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ANTONIOFOGAZZARO
RACCONTIMUSICALI
Ilfiasco del maestro Chieco
I
Rilessinel vecchio quadernodove l'avevo trascritta molti anni addietroquesta sentenza di Lessing: “Lass dir eine Kleinigkeit nichtn'äher gegehen als sie werth ist” (Non lasciarti toccare daun'inerzia più ch'essa nol meriti). Alzai gli occhi e vidi lamia vitavuota e amara per l'oblìo di quelle parole sapienti.Anche leiperò! Sìlei era stata troppo orgogliosatroppo fiera; ma se io le avessi detto sorridendo: “Badile suerose avevano questa spinae mi ha punto qui e vi è rimasta”ella avrebbe levata la spina e forse anche baciata la ferita. Inveceio m'ero fitto in cuorecon una strana e crudele compiacenzaquellasua lieve allusione a un passato di cui ero geloso. Il cuore avevapoi date parole acerbe che fecero stupore e offesa; l'amor proprioera entrato subito in mezzocome naturale nemico di quell'altroamorea reprimere ogni slancio generoso delle anime; e cosìreciso dalla piccola spina un legame che pareva eternoio non avevopiù sposata donna Antoniettala giovane vedova del tenentecolonnello D'Embra di Challant.
Quandochiusi sospirando il vecchio quadernomi accorsi d'una lettera colfrancobolloaustriacoche mi avean gittata sulla scrivaniasenz'avvertirmeneal solito.
Eraquel matto del maestro Lazzaro Chiecoil famoso violoncellista ecompositore che mi scriveva così:
CastelTonchino (o che diavolo è)
24giugno 1883
CaroCesare
Haida sapere che il povero Chieco sta da quindici giorni in un CastelCatino del Tirolo fatto così. C'è un diavolo dimontagna a piccotutta nuda; sotto c'è la strada; questastrada tocca dall'altra parte un laghetto celeste e vi caccia dentrouno sperone di terra e sassi; in cima a questo sperone c'èCastel Tapino.
Dovevoandare ai bagni di Comanoma passando ho visto questo castello chenon c'è altro stupendo posto per comporree ho detto: Chiecomiose tu non fai il primo atto della Tempestaqui'leverito!' come dicono a Fiumelattetu creperai senza farlo. Eci sono e scrivo. Tu saicaro Cesareche gli amici musicanti diMilanomi sputarono su questo soggetto per la gola che n'avevano; malo straccione calabrese vuole che 'se òngen' tutti questi'ragionàt' quanti sono.
Soloche tu mi devi aiutare perché il poeta veneziano ha il secondoatto in corpo e ponza; e io gli scrivo “corajocorajo!” elui mi risponde: “grassiegrassieel vienel vien!” manon viene un accidente. Dunque va in via Brerapigliamelo per ilcolloe se non ti dà l'attostrozzalo. Quindi tu vieni qua estai tre giorni con il povero Chieco. Il primo giorno riposeraiilsecondo ascolterai la mia musicail terzo mi rifarai alquanti versiche non vanno e se li mando in via Brera'te saludi!'. Il quarto ten'andrai fuori dei lazzerei piedi.
Iltuo
LazzaroChieco
PS.- Non mi guardare le donne belle del Tirolo che sono tutte mie.Povero Chiecoe come si fa?
II
Avevoin mente di lasciar presto Milano e di passare il luglio a Madesimoma conoscevo tanto il maestro Chieco e tanto poco il Tirolocheforse avrei mutato pianose quella bestiasecondo la qualetraparentesia Milano neppur si fa un risotto senza 'il ragionàt'il ragionieremi avesse indicato meglio il suo Castello Tonchino oCatino o Tapino e la via da tenere. La letteraper veritàaveva il timbro di Trentoma era poco. Mi stizzì e non cipensai più. Otto giorni dopo ricevetti un'altra lettera con iltimbro di Vezzanodove una tale Purgher scriveva che il signormaestro Chiecoalloggiato nel suo albergoera pericolosamenteammalato e mi desiderava come il migliore dei suoi amici. La signoraPurgher m'indicava di prender a Trento la diligenza delle Giudicariefino al ponte delle Sarchedove nei giorni quattro e cinque luglioavrei trovato persona incaricata d'accompagnarmi dal mio amico.Partii subito e arrivai nel pomeriggio del quattro luglio sotto unsole cocenteal ponte delle Sarche.
Pochiminuti prima avevo riconosciuto a destra la nuda montagna scoscesasopra il mio capoa sinistra il laghetto celeste ai miei piedi.Scure collinette boscose lo cingevano dall'altro lato: dietro aquelle si levavano altri monti di un verde più gaio; malaggiùverso il Gardail cielo scendeva quasi fino alleondicelle azzurretutte trepidanti nell'ora del gran lago marinoinvisibile a mezzogiorno. Vidi il pugno di terrasporgente dellarivae sulla puntail castelluccio ritto e fiero come un falco.
Alponte delle Sarche trovai una servotta tedesca che mi seppe solo dire"PurgherPurgher". Entrai con lei nella piccola penisolaseguendo un parapetto merlatoun baluardo a riposocon tanto dicipressi e di rose. Fuori dai merli luccicavan l'acquetutte vento esole; dentro viveva e si movevasotto l'alto fantasma del castelloun affollato disordine di erbe rigogliosedi fiori incoltidiarbusti selvaggidi piccoli pini imbozzacchiti.
Ascendemmolungo il giro del parapettosino all'andito male intagliato nellaviva roccia che mette nel cortile del castello; un gibboso macignoquesto cortileinquadrato di mura neredi logge medioevaliconpitture mezzo stintecon un chiassosui parapettidi geranii infiore.
III
Ilcastello era un vero eremo. Neppure la albergatrice si lasciòvederee fu la serva che m'introdusse nel camerone bianco dovegiaceva sul cuscino di un letto colossaleil mefistofelico viso delmio povero amico Chieco. Me gli accostai in punta di piedi. Aveva gliocchi chiusi ma la fisonomia era composta. Dormiva? Mi arrischiai didirgli piano all'orecchio:
“Lazzaro!”.
Mirispose un fil di voce:
“Chiè?”.
“Cesare”sussurai “sono Cesare”.
AlloraChiecosenza aprir gli occhisbattè la bocca come un caneche azzanna a vuotodicendo sottovoce: “Asino!”. Econtinuò con una diabolica rapidità crescendo: “Canebriganteassassino'ragionàt!'”aperse quei suoicarboni sfavillanti di occhisaltò in piedi sul lettoballonzolando e gridando come un ossesso: “Entrateo Purgantidi Castel Porcinoentrate a vedere il principe degli straccioni chese non si crepanon viene!”e si pose a tirarmi tutto cheaveva sul lettomentre entravano ridendo la tonda signora Purgher ela serva. Colei incominciava a scusarsi meco della burlaquandoChieconon avendo altro nelle manifece atto di tirarmi la camicia.Fughestrillie risate; restammo soli.
Chiecosaltò dal lettocorse così come era scalzo e incamiciaa pigliar il suo violoncello esedutosi in faccia a meselo piantò fra le gambeattaccò un delizioso andanteappassionato. La Purgher e la serva fecero subito capolino all'uscioma il maestro s'interruppesi diede a sgambettare verso il soffittofischiando in un suo modo infernaleper cui le donne scapparono dacaponon ci seccarono più. Eglisuonandomi guardavasempre. I visacci che faceva non si scrivono; non sapevo secommuovermi della melodia dolcissimao ridere della bizzarra facciaora lugubreora sfavillanteora solenneora furbescaorapateticaora beffardacomica sempre. Chieco ha trentott'annibarbae capelli misti di nero e di argento; ciò accresce lastranezza della sua fisonomia napoletanapiena di sentimento umano edi brio diabolico. Finalmente depose lo strumento. “E come sifa?” disse egli. “Caro Cesaree come si fa?”.
Glidomandai che musica fosse quella.
“PoveroChieco!” mi rispose serio serio“io ho detto tutto equesto infelice 'ragionàt' non ha capito niente. La mia musicasignificao straccioneche io sono innamorato e che tu ti deviammogliare”.
Iopigliai la cosa come una delle sue solite pazzieper quanto migiurasse che non aveva mai detto in vita sua una parola piùvera.
Egliconosceva benissimo le mie passate relazioni con donna Antonietta eme ne parlò in modo tale che lo pregai a smettere. “Quantosei asino!” disse egli. “Tu le vuoi ancora bene”.Diventai troppo rossoforsema negai; ahimèpiù ditre volte. Intanto Chieco ripeteva su tutti i toniinfilando lemutande: “Quanto sei asino! quanto sei asino!”. Tuttavianon mi parlò più di Antonietta.
Inveceappena compiuta la sua toelettami invitò a vedere 'CastelPulcino'. Prima di tutto mi condusse in cucina vociando: “OPurgantio Purganti del diavolo dove siete?” E trovatainvecedella Purgherla servotta tedescaincominciò a farleboccaccea gesticolarle davantia stordirla con un diluvio di'schlicche schlocche'da cui la disgraziata doveva capire dipreparar subito da pranzo per due; ed accennò di aver capitotanto bene che Chieco la volle abbracciare prima di portarmi fuori.
Ilcastello non aveva proprio niente di rarotoltone la postura e quelcortile pittoresco; ma quando Chieco s'infatuava di un luogolosentiva da gran poeta fantasticolo idealizzava con una potenzastraordinaria.
“Questoè Castel Divinocapisci?” mi disse egli nel cortileestaticodavanti a un capitello gotico dei più comuni.“Guarda che bestia gentile deve essere stato lo scultore diquella graziosa porcheria lì! Sono dieci anni che io passootto mesi dell'anno a Parigi e puoi pensare se ho visto Pierrefonds.Ho visto anche i castelli del Reno. Ebbenesono niente rispetto aquesto; ti dico niente. Quise tu non sei troppo asinoci veditutti i tempi. Questo pavimento non sa che sia scalpellotu lo vedi;è ancora dell'età della pietra. Le fondamenta di questemura sono romane. Va qui vicino dal prete di Santa Pazienzache èun santo uomoa domandare se i romani non praticavano qui. E poi c'ètutto questo Medio Evo; e poi nelle camere tu hai veduto ilRinascimento sino al rococò; e poi ci sono i Purganti che sonoil vile presente; e poi ci sono io che sono l'avvenire!”.
Glichiesi se avesse fatto gite.
“Chegiteche gite!” mi rispose. “Queste sono idee da'ragionàt'. Mi volevano ben mandare a Santa PazienzaaMancavinoal diavolo che li porti. Ma ioquesti nomili fiuto e mibasta. Vado qualche volta a Comanoecco tutto. Domattina peresempiovado a far colazione a Comano”.
“Vengoanch'io!” dissi.
“No!”gridò Chieco “Nossignore! Domattina Lei resta a CastelTavolino e mi rimpasta qualche dozzina di versi. Io vado perintendermi sul ballo”.
“Cheballo?”.
“Ilballo che si dà qui domani sera. Una cosa magicamio caro;vedrai. Ho invitato tutti quegli straccioni di Comano per aver lei.Si fan due passi fuori?”.
“Chilei?”.
Chiecomi piantò per ricomparire due minuti dopo in ombrellinopanama e babbucce.
“Sideve capire che io sono in casa mia” disse egli “e che tusei uno straccione qualunque. Del restoeccoti leima somigliapoco”.
Midiede la fotografia di una signora che non mi parve assai giovanenéassai bella.
“Somigliapoco” ripetè. “La vedrai. È una musica dallapunta dei capelli alla punta dei piedi. Povero Chieco”.
Grossinuvoloni uscivano dalla gola delle Sarcheraggiungevano e celavanoil sole; l'òra del Garda soffiava sempre più forte neipini e negli arbusti sul lago tumultuantetutto mobili luci plumbee.Chieco si buttò a giacer supino nell'erba con le maniintrecciate sotto nucae mi volle accanto a sè.
“Èuna musica” disse egli. “È la più morbidafine musica che io conosca; è del Bachper Sebastiano!”.
Balzòsu a sedere per potersi sfogar meglio. Non pareva più il mattodi prima.
“Tusai” disse egli “o piuttosto tu non sai come disegna Bach.Ebbenequando lei si muove e io vedo svolgersi tutte le linee delsuo dolcissimo corpo e ondulare in aria cosìcosìdietro di leiio penso sempre alla musica di Bach”.
Scosseforte il capo piantandosi le cinque unghie della mano destra nellafronte.
“Cosavuoi?” disse. “Ha un orecchioper esempioche lo puòfare solo il mio violoncello. E due labbra poidue labbra cosìfrementi di passione e di sensidi tutti i peccati capitalimiocaro! Benché sia santa e 'prude' come una vecchia diavolessainglese. È questo che ti frigge il sanguecapisci? Non tiparlo degli occhinon sono mica il Padre eterno per poterne parlare.Ma le maniper Bachma le mani! C'è un birbaccione diprofessore tedesco che gliele studia con gli occhialie gliele hatrovate 'psichiche!' Maledettocome ha trovato bene! È unpezzo di Quattrocento”.
Continuòa lungo su questo tono misto di fuoco meridionale e di finezzapariginadi sensualità e di poesialevando a cielo persinole toelette della damadelle quali tremava che fossero una sola cosacon quel corpo e quella animache le crescessero vive intorno comeil calice al fiore. L'anima? Ah l'anima era musica italiana delSettecentocosì ricca di venacosì delicata nelloscherzocosì composta e precisa nel sentimentosemprepenetrata da una ragione luminosa. Insomma questa donna era la soladegna di sposare Lazzaro Chiecola sola cui avrebbe volutosacrificare la sua libertà.
Questoaccesso di febbre matrimoniale mi strappò una esclamazionemolto ammirata. Allora Chieco mi parlò con toccante gravitàdella tristezza che era in fondo al suo cuore sotto tanti pazziumoricome l'acqua mortascura in fondo al lago sotto tanto ballaree luccicare di onde. Era stancodisgustato di tutto fuorchédella musica e di un suo antico ideale d'amorenon detto mai adalcuna delle tante femmine che aveva prese un momento.
“Hotrentott'anni” mi disse egli “ma potrei forse amare ancoraed essere felice come un fanciullo di venti”.
“Eperché non lo sarai?” diss'io.
“Perchéquesta stupida non mi ama” rispose.
Lasignora Purgher chiamò da una finestra. Chieco balzò inpiedi eficcatosi un dito in boccacacciò il suo fischiodiabolico.
“Andiamoa tavola” disse egli.
IV
Mifece udire quella sera stessasopra un piano scelleratola sinfoniaein parteil primo atto della sua Tempesta.Per vero direl'imitazione delle ondedel ventodei tuonidelleurla non mi è sembrata maicon licenza dell'amicostraordinariamente felice in quella sinfonia; l'ultima melodiachefigura il canto di Ariele quando acquieta il mareè soavemaricorda forse un po' troppo la Canzone di Primaveradi Mendelssohn... Invece il pezzo sinfonico che segueeseguitodall'orchestra a sipario alzato e scena vuotami parve veramentecome parve al pubblicosublime. La musica non è descrittivama seconda mirabilmente l'immaginazione dello spettatore che sappiaessere quella una isola deserta dell'Oceano popolata da spiritiobbedienti a un magoe dove si prepara uno strano dramma in cuiavranno parte quelle aeree potenze misteriose e tante passioni umane.
L'amicomio infondeva nella sua esecuzione una vita indiavolatami gridava inomi degli strumentili imitava con la voceurlava nei punti digrande sonoritàrovesciando il capo all'indietrotempestandocon le braccia e con le gambe. Mi fece udirecon gli altri pezzi ilduetto originalissimo di Calibano e Arieledi cui non erano per ancoscritti i versi. “È il duetto dell'anima” mi disseChieco. “Shakespeare non lo ha immaginatoma io sì. Lofaccio precedere da un assolo di violoncello che è divino. Telo suoneròpoifuori di qui”.
Ilbizzarro uomo suonò infatti più tardi questo pezzoispirato a capo della scala che scende nel cortilepresso unafinestra poetica da cui si domina il lago e si vedono giùporgendo il capole alte muralo scoglioi salici e i fichiselvaggi che ne sbucano a pender sull'acqua. Io sedevo sulla scalacinque o sei gradini più sotto.
Ilvioloncello sospirava e gemeva più dolcemente di qualsiasivoce umana. Il vento sibilava nelle loggesbatteva ogni tantoqualche uscio per le solitudini del castello. Un soffio piùforte spalancò la finestraportò dentro il rumoredelle onde. Pareva di essere in un'altra isola incantatadi udire unaltro Arielealtre voci confuse di spiriti. Possibile che la seraprimaa quell'oraio stessi pranzando in Galleria VittorioEmanuele? Mi pareva un sognomi sentiva una vaga commozioneunainquietudine inesplicabile.
V
Ilmattino dopo l'amico mio se ne andò a Comano per tempo. Iovagai lungo il lagoe prese le 'zette dell'Imarò' chefiancheggiano i precipizi in fondo a cui si rigiraper un baglioredi ghiaiela Sarca verdegiunsi a veder là di fronteframontagna e montagnaun cucuzzolo biancoil ghiacciaio della Tosa. Acolazione ebbi con la signora Purgher un dialogo su Chieco. “Matto”diceva “ma che cuore!”. Gli aveva visto prodigare oro aipoveri come un principe e parole assai più preziose dell'oro;abbracciare una vecchia pezzente che somigliava a sua madre. Diquesta lo aveva udito parlar con un fuoco che gli empiva gli occhi diluce e di lagrime. Peccato che non avesse freno nel trattare con ledonne! Era un orrore per quello. La signora Purgher finì colfarmi acquistareera la sua fraseun eccellente bicchier di Iseradopo di che mi accinsi a rabberciar le strofette melliflue del poetaB. secondo certi concetti shakesperiani espressimi la seraantecedente dall'amico Chieco.
Ilpomeriggio di quel giorno e tutto il giorno appresso furonointeramente occupati dai preparativi del ballo. Chieco ne parlavacome lo offrisse lui questo balloma in fatto non aveva offerto chela sua direzionela sua camerala musica e l'acqua. Le provvigionii fiorii fuochi di artificio venneroper cura della societàdi Comanoin parte da Comanoin parte da Trentoinsieme a trefamelici musicantiun pianista e due violinistiche noi battezzammoTrinculoStefano e Calibano; Chieco ne elesse subito uno a suo grantappezziereun altro a suo gran facchinoil terzo a suo grandesottocuoco. Lavoravano come scimmioni goffiistupiditi da quellanovità di mestiere e di padroneguardando costui con uncomico sgomentonon osando ribellarsi né sapendo se almenofosse loro lecito di ridere.
“Tunon fai nientebrutto straccione” mi disse Chieco “mastasera ti cambio nome vestito e mestiereti sollevo a mio primolustrascarpe e barcaiuolo. Ho fatto venire apposta un canotto daRiva”.
Glichiesi il perché di tanto onorema egli non me lo volle dirsubito. Dopo pranzo mi prese a braccetto e mi condusse in giardino.
“Parliamosul serio” disse egli. “Poiché non la posso sposareiocome si fa? la devi sposare tu. Maledetti voi che siete nati unoper l'altro!”.
“Midirai almeno il suo nome!” interruppi ridendo. “Non ridere!Tu non sai quanto bestia io sono in questo momento e quanto stupidosei tu. Perché lei ti vorrà benecapiscie tu nevorrai a leie io che se ci penso ti strozzerei come l'ultimo deipiccionite la dote la do e che siate maledetti!”.
Ciòdetto mi saltò al collomi baciòmi strinse in modoche lo credetti impazzito davvero.
“Tivoglio benesai” disse egli “perché ci conosciamoda tanti anniperché non scrivi musica e ti piace la mia; mase mi amassetu non saresti qui. Non ridere e non domandare il suonome. La vedrai stasera. Se non ti piace è inutile che tu nesappia il nome. Le ho già detto che ho qui un canotto e undomesticoe che questo domestico sa remare e che ella potràfare una corsa sul lago. Ha accettato a patto che io non venga. Andràcon te solodunque. E adessomi dai trentadue lire e settantacinquecentesimi”.
Feciun atto di meraviglia.
“Oh!furfante!” esclamò Chieco. “Vuoi che l'abbia fattovenire a mie spese il canotto? Vuoi fare all'amore tu e che io paghi?Come sei 'ragionàt'!”.
Noncapivo benesulle primese scherzasse o noma il dubbio duròpoco. Chieco voleva veramente le trentadue lire e io le sborsaidichiarando tuttavia che in canotto non ci sarei andato poichéla sua incognita non mi tentava affatto.
“Oh”diss'egli “tu vuoi farti rendere il denaro?”.
Allecortedovetti promettereper non offenderlodi fare a suo modomasoggiunsi che non sarei uscito un momento dalla mia parte dibarcaiuolo.
VI
Allasera Chiecoin frac e cravatta biancaraccolse una banda diragazzottidistribuì loro delle lanterne di carta e delletorce a ventoli schierò in colonnavi collocò inmezzo i due violinistiesalito sull'asino di casa Purghersi posea capo di una bizzarra marcia alle fiaccolein omaggio a quelli diComano che dovevano trovarsi al ponte delle Sarche dopo le nove. Iviolini stridevanoChieco zuffolavai portafiaccole facevano unchiasso d'infernoil terzo musicista tirava razzi dal nero culminedel castellosul monte Cavedine sorgeva un fantasma velato di luna.Io m'imbarcai per una corsa di prova. Il canotto era un vecchioarnese pesantetroppo alto di spondefatto per i flutti e lecollerefluctibus et fremitudel Gardaben diverso dalla elegante barca ingleseche il maestroaveva a Fiumelatte; ma stava a gallae io non desideravo di più.Approdai subito al luogo indicatomi da Chieco e vi attesi che lefiaccole e i clamori tornassero dal ponte delle Sarche. Faceva quasifreddol'aspettazione di questa signora che piaceva tanto a Chiecom'era sgradevole. Mi dolevo di avere scritto una certa lettera adAntoniettadi non essere invece partito per Saint-Vincent dove ellasi trovava. Le avevo scritto per chieder perdono e pacema la pennanon aveva forse scritto come il cuore dettavala penna aveva forsetalvolta sentito il freno del maledetto orgoglio; non mi si erarisposto. Perché scrivere? La febbrile visione di un incontrocon Antonietta venne improvvisamente sopra di me. Era di una vivezzaein pari tempodi una mobilità tormentosa. Ora Antoniettami passava a fianco senza salutarmiconversando e ridendo con altriora mi diceva un freddo 'buon giorno'ora il suo lungo sguardo micorreva deliziosamente le vene. Intanto i clamori e le fiaccoletornarono. Udii il fischio di Chieco. Voleva dire che la signorac'era e che mi tenessi pronto.
Erouscito dal canotto e mi preparavo un'attitudine ossequiosa dibarcaiuolo che aspettaquando comparve Chieco tenendo a braccetto ladama avviluppata in uno scialle bianco.
“Entraentra tu!” mi gridò il maestro. “E a posto! Lasignora siede a prua e al canotto gli do una spinta io.”“Presto!” soggiunseparlando a lei. “Facciamo prestoaltrimenti ci prendono!”.
Infattisi gridava dietro a loro: "Chieco! Chieco! anche noi! DovesieteChieco?".
Entrainel canottosedetti sul banco di mezzo voltando le spalle alla pruae impugnai i remi. In un baleno la signora balzò dentroilcanotto fregòsaltando indietrola sabbia. “Prestopresto!” ripeteva Chieco. “Giragira!”. Feci girare atutta forza quella vecchia carcassa e la misi con quattro colpi diremo alla corsa.
Sitagliava dritto all'altra spondaquando la damache non avevaancora aperto boccami disse:
“Fateil giro del castello”.
Diomioche dolce voce era questa? N'ebbi tronchiper un momentoilmotoil respiroil pensiero; era la voce 'sua'. Appena poteiripresi a remare a casoimmaginando febbrilmente ch'ella sapesseche non sapessenon osando volgere il caposentendo che era unmomento supremo.
Ellaripetè: “Fate il giro del castello!” con una leggeraimpazienzastavolta. Nononon poteva saper nienteChieco l'avevaingannata come me. Obbedii; piegammo verso lo scoglio del castelloincendiato in giro dal bengala. Qualcuno gridò: “DonnaAntonietta! A terra! A terra!”. Ella mi chiese allora se sipotesse approdare dall'altro lato della penisola.
Esitaiun pocoe risposi con voce involontariamente alterata:
“Nonlo so”.
Antoniettanon replicò nullama subito dopo sentii il canotto piegaresul fianco destro.
Certoell'aveva fatto un movimentoaveva cercato vedermi in viso. Anche lasua voce mi parve leggermente alterata quando soggiunse:
“Vogliotornar indietroall'approdo”.
Pensaiche mi avesse riconosciutoche forse mi credesse complicedell'inganno. Guai se credeva questolei col suo carattere! Nonc'era da sperar più nella pace. Voltai il canottosilenziosamenteper ricondurla all'approdo. Ero ben risoluto diparlare ma solo quando ella fosse libera di scenderedi lasciarmi.La luna usciva brillante di sotto un nuvolone: entrai nell'ombra delmuro di cinta.
“Visono altri forestieri qui nel castello?” chiese Antonietta collastessa voce di prima. Eravamo a una trentina di metri dall'approdo.Non risposi. Ora avrei dovuto voltar il capo verso di lei perapprodar bene. Remavo adagioadagioil cuore mi batteva in tutto ilpetto. Antonietta non ripetè la sua domanda. L'angolo del murodi cinta mi comparve a fiancoera lì che dovevo approdare.Trassi di un colpo i remi nel canotto e balzai in piedi voltandomi alei che si rizzò in un lampo e fece l'atto di slanciarsi aterra.
“Innome di Dio” esclamai stendendole le braccia “non sapevoniente! Mi credemi crede? Non è possibile che non micreda!”.
Inquel punto il canotto urtò la riva. Antonietta non parlòné si mosse.
“Escise vuoi” proseguii tra l'angoscia e la speranzagiungendo lemani. “Proibiscimi di seguirtidi parlartima credi!..”.
“Senon lo sapeva” interruppe Antonietta “perché questacommedia?”
Saltaia leile afferrai una mano ch'ella né mi abbandonònémi tolsele raccontai con affannosa fretta quello ch'io pensavoallora essere uno scherzo di Chiecole parlai del mio folle orgogliodistrutto dal doloredell'ardente speranza che mi riprendevadellavita mia che era in sua manocome anche l'animaforse! Ebbro digioia sentii quella mano cederecedere; potei stringere fra le miebraccia la dolce fidanzata che nullaneppure la mortepotràmai più interamente dividere da me.
Midisse che aveva creduto riconoscermi al mio primo “non lo so”ma che n'era stata sicura solo quando non avevo risposto alla suadomanda. Vinsi così presto perché la mia letteraarrivata a Saint-Vincent quando Antonietta n'era partita per nontrovarvisi benel'aveva raggiuntadopo lunghe peregrinazioniaComanola mattina di quel giorno stesso. Le proposi di restare inbarcadi pigliare ancora il largo. Non le parve conveniente; eneppure ch'iomutata qualitàl'accompagnassi al ballo. Maprima di andarsene dovette pur dirmi qualche cosa di Chieco. Egli leaveva infatti parlato di amore; trivialmentesulle primea modosuo; più tardi con una serietà e una passione di cuiAntonietta aveva creduto capace il violoncelloma non l'uomo.Respinto in tutti i modile aveva detto male di mescandagliando ilterrenogiurando che non si sarebbe fatto alcuno scrupolo diprendere ciò che io non aveva saputo tenere. A questo puntoAntonietta gli aveva chiuso la bocca con due parole asciutte cui eglidichiarò di accogliere come il “turacciolo del fiasco”soggiungendo però che farebbe vedere alla signora chi fosseChiecoche testa e che cuore.
“Avevaragione” disse Antonietta abbracciandomi dopo il suo racconto.“Ci ha intesi molto bene ed è stato molto buono. Ed oravadosai”.
“Vava” risposi trattenendola più forte che potevo.
“Comemandi via la gentetu!” diss'ella con una boccuccia e unaccento di bambina dolenteaggiustandomi i capelli sulla fronte. Mipose le labbra all'orecchiomi sussurrò: “Ho piacere chesiamo qui al buioche tu non mi veda bene negli occhialtrimenti citornerebbe tropp'orgoglio qui dentro!”.
Ritiròil visorise un pocomi diede un baciosaltò a terra efuggì.
Iomi scostai dalla riva remando in fretta edeposti quasi subito iremimi abbandonai all'ebbrezza che m'invadeva cuorepensieri esensi. Non so quanto tempo rimanessi così sdraiato sul bancodel canottocon la nuca a una spondai piedi all'altrale bracciaincrociategli occhi alla luna; so che mi scosse il fischio diChieco. Mi rizzai e remai a terra. Egli era làsulla riva.Quando mi vide a pochi metri mi disse: “E come si fa?”. Viera in me una battaglia di sentimenti diversi; pure saltai subitofuori ad abbracciarlo. Io non potevo parlareegli ripeteva: “Ecome si fa? Poco somigliante la fotografia! Come si fa?”.Avevamo gli occhi umidicredotutt'e due.
“PoveroChieco!” diss'egli. “È stato un gran fiasco!”.
Intantoun carro s'era fermato lì vicino sulla strada e alcuni uominivennero difilati al canotto.
“Cosasuccede?” diss'io al maestro.
“Succedeche la barca e io andiamo via. Mi seccava di vedertima ti seiandato a cacciare in mezzo al lagobisogna bene farti venire a riva.Adesso si mette il canotto sul carroChieco sul canotto eCastel-t'-inchino”.
Cosìfu. In un attimo si caricarono il canotto e i bagagli. Nel castelloballavano e suonavanonessuno sapeva nientetranne la signoraPurgher che credeva sognare e venne tutta commossa per un ultimosaluto. Chiecoseduto sopra un baulenon volle stringerle la manopretendendo che non fosse pulita; e le ordinò bruscamente diavvertire le signore e i signori che il maestro non cavaliere Chiecostava per partire e avrebbe degnato dar loro un saluto.
Siudirono presto dei passi rapididelle gridadelle esclamazioniilcarro fu attorniato di gente che lo voleva prender d'assalto pertirar giù a forza il maestro. Ma questi cacciò taliimproperi napoletani e lombardi da fare scappar le signore e starquieti gli uomini.
“Adesso”diss'egli “o straccionivi saluto. Se volete poi sapere perchéne ho abbastanza di voiecco qua”.
Trasseil suo magico violoncelloincominciò la melodia dolcissimaappassionatach'è del duetto nel secondo atto della Tempestala troncò subito con quattro raschiate buffonescheripose lostrumento e gridò 'avanti!' I buoi si mosserole ruotestridetterogli uomini salutarono con la voce e il cappellolesignore col fazzolettodue o tre giovinotti saltarono sul carro.Vedo ancora Chieco buttarli giù a calcil'odo ancora gridarloro in segno di vittoria: “E come si fa? E come si fa?”.
UN'IDEADI ERMES TORRANZA
I
Ilprof. Farsatti di Padovalo stesso che ebbe con M.r. Nisard lafamosa polemica sui fabulaeque Manesdi Oraziosoleva dire di Monte San Donà: “Cossa vorla?Poesia franzese!” Il solitario palazzoil vecchio giardino deiSan Donà gli erano poco meno antipatici di “monsiùNisarde” sin dall'autunno del 1846quando vi era stato invitatodai nobili padroni a mangiare i tordi e fra questi gli si eranoimbanditi degli stornelli. Dal viale di entrata con i suoiippocastani tagliati a dadoal laberintoai giuochi di acquaallalunga scalinata che sale il colle; dalla base all'attico pesante delpalazzol'eccellente professore trovava tutto pretenzioso emeschinoartificioso e prosaico. “Cossa vorla? Poesiafranzese!”
Altempo degli stornelliforsesarà stato così. Ilprofessore non ha più voluto rivedere Monte San Donà edorme profondamente da parecchi anninel suo campo di battagliacome possono ben dirsi:
...Nox fabulaeque Manes
Etdomus exilis Plutonia.
Adessola famiglia San Donàche ha vissuto con un certo fasto sinoal 1848pratica rigidamentesotto l'impero del nobile sior Benetola economia di cui qualche indizio apparve sino dal 1846. Per il siorBeneto non esiste poesia francese né italiana; esullacollinail giardinolasciato pressoché interamente in delleproprie passioniha sciupato le fredde eleganzeha presofra ivigneti blandi degli altri colliun aspetto selvaggiovigorosochegli sta molto bene in quel seno solitario degli Euganei. Al piano illaberinto fu messo a prato; i tubi dei giuochi d'acqua son tuttiguasti; agl'ippocastani il sior Beneto ha sostituito due filari digelsi. Voleva abbattere con lo stesso scopo scientifico i pioppisecolari del viale pomposo che da Monte San Donà mette ad unaumile stradicciuola comunale; ma la signorina Bianca li difese conpassione e lagrime contro l'acuto argomento di papà: “bezzibezzi”. Quandonell'aprile del 1875Bianca sposò ilsignor Emilio Sparcina di Padovachiese ed ebbe in dono dal padre lapromessa di lasciar in pace i cari pioppi che l'avevan tante volteveduta correre e saltareprima del collegiocon le sue rusticheamichee più tardi leggere Rob RoyWaverley e Ivanhoetre poveri vecchi libri della sottile biblioteca di casatre poverivecchi libri immortali che ora aspettano sul loro scaffale altrecupide manialtri ardenti cuori inesperti della nostra grande artemoderna.
ErmesTorranzail poetale diceva che ella stessa a quindici anniparevaun piccolo pioppo ridente a ogni soffio di ventoe che certo lecolossali piante la ricambiavano di tenerezza paterna. Torranza lodiceva sul serioegli aveva nel sangue questo fantastico sentimentodella naturaquesti distinti che i nostri freddi critici correttigli rimproveravano forse a torto. Infattinel settembre del '79Bianca tornò a Monte San Donàsolacol cuore amaro; ele parvepassando fra i pioppiche Torranza avesse ragioneche lepiante pigliassero con lei la espressione di quel biasimo affettuosoche vien significato con la tristezza e il silenzio. Il piccolo siorBeneto non tenne questo metodo. Lo aveva sempre dettoquel padresapiente e profeticoche la sarebbe andata a finire cosìchetroppi libri e troppa musica non conducono a niente di buonoche aforza di volersi raffinare ci si scavezza. Credeva la signorina diessere nata per sposare un principeun Cresoun chi cosa diavolomai? Erano questi gli esempi avuti dalla santa donna di sua madre? Lamansueta signora Giovanna San Donàuna santa per forzanonpartecipò alle collere del suo temuto signoreanzi godèsegretamente che la ragazza non si fosse lasciata mettere in piedisul collo e santificare come lei. Bianca aveva riamato il giovinottobiondo fattosi avantidopo un lungo sospirareper la mano sua; ma isuoceri grossolaniavaristizzosile eran riusciti intollerabili.Il maritobuono ma debolenon osava proteggerla a dovere; indisdegni e lagrime. Non c'erano figli; e così Bianca avevapotutoin un impeto di colleratornarsene al suo solitario angolodegli Euganeiai suoi pioppi venerabili.
Avevacredutosìa prima giuntaesserne guardata severamente; mapoi raccontò loro tante e tante cose che ogni freddezza fra levecchie piante e lei ne fu tolta. Due mesi dopo il suo ritornoquando ella videun lucido giorno di novembreche le ultime brine eil gran vento del dì innanzi le avevano spogliate di fogliesin quasi alla vettaquei tremoli pennacchi giallo-rossicci lemisero una malinconia da non dire; sentì che i pioppi lasalutavano da lontano come amici fedeliprossimi a venir menoaperdere la parola ed i sensi.
Tuttoveniva meno con essi nella gran pacenella luce limpida delpomeriggio di novembre; tuttotranne il bruno dorato dei cipressiche dai vigneti deserti presso a Monte San Donà si rizzavanoqua e là sul cielo biancastro di oriente. La giovane signoraaveva lungamente passeggiato i vigneti e oraal cader del solescendeva piano piano la costa che ne beve con i suoi cavi sassi e conle querce inclinate l'ultimo tepore. Ella guardavadistrattapiùle foglie dense del sentieropiù l'erbe grigie e gialliccedel pendio che il piano e i colli doratie il tenero cielo caldo delponente. Perché mai aveva pensatola sera precedenteappenaspento il lumea Ermes Torranza? Perché ne aveva sognatotutta la notte? Perché non poteva ancora liberarsi da questaimmagine? Eran pur quasi tre mesi che non vedeva il poetadi cuinessuno a Monte San Donà le parlava maied egli le avevascritto una volta sola in principio d'ottobre per inviarle unaromanza da camera. Bianca credeva ai presentimentinon dubitava cheavrebbe presto riveduto l'amico suo; ma purecome spiegare unaimpressione così forte? Ella ammirava l'ingegno di ErmesTorranzagli voleva un gran bene per la squisita nobilitàdell'animoper la conoscenza che ne aveva sin da bambina; ma ilpoeta era sui sessant'annie benché le portasse una amiciziapiù appassionata che paternae la sapesse esprimere moltobene in prosa e in versicon la musica e i fiorinon poteva turbareil cuore della giovane signora; la quale correva con esso il solopericolo di offenderlo quando bisognava posare una delicata parolafredda sulle sue effervescenze troppo giovanili. Avea ben pensato alui tante volte con affettopovero Torranza; non era mai stataassediata come ora dalla sua immagine. Proprio nello spegnere il lumele era venuto in cuore il nome strano 'Ermes'; e subito aveva vedutol'uomola barba biancal'abito nerola gardenia all'occhiello. Sifermò involontariamente per una foglia che cadeva in lentigiridavanti a lei; e ripensò come lo aveva riveduto insognoi versi dolcissimi che le aveva lettila divina musica cheaveva suonato stendendo la mano sul piano senza toccarlo. Venendolemeno la vivezza del ricordarea poco a poco le voci lontane per lapianuraun frequente zittir d'insetti nell'erba la richiamarono alvero. Si ripose in cammino sotto le querce piene di soleguardandotrasparir dal fogliame secco gli antichi tronchi verdi d'edera che leparlavanoanch'essi!della strofa in cui il Torranza parla a certagente del proprio ideale:
Sevoi seguitearide foglieil vento
Tuttisi sdegna il mio fedel cor;
Diruinecom'ederaè contento
Sulnobil tronco ch'egli ha amatomuor.
Glieliracconterebbea Torranzaquesti fatti bizzarri. Lui giàmetterebbe in campo il suo spiritismola occulta influenza di unapsiche sopra un'altra. Questa idea le toccò il cuore come lasensazione di un mondo stranoforse non reale ma possibile; eserealeanche presenteanche circonfuso a lei; non solamentecirconfusoma nascosto nel suo pettoinconscio nei misteridell'anima.
Unacampanellina flebile suonò le ore da lontanoin mezzo aicampi; unaduetre e mezzo. Non era più da credere cheTorranza venisse in quel giorno.
Biancatrasalì. Le pareva udire una carrozza sulla strada di Padova;ma ne passavano tante! Tutti volevano godere quelle deliziosegiornate di novembre. Sìsìi cani della fattoriaabbaiavanole ruote stridevano sulla grossa ghiaia del vialed'entrata. Bianca affrettò il passo. Per tornare alla villadoveva scenderepoi risalire.
Pressoa casa trovò un ragazzo che veniva in cerca di lei. Eranoarrivati tanti signori in due carrozze e la padrona gli aveva dettodi correre a cercare la padroncina. Non sapeva il nome di questisignori né se ci fosse tra loro un vecchio vestito di nero conla barba bianca. Gli pareva di sìma non n'era sicuro.
Biancaentrò trafelata nella sala a pian terreno dove tutti eranoancora in piedi e Beneto distribuivaqui i suoi rispettilìle sue riverenzea destra i suoi rispettia sinistra la suaservitùqualche complimentino sotto vocequalche risatinacerimoniosa. Bianca si fermò sulla sogliaraccolse tuttaquella gente in una occhiata; il poeta non c'era. Erano i DallaCarretta con i loro ospitiun piccolo museo archeologico di lunghiscialli scuridi cappellini barocchidi calze e nappe canonicalidi facce slavate; gente noiosa che veniva lì una volta l'annoper convenienzaa sedersi in giro e a guardarsi un tratto in visosenza saper che dire; dopo di che un vecchio servitore in giacchettabigia entrava molto dignitosamente portando il caffè e i'pandoli' che il cavalleresco Beneto serviva con i suoi scherzettisempre ugualidi cui la compagnia rideva regolarmente ogni annosullo stesso tono e sulla stessa misura.
Perdereun bel tramonto di novembre per costoro! Bianca non li potevasoffrirele toglievano il respiro.
“Nonso” le disse fra un sorso di caffè e l'altro il canonicoBusinello “non so se la sappia la brutta notizia..”
“No.Che notizia?..” rispose Bianca a fior di labbro.
“Ahsicuro” dissero due o tre voci sommesse.
“Ahsicuro”.
“Ilpovero Torranzapoveretto” compunto il canonicointingendo nelcaffè l'ultimo pezzetto della sua ciambella.
Biancasi sentì una stretta al cuore; un formicolìo freddo alviso; e non potè articolare parole.
“Purtroppo” disse monsignoreagitando la tazza in giro persciogliere lo zucchero rimasto al fondo. “Mancatosìpoi...” Vuotò la tazza e soggiunse sospirando: “Ierseraalle undici e mezzo”.
Biancaperdette un momento la vistama oppose all'emozione un volerviolentoun impetoquasi di collerae vinse. La signora Giovannala vide farsi pallida pallida e fu per alzarsi sgomentata; una rapidaocchiata dura di sua figlia la fermò sull'atto. Le signoreDalla Carrettache conoscevano certi maligni epigrammi corsi aPadova sulle fiamme senili di Torranzasi guardarono alla sfuggita etacquero.
Intantoil canonico raccontava che Torranza si era posto a letto due o tregiorni prima senza sofferenze graviperò con tristissimipresentimenti. La catastrofe doveva esser avvenuta improvvisamente;ma egli non poteva affermarlo. Era partito da Padovapoche ore dopoalle dieci del mattino. La città era già piena dellanotizia; si sapeva che la Giunta Municipale doveva raccogliersid'urgenza.
“Lesolite commedie” esclamò il sior Beneto. “Beataquella gente làdi poter far del chiasso e spender dei soldi.Capaci di ringraziar Dio che quel povero infelice sia morto adessoche ci son loro in Comune. E cosa credeMonsignoreche voglianoonorarlo per quei quattro versi? Ma neanche per idea! È perchéera famoso anche lui a spendere e spandere. Basta questocaro lei.Un uomo grande!”
“Papà”disse Bianca agitatissima “se deliberano qualche cosa perTorranzafanno più onore a sé che a lui”.
“Ideetutte vostrequeste” replicò Beneto dispettosamente.“Idee tutte vostre. Non mettetevi mica in mente ch'egli fossepoi questa gran cosa. Non m'intendo di versima siamo stati a scuolainsiemecon Torranzae posso dirlo. Volete metter la testa diFarsatti?”
“Nonono” interruppe con certa secchezza molle il canonico. “Pertalentolasciamolo stareil povero Ermes ne aveva più delbisogno; ma criteriosignoracriteriola mi scusi proprioneancheuna briciola”.
“Egliera dei miei amicil'avvertomonsignore” rispose Bianca. “Ame queste cose non si possono dire”.
“Ahbene!” fece Monsignore scuro. I Dalla Carretta si rannuvolarono.Ma Beneto non permise che la finisse cosìin un silenzioburrascoso.
“Monsignoreparla benissimo” disse egli “e mi meraviglio di voi che nonle abbiate mai capitecerte cose”.
“Basterebbel'affare dello spiritismo” osservò a mezza voce ilvecchio conte Dalla Carrettarivolgendosi con un sorrisetto alcanonicoper confortarlo.
“Euh!”disse questialzando gli occhi e le sopracciglia “io nonparlo”.
Unazitellona della compagnia chiesefacendo l'innocentese Torranzafosse proprio spiritista. “Spiritista fanaticoera. Aveva unabiblioteca di pubblicazioni tedeschefrancesiinglesiamericanesullo spiritismo. Stava traducendo un libro di un certo Fechte oFochte o Fichtepieno di quelle minchionerie”.
“Sicapisce che lei non lo ha letto” interruppe Bianca.
“Sta'a vedere” saltò su il sior Beneto “che mi diventatespiritista. Vorrei vedere anche questa”.
Biancafu per dare a suo padre una risposta audace e pungente. Si contenne erispose solo che non amava i pregiudizi di nessun colore.
“Adessogli potremo dare la provaallo spiritismo del povero Torranza”osservò un signore “perchée questo l'ho udito iocon le mie orecchie da Pedrocchiegli diceva che dopo morto sisarebbe fatto sicuramente vedere e intendere da qualcuno”.
Benetonitrì una risata gutturalea bocca chiusa.
“Gesummariapapà!” disse la contessina Dalla Carretta al suogenitore.
“Mattocaramatto!” rispose questi.
“Ehmattopoveretto; eh matto”. Ciascuno guardava il suo vicinogli passava la parola a mezza voce. Bianca si alzò senza dirnullaspinse via nervosamente la sua sedia e uscì.
Benetofremevala signora Giovanna stava sulle spine. Dopo un brevesilenziola Dalla Carretta guardòimbarazzatasuo maritopiegando la persona; in un attimo tutti furono in piedicontentisollevati da un gran peso.
Benetodiscese la scalinata a braccio della contessache gli espresseconmolta ipocrisiail suo rincrescimento per i discorsi che si eranfatti primaper il dispiacere arrecato alla signora Bianca. Benetoprotestò. Aveva gusto che sua figlia imparasse a conoscermeglio il mondo: era stato anche lui amico di Torranzapertradizioni di famiglia; ma pur troppo quel vecchio matto avevaesercitato una pessima influenza in casa Squarcina. Intantodietro aloro scendeva la brigata tutta sussurri maligniinterrottiprudentemente da qualche osservazione a voce alta sul tramontovermigliosulle campane della parrocchia che suonavano perl'ottavario dei mortisul nero nebbione che si levava dall'orizzontesoffiando.
Eccoi due carrozzoni che si fanno avanti; ecco daccapo gli ossequiirispetti e i doveri. I lunghi scialli scurii cappellini barocchile nappe canonicalile slavate facce noiose si allontanano sotto ipioppie il sior Beneto ritorna suborbottandosi la lettura di unfoglio consegnatogli dal cursor comunaleche lo segue col berrettoin mano. Giunto sulla spianatatrova un servitore uscito adavvertirlo che è in tavola; e fa chiamar fuori la padrona.
“Quic'è l'annuncio di Torranza” diss'egli “e questogalantuomo ha un'altra lettera. Pagate voi?”
“Cosa?”diss'ella timidamente.
“Cosa?La multa'cosa'! Se vostra figlia si fa scrivere da dei disperatiche riempiono Dio sa quanti fogli e poi non sono in caso di metterfuori otto palanchesuo danno! Io non pago sicuro”.
Lasignora Giovanna guardò la lettera. “Viene da Padova”diss'ella esitando. “Ehsì sacarache pagate!”
“Èurgentissima” sussurrò la povera donna. Beneto le domandòqualche cosa con gli occhi e un cenno del capo.
“No”diss'ella. “Mi pare e non mi pare di conoscerloil carattere:ma di quella casa làno certo”.
“Benone!”esclamò l'ironico marito. “Adesso poisiccome sarebbeuna pazziacosì son sicuro che pagate. Accomodatevi pure”.
Edentrò in casa.
Lasignora non aveva un soldo in tascama fece subito qualche segretaconvenzione col cursoreche salutò e sparve nella nebbiadilagatain un batter d'occhiosul piano. Il triste oceano biancofumava su tutti i pendiimetteva le prime ondate taciturne sullaspianata di Monte San Donà. Ancora un momento e avrebbe chiusala casa nel suo vapor densoavrebbe affacciata a tutte le finestrela sua malinconia stupida.
“Civorrà un lumea tavola” disse al domestico la signoraSan Donàrientrando.
“Nienteniente” gridò Beneto dal salotto “non occorre lumeche ci si vede benone. Sbrigatevi e dite alla principessa che sidegnialmancodi non farsi aspettare”.
II
L'annunciocosì crudoinattesodella morte di Torranza era stato perBianca un colpo di sgomento e di doloreche volle celarequantopotè; a quella sciocca compagnia pettegola. Comprimer losdegno le riusciva men facile; evenuti in campo i discorsi diTorranza al caffè Pedrocchiera uscita per non proromperecontro suo padre che rideva e gli altri che compativano.
Sichiuse in camera. L'immagine di un nuovo Torranzadi un Torranzamorto assai più grande e buono che non le fosse mai parso ilvivole riempiva l'anima; e lo piansemeravigliata delle proprielagrimedi sentirsi una tenerezza tanto profonda. Averlo lasciatopartire cosìsenza un addio! Eccose non fosse stato quelch'era statoella si sarebbe trovata a Padovalo avrebbe potutovedere. Si rimproverò d'aver risposto un po' tardi all'ultimasua letteradi non averlo ringraziato bene della romanza. Tantealtre sue piccole negligenzetante altre lievi freddezze puntonecessarieche avevan forse rattristato il poetale tornavano tutteal cuorele facevano male. Egliun potente creatore d'anime e difigure idealil'aveva cullatada bambinasulle ginocchial'avevaconsigliatadopo il collegionegli studi; sposal'aveva condottaalla più squisita intelligenza d'ogni arte; finalmente si erainnamorato di lei come delle creature a cui il suo genio aveva datovita e passione. Adesso Bianca voleva persuadersi d'essere stataamata così; sentiva più purain questo concettolamemoria del poetae se più altapiù vicinaal paesein cui vivono i sogni dei grandi poeti spiritualisti. Egli l'amavaancorapovero amico; le si era voluto ricordare dal paese dei mortiappena giuntovi. Era spiratoalle undici e mezzo; e Bianca si erasentitoprima della mezzanotteil suo nome strano nel cuore.
Sipicchiò all'uscio; era la signora Giovanna con una letteraurgentissima. Bianca prese la lettera senza guardarlapregòsua madre di scendere a pranzodi lasciarla sola. Non volevatrovarsi con papà prima d'essere un po' più calma;temeva che certi discorsi la irritassero troppole facessero direquello che non avrebbe voluto. La signora Giovanna se n'andòsospirandomentre sua figliachiuso l'usciosi sorprendevadell'oscurità sopravvenuta nella cameradel torbido mare chesaliva davanti alle finestre. Vide per un momento ancora i fantasmidei vasi ritti sul muricciolo della spianataqualche altro spettrodi piante vicine; poi nienteneppure un'ombra nel bianco immensoegualeimpenetrabile. E stette a guardarvi suattonita sentendo lavoluttuosa dolcezza di trovarsi lì nella sua piccola cameratepidaa pensarein grembo a quell'oceano silenzioso; sentendo unarispondenza arcanaindefinibile delle cose esterne con i pensieriche le empivano il cuore. Si ricordò a un tratto della letterache aveva in manol'accostò ai vetri per decifrarne ilcarattere. “Oh Dio!” diss'ella.
L'apersein furia con le mani convulse. Vi trovò uno scritto e unafotografia. Ravvisò tosto la barba biancal'abito neroilfiore all'occhiello; lui insommaErmes Torranza.
Sentivadi dover leggere subitonon ci vedevanon sapeva che si facesseandava per la camera con la lettera in mano cercando a tastoni unacandela che non v'era. Abbrancò un cerino sul suo tavolino danotte e l'accese. La fiammella mise un picciol lume sul legno lucidoe sul crocefisso di bronzoun gran buio nella camera. Biancas'inginocchiòmacchinalmentee lessesempre ginocchioniloscritto che segue:
Padova26 ottobre 1879
“Caranon si turbinon si sgomenti; legga questa lettera come io la scrivocon la tranquillità più serena. Non è niente; ilvecchio codino Torranzache cosa strana!se ne va. Mi dia la buonanottecara Bianca; dispongo perché questa lettera Le siainviata appena spento il lume.
Avvertitoda una voce internaho fatto stamanespontaneamentequello chefeceprima di morireil codino mio padre; adesso mi sento nel cuorequalcosa che si allentae insieme un silenzio pieno di riverenteaspettazione. Avrò forse ancora quattroseiotto giorni; mibasta un'ora per Lei.
Biancanei nostri passati colloquiElla mi parve temerequalche voltadiun'ombra; il suo gentile affetto per me n'era turbatonon sapevacome esprimere un risentimento. Non è vero? Pure vi èsolo nel mio cuore una tenerezza che in questo stesso momento solennenon offende i pensieri più alti; tutta la colpa è delvecchio sangue fantastico che lascia sempre un po' di colore suisentimenti e sulle parole. Mi perdoni e sorridiamone insiemeoramai.
Hoa farle un'altra preghiera e voglio porvi su il suggello della morte.Mi è amaro non averle dato in addietro più prudenticonsigli circa i Suoi dissensi domestici e discender nella tomba conquesto pensiero. Biancaper il bene Suoper il bene di persone cheLe son care e un poco anche per la mia pace nel mondo a cui vadomiascolti; non resti a Monte San Donà. Ellain fondo al cuoreama certo ancora Suo marito. Questo povero giovane fa pietà.L'altro giorno mi ha parlato di Lei per un'oracon le lagrime agliocchi. Mi disse di averle scritto più voltemi riferìle Sue risposte che gli tolgono ogni speranza se i vecchi nonacconsentono a una separazioneoalmenose non promettono mutarecontegno con Lei; e coloro non piegano né all'una néall'altra cosa. Biancapensi che qualche diritto ceduto in silenzioqualche torto patito senza sdegnonon per timorema per pietàdelle persone ingiuste che pensano offendercileva l'anima nostra aldi sopra del loro contatto irritante. Torni con suo marito. Non vi ètanto amore nel mondo da gettar via questo ch'è pur fedelepur teneroe non toglie la pace.
Eorase si ricorda le nostre conversazioni sul mondo invisibile e suifenomeni che il secondo nega perché lo umilianonon troveràstrano ch'io desideri manifestarmi a Leidopo la mia morteinqualche modo sensibile. La sera del giorno stesso in cui riceveràquesta letterasi trovi solafra le dieci e le dieci e mezzonellaSua saletta del piano. Apra la porta che dà sul giardino; leombre della notte devono poter entrare. Suoni quindi la breveintroduzione della romanza che Le ho inviata venti giorni sono. Dopodi questose Dio permette ch'io sia presente e possa darne segnoanche lievelo darò. Ella non conosce paura e vorràconsentire all'ultima fantasia sentimentale di un vecchio poeta chemuore.
Ètempo di dirvi addioBianca. Ho qui davanti a me la testinaleonardesca che Vi somiglia. Gli occhi dell'incognita sono bengrandii capelli più chiarima l'espressione originale delviso è la stessa. Questo dolce sole di ottobre che passa tra imiei libri chiusibrilla sul quadretto. Vi vedo vivadepongo lapenna. Vi guardoVi guardouna ultima ed irragionevole lagrima micade e si perde per semprecome lo merita. Addioaddio.
Ponetequesto ritratto nel vostro salotto di Padova.
ErmesTorranza”
“Sìsì sì” singhiozzò Bianca appassionatamente.“Tutto!” Si chiuse il viso tra le manipromise a Torranzacon uno slancio del cuoreche avrebbe appagato tutti i suoi ultimidesideri e pregòsenza paroleper esso.
Cadendoquell'impeto di fervoreil suo pensiero si assopivasi perdevasenza avvedersene in un altro campo. Ella non pregava più;aperte le maniguardava la fiammella del cerinosi sentiva tornarnel cuore le conversazioni avute con Torranza sui misteri d'oltre latomba.
Noncercava né combatteva queste memoriele lasciava venireinerte. Ad un tratto spense il cerinopregò un altro poco esi rizzò. Era notteil bianco oceano silenzioso empiva semprele finestrepareva essere in un'isola. Le venne in mentemalgradose stessaun racconto meraviglioso fattole dal poetauna camerabuia nel vecchio castello reale di Stoccolmain mezzo al mare; il reCarlo XI che siede taciturno al fuoco ascoltando il dottorePaumgarten parlar della regina mortapoi si alzava alla finestra edice al conte Brahe: “chi ha acceso i lumi nella sala degliStati?”.
Quivinon apparivano lumi; appoggiando il viso ai vetri si vedeva in altonella nebbiaun diffuso chiarore lunare. Bianca non potè ameno di pensare alla sala del pianodi vedervisi sola con le candeleaccesead aspettare uno spirito.
Allesette e mezzo uscì di camera senza lumediscese la scalarischiarata dai quattro finestroni che rompono tutto un fianco delpalazzodal primo piano alla cornice. Attraverso i due superiori sivedeva la luna mancare e tornare fra le nebbie fumanti; dei vaniazzurrognoli si aprivano e si chiudevano nel cielo.
“Seiqua?” disse dal fondo della scala la signora Giovanna.
Subitodopo la fessa vocina stizzosa di Beneto gridò più dalontano:
“Presto!Oramaitantola poteva anche andare a lettomi pare. Presto!”
Biancanon gli badò. Quel padre amoroso voleva proprio farle costarepoco il ritorno in casa Squarcina!
Egliera in salottopicchiava e ripicchiava sulla tavola un mazzo dicarteimpaziente che sua moglie venisse per la solita partita.
“Qua!”disse eglibrusco. “Qua! Andiamo!”
Larassegnata signora prese il suo posto all'angolo della tavolapressouna lucerna a petrolio. Bianca sedette sul canapènell'ombra.Povera mammapensavache vita! Emilio era debolenon sapevaproteggerla; ma peròqual differenza da suo padre! Ella erasicura del suo maritose non ci fossero i vecchila farebberoregina in casa propria. Era andato a piangere da TorranzapoveroEmilio! Sentiva di volergli bene anche lei; e bisognava pur prenderlocome la natura lo aveva fatto.
“Avu!” brontolava tutti i momenti il signor Beneto. “A vu!Presto!”
Eglinon rivolse mai una parola a sua figliae dopo le otto e mezzo se neandòcom'era solitoa letto. Allora la signora Giovanna cheprima non aveva mai osato fiataresi pose attorno a Bianca perchépigliasse qualche cosaofferse quanto seppe con una premura timida eappassionata nel tempo stesso; ma Bianca non accettò nulla.
“Quellalettera?” disse sua madre. “Era di casa tua?”
“No”.
“Disgrazie?”
“Nomamma”.
“Perchého visto urgentissima” rispose l'altra esitante.
Biancasi rizzò e l'abbracciò.
“Mamma”disse ella sottovoce “se andassi via presto? Se tornassi conEmilio?”
“OhDio!” rispose la signora Giovanna commossa “cosa vuoi cheti dica? In coscienza non potrei dirti di no”.
“Forselo facciomamma”.
Allasignora Giovanna vennero le lagrime agli occhi.
“Mache ti maltrattino poino sai!” disse ella con voce soffocata esoggiunse dopo un breve silenzio:
“Sefosse per il papàsai bene come è fatto. Non bisognamica badare a certe apparenze”.
“Nomammanon è per il papà”.
“Benecaracosa vuoi che ti dica?”
Lapovera donna prese le sua calza e si mise a sferruzzarefrettolosamente. Dopo le asciutte risposte di Bianca non osavatoccare della lettera urgentissimaquantunque comprendesse bene cheil segreto di questo probabile ritorno in famiglia doveva trovarsilì. Lavorava e tacevasperando ottenere qualche spiegazionecol silenzio che era come un dignitoso dolersi del riserbo di Biancaun espresso aspettare che parlasse. Ma Bianca non aperse boccapercuiverso le diecila buona signoramortificata e non avendo ilcoraggio di usare autoritàposò il suo lavoroechiese alla figlia se volesse andare a letto.
Biancarispose di non aver sonno. Sarebbe andata volentieri nella salettadel piano a fare un po' di musica. La mamma voleva tenerle compagniama ella protestò tanto nervosamente che la signora Giovanna lechiese scusaeaccesale una candelasalì le scale con lasua cerea faccia curva sul lumicino a petrolio.
Biancasi avviò invece per il corridoio che mette alle camere desertenell'angolo nord-ovest della casa. Entrò in una sala nongrandema molto altatutta istoriata di affreschi mitologicivuota; e accese con la mano ferma le candele del suo pianoattraversato a un canto. La lenta luce si allargòa destrasopra un tavolino zeppo di musica; a sinistrasopra una giardiniera;in altosu per le membra enormi di non so quali divinità. Nonvi erano altri mobili in tutta la sala; i passi della giovine signoravi pigliavano un suono lungovibrante.
Ellaguardò l'orologio: le dieci erano imminenti. Cercò unpezzo di musica e lo posò sul leggìo del piano. Poi sitrasse dal petto il ritratto di Torranzaguardò a lungo lacalva testa scultoriadel poeta. Ohvoleva bene accontentarnel'ultimo desiderio quando anche fosse una folliavoleva fedelmentecomporgli la scena poeticacui egli aveva forse pensato con qualchecompiacimento prima di morire!
Sigiustificava cosìcon se stessadei suoi preparativi e dellasua emozionesenza confessarsi che aspettava davverocon un oscuroistinto del cuorequalche cosa di straordinario. Posò ilritratto sul leggìo e stette un momentoinvolontariamenteinascolto. Che cosa si muoveva dietro a lei? Nienteun foglioscivolava dalla catasta della musica. Bianca si ripiegò aleggere i versi riprodotti sulla copertina del pezzo che avevadavanti. Erano stati compostilo sapevafra il contrasto dellapassione con il sentimento religiosoda un giovane amico diTorranzamorto pochi mesi dopopresso la donna non sua che amavamalgrado se stessoin silenzio; e dicevano così:
Ultimopensiero poetico
Lefinestre spalanca a la luna;
T'inginocchiami sento morir.
Dai terror de la cieca fortuna
Dala guerra de i folli desir
Escoe salgo ne' placidi rai
Losplendente universo a veder
Abruciar ne l'amor che bramai
Chenon volli qui impuro goder.
Mase orribile un ciel senza Dio
Trale stelle funeree mi appar
Ricadròsu quel cor ch'era mio
Disperatom'udrai singhiozzar.
Biancasi coperse il viso con le manisi rivide dentro alla fronte lesinistre parole:
Mase orribile un ciel senza Dio
Trale stelle funeree mi appar.
Immaginavacon un brivido quel che proverebbe se udisse piangere vicino a sénel vuoto. Aperse la romanza per dar una passata alla introduzionenon troppo facileche aveva letto una volta sola. Ma le pagine nonvolevano stare apertesi chiudevano tutti i momenti fastidiosamente.Le fermò col ritrattino di Torranzae suonòsottovocele quindici o venti battute di introduzione che ricordanomoltoin principiola Dernière pensèe musicaledi Weber.
Diocome parlava quella musica! Che amoreche doloreche sfiduciatopianto! Entrava nel petto come un irresistibile fiumelo gonfiavavi metteva il tormento di sentire la passione sovrumana senza poterlacomprendere. Bianca si alzò con gli occhi bagnati di lagrimeandò ad aprir le imposte della porta che mette in giardino.“Le ombre della notte” aveva scritto Torranza “devonopoter entrare nella camera”.
Lanotte era chiara. Gli alberi del giardino si vedevano sfumati nellanebbia lattea. Non un sussurronon un soffio; la nebbiamuta esordaera immobile.
Biancatornò con un leggero tremito al piano. Guardò ancoral'orologio; erano le dieci e un quarto. Allora si decisesi raccolsenella musica che aveva davantibandì ogni altro pensieroogni trepidazione come se vi fosse dietro a lei una attenta follasevera e strappò dal piano con la sua grazia nervosa il primoaccordo.
Ellasuonava ansandoper lo sforzo di mettere tutta l'anima nella musicadi non pensare a quel che forse verrebbe dopo. Le fu impossibileseguire le ultime note smorzate della introduzione; il cuore lebatteva troppo forte. Passarono dieciventitrenta secondi eterni.Silenzio.
Biancaalzò un poco la testa. In quel momento due colpi sommessiaffrettatisuonarono vicino a leiche balzò in piedi con unsubito ritorno di energia calmae stette in ascolto.
Altridue colpi affrettatipiù forti dei primi; poi un toccoleggero sulla soglia della porta aperta alle ombre della notte.Bianca guardò. Era entrata una ombrauna figura umana. Lagiovine signora gittò un grido: “Emilio!” disseella. Era suo marito.
Eglisi fece avanti rosso rossoa passo incerto e a braccia disteseconla stessa ingenua contraddizione negli occhi di imbarazzo e diardore. Biancapietrificatanon si muoveva.
“Miaspettavi bene!” disse egli supplichevolefermandosi.
Fuun lampo. Bianca ride confusamente che Torranza chissà comeaveva combinato questo e rispose: “Sì” buttando lebraccia al collo di suo marito con impeto così repentino cheil povero giovanetra la felicità ed il non capir nienteperdette addirittura la testa e non sapeva che ripetere fra un bacioe l'altro: scusascusa. Ma ella non lo udiva neppure e piangevapiangevasentendosi una tenera gratitudine per il suo povero amicouna gran consolazione di esser al posto che Diofinalmentele avevadato nel mondopresso un cuore forse deboleforse male atto acomprenderlama buono e fedele.
“Starqui con la porta aperta” sussurrò il giovanecarezzevolmente “a quest'aria umidacon il dolor di capo chehai! Non voglio mica io!”
Ellapassò in un baleno dal pianto al risoe riserise sul suopettorise deliziosamente sentendo tornar l'allegria pazza del suoviaggio di nozze. Povero caro Emiliocredere che un doloruccio dicapo di due mesi prima le durasse ancora! Egli restò unmomento perplesso e poi rise anche lui di tutto cuore.
“Senti”diss'ella a un trattofacendosi seria “adesso spiegami benetutto”.
Suomarito parve sorpreso. “Ma se lo sai!” rispose.
“Losoma ho piacere udirlo da te. Vien quaconta”.
Camminaronosu e giù per la salacingendosi l'un l'altro la vita con unbraccioparlando piano.
Luiaveva frettavoleva sbrigarsi in due paroledir che Torranza gliaveva scritto di venire e basta. Ma lei non la intendeva così!Aveva egli seco la lettera di Torranza? No. Quando gli era pervenuta?Questa mattina stessa prima di mezzogiorno. E cosa dicevaproprio?Diceva presso a poco: la sera del giorno in cui riceverai questaletteratrovati fra le dieci e le dieci e mezzo a Monte San Donà.Se vedi lume nella sala del pianose odi suonare e se la porta èapertaentrache Bianca ti aspetta ed è disposta a tornarecon te. - Che data aveva la lettera? Anche la data? Egli non vollepiù rispondere né ascoltare; la sua gioiala suapassione avevano bene il dirittooramaidi passare avanti a tutto.E si strinse Bianca tra le bracciale soffocò nel collo untal impeto di tenerezza che ne perdette anche lei la parola. Maimprovvisamenteun lieve suono blando la scosse.
“Zitto!”diss'ella rialzando il viso. Puntò le mani al petto di suomarito e guardò là ond'era venuto il suono.
Alleggìo del piano la romanza Ultimo pensiero poeticosi era chiusa sul ritrattino che Biancapoco primavi aveva posatoa trattenere le pagine; Ermes Torranza non si vedeva più.Parve all'amica sua che quello fosse il promesso segno sensibilel'addio del poeta il qualecompiuta l'opera propriasi ritraessechetamentesi dileguasse nell'ombrao per le condizioni misteriosedella sua esistenza superioreofors'ancheper effetto di unmalinconico sentimento che si poteva comprendere.
“Cosaè stato?” disse Emilio. “Cos'hai che sospiri?”
Biancatornò a piegargli il viso sul petto. “Niente”diss'ella.
FEDELE
“Soffiosignor Fogazzaro” dissequella sera indimenticabile del 1°agosto 1884il generale Trèzel pigliandomi una delle miepovere pedine. “Stia attento!”
“Alledame” gli rispose per me la signorina Prina toccandomi ilbraccio con la penna. “Avanti! Detti! 'Mi co te vedosento Uncerto non so che'; e poi?”
“Scusigenerale” dissi iodopo aver mossa una pedina a caso. “'Èdigo che nol sentoE digo che nol ghè'”.
“FapiacereFilippo!” disse la signorina a suo fratello che cercavainutilmente sul piano il motivo dell'Aria di Chiesadi Stradella.
Continuaia dettare la vecchia canzonetta che piaceva tanto alla societàmilanesemolto intelligentemolto distintadell'HôtelBrocco:
Mime se inchiava i denti
Quandote voi parlar;
Edigo: i xe acidenti...
Quimi mancò la memoria. La signorina Prillale altre amabilisignore e un paio di giovanotti molto disposti a usare della graziosastrofetta per i loro fini particolarise ne desolavano. Il verso nonvenne e io potei solo ripetere alla damigella con il piùsentimentale accento che seppi:
Mime se inchiava i denti
Quandote voi parlar.
“'Ixe acidenti'” osservò sorridendo donna Luisa Trèzelcon la sua solita finezza benevola e ironica insieme. “Chi sa”soggiunse sotto voce “che il signor Fogazzaro possa avere ilversetto dalla sua Fedele”.
Tuttirisero e io mi seccai. Mi rimisi a giuocare con attenzione; poisiccome Filippo non veniva a capo di nullami alzaigli accennaicon la mano destra le prime battute dell'Aria di Chiesa.
“Mangiosignor Fogazzaro” disse il generale che non aveva mai tolto gliocchi dallo scacchierese non per guardare di traversoqualchevoltapianoforte e suonatore. La sua signora mi domandò sefossi in collera con lei. Non ero in collerama mi seccavano leallusioni a quella persona che donna Luisa chiamava 'la Sua Fedele'.Era una giovane signora arrivata da tre giorni a S. Bernardinosola.Nessuno la conosceva. Salutava molto gentilmente ma non parlava maicon nessuno. La gente dell'albergo asseriva ch'era veneziana. Sulcartoncino che là usano allacciare intorno alle salvietteperché i forestieri vi scrivano il proprio nomeella avevascritto con una calligrafia punto inglesepunto elegante:
SignoraFedele.
Erabionda: non alta ma snella; bellina assai ma più delicata egraziosa che bella. Lo confessonon saprei dire con certezza ilcolore de' suoi occhi; avevano forse il colore mutabile del marepresso il quale era nata. Portava sempre lo stesso costume grigiolastessa toque di pelliccianeragli stessi guanti neri. Usciva tardi per qualche passeggiatasolitaria; alla fonte non si vedeva mai. La sera scendeva al caffèverso le nove. Se si faceva musicarestava lungamente nel suo angoloscurolontano dal pianoforte; altrimenti prendeva il caffè espariva.
Sifacevano commenti infiniti sulla sua originesul contegnomisteriososul nome 'Fedele'che serviva persino al generale Trèzelper illudersi di avere spirito. Mi accadde una voltanel solitocrocchio della loggiadi prendere le sue difese contro le signoreche mi parevano troppo maligne. Ella passò in quel momentoimprovvisamentesalendo dalla via. Era molto accesa in visoma nonguardò alla nostra volta. Mi guardò invece quel giornostessopassandomi vicino nella sala da pranzocon uno sguardo cheai miei amici parve di gratitudine. Ne avrei proprio fatto a menoperché poi non mi tribolassero tanto.
“Chemiracolostaseraesser venuta giù così presto?”disse piano Filippoche le aveva probabilmente dedicato i suoipasticci musicali.
Infattila signora Fedele era già nel suo angolo e suonavano in quelpunto le otto.
“Aspetteràil concerto” disse la signora Prina.
Ciavevano annunciato per quella sera il concerto di un cieco suonatoredi pianoforte.
Unsignore che stava in piedipresso a meguardando giuocare albiliardoci disse che il concertista si era fatto scusare per unaindisposizione del suo compagno.
Aquesto punto qualcuno disse sull'entrata del caffè:
“Nevica”.
Lesignore si alzarono esclamandoi giuocatori di biliardo gittarono lestecchei giuocatori di tarocco le carte. Perfino il generale Trèzelaccordò una tregua alle mie pedine. Tutti si precipitarono insala e di là in loggia. Non accade così facilmente diveder nevicare in agosto.
Ameantico frequentatore di quelle Alpiciò era successo piùvolte. Mi alzai tranquillamente e mi accostai ad una finestra.
Erauno spettacolo fantasticouna magnifica festa notturna che il ventodel Nord e la neve offrivano alla luna. Ella sorgeva sopra millepunte di abetifra due montagne enorminel sereno. Ora la vedevolucidaora un turbinare di fumo argenteo la nascondeva nella suastessa luce. Perché non si poteva propriamente dire chenevicasse. Era neve delle cimecacciata dalla tormenta. Fra unturbine e l'altro si vedevano tutte le creste bianche fumar su nelcielo azzurro.
“Lascusisignor Fogazzaro” mi disse in veneziano una vocetremante. “Non c'è il concerto stasera?”.
Mivoltaisorpreso.
“Scusila libertà” riprese la signora Fedele. “So che siamoquasi concittadini”.
Manon mi ero tanto sorpreso del suo improvviso interrogarmicome dellacommozione stranaprofondache sentivo nella sua vocein unadomanda così volgare. E poi il caro dialetto usato cosìdi primo acchitoe quel chiamarmi per nomemi avevano avvicinatocon violenza alla misteriosa signora; con una violenza certo volutada lei chi sa per qual fine.
“S'immagini!”le risposi. “Non credo che ci sia concerto. Ho udito che ilcompagno del cieco è malato e che questi si è fattoscusare”.
“Eandrà viaforse? Non suonerà più?”
Ibegli occhi mi parvero ad un tratto più grandila voce piùtremante.
“Nonlo so davvero” risposi. Credetti poi di dover soggiungere percortesia: “Lei ama molto la musica?”.
Ellanon rispondevaguardava fuori nella tempesta nel baglior di luna edi neve. Scorso qualche momentomi domandò ancora:
“Ilcompagnoha detto?”
“Unsignorepoco fadiceva 'il compagno'; ma orapensandocicredo ches'inganni. Credo che sia una compagnauna signorina”.
Ellaappoggiò la fronte alle invetriatecome per vedere meglio; infatto per non essere veduta in viso da me; e ricominciò aparlare con voce più sommessa di primapiù rottadall'emozione.
“Sonoqui senza amici” disse ella “senza nessunoe posso avertanto bisogno di un'anima buona. Penserà male di meLeiadesso? Nosanon pensi male. So che Lei non mi giudica come glialtri. E poi mi hanno detto che ha famiglia. È per questo!”.
Parlavacosì accorata!
“Sicalmisignora” risposi. “Se posso qualche cosa...”
Lagente tornava allora correndoschiamazzandoallegra e intirizzitadallo spettacolo della nevee il generale mi cercava con gli occhiper finire la partita. Ci dividemmo rapidamente. Subito dopoilpadrone dell'albergo venne a fare pubblicamente le scuse delconcertistasignor Zuaneimpedito dalla indisposizione di suafigliache doveva accompagnarlo anche al piano. Lo stesso signorBrocco ci informò poi delle tristi condizioni di questo poverouomochesenza il concerto non saprebbe come pagare lo scottodell'infimo albergo dove alloggiava. Le signoreimpietositemipregarono di andarlo a pigliare. Un valente allievo del Conservatoriodi Milano s'offerse di suonare con lui.
Partimmosubitoil giovinotto ed iopieni di zelo. Il cieco signor Zuane ciaccolse con gratitudine dignitosacon grave cortesia da re inesilioparlando un italiano floscio che affondava ogni momento nellemollezze del mio dialetto natio. Era insieme comico e triste udirlodiscorrere così solennementeaccompagnando alle parole ilgesto ampio e interrompendosi tutto perplesso quando incontrava conla mano il cappello nevicato che il mio compagno gli avevastorditamente posto davanti sul tavolino. Udivamo la signorina Zuanetossire nella camera vicinaapertada cui entrava una luce affattosuperflua al signor Zuaneaffatto insufficiente a noi. La signorinaci pregònello stesso morbido linguaggio paternodi venire aprenderci il lume. La sua voce mi colpì; quando poi vidi lei alettocredetti proprio vedere i capelli biondiil delicato visodella signora Fedele.
“Leraccomando tanto papàsignore” mi disse. “Sento chesono così buoni!”
Poialzò il capo dal guanciale e mi accennò di accostarmi alei.
“Lascusiper carità” mi sussurrò ansiosa.
“Conoscelei qui una signorina veneziana biondache mi somiglia?”
“Sìla signora Fedele”.
“Percaritànon la lasci parlare a papàla supplico a ognicosto! Glielo dica magari a nome mio. A nome della Lisettadica.Adesso noadesso noper carità!”
Nonsi spiegò più di così. Partendomene con ilsignor Zuanecercavo invanofra me e medi penetrare il mistero didolore che avevo sentito prima nelle parole della Fedelepoi inquelle della signorina Lisetta; e mi pesava assai d'essermi lasciatoimmischiare.
Nonvidi bene lo Zuane in viso che all'Hôtel Broccodavanti allecandele del pianoquand'egli aspettavain piediche aprissero lostrumentoche ne portassero via le montagne di musica e siaccomodassero gli sgabelli. Altissimo della personasi tenevaimmobile ed eretto come una statua d'imperatore anticolevando sopranoi tutti la faccia più marmorea e tragica ch'io abbiaincontrato mai. Era una faccia color di cerasenza un pelodalnasoscultoriodall'austera fronte imperiosapiena d'anima sopragli occhi sinistramente chiusipiena quasi di un arcano sguardo chevi si spandesse sottocercando uscita.
Nonc'era moltissima genteperché la società dell'HôtelRavizza non aveva osato affrontare il vento e la neve. La signoraFedele era lànel suo cantuccio favorito. Guardava il ciecoma non accennava di volerlo accostare.
Neibrevi momenti della mia visita allo Zuane e del tragitto all'albergolo avevo udito parlar dell'arte sua con la devozione sinceraprofondadi un fanatico. Egli eratuttaviaassai mediocre artista.Aveva più forza ed esattezza che espressionee mostrava poinella scelta dei pezziun gusto molto dubbio. Il pubblicotoccodella sua sventuraapplaudì il primo ed il secondo pezzoapplaudì più ancora il terzouna fantasia a quattromani in cui l'allievo del Conservatorio si fece troppo onore conscarsa carità del povero cieco.
Mail programma era soverchiamente lungo. Parecchi uscirono a guardareil tempoa giuocare nel gabinetto attiguo al caffè. I pochirimasti chiacchieravano. Durante il quinto o sesto pezzonon ricordobenela signora Fedele si alzò e venne dov'ero iopresso alpianonel vano della finestra. Guardava molto pallida quelli cheuscivanoguardava quelli che conversavanocon occhiatenon diròdi sdegno ma di tristezza amara. Io tremava chefinito il pezzoella volesse appiccar discorso con lo Zuane. Avevo ancora negliorecchi gli scongiuri della signorina malataquel suo affannoso “Lasupplico!”. Mi chinai e le dissi:
“Lasignorina Lisetta la scongiura di non parlargli adesso”.
Ellatrasalìm'interrogò con uno sguardo attonito ediffidente. “Non so niente” risposi. “Lei ha dettocosì. Non so altro”.
“Nonparlerò” diss'ella sottovocerapidamente. “Ma ellaha promesso il suo appoggio a mesaprima che alla Lisetta!”
Inquel momento lo Zuane pose fine al suo faticoso pezzo. Egli pregòalcuno dei signori presenti a volersi compiacere di raccogliere leofferte. Io stava per farmi avantiquando la signora Fedele mitrattenne e mi chiese di avvertire lo Zuane che una signorina glioffriva di chiudere il suo concerto con un pezzo vocale; e chesarebbe bene non uscire col piatto che poi. Io esitavama il ragazzoPrinache stava lì a mangiarsela cogli occhicolse a volo leparole di leie si affrettò a pubblicare la propostacui loZuane accolse con l'usata solennitàfiutando l'aria mentreparlavain qua e in làcome per scoprire dove la gentiledonne fosse.
LaFedele mi sussurrò all'orecchio:
“Leimi accompagna l'Aria di Chiesa?Gliela ho udita suonarestasera”.
Miscusaicon ottime ragioni. Ella preferì allora non pregarealtri e accompagnarsi da sé. Mentre si toglieva i guanti fecialzare il signor Zuane e lo condussidi propositoa sedere alquantodiscosto dal piano.
Intantola genteavvertita come per incantorifluiva nel caffè audir la bella veneziana. Lo Zuane si trovò subito in mezzo aun gruppo di persone.
Lasignora si pose al piano. Io ero in piedi vicino a lei; potevo vedereil leggero tremito delle sue manil'inquietudine delle sue labbra.Mi chinai per dirle all'orecchio che avrei potuto pregare l'allievodel Conservatorio di accompagnarla. Scosse il capo nervosamente eincominciò subitocon mano sicurail preludio. Prima difinirlomi diede un'occhiata come per dirmi: “Le pare?”;come per mostrarmi il suo viso pallidoma risoluto.
Vorreisaper esprimere la timida dolcezza accorata del suo canto quandoincominciò sottovoce:
PietàSignore
Dime dolente.
Guardaiinvolontariamente i Prina e i Trèzeldei cui bisbiglideicui sorrisi ironici m'ero bene accorto. Non sorridevano più.Gli occhi mieitornando lentamente al pianoincontrarono a caso ilvolto del ciecomentre la dolce voce saliva con un fremito dipassione alle parole:
Sea te giunge il mio pregar
Nonmi punisca il tuo rigor.
LoZuane porgeva il viso accigliato verso la musicaascoltando a boccasemiaperta. A un tratto lo vidi piegarsi a destrasussurrar qualchecosa a un vicino che gli rispose guardando la Fedelecome se gliparlasse di lei. Ella cantava allora con uno straziante spasimo nellavoce:
Ahnon fia mai che nell'inferno
Iosia dannata al fuoco eterno.
LoZuane si alzò in piedi con una faccia terribileagitòle braccia verso la parte opposta al pianofortequasi per farsistrada fra la gente. Tutto il pubblico si voltò a luizitticosì imperiosamentech'egli si fermò sull'attosiripose a sedere. La signora Fedele s'imbarazzònell'accompagnamentosmarrì l'intonazionesi coperse il visocon le mani.
“Coraggio!”le dissi sotto voce. “Avanti!”
“Nonpossonon posso” rispose senza scoprirsi. “Sto malefaccia le mie scuse”.
Dissiforte che la signora si sentiva male e non poteva proseguire. Vi ebbeun momento di agitazione perché i vicini dello Zuane e anchealtri sospettavano una occulta relazione fra l'atto del cieco e ilturbarsi di lei; ma poi unoduequattro batterono le maniscoppiòl'applauso da tutta la sala. Parecchie signore si accostarono allaFedeleoffrirono il loro aiutoinsistettero perché prendessequalche cordialeperché si ritrasse. Rifiutò l'una el'altra cosa ringraziando umilmente; ma più quasi con gliocchi e il piegar del capo che con la voce. La voce pareva rottaspenta. Si alzò dal pianosedette nel vano della finestra.
Vollistarle vicino e pregai il Prina di raccogliere le offerte. Le monetepiovevano nel piatto. Lo Zuane volgeva il capo a destra e a sinistradietro al tintinnio dell'argento. Pareva impaziente di fare o direqualche cosa.
Lasignora Fedele seguiva cogli occhi intenti ogni suo moto. Il Prina lesi accostò esitante dubitando se dovesse rivolgersi anche alei o no. Ella gli accennò col capo di venire etrattosi unanellolo posò sul piatto.
“Ioringrazio questi gentili signori” disse lo Zuane quando glifurono recate le offerte “io ringrazio questi gentili signori eprego che il denaro sia dato per i colerosi di Marsiglia”.
Leultime parole furono proferite da lui con una subita energia di vocecon un aggrottar fiero di cigliacon un gran gesto d'ambo lebraccia.
LaFedele non diè segno né di sorpresa né dicollera. Guardava sempre luisempre quella faccia marmoreaquegliocchi spenti.
“Lehanno dato anche un anellosignor Zuane” disse il Prina.
Ilcieco stese un bracciobrancicò le monete del piattopresel'anellolo palpeggiò con le dieci ditaalzando la fronte.
“Nonaccetto quest'anello” diss'egli. “La persona che lo ha datolo riprenderà. Suppongo” soggiunse con voce quasiiraconda “ch'è ancora presente”.
Nessunofiatò. Lo Zuane ripetè la domanda. Allora la Fedeleaccennò al Prina che rispondesse di nocome infatti risposeimmediatamente.
“Pregheròi signori che m'hanno accompagnatodi restituire l'anello domattina”disse il cieco. “Intanto è mio dovere esprimere la miagratitudine a questi signori”.
Sifece condurre al piano e cominciò a tempestarvi su il suopezzo di ringraziamentomettendo in fuga la genteche andò apasseggiare e a commentare l'accaduto nella sala vicina. La signoraFedelel'allievo del Conservatorioil giovinetto Prina e io eravamosoli presso al piano.
“Sentoche la sala è vuota” disse lo Zuane cessando dal suonare.“V'è qualcuno presso di me?..”
“Sìsì” risposi.
“Ahquel signore veneto” diss'egli. “Io sono stato pocogentilestaserae devo almeno a lei qualche spiegazione”.
Stavoproprio sulle brage e protestai di non volere spiegazioni; ma quegliinsistette e la signora mi scongiuròin silenzioa manigiuntecon un viso disperatodi lasciarlo parlare. Guardaiinvolontariamente gli altri che intesero e piano pianomolto amalincuorese ne andarono.
“Nonpotevo prendere del denaro guadagnato da leicapisce” disse loZuane: “È mia nipotel'ho allevata iol'ho educata io.Una cosa orribile! Mi ha tradito”.
Soffrivoinesprimibilmentemi pareva d'essere un traditore io stessoapermettere che egli parlasse così davanti a lei; ma ella lovoleva. Aveva voltato il viso alle finestreadesso. Chi ci spiavadall'altra sala poteva credere che guardasse la luna e la tormenta.Dioperché si ostinava a star lì? Le toccaileggermente una spalla. Ella m'indovinònegò del capocon la stessa muta energia di poc'anzi.
LoZuane tacque un pocoaspettandosi forse qualche domanda. Poiriprese:
“Quell'anellomi era carouna volta; adesso noadesso no!”
Iolo interruppigli offersi di accompagnarlo a casadove la signorinaLisetta stava forse in angustia. “Potrebbe parlarmi per via sevolesse”.
“Sìsì” rispose senza muoversi “ma del resto èpresto detto. Tutte le miserie che si possono soffrire in terraiole ho sofferte dodici anni perché questa creatura diventasseartista. Ella lo aveva promesso fin da bambinaprima a Dio poi allaMadonna - ogni artista è credentesignore! - E lo diventava.Grande artista! Io morivo di fame e di consolazionesignore. Ebbeneviene un giovaneun riccouno che non sa cosa sia l'arteuno chedice: ti sposoma niente scenama niente grandezzama nientegloria. E allora si dimentica Diosi dimentica la Madonnasidimentica tuttosignor miosi spezza il cuore a questo vecchio. Nonbasta”.
“Insommasignor Zuane” esclamainon potendo più reggere “ètardiandiamo”.
“Nonbasta” proseguì egli alzandosi. “Il marito muoreperché lassùcapiscevi è una giustizia”.
Lapovera signorasopraffattagiunse le mani.
“Dioquesto no!” diss'ella.
Nonpotrei raccontar bene ciò che seguì in quel punto.Forse nessuno lo potrebbe. So che lo Zuane gridòche accorsegenteche vi fu un tafferuglioche il cieco fu condotto viache laFedele mi scongiurò di accompagnarla fuori subitoall'ariaalla solitudine.
Latormenta non soffiava piùma il freddo era pungente. Laguglia del Piz Vogel fumava ancora di neve. Ci avviammo in silenziodall'altra parteverso la luna e l'orizzonte bassolargotuttodentellatofra due grandi montagne argenteedi punte nere di abeti.Di là dalla villetta dell'ingegnere C. faceva meno freddo; lamia compagna rallentò il passo.
“Miperdoni” diss'ella “se le reco tanto disturbo. È laprima e l'ultima voltasa. Non mi vedrà piùmai più.Domani spero che avrà la carità di fare ancora qualchepiccola cosa per me e poi non udrà neppure più il mionome. Mai più. Fedele è il mio nome di battesimo. Nonposso esser altro che fedele”.
Suqueste ultime parole la sua voce si abbassòquasi si spensecome se avessero qualche tristo senso nascosto. Le vidi brillare gliocchi di lagrime. 'Non mi vedrà piùnon udràpiù il mio nome'. Perché diceva così? Cosavoleva fare? Mi si stringeva il cuore. Doveva soffrir tantopover'anima delicatae mi si rivelava così pura! Con quelvisocon quella vocecon quel tenero nome insolitomi pareva unadelle creature che si amano in sogno.
“Miha posto nome luiFedele” diss'ella.
“Haben capitonon è veroch'è mio padre? Poverettononlo ha voluto dire. La vergogna gli pareva troppo grande. Non dicomica di non avere colpasa. È vero che avevo promesso a Dio ealla Madonna. Povero papàforse aveva fatto troppo contosulle promesse d'una bambina: forse il Signore non ne ha fatto tanto.Ma non voglio mica giudicarlopovero papà. È ladisgrazia nostradi tuttiche abbia un sentimento così. Ionon ho nessuna amarezza con lui. Solo non ho potuto...”
Nonseppe reggere al ricordo delle parole dure che più l'avevanooffesa. Le mancò la voce.
“Èstata troppo amara” soggiunse dopo un istante sospirando.“Troppo amaraperché luicarogli voleva benemalgrado tutto al mio papà e quel che ho fatto per tornare conil mio papàme lo ha insegnato lui dal paradiso. Solo nonvoleva che andassi sul teatro. Il papà credeva che dopo ladisgrazia lo avrei accontentatoma non è mica possibile;bisogna bene che lo ubbidisca più di primamio marito caro.Oramai poi ho perso tutte le speranze che il papà faccia pace.Neanche l'anello della povera mamma è giovato a niente. Mel'aspettavosama volevo pur tentare una ultima volta. E adessovorrei pregarla di parlare domani alla Lisetta”.
Ledissi che disponesse pure di me per qualunque cosa.
“Laringrazi tantoprima di tuttola Lisetta” disse ella. “Hafatto quello che potevapoverinaper aiutarmi. Le dica che non lescrivo perché proprio non possoe non so neanche se lescriverò più; ma che tutta la roba mia è sua eche le carte e i denari sono a Milano in mano dell'avvocatoBenvenutivia S. Andrean. 23. Vuol prender nota?”
Notainel mio portafoglial chiaro di lunail nome e l'indirizzo. Ilcuore mi batteva fortesentivo di scrivere qualche cosa di sinistrola finequasidi una esistenzala fine di quella dolcebellacreaturatanto giovanetanto amantetanto mite con il fanaticofurioso che l'uccideva.
“Ecco”dissiriponendo il portafogli.
Eravamogiunti a quella fornace dove si spicca dalla via maestra il sentierodel laghetto.
“Vorreiandare al lago” disse ella tranquillamente come se tutto fosseoramai finito in pace; e mi nominò un mio librettodove sitocca di questo lago alpino. L'idea di andare al lago a quell'oradopo quei discorsi mi colpì tanto che me le opposi con troppomanifesto orrore. Fedele sorrise un poco. “Torniamo pure”diss'ella; e fatti pochi passi in silenziosi pose a cantarsottovoce:
Ahnon fia mai che nell'inferno
Iosia dannata al fuoco eterno
Nefui rassicurato. Solo mi doleva di averle potuto attribuire per unmomento quella idea orribile e di essermi tradito. Volevo oradomandarle che intendesse faree non osavo. Ella non parlava più.Passata la villetta C.mi disse che voleva farmi sapere il suo nomeche suo marito si chiamava Vidae ch'ella aveva tenuto nascostoquesto nomeacciocché suo padrevenendo per caso ad udirlonon fuggisse addirittura da S. Bernardino.
Giungemmoal villaggio desertotutto bianco di luna. Nel porre il piede sugliscalini dell'Hôtel Broccomi feci coraggio ed incominciai:
“Leiparte?”
“Domattina”.
“Eposso sapere?...”
Fedeleesitò.
“Glielodirò” rispose a bassa voce “non lo ripeta a miasorella. Me lo prometta! Vado a Marsiglia”.
Laguardaile stesi la mano senza poter parlare. Ella mi diede la sua.
“Soche ci muoio” soggiunse “ma in ogni caso andrei suora”.
Ciparve udir parlare nell'albergo.
“Domani”disse ella in fretta “non venga mica a salutarmi quando parto. Isuoi amici sono troppo cattivimi criticherebberogiàperla mia familiarità di stasera. Non racconti mica nientesa.'El ghe diga ch'el xe el nostro farde nualtre veneziane'”.
Lestrinsi la mano forte fortecon ambo le mie. Fu il nostro mutoaddio.
“Dunque”mi disse l'indomani mattinaalla fontela signorina Prinatuttasfavillante di ironia “glielo avranno ben trovato quel versoiersera?”
“Cheverso?” diss'io.
“Caro!”esclamò la signorina; e si mise a declamare con un'enfasisarcastica:
Mime se inchiava i denti
Quandote voi parlar
Edigo: i xe accidenti...
Mel'avevano trovatoil versosì. 'E digo: el xe el mio far'.Ma io lo tacquisdegnai concedere ai motteggi di quell'alterasignorina che mi era del tutto indifferentele ultime parole diFedele.
R.SCHUMANN
(Dall'Op.68)
Siardeval'altra seranel salottino giallo di donna Valentina. Ilcalorifero ci soffiava fuoco nelle gambe. La bella dama vi brillavatra un sistema planetario di globi lucenti; perché una lampadasplendeva sul pianodue lampade splendevano sulle consolesun astro discreto luceva fra le orchidee della giardinieraun astroazzurrognolosospeso a mezz'ariafiammeggiava sul nostro capo. Epoi c'era una fragranza così turca di sigarette di Salonicco;e poi donna Valentina era così africanacon quei capelli neripiù folticon gli occhi più grandi e indolenti chemaicon la corazza neracon i guanti che le facevano due lunghesottili mani d'ebano. Io guardavoinquietola signora; suo maritoguardavainquietoil termometro; gli altri personaggiun giovanebiondoun vecchio elegante e un maturo ufficiale di artiglieriainnamorati tutti e tre di donna Valentinaerano in ebollizione.
Alei poi venivano delle idee nubiane. Si disputò se la musicapossa raccontare e descrivereo no. Donna Valentina compativa nelsuo languido modo indolentecon le sopracciglia e il sorrisoconqualche parolina sommessail povero marito infuriato al “no”contro i tre che lo caricavanoartiglieria in testa. Io tacevo. A untratto la signora si alzò dal divanopigliò fra la suamusica un fascicolo dell'Arte antica e modernadi Ricordi; il fascicolo decimoquartomi pare. I tre si ritiraronosubitoin disordineper acclamarla e accendere la candele delpiano. L'uno d'essiperòil vecchio signorenon fuabbastanza lesto e rimase prigioniero fremente del maritoche nongli dava quartiere con le sue mazzate di positivismo greggio.
“Unaprova” disse la signoraaprendo il fascicolo sul leggìo.“Io suono loro due pagine di musica. Se v'è musica cheparliè questa. Qui c'è una scena e una storiachiarissime. Ciascuno di loro me la traduca subito in iscritto. E nonci sono scuse! - Lei tradurrà in versi” mi diss'ella.
Chiesivenir dispensato dai versiavendo posatasecondo il solitola mialetteratura nell'anticameracon il soprabito. E poi una traduzionein versi non s'improvvisa. Intanto i due zelanti accendevano unacandela per ciascunoe io nascosi male un sorrisochinandomi aleggerein capo alle due pagine di musica:
R.SCHUMANN
(Dall'Op.68)
DonnaValentina vide il sorriso eperché ci conosciamo benev'intese un volume di cosesorrise purecon la finezza piùeuropeacon uno sguardo molto lungomolto sospetto; il quarto o ilquinto che avevo da leiquella sera.
“Scettico!”diss'ellasotto voce. E strappò dalle viscere del piano ilripetuto angoscioso gemito che apre quella stupenda pagina di musicae vi ritorna ogni momento.
Avevauna sera felice. Nel 'pianissimo' del ritornellodopo le prime ottobattutemi parve proprio udire il lamento di un'anima. Gli adoratoridella damatuffati in tre poltroneascoltavano con una tal qualesegreta angustiacontemplando l'astro azzurrognolo sospeso in aria.Finito il pezzone chiesero ed ottennero la replica; dopo di che ilsalottino giallo diventò un Parnaso all'opera.
L'ufficialeche nel conversare sciabolava de omni re scibilisi trovòdopo due minutitutto attonito di non essere invena; smiseper il suo megliodi tirarsi i baffi e le idee. Ilvecchio signoreil giovine biondo ed iopresentammo a donnaValentina le nostre opere complete.
“Adessosi legge” diss'ella. “Già la scena è neldesertoe sono due amanti che vi muoiono insieme”.
Ilgiovine diventò rosso e voleva riprendere il suo partomadonna Valentina non lo permisericonobbe che la musica era unalingua senza dizionario e senza grammatica da non potersi tradurre lìper lì con sicurezzae lesse ad alta voce questa prosa delvecchio signore elegantepersona molto a mododel restoe ingegnocoltoch'era una pietà di vedere umiliato ai piedi di lei dauna passione ridicola.
MONDODEI SOGNI - VALLE DELLE ROSE
All'aurora
“Follesogno! Folle sogno! Nel caldo Oriente io poso giovane con lei su lerose.
Follesogno! Folle sogno! Baciaminon parlarmibocca soavenon midestare.
Èlontanoè lontanoil freddo paese della neve; son lontani itristi giorni della vecchiezza.
Èfuoco nel corenel sangueè fuoco nel mare di roseèfuoco nel cielo profondo. Bocca ardentebocca ardentefuoco tu seie mi divora la molle fiamma.
Tiscongiuroti scongiuronon obliarmi poi quando ci desteremo nelfreddo paesenei giorni tristiquando scuramuta sarà lafiamma che divora il mio pettoma ferventema potente a tornarti sule rose voluttuose per un giornoper un'oraa spirar fuoco nel tuocuorenel tuo sangue; ne l'aura amorosa a le tue grazie circonfusa.”
“Pompe!Acqua!” sussurrò l'ufficialementre il maritoche avevaspesso scompigliatecon il suo riso grossolanole rosedell'Orienteesclamava: “Grazie di quel deserto! Grazie diquegli amanti che muoiono”.
“Desertosì” disse la signora sorridendo amabilmente all'autore.“Suppongo che i suoi amanti non ci vorranno mica dei flaneursin questa valle delle rose. E se non muoionodormonosognano. Todieto sleepperchance to dream.Adesso la sua” soggiunse sorridendostavoltaal giovanebiondo. E lesse:
UNACATTEDRALE
Notte
Lapenitente. - Che dolore! Chedolore! Egli morì da tanti anni ed è ancor piena dipeccato l'anima mia.
L'amoancora! L'amo ancora! Cerco Dionon trovo che luiardo sempre dellepassate ebbrezze.
Unospirito. - Amami ancora! Amamiancora! Da tanti anninell'ombra della mortesono ancora pieno dite.
Nonti dolere! Non ti pentire! Solo mi ristoranel tormento eternoiltuo amore.
Ilconfessore. - Nonon t'accostarcosì al Sacramentonon muovere ad ira il Signorevaprostrati sul marmo di geloprega e piangiprega e piangiforse iltuo cuore avrà pace.
Lapenitente. - Egli soffre! Eglisoffre! Io lo sento; io non pregonon voglio esser mai felicenondolerminon pentirmi; forse lo ristoralaggiù nei tormentil'amor mio.
Ilconfessore. - Empiavaescidal luogo santoio t'abbandono all'impuro fuoco. Forse perdonaforse perdona il Signore a luinon a temai.
Lapenitente. - Padre mio! Padremio! Non lasciarmit'oppongo le mie disperate bracciaprego epiangoprego e piangomi pentomi pentocado infranta a' piedituoiSignore!
“Conservadi romanticismo alle cipolle” disse l'ufficiale. “Una cosalagrimevole”.
“Iola trovo bellissima” mormorò la signora con squisitadolcezza d'ammirazione rattenutaguardando ancora lo scritto.
“Specialmente”soggiunse il marito “perché la cattedrale è undeserto; non c'è nemmeno il sagrestanose quei due lìin confessionegridano come disperati. E gli amanti non solomuoionoma uno è bell'e andato da un pezzo”.
“Battista”disse donna Valentina “non essere insopportabile! Vediamo unpoco leicos'ha scritto” soggiunse volgendosi a me. “Sonocuriosissima”.
Presele mie povere fatichele percorse con una rapida occhiata e sussurròquasi parlando fra sè e sè:
“Noncapisco”.
“Leisarà stato sublime” mi disse l'ufficiale.
“Grande”gli risposi inchinandomi. “Sublime è stato il suosilenzio”.
Lasignora lesse:
ILPOETA E LA DAMA
Ilpoeta. - Mia signora! Miasignora! Come può lei sopravvivere a questo diabolico inverno?
-Mia signora! Mia signora! Non gela il suo piccolo tepido cuore?
Ladama. - Mio signore! Miosignore! Come vive lei col suo cuore di ghiaccio? Mio signore! Miosignore! Io ho un morbido nido caldo. Ho la mia stufa legittima checonserva ancora qualche bragia e manda di tempo in tempo qualchelanguido focherello. Ma non basta! Ma non basta! Ho un giovanecaminetto dalle vampe biondeche non mi bruciami consolami fasognare. Ma non basta! Ma non basta! Ho un maturobollentescaldamaniuna palla di cannonecoperta di panno ricamato d'oroch'io prendo tal volta per trastullo posando il libro o l'uncinetto.Ma non basta! Ma non basta! Ho un vecchio devoto scaldapiedi che miserve tanto e manda pure il suo timido tepore. E se talora ho troppocaldoapro la finestrae guardo il cielo. Pur non basta! Pur nonbasta! Vorrei il vostro spirito di poetavorrei un'azzurra fiamma dialcool per il mio thèper il diletto degli occhi miei.
Ilpoeta. - Mia signora! Miasignora! Io mi facciocon il mio spiritoil mio umile caffè.
Questaroba agghiacciò tutti.
“Scusi”mi disse donna Valentina “cosa l'è venuto in mente?”
“Chevuole?” risposi. “Non capisco la musica. Ho scritto unasciocchezza a caso”.
“Vabene” replicò la dama. “In penalei non avràil suo caffèstasera. O thè con noio niente”.