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Stendhal

Cronache romane

2

VANINA VANINI

Ovvero

Particolari sull'ultima vendita

di carbonari scoperta

negli Stati del Papa

Era una sera della primavera del 182... Tutta Roma era in fermento: il ducadi B***il noto banchieredava un

ballo nel suo nuovo palazzo di Piazza Venezia. Tutto quello che le artid'Italia e il lusso di Parigi e Londra possono

offrire di più splendido era stato riunito per rendere magnifico quelpalazzo. L'affluenza di persone era enorme. Le

bionde e riservate bellezze della nobile Inghilterra si erano date da fareper avere l'onore di partecipare al balloed ora

stavano arrivando a frotte. Le più belle donne di Roma contendevano loro lapalma della bellezza. Una ragazza

senz'altro romana per gli occhi ardenti e i capelli d'ebanoentròaccompagnata dal padreseguita dagli sguardi di tutti.

Una singolare fierezza traspariva da ogni suo movimento.

Gli stranieri che entravano rimanevano visibilmente colpiti dallamagnificenza di quel ballo. «Nessuna festa di

nessun re d'Europa» dicevano«può reggere il confronto con questa.»

I re non hanno un palazzo in stile romano e sono costretti a invitare le grandame della corte; il duca di B***

invece invita solo le belle donne. Quella sera era stato particolarmentefelice nei suoi invitie gli uomini sembravano

abbagliati. Tra tante donne notevolisorse il problema di decidere qualefosse la più bella: per un po' la scelta rimase

incerta; ma alla fine fu proclamata regina del ballo la principessa VaninaVaninila ragazza dai capelli neri e dagli occhi

di fuoco. Subito gli stranieri e i giovani romaniabbandonando le altresalesi affollarono in quella dove lei si trovava.

Suo padreil principe Asdrubale Vaniniaveva voluto che prima danzasse condue o tre sovrani tedeschi. Poi

lei accettò gli inviti di alcuni inglesi molto belli e molto nobili; ma illoro contegno compassato la annoiò.

Sembrò che si divertisse di più a tormentare il giovane Livio Savellichepareva proprio innamorato. Era il

giovane più brillante di Romae per di più anche lui era un principe; mase gli avessero dato un romanzo da leggere

dopo venti pagine lo avrebbe gettato via dicendo che gli faceva venire il maldi testa. Agli occhi di Vaninaquesto era

un grave difetto.

Verso la mezzanotte si diffuse per le sale una notizia che fece moltaimpressione. Un giovane carbonaro

prigioniero nel forte di Sant'Angelo era fuggito quella sera stessagrazie aun travestimento eper un eccesso di audacia

romanzescagiunto all'ultimo corpo di guardia del carcerecon un pugnaleaveva attaccato i soldati; a sua volta era stato

feritogli sbirri gli stavano dando la caccia per le strade seguendo letracce del suo sanguee si sperava di riprenderlo.

Mentre raccontavano l'episodiodon Livio Savelliconquistato dalla grazia edal successo di Vaninacon cui

aveva appena ballatoriaccompagnandola al suo posto le dissequasi folled'amore:

«Madi graziachi dunque potrà mai piacervi?»

«Quel giovane carbonaro che è appena evaso» gli rispose Vanina; «almenoha fatto qualcosa di più che darsi

la pena di venire al mondo.»

Il principe don Asdrubale si avvicinò alla figlia. È un uomo ricchissimoche da vent'anni non fa i conti con il

suo intendenteche gli va prestando le sue stesse rendite a un interessemolto alto. Se lo incontrate per la stradapotrete

prenderlo per un vecchio attore; non vi accorgerete che le sue mani sonocariche di cinque o sei anelli enormicon

diamanti giganteschi.

I suoi due figli si sono fatti gesuitie poi sono morti pazzi. Li hadimenticati; ma lo infastidisce che la sua unica

figliaVaninanon voglia sposarsi. Ha già diciannove annied ha rifiutatoi migliori partiti.

Per quale ragione? La stessa per cui Silla abdicò: il suo disprezzo per iRomani.

Il giorno dopo quel balloVanina notò che suo padrel'uomo più distrattodel mondo e che in vita sua non si

era mai preoccupato di prendere con sé una chiavecon molta attenzionechiudeva la porta di una scaletta che portava

ad un appartamento al terzo piano del palazzo. Alcune finestredell'appartamento davano su una terrazza adorna di

piante d'arancio. Vanina andò a fare qualche visita in città; al suoritornola vettura rientrò attraverso un cortile del

retroperché il portone del palazzo era ingombro per i preparativi di unaluminaria. Vanina alzò gli occhie con stupore

vide che una delle finestre dell'appartamento che suo padre aveva chiuso contanta cura era aperta.

Si liberò della dama di compagniasalì nelle soffitte del palazzo efinalmente riuscì a trovare una piccola

finestra a grata che dava sulla terrazza degli aranci.

La finestra aperta che aveva notato era a due passi da lei. Senza dubbioquella camera era abitata; ma da chi?

Il giorno dopoVanina riuscì a procurarsi la chiave di una porticina chedava sulla terrazza degli aranci.

Piano piano si avvicinò alla finestra che era ancora aperta. Si nascosedietro una persiana. In fondo alla stanza

c'era un lettoe nel letto c'era qualcuno. Il suo primo impulso fu diritrarsi; ma scorse un abito femminile gettato su una

sedia. Guardando meglio la persona distesa sul lettovide che era biondaemolto giovane. Non dubitò più che fosse

una donna. Il vestito sulla sedia era insanguinato; c'era sangue anche sullescarpe da donna appoggiate su un tavolo. La

sconosciuta fece un movimento; Vanina vide che era ferita. Un grande pannomacchiato di sangue le fasciava il petto

legato solo da nastried era chiaro che quella fasciatura non era opera diun chirurgo. Vanina notò che ogni giorno

verso le quattrosuo padre si chiudeva nel proprio appartamentoe poiandava dalla sconosciuta; ridiscendeva ben3

prestoe saliva in carrozza per andare dalla contessa Vitelleschi. Appenaera uscitoVanina saliva sulla piccola terrazza

da dove poteva scorgere la sconosciuta. La sua sensibilità era eccitata edattratta da quella giovane donna così

sfortunata; cercava di indovinarne la vicenda. Il vestito insanguinato sullasedia sembrava lacerato da colpi di pugnale.

Vanina poteva contarne gli strappi. Un giorno vide la sconosciuta piùdistintamente; i suoi occhi azzurri erano fissi al

cielo; sembrava che stesse pregando. Quei begli occhi si riempirono presto dilacrime; la giovane principessa dovette

fare uno sforzo su se stessa per non parlarle. Il giorno dopo Vanina osònascondersi sulla terrazza prima che arrivasse

suo padre. Vide don Asdrubale che entrava dalla sconosciuta: portava unpiccolo paniere con delle provviste.

Il principe sembrava inquieto e quasi non parlò. Parlava così piano cheVanina non riuscì a sentire le sue

parolesebbene la porta-finestra fosse aperta. Se ne andò quasi subito.«Questa povera donna deve avere dei nemici

terribili» pensò Vanina«se mio padredi solito così disattentononosa confidarsi con nessuno e si preoccupa di salire

ogni giorno centoventi scalini.»

Una seramentre Vanina sporgeva pian piano la testa verso la finestra dellasconosciutaincontrò i suoi occhi

e fu così scoperta. Vanina si gettò in ginocchio ed esclamò:

«Vi voglio benevi sono amica.»

La sconosciuta le fece cenno di entrare.

«Vi devo delle scuse» esclamò Vanina«la mia stupida curiosità vi hacerto offeso! Vi giuro che manterrò il

segretoese lo vorretenon tornerò mai più.»

«E chi potrebbe non essere felice di vedervi?» disse la sconosciuta.«Abitate in questo palazzo?»

«Certo» rispose Vanina. «Ma vedo che non mi conoscete: sono Vaninafiglia di don Asdrubale.»

La sconosciuta la guardò stupitaarrossìe aggiunse:

«Degnatevi di farmi sperare che tornerete ogni giorno; ma preferirei che ilprincipe non sapesse delle vostre

visite.»

Il cuore di Vanina batteva forte; i modi della sconosciuta le sembravanomolto distinti. Questa povera giovane

aveva certo offeso qualche potente; forse in un momento di gelosia avevaucciso l'amante? Vanina non riusciva a

trovare una causa volgare alla sua disgrazia. La sconosciuta le disse che erastata ferita alla spalla da un colpo di

pugnale penetrato fino al pettoche la faceva soffrire molto. Spesso sitrovava la bocca piena di sangue.

«E non avete un chirurgo!» esclamò Vanina.

«Sapete bene che a Roma» disse la sconosciuta«i chirurghi sonocostretti a fare alla polizia un rapporto esatto

su tutte le ferite che curano. Il principe stesso si degna di fasciarmi leferite con questa benda.»

Con una grazia perfetta la sconosciuta evitava di commuoversi per la propriadisgrazia; Vanina la amava alla

follia. Una cosa tuttavia stupì molto la giovane principessae cioè chedurante una conversazione tanto seria la

sconosciuta trattenesse a fatica un'improvvisa voglia di ridere.

«Sarei felice» le disse Vanina«di conoscere il vostro nome. »

«Mi chiamo Clementina.»

«Ebbenecara Clementinatornerò a trovarvi domani alle cinque. »

L'indomani Vanina trovò la sua nuova amica che stava molto male.

«Vado a chiamare un chirurgo» disse Vanina abbracciandola.

«Preferirei morire» disse la sconosciuta. «Come potrei compromettere imiei benefattori?»

«Il chirurgo di monsignor Savelli-Catanzarail governatore di Romaèfiglio di un nostro domestico» insisté

Vanina; «ci è fedele e per la sua posizione non teme nessuno. Mio padre nontiene conto della sua fedeltà; vado a farlo

chiamare.»

«Non voglio nessun chirurgo» gridò la sconosciuta con una vivacità chestupì Vanina. «Venite a trovarmie se

Dio deve chiamarmi a sé morirò felice tra le vostre braccia.»

Il giorno dopo la sconosciuta stava ancora peggio.

«Se mi volete bene» disse Vanina lasciandola«accettate un chirurgo.»

«Se vienela mia felicità svanisce.»

«Vado a farlo chiamare» ribatté Vanina.

Senza dire nientela sconosciuta la trattennee le prese la mano che coprìdi baci. Seguì un lungo silenziola

sconosciuta aveva le lacrime agli occhi. Poi lasciò la mano di Vaninae conl'aria di chi sta per morire le disse:

«Devo farvi una confessione. L'altro ieri ho mentito quando ho detto che michiamavo Clementina; sono uno

sventurato carbonaro...»

Vaninastupitaspinse indietro la sedia e si alzò.

«Sento» continuò il carbonaro«che questa confessione mi farà perdereil solo bene che mi tiene attaccato alla

vitama ingannarvi è indegno di me. Mi chiamo Pietro Missirillihodiciannove anni; mio padre è un povero chirurgo di

Sant'Angelo in Vadoe io sono carbonaro. Hanno scoperto la nostra vendita;in catenedalla Romagna sono stato

portato a Roma. Sepolto in una segreta illuminata giorno e notte da unalampadavi ho passato tredici mesi. Un'anima

caritatevole ha avuto l'idea di salvarmi. Mi hanno vestito da donna. Mentrestavo uscendo dalla prigione e passavo

davanti alle guardie dell'ultimo portoneuna di loro ha insultato icarbonarie io gli ho dato uno schiaffo. Vi assicuro

che non è stata una vana bravatama solo un gesto impulsivo. Inseguitonella notte per le strade di Romadopo questa

imprudenzaferito da colpi di baionettaormai quasi privo di forzesalgoin una casa la cui porta era aperta; sento i

soldati dietro di mesalto in un giardino; cado a pochi passi da una donnache stava passeggiando.»

«La contessa Vitelleschi! l'amica di mio padre» disse Vanina.4

«Come! Lei ve lo ha detto?» esclamò Missirilli. «Comunque siaquestasignorail cui nome non deve essere

mai pronunciatomi salvò la vita. Mentre i soldati entravano in casa suaper prendermivostro padre mi faceva uscire

nella sua carrozza. Mi sento molto male. Da qualche giorno questo colpo dibaionetta alla spalla mi impedisce di

respirare. Sto per moriree disperatoperché non vi vedrò più.»

Vanina aveva ascoltato con impazienzauscì rapidamente: Missirilli nonscorse nessuna pietà in quegli occhi

così bellima solo l'espressione di un carattere altero che era statoferito.

Nella notte giunse un chirurgo; era soloMissirilli si sentiva disperato;temeva di non rivedere più Vanina.

Fece qualche domanda al chirurgoche lo curò senza rispondere. Lo stessosilenzio nei giorni seguenti. Gli

occhi di Pietro non lasciavano la finestra della terrazza da cui Vanina erasolita entrare; si sentiva molto infelice. Una

voltaverso mezzanottegli sembrò di scorgere qualcuno nell'ombra dellaterrazza: era Vanina?

Ogni notte Vanina andava ad appoggiare la guancia contro i vetri dellafinestra del giovane carbonaro.

«Se gli parlo» si diceva«sono perduta! nonon devo rivederlo maipiù!»

Presa questa decisionericordava suo malgrado l'affetto per quel giovanequando così stupidamente lo credeva

una donna. Dopo un'intimità così dolcebisognava dunque dimenticarlo! Neisuoi momenti più ragionevoliVanina era

spaventata dal cambiamento delle proprie idee. Da quando Missirilli si erarivelatotutte le cose cui aveva l'abitudine di

pensare si erano come ricoperte di un velo ed apparivano solo in lontananza.

Una settimana non era ancora passata che Vaninapallida e tremanteentrònella stanza del giovane carbonaro

insieme con il chirurgo. Veniva a dirgli che era opportuno convincere ilprincipe a farsi sostituire da un domestico.

Rimase pochi secondi; ma qualche giorno dopo tornò ancora con il chirurgoper umanità. Una serabenché Missirilli

stesse molto meglio e Vanina non avesse più da temere per la sua vitaosòandarci sola. VedendolaMissirilli si sentì al

colmo della felicitàma si preoccupò di nascondere il proprio amore; primadi tuttonon voleva venire meno alla dignità

che si conviene a un uomo. Vaninache era entrata da lui con il voltocoperto di rossoree temendo dichiarazioni

d'amorerimase sconcertata dal tono di amicizia nobile e devotama assaipoco teneracon cui lui la accolse. Se ne andò

senza che egli cercasse di trattenerla.

Qualche giorno dopoquando ritornòstesso comportamentostesseassicurazioni di devozione rispettosa e di

riconoscenza eterna. Non dovendosi più preoccupare di porre un freno aitrasporti del giovane carbonaroVanina si

chiese se non fosse lei sola ad amarlo. Questa ragazzafino ad allora cosìsuperbasentì con amarezza tutta la forza

della propria follia. Ostentò allegria ed anche freddezzadiradò le suevisitema non riuscì a non vedere del tutto il

giovane malato.

Missirilliardendo d'amore ma pensando alla propria nascita oscura e allapropria dignitàsi era ripromesso di

evitare di parlare d'amorea meno che Vanina non rimanesse otto giorni senzavederlo. L'orgoglio della giovane

principessa lottò palmo a palmo.

«Ebbene!» si disse infine«se lo vedo è per meper il mio piacereemai gli confesserò il sentimento che mi

ispira.» Faceva lunghe visite a Missirilliche le parlava come in presenzadi venti persone. Una seradopo aver passato

la giornata a detestarlo ed a ripromettersi di essere con lui ancora piùfredda e severa del solitoVanina gli disse che lo

amava. Presto non ebbe più nulla da rifiutargli.

Se la sua follia fu grandebisogna però riconoscere che Vanina si sentìimmensamente felice. Missirilli non

pensò più a ciò che credeva di dovere alla propria dignità di uomo; amòcome si ama per la prima volta a diciannove

anni e in Italia. Provò tutti gli scrupoli dell'amore-passionefino aconfessare alla giovane principessa così fiera la

tattica che aveva impiegato per farsi amare. Era stupito della propriaimmensa felicità. Quattro mesi passarono molto in

fretta. Un giornoil chirurgo restituì la libertà al suo malato. «Eadesso cosa faccio?» pensò Missirilli; «restare nascosto

nella casa di una delle più belle ragazze di Roma? E i vili tiranni che mihanno tenuto in prigione per tredici mesi senza

lasciarmi vedere la luce del giorno crederanno di avermi piegato! O Italiasei davvero sventurata se i tuoi figli ti

abbandonano per così poco!»

Vanina non dubitava che la più grande fortuna di Pietro fosse di starlesempre accanto; lo vedeva troppo felice;

ma una frase del generale Bonaparte risuonava amaramente nell'animo delgiovanee influiva su tutta la sua condotta

nei confronti delle donne. Nel 1796mentre il generale Bonaparte stavalasciando Bresciale autorità municipali che lo

accompagnavano alla porta della città gli dissero che i bresciani amavano lalibertà più di tutti gli altri italiani.

«Sì» rispose lui«amano parlarne alle loro amanti.»

Assai imbarazzatoMissirilli disse a Vanina:

«Appena sarà nottedovrò uscire.»

«Cerca di rientrare nel palazzo prima dell'alba; ti aspetterò.»

«All'alba sarò a molte miglia da Roma.»

«Benissimo» disse Vanina con freddezza«e dove andrai?»

«In Romagnaa vendicarmi.»

«Poiché sono ricca» continuò Vanina con estrema calma«spero cheaccetterai da me armi e denaro.»

Missirilli la guardò per qualche istante senza battere ciglio poigettandosi nelle sue braccia:

«Anima della mia vita» le disse« mi farai dimenticare tuttoanche ilmio dovere. Ma più il tuo animo è nobile

e più devi capirmi.»

Vanina pianse moltoe rimasero d'accordo che lui avrebbe lasciato Roma solodue giorni dopo5

«Pietro» gli disse l'indomani«mi hai detto spesso che un uomo moltonotoun principe romano per esempio

che potesse disporre di molto denarosarebbe in grado di rendere i piùgrandi servigi alla causa della libertàqualora

l'Austria si trovasse impegnata lontano da noiin qualche grande guerra. »

«Certamente» disse Pietrostupito.

«Bene! sei un uomo coraggioso; ti manca soltanto un'alta posizione; ti offrola mia mano e duecentomila lire di

rendita. Ci penso io ad ottenere il consenso di mio padre.»

Pietro si gettò ai suoi piedi; Vanina era raggiante di gioia.

«Ti amo appassionatamente» le disse«ma io sono un povero servitoredella mia patria; e più l'Italia è

sventuratapiù devo rimanerle fedele. Per ottenere il consenso di donAsdrubaledovrei recitare per molti anni una

commedia vergognosa. Non posso accettareVanina.»

Missirilli si affrettò ad impegnarsi con queste parole. Il coraggio glistava venendo meno.

«La mia sventura» esclamò«è che ti amo più della vitae per melasciare Roma è il peggiore dei supplizi. Ah!

Perché l'Italia non è libera dai barbari! Con quale gioia mi imbarchereicon te per andare a vivere in America.»

Vanina era raggelata. Il rifiuto della sua mano aveva sorpreso il suoorgoglio; ma presto si gettò nelle braccia

di Missirilli.

«Non mi sei mai piaciuto tanto» esclamò. «Sìmio piccolo chirurgo dicampagnasarò tua per sempre. Sei un

grande uomocome i nostri antichi Romani.»

Tutte le preoccupazioni per il futurotutti i tristi suggerimenti del buonsenso scomparvero; fu un momento di

amore perfetto. Quando furono in condizione di ragionare:

«Sarò in Romagna subito dopo di te» disse Vanina. «Mi farò prescriverei bagni della Porretta. Mi fermerò nel

castello che abbiamo a San Nicolòvicino a Forlì...»

«Lì passerò la vita con te!» esclamò Missirilli.

«Il mio destino ormai è osare tutto» rispose Vanina con un sospiro. «Miperderò per tema non importa... Ma

tupotrai amare una donna disonorata?»

«Non sei forse la mia donna?» disse Missirilli«una donna adorata persempre? Saprò amarti e proteggerti.»

Bisognava che Vanina si mostrasse in società. Si erano appena lasciati cheMissirilli cominciò a trovare

barbara la propria condotta. «Che cosa è poi la patria?» si diceva.«Non è una creatura cui dobbiamo riconoscenza per

qualche beneficioe che diventa infelice e può maledirci se manchiamo inqualcosa. La patria e la libertàsono come il

mio mantello; sono qualcosa che mi è utileche devo acquistareè verosenon l'ho avuta in eredità da mio padre; ma

in fin dei contiamo la patria e la libertà perché mi sono utili. Se nonmi servonose per me diventano come un mantello

in agosto perché comprarlee ad un prezzo così alto? Vanina è cosìbella! ha un carattere talmente singolare!

Cercheranno di piacerlee lei mi dimenticherà. Quale donna ha avuto un soloamante? Questi principi romaniche come

cittadini disprezzohanno tali vantaggi su di me! Devono essere cosìamabili! E certo che se parto lei mi dimenticheràe

la perderò per sempre. »

Vanina venne a trovarlo in piena nottelui le parlò dell'incertezza in cuiera sprofondato e la discussione alla

qualeper amor suoaveva sottoposto quella grande parola patria.Vanina era felice. «Se fosse costretto a scegliere tra

la patria e me» si diceva«io sarei la preferita.»

L'orologio della chiesa vicina suonò le treera il momento degli ultimiaddii. Pietro si sciolse dalle braccia

della sua amica. Stava già scendendo la scaletta quando Vaninatrattenendole lacrimegli disse sorridendo:

«Se fossi stato curato da una povera donna di campagnanon faresti nienteper ricompensarla? Non cercheresti

di pagarla? Il futuro è incertostai per andare tra i tuoi nemici:concedimi tre giorni per riconoscenzacome se fossi una

povera donnaper pagare le mie cure.»

Missirilli rimase. Finalmente lasciò Roma. Grazie ad un passaporto compratopresso un'ambasciata straniera

raggiunse la sua famiglia. Fu una grande gioia: lo credevano morto. I suoiamici vollero celebrare il suo ritorno

ammazzando uno o due carabinieri (è il nome dei gendarmi negli Stati delPapa).

«Non dobbiamo uccideresenza che sia necessarioun italiano che sa usarele armi» disse Missirilli«la nostra

patria non è un'isola come la felice Inghilterra: ci mancano soldatiperresistere all'intervento dei re d'Europa.»

Qualche tempo dopoMissirillimesso alle strette dai carabinierine uccisedue con le pistole che Vanina gli

aveva dato. Sulla sua testa fu posta una taglia.

Vanina non si vedeva ancora in Romagna: Missirilli si credette dimenticato.Il suo orgoglio ne fu ferito:

cominciava a pensare molto alla differenza di condizione sociale che loseparava dalla sua amante. In un momento di

tenerezza e di rimpianto per la felicità passatapensò di tornare a Romaper vedere cosa stava facendo Vanina. Questa

folle idea stava per sottrarlo a quello che considerava il proprio doverequando una sera la campana di una chiesa della

montagna suonò l'Angelus in modo stranocome se il campanaro fossedistratto.

Era un segnale di riunione per la vendita carbonara a cui Missirillisi era affiliato appena arrivato in Romagna.

Quella notte si ritrovarono tutti presso un eremo nella foresta. I dueeremitiaddormentati con l'oppionon si accorsero

affatto dell'uso che si faceva della loro piccola dimora. Missirilliche viera arrivato tristissimoseppe che il capo della

vendita era stato arrestato e che luigiovane di appena vent'annistavaper essere eletto capo di una vendita che

comprendeva uomini di più di cinquant'anni e che erano nelle cospirazionidalla spedizione di Murat del 1815.

Ricevendo questo onore insperatoPietro si sentì battere il cuore.

Appena fu solodecise di non pensare più alla giovane romana che l'avevadimenticatoe di consacrare ogni

suo pensiero al dovere di liberare l'Italia dai barbari..6

Due giorni dopoMissirilli vide sul rapporto degli arrivi e delle partenzeche gli procuravano in quanto capo

della venditache la principessa Vanina era arrivata nel suo castellodi San Nicolò. La lettura di quel nome lo turbòpiù

che rallegrarlo. Invano pensò di garantire la propria fedeltà alla patriaimpegnandosi a non volare quella sera stessa al

castello di San Nicolò: il timore di trascurare Vanina gli impedì dicompiere con calma i suoi doveri.

La vide il giorno dopo; lo amava come a Roma. Suo padreche voleva che sisposasseaveva ritardato la sua

partenza.

Portava con sé 2000 zecchini. Questo aiuto imprevisto servìmeravigliosamente ad accrescere il credito di

Missirilli nella sua nuova carica. Si ordinarono dei pugnali a Corfù; fucomprato il segretario privato del legatoche

aveva il compito di perseguitare i carbonari. Fu ottenuta anche la lista deiparroci che facevano la spia per il governo.

In quel periodo fu organizzata una delle cospirazioni meno folli che maisiano state tentate nella sventurata

Italia. Non entrerò qui in particolari che sarebbero fuori luogo. Milimiterò a dire che se il successo avesse coronato

l'impresaMissirilli avrebbe potuto rivendicare buona parte della gloria.Grazie a luiparecchie migliaia di insorti si

sarebbero mossi ad un segnale convenutoin armi avrebbero atteso l'arrivodei capi superiori. Il momento decisivo si

stava avvicinando quandocome sempre accadela cospirazione fu paralizzatadall'arresto dei capi.

Appena giunta in RomagnaVanina credette di capire che l'amor di patriaavrebbe fatto dimenticare al suo

amante ogni altro amore. L'orgoglio della giovane romana ne rimase ferito.Tentò invano di farsene una ragione; cadde

in preda a un cupo dolore; si sorprese a maledire la libertà.

Un giorno che era venuta a Forlì per incontrare Missirillinon riuscì adominare il proprio doloreche fino ad

allora era stato controllato dal suo orgoglio.

«Mi ami come un marito» gli disse«questo non fa per me.»

E si mise a piangere; ma era per la vergogna di essersi abbassata a dellerecriminazioni. Missirilli rispose alle

sue lacrime col contegno di un uomo preoccupato. Di colpo Vanina pensò dilasciarlo e di tornare a Roma. Provò una

gioia crudele nel punirsi della debolezza che l'aveva spinta a parlare. Dopoqualche istante di silenziola sua decisione

fu presa; si sarebbe ritenuta indegna di Missirilli se non lo avesselasciato. Già godeva della dolorosa sorpresa di lui

quando l'avrebbe cercata invano accanto a sé. Poi l'idea di non essereriuscita ad ottenere l'amore dell'uomo per il quale

aveva fatto tante folliela intenerì profondamente. Allora ruppe ilsilenzioe fece di tutto per strappargli una parola

d'amore. Lui le disse con tono distratto delle parole molto tenerema fu conun tono ben diversamente profondo che

parlando dei suoi progetti politiciesclamò con dolore:

«Ah! se l'impresa falliscese il governo la scopre ancora una voltaioabbandono la partita.»

Vanina rimase immobile. Da un'ora sentiva che stava vedendo il suo amante perl'ultima volta. La frase che lui

aveva appena dettogettò una luce sinistra nel suo animo. Si disse: «Icarbonari hanno ricevuto da me molte migliaia di

zecchini. È impossibile dubitare della mia fedeltà alla cospirazione.»

Vanina uscì dai propri pensieri solo per dire a Pietro: «Vuoi venire apassare ventiquattr'ore con me nel castello

di San Nicolò? La vostra riunione di stasera non ha bisogno della tuapresenza. Domattinaa San Nicolòpotremo fare

una passeggiata; ciò ti calmerà e ti restituirà tutto il sangue freddo dicui hai bisogno in questa importante circostanza.»

Pietro acconsentì.

Vanina lo lasciò per i preparativi del viaggiochiudendo a chiavecome diconsuetola cameretta dove l'aveva

nascosto.

Corse da una delle sue cameriereche l'aveva lasciata per sposarsi e avviareun piccolo commercio a Forlì.

Giunta nella casa di questa donnain fretta scrisse sul margine di un librodi preghieretrovato nella camera

l'indicazione esatta del luogo dove quella notte stessa si sarebbe riunita lavendita dei carbonari. Concluse la sua

denuncia con queste parole: «La vendita è composta di diciannovemembri; ecco i nomi e gli indirizzi.» Scritta la lista

esatta tranne che vi era omesso il nome di Missirillidisse alla donnadicui si fidava:

«Porta questo libro al cardinale legato; che legga quanto c'è scrittoe telo restituisca. Eccoti dieci zecchinise

il legato fa il tuo nomela tua morte è certa; ma tu mi salvi la vitasegli fai leggere la pagina che ho scritto.»

Tutto andò meravigliosamente bene. Il legatoper pauranon si comportò dagran signore. Permise alla

popolana che chiedeva di parlarglidi apparirgli davanti con il voltocopertoma a condizione che avesse le mani legate.

In questo stato la negoziante fu introdotta alla presenza del grandepersonaggioche trovò trincerato dietro un immenso

tavolo ricoperto di un tappeto verde.

Il legato lesse le pagine del libro di preghieretenendolo a debitadistanzaper paura di qualche sottile veleno.

Lo restituì alla negoziantee non la fece seguire. Meno di quaranta minutidopo aver lasciato il suo amanteVaninache

aveva visto tornare la sua ex camerierariapparve davanti a Missirilliconvinta che ormai sarebbe stato tutto per lei. Gli

disse che in città c'era un movimento eccezionalesi vedevano pattuglie dicarabinieri in strade dove non andavano mai.

«Credimi» aggiunse«ci conviene partire subito per San Nicolò. »

Missirilli acconsentì. A piedi raggiunsero la carrozza della giovaneprincipessa checon la sua dama di

compagniaconfidente discreta e ben pagatala stava aspettando a mezza legadalla città.

Giunta al castello di San NicoloVaninainquieta per la propria condottadivenne ancora più tenera con il suo

amante. Ma mentre gli parlava d'amorele sembrava di recitare una commedia.Nel momento del tradimento non aveva

pensato al rimorso. Stringendo il suo amante tra le bracciasi diceva:«C'è una parola che potrebbero dirglie se questa

parola venisse pronunciata lui avrebbe orrore di mesubito e per sempre.»

In piena notteuno dei domestici di Vanina entrò all'improvviso nellacamera. Quest'uomosenza che lei lo

sapesseera un carbonaro. Missirilli aveva dunque dei segreti per leianchesu cose di così poco conto. Vanina fremé.7

L'uomo veniva ad avvertire Missirilli che durante la nottea Forlìle casedi diciannove carbonari erano state

circondatee loro stessi arrestati mentre ritornavano dalla vendita.Nonostante fossero stati colti di sorpresanove erano

fuggiti. I carabinieri avevano potuto condurne dieci nella prigione dellacittadella. Mentre vi stavano entrandouno di

loro si era gettato nel pozzocosì profondoe si era ucciso.

Vanina ne fu sconvolta; per fortuna Pietro non se ne accorse: avrebbe potutoleggerle il crimine negli occhi.

«...In questo momento» aggiunse il domestico«la guarnigione di Forlìè disposta in fila lungo tutte le strade. I

soldati sono così vicini l'uno all'altro da potersi parlare. Gli abitantipossono attraversare la strada solo dove c'è un

ufficiale. »

Uscito l'uomoPietro rimase pensieroso per un attimo:

«Per il momento non c'è niente da fare» disse infine.

Vanina si sentiva morire; tremava sotto lo sguardo del suo amante.

«Ma cos'è che hai?» le disse luipoi pensò ad altroe smise diguardarla. Verso la metà del giorno seguentelei

si azzardò a dirgli:

«Ecco un'altra vendita scoperta; immagino che rimarrai tranquillo perun po'.»

«Molto tranquillo» rispose Missirilli con un sorriso che la fecefremere.

Vanina andò a fare una visita di dovere al curato del villaggio di SanNicolòche forse era una spia dei gesuiti.

Rientrando per cenaalle settetrovò deserta la stanzetta in cui il suoamante stava nascosto. Fuori di sécorse a cercarlo

per tutta la casanon c'era proprio.

Disperataritornò nella stanzettae solo allora vide un biglietto; lolesse:

«Vado a costituirmi al legato; non ho più speranza nella nostra causa; ilcielo è contro di noi. Chi ci ha traditi?

apparentemente quello sciagurato che si è gettato nel pozzo. Poiché la miavita non serve alla povera Italianon voglio

che i miei compagnivedendo che io solo non sono stato arrestatopossanocredere che li ho venduti. Addio; se mi ami

pensa a vendicarmi. Rovinaannienta l'infame che ci ha traditianche sefosse mio padre.»

Vanina cadde su una sediasemisvenuta e in preda ad un dolore immenso. Nonriusciva a pronunciar parola; i

suoi occhi erano asciutti e le bruciavano.

«Oh Dio!» esclamò«accogliete il mio voto; sìpunirò l'infame che hatradito; ma prima bisogna restituire la

libertà a Pietro.»

Un'ora dopoera in viaggio per Roma. Da molto temposuo padre insistevaperché tornasse. Durante la sua

assenzaaveva combinato il suo matrimonio con il principe Livio Savelli.Appena Vanina fu arrivataegli gliene parlò

con trepidazione. Con suo grande stuporelei acconsentì alla prima parola.La sera stessain casa della contessa

Vitelleschisuo padre le presentò quasi ufficialmente don Livio; lei parlòa lungo con lui. Era il giovane più elegante e

aveva i cavalli più belli; maanche se tutti dicevano che era di spiritovivaceil suo carattere era ritenuto talmente

leggero che non era minimamente sospettato dal governo. Vanina pensò chefacendogli perdere la testaavrebbe potuto

farne un utile agente. Dal momento che era nipote di MonsignorSavelli-Catanzaragovernatore di Roma e ministro

della poliziaVanina pensava che le spie non avrebbero osato seguirlo.

Dopo aver trattato molto beneper qualche giornol'amabile don LivioVanina gli annunciò che non avrebbe

mai potuto diventare il suo sposo; era troppo leggerosecondo lei.

«Se non foste un ragazzo» gli disse«gli agenti di vostro zio nonavrebbero segreti per voi. Per esempiocosa

si sta decidendo nei confronti dei carbonari scoperti ultimamente a Forlì?»

Due giorni dopodon Livio venne a dirle che tutti i carbonari catturati aForlì erano evasi. Vanina fissò su di lui

i suoi grandi occhi neri con un amaro sorriso carico di disprezzoe non lodegnò più di una parola per tutta la sera. Due

giorni dopodon Livio venne a confessarlearrossendoche la prima voltal'avevano ingannato.

«Ma» le disse«mi sono procurato una chiave dell'ufficio di mio zio; daidocumenti che vi ho trovatoho visto

che una congregazione (o commissione) composta dei cardinali e deiprelati più accreditati si riunisce nel più grande

segreto e delibera sul fatto se convenga processare questi carbonari aRavenna o a Roma. I nove carbonari presi a Forlì

e il loro capoun certo Missirilliche ha commesso la sciocchezza dicostituirsiin questo momento si trovano nel

castello di San Leo.»

Alla parola sciocchezzaVanina strinse con forza il braccio del principe.

«Anch'io» gli disse«voglio vedere i rapporti ufficiali ed entrare convoi nell'ufficio di vostro zio; avrete letto

male.»

A queste paroledon Livio rabbrividì; Vanina gli chiedeva una cosa quasiimpossibile; ma il carattere bizzarro

di quella ragazza raddoppiava il suo amore. Pochi giorni dopoVaninatravestita da uomocon una graziosa livrea di

casa Savellipoté trascorrere una mezz'ora tra le carte più segrete delministro della polizia. Provò un impulso di grande

gioia quando scoprì il rapporto giornaliero sull'imputato PietroMissirilli. Le tremavano le mani tenendo quella carta.

Rileggendo quel nome fu sul punto di sentirsi male. Uscita dal palazzo delgovernatore di RomaVanina permise a don

Livio di abbracciarla.

«Superate bene» gli disse«le prove a cui vi sottopongo.»

Dopo questa fraseil giovane principe avrebbe dato fuoco al Vaticano per farpiacere a Vanina. Quella sera

c'era un ballo all'ambasciata di Francia; lei danzò molto e quasi sempre conlui. Don Livio era ubriaco di felicità

bisognava impedirgli di pensare.8

«Mio padre qualche volta è strano» gli disse un giorno Vanina; «stamaniha licenziato due suoi domestici che

sono venuti a piangere da me. Uno mi ha chiesto di essere sistemato da vostrozio il governatore di Roma; l'altroche è

stato soldato d'artiglieria sotto i Francesivorrebbe essere impiegato aCastel San'Angelo.»

«Li prendo tutti e due al mio servizio» disse subito il principe.

«Vi ho forse chiesto questo?» replicò Vanina con fierezza. «Vi ripetotestualmente la preghiera di quei due

poveretti; devono ottenere ciò che hanno chiestoe nient'altro.»

Niente di più difficile. Monsignor Catanzara era tutt'altro che unuomo leggeroe in casa sua ammetteva solo

persone a lui ben note. Immersa in una vita apparentemente piena di piaceriVaninatormentata dai rimorsiera molto

infelice. La lentezza degli avvenimenti la uccideva. L'uomo d'affari di suopadre le aveva procurato del denaro. Doveva

fuggire dalla casa paterna e andare in Romagnaper tentare di far evadere ilsuo amante? Anche se quest'idea era

assurdastava per attuarlaquando il caso ebbe pietà di lei. Don Livio ledisse:

«I dieci carbonari della vendita Missirilli stanno per esseretrasferiti a Romae dopo la condanna verranno poi

giustiziati in Romagna. Ecco cosa ha ottenuto stasera mio zio dal Papa. Intutta Romanoi due soltanto conosciamo

questo segreto. Siete contenta?»

«State diventando un uomo» rispose Vanina«regalatemi il vostroritratto.»

Il giorno prima dell'arrivo di Missirilli a RomaVanina trovò un pretestoper andare a Civita Castellana. È nella

prigione di quella città che di solito vengono fatti sostareper la nottei carbonari trasferiti dalla Romagna a Roma. Il

mattinovide Missirilli mentre stava uscendo dalla prigione; era in catenesu una carretta; le sembrò molto pallidoma

per niente scoraggiato. Una vecchia gli gettò un mazzolino di viole;Missirilli sorriseringraziandola.

Vanina aveva visto il suo amante. I suoi pensieri ripresero vigore; un nuovocoraggio la animò. Da molto

tempo aveva fatto ottenere un buon avanzamento all'abate Carielemosinieredi Castel San'Angelodove il suo amante

sarebbe stato rinchiuso; aveva preso come confessore quel buon prete. A Romanon è cosa da nulla essere confessore di

una principessanipote del governatore.

Il processo contro i carbonari di Forlì non durò a lungo. Per vendicarsidel loro arrivo a Romache non aveva

saputo impedireil partito ultra ottenne che la commissione dei giudicifosse composta dei prelati più ambiziosi. La

commissione fu presieduta dal ministro della polizia.

La legge contro i carbonari è chiara: quelli di Forlì non potevano nutrirealcuna speranza; tuttavia difesero lo

stesso le loro vite con tutti i sotterfugi possibili. Non solo i loro giudicili condannarono a mortema molti proposero

supplizi atrocicome il taglio della manoecc. Il ministro della poliziala cui carriera era ormai assicurata (perché si

lascia quel posto solo per prendere il cappello cardinalizio)non avevaaffatto bisogno di mani mozzate: portando la

sentenza al Papafece commutare la pena di tutti i condannati in qualcheanno di carcere. Ad eccezione di Pietro

Missirilli. In questo giovane il ministro vedeva un fanatico pericolosoed'altra parte era già stato condannato a morte

per l'uccisione dei due carabinieri di cui abbiamo parlato. Vanina seppedella sentenza e della commutazione pochi

istanti dopo che il ministro era uscito dall'udienza con il Papa.

Il giorno dopoMonsignor Catanzara rientrò nel suo palazzo verso lamezzanottee non trovò il suo cameriere

privato; stupitoil ministro suonò più volte; finalmente apparve unvecchio domestico rimbecillito: spazientitoil

ministro decise di spogliarsi da solo.

Chiuse la porta a chiave; faceva molto caldo: prese il suo abito e lo gettòripiegato su una sedia. Lanciato con

troppa forzal'abito oltrepassò la sedia e andò a colpire la tenda dimussola della finestradisegnando la forma di un

uomo. Il ministro si precipitò verso il letto ed afferrò la pistola. Stavatornando verso la finestraquando un giovane in

livrea gli si avvicinò con la pistola in pugno. A quella vistail ministroprese la mira; stava per tirare. Il giovane gli

disse ridendo:

«ComeMonsignore! non riconoscete Vanina Vanini?»

«Che significa questo scherzo di cattivo gusto?» replicò il ministroinfuriato.

«Ragioniamo con calma» disse la ragazza. «Intanto la vostra pistola èscarica.»

Il ministrostupitoconstatò che era vero; quindi estrasse un pugnaledalla tasca del gilet.

Con un delizioso tono autoritarioVanina gli disse:

«SediamociMonsignore.»

E si sedette tranquillamente su un divano.

«Almeno siete sola?» disse il ministro.

«Assolutamente solave lo giuro!» esclamò Vanina.

Il ministro si preoccupò di verificarlo: fece il giro della stanza e guardòdappertutto; quindi si sedette su una

sedia a tre passi da Vanina.

«Quale interesse avrei» disse Vanina con tono dolce e tranquillo«adattentare alla vita di un uomo moderato

che probabilmente verrebbe sostituito da qualche uomo debole dalla testacaldacapace di perdere se stesso e gli altri?»

«Insommache cosa voletesignorina?» disse il ministro irritato. «Questascena non mi si addiceed è ora che

finisca.»

«Quello che sto per dire» riprese Vanina con alterigia e dimenticando dicolpo la sua cortesia«interessa voi

più che me. C'è chi vuole che il carbonaro Missirilli abbia salva la vita;se viene giustiziatonon gli sopravviverete di

una settimana. Non ho alcun interesse in questa storia; la follia di cui vilamentatel'ho fatta prima di tutto per

divertirmie poi per fare un piacere a una mia amica. Ho voluto» continuòVaninariprendendo il suo tono amabile9

«ho voluto rendere un servizio a un uomo d'ingegnoche presto sarà mio zioed è destinatosecondo ogni apparenzaa

portare molto in alto la fortuna della sua casata.»

Il ministro si rasserenò: la bellezza di Vanina contribuì senz'altro aquesto rapido cambiamento. Era ben nota a

Roma l'inclinazione di Monsignor Catanzara per le belle donne enel suotravestimento da valletto di casa Savellicon

le calze di seta aderentila giubba rossai calzoni azzurri gallonatid'argentoe la pistola in manoVanina era

incantevole.

«Mia cara futura nipote» disse il ministro quasi sorridendo«la vostraè una grande pazziae non sarà

l'ultima.»

«Spero che un personaggio tanto saggio» rispose Vanina«saprà mantenereil segretosoprattutto con don

Livio; e per impegnarvicaro ziose mi accordate la vita del protetto dellamia amicavi darò un bacio.»

Continuando la conversazione su questo tono leggermente scherzosocon cui ledame romane sanno trattare

anche gli affari più importantiVanina riuscì a dare a questo colloquioiniziato con la pistola in pugnoil tono di una

visita fatta dalla giovane principessa Savelli allo zio governatore di Roma.

Ben presto Monsignor Catanzarapur respingendo con alterigia l'idea di averceduto alla paurasi mise ad

esporre alla nipote tutte le difficoltà che avrebbe incontrato nel tentativodi salvare la vita di Missirilli. Mentre parlava

il ministro passeggiava per la stanza con Vanina; prese una caraffa dilimonata che era sul caminetto e ne riempì un

bicchiere di cristallo. Lo stava portando alle labbra quando Vanina loafferrò edopo averlo tenuto in mano per un po'

come per distrazione lo lasciò cadere nel giardino. Un attimo dopoilministro prese un cioccolatino da una bomboniera

Vanina glielo tolse di mano e gli disse sorridendo:

«Attentoqui tutto è avvelenato; volevano uccidervi. Io ho ottenuto lagrazia per il mio futuro zioper non

entrare a mani vuote nella famiglia Savelli.»

Monsignor Catanzaramolto stupitoringraziò la nipotee le dette grandisperanze per la vita di Missirilli.

«Il nostro accordo è concluso!» esclamò Vanina«e come provaecco laricompensa» disseabbracciandolo.

Il ministro accettò la ricompensa.

«Dovete saperemia cara Vanina» aggiunse«che io non amo il sangue.D'altra partesono ancora giovane

anche se a voi posso forse sembrare molto vecchioe può capitarmi di viverein un tempo in cui il sangue versato oggi

potrebbe costituire una colpa.»

Suonavano le due quando Monsignor Catanzara accompagnò Vanina alla porta delsuo giardino.

Due giorni dopoquando il ministro si presentò al Papaassai imbarazzatoper il passo che doveva fareSua

Santità gli disse:

«Prima di tuttodevo chiedervi una grazia. Tra quei carbonari di Forlìcen'è uno che è rimasto condannato a

morte; quest'idea mi impedisce di dormire: bisogna salvare quell'uomo.»

Il ministrovedendo il Papa già decisofece molte obiezionie solo allafine scrisse un decreto o motu proprio

che il Papa siglòcontrariamente alla consuetudine.

Vanina aveva pensato che probabilmente avrebbe ottenuto la grazia per il suoamantema che avrebbero

tentato di avvelenarlo. Fin dalla vigiliaMissirilli aveva ricevutodall'abate Cariil suo confessorealcuni pacchetti di

gallettecon la raccomandazione di non toccare il cibo passato dallo Stato.

Vaninaavendo poi saputo che i carbonari di Forlì sarebbero statitrasferiti nel castello di San Leovolle

cercare di vedere Missirilli al suo passaggio da Civita Castellana; giunse inquesta città ventiquattro ore prima dei

prigionieri; vi trovò l'abate Cariche l'aveva preceduta di parecchigiorni.

Aveva ottenuto dal carceriere che Missirilli potesse ascoltare la messaamezzanottenella cappella della

prigione. Si giunse più in là: se Missirilli avesse consentito a lasciarsilegare le braccia e le gambe con una catenail

carceriere si sarebbe ritirato verso la porta della cappellain modo davedere sempre il prigioniero di cui era

responsabilema senza poterne udire i discorsi.

Giunse finalmente il giorno che doveva decidere della sorte di Vanina. Findal mattinolei si chiuse nella

cappella della prigione. Chi potrebbe dire i pensieri che la agitaronodurante quella lunga giornata? Era stata lei a

denunciare la sua venditaed era stata ancora lei a salvargli lavita. Quando la ragione prendeva il sopravvento in

quell'anima tormentataVanina sperava ch'egli avrebbe accettato di lasciarel'Italia insieme con lei: se aveva peccatolo

aveva fatto per eccesso d'amore. Quando suonarono le quattrosentì dalontanosul selciatoil passo dei cavalli dei

carabinieri. Il rumore di ognuno di quei passi sembrava rimbombarle nelcuore. Ben presto distinse il rotolio delle

carrette che trasportavano i prigionieri. Si fermarono sulla piazzettadavanti alla prigione; vide due carabinieri sollevare

Missirillisolo su una carrettatalmente carico di catene da non potersimuovere. «Almeno è vivo» si disse con le

lacrime agli occhi«non l'hanno ancora avvelenato!». La sera fu crudele;solo la lampada dell'altareposta molto in alto

e per la quale il carceriere risparmiava l'olioilluminava la tetracappella. Lo sguardo di Vanina errava sulle tombe di

certi gran signori del medioevo morti nella vicina prigione. Le loro statueavevano un aspetto feroce.

Ogni rumore era cessato da tempo; Vanina era immersa nei suoi neri pensieri.Poco dopo i rintocchi della

mezzanottecredette di udire un rumore leggero come il volo di unpipistrello. Volle muoversie cadde semisvenuta

sulla balaustra dell'altare. In quello stesso istantedue fantasmi leapparvero accantosenza che li avesse sentiti entrare.

Erano il carceriere e Missirillicosì carico di catene da sembrarefasciato. Il carceriere scoprì una lanterna e la appoggiò

sulla balaustra dell'altaredi fianco a Vaninain modo da poter vedere beneil suo prigioniero. Poi si ritirò sul fondo

vicino alla porta. Appena il carceriere si fu allontanatoVanina si gettòal collo di Missirilli.10

Stringendolo tra le sue braccianon sentì altro che le sue catene fredde epungenti. «Chi gli ha messo queste

catene?» pensò. Non provò alcun piacere ad abbracciare il suo amante. Aquel dolore ne seguì un altro più acuto; per un

attimo credette che Missirilli conoscesse il suo criminetanto glaciale erala sua accoglienza.

«Mia cara amica» le disse finalmente«mi addolora l'amore che avete perme; invano cerco di capire che cosa

in me abbia potuto ispirarvelo. Credetemitorniamo a sentimenti piùcristianidimentichiamo le illusioni che un tempo

ci hanno travolto; non posso appartenervi. La costante sventura che haaccompagnato le mie imprese deriva forse dallo

stato di peccato mortale in cui mi sono sempre trovato. Eanche ad ascoltarei soli consigli della prudenzaperché non

sono stato arrestato con i miei amicinella fatale notte di Forlì? Perchénel momento del pericolonon ero al mio posto?

Perché la mia assenza ha potuto autorizzare i sospetti più crudeli? Avevoun'altra passioneche non era quella della

libertà dell'Italia.»

Vanina non si riaveva dalla sorpresa che le provocava il cambiamento diMissirilli. Pur non essendo molto

dimagritosembrava che avesse trent'anni. Vanina attribuì questocambiamento ai maltrattamenti che aveva subito in

carcere; scoppiò in singhiozzi.

«Ah!» gli disse«i carcerieri avevano assicurato che ti avrebberotrattato umanamente.»

Il fatto è cheall'avvicinarsi della mortetutti i principi religiosi chepotevano accordarsi con la passione per la

libertà dell'Italia erano riapparsi nel cuore del giovane carbonaro. Poco apoco Vanina si accorse che il sorprendente

cambiamento che notava nel suo amante era tutto moralee niente affatto unaconseguenza di maltrattamenti fisici. Il

suo doloreche credeva già insopportabileaumentò ancora.

Missirilli taceva; Vanina si sentiva soffocare dai singhiozzi. Anch'egli unpo' commossodisse:

«Se amassi qualcosa in questo mondosareste voiVanina; magrazie a Dionon ho più che uno scopo nella

vita: morirò in prigione o nel tentativo di dare la libertà all'Italia.»

Ci fu ancora silenzio; Vanina non riusciva proprio a parlare: invano tentòdi farlo. Missirilli continuò:

«Il dovere è crudeleamica mia; ma se non si soffrisse nel compierloincosa consisterebbe l'eroismo? Datemi

la vostra parola che non cercherete più di vedermi.»

Per quanto glielo permetteva la sua catena così strettafece un piccolomovimento con la manoe tese le dita a

Vanina.

«Se permettete a un uomo che vi fu caro di darvi un consigliosiateragionevole e sposate l'uomo perbene che

vostro padre vi ha scelto. Non fategli nessuna confidenza spiacevole; e noncercate più di rivedermi; ormai siamo

estranei l'uno all'altra. Avete prestato una somma considerevole per servirela patria; se mai essa sarà liberata dai suoi

tiranniquella somma vi sarà regolarmente restituita in beni nazionali.»

Vanina era sconvolta. Mentre le parlavalo sguardo di Pietro si era accesosolo nel momento in cui aveva

pronunciato la parola patria.

Finalmente l'orgoglio venne in aiuto della giovane principessa; aveva portatocon sé diamanti e piccole lime.

Senza rispondere a Missirilliglieli offrì.

«Accetto per dovere» le disse«perché devo tentare la fuga; ma non vivedrò mai piùlo giuro di fronte a

questi vostri nuovi favori. AddioVanina; promettetemi di non scrivermi maidi non cercare mai di vedermi; lasciatemi

tutto alla patriaio sono morto per voi; addio.»

«No» rispose Vanina con furore«voglio che tu sappia che cosa ho fattospinta dall'amore che provavo per

te.»

Allora gli raccontò tutto quello che aveva fatto da quando Missirilli avevalasciato il castello di San Nicolòper

andare a costituirsi al legato.

Finito il racconto:

«E tutto questo è niente» disse Vanina«ho fatto ben altroper amortuo.»

Allora gli parlò del suo tradimento.

«Ahmostro!» gridò Pietro furibondogettandosi su di leie cercava dicolpirla con le sue catene.

Ci sarebbe riuscito se il carceriere non fosse accorso alle prime gridaafferrando Missirilli.

«Tienimostronon voglio doverti niente» disse Missirilli a Vaninagettandole controper quanto le catene

glielo permettevanole lime e i diamantie rapidamente si allontanò.

Vanina rimase inebetita. Tornò a Roma; il giornale oggi annuncia che si èsposata con il principe don Livio

Savelli.

SAN FRANCESCO A RIPA

Ariste e Dorante hanno trattato

quest'argomentoe ciò ha dato a

Erasto l'idea di trattarlo anche lui.

30 settembre

Traduco da un cronista italiano il racconto particolareggiato degli amori diuna principessa romana con un

Francese. Si era nel 1726ai primi del secolo scorso. Tutti gli abusi delnepotismo fiorivano allora a Roma. Mai la corte11

era stata più brillante. Regnava Benedetto XIII (Orsini)o meglio suonipoteil principe Campobassodirigeva in suo

nome tutti gli affari grandi e piccoli. Da ogni partegli stranieriaffluivano a Roma; i principi italianii nobili di Spagna

ancora ricchi dell'oro del Nuovo Mondovi accorrevano a schiere. Qui tutti iricchi e i potenti vivevano al di sopra delle

leggi. La galanteria e la magnificenza sembravano la sola occupazione ditanti stranieri e italiani riuniti.

Le due nipoti del papala contessa Orsini e la principessa Campobassosidividevano la potenza dello zio e gli

omaggi della corte. La loro bellezza le avrebbe fatte notare anche nelleclassi più infime della società. La Orsinicome

si dice familiarmente a Romaera allegra e disinvoltala Campobassotenera e pia; ma quest'anima delicata era capace

degl'impeti più violenti. Senza essere nemiche dichiaratepur incontrandosiogni giorno dal papa e vedendosi spesso a

casa loroqueste dame erano rivali in tutto: beltàascendentericchezza.

La contessa Orsinimeno bellama brillantefrivolaattivaintriganteaveva degli amanti di cui non si curava

affattoe che duravano un giorno soltanto. Era felice quando poteva vedereduecento persone riunite nelle sue salee

regnar su di esse. Si burlava altamente della cuginala Campobassochedopo essersi fatta vedere dappertuttoper tre

anni di seguitocon un duca spagnoloaveva finito per ordinargli dilasciare Roma entro ventiquattr'oree sotto pena di

morte. «Dopo quella grande impresa» diceva l'Orsini«la mia sublimecugina non ha più sorriso. Soprattutto da

qualche mese è evidente che la povera donna muore di noia o d'amoree suomaritoche non è uno scioccofa passare

questa noia agli occhi del papanostro zioper profonda devozione. Prevedoche questa devozione la spingerà a

compiere un pellegrinaggio in Spagna».

La Campobasso non rimpiangeva affatto il suo Spagnoloche per almeno dueanni l'aveva mortalmente

annoiata. Se l'avesse rimpiantol'avrebbe mandato a cercareperché era unodi quei temperamenti naturali e

appassionaticome non è raro incontrarne a Roma. Piena di esaltato fervorereligiososebbene di ventitré anni appena e

nel pieno fiore della bellezzatalvolta si gettava in ginocchio davanti allozio supplicandolo di darle la benedizione

papalechecome troppo pochi sannoassolveanche senza confessioneda ogni peccatoeccetto due o tre

particolarmente atroci. Il buon Benedetto XIII piangeva di commozione.«Alzatinipote mia» le diceva«tu non hai

bisogno della benedizionetu vali più di me agli occhi di Dio.»

In questobenché infallibilesi sbagliavaal pari di tutta Roma. LaCampobasso era perdutamente innamorata

il suo amante corrispondeva alla sua passione e tuttavia ella era moltoinfelice. Da parecchi mesi ormai vedeva quasi

tutti i giorni il cavaliere di Sénecénipote del duca di Saint-Aignanaquel tempo ambasciatore di Luigi XV a Roma.

Figlio di una delle amanti del reggente Filippo d'Orléansil giovaneSénecé godeva in Francia del più alto

favore: per quanto avesse appena ventidue anniera da molto tempocolonnello; aveva i modi abituali dell'uomo fatuoe

quanto può giustificarlisenza però averne il carattere. L'allegrialavoglia di divertirsi di tutto e semprela sventatezza

il coraggiola bontàcostituivano i tratti salienti di quel caratteresingolaree si poteva ben direa lode della sua patria

che egli ne era un campione perfetto. La principessa di Campobasso l'avevanotato a prima vista. «Ma» gli aveva detto

«non mi fido di voisiete un Francese; però vi avverto: il giorno in cui aRoma si saprà che vi vedo qualche volta in

segretosarò sicura che l'avrete detto voie non vi amerò più.»

Giocando con l'amorela Campobasso era stata presa da vera passione. AncheSénecé l'aveva amatama la loro

relazione durava già da otto mesie il tempoche raddoppia la passione diun'Italianauccide quella di un Francese. La

vanità del cavaliere lo consolava un po' della sua noia; aveva già mandatoa Parigi due o tre ritratti della Campobasso.

Del restocolmato d'ogni sorta di beni e di privilegiper così dire findall'infanziadimostrava la spensieratezza del suo

carattere persino quando si trattava degli interessi della vanitàche disolito stanno così a cuore ai suoi connazionali.

Sénecé non comprendeva affatto il carattere della sua amantee perciòqualche voltala sua bizzarria lo

divertiva. Già molto spessoil giorno della festa di santa Balbinadi cuiella portava il nomeaveva dovuto vincere gli

impeti e i rimorsi d'una pietà ardente e sincera. Sénecé non le avevafatto dimenticare la religionecome accade con le

Italiane del volgo; l'aveva vinta a viva forzae la lotta si rinnovavaspesso.

Quest'ostacoloil primo che questo giovane viziato dalla sorte avesseincontrato in vita sualo divertiva e

manteneva viva in lui l'abitudine di mostrarsi tenero e premuroso con laprincipessa; ogni tantosentiva il dovere di

amarla. C'era un'altra ragione assai poco romantica: Sénecé aveva un unicoconfidenteed era il suo ambasciatoreil

duca di Saint-Aignancui rendeva qualche servigio per mezzo dellaCampobassoche era informata di tutto. E

l'importanza che acquistava così agli occhi dell'ambasciatore lo lusingavaparticolarmente.

La Campobassoben diversa da Sénecénon era affatto sensibile allacondizione sociale del suo amante. Essere

amatao non esserloera tutto per lei. «Gli sacrifico la mia salvezzaeterna» si diceva; «lui che è un ereticoun

Francesenon può sacrificarmi nulla di simile.» Ma poi il cavalierecomparivae la sua gaiezzacosì amabilecosì

inesauribileeppur così spontaneastupiva la Campobasso e l'affascinava.Al suo cospettotutto ciò che aveva

progettato di dirglitutti i pensieri tetri svanivano. Tale statocosìnuovo per quell'animo alterodurava ancora a lungo

dopo che Sénecé se n'era andato. Alla fine le parve di non poter pensaredi non poter vivere lontano da Sénecé.

La modache a Romaper due secolis'era ispirata agli Spagnolicominciavaa seguire un po' i Francesi. Si

cominciava a capire il loro carattereche porta il piacere e la felicitàdovunque arriva. Quel carattereallorasi trovava

solo in Franciae dopo la rivoluzione del 1789 non si trova più in nessunluogo. Il fatto è che un'allegria così costante

ha bisogno di spensieratezzae in Francia non esiste più un avvenire sicuroper nessunoneppure per gli uomini di

geniose pure esistono.

C'è guerra aperta fra gli uomini della classe di Sénecé e il resto dellanazione. Anche la Roma di allora era ben

diversa da come la si vede oggi. Non s'immaginava affattonel 1726ciò chesarebbe accaduto sessantasette anni dopo12

quando il popolopagato da qualche pretesgozzò il giacobino Bassevilleche diceva di voler incivilire la capitale del

mondo cristiano.

Per la prima voltaaccanto a Sénecéla Campobasso aveva perduto laragionesi era sentita ora in paradisoora

terribilmente infelice per cose che la sua ragione non poteva approvare. Inquell'animo austero e sincerouna volta che

Sénecé ebbe vinto la religionela quale per lei era ben al di sopra dellaragionequest'amore si sarebbe innalzato

rapidamente fino alla passione più sfrenata.

La principessa proteggeva monsignor Ferraterradi cui aveva iniziato lafortuna. Che cosa provò quando

Ferraterra le annunciò che non solo Sénecé andava più spesso del solitodall'Orsinima anche che per causa sua la

contessa aveva appena congedato un famoso castratosuo amante ufficiale davarie settimane!

La nostra storia comincia la sera del giorno in cui la Campobasso avevaricevuto quest'annuncio fatale.

Se ne stava immobile in un'immensa poltrona di cuoio dorato. Posate accanto alei su un tavolino di marmo

nerodue grandi lampade d'argento dal lungo stelocapolavori del celebreBenvenuto Cellinirischiaravano o meglio

rivelavano le tenebre di un'immensa salaal pianterreno del suo palazzoornata di quadri anneriti dal tempo; perchégià

a quell'epocail regno dei grandi pittori poteva dirsi lontano.

Vi fronte alla principessa quasi ai suoi piedisu una seggiolina di legnod'ebano guarnita di ornamenti d'oro

massiccioil giovane Sénecé aveva appena adagiato la sua elegante persona.La principessa lo guardavae da quando

era entrato nella salainvece di volargli incontro e gettarsi nelle suebraccianon gli aveva rivolto neppure una parola.

Nel 1726Parigi era già la regina delle eleganze nella vita e nella moda.Sénecé si taceva venire regolarmente

per corriere tutto ciò che poteva dar risalto alle grazie di urlo dei piùbegli uomini di Francia.

Nonostante la sicurezza di sécosì naturale in un uomo del suo rangocheaveva fatto le sue prime esperienze

con le bellezze della corte del reggente e sotto la guida del famoso Canillacsuo ziouno dei roués del principeben

presto fu facile leggere un certo imbarazzo nella fisionomia di Sénecé. Ibei capelli biondi della principessa erano un po'

in disordine; i suoi grandi occhi azzurro cupo erano fissi su di lui: la loroespressione era ambigua. Si trattava di una

vendetta mortale? era soltanto la profonda serietà dell'amore appassionato?

«Così non mi amate più» ella disse infine con voce soffocata.

Un lungo silenzio seguì questa dichiarazione di guerra.

Costava molto alla principessa privarsi della grazia affascinante di Sénecéchese lei non gli avesse fatto scene

era sul punto di dirle cento amorose follie; ma era troppo orgogliosa perdifferire la spiegazione. Una civetta è gelosa

per amor proprio; una donna galante lo è per abitudine; una donna che amacon sincerità e passione ha coscienza dei

suoi diritti. Quel modo di guardarecaratteristico della passione romanadivertiva molto Sénecéche vi scorgeva

profondità e incertezza; vi si vedevaper così direl'anima a nudo. L'Orsininon aveva la stessa grazia.

Tuttaviasiccome stavolta il silenzio si prolungava oltre misurail giovaneFranceseche non era molto abile

nell'arte di penetrare i sentimenti nascosti d'un cuore italianovi trovòun'aria di tranquillità e ragionevolezza che lo

mise a suo agio. Del restoin quel momentoaveva un dispiacere:attraversando le cantine e i sotterranei cheda una

casa vicina al palazzo Campobassolo conducevano in quella sala a terrenoil freschissimo ricamo del suo magnifico

abitoarrivato da Parigi il giorno primas'era riempito di ragnatele. Lapresenza delle ragnatele lo metteva a disagio

anche perché aveva orrore di quell'insetto.

Sénecécredendo di scorgere una certa calma nell'occhio della principessapensava a come evitare la scenataa

come eludere il rimprovero invece di rispondergli; maindotto alla serietàdalla stizza che provava: «Non sarebbe

questa un'occasione favorevole» si diceva«per farle intravvedere laverità? È stata lei stessa a porre la domanda; ecco

già evitata metà della seccatura. Dev'essere proprio vero che non sonofatto per l'amore. Non ho mai visto niente di così

bello come questa donna dagli occhi strani. Ha cattive manieremi fa passareper sotterranei disgustosi; ma è la nipote

del sovrano presso il quale il re mi ha inviato. Inoltreè bionda in unpaese dove tutte le donne sono brune: è una grande

singolarità. Tutti i giorni sento portare alle stelle la sua bellezza dapersone la cui testimonianza non è sospetta e che

sono a mille miglia dal pensare che stanno parlando al fortunato possessoredi tante grazie. In quanto al potere che un

uomo deve avere sulla sua amantenon ho alcuna preoccupazione a taleriguardo. Se volessi prendermi la pena di dire

una parolala strapperei al suo palazzoai suoi mobili d'oroal suozio-ree tutto ciò per condurla in Franciain una

provincia sperdutaa vivacchiare tristemente in una delle mie terre... Infede miala prospettiva di simile devozione

m'ispira soltanto la più ferma decisione di non chiedergliela mai. L'Orsiniè assai meno graziosa: mi amase mi ama

solo un pochino di più del castrato Butofaco che ieri le ho fatto mandarvia; ma ha pratica del mondosa vivereda lei si

può andare in carrozza. E sono ben sicuro che non mi farà mai scenate; nonmi ama abbastanza per questo.»

Durante quel lungo silenziolo sguardo fisso della principessa non avevapiù lasciato la bella fronte del

giovane Francese.

«Non lo vedrò più» si disse. E d'un tratto si gettò nelle sue braccia ecoprì di baci quella fronte e quegli occhi

che non si arrossavano più di gioia nel rivederla. Il cavaliere si sarebbedisprezzatose non avesse dimenticato all'istante

tutti i progetti di rottura; ma la sua amante era troppo profondamentecommossa per dimenticare la sua gelosia. Pochi

momenti dopoSénecé la guardò con stupore; lacrime di rabbia le cadevanorapide sulle guance. «Come! diceva a

mezza vocemi umilio fino a parlargli del suo cambiamento: glielorimproveroioche mi era giurata di non

accorgermene mai! E questa bassezza non è sufficientebisogna pure che cedaalla passione che il suo bel volto

m'ispira! Ah! Vilevilevile principessa!... Bisogna finirla.»

Si asciugò le lacrime e parve riacquistare un po' di calma.13

«Cavalierebisogna finirla» gli disse abbastanza tranquillamente. Vi fatevedere spesso dalla contessa...» Qui

si fece estremamente pallida. «Se l'amivacci tutti i giornisia pure; manon tornare più qui...». S'interruppe come suo

malgrado. Aspettava una parola dal cavaliere; questa parola non fupronunciata. Continuò con un piccolo movimento

convulso e quasi stringendo i denti: «Sarà la mia sentenza di morte e lavostra. »

Questa minaccia pose fine all'incertezza del cavaliereche fino allora erarimasto semplicemente stupito della

burrasca inaspettata dopo tanto abbandono. Si mise a ridere.

Un rossore improvviso coprì le gote della principessache divenneroscarlatte. «La collera sta per soffocarla»

pensò il cavaliere; «le verrà un colpo apoplettico. » Si avvicinò perslacciarle la veste; ella lo respinse con una

risolutezza e una forza cui non era abituato. Più tardi Sénecé si ricordòchementre cercava di prenderla fra le braccia

l'aveva sentita parlare fra sé. Indietreggiò un poco: discrezione inutileperché sembrava che lei non lo vedesse più. Con

voce bassa e concentratacome se parlasse al suo confessorediceva a sestessa: «M'insultami sfida. Certoalla sua età

e con la naturale indiscrezione del suo paeseracconterà all'Orsini tuttele indegnità cui mi abbasso... Non sono sicura di

me; non posso neppure impormi di restare insensibile davanti a questo belviso...» Qui vi fu un altro silenzioche

sembrò assai uggioso al cavaliere. Infine la principessa si alzò ripetendoin tono più cupo: «Bisogna finirla.»

Sénecécui la riconciliazione aveva fatto smettere l'idea d'unaspiegazione seriale rivolse due o tre frasi

spiritose Sti un'avventura di cui si parlava molto a Roma...

«Lasciatemicavaliere» gli disse la principessa interrompendolo; «non misento bene...»

«Questa donna si annoia» si disse Sénecé affrettandosi ad obbedire«enulla è contagioso come la noia.» La

principessa l'aveva seguito con gli occhi fino in fondo alla sala... «Estavo per decidere con tanta leggerezza il mio

destino!» ella disse con un sorriso amaro. «Per fortunale suespiritosaggini fuori posto mi hanno aperto gli occhi.

Quanta fatuità in quest'uomo! Come posso amare un essere che mi comprendecosì poco! Vuol divertirmi con una

faceziaquando si tratta della mia vita e della sua!... Ah! Come riconoscobene l'inclinazione sinistra e cupa che è la mia

disgrazia!» E si alzò dalla poltrona con furia. «Com'erano belli i suoiocchi quando mi ha detto quella frase!... E

bisogna ammetterlol'intenzione del povero cavaliere era gentile. Conosce ilmio carattere infelice; voleva farmi

dimenticare il tetro dolore che mi agitavainvece di chiedermene il motivo.Amabile Francese! In realtàho mai

conosciuto la felicità prima di amarlo?»

Si mise a pensaredeliziataa tutti i pregi del suo amante. A poco a pocofu indotta a contemplare le grazie

della contessa Orsini. Il suo animo cominciò a veder tutto nero. I tormentidella più atroce gelosia s'impadronirono del

suo cuore. Realmenteun presagio funesto l'agitava da due mesi; gli unicimomenti tollerabili erano quelli che passava

vicino al cavaliereeppure quasi semprequando non era fra le sue bracciagli parlava in tono acido.

La serata fu tremenda per lei. Sfinita e quasi un po' calmata dal doloreebbe l'idea di parlare al cavaliere:

«Perché insomma mi ha vista irritatama ignora il motivo delle mielagnanze. Forse non ama la contessa. Forse va da

lei soltanto perché un forestiero deve conoscere la società del paese incui si trovae soprattutto la famiglia del sovrano.

Forse se mi faccio presentare Sénecése può venire apertamente a casamiavi passerà ore e ore come dall'Orsini.»

«No» esclamò con rabbia«mi umilierei parlando; mi disprezzeràedecco tutto quel che ci avrò guadagnato.

Il carattere svaporato dell'Orsini che ho tanto spesso disprezzatopazza chenon ero altroin realtà è più gradevole del

mioe soprattutto agli occhi di un Francese. Io sono fatta per annoiarmi conuno Spagnolo. Che c'è di più assurdo

dell'essere sempre sericome se i fatti della vita non lo fossero giàabbastanza di per sé!... Che sarà di me quando non

avrò più il mio cavaliere per darmi un po' di vitaper infondere nel miocuore quel fuoco che gli manca?»

Aveva fatto chiudere l'ingresso; ma quest'ordine non valeva per monsignorFerraterrache venne a raccontarle

che cosa si era fatto dall'Orsini fino all'una del mattino. Fino allora ilprelato aveva secondato in buona fede gli amori

della principessa; mada quella seranon aveva più dubbi che prestoSénecé se la sarebbe intesa con la contessa Orsini

se pure non era già cosa ratta.

«La principessatutta dedita alla religione» egli pensava«mi sarebbepiù utile che nei salotti. Vi sarà sempre

qualcuno che ella mi preferirà: e sarà il suo amante; e se un giornoquest'amante sarà romanoavrà magari uno zio da

crear cardinale. Se la convertopenserà prima di tuttoe con tuttol'ardore del suo temperamentoal suo direttore

spirituale... Che cosa non potrò sperare da lei presso suo zio!» El'ambizioso prelato si perdeva in deliziose congetture

vedeva la principessa gettarsi in ginocchio davanti allo zio per fargli dareil cappello cardinalizio. Il papa gli sarebbe

stato assai riconoscente di quel che stava per fare... Appena convertita laprincipessaavrebbe fatto giungere sotto gli

occhi del papa le prove irrefragabili del suo intrigo col giovane Francese.Piosincero e ostile ai Francesiqual è Sua

Santitàavrà un'eterna gratitudine per chi avrà fatto finire un intrigocosì spiacevole per lui. Ferraterra apparteneva

all'alta nobilità di Ferrara; era riccoaveva più di cinquant'anni...Animato dalla prospettiva così vicina della porpora

fece meraviglie; osò mutare bruscamente tattica con la principessa. Da duemesi Sénecé la trascuravama avrebbe

potuto essere pericoloso attaccarlo pensava il prelatoperché a sua voltamal comprendendo Sénecélo credeva

ambizioso.

Il lettore troverebbe troppo lungo il dialogo tra la giovane principessafolle d'amore e di gelosiae l'ambizioso

prelato. Ferraterra aveva esordito con un resoconto particolareggiato dellatriste verità. Dopo un inizio così

sorprendentenon fu difficile risvegliare tutti i sentimenti di religione edi appassionata pietà che erano soltanto assopiti

in fondo al cuore della giovane Romana; la sua fede era sincera.

«Ogni passione peccaminosa finisce nella sciagura e nel disonore» lediceva il prelato.14

Era giorno fatto quando uscì dal palazzo Campobasso. Aveva preteso dalla neoconvertita la promessa di non

ricevere Sénecé quel giorno. Questa promessa non era costata molto allaprincipessa; credeva d'essere piaein realtà

aveva paura di rendersi spregevole con la sua debolezza agli occhi delcavaliere.

Questa decisione si mantenne salda fino alle quattro: era il momento dellaprobabile visita del cavaliere. Egli

passò nella viadietro il giardino del palazzo Campobassovide il segnaleche annunciava l'impossibilità di una visitae

tutto contentose ne andò dalla contessa Orsini.

A poco a poco la Campobasso si sentì come impazzire. Le idee e lerisoluzioni più strane si succedevano

rapidamente. D'un tratto scese la scalinata del suo palazzo come unaforsennatae salì in carrozza gridando al cocchiere:

«Palazzo Orsini.»

L'eccesso della sua infelicità la spingeva quasi suo malgrado a vedere lacugina. La trovò in mezzo a cinquanta

persone. Tutta la gente di spiritotutti gli ambiziosi di Romanon potendoaccedere a palazzo Campobassoaffluivano a

palazzo Orsini. L'arrivo della principessa fece scalporetutti siallontanarono in segno di rispetto; ella non degnò

accorgersene: guardava la sua rivalel'ammirava. Ogni qualità della cuginaera una pugnalata per il suo cuore. Dopo i

primi complimenti l'Orsinivedendola silenziosa e preoccupatariprese unaconversazione brillante e disinvolta.

«Come la sua gaiezza si adatta al cavaliere più della mia folle e noiosapassione!» si diceva la Campobasso.

In un inspiegabile trasporto d'odio e di ammirazionesi gettò al collodella contessa. Non vedeva che le grazie

della cugina; sia da vicino che da lontano le sembravano egualmenteadorabili. Paragonava i propri capelli a quelli di

leigli occhila pelle. Dopo questo strano esameebbe orrore e disgusto dise stessa. Tutto le sembrava adorabile

superiorenella rivale.

Immobile e cupala Campobasso era come una statua di marmo in mezzo allafolla gesticolante e rumorosa. Si

entravasi usciva; tutto quel chiasso la importunavala offendeva. Ma comerimase quando d'un tratto sentì annunciare

il signor de Sénecé! Avevano convenutoall'inizio della loro relazioneche in società egli le avrebbe parlato molto

pocoe come si addice a un diplomatico straniero che incontra appena due otre volte al mese la nipote del sovrano

presso il quale è accreditato.

Sénecé la salutò col rispetto e la serietà abituali; poitornando dallacontessa Orsiniriprese il tono di gaiezza

quasi intima che si tiene con una donna di spirito da cui si è ben ricevutie che s'incontra tutti i giorni. La Campobasso

ne fu costernata. «La contessa mi mostra ciò che avrei dovuto essere» sidiceva. «Ecco come bisogna esserema come

io non sarò mai!» Uscì in preda alla più estrema infelicità cui possagiungere una creatura umanaquasi decisa ad

avvelenarsi. Tutte le gioie che l'amore di Sénecé le aveva dato nonavrebbero potuto compensare il terribile dolore in

cui rimase sprofondata per tutta una lunga notte. Si direbbe che queste animeromane abbiano per la sofferenza tesori

d'energia sconosciuti alle altre donne.

Il giorno seguenteSénecé ripassò e vide il segnale negativo. Già se neandava tutto allegroeppure era un po'

piccato. «Sicché l'altro giorno mi avrebbe dato il congedo? Voglio vederlapiangere» disse la sua vanità. Provava una

lieve sfumatura d'amore nel perdere per sempre una donna così bellanipotedel papa. Lasciò la carrozzas'inoltrò nei

sotterranei sudici che tanto gli dispiacevanoe spinse la porta della grandesala a pianterreno dove la principessa lo

riceveva.

«Come! osate comparire qui!» disse attonita la principessa.

«Questo stupore manca di sincerità» pensò il giovane Francese; «lei sitrattiene in questa stanza solo quando

mi aspetta. »

Il cavaliere le prese la mano; ella fremette. I suoi occhi si riempirono dilacrime; il cavaliere la trovò così bella

che ebbe un istante d'amore. Ellada parte suadimenticò tutti igiuramenti che per due giorni aveva fatto alla religione;

e si gettò nelle sue bracciapienamente felice: «Ecco la felicità di cuid'ora in poi godrà l'Orsini!» Sénecémal

comprendendocome al solitol'anima romanacredette che volesse separarsida lui amichevolmenterompere con tatto.

«Non mi convienevisto che sono addetto all'ambasciata del reavere pernemica mortale (perché tale sarebbe) la nipote

del sovrano presso il quale sono impiegato.» Tutto fiero del felicerisultato cui credeva di giungereSénecé si mise a

ragionare. Avrebbero vissuto nella più piacevole unione; perché nonsarebbero stati molto felici? In realtàcosa si

poteva rimproverargli? L'amore avrebbe ceduto il posto a una buona e teneraamicizia. Reclamò con insistenza il

privilegio di tornare ogni tanto là dove si trovavano; i loro rapportiavrebbero sempre mantenuto una dolce intimità...

Sulle prime la principessa non lo capì. Quandocon orrorel'ebbe capitorestò in piediimmobilegli occhi

fissi. Infinea quell'ultima uscita sulla dolce intimità dei lororapportil'interruppe con una voce che sembrava venirle

dal profondo del pettoe parlando lentamente:

«In altre parole mi trovatedopotuttoabbastanza graziosa da potermitenere come una sgualdrina a vostro

servizio!»

«Macara e buona amical'amor proprio non è forse salvo?» replicòSénecéa sua volta veramente sorpreso.

«Come potrebbe passarvi per la testa di lamentarvi? Per fortuna la nostrarelazione non è mai stata sospettata da

nessuno. Sono uomo d'onore; vi do di nuovo la mia parola che nessun esserevivente sospetterà della gioia di cui ho

goduto.»

«Neanche l'Orsini?» aggiunse ella in tono gelidoche ingannò ancora ilcavaliere.

«Vi ho mai nominato» disse ingenuamente il cavaliere«le persone che hopotuto amare prima d'essere vostro

schiavo?»15

«Con tutto il rispetto per la vostra parola d'onorequesto è un rischioche non voglio correre» disse la

principessa con aria risolutache infine cominciò a sorprendere un po' ilgiovane Francese. «Addio! cavaliere...» Edato

che egli si allontanava piuttosto indeciso: «Vienidammi un bacio» glidisse.

Era visibilmente commossa; poi gli disse in tono fermo: «Addiocavaliere...»

La principessa mandò a cercare Ferraterra. «È per vendicarmi» gli disse.Il prelato ne fu contentissimo. «Si

comprometterà; è mia per sempre.»

Due giorni doposiccome il caldo era opprimenteSénecé andò a prenderearia al Corsoverso mezzanotte. Vi

trovò tutto il bel mondo di Roma. Quando volle riprendere la vetturail suolacchè gli rispose a fatica: era ubriaco; il

cocchiere era scomparso; il lacchè gli disseparlando stentatamenteche ilcocchiere aveva attaccato briga con un

nemico.

«Ah! Il mio cocchiere ha dei nemici!» disse Sénecé ridendo.

Mentre tornava a casaera appena a due o tre strade oltre il Corsosiaccorse che lo seguivano. Erano quattro o

cinque uominiche si fermavano quando lui si fermavaricominciavano acamminare quando lui camminava. «Potrei

scantonare e tornare al Corso per un'altra strada» pensò Sénecé. «Bah!questi tangheri non ne valgono la pena; sono

bene armato.» Aveva in mano il pugnale snudato.

Percorsetra questi pensieridue o tre vie appartate e sempre piùsolitarie. Sentiva quegli uomini affrettare il

passo. In quel momentoalzando gli occhinotò dritto davanti a sé unapiccola chiesa officiata da frati dell'ordine di San

Francescodalle cui vetrate usciva un singolare splendore. Si precipitòverso la portae bussò molto forte col manico

del suo pugnale. Gli uomini che sembravano inseguirlo erano a cinquantapassi. Si misero a correre nella sua direzione.

Un frate aprì la porta; Sénecé si precipitò in chiesa; il frate richiusela sbarra di ferro. Nello stesso momentogli

assassini presero a calci la porta. «Empi!» disse il frate. Sénecé glidiede uno zecchino. «Decisamente ce l'avevano con

me» disse.

La chiesa era illuminata da almeno un migliaio di ceri.

«Come! Un servizio a quest'ora!» egli disse al frate.

«Eccellenzac'è una dispensa dell'eminentissimo cardinal vicario. »

Tutta l'angusta navata della piccola chiesa di San Francesco a Ripa eraoccupata da un catafalco sontuoso; si

cantava l'ufficio dei morti.

«Chi è morto? qualche principe?» disse Sénecé.

«Senza dubbio» rispose il prete«perché non si è badato a spese: mason tutti denari e cera perduti: il signor

decano ci ha detto che il defunto è morto in peccato.»

Sénecé si avvicinò: vide stemmi di forma francese; la sua curiositàraddoppiò; si avvicinò ancora e riconobbe

le proprie armi! C'era un'iscrizione latina:

Nobilis homo Johannes Norbertus Senece eques decessit Romae.

«Nobile e potente signore Giovanni Norberto di Sénecécavalieredecedutoa Roma.»

«Sono il primo uomo» pensò Sénecé«che abbia avuto l'onore diassistere alle proprie esequie. A quanto ne

sosoltanto l'imperatore Carlo V si è concesso questo piacere... Ma nontira buon vento per me in questa chiesa.»

Diede un altro zecchino al sagrestano.

«Padre» gli disse«fatemi uscire da una porta posteriore del convento.»

«Molto volentieri» disse il frate.

Appena in stradaSénecéche aveva una pistola in ciascuna manosi mise acorrere a perdifiato. Ben presto

sentì dietro di sé della gente che lo inseguiva. Arrivando vicino al suopalazzovide la porta chiusa e un uomo fermo lì

davanti. «Ecco il momento dell'assalto»pensò il giovane Francese; giàsi preparava a uccidere l'uomo con una

pistolettataquando riconobbe il suo cameriere.

«Aprite la porta» gli gridò.

Era aperta; entrarono in fretta e la richiusero.

«Ah! signorevi ho cercato dappertutto; ci sono tristissime notizie: ilpovero Giovanniil vostro cocchiereè

stato ucciso a coltellate. Gli uomini che l'hanno ucciso vomitavanoimprecazioni contro di voi. Signorevogliono

attentare alla vostra vita...»

Mentre il cameriere parlavaotto colpi di trombone partiti insieme da unafinestra che dava sul giardino

stesero morto Sénecé accanto al suo cameriere; ciascuno era trapassato dapiù di venti pallottole.

Due anni dopola principessa Campobasso era venerata a Roma come modellodella più profonda pietà

religiosae da molto tempo monsignor Ferraterra era cardinale.

Perdonate gli errori dell'autore.

VITTORIA ACCORAMBONI

Duchessa di Bracciano

Sfortunatamente per me e per il lettorequesto non è un romanzoma lafedele traduzione di un racconto assai

serio scritto a Padova nel dicembre 1585.16

Qualche anno fa mi trovavo a Mantova; cercavo degli schizzi e dei quadrettialla portata dei miei modesti

mezzi ma li volevo solo di pittori anteriori al 1600; intorno a quei periodosi spense definitivamente l'originalità italiana

già compromessa dalla caduta di Firenze nel 1530.

Invece di quadriun vecchio patrizio molto ricco e molto avaro mi feceoffrirea caro prezzodei vecchi

manoscritti ingialliti dal tempo; chiesi di scorrerli. Egli acconsentìaggiungendo che si fidava della mia onestàche non

avrei ricordato gli aneddoti piccanti che avrei lettoqualora non avessiacquistato i manoscritti.

A questa condizioneche accettaiscorsicon grave danno per la mia vistatre o quattrocento volumi in cui

erano stati raccoltidue o tre secoli primaracconti di tragiche avventurelettere di sfida relative a duellitrattati di pace

tra nobili confinantimemorie su ogni sorta di soggettoecc. Per questimanoscritti il vecchio proprietario chiedeva una

cifra enorme. Dopo una lunga trattativaacquistai a caro prezzo il dirittodi far copiare certe brevi storie che mi

piacevano e che mostravano i costumi dell'Italia nel 1500. Ne ho ventiduevolumi in folioe il lettore sta per leggere

proprio una di quelle storie fedelmente tradottasempre che ne abbia lapazienza. Conosco la storia del secolo XVI in

Italia e credo all'autenticità di ciò che segue. Ho faticato assai per farein modo che la traduzione di quell'antico stile

italianogravedirettosovranamente oscuro e pieno di allusioni ai fatti ealle idee correnti durante il pontificato di Sisto

V (nel 1585)non presentasse i riflessi della maniera letteraria moderna edelle idee del nostro secolo spregiudicato.

L'ignoto autore del manoscritto è un personaggio circospettonon giudicamai un fattomai lo anticipa; sua

unica preoccupazione è la verità del racconto. Se talvolta è pittorescosenza volerlociò accade perché intorno al 1585

la vanità non avvolgeva ancora ogni azione umana di un'aureola diaffettazione; si riteneva di non poter agire sul

prossimo a meno di non essere estremamente chiari. Intorno al 1585 nessunopensava a rendersi amabile attraverso la

parolaad eccezione dei buffoni di corte e dei poeti. Non si diceva ancora:«Morirò ai piedi di Vostra Maestà» quando

si erano appena fatti preparare i cavalli per scappare; era un genere ditradimento che non era stato ancora inventato. Si

parlava pocoe ognuno ascoltava con estrema attenzione quello che gli venivadetto.

Cosìo benevolo lettorenon cercare qui uno stile piccanterapidobrillante di fresche allusioni ai sentimenti in

voga; non attenderti soprattutto le travolgenti emozioni di un romanzo allaGeorge Sand; questa grande scrittrice

avrebbe fatto un capolavoro con la vita e le sventure di VittoriaAccoramboni. Il racconto veritiero che vi presento può

offrire solo i vantaggi più modesti della storia. Quando per casotrovandoci in viaggio sul far della notteci accade di

riflettere sulla grande arte di conoscere il cuore umanole circostanzedella storia che segue potranno costituire la base

di molti giudizi. L'autore dice tuttospiega tuttonon lascia spazioall'immaginazione del lettore; scriveva dodici giorni

dopo la morte dell'eroina.

Vittoria Accoramboni nacque da una famiglia molto nobilein una piccolacittà del ducato di Urbinochiamata

Gubbio. Fin dall'infanzia fu notata da tutti per la sua rara e straordinariabellezza; ma la bellezza era l'ultima delle sue

grazie: non le mancava niente di quanto può fare ammirare una fanciulla dinobile nascita; ma niente fu così degno di

nota in leie - possiamo dirlo - niente fu tanto prodigioso tra le sue moltequalità straordinarie quanto un certo fascino

che fin dal primo momento conquistava il cuore e l'animo di ognuno. Questasemplicitàche dava un grande valore alle

sue più piccole parolenon era turbata da alcun sospetto di artificio;subito si provava fiducia in questa dama dotata di

una bellezza tanto straordinaria. A vederla soltantosarebbe stato possibileresisterecon grande sforzoa un tale

incanto; ma se poi la si sentiva parlaree soprattutto se capitava diconversare con leiera assolutamente impossibile

sottrarsi ad un fascino talmente straordinario.

Molti giovani cavalieri della città di Romadove abitava suo padre e dovesi può vedere il suo palazzoin

piazza dei Rusticuccipresso San Pietrodesiderarono ottenere la sua mano.Ci furono molte gelosie e rivalità; alla fine i

genitori di Vittoria preferirono Felice Perettinipote del cardinaleMontaltoche fu poi papa Sisto Vfelicemente

regnante.

Felicefiglio di Camilla Perettisorella del cardinaleprima si erachiamato Francesco Mignucci; prese il nome

di Felice Peretti quando fu solennemente adottato dallo zio.

Vittoriafacendo il suo ingresso in casa Perettivi portòsenzasospettarloquella superiorità che possiamo

definire fatalee che la accompagnava in ogni luogo; e possiamo certo direche per non adorarla bisognava non averla

mai vista. L'amore che suo marito provava per lei rasentava la follia; lasuocera Camilla e lo stesso cardinale Montalto

sembravano non avere altra preoccupazione al mondo che quella di indovinare igusti di Vittoriaper cercare subito di

soddisfarli. Tutta Roma si stupì che quel cardinalenoto per l'esiguitàdel suo patrimonio e per il suo orrore nei

confronti di ogni genere di lussoprovasse un tale piacere nel prevenireogni desiderio di Vittoria. Giovanesplendente

di bellezzaamata da tuttile sue fantasie erano talvolta molto costose.Dai suoi nuovi parenti Vittoria riceveva gioielli

di grandissimo valoreperleinsomma tutto quanto si potesse trovare di piùraro presso gli orefici di Romache in quel

tempo erano assai ben forniti.

Per amore di quest'amabile nipoteil cardinale Montaltocosì noto per lasua severitàtrattò i fratelli di Vittoria

come se fossero suoi nipoti. Ottavio Accoramboniappena compiuti itrent'anniper suo intervento fu nominato vescovo

di Fossombronedesignato dal duca di Urbino e incaricato dal papa GregorioXIII; Marcello Accorambonigiovane di

carattere focosoaccusato di molti criminie attivamente ricercato dalla cortea fatica era sfuggito a processi che

potevano costargli la morte. Protetto dal cardinalepoté riacquistare unacerta tranquillità.

Un terzo fratello di VittoriaGiulio Accoramboninon appena il cardinale nefece richiestafu ammesso dal

cardinale Alessandro Sforza ai primi onori della sua corte.17

In una parolase gli uomini potessero misurare la propria felicità nonsecondo l'infinita insaziabilità dei

desiderima secondo il godimento reale dei benefici che già possiedonoilmatrimonio di Vittoria con il nipote del

cardinale Montalto sarebbe potuto sembrare agli Accoramboni il massimo dellafelicità umana. Ma il desiderio

insensato di profitti immensi ed incerti può volgere gli uomini piùfavoriti dalla fortuna verso idee strane e piene di

pericoli.

È vero che se qualcuno dei parenti di Vittoriacome molti a Romasospettaronocontribuì a liberarla di suo

marito per il desiderio d'una più grande fortunaebbe modo di riconoscereben presto quanto sarebbe stato più saggio

contentarsi dei vantaggi moderati di una situazione gradevolee che eradestinata a raggiungere presto il vertice di

quanto possa desiderare l'ambizione umana.

Mentre Vittoria viveva da regina nella sua casauna sera che Felice Perettisi era appena messo a letto con sua

mogliegli fu consegnata una lettera da una certa Caterinanata a Bologna ecameriera di Vittoria. La lettera era stata

portata da un fratello di CaterinaDomenico d'Acquavivasoprannominato il Mancino.Quell'uomo era bandito da

Roma per molti crimini; masu preghiera di CaterinaFelice gli avevaprocurato la potente protezione dello zio

cardinalee il Mancino veniva spesso nella casa di Feliceche se nefidava pienamente.

La lettera di cui parliamo portava la firma di Marcello Accoramboniquelloche fra tutti i fratelli di Vittoria era

più caro a suo marito. Viveva per lo più nascosto fuori Roma; peròtalvolta si azzardava ad entrare in cittàe allora

trovava rifugio nella casa di Felice.

Con la lettera consegnata a quell'ora insolitaMarcello chiedeva aiuto alcognato Felice Peretti; lo scongiurava

di soccorrerloe aggiungeva che lo stava aspettando presso il palazzo diMontecavalloper una cosa della massima

urgenza.

Felice informò la moglie della strana lettera che gli avevano consegnatopoi si vestìprendendo come arma

solo la spada. Accompagnato da un solo domestico che portava una torciaaccesastava per uscire quando si imbatté

nella madre Camillae in tutte le donne della casa - tra loro anche Vittoria-; tutte lo scongiuravano di non uscire ad

un'ora così tarda. Siccome non cedeva alle loro preghiere si gettarono inginocchio econ le lacrime agli occhilo

supplicarono di ascoltarle. Quelle donnee soprattutto Camillaeranoterrorizzate dai racconti dei fatti strani che

capitavano ogni giorno e rimanevano impuniti in quei tempi del pontificato diGregorio XIIIpieni di disordini e delitti

inauditi. Inoltre erano colpite da un'idea: quando Marcello Accoramboni siazzardava a entrare in Romanon aveva

l'abitudine di far chiamare Felicee un tale passo - a quell'ora di notte -sembrava loro assolutamente strano.

Con tutto l'ardore della sua etàFelice non si arrese a questi timori;quando poi seppe che la lettera era stata

portata dal Mancinoche amava molto e che aveva aiutatoniente potépiù trattenerlo e uscì di casa.

Come si è dettoera preceduto da un solo domestico che portava una torciaaccesa; ma il povero giovane aveva

appena fatto qualche passo sulla salita di Montecavallo che cadde colpito datre colpi di archibugio. Gli assassini

vedendolo a terragli si gettarono soprae lo crivellarono di pugnalatefino a che non furono sicuri che fosse proprio

morto. La fatale notizia fu subito portata alla madre e alla moglie diFelicee attraverso loro giunse allo zio cardinale.

Il cardinalesenza mutare espressionesenza manifestare la minima emozionesi fece subito rivestiree poi

raccomandò a Dio se stesso e quella povera anima (presa così allasprovvista). Si recò quindi dalla nipote econ una

gravità ammirevole e un'aria di profonda pacefrenò le grida e i piantifemminili che cominciavano a risuonare in tutta

la casa. Il suo potere su quelle donne fu talmente efficace cheda quelmomento e anche quando il cadavere fu portato

fuori della casanon si vide né si udì da parte loro niente che andasse aldi là di ciò che accade nelle famiglie più

controllateper le morti più previste. Quanto al cardinale Montaltonessuno poté sorprendere in lui i segnianche

moderatidel dolore più semplice; niente parve cambiato nell'ordine enell'apparenza esteriore della sua vita. Roma ne

fu presto convintamentre scrutava con la solita curiosità i più piccolimovimenti di un uomo così profondamente

offeso.

Accadde per caso chel'indomani stesso della morte violenta di Felicevenisse convocato in Vaticano il

concistoro (dei cardinali). In tutta la città non ci fu un uomo che nonpensasse chealmeno in quel primo giornoil

cardinale Montalto si sarebbe esentato da quella pubblica funzione. Infattilà sarebbe dovuto comparire sotto gli occhi

di tanti e così curiosi testimoni! Sarebbero stati spiati i più piccolimovimenti di quella debolezza naturale ma che è così

opportuno nascondere da parte di un personaggio che da un posto eminenteaspira ad un altro più eminente ancora; tutti

ammetteranno che non è conveniente che un uomo che ha l'ambizione dielevarsi sopra tutti gli altri uomini si dimostri

poi simile a loro.

Ma le persone che la pensavano così si ingannarono due volteperchéinnanzitutto il cardinale Montalto fu tra i

primi a comparire nella sala del concistoroe poi perché riuscìimpossibile anche ai più attenti scoprire in lui un

qualsiasi segno di sensibilità umana. Al contrariocon le sue risposte aquei colleghi chea proposito di un avvenimento

così crudelecercarono di offrirgli parole di consolazioneseppe stupirechiunque. La fermezza e l'apparente

impassibilità della sua anima in una così atroce circostanza divennerosubito l'argomento di cui tutta la città parlava.

È anche vero che in quello stesso concistoro alcunipiù esperti nell'artedelle cortiattribuirono quell'apparente

insensibilità non a una mancanza di sentimento ma ad una grande dose disimulazione; e quel punto di vista fu presto

condiviso dalla folla dei cortigianiconvinti che fosse utile non mostrarsieccessivamente colpito da un'offesa il cui

autore era senz'altro potente e avrebbe potuto forsepiù tardiostacolargli l'ascesa alla dignità suprema.

Quale che fosse la causa di quella totale apparente insensibilitàè certoche ciò provocò stupore nell'intera

Roma e nella corte di Gregorio XIII. Maper tornare al concistoroquandoriuniti tutti i cardinaliil papa entrò nella18

salaegli volse subito gli occhi verso il cardinale Montaltoe si vide SuaSantità piangere; in quanto al cardinalei suoi

tratti non persero la loro abituale impassibilità.

Lo stupore raddoppiò quandonello stesso concistoroil cardinale Montaltoandò secondo il suo turno ad

inginocchiarsi davanti al trono di Sua Santitàper rendergli conto degliaffari di cui era incaricatoe il papaprima di

dargli la parolanon poté trattenere i singhiozzi. Quando Sua Santità fuin grado di parlarecercò di consolare il

cardinale promettendogli che sarebbe stata fatta pronta e severa giustizia diun così grave delitto. Ma il cardinaledopo

aver ringraziato molto umilmente Sua Santitàlo supplicò di non ordinareinchieste su quanto era accadutoaffermando

che per parte sua perdonava di cuore al responsabilechiunque fosse. Esubito dopo questa preghieraespressa in poche

paroleil cardinale passò ad esaminare gli affari di cui era incaricatocome se non fosse accaduto niente di

straordinario.

Gli occhi di tutti i cardinali presenti al concistoro erano fissi sul papa esu Montalto; esebbene sia certamente

assai difficile ingannare l'occhio esperto dei cortigianinessuno osò direche il volto del cardinale Montalto avesse

tradito la minima emozione assistendo così da vicino ai singhiozzi di SuaSantità chea dire il veroera completamente

sconvolto. Questa insensibilità stupefacente del cardinale Montalto non sismentì mai durante tutto il tempo della sua

relazione a Sua Santità. Al punto che il papa stesso ne rimase colpito eterminato il concistoronon poté fare a meno di

dire al cardinale di San Sistoil nipote favorito:

«Veramentecostui è un gran frate

Il comportamento del cardinale Montalto rimase lo stesso nei giornisuccessivi. Ricevettesecondo l'usole

visite di condoglianza dei cardinalidei prelati e dei principi romaniecon nessuno di loroquali che fossero i suoi

rapporti con luisi lasciò andare alla minima parola di dolore o dilamento. Con tuttidopo un breve ragionamento

sull'instabilità delle cose umaneconfortato ed avvalorato da sentenze ecitazioni tratte dalle Sacre Scritture o dai testi

dei Padripresto cambiava discorso e si metteva a parlare delle notiziedella vita cittadina o degli affari particolari del

personaggio con cui si trovavaproprio come se avesse voluto consolare isuoi consolatori.

Roma era soprattutto curiosa di quello che sarebbe accaduto durante la visitache doveva fargli il principe

Paolo Giordano Orsiniduca di Braccianoal quale la voce pubblicaattribuiva la morte di Felice Peretti. Il popolo

pensava che il cardinale Montalto non avrebbe potuto stare così vicino alprincipee parlargli faccia a facciasenza

lasciar trasparire qualche indizio dei propri sentimenti.

Quando il principe si recò dal cardinalec'era una folla enorme in strada epresso la porta; un grande numero di

cortigiani riempiva tutte le stanze della casatanto grande era lacuriosità di osservare in volto i due interlocutori. Ma

né nell'uno né nell'altronessuno poté notare qualcosa di particolare. Ilcardinale Montalto si uniformò a quanto

prescrivevano le regole della corte; il suo volto assunse un'espressione diviva cordialitàe il suo modo di rivolgere la

parola al principe fu estremamente affabile.

Un attimo doporisalendo in carrozzail principe Paolosolo con i suoicortigiani intiminon poté fare a meno

di direridendo: «In fatto è vero che costui è un gran frate!»come se avesse voluto confermare la verità della frase

sfuggita al papa qualche giorno prima.

I saggi hanno pensato che la condotta tenuta in quella circostanza dalcardinale Montalto gli abbia aperto la via

del trono; molti infatti si fecero di lui quest'idea: chesia per natura siaper virtùnon potesse o non volesse nuocere a

nessunobenché avesse molti motivi di essere irritato.

Felice Peretti non aveva lasciato niente di scritto a proposito di suamoglie; perciò essa fu costretta a tornare

nella casa dei genitori. Il cardinale Montalto le fece consegnareprimadella partenzai vestitii gioiellie in genere tutti

i regali che lei aveva ricevuto durante il matrimonio con suo nipote.

Tre giorni dopo la morte di Felice PerettiVittoriaaccompagnata dallamadreandò a stabilirsi nel palazzo del

principe Orsini. Alcuni dissero che le due donne furono spinte a questo passodalla preoccupazione per la loro sicurezza

personaleperché la corte sembrava ritenerle come colpevoli dicomplicità con l'omicidio commessoo almeno di

esserne state a conoscenza prima dell'esecuzione; altri pensarono (e ciò cheaccadde più tardi sembrò confermare

quest'idea) che fossero state indotte a questo per concludere il matrimoniocol principeche aveva promesso a Vittoria

di sposarla non appena non avesse più marito.

Tuttaviané allora né più tardinon si è mai saputo niente di chiarosull'autore della morte di Felicebenché

tutti sospettassero di tutti. Ma i più attribuivano quella morte al principeOrsini; tutti sapevano che era stato innamorato

di Vittoriane aveva dato segni inequivocabili; e il matrimonio che seguìne fu una grande provaperché la donna era di

una condizione talmente inferiore che soltanto la passione d'amore potevaelevarla fino alla parità matrimoniale. Il

popolo non fu affatto sviato da questi suoi pensieri da una letteraindirizzata al governatore di Romae che fu divulgata

pochi giorni dopo il fatto. La lettera era scritta a nome di CesarePalantieriun giovane di carattere focoso e che era

stato bandito dalla città.

Nella letteraPalantieri diceva che non era necessario che sua signoriaillustrissima si desse la pena di cercare

altrove l'autore della morte di Felice Perettidal momento che l'aveva fattouccidere proprio luiin seguito a certe

controversie intercorse tra loro qualche tempo prima.

Molti pensarono che quell'assassinio non era stato commesso senza il consensodella famiglia Accorambonie i

fratelli di Vittoria furono accusati di essere stati sedotti dall'ambizionedella parentela con un principe così ricco e

potente. Fu accusato soprattutto Marcelloa causa dell'indizio fornito dallalettera che aveva fatto uscire di casa lo

sventurato Felice. Si parlò male anche di Vittoriaquando la si videaccettare di andare ad abitare nel palazzo Orsini

come futura sposaproprio subito dopo la morte del marito. Si sosteneva cheera assai improbabile che una persona19

arrivasse cosìin un batter d'occhioa servirsi delle armi cortesenzaaver mai fatto usoalmeno per un po'delle armi

lunghe.

L'istruttoria sul delitto fu condotta da monsignor Porticigovernatore diRomaper ordine di Gregorio XIII. Ci

si trova soltanto che quel Domenicosoprannominato Mancinoarrestatodalla corteconfessae senza aver subito la

tortura (tormentato)nel secondo interrogatorioin data 24 febbraio1582:

«Che la madre di Vittoria fu la causa di tuttoe che fu assecondata dalla camerieradi Bologna chesubito dopo

il delittosi rifugiò nella cittadella di Bracciano (appartenente alprincipe Orsini e in cui la corte non osò entrare)e che

gli esecutori del crimine furono Marchione di Gubbio e Paolo Barca diBraccianolancie spezzate (soldati) di un signore

del qualeper degne ragioninon si è inserito il nome.»

A queste degne ragioni si aggiunserocredole preghiere delcardinale Montaltoche chiese con insistenza che

le ricerche non procedessero oltree in effetti del processo non si parlòneanche più. Il Mancino fu messo fuori di

prigione con il precetto (ordine) di tornare immediatamente al suopaesepena la vitae di non allontanarsene mai senza

un apposito permesso. La scarcerazione di quest'uomo avvenne nel 1583ilgiorno di San Luigie poiché quel giorno

era anche quello della nascita del cardinale Montaltoquella circostanza miconferma l'idea che la faccenda si sia

conclusa così per suo intervento. Sotto un governo debole come quello diGregorio XIIIun tale processo poteva avere

conseguenze molto spiacevoli e senza contropartita.

Le ricerche della corte furono così sospesema il papa Gregorio XIIInon volle acconsentire a che il principe

Paolo Orsiniduca di Braccianosposasse la vedova Accoramboni. SuaSantitàdopo aver inflitto a quest'ultima una

specie di prigioneal principe e alla vedova dette il precetto di noncontrarre matrimonio senza un apposito permesso

suo O dei suoi successori.

Gregorio XIII morì (all'inizio del 1585)e poiché alcuni dottori in leggeconsultati dal principe Paolo Orsini

avevano risposto che secondo loro il precetto era annullato dallamorte di chi l'aveva impostoegli decise di sposare

Vittoria prima dell'elezione del nuovo papa. Ma il matrimonio non potéessere celebrato così presto come il principe

desideravain parte perché egli voleva il consenso dei fratelli di Vittoria(e avvenne che Ottavio Accorambonivescovo

di Fossombronenon volle mai concedere il suo)e in parte perché non siriteneva che l'elezione del successore di

Gregorio XIII potesse avvenire tanto rapidamente. Il fatto è che ilmatrimonio si fece nello stessogiorno in cui venne

eletto papa il cardinale Montaltocosì interessato a questa vicendacioèil 24 aprile 1585sia per effetto del casosia

che il principe volesse dimostrare che non temeva la corte sotto ilnuovo papacome non l'aveva temuta sotto Gregorio

XIII. Quel matrimonio offese profondamente l'animo di Sisto V (questo fu ilnome scelto dal cardinale Montalto); egli

aveva già abbandonato il modo di pensare che si conviene a un monacoedaveva elevato il suo spirito all'altezza del

grado nel quale Dio l'aveva appena collocato.

Il papa tuttavia non manifestò alcun segno di collera; solo chequando ilprincipe Orsiniquel giorno stessosi

presentò con la folla dei signori romani per baciargli il piedee conl'intenzione segreta di leggere nel volto del Santo

Padre che cosa potesse aspettarsi o temere da quell'uomo fino ad allora cosìpoco conosciutosi accorse che non era più

il tempo di scherzare. Dopo che il nuovo papa ebbe fissato il principe in unmodo singolaresenza rispondere una sola

parola ai complimenti che gli aveva rivoltodecise di indagareimmediatamente quali fossero le intenzioni di Sua

Santità nei suoi confronti.

Attraverso Ferdinandocardinale de' Medici (fratello della sua primamoglie)e dell'ambasciatore cattolico

chiese ed ottenne dal papa un'udienza nella sua camera: lì rivolse a SuaSantità un discorso ben calcolato esenza

neanche accennare alle cose passatesi rallegrò con lui per la sua nuovadignitàe gli offrìda fedelissimo vassallo e

servitoreogni suo avere ed ogni sua forza.

Il papa lo ascoltò con la massima serietàed alla fine gli rispose chenessuno più di lui desiderava che la vita e

le azioni di Paolo Giordano Orsini fossero nel futuro degne del sangue Orsinie di un vero cavaliere cristiano; che

quanto al suo rapporto passato con la Santa Sede e con la persona di luipapanessuno poteva dirglielo meglio della sua

stessa coscienza; che tuttavia luiprincipepoteva essere certo di unacosacioè che nello stesso modo in cui gli

perdonava volentieri ciò che aveva potuto fare contro Felice Peretti econtro lui stesso cardinale Montaltocosì non gli

avrebbe perdonato mai quanto avrebbe potuto fare in avvenire contro il papaSisto; e che perciò lo impegnava a cacciare

immediatamente dalla sua casa e dai suoi Stati tutti i banditi (esiliati) e imalfattori ai quali fino ad allora aveva

concesso asilo.

Qualunque tono usasseSisto V era sempre di una singolare efficaciamaquando era irritato e minacciososi

sarebbe detto che i suoi occhi lanciassero folgori. Sta di fatto che ilprincipe Orsinida sempre abituato ad essere temuto

dai papida questo modo di parlare del papatale che non ne aveva mai uditouno simile nel corso di tredici annifu

costretto a pensare così seriamente ai propri affari cheappena uscito dalpalazzo di Sua Santitàcorse dal cardinale de'

Medici a raccontargli cosa era accaduto. Poisu consiglio del cardinaledecise di congedare - senza il minimo indugio -

tutti quegli uomini ricercati dalla giustizia ai quali offriva asilo nel suopalazzo e nei suoi Statie pensò di trovare al più

presto un pretesto credibile per uscire immediatamente dai territoricontrollati dal potere di un pontefice così risoluto.

Bisogna sapere che il principe Paolo Orsini era diventato straordinariamentegrasso; le sue gambe erano più

grosse del corpo di un uomo normaleed una di queste gambe enormi eracolpita dalla malattia chiamata la lupa

chiamata così perché bisogna nutrirla con una grande quantità di carnefrescache viene applicata sulla parte malata;

altrimenti l'umore malignonon trovando carne morta da divorareaggredirebbe le carni vive che circondano la piaga.20

Il principe prese a pretesto questa malattia per recarsi ai celebri bagni diAbanopresso Padovapaese

dipendente dalla repubblica di Venezia; partì con la sua nuova sposa versola metà di giugno. Abano era per lui un porto

molto sicuro; infattida molti anni la casata Orsini era legata allarepubblica di Venezia da favori reciproci.

Giunto in quel paese sicuroil principe non pensò più ad altro che agodere dei piaceri di diversi soggiorni; a

questo scopo affittò tre magnifici palazzi: uno a Veneziail palazzoDandolonella via della Zecca; il secondo a Padova

e fu il palazzo Foscarinisulla magnifica piazza chiamata l'Arena; scelse ilterzo a Salòsulla deliziosa riva del lago di

Garda: quest'ultimo era appartenuto in altri tempi alla famigliaSforza-Pallavicini.

I signori di Venezia (il governo della repubblica) appresero con piacerel'arrivo di un tale principe nei loro

Statie gli offrirono subito una nobilissima condotta (cioè unasomma considerevole da pagarsi annualmentee che

doveva essere usata dal principe per organizzare un corpo di due o tremilauomini al servizio della Repubblicadi cui

avrebbe avuto il comando). Il principe respinse molto in frettaquell'offerta; fece rispondere ai senatori chepur

sentendosi portato di cuore a servire la Serenissima Repubblicaperinclinazione naturale e per tradizione di famiglia

tuttaviatrovandosi attualmente alle dipendenze del re cattolico non glisembrava opportuno accettare un altro ingaggio.

Una risposta così decisa raffreddò alquanto l'animo dei senatori:inizialmente avevano pensato di riservarglial suo

arrivo a Veneziaaccoglienze pubbliche molto onorevoli; dopo la sua rispostadecisero di lasciarlo arrivare come un

semplice privato.

Il principe Orsiniinformato di tuttodecise di non andarci neppureaVenezia. Era già nei dintorni di Padova:

fece un giro per quella splendida contradae con tutto il suo seguito sirecò nella casa che gli era stata preparata a Salò

sulle rive del lago di Garda. Vi passò l'intera estatetra gli svaghi piùgradevoli e svariati.

Quando giunse il momento di cambiare (soggiorno)il principe fece qualchebreve viaggiodopo di che gli

sembrò di non sopportar più la fatica come in altri tempitemette per lapropria salute; infine pensò di andare a passare

qualche giorno a Veneziama ne fu sconsigliato da sua moglieVittoriachelo convinse a rimanere ancora a Salò.

Ci fu chi pensò che Vittoria Accoramboni si rendesse conto del pericolo chestava correndo il principe suo

maritoe che lo abbia convinto a rimanere a Salò con l'idea di portarlopiù tardi fuori d'Italiaper esempio in qualche

libera cittàtra gli Svizzeri; in questo modoin caso di morte delprincipeessa avrebbe posto in salvo se stessa e i suoi

beni personali.

Che questa congettura fosse fondata o noil fatto è che non accadde nientedi tutto ciòperché il principe

trovandosi nuovamente indisposto a Salòil 10 novembre ebbe un chiaropresentimento di quanto stava per accadere.

Ebbe pietà della sua sventurata moglie: la vedevanel più bel fiore dellagioventùrestare priva di reputazione e

di mezziodiata dai principi che regnavano in Italiapoco amata dagliOrsini e senza la speranza di un nuovo

matrimonio dopo la sua morte. Da signore generoso e lealedi sua iniziativafece un testamentocon cui volle garantire

la fortuna di quella sventurata. Le lasciò la notevole somma di 100.000piastreoltre a tutti i cavallicarrozze e mobili di

cui si serviva in quel viaggio. Il resto del patrimonio lo lasciò a VirginioOrsinisuo figlio unicoche aveva avuto dalla

prima mogliesorella di Francesco Igranduca di Toscana (la stessa che feceuccidere per infedeltàcon il consenso dei

fratelli di lei).

Ma quanto sono incerte le previsioni umane! Le disposizioni che Paolo Orsinicredeva dovessero garantire una

perfetta sicurezza a quella sventurata giovane donna si trasformarono per leiin precipizi e rovina.

Firmato il testamentoil principe si sentì un po' meglio il 12 novembre. Lamattina del 13 gli fecero un salasso

e i medicisperando soltanto in una dieta severaprescrissero nella manierapiù decisa che assolutamente non doveva

mangiare.

Ma erano appena usciti dalla camera che il principe pretese che gli venisseservito il pranzo; nessuno osò

contraddirloed egli mangiò e bevve come d'abitudine. Appena terminato ilpastoperse conoscenza e due ore prima del

tramonto era morto.

Dopo questa morte così rapidaVittoria Accoramboniaccompagnata da suofratello Marcello e da tutta la

corte del principe defuntosi recò a Padovanel palazzo Foscarinipressol'Arenalo stesso che il principe Orsini aveva

affittato.

Poco dopo il suo arrivofu raggiunta dal fratello Flaminioche godeva delpieno favore del cardinale Farnese.

Si occupò allora dei passi necessari per ottenere il pagamento dei lascitidel maritoche ammontavano a 60.000 piastre

effettiveda pagarsi entro due annie ciò indipendentemente dalla dotedalla contro-doteda rutti i gioielli e mobili che

erano già nelle sue mani. Nel suo testamento il principe Orsini avevaordinato che venisse comprato alla duchessaa

Roma o in qualunque altra cittàa sua sceltaun palazzo del valore di10.000 piastre ed una vigna (casa di campagna)

del valore di 6.000; aveva inoltre prescritto che si provvedesse alla suatavola e a tutto il suo servizio come si conveniva

ad una donna del suo rango. Il servizio doveva essere di quaranta domesticicon un corrispondente numero di cavalli.

La signora Vittoria riponeva molte speranze nei favori dei principi diFerraradi Firenze e di Urbinoe in quelli

del cardinale Farnese e de' Medici nominati esecutori testamentari daldefunto principe.

È da notare che il testamento era stato redatto a Padova e sottoposto ailumi degli eccellentissimi Parrizolo e

Menocchioprimi professori di quell'università ed oggi giureconsulti cosìfamosi.

Il principe Luigi Orsini arrivò a Padova per sbrigare tutto quello che c'erada fare nei riguardi del duca defunto

e della sua vedovae recarsi quindi ad assumere il governo dell'isola diCorfùcui era stato nominato dalla repubblica

serenissima.

Tra la signora Vittoria e il principe Luigi sorse subito una difficoltà aproposito dei cavalli del duca defunto; il

duca diceva che non erano propriamente dei mobilinel senso comune dellaparola; ma la duchessa dimostrò che21

dovevano essere considerati dei veri e propri mobilie fu convenuto che neavrebbe mantenuto l'uso fino ad una

decisione ulteriore; essa dette per garante il signor Soardi di Bergamocondottiero della Signoria di Venezia

gentiluomo molto ricco e tra i primi della sua patria.

Sorse un'altra difficoltà a proposito di una certa quantità di vasellamed'argento che il duca defunto aveva

consegnato al principe Luigi come pegno di una somma d'argento che questi gliaveva prestato. Tutto fu risolto per via

di giustiziaperché il serenissimo (duca) di Ferrara si adoperava affinchéle ultime volontà del defunto principe Orsini

fossero interamente eseguite.

Questo secondo affare fu discusso il 23 dicembreche era una domenica.

La notte seguentequaranta uomini entrarono nella casa della suddettasignora Accoramboni. Erano vestiti di

abiti di tela di foggia stravagantee combinati in modo da non poter esserericonosciuti se non dalla voce; quando si

chiamavano tra lororicorrevano a nomi di gergo.

Cercarono subito la duchessa etrovatalauno di loro le disse: «Orabisogna morire.»

E senza concederle un solo istante malgrado che lei chiedesse di potersiraccomandare a Diocon un pugnale

sottile la trafisse sopra il seno sinistroe - muovendo il pugnale in ognidirezione - quel crudele chiese più volte alla

sventurata di dirgli se le toccava il cuore; finalmente essa esalò l'ultimorespiro. Intanto gli altri cercavano i fratelli della

duchessa; unoMarcelloebbe salva la vita perché non fu trovato in casa;l'altro fu trafitto da cento colpi. Gli assassini

lasciarono i morti per terratutta la casa piena di pianti e grida; edopoessersi impadroniti della cassetta che conteneva i

gioielli e il denarose ne andarono. La notizia giunse rapidamente aimagistrati di Padova; essi fecero riconoscere i

corpie riferirono a Venezia.

Durante tutta la giornata di lunedìimmensa fu l'affluenza al suddettopalazzo e alla chiesa degli Eremiti per

vedere i cadaveri. I curiosi erano mossi a pietàsoprattutto vedendo laduchessa così bella; piangevano la sua sventura

et dentibus fremebant (e digrignavano i denti) contro gli assassini; manon si conoscevano ancora i loro nomi.

La cortesospettando - sulla base di indizi chiari - che la cosafosse avvenuta su ordineo almeno con il

consensodel suddetto principe Luigilo fece chiamaree poiché lui volevaentrare in corte (nel tribunale)

dell'illustrissimo capitano con un seguito di quaranta uomini armatiglivennero chiuse le porte in facciae gli fu detto

che sarebbe potuto entrare soltanto con tre o quattro uomini. Manel momentoin cui questi passavanogli altri si

precipitarono dietro di lorospinsero le guardie ed entrarono tutti.

Il principe Luigigiunto di fronte all'illustrissimo capitanosi lamentòdi un tale affrontoaggiungendo che non

era mai stato trattato così da nessun principe sovrano. L'illustrissimocapitano gli chiese se sapeva qualcosa sulla morte

della signora Vittoriae cosa era accaduto la notte primalui rispose disìche aveva fatto avvisare la giustizia. Si volle

mettere per iscritto la sua risposta; lui rispose che gli uomini del suorango non erano tenuti a questa formula e cheper

la stessa ragionenon dovevano essere interrogati.

Il principe Luigi chiese il permesso di inviare un corriere a Firenze con unalettera per il principe Virginio

Orsiniin cui informarlo del processo e del delitto intervenuto. Mostrò unalettera falsache non era quella veraed

ottenne quanto chiedeva.

Ma l'uomo da lui inviato fu arrestato fuori città e accuratamenteperquisito; fu trovata la lettera che il principe

Luigi aveva mostratoed una seconda nascosta in uno stivale del corrieredel seguente tenore:

«AL SIGNORE VIRGINIO ORSINI

Illustrissimo Signore

Abbiamo eseguito quanto era stato convenuto tra noie in tal modo cheabbiamo ingannato l'illustrissimo

Tondini (evidentemente il nome del capo della corte che avevainterrogato il principe)tanto che qui vengo considerato

l'uomo più onesto del mondo. Ho fatto la cosa di personacosì non mancatedi inviare immediatamente la gente che

sapete.»

La lettera impressionò i magistratiche si affrettarono ad inviarla aVenezia; su loro ordinele porte della città

furono chiusee le mura guernite di soldati giorno e notte. Fu pubblicato unavviso che sanzionava pene severe per

chiunque - sapendo qualcosa degli assassini - non comunicasse alla giustiziaquello che sapeva. Quegli tra gli assassini

che avessero testimoniato contro uno di loro non avrebbero avuto fastidianzi avrebbero ricevuto una somma in denaro.

Maverso le sette di nottela vigilia di Natale (il 24 dicembreversomezzanotte)Alvise Bragadin giunse da Venezia

con ampi poteri da parte del Senatoe l'ordine di arrestare vivi o mortiaqualunque costoil suddetto principe e tutti i

suoi.

Il suddetto signor avogador Bragadinil signor capitano e il signor podestàsi riunirono nella fortezza.

Pena il patibolo (della forca)si ordinò a tutta la milizia a piedie a cavallo di recarsi bene armata intorno alla

casa del suddetto principe Luigiche era vicina alla fortezza e attigua allachiesa di Sant'Agostino sull'Arena.

Giunto il giorno (che era quello di Natale)in città fu pubblicato uneditto che esortava i figli di San Marco a

correre in armi alla casa del signor Luigi; coloro che non avessero armi sirecassero alla fortezzadove ne avrebbero

ricevute a volontà; l'editto prometteva una ricompensa di 2000 ducati a chiavesse consegnato alla corte il suddetto

signor Luigivivo o mortoe 500 ducati per ognuno dei suoi. Inoltresiordinava a chiunque fosse sprovvisto di armi di

non avvicinarsi alla casa del principeper non essere di ostacolo a chicombattesse nel caso che il principe ritenesse

opportuno fare qualche sortita.22

Nello stesso tempofurono piazzati fucili da posizionemortai e artiglieriapiù pesante sulle vecchie muradi

fronte alla casa occupata dal principee altrettanto si fece sulle murenuovesulle quali dava la parte posteriore della

casa. Su quel lato era stata disposta la cavalleriain modo che potessemuoversi liberamente in caso di necessità. Sulle

rive del fiumetutti erano impegnati a disporre banchiarmadicarri ealtri mobili adatti a costituire ripari. In questo

modo si pensava di ostacolare i movimenti degli assediatiqualoraprendessero l'iniziativa di marciare in ordine serrato

contro il popolo. Quei ripari dovevano inoltre proteggere gli artiglieri e isoldati dai colpi di archibugio degli assediati.

Poi furono piazzate delle barche sulla rivadi fronte e sui fianchi dellacasa del principecariche di uomini

armati di moschetti e di altre armi adatte a disturbare il nemico qualoratentasse una sortita: contemporaneamente

vennero erette barricate in tutte le strade.

Durante quei preparativiarrivò una letterascritta in termini assaicorrettiin cui il principe si lamentava di

essere giudicato colpevole e di vedersi trattato da nemicoanzi da ribelleprima che si fosse tenuto il processo. La

lettera era stata stilata da Liverotto.

Il 27 dicembretre gentiluominitra i principali della cittàfuronoinviati dai magistrati al signor Luigi che

aveva con sénella casaquaranta uominitutti vecchi soldati espertinell'uso delle armi.

I tre gentiluomini dichiararono al principe che i magistrati erano decisi acatturarlo; lo esortarono ad arrendersi

aggiungendo checomportandosi in quel modoprima si passasse alle vie difattopoteva sperare nella loro

misericordia. Il signor Luigi rispose che seinnanzituttofossero statetolte le guardie schierate intorno alla sua casasi

sarebbe recato dai magistrati per trattare la cosaaccompagnato da due o tredei suoi ed a condizione di essere libero di

rientrare nella sua casa.

Gli ambasciatori raccolsero quelle proposte scritte di suo pugnoe tornaronodai magistrati che rifiutarono le

sue condizionispecialmente su consiglio dell'illustrissimo Pio Enea edi altri nobili presenti. Gli ambasciatori

tornarono dal principe e gli annunciarono chese non si fosse semplicementearresogli avrebbero raso al suolo la casa

con l'artiglieriaal che lui rispose che preferiva la morte a quell'atto disottomissione.

I magistrati dettero il segnale della battaglia esebbene fosse possibiledistruggere quasi interamente la casa

con una sola scaricasi preferì agire all'inizio con una certa cautelapervedere se gli assediati avrebbero accettato di

arrendersi.

Questo piano ha avuto successorisparmiando a San Marco molto denaro chesarebbe stato speso per

ricostruire le parti distrutte del palazzo attaccato; tuttavia non è statoapprovato da tutti. Se gli uomini del signor Luigi si

fossero decisi senza esitare e si fossero lanciati fuori dalla casailsuccesso sarebbe stato molto incerto. Erano vecchi

soldati; non mancavano di munizioniné di arminé di coraggioesoprattutto un interesse enorme a vincere; non era

forse meglio per lorose le cose si fossero messe malemorire per un colpodi archibugio piuttosto che per mano del

boia? E poicon chi avevano a che fare? con dei poveri assedianti pocopratici di armie i signori in questo caso si

sarebbero pentiti della propria clemenza e della propria naturale bontà.

Si cominciò dunque col tirare sul colonnato di fronte alla casa; poitirando sempre più in altofu distrutto il

muro della facciata posteriore. Intanto quelli di dentro tirarono molti colpidi archibugiosenza altro risultato che ferire

alle spalle un popolano.

Il signor Luigi gridava con grande impeto: «Battaglia! battaglia! guerra!guerra!» Era occupatissimo a far

fondere palle con lo stagno dei piatti ed il piombo dei vetri delle finestre.

Minacciava di fare una sortitama gli assedianti presero delle nuove misuree venne fatta avanzare artiglieria

più pesante.

Al primo colpo che questa tiròfece crollare un grande pezzo della casaeun certo Pandolfo Leupratti da

Camerino cadde tra le rovine. Era un uomo molto coraggioso ed un banditoassai importante. Era bandito dagli Stati

della Santa Chiesae sulla sua testa era stata posta una taglia di 400piastre dall'illustrissimo signor Vitelli in seguito

alla morte di Vincenzo Vitelliche era stato attaccato nella sua carrozza eucciso a colpi di archibugio e di pugnalead

opera del principe Luigi Orsini con l'aiuto del suddetto Pandolfo e dei suoicompagni. Completamente stordito per la

cadutaPandolfo non poteva muoversi; un servitore dei signori Ca' di Listagli si avvicinò armato di pistolae molto

coraggiosamente gli tagliò la testa che si affrettò a portare alla fortezzae a consegnare ai magistrati.

Poco dopoun altro colpo di artiglieria fece cadere un'ala della casaeinsieme con quella il conte

Montemelinoda Perugiache morì tra le rovinecompletamente maciullatodal proiettile.

Si vide poi uscire dalla casa un personaggio chiamato il colonnello Lorenzonobile di Camerinouomo molto

ricco e che in numerose occasioni aveva dato prove di valore ed era moltostimato dal principe. Egli decise di non

morire del tutto invendicato; volle sparare col suo fucilema nonostante larotella girasseaccadde cheforse per

intervento divinola polvere non prese fuocoe in quell'istante egli ebbeil corpo trapassato da una palla. Il colpo era

stato sparato da un povero diavoloripetitore nelle scuole di San Michele. Ementreper guadagnarsi la ricompensa

promessaquesti si avvicinava per tagliargli la testafu preceduto da altripiù svelti e soprattutto più forti di luiche

presero la borsail fucileil denaro e gli anelli del colonnelloe glitagliarono la testa.

Morti costoronei quali il principe Luigi riponeva la maggiore fiduciaeglirestò molto turbatoe non lo si vide

più compiere alcun gesto.

Il signor Filelfisuo maestro di casa e segretario in abiti civilida un balcone con un fazzoletto bianco fece

segno che si arrendeva. Uscì e fu condotto alla cittadellacondottosottobracciocome dicono si usi in guerrada

Anselmo Suardoluogotenente dei signori (magistrati). Interrogatoimmediatamentedisse che non aveva nessuna colpa23

di quanto era accadutoperché era giunto solo alla vigilia di Natale daVeneziadove si era fermato molti giorni per gli

affari del principe.

Gli chiesero quanta gente avesse con sé il principe; rispose: venti o trentapersone.

Gli chiesero i loro nomied egli rispose che ce n'erano otto o dieci cheessendo persone di qualitàcome lui

mangiavano alla tavola del principee di questi conosceva i nomima quantoagli altrivagabondi e da poco al servizio

del principenon li conosceva particolarmente.

Fece i nomi di tredici personecompreso il fratello di Liverotto.

Poco dopol'artiglieria piazzata sulle mura della città cominciò asparare. I soldati si appostarono nelle case

adiacenti a quella del principe per impedire la fuga dei suoi uomini. Ilsuddetto principeche aveva corso gli stessi

pericoli dei due di cui abbiamo raccontato la mortedisse a quanti glistavano intorno di resistere fino a quando non

vedessero uno scritto di suo pugno accompagnato da un certo segnale; quindisi arrese a quell'Anselmo Suardo già

nominato. E poiché non fu possibile condurlo in carrozza - come eraprescritto - a causa della gran folla di popolo e

delle barricate nelle stradefu deciso che andasse a piedi.

Camminò in mezzo agli uomini di Marcello Accoramboni: era circondato daisignori condottieriil

luogotenente Suardoaltri capitani e gentiluomini della cittàtutti benearmati. Dietro a lorouna buona compagnia di

uomini d'arme e soldati della città. Il principe Luigi camminava vestito dibrunolo stiletto alla cinturail mantello

rialzato su un braccio con aria molto elegante; con un sorriso pieno disdegno disse: «Se avessi combattuto!» volendo

più o meno far capire che avrebbe vinto. Condotto davanti ai signorisubitoli salutò e disse:

«Signorisono prigioniero di questo gentiluomo» e indicò il signorAnselmo«e sono molto dispiaciuto di

quanto è successo e che non è dipeso da me.»

Il capitano ordinò che gli fosse tolto lo stiletto che aveva al fianco;allora si appoggiò ad un balconee

cominciò a tagliarsi le unghie con un paio di forbicine che vi trovò.

Gli chiesero quali persone si trovavano nella sua casa; tra gli altri nominòil colonnello Liverotto e il conte

Montemelino di cui si è parlato primaaggiungendo che avrebbe dato 10.000piastre per riscattare l'unoe che per l'altro

avrebbe dato il suo stesso sangue. Chiese di essere messo in un luogoconveniente ad un uomo della sua condizione.

Definito l'accordodi suo pugno scrisse ai suoiordinando loro diarrendersie dette il proprio anello come segno di

riconoscimento. Al signor Anselmo disse che gli donava la sua spada e il suofucilepregandoloquando si sarebbero

trovate le sue armi nella casadi servirsene per amor suotrattandole comearmi di un gentiluomo e non di un qualunque

volgare soldato.

I soldati entrarono nella casala perquisirono con curae immediatamente sifece l'appello degli uomini del

principetrentaquattroche poi furono condotti a due a due nella prigionedel palazzo. I morti furono lasciati in preda ai

canie ci si affrettò a render conto di tutto a Venezia.

Ci si accorse che molti uomini del principe Luigicomplici del fattonon sitrovavano; fu proibito di dar loro

asilopena - per chi contravvenisse - la demolizione della casa e laconfisca dei beni; chi li avesse denunciati avrebbe

ricevuto cinquanta piastre.

In questo modose ne trovarono molti.

Da Venezia fu inviata una fregata a Candiaportando al signor Latino Orsinil'ordine di tornare

immediatamente per un affare di grande importanzae si ritiene che perderàil suo incarico.

Ieri mattinagiorno di Santo Stefanotutti si aspettavano di veder morireil suddetto principe Luigio di sentir

raccontare che era stato strangolato in prigione; si fu generalmente stupitiche non fosse andata cosìvisto che non è un

uccello da tenere in gabbia troppo a lungo. Ma la notte seguente fu fatto ilprocessoe il giorno di San Giovanniun po'

prima dell'albasi seppe che il suddetto signore era stato strangolato edera morto molto ben disposto. Senza perdere

tempo il suo corpo fu trasportato nella cattedraleaccompagnato dal clero diquella chiesa e dai padri gesuiti. Per tutto il

giorno fu lasciato su una tavola al centro della chiesaper servire daspettacolo al popolo e da esempio agli inesperti.

L'indomani il suo corpo fu portato a Veneziacome egli aveva ordinato nelsuo testamentoe lì fu sepolto.

Il sabato furono impiccati due dei suoi uomini; il primo e più importante fuFurio Savornianol'altro un

individuo di poco conto.

Il lunedìil penultimo giorno dell'anno suddettone furono impiccatitredici tra cui parecchi che erano

nobilissimi; altri dueuno detto il capitano Splendiano e l'altro il contePaganellofurono condotti per la piazza e

leggermente attanagliati; arrivati sul luogo del suppliziofurono percossicon le mazzeebbero la testa rotta e furono

squartati quando erano ancora quasi vivi. Quegli uomini erano nobili eprimadi darsi al maleerano molto ricchi. Si

dice che il conte Paganello sia stato quello che ammazzò la signoraVittoriacon la crudeltà che è stata raccontata. A ciò

si obietta che il principe Luiginella lettera succitatadichiara di averfatto la cosa di sua mano; ma forse fu per

vanagloriacome quella che mostrò a Roma facendo assassinare il Vitellioppure per meritare ancora di più il favore

del principe Virginio Orsini.

Il conte Paganelloprima di ricevere il colpo mortalefu trafitto a piùriprese con un coltello nella parte sinistra

del pettoper toccargli il cuore come lui aveva fatto a quella poverasignora. Perdeva dal petto un fiume di sangue.

Visse così per più di una mezzoracon grande stupore di tutti. Era un uomodi quarantacinque anni che mostrava una

grande forza.

Le forche dei patiboli sono ancora in piedi per sbrigare i diciannove cherestanoil primo giorno che non sarà

di festa. Ma poiché il boia è molto stancoe il popolo è come in agoniaper aver visto tanti mortidurante questi due

giorni l'esecuzione è rinviata. Non si ritiene che qualcuno venga lasciatoin vita. Forsetra le persone del seguito del24

principe Luigifarà eccezione il solo signor Filelfisuo maestro di casache si dà un gran da fareper dimostrare che

non ha preso parte al fattoe in effetti la cosa è importante per lui.

Anche tra i più anziani di questa città di Padovanessuno ricorda che maicon sentenza più giustasi sia

proceduto contro la vita di tante persone in una volta sola. E i signori (diVenezia) si sono procurati fama e reputazione

presso le nazioni più civili.

(Aggiunto da un'altra mano)

Francesco Filelfisegretario e maestro di casafu condannato aquindici anni di prigione. Il coppiere Onorio

Adami da Fermocome altri duead un anno di prigione; altri sette furonocondannati alle galere coi ferri ai piedi; e

sette infine furono rimessi in libertà.

I CENCI

1599

Il don Giovanni di Molière è senza dubbio galantema innanzi tutto uomo dimondo; prima di abbandonarsi

all'inclinazione irresistibile che lo spinge verso le belle donnetiene aconformarsi a un certo modello idealevuol essere

fra tutti il più ammirato alla corte di un giovane re galante e spiritoso.

Il don Giovanni di Mozart è già più vicino alla naturae meno francesepensa di meno all'opinione altrui; non

si preoccupaprima di tuttodi parestredi far bella figuracomedice il barone di Foeneste del d'Aubigné. Abbiamo

solo due ritratti del don Giovanni italianoquale dovette mostrarsi in quelbel paese nel XVI secoloall'alba della

rinascente civiltà.

Di questi due ritrattice n'è uno che non posso assolutamente farconoscereil nostro secolo è troppo

formalista; gioverà ricordare le famose parole che ho sentito ripetere tantevolte da lord Byron: This age of cant.

Quest'ipocrisia così noiosa e che non inganna nessuno ha l'immenso vantaggiodi offrire qualche argomento di

conversazione agli sciocchi: si scandalizzano perché si è osato dire la talcosa; perché si è osato ridere della talaltraecc.

Il suo svantaggio è di restringere infinitamente il campo della storia.

Se il lettore ha la bontà di permettermelogli presenteròin tuttaumiltàuna notizia storica sul secondo dei don

Giovanni di cui è possibile parlare nel 1837; si chiamava Francesco Cenci.

Perché il don Giovanni possa esisterebisogna che nel mondo vi sial'ipocrisia. Don Giovanni sarebbe stato un

effetto senza causa nell'antichità; la religione era una festaesortava gliuomini al piacere; come avrebbe potuto

condannare degli esseri dediti unicamente ad un certo piacere? Solo ilgoverno invitava ad astenersi; proibiva quanto

poteva nuocere alla patriacioè al beninteso interesse di tuttie non quelche può nuocere all'individuo che agisce.

Ad Atenechiunque avesse la passione delle donne e molto denaro potevaquindi essere un don Giovanni

nessuno ci trovava da ridire; nessuno pensava che questa vita è una valle dilacrimee che è cosa meritoria infliggersi

delle sofferenze.

Non credo che il don Giovanni ateniese potesse arrivare fino al delitto cosìrapidamente come il don Giovanni

delle monarchie moderne; gran parte del suo piacere consiste nello sfidarel'opinione pubblicamentreda giovaneha

esordito immaginando di sfidare soltanto l'ipocrisia.

Violare le legginella monarchia tipo Luigi XVtirare una fucilata a uncarpentiere e farlo ruzzolare giù dal

tettonon è forse una dimostrazione che si vive nella familiarità delprincipeche si ha un'ottima educazionee ci si

burla altamente del giudice? Burlarsi del giudice non è forse ilprimo passola prima prova del piccolo don Giovanni al

suo debutto?0

Da noile donne non sono più di modaper questo i don Giovanni sono rari;ma quando ce n'erano

cominciavano sempre col cercar piaceri molto naturalipur vantandosi disfidare quelle chenella religione dei

contemporaneisembravano loro delle idee non fondate sulla ragione. Soltantopiù tardiquando comincia a pervertirsi

il don Giovanni trova una squisita voluttà nello sfidare le opinioni chesembrano anche a lui giuste e ragionevoli.

Questo passaggio doveva essere molto difficile nell'antichitàe solo aitempi degli imperatori romanidopo

Tiberio e Caprisi trovano dei libertini che amano la corruzione per sestessacioè per il piacere di sfidare le ragionevoli

opinioni dei loro contemporanei.

Sicché è alla religione cristiana che va attribuitaa mio avvisolapossibilità del personaggio satanico di don

Giovanni. Fu senza dubbio questa religione a insegnare al mondo che un poveroschiavoun gladiatoreaveva un'anima

assolutamente egualein potenzaa quella dello stesso Cesare; si deve adessaperciòla comparsa dei sentimenti più

delicati; io non dubitodel restoche presto o tardi questi sentimenti sisarebbero fatti strada in seno ai popoli. L'Eneide

è già molto più tenera dell'Iliade.

La dottrina di Gesù era quella dei filosofi arabi suoi contemporanei;l'unica novità che sia comparsa nel mondo

in seguito ai principi predicati da san Paoloè un corpo sacerdotaleassolutamente separato dal resto dei cittadinianzi

con opposti interessi.

Questo corpo si dedicò in modo esclusivo a coltivare e rafforzare il sentimentoreligioso; inventò illusioni e

abitudini per commuovere gli spiriti d'ogni classe socialedal rozzo pastoreal vecchio cortigiano navigato; seppe legare25

il suo ricordo alle dolci impressioni della prima infanzia; non lasciòpassare la più piccola epidemia o la più piccola

catastrofe senza approfittarne per raddoppiare la paura e il sentimentoreligiosoo almeno per costruire una bella chiesa

come la Salute a Venezia.

L'esistenza di questo corpo produsse un mirabile evento: san Leone papacheresistette senza forza fisica al

feroce Attila e alle sue schiere di barbari che avevano già atterrito laCinala Persia e le Gallie.

Cosìla religionecome quel potere assoluto temperato da canzonette chesi chiamava «monarchia francese»

ha prodotto fenomeni singolari che il mondoforsenon avrebbe mai veduto sefosse stato privato di queste due

istituzioni.

Fra questi fenomeni buoni o cattivima sempre singolari e curiosie cheavrebbero stupito AristotelePolibio

Augusto e gli altri grandi ingegni dell'antichitàpongo senza esitare ilcarattere tipicamente moderno di don Giovanni.

Èsecondo meun prodotto delle istituzioni ascetiche dei papivenuti dopo Lutero; perché Leone X e la sua corte (1506)

seguivano press'a poco gli stessi principi della religione ateniese.

Il Don Giovanni di Molière fu rappresentato all'inizio del regno diLuigi XIVil 15 febbraio 1665; questo

sovrano non era ancora bigottoe tuttavia la censura ecclesiastica fecesopprimere la scena del povero nella foresta. La

censuraper rafforzarsi un po'voleva persuadere il giovane recosìprodigiosamente ignoranteche la parola

giansenista era sinonimo di repubblicano.

L'originale è di uno SpagnoloTirso de Molina; una compagnia italiana nerecitava un'imitazione a Parigi verso

il 1004e faceva furore. È probabilmente la commedia più rappresentata nelmondo. Il fatto è che vi compaiono il

diavolo e l'amorel'inferno e l'esaltata passione per una donnacioèquanto vi è di più terribile e di più dolce per tutti gli

uomini che siano appena un po' al di sopra dello stato selvaggio.

Non sorprende che la figura di don Giovanni sia stata introdotta nellaletteratura da un poeta spagnolo. L'amore

occupa un gran posto nella vita di quel popolo; laggiùè una passioneverache si fa sacrificared'imperiotutte le altre

e perfinochi l'avrebbe detto? la vanità! Lo stesso avviene inGermania e in Italia. A ben vederesolo la Francia si è

completamente liberata da tale passioneche fa commettere tante follie aglistranieri: per esempiosposare una ragazza

poveracol pretesto che è bella e se ne è innamorati. In Francia leragazze prive di bellezza non sono prive di

ammiratori; siamo gente avveduta. Altrovesono ridotte a farsi monacheeper questo i conventi sono indispensabili in

Spagna. Le ragazze non hanno dote in quel paeselegge che ha mantenuto iltrionfo dell'amore. In Francial'amore non

si è forse rifugiato al quinto pianocioè tra le ragazze che non sisposano con la mediazione del notaio di famiglia?

Non è il caso di parlare del don Giovanni di lord Byronè soltanto un Faublasun bel giovane insignificante

sul quale piovono inverosimili fortune di tutti i generi.

È in Italiaquindie solo nel XVI secoloche dovette apparireper laprima voltaquesto carattere singolare. In

Italiadove nel XVI secolo una principessa dicevaassaporando con deliziaun gelatola sera di una giornata molto

calda: Peccato che non sia un peccato!

Questo sentimento costituiscesecondo mela base del carattere di donGiovanniecome si vedela religione

cristiana gli è necessaria.

A questo proposito un autore napoletano esclama: «È forse una cosa da nullasfidare il cieloe credere che in

quello stesso momento il cielo può ridurvi in cenere? Da qui l'estremavoluttàa quanto si dicedi avere un'amante

religiosadi una religiosità ardenteche sa benissimo di far maleechiede perdono a Dio con passionecosì come pecca

con passione».

Immaginiamo un cristiano estremamente perversonato a Roma nel momento incui il severo Pio V aveva

appena ripristinato o inventato una serie di pratiche minuziose assolutamenteestranee alla semplice morale che chiama

virtù solo ciò che è utile agli nomini. Un'inquisizioneinesorabiletalmente inesorabile che in Italia durò pocoe dovette

rifugiarsi in Spagnaera stata proprio allora rafforzata e faceva paura atutti. Per qualche annosi comminarono

gravissime pene per l'inosservanza o il vilipendio pubblico di quelle piccolepratiche minuzioseinnalzate al rango dei

doveri più sacri della religione; quel perverso Romano avrà alzato lespalle vedendo la massa dei cittadini tremare

davanti alle terribili leggi dell'inquisizione.

«Ebbene!» si sarà detto«sono l'uomo più ricco di Romacapitale delmondo; sarò anche il più coraggioso;

sbeffeggerò pubblicamente tutto ciò che la gente rispettae che è cosìlontano da quel che si deve rispettare.»

Perché un don Giovanniper essere taledev'essere uomo di coraggio epossedere lo spirito lucido e vivo che fa

veder chiaro nel moventi delle azioni umane.

Francesco Cenci si sarà detto: «Con quali azioni eloquentiio Romanonatoa Roma nel 1527proprio nei sei

mesi in cui i soldati luterani del conestabile di Borbone vi commiserocontro le cose santele più atroci profanazioni;

con quali azioni potrei far risaltare il mio coraggioe procurarminel modopiù completoil piacere di sfidare l'opinione

pubblica? Come potrei stupire i miei sciocchi contemporanei? Come potreiprocurarmi il vivissimo piacere di sentirmi

diverso da tutto questo volgo?»

Non era neppur concepibile per un Romanoe un Romano del medioevolimitarsia semplici parole. In nessun

paese le fanfaronate sono più disprezzate che in Italia.

L'uomo che poteva parlar così a se stesso si chiamava Francesco Cenci: fuucciso sotto gli occhi di sua figlia e

di sua moglieil 15 settembre 1598. Nulla di amabile ci resta di questo donGiovanniil suo carattere non fu affatto

addolcito e sminuito dal proposito di essereprima di tuttouomo dimondocome il don Giovanni di Molière.

Pensava agli altri uomini solo per affermare la sua superiorità su di essiservirsene per i suoi disegni o odiarli.

Il don Giovanni non ricava mai piacere dalle simpatiedalle dolcifantasticherie o illusioni di un cuore tenero. Ha26

bisognoprima di tuttodi piaceri che siano trionfiche possano esserveduti dagli altriche non possano essere negati;

gli ci vuole la lista spiegata dall'insolente Leporello davanti agli occhidella triste Elvira.

Il don Giovanni romano si è ben guardato dall'insigne goffaggine di fornirela chiave del suo caratteree di far

confidenze a un lacchècome il don Giovanni di Molière; è vissuto senzaconfidentie ha pronunciato soltanto le parole

utili per la realizzazione dei suoi progetti. Nessuno poté vedere inlui quei momenti di autentica tenerezza e di

seducente allegria che ci fanno perdonare al don Giovanni di Mozart; in unaparolail ritratto che ora vi presenterò è

atroce.

Per mia sceltanon avrei descritto questo carattere: mi sarei accontentatodi studiarloperché è più orribile che

bizzarro; ma confesso che mi è stato chiesto da certi compagni di viaggio aiquali non potevo rifiutare nulla. Nel 1823

ebbi la fortuna di visitare l'Italia con persone amabilie che nondimenticherò mai; come loro fui affascinato dal

meraviglioso ritratto di Beatrice Cenciche si vede a Romaa palazzoBarberini.

La galleria del palazzo è ora ridotta a sette o otto quadri; ma quattro sonodei capolavori: prima di tutto il

ritratto della celebre Fornarinal'amante di Raffaelloopera diRaffaello stesso. Questo ritrattosulla cui autenticità non

può elevarsi alcun dubbioperché ne esistono delle copie contemporaneeètutto diverso dalla figura chealla

pinacoteca di Firenzeè presentata come il ritratto dell'amante diRaffaelloed è stata incisasotto questo nomeda

Morghen. Il ritratto fiorentino non è nemmeno di Raffaello. In grazia diquesto grande nomeil lettore vorrà perdonare

la piccola digressione?

Il secondoprezioso ritratto della galleria Barberini è di Guido; è ilritratto di Beatrice Cencidi cui si vedono

tante cattive incisioni. Il grande pittore ha drappeggiato sul collo diBeatrice un lembo di panno insignificante: le ha

avvolto intorno al capo un turbante; avrebbe temuto di spingere la veritàfino all'orrorese avesse riprodotto con

esattezza l'abito che si era fatta fare per presentarsi all'esecuzionee icapelli in disordine di una povera ragazza di sedici

anni che si è appena abbandonata alla disperazione. La testa è soave ebellalo sguardo dolcissimo e gli occhi molto

grandi: hanno l'aria stupita d'una persona che sia stata sorpresa nel momentoin cui piangeva a calde lacrime. I capelli

sono biondi e molto belli. Questa testa non ha nulla della fierezza romana edella coscienza delle proprie forzequale si

scorge spesso nello sguardo sicuro «di una figlia del Tevere» comesi autodefiniscono con orgoglio le Romane.

Purtroppo le mezzetinte hanno dato nel rosso mattone durante il lungointervallo di duecentotrentotto anniche ci separa

dalla catastrofe di cui si leggerà ora il racconto.

Il terzo ritratto della galleria Barberini è quello di Lucrezia Petronimatrigna di Beatriceche fu giustiziata con

lei. È il tipo della matrona romana in tutta la sua bellezza e fierezzanaturale. I lineamenti sono grandi e la carnagione di

smagliante candorele sopracciglia nere e assai marcatelo sguardo èimperioso e nello stesso tempo carico di voluttà. E

un bel contrasto con la figura così dolcecosì semplicequasi germanicadella figliastra.

Il quarto ritrattobrillante per la verità e lo splendore dei colorièuno dei capolavori di Tiziano; è una schiava

greca che fu l'amante del famoso doge Barbarigo.

Quasi tutti gli stranieri che arrivano a Roma si fanno condurrefindall'inizio del loro giroalla galleria

Barberini; sono attiratisoprattutto le donnedai ritratti di BeatriceCenci e della sua matrigna. Ho condiviso la curiosità

comune; poicome tutti quantiho cercato di ottenere visione degli atti diquel celebre processo. Se si ha tanto credito

da ottenerlisi resterà stupefattiio credoleggendo quei documentichesono tutti in latino eccetto le risposte degli

accusatidi non trovare quasi la spiegazione degli avvenimenti. Il fatto èche a Romanel 1599nessuno li ignorava. Ho

acquistato il permesso di copiare un resoconto contemporaneo; ho creduto dipoterlo tradurre senza trasgredire nessuna

regola di convenienza; perlomeno questa traduzione poté essere letta ad altavoce davanti alle signorenel 1823.

Benintesoil traduttore cessa di essere fedele quando non può più esserlo:l'orrore avrebbe facilmente il sopravvento

sulla semplice curiosità.

Il tristo personaggio del don Giovanni puro (quello che non cerca diconformarsi a nessun modello idealee

che s'interessa all'opinione del mondo solo per oltraggiarla) è esposto quiin tutto il suo orrore. L'atrocità dei suoi delitti

costringe due donne sventurate a farlo uccidere sotto i loro occhi; questedue donne erano sua moglie e sua figliae il

lettore non oserà decidere se furono colpevoli. I loro contemporaneipensarono che non dovevano morire.

Sono convinto che la tragedia di Galeotto Manfredi (che fu ucciso da suamogliesoggetto trattato dal grande

poeta Monti) e tante altre tragedie familiari del XV secolomeno conosciutee appena ricordate nelle storie locali delle

città d'Italiafinirono con una scena simile a quella della rocca diPetrella.

Ecco la traduzione del racconto contemporaneo; è in italiano di Romae fu scritto il 14 settembre 1599.

VERIDICA STORIA

della morte di Giacomo e Beatrice Cencie di Lucrezia Petroni Cenciloromatrignagiustiziati per delitto di

parricidiosabato scorso il settembre 1599sotto il regno del nostro santopadrepapa Clemente VIII Aldobrandini.

La vita esecrabile che sempre condusse Francesco Cencinato a Romauno deinostri più ricchi concittadini

ha finito per portarlo alla rovina. Ha trascinato a morte prematura i suoifigligiovani forti e coraggiosie sua figlia

Beatricechesebbene portata al supplizio all'età di soli sedici anni(oggi sono passati quattro giorni)pure era

considerata una delle più belle donne degli Stati pontifici e dell'Italiaintera. Si è sparsa la voce che il signor Guido

Reniun allievo della magnifica scuola bologneseha voluto fare il ritrattodella povera Beatricevenerdì scorsocioè la

vigilia stessa dell'esecuzione. Se questo grande pittore ha svolto il suocompito come ha fatto per gli altri dipinti eseguiti

nella capitalei posteri potranno farsi un'idea della bellezza di quellamirabile giovinetta. Affinché possano anche27

conservare il ricordo delle sue inaudite sventuree della forza sorprendentecon cui quest'anima veramente romana

seppe combatterleho deciso di scrivere ciò che ho appreso sul fatto chel'ha condotta a mortee ciò che ho visto il

giorno della sua gloriosa tragedia.

Le persone che mi hanno dato tali informazioni erano in posizione tale daconoscere le circostanze più segrete

che sono ignorate a Roma ancor oggibenché da sei settimane non si parlid'altro che del processo dei Cenci. Scriverò

con una certa libertàsicuro come sono di poter depositare il mio commentarioin archivi rispettabilidonde sarà tratto

certamentesolo dopo la mia morte. Il mio unico dispiacere è di doverparlarema così vuole la veritàcontro

l'innocenza della povera Beatrice Cenciadorata e rispettata da tutti coloroche l'hanno conosciutaquanto il suo orribile

padre era odiato ed esecrato.

Quest'uomochenon si può negarloaveva ricevuto in sorte una sagacia euna bizzarria sorprendentiera figlio

di monsignor Cenciil qualesotto Pio V Ghislierisi era innalzato allacarica di tesoriere (ministro delle finanze).

Questo santo papatutto presocom'è notodal suo giusto odio control'eresia e dal rafforzamento della sua mirabile

inquisizioneebbe solo disprezzo per l'amministrazione temporale del suoStatodi modo che monsignor Cenciche fu

tesoriere per qualche anno prima del 1572poté lasciare a quell'uomoorribile che fu suo figlio e padre di Beatriceuna

rendita netta di 160.000 piastre (circa 2.500.000 franchi del 1837).

Francesco Cencioltre a questo grande patrimonioaveva una fama di coraggioe di prudenza chequando era

giovanenessun altro Romano poté eguagliare; e questa fama gli dava tantopiù credito alla corte del papa e presso tutto

il popoloin quanto le azioni criminali che cominciavano ad essergliimputate erano solo del genere che il mondo

perdona facilmente. Molti Romani ricordavano ancoracon amaro rimpiantolalibertà di pensiero e d'azione di cui si

era goduto al tempo di Leone Xche ci fu tolto nel 1513e di Paolo IIImorto nel 1549. Si cominciò a parlaresotto

quest'ultimo papadel giovane Francesco Cenci a causa di certi strani amoriportati a buon fine con mezzi ancora più

strani.

Sotto Paolo IIItempo in cui si poteva ancora parlare con una certalibertàmolti dicevano che Francesco Cenci

era avido soprattutto di stravaganzeche potessero dargli peripezie dinuova ideasensazioni nuove e inquietantiessi si

basano sul fatto chenei suoi libri contabilisono state trovate voci comequesta:

«Per le avventure e peripezie di Toscanella3.500 piastre (circa60.000 franchi del 1837) e non fu caro.»

Forsenelle altre città d'Italiasi ignora che la nostra sorte e la nostraesistenzaa Romacambiano secondo il

carattere del papa regnante. Cosìper tredici annisotto il buon papaGregorio XIII Buoncompagnitutto era permesso a

Roma; chi voleva faceva pugnalare il suo nemicoe non era affattoperseguitopurché si comportasse in modo da non

dare nell'occhio. A quest'eccesso d'indulgenza seguì un eccesso di severitàdurante i cinque anni di regno del grande

Sisto Vdi cui è stato dettocome dell'imperatore Augustoche bisognavanon venisse mai o restasse per sempre. Allora

si videro giustiziare dei disgraziati per assassinii o avvelenamentidimenticati da dieci annima che essi avevano avuto

la sfortuna di confessare al cardinal Montaltopoi Sisto v.

Fu soprattutto sotto Gregorio XIII che si cominciò a parlare molto diFrancesco Cenci; aveva sposato una

donna ricchissimae quale si conveniva a un signore così accreditato; ellamorì dopo avergli dato sette figli. Poco dopo

la sua morteCenci sposò in seconde nozze Lucrezia Petronidi rarabellezza e celebre soprattutto per la smagliante

bianchezza della sua carnagionema un po' troppo pinguedifetto comune allenostre Romane. Da Lucrezia non ebbe

figli.

La colpa minore che si potesse addebitare a Francesco Cencifu lapropensione a un amore infame; la più

grande fu quella di non credere in Dio. In vita sua non fu mai visto entrarein una chiesa.

Messo tre volte in prigione per i suoi amori illecitise la cavò dando200.000 piastre ai favoriti dei dodici papi

sotto i quali visse successivamente (200.000 piastre fanno circa 5.000.000del 1837).

Ho visto Francesco Cenci solo quando aveva già i capelli brizzolatisottoil regno di papa Buoncompagni

quando tutto era consentito a chi osava. Era un uomo alto circa cinque piedie quattro polliciassai ben fattobenché

troppo magro; aveva fama di essere estremamente forteforse era lui stesso afar correre questa voce; aveva gli occhi

grandi ed espressivima la palpebra superiore era un po' troppo cascante;aveva il naso troppo pronunciato e troppo

grossole labbra sottili e un sorriso pieno di fascino. Questo sorrisodiventava terribile quando fissava lo sguardo sui

suoi nemici; appena era commosso o irritatotremava in un modo eccessivotale da disturbarlo. L'ho visto quando ero

giovanesotto il papa Buoncompagniandare a cavallo da Roma a Napolisenzadubbio per qualche suo amoretto;

attraversava i boschi di San Germano e della Faggiola senza preoccuparsiaffatto dei brigantie dicevano che ci

mettesse meno di venti ore. Viaggiava sempre soloe senza avvertire nessuno;quando il suo primo cavallo era stanco

ne comprava o ne rubava un altro. Appena gli facevano qualche difficoltànon faceva nessuna difficoltàluia dare una

pugnalata. Ma è anche vero che al tempo della mia giovinezzacioè quandoegli aveva quarantotto o cinquant'anni

nessuno era abbastanza ardito da resistergli. Il suo più grande piacere eraquello di sfidare i nemici

Era molto conosciuto su tutte le strade degli Stati di Sua Santità; pagavacon generositàma era anche capace

due o tre mesi dopo aver subito un affrontodi spedire uno dei suoi sicariper uccidere la persona che l'aveva offeso.

L'unica azione virtuosa che abbia compiuto in tutta la sua lunga vitaèstata quella di costruirenel cortile del

suo vasto palazzo presso il Tevereuna chiesa dedicata a san Tommaso e pergiunta fu spinto a questa bella azione dallo

strano desiderio di avere sotto gli occhi le tombe di tutti i suoi figliperi quali nutrì un odio eccessivo e contro natura

fin dalla loro più tenera infanziaquando ancora non potevano averlo offesoin alcun modo.

È là che voglio metterli tuttidiceva spessocon un sorriso amaroaglioperai che impiegava per costruire la

sua chiesa. Mandò i tre figli più grandiGiacomoCristoíoro e Roccoastudiare all'università di Salamanca in Spagna.28

Una volta che furono in quel paese lontanoprese un gusto maligno a nonrifornirli mai di denarodi modo che quei

poveri giovanidopo aver indirizzato al padre una quantità di letterecherestarono tutte senza rispostafurono ridotti

alla miserabile necessità di tornare in patria facendosi prestare piccolesomme di denaro o mendicando lungo la strada.

A Romatrovarono un padre più rigido e severopiù aspro che maichenonostante le sue immense ricchezze

non volle né vestirli né dar loro i soldi necessari per acquistare i cibipiù grossolani. Quegli sventurati furono costretti a

ricorrere al papache obbligò Francesco Cenci ad assegnar loro una piccolapensione. Con questo modestissimo aiuto si

separarono da lui.

Poco dopoa causa dei suoi amori illecitiFrancesco fu messo in prigioneper la terza e ultima volta; allora i tre

fratelli chiesero udienza al santo padreil papa attualmente regnantee lopregarono tutti Insieme di far morire

Francesco Cenciloro padrechedisserodisonorava la loro casata.Clemente VIII ne aveva una gran vogliama non

volle seguire il suo primo impulsoper non dar soddisfazione a quei figlisnaturatie li cacciò con ignominia dalla sua

presenza.

Il padrecome abbiamo detto primauscì di prigione dando una grossa sommadi denaro a chi poteva

proteggerlo. È comprensibile che l'insolita iniziativa dei tre figlimaggiori dovesse accrescere ancora l'odio che nutriva

per i suoi figli. Li malediva ad ogni momentograndi e piccolie tutti igiorni riempiva di bastonate le sue due povere

figlieche abitavano con lui nel palazzo.

La più grandebenché strettamente sorvegliatasi diede tanto da farecheriuscì a far presentare una supplica al

papa; scongiurò Sua Santità di darle maritoo di metterla in un monastero.Clemente VIII ebbe pietà delle sue sventure

e la sposò a Carlo Gabrielliappartenente alla più nobile famiglia diGubbio; Sua Santità obbligò il padre a darle una

grossa dote.

A questo colpo imprevistoFrancesco Cenci andò su tutte le furiee perimpedire che Beatricediventando più

grandeavesse l'idea di seguire l'esempio della sorellala sequestrò in unappartamento del suo immenso palazzo. Là

nessuno ebbe il permesso di vedere Beatriceche a quel tempo aveva appenaquattordici annied era già in tutto lo

splendore di una meravigliosa bellezza. Possedeva soprattutto una gaiezzauncandoree un senso comico che non ho

mai visto in nessun altro. Francesco Cenci le portava egli stesso damangiare. Probabilmente fu allora che il mostro se

ne innamoròo finse d'innamorarseneper tormentare la sua disgraziatafiglia. Le parlava spesso del perfido tiro che la

sorella maggiore gli aveva giocatoeandando in collera al suono delleproprie parolefiniva col coprire di botte

Beatrice.

Nel frattempoRocco Cencisuo figliofu ucciso da un norcinoe l'annoseguente Cristoforo Cenci fu ucciso

da Paolo Corsodi Massa. In tale occasioneegli mostrò la sua neraempietàperché ai funerali dei suoi figli non volle

spendere nemmeno un baiocco per i ceri. Nell'apprendere la sorte del figlioCristoforoesclamò che avrebbe potuto

gustare un po' di gioia solo quando tutti i suoi figli fossero statiseppellitie chequando l'ultimo fosse mortovolevain

segno di esultanzadar fuoco al suo palazzo. Roma si stupì di questeparolema si aspettava qualunque cosa da un tale

uomoche si gloriava di sfidare tutti e perfino il papa.

(Qui diventa assolutamente impossibile seguire il narratore romano nelracconto assai oscuro delle stranezze

con cui Francesco Cenci cercò di stupire i suoi contemporanei. Sua moglie ela sua sventurata figlia furonosecondo

ogni apparenzavittime delle sue idee abominevoli).

Tutte queste cose non gli bastarono; tentò con le minaccee ricorrendo allaforzadi violentare la propria figlia

Beatriceche era già grande e bella; non si vergognò d'infilarsi nel suolettocompletamente nudo. Passeggiava con lei

nelle sale del suo palazzotutto nudo; poila conduceva nel letto di suamoglieaffinché alla luce delle lampade la

povera Lucrezia potesse vedere ciò che faceva con Beatrice.

Dava ad intendere a quella povera ragazza una tremenda eresiache oso astento riferirecioè chequando un

padre conosce la propria figliai figli che nascono sono necessariamente deisantie che tutti i più grandi santi venerati

dalla Chiesa sono nati in questo modovale a dire il nonno materno è statoanche il loro padre.

Quando Beatrice resisteva ai suoi esecrabili volerila picchiavacrudelmentedi modo che la povera ragazza

non potendo reggere a una vita così infeliceebbe l'idea di seguirel'esempio datole da sua sorella. Indirizzò al nostro

santo padre il papa una supplica molto dettagliata; ma a quanto sembraFrancesco Cenci aveva preso le sue precauzioni

perché non risulta che questa supplica sia mai giunta nelle mani di SuaSantità; almeno è stato impossibile ritrovarla

nella segreteria dei Memorialiquando Beatrice era in prigione e ilsuo difensore aveva assoluta necessità di questo

documento; avrebbe potuto provare in qualche modo gli inauditi eccessi chefurono commessi nella rocca di Petrella.

Non sarebbe stato evidente a tutti che Beatrice Cenci si era trovatacostretta alla legittima difesa? Questo memoriale

parlava anche in nome di Lucreziamatrigna di Beatrice.

Francesco Cenci venne a conoscenza di questo tentativoe si può immaginarecon che collera raddoppiò i

maltrattamenti contro quelle due sventurate.

La vita divenne per loro assolutamente insopportabilee alloravedendo beneche non avevano niente da

sperare dalla giustizia del sovranoi cui cortigiani erano corrotti dairicchi doni di Francescoebbero l'idea di prendere

l'estrema decisione che le ha portate alla rovinama che pure ha avuto ilvantaggio di por fine alle loro sofferenze in

questo mondo.

Bisogna sapere che il famoso monsignor Guerra andava spesso a palazzoCenci; era di alta staturaun gran

bell'uomoe aveva avuto in sorte la singolare capacità di sapersi trard'impaccio con un garbo tutto specialea

qualunque cosa volesse applicarsi. Si è supposto che amasse Beatrice eprogettasse di lasciare la mantelletta e di

sposarla; ma per quanto fosse estremamente attento a celare i suoisentimentiera aborrito da Francesco Cenciche gli29

rimproverava d'essere stato molto legato con tutti i suoi figli. Quandomonsignor Guerra veniva a sapere che il signor

Cenci era uscito dal suo palazzosaliva nell'appartamento delle signore epassava molte ore a discorrere con loro e ad

ascoltare le loro lagnanze contro gli incredibili maltrattamenti cui entrambeerano esposte. Sembra che Beatriceper

primaosò parlare a viva voce a monsignor Guerra del progetto che avevanoformulato. Col tempoanch'egli vi diede

mano; esollecitato con insistenza a varie riprese da Beatriceconsentìinfine a comunicare questo strano disegno a

Giacomo Cencisenza il cui consenso non si poteva far nullaperché era ilfratello maggiore e il capofamiglia dopo

Francesco.

Fu facilissimo attirarlo nel complotto; era molto maltrattato da suo padreche non gli dava alcun aiutocosa

tanto più grave per Giacomo in quanto era sposato e aveva sei figli.Scelseroper riunirsi e parlare del modo di uccidere

Francescol'appartamento di monsignor Guerra. L'affare fu trattato con tuttele debite formee in tutto si sentì il parere

della matrigna e della ragazza. Quando infine la decisione fu presasiscelsero due vassalli di Francesco Cenciche

avevano concepito contro di lui un odio mortale. Uno si chiamava Marzio; eraun uomo coraggiosomolto attaccato agli

sventurati figli di Francescoeper far qualcosa che riuscisse lorograditoacconsentì a partecipare al parricidio.

Olimpioil secondoera stato scelto come castellano della rocca diPetrellanel regno di Napolidal principe Colonna;

magodendo di un credito onnipotente presso il principeFrancesco Cencil'aveva fatto cacciare.

Si presero tutti gli accordi con questi due; siccome Francesco Cenci avevaannunciato cheper evitare l'aria

cattiva di Romasarebbe andato a trascorrere l'estate successiva nella roccadi Petrellasi pensò di riunire una dozzina di

banditi napoletani. Olimpio s'incaricò di trovarli. Si decise di farlinascondere nelle foreste vicine alla Petrellae di

avvertirli del momento in cui Francesco Cenci si sarebbe messo in cammino;essi l'avrebbero rapito sulla strada

annunciando poi alla famiglia che l'avrebbero liberato dietro forte riscatto.Allora i figli sarebbero stati obbligati a

tornare a Roma per raccogliere la somma chiesta dai briganti; avrebbero fintodi non poter trovare subito tale sommae i

briganticome avevano minacciatonon vedendo arrivare il denaroavrebberoucciso Francesco Cenci. In tal modo

nessuno sarebbe stato indotto a sospettare i veri autori della sua morte.

Ma giunta l'estatequando Francesco Cenci partì da Roma per la Petrellalaspia che doveva avvisare della sua

partenza avvertì troppo tardi i banditi appostati nel boscoe questi nonebbero il tempo di scendere sulla strada maestra.

Cenci arrivò senza inconvenienti alla Petrella; i brigantistanchi diaspettare una preda incertaandarono a rubare

altrove per conto proprio.

Da parte suaCencivecchio avveduto e sospettosonon si azzardava mai aduscire dalla fortezza. E poiché il

suo cattivo umore aumentava con gli acciacchi dell'etàche gli eranoinsopportabilirincarava gli atroci maltrattamenti

che faceva subire alle due povere donne. Sosteneva che esse si rallegravanodella sua debolezza.

Beatricespinta agli estremi dalle cose orribili che doveva sopportarefecechiamare sotto le mura della rocca

Marzio e Olimpio. Durante la nottementre suo padre dormivaparlò con loroda una finestra bassa e buttò giù delle

lettere indirizzate a monsignor Guerra. Per mezzo di queste lettereconvennero che monsignor Guerra avrebbe

promesso a Marzio e Olimpio mille piastre se si fossero incaricatipersonalmente di uccidere Francesco Cenci. Un terzo

della somma doveva esser pagato a Romaprima del fattoda monsignor Guerrae gli altri due terzi da Lucrezia e

Beatricequandoa cose fattesarebbero state padrone della cassaforte diCenci.

Si accordaronoinoltreperché la cosa avesse luogo il giorno dellanatività della Verginee a questo scopo gli

uomini furono abilmente introdotti nella fortezza. Ma Lucrezia fu trattenutadal rispetto dovuto a una festa della

Madonnae costrinse Beatrice a differire di un giornoper non commettere undoppio peccato.

Fu dunque il 9 settembre 1598in seratache madre e figlia somministraronocon grande destrezza dell'oppio a

Francesco Cencie quell'uomocosì difficile da ingannarecadde in unsonno profondo.

Verso mezzanotteBeatrice introdusse di persona nella fortezza Marzio eOlimpio; poi Lucrezia e Beatrice li

condussero nella camera del vecchioche dormiva profondamente. Qui lilasciaronoperché portassero a termine ciò era

stato convenutoe andarono ad aspettare in una camera attigua. Ad un trattovidero tornare i duepallidi e come fuori di

sé.

«Che c'è di nuovo?» esclamarono le donne.

«Che è una bassezza e una vergogna» risposero quelli«uccidere unpovero vecchio addormentato! la pietà ci

ha impedito di agire.»

Sentendo questa scusaBeatrice s'indignò e cominciò ad ingiuriarlidicendo:

«Dunquevoialtri uominiben preparati a quest'azionenon avete ilcoraggio di uccidere uno che dorme! Tanto

meno osereste guardarlo in faccia se fosse sveglio! Ed è per questorisultato che osate prendere del denaro! Ebbene!

poiché la vostra viltà lo richiedeio stessa ucciderò mio padre; equanto a voinon vivrete a lungo!

Incoraggiati da queste poche parole fulminantie temendo una diminuzione delprezzo convenutogli assassini

rientrarono risolutamente nella stanzaseguiti dalle donne. Uno di essiaveva un grande chiodo che posò verticalmente

sull'occhio del vecchio addormentato; l'altroche aveva un martelloglifece entrare il chiodo nella testa. Fecero entrare

allo stesso modo un altro grande chiodo nella golasicché quella poveraanimacarica di tanti peccati recentifu portata

via dai diavoli; il corpo si dibattéma invano.

A cose fattela giovane diede ad Olimpio una grossa borsa piena di denaro;diede a Marzio un mantello di

panno guarnito di un gallone d'oroche era appartenuto a suo padree licongedò.

Le donnerimaste solecominciarono col tirar via il grande chiodo infilatonella testa del cadavere e quello che

era nel collo; poiavviluppato il corpo in un lenzuololo trascinaronoattraverso una lunga serie di camere fino a una

galleria che dava su un giardinetto abbandonato. Di làgettarono il corposu un grande sambuco che cresceva in quel30

luogo solitario. Siccome c'erano dei gabinetti all'estremità della piccolagalleriasperarono chequando il giorno

seguente si fosse trovato il corpo del vecchio caduto fra i rami del sambucosi sarebbe pensato che gli era scivolato un

piedee che era caduto andando al gabinetto.

La cosa andò precisamente come avevano previsto. La mattinaquando ilcadavere fu scopertosi levò un gran

clamore nella rocca; esse non mancarono di gettare alte gridae di piangerela morte tristissima di un padre e di uno

sposo. Ma la giovane Beatrice aveva il coraggio del pudore offesoe non laprudenza necessaria nella vita; già al

mattinoaveva dato a una donna che lavava la biancheria nella rocca unlenzuolo macchiato di sanguedicendole di non

stupirsi di tanto sangueperchétutta la notteaveva sofferto di unagrande perditadi modo cheper il momentotutto

andò bene.

Fu data onorevole sepoltura a Francesco Cencie le donne tornarono a Roma agodere di quella tranquillità che

per tanto tempo avevano desiderato invano. Si credevano felici per sempreperché non sapevano cosa stava succedendo

a Napoli.

La giustizia di Dionon volendo che un parricidio così atroce restasseimpunitofece sì cheappena in quella

capitale si seppe quanto era avvenuto nella rocca di Petrellail giudiceprincipale avesse dei dubbie mandasse un

commissario reale per ispezionare il corpo e far arrestare i sospetti.

Il commissario reale fece arrestare tutti quelli che abitavano nellafortezza. Tutta quella genta fu condotta a

Napoli in catene; e nulla parve sospetto nelle deposizionise non che lalavandaia disse d'aver ricevuto da Beatrice un

lenzuolo o più lenzuola insanguinati. Le chiesero se Beatrice avesse cercatodi spiegare quelle grandi macchie di

sangue: ella rispose che Beatrice aveva parlato di un un'indisposizionenaturale. Le domandarono se macchie di tale

grandezza potevano essere causate da un'indisposizione del genere; ellarispose di nole macchie sul lenzuolo erano di

un rosso troppo vivo.

Si mandò immediatamente quest'informazione alla giustizia di Romaetuttavia passarono molti mesi prima

che si pensassequi da noia far arrestare i figli di Francesco Cenci.LucreziaBeatrice e Giacomo avrebbero potuto

fuggire mille voltesia andando a Firenze col pretesto di qualchepellegrinaggiosia imbarcandosi a Civitavecchia; ma

Dio negò loro questa salutare ispirazione.

Monsignor Guerraavvertito di ciò che avveniva a Napolimise subito inmoto degli uominiincaricandoli di

uccidere Marzio e Olimpio; ma solo Olimpio poté essere ucciso a Terni. Lagiustizia napoletana aveva fatto arrestare

Marzioche fu condotto a Napolidove all'istante confessò ogni cosa.

Questa terribile deposizione fu mandata immediatamente alla giustizia diRomala quale infine si decise a far

arrestare e condurre alla prigione di Corte Savella Giacomo e Bernardo Cencigli unici figli maschi sopravvissuti di

Francescocome pure Lucreziala sua vedova. Beatrice rimase nel palazzo disuo padrecustodita da una grossa

squadra di sbirri. Marzio fu fatto venire da Napolie chiuso anche lui nellaprigione Savella; qui fu messo a confronto

con le due donneche negarono tutto tenacementee Beatrice in particolarenon volle mai riconoscere il mantello

gallonato che aveva donato a Marzio. Questientusiasmato dalla meravigliosabellezza e dalla stupefacente eloquenza

della giovane mentre rispondeva al giudicenegò tutto quello che avevaconfessato a Napoli. Fu messo alla torturanon

confessò nullae preferì morire fra i tormenti; giusto omaggio allabellezza di Beatrice!

Dopo la morte di quell'uomosiccome il delitto non era stato provatoigiudici ritennero che non vi fossero

ragioni sufficienti per mettere alla tortura né i due figli di Cenciné ledue donne. Furono condotti tutti e quattro a

Castel Sant'Angelodove passarono vari mesi molto tranquillamente.

Tutto sembrava finitoe nessuno a Roma dubitava più che quella ragazzacosì bellacosì coraggiosae che

aveva suscitato un così vivo interessenon sarebbe stata messa ben prestoin libertàquando disgraziatamente la

giustizia riuscì ad arrestare il brigante che a Terni aveva ucciso Olimpio;condotto a Romal'uomo confessò tutto.

Monsignor Guerracosì stranamente compromesso dalla confessione delbrigantefu invitato a comparire nel

più breve termine; la prigione era certae probabilmente la morte. Maquell'uomo straordinariocui il destino aveva

concesso il dono di saper fare bene ogni cosariuscì a salvarsi in un modoche ha del miracoloso. Era considerato il più

bell'uomo della corte papaleed era troppo conosciuto a Roma per potersperare di fuggire; del restole porte erano ben

guardatee probabilmente fin dal momento della citazione la sua casa erastata sorvegliata. Bisogna sapere che era

molto altoaveva il viso di perfetta bianchezzauna bella barba bionda esplendidi capelli dello stesso colore.

Con rapidità incredibilecorruppe un carbonaioprese i suoi abitisi fecerasare la testa e la barbasi tinse il

visocomprò due asinie si mise a battere le strade di Romae a venderecarbone zoppicando. Seppe prenderecon

meravigliosa abilitàuna cert'aria grossolana ed ebetee andava gridandodappertutto la sua mercanzia con la bocca

piena di pane e cipollamentre centinaia di sbirri lo cercavano non soltantoa Romama anche su tutte le strade. Infine

quando la sua faccia fu ben nota alla maggior parte degli sbirriosò uscireda Romaspingendo sempre davanti a sé i

due asini carichi di carbone. Incontrò parecchi drappelli di guardie che nonsi sognarono di fermarlo. Da allorasi è

avuta da lui una sola lettera; sua madre gli ha mandato del denaro aMarsigliae si suppone che faccia la guerra in

Franciacome soldato.

La confessione dell'assassino di Terni e la fuga di monsignor Guerrachesuscitò a Roma uno straordinario

scalporerinfocolarono talmente i sospetti e anche gli indizi contro iCenciche essi furono fatti uscire da Castel

Sant'Angelo e riportati nella prigione Savella.

I due fratellimessi alla torturafurono ben lontani dall'imitare lagrandezza d'animo del brigante Marzio;

ebbero la pusillanimità di confessare tutto. La signora Lucrezia Petroni eracosì abituata alla mollezza e agli agi del gran31

lussoe del resto era di corporatura così pesanteche non poté sopportarela tortura della corda; disse tutto ciò che

sapeva.

Ma non fu lo stesso per Beatrice Cencigiovane donna piena di vivacità e dicoraggio. Né le buone parole né le

minacce del giudice Moscati riuscirono a piegarla. Ella sopportò ilsupplizio della corda senza scomporsi nemmeno per

un momentoe con perfetto coraggio. Mai il giudice poté indurla a unarisposta che la compromettesse minimamente;

anzicon la sua vivacità piena di spiritosconcertò del tutto il celebreUlisse Moscatiil giudice incaricato d'interrogarla.

Egli fu tanto sorpreso dal comportamento della ragazzache credetteopportuno fare un completo rapporto a Sua Santità

Clemente VIIIfelicemente regnante.

Sua Santità volle vedere gli atti del processo e studiarlo. Temeva che ilgiudice Ulisse Moscaticosì celebre per

la profonda dottrina e la superiore sagacia della sua mentefosse statosoggiogato dalla bellezza di Beatricee la

risparmiasse negli interrogatori. Per questa ragione Sua Santità gli tolsela direzione del processoe la diede a un altro

giudice più severo. Infattiquesto barbaro ebbe il coraggio di tormentaresenza pietà un così bel corpo ad torturam

capillorum (cioè Beatrice Cenci fu sottoposta alla tortura d'essersospesa per i capelli).

Mentre era attaccata alla cordail nuovo giudice fece comparire davanti aBeatrice la sua matrigna e i fratelli.

Appena Giacomo e la signora Lucrezia la videro:

«Il peccato è stato commesso» le gridarono; «bisogna fare anche lapenitenzae non lasciarsi straziare il corpo

per una vana ostinazione.»

«Dunque volete coprire di vergogna la nostra casa» rispose la ragazza«emorire con ignominia? Siete in

grande errore; mapoiché lo voletecosì sia.»

Evoltandosi verso gli sbirri:

«Staccatemi» disse«e mi sia letto l'interrogatorio di mia madreapproverò quel che dev'essere approvatoe

negherò quel che dev'essere negato.»

Così fu fatto; ella confessò tutto quel che era vero. Subito furono toltele catene a tuttie siccome erano cinque

mesi che non vedeva i suoi fratelliella volle pranzare con loroe tutti equattro trascorsero una lietissima giornata.

Ma il giorno dopo furono separati di nuovo; i due fratelli furono portatialla prigione di Tordinonae le donne

restarono nella prigione Savella. Il nostro santo padrevisto il documentoautentico che conteneva le confessioni di tutti

ordinò che fossero immediatamente attaccati alla coda di cavalli selvaggiecosì messi a morte.

Tutta Roma fremette nell'apprendere questa severa sentenza. Un gran numero dicardinali e di principi

andarono a inginocchiarsi davanti al papasupplicandolo di permettere aquegli sventurati di presentare la loro difesa.

«E lorohanno dato al vecchio padre il tempo di presentare la sua?»rispose il papa indignato.

Infineper grazia specialeconcesse una dilazione di venticinque giorni.Subito i primi avvocati di Roma si

misero a scrivere per questa causache aveva riempito la città dipietà e di commozione. Il venticinquesimo giorno

comparvero tutti insieme davanti a Sua Santità. Nicolò De' Angelis parlòper primoma aveva appena letto due righe

della sua difesache Clemente VIII l'interruppe:

«A Romadunque» esclamò«si trovano degli uomini che uccidono ilproprio padree poi degli avvocati che

li difendono!»

Tutti ammutolironoquando Farinacci osò prendere la parola.

«Santissimo Padre» egli disse«non siamo qui per difendere il criminema per provarese possiamoche uno

o più di questi sventurati sono innocenti del crimine.»

Il papa gli fece segno di parlareed egli parlò per tre lunghe oredopo diche il papa prese le scritture di tutti e

li congedò. Mentre se ne andavanol'Altieri era l'ultimo della fila; ebbepaura di essersi compromessoe andò a

inginocchiarsi davanti al papadicendo: «Non potevo esimermi dal comparirein questa causapoiché sono avvocato dei

poveri.» Il papa gli rispose: «Non ci meravigliamo di voima deglialtri.»

Il papa non volle andare a lettoma passò tutta la notte a leggere learringhe degli avvocatifacendosi aiutare in

questo lavoro del cardinale di San Marcello; Sua Santità parve talmentecommossoche molti concepirono qualche

speranza per la vita in quegli infelici. Per salvare i figli maschigliavvocati gettavano tutta la colpa su Beatrice.

Siccome al processo era stato provato che parecchie volte suo padre avevaimpiegato la forza nei suoi disegni criminali

gli avvocati speravano che l'assassinio le sarebbe stato perdonatotrovandosi in un caso di legittima difesa; se era cosìe

l'autore principale del crimine aveva salva la vitacome avrebbero potutoessere puniti con la morte i suoi fratelliche

erano stati istigati da lei?

Dopo quella notte dedicata ai suoi doveri di giudiceClemente VIII ordinòche gli accusati fossero ricondotti in

prigionee messi in segreta. Questa circostanza diede grandi speranzea Romache in tutto il processo non vedeva che

Beatrice. Si era accertato che ella aveva amato monsignor Guerrama senzamai trasgredire le regole della più rigida

virtù: non si poteva quindiper amore di giustiziaimputarle i crimini diun mostro; e si voleva punirla perché aveva

esercitato il diritto di difendersi! Che si sarebbe fatto se avesseacconsentito? Bisognava che la giustizia umana venisse

ancora ad accrescere la sventura di una creatura così amabile così degna dipietà e già così infelice? Dopo una vita tanto

tristeche aveva accumulato su di lei ogni genere di disgrazia prima checompisse sedici anninon aveva infine diritto a

giorni meno atroci? Tuttia Romasembravano incaricati della sua difesa.Non sarebbe stata perdonata sela prima

volta che Francesco Cenci aveva tentato il criminelo avesse pugnalato?

Papa Clemente VIII era mite e misericordioso. Cominciavamo a sperare chevergognandosi un po'

dell'impulso che gli aveva fatto interrompere la difesa degli avvocatiavrebbe perdonato a chi aveva respinto la forza

con la forzanona dire il veroal momento del primo delittoma quando sitentava di commetterlo di nuovo. Tutta32

Roma era in ansia quando il papa fu informato della morte violenta dellamarchesa Costanza Santa Croce. Suo figlio

Paolo Santa Croce aveva ucciso a pugnalate quella dama di sessant'anniperché non voleva promettere di lasciargli in

eredità tutti i suoi beni. Il rapporto aggiungeva che Santa Croce si eradato alla fugae che non c'era speranza di

arrestarlo. Il papa si ricordò del fratricidio dei Massimi commesso pocotempo prima. Desolato per la frequenza degli

assassini commessi su parenti stretti Sua Santità pensò che non gli fosseconsentito il perdono. Quando ricevette quel

fatale rapporto su Santa Croceil papa si trovava nel palazzo di MonteCavalloil 6 settembreper essere più vicinola

mattina dopoalla chiesa di Santa Maria degli Angelidove doveva consacrarevescovo un cardinale tedesco.

Il venerdì alle 22 (4 della sera) fece chiamare Ferrante Tavernagovernatore di Romae gli disse queste precise

parole:

«Vi rimettiamo l'affare dei Cenciaffinché giustizia sia fatta per vostracura e senza alcun indugio.»

Il governatore tornò al suo palazzo molto turbato dall'ordine che avevaricevuto; stilò subito la sentenza di

mortee riunì una congregazione per deliberare sulle modalitàdell'esecuzione.

Sabato mattina11 settembre 1599i primi signori di Romamembri dellaconfraternita dei confortatorisi

recarono alle due prigionia Corte Savelladov'erano Beatrice e la suamatrignae a Tordinonadove si trovavano

Giacomo e Bernardo Cenci. Per tutta la notte dal venerdì al sabatoisignori romani che avevano saputo quel che stava

accadendo non fecero altro che correre dal palazzo di Monte Cavallo a quellidei più autorevoli cardinaliper ottenere

almeno che le donne fossero giustiziate all'interno della prigionee non suun infame patibolo; e che si facesse grazia al

giovane Bernardo Cencicheappena quindicennenon poteva aver partecipatoa nessun complotto. Soprattutto il nobile

cardinale Sforza si è distinto per il suo zelo durante quella notte fatalemabenché principe così potentenon ha potuto

ottenere nulla. Il delitto di Santa Croce era un delitto vilecommesso perdenaromentre il crimine di Beatrice fu

commesso per salvare l'onore.

Mentre i cardinali più potenti facevano tanti passi inutiliFarinacciilnostro grande giuristaebbe l'audacia di

farsi strada fino al papa; arrivato davanti a Sua Santitàquest'uomosorprendente fu così abile da toccare la sua

coscienzae infinea furia di insisteregli strappò la vita di BernardoCenci.

Quando il papa pronunciò questa grande parolapotevano essere le quattrodel mattino (del sabato 11

settembre). Tutta la notte si era lavoratosulla piazza di ponteSant'Angeloai preparativi della crudele tragedia. Però

tutte le copie necessarie della sentenza di morte non poterono esserterminate che alle cinque del mattinodi modo che

soltanto alle sei fu dato il fatale annuncio a quei poveri sventurati chedormivano tranquillamente.

La ragazzasulle primenon riusciva nemmeno a trovare la forza di vestirsi.Gettava grida acute e continuee

si abbandonava senza ritegno alla più atroce disperazione.

«Com'è possibileah! mio Dio!» esclamava«che così all'improvviso iodebba morire?»

Lucrezia Petroniinvecedisse solo parole molto dignitose; prima pregò inginocchiopoi esortò

tranquillamente sua figlia a recarsi con lei nella cappelladove entrambedovevano prepararsi al grande passaggio dalla

vita alla morte.

Quelle parole resero a Beatrice tutta la sua tranquillità; tanto si eramostrata eccitata e furiosa nel primo

momentoaltrettanto fu calma e ragionevole non appena la matrigna richiamòquella grande anima a se stessa. Da allora

in poifu uno specchio di coraggio che tutta Roma ammirò.

Chiese un notaio per fare testamentoe ciò le fu accordato. Dispose perchéil suo corpo fosse seppellito a San

Pietro in Montorio; lasciò 300.000 franchi alle Stimmatine (religiosedelle Stimmate di San Francesco); questa somma

deve servire alla dote di cinquanta ragazze povere. Tale esempio commosse lasignora Lucreziacheanche leifece

testamento e ordinò che il suo corpo fosse portato a San Giorgio; lasciò500.000 franchi in elemosina a questa chiesae

dispose altri pii legati.

Alle ottosi confessaronoascoltarono la messae ricevettero la santacomunione. Ma prima di andare a messa

la signora Beatrice pensò che non fosse conveniente comparire sulpatibolodavanti a tutto il popolocon i ricchi abiti

che portavano. Ordinò due vestiuna per leil'altra per sua madre. Questevesti furono fatte come quelle delle monache

senza ornamenti sul petto e sulle spallesoltanto pieghettate con larghemaniche. La veste della matrigna era di tela di

cotone nera; quella della giovane di taffetà azzurro con una grossa cordache stringeva la cintura.

Quando portarono i vestitila signora Beatriceche era in ginocchiosi alzò e disse alla signora Lucrezia:

«Signora madrel'ora della nostra passione si avvicina; sarà bene che ciprepariamoche mettiamo questi altri

abitie che ci aiutiamo per l'ultima volta a vestirci l'un l'altra.»

Sulla piazza di ponte Sant'Angelo era stato innalzato un grande patibolo conun ceppo e una mannaja (specie di

ghigliottina). Verso le tredici (le otto del mattino)la compagnia dellaMisericordia recò il suo grande crocifisso alla

porta della prigione. Giacomo Cenci uscì per primo dalla prigione;s'inginocchiò devotamente sulla sogliadisse le sue

preghieree baciò le sante piaghe del crocefisso. Era seguito da BernardoCenciil suo giovane fratelloche aveva anche

lui le mani legate e una tavoletta davanti agli occhi. La folla era enormeevi fu un tumulto a causa di un vaso che cadde

da una finestraquasi sulla testa di uno dei penitenti che teneva una torciaaccesa accanto allo stendardo.

Tutti guardavano i due fratelliquando all'improvviso si fece avanti ilfiscale di Romae disse:

«Signor BernardoNostro Signore vi fa grazia della vita; sottometteteviad accompagnare i vostri parenti e

pregate Dio per loro.»

Subito i suoi due confortatori gli tolsero la tavoletta che avevadavanti agli occhi. Il carnefice stava sistemando

sul carretto Giacomo Cencie gli aveva tolto l'abito per poterlo attanagliare.Quando il carnefice arrivò a Bernardo

verificò la firma dell'atto di grazialo slegòepoiché era senz'abitodovendo essere suppliziatoil carnefice lo mise sul33

carretto e lo avvolse nel ricco mantello di panno gallonato d'oro. (Si èdetto che era lo stesso dato da Beatrice a Marzio

dopo l'azione nella rocca di Petrella). L'immensa folla che era in stradaalle finestre e sui tettid'un tratto si commosse;

si sentiva un rumore sordo e profondosi cominciava a dire che il ragazzoera stato graziato.

I canti dei salmi iniziarono e la processione si avviò lentamente attraversopiazza Navona verso la prigione

Savella. Giunta che fu alla porta della prigionelo stendardo si fermòledue donne uscironofecero l'atto di adorazione

ai piedi del crocefissoe poi s'incamminarono a piedi l'una dopo l'altra.Erano vestite come si è dettola testa coperta da

un gran velo di taffetà che arrivava fin quasi alla vita.

La signora Lucrezianella sua qualità di vedovaportava un velo neroebabbucce di velluto nero senza tacco

secondo l'usanza.

Il velo della giovane era di taffetà azzurrocome la sua veste; aveva poiun gran velo di drappo d'argento sulle

spalleuna gonna di drappo violae babbucce di velluto biancoallacciatecon eleganza e chiuse da cordoncini color

cremisi. Nell'incedere in questo costumeaveva una grazia singolaree atutti salivano le lacrime agli occhi man mano

che la vedevano avanzarsi lentamente nelle ultime file della processione.

Le donne avevano entrambe le mani liberema le braccia legate al corpodimodo che ciascuna di loro poteva

portare un crocefisso; lo tenevano vicinissimo agli occhi. Le maniche delleloro vesti erano molto larghelasciando

scorgere le bracciache erano coperte da una camicia stretta ai polsicomesi usa qui.

La signora Lucreziache aveva il cuore meno saldopiangeva quasi incontinuazione; la giovane Beatrice

invecemostrava un grande coraggio; e levando gli occhi verso tutte lechiese davanti a cui passava la processione

s'inginocchiava per un istantee diceva con voce ferma: «Adoramus teChriste

Nel frattempoil povero Giacomo Cenci veniva suppliziato sul carrettoemostrava molta costanza.

La processione poté attraversare a stento la parte inferiore della piazza diponte Sant'Angelotanto grande era il

numero delle carrozze e la folla del popolo. Si condussero senza indugio ledue donne nella cappella che era stata

preparata; in seguito vi si condusse Giacomo Cenci.

Il giovane Bernardocoperto del suo mantello gallonatofu portatodirettamente sul patibolo; allora tutti

credettero che sarebbe stato uccisoe che non avesse ricevuto la grazia. Ilpovero ragazzo ebbe una tale paurache

cadde svenuto al secondo passo che fece sul patibolo. Lo si fece rinvenirecon dell'acqua frescacollocandolo poi di

fronte alla mannaja.

Il carnefice andò a prendere la signora Lucrezia Petroni; le sue manierano legate dietro la schienanon aveva

più il velo sulle spalle. Apparve sulla piazza accompagnata dallo stendardocon la testa avvolta nel velo di taffetà nero;

là si riconciliò con Dio e baciò le sante piaghe. Le dissero di lasciarele babbucce sul lastricato; poiché era molto

corpulentafece un po' fatica a salire. Quando fu sul patibolo e le fu toltoil velo di taffetà nerosoffrì molto d'esser

veduta con le spalle e il petto scoperti; si guardòpoi guardò la mannajaein segno di rassegnazionealzò lentamente

le spalle; le vennero le lacrime agli occhie disse:

«O mio Dio!... E voifratelli miei. pregate per la mia anima!»

Non sapendo cosa dovesse farechiese ad Alessandroprimo carneficecomedoveva comportarsi. Egli le disse

di mettersi a cavalcioni sull'asse del ceppo. Ma questo movimento le parveoffensivo per il pudoree ci mise molto

tempo a farlo. (I particolari che seguono sono tollerabili per il pubblicoitalianoche tiene a sapere ogni cosa con la

massima esattezza; al lettore francese basti sapere che il pudore dellapovera donna fece sì che si ferisse al petto; il

carnefice mostrò la testa al popolo e poi l'avvolse nel velo di taffetànero).

Mentre si metteva in ordine la mannaja per la ragazzaun'impalcaturacarica di curiosi caddee molta gente

restò uccisa. Così comparvero dinanzi a Dio prima di Beatrice.

Quando Beatrice vide lo stendardo tornare verso la cappella per prenderladisse con vivacità:

«La mia signora madre è davvero morta?»

Le risposero di sì; ella si gettò in ginocchio davanti al crocefissoepregò con fervore per la sua anima. Poi

parlò a voce alta e a lungo al crocefisso.

«Signoresei ritornato per mee io ti seguirò di buon gradonondisperando della tua misericordia per il mio

enorme peccatoecc.»

In seguito recitò diversi salmi e orazionisempre in lode di Dio. Quandoinfine il carnefice le comparve davanti

con una cordadisse:

«Lega questo corpo che dev'essere castigatoe libera quest'anima che devearrivare all'immortalità e alla gloria

eterna. »

Allora si levòdisse le sue preghierelasciò le babbucce in fondo allascalae salita sul patibolo passò lesta la

gamba sopra l'asseposò il collo sotto la mannajae si sistemò dasola alla perfezione per evitare d'esser toccata dal

carnefice. Con la rapidità dei suoi movimentievitò chenel momento incui le fu tolto il suo velo di taffetàil pubblico

le vedesse le spalle e il petto. Ci volle molto prima che il colpo fossevibratoperché sopravvenne un inconveniente. Nel

frattempoella invocava ad alta voce il nome di Gesù Cristo e dellasantissima Vergine.

Il corpo ebbe un grande sussulto al momento fatale. Il povero Bernardo Cenciche era sempre rimasto seduto

sul patibolocadde di nuovo svenutoe ai suoi confortatori occorseben più di mezz'ora per rianimarlo. Allora comparve

sul patibolo Giacomo Cenci; ma anche qui bisogna sorvolare su particolaritroppo atroci. Giacomo Cenci fu mazzolato.

Bernardo fu ricondotto subito in prigioneaveva la febbre altagli fu fattoun salasso.34

In quanto alle povere donneciascuna fu accomodata nella sua barae depostaa qualche passo dal patibolo

presso la statua di san Paolo che è la prima a destra sul ponte Sant'Angelo.Restarono lì fino alle quattro e un quarto

dopo mezzogiorno. Intorno ad ogni bara ardevano quattro candele di cerabianca.

In seguitocon quel che restava di Giacomo Cencifurono portate al palazzodel console di Firenze. Alle nove

e un quarto di serail corpo della giovanevestito dei suoi abiti eincoronato di fiori a profusionefu portato a San Pietro

in Montorio. Era di un'incantevole bellezza; sembrava che dormisse. Fusepolta davanti all'altar maggiore e alla

Trasfigurazione di Raffaello da Urbino. Era accompagnata da cinquantagrandi ceri accesi e da tutti i frati francescani di

Roma.

Lucrezia Petroni fu portataalle dieci di seraalla chiesa di San Giorgio.Durante questa tragediala folla era

innumerevole; fìn dove poteva spingersi lo sguardosi vedevano le stradepiene di carrozze e di gentele impalcaturele

finestre e i tetti coperti di curiosi. Il sole era tanto ardente quel giornoche molte persone perdettero conoscenza. Un

numero infinito prese la febbre; e quando tutto fu terminatoalle diciannove(le due meno un quarto)e la folla si

dispersemolte persone furono soffocatealtre schiacciate dai cavalli. Ilnumero dei morti tu molto considerevole.

La signora Lucrezia Petroni era piuttosto piccola di staturaebenché avesse cinquant'anniera ancora molto

ben portante. Aveva bellissimi lineamentiil naso piccologli occhi neriil viso molto bianco dal bel colorito; aveva

pochi capelli ed erano castani.

Beatrice Cenciche ispirerà un eterno rimpiantoaveva sedici anni giusti;era piccola; era piacevolmente

grassottella e aveva delle fossette in mezzo alle guancedi modo chemortae incoronata di fiorisi sarebbe detto che

dormissee anzi che ridessecome le accadeva spesso quando era in vita.Aveva la bocca piccolai capelli biondi e

naturalmente ricci. Andando alla morte questi capelli biondi e inanellati lericadevano sugli occhie ciò le dava una

certa grazia e induceva alla compassione.

Giacomo Cenci era di piccola staturagrossocol viso bianco e la barbanera; aveva press'a poco ventisei anni

quando morì.

Bernardo Cenci assomigliava in tutto a sua sorellaesiccome portava icapelli lunghi come leimolta gente

quando comparve sul patibololo scambiò per Beatrice.

Il sole era stato così ardenteche molti spettatori di questa tragediamorirono durante la nottee fra loro

Ubaldino Ubaldinigiovane di rara bellezzache prima godeva di perfettasalute. Era fratello del signor Renzimolto

conosciuto a Roma. Così le ombre dei Cenci se ne andarono in buonacompagnia.

Ierimartedì 14 settembre 1599i penitenti di San Marcelloin occasionedella festa della Santa Croce

usufruirono del loro privilegio per liberare dalla prigione il signorBernardo Cenciche si è obbligato a pagare entro un

anno 400.000 franchi alla Santissima Trinità di ponte Sisto.

(Aggiunta di altra mano)

Da lui discendono Francesco e Bernardo Cenciche vivono attualmente.

Il celebre Farinaccichecon la sua ostinazionesalvò la vita al giovaneCenciha pubblicato le sue arringhe.

Dà soltanto un estratto dell'arringa n. 66che pronunciò davanti aClemente VIII in favore dei Cenci. Quest'arringain

lingua latinariempirebbe sei grandi paginee non posso inserirla quiconmio rincrescimento; riproduce il modo di

pensare del 1599; mi sembra molto ragionevole. Molti anni dopo il 1599Farinaccidando alle stampe le sue arringhe

aggiunse una nota a quella che aveva pronunciato in favore dei Cenci: Omnesfuerunt ultimo supplicio affectiexcepto

Bernardo qui ad triremes cum bonorum confiscatione condemnatus fuitac etiamad interessendum aliorum morti prout

interfuit. La fine di questa nota latina è commoventema suppongo cheil lettore sia stanco di una sì lunga storia.

LA DUCHESSA DI PALLIANO

Palermo22 luglio 1838

Non sono un naturalistae la mia conoscenza del greco è assai mediocre; loscopo principale del mio viaggio in

Sicilia non era quello di osservare i fenomeni dell'Etnané di far luceper me o per gli altrisu tutto ciò che gli antichi

autori greci hanno detto dell'isola. Cercavo innanzi tutto il piacere degliocchiche è grande in questo singolare paese.

Dicono che somigli all'Africa; maper meè certo che somiglia all'Italiasolo per le sue divoranti passioni. Dei Siciliani

si può ben dire che la parola impossibile non esiste per lorononappena sono infiammati dall'amore o dall'odioe l'odio

in questo bel paesenon sorge mai da motivi d'interesse.

Ho notato che in Inghilterrae soprattutto in Franciasi parla spesso dellapassione italianadella passione

sfrenata che esisteva in Italia nei secoli XVI e XVII. Ai giorni nostriquesta bella passione è mortadefinitivamente

nelle classi che hanno subito l'influenza delle usanze francesi e delle modedi Parigi o di Londra.

Si potrebbe osservare chedall'epoca di Carlo V (1530)NapoliFirenzeeanche Romaimitarono un po' i

costumi spagnoli; ma quelle abitudini sociali così nobili non erano forsefondate sul profondo rispetto che ogni uomo

degno di questo nome deve ai propri sentimenti? Lungi dal bandire l'energiaesse l'accentuavanomentre la prima

regola dei fatui imitatori del duca di Richelieuverso il 1760era di nonsembrar commossi di nulla. La massima dei35

dandies inglesiche oggi vengono copiati a Napoli a preferenza dei damerinifrancesinon è quella di sembrare annoiati

di tuttosuperiori a tutto?

Sicché la passione italianada un secolo a questa partenon esistepiù nella buona società di quel paese.

Per farmi un'idea di questa passione italianadi cui i nostriromanzieri parlano con tanta sicurezzasono stato

obbligato a interrogare la storia; ma la grande storiascritta da uomini ditalentoe spesso troppo maestosanon dice

quasi nulla di questi dettagli. Essa non si degna di annotare certe follieameno che siano commesse da re o da principi.

Ho dovuto ricorrere alla storia locale di ogni città; ma sono rimastospaventato dall'abbondanza dei materiali. Certe

piccole città vi presentano con fierezza la loro storia in tre o quattrovolumi stampati in 4°e in sette o otto volumi

manoscritti; questiquasi indecifrabilicostellati di abbreviazioniconcaratteri di forma strananei momenti più

interessanti sono pieni di modi dire dialettaliinintelligibili venti leghepiù in là. Perché in tutta questa bella Italiadove

l'amore ha disseminato tanti avvenimenti tragicisolo in tre cittàFirenzeSiena e Romasi parla press'a poco come si

scrive; dappertutto altrove la lingua scritta è a mille miglia dalla linguaparlata.

La cosiddetta passione italianacioè la passione che cerca disoddisfarsie non già di dare al vicino un'idea

magnifica della nostra personacomincia con la rinascita della societànel XII secoloe si estinguealmeno nelle classi

più elevateverso il 1734. A quell'epocai Borboni vengono a regnare aNapoli nella persona di don Carlosfiglio di

una Farnesesposatain seconde nozzea Filippo Vil triste nipote diLuigi XIVcosì intrepido sul campo di battaglia

così annoiatoe così appassionato di musica. È noto che per ventiquattroanni il sublime castrato Farinelli gli cantò tutti

i giorni le sue tre arie predilettesempre le stesse.

Uno spirito filosofico potrebbe trovare curiosi i particolari di una passionevissuta a Roma o a Napolima

confesserò che nulla mi pare più assurdo di quei romanzi che danno nomiitaliani ai loro personaggi. Non è convenuto

che le passioni mutano ogni volta che ci si avvicina di cento leghe al Nord?L'amore è forse lo stesso a Marsiglia e a

Parigi? Tutt'al più si può dire che i paesi soggetti da lungo tempo allostesso governomostrano nelle abitudini sociali

una specie di somiglianza esteriore.

I paesaggicome le passionicome la musicacambiano anch'essi appena ci sispinge di tre o quattro gradi

verso il Nord. Un paesaggio napoletano sembrerebbe assurdo a Veneziase nonfosse cosa convenutaanche in Italia

ammirare le bellezze naturali di Napoli. A Parigifacciamo di meglio:crediamo che l'aspetto delle foreste e delle

pianure coltivate sia lo stesso a Napoli e a Veneziae vorremmo che ilCanalettoper esempioadoprasse assolutamente

gli stessi colori di Salvator Rosa.

Il colmo del ridicolo non è forse una dama inglese dotata di tutte leperfezioni della sua isolama considerata

incapace di dipingere l'odio e l'amore di quell'isola stessa:la signora Ann Radcliffeche dà nomi italiani e grandi

passioni ai personaggi del suo celebre romanzo Il confessionale deipenitenti neri?

Non cercherò affatto di abbellire la semplicitàla rudezza talora urtantidel racconto fin troppo realistico che

sottopongo all'indulgenza del lettore; per esempiotradurrò esattamente larisposta della duchessa di Palliano alla

dichiarazione d'amore di suo cugino Marcello Capece. Questa monografia dellafamiglia si trovanon so perchéalla

fine del secondo volume di una storia manoscritta di Palermosulla quale nonposso dare nessuna precisazione.

Il raccontoche ho molto abbreviatoa malincuore (ho soppresso unaquantità di particolari caratteristici)

comprende le ultime vicende della disgraziata famiglia Carafapiù che lastoria avvincente di una sola passione. La

vanità letteraria mi dice che forse non mi sarebbe stato impossibileaccrescere l'interesse di varie situazionisviluppando

di piùcioè indovinando e raccontando al lettorenei particolariisentimenti dei personaggi. Ma iogiovane Francese

nato a nord di Parigisono ben certo d'indovinare ciò che sentivano quelleanime italiane dell'anno 1559? Tutt'al più

posso sperare d'indovinare quel che può apparire elegante e piccante ailettori francesi del 1838.

Questo modo appassionato di sentire che regnava in Italia verso il 1559voleva azioni e non parole. Si

troveranno quindi pochissimi dialoghi nei racconti che seguono. È unosvantaggio per questa traduzioneabituati come

siamo alle lunghe conversazioni dei nostri personaggi romanzeschi; per lorouna conversazione è una battaglia. La

storia per cui reclamo tutta l'indulgenza del lettore mostra una singolareparticolarità introdotta dagli Spagnoli nei

costumi italiani.

Non sono mai uscito dal mio ruolo di traduttore. Il calco fedele dei modi disentire del XVI secoloe anche dei

modi di raccontare dello storico chesecondo ogni apparenzaera ungentiluomo appartenente al seguito della

sventurata duchessa di Pallianorappresentaa mio avvisoil pregioprincipale di questa storia tragicase mai essa ne ha

uno.

La più rigida etichetta spagnola regnava alla corte del duca diPalliano. Notate che ogni cardinaleogni

principe romano aveva una corte similee potrete farvi un'idea dellospettacolo che presentava nel 1559 l'alta società

della città di Roma. Non dimenticate che era il tempo in cui il re FilippoII avendo bisogno per un suo intrigo del

suffragio di due cardinalidiede a ciascuno di essi 200.000 franchi direndita in benefici ecclesiastici. Romabenché

priva di un esercito temibileera la capitale del mondo. Pariginel 1559era una città di barbari abbastanza inciviliti.

TRADUZIONE FEDELE DI UNA VECCHIA CRONACA SCRITTA VERSO IL 1566

Giampietro Carafasebbene appartenente a una delle più nobili famiglie delregno di Napoliera di modi aspri

rudiviolenti e in tutto degni di un pecoraio. Prese l'abito lungo (talare)e in giovane età se ne andò a Romadove

godette del favore di suo cugino Oliviero Carafacardinale e arcivescovo diNapoli. Alessandro VIquel grand'uomo36

che sapeva tutto e poteva tuttolo fece suo cameriere (press'a pocoquel che noi chiameremmonel linguaggio attuale

un ufficiale d'ordinanza). Giulio II lo nominò arcivescovo di Chieti; papaPaolo lo fece cardinalee infineil 23 maggio

1555dopo contese e dispute tremende fra i cardinali rinchiusi in conclavefu creato papa col nome di Paolo IV: aveva

allora settantotto anni. Gli stessi che l'avevano appena chiamato al trono disan Pietro fremettero ben prestopensando

alla durezza e alla fede indomitainesorabiledel padrone che si eranodati.

La notizia di questa elezione inattesa rivoluzionò Napoli e Palermo. Inpochi giorni Roma vide arrivare un gran

numero di membri dell'illustre famiglia Carafa. Tutti furono sistemati; macom'è naturaleil papa favorì in modo

particolare i suoi tre nipotifigli del conte di Montoriosuo fratello.

Don Juanil primogenitogià sposatofu fatto duca di Palliano. Questoducatostrappato a Marcantonio

Colonnacui appartenevacomprendeva molti villaggi e cittadine. Don Carlosil secondo dei nipoti di Sua Santitàera

cavaliere di Malta e aveva fatto la guerra; fu creato cardinalelegato diBologna e primo ministro. Era un uomo molto

risoluto fedele alle tradizioni della sua famigliaosò odiare il re piùpotente del mondo (Filippo IIre di Spagna e delle

Indie)e gli diede prova del suo odio. In quanto al terzo nipote del nuovopapadon Antonio Caratasiccome era

sposatoil papa lo fece marchese di Montebello. Infinevolle dare in mogliea Francescodelfino di Francia e figlio del

re Enrico II una figlia avuta da suo fratello in seconde nozze; Paolo IVpretendeva di assegnarle in dote il regno di

Napoli. togliendolo a Filippo IIre di Spagna. La famiglia Carafa odiavaquel potente sovranoil qualeapprofittando

dei suoi erroririuscì a sterminarlacome vedrete.

Da quando era salito al trono di san Pietroil più potente del mondoche aquell'epoca eclissava perfino

l'illustre monarca della SpagnaPaolo IVcome si è visto poi anche nellamaggior parte dei suoi successoridava

l'esempio di tutte le virtù. Fu un gran papa e un gran santo; si sforzò diriformare gli abusi nella Chiesa e di evitare in tal

modo il concilio generaleche da ogni parte veniva richiesto alla corte diRomae che una saggia politica non

consentiva di accordare.

Secondo l'usanza di quel tempo oggi troppo dimenticatoche non permetteva aun sovrano di fidarsi di gente

che poteva avere interessi diversi dai suoigli Stati di Sua Santità eranogovernati dispoticamente dai suoi tre nipoti. Il

cardinale era primo ministro e disponeva delle volontà dello zio; il duca diPalliano era stato creato generale delle

truppe della Santa Chiesae il marchese di Montebellocapitano delleguardie di palazzovi lasciava entrare solo le

persone a lui gradite. Ben presto quei giovani commisero i maggiori eccessi;cominciarono con l'appropriarsi dei beni

delle famiglie contrarie al loro governo. Le popolazioni non sapevano a chiricorrere per ottenere giustizia. Non solo

dovevano temere per i loro benimaorribile a dirsi nella patria dellacasta Lucrezial'onore delle loro mogli e delle loro

figlie non era al sicuro. Il duca di Palliano e i suoi fratelli rapivano ledonne più belle; bastava che avessero la disgrazia

di piacere a quei signori. Si videcon stuporeche non avevano alcunriguardo per la nobiltà del sangueepeggio

ancorala sacra clausura dei santi monasteri non era affatto un ostacolo perloro. Le popolazioniridotte alla

disperazionenon sapevano a chi far giungere le loro lagnanzetanto grandeera il terrore che i tre fratelli avevano

ispirato a tutti quelli che si avvicinavano al papa; erano insolenti perfinocon gli ambasciatori.

Il duca aveva sposatoprima dell'elezione di suo zioViolante di Cardonadi una famiglia originaria della

Spagnae chea Napoliapparteneva alla più alta nobiltà.

Essa era iscritta al Seggio di nido.

Violantecelebre per la sua rara bellezza e per le grazie che sapevasfoderare quando voleva piacerelo era

ancora di più per il suo orgoglio insensato. Maad esser giustisarebbestato difficile avere un carattere più fortecome

dimostrò bene al mondo non rivelando nullaprima di morireal fratecappuccino che la confessò. Sapeva a memoria e

recitava con grazia infinita il meraviglioso Orlando di messer Ariostola maggior parte dei sonetti del divino Petrarca

le novelle del Pecoroneecc.ecc. Ma era ancor più seducente quandodegnava intrattenere gli interlocutori con le idee

singolari che il suo spirito le suggeriva.

Ebbe un figlio che fu chiamato il duca di Cavi. Suo fratellodon Ferranteconte d'Alifeandò a Romaattratto

dalla fortunata carriera dei suoi cognati.

Il duca di Palliano teneva una corte splendida; i giovani delle primefamiglie di Napoli si disputavano l'onore di

farne parte. Fra quelli che gli erano più cariRoma assegnò un postoparticolarecon la sua ammirazionea Marcello

Capece (del Seggio di nido)giovane cavaliere celebre a Napoli per ilsuo spiritononché per la divina bellezza che

aveva ricevuto dal cielo.

La duchessa aveva come favorita Diana Brancaccioche a quel tempo era suitrent'anniparente prossima della

marchesa di Montebellosua cognata. A Roma si diceva chedavanti a questafavoritanon aveva più orgoglio; le

confidava tutti i suoi segreti. Ma tali segreti riguardavano solo lapolitica; la duchessa suscitava molte passionima non

ne condivideva nessuna.

Seguendo i consigli del cardinal Carafail papa fece la guerra al re diSpagnae il re di Francia mandò in

soccorso del papa un esercito comandato dal duca di Guisa.

Ma dobbiamo attenerci agli avvenimenti interni della corte del duca diPalliano.

Da molto tempo Capece sembrava impazzito; lo si vedeva commettere le azionipiù stravaganti; il fatto è che il

povero giovane si era appassionatamente innamorato della duchessa sua signorama non osava dichiararsi a lei. Però

non disperava del tutto di ottenere il suo scopovedeva la duchessaprofondamente irritata contro un marito che la

trascurava. Il duca di Palliano era onnipotente a Romae la duchessa sapevasenza alcun dubbioche quasi tutti i giorni

le dame romane più celebri per la loro bellezza andavano a trovare suomarito nel suo stesso palazzoed era un affronto

cui ella non poteva abituarsi.37

Fra i cappellani del santo papa Paolo IV c'era un degno religioso con cuiegli recitava il breviario. Questo

personaggioa rischio di rovinarsie forse spinto dall'ambasciatore diSpagnaun giorno osò rivelare al papa tutte le

scelleratezze dei suoi nipoti. Il santo pontefice si ammalò dal dispiacere;volle dubitare; ma prove schiaccianti gli

arrivavano da ogni parte. Il primo giorno dell'anno 1559 ebbe luogol'avvenimento che confermò il papa in tutti i suoi

sospettie forse fece decidere Sua Santità. Proprio il giorno dellaCirconcisione di Nostro Signorecircostanza che

aggravò di molto la colpa agli occhi di un sovrano così pioAndreaLanfranchisegretario del duca di Pallianodiede

una magnifica cena in onore del cardinal Carafae volendo che oltre aglistimoli della gola non mancassero quelli della

lussuriafece venire a cena la Martucciauna delle più belledellepiù celebri e ricche cortigiane della nobile città di

Roma. Fatalità volle che Capeceil favorito del ducalo stesso che insegreto era innamorato della duchessae che era

ritenuto il più bell'uomo della capitale del mondoda qualche tempo avesseuna relazione con la Martuccia. Quella sera

la cercò in tutti i luoghi dove poteva sperare d'incontrarla. Non trovandolada nessuna partee avendo appreso che in

casa Lanfranchi si teneva una cenaebbe il sospetto di quanto stavaavvenendoe verso mezzanotte si presentò da

Lanfranchiaccompagnato da molti uomini armati.

La porta gli fu apertafu invitato a sedersi e a partecipare al festinomadopo qualche parola assai sforzataegli

fece segno alla Martuccia di alzarsi e di uscire con lui. Mentre ellaesitava tutta confusaprevedendo quel che sarebbe

accadutoCapece si alzò dal suo postoe avvicinandosi alla giovane laprese per manocercando di trascinarla con sé. Il

cardinalein onore del quale la donna era venutasi oppose vivamente allasua partenza; Capece insisté cercando di

trascinarla fuori dalla sala.

Il cardinale primo ministroche quella sera portava un abito tutto diversoda quello conforme alla sua alta

dignitàpose mano alla spadae si oppose col vigore e il coraggio chetutta Roma gli conosceva alla partenza della

giovane. Marcelloebbro di collerafece entrare i suoi uominima erano inmaggioranza Napoletanie quando

riconobbero prima il segretario del duca e poi il cardinaleche il singolareabito aveva loro nascosto sulle prime

rinfoderarono le spadenon vollero battersie s'interposero per appianareil litigio.

Durante questo tumultoMartucciache era circondata e che MarcelloCapece tratteneva con la sinistrafu

abbastanza svelta da svignarsela. Appena Marcello si avvide della suaassenzale corse appressoe tutti i suoi lo

seguirono.

Ma l'oscurità della notte autorizzava i racconti più stranie la mattinadel 2 gennaio nella capitale dilagarono le

voci sul rischioso combattimento che avrebbe avuto luogosi dicevafra ilcardinal nipote e Marcello Capece. Il duca di

Pallianocomandante supremo dell'esercito della Chiesacredette la faccendaassai più grave di quanto non fossee

poiché non era in buoni rapporti con suo fratello il ministrola nottestessa fece arrestare Lanfranchie il giorno dopodi

buonoraanche Marcello fu messo in prigione. Poi ci si accorse che nessunoaveva perduto la vitae che quegli arresti

non facevano che aumentare lo scandaloa tutto danno del cardinale. Ci siaffrettò a rilasciare i prigionierie l'immenso

potere dei tre fratelli si concentrò per cercar di mettere a tacere lafaccenda. Dapprima sperarono di riuscirvi; mail

terzo giornotutta la storia arrivò alle orecchie del papa. Egli fecechiamare i due nipotie parlò loro come poteva farlo

un principe tanto pio e così profondamente offeso.

Il quinto giorno di gennaioin cui un gran numero di cardinali si riunivanella congregazione del Sant'Uffizioil

santo papa parlò per primo di quell'orribile faccenda; domandò ai cardinalipresenti come mai avevano osato non

portarla a sua conoscenza:

«Voi tacete! eppure lo scandalo riguarda la dignità sublime di cui sieterivestiti! Il cardinal Carafa ha osato

mostrarsi sulla pubblica via vestito di un abito secolare e con la spadasguainata in mano. E a quale scopo? Per

impadronirsi di un'infame cortigiana?»

Ci si può immaginare il silenzio di morte che regnava fra tutti i cortigianidurante quest'invettiva contro il

primo ministro. Era un vegliardo di ottant'anni che si adirava contro unnipote predilettofino allora arbitro di tutte le

sue volontà. Nella sua indignazione il papa parlò di togliere al nipote ilcappello cardinalizio.

La collera del papa fu fomentata dall'ambasciatore del granduca di Toscanache andò a lagnarsi con lui di una

recente insolenza del cardinale primo ministro. Questo cardinalecosìpotente fino allorasi presentò da Sua Santità per

il solito lavoro. Il papa lo lasciò quattro ore di fila in anticameraadaspettare sotto gli occhi di tuttipoi lo mandò via

senza volerlo ammettere all'udienza. Figurarsi come ne soffrì lo smoderatoorgoglio del ministro. Il cardinale era

irritatoma non sottomesso; pensava che un vecchio prostrato dall'etàdominato per tutta la vita dall'amore che portava

alla famigliae che infine era poco abituato a sbrigare gli affaritemporalisarebbe stato obbligato a ricorrere alle sue

prestazioni. La virtù del santo papa ebbe la meglioegli convocò icardinali edopo averli guardati a lungo senza

parlarealla fine scoppiò in lacrime e non esitò a fare una specie diammenda onorevole:

«La debolezza dell'età» disse loro«e le cure che rivolgo alle cosedella religionenelle qualicome sapete

intendo distruggere tutti gli abusimi hanno indotto ad affidare la miaautorità temporale ai miei tre nipoti; ne hanno

abusato ed io li scaccio per sempre.»

In seguito fu data lettura di un breve per cui i nipoti erano spogliati ditutte le loro dignitàe confinati in

miserabili villaggi. Il cardinale primo ministro fu esiliato a CivitaLaviniail duca di Palliano a Sorianoe il marchese a

Montebello; con questo breveil duca era privato dei suoi emolumenticheammontavano a 72.000 piastre (più di un

milione del 1838).

Non era possibile disobbedire a questi ordini severi: i Carafa avevano pernemico e sorvegliante tutto quanto il

popolo di Romache li detestava38

Il duca di Pallianoseguito dal conte d'Alifesuo cognatoe da Leonardodel Cardineandò a stabilirsi nel

piccolo villaggio di Sorianomentre la duchessa e sua suocera andarono adabitare a Gallesemisera borgata a due leghe

appena da Soriano.

Queste località sono amene; ma si trattava di un esilioed essi sitrovavano cacciati via da Roma dove fino

allora avevano regnato con arroganza.

Marcello Capece aveva seguito la sua signora con gli altri cortigianinel povero villaggio dov'era stata esiliata.

Invece di ricevere gli omaggi di tutta Romaquesta donnacosì potentepochi giorni primae che godeva del proprio

rango con tutta l'esaltazione dell'orgoglioormai si vedeva circondatasoltanto da semplici contadiniil cui stesso

stupore le rammentava la sua caduta. Non aveva alcuna consolazione; suo zioera così vecchio che probabilmente

sarebbe stato sorpreso dalla morte prima di richiamare i nipotie per colmodi disgrazia i tre fratelli si detestavano fra

loro. Si arrivava perfino a dire che il duca e il marcheseche noncondividevano affatto le focose passioni del cardinale

spaventati dai suoi eccessifossero arrivati al punto di denunciarlo al papaloro zio.

In mezzo all'orrore di questa profonda disgraziaaccadde un fatto chepersfortuna della duchessa e dello

stesso Capecedimostrò bene chea Romanon era stata una vera passione aspingerlo dietro alla Martuccia.

Un giorno che la duchessa l'aveva fatto chiamare per dargli un ordinesitrovò solo con leicosa che non

succedeva forse neppure due volte in un anno. Quando vide che non c'eranessuno nella sala dove la duchessa lo

ricevevaCapece restò immobile e silenzioso. Andò verso la porta pervedere se c'era qualcuno che potesse ascoltarli

nella stanza vicinapoi ardì parlare così:

«Signoranon v'inquietate e non andate in collera per le parole insoliteche avrò la temerità di pronunciare. Da

molto tempo vi amo più della vita. Secon troppa imprudenzaho osatocontemplare da innamorato le vostre divine

bellezze non dovete darne la colpa a mebensì alla forza soprannaturale chemi spinge e mi agita. Sono alla tortura

brucio; non chiedo ristoro dalla fiamma che mi consumama soltanto che lavostra generosità abbia pietà d'un servitore

pieno di deferenza e di umiltà.»

La duchessa parve sorpresa e soprattutto irritata:

«Marcelloche cosa mai hai visto in me» gli disse«che ti dia l'ardiredi chiedermi amore? Forse che la mia

vitala mia conversazione si sono talmente allontanate dalle regole delladecenzache tu abbia potuto sentirti

autorizzato a simile sfrontatezza? Come hai potuto avere la temerità dicredere ch'io potessi darmi a te o a chiunque

altroeccettuato il mio sposo e signore? Ti perdono quel che mi hai dettoperché penso che tu sia fuor di senno; ma

guardati bene dal ricadere in un simile erroreo ti giuro che ti faròpunire insieme per la prima e per la seconda

insolenza.»

La duchessa si allontanòpresa dalla collerae in effetti Capece eravenuto meno alle leggi della prudenza;

bisognava lasciar indovinaree non parlare. Egli restò sconcertatotemendomolto che la duchessa raccontasse la cosa a

suo marito.

Ma il seguito fu ben diverso da quel che temeva. Nell'isolamento di quelvillaggiola fiera duchessa di Palliano

non poté impedirsi di confidare quel che Capece aveva osato dirle alla suadama d'onore predilettaDiana Brancaccio.

Era una donna di trent'annidivorata da ardenti passioni. Aveva i capellirossi (lo storico torna parecchie volte su questa

circostanzache gli sembra spiegare tutte le follie di Diana Brancaccio).Amava con furore Domiziano Fornari

gentiluomo al seguito del marchese di Montebello. Voleva prenderlo permarito; ma il marchese e sua moglieal quali

aveva l'onore d'esser legata da vincoli di sangueavrebbero mai consentito avederla sposare un uomo attualmente al

loro servizio? Quest'ostacolo era insormontabilealmeno in apparenza.

Non c'era che una probabilità di successo: ottenere una valida protezione daparte del duca di Pallianofratello

maggiore del marchesee Diana non era priva di speranze a tale proposito. Ilduca la trattava da parente più che da

domestica. Era un uomo dotato di un certa semplicità di cuore e di una certabontàe teneva infinitamente meno dei suoi

fratelli alle regole dell'etichetta. Benché il duca approfittasse come ungiovanotto di tutti i privilegi della sua alta

posizionee non fosse per nulla fedele alla moglietuttavia la amavateneramenteestando alle apparenzenon avrebbe

potuto rifiutarle una grazia se ella gliel'avesse chiesta con una certainsistenza.

La confessione che Capece aveva osato fare alla duchessa parve una fortunainaspettata alla tenebrosa Diana.

La sua padrona era stata fino allora di una virtù esasperante; ma se potevaprovare una passionese commetteva un

errorein ogni momento avrebbe avuto bisogno di Dianae questa avrebbepotuto sperare tutto da una donna di cui

conoscesse i segreti.

Invece di ricordare alla duchessa innanzi tutto ciò che doveva a se stessae poi i pericoli tremendi cui si

sarebbe esposta in mezzo a cortigiani così perspicaciDianatrascinatadalla foga della propria passioneparlò alla sua

signora di Marcello Capececome parlava a se stessa di Domiziano Fornari.Nei lunghi colloqui di quell'isolamento

ella trovava modoogni giornodi rammentare alla duchessa le grazie e labellezza di quel povero Marcello che

sembrava così triste; appartenevacome la duchessaalle prime famiglie diNapolile sue maniere erano nobili come il

suo sanguee gli mancavano solo le ricchezzeche un capriccio della fortunaavrebbe potuto dargli da un giorno

all'altroper essere in tutto eguale alla donna che osava amare.

Diana si accorse con gioia che il primo effetto di questi discorsi era quellodi raddoppiare la fiducia che la

duchessa le accordava.

Non mancò di informare Marcello Capece di quanto avveniva. Durante il caldotorrido di quell'estatela

duchessa passeggiava spesso nei boschi che circondano Gallese. Al cadere delsolesi recava ad attendere la brezza di.39

mare sulle ridenti colline che s'innalzano in mezzo a quei boschidalla cuisommità si scorge il mare a meno di due

leghe di distanza.

Senza contravvenire alle rigide leggi dell'etichettaMarcello poteva bentrovarsi in quei boschi: dicono che vi

si nascondessee avesse cura di mostrarsi agli sguardi della duchessa soloquando era ben disposta dai discorsi di Diana

Brancaccio. Questa faceva un segnale a Marcello.

Dianavedendo che la sua padrona stava per dare ascolto alla fatale passioneche lei stessa aveva suscitato nel

suo cuorecedette da parte sua all'amore violento ispiratole da DomizianoFornari. Ormai si credeva sicura di poterlo

sposare. Ma Domiziano era un giovane saggiodi carattere freddo e riservato;gli impeti della sua focosa amante

anziché farlo attaccare di piùgli sembrarono ben presto sgradevoli. DianaBrancaccio era parente prossima dei Carafa;

egli era sicuro che l'avrebbero pugnalatoalla minima voce che fosse giuntasui suoi amori al terribile cardinal Carafa

chesebbene fratello minore del duca di Pallianoerain realtàil verocapo della famiglia.

La duchessa aveva ceduto da qualche tempo alla passione di Capecequando unbel giorno Domiziano Fornari

non fu più ritrovato nel villaggio dov'era relegata la corte del marchese diMontebello. Era scomparso: si seppe più tardi

che s'era imbarcato nel piccolo porto di Nettuno; senza dubbio aveva cambiatonomee da allora non si ebbero più sue

notizie.

Chi potrebbe descrivere la disperazione di Diana? Dopo aver ascoltato conbontà i suoi lamenti contro il

destinoun giorno la duchessa di Palliano le lasciò capire chequest'argomento le sembrava esaurito. Diana si vedeva

disprezzata dal suo amanteil suo cuore era in preda alle più crudelisofferenzee trasse la più strana conclusione da

quel momento di noia che la duchessa aveva provato ascoltando il ripetersidei suoi lamenti. Diana si persuase che

proprio la duchessa avesse obbligato Domiziano Fornari a lasciarla persempree in più gli avesse fornito i mezzi per il

viaggio. Questa folle idea era fondata solo su qualche lieve rimprovero cheun tempo la duchessa le aveva rivolto. Il

sospetto fu ben presto seguito dalla vendetta. Ella chiese un'udienza al ducae gli raccontò tutto quel che avveniva tra

sua moglie e Marcello. Il duca rifiutò di prestarvi fede. «Pensate» ledisse«che da quindici anni non ho avuto il

minimo rimprovero da fare alla duchessaella ha resistito alle lusinghedella corte e alle attrattive della brillante

posizione che avevamo a Roma; i principi più amabilie il duca di Guisa inpersonagenerale dell'esercito francese

hanno perso il loro tempo con leie volete che ceda a un semplicescudiero?»

Disgrazia volle chesiccome il duca si annoiava molto a Sorianoilvillaggio in cui era relegatoad appena due

leghe da quello dove abitava sua moglieDiana potesse ottenere da lui ungran numero di udienzesenza che la

duchessa ne venisse a conoscenza. Diana aveva un talento straordinario; lapassione la rendeva eloquente. Diede al duca

una quantità di dettagli; la vendetta era diventata il suo unico piacere.Gli ripeteva chequasi tutte le sereCapece

s'introduceva in camera della duchessa verso le undicie non ne usciva chealle due o alle tre del mattino. Questi

discorsi sulle prime fecero così poca impressione al ducache non volledarsi la pena di percorrere due leghe a

mezzanotte per andare a Galleseed entrare di sorpresa in camera di suamoglie.

Ma una sera che si trovava a Gallesee il sole era tramontato ma facevaancora chiaroDiana entrò tutta

scarmigliata nel salone dov'era il duca. Tutti si allontanarono; ella glidisse che Marcello Capece era appena entrato

nella stanza della duchessa. Il ducacerto maldisposto in quel momentoprese il pugnale e corse alla camera di sua

mogliedove entrò per una porta segreta. Vi trovò Marcello Capece. Inveritài due amanti cambiarono colore

vedendolo entrare; maper il restonon c'era nulla di reprensibile nellaposizione in cui si trovavano. La duchessa era

nel suo lettooccupata ad annotare una piccola spesa che aveva fatto; unacameriera era nella stanza; Marcello stava in

piedi a tre passi dal letto.

Il duca furibondo afferrò Marcello alla golalo trascinò in un gabinettovicinoe gli ordinò di gettare in terra la

daga e il pugnale di cui era armato. Dopodiché chiamò alcuni uomini dellasua guardiada cui Marcello fu

immediatamente condotto nelle prigioni di Soriano.

La duchessa fu lasciata nel suo palazzoma sotto stretta sorveglianza.

Il duca non era crudele; a quanto sembra ebbe l'idea di nasconderel'ignominiosa faccendaper non essere

obbligato a prendere le misure estreme che l'onore esigeva da lui. Volle farcredere che Marcello era trattenuto in

carcere per tutt'altro motivoe prendendo pretesto da certi enormi rospi cheMarcello aveva comprato a caro prezzo due

o tre mesi primafece dire che il giovane aveva tentato di avvelenarlo. Mail vero delitto era troppo ben conosciutoe il

cardinalesuo fratellogli fece chiedere quando avrebbe lavato nel sanguedei colpevoli l'affronto che si era osato fare

alla loro famiglia.

Il duca chiamò al suo fianco il conte d'Alifefratello di sua moglieeAntonio Torandoamico di casa. Tutti e

treformando una specie di tribunalesottoposero a giudizio MarcelloCapeceaccusato di adulterio con la duchessa.

L'instabilità delle cose umane volle che il papa Pio IVsucceduto a PaoloIVappartenesse alla fazione

spagnola. Non poteva rifiutare nulla al re Filippo IIche esigeva da lui lamorte del cardinale e del duca di Palliano. I

due fratelli furono accusati davanti ai tribunali del paesee le minute delprocesso che dovettero subire ci informano su

tutte le circostanze della morte di Marcello Capece.

Uno dei numerosi testimoni ascoltati depone in questi termini:

«Eravamo a Soriano; il ducamio signoreebbe un lungo colloquio con ilconte d'Alife... La seramolto tardi

scendemmo in un magazzino a pianterrenodove il duca aveva fatto prepararele corde necessarie per mettere alla

tortura il colpevole. Eravamo il ducail conte d'Alifemesser AntonioTorando ed io.»

Il primo testimonio citato fu il capitano Camillo Grifoneamico intimo econfidente di Capece. Il duca gli parlò

così:40

«Dì la veritàamico mio. Che cosa sai di quel che Marcello ha fatto nellacamera della duchessa?»

«Non so nulla; da più di venti giorni sono in urto con Marcello.»

Siccome si ostinava a non dire altroil signor duca chiamò da fuori alcunedelle sue guardie. Grifone fu legato

alla corda dal podestà di Soriano. Le guardie tirarono le cordeein talmodosollevarono il colpevole a quattro dita da

terra. Dopo che il capitano fu rimasto così appeso per un buon quarto d'oradisse:

«Calatemi giùdirò quello che so.»

Quando fu rimesso a terrale guardie si allontanarono e restammo soli conlui.

«È vero che parecchie volte ho accompagnato Marcello fino alla camera delladuchessa» disse il capitano«ma

non so niente di piùperché lo aspettavo in un cortile lì accanto finverso l'una del mattino.»

Subito furono richiamate le guardiecheper ordine del ducalo sollevaronodi nuovoin modo che i suoi piedi

non toccavano terra. Ben presto il capitano esclamò:

«Calatemi giù; voglio dire la verità. È vero» continuò«cheda varimesimi sono accorto che Marcello fa

l'amore con la duchessae volevo avvertire Vostra Eccellenza o don Leonardo.La duchessa mandava tutte le mattina a

chieder notizie di Marcello; gli faceva avere dei regaliniefra l'altrodelle confetture preparate con molta cura e assai

costose; ho veduto a Marcello delle catenine d'oro di mirabile fatturacheaveva ricevutoevidentementedalla

duchessa.»

Dopo questa deposizioneil capitano fu rispedito in prigione. Si feceentrare il portiere della duchessache

disse di non sapere nulla; fu legato alla cordae sollevato in aria. Dopouna mezz'oradisse:

«Calatemi giùdirò quello che so.»

Una volta a terrasostenne di non sapere niente; fu sollevato di nuovo. Dopouna mezz'ora lo rimisero giù;

spiegò che solo da poco tempo era addetto al servizio particolare delladuchessa. Poiché era possibile che quell'uomo

non sapesse nullafu rimandato in prigione. Tutte queste faccende avevanopreso molto tempo a causa delle guardie che

venivano fatte uscire ogni volta. Si voleva che le guardie credessero che sitrattava di un tentativo di avvelenamento col

veleno estratto dai rospi.

La notte era già molto inoltrata quando il duca fece venire Marcello Capece.Uscite le guardiee la porta

debitamente chiusa a chiave:

«Che cosa avete da fare» gli disse«nella camera della duchessaperrestarvi fino all'unaalle due e talvolta

fino alle quattro del mattino?»

Marcello negò tutto; furono chiamate le guardieche lo sollevarono; lacorda gli slogava le braccia; non

potendo sopportare il dolorechiese di essere calato; lo misero su unasedia; ma una volta lìsi imbrogliò nel discorsoe

in realtà non sapeva quel che diceva. Furono chiamate le guardie che losospesero di nuovo; dopo molto tempo

domandò di essere calato.

«È vero» disse«che sono entrato nell'appartamento della duchessa aquelle ore indebite; ma facevo l'amore

con la signora Diana Brancacciouna delle dame di Sua Eccellenzacui avevofatto promessa di matrimonioe che mi

ha concesso tuttoeccetto le cose contrarie all'onore.»

Marcello fu ricondotto alla sua prigionedove fu posto a confronto con ilcapitano e con Dianache negò tutto.

In seguito Marcello fu riportato nella sala bassa; quando fummo vicino allaporta:

«Signor duca» disse Marcello«Vostra Eccellenza ricorderà che mi hapromesso salva la vita se dico tutta la

verità. Non è necessario rimettermi alla tortura; vi dirò tutto.»

Allora si avvicinò al ducaecon voce tremante e articolata a stentoglidisse che era vero che aveva ottenuto i

favori della duchessa. A queste paroleil duca si gettò su Marcello e lomorse alla guancia; poi snudò il suo pugnale e

vidi che stava per trafiggere il colpevole. Allora dissi che era opportunoche Marcello scrivesse di suo pugno quanto

aveva confessato poco prima; questo documento sarebbe servito a giustificareSua Eccellenza. Entrammo nella sala

bassadove c'era tutto l'occorrente per scrivere; ma la corda aveva talmenteferito Marcello al braccio e alla manoche

poté scrivere soltanto queste poche parole: «Sìho tradito il miosignore; sìgli ho rubato l'onore

Il duca leggeva man mano che Marcello scriveva. A quel puntosi lanciò suMarcello e gli diede tre pugnalate

che gli tolsero la vita. Diana Brancaccio era lìa tre passipiù mortache vivasenza dubbio pentendosi mille e mille

volte di quel che aveva fatto.

«Donna indegna d'esser nata da nobile famiglia» esclamò il duca«eunica causa del mio disonorecui hai

lavorato per servire i tuoi disonesti piaceribisogna che ti ricompensi ditutti i tuoi tradimenti.» Dicendo queste parole

la prese per i capelli e le segò il collo con un coltello. La sventurataversò un mare di sangue e infine cadde morta.

Il duca fece gettare i due cadaveri in una cloaca vicino alla prigione.

Il giovane cardinale Alfonso Carafafiglio del marchese di Montebellol'unico di tutta la famiglia che Paolo IV

avesse tenuto presso di sécredette di dovergli raccontarequest'avvenimento. Il papa rispose solo con queste parole:

«E della duchessacosa ne hanno fatto?»

Tutti pensaronoa Romache queste parole dovessero comportare la mortedella sventurata donna. Ma il duca

non poteva risolversi a questo grande sacrificiosia perché ella eraincintasia a causa dell'immenso affetto che un

tempo aveva nutrito per lei.

Tre mesi dopo il grande atto di virtù che il santo papa Paolo IV avevacompiuto separandosi da tutta la sua

famigliaegli cadde malato; edopo altri tre mesi di malattiaspirò il 18agosto 1559.41

Il cardinale scriveva lettere su lettere al duca di Pallianoripetendogli dicontinuo che il loro onore esigeva la

morte della duchessa. Vedendo che il loro zio era mortoe non sapendo qualesarebbe stato il pensiero del nuovo papa

voleva che tutto fosse finito al più presto.

Il ducauomo semplicebuono e assai meno scrupoloso del cardinale nellequestioni d'onorenon poteva

decidersi all'estremoterribile passo che si esigeva da lui. Ricordava cheanche lui aveva commesso molte infedeltà

verso la duchessasenza darsi la minima pena di nasconderglielee che taliinfedeltà potevano aver spinto alla vendetta

una donna così altera. Al momento stesso di entrare in conclavedopo averascoltato la messa e ricevuto la santa

comunioneil cardinale gli scrisse ancora che si sentiva tormentato perquesti continui rinviie chese il duca non si

decideva finalmente a ciò che l'onore della casata esigevaegli non sisarebbe più occupato dei suoi affarie non

avrebbe mai cercato di essergli utilené nel conclavené presso il nuovopapa. Un motivo estraneo al punto d'onore

contribuì forse a far decidere il duca. Benché la duchessa fossestrettamente sorvegliatatrovòa quanto diconoil modo

di far sapere a Marcantonio Colonnanemico mortale del duca cui era statodato il ducato di Pallianoche se

Marcantonio avesse trovato il mezzo di salvarle la vita e di liberarlaleida parte suagli avrebbe reso il possesso della

fortezza di Pallianocomandata da un uomo che le era devoto.

Il 28 agosto 1559il duca mandò a Gallese due compagnie di soldati. Il 30don Leonardo del Cardineparente

del ducae don Ferranteconte d'Alifefratello della duchessaarrivaronoa Gallesee si recarono negli appartamenti

della duchessa per toglierle la vita. Le annunciarono la morte; ella appresela notizia senza il minimo turbamento. Volle

innanzi tutto confessarsi e ascoltare la santa messa. Poimentre i duesignori le si avvicinavanoosservò che non erano

d'accordo fra loro. Chiese se avessero un ordine del duca suo marito permetterla a morte.

«Sìsignora» rispose don Leonardo.

La duchessa chiese di vederlo; don Ferrante glielo mostrò.

(Trovo nel processo del duca di Palliano la deposizione dei monaci cheassisterono a questo terribile

avvenimento. Tali deposizioni sono molto superiori a quelle degli altritestimoniil che derivami sembradal fatto che

i monaci erano privi di timore parlando davanti al tribunalementre tuttigli altri testi erano stati più o meno complici

del loro padrone.)

Frate Antonio da Paviacappuccinodepone in questi termini:

«Dopo la messa in cui aveva ricevuto devotamente la santa comunioneementre noi la confortavamoil conte

d'Alifefratello della signora duchessaentrò nella stanza con una corda euna bacchetta di nocciolo grossa come un

pollicelunga circa mezzo braccio. Coprì gli occhi della duchessa con unfazzolettoe leicon gran sangue freddose lo

tirò di più sugli occhiper non vederlo. Il conte le mise la corda alcollo; masiccome non andava benegliela tolse e si

allontanò di qualche passo; la duchessasentendolo muoversisi tolse ilfazzoletto dagli occhie disse:

«"Ebbene! che facciamo?"

«Il conte rispose:

«"La corda non andava benevado a prenderne un'altra per non farvisoffrire."

«Dicendo queste paroleuscì; poco dopo tornò nella stanza con un'altracordale sistemò di nuovo il fazzoletto

sugli occhile rimise la corda al colloe facendo penetrare la bacchettanel nodola fece giraree strangolò la sorella.

Tutto si svolseda parte della duchessaassolutamente sul tono di unanormale conversazione».

Frate Antonio di Salazaraltro cappuccinotermina la sua deposizione conqueste parole:

«Volevo allontanarmi dal baldacchino per scrupolo di coscienzaper nonvederla morire; ma la duchessa mi

disse: "Non andar via da qui per amor di Dio."»

(Qui il monaco racconta le circostanze della morteproprio come le abbiamoriferite or ora.) E aggiunge: «Ella

morì da buona cristianaripetendo spesso: Credocredo.»

I due monaciche a quanto sembra avevano ottenuto dai loro superiori lanecessaria autorizzazioneripetono

nelle loro deposizioni che la duchessa protestò sempre la sua perfettainnocenzain tutti i colloqui con loroin tutte le

sue confessionie particolarmente in quella che precedette la messa in cuiella ricevette la santa comunione. Se fosse

stata colpevolecon quell'atto d'orgoglio si sarebbe dannata all'inferno.

Durante il confronto di frate Antonio da Paviacappuccinocon don Leonardodel Cardineil frate dichiarò:

«Il mio compagno disse al conte che sarebbe stato bene attendere che laduchessa partorisse; è incinta di sei

mesi» aggiunse«non bisogna perdere l'anima del povero piccolo sventuratoche porta in senobisogna poterlo

battezzare.»

Al che il conte d'Alife rispose:

«Sapete che debbo andare a Romae non voglio comparirvi con questa mascherasul viso (con quest'affronto

invendicato).»

Appena la duchessa morìi due cappuccini insistettero perché fosse apertaimmediatamenteper poter impartire

il battesimo al bambino; ma il conte e don Leonardo non ascoltarono le loropreghiere.

Il giorno seguentela duchessa fu sepolta nella chiesa localecon unaspecie di cerimonia funebre (ho letto il

processo verbale). Quest'avvenimentoche si venne subito a risaperefecepoca impressioneperché era atteso da molto

tempo; più volte la notizia della sua morte era stata annunciata a Gallese ea Romae del resto un assassinio fuori città e

in un periodo di sede vacante non aveva niente di straordinario. Il conclaveche seguì la morte di Paolo IV fu molto

tempestosonon durò meno di quattro mesi.42

Il 26 dicembre 1559il povero cardinale Carlo Carafa fu obbligato aconcorrere all'elezione di un cardinale

sostenuto dalla Spagna e che di conseguenza non avrebbe potuto rifiutarenessuna delle sanzioni che Filippo II avrebbe

richiesto contro di luicardinal Carafa. Il neo eletto assunse il nome diPio IV.

Se il cardinale non fosse stato in esilio al momento della morte di suo ziosarebbe stato l'arbitro dell'elezioneo

almeno in grado d'impedire la nomina di un nemico.

Poco dopo il cardinale fu arrestatoe così pure il duca; l'ordine diFilippo II era evidentemente di farli morire.

Dovettero rispondere a quattordici capi d'accusa. Furono interrogati tutticoloro che potevano far luce su questi

quattordici capi. Il processomolto ben fattoè composto da due volumiin-folioche ho letto con molto interesse perché

ad ogni pagina vi si incontrano particolari di costume che gli storici nonhanno ritenuto degni della maestà della storia.

Ho notato dettagli molto pittoreschi su un tentato assassinio direttodallafazione spagnolacontro il cardinal Carafa

allora ministro onnipotente.

Del restolui e suo fratello furono condannati per delitti che non sarebberostati tali per nessun altroad

esempioaver dato la morte all'amante di una donna infedele e alla donnastessa. Qualche anno dopoil principe Orsini

sposò la sorella del granduca di Toscanala credette infedele e la feceavvelenarecon il consenso del granduca suo

fratelloproprio in Toscanae mai la cosa gli fu imputata a delitto. Molteprincipesse di casa de' Medici sono morte

così.

Quando il processo dei due Carafa fu terminatone fu fatto un lungoriassuntochea varie ripresefu

esaminato da congregazioni di cardinali. È troppo evidente cheuna voltaconvenuto di punire con la morte l'omicidio

che vendicava l'adulterioun genere di delitto di cui la giustizia non sioccupava maiil cardinale era colpevole d'aver

perseguitato suo fratello perché commettesse il criminecosì come il ducaera colpevole d'averlo fatto eseguire.

Il 3 marzo 1561papa Pio IV tenne un concistoro che durò otto oreallafine del quale pronunciò la sentenza

contro i Carafa in questi termini: Prout in schedula. (Sia fatto comeè richiesto.)

La notte del giorno seguenteil giudice fiscale mandò a Castel Sant'Angeloil bargello per far eseguire la

sentenza di morte contro i due fratelliCarlocardinal Carafae Giovanniduca di Palliano. Così fu fatto. Ci si occupò

prima del duca. Egli fu trasferito da Castel Sant'Angelo alle prigioni diTordinonadove tutto era pronto; e fu là che il

ducail conte d Alife e don Leonardo del Cardine ebbero mozzata la testa.

Il duca affrontò quel terribile momento non solo come un cavaliere di nobilenascitama anche come un

cristiano pronto a sopportare ogni cosa per amore di Dio. Rivolse belleparole ai suoi due compagni per esortarli alla

morte; poi scrisse a suo figlio.

Il bargello tornò a Castel Sant'Angeloe annunciò la morte al cardinalCaratadandogli soltanto un'ora per

prepararsi. Il cardinale mostrò una grandezza d'animo superiore a quella disuo fratelloin quanto parlò di meno; le

parole sono sempre una forza che si cerca fuori di se stessi. Fu sentitopronunciare a bassa voce solo queste paroleal

terribile annuncio:

«Io morire! O papa Pio! o re Filippo!»

Si confessò; recitò i sette salmi della penitenzapoi si sedette su unasediae disse al carnefice:

«Fate

Il carnefice lo strangolò con un cordone di seta che si ruppe; bisognòricominciare due volte. Il cardinale

guardò il carnefice senza degnarsi di pronunciare una parola.

(Nota aggiunta)

Pochi anni dopo il santo papa Pio V fece rivedere il processoche vennecassato; il cardinale e suo fratello

furono reintegrati in tutti gli onorie il procuratore generaleche piùd'ogni altro aveva contribuito alla loro mortefu

impiccato. Pio V ordinò la soppressione del processo; tutte le copieesistenti nelle biblioteche furono bruciate; fu

proibito conservarle sotto pena di scomunica; ma il papa non pensò che luistesso ne aveva una nella propria biblioteca

ed è su questa che sono state fatte tutte le copie che si vedono oggi.

LA BADESSA DI CASTRO

Palermo15 settembre 1838

I

Il melodramma che tanto spesso ha portato sulla scena i briganti italiani delCinquecentoe tutti quelli che

hanno parlato di loro senza conoscerlie ne hanno data finora un'ideacompletamente sbagliata. In generalesi può dire

che quei briganti rappresentarono l'opposizione ai governi atroci chein Italiasuccedettero alle repubbliche medievali.

Il nuovo tiranno era stato di solito il cittadino più ricco della scomparsarepubblicae abbelliva la città di chiese

magnifiche e di splendidi quadri per conquistare il favore del popolino. Èil caso dei Polentini di Ravennadei Manfredi

di Faenzadei Riario di Imoladei Cane di Veronadei Bentivoglio diBolognadei Visconti di Milano eper finiredei43

meno bellicosi e più ipocriti di tuttii Medici di Firenze. Nessunotragli storici di quei piccoli statiha osato raccontare

gli innumerevoli avvelenamenti e delitti ordinati da quei tirannellitormentati dalla paura: tali autorevoli storici erano al

loro soldo. Tenete conto che ogni tiranno conosceva personalmente ognirepubblicano da cui si sapeva detestato

(Cosimogranduca di Toscanaad esempioconosceva lo Strozzi)che molti diquei tiranni finirono assassinatie

capirete gli odi profondil'eterna diffidenza che diedero tanto animo agliitaliani del Cinquecento e tanto ingegno ai loro

artisti. Noterete come queste grandi passioni abbiano impedito la nascita diquel pregiudizio piuttosto ridicolo chiamato

onoreai tempi di Madame de Sévignéche consiste soprattutto nelsacrificare la propria vita per servire il signore di cui

si è sudditi dalla nascitae per piacere alle dame. Nel CinquecentoinFrancial'attività e il vero merito di un uomo

potevano mettersi in lucee attirare l'ammirazionesolo mediante azionicoraggiose sul campo di battaglia o in duelloe

siccome alle donne piace il coraggio e soprattutto l'audaciaesse divennerogiudici supremi del valore maschile. Nacque

allora la galanteriache portò all'annientamento di tutte lepassioni e persino dell'amorea vantaggio di quel crudele

tiranno a cui tutti obbediamo: la vanità. I re protessero la vanitàe conragione; così le onorificenze ebbero un potere

incontestato.

In Italiaun uomo poteva distinguersi per meriti di ogni genereperil modo con cui maneggiava la spada o per

le scoperte fatte in antichi manoscritticome Petrarcaidolo del suo tempo;e una donna del Cinquecento amava un

uomo erudito in lettere greche quanto avrebbe potuto amare un uomo celebreper la bravura militaree forse anche di

più. Fu un'epoca di passioni e non di consuetudine alla galanteria.

Ecco la grande differenza tra Italia e Franciaecco perché l'Italia havisto nascere un Raffaelloun Giorgione

un Tizianoun Correggiomentre la Francia produceva tutti quei bravicapitani del XVI secoloperfettamente

sconosciuti oggipur avendociascuno di loroucciso un gran numero dinemici. Perdonatemi queste crude verità.

Comunque siale vendette atroci e necessarie dei tiranni italiani delMedioevo fecero conquistare ai briganti il cuore dei

popoli. I briganti erano odiati quando rubavano cavalligranodenaroinuna parolaquanto occorreva loro per vivere;

ma in fondoil cuore dei popoli era dalla loro parte; e le ragazze delvillaggio preferivano a tutti gli altri il giovane che

una volta almeno nella vitaera stato costretto ad andare alla macchiae a rifugiarsi dai briganti in seguito a qualche

imprudenza commessa.

Anche ai giorni nostri tutti temono di imbattersi nei brigantima licommiserano quando vengono puniti.

Perché questo popolo così sagacecosì ironicoche ride di quanto vienepubblicato sotto la censura dei padronilegge

abitualmente poesie che narrano con fervidi accenti la vita dei briganti piùrinomati. Il lato eroico di queste storie fa

vibrare la sua fibra di artista così vivace nelle classi basse e poiè tanto stanco delle lodi ufficiali tributate a certe

personeda commuoversi per tutto ciò che in questo campo non è ufficiale.Bisogna sapere che in Italia il popolino

soffre di cose di cui il viaggiatore non si accorgerebbe maianche sevivesse dieci anni in questo paese. Per esempio

quindici anni faprima che la saggezza dei governi sopprimesse ilbrigantaggionon era raro che i briganti con le loro

imprese punissero le iniquità dei governatori di città minori. Queigovernatorimagistrati assoluti con una paga di non

più di venti scudi al mesesono naturalmente agli ordini della famigliapiù influente del posto checon questo semplice

mezzoperseguita i propri nemici. I briganti non riuscivano sempre a punirequel piccoli despoti di governatorima

almeno si prendevano gioco di loro e li sfidavano: non è poco agli occhi diquesto spiritoso popolo. Un sonetto satirico

lo consola di tutti i malima mai dimenticò un'offesa. Ecco un'altradifferenza capitale fra l'Italiano e il Francese.

Nel Cinquecentoquando il governatore di un borgo condannava a morte unpoverettopreso di mira dalla

famiglia più potentespesso si vedevano i briganti attaccare la prigione ecercar di liberare l'oppresso. Dal canto suola

famiglia potentenon fidandosi troppo degli otto o dieci soldati governativiincaricati di far la guardia alla prigione

arruolava temporaneamente a sue spese un drappello di soldati. Questi ultimichiamati bravibivaccavano nei dintorni

della prigione e si incaricavano di scortare fino al patibolo il poverodiavolo di cui era stata comprata la morte. Sein

seno alla famiglia potentec'era un giovaneegli si metteva alla testa diquei soldati improvvisati. Una civiltà in queste

condizioni fa gemere la moralelo ammetto. Ai nostri giorni c'è il duellola noiae i giudici non si lasciano corrompere;

ma quelle usanze cinquecentesche erano straordinariamente adatte a creareuomini degni di questo nome.

Molti storicilodati ancora oggi dalla monotona letteratura accademica hannocercato di nascondere questo

stato di coseche intorno al 1550temprò tanti grandi caratteri. A queitempitali prudenti menzogne furono

ricompensate con tutti gli onori di cui potevano disporre i Medici diFirenzegli Este di Ferrarai viceré di Napoli ecc.

Un povero storicoil Giannoneha tentato di svelare la veritàmaavendoosato dirne solo una piccolissima parte e

avendo per di più adoperato formule dubitative e oscureè risultatonoiosissimoed è anche finito in prigionedove è

mortoa ottantadue anniil 7 marzo 1758.

La prima cosa da farese si vuol conoscere la storia d'Italiaè evitare dileggere gli autori generalmente

approvati: nessuno meglio di loro conosceva il prezzo della menzognanessunopiù di loro ne sapeva ricavare lauti

compensi.

Le prime storie che sono state scritte in Italiadopo la gran barbarie delIX secolomenzionano già i briganti

anzi ne parlano come se esistessero da tempo immemorabile. Guardate laraccolta del Muratori. Quando

disgraziatamente per il bene pubblicoper la giustiziaper il buon governoma fortunatamente per le artile repubbliche

del Medioevo furono oppressei repubblicani più energicicoloro cheamavano la libertà più di quanto l'amassero i loro

concittadinisi rifugiarono nei boschi. Naturalmente il popolo vessatocom'era dai Baglionidai Malatestadai Medici e

così viaamava e rispettava i loro nemici. Le crudeltà dei tirannelli chesuccedettero ai primi usurpatorile crudeltàper

esempiodi Cosimoprimo granduca di Firenzeche faceva assassinare irepubblicani rifugiatisi persino a Venezia

persino a Parigiprocurò nuove reclute ai briganti. Per parlare solo deitempi in cui visse la nostra eroinaintorno al44

1550Alfonso Piccolominiduca di Monte Marianoe Marco Sciarra guidavanocon successo bande armate chenei

dintorni di Albano sfidavano i soldati del papa a quei tempi molto valorosi.

Il campo di azione di quei famosi capiancor oggi ammirati dal popoloandava dal Po e dalle paludi di

Ravenna fino ai boschi che allora coprivano il Vesuvio. La foresta dellaFaggiolacelebre per le loro impresea cinque

leghe da Romasulla strada di Napoliera il quartier generale di Sciarrachedurante il pontificato di Gregorio XIII

riunì a volte parecchie migliaia di soldati. La storia particolareggiata diquesto celebre brigante sembrerebbe incredibile

alla generazione attualeperché non si riuscirebbero mai a capire lemotivazioni dei suoi atti. Solo nel 1592 venne

sconfitto. Quando si vide in condizioni disperatetrattò con la repubblicadi Venezia e passò al suo servizio con i soldati

più fedeli ose vogliamopiù colpevoli. In seguito alle proteste delgoverno romanoVeneziache aveva firmato un

trattato con Sciarralo fece assassinaree mandò i suoi bravi soldati adifendere l'isola di Candia contro i Turchi. Ma la

saggia Venezia sapeva che a Candia si era diffusa una terribile pestilenzaein pochi giorni i cinquecento soldati che

Sciarra aveva portato con sé al servizio della repubblica si ridussero asessantasette.

La foresta della Faggiolai cui alberi giganteschi coprono un anticovulcanofu l'ultimo teatro delle imprese di

Marco Sciarra. Tutti i viaggiatori vi diranno che è il posto più bello diquella mirabile campagna romanail cui

tenebroso aspetto sembra fatto apposta per la tragedia. Essa incorona di unverde cupo le cime del monte Albano.

Un'eruzione vulcanica anteriore di molti secoli alla fondazione di Roma hadato origine a questa montagna.

Essa sorse in un'epoca precedente a tutte le storiein mezzo alla vastapianura che un tempo si stendeva dagli Appennini

al mare. Monte Caviche si innalza circondato dalle cupe ombre dellaFaggiolane è il punto culminante; si vede da

tutte le partida Terracina e da Ostia come da Roma e da Tivolie sono icolli di Albanoora coperti di palazziche

chiudonoverso mezzogiornoquell'orizzonte di Roma così celebre agli occhidei viaggiatori. Un convento di frati neri

ha preso il postoin cima a Monte Cavidel tempio di Giove Fenetriodove ipopoli latini venivano a celebrare sacrifici

collettivi e a rinsaldare i vincoli di una specie di federazione religiosa.Protetto dall'ombra di splendidi castagniil

viaggiatore giungein poche oreai colossali ruderi del tempio di Giove; manell'ombra scuracosì gradevole in quel

climaancora oggi egli guarda inquieto nel fitto della foresta; ha paura deibriganti. Arrivati in cima al Monte Cavisi

accende un fuoco tra i ruderi del tempioper preparare il cibo. Da quelpunto che domina tutta la campagna romana si

vedea ponenteil mare che sembra a due passibenché disti tre o quattroleghe; si distinguono le più piccole barchette;

con un cannocchialeanche debolesi contano gli uomini che vanno a Napolicol vapore. Da tutti gli altri latila vista

spazia su una magnifica pianura che termina a levante con l'AppenninosopraPalestrinae a nord con San Pietro e gli

altri grandi edifici romani. Siccome Monte Cavi non è molto altol'occhiodistingue i minimi particolari di questo luogo

sublime che potrebbe fare a meno di illustrazione storicae tuttavia ognigruppo di alberiogni pezzo di muro in rovina

che si scorge nella pianura o sulle pendici della montagnaricorda una diquelle battaglienarrate da Tito Liviomirabili

per patriottismo e coraggio.

Ancora oggiper arrivare agli imponenti ruderi del tempio di Giove Fenetrioche ora fanno da muro di cinta

all'orto dei frati nerisi può prendere la via trionfalepercorsaun tempo dai primi re di Roma. È lastricata di pietre di

forma molto regolaree ce ne sono lunghi frammentiin mezzo alla forestadella Faggiola.

Sull'orlo del cratere spento cheora riempito di un'acqua limpidaèdiventato il grazioso lago di Albanodi

cinque o sei miglia di circonferenzacosì profondamente incassato nellaroccia lavicasi trovava Albamadre di Roma

che la politica romana distrusse fin dai tempi dei primi re. Ma le sue rovineesistono ancora. Qualche secolo dopoa un

quarto di miglio da Albasul versante della montagna che guarda il mareèsorta Albanola città modernache però è

separata dal lago da una cortina di rocce che nascondono il lago alla cittàe la città al lago. Quando la si scorge dalla

pianurai suoi edifici bianchi si stagliano contro la chioma nera e profondadella foresta cara ai briganti e

continuamente citatache fa da corona alla montagna vulcanica.

Albanoche conta oggi cinque o seimila abitantinon ne aveva neppuretremila nel 1540quando prosperava

nei primi ranghi della nobiltà la potente famiglia Campireali di cui ciaccingiamo a raccontar le sventure.

Traduco questa storia da due voluminosi manoscrittiuno romanol'altrofiorentino. Mi sono arrischiato a

riprodurne lo stilesimile a quello delle nostre vecchie leggende. Mi èsembrato che quello così fine e misurato

dell'epoca attuale sarebbe andato poco d'accordo con le azioni narrate esoprattutto con le riflessioni degli autori. Essi

scrivevano intorno all'anno 1598. Invoco l'indulgenza del lettore per loro eper me.

II

«Dopo aver narrato tante tragiche storie» dice l'autore del manoscrittofiorentino«terminerò con quella che

fra tuttemi fa più pena raccontare. Parlerò della famosa badessa delconvento della Visitazione a CastroElena di

Campirealiil cui processo e la cui morte fecero tanto parlare l'altasocietà romana e italiana. Già verso il 1555i

briganti spadroneggiavano nei dintorni di Romae i magistrati erano vendutialle famiglie potenti. Nel 1572anno del

processoGregorio XIII Buoncompagni salì sul trono di San Pietro. Quelsanto pontefice riuniva in sé tutte le virtù

apostolichema al suo governo civile si possono rimproverare alcunedebolezze: non seppe né scegliere giudici onesti

né reprimere il brigantaggio; si addolorava per i delittima non sapevapunirli. Gli sembrava di prendersi una

responsabilità terribile infliggendo la pena di morte. Come risultato diquesto suo atteggiamentoun numero quasi

infinito di briganti popolava le strade che portano alla città eterna. Perviaggiare con una certa sicurezza bisognava

essere loro amici. La foresta della Faggiolaa cavallo della strada diNapoli che passa per Albanoera da tempo il45

quartier generale di un governo ostile a quello di Sua Santitàe moltevolte Roma fu costretta a trattareda potenza a

potenzacon Marco Sciarrauno dei re della foresta. La forza di queibriganti consisteva nell'essere benvoluti dai

contadini del luogo.

«La graziosa città di Albanocosì vicina al quartier generale deibrigantivide nascerenel 1542Elena di

Campireali. Suo padre era considerato il più ricco patrizio del paeseeinvirtù di ciòaveva potuto sposare Vittoria

Carafache possedeva vasti terreni nel regno di Napoli. Potrei citarequalche vecchio che è ancora in vitae ha

conosciuto bene Vittoria Carafa e sua figlia. Vittoria fu un modello diprudenza e di intelligenzamamalgrado il suo

genionon poté impedire la rovina della famiglia. Strano! Le terribilisventure che saranno il triste argomento del mio

racconto non possonoalmeno mi sembraessere imputatein particolareanessuno dei personaggi che mi accingo a

presentare al lettore: vedo molti sventuratimain veritànon possotrovare colpevoli. Un'estrema bellezza e un'anima

tenera erano due grandi pericoli per la giovane Elena e un'attenuante per ilsuo innamoratoGiulio Branciforteproprio

come l'assoluta mancanza di acume di monsignor Cittadinivescovo di Castropuòalmeno fino a un certo punto

scusarlo. Egli doveva la sua rapida ascesa nella carriera degli onoriecclesiastici all'onestà della sua condottae

soprattutto all'aspetto più nobile e al volto più regolarmente bello chesia dato di incontrare. Trovo scritto di lui che non

si poteva vederlo senza amarlo.

«Siccome non voglio adulare nessunonon nasconderò che un santo frate delconvento di Monte Caviche

spesso era stato sorpresonella cellasollevato di parecchi piedi dalsuolocome San Paolosenza che niente altro che la

grazia divina potesse sostenerlo in quella posizione straordinariaavevapredetto al signore di Campireali che la sua

famiglia si sarebbe spenta con luiche avrebbe avuto due soli figli e cheentrambi sarebbero periti di morte violenta. Fu

per questa predizione che egli non poté sposarsi in paese e che andò acercar fortuna a Napolidove ebbe la buona sorte

di trovare grandi beni e una donna capaceper la sua intelligenzadi mutarel'avverso destinose mai una tale cosa fosse

possibile. Il signore di Campireali era reputato uomo onestissimo ecaritatevolema non aveva nessuna attitudinee così

a poco a poco smise di abitare a Roma e finì per passare quasi tutto l'annonel palazzo di Albano. Si dedicava alla

coltivazione delle sue terresituate in quella ricca pianura che si stendetra la città e il mare. Per consiglio della moglie

diede un'educazione perfetta al figlio Fabiogiovane orgogliosissimo deisuoi natalie alla figlia Elenavero e proprio

miracolo di bellezzacome attesta ancora oggi il suo ritratto nellacollezione Farnese. Dopo aver cominciato a scrivere

la sua storiasono andato a palazzo Farneseper contemplare l'aspettomortale che il cielo aveva dato a quella donna il

cui fatale destino fece tanto scalpore ai suoi tempie ancora oggi ha unposto nella memoria degli uomini. Il volto è di

un ovale allungatola fronte è spaziosai capelli sono biondo scuro. Lasua fisionomia è piuttosto lieta; ella ha grandi

occhi dall'espressione profonda e sopracciglia castane perfettamente arcuate.Le labbra sono sottilissime e il loro

contorno sembra disegnato dal famoso pittore Correggio. Contemplata in mezzoai ritratti che la circondanonella

galleria Farnesesembra una regina. Accade di rado che un'espressione lietasi accompagni alla regalità.

«Dopo aver passato otto interi annicome convittricenel convento dellaVisitazione della città di Castroora

distruttadove venivano mandatea quei tempile figlie di quasi tutti iprincipi romaniElena ritornò al paese natale

non senza lasciare in offerta un magnifico caliceper l'altare maggioredella chiesa. Appena fu di ritorno ad Albanosuo

padre fece venire da Romapromettendogli una lauta pensioneil celebrepoeta Cechinogià molto anziano; questi

adornò la memoria di Elena dei più bei versi del divino Virgilio e dei suoifamosi discepoli PetrarcaAriosto e Dante.»

A questo punto il traduttore deve saltare una lunga dissertazione sullagloria che il Cinquecento attribuiva a

ognuno di questi poeti. Probabilmente Elena sapeva il latino. I versi che lefacevano imparare parlavano d'amoredi un

amore che ci sembrerebbe molto ridicolo se lo incontrassimo nel 1839 intendodire l'amore appassionato che si nutre di

grandi sacrificipuò vivere solo avvolto di mistero e rasenta sempre lepiù atroci disgrazie.

Tale era l'amore che a Elenaappena diciassettenneseppe ispirare GiulioBranciforte. Era un suo vicino

poverissimoe abitava in una casupola costruita nella montagnaa un quartodi lega dalla cittàin mezzo alle rovine di

Alba e sull'orlo di un precipizio di centocinquanta pieditappezzato d'erbache circonda il lago. Quella casupola

contigua alle cupe e magnifiche ombre della foresta della Faggiola fu poiabbattutaquando venne costruito il convento

di Palazzuola. Tutto ciò che quel povero giovane possedeva era un aspettovivace e sveglio e la spensieratezza sincera

con cui sopportava la cattiva sorte. In suo favore si poteva al massimo direche aveva un volto espressivosenza essere

bello. Ma aveva fama di aver combattuto valorosamente al comando del principeColonna e tra i suoi braviin due o tre

imprese molto rischiose. Benché fosse poverobenché non fosse belloeraper le ragazze di Albanoil cuore più ambito

da conquistare. Ovunque ben accoltoGiulio Branciforte aveva avuto solofacili amorifino al momento in cui Elena

tornò dal convento di Castro.

«Quandopoco dopoil grande poeta Cechino si trasferì da Roma nel palazzoCampirealiper insegnare le

belle lettere a quella fanciullaGiulioche lo conoscevagli indirizzò unpoemetto in latinoesaltando la fortuna che

aveva la sua vecchiaia di vedere sì begli occhi fissarsi nei suoie unanimo così puro esser felice quando egli si degnava

di approvarne i pensieri. La gelosia e il dispetto delle ragazzeoggettodelle sue attenzioni prima del ritorno di Elena

resero presto inutili tutte le precauzioni da lui prese per celare unapassione nascente e devo dire che quell'amore tra un

ragazzo di ventidue anni e una ragazza di diciassette non fufindall'iniziovissuto come la prudenza avrebbe

consigliato. Non erano ancora trascorsi tre mesiquando il signore diCampireali si avvide che Giulio Branciforte

passava troppo spesso sotto le finestre del suo palazzo (che si vede ancora ametà della grande strada che sale al lago).»

La franchezza e la rudezzaconseguenze naturali della libertà ammessa dallerepubblichee l'abitudine alle

passioni schiettenon ancora represse dai costumi monarchicisimanifestarono apertamente nella prima mossa del46

signore di Campireali. Il giorno stesso in cui fu colpito dalle frequentiapparizioni del giovane Brancifortel'apostrofò in

questi termini:

«Come osi passare di continuo davanti a casa mia e lanciare occhiateimpertinenti verso le finestre di mia

figliatu che non hai neppure un vestito per coprirtiSe non temessi che ilmio gesto fosse mal interpretato dai vicini ti

darei tre zecchini d'oroper andare a Roma a comprarti una tunica piùdecente. Così almeno i miei occhi e quelli di mia

figlia non sarebbero oltraggiati dalla vista dei tuoi stracci.»

Il padre di Elena certamente esagerava: i vestiti del giovane Branciforte nonerano straccipiuttosto erano fatti

con tessuto andante; ma benché pulitissimi e ben spazzolatibisognaammettere che apparivano consunti. Giulio rimase

così profondamente ferito dai rimproveri del signore di Campireali chedigiornonon si fece più vedere davanti a casa

sua.

Come abbiamo dettole due arcateresti di una antico acquedottocheservivano da muri maestri alla casa

costruita dal padre di Branciforte e da lui lasciata al figlioerano adappena cinque o seicento passi da Albano. Per

scendere da quell'altura alla città modernaGiulio doveva passare davantial palazzo Campireali; Elena notò presto

l'assenza di quello strano giovane cheal dire delle amicheavevaabbandonato ogni altra relazioneper dedicarsi

interamente alla felicità che sembrava provare nel contemplarla.

Una sera d'estateverso mezzanottela finestra di Elena era apertalafanciulla respirava la brezza marina che

arriva fin sulla collina di Albanoper quanto una pianura di tre leghe lasepari dal mare. La notte era scurail silenzio

profondosi sarebbe sentita cadere una foglia. Elenaal davanzale dellafinestrapensava forse a Giulioquando scorse

qualcosacome l'ala silenziosa di un uccello notturnoche passava pianpianoproprio di fronte alla finestra. Si ritrasse

spaventata. Non le venne neppure l'idea che quell'oggetto potesse esserleporto da qualche passante; la sua finestraal

secondo piano del palazzoera a più di cinquanta piedi da terra. Tutt'a untratto le parve di riconoscere un mazzo di fiori

in quella strana cosa chenel silenzio profondopassava e ripassava davantial davanzale a cui era affacciatail cuore le

batté violentemente. Quel mazzo sembrava legato in cima a due o tre diquelle canneche sono come lunghi giunchi

simili al bambùche crescono nella campagna romana e arrivano fino a ventio trenta piedi di altezza. Per via delle

canne troppo flessibili e della brezza piuttosto forteGiulio avevadifficoltà a mantenere il mazzo proprio di fronte alla

finestra dove pensava che Elena stesse affacciatad'altra parte la notte eracosì buia che dalla strada non si riusciva a

vedere fino a quell'altezza. Immobile davanti alla finestraElena eraprofondamente agitata. Prendere quel mazzonon

equivaleva a una confessione? Del resto essa non provava alcuno di queisentimenti che una simile avventura farebbe

nascereoggiin una fanciulla dell'alta societàpreparata alla vita dauna buona educazione. Dato che il padre e il

fratello Fabio erano in casail suo primo pensiero fu che il minimo rumoresarebbe stato seguito da un colpo di

archibugio diretto a Giulio ed ebbe pietà del pericolo che correva quelpovero giovane. Il secondo pensiero fu chepur

conoscendolo pochissimoegli era l'essere al mondo a cui volesse più benedopo la famiglia. Finalmentedopo aver

esitato qualche minutoprese il mazzoetoccando i fiori in quel buiofittosentì un biglietto attaccato a uno stelo; corse

sullo scalone per leggerlo al chiarore della lucerna accesa davantiall'immagine della Madonna. «Imprudente!» disse fra

séquando le prime righe l'ebbero fatta arrossire di gioia«se miscoprono sono perdutae questo povero giovane verrà

per sempre perseguitato dalla mia famiglia.» Tornò in camera e accese illume. Fu un momento delizioso per Giulio

chevergognoso della sua iniziativa e come per nascondersinonostante lanotte fondasi era appiattito contro il tronco

enorme di uno di quei lecci dalle forme bizzarre che ancora oggi si vedono difronte al palazzo Campireali.

Nella letteraGiulio raccontava con la massima semplicità l'umilianterimprovero che gli aveva rivolto il padre

di Elena. «E verosono povero» proseguiva «e difficilmente potresteimmaginare fino a che punto. Ho soltanto la mia

casache forse avrete notato sotto i ruderi dell'acquedotto di Albaintornoc'è un ortodove io stesso coltivo gli erbaggi

di cui mi nutro. Posseggo anche una vigna che affitto per trenta scudiall'anno. In verità non so perché vi amocerto non

posso proporvi di venire a condividere la mia miseria. E tuttaviase non miamatela vita non ha per me più valore; è

inutile dirvi che la darei mille volte per voi. Eppureprima del vostroritorno dal conventoquesta vita non era infelice:

anziera piena delle più brillanti fantasticherie. Così posso dire che lavista della felicità mi ha reso infelice. Certo

allora nessuno al mondo avrebbe osato rivolgermi le frasi con cui vostropadre mi ha marchiato. Mi sarei fatto pronta

giustizia col mio pugnale. Alloracol coraggio e con le armimi sentivopari a tuttiniente mi mancava. Ora tutto è

completamente cambiato: conosco il timore. Ma basta scrivereforse voi midisprezzate. Se invece avete pietà di me

nonostante le misere vesti che mi coprononoterete che tutte le serequandosuona mezzanotte al convento dei

Cappucciniin cima alla collinaio mi nasconderò sotto il grande lecciodi fronte alla finestra che fisso continuamente

perché penso sia quella della vostra camera. Se non mi disprezzate comevostro padregettatemi un fiore staccato dal

mazzoma state attenta che non finisca su un cornicione o un balcone delpalazzo.»

Questa lettera fu letta e riletta; intanto gli occhi di Elena si riempivanodi lacrime; contemplava con tenerezza

quel magnifico mazzo legato con un robustissimo filo di seta. Tentò distrapparne un fiorema non ci riuscì; poi fu colta

dal rimorso. Per le ragazze romanestrappare un fioremanomettere inqualunque modo un mazzo dato in segno

d'amoresignifica mettere quell'amore a repentaglio. Essa però temeva cheGiulio si spazientissee corse alla finestra

ma mentre si affacciavapensò improvvisamente di essere troppo visibilecon la lampada che illuminava tutta la

camera. Elena non sapeva più che segnale fare; le sembrava che qualunquegesto avrebbe detto troppo.

Piena di vergognasi ritrasse svelta dalla finestra. Ma il tempo passava; adun trattole venne un'idea che la

gettò in un turbamento indicibile: Giulio avrebbe creduto che leicome suopadrelo disprezzava perché era povero!

Videappoggiato sul comodinoun pezzetto di marmo preziosolo annodò nelfazzolettoe gettò quel fazzoletto ai piedi

del leccio di fronte alla finestra. Poi fece a Giulio cenno di allontanarsi;sentì che lui le obbedivaperchéandandosene47

non cercava più di soffocare il rumore dei passi. Quando egli ebbe raggiuntola vetta della cinta di roccia che separa il

lago dalle ultime case di AlbanoElena lo sentì cantare parole d'amore; glifece allora dei cenni di salutoquesta volta

meno timidipoi si mise a rileggere la lettera.

Il giorno dopo e i giorni successivivi furono altre lettere e incontrisimili; madato che nei villaggi italiani ci

si accorge di tutto e Elena era di gran lunga il miglior partito del paeseil signore di Campireali venne avvertito che

tutte le sere dopo la mezzanotte la camera di sua figlia era illuminata ecosa ancor più stranala finestra era apertaanzi

Elena se ne stava al davanzale come se non avesse alcun timore delle zanzare(insetti fastidiosissimi che rovinano le

belle serate della campagna romana. A questo punto devo invocare di nuovol'indulgenza del lettore. Quando si è tentati

di conoscere le usanze dei paesi stranieribisogna aspettarsi di trovareidee assurdediversissime dalle nostre). Il

signore di Campireali preparò il suo archibugio e quello del figlio. Laseramentre suonavano le undici e tre quarti

avvertì Fabioe tutti e due sgusciaronocercando di non far rumoresulgrande balcone di pietraal primo piano del

palazzoproprio sotto la finestra di Elena. I massicci pilastri dellabalaustra di pietra li riparavano fino alla cintola dai

colpi di archibugio che qualcuno avrebbe potuto sparare loro da fuori. Suonòmezzanotte; padre e figlio sentirono

qualche lieve rumore sotto gli alberi che costeggiavano la via di fronte alpalazzo; macon loro grande stuporela

finestra di Elena non si illuminò. Quella fanciullafino ad allora tantosemplice e che sembrava una bambina per la

vivacità del suo comportamentoaveva cambiato carattere da quando erainnamorata. Sapeva che la minima imprudenza

poteva compromettere la vita del suo amante; un signore potente come suopadrese avesse ucciso un poveretto come

Giulio Brancifortese la sarebbe cavata scomparendo per tre mesimagariandando a Napoliintanto gli amici di Roma

avrebbero sistemato la faccenda e tutto sarebbe finito con l'offerta di unalampada d'argento e di qualche centinaio di

scudi all'altare della Madonnaallora di moda. La mattinaa colazioneElena aveva capito dalla faccia del padre che

qualcosa lo rendeva furiosoeda come il padre la guardava quando credevadi non esser notatoaveva pensato che

fosse in gran parte per causa sua. Corse tosto a spargere un po' di polveresul legno dei cinque magnifici archibugi che il

padre teneva appesi vicino al letto. E coprì con un leggero strato dipolvere anche il pugnale e le spade. Per tutto il

giorno fu di una allegria sfrenatavagava senza posa per tutta la casadacima a fondo; si affacciava continuamente alle

finestredecisa a fare a Giulio un segnale negativose mai avesse avuto labuona sorte di scorgerlo. Ma inutilmente: il

povero ragazzo era stato così profondamente umiliato dalle crudeli paroledel ricco signore di Campirealida non farsi

più vedere ad Albanodi giorno; veniva solo la domenicaspinto dal dovereper la messa nella parrocchia. La madre di

Elenache l'adorava e non sapeva negarle nientequel giorno uscì con leitre voltema invano: Elena non vide Giulio.

Era disperata. E come si sentì quandoandando a controllare verso sera learmi paternevide che due archibugi erano

stati caricati e che quasi tutti i pugnali e le spade erano stati maneggiati!La distraeva dalla sua mortale inquietudine

solo l'estrema attenzione con cui badava a nascondere i suoi sospetti.Ritiratasi nella sua camera alle dieci di serachiuse

a chiave la porta che comunicava con l'anticamera della madrepoi siappiattì contro la finestrasdraiandosi per terra

per non essere vista da fuori. È facile immaginare con che ansia sentìsuonare le ore; non pensava più a rimproverarsi

come spesso le accadevala rapidità con cui si era innamorata di Giulioeche poteva renderla meno degna di amore

agli occhi di lui. Quella giornata fruttò al giovane più di quanto nonavrebbero fatto sei mesi di costanza e di giuramenti.

«A che serve mentire» si diceva Elena. «Non l'amo forse con tuttal'anima?»

Alle undici e mezzovide benissimo il padre e il fratello mettersi inagguato sul grande balcone di pietrasotto

la sua finestra. Due minuti dopo che fu suonata mezzanotte al convento deiCappuccinisentì anche benissimo i passi

del suo innamorato che si fermò sotto il grande leccio; notò con gioia cheil padre e il fratello sembravano non essersi

accorti di niente. Ci voleva l'ansietà dell'amore per cogliere un rumorecosì leggero.

«Ora» disse fra sé«mi ucciderannoma bisogna ad ogni costo che nonscoprano la lettera di stasera;

perseguiterebbero per sempre il povero Giulio.»

Si fece il segno della croce etenendosi con una mano alla ringhiera diferro della finestrasi affacciò

sporgendosi quanto più poteva verso la strada. Non era ancora passato unquarto di minutoquando il mazzoattaccato

alla lunga cannale urtò il braccio. Essa lo afferròma nello staccarloprontamente dalla canna a cui era fissatofece

batter quella canna contro il balcone di pietra. Immediatamente vennerosparati due colpi di archibugioa cui seguì un

silenzio totale. Il fratello Fabio credendonel buioche ciò che avevabattuto violentemente contro il balcone fosse la

fune lungo la quale Giulio scendeva dalla camera della sorellaaveva fattofuoco verso il balcone di lei; il giorno dopo

essa trovò il segno della pallottola che si era schiacciata contro il ferrodella ringhiera. Il signore di Campireali aveva

sparato in stradadal balcone di pietraperché Giulionel trattenere lacanna che stava per cadereaveva fatto un po' di

rumore. Giuliodal canto suo sentendo muovere sopra la sua testa avevaindovinato quello che stava per succedere e si

era messo al riparo sotto la sporgenza del balcone.

Fabio ricaricò rapidamente l'archibugiopoisenza dare ascolto al padrecorse in giardinoaprì pian piano una

porticina che dava su una strada laterale e andòa passi felpatia gettareun'occhiata alle persone che passeggiavano

sotto il balcone del palazzo.

In quel momento Giulioche quella sera era in buona compagniasi trovava aventi passi da luiincollato

contro un albero. Elenaaffacciata alla ringhiera e tutta trepida per il suoinnamoratointavolòa voce molto altauna

conversazione col fratelloche sentiva camminare in strada; gli chiese seavesse ucciso i ladri.

«Non mi lascio ingannare dalla vostra perfida astuzia» le gridòquest'ultimo dalla strada che stava perlustrando

a gran passi«anzi preparatevi a piangereammazzerò l'insolente che osadare la scalata alla vostra finestra.»

Quelle parole erano state appena pronunziate quando Elena sentì la madrebussare alla porta della camera.

Allora si affrettò ad aprirefingendo di meravigliarsi perché la porta erachiusa.48

«Non fingere con meangelo mio» le disse la madre; «tuo padre èfuribondo e potrebbe uccidertivieni con

me nel mio letto ese hai una letteradammelala nasconderò.»

Elena le disse:

«Prendi questo mazzola lettera è nascosta tra i fiori.»

La madre e la figlia erano appena a lettoquando il signore di Campirealirientrò nella camera della moglie

veniva dall'oratorio che aveva ispezionatobuttando tutto per aria. Elena fucolpita dal fatto che il padrepallido come

uno spettroagiva con la lentezza di chi ha già preso una decisione. «Sonomorta!» si disse Elena.

«Ci rallegriamo d'aver figli» disse il padrepassando vicino al lettodella moglie per andare nella camera della

ragazzatremante di rabbia ma dando prova di un perfetto sangue freddo; «cirallegriamo d'aver figli e invece

dovremmo spargere lacrime di sangue quando questi figli sono femmine. GranDio! è dunque possibile! La loro

leggerezza può disonorare un uomo che in sessant'anni non ha offerto ilminimo appiglio alle chiacchiere.»

Così dicendo entrò nella camera della figlia.

«Sono perduta» disse Elenaalla madre«le lettere sono sotto ilpiedistallo del crocifissoaccanto alla

finestra.»

Subitola madre saltò dal lettocorse dietro al marito e si mise agridargli frasi che lo facessero andare in

bestia; ci riuscì. Il vecchio si infuriòe cominciò a fracassare tuttonella camera della figliama la madre potè sottrarre

le lettere senza esser vista. Un'ora dopoquando il signore di Campirealiera rientrato nella sua cameraattigua a quella

della mogliee in casa era tornata la calmala madre disse alla figlia:

«Eccoti le letterenon voglio leggerlema pensa a quanto avrebbero potutocostarci! Fossi in tele brucerei.

Vaidammi un bacio.»

Elena ritornò nella sua camerasciogliendosi in lacrime; le parevadopo leparole maternedi non amare più

Giulio. Poi si accinse a bruciare le lettere; ma prima di distruggerle vollerileggerle. E le rilesse tantoche il sole era già

alto nel cielo quando si decise finalmente a seguire il salutare consiglio.

Il giorno dopoera una domenicaElena si incamminò con la madre verso laparrocchia; per fortuna il padre

non le seguì. La prima persona che scorse in chiesafu Giulio Branciforte.Con uno sguardo si assicurò che non fosse

ferito e si sentì al colmo della felicità; gli avvenimenti della notte lesembravano ormai lontani mille miglia. Aveva

preparato cinque o sei bigliettini con pezzi di vecchia cartasporca diterra bagnatacome capita di trovarne per terra in

chiesa; quei biglietti contenevano tutti il medesimo avvertimento:

«Avevano scoperto tutto. meno il suo nome. Che non si facesse più vederenella via. Si verrà qui spesso».

Elena lasciò cadere uno di quei pezzetti di carta; un'occhiata avvertìGiulio che lo raccolse e scomparve.

Rientrando a casaun'ora dopoessa trovò sullo scalone del palazzo unframmento di carta che la colpì perché

assomigliava in tutto e per tutto a uno di quelli che aveva usato al mattino.

Lo afferròsenza che neppure la madre si accorgesse di nientee lesse:

«Fra tre giorni tornerà da Romadove deve andare assolutamente. Qualcunocanterà in pieno giornoal

mercatoin mezzo al baccano dei contadiniverso le dieci».

Quella partenza per Roma parve strana a Elena. «Teme forse i colpi diarchibugio di mio fratello?» si chiedeva

con tristezza. L'amore perdona tuttotranne l'assenza volontariache è ilpeggior supplizio. Invece di scorrere in beate

fantasticherie e di essere tutta occupata a soppesare le ragioni di amare ilproprio innamoratola vita è agitata da dubbi

atroci. «Madopo tuttoposso credere che non mi ami più?» andavaripetendosi Elena nei tre lunghi giorni che durò

l'assenza di Branciforte. Tutt'a un tratto una gioia folle spazzò via le suepene: il terzo giornolo vide passeggiare in

pieno mezzogiornonella viadi fronte al palazzo paterno. Aveva abiti nuovie bellissimi. Mai la nobiltà del suo

portamento e la franchezza spensierata e ardita della sua fisionomia avevanoavuto maggior risalto; e maiprima di quel

giornosi era parlato così tanto della sua povertà. Gli uominiesoprattutto i giovani continuavano a ripetere quella

parola crudele; le donnee soprattutto le ragazzenon smettevano di lodareil suo bell'aspetto.

Giulio passeggiò per tutta la giornata in città; sembrava volesse rifarsidei mesi di reclusione a cui la sua

povertà l'aveva condannato. Come si addice a un innamoratoGiulio era benarmato sotto la tunica nuova. Oltre alla

daga e al pugnaleaveva indossato il giaco (una specie di lungocorpetto di maglia di ferromolto scomodo da portare

ma capace di guarire i cuori italiani da una triste malattia che in quelsecolo contagiava tutti gravementeparlo del

timore di venir uccisi a un angolo di strada da uno dei propri ben notinemici). Quel giornoGiulio sperava di scorgere

Elenae poi gli ripugnava star solo con se stesso nella sua casa isolata: edecco perché. Ranuccioun ex soldato del

padredopo aver fatto dieci campagne con lui agli ordini di diversi condottierieda ultimoagli ordini di Marco

Sciarraaveva seguito il capitano quando questi era stato costretto aritirarsi per le ferite. Il capitano Branciforte aveva

le sue ragioni per non vivere a Roma; avrebbe corso il rischio di incontrarei figli di uomini uccisi da lui; persino ad

Albanonon aveva nessuna voglia di mettersi completamente alla mercédell'autorità legale. Invece di comprare o

affittare una casa in cittàpreferì costruirsene una da dove potesseavvistare da lontano i visitatori. Trovò il posto ideale

in mezzo alle rovine di Alba: di lì potevasenza esser scorto da visitatoriindiscretirifugiarsi nella foresta dove regnava

il suo vecchio amico e capoil principe Fabrizio Colonna. Il capitanoBranciforte non si curava minimamente

dell'avvenire del figlio. Quando si ritirò dal servizioappenacinquantennema coperto di feritecalcolò di avere ancora

una decina d'anni di vita euna volta costruita la casaspese ogni anno ildecimo di quanto aveva ammucchiato nei

saccheggi di città e villaggi a cui aveva avuto l'onore di partecipare.

Comprò la vigna che rendeva a suo figlio trenta scudi l'annoper risponderealla battuta maligna di un abitante

di Albano che gli aveva dettoun giorno in cui discuteva animatamente degliinteressi e dell'onore della cittàche49

spettava proprio a un ricco possidente come lui dar consigli agli anziani diAlbano. Il capitano comprò la vignae

annunziò che ne avrebbe comprate ancora molte altre; poiincontrando quelmaligno in un luogo desertolo uccise con

un colpo di pistola.

Dopo otto anni di questa vitail capitano morì; il suo aiutante di campoRanuccioadorava Giulio; peròstanco

di oziareriprese servizio nella compagnia del principe Colonna. Andavaspesso a trovare suo figlio Giuliocome lo

chiamavaealla vigilia di un pericoloso assalto che il principe dovevasostenere nella fortezza della Petrellalo portò a

combattere con lui. Vedendolo molto coraggioso:

«Devi esser matto» gli disse«e anche ben sprovvedutoper vivere neipressi di Albano come l'ultimo e il più

povero dei suoi abitantimentre con le tue imprese e il nome di tuo padrepotresti essere nelle nostre file un brillante

soldato di venturae per di più far fortuna.»

Queste parole continuavano a tormentare Giulio; sapeva il latinoinsegnatogli da un prete; madato che suo

padre si era sempre beffato di quanto diceva il pretea parte il latinononaveva assolutamente nessuna istruzione. In

compensodisprezzato per la sua povertàisolato in una casa solitariaeraprovvisto di un certo buon senso cheper la

sua originalitàavrebbe stupito molti dotti. Per esempioprima diinnamorarsi di Elenae senza sapere il perchépur

amando moltissimo combattereprovava repulsione per il saccheggio cheagliocchi del capitano suo padre e di

Ranuccioera come la divertente farsa finale che segue la nobile tragedia.Da quando amava Elenaquel buon senso

acquisito grazie alle sue riflessioni solitarie era diventato per lui unsupplizio. Quell'animaun tempo tanto spensierata

non osava parlare con nessuno dei suoi dubbi ed era piena di passione e diaffanno. Che cosa non avrebbe detto il

signore di Campirealisapendo che era un soldato di ventura? Questavolta i suoi rimproveri sarebbero stati fondati!

Giulio aveva sempre contato sul mestiere di soldatocome sicura risorsaquando avesse speso i soldi ricavati dalle

catene d'oro e dagli altri gioielli trovati nel forziere del padre. Giulionon si sarebbe fatto scrupolo a rapirelui così

poverola figlia del ricco signore di Campirealiperchéa quei tempi ipadri disponevano dei loro beni come meglio

credevanoe il signore di Campireali poteva benissimo lasciare alla figliamille scudi in tutto. Altri problemi assillavano

la mente di Giulio: in che città avrebbe portato la giovane Elenadopoaverla sposata e sottratta al padre? con che

denaro l'avrebbe fatta vivere?

Quando il signore di Campireali gli aveva rivolto il sanguinoso rimproveroche lo aveva tanto colpitoGiulio

era rimasto per due giorni in preda alla rabbia e al più vivo dolore: nonpoteva decidersi né a uccidere l'insolente

vecchioné a lasciarlo vivere. Passava le notti a piangere; finalmentedecise di consigliarsi con Ranucciol'unico amico

che avesse al mondo; ma l'amico l'avrebbe capito? Invano cercò Ranuccio pertutta la foresta della Faggiolafu costretto

a spingersi sulla strada di Napolioltre Velletridove Ranuccio capeggiavaun'imboscata: stava aspettandocon la sua

bandail generale spagnolo Ruiz d'Avalosche aveva stabilito di andare aRoma per via di terrasenza pensare che poco

tempo primadavanti a molte personeaveva parlato con disprezzo dei soldatidi ventura della compagnia Colonna. Ma

quando il suo cappellano gli ricordò molto opportunamente quellacircostanzaRuiz d'Avalos decise di fare armare una

barca e andare a Roma per mare.

Appena il capitano Ranuccio ebbe sentito il racconto di Giulio:

«Descrivimi esattamente» gli disse«questo signore di Campirealiperché la sua imprudenza non costi la vita

a qualche bravo abitante di Albano. Quando sarà finitain un modo onell'altrola faccenda che ci trattiene quite ne

andrai a Roma dove avrai cura di farti vedere nelle osterie e in altri luoghipubbliciin ogni ora della giornata: non devi

esser sospettato per via del tuo amore per la ragazza.»

Giulio faticò molto a placare l'ira del vecchio compagno di suo padre.Dovette mostrarsi offeso.

«Credi che voglia la tua spada? Come vediho una spada anch'io. Ti chiedoun saggio consiglio.»

Ranuccio continuava a ripeterglia conclusione di ogni suo discorso:

«Sei giovanenon hai ferite; sei stato insultato in pubblico: orbeneunuomo disonorato è disprezzato anche

dalle donne.»

Giulio gli disse che voleva ancora riflettere e interrogare il suo cuoreemalgrado Ranuccio insistesse per farlo

partecipare all'attacco della scorta del generale spagnolodovedicevaavrebbe ricavato onorenonché dobloniGiulio

se ne tornò solo solo nella sua casupola. Làil giorno prima che ilsignore di Campireali sparasse contro di lui un colpo

di archibugioaveva ricevuto la visita di Ranuccio e del suo caporalediritorno dalla zona di Velletri. Ranuccio volle

vedere ad ogni costo il forziere dove il suo capoil capitano Brancifortechiudeva un tempo le catene d'oro e gli altri

gioielli che non riteneva opportuno spendere subito dopo una spedizione.Ranuccio vi trovò tre scudi.

«Ti consiglio di farti frate» disse a Giulio«ne hai tutte le virtù:l'amore per la povertàe qui c'è la prova;

l'umiltàe infatti ti lasci insultare in mezzo alla via da un riccone diAlbano; non ti mancano che l'ipocrisia e la gola.»

Ranuccio mise cinquanta dobloni nel forziere.

«Ti do la mia parola» disse a Giulio«che se tra un mese il signore diCampireali non è sepolto con tutti gli

onori dovuti alla sua nobiltà e al suo censoil mio caporale qui presenteverrà con trenta uomini a demolire la tua

casupola e a dar fuoco ai tuoi poveri mobili. Il figlio del capitanoBranciforte non deve fare una brutta figura in questo

modocon la scusa che è innamorato.»

Allorché il signore di Campireali e suo figlio spararono i due colpi diarchibugioRanuccio e il caporale

stavano appostati sotto il balcone di pietrae Giulio faticò molto aimpedir loro di uccidere Fabioo almeno di rapirlo

quando quest'ultimo fece quell'imprudente sortitapassando dal giardinocome abbiamo raccontato a suo tempo.

Ranuccio si lasciò persuadere da questa ragione: non si deve uccidere ungiovane che può diventare qualcuno e rendersi

utilequando c'è un vecchio peccatorepiù colpevole di luibuono soloper essere sepolto.50

All'indomani di quell'avventura notturnaRanuccio sparì nella foresta eGiulio partì per Roma. La gioia di

comprarsi un bel vestito con i dobloni avuti da Ranuccio era crudelmenteturbata da un'idea davvero singolare per quel

tempo e che già lasciava presagire il suo glorioso destino; ripeteva a sestesso: «Elena deve sapere chi sono

Qualunque altro uomo di quell'età e di quel tempo si sarebbe solopreoccupato di godersi il suo amore e di rapire Elena

senza pensare affatto a quel che ne sarebbe stato di lei sei mesi doponéquale opinione avrebbe conservato di lui la

fanciulla.

Di ritorno a Albanoil pomeriggio stesso del giorno in cui sfoggiava davantiagli occhi di tutti i bei vestiti

portati da RomaGiulio venne a sapere da un suo amicoil vecchio Scottiche Fabio era uscito dalla città a cavalloper

andare in una tenuta paterna a tre leghe di distanzanella pianura in rivaal mare. Più tardi vide il signore di Campireali

incamminarsiin compagnia di due pretilungo il magnifico viale di lecciche incorona l'orlo del cratere in fondo al

quale si stende il lago di Albano. Dieci minuti dopouna vecchia siintroduceva arditamente nel palazzo Campireali con

la scusa di vendere frutta; la prima persona che incontrò fu la camerieraMariettaintima confidente della sua padrona

Elenaed essa arrossì fino al bianco degli occhi nel vedersi mettere inmano un bel mazzo di fiori. C'era nascosta una

lettera smisuratamente lunga: Giulio vi raccontava quello che aveva passatodopo la notte dei colpi di archibugioma

per uno strano pudorenon osava confessare ciò di cui ogni altro uomo delsuo tempo si sarebbe vantatovale a dire che

era figlio di un capitano famoso per imprese eroiche e che lui stesso si eragià distinto per il suo coraggio in più di un

combattimento. Gli pareva sempre di sentire i commenti del vecchio Campirealisu questi fatti. Bisogna sapere che nel

XV secolo le ragazzeragionando con buon senso repubblicanostimavano unuomo molto più per le sue azioni che per

le ricchezze accumulate dai padri o per le celebri gesta di questi. Ma eranosoprattutto le ragazze del popolo a pensarla

così. Quelle che appartenevano alle classi ricche o nobili avevano paura deibriganti ecom'è naturaletenevano in

grande considerazione la nobiltà e il censo. Giulio terminava la sua letteracon queste parole: «Non so se i decorosi

vestiti che ho portato da Roma vi hanno fatto dimenticare la crudele ingiuriache una persona da voi rispettata mi ha

rivolto tempo faper il mio misero aspetto; avrei potutoanzi avrei dovutovendicarmilo esigeva il mio onore; non l'ho

fatto pensando alle lacrime che la mia vendetta sarebbe costata a occhi cheadoro. Questo vi darà la provase per mia

disgrazia ne dubitaste ancorache si può esser poverissimi e aver nobilisentimenti. Del restodevo svelarvi un terribile

segretonon proverei nessuna pena a dirlo a qualsiasi altra donnama non soperché tremo al pensiero di confidarlo a

voi. Esso potrebbein un solo istantedistruggere il vostro amore per me eneppure i vostri giuramenti basterebbero a

rassicurarmi. Voglio leggere nei vostri occhi l'effetto di questaconfessione. Uno di questi giorni al cader della notte

verrò a trovarvi nel giardino dietro il palazzo. Quel giornoFabio e vostropadre saranno assenti. Quando avrò la

certezza che malgrado il loro disprezzo per mepovero giovane malvestitonon potranno toglierci tre quarti d'ora o

un'ora per incontrarcivedrete passare sotto le finestre del palazzounuomo che mostrerà ai bambini del paese una

volpe addomesticata. Più tardiquando suonerà l'Ave Mariasentirete in lontananza un colpo di un archibugioallora vi

avvicinerete al muro del giardino e canteretese non sarete sola. Se cisarà silenzioil vostro schiavo verrà a

inginocchiarsi tremante ai vostri piedi e vi racconterà cose che forse vifaranno orrore. Aspettando questo giorno

decisivo e terribile per menon mi arrischierò più a porgervi mazzi difiori a mezzanottema sempre di notteverso le

duepasserò cantando e voichissàaffacciata al grande balcone dipietralascerete cadere un fiore colto con le vostre

mani in giardino. Saranno forse gli ultimi segni di affetto che dareteall'infelice Giulio.»

Tre giorni dopo il padre e il fratello di Elena erano andati a cavallo neiloro possedimenti sulla costada dove

sarebbero ripartiti un po' prima del tramontoper far ritorno a casa versole due di notte. Ma al momento di mettersi in

cammino per tornareerano spariti i loro due cavallie anche tutti quellidella fattoria. Stupitissimi per quell'audace

furtoiniziarono le ricerchei cavalli però furono ritrovati solol'indomani nella foresta di alberi d'alto fustolungo il

mare. I due Campirealipadre e figliofurono costretti a tornare a Albanosu un carro di buoi.

Quella seraquando Giulio si gettò alle ginocchia di Elenaera quasi nottee la povera ragazza era ben felice di

quell'oscurità; per la prima volta era davanti all'uomo che essa amavateneramentee che lo sapevama al quale non

aveva mai rivolto la parola.

Subito le diede un po' di coraggio notare che Giulio era più pallido etremante di lei. Lìai suoi ginocchi

diceva: «In verità non riesco a parlare.» Furono istanti veramente moltofelici; si guardavano senza poter articolare una

parolaimmobili come statue di marmo dall'espressione intensa. Giulioinginocchiatostringeva la mano di Elena che

con la testa chinalo fissava attentamente.

Giulio sapeva bene che i suoi dissoluti amici romani gli avrebberoconsigliato di tentare una certa cosama

quest'idea gli faceva orrore. Lo scosse da quello stato di estasi e forsedalla più grande felicità che possa dare l'amore

un'altra idea; il tempo fugge; i Campireali si avvicinano al palazzo. Capìche con un'anima scrupolosa come la sua non

avrebbe potuto trovare felicità durevolefinché non avesse fatto alla suaamata quella terribile confessioneche gli amici

di Romaavrebbero giudicato un grosso sbaglio.

«Vi ho parlato di una confessione che forse non dovrei farvi» dissefinalmente a Elena.

Impallidì e aggiunse a faticacome se gli mancasse il respiro:

«Forse vedrò sparire quei sentimenti che sono la speranza della mia vita.Mi credete povero; ma non è tutto:

sono un brigante e anche mio padre lo era.»

A quelle paroleElenache aveva un padre ricco e tutte le paure della suacastasi sentì mancareebbe paura di

cadere. «Che tormento sarebbe per il povero Giulio!» pensava: «sicrederebbe disprezzato!». Egli era ai suoi ginocchi.

Per non caderesi appoggiò a lui e poco dopo si abbandonò nelle suebracciaquasi priva di sensi. Come si vedenel

XVI secolopiacevano le storie d'amore raccontate con esattezza. Perchéquelle storie non venivano giudicate con51

l'intelligenzadovevano parlare all'immaginazionee il lettore siidentificava passionalmente con gli eroi del racconto. I

due manoscritti su cui ci basiamoe soprattutto quello che contiene alcuneespressioni tipiche del dialetto fiorentino

descrivono nei minimi particolari tutti gli incontri successivi. Il pericolometteva a tacere i rimorsi della fanciulla.

Spesso i pericoli furono estremima accrescevano l'ardore di quei due cuoriper i quali ogni sensazione amorosa era

felicità. Molte volte rischiarono di essere sorpresi dal padre e da Fabiofuribondi di essere gabbati: correva voce che

Giulio fosse l'amante di Elena e non riuscivano a sorprenderlo. Fabiogiovane impetuoso e fiero delle sue origini

proponeva al padre di far uccidere Giulio.

«Finché sarà al mondo» gli diceva«la vita di mia sorella sarà ingrande pericolo. Chi ci dice che presto

l'onore non ci costringa a macchiarci le mani del sangue di questa ribelle?È diventata audace al punto di non negare più

il suo amore; l'avete vista voi stesso rispondere ai vostri rimproveri con uncupo silenzio; ebbene! quel silenzio è la

condanna a morte di Giulio Branciforte.»

«Pensate chi era suo padre» rispondeva il signore di Campireali. «Certopossiamo facilmente andare a passare

due mesi a Roma eintantoquesto Branciforte sparisce. Ma chi ci dice cheil padreche malgrado i suoi delitti è stato

coraggioso e generosoe ha fatto arricchire molti suoi soldatipurrimanendo poverochi ci dice che suo padre non

abbia ancora amicisia nella compagnia del duca di Monte Marianosia nellacompagnia Colonnache occupa spesso i

boschi della Faggiolaa mezza lega da noi? In questo casoverremomassacrati tutti senza misericordiavoiio e forse

anche la vostra sventurata madre.»

Queste argomentazioniricorrenti nei colloqui tra padre e figliovenivanotenute nascoste solo in parte a

Vittoria Carafala madre di Elenache era disperata. Fabio e suo padredopo molte discussioniconvennero che era

disdicevole per il loro onore lasciar che certe voci continuassero acircolare a Albanotranquillamente. Dato che non era

prudente far sparire il giovane Branciforte cheogni giornodiventava piùinsolente e che oraper di piùrivestito di

splendidi abitispingeva la sua baldanza fino a rivolger la parola inpubblicosia a Fabio sia allo stesso signore di

Campirealibisognava adottare una di queste due soluzionio forse entrambe:ritornare a vivere tutti a Romaricondurre

Elena al convento della Visitazione di Castro dove sarebbe rimasta fino a chenon si fosse trovato per lei il marito

adatto.

Elena non aveva mai confessato il suo amore alla madre; madre e figlia siamavano teneramentepassavano la

vita insiemeeppure mai era stata pronunciata una sola parola sul tema chestava ugualmente a cuore a entrambe. Per la

prima volta l'argomento che occupava tutti i loro pensieri si manifestò aparolequando la madre fece intendere alla

figlia che si parlava di trasferire la famiglia a Romae forse anche dirimandare lei per qualche anno nel convento di

Castro.

Da parte di Vittoria Carafa quei discorsi erano imprudenti e giustificabilisolo con l'infinita tenerezza che

nutriva per la figlia. Elenapazza d'amorevolle provare all'amante di nonvergognarsi della sua povertà e di avere una

fiducia illimitata nel suo onore. «Chi lo crederebbe?» esclama l'autorefiorentino«dopo tanti convegni audaciin cui

rischiava la vitain giardino e persino una volta o due nella sua cameraElena era pura! Forte della sua virtùpropose

all'amante di uscire dal palazzo attraverso il giardinoverso mezzanotte edi trascorrere il resto della notte nella casupola

costruita sui ruderi di Albaa più di un quarto di lega di distanza. Sitravestirono da frati francescani. Elena aveva una

figura slanciataecosì vestitasembrava un giovane novizio di diciotto ovent'anni. Incredibilmentee in questo si vede

la mano di Dionello stretto sentiero scavato nella roccia e che correancora lungo il muro del convento dei Cappuccini

Giulio e la sua amatatravestiti da fratiincontrarono il signore diCampireali e suo figlio Fabio cheseguiti da quattro

servitori armati e preceduti da un paggio con una torcia accesatornavano daCastel Gandolfouna borgata sulle rive del

lagonon molto distante. Per lasciar passare i due amantii Campireali e iservitori si disposero ai lati di quel sentiero

scavato nella roccialargo al massimo otto piedi. Quanto sarebbe statomeglio per Elena venir riconosciuta in quel

momento! Un colpo di pistola sparato dal padre o dal fratello l'avrebbeuccisae il supplizio sarebbe durato solo un

istante: ma il cielo aveva deciso altrimenti (superis aliter visum).

«C'è un altro particolare di quell'eccezionale incontro che la signora diCampirealiormai vecchissima e quasi

centenariasoleva talvolta raccontare a Roma davanti a importanti personaggicheanch'essi vecchissimime l'hanno

riferito quando la mia insaziabile curiosità li interrogava su questo e sumolti altri argomenti.

«Fabio di Campirealiche era un giovane altero e fiero del suo coraggionotando che il frate più adulto non

salutava né il padrené luipassando loro accantoesclamò: «Quantasuperbiabriccone d'un frate! Dio solo sa che cosa

vanno a fare fuori dal conventolui e il suo compagnoa quest'ora indebita.Non so chi mi trattenga dal toglier loro il

cappuccioper vedere che faccia hanno.»

«A quelle paroleGiulio afferrò la daga sotto il saioe s'interpose traFabio e Elena. In quel momento era a un

piede di distanza da Fabio; ma il cielo aveva disposto altrimenti e calmòmiracolosamente il furore di quei due ragazzi

che presto si sarebbero visti molto da vicino.»

Nel processo intentato poi contro Elena di Campirealisi volle presentarequella passeggiata notturna come

prova di corruzione. Era il delirio di un giovane cuore ardente di follepassionema quel cuore era puro.

III

Bisogna sapere che gli Orsinieterni rivali dei Colonnae potentissimiallora nei paesi più vicini a Roma

avevano fatto condannare a mortepoco primadai tribunali governativiBaldassare Bandiniun ricco coltivatore nato52

alla Petrella. Sarebbe troppo lungo riferire qui le diverse azioni che sirimproveravano a Bandini: la maggior parte di

esse sarebbero oggi azioni criminalima non potevano essere giudicate cosìseveramente nel 1559. Bandini era

rinchiuso in un castello degli Orsinisulla montagna dalle parti diValmontonea sei leghe da Albano. Il bargello di

Romaseguito da centocinquanta sbirripassò una notte sulla stradamaestra; veniva a prendere Bandini per portarlo a

Roma nelle carceri di Tordinona; il Bandini aveva fatto ricorso a Roma per lasentenza che lo condannava a morte. Ma

come abbiamo dettoera nativo della Petrellafortezza appartenente aiColonna; la moglie di Bandini si rivolse

pubblicamente a Fabrizio Colonna che si trovava alla Petrella:

«Lascerete morire un vostro fedele servitore?»

«Dio non voglia che io manchi del dovuto rispetto per le decisioni deltribunale del papa mio signore!»

rispondeva il Colonna.

Subito i suoi soldati ricevettero ordinie tutti i suoi partigiani furonoavvisati di tenersi pronti. Il luogo di

raccolta era nei dintorni di Valmontoneuna cittadina costruita sulcocuzzolo di una roccia non molto elevatama difesa

interamente da un precipizio quasi verticale profondo dai sessanta agliottanta piedi. In questa città appartenente al papa

i partigiani degli Orsini e gli sbirri del governo erano riusciti atrasportare Bandini. Tra i più zelanti partigiani

dell'autorità c'erano il signore di Campireali e suo figlio Fabioimparentati del resto con gli Orsini. Mentre Giulio

Branciforte e suo padre erano sempre stati legati ai Colonna.

Quando le circostanze sconsigliavano di agire apertamentei Colonnaricorrevano a un'elementare precauzione:

la maggior parte dei contadini romaniallora come oggifacevano parte diqualche compagnia di penitenti. I penitenti si

mostravano sempre in pubblico con la testa coperta da un pezzo di stoffa chenascondeva il volto e dove erano praticati

due buchi in corrispondenza degli occhi. Quando i Colonna volevano tenersegreta un impresainvitavano i loro

partigiani a raggiungerlivestiti da penitenti.

Dopo lunghi preparativiil trasferimento di Bandiniche faceva notizia inpaese da quindici giornifu fissato

per una domenica. Quel giornoalle due del mattinoil governatore diValmontone fece suonare le campane a stormo in

tutti i villaggi della foresta della Faggiola. Da ogni villaggio furono vistiuscire contadini in gran numero. (I costumi

repubblicani del Medioevoquando ci si batteva per ottenere quel che stava acuoreavevano abituato gli animi al

coraggio: ai nostri giorni nessuno si muoverebbe.)

In quell'occasione si poteva osservare qualcosa di molto strano: via via chei drappelli di contadini armati

provenienti dai vari villaggisi inoltravano nella forestasi dimezzavano;i partigiani dei Colonna si dirigevano verso il

luogo del raduno stabilito da Fabrizio. I capi sembravano sicuri che quelgiorno non ci sarebbero stati scontri: al mattino

avevano ricevuto l'ordine di spargere questa voce. Fabrizio percorreva laforesta col fior fiore dei suoi partigiani a cui

faceva cavalcare i puledri semiselvaggi del suo allevamento. Passavapercosì direin rassegna le diverse bande di

contadinima non parlava loro nel modo più assoluto; anche una sola parolapoteva essere compromettente. Era alto e

magroincredibilmente agile e forte; benché avesse appena quarantacinqueanniaveva capelli e baffi candidie questo

lo infastidiva parecchio: quella caratteristica lo rendeva riconoscibile inluoghi in cui avrebbe preferito mantenere

l'incognito. Man mano che i contadini lo vedevanogridavano «VivaColonna!» e mettevano i cappucci di tela. Anche il

principe aveva il cappuccio sul pettoin modo da poterselo infilare appenaavesse scorto il nemico.

Questi non si fece aspettare: il sole spuntava appena quando un migliaio diuominidel partito degli Orsini

provenienti da Valmontonepenetrarono nella foresta passando a circatrecento passi dai partigiani di Fabrizio Colonna

che egli aveva fatto sdraiare a terra. Quando furono sfilati gli ultimiuomini degli Orsini che costituivano l'avanguardia

il principe fece muovere i suoi: aveva deciso di attaccare la scorta diBandini un quarto d'ora dopo che fosse entrata nel

bosco. In quel puntola foresta è cosparsa di collinette rocciose diquindici o venti piedi: sono colate laviche più o meno

antichesu cui i castagni crescono rigogliosi e intercettano quasi tutta laluce. Dato che quelle colateanche se

abbastanza levigate dal temporendono il suolo inegualeper evitare unaquantità di inutili sali-scendila strada maestra

è stata scavata nella lavae in molti punti è tre o quattro piedi più inbasso della foresta.

Vicino al luogo scelto da Fabrizio per l'attaccoc'era una radura erbosaattraversata a un'estremità dalla strada.

Dopola strada entrava nella forestachein quel puntopiena di rovi e diarbusti tra un albero e l'altroera

assolutamente impenetrabile. Lìcento passi all'interno della foresta e suidue lati della stradaFabrizio aveva schierato i

suoi fanti. A un cenno del principeogni contadino si sistemò il cappuccioe si appostò con l'archibugio dietro un

castagno; i soldati del principe si piazzarono dietro agli alberi più vicinialla strada. I contadini avevano l'ordine

rigoroso di sparare solo dopo i soldatie questi ultimi dovevano farlo soloquando il nemico fosse a venti passi. Fabrizio

fece abbattere in fretta una ventina di alberi cheprecipitando con tutti irami sulla stradapiuttosto stretta in quel punto

e incassata di tre piedil'avevano ostruita completamente. Il capitanoRanucciocon cinquecento uominiseguì

l'avanguardia; aveva ordine di non attaccare fino a che non avesse sentito iprimi colpi di archibugio provenienti dallo

sbarramento di rami. Quando Fabrizio Colonna vide soldati e partigiani benappostati ciascuno dietro un albero e pronti

a combatterepartì al galoppo con tutti gli uomini a cavallotra i qualispiccava Giulio Branciforte. Il principe prese un

sentiero a destra della strada e che portava all'estremità della radura piùlontana da essa.

Si era allontanato soltanto da qualche minutoquando si vide venir dalontanoper la strada di Valmontoneun

folto gruppo di uomini a cavallo: erano gli sbirri e il bargello chescortavano il prigioniero con i cavalieri degli Orsini.

In mezzo a loro era Baldassare Bandinicircondato da quattro boia vestiti dirosso; questi avevano l'ordine di eseguire la

sentenza dei primi giudici e di giustiziare Bandiniqualora avessero visto ipartigiani dei Colonna pronti a liberarlo.53

Fabriziocon la cavalleriaera appena arrivato all'estremità della raduraerbosa più lontana dalla stradaquando

udì i primi colpi di archibugio dell'imboscata che aveva teso sulla stradamaestra al di là dello sbarramento di alberi.

Subito mise i cavalli al galoppo e diresse la carica contro i quattro boiavestiti di rosso che circondavano il Bandini.

Non seguiremo il racconto di questa scaramuccia che durò meno di tre quartid'ora; i partigiani degli Orsini

colti di sorpresa si sbandaronoma gli uomini dell'avanguardia uccisero ilvaloroso capitano Ranuccioe quell'evento

ebbe un'influenza funesta sul destino di Branciforte. Questi aveva appenadato qualche colpo di sciabolacontinuando

ad avvicinarsi agli uomini vestiti di rossoquando si trovò faccia a facciacon Fabio Campireali.

In sella a un focoso cavallo e coperto di un giaco doratoFabiogridava:

«Chi sono questi miserabili mascherati? Strappiamogli la maschera con unasciabolata; guardatecome faccio

io!»

Quasi nello stesso istante Giulio Branciforte venne colpito alla fronte dauna sciabolata di Fabio. Il colpo era

stato vibrato con destrezzatanto che la tela che gli copriva il volto caddeed egli si sentì accecare dal sangue che colava

da quella leggera ferita. Giulio fece indietreggiare il cavallo per avere iltempo di tirare il fiato e di pulirsi il viso.

Volevaad ogni costoevitare di battersi col fratello di Elena; il suocavallo era già distante quattro passi da Fabio

quando venne colpito al petto da una violenta sciabolatache non penetrògrazie al giacoma gli tolse sul momento il

respiro. Quasi contemporaneamente si sentì gridare all'orecchio:

«Ti conoscoporco! È così che guadagni i soldi per sostituire i tuoistracci!»

Giuliopunto sul vivodimenticò il suo primo proposito e si diresse dinuovo su Fabio:

«Ed in mal punto tu venisti!» gridò.

Dopo le prime rapide sciabolategli indumenti che coprivano le cotte dimaglia cadevano a brandelli. La cotta

di Fabio era doratasplendidaquella di Giulio delle più comuni.

«Hai raccolto quel giaco in una fogna?» gli urlò Fabio.

Nello stesso momentoGiulio trovò l'occasione che cercava da mezzo minuto:la splendida cotta di Fabio non

era ben stretta intorno al collo e Giulio vibrò nel punto un po' scoperto unriuscito colpo di punta. La sua spada penetrò

di mezzo piede nel collo di Fabio e fece sprizzare un enorme getto di sangue.

«Insolente!» esclamò Giulio.

E si diresse al galoppo verso gli uomini vestiti di rosso due dei quali eranoancora a cavallo a cento passi da lui.

Mentre si avvicinavaanche il terzo venne abbattuto; manel momento in cuiGiulio si avvicinava al quarto boiaquesti

vedendosi circondato da più di dieci cavalieriscaricò la pistola abruciapelo sullo sventurato Bandiniche cadde.

«Signori mieinon possiamo far più niente qui!» gridò Branciforte«mano alle sciabole e inseguiamo quelle

canaglie di sbirri che scappano da tutte le parti.»

Tutti lo seguirono.

Quandomezz'ora dopo Giulio tornò da Fabrizio Colonnaquel signore glirivolse la parola per la prima volta

in vita sua. Giulio lo trovò stravolto dall'iramentre credeva di vederloesultante per la vittoria che era totale e tutta

dovuta ai suoi piani; perché gli Orsini avevano quasi tremila uominieFabrizioper quell'impresanon ne aveva messi

insieme più di cinquecento.

«Abbiamo perduto il nostro valoroso amico Ranuccio!» esclamò il principerivolgendosi a Giulio«ho toccato

or ora il suo corpo; è già freddo. Il povero Baldassare Bandini è ferito amorte. Cosìin conclusionel'impresa è fallita.

Ma l'ombra del bravo capitano Ranuccio si presenterà a Plutone in buonacompagnia. Ho ordinato di impiccare ai rami

degli alberi tutte quelle canaglie di prigionieri. FateloSignori!» gridòalzando la voce.

E ripartì al galoppo verso il luogo in cui era avvenuto lo scontro conl'avanguardia. Giulio erain un certo

sensoil comandante in seconda della compagnia di Ranuccio; seguì ilprincipe chegiunto vicino al cadavere del

valoroso soldatosteso in mezzo a più di cinquanta cadaveri nemicisceseuna seconda volta da cavallo per prender la

mano di Ranuccio. Giulio l'imitò piangendo.

«Sei molto giovane» disse il principe a Giulio«ma vedo che sei copertodi sanguetuo padre è stato un uomo

valoroso: era stato ferito più di venti volteservendo i Colonna. Prendi ilcomando di quanto rimane della compagnia di

Ranuccio e porta il suo cadavere nella nostra chiesa della Petrella; bada cheforse verrai attaccato lungo la strada.»

Giulio non fu attaccatoperò uccise con un colpo di spada uno dei soldaticolpevole di averlo giudicato troppo

giovane per comandare. Fu un'imprudenza; ma gli andò bene perché era ancoracoperto del sangue di Fabio. Lungo tutta

la stradavedeva alberi carichi di uomini appena impiccati. Questospettacolo orrendoil pensiero della morte di

Ranuccio e soprattutto della morte di Fabiolo facevano quasi impazzire.Sperava solo che non si venisse a sapere il

nome del vincitore di Fabio.

I particolari militari possiamo tralasciarli. Tre giorni dopo ilcombattimentoegli poté tornare per qualche ora a

Albano; raccontò ai conoscenti di esser stato trattenuto a Roma da unaviolenta febbreche lo aveva inchiodato al letto

per tutta la settimana.

Ma dappertutto veniva trattato con ostentato rispettole persone piùragguardevoli lo salutavano per prime

alcuni imprudenti giunsero persino a chiamarlo signor capitano. Erapassato e ripassato davanti al palazzo Campireali

che aveva trovato completamente chiusoedato che il giovane capitano erapiuttosto timido quando si trattava di fare

certe domandesolo a metà della giornata trovò il coraggio di chiedere alvecchio Scortiche lo aveva sempre trattato

con bontà:

«Ma dove sono i Campireali? il palazzo è chiuso.»54

«Amico» rispose Scotti fattosi improvvisamente triste«non dovete maipronunziare questo nome. I vostri

amici sono convinti che è stato lui a cercarvie lo diranno a tutti; mainsommaegli era il principale ostacolo al vostro

matrimonio einsommalascia una sorella immensamente ricca e che vi ama.Dirò di piùin questo caso è bene essere

indiscretivi ama al punto di raggiungervi la notte nella casetta di Alba.Così si può direnel vostro interesseche

eravate marito e moglie prima del fatale combattimento dei Ciampi»(è questo il nome che si dava in paese al

combattimento che abbiamo descritto).

Il vecchio si interruppe vedendo Giulio scoppiare in lacrime.

«Saliamo alla locanda» disse Giulio.

Scotti lo seguì; venne data loro una camera in cui si chiusero a chiaveeGiulio chiese al vecchio il permesso di

raccontargli quanto era successo in quegli ultimi otto giorni. Finito illungo racconto:

«Vedo dalle vostre lacrime» disse il vecchio«che avete agito senzapremeditazione; ma la morte di Fabio è

pur sempre un evento crudele per voi. Bisogna assolutamente che Elenadichiari alla madre che voi siete da tempo il suo

sposo.»

Giulio non rispose e il vecchio attribuì quel silenzio a una lodevolediscrezione. Assorto nei suoi pensieri

Giulio si chiedeva se Elenaesacerbata dalla morte del fratelloavrebbereso giustizia alla sua delicatezza e si pentì di

quanto un tempo era successo. Poidietro sua richiestail vecchio gliparlò francamente di tutto quello che era accaduto

a Albano il giorno del combattimento. Fabio era stato ucciso alle sei e mezzodel mattinoa più di sei leghe da Albano

eincredibilesin dalle nove si era cominciato a parlare della sua morte.Verso mezzogiorno il vecchio Campireali era

stato visto dirigersisinghiozzante e sostenuto dai servitorial conventodei Cappuccini. Poco dopotre di quei buoni

padricon i migliori cavalli dei Campirealie seguiti da molti servitorisi erano diretti verso il borgo dei Ciampivicino

al quale si era svolto il combattimento. Il vecchio Campireali voleva ad ognicosto seguirlima lo avevano dissuaso dato

che Fabrizio Colonna era furente (non si sapeva bene perché) e avrebbepotuto riservargli un brutto trattamento se lo

avesse fatto prigioniero.

La seraverso mezzanottela foresta della Faggiola sembrava in fiamme:tutti i frati e tutti i poveri di Albano

ciascuno con un grosso cero accesoandavano incontro alle spoglie delgiovane Fabio.

«Sapete bene» continuò il vecchio abbassando la voce come se temesse diessere udito«che la strada che

porta a Valmontone e ai Ciampi...»

«Ebbene?» chiese Giulio.

«Ebbenequella strada passa davanti a casa vostrae si racconta che quandoil cadavere di Fabio è arrivato in

quel puntoil sangue sia sgorgato da un'orribile piaga che aveva al collo.»

«È spaventoso!» esclamò Giulio alzandosi.

«Calmateviamico» gli disse il vecchio«è bene che sappiate tutto. Eora posso dirvi che la vostra presenza

quioggiè un po' prematura. Se mi faceste l'onore di consultarmiaggiungereicapitanoche fareste meglio a non

venire a Albanoalmeno per un mese ancora. E non ho bisogno di dirvi che nonsarebbe neppure prudente farvi vedere a

Roma. Non si sa ancora che cosa deciderà il Santo Padre nei riguardi deiColonna; si pensa che presterà fede alla

dichiarazione di Fabrizio che sostiene di aver saputo del combattimento dei Ciampidalla voce pubblica; ma il

governatore di Romache è favorevole agli Orsiniè furente e sarebbefelice di far impiccare qualche valoroso soldato

di Fabriziosenza che costui potesse ragionevolmente protestareperchégiura di non aver assistito al combattimento.

Ma non bastaebenché non me lo abbiate chiestomi permetterò di darviun parere militare: ad Albano vi vogliono

benealtrimenti non sareste così al sicuro. Pensate che girate da ore perla cittàtanto che qualche partigiano degli

Orsini potrebbe pensare a una provocazioneo quanto meno alla facilità diguadagnarsi una bella ricompensa. Il vecchio

Campireali ha ripetuto mille volte che regalerà il suo podere più bello achi vi ucciderà. Avreste dovuto far scendere in

paese qualcuno dei soldati che tenete in casa.»

«In casa non ho nessun soldato.»

«Allora siete pazzocapitano. C'è un giardino dietro alla locandausciremo di lì e fuggiremo attraverso le

vigne. Io vi accompagneròsono vecchio e non sono armatoma se incontriamoqualche malintenzionatomi metterò a

parlare con lui e così almeno vi farò guadagnar tempo.»

Giulio aveva l'animo straziato. Oseremo dire quale folle idea lo tormentava?Appena aveva saputo che il

palazzo Campireali era chiuso e tutti i suoi abitanti partiti per Romasiera riproposto di andare in quel giardino dove

così spesso si era incontrato con Elena. Sperava persino di rivedere lacamerain cui era stato accolto quando la madre

era assente. Sentiva il bisogno di esorcizzare la collera di leirivedendo iluoghi dove essa si era dimostrata tanto tenera.

Branciforte e il generoso vecchio non fecero nessun cattivo incontropercorrendo i sentieri che attraversano le

vigne e salgono attraverso il lago.

Giulio si fece raccontare di nuovo i particolari delle esequie del giovaneFabio. Il corpo di quel coraggioso

ragazzoscortato da molti pretiera stato portato a Roma e sepolto nellacappella di famiglianel convento di

Sant'Onofrio sul Gianicolo. Tutti avevano notato cheper una stranacoincidenzaalla vigilia della cerimoniaElena era

stata ricondotta dal padre al convento della Visitazione a Castro;confermando così la diceria che fosse maritata in

segreto col soldato di ventura che aveva avuto la disgrazia di uccidere suofratello.

Arrivato vicino a casaGiulio trovò il caporale della sua compagnia equattro soldati; essi gli dissero che mai il

loro precedente capitano usciva dalla foresta senza aver vicino qualcuno deisuoi uomini. Il principe soleva ripetere che

chi voleva farsi uccidere per imprudenzadoveva prima dare le dimissioniper non lasciargli sulle spalle una morte da

vendicare.55

Giulio Branciforte riconobbe giuste quelle ideeche fino ad allora gli eranostate del tutto estranee. Aveva

credutocome i popoli primitiviche la guerra consistesse solo nel battersicon coraggio. Obbedì immediatamente alla

volontà del principe; si concesse solo il tempo di abbracciare il saggiovecchio che era stato tanto generoso da

accompagnarlo fino a casa.

Mapochi giorni dopoGiulioquasi impazzito di malinconiavolle tornareal palazzo Campireali. Al cader

della nottecon tre soldatitravestiti da mercanti napoletanipenetrò inAlbano. Si presentò da solo a casa di Scotti;

venne a sapere che Elena era ancora relegata nel convento di Castro. Ilpadrecredendola maritata con colui che

definiva l'assassino del figlioaveva giurato di non rivederla mai più. Nonl'aveva guardata neppure mentre la riportava

al convento. La tenerezza della madreinvecesembrava raddoppiatae spessoessa lasciava Roma per andar a passare

un giorno o due con la figlia.

IV

«Se non mi giustifico con Elena» si ripeteva Giuliofacendo ritornodurante la notteall'accampamento della

sua compagnia nella foresta«finirà col credermi un assassino. Dio saquante storie le avranno raccontato su quel fatale

combattimento!»

Andò a prendere ordini dal principe nella fortezza della Petrellae glichiese il permesso di andare a Castro.

Fabrizio Colonna corrugò la fronte:

«La faccenda del combattimento non è ancora stata sistemata con SuaSantità. Dovete sapere che ho dichiarato

la veritàcioè che ero rimasto del tutto estraneo a questo scontrodi cuiho avuto notizia solo il giorno successivoqui

nel mio castello della Petrella. Ho motivo di credere che Sua Santitàfinirà per prestare fede a questo racconto sincero.

Ma gli Orsini sono potentima tutti dicono che vi siete distinto in quellatemeraria impresa. Gli Orsini arrivano anche a

sostenere che molti prigionieri sono stati impiccati agli alberi. Sapetequanto questi discorsi siano falsi; c'è comunque da

aspettarsi qualche rappresaglia.»

Il profondo stupore che si leggeva nello sguardo ingenuo del giovane capitanodivertiva il principeche tuttavia

giudicò utiledavanti a tanta innocenzaparlar più chiaro.

«Vedo in voi» proseguì«il grande coraggio che ha reso noto in tuttal'Italia il nome di Branciforte. Spero che

dimostrerete sempre per la mia casa quella fedeltà che mi rendeva carovostro padre e che ho voluto ricompensare in

voi. Questa è la parola d'ordine nella mia compagnia: Non dire mai il verosu niente che riguardi me o i miei soldati. Se

costretto a parlarenon vedete l'utilità di mentiredite il falso ad ognibuon contoe guardatevicome da un peccato

mortaledal dire la minima verità. Capiteaggiunta ad altre informazionipotrebbe mettere sulle tracce dei miei

progetti. Sodel restoche avete una passioncella nel convento dellaVisitazione a Castro; potete andare a perdere

quindici giorni in quella cittadinadove gli Orsini hanno amici e persinoagenti. Andate dal mio maggiordomo che vi

consegnerà 200 zecchini. In nome dell'amicizia per vostro padreaggiunseridendo il principevoglio darvi qualche

consiglio su come portare felicemente a termine questa impresa amorosa emilitare. Voi e tre dei vostri soldatisarete

travestiti da mercanti; litigherete con uno dei vostri compagniche faràfinta di esser sempre ubriaco e si farà molti

amici pagando da bere a tutti i vagabondi di Castro. Peròaggiunse ilprincipe cambiando tonose gli Orsini vi

prendono e vi condannano a mortenon confessate il vostro vero nome e ancormeno che siete al mio servizio. Non

occorre che vi raccomandi di girare intorno a tutte le città e di entrarvisempre dalla porta opposta al punto da cui

arrivate.

Giulio fu commosso da quei consigli paternidati da un uomo di solito cosìautoritario. Dapprima il principe

sorrise delle lacrime che il giovane aveva agli occhi; poi la sua voce sialterò. Si sfilò uno dei tanti anelli che portava

alle dita; Giulio ricevendolo in donobaciò quella mano celebre per molteimprese famose.

«Mai mio padre mi avrebbe dato tanti consigli!» esclamò il giovaneentusiasta.

Due giorni dopoun po' prima dello spuntar del soleentrava nelle muradella cittadina di Castro; lo seguivano

cinque soldatitravestiti come lui: due stavano per conto loro e sembravanonon conoscere né luiné gli altri tre. Ancor

prima di entrare in cittàGiulio scorse il convento della Visitazioneunvasto edificio circondato da nere mura e molto

simile a una fortezza. Corse in chiesa; era stupenda. Le suoretutte nobilie in gran parte di famiglia riccagareggiavano

tra loro a chi arricchiva di più la chiesala sola parte del conventoesposta agli sguardi del pubblico. Era diventata ormai

consuetudine che colei che il papa nominava badessain una rosa di tre nomipresentatagli dal cardinale protettore

dell'ordine della Visitazionefacesse una rilevante offertadestinata aeternare il suo nome. Colei che faceva un'offerta

inferiore a quella della badessa precedenteveniva disprezzatainsieme allasua famiglia.

Giulio si inoltrò tremante in quel magnifico edificiorisplendente di marmie di dorature. Veramente egli non

pensava affatto ai marmi e alle dorature; si sentiva addosso lo sguardo diElena. L'altare maggioregli avevano detto

era costato più di 800.000 franchi; ma i suoi occhidisdegnando lericchezze dell'altareerano rivolti a una grata dorata

alta quasi quaranta piedi e divisa in tre parti da due pilastri di marmo.Quella grataa cui l'enorme grandezza conferiva

un aspetto terribilesi innalzava dietro l'altar maggiore e separava il corodelle suore dalla chiesa aperta a tutti i fedeli.

Giulio pensava che dietro la grata stavanodurante le funzionile suore ele educande. Una di loro poteva in

qualsiasi ora andare in quello spazio internose avesse avuto bisogno dipregare; era su questa circostanza risaputa da

tutti che si basavano le speranze del povero innamorato.56

Certoun immenso velo nero ornava la parte interna della grata; ma il velopensava Giulionon deve impedire

alle educande di vedere la parte della chiesa aperta al pubblicopoiché iopur dovendo rimanere a una certa distanza

scorgo benissimoattraverso di essole finestre che danno luce al corofinnei minimi particolari architettonici. Ogni

sbarra di quella grata splendidamente dorata era munita di una robusta puntarivolta contro il pubblico.

Giulio scelse un posto bene in vista di fronte al lato sinistro della gratanel punto più illuminato; lì passava la

vita a sentir messe. Vedendosi circondato soltanto da contadinisperava divenir notatoanche attraverso il velo nero

che guarniva la parte interna della grata. Per la prima volta nella sua vitaquel giovane semplice cercava di far colpo;

vestiva con ricercatezza; faceva molte elemosine entrando e uscendo dallachiesa. Lui e i suoi uomini erano pieni di

attenzioni per gli operai e i fornitori che avevano rapporti col convento.Solo il terzo giorno però ebbe finalmente una

speranza di far giungere una lettera a Elena. Secondo i suoi ordinic'erachi seguiva passo a passo le due converse

incaricate di comprare una parte delle provviste del convento; una di esseera in relazione con un modesto mercante.

Uno dei soldati di Giulioche era stato fratediventò amico del mercante egli promise uno zecchino per ogni lettera

recapitata all'educanda Elena di Campireali.

«Come!» disse il mercante quando gli fu proposto l'affare «una letteraalla moglie del brigante!»

Tutti la chiamavano ormai così a Castrononostante che Elena fosse arrivatada meno di quindici giorni: tanto

rapidamente si diffondono le storie che fanno galoppare la fantasia traquesto popolo appassionato di tutti i particolari

realistici.

Il mercante soggiunse:

«Lei almeno è sposata! ma quante delle nostre signore non hanno questascusae ricevono da fuori ben altro

che lettere.»

In quel primo scrittoGiulio raccontava minuziosamente tutto quello che erasuccesso nel giorno fatale della

morte di Fabio. E terminava chiedendole:

«Mi odiate?»

Elena rispose con poche righe chesenza odiare nessuno avrebbe passato ilresto della vita a cercar di

dimenticare chi le aveva ucciso il fratello.

Giulio si affrettò a riscriverledopo aver inveito contro il destinonellospirito del platonismo allora di moda:

«Vuoi dunque» continuava«dimenticare la parola di Dio trasmessaci dalleSacre Scritture? Dio dice: La

moglie lascerà famiglia e genitori per seguire lo sposo. Oseresti sostenereche non sei mia moglie? Ricordati la notte di

San Pietro. Quando l'alba già spuntava dietro Monte Caviti gettasti aimiei ginocchi; io volli usarti misericordia; saresti

stata mia se l'avessi voluto; non potevi resistere all'amore che alloraprovavi per me. D'un tratto pensai che continuavo a

ripeterti di averti fatto da tempo sacrificio della mia vita e di quantopotevo avere di più caro al mondosarebbe stato

naturale che tu avessi ribattutoanche se non l'hai mai fattoche talisacrificinon provati da alcun atto esteriore

potevano anche essere immaginari. Allora un'ideacrudele per mema in fondogiustami illuminò. Non a caso mi si

offriva l'occasione di sacrificare nel tuo interesse la più grande felicitàche mai avessi sognato. Eri già tra le mie braccia

e indifesaricordati; neppure la tua bocca osava rifiutare. In quel momentoal convento di Monte Cavi suonò l'Ave

Maria del mattinoecome per miracoloquel suono giunse fino a noi. Midicesti: «Fai questo sacrificio alla Santa

Madonnamadre di ogni purezza.» Avevo giàda un istantel'idea diquel supremo sacrificioil solo reale che mai

avessi avuto occasione di farti. Trovai sorprendente che anche tu avessipensato la stessa cosa. Il suono lontano di

quell'Ave Maria mi commosselo confesso; accettai la tua richiesta.Quel sacrificio non l'offrii solo a te; credetti così di

mettere la nostra futura unione sotto la protezione della Madonna. Allorapensavo che non da teperfidasarebbero

venuti gli ostacolima dalla tua ricca e nobile famiglia. Se non ci fossestato un intervento soprannaturalecome

avrebbe potuto quell'Angelus arrivare fino a noi da tanto lontanooltre le cime degli alberi di mezza forestaagitate in

quel momento dalla brezza del mattino? Alloraricorditi inginocchiastidavanti a me; io mi alzaipresi la croce che

porto sul pettoe tu giurasti su quella croceche ora ho qui davantiesulla tua dannazione eternache dovunque ti fossi

trovata e qualunque cosa fosse successaappena te lo avessi chiestotisaresti rimessa al mio volerecome nell'istante in

cui l'Ave Maria di Monte Cavi ti giunse da tanto lontano all'orecchio.Poi dicemmo devotamente due Ave e due Pater.

Ebbene! in nome dell'amore che allora avevi per meese lo hai dimenticatocome temoin nome della tua dannazione

eternati ordino di farmi entrare stanotte nella tua camera o nel giardinodi questo convento della Visitazione.»

Stranamente l'autore italiano riporta molte lunghe lettere scritte da GiulioBranciforte dopo questa; però dà solo

alcuni brani delle risposte di Elena di Campireali. Ma sono passatiduecentosettantotto annie siamo così lontani dai

sentimenti amorosi e religiosi di cui quelle lettere sono pervaseda farmitemere che sembrino prolisse.

Da esse pare che Elena abbia finalmente obbedito all'ordine contenuto inquella che abbiamo in parte tradotto.

Giulio trovò modo di introdursi nel convento; da una frase si potrebbearguire che si vestì da donna. Elena accettò di

vederloma solo attraverso l'inferriata di una finestra a pian terrenochedava sul giardino. Con indicibile doloreGiulio

constatò che la fanciullaun tempo tenera e persino appassionataeradiventata per lui come un'estranea; lo trattò con

cortesia. Lo aveva fatto entrare in giardino quasi unicamente perrispettare il giuramento. Fu un breve colloquio: dopo

qualche istantela fierezza di Giulioforse un po' incoraggiata dagliavvenimenti degli ultimi quindici giorniprevalse

sul suo profondo dolore.

«Mi vedo davanti» disse tra sé«solo la tomba di quell'Elena che aAlbano sembrava essersi data a me per la

vita »57

Subito la sua preoccupazione fu nasconder le lacrime che gli inondavano ilvolto alle espressione cerimoniose

con cui Elena si rivolgeva a lui. Quando essa ebbe finito di parlare e digiustificare un cambiamento tanto naturale

dicevadopo la morte di un fratelloGiulio le disse parlando con estremalentezza:

«Voi non rispettate il giuramentonon mi accogliete in un giardinononsiete in ginocchio davanti a me come

eravate mezzo minuto dopo aver sentito l'Ave Maria di Monte Cavi.Dimenticate il giuramento se potete; in quanto a

meio non dimentico niente; che Dio vi assista.»

Pronunciando queste parolesi allontanò dalla finestra vicino alla qualesarebbe potuto rimanere ancora un'ora.

Chi gli avrebbe dettoun istante primache sarebbe stato lui a interrompereun colloquio tanto desiderato! Quel

sacrificio gli straziava il cuorema pensava che si sarebbe ben meritato ildisprezzo anche di Elena se non avesse

risposto alle sue cerimonie abbandonandola al suo rimorso.

Uscì dal convento prima dell'alba. Subito montò a cavallo ordinando aisoldati di aspettarlo a Castro per una

settimanapoi di tornare nella foresta; era ebbro di disperazione. In unprimo tempo si diresse verso Roma.

«Allontanarmi da lei!» si ripeteva a ogni passo; «siamo diventati estraneil'uno all'altra! O Fabiosei ben

vendicato!»

La vista degli uomini che incontrava per strada aumentava la sua collera;spinse il cavallo attraverso i campi e

ne guidò la corsa verso la spiaggia deserta e incolta che si stende lungo ilmare. Quando non fu più turbato dalla

presenza di quei pacifici contadini di cui invidiava la sorterespirò:l'aspetto di quel luogo selvaggio si accordava con la

sua disperazione e calmava la sua collera; allora poté abbandonarsi acontemplare il suo triste destino.

«Alla mia età» pensò«ho una risorsa: amare un'altra donna!» A queltriste pensierola sua disperazione

raddoppiò; capì che per lui c'era una sola donna al mondo. Si immaginava ilsupplizio che avrebbe provato nel

pronunciare la parola amore di fronte a un'altra; quell'idea lo straziava.

Scoppiò in una amara risata. «Sono ridotto proprio come quegli eroidell'Ariosto che se ne vanno soli soli

attraverso paesi desertiperché devono dimenticare di aver trovato la loroperfida donna tra le braccia di un altro

cavaliere... Lei però non è così colpevole» si disse scoppiando inlacrime dopo quell'amara risata; «non è infedele fino

al punto di amare un altro. Quell'anima ardente e pura si è lasciatafuorviare dalle cose atroci che le hanno raccontato su

di me; probabilmente mi hanno dipinto ai suoi occhi come uno che è partitoper quella fatale spedizione nella speranza

di poter uccidere suo fratello. Avranno detto di più: mi avranno attribuitoun ignobile calcoloche morto luiessa

sarebbe diventata la sola erede di un'immensa fortuna... E io ho commesso lasciocchezza di lasciarla per quindici interi

giorni in preda alla nefasta influenza dei miei nemici! Sono propriodisgraziatoil cielo mi ha fatto anche incapace di

badare alla mia vita! Sono un essere davvero miserevoledavvero spregevole!la mia vita non è servita a nessunoe

tanto meno a me.»

In quel momento il giovane Branciforte ebbe un'ispirazione veramente rara perquel secolo; il suo cavallo

camminava proprio in riva al mare e ogni tanto le onde bagnavano i suoizoccoli; ebbe l'idea di spingerlo in mare e

porre così fine all'orribile sorte che lo perseguitava. Che cosa avrebbefatto ormaiabbandonato dall'unico essere al

mondo capace di fargli sentire l'esistenza della felicità? Poi ad un trattoun'idea lo trattenne. «Che cosa sono le pene che

provo» si disse«a paragone di quelle che soffrirò tra pococonclusaquesta miserevole vita? Elena non mi apparirà più

solo indifferentecom'è in realtàla vedrò tra le braccia di un rivalee quel rivale sarà qualche giovane signore romano

ricco e stimato; infattiper straziarmi l'anima i demoni cercherannole immagini più crudelicome è loro dovere. Così

neppure con la morte potrò dimenticare Elenaanzi la mia passioneraddoppieràperché sarà il mezzo più sicuro che

avrà l'onnipotenza eterna per punirmi del mio orribile peccato.» Perscacciare del tutto la tentazioneGiulio si mise a

recitare devotamente l'Ave Maria. Sentendo suonare l'Ave Maria delmattinopreghiera dedicata alla Madonnaera stato

un giorno soggiogato e indotto a compiere un atto generoso che egli oraconsiderava il più grande sbaglio della sua vita

Maper rispettonon osava spingere più in là il suo ragionamento eesprimere completamente l'idea che lo tormentava.

«Se per un'ispirazione della Madonna ho commesso un fatale erroreessa nondevenella sua infinita giustizia

creare una situazione che mi renda la felicità?» L'idea della giustiziadella Madonna scacciò a poco a poco la

disperazione. Alzò la testa e vide davanti a luioltre Albano e oltre laforestaMonte Cavi coperto di verde cupo e il

santo convento dov'era risuonata quell'Ave Maria del mattino che loaveva spinto verso quello che egli ora definiva un

infame inganno. La vista inattesa di quel santo luogo lo consolò. «No»esclamò«la Madonna non può abbandonarmi.

Se Elena fosse diventata mia sposa come il suo amore desiderava e come la miadignità di uomo avrebbe volutoil

racconto della morte del fratello avrebbe trovato nel suo cuore il ricordodel legame che l'univa a me. Si sarebbe detta

che era stata mia ben prima di quel fatale momento chesul campo dibattagliami ha messo di fronte a Fabio. Egli

aveva due anni più di meera più esperto nelle armipiù ardimentosopiù forte. Mille ragioni avrebbero provato a mia

moglie che non avevo cercato io quello scontro. Si sarebbe ricordata che nonavevo mai avuto il minimo sentimento di

odio contro suo fratelloneppure quando le sparò quel colpo di archibugio.Mi ricordo che nel nostro primo colloquio

dopo il mio ritorno da Romale dicevo: "Che vuoi? lo esigeva l'onore;non posso biasimare un fratello!"» Riportato alla

speranza dalla sua devozione per la MadonnaGiulio spronò il cavallo e inqualche ora giunse dov'era accantonata la

sua compagnia. La trovò in armi: stavano andando sulla strada che unisceRoma a Napoli attraverso Montecassino. Il

giovane capitano cambiò cavallo e si mise in marcia con i soldati. Quelgiorno non ci furono scontri. Giulio non chiese

neppure perché si erano messi in marcianon gli importava. Nel momento incui si vide alla testa dei suoi soldati

considerò il suo destino da un nuovo punto di vista. «Sono proprio unosciocco» si disse«ho fatto male ad andarmene

da Castro; forse la collera mi ha fatto vedere Elena più colpevole di quantonon sia. Nonon può non esser più mia

quell'anima ingenua e purain cui ho visto nascere le prime sensazioniamorose! La sua passione per me era così58

sincera! Non mi ha proposto decine di volte di fuggire con mepovero comesonoe di andare a farci unire in

matrimonio da un frate di Monte Cavi? A Castroavrei dovutoprima di tuttoottenere un secondo appuntamento e farla

ragionare. Davvero la passione mi rende stordito come un bambino! Dio!perché non ho un amico da cui implorare

consiglio? Giudico un'iniziativa esecrabile e un momento dopo la trovoottima!»

La sera di quel giornomentre lasciavano la strada maestra per rientrarenella forestaGiulio si avvicinò al

principe e gli chiese se poteva rimanere ancora qualche giorno nel posto chesapeva.

«Vai al diavolo!» gli gridò Fabrizio«ti sembra il momento che mi occupidi queste bambinate?»

Un'ora dopo Giulio ripartiva per Castro. Vi trovò i suoi uomini; ma nonsapeva come scrivere a Elenadopo

averla lasciata con parole così arroganti. La sua prima lettera dicevasoltanto: «Sarò accolto questa notte?»

«Potete venire»fu la risposta.

Dopo la partenza di GiulioElena si era creduta abbandonata per sempre.Allora aveva sentito tutta la forza del

ragionamento di quel povero giovane infeliceera sua moglie prima che luiavesse la disgrazia di incontrare suo fratello

sul campo di battaglia.

Questa volta Giulio non fu accolto da quelle espressioni cerimoniose che glierano parse tanto crudeli durante il

primo colloquio. Elena però si fece vedere solo al riparo dell'inferriata;ma tremava esiccome Giulio aveva un tono

riservato e si rivolgeva a lei come a un estraneatoccò a Elena sentirequanto sia crudele quel tono quasi ufficiale

quando sostituisce quello della più dolce intimità. Giulioche avevasoprattutto paura di venir ferito dalla freddezza

delle parole che Elena poteva lasciarsi sfuggiresi esprimeva come unavvocato per provare che essa era sua moglie

molto prima del fatale combattimento dei Ciampi. Elena lo lasciava parlareperché temeva di scoppiare in lacrime se

non si fosse limitata a rispondergli con brevi frasi. Alla fineaccorgendosiche stava per tradirsigli fece promettere di

tornare il giorno dopo. Quella nottevigilia di una grande festasi cantavail mattutino di buon'ora: e loro potevano

essere scoperti. Giulioche ragionava da innamoratouscì dal giardinomolto pensieroso: non riusciva a rendersi conto

con certezza se fosse stato accolto bene o male; e siccome le idee militariispirate dalle conversazioni con i compagni

cominciavano a radicarglisi in testa: «Un giorno» disse fra sé«bisognerà forse decidersi a rapire Elena.» E si mise a

esaminare le maniere di penetrare a viva forza nel giardino. Il conventocheera molto ricco e ricattabileaveva

assoldato numerosi servitori in gran parte ex soldati; erano stati alloggiatiin una specie di caserma le cui finestre munite

di inferriate davano sullo stretto passaggio chedalla porta esterna delconventoaperta in un muro nero alto più di

ottanta piediconduceva alla porta interna custodita dalla suora guardiana.Sulla sinistra di questo stretto passaggio c'era

la caserma e a destra il muro del giardinoalto trenta piedi. La facciatadel conventosulla piazzaera un muro rustico

annerito dal tempole cui uniche aperture erano la porta e una finestrellada cui i soldati vedevano fuori. È facile

immaginare che aria triste avesse quel grande muro scuro forato solo da unaporta rinforzata da strisce di lamiera fissate

con enormi chiodi e da un'unica finestrella di quattro piedi di altezza perdiciotto pollici di lunghezza.

Non seguiremo l'autore del manoscritto originale nel lungo racconto deisuccessivi colloqui tra Giulio e Elena.

Il tono dei due amanti era ridivenuto intimoproprio come un tempo nelgiardino di Albano; solo che Elena non aveva

mai acconsentito a scendere in giardino. Una notteGiulio la trovò tuttapensierosa: sua madre era venuta a trovarla da

Roma e si sarebbe fermata per qualche giorno nel convento. Sua madre eracosì affettuosaaveva sempre avuto delicate

attenzioni per i sentimenti segreti della figliache questa provava ungrande rimorso a doverla ingannare; infatticome

avrebbe mai potuto dirle che si incontrava con l'uccisore di suo figlio?Elena finì per confessare con franchezza a Giulio

chese quella buona madre le avesse rivolto precise domandeessa nonavrebbe avuto la forza di mentirle. Giulio capì

di essere in pericolo; la sua sorte dipendeva da una frase che il caso potevasuggerire alla signora di Campireali. La

notte seguente parlò in tono risoluto:

«Domani verrò più prestostaccherò una sbarra di questa inferriatavoiscenderete in giardinovi porterò in

una chiesa della città dove un prete fidato ci sposerà. Prima di giornosarete di nuovo qui in giardino. Una volta mia

moglienon avrò più timoreese vostra madre lo esigein espiazionedella terribile disgrazia che tutti deploriamo

accetterò tuttoanche di passare molti mesi senza vedervi.»

Siccome Elena sembrava costernata per quella propostaGiulio aggiunse:

«Devo tornare dal principe; l'onore e molte altre ragioni mi costringono apartire. Solo ciò che vi propongo può

garantire il nostro avvenire; se non acconsentitesepariamoci per semprequiin questo momento. Partirò col rimorso di

essere stato imprudente. Ho creduto alla vostra parola d'onoreoravoi mancate al giuramento più sacroe io spero che

col tempo il giusto disprezzo ispiratomi dalla vostra leggerezza potràguarirmi di quest'amore che da troppo tempo mi

rende infelice.»

Elena scoppiò in lacrime:

«Mio Dio» esclamava piangendo«che orrore per mia madre!»

Alla fine accettò la proposta.

«Ma» aggiunse«possono scoprirci all'andata o al ritornopensate chescandalopensate in che spaventosa

situazione verrà a trovarsi mia madre; aspettiamo la sua partenzache saràtra qualche giorno.»

«Siete arrivata a farmi dubitare della cosa per me più sacrosanta: lafiducia nella vostra parola. Domani sera

saremo sposatioppure questa è l'ultima volta che ci vediamoal di quadella tomba.»

La povera Elena poté rispondere solo col piantola straziava soprattutto iltono deciso e spietato di Giulio. Si

era dunque proprio meritata il suo disprezzo? Era quello l'amante un tempocosì dolce e tenero? Finalmente acconsentì a

quanto le veniva ordinato. Giulio si allontanò. Da quel momento Elena attesela notte seguente in un susseguirsi di

terribili ansie. Se avesse dovuto prepararsi a una morte certail suo doloresarebbe stato meno cocenteavrebbe potuto59

trovare un po' di coraggio pensando all'amore di Giulio e al tenero affettodella madre. Passò il resto della notte

nell'indecisione più atroce. C'erano momenti in cui avrebbe voluto dir tuttoalla madre. Il giorno dopo era tanto pallida

che essavedendoladimenticò tutti i suoi saggi propositi e si gettònelle braccia della figlia esclamando:

«Che succede? Dio miodimmi che cosa hai fattoo che cosa stai per fare?Se tu prendessi un pugnale e me lo

affondassi nel cuoremi faresti soffrire meno di quanto soffro per il tuosilenzio con me.»

Elena capì che la madremanifestandole tanta tenerezza non esagerava i suoisentimentianzi cercava di

moderarne l'espressionee questo la commosse; cadde in ginocchio davanti alei. E quando la madrecercando di

carpirle il fatale segretole rimproverò di evitarlaElena le rispose cheil giorno dopo e tutti gli altri giornile sarebbe

stata vicinoma la scongiurò di non chiederle altro.

A questa frase imprudente seguì presto una confessione completa. La signoradi Campireali inorridì sentendo

che l'assassino di suo figlio era così vicino. Ma dopo quel dolore provòuna vivissima e purissima gioia. Chi potrebbe

immaginare la sua estasi quando seppe che la figlia non era mai venuta menoai suoi doveri?

Subito i progetti di quella madre prudente cambiarono totalmente; essacredette lecito ricorrere all'astuzia nei

confronti di un uomo che non era niente per lei. Il cuore di Elena erastraziato dagli impeti di passione più crudeli: la

confessione fu quanto è possibile sincera; quell'anima tormentata sentiva ilbisogno di sfogarsi. La signora di

Campirealicheormaiaveva abbandonato ogni prudenzainventò una sfilzadi ragionamentitroppo lunga da riferire.

Senza fatica dimostrò all'infelice figlia che invece di un matrimonioclandestinoche è pur sempre una macchia nella

vita di una donnaavrebbe avuto un dignitosissimo matrimonio pubblicosesolo avesse accettato di rimandare di otto

giorni l'atto di obbedienza che doveva al suo generoso amante.

Intanto leila signora di Campirealisarebbe partita per Roma;avrebbe spiegato al marito che molto prima del

fatale combattimento dei CiampiElena si era sposata con Giulio. Lacerimonia era avvenuta la notte stessa in cui

travestita con una tonaca da frateaveva incontrato il padre e il fratellosulle rive del lagosul sentiero tagliato nella

roccia lungo il muro del convento dei Cappuccini. La madre non perse d'occhiola figlia per tutto il giorno efinalmente

verso seraElena scrisse al suo amante una lettera ingenuaesecondo noimolto commoventein cui gli raccontava le

lotte che le avevano lacerato il cuore. Essa concludeva chiedendogli inginocchio una proroga di otto giorni:

«Scrivendoti» aggiungeva«questa lettera che affiderò a un messaggerodi mia madremi sembra di aver sbagliato a

dirle tutto. Mi par di vederti iratoi tuoi occhi mi guardano con odio; hoil cuore straziato dai più crudeli rimorsi. Dirai

che ho un carattere debolepusillanimespregevole; te lo confessoangelomio. Ma immaginati la scena: mia madrein

lacrimeera quasi ai miei ginocchi. È stato impossibile per me non dirlequale ragione mi impediva di acconsentire alla

sua richiesta; euna volta commessa la debolezza di pronunciar quella fraseimprudentenon so che cosa mi sia

successoma non ho potuto fare a meno di raccontarle quel che è avvenutotra noi. Come se la mia animapriva di

forzaavesse bisogno di un consiglio. Speravo di trovarlo nelle parole diuna madre... Ho troppo presto dimenticato

amico mioche l'interesse di quella madre tanto amata era contrario al tuo.Ho dimenticato il mio primo dovere che è

quello di obbedirtie mi sembra di non esser capace di quell'amore che sasuperare ogni prova. DisprezzamiGiulio

mioma in nome di Diocontinua ad amarmi. Portami via se vuoima rendimigiustizia in questo: se mia madre non si

fosse trovata nel conventoi più spaventosi pericolila vergogna stessaniente al mondo mi avrebbe impedito di

obbedire ai tuoi ordini. Ma mia madre è così buona! Così perspicacecosìgenerosa! Ricordati quello che ti ho

raccontato tempo fa; quando mio padre fece irruzione nella mia cameraessamise in salvo tutte le lettere che io non

avevo più modo di nascondere; poipassato il pericolome le rese senzaleggerle e senza aggiungere una sola parola di

rimprovero! Ebbene! essa si è sempre comportata con me come in quel momentosupremo. Capisci quanto dovrei

amarlaeppure mentre ti scrivo (che cosa orribile!) mi sembra di odiarla. Hadichiarato che per via del caldo voleva

passare la notte sotto una tenda in giardino; sento i colpi di martellostanno alzando la tenda in questo momento; non

possiamo vederci stanotte. Temo che persino il dormitorio delle educandevenga chiuso a chiavee anche le due porte

della scala a chiocciolacome non succede mai. Queste precauzioni mirenderebbero impossibile scendere in giardino

quand'anche pensassi che questa iniziativa scongiurasse la tua collera. Ah!Come mi abbandonerei a te in questo

momentose potessi! Come correrei nella chiesa dove ci dovevamo sposare.»

La lettera finiva con due pagine di frasi deliranti e di ragionamentiappassionatiche sembrano ispirarsi alla

filosofia platonica. Ho eliminato molte espressioni ricercate di questo tiponella lettera che ho appena tradotto.

Giulio Branciforte fu molto stupito di riceverla circa un'ora prima dell'AveMaria della sera. Si era appena

messo d'accordo col prete. Ebbe un moto di rabbia. «Non ho bisogno del suoconsiglio per rapirla: creatura debole e

pusillanime!» E subito partì per la foresta della Faggiola.

Ecco invece la posizione della signora di Campireali: il marito stavamorendo: l'impossibilità di vendicarsi di

Branciforte lo portava lentamente alla tomba. Invano aveva offertoconsiderevoli somme ad alcuni bravi romani;

nessuno di loro aveva voluto affrontare uno dei caporalicome dicevanodelprincipe Colonna: erano troppo sicuri di

venire sterminati con tutta la famiglia. Nemmeno un anno prima un interovillaggio era stato incendiato per punire la

morte di un soldato del Colonna e tutti gli abitantiuomini e donnecheavevano cercato di mettersi in salvo nella

campagnaerano stati legati mani e piedi con una corda e gettati nelle casein fiamme.

La signora di Campireali aveva molte terre nel regno di Napolisuomarito le aveva ordinato di far venire di là

degli assassinima lei aveva solo fatto finta di obbedire: credeva la figliairrevocabilmente legata a Giulio Branciforte.

E perciò pensava che Giulio sarebbe dovuto andare a partecipare a una o duecampagne militari nell'esercito spagnolo

che allora combatteva contro i ribelli di Fiandra. Se fosse tornato vivoquesto sarebbe stato segno che Dio non

disapprovava un matrimonio necessario; nel qual caso avrebbe dato alla figliai possedimenti del regno di Napoli;60

Giulio Branciforte avrebbe preso il nome di una di quelle terre e avrebbepassato qualche anno in Spagna con la moglie.

Dopo tutte queste prove essa avrebbe forse trovato il coraggio di vederlo. Matutto aveva cambiato aspetto dopo la

confessione della figlia: il matrimonio non era più necessarioanziementre Elena scriveva all'amante la lettera che

abbiamo tradottola signora di Campireali scriveva a Pescara e aChietiordinando ai suoi intendenti di mandarle a

Castro uomini sicuri e capaci di un colpo di mano. Non nascondeva loro che sitrattava di vendicare la morte di suo

figlio Fabioil loro giovane padrone. Il corriere partì con le lettereprima che finisse il giorno.

V

Tre giorni dopo Giulio era di nuovo a Castroportava con sé otto soldatiche avevano accettato di seguirlo e di

esporsi all'ira del principe che qualche volta aveva punito con la morteimprese come quella che andavano a compiere.

Giulio aveva già cinque uomini a Castroaltri otto arrivarono con luietuttavia quattordici soldatianche se valorosigli

sembravano insufficienti all'impresa perché il convento era come unaroccaforte.

Si trattava di varcare con la forza o con l'astuzia la prima porta delconvento; poi bisognava attraversare un

passaggio lungo più di cinquanta piedi. Nella parete sinistracome abbiamodettosi aprivano le finestre munite di

inferriate di quella specie di caserma dove le suore ospitavano trenta oquaranta servitoriex-soldati. Da quelle finestre

sarebbe partito un fuoco ben nutritonon appena fosse stato dato l'allarme.

La badessa in caricadonna di giudizioaveva paura delle prodezze dei capiOrsinidel principe Colonnadi

Marco Sciarra e di tanti altri che spadroneggiavano nei dintorni. Comeresistere a ottocento uomini risolutiche

occupassero una piccola città come Castro e credessero il convento pienod'oro?

Di solito la Visitazione di Castro aveva quindici o venti bravi nellacaserma a sinistra del corridoio che andava

dalla prima alla seconda porta del conventoa destra c'era un grosso murodove sarebbe stato impossibile far breccia

alla fine del corridoio c'era una porta di ferro che dava in un atrio acolonne; dopo l'atrio c'era il grande cortile e a destra

il giardino. La porta di ferro era sorvegliata dalla suora guardiana.

Quando Giulioseguito dagli otto uominifu a tre leghe da Castrosi fermòin una locanda fuori mano per

lasciar passare le ore più calde. Una volta làrivelò il suo progettopoi disegnò sulla sabbia del cortile la pianta del

convento da attaccare.

«Stasera alle nove» disse agli uomini«ceneremo fuori dalla cittàamezzanotte entreremo e troveremo i nostri

cinque compagniche ci aspettano vicino al convento. Uno di loroa cavallofingerà di essere un corriere venuto da

Roma per richiamare la signora di Campireali presso il marito morente.Cercheremo di varcare senza rumore la prima

porta del convento che è quinella parte centrale della caserma» disseindicando la pianta tracciata sulla sabbia. «Se

cominciamo l'attacco dalla prima portai bravi delle suore potrannofacilmente spararci con gli archibugi mentre siamo

su questa piazzetta davanti al conventoo mentre percorriamo lo strettopassaggio che va dalla prima alla seconda porta.

Questa seconda porta è di ferroma io ne ho la chiave.

«Veramente ci sono due enormi spranghe di ferrofissate al muro daun'estremitàchequando sono inserite al

loro postobloccano i due battenti. Ma siccome le due spranghe pesano troppoper essere manovrate dalla suora

guardiananon le ho mai viste inseritepur essendo passato più di diecivolte da quella porta. Spero proprio di passarci

anche stasera senza intoppi. Avrete ormai capito che ho una relazione segretanel convento; il mio scopo è rapire

un'educandanon una suora; non dobbiamo usare le armi se non in casoestremo. Se cominciassimo a combattere prima

di arrivare alla seconda porta quella munita di spranghela suora guardianachiamerebbe di sicuro due vecchi giardinieri

settantenni che abitano dentro il conventoe essi inserirebbero sulla portaquei due bracci di ferro di cui vi ho parlato.

Se ci capiterà questa disgraziadovremoper oltrepassare la portademolire il muroe ci vorranno dieci minuti; ad ogni

modoio andrò per primo verso quella porta. Ho pagato uno dei giardinieri;macome capiretemi son guardato bene

dal parlargli del mio progetto di rapimento. Attraversata la seconda portasi gira a destra e si arriva in giardino; una

volta lìcominceremo a combatteree allora bisognerà far man bassa diquanti ci troveremo davanti. Adoprerete

benintesosolo spade e dagheil minimo colpo di archibugio metterebbe arumore tutta la cittàe potremmo venire

attaccati quando usciamo. Non che non mi senta sicuro ad attraversare questapiccola cittàcon tredici uomini come voi

nessuno certo oserebbe scendere in stradama molti abitanti hanno unarchibugioe sparerebbero dalle finestre. In

questo casoinutile dirlobisognerebbe rasentare i muri. Una volta nelgiardino del conventodirete piano a ogni uomo

che vi vedrete davanti «Sparite» e ucciderete a colpi di dagachiunque non ubbidisca all'istante. Io salirò nel convento

dalla porticina del giardino con gli uomini che avrò a portata di manoedopo tre minuti scenderò con una o due donne

che porteremo a bracciasenza permetter loro di camminare. Subito usciremorapidamente dal convento e dalla città.

Lascerò due di voi vicino alla portaessi spareranno una ventina di colpidi archibugiocon intervalli di un minutoper

spaventare gli abitanti e tenerli lontani. »

Giulio ripeté due volte la spiegazione.

«Avete capito bene?» chiese alla sua gente. «Sarà buio nell'atrioadestra il giardinoa sinistra il cortile; non

dovete sbagliare.»

«Contate su di noi!» esclamarono i soldati.

Poi andarono a bere; il caporale rimase e chiese al capitano il permesso diparlare.

«Niente di più semplice» gli disse«del progetto di Vossignoria. Hogià forzato due conventi in vita mia

questo sarà il terzo; ma siamo in pochi. Se il nemico ci costringe adabbattere il muro per scardinare la seconda portasi61

può supporre che i bravi della caserma non resteranno con le mani inmano durante questa lunga operazione; vi

uccideranno sette o otto uomini a colpi di archibugioe allora potrannoriprenderci la donna mentre usciamo. È proprio

quanto ci è accaduto in un convento vicino a Bologna: ci uccisero cinqueuomininoi ne uccidemmo otto; ma il capitano

non ebbe la donna. Propongo a Vossignoria due cose: conosco quattro contadiniqui dei dintorniche hanno servito

coraggiosamente sotto gli Sciarrae che per uno zecchino si batteranno tuttala notte come leoni. Forse ruberanno

qualche pezzo di argenteria del conventoma a voi non deve importareilpeccato lo fanno loro; voili assoldate per

portar via la donnae basta. La seconda proposta è questa: Ugone è unragazzo istruito e abilissimo; era medico quando

uccise il cognato e si diede alla macchia. Potete mandarlo un'oraprima di nottealla porta del convento; chiederà lavoro

e si presenterà tanto beneda farsi assumere nel corpo di guardia; faràbere i servitori delle monacheed è anche capace

di bagnare la miccia dei loro archibugi.

Per disgraziaGiulio accettò la proposta del caporale; questimentre se neandavasoggiunse:

«Ad attaccare un conventosi incorre nella scomunica maggioreperdi più questo è sotto la diretta protezione

della Madonna. . . »

«Intendo» disse Giulio come risvegliato da quelle parole. «Rimanete conme.»

Il caporale chiuse la porta e ritornò a dire il rosario con Giulio.Pregarono per più di un'ora. A buio si rimisero

in marcia.

Quando suonava la mezzanotteGiulioche era entrato da solo a Castro versole undiciritornò a prendere i

suoi uomini fuori dalla porta della città. Entrò con gli otto soldatiacui si erano aggiunti tre contadini armatili riunì ai

cinque che aveva in cittàe si trovò così alla testa di sedici uomini bendecisi; due si erano vestiti da servitori

indossando grembiuloni di tela nera per nascondere il giacoeberretti senza piume.

A mezzanotte e mezzoGiulioche si era riservato la parte del corrieregiunse al galoppo alla porta del

conventofacendo un gran baccano e gridando che si aprisse senza indugio aun corriere del cardinale. Vide con piacere

che i soldati che gli rispondevano dalla finestrelladi fianco alla primaportaerano mezzi ubriachi. Secondo l'usodette

il suo nome su un pezzo di carta; un soldato andò a portare quel nome allaguardianache aveva la chiave della seconda

porta e doveva svegliare la badessa nelle grandi occasioni. La risposta sifece aspettare tre mortali quarti d'oradurante i

quali Giulio faticò a mantenere in silenzio la banda: alcuni abitanticominciavano persino ad aprire timidamente le

finestrequando giunse la risposta favorevole della badessa. Giulio entrònel corpo di guardia per mezzo di una scala di

cinque o sei piediche i bravi gli tesero dalla finestrellaperchénon volevano scomodarsi ad aprire il portonesalì

seguito dai due soldati vestiti da servitori. Saltando dalla finestra nelcorpo di guardiaincontrò lo sguardo di Ugone;

erano tutti ubriachigrazie a lui. Giulio disse al capo che tre servitori dicasa Campirealiche egli aveva armato come

soldati perché lo scortassero durante il camminoavevano comprato una buonaacquavite e chiedevano di salire per non

rimanere ad annoiarsi da soli sulla piazza; la proposta fu accoltaall'unanimità. Quanto a luiaccompagnato dai suoi due

uominiscese dalla scala chedal corpo di guardiaconduceva nel passaggio.

«Cerca di aprire il portone» disse a Ugone.

Egli intanto si diresse tranquillamente alla porta di ferro. Lìtrovò labrava guardiana la quale gli disse che

essendo passata la mezzanottese lui entrasse nel conventola badessasarebbe costretta a scriverlo al vescovoper cui

lo pregava di consegnare il dispaccio a una suorina mandata apposta aprenderlo. Subito Giulio rispose chenel

trambusto creato dall'imprevista agonia del signore di Campirealiavevaportato solo una lettera di credenziali scritta

dal medicoe avrebbe dato a voce tutti i particolari alla moglie e allafiglia del malatose quelle signore erano ancora

nel conventoe naturalmente alla Madre badessa. La guardiana andò ariferire il messaggio. Vicino alla porta rimase

solo la giovane suora mandata dalla badessa. Giulioparlando e scherzandocon leipassò le mani attraverso le sbarre

della porta esempre ridendocercò di aprirla. La suorache eratimidissimasi spaventò e prese molto male quello

scherzo; allora Giulionon volendo perdere altro tempocommise l'imprudenzadi offrirle una manciata di zecchini

pregandola di aprirgliaggiungendo che era troppo stanco per aspettare.Sapeva di fare una sciocchezzadice il

narratore: col ferro e non con l'oro bisognava agirema egli non ebbe cuoredi farlo: sarebbe stato facile afferrare la

suoranon era neppure a un piede da luial di là della porta. All'offertadegli zecchini la ragazza si allarmò. In seguito

disse che dal modo con cui Giulio le parlavaaveva capito che non era unsemplice corriere: è l'innamorato di una delle

suorepensòche viene per avere un appuntamentoed essa era una creaturadevota. Inorriditasi mise a tirare con tutte

le sue forze la corda di una campanella che era nel cortilee che subitofece un frastuono da svegliare i morti.

«Comincia la guerra» disse Giulio ai suoi uomini«in guardia!»

Prese la chiave epassando il braccio attraverso le sbarre di ferroaprìla portacon gran disperazione della

suorinache cadde in ginocchio e si mise a recitare Avemmarie gridando alsacrilegio. Ancora una volta Giulio avrebbe

dovuto far tacere la ragazzae non ne ebbe il coraggio: fu uno dei suoiuomini ad afferrarla e a metterle una mano sulla

bocca.

Nel medesimo istanteGiulio sentì un colpo di archibugio nel passaggioalle sue spalle. Ugone aveva aperta la

porta esterna; il rimanente dei soldati stava entrando senza far rumorequando uno dei bravi di guardiameno ubriaco

degli altrisi avvicinò all'inferriata di una finestraestupito divedere tante persone nel passaggiointimò loro

bestemmiando di fermarsi. Bisognava non rispondere e continuare ad avanzareverso la porta di ferro; così infatti fecero

i primi soldatima l'ultimo di tuttiche era un contadino reclutato nelpomeriggiosparò un colpo di pistola al domestico

del convento che parlava dalla finestrae l'uccise. Quel colpo di pistolain piena nottee le grida lanciate dagli ubriachi

nel veder cadere il loro compagnosvegliarono quei soldati del convento cheerano a letto e non avevano potuto62

assaggiare il vino di Ugone. Otto o dieci bravi saltarono mezzi nudinel passaggioe si misero a attaccare

vigorosamente i soldati di Branciforte.

Come abbiamo dettoquesto trambusto era cominciato quando Giulio avevaappena aperto la porta di ferro.

Seguito dai due soldatisi precipitò in giardinocorrendo verso laporticina della scala delle educande; ma fu accolto da

cinque o sei colpi di pistola. I due soldati cadderolui fu colpito da unapalla al braccio destro. Quei colpi di pistola

erano stati sparati dagli uomini della signora di Campirealichesecondo i suoi ordinipassavano la notte in giardino

con uno speciale permesso che lei aveva ottenuto dal vescovo. Giulio corse dasolo verso la porticinaa lui ben nota

chedal giardinodava sulla scala delle educande. La scosse come potémaera saldamente chiusa. Cercò i suoi uomini

che però non poterono risponderglistavano morendonel buio profondo siimbatté in tre servitori dei Campireali dai

quali si difese a colpi di daga.

Corse sotto il portico dell'atrioverso la porta di ferroper chiamare isoldati; la trovò chiusa: i due pesanti

bracci di ferro erano stati inseriti e fissati con i lucchetti dai vecchigiardinieri che la campana della suorina aveva

svegliato.

«Sono isolato»pensò Giulio. Lo disse ai suoi uomini; invano tentò difar saltare uno dei lucchetti con la spada:

se ci fosse riuscitoavrebbe tolto una spranga e aperto un battente. Ma laspada si spezzò nell'anello del lucchetto;

proprio in quel momento venne ferito alla spalla da uno dei servitori venutidal giardino; si voltò eaddossato alla porta

di ferrosi vide attaccare da molti uomini. Si difese con la daga; perfortunaessendo buio fittoquasi tutti i colpi di

spada finivano sulla cotta di maglia. Fu dolorosamente ferito a un ginocchio;si gettò sull'uomo che si era spinto in

avanti per colpirlolo uccise con un colpo di daga al visoed ebbe la buonasorte di impossessarsi della sua spada.

Allora pensò di esser salvo e si appostò a sinistra della portadallaparte del cortile. I suoi uominiaccorsispararono

cinque o sei colpi di pistola attraverso le sbarre di ferromettendo in fugai servitori. Solo i lampi degli spari

rischiaravano l'atrio.

«Non sparate dalla mia parte!» gridava Giulio ai suoi uomini.

«Siete proprio in trappola» gli disse il caporale con molto sangue freddoparlandogli attraverso le sbarre;

«abbiamo perduto tre uomini. Ora demoliremo lo stipite della porta dal latoopposto a dove vi trovate; state lontanoci

spareranno addosso; in giardino ci sono nemicivero?»

«Quelle canaglie di servi dei Campireali» disse Giulio.

Stava ancora parlando col caporalequandodiretti sul rumorevennerosparati contro di loro alcuni colpi di

pistolaprovenienti dalla parte dell'atrio che dava sul giardino. Giulio. sirifugiò nella stanzetta della suora guardianaa

sinistra dell'entrata; si rallegrò di trovarvi un fioco lumino che ardevadavanti all'immagine della Madonnalo prese con

precauzioneper non spegnerlo; si accorse tristemente di tremare. Esaminòla ferita al ginocchio che lo faceva soffrire

moltoperdeva sangue in abbondanza.

Guardandosi attornofu molto stupito di riconoscerein una donna svenuta suuna poltrona di legnola piccola

Mariettala fidata cameriera di Elenala scosse con forza.

«Comesignor Giulio!» esclamò essa piangendo«vorreste uccidere lavostra amica Marietta?»

«No davvero; di' a Elena che le chiedo scusa di aver disturbato il suoriposo e che pensi all'Ave Maria di Monte

Cavi. Prendi questo mazzo di fioril'ho colto nel suo giardino di Albanomasi è sporcato di sangue; lavalo prima di

darglielo.»

In quel momento si sentì una scarica di colpi di archibugio nel passaggioibravi delle suore attaccavano gli

uomini di Giulio.

«Dimmi dov'è la chiave della porticina» disse a Marietta.

«Non la vedo; ci sono però le chiavi dei lucchetti che fermano le spranghedella porta. Potrete uscire.»

Giulio prese le chiavi e si precipitò fuori della guardiola.

«Non c'è bisogno di abbattere il muro» disse ai suoi soldati«ho qui lechiavi.»

Seguì un momento di assoluto silenziomentre egli cercava di aprire unlucchetto con una delle chiavi; ma era

la chiave sbagliata e dovette prendere l'altra; finalmenteaprì illucchetto; mentre cominciava a sollevare la sprangafu

colpito quasi a bruciapelo da un colpo di pistola al braccio destro. Subitosentì che quel braccio non gli obbediva.

«Sollevate la spranga» gridò alla sua gente.

Non aveva bisogno di dirlo. Al chiarore dello sparoessi avevano vistol'estremità piegata della spranga ormai

per metà fuori dall'anello della porta. Subito tre o quattro braccia robustesollevarono la spranga; quando fu

completamente uscita dall'anellola lasciarono cadere. Allora fu possibiledischiudere un battente della porta; il caporale

entrò e sussurrò a Giulio:

«Non c'è più niente da faresolo tre o quattro di noi non hanno feritecinque sono morti.»

«Ho perso molto sangue» disse Giulio«mi sento sveniredite loro diportarmi via.»

Mentre Giulio parlava col coraggioso caporalei soldati del corpo di guardiaspararono tre o quattro colpi di

archibugioe il caporale cadde morto. Per fortunaUgone aveva uditol'ordine di Giulio e chiamò per nome due soldati

che sollevarono il capitanochenon ancora svenutocomandò loro ditrasportarlo in fondo al giardinodavanti alla

porticina. Bestemmiandoi soldati obbedirono.

«Cento zecchini a chi apre questa porta!» esclamò Giulio.

Ma essa resistette agli síorzi dei tre uomini furibondi. Un vecchiogiardiniereappostato a una finestra del

secondo pianosparava contro di loro molti colpi di pistola cherischiaravano un po' i loro movimenti.63

Dopo gli inutili sforzi diretti contro la portaGiulio svenne davvero; Ugonedisse ai soldati di affrettarsi a

portar via il capitano. Quanto a luientrò nella guardiolacacciò via lapiccola Mariettaingiungendole con voce

terribile di scappare e di non dire mai chi aveva visto. Prese la paglia dallettoci spezzò sopra qualche sedia e diede

fuoco alla stanza. Quando vide le fiamme alzarsiscappò a gambe levatetrai colpi di archibugio sparati dai bravi del

convento.

Solo a più di centocinquanta passi dalla Visitazione raggiunse il capitanodel tutto svenutoche i soldati

portavano via correndo. Qualche minuto dopo uscivano dalla città. Ugone fecefare una sosta: gli erano rimasti solo

quattro soldati; ne rispedì due in cittàcoll'ordine di sparare un colpodi archibugio ogni cinque minuti.

«Cercate di recuperare i vostri compagni feriti» disse loro«e uscitedalla città prima di giorno; noi

percorreremo il sentiero della Croce Rossa. Se potete appiccare ilfuoco da qualche partenon esitate.»

Quando Giulio riprese conoscenzaerano ormai a tre leghe dalla città e ilsole era già alto sull'orizzonte. Ugone

fece rapporto.

La vostra truppa è ora di cinque uominitre dei quali feriti. I duecontadini superstiti hanno avuto due zecchini

per uno di ricompensa e sono fuggiti: ho mandato nel borgo qui vicino i dueuomini non feriti a cercare un chirurgo.

Il chirurgoun vecchietto tutto tremantearrivò presto in groppa a unmagnifico asino; ma per convincerlo a

venire era stato necessario minacciare di appiccargli il fuoco alla casa. Sidovette fargli bere un po' di acquavite per

metterlo in grado di agiretanta era la sua paura. Finalmente si miseall'opera; disse a Giulio che le sue ferite non

avrebbero avuto conseguenze.

«Quella del ginocchio non è pericolosa» aggiunse«ma rimarrete zoppoper tutta la vitase non state in

assoluto riposo per quindiciventi giorni.»

Quando il chirurgo ebbe bendato i soldati feritiUgonelanciando a Giuliouno sguardo di intesagli dette due

zecchinied egli si profuse in ringraziamenti; poicon la scusa didimostrargli la loro riconoscenzai soldati gli fecero

bere tanta acquavite che finì coll'addormentarsi profondamente. Era quelloche volevano. Lo portarono in un campo

vicino e gli misero in tasca un fagottino con quattro zecchini: era il prezzodel suo asino su cui vennero issati Giulio e

un soldato ferito a una gamba. Andarono tutti a passare le ore più calde inriva a uno stagnotra antichi ruderi; poi

marciarono tutta la notteevitando i rari villaggi lungo la strada efinalmentedue giorni dopoal levar del soleGiulio

portato dai suoi uominisi svegliò nel cuore della foresta della Faggioladentro la capanna di carbonaio che era il suo

quartier generale.

VI

All'indomani del combattimentole suore della Visitazione trovarono conraccapriccio nove cadaveri nel

giardino e nel passaggio che andava dal portone esterno alla porta a sbarredi ferro; otto loro bravi erano feriti. Mai al

convento si era avuto tanta paura: qualche volta si erano uditi distintamentecolpi di archibugio sparati sulla piazzama

mai tanti spari in giardinoall'interno dell'edificio e sotto le finestredelle monache. La faccenda era durata un'ora e

mezzodurante la quale la confusione era arrivata al culminelà dentro. SeGiulio Branciforte fosse stato appena

d'accordo con una suora o un'educandasarebbe riuscito nell'impresa: bastavache qualcuno gli aprisse una delle tante

porte che davano sul giardino; matravolto dall'indignazione e dall'ira perquello che chiamava lo spergiuro della

giovane ElenaGiulio voleva ottenere tutto con la forza. Avrebbe creduto divenir meno al suo compito se avesse

confidato le sue intenzioni a qualcuno che poteva riferirle a Elena. Eppureuna sola parola alla piccola Marietta sarebbe

bastata a garantire il successo; essa avrebbe aperto una delle porte sulgiardinoe sicuramente se un uomo fosse apparso

nel dormitorio del conventocon quel terribile accompagnamento di spari dafuorisarebbe stato obbedito alla lettera.

Al primo colpo di archibugio Elena aveva tremato per la vita del suo amante enon aveva pensato ad altro che a fuggire

con lui.

Come descrivere la sua disperazione quando la piccola Marietta le raccontòdell'orribile ferita che Giulio aveva

al ginocchio e da cui aveva visto uscire tanto sangue? Elena si detestava perla sua viltà e pusillanimità:

«Ho commesso la debolezza di parlare a mia madre e Giulio ha versato il suosangue; poteva perder la vita in

questo sublime assalto per il quale ha contato solo sul suo coraggio.»

I bravi ammessi in parlatorio avevano detto alle suoreavide dinotiziechenella loro vitamai erano stati

testimoni di un coraggio pari a quello del giovane vestito da corriere chedirigeva gli sforzi dei briganti. Tutte quante

ascoltavano quei racconti con interesse vivissimoma è facile immaginarecon quanta passione Elena chiedesse loro

particolari sul giovane capo dei briganti. Dopo i lunghi racconti di costoroe dei vecchi giardinieritestimoni imparziali

le parve di non amare più la madre. Vi fu anche un dialogo piuttosto accesotra quelle due donne che si volevano tanto

bene alla vigilia del combattimento; la signora di Campireali fucolpita nel vedere alcune macchie di sangue sui fiori di

un certo mazzo da cui Elena non si separava neppure un istante.

«Bisogna buttar via quei fiori sporchi di sangue.»

«Ioho fatto versare questo sangue generosoperché ho avuto la debolezzadi confidarmi con voi.»

«Amate ancora l'assassino di vostro fratello?»

«Amo il mio sposo cheper mia eterna sventuraè stato attaccato da miofratello.»

Dopo queste frasi la signora di Campireali e sua figlia non siscambiarono più una parola nei tre giorni che la

signora passò ancora al convento.64

All'indomani della sua partenzaElena riuscì a scappareapprofittandodella confusione che regnava intorno

alle due portedovuta alla presenza di un gran numero di muratori chestavano costruendo nuove fortificazioni. Lei e la

piccola Marietta si erano vestite da operai. Ma gli abitanti di Castrofacevano buona guardia alle porte della città. Elena

trovò molte difficoltà per uscire. Finalmentelo stesso mercante che leaveva recapitato le lettere di Branciforte accettò

di farla passar per sua figlia e di accompagnarla fino a Albanodove poténascondersi presso la sua nutrice cheaiutata

da leiera stata in grado di aprire una piccola bottega. Appena arrivataessa scrisse a Brancifortee la nutrice trovònon

senza faticaun uomo disposto a avventurarsi nella foresta della Faggiolasenza conoscere la parola d'ordine dei soldati

del Colonna.

Il messaggero mandato da Elena tornò dopo tre giornispaventatissimo;primagli era stato impossibile trovare

Brancifortee quando le molte domande che aveva fatto sul conto del capitanoavevano finito col renderlo sospettosi

era visto costretto a fuggire.

«Non c'è dubbioil povero Giulio è morto» si disse Elena«e l'houcciso io! A questo doveva portarlo la mia

sciagurata debolezza e la mia pusillanimità; avrebbe dovuto amare una donnafortela figlia di qualche capitano del

principe Colonna.» La nutrice credette che Elena stesse per morire. Salì alconvento dei Cappucciniconfinante col

sentiero scavato nella rocciadove una volta Fabio e suo padre avevanoincontrato i due amanti in piena notte. La

nutrice parlò a lungo al suo confessoree sotto il suggello del sacramentogli confidò che la giovane Elena di

Campireali voleva raggiungere Giulio Brancifortesuo sposoed era dispostaa offrire alla chiesa del convento una

lampada d'argento del valore di cento piastre spagnole.

«Cento piastre!» rispose il frate furibondo. «E che ne sarà del nostroconventose ci esporremo all'odio del

signore di Campireali? Non centomille piastre ci ha datoper esser andatia prendere il corpo di suo figlio sul campo di

battaglia dei Ciampie anche molta cera.»

A onore del convento va detto che due frati anzianiavendo saputo dove Elenasi rifugiava esattamentescesero

a Albano e andarono a trovarladapprima nell'intento di indurlaper amore oper forzaa prender dimora nel palazzo

paternoben sapendo che sarebbero stati riccamente ricompensati dalla signoradi Campireali. Tutta Albano era stata

messa a rumore dalla fuga di Elena e dalle voci di magnifiche promesse fattedalla madre a chi potesse darle notizie di

lei. Ma i due frati furono così commossi dalla disperazione della poveraElenaper la sorte di Giulio Branciforte che

invece di tradirlaindicando alla madre il luogo dove stava nascostasioffrirono di scortarla fino alla fortezza della

Petrella. Elena e Mariettasempre vestite da operaisi recarono a piedi dinotte vicino a una certa fonte nella foresta

della Faggiolaa una lega da Albano. I frati avevano portato i mulieall'albatutti si misero in cammino diretti alla

Petrella. I fratinotoriamente protetti dal principevenivano salutati conrispetto dai soldati incontrati nella foresta; ma

non era così per i due giovanetti che li accompagnavano: i soldati liguardavano dapprima severamente da vicinopoi

scoppiavano a ridere e si complimentavano coi frati per la grazia dei loromulattieri.

«Zittiempisappiate che eseguiamo un ordine del principe Colonna»rispondevano i frati continuando il

cammino.

Ma la povera Elena era proprio sfortunata; il principe non era alla Petrellae quando tornòtre giorni dopoe le

accordò udienzafu durissimo.

«Perché venite quisignorina? Che cosa significa questa iniziativainconsulta? Le vostre chiacchiere di donna

hanno fatto perire sette uominitra i più coraggiosi che ci fossero inItalia e questo nessuna persona di buon senso ve lo

perdonerà mai. A questo mondo bisogna sapere quello che si vuole.Probabilmente per altri nuovi pettegolezzi Giulio

Branciforte è stato dichiarato sagrilego e condannato a essereattanagliato per due ore con tenaglie roventie poi

bruciato come un ebreoluiuno dei migliori cristiani che io conosca! Comeavrebbero potutosenza qualche infame

chiacchiera da parte vostrainventare l'orribile menzogna che GiulioBranciforte era a Castro il giorno dell'attacco al

convento? Tutti i miei uomini vi diranno che quel giorno egli era quiallaPetrellae che la sera lo mandai a Velletri.»

«Ma è vivo?» gridò Elena per la decima voltasciogliendosi in lacrime.

«Per voi è morto» riprese il principe«non lo rivedrete più. Viconsiglio di tornare nel vostro convento di

Castro; cercate di non commettere più indiscrezioni e lasciate la Petrellaentro un'ora. Soprattutto non dite a nessuno di

avermi vistoo saprò come punirvi.»

La povera Elena rimase profondamente ferita nel vedersi accolta così dalfamoso principe Colonnaper il quale

Giulio aveva il massimo rispettoe che essa amava per amor suo.

Checché ne dicesse il principe Colonnal'iniziativa di Elena non eraaffatto sconsiderata. Se fosse arrivata alla

Petrella tre giorni primavi avrebbe trovato Giulio Branciforte. La feritaal ginocchio gli impediva di camminare e il

principe lo aveva fatto trasportare nel grosso borgo di Avezzanonel regnodi Napoli. Alla prima notizia della terribile

sentenza contro Branciforteottenuta col denaro dal signore di Campirealieche lo dichiarava sacrilego per aver violato

un conventoil principe aveva capito chequalora ci fosse stato bisogno diproteggerlonon avrebbe potuto più contare

sui tre quarti dei suoi uomini. Quello era un peccato contro la Madonnaallacui protezione ognuno di quei briganti

credeva di aver particolare diritto. Se a Roma ci fosse stato un bargellotanto audace da andare a arrestare Giulio

Branciforte nel cuore della foresta della Faggiolaprobabilmente ci sarebberiuscito.

Quando arrivò a AvezzanoGiulio si chiamava Fontanae gli uomini che lotrasportavano furono della

massima discrezione. Di ritorno alla PetrellaannunziaronoaddoloraticheGiulio era morto durante il viaggioe da

quel momento ogni soldato del principe seppe che ci sarebbe stata unapugnalata al cuore per chiunque avesse

pronunciato quel nome fatale.65

Invano quindi Elenaritornata a Albanoscrisse lettere su lettere e spesetutti gli zecchini che avevaper farle

recapitare a Branciforte. I due anziani fratiche erano diventati suoi amiciperché l'eccezionale bellezzadice il cronista

fiorentinoesercita un certo ascendente anche sui cuori induritidall'egoismo e dall'ipocrisia; i due fratidicevamo

avvertirono la povera ragazza che avrebbe tentato invano di far giungere unmessaggio a Branciforte: il Colonna aveva

dichiarato che era morto e certamente Giulio sarebbe ricomparso solo quandoil principe l'avesse voluto. La nutrice

annunciò piangendo a Elena che sua madre aveva ormai scoperto il suo ritiroe aveva dato severissimi ordini perché

venisse portata a viva forza al palazzo Campirealia Albano. Elena capì cheuna volta in quel palazzo la sua prigionia

avrebbe potuto essere di un rigore senza limititanto da esserle vietataassolutamente ogni comunicazione con l'esterno

mentre nel convento di Castro avrebbe avutoper ricevere e mandare letterele stesse facilitazioni di tutte le suore. E

poie questo fu determinantenel giardino di quel convento Giulio avevaversato il suo sangue per lei: avrebbe potuto

rivedere la poltrona della suora guardianadove si era seduto un momento peresaminare il ginocchio ferito; era lì che

egli aveva dato a Marietta il mazzolino macchiato di sangue da cui lei oranon si separava mai. Ritornò dunque

tristemente al convento di Castro e la storia potrebbe finire qui: sarebbemeglio per lei e forse anche per il lettore.

Assisteremoinfattialla lenta degradazione di un'anima forte e generosa.La prudenza e le menzogne con cui cercherà

ossessivamente di salvare le apparenzesecondo le regole del vivere civileprenderanno il posto dei sinceri impulsi di

passioni forti e naturali. A questo punto il cronista romano osservamoltoingenuamente: «Una donnasolo perché ha

messo al mondo una figlia molto bellacrede di esser capace di guidarlanella vitae solo perchéquando aveva sei anni

sapeva dirle: Signorina raddrizzatevi il collettoallorché la figlia hadiciotto anni e lei cinquantaallorché la figlia è

intelligente quanto la madree forse piùquestapresa dalla smania didominaresi crede in diritto di disporre della vita

di lei e persino di ricorrere alle bugie.» Vedremo che fu Vittoria Carafamadre di Elenaa causarecon manovre abili e

sapientemente orchestratela morte della figlia tanto amatadopo averlaresa infelice per dodici annitriste risultato

della smania di dominio.

Prima di morireil signore di Campireali aveva avuto la gioia di vederpubblicata a Roma la sentenza che

condannava Branciforte a esser attanagliato per due ore con ferri roventi neiprincipali crocicchi romanie poi bruciato a

fuoco lento e le ceneri gettate nel Tevere. Gli affreschi del chiostro diSanta Maria Novellaa Firenzeancor oggi

mostrano come si eseguivano quelle crudeli sentenze contro i sacrileghi. Disolitoci volevano moltissime guardie per

impedire al popolo indignato di sostituirsi ai carnefici nel loro compito.Ognuno credeva di esser amico intimo della

Madonna. Il signore di Campireali si era fatto leggere ancora una volta lasentenzapoco prima di morire e aveva

regalato all'avvocato che l'aveva ottenuta la sua bella tenuta tra Albano eil mare. Quell'avvocato se l'era ben meritata.

Branciforte era stato condannato a quell'atroce suppliziosenza che nessuntestimone avesse detto di averlo riconosciuto

sotto le vesti di quel giovanotto vestito da corriereche sembrava dirigerecon tanta autorità le mosse degli assalitori. La

generosa donazione emozionò tutti gli intriganti romani. A corte allorac'era un certo fratoneuomo pieno di esperienza

e capace di tuttopersino di obbligare il papa a dargli il cappellocardinalizio; curava gli affari del principe Colonnae

per via di quel cliente terribile era molto considerato. Quando la signoradi Campireali vide tornare a Castro la figlia

fece chiamare il fratone.

«Reverendosarete generosamente ricompensato se vorrete contribuire al buonesito di un affare molto

semplice che ora vi spiegherò. Tra pochi giornila sentenza che condannaGiulio Branciforte a un supplizio terribile

sarà resa pubblica e esecutiva anche nel regno di Napoli. Vi invitomoltoreverendo padrea leggere questa lettera del

vicerémio lontano parenteche si degna di comunicarmi questa notizia. Inche paese potrà trovare asiloBranciforte?

Farò consegnare al principe 50.000 piastrepregandolo di darletutte o inpartea Giulio Brancifortea condizione che

vada a servire il re di Spagnamio signorecontro i ribelli di Fiandra. Ilviceré darà a Branciforte il brevetto di capitano

eaffinché la sentenza di sacrilegioche spero rendere esecutoria anche inSpagnanon lo ostacoli nella carrieraporterà

il nome di barone Lizzara; è una mia piccola tenuta in Abruzzoche troveròmodocon una finta venditadi far

diventare di sua proprietà. Penso che voireverendo padrenon abbiate maivisto una madre trattare così l'assassino del

figlio. Con 500 piastreavremmo potuto da tempo liberarci di quell'essereodioso; ma non abbiamo voluto metterci in

urto con il Colonna. Degnatevi dunque di fargli notare che il rispetto per isuoi diritti mi costa 60.000 o 80.000 piastre.

Non voglio mai più sentir parlare di quel Brancifortee con questopresentate al principe i miei rispetti.»

Il fratone disse che entro tre giorni sarebbe andato a fare una gitadalle parti di Ostiae la signora di

Campireali gli dette un anello che valeva 1000 piastre.

Alcuni giorni dopoil fratone riapparve a Romae disse alla signoradi Campireali che non aveva comunicato

al principe la sua proposta; ma che entro un mese il giovane Branciforte sisarebbe imbarcato per Barcellonae che essa

avrebbe potuto fargli avereattraverso un banchiere di quella città50.000piastre.

Il principe ebbe molta difficoltà a convincere Giulio; quale che fosse ilpericolo che ormai correva in Italiail

giovane innamorato non poteva risolversi a lasciare il paese. Invano ilprincipe insinuò che la signora di Campireali

poteva morire presto; invano gli promise chedopo tre annisarebbe potutocomunque tornareGiulio piangevama non

acconsentiva. Il principe fu costretto a chiederglielo come un serviziopersonale: Giulio non poteva rifiutare niente

all'amico del padre ma era da Elena soprattutto che voleva prendere ordini.Il principe accondiscese a farle recapitare

una lunga letterae per di piùpermise a Giulio di scriverle dallaFiandraogni mese. Finalmente l'amante disperato si

imbarcò per Barcellona. Tutte le sue lettere furono bruciate dal principeche non voleva che Giulio tornasse mai più in

Italia. Abbiamo dimenticato di dire che il principebenché alieno percarattere da ogni forma di vanitàsi era creduto in

dovere di dire per far andar in porto la trattativadi aver voluto garantirepersonalmente un piccolo capitale di 50.000

piastre all'unico figlio di uno dei più fedeli servitori di casa Colonna.66

La povera Elena era trattata come una principessa nel convento di Castro. Lamorte del padre l'aveva fatta

entrare in possesso di un notevole capitale a cui si aggiunsero ereditàimmense. In occasione di quella morte essa fece

distribuire cinque aune di panno nero a tutti gli abitanti di Castro e deidintorni che dichiararono di voler portare il lutto

per il signore di Campireali. Essa era ancora nei primi giorni di luttostrettoquando una mano del tutto sconosciuta le

consegnò una lettera di Giulio. Sarebbe difficile descrivere la gioia concui quella lettera fu apertae la profonda

tristezza che seguì alla sua lettura. Tuttavia era proprio scritta daGiulioessa l'aveva esaminata con la massima

attenzione. La lettera parlava d'amorema che amoreDio mio! Eppure l'avevaredatta la signora di Campirealidonna

di grande intelletto. Il suo disegno era di cominciare un carteggio con setteo otto lettere d'amore appassionatoe di farle

seguire da altre in cui l'amore si sarebbe a poco a poco spento.

Sorvoleremo su dieci anni di una vita infelice. Elena si credeva dimenticataeppure aveva sdegnosamente

rifiutato gli omaggi dei più distinti giovanotti romani. Però aveva esitatoun istante quando gli avevano parlato del

giovane Ottavio Colonnaprimogenito del famoso Fabrizioche l'aveva accoltacosì male un tempo alla Petrella. Le

sembrava chedovendo per forza scegliere un marito che difendesse i suoipossedimenti nello stato romano e nel regno

di Napolile sarebbe stato meno odioso portare il nome di un uomo che Giulioaveva amato. Se avesse acconsentito a

quel matrimonio avrebbe saputo rapidamente la verità su Giulio Branciforte.Il vecchio principe Fabrizio parlava

spessoe con caloredegli atti di sovrumano coraggio del colonnello Lizzara(Giulio Branciforte) cheproprio come gli

eroi dei vecchi romanzicercava di dimenticare con coraggiose imprese unamore infelice che lo rendeva insensibile a

tutti i piaceri. Credeva Elena sposata da tempo; la signora diCampireali aveva circondato anche lui di menzogne.

Elena si era quasi riconciliata con quell'abile madrechedesiderandoardentemente di vederla sposatapregò

un amicoil vecchio cardinale Santi Quattroprotettore della Visitazioneil quale doveva recarsi a Castrodi

comunicare in segreto alle suore più anziane del conventoche avevaritardato il viaggio per un atto di grazia. Il buon

papa Gregorio XIIImosso a pietà per l'anima di un brigante chiamato GiulioBranciforteche una volta aveva tentato di

violare il loro monasteroaveva volutoappresa la sua morterevocare lasentenza che lo dichiarava sacrilegopersuaso

chesotto il peso di una simile condannaegli non sarebbe mai potuto usciredal purgatoriosempre chesorpreso e

massacrato in Messico da selvaggi ribelliavesse avuto la fortuna diandarci. Quella notizia mise in subbuglio tutto il

convento di Castro; arrivò fino a Elena che allora si abbandonava a tutte lestravaganze della vanità che le grandi

ricchezze possono ispirare a una persona profondamente annoiata di tutto. Daquel momentoessa non uscì più di

camera. Bisogna sapere che per poter usare come camera la guardiola dellaportieradove Giulio si era rifugiato un

istante la notte del combattimentoaveva fatto ricostruire mezzo convento.Con infinite pene e poi con grande scandalo

era riuscita a scoprire e a prendere al suo servizio i tre bravi diBranciforte che erano i soli superstiti dei cinque

scampati al combattimento di Castro. Tra questi c'era Ugoneora vecchio ecrivellato di ferite. La presenza di quei tre

uomini aveva fatto mormorare; ma alla fineil timore che a tutti incuteva ilcarattere altero di Elena aveva avuto la

meglioe tutti i giorni si potevano vedere i trecon la sua livreavenir aprender ordini alla grata esternae spesso

fermarsi a rispondere alle domande di Elena sempre sullo stesso argomento.

Dopo sei mesi di reclusione e di distacco dalle cose del mondoseguitiall'annuncio della morte di Giuliola

prima sensazione che risvegliò quell'anima spezzata da un'irrimediabilesventura e da una lunga noia fu una sensazione

di vanità.

La badessa era morta da poco. Secondo l'usanzail cardinale Santi Quattroancora protettore della Visitazione

benché novantaduenneaveva compilato una lista di tre signore suoretra lequali il papa doveva scegliere la badessa.

Solo per gravissimi motivi Sua Santità avrebbe letto gli ultimi due nomidella listadi solito si limitava a cancellare quei

due nomi con un tratto di pennae la nomina era fatta.

Un giornoElena era alla finestra dell'ex guardioladivenuta l'ala estremadel nuovo fabbricatocostruito dietro

suo ordine. La finestra era a meno di due piedi di altezza da quel passaggioche era stato bagnato dal sangue di Giulio e

che ora faceva parte del giardino. Elenaassortateneva gli occhi fissi aterra. Le tre dame che da qualche ora

figuravano sulla lista del cardinalecome si sapeva per succedere alladefunta badessapassavano sotto quella finestra.

Lei non le videe non poté quindi salutarle. Una delle tre si sentì offesae disse ad alta voce alle altre:

«Bel modo per un'educandaesibire la propria camera agli occhi delpubblico!»

Riscossasi a quelle paroleElena alzò gli occhi e incontrò tre sguardimalevoli. «Ebbene!» pensò chiudendo la

finestra senza salutare«da troppo tempo sono agnello in questo conventodevo farmi luponon fosse altro che per

procurare nuovi divertimenti ai curiosi della città.»

Un'ora dopoun suo servitore fu mandato a portare la seguente lettera allamadre che da dieci anni viveva a

Romadov'era molto stimata.

Madre Rispettabilissima

Tutti gli anni mi dai 300.000 franchi il giorno della mia festa; spendoquesto denaro in stravaganzeonorevoli

certoma pur sempre stravaganze.

Benché tu non ne parli da temposo di avere due modi per provarti la miariconoscenza per tutte le buone

intenzioni che hai avuto nei miei riguardi.

Non mi sposeròma mi farebbe piacere diventare badessa di questo convento;questa idea mi è venuta quando

ho visto che il nostro cardinale Santi Quattro ha messo nella lista dapresentare al Santo Padre il nome di tre suore

nemiche mieper cuiqualunque sia l'elettami aspetto ogni sorta divessazioni. Dai a chi è necessario i soldi destinati67

alla mia festa; facciamo prima di tutto rimandare la nomina di sei mesiquesto farà impazzire di gioia la priora del

conventomia intima amicache ora tiene le redini del comando.

Già questo mi renderà felicee sai quanto raramente si possa usare questaparolaparlando di tua figlia. È

un'idea folle; ma se ci vedi qualche possibilità di successotra tre giorniprenderò il velo biancootto anni in convento

senza aver mai passato una notte fuoridanno diritto a una dispensa di seimesiche non si nega mai e costa quaranta

scudi.

Sono con rispettomia venerabile madreecc.

Questa lettera riempì di gioia la signora di Campireali. Quando laricevé si era già pentita di aver fatto

annunciare alla figlia la morte di Branciforte; non sapeva come si sarebberisolta la profonda malinconia a cui Elena era

in predatemeva un colpo di testaaveva persino paura che la figlia volesseandare in Messico a vedere il luogo dove

dicevano che Branciforte fosse stato massacratoe in questo caso era facileche a Madrid venisse a sapere il vero nome

del colonnello Lizzara. D'altra parte la richiesta contenuta nella letteraera la cosa più difficile e si può dir la più

assurda. Una fanciulla che non era neppure suora e che inoltre era nota perla folle passione che aveva ispirato a un

brigantepassione forse corrispostaesser messa a capo di un monastero dovetutti i principi romani contavano qualche

parente! Mapensò la signora di Campirealisi dice che ogni causapuò esser difesa e quindi vinta. Nella sua risposta

Vittoria Carafa diede qualche speranza alla figlia che di solito aveva voglieassurdema di cuiin compensosi stancava

subito. Nel corso della seratacercando informazioni su tutto ciò chedavicino o da lontanopoteva aver attinenza col

convento di Castroapprese che da molti mesi il suo amico cardinale SantiQuattro era molto irritato: voleva maritare la

nipote a Don Ottavio Colonnaprimogenito del principe Fabriziodi cui si èparlato tanto in questa storia. Il principe gli

proponeva il secondogenitodon Lorenzoperchéper rimettere in sesto ilsuo patrimonioinsolitamente compromesso

dalla guerra che il re di Napoli e il papafinalmente d'accordofacevano aibriganti della Faggiolabisognava che la

moglie del primogenito portasse alla famiglia Colonna una dote di 600.000piastre (3.210.000 franchi). Ebbeneil

cardinale Santi Quattroanche diseredando nel modo più grottesco tutti glialtri parentipoteva offrire solo una fortuna

di 380 o 400.000 scudi.

Vittoria Carafa passò la serata e una parte della notte a farsi confermarequesti fatti da tutti gli amici del

vecchio Santi Quattro. Il giorno dopoalle setteandò a casa del cardinalee si fece annunziare.

«Eminenza» gli disse«siamo entrambi molto vecchinon cerchiamo diingannarci chiamando con bei nomi

cose che non sono affatto belle; vengo a farvi una proposta aberrantetutt'al più potrei dirvi che non è abominevole

anche se la trovo ridicola. Durante le trattative per il matrimonio di donOttavio con mia figlia Elenami sono

affezionata a quel giovane eil giorno delle sue nozzevi consegnerò200.000 piastre in possedimenti o in denaroche

vi pregherei di fargli accettare. Ma perché una povera vedova come me possafare un sacrificio così enormeoccorre

che mia figlia Elenache ha ventisette anni e che dall'età di diciannoveanni non ha mai lasciato il conventodiventi

badessa di Castroper questo bisogna ritardare l'elezione di sei mesi;la cosa è canonica.»

«Che dite maiSignora?» esclamò fuori di sé il vecchio cardinale«neppure Sua Santità potrebbe fare quello

che chiedete a un povero vecchio invalido.»

«Perciò ho detto a Vostra Eminenza che la cosa era ridicola; gli sciocchila troveranno follema la gente

informata di ciò che avviene a corte penserà che il nostro ottimo principeil bravo papa Gregorio XIII abbia voluto

ricompensare i lunghi e leali servizi di Vostra Eminenza facilitando unmatrimonio che ella desideracome sa tutta

Roma. Del resto la cosa è possibilissima e del tutto canonicane rispondoio; mia figlia prenderà il velo bianco fin da

domani.»

«Ma la simoniaSignora!» esclamò il vecchio con voce terribile.

La signora di Campireali stava andandosene.

«Mi lasciate una cartache cos'è?»

«È l'elenco dei possedimenti che offrireidel valore di 200.000 piastrequalora rifiutaste il denaro contante; il

trapasso di proprietà delle terre potrebbe esser tenuto segreto per moltotempo; per esempiola casa Colonna potrebbe

intentarmi processi che io perderei...»

«Ma la simoniaSignora... l'orribile simonia!»

«Bisogna cominciare col rimandare di sei mesi l'elezione; domani verrò aprendere ordini da Vostra

Eminenza.»

Mi sembra opportuno spiegareper i lettori d'oltr'Alpeil tonosemiufficiale di alcune parti di questo dialogo;

ricorderò chenei paesi rigorosamente cattolicila maggior parte deidialoghi scabrosi arrivano prima o poi al

confessionale e allora era tutt'altro che indifferente aver usato frasirispettose o termini ironici.

Il giorno dopoVittoria Carafa seppe cheper via di un grave errorescoperto nell'elenco delle tre signore

proposte per la nomina a badessa di Castrol'elezione veniva rimandata disei mesi: la seconda signora dell'elenco aveva

un rinnegato nella sua famiglia; un suo prozio si era fatto protestante aUdine.

La signora di Campireali giudicò il momento opportuno per tentare unapproccio col principe Colonnaalla cui

casa essa offriva un consistente aumento di patrimonio. Brigò per duegiornial fine di riuscire ad ottenere un colloquio

in un villaggio vicino a Romama uscì agitatissima da quell'incontro: avevatrovato il principedi solito tanto calmo

così infatuato dalla gloria militare del colonnello Lizzara (GiulioBranciforte)che essa ritenne del tutto inutile

chiedergli il segreto su quel punto. Il colonnello era per lui come unfiglioanzi un allievo favorito. Il principe passava68

le giornate a leggere certe lettere giunte dalla Fiandra. Che ne sarebbestato del progetto da lei accarezzato e dei sacrifici

degli ultimi dieci annise la figlia avesse saputo dell'esistenza e dellagloria del colonnello Lizzara?

Credo sia meglio tacere molte circostanze chein veritàdipingono icostumi del tempo ma che sarebbero

troppo tristi da raccontare. L'autore del manoscritto romano si è dato ungran daffare per stabilire con esattezza quei

particolari che io sopprimo.

Due anni dopo il colloquio della signora di Campireali col principeColonnaElena era badessa di Castro; ma il

vecchio cardinale Santi Quattro era morto di dolore dopo quell'atto disimonia. A quel tempoera vescovo di Castro il

più bell'uomo della corte pontificiamonsignor Francesco Cittadininobilemilanese. Quel giovaneche si distingueva

per la sua bellezza e per la sua aria modesta e dignitosafu spesso incontatto con la badessa della Visitazione

soprattutto per via di un nuovo chiostrocon cui essa voleva abbellire ilconvento. Il giovane vescovo Cittadiniallora

ventinovennesi innamorò pazzamente della bella badessa. Nel processoistruito un anno dopoun gran numero di

suorechiamate a testimoniareriferirono che il vescovo moltiplicava levisite al conventoe ripeteva continuamente

alla loro badessa: «Altrove comando emi vergogno a confessarloquesto midà piacere; vicino a voi obbedisco come

uno schiavoma con un piacere molto maggiore di quello che provo comandandoaltrove. Sono sotto l'influsso di un

essere superiorenon potrei avere altra volontà che la suaneppure setentassie preferirei essere per l'eternità l'ultimo

dei suoi schiavipiuttosto che essere re lontano dai suoi occhi.»

I testimoni riferiscono che spesso la badessa lo interrompeva nel bel mezzodi quelle sue eleganti frasi

ordinandogli di tacere in termini duri e sprezzanti.

«A dire il vero» continua un altro testimone«la Signora lo trattavacome un servitore; allora il povero

vescovo abbassava gli occhisi metteva a piangerema non se ne andava.Trovava ogni giorno un nuovo pretesto per

tornare al convento e questo scandalizzava molto i confessori delle suore ele nemiche della badessa. Ma la Signora

badessa era difesa accanitamente dalla priora che era sua intima amica e cheai suoi diretti ordinidirigeva il convento.

«"Sapete benenobili sorelle" diceva questa«chedopo lapassione contrastata della sua prima giovinezza per

un soldato di venturaha sempre avuto idee bizzarrema sapete anche qual èil lato positivo del suo carattere: mai

cambia parere sulle persone per cui ha manifestato disprezzo. Ebbeneforseneppure in tutto il resto della sua vitaha

pronunziato più parole oltraggiose di quante ne abbia rivolte in nostrapresenza al povero Monsignor Cittadini. Ogni

giorno lo vediamo trattato in un modo che ci fa arrossire per il suo altorango.»

«"Sì" rispondevano le suore scandalizzate"ma torna tuttii giorni; dunque non deve esser tanto maltrattatoe

ad ogni modoquesta aria di intrigo nuoce alla reputazione del santo ordinedella Visitazione."»

Il padrone più duro non rivolge al servo più inetto un quarto delleingiurie con cui ogni giorno l'altera badessa

umiliava quel giovane vescovo dalle maniere così dolcima egli erainnamorato e aveva portato con sé dal suo paese la

massima fondamentaleche una volta cominciata un'impresa di questo tipobisogna mirare unicamente allo scopo

senza curarsi dei mezzi.

«In fin dei conti» diceva il vescovo al suo confidenteCesare del Bene«merita disprezzo l'innamorato che

abbandona la lotta prima di esserci costretto da ragioni di forza maggiore.»

Ora sarà mio triste compito fare un riassunto per forza molto scarno delprocesso in seguito al quale Elena

trovò la morte. Gli atti di questo processoche ho letto in una bibliotecadi cui non posso fare il nomenon occupano

meno di otto volumi in-folio. L'interrogatorio e le argomentazioni sono inlatinole risposte in italiano. Vedo scritto che

nel mese di novembre 1572verso le undici di serail giovane vescovo sipresentò da solo alla porta della chiesa dove

hanno accesso di giorno i fedeli; la badessa stessa gli aprìe gli permisedi seguirla. Lo fece entrare in una camera dove

lei stava spesso e cheattraverso una porta segretacomunicava con letribune che dominano le navate della chiesa. Era

passata appena un'ora quando il vescovotutto stupitosi vide congedare; labadessa in persona lo riaccompagnò alla

porta della chiesa con queste parole:

«Ritornate nel vostro palazzo e lasciatemi sola. Addiomonsignoremi fateorrore; mi sembra di essermi data

a un lacchè

Tre mesi dopoera carnevale. Gli abitanti di Castro erano celebri per lefeste che davano in questa occasionela

città risuonava del chiasso delle mascherate. Tutte passavano davanti a unfinestrino che dava luce a una scuderia del

convento. Si sa che tre mesi prima del carnevale quella scuderia venivatrasformata in salotto e che era sempre piena di

gente mascherata. Mentre impazzava il carnevaleil vescovo passò di lì incarrozzala badessa gli fece un cenno e la

notte dopoall'unaegli era davanti alla porta della chiesa. Entròma fumandato viarabbiosamenteappena trascorsi

tre quarti d'ora. Dopo quel primo appuntamentoin novembreegli era andatoal convento ogni otto giorni circa. Il suo

volto aveva un'espressione trionfante e scioccache non sfuggiva a nessunoma che aveva il privilegio di urtare molto il

carattere altero della giovane badessa. Il lunedì di Pasquacome altrevolteessa lo trattò come l'ultimo degli uomini e

gli rivolse parole che il più povero manovale del convento non avrebbesopportato. Eppurequalche giorno dopoa un

suo cennoil bel vescovo si presentò di nuovoa mezzanottealla portadella chiesa; essa lo aveva convocato per

comunicargli che era incinta. A questa notiziasi legge nel processoil belgiovane impallidì di orrore e rimase inebetito

dalla paura. Alla badessa venne la febbre; fece chiamare il medicoa cuinon nascose il suo stato. Quell'uomo

conoscendo la generosità della malatale promise di trarla d'impaccio.Cominciò col metterla in contatto con una

popolana giovane e graziosaesperta come una levatrice. Era la moglie di unfornaio. Elena fu contenta di parlare con

quella donna che le dichiarò cheper realizzare il piano con cui sperava disalvarlala badessa doveva avere due

confidenti nel convento.

«Confidarmi a una come voipassi! Ma a una mia pari! noandatevenesubito.»69

La levatrice se ne andò. Maqualche ora dopoElenatrovando imprudenteesporsi alle sue chiacchierefece

chiamare il medicoche la rimandò al conventodove venne trattata moltogenerosamente. La donna giurò cheanche se

non l'avessero richiamatanon avrebbe mai divulgato il segreto confidatole;ma continuò a ripetere che se non ci fossero

state all'interno del convento due donne pronte a sacrificarsi per la badessae al corrente di tuttolei non se ne sarebbe

occupata. (Probabilmente pensava all'accusa d'infanticidio). Dopo aver alungo riflettutola badessa decise di confidare

il terribile segreto alla Signora Vittoriapriora del conventodella nobilefamiglia dei duchi di C...e alla Signora

Bernardafiglia del marchese P... Essa fece giurar loro sul breviario di nondir parolaneppure davanti al tribunale della

penitenzadi quanto stava per rivelare. Quelle signore si sentironoraggelare dallo spavento. Dichiararono durante

l'interrogatorio chepreoccupate per il carattere altero della badessasiaspettavano la confessione di un delitto. La

badessa disse loro semplicemente e freddamente:

«Ho mancato a tutti i miei doveri: sono incinta.»

Vittoriala prioracommossa e turbata per l'amicizia che da tanti anni lalegava a Elenae non spinta da vana

curiositàesclamò con le lacrime agli occhi:

«Chi è l'imprudente che ha commesso questo delitto?»

«Non l'ho detto neppure al confessoreimmaginate se voglio dirlo a voi!»

Le due monache discussero subito il modo di nascondere il fatale segreto alresto del convento. Decisero

innanzi tutto di trasportare il letto della badessa dalla sua cameranellaparte centrale del conventoalla farmaciache si

trovava nel punto più remoto del monasteroal terzo piano del grandeedificio costruito grazie alla generosità di Elena.

Lìla badessa diede alla luce un maschio. Da tre settimane la moglie delfornaio stava nascosta nell'appartamento della

priora. Mentre la donna si allontanava col bambinorasentando i muri delchiostroil bambino si mise a strillare e la

donnaterrorizzatasi rifugiò in cantina. Un'ora dopola SignoraBernardaaiutata dal medicopoté aprire una porticina

del giardinoe così la moglie del fornaio uscì alla svelta dal convento epoi dalla città. Arrivata in aperta campagna

ancora in preda al panicosi rifugiò in una grotta che aveva scorto percaso tra le rocce. La badessa scrisse a Cesare del

Beneconfidente e primo cameriere del vescovoche corse alla grotta che gliera stata indicata; era a cavallo: prese in

braccio il bambino e partì al galoppo per Montefiascone. Il bambino vennebattezzato nella chiesa di Santa Margherita

col nome di Alessandro. L'ostessa del posto aveva trovato una balia a cuiCesare consegnò otto scudi: molte donne

radunatesi intorno alla chiesa durante la cerimonia del battesimochiesero agran voce al signor Cesare il nome del

padre del bambino.

«È un gran signore di Roma» egli disse loro«che ha abusato di unapovera contadina come voi.»

E scomparve.

VII

Tutto era andato bene fin qui in quell'immenso conventoabitato da più ditrecento donne curiose; nessuno

aveva visto nientenessuno aveva sentito niente. Ma la badessa aveva dato almedico alcune manciate di zecchini

appena coniati dalla zecca di Roma. Il medico diede molte di quelle monetealla moglie del fornaio. La donna era

graziosa e il marito geloso; frugando nel baule di lei egli trovò quellemonete d'oro luccicantiecredendole il prezzo

del suo disonorela obbligòcol coltello alla golaa dire da dovevenivano. Dopo aver un po' tergiversatola donna

confessò la veritàe la pace fu fatta. I due sposi si misero a discuteresu come impiegare una simile somma. La fornaia

voleva pagare alcuni debitima il marito trovò più bello comprare un muloe così fu fatto. Quel mulo fece scandalo nel

vicinatoche conosceva bene la povertà dei due sposi. Tutte le comari dellacittàamiche e nemicheandavanouna

dopo l'altraa chiedere alla moglie del fornaio chi fosse il generoso amanteche le aveva permesso di comprare un mulo.

La donnafurente qualche volta si lasciava scappare la verità. Un giornoche Cesare del Bene era andato a trovare il

bambinoe tornava a riferire la sua visita alla badessaessabenchémalatissimasi trascinò fino alla grata e gli

rimproverò la poca discrezione dei suoi agenti. Intanto anche il vescovo siera ammalato per la paura e aveva scritto a

Milanoai fratelliper raccontar loro l'ingiusta accusa di cui era oggettoesortandoli a correre in suo aiuto. Benché

molto sofferentedecise di lasciare Castromaprima di partirescrissealla badessa:

«Saprete già che tutto quello che abbiamo fatto è di dominio pubblico.Cosìse vi preme salvare non solo la

mia reputazionema forse la mia vitae per evitare uno scandalo ancor piùgrandepotete incolpare Gian Battista

Dolerimorto da qualche giorno; che secon questo mezzo non salverete ilvostro onoreil mio almeno non correrà più

nessun pericolo. »

Il vescovo chiamò don Luigiconfessore del monastero di Castro.

«Consegnate questo» gli disse«nelle mani della Signora badessa.»

Quest'ultimadopo aver letto l'infame bigliettoesclamòdavanti a quantisi trovavano nella stanza:

«Così meritano di esser trattate le vergini folli che preferiscono labellezza del corpo a quella dell'anima

Giunse rapidamente voce di quanto avveniva a Castro alle orecchie delterribile cardinal Farnese (si dimostrava

terribile da qualche annoperché speravanel futuro conclavedi averl'appoggio dei cardinal zelanti). Immediatamente

egli diede l'ordine al podestà di Castro di far arrestare il vescovoCittadini. Tutti i suoi servitoritemendo la questionesi

dettero alla fuga. Solo Cesare del Bene rimase fedele al padrone e giurò chesarebbe morto tra i tormenti piuttosto che

confessare qualcosa che potesse nuocergli. Cittadinivedendosi circondato diguardienel suo palazzoscrisse di nuovo

ai fratelli che arrivarono in tutta fretta da Milano. Lo trovarono detenutonella prigione di Ronciglione.70

Vedo nei primi interrogatori della badessa che ellapur confessando la suacolpanegò di aver avuto rapporti

con monsignore il vescovo; il suo complice era stato Gian Battista Doleriavvocato del convento.

Il 9 settembre 1573Gregorio XIII ordinò che il processo fosse fatto allasvelta e col massimo rigore. Un

giudice penaleun avvocato fiscale e un commissario si recarono a Castro e aRonciglione. Cesare del Beneprimo

cameriere del vescovoconfessa soltanto di aver portato un bambino da unabalia. È interrogato davanti alle Signore

Vittoria e Bernarda. Viene torturato per due giorni di seguitosoffreatrocemente mafedele alla sua parolaconfessa

solo ciò che non può negaree l'avvocato fiscale non può cavargli niente.

Quando è il turno delle Signore Vittoria e Bernardache avevano assistitoalle torture inflitte a Cesareesse

confessano quello che hanno fatto. A tutte le suore viene chiesto il nomedell'autore del criminela maggior parte di

esse rispondono di aver sentito dire che era monsignore il vescovo. Una dellesuore portiere riferisce le parole

oltraggiose che la badessa aveva rivolto al vescovo mettendolo alla portadella chiesa e soggiunge:

«Quando ci si parla con quel tonovuol dire che da molto si fa l'amoreinsieme. Infattimonsignore il vescovo

che di solito veniva notato per la sua aria di sufficienzaerauscendodalla chiesatutto vergognoso.»

Una suorainterrogata davanti agli strumenti di torturarisponde chel'autore del crimine deve essere stato il

gatto perché la badessa lo tiene sempre in braccio e l'accarezza molto.Un'altra suora sostiene che autore del crimine

deve essere il ventoperchéquando tira vento la badessa è felice e dibuon umore; va a godersi il vento su un belvedere

che ha fatto costruire apposta e quando è lì non rifiuta mai i favori chele vengono chiesti. La moglie del fornaiola

baliale comari di Montefiasconespaventate dalle torture inflitte aCesaredicono la verità.

Il giovane vescovo era o si fingeva malato a Ronciglione e questo offrìl'occasione ai fratelliappoggiati dal

credito e dall'influenza della signora di Campirealidi gettarsiripetutamente ai piedi del papae di chiedergli che il

procedimento venisse sospeso fino alla guarigione del vescovo. Al che ilterribile cardinal Farnese aumentò il numero

dei soldati di guardia alla prigione. Non potendosi interrogare il vescovo icommissari cominciavano tutte le sedute

facendo subire nuovi interrogatori alla badessa. Il giorno che la madre leaveva mandato a dire di farsi coraggio e di

continuare a negareessa confessò tutto.

«Perché da principio avete incolpato Gian Battista Doleri?»

«Per pietà della viltà del vescovo; edel restose riesce a salvargli lasua amata vitapotrà aver cura di mio

figlio.»

Dopo la confessionechiusero la badessa in una camera del convento diCastrole cui pareticome la volta

avevano uno spessore di otto piedi; le suore parlavano con terrore di quellasegretachiamata la camera dei frati; la

badessa vi era guardata a vista da tre donne.

Dato che la salute del vescovo era un po' miglioratatrecento sbirriandarono a prelevarlo a Ronciglioneper

trasportarlo in lettigaa Romanella prigione di Corte Savella. Pochigiorni dopoanche le suore furono portate a Roma;

la badessa fu rinchiusa nel monastero di Santa Marta. Le suore accusate eranoquattro: le Signore Vittoria e Bernardala

suora guardiana e la portiera che aveva sentito le parole oltraggiose rivolteal vescovo dalla badessa.

Il vescovo fu interrogato dall'uditore della camera apostolica uno deipersonaggi più importanti dell'ordine

giudiziario della corte pontificia. Fu torturato di nuovo il povero Cesaredel Beneche non solo non confessò nientema

disse cose che addolorarono il pubblico ministeroe questo gli valseun'altra seduta di torture. Un supplizio preliminare

fu inflitto anche alle Signore Vittoria e Bernarda. Il vescovo negava tuttostupidamentema con molto accanimento e

rendeva contofin nei minimi particolaridi quanto aveva fatto nelle tresere che aveva notoriamente passato dalla

badessa.

Finalmente la badessa e il vescovo furono messi a confrontoe benché labadessa dicesse costantemente la

veritàfu sottoposta a tortura. Mentre ripeteva quello chea parte laprima confessioneaveva sempre dettoil vescovo

continuando a recitare la sua partela ingiuriò.

In seguito a molte altre procedurein fondo ragionevolima non scevre diquella crudeltà che troppo spesso

prevaleva nei tribunali italianidopo il regno di Carlo V e di Filippo IIil vescovo fu condannato al carcere perpetuo a

Castel Sant'Angelo; la badessa alla detenzione a vita nel convento di SantaMartadove si trovava. Ma la signora di

Campirealiper salvare la figlia aveva già cominciato a far scavare unpassaggio sotterraneo. Il passaggio iniziava in

una delle cloachemagnifico resto dell'antica Romae doveva finire nelsotterraneo dove venivano deposte le spoglie

mortali delle monache di Santa Marta. Il passaggiolargo all'incirca duepiediaveva pareti di assi per sostenere la terra

ai due latie via via che avanzavaveniva provvisto di una volta formata dadue tavole convergenti come le gambe di

una A maiuscola.

Il sotterraneo era scavato a una trentina di piedi di profondità. La cosapiù importante era farlo nella direzione

giusta; perché continuamentepozzi e fondamenta di antichi edificicostringevano gli operai a deviarlo. Un'altra grave

difficoltà era rappresentata dal materiale di scavodi cui non si sapevache fare; sembra che venisse sparsodurante la

nottenelle vie di Roma. E tutti si stupivano di quella terra cadutapercosì diredal cielo.

Malgrado le forti somme spese dalla signora di Campireali per cercardi salvare la figliail passaggio

sotterraneo sarebbe stato probabilmente scopertosenel 1585non fossevenuto a morire papa Gregorio XIII econ la

sede vacantenon fosse cominciato a regnare il disordine.

Elena si trovava malissimo a Santa Marta; si può immaginare quanto zelomettessero quelle semplici e povere

suorine a tormentare una badessa ricchissima e colpevole di un tale crimine.Aspettava con impazienza il risultato dei

lavori intrapresi dalla madre. Ma improvvisamente fu agitata da insoliteemozioni. Già da sei mesi Fabrizio Colonna

vedendo vacillare la salute di Gregorio XIII e facendo grandi progetti perl'interregnoaveva mandato un suo ufficiale71

da Giulio Branciforteormai notissimo nell'esercito spagnolo col nomecolonnello Lizzara. Lo richiamava in Italia;

Giulio ardeva dal desiderio di rivedere la sua terra. Sbarcò sotto falsonome a Pescaraun piccolo porto dell'Adriatico

in Abruzzoa sud di Chietie attraverso le montagne arrivò alla Petrella.La gioia del principe stupì tutti. Disse a Giulio

che lo aveva mandato a chiamare per fare di lui il suo successore eaffidargli il comando dei suoi soldati. Al che

Branciforte rispose chemilitarmente parlandonon ne valeva più la pena eglielo provò facilmente; se la Spagna

l'avesse voluto davveroin sei mesicon pochi sforziavrebbe annientatotutti i soldati di ventura d'Italia.

«Madopotutto» aggiunse il giovane Branciforte«se voletemioprincipesono pronto a muovermi. Per voi io

sarò sempre il successore del coraggioso Ranuccio ucciso ai Ciampi.»

Prima dell'arrivo di Giulioil principe aveva ordinatocome sapeva far luiche nessunoalla Petrellasi

arrischiasse a parlare di Castro e del processo alla badessa; c'era laprospettiva della pena di mortesenza remissione

per la minima chiacchiera. Nel bel mezzo delle effusioni di amicizia con cuilo accolsechiese a Branciforte di non

andare a Albano senza di luie organizzò il viaggio alla sua maniera: feceoccupare la città da mille uominie mise

un'avanguardia di altri milleduecentosulla strada di Roma. Si puòimmaginare che cosa provò il povero Giulioquando

il principefatto chiamare il vecchio Scottiche era ancora vivonellacasa in cui aveva stabilito il suo quartier generale

lo fece salire nella camera in cui si trovava Branciforte. I due amici sigettarono l'uno nelle braccia dell'altro:

«Oramio povero colonnello» disse a Giulio«aspettati il peggio.»

Dette queste parolesoffiò sulla candela e uscìlasciandoli soli.

Il giorno dopoGiulioche rifiutava di uscire dalla sua cameramandò achiedere al principe il permesso di

tornare alla Petrellae di non incontrarsi con lui per qualche giorno. Mavennero a riferirgli che il principe era

scomparsoinsieme alle sue truppe. Appresadurante la nottela morte diGregorio XIIIaveva dimenticato il suo amico

Giulio e batteva la campagna. Con Giulio erano rimasti solo una trentina diuomini dell'ex compagnia di Ranuccio. Si sa

fin troppo chea quei tempiin periodo di sede vacantele leggi eranolettera mortaognuno sfogava le proprie passioni

e contava solo la forza; per questoprima della fine della giornatailColonna aveva già fatto impiccare più di cinquanta

nemici. In quanto a Giuliobenché avesse meno di quaranta uomini con séosò mettersi sulla strada di Roma.

Tutti i servitori della badessa di Castro le erano rimasti fedeli e abitavanonelle casupole vicino al convento di

Santa Marta. L'agonia di Gregorio XIII era durata più di una settimana; la signoradi Campireali aspettava con

impazienza le giornate di disordini che sarebbero seguite alla morte delpapaper far scavare gli ultimi cinquanta passi

del sotterraneo. Siccome si trattava di attraversare le cantine di molte caseabitateessa temeva di non poter tener

nascosta fino alla fine la sua impresa.

Appena tre giorni dopo l'arrivo di Branciforte alla Petrellai tre ex bravidi Giulio che Elena aveva preso al suo

servizio sembravano ammattiti. Benché tutti sapessero bene che essa erarinchiusa in una segretae vigilata da suore che

la odiavanoUgoneuno dei bravi andò a bussare al convento einsisté stranamente perché gli fosse permesso di vedere

la padronae subito. Fu respinto e messo alla porta. Vi rimasedisperatoesi mise a distribuire un baiocco a ogni

persona addetta al servizio della casache entrava e uscivapronunciandoqueste precise parole:

«Rallegratevi con meè arrivato il signor Branciforteè vivo: ditelo aivostri amici

I due compagni di Ugone continuarono a portargli baiocchi per tutto ilgiornoe a distribuirli anche durante la

notteripetendo sempre le stesse parolefino a che non li ebbero finititutti. Ma continuarono tutti e trea turnoa

rimaner di guardia alla porta del convento di Santa Martarivolgendo aipassanti sempre le stesse parolecon grandi

gesti di saluto:

«E arrivato il signor Giulioecc.»

L'idea di quei buoni servitori ebbe successomeno di trentasei ore dopo cheera stato distribuito il primo

baioccola povera Elenanel fondo della segreta seppe che Giulio eravivo; e fu presa da una specie di frenesia:

«O madre mia» gridava«quanto male mi avete fatto!»

Qualche ora dopola stupefacente notizia le venne confermata dalla piccolaMariettachesacrificando tutti i

suoi oriottenne il permesso di seguire la suora guardiana che portava ilpasto alla prigioniera. Elena le si gettò tra le

braccia piangendo di gioia.

«Tutto questo è molto bello» le disse«ma non rimarrò molto con te.»

«Ma certo!» le disse Marietta«sono sicura che prima che finisca ilconclavela vostra prigionia sarà mutata in

semplice esilio.»

«Ah! amica miarivedere Giulioe rivederlocolpevole come sono!»

Nel cuore della terza nottedopo questo colloquiouna parte del pavimentodella chiesa sprofondò con grande

frastuonotanto che le suore di Santa Marta credettero che tutto il conventosprofondasse. Ci fu un grande scompiglio

tutti gridavano al terremoto. Circa un'ora dopo che era crollato il pavimentodi marmo della chiesala signora di

Campirealipreceduta dai tre bravi al servizio di Elenapenetrònella segretaattraverso il sotterraneo.

«Vittoria! VittoriaSignoragridavano i bravi.»

Elena si spaventò a morte; credette che Giulio fosse con loro. Si rassicuròe il suo volto riprese la consueta

espressione severaquando essi le dissero che c'era solo la signora diCampireali e che Giulio era ancora a Albano

presidiata da lui con molte migliaia di soldati.

Dopo qualche minuto di attesaapparve la signora di Campirealicamminava afaticaappoggiandosi al braccio

del suo scudieroche era vestito da cerimoniacon la spada al fiancomatutto sporco di terra.

«Carissima Elenavengo a salvarti!» esclamò la signora diCampireali.

«E chi vi dice che voglia essere salvata?»72

La signora di Campireali era tutta stupita: guardava la figlia con gliocchi sgranati e appariva agitatissima.

«Ebbenemia carissima Elena» disse finalmente«il destino mi obbliga aconfessarti un'azioneforse molto

naturale dopo le disgrazie che avevano colpito la nostra famigliama di cuimi pento e ti prego di perdonarmi: Giulio...

Branciforte... è vivo...»

«Per questo non voglio vivereproprio perché lui vive.»

Da principiola signora di Campireali non capiva quel che diceva lafigliapoi si mise a supplicarla

affettuosamentema senza ottenere risposta: Elena si era voltata verso ilcrocefisso e pregava senza ascoltarla. Invano

per un'orala signora di Campireali si sforzò di strapparle unaparolao uno sguardo. Alla finespazientitala figlia le

disse:

«Sotto il marmo di questo crocifissonella mia cameretta di Albanoavevonascosto le sue lettere; avreste fatto

meglio a lasciare che mio padre mi pugnalasse! Uscitee lasciatemi un po'd'oro.»

La signora di Campireali voleva continuare a parlare alla figliamalgrado i cenni spaventati che le faceva lo

scudieroma Elena proruppe:

«Lasciatemi almeno libera per un'orami avete avvelenato la vitae oravolete avvelenarmi la morte.»

«Abbiamo ancora due o tre ore di tempospero che ti ricrederai» esclamòla signora di Campireali

scoppiando in lacrime.

E se ne andò attraverso il sotterraneo.

«Ugonerimani con me» disse Elena a uno dei suoi bravi«sei benarmatoragazzo mio? perché forse dovrai

difendermi. Mostrami la dagala spadail pugnale.»

Il vecchio soldato le mostrò le armiperfettamente efficienti.

«Ebbenerimani qui fuoridevo scrivere a Giulio una lunga lettera che gliconsegnerai personalmente; non

voglio che passi per altre maniperché non ho niente per sigillarla. Ma tupotrai leggerla tutta. Intasca le monete d'oro

lasciate da mia madrea me bastano cinquanta zecchinimettili sul letto.»

Dopo queste paroleElena si mise a scrivere.

«Non dubito di temio caro Giuliome ne vado per non morir di dolore trale tue bracciavedendo quale

sarebbe stata la mia felicità senza la colpa di cui mi sono macchiata. Noncredere che abbia mai amato un altro essere al

mondo all'infuori di te; anzidisprezzavo con tutto il cuore l'uomo chefacevo entrare nella mia camera. È stato un

peccato di noiao se si vuoledi libertinaggio. Tieni conto che la miamentemolto indebolita dopo l'inutile tentativo

fatto da me alla Petrelladove il principe che veneravoperché amato datemi aveva ricevuta tanto crudelmentetieni

contodicevoche la mia mentegià tanto indebolitafu assediata dadodici anni di menzogne. Tutto ciò che mi

circondava era falsità e ingannoe lo sapevo. Ricevetti da principio unatrentina di lettere tuepensa con che slancio

aprii le prime! maleggendoleil cuore mi si raggelava. Ne esaminavo lascritturariconoscevo la tua manoma non il

tuo cuore. Questa prima bugia mi ha sconvolta a tal puntoda farmi apriresenza gioia una lettera scritta di tuo pugno!

L'odioso annuncio della tua morte distrusse gli ultimi ricordi felici dellanostra giovinezza. Il mio primo pensierocome

puoi capirefu di andare a vedere e a toccare con le mie mani la spiaggiamessicana dove dicevano che eri stato

massacrato dai selvaggise avessi seguito quel pensiero... adesso saremmofeliciperchéa Madridper quanto

numerose e abili fossero le spie sparse intorno a me da una mano vigilantesarei sicuramente riuscita a interessare tutti

gli animi in cui fosse rimasta ancora un po' di pietà e di bontàeprobabilmente sarei arrivata alla veritàperché già

Giulio miole tue imprese avevano attirato su di te l'attenzione del mondoe forse a Madrid qualcuno sapeva che eri

Branciforte. Vuoi che ti dica che cosa impedì la nostra felicità? Prima ditutto il ricordo dell'atroce e umiliante

accoglienza fattami dal principe alla Petrella; quanti ostacoli immani daaffrontare tra Castro e il Messico! Vedila mia

anima aveva già perso ogni energia. Poi ci fu la tentazione della vanità.Avevo fatto costruire una nuova ala nel

conventoper poter far la mia camera nella stanza della guardianadove tieri rifugiato la notte del combattimento. Un

giornostavo guardando la terra che tutanto tempo prima avevi bagnatopermedel tuo sangue; sentii una frase

sprezzantealzai la testa e vidi delle facce cattiveper vendicarmivolliessere badessa. Mia madreche ti sapeva vivo

compì atti di eroismo per ottenere quella stravagante nomina. La carica dibadessa fu per me solo fonte di guaiavvilì

del tutto il mio animo; provai piacere a esercitare il poterespesso per fardel male agli altri; commisi ingiustizie. Mi

ritrovavoa trent'annivirtuosa agli occhi del mondoriccastimataeppure assolutamente infelice. Allora capitò quel

poveruomoche era estremamente buonoma anche estremamente sciocco. Propriola sua insulsaggine mi fece

sopportare i suoi primi discorsi. Ero così infelice per tutto quello che miera accaduto dopo la tua partenzada non aver

più la forza di resistere alla minima tentazione. Potrò mai confessarti unacosa tanto abominevole? Ma ritengo che a una

morta sia permesso tutto. Quando leggerai queste righei vermi divorerannoquesta pretesa bellezza che avrebbe dovuto

essere solo per te. Devo dire ciò che mi angustia: volevo provare anch'iol'amore carnale come tutte quelle signore

romane; ebbi un pensiero licenziosoma non ho mai potuto concedermi aquell'uomo senza un senso di orrore e di

disgusto che annullava ogni piacere. Ti vedevo sempre vicino a menel nostrogiardino del palazzo di Albanoo quando

la Madonna ti ispirò quel pensiero che sembrava generosoma chedopo miamadreè stato la sciagura della nostra vita.

Non eri minacciosoma tenero e buono come fosti sempremi guardavi; allorami infuriavo con quell'altro uomo e

arrivavo persino a picchiarlo con tutte le mie forze. Ecco tutta la veritàGiulio mionon volevo morire senza dirtelae

pensavo anche che forse parlare con te mi avrebbe tolto l'idea di morire. Oravedo ancor meglio quale gioia avrei

provato nel rivedertise mi fossi mantenuta degna di te Ti ordino di viveree di continuare quella carriera militare che

mi ha dato tanta gioiaquando ho saputo dei tuoi successi. Che cosa sarebbeaccadutogran Dio! se avessi ricevuto le73

tue lettere soprattutto dopo la battaglia di Achenne! Vivie ricordati diRanuccioucciso ai Ciampie di Elena chepur

di non leggere un rimprovero nei tuoi occhiè morta a Santa Marta.»

Dopo aver scrittoElena si avvicinò al vecchio soldato che stava dormendogli sottrasse la dagasenza che se

ne accorgessee poi lo svegliò.

«Ho finito» disse«temo che i miei nemici occupino il sotterraneo.Prestovai a prendere la lettera che è sul

tavolo e consegnala tu stesso a Giuliotu stessohai capito? Daglianche questo fazzolettodigli che l'amo in questo

momentocome l'ho sempre amatosemprehai capito?»

Ugonein piedinon si muoveva.

«Suvai!»

«Signoraavete riflettuto bene? Il signor Giulio vi ama tanto!»

«Anch'io l'amoprendi la lettera e dagliela tu stesso.»

«Che Dio vi benedicasiete così buona!»

Ugone andò e tornò in fretta; trovò Elena morta: aveva la daga nel cuore.

ORIGINE DELLE GRANDEZZE DELLA FAMIGLIA FARNESE

La verità sulla famiglia Farnese? A quanto raccontano certi suoi servitorile si può attribuire un'antica nobiltà e

magnificenza. È innegabile che alcuni personaggi di questa famigliaprimadel pontificato di Paolo IIIvissero quasi da

gran signori e conclusero matrimoni con persone di alto rango: ma l'inizioil fondamento e la causa dello splendore di

cui essa gode attualmentenon sono né le grandi qualità né il valore deisuoi membribensì la graziala bellezza e la

cattiva condotta di una dama appartenente a questa famigliache l'hannoportata così in alto. Ecco la storia. Ranuccio

Farnesegentiluomo romano fornito di un modesto patrimonioebbe fra glialtri tre figli: PierluigiGiulia e Giovanna

detta la Vannozza. Pierluigi sposò Giannetta Gaetano; e da luiprobabilmentenacque Alessandro. Ma alcuni

sostengono che questi fu generato da Giovanni Bozzurogentiluomo napoletanoche ebbe una relazione con la Gaetano.

Alessandro giunse al vertice degli onori e della grandezza. Giulia andòsposa a Giovanni Bozzuto; e Vannozzauna

volta cresciutaa causa della sua grazia e della sua leggiadria fu preda dinumerosi amanti. Fra questi Roderigo

Lenzuolinipote di Callisto III. fratello della madre di Roderigo. Il quale(Roderigo) s'innestò nella casa Borgia e fu

innalzato alla porpora nel 1456. Callisto gli conferì la carica divicecancellierecon una rendita di parecchie migliaia di

scudi e altri pingui benefici; era il più ricco dei cardinali. Egli sidedicò intensamente agli amori; doveva i suoi successi

in parte ai sentimenti che sapeva ispiraree in parte al denaro chedispensava con larghezza per molte giovani

nobildonne romanefra cui Vannozza Farnese; e da lei fu tanto presocomealla paniache abbandonò tutte le altre;

notte e giorno gustava il piacere di possederlacome se fosse la sualegittima moglie; per lei spese allegramente grandi

somme; il denaro e i favori di cui disponeva a corte abbagliarono talmente igenitori di leiche essi non badavanoper

loro grande vergognaa quel che Roderigo faceva con la figlia. Da questarelazione illecita nacquero molti figli

(trascurando quelli che morirono in tenera età): FrancescoCesareGoffredoe Lucreziache il padre fece allevare con

molto fasto e splendore. In quanto ad Alessandrofiglio di Pierluigi e diGiannetta Gaetanonacque nel 1458e da

bambino fu allevato con molta cura. Quando giunse all'adolescenzabenchéstudiasse con molto profitto le lettere

greche e latinesi diede ai piaceri della carne; a vent'annifu messo alservizio del cardinale Roderigoche lo stimava

moltoquale nipote dell'amatissima Vannozza; sicché il giovane divennestraordinariamente insolente e sempre più

depravato. Un giorno fece rapire una giovane e nobile damache andava fuoriRoma in carrozza; la tenne presso di sé

per molti giorni in una sua casettacome se fosse sua moglie. Fu sportaquerela presso il Sovrano Pontefice Innocenzo

VIIIche lo fece rinchiudere nel castello {Sant'Angelo}; in seguitopermezzo del cardinale {Roderigo} e del suo

parente Pietro MarzanoAlessandro fu fatto fuggire dalla prigione; con unacorda potè scendere in strada. Finché questo

papa fu in vitafu abbandonato dalla fortuna. Ma quando il cardinaleRoderigo giunse al papato col nome di Alessandro

VItornò subito a Romadove fu ben accolto dal papa e da sua zia Vannozza.Grazie a leia ventiquattro anni ottenne la

porporasi arricchì dei benefici di grandi rendite (tale è il potere diuna donna!)e si diede più che mai alla crapula e al

vizio. Fu in questo periodo che si sollazzò per molti anni con unanobildonna chiamata Cleria; fu come se fosse la sua

legittima mogliee da lei ebbe due figliuno Pierluigi e l'altra Costanzacui fece fare un ricco matrimonio. Giunto agli

ultimi anni dell'età maturacambiò vita e costumio almeno finse dicambiarli; divenne un uomo di grande saggezza

affabileliberalepieno di sublime spiritualità; nondimeno continuò isuoi amori con Cleria; il segreto fu tale che non ne

derivò nessuno scandalo. Ed ecco il primo passo di questa famiglia versotanta grandezza mediante la prostituzione di

Vannozza Farnesezia di Alessandro. All'età di 67 anninel 1534inseguito alla morte di Clemente VIIIaccedette al

pontificatocol nome di Paolo IIIper voto unanime dei cardinali. Sisbarazzò allora di ogni rispetto umano e fece

assurgere i suoi parenti alle grandezze e agli onori. A Pierluigisuofigliodiede Parma e Piacenza che appartenevano

alla Chiesa; e gli altri figliAlessandro e Ranuccio {li fece} cardinali. Diquesti due Monsignor della Casa ha parlato nel

verso: Alessandro e Ranuccio... Un altrodi nome Oraziodivenne ducadi Castro; a Ottavioche era il primogenito

fece dare in moglie Margherita d'Austriavedova di Alessandro de' Mediciduca di Firenzefiglia naturale

dell'imperatore Carlo V con venticinquemila scudi di dote. Ottavio divenneduca di Parma e di Piacenza; e lo sono stati

e lo sono anche i suoi figli. Alla finequesta famiglia divenne pari aqualunque altra famiglia principesca d'Italia; e tutto

ciò accadde grazie a Vannozza Farneseche ne fu l'origine.