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CamilloBoito



Ilmaestro di setticlavio


Novelleveneziane




I


L'unoinsisteva timidamente:

-Eppuremaestromi scusi. In fondo è un buon giovine. Ha ungran capitale in quella sua voce da Mirate.

L'altroripeteva risolutamente:

-Nono e poi no. Tu non capisci niente. Gli basterebbe mangiarsi quelpo' di dote. È uno scavezzacollo. Povera Nene!.

L'unostava alla coda del pianofortein piedicon la testa bassa; l'altroseduto alla tastiera. Al di là dell'uscio chiuso si sentivauna vocina soave canterellare.

Ilmeno vecchioquegli che stava in piediera alto di staturamagrosbarbato; aveva intorno a sessant'annima ne mostrava di piùsebbene i capelli fossero tuttavia folti e quasi neried i dentigrandiquando l'ampia bocca si aprivaapparissero tutti regolari ecandidi. Vedendolo passare in cotta fra gli altri cantori nellalunghissima fila della processione del Corpus Dominiche inquegli anni aveva ancora luogo attorno alla piazza di San Marcosembrava tale e quale uno dei cantori dipinti l'anno 1496 da GentileBellino nel gran quadro della processione famosa delle Reliquie. Unveneziano puro e pretto. Naso lungo aquilinomento grosso un pocosporgentelabbra sottili. Cantava il basso profondoscendendo al Dosottotoccando appena il Re sopra; e non ostante gorgheggiavacon facilitàinterrompendosi spesso per ischiarirsi la golacon tanto fragoreche pareva una cannonata. Conduceva spesso i suoiallievi a cantare in coro nella cappella di San Marco; ma primavoleva che andassero in un bacaro1a berne un quartuccio per uno (egli faceva qualche ritornello) ed amangiare un'aringaappena scaldata sulla graticolaperchégiurava che le aringhe salate ripulisconoe ingigantiscono la voce.Quandodi bottocacciava fuori una notatremavano le piccoleinvetriate della bettola.

L'altroche diceva risolutamente di noera un vecchietto piccolosnellovispopulitodi ottant'anni passaticon un'aureola d'argentointorno alla fronte senza rughecon le guance nude roseee dueocchietti in cui si leggeva la bontà serena. Allievo delFurlanettocantava da tenore; e ancorasocchiudendo appena lelabbralasciava uscire una vocina flebile flebile; intonatissimalimpidissimache pareva scendesse dall'alto. Da cinquant'anni aveval'ufficio di maestro dei cori nella cappella.

IlbassoLuigi Zennon sapeva fare sul pianoforte altro che qualcheaccordo. Cercava ben bene le note una ad unapoicontento di averlealla fine trovatesi sfogava a pestar sui tasti; e intanto gliscolari attendevano che il secondo accordo nascesse sotto le lunghedita. Finivano per cantare senza nessun accompagnamentosalvo lebattute d'aspetto picchiate dal maestro fragorosamente coi piedi econ le mani e contate a gran voce.

L'accompagnamentolo faceva sentire di quando in quando il maestro dei coriAnnibaleChisiolain casa suasopra uno strumentoche stava tra ilgravicembalo e la spinetta; e le bianche mani del vecchietto andavanosulla tastiera senza scossesenza scattimentre le ditaincurvatesotto le palmenon pareva si muovessero affatto. Eppure le scaleitrillii gruppettigli arpeggi si succedevano con una precisioneuna rapiditàuna scorrevolezza ammirabili. Le piùintricate fughe delle partiture manoscritte erano sgrovigliateall'improvviso. I canonile imitazionii moti contrari assumevanosotto quei dorsi convessi delle piccole mani una chiarezza lampante.

Seil canto degli allievi procedeva liscio sopra l'accompagnamentocheudivano per la prima volta; se i duetti ed i terzetti andavanoinnanzi senza intoppila faccia dello Zen raggiava di consolazione.Il Chisiolaindulgentebisbigliava:

-Non c'è male. Proprio benino. Bravi figliuoli.

Matalvolta interrompeva per dare un consiglioper correggere unosbaglioper far ripetere un passoed allora lo Zenrannuvolandosiprendeva le difese del proprio scolaroe rifaceva il canto con ilsuo vocione portentososicché il vecchietto finiva perturarsi le orecchiedicendo:

-Si sente che l'hai proprio mangiata oggi l'aringa salata. Il bassoZen era conservatore arrabbiato. Per esempionon poteva soffrire leopere del Verdi: ne diceva un mondo di malespecialmente delRigolettoallora fresco fresco; resistevafinchépotevaal desiderio dei giovaniquando volevano studiarle; sibisticciava perciò anche col Chisiolail quale gli avevainsegnato a cantare quasi mezzo secolo addietro. Un giorno cheaproposito di uno scolarobaritono verdiano per la pellelaquestione s'era incalorita più del solitoil vecchiettoroseofissando in volto il suo bisbetico discepolo con uno sguardodi rimprovero affettuosogli disse:

-Il Verdisaivale quanto il Rossiniil Cimarosa od il Furlanetto”e l'altroscandalizzatoalzava le spalleghignando.

-Tu vorresti” continuava il maestro - che il mondo si fossefermato agli anni della tua giovinezzaquelli degli amori e dellapresunzione; mavedifra noi e la musica c'è questadifferenzache noi abbiamo una sola maniera di essere onestimentrela musica ha infinite maniere di essere bella; e noi invecchiamo esiamo mortali (anzi' io me ne sto già mezzo in sepoltura)mentre la musica è eterna.

LoZen abbassò la testacome un can barbone scottato; poi se neandò nello sguancio di una finestraove un giovinetto stavaripassando da sécon la musica sotto gli occhiun allegroche diceva: Amor perché mi pizzichimi pizzichimipizzichi perché? e continuava: Amor perché mistuzzichimi stuzzichimi stuzzichi perché? Il bassoborbottò nelle orecchie del giovinettocredendo di parlaresottovoce:

-È un sant'uomo. Darei gli ultimi anni della mia vita perallungare la sua. Ma in musicaper Baccoè un carbonaro.

-E tu” replicò sorridendo il vecchiettoche aveva l'uditofine - sei un sanfedista.

Peruna cosa lo Zen si sarebbe fatto squartare innanzi di cedere: pelmetodo di legger musica. Aveva da essere il setticlavionon altroche il setticlavio. E se qualcuno gli faceva osservare che oramaitutti leggevano col metodo comuneeglifremendo di biletuonava:

-Non è possibile. Asini hanno da essere senza il setticlavio.Il setticlavio è il vangelo della musica: la sola veracredenza. Quando poi uno gli domandava che cosa fosse il famosometodoegliassumendo un'aria soddisfatta e mettendosi a sedereprincipiava:

-In quattro parole te lo spiegoperché la cosa èlucente come il sole. Dimmiquale è la tonica nella chiave diDo?.

-Il Do.

-Bene. E il Mi che cosa è?.

-La terza.

-E il Si?.

-La settima.

-Ora sentidal Do al Mi che salto si fa?.

-Di terza maggiore.

-Dunque quando dici Do Mi dici e canti una terza maggiore.

-Sicuro.

-Quando canti Si Do che intervallo fai?.

-Di mezzo tono.

-Dunque quando dici Si Do come Mi Fa dici e canti unmezzo tono.

-Certamente.

-Adesso rispondi. Se nel tuo maledetto sistema di letturachechiamano comunecantiper esempioin chiave di Reil DoMi che cosa diventa?.

-Una terza minore.

-E il Mi Fa o il Si Do?.

-Un tono intiero d'intervallo.

-Ohvedivedi che miserabileche infame confusione. Si legge unacosa e si canta l'altra. Non c'è più regolanon sicapisce più nulla.

-E come ci si rimedia?.

-Nel modo più semplice di questo mondo. Chiama sempre Dola tonicasempre Mi la terzasempre Si la settima ecosì via tutte le altre note della scala in qualunque tono tudebba cantaree l'imbroglio spariscee gl'intervalli corrispondonosempre agli stessi nomi delle medesime note.

-Ma gli accidenti?.

-Gli accidenti sono accidentie si vedono scritti chiari e tondiquali eccezioni alla regola. Il proverbio dice appuntoche leeccezioni confermano la regola.

-Ma bisogna dunque imparare a leggere in tutte le chiavi?.

-Certoe non sai leggere tu in due? E non ci sono degli strumentiche obbligano a leggere in tre? La voce umana è sì o noil più nobile degli strumenti?.

-È il più nobilesenza dubbio.

-Ergo dev'essere il più difficile. I pigri vadano al diavolo.

-Scusimaestroma le modulazionii cambiamenti di tonoche non sitrovano scritti in testa al pezzo?.

-Te li trovi da tein nome del cielocon un poco di pazienzacon untantino di pratica d'armonia. Poi ti senti solidoti sentiincrollabile come il campanile di San Marco.

Eil vecchio lungoentusiasmatoschizzava scintille dagli occhiesolfeggiava tuonando:

-Do ReDo MiDo FaDo SolDo LaDo SiDo Do.



II


Lafanciullache canterellava in un'altra stanzamentre i due vecchisi bisticciavano sul conto della musica verdianala Neneerafigliuola della figlia d'una sorella del maestro Chisiolail qualenon avendo nessun altro parente sulla terraconcentrava nella dolcenipoterimasta orfana sin da bambinatutti gli affetti di padre edi madreanzi di nonno e di nonna. E la fanciulla lo aveva semprechiamato nonno. Ella non mancava mai alle funzioni cantate di SanMarcograndi e piccolenei dì di festa e nei giorni dilavoro. Conduceva il nonno fino a' piedi della scalettache salealla cantoria dei coriquella dalla parte della sagrestia; poi se neandava dritta drittaa passi corti e frequentinella cappella asinistra dell'altar maggioree si metteva a sedere in un angolobuioraccogliendo le vesti per occupare il minor spazio possibiletenendo il libro di preghiere aperto sulle ginocchiae rimanendo congli occhi bassifinché il nonnodopo la messa cantatalabenedizione od i vesprinon andava a pigliarlacamminando tale equale come lei a passetti solleciti e uguali.

Veramenteda un poco di tempo la ragazza non fissava sempre lo sguardo sullibro o sugli intrecci del pavimento di marmi e di porfidi; ma loalzava spesso alla cantoriala qualea stare nel cantuccio dellacappellasi vedeva tutta dal sotto in su. Apparivano appena ditratto in tratto le teste dei cantori di prima filaspesso nascostedai fogli di musica spiegati sul leggìo o tenuti innanzi agliocchi con le due mani.

Delmaestro Chisiolacorto di staturanon si scorgeva che la frontebianca circondata dai capelli d'argentosebbenequando non c'eraorchestraegli montasse davanti all'organista sul rialzo del maestrodi cappella; e indicava le battute agitando un grosso scartafacciocon cui picchiava forte i quarti sul parapetto della cantoriamassime se mutava il tempo della musicase il canto affrettava e sealcune parti dovevano entrare. Gli stava accantoa sinistralo Zenprimo bassoche faceva rimbombare anche nei pieni le sue lunghe noteprofondevibranti come pedali d'organomentre la grande bocca siapriva al pari d'una caverna sotto al naso imponente.

Fratutte quelle facce sbarbate di uomini attempati o di vecchi spiccavail volto del giovane tenoresoprannominato Mirate dal nome d'untenore grande e grosso e di potentissima voceche faceva furore alteatro della Fenice. Portava con alterigia un bel paio di folti baffineri ed il pizzo lungosegni della sua indipendenza dallafabbriceria e dai canonici; non vestiva la cottanon andava inprocessione e non cantava nelle funzioni dozzinali. Già iparrochi delle altre chiese lo ricercavanogià se lostrappavano per le messe solenni nei dì di sagra anche nellepievi della vicina terrafermagià egli aveva aperto delletrattative segrete con qualche agente teatrale per gettarsi nel maremagno del palcoscenico. Doveva condurre il negozio misteriosamenteper questa cagioneche s'era legato con uno strozzino a dargli metàdi tutti i propri guadagnifinché non saldasse con novemilasvanziche un debito di tremilafatto durante i due anni in cui avevastudiato il canto presso il maestro Zencui veniva in aiuto ilmaestro Chisiola. I maestri non gli erano costati un soldomabisognava pur viveree senza troppe angustie. Ora lo strozzino nonsi fidava di lasciarlo andare lontano da Veneziapel timore di nonsaperlo acchiappare mai più.

Figliod'un gondoliere e d'una lavandaiaera stato egli pure barcaiuolo ditraghetto. Cantava a orecchiofacendo strabiliare i forestierisegnatamente gli inglesiche menava in gondola; ecelebre fra isuoi compagni di barcatrionfava in una società di cantoriquasi tutti orecchianti come luiche andavano la sera in unbattelloornato di palloncini variopintia cantar cori in CanalGrandesotto le finestre dei principali alberghi. Una delle piùrecenti canzonette principiava: Vieni la barca è pronta -vieni l'auretta spira...

Ilgiovane gondoliere era stato ammirato più volte dal sopranodella cappella di San Marco. Questi non aveva nulla di comune con irotondi soprani di cappella Sistina e di alcuni drammi di Metastasio:miseroverdastrorachiticoera riuscito a produrre sei figliuolibrutti e cacheticiproprio il ritratto suoe per i quali avrebbeconiato moneta falsa. Poco mancava in realtà che non neconiasse: faceva di tutto. Nella cappella era entrato quale bassoprofondo; ma poisciupatasi la vocepassò a cantare infalsettoquando la musica esigeva il contralto o il soprano: easentirlopareva assolutamente una donna. Ma la paga era magraed ifigliuolibenché mezzi storpiavevano un appetito da lupi.S'appigliò alle anticaglie: comperava ceramiche fessemobilitarlatistoffe sfilateavori slabbratiogni sorta di ferramentaarrugginiteese gli capitava per un tozzo di panequalche oggettoda museo. La bottega di straccivendolo s'alzava via via alla dignitàdel ferravecchiodel rigattieredell'antiquario. Risparmiati un po'di quattrinili cominciò a prestare senza rischio a certiimpiegati imperial-regio previo deposito di vecchi oggettiche glirestavano spesso pel decimo del loro valore. Finalmente rischiòl'affare con Mirateperché lo strozzino era lui.

Quial soprano mancò la consueta prudenza. Il giovinotto avrebbedovuto seguitar nel mestiere del barcaiuolo; senonchénonpotendo attendere al remo tutta la giornatail soprano si impegnavadi anticipargli una svanzica al giorno per un anno e mezzo o per duefinché non avesse imparato sufficientemente a cantare. Doposui primi guadagniil tenore doveva restituire tre volte tanto:intorno a 1600 o 2200 svanziche al più. Visti i tempiinclinati alle dispendiose cerimonie ecclesiastichetenuto contodella voce meravigliosadue annianche lasciando stare il teatrodovevano bastare ad estinguere il debitosanzionatodel restoconcontratti fittizi regolarissimi.

Neiprimi mesi le cose procedettero abbastanza bene. Era la bellastagione: Mirate vogava la serastudiava di giorno; il sopranocopiava con le sue proprie mani la musica che occorreva al tenore. Mapresto il remo gli principiò a pesare: diceva chequell'esercizio faticava il pettoche il respiro si faceva troppofrequenteche l'espirazione diventava corta. Il maestro Zen gli davaragione: la gondola fu cedutae la svanzica non bastò più.Il padre e la madre del futuro grand'uomoper soccorrerlo di qualchesoldoraddoppiarono il lavoro: quegli al traghettoassumendo spessoil servizio dei compagniquesta al mastelloove stava a lavareanche buona parte della notte. Il bucato della biancheria nuova delfigliuolodi bella tela fina cucita dalla mamma instancabilesifaceva a parteessendo oggetto di cure speciali per la liscivaperil saponepel modo delicatoquasi a dire rispettosodi torcerladi batteriadi sciacquarladi tenderla. Il bianco lucente di quellecamicie con il largo golettocon il davanti piegolinatocon ipolsini che coprivano metà delle maninon sembrava maiabbastanza candido per toccare la pelle del nobile rampollodalquale la famiglia attendeva gloria e ricchezze. Egli di giorno ingiorno gonfiava sempre piùe diventava nervoso. Bastava unamacchietta gialla del ferroun goletto poco inamidatoperchébestemmiandosbattesse a terra innanzi alla madre due o tre camicieche la poverettacon gli occhi umidi e le labbra sorridentiraccoglieva e tornava a lavare e a stirare. Lo stanzinoch'eglioccupava accanto alle due cameracce terrene dei genitorinon era piùsufficiente alla sua voce ed alla sua persona; non rifiniva dilamentarsi che per andare in piazza di San Marco o dal maestro glitoccasse di fare un viaggio. Si trovò dunque una buona stanzanel centroin Frezzeriadove con i suoi gorgheggi metteva sossoprail vicinato. Da allora in poi andò tre volte la settimana dalbarbieredesinò all'osteriamutò i compagnifrequentò donne galantisi vergognò della madre e delbabboche faceva passare per la propria stiratrice e per il propriolustrinoe che andava di tempo in tempo a vedere con la speranza dispillare qualcosa.

Civoleva altro? Il rinfranco veniva dal sopranoil qualedopo averesnocciolato parecchie centinaia di svanzichesi sentiva incatenatoal suo debitore assai più di quanto il debitore credesse dirimanere legato a lui. Già Mirate non si degnava più diandar a chiedere con questa scusa o con quella; mandava a direall'altro che venissee subito. Le chiamate avevano luogopersolitoverso le dieci della mattinamentre il tenore era ancora aletto.

-Mi occorrono quattrini.

-Non ne ho.

-Isacco figlio di Abramomi abbisognano dugento lirealtrimenti nonposso saldare una cambialuccia al barbiereil quale ha meno spiritodi tee mi caccierà dritto in prigione.

-Non lo farà. Dovrebbe pagarti il vitto.

-Pagheràtanto è puntiglioso. E poi vuol dare unfamosissimo esempio agli altri suoi avventori morosicui ha prestatoal cento per cento.

-Non lo faràti ripeto; ma se quell'usuraio sordido lofacesseche cosa ne importerebbe a me?.

-Non te ne importerebbecuore di vero soprano! È dunquesbandito dal tuo animo ogni resto di pietà? Vuoi che ti cantiuna melodia in Mi minore per impietosirti? Poipensacibenel'umidità del carcerela mancanza di motol'arrugginirsi della gola (perché non mi lascierebbero forsesolfeggiare dalla mattina alla sera)gli insettiil cattivomangiaree sopra tutto l'avvilimento: in una settimana sarei bello espacciato.

Eil tenore parlava con enfasi melodrammaticamutandosi di camicia emettendosi i calzini.

-Anzi” replicava l'altro con lo sforzo di un sogghignoche inquella faccia triste e macilenta diventava una contorsione pietosa -anzi la continenza forzata ti farebbe un gran bene. Usciresti digattabuiaal pari d'un canarinopiù grasso e piùcanoro.

-Giacobbe figlio d'Isaccosai che non mi piacciono gli scherzimassime quando escono da una bocca tetra come la tua. Sono un buonfigliuoloma non farmi scappare la pazienza. In fondochi mi spinsea chiedere danaro al factotum della città? Tuche nonvolesti darmelo; ed io ne avevo urgenza per comperare musicapastiglie pettoraliecceteraeccetera. Del rimanente non ignori chela mia vita costa una miseria. Il più è questa camerapiccola e buia. A desinare e a cena sono spesso invitatoin graziadelle serenatedei concerti di famiglia o delle orgie musicali trascapoli; e le donnette per mepiuttosto che una uscitasono unaentrata; la lavandaia mi serve gratis; il sarto confida nella miaprossima gloriacome confidi tumio protettore generoso.

Parlavaa intervallibadando a vestirsifinchédopo essersi untobene i capellii baffi ed il pizzo con una pomata di muschiosiaccomodò i solini e la cravatta.

Intantol'antiquario lo seguiva con lo sguardo e lottava dentro di sé.Finalmente disse:

-Insommaanche questa volta farò un sacrifizio. Ti daròle dugento lire.

-Oltre la mesatas'intende.

-Oltre la mesata; maper caritàregolati nelle spesenon mirovinarese no avrai sulla coscienza la sventura d'un padre e di seifigliuoli. A propositoieri pensavo a te.

-Grazie di cuore. Vuoi dire che pensavi all'affar d'oroche hai fattomeco.

-Noproprio al tuo bene: pensavo a darti moglie.

-Così subito?.

-Fossi matto! Fra un anno o poco piùquando sarai entratonell'arte sul serio ed avrai uno stato sicuro. Intanto si potrebbegettare l'amo.

-Intendo. Quel che ti preme è che io non pericoli in alto mareo non vada a frangermi in uno scoglio. Preferisci di farmi arenaretranquillamentecome una gondolain secco. Poi un uomo innamoratomangia menosi svaga menospende meno. Poi la doteperchéci deve essere una dote....

-Sicuramente.

-La dote servirebbe subito a risarcirti col trecento per cento (altroche il parrucchiere!) delle tue liberali anticipazionisenza nemmenoil disturbo di aspettare qualche anno.

-Sei ingrato.

-E chi è la bella?.

-Ora non te lo voglio più dire.

-Dimmelomio buonomio adorato Giacobbe.

Erainsommala nipotina del maestro Chisiola; la quale aveva ereditatodal babbo un capitalettochefatto fruttare per molti anni eingrossato dal nonnopoteva ascendere oramai ad una trentina di milasvanzichesenza contare che il nonnobenché rubizzononavrebbe tardato molto a lasciarle il resto. Il tenore dichiaròdi non avere mai guardato molto attentamente quella monachettapureavendola veduta molte volte in chiesa e in istrada mentreaccompagnava il vecchioed anche in casa di luima di rado. Gli erasembrata una piccola beghina scipita; ma in conclusionetrattandosidi un affare lontanonon diceva né sìné no.Avrebbe guardato e pensato meglio.

Idue si lasciarono questa volta pienamente rabbonitisebbene inMiratemalgrado la lettura di romanzi e poesiecui s'era datoe lanuova compagnia di persone abbastanza civilirimanesse inalteratal'indole volgarmente sarcastica e impertinente del barcaiuolo. Manell'animo dell'altro era cresciuto un affetto quasi paterno eindulgente ed ansioso verso quel giovinenel quale in principio nonaveva veduto altro che l'utile vittima dell'usuraio; tanto che ora sicompiacevain fondodella bellezzadella forzadella spavalderiadegli stessi vizi del suo pupillo musicaleidealizzando ogni cosaegli sarebbe sembrato impossibile che una fanciulla lo rifiutasse permarito ed una famiglia non si tenesse orgogliosa d'imparentarsi conlui.

Trascorsopoco più di un annoMirate entrò nella cappella di SanMarco quale supplente del vecchio tenore sfiatato; eduna settimanadopoil soprano aveva già persuaso lo Zen di chiedere almaestro Chisiola per il novello cantore la mano della sua nipotina.S'è visto come il nonno rispondesse con una negativa tantorisoluta ed asciuttache lo Zen non ebbe più ardired'insistere. Il rifiuto stupì e addolorò lo strozzinoin cui interesse e cuore cospiravano insieme; ma offese vivamentenel suo amor proprio di bel giovane conquistatore e di famosocantanteMirateil quale per la prima volta guardò coninteressamento la modesta fanciullagiurando a sé medesimoche di quel no il vecchio si sarebbe presto pentito.



III


QuandoNene seppe della richiesta e della ripulsasi pose a ridere come dicosa bizzarrache non la riguardasse. Le piaceva la voce delgiovinottoche da parecchi giorni ammirava in chiesae prima avevaudita alcune volte in casama dalla camera accantoperché ilnonno non la bramava presente mentre c'erano gli scolari. Sirammentava chesentendo discorrere di lui e dirne un gran maleaveva osservato come non si potesse poi pretendere cheda un giornoall'altroun gondoliere diventasse un signore per bene; si ricordavapure i suoi occhi neri insolenticheincontrandolole facevanoabbassare lo sguardo con un senso di strano timore.

Delrestola fanciulla non aveva mai pensato al matrimonio. Era vissutasempre fra il nonno e la servauna ottima donnache le voleva unben di vita e ch'era stata domestica di sua madre. Da quattro annidivideva la sua giornata fra lo studio del cantonel quale la suavoce non robustama estesa e morbidaera riescita ammirabile diagilità e di graziaed i fiori del piccolo ortochiuso daalti muri di cintain uno dei quali s'apriva verso il canalel'arcata della riva d'approdo. Un poco di tempo lo dava alla cucinaper comporre con le proprie manipiccole e polputequalchemanicarettoche piaceva al nonno. Non usciva con altri che con luileggeva pococuciva pocofaceva trine e ricami: era soddisfatta disé e della vita.

Dallacantoria il tenoredurante i riposipiombava giù ai piedidell'altare di San Clemente delle occhiate incendiariecheincontravano gli sguardi della Nenela quale si sentiva ogni voltauna lieve trafittura nel cuore ed una fiamma al visoche lo facevadiventar di carminio. I capellipiù rossi che biondi enaturalmente ricciuticircondavano la fronte non alta e le guancepaffutelasciando vedere le delicate orecchieda cui pendevano dueperle piccine. Quando il tenore cantava con gli occhi alzati allacupola d'oro popolata di santi bizantiniallora si scorgevano fra letumide labbra della fanciulladel color di ciliegiai denti candiditutti ugualie un leggiero fremito scorrerle per le membra rotondee gli occhi cilestri non grandi assumere una nuova espressione divivacità e di sentimento. La ragazza si andava trasformando:diventava inquieta enon di radoimpaziente: sembrava cresciuta distatura.

Eragiunta fino ai diciott'anni senza avere mai guardato dentro nelproprio animosenza essersi mai resa nessun conto della propriacoscienzapoiché alle pratiche religiosealle preghierealla confessione attendeva con gravità umilema cosìper usanzacome operazioni di un ritoil quale avesse la sua radiceed i suoi intenti al. di sopraal di fuori di lei. La fede era tantoindiscussala morale così bene ridotta a precetti ed aformuleche il pensarci diventava inutile: non già che aigradini dell'altaredi contro alla grata del confessionaleprostrata innanzi al Crocifisso della sua cameretta non sentisse unaviva emozionema era cosa sentimentale o fantasticanon meditativa.Né il nonnoil quale non contava nella lunga vita una cattivaazione od una cattiva intenzione da espiareaveva mai parlato allanipote dei doveri e della dignità della donna. Gli sarebbeparso di mancare di rispetto alla virginità se avesse credutonecessario di ammaestrarla per via di consigli o di libri sulletentazioni del godimentosulla malvagità e la ipocrisia dimolti uominie rispetto alle seduzioni interiori della passione edel desideriocome intorno ai fatali inganni ed agli ancora piùfatali sopori della coscienza. Egli stesso era vissuto senza maisgarrarema come un orecchiante della virtù.

Laprima volta che Nene scrutò nel proprio pettovi trovòuna immagine d'uomo profondamente impressala quale non le ragionavarispettosa di matrimonio e di maternitànon le bisbigliavasommessa le soavi canzoni dell'affetto idealema parlavasfacciatamente di ardori ancora vaghi ed oramai irresistibili. Lafanciullaseduta nell'ombra cupa del piccolo chiosco dell'ortotutto coperto e circondato di fresca edera arrampicantesi lasciavavincere dai fantasmi dei desiderii inconsciripetendo di tratto intrattocome stupita di sé medesima: - Eppurese il nonnoavesse risposto di sìio non lo vorrei sposare!.

Sidestava in leicontemporaneamente all'amorela vanità.Ammirava la propria vocenotava i pregi del proprio modo di cantosi guardava nello specchioora tentando di lisciare i capelli rossiricciutiora arruffandolie dolendosi delle macchiette verdastre dilentigginiche picchiettavano l'incarnato del viso e delle spalleela pelle lattea del collo e del seno. Confessava a sé stessadi esser piuttosto corta di statura; ma si giudicava tutta ben fattadalla testa ai piedie meglio grassa che magra. Talvoltaèveroinvidiava gli occhi neri quanto il carbone della sua pettegolavicinala Gigiaperché supponeva che le bionde con gli occhineri dovessero esercitare un terribile fascino; poi subito siconfortavanotando come le pupille celesti s'accordinoammirabilmente con l'oro rossigno della capigliaturaebenchépiù mansuetenon sieno meno potenti. Metteva spesso i suoimigliori abitiche dianzi giacevano nell'armadioil suo piùgrazioso cappellinogià destinato alle messe dei giornisolenni; chiamò una sartasuggeritale dalla Gigiaperrimodernare le fogge dei vestimenti antiquatie pregò lo ziodi comperarle il raso cangiante per un abito nuovo alla moda.Sbagliava i punti dei ricami e delle trineche ogni tanto buttavanel cestino e ripigliava svogliata. Passeggiava nell'ortoanchedurante le ore più infuocate di quell'estate caldissimasbadigliandoaspirando con le larghe narici del naso leggermentecamuso gli effluvi acri e salsi del vicino canaleed i profumi deifiorimezzo disseccati nei loro vasiperché ella non sicurava più di mondarli né di adacquarli. Non le piaceval'olezzo delicato della vanigliadei geranidei pelargoniideigelsominidegli amorini; preferivada pocol'odore inebbriantedella gardeniadel garofanodella tuberosa.

Unamattina di buon'orafacendo fischiare in aria una sottile vermena disalcioquasi volesse staffilare qualcunospiccò netto dallostelo il grande fiore d'un giglioche le sembrava troppo alto: inquell'istante si sentì alla porta di casa una furiosascampanellata. Andò ad aprire. Era il maestro Zenchesenzanemmeno salutar la fanciullacorse drittotutto trafelato esbuffantenella camera da studio del Chisiolaed asciugandosi ilsudore sul volto con un fazzoletto a fiorami pavonazzisudicio ditabaccoesclamò:

-Maestro son disperato.

Ilvecchio lo guardò sorridendo amorevolmentecome si farebbeinnanzi alle buffe disperazioni di un bimboe chiese:

-Si tratta del setticlavio?.

L'altrocontinuava:

-Sono rovinatosono rovinatomaestrose ella non mi soccorre!.

Allorail vecchio diventato seriodisse:

-Viain che cosa posso aiutarti? Sai che ti ho sempre voluto benecome ad uno de' miei più vecchi discepoli.

LoZen s'era posto a sedereaccasciatopresso ad un tavolinosu cuistava una caraffa d'acquae ne aveva bevuto due grandi bicchieri:

-Ecco... ma prima ella mi deve promettere di non dirmi di no.

-Promettere così ad occhi chiusi non posso. Ho molta fiducianel tuo cuorema pochissima nel tuo cervello. Dio sa in qualipasticci ti sei cacciato.

-La colpa non è miaglielo giuro. Non è di nessuno. Sen'è immischiato il diavolo.

-Dunque?.

-Dunque ella sao forse non saperché è un pezzo chenon vengo da leied ella non legge i giornali: avevo promessopubblicamentesolennemente di dare questa sera con i miei allievi unconcerto per gli azionisti della mia scuola di setticlavio e dicantoinvitandovi i gazzettieri della città.

-Un concerto! Sei dunque infedele al tuo amico pianistaoppure haiimparato a trarti d'impaccio sulla tastiera?.

-Maestromi corbella? Con queste mani da granchio! Ma sapevo troppobene ch'ella non avrebbe approvato il mio impegnoanzi avrebbetentato di dissuadermene. Non volevo mancarle di rispetto colresistere a' suoi consigli. Pregai dunque il nostro organista di SanMarcoil qualea patto d'intascare venti svanziche anticipatehaconsentito volentieri. Si fecero le provetutto andava a gonfievele...”

-Ed ora all'ultimo momentol'organista s'ammalae vieni da me apregarmi di sostituirlo.

-Nomaestro. Ella non esce di casa la serae poi con questo caldoin una sala affollata! Non vorrei proporle una cosa che le potessefar malese credessi di dovermi gettare in acqua con un macigno alcollo. Del restol'organista sta benone.

-E allora?.

-Peggio che un accidente all'organistamille volte peggio: s'èinfreddata la Carlottina Bianchich'ella conoscela mia piùammirabile allievaquella che legge musica col setticlavio spedita efranca quanto un prete il breviariola mia speranzala mia stella.Ieri all'ultima prova non istava bene. Stamaniprima di venir quavado da lei; la trovo a letto con la febbreuna tosse da spaccar lecostoleun cataplasma sul pettoe tale abbassamento di voce da nonpoter pronunciare una sillaba. Il medico dichiara chese non seguonoaltri malannifra due o tre settimane potrà cantare. Iointanto sono spacciato. Senza la Carlottina vanno in fumo quattropezzi sopra ottoi più belli; e poi Mirateche mi haaccompagnato sin quagiura di non aprir bocca se non puòcantare il terzetto della Lucrezia e il duetto dell'Elisird'amore. Così perdo anche O

sì per voi già sentoch'egli dice da Dio.Rimandare il concerto è impossibile. I giornaliaggiratidagli altri maestri di cantoi quali vedono di mal occhio la miascuola gratuitami sono tutti contrari: la 'Lira' mi bistrattala'Gazzetta' mi stritolail 'Sior Antonio Rioba' mi canzona. Domanisarebbe già troppo tardi. Gli azionisti...

-Li chiami azionisti! Vorrai dire i contribuenti alle spese dellascuola. Quanti sono ora?.

-Sarebbero ottantaseiimpegnati con la firma a dare sei svanzichel'anno; ma di ottantaseiindovinimaestroquanti hanno pagato.Sedicisedici soltantoe dopo quante sollecitazioni! Pensare che seavessero pazienza di aspettare che gli allievi diventassero tutticantanti le azioni guadagnerebbero il cento per centoa dir poco.Invece me le rimandano accompagnate da sarcasmi o da contumelie.Insommaun concerto con i miei sette scolari basta a mettere in lucela veritàa sbugiardare i giornalistia confondere gli altrimaestri di cantoa moltiplicare gli azionisti...

-Bastasse almeno a pagare i tuoi debiti!” soggiunse il maestroChisiolasorridendo con tristezza.

-Debiti ne ho parecchimaestro; maper dire il veroci penso poco.A me basterebbe poter pagare la pigione delle due stanze ove tengo lascuolae il nolo del pianoforte e della musica. Continuereivolentiericome faccio da due mesia mangiare una volta al giornopesce comperato dal friggitore e polenta annaffiata di un soloquartuccio di vino.

-Povero amico miovittima del setticlavio! Dimmi alla fine come possoaiutarti.

LoZenche sapeva come la propria domanda avrebbe sorpreso e addoloratoil maestroesitò un momentopoi rapidamente rispose:

-Permettendo alla signorina Nene di cantare questa serain luogodella Carlotta.

Ilvecchio nonno si rannuvolò. Guardava in faccia lo Zen tacendocome se nuove ideenuovi timori gli confondessero la mente. Fece perrisponderema la parola parve troncata da un altro pensiero triste.Già la nipotedurante le ultime due settimanelo avevaturbato nelle sue aspirazioni e nelle sue consuetudinipoichédianzi si era andato via via persuadendo che nulla avrebbe alteratomai la serena pace della casetta e dell'orto; e come eglipressoalla fine de' suoi giornisentiva l'anima schiva da ogni agitazionemondanacosì sperava dovesse essere nel cuore della giovanela quale non conosceva ancora la vita. L'istinto dell'affetto glifigurava il primo passo nella via della vanità quale unavoraginein cui sarebbe presto scomparsa l'esistenza solitaria efelice della fanciulla e di lui. Fece uno sforzo sopra di séeaperto l'usciochiamò:

-Nene.

Appenala ragazza fu entratail vecchio continuò con vocetremolantee interrompendosi spesso per respirare: - Sentimiacaral'amico Zen ti chiede un favoreuna cosa che non hai fatto maisino ad orae che ripugna certo alla tua indole delicata e restia.Vorrebbe che tu cantassi in un concerto questa serain compagnia dialcuni suoi discepolifra i quali il così detto Miratepersostituire Carlottina Bianchiimprovvisamente ammalata.

-Signorina Nenedica di sì” interruppe lo Zen: - la miavita è nelle sue mani.

-Sìcanterò” rispose la fanciullacalma e sicurasenza nemmeno badare allo Zenche gongolava e le baciava le mani. Aun tratto il basso profondopicchiandosi la frontesi rivolse alvecchio: - Maestromi scordavo un incarico ricevuto or ora daltenorequi sulla porta. Desidera farle sapere che la richiesta dimatrimonio fu un brutto imbroglio del sopranonostro collega nellacappellaquell'usuraio luridoindegno di appartenere all'onoratocorpo dei cantori di San Marco. Egli sperava di combinare il negozioper certe sue ragioni d'interessementre all'incontro Mirate èinnamorato matto di un'altra: non mi ha detto di chi.

Lanotizia fu di qualche sollievo al vecchio: la fanciulla invecel'accolse con altera incredulità. Avvicinatasi ai nonno per didietrogli diede un bacio sui capelli bianchibisbigliandogli:

-Vedo che la mia risoluzione ti affligge. Perdonami. Sarebbero proprioriescite inutili tante tue cure per insegnarmi a cantarese dovessicontinuar tutta la vita a gorgheggiare con gli usignuoli dell'orto.Vedraimio buon nonnoche ti farò tanto onore.

Neneconosceva i pezzi che doveva eseguire. Bastò una prova rapidain casa del maestro Chisiolail qualescordandosi un poco delleubbie di primadava volentieri qualche savio suggerimentoe nonsapeva vincere una certa compiacenza nell'ascoltar la nipote. Dopofinito un rondò del Cimarosarinzeppato di agilità edi trilliil vecchio non poté trattenersi dall'esclamare:

-Brava.

LoZen farneticava di giubilo. Anche l'organistatondosbarbatounfaccione da corcontentosúonava con ardorenon ostante allesue mani rattrappite nell'uso quotidiano della piccola tastieradell'organoe cercava i pedaliche non c'eranopestando sulpavimento.

Ilconcerto ebbe luogo in una sala offerta allo Zen per mezzo del famososopranoche tutti maledivanoma chelesto e ficchino com'eraoper via di prestiti o per altri servizisi rendeva quasi sempreindispensabile. Stretta e lungala sala pareva un ampio corridoiomale illuminato da poche lampade ad olio pendenti dal soffitto bassoove avevano lasciato dei larghi cerchi di filiggine. Prima delle ottogià era quasi piena di un pubblico vario: impiegatibottegaicon le loro mogli e figliuole; bellimbusti amici di Mirate con alcuneragazze un po' scollacciatequalche prete con le sorelle vecchievestite di bruno; né mancavano parecchi signori della nobiltàsenza le damequalcuno cioè di quegli ultimi sediciazionistiche continuavano a pagare la loro quota. I giornalisti edi maestri di canto stavano in piedinel fondoammiccandosiparlandosi nell'orecchioindicando l'uno all'altro le piùbelle fanciullee ridendoghignando alle barzellette ed ai motti diquesto o di quello.

Nenesembrava propriamente bella. I capelli rossi abbondantitirati altisul capo e ornati di fiori candidi; il roseo fine del voltoin cuispiccavano le labbra coralline e gli occhi celesti; il collo di neve;la persona non altama formosa; sopra tutto quella sua nuovaespressione di fermezza e di contentezzale davano un aspettosingolare ed attraente.

Ilvecchio nonnoche aveva voluto per forza trascinarsi fin làe s'era messo a sedere nella stanza destinata ai cantantipressoall'uscioil quale conduceva al palco rialzato di due gradininonsi saziava di guardar la nipote; e quandodurante i pezzi in cuicantava e dopo la cadenzascoppiavano gli applausi lunghiripetutifragorosied era chiesto con entusiasmo il bisdagli occhidel nonno scorrevano giù per le guance le lagrime. Poiabbracciava la nipotedicendole tra i singhiozzi:

-Nenemia cara Nenecome sono contento di te!.

Finitoil concerto ed uscito il pubblicoin una svolta buia delle scalescendendoMirate circondò col braccio sinistro la fanciullaalla cintola etenendole con la mano destra il mentole diede unvigoroso bacio sulle grosse labbrache rimasero aperte e fidenti.



IV


Igiornali veneziani si occuparono del concerto. Tutti lodarono lanipote e allieva del maestro Chisiolainsistendo perònell'avvertire che qui la scuola dello Zen non ci entrava proprio pernulla. Mirate fu giudicato con poca benevolenza: voce potentedibuon timbroabbastanza intonatama fredda e grossolana; cantanteimmaturopiù da chiesa che da teatro; insommaqualitàpreziosema scuola pessima. Gli altri allievimessi in un fasciovenivano tartassati spietatamente. Conclusione: gli azionistibuttavano via i loro quattrini per far sciupare le belle voci o farcantare dei cani. Il giornale teatrale- La Lira”se lapigliava poi col setticlavioaccusando questo metodo di moltipeccati: incertezza nella intonazioneperplessità negliattacchipesantezza nel modulare; e negava assolutamente che gliscolari dello Zen sapessero leggere a prima vista. Proponeva ungiudiziopronunciato da cinque maestridue eletti dallo Zenduedalla direzione del giornale e il quinto dai primi quattro insieme.

LoZenfuori di sé per il dispetto di tante censure e per iltimore di vedersi togliere la sua amata scuolama più chealtro per causa delle imputazioni contro il setticlavioabboccòsubito; e scrisse al giornale una letterastampata immediatamentecon cui accettava la propostasi riserbava di indicare due nomiesi dichiarava disposto a soggiacere alla sentenza secosaimpossibilegli dovesse riescire contraria. Corse dal maestrodirettore della cappella di San Marco a pregarlo di essere uno degliarbitri. Questiuomo prudenterispose:

-Vi pare! Nella mia posizionefarmi dei nemici fra i maestri e fra igiornalisti! Grazie della fiduciama non vorrei rovinarmi. Corse dalgiovine e celebre direttore d'orchestra al teatro della Fenicechegli strinse cordialmente la manolo fece sedere in poltronaglioffrì una chicchera di caffèma rispose:

-Ben volentierimaestro Carissimose non ci fosse un ostacolo. Ioignoro assolutamente che cosa sia setticlavio.

-Ohnon importain un quarto d'ora la metto in grado di esserneprofessore. Il metodo splende da sécome il sole. Quale èla tonica nella chiave di Do?.

-Le sono riconoscentemaestroveramente riconoscentissimo di volermiistruiree la pregherò anzi di farlo un'altra volta. Ma lesembra che uno possa impancarsi da arbitro in una materia che conoscea mala pena e da poche ore e per sola teoria? Bisognerebbe esseretroppo sfacciati.

Taliad un dipresso furono le risposte degli altri maestricui lo Zen sirivolse. Il pover'uomo era già stato tre volte alla casa delmaestro Chisiola; ma questiun po' indisposto dopo la sera delconcertonon voleva assolutamente vedere nessuno. Non sapendo dovedar del capo s'avviò a gran passi verso la bottegadell'antiquario usuraio e soprano.

Lefaccende dello Zen s'imbrogliavano. Ai quattrini suoiquando neaveva in tascaed a quelli degli altri che si faceva prestarenonattribuiva nessuna importanza; e stupiva nel vedere la genteaffannarsi per guadagnare e per ammassare. Il suo stipendio di primobasso nella cappella di San Marco era sequestrato da parecchi mesi;gli azionisti della sua scuola gratuita gettavano appenain un announ centinaio di svanzichee dagli allievianche se gli avesseroofferto danaronon avrebbe accettato un soldoma veramenteinvecedi offrirechiedevanoed eglise avevadavaomentre era alverdeli conduceva al bacaro a mangiare ed a berefinchél'oste gli faceva credenza. Qualcosa beccava cantando nelle sagreperché la sua voce rimbombante piaceva ai preti; qualcosaspilluzzicava correggendo bozze di stampa per una tipografiacomponendo sonetti per nozzeper nasciteper ricuperata saluteperprima messaper regresso di parrocoper l'applaudito quaresimalistacome per la furoreggiante Tersicoreper il negozianteche aprivabottega di vestiti fatticome per il bottegaioche aveva ricevutoun carico di baccalà. Un giorno gli viene in mente dipubblicare un giornale in dialetto per mettere in sempre maggior luceil setticlavio e dire al prossimo la verità: fortuna che inmeno di un mese il foglio era bello e sotterrato. Un altro giornoannunzia su tutte le cantonate della città la Storia delcanto dall'antichità fino ad oggiraccoglie firme e quotedi associati: l'opera rimane alla prima faccia della prefazione.

Scrivevapiù sciolto in versi che in prosama il meglio era la poesiavernacolain cui apparivano qua e là l'ironia sferzantelacanzonatura ridente dei migliori poeti veneziani; scriveva semprealla bottega da caffèin quella del sottoportico dei Daiquasi seppellita dal ponte vicinoin quella sotto i portici diRialtoaccanto al mercatoovesplendendo fuori il soleci sivedeva appenaed i sensalii venditorii compratori in giacchettaod in maniche di camicia si bisticciavano insieme romorosamenteorallegravano i contratti di bicchierini con indiavolato baccano. Nelbugigattoloche portava il sonoro nome di Caffè dellaGloria e che stava tra una bottega di straccivendolo e unbotteghino del lottoil calamaio era formato da una chiccheraslabbrata priva di maniconella quale lo Zen trovava l'ispirazione.

L'antiquariosoprano stava contrattando con una donna pallidamentre lo Zenentrava ansante nella bottega. Si trattava di una Vergine col Puttoin braccioalta due palmitutta in avoriosu cui si scoprivano letracce di dorature e colorie nello zoccolo si leggeva una epigrafedel trecento.

-Anni addietro” diceva la donna sommessamentecon gli occhilagrimosi - anni addietro avrei potuto pigliarne cinque marenghi; enon volliperché questa Madonna era tanto cara alla miapovera mammaequando la pregavosorrideva anche a me; comesorride ora.

-Insommale vuole le quindici lire?.

-Almeno venti me ne dia.

-No” e l'antiquario si rivolse allo Zenche s'impazientiva. Lamisera donna uscì; madopo qualche minutoricomparveeposando la statuetta lentamente sopra una tavola ingombra di ciarpamid'ogni sortamormorò:

-Se la prenda: i bimbi m'aspettano con il pane.

Intascòil denaro e fece per andarsene; matrattenuta da un rimorsotornòindietroprese in mano la figuretta con delicatezza paurosaaccostando le labbra tremanti al viso soave in atto di baciarlo.Uscita finalmente dalla bottega si asciugava le lagrimementrecorreva dal fornaio.

-Ohappuntose non capitavi sarei venuto io a destarti”brontolò l'antiquarioguardando lo Zen; e gli domandòin tono brusco:

-Non pensi a pagare?.

-Ho altro per il capo io. Volevo chiederti un consiglioperchései uomo avveduto e so chein fondomi vuoi bene. Leggi la 'Lira?'.

-Capisco. Ti sei accorto di avere fatto una delle tue solitebestialitàaccettando la proposta del giudizio musicaleevorresti rimediare.

-No davvero. Venivo a sentire da te un parere circa i due nomi diautorevoli maestricui potrei indirizzarmi.

-Quanti t'hanno detto di no fino ad ora?.

-Facciamo il conto” e pronunciava i nomie numerava sulle dita:- Sette.

-Puoi stare certo che per l'una ragione o per l'altracol bel garbo ovillanamentetuttiin conclusioneti risponderanno del pari.Smettilasmettila col tuo setticlavio.

-Intanto non potresti accettare tu?.

-Io? Sei matto. Ma lasciamo stare per ora queste baggianate. Intendidi pagare sì o no? Sono stato io la bestia di mettermi innanzicol proprietario della sala ove hai tenuto il famoso concertocolfornitore delle seggiolecon quello delle lampadee via via: unaottantina di svanziche.

-E non mi hai svergognato in faccia a tutti i nostri compagni dellacappellafacendomi sequestrare lo stipendio? Paga con quello.

-Mi canzoni? Lo stipendio era già sequestrato più dimezzo; sicchéper riavere le sommeche ti prestai da amicotroppo disinteressatodovrò pazientare la bellezza di quasidue anni. Siamo vecchicaro collegae se non si perderàpresto la vitasi perderà certo la voce. Begli affari hofatto con te e con Mirate!.

-Pensiamo dunque a un rimedio.

-Hai nulla?.

-Nulla. Anzi fra una settimana rischio di farmi cacciare di casasequestrare i pochi mobilie portar via il pianoforte e la musica.Che cosa sarà della mia povera scuola?.

-Mi avevi parlatotempo fadi una somma che certi tuoi conoscentit'avevano speditonon so da quale cittaduzzaper la stampa di unastrennascritta da essie che dovrà uscire gli ultimi giornidell'anno. Mancano ancora cinque mesi.

-Mi tempestano di lettereaspettano ansiosamente di giorno in giornole bozzeminacciano di venire a Venezia. Bisogna pure che ioconsegni il manoscritto al tipografoe ritrovi il denaro giàsfumato.

-E il pianoforte?.

-Non è miolo sai bene. Lo ho a nolo mensualmente.

-Sìma se tu trovassi da venderlonon potresti continuare apagar la mesatafinché ti riescisse di saldare alproprietario il prezzo totale dello strumento? Perderesti qualcosama non si può avere nulla per nulla.

-E come farei senza pianoforte a insegnare il setticlavio?.

-Pigliane un altro a noloda un altro negoziantes'intende.

-Di questi affari non capisco niente. Salvami la scuola: ti domandosoltanto questo. Mi fido di te.

-Troverò io il compratore. Ad un patto peròche il mionome non debba essere pronunciato in nessun caso. Me lo prometti?.

-Lo giuro” e lo Zendopo qualche altra parolauscì conla testa altail passo snellozufolando un'arietta allegracome seavesse assicurato la scuola per l'eternità. Della - Lira”oramai si dava poco pensiero.



V


Eraun caldo d'inferno: l'estate si sfogava. Mancavano due giorni allasagra del Redentoree già gli operai dell'arsenale stavanoconnettendo nel canale della Giudecca il lungo ponte di barcheilquale serve a congiungeredurante la solennitàle Zattere altempio; già i più solleciti rivenduglioli e barcaiuolicominciavano a piantare le baracche e ad addobbare i battelli.

Nellanotte del Redentorefra le scelte compagnie di cantori figurava daquattro anni la scuola dello Zenche faceva sentireoltre alcunebarcarole e serenate delle opere teatralianche certi vecchimadrigali ed una canzone fresca frescascritta apposta da qualchegiovine compositore veneziano. Era più di un mese che lo Zenesercitava gli allievi; ma la canzone nuovauna marinaresca a trevociche doveva far epocagli era stata consegnata alloraappenaquarantott'ore prima di doverla eseguire. Il tenores'intendeeraMiratecui anche premeva farsi sentire da un impresario spagnuoloil quale faceva un giro in Italia a scritturare cantanti. La partedel bassotutta a note di accordi e pedaliriesciva adattissimaallo stesso Zen con le sue canne da organo ambulante. Quanto alsopranoper cui occorreva un usignuolotanti erano i trilliigruppettile volatei gorgheggiCarlottina Bianchianche se nonfosse stata ammalatasarebbe ad ogni modo apparsa insufficiente. Unaunica virtuosa poteva trionfare in sì ardue difficoltà:la Nene. Solo a figurarsi il terzetto uscire dalle tre goleilmaestro Zen si sentiva venire l'acquolina alla bocca.

Senonchév'era un ostacolo graveforse insormontabile: persuadere l'ombrosoChisiola a lasciar venire la nipote in barcadi notteinsieme conparecchi giovanisenza la vigilanza del nonnoche non avrebbepotuto reggere al disagioe tutt'al più con l'accompagnaturadella vecchia e miope donna di servizio. Lo Zenconsultato Miratenella fantasia del quale la fanciulla rimanevadalla sera delconcerto in poiimpressa quale un bocconcino da principedecise dinon affrontare da sé la fortezzamandando invece adespugnarla l'alleataperché non dubitava che Nene sarebbeentrata subito nella lega. Bastaronoinfattipoche parole delloZendette in furia nell'entrata della casa.

-Lasci fare a memaestro” esclamò la ragazzae salìalla stanza del vecchio. Il vecchio non voleva; resisteva alle moinealle preghiere; parlava della propria responsabilità; non sifidava della testa dello Zen e della oculatezza della fantesca; avevapiena fiducia nel senno della nipotema temeva lo scandalo.

-Si tratta di un'ora o duenonno.

-Nemmeno dieci minuti.

AlloraNene diventòdi bottotanto pallida che fin le labbras'erano fatte lividee ripeteva:

-Lasciami andarenonnolasciami andare.

Ilvecchiosgomentato dal nuovo tono minaccioso di quella vocenellaquale non aveva dianzi conosciuto altro che mansuetudinee dal nuovolampo iracondo di quegli occhiin cui s'era assuefatto a leggeresoltanto la dolcezza e l'affettochinò la testamormorando:

-Va' puree ricordati la tua santa madre.

Lamattina del Redentore il vecchio volle vedere insieme lo Zen e Mariala donna di servizio. Li tenne in camera quasi mezz'oraed uscironoentrambi commossi.

Mirateaveva voluto presiedere lui all'ornamento della barcala qualesembrava una pergola galleggiantedalla cui verdura scendevanolampioncini di vari colori e lunghe fettucce di carta rossa eturchina. I sedili erano coperti e rammorbiditi da vecchi cuscinistretti e lunghi di stoffa fioritala quale dai larghi strappilasciava uscire l'imbottitura di stoppa. Già vi stavano sedutii cantantidue suonatori di chitarra ed il compositore dellamarinarescaun giovinetto biondo e sentimentale. Lo Zen non potevarimanere fermo: a ogni momento s'alzavafacendo dondolare la barcapicchiava il capo in un palloncinosfondava la volta fronzutapestava ora questo ora quello. I tre rematori durarono fatica acondurre nel rio stretto e curvo il grosso battelloil qualementreecheggiavano i rintocchi di mezzanottesi fermò alla rivad'approdoinnanzi all'orto del Chisiola. Il vecchio non aveva volutocoricarsi: pareva rassegnatoanzi desiderò di accompagnareancora una volta sul pianoforte la musicache Nene doveva cantare eche ellaper non affaticar la voceaccennava appena.

Neneincurvandosiraccogliendo le vestimise il piedino sul trasto2eridendofece un salto nella barcaseguita dalla grave Mariachedovette essere quasi alzata di peso. In pochi minuti furono nelCanale della Giudecca. All'uscire dal rio cupo e silenzioso apparvecome uno spettacolo d'incendio. I fuochi di bengala rossi gettavanofiamme sui palazzi e sulle case delle Zatteresui prospetti e sullecupole dei templisul popolo infinitoche si pigiava nellefondamentasugli alberi delle navi ancorate presso alla riva; einnumerevoli ombre d'uomini e di remigigantescheinterminabilipassavano rapide sulle facciate incandescentimentre il fumo densosaliva in un cielo profondamente scuro. Poispenti i fuochisiriaccendevano le stelle in alto; e sulla laguna comparivano a miriadii lumiciniche si inseguivanosi rincorrevanoe si specchiavanooscillandonei brevi spazi d'acqua lasciati liberi ora qua ora là.Poi ancora scoppiavano e crepitavano i razziricominciava la pioggiadi scintilleripigliavano i fuochi di bengala bianchi e verdichefacevano splendere ogni cosa di luce argenteafinché tornaval'inferno dei fuochi rossi con i demonii neridi cui si scorgevanoproiettati sulle pareti un braccio tesouna mano apertaun profilodi testache occupava lo spazio d'una casadue gambe a rovescioche oltrepassavano il tettooppure degli intrecciamenti di masseinformi e confuse come battaglie fantastiche; e quanto più ilvivido lume si avvicinava alla figurache mandava l'ombratanto piùquesta s'ingrandiva fino a diventar smisurataed allorain unattimosfumava via per lasciare luogo alla incalzante ridda dellealtre. Era una trasformazione sfolgoreggiante di formedi tintediluciin cui di quando in quando si apriva uno squarcio di tenebretanto fitteche si credeva di avere la repentina visionedell'infinito; e in mezzo a quella festa abbacinante ci si sentivaattratti a cercare con gli occhi in alto o in basso il mistero dicoteste macchie nerissime.

Intantonelle fondamenta delle Zattere e della Giudecca il passeggio dellaenorme folla era impedito dalle baracche e dalle tendeovevociandoa più non possovendevano ogni sorta di robaspecialmentevinoliquorigelatiarancifrittellegalani inzuccherati3e grandi mazzi di finocchio in seme. Il ponte di piatte4scricchiolava sotto i piedi dei passantiche dovevano procederelenti e fermarsi a ogni pocotanta era la calca; scricchiolavanosull'acqua i battellile gondolei sandolile barche d'ognigenerechenon ostante alla maestria ed alle bestemmie deirematorisi urtavano come se dovessero sconquassarsi. I ferri lucididelle prore davano il cozzo nelle forcole5che in quella ressa non potevano più servire al loro uso; ed iremi o stavano inoperosi o giovavano a formare cuneo tra le bandedelle barche vicine. In certi momenti si sarebbe potuto passare apiede asciutto dalle Zattere alla Giudecca su quel brulicame dipiccoli navigliche si muovevano tutti insiemelentamentemaestosamentea seconda dell'acqua in riflusso; in certi altrimomenti si poteva credere di trovarsi nella frenesia degliabbordaggidegli arrembaggi d'un combattimento navale. I barcaiuolimostravano i pugnisi dimenavano furiosamenteminacciavano disaltare sopra le gondole per ammazzarsi: e tutto finiva in burlettaquando il motto canzonatorio d'un compagnogridato con accentobuffofaceva sbellicare dalle risa i popolanii gondolieri e icontendenti medesimi. Nel tutt'insieme un baccano indiavolatounpandemonio allegro e indescrivibile. Ma ecco principiano in unbattello i canti: già gli accordi si odono dai piùvicinigià si comincia a chiedere silenziogià sitacesi ascoltaed i suoni si diffondono in uno spazio via viamaggioredisturbati soltanto da qualcuno che grida zittoedai frastuoni lontanifra i quali si distinguono le voci fesse deirivenditori ambulanti.

Ilgran trionfo fu per il concerto dello Zen e specialmente per lamarinaresca a tre parti: i battimani non finivano piùsivoleva il bissi acclamavano i cantantisi vociava: fuoriil compositorechepallido e raggiantedovette rizzarsi inpunta di piedi sui dorso della poppa. Nene e Miratenella melodiapateticala quale andava a successioni di sestesi stringevanoforte le mani e si guardavano fissi negli occhi; lo Zen avevamangiato la sua brava aringa salata. Esaurito il programmaNeneverso le dueavrebbe desiderato di tornare a casatanto piùche alla Maria minacciava un po' di mal di stomaco per cagione deldondolìo della barca; ma una occhiata di Mirate ed un invitodello Zench'era stato accettato con entusiasmo da tutta lacomitivavinsero facilmente la riluttanza della fanciulla.

LoZen dalla vendita del pianoforte non suo aveva cavatoper mezzodell'amico antiquariointorno a trecento svanzichedi cui uncentinaiopoco piùera rimasto nelle sue proprie tasche. Glipesavano. Veramentedurante il giornogli era corsa nella fantasiala fisima di pagare un qualche acconto dei molti debiti; ma queibuoni giovanotti avevano cantato tanto benedovevano avere la golatanto aridache il non offrir loro un po' di cena sarebbe parsa unacrudeltà.

Andaronodunque tutti nel giardino Checchia alla Giudeccameno la Maria chenon sentendosi benepregò di essere lasciata in barcadopoavere con le lagrime agli occhi sollecitato la padroncina a sbrigarsiper timore che il povero nonno fosse sveglio e stesse in angustia.

Ilgiardino vastissimo era tutto a pergolati bassiche formavano unaserie di piccoli viali copertioveintorno alle frequenti tavolelunghe e strettestava un mondo di gente a cenare. L'illuminazioneconsisteva nei soliti fanaletti e lampioncini penzolanti e in candelecircondate da cartocci di vari coloriper proteggerle dal ventolinoche rinfrescava ed esilarava dopo la soffocante giornata. Il canto egli applausi avevano aguzzato l'appetito persino della fanciulla neicapelli rossi della quale l'auretta scherzava; e si lasciava farenell'orecchio da Mirateseduto al suo fiancole più audacidichiarazioni d'amore e sorrideva e sospirava e beveva il vinocheil tenore le versava spesso dal boccale panciutosu cui stavanodipinte certe rose non meno pavonazze delle chiazze della tovaglia.Dopo il salame ed i polli arrosto capitarono le frittelle: i giovanicantanti mangiavano e nello stesso tempo guardavano i due innamoratighignando sotto i baffi e parlando tra loro ad alta voce in gergofurbesco; i chitarristi tacevanodivoravano e mettevano insaccoccia; lo Zen aveva afferrato il maestrinoautore dellamarinarescail quale era giunto a Venezia da pochi giorniraccomandato al maestro dai suoi amici scrittori della strennae glistava snocciolando le virtù del setticlavio.

-Quale è la tonica nella chiave di Do?.

-Il Do.

-Mi canti una terza maggiore.

-Do Mi.

-Una minore.

-Re Fa.

-E la tonica nella chiave di Re?.

-Re.

-Niente affatto.

-Come?”

-È sempre il Do.

-Non intendo.

-Intenderà subito. Faccia il salto di terza.

-Re Fa.

-È una terza maggiore o minore?.

-Maggiore.

-Signor no.

-Ella stesso mi diceva dianzi ch'è minore.

-Minore nella chiave di Do e maggiore in quella di Re.

-E Do Mi?.

-Nella chiave di Re è minore.

-Oh confusioneoh babilonia! Sempre gli stessi nomi hanno da essere esempre i medesimi intervalli. Stia a sentire” e il maestrocontinuava imperterrito il ragionamentoe si sgolava solfeggiando:Do ReDo MiDo FaDo SolDo LaDo SiDo Do.

IntantoNeneche aveva le fiamme al visosi era alzataumida di sudoreeal braccio di Mirategirando nei pergolati più tranquillis'allontanava. Uscirono dal cancello posterioreche non mettevasulla viama in un campaccio disabitato. S'avanzarono nelle tenebree nel silenzio sull'erba alta: Nene traballava. Il cielo s'eraannuvolato; se non fossero stati i baglioriche di quando in quandoguizzavano sull'orizzontecielo e laguna si sarebbero confusi in unaoscurità sepolcrale. I rumori distantii pallidi riverberidei lumi oltre il muro di cinta facevano sembrare più cupa lanerezza e la taciturnità del luogoove non pareva piùdi essere accanto a Veneziadi vivere nella realtà di questomondo. Un gatto si cacciò fra i piedi della fanciullascappando; ella cadde sull'erba.

-Hai paura?” le domandò il tenore.

-No” rispose Nenee gli stese le bracciaperché larialzasse.

Ilventoche fischiavastava spegnendo le candele sui deschimalgradoil riparo dei cartoccie faceva scappar la gentequando Nenesulcui volto un triste pallore aveva sostituito il rosso acceso diprimatornò alla tavola con Mirate. Lo Zensorseggiandol'ultimo mezzo boccalecontinuava a disputare sul setticlavio; ma ilmaestrinoappena vide comparire i due giovanicolse la buonaoccasione per salutare in fretta e darsela a gambe. Gli altri sel'erano svignata primanon senza una certa curiosità disapere ove si fossero cacciati Giulietta e Romeo. Avevano anzicercatoinvanodi scovarli.

Ilbattello con i lumi tutti smorzati e il grande felze6di verdura e la Maria sopita e i barcaiuoli morti dal sonnoaveva unaspetto sinistro. Attraversò il canale della Giudecca frapoche barche piene di donne e d'uomini briachimentre scoppiaval'ultimo razzo e s'accendeva l'ultimo moccolo di fuoco di bengala.Passando sotto un pontenel rio stretto e buioudirono un corpocadere sui gradini e due personeche s'erano fermate a guardaredirsi fra loro:

-S'è rotto il capo: vedi quanto sangue.

-Noè vino. S'alzerà domattina.

Cominciavala pioggia a goccioloni. Nene aveva freddo e tremava.

Inquel frattempo il nonno non trovava pace. Dacché Nene eramontata in barca egli aveva ripetuto cento volte a se stesso: - Hofatto quanto potevo. Che colpa ho io se la ragazza non somiglia a suamadre e a sua nonna? Da chi ha ella ereditato tanta disobbedienzatanta ostinazionetanta vanitàtanta smania per gli svaghimondani? Potevo io chiuderla in un convento o serrarla in unaprigione? Ho l'animo tranquilloproprio tranquillo. E sentiva dentrouna inquietudineuna impazienzache non si ricordava di avereprovato mai. Era andato a lettoaveva spento il lumes'erarivoltato da tutte le parti: le materasse pungevano. Allora avevapreso la risoluzione di tornare a vestirsi; era sceso giùnell'orto. Tendeva le orecchie: le foglie stormivano.

Poitraversata l'ortaglia sino alla riva e alzato il grosso saliscendiarrugginitoche mandò un acuto cigolíoaveva aperto.S'era appoggiato allo stipite: fissava l'acqua nera sotto i piedi. Siudivano a distanza i rumori della festale grida allegre; sivedevano i razzii riflessi dei fuochi. A poco a poco sui gradinibagnati e sdrucciolevoli i grossi topi ricominciarono le loro corsesenza curarsi del vecchioil quale rimaneva immobile e assorto. Anziun sorcione finì per tentare di rodergli le pantofolericamate da Nene. Allora il vecchio si riscossee rientròpasso passoin casa. Si pose a sedere innanzi al pianoforte e suonòsenza pensarcialcune battute della marinarescale quali ancora glironzavano nelle orecchie; ma si interruppe tostoseccato da quellamusica scipita e triviale. Frattanto gli correvano nella mente certiricordi della sua giovinezza: un amore profondo e calmo per lafigliuola del suo maestrofinita etica di vent'anniin memoriadella quale aveva compostola sera stessa della morteuna marciafunebre. Cercò di rammentarsela; provavariprovava; i primiaccordi non venivanoma certi brani del canto sì; poi dinuovo s'annebbiava la seconda partesvaniva la cadenza. Ma a forzadi studiarela marcia tornò tutta interatale e qualenellamemoria e sotto le dita del maestroche ne provò una vivacompiacenzaquasi una sensazione di gioia.

Unabarcache passava con gravi tonfi di remi e strepiti di genteavvinazzatadestò il vecchio dai cari sogni lontani; andòalla finestra; gli tornò la spina nel cuore. Guardava edopoun istanteriguardava l'orologio. Non si fidava della lancetta;contava sulle dita le ore e i quartiquando suonavano e ribattevanoal campanile vicino.

-E non torna!” ripeteva - Non torna! Non si rammenta piùdel suo povero nonno!.

Pois'affaticava a ragionare:

-Le mie sono fisime da rimbambito. Che male c'èin fondonelcantare e nel farsi sentirenel desiderare un passatempo onestonelvolere una qualche libertà dopo tanta soggezione? Puòuna ragazza starsene tappata in casa tutta la vitaperchémanca di madre e di padree perché l'unico suo parente èun vecchio fastidioso e decrepito? La colpa è miache hopreteso troppo. Sono stato io l'egoista: non ho voluto scomodarminon ho saputo fare nessun sacrifizio. La giovinezza ha i suoidirittiche la vecchiaia non deve calpestare. Altro èl'estatealtro l'inverno. Sarebbe bella ch'io me la pigliassi conl'estate perché fa caldo!.

Sigettò sul lettovestito.

-Eppure” bisbigliava - sarebbe ora che tornasse. Queigiovinastriquello scavezzacollo di Miratequella testa bislaccadello Zen non mi lasciano quieto.

Sialzò di nuovo; andò di nuovo al balconeove soffiavail vento fresco e umidoche agitava i suoi capelli candidi comeaveva sconvolto quelli di Nene; guardò le nubi denseilluminate dai repentini bagliori. Cominciava la pioggaminacciavail temporale; - DioDioche cosa succede di lei!” e stava perdiscendere ancora nell'orto in preda ad un'angoscia sempre crescenteed oramai insopportabilequando udì la gran chiave nelportone della riva alzare il saliscendi. Respirò. Sentìla voce della nipote e ringraziò il cielo; ma chiuse in frettala finestra e spense il lume. Non voleva che si indovinassero i suoiaffanni.



VI


Lamattina seguente Nene si alzò mutata. Gli occhi parevanodiventati più grandi e più infossati nella facciasmorta; ma il sorriso aveva ripreso tutta la sua dolcezzae nellesue maniere ricomparivano la modestia e la calma di qualche settimanaaddietro. Per il nonno non aveva mai mostrato tanta devozionetantasollecitudine. Tornò ai fiorial lavorotalvolta allacucina. Dal suo animo s'era dileguata quella irrequietezza dell'amoreignotoche la faceva diventare impetuosa e cattiva; tutto le sipresentava sotto un aspetto diverso di prima: la vita acquistava unoscopoe il vedersi tracciata innanzi un'unica via le metteva inpetto una sicurezzaun riposoch'ella scambiava quasi con lafelicità.

L'amanteper lei era diventato un altro uomo; non che fossero scomparsi tuttii suoi difettibensì codesti difetti le si affacciavano comeconseguenze od eccessi di qualità belle e forti. La passioneche la spingeva a luinon riesciva meno intensameno infrenabile;solo assumeva una giustificazione nuovauna specie di nuova dignitàequasi a direvirtù. Oramai non pensava ad altro che almatrimonioma senza impazienza o sospetti; anzi non sentiva nemmenoil bisogno di parlarne a Miratequando eglivogando da ségiungeva con un leggero sandolo verso il tocco dopo la mezzanottealla riva dell'ortomentre il vecchio nonno e la serva dormivano.Nell'andare incontro al suo sposo Nene non provava nessun rimorso;scendeva le scale in punta di piedilentamenteorigliandoaprivala pesante portala quale girava senza cigolaredacché laprudenza aveva consigliato di ungere i cardini e il catenaccioconduceva Mirate per mano nel chiosco circondato e coperto dirampicantie si metteva a sedere accanto a lui. Dopo un'ora o pocopiùil giovinotto diceva addio ememore del suo primomestierebalzava sulla poppa del sandolino e s'allontanava cantando.

Nenequalche volta lo aspettava invanocon il portone della rivasocchiusocon l'orecchio intento ad ogni lieve rumoresenza curarsidegli enormi topiche di solito la facevano strillare di ribrezzo.Udiva suonare le duele trele quattro; aspettava il crepuscoloquasi senza pensaredominata dall'unico sentimento d'una speranzache ad ogni minuto scemava.

Unanotteappena Mirate ebbe messo il piede sul gradinogli disse:

-Devi farmi un piacere: conducimi a casa tua.

-Sei matta?.

-Per mezz'oraper pochi minutitanto da conoscere il luogo ovedormie pensare meglio a tequando non vieni.

-Pazzie. Se qualcuno ti vedesse!.

-Chi vuoi che mi veda a quest'oraimbacuccata nello scialle?.

-La casa dove sto non ha riva: bisogna percorrere un buon tratto diFrezzeria. È un capriccio.

-Sia purema è un capriccio innocente. Contentami.

-E poi se il maestro si sentisse malese chiamasse.

-Insomma non mi vuoi condurre. Temi forse di comprometterti?.

Iltenore fece una risataesclamando:

-Non c'è pericolo.

Neneebbe un sussulto di gelosiama non disse nulla; solo insistetteancora più per andarefinché l'altro aderì.Entrata cautamente nel sandolinosi mise a sedere sul trasto diprora; e sebbene la barchetta snella ondeggiasse ad ogni movimentoquasi ad ogni colpo di remola donna innamorata non sentiva nessunapaurae ripeteva con compiacenza al giovinotto:

-Come sei bravo!.

Nelpercorrere invece al suo fianco un ramo della Frezzeriaella sinascose con lo scialle la facciach'era diventata rossa di vergogna.

Lacamera le piacque poco: tende anneritepareti sudiciebiancheria evestiti sossoprapuzzo di muschiomolti ritratti qua e làpersino sul comodinodi ballerine e d'altre femmine mezzo svestite.Nene avrebbe voluto andarsene subitoma non ardiva; e nel guardarele correvano per la mente cento pensieriche si riassumevano inquesto rammarico: - Dio sa quante ne ha amate prima di me!”; poisi confortavapensando come per mezzo dell'affetto e delle curepazienti lo avrebbe reso migliorecome gli avrebbe creato intorno unnuovo mondo di gioie domestiche e puretali da fargli dimenticare ilpassato.

Cominciaval'alba quando Nene rientrò nell'orto e sali nella sua camera;un'alba nebbiosaumidapiena di tristezza. Nel passare vicino allepiante del suo giardinetto la giovane donna aveva loro gettato unosguardo: sembravano melanconiche anch'esse in quella scialba lucecrepuscolareeinvece di rizzarsi attendendo il bacio del primoraggio di solechinavano verso terra le foglie e i fiori. A lettoNene non poté chiudere occhiotanto era contristata dallasicurezza di non vedere l'amante per quattro interiper quattrointerminabili giorni. Glielo aveva detto lui dianzi nel darlel'ultimo abbraccio. Eppure ella non poteva negare che avesse ragione:doveva in queste sere andarsene a casa di buon'oratenersi riparatodall'aria della nottecurare la golase voleva presentarsi contutta la freschezza della propria voce nella solenne messa delleesequie al Soldiniper la quale un celebrato maestro bolognese avevascritto apposta la musica. Questi dirigeva le prove da più didue settimanee aveva saputo destare la curiosità di tutticosì abbondavano i giornali ed anche i cantori ed i professorid'orchestra di strabocchevoli lodi. Uno dei pochi chemodestamenteci trovasse a ridire era il maestro Chisiolacui non piaceva nellacasa di Dio e per onorare un morto quello sfoggio di canti teatralidi cori strepitosi e di strumenti assordanti.

-Spezziamo le tradizioni della nostra gloriosa cappella!” dicevasospirando. Maappunto per questoera un'ansia per la cittàquanto se si fosse trattato di un'opera nuova del Verdi al teatrodella Fenice: nelle botteghe da caffènei ritrovipasseggiando su e giù in piazza di San Marco o sul Molo non siparlava d'altro. C'era come l'attesa di una rivoluzione musicale. Giàil pubblico si divideva in progressisti e conservatoriin liberali ecodini.

Ognisotterfugio pareva buono pur di assistere alle prove; e chi nonpoteva ficcarsi nella gran sala del Ridottoove avevano luogosicontentava di starsene nell'atrio o giù in calleedopofiniti i pezziapplaudivano freneticamente. Poco mancava chegridasserocome la notte del Redentorefuori il maestro. Sisentivano zufolaremagari sotto le Procuratie e nei salottiaristocraticii più spiccati motivi della messa; si sapevaquante ariequanti duetti e terzettiquanti cori formavano lapartitura; si sapeva come Mirateunica bella voce della cappella evera colonna della messacantasse quasi dal principio alla fine; sisapeva come il maestro bolognesedopo avere udito il primo bassoquel seccante maniaco di setticlavionon l'avesse voluto a nessunpattoanzi avesse fatto venire dalla basilica di San Petronio uncantore stupendotalché il disgraziato basso veneziano dovevasfogarsi nei pieni; si sapeva come vi fosse un coretto delizioso divoci biancheeseguito dai bimbi dell'Orfanotrofioai qualiinsegnava il Chisiolaquel vecchioche ha quella tal nipotebruttinaamante di quella buona lana del tenorei quali se ne vannoinsieme di notte con tanto scandalo per le vie della cittàedil vecchioche sembra un santarellovede e chiude gli occhi. Nons'ignorava inoltre che il maestrone aveva lasciato fuori la solitafugacon viva soddisfazione dei piùche la dichiaravano unvecchiume da parrucconie con sommo sdegno dei menoi qualiborbottavano:

-Allora addio musica religiosatanto conta di far ballare la genteanche in chiesa; ma la fugase non l'ha fattavuol dire che non hasaputo farla: è una bestia.

Insommaci fu qualcunoche la notte precedente al grande avvenimento nonandò a dormireper essere ben sicuro di trovarsi davanti alleporte della basilica nell'ora in cui le apronoe assicurarsi un buonposto. Prima delle otto la chiesa era piena; alle nove non si potevaentrare nemmeno nelle gallerie superiori; la messa doveva principiarealle dieci e mezzo. Sagrestani e scaccinifendendo faticosamente lafolla a forza di gomitateandavano qua e là per i loroservizi: si udiva un continuo strepito di scranne e di pancheuncontinuo bisbiglioche talvolta diventava frastuonoripercossodalle maestose vòlte del tempio. Nella nave di mezzo si alzavail catafalcouna specie di tempio romanotutto ornato di vellutonero con frangie d'argento e di figure allegorichetutto circondatod'innumerevoli ceri accesi. Ai lati stavano dall'una parte ivecchioni dell'Ospizio di Caritài più rubizzidall'altra le vecchiele più floridein segno diriconoscenza al defunto per il pingue legato: curiosa serie diprofili allineatiin cui dominava la bazza.

Neneera giunta in tempo di pigliare il suo posto consueto nella cappelladi San Clementedi fianco al presbiterio vuotoove si alzavasoprala cattedra patriarcalel'ampio baldacchino di seta bianca a larghifiorami d'oro. Il cuore le batteva fortepensando al tenorechedoveva comparire tra poco innanzi al giudizio di tanto pubblico; eguardava con febbrile impazienza alla cantoria ancora deserta. Poifantasticandogirava gli occhi ora sulla fila dei bruni apostoliora sull'angelo doratoche minacciava di precipitare dalla suamensolaora sulle gaie signore corteggiate nelle tribune. Gliscintillamenti dei musaici d'oro finirono per produrle un graveassopimentodurante il quale scendevacome in un sognonel fondodel proprio essere. Allora uno sgomento misteriosouna vergognaimmensa la invadevano. Tentava di distrarsicontemplando in alto lestorie dell'arconela Vergine con l'angelo annunziatoreil Bambinoadorato dai Magie mormorava:

-Dio voglia!.

Alzavalo sguardo ancora piùfino ai simboli bizantini deglievangelisti nei sostegni della cupola. Il leone aveva l'artigliosomigliante a una manoa una mano che volesse frugare nellacoscienza; aveva il muso in forma di grugno da vecchia megerabarbuta. E la orribile strega continuava a fissarebiecaminacciosale occhiaie vuote e nere nel volto impaurito di Nene.

Circaalle dieci entrarono pomposamente nel presbiterio i canonicie siposero a sedere nei loro stalli. Un faccione tondo e ridente comparveal parapetto della cantoria: era quello dell'organista. Seguìun corista zoppoche aveva in custodia la musica e disponeva suileggii le parti. Vennero in seguito uno ad uno gli altri quarantacantoritutti in cotta biancafra cui il sopranopiùsparuto del solitoil Chisiolaaccompagnato dai bimbidell'Orfanotrofiolo Zenche non s'era fatto la barba e aveva ilviso stralunatoproprio da funerale. Il nuovo basso bolognesepiantati i gomiti sul parapettocacciava in fuori il busto quantopiù potevaper esaminare l'uditorio ed essere veduto bene:insieme molti se lo mostravano a dito. Andò accanto al maestrodi cappellaappena questi fu entrato. Tutti presero il loro postoaggruppandosi fra i tenorisopranibaritoni e bassi. Non si vedevaancora la testa baldanzosa di Mirateal proposito del quale alcuniponevano a se stessi questo arduo quesito: - La metterà lacotta quest'oggio non la metterà?.

Frattantonell'altra cantoriaquella dell'orchestrala quale stava sopra lacappella di San Clemente e non poteva quindi essere veduta da Nenecontinuava il pestar dei piedi sui gradini di legnocon qualchetonfo e vivi chiacchiericci dei professoriche andavano al loropostoportando il proprio strumento. Indiacconciatisi a sederediedero dentro nelle accordatureda prima sommessamente con gliarchidi poi fastidiosamente persino con i corni e i trombonisicché uno zitto non faceva cessare la babeleche pocodopo ricominciava. Doveva essersi fatto innanzi il celebre maestroimpaziente di dirigere la propria creazioneperché tuttiguardavano da quella partemolti rizzandosi sulla punta dei piedi epuntando il binocolo da teatro. L'agitazione cresceva; erano pochiquelli che non cavassero dal taschino a ogni tratto l'orologio:

-Dieci e mezzo precise.

-Nomancano sei minuti.

-Quattro.

-Dieci.

-Due.

-Sono passate.

Quandoil maestro compositore diede il primo segnalepicchiando forte sulleggìosi fece tale un silenzioche si sarebbe sentitoronzare una zanzara; ma il maestro di cappelladalla cantoria dirimpettosi sbracciava nel fare segno di attendere.

Eragià' comparso dalla porta della sagrestiapreceduto e seguitoda una quantità di chierici e accolitiil venerandopatriarcatenuto in mezzo dai due canonici mitrati. Le alte mitred'argentogli splendidi piviali attrassero per un istante lacuriosità della folla.

Eppurefra le due cantorie non cessavano i segnali. Il maestro di cappellacon aria molto agitataaveva lasciato il suo posto e dava ordiniconsultandosi con lo Zencol Chisiolacon altri; correvano giùdalle scale erte alquanti coristigettando via la cottae uscivanoa precipizio dalla basilica. Neneimmobilecon gli occhi fissi allacantoriapareva una morta in piedi. Nel presbiterio non siraccapezzavano; davano delle rapide occhiate in su; si scambiavanoqualche parola sotto vocesenza mostrar di perdere la calmasacerdotale. Bensì il popolo s'impazientivané gliimportava di dissimularlo: era un ciarlare generaleun chiedersi avicenda:

-Ohche cosa succede?.

-Sia venuto male a qualcuno.

-Forse al patriarca.

-Pare di no. La confusione è nelle cantorie. Guardi lì asinistranon sanno a che santo votarsi.

-Certoè stato un colpo d'accidente.

-A chi?.

-Al maestroforse.

-Al maestro un colpo d'accidente.

-Un colpo apoplettico al maestro.

-Morto?.

-Poverettoera ancora giovine!.

-Quanti anni poteva avere?.

-Intorno alla sessantina.

-Li portava bene; ma vedaè lui al parapettoche si dimena.

-È proprio lui: chi sarà dunque il morto?.

-Dicono un incendio.

-Dove?.

-Nell'organo.

-È impossibile: non c'è indizio di fumo.

-Sarà sui tetti.

-Sarà nelle cupole.

-Sentasenta: lo scaccino annunzia che non si trova il tenoree chesenza di lui non si può eseguire la messa.

-Mirate è scappato.

-È fuggito Mirate.

-Scappato solo?.

-Con una donnaprobabilmente.

-Ha preso il volo coll'amante.

-Allora la nipote del maestro Chisiola.

-La conosce lei?.

-La ho sentita cantare.

-È bella?.

-Così così.

-Altro che amori! È Scappato per debiti.

-Si può dire che ne avesse piantati dei chiodi.

-Buona lana!.

-Mariolofarci marcire quattro ore in chiesa con questo sugo!.

-Ehiehisignor sagrestanoè vero che è scappatoMirate?.

-È vero che non si trova il tenore. Ci hanno mandati a quietarela gentee a riferire che si canterà una messa delFurlanetto.

-Roba vecchia.

-Roba noiosa.

-Abbiano pazienzasignoriabbiano pazienza.

Ei sacrestani e gli scaccini s'affaticavano a girar da per tuttoripetendo le stesse parole. Il pubblico aveva pigliato la cosa inburletta. Ridevanoscherzavano ea poco a pocoalla spicciolatauscivano dalla chiesaformando capannelli in piazza di San Marco esotto le Procuratie. Quando poté principiare la messa a vocisolela cantoria dell'orchestra era tutta sgomberatanelle tribunee nelle logge non rimaneva un'animae le navi e le cappelle eranoquasi deserte. Solo ai fianchi dell'enorme catafalcobiascicavano esbadigliavano per l'appetito e per la noia i vecchi e le vecchiedell'Ospizio di Carità.



VII


Seil soprano avesse dovuto cantare nella messa del Furlanettoscrittasolo per tenori e bassinon avrebbe potuto far uscire una nota dalgorgozzulecosì l'improvviso terrore di perdere i suoiquattrini gli otturava la strozza. Non sapeva quasi piùrespirare: era diventato addirittura verde. Non di meno andò aprecipizio in Frezzeria dalla donnache appigionava la camera aMiratee ch'era stata allora allora interrogata da quel coristailquale per primo aveva recato in chiesa la grande novella.

-È scappato?” domandò ansando.

-Scappatoun corno. È partito col suo bravo passaporto inpienissima regolapagandomi sino all'ultimo soldoanzi dandomi unmese di soprappiù.

-E quando è partito?.

-Ier l'altro verso le quattro.

-Subito dopo l'ultima provabrigante! E come mai ieriallorchévenni quimi rispondeste che non era in casa?.

-Che non fosse in casa era la verità. Ma poi m'aveva pregata dinon dir nulla della sua partenza fino alle undici di stamanetemendodi essere rincorso da certe gonnelle.

-Gonnellesì davvero! Ditemi ancora: se ne andò solooin compagnia di un taleche parlava forestiero?.

-Non faccio mica la spia io. Vada ad informarsi dove vuolechémi pare di avere ciarlato anche troppo” e gli serròl'uscio in faccia.

Ilsoprano corse all'osteria del Selvaticoal bacaro dellaBiondinaal Caffê dei Segretaria quello di SanLucafrequentato da cantanti ed attori e conosciuto col nome diCaffè chiodipoi dal famigerato parrucchierecheprestava quattrini agli avventoridal sartodal tabaccaioda unacerta signora Giulia: insomma in ogni luogo dove Mirate era consuetodi andare. Racimolò tante informazioni quante bastarono arenderlo persuaso che il tenore si fosse diretto verso la Spagna o ilPortogalloinsieme con l'impresario spagnuoloil quale fra duebrevi fermate a Venezia aveva girato mezza Europa per comporre tre oquattro compagnie di canto e di ballo da trasportare nella penisolaIberica. Sfogandosi nel ripetere: - Truffatoredissanguatoreladroassassino” l'ingannato soprano passò dalla propriabottega d'antiquario a prendere nello scrigno i documenti comprovantiil debito di Mirateepostili gelosamente nella tasca spaziosa edunta del vecchio soprabitosi recò alla Direzione generale diPolizia. Il Direttoreun austriaco magro stecchito e piccolocon lefedine tinte di color biondo e gli occhiali a grossi cerchi d'oroaccolse il soprano assai malesenza neppure invitarlo a sedere.Quando ebbe udito di che cosa si trattavadisseasciutto asciuttocol suo accento tedesco queste poche parole:

-So da un pezzo ch'ella è uno strozzino. La Polizia non faràniente per lei. Vada.

IlGovernatore non volle nemmeno riceverlo.

Allorapensò agli alleatie risolvette di parlare innanzi tutto conla Neneragionando così:

-O Mirate è partito in buon accordo con leie scopriròqualcosa; o è andato via abbandonandolaed ella diventeràla mia più fiera compagna nel domandare che venga costretto amantenere i suoi impegni.

Nonmise tempo in mezzo; scorsi pochi minuti suonava alla casa delmaestro Chisiola. Il vecchioch'era rincasato in quel puntoandòegli stesso ad apriree s'infastidì un poco vedendo ilsopranoper il quale aveva sempre provato una invincibilecontrarietà. Dopo i salutiassai freddi dall'una parteassaiimpacciati dall'altrail sopranoche non sapeva come principiaredisse:

-Dunque è scappato.

-Chi?.

-Mirate.

-Ahnon ci pensavo più. Sarebbe stata una scena comicase nonfosse successa in chiesa e se non fosse andata a scapito dellamusicasebbenein veritàquella musica abbia poco delreligioso.

Ilsoprano rimase sconcertato di contro a tanta indifferenzapureinsinuò:

-Avrei credutomaestroche la scomparsa del tenore le avesse fattomaggiore impressione.

-A me? Con i matti non ci son pattiinsegna il proverbio. La cappellanon poteva contare su quella testa sconclusionata; e poi si puòdire che io da oggi non appartenga più alla cappellacome nonappartengo alla scuola dell'Orfanotrofio. Era tempocon i mieiottant'anni passatidi lasciar posto ai giovani” ed il maestrosorrideva bonariamente; maseccato dalla presenza dell'usuraiocontinuò:

-È un gran pezzo che non ho il piacere di vederla in mia casa.A che cosa posso attribuire il bene della sua visita?.

L'altroconfuso e con la propria idea fissa nel capobalbettò:

-Ero venutopassandoa informarmi della salute della signorina Nene.

-Non è mai stata malataDio piacendo.

-Pure mi sembrava stamane...

-Le sembrava?.

-Mi sembrava così pallidaella che per solito è tantocolorita; e aveva gli occhi stravolti.

-Quando?.

-In chiesa.

-Avrà avuto pauranon conoscendo la cagione del trambusto.

-Io credevo anzi che si sentisse maleperché conoscesse lacausa del disordineo la immaginasse.

Aqueste parole il vecchio si rammentò di un fattocui avevadato poca importanza: la domanda della mano di Nene da parte diMiratea istigazione dell'usuraio. Guardò in faccia ilsopranoesclamando:

-Che cosa intende ella di dire?.

-Ioniente di male. Quello che dicono tutti.

IlChisiolasenza proferire parolaaprì con mano tremante laporta di stradafacendo segno all'altro che uscissee gli sbattél'imposta dietro le spalle.

-Ov'è Nene?” domandò alla serva.

-Credo che sia in fondo all'orto” rispose la Maria dalla cucinacontinuando a tritare le cipolle per il soffritto.

Ilvecchio andò sino al piccolo spazio destinato a giardinogiròil fruttetoentrò nel chiosco: non c'era nessuno. Vide ilportone della riva socchiuso. Nene stava al di fuorisui gradiniguardando l'acqua verdeche le scorreva ai piedi. Singhiozzavasenza piangere; aveva sul volto i segni della disperazione: unterribile desiderio la invadeva tutta. Appena vide il vecchio scoppiòin pianto dirotto e gli si gettò alle ginocchiaripetendo convoce strozzata:

-Ti ho disonoratononno. Ho disonorato la memoria della mia poveramamma. Sono una donna infame. Lasciami morire.



VIII


Percinque giorni lo Zen aveva continuato a presentarsi alla casa del suomaestrosupplicandolo di essere ricevuto; ma il vecchio aveva datoordine alla Maria di rispondergli che non voleva assolutamente vedernessuno. Lo Zen s'informava della malattia di Nenetornava dopoqualche orae se ne andava di nuovo con l'animo pieno di afflizione.Non aveva più né pianofortené scuolanécasané un soldo in tasca; gli allievi lo scansavanogliamici lo sfuggivano; viveva rintanato nel Caffè dellaGloriascrivendo il suo Trattato sul setticlavioe mangiandoquel poco che gli era offerto spontaneamente dagli avventori.Improvvisava talvolta per l'uno o per l'altro un sonetto od unepigrammaacconciava una letterarivedeva un contratto: eradiventato lo scrivano dei Portici di Rialto. Aiutava anche a mettereun po' di nero sul bianco l'amico Tonil'usciere del vicinotribunale.

Finalmenteil sesto giorno la Maria scese ad apriredicendogli:

-Il padrone la prega di salire. Faccia piano. Nene da pochi minuti èassopita; ma non c'è da lusingarsi. Il dottore dice che puòmancare da un momento all'altro: la poverina ha una febbre che lebrucia le visceree deliradelira quasi sempre. Il padrones'illude. Meglio per lui.

Lelagrime rigavano il volto della Mariamentre parlava sommessaefaceva segno allo Zen quasi ad ogni scalino di non strisciare coipiedi. Tornò al letto della malata.

Ilmaestro Chisiolapigliato per mano il suo vecchio discepololocondusse lentamente nella stanza più lontana dalla camera diNenee lo fece sedere. Egli stesso pareva affranto: cadde sopra unapoltrona.

-Quando si è tanto vicini alla fossacome sono ionon si hadiritto di serbare rancori” e pronunciava le parole a stentointerrompendosi spesso. Mormorò: - Ti perdono” mavedendo che lo Zen non intendevasoggiunse:

-Lo sola colpa fu miache mi fidai di te e d'una servae sopratutto d'una innocenteinesperta nelle passioni e negli inganniumani.

Gliparve di sentire un rumore; si trascinò nella camera di Nenee poco dopo rientròdicendo:

-Delira. Sono cinque giorni che delira quasi continuamente. Parla ognitanto della notte del Redentore. Crede di essere ingoiata in certemacchie nereorribili della laguna e del cielo; sente passarle ungatto bianco fra le gambee precipita in un baratro senza fondoecontinua a travolgersi nella cadutache non finisce mai; le corronosul corpo dei topi immanile rosicchiano le membrale rodono leviscerele dilaniano il cuore. Altre cose aggiungepur troppo!”e il vecchio si nascondeva la faccia con le due mani.

-Dio voglia che guarisca presto; altrimenti non troverà piùil suo nonno su questa terra!.

Feceuno sforzo sopra di sé per mutare discorso:

-Parliamo di teamico mio. Come vanno le tue faccende?.

-Benemaestro” rispose lo Zenmentendo per non dare fastidiocon i propri guai al vecchio infelice; anzivolendo distrarlocontinuò:

-Tanto beneche ho ricevuto da Milano l'offerta di un posto diduemila svanziche l'annoe l'ho rifiutato.

-Non vorrei che tu avessi fatto una corbelleria.

-Nomaestro; ella stesso mi approverànon ne dubitoquandoavrà udito di che cosa si tratta. Ho qui in tasca la letteradel direttore del Conservatorio di musica.

Levòda un grosso portafogli lacero una cartae la porse al Chisiola. Ildirettore gli scriveva cheavendolo conosciuto anni addietro aVeneziaserbava per lui una vivissima stimae lo sollecitava adaccettare la cattedra di Lettura della musicaad un pattoperòal patto di seguire il metodo comunenon quello delsetticlavio.

-Capperi!” esclamò il Chisiola. - Una bella fortunasaie la meriti. Come hai risposto?.

-Me lo domandamaestro! Io rinnegare una verità matematica perabbracciare l'errore; io abbandonare un metodoche insegna a leggerein pochi mesiper un ingannoche lascia lo scolaro orecchiantetutta la vita! Piuttosto morire di fame cento volte che commettereuna simile ribalderiauna così vile bassezza. Ho risposto perle rime a quello sfacciato di direttore.

IlChisiola guardò con ammirazione e con pietà quelmartire della propria convinzioneil quale dalla faccia e dagliabiti rivelava la sua triste miseria. Gli pose la mano sulla spallain atto affettuosomentre usciva per vedere di Nene. Nene aveva unmomento di quiete. Il vecchio tornò a sedere nella poltrona econ la fronte un poco rasserenatadisse:

-Perché non sei venuto a parlarmi di tutto ciò prima dirispondere al direttore? Forse avrei potuto persuaderti. Chi sa? C'èancora tempo.

-Tempo a che cosa? A diventare un rinnegato?.

-Adagioadagio. Non esageriamo. Te lo insegnai io il setticlavio piùdi quarant'anni or sonoed ho continuato a insegnarlo ai miei orfanisino a pochi giorni fa; ma non ignori che avevo diviso i fanciulli indue schiere per ammaestrare l'una col setticlaviol'altrapiùnumerosacol metodo comune. Non bisogna volere essere ciechi. Noisiamo oggi i due ultimi rappresentanti di una scuola di letturachenon uscì mai da Venezianemmeno ai tempi del Furlanettoeche è stata abbandonata anche qui da vent'annia dir poco.Perché si deve credere che nella musica il mondo siaimbecillitoche nessuno capisca più nulla?.

-Non è veromaestroche oggi il setticlavio siadisconosciuto” e perché lo Zen alzava la voceil vecchiogli accennò di moderarsidando un'occhiata all'uscio chemenava verso la stanza di Nene.

-Il setticlavio anzi è in onore. Ella saper esempioche lacittà di Arezzo deliberò di alzarecol mezzo di unacolletta europeaun monumento a Guido Monaco. Quale fu la gloriosainvenzione dell'aretino? Il solfeggio oper dirlo con un'altraparolail setticlavio. È vero o non è vero?.

-Si può solfeggiare senza setticlaviomio caro.

-Senza setticlavio si suonerà il pianoforteperché lenote vi stanno belle e preparatee basta pestare sui tasti. Isuonatori di pianoforte sono appunto quelli che hanno barbaramentemanomesso le ragioni del canto; ma l'ugola è il solo strumentocreato direttamente da Dioquindi il solo davvero divinoquello chedeve imporre la regola a tutti gli altri inventati dall'uomo. Leggamaestroquesto avviso pubblicato l'altra settimana a Napoli” edi nuovo tirava fuori dal pingue portafogli un'ampia carta stampata.

-E l'invito al congresso italiano. Vedaal proposito dei quesitisulla musicaè proposta la riforma della scuola di cantopoiché 'più d'ogni altro ramo dell'arte il canto giacein umili ed abiette condizioni'. È scritto proprio così.Oracome si possono mai rialzare le sorti del canto se non siprincipia dalla lettura?.

-Non nego che la lettura abbia la sua importanza; ma qui s'intendealtra cosa: s'intende la purezza dell'intonazioneil modo diemettere la vocela delicatezza del fraseggiarel'agilitàla grazia.

Mariasocchiudendo l'usciomostrò il suo viso stravolto. Volevachiamare il padroneche non la vide; e non ebbe l'animo di scuoterloin quel momento di distrazione e di calma.

-È l'ultimo forse!” pensò la servatornando achiudere l'uscio.

-Ma l'avviso di Napoli ha torto” continuava il vecchio.

-Il canto è quale la musica lo vuole e lo fa. Passa il tempodei gorgheggi; entriamo nell'età della passione e del dramma.Quel giovineche tu detestiautore dell'Ernani e delRigoletto...

-Ha corrotto il canto.

-Come vuoi che abbia corrotto il canto se ha dato un nuovo impulsoalla musica? Tutto muta quaggiù. Tu sei vecchio e caparbio; maquando diventerai ancora più vecchioquando giungerai allamia etàin cui ci si distacca dal mondoallora l'animoimparziale ti lascerà vedere le virtù del presente comegli errori del passato. Io temoa dirtela schietta” proseguivail maestro con accento dolce e insinuante - temo che uno dei mieipeccati sia stato il setticlavio. La logica è talvolta uninganno; e per amore della semplicità teorica si casca nellapratica in tali complicazioni da rendere vano ogni ragionamento eogni sforzo. Non ostinarti; accetta il posto di Milano; continua adessere utile alla gioventùsacrificandole un vecchiumeforseun pregiudizio. Mentre il Chisiola parlaval'altro mutava aspetto.Un grande scoramento s'impadroniva di lui; era come se la mollachelo reggeva in piedisi fosse spezzata d'un tratto. Gli caddero lebracciaed il volto andava perdendo la sua vivace espressione.

-Anche leimaestroè contro di me” mormorava - anche leimi abbandona. Non mi resta più nullanullanemmeno la miacara ideaper la quale avrei saputo morire!.

Siudì un grido acutostraziante. Il vecchio aprìl'uscioprecipitò nella stanza vicinatraversòl'altra correndoentrò nella camera di Neneche era mortaguardò il viso bianco e cadde a terra privo di sensi.

Erail tocco dopo la mezzanotte quando lo Zenche aveva vagato per levie senza saper dove andassegiunseguidato dall'abitudinealCaffè della Gloria. A un tavolino quattro sensaligiuocavano alle carte. Uno di essiappena vide lo Zengli gridò:

-Ehimaestrol'abbiamo fatta grossa questa volta. È stato quidal padrone” e il padrone russava dietro il banco - l'uscieredel tribunalel'amico Toniper intimarle di comparire domattinainnanzi al giudice. Due truffe alla voltaniente di menomaestro.

LoZen sbarrò gli occhi; avrebbe voluto capire. Il sensalecontinuò:

-Non mi faccia lo scemo adesso. C'è di mezzo un pianoforte nonsuovenduto ad un Tizio. E l'altra truffa che cosa è? Non mene rammento.

Ilcaffettieresvegliatosi allora alloraintervennesbadigliando:

-Si tratta di un librouna strennacredoche questo buon galantuomodoveva far stampare; e si mangiò il danaro. Ma dove diavolo licaccia i quattriniche non ha mai un soldo per isfamarsi?.

-Le donnettele donnette” vociavano i sensalisganasciandosidalle risa.

-E noiche davamo da mangiare a questo bel mobile!.

LoZen era già scappato lontano. Aveva un incendio nella testa:sentiva dentro nel cervello le fiamme che guizzavanole case cherovinavanoi pompieri che distruggevano ogni cosa con i loro enormipicconi. Acqua ci volevaacqua. Si gettò a capo fitto in uncanale. Non poté annegare; aveva fatto una giravoltae s'eratrovato in piedi sul fondocol capo fuori. Non gridavanon sicurava di accostarsi alla riva; anzi il fresco dell'acqua dovevaessergli gradito. All'alba due muratoriche passavano in unbattellol'alzarono su e lo condussero all'ospedaleove fu postonella sale d'osservazione.

Duegiorni appressochiuso nella camicia di forzafu condotto almanicomio nell'isola di San Servilio. Lì a poco a pocoriacquistò le maniere schiette di primail suo buon umore ela vecchia passione del setticlavio. Era incanutitoma ingrassava. Imedici e gli infermieri gli volevano bene; le suore ne' giorni dimagro gli facevano prepararearrostita sulla gratellaun'aringasalatae gli davano un bicchiere di vin buono. Aveva scelto fra isuoi compagnitutti tranquillii meno malinconicie s'affaccendavanell'insegnar loro a solfeggiare e a cantare. Le salei corridoi eil giardino echeggiavano spesso di vociche ripetevano per ore edore: Do ReDo MiDo FaDo SolDo LaDo Si. Il maestro conlo scartafaccio del suo Trattato sul setticlavio batteva il tempo; enegli urli dei nuovi scolari udiva le più soavi armoniei piùstupendi corile più perfette fugheuna musica da paradiso.Non c'era uomo più felice di lui.


ILDEMONIO MUTO











I


Nipotemioho compiuto quest'oggi i miei novant'annie ho fatto il miotestamento. Lascio quasi tutti i miei soldicirca un centinaio dimila lirea tua sorella Mariache ha sette figliuoli ed èvedovacon il patto di passare tremila lire l'anno alla mia buonaMenicala quale è troppo vecchia e stanca per attendere agliaffari. Vero è che la mia buona Menica mi fa arrabbiare tuttele sante sere. Non vuole andare a letto prima di meper quanto io lapreghi e scongiuri; e mentre scrivo al lume di questa lucerna e nesmoccolo i lucignoliecco lì tua ziadall'altra parte diquesta tavolache dorme col gatto nero sulle ginocchia. Da mezzosecolo si fa la stessa vita placida e dolce e tanto rapida che lesettimane volano come giorni; e la mia cara vecchietta tutta lindacon la sua cuffia bianca inamidataquando si sveglia ealzando ilcapofissa a un tratto gli occhi ne' mieie mi chiama: - Carlo!”mi fa ribollire nelle vene un sangue da giovinotto.

Perconto tuo non hai bisogno di nulla. Sei soloagiato e non avido. Masai chesebbene io ti veda troppo di rado in queste montagnepureho sempre sentito un grande affetto per tee lo meriti; e mirincrescerebbe chequando sarò volato via da questa terratunon avessi nessuna occasione di rammentarti dell'antico parente. Daparecchi giorni vado dunque intorno in questa casa mezzo diroccataper trovare un oggetto che possa non dispiacerti. Ma ogni cosa èlogorasbeccucciatasbiaditasconnessa: corrisponde insomma aicapelli canuti ed alle rughe dei padroni. Da trent'anni non sononeanche più andato a Brescia: si può dire ch'io nonabbia più comperato nulla. Le cose più belle in questopolveroso palazzodove le finestre mostrano ancora i loro vetritondiondulati dal centro alla periferiacome fa un sasso quando sibutta nell'acquadove i pavimenti paiono un mare in burrascasonole cose più vecchie. Sai che ho quattro di quelle casse dilegno intagliatoche si mettevano a' piedi del letto degli spositutte a putti che giuocanoad amorini alati e ninfe nude; e vistanno gli antichi stemmi della nostra famiglia. Poi ho deiseggioloni enormi a grossi fogliami nei bracciuoli e nella spallierache punzecchiano le mani e la schienae certe lettiere spropositatea colonne ed a timpaniche paiono monumenti sepolcrali. Poi hoquegli otto grandissimi ritratti nelle loro massicce cornici d'un orodiventato nero: memoria dei nostri augusti antenatiche Dio li abbiain gloria: quei ritratti chequando da bambino venivi qui a passarei mesi delle vacanzeora ti facevano ridere ed ora ti mettevanopaura.

Ladamati ricordi? con il guardinfante verdone e con una piramiderossa per acconciaturache pare una bottiglia sigillata; ilcavaliero con il grande cappellaccio alla spagnuolail tabarrobrunola mano sull'elsa e l'occhio trucee poi il Beato AntonioilSanto Missionarioil grande onore della Val Trompiache ti facevascappar via. E pallido come un fantasmamagro stecchitocon gliocchi infossati e un sorriso sulle labbra da far ghiacciare ilsangue. In mano ha due cilicii spaventosil'uno a scudiscio pieno diterribili puntel'altro a ruote dentate. Mi raccontava Giovanni(sai? devo avertene parlatoil servitore che in gioventùassisteva il Beato Antonioquand'era infermoe da vecchio avevacura di me e mi conduceva alla scuola) Giovanni mi raccontavaed iotremavo di spaventoche una mattinaessendo entrato all'improvvisonella nuda camera del Santovide in un angolo una camiciache stavain piedi da sé sola e ch'era di color pavonazzo. Guardatocca: il sanguedi cui appariva inzuppataraggrumandosi eindurandoaveva ridotto la tela rigida come un legno.

DonAntonio aveva le mani così scarne e le dita cosìslogateche con le unghie poteva toccar l'avambraccio. Era unmiracolo di eloquenzaun miracolo di abnegazione. Parlava a dodici aquattordicimila personeche correvano a udirlo dalle vallidaimonti lontanie si faceva sentire da tutti. Eppurese tu vai aBresciapuoi vedere nella chiesa di San Filippoappesa all'altaredel Santouna lingua d'argentovoto di Don Antonioquando perintercessione di Filippo Neri guarì dalla balbuzie. A Romapoco prima di morirepredicando nella chiesa del Gesùfecepiangere il Papa. Aveva per consuetudinene' siti dove egli andavadi parlare contro i vizii che più dominavano in paese. ADesenzano tuonò contro l'ubbriachezza. Il dì dopo tuttele osterietutte quante le bettole erano chiusee l'Autoritàdovette farne aprire alcune per forza a servizio dei forestieri.All'ultimo sermone non voleva altro che i miserabili: era la predicasulla Povertà. Dopo avere mostrato la vanitàdelle ricchezzedopo avere eccitato gli animi al disprezzo degliagichiamava ad uno ad uno i suoi ascoltatorie divideva con essitutto intiero il guadagno del Quaresimale e i pochi panni che glirestavano.

Sentiquesta. Giovanni stava dietro al pulpitomentre Don Antoniopredicava un dì sull'Inferno. Dopo una pausail BeatoAntonio con voce rimbombante grida:

-Pentitevifigliuolitornate nella via della virtù; giacchéper voio perversiche continuate a vivere nel peccatoche stateduri nel vizioi sepolcri” e gridava sempre più altocome ispirato dal cielo - i sepolcri si spalancherannoeprecipitando sulle ossa degli antichi scheletrinella notte e nelgelosarete a poco a poco rosicchiati vivi dai vermi.

AlloraGiovanni udì come un fruscìoun muoversi improvvisoma sordolamenti soffocatisinghiozzi repressi. Guarda dalparapetto del pulpitoe vedecosa strana! nella chiesala qualeprima era così zeppa di genteche una presa di tabacco -diceva Giovanni tabaccone - non avrebbe potuto cadere in terravedeil pavimento nudo in larghi spaziivede scoperte di popolo tutte legrandi lapidi delle tombe. La gentespaventata dalle parole delMissionarios'era ritirata dai sepolcriesempre in ginocchiopiangendo e picchiandosi il pettosi pigiavasi schiacciavasiaccatastava a gruppie implorava sotto voce il perdono di Dio.

Diquesti ritratti neri e di questi mobili tarlati tu non sapresti checosa fare. Qui invece stanno benecosì impietriti al loroposto. Dopo tanti anni che le paretile masseriziei quadri siguardanoe forse nel loro linguaggio si parlano sommessamentelostrappare qualcosa parrebbe un'amputazionesarebbe una crudeltà.Quando i figliuoli di tua sorelladiventati forti giovinottivorranno passare alcune settimane cacciando sui montiuccellandonelle valli o pescando le trote rosee nel lago d'Idro o nel Chiesetroveranno intatta l'antichità di questo palazzaccio. Siscalderanno al fuoco del caminone di marmo gialloin cui dodiciuomini possono stare comodamente seduti; guarderanno i soffitti atravature sagomate e dipintee cammineranno su e giù nellagalleria dovetra gli stucchi sgretolatiil vento gavazza. Tusentissi che musiche sa comporre il vento in queste gole alpestri ein questo muraglie rovinose: sono tripudii o spaventifischii lietie trilli e scale e accordi sonori e poi il finimondoe semprecontinua il pedalecome dicono gli organistidel romore sinistroche le acque del Chiese fanno nel loro letto sassoso ed erto.



II


Hotrovatonipote mioquel che ti devo lasciare. È una cosa chemi salvò quasi la vita.

Primache tu nascessii medici di Brescia e di Milano mi avevanospacciato. Una maledetta malattia nervosa del ventricolo s'eraostinata a volermi spingere al mondo di làed ero ridottoper tutto pastoa nutrirmi di pezzettini di cacio lodigiano chetenevo in boccae di cui a poco a poco succhiavo la sostanza.Pigliai questo malannoil primo e l'ultimo della mia vitacacciandonelle valli; quandodopo avere mal dormito qualche ora in uncasolarealle tre della notte mi alzavocamminavo fino alle sei incerca del miglior sito della paludecon il freschetto del dicembre odel gennaio ed una sottile umidità che entrava nelle ossaepoi dall'alba al tramonto mi piantavo immobile nell'acqua e nellanebbia ad aspettare una folagala quale molto spesso non volevamostrarsi. Mi scordavo di mangiare. Bevevoio che sono sempre statomezzo astemiode' larghi sorsi di acquavite. Vedi bestia che èl'uomo! Amando le montagne e le balzecacciarsi con tanta fatica econ sì misero fine dentro ai pantani! Tornavo a casadopoqualche giornoaffrantosfinito. La Menica mi dava brodipetti dipollolatte di gallinavino vecchio e il suo sorriso tutta bontà;ma io non avevo fame e digerivo male. Pensa che malinconia m'eravenuta addosso!

Nonpotevo uscire di camera: andavo dal letto al lettuccio. Se per casogiravo gli occhi allo specchiovedendo un coso allampanatocon leguance smuntegli occhi spentiil quale non somigliava affatto almio signor ionon sapevo vincere l'ombra di un tristissimo sorrisoche mi correva sulle labbra e si trasmutava tosto in due lagrimelente. Da quindici giorniall'aprirsi della primaveramangiavononostanteun pochino di piùdicevo qualche parola volentiericavavo qualche accordo flebile con meno stento dalla mia amatachitarrala quale mi stava accanto sul sofà o sul letto.Quand'ecco a un trattouna serami sento esinanire7.La Menica si spaventa. Era un gran pezzo ch'ella non dormiva sotto lecoltrinon andava nel brolo8a respirare una boccata d'arianon faceva altro che starmi intornosollecitasempre attenta ad un'allegria fiduciosa e serenache nonle veniva dal cuorema che ella simulava virtuosamente per il suopovero infermo. Ell'aveva pensato fino allora al mio corpo: pensòin quel punto alla mia anima.

Mezz'oradopo entrò il curato esottovocemi chiese s'io volevaconfessarmi. Gli occhi della Menica m'imploravano. La camera erabuiasilenziosasepolcrale. Mi confessai a spizzicoquasi senzafiato; ma non fu cosa lungapoiché non credo in mia vita diavere mai desiderato male a nessuno. Toccai la mano alla mia buonainfermierache mi ringraziò con effusione angelica e mi baciòsulla fronte.

Misentivo sollevato. Il prete stava sempre in piedi a sinistra dellettoduro durobrontolando le sue preghiere. Negl'infermi leimpressioni son rapide come il lampo. Guardai fisso il volto delpretee nell'osservarlo provai dentro un irrefrenabile impeto diriso.

Bisognache tu sappia come quel curatouomo di mezza etàrubicondotarchiatopanciutoottimo di cuorema un po' beone e mangiatoreinsaziabileera il più gioviale matto di questa terra.Cantava certe canzonette da fare sbellicare dalle risafaceva certigiuochi di prestigio con i bussolotti da maravigliare un magoscriveva sonetti buffoneschiimitava con la sola varietà deifischi la predica del Vescovo biascicone e con la sola varietàdelle inflessioni di voce tutte le linguecompresa la turca; facevadietro una tela bianca le ombre cinesi con le manifigurando cignilepriporcielefantigatti e una pantomima di burattiniin cuiArlecchino era innamorato di Rosaura e bastonava Pantalone;finalmente con la faccia rappresentava il temporaleagitando oralentiora impetuosi tutti i muscoli delle gotedel nasodellaboccadel frontepersino le orecchiecosì che parevaproprio di vedere i primi lampidi sentire il rombo dei primi tuonie poi via via crescere la tempesta escrosciare la pioggia escoppiare le folgorifinché un po' alla voltacon qualcheritorno di vento e d'acquala bufera si dileguava erinata lacalmatornava a splendere la viva luce del giorno. Tu avessi vistocome a questo punto il viso del prete sbocciavacome s'irradiavacome brillava: era il sole tale e quale.

Ilgaio curato venivaprima della mia malattiatutte le domeniche adesinare da noie di quando in quandobevuta una bottiglia di quelvecchioci dava lo spettacolo esilarante del suo temporale. Oraalvedere il muso tondocomicamente solennea cui neanche l'aspettodella morte avrebbe potuto cancellare l'impronta della giovialitàborbottare le orazioni fra i denti agitando le labbrabattendo leciglia ed increspando la frontemi tornò alla memoria iltemporalee scoppiai in una fragorosa e interminabile risata. Ilpreteche era lesto di cervellocapì in un attimo la ragionedelle mie risa escordando il suo ministeronon potendosi piùtenere cominciò a sghignazzare a crepapelle. La Menica e laservache erano presentici credettero impazziti; magiacchéil riso è contagioso ed il prete riesciva tanto bizzarro neisuoi contorcimentisi misero a ridere anch'esse. La solennitàdell'olio santo s'era trasformata così in una farsetta dacarnevale.

Alloraio pigliai da lato la mia chitarra e cominciai gli accordie ilprete intonò una canzone delle sue più sguaiate; edegli cantava con pazza gioia ed io accompagnavo con tanto feliceardoreche mi pareva di esser il dio della contentezza. Ma la saggiaMenica mi fece smettere per forzaemandò via il curatobislaccoche si sentiva ridere ancora sulle scale e in istrada diquesto suo penitente mezzo mortoresuscitato.

Ildì seguente mi svegliai con un rabbioso appetito. Due giornidopo giravo tutta la casa; quattro giorni appresso andavo nel brolo enel paeseepassata una settimanami arrampicavo sui monti e avreimangiato i gusci delle ostriche.

Lamia guarigione fu cominciata dalle smorfie del pretema fu compiutadalla chitarra. Tu non puoi pensare quale beatitudine fosse la mianel potere di nuovo agitare fieramente le corde di quello strumentoche amo sin da fanciulloe che mi è sempre stato una grandeconsolazione nelle traversie della vita giovanile e ne' piccolifastidii della vecchiaia. Tu mi hai sentito suonare. Sono un buonchitarristanon è vero? Ho le mie ambizioncelle anch'iocaronipote. Quando andavo sotto il balcone della Menicasettant'anniaddietroe suonavo dolce dolce un minuetto del Monteverdela gentestava ad ascoltarmi a bocca apertae il cuore batteva forte alla miafidanzatache mi scoccava dalle imposte socchiuse delle occhiateassassine.

Adessoancora mi diverto a cercare nelle antiche melodie le antiche memorie.Vado nella cappella del palazzoche ècome tu saiall'angolo della galleriaed ha l'altare tutto di legno ad angelipaffuti e a cartocci barocchii quali mostrano ne' luoghi piùriposti i segni delle scomparse dorature: e vi sono i vetri a figurecoloratequa e là rotti e restaurati con pezzi di vetribianchisicché ad un Santo manca la testaall'altro unbraccio o una gamba: e non ostante la chiesetta ha qualcosa di severoe di sacro nella sua mezza oscurità. Non c'è neanche unquadro; le pareti son nude; solo da una parte si vede appesa ad unchiodo la mia chitarrache è quasi una reliquia. Stacco lostrumentoesalendo dallo scalone internoquello scalone lungo edirittoche ha i suoi dugento gradini tutti sconnessivado pianpiano nel giardino altoda cui si domina il villaggio e la valleemi metto a sedere sui graticcii qualiservendo solo per i bachi dasetarestano quasi tutto l'anno accatastati nel padiglione dellefeste. Questo magazzinogioia dei topi e dei ragniera una piccolareggia tre secoli addietro. I nostri antenati vi godevano le loroorgieche non invidio: donneballibuffonicenele quali nonterminavano prima dell'alba e lasciavano uomini e femmine arrotolatiper terra. Col vino scorreva qualche volta il sangue. I muri portanoancoraquasi cancellati dal tempoi nomi ed i motti di qualcuno deiviolenti e gaudenti cavalieri. V'ètra le altresotto aldisegno rozzo di un cuore trafittol'impresa: Dopo il bacio ilpugnale.

Cosìseduto al fresco ne' bei giorni d'estatestrappo alle corde i mieivecchi ricordi in questi ultimi anniche sono i piùtranquilli e i più lieti della mia vita. Lascio morireflebilmente le armonie sotto la vòlta della salaseguendoattentissimo con l'orecchio le ultime oscillazioniche si dileguanonel brontolìo lontano del Chiese. Poisentendomiringalluzzitopicchio forte su tutte quante le corde e comincio unallegro amorosouna gavotta saltellante; ma pur troppo la mia manosinistra ha perduto un poco di agilitàe la mia destra èscemata un poco di vigore. Oggi son più valente negli adaginelle ariette patetiche: ai vecchi s'addice meglio il rimpianto.

Lamia chitarra ha cinque corde doppie; sale dal la al midue ottave e mezzo. È uno strumento ammirabile per la sonoritàe l'eleganza. La rosaintagliata a minuti intrecci e trafori dicerchidi triangolidi fogliolinepare un'opera in filigrana. Ilmanicointarsiato di avorio e di ebano con dei filetti d'ororappresenta una caccia in figure alte un'oncia: cavalcatoridamefalconiericon canicapriolilepricignali e ogni sorta diselvaggina. Al basso della cassa armonica s'ammira poi una figurettad'argentoun Apollo sdraiato che suona la cetracosa che piùgraziosa al mondo non si potrebbe vedere. Oltre a ciòaccomodate in vago ornamentostanno un centinaio di perlealcuneassai grossee così bene incastonateche sette soltanto sisono rotte o perdute. Insomma questa chitarra magnifica desiderodopo la mia mortelasciarla al mio caro nipote. Fors'èun'ubbia dello zio quasi rimbambitoma non vorrei che la chitarrauscisse dalla nostra famiglia. C'è sotto una storiella. Te laracconteròprima perché giova che tu la sappiae poiper amore di me medesimo. Non posso dormirecome accade aivecchionipiù di due o tre ore la nottee ho gli occhi sanie non cavo troppo gusto a leggere libri per cagione della memoriache mi serve benissimo nelle cose lontanema pochissimo nellevicinesicché alla fine di un volume rischio di nonrammentarmi il principio. Bisogna dunque ch'io metta un poco di nerosul bianco per occupar la sera in qualcosamentre la Menicatenendoin grembo il suo miciopisola nel seggiolone.



III


Tiscrivo di giorno all'ombra dell'antico padiglione e all'aria apertanel giardino ora tutto intralciato e spinosoche sta innanzi alpadiglione ed è protetto da balaustri spezzati e da pilastrisu cui piantano de' mozziconi di Ercolidi Diane e di Veneri. Laroccia scende a perpendicolo dietro il palazzodel quale da questaaltura si dominano i tetti vicini; più giùa sinistrasi vede la piazza del paesee più giù ancora il ponteed una lunga e sinuosa striscia di fiume.

Èun'afache non si può respirare. Me ne sto qui da un pezzo aguardare le montagne ed il cielo. Le curve ripide e rotte del montedi San Gottardo alla destra e dell'altroche gli sorge di contropare si tocchino a' pieditanto è stretta la spaccatura delChiese. In mezzo a quelle due chine brulle d'un colore cupo rossastrosi vede quasi orizzontale il dorso celestino di un montelontanissimo. Le nubi s'erano squarciate esul largo campo azzurroda quell'angolo basso saliva saliva una nuvola biancailluminata dalsole. Prima sembrò una corona d'argento posta sul culmine delmonte lontano; poi si espanseinvase una gran parte del cielo.Pigliò figura di un toro immaneche si avanzasse con la suatesta cornuta. Le corna venivano sino alla metà della vòltaceleste; una gamba poggiava sopra uno dei montil'altra sull'altro.Poiin un minutoil toro mutò apparenza: la testa da grossache era si allungòdiventò il grugno di un porcolecorna si accorciarono in orecchiele gambe si restrinsero a zampinie la figurache prima era maestosadiventò grottesca. Poi lanuvola grande si sciolse in diverse nuvolette candide: qua e làde' gruppi di punti argentei si raccoglievano come in tantipalloncini aereostaticii quali vagavano un pezzo innanzi di ridursial nulla. L'aria è restata d'un celeste purissimosu cui ledue montagne vicine tagliano scuree l'ultimo monte appena stacca inquasi impercettibile sfumatura. Intanto il Chieseingrossato dalleultime pioggemugghia più iracondo che mai. Le casebruneancora bagnatehanno de' bizzarri scintillamentie gli alberi sonolustri. Giù nelle strade fangose le capre passanoaccompagnate da fanciulliche portano sul capo immerse fraschefronzute di castagno o di querciasotto alle quali restano curvati enascosti. Son piante che camminano; e quando diciotto o venti di queiragazzi scendono così dai sentieri delle montagne l'un dietroall'altropare che un pezzo di bosco si muovae si pensa - non mirammento benema qualcosa mi resta nella memoria di spaventoso - aquel rea cuidopo la profezia di certe orribili streghevenneincontro così una foresta minacciante e vendicatrice.

Dallaparte di San Gottardo sai che si va a Bagolinocosteggiando ilmelanconico Lago d'Idropassando dalle mura merlate della Roccad'Anfo e camminando un pezzo sulla stupenda stradache lascia benbasso il Caffaroe dai parapetti della quale si vedono i precipizivertiginosidove nella cupezza del fondo le acque del torrentecolrimbalzare da un masso all'altrocol piombare in cascatecolfrangersi alle rocciemostrano il luccichìo della loro spuma.In quelle orridezze si rovesciano spesso uomini e cavalli esenzache la loro caduta mandi il più lieve rumorevanno aseppellirsi nella gran fossa del monte. La via bellissima èsparsa di panporcini9e di croci.

Oquante volte son passato su quella strada cantandocon il mio fucilea pietra sulla spallala fiaschetta piena di polverela ventrierafasciata alla vita e ben provvista di palle e pallinie la carnieraad armacollo! Avevo con me Lampo e Bigiooppure Livia e Toti. Nonc'è una svolta ch'io non ricordiné una cappellettané una pietra migliaria. A Nozzaavendo pigliato unascorciatoiatrovai sul viottolo rasente al Chiese due vipereed unane uccisi coi tacchi de' miei grossi stivali: A Vestone il poveroLampo ebbe un formidabile calcio da un ciucoe continuò poi aguaire tutta la giornata. Ad Anfo c'era un'ostessa gobbetta e zoppala quale mi dava il vino bianco e le tinche fritte. Facevo centro aBagolinoma poipartendo all'alba e spesso non tornando la seracorrevo lontano a cacciare i camosci sulle balze e le starne neiboschi.

Laprima volta che salii solo alla cittaduzza alpestree avevo allorache ero giovaneun'aria baldanzosa ed una gran barba neraunvecchietto mi venne incontro etogliendosi rispettosamente ilcappello e sorridendo con maliziami fece segno di seguirlo. Dopoavermi condottosenz'aprir boccaun trecento passi all'in su eall'in giù per quelle viuzze sudicie e stretteil vecchiettosi ferma e alzando il braccio mi mostra coll'indice una lapide anticainfissa nella rovinosa muraglia di una casa. Vi leggo a stento questibei versi:


Ogginon è il tempo

Néla stagione

Distare in questo loco

Chinon sta a ragione.


Primache avessi agio di pigliarmela col sardonico vecchietto e chiederglila causa della sua minacciaegli se l'era prudentemente svignata. Locercai tutt'in giro senza poterlo trovare.

Desinaiall'osteria del Pavonee poiessendo domenica e non avendosentito messam'arrampicai sulle interminabili gradinate dellachiesa ed entrai a pregare. Il sole mandava i suoi raggi quasiorizzontalmente dalle finestre della facciata sino all'altarmaggioregettando su questo la luce infiammata del tramonto efacendo scintillare la custodia dorata del ciborio. La chiesa eradeserta. Solo si sentiva un leggiero picchio a intervalli regolariora di qua ora di là. Una vecchiatanto curva che il suomento giungeva appena all'altezza delle panchepassava abbastanzalesta da un altare all'altromettendo innanzi ad ogni passo il suobastoncinosu cui poggiava il peso del corpo cadente. Mentre uscivoell'era accanto alla pila dell'acqua santa. Le diedi qualche soldo:mi ringraziò tremolando.

Ilsole scendeva in quei punto dietro le montagne. Non sapendo comepassare il tempomi posi a sedere sul parapetto del portico eguardai intorno le chine verdi; ma nell'abbassare lo sguardosopraun quadratello di marmo biancoincassato nelle lastre scure delpavimentomi parve di vedere il nome della nostra famiglia. Sentiipunzecchiarmi dalla curiosità e guardai bene. Potei leggereoltre al casatoDon Antonioe l'anno MDCCLXX; ma il restotra l'essere logoro dallo stropiccìo de' piedi e l'esserescritto in latinonon mi entrava nel cervello. Stavo cosìlambiccandomi da dieci minutiquand'odo dietro di me una voce fessae biascicantela quale brontolacome se ripetesse una lezioneimparata a memoria:

-Sui sagrato di questa chiesa Don Antoniomaestro di virtùfece ardere in benefica pira gli strumenti del peccatoe scacciòil Demonio muto dal cuore dei penitenti.

Noncapii nulla neanche nella traduzioneevincendo il ribrezzo che lavecchia mi metteva addossole chiesi s'ella poteva spiegarmi ilmistero dell'epigrafe.

Mipigliò per il braccio con la sua mano aduncache pareva unartiglioe mi trascinò sul piazzalenel mezzotra ilportico della chiesa e le gradinate della rocciale quali scendonoal paese; poisempre tenendosi al mio bracciofece il segno con lapunta del suo bastoncino di un largo circolo intorno a noie disse:

-Quiproprio qui. Era un gran fuoco. Pareva un incendio. I ragazziavevano portato le fascine secche; gli uomini avevano accomodato lelegne in una immensa catasta; le donne con le mani giunteinginocchiatepregavano. Poi una si alza etogliendosi i pendentidalle orecchieli getta nelle fiamme; edopo questatuttead unaad unao un monileo un braccialettood uno spilloneo quel chehanno di prezioso e di bello gettano nel fuoco. Le litanie sisollevano al cielo: lo scoppiettare e lo stridere del rogo pare uninferno. Si avanzavano gli uomini come spiritati. È notteele fiammetingendo la chiesa e le case di un rosso sanguignodànnoai devoti l'aspetto di demonii. Ecco che volano sul fuoco mandoliniflautitamburinitiorbe. Due alzano una spinettae giùsulle brace. Quante chitarre! Unafra le altredi avoriodi ebanod'orodi perle! Che bellezza!...

Misentii serrare il braccio più forte. La vecchia s'erainterrottatremava in tutte le membrae sulle guance grinzose eterrose sgocciolava qualche lagrima. Si percuoteva il petto col pomodel bastoncino. Durò un pezzo a rimettersie poi alzòsopra di me gli occhi così stravoltiche ne ebbi paura.Certoera matta. Continuòfacendo da sé sola diecipassi indietro e picchiando tre volte col bastoncino in terra:

-Qui stava il Santoimmobilemaestoso. Guardava in alto. Qualchevolta faceva un gesto con la manoe allora quelli che gli eranovicini gridavano: Silenzio. E tutti tacevanoe si sentivaaccompagnata dal romore della legna ardentela voce di luichegridava: 'Distruggetefratellidisperdete gli strumenti del vizio.Quegl'infami oggetti sono del diavolo. Regalateli a mech'io li donoa Dio. Non più ballinon più suoninon piùgioielli. Via gli eccitamenti alla corruzionele tentazioni alpeccato. Vivetepensando solamente alla morte ed al cielo'. E diquando in quando si sentiva la stessa voceche dominava il turbinosofrastuono del popoloripetere: 'Distruggetefratellidisperdetegli strumenti del vizio'.

Misembrò che i pochi capelli bianchi della vecchia le sirizzassero sul cranio. Dopo una pausa ripigliò:

-Io era giovane allorabellasanariccaempia. Mi scaldavo le manialla catasta e ridevo.

Puoipensarenipote miose queste parole della strega avevanosolleticato la mia voglia di sapere ogni cosae se io la tempestassid'interrogazioni. Ma ella non rispondeva più niente. Parevache fantasticasse a qualcosa di là dal mondo. Finalmenteinfastidita dalla mia insistenzami chiese con ira:

-Chi è lei che m'interroga? Che cosa importa a lei di questestorie di mezzo secolo addietro? Non può lasciarmi quietanelle mie memorie e ne' miei rimorsi?.

Cercaidi placarlae per iscusare la importunità le dissi il miocasato e ch'io ero pronipote del Beato Antonio.

-Nipote!” gridòspalancando gli occhi cisposi.

-Figlio del figlio d'un suo fratello.

-Figlio del figlio d'un suo fratello” mormorava la vecchia fra legengivecome se studiasse questo grado di parentela.

Miguardò nel volto con attenzione minutissimae invasa da unacrescente contentezza:

-È lui” esclamò - lui stesso. Ecco il nasoaquilinoil fronte altole labbra sottilile folte sopraccigliagli occhi neri. È luiluiproprio lui!.

Nelsottopormi a questo esame la vecchia decrepita s'accostava al miovisovicino vicinogiacché il crepuscolo cominciava aimbrunire. Sentivo l'acre respiro di quel cadavere ischeletrito.

-Lo stesso sguardo” continuava - e la stessa voce! È luiproprio lui.

Eintanto si faceva il segno della crocee mi baciava il lembo dellacacciatora.

-Avrei dato” ripigliò - tutta la poca vita che mi restaper trovare un discendente del Santo. Ora posso morire in pace.Restituirò al nipote ciò che ho rubato all'avo. Vengacon me fino al mio casolarelà sulla montagna. Non c'ètempo da perdere. Potrei morire da un momento all'altro” es'incamminò.

Giàcominciava a far buio. Il cieloche s'era tornato a coprire di nubidiventava nero. Scendemmo dietro la chiesa un centinaio di passi;poientrati in una viuzzasi principiò a salire. La vecchiaansava. La strada era formata di sassi puntuti e sconnessiconpozzanghere ad ogni tratto e qualche torrentello. Incespicavo neglisterpi. Dei tronchi d'albero disseccati sbarravano il sentiero. Udivode' fruscii ne' cespugli: vidi la coda di un lungo serpe neroguizzare in una buca. La vecchia andava a piccoli sbalzipicchiandosempre con il suo bastoncinoe voltandosi indietro a guardarmi. Aduna svolta si fermò e si mise a sedere in terra. Sembrava unapallottola.

-Ero dunque giovane” disse - e bella. Avevo sposato Angelo ilMoroil sicario. Egli viaggiava per le sue faccendee quandotornavadopo tre o quattro mesimi portava tanto oroch'io duravofatica a spenderlo tutto in vestiin balliin orgie. Angelo miregalava i gioielli rapiti alle dame. Una volta mi portò unachitarrauna maravigliarubata a una duchessa di Milano. Ioche midivertivo a suonare quello strumentone fui beata; ma l'amante mioche amavo ancora più della chitarrame la chiesee glieladiedi. L'infame mi tradì poco dopo.

Daquel fagotto schiacciato al suolo continuava a uscire una voce rauca:

-Ero alta di corposnella; avevo gli occhi bruni ed i capelli biondi.Ballavo dal tramonto all'albanuotavo nel lago d'Idrofacevoall'amore. Una serasentendo che il Beato Antoniodi cui parlavanole valli e i montima che io non avevo ancora vedutoordinava dibruciare gli strumenti da musica e gli ornamenti delle donnevolligoder lo spettacolo. Alcuni de' miei corteggiatori s'erano convertitialla fede del Santoaltri non si attentarono ad accompagnarmiunosolo venne con me travestito per non farsi conoscere. Quella serasentivo dentro un diavolo: ero ubbriaca di peccato. A un tratto vidiil mio amante traditore accanto a meil quale stava per gettare nelfuoco la mia chitarra. Sentii ribollirmi il sangue. Nel baccano enella confusioneappena la chitarra fu sul rogoioal rischio dibruciarmi le vestimi scagliai sulle fiamme e la trassi fuoriintatta. Qualche giorno appresso Angelo fu appiccato in Brescia. Miammalai: restai povera e sola.

Lamegera si alzòe continuò il cammino. Era notte scura;non vedevo dove mettessi i piedi; sdrucciolavo; tre o quattro voltefui lì lì per cadere. Il nome del Moro mi rammentava iraccapricci d'infanziaquando il mio vecchio servo Giovanniraccontava le prodezze del famoso assassinoil qualeperesperimentare la curiosità d'una sua fidanzata; le avevalasciato in deposito un paniere coperto di foglie frescheproibendole di guardarvi dentroe dopo un'ora torna e trova laragazza in deliquioperché ella aveva trovato nel paniere unatesta d'uomo tagliata.

Lavecchia continuava interrottamentefermandosi ad ogni venti passi:

-Mi nacque a poco a poco nel cuore una cosa nuovail rimorso. Entraiqualche volta in chiesa; ascoltai qualche messa. Passato un annotornò a Bagolino il Beato Antonio. M'acconciai per il primosermone accanto al pulpitoe vidi il Santo pallidosmuntosalirefaticosamente i gradini. Annunziò con voce fioca l'argomentodella predica: Il Demonio muto. La sua parola era lentaquasistentatama tanto semplicetanto chiarache nasceva negliascoltatori una certa maraviglia di non avere pensato prima da séa così naturali discorsi.

'Nell'animonostro (egli diceva) noi nascondiamo quasi semprespesso senzavolerloqualche volta senza saperlola memoria o il desiderio di unpeccato. Come non lo confessiamo al pretecosì non loconfessiamo a noi stessi. E pure quel puntoquella piccola ulceravenefica un po' alla volta s'allargasi estende e incancrenisce viavia l'anima intera. Ci credevamo giustici troviamo iniqui'.

Eil Santo veniva agli esempli: la moglieche dal grato ricordo di unastretta di mano scivola alla infedeltà; il negoziantechedalla prima menzogna sul prezzo di una merce scende al fallimentobugiardo; il servoche ruba prima un soldo sulla spesae poivedendo come la padrona non se n'accorgene ruba duedieciventie finisce col rubare nella borsa e nello scrigno; il giovinottochedal primo stravizio precipita all'ubbriachezza: e così perognuno quasi degli ascoltatori c'era una parola che lo toccavadentro.

-Nella più remota e angusta cameretta del cuore alloggia ilDemonio muto. Egli se ne sta lì accovacciatoarrotolatosilenzioso; ma poiquando gli pare che l'uomo sia piùdistratto o più fiaccostende le membras'adagias'impadronisce di una stanzadell'altrae riesce ad occupare tuttaquanta la casa della nostra coscienza. La nostra coscienza diventaallora un inferno. Tutto sta dunque nel guardarci dentro e neltrovare il nostro mortale nemicoquand'egli è ancora quasiimpercettibile: tutto sta nel cacciare via subito il piccolo Demoniomuto.

Mail Santo cangiava voce. Da dolce e insinuante ch'era il principiodiventava aspraviolentaterribile. Parlava sul Demonio muto dellecoscienze già infami: delle donne empiedegli uominiperversiche occultano un peccato obbrobrioso. Terminòtuonandosicché la chiesa rimbombava: - Furtiassassiniiingannisacrilegiilordure d'ogni specievenite fuori dal petto divoi che m'ascoltateentrate nelle mie orecchie; e salga il vostrorimorso e il vostro pentimento a Dio. Dio è misericordioso!.

Ilpopolo si gettava per terra epiangendogridava: - Pietàpietà!.

Lavecchiagià stancasedeva nel mezzo della stradae ormail'oscurità era così fittach'io appena distinguevo ilcorpiciattolo bruno. Sembrava che la voce uscisse di sotto terra.Cominciai a sentirmi de' brividi nelle membrapoiché tiravaun vento frescoil quale faceva stormire le foglie e produceva deifischi e come degli ululati lamentevoli e strani. Neanche un lumelontano; neanche una stella. Il suono fesso delle parole dellavecchia ricominciava:

-Uscii dalla chiesaconvertita e spaventata. Tornai a casa correndo.Mi prese una febbreche per dieci giorni tenne il mio capo in orridivaneggiamenti. Non ero guaritaquando una mattina scappai dal sitodove abitavodistante un'oraeportando con me la chitarracheavevo rubata al rogo del Santoandai a Bagolino per confessarmi. IlBeato Antonio era già andato a Gardoneassai malatoanch'essoquasi morente. Presi una carrettellaesempre col miostrumento maledettopartii. Il giorno appresso ero in Val TrompiaaGardone. Corsi tosto alla chiesae la vidi tutta parata di nerotutta a ceri ardenti. L'infinito popolo singhiozzava e pregava; isacerdoti cantavano a morto. Nel mezzosopra un immenso catafalcoseduto in un trono maestosovestito degli abiti sacricol calice inmanostava il Santopiù livido che mai. Era immobile. Avevagli occhi aperti e fissi. Pareva che guardasse. Il cadaverecertomi malediva.

Lavecchia riprese a camminare assai lenta. Io le andavo dietro senzavedere più nulla.

-Siamo lontani?” le domandai.

Nonrispose. Si continuò a salire la montagna. La vecchia eradiventata taciturnama sentivo sempre il picchio del suo bastoncinosui sassi. Finalmente si giunse dinanzi ad un casolare. La vecchiaspinse l'uscio ed entrò. Cercò qualcosae poibattendo con l'acciarinofece uscire dalla pietra qualche scintilla;accese l'esca e un luminoil quale rischiarava assai male lamiserabile stanza. Un po' di strame in un angolouna pancaunaciotola; il tetto nascosto dai ragnateli; il pavimento di motalubrica; i muri di sassi tutti sconnessi e cadenti.

Lastregagettandosi per terralevò le foglie muffite del suogiaciglio e cominciò a raschiare con le unghie il terreno.Dopo un quarto d'ora mi fece segno di accostarmelee vidi ilcoperchio di una cassa; aiutai la vecchia a levarloed apparve lafamosa chitarra con le sue corde spezzate. Alla luce del luminofumoso le perle sembravano scintillette scialbe e l'argento delpiccolo Apollo brillava appena. La vecchia mi porse lo strumento conun sorriso che le contorceva la boccae disse tra sé:

-Morirò più quieta.

Salutaila povera donnaed uscii dal casolaredove il tanfo cominciava anausearmi. Solonelle tenebre più nerecon la chitarra sottoil braccio e senza rammentarmi il camminopuoi pensarenipote miose mi sentissi lieto. Mi guidarono le punte dei grossi sassi dellaviamartoriandomi i piedi. Dio volendoa mezzanotte bussai allaporta dell'Albergodove tutti dormivano; eandato a lettosognaitutta notte lemurifantasmidiavolimegere e streghe.

Seimesi dopo tornai a Bagolino per le mie cacciee volli andare asalutar la mia vecchia. Trovai con grande stento il casolare. Eradeserto. Domandai notizie di essa ai contadini della montagna ed alloscaccino della chiesa. Era sparita da un pezzoproprio come unastrega. Nessuno ne ha saputo più nulla.



IV


Oggiè stata una magnifica festadi quelle che lasciano il cuorepiù sereno e più alto. Si cominciò ier sera coni fuochi sulle montagne. Tu avessi visto com'era belloquell'improvviso accendersiquell'alternarsi di quadi làdelle fiamme d'allegriaalla distanza di più migliadall'unae dall'altra parte della valle; e come pareva che le cime dei montisi rispondessero nel gaio linguaggio di fuoco! Le campane suonavanoora a distesaora a rapidi rintocchied ora con una certa ingenuapretensione d'imitare qualche arietta popolaresenza colpa delcampanaro se tre note su sette dovevano restar nel battaglio.

Versole ottoche era ben buioandai con la mia Menica nel mezzo delpontea godermi per una mezz'oretta questo spettacolo; e il Chieseriflettendo i fuochi delle alturepareva se la godesse anche lui.

Stamanepoi all'alba è stato uno scoppio di gioia. Mortaletti da tuttele particome cannonate d'una finta battaglia; la banda musicale diSalòche soffiava e batteva a tutto andare; il popolocheriempiva le piazze e le vieilarechiassosovestito da festaconfazzoletti da collo e scialli d'un rosso scarlatto.

M'èvenuto il ghiribizzo di andare incontro anch'io al nuovo Curatochefaceva il suo ingresso trionfale. Appena mi ha visto è scesodalla carrozzettadove stava con il Sindaco. Ha voluto per forza chemi appoggiassi al suo braccioe così a piedi siamo andatiinsieme fino al piazzale della chiesain mezzo a due fitte ale dipopoloche salutava rispettosamente. Il curato rispondeva ai saluticon pronta affabilità. Ha i bei capelli folti tutti d'argentoche gli circondano il capo come un'aureola; gli occhi azzurrilimpidid'una soavità da fanciulla; i denti bianchissimi eperfetti. Veste pulitoquasi accurato. Parla con una dolcezzasempliceprofondaaffettuosache affascina. Èdiconoilpiù virtuoso prete della diocesi di Brescia: dà tuttoai poveri: mangia polentacaciolatte soltanto; ma nasconde la suacarità e la sua povertà volontaria sotto un aspetto dipersona studiosa e gentile. Mi ha detto:

-So ch'ellasignor Carloè il più vecchio e piùsavio uomo di questi monti. Permetterà ch'io venga adiscorrere spesso con lei e che mi chiami suo amico.

Ilmaestro di scuola si è avanzato per leggerebalbettandolasua poesia; una fanciulletta dell'Asilo ha recitato lesta il suodiscorsino; i preti della Parrocchia hanno presentato al nuovopastorecon una lunga orazione latinale chiavi della chiesaportate sopra un cuscino di seta bianca a frangie ed a nappe d'oro.Ed è cominciata la processione: stendardi rossi con la Madonnadipinta in mezzobanderuolecrocitorchibaldacchini; fanciulleinghirlandate di fiori e tutte vestite di biancole quali portavanoin mano con gran compunzione quale un Agnello di cartaquale unBambino Gesù in fascequale una Vergine incoronata; ragazzicon mitrie o con turbantie dietro una coda interminabile di donne ed'uominila qualevista un poco dall'altosembrava tutta d'unpezzoe pareva che così lunga lunga si muovesseflessuosamente secondo l'avvallarsiil girare o il rialzarsi dellastrada.

Astare accanto alla chiesa e appartaticome abbiamo fatto la miabuona Menica ed ioche siamo troppo vecchi per cacciarci nellafollasi sentiva l'organo suonare un'allegra marcia con tutti ipedali e campanelli e tamburi e piattipoi le campane suonavano sulnostro capopoi scoppiavano i mortalettiche era un frastuono dadiventare sordi; ma quando per casoin certi momentitutti questiromori cessavanos'udivagià lontanoil salmeggiare bassodei sacerdoti della processione e l'armonia vagalungaangelicadella risposta delle donne.


Lavecchiaia è orrenda. Non ci sono lagrime negli occhinon cisono singhiozzi nel petto. La disperazione non si espande nella pietàdegli altrinon si getta al di fuori con le parolecon i gesticonle grida. Lo strazio è solitario. Si guarda al proprio doloretranquillicon le ciglia asciutte. È una calma bieca; èuna freddezza spaventosa. Par di uscire da se stessie di aggirarsinel nulla. Non si pensanon si sente: si vive in una tomba.

Lamia Menica è morta.

Diecigiorni sonomercoledì serasi sentiva un po' stancaes'addormentòcome al solitonella sua poltrona. Io leggevo.Tutt'a un trattoil micio nero sbalza in terra e miagola comeimpaurito. Non gli bado. Alle dieci mi alzoe mormoro nell'orecchiodella Menica:

-Mia buonaè l'ora di andare a letto.

Nonrisponde. Le mettocosì per giuocole due mani sul fronte.Lo sento di ghiaccio. Era morta.

Beataleiche è morta com'era vissutanella sua santa placidezza.


Lacasa è desertale montagne sono bianche di nevee gela. Adesinarecosì solonon mangio più. La sera non c'ènessuno che mi dia con affetto la buona nottee la mattina mi vestonella camera vuotaintristito dal silenzio fatale. La ragazzachemi serve da pochi mesimi guarda con occhio indifferenteannoiato.Pensa forse che i vecchi stanno meglio nella bara. Ha ragione.

Houn solo confortoil Curato. È un santo uomo. Parliamo direligionee la mia vecchia fede si ravviva. Ieri mi diceva: - SignorCarlosi prepari alla felicità del Paradiso. Si stacchi dallecose di questa terra. Pensi a Dio.

Nonho rimorsieppure un certo stringimento di cuore mi dice forse chec'è una macchia nella mia vita. Quando sono seduto al fuoconell'interno del gran camino della salae vedo sulla parete dicontro il ritratto del Beato Antoniosmortoseverominacciosomisembra ch'egli apra le labbra ed alzi la mano per rimproverarmiqualcosa. Che cosa? Non ho mai fatto male apposta a nessuno. Ho amatoi miei genitorii miei parentila mia Menica. Ho seguito ladottrina e i riti della Chiesa. E non ostantegli occhi dipinti delritratto di Don Antonioche sono vivimi scrutano dentro nellevisceremi strappano fuori un non so che dall'anima. È unoscavo nella coscienza. Forse il mio Demonio muto. Chi lo sa? Forsequell'oggetto di profano piacereche io vagheggiavoe che puòavermi distolto spesso dalla contemplazione di Dio! Sìquelmaledetto strumentorubato da un sicario e destinato al rogopoi dinuovo rubato da una femmina iniqua. Certoa quello sguardochescintilla fuor della telaci deve essere una profonda cagione. DonAntoniobisogna ch'io ti plachi.

Interrogaiil Curato. Perdonaminipote mio: ho già provvisto a te nelcodicillo del testamentoma ritiro il donoche ti avevo fatto. Ilbuon prete mi consiglia di distruggere quella mia vecchia gioiamondanache oggi mi è occasione di rimorsi e di paure.


Ierisera nevicavatirava ventosi sentivano certe voci lugubri a tuttele finestre ed a tutti gli usci. Non avevo dormito da una settimana.Andai nella cappella a staccar la chitarra e la portai nella sala. Allume del fuoco le perlette e l'oro brillavanoe la figuretta diApollo sorrideva. Il demonio mi tentò e toccai le corde. Unsuono rauco e terribile uscì dallo strumento scordato. Allorafeci aggiungere molta legna sul fuocoe quando la vampa toccòla cappa altissima del caminofatto un supremo sforzogettai lachitarra sul rogoseguendola attentamente con gli occhi. Le corde sicontorsero come serpimandando un sibilo di dolore; il legno sottiledella cassa armonica diventò nerosi spaccò in piùluoghi esenza infiammarsisi ridusse a carbone; le perlettesparirono; il manico durò un gran pezzo a bruciaree lefigurette della cacciastaccandosi ad una ad unacaddero nellabrace. Chiamai la servache gettasse dell'altra legna sul fuoco.

Tuttofu consumato. Nell'uscire dalla salapassando innanzi al ritratto diDon Antoniomentre le ultime brace ardenti lo irradiavano di unaluce oscillante e sanguignacredetti che lo sguardo del Santo miseguisse ancora tenacetorvoimplacabile. Gelai tutto e svenni.

Mandoun addio a tea tua sorella ed ai suoi figliuoli; e mi dolgo chesiate troppo lontaniperch'io vi possa vedere mai più.

Sonoalzato e ti scrivo dal tavolino; ma sento dentro di me come unpresentimento felice. Ho chiamato per questa sera il mio buon Curato.Mi confesserà e mi darà l'olio santo.


ILCOLORE A VENEZIA











(Questeannotazioni sono tolte dall'albo

diun artista pedante)


Ilcortiletto di un'osteria sulle Zattere al ponte della Calcinaombreggiato appena con qualche foglia di vitee dal quale si vede illargo specchio dell'acqua verdognolache riflette le tristi casedella Giudeccaera lo scorso autunno sull'ora del mezzodìpieno zeppo di pittori francesitedeschispagnuoliche mangiavanosenza badare al tondo e bevevano senza badare al bicchierecometrasognati in mezzo alle bellezze di quella cittàcon lequali lottavano dall'alba alla seratentando di rapire ad esse ilsegreto del loro colore. Il colore nel doppio suo senso morale emateriale è un gran tormento dell'artista d'oggi. Colorlocale: sentire e ritrarre una Veneziache non possa esserealtro che Venezia; colorito: emulare con la tavolozza quelle fanfaredi tintequelle smorzature di toniche nascono dal salso dell'acquae dallo scirocco; dalle esalazioni puzzolenti dei canali quandorestano a secco e dal cielo vaporoso e pur limpido e infiammatoall'aurora e incandescente al tramonto; dai cenci pidocchiosi dellaplebe elemosinante e dalle grandezze festive dei passato; dai pomposimosaici della chiesa di San Marco e dai pesanti fumaiuoli dei caminia tronco di cono rovescio: da tutto il restoinsommadi splendori edi abiezioni - abiezioni e splendori che hanno la somma virtùl'unica virtùla quale importi all'artistaquella di esserepittoreschi.

Matutti sanno che ci sono delle impressioni artistichele quali siprestano ad essere fermate sulla tela con i mezzi dell'artepittoricaed altre noanche di quelle che derivano dalla vista; cisono delle impressioni chementre rimangono vaghe nella mentepaiono potenti di novità e di forzae quando si trasmutano incorposia pure in prosa od in versodiventano cose fiacche evietissime. Troviamoper esempionel taccuino certi scarabocchiabbreviatiche a decifrarli occorre la scienza paleograficaintesta ai quali si legge: Io scrivo queste righe abbarbagliato dalsole cadente. Poi: - Il sole scende tra la Chiesa della Salute edil Palazzo Ducale. Manda nell'acqua il suo risplendore di fuocogialloche prende una larga zona tra i lontani palazzi del CanalGrande e la Riva degli Schiavoni. Quando le barchette passano in quelgiallo incandescente sfumanocome nelle fornaci di Murano i vetriche si fondono; quando entrano nel colore azzurro dell'acquai remifanno ancora sgocciolare oro fuso. I piccoli vetri dei bastimentiriflettono scintillando i raggi del solee gli alberi dei vascellistaccano in luce d'oro sull'oltremare della laguna. E noi cirammentiamo che quel tramontodal quale non potremmo cavare néun quadro decentené un onesto periodo di novellaci eraparso memorabile. Certoconviene dubitare assai sulla bontàartistica di ciò che scuote ed esalta lo spirito dell'uomopoiché alle volte la nostra boriache è sempre destafa che si confonda la virtù comunissima della sensibilitànervosa con la osservazione veramente estetica. Siamo donnicciuolemalaticcie eappunto per questoci crediamo artisti; e codestairritabilità delle fibre ci fa gonfiare come ranocchie infaccia alla natura.

Delrestoquanti misteri nell'impulso all'idea nell'arte! Come l'ingegnoresta sovente soffocato da un grande spettacolo della naturadellabellezza umanadella vita sociale; come invece si rafforza e rassodanella vista di certi nientenel confronto di certe cosette insulse!Il lavoro delle molecole del pensiero è fatale e nello stessotempo supremamente illogico: è tutto a molle che scattanosenza un perchéa spirali che s'allungano e s'accorciano comeil bau-bau dei bambini: con una leva da sollevare il mondo sialza un granello di sabbiacon un granello di sabbia si crea unvortice nel mare. Masenza uscire dall'arteaccade non di rado cheuna sensazione puramente ideale ritempri la mente ad un lavoroartistico sodoil quale non ha con tale sensazione altro nesso chedi un certo colore morale. Uno stato dell'anima tetroprodotto da uncaso tristefa che il poeta immagini una storia nuovasostanziosaeffettivache è triste. Ma codesta storiacon il seguirsiinfinito delle transazioni e con la mutabilità rapidissima delcuorepuò - chi lo sa? - diventare allegra. Allora chiritrova più il primo impulso? L'artista che si muti in criticopuò ritrovarlo forse; e una così fatta ricerca dellagenesi dell'idea sarebbe piena di ammaestramenti filosofici e moralima vuotacom'è la filosofia e la moraled'insegnamenti perl'arte.

Iltaccuino ci dà ancora queste righe sgorbiate una sera allaBirreriaun'ora appena dopo il nostro arrivo a Venezia: - Dovevoandare al Ponte del Sepolcro. Era notte buia; tirava vento;alcune grosse goccie di pioggia cadevano sul felse dellagondola. Lo sportello e i finestrelli stavano aperti. Il fanalettodella mia propria barcache m'era vicino a tre spannemi sembravadistante come un faro nel mare. Si traversò una parte del GranCanalepoi s'entrò in certi rivi strettidove a lunghedistanze le lanterne mandavano la loro pallida striscia di lucesull'acqua agitata. Il gondoliereincurvandosipassava sotto l'arcodei ponti scuri. Sui gradini delle rive e sui basamenti delle casecerte macchie nere si muovevano lentepoi all'avvicinarsi dellagondola davano un tonfo nell'acqua. Non mi raccapezzavo in mezzo aquei canali gobbistortistrettiincassati fra le alte case.Guardavo se alla deserta imboccatura di qualche viuzza ci fosse unascrittae finalmentefissando lettera per letteralessi in unangolo oscuro: Calle dei Morti. Il taccuino aggiunge: Peccatonon essere pittore! L'esclamazionesincera nel minuto in cui fuscrittaera assurda. Ciò che aveva mosso il nostro animo nonsi addiceva punto ai mezzi dell'arteenon ostantequei grossitopi che davano un tonfo nell'acqua avrebbero potuto per un abilepennello diventare l'occasione morale di un dipinto terribile.

EppureVeneziaoltre l'occasione e l'impulso all'artedà anche iquadri belli e dipinti. Basterebbe che alla mente fosse concessopiùfortunata della macchina fotograficaserbare vivo il ricordo deimotidelle espressionidelle formedella lucedelle tinte;basterebbe che il pennello non togliesse nulla all'efficacia dellamemoriae il quadro riescirebbe in ogni sua parte perfetto. Innessuna città il fondo prospetticoil fondo naturalei tipii vestimentile mezze nudità s'accordano con tanta armonia.

Lastessa indolenza veneziana contribuisce al vantaggio dell'arte.L'uomo affrettatone' suoi atti scompostine' suoi gesti rapidinella sua indifferenza per le cose circostantièesteticamente brutto. Bello è invece l'uomo per il quale iltempo non è danaro; l'uomo che non ha anzi altro fine durantela più parte del giorno e della sera che di spendere le oreesi muove piano; e s'atteggiae ha l'agio di riflettere sul propriovolto le gioie e i dolori degli altrile allegrezze e le melanconiedella natura. Poi le piazze e le vie non sono traversateromorosamente da carrozze e da carriche disperdono i crocchichecacciano la gente sui marciapiediche rompono barbaramente ledolcezze ineffabili del ciarlare e del pettegolare. Il cocchiere difiacre sta lì stecchito a cassettanon si può muoverese vuole discorrere deve gridare e interrompersi ad ogni tratto; mail barcaiuolo lega all'anello della riva la gondola easpettando altraghetto o sul Molosi mette a sederesi rizzacamminaragionaguarda la passera che vola.

Selo sciroccocome dicono a Veneziaè cagione di tante bellecoseviva lo scirocco. Oh il sior Tonin Bonagraziagentiluomo diTorcellocon le sue storielleche raccontava al popolo sulla rivadegli Schiavonie il dito mignoloche si metteva per vezzosmorfiosamente all'angolo destro della bocca - morto pover'uomo!”oh il casotto dei vecchi Burattinicon Arlecchino e Pantalone eColombina e siora Rosaura - dolce nella memoria!” oh le Sagrecon le ghirlande e i damaschi che ornavano finestre e bottegheconle bande che suonavanoe gli stendardi che sventolavanoe la follache si pigiavae le frittelle di Zamaria de le fritole inquei grandi piatti di rame e d'ottone lucidi più dell'orocaldefumanti e olezzanti di un'olezzo divino - l'acquolina ciritorna in bocca!.

Ilpittoresco Oriente ha lasciato la sua improntanon solamente negliedificima ben anco nell'indole veneziana e nell'amore dei beicolori. I funeraliche nelle città di terraferma coi nericarri mortuarii tirati da cavalli nericondotti da necrofori neri eseguiti da gente nerafanno parere il cielo nuvoloso anche quando èsereno: i funerali a Venezia fanno splendere il sole anche tra lanebbiatanto sono ridenti. Ci ricordiamo di una mattina nel cortiledel Palazzo ducalechestando all'alto della scala dei Gigantivedemmo uscire dalla porta laterale della chiesa di San Marco etraversare fino al portico il quale riesce sul Molo una bara tuttacoperta di fiori freschi. I becchini sfoggiavano le loro cappe rossescarlatte; i sagrestani vestivano di pavonazzoe non sappiamo qualiConfraternite avessero mandato i loro rappresentanti verdi eturchini. Certi colossali ceri tutti dipinti erano portati con faticada grossi uomini robusti. Alcuni monelli porgevano la mano sotto lecandele per raccogliere nella palma le sgocciolaturementre glialtri raschiavano sul lastrico le goccie di cerapiegandosidimenandosi in cento modi e sgattaiolando di qua e di là trale gambe dei preti in camicei quali davano loro ridendo qualchebenevolo scapezzone. Il fondo era riempiuto da vecchi bianchipoggiati sul bastoneda donne con bimbi che chiedevano l'elemosinae finalmente dalle bigolantisode Friulane tarchiatecheinterrompendo la loro fatica del tirar su l'acqua dal grande pozzo dibronzo del 1556 tutto fogliami a sireneguardavano passare laprocessionela quale dalla gaiezza del sole; che brillava vicino alfianco della chiesaentrava disordinatamente nell'ombra cupa e siperdeva sotto il portico del Molo.

Unaltro dì a San Samuelefuori della botteguccia di unintagliatoreavevano messo al sole una enorme cornicedi legnoscolpita a gonfi ricci barocchi ed a putti rotondi. Dall'altra partedella viaun po' in isghembo per avere la necessaria distanzas'erapiantato il fotografo con la sua macchinae già aveva latesta sotto il pannopronto a ricavare l'immagine della cornice.Nella calledove tutti questi apparecchi avevano prodotto un poco diingombrola gente guardava con faccia ansiosae qualcunoperpassaredava degli spintoni alle donneche brontolavano; e igarzoni legnaiuoli tiravano da parte quei ragazzacciche in atto dicomica prosopopea si piantavano di contro alla lente; e l'artistaintagliatoreappoggiato con maestà allo stipite dellabottegapareva nella sua gran pancia assai contento di sé.Tutte le figureilluminate ad abbaglianti colpi di lucestaccavanoSul fondo della casache era come bagnato in un'ampia ombratrasparente e celestina. Bene ci ricordiamo pur troppoche questobrioso quadro ci fu sciupato dal passaggio di tre uomini e di unacarriuola chiusa. Il primo di quegli uomini camminava lento lento eguardava a terra negli angoli con occhi torvi; magrolungo; aveva lacorda di un laccio in mano e portava non sappiamo più se unpanciotto od un fazzoletto di color giallo stonato. Sul suo berrettosi leggeva in grosse lettere Canicida: parola che fa gelare ilsangue.

Néa Venezia mancano le novità dei tipi: marinai Indianidimembra asciuttecoi muscoli snelli da tigregiranti per le vieinquieti come pantere in gabbiae gli occhi sembrano buonima diuna bontà sospettosa e selvaggia; Giapponesi e Chinesi astutiplacidipazientisorridenti eanche in quella loro bassacondizionefilosofi e ironicamente orgogliosi della loro anticaciviltà; Negri con il naso camuso e le labbra grossevestitidi bianco. Questi sono i doni chequanto all'arteporta a Veneziala Peninsulare: e la mattinachi passeggia lungo lafondamenta delle Zatterepuò vedereappoggiatial parapetto della coperta su quegli immensi Battelli a vaporementreguardano la terra ed ascoltano le suonate degli organiniquegli uominii quali pensano ai loro paesi lontani: curiose mostredi altre razze e di altri costumi.


Ipittoriche volevano inviscerarsi Veneziagiravanoportando laloro cassetta ed il sedile a tre piedidi qua e di là nellestradicciuole desertecon gli occhi intenticome il medico che sivede innanzi un caso nuovo e gravissimo. Avevano dello stralunato;non ridevanonon parlavano: certo il loro polso doveva battere piùlentotanto la mente era concentrata. Lo studio del veroqualunquene sia l'oggettoha qualcosa di ansioso e di avido: pare il sogno diun avaroche veda il proprio tesoro volargli via con l'ali perl'ariae voglia corrergli dietroe si senta de' pesi alle gambeenon lo possa raggiungere. Pensare poi un vero così singolare efantastico qual è Veneziae in questo tempo nostronel qualenon basta dipingere un ponteuna gondolauna stola da senatore odun corno da doge per ottenere il color locale.

Nelvero e nella storia i pittori di trentadi vent'anni addietro sicontentavano della buccia: quelli d'oggi vogliono il midollo. Cercanonelle cose il carattere; si lambiccano per entrare nell'animadi una veduta prospetticadi una marinadi una figura: e a Veneziavogliono proprio l'anima veneziana. Il mezzo per esprimere al difuori quest'anima non conta. Non importa se la pennellata sia lisciao rugosadisinvolta o faticatalarga o minutaocome faceva ilFortuny - povero Fortunymorto di trentacinque annimaritopadrefeliceartista lieto e glorioso! - mezza strapazzata e mezza inminiatura. Non importa neanche se il colore sia succoso od asciuttoa colpi di sole o annuvolato: importa solamente che il cuoredell'artistaa forza di concentrare il suo fluido esteticosi mettain comunicazione con il cuore della cosa che imitalo facciaparlaree lo sveli o in tutto od anche solo in una piccola parteagli occhi degli altri.

Nelvedere come uno dei migliori artisti d'Italiaun Romanositravagliavaseduto dinanzi al cavalletto presso al CaffèFloriantutti i giorniper tante settimanericercando i misteriprofondi della facciata di San Marcodel Campaniledella Fabbricadell'Orologioe comeprincipiando e terminando religiosamente sulposto non un bozzettoma il quadro medesimoconfrontava tra ivalori delle tinte e li paragonava con l'azzurro del cielosi capivabene come egli non intendesse a riprodurre sulla tela ciò chela fotografia porge materialmente e che centinaia di pittoriritrassero prima di luibensì volesse dare una sostanzacorporea all'impressione tutta idealeche la piazza di San Marcoaveva suscitato in date condizioni di luce e in date circostanzesull'animo di lui pittore. Fare vivere e parlare i sassi è piùdifficile che non l'eccitare la eloquenza degli alberidelle ondedelle bestie e dei corpi umani; ma oggi anche i pittori figuristi sicompiacciono in questa animazione della prospettivala quale parevadianzi ed era il genere più insulso e più freddodell'arte. Ed in ciòcome in tante altre coseègiovata la fotografiapoiché ha mutato lo scopo della pitturaprospetticache prima era la fedeltà materialee che ora èla fedeltà quasi a dire morale.

Lenavatele absidile cappellele nicchie della chiesa di San Marcoerano invase da decine di pittorivecchi con la bella barba lunga egiovinotti di primo pelo: non mancavano sette od otto signore. Tuttifacevano le loro divozioni all'arte. Chi s'arrovellava nell'imitarele larghe vòlte a mosaicocercando di seguirne via via tra iSanti allampanati e gli Angeli stecchitile tinte dell'orochesecondo la lucele ombrele penombrei riflessi mutano dal gialloal rossodal rosso al verdedal verde al nero; chi s'era messodinanzi ai pulpiti bizantini e studiava il lustro dei marmi; chi sistillava il cervello nello scortare del pavimento a quadrelliaformellea pavonia mostria intrecci d'ogni maniera e ondulatocome le acque calme del mare; chi nelle vesciche voleva trovare itoni cupi e misteriosi delle alte conche ai lati del corodove nelbuio brilla qualche striscia di sole e luccica qualche macchiadorata; chi sentiva invece la pace maestosa e solenne del tempio;chi; non badando ad altro che allo sfarzo delle materie e delleformenon ricordava che le pompe del passato; chiingenuointendeva alla semplicità candida e casta.

Altripittori s'eranolungo il Canalazzonell'aperta laguna o nell'angoloremoto di qualche rioaccomodato il loro studiolo in barcae adogni gesto facevano dondolare il cavalletto. Altri si fermavano acoppie in certi campielli a ritrarre la vera di un pozzolapunta di un alberelloche sbucava sopra un muricciuolo rossolefinestre delle casupoledalle qualitenute in fuori con due lunghibastonipendevano sulla fune la camicia cenciosa e la gonnellabucata di qualche popolanacoi capelli arruffati e gli occhicuriosiche guardava in giù canticchiando.

Uncelebre acquerellatore dipingeva intanto sulla carta il bel quadrodella Processionedopo avere fatto uno studio cosìperfetto della fondamenta col suo selciato sconnessodellecase coi loro pèrgolidel ponte storto che scortadeigradini della rivaverdastri lì dove l'acqua ora li bagnaora li lascia a secco d'un verde arcimaledettissimo a trovaredelbattellodelle piccole increspature del canale riflettenti tutti icolori della tavolozzauno studio così perfetto che valequasi più del dipinto. Ma se per mostrare agli altri ciòche si sente occorre tanto genio e così lungo studiopervedere a Venezia con i propri occhi i quadri già fatti evederli ammirabilissimi non occorre altro che avere un briciolo difantasia. Mettetevi al basso di un pontealla riva di un canaleall'angolo di un campiello qualunque eavendo un poco di pazienzavedrete che nuove scene vi comporranno dinanzi questi tre elementivivi dell'arte: i monellii barcaiuoli e le donne.

Ipittori non istudiano abbastanza la donna. Hanno visto per altro chei zendalii domino brunile mascherine incipriatele gentildonnesensuali della scuola che sta per finirefiguravano la naturaveneziana come i Piombi ed i Pozzi rappresentano la veritàstorica. Non diciamo che così i Pozzi ed i Piombicome lefemmine cincischiate e leccate dei pittori vecchi - s'intende vecchidi questo secolo - sieno cose tutte bugiarde; ma le impressioni cheun dabben uomo riceve nei sotterranei e sotto i tetti del PalazzoDucaletoccando le gravi catenecontemplando la pietrasulla qualeil carnefice nel buio tagliava il capo dei condannatie calpestandola soglia della porticinada cui il corpo monco era gettato in barcaper venire sepolto nel Canal dei Marranicosì fatteimpressioni sono romanzesche e falsequando non vengono mitigate eraddrizzate da una conoscenza più largapiù effettivadel vero. Di Venezia certi storicifacendosi complici dei poetiecerti pittoricredendo di seguirepoverini! le tradizioni gloriosedel passatoavevano costrutto in fantasia una città teatraleda gonfii drammi e da tetre ballatedove i colori letterarii eranocome i colori pittoricistridenti e stonati. Tra quegli artistipesanti pareva una serena eccezione Natale Schiavoniil quale icolmi seni e le spalle morbide delle sue mezze figureche sisomigliano tuttesfumava nel vapor latteonon senza una certagrazia pudicamente carnale. Ma i giovani d'oggi guardano inveceovorrebbero almeno guardare dritti alla natura.

C'èa Venezia due tipi femminili molto diversi: quello roseo e carnosodelle donne del Giorgionedelle Veneri di Tizianoe l'altro bruno emagroche i pittori non hanno ancora celebrato. Nel primo i capellidi un biondo rossastrogli occhi del color del cielo o del marel'incarnato delle guanceil corallo delle labbrale nevi del seno etutte le altre qualità blande fanno della bellezza qualcosa diplacidamente materialedove la poesia sonnecchia. Il secondo tipo hail seno modestoi capelli corvinigli occhioni neri segnati sottocon due sfumature lividele labbra stretteil naso leggermenteaquilinoe la carnagione scuretta sparsa di macchiettine verdastre.Se i denti sono candidi e regolaricosa difficile a trovare inVeneziaquesto secondo tipo è potente. Ha in sé comeuna fiamma concentratache rende vivaci i gestila parolaglisguardiil sorriso. E ha un fondo di mestizia; e si lascia andareagli affetti con una sincerità scivolanteche toglie quasialla passione il sapor di peccato. L'amore in Venezia nasce dalleondette della lagunadalle cadenze labbiali del tenero dialetto: nonè più né spiritualené sensuale: èfatale.

Ele donne camminano stupendamente. Forse - non lo sappiamo - l'andaregrandioso e pittoresco delle popolane viene dagli sciallicheportano sulle spalle o sul caponon puntati da spillima tenutifermi al petto con le manisicché i fianchi in quellafasciatura si disegnano netti; o forse viene dallo scendere i pontiche obbliga la persona a tenersi un poco incurvata col seno innanzi ecolle spalle indietromentre le sottane formano un bell'arco distrascico sui gradini; o forse viene dalla frequente necessitàdel camminare lenti nelle vieo forse dal non portare il maledettobusto imprigionatore del corpoond'è che le membra restanopiù liberei movimenti più scioltie le linee deltorso girano più naturali su quelle delle anche.


Èsingolare come la donna e l'uomo a Venezia paianotanto nell'aspettoquanto nell'animopiù naturali che non negli altri paesiepure più complessi. Sono lagrimatori e festiviespansivi emaliziosi. Hanno molto dell'ingegnoqualcosa dello scetticismoateniese. Il sarcasmo sfiora ad ogni istante le loro labbrama senzalivoresenza cattive intenzionicosì per indole o pergiuoco; tanto che il forestiere è molto spesso impacciato nelconoscere se un Veneziano parli da senno o per burla. Il sarcasmo èuna parte della loro saggezza e disgraziatamente della loro pigrizia.Si contentano di capire le cose al volo; quanto al farle è unaltro paio di maniche. Per operare non bisogna dubitare; per nondubitare non bisogna vedere delle questioni tutti i lati ugualmentee indovinarne troppo i vantaggi ed i danni.

Molteserementre splendevano le stelle e il vaporetto del Lido mandava ilsuo fischiosentimmo cantare sulla Riva degli Schiavoni una canzonepopolareche ci sembra il ritratto di quella ironia venezianalaquale si torce persino contro se stessa. In coda ad ogni quartina ilritornello seriogravebene armonizzatodiceva: Viva l'Italia ela libertàe a un tratto una sola voce nasalefessastonatainterrompeva con un Ma seccoe ripigliava dopo unapausa:


Sespera che i sassi

Deventapaneti

Perchéi povareti

Sepossa saziar.

(Vivaec... Ma!)


Sespera che el caldo

Principiain genaro

Esenza tabaro

Podercaminar.

(Vivaec... Ma!)


Sespera che adesso

Nonassa più tose

Perchéle morose

Sepossa sposar.

(Vivaec... Ma!)


Sesperase spera

Cheel nostro Governo

Nodeva in eterno

Letasse lassar.

(Vivaec... Ma!)


Sesperae sperando

Necapita l'ora

Deandar in malora

Colnostro sperar.


Coibarcaiuolicome s'è detto per le donnei pittori vecchifacevano dei còsi rettoricitrasformando il gondoliere o inun rematore sentimentaleche aveva le grazie da ballerino di teatrooppure in un pescatore Chioggiottoche sembrava una specie diMasaniello o di can barbone. Nel vero i due tipi del barcaiuolovenezianoquello di casada e quello di traghettosidividono in molte varietà curioseche noi abbiamo avuto labella fortuna di contemplare a nostro agio durante un'adunanza dellaSocietà di Mutuo soccorso fra i servitori di barcabatellanti e traghettanti. Credevamo di risalire i secoliditrovarci per magia in un angolo della Sala del Gran Consiglioe diascoltare i discorsi dei vecchi patriziiche parlavano anch'essi indialetto e alla buona e brevi e succosi. Il buon senso pratico delpopolo veneziano ci si rivelò intiero nelle discussioni diquesti barcaiuolii qualismessa per un poco l'ironiaragionandodi cose che importavano a tuttidiventavano uomini d'affari e calmidiplomatici.

Viera il Polentinacantore e chiosatore dell'Ariosto e delTassocon la sua barba nera brizzolata di biancola testa mezzocalvala carnagione abbronzitasimile alla patina rossastra escrepolata di un quadro antico. La sua faccia al primo aspetto haqualcosa di sinistroquasi di trucecome alcuni ritratti delTintoretto; poicome in quei ritrattia poco a poco dal moto dellelabbra - le labbra nei ritratti del Tintoretto si muovono - edall'umidore dello sguardo splende il raggio d'una bontàmansueta. Alle sue orecchie pendevano due anelli d'orodai qualipendevano alla loro volta due triangoletti pur d'orodondolanti aogni gesto.

C'eraun vecchio di settant'annidritto; portava il pizzo bianco: oratorepieno di saggezzama di voce stentorea e di parola impetuosa.Raccontano che nel quarantotto pacificasse con un discorso Nicolottie Castellanile due fazioni di Veneziache d'allora in poisalvo imolti pettegolezzi e qualche scappellotto dopo le regatevivono insanta pace. I volti da Carpacciosbarbaticol naso grossoglizigomi prominentiil mento largosi alternavano ai volti daVanDyckpallididi barbetta rossignadi occhi profondi e languidinel fronte meditabondi. La ruvidezza maschia e libera deitraghettanti contrastava con le livree a bottoni doratideigondolieri aristocraticiben rasi il volto.

Nonc'erapur troppo! il gondoliere della Divina CommediaAntonio Maschioche ha studiato il Convitoil VolgareEloquiola Vita Nuovatutto Dantee conosce le operesesquipedali de' suoi commentatorie ha sul Poema una propriateoriaintorno alla quale tenne delle pubbliche conferenze e stampòdei libri; chiosatore dotto e sottileparla in toscano con garbo:dovrebbe essere professoremembro di Accademiecavaliere. Figlio diun biadaiuolo di Muranoin bottega andava frugando nella carta dafar cartocci; gli piacevano più le righe corte che lelunghee aveva letto così qualche sonetto del Petrarca ealcune ottave dell'Ariosto e del Tasso. Un dì gli caddero inmano i fogli staccati di tre canti del Purgatorio; lesse e noncapì nulla; corse da un vecchio prete dell'isolache glispiegò bene o male il grosso delle cose; vogò subito aVenezia a comperare con pochi soldi il Poema senza note. Allora ilnostro barcaiuoloinnamorandosi del misteroesaltandosi in ciòche intendeva e ancora più in ciò che non intendevanetto da ogni preoccupaziones'andò creando nel cervello unconcetto intiero della filosofia e della geografia della Commediaruminandolo da sé solofinché gli venne regalato uncommentoe poté un po' alla volta confrontare le proprie ideecon le faticose ricerche degli eruditi.

Nelsessantacinque voleva andare alle Feste dantesche di Firenze; ma nonavendo il permesso della Polizia austriacacamminò disoppiatto fino al Posperando di trovarvi una barca. Trova invece igendarmi; si getta in fiume nudocol suo fardello degli abiti sullespalle e il volume di Dante; il fardello sprofondaDante sprofonda;egli stessodopo sovrumani sforzi per toccare l'opposta rivaèlì lì per annegarsi; lo ripescano; lo riconsegnano agliAustriaci; è maltrattatomesso in prigione e dopo un pezzoquando Dio volleliberato. Il suo rammarico era questo solodi nonavere potuto assistere all'onoranza del suo Poeta. Oggi è allaBanca nazionalegondoliere.

Main quella adunanzadove il Maschio dunque non c'eradovevanodiscuteretra gli altri affarila domanda di un socio fondatoreilqualemettendo innanzi i beneficii resi alla Societàchiedeva una gratificazione. Un bell'omone grande e grossocol visotondo tra il gioviale e il solenne - somigliava al maggiordomo dellaCena di Paolo - chiede la parola e dice:

-Far el ben e po domandar el compenso xe perder el dirito a lariconoscenza. Mi a quel sior ghe verzo la mia povara casa: el vegna amagnarse el ga bisognoe a bevar da mi; ma dei soldi de la Societàno sepol darghe un boro.

Tutticonsentirono nella opinione del buon uomovotando coll'alzare lamanoeccetto unoche diceva di avere un reumatismo al bracciodestro:

-Ciòparché non votistù? E se gavesse unadogia?.

Allorail presidenteun signore in cappello a cilindromolto prosaicopose in discussione l'indirizzo di non sappiamo quale Societàdi operaiil quale puzzava di demagogia ed al quale bisognavarispondere. Un barcaiuolo si rizzae discorre così:

-Ghe xe dei intriganti che ne monta la testa a nualtritanto per fardel ciasso e per pescar nel torbio. I fa finta de credar che brusandole fabriche i operai ghe guadagnie rovinando i altri i se fazasignori. No i rovina i paronie eli i more de fame. Ma stiintriganti no ga altro fin che quelo de condur el popolo a lamiseriaa la disperazion; parché alora quel revoltonche ivoria far de tuto e de tufideventaria più facile.

Mentrel'oratore pronunciava queste parole il Polentina crollava ilcaposcuotendo i suoi orecchinie aggrottava le ciglia. Noi locredevamo un comunista arrabbiato. Domanda la parolae grida:

-El dise ben: paroni e operati xe tuti una famegia.


Insommapoveri i Venezianiche devono abitare a Venezia! La consuetudine liha da far quasi ciechi a tante gioie dell'intelletto e della vistaatante disinteressate emozioni del cuore. Il loro orecchio non badapiùè veroalle terribili oscenità ed allelaide bestemmieche barcaiuolimonellidonne del popolopronunciano ad ogni frasediscorrendo placidamente fra loro; nonbada alle particoledi cui la gente abbastanza civile infiora cosìper vezzo ogni periodetto delle proprie ciarle. Ma i loro occhi nonsi fermano forse più a un fregio bisantinoa unintrecciamento araboad una nuvola riflessa nelle ondealla macchiarossastra di un muro in rovina od ai rappezzi e tacconi di un belputto biondomagretto e mezzo nudoche porge sorridendo la mano perdomandare uno scheo. Può restar loro la voglia sotto iportici delle Procuratie nuovein faccia alle Procuratie vecchie eavendo alla destra il palazzo dei Dogidi compiacersi in quelleciancedelle quali cinquecent'anni addietro si lagnava messerFrancesco Petrarca. Il cantore di Laura si scagliò contro - latroppa libertà del parlareper la quale in Veneziapiùche in altro luogo qualunquegli uomini onesti dagli infamii dottidagli ignorantii forti dai vilii buoni dai malvagi sonoimpunemente vituperati. Si vede che il pettegolezzo non è cosarecente su questa terra mortale. E il Petrarca aveva amato confervore Venezia: le aveva regalato una preziosa parte de' suoi libri;s'era molto compiaciuto che nelle feste per la vittoria di Candia ilDoge l'avesse fatto sedere alla sua destra in cospetto di tutto ilpopolosulla loggia che sovrasta alla porta maggiore della basilicadi San Marco; aveva invitato a tornare ospite suo nel suo palazzodella Riva degli Schiavonimesser Giovanni Boccaccioscrivendogli:- Tu conosci per prova quanto soavi e dolci riescano le notturnepasseggiate sul mare.

Ancheil fiero Dante fu allettato dalla vaghezza della singolarecittà. Se non restasse una sua epistola a Guido da Polentasidirebbe ch'egli non avesse guardato in Venezia ad altro cheall'arzanádove bolle la tenace peceda lui in treterzine dipinto; madopo aver raccontato a Guidodel quale era inquei di ambasciatore presso i Venezianiche in faccia al Consigliopoiché ebbe principiato la sua orazione in latinogli fumandato a dire - che cercasse di alcuno interprete o che mutassefavella” ond'egli mezzo tra stordito e sdegnato cominciòa parlare in italianoe capivano poco anche di questo; dopo averenotato che non si maravigliava di tanta ignoranza e accennato ai -vituperosissimi costumi dei Veneziani ed al fango della loro sfrenatalascivia”chiude l'epistola col dire: - Mi fermerò quipochi giorni per pascere gli occhi corporali naturalmente ingordidella novità e vaghezza di questo sito. Dante dovette parere aquegli astuti e pieghevoli senatori un ambasciatore disgraziatissimo:rigidoimpazientealterodispettoso. E di tale cattiva impressioneda lui prodotta sul Consiglios'accorse certo il poeta fiorentinoeil suo malumore lo fece abbondare nelle accuse non giuste.

Sipuò prestare più fede ad un placido ed imparzialefranceseMichele di Montaigneche andò a Venezia nel 1580quando vi dipingeva Paolo e il Tintoretto e vi scolpiva AlessandroVittoria. Veronica Francola famosa cortigiana poetessagli mandòa regalare un suo volume di Lettere. Egli diede due scudi almesso; ma è gran peccato che non ne dica di più. Nelledonne non trovò - cette fameuse beauté qu'on attribueau Dames de Venise”; e pur vide - les plus nobles de celles quien font traficque”nelle quali più che d'ogni altra cosasi maraviglia in quella sua vecchia ortografia: - d'en voir un telnombre faisant une dépense en meubles et vestemans deprincesses.

Ibroccatii damaschiil bissola porporai pizzii merlettilestoffe d'oro e d'argentoi vellutile setele perlele pietreprezioseogni splendoreogni fasto della vita mondana aveva la suainfluenza sull'indole dell'arte. L'amore delle tinte vivaci eraantico nei Veneziani: già prima del XII secolo il loro colorefavorito fu nelle vesti il turchinotanto che i Romani dicevanoTurchino per Veneto. E l'arte bisantina e l'arte arabae l'arte moresca e l'arte tedesca e l'arte fiamminga si diederoconvegno nella città delle lagune per compiere l'orgia delbello. I gastaldi delle Arti avevano un bel decretareche nessunopotesse vendere quadrifuorché quelli - che avranno zuradol'arteintendendo che loro sia habitatori de Venetia et a loro sialicito vender ne le loro botteghe et non in altro luogo”; quellache il Montaigne chiama la presse des peuples etrangersvinceva coteste paurose esclusioni. Lo Shakespeare fa dire ad unmercante Venezianochesoffiando sul brodo della zuppa perraffreddarlaegli pensa alle sue navivolanti in tutti i mari conle loro ali di tela. E mentre i Veneziani si spandevano cosìnel mondo conosciutogli stranieri si concentravano in Venezia. Nel1505 il Senato fece ricostruire il Fondaco dei Tedeschi da unGirolamo tedesco.

Questoeclettismoquesto sensualismoquesto splendore dell'arte venezianae nello stesso tempo questo suo carattere eminentemente venezianospiegano la sua straordinaria forza affascinatrice. È unaghirlanda di fiori olezzanti; è una collana di pietrepreziose. E una cosa lasciva e imponente.


QUATTR'OREAL LIDO

Schizzodal vero


L'acquaera tiepidail mare uno specchio. Nuotando ora lestoora tardom'ero allontanato bene dalla rivasicché la barca disalvamento mi veniva dietroe i barcaiuoli gridavano che gli Avvisiproibiscono di scostarsi troppo dai Bagni. Uomo avvisatomezzosalvato. Vedendo che non davo retta alla leggei barcaiuoli se netornarono indietroe mi lasciarono solo. Nell'acqua profonda sentivodi quando in quando una corrente frescae mi scorreva sulla pelle unleggiero brivido; poi tornavo nel tepore quieto e beato. Quellalibertà delle membra in mezzo a quella immensità dimare è un conforto ineffabileun'allegria sublime. Nonun'ondanon una voce. L'edificio dei Bagni era diventato piccino. Mipareva di entrare nell'infinito. Cacciavo sotto il capo con gli occhiaperti per vedere il verde diafanodi una gradazione cosìdelicatacosì gentileche avrei voluto sprofondarmicidentrosicuro di trovare al fondo del colore smeraldino una sirenabionda. Bevevo l'acqua salata. Tornavo fuori con la testaquando mimancava tutta l'aria nel pettoe aspiravo in furiae sbruffavoein ogni boccata d'aria c'era qualche goccia di sale. Ma l'istante incui si esce dall'incanto del gorgo è terribile. Non si vedepiù nulla: sembra di entrareasfiticinelle tenebre dellamorte. I capelli si appiccicano sugli occhil'acqua che sgoccioladal fronte impedisce alle palpebre di aprirsi. Si respira con ansiama si è ciechid'una cecità spaventosache dura menodi un minuto secondo.

Quand'eroun po' stancofacevo il morto. Mi coricavo sul mare come sopra ilpiù morbido dei cusciniimmobilecon le braccia aperte e conle gambe unite. Il mare mi dondolava placidamentecantandomi laninna nanna. Sull'orizzonte non vedevo dinanzi a me altro che lepunte dei miei piedi; ma di contro al mio viso si apriva la grandezzadei cieli. Guardavo le nubi in faccia. Come nelle carrozze dellaferrovia accade spesso di credere che si vada in direzione opposta aquella nella quale corre il trenoe si sbalzae si guardaesterrefatti; così a me sembrò per un istante di esserein piedie di vedere l'abisso azzurro al di sopra e al di sotto. Mipareva di stare appoggiato ad una parete verticale interminabilenelmezzo ad una immensità vertiginosa di colori strani. Losplendore del tramonto prendeva figura come di fuoco diffusodi oroliquefattodi vapore celeste misteriosissimodi brune macchieminacciose e di bizzarri luccicori d'argento: l'atmosfera del solevista nel sole non può essere diversa. Ma una ondettapassandomi sul frontemi richiamava alla realtà; e allora iomi gustavo di nuovo la dolcezza di quel giaciglio soffice e fresco. Edi botto mi rivoltavoe coi remi delle braccia e delle gambeandando rapidoma in giusta simmetria e senza faticavogavo unpezzo; poi sbattevo le mani e i piedi sull'acquaalzando una spumacandida di perletteche subito si scioglieva nell'ampio verde.


Ilverde nel mare è di una veritàche gl'impasti dei piùraffinati colori e le più sottili velature non possono imitareneanche di lontano. Non parlo delle spiagge e dei mari diversi; lostesso marela stessa spiaggia nella stessa stagione non ha mai lastessa tinta l'un giorno e l'altro. Ad ogni moto dell'acquacorrisponde una gradazione differente di verdedi azzurrodi tinteneutree i moti dell'acqua sono innumerevolidalla impassibilecalma ai furori ciechi della tempesta. Anche senza andare fino allospavento dei cavalloniil nuotatore lo sa. Conosce le ondettepiccolechecome il passo rapido e breve di una crestainasiseguono l'una all'altra senza romore: sono verdoline con un pizzicodi giallo. Conosce le ondette larghelenteancora graziose eleggermente azzurrognoleindizio di una bufera lontana. E poi leonde maestosequasi direi di stile classiconelle quali ilnuotatore si lascia calare all'avvallamento e portare al colmo con ilviso e con i capelli asciuttibasta premere le mani e incurvare lapersona in forma di sirenamentre il flutto s'innalza; e dall'altosi vedono le creste regolariallineate delle altre ondechesembrano i solchi di un immenso campo; e nel basso si crede di esserecaduti al fondo di un fossotanto i marosiche chiudono la vistasomigliano a sponde erbose e ripide. In mare il tempo s'allunga.L'allegria o la tristezzal'ardire o la paura fermano l'attimo; e sipensa in un minuto più e meglio di quel che in terra sipenserebbe in un'ora. E un altro dì ci sono le onde pettegoleche scherzano intorno sgarbatevi spruzzanociarlandola lorosaliva in voltonon vi lasciano respirarevi tirano di quavipremono di làvi gridano nelle orecchie con un fracassoassordante ed impertinentecome le donne delle Baruffechioggiotte. Ma Dio vi salvi dalle onde matteuscite daimanicomii del gorgocoperte della loro densa bava biancanellequalia un trattovi sentite sommersoarrovesciatotravoltoequando finalmente mettete fuori la testaun'altra onda vi si sbattein faccia e vi spezza il respiro; poidiventato sospettosoguardatein giro con tanto d'occhie vi apprestate a ricevere degnamente sulpetto una ondata minacciosache vedete precipitarsi contro di voiegià quasi vi seppelliscema ecco invece che si spiana e sirisolve in nulla; gli assalti vi vengono vigliaccamente dai fianchi edalle spallesenz'ordinesenza ragione; vi stancatevi spossatecominciate a disperare; date quasi un addio alla terrae toccatedopo sovrumani sforzi la rivauscendo da quell'acqua sciaguattata datutti i ventineraorlata di certe frange e certi fiocchi d'argentosudicioche le dànno aspetto di uno sconfinato drappofunereo.

Eppurenel mare quieto o nel mare agitato l'uomo si sente pieno di vigoria.La sua buona vanità gli fa credere o di dominar la naturaodi essere tanto grandeche Dioper ischiacciarlodebba scatenarglicontro tutte le furie degli abissi. Svaniscono le noie mortaliilcuore si ritemprasi fa provvisione di coraggio e di forza. Un'orain mare è un'ora bene impiegata: in quella salsedine c'èun po' di ferro per l'anima.

Uscendodall'acqua si diventa Greci. Dopo essere saliti le lunghe scale dilegnodove sui gradini viscidi s'arrischia di sdrucciolare e lealghe fanno talvolta dei brevi taglietti ai piedisi entra nelproprio camerino e si avvolge il corpo nudo in un ampio lenzuolo; poisi esce così drappeggiati sul ballatoioche guarda il mare.Alcuni bagnanti stanno ancora in acqua presso la rivatenendosi -disgraziati! - alle cordee piantati sull'arenadove passeggiano igranchi. L'immobilità li intirizzisceli raggricchia: paionoranocchie umane. E quant'è difficile trovare il corpo bello diun uomo! Nella donna la bellezza delle membra è men rara:basta l'armonia delle partiuna certa rotondità gentileunacerta bianchezza trasparente e roseae forse il desiderio ci fa menodifficili. Ma nell'uomo la vigoria sana deve accoppiarsi allasnellezza morbida; le membra scioltegiustené troppoasciuttené pesanti di polpa; una espressione generale diardire elegante. Gli antichi volevano la grazia persino sui campi dibattaglia. In Tessaglia la iscrizione di una statua diceva: AdElationeche ben ballò la battagliaquesta statua il popolo.La sproporzioneda noi moderni tollerata con indifferenzaerainsopportabile agli antichi. Un dì ad un mimo tarchiato egrasso il pubblico vociò ridendo: Non isfondare il palco;un altro dì ad un mimo pallido e mingherlino mandòironicamente questo saluto: Fa' di star sanoe un'altra voltaad uno di troppo alta staturafigurante Capaneo che si avventa allemura di Tebegridò indispettito: Scavalca il muronon haibisogno di scale.

Sulballatoioverso il maresi atteggiavano dunque dieci o dodiciuomini panneggiati di bianco. Avevano messo sul capo l'asciugamano informa di Palliolume si avvolgevano il corpo con il lenzuoloa modo di Pallium10nelle diverse foggeche piacevano meglio a quella naturaleaffettazioneda cui l'uomo coperto di un gran manto non si sa quasimai liberare. I Greci avevano venti modi di acconciarsi il pallio:affibbiato al pettoaffibbiato alle spallesenza ripiegaturaaddoppiatocon le mani nascostecon un braccio fuori dallaspaccatura di destracon un lembo sopra una spalla cortocon unlembo sopra una spalla lungostretto alle anche con pieghettinetriteondeggiante in gonfi svolazzi o libero di cadere in larghipiani ed in ampie curve. Ogni maniera aveva il suo proprio nomeconveniente ai zerbinottiai filosofi ai viaggiatoriad ogni classedi persone. Tacito si lagnava già delle vesticciuole miseredegli oratori romanie che le portassero male. Figuratevi noi labella figura che facciamousciti dall'acquain quei pallii bagnatie appiccicaticci!


L'ariasalata e la ginnastica del nuoto mettono in corpo una gran fame.Andai sul terrazzo de' Bagnie ordinai da pranzare. L'edificiochesi distende in una lunghissima linea rettaè tutto di legno epiantato su alte palafittele quali lasciano sfogo ai marosi quandoil mare è grossoe quando è tranquillo rompono a' loropiedi le onde placideche pure mandano romore a intervalli misuratoe gravequasi battute sorde di un maestro di cappella. Il corol'armonia di quell'ora non si può descrivere. Tutto si fondein un accordo pieno e gaioprofondo e vago: arpa eoliadell'infinito. Il sole baciava quasi l'orizzontee scendeva dallaparte opposta al maredietro al Lidodietro alla lagunadietro aVenezia. I suoi raggi orizzontali non toccavano più lasuperficie della marinache era diventata scura e azzurrastra; maandavano a ferire dritti due vele lontane di due barche da pescatorifacendole brillare d'un colore giallo doratofiammelle fantastiche.Il piano immenso del mare nudo; non uno scoglionon una lingua diterra per quanto l'occhio cercasse: pareva di navigare sopra unvascello fatato nell'Oceano a mille miglia da terra. E le due velesplendevano; e il cielo pigliava una tinta brunetta ancora cilestraqua e là rallegrata da qualche nuvola mezza in ombra e mezzain lucela quale vagava lenta e a poco a poco s'impiccioliva esvaniva.

L'appetitomi faceva parere squisite le vivandee la salsedineche mi restavain boccadava al vino una dolcezza inebbriante. Il ventre siconfortavae gli occhi s'incantavano; e questi e quello miriempivano l'anima di una felicità solennela quale porta ilriso sulle labbra e le lagrime sul ciglio. V'era poca gente. La bandacominciò a suonare. A sinistraintorno ad una tavolastavaun gruppo d'Inglesi. Una delle signorevestita di seta cruda congrandi nastri rossi sull'abito e sul cappelloparlava allegrafaceva mille graziose smorfiette col viso strano e piacente. L'altraalta di staturasnellaflessuosacon il collo un po' lungocomele Diarie anticheil volto regolaredelicatod'un rosa pallidogli occhi di un fine azzurro marinole mani troppo affilatemanobilissime e dello stesso candore di quel po' di pelleche ilmodesto squarcio dell'abito lasciava vedere sotto la gola. Si alzavadi tratto in tratto per correre dietro ad un bambino di due annibiondopaffutoil quale alla sua volta correva dietro ad un grossocane nero - un bel caneche nuotava meglio di mee chementrefacevo il mio bagno in alto mareera venuto a salutarmi con moltagrazia. La signora vestiva di seta colore perlinocol cappello alarghe tese della medesima stoffa; e mi ricordo che il tono neutro echiarissimo facevacome dicono i pittoriun buco sul cieloparevacioè più lontano del fondo. Ma da questo errore ditavolozza veniva nella gentile persona un non so che di aereoun nonso che di ammaliante. Non era una donna: era una fata. E il puttocontinuava a scapparle via ad ogni momentoe voleva vedere tuttotoccare tutto; sghignazzava di un riso da angiolettopestava i piedie batteva le mani; si metteva a sedere sulle ginocchia della genteela mamma andava allora a pigliarlodicendogli qualche parola con unaseverità tutta soavee carezzandogli con la mano sottile ilunghi ricci d'oro. Ella era la regina del terrazzo: una reginadolcesicura di sécom'è sicura l'innocenzaedisinvoltacom'è disinvolto il pudore. Codesta madre parevail simbolo della verginità: credetti in quel momento almistero della Immacolata Concezione. Ma la soave creatura principescastava in compagnia di un signoreche sembrava vecchio se si badavaa' suoi capelli grigi e alla sua barba mezza biancama che sembravagiovine se si guardava ai lineamenti e all'espressione del volto. Erail padreera il marito? Questo problema mi torturò ilcervello per una buona mezz'ora.

Piùlontanisparsi a gruppi di duedi tredi quattro o solitariistavano degli altri forestieri e qualche raro venezianola piùparte immobiliascoltando la musicaguardando in giro o discorrendosotto voce senza gesticolare. Il mare tranquillo innamora e sgomenta.Quei fluttiche si frangono perennemente alla riva e mandano semprel'identico suono; quell'aria quieta e frescache si aspira con lungavoluttà; quell'orizzonte sconfinatoche pare nello stessotempo una linea retta infinita ed un cerchio infinito: tuttocontribuisce a produrre l'impressione maestosa di un tempio enormein cui ci si toglie reverenti il cappello e ci si sprofonda nellapropria coscienza. Non ho mai visto nessunoper quanto fosse poverodi fantasiad'ingegno e di cuoreil quale nel mettere i piedi sullasoglia di una cattedrale bisantina o gotica non si sentisse invaso daun arcano senso di rispettoe non interrompesse le parole che stavapronunciando; ma la vera chiesa di Dio è l'immensità.Lo stato naturale dell'uomo in faccia al mare è il silenzio.

Queigruppi di persone staccavano bizzarramente sul campo del cieloilquale diventava sempre più fosco: erano tinte intieresenzaombreggiaturache non trovavano nel tono del fondo nessuna manieradi fusione; e già i colori perdevano la loro vivacitànell'oscurarsi crescente della seramentre il contorno sidistingueva tuttavia preciso e un po' secco. A destra si muoveva unamacchia nera di camerierii qualinon sapendo che cosa farediscorrevano tra loro. Io intantoassottigliando quanto piùpotevo la vistafissavo ancora quelle due vele lontanele qualidafiammeggianti che erano quando il sole mandava loro gli ultimi suoiraggidiventarono grigiee poi via via più scurefinchési dipinsero nere sull'aria già lugubree a poco a poco misfuggivano dallo sguardo. Già si riducevano ad una pennellataquasi impercettibile. Un minuto dopo non si discernevano più.Mi rincrebbe. In ogni veduta v'è un puntoal quale l'occhiosi ferma con tenace predilezione; e quando sparisce ci si sente comestrappare qualcosae si piglia quel caso semplice e inevitabile perun segno di cattivo augurio. In faccia al mare l'animo si riempie dipregiudizii.

Icamerieri accendevano le lampade. Il cielo si era lentamenteannuvolato: non brillava neanche una fetta di lunanon luccicavaneanche una stella. L'aria e il mare si confondevano nel buio. Solo aguardare giù dal parapetto del terrazzo si scopriva aintervalli un po' del bianco della spuma sulle ondele qualimandavano più fortepiù frequente e quasi minacciosoil loro muggito.


Usciidallo Stabilimento etraversando a piedi il breve spazio che divideil mare dalla lagunasospirai per la prima volta: avrei volutosentire sul mio braccio il peso leggiero di un altro braccioe udireaccantodopo il fruscìo del marequello di un vestito didonna. Il vaporetto mandò il suo fischioe si partìper Venezia. La notte era nerala laguna era cupa. Non si vedevaaltro che il fanale rosso di un piccolo vaporeche venivasbuffandoincontro a noie lontano i lumi della cittàcheparevano una costellazione piombata in terra e mezzo spenta. Si passòla punta del Giardinopoi si costeggiò la Riva degliSchiavoni. Il campanile di San Marco usciva dai palazzi che locircondavano eilluminato dai fanali della Piazzasi alzavagigantesfumandosi nella oscurità verso la cima e cacciandola sua punta nelle tenebre delle nubi.

Laluce della Piazza mi abbagliò. I musaici della chiesa avevanosull'orlo delle strisce scintillanti. Le finestre spalancate delleProcuratie Vecchie lasciavano vedere le allegre sale illuminate. Laloggia del Palazzo Ducale si perdeva in un'ombra opaca. Mezz'oradopola mia madonnina inglesesorridentesveltacorreva dietro alsuo putto biondo fra le seggiole del Caffè Florian.