povera Teresinatutta sgomentatala credette pazza. Donna Fedele ne fece un giudiziodiverso. La giudicò stranasìma sopra tutto vittimadi un concetto storto della religionefrutto in parte d'ignoranzein parte di congenite anomalie dell'intellettoin parte d'istruzionecattiva e di pessimi esempi. Sperava che i discorsi tenuti allacameriera non avessero un carattere serioma temeva particolarmentei lunghiscuri silenzi attuali. Non avrebbe voluto che uscisse sola.Perciò quando seppearrivando al villinoche Lelia erauscita solarabbrividì. Cercò rassicurarsi pensandoall'offerta che la ragazza le aveva fatto di lasciare il villino sefosse venuto Massimo. La gente di casa non sapeva dove la signorinafosse andata.

Era uscita dal cancello grande. Potevaessere andata verso Arsieropoteva essere andata verso la Barcarola.Donna Fedeleinquietissimaandò a interrogare il custode. Ilcustodeoperaio della cartiera di Peraleera al lavoro. Sua moglierispose tranquillamente che la signorina l'aveva incaricatauscendodi dire alla padrona ch'era andata alla Montanina a pigliarsi certecose e che ritornerebbe dopo le sei. "Ritornerebbe dopo le sei."Evidentemente Lelia aveva pensato che Albertise venisse al villinoripartirebbe con quel treno. Il suo messaggio significava ch'ella nonvoleva essere d'impaccio. A ogni modo donna Fedele mandò lacameriera alla Montanina col pretesto di aiutarese occorresse.


Lelia ritornò alle sei collacameriera del villino e con Teresinache aveva chiesto diaccompagnarla per vedere il villino dove non era entrata mai. Salutòaffrettatamente donna Fedelenon le chiese né di Alberti nédella visita al cimiteroandò a chiudersi nella sua stanza.Donna Fedele rispose con un sorriso grazioso al desiderio espressoleda Teresina; ma il viso della camerieraoscuratosi di pena ed'imbarazzo appena uscita Leliale apprese ch'era successo qualchecosa e che il desiderio di vedere il villino era un pretesto perparlarne con lei.

"Cominceremo dal mio studio"diss'ella.

Lo studionell'angolo del villino framezzogiorno e ponenteera la stanza più sicura dalleintrusioni e dalle curiosità delle persone di servizio. Appenadonna Fedele n'ebbe chiuso l'uscio dietro Teresinale domandòa bassa vocese fosse accaduto qualche cosa di male. Per tuttarispostala cameriera si coperse il viso colle mani e si mise apiangere. Incoraggiata dolcemente a spiegarsiprotestòconvoce rotta dalla commozionedi non essere in colpadi aver credutofar benedi avere dettoin fin de' contila verità. DonnaFedele non capiva. Cos'aveva fattodunquecos'aveva detto? Poco apoco la donna si chetò e prese a parlare.

"Io non mi aspettavo" disse"di vedere la signorina. Stavo al lavatoio dietro la cucinaquando udii camminare nel passaggio fra la cucina e la casa. Guardaichi fosse. Era leimi salutò affettuosamente. Pareva serenami disse ch'era venuta a prendersi le fotografie del povero signorAndrea che erano rimaste nella camera del povero padrone e quella cheil padrone aveva posto nella camera del signor Alberti.

"Viene a prenderle?" dico io."Ma non ritornaLeialla Montanina?"

Mi risponde fiera: "No no".Ho capito bene il suo pensiero perché Lei sa quello che mi hadetto di suo padredello stare con suo padreanche primaquando siserviva di me per mandargli denaro. Ho capito ma non osai dir niente."Devo venire anch'io?" dico. "Nono" dice.

"Lei stia pur qui a lavare. Vadosola. C'è nessunoin casa?" Risposi che non c'eranessuno perché il signor da Camin è partito stamattinacol fattore e il domestico aveva le sue ore di libertà. Erafuori anche la cuoca. Andò e intanto io stavo un pocoinquietapensando che le potesse occorrere qualche cosa. Nonritornava mai. Mi decisi di entrare. Aspettai un pezzo fuori dellastanza del povero padronecredendo che fosse lì. A un trattoudii camminare al piano superioreappunto verso la camera deiforestieri. Passai nel salone. Ella discendeva la scala di legno.Quando mi vide arrossìebbe un movimento d'impazienza. Miscusaile domandai se non volesse prendere un caffè o qualchealtra cosa. Neppure mi rispose. "Parte subito?"

dico. "Sì" dice"presto." Andò nella camera del povero padrone dovecredevo che fosse andata per la prima cosa. Stette pochi minuti euscì colle fotografie. Rientrò nel salonesi buttòin una poltrona senza dir niente. Io non sapevo se star lì oandarmene. Pensai che fosse meglio andarmene. Quando ero per usciremi richiamò. "Sa" dice"che il signor Albertiabbia avuto il permesso di portarsi via la fotografia?" Io restostupefatta. "No" dico. Lei allora fa una smorfia. "Chevergogna!" dice. "Ma" dico"scusila fotografiac'è.

L'ho posta io in un cassetto deltavolino. Mi sono scordatapoco fadi dirglielo." E andai aprendere la fotografiagliela portai. Poicosa vuolesiccome hosaputo tante cosemi sono permessa di dire una parolacosìin generalea favore del signor Alberti. Lei si arrabbia. "Cosami viene a contareadesso? Non si ricorda cosa mi ha detto delsignor Alberti?""

Qui Teresina interruppe il suoraccontosi scusò umilmente delle parole che stava perriferiree riprese:

""Sarà stata donnaFedele" dice "a farle la lezione." "No" dico"donna Fedeledopo il funeralenon la ho più veduta."E' verissimo che Le ho raccontato delle brutte cose del signorAlbertima poi ho saputo che non erano sicure.""

A questo punto Teresina riferìconfusa e dolenteil primo discorso fatto da lei a Lelia sugli amorimilanesi di Alberti e le sue scoperte posteriori. Il giorno delfuneralela cognata dell'arcipreteparlando di Alberti con certaAngelasartale aveva detto che quel giovine amico del curato diLago e del signor Marcello era un individuo diabolicoun nemicomortale dei sacerdotiche il merito di averlo fatto partire erastato di suo cognato; che il cappellano aveva ricevuto una letterad'un sacerdote milanese conoscente di una signoraaffezionata allasignorina Leliala quale era in gran pena per la presenza qui diquesto diavolo di giovineche si credevaa Milanoin relazione conuna donna maritata; che suo cognato aveva trovato il modo di farsapere alla Montanina di questa relazioneche allora il giovinevenuto appunto coll'idea di fare un matrimonio riccovistosiscoperto e scornatoaveva preso la ferrovia; che l'arciprete avevain mente un conte di Vicenza fatto apposta per la signorinama chequesto era un segreto. L'Angela sarta si era poi tenuta in obbligo diriferire ogni cosa all'amica Teresina.

"Le ho detto queste cose con buonaintenzione" continuò costei"perché avevocapito che c'era stato un complotto contro quel povero signor Albertie mi pareva quasi di esserci entrata anch'ione provavo rimorso."

"E allora?" chiese donnaFedelecommossa.

"Sentirà" risposeTeresina sospirando. "Prima la vedo scuraGesùnera.Maparlarenon parla. Dopo comincia a farmi domandemi fa ripeterecento volte quello che mi ha detto l'Angela. Finalmente si alzasalela scala di corsaprende a sinistraverso la sua camera.

Aspetto un poco e poi vado su anch'iopian pianoentro nel corridoiochiamo: "Vuole qualche cosasignorina?". Sento chiudere l'uscio a chiave con un colporabbiosonon sento altro. Sto lì un poco e poiper paura chesi arrabbi peggio se vien fuori e mi trovami allontano. Non avevofatto ancora due passi che sento un gridopiuttosto un urlosoffocato che un gridoe poi certe voci che fa leiche le ho uditefare un'altra volta per una lettera di suo padrevoci che non sononé gemiti né gridané pianto né riso:ah-ah-ahcome se le mancasse il respiro. Si quietò prestoperòe io pensai bene di scendere ad aspettarla in salone.

"Infattipochi minuti dopovedoscendere anche lei. Era bianca come la bianca Mortema composta. Midisse che partiva. Le chiesi il permesso di venire con lei a vedereil villino. Pareva indecisa se rispondermi di sì o di no. Inquel momento capitò la Sua cameriera. Si partì insieme.Prima di arrivare al ponte del Posinaguardi che destinovedol'arciprete che viene verso di noi. Quando siamo a due passil'arciprete dice "servo" sorridendo; e giù unagrande scappellatacome fa lui. La signorinaGesummaria se l'avesseveduta!si drizza come quei militari che salutano colla sciabola. Manon saluta mica no. Fissa bene il prete con due occhi freddi come ilghiaccio e passa. Io non ho più detto nientelei non ha piùdetto niente e così siamo arrivate qua."

Donna Fedele sorrise "poveraTeresina!" come se provasse pietà di una commozioneesageratae offerse alla cameriera di continuare la visita delvillinocon tanta flemma che Teresina ne sentì un freddo."Scusi"

diss'ella "se mi sono permessa..."

Donna Fedele capìeuscita daquell'apparente apatia che in fatto era un dilungarsi di pensiero inpensiero dal senso delle persone e delle cose presentiabbondòdi parole buonesenza entrare in alcun commento dell'incidente.Chiese poi del padre di Lelia. Appena uditone il nomeTeresinaesclamò:

"Gesùche mi dimenticavo!"Aveva un peso sul cuore per causa di quel brutto uomo. Prima dipartire col fattore egli l'aveva presa a partele aveva domandatocon un risolino mezzo stupido mezzo maliziosodei gioielli dellapovera padrona. Ell'aveva risposto di non saperne niente. Figurarsi!In quelle mani! Sapeva benissimo che c'erano molti anelli ebraccialettiun vezzo di perle e zaffiriun fiore di brillanti. Ilpovero padrone non aveva scrignoli teneva in camera da lettoin unsegreto della scrivania.

"Sa perché me ne hadomandato?" esclamò Teresina. "Lo giurerei; perchéli ha già presi! Per un giorno intero non ha fatto che passarcarte e passar carte nello studioavrà trovato qualche notaqualche indicazione. Il fatto è che stanotte l'ho udito andarin camera del povero padrone e non ne è venuto fuori che dopoun gran pezzo.

Giurerei che i gioielli della poverasignora sono in viaggioadesso.

E me li domanda a me! Capisce ilpensiero che ho iole accuse che quell'uomo è capaced'inventare!"

Donna Fedele cercò dirassicurarla econgedatalaandò a riposare perché nonpoteva più reggersi. La quiete benefica del corpo le acuìle inquietudini dell'animo. Quel benedetto Albertipensavase fossequiora! Altro che amorealtro che passione! E lui fa l'orgoglioso!

E magari sarà capace di farel'orgogliosa leise quest'altro piega!

Vedeva dalla sua finestra l'apertolevanteil grande arco di cielo fra le due ali di montagne disteseal piano. Il suo sguardo passava sopra il cimitero di San Giorgio.Amara cosapensare la Montanina in mano di quell'uomo che frugacherubache infettae luiil suo povero vecchio amicoimpotente atuttoescluso da tuttobuttato là in un angoloper sempre.Interrogò la propria fede per potersi dire ch'egli stava inpaceche vedeva l'ordine di tutte le cosediretto a un Bene finaleed eterno attraverso mali di ogni specie. Ma la sua fede avevamomenti paurosi di eclissiella temette di sentirne venire uno e nonvolle più pensare al cimitero di San Giorgio. Ripensòinvece un'idea venutale la nottenel suo letto insonne: chiedere alpadre di Lelia il permesso di portarsi la ragazza in Piemonteallontanarlecosìalmeno per qualche tempol'incubo dellaconvivenza con lui.

Respirerebbeintanto; e poi potevanosuccedere tante cose. Sìappena colui ritornasseandrebbe aparlargli. Non pensò più a nientechiuse gli occhisperando poter dormire.


3.


Dormiva infatti quandomezz'ora dopovenne la cameriera per annunciarle ch'era servito il pranzo. Domandòse la signorina Lelia fosse stata avvertita. La signorina stava giàabbasso. Donna Fedele fu tentata di non scenderetanto si sentivaancora spossata e tanto le ripugnava di prender cibo. Fece uno sforzoe discese. Il pranzo era apparecchiato nella verandasulla frontedel villino. Lelia pareva tanto serena che donna Fedeleconsolatale parlò della visita di Massimodelle notizie di donAurelio. E si aperseparlando di don Aureliosulle sue necessitàspiritualidisse quanto sentiva la mancanza di quella parola savia emansueta.

"Perché sono cattivasai"diss'ella"avrei bisogno di essere più mitepiùcaritatevole verso i preti che non somigliano a lui."

Lelia lasciò cadere il discorso.Parlòinvecedel piccolo cimiterodove non era stata mai.Aveva pensato di recarvisi l'indomani mattina.

Sperava che ci potesse venire anchel'amica. Porterebbero con sé delle rosetante rose. Avrebbedesiderato delle rose bianche ma in quel momento il villino dal nomegrazioso non aveva che poche rose rosse.

Parlarono di rose. Donna Fedele non eracontenta delle sue. Le pareva che il villino meritasse allora divenir chiamato dalle spine.

Bisognava mettervi molti rosai di più.Il villino doveva parere posato sopra un canestro di roseesserfasciato di rose fino al tetto.

"Faremo una corsa a Milano"diss'ella"andremo da tutti quei floricultorisceglieremo ilbuono e il meglio. Vuoi?"

Lelia parve contentadisse diconfidare che suo padre le ne avrebbe dato il permesso. Tantamansuetudine fece stupire donna Fedele.

"Avrei anche necessità"diss'ella "di vedere certi miei affari in Piemonte. Vuoi che glidomandiamo di lasciarti venire in Piemonte con me per tre o quattrosettimane?"

Lelia rispose di sìaspettòche la cameriera se ne andasse dopo aver servito il caffèprese a giocherellare col cucchiainodisse sorridendo di un sorrisolivido:

"Adesso che tutto è finitoposso sapere se proprio non era combinato che quel signore venissealla Montanina?"

Donna Fedele trasalì alzando lesopraccigliaoffesa da quel dubbio sulla sua sincerità.

"Adesso che tutto è finito"rispose vibrata"ti assicuro che non mento mai e che non eracombinato niente! Quando Alberti è venuto pensava a sposar tecome io penso a sposare Carnesecca."

Lelia rise forted'un riso forzato.

"Come Le viene in menteCarnesecca?" diss'ella.

"Perché lo vedo!"rispose donna Fedele. "Eccolo là ch'è venuto dalcancelletto piccolodimenticato aperto dal signor custodecome ilsolito."

Lelia si guardò alle spalle.Infatti l'amico Carneseccapiù scarno e giallo che maiavanzava a passi lenticol cappello in manoverso la veranda.Giunto agli scalini si fermò malgrado il sorriso incoraggiantedi donna Fedele.

"AvantiCarnesecca!" dissequesta e si affrettò a correggersi: "Oh scusi scusi!Ismaele!".

"Ma di che mai si scusaDamabianca delle Rose?" fece il venditore di Bibbie. "Ma di chemai? Mi hanno posto un nome di scherno perché predico Gesùe i migliori servi di Gesù. Così mi hanno assicurato unpiccolo posto tra i beati. Beati estis cum dixerint omne malum. Io miglorio di quel nome!"

Donna Fedele protestò che nonaveva voluto schernirlo lo invitò a salire e sederegli feceportare il caffè. Poi gli domandò come mai fosseritornato in quei paesi tanto infausti per lui. Rispose che andava aLaghidisposto a subirvi da capo il martirio giù subito aPosina.

"A questa stagione" dissedonna Fedele con molta gravità"probabilmentepatate."

"Magari!" rispose colui. "Mase a Laghi vi è un Caifasso simile a quello di Veloho paurache saranno "pere" come dicono nel Suo paese di Piemonte."

"Dica; mi pare che dovrei forsein coscienzagettargliene una anch'io!"

A questa uscitafra seria e scherzosadi donna FedeleCarnesecca alzò le braccia al cielomostrando per alquante scuciture il bigio di una camicia poco pulita.

"NoDama bianca delle Rose. Ellanon mi deve gettare il menomo sassolino. Io non offro Bibbie a Leiperché Lei ne ha già unaio ne sono certo. Io noncerco che Lei si faccia protestanteperché Lei è unacattolica veramente cristiana. Io sono venuto questa sera perringraziarla ancora della carità che mi ha fatto accogliendomisotto il Suo tetto."

Donna Fedele gli domandò seintendesse andare a Laghi quella sera stessa. Noera stanco. Venivada Vicenzaaveva camminato sette ore.

Donna Fedele lo compianse molto ma glitolse una cara illusione. Se lo aveva ospitato colle ossa rottenonintendeva però di ospitarlo quando si disponeva a farselerompere ancora. Egli parlòrassegnatodi una vaga speranzaper la prossima nottenel fienile della Montanina. Non sapeva dellamorte del signor Marcello né conosceva Lelia. Questa restòmuta e impassibile mentre l'amica gli davaquasi esitandoquasisottovocela lugubre notizia. Carnesecca ne rimase interdettoepreso congedose ne andò senza dire se avesse cambiato ideaper la notteo no.

Le due signore scesero a un angolo delgiardinodov'erano disposte delle sedie.

""Dama bianca delle Rose""disse Lelia. "Un bel nome!"

"Troppo belloper me"osservò donna Fedele"ma Carnesecca farebbe certo meglioa inventar nomi che a predicare Lutero o Calvino o non so chi."

Lelia le domandò distrattamentechi fosse quest'uomo e come avesse abbracciato il protestantesimo.Donna Fedele le ne fece la biografia.

Andò molto per le lunghee siaccorse assai tardi che Lelia non l'ascoltava più. Leliafissava una sedia vuota. Donna Fedele tacque e l'altra continuòa fissare la sedia vuota. Benché fossero quasi le novebenchéil cielo si andasse annuvolandosu quel piano del giardinoaltoscopertobianco di ghiaiafaceva ancora chiaro.

Lelia si accorse alla sua volta chedonna Fedele la osservava. Cessò di guardare la sedia ma nonruppe il silenzio. Cominciò a cadere qualche gocciolina edonna Fedele propose di rientrare. Vista la cameriera chesparecchiavale ordinò di mandare il custode a chiuder beneil cancelletto per il quale era entrato e uscito Carnesecca.

Lelia si affrettò a dire chedesiderava fare due passi e che andava lei.

Il custode stava per coricarsi quandoella entrò nella casina attigua al cancello grande. Furicevuta da sua mogliechiese di vederne un bambino ammalatos'informò di tante cosea proposito di questo bambinocontanto affettuosa premura che la donna ne fu intenerita.

Rimase forse dieci minuti e ritornòal villino senz'avere parlato del cancello. Entrò nel salottoal buioudì la voce di donna Fedele:

"Hai mandato?". Risposefranca: "Sì".

Donna Fedele la pregò disuonarle qualche cosa. Così al buio? Sìcosì albuio. Il vecchio piano del villino dormiva in pace da molti mesiperché la sua padronadiscreta musicista in gioventùaveva abbandonato l'artenon lo toccava più che qualche raravoltaper divertire dei bambini. Lelia suonò una composizionedel povero signor Marcellol'unica suauna barcarola scrittatrent'anni addietro.

Terminato che ebbe il pezzoaspettòin silenzio una parola dell'amicauna domanda di altra musica.L'amica non parlò. Non parlarono che il tic-tac frettoloso diun orologio a sveglia edalla finestra aperta di ponenteun lievemormorio di pioggia sulla ghiaia.

"La conosceveroquesta musica?"disse Lelia.

La dolce voce rispose pianodall'ombra:

"Oh sì."

Quel pianodolce "oh sì"disse alla fanciulla tante cose già vagamente da lei pensate.Si alzò dal pianoandò verso l'angolo del salottoond'era venuta la vocesi chinò su donna Fedelele cercòle mani e senza proferir parolegliele baciòuna dopol'altra. Donna Fedele si concedette dolcemente a quei baci chedicevano: "Son donna e ti ho intesa". Avevano anche unsecondo significatoancora segreto.

"Non suoni più?"mormorò donna Fedelesubito. Era stata contenta dei baci;avrebbe avuto orrore di una parola. Lelia non rispose. Le tenevasempre le manile stringeva.

"Vuoi che andiamo a letto?"riprese la prima. Allora Lelia lasciò andare le mani. "Lei"rispose"deve andare a letto. Iose permetteresto un poco asuonare." E accese la luce. Donna Fedele si alzò dallasua poltronasorridendo. "Brava!" diss'ella. L'abbracciòesuonato per la camerierasi ritirò.

Lelia attese immobilein piediche siperdesse sulla scala il rumore dei passi. Poi si mise al pianosuonòa casocome le mani andavanofino a che la cameriera ritornòe si accinse a chiudere l'uscio pesantea due battentiche si apresulla veranda. Lelia la pregò di lasciarlo aperto. Chiuderebbelei. Primaforseuscirebbe un poco a pigliare il fresco.

"Piovesignorina" disse lacameriera"e adesso si leva anche il vento." PoichéLelia riprese a suonare senza darle rispostala donna stette unmomento incerta e poi pensò bene di andarsene lasciandoaperto. Lelia s'interruppetese l'orecchiola udì salir lescalecamminare al piano superiore. Si alzòandò adassicurarsi che avesse lasciato apertosi fermò un momento aguardar nella nottecolle mani ai due battenti. Non c'eraquasiventoma pioveva fortele tenebre erano nere. Ritornò alpianosi chiuse il viso nelle manicome cercandosi nella memoriapensando cosa dovesse suonare. Le mani le discesero sui tasti a unaccordovi rimasero affondatepiegandovisi su il viso cogli occhifissi. Si alzò da capoandò da capo a guardare nelletenebre mormorantivi si trattenne a lungoa lungo. Accostòi due battentitirò i chiavistelli rumorosamentechiudendo eriaprendo. Spense la luce e salì nella sua cameraposta in unangolo dell'ultimo piano. L'unica finestranella parete dimezzogiornoguardava il piano di Arsierola Priaforà e laMontanina. Era aperta.

Là in facciafra il piano diArsiero e la Priaforàcorrevainvisibileil Posina. Leliastette in ascolto. Nola voce del fiume non si udiva. Ebbe lavisione del ponte che lo cavalcadelle acque rumoreggianti inprofondo per la ghiaia biancastradella roggia che corre a fianco diesse più altae poi giraombrata da robinieversosettentrionesilenziosa e rapida. Una folata di vento le soffiòla pioggia in viso. Chiuse in fretta la finestra e poi sorrise di sestessadi avere temuto uno spruzzo d'acqua. Guardòl'orologio. Erano le dieci e mezzo. Mancavano due ore all'ora in cuiaveva stabilito di uscire per andare a gittarsi dal ponte nellaroggia silenziosa e rapida.

Sedette al tavolinosotto la lucecolla persuasione che fosse conveniente di scrivere due parole.Scrisse:

"Cara amicavado a morire non soperchéma so ancor meno perché dovrei vivere."

E adesso? Chieder perdono? Di che? E senon era per chieder perdonoa che scrivere? Per un saluto? DonnaFedele ricorderebbe i suoi ultimi baci. Neppure le venivano in menteparole opportunenon era più nel suo interno che duro gelo divolontàtesa per l'azione. Lacerò lo scrittosi alzòdal tavolino e cambiò vestito. Quello che indossavadistretto luttoglielo aveva prestato donna Fedele. Mise il vestitogrigio che aveva messo per venire al villino. Prese quindi laborsetta di rete di argentoregalo del povero Andreadove tenevapochi altri ricordi di lui. Nella rete era inserta una piccolapiastra col nome incisovi: Leila. Gli occhi le caddero sulla piccolapiastrasul nome che le ricordava una disputa. Depose e riprese laborsetta più volteincerta se lasciarla o portarla con sé.Un impulso interno la costrinse a lasciarla. E in quello istessoistante tutto il gelo del cuore le si fuse in una subita tempesta didesiderio. Tornò ad aprire la finestradisfrenò ildesideriogittò l'anima làlàdovunque eglifosse: ti amoti amomi donoprendimiprendimi intera prima cheio vada a morirebaciamibaciamifammi male con i tuoi baci!

Aperse e distese le bracciasi torsetutta in uno spasimo. Si raccolse e calcò un braccio sullaboccalo morse ansandovi tenne i denti fino a che non le si chetòil batter violento del cuore e delle arterie. L'orologio di Arsierosuonò le undici. Tolse dalla borsetta di argento unafotografia del povero Andreavi scrisse sotto:

"4 luglio... vengo."

La posò sul tavolinopresso ilcalamaioper modo che fosse veduta subito. E risolseper un altroimpulso opposto al primodi prendere la borsetta con sé. Silavò accuratamente col sapone una piccola macchia d'inchiostroche si era fatta sull'indice. Poiguardatasi attorno col pensiero dilasciare ogni cosa in ordinelevò dal tavolino da notte il"Journal d'Eugénie de Guérin"datole aleggere da donna Fedele e lo posò sul cassettonepensando cheil lasciarlo sul tavolino da notte fosse un atto d'ipocrisia. Sentivadi non avere niente di comune con Eugénie de Guérin.Posando il libro sul cassettonepensò quale orrore avrebbeprovato la Guérinin quel momentodi lei e quanto invecefosse lontano da lei ogni turbamento di carattere religiosoquantole fossero indifferenti le proibizioni del Dio dei preti. Ebbe unoslancio di preghiera grata e dolce verso un Ignoto col quale sisentiva in pace. Guardò l'orologio. Non erano che le undici eun quarto. Ma chi poteva andare attorno in quella notte piovosatenebrosa? Incontri non erano a temeredecise di non aspettare piùoltre. Tagliò il cordoncino di una tenda per toglierne con séun pezzo da legarseneprima del saltole sottane che non le sirovesciassero così da scoprire le gambe. Mise le soprascarpedi gommaper non far rumore scendendo le scale. Spense la luce euscì.

Attraversò pian pianoal buiouna stanza vuotatremando di fare scricchiolare l'impiantito dilegno ed essere udita dalla cameriera o dalla cuocale camere dellequali mettevanocome la suain quella stanza vuota. Giunta sullascala si sentì più tranquilla. Nel discenderecollavisione ai suoi piedi della roggia profonda e delle robinieverdi-chiare che vi sporgono sopra da sinistrale vennero in mentecerti grossi pali nerivedutivi nel ritorno dalla Montanina.

Erano piantati nella roggia o fuori?Non sapeva più. Se cadesse dal parapetto del ponteaperpendicolonella roggiabatterebbe probabilmente sui palie visi sfracellerebbe. Non voleva morire così scomposta. Bisognavadunque saltar lontanoil più possibile. Le passò unbrivido nella persona. E riprese a discendere. Giunta in fondosiarrestò ancora. Aveva dimenticato di distruggere o di portarecon sé i pezzi dello scritto stracciato. Risalire a prenderli?Si strinse nelle spalleattraversò il salotto ascoltando ibattiti precipitosi dell'orologio nelle tenebreregolandosi daquelli nel movere verso la veranda. Aperse adagio adagio i battentiaccostatiuscì rapidamente.

Fatti due passisi gittò dislancio a sinistrarovesciando sedieperché una forma umanaera balzata in piedi davanti a lei. Non gridòsaltòsugli scalini che scendono al giardinodisparve. Intanto donnaFedeleche aveva le finestre apertesecondo la sua abitudineuditoil rumore delle sedie rovesciatechiamò: "Chi è?".Rispose la voce di Carnesecca: "Una donna! E uscita unadonna!".- "Che donna?... Dov'è?"

gridò ancora donna Fedeleangosciatadalla finestra. "Non so! E fuggita! E sparita!"- "La insegua! E' sonnambula!"

Carnesecca sparve di corsanel buioverso il cancello piccolo.

Mortale silenzio. Un grido! DonnaFedeleravvolta in un accappatoioscendeva già gli scalinidella verandaavendo intuita la cosa terribile. Udì la vocedi Carneseccablandacarezzevole: "Si sveglisignora! Sisveglisignora!". Ahera salva! Le mancarono le forzecadde asedere sull'ultimo scalinonella pioggia. Leliaraggiunta sulpendio erboso imminente al cancellettoaveva gridato nel sentirsiafferrare ed era caduta come morta.

"Fortunasignora" disseCarnesecca riportando in casa la svenuta coll'aiuto della cameriera edella cuoca"che non ho trovato da mettermi al coperto innessun luogo e che allora mi sono permesso di venir a passare lanotte sulla Sua terrazza! Altrimenti poteva andarsi a rovinarequesta creatura del Signorese è sonnambula!"

"Sì sìfortuna!"disse donna Fedeleancora tutta tremante. La cameriera e la cuocaripetevano sottovoce:

"Gesusmaria SignoreGesusmariaSignore!"








Capitolo Ottavo


SANTEALLEANZE


1.


Tre giorni dopoun venerdìilragioniere Girolamo Caminil dottor Francesco Molesin e CarolinaGorlagogovernante del Caminarrivati insieme ad Arsiero col primotrenosi acconciarono alla megliocon borse e ombrelliin unadelle carrozzelle che sempre abbondano in quella stazione pertrasportare viaggiatori al paese di Arsieroa Tonezzaa Lavarone.Il dottor Molesinall'atto di salirefece qualche complimento collaCarolina; ma poiincoraggiato dall'amico Momil'amico Checco salìnell'interno. La Carolinauna robusta donna sui trentacinque annidalla faccia volgare e dalla voce grossasi arrampicòimbronciata a fianco del vetturale che frustò il cavallo eprese la via della Montanina.

Il ragioniere Caminche si facevachiamare da Camin in onore della celebre famiglia antica di quelnomeera brutto di una bruttezza particolarenon tanto disegnatanei lineamenti come puzzantedalle tumidezzedalle cispositàdai colori falsi di quel viso giallognolodi quegli occhi rossidiquel collare di barbamezzo tinto e mezzo stintomisto di grigiodi rossastro e di violaceo. Portava un cappello di pagliaun lungozimarrone color olivavecchio di un secolouna sciarpasullespalledi seta rossa e giallapronta a riparare il collo padovanodai temuti aliti delle montagne iperboree di Val d'Astico. Perconsiglio dell'amico anche il dottor Molesinchiuso in un soprabitomarroneportava intorno al collo una pesante sciarpa bianca e nera.Il dottor Molesin non somigliava per niente all'amico. Piùvecchio di luipareva più sano. I piccoli occhi cisposi delsior Momi avevano una fissità vuota di qualsiasi espressione.Quelli del sior Checcopiuttosto grandi e brunispiravanosotto ildecoroso cappello di feltrocerta gravità malinconica. Eranomalinconici anche nel sorriso. Molesin non portava che baffiduebaffetti fra biondeggianti e grigi sotto le narici selvose. La donnagrandeggiava accanto al piccolo vetturaleun ragazzosotto unmodesto cappellino neroun boa mezzo spelacchiatoun mantellettonerouna sottana cenere. I due viaggiatori dell'interno parevanoalquanto preoccupati dell'età giovanile del cocchiere. Ildottor Molesinparticolarmente inquietonon osava abbandonare ildorso allo schienale della carrozzellaperseguitava d'interpellanzecon detrimento della propria gravità abitualeil ragazzo:"Ciòdigo!". "A piandigo!... Perché ime par siti da romperse el colodigo!" L'altro non eracertamente un viaggiatore intrepido ma forse il timore di unaribaltata non eranel suo cuorela inquietudine più grossa.Aveva notato il broncio della Carolina e le blandiva spesso le spallepoderose con parole di affettuosa premura: "Se tienla?... La setegna!... La se tegnasala!". La grossa Carolina stringevaforte colla sinistra il ferro del serpema non degnò mairispondere. Passato il ponte del Posinache fece rabbrividireMolesinla carrozzella si mise al passo.

"SignorVe ringrazio"mormorò il sior Checco. Udito che la Montanina eravicinissimaconsiderata l'andatura flemmatica del ronzinoripresecoll'amico la conversazione di affari che avevano interrottalasciando il treno. Il vetturinocurioso come un giornalistaudendoche i due discorrevano animatamente di cose da lui non capitecercòdi far cantare la sua vicina Chi era il signore che stava dietro alui? La donna rispose asciutta:

"So minga."

"E Elaxela parente dequell'altro sior che xe de drio de Ela?"

"So minga."

"Maledeta!" pensò ilragazzo linguacciuto. E si divertì a tormentarla con un'altradomanda:

"No La xe miga de sti paesiEla?"

"Sonto di un paese piùmeglio."

Era di Cantù. Un capomastrocomasco l'aveva conosciuta serva di osteria esposatalase l'eraportata a Padova. Divisasi dal maritoell'aveva preso serviziopresso il sior Momiprima come cuocapoi come governante. Infattiserviva e governava. Da giovineMomi Camin era stato ascritto alpartito clericale. Poi. avendo arrischiata la prigione per certiimbroglin'era stato escluso. Dopo un breve passaggio al radicalismoanticlericale doveallorac'era poco da rodereaveva preso aservireagente elettorale apprezzato e disprezzatoi moderati. Lenecessità di un'alleanza clerico-moderata lo avevano messonuovamente in relazione cogli amici antichialcuni dei qualibravepersonelo ritenevano calunniatogli concedevano una stima chenessun altroa Padovagli concedeva più. Egli aspirava aritornare in grazia del partito. La Carolina era una difficoltàbenché quelle brave persone si ostinassero a credere ch'eglipeccassea tenersela in casad'imprudenza e non d'altro. I capi delpartito erano meno babbei. Davanti alla chiesina di Santa Mariaildottor Molesin si toccò rispettosamente il cappello. Camin selo toccò purema in ritardo. Allora Molesin fece una smorfiaquasi impercettibile.

"Parcossa?" disse il siorMomicon un sorriso stentato.

"Gnente gnente" risposel'altro.

Si erano intesi benissimo. Molesinaveva voluto direpensando alla Carolina: non basta toccarsi ilcappello. E il sorriso del sior Momi era stato mezzo di smentita emezzo di confessione soddisfatta.

"Xela questasta Montanina?"chiese Molesin alzando gli occhi lungo il pendio verde di cui lacarrozzella radeva il piede. Considerato il gran cappello aguzzodella villai piccoli sparsi cappelli aguzzi della cucinadellascuderia e della chiesaricordò i cosiddetti "casoni"del pianocapanne dal tetto di pagliae pronunciò ilseguente giudizio memorabile:

"Un cason che gà famegia."

Il sior Momi rise di un risoparticolare - aho aho - a bocca spalancata.

"Bela bela bela" diss'egli."Un casonaho aho."

La finezza del dottor Molesin gli sileggeva in viso. Quella del sior Momi era molto più reconditaportava una perfetta maschera d'insulsaggine. Momi Camin pareva uninsulso timido che sapesse soltanto far ecoridacchiandoalleparole argute dei suoi interlocutori. Soleva poi risuggerirleall'autoreper adulazione.

Quel giornoperché Molesin siscandolezzava della strana casaebbe a ripetergli due volteguardandolo cogli occhi stupidi:

"Casonaho aho. Cason che gàfamegiaaho aho aho."

Teresina e Giovanni ricevettero i nuoviarrivati all'entrata di mezzogiorno. Giovannia vedere quel caricodi zimarroni e di sciarpe eterocliteper poco non scoppiò aridere. Teresina invece aveva un viso funebre. Ella accompagnòla governante del nuovo padrone nella stanza del secondo pianochele aveva destinata. Per via la governante le annunciò chesapeva com'ella fosse la cameriera della "popòla"della "sura Lella". Forse perché "el Lella"è un personaggio popolare in Lombardiala Gorlago non seppemai nominare Lelia che così.

"Andaremo d'accordi"diss'ella nel suo lombardo macchiato di padovano.

Poi le fece gli elogi del suo "sciòr"proprio un buon omacciodi cuore.

"Però" soggiunse conun sorriso degno dell'originaria osteria"che La se guardaperché ghe pias minga mal i bej donnett." "Eh ben"rispose Teresina rossa rossa"no l'è discorsi per mi noquesti." E pensò:

"Gèsuche compagnia!".La Gorlago fu poco soddisfatta della camera ch'era spaziosa e alta maprendeva luce da un abbaino. Prese possessosenza cerimoniediun'altra camerasulla fronte della villasopra il salone. In casala chiamavano la camera delle rondinelleper certa decorazione. Ilpovero signor Marcello aveva detto a Teresinamolti anni addietroquando suo figlio era ancora un ragazzotto: "Nella camera dellerondinelle andranno i bambini di Andrea". Teresina lo ricordavabene e quando la Gorlagocon quell'aria di donna mal ritirata dagliaffari sporchientrò lì dentro da padronasi sentìvenir le lagrime agli occhi e andò a sfogarsi nella suacamera. Vi capitò subito Giovanni. Il padrone la voleva. "Chepadrone! La padrona è la signorina" diss'ellairritata."Io credo" rispose Giovanni "che non ci pagheràmica la signorina. Sarà lui che ci pagherà. E allora iolo chiamo padrone."

Il sior Momi si era scelta la stanzad'angolo al primo pianoche guarda la cucina. Poco gl'importavadella vistaa lui; quella camera lì era buona per lavigilanza sui domesticiper spiare e origliare.

Domandò se il caffè elatte fosse pronto anche per la governante e quale camera avesseoccupato costei. Udito che non era stata contenta di quellapreparatalela sua maschera barbuta di vecchia cera non fece unagrinza né gli occhi cisposi espressero un sentimentoqualsiasi; ma la bocca disse con una voce di automa: "Male malemale"

per l'abitudine antica di blandirenelle primechiunque gli parlasse. Finalmente domandò diLelia. Teresina aveva una letteraper luidi donna Fedele. Glieladiede e si ritiròdicendo che andava a portare il caffèe latte in sala da pranzo. Appena uscita rientròesitante.Anche la governante avrebbe preso il caffè e latte in sala dapranzo? Stavolta la maschera barbuta di vecchia cera e gli occhicisposi ebbero un lieve sorriso.

"No no nocon Ela con Ela conEla."

A Teresina quell'uomo pareva un verocretino. Se non era per l'affare dei gioiellile sarebbe bisognatoun atto di fede a crederlo il furbo disonesto il cui solo nome erastato insopportabile al signor Marcello.

Il dottor Molesin aveva un interessespeciale per gli affari dell'amico Momi e Momi era pieno di riguardiper l'amico Checco. Il sior Momi aveva trovato modo di mangiarquattrinicon mille pasticcia una quantità di gente ed'ingolfarsiin pari temponei debiti. Un bel giornodichiarandodi non poterli pagareaveva offerto ai creditori il venti per cento.I creditoririunitisi e consultatisisi erano rivoltiper latutela dei loro interessia Molesin.

Alquanti dei poveretti infinocchiati emezzo rovinati dal sior Momi erano sacerdotie nel mondoecclesiastico le abilità forensi e finanziarie del dottorMolesin godevano di molto credito. Costuiche avendo studiato leggidue anni e assai frequentate le preture si faceva passare per dottorein giurisprudenzaaccettò l'incarico a patto di prelevare iltrenta per cento sul soprappiù che gli riuscisse di spremereda Momi oltre la sua proposta. Momiinvitato a trattare con luinonseppe di questo patto e credette potersi guadagnare l'avversario conl'offerta di un buon regalo se la proposta venisse accettata.Molesinconvinto che l'amico avesse quattrini nascostipieno disperanza nell'attesa eredità di Leliala qualevenuta inpossesso degli averi Trentovorrebbe certo salvar l'onore del suonomefece lo scrupoloso. Lo fece mollemente perché glisorrideva l'idea di condurre le cose in modo da pigliarsi tutti e duegli zuccherini. Il sior Momidal canto suonon dubitò unmomento che quegli onesti scrupoli non si potessero tradurre incifre.

Siccome il morto l'aveva e grossosiriservò di regolarsicolle cifresecondo il vento. Intantospillava denari alla figliuola con piagnisteicelavaquanto potevala buona cucina e la buona cantina di cui era solito attenuare leproprie sventure coniugali e quelle della Carolinaconsociate amutuo conforto. All'annuncio della eredità conseguita daLeliatuttora minorenneMolesin affilògongolandoleunghie. Adesso era il momento di sorvegliare Momiun "macaco"che mirerebbe certamente a inghiottire il più possibile e asputar fuori il meno possibile. Adesso era il momento di sorvegliareanche la figlia. Della figlia egli si era già occupatoma dalontano.

Coetaneocondiscepoloamicodell'arciprete di Velo d'Asticoteneva con esso una corrispondenzadiscretamente attivacollo scopo dichiarato di avere notizie dellasignorina Camin da comunicare all'amico Momicui erano interdette lerelazioni colla Montanina.

L'arciprete credeva in buona fede chele curiosità del vecchio amico Checco non avessero altri finie scriveva. Scrisse anche dell'arrivo alla Montanina del famosogiovine modernista. Molesin si spaventò poco del modernista emolto del giovine. Un matrimonio di Lelia avrebbe facilmente mandatea male le sue speranze maggiori. Egli trovò modo d'informarela signora Caminche faceva dire molte messe a Sant'Antonio emandava da Milano quattrini a sacerdoti di Padova per opere di pietàe di beneficenza. La sera stessa che morì il signor Marcellol'arciprete scrisse a Molesin che quel famoso modernista era fuggitoe che forse certe notizie poco edificanti sul suo contovenute daMilanoavevano condotto a questa soddisfacente soluzione.

Poil'astuto dottore sollecitòsenza troppi complimentidal padre dell'eredeun invito allaMontanina. L'invito fu fatto immediatamente secondo lo stile del siorMomi: "Certo certosipoun piacereaho aho".

E lì su due piediin casaCaminpresente la Carolina che il suo padrone era venuto a prenderefu combinato il viaggetto per l'indomani mattina. Quella nottel'onesto dottore dormì poco. Sapeva di andar a giuocare unpartita d'impegno col "macaco"un avversario sopraffino.Non lo stimava però suo pari. Ne conosceva una tara. Lodefiniva da mercante di cavalli: "Finma debole de zenoci".Molesin disprezzava ogni debolezza per le donne. Lì peccavanosecondo luii "zenoci" del sior Momi; il qualealtrimenticol gran dono fattogli dal Signore di quella faccia dacretinonon avrebbe avuto eguali. "Se no ghe fosse la donetaoooh! Ma ghe xe la doneta."

Il non avere ancora veduto Lelianéudito chiederne da suo padrelo turbò un poco. Ne chiese aGiovanni salendo con lui alla camera destinatagli: "Lasignorina?". Giovanni rispose: "E' fuori" e Molesincredette che fosse a passeggio. Scendendo per il caffè elatteincontrò Teresina sulla scala e domandò anche alei: "La signorina?"

"No la gh'è no."

"Come no la ghe xe?"

Teresina lo guardòcolpita dalsuo accento.

"Non signor. L'è dallasignora Vayla."

"E Momi che no parla!" pensòMolesinavviandosi alla sala da pranzo.

Mentre egli vi entrava da una partelaGorlago ne uscivascura scuradall'altramentre il sior Momi lebrontolava dietro:

"Gala capìo? Da brava!"L'aveva chiamata per dirle di levarsi dalla camera delle rondinelle edi andare dove aveva prima disposto Teresina.

Molesin non sapeva né chi fossené dove abitasse questa signora Vayla.

Il suo fiuto gli diceva un cattivoodore di guai fra padre e figlia.

Gli venne in testaprendendosilenziosamente il caffè e latteche la ragazza non volessetrovarsi colla Gorlago. Voleva sapere. Aveva necessità disapere. Se padre e figlia vivevano come cane e gattavisto che frapochi mesi la ragazza sarebbe diventata libera dispositrice delleproprie sostanzeil sior Momi avrebbe cercato di arraffare in queipochi mesi quanto potevadanarotitoligioietutto ciò chepuò sparire senza lasciar traccia e poi... chi s'èvisto s'è vistosi sarebbe al punto di primacon unasperanza di meno.

"La sentacaro Momi"diss'egliprendendo pacificamente il caffè e latte"quandose podarà riverir la putela?"

Momi rispose ch'era ammalata.

"Ohpovareta povareta!"

Molesin s'intenerì. "Lagavemio disturbada?" Momi rassicurò l'innocente amico.Lelia non era in casa. Era presso una signora di Arsierouna vecchiaamica del signor Marcello. Aveva voluto andare presso questa signorasubito dopo la disgrazia. L'amicizia fra la Vayla e sua figlia erauna spina per lui. Leliatesta falsatesta bizzarraera statasempre aizzata contro suo padre; prima da sua madrepoi dai Trento.C'era da scommettere che l'amica di Arsiero facesse con lei la stessaparte. Anziuna lettera della signoraricevuta in quel momentoneforniva quasi le prove. Il sior Momi si levò di tasca lalettera e la porse candidamente a Molesin. Questi la presepensandochese gli si faceva leggeredoveva essere una carta nel giuocoavversario.

Lesse:

"Villino delle Rose6 luglio.

"Egregio Signore"Ho ildispiacere di comunicarle che la notte fra il 4 e il 5 Sua figlia fupresa da una febbre forte. Il medico la qualificò reumatica.

Ora è quasi sfebbrata ma le èrimasta una prostrazione di forze assai sensibile. Il medico vuoleche le si eviti qualunque emozione e perciò non credereiopportunaper il momentouna Sua visita.

"Mi permetto di soggiungere che lescosse morali di questi ultimi giorni hanno sicuramente male influitosulla salute di Lelia. Tanto il medico quanto io siamo persuasi chesarebbe utilissimo di portarlaalmeno per qualche giornoin unaltro ambiente. I Suoi affari non Le permetteranno senza dubbio diallontanarsi per ora. Io ho necessità di recarmi a Torino e Leoffro ben volentieri di prendere con me Lelia che mi sarebbe unacompagna preziosa. In attesa di Sua cortese parola di consensoLaprego a credermi Dev.

FEDELE VAYLA Dl BREA."

Mentre il dottor Molesin stava ancoraleggendoil sior Momi si tenne in dovere di metter fuori il suosorriso cretino e la sua voce di palato:

"Eh ma vado istessoah? - Vadono? - Son papà gò dirito patria potestà - no? -Ah? - Vado?"

Ora pareva affermare un propositoorachiedere un consiglioe quel tono e questo e le parole e il sorrisonon erano che un automatico blandire al gattone; il qualeposata laletteradurò a covar il sorcio cogli occhiin silenzioanche quando le voci della bestia inferiore cessarono. Finalmente gliuscìcon una lieve scossa di spalle e di ventrequestaparola profonda:

"Benon."

Il sior Momi comprese la parolaprofondacome aveva compreso la smorfia per la sua levata dicappello e ne diede segno eguale:

"Parcossa?"

"Benondigo" ripetél'altrostavolta con un tono incoraggiante.

"Intanto" diss'eglialzandosi"andemo a veder el cason."

Si alzò anche Camin ma battendoe ribattendo le palpebre sugli occhi cisposiunico abituale segnoesterno delle sue interne inquietudini.

Insistette nel chieder consigliostavolta con una voce di golablandamente grave.

"Nonoandemojàeldiga. Ca vada?"

"Quando che ghe digo - benon!"ripeté Molesin. "El vadael stagatutto benon."Soggiunse che se il sior Momi si risolvesse a quella visitaegliandrebbe intanto a trovare l'arciprete.

Stavolta fu il sior Momi che disse"benon"ma non lo disse troppo di buona voglia. Sentiva lediffidenze del formidabile ospite a proposito di quella lettera e delsuo commentosi domandava quali macchine potesse montarecoll'arciprete per venire in chiaro del suo piano ch'era quelloappunto di far credere fredde le proprie relazioni colla figliuola edi conquistarsela invece segretamente. Batté ancora due o trevolte le palpebre prima di saperle conteneree poi intrapresecoll'ospitel'ispezione della villaapplicando regolarmente ilsolito riso adulatorio alle osservazioni di Molesin. Le scale delsaloneil caminole policromie dei soffittiil testone dellaterrazzail fresco del Beato Alberto Magno sulla facciata dimezzogiornotutto era giudicato dal Dottor Sottile colle stesseparole: "Mato ingegnermato pitòrmato paron". EMomi faceva eco:

"Mati matiaho aho".Solamente le soffitte ebbero un grugnito di approvazione. Il saccodella Carolina era ancora nella camera delle rondinelle. Molesin lonotò e il sior Momi se ne accorse. La Gorlago stava visitandola villa per proprio conto. I due la incontrarono sulla scala delsalonenel discendere.

"Ohe" le disse Camin con unfare da padrone duro"quel saccoa posto!"

La donna gli diede un'occhiata rabbiosae tirò via. Molesin la seguì cogli occhi fino alpianerottolo superiore.

"Caro Momi" diss'egliposando una mano sulla spalla dell'amico e articolando lentamente leparole per farne sentire il doppio fondo"go paura che icarateridigo i carateride so fiola e de sta siora qua no i seconvegna."

"Ahoparcossa?"

"Gnente."

"Aho aho! O'l d'un!" Il siorMomipratico di doppi fondi e solito renderli innocui colle suerisate cretinevi aggiungevanei casi più graviquesto "òld'un!"questo ridente smozzicato "fiol d'un can!"giocoso insulto ammirativo di una malizia canagliesca.


2.


Verso le undici l'ottimo Camindopouna breve conferenzanello studiocon Teresinaannunciòall'amico la propria partenza per il villino delle Rose e lo invitòa uscire con lui se intendesse recarsi a far visita all'arciprete. Altrivio dove la stradicciuola della Montanina muore nella stradamaestragl'indicò il campanile di Velo posato elegantemente achiudere nell'aperto sole lo sfondo della viaoltre un alto arco diombre. Econgedatosiprese la via opposta. Il Dottor Sottilefattipiano piano pochi passiristettesi guardò alle spalle enon vedendo più Momiritornò indietro. L'eccellentesior Momi non avrebbe mancatoscorgendo questa manovradimormorarsi nella golaintero e sul seriocoi denti strettiquel"fiol d'un can!" (che aveva prima messo fuori smozzicato eburlescoe si sarebbe applaudito così: "No son po migaMarco Paparèle gnanca mi". Marco Paparèle èun leggendario tipo veneto di scimunito. Il sior Momiprevedendochenella sua assenzaMolesin avrebbe cercato di far cantareTeresina come a lui non piaceva che cantassel'aveva istruita perbene.

Molesin ritornò alla Montaninain cerca della sua sciarpaartificiosamente dimenticata nelvestibolo. Presa la sciarpaandò fiutando le orme di Teresinaetrovatalaspiegatole il perché del suo ritornola pregòdi fargli vedere la chiesinanon ancora visitata. Nello scenderecolla cameriera per il giardinole domandòtutto amabilelesue impressioni del nuovo padrone. Teresina si schermì. AlloraMolesin: "Gran bon omogran bon omo! Disgraziàdisgrazià! Disgrazià nella mojerdisgrazià neiafari! E come xela moco sta fiolacome xela moco sta fiola? Xelacontenta mopovaretade star col papàadesso? Tantom'immaginovero? Tantovero?".

La faccia malinconicala voce dolcedolce del Dottor Sottile non toccarono Teresina. Il sior Momi avevastudiato fin dal primo momento di guadagnarselale aveva promesso unaumento di salario e mostrata la massima fiduciama non fu per farpiacere al sior Momi ch'ella si chiuse in un riserbo diplomatico; fuperché la facciala vocei blandimenti di Molesin leripugnavano. Rispose che non sapeva nienteche non poteva dirniente. Molesin entrò in chiesasi fece devotamente il segnodella croce coll'acqua santas'inginocchiò un momento primadi andar toccando e fiutando altarecandelabrilampadepilette.Egli credeva tutto che la Chiesa credecosì a fascio e senzaaverne notizia chiara praticava nella misura esterna che la Chiesaesige; e poiché non pigliava il denaro altrui proprio dalletasche né dai forzieripoiché il mentire era per luiun elemento costitutivo di qualunque affare e gli affari non sonoproibiti dalla Chiesanon si era figurato mai che fra le suepratiche religiose e le sue pratiche civili ci fosse una stridentecontraddizione. Anziquanto più s'infervorava nelle secondetanto più s'infervorava nelle prime. Quando aveva meglioimbrogliato e spennacchiato il prossimosi studiava d'imbrogliareanche Domeneddio con qualche "pater ave gloria" con qualchemessa di più. Solamentea lui non pareva d'imbrogliare néil prossimo né il Signore. Non si credeva un ipocrita. Tenevasul serio a un posticino in paradiso.

Ascritto al partito clericalen'eramal tollerato per la sua dubbia riputazionema fingeva di nonavvedersene. Si appoggiava molto a qualche amiciziada lui vantata egonfiatadi preti che lo conoscevano poco. Uno di costoro eral'arciprete di Velo d'Asticosuo coetaneo e compagno di scuola.

"E quel giovinotto?"diss'egli uscendo di chiesa. "Quel giovinotto di Milano ch'èstato qui! Buon giovinevero? Mi sarei figurato che si potesseintendere colla signorina. Buon giovinesa. Bravo giovine.

Umh! E non s'intendevano? Peccato!Propriodico; non s'intendevano?"

"Cosa ne sai tu del giovinotto diMilano?" pensò Teresina. Stavolta rispose risentita. Chepoteva saper lei di queste cose che non la riguardavano?

Molesin riprese la via di Velo a capobassosimile al giuocatore di bocce che si è illuso di averfatto il puntoè corso a vedere e ritorna mogio mogiocollaseconda boccia nelle manimulinandoci su come gli convenga tirare ilnuovo colpo. Si rodeva anche per la sciarpainutilmente ripresachegli pesava sul braccioridicola nel sollione delle undici.

"Maledetta anche questa!" sidissesudando come un uovo. L'altra maledettanaturalmenteeraTeresina.

Non trovò l'arciprete in casa.Era in chiesa. Domandò della cognata.

Era in chiesa. E il cappellano? Inchiesa.

"Il Suo nomedi grazia?"fece la fantescavedendolo seccato. Udito il nome venerabile -dottor Molesin - s'illuminò tutta. Lo sapeva tanto amico delsignor arcipreteaveva portato alla Posta tante lettere del padroneper lui! Lo trattenne. Andrebbe subito a chiamarloil signorarciprete. Prese quindi un'aria misteriosa ein gran segretoingran confidenzatrattandosi di un amico del padronegli spifferòche il cappellano aveva ricevuto allora allora una lettera dello zioCardinale coll'annuncio che l'arciprete sarebbe fatto Vescovo. Ilpadrone si era tanto commosso; molto per il vescovadoun poco ancheper l'idea di essere forse mandato "in quel de Napoli che i xepaesi tanto bruti". Padronesiora Bettina e cappellano eranosubito andati in chiesa e ci stavano ancora.

"Allora La diventa un pocovescovessa anca Ela" disse lo scherzoso dottore. E pensò:"Saprà qualche cosacostei? Sarà cagna comequell'altra?". La pregò di non avvertiredi nonincomodare nessuno.

Era disposto ad attendere. Magnificòla virtù di don Titache meritavameritava! La serva lo feceentrare nel salotto di ricevimento. Colàseduto sul canapèraccontò aneddoti del tempo in cui egli e l'arciprete facevanoil ginnasio insieme. "Bela elezion!"

esclamò finalmente. "Granbela elezion! Sala cossa? Vado in ciesa anca mi. Ma prima La me cavauna curiosità."

Le domandò se conoscesse lasignorina Caminquella che stava col vecchio Trento. La fantescafece il viso brutto. Lo sapeva beneil signorequello ch'erasuccesso? Nonon sapeva niente. "Madre Santala ga tentàde scapare."

"De scapare?" fece Molesinsbalordito. Udite voci di fuorila fantesca esclamò "eccoli!"e corse via. L'arciprete e i suoi due compagni erano di ritorno dallachiesa. Confabularono colla serva fuori della porta e il soloarciprete entrò nel salotto.

Egli lesse nel viso di Molesin un talestupore che non dubitò nell'interpretarlo: "La ciacolonaga ciacolà". Sentiva trasfigurato il proprio stesso visodall'emozione interna. Non aveva bisognolo sentivadi parole perconfermare la notizia data dalla fantesca.

Disse solamente "caro" eabbracciòcolle lagrime agli occhil'amico del quale nonaveva mai voluto credere che fosse un ipocritaun disonesto. Eranolagrime sincerepregne di sensi diversi. Vi era il senso trepido delsuo innalzamentoper volontà di Dio e del Vicario di Cristoa una dignità onde a luiuomo di ferrea fedeapparivanonlo splendore esterno e mondanoma l'importanza religiosa. Vi era ilsenso tenero della fiducia dimostratagli dai Superiori. Vi era unravvivamento profondo del suo fervore religiosouna tensione dellavolontà verso la vita semplice austeramenteesemplarmentepiadi un degno Pastore di pastori. Vi era il senso dolente dellafine prossima di una parte della sua vitala penultimache siallontanerebbe da lui per sempreinsieme a tante lunghe consuetudinidi luoghi e di persone. Il dottor Molesinbenché sbalorditodalla bomba della fantescaintese il granchio pigliatodall'arciprete e approfittò dell'abbracciolo prolungòtanto da rimettersi bene a postoda potere sfoderar poianch'eglicome l'arcipreteun metro di fazzolettone turchino e stropicciarsenecon zelo gli occhi.

"Bela elezion!" esclamòripiegando il fazzolettone. "Gran bela elezion!" Intanto siera riordinato anche l'arciprete. Supplicò Molesin di esserediscreto; e perché il dottore gli domandòtitubanteil nome della diocesigli troncò le parole: "No se sagnenteno se sa gnenteno se sa gnente". Lo richiamò adaltro argomento con uno di quei "dunque?" che si gettano auncinare il prossimo come ami legati a un filoinvisibile sìma ben conosciuto dall'uncinatoche ne sperimenta subito il tirarforte.

"Dunque" disse Molesinparlando italiano per aggiungere importanza al discorso "il granmodernista ha dovuto levare i tacchi; come il prete suo amicomihanno detto."

L'arciprete rise.

"Storie vecchiequeste"diss'egli. "Storie vecchiecaro. Parliamo del presente."

Lo sapeva beneMolesin che il"dunque?" dell'arciprete era stato un uncino gittatogli pertirarlo al torbido presente: anch'egli voleva venire al presente manon tiratovi a forza con pericolo d'inciampare.

Voleva mettere i piedi dove piaceva alui. Cosa poteva egli dire del presente che l'arciprete non sapessegià? La morte del vecchio Trentoil suo testamentoMomiCamin alla Montanina...

"Fin che no vien Spazzacamin."

L'arciprete non sapeva quanto la suafreddura fosse atroce per Molesinil quale la sostenne imperturbato.Disse che Momi lo aveva invitato a vedere la villa. Era venutoprincipalmente per il piacere di visitare l'arciprete. Perògli era stato gradito anche di accontentare Momi. E qui fece prudentielogi di Momidisgraziatosìnella famiglia e negli affariuscito forse un po' fuori di strada in cose politichema buondiavolaccioin fondoe buon cristiano poi; ohquesto sìbuon cristianodi quelli all'antica.

"A pian a pian" fece donTita. "I me dise che in casa a Padovaghe sia del sporcheto."

Molesin aggrottò le cigliastrinse e porse le labbra con un lungo mugolio sordointerrotto discatti negativi: "no - no no"che finirono in undubitativo: "proprio no credaria apparenze!". E continuòa dire dei buoni principiidelle buone pratiche del suo amico. Siteneva sicuro che sarebbe un eccellente parrocchianoun parrocchianogeneroso per la chiesageneroso per i poveri; mentre se perdisgraziaun giorno o l'altrola Montanina capitasse in mano diquel taledi quel signor Alberti...

"Pur troppofiolo" disse donTita. "La ghe capita."

"Da bon?"

Molesin perdette un momento il suoequilibrio.

"La ghe capita" confermòdon Tita. E raccontò la fuga tentata da Lelia.

"Combinàcapìo"diss'egli. "Tutto combinà."

Secondo luila ragazza non volevaassolutamente saperne di vivere con suo padre. Donna Fedele laproteggema non può tenersela se il padre la vuole. Pochimesi ancorae la ragazza è maggiorennediventa libera. Sitrattaper lorodi far passare questi pochi mesi. E si èpensato il bel colpetto. Una notte la ragazza scappa. E'una ragazzaarditaanzi sfacciatae l'arciprete dice di averne le prove. Pigliaun treno in qualche partecome aveva fatto don Aurelioe va inPiemonte. In Piemonte la sua protettrice ha un nuvolo di parenti. Laragazza si nasconde un po' qui un po' lìfino a che passanoquesti benedetti mesi. Intanto l'altra lavora per il signor Albertisuo protetto anche quello. Lo ha già fatto venire a CeghedaMilanodopo la sua fuga. Sono stati veduti insieme in un luogosolitariosulla riva dell'Asticoa far complotti. Ma c'è laProvvidenza. La Provvidenza si serve di un ereticodi un birbanteper rompere le ova nel paniere di quell'altro. La Provvidenza loconduce a dormireuna notte di pioggiadove la ragazza non credevacerto di trovarlo. E succede il patatrac.

Don Tita descrisse il patatrac e vennealla morale. La commedia si ripeterebbe certo e il signor Camin o daCamin doveva pensare al riparo se non voleva che arrivasseSpazzacamin.

Tutta questa industriosa architetturanon era farina del sacco di don Tita. Era farina del sacco di donEmanuele. Il sacco di don Emanuele era un sacco a doppio fondo. DonEmanuele aveva informazioni che comunicava e informazioni che noncomunicava a don Tita. Gli comunicava quanto reputava utile o almenoindifferente che fosse poi ripetuto dall'arciprete senza prudenza.Non gli comunicava ciò checonosciuto segretamente da luigli procacciava un monopolio di sapienza direttiva e la coscienzagradevole di tale superiorità. Masul conto di don Titaeglis'ingannava. Don Tita pareva più grosso di lui ed era invecepiù fine. Don Tita si era accorto del giuoco e fingeva dilasciarsi giuocare. Non credevaper esempionella storia raccontataa Molesincredeva soltanto che fosse utile raccontarla. E lo capiva.Capiva perfettamente che fosse utile di seminare discordia fra laVaylatanto avversa a lui e al cappellanoe il nuovo padrone dellaMontaninail quale avrebbe potuto far molto per la chiesabisognosadi riparazionidi panchedi pavimento. Capitatogli fra i piedil'amico Molesinaveva intuito come quello fosse un canale buonissimoda versarvi le parole che avrebbero posto in guardia Camin controdonna Fedele e preparatafra il clero di Velo e il sior Momiun'alleanza vantaggiosa per la chiesa e per i poveri dellaparrocchia.

Non credeva che donna Fedele avessefatto fuggire la signorina di notte a quel modo pericolosomentre lesarebbe stato tanto facile di farle prendere il treno ad Arsiero comelo aveva preso altre voltesolaper andare a Seghe o a Rocchette;ma don Emanuele gli aveva asseverata la cosa ed egli credeva quindipoterla darein coscienza per vera. E si era interdetta qualunqueindagine. "Se don Emanuele"

pensava "sa una cosa e ne diceun'altrabuon' pro gli faccia. A me va bene questa." Infattidon Emanuele sapeva che le persone di servizio del villino credevanoa un tentativo di suicidioper certi pezzi di carta scritta che poile avevano trovato in camera. Supponevano che la ragazza intendesseappiattarsi nel boscosotto la chiesa del Camposanto di Arsieroperaspettarvi il treno delle quattro e gittarsi sulle rotaieo saltarenella roggia che taglia la strada di Seghe volgendo verso la Pria.

Molesin ascoltò moltoattentamente il racconto. Se le cose stavano a quel modo e se oraMomi consentisse a lasciar viaggiare sua figlia colla Vaylabisognava aspettarsi il peggio. Colei farebbe scappare la ragazza ebravo chi la scova dopo. Pochi mesi ancora e arriva Spazzacamin. Laragazza assegnerà una pensione a suo padre; più dicosìprobabilmentenon vorrà concedergli e saràcome nulla. Bisogna ch'essa ritorni alla Montaninabisogna che Momivoglia e sappia riguadagnarsene l'animo. Brutto affare.

"Povero Momi!" diss'eglimalinconicamente. Esenza fiatare delle lettere di donna Fedelepassò a un altro discorso. Domandò Se Momi avesse fattocelebrare un ufficio funebre nel giorno settimo della morte delvecchio Trento. Nonessuno ne aveva parlato. In circostanzeordinariel'arciprete avrebbe fatto interrogare in proposito lafamiglia. In quelle circostanzeil signor Camin essendosiimpensatamente allontanato la mattina del quattrosua figlia nontrovandosi a casanon se n'era fatto niente. Ignorava se ilcappellano ne sapesse qualche cosa di più ma non lo credeva.

"Adesso sentiremo" diss'egli.E suonò per far venire il cappellano.

Molesin si era incontrato una volta condon Emanuele a Padova. Lo aveva fiutato avverso. Si era sentito adisagio come se quell'occhio acquosogelidolo spogliasse di tuttele morbide pelli finte che portava sulla dura pelle vera. Avevafiutato bene. Don Emanuele la sapeva lunga sul suo conto; lo avevatenuto a distanzapensatamente.

Molesin avrebbe fatto volentieri a menod'incontrarsi ancora con lui.

Ma quando il cappellano entrònel salotto e salutò l'ospitequesti si accorse tostoconrecondita dolcezzache l'occhio acquoso era meno gelido dell'altravolta. Infatti l'occhio acquoso vedeva ora nell'onesto Molesin l'uomoche aveva fatto conoscere alla pia signora Camine quindi agliecclesiastici suoi amici e consiglierila pericolosa presenza diMassimo Alberti alla Montanina. Nel salutarloil suo volto siatteggiò a un lieve sorrisoparve dire tacendo: "AhèLei!". Udito che neppure don Emanuele aveva parlato con alcunodi quel tale ufficio funebre e che d'altra parteper certe ragionidi ritonon sarebbe stato possibile di celebrarlo nel giornosettimociò cui l'arciprete non aveva ora pensatodichiaròche si prendeva la responsabilità di ordinarlo a nomedell'amico. Per l'ora si sarebbero intesi. E a nome dell'amico pregòche lo si aiutasse a trovare un sacerdote per la messa festiva nellachiesina della villa. L'arciprete avrebbe risposto con effusionecordiale se non lo tratteneva un'ombra sul viso del cappellano. Cosìrispose un vago "vedremo". Allora Molesincui non erasfuggita l'ombrafece intravvedere daccapoattraverso una nebbia dimezze parolele belle cose che Momi Camin potrebbe fare se trovassesimpatia e se avesse la pace in casa. Non specificò le bellecose né altro; e l'arcipretecontento che non specificasseche non proponesse una specie di contrattoaccompagnava i suoi girie rigiri di frasi con certi "ben - ben - ben" cheperl'oratoreerano tante gocce di balsamo.

Ma don Emanueletemendo evidentementeper i suoi reconditi finiche il principale si compromettesse conparole poco misurategli ricordò certe faccende urgenti dasbrigare insiemeper cui Molesin fu costretto a levare il campo.L'arciprete gli domandò se intendesse partire quel giornostesso. Rispose di essere venuto da Padova con quest'idea. Ma ilpaese era troppo bello e l'amico Momi gli faceva tanta violenzaperché restasse! Restava. Proclamato enfaticamente questofantastico atto di sottomissioneprese congedotrottò versola Montaninaora meditando il racconto dell'arciprete e l'ombraenigmatica sul viso di don Emanueleora struggendosi di sapere comefosse andato il colloquio di Momi con quella signora Bailao Baliao il diavolo che la porti. Quando arrivò alla metail siorMomi non era ancora ritornato. Ritornò poco dopo. Molesinchestava informandosi della colazione in cucinalo udì chiamareper la casa: "Dotòr! Sior Checco! Sior Checco! Dotòr!".Criticata l'opera della cuoca circa un baccalà che stavapreparandoe istruitala secondo i propri gustirientrò incasavociferò alla sua volta: "MomiMomi! Son quasonqua!". S'incontrarononaso a nasonel vestibolo.

"Male - male - eh male"borbottò il sior Momibattendo molto le palpebre.

La ragazza non aveva voluto vederlolasignora gli aveva fatto intendere chese facesse valere il suodiritto di condursi la figliuola a casagli sarebbe accaduto dipeggio. Il sior Momi si era visto costretto a permettere il viaggio."Aspettare sperare" ripeteva il falso cretinocolla suavoce di palatocol suo muso di vecchia cera dipinta stupidamentelevato all'aria: "aspettare - sperare".

Il primo pensiero di Molesinnell'apprendere ch'egli aveva permesso il viaggio colla Vaylafu didirgli: "Bravo el mamo". Il secondo fu diverso. "Sìsì sì" diss'eglicome se non valesse la pena diturbarsi per quell'argomento. "Sentirì che bacalà!Merito mio."



Capitolo Nono


NELVILLINO DELLE SPINE


1.


Donna Fedele fece portare Lelia svenutain una camera a due lettila fece spogliare e mettere a letto.Intanto la fanciulla rinvennesi guardò attorno sbalorditaspinse viacon un gemitole mani della cameriera che la componevanosotto le coltrisi eresse con mezza la persona sui gomiti. DonnaFedele ordinò alle due persone di servizio di uscire e accennòloro che restassero nell'anticamera. Chiuse l'uscio si avvicinòa Lelial'accarezzòle disse piano: "Hai avuto unaccesso di sonnambulismoti prego di star quieta perché misento tanto maleho tanto bisogno di riposare anch'io". Le fecedolcemente forza perché ripiegasse il capo sul guancialespense la lucesi coricò silenziosamente nell'altro letto.Soffriva davverotanto che poco prima si era quasi decisa di farsivisitarefinalmente; non per paura della morte ma per uno scrupolodi coscienza. Ora tutta l'anima sua era protesa sopra l'altro lettosopra l'altro corposopra l'altra smarrita infelice anima che avevacercatonon ne dubitava un momentodi morire. E la maggiore suapena era l'umiliazione che Lelia doveva provare del tentativo nonriuscito. Spasimava d'ingannarladi farle credere che nessuno avessesospettato il vero.

Non una sola parola era ancora uscitadalle labbra di Lelia. Parve a donna Fedeleun quarto d'ora dopospento il lumech'ella si movesse nel letto. La chiamòsottovoce:

"Lelia."

Nessuna risposta. Chiamò piùforte: "Lelia!". Niente. Non osò insisterealzòe porse un poco il capo dal guancialevolendo vedere.

Le parve che fosse supina e immobilema non poté discernere se gli occhi fossero chiusi o aperti. Econtinuò a tender l'orecchio. Il gran vento di Val d'Asticoruggiva intorno al villino. Discese pian piano dal lettoschiusel'uscio dell'anticamera per licenziare le cameriere. Al chiarore cheun'obliqua lama di luce mise nella cameravide Lelia voltarsirapidamente sul fiancoverso la parete. Ritornata a lettoledomandònon tanto sottovocese fosse stata sonnambula ancheda bambina. Lelia non rispose. "Certo" disse donna Fedele"devi esserlo stata anche da bambina." E non udìpiùper la intera notteche movimenti inquieti della suavicina e il rombole urla del gran vento di Val d'Astico.Mortalmente lungamortalmente penosa notte!

All'alba Lelia si assopìla suarespirazione diventò affannosa. Donna Fedele scese dal lettole posò una mano sulla fronte. Bruciava. A quel tocco ladormente trasalìbalzò a sedere sul lettogemette:

"Questa non è la miacameraquesta non è la mia camera!".

L'angosciata amica le ricordòcon parole tenere ch'era uscita di casa dormendoch'era caduta.Speravasoggiunseche fosse contenta di averla vicina. Lelia lainterruppe: "Caduta? Comecaduta? Nocaduta!". In quellamente turbata dalla febbre la parola "caduta" si eraconfusa colla forma del disegno funesto; ella dubitava di averloposto in opera senza morirne. Donna Fedele l'abbracciò e se nesentì alla sua volta abbracciarebaciarebagnar di lagrimechiuderequasinella vampa e nell'odore di una febbre ardente. Duròfatica a sciogliersi dall'abbraccioa ricomporre la fanciulla sottole coltri.

Suonò per la camerieraordinòche si mandasse il custode a chiamare il medico.

Si vestì con doloroso sforzo equando il medico venne lasciata la cameriera presso Leliagliconfidò quello ch'era strettamente necessario confidargli. Laragazza era uscita di notte in un momento di grave agitazione moraledeterminata da fatti familiari. Era caduta presso il cancelloavevaperduto i sensi. Le si era fatto credereper rispettare i suoiintimi sentimentiche si attribuiva la sua uscita notturna a unfatto di sonnambulismo. Il medico era pregato di regolarsi cosìnel discorrere coll'ammalata. Questa si rifiutò di prenderechecchessiané medicinené cibo di alcun genere. Erasovreccitata dalla febbre alta e parlavaparlavaquasicontinuamente. Parlava sempre di sonnambulismo e di sonnambuli. Nonsi tradì mai. La sua preoccupazione morbosa era di fornireconferme al giudizio di donna Fedele. Solo una volta cambiò diargomento. Nominò il povero signor Marcello eguardandol'amicas'intenerì. La febbre declinò verso sera. Lesuccesse un periodo di taciturnità cupa. Il medico venne anottela trovò quasi sfebbratacercò di scherzare.

Smise subitotanto il bel viso pallidosi fece ostile. Trovò invece accesa in visofebbricitantelapadrona di casa. La vera causa delle sofferenze di donna Fedele eraignota a lui come a tutti. Egli attribuì il suo stato astanchezzale raccomandò di dormire solain pace. Ellasorrise e tacque. Non era la paceper leidormir sola. La paceperleiera donarsi tutta a quella giovinenon tanto per amore di leiquanto per la memoria del signor Marcelloper amore dell'amore cheil signor Marcello aveva continuato al figlio suomorto. Si feceancora preparare il letto accanto a quello di Lelia.

Soffrivabeata di soffriredellacoscienza di una vita tanto piena quanto non lo era stata mai.

Aveva l'abitudine di leggere a lettoogni seraun capitolo dell'Imitazioneil libro che il veneratopadre suo aveva avuto più caro dopo il Vangelo. Domandòa Lelia se la luce le desse noia.

Avrebbe fatto a meno di leggere.Dovette ripetere la domanda due volte prima di ottenere risposta.Venne finalmente un no quasi inintelligibile. Allora pensòbene di spegnere. Udito di lì a poco un respirochiamò:

"Lelia."

Poichéal solitonon vennerispostariprese:

"Mi permetti di parlarti?"

Silenzio.

"Di mesai. Vorrei parlarti dime. Avrei da farti una preghiera che riguarda me. Mi permetti?"

Stavolta venne un sì doloroso.Quella voce pareva dire: non posso negarema perchétormentarmi?

"Scusa" ricominciòl'altra vocedolce e grave: "Vorresti dormire?".

Lo stesso gemito di prima:

"No."

Donna Fedele tacque alcuni istantiordinandosi nella mente un discorso pensato per un fine di granvalore e per esser detto nelle tenebre. Forse la luce le ne avrebbetolto il coraggio.

"Mi dai la tua parola"diss'ella "che non ripeterai a nessuno quanto ti dirò?"

L'altra vocetriste ancora ma nonflebile:

"Sì."

Nuova pausa.

"Tu non sai" cominciòlenta lenta donna Fedele "e nessuno sanessuno deve sapere chesono condannata a morire prestocredo molto presto."

Aspettò una parolaun moto disorpresadi protesta. Niente; silenzio. Continuò:

"Sono ammalata da più di unanno. Mi è ripugnato sempre di farmi visitare e forse adessosarebbe troppo tardi. Soffro molto. Ma le mie sofferenze non sonosolamente fisichene ho anche una morale."

La voce lenta si abbassò.

"Vi è stata nella mia vitaun'ora terribile. Mi sono innamorataa diciotto annidi un uomo chenon era libero. Tu hai già indovinato chi era. Non l'ho amatodi un amore puramente idealeno. L'ho amato con tutta la mia anima econ tutto il mio sangue. Fortunatamente egli non ricambiò lamia passionemi chiese silenziosamente la rinuncia.

Allora pensai a morire. Studiai un mododi morire che non paresse suicidioperché il dolore di miopadre non fosse troppo amaro. Una corsa in montagnaun passodifficileuno sdrucciolone.

Fortunatamente ancoramio padreammalò. Non aveva che meperché mia madre morìquando avevo tredici anni. Il mio amore per luiche si era alquantoassopito durante l'altra passionesi risvegliò. E sirisvegliò anche il mio sentimento religioso. Non posso dire semio padre avesse letto qualche cosa nel mio cuore. Certo egli miparlavadurante la sua convalescenzadi Diodi Cristodell'animadel doloredell'amoresenza severità di ammonimentima conuna grande dolcezzacon una tenerezza che mi rivelò tutto ilmale della mia passione e dei miei propositi di suicidio. Le monachedel mio collegio non mi avevano data che una vernice di religione. Fumio padre che mi fece credere col cuore e amare la mia fede. Poveropapà!"

Donna Fedele tacquecommossa dallamesta riconoscenza chea parlarnesi riaccendeva. Dall'altro lettonessun segno di vita. Ella domandò:

"Ti stanco?"

Il no che venne stavolta non era néflebile né triste. Era un no sommessobrevetronco; un noavido quasi.

"Il più doloroso vieneadesso" riprese la narratrice. "Quando mio padre morìavevo ventisette anni. Vivevo a Torino con una dama di compagnia chemio padre mi aveva presa perché mi accompagnasse in societàe mi aiutasse a ricevere. Vedevo molta gente. Fui amata da unufficiale più giovine di mepoverodi molto ingegnodimolto valore morale. Mi era simpaticoho creduto di poterlo riamareed ebbi il torto immenso di non sapergli nascondere il miosentimento. Così lo aiutai a illudersi. Mi domandò disposarlo e alloratroppo tardiintesi che potevo avere con lui unlegame d'animaun altro legame no.

Gli risposi così. Egli presecongedo senza una parolaandò a casa..."

"Si uccise?" mormoròLelia.

Donna Fedele non rispose. Si accorse diuna piccola mano che strisciava sulla sponda del suo lettola cercòla presesentì la propria esser tratta verso l'altro lettoessere sfiorata da due labbra calde. Era un premio del grande sforzoche aveva fatto per aprire il suo cuore a quella persona quasistraniera. amata di un affetto riflesso.

"Cara" diss'ella sottovoce.Per qualche momento non fu in grado di riprendere il suo racconto.

"Era figlio unico" proseguìfinalmente. "Aveva la madre e una sorella. Restarono quasi nellamiseria. Mi odiarono perché credevano che io l'avessi primaadescato e poi respinto. Mai non avrebbero accettato soccorsi da me.La madre morì. La sorella vive a Torinosola. Ti daròil suo indirizzo. Io la soccorro senza ch'essa lo sappia. Se lelasciassi qualche cosa per testamentonon vorrebbe accettare. La miapreghiera è questa: quello che vorrei lasciare a lei lolascerei a te e tu continueresti a soccorrerla come faccio io adesso.E ti pregherei anche di vederlaquando sarò morta; dipersuaderla che io non l'ho adescatosuo fratelloche ho solamentecredutoingannandomidi poter corrispondere al suo sentimento e cheil dolore del mio fallo l'ho portato con me fino alla morte. Lofarai?"

Stavolta fu donna Fedele che stese unamano alla sponda dell'altro letto. La mano fu presa e stretta come inuna morsa. Risposta non venne Donna Fedele ripeté: "Lofarai?".

Sentì premersi il dorso dellamanoa due ripresesopra due occhi umidiudì un sussurro:

"Lei non deve morireLei deveguarire."

"Mase non guariscolo farai?"

La mano prigioniera patì unastretta violenta.

"Non mi costringa a risponderesubito!"

A queste parole di Leliadonna Fedeleritirò la manoche non fu trattenutae tacque. Leliaesclamòdi soprassalto:

"Lo so...!"

E non andò più avanti.

"Cosa?" chiese donna Fedele.

"Niente" diss'ella.

Tacquero ambedueper un minuto. PoiLeliapiano pianodiscese dal lettostese le braccia intorno alcapo dell'amicale posò il viso sul petto.

"Lo so" diss'ella con un fildi voce "perché vuol dare quest'incarico a me. Lo soperché mi ha fatto cambiare di camera. Lo so..."

"Zitto!" fece donna Fedelecercando alzarle colle mani il viso e chiuderle la bocca. E perchél'altra ricominciava "lo so..."le impose con forza ditacere e di ritornarsene a letto.

"Mi risponderai domattina"diss'ella.

Lelia non espresse né un rifiutoné un assensoritornò sospirandoa letto. Dopo unpocoudendo l'amica muoversi le domandò se avesse primaspenta la luce per causa suala pregò di riaccenderla perleggeresecondo la sua abitudine. Poiché l'amicainfattiaccese e si mise a leggeredesiderò sapere cosa leggesse. El'amicasenza dirle il titolo del librone andò sfogliandole paginelesse ad alta voce:

"Ora spesso gemo e porto condolore l'infelicità mia perché molti mali incontrano inquesta misera valle onde sovente mi turbomi attristomi rannuvoloepreso nei loro lacci e stretto e trattosono impedito di venireliberamente a Te."

Qui si fermò.

"A chia te?" chiese Lelia.

"A Gesù Cristo."

Lelia non parlò più.Donna Fedele continuò silenziosamente la lettura per pochiminuti e spense.

Verso l'alba donna Fedele ebbe doloriacuti che le strapparono un lamento. Leliaancora insonnebalzòdal letto accese la luceassistette come poté la sofferentechevedendola angosciata di pietàle sorrideva pur nonvalendo a ringraziarla colla voce. Si quietò solamente agiorno fatto.

"Dunque" diss'ella"nonmi darai quella consolazione? Vedi in che stato sono."

"Mi prometta prima Lei"rispose Lelia "di farsi visitarea Padova o a Torinoe dicurarsi."

"E poituprometterai l'altracosa?"

La rispostapronta e decisafu:

"Sì."

Donna Fedele promise estese lebracciaraccolse Lelia in un lungo abbraccio. Nella giornata sisentì molto megliosperòanche per esperienzepassatein un periodo di calma e fece i suoi piani per l'adempimentodella promessa. Ragioni d'interesse la consigliavano di recarsi aTorino dove dimorava il suo agente. Pensò che si farebbevisitare da Carle e poise Carle lo permettesseandrebbe un poco inmontagnao verso il Rosa o in Val d'Aosta. Chi sa se il signor Caminavrebbe permesso a sua figlia di accompagnarla? Lelia dichiarònel solito suo modo troncosfidanteche andrebbe senza permesso.L'amica le diedesorridendodella bambinale disse che suo padreaveva il diritto di farsela ricondurre a casa dai carabinieri. "Nonoserà mai!"

rispose Leliapensando alle tantelettere umili ch'egli le aveva scritteai denari che tante volte gliaveva spediti. Donna Fedele alzò un poco le sopracciglia etacque. Poi scrisseper proprio contoa Camin. Il custode portòla lettera alla Montanina e riferì che il signor da Camin eraatteso per la mattina seguente. Lelia dichiaròprima ancoradi venire interrogatache se suo padre capitasse al villinononintendeva di vederlo. Lo disse con tanto risoluta fierezza che la suaprudente amica credette bene di non farlein quel momentoalcunaosservazione. Mise l'argomento da parte per la conversazione intimadella notte. Aveva offerto a Lelia la sua camera di prima e Leliaaveva rifiutatodesiderava poter assistere l'amica maternase neavesse bisogno. L'amica materna ne fu assai contentaparendole poterlavorare quell'anima più facilmente nella notte.

Infattila sera stessaappena spentoil lumela interrogò. "Dunquese tuo padre viene?"

"Se mio padre vienenon sonoancora ben guaritaho mal di caponon sono in grado di vederlo."

Donna Fedele osservò condolcezzasottovoceche non era possibile.

Era contro le convenienzeera controil suo dovere filialeera contro il suo interesse. Lelia protestòche non le importava di convenienze né d'interessi. Ma ildovere? ribatté donna Fedele. Che dovere! Verso un padresimile? Gli aveva dato denarogliene darebbe ancorase ne avesse;ma basta. Tantoegli non desiderava che denaro.

Affetto nocerto.

"Tu sei religiosa" siarrischiò a dire donna Fedele.

"Questo non c'entra."

"Oh sìc'entra!"

Lelia tacque.

"Ma io non so" esclamòa un tratto "se sono religiosa!"

"Non lo sai?"

Donna Fedele aveva messo il discorso inquel camponon tanto per ricordare a Lelia il carattere religiosodei suoi doveri filialiquanto per saggiare la religiosità diuna donna che aveva tentato il suicidio. Lelia rispose asciutta:

"Non lo so."

"Ma preghiperò."

"Adesso non prego più.Almeno come insegnano i preti. Li detesto."

"Oh perché?"

Lelia non rispose.

"Ho avuto una cameriera"disse donna Fedele "che non volle più bere vino perchéuna volta sbagliò bottiglia e bevette inchiostro."

Lelia tacque un poco e poi uscìa domandare:

"Leiin religioneche idee ha?"

"Te le ho già dette. Sonouna cattolica all'antica e non confondo i preti cattivi collareligione."

"Credevo che avesse le idee..."

La fanciulla non risposeneppure poiche donna Fedele le ebbe domandato: "Di chi?". Alloraquesta indovinò.

"Ma cosa ne saitu"diss'ella"delle idee di quella persona?"

"Già!" esclamòLeliasdegnosamente. "Con Lei non si può toccarla!"

Donna Fedele scattòdimenticadell'usata prudenza:

"Se non hai capito il suosentimentocaratanto meno puoi capire le sue idee!"

L'altra mormorò: "Il suosentimento! Non si è mica suicidatolui".

Le parole che toccavano storditamentesenza necessitàuna corda tanto dolorosa per donna Fedelelaferirono nel vivo.

"Non si è suicidato!"rispose. "Tu non capisci cosa sia religione e Alberti locapisce."

Dopo di che né l'una nél'altra parlarono piùneppure per darsi la buona notte.


2.


Poco dopo le undici della mattina dopoil sior Momi spinse lentamenteriguardosamenteil cancello grandedel villino delle Rose. La sua onesta intenzione era di spingereavanti con eguale dolcezzacon eguali riguardiqualche parolettache suonasse desiderio di avere la figliuola con sé ma di noninsistervi e sopra tutto di rendersi gradito all'amica e consiglieradi Lelia. Non gli passava per la mente di sfoderare con lei i dirittipaterni sfoderati coll'amico Molesin. Poiché gli restavanopochi mesi di governoil suo piano era fatto: appropriarsi in questipochi mesi il più possibile dei valori mobili della sostanza;fare l'umile e il contrito perché Leliadiventatamaggiorennegli concedesse un largo trattamento; dare a bere al carosior Checco quanto importasse per ottenere a buoni patti ilconcordato coi creditori. Comprendeva che Molesin mirava a farglitirare la figlia in casa collo scopo che tenendoveladominandolaimpedendole un matrimonio qualsiasiegli diventasse di fatto padronedella sostanza Trentoe poi scendesse ad altri patti coi creditoriper la paura che gli lavorassero contro la ragazza. Le sue propriemire non andavano a quella piena conquista. Tenersi insieme in casala figlia e la Gorlago non era possibile. Lelia lo avrebbe piantatosubito e male. Licenziare la Gorlago gli era meno possibile ancora.Avara come luienergica più di luiella lo appassionavacolla propria sensualità zotica e violenta. Né l'uno nél'altra si erano fedeli. Eppurea modo lorosi volevano bene.

Litigaretalvolta infernalmentesì;separarsimai.

Il sior Momi s'inoltrò pianpiano per il viale dei tigli che parte dal cancellofece il giro delvillinonon sapendo quale ne fosse l'entrata ufficialese laveranda della facciata o la porticina del lato opposto. Battémolto le palpebre e infine preferìper istintoporgere ilcapoumilmentedentro la porticina. Al suo "con permesso"

seguito da una gran soffiata di nasola cameriera discese correndo le scalelo introdusse in salottoandò ad avvertire la signora.

All'opposto del dottor Molesinil siorMomidavanti a persone di riguardos'irrigidiva. Al vederlo cosìstecchitocon quel muso di cartone e le palpebre rosse battentisugli occhi vitreidonna Fedele si domandò ancora se fosse unvolpone o proprio uno stupido. Mentre gli ripetevapresso a pocolecose scrittegliegli emetteva delle frasi rottedei ringraziamentisenza oggettodegli "eh capisco"

inintelligentidei "lascioliberalascio libera" monchi di sostantivo e di pronome. Quandola signora accennò al carattere un po' eccentrico dellafigliuola per disporlo al possibile rifiutoda parte di leidelcolloquio ch'egli certo desideravamise fuori anche qualche "ahoaho" d'ilare consenso. Poi approvò espressamente ilviaggio di Torino. "Contentissimopoi. Eh contentissimosissignora.

Un onore poiun onore."

Finalmente pronunciò anche luiil suo discorso autonomo. "Se non disturbo... se non disturbo...pregherei... se non disturbo." Più di così non gliuscì di bocca. Donna Fedele intese che quella era la domandaufficiale di vedere Lelia. Era questo ch'egli desiderava?

"Eccoper ubbidirlasissignora."Ella disse che Lelia non stava ancora troppo bene ma che l'avrebbefatta avvertire. Le aveva impostoprimacon tanta energia diricevere suo padre s'egli chiedesse di leiche la fanciulla piegò.

Lo ricevette in piedifermacon unafaccia sepolcrale. Egli le si avvicinò premurosonon piùstecchitobalbettando "ciaociaociao - come staicome staicome stai?". La baciò sulle due gote. Ella ebbe unbrivido ma si lasciò baciarerigida come una statua. Non glidisse di sedere. Egli sbirciò una sedia e non osòpigliarla. Lodò il viaggio di Torino. Bravabravacontentissimocontentissimo. Poi cavò il portafoglidisseche avendogli la signora scritto di questo viaggioegli le avevaportato "i cosi". Tolse dal portafogli e le porse unpacchetto di biglietti da dieci lire.

"Cambiate le cose!"diss'egli. "Aho aho! - Ehma roba tuaroba tua!

Pochi mesi ancorarenderòconto!" Un'altra risata cretina e il sior Momi cambiòingenuamente il suo ammirativo in interrogativo: "Vero?

Renderò conto?".

"Non importa!" rispose Leliacon piglio sprezzantesenza misurar molto il valore della parola. Ilsior Momi la trovò ghiottala ingoiò lentamentese nebeò nello stomacoperdonando a Lelia di tenerlo lì inpiedi come un servo.

"Sei stata poco benevero?"diss'egli poicon tenerezza patetica.

"Cosa? Febbre? Influenza?Indigestione? Anemia?"

Tirò tutte queste interrogazionidi seguito come affrettati colpi secchi di rivoltella.

"Una reumatica" risposeLelia.

"Eccoreumatica. E quando ritornida Torinovieni casa?"

"No"

"Ben ben ben ben ben" fece ildocile umile genitorecontinuando lo sdrucciolone nel dialettodall'italiano usato sempre colla figliuoladopo il collegio. Avrebbevoluto prender congedo con un altro bacio ma non osò. Il siorMomi era un furbo realmente timido. Il suo parlare impacciato etroncoi suoi goffi "aho aho"i suoi irrigidimentidavanti a persone di riguardo erano veramente fenomeni di certatimidezza nervosaaltro donoprezioso quanto il viso cretinocheserviva come un grosso colore di verginale innocenza sopra le lineefini dei suoi disegni. Anche la superiorità intellettuale emoraleil contegno altero della figliuola gli mettevano soggezione.

"Scriverai?" borbottònell'uscire.

La risposta di Lelia fu: "Addio".Il sior Momi discese le scalenon dimenticò donna Fedelelesi presentòduro duro: "Complimenticomplimenticontentissimofelice viajodesidero".

E infilò la portameditando giàdi riferire al caro Molesin che aveva dovuto cedereche la figliuolagli era stata ostilissimache non c'era da godere alcun pezzo diquella tortaa menoGesummaria di rubarlo.



Capitolo Decimo


INGIUOCO


1.


L'amico Molesin non credette sillabadel racconto che gli fece Momi; né che non avesse veduta lafigliuola né altro. Tuttavia il buon dottore mostrò diabbrancare e di tenere lietamente saldi i due infiniti: aspettaresperare. Non c'era dubbionon c'era dubbiole cose siaccomoderebbero. A colazione mangiò pocoallegando ch'eratroppo tardiche l'appetito gli era passato. Però si mostròassai di buon umoreparlò del paesaggio e del "Cason"con qualche maggiore benevolenzariferì il discorso fatto incanonica sull'ufficio funebrepersuasemolto facilmenteMomi amandar subito un rigo pregando che l'ufficio si celebrasse nel piùbreve termine possibile.

Espresse bonariamente la corteseintenzione di assistervise per questo non dovesse rimanere che duegiorni e se la sua prolungata dimora non riescisse d'incomodo. Illuogo gli veniva piacendo ed egli stesso aveva tanto bisognopoverodottoredi riposo. Il sior Momi fece "figurarsefigurarse!"ma batté molto le palpebre. Dopo colazione Molesin volle faredue passisalire coll'amico il sentiero ombreggiato dai castagni.Sedette sulla prima panca che trovò e vi fece sedere Momi conpiglio solenne:

"Ohqua."

Lasciati passare pochi momentiresefinalmente omaggio alla bellezza della natura:

"Belo belo belo belo."

E tirò su Momi a bruciapelo:

"La sentaMomi. Femo un afare."

Il sior Momi rispose coll'aria sua piùstupida:

"Ah? Cossa Ca senta? Un afare?"

Raccapezzatosi mentre tirava in lungoqueste esplosionicapì che Molesin intendeva proporgli unacifra per il famoso accomodamento e si armò.

"Adesso" riprese il dottoreparlando l'italianovenetamente rammollitodelle grandi occasioni"Ellasignor Momi egrejoè padre e padronediremocosìdi una bella sostanza. Di un sostanzonediremo così."

"Aho aho!" fece il sior Momicon un ineffabile accento ironico.

L'altro continuò imperterrito:

"Adessoper avere la Sua pace inperpetuoanche quella della coscienzaElla potrebbe dare il centoper cento."

"O'l d'un!" esclamòCamincon un'altra risatina grottesca.

"Cossa gàla?" feceMolesinricascando per un momento nel dialetto.

"Non la xe cussì? Ma via?Voglio esserle amico. M'impegno di far accettare ai miei clienti ilsettantacinque per cento."

Il sior Momi non seppe tenersidall'esclamare:

"Brao putèlo!" Bravoragazzo! Tributata questa lode al candore infantile dell'amicoilsior Momi si colorò per la prima volta nel viso enell'eloquenza. Non pareva più il sior Momi. Due rosellineinfuocate gli spuntarono sugli zigomi gialli. Aggrottò leciglia. Il capo gli sussultavaparlandosul colloquanto glielopotevano consentire quelle vertebre ligneetutte d'un pezzo; e glifluiva di boccaa scatti gorgoglianticome l'acqua da una bottigliacapovoltala parlantina rapidanon interrotta da un solo "aho"o piuttostose si vuolesimile a un impetuoso fiume di "ahoaho"che travolgesse rottami di consonanti. Gli si domandava ilsettantacinque per cento quando egli non poteva più darenemmeno il venti offerto una volta. Si meravigliava che Molesin nonlo capisse. Egli aveva offerto il venti quando si poteva ritenere chesua figliadiventata erede di una buona sostanzaavrebbe fatto deisacrifici per il padre. Qualcuno glieli avrebbe prestatialloraidenari per dare il venti. Ma ora che la ragazza si mostrava come simostravaostilissima al padrerenitente persino a convivere conluiora gli si domandava il settantacinque!

Aveva offerto il venti appunto perchésapeva di non poter fare grande assegnamento sull'aiuto di unaragazza bizzarra che non gli aveva mai mostrato il menomo affetto. En'era venuta la prova. Grande assegnamento? Nessun assegnamento! Edove li pigliava i quattriniper dare il venti? Doveva rubaredunque? Rubare alla propria figlia?

Aveva un confortosìquello dipotersi mostrarealla provagalantuomocontro le calunnie di certagente. E un altro confortoaveva. Lo ammetteva volentieri; non glisarebbe mancato un paneperché sua figlialo desiderasse onoera in obbligo di fornirglieloper legge.

"Basta basta basta" feceMolesin. Si alzò e passò dal Lei al Voistroncandoanche all'amico il falso "da" del cognome.

"SentìCamin. Intanto veaviso che go a casa tuti i numeri de le cartele de rendita che gaveasto sior qua."

Il sior Momi esclamò che nongliene importava e offerse il cinque.

"Bastabastabasta!"

Molesin si avviò per la discesa.Fatti due passi si fermò in isbieco puntando il bastone aterra e guardandosi alle spalle colla coda dell'occhio.

"Femo el settanta" diss'egli.

"Femo el sette" disse Camin.

La conversazioneper quel momentofinì. Nel cervello del sior Momi spuntò la speranzachemodificando i suoi pianiMolesin levasse il campo quella serastessa. Scesero ambedue in silenzio dai castagni fino alla piccolacustodia che copre la sorgente della Riderella.

"Cossa xe quel maledeto baùl?"chiese Molesin con un viso ed un accento di burbero beneficochefecero subito comprendere al sior Momi come l'avversarioinvece dilevare il campomeditasse altre mosse. Avuta la rispostal'eccellente dottore dichiarò che quell'acqua gli era piaciutae che intendevanel suo breve soggiornofarne una cura. Il siorMomi non disse niente e batté molto le palpebre mentre laRiderella rideva piano giù fra i sassi e l'erba.


2.


Verso le cinqueMolesin ricevette unbiglietto di don Tita.

L'arciprete lo pregava di recarsi allacanonica. Molesin vi andò subito e vi fu ricevuto da donEmanuele. L'arciprete era partito per Seghe lasciando libero il campoal suo cappellanoil quale desiderava questo colloquio e non avevavoluto chiederlo direttamente per non mettere sé avantiall'arciprete in un argomento d'interesse spirituale. Gli doleva cheil Superiore non avesse fatto valere abbastanzaparlando conMolesinla necessità morale di strappare a ogni costo lasignorina Camin alla influenza funesta della Vayla.

L'animo del giovine prete era pieno dilivore verso donna Fedele; di un livore ch'egli giustificava nellapropria coscienza col cambiargli nomecol chiamarlo zelosacerdotaledoveroso zelo contro una persona della quale siconoscevano biasimevoli indipendenzein materia religiosa e moraledall'Autorità ecclesiasticache aveva permesso un ballo dicontadini nel suo giardinoche si arrogava di leggere e spiegare ilVangelo ai suoi dipendentiche si era legata di tanta amicizia conun prete sospetto come don Aurelioche proteggeva un modernistafacinoroso come il giovine Alberti. Se una punta del compressorancore personale gli scattava su a bucare queste sante fasciaturedon Emanuele si sforzava sinceramente di ricacciarla sottose neassolveva pregando per l'eterna salute di quell'anima pericolante epericolosa quanto più pareva irreprensibile nella vita e nellepratiche del culto. Intendeva mettersi egli stesso all'impresa distrapparle quella giovineperché l'arciprete era troppomolletroppo bonario.

Quando la serva gli annunciò ilsignor dottor Molesindon Emanueleche stava leggendo il breviarioebbe la visione dell'incontro colla Vayla in sagrestiadella scenatasulla strada di Meae si fece il segno della croce per cacciare dasé ogni spirito vendicativo e disporsi a far del male per lacausa del bene. La compunzione internafredda e duragli si leggevasulla frontenei tristi occhi acquosi e persino nell'incedere tardocompostodell'allampanata persona.

"Cossa vorla" pensòMolesin"sta anima longa?" E gli fece un profondo inchinocui l'anima lunga rispose con un piegar lieve del capo e un gestodella manopieno di degnazione prelatizia. Molesin gli domandòsubitoossequiosamentedell'arcipretesoggiungendo qualche paroladi compiacenza commossa per la sua prossima esaltazione nella Chiesa.

Don Emanuele non incontròaffatto il discorso dell'esaltazionescusò il Superioreassentesi disse incaricato di rappresentarlo.

L'arciprete aveva intese con grandecompiacenza le buone intenzioni del signor da Camin verso la suachiesa e i suoi poveri. I bisogni dell'una e degli altri erano grandima l'arciprete si rallegrava sopra tutto di queste inclinazioni piedel suo nuovo parrocchiano. Egli avrebbe cercato di mostrargli lapropria gratitudine nel modo più conveniente per un sacerdotein generale e per un parroco in particolareaiutandolonellesuedifficoltàdomesticheinterponendosi fra il genitore ela figlia perché avessero pace fra lorocon grande vantaggiodei loro interessi temporali ed eterni.

Fin qui il buon dottore Molesinsedutoin faccia al cappellano colle gambe aperte e le mani spiegate sulleginocchianon aveva fatto che alzare e abbassarecome un orsobiancoil capo curvo al pavimentoora con un semplice moto diripetuto assensoora collo stesso moto complicato di dimenamenti adestra e a sinistrache significavano un soprappiùunosdilinquimento di approvazione. Maudite appena le prime paroledella seconda parte del discorsoil capo curvo cessò difrugar l'aria.

Don Emanuele si vedeva costretto atoccare un argomento delicato. Né l'arciprete né eglistesso potevano far niente per la pace domestica del signor da Caminse non si toglieva di mezzo uno scandalo. Lo capiva il signorMolesin? Molesin che non si dimenava più ma configgevatuttavia gli occhifra le gambe divaricatenelle commessure deimattonisi eresse di scattosi portò sulla bocca una manospiegatase ne compresse le mascelleficcò lo sguardo in unangolo della cameraaggrottò le ciglia e si tenne immobilenello sforzo di capire. Pareva cercare il senso di un vocabolobabilonese o il nome di un bisavolo di Antenore.

"No" diss'eglilevando gliocchi attoniti a don Emanuele. "Non capisco."

Don Emanuele li fissò alla suavoltaquegli occhi attonitie Molesin li strinseli strinseperistintoperché l'indagatore sguardo acquoso non glipenetrasse oltre il primo velo dell'anima cipollinea.

E ripeté: "NoLa scusino. Insommano".

"Quella disgraziata creatura"suggerì lento lentoquasi sottovocedon Emanuele"cheoggi si trovacredoanche lei alla Montanina..."

"Ah! - Sì!" masticòMolesin. "Sì! Capisco! Lei vuol dire la governante.Sarebbe meglio che partisse. Sìcapisco. La sua presenzapotrebbe guastare la pace fra genitore e figlia. La figlia potrebbecrederedirò cosìanche leieccetera eccetera. Momila mandi viadice Lei. Benissimo. La manderà via. Rispondoio. Quantunquein veritànon credo..."

"E presto" interruppe donEmanuele.

Molesin fece un inchino diacquiescenzain silenzio. Allora don Emanuelecon un gesto dapersona attempatacom'erano tutti i suoi gestiscarsi e misuratisi appuntò al viso le cinque dita raccolte della mano sinistrae le considerò attentamente.

"Partita la disgraziata"diss'egli"è necessario che entri subito la figlia."

Sciolto il fascio acuto delle cinqueditaguardò Molesin con una profonda tristezza negli occhiacquosi. Si fece quindi puntello di una mano alla gotareggendosi ilcubito coll'altra mano e scosse desolatamente il viso senza piùguardare il suo interlocutoretutto contrito di riverbero.

"Questa figliuola nelle mani diquella signora" diss'egli"ecco la grande spinadell'arciprete. E l'arciprete non sa quello che io so."

Neppure Molesin sapeva; ma intantoadogni buon contodedicò un sospiro alla spina dell'arciprete.E il sospirone fu tanto profondo da far alzare un momento gli occhiacquosi. Si abbassarono. Don Emanuele ritornò sulle ignoranzedel principale. L'arciprete ignorava che quella povera figliuolanell'ambiente di casa Vaylaera giunta a meditare un delittoorribile. "Gesummariavolevela copar Momi?" pensòMolesin esterrefatto all'idea che il sior Momi gli scomparisse di frale unghie. Don Emanuele non si spiegò di piùquanto aldelitto.

Deplorò invece diffusamente itossici vapori dell'atmosfera Vayla. La ragazzastata sua penitenteera buona e religiosa. Poteva sperarsi da lei una forte reazioneunadi quelle reazioni che portano interamente a Dio le anime ferite dalmondo. Ma era necessario di coltivarla. Ciò non era possibilein casa Vayla. Occorreva l'intervento del padre cheusando dei suoisacri dirittila riprendesse colla forza della legge se altrimentinon poteva. Secondo don Emanuele la renitenza della ragazza erafrutto dei suggerimenti di donna Fedele.

Ritornata a casasempre dopo uscitanel'altra personala ragazza cambierebbe. L'arcipreteegli stessolacognata dell'arcipretepersona di gran pietàporrebberotutto in opera per coltivare il germe di santificazionelatente inquell'anima. Era un'anima desiderosa di staccarsi dal mondoun'animaindifferente alla ricchezza.

"Creda creda che quella figliuolaabbandonerebbe tutto il suo al padre senza l'ombra di un rimpianto."

Il cappellano volle che queste paroles'imprimessero bene nel cervello di Molesin. Molesin non lo lasciòquasi finiresi affrettò a parlare dell'interesse spiritualein questionecome se l'altro non fosse affar suo. Ricordòun'antica prozia monaca del sior Momi einarcando le sopraccigliacol senso filosofico-religioso dei grandi ricorsi storici e dellearcane leggi provvidenzialidiede del trombone nel fazzolettoturchinoin segno di essere pronto a marciare.


3.


Durante il desinareservito in granritardoil sior Momi espresse a Molesin la cortese intenzioned'invitargli a pranzo per l'indomani il suo amico arciprete. Molesinringraziòma certa esitazione e certa fiacchezza nell'accentorivelarono le sue angustie. Egli aveva appreso dalla cuoca la causamolto spiacevole del gran ritardo: una scena fra la Gorlago eTeresina a proposito di certo bicchiere di marsala che quest'ultimaaveva consegnato alla cuoca per i suoi lavori e che la governante delsior Momifatta una scorreria in cucinasi era tracannato per metà.Teresina si era licenziata e le preghiere del sior Momi non avevanopotuto rimuoverla dal fiero proposito.

Teresina che parte e la Gorlago chetrionfa: belle disposizionipensò Molesinper invitarel'arciprete! Dopo pranzo il sior Momipassando nel saloneproposeuna partita a "foracio". Gli occorreva blandirenonpotendo sopprimerloun avversario capace di macchinazionidiabolichedi spingere i preti di Velo a influire sulla ragazza inun modo sinistro per lui. Molesin non conosceva il "foracio"non giuocava che il tresette e il terziglio. Entrò Giovannicollo scalone per accendere le lampade.

"Lassè star quela maledetascala!" esclamò il sior Checcoda burbero maleficostavolta.

"Basta un lumetoun lumeto daogioa mi me piase i lumi da ogio."

Non c'erano "lumeti" in casa.Furono portate due candele. Il sior Momi chiese con un timido "aho"se l'amico fosse disposto a un terziglio.

Il terziglio si giuoca in tre el'amicosbalorditofece:

"Ohe?"

Altro timido "aho". C'era incasa chi conosceva il giuoco.

"Ah no!" sbuffòMolesin perdendo le staffe. "Ah no! Ah no! Ah corpo de sbriobaco po no! Ah bustegada! Ah grazie!" Soffiòrabbiosamente sopra una delle candele. "Ciapè quel lume!"diss'egli. Il sior Momi ebbe un bel ribattere: "Cossa cossacossa?". L'altro non cessò d'intimargli:

"Ciapè quel lume!"fino a che il sior Momiborbottando "ben ben ben"presela candela accesa. Avrebbe voluto metter fuori un pacifico "aho"ma non osò. E poi non capiva.

"E adesso?" diss'egliguardando Molesin colla candela in mano.

"Adesso andemo in studio"

Il salone restò buio esilenzioso. Un fioco lume di luna illuminavain altola galleriacui mettono capo le due scale. Teresinaaffaccendata a raccoglierele sue robe per partire l'indomanivi passò un momento collumesi fermò a guardar giù nell'ombrapensòal padrone di primaal padrone di adessoscappò via cogliocchi grossi di lagrimesentendo nelle paretinei mobilinelpavimentonell'ombra che si apriva e si chiudeva intorno al picciollumela stessa tristezza mortale che nel suo cuore. Passarono unoduetre quarti d'ora. Passò un'ora. Il salone era tuttaviavuoto e muto. Vi entrò Giovanni con un biglietto mandatodall'arciprete. Trovando buioesitò. Uscì nellaveranda aperta. Nessuno. Fossero fuori? Fatti pochi passi fuorisiavvide della luce che usciva dalle finestre dello studio. Ritornòin casaentrò nella stanza del biliardoudì la vocedi Molesin che parlava basso ma vibrato. Bussò pian pianoall'uscio dello studio. Aperse Molesinirritato.

"Cossa ghe xe? Cossa volèu?No se pole! Andè! Andè!" Giovanni consegnòil biglietto e si ritirò mogio mogio. Non domandò se cifosse risposta. Aveva saputo dal messo che il biglietto annunciaval'ufficio funebre del signor Marcello per il prossimo lunedì.Andò in cucina a raccontare del colloquio segreto fra ilpadrone e Molesin. La Gorlago che gli aveva già posti gliocchi cupidi addossoudito da lui di questo colloquio misteriosoloprese arditamente per manogli disse di condurla a origliare. Perchéil giovine si mostrava onestamente ritrosogli domandò con unsorriso equivoco: "El gà paura del scur?".

Giovanni resistette. Ella fece unaspallata sprezzante e andò sola.

Quel brutto vecchio Molesin col qualeaveva sprecatonella sua larga benignitàqualche smorfialeera odioso. Sbagliò un usciourtò delle sediemagiunse alla meta.

Ella si era ordinatoprima di usciredella cucinaun caffè. Il caffè era pronto da un pezzoe la Gorlago non ricompariva. Giovanni andò a prendernenotizie. Non ritornano né Giovanni né Gorlago.Finalmente Giovanni rientra di corsa fra spaventato e ridenteannuncia che nello studio si fa un baccano d'inferno. C'è laGorlago che strepita come una bestia. Pare che corrano anche deipugni. Tutta la compagniacuocacustodemoglie del custodeGiovannisi precipita allo spettacolo. Entranoin punta di piedinella sala del biliardo. Odono la Gorlago che strilla il propriopanegirico: "L'a de savè che mi"

questo e "che mi" quelloilsior Momi che sbraita: "Zittotasìandemobasta!"Molesin che geme: "Ma sìbenedetalo sobenedeta!".

Giovanni scappa in giardinospia dallafinestravede il sior Momi in piedi fra il tavolo e la poltronachescuote le mani verso la Gorlago scongiurandola Gorlago che avanzacoi pugni sui fianchi e le spalle curvecontro Molesin come perdivorarlo e Molesin che indietreggiapiù bianco della suacamiciaverso la camera da letto del povero padrone. Giovanni lovede già afferrare la maniglia dell'uscio scappare per di làcapitare in salone. Scappa dentro anche luidà l'allarme aicompagni che tempestano via in fugatutti in un gruppofino allacucina. E allora Giovanniche in parte ha origliato in parte haindovinatose li raccoglie attornospiega. La cosa è andataa questo modo. Quando la Gorlago ha messo l'orecchio all'uscio dellostudioil padrone nuovo e il dottor Molesin stavano parlando di lei.

Il padrone nuovo ne faceva gli elogi.Si capisce chedopoil dottor Molesin ne deve aver detto male.Allora lei dev'essere saltata dentro a fare il diavolo. Giovannichesi era allontanato mentre discorreva il padroneritornando l'avevaudita gridare: "Mi? Mi? Mandamm via?

Mandamm via mi?". A questo puntodel racconto di Giovannila voce di Molesin chiamò: "Ohe!Qualchedun! Lume!". Il gruppo si sciolseGiovanni andòcercando il dottore con una candelalo trovò in salonestravoltotremante. Brontolava: "Che maledetta casa scura!".Ordinò a Giovanni di svegliarlo l'indomani mattina allecinque. Epresa la candelasalì le scale.

La Gorlago capitò in cucinadura durascura scuraprese il suo caffè senza dir verbo. Ilsior Momi capitò in salone suonòdomando del signordottor Molesin. Costuiche si era trattenuto nella galleria perspiarese gli riuscivail padrone e la governante quando peravventura sbucassero insieme dallo studio e cogliere qualche loroparolasi affacciò al salone fra una colonnina e l'altrabuttò giù sul nasolevato all'ariadel sior Momi unrabbioso:

"Son qua."

"Persuasa" disse il siorMomia voce bassa.

Molesin lo guardòlo guardòbrontolò ch'egli era persuasoper conto suodi partirel'indomani mattinaalle sei. Ritirò il capo di fra lecolonninevi ricomparve un momento dopo colla candela in mano.

"Buona notte" diss'egli.

Allora il sior Momi salì adaffrontarlo.

"No La crede? Persuasa. La va."

Molesin rispose scuro e pesante come ilpiombo:

"Vedaremo."

"La vedarà!" replicòil sior Momi. Allora il dottore ricordò un altro impegno presodal sior Momi prima che la furiosa Gorlago facesse irruzione nellostudio.

"E la tosa?"

Colla stessa tranquilla sicurezza collaquale aveva detto parlando della Gorlago"la va"il siorMomi risposeparlando di sua figlia:

"La vien."

E Molesin ripeté enfaticamente:

"Vedaremo."

Il sior Momi prese un tono difamiliarità affettuosaallungò la mano al bracciodell'amicolo persuase con molli blandimenti di parole e confrequenti "aho aho" a ridiscendere nel salonegli proposedi chiudere la serata in pace al tavolino da giuoco. Poiché ildottore non conosceva il foraciosi poteva fare un piccolo "tresettepizzeghin". Il "tresette pizzeghin" si giuoca in due eprende il nome da ciò che ciascuno dei giuocatoriad ognigiuocatapizzica e cava per sévoltandolauna carta dellesedici che restano in tavola coperte poiché le primeventiquattro furono partite fra di essi per metà. GiuocaronoMolesin facendo il cipiglio alle carte cattive che voltavail siorMomi facendo "aho aho" alle carte buone. Nessuno fiatòpiù dei grossi "affari". E non pensavanoambedueche a quelli.

Molesin dimenticava spesso di pizzicaree di voltar le carte; il sior Momi non dimenticava mai. InfattiMolesinpensando che il suo avversario tirava senza dubbio ainfinocchiarlo e leggendogli nel viso come nei modi amabili unamaligna fiducia di riuscirerivolgeva fra sé quali potesseroessere le trappole nemiche e come gli convenisse navigare per toccarla metacostringere Momi a patti ragionevoli.

Procedeva nel pensiero verso questametaquale di notte procede per acque infide una nave da guerracheva lenta lentacolle artiglierie prontee saetta in giro le tenebredi occhiate elettriche. La Gorlago partirebbe; sìn'erapersuaso. Partirebbe per finta; questo non importavapurchépartisse. Ma la ragazza? Verrebbe? E poisi farebbe monaca?Cederebbefacendosi monacatutto il suo al padrecome avevainsinuato don Emanuele? Questioni lontanepensò il dottorSottilee dubbie assai. Venga intantomadamigella. Poi si vedrà.Molesin non dimenticò più né di pizzicare nédi voltare le carte.

Il sior Momidal canto suoaccordavail sorriso delle carte buoneche veniva voltandocol sorrisod'interne visioni. Al convento per sua figliafattogli balenare daMolesin sulla fede di don Emanuelecon una relazione aquantofantastica delle parole di costuinon aveva creduto nécredeva. Giudicava che sua figlia fosse di temperamento amoroso. "Sesbaglio" pensava egli pure"si vedrà." Intantomostrerebbe di credere al giudizio del cappellanoseconderebbeconprudenzal'azione dei preti. A richiamare la ragazza non potevasottrarsi. Se poi resistesse... si vedrà. La Gorlago se ne vadomattinanon a Cantùcome sarà dettoma a Padovacolla chiave della casa e della cantina con un buon gruzzoletto diquattrini; e vi conduce vita ritirata fino a che le faccende simettano in qualche modo chiaro. Questo è il patto suggellatonello studio con un tenero abbracciodopo l'uscita di Molesin: unacanaglia da giuocareha detto Momi alla sua Momacome la chiamavanelle ore di effusione.

E si scrive alla figliuola che si ècambiata ideache si vuole il suo ritorno a casa. Se la piglia benecosa molto difficilesi va avantila strada è buona. Se lapiglia male... ci sarà modo di rimediare. Il sior Momisedutosulla soffice bambagia di alquanta rendita al portatoreche dallaMontanina ha emigrato a Padovasorride alle carte buonedall'intimo.

Finito il giuocosuona per Giovannigli ordina titubanteguardando l'ospitedi svegliare il signordottor Molesin l'indomani mattina alle cinque. Giovanni risponde chesa. Molesin alza verso il domestico la mano aperta.

"Vegnì a le sette"dice. "Son straco. Vegnì a le otto."





Capitolo Undecimo


CONTROIL MONDO E CONTRO L'AMORE


1.


Donna Fedelesofferenteriposava sullettoleggendo. La cameriera le annunciò la ragazzina cheprendeva lezione di francese da lei.

Pensò un poco e rispose che nonsi sentiva proprio in gradoquel giornodi darle la lezione. Lacameriera ritornò con un fascio di rose delle Alpiche laragazzina aveva portato per la sua maestra. La maestra s'intenerìfece richiamare da una finestra la piccina che s'incamminava giàverso il cancello.

"Ti farò leggere"diss'ellapoi che l'ebbe ringraziatacon un baciodei fiori."Prendi il libro."

Il libro era La Fontaine. La bambinalesse malecon una pronuncia detestabilela favola della cicala edella formica. Donna Fedele doveva correggerla ogni momento. Duròmolta fatica a farle intendere l'allegoria della favola. S'indispettìcon leie anche con se stessaperché quellainterrogata seavrebbe preferito essere la cicala o la formicarispose "laformica" e non ci fu verso che capisse il brutto e l'odiosonella risposta della bestia previdente; segno che la maestraspiegandonon le aveva dato modo di rilevarne l'egoismo villano.

Appena uscita la ragazzaentròLelia e trovò l'amica esausta.

"Come potrei lasciarla sola"diss'ellasedendole accanto"fino a che sta così?"

Donna Fedele stese la manole recitòsottovocesorridendoi versi di La Fontaine:

""La cigale ayant chantéTout l'été Se trouva fort dépourvue Quand labise fut venue.


"Ho telegrafato" soggiunse "auna formica buona."

Lelia piegò sul letto il visolagrimosovi soffocò il grido dell'anima:

Non vadonon vadonon vado!"

Aveva ricevuto nella mattinaduelettere; una di suo padreuna dell'arciprete di Velo. La lettera delpadreriveduta da Molesinera una revoca del permesso di partirecon donna Fedele. Tanto la cameriera Teresinascriveva il sior Momiquanto la governante si erano improvvisamente licenziate. La primavoleva andarsene subitola seconda era già partita. La suasalute si guastava ogni giorno piùil ritorno della figlias'imponeva in modo assoluto. La lettera dell'arcipretesuggerita dalcappellanoera un appello al cuore di Lelia in favore di una poverafamiglia di Lago di Veloche aveva bisogno di aiuto morale quanto diaiuto materiale. Era stata soccorsa dal povero signor Marcello el'arciprete sperava che la signorina ne continuerebbe l'operaaggiungendovi il beneficio di qualche visita.

Che fra le due lettere vi fosse unnessoné Lelia né donna Fedele sospettarono. Sotto ilcolpo della lettera paterna Lelia aveva vibrato come una piccolafiera di cuor gentile sotto la sferza. Donna Fedele lasciò chesi sfogasse e poi cominciò pian pianodolcementeaconsigliarle di riflettere. Il solo consiglio di riflettere fecescoppiare Lelia in pianto. Allora l'amica la consolò di tenerecarezze etoccato appena dell'obbligo legale di obbedirele mostròil bene che poteva fare a suo padre purificandone la casal'ambientemoraleessendogli esempio di dignitàdi vita cristiana. Sein casa ci fossero scandalinessuno potrebbe costringerla arimanervi.

Ritornerebbe al villino. Ci penserebbeleidonna Fedelea proteggerla. Fra pochi mesidiventatamaggiorennesarebbe libera di sésuo padre non potrebberestare alla Montanina che col beneplacito di lei. Qui Lelia leconfessòturbatissimache era suo proposito di rifiutareappena fosse maggiorennel'eredità del signor Marcello.

Donna Fedele trasalì all'idea diuna offesa simile al povero mortorimproverò acerbamenteLelial'accusò di irragionevole fierezza.

Lelia si accese alla sua voltadifendendosi. La prima parola offensiva sfuggì ad essa.

"Che diritto ha Leifinalmente"diss'ella"di parlarmi così?"

Donna Fedele tacquecolpita. Allora lafanciulla ebbe un impeto di dolorele gittò le braccia alcollomormorò piangendo:

"Farò come vuole."


2.


Era un sabato. Fu deciso che Leliaritornerebbe alla Montanina fra un paio di giorni quando fossearrivata al villino la formica cui donna Fedele aveva telegrafatouna sua vecchia cugina di Santhià. Con questa cugina donnaFedele si recherebbe a Torino per farsi visitare da Carleappenafosse in grado di sostenere il viaggio. In quei giorni non lo era.Vedendola così prostrataLelia ebbe un ritorno di ribellionealla volontà paterna:

"Non vadonon vadonon vado!"

Ma eranosi capivale ultime ondatedi un fortunale cadente.

La sera stessadonna Fedele aveva datola buona notte alla fanciulla cheper volontà di leiritornava alla sua vecchia cameraquando la richiamò efattauscire la camerierala pregò di accostarsi al letto.

"Senti" diss'ella. "Horicevuto una lettera di Alberti. Sono stata molto in dubbio sefartela leggere o no. Decido di dartela. Non so se faccio bene omale. Cerca tu che io non mi penta di avertela data.

Desidero che tu conosca quell'animauna buona volta."

Stese le braccia alla fanciullalatrassela tenne stretta in silenzioa séle indicòil posto dove avrebbe trovata la lettera.

"Non leggerlaqui"diss'ella. "La leggerai nella tua camera. Me la renderaidomattina."


3.


Lelia sedette sul suo lettocollalettera in mano. La posòcercò pensar qualche cosa chele chetasse il tumulto del cuore. Pensò la favola di LaFontaineripeté i versi recitatile dall'amica. E posòla mano sulla lettera. Il cuoreche si era chetato alquantoricominciò a tumultuare. Alloravergognando di sésidecise a leggere.

Non seppe farlo di seguito. Primaguardò quante pagine fossero.

Dodici. Poi lesse la data: Dasio.Dasio? Dov'era questo Dasio? Corse alle prime parole: "Le scrivoda un paesello solitario fra montagne austere che le nebbiefasciano". Saltò alle ultime.

"Mi preghi pace. Ne ho forse piùbisogno in questa vita che non ne avrò nell'altra e speroaverne trovata la via; ma il cammino è lungo."

Rabbrividì e reagìprontacontro i brividi. Sfogliò le dodici paginerapidamentecercando se vi fosse il suo nome. C'erac'era; sentìterrore e sete delle parole non lette in cui stava. Vi corse soprasfiorandole con terrore e seteleggendo e non leggendo. Vi siparlava di leisìlungamente di lei. Il dolce vi era mistocoll'amaro.

Questo Lelia lo capiva ma correndo cosìsulle pagine non poteva farsi un'idea dello stato d'animo delloscrittoredelle sue attuali disposizioni verso di lei. Diomegliosfiorar così le parolemeglio non legger bene se dovessetroppo soffrirnepoiché aveva promesso di vivere! Alzògli occhiabbandonò sulle ginocchia le mani che tenevano lalettera. Le si riaccese la sete di leggerele si irrigidì lavolontà di resistere. Mancarono insieme l'una e l'altrarapidamenteannientandosi a vicenda. Risollevò le mani senzavolere né disvolereda automae lessecominciando làdove aveva prima visto il proprio nome.

"'Lelia'! Ne ho sdegno e vergognacara mamma Fedelema il vero è che mi sentii gelareposai lapennami presi la testa fra le mani e stetti lì non soquantolottando col desiderio d'immaginare leiche fosse qui. Ellacrede forse che la immaginassi miaumileappassionata. Sìquesto era il mio desiderioma lo schiacciai e invece la immaginaid'altriumile ad altriappassionata per altrivolendo meglioirritarmi contro di leistrapparmela del tutto dall'anima. Oral'accesso è passato e me ne resta un disgusto amaro di mestessodi non saper costringermi all'equità verso una bambinache non è in colpa se mi ha giudicato falso e bassose nonpossiede le qualità native di mente e di cuore che io leattribuivo nella mia folla idealizzazione perché ha unapersoncina eleganteun viso simpaticodue occhi pieni di dolcezza edi fuoco."

A questo punto Lelia vibròtuttadai capelli ai piedistrinse la lettera da sformarne gliorli. Superata la tempesta internaprocedette avidamente.

"Ma io arriverò all'equitàverso la signorina da Camin.

Anzi un giorno le sarò persinograto di avermi respintoperché mi sarà ben chiaro chenon avrei potuto essere felice con una donna tanto lontanain tantecosedalle mie idee. Oggi la mia pericolosa inclinazione sarebbe dinon cercare nell'amore il consenso delle ideedi non cercarvi chel'amore stesso; oggi mi piacerebbe che la donna amata mi domandassesolamente amoreche per noi non esistesse passatonon esistessefuturonon esistesse che un presente infinito; che non esistesseroidee né ragione ma solamente sentimento e sensoin un palpitounico. Ma so che se afferrassi questo folle sognola vita mispezzerebbe presto d'un colpo e sogno e cuorecon ignominia.

La Scrittura dice: - Guai al solo! - Nonoio dico fortezza e gloria al solo!

"Io non ho soltanto a curare nellasolitudine le ferite riportate nel mondo. E perché nonsarebbero da tenere aperte? Sono esse che mi hanno fatto uomo. Ma poila solitudine mi conviene per rimeditare nel silenzio quellasoluzione del problema religioso per la quale ho combattuto e ch'èdiventata incerta nella mia mente. Amica miacara mamma Fedele nonpotrei confessare ad altri che a Lei questa incertezza terribile eforse neppure a Lei la confesserei se non sentissi orrore insieme ebisogno di vedermela qui in facciascritta da me."

Lelia corse avanti collo sguardo pervedere se ci fossero ancora parole di amore e di lei. Trovò inomi di don Aurelio e di Benedettocessò di guardare avantirilesse il solo passo: "Oggi la mia pericolosa inclinazione..."fino alle parole "sentimento e senso in un palpito unico"sulle quali si fermòtremanteansantefatta carne di quelleparole. E se le appressòcombattendo contro avverse onde diorgoglio alle labbrache vi posò semiaperteper un toccolieveper il principio di un bacio cui non si umiliò acompiere. Le rilesse ancoravi tenne fissi gli occhi fino a chetutto il resto della lettera le diventò nebbia e nienteintorno a un centro di lume e vita. Non lesse altrosi svestìsi pose la lettera sotto il guancialesi coricònon felicenon dolentenon temendonon sperandonon pensandotutta nel sensodelle parole che premeva colla guancianel senso che il tempo sifosse arrestato e con esso tutti i moti delle cose tranne il suoanelito. Verso l'alba si assopì per cinque minuti. Sognòun caos di figure agitate nell'ariacui ella si mescolava volandotrepida per l'orrore di una corrente brunain profondosulla qualei volanti erano sospesi. La corrente bruna pareva il canale dove siera proposta di morirefatto immensamente più largo. Credettea un tratto piombar per l'aria e si svegliò.

Ritornatale la coscienzamise la manoalla lettera. Nel richiamarsene le parole sentì punte diinquietudini non avvertite prima del sonnopresentimenti angosciosidi un prossimo spegnersi dell'amore ancora vivo di Alberti. Accese laluce epostasi a sedere sul lettostudiò lungamenteparolaper parolale frasi più spiacenti. Il suo orgoglio risorse informa di sdegno e anche di ambita vittoria sopra i disprezzi e gliavversi propositi del signor Alberti. Quindi prese a leggere perinterodal principiola letterain tanta parte appena corsa collosguardo. Diceva:

"Dasio...

"Cara amica.

"Le scrivo da un paesellosolitario fra montagne austere che le nebbie fasciano. Non creda checi sia venuto per sfuggire il caldo di Milano.

Ho rotto con Milano e col mondoperora. Le dirò tuttoperché mi sento filialecon Lei.Se non Le dispiacesse questa ideale maternitàvorreichiamarla mamma Fedele. Me lo permette? Dunque Le dirò tutto.

In casa di mio zio mi trovavo a disagioda un pezzo. Mio zio è un sant'uomo che ha sciolto il problemadi fondere insieme intransigenza religiosa e carità. Se tuttigl'intransigenti fossero come mio ziocostringerebbero il mondo avenerare le loro dottrine. Ma egli non ha nessuna cultura religiosaesulla fede di persone che mi conoscono malemi giudicainreligioneun traviato. E' anche necessario dire che le nostretendenze intellettuali sono diametralmente opposte.

Inoltre egli mi ha fatto intendereconaccenni rari e blandiche mi disapprova di non essermi procacciatoun'occupazione regolarestabile e proficua.

"Dispiaceri gravidei quali Leavrà parlato don Aureliofurono causa che io cercassi pace esilenzio a Velo d'Astico. Ella sa quale pace vi abbia trovato.Ritornato a Milanovi conobbi ragioni urgenti di non vivere piùa carico dello zio. Dopo la nostra pietosa visita al cimitero diVelolessi nel "Corriere" un avviso di concorso allacondotta medica di Valsoldain provincia di Como. Ne fui colpitoperché in quel paese avrei dovuto a ogni modo recarmi per unufficio pio verso la persona e la memoria dell'uomo che ho piùamato al mondo.

Partii subito per la Valsoldadopoaver detto a mio zio che intendevo prender parte a quel concorso eperciò visitare il paesea me interamente sconosciuto. Nongli dissi il mio proposito di abbandonare definitivamente Milano secolà o altrovecon un posto di medico condotto o senzaavessi trovato un rifugio solitariorispondente ai bisognidell'anima mia.

"Un battello del lago di Lugano miportò al villaggio che mi fu indicato come il centro dellaValsolda. Compresi al mettervi piede che quello non era paese per meche non vi avrei trovato la solitudine desiderata. Seppi di unalbergo decente nel paese più alto e remoto della valle. Edeccomi in questo romito Dasioseduto nel fresco umido verde cuirocce colossali incombono da tramontana e da levante. Eccomiapparentemente a quattro o cinque ore da Milanorealmente a unadistanza infinita. Il mio albergodove per ora non è animaviva di ospitisi chiama "Pension Restaurant du Jardin".Le scrivo da una stanzetta quadratapulitadove non manca untavolino quasi elegante.

Ma io ho portato carta e calamaio suldavanzale della finestra che guarda un gran verde scendente verso lospecchio profondo del lagoun gran silenzio. Se avessi l'anima inpace e fossero troncati per sempre tutti i miei legami col mondopotrei meglio sentire questa pace delle cosequesta intesa dellemontagne grandi colle chiesine della valle in un richiamo delle animeumane a Dio. Presso al mio albergo tace la chiesa del villaggio. Vileggo da qui sulla facciata: Divo Bernardino.

Sarà quello di Siena? Vorrei.Non sodel restose ne esistano altri.

A destrain basso e da lontanouncampanile taglia lo specchioancora più bassodel lago.Potreise avessi pace in mesentir meglio la pace di queste chieseantichedi queste pietre ignare delle nostre lottecustodi dellospirito cattolico dei nostri padri. Ahimècara mamma Fedelel'anima mia non entra in colloquio né colle montagne nécolle valli né colle chiesel'anima mia non sente la quietedelle cose perché non è in lei quiete ma una continuafaticosa vicenda di moti che vanno e tornano. Se restano non èquieteè atonia mortale. Dalle atonie mortali passo alleamarezze irritatedalle amarezze a terrore che mi gelano. Non mi viabbandono senza resistervi ma questa lotta esclude la pace. Il primoeffetto del silenzio di Dasio è di farmi sentire piùdolorosamente le voci del mondo che ho fuggito.

"E conviene dire che anche qualchespirito maligno si intrometta per ricordarmele. La mia finestraguarda sul sagrato di San Bernardino.

Dei bambini vi giuocano. Ho udito testéuna voce infantile gridare:

"Lelia!"

Ben prima di giungere a questo puntodove cominciavano parole già lette e rilette le mani e ilcuore della fanciulla tremavano. Ella tremava di non potersi reggeresul suo risorto orgogliotremava di trovar miti le espressioni dellalettera più acerbe contro di leitremava d'intravvedereimminente l'estinguersi di quell'amore che ancora vi ardeva. Saltòle parole conosciuteriprese la lettura là dove Massimodiceva come la fede religiosa per la quale aveva combattuto fossediventata incerta nella sua mente e come sentisse il bisogno diconfessarlo a donna Fedele anche per vedersi scritto sulla carta ilsuo tormento interno. La lettera continuava:

"Il mio presente stato d'animoriguardo alla fede cattolica ha una origine lontana. Solamente adessome ne rendo conto. Vedeamica mia venerata e carami confesso a Leianche per aggrapparmi alla fede Suaalla preziosa vecchia fede Suainesperta del moderno criticismo e delle battaglie teologichefermaio credocome lo fu quella di mia madrepiù del marmo e delbronzo. Dubbida giovinettomi assalivano spesso e venne un momentoin cui non seppi soffocarli nel loro nascere. Ero come un'algasradicata in balia dell'ondaquandoessendo studente a Romaconobbiin un paesello del Laziol'Uomo la cui salma verràfra pocoa riposare qui. L'ho adorato efinché egli vissel'ombra di un dubbio non mi turbò. Avrei dato lietamente lavita per la mia fede e per la Chiesa. Potei desiderare che l'Autoritàdella Chiesa tenessein questo o in quel campouna via diversamala possibilità di ribellarmi ad essa non si presentòmai alla mia mente. Durai così per qualche tempo dopo la mortedel Maestro. Poi le ingiuste accuse di volontari dissensi dalladottrina cattolica mossegli con evidente mala fede da persone nonchiamate a giudicarlole ostilità che io stesso ebbi a subirecome suo discepolo da una plebe di farisei edall'altra parteilcontatto corrodente di certa ipercriticadi certi novatori negativinaviganti senza bussola e senza timoneipercritica e novatori ondeil mio Maestro mi aveva sempre tenuto lontanovennero preparando undisfacimento della mia compagine di credenzeche progredisce ognigiorno. Non credacara amicache io perda la fede come la perdonocerte personemeno intelligenti e meno colte di quanto si figuranoessereche prendono a disprezzare il Cattolicismo per certeparticolarità del culto che loro dispiaccionoper certeoscurità del dogma che loro paiono chiaramente assurde e ancherisibili. Queste sono miserie di gente presuntuosa che delCattolicismo sa ben poco e si arbitra di giudicareda scrannepusillela religione di San Agostinodi Dante e di Rosmini. No; lamia fede si viene disfacendo per altre ragioni. Il dubbio cheingrandisce nell'anima mia è che questa divina Religione siaper subire la sorte subita dalla Religione divina di Mosèchel'elemento divino sia per uscirne come da quella uscìpreparato dai profetiil Cristianesimolasciando dietro a séla spoglia morta di tutto l'antiquatodi tutto il superato. Come ilCattolicismo ha compiuto Mosèuna forma religiosa superiorecompierà forse il Cattolicismo. La Chiesa uscì dellaSinagoga che le vive misera accantoun "quid"

superiore uscirà dalCattolicismo. Vi devono essere dei Precursori che si sacrifichino?Devo io sacrificarmipredicare questo Verbo in opposizione al Verboche ho predicato fin qui? Ecco l'angoscia mia. I miei amici di Romavorrebbero che io parlassi nel cimitero di Oria quando vi saràtumulata la salma del mio maestrodi Benedetto. Temo di non poterlofare senza ipocrisia perché Benedetto credeva irremovibilmentenella immortalità della Chiesa Cattolica e nel doveredell'obbedienza. Se mi persuado ch'egli si è ingannatocomeoggi dubitone offendereiparlando sulla sua tombala veneratamemoriadovrei cedere il posto a un discepolo più fedele.

"Don Aurelioch'è tuttoraa Milano in attesa di lezioni ignora lo stato dell'animo mio. Nonebbi il coraggio di parlarglienenon avrò quello discrivergli. A che gioverebbe dargli un così gran dolore? Nonne spero aiuto perché so fin d'ora cosa mi risponderebbe. Egliè per sé un argomento a favore della Chiesa Cattolicapiù forte di quelli che potrebbe addurmi parlando o scrivendo;argomentoperòche non bastaperché anime nobilipure e convintesi trovano in ogni Chiesa e anche fuori di ogniChiesa.

"Eccole la dolorosa veritàsullo stato dell'anima mia. Il mio soffrire di questo stato vienedalla convinzione chese rompo col Cattolicismonon avrò piùin me una sola certezza religiosa positivae come vivere allora?

"Poiché questa è unalettera filialedesidero anche dirle qualche cosa delle mie nuovecondizioni economiche. Finora ho largamente usato della generositàgrande di mio zio. Oggi so che mio zioparsimonioso per séquanto liberale cogli altripotrà disporre per un'operabenefica del danaro che gli costava questo nipoteagli occhi suoisemireprobo. Vivrò del frutto d'un piccolo capitale cui siridusse l'eredità di mio padre e di mia madre. Sonosu pergiùda quattro a cinque lire il giorno che qui o in un altropaese simile a questo mi basteranno per le necessità dellavitale quali per me si riduconofortunatamentea piccola cosa. Daquanto mi diconosarà forse inutile che io concorra allacondotta medica della Valsolda perché eleggeranno il medicoche la tiene adesso provvisoriamente. Questo è il punto nerodella mia situazione. Non posso vivere senza libri e periodici e hoquindi bisogno di guadagnare qualche cosa coll'opera mia personale.La clientela che riuscissi a fare qui mi aiuterebbe certamente assaipoco. E' un punto nero ma Le assicuro che il senso nuovo della miapovertàpovertà relativa e lontana dalla miseriami èdolce. Non è che io goda di sentirmi indipendente da unbenefattore; godo di sentirmi quasi indipendente dalle cose e anchedi sentirmi disceso fra gli umilidisceso da un mondo nel qualeimperano le forme e la simulazione a un mondo più schietto.Sarebbe una gioia se oggi l'anima mia fosse capace di gioia.

"Mi scrivacara amica. Diriga aDasioper San Mametteprovincia di Como. Meglio non mi parli dellapiccola persona da dimenticare.

"E adesso addio. Un brigadiere difinanza mi fa pregarein questo momentodi vedere un suo bambinoche ha mangiato troppa frutta.

Capisce che col mio primo cliente nonmi sarà difficile farmi onore!

Le bacio la mano.

Suo devoto figliuolo MASSIMO.

"P. S. - Pensiora soltanto micolpisce la immagine sacra appesa alla parete sopra il mio letto.Rappresenta Gesù che sul mare di Galilea porge la mano aPietropauroso di scendere nell'abisso. Pietro dubitò diCristo e Cristo gli porse una mano pietosa. Non la porgeràEgli a chi dubita di Pietro se Pietro stesso non la porge? Comunquesiaè un caso singolare che in questo periodo della mia vitainteriorequi in Dasiosopra il letto di albergo dove stanottepassai ore insonni pensando Cristo e Pietroio mi trovi proprio ilrimprovero: "Modicae fiideiquare dubitasti?"

"Ma non sono superstizioso."

Lelia era venuta leggendo le pagine diargomento religioso senza comprenderne altro che il fondo di dolore ecolla torbida pena di questa sua impotenza. Sorse in lei anche ilsenso di una colpa della persona che aveva comunicato ad altriconfidenze fatte strettamente a leiil rimorso di approfittarne. Etuttavia continuò a leggere e leggere con aviditàirresistibile. Le parole sulla gioia della povertàscrittedall'uomo ch'ell'aveva accusato di sordide mirela trafissero. Fupresa da tremiti. Le spallele bracciale mani le sussultavano.Piegò sul fiancoappoggiò il capo al marmo deltavolino da nottesi recò la lettera alle labbrave lapremettestavoltaforte.

La lettera sulle labbrae nella mentes'impresse questo:

"Sono indegna di luie comeindegna non devo turbarlodevo lasciargli credere che lo penso condisprezzocome prima."

Questo proposito la confortò unpocola rialzò nella sua propria stima. Sollevò ilcapo dal marmo e finì di leggere. Alle parole "piccolapersona da dimenticare" ebbe un moto internonon di sdegno madi consenso. E rientrò sotto le coltri. Di tempo in tempotremiti la scossero ancoradi tempo in tempo flutti di lagrime legonfiarono il petto. Non ne versò una sola.


Discese nella camera dell'amica amattina inoltrata. Salutò e posò la letteracon ariaindifferentesul tavolino da notte. L'amica stava a letto scrivendo.Alla domanda della fanciullacome avesse passata la nottenonrispose. Le lesse in viso come l'aveva passata lei. Le chiese unbaciol'abbracciò e nello staccar le labbra dal suo voltomarmoreo le sussurro:

"Ho fatto male?"

"Che!" fece Leliafredda."Sapevo."

"Sapevi?" esclamòdonna Fedelesorpresa. "Tante cose di quella lettera non lesapevi certo."

"LasciamoLa prego" disse lafanciulla.

Donna Fedele aveva troppo sentitoabbracciandolaquanto battesse l'orgoglioso piccolo cuorepercredere alle parole fredde.

"Gli ho risposto" diss'ella."Ti prego di leggere anche la risposta."

Il primo impulso di Lelia fu dischermirsi come da una inutile noia.

Poi temette dir parole imprudenti elesse.

L'amica aveva scritto

"Caro figliuolo"Accetto lamaternità ideale che mi offri e ti scrivo addirittura col tu.Veramente sono tanto giù di tono che aspetterei domani ascrivere se non desiderassi farti sapere subito quattro cose. Laprima te l'ho già detta: accetto il grado di tua madreonoraria. La seconda è che t'inganni molto sul conto di Leliae de' suoi sentimenti."

La ragazza s'interruppe ecollarapidità del lampoafferrata la pennala strisciòsulle due ultime righe.

"Leliasei pazza?" esclamòdonna Fedelestupefattastendendo la mano per afferrare la lettera.La fanciulla diede un passo indietro e continuò a leggeresenz'aprir boccatenendo ancora la penna nella mano tremante.

"Credi aver diritto" esclamòancora la corrucciata amica "di fare la suscettibile?"

Ella pensavaingannandosiche l'attoviolento della fanciulla fosse stato una reazione di collera controle parole acerbe della lettera di Massimo. Lelia non rispose econtinuò a leggere silenziosamente:

"La terza è che Pietro hadubitatosìma chesentendosi sommergereha gridato:Signoresalvami! La quarta è che la tua madre onorariaavrebbe bisogno di te più che l'abbia il bambino delbrigadiere di finanza e che domani al villino delle Rose vi saràmaggiore solitudine che a Dasioperché Lelia ritorna allaMontanina. Così vuole suo padre. Addiofigliuolo. Scrivi adon Aurelio. Le tue ragioni di tacere con lui non mi persuadono. Tivedo con un piede fuori della via dove io cammino umilmente senzasentire i sassile spine e la polvere che vi senti tu colla tuascienza e la tua filosofia. Ma non sono capace di discutere con teche hai tanto ingegno e tanto sapere.

Scrivi a don Aurelio. Addio.

MAMMA FEDELE.


Finito di leggereLelia porse loscritto tacendoa donna Fedele che la guardava cogli occhispalancatiaspettando invano una parola.

"Ma ti pare?" diss'ella."Come la mando adesso?" "Scusi" rispose lafanciulla gelida. "Ho fatto bene."








Capitolo Duodecimo


INTORNOA UN'ANIMA


1.


L'ufficio per l'anima del povero signorMarcello doveva cominciare alle dieci. Donna Fedele non era in gradodi recarvisi. Aveva scritto a Camin pregando che Lelia le fosselasciata fino all'indomani.

Siccome la formica buona di Santhiàsi era annunciata solamente per l'indomaniLelia non aveva volutosaperne di partire dal villino prima del suo arrivo. Nessuna rispostaera venuta dalla Montanina.

Lelia partì per Velo a piedicolla camerieraverso le nove e mezzo.


Sollecitata con insistenza a prenderposto accanto a suo padre sulla panca ricoperta di un drappo nerorifiutò. Si collocò presso la porta maggioreperessere pronta a uscire appena terminate le esequie. Maprima ancorache incominciasserole si avvicinòrossa e sorridentelacognata dell'arcipretela pregòcon dolce mansuetudinedirecarsidopo la funzionein canonica perché don Emanueleaveva necessità di parlarle. Fatta l'ambasciatasi ritiròsenz'altro.

Leliaassorta in un solo pensieroindifferente a ciò che avrebbe potuto dirle don Emanueleneppure si meravigliò della richiesta.

Avrebbe fatto volontieri a meno diandaresia perché i due preti di Velo le erano diventatiodiosisia perché era avida di star sola col suo pensierodominante. Maprevedendo altre istanzealtre noiecredette bene dirassegnarsi per essere poi lasciata in pace. Uscì di chiesaquando vide suo padre movere verso di lei per presentarle Molesin chegià si atteggiava a un saluto compunto. La siora Bettina laraggiunse fuori della chiesala introdusse nella canonica con unozelo di officiosità e di sorrisi untuosettiche le costavasforzi e pene incredibiliaccettati a onore e gloria di donEmanuele. Siccome l'arciprete e il cappellano erano ancora in chiesadovette pensare anche a intrattenere la signorina. Le parlòdel decoro col quale si erano celebrate le esequiedella dignitosagravitàdella edificante compunzione di don Emanuele nellapratica dei ritiesaltandolo anche sopra il proprio cognato "unsantoma alla buona". Poi lo esaltò come conoscitoremalgrado l'età giovanilee direttore di animeal quale ognicoscienza avrebbe potuto tranquillamente affidarsi. Paragonòcon trepide riservesuo cognato al curato d'Ars e don Emanuele aSant'Alfonso. Lelia non intese una sola di tante parole. Guardaval'uscio attendendo che questo benedetto prete finalmente comparisse esi sbrigasse. Era stato il suo confessore. L'aveva confessata due otre volte e quindi pregata di confessarsi dall'arcipreteallegandoun pretestoil probabile dispiacere del Superiore ch'ella non lopreferisse come sarebbe stato naturale. A leiusa dal collegio fareconfessioni puramente formalisenza partecipazione dell'animaeraindifferente confessarsi all'uno o all'altro.

Finalmentequando anche la poverasiora Bettinaa corto di chiacchierecominciò a guardarel'uscioquesto si apersecomparve l'allampanata figura nera delcappellano. Colei sorrise a Lelia un "complimenti" e sialzò.

Don Emanuele veniva al colloquiocoll'onesto proposito di servire alla gloria di Dio e alla salute diun'anima. Il suo volto gravei misurati moti della persona spiravanotale coscienza di autorità che a osservatori ostili potevaparere orgoglio. L'orgoglio è veleno tanto sottiletantopotente a insinuarsi e dissimularsi nei minimi filamenti del cervelloumanoche don Emanuele si poté ingannare giudicando diesserne scevrodi considerarsi l'umile servo cui la divisa e ilmandato del Signore conferiscono poterediritto al rispettodoveredi esigerlo. Non si accorgeva di compiacersi del potere immenso dellacollettività cui appartenevadei tanti e tanti che collastessa sua vesteper la virtù dello stesso sacramento a luilargitogovernano in ogni parte del mondo quell'elemento superioredell'uomo sul quale non hanno potestà né principi négoverniné armi né catene. Non si accorgeva dicompiacersi di ciò che altri migliori ministri della Chiesa faumilinon soltanto davanti a Dio ma pure davanti agli uomini. Mentrequelli usano del potere sacerdotale con trepidazione e cautelaegliera inclinatoper questa sua compiacenzaa usarne senza misura.Come il servo arrogante a fronte di umili dipendenti del padronefacilmente usurpa l'autorità del padrone stessofacilmentepresume interpretarne la volontàcosì troppofacilmente don Emanuele si persuadeva d'interpretare la VolontàDivina anche quando interveniva con ordini e consigli nel campolasciato alla libertà dei fedeli. Il suo sottile orgoglios'infiltrava dentro queste mistiche guainetanto piùinconscio di sé quanto più l'uomo era solito umiliarsinella preghiera in cospetto dei Santidella Verginedi Cristo.Fiero nello spirito contro la propria carnenon lo dominava senzaconflitti asprissimi. Altri ne diventa mansueto ai vinti. Tale era ilbonarioilare arciprete. Invece don Emanuelevincitore di sécon tristezza e non con gioiaaveva in dispregio i vinti e ognidebole. Era un dispregio astioso nel quale la carne soggiogatapigliava la propria rivincita macchiando lo spiritoa insaputa suad'invidia verso i gaudenti.

Si era scusato di confessare piùoltre Lelia perché il lieve profumo di essenza di rosech'ell'aveva portato nel confessionale lo turbavalo irritavapaurosamente. L'aveva rimproverata fin dalla prima volta:

"Non venga a confessarsi conprofumi!". Ella non capì o dimenticò.

Ritornatavisi udì consigliarl'arciprete per confessore. Alle narici contadine dell'arcipretel'essenza di rose non avrebbe detto che rosedon Emanuele n'erasicuro; mentre alle aristocratiche sue diceva rose vivearteordinatalo sapesse chi l'usava o noa blandire e movere il senso.Confessando la fanciulla finedall'odor di rosaegli l'avevainvolontariamente pensatacon certe acredini di quel tale astioreclusa per sempre in un monasterotolta all'amoretolta al piacerealtrui. Orase gli fosse capitato di negoziare per essa unmatrimonio conforme alle proprie idee religioselo avrebbe fatto;senza letiziama con tutta coscienza. Era invece accaduto che lafanciulla venisse nel disperato proposito di uccidersi. Le sueinformazioni gli facevano supporre che avesse desiderato sottrarsicosì alla convivenza col padrevizioso e spregevolechel'aveva venduta. Da questa supposizione gli balenò l'idea delchiostro.

Toglierla alla perniciosa influenzadella Vaylalevar viaservendosi di leilo scandalo della Gorlagoapprofittare del suo isolamento alla Montaninadella sua avversioneal padreper inocularle il germe della vocazione religiosa: ecco illavoro cui egli aveva dato principio nel colloquio col dottorMolesinil piano cominciato ad attuare colla partenza della Gorlago.Non gli era passato per la mente il menomo sospetto che l'odore diessenza di roseun'aura di giovinezza e di eleganzaun sussurro divoce dolce fossero entrati per qualche cosa nel suo disegno ditogliere quella giovine al mondo e all'amore. Non ne aveva messo aparte l'arciprete. Forse ne lo aveva distolto il ricordo di unoscherzo grossolano del Superiore sulle ragazze chedisperate ditrovar maritosposano Gesùtanto per poter chiamare sposoqualcuno. Forse sapeva che don Tita accarezzava l'idea di unmatrimonio della signorina con certo giovine signore di Vicenza.

Ne aveva accennato alla siora Bettina.Tremandosudandogemendocon pena e con affannola siora Bettinacombatteva oraper fargli piacerele proprie ripugnanze a mettersiin relazione colla signorina da Camin. Don Emanuele voleva ch'ellacercasse di sostituirsicome amicaalla Vayladi esercitare unasana influenza religiosa sulla ragazza.

La disgraziataquando vide ilcappellano entraresi sperò al termine delle proprie faticheper quel giornoe si alzò coll'intenzione di andarsene. Eglile fece colla manosenza guardarlaun cenno sospensivosalutòLelia e prese tranquillamente posto sul canapèmentre laFantuzzo tentennava sulla sedia fra un definitivo alzarsi e undefinitivo sedereguardando il cappellano con uno sguardo umilmentedeprecante. Egli non parlòla guardò alla sua voltasevero; cosicché la povera donna si quietò a sedere.Spalancò tanto d'occhi udendo che don Emanuele aveva unpiacere da chiedere alla signorina da Camin e a lei. Il solo accennoa un incarico da eseguire in comune colla signorina le fece risalirele vampe al viso. Si affrettò a dire che non sapeva farnienteche non era buona a niente.

"Prego" le rispose donEmanuele col gesto placido del Superiore che invita l'inferiore atacere. "Prego." La timida signora voltò a Lelia ilviso vermigliole mormorò sfregando in grembo le mani unasopra l'altraquasi a spremerne le sue ragioni di riluttanza:"Proprio sapropria sa".

Don Emanuele non si curò piùdi leineppure la guardò piùrivolse a Lelia ildiscorso lungo che aveva preparato. Il sugo n'era questo. La localeCongregazione di Carità amministrava un legato a favore dellemadri di famiglia povereimpotenti al lavoro per malattia opuerperio. Siccome in paese c'eranoa proposito di questo legatomolti lamentiil cappellano aveva ottenuto dalla Congregazione chesi nominassero due visitatrici e indicato insiemeper tale ufficiola signora Fantuzzo e la signorina da Camin. A ogni due paroledell'oratorela signora Fantuzzo gemeva. GesummariaGesummaria! Eracontenta di soccorrere i poveri da lontano ma da vicino non ci avevagusto. Don Emanuele non se ne diede per intesoinvitò le duesignore a prendere qualche accordo per la loro comune azione futura.

"Se non possono trattenersiadesso" diss'egli conchiudendo"questa sera o domattina lasignora Fantuzzo potrà recarsi alla villa da Camin. Siconosceranno meglioparleranno di questo lavoro e intanto iopreparerò un elenco delle madri che sarebbero a visitaresubito."

Lelia uscì dal suo torporeosservò che non sapeva se l'indomani mattina si sarebbetrovata alla villa. Infatti era risolutain cuor suodi nonlasciare il villino se prima non vi fosse arrivata la cugina diSanthià. Don Emanuele tacqueperplesso. Intanto fu bussatoall'uscioentrò don Tita. Salutò Lelia con un sonoro"divoto!" come se l'incontro sul ponte del Posina non fosseavvenutochiamò il cappellano in dispartegli disse qualchecosa sottovoceaccennò a sua cognata di ritirarsi. Ella uscìseguita da don Emanuele.

L'arciprete si avvicinò a Leliache si era pure alzata.

"La permetasiora Lelia"diss'egli. "La permeta un momento. Ghe sarìa el papà."

L'uscio si apre lentamenteecco lafaccia rossigna e giallale palpebre battentila barba policroma dipapà.

"La se comodisignor" glidice l'arciprete. "Xe pronto?"

"Sarìa prontosissignor"rispose il sior Momi con un condizionale pieno di esitazioneriguardosa; evolto alla figliuolale manda un "ciao"timido che pare uno dei soliti aho. Lelia non capisce cosa sia prontoe dalla bocca spalancata del sior Momi nulla vien più fuori.

Allora il bonario arciprete intervienedice a Leliascherzandoche papà non sa fare da papàma che gl'insegnerà lui. Papà l'avrebbe lasciatapartire a piedicon quel caldo. Gli aveva consigliato lui di farvenire da Arsiero una buona carrozza a due cavalli. Lelia intuìche si era tramato qualche cosache suo padre intendeva condurla disorpresa alla Montanina e che l'arciprete era un complice. Non potéindovinare che il consiglio veniva da Molesin e che suo padrefingendo sulle prime di aderirviaveva poiassente Molesinsollecitato l'intervento dell'arciprete e un suo aperto predicozzosulla convenienza d'accontentare papàdi non indugiare piùoltre il ritorno a casa. Il predicozzo rimase in gola a don Titaperché la fanciulla non gli permise di metterlo fuoridichiarò imperiosamente che intendeva andare a piedi. Il siorMomi si affrettò a concedere:

"Ben ben ben ben!". Leliapartì salutando appena e il benigno papà si sforzòdi convincere il proprio complice intontito che quel diavolo difigliuola si sarebbe buttata dalla carrozza piuttosto che subirel'inganno.


2.


Poche ore prima cheper obbedire nontanto a suo padre quanto a donna FedeleLelia prendesse congedo dalvillinoarrivò la cugina di Santhià"tota"Eufemia Magisuna vecchietta piccolacurvaincartapecoritadi cuisi sarebbe detto che fosse venuta a cercare aiuto e non a portarne.Per quanto donna Fedele fosse sofferentela sola vista della cuginaEufemia le apriva insieme le due vene della tenerezza e dellacanzonatura. Quando l'aveva ospite non si dava pace perché nonle mancasse nulla e in pari tempo la canzonava senza pietà peri suoi abiti antiquatiper le grandi cuffie nere dai nastriviolettiper i pretesi amori giovaniliper la materia fantasticadelle confessioni frequentiper la ignoranza dei sessi che la cuginarivelava esclamando "oh mi povr'om!" ogni volta che lecadevano gli occhiali o un ferro da calze. Ella era presente quandoLelia si accomiatò dall'amica.

"Spero" disse donna Fedele"che tuo padre ti permetterà di venire a trovarmispesso."

Gli occhi di Lelia lampeggiarono.

"Vorrei vedere!" esclamò.Donna Fedele le prese e accarezzò le mani mormorando: "Siibuonasii buonasii buona!".

Lelia guardò la Magis che allorascivolò umilmentesilenziosamentefuori della camera. Lafanciulla abbracciò l'amicaposò il capo sul guancialeaccanto a lei. L'amica le pose una mano sui capellile dissedolcemente:

"Quella lettera ti ha fatto male?"

Nessun cennonessuna voce di risposta.

"Non vuoi proprio che gli scrivaniente di te?" Donna Fedele proferì queste parole pianopianoesitando. Aveva notato l'occhiata della fanciulla alla cuginaEufemiapensava che desiderasse parlarle da sola a sola. Le spalledi Lelia sussultaronoil capo negò con violenza.

"Vuoi qualche altra cosa?"

La dolce voce giovane della signoratuttavia carezzevoleebbe però una punta dell'accento chedice: ma infine! E i grandi giovani occhi bruni lo dissero pure.Lelia non li poté vedereli indovinò. Alzò dalguanciale il viso lagrimoso abbracciò l'amica e partì.


3.


Ritornò nel pomeriggio delgiorno seguente. Donna Fedele stava leggendoalzatanella suacamera da letto. Le si gettò ginocchioni ai piediprotestòdi non potere assolutamente più vivere alla Montanina. L'amicale batteva intanto e le ribatteva dolcemente la mano sul caporipetendo dei piccoli "ò - ò - ò" dimansueto rimprovero.

"Cosa è successodunque?"diss'ella. "Alzati conta."

Ci volle del tempo perché Leliache le premeva il capo sulle ginocchiasi alzasse e parlasse. Infatto non era successo che il contatto con una realtà giàconosciuta e odiata da lontano. Donna Fedele temetteal vederequella disperazioneche ne fosse causa la governante del signorCamin. Non sapeva come chiederne a Lelia. Le chiese di Teresinaseppe che rimaneva in servizio perché l'altra era partita. Maneanche Teresina poteva sopportareoraquella casaquel padronequella gente. Quella gente era poi l'unico dottor Molesinchegrazie a Diostava per andarsene. Lelia fremeva controquell'individuo viscoso che aveva creduto rendersi amabile parlandoledei vecchi Camindi un vecchio prete che diceva la prima messa aiCarminidi una vecchia monacafamosa cuoca di pasticcerie. E ilpadre? La trattava male? No no. Lelia sarebbe stata contenta divenirne trattata male. Il padre era umileossequiosomellifluo dafar nausea. Non moveva una sedia in casa senza domandare il suopermesso. Glielo aveva domandato poco prima per far raccogliere ilfieno. Era mellifluo e cerimonioso anche con Teresina. Credeva chequalche voltacon Teresinafosse stato anche confidenziale. Lodisse con tale accento di disprezzo che donna Fedele esclamò:"Oh! Lelia!".

"Non me ne importa niente"rispose la fanciulla. E non raccontò che il sior Momiquandofacendosi avanti tutto servile verso la figliuolatrovava durositirava subito indietro con un "aho aho" come se avessescherzato. Con quel trepido avanzare e quel frettoloso tirarsiindietroil sior Momi pareva uno che tentasse nelle tenebre unasiepe di rose nella speranza di porre la mano sopra un fiore eincontrasse una spina.

Le stesse mura della Montanina nonerano più quelle. Erano viveprimae materne. Ora Lelia lesentiva morteignare di lei. Avevano un gelo e un'immondizia dellospirito di suo padre. Se non avesse temuto di far inorridire donnaFedeleLelia le avrebbe confessato il suo mostruoso sospetto di nonessere figlia di quell'uomo. Era possibile stare alla Montanina incondizioni simili? Domandò una risposta.

"Portami il bicchier d'acqua"disse l'amica "e l'ampollina col contagocceché sono sultavolino da notte."

Lelia obbedì in silenzio. DonnaFedelemaestra nell'arte di udire o non udire a suo piacimentoinghiottì la medicina e riprese tranquillamente:

"Lo so cosa mi volevi dire ieri."

Lelia non si era mai abituata a questevolontarie sordità dell'amica.

La irritavano sempre.

"Mi risponda!" diss'ellavibrante. "Non ho ragione di non voler ritornare là? Hapaura che m'imponga a Lei?"

Alle stordite parole rispose un lamponegli occhi di donna Fedele; ma ella era padrona del fuoco ancoravivo sotto le ceneri della sua gioventù.

"So cosa mi volevi dire ieri"ripeté freddamentebattendo le sillabe.

"Volevi confessare che lo ami."

Il momento era mal scelto per questeparole. Lelia sobbalzò corrugando le sopraccigliacome se unamano insolente le avesse sfiorata la guancia.

"No!" diss'ella. "Mai!"

Scattò in piedi fieramente espinse indietro la sedia che si rovesciò sull'uscio propriomentre la cugina Eufemia lo apriva pian pianocon grande cautelarecando un vassoio con una tazza di brodo. Il brodo le schizzòsull'abito. "Oh mi povr'om!" gemette la vecchietta. DonnaFedele si sforzò di ridere. Se non rise proprio di cuorefuperò contenta di mostrarsi indifferente alla violenzadrammatica di Lelia e anche di poter troncare il dialogo grazie allapresenza della cugina.

Trattenne costei che se n'andava giàin cerca di altro brodole fece togliere dalla scrivania e dare aLelia una lettera.

"Adesso puoi andare"diss'ella alla vecchietta. Uscita questaLelia posò lalettera.

"Leggi" disse donna Fedele.

"Perché ?" rispose lafanciulla. "E' inutile."

"Cosa ne sai?" replicòdonna Fedele. "Non è mica di Alberti."

La lettera era di don Aurelio. Avevatrovato alquante lezioniper quel verso era contento. Si dolevainvece molto di Albertipartito da Milano senza cercare di vederlosenza mandargli una parola scritta.

N'era stato informato dall'ingegnereAlbertizio e benefattore di Massimo. A don Aurelio l'atto delgiovine pareva un colpo di testa.

Non sapeva spiegarlo che coll'amararipulsa della signorina Lelia.

Seguivano queste parole:

"S'egli si è allontanato dame in tal modotemo di una grave crisi della sua stessa coscienzareligiosa. Ho ragioni di temerla. Ah quale benedizione se la personache sappiamo lo avesse conosciuto meglio!"

Lelia posò la letterasenzaparlare.

"Hai visto?" disse donnaFedele.

"Perché mi fa leggere diqueste lettere?" esclamò la ragazzasdegnosa. "Nonintendo che mi riguardino."

"Dunque non ti riguarda il maleche fai?"

"Qual male? La crisi religiosa?Per me è avvenuta e ne sono contenta"

replicò Leliaamaramente."Lascio il cattolicismo a mio padre e al dottor Molesinchestamattina sono andati a messa insiemeal cappellano che la dicevaall'arciprete..."

"E a mevero?" disse donnaFedelepacata.

Lelia tacque. Non si era proposta diferire così ma fu contenta di aver ferito. Allora l'altrasempre tranquilladisse:

"Grazie."

E riprese il libro che stava leggendoquando era venuta Leliai canti di un grande poeta cattolicononperò cattolico alla maniera di don Emanuelema piuttosto allamaniera di Dante: Adamo Mickiewitz. Lelia si sentì congedata.Credette vedere umidi gli occhi di donna Fedele e fu per buttarle lebraccia al collo. L'impeto buono abortì. La fanciulla si mosseper andarsene.

Aveva già aperto l'uscio quandol'amica la richiamò.

"Siamo state cattive tutte due"diss'ellastendendole la mano.

"Vienifacciamo la pace."

Lelia afferrò la mano distesacon ambedue le propriela baciò e fuggì.


4.


Giunta al ponte del Posinasi fermòa guardar giù la corrente rapida e silenziosa. Non era maipassata di làdopo quella nottesenza un assalto dipentimento della promessa fatta a donna Fedelesenza un brivido didesiderio e di ribrezzo. E non si era mai fermata a guardar laroggia. Ora si fermòquasi contro vogliacome se una forzaignota la costringesse a guardar nell'acqua e quindi a riconoscereancora contro vogliache non vi era più in lei alcundesiderio di morire.

Solamente alloraguardando l'acquaebbe la rivelazione improvvisa di questo suo nuovoprofondo statod'animo. Guardava l'acqua corrente e l'attonita anima sua si aprivalentamostrava nel profondo a se stessa un'aspettazione istintiva diamoredi felicitàcontraddicente alle previsioni dellaragionecontraddicente ai generosi propositi di rinuncia. Si levòpalpitando dal parapetto del pontesi ripose in cammino. Credettesentire la vita incarcerata delle cose anelare all'amore e allagioiamute avidità comunicarsi a lei. Le pareva che ilbattito delle turbine di Perale le fosse interprete delle cose mutele dicesse: "Anche tu anche tu". E il suo cuore batteva:

"Anch'ioanch'io". L'ariastessaodorata di boschile spiravaentrandole in bocca bramosiafidente di amore e di gioia. Avrebbe voluto prendere il sentiero chesale a destra pochi passi oltre il ponte perdersi fra gli albeributtarsi a terra dove nessuno la potesse vederecedere ivi senzaritegno alle immaginazioni ancora informi di cui sentiva l'assaltoardentedar loro formacolorevitavivere di esse. Ma il sentieroera sbarrato di tronchi e di pruni. Non poté lasciare la viamaestra. Un incontro di carri e di gente la raffreddò. Alloratremò di se stessadella volontà violenta che avevadivampato in lei e l'era quindi rientrata nelle tenebre inferioridell'anima simile a una fiera in servitùchesdraiata nelfondo del carcereleva un momento il musorugge ai molesti onde fusvegliata epaga del loro atterrito silenzioripiega nell'ombrasiriaddormenta. Pensò a donna Fedele che non la credeva fermaevidentementenel suo "no"nel suo "mai". Sipropose di scriverglieli ben chiari e fortidi costringere cosìanche sé a non mutarli.


Al castagno incontrò suo padreche le domandòtimido timidose venisse dal villino. Parvedomandarleosando e non osandose venisse da un convegno colpevole.Alla bruscasfidante risposta di lei batté le palpebre.

"I preticiò" dissesorridendo"i preti."

Questo conciso linguaggio significavaun monte di cose: che ai preti non piaceva la sua amicizia con donnaFedele ch'egli consigliava di accontentarli ma che però nonandrebbe più in là del consiglio. I preti erano venutialla Montanina colla Fantuzzo durante l'assenza di Lelia. Ilcappellano aveva fatto un viso funereo. Invece la siora Bettina eraparsa quasi sollevata da un peso. Il sior Mominavigando blandamentefra gli scogli clericali e lo scoglio filialesi arrischiò aprometterle una visita di Lelia: "La vegnarà elalavegnarà ela". Diede ascolto con zelo ai discorsidell'arcipreteil quale più che di Leliasi preoccupava delgenitorevedeva in esso un nuovo elettoreun futuro consigliereuna futura zampagrossa e potentedella canonica in Consigliounprezioso alleato del proprio successore.

Quel blandosorridente "i preti"pieno di sottintesiirritò Lelia più che nonl'avrebbero irritata un rabbuffoun divieto. I suoi nervi contrattinon potevano avere lo sfogo della ribellione violenta. Si chiuse incameranon ne uscì neppure all'ora del pranzo per non vederesuo padre. Voleva scrivere a donna Fedele secondo si era proposto enon lo poté. Solo il sapere ch'egli andava e veniva per lacasasolo l'aspettarsi a ogni momento di udirne la vocei passileimpedivano di raccogliersi. Appena Teresina le ebbe dettodopo lediecich'egli si era coricatosi mostrò tanto impazientedella presenza di lei che la cameriera si spaventò ricordandola fuga notturna dal villino. Pressata di andarsenenon potéa meno di esclamare: "Cossa vorla far posignorina?".Lelia rispose che voleva unicamente restar sola e scrivere. La poveraTeresina passò la notte nel corridoioseduta sopra un baule.Udì chiudere l'uscio a chiaveandare e venireinterrottamenteper la cameralacerareogni tantodelle carteogni tanto singhiozzare. Poi udì aprire una finestra e allorafu per buttarsi sull'uscio. Dopo un lunghissimo silenzio ecco passiancorastridere l'usciolino del gabinetto di toelettagorgogliareacqua nella catinella. Più tranquillanon osò lasciareil suo posto di guardia ma chiuse gli occhi e dopo una breve lottacol sonno si addormentò.

Una brusca voce la scosse. "Cosafa qui?" Diede un sobbalzò. "Gèsu!" Enon seppe aggiungere altro. "Sciocca!" esclamòLelia. "Scenda e mi apra la porta del passaggio coperto. Ho maldi capovoglio prender aria" soggiunseraddolcita.

Era l'albail Torraro soffiava gioiaper Val di Posinanelle betulle e nei pioppi della Montanina. Leliasalì ai castagnisi buttò a giacere sotto le grandifrondicome una bambina storditanell'erba molle di rugiada. Avevascritto non ancora chiusa la letteranon ancora proprio deciso dispedirla. A tredici anni la strana fanciulla si era innamorata di ungeranio che teneva in vaso ed era giunta a pungersi il seno pernutrirlo del proprio vivo sangue. Adesso le passò per la mentedi pungersi e di scrivere a donna Fedele col sangue. Non lo fecetemendo di farla sorridere. Sdraiata nell'erba umidasi vedevapassare nelle palpebre chiuse quel che aveva scrittoche voleva edisvolevacon angosciosa vicendaspedire al villino. "Pregonon parlarmi di quella grande persona mai più." Si erafermata dopo infiniti cambiamentidopo stracciati otto o diecifoglietti a questa forma di ripulsa che simulava risentimento per unafrase della lettera di Massimo. Se n'era compiaciuta amorosamentecome di un'opera d'arte. Ma ora le venne il dubbio che appunto fosseda escludere l'apparenza di un risentimento perché la suaripulsa non verrebbe considerata ferma definitiva.

Desiderò rileggere tutto erientrò in casa. Per via trovò Teresina che veniva adavvertirla di avere preparato un caffè forte.

"Madre!" esclamò lacamerieracamminando dietro a lei. "Pare stata..."S'interruppenon disse "nell'acqua" per ribrezzo dellaparolatanto aveva pensato la notte a certo gorgo del Posina dovepochi giorni primasi era scoperto il cadavere di un suicida.

No"grande persona" nonandavanon andava! Né bastava togliere "grande".Era opportuno dare allo scritto un altro tonoescludere ogniapparenza di risentimento e di disistima. Stracciò anche quelfoglietto e scrisse così:

"Cara amica"La prego di nonparlarmi mai piùné direttamente néindirettamentedi quella persona che io potrò anche stimarese vuolema che m'ispira una contrarietà invincibile. Se ierisono stata cattiva con Lei fu per il sentimento che mi fa scriverecosì. Mi perdoni. LELIA."

Rilessegiudicò di averescritto chiarobeneopportunamente. Non c'era più luogo acorrezionia pentimenti. Partite quelle paroleera finito tuttoper sempre. Cadde a giacere sul lettospossata a morte anima ecorposenza forza nelle membrasenza lume nei pensierisenza vitanel cuorené di dolore né di desiderio. Dormìun'ora.

Svegliatasibalzò a sedere sullettosgomenta di aver dormitodi non saper quantodi nonraccapezzarsi. Visto il foglietto aperto sulla scrivaniale ritornòla coscienza con un moto lentonel pettodi dolor sordo. Si lavòsi ravviò i capelli. Crescendole quel senso di doloreinvadendola tuttale si mosserole ingrossarono in seno le onde delpianto. Non pianseperò. Una voce interna le disse che forselo scritto non andava ancora benech'era forse da rifare. Lo preseper rileggerlo e non le fu possibiletanto le mani tremavano e lavista s'intorbidava. Uscì per andarlo a rileggere fuoriingiardinodove i nervi non avrebbero osato ribellarsi così.Discese al sedile dei noci. Era tanto stancavi era tanta pace nelvento fresconelle onde dell'erbe maturenel continuo gorgogliodella Riderellache il tumulto dei suoi nervi si chetò. Comel'infermo che al partirsi di uno spasimo acuto ritorna spossato alsenso delle cose circostanti e ancora non sa se viva nel reale o nelsognoella sedette a lungocollo scritto non riletto in gremboattonitainerte. Il foglietto le scivolò dalle manicaddesull'erba. Lo sentì e non si mosse. Qualche altra cosa lescivolava dalla mentenon consentendo ella né contrastando.Si chinòraccattò la letteracominciò alacerarla pian pianoda un angolo. Lacerava lacerava guardandol'erba con occhi pieni di sogno. A misura che lacerava ne venneprendendo coscienza come di un atto grave che facesse parere stranala noncuranzaintorno a leidelle coseil variarecontinuo comeprimadell'erbe mosse dal ventoil discorrere dell'acquatranquillo come prima. Finito ch'ebbe di lacerareil cuore prese abatterle forte forte come s'ella si sentisse intorno alla persona lebraccia e sulle labbra le labbra dell'amato. Balzò dal sedileinfiammata e sgomenta. Raccolse e disperse nella Riderella i pezzettidello scritto laceratosi fermò a guardare nella correntefino a che tutti disparvero i testimoni dell'atto col quale avevaannientato lo scritto; parendole che l'atto stesso e il suo segretosenso fossero così distrutti. E la voce di prima le si mosseancora nell'interno: "invece di scrivere a donna Fedele che nonparli più di luifare a meno di andare al villino".

Ella vi consentì con un respirodi sollievo; sìnon scrivere e fare a meno di andare alvillino.


5.


Nel pomeriggio capitò nuovamentealla Montanina la Fantuzzosenza compagniquesta volta. Fu ricevutada Teresina. Lelia aveva l'emicrania eoccorrendol'avrebbeinventata per liberarsi da quella seccatura. Opere ufficiali di pietànon erano per lei; in compagnia di una tale bigotta poi! Il siorMomifiutata la burrasca fin dal giorno primaaveva pensato bene dicavarsela con una giterella a Padova. La siora Bettina eradiscretamente ben disposta verso il sior Momi. Per veritàsuocognato l'arcipreteinterrogato da lei circa il nuovo signore dellaMontaninale aveva detto in confidenza: "Farina finaciòbona da colladove ch'el toca el taca - ma da far ostienocredaria". Invece il cappellanol'oracolo della siora Bettinale ne aveva parlato diversamente. Don Emanuele lo conosceva quantol'arciprete e anche meglio; ma fino a che Lelia non fosse sottrattaall'influenza di donna Fedele e avviata alla vita monastica il siorMomi gli eraper certa coincidenza d'interessiun utile alleato.

Perciò egli aveva detto allasiora Bettinacon molta compunzionecon molti contorcimenti diparoleche forse l'arcipretenella sua santa semplicitànella sua nativa buona fedeaveva dato troppo ascolto a certe vocimalignea certi giudizi esageratamente severi. Il signor da Caminera stato sfortunato negli affaripoteva non essere andato esente daqualche fragilità umanama era uomo di fede puraimmunedagli errori moderniera uomo di pratiche; ottimo cattolicoinsommatale da dovere il clero e il popolo di Velo ringraziare laProvvidenza che alla Montanina ci fosse lui e non quel giovinesignore di Milano.

Poiché né Lelia nésior Momi erano visibilila Fantuzzo e Teresina colsero l'occasionegradita di fare insieme quattro chiacchiere in libertà. AllaFantuzzo piaceva di stare con Teresina che non le dava soggezionech'era una persona sensatamolto piache sapeva tante coseleraccontava volontieri e bene. Alla cameriera piaceva di stare collasiora Bettinatanto santache le parlava riguardosamente. Sivedevano assai di rado ma quando si vedevano s'illuminavanodolcemente ambedue in visofacevano insiemepettegoleggiandounchiacchiericcio di canarineconfondevano sul pettegolezzocon mutuasoddisfazionei loro commenti di persone savie e timorate. DellaMontanina la Fantuzzo non conosceva che il salone. Teresinal'accompagnò a vedere tutta la villatranne le stanze diLelia e quelle del padroneche il sior Momi aveva chiuso a chiave.

"Tanto un bon cristianvero?"disse la siora. Teresina la guardò meravigliatale vide unafaccia così convintache rispose: "Eh sissignora!".

"E la paronzina?." riprese laFantuzzocon una faccia diversamolto ambigua.

"Eh sissignoraanca ela"rispose Teresina.

"De religionm'intendo."

Teresina rispose da capoma un pocoturbata:

"Eh sissignora." Erano uscitedalla sala del biliardo nella veranda apertapresso un gruppo disedie. La siora Bettina sedette emolto imbarazzatamolto rossa invisodomandò alla cameriera se non credesse che la relazionedi quella signora di Arsieropersona senza rispetto per i sacerdotiamica del cattivo prete di Lagoavesse fatto perdere la fede allaragazza.

"Oh mi no credo nosala"rispose Teresinaonestamente.

"Perché La savero?"

Teresina non compreselì perlicosa dovesse sapererimase a bocca aperta. Le due donne siguardaronouna sbalordital'altra compunta.

Quest'ultima attese un poco e poiaccennò al tentato suicidio. Allora Teresina capì e lesi vide in faccia che aveva capito. Abbassò gli occhinonrispose. Abbassò gli occhi anche la siora Bettinaraccogliendosi per rammentare le istruzioni datele da don Emanueleper un suo eventuale incontro colla cameriera. Intanto Teresina siriebbeosservò che lo scritto rivelatore era stato fatto apezzi dalla signorina prima di uscireche forse ell'aveva rinunciatoal suo proposito. La siora Bettina non aveva istruzioni per unareplica e tirò avanti. Domandòblanda blandase lasignorina avesse l'abitudine di pregare la mattina e la sera.Teresina arrossìmalcontenta che le si chiedessero questecose intimee rispose di non sapere. E libri di pietàneaveva la signorina? Aveva un bellissimo libro dei Vangelidono delsignor Marcello. E altro? La siora Bettina respirò quandoTeresina le disse che Lelia aveva pure una Filotea e una Via delParadisoi suoi libri di pietà del collegio. E li leggeva?Teresina avrebbe potuto rispondere che non le era capitato mai divedere nelle mani di Lelia né Vangeli né Filotea néVia del Paradiso. Rispose soltanto: "Ma!". L'altrasentendola diffidente e conoscendola piamise in tavola una cartagrossasempre con dolcezza timida. In canonica si sperava che dopoil fatto di quella notte la ragazza andasse presto a confessarsi. Inpari tempo si temeva che ne fosse trattenuta da riguardi umani.Specialmente don Emanueleche conosceva il fatto della notte megliodell'arcipreteera tanto inquietopoveretto. Con questo discorso lasiora Bettina non aveva pensato affatto a una trappola. Fu peròtale per Teresina che ci cascò. Ell'aveva espresso un dubbiocirca le intenzioni suicide della signorina. Il dubbio non erasincero e desiderava ella pureda buona credenteche la signorinasi confessasse. Si tradì con un "sicuro!"

che le venne dal cuore.

La siora Bettina si raccolse ancora.Trovò questa bella uscita: quanto sarebbe stato meglio che iTrento non si fossero presa la ragazza con sé! Nel suo doloreper la morte del fidanzatoella si sarebbe probabilmente risolta diuscire dal mondo non come aveva pensato quella notte. Si sarebbe dataal Signore.

"Oh mi no credo nosala!"esclamò per la seconda volta Teresinarisentita per ilbiasimo indiretto ai suoi padroni vecchi. E perché noncredeva? Ma! quel "ma!" era uno scrignetto pieno di ragionid'oro e chiuso a chiave. Teresina non lo aperse e la Fantuzzocredette che non lo aprisse perché vuoto.

"Sarebbe stata una benedizione"diss'ella. Fu per soggiungere: "e potrebb'esserlo ancora"ma si ricordò in buon punto che don Emanuele le avevaprescritto di non avanzarsi troppo. La cameriera espresse il propriorincrescimento di non potere più oltre trattenersi con leicausa certe faccende. La siora Bettina si alzò.

"Almeno questa confessione"diss'ella.

"Magari!" rispose Teresina.

Accompagnò la Fantuzzo fino alcancelletto del portico. Al momento del congedo colei insinuòche Lelia poteva recarsi con qualcuno a Vicenzaconfessarsi a MonteBerico. Si confesserebbe più volontieriforse.

"Magari!" rispose ancoraTeresina. La Fantuzzo osservò che la proposta di una gita aMonte Berico poteva venire a Lelia dal suo papà.

"Madre!" pensò lacameriera.





Capitolo Decimoterzo


"AVEU"


1.


La mattina seguenteLelia ricevetteuna lettera di donna Fedele.

L'amica si doleva di non averla piùveduta dopo la piccola burrasca.

Le annunciava la sua prossima partenzaper Torinoconsigliata anche dal medico di Arsiero. Pareva dunqueche il medico di Arsiero l'avesse visitata; ma ciò non eradetto esplicitamente. Seguivano calde istanze per aver presto unavisitinaalmeno; e la preghiera di un rigo di risposta da consegnareal messo. Lelia rispose a precipizio:

"Sono tanto contenta del Suoviaggio a Torino. Non vengo da Lei perché mi sarebbeparticolarmente penosoalla vigilia di un tale viaggiorespingeredesideri Suoi e dovrei pur farlo. Forse non sono degna ch'Ella sioccupi ancora di me. Forse è meglio che mi dimentichi e milasci alla mia sorte!

LELIA."


2.


Donna Fedele eraquel giornoincondizioni di salute così tristi da renderlastraordinariamente irritabile. Aveva dolorato tutta la notte esoltanto all'alba le era riuscito di dormire mezz'ora. La poveravecchia Eufemiache dormiva nella camera vicinal'aveva udita piùvolte lamentarsin'era desolata. La sua desolazionelo stesso zeloche le metteva sulle labbra tante domande inquietetanti consiglitante preghierele fruttava soltanto risposte infastidite. L'effettodelle righe di Lelia fu disastroso. Donna Fedele lesse e rilesse ilbiglietto in presenza della cugina. Lo stracciò. La irritavail rifiuto di venirela irritava la chiusa che le pareva unaromantica rifrittura di frasi fatte: "mi dimentichinon sondegnami lasci alla mia sorte!".

Appena laceratopensò aMarcello. Lagrime di pentimento le vennero agli occhi. La cuginaEufemia la guardava trasognata. Ciò irritò da capodonna Fedele. "Va là! Va via!" diss'ella. La poveravecchiettaspaventataperdette la testa"i vadi vad"si precipitò all'uscio e invece di cercarne la maniglia adestra la cercò a sinistrapalpandopalpandotanto chedonna Fedelecadutale d'un colpo tutta la collerala richiamò.

"Vieni quavieni qua"diss'ella"scusa scusa. Siedi lì e lasciami pensare."

Pensòinfattiun pezzo. Quindisi volse alla mansueta cugina che stava lì seduta colle manisulle ginocchiaguardando un turacciolo di sughero caduto sulpavimento e non osando alzarsimalgrado il desiderio grandeperandarlo a raccogliere.

"Sentidonna Eufemia"diss'ella.

""Donna Eufemia""mormorò la vecchiettasentendosi canzonata. "Oh mipovr'om!"

Riseperché il titolo le parevaun sarcasmo alla sua povertàma poi si mise a dimostrare cheper verità vi aveva diritto e che il vecchio sacrestano delduomo di Santhià buon conoscitore delle famiglie antiche delpaesela chiamava sempre donna Eufemia. Allora donna Fedele preteseche nei tempi antediluviani ell'avesse avutoper quel sagrestanodel tenerociò che fece spiritare la poveretta. Poi ledomandò se fosse mai stata romantica. Romantica? "O mi omi!" Cosa diavolo tirava in campoadesso "sta sì"questa donna qui? La vecchietta rise di cuoreanche perché lepareva che donna Fedele dovesse sentirsi meglio se scherzava così."Romantica? Cossa ca l'è poeuiromantica?" DonnaFedele fece le alte meraviglie di tanta ignoranza e le annunciòuna lezione pratica di romanticismo. Le fece prendere un piattinod'argentoabbruciarvi su il biglietto di Leliaporne la cenere inuna bustachiudere la busta.

"Dopo colazione" diss'ella"andremo a portare questa busta alla Montanina e cosìdiventeremo due romantiche."

Andare alla Montanina? In quello stato?Dopo quella notte? Piovevaanche. La cugina Eufemia credette chescherzasse. Quando n'ebbe l'ordine preciso di mandare ad Arsiero perfar venire una vettura nel pomeriggioalle quattroprotestòch'era una imprudenzauna follia.

Il medico di Arsierovenuto la seraprecedenteaveva ordinatodopo un esame finalmente concessoilriposo più assolutonecessario perché l'ammalatapotesse intraprendere il viaggio di Torino. Egli consigliava Padovainvece di Torinoper la vicinanza; ma donna Fedele non voleva udirparlare che di Torino e del Mauriziano. Ora l'operazione si potevaforse protrarre di pochi giorni ancora ma non oltre. La cugina ebbeun bel protestare. L'ordine per la carrozza fu mandato. Fu puremandato un biglietto all'arciprete di Arsiero colla preghiera divolersi trovare alle quattro nella chiesetta del Camposanto. Lachiesetta è poco fuori della via che dal villino conduce allaMontanina. Realmente nella notte donna Fedele aveva creduto di moriree ora voleva confessarsi. Salire la scalinata della chiesa di Arsierole sarebbe stato impossibile.

Di solito la carrozzella che veniva aprenderla si fermava sulla strada pubblica ed ella faceva a piedi ilviale dal villino al cancello. Oggi ordinò che la carrozzellavenisse fino al villino. Non pioveva piùera uscito il sole.La cugina Eufemiavedendola pallidissimala supplicò ancoradi restare a casa. Non n'ebbe in risposta che un sorriso e l'ordinedi salire in carrozza. In fatto quel gran pallore era una nota disofferenza morale non meno che di sofferenza fisica. Ell'aveva purenel sanguecome Leliai fermenti dell'orgoglio. Il piegarel'orgoglio proprio davanti a quello di Lelia le costava un penososforzo.

Dalla chiesetta del cimitero uscìtrasformata. Disse alla cugina che la carrozza e l'aria le avevanofatto tanto bene; chequasi quasisi sarebbe sentita in grado didare la scalata a una di quelle "montagnasse" come lechiamava con orrore la vecchia damigella. La carrozzella si fermòal castagno candelabro. La Magis salì a piedi alla Montaninaper dire a Lelia che scendesse.

Donna Fedele attese in carrozza. Disolito faceva conversazione col vetturinosi divertiva a domandarglidi cose e di persone diverse per udirlo rispondere col suo linguaggiocolorito. Spesso il vetturino aveva alzato il gomito e allora un po'gli faceva delle rimostranzeun po' lo stuzzicava per amore dellasua eloquenza. Il vetturino pure si divertiva a chiacchierare colla"contessa delle Rose" che avevasecondo luiun "descorso"come nessun altro al mondo. Anche adessoappena la cugina Eufemia sifu allontanataegli domandò alla "contessa" sefosse vero che l'amorosa del sior Momi lo avesse bastonato prima diandar viacome raccontavano ad Arsiero. Donna Fedele gli ordinòdi tacere. Ella si sentiva veramente sollevatadopo la confessionee il momento le parve prezioso. Da fanciulla in poi il suo sogno erastato di poter vedere la morte avvicinarsi senza dolore fisiconellaintegrità dei sensi e della intelligenzacon molta dolcezzadi poesia nell'anima. Aveva il sentimento di non sopravvivereall'operazionenon provava nessun dolore e sulla stradicciuolaromita percorsa tante volte nella sua gioventùil tacerecontentoa sinistradei boschi profondi e della breve coppa diprato fioritola vocina eternaa destra del picciol rivo cadente inun borrola cara chiesina di tante preghieredi tante internelagrimeseduta là davanti nel sole apertole placide formeeterne anch'essedelle montagnele intenerirono il cuore. Ella noncomunicava intensamente mai col paesaggionon era una sognatrice.Era una creatura dominata dal senso morale e dal senso del comicoquindi più attirata dal linguaggio e dall'aspetto degli uominiche dal linguaggio e dall'aspetto della natura. Ma in quel momentomeravigliò ella stessa della tenerezza che provava per lastradicciuola romitaper la silenziosa scena di bellezza e digraziaper la voce flebile dell'acqua cadenteper le montagneeterne. Era la tenerezza di un addio. Ella non sarebbe piùtornata in quel posto prima di andare a Torino. E dopo...

Doporivedrebbe Marcello? Non cicontava. Chi sanell'altra vitache mutamento anche di sentimenti!Peròpensandovile punse acuto il dolore di non essereancora riuscita ad assicurare l'avvenire di Lelia secondo ildesiderio del morto amicodi dover lasciare interrotto il suo lavoroper quel fine. E la tenerezza poetica inaridìvi sottentròuna vaga inquietudine perché la cugina non ritornava. Udìgente dietro a séguardò: don Emanuele e la sioraBettina. Don Emanuele si voltò di scatto alla sua compagnaledisse qualche cosa e sfangò indietro a gran furia. La Fantuzzocontinuò la sua stradapassòrossa rossaaccantoalla carrozzellasenza guardare. Donna Fedeleche l'avevaincontrata una volta o duele fece un grazioso saluto. Colei chinòappena il capo e corse via frettolosa. Donna Fedele la vide salire igradini della chiesinasparire dentro il cancello. "Chi sa"pensò "cosa succedeadesso! Chi sa se Lelia viene!"Un minuto dopoecco Lelia e la cugina uscire insieme dal cancello.Respirò.

La cugina Eufemiache sapeva di nondovere assistere al colloquiosedette sui gradini della chiesa.Lelia s'incamminò verso la carrozzellaprima lentamentepoiin fretta quando vide donna Fedele farsi aiutare dal vetturino adiscendere. Le parve fortunatanell'imbarazzo di quell'incontrounapiccola mischia di cerimonie; e se donna Fedele restava nellacarrozzellail colloquioin presenza del vetturinosarebbe menopenoso. Donna Fedele insistette per discendere. Aveva veduto apertoil cancelletto di legno che mette nella breve coppa di prato e neiboschi.

"Andiamo a discorrere un poco làdentro" diss'ella col suo solito sorriso"dove siamo stateancora; ti ricordi?"

Leliacui la Magis aveva dettofrettolose parole di angoscia per le sofferenze della cuginaleosservò che si sarebbe stancata. Donna Fedele rispose che siporrebbe a sedere sull'erba. Lelia temé un colloquiopericoloso e il suo viso lo disse. Esitò un momentosilenziosa. Intanto lo zelante vetturino che aveva udito e sapeval'erba inzuppata di pioggiaprese una coperta dal serpe e spalancatoil cancellochiese:

"Dovesignora contessa?"

Cosìpreso il braccio di Leliadonna Fedele raggiunse lentamente la breve costa ombrosa fra icastagni e il rivolettodove ogni filo d'erba pareva sapere di chel'una e l'altra avrebbero parlato ancora.

Donna Fedele sedette; Lelia rimase inpiedi.

"Sei stata cattiva" disse laprimaquando il vetturale si fu allontanato.

"Lo sono ancora" risposeLeliaguardando nel rivoletto corrente ai loro piedi.

Donna Fedele tacque un pocoguardòella pure nell'acqua e disse pianosenz'alzare il capo:

"Pensa che forse non mi vedraipiù."

"Quando parte?" chiese lafanciullanello stesso tono sommesso.

L'amica ebbe un lieve scatto nellavoce.

"Adesso parto per andare a Torinoma credo che poi partirò da Torino per andar a trovare i mieivecchi!"

"Non pensi a queste cose"disse Lelia resistendo all'emozione.

"Quando saprai" riprese donnaFedele "che sono mortati ricorderai della promessa che mi haifatta?"

Lelia rispose un "sì"appena intelligibile. Donna Fedele si levò di tasca dueletterene porse una alla fanciulla.

"Qui c'è tutto"diss'ella: "nomiindirizzoistruzioni. Nel testamento non c'èche il legato per tepuro e semplice."

Lelia prese la letterain silenzio.

Donna Fedele la sentì commossale domandò se fosse contentaoradi averle scritto comeaveva scritto. La fanciulla abbassò gli occhirispose: "No".

"Eccola tua lettera èqui" disse donna Fedeleporgendole l'altra busta.

"La distrugga Lei" disseLeliaper un residuo di orgoglio.

Donna Fedele aperse la bustale mostròla cenere. Lelia s'infuocò in visoafferròimpetuosamente la bustala gittò nel rigagnolo.

"Un'altra cosa" disse l'amicasavia. "Tu mi hai detto che lasci il cattolicismo a me. Sìsìa me! Hai nominato anche degli altri ma volevi colpir me.Questo non importacolpir me. E' la perdita della fede che importa.Tu vuoi dunque darmi anche questo dolorementre sto per morire?"

"Posso io credere o discredere amio piacere?" esclamò Leliaappassionata. "Non èLei che mi ha fatto perder la fedeno. Ero irritata quando Le dissiquelle cose. Ma poi non dica che muore!

Perché vuole tormentarmi? Non èfamoso questo chirurgo di Torino? Lei guarirà!"

"Cara" rispose donna Fedele"non è sicuro se arriverò in tempo perl'operazione. Se si sarà in tempo di farlaio mi sentotalmente sfasciata dentro che l'urto mi deve buttar giù inpolvere. Del resto basta. Mi permetterai di pregare per te in questae nell'altra vita.

Non domando altro. Guardasonoorgogliosa anch'iocome te. Mi sono confessata adessoprima divenir quadei peccati d'orgogliocon dolore. Cerca di guarirneanche tu. Fra poco sarai maggiorennepadrona di te. Non ascoltarel'orgoglioallora. Perché è tutto orgoglio il tuotumi capisci!"

Lelia ebbe un amaro sorriso interno.Non aveva capitodonna Fedelecon tutto il suo ingegno! Tacque.

"Pensa" riprese donna Fedele"che un uomo si perde per causa tua!"

"Si perde?" mormoròLelia ironicamente.

"Si perdesì!"

"Si perde perché non credepiù ai pretiforse?"

L'ironia suonò ancora piùacerba. Donna Fedele rifletté un poco.

"Senti" diss'ella. "Oggila mia borsa è una cassetta postale."

Ne tolse una terza busta e continuò:

"Questa è una lettera cheho ricevuta stamani. Non voglio che tu la legga ora. La leggerai piùtardi. Te la lascio. Non restituirmela. Te la lascio per sempre.Leggine e rileggine bene la chiusa. Non ti dico altro. E adessoaiutami ad alzarmi. Abbiamo fatto troppo aspettare la cognatadell'arciprete."

Lelia prese la lettera pensando chefaceva male a prenderlaper un irresistibile impulso. Così ilgiuocatore che ha giurato ai figli di non toccare le carte mai piùafferradisprezzandosi e tremandoil mazzo che gli è offertodavanti a un tavolino e a un pugno d'oro.

Appena presalafu per restituirla; madonna Fedele cercava giàfaticosamentedi alzarsi. Non potéa meno di darle aiuto e fu un aiuto difficile. Passato il primomomentosentì che la restituzione non poteva piùessere tanto impetuosa da imporsiche lo stato di donna Fedele nonpermetteva una lotta. Si disse che le restava sempre la facoltàdi non leggere. Donna Fedeleesaustasi fermava ogni due passipesando tutta sul suo braccio e talora guardava Leliasorridevadella propria stanchezzasoavemente.

"Senz'altri congedisai"diss'ella. "Non ti domando più di venire al villino. Hobisogno di una gran quieteprima di affrontare questo viaggio. Puoimandarmi un rigo a Torino quando vi sarò. OspitaleMauriziano."

Lelia non parlò. Quella letterale bruciava la manole bruciava il cuore. Giunte alla carrozzellale due signore si avvidero di avere dimenticata la coperta. Ilvetturino corse a pigliarla e la cugina Eufemiache intanto avevafatto un'amichevole conversazione con luiriferì che quellasignora di Velo era ripassata per andare a casache si scusava conLelia di non avere aspettato e che sarebbe ritornata il giornoseguente. Lelia non parve accorgersi che si parlasse di lei.

All'atto di salire in carrozzadonnaFedele le dissecol suo dolce sorrisoun "addiocara".tenerissimo. Alloraall'ultimo momentola fanciulla le chiese diriprendersi la letterasottovocecolla esitazione di chi prevedeche la sua domanda non sarà presa sul serio.

"Ma chema che!" fece donnaFedele.


3.


Rimasta solaLelia fu presa da unapalpitazione violenta.

L'onnipresente cuore le batteva anchenelle tempie. Si nascose in seno la letteraandò a sedere suigradini della chiesetta.

Si disseper placare il tumulto delcuoreche forse la lettera parlava soltanto di religionedi fedeperduta o di fede riacquistatae che questoa leiera del tuttoindifferente. La lettera le metteva a ogni modocolla sua presenzasensibileun torbido ardoreun senso vertiginoso che la sua volontàfosse ridotta impotente nel turbine del destino. Udì scendergente da sinistra e si alzò. Passarono due contadini di Lagosalutando. Ella pensò di ritirarsi in casa. Fatti pochi passisull'ertase ne pentì. In casanella sua cameranon avrebberesistito alla tentazione di leggere subito. Non voleva leggeresubito. Sostòincerta. Finalmente ritornò indietro conuna incoscienza di automadiscese i gradini della chiesaprese lavia di Lago. A misura che procedeva nel camminoentrava nella suaincoscienza di automa l'idea di andar a leggere in un luogo deserto.

Giunta nella conca di Lagoprese ilsentiero che conduce al laghetto del Parco. Udì voci di donnaal lavatoioritornò indietrosi mise fra le casupole di Lagoavendo in mente oramaiuna metala strada militare che taglia inalto ii fianco della Priaforàsopra le gole del Posinadov'era andata più volte a cogliere rose delle Alpi. Salìalle selvagge frane quando il sole calantetoccata la cresta dellamontagnavi mancava rapido. Le gole del Posina soffiavano ventofreddo sulla morta petraiasul caos di macigni enormifranati dallenude sinistre altezze giù verso lo spacco pieno d'ombra e diperpetuo rombo. Lasciata la stradaLelia si arrampicò asinistra fra i rododendri fioriti. Seduta lassùsola figuraviva nel gran deserto ventosoandò strappando fiorimacchinalmentea destra e a sinistrase ne raccolse un piccolofascio in grembovi tenne su a lungo le mani immobiligli occhiilpensiero. Poifredda quanto potécavò la letterasifece forza per non correrla in cerca del proprio nomelesse dalprincipiolentamente:

"Cara mamma Fedele" Sappiache mi avvio alla ricchezza e alla fama. Ieri l'altro la famiglia diun giovinotto cui rimisi a posto un piede slogatomi mandòall'albergo ogni ben di Dio: formaggio di caprasalsicciafunghi.Ieri un pretino candidotimidoumileper una visita alla suavecchia madre che ha varici alle gambesiccome non volli il suodenaromi diede una boccetta di aceto di Modena. Come lo avesse nonso. Stamattina mi mandò a chiamare la moglie del sagrestano.La bambina che mi portò il messaggio mi portò anche uncestello di noci per impegnarmi ad andare. Secondo l'albergatrice miattende un grande avvenire. Se continuo cosìdicemi potràcapitare di venir chiamato nientemeno che a Puriaun mucchietto dicase a venti minuti da qui.

"E un essere cui la fortunasorride a tal segno avrà voglia di morire?

Eh sì; di quando in quando iosono questo pazzo. Mi pare allora che sarei contento di dormire fra icipressetti del piccolo cimitero di Dasiogrami come la mia gramasorte; eperché non manco di pensieri poeticisogno che icipressettinutriti del mio cuorediventerebbero due colonnegrandidue nere colonne trionfali della Morte. Se poi mi scuoto e mirimprovero di viltàdebbo riconoscerepensandociche laviltà è viltà ma che ragioni di vivere non ne homolte.

"Non parlo degli amici a cui lamia morte farebbe dispiacere. Già non sono che due: Lei e donAurelio. E di don Aurelio credo chequando mi sapesse mortoregolarmente nel mio lettocon tutti i conforti della religionecattolicaforse mi reputerebbe fortunato e si consolerebbe.

Leicara amicaprenderebbe la cosacon un po' meno di filosofiami compiangerebbe un po' più;mase non erroElla non apprezza poi molto questa vitanondovrebbe quindi rattristarsi troppo per un buon amico che va aprovare l'altra con tutto l'ossequio a Santa Madre Chiesa. Ella simeraviglia del mio ossequiodopo quello che Le ho scritto. Ellapensa già chesentendomi affondareho gridatosecondo ilSuo consiglio'Signoresalvami!' e che il Signore mi ha salvato.

Cara amicacerto sìhogridatoforse sìDio mi sta salvandoma non come Lei crede.Forse la verità non è a galla del mareè nelfondo. Se fossi per morirenon vorrei scandolezzare questa buonagentedomanderei un prete. E non sarebbe ipocrisia! Direi i mieipeccati per un bisogno supremo di sincerità e di umiltàdavanti alla Mortefarei la Comunione in memoria di Chi avrei volutoseguire sulla montagna e sulle onde del mare di Galilea invece cheseguire la immensa processione di mitredi zucchettidi tricornidi cappuccidi abiti neribianchirossi e violetti che oggicammina davanti a noi. Ma questo non è ancora il fondo. Credodi trovarmi ancora in acque instabili che sentono l'urto dei venti eil moto delle correnticredo di obbedire ancora all'impulso disentimenti che furono il veicolo delle mie fedi passate; credo cheavrò riposo solamente in quelle ultime profonditàsolide dove la voce di Cristo 'o tu di piccola fede' non arriva piùdove un giorno scenderanno a giacere per sempre anche le mitreglizucchettii tricorni e i cappucci. Se guardo a quello che credevo unanno fa e a quello che credo adessomi domandoper quanto la stessadomanda mi faccia orrorese domani crederò ancora in Dio.Questa luce del mio spiritoferma sino a iericomincia già abalenare.

"Ebbenesarei un mentitore se Ledicessi che desidero morire per questo. Nose non fosse che perquestovorrei invece più intensamente vivere. Mi proibireivivendodi pensare più a cose religiosemi proibireinegazioni e credenzemi farei padrefratelloamico di questapovera gentevorrei dare ad essa tutto che potrei dare di benevivendo poveramente anch'iovorrei cercarmi una compagna da poteramare coll'anima e coi sensivivere di amore per addormentarmi ungiornoconfidente nel mistero che non conosco e non posso conoscere.Ma questo Paradiso è duramente chiuso per me. Se desidero dimorire è perché la febbre che ho voluto combatterecheho sperato un momento di vincere questa febbre che ha nome Lelia si èrincruditami ardemi consuma e non la combatto più."

A questo punto una fiamma corse ilsangue di Leliauna nube le oscurò la vistaella si sentìcome una festuca in un gran ventonel soffio di un DioSignore delCielo e della Terradavanti al quale piegasse tuttola sua volontàcome il resto. Posata la lettera aperta sul fascio di rododendri cheteneva in gremboli raccolse nelle mani tremantise li strinse sulviso come per odorarlivolle nascondere anche agli spiriti dell'ariail bacio avido sulle parole di fuoco. Era vintaera suaera ladonna della sua anima e de' suoi sensiche avrebbe vissuto di amorecon luipoveramenteche si sarebbe chiusa con lui in quel nidomontanofuori del mondo che lo avrebbe consolato di tutte leamarezze passateche lo avrebbe confermato nella sua idea di fare ilbenedi non pensare all'Inconoscibiledi accettare anche il sonnoeterno. Lagrime le facevano groppo alla gola. Spaventatasi riposeancora in grembo i rododendri e la letteracercò di nonpensare a nientedi smarrirsi nella contemplazione di un garofanoselvaggio che tremava nel vento come tremavano le mani di lei. Quandole parve di essere ritornata signora di sériprese a leggere:

"Sarà perché nellasolitudine la fantasia prende il dominio dello spiritosaràperché la poesia malinconica e dolce del luogo ammollisce ilcuorenon lo so; so che spasimoso che passo ore e ore a guardarenon il suo ritratto perché non lo possiedoma un pezzo dicarta dov'ella un giornopregata da mescrisse il titolo di unlibro. Guardo guardopoi chiudo gli occhiquelle tre paroleindifferenti mi diventanosotto le palpebreil suo viso radianteingegnofantasia e fuoco. Mi chinobevo il profumo ch'ella usa eche la carta serba ancorache mi fa dolere il petto come la divinamusica di 'Aveu' di Schumannchesuonata da leimi fece dolere inun modo tanto dolce fino alle braccia e ai polsi. Vedacara mammaFedelecome Le dico filialmente tutto. Questa mattina bevevo senzafreno il visolo sguardoil profumo. Non potendone piùriposi il mio tesorocorsi a guardarepochi minuti fuori del paesefra le creste delle grandi rocce al cui piede è Dasiounapunta di dolomia che somiglia a un'altra punta di dolomia che iovedevo dal salone della Montaninaattraverso le vetrate dellagalleria superioreascoltando 'Aveu'. Oh come come mi parlava quellapiccola punta inclinata nel cielo! Questa non le somiglia poi tantoma io la torcola sforzo; e se sapesse quante volte nei pochi giornida che sono qui m'impietrai anch'io a contemplarla!

"E questo questo devo dirlesopratutto. Non ho più quel rifugioquell'asilo di sdegno e didisprezzo nel quale ho cercato fino a ieri una difesa contro l'amore.Non mi sento più il diritto di disprezzare chi mi ha giudicatomalenon conoscendomi. Il mio solo dirittodiritto e dovereinsiemeè di salvare la mia dignità se avessimo aincontrarci ancora nella vita."

Qui Lelialeggendosorrise. E subitobaciò impetuosamente la letteraquasi a chieder perdono delsorriso. Proseguì a leggere:

"Domani scenderò adAlbogasio per prendere gli ultimi accordi col sindaco circa latumulazione in quel cimitero della salma di Benedettoil cuitrasporto ècredoimminente. Ho scritto a Roma che facciovolontieri queste pratiche in omaggio alla memoria di un amicodiletto ma che non mi sento di parlare sulla bara come i miei amicivorrebbero. Anche la mia fede in un Cattolicismo immortale saràin quella bara. Se parlassidirei che piango sopra l'uomo che mel'ha ispirata e sopra di essa.

"E adessoaddio. Mi scriva dellaSua salute. Ove credessi di valer meglio dei medici che ha viciniverrei a curarla. Ma non lo credo.

Essi sono esperti e ionoviziovado acurare la moglie del sagrestano. Addio ancora!

Il Suo figliuol prodigo (contento delleghiande)."

Sotto la firma era scritto:

"Non ingannartiquesta rovina diun'anima è opera tuatuatua!

Sento che Iddio riedificherà.Voglia Eglinella Sua misericordia e sapienzaservirsi di te.Ricorda allora la tua povera amica e prega per lei.

FEDELE."

Lelia non si fermò su questerighericorse alle parole appassionatele rilesse più e piùvoltele baciòle ribaciò. Finalmente si ripose lalettera in senocol respiro profondo di chi riposa sulla meta dopoun disperato sforzo dei muscoli. La gioia le si dilatò dallavita del cuore alla vita dei sensi. Godette il vento freddo che lebatteva il visogodette la scena selvaggia e grande delle montagnedi facciadalle fronti ardenti nel sol cadentedel caos di macigniruinosi per le ombre inferiori. Godette l'ondulare dei rododendripresso a lei.

Godette di sentirsi viveresi alzòdiritta in piediaperse e stese le braccia quasi ad abbracciare ilmondo che fosse diventato suo.

Tremò che qualcuno l'avesseveduta in quell'attosi guardò in giropalpitando. Nessunonessuno! Si chinò a raccogliere i rododendri cadutile dalgremboericompostone il fascioprese a discendereavida dellasua camera e anche avida dell'acuto piacere che le darebbe il sensodel suo segreto in presenza d'altri. Discese rapidacon un passoelasticobaldanzosodi donna felice.

All'entrata della villa incontròTeresina che ammirò molto le rose delle Alpi. Queste furono lesue parolema in fatto la cameriera era sbalordita della nuova lucenegli occhi della signorina. Le riferì che la siora Bettina siera evidentemente impermalita di essere stata piantata in asso perdonna Fedele. "Ah sì?" fece Lelia "Mirincresce.

Cosa voleva?" Salì nellasua camera senz'attendere rispostane chiuse l'uscio a chiavelesseancorabeata. Ripose i rododendri sulla spalliera del lettomacapovolticoi fiori pendenti sul guancialeche le sfiorassero icapelliche potessealzando il visobaciare.

Ne tolse unodiscese nella sala dapranzolo pose in un calice di cristallo per tenerlo davanti a sésulla mensa cui avrebbe seduto sola. Passò nel salonesi miseal pianosuonò "Aveu" con un divino impetopensando che il pianose avesse un'animaa sentirsi sviscerarecosìcapirebbe; pensando che forselà nel suoromitaggio lontanoegli sentirebbe qualche vibrare in sé. Levennero in mentecon un colpo di gioiaversi adattati alla musicadi "Aveu" da un amico del signor Marcello:

"Ah solo un demonio e un angelo ilsan Che pugnancrudelinel fragil mio cuor.

Or vince il più dolcemi donoin sua manOr scendo in un abisso di fori e d'orrorOr sappi chebrucioche moro di teOr tutta mi prendi ché Iddio mi perdé.


Uno solo rispondeva al suo sentimentoma come vi rispondeva!

"Or sappi che brucioche moro dite."

Suonò il pezzo duetre volteper quel versoper quel solo verso. Poi si alzò dal pianoandò cercando per la sala il posto da cui si discerne la puntadi dolomia. Ritornò al pianone strappò da capo irotti accenti della passione delirante.

"Gèsu!" pensòTeresina preparando la tavola per il pranzo. "Cossa gala po?"




Capitolo Decimoquarto


UNAGOCCIA Dl SANGUE PATERNO


1.


Lelia volle che il pranzo le fosseservito da Teresina invece che da Giovannile parlò di variecose indifferenti molto affabilmente. La camerieravedendola cosìamabilesi arrischiò a un discorso delicato. Le riparlòdella siora Bettina che aveva intenzione di fare un viaggetto a MonteBerico. Ah quanto sarebbe stata felice Teresina di potervi andareanche lei! La Fantuzzo le aveva parlato di un Padre Servitaconfessore meraviglioso. Non l'avrebbe fatta volentieri essa purelasignorinaquesta giterella? Era poi anche un gran bel postoMonteBerico. La siora Bettina sarebbe una eccellente compagna di viaggio.Tanto buonapovera siora Bettina. Potevano partire alle sei.

Alle otto erano a Vicenza e salivano aMonte Berico. A rigore avrebbero potuto ripartire alle undici. Ma poinon c'era premuranon mancavano treni per ritornare a casa. Leliatacendo sempreTeresina si offerse di parlarne alla Fantuzzo.

Lelia la guardòtrasognatapensando Dio sa che. Teresina non seppe leggere in quel misteriosoviso se non questoche vi era incertezza fra il sì e il no.Ne fu consolata. Entrato Giovanni con un telegrammanon giudicòprudente d'insistereneppure dopo uscito Giovanniper avere un sìimmediato. Il telegramma era del sior Momiatteso coll'ultimo treno.Annunciava il suo ritorno per l'indomani mattina. Verso le novecapitaronocredendo di trovarlol'arciprete e il cappellano.Entrarono in salone senza farsi annunciareprimo l'arciprete col suostrascicato "con permesso".

Lelia stava passando musica; non più"Aveu" ma tutta l'altra musica che ricordava di aversuonato presente Massimo. Si alzò dal pianoannoiata. A partele sue ragioni speciali di avversione a quei duenon poteva soffrirel'arciprete per il suo tono di familiaritàper le sue faceziegrosseper la scarsa pulizia della persona. Non poteva soffrire ilcappellano per la sua guardaturaper il suo modo di portare il capodi salutaredi parlare. Gli occhi dell'arciprete le lucevano diun'astuzia evidentesincerada sensale di buoi e di grano. Negliocchi acquosi di don Emanuele vedeva una ostentazione antipatica diascetismoun'astuzia subacqueamal dissimulata dal guardar basso. Equel caponon portato da collotorto volgare ma sempre leggermentechinato in avantiquel salutare sommessoquella voce untuosalentaquel continuo atteggiarsi compunto come se andasse aprocessione tutto in sé raccolto sotto un baldacchino idealela irritavano. La sua accoglienza fu glaciale. Non fece accendere lelampade né portare il solito caffè. L'arciprete avendoaccennato al dispiacere di sua cognata per non essersi potutatrattenere con leinon ebbe una parola di scusa. Il cappellano parlòdi certa puerpera di Lagomiserabilech'egli desiderava fossevisitata dalle due signore. Lelia si accontentò di domandaredove propriamente abitasse questa donnasenza dire se l'avrebbevisitata o no. L'arciprete consigliò allora di affrettare lavisita perché sua cognata aveva intenzione di allontanarsiprestoforse per un giornoforse per due. Lelia parve sorpresa. Perdue giorni? Sìforse per due giorni. Don Tita osservòche il cappellano doveva venire l'indomani a celebrare in SantaMaria. Egli avvertirebbe la cognata di trovarvisile due signore sisarebbero intese. Chiuso il discorsinolo suggellò con un"sipo sipo." I "sipo sipo" dell'arcipretesignificavano congedo. Se diceva "sipo sipo" in casa suail visitatore doveva intendere che non c'era più ragione ditrattenersi. Se lo diceva in casa d'altriera egli stesso che davail segno cosìstrofinandosi le coscie a mani spiegatedellapropria partenza. Stava infatti alzandosi dalla sedia quando unainattesa domanda di Lelia lo fece ridiscendere a sedere. Lelia glidomandò improvvisamente quale viaggio intendesse fare suacognata. Il viso dell'arcipretealquanto congelato fino a quelmomentosi soffuse di tepida bonarietà. Gli occhi acquosi delcappellano che indagavano inutilmente alcuni libri sul tavolo vicinosi alzarono al viso di Leliavi si fermarono mentre l'arcipretespiegavacon grande abbondanza di paroleche la cognata desideravada molto tempo fare le proprie divozioni al Santuario di MonteBericoche aveva anche in mente di spingersi poi fino a Castellettodel Garda per una visita alle monache della Sacra Famiglia; che peròa quest'ultimo viaggiose non trovasse compagniarinuncerebbe.

"Ho domandato per sapere"disse Lelia. "Forse andrei volentieri anch'ioalmeno alSantuario di Monte Berico."

"Oh!" esclamòl'arcipretetutto contento. "Niente di meglioniente dimeglio."

Lelia si affrettò a dire che nonprendeva alcun impegnoche ci avrebbe pensatoche occorrevainogni casointerrogare suo padre.

Preso congedol'arciprete uscìcol cappellano esprimendo sottovoce la propria soddisfazione: "benben jà jà". Fatti pochi passiritornòindietro per trovarsi solo con Leliadirle cautamente chel'ispirazione di andare a Monte Berico le veniva proprio dallaMadonna e chese andavadoveva assolutamente conoscere il padre...Nominò quel Servitadel quale la Fantuzzo aveva cantate lelodi a Teresina.

Raggiunto il compagno che l'attendeva amezza costal'arciprete si allontanò con lui di buon passoda uomo soddisfatto e pieno di belle speranze. A lui bastava che laragazza andasse spontaneamente ai Sacramenti. Era forse desiderabileche l'arciprete servisse Iddio e la Chiesa con maggiore intelligenzacon maggior saperecon un cuore più caldo di sentimentoevangelicoma non si poteva negare ch'egli fosse un servitore onestoe fedele. A immagine e similitudine di alquanti altri suoi colleghidi servizio e di divisaegli non conosceva per gli erranti nellafede altra carità che di paroleli avrebbe volontieri buttatinell'Astico dallo scoglio di Meachiamandoli poveretti e poverini;ma per gli errori di altro genere aveva parole burbere e cuorebeneficopenetrato di quell'antica tradizione che non erige inteoria né morale troppo rigida né morale troppo lassache si regola colle anime peccatrici secondo un sapiente concettodelle fragilità umane e della bontà del Padre. Il suopensiero era che Lelia fosse una testolina strambache in fatto direligione fosse ignorantecapacissima di mettere assieme spropositidi condotta e pratiche; ma chein fin de' contiquando si mettessein regola colla Chiesaci fosse da confidare nella paternaindulgenza di Chi le aveva dato quel cervello di puledra selvatica.Rideva in cuor suo di don Emanuele che sperava farne una monaca. Perdon Emanuele il pellegrinaggio a Monte Berico non era che una primatappa e non si poteva rallegrarsene troppoa fronte dell'azionecontinua esercitata sulla fanciulla da donna Fedele. Gli era inoltrenoto un fatto gravetalese Lelia lo venisse a conosceredaspingerla sempre più verso il villino delle Rose. La Gorlagonon era a Cantùera a Padovanascosta in casa Camin. Lacontinuata trescaper sé colpevolema colpevolissima perchémalcautagittava discredito sugli ecclesiastici amici del reo. E chine approfitterebbe se non donna Fedele? La mira di donna Fedele eraindubbiamente un matrimonio Camin Alberti. Per fortuna Lelia viripugnava tuttaviaprova il tentativo di suicidioe per fortunadonna Fedele era costretta di lasciare il paese durante qualchetempo. Ciò era risaputo in canonica. Don Emanueles'interdiceva di sperare qualche cosa di peggio che una operazione euna lunga convalescenza. Anzi voleva ammettere che la signoracontroi suoi meritiguarirebbeper trarne la necessità diun'azione vigorosa durante il suo soggiorno a Torino. Era necessarioanzi tutto piegare la fanciulla verso Dio e poi trovar modo dirinnovarle quel disgusto sdegnoso del mondo che l'aveva spinta alsuicidiooffrirle allora salute e pace in una vita religiosa fattaper lei. Non a Castelletto del Garda. Quella era un'idea della poverasiora Bettina.

Lelia non era fatta per tenere unascuola né un asilo e nemmeno per l'assistenza degli ammalati.Ci voleva un Ordine contemplativo. Tutte queste riflessioni donEmanuele le rimasticò trottando verso Velo a fiancodell'arciprete e le tenne per sé.

Leliaritornando al pianopensò:"Forseuna goccia del sangue di mio padre ce l'ho bene".

Non volle che si accendessero lelampade. Si ritirò presto nella sua camerasi pose allafinestra. L'oriente luceva d'infinite stelle e sopra il gran culminedel nero bosco sovrano i denti acuti di dolomia ferivano il sereno.Lelia non guardava né il cieloné il nero culmine delbosconé le guglie del Summano. Fermo il pensiero in unsegreto disegnoteneva fissi gli occhi vitrei nelle prossime ombrebattendole a furia il cuoreguizzandole tremiti e sussulti per lasottile persona.


2.


L'indomanidon Emanuele venne acelebrare in Santa Maria mezz'ora prima del solitoverso le sette emezzo. La siora Bettinache lo aveva precedutolo avvertìche Lelia era fuori. La cameriera Teresina la credeva al villinodelle Rose. Era invece al deserto dei rododendri. Don Emanuelemoltocompuntopensò un poco e poi pregò la siora ditrattenersidopo la messafino a che egli uscisse disagrestia.Celebròcongrandivozione.Quindicurvosull'inginocchiatoio della sagrestia col capo chino fra le maninonfiniva più di chiedere a Dio aiuto e lume contro il demonioche gli contrastava i disegni per la eterna salute di Leliasuscitandogli contro due sue ancelle: una creatura di superbiadonnaFedelee una creatura di lussuriala Gorlago. Pregò e pregòcolla fiducia dell'Inferiore ch'è in termini di relativaconfidenza col Superiore pregatoe per la lunga consuetudine e perqualche servigio resogli.

Dalla preghiera mentale passòinavvertitamentesempre fluendogli per le labbra un rivoletto di piolatinoa moti diversi di riflessioni e d'idee intorno a un altrogirare incessantea un comparirescomparire e ricomparire continuonella sua mentedei fatti che più lo turbavanodellepossibilità minacciose. Un moto gli s'implicavaglis'ingarbugliava nell'altro. Per qualche momento egli non vedevanoncapiva più niente e allora il pio rivoletto latino glis'inaridiva sulle labbra ferme. Finalmente dal peggior garbuglio glispuntò un filo. Tira e tirail filo veniva a meravigliacomese la Provvidenza avesse lavorato un garbuglio delle sue proprie filaper don Emanueleperché il pescatore di anime si facesse ilmerito di trovarne il capo buonodi svolgerlo e svolgerlo fino allapratica dimostrazione che tutto l'arruffio di groppidi occhiellidi pendagli si scioglieva in un divino filo da reti di pesca. Cosìpensò il pescatore.

Intanto la siora Bettinaseduta infaccia all'altaresentendosi inaridire la devozione in cuoredurando fatica a non distrarsi dietro il gorgoglio della fontana delvestiboloa non pensare di dove venisse quell'acqua e dove andasse afinirese fosse pura o nofresca o no; temendo anche di certamacchia del tappeto verde sul gradino dell'altaredove troppo spessoritornavano i suoi occhi e il suo mal combattuto desiderio di saperese fosse vecchia macchia di unto o macchia recente di bagnatosidomandò se non le convenisse di mettere la punta del naso insagrestia. Nosarebbe stata una sconvenienza. Cercò liberarsidalle tentazioni della fonte e della macchia pensandoa propriaedificazionela santità di don Emanueleil rapimento misticoche lo tratteneva così a lungo.

Egli si alzòdall'inginocchiatoionon più chiaro affatto in viso di quandovi si era piegatomandò il chierichetto a vedere se Leliafosse rientratauscì dietro a lui e fe' cenno alla sioraBettina di seguirlo nel portichetto. Il chierico vi ritornò adire che la signorina non era rientrata.

Allora don Emanuele riferì allaFantuzzo il dialogo seguito la sera prima fra Lelia e l'arciprete. LaFantuzzoche non aveva ancora veduto suo cognato dopo quel dialogon'ebbe l'impressione di una grazia ottenuta per le preghiere delcognatodel cappellano e anche un poco per le sue proprie. Domandòche dovesse fare. Intanto aspettare Leliadirle che l'arciprete leaveva riferito com'ella non fosse lontana dall'accompagnarsi a leiper una visita al santuario di Monte Berico e forse anche per ilviaggio a Castelletto del Garda. La siora Bettina corresse quello chele pareva un errore di lingua. Non l'arciprete le aveva riferitomadon Emanuele. Questi le impose di tacere il suo nomedi metter fuoriquello dell'arciprete. "Veramente"

osservò la siora Bettina timidatimida"da mio cognato non ho..."

"Non importa" interruppe donEmanuele "il Signore vuole ch'Ella dica quello che Le suggeriròio." La bugia suggerita da don Emanuele aveva un'anima di veritàsuperioreinaccessibile a lei se non per fede. E la siora Bettinapromisecon umile fedela piccola bugia: "Quando lo diceLei!".

Ma le istruzioni superiori non finivanolì. Probabilmente la signorina le direbbecome lo aveva dettoall'arcipretech'era necessario avere il permesso di suo padre. Orail permesso era da chiedere anche per Castelletto sul Garda. La sioraBettina si rallegrò tutta. Era felice di andare a Castellettoesolanon avrebbe osato intraprendere un tale viaggio. Un'altracompagniaquella di Teresina per esempiole sarebbe stata molto piùgraditama per amore della sua guida spirituale accettava volontieriil piccolo guaio di viaggiare con Lelia. N'era felice anche per ilcognatoche pensava già alle suore della Sacra Famiglia dacollocare in qualche asilo della sua futura diocesi e desideravaattingere alla fonte certe informazioni necessarie. Don Emanuelevistala tanto contentapensò alquanto e poi le propose dicontinuare la conversazione camminando verso Lago. La siora sentìconfusamente ch'egli aveva qualche cosa di più grosso a dirlee che voleva dirglielo in un posto più sicuro da interruzionisgradite. Infattiappena toccatasulla strada di Lagol'ombra deigrandi castagnidon Emanueleora figgendo gli occhi in terraoravoltandosi a guardare se qualcuno venisse loro alle spallemisefuori un preambolo sull'assoluta necessità che la sioraBettina tenesse per sé quanto egli aveva risoluto di dirle. Lefece comprenderesenza nominar l'arcipreteche doveva tacere anchecon lui. La Fantuzzoall'idea di nascondere qualche cosa a don Titasi sentì dare un tuffo nel sangue; ma poisiccome donEmanuele parlavanon con ragionamenti ma con autoritàdi unavia indicatagli dalla Provvidenza per la salute di due animesipersuase che la via fosse tanto stretta da non potervisi passare intre personesi compiacque di essere l'eletta e attese il Verbo. IlVerbo fu questo. Poiché la signorina Lelia aveva accennatoalla necessità di ottenere il permesso paternola sioraBettina poteva fare a menoadessodi parlare alla ragazza. Potevainvece affrontare addirittura il sior Momi che arrivava da Padova altoccochiedergli la facoltàanche a nome dell'arcipretediproporre alla signorina il pellegrinaggio a Monte Berico e il viaggioa Castelletto. Poi conveniva fare la propostafissare il giorno.

"Domani sarà troppo presto"disse don Emanuele. "Fissi posdomani." Se fosse stato eglistesso la Provvidenzanon avrebbe disposto con maggiore sicurezzadell'avveniredi eventi chein finedipendevano anche dallavolontà altrui.

"Andranno a Monte Berico"diss'egli"e Lei osserverà le disposizioni dellasignorina Lelia nell'accostarsi ai Sacramenti. Scenderannodirettamente alla stazione. Allora Ella dirà alla signorinache non si sente beneche Le è venuta l'idea di non andarepiù a Castellettodi andare invece ad ascoltare una messa alSanto. Partiranno per Padova col treno delle undici. Dopo la messaElla persuaderà la signorina della convenienza di passare dacasa Caminper un riguardo a suo padre. Vi potrebbero essereletteregiornalicarte di visita. Adesso in quella casa c'èuna persona che non ci dovrebbe essere perché qui èstato annunciato pubblicamente che andava in Lombardiache siseparava dal signor Camin. E' necessario che la signorina Lelias'incontri con questa persona. Necessario! Non Le dico altro."

La povera siora Bettinapresa dasgomentosi fermò su due piedi.

"Dio Dio Diodon Emanuele!"diss'ella. Pazienza rinunciare a Castellettopazienza il mucchio dibugie; ma le scenate che potevano succedere! Delle relazioni fra laGorlago e il sior Momi ell'aveva un'idea vaga. Si era proibito dipensarviper uno scrupolo di coscienza. Ora che don Emanuele leaveva aperto gli occhil'aspettazione d'incontrarsi con quella donnale dava brividi di orrore. In astratto le peccatrici le ispiravanopietàin concreto le ispiravano ribrezzo. Se ne avessetrovato alla sua porta una moribonda di freddo e di famel'avrebbelasciata fuoriper pentirsene solo quando la disgraziata fossemorta. Domandò a don Emanuele se proprio volesse da lei unacosa simile. Egli rispose senza parolecon un piegar del capo e uncongiungere pio delle maniche parvero ossequio alla VolontàSuperiore cui erano tenuti ambedue di obbedire: prima egli e poi lasiora Bettina.

"Dica che sono ignorantedonEmanuele! Dica che sono stupida!" La siora Bettina non osòprocedere oltre questo esordio pateticoconfessare che non capiva ilperché di una tale macchinazione. Don Emanuele intese ma nonrispose. Vi erano nel suo disegno certi imponderabili che nonpativano la veste greve della parola. Se lo avesse espostoloavrebbe guastato agli occhi suoi propri. La sua fede eranell'imponderabilenella impressione che avrebbe fatto allasignorina Lelia un contatto schifoso e tale da lordare schifosamentetutto il suo ambiente. S'ella si rifugiasse nel Signorein talicircostanzene seguirebbe una conseguenza ponderabile: le ricchezzedi casa Trento non andrebbero ad alimentare i vizi del padre. Ilpovero sior Momi venne così segretamente buttato a maredall'alleato cappellanoil quale teneva però conto di unaltro imponderabiledella speranza che lo scandalo di Padovagiovasse all'anima sua.

Invece di rispondere alla tacitadomanda della siora Bettinaegli le chiese soavemente se intendesseritornare a casa rifacendo la via percorsa o proseguendo per Lago eSant'Ubaldo.

"Io reciterò l'ufficio"diss'eglicavando il breviario.

La siora Bettina sapeva che donEmanuele evitava sempre di mostrarsi alla gente in compagnia didonne. Scelse il giro di Lago e Sant'Ubaldo per timore di un incontrocon Lelia reduce dal villino. Posto l'ordine di parlare prima colsior Momiquell'incontro l'avrebbe imbarazzata.

Il cappellano aveva pensato ch'ellafosse per scegliere l'altra viapiù breve. Siccome neppure alui garbava d'incontrare Lelianon gli restò altro partitoche fermarsiaprire il breviario e dire:

"Allora..."

E alla siora Bettinaper quantodesiderasse supplicare ancora che le fosse risparmiato quel talecalicenon restò altro partito che mormorare malinconicamente"serva sua" e allontanarsi verso Lago.

Don Emanuele non si mosse prima ch'ellafosse uscita della sua vista.

Quindi si avviò pian piano.Giunto nella lettura alla prima fermata lecitachiuse e rintascòil libro. Era sbucato allora allora dai casolari di Lago sulla viache gira in basso il liscio cumulo verde coronato in punta dallachiesina bianca di Sant'Ubaldo. Pensò don Aurelio e la propriasegreta potenza. Era egli che aveva riferito a Romaquasi giorno pergiornofattidetti e omissioni del prete sospettotutto colorendoin modo da corrispondere non alla realtà grossasuperficialema bensì alla realtà recondita da lui divinatacol suozelo per la Chiesanelle intenzioni del poco degno sacerdote.

Così era opera sua il prossimovescovado dell'arciprete. Era egli che aveva informato lo zioCardinale sul conto di don Titache ne aveva fatto conoscerel'intemerato carattere sacerdotalel'avversione ai novatorilabonarietà scherzosa e la piacevolezza che potevano facilmenterenderlo popolare. L'idea di riuscire ora nella conquista sul mondoper il chiostrodi un'anima preziosa in pericologli faceva correreformicoliispume di letizia nel sangue. Invece di erigere al ventola testa contento del proprio valorel'abbassò idealmentedavanti a Diocome buon cameriere che il padrone copra di stupefattelodi per qualche miracoloso servigio. Poifacendosi tutt'uno colPadronecomponendosi nel cuore una verità divina asantificazione di ogni altro sentimentotrionfò dolcemente didonna Fedelesi appropriòin certo modoil decretoprovvidenziale che la colpiva d'infermità grave perchéle fosse più difficile di porre ostacolo ai disegni di luiperché riconoscessenel soffrirele proprie colpe. La viach'egli facevacosì pensandoera stata il passeggioquotidiano di don Aurelio. Tutte le innocenti anime delle erbedellevitidegli alberi si aprivano all'anima pura e umile di lui che visentiva Iddio presente nella sua sapienza e nel suo amorevi sentivafrancescane dolcezze di fraternitàsi confondeva con quelleanime in una sola muta adorazione di servo inutile. Il povero donEmanuelebenché si credesse onorare debitamente SanFrancescopassava in mezzo al pio verde senz'alcun sentimentofrancescanosenza dolcezze mistichesenza degnare di uno sguardo néfiori né foglie.

Non sentiva luce divina che nelletenebre delle proprie architetture di bugie e di male arti inservizio di Dio. Davanti a lui tutte le innocenti anime delle erbedelle vitidegli alberi si chiudevano.

Egli andava per mezzo ad esse come unosterpo mortocacciato dal ventoancora potente a trasmutarsi inerbain vitein alberoma solo passando per la fiamma omeglioancoraper la putredine.


3.


Il sior Momiquando Giovanni gliannunziò la siora Bettinastava scrivendo alla Gorlago dallaquale si era separato in burrasca per le gelosie di lei a propositodi Teresina. La chiamava il suo "bòcolo" la sua"còcola" la sua "matona" la sua"morbinosa" e anchescherzandola sua "sorzona".Le diceva che la famosa Teresina gli aveva lasciato la stanza indisordine e non gli si era ancora fatta vedereche in quel paesedella noiasenza la sua Momasi sentiva morire. La siora Bettinaentrò dietro il domestico che la stava annunciando; per cui ilsior Momi ebbe appena il tempo di voltare il foglietto nascondendo laMoma e mostrando il candore di una pagina immacolata. Scattòin piedidesolato per l'anarchia deplorevole dei propri indumentisi profuse in deprecazioni alla visitatricein rimproveri aldomestico. "Per carità! Per carità! Ma Giovanni!Giovanni! In sta figura! In sta figura!" Non avendo népanciotto né cravattasi abbottonò in fretta lapalandranane rialzò il bavero. La siora Bettinaal primovederlo così scollato e con una gran cascata di camicia invistaera rimasta assai male; ma poiché il bavero el'abbottonatura ebbero dato al sior Momi l'aspetto di una figurasimbolica del Pudore modernola buona donna tornòsufficientemente in paceconfessò che la colpa era suacheaveva seguito il domestico perchédovendo parlare al siorMomi da sola a solodesiderava esserne ricevuta nello studio.

"Ben ben bensissignorasissignora sissignora" fece il sior Momi.

Le disposizioni della siora Bettinaverso di lui si erano alquanto modificate dopo l'ultimo colloquio condon Emanuele. Era venuta per obbedire a quest'ultimonon senzaribrezzo dell'uomo dal segreto pasticcio. Ella tutta raccolta estretta nel mantelletto neroegli abbottonato fino alla goladifesoil volto dalle due punte protese del baverosi stavano a fronte comedue verecondie verginali in mutuo sospetto e in difesa.

Cominciò la Fantuzzo a diretimidamente ch'era venuta per chiedere un gran favore. Il sior Momibatté molto le palpebrenon sapendo quale seccatura potessevenir fuori.

"Quel che posso" diss'eglisenza molto zelo "quel che posso."

La siora Bettina fece uno sforzo diamabilitàsorrisedisse che desiderava da tempoper tantecosecerto viaggettoche il momento di farlo sarebbe proprio quelloper alcune ragioni che riguardavano suo cognato arcipretema chec'era un ostacolo. Ammutolìsorridendo con intenzione piùvisibile fissando il sior Momi.

"Schei?" pensò costui.Soldi? E diventò rosso.

"Son sola" ripigliò lasiora Bettina. "La capisseo Dioviagiar sola!"

"Ocio che vegno!" pensòil sarcastico sior Momi balenandogli ch'ella fosse per chiedergli diaccompagnarla.

"Me rincresse" diss'egli"ma..." E restò a bocca aperta con una faccia tantoeloquente che la siora Bettina capìsi rannicchiòconpudico sgomentoin se stessasi tirò sul viso inorridito ilmanico dell'ombrellino. La supposizione trasparente dal visogiallo-rossiccio era tanto enormetanto sconciach'ella non avrebbesaputo protestare contro di essacome non avrebbe saputo proferireuna parola poco pulita.

"Spero" diss'ella "nellasignorina Lelia. Sono venuta per domandarle il permesso di avere conme la signorina Leliase sarà contenta." E ripensando lafaccia eloquente del sior Momirifececon qualche lievemitigazionela mimica dell'allarme pudibondo. Il sior Momiconfortatosi ripigliò il suo "me rincresse" e loadattònon troppo felicementealle nuove circostanze.

"Me rincresse che no so se lavorrà vegner." Si fece indicare la meta e l'itinerariodel viaggetto. Fu molto contento di Monte Berico.

Ricordò che anni addietro vi siera recato in pellegrinaggioin qualità di socio di unCircolo. Non raccontò che era con lui un suo socio di altriaffariuso coprirli egli pure del manto clericale ed espulso eglipure da quel Circolo quando il manto era diventato troppo scarso. Nonraccontò che un talevedendoli passare sull'ertaaveva dettoal suo vicino: "Védela quel pelegrin là? Quelo xeuna droga!"che allora l'amico aveva mormorato "te si ti"e lui ribattuto "no ciòte si ti"che avevanocontinuato "ti ti ti" l'uno"ti ti ti"

l'altrofino alla metà deiportici. Di Castelletto il sior Momi neppure conosceva l'esistenza.Udito della Sacra Famiglianotato l'imbarazzo della siora Bettinache per verità non aveva pratica d'infinocchiar la gente eneppure ci aveva gustointerpretò le sue titubanze come unindizio che il viaggio era coordinato ai pii disegni comunicatiglidall'amico Molesin. Presa l'aria sua più cretinasi gorgogliòun risolino in gola "bona ocasionbona ocasionaho aho"

col proposito che il risolino e leparole potessero tirarsi a qualunque senso; di favoredi scherzososcetticismod'ironia.

Domandò se Lelia sapesse. Lasignorina Lelia non sapeva. Se il sior Momi fosse disposto dipermettere... Qui il sior Momi piegò il capo in avantisibilando un lungo "sss!" un estratto di "sì"concentrato nell'ossequio. Poiché il sior Momi permettevasarebbe stato bene d'interrogare subito la signorina. Anchel'arciprete desiderava che la signorina approfittasse di questaoccasione per andare al Santuario di Monte Berico. Avrebbe piacereche la signorina si decidesse prestoche non si consultasse concerte persone pericolose. "Eh rason po!"

fece il sior Momi. "Rasonrason."

Dato cosìellitticamenteragione all'arciprete e anche alla siora Bettina contro le personepericoloseil sior Momi suonò il campanelloordinò aGiovanni di accompagnare la visitatrice al salone e di avvertire lasignorina.

"La fazza Ela" diss'eglicongedando la siora Bettina. "Tuto ben fatotuto ben fato."

Rimasto solosuonò perTeresina. A Teresina il padrone metteva nausea ogni giorno più.La Gorlagocerti atti licenziosi ch'egli si era permesso daprincipio con lei malgrado l'età piuttosto matura dellacamerieraquel contemporaneo consumo di ginocchi e di acqua santale continue spilorceriela sporcizia della persona gliel'avevanoreso odioso. Egli poisaggiate ripetutamente le ribellioni sdegnosedi lei ai suoi istinti lasciviaveva cambiato stradaera diventatomellifluorispettosomostrava di tenerla in gran conto. E poichési era presto accorto della sua devozione a Leliale parlava come aun grammofono di Lelia.

Ora le confidò la proposta dellasiora Bettina. Le disse che per parte sua non aveva fatto difficoltàperché non intendeva imporsi in alcun modo a sua figliamache temeva si tendesse a mettere la ragazza sopra una via che a luinon piaceva niente affatto. Il suo desiderio era di trovare a Leliaun buon marito. Gli avrebbe consegnata la sostanzasarebbe ritornatoa Padovaalle sue vecchie abitudini. Gli occorreva di conoscere leinclinazioni della ragazza. Buona personala Fantuzzo. Santapersonal'arciprete. Se Lelia fosse veramente chiamata a diventarsanta anche leioh Diosi dovrebbe piegarsi alla volontà delSignore; ma se invece fosse chiamata a restar nel mondoil suodovere paterno sarebbe di vegliare su questi pellegrinaggi e questevisite a monache.

"Me capissela?" conchiuse ilsior Momi. Egli aveva molto battute le palpebre durante la suaorazione artificiosama senza prendere l'aria cretina che prendevaparlando cogli eguali.

"Senta" disse Teresina"Ellapuò permettere alla signorina Lelia di andarne a visitareanche cento dei conventi di monache. Non gh'è pericol no. E seandrà a fare le sue devozioni a Monte Bericosarà unabella cosa."

"Ah benpo!" esclamòstupefatta nell'apprendere più tardiche Lelia avevaaccettato di partire fra due giornicolla siora Bettinaper MonteBerico e Castelletto. Anche il sior Momi parve sorpreso. Mandòall'arcipreteal cappellano e alla Fantuzzo un invito a pranzo perl'indomani. La seraprima di ritirarsipregò Leliatimidamenterispettosamentedi trattenersi un poco a parlare conlui. Le parlò sottovocele fece intendere con qualche toccoserio e qualche "aho aho" mescolati alla rinfusa che forsei preti di Velo e la Fantuzzo avevano certi disegni sopra di leich'egli si credeva in dovere di avvertirnela perché stesse inguardia. Soggiunse molto gravemente che di quei disegni egli non erapersuaso per nullache gli sarebbe stato doloroso di vederla piegarea quelle suggestioni. Lelia lo ascoltògelida.

"C'è altro?" diss'ellaquand'egli ebbe finito. "Grazie." E se ne andò.


4.


L'arcipreterichiamato a Vicenza dalVescovo per la comunicazione ufficiale della sua nominanon potévenire al pranzo del sior Momi.

Vennero il cappellano e la sioraBettina. Questache precedeva l'altro di cento passisi fermòalla scalinata della chiesina. Allora il cappellano si fermòpure. La siora Bettina si voltò a guardarloarrischiòuna mimica ch'egli non compresesi decisecon sorpresa e corrucciodi luiad andargli incontro. Era venuto in menteproprio alloraalla povera donnache lo scopo preciso del pellegrinaggio a MonteBerico non fosse stato da lei ben fatto capire a Lelia. Ella le avevaparlato di un Padre Servitatanto bravo confessorema la ragazzanon aveva detto parola dalla quale si potesse arguire che fossedisposta a confessarsi. Non si poteva aspettare a riparlargliened'indomani mattinain viaggio. Come fare? Ella doveva pureconsultare l'oracolo.

"Vada vada!" risposel'oracolo. "Non pensinon pensi!"

Ella ritornò sui propri passiun po' mogiaun po' contrita. Nel portichetto della chiesa incontròTeresina che ve la trattenne con un pretesto fino a che sopraggiunsee passòduro duroil cappellano.

Quand'egli si fu allontanato alquantola camerierache aveva un peso sul cuoresi sfogò. Dov'eraquesto Castelletto? Quanto lontano ?

Quanti giorni intendeva la sioraBettina di trattenersi colà? La Fantuzzo arrossì fortee risposequasi balbettandoche vi avrebbero fatto semplicementeuna visita. Ella si vidementre rispondeva cosìnelSantuario di Monte Bericoinginocchiata al confessionale. Era daconfessarela bugia impostaleo da non confessare? Assorta inquesto dubbionon udì le prime parole di Teresinacheancora più turbatadiceva di non sapersi raccapezzare perchéla signorina parlavasìdi ritorno prossimoma le facevamettere nella valigia tanta biancheria e anche libri di pietàimmagini sacre ch'erano in casacose che le erano sempre stateindifferenti. Essa le pareva aver persino cambiato fisonomia daquando si era deciso questo viaggio. Si era procurato un orario delleferrovie e non faceva che studiarlo. Quella stessa mattinamentrecoll'orario in manosi faceva pettinareaveva esclamatoall'improvviso: "Teresina! Se mi tagliassero i capellineavrebbe dispiacere?". Teresina le aveva risposto: "Sifiguri! Ma cosa si sogna che Le taglino i capelli?" - "Ehsa benequalche volta li tagliano per rubarli." - E poco dopo:"Teresina! Le è mai venuto in mentea Leidi farsimonaca?". "Capisce!" conchiuse la cameriera.

"Questo è un riscaldo ditestauna febbre. Per amore del cielonon s'illudanonon credanoche abbia la vocazione! Non l'hanon l'hanon l'ha!"

Gesummaria! pensò la Fantuzzosenza tener conto affatto degli scetticismi di Teresina. E non si vapiù a Castelletto! E don Emanuele non sa niente! Non potétrattenere un gemito: "Ohi ohi ohi ohi!". Le gambe lemancarono sottodovette sedersi sopra un trave posto lì perpanca. "Ohi ohi ohi ohi!" Teresina non poteva comprendereil senso reale di questi ohi.

"Niente" diss'ella. "Bastache Lei stia ferma di ricondurla a casa!"

"Eh sì" ripeteva lasiora Bettina. "Eh sì." E ricominciava: "Ohiohi ohi". Finalmente si alzò e si avviò sullasalita. Lelia le venne incontro per domandarlein gran premuraseavesse scritto alle monache di Castelletto per annunciare il loroarrivo. La povera siora Bettina aveva tanto smarrita la testaeratanto presa dalla infezione delle prime bugieche ne mise fuoriun'altra senza necessitàrispose di sì. Avrebbe volutodisdirsi immediatamentenon n'ebbe la forzanon sapeva piùin che mondo si fosse.

A pranzo non aperse quasi bocca néper parlare né per mangiaremalgrado i rispettosiincoraggiamenti del sior Momi e quelli chiassosi del nuovo curato diLagoun giovine prete grasso e rubicondopieno di buon umoredibarzellette che non tutte piacevanoper buone ragioni di serietàe di decoroa don Emanuele. La conversazione si aperse e si mantennea lungo sui meriti di Sua Eccellenza don Tita la cui elezione aVescovo era oramai conosciuta dal pubblico. Don Emanueleche siteneva certo di essere il futuro segretario di S. E.

e poi invece fu piantato in asso dallafurba Eccellenza che lo lusingava pur non vedendo l'ora disbarazzarsenefece con untuosa solennità il panegirico delnuovo Vescovoda lui stimatonel cuoreun dappocoun Superiore damenare facilmente per il naso. Invece il proprio suo naso si trovavaspesso in mano di S. E. Non lo lodò per le virtù chepossedevaper la purezza della vitala solidità della fedel'abbondanza delle elemosinema proprio per quelle che nonpossedevaper la dottrina e l'eloquenza. La siora Bettina loguardava con occhi tristiinquietiche dicevano: "Vorreiparlarle". Don Emanuele credette leggervi un ritorno agliangustiati dubbi espressigli prima di entrare nella villa e non se necurò.

Il sior Momiinterrogata Lelia con unosguardo umileinvitò gli ospiti a prendere il caffèsulla spianata davanti alla villa. La siora Bettina mandava sempreocchiate supplichevoli a don Emanuele. Seccato di tanta insistenza esicuro di conoscerne la ragioneegli chiese a Lelia di poteradempiere un incarico affidatogli per lei da Sua Eccellenza. Le feceintendere che desiderava parlarle un poco in disparte. Non siallontanò però tanto da non poter essere udito dallaFantuzzo mentre consegnavacon acconce parolealla fanciullaunrosario benedetto perché lo tenesse nell'accostarsil'indomani mattinaai Sacramenti. Lelia disse "grazie" eprese il rosario.

Spinta dallo stesso sior Momilaconversazione volse alle monache di Castelletto. Il sior Mominavigando con arte fra la figliuola Scilla e i preti Cariddisidisse molto lieto che la sua Lelia andasse a visitarle. Il pretefacetoche stimava poco le monache e non conosceva questebrontolò:"Le sarà muneghe anca ele. Tute compagne!". DonEmanuele gli diede sulla voce. Il sior Momi approvòmodestamente la censuraevolto alla figliuolatirò incampocoll'usato laconismo cretinol'antica parente tanto esaltatada Molesin. "La ziaciò! La zia munega!" Il pretefacetoche sapeva qualche cosa dell'intimo sior Momisi esclamòin cuore: "Fiol de na pipa!"ma colle labbra sostenne cheaveva inteso dire "tutte buonetutte sante". Don Emanueleche aveva udito egli pure dal dottor Molesin le lodi della "ziamunega" felicitò il sior Momi per la memoria che neserbava. "Vede" diss'egli "quale benedizione in unafamigliala memoria di una tale parente!" come l'ala di unangelo distesa sopra i familiari!" Il sior Momi si compose ilvisosotto l'ala idealea modestia.


Don Emanuele non ritornò a Velocolla siora Bettinapreferì fare il giro di Lago col nuovocurato. Ma essa lo aspettò di piè fermo sulla portadella canonica col cuore grosso del discorso di Teresina. Lo versòaffannosasulla impassibile compunzione del cappellano e parve chene fluisse via come acqua sul marmo.

"E' tanto più necessarioandare prima a Padova" disse egli. "Poi si regoli. Se vedràla ragazza volonterosa di andare a Castellettoda Padova vada aCastelletto."

Il dialogo fu interrotto e chiuso dalsuono festoso delle campane che annunciavano il ritorno di SuaEccellenza e chiamavano il popolo a incontrarlo alla stazione diSeghe.


5.


Salita nella sua cameraLelia scrisseuna brevissima lettera a donna Fedelela pose nella sua piccolaborsa di rete d argento. Aperse la valigia preparata la mattinacoll'aiuto della camerierane tolse i libri ascetici e le immaginisacre che chiuse in un cassetto della scrivaniavi pose una partedei rododendriil caro fascicolo di Schumann. Tratta una poltronadavanti all'armadio a specchiovi si gittò a sedere si guardònelle profondità scure del cristallomale illuminate dallalontana lampadina elettrica.

Un piccolo colpo all'uscio; Leliascatta in piedi. E' papà che domanda di entrareapre l'uscioa mezzoporgeallungando il collola testa.

"Bezzi? Te occorre bezzi? Novero? Le hai quelle cinquecento lire?"

Ella fu per rispondere che ne avevaspese o perdute una parteper chiedere altro denaro. Le ne corse nelsangue un brivido di ribrezzo.

Una goccia del sangue paterno l'avevanelle vene; dueno. Rispose che non le occorreva nulla. Il sior Momiritirò il capo ma poi lo rificcò dentrodissesottovoce:

"Non le porterai mica via tutte?Vuoi lasciarmene in custodia? Ben benno no no!" Vista lafaccia della figliuola ripiegò nelle tenebre esteriori echiuso l'usciosoffiò dal corridoio:

"Del resto ci vediamodomanimattina!"

E per Lelia incominciò ilsilenzio. Si spogliò pian pianopalpitandotremando. A untrattomezzo vestitasentendosi mancare il respirosedette sullettoabbandonò per un momentoa fiore della volontài suoi disegni segreti. Fu un attimo di debolezzacheavvertitosubitola fece sobbalzare come un colpo di frusta. No nonessunaviltà! Ell'andrebbe a lui come una schiavacome una cosa suasenza pensare all'indomanisenza pensare ad altro che ad essereschiava e cosa da gittare o da prendere. Spogliatasi rapidamenteSicoricòspense la luce.

Febbrili fantasmi della immaginata fugal'agitavanola torturavano.

Si trasse giù a due mani irododendri che le pendevano sul guancialedomandò loro ifantasmi dell'amore per cacciare gli altri.




Capitolo Decimoquinto


"OMI POVR'OM!"


1.


L'indomani mattina alle cinque e mezzomezz'ora prima della partenza del trenoLelia era già sulpiazzaletto della stazione di Arsiero con Teresina e Giovanni cheaveva portata la valigia. Si sentiva osservata dalla cameriera e laprese a partele disse di sorvegliare Giovanni e la cuoca chesecondo leise la intendevano. Quindi le diede disposizioni minuteper il giorno in cui sarebbe ritornata. Disse che avrebbe mandato untelegramma. Voleva il bagno pronto e molti fiori in camera. Teresinane fu confortata.

Intanto arrivò la Fantuzzo collaservatrafelataperché temeva di essere in ritardo. Subitodopo le due signoresalirono nel treno un ufficiale del genio e unufficiale degli alpini La siora Bettina sedette in faccia a Lelialeposò accanto la propria valigettaperché a nessuno deidue esseri terribili venisse l'idea di occupare quel posto. Appena iltreno si mossecominciò a dire il rosario.

Lelia calò il vetro delfinestrinosi affacciò a guardareaspettando che passasse ilvillino delle Rose. Passò. Tutte le imposte erano chiusetranne quella della camera di donna Fedele. La fanciulla cessòdi guardare dal finestrinosimulò di voler dormire. Poco dopola stazione di Seghe; la siora Bettina le toccò leggermente unginocchio.

Aperse gli occhi. Passava San Giorgiocol suo cimiteroil riposo del povero signor Marcello. Ella guardòguardònon udì cosa volesse da lei la sua compagna.Voleva pregarla di non dormiredi tenersi pronta per il prossimotrasbordo. I trasbordi erano un incubo per la povera donna. Leliasorriserispose che c'era tempochiuse gli occhi daccapo. Dopo dueminutialtre chiamate. La compagnaturbatissimanon si trovava piùil biglietto. Ella cercòpiù tardidi tirar latendinanon vi riuscìsubì con terrore l'aiuto di unufficiale.

Fatto il trasbordotremò diavere dimenticato un ombrellino ch'era stato invece raccolto daLelia. A Dueville salirono nel treno due individui maleducati che simisero a discorrere di preti e di Perpetue in un modo detestabile. Igrani del rosario le ripresero a scivolare fra le ditale labbra leripreseroconvulsea battere e ribattere.

Finalmente il treno entrò nellastazione di Vicenza e la siora Bettina ne discesemolle del sudoredi tante diverse angosciebeata come se prendesse terra dopo giornidi mare burrascoso.

Consegnati i loro bagagli al depositole due signore si fecero portare al Santuario in carrozzella. Nonerano ancora le otto e il programma era di partire per Verona eDesenzano verso le undici. Nel Santuario la Fantuzzo domandòdel Padre che conosceva. "Se permette"

disse a Lelia"mi confesso primaio." Lelia non rispose. Quando il Padre venne e si chiuse nelconfessionale per confessare la siora BettinaLelia si avvicinòa un altro confessionalepiù vicino alla sagrestianellaparte più oscura del tempiodove la Fantuzzo difficilmenteavrebbe potuto vederla. Anche quel confessionale era occupato. Pochiminuti dopola contadina che vi stavas'alzò. Il Padre uscìsi guardò attornoguardò Leliala sola personavicinaepoiché non dava segno di volersi confessarese neandò in sagrestia. Anche la siora Bettina si alzò e siguardò attorno inquieta. Allora Lelia uscì dell'ombraandò a dirle che si era già confessata. Uscì unamessa all'altar maggiore. Al "Domine non sum dignus" lasiora Bettina si alzò dalla sedia per accostarsi allabalaustrataaspettò un momento che Lelia facesse altrettanto.Vide che non si movevanon osò parlareandò allabalaustrata per ricevere la Comunione.

Uscendo dal pio raccoglimentopensòche Leliaprima di lasciare la Montaninaavesse rottoperdistrazioneil digiuno. Era però anche possibile che laragazza non fosse stata sufficientemente dispostain quel momentoeaspettasse un'altra messa. L'orologio del campanile suonò lenove. C'era tempo. Un sacerdote in cotta e stola salìall'altar maggiorealcuni fedeli si accostarono alla balaustrata.

Lelia non si mosse. Quando il sacerdoterientrò in sagrestiala siora Bettina raccolse tutto il suocoraggio che le bastò per la metà di una domanda:

"ElabenedetaLa scusano La gaintenzion...?"

Lelia non durò fatica aindovinare l'altra metà.

"Aspetto di farlo domani aCastelletto" diss'ella.

La Fantuzzo stette un altro quartod'ora in preghiera e vi sarebbe stata più a lungopovera ebuona creaturase Leliainvece di attendere un cenno di leinon sifosse alzata in piedimostrando chiaro di averne abbastanza.

Discesero a piedi. La siora Bettina nonaperse bocca per un gran pezzo. La bugia le era dura a metter fuori.Finalmentesul ponte del Campomarzoil consiglio frodolenteprevalse alla natura buona.

"Signorina" diss'ellatremando"non mi sento tanto bene. Se facessimo un piccolocambiamento? Se invece di andare a Castellettosi andasse solamentea Padovaora? Se si facesse una visita al Santo?

Se più tardi mi sentissi meglionon si potrebbe arrivare ancora questa sera a Castelletto?"

Leliasorpresaesitò arispondere. Poi prese tempo. Avrebbe consultato l'orario. Studiòsilenziosamente l'orario al caffè della stazione. Trovòe gliene lucevano gli occhi di contentezzache partendo da Padovaalle quattordici e cinquantadue era possibile di arrivare aCastelletto alle diciannove e cinquantacinque. Erano allora le diecie mezzo. Il treno per Padova partiva alle undici e otto minuti. Ilcameriere del caffè portò i due caffè e latteordinati.

Lelia prese il suolasciòpassare altri cinque minuti e poi disse che usciva per mettere unalettera nella cassetta postale e per comperare delle cartolineillustrate. Offerse anche di prendere i due biglietti per Padova. Lasiora Bettina accettò e voleva darle subito il danaro.

"Faremo i conti dopo" disseLeliaalzandosi. E soggiunsenell'avviarsi:

"Seconda classe?"

"Seconda seconda" risposepiano la Fantuzzo con blando umile sorriso.

Quella uscì. Dopo dieci minutiLelia non era ancora ritornata.

Qualcuno gridò nel caffè:

"VeronaBresciaMilano!"

La siora' Bettina mostrò tantainquietudine che il cameriere del caffèpreso il vassoio estrofinato il tavolinole domandò se dovesse partire.

"Sicuro!"

"Per dovesignora?"

"Per Padova."

"Oh per Padova c'è tempo.Altri venti minutisignora."

I minuti passavano e Lelia nonritornava. La siora Bettinanon potendo più stare alle mossene andò in cerca. Nell'atrio della stazioneattiguo al caffènon c'era. Le parve intravvederla fra la gente che faceva ressa aglisportelli dei biglietti. Non era lei. Vide e riconobbe il facchinoche aveva portato i loro bagagli al deposito.

Gli domandò se avesse veduta lasua compagna. Il facchino rispose di sì. Anzi le aveva portatoegli il bagaglio al treno e l'aveva collocata bene.

"Ma no!" replicò laFantuzzoimpaziente. "La mia compagna non è micapartitaè qui!"

Il facchino insistette:

"No signora. Le dico ch'èpartita. Cinque minuti facol treno di Milano."

Perché la siora Bettinaprotestava ch'egli era in errorele domandòalquantorisentitose la sua compagna non avesse una spolverina cenere conbottoni blugrandiun cappello blu con un velo ceneredei guanticenereun ombrellino blu col manico d'oro. Sìaveva tuttoquesto. Ebbenela signora era uscita dal caffèaveva messouna lettera nella cassetta postaleera andata con lui a ritirare ilsuo bagaglio dal depositoaveva preso il bigliettosi era fattaportare il bagaglio nella terza classe benché avesse unbiglietto di prima eappena arrivato il diretto da Padovaavevapresa la corsav'era saltata dentro come un gatto. Il facchino leaveva chiesto nella sala d'aspetto se l'altra signora non viaggiassecon lei. La risposta era stata che l'altra signora andava a Padova.

La disgraziata siora Bettina sentìche le venivano meno la vista e le gambe. Se il facchino non l'avessesostenutacadeva. Subito le furono attorno quattro o cinque personela portaronopiù che non l'accompagnasseroal caffèvolevano farle inghiottire del marsala ch'ella rifiutò contutta la poca energia di cui era ancora capace.

Uno zelante le spruzzòdell'acqua in viso "No noel capelo!" gemette l'infelicetemendo che le annaffiassero il cappello: una rovina!

Visto che i guai non erano tropposeriirestarono con lei soltanto la giornalaia della stazione e ilcameriere del caffè. "Gnente gnente"

ripeteva la giornalaiaa caso. "Lavedaràsignorala vedaràsignora."

"Oh Dio" gemette la sioraBettina quando si fu alquanto ricuperata.

"Quela xe andà in conventoquela xe andà in convento. E mi che son qua sola!"

Parve alla giornalaia che il suosgomento di trovarsi sola superasse il dolore della fuga diquell'altra. Le domandò se quell'altra fosse sua figlia."Gesummaria no" rispose la derelitta. Si alzò astento dicendo che voleva ritornare ad Arsiero subito subito. Ilcameriere corse fuori e ritornò colla notizia che il treno diArsiero era partito da cinque minuti. Intanto capitò nel caffèun applicato di P.

S. e si avvicinò alla Fantuzzoper chiederle informazioni di questa fuga di cui tuttinellastazioneparlavano. La Fantuzzo si confuse come se avesse a fronteil ministro dell'Interno. Allora l'applicatoper usarle cortesialedomandò se supponesse quale direzione avesse preso la suacompagna e se desiderasse venirne in chiaro. La siora Bettina risposeche la credeva diretta a Desenzano. L'applicato andò ainformarsi. Riferì che nessun biglietto era stato preso perDesenzano.


2.


La lettera di Leliaimbucata nellacassetta postale della stazione di Vicenzaarrivò a donnaFedele verso le sette di sera. Donna Fedelevolendo risparmiare leproprie forze per il viaggio di Torinonon si era mossa in tutto ilgiorno dalla poltrona. Soffrivama in pace. - Si credeva prossimaalla fine. Aveva risoluto di farsi operare perchégiunte lecose a quel puntodubitava di esservi obbligata in coscienza e ilsolo dubbio era bastato a deciderla. Prevedeva che l'operazionefatta da Carleriuscirebbe e che poimolto presto verrebbe la fine.Si sentiva troppo disfatta per poter vivere ancora dei mesi. Eracontenta di soffriredi espiare così molti peccati dipensiero della sua giovinezza: peccati di amorepeccati di orgoglionativissuti e morti nel fondo della sua mentesussurratinell'ombra del confessionalenon interamente detersi dall'animaafflitta. Era contenta di soffrire e anche di sapere che presto nonavrebbe sofferto più. Aveva ricevutola mattinauna buonalettera di don Aurelio.

Egli le scriveva che si sarebbe recatoin Valsolda nella prossima occasione del trasporto della salma delpovero Piero Maironi da Roma a Oria. Era disposto di trattenersialcuni giorni presso Massimoconfidava di guarirlocoll'aiuto diDioda una depressione di spiritochegl'intorbidavaanchel'intelletto.Ell'aveva immediatamente rispostoal venerato amicoinformandolo dell'ultima lettera di Albertiparlandogli anche di Lelia chesecondo leiamava e lottavaperorgogliocontro l'amorecheprobabilmenteavrebbe finito colcedere alla passione. Pur troppo Lelia non avrebbe portato adAlberticoll'amoreun aiuto spirituale. Quanto a fedea sentimentoreligiosoquell'anima era fatta un deserto. Donna Fedele esprimevala convinzione che Iddio riserbasse a don Aurelio il compito diriedificarvi Cristo e la Chiesa.

Annunciava quindi il suo prossimoviaggio a Torinoevagamentelo scopo del viaggio. Avrebbetelegrafato l'ora del suo passaggio da Milanonella speranza disalutar l'amico alla stazione. Chiudeva la lettera celiando su certovecchio scialle ritinto che avrebbe portato in viaggiomalgrado ilcaldola povera vecchia cugina Eufemiasulle due viaggiatriciintontite come barbagianni al solecui gli sarebbe stato facile diriconoscere fra la gaia folla del Ristoratore.

Oraguardando dalla poltrona lescogliere grandi del Barcoancora calde del sole appena scomparsoella faceva la rassegna mentale degli oggetti che le ricordavanopersone careeventi memorabilie che desiderava di avere con séove le toccasse di morire a Torino. Tutto il resto del bagaglio eraaffidato alle cure della cugina Eufemia.

Appunto la cugina interruppe le suemeditazioni. Le portò la Posta e anche un piatto con seitrotelle dell'Asticoche l'ammalato di Seghe le aveva mandate inregalo. Donna Fedele invidiò il povero tisico che sarebbemorto nel suo paesenella sua casa. La cugina se ne andòcolle "povre bestie" e donna Fedele cominciò aleggere la sua corrispondenza. La prima lettera veniva dalMauriziano. Diceva che la camera era pronta e che il professorel'avrebbe visitata la mattina dopo il suo arrivo. La seconda era unalettera del suo agente di Torino che ripeteva le stesse cose echiedeva un telegramma al momento della partenza da Arsiero. La terzae ultima era quella di Lelia. A prima giunta donna Fedele nonriconobbe la calligrafia dell'indirizzo.

Aperse eprima di leggereguardòla firma Esclamò a voce alta: "Per la Posta?".

Spalancò gli occhi fin dalleprime righe. Procedendo nella lettura frenò a stento un'altraesclamazionesi drizzò sulla personarilesse.

"Oh Dio Dio!" diss'ella eaperse le mani. La lettera le cadde in grembo. Diceva:

"Cara amica"Sto per salirenel treno che da Vicenza mi porterà verso Dasio. Vado a dirgliche sono stata colpevole e folle; chese mi vuolesono sua persempre.

"Mio padre non sa e non devesapere che il più tardi possibile. Per riuscire nel miointento ho finto e mentito da figlia vera e legittima di lui.

"Mi perdoni. Quello che faccio èun atto di amoredi umiltà e di giustizia. Devo a Lei larisoluzione e la forza di compierlo. Non mi rimproverimi gettonelle Sue bracciami benedica.

LELIA.

Il giorno moriva e la cugina Eufemiaritornò per chiedere all'ammalata se desiderasse un lumesevolesse mettersi a letto. L'ammalata risposecolla solita dolcezzatranquilla che desiderava restar sola fino a che avesse suonato. Lavecchietta si ritirò. Ritornò dopo un'orainquieta dinon essere ancora stata richiamata. Spinse l'uscio pian pianospiò.Vide nel vano della finestranera sul cielo sereno di stellel'altafigura di sua cugina. Le parve che piegasse il visoin atto dipreghiera sulle mani giunte. Si ritiròinavvertita. Pochiminuti dopoecco il colpo di campanello. Entrò in camera conun lume.

Donna Fedeleadagiata sulla poltronale fece scrivere sotto la sua dettatura due telegrammi da spedirel'indomani mattina. Il primoa Massimo Albertidiceva: "Quelgiovine sia cristiano e gentiluomo". Il secondoal suo agentedi Torinodiceva: "Avverta Mauriziano cheper circostanzeimprevedutedifferisco".

"Oh mi povr'om!" esclamòla cugina Eufemiainvece di scrivere "differisco". Nonvoleva scriverlocome non avrebbe voluto scrivere una sentenza dimorte. Cosa era mai accaduto? Le circostanze imprevedute erano senzadubbio saltate fuori da quelle lettere. Per quali chiacchiere scrittesi doveva differire una cosa tanto necessariatanto urgente? DonnaFedele andò quasi in collera.

"Scrivi!" diss'ella. Lacugina gemette "o mi povra dona!" e scrisse.

Donna Fedeleaiutata da leisispogliò. Quando fu a lettosi fece portare l'orario delleferrovielo sfogliòlo meditò e finalmente dettòalla cugina un terzo telegrammadiretto a don Aurelio:

"Sarò Milano..."

"Là là!" fecela cugina Eufemiascrivendocontenta di apprendere che a ogni modosi partiva e si andava verso Santhià.

"Posdomanivuoi dire?"

"Nodomani."

"Domani?"

La cuginaesterrefattarimase a boccaaperta. Domani era venerdìDonna Fedele continuò adettare:

"... alle ventitré. Pregofissarmi due camere albergo Terminus. Scuse Saluti."

"Ma partire domani" esclamòl'Eufemia "è impossibile. Bisogna fare i bauli questanotte!"

"Non si parte mica domattina"rispose donna Fedele. "Si parte nel pomeriggio e non si portanobauli."

"Non si portano bauli?"

Donna Fedele rifletté alquanto.Sìla cugina poteva portare il suo baule. A lei bastavano unavaligia e una borsa. La cugina ammise checosì stando lecosesi poteva partire. Il baule suo era piccolo e mezzo. fattoDonna Fedele le raccomandò i telegrammi e la carrozza daordinare ad Arsiero per le due. Poi la congedò.

Rimasta solaliberò contenerezza le due lagrime più dolci della sua vitache nonaveva voluto mostrare alla cugina. Nella sua silenziosa meditazioneell'aveva pensato il sacrificio della propria vita; e stando allafinestranel cospetto delle stellelo aveva solennemente offerto aDio. Aveva offerto la propria vita perché due animeallontanatesi da Dio ritornassero a Luiperché la fanciullanella quale Marcello aveva religiosamente amata e onorata la memoriasacra del figliuolo mortouscisse incolume da un periglioso cimento.Era il pensiero di donarsi così che le aveva mosso lagrime ditenerezzache le spirava questa felicità. Non andrebbe aTorinorinuncerebbe all'operazioneche non l'avrebbe certamenteguarita. Raggiungerebbe invece la folle figliuola in Valsoldas'imporrebbe a lei in memoria di Marcellos'imporrebbe ad Alberti inmemoria di sua madre. Sulle prime aveva pensato di condurre con séin Valsolda la cugina Eufemia.

Ora era decisa di mandarla a Santhiàdi andar sola. Vedendomi arrivar solapensavada lontanoin questostatone avranno una impressione maggiore.

Si vide tutta davanti agli occhi lapropria vita. Le parve tanto vuotatanto scarsa di bene; stimòtanto dolce di poterla chiudere così. Supinagiunte le manisul povero corpo addolorato e anche deformatoringraziò Diodel dono di una tal fine. E sentì corrersi dentro un'onda diristorosorrisenelle tenebrea se stessasorrise anche alleimmaginate figure di suo padredi sua madredei nonni che l'avevanotanto amata da bambinache la guardavano contenti di leidel suosacrificio piocontenti di averla presto con sé.

Accese la luce tolse dal cassetto deltavolino da notte un libretto prezioso un diario scritto da suamadremorta a ventidue anninel metter lei al mondo. Ne lesse leultime parole:

"Benediteo mio Diol'angiolettoche aspettoperché sia sempre Vostro."

Chiuse il libriccinomormoròbeata: "Per sempreper sempre". Sìla sua mammadoveva essere contenta orain paradisodi lei. E la nonnalavecchia nonna che le insegnava a pregareche le raccontava tantebelle fiabe? Vi era nel libriccino un foglietto staccato di cartaroseauna preghiera scritta per Fedele dalla mano stanca della nonnacara morta da quarant'anni. Fedele la sapeva a memoria. Vollerivedere la scrittura della mano stanca:

"Gesùinfinitamente umiledistruggete la mia superbia e il mio amor proprio. Gloria al Padregloria al Figliogloria allo Spirito Santo.

Gesùmodello di dolcezzadatemi una perfetta dolcezzauna somma carità verso i mieiprossimi. Gloria al Padregloria al Figliogloria allo SpiritoSanto.

"Virtù a praticarsi:

"Silenzio in tutte lecontrarietà."

Sìnonna carasilenzio nellecontrarietà e silenzio anche nella consolazione. Fedele riposeil libriccinospense la lucesi fece silenzio nel cuore pieno diDio.


3.


La cameriera le portò il caffèalle settee le raccontò la fuga di Lelia. L'aveva appresadal custodecui era stata raccontatala serada un ferroviereall'osteria della stazione. Anche la donna venuta allora allora aportare il lattelo sapeva. Alle novementre la cugina Eufemia erainfervorata nei preparativi della partenzacapitò Teresinapiangente. Sperava che donna Fedele sapesse qualche cosa. La cuginaEufemiaconvinta che Fedele non sapesse niente e desiderosa che nonfosse disturbatacongedò Teresina con queste ragioni appuntonon senzaperòaverle chiesto cosa ne pensasse il padre.Teresina lo ignorava. Il sior Momi era partito per Vicenza coll'ideaparevadi rivolgersi alla questura. La Fantuzzo credeva che lasignorina fosse fuggita in un convento. Anche Teresina ne avevadubitatosulle primeper certe apparenzema poi si era messa intesta che la signorina avesse simulate quelle apparenzeche fosseandata "a precipitarsi".

Era stata un'altra volta sull'orlo delprecipizio! Partita Teresinala cugina Eufemia riferì le suesupposizioni a donna Fedele. Questa non disse parolascrisse aTeresina così:

"Cara Teresina"Mi duole nonaverla veduta. La sventura ch'ella teme non è da temere.

Ho in proposito una promessa solenne diLelia. Saluti affettuosi.

Sua F. V. di B."

Scrisse un altro biglietto perl'ammalato di Seghe da fargli avere con alcuni libri di lettura amenae con una sua fotografiapromessagli da tempo. Un terzo ne scrissealla scolaretta di franceseper annunciarle che le lezioni eranointerrotte e per darle un compitoquesto tema di composizione: "Lamort de la cigale".

Si sentiva relativamente bene.Comprendendo che il miglioramento le veniva dalla soddisfazionemoraletemette di compiacersi orgogliosamente del proprio sacrificiosi disse cheoffrendo la vitaoffriva realmente una cosa senzavaloreuna cosa che non le apparteneva quasi piùun lume inprocinto di spegnersi. Poco prima di lasciare il villino ebbe unmomento di debolezza. Seduta nella verandaindicava al custodearmato di forbiciuna dopo l'altrale poche rose che porgevanoancora qua e là dal verdemalinconicamentela loro bellezzanon ignara del tempo e del diradato riso. Voleva portarle con sé.Ad ogni cader di una rosa nel piccolo canestrolo spirito dolce etriste che le aveva mosso quel desiderio le entrava più e piùaddentro nell'anima. Era l'idea di un simile cadere imminente dellapropria giornata era pietà delle rose e di se stessaera laparvenza di un lutto delle piante amorosedel fido villinoilsapere ultimiper leiquei fioriche la inteneriva? Era tuttoquesto insieme? Era tutto ed era niente: ella stessa non l'avrebbesaputo dire. Il custode le posò davanti colmo il piccolocanestro.

"Ancora?" diss'egli. "No"rispose sommessa la voce d'oro "basta."

Colui si ritirò in silenziotriste anch'egli perché sapeva dell'operazionesapeva delpericolo e la signora era poco meno che la Madonna per luicome persua moglie. La presenza di quell'uomo aveva compresso un pocol'intenerimento mesto di lei. Solanel silenzioso soffio del ventodi mezzogiorno per le frondi delle rose e per il piazzaletto desertocedette alla dolcezza di una crescente marea di commozionesentìquasi scendendo in una sfera inferiore a quella dei suoi contatticoll'eternitàil tacito addio delle cose al suo cuoremortaleil tacito addio del suo cuore mortale alle cose. Nel bassola gran conca verde rideva inconsciadi là non veniva unaddio. Ma il Barco sapevail Summano sapevala Priaforàsapevale tre montagne guardavano Fedele come figure mute intorno aun letto guardano l'uomo cheguardando esse pure mutovi muore.Ella si accorse che stava per commuoversi tropponon volle. Lecomparve improvvisa la cugina Eufemiapronta per la partenzainfagottata in un suo famoso scialletinto e ritinto. L'ultima voltalo aveva fatto tingere da un "pitòr de Turin" comeaveva disgraziatamente detto a donna Fedele. Il colore cappuccinescotabaccosodell'indumento la diede in preda mansuetaper sempreaimotti di donna Fedele che anche ora ne fece strazioridendonervosamente. Contenta di vedere allegra l'ammalatala cuginaEufemia rise pure del proprio scialledel proprio povero vecchio sé.

Quando le viaggiatrici si mossero persalire in carrozzail vetturino e la cuoca discorrevano di Lelia. Lacuocamemore di quell'altro sinistro tentativo di fugasostenevache Lelia era fuggita per andarsi ad ammazzare chi sa dove. Per ilvetturinopiù filosofoera vangelo che se le ragazzescappano è per fare all'amore e non per ammazzarsi. Durante iltragitto dal villino alla stazionelo scialle tabaccoso non servivapiù a tenere aperta la vena scherzosa di donna Fedele. Legiovò invece lo scoperto trafugamento di una trotella fritta.La cugina Eufemiaconsiderando ch'era venerdìcheall'albergo di Milano non avrebbe forse potuto cenare di magro e chele trotelle dell'Astico sono squisitesi era fatta friggere dallacuocadi soppiattouna delle sei "povre bestie". Laimprudente cuoca si lasciò udire da donna Fedele a sussurrarepresso l'orecchio della cugina Eufemiaindicando un porta-ombrelli:"Quel cartoccio è lì dentro".

Donna Fedele afferrò le parole avolo e tormentò di domande strambe la povera Eufemia. Cosac'era nel cartoccio? Belletto? Un libro proibito?

Lettere amorose? La cugina ridevasicontorcevarispondeva: "A l'è niente! - a l'èniente! - a l'è niente! -" fino a cheinorridita dallesupposizioni atroci di donna Fedelesparò il gran colpo: "Mal'è na trüta!".

Allora fu peggio di prima. Nel passarepresso la chiesa del camposanto di Arsierodove donna Fedele avevafatto la comunione due giorni primae nella prossima discesa versola stazione in vista della Montanina candida come un dado di neve nelverde tenero fra i castagneti scurila voce scherzosa tacque.

Alla stazione la cugina Eufemia chiededove debba spedire il suo baule. "A Santhià" dicedonna Fedele. Ma come? Si va a Santhià? Noper quel giorno siva a Milano. Domani la cugina Eufemia andrà a casa e donnaFedele vedrà il da farsi. La cugina protesta. Donna Fedeleinsiste e vuole. Il bagaglio è spedito a Santhià.

Le viaggiatrici salgono. Passafrettolosa lungo il treno l'allampanata figura di don Emanuele. Egliva a prendere il bigliettoviene diritto alla carrozza dov'èdonna Fedelevede in tempo la cugina Eufemia e le volta le spalle aprecipizio. La cugina lo racconta a donna Fedele. Il treno parte.

Donna Fedele chiuse gli occhi come sevolesse riposarein fatto per non vedere il caro paese cheabbandonava senza speranza di ritorno. Si vide nelle palpebrel'allampanata figurail viso pallidogli occhi acquosi delcappellano. Si era confessata del male che aveva pensato e detto. Orasentì di non aver più la menoma ombra di rancore controquel povero uomo che si credeva servire Iddio per vie tortuoseconacri livori nell'animae non era senza scusa di conoscer male ilPadre e Cristodi non sapere quel che faceva. Anche per lui Gesùaveva chiesto sulla croce il perdono del Padre e il Padre nonpotrebbe lasciare inesaudita la preghiera del Figlio. Da questopensiero le si diffuse in cuore un senso ricreante di pace. Ma subitoil tenue malizioso spirito che aveva preso dimora in lei le sussurrò:"Pace pacema se fosse quivicino a tene proveresti un belfastidio".

Nel caffè della stazione diVicenzadove le viaggiatrici dovettero sostare due lunghe orel'inferma ebbe momenti di angoscia. Prima la vettura incomoda deltram a vapore poi i trasbordi l'avevano molto stancata. A un trattole corse un formicolio freddo per le spalle e il pettole si oscuròla vista. Prese un bicchierino di cognacsi riebbe. Ritornandole ilcalore e la vistasi atterrì di quel ch'era statotremòdi non arrivare viva. Non aveva consideratoprima di partire un talepericolo. Ora il pauroso dubbio le si confisse nel cuoree durantetutto il viaggiofino a Milanoil suo pensiero tornava sempre lìsempre lìcome il pensiero dell'uomo che ha una punta dispino in gola torna lìsempre lì anche se la suaragione gli dice che non corre alcun pericolo e che sarebbe megliopensare ad altro. Ella si crucciava sopra tutto per il viaggiodell'indomaninon sapendo se le convenisse affrettare la partenza daMilano per arrivare sicuramente alla meta o ritardarla e riposare perarrivarci in condizioni migliori. Passato Trevigliol'idea chepresto avrebbe riveduto don Aurelio la venne più e piùriconfortando. Averlo compagno di viaggio fino alla metaprontosempre ad assisterla spiritualmente con i suoi poteri sacerdotalisarebbe stato un paradisoper lei. Ma non sarebbe convenuto per unaltro verso. Per avere quelle due anime nelle sue mani era necessarioche la vedessero arrivare solettaquasi morente.


4.


Don Aurelio l'aspettava all'uscitadella stazione. Ella gli sorrise del suo sorriso dolcissimo. Quelsorriso gli accrebbe la pena del vederla mortalmente pallidasfigurataquasi anche nella persona.

Egli avrebbe desiderato accomiatarsisubito dopo averle detto che le camere erano pronteperchégli dispiaceva di rincasare troppo tardi.

Ella volle assolutamente ch'eglivenisse al Terminuslo trattenne nel salottino desertosemibuiodell'albergo. Gli raccontò tutto fuorché la gravitàdel proprio stato e la sentenza del medico. Perciò don Aureliopoté crederla in grado di proseguire il viaggio l'indomani. Leconsigliò la via di Porto Ceresio. Si dolse della follia diLelia; non era però inquieto circa la condotta che avrebbetenuto Massimo. Ella se ne meravigliò un poco. Passionesolitudineindebolimento di freni religiosituttosecondo leifavoriva gl'istinti. Ella conoscevasolo per esperienza internalapotenza della passione molto meglio che non la conoscesse ilpurissimo don Aurelio per le confessioni udite. Nel prender congedomalgrado le insistenze di leidon Aurelio le promise di ritornarel'indomani alle dieci. Ella intendeva partire per Porto Ceresio alleundici.

Passò una notte insonneperòquasi senza dolori. La mattina si sentì stanchissimadubitòdi poter partire alle undicidisse alla cugina e a don Aurelio cheaveva deliberatoper maggiore comoditàdi far colazione aMilano e di partire tre ore più tardi. Don Aurelio le diede lanotizia gradita del suo prossimo viaggio in Valsolda.

Aspettava che un telegramma gliannunciasse la partenza da Roma della salma di Benedetto. Unsacerdote l'avrebbe accompagnata fino a Milano.

Per il pio ufficio da Milano a Oria erastato pregato egli. Aveva accettato per impedire che la funebrecerimonia fosse turbata da discorsi o atti degni del biasimo di coluiche si voleva onoraree anche perché così avrebbeoccasione di vedere Massimo. Gli amici di Roma avevano incaricatoMassimo delle pratiche necessarie per la tumulazione nel cimitero diAlbogasio e per un discorso sulla bara.

Poche ore prima dell'arrivo di donnaFedele a Milanodon Aurelio aveva ricevuto da Massimo una tristelettera. Diceva di avere eseguite le pratiche ma di non voler fare ildiscorso perché solamente un cattolico poteva farlo ed eglinon si sentiva più tale. Don Aurelio lo riferì con grandolore.

A colazione donna Fedele non potéprender cibo. Altri forestieri seduti a colazione la guardavano per isuoi capelli bianchiper i suoi grandi occhi bruniper l'ariasofferenteper la fisonomia e i modi di gran dama. Due signorineinglesi ne parevano affascinate.

Preferì trascinarsi a piedi allastazione anzi che salire nell'omnibus e scenderne per un tragitto dipochi passi. Fece montare nel treno anche la cugina per un congedopiù riposatole raccomandò col suo solito farecanzonatorio di non smarrirsi nella grande stazionedi non andare aVenezia o a Bologna invece che a Santhià. Più siavvicinava il momento della partenza e più la cugina si dolevadi non avere maggiormente insistito per andare in Valsolda. Ripresequel temapregòscongiurò. Donna Fedele si burlòdi queste tardive istanze. "Santhià Santhià!"diss'ella. "Cosa vuoi venire a fare in Valsolda tu?"

"Euh!" replicò lavecchietta "a sarà poeui nen a la fin del mond!"

"Ma!" replicò donnaFedele. "Forse!"

La cugina tacque. Vedendo entrareparecchi viaggiatori in cerca affannosa di buoni postile si strinseil cuore. Mancavano pochi minuti alla partenza; dovette alzarsi perscendere. Il suo posto fu subito preso da una modesta signora diaspetto simpaticoche aveva con sé un cagnolino. "O mi!"mormorò l'Eufemia. "A j'è dcò 'l can!"La signora udì e si scusò timidamente. Il suo cane nonavrebbe sopportato una separazione! Aveva un cuore! Ed era tantosavio!

"Non mi separerò neppur io"pensò la cugina Eufemia. "Non avrò meno cuore diun cane." E simulò prender congedodeliberata di salirein un'altra carrozza dello stesso trenoall'insaputa di donnaFedele.

Questa la salutò così:

"Ti raccomando le rose!"

E sorrise indovinando la stupefazionedella vecchierella ben lontana dall'immaginare che le rose eranoquelle del villinoche il villino sarebbe diventato un giornoproprietà sua e delle sue sorelle. La serena viaggiatriceimmaginò anche l'ingresso nel villino delle tre proprietariedelle tre vecchie fantasime vestite di nerola loro dispersioneimmediata. L'Eufemiala terzogenitacorrerebbe subito a certoinginocchiatoio già da lei molto invidiato alla padrona dicasala secondogenita andrebbe a esaminare la cucina e laprimogenitatenera di Baccoscenderebbe in cantina. La signoramodesta non le permise di perdersi a lungo dietro questeimmaginazioni fra lugubri e comiche. Le pareva che non si sentissebeneandò saggiando con domande la natura delle suesofferenzefece la storia di parecchie malattie di parenti e diamiche suele disse che andava a Varese a trovare una sua sorellamadre di quattro bambini e che aveva preso Friend con séperché i suoi nipotini l'adoravano. Siccome donna Fedeleognitantonon potendo chiudere le orecchie a quella parlantinachiudevagli occhicolei si persuase che soffrisse di emicraniale posòil cagnolinocon molte scusesulle ginocchia per cavar dalla borsadelle pastiglie di fenacetina. Insomma da Rho in poi Varese fu ilsospiro di donna Fedele. La signora modesta vi discese molto contentadi sé e del suo canedi avere fatto un'opera buona colla suaconversazione amichevole come l'aveva fatta il cane col suo silenzio.Il treno si vuotò quasi per intero. Nella carrozza dov'eraFedele non rimase che un giovine medico avviato da Pavia a una suavilleggiatura di Cuasso. Lo si era capito dalla conversazione tenutacon altri due giovani discesi a Varese. Egli si mise a guardare lasua compagna di viaggio con rispettoso interesse. Ella se ne avvideebbe paura che le leggesse in viso e nella persona il suo malechegli venisse in mente di parlarle. Mise il capo al finestrino e non nelo tolse più fino a Porto Ceresio.

A Porto Ceresio la prima vista del lagole fece una impressione indefinibile. Toccava la metaoramai. Erasicura di giungeredi vederli; sentiva piaceresgomentoansietà.Il facchino che le prese il bagagliouna valigiauna borsaunporta-ombrellidovette accompagnarla al caffè perchéella durava fatica a reggersi. "L'è pazziasignora"diss'egli"andar attorno solacosì." Ella lo pregòdi venirla a prendere quando fosse il momento di salire a bordo.

La cugina Eufemiatremante nella suaparte di cagnolino inseparabilenon si lasciò vederetemendouna strapazzata coi fiocchi e l'ordine di ritornare a Milano. Si eraproposta di comparire solamente quando non fosse più possibilemandarla indietro. Aveva un po' sul cuore il baule andato a Santhiàma pazienza!

Il battello per Luganoche dovevaarrivare da Ponte Tresanon si vedeva ancora spuntare a sinistra dalprossimo promontorio boscoso dietro il quale il lago gira. Sedutafuori del caffèsulla spianata che guarda il lagodonnaFedele assaggiò appena il latte che si era fatto portare tantoper ordinare qualche cosa. Mai le era battuto il cuore cosìforte. La spianatasparsa di tavoliniera deserta. Era deserto lospecchio delle acque verdiimmobilipiene del sole ardente cheaveva morto ogni fiato di vento. La bianca Morcotelà difrontevegliava muta le acque mute. La maestà delle montagnegrandi accavallantisi dietro e sopra la tortuosa fuga del lago versoLugano invisibilespirava pace e riposo. Donna Fedele lo sentiva conrimpiantonon potendo aver l'una né l'altro. Il battello diPonte Tresa spuntò dal boscoso promontorio di ponente. Eravicino il momento di doversi trascinare alla tettoia dell'imbarco.Pochi passi; ma se il buon facchino non fosse venuto!... Ecco il buonfacchino. Dice ch'è ancora presto ma che più tardi hail servizio dei bagagli e non potrebbe venire.

Donna Fedele si alzòstentatamente. Si figurò la cugina Eufemia nei suoi pannisidisse nel cuore:

"O mi povr'om!"

E prese il braccio del facchino.









Capitolo Decimosesto


NOTTEE FIAMME


1.


Salita rapidamente in una carrozza diprima classeLelia trattenne il facchino con pretesti. Non sitrovava il portamoneteil bagaglio non era collocato a dovere nellarete. Il disgraziato ebbe appena il tempo di saltare a terra e non cifu pericolo che prima della partenza del treno egli si abbattessenella Fantuzzo se per caso ella fosse uscita dal caffè incerca della sua compagna. In quello scompartimento viaggiavano altrequattro personeuna vecchia signora con una signorina suitrent'anniun giovane viaggiatore di commercio e una specie dicanzonettista malamente elegante. Lelia si sentiva ardere il viso eil collonon dubitava che il suo rossoreil suo turbamento nonfossero notati. Tremò che le si facesse qualche domanda.Nessuno le aveva badatoil giovine continuò a parlare collasignorinala canzonettista continuò a succhiare caramelle e aodorare una boccetta di profumo. E il treno correvaoh correvalontano da Vicenza lontano dalla Montaninaverso lui! Il cuore diLelia batteva col ritmo precipitoso del treno. Ella vedeva torbido.Le pareva avere un velo torbido anche sul pensiero. Guardava ognitantoinvolontariamentei suoi compagni di viaggio.

La signorina tradivaparlando colgiovineuna rara effervescenza di temperamento amoroso. Ellasfoggiava la sua cultura di romanzi e di commedie e poiché ilgiovine aveva parlato di un suo futuro viaggio in Egittocercavafarsi promettere il dono di uno scarabeo. Il giovine sarebbe statopiù contentopur troppo si vedevadi promettere scarabeialla canzonettistala qualeperònon si curava delle sueoblique occhiate e invece guardava molto Lelia. Lelia osservava tuttociò come attraverso una nebbia ardente e solo di tratto intrattoper brevi momentirientrando subito nel suo deliziososegreto di fuoco.

La canzonettista cercò diattaccar conversazionele offerse caramelleche non furonoaccettatele chiese il permesso di vedere l'anello che portavaall'anulare della mano destra onde aveva levato il guanto pertogliere il denaro dal portamonete. Leliaseccatastese la manosenza rispondereguardando dal finestrino. La maleducata ragazzanon contenta di vederglielo al ditoglielo levò addiritturacon un atto rapido. "Prego!" fece Leliasdegnata.

L'altrache vi aveva già lettodentro "A Leila"lo restituì scusandosi. "Chebel nome" diss'ella "che ha Lei!" Il giovineviaggiatoreche aveva seguitosenza parerela mimica e il dialogodelle due signorinesgombrò l'Egitto e lasciò gliscarabei al loro destino nella irragionevole speranza che il bel nomevenisse fuori.

Perché ora Lelia lo tentava piùdella canzonettista. I begli occhi avevano dato un lampo tale difierezzail "prego" delle labbra era stato sommesso sìma tanto altero e vibrantech'egli la scoperse ad un tratto elegantee bella. La signorina degli scarabei se ne avvidefece il muso lungoe non gli parlò più.

La canzonettista discese a Verona. Lealtre due signoreche andavano a Bergamodiscesero a Rovato. Poichénessun altro era salito maiil viaggiatore di commercio restòsolo con Lelia. Ella neppure se ne accorse. Da Verona in poi il suostato d'animo era venuto più e più mutando. La fiammaardente dei primi momenti di libertàquando immaginava giàle braccia e le labbra dell'amatoaveva presodopo Veronaadiscenderea lasciar trasparire in fondo al cuore punti scuri didubbi e d'inquietudinisempre più grandisempre piùneri.

Durante la prima ora della fuga Leliavedeva chiare davanti a sénel paese lontanole maggiorilinee dell'evento volutoun incontro di due amoriuna gioiaun'ebbrezzae poi nebbiaquello che vorrà il destino. Piùsentiva di avvicinarsi all'eventomeno ne discerneva le maggiorilineepiù le apparivano tanti particolari imbarazzanti cuinon aveva pensatotante piccole spine della realtà. Lelampeggiarono dubbi paurosi: il dubbio che al momento le venisse menoil coraggio di mostrarsiil dubbio di avere preso una risoluzionetroppo dura per il proprio orgoglioil dubbio di parergli vile esfrontata. Intanto il treno correva verso l'eventoe nella suamentenei suoi sensiil correr del treno diventava violenza diforze cieche obbedienti a lei che le avesse poste in moto e nonpotesse frenarle più. Non si accorse che il viaggiatore dicommercio le si era avvicinato per tirare le tendine a riparo delsole che le batteva sulla personanon si accorse che si era seduto afronte di leiche si chinava a considerarle l'anello. Rientròin sé quand'egliincoraggiato dall'apparente indifferenza dileile prese dolcemente la mano fra le proprie. Lelia la ritiròcon una esclamazione di sdegnoe il giovine si scusòprotestò di non voler essere indiscreto come la signora cheera discesa a Veronadisse che desiderava soltanto conoscere il suobel nome. Lelia non risposesi alzòandò a mettersiall'altro angolo dello scompartimento. Allora il giovinepur senzaavvicinarsidiventò di una galanteria insolentele disse chese aveva l'abitudine di viaggiar solacosì giovane e cosìcarinanon doveva spaventarsi per tanto pocodisse che aveva vogliadi vederle ancora collera negli occhi perché nella colleraerano meravigliosi. E si avvicinò dicendo che da lontano nonpoteva vederli bene. Ella uscìtutta tremantenel corridoiopregò un conduttore di portarle i bagagli in un altroscompartimento. Le offese di quello sfacciato le fecero sentirequanto ell'appartenesse ad Alberti. Più che per se stessa nesoffriva per lui. Soffriva che si fosse mancato di rispetto a unadonna amata da lui. E quando si trovò nello scompartimentovicinocon due sole vecchie signoresi sentì ancora nellesue braccia come nel partire da Vicenzacon tale vivezza che lebalenò di essere da lui pensata in pericolo.

A Milanomentre andava al caffèdella stazione per aspettarvi la partenza del treno di Porto Ceresioun ufficiale le disse due parole di complimento che la turbaronodiversamente. Se ne sdegnò e se ne compiacque nel tempomedesimo. Sapeva di non potersi dire veramente bella e avrebbe tantovoluto esserlo per lui! Si chiamò scioccain cuor suoma ladolce compiacenza rimase. Nel caffèudendo una signora parlarpiemontese vicino a leile venne in mente donna Fedele. L'avevapensata nel passare in treno davanti al villino delle Rosepoi maipiù. N'ebbe rossorema neppure adesso diede un pensieroall'operazione che l'amica doveva subire. Si disse ch'ell'avrebbetorto di non esser contenta della sua fugadella sua dedizione adAlbertie non vi pensò più.

Prese posto nel treno di Porto Ceresiopresso due bambine che presto cominciarono a guardarla e a sorridere.Poimalgrado le proibizioni della madrepresero a toccarletimidamente le mani. Lelia ne fu commossa di una commozione trepidavagadi cui non volle ricercare il perché. Le accarezzò.La maggioretoccandole la mano destrasentì l'anello sottoil guantodesiderò vederloaverlo in mano. Sapeva leggerecercò decifrarne la scritta interna. Sua madre lo impedìvolle che lo restituisse. L'indiscreto atto della canzonettista avevairritato Lelia. Non poté allora udirsi nella memoria ilpicciol suono lontano del nome Leila; adessonella momentanea calmadello spiritolo udì. Ell'aveva detto ad Andrea: quando saròsposata mi cambierò il nomemi farò chiamare Leila.Egli si era opposto a ciò che gli pareva un capriccioirragionevole. Amava Leliaavrebbe sempre amato Lelia.

Leila era un nome troppo romantico. Infatto lo aveva ferito ch'ella proclamasse fin d'allora la propriavolontà in modo assolutoche non dicesse: "Ti pregheròdi chiamarmi Leila". N'era venuta una discussione vivace. Andreasi era lasciata sfuggire qualche parola acerba. Poidolenteleaveva regalato l'anello colla scritta pacifica. Tutto questo leripassò nella memoria come un'onda rapida.

Rimise il guanto eguardando dalfinestrinopose la mente nelle cose esterne. Il ricordo si spense.

Quando il treno giunse a Porto Ceresiopioveva. Delle montagneperdute nel nebbionenon si vedeva che ilpiede scuro intorno allo specchio biancastro del lago chiazzato dirughe. A Lelia il nebbione fece piacere. Poteva immaginarealmenodi avvicinarsi a lui senza esser veduta. Le fece piacere che al pontedi sbarco non ci fosse battelloche nessun battello si vedesse sullospecchio biancastro del lago chiazzato di rughe. Il momentodell'incontro pareva così meno imminente. Quando un punto neroapparve davanti al promontorio di sinistrail cuore le battécome nel treno a Vicenza. Quello era l'ultimo passo. Nel salire abordo le mancò quasi il respiro. Si fermò un momentosulla passerella sotto la pioggia fittasenz'aprir l'ombrello.

Sopra coperta c'era pochissima gente.Lelia sedette all'estrema poppa.

Pareva guardar l'acqua e non avevasguardo negli occhi vitrei. Il batter cupomisuratodegli stantuffile riempiva la mente vuota di pensieroinsieme al batter cupomisuratodel cuore. Il bigliettario dovette chiamarla due volteperché gli dicesse dove andava. Desiderò rispondere"Lugano" e invece rispose "San Mamette" comeforzatavi dal senso di un destino. Domandò quanto tempo civolesse per arrivare a San Mamette. Udito che ci voleva più diun'ora e che prima si toccava Luganorespirò alquantoil suosguardo errò un poco sulle acquesulla maglia mobile deicircoletti infiniti che la pioggia vi segnava senza posasul piedescuro delle montagne. Quando il vapore presso Meliderallentòsi credette arrivare a Lugano. Udito che Lugano era la stazioneprossimaricadde nell'atonia cerebrale di prima. Non si accorse dipassare sotto il ponte. Poco dopoil bigliettario le si avvicinòper mostrarle amabilmente dov'era San Mamette: laggiù versolevantedove il lago sfumavacome un marenella nebbia. Làera il mistero.

Presto le sfilarono davanti glialberghi signorili di Luganole case umidei giardini scuriascendenti al nebbione. Unaduetre fermate.

Passeggeri esconopasseggeri entrano.Si grida: GandriaSanta MargheritaOriaSan Mamette OstenoCimaPorlezza! Il battello è spinto via lentamentea forza dibracciadall'approdoi colpi degli stantuffi ricominciano. Siparteil battello gira lentamentemette la prora sul nebbionedell'alto lago; le case umidegli alberghii giardini di Lugano sivelanoa poppadi pioggia e di distanza.

Allora nell'anima di Lelia spiròimprovvisamente un vento nuovo. Tutte le ragioni del donarsi virisorsero a un punto impetuose. Ella si alzò dal suo sediledella prima classe andò a prora. Sola e ferma allo scopertosotto la fine pioggiaguardava dritto davanti a sépalpitantecontentasicura. A Gandria cessò di piovere. Illagoa fronte del battellonereggiò di "tivano"violentoil nebbione ascese gli umidi fianchi delle montagne. Lafronte della Galbigala fronte del Bisgnagola fronte delledolomiti di Valsolda si svelarono nel cielograndi. E lontanolontano si svelò grigiofumante di nuvoliil Legnone enorme.

Tosto il battello entrò nelventoil velo e le vesti di Lelia le battevano indietro come drappidi bandiera. Ella non si mosse. Il ventoil lago nerole neremontagne selvagge le inebbriavano l'anima. Il vento le fischiavaintorno: "Sei qui?". Le montagne di destra e di sinistrapensavano silenziose: "E' qui". In facciale guglie e lecreste di dolomia le mostravanotragicamente mutela loro passionedi pietra come s'ella sola potesse intenderlenella sua passione difuoco.

"Signora" le disse ilbigliettario"adesso la prima stazione è San Mamette."

Ella si sentì subito fredda eforte. Fermatosi il battello allo sbarcone uscì con passofermo. Alcuni contadini uscirono con lei. Né sul pontile néin piazza si vedevano personecausa il mal tempo.

L'uomo di servizio al pontile le indicòl'albergo Valsoldaa due passi dallo sbarco. Ella entrò nelpiccolo ingressoscuro e vuotovi si fermònon udendo névedendo alcun segno di vitanon sapendo se salire o non salire lascala. Finalmente qualcuno discesee vedutalarisalìcertamente per avvertire l'albergatore che discese alla sua volta.

"Desidera?" diss'egli.

"Una stanza" rispose Leliacon voce malferma. In quei pochi momenti d'indugio nell'ingressoilsilenzio del luogo ignoto le era parso ostile. Aveva sentita ostilela stessa rigidità delle pareti. Era il primo gelo dellerealtà dure ch'ella non aveva pensate meditando la fugachesolo in viaggio aveva confusamente presentite. L'idea di passar lanotte fra quelle mura le mise in testa un subbuglio d'immaginazionipaurosein cuore uno sgomento invincibilemalgrado la vergogna chene aveva. Non seppe ella stessa come le fosse riuscito di articolarequelle due parole: una stanza. Per sua fortuna l'albergatoreunomino per benene notò subito la distinzione e l'imbarazzole si mostrò molto gentile. Disse che la cameriera le avrebbefatto vedere le stanze di cui poteva disporre. Realmente potevadisporre di quasi tutto l'albergo. Lelia salì le scale un po'rinfrancataseguì la cameriera in una bella stanza d'angoloal secondo piano e dichiarò subito che non voleva vedernealtreche prendeva quella. Chiese alla ragazza dove dormisse.Sperava di averla vicina e si trattenne dal dirlo per la vergogna dimostrarsi tanto paurosa. La ragazza non le dormiva vicina. Nonimmaginò che la signorina forestiera avesse paurale domandòse desiderasse qualche cosa da lei. No noniente. E non pranzava?Lelia sentiva di non poter prender cibo ma si ordinò unapiccola cena in cameraperché la ragazza ritornasseperpoterle domandare qualche cosa di Dasio. La ragazza le preparòun tavolino per mensaportò la cena. Lelia non osòparlare di Dasio. Rimasta sola per la nottesi chiamò scioccae viles'irrigidì contro le sue viltàpensòper farsi coraggiosuo padrei preti di Velol'intingolonauseabondo di cui non sentiva più l'odore. Main pari tempol'assalì per la prima volta l'immagine di donna Fedelenevide i grandi occhi bruni sotto la fronte alta e il sottile arcobianco di capelline udì la voce d'oro: "Ah ragazzacos'hai fatto?". Ma ciò ch'era fatto era fatto.

E non sarebbe da mandargli una parolaprima di presentarglisi? Suonò perché le fosse portatoda scrivere. Si provò a scriverepensò alquanto collapenna in manosi atterrì della difficoltà che provava.

Se non le riuscisse di trovare la formabuona? Se una frase non chiarauna parola mal sceltauna lieveinavvertita mancanza di tatto guastassero? Meglio non scriverepiuttosto. La sola presenza direbbe tutto. Certo! Si meravigliòdi non averlo inteso prima. Ma subito l'idea di un incontroimpreparato la spaventò colle incertezze che l'accompagnavano.Stretta così fra due terrori sentì venire una delle suecrisi di singhiozzi e di lagrime. La scongiurò precipitandosial davanzale di una finestra gittando l'anima sulle cose esterne.

Lontano davanti a leinel buioindistinto della notte nubilosaun piccolo fulgore elettricosaettava lucelentamente girando sopra se stessovia via per leacque lontane e per le coste. Balenavano dall'ombra un momento casinecandide rupifalde di boschiesplorate dal getto luminoso come daun Occhio imperatorio che ne facesse gelosa rassegna. Lelia videvenir lento alla sua volta il cono sottilefu investita coll'albergoda un baglior biancosaettata dall'Occhio inquisitoreringhiottitadall'ombra. Sublimi sulla nera montagna di sinistrapresso al cielopoco meno buioaltre fiamme elettriche splendevano allineate. Siudiva il rumoreggiare delle onde. Lelia ebbe l'impressione di unanotte d'incantesimi nel paese più selvaggio e strano dellaTerra. Il suo interno conflitto restò. Ella seguì ilgiro dei baleni elettrici per il piede boscoso delle montagne e sulleacque agitateper gruppi di case. Uno di quei gruppi era forseDasio. Il bagliore bianco la sfolgoròoscillò unattimo a destra e a sinistra prima di lasciarla. Ella diede un balzoindietro.

Finalmentestancasi levò glistivaletti e si gittò sul letto senza spogliarsirisoluta dipassar la notte a quel modo. L'abbandono del corpo al riposo lepredisposeper un arcano consenso delle due naturel'abbandonodell'animo al Destino. Una ad una le tornarono nella memoriagiacendo ella cosìle parole delle lettere di Massimo chedicevano di leichetuttele dolci e le acerbeavevano un'animastessa di amore. Adesso ch'ella aveva rinunciato a scrivergliche siera data nelle mani di quella Volontà ignota dalla qualedipendono gli eventila sua mente si chiuse e posò nelpensiero: mi ama.

Lentaeterna notte. Folgoravaognitantonella camera il bagliore elettrico. Lelia ne aveva piacere. Lepareva che l'Occhio luminoso vegliasse anche per leisopra di lei.Poco prima dell'alba si assopì e quasi subito si riscosseatterrita di aver dormito contro il suo proposito. Più tardiscese dal lettointirizzitaandò a chiudere i vetri. Nonvide più l'Occhio lucente né le fiamme elettriche sulciglio della montagna. Vide sotto la finestra un pergolato un cortileumidocampicelli e più oltrea pochi passiil lagoaddormentato a specchio delle nuvole ugualipesanti. Ritornòa giacere. Veniva il giornoveniva il Destino.


2.


Fece toeletta alle sei. Nel lavarsiallagò la camera e tuttavia suonò per farsi portareancora dell'acqua. La cameriera notò subito che la signorinanon era entrata sotto le coltriguardò il lettoguardòleisorpresa. Lelia arrossìnon parlò della suanotte. Si scusò per l'allagamentoprima. Poi domandòcon ipocrisia presso che inconsciase Puria fosse lontano. Sapevaper la lettera di Massimoche da Puria a Dasio c'erano venti minuti.La ragazza rispose che si poteva andare a Puria in meno di un'ora.Richiestanepromise di trovare un ragazzotto che accompagnasse lasignorina a passeggioe facesse da guida.

"A che ora?" diss'ella.

"Alle sette."

Sfinita dal lungo digiuno e dalla lungavegliaLelia fece colazione avidamente. S'informò delle lucinotturneapprese che una torpediniera della R. Guardia di finanzamunita di un riflettore elettricofaceva servizio la notte e che lefiamme sulla montagna erano lampade elettriche della Funicolare diSanta Margherita e dell'albergo Belvedere. Partì alle settecolla guidameravigliando di sentirsi tranquilla e intrepida.

La guida era un ragazzo sui dodiciannidagli occhi vivaci e dalle labbra ostinatamente mute. Piùche monosillabi Lelia non arrivò a cavargli. Per veritàle bastò sapere che conosceva la strada di Puria e quella diDasio. Ella non guardavasalendo verso Loggioné a destra néa sinistra. Più saliva più le batteva il cuoreparteper la faticaparte perché la intrepidezza le veniva meno.Alla prima svolta della gradinata che gira sopra l'oratorio di S.Carlodovette far sosta. Non c'era sole ma l'aria era afosa. Undrappello di giovani e di signorine sopraggiunse facendo il chiassola oltrepassò senza badare a lei. Le signorine si burlavanodei giovani che non ardivano andar a coglier certi ciclamini pendentisull'abisso dove romba il torrentee coloro protestavano di nonvolersi rompere il collo per esse. La piccola guida saltò comeuno scoiattolo fuori di stradaritornò coi ciclaminiliofferse in silenzio a Lelia. Ella se li pose in senopensando che lasorte glieli offriva per lui e che non avrebbe osato coglier fiori aquel fine colle proprie mani. Toccato il sommo della salitadove ilsentiero piega a sinistra per scendere nella conca del Campòristette ancora. Di là si scopre al viandanteimprovvisotutta l'alta Valsolda: Loggio tuffato nel verdesopra Loggio labreve striscia bianca di DranoPuria aggrappata al ventre della suamontagnaCastello coronante lo sprone di scogli a piombo che iltorrente rode al piede; e nel centroalto sopra tuttisporgenteappena col campanile e qualche tetto dalla sua nicchia verde sotto ilgigante bastione di dolomiaDasio. Lelia si fece nominare tutti ivillaggisedette sull'erba guardandolà in altoil piccolocampanile giallognolo ritto sotto le rupi. Dal piccolo campanile salìcollo sguardo alle creste sovreminenticercò la punta didolomia che poteva ricordare quella del Summano guardata da Massimonel salone della Montaninamentre ella suonava "Aveu". Leparve di riconoscerla fra le nebbiea mezzo della cresta che dalmaggior culmine declina verso levante. Il cuore le si gonfiòdella divina musica e del grido:

"Or sappi che brucioche moro dite."

Come nel giorno precedentequandoall'entrata delle acque di Valsoldail vento e i fiotti erano corsiincontro al piroscafo e il nebbione si era rotto sulle montagnecosìora le parlavano le cose inanimate. Quei dirupi e le creste e lapiccola punta di dolomia le dicevano: "Sei qui". Si alzòin piedi lottando coll'emozione e si rimise in cammino. Pochi passioltre la chiesa di Loggionella gola segreta dove si compongonointorno al sottile argento di una cascata le grazie della romitanatura come intorno a una piccola reginaLelia parve accorgersidella bellezza delle coseimmaginò posar con luilontana daogni sguardo umanodentro quella recondita poesia e quella musica.Sulla strada di Dasiooltre Puriaordinò al ragazzocheprecedevadi avvertirla se vedesse qualcuno venire alla loro volta.

Incontrarono un carbonaiouna guardiadi finanzauna donna che portava dei funghi. Lelia pensò cheavrebbe potuto domandare del dottor Alberti. Non osò. A piedidell'ultima salita ombreggiata di nocisul ponticello presso ilquale sta una cappellinasi appoggiò al parapettoesaustatremantequasi sfiduciata di poter proseguire.

Sulla gradinata che saleuna vecchiastava raccogliendo noci. Lelia mandò il ragazzo a domandarlese conoscesse il dottor Alberti. La vecchia era sorda e scimunita.Non capì. Lelia si rizzò con uno sforzo. Passandodavanti alla cappellina vi guardò dentro. Vide statue dipinteuna scena della Passioneil Crocifissola Maddalena. Le parve chese vi fosse stato il solo Crocifissosi sarebbe inginocchiata dislancio a pregare. Così passò oltre.

Giunta alla svolta dove mette capo ilviottolo di Drano due minuti sotto Dasiosedette sul primo scalinodel viottoloordinò al ragazzo di salire all'albergo dal nomescritto nel suo cuore. Doveva semplicemente chiedere se il signordottor Alberti fosse in casa e venir a riferire la risposta. Larispostaattesa con un febbrile tremito di tutte le membra fu che ildottore non era in casa. Allora Leliacopertosi ii viso colle manipensò.

Pensò a lungoangosciata disentirsi solasolasola. Si scoperse il viso e guardòcomecercando consiglioil folto verdedavanti a leiscendente nelvallone di cui vedeva l'opposto fianco. Tutto era indifferenza epace. Rimandò in su il ragazzo colla preghiera che qualcunodell'albergo scendesse a parlare con lei.

Venne una ragazza dall'acconciaturacittadinescadai modi cortesi.

Per Lelia domandare di Alberti era unsupplizio mortale. Non potendone a menopreferiva farlo cosìparlare con una persona sola piuttosto che all'albergoin presenzaDio sa di quanti curiosi. Seppe che il signor dottore era statochiamato a Muzzaglio due ore prima. Partendo aveva lasciato detto chesarebbe stato di ritorno alle dieci. Ora stavano per suonare le nove.Se la signorina desiderasse di andargli incontro non potevasbagliare. Doveva prendere per il Pian di Nava e San Rocco "Ellapuò fermarsi al Pian di Navaun quarto d'ora da qui; neppure!

Di lì passa certo."

Detto ciòla giovine cercòinsegnare la via del Pian di Nava al ragazzoche non la sapeva.Perché quegli durava fatica a capiresi offerse per guidaaccompagnò Leliasalendo attraverso il povero ma pulitovillaggiofino al lavatoio pubblicola mise sul viottolo che di làvolge verso ponente.

"Questo è il sentiero"disse. "In cinque minuti Ella è al Pian di Nava."

Lelia pagò il ragazzolocongedò e si avviò sola. Dove il sentierooltrepassatoil Camposanto e il valloncello della Terra Mortamonta nel cavoprato che grandi castagni ombreggiano lungo il labbro di mezzogiornolo lasciòprese a sinistraper l'erbaverso uno dei primicastagni. Di là poteva scorgere tutto il giro del sentieroche rigando il prato andava a perdersi in un bosco. Sedette a terra eattese con gli occhi al bosco.


3.


Quella mattina Massimo si alzòall'alba. Non aveva quasi dormito. Il giorno prima era stato a Luganoper noleggiare il piroscafo che avrebbe trasportato la salma diBenedetto da Porto Ceresio a Oria.

Oracompiuta anche questa praticanell'imminenza di prender parte alla funebre cerimoniaegli soffrivaindicibili tormenti. La memoria di Maironi gli era sempre sacra ecarasarebbe stato felice di rendere un omaggio privato all'amicoal maestro; ma l'omaggio pubblico significava un'adesione a credenzea ideeche non erano più le sue. Rifiutarlo sarebbe statoquasi un'ingiuria; prestarlo sarebbe stato quasi del tuttoun'ipocrisia. Benedetto era il Credo cattolico integralela fedeincrollabile nella Chiesala obbedienza mansueta e umileall'Autorità. Massimo non credeva più. Aveva cominciatocollo staccarsi mentalmente da Romacol persuadersi che ilCattolicismo romano fosse condannato a morte. Poirapidamentesiera staccato anche da Cristo divino e risorto. La rapiditàdella rovina non era che apparente. Da molto tempo la solacompressione dell'obbligo religiosoimposto dalla Chiesamantenevasolide nell'animo suo le credenze cristiane tradizionalidisgregantisi per l'azione di una critica continuamente assorbita daletture e da conversazioni. Respinta l'autorità della Chiesasi rivelavano improvvisi gli effetti di quell'azione dissolvitrice.Oggi Cristo non era più divino per lui né risortodomani toccherebbe al Dio personale di crollare nella sua mente. Ilprimo passola liberazione da Romagli sarebbe riuscito dolce se ilrompere con Roma non fosse stato un rompere col suo proprio passatodi pubblico propugnatore della fede cattolica. Ma del successivosprofondare verso l'agnosticismo si atterrivasi disperava tanto chetalvolta lo assalivano accessi di reazionefugaci e violenti. Quellanotte stessapensando il proprio stato di coscienza e Benedettoaveva acceso il lume in una convulsione di dolore e di speranzasiera inginocchiato sul letto davanti al quadro del Salvatore e diPietro che s'incontrano sulle acqueaveva domandato fede fede fedecon gemiti inenarrabili. Presto la fiamma dell'anima gli era venutameno. Gli era parso che le cose mute lo deridessero. Si era derisoegli stesso. Spento il lumeaveva morso il guanciale invocandoLelia. Si derise anche per questa stupida viltàrespinsesdegnosamente la immagine che non poteva uscire del suo cuorecheper questi sdegni piegava solo come una fronda piegata dal vento esubito risorgente. Si sforzò di non pensare che al montanaroammalato cui doveva visitare l'indomani mattina a Muzzagliouninfelice ridottosiper causa della mala vita di sua mogliea viveresolo in una stallafuori del consorzio umano. Si alzòall'alba e si mise a studiare in un trattato di medicina il caso diun bambino minacciato di appendicite.

Altro riposo non v'era per lui che ilchiudersi tutto nelle sofferenze dei suoi pochi ammalatiidentificarsi con essi. L'uomo di Muzzagliodatosi al bere per lesue disgrazie coniugalisemi-ebeteviveva in una tana immonda conquattro capre e una pecora neraschifoso di sporcizia. Non scendevaa Castello e a Puria che per cambiare il latte in alcool. Quando glinasceva un capretto o un agnellole sbornie di acquavite sisuccedevano spaventose. In paese lo chiamavano l'uomo selvatico. Oraera convalescente di una polmonite e Massimo cercava ogni via diredimerlo dalla sua abbiezione. Aiutato da due buone donne di Dasiogli aveva fatto una pulizia completalo aveva trasportato in unastalla vuotapoiché a Muzzaglio non sono che stallesopra ungiaciglio umano. Gli recava egli stesso ogni mattina uovabrodoquel po' di vino di cui non poteva privarlo. Si proponeva di veder lamogliedi persuaderla a riprendersi il marito cacciato di casa comeun ubbriaconedi farsi promettere che non venderebbe la pecora nerada lei odiatacom'era il bambinesco terrore di lui quando Massimogli parlava di pace e di riunione: "La vend la pègora! Lavend la pègora!".

Uscì dall'albergo prima dellesetteandò a visitare il bambinoritornò a prendereil canestro colle uovail brodo e il vino. A Muzzaglio trovòil convalescente alzatoascoltò con pazienza grande lechiacchiere infinite della vecchietta che lo assisteva e riprese lavia di Dasio. Sostò ai pascoli di San Roccodove l'ultimoverde muore alle pareti di roccia. Vi pasceva un armentoil continuotintinnio di campani oscillava sul rombo eguale del fiume profondo.Sedette sull'erba ascoltando il rombo simile alla voce del Posinach'empivaa finestre apertela sua camera della Montanina.

Il tempo era grigiomalinconico ilrombomalinconico il tintinnio dei campani delle vacche pascenti. Ilrombo gli faceva maleun dolce male cui si abbandonòvoto dipensiero. Qualche ricordo preciso di Lelia gli passò per lamente quando riprese la viadolendogli ancora il petto di quel dolcemale. Si fermò a guardar fisonel boscoun ciuffo diciclamini fioriti presso il sentieroli guardò fino a chequelle immagini gli rientrarono sotto la soglia della memoriacosciente. Uscìcamminando adagiodal bosco di castagni e dinoci nel Pian di Nava.

Vide subitoa duecento passiunasignora vestita di chiaroseduta sull'orlo alto del pratodov'essogira a sinistra e scende verso la Terra Morta. Non se ne curò.Quasi ogni giorno salivano a Dasio villeggianti di Loggio e di SanMamette. Non se ne curò e non la guardò. La signora eraseduta fuori del sentierocirca venti passi a destra. QuandoMassimocamminando lentamentele fu a paroella si alzò inpiedi. Egli la guardò allora per l'impressione di quelmovimento come avrebbe guardato una fronda improvvisamente agitatadal vento. Non la riconobbevoltò la testa da lei al propriocammino e già passava oltre. Ella fece l'atto di movereavantisi porse e si trattenne. Allora egli si trattenne pure e laguardò nuovamente. Era tanto pallidatanto stravolta cheancora non l'avrebbe riconosciuta se gli occhi di lei non lo avesseroguardato con una fissità vitrea.

Dubitòtrasalìimpietrò. Ella piegò il visocercò brancolandosussultandoun appoggioindietreggiò di un passo versol'alberoal cui piede si era sedutainciampò nelle proprievestiportò rapidamente la mano indietroal troncodell'alberorimase in piedia capo basso. Massimoslanciatosiavanti per sostenerlasi arrestò.

Vedeva ch'era leinon poteva crederlosi levò il cappellostupidamentesenza sapere che sifacesse. Ella porse il viso smortorigato di lagrimeil pettoansantelo fissò ancora. Quegli occhi parlavanodicevanoamore amoredolore dolore. Egli vedeva e non poteva credere. Fece unatto di salutoa casocome per partirsi.

Ella porse daccapo il viso e le suelabbra si contrassero disordinatamente in una voce muta. Massimovolle pensare ch'ell'avesse necessità di qualche aiutodiqualche indicazione come un viandante qualsiasie vergognasse didoversi rivolgere proprio a lui. Nello stesso tempo gli balenòuna spiegazione di quella presenza e non dubitò che fossevera.

"Ella è qui con donnaFedele?" diss'egli. E si mise subito sulle difese. Certo donnaFedele aveva fatto questoaveva persuasa la ragazzale si eraimposta. Non vide l'assurdità della supposizioneafferròun'apparenza di veroil solo modo possibile di spiegare come Leliafosse lì davanti a lui. Ma Leliachinato il visoaccennòdi no.

"Con Suo padre?" esclamòil giovinepiù stupefatto che maisapendo di supporre unacosa impossibile. Leliasempre col viso basso e gli occhi a terraaccennò ancora di no.

Allorafinalmentenell'attitudinevergognosaumile di leiMassimo intravvide il veroil perchédi quegli slanci repressi della bella persona verso di lui. Ma nonardì ancora dire una parolafare un atto che rispondesse aldolcissimo vero. Porgendosi a lei palpitantequasi cieco diemozionemormorò:

"Sola?"

Lelia non risposesi coperse il visocolle mani. Il giovine gliele afferròle sentì cederecederein un'onda di abbandono che parola umana non avrebbe potutoesprimere. A un tratto resistettero. Egli non ne intese il perchétrasalì di terrore. Lelia guardò un attimoritraendole maniverso il sentiero dove passavano due guardie di finanza eun'ombra lievissima di timore le sfiorò il viso. Egli intesele disse alcune parole incoerentiforzando a un tono indifferente lavoceche tuttavia tremava più e piùperchéquello che ora non dicevano le mani di Lelialo dicevano gli occhifissigravicupi di passione. Un lume di sorriso le comparve sulvoltole mani ebbero un picciol moto lento di offerta; coloro eranopassati.

Massimo riafferrò le manigelide. Cedevanoperò con certo maggiore ritegno che la primavoltae gli occhiesperti del pericolospiarono rapidamente ilsentiero. Egli le mormorò altre parole incoerentile offerseil bracciodubitando che le dispiacesselì dove potevapassar gentevenir tratta per mano e pur volendo sentire un vivo dilei. Strinse il bracciosubito concessodi una stretta che lecolorò il viso.

Felice di una gioia di fuocoella eraritornata padrona di sémentre Massimopreso da vertigininon sapeva dirigersi. Piegò verso Dasio.

Lelia non disse parola ma il braccioprigioniero spinse dolcementedeliziosamentela persona cara versol'altra parteverso il bosco; poimentre lo sguardo diceva "tiamoti amo"si ritirò pian piano dalla stretta. Ellaprese a camminaresul sentiero angustodavanti a Massimo. Ogni treo quattro passi voltava il capolo fissava senza proferir parola.Talvolta nella prima dolcezza degli occhi quasi velati si accendevarapidamente un fuoco scuro. Allora quegli occhi tornavano al camminocome se l'anima non potesse sopportare il gran fuoco. Nel bosco i duesi trovarono a paro. Egli le cinse con un braccio la vita. Ella loguardòlo guardòpiegò il viso verso di luiche piegò il suo. Le labbra mute di lei si porsero. Il baciofu lieve perché l'uno e l'altra sentivano confusamente quasiuna riverenza di qualche cosa di augusto che si compiesse in quelmomentodi qualche cosa di eterno che fosse incominciato col baciodell'amore. Lelia si levò il cappelloritornò albaciopiegò il viso sul petto dell'amato.

Allora eglinon più smarritotutto rinnegando quel che aveva pensato amaramente di leigodendo diabbandonarsi senza misurale mormorò sul tepido profumo deicapelli biondi:

"Per sempre; vero?"

Ella rispose con una pressioneimpetuosa della fronte. Voci di donne nel bosco. Lelia alzò ilvisoriprese la via davanti a Massimovoltandosi ogni momento aguardarlocome prima. Nel ripassare accanto ai ciclamini che pocodianzi aveva contemplati a lungoMassimo ne colse uno per lei esorrise. Ella baciò la mano che offriva il fiore e dissequindi le sue prime parole:

"Perché ride?"

La nota voce di contralto gli risuonònell'anima. Più che mainell'udirlafu certo di non sognarepiù che mai la realtà gli parve sogno. Solo conoscevadi quella voce la freddezzal'ironia e la collera. Le due paroleper sé indifferentierano la notatoccata appenadellaquarta cordala nota dolce e grave di una corda incognita chetrasformava il suono dello strumento: della corda dell'amore. Perqualche momento Massimovinto dalla dolcezzanon seppe risponderedire come il rombo del torrente gli avesse richiamato alla memoria laMontaninacome si fosse lungamente affisato nei ciclamini perforzarsi di non pensare l'immagine di lei che gli bruciava il cuore.Le parole che dicevano il suo passato soffrire accesero negli occhidi Lelia la solita fiammaoscura della divina oscurità cheeccede la luce. La fiamma si spense mentr'ella disse:

"Mi conduca dove ha cominciato apensare a me."

Egli suggerìpregando:"Conducimi". Lelia lo guardò a lungo prima dirispondere: "Ancora non posso".

Massimo sentì perché nonpoteva. Glielo lesse negli occhi parlanti.

Troppo era ancora vivo in quell'animail rimorso della ingiustizia crudele.

"Sei tu" diss'eglinella suasete di oblio del Passato dentro il dolce Presente"che deviperdonare a me."

Voleva spiegare le parole stranedirequanto gli rimordesse di averla giudicata indegna. Ma il Passatoribollì così forte nelle due anime che né Leliané Massimo seppero aprir boccal'una per protestarel'altroper spiegarsi. Camminarono in silenziosenza neppure guardarsifinoagli aperti pascoli di San Roccofino al primo rombo del fiumeprofondo.

"Ecco" disse Massimo.

Lelia chiuse gli occhi perché ilpaese troppo diverso le impediva di trovare nella voce profonda iricordi del Posina. Ora non vedeva il paesesentiva altezza edeserto nell'aria odorata dei pascoli magrisassosiviva dei suonidispersi dei campani. Non le tornò in mente la Montanina ma lacosta selvaggia dei rododendridov'era stata vinta.

Sfinita dall'emozione e dallastanchezzaimpallidì subitamenteaccennò chedesiderava riposare. Ansiosoquasi atterritoegli l'adagiòsull'erbale presele accarezzò le mani. Scossa la personada tremitiscomposta da moti convulsi anche il visopiegando talorail capo come se mancasseella lo guardavalo guardava. Lievi lumidi dolcezza e fiamme oscure le si alternavano negli occhi. Il giovineofferse di scendere al torrente per attingere un po' d'acqua nellasua tazza di metallo e faceva già l'atto di alzarsiquandoessa gli afferrò in silenzio ambedue le manilo trattennequasi violenta.

Presto si venne ricomponendo nellapersona e nel viso. Si ravviò i capelli epresa una mano diMassimogli mormorò guardandonestudiandone il palmo:

"Come ha fatto a perdonarmi cosìpresto?"

"Ohio!" esclamòegli. La domanda concepita e frenata fin da quando ell'avevaconfessato di essere venuta solagli proruppe dal labbro:

"Ma tu...?".

Ella intese sen'altro. Gli disse chenon era in grado di parlarechese volevaavrebbe scritto.Soggiunserichiestach'era arrivata la sera precedente e che avevapreso alloggio a San Mamette. Una sola cosa Massimo ardìdomandarle ancora: se suo padre sapesse. Lelia rispose che solamentedonna Fedele sapeva e che aveva saputo dopo la sua partenza. Seguìun silenzio turbatonel cuore di luidi varie incertezzenel cuoredi leidella pena di sentirle e di non sapergliele togliere lìper lì. Massimo propose di ritornare a Dasiodov'ellapotrebbe riposareristorarsi. Ella si mosse come se la parte sua nonfosse di acconsentire ma solamente di obbedirecome s'ella fosseoramai cosa di lui.

S'incamminarono lentamenteellaappoggiata al braccio di luiin silenzio. Egli cominciava apreoccuparsi dei commenti che avrebbero fatto all'albergo. Erascritto oramai ch'egli desse a Lelia il proprio nomeil proprioonorela vita; ma quand'anche non fosse stato cosìavrebbefatto il possibile perché una sola parola maligna nonsfiorasse la fanciulla che per un impulso di passione e di rimorsoera venuta a gittarsi nelle sue braccia. Gli parve a un tratto vederenegli occhi di lei una pena di quel suo silenzio pensoso. Erano nelfitto del bosco. Sciolse il braccio da quello di leine cinse etrasse a sé la sottile personaamorosamente. Ella sussurròansiosa:

"Ho fatto male?"

Massimo la strinse a séforte.

"Sposa mia" diss'egli.

Ella gli piegò la tempia sullaspalladicendo:

"L'ho amato sempre; sempresempre."

Eccoall'uscita del boscole donne dicui poc'anzi avevano udito le voci. Salutaronoguardandocuriosamente la signorina. Massimo sentì che sarebbe stato unerrore di fingere troppodi usare troppe cautele perché lagente non sospettasse. Dilungatesi quelle donnedisse a Lelia chel'avrebbe presentata agli albergatori come sua fidanzata.

"Sì sìma per Leinon per me. Anche primaera per Lei."

Ella voleva dire che se la presenza diestranei la rendeva cauta nelle sue dimostrazioni di amoreera perla riputazione di luinon per la propria. E non sapevanella suasete di umiliarsilasciare il Lei.

Massimo vi si dovette rassegnare. Glidomandòavida di contraddizionese non si pentirebbeinseguitodi averla presentata così. Intanto arrivarono alvalloncello che dal Pian di Nava discende verso la Terra Morta e ilpiccolo cimitero. Scoprendo la chiesa e le casette di Dasioannidatenel verde sotto le due colossali fronti di dolomial'una volta amezzodìl'altra a ponenteche si congiungono ad angolo nellafenditura del Passo Strettopiena di cieloLelia si arrestò.

"Non ancora!" diss'ella. Sipentì subitocome di una disobbedienzavoleva continuaremalgrado la ripugnanza per l'albergomalgrado il desiderio diprolungare l'ora dolce quanto fosse possibile. Massimo le concessepochi minuti di sosta; non più di pochi minuti perchéella era tanto pallida! Il cielo era tuttavia copertonebbiepascevano sulle creste cineree. Il verde uniformenon rotto d'ombrei toni grigi della scena parevano un riguardoso tacere della naturaintorno alle due animetanto piene l'una dell'altra. Leliasedutasull'erbaguardò un momento il dolce silenzio di quellavelata bellezza di cose.

"Ah!" esclamò. "Viverequi!" E chiuse gli occhirapita. Massimo tacque. Sarebbe statoun sogno; ma sapeva beneLeliache significasse vivere a Dasio? Gliparve savio tacere. Il suo silenzio sorprese la fanciulla. "No?"diss'ella. Egli sorrise. "Sì" rispose"maconverrebbe provareprimaviverci qualche giorno." Ella loguardò. Lo sguardo dicevadesiderando: posso io viverequalche giorno qui presso a teora? Conscio di essere statoimprudente egli approfittò di una minuta gocciolina cadutaglisulla mano per invitare la fanciulla a rimettersi in via.

Il sussurro della pioggerellina fineaccompagnò i loro passi. La visione di sogno evocata da Leliauna convivenza a Dasioli aveva richiamati alla realtà.Tacevanoignorando penosamente l'uno il pensiero dell'altronon giàriguardo a un avvenire lontanoma proprio al più vicino. Ellaera venuta di slancioper amore. La liberazione dal peso mortaledell'atmosfera infettaora gravante sulla Montanina era stata pureuna gioia. All'indomani non aveva pensato.

SìMassimo aveva detto "persempre"aveva detto "sposa mia"; ma intanto? Non sisarebbe preoccupata dell'indomani se non avesse capito che se nepreoccupava egli. Avrebbe preso alloggio a Dasiosenz'altro. Non leimportavano i discorsi della gentele importava non farenon direcosa che a lui paresse sbagliatanon commettere una sola mancanza ditatto. Lo guardavane spiava il pensiero ansiosamente. Egli tacevalottava coll'ebbrezza della felicità per imporsi di esser uomoe non fanciullodi governare con senno e fortezza tanto séquanto la donna destinata a diventare sua moglie.

Ora prevaleva la febbre di gioia edegli guardava Lelial'incredibile realtàcosì dafarla sorridere; ora prevaleva il proposito virile e gli oscurava lafronte.

"E donna Fedele?" esclamòa un tratto. "Cosa avrà detto donna Fedele?"

Lelia lo immaginava. C'è almondo una sola creatura capace di pazzie simili: ecco quello cheprobabilmente aveva pensato donna Fedele. Non volle dirlosi chinòa leggere una lapide commemorativa nel muricciuolo che fronteggia ilsentiero.


LORIO GIUSEPPINA QUI ESTINTA PERASSASSINIO

Trasalìindovinando unatragedia di passioneun cuore ardente come il suofreddato colferro o col piombo.

"Assassinata no" diss'ella"ma per me il morire adessodi colposarebbe una gioia."

Egli non parlò ma gli occhi el'ansar del petto dissero il suo rimprovero doloroso.

"No no" mormorò Lelia."Voglio vivere vivere vivere!"

Entrarono nel villaggio. Dentro ilvillaggio ella diventòper luipiù cauta di luinonsi voltò a guardarlo fin quasi alla soglia dell'albergodovenon potendone piùgli gittò un lampo degli occhidesiderosi. Massimoche alloggiava nella parte vecchia della casapregò l'albergatrice di accompagnare la signorinache sisarebbe fermata almeno per alcune orein una camera dell'ala nuovadi prendere i suoi ordini per la colazione da portarle in camera. Nongli parve opportunoin quel momentodirne il nomené altro.Mentre parlava entrò il fattorino dell'ufficio telegrafico diSan Mamette con un dispaccio per lui. Lo aperse. Era il telegramma didonna Fedele colle parole: "Sia cristiano e gentiluomo". Lointascò senza dir niente e prese congedo da Lelia allegandocerte visite da fare a Puria. Prima di partire salì nellapropria camera per scrivere a donna Fedele due parole che ilfattorino stesso avrebbe recate alla Posta.

Scrisse:

"Cara mamma Fedele.

"Lelia è qui. Forse nonmeritavo ch'Ella mi ricordasse il dovere di condurmi da gentiluomo.VogliaLa pregodomandare al signor da Camin la mano di sua figliaper me.

Suo MASSIMO."

Consegnò la lettera al fattorinoe corse a Puria. Intanto l'albergatrice curiosa fece a Lelia grandielogi di Massimo coll'intenzione di preparare il terreno aesplorazioni ulteriori.

Parlò della sua bontà eanche dell'abilitàdella propria speranza ch'egli venissenominato medico condotto della Valle.

"Lei è forse una parente?"diss'ella.

Invece di rispondereLelia chiese ilnecessario per scrivere.


4.


Massimo fu di ritorno da Puria quasidue ore più tardi. Nell'andare aveva fatto la strada di corsa.Nel ritorno era venuto lentamente e tuttavia non aveva pensato acontemplare la punta di dolomia. Gli pareva di smarrire il cervellotanto eranel suo internoil tumulto dei pensieri e dei sentimenti.Aveva domandato la mano di una ricca ereditiera senza pensare allasua ricchezza. Lo si poteva sospettare di avere attirata Lelia inValsolda per imporsi quindi a suo padre come marito. N'era inorriditoa segno da chiedersi se piuttosto che soggiacere a un tale sospettonon fosse da sacrificare la felicità.

Ora si proponeva di parlarne a Leliaora lo atterriva l'idea chenel suo ardore di passione ella non locomprendessegli facesse rimprovero di amar pocodi non saperaffrontare anche il disprezzo del mondo come lo aveva affrontato ellastessa. E si torceva le manistraziato da questo terroreper dirsipoi ch'era un terrore vanoche quel sospetto orribile non verrebbe anessunochese venisseLelia saprebbe dissiparlo. Arrivòall'albergo tutto molle di sudore e tuttavia pallido come uncadavere. Udito che Lelia non era discesasalì nella propriacamera. Si venne tosto ad avvertirlo che la signorina era in giardinoe aveva domandato di lui. Palpitò di rinnovata emozionedimenticò i pensieri torbidi e raggiunse Lelia in fondo algiardinopresso l'abete e il bacino dove mormora uno zampillo. Ilgiardino è una lista rettangolare di terreno pianolunga estrettafronteggiata a tramontanain partedall'ala nuovadell'albergosorretta a mezzogiorno dal muraglione del sagrato. Dovel'ala nuova finiscela lista si allarga in un orticellosi scopronocasucce del villaggio cui si abbrancano festoni di vitie sopra lecasuccepiuttosto materna che minacciosauna rupe colossale. Làin fondo è l'abeteè il bacino collo zampillo. Ilsagratopoco più basso del giardino che lo dominaporta sula chiesa a levargli parte della veduta di mezzogiornofra la valledigradante a ponente verso il lago di cui riluce uno specchio verdee le pendicia levantedove i castagneti di Drano e i pascoli deiRancò salgono ripidi alle tragiche balze che fanno angoloalPasso Strettocon quelle imminenti a Dasio. Fra il viale mediano eil parapetto di mezzogiorno sono alcuni alberi. Quel giorno eranostate tirate corde un po' dappertuttoper il bucato dell'albergo.Fortunatamente la pioggia aveva posto il bucato in fuga e si eraaccontentata di questa vittoria; per cui Lelia poté sedereall'apertosul parapettosenza patire la compagnia di calzefazzoletti e camicie.

Veduto Massimosi alzòtenendouna lettera. Gli disse che aveva fatto colazione in camera e che poiaveva scritto. Egli porse la manopensando che la lettera fosse perluidicesse ciò che Lelia aveva confessato di non saperespiegare a voceil mutamento avvenuto nell'animo di leiil perchée il come della sua risoluzione. Ma Leliaprima di dargli laletteragliene fece leggere l'indirizzo:

"Signor Gerolamo da Camin. Velod'Astico (Vicenza)". Massimo ritirò la mano.

"No no" diss'ella. "Develeggere. Solo La prego di non leggere in presenza mia. Lei non hafatto colazione? Legga e faccia colazione. Io vado a riposare unpoco."

Massimo accompagnò la fanciullaall'entrata dell'ala nuova. Ella parve leggergli nel pensieronotarein lui qualche ritegno. Al momento di lasciarlo per salire in cameralo guardò. I begli occhi desiderosiun po' attonitiparveroingrandirele labbrasussurrarono:

"Mi ama?"

"Ora e sempre" diss'egli.

Gli occhi grandi durarono ainterrogarloparvero contentisi velarono di una blanda luce didolcezza. La ragazza che stava sciorinando daccapo calzefazzolettie camicie sulle corde tesequando vide la faccia di Massimo cheritornava solo verso il salotto dell'albergosorrise.

Egli andò a chiudersi in camerae lesse:

"A mio padre"Ciò cheho fatto e che intendo fare ti parrà molto strano. Tuttaviaconfido nella tua piena approvazione. Ti domando fin d'ora quellalibertà alla quale fra pochi mesi avrò diritto. Come neuserò non posso dirti ancora; ma questo ti posso dire e tidico subito: che delle mie rendite ti domanderò lo strettonecessario per vivere quisolamodestamente. Del resto non midovrai dare nessun conto. Per ora non mi occorre nulla. A suo temporiscriverò. Saluti.

LELIA."

"P.S. Sedate certe circostanzefosse necessario che io ritornassi per qualche giornoaccettereil'ospitalitàopportuna in quel casodella Vayla di Brea."

Un flutto di gioia e di amore gligonfiò il petto. Mise un lungo respiro di sollievodibeatitudine. Nulla nullapensòdeve avere da suo padre! Comela sentiva sua orasenza la ricchezza! Quanto avido era distringersela sul cuore! Ma ella doveva riscrivere subito la letteradire che non avrebbe domandato né accettato un centesimo. Gliera impossibile di tardare a dirle la sua gioia e questa precisavolontà. Precipitò dalle scale per correre da lei.Prima ancora di arrivare al fondorifletté. Sarebbe statosconveniente di salire nella sua camera. Andò ad aspettarla ingiardino. Aveva ricominciato a piovigginare. Non se ne curòsi pose a sedere sul parapetto dov'era stata seduta Lelia. A untratto gli balenò che Lelia avesse espressamente taciutonella sua letteradi lui. Nemmanco vi aveva apposta la datamentr'egli invececon quell'incarico a donna Fedelescopriva ognicosa. Sarebbe forse necessario mandare un telegramma a donna Fedelesospendere. O non era megliopiuttostoche Lelia dicesse chiaro asuo padre come stessero le cose?

Ella non scendeva e Massimoimpazientesi pose a camminare su e giù per il giardinofacendo ancora sorridere la ragazza che raccoglieva daccapo le suebiancherie. Lelia comparve a una finestralo videdisparve subito.Massimo non poté trattenersi dall'andare a incontrarla sullescale. Sapeva che in quell'ala dell'albergo non c'era anima vivacerta famiglia milanese arrivata da un giorno essendo fuorisullamontagnadall'alba.

"Sono felice!" diss'egli.

Ella gli cadde sul pettogl'intrecciòle mani dietro il collomormorò:

"Andava bene?"

Uscirono e si avviarono al riparodell'abeteegli parlando sottovoce ma impetuosoella tacendobevendo le parole ardentibeata. Disse finalmente che non avrebbevoluto essergli di peso ma ch'era contenta di accettare la volontàdi luiche avrebbe scritto un'altra lettera come desiderava eglidichiarando di rinunciare del tutto a qualunque assegno. Udito poidell'incarico dato da Massimo a donna Fedelelo avvertì dellapartenza di lei per Torinoimminente. Solamente allora Massimoapprese parte della verità dolorosa. Che un ritardoanchebrevissimodell'operazione potesse riuscire fatale all'infermaneppure Lelia sapeva.

Sorpresoafflittoegli si dolse dinon aver appreso la cosa in tempo per offrirsi di accompagnare donnaFedele a Torino. Lelia lo guardò.

Temette di esprimere il suo pensierocon parole che avrebbero offeso il pudore dell'egoismoma gli occhidissero chiaro: non pensi che non saremmo qui insieme? Egli capìsorriserinnegòpure cogli occhiil rincrescimentogeneroso. Consci di un comune moto dell'animo che li abbassavanonosarono riprendere quel discorso. Ora occorreva che Lelia scrivessepresto la nuova letterache non dimenticasse di aggiungervi la datae anche una parola d'invito a rispondere.

Mentr'essarisalita in camerascriveva Massimo pigliava qualche ciboecco di ritorno i milanesiscalmanatistanchibagnaticarichi di fiori della montagnadiciclaminidi aconitidi felcidi funghidi fragoledi formaggidi capra e di bottiglie vuote. Non c'era più a speraresilenzio né quietené libertà di colloquii nelgiardino. Quando Lelia discese colla letteraMassimo le propose dipartire. Ellache mostrava già fastidio dei disturbatoriaccettò subito. Prima di mettersi il cappello chiesespensieratamente:

"Ritorniamovero?"

Massimo la guardò. Ella lo videaccendersi nel viso e arrossì pure.

Nonon aveva pensato di restare aDasio. Credeva che Massimo le avesse proposto un breve passeggio persottrarsi alla compagnia turbolenta e scendere più tardi.Massimo guardò l'orologio. Erano quasi le tre.

"Prendiamo quattr'ore"diss'egli "per scendere."

Lelia contentalo ringraziòcogli occhi.

Partirono nel sole e nel vento. Si eralevata una "breva" gagliarda che aveva cambiato faccia alcielo e alla terra. Il sereno rompeva da ogni parte. I pascoli deiRancòi castagneti di Dranole ignude creste taglientirisplendevanoil fogliame umido batteva e luccicava intorno ai duechelasciata la via di Puria là dove la ragazza dell'albergoera discesa a parlare con Leliasi erano messi per lo strettosentiero affogato nel verdechedi ripiano in ripianoper sassi eacquitriniper campicelli e ripide coste erbosesalta e si perdenel morbido grembo del vallonedove cantano e girano verso mezzodìle acque discese dal Passo Stretto. Ricompare girando con essesaleal ponticello di sasso che le cavalcagittato dal basso all'altodove i macigni le stringono irritate. Rude com'èavvinghiatoda rovi e sterpi dell'una e dell'altra spondail ponticello pareopera della natura piuttosto che dell'uomo. Prima di giungervi ilviottolo rade un cavo di roccia sufficiente a capire due o trepersone che vi riparino dalla pioggia. Il cavo è volto asettentrioneguarda la costa di Dasioil vallone del Passo Strettoil sovreminente anfiteatro di rocce. Massimo e Lelia vi si adagiaronoa riposare.

"La punta di dolomia?"diss'ella. "Qual è?" Massimo la guardòstupefatto. Che sapeva lei della punta di dolomia? Ella abbassòil capo e tacque. Egli le prese una mano fra le proprierinnovòla domandapiù stringentepiù ansiosa. Che ne sapevalei?

"Vorrei rispondere colla musica diSchumann" diss'ellapianosenz'alzare il capo"emettervi tutta l'anima mia."

Massimo comprese che donna Fedele avevaparlato e strinse in silenzio la docile mano prigioniera. Palpitavanoentrambi ascoltandosi nella memoria l'incalzante ansito e lo slanciodelle note divine. Il rombo eguale del torrente era unaccompagnamento sconsolatoera il tristo ululo di un idiota chesentisse torbidamenteinvidiandol'amore e la musica.

"Or sappi..." mormoròLeliaalzando il viso rigato di lagrime d'amore. Massimo nonconosceva quei versi.

""Or sappi"?"diss'egli. "Niente" rispose Lelia continuandoinvolontariamente il "tu" dei versi: "mostrami lapunta di dolomia."

Egli le mostròsulla crestadella montagna in facciail piccolo dente inclinato a mordere ilcielo poco sotto la sommitàverso levante. "Lo pensavo"diss'ella"ma l'effetto è diverso quando la rupe si vedespiccar nel cielo dentro un piccolo campocome dal salone dellaMontanina."

"Ve l'hai cercata?" chieseMassimo per la dolcezza dell'attesa risposta. Ma poi non l'attesesipunì della sua gola indiscretadomandò come donnaFedele avesse riferite le sue parole sulla rupeLelia chinòancora il viso.

"Ho letto tutto" diss'ella.

"Tutte le mie lettere?"

"Sìcredo tutte."

Ella sapevadunqueil giudizio acerboch'egli aveva fatto di lei. Il giovine ammutolìprima. Quindile domandò:

"E sei venuta?"

"Se non avessi lettonon sareivenuta."

Massimo teneva ancora la piccola dolcemano. L'accarezzòl'accarezzò in silenzioquasi adetergere dalla dolce mano un'offesa.

"Ho letto l'ultima" disseLelia "fra i rododendri della Priaforà.

Allora ho deciso e ho fatto i mieipiani."

Sorrisepensando alla siora Bettina.Massimo durò poca fatica a strapparle il racconto della fuga.Ella raccontòun po' ridendo un po' fremendoi maneggi deipreti di Velo e della Fantuzzoconfessò le proprie ipocrisiefece ridere anche Massimo colla descrizione del viaggio da Arsiero aVicenza. Non nominò mai suo padre. Raccontò anchegl'incontri fatti in ferroviala indiscrezione della canzonettistala galanteria del viaggiatore di commercioridendo e fremendoancoracome una piccola fiera che mostrasse i denti. Massimo fecescorreredesiderando vederlol'anello della mano prigionierachela canzonettista aveva levato. Lelia curvò il ditoresistendoed egli lo lasciò. Ella si pentìlo pregòdi prenderlo. Perché egli esitavase lo levòglieloporsetriste in viso e grave Il giovine vi lesse "A Leila".Impallidì. Ricordava che il suo povero amico Andrea gli avevaraccontato della disputa colla fidanzata per il nome "Leila"del dono. Le ripose l'anello in ditotacendoetacendole lasciòlibera la mano.

"Io ero cattiva" disse Leliasottovoce"ed egli era tanto buono."

Nel silenzio che seguìl'egualerombo del torrente non era più l'urlo di un idiotaera uncompianto sul morto bel giovinetto dal cuor gentile.

Massimo riprese la mano dellafanciulla.

"Suo padre ha desiderato"diss'egli"poco prima di morireche io prendessi il suo posto.Questo desiderio lo deve aver messo egli nel cuore di suo padre. Nonlo dimenticheremo maicara; vero? Mai mai fino alla morte. Vuoi cheti chiami Leilain memoria di lui?"

"Sì sì"diss'ella commossa. Entrambiuno dopo l'altro baciarono l'anellino.

"Mi parlava tanto di Leisa"disse Leliaritornando al "Lei". Egli non rispose. Sialzarono insiemeper una tacita intesapassarono il ponteseguirono il sentiero che sale alquantoserpeggiandoe ora si snodaper la sinuosa costa tutta sonora del torrente profondoora siaddentra in valloncelli ombrosicorsi da rivoletti. Lelia ruppe ilsilenzio per la prima. Attraversarono l'alto prato dov'è unacappellinadove monti e valli e lagotutto appare scoperto:

"Temo di essere troppo cattiva etroppo stranaper Lei."

Massimo sorrise.

"Lelia lo è stataforse"diss'egli. "Leila non lo è."

Ella gli presecamminando a paro conluila manodisse sottovoce:

"Sìsarò sempreLeilaoramaisempre Leila. Come vuole che siaLeila?"

"Voglio che sia buona piùdi me" egli rispose "e che la sola sua stranezza sia divoler bene a un povero medicuzzo che le offre una vita grama."

Lelia gli si attaccò al braccioappassionatamentelo rimproverò.

"Lei dovrebbe lasciarle dire adaltriqueste cose volgari!"

Appena proferite le parole audacinearrossìchiese perdono.

"Staremo quivero?"

Massimo le spiegò che non potevaesserne ancora sicuro. Era venuto in Valsolda coll'idea di concorrerealla condotta e l'aveva smessa perché il concorso parevadovesse riuscire una formalitàil nuovo medico essendo giàdesignato. Ma ora questi si era ritirato dal concorso e cominciavaqualche favore per luiMassimo. Aveva quindi intenzione dipresentarsi. Se non venisse elettonon potrebbe rimanere. Sarebbenecessario cercare un'altra condotta.

"Domani" diss'egli "vadoa visitare i sindaci."

"Domani?" esclamòLeliaquasi atterrita. "E non La vedròdomani?"

"Forse mi vedràforse nonmi vedrà. Ma Leila deve comprendere che insieme come oggi nonpotremo stare fino che non vengano risposte da Velo d'Astico."

La fanciulla si rattristòmormorò che temeva di non essere ancora tanto Leila. Massimonon intesela pregò di ripetere.

"Forse non comprendo bene"diss'ella. "Obbediscoperò. Faccio tutto quello che Leivuole."

Avrebbe voluto prendere tutti isentieri che salivanonon arrivare mai a San Mamette. Uscendopresso il lavatoio di Dranosulla stradicciuola selciata che conduceagli alti pascoli dei Rancòvedendola entrarea pochi passinel boscodesiderò esplorarla.

Tuttonel boscole era pretesto aindugiarsi: un macigno dei tanti enormi che emergevano nell'ombraungruppo di sottili acacie smarrite fra i castagni e i nociun vecchiocastagno mostruosopatriarca della selvaun cilestrinotra frondae frondadel lago lontanopieno di sole; finalmentedove lastradicciuola monta all'apertoignude e grandi davanti a leilepareti di roccia sopra Dasiola piccola punta di dolomiaobliquanel cielo. Visibilmente stancaavrebbe voluto salire ancora. Massimonon lo permise.

"Leila obbedisce" diss'ella.

A salire verso il monte era prontasempre; nella discesa avrebbe voluto riposare a ogni passo. Finironocon ridernel'una e l'altro.

Sotto Drano ella si fermò adascoltare una piccola voce d'acqua invisibile sotto i suoi piedi.

"Vorrei sapere se ride o sepiange" diss'ella. "Lei pensa che ride di me. Io pensoinvece che piange per meperché presto saremo a San Mamette."

Domandò se andando a San Mamettesarebbero passati dalla cascata veduta la mattina. Udito che noguardò Massimo ridendo e arrossendosenza dir parola. Era unabreve deviazione e Massimo l'accontentò.

Raggiunto alla chiesa di Loggio ilviottolo di Purialo seguirono nel vallone della cascata.

Là nella gola ombrosastrettafra due fauci boscose e chiusanel fondoda una parete di rocciaseduti sull'erba di un picciol dorso in faccia all'obliquo nastro diargento che riga la paretepassarono l'ultima ora dolce del dìmemorabile. Si comunicavano amore per le mani congiuntein silenziosenza guardarsi.

"E' musica di Schuberttuttoquesto" disse finalmente Massimo. ""Der Müllerund der Bach". Un'estate d'amore quisolisempre soli!"

Lelia lo guardò senza parlaredisse cogli occhi l'inesprimibilesì che Massimo n'ebbe unavertigine. I loro sguardi si disgiunseroandarono a incontrarsinella cascata rumoreggiante.

"Mi viene un'idea" disseLelia. "Vorrei cercare uno specchio in quest'acqua perrimettermi in ordine i capelli."

Discesero presso la correntecercaronoun posto dove si allargasse placidatrovarono uno specchio languido.Avevano già veduto dal ponte specchiarsi lì la cascata.Lelia pregò Massimosorridendodi allontanarsi. Egliresistette un pocoquindi obbedìfece qualche passo sullastrada di Puria. Non andò molto che un argentino riso di leilo richiamò. Seduta sulla rivaella si era interamentesciolti i magnifici capelli biondi dove il sole e l'ombra scherzavanoinsieme.

Aveva perduto il picciol nastro che lilegavanon sapeva come levarsi d'impacciorideva della propriasbadataggine e del proprio imbarazzo.

Teneva in grembo due pettini ditartaruga e cercava attorcersi con ambo le mani sulla nuca un'ondapesante della capellatura. Pareva più bella così parevala naiade della cascata. Perché Massimo la guardava estasiatoriselo pregò di guardare altrove. Non le era possibilesentendosi guardata da luivenire a capo di niente. Ma neppur eglipoteva più toglier lo sguardo dai due fiumi biondi chevelavano la fronte sopra gli occhi lucenti di riso e di amoreche lescendevano per le spalle al seno. Sìpareva veramente lanaiade della cascatala regina bionda del picciol regno di rupidiacquedi selve.

"Resti così"diss'eglidimenticando il "tu"nella sua ammirazione.

"Sì" rispose lafanciulla"e poicosa diranno di Lei se La vedono con unascapigliata di questo genere?"

Prese il partito di farsi due trecce elasciarle cadere sul dorso.

Fatte le treccebalzò leggerain piedi.

"Va bene?" diss'ella volgendoa Massimo gli occhi ridenti. Egli rispose:

"E' una poesia."

"Questa Valsolda sìèpoesia" mormorò Lelia.

"Lei non farà micasolamente il medicoqui?"

"Cosa ci dovrei farecara?"

Ella non ne aveva un'idea. Le parevache non fosse uomo da rassegnarsi a non fare altro che visite acontadiniecco.

"Non ho più fede"diss'egli. Intendeva dire che non aveva più la fede in sestesso. Leliaricordando le sue lettereinterpretò quelleparole diversamente.

"Neppur iosa" diss'ella. "Esono tanto contenta ch'Ella non abbia più la fede dei preti diVelo!"

"Oh cara" interruppe Massimo"e il povero signor Marcello e donna Fedele e mia madrechefede avevano? Io la perdol'ho perdutama vorrei che Leila non laperdesse. Però non parlavo di fede religiosaparlavo dellafede in me stesso."

"Ma io ne ho tantain Lei!"

Massimo sorrise. E questo "Lei"non lo voleva proprio abbandonare?

Ella confessò che le piacevatanto dire "Lei" e fare... Si guardò in girononvide anima vivagli porse le labbramormorò:

"Così."

Era tempo di mettersi definitivamentein cammino per San Mamette.

Discesero passo passoparlando pocoserbando un contegno prudente.

Giunti alla chiesa parrocchiale che sicovasotto uno scoglioi tetti del paeselloentrarono nel sagrato.Massimo aveva deciso di congedarsi lì per risalire poi fino aMuzzagliorivedere il suo convalescente. Appoggiati al parapetto delsagratovi presero le ultime intelligenze per l'indomani. Massimonon sarebbe venuto a San Mamette né l'avrebbe incontrataaltrove. Le avrebbe invece fatto pervenire una lettera verso seradopo parlato coi sindaci.

"LungaLa prego!" diss'ella.Promise che ne avrebbe scritto una essa pureper consegnarla almessaggero di lui. Si levò dal seno i ciclamini colti dalragazzovi posò le labbrali porse a Massimo.

Saliva gente dalla gradinata checongiunge la chiesa al villaggio.

Massimo colse il bacio dai fiori edisparve sulla salita.


5.


Lelia uscì dell'albergo dopo lenovesalì al sagratocercò il posto dove Massimo siera congedato da lei. Le parve trovarvi qualche sollievo al desideriointenso. Rientrata nell'albergostette alla finestra sin verso lamezzanotteguardando i fantastici balziper l'aria nebbiosadelfascio elettrico d'acque in acquedi sponda in spondai farisplendenti sul Bisgnagodi fronte al cielo.

Sogno sognotutto era sognotutto eranotte e fiammedentro e fuori di lei.








Capitolo Decimosettimo


LADAMA BIANCA DELLE ROSE


1.


Lelia scese dal letto prima dell'albasedette al tavolino senza vestirsi e scrisse:

"La notte è ancoraprofondasono tanto stanca e tuttavia non mi è statopossibile di rimanere a letto. Avevo l'impressione ch'Ella siallontanasse da me. Bisogna che stia con Leiche Le parli. PoveraLeliaha l'anima piena di Lei e non trova una uscita alla pienezzadel sentimento. Iersera fra le nove e le diecisono ritornata sulsagrato della chiesa proprio al posto dove ci siamo lasciati.

Piovigginava e non ho sentito lapioggianon sentivo che Lei. Ho rifattopensandotutte le stradefatte con Lei nella giornataspecialmente quella del boscodopo ilprimo incontro. E' là che vorrei salire anche adessosepotessi. Credo che troverei il posto precisol'albero presso ilquale passavamo. Ne ho colto una foglia poiripassando. Ella non sen'è accorta. La copro di baciquella foglia. Ahsono ancoraLeliaLeliaLelia! Ma sarò Leilalo prometto.

"Voglia bene anche a Lelia. Scrivoquello che mai non saprò dirle.

Ella mi disprezzaforsenel fondo delSuo cuoreperché sono venuta da Lei come una ragazza folle.Mi disprezzerà più ancora sapendo che non sono venutaper chieder nientepoiché non mi sento il diritto di chiedernienteche quanto Ella farà per meper il mio onoreper ilmio amoreper la mia vitasarà generoso dono. Ma non credache il mio sia stato un fuoco improvvisouno slancio del momento. Laho amata prima ancora di conoscerlaprima ch'Ella venisse allaMontanina. Ho ascoltato palpitandola sera del suo arrivoil rumoredel treno che La portava. E mi sono difesa contro l'amore. Perchémi sono difesa? Per orgoglio. Ma io sto scusandomiadessoe nonvoglio scusarmi. Quanto più amavotanto più sono statacattivasuperbacolpevole verso di Lei. Questa è la verità.Tutto il male ch'Ella ha pensato di melo meritavo. Sono venuta perdirle questo e che l'amo e che sono nelle Sue mani. Non Le ho poidetto altro che il mio amore.

Ah non ho avuto bisogno di dirlo!

"Credevo che mi avrebbe respintacome indegna. Avrei detto: 'E' giusto'. Non mi sarei uccisa perchého dato parola di non uccidermi.

Non avrei preso il velo perchénon ho più fede. Avrei cercato di vivere in qualche modovicino a Leivedendola qualche volta senza lasciarmi vedere mai. MaElla è stato buono e grande. Ella ha avuto pietà di unapersona tanto cattiva e superba. Le Sue labbra mi hanno rimesso ilmio peccato. Ella ha detto 'per sempre'. Ella ha detto 'sposa mia'.Sarà una eterna ebbrezza per me di ricordarlo. Ma io sentoterrore della Sua pietà. Io tremo di renderla infeliceiotremo di non saper mantenere quello che promettodi non saperdiventare Leila. Tremo del cattivo sangue ch'è in me. Se nonavessi del cattivo sanguenon avrei saputo ingannare mio padrelamia affezionata cameriera e quella povera donna che mi accompagnòa Vicenza come li ho tutti ingannati recitando la commediaconperfetta naturalezza e senza rimorsi.

"E pure! E pure! E pure seimmagino ch'Ella mi faccia Sua per semprepenso che nessun credenteadora e serve il Suo Dio come io saprei adorare e servire Lei.Scrissi che non ho più fede. Sono una creatura di passione enon di ragionamento. Non so farle un'analisi chiara dei mieisentimenti religiosi. Sono stata attaccata quanto ho potuto allareligione del collegiobenché non mi fosse simpaticaperchéavevo paura del vuoto. Ella ricorderà forse la mia antipatiaper le novità religioseper le idee che mi parevano buone adistruggere e non a edificare. Finché ho potuto sono stata perla religione dell'arciprete e del cappellano di Velo. Anche quelladel signor Marcello e di donna Fedele non mi pareva pura. Parlavanotroppo di Vangelo come se avessero il diritto d'interpretarlo essiil Vangelomentre sapevo che i laici non hanno questo diritto. Midicevo: o tutto o niente.

Finché ho potuto accettai tutto.Poiquando conobbi più da vicino e vidi in lega persone cheincarnano il Tuttol'arcipreteil cappellanola sorelladell'arcipretemio padreun certo Molesinamico di mio padrenonseppi resistere e mi dissi: meglio niente.

"Ma il Niente non mi soddisfa edomando una fede a Leifelice ch'Ella si sia liberato dalle Suecredenze antichedalle Sue idee di rinnovamento cattolico. Ledomando un Dio che io possa adorare nei boschi di Dasionel burronedella cascatasulle onde del lagoin una camera nuziale; che nonm'imponga mediatori ufficiali; che mi domandi solamente amore e miproibisca solamente odio; che non mi torturi l'intelligenza con dogmiincomprensibilinon mi annoi con pratiche tediosenon pretendaallettarmi con paradisi né atterrirmi con inferni.

"DomaniLa vedrò? Se lamia camera avesse una finestra sulla piazzacredo che ci stareitutto il dìsperando. Ma la mia camera guarda il cortile.Faccio male se nel pomeriggioalle treparto da San Mamette e vadoa sedere nell'erba in faccia alla cascata? Faccio male se mitrattengo un poco presso una cappelletta mezzo diroccata dove ilsentiero comincia a discendere e si scopre a un tratto tutta lavalleanche colle rupi di Dasio e la punta di dolomia? Sarebbe malese Lei passasse di là andando a visitare i Suoi sindaci?

"Forse Leila non dovrebbe scriverequeste cose.

Povera Leila!"

Ritornata a lettodormìprofondamentefino a sole altoil sonno della stanchezza e dellagiovinezza. Non ebbe pazienza di aspettare il messo di Albertifecechiamare il ragazzo del giorno precedente e lo mandò a Dasiocolla lettera.

Non uscì più di camerafino alle due. Passò il tempo a guardare i montiil lagolenuvolele vicende della luce e dell'ombraa fantasticareascrivere. Scrisse a donna Fedeledicendole la propria gioia diessere perdonata e amatascusandosi ancora di essere partita senzadirglieloinformandola della lettera scritta al padrepregandola difarle avere notizie della sua salute. Diresse al Mauriziano diTorinotemendo che la lettera non trovasse più donna Fedelead Arsiero. Alle due uscì per comperare dei francobolli. Sullaporta dell'albergo incontrò il messo che le recava la letteradi Massimo. Se la pose in senoandò a prendere i francobollibeandosi di quel contatto misteriosodesiderando gustarlo a lungoprima di leggere. Rientrò dopo un quarto d'orasi recòla lettera alle labbral'aperse con mani tremanti Massimo scriveva:

"La giornata di ieri fu tale unsognoLeilache la Sua lettera d'oggidolce senza finemi ha datopiacere anche solo come prova della realtà di quelle oredivine. E nella realtà lo rividiierseraandando aMuzzaglioil bosco dove un attimo ci bastò a cancellare tuttele amarezzetutti dolori del passato. Non ne colsi foglia. Soloappoggiai la mano a un tronco tepido e mi arrestai perché ladolcezza del ricordare mi soffocava. In quell'attimo delizioso Ellaera ancora Lelia per me. Non offenda più con accuse la memoriadi Lelia.

Offenderebbe me. Non parli di bontàmiameno ancora parli di grandezza. Non chiami pietà ilsentimento ch'Ella m'ispirò al primo vederlache nei suoiprincipii ho combattuto anch'io. Non dica più quella cosaorribile che non ha mai pensatoche io possa disprezzare la donnacapace di un tale miracolo di amore e di umiltà. E io nondiròalla mia voltale colpe mieil giudizio egoistico epresuntuoso che ho fatto di Lei. Io Le dirò soltanto che ilmio amore per Leila mi riempie mi commuove l'anima non piùcome la musica di 'Aveu'ma come una grande voce d'organounagrande musica solenne che faccia tremare e piangere e sognare coseeterne.

"Caranoi la cercheremo insiemeuna fede. Ricordo le Sue antipatie per i miei maestri e le mie idee.Allora credetti che fossero solamente uno sfogo indiretto della Suaantipatia personale per me.

Dubitavo che non conoscesse né imiei maestri né le mie idee. Ora comprendo le ragioni del Suosentimento. Quel dubbio peròmi perdoniresta. Le idee chemi furono tanto careper le quali ho combattuto e soffertomipermetterebbero di adorare Iddio nei boschi di Dasio e nel burronedella cascatain faccia alla punta di dolomia e in una cameranuziale. Mi farebbero accettare senza tortura dogmi incomprensibili eosservare senza tedio pratiche imposte. Ella ha veduto nelle mielettere alla Vayla il mio presente stato d'animo rispetto ad esse. Semi si sono sfasciate nella menteè stato con grande miostrazio. Solamente ieridurante tutto il paradiso di ierinon ci hopensato. E non ci avrei pensato oggi e non ci penserei domani e chisa per quanto tempo mi basterebbe di vivere e di amare in questasolitudine poeticadi avvolgere nello stesso tacito perdono didisprezzo tutti i piccoli uomini e le piccole donne del granderumoroso mondo che mi hanno dato fastidiose non fosse imminente unavvenimento cui non posso a meno di accennare senza una specie dicommozione terribile e sacra. Un Morto è uscito dalla tomba esi avvicina a mecerca me per domandarmi conto della mia fede. E' ilmio maestrol'Uomo che ho più amato al mondol'Uomo che hacredutoadoratoobbeditoperdonato a tutti e disprezzato nessuno.Egli è uscito dalla sua tomba di Roma. Viene qua. Arriveràposdomani sera. Me lo annuncia un telegramma pervenutomi stamattina.Io dovrò andare a incontrarlo. Leila caranoi cercheremoinsieme una fedema quello che provo pensando un tale incontronéla parola né il silenzio valgono a direperché non loso definire a me stesso.

"Non mi è possibileincontrarla com'Ella dice. Alle due e mezzo debbo trovarmi a Cima perparlare col sindaco. Ella parta a quell'ora e si faccia accompagnareal Santuario della Caravina. Attraversato il villaggio di Cressognocongedi la Sua guida. Non potrà sbagliare più.

Il Santuario è una chiesaisolata. Se non mi avrà incontrato primami aspetti lì.Andremo poi insieme a Cima dov'Ella potrà prendere il battelloper ritornare a San Mamette. Io risalirò a Dasio. Leila mia!

M."

Un fischio. Il battello arrivava daOria. Lelia aveva dimenticato di caricare l'orologio. Guardòun orario che le avevano posto in camera.

Dovevano essere quasi le due e mezzo.Fece tosto cercare del solito ragazzo e si avviò rapidamente.In mezz'ora fu all'uscita di Cressogno verso la Caravina. Licenziòil ragazzo e procedette sola.

Aveva portato seco la lettera diMassimo e la rilesse camminando lentamente per la stradicciuolagentile che va piana fra gli ulivi e i vigneti della costa blandascendente al lago. A cento passi dai cipressi che fronteggiano ilSantuarioalzò gli occhis'illuminò.

Massimo le veniva incontro. Ella fuappena in tempo di levarsi il guanto della mano che porse a quelleavide di lui. Gli mostrò la lettera gli disse plano collelabbraforte cogli occhi e con tutta la persona fremente:

"Grazie!"

Stettero un momento mutiper lacommozione e anche per altra cosa.

Ciascuno dei due sentiva che l'altropensava la stessa ombra dello stesso cadavere. Ciascuno dei duesentiva che l'altro non sapeva se parlarne o no e come parlarne. Ilreciproco imbarazzo fece che si rimettessero presto in cammino. Siavviarono a parosilenziosiverso il Santuario. Poiché eglitacevaLelia sentì che toccava a lei di parlare.

"Lei è triste" dissepiano. "Potrei fare qualche cosa perché non lo fosse?"

"Cara" egli risposeimpetuosamente come se null'altro avesse attesoper effondersicheuna parola qualsiasi di lei"vi sono espressioni nella mialettera che rispondono male al mio pensiero. L'ho un poco sentitoscrivendole e l'ho sentito molto più quando la lettera era giàpartita. Se avrò il Suo amorese avrò l'anima Suanonpotrò sentire disprezzo per nessuno. Non potrò chesentire pietà per chi non può dire suoi un amore cosìun'anima così. Vi sarà in me un onda di perdono eneppure una stilla di disprezzo."

Ella non disse parolalo guardòcon occhi velati di dolcezza che tosto si accesero del solito fuocoscuro. Allora non lo guardò piùnon potendo reggerealla desiderata vista. Messo il piede sulla stradicciuola che oltreil Santuario serpeggiaancora pianaper altri vigneti e altri ulividella costa blandachiese timidamente di questo Morto che veniva daRoma. Ricordava che alla Montaninauna seraappena finito dipranzareell'aveva chiesto a Massimo dove fosse sepolto Benedetto eche Massimo aveva risposto: "Per ora a Campo Verano".

Massimo la informò di ogni cosama non toccò la corda che aveva vibrato nella sua lettera. OsòtoccarladiscretamenteLelia. Ripeté sottovoce la domanda:

"Posso fare qualche cosa perchéElla non sia più triste?"

Poiché Massimo non rispondevasoggiunse:

"Vedo che lo ama ancorail SuoMaestro."

"Sì" rispose Massimo"lo amo ancora."

Lo disse con un'agitazione che parveannunciare altre parole. In quel momento una nube coperse rapidamented'ombra vignetiulivisentiero elungo le riveuna larga listaverde-chiara del lago addormentato.

Massimo si fermò. Lelia credetteche volesse parlareattese ansiosaguardandolo. Egli voleva infattiparlare. Lottò per trovarne la via fra il tumulto dei pensierie dei sentimenti che cozzavano insieme.

Gli si vedevano quasi le parole saliredal cuore e ridiscendere. Ne aveva così chiara coscienza chenon dubitò di venire inteso quandopassati due minutidissedolorosamente:

"Non posso."

E si staccò dall'ulivo cui siera appoggiatoinvitò Lelia a proseguireanche perchéverso Lugano il tempo era bruttoCaprino e il Salvatore si velavanodi un velo sospetto. Ella obbedìmesta. Le doleva che non sifosse sfogatole doleva una propria impotenza confusamente appresa.Massimo intese di averla fatta soffrirele prese il braccioleaccarezzò la mano teneramente. Ella portò sulla propriasinistra anche la destragelosa di quelle carezze. Non parlaronofino a Cima. Dentro Cima udirono la vocina di un vecchio pianocantare:

"Solafurtiva al tempio..."

Massimo si arrestòstette inascolto.

"Il preludio dell'amore"diss'egli. Lelia lo guardòattonita. Che voleva dire? Uditoche Massimo si era commosso ascoltandola suonare quella melodia lanotte del suo arrivo alla Montaninamentre tutta la casa dormivadiventò rossa e sorrise.

"Non ero io" diss'ella.

"Non era Lei?"

"Noera il signor Marcello."

Ell'aveva arrossito forte per il timoredi vederlo mortificato e infatti un po' di mortificazione gli apparvenel viso. Ma egli comprese alla sua voltasubitoch'era in pericolodi mortificare lei e rise del proprio ingannocordialmente. Ne riseallora ella puretanto che gli balenò l'idea di uno scherzo.La pregò di dire la verità. "Leilei avevasuonato!"

"Sì sì"diss'ella rovesciando il viso ridente all'indietro come faceva neisuoi momenti di umore gaio"ero io la suonatrice."

Massimo non sapeva se credere o noncrederee risero ambedue a vicendapiù che non parlasserofino a che un rumore di ruote lontane non ebbe annunciato loro che ilbattellolasciata Porlezzaveniva alla volta di Cima. Seguìallora una piccola contesa. Massimoun po' serioun po' scherzosoproponeva che l'indomani facessero a meno di vedersi. Per lunedìsi poteva aspettare una risposta o dal padre di Lelia o da donnaFedele. Lelia protestava. Tanto qualunque risposta venissele cosenon avrebbero cambiato. E lunedìrisposta o non rispostasarebbe andata con lui incontro alla salma di Benedetto. Laconclusione fu ch'egli le avrebbe fatto pervenire l'indomani mattinaper tempo una letteracol programma della giornata.

Appena salita sul battelloell'andòa poppa e vi restò in piediguardando Massimo fermo sul pontedi sbarco finché fu visibile. Poi sedette a pensare il proprioamorei propri casiguardando le spume dell'acqua fuggenteche oralucevano ora si oscuravanoa talento delle nuvole.


2.


Pranzò alle seiin camera. Poisi mise a scrivere a Massimo. Verso le setteudito il fischio delbattello che veniva da Oriaandò alla finestralo guardòpassare. Si rimise a scriverea raccontare i suoi pensieri durantela contemplazione delle spume fuggenti. Stava scrivendo che anch'essiavevano sentito il passar delle nuvolela vicenda della luce edell'ombra; quando fu bussato all'uscio.

Entrò la cameriera. Due signorearrivate col battello avevano chiesto della signorina. Lelia nedomandò il nome. La ragazza non lo sapeva.

Che aspetto avevano? Erano attempate;una era piccolal'altra era grande. Questa aveva i capelli bianchi.Donna Fedele? Possibile?

Guardò mutasmarritalacamerierache soggiunse di aver udito la signora dai capelli bianchidomandare al padrone se fosse nell'albergo anche il dottor Alberti.Non dubitò piùfu d'un balzo all'usciospinse dabanda la ragazzavolò giù dalle scale.

Videnel piccolo ingressodonnaFedele sedutaein piedi presso a leila Magis coll'albergatore.

"Lei!" esclamò. E sisarebbe precipitata ad abbracciarla se la Magis non l'avessetrattenuta.

"Povera signora!" dissel'albergatore che teneva un vassoio con un bicchierino di marsala."E' un po' stanca."

Donna Fedelebianca il viso quanto icapellisorrise del suo sorriso dolcesforzò la dolce voce adire:

"Vediche sorpresa? Stai bene?Hai fatto buon viaggio?"

Lelia ebbe una crisi di singhiozzi e dilagrime.

"O' ò ò!" fecedonna Fedele. "Cosa ti viene in mente di piangere? Ti dispiacedi vedermi qui?"

"E' il piacerepovera signorinaè la sorpresa" sentenziò l'albergatore che sentivaodore di mistero senza indovinarne la qualità. Intanto lacugina Eufemia insisteva "pìa pìa pìa"perché la cugina Fedele pigliasse il marsala. Questanell'entrare all'albergoera quasi svenuta. Le avevano portata infretta una sediave l'avevano adagiata e solo dopo qualche minutoell'aveva trovato la forza di chiedere all'albergatore se avesse datoalloggio a una signorina che viaggiava sola e se fosse nell'albergoanche il dottor Alberti.

Preso il marsalasi riebbe. Intantoanche Lelia riacquistò l'impero dei suoi nervi e delle suelagrime. Dispose che le nuove arrivate avessero la sua cameralamigliore disponibilea due lettie che per lei fosse preparato lostanzino attiguo.

Donna Fedele annunciò che sisentiva in grado di salire per mettersi a letto e soggiunsenelsolito stileche la sua compagnaavendo destato la curiositàe l'ammirazione degli abitantiera libera di andare a passeggiodimostrarsi.

"Làlàlà!"fece la cugina Eufemiacontenta. "Sieno lodati il Signore e laMadonna! Adesso vai benevai benevai bene!"

A stentoinfinitamente a stentosorretta da Leliafermandosi ogni due scalinidonna Fedele potésalire le scale e trascinarsi nella camera doveaiutata dallafanciulla e dalla cugina Eufemiasi pose a letto.

Lelia rimase atterritaspogliandoladello stato di dimagrimento e di parziale deformazione enorme in cuila trovò. In presenza della cugina non vennero scambiate fraloro che parole indifferenti. Quando fu a lettodonna Fedelelicenziò la vecchietta. Appena uscita costeiLelia si buttòginocchioni a baciar piangendo la mano di donna Fedeleche pendevadal letto.

"Cos'hai mai fattobambina?"

Alla voce severa e in pari tempo soaveLelia non poté rispondere che con lagrime piùabbondanti. Donna Fedele s'ingannò sul significato di quellelagrime.

"Dio mio!" diss'ellasottovoce.

Non intese che la fanciulla piangeva dicommozione per leiper la donna semplice e sublime verso la qualeaveva mancato e ch'era venutacosì ammalatacosìdistruttacome sarebbe venuta una madrela più tenera madre;mentr'ella stessatutta assorta nell'amoresi era ricordata cosìpoco di leidelle sue mortali sofferenze. Lelia si affrettò adire fra i singhiozzi:

"Sono felicesasono tantofeliceho fatto male a non dirlo a Lei ma ho fatto bene a venire."

"Hai fatto bene?"

"Sìmi ama; mi sposaètanto nobileè tanto buono! Le avevamo scritto."

"Eh!" fece donna Fedele. "Misposa! Vorrei vedereadesso!"

Leliasempre inginocchiataalzòil viso.

"Perché?" diss'ella"Non ha nessun dovere!"

Donna Fedele tacquesottrasse la manoa quelle di Lelia che la stringevanogliela posò sul capodisse piano:

"Chi sa che idee hai tutestolinadel dovere!"

Faceva oramai buio nella camera e donnaFedele non poté vedere le fiamme nel viso di Lelia. Le sentìnella vocenelle parole accese:

"Che dovere ha? Son venuta ioacercarlo. Mi ama e in pari tempo vi è come un fratello in luiche mi proteggerebbe contro me stessase ve ne fosse bisogno."

Donna Fedele sorrise accarezzandolelievemente i capelli:

"Ve n'è bisognove n'èbisogno."

Lelia le prese la mano carezzevolevipiegò su il visomormorò:

"Forse sì."

"Che vergognache vergogna!"

Mentre donna Fedelesottratta ancorala manorimproverava così l'inginocchiata battendole un po'forte il caposfolgorò nella camera il lampo elettrico e siudì uno strido della cugina Eufemia. Aveva trasalito anchedonna Fedele. La cugina entrò spaventata per chiudere lefinestre. "O mi povr'omche diavolo di temporale!" Leliafaticò non poco a convincerla che il lampo non era venuto dalcielo. Donna Fedele la rimandò fuori. Voleva udire da Leliaogni particolare di quei tre giorni. La fanciulla ne fece un raccontomolto scolorato e poi domandò il permesso di avvertireMassimosubito. Donna Fedele stessa lo desiderava ma escluse diriceverlo prima dell'indomani mattina. Lelia scrisse a precipizio duerighe nello stanzino attiguodicendo anche delle condizionitristissime di donna Fedelee incaricò l'albergatore di farportar subito il biglietto a Dasio.

La cugina Eufemiaben deliberata dinon coricarsimalgrado la stanchezzaprima di fare preparativi perla nottedi portarsi in camera brodoacquamarsalaprese Lelia apartele raccomandòcolle lagrime agli occhidi far sìcheoccorrendosi potesse avere prontamente un medico. Tremava!Fedele avrebbe dovuto essere al Maurizianoa quell'ora.

"E' tanto temposa"diss'ella"che prevede di morire. Si è confessata ecomunicata ier l'altro e ieri mattina ha voluto che il suo confessorevenisse al villino per darle ancora la benedizione. Se almeno fossepossibile di partire per Torino domani! Ma non vorrà certo!"

Leliasbigottitaangosciatas'informòper ilmedico dall'albergatore. Il medico condotto provvisorioquelloche si era ritirato dal concorsoabitava a Cadatea meno che dieciminuti da San Mamette. Lelia voleva assolutamente vegliare leil'ammalata invece della povera vecchia Eufemiase non la notteinteraalmeno una parte. Ma la povera vecchia Eufemia sarebbe mortapiuttosto che accettare.

"Una sedia" diss'ella"perché se mi coricoanche vestitami addormento comeun salame; il mio rosario; la mia Madonna della Consolata in mente;io sto meglio che a letto."

Lelia dovette piegare. Avvertìl'albergatore che forseprima della mezzanottela persona cuiell'aveva mandato il biglietto sarebbe venuta a prendere notiziedell'inferma. Non si coricò. Andava ogni tanto a origliareall'uscio delle sue vicine. Udì donna Fedele comandare allacugina di porsi a letto. La cugina si schermiva ma poil'altraalzando la voceobbedì. Ottenne solamente di non spogliarsi.

Udì donna Fedele chiederequalche cosa sottovoce e allora la Magis recitare il rosario. Preseuna sedia e si dispose di passare la notte lìpronta aentrare se occorresse.

Si teneva sicura che Albertiappenaricevuto il bigliettosarebbe partito. Arrivò infatti versole undici e mezzo. Udito parlare nell'ingresso dell'albergoLeliadiscese. Massimo era molto commosso e si commosse anche piùascoltando la relazione della fanciulla.

Discusse con lei la opportunitàdi vedere donna Fedele subitose fosse svegliata. Ella non locredeva opportuno e il giovine si rimise al suo giudizio. Avrebbevoluto prendere il posto di lei all'uscio dell'ammalatama perchéla camera dov'ella avrebbe dormito metteva nello stesso corridoionon insistette nella proposta. Chiese un'altra camera per sé epregò Lelia di farlo chiamare per qualsiasi evenienzanontralasciando però di far chiamare anche il medico di Cadate.

Sola nel corridoio scurotacendooramai tutta la casaLelia ripensò la vicenda della luce edell'ombra sulle spume fuggentile parole che ne aveva scritto nellalettera interrotta da donna Fedele. Ombra e lucea vicendasullespume e nei pensieri allora; ieri luce nel suo cuoreoggi ombra. Perleiper lei soladonna Fedele era lì a soffrireforse amorire; per causa di leidel suo egoistico amore.

Le parve quasi di voler meno bene aMassimo. Pianse silenziosamentemordendosi il labbro per non romperein singhiozzi. Una sottile voce le diceva benein segretoche donnaFedele avrebbe potuto fare a meno di venireche non ve n'erabisognoche andare a Torino sarebbe statoda parte di leimigliorconsiglio. Ell'avrebbe dato mille ragioni a questa voce se la maternaamica fosse venuta in buona salute e con rampogne. Ma era venuta inquello stato e con tanta bontàcon tanta soavità diparole e di volto! E da chi le veniva la sua felicità se nondalla materna amicaper vie aperte da lei? Un'altra cosa Leliaconfessò a se stessa. Benché avesse passato la notteprecedente sul letto e questa le toccasse di passarla sopra unasediaun'aura di protezione materna era entrata nella casacherendeva la sedia di oggi più riposante del letto di ieri.

Verso le due ebbe paura diaddormentarsisi alzò pian pianoandò nella suacamerettasi pose alla finestra per cacciare il sonno coll'ariafresca. Vide illuminata e aperta un'altra finestra dell'albergo. Làforse vegliava Massimo. Si ritrasse dal davanzale.

Non avrebbe volutoin quel momentoesserne veduta e vederloavere una comunicazione di amore. Ascoltòi sussurri della nottequalche tocco dal lago placidoil salto diun pescequalche ululo di allocchi lontani; e ritornò allasua sedia coll'idea che l'amore le si trasformavache nel contattodi realtà dolorose prendeva un carattere di profonditàdi gravità nuova.

Alle quattro udì donna Fedeledomandare qualche cosala cugina scendere dal lettourtare in unasediaguaire; e donna Fedele ridere. Poi più niente fino allamattina.


3.


Alle sei e mezzola cugina Eufemiach'era uscita di camerapian pianoalle seilasciando donna Fedeleaddormentataspinse un poco l'uscio socchiusole vide gli occhiapertientrò.

"C'è il signor dottorAlberti" diss'ella.

Donna Fedele si voltò sulfianconon senza penaverso l'usciomormorò:

"Avanti."

Massimo entrò di frettacurvando un poco l'alta personapremuroso nel viso e lieto.

"Che piacere!" diss'egliunpo' per abitudineun po' per simulazionepure sentendo che nonerano le parole più appropriate a quell'incontro con un'amicatanto più ammalata di quando si erano lasciati l'ultima volta.

Donna Fedele sorrise.

"Piacere non so quanto."

E gli stese la mano ch'egli baciò.

"Ma perché ha fatto questoviaggio faticoso? Non ve n'era mica bisognosa. Come ha potutodubitare che..."

Massimo era per dire "ch'io fossicristiano e gentiluomo" le parole del telegramma. S'interruppe earrossì perché la parola "cristiano"dopol'ultima sua lettera alla donna che lo udivagli avrebbe bruciate lelabbra.

Donna Fedele lo guardò insilenzio con occhi penetranti che lo fecero arrossire piùancora.

"Dipende da tee da Lelia"diss'ella"che io abbia fatto la più bella azione ditutta la mia vita."

Massimo tacque. Non capiva.

"Adesso" diss'egliuscendoda un silenzio imbarazzante "mi lasci prendere la mia parte dimedico."

L'ammalata negò con un motolento e lungo dell'indice. Massimodolentene domandò ilperché. Ella rispose che non aveva bisogno di medicoche laparte del medico la doveva fare ella stessasì con lui checon Lelia. Ma non ora. Ora voleva saperepoiché fra loro sierano intesicosa avessero in animo di fare. Udito che Lelia avevascritto a suo padre e che ne attendeva rispostaosservò chela risposta negativa era sicura e cherisposta o non rispostalaragazza non poteva rimanere lì.

"Dio mi darà la forza diricondurla a casa sua" diss'ella "o almenoper qualchegiornoal villino."

Allora Massimo le riferì iltenore della lettera di Lelia al padrela probabilità che larisposta non fosse negativa. Donna Fedele l'ammise e fu poi contentadi apprendere che Massimo sperava di conseguire il posto di medicocondotto in Valsolda. A ogni modo era necessario che Lelia partissecon lei. Massimo riconobbe questa necessità. Pensò chesarebbe stato difficile persuaderne la fanciulla ma lo tacque.

"Chiamala" disse l'ammalata.

Lelia venne e udito di che si trattavaimpallidì. "No no!" esclamòpiuttosto intono di preghiera che di protesta. Donna Fedele le diede dellabambina. Ella e Massimo si erano intesile cose avrebbero il lorocorso. Come mai non capiva la sconvenienzala impossibilitàper leidi restare in Valsolda? Lelia si spiegò. Sperava chevi sarebbe rimasta donna Fedele per qualche giornoche si sarebbegiovata di quel riposodi quella pace. E poi l'accompagnerebbe aTorino Certo le doleva di partire dalla Valsolda ma di ritornare aVelo aveva orrore addirittura. A diventare maggiorennepadrona diséle mancavano mesisolamente mesi! Donna Fedele le feceosservare che a Torino ella sarebbe rimasta affatto senz'appoggio.

"Se tuo padre lo permettesse"diss'ella dopo alcuni momenti di riflessione"potrei lasciartia Santhià presso mia cugina."

Fu convenutodopo una brevediscussioneche per quel giorno donna Fedele riposerebbechel'indomani mattina sarebbe veduta dal medico di Cadate eavutanel'autorizzazionepartirebbe con Lelia per Torino avvertendo coltelegrafo la cugina di trovarsi alla stazione di Santhià perricevere la ragazzamentre l'Eufemiaricuperato il baule cui donavaqualche segreto sospiroavrebbe proseguito con lei; di farerispedire all'indirizzo di Santhià le lettere che pervenisseroa San Mamette per Lelia. Donna Fedele cedetteper il megliosulpunto del permesso paterno. Il sior Momi era stato sempre cosìossequioso con leila casa delle cugine di Santhià era unsoggiorno tanto sicuro e Lelia abborriva talmente dal ritorno a Veloch'ella credette poter decidere così di suo capo. Tantidiscorsi avevano esaurite le sue povere forze. Pregò di stareun'ora in silenzioin pacee pregò che Massimo se n'andasseal suo Dasioche Lelia si accontentasse di rivederlo la serafra lesei e le settein sua presenza. Sentiva di avere una responsabilitànon piccola della folle scappata di Leliasentiva di essere menolibera nella parte materna volontariamente assuntasi che non losarebbe stata una vera e propria madre. Lelia ebbe un movimento diribellione.

"Leila! Cara Leila!" disseMassimo sorridendo. La piccola fiera dagli occhi lampeggianti siammansò come per incanto. Egli voleva così.

Bastava. Donna Fedele spalancògli occhi. "Cosa? Ti sei cambiata il nome?"

"Solamente per lui" risposeLeliaarrossendo"ma per lui proprio sìproprio sì!"

"Spiegatevi."

Lelia stese rapidamente la mano versoMassimo a fermare le parole ch'egli fosse per dire. Supplicòdonna Fedele di non chiederle spiegazioni.

"Piuttosto" soggiunse "michiami Leila anche Lei."

Donna Fedele crollò il capofece un gesto come per dire: chi si raccapezza con questa gente? E laconversazione ebbe fine.


4.


Era domenica e la cugina Eufemiainformatasi fino dalla sera precedenteanche per incarico di donnaFedeledella chiesa e della messaaveva saputo che la chiesa stavain alto a capo di una faticosa scalinatache la messa parrocchialel'unicasi celebrava alle nove.

Né altre chiese di piùcomodo accesso erano nelle vicinanze. Vedeva bene che la cugina nonera affatto in grado di andare a messa ma tuttavia non osòuscire senz'avvertirla. L'avvertì alle otto e mezzo.

Donna Fedele fece chiamare Lelia.

"Vai a messa coll'Eufemia"diss'ella. "Io non ci posso andarepur troppo. Ascoltala ancheper me."

Lelia espresse il desiderio di tenerlecompagnia. L'inferma si oppose risolutamente: "Nocara; deviproprio andare". Soggiunse cheoccorrendoavrebbe pregato ditenerle compagnia la cugina Eufemia. Ma non occorreva. Siccome Leliapareva esitarele domandò sorridendo se per avere un piacereda lei fosse necessario di chiamarla Leila. La fanciulla non disseparola colla Magis.

Donna Fedele soffriva. Doglielancinanti avevano cominciato a torturarla durante il colloquio conMassimola torturavano ancora.

Non erano sofferenze nuoveleconosceva da un pezzo; ma conobbe purequesta voltal'afflosciarsidi ogni energia resistente. Prese dal tavolino da notte il suo librodi preghierecercò di leggere quelle della messa. Non potéfu costretta di abbandonare sulle coltri la mano apertacosìche il libro le scivolò a terra. Sudore abbondante le rigavala fronte e le guance cadaveriche. Non le uscì di bocca ungemito. Poco prima che la cugina Eufemia e Lelia rientrassero dallachiesale doglie si chetarono. Nel primo momento di relativo riposoella disse udibilmenteparlando a se stessa: "Di quacaraFedelenon si parte più".

Trovò tuttaviaquandorientraronola forza di riceverle serenamente.

Alle loro domande rispose che avevaavuto qualche doloruccio ma che ora si sentiva meglio. Chiese unbicchierino di marsala. La voce diceva spossatezza estrema. Leliapropose di far venire il medico.

"Fate pure venire il medico"disse l'ammalatasorridendo "ma intendiamoci..."

Lelia arrossì. Disse che avevapensato al medico di Cadate e non a Massimo.

La cugina Eufemia tremò nelcuore. Se Fedelepensòpermette che si chiami il medicodeve sentirsi assai male. L'ammalata volle che uscisse lei per questachiamata del medico di Cadate. Pregò Lelia di raccattarle illibro caduto e se ne fece leggere a voce alta queste parole diSant'Agostino:

"Ma egli è tempo che io aTe ne venga per sempre: aprimi la Tua soglia e insegnami come vi sigiunga. Io non ho che il buon volere e null'altro so se non chevoglionsi fuggire le cose mortali e caduchecercare le certe edeterne. Questo solo so; ma come giungere a Te non so. Tu mi scorgim'illuminami poni in via. Se Ti trovano colla fede quelli che in Tesi riparanodammi la fede; se ciò ottengono colla virtùconcedimi la virtùe se il fanno colla scienzadammi lascienza. Accresci in me la fedela speranzala caritàconuna ammirabile e singolare bontà."

Nel principio della lettura Leliarabbrividì. Era quello un indiretto avvertimento di prossimafine? Procedendo non le parve più tale. Però la primacommozione durava e si sentì nella voce fino all'ultimo.

"Grazie" le disse donnaFedeleseria e dolce. "Vorrei quando avrò passato quellasogliache tu pregassi cosìqualche voltain memoria dellatua povera vecchia amica."

Lelia le prese e baciò la mano.L'inferma si tenne in silenzio fino all'arrivo del medico. La visitadel medico fu inutile perché egli non ebbe il permessodell'esame "completo" che gli era necessario per rendersiconto delle condizioni reali di quel misero corpo. Donna Fedele gliparlò dell'operazionegli disse che intendeva partire perTorino l'indomani mattina ma che non sarebbe partita senza il suopermesso. Lo pregò quindi di ritornare la mattina seguente perpronunciare la sua sentenza. Il medico disse a Lelia fuori dallacamerache aveva trovato il cuore assai debole e che temeva per lavita.

Alle sei venne Massimo. L'inferma nonaveva dolori. Parlava pochissimo. La cugina Eufemiaafflitta di nonsentirsi canzonareguardava ora Lelia ora Massimo con occhiinterrogatoripieni di angustia. Quel silenzio e l'assenza delsolito sorriso li atterrivano tutti e tre quantunque nessuno osasseconfessarlo all'altro. Alle sette donna Fedele pregò la cuginadi uscire e chiamò i due giovani al suo letto. Domandòa Lelia se fossero venute lettere da Velo. Nonon era neanchepossibile.

Si vedeva ch'ell'aveva inteso preparareun altro discorso e che durava fatica a legarlo con quell'esordio.Pensò alquanto e poi si decise.

"Se Lelia" diss'ella "harinunciato a godere della sua sostanzaè inutile discorrernepiù. Ma è giovine. Verrà un giorno in cui laMontanina sarà a disposizione vostra. Vi prego di nonabbandonarla. E se non temessi di essere indiscreta Vi preghereianche di far celebrare allora una messa anche per me a Santa Mariadei Monti e..."

S'interruppeofferse le mani scarne aquelle dei due giovani e ritrovando l'usato dolcissimo sorriso compìla frase: "di assistervi".

Le mani scarne furono strette insilenzio. I belli occhi bruni s'illuminarono. Ella parve ripigliarequalche forzapregò Massimo di scriverle l'itinerario perl'indomanise fosse il caso di partire.

Lasciando San Mamette poco dopo lediecile viaggiatrici sarebbero arrivate a Santhià alle seidel pomeriggio e a Torino verso le sette e mezzo. Massimo le avrebbeaccompagnate fino a Porto Ceresio. Lelia gli chiese timidamente: "Enon fino a Milano?".

Egli le spiegò sottovoce che nonera possibile. Il viaggiatore partito da Roma doveva giungere a PortoCeresio da Milano otto minuti prima che vi arrivassero loro daLugano. E il piroscafo speciale sarebbe ripartito subito per Oria.

"Non puoi?" disse donnaFedeleche non aveva udito. "Ah!" soggiunse.

"Forse per la ragione che mi hadetto don Aurelio."

Massimo non sapeva ch'ella si fosseincontrata a Milanocon don Aurelio. Parlarono di luidel suopovero statodel suo animo sereno.

Donna Fedele riferì le ragioniper le quali egli aveva deliberato di accompagnare la salma.

"Non avrebbero potuto lasciarle inpace a Roma" diss'ella"quelle povere ossa?"

Lelia guardò Massimoche nonrispose.

Verso mezzanotte donna Fedele ebbeancora un assalto di doglie acutissime. All'alba erano scomparsemail medico di Cadatevenuto alle sei trovò febbrenaturalmente giudicò impossibile il viaggio.

Massimo partì dopo le dieci perPorto Ceresioripromettendosi di essere di ritorno a Oriacolpiroscafo specialealle due del pomeriggio. Dal cimitero diAlbogasiodove la salma di Benedetto si doveva tumularea SanMamette si viene a piedi in un quarto d'ora.


5.


Fermo all'uscita della stazione diPorto CeresiopallidopalpitanteMassimo aspettava di vedere fra ipasseggeri del treno di Milanogiunto in ritardole facceconosciute di don Aurelio e degli amici di Roma che gli avevanoannunciato il loro arrivo insieme alla salma.

Nessuno. Alla prima impressionequasidi sollievosottentrò un dispettoso rammarico di non esserestato avvertito del ritardodi avere lasciato Lelia e donna Fedelecosì prestosenza necessità.

Parlò col capostazione. Nonsapeva niente; promise di telegrafare a Milano per avere notiziedella funebre spedizione. Massimo andò ad aspettarle al caffèdella stazionesulla spianatacinta d'una ringhierache fronteggiail lago.

Làin faccia all'acquatranquillafra le immagini verdi delle rispecchiate montagneil suopensiero immobile rispecchiava similmente tre figure: la figuradell'amata giovinetta ardente; la figura della soave donna venutaper la giovinetta ardente e per luiforse a morire in un albergomossa da un amore di altra naturamaggiormente alto e sereno; lafigura di Benedettopiù lontanaamata e temuta a un tempo.Questaimprovvisamentegli si avvicinògli si ravvivò.Egli si sentì sul capo la mano del Maestro morentesentìquasi cingerselo dal braccio che non aveva più la forza distringereudì la fievole voce: "Siate santi". E udìanche: "Ciascuno di Voi adempia i suoi doveri di culto come laChiesa prescrivesecondo stretta giustizia e con perfettaobbedienza". Pensò che il giorno primadomenicanon siera curato di andare a messa. Ciò non gli era ancora accadutomai. Rompere colla Chiesa nel pensiero gli era stato piùfacile che rompere con essa nel culto esternoche rompere conabitudini antichequasi anche offendendo memorie di cari morti. Unpicciol morso nella coscienza lo scosselo richiamò a usaredella sua volontà virile contro questi moti pericolosi di unsentimento mal soggetto alla ragione. Il doloroso conflittovivo dagiorni nell'anima suaesacerbatosi all'annuncio dell'arrivo diBenedetto cadaveretoccava ora lo stadio acuto. Il ripetersidell'alterno prevalere di un impulso sull'altro indeboliva quellodella ragione col dubbio di non saper sempre vincerementre quellodel sentimentoforza che mai non riposache ignora dubbiezzechetende continuamentecome vapore compressoa riprendere il campoperdutosi faceva sempre più potente coll'appressarsi delfunebre Viaggiatore.

Cercò sulle acque lontaneversola punta di Melideil piroscafo speciale che avrebbe giàdovuto essere a Porto. Il lago vi era deserto. Solo si vedevano duebarchette fra Morcote e Brusino Arsizio.

Neppure quest'altro ritardo sicomprendeva. Ritornò dal capostazione.

Milano aveva risposto che non vi eraarrivato nienteche peròa richiesta di altre personesierano domandate notizie a Bologna e chea suo temposi sarebberotrasmesse. Ritornato al caffèMassimo scoperse finalmente lapunta bianca di un piroscafo che avanzava da Melidetenendo il mezzodel lago. Si era levato un po' di vento. Ora un soffio spandevacrespe azzurre sopra le verdi immagini delle montagneorachetatoil soffiole verdi immagini ricomparivano.

Quelle nuove inquietudini del vento edel lago parvero a Massimo inquietudini di attesa come le sueproprie.

Il piroscafo speciale giunse pieno digentecon meraviglia di Massimo. Il fatto si chiarì subito.Gli abitanti di Albogasio consideravano Piero Maironi come unbenefattore. Avevano fatto venire il piroscafo specialea lorospesea Oria. Vi si erano imbarcatecol parrocopiù dicento persone per incontrare il figlio morto di Franco e di Luisa.

All'udire che non si avevano notiziedella salmaquella povera gente sbigottì. Poco dopoilcapostazione fece avvertire Massimo che si annunciava da Milanol'arrivo della salma a Porto Ceresio per le otto di sera. Eranoallora le due e mezzo. Massimo telegrafò il ritardo a SanMamette. La gente di Albogasioche prima temeva di avere inutilmentefatto una spesa e perduta una giornata di lavoroparve contentamalgrado la prospettiva di quasi sei ore di attesa. Corse qualchemormorio fra coloro che né avevano portato con sé damangiare né tenevano denaro; ma erano mormorii rassegnati.Quella povera gente avrebbe sofferto la fame senza lamentise ilbuon parroco e Massimo non si fossero posti d'accordo per fornirlialmeno di pane. E i prudenti che avevano portato da mangiare diviseroil loro cibo.

Gentile pietà e gratitudineverso l'estintogentile memoria di altri poveri mortisantificazione di questi sensi umani nel desiderio di esprimerli conun atto religiososolenne dimostrazione di fede candida e profondafacevano tutte le altre bontà nel cuore di quella umile gentecosì che Massimo ne fu commosso. Il parroco gli fece conoscerecerta Leu che ricordava i genitori di Benedetto e non rifinìdi parlargli della siora Luisa. Ma gli altri parlavano dell'uomoscomparso anni prima ad Oria senza lasciar traccia di sé e cheritornava ora cadavere. Ricordavano il gran rumore che si era fattodi quella scomparsale supposizioni diversetutte riuscite vaneilbuon prete forestiero che si era adoperato perché ledisposizioni benefiche dello scomparso avessero effetto. Qualchevecchio ricordava anche l'altro Pierolo zio di questoil signoringegnere Ribera.

Dopo le cinque un telegramma di donAurelio a Massimo confermò la sua prossima partenza da Milanoinsieme alla salma. Massimo lesseconsegnò il telegramma alparroco di Albogasiosi allontanò senza dir parolaprese unastradicciuola deserta lungo il lagoa sinistra del ponte di sbarcovi camminò su e giù lentamentesenza saper formare unpensieroper quasi tre orecalando nell'ultima ora intorno a lui leombre della seragradite.

Quando il treno atteso entrò instazioneil buio era denso per l'accumularsi di nubi temporaleschenel cielo senza luna. La gente di Albogasio aveva invaso la stazionecon torce e candele accesepreceduta dal parroco in cotta e stola.Discese don Aureliodiscesero gli amici romani di Massimogravisilenziosi. Massimo tremava di un tremito nervososi mordeva illabbro per non rompere in singhiozzi. I salutibrevimisuratirisposero alla solennità del momento.

Parecchi del popolo piangevano. Uominidi serviziocon lanterne alla manoapersero il bagagliaio dov'erala salma. I giovani venuti da Roma e Massimo si fecero avanti. Seguìun po' di confusioneuno scambio di voci vibrate. Don Aurelio imposesilenzio con autoritàtutti si chetaronofu vista la baramuovere verso l'uscita sulle spalle dei sei giovaniuno dei qualiera Massimo. I pochi viaggiatori erano usciti prima. Solo una signorain luttoaccompagnata da una camerieraseguì il corteofunebre sul piroscafo. Nessuno la conoscevanessuno potévederneneppure al chiarore delle torceil viso coperto da un velofittissimo.

In silenziola bara fu posata a proradel piroscafo e coperta di un drappo nero colle frange d'argento. Insilenziocoloro che portavano lumi le si schierarono a lato lungo idue parapetti del ponte. Il sacerdotein cotta e stoiasi addossòalla cabina del pilotadi fronte alla bara. In silenziouna follasi accalcò indietrolasciando libero lo spazio fra la bara ei portatori di torce. Don AurelioMassimo e i giovani venuti da Romasi disposero a fianco del sacerdote. Senza un comandole passerellefurono ritirate sul ponte di sbarcogli uomini di bordo feceroscostare il piroscafo a forza di bracciail capitano si chinòsul portavocegli stantuffi scrosciaronole ruote colpironol'acquapesanti e lente. Quando il piroscafocompiuto un quarto digiromise la prora verso l'alto lagoil parroco di Albogasiointuonò il rosario. La folla rispose. Al monotono coro facevacupo accompagnamento l'eguale misto fragore degli stantuffidelleruotedell'acqua rotta dalla prora. Simile a un vascello fantasmail piroscafo rompeva così i silenzi del lago immobile e dellesponde addormentaterompeva le tenebre colle due fila di accesi cerifunerei.

Massimo teneva gli occhi fermi aldrappo nero colle frange di argento.

La tenerezza per lui che avevapalpitato dentro quella spoglia; le calunniele ingiuriele offesedi ogni maniera di cui la povera forma era stata segno insieme allospiritosuo informatore; il pensare le diserzione sua propriacompiuta mentre altricome i venuti da Romache gli stavano pressoaveva serbato fede alla memoria diletta malgrado il disprezzolederisionigli odii del mondofecero nell'anima sua tale un tumultoindistinto di amoredi doloredi rimorsoch'egli non vi potéreggeresi ritirò pian piano a poppascese sotto copertapianse amaramenteconfuse il suo gemito all'eguale misto fragoredegli stantuffidelle ruotedelle spume fuggenti: "Nonocaronon ti abbandononon ti abbandonoritorno a teritorno ate".

Non si avvide che in fondo alla salaerano le due donne discese dal treno. Quando la foga dei singhiozzigli si allentò ed eglialzatosi in piediera intento aricomporsi prima di salire sul pontequella delle due che pareva unacameriera venne alla sua volta. "Scusisignore" diss'ella."Può dirmi se al cimitero qualcuno parlerà?"

Massimo; sorpresoesitò unistante e poi rispose di sì. La cameriera ringraziò eritornò all'angolo oscuro dov'era seduta la signora in lutto.Il giovane saliva la scaletta e stava per toccare il ponte quando lacameriera lo richiamò.

"Scusisignore. ParleràLei?"

"No."

"Graziesignore."

Nuovo dolore per Massimo. V'era chiaspettava da luidal discepolo predilettole parole dell'addiosupremo ed egli si era rifiutato di parlarené adessotantoalle stretteavrebbe saputo trovare parole degne. Dolore e sorpresa.Come potevano supporrequelle signorech'egli parlasse? Loconoscevano? Ritornò al suo posto di prima. Il sacerdote avevafinito di dire il rosariotutti tacevanonon si udiva piùche il fragore delle cose in motole tenebre divise dai ceri ardentia prora del vascello fantasma si riunivano a poppa sempre piùdense. Passato il ponte di Melidequalcuno dietro il sacerdote disseforte:

"De profundis."

Cento voci intonarono il "Deprofundis". A mezzo il salmoil battelloche filava dirittoall'oscuro profilo della punta di Caprinosi arrestò dicolpo. I salmeggianti s'interruppero. Una grande ombra nerapicchiettata di punti lucentipassò a cinquanta metritagliando la rotta del battello. Pochi si avvidero di quell'ombradel pericolo di uno scontro fra il battello della Morte e l'altro.Quei pochi rabbrividirono e tacquero. Ricominciò lo scrosciodegli stantuffiricominciò il salmo. Nell'ampio bacino fraCampione e Lugano l'oscurità parve meno profonda intorno alchiarore funereo del ponte di prora. Da ogni parte nereggiavano sulcielo maestà di profili grandi. I lumi di Lugano disegnavanoil giro del golfo. A misura che il battello avanzava verso Caprinouscivano via via in vista della prora lumi di Castagnolalumi diGandria e finalmente le creste formidabilile acque lontane dellaValsoldail saettar di lampi dalla torpediniera. Massimo prese ilbraccio di don Aurelio.

"Lei parla?" diss'egli.

Don Aurelio rispose di sì e inpari tempo intesesentendosi trarre dal braccio del giovinech'eglivoleva dirgli altro.

"Sono ritornato a Cristo e allaChiesa" disse Massimotremando tutto.

"Vi sono ritornato adesso."

Don Aurelio lo abbracciòstrettogli mormorò all'orecchio con voce piena di gioia:"Carocaroringraziamo Diomi hai tolto un gran peso dalcuore".

Gli disse in seguito ch'era contentodei giovani venuti da Romache i traviamenti e le temperanze dicerti novatoriil dispregio col quale parlavano di Benedettoaveanprodotto nell'animo loro una reazione salutare; tanto che se oramainon fosse stato troppo tardiegli avrebbe preferito affidare aqualcuno di essi l'incarico del discorso.

Intanto il battello aveva oltrepassatoGandria. L'occhio abbagliante della torpediniera sfolgoròMassimo e don Aurelio che ritornarono a prora. Il fulgore balzavasenza posa da un capo all'altro del battelloseguendolo nel suocorso. Poi lo lasciò. Sul nero ciglio di Bisgnagodi fronteal cieloi fari elettrici ardevano come fiamme di un sublime altaredove si pregasse per le sottoposte valli. Sulla riva di Oria siaddensava gente venuta fino da Castello e da San Mamette in attesadella salma. Chi vide di là l'ingrandir lento lento del puntoluminoso avanzante da ponente sulle acque nerei balzi intorno adesso del raggio argenteo che pareva vegliare sul suo cammino e lefiamme sublimi sulla montagna e l'ansia della folla tacitaebbe ilsenso di una solennità misteriosa cui prendessero parte ilCielo e la Terra. Anche sul battellonell'imminenza dell'arrivolagentesenza saper perchétrepidava. Il parroco diede ordiniil drappo nero fu tolto dalla barai giovani discepoli di Benedettosi fecero avanti con Massimopronti a sollevarla. Dalla sala diprima classe la donna che pareva una cameriera salì sul pontedomandò qualche cosaridisceseritornò su collasignora velata. Si ritirarono ambedue all'estrema poppa.Evidentemente desideravano uscire le ultime. Il battello accostòfurono gittate le passerelle. Sei giovanidei quali ancora eraMassimosollevarono la bara. Si udirono alcune voci di comandodiavvertimento di rimprovero. In breve tutto fu silenzio. Il parrocouscì primo. Dietro il parroco uscì la bara. Seguirono iportatori di ceri. Poilentamenteordinatamenteuscirono glialtri; ultime le due signore. Il tacito corteo si avviò per unporticoun piazzalettoun primo passaggio tenebrosoun secondosotto la casa ch'era stata del mortoverso la chiesa: la stessachiesa dove pochi anni prima don Giuseppe Flores aveva appresa lafuga di colui che ora vi era portato a un umile catafalco per le sueesequie. Le candele dell'altar maggiore ardevano già. Lachiesa fu piena in un momento di gentedi ceri accesi. La signoravelata non avrebbe potuto entrareseper un rispetto istintivolafolla non si fosse aperta davanti a lei e alla sua compagna. Preseroposto nell'ultima panca presso la pila dell'acqua santamoltoguardate. Nessuno sapeva chi fossero. I soli a sospettare del nomedella dama velata furono Massimo e don Aurelio; ma non parlaronononsi aperserocompresi da rispettoil loro segreto pensiero.

Le esequie incominciaronorispondendola gran voce del popolo a quella del sacerdote. Massimo pregòginocchioni tutto il tempocol viso chiuso nelle mani. Cosìfu vista pregare tutto il tempo la signora velata. Vi furono deimormorii prima alla porta maggiore e poi a quella di fianco perchéun ragazzo di San Mamette che aveva una lettera per il signor dottorAlberti voleva entrare a forza. Non entrò. La lettera gli fupresa e non poté venire consegnata subito a Massimo. Terminatele esequieegli e i suoi cinque compagni risollevarono la baramossero dietro il sacerdote. La chiesa si vuotò rapidamente.Ultima si alzò e uscì la signora velata. Vistal'angustia del viottoloi ceri già lontani e la follarientrò in chiesa. La sua compagna cercò e trovòfra gli ultimi del seguito un barcaiuolo che prese impegno dicondurre lei e l'altra signorapiù tardia Lugano.

Durante il breve tragitto dalla chiesaal cimiteroi cumuli di nubi cominciarono a dar lampi e un colpoimprovviso di vento spense quasi tutti i ceri. La bara fu deposta asommo della gradinata che mette al cancello del cimitero. I portatoridei pochi ceri rimasti accesi fecero ala sulla gradinata. Un altrosoffio spense anche quellistridette intorno per gli ulivi protesiverso il lago. Don Aurelioch'era rimasto indietrosi fece largo astentogiunse alla gradinata. Qualcuno si provò ad accenderedei fiammiferiperchénon pratico del luogoegli ci vedessea salire. Fu inutile. Salì accompagnato per mano. Solo i piùvicini lo videro; gli altri non ne udirono che la voce vibrante sopraquelle del vento e delle onde che crepitavano al basso lungo i muridella riva.

"E' giunto" egli parlò"il tribolato Viandante alla terra dell'ultima sua quietesoccorso di nuove preghiere dalla Santa Chiesa che morente nelle suebraccia materne lo affidò alla misericordia Divina. Non gliamici né i discepoli suoi ma candide anime credenti eimmaginose di popolani lo chiamarono santo con suo sdegno e dolore.La Chiesaquando prega per un defuntonon ne conosce nésantità né virtù. Non conoscenella suasapienza severache la universale fragilità umanaleuniversali miserie del peccatoascose o palesia frontedell'imperscrutabile mistero nel quale si chiude il giudizio Divino.

Però la Chiesamemore delpianto di Gesù presso il sepolcro di Lazzaroconsente aipoveri cuori umani la parolasulle tombedell'amore e del doloreconsente loro la lode cui anche il solo pianto dice. Amoredolore elode premono alle mie labbra; eppure io non saprò trovarne leparoleio sento in me non so quale impedimento arcano che me lenascondeio credo di sentire in me un contrario impero di questomortoio credo ch'egli non voglia né dolore né lodeio credo di sentire quali parole egli voglia da me."

L'oratore si arrestò un momentoansante. Un fremito di commozione corse per la calcastretta sullagradinata. Alcune voci sommesse dissero: "Sì sìsì".

"Pace" riprese don Aurelio"paceo spirito di Piero Maironio spirito di Benedetto. Ionon dirò le parole mie le parole dell'amoredel dolore edella lode. Dirò quelle che tu vuoi da me. La tua montagna diavento che non le disperda ma le porti lontanodovunque si èdetto di te con affetto e rispettocon ira e ingiuria.

"Udite. Quest'uomo ha moltoparlato di religione: di fede e di opere.

Non Pontefice sentenziante dallacattedra non profetaha potutomolto parlandomolto errarehapotuto esprimere proposizioni e concetti che l'autorità dellaChiesa avrebbe ragione di respingere. Il vero carattere dell'azionesua non fu di agitare questioni teologiche nelle quali potémettere il piede in fallo; fu il richiamo dei credenti di ogni ordinee stato allo spirito del Vangelofu la determinazione del valorereligioso di questo spirito incarnato nella vitanei sentimenti enelle opere degli uomini. Egli proclamò sempre il suo fedeleossequio all'autorità della Chiesaalla Santa Sede delPontefice Romano. Viventesi glorierebbe di offrirne la prova el'esempio al mondo. E' nel nome suo che io lo affermo! Egli seppe cheil mondo disprezza l'obbedienza religiosa come una viltà. Egliha disprezzato alla sua voltafieramentei disprezzi del mondoilquale glorifica l'obbedienza militare e i sacrifici che impone benchél'autorità militare sia assistita da carceri e manettedapolvere e piomboe l'autorità religiosa da niente di tuttociò. Nulla egli amò sulla terra quanto la Chiesa.Pensando alla Chiesasi paragonava alla menoma pietra del piùgran Tempiochese avesse animasi glorierebbe di essere una cosacoll'edificio colossaledi venirne in ogni senso compressa. Sìegli credette conoscere gli spiriti mali che l'Inferno scatena dentrola Santa Chiesache non prevarrannonoi lo sappiamo per la promessadivinacontro di leima possono infliggerle ferite crudelicongiurando con altri spiriti maliinfurianti nel mondo. Eglicredette conoscerli e fu passione di filiale amoredi filiale dolorequella che lo portò supplichevole ai piedi del SommoPonteficevenerato Padre dei fedeli.

"Egli vuole che io perdoni nelnome di lui a quantisenz'avere nella Chiesa autorità digiudicilo condannarono come teosofocome panteistacome alienodai sacramenti; ma vuole pure che io proclami in pari tempocon altavocea togliere lo scandalo di quelle accusecom'egli abbia tuttiabbominati quegli erroricome da quandoinfelice peccatoresivolse dal mondo a Diosempre in tutto si sia conformato allecredenze e alle pratiche della Chiesa Cattolica fino al momento dellasua morte.

"Egli morì fidente cherisospinti un giorno dentro le porte d'Inferno i mali spiriti ond'ètravagliata la Chiesatutti gli uomini che hanno battesimo einvocano il nome di Cristo si sarebbero uniti in un solo popoloreligioso intorno alla Santa Sede del Pontefice Romano. Egli domandaagli amici suoi di pregare per questo gran fine.

"Amici e fratelli che vi sdegnastedelle false accuse mosse a quest'uomo da privati cattolicigiornalisti e libellistiperdoniamo con lui. Perdoniamo anche acoloro che lo derisero e l'oltraggiarono per la sua fede."Nesciebant"gli uni e gli altri. Troppo ignoriamo anchenoi perché ci sia lecito giudicare le ignoranze altrui.

Viandanti della notteinterroghiamo lestellecerchiamo il nostro camminochiamiamoci a vicenda nelletenebreconvoci d'interrogazionedi consigliodi aiutoannunciamola trovata via buona perché altri oda e venganon giudichiamochi non viene perché non sappiamo se fra lui e noi sienoimpedimenti maggiori delle sue forze. Preghiamo per tuttipassiamoper le ombre aspettando l'aurora del giorno di Dio.

"Spoglia che ci fosti sìcarariposa in pace fino a quel giorno!"

La bara discese vicino a quella diElisa Maironifurono dette le ultime preghierefu chiusa la fossa.Il parroco era ritornato alla chiesa per svestirsila gente si eradispersaMassimodon Aurelioi giovani romanitrattenutisialquanto sulla fossascendevano la gradinatail sagrestano stavaper chiudere il cancelloquando la donna che pareva una camerieravenne a pregare che il cancello rimanesse aperto ancora per pochiminuti. Siccome il sagrestano esitavaMassimo e don Aureliointervennero insiemefecero che colui acconsentisse. La cameriera siallontanòraggiunse la dama velata che aspettava sulviottoloall'angolo di ponente del cimitero. Solamente allorachiaveva preso la lettera portata dal ragazzo di San Mamette si ricordòdi consegnarla a Massimo. Massimo poté leggeretra un soffiodi vento e l'altrocoll'aiuto di fiammiferi:

"La nostra amica sta molto male.Venga appena può. LEILA."

Massimo supplicò don Aurelio divenire con lui. Don Aurelio avrebbe dovuto ripartire per Milanoallora allora. Udito di che si trattavavi rinunciò. I due sicongedarono a precipizio dai giovani amici che rimasero a commentarela loro fuga. In quel trambusto la dama velata passò loroaccanto colla compagna senza che se ne avvedessero. Se ne avvideropoco dopo perché la compagna non passò il cancellorimase fuori insieme al sagrestanoaspettando. Parve loro indiscretodi rimanere lì. Peròsiccome avevano trattenuto ilpiroscafo a loro disposizionestimarono dover offrire alle signoredi prenderle a bordo. Uno di essi salì al cancelloparlòa quella delle due che vi stava in attesan'ebbe un rifiuto quasispaventato. Allora i giovani si allontanarono verso Oria.

La dama velataalta e sottile dellapersonafu veduta dal sagrestano inginocchiarsi sulla terra smossa.Vi si fermò pochi minuti e scese la gradinata a braccio dellacameriera che le raccontò l'offerta fattale e la ripulsa. Nondisse parola. Ripresa la via di Oriale due signore furonoincontrate dal barcaiuolo che veniva ad avvertirle come il lago fossepessimo. Occorreva un secondo barcaiuolo. A un cenno tacito delladamala cameriera gli ordinò d'impegnarlo. Prima di toccareil sagrato di Oria incontrarono il parroco che teneva una lanterna eofferse di accompagnarleper la cieca viuzza del villaggiofinoalla riva. La dama strinse il braccio della sua compagna persignificarle che rifiutasse; ma la compagnatemendo di rompersi ilcolloaccettò.

Corsero bisbigli fra le due. Lacameriera pregò il parroco di fermarsitolse dalla borsettache teneva al braccio un portamonetene levò una moneta d'oroe gliela porse.

"La mia signora" diss'ella"per i Suoi poveri."

Il piroscafo non era ancora ripartitoquandoal chiarore di due lanternela dama velata e la sua compagnasalirono in una lancia che le onde abballottavano. La lanciaspintavigorosamente a quattro remipassò quasi rasente ilpiroscafonella luce che usciva dalla sala della prima classe. Igiovani la guardarono dal pontecuriosamente. La dama si era alzatoil veloera giovine e bella. Uno di coloro esclamò:

"So chi è! E' la signoraper causa della quale Benedetto ha fuggito il mondo."

"Chi è?" disse unaltro.

Tutti conoscevano vagamente il fatto;nessuno sapeva il nome della signora. Corsero da poppa a prora conriaccesa curiositàcercando discernere ancora il piccoloschifo che si udiva saltar sull'onde lottando. Non era piùvisibile. Lo videro un momento dal piroscafo in corsanel raggioelettrico della torpediniera. Poi Jeanne scomparve dagli occhi loroper quella notte e per sempre.


6.


Donna Fedele si era aggravataquasiimprovvisamentedopo mezzodì.

Non aveva dolore. La febbrefattasialtissimaindicò al medico lo scoppio dell'infezionegenerale. Nulla si poteva tentare più. La sentenza era segnatae a termine prossimo; quel misero corpo aveva del tutto perduto lavirtù di resistere. L'ammalataperfettamente in sécomprese il suo statovolle subito un sacerdote e il viatico. Sichiamò il prevosto di San Mamette. Alle cinque tutto era statofatto.

Il prevostoedificato della fededella pietàdella rassegnazione di quella povera signoraleaveva amministrato l'olio santo. Il telegramma di Massimo da PortoCeresio le fece visibilmente dispiacere. Non lo dissema Lelia capìchesecondo leiMassimo avrebbe potuto fare a meno di andare aPorto Ceresio. Avuti i conforti religiosiil ritorno del giovaneparve la sua maggiore preoccupazione. Ne domandava ogni momentotanto che una volta se ne scusò con Lelia.

"Sono una sciocca" diss'ellaprendendole una mano"perchése ha telegrafato cosìnon può essere qui prima. Vorrei dirgli certe poche parole eho paura che non arrivi In tempo."

Lelia cercò di rassicurarlanonseppe. Un groppo di pianto fermo nella gola le impediva di parlare.Invidiava la cugina Eufemia. La cugina Eufemia era serena. Se il suoaffetto per donna Fedele toccava l'adorazioneil timore di nonsapere umilmente accettare la volontà di Dio le premeva sulcuore ancora più. Ella prestava senza posa le sue cureall'ammalataandava e venivagravetranquillasenza lagrime. Unavolta sola fu per venir meno ai suoi propositi di fortezzaquandol'infermastendendole la manole disse con un'ombra del suo sorrisoantico:

"Salutami le tue sorelle."

La povera vecchietta strinse le labbranon rispose parola. La dolcezza pia della morenteil contegno dellacugina Eufemia significante uno stato d'anima tanto umile e insiemetanto altoerano per Lelia uno spettacolo nuovo che la penetrava distuporedi riverenza. Alle seiavendo il prevosto preso licenzacolla promessa di ritornare alle settedonna Fedele pregò ilmedico e la cugina di uscirechiamò Lelia al suo letto e leaccennò d'inginocchiarsi per poterle cingere il collo di unbraccio.

"Cara" diss'ella"di' aMassimo che pensando a lui e alla sua povera mamma sono morta con undolore e con una speranza. Glielo dirai?"

Straziata da un interno combattimentoperché le pareva d'indovinare quel dolore e quella speranzané li poteva fare suoi propri; perché l'idea diesercitare per mandato una pressione sullo spirito di Massimol'atterriva e tuttavia il rifiutarsi a quel desiderio sarebbe statoorribileLelia rispose un sì che non ingannò lamorente. Questa le tolse il braccio dal collo con un sospiromormoròche avrebbe avuto tante altre cose a dire ma che non se ne sentiva laforza. Si fece porre nelle mani un Crocifisso e non parlò piùfino alle nove.

Alle nove domandò di Massimo.Verso le nove e mezzoLeliache stava alla finestra di ponentevide un lume spuntare lontanonelle tenebre. Il medico riconobbe ilbattello speciale e lo annunciò all'ammalata che pregòdi mandare un biglietto a Oria perché Massimo venisseimmediatamente. Cominciò allora per essa uno stato nuovod'inquietudine. Pareva avere perduto la nozione del tempo e dellospaziodomandava di minuto in minutoprima se fosse arrivato ilbattellopoiquando il battello fu visto fermarsi a Oriase fossearrivato Massimo. Si giunse così alle undici e anche Lelia erainquieta perché del ragazzo portatore del biglietto non siavevano più notizie. Non capiva come Massimoricevuto ilbigliettonon fosse accorso tosto. Poco dopo le undicil'albergatoreche aveva mandato qualcuno verso Albogasiosalìle scale di corsaannunciò: "Vieneviene!". Leliadisceseincontrò i due nell'ingresso dell'albergo. Non siattendeva alla vista di don Aurelio che comprese il suo imbarazzolalasciò occupata a informare rapidamente Massimo e volòsulle scale.

L'albergatore lo accompagnò finoall'uscio della camera di donna Fedele. La voce notail noto visospirante lieta bontà rianimarono donna Fedele.

"Ohdon Aurelio!" diss'ella."E Massimo?"

Chino all'orecchio della morentementre il prevostoil medico e la cugina Eufemia si tenevano indispartedon Aurelio prese a parlarle così basso che coloronon ne udirono neppure la voce. Udirono invece le fievoli voci breviche metteva donna Fedele con un inesprimibile accento di sorpresa edi gioia.

"Eccolo" disse don Aureliorizzandosi mentre Massimo entrava.

Da quel momento donna Fedele sitrasformò. La camera della Morte parve diventata la cameradella convalescenza; tanto che per un istante i presenti dubitaronodavvero di una misteriosa crisi benefica. Il primo segno ne fuquesto: che l'ammalata domandò a Massimo se avesse letto unalettera del sior Momi e accennò a Lelia di mostrargliela. PeraccontentarlaMassimo si tenne davanti agli occhisenza leggernesillabail foglio dove il sior Momi accordava il suo consensoprotestando di voler restare un semplice agente e lasciar libera laMontanina perché quell'aria non gli si confaceva. C'erano pureossequi per Massimo e la preghiera di due righe sue che approvasserole disposizioni di Lelia quanto alla resa dei conti.

Poi donna Fedele domandò che idue giovani e don Aurelio le si avvicinassero.

"Sono stata cattiva coll'arcipretee col cappellano di Velo"

diss'ella. "Fate loro sapere chene ho dolore."

"Sì sìfaròiofarò io" disse don Aurelio. Ella lo ringraziòcon uno sguardo lungod'inesprimibile senso. E accennò cheavrebbe voluto baciargli la mano.

Verso le tre si compreseperl'agitarsi delle mani e l'inquietudine delle labbrache volevaqualche cosa e che non poteva esprimersi.

Indicava collo sguardo un vaso dicristallo dove languivano ancora le rose del villino. La cuginaEufemiapostole l'orecchio alla boccavi colse il soffio di unaparola inarticolatadomandò:

"Rose?"

L'inferma accennò di sì ele sue mani brancolarono sulle coltri. La cugina intese ch'ellavolesse avere sul letto quelle roseandò per levarle dal vasoDonna Fedele accennò di nodi no. La povera Eufemia sitormentava di non capire. Massimo e Lelia capirononon osaronoparlare. Chi osò fu don Aurelioche aveva maggiorefamiliarità colla morte.

"Desidera che sieno sparse dopo"diss'egli. Donna Fedele lo ringraziò cogli occhi.

Finalmente anche i belli grandi occhibruni che avevano dato in cinquantadue anni tanto lume di spiritotanta dolcezza di sorrisi buonisi chiusero. Le mani si quietaronosul Crocifisso. Don Aurelio si piegò sul viso immobile. Nonera persuaso che fosse ancora la fine perché vedeva le cigliamuoversi lievemente.

"Cara amica" diss'egli forte"ci raccomandi al Signore. Soffre?"

Gli occhi non si apersero ma le labbraquasi cereesi agitarono. Don Aurelio credette intendere chedicessero:

"Son felice."

Lo ripeté agli astanti: "Hadetto: son felice".

Accennòguardandola sempreches'inginocchiassero. Due minuti di silenzio.

"Sìè felice"soggiunse con voce altasolenne. "Godiamo e adoriamo."

Spuntava il sole e donna Fedele Vayladi Brea giacevavestita di nerocol Crocifisso fra le manisulletto dove insieme alle rose appassite del villino rosseggiavanomolte rose fresche della Valsolda.

La Morte le aveva ridonato il suo soavesorriso. Traspariva esso dalle palpebre chiuselume di una segretavisione beata; fioriva lieve lieve sulle labbra di cera. Nessun visogiovanile vivo avrebbe potuto vincere di bellezza quel viso diavoriosorridente sotto l'arco dei densi capelli di neve. Cosìcompiutasecondo la fede dei padri e lo spirito del Vangelola suabenefica giornatasciolta la promessa fatta pregando al letto dimorte del signor Marcelloraggiunto il fine dell'offerta supremaposava nella prima luce della sua mistica aurora la Dama bianca delleRose.