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Denis Diderot

LA RELIGIOSA

 

Introduzionetraduzione e note di Antonio Di Giorgio


Ai miei genitorie aimiei fratellini

Alessandra eFrancesco


La Religieuse[1]

 

Nel 1796 fu dato alle stampe un romanzo che narravala vicenda di una giovaneche tentò invano di protestare contro i voti pronunciati non liberamente: è La religieuse[2]di  Denis Diderot. Giàil titolo è significativoe sottende due impostazioni. Il titoloinfattianticipa che l’autore descriverà due realtà: la canonica - Susanna è monacaprofessa e corista- e la virtù -Susanna è davvero una religiosa[3].Lesposizione è espressa in forma di memoriale. Il romanzo èstato frainteso nel suo contenuto dalla polemica laicista dell’illuminismocui Diderot dedicò se stesso[4].Non si può prendere in esame La Religiosa solo e soltanto nei suoicapitolima deve essere colta tutta l’essenza della narrazione: il rischiosarebbe di fare del romanzo uno strumento di polemicadi cui si è servita laRivoluzione del 1789 svilendone il lirismo. Diderot è un illuministae lapolemica fu suo panetuttavia è lui stesso a chiarire la natura del suoromanzo[5].

 

La protagonista.

 Il caso di Suzanne Simoninla protagonistaattinge ad un fatto realmente accaduto. È stata tentatal’identificazione di Susanna  conuna monaca[6]ma di là da questo riconoscimentoo meglio di questo debito di Diderot allacronacasi deve tener presente che egli prese a cuore il caso della sorellaCatherine Diderot (1719-1746)che liberamente aveva preso i voti[7].

L’arcodi tempo in cui si snodano gli eventi vissuti da Susanna è preciso. A sedicianni e mezzo entra in convento come educandapoi la costringono a rimanere[8]. Nel suo memorialeSusanna descrive l’ipocrisia che ha incontrato inconventoma non generalizzaspendendo non poche parole per elogiare leconsorelle pie ed umili e l’arcidiacono padre Hébertil suo liberatore dalleangherie di madre Cristina. Accanto a luii giovani preti per i quali Susannaimplora Dioe infine  padre Lemoinegrande indagatore dell’animo umanoche la metterà in guardia dallacorruzione della superiora di Sant’Eutropio. Susanna non vuol disonorarel’abito religioso emancandole la vocazionevuole lasciarlo: questo le faonore agli occhi del lettore. È con quello che chiameremmo il “senno dipoi” che Susanna scrivee ciò è essenziale per introdurci nella dinamicadegli avvenimenti che racconterà rivivendoli. Diderot lascia i suoi interventinarrativi inserendoli su un piano specificocostruendoli in esposizioni che laprotagonista dà al suo interlocutoreil marchese di Croismare. Quando Susannascrive è gravemente spossata dai colpi subiti durante la fugaa cui si collegasolo alla fine del  memoriale

Nell’analisidel romanzo si possono cogliere due relazioni: il rapporto tra Susanna e i suoifamiliari e il rapporto tra Susanna e lo stato religioso. Non vi è una solariga di biasimo nel memoriale della Religiosa nei confronti dei suoi genitori[9]vi sono semmai accenti di pietà. Quando la madre la fa partecipe della suaangoscia nel sentire la morte prossimaincapace di salvare la figlia dallosdegno del maritovediamo Susannanella solitudine della sua cameracercaredi capacitarsi del suo destino prestabilito:

“Mi rinchiusi nella mia piccola prigione. Riflettei su quanto miamadre mi disse. Mi inginocchiai. Pregai Dio affinché mi ispirasse. Pregaimolto. Rimasi  incollata col voltoper terra; non si invoca mai la voce del cielose non quando si è risolutiedè raro che ella non ci consigli  diobbedire (cap. IV)”.

Entrata in conventola religiosa viene amorevolmente accoltadalla buona e saggia madre De Moni[10]la sola priora di cui Susanna tessa l’elogioe una delle rare monache devotee pie che incontrò nel suo cammino. Divenuta monaca coristadopo la mortedella saggia priorail capitolo delle religiose elegge superiora suor SantaCristina:

“Suor Santa Cristina succedette alla madre De Moni. Ah signore cheabisso tra l’una e l’altra! Vi ho detto quale donna fu la prima. Questaaveva un carattere infimola mentalità assai ristretta e piena disuperstizioni; aderiva alle novità... prese in avversione tutte le favorite dicolei che l’aveva preceduta e in un momento la casa fu piena di maldicenzed’accuse di calunnie e di persecuzioni[11]...Fui indifferente per non dire di peggio alla nuova superioraper il fatto chela precedente mi voleva bene. Ma non tardai a peggiorare la mia sorte (cap. VIII) ”.

 

Tuttala vicenda che si snoda nel priorato di Suor Santa Cristina è un’eco delgiansenismo[12].

Lavoce narranteche a buon diritto chiameremmo Diderot-Susannadà adito aquanto la cultura raziocinante dell’era  deilumi aveva contro la religione superstiziosa e farisea. Gli intellettualifrancesi attribuirono alla parola religione il senso definito da autoriclassiciquali CiceroneLucrezio e Orazio  vale a dire credenza popolare. Diderotpertantoprende unaposizione precisa nei confronti del rapporto tra stato e chiesa. Nel Dictionnairephilosophique (1764) Voltaire analizza la voce religione in ottoquestioni e nella quarta afferma che “una volta che una religione èlegalmente stabilitain uno statoi tribunali sono tutti occupatinell’impedire che si rinnovi la maggior parte che si facevano in quellareligione prima che venisse pubblicamente ammessa”[13].

IlConcilio di Trentosulla forzatura dello stato religioso così delibera:

“Sottopone il sacro Concilio all’escomunicatione tutti a ciascuno di qualità e conditione si siano... se per qualche modohaveranno forzato alcuna vergine o vedova over altra qual si sia donna contro sua vogliaeccetto nei casi espressi in iuread entrar nemanasteriiover a pigliar l’habito[14]”.

Lastoria di Susannasi conclude dopo l’episodio presso il monastero diSant’Eutropio ad Arpajon. Questa realtà apparentemente serena cela undisordine. Ordre et desordre è il binomio con cui la Religiosa definiscequesta realtà.

Sipotrebbe affrettatamente dire che Susanna è giudice dello stato religiosomaquesto sarebbe lontano dagli intenti di Diderot. La competenza chel’enciclopedista francese ha del cerimoniale monastico è tale da convalidarel’affermazione di sua figlia[15]: si deve tener presentedel restoche difficilmente qualcunoal di là delle muraclaustraliavrebbe potuto conoscere le usanze del chiostro senza avere avuto uncontatto diretto.


Lareligiosa


           

           La risposta del signor marchese di Croismarese mai me ne daràmifornirà le prime  righe di questo scritto. Prima di scrivergliho volutoconoscerlo. È un uomo di mondosi è distinto sotto le armiè anzianovedovoha una figlia e due figli ai quali vuole molto bene e dai quali èadorato. Di nobili nataliè uomo coltointelligentedi umore gaiocon ungusto spiccato per le belle arti. È soprattutto una persona originale. Mi hannofatto l’elogio della sua sensibilitàdel suo senso dell’onoree della suaprobità; e dal vivo interesse che ha dimostrato per il mio affarenonché datutto quello che mi è stato detto di luiho desunto che non mi ero affattocompromessa rivolgendomi a lui. Non c’è però da illudersi che si risolva amutare la mia sorte senza sapere chi sonoed è questo il motivo che mi inducea vincere il mio amor proprio e la mia ritrosia nel cominciare queste memorie incui descrivo una parte delle mie sventurerinunciando ad ogni pretesa di stilecon l’ingenuità dei miei giovani anni e la franchezza del mio carattere.Poiché il mio protettore potrebbe esigerloo potrebbe anche venirmi l’estrodi portarle a termine in un tempo in cui fatti remoti potrebbero non esser piùpresenti alla memoriaho pensato che il riassunto che li concludee laprofonda impressione che me ne resterà finché vivobasteranno a farmeliricordare con esattezza.

 

           Mio padre era avvocato. Aveva sposato mia madre allorché era già in etàalquanto avanzata. Ebbe tre figlie. Possedeva un patrimonio più che sufficienteper accasarle convenientementema per questo occorreva almeno che la suatenerezza fosse equamente suddivisae non mi è certamente possibile fare dilui un simile elogio. Certamente io ero superiore alle mie sorelle perintelligenza e per l’aspettononché per il carattere e le doti chepossedevoma pareva che questo affliggesse i miei genitori. Poiché i vantaggiche la natura e il mio impegno personale mi avevano accordato diventavano per mefonte di dispiacerifin dalla più tenera età ho desiderato assomigliare allesorelle per essere amatavezzeggiatafesteggiata e perdonata come loro. Seavveniva che qualcuno dicesse a mia madre: “Avete delle figlioledeliziose...” mai  il complimentomi riguardava. A volte ero ampiamente vendicata di siffatta ingiustiziama lelodi ricevute mi costavano così care quando restavamo solechel’indifferenzae persino le ingiuriesarebbero state altrettanto gradite:quanto più grande era stato l’interesse che gli estranei mi avevanotestimoniatotanto maggiore era il risentimento dei miei una volta che sen’erano andati. Quante volte ho pianto per non essere nata bruttascioccastupidaorgogliosacon tutti quei difettiinsommaper cui le mie sorellemeritavano la predilezione dei nostri genitori!

           Mi sono chiesta allora da dove provenisse quella stranezza in un padre ein una madre che erano peraltro onestigiusti e devoti. Debbo confessarvelosignore? Alcuni discorsi sfuggiti a mio padreche era violento per naturaincerti impeti di colleral’avere associato alcune circostanze a diversiintervalli di tempotalune mezze parole di vicinichiacchiere di domesticimihanno fatto sospettare una ragione che in parte li scuserebbe. Forse mio padrenutriva qualche dubbio sulla mia nascita; forse ricordavo a mia madre una colpacommessa e l’ingratitudine di un uomo cui aveva dato troppo ascolto: comeposso saperlo? Ma quand’anche i miei sospetti fossero infondaticherischierei nel confidarveli? Voi brucerete questo mio scritto e io vi promettodi bruciare le vostre risposte.

           Dato che eravamo venute al mondo a poca distanza l’una dall’altracrescemmo tutte e tre insieme. Si presentarono dei partiti. La maggiore dellemie sorelle fu chiesta in sposa da un giovane attraente. Era bello ed aveva piùcriterio di quanto la sua giovane età promettesse. Mi accorsi che egli avevaposto l’occhio su di me e intuii che presto lei sarebbe stata soltanto ilpretesto delle sue assiduità. Presentii tutte le afflizioni che una similepreferenza mi avrebbe attirato e misi in guardia mia madre. Fu forse la solacosa nella mia vita che le sia stata graditaed ecco come ne venniricompensata. Quattro giorni dopoo almeno pochi giorni dopomi fu detto cheera stato fissato per me un posto in conventoe fin dal giorno seguente vi fuicondotta. Stavo tanto male a casa mia che quella decisione non mi addoloròaffatto.

            Cosìentrai a Santa Mariail mio primo conventotutta allegra. Nel frattempo ilpretendente di mia sorellanon vedendomi piùmi dimenticòed essi sisposarono. Si chiama K; è notaio ed abita a Corbeile ha un pessimo rapportocon la moglie. La mia seconda sorella andò sposa a un certo signor Bauchonmercante in seterie a Parigiin via Quincampoixe con lui si trova bene.

           Dopo che le mie sorelle furono sistematecredetti che avrebbero pensatoa me e che non avrei tardato a uscire di convento. Avevo allora sedici anni emezzo. Le mie sorelle avevano ricevuto doti abbastanza cospicueed io miripromettevo di esser trattata alla stessa maniera; la mia fantasia siabbandonava a progetti seducenti fino a che fui chiamata in parlatorio. Erapadre Serafinoil direttore spirituale di mia madreed anche il mio. Non glifu quindi difficile spiegarmi il motivo della sua visita: il suo compito eraquello di convincermi a prendere il velo. Mi ribellai a una proposta cosìstrana e gli dichiarai chiaro e tondo che non sentivo nessuna inclinazione perla vita monastica.

           “Tanto peggio” mi disse“perché i vostri genitori si sonospogliati di tutto per le vostre sorelle e non vedo proprio che cosa potrebberofare per voi nelle strettezze in cui sono ridotti a vivere... Riflettetesignorina: dovete entrare per semprein questa casa oppure andarvene in qualcheconvento di provincia dove vi si riceverà per una modica pensione e dal qualeuscirete soltanto alla morte dei vostri genitori che può essere ancoralontana...”

           Mi risentii con molta amarezzaversai fiumi di lacrime. La superiora eragià al corrente di tutto e mi aspettava al ritorno dal parlatorio. Ero indisordine da non poter spiegare. Mi disse:

           “Ma che cosa avetemia cara figliola? [Sapeva meglio di me che cosaavessi.] In che stato siete! Non si è mai vista una disperazione simile allavostra. Mi fate tremare. Avete forse perduto il vostro signor padre o la vostrasignora madre?”

           Fui tentata di risponderle gettandomi tra le sue braccia: “Piacesse aDio!...” ma mi contentai di esclamare: “ahimè! non ho né padrenémadre; sono una sventurata che detestano e che vogliono seppellire viva quidentro.”

            Lasciòche passasse la piena e che tornasse la calma. Le spiegai con maggior chiarezzaciò che mi era stato appena annunciato. Sembrò aver pietà di me; micompianse. Mi incoraggiò a non abbracciare uno stato per il quale non sentivoalcun gusto; mi promise di pregaredi fare le sue rimostranzedi perorare lamia causa. Ohsignorecome sono ipocrite queste superiore di convento! Non neavete idea. In effettiscrisse. Non ignorava quali sarebbero state le risposte.Me le comunicòe soltanto molto tempo dopo imparai a dubitare della sua buonafede. Intanto venne a scadere il termine che mi era stato concesso perchéprendessi una decisioneed ella venne a ricordarmelo con studiata tristezza.Dapprima rimase silenziosapoi lasciò cadere qualche parola di commiserazioneda cui capii il resto. Ci fu un’altra scena di disperazionee poche altre avròda descriverne. Sapersi controllare è la loro grande arte. Poi mi dissee aonor del vero credo che allora piangesse:

           “Allorafigliola miaci state dunque per lasciare! cara figliolanonvi vedremo più!...”

           Aggiunse altre parole che non udii. Ero riversa su una sedia; ora tacevoora singhiozzavorestavo immobile oppure mi alzavomi appoggiavo alla parete oandavo a sfogare il mio dolore sul suo petto. Le cose erano a questo puntoallorché soggiunse:

           “Ma perché non fate una cosa? Statemi ad ascoltare e non andate araccontare che ve l’ho consigliato io; conto su una discrezione assoluta daparte vostra giacché non vorrei per nulla al mondo che mi si dovesserimproverare. Che cosa vi si chiede? Che prendiate il velo? E alloraperchénon lo prendete? Dopo tutto a che cosa vi impegnate? A niente. A restare ancoradue anni con noi. Chi sarà vivo allora? Chi sarà morto? Due sono lunghi...possono avvenire tante cose in due anni...”

           A queste insidiose affermazioni fece seguire tante carezzetantemanifestazioni d’amiciziatante dolci bugie: sapevo dov’eronon sapevodove mi avrebbero condottae così mi lasciai persuadere. Ella dunque scrisse amio padre. La sua lettera era perfetta: ohquanto a questo non si poté far dimeglio. Non vi si taceva niente: né la mia penané il mio dolore o le mieproteste. Vi assicuro che una fanciulla più scaltra di me ne sarebbe statatratta in inganno; tuttavia finiva col dare il mio consenso. E con qualesollecitudine furono fatti i preparativi! Venne stabilito il giornovenneroconfezionati i miei abitigiunse il momento della cerimonia senza cheancoroggiio possa scorgere il minimo intervallo tra tante cose.

           Dimenticavo di dirvi che vidi mio padre e mia madreche non trascurainulla per toccarne il cuoree che li trovai inflessibili.

           Il sermone fu fatto dall’abate Blindottore della Sorbonae lavestizione dal signor vescovo di Alep. Questa cerimonia di per sé non è giàallegrama quel giorno fu più triste. Anche se le monachepiene disollecitudinefossero tutte intorno a me per sostenermiventi volte mi sentiimancare le ginocchia e mi vidi sul punto di cadere sui gradini dell’altare.Non sentivo nientenon vedevo nienteero istupidita. Mi portavanoe ioandavo; mi interrogavano e vi era chi rispondeva per me. Ciononostantequellacrudele cerimonia ebbe fine; tutti se ne andarono ed io rimasi in mezzo al bancoal quale mi avevano aggregata. Le mie compagne mi attorniarono; mi abbracciavanoe si dicevano: “Ma guardatelasorellacom’è bellacome il velo nero farisaltare il candore della sua carnagione! come le sta bene il soggolo! come learrotonda il volto! e come le fa lisce le guance! come l’abito dà rilievoalla sua vita sottile e alle sue braccia!...”

           Io le ascoltavo appena. Ero desolata. E tuttaviadevo ammetterloquandofui sola nella mia cellami ricordai delle loro adulazioni e non potei fare ameno di controllare nel mio piccolo specchio. Mi sembrò che non fossero deltutto fuori luogo.

           Quel giorno alla novizia vengono riserbati onori particolari. Per mefurono addirittura esageratima io non vi fui molto sensibile. Finsero dicredere il contrario e me lo disserobenché fosse chiaro che non era affattovero. La seradopo le preghierela superiora venne nella mia cella:

           “In verità” mi disse dopo avermi osservata per un momento“nonso perché quest’abito vi ripugni tanto; vi sta a meraviglia e voi sieteincantevole; suor Susanna è una bellissima monacatutti vi ameranno di piùper questo. Vediamo un po’camminate. Non vi tenete abbastanza dritta: nondovete stare curva in quel modo...”

           Mi atteggiò la testai piedile manila vitale braccia; fu quasiuna lezione di Marcel sulle grazie monastichegiacché ogni stato ha leproprie. Poi si sedette e mi disse:

           “Va bene cosìma adesso parliamo un po’ seriamente. Ci sono dueanni davanti a voi. I vostri genitori possono cambiar parere; forse voi stessavorrete restare quando vorranno farvi uscire. Ciò non sarebbe impossibile.”

           “Disingannatevisignora!”

           “Siete stata a lungo tra di noima non conoscete ancora la nostravita. Ha le sue penelo ammettoma ha anche le sue dolcezze...”

           Vi sarà facile immaginaresignoretutto quello che poté aggiungere aproposito del mondo e del chiostro. È scritto ovunquee ovunque nella stessamanieragrazie a Dio mi hanno fatto leggere le innumerevoli storie che ireligiosi vanno diffondendo sul loro statoche ben conoscono e che detestanocontro il mondo che amanoche disprezzano e che non conoscono.

           Non starò a descrivervi nei particolari il mio noviziato: ad osservarnetutta l’austeritànon si resisterebbe. Inveceè il tempo più dolce dellavita monastica. Una madre delle novizie è la suora più indulgente che si possatrovare. La sua arte consiste nel nascondervi le spine dello stato; è il corsodi seduzione più abile e sottile che si possa immaginare. È lei che rende piùfitte le tenebre che vi circondanoche vi cullache vi addormentache visottometteche vi suggestiona. La nostra madre si attaccò a me in modoparticolare. Non credo che esista un’animagiovane e senza esperienzaingrado di resistere a quella sua arte funesta. Il mondo ha i suoi precipizimanon penso che vi si arrivi per una china così facile. Se avevo starnutito duevolte di seguitoero dispensata dall’uffiziodal lavorodalla preghiera; micoricavo primami alzavo più tardi: la regola cessava di esistere per me.Immaginatesignoreche vi erano giorni in cui non sospiravo altro che ilmomento di sacrificarmi. Non accade fatto seccante nel mondo senza che se neparli; si ritoccano i fatti verise ne inventano dei falsi: e poi sono lodi anon finire e rendimenti di grazie a Dio che ci preserva da quelle umiliantiavventure.

           Intanto si avvicinava il tempo che avevo affrettato col desiderio. Allorami feci triste. Sentii risvegliarsi e farsi più grandi le ripugnanze. Andavo aconfidarle alla superiora o alla madre delle novizie. Sono donne che sannovendicarsi di tutte le seccature che le provocate. Non crediate infatti che sidivertano della parte ipocrita che debbono recitare e delle sciocchezze che sonocostrette a ripetervi: alla fine diventa così monotono per loro! Ma poi vi siadattanoe tutto per un migliaio di scudi che entra nelle casse del convento.Ecco l’alto scopo per il quale mentono tutta la vita e preparano a giovaniinnocenti una disperazione di quarantadi cinquant’annie forseun’infelicità eterna: giacché è certosignoreche su cento religiose chemuoiono prima dei cinquant’anni ve ne sono giusto cento dannatesenza contarequelle che nel frattempo diventano pazzestupide o furiose.

           Un giorno avvenne che una di queste scappò dalla cella nella quale latenevano rinchiusa. Io la vidi. Ecco l’epoca della mia felicità e della miasventuraa seconda del modosignore  mitratterete. Non ho mai visto niente di più orrido. Era scarmigliataquasisenza l’abitoe si trascinava dietro catene di ferro; aveva gli occhismarriti; si strappava i capelli; si percuoteva il petto con i pugni: correvaurlavarivolgeva a sé e alle altre le più terribili imprecazionicercavadisperatamente una finestra per buttarsi di sotto. Fui presa dal terrore.Tremavo in tutte le membra. Vidi la mia sorte nel destino di quella sventurata esenza indugiodentro di mepresi la mia decisione: sarei morta mille voltepiuttosto che subire quella sorte.

           Intuendo quale effetto quello spettacolo avrebbe prodotto su di mesisentirono in dovere di prevenirlo. Su quella monaca mi furono dette non soquante ridicole menzogne che si contraddicevano fra loro: che era già un po’stramba quando era stata accolta in convento; che aveva avuto un grande spaventoin un momento delicato; che era vittima di visioni; che si credeva in relazionecon gli angeli; che aveva fatto letture perniciose tali da turbarne la mente;che aveva sentito parlare gli innovatori di una morale troppo rigorosa i qualile avevano incusso un tale timore dei giudizi di Dioche la sua mente giàscossa ne era stata sconvolta; che ella non vedeva più che demonil’infernoe voragini di fuoco; che tutte ne erano grandemente rattristate; che un casosimile in convento era assolutamente inauditoe chissà quante altre coseancora. Naturalmente non mi convinsero. Ad ogni istante mi tornava in mente lamia monaca folle ed io mi ripetevo il giuramento di non pronunciare alcun voto.

           E intanto ecco giungere il momento in cui si trattava di dimostrare sesapevo tener fede alla mia parola. Una mattinadopo l’uffiziovidi entrarela superiora nella cella. Aveva una lettera in mano. Il suo volto era atteggiatoa tristezza e abbattimento. Le braccia le pendevano lungo il corpo. Sembrava chela sua mano non avesse la forza di sollevare quella lettera. Mi guardavae isuoi occhi sembravano gonfi di lacrime. Ella tacevaed io pure; aspettava cheparlassi per prima. Ne ebbi la tentazionema mi trattenni. Mi chiese come misentissi; mi disse che l’uffizio quel giorno era stato davvero lungo; che ioavevo tossito un po’; che le sembrava stessi poco bene. Al che risposi: “Nomia cara madre.” Teneva sempre la lettera in quella sua mano penzolanteementre faceva tutte quelle domande la posò sui suoi ginocchi dove in parte eranascosta dalla mano; infinedopo essersi dilungata su qualche domanda aproposito di mio padredi mia madrevedendo che non le chiedevo che cosa fossequella cartami disse: “Ecco una lettera...”

           A queste parolesentii che il mio cuore si turbava e aggiunsi con lavoce spezzata e le labbra tremanti:

           “È di mia madre?”

           “Avete indovinato: prendeteleggete...”

           Mi ripresi un pocoafferrai la letterala lessi dapprima con una certafermezzama via via che andavo avanti nella letturaspaventoindignazionecolleradispettole passioni più diverse si succedevano in me; avevo vocidiverseassumevo espressioni diversefacevo movimenti diversi.  Qualche volta tenevo appena in mano quel foglioa volte lo tenevo comese avessi voluto strapparloo lo stringevo con violenza come se fossi statatentata di appallottolarlo e di buttarlo lontano da me.

           “Ebbenefigliola miache cosa risponderemo a questa?”

           “Signoralo sapete bene.”

           “Ma nonon lo so. Le circostanze sono contrariela vostra famiglia hasubìto delle perdite. Gli affari delle vostre sorelle vanno maletutte e duehanno molti figli. Si sono dissanguati per maritarle e si rovinano persostenerle. È impossibile che vi costituiscano un po’ di dote; avete presol’abito; hanno affrontato delle spese; con questo vostro passo avete suscitatodelle speranze; la voce della vostra professione imminente si è sparsa insocietà. D’altra partepotete sempre contare sul mio appoggio. Non ho maispinto nessuno a scegliere la vita religiosa. Dio soltanto può chiamarci aquesta sceltaed è molto pericoloso mescolare la propria voce alla sua. Non mimetterò mai a parlare al vostro cuorese la grazia è per lui muta. Fino adoggi non ho da rimproverarmi l’infelicità di un’altra personavorreste checominciassi con voifigliola miavoi che mi siete tanto cara? Non ho neppuredimenticato che avete fatto i primi passi obbedendo ai miei suggerimenti e nontollererò che se ne abusi per farvi assumere impegni contrari alla vostravolontà. Perciò vediamo insieme la situazioneconcertiamoci. Volete fareprofessione?”

           “Nosignora.”

           “Non sentite nessuna inclinazione per lo stato religioso?”

           “Nosignora.”

           “Non obbedirete ai vostri genitori?”

           “Nosignora.”

           “Che cosa intendete divenireallora?”

           “Tuttoeccetto monaca. Non voglio esserlonon lo sarò.”

           “Ebbenenon lo sarete; ma cerchiamo di mettere insieme una rispostaper vostra madre...”

           Ci accordammo su alcune idee. Ella scrisse e mi fece leggere la letterache anche quella volta mi parve eccellente.

           Intanto mi fecero parlare con il direttore spirituale della casamimandarono il dottore che aveva tenuto la predica alla vestizionemiraccomandarono alla madre delle novizieincontrai il vescovo d’Alep; dovettisostenere alcune discussioni con delle pie donne che s’immischiavano dei fattimiei senza che le conoscessi. Erano abboccamenti continui con monaci e preti.Venne mio padremi scrissero le mie sorelleper ultima si fece viva mia madre:resistei a tutto. Nel frattempo fu deciso il giorno della professione dei voti;nulla fu trascurato per ottenere il mio consensoma quando si vide che erainutile sollecitarlosi scelse il partito di farne a meno.

           Da quel momento fui rinchiusa nella mia cellami fu imposto il silenziofui isolata da tuttiabbandonata a me stessa. E vidi chiaramente che eranodecisi a disporre di me senza di me. Non volevo pronunciare i voti: questoalmeno era sicuroe tutti i terrori veri o falsi che volevano incutermi dicontinuo non riuscivano a far vacillare la mia decisione. Tuttavia ero in unostato pietoso. Non sapevo quanto potesse duraree se fosse venuto a cessaresapevo ancor meno quello che poteva accadermi. In mezzo a tante incertezzescelsi un partitosignoreche giudicherete come meglio crederete. Non vedevopiù nessunoné la superiorané la madre delle noviziené le mie compagne.Feci avvertire la prima e finsi di adeguarmi alla volontà dei miei genitorimail mio proposito era di far terminare in maniera clamorosa quella persecuzione edi protestare pubblicamente contro la violenza che intendevano usare contro dime. Dissi dunque che erano padroni della mia sorteche avrebbero potutodisporre a loro piacimentoche dal momento che esigevano che facessiprofessionel’avrei fatta. Allora la gioia si diffuse in tutta la casalecarezze ricominciarono con tutte le lusinghe e tutte le seduzioni. “Dio avevaparlato al mio cuore. Nessuna più di me era fatta per lo stato di perfezione.Era impossibile che ciò non accadessetutti se lo erano sempre aspettato. Nonsi adempiono i propri doveri con tanta edificazione e costanzaquando non si èveramente chiamate. La madre delle novizie non aveva mai visto in nessuna dellesue allieve una vocazione più manifesta. Era assai sorpresa dal capriccio chemi era presoma aveva sempre detto alla nostra madre superiora che occorrevatener duro e che sarebbe passato; che le monache migliori avevano avuto di queimomenti; che erano suggerimenti dello spirito maligno il quale raddoppiava isuoi sforzi quando era sul punto di perdere la sua preda; che ormai stavo persfuggirgli; che per me non c’erano più che rose; che gli obblighi della vitamonastica mi sarebbero parsi tanto più sopportabili in quanto me li ero cosìingigantiti; che quell’improvviso appesantimento del giogo era una grazia delcielo che si serviva di tale mezzo per renderlo più leggero...”

           Mi sembrava abbastanza singolare che la stessa cosa potesse venire da Dioe dal diavoloa seconda di come a loro piacesse considerarla. Vi sono moltecircostanze simili in religionee tra coloro che mi hanno consolataalcuni mihanno detto che i miei pensieri erano altrettante istigazioni di Satanaaltriche erano ispirazioni di Dio. Lo stesso male viene o da Dio che ci mette allaprovao dallo spirito maligno che ci tenta.

           Mi comportai con discrezione; ritenni di poter rispondere di me. Vidi miopadre. Mi parlò freddamente. Vidi mia madre. Mi abbracciò. Ricevetti letteredi congratulazioni delle mie sorelle e di molti altri. Seppi che a tenere ilsermone sarebbe stato un certo signor Sorninvicario di Saint-Roch e che ilsignor Thierrycancelliere dell’università avrebbe ricevuto i miei voti.Tutto andò bene sino alla vigilia del gran giornoa parte il fatto che avendosaputo che la cerimonia sarebbe stata clandestinache ci sarebbero statepochissime persone e che la porta della chiesa sarebbe stata aperta soltanto aiparentiper mezzo della suora addetta alla ruota convocai tutte le persone delvicinatoi miei amicile mie amiche; ottenni anche il permesso di scrivere adalcuni dei miei conoscenti. Nessuno si aspettava tutta quell’affluenza digente. Fu necessariolasciarla entraree l’assemblea fu all’incirca quanta ne occorreva  peril mio progetto.

           Ohsignoreche notte fu quella che precedette la cerimonia! Non micoricai affatto e rimasi tutto il tempo seduta sul letto. Invocai l’aiuto diDio: alzavo le mani al cielolo chiamavo a testimone della violenza che miveniva inflitta. Mi raffigurai la parte che dovevo sostenere ai piedidell’altareuna fanciulla che protestava ad alta voce contro un’azione cuisembrava aver acconsentitolo scandalo degli astantila disperazione dellemonacheil furore dei miei genitori. “Ohmio Dioche ne sarà di me?...”Pronunciando queste parole mi sentii mancare e caddi svenuta sul guanciale;quando rinvenni fui presa da un grande brivido. Il tremito mi faceva battere leginocchiabattere i denti rumorosamente. Poim’invase una terribile vampatadi calore. La mia mente si offuscò. Non ricordo né di essermi spogliatanédi essere uscita dalla cella. Tuttavia fui trovata nuda in camicia da nottestesa per terra davanti alla porta della superioraimmobile e quasi senza vita.Queste cose le seppi in seguito. Ero stata riportata nella mia cella e lamattina seguente la superiorala madre delle noviziee quelle che vengonochiamate le assistenti attorniavano il mio letto. Ero molto abbattuta. Mirivolsero alcune domande e si resero conto dalle mie risposte che non eroaffatto consapevole di ciò che era avvenuto. Nessuno me ne parlò. Mi chieserocome stavose persistevo nella mia santa risoluzione e se mi sentivo in gradodi sopportare la fatica della giornata. Risposi di sìe contrariamente ad ogniloro attesa non vi fu nessun mutamento.

           Tutto era stato predisposto fin dal giorno prima. Furono suonate lecampane perché tutti quanti sapessero che si stava per creare un’infelice. Ilcuore mi batté ancora. Mi sembrava che avessero vinto. Vennero a vestirmi con cura: quel giorno è un giorno di gala. Adesso che ricordotutte quelle cerimoniemi sembra che avrebbero avuto qualcosa di solenne e diassai commovente per una giovane innocente che non si fosse sentita portata aduna vocazione diversa.

           Fui condotta in chiesa. Si celebrò la santa messa. Il buon vicario ilquale supponeva in me una rassegnazione che non avevo affattomi tenne un lungosermone in cui non vi era una sola parola che non fosse in contrasto con i mieisentimenti. Era davvero ridicolo tutto quello che mi diceva sulla mia felicitàsulla graziasul mio coraggioil mio zeloil mio fervore e tutti i nobilisentimenti che mi attribuiva. Il contrasto fra il suo elogio e il passo chestavo per compiere mi turbò; ebbi momenti d’incertezzama che durarono poco.Sentii ancor meglio che mi mancava tutto quello che era necessario per essereuna buona monaca.

           Infine giunse il momento terribile. Allorché dovetti entrare nel luogoin cui dovevo pronunciare i votile gambe non mi ressero; due delle miecompagne mi presero sotto le braccia. La mia testa era reclinata su una di loroed esse mi trascinavano a fatica. Non so che cosa accadesse nell’animo deipresentima ciò che vedevano era una giovane vittima morente che si portavaall’altare e da ogni petto sfuggivano sospiri e singhiozzi tra i quali sonocerta che non si udivano quelli di mio padre e di mia madre. Erano tutti inpiedi; alcune giovinette erano salite su delle sedie e stavano aggrappate allesbarre della grata. Aleggiava un profondo silenzio allorché colui chepresiedeva alla mia professione mi disse:

           “Maria Susanna Simoninpromettete di dire la verità?”

           “Lo prometto.”

           “È per vostra libera scelta e di vostra spontanea volontà che sietequi?”

           Risposi: “No.” Ma quelle che mi accompagnavano risposero per me “Sì.”

           “Maria Susanna Simoninpromettete a Dio castitàpovertà eobbedienza?”

           Esitai un momento. Il prete aspettavaed io risposi:

           “Nosignore”

           Ricominciò:

           “Maria Susanna Simoninpromettete a Dio castitàpovertà eobbedienza?”

           Gli risposi con voce più ferma:

           “Nosignore.”

           Si interruppe e mi disse:

           “Figliola miariprendetevied ascoltatemi.”

           “Signore” gli dissi“voi mi chiedete se prometto a Dio castitàpovertà e obbedienza: vi ho sentito bene e vi rispondo di no.”

           E voltandomi poi verso i presenti tra i quali si era levato un granmormoriofeci cenno che volevo parlare; il mormorio cessò e io dissi:

           “Signorie soprattutto voipadre mio e madre miavi chiamo tutti atestimoni...”

           A queste parole una delle suore lasciò cadere il velo della grata e vidiche era inutile proseguire. Le monache mi circondaronomi subissarono dirimproveri; io le ascoltavo senza proferir parola. Fui condotta nella mia celladove fui confinata sottochiave. Quisolaabbandonata alle mie riflessionicominciai a tranquillizzarmi l’animo. Ripensai al passo compiuto e non ne fuiaffatto pentita. Mi resi conto che dopo lo scalpore suscitatoera impossibileche restassi più a lungo in quel luogoe che forse non avrebbero osatorimandarmi in convento. Non sapevo che cosa avrebbero fatto di mema niente misembrava peggiore del farmi monaca contro la mia volontà. Per un periodoalquanto lungo nessuno mi rivolse la parola. Coloro che mi portavano damangiareentravanoposavano il pasto per terra e se ne andavano in silenzio.Dopo un mese mi consegnarono degli abiti secolari. Mi tolsero quelli delconvento. Venne la superiora e mi disse di seguirla. La seguii fino al portoned’ingresso; salii su una carrozza dove trovai mia madresolache miaspettava. Mi sedetti sul sedile davanti a lei e la carrozza partì. Restammoper qualche tempo l’una di fronte all’altra senza proferir parola. Io tenevogli occhi bassi e non osavo guardarla. Non so cosa stesse succedendo dentro dimema d’un tratto mi gettai ai suoi piedi e piegai la testa sulle sueginocchia. Non dicevo parolama singhiozzavo e mi sentivo soffocare. Lei mirespinse duramente. Non mi rialzai. Il sangue cominciò a uscirmi dal naso.Nonostante la sua resistenzale afferrai una mano e inondandola di lacrime e disanguepremendo la bocca su quella manola baciavo e le andavo dicendo:

           “Siete sempre mia madree io sono sempre vostra figlia...”

           Mi rispose respingendomi ancor più rudemente e strappando la sua manodalle mie:

           “Alzatevisciagurataalzatevi.”

           Obbediimi sedetti di nuovo e mi tirai la cuffia sul viso. C’era statatanta autorità e tanta fermezza nel suono della sua voce che sentii il bisognodi nascondermi ai suoi occhi. Le lacrime e il sangue che mi colava dal naso simescolavanomi scendevano lungo le braccia e senza accorgermene ne ero tuttacoperta. Dalle poche parole che dissene dedussi che il suo abito e la suabiancheria si erano macchiati e che la cosa la seccava. Giungemmo a casa dovefui condotta senza indugio in una cameretta che era stata allestita per me.

           Per le scale mi gettai ancora ai suoi ginocchila trattenni per levestima il solo risultato fu di farla voltare verso di me e guardarmi con unmoto sdegnoso della testadella bocca e degli occhiche voi riuscirete aimmaginare meglio di quanto non sappia descrivere.

           Entrai nella mia nuova prigione dove trascorsi sei mesi e inutilmentesollecitai la grazia di parlarledi vedere mio padreo di scrivere loro. Miportavano da mangiaremi servivano. Un domestico mi accompagnava alla messa neigiorni di festapoi mi rinchiudeva di nuovo. Io leggevolavoravopiangevoavolte cantavo; così passavano le mie giornate. Mi sosteneva il sentimentosegreto che la mia sorteper quanto durapotesse cambiare. Ma ormai era decisoche sarei stata monacae lo fui.

           Tanta mancanza di umanitàtanta caparbietà da parte dei miei genitorifinirono col confermarmi ciò che sospettavo sulla mia nascita; non ho maitrovato altro modo per scusarli.

           Mia madre credeva apparentemente che un giorno potessi rimettere indiscussione la divisione dei beniche reclamassi la legittimae intendessi farconsiderare la figlia naturale alla stregua delle figlie legittime. Ma quellache era soltanto una congetturasi trasformò in certezza.

           Mentre ero rinchiusa in casararamente esercitavo le pratiche esterioridella religione: tuttavia permettevano che andassi a confessarmi la vigiliadelle feste solenni. Vi ho già detto che avevo lo stesso direttore spiritualedi mia madre. Gli parlaigli descrissi tutta la durezza del comportamentoadottato nei miei confronti da circa tre anni. Ne era a conoscenza. Ebbi alamentarmi soprattutto di mia madre con amarezza e risentimento. Quel prete eraentrato in religione in età già avanzata e aveva una certa umanità. Mi ascoltòtranquillamente e mi disse:

           “Figliola miacompiangete vostra madrecompiangetela ancor più diquanto non la biasimate. È di animo buono; siate certa che si comporta cosìsuo malgrado.”

           “Suo malgradosignore? E chi può obbligarvela? Non è lei che mi hamesso al mondo? E che differenza c’è tra me e le mie sorelle?”

           “Molta.”

           “Molta! Non vi capisco...”

           Stavo per cominciare un confronto tra me e le mie sorellequando miinterruppe e mi disse:

           “Viaviail difetto dei vostri genitori non è la mancanza di umanità.Cercate di sopportare con pazienza la vostra sortee di farvene almeno unmerito agli occhi di Dio. Vedrò vostra madre e siate certa che per aiutarvi faròricorso a tutto l’ascendente che possiedo sul suo animo.”

           Quel moltache mi aveva rispostofu per me come un lampo diluce: non dubitai più sulla verità di ciò che avevo pensato sulla mianascita.

 

           Il sabato seguenteverso le cinque e mezzo del pomeriggio quando calavala serala domestica addetta al mio serviziosalì da me e mi disse:

           “La signora vostra madre ordina che vi vestiate.”

           Un’ora dopo:

           “La signora vuole che scendiate con me.”

           Trovai alla porta una carrozza sulla quale salii con la domestica e vennia sapere che andavamo dai Foglianti[16]da padre Serafino.

           Ci aspettava. Era solo. La domestica si allontanò ed io entrai nelparlatorio. Mi sedetti inquieta e curiosa di ciò che aveva da dirmi. Ed eccocome mi parlò:

           “Signorinal’enigma la condotta severa dei vostri genitori vi saràspiegata; me ne ha dato il permesso la signora vostra madre. Siete una fanciullaassennataavete intelligenzafermezza di propositi. Avete un’età in cui visi potrebbe confidare un segretoanche se non vi riguardasse. Già molto tempofa ho esortato per la prima volta la vostra signora madre a rivelarvi quello cheadesso state per sapere; non vi si è mai potuta risolvere: è duro per unamadre confessare una colpa grave alla propria creatura. Conoscete il suocarattere; è difficilmente compatibile con quella umiliazione che comporta unasimile confessione. Ha ritenuto di poter farvi fare ciò che volevasenzaricorrervi; si è sbagliata; ne è irritata; oggi decide di seguire il mioconsiglio. È stata lei ad incaricarmi di dirvi che non siete figlia del signorSimonin.”

           Gli risposi senza esitare:

           “Lo sospettavo.”

           “Orasignorinavedeteconsideratesoppesategiudicate voi se lavostra signora madre puòsenza il consensoo anche con il consenso del vostrosignor padreconsiderarvi alla stessa stregua di figlie delle quali non sietela sorella; se può confessare al vostro signor padre un fatto sul quale egli hagià fin troppi sospetti.”

           “Masignorechi è mio padre?”

           “Questosignorinanon mi è stato confidato. Non vi è alcun dubbiosignorina” aggiunse“che le vostre sorelle hanno goduto di incomparabilivantaggi su di voi e che sono state prese tutte le precauzioni possibili eimmaginabiliattraverso i contratti di matrimoniorogitistipulazionifidecommessi ed altri mezziper ridurre a zero la vostra legittimanell’eventualità in cui faceste ricorso alla legge per ottenerla. Se perdetei vostri genitoritroverete ben poca cosa. Se rifiutate di entrare in conventoforse rimpiangerete di non esservi.”

           “È impossibilesignoree io non chiedo nulla.”

           “Voi non sapete che cos’è la faticail dolorel’indigenza...”

           “Conosco almeno il prezzo della libertà e il peso di una condizionealla quale non si è chiamati.”

           “Vi ho detto quanto avevo da dirvi; ora spetta a voisignorinafarele vostre riflessioni.”

           Poi si alzò.

           “Vi pregosignoreancora una domanda.”

           “Chiedete pure ciò che volete.”

           “Le mie sorelle sono a conoscenza di ciò che mi avete rivelato?”

           “Nosignorina.”

           “E come hanno potuto avere il coraggio di spogliare la loro sorella?Giacché loro mi credono tale.”

           “Ahsignorina! l’interessel’interesse! Non avrebbero trovato ibuoni partiti che hanno trovato. Ognuno pensa a se in questo mondoe non viconsiglio di contare su di loro nel caso in cui vi vengano a mancare i vostrigenitori. Potete essere sicura che vi contenderanno fino all’ultimo centesimola piccola parte che dovreste dividere con loro. Hanno molti figlioli; sarà unpretesto ineccepibile per ridurvi alla mendicità. Inoltre non possono più fareniente; sono i mariti che fanno tutto. Se nutrissero qualche sentimento dicommiserazionel’aiuto che vi darebbero all’insaputa dei loro maritidiverrebbe fonte di discordie domestiche. Io non vedo altro che cose del genere:o figli abbandonatio figlisia pure legittimiaiutati a scapito della pacedomestica. Senza contaresignorinache il pane che si riceve dagli altri è unpane amaro. Se avete fiducia in mevi riconcilierete con i vostri genitori;farete ciò che vostra madre si aspetta da voi; prenderete il velo; vi verràcostituita una piccola pensione con la quale passerete dei giornise nonproprio felicialmeno sopportabili. Non vi nasconderò d’altro canto chel’abbandono apparente di vostra madrel’ostinatezza nel volervirinchiuderee alcune altre circostanze che mi sfuggonoma che un tempo sapevohanno prodotto su vostro padre esattamente lo stesso effetto che su di voi. Lavostra nascita gli era sospetta. Ora non più. E pur non essendone al correntenon ha dubbi che voi gli apparteniate come figlia solo in virtù della legge cheattribuisce i figli a colui che porta il titolo di marito. Suvviasignorinavoi siete buona e saggia; pensate a ciò che avete appena saputo.”

           Mi alzaimi misi a piangere. Vidi che anche lui era intenerito; alzòlentamente gli occhi al cielo e mi riaccompagnò. Ritrovai la domestica che miaveva accompagnata; risalimmo in carrozza e tornammo a casa.

           Era tardi. Buona parte della notte riflettei su quanto mi era statorivelato; continuai a riflettervi l’indomani. Non avevo padre; gli scrupoli miavevano privato di madre; si erano premuniti affinché non potessi aspirare aidiritti della mia nascita legale; una prigionia domestica durissimasenzanessuna speranzanessuna risorsa. Forse se certe spiegazioni mi fossero statedate primadopo che le mie sorelle si erano sistematemi avrebbero tenuta inquella casa che la gente continuava a frequentare e si sarebbe trovato qualcunoal quale il mio caratterela mia intelligenzail mio aspetto e i miei donisarebbero sembrati una dote bastante. La cosa non era ancora impossibilema loscalpore suscitato in convento la rendeva più difficile. Si concepiscedifficilmente che una fanciulla sui diciassette anni sia potuta giungere a taliestremi senza una fermezza di carattere poco comune. Gli uomini lodano moltoquesta qualitàma mi sembra che ne facciano volentieri a meno nelle fanciulledi cui intendono fare le loro spose. Pureera una via d’uscita da tentareprima di prendere in considerazione un’altra soluzione. Decisi di parlarne amia madre e le feci chiedere un colloquio che mi fu accordato.

           Era inverno. Mia madre era seduta in una poltrona davanti al fuoco: avevaun volto severolo sguardo fisso e i lineamenti immobili. Mi avvicinai a leimi buttai ai suoi piedi e le chiesi perdono di tutti i miei torti.

           “Il perdono dipende da ciò che state per dirmi. Alzatevi; vostro padreè assenteavete tutto il tempo di spiegarvi. Avete visto padre Serafinosapete infine chi siete e ciò che potete aspettarvi da mese il vostroprogetto non è quello di punirmi finché vivrò per una colpa che ho già fintroppo espiata. Ebbenesignorinache cosa volete da me? Che cosa avetedeciso?”

           “Mamma” le risposi“so che non ho niente e che non possopretendere niente. Lungi da me l’intenzione di accrescere le vostresofferenzequalunque sia la loro natura; forse mi avreste trovata piùsottomessa alla vostra volontà se mi aveste messa prima al corrente di alcunecircostanze che difficilmente potevo sospettare. Ma adesso finalmente so. Miconoscoe non mi resta che comportarmi secondo le necessità della miacondizione. Non sono più sorpresa delle distinzioni che sono state fatte tra mee le mie sorelle; riconosco che sono giustele sottoscrivo. Ma sono pur semprevostra figliavoi mi avete portato nel vostro seno e spero che non lodimenticherete.”

           “Che sia meledetta” esclamò vivamente“se non vi riconoscessimia per quanto è in mio potere!”

           “Ebbenemamma” le dissi“rendetemi il vostro affettorendetemila vostra presenza; rendetemi la tenerezza di colui che si crede mio padre.”

           “Poco ci mancache non sappia la verità sulla vostra nascita come noidue. Non vi vedo mai accanto a lui senza sentire i suoi rimproveri; me lirivolge con la durezza con la quale vi tratta; non sperate da parte sua i tenerisentimenti di un padre. E inoltredebbo confessarvelovoi mi ricordate untradimentoun’ingratitudine così odiosa da parte di un altroche non possosopportarne l’idea; quell’uomo si frappone fra noimi respingee l’odioche debbo a lui si riversa su di voi.”

           “Come!” replicai“non posso sperare che mi trattiatevoi e ilsignor Simonincome un’estraneaun’estranea che avreste accolta perspirito umanitario?”

           “Non possiamo farloné l’unoné l’altra. Figlia mianon miavvelenate ulteriormente la vita. Se non aveste delle sorelleso quel chedovrei fare; ma ne avete duee tutte e due hanno una famiglia numerosa. Datanto tempo ormai si è spenta la passione che mi sorreggeva; la coscienza haripreso i suoi diritti.”

           “Ma colui al quale debbo la vita?”

           “Non c’è più; è morto senza ricordarsi di voi; e questa la menograve delle sue colpe...”

           A questo punto la sua espressione si alteròi suoi occhi si acceserolo sdegno le scompose i tratti del volto. Voleva parlarema il tremito dellelabbra le impediva di articolare parola. Era seduta; piegò la testa fra le maniper nascondermi i moti violenti che le sconvolgevano l’animo. Rimase per uncerto tempo in quello statopoi si alzòfece qualche giro intorno alla camerasenza dir parola; cercava a fatica di trattenere le lacrime che scorrevanoeandava dicendo:

           “Mostro! Non è certo per volontà sua se non siete morta soffocata nelmio seno con tutto quello che mi ha fatto soffrirema Dio ci ha tenute in vital’una e l’altra perché la madre espiasse la propria colpa attraverso lafiglia... Figlia miavoi non avrete nullanon avrete mai nulla. Il poco cheposso fare per voilo tolgo alle vostre sorelle: ecco le conseguenze di unmomento di debolezza. Spero tuttavia di non avere niente da rimproverarmimorendo; avrò guadagnato la vostra dote con la mia economia. Non abuso deimezzi del mio sposo. Ogni giorno metto da parte quello che di tanto in tantoottengo dalla sua liberalità. Ho venduto i gioielli che avevo ed ho avuto dalui il permesso di disporre a mio piacimento della somma che ne ho ricavato. Mipiaceva il gioconon gioco più; mi piacevano gli spettacolie me ne sonoprivata; mi piaceva la compagniavivo ritirata; mi piaceva il fastovi horinunciato. Se entrate in conventosecondo la mia volontà e quella del signorSimoninla vostra dote sarà il frutto di tutto ciò che io sopporto ognigiorno.”

           “Mamamma” le risposi“vengono ancora a casa nostra dellepersone dabbene. Forse vi sarà qualcuno che soddisfatto della mia personanonesigerà nemmeno i risparmi che avete destinato alla mia sistemazione.”

           “Ormai è da escludersi. Lo scandalo che avete suscitatovi haperduto.”

           “È un male senza rimedio?”

           “Senza rimedio.”

           “Ma se io non trovo un maritoè proprio necessario che mi rinchiudain un convento?”

           “A meno che non vogliate perpetuare il mio dolore e i miei rimorsifinché non chiuda gli occhi. Arriverò a quel giorno: le vostre sorelleinquel momento terribilesaranno intorno al mio letto: ditemi se potrò vederviin mezzo a loro; quale sarebbe l’effetto della vostra presenza in quegliultimi istanti! Figlia miagiacché lo siete mio malgradole vostre sorellehanno ricevuto per legge un nome che voi portate con la frode. Non addolorateuna madre che sta per spirare; lasciatela scendere in pace nella tomba; fate chepossa dire a se stessaallorché sarà sul punto di apparire davanti al grandegiudiceche ha riparato il proprio errore per quanto stava in lei; lasciatelailludersi chedopo la sua mortevoi non seminerete discordia in questa casaeche non rivendicherete diritti che non vi spettano.”

           “Mamma” le risposi“state tranquilla quanto a questo; fate venireun uomo di legge; fategli redigere un atto di rinuncia ed io sottoscriveròtutto quello che vorrete.”

           “È impossibile: un figlio non si disereda da solo; può essereunicamente il castigo di un padre o di una madre irritati a giusto titolo. Sepiacesse a Dio richiamarmi a sé domanidomani dovrei giungere a questi estremie aprirmi con mio marito al fine di prendere con lui le stesse decisioni. Non miesponete a una confessione che mi renderebbe odiosa ai suoi occhi e checomporterebbe conseguenze tali da disonorarvi. Se mi sopravvivereteresteretesenza nomesenza fortuna e senza una posizione definita. Ditemidisgraziatache ne sarà di voi; quali idee volete che porti con me morendo? Bisogneràperciò che dica a vostro padre... Che cosa gli dirò? Che non siete suafiglia!... Figlia miase bastasse gettarsi ai vostri piedi per ottenere davoi... Ma voi non sentite niente; voi avete l’anima inflessibile di vostropadre...”

           In quel momento entrò il signor Simonin. Vide il turbamento di suamoglie. Le voleva bene e aveva un carattere violento. Si fermò di botto evolgendo uno sguardo terribile verso di meesclamò:

           “Uscite!”

           Se fosse stato mio padrenon gli avrei obbeditoma non lo era.Aggiunseparlando al domestico che mi faceva luce:

           “Ditele di non farsi più vedere.”

           Mi rinchiusi nella mia piccola prigione. Riflettei su quanto mia madre miaveva detto. Caddi in ginocchio; pregai Dio che mi ispirasse; pregai a lungo conil viso che toccava il pavimento. Non si invoca quasi mai la voce del cielo senon quando non sappiamo a cosa decidersied è raro che essa non ci consigli diobbedire. Fu dunque la decisione che presi: “Vogliono che mi faccia monaca.Forse è tale anche la volontà di Dio. Ebbenemi farò monaca. Giacché debboessere comunque infeliceche importa il luogo!” Raccomandai alla domesticache si occupava di me di avvertirmi quando mio padre fosse uscito. Il giornodopo sollecitai subito un incontro con mia madre; mi fece rispondere che avevapromesso al signor Simonin di non rivolgermi la parolama che potevo scriverlecon una matita che mi venne data. Scrissi perciò su un pezzetto di carta quelfoglio fatale è stato ritrovatoe se ne è fatto uso contro di me in manierainconfutabile:

           “Mammasono spiacente per tutti i dolori che vi ho inflitto; ve nechiedo perdono; intendo non causarvene più. Fate di me tutto ciò che vorrete;se è vostra volontà ch’io entri in religionemi auguro che sia anche quelladi Dio.”

           La domestica prese lo scritto e lo portò a mia madre. Poco dopo risalìe mi disse con trasporto:

           “Signorinagiacché bastava una sola parola per fare la felicità divostro padredi vostra madree la vostraperché averla differita tanto alungo? Il signore e la signora hanno una faccia come non ho mai visto da quandosono qui: si bisticciavano continuamente per causa vostra. Grazie a Dioora èfinita...”

           Mentre mi parlavapensavo che avevo appena firmato la mia sentenza dimorte e tale presentimentosignoresi avvereràse voi mi abbandonate.

           Trascorsero alcuni giorni senza che sentissi parlare di niente; ma unamattinaverso le novela porta si aprì bruscamente; era il signor Simonin cheentrava in veste da camera e berretta da notte. Da quando sapevo che non era miopadrela sua presenza non mi incuteva spavento. Mi alzaigli feci lariverenza. Mi sembrò di avere due cuori: non potevo pensare a mia madre senzaintenerirmisenza aver voglia di piangerema con il signor Simonin le cosestavano diversamente. Non vi è dubbio che un padre ispira un certo tipo disentimento che non si prova per altri che lui al mondo: per saperlobisognaessersi trovati faccia a faccia a un uomo che ha rivestito a lungoe che haappena perdutoquesto carattere augusto; gli altri lo ignoreranno sempre. Sepassavo dalla sua presenza a quella di mia madremi sembrava di essereun’altra.

           Mi disse:

           “Susannariconoscete questo biglietto?”

           “Sìsignore.”

           “L’avete scritto liberamente?”

           Non potei che rispondere di sì.

           “Siete almeno decisa a mettere in atto ciò che promettete?”

           “Lo sono.”

           “Avete delle preferenze per un convento particolare?”

           “Nomi sono indifferenti.”

           “Basta così.”  Mi lasciòe scese.

           Ecco quanto risposi; ma disgraziatamente le mie parole non furonoscritte. Trascorsi una quindicina di giorni nell’ignoranza più completa di ciòche stava accadendoma ebbi l’impressione che si fossero rivolti a diversiconventie che lo scandalo che avevo suscitato la prima volta impediva chefossi ricevuta come postulante.

           A Longchamp[17]furono sollevate meno difficoltà. Probabilmente perché si lasciò intendereche conoscevo la musica e che avevo una bella voce. I miei genitori esageraronoabbondantemente le difficoltà che avevano incontrato e la grazia che mifacevano accogliendomi in quel convento. Mi indussero persino a scrivere allasuperiora. Non misuravo le conseguenze di quella testimonianza scritta cheesigevano da me; evidentemente temevano che un giorno potessi rinnegare i mieivoti; volevano avere un’attestazione scritta di mio pugno che li avevopronunciati in piena libertà. Senza tale motivocome mai quella lettera chedoveva restare nelle mani della superiorasarebbe passata in seguito nelle manidei miei cognati? Ma è meglio chiudere gli occhi su questo particolare: mifanno vedere il signor Simonin come non voglio vederlo. Ormai non è più diquesto mondo.

 

           Mi condussero a Longchamp: fu mia madre ad accompagnarmi. Non chiesi disalutare il signor Simonin; confesso che il pensiero mi venne solo stradafacendo. Mi aspettavano: ero già conosciuta per la mia storia e i miei donimusicali. Non si parlò della primama tutti avevano fretta di vedere sel’acquisizione fatta dal convento fosse all’altezza delle aspettative. Dopoche ci fummo intrattenute su molti argomenti senza interessegiacché potetebene immaginare che dopo quel che mi era accaduto non si fece parola né di Dioné di vocazionené dei pericoli del mondoné della dolcezza della vita inconventoe che non si sfiorarono nemmeno le pie insulsaggini con cui si cercadi riempire quei primi momentila superiora disse:

           “Voisignorinaconoscete la musicasapete cantare. Noi abbiamo quiun clavicembalo; se voletepotremmo andare nel nostro parlatorio...”

           Avevo il cuore oppressoma non era il momento di mostrare la miaripugnanza. Mia madre uscì per primaio la seguii; la superiora chiudeva ilbreve corteo con alcune monache spinte dalla curiosità. Era già sera;portarono delle candele; mi sedetti davanti al clavicembalo. A lungo accennai avarie arie sulla tastieracercando un brano nella mia testa che è piena dimusicae non riuscii a trovarne. Dato che la superiora mi esortavacantaisciattamenteper abitudineperché il pezzo mi era familiare: Tristipreparativipallide fiaccoleluce più orrenda delle tenebre...[18] Non so qualeeffetto produsse il mio cantoma non mi ascoltarono a lungo: mi interrupperocon delle lodi che mi meravigliai di aver meritato così rapidamente e senzatanta fatica. Mia madre mi affidò alla superiorami porse la mano da baciaree se ne andò.

           Eccomi dunque in un altro conventopostulantee per di più conl’aria di postulare di mia spontanea volontà. Ma voisignorevoi checonoscete tutto quello che è accaduto fino a questo momento che cosa nepensate? Allorché volli ricorrere contro i miei votila maggior parte diquesti fatti non furono allegati; gli uniperché erano verità destituite diprovegli altriperché mi avrebbero resa odiosa senza giovarmi; non sisarebbe vista in me che una figlia snaturatache insultava la memoria deipropri genitori per ottenere la libertà. Avevano la prova di ciò che eracontro di meciò che era a mio vantaggio non poteva essere allegatonéessere provato. Personalmente non volli nemmeno che venisse insinuato neigiudici il sospetto della mia nascita; alcune personepoco esperte di leggimiconsigliarono di chiamare in causa il direttore spirituale mio e di mia madre.La cosa era impossibilee quand’anche lo fosse statanon l’avrei permessa.Ma a propositoprima ch’io lo dimentichi e che il desiderio del miotornaconto vi impedisca di pensarcia meno che non siate di diverso parerecredo che non si debba far sapere che conosco la musica e suono il clavicembalo.Basterebbe per farmi riconoscere: l’esibizione di queste mie qualità mal siaccorda con l’esistenza oscura e la sicurezza che vado cercando. Le personedella mia condizione ignorano tali cosee anch’io debbo ignorarle. Se fossicostretta ad espatriareme ne servirei invece per guadagnarmi da vivere.Espatriare! Ma ditemi perché quest’idea mi spaventa. Perché non so doveandare; perché sono giovane e senza esperienza; perché temo la miseriagliuomini e il vizio; perché ho sempre vissuto fra quattro mura e se mi trovassifuori di Parigimi crederei sperduta nel mondo. Forse tutto questo non è veroma è quello ch’io sento. Dipende soltanto da voisignorech’io non sappiadove andareo che fare.

           A Longchampcome nella maggior parte dei conventila superiora cambiaogni tre anni. Allorché vi fui condottaera stata da poco chiamata a talecaricauna certa signora de Moni. Non posso dirvene troppo bene. Eppure aperdermi è stata la sua bontà. Era una donna assennatache conosceva il cuoreumano. Era piena di indulgenzabenché nessuno meno di lei ne avesse bisogno;eravamo tutte figlie sue. Non vedeva se non le colpe che non poteva fare a menodi vedereo la cui gravità non le consentiva di chiudere gli occhi. Ne parloin maniera disinteressata; io ho compiuto il mio dovere in tutto e per tutto edella riconoscerebbe che non commisi alcuna colpa di cui mi dovesse punire o chemi dovesse perdonare. Se dimostrava una certa predilezioneerano i meriti adispirargliela. Dopo di chenon so se sia opportuno dirvi che tra le suefavorite non fui la meno diletta. So che sto facendo di me stessa un grandeelogiopiù grande di quanto non immaginiategiacché non l’aveteconosciuta. Il nome di favorita è quello che le altre d’animo meschino dannoalle preferite della superiora. Se avessi un difetto da rimproverare allasignora de Moniè di essersi sempre lasciata dominare apertamente dalla suainclinazione per la virtùla pietàla franchezzala dolcezzai doninaturalil’onestàe inoltre di non aver ignorato che quelle che nonpotevano aspirare alla sua predilezione ne erano di conseguenza tanto piùumiliate. Aveva anche il donoforse più comune in convento che fuorinelmondodi giudicare immediatamente i caratteri. Era raro che una monaca che nonle fosse piaciuta a prima vistale piacesse in seguito. Non le ci volle molto aprendermi in simpatiae nei primi tempi ebbi in lei una fiducia assoluta.Sventurate coloro che non gliela concedevano senza sforzo! Bisognava proprio chefossero cattiveprive di qualitàe che ne fossero consapevoli. Volle parlarmidella mia avventura a Santa Mariagliela raccontai senza nulla dissimulareproprio come a voi; le raccontai tutto quello che ho scritto a voi. La mianascitale mie peneniente fu dimenticato. Mi compiansemi consolòmi fecesperare in un avvenire più dolce.

           Terminò intanto il periodo del postulato e giunse quello di indossarel’abito. Lo indossai. Feci il mio noviziato senza ripugnanza. Sorvolo su queidue anni perché il solo sentimento triste che provai fu quello di avanzare apasso a passo verso l’inizio di uno stato per il quale non ero affattotagliata. A volte questo sentimento mi assaliva con forza. Allora ricorrevosenza indugio alla mia buona superiorache mi abbracciavache dava sollievoalla mia animache mi esponeva energicamente le sue ragioni e che finiva semprecol dirmi:

           “E gli altri stati non hanno forse le loro spine? Noi non sentiamo chele nostre. Sufigliola miamettiamoci in ginocchioe preghiamo.”

            Allorasi prosternavapregava ad alta vocema con tanto calore ed eloquenzacontanta dolcezza ed elevazionee forzache la si sarebbe detta ispirata dalloSpirito di Dio. I suoi pensierile sue espressionile sue immaginipenetravano fin nel profondo del cuore. Dapprima la si ascoltava; poia poco apocosi era trascinatici si univa a leil’anima trasalivae sicondividevano i suoi slanci. Il suo scopo non era quello di sedurmima inpratica accadeva proprio questo. La si lasciava con un cuore ardentela gioia el’estasi impresse sul voltoed erano così dolci le lacrime che si versavano!Lo stesso effetto si verificava in lei e vi rimaneva a lungoproprio come innoi. Non mi riferisco alla mia sola esperienzama a quella di tutte le suore.Alcune mi hanno detto che sentivano nascere nel loro intimo il bisogno di essereconsolatecome nasce quello di un piacere molto grandee credo che a me siamancata soltanto un po’ più d’abitudine per arrivare a questo punto.

            Ciònonostantementre si avvicinava il momento della mia professioneprovai unamalinconia così profonda da mettere realmente a dura prova la mia buonasuperiora. Quella sua virtù la abbandonòcome mi confessò lei stessa:

           “Non so” mi disse“che cosa stia accadendo in me; quando venitemi sembra che Dio si ritragga e che il suo spirito taccia; inutilmente mi sforzodi eccitarmicerco delle ideevoglio esortare la mia anima; mi ritrovo unadonna banalelimitata; ho paura di parlare.”

           “Ahmia cara madre” le dissi“quale presentimento! Se fosse Dioa rendervi muta!...”

           Un giorno che mi sentivo più incerta e più abbattuta che maimi recainella sua cella; dapprima la mia presenza la lasciò turbata: evidentementelesse nei miei occhiin tutta la mia personache il sentimento profondoracchiuso in me era al di sopra delle sue forze; e lei non voleva lottare senzala certezza di essere vittoriosa. Tuttavia cominciò ad esortarmi e a poco apoco si infervorò. Via via che il mio dolore decrescevala sua esaltazioneaumentava; d’un tratto si mise in ginocchio ed io seguii il suo esempio. Miconvinsi che ero sul punto di condividere il suo slancioe me lo auguravo.Pronunciò alcune parolepoiall’improvvisotacque. Aspettavo inutilmente:non aggiunse altro; si rialzòsi sciolse in lacrimemi afferrò la mano estringendomi fra le braccia:

           “Ahmia cara figliola” disse“che effetto crudele avete prodottosu di me! Eccoè finitalo spirito mi ha abbandonatalo sento; che Diostesso vi parli giacché non si compiace più di farsi sentire per bocca mia.”

           In vero non so che cosa fosse accaduto in lei: forse le avevo ispiratouna sfiducia nelle sue forze che non scomparve piùforse l’avevo resatimidao avevo veramente spezzato i suoi rapporti con il cielo. Il fatto si èche il dono di saper consolarenon le tornò più. Il giorno prima della miaprofessionel’andai a trovare. La sua malinconia non era da meno della mia.Mi misi a piangereed ella pure. Mi gettai ai suoi piedimi benedissemi fecerialzaremi abbracciò e mi congedò dicendo:

           “Sono stanca di viveremi auguro di morire. Ho chiesto a Dio di nonfarmi conoscere un giorno similema tale non è la sua volontà. Andateadesso. Parlerò a vostra madrepasserò la notte in preghierapregate anchevoi. Ma adesso coricatevive lo ordino.”

           “Permettete” le risposi“che mi unisca a voi.”

           “Ve lo permetto dalle nove alle undicinon oltre. Alle nove e mezzocomincerò a pregare e così pure farete voi; ma alle undici mi lasceretepregare da sola e voi vi riposerete. Coraggiomia cara figliolaveglieròdavanti a Dio per il resto della notte.”

           Volle pregarema non ne fu capace. Io dormivoe intanto quella santadonna se ne andava per i corridoi bussando ad ogni portasvegliava le monache ele faceva scendere silenziosamente in chiesa. Vi si recarono tuttee allorchétutte vi furono riunitele invitò a rivolgersi al cielo per me. Dapprimaciascuna pregò per conto propriopoi la superiora spense i lumi e tutteinsieme cantarono il Misereresalvo la madre che prosternata ai piedidegli altarisi torturava crudelmente dicendo:

           “Ohmio Diose mi avete abbandonata per una colpa che ho commessoconcedetemi il perdono. Non vi chiedo di restituirmi il dono che mi avete toltoma che voi stesso vi rivolgiate a quell’innocente che dorme mentre io viinvoco qui per lei. Mio Dioparlateleparlate ai suoi genitorieperdonatemi.”

           L’indomani entrò di buon’ora nella mia cella; ancora immersa nelsonno. Io non la sentii. Si sedette accanto al mio letto. Mi aveva posatoleggermente una mano sulla fronte e mi guardava. Sul suo volto si manifestavanodi volta in volta inquietudineturbamento e doloree fu così che mi apparveallorché aprii gli occhi. Non mi fece parola di quanto era accaduto durante lanotte; mi chiese soltanto se mi fossi coricata presto. Le risposi:

           “All’ora che mi avete ordinato.”

           Mi chiese se avessi dormito:

           “Profondamente” risposi.

           “Me lo aspettavo” esclamòe poi volle sapere come mi sentissi.

           “Benissimo! E voimia cara madre?”

           “Ahimè” soggiunse“non ho visto nessuno pronunciare i voti senzainquietudinema per nessuno ho provato il turbamento che provo per voi. Vorreidi tutto cuore che foste felice.”

           “Se mi amerete semprelo sarò.”

           “Ahse non dipendesse che da questo! Non avete pensato a nientedurante la notte?”

           “No.”

           “Non avete fatto nessun sogno?”

           “Nessuno.”

           “Che cosa provate adessonel vostro cuore?”

           “Mi sento come stupidita. Obbedisco al mio destino senza ripugnanza esenza slancio; sento che la necessità mi travolge e mi lascio andare. Ahmiacara madre! non c’è in me l’ombra di quella dolce gioiadi quellatrepidazionedi quella malinconiadi quella dolce inquietudine che talvolta honotato in altre giunte a questo stesso momento. Mi sento vuotanon sapreinemmeno piangere. Lo voglionoè necessario. Ecco la sola idea che mi passi perla mente... Ma voi non mi dite niente.”

           “Non sono venuta per far conversazione con voima per vedervi edascoltarvi. Aspetto vostra madre. Cercate di non commuovermi; lasciate che isentimenti s’accumulino nella mia anima. Quando ne sarà colmavi lascerò.Debbo tacere; io mi conosco. Ho un solo impulsoma violento; non deve trovaresfogo con voi. Riposatevi ancora un momentoch’io vi veda; ditemi soltantoqualche parola e lasciate che io colga qui ciò che sono venuta a cercarvi. Poime ne andrò e Dio farà il resto.”

           Tacquiricaddi sul guancialele tesi una mano ch’ella afferrò.Sembrava che meditassee che meditasse profondamente; si sforzava di tenere gliocchi chiusima a volte li aprivavolgeva lo sguardo verso l’alto prima diposarlo nuovamente su di me; si agitava; aveva l’anima in tumultosenza posaperdeva e ritrovava il controllo di sé. In verità quella donna era nata peressere profetessa: ne aveva il volto e il carattere. Era stata bellama l’etàsvigorendo i tratti del volto e incidendovi rughe profondeaveva conferitodignità alla sua fisionomia. Aveva occhi piccolima che davano l’impressionedi guardare dentro lei stessa o di attraversare gli oggetti vicini e di scrutareal di là di essia una distanza infinitasempre nel passato onell’avvenire. Di tanto in tanto mi stringeva con forza la mano. Mi chiesebruscamente che ore fossero:

           “Saranno presto le sei.”

           “Addiome ne vado. Fra poco verranno a vestirvi ed io non voglio esserpresente per farmi distrarre. La mia sola preoccupazione è di mantenermi calmanei primi momenti.”

           Era appena uscita che la madre delle novizie e le mie compagne fecero illoro ingresso; mi tolsero gli abiti del convento e mi rivestirono con quellisecolari; è un uso che voi conoscete. Non sentii niente di quello che si dicevaintorno a me; ero ridotta quasi allo stato di automa; non mi accorsi di niente.Soloa trattiero percorsa da leggeri fremiti convulsi. Mi dicevano ciò chebisognava farespesso erano costrette a ripeterloperché la prima volta nonsentivo; io lo facevo. Non perché pensassi ad altroma perché ero comeassente. Avevo la testa stanca come quando si è riflettuto troppo. Nelfrattempo la superiora si intratteneva con mia madre. Non ho mai saputo ciò chefosse accaduto durante quell’incontro che durò a lungo; mi riferironosoltanto che quando si separaronomia madre era così turbata che non riuscivaa ritrovare la porta dalla quale era entratae che la superiora era uscita coni pugni stretti alle tempie.

           Suonarono le campane. Scesi. C’era poca gente. Mi fu rivoltobene omaleun fervorino; non sentii niente. Disposero di me durante tutta quellamattinata che è stata inesistente nella mia vitagiacché non ho mai saputoquanto fosse durata; non so né cosa ho fattoné cosa ho detto. Mi hannosicuramente interrogatasicuramente ho risposto. Ho pronunciato i votima nonne conservo alcun ricordo e mi sono ritrovata monaca con la stessa innocenza concui fui fatta cristiana; non capii niente di quella mia professione come nonavevo capito niente in quella del mio battesimocon la differenza che l’unaconferisce la grazia e l’altra la presuppone. Ebbenesignorebenché io nonabbia protestato a Longchamp come avevo fatto a Santa Mariacredete che sia perquesto più vincolata? Faccio appello al vostro giudizio; faccio appello algiudizio di Dio. Mi trovavo in uno stato di prostrazione così profonda chequalche giorno dopoallorché mi fu detto che ero di turno in coronon capiiche cosa volesse dire. Chiesi se era proprio vero che avevo pronunciato i voti;fu necessario aggiungere a queste prove la testimonianza di tutta la comunità;quella di alcuni estranei che erano stati invitati alla cerimonia. Rivolgendomipiù volte alla superiorale ripetevo: “Ma alloraè proprio vero?”

           E mi aspettavo sempre che rispondesse:

           “Nofigliola miavi ingannano.”

           Le sue reiterate assicurazioni non mi convincevano affattonon riuscendoa capire come avessi potuto dimenticare ogni circostanza di tutta una giornatacosì tumultuosacosì variacosì densa di avvenimenti insoliti estraordinaripersino la faccia di coloro che si erano affaccendate intorno amee quella del prete che mi aveva rivolto il suo fervorinoe di colui davantial quale avevo pronunciato i voti. La sola cosa che ricordi è di aver cambiatogli abiti del convento con quelli secolari. Da quel momento sono stata ciò chefisicamente si dice alienata. Sono stati necessari mesi interi per trarmi daquello statoed io attribuisco alla lunghezza di quella specie di convalescenzal’oblio profondo di quanto è accaduto. Proprio come coloro che hanno soffertodi una lunga malattiache hanno parlato con luciditàche hanno ricevuto isacramenti e chedopo aver ritrovato la salutenon ne conservano il benchéminimo ricordo. Ne ho visti diversi esempi in convento e ho detto a me stessa:“Ecco quello che probabilmente è accaduto il giorno della professione.”Resta poi da sapere se tali azioni siano azioni compiute dall’uomo e se eglisia realmente presenteanche se in apparenza lo è.

 

           In quello stesso anno subii tre perdite gravi: quella di mio padreo permeglio dire di colui che passava per tale. Era anziano. Aveva lavorato molto. Sispense. Quella della mia superiorae quella di mia madre.

           Questa degna religiosa avvertì molto tempo prima l’approssimarsi dellasua ora. Si condannò al silenzio. Si fece portare la bara nella cella. Avevaperso il sonno e passava i giorni e le notti a meditare e a scrivere. Halasciato quindici meditazioni che a me sembrano di grande bellezza. Ne possiedouna copia. Se un giorno vi cogliesse la curiosità di vedere quali pensierisuggerisce quell’istante supremove le farò leggere. Si intitolano: Gliultimi istanti della suora de Moni.

           All’avvicinarsi della mortesi fece vestire. Stava distesa sul suoletto dove le somministrarono gli ultimi sacramenti. Tra le bracciateneva uncrocifisso. Era notte. Il bagliore delle candele rischiarava quella scenalugubre. Noi le stavamo intornoci scioglievamo in lacrimela sua cellarisuonava di gridaquandod’un trattole brillarono gli occhi. Si sollevòbruscamenteparlò. La sua voce era forte quasi come prima della malattia. Letornò il dono perduto. Ci rimproverò per quelle nostre lacrime che sembravanolacrime di invidia per la sua felicità eterna.

           “Figlie mie” disse“il vostro dolore vi ottenebra la ragionemaè lassù” diceva indicando il cielo“che io potrò aiutarvi; i miei occhisi abbasseranno sempre su questa casa; intercederò per voie sarò esaudita.Avvicinatevi tutte quanteche io vi abbracci; venite ad accogliere la miabenedizione e il mio addio.”

           Fu nel pronunciare queste ultime parole che passò a miglior vita quelladonna raralasciando dietro di sé rimpianti che non finiranno mai.

           Mia madre morì al ritorno da un breve viaggio che fece verso la finedell’autunno presso una delle sue figliole. La sua salute era stata moltoscossa da certi dispiaceri. Non ho mai saputo il nome di mio padrené lastoria della mia nascita. Colui che era stato il suo direttore spiritualeeanche il miomi consegnò un pacchetto da parte sua: erano cinquanta luigi conun bigliettoavvolti e cuciti in un pezzo di stoffa. C’era scritto:

           “Figlia miaè ben poca cosama la mia coscienza non mi consente didisporre di una somma maggiore; è il resto di quanto ho potuto economizzare suipiccoli regali del signor Simonin. Vivete santamenteè la cosa migliore chepossiate fareanche per la vostra felicità in questo mondo. Pregate per me; lavostra nascita è la sola colpa grave ch’io abbia commesso; aiutatemi adespiarla e che Dio mi perdoni di avervi messa al mondo in considerazione dellebuone opere che voi farete. Soprattutto non turbate la pace della famigliaebenché la scelta dello stato che avete abbracciato non sia stata volontariacome avrei desideratoguardatevi bene dal cambiarla. Perché non sono stata iorinchiusa in un convento per tutta la vita? Non sarei tanto angosciata alpensiero che fra poco dovrò subire il temibile giudizio. Pensatefiglia miache la sorte di vostra madre nell’altro mondodipende molto dalla vostracondotta su questa terra: Dioche vede tuttomi attribuirànella suagiustiziatutto il bene e tutto il male che farete voi. AddioSusanna; nonchiedete niente alle vostre sorelle. Non sono in grado di aiutarvi. Non sperateniente da vostro padre. Egli mi ha precedutaha già visto il grande giornomiattende; la mia presenza sarà per lui meno terribile della sua per me. Addioancora una volta! Ahinfelice madre! ahinfelice figlia! Sono arrivate levostre sorelle; non sono contenta di loro: prendonoportano vialeticano perquestioni di interesse che mi affliggono. Quando si avvicinano al mio lettomivolto dall’altra parte. Che cosa vedrei in loro? Due creature nelle quali lapovertà ha spento il sentimento della natura. Anelano a quel poco che lascioal medico e all’infermiera fanno domande senza pudoreche svelano con qualeimpazienza attendano il momento in cui me ne andrò e che le renderà padrone ditutto ciò che mi circonda. Hanno avuto sentorenon so comeche potessi avereun po’ di denaro nascosto tra i materassi; hanno tentato di tutto per farmialzare e ci sono riuscite. Per fortuna il mio depositario era venuto il giornoprima ed io gli avevo consegnato il pacchetto con questa lettera che ha scrittosotto la mia dettatura. Bruciate la letterae quando saprete della mia morteevento ormai imminentefarete dire una messa per me e rinnoverete i vostrivotigiacché desidero sempre che non abbandoniate il convento: l’idead’immaginarvi nel mondosenza mezzisenza sostegnogiovanerenderebbeancor più penosi i miei ultimi istanti.”

 

           Mio padre morì il 5 gennaiola mia superiora verso la fine di quelmesee mia madre il giorno dopo Natale.

           Alla madre de Moni successe suor Santa Cristina. Ahsignore! Qualedifferenza fra l’una e l’altra! Vi ho detto che donna fosse la prima. Questaaveva invece un carattere meschinouna mentalità ristretta e piena di confusesuperstizioni. Aveva una certa inclinazione per le idee nuoveconferiva consulpizianicon gesuiti. Prese in antipatia tutte le favorite di colei chel’aveva preceduta: in poco tempo la casa fu piena di discordiedi odidimaldicenzedi accusedi calunnie e di persecuzioni. Fu necessario spiegarequestioni teologiche in cui non capivamo nientesottoscrivere certe formulepiegarci a pratiche singolari. La madre de Moni non approvava affatto quellepenitenze che si praticano sul corpo. Si era flagellata soltanto due volte invita sua: una voltail giorno prima della mia professioneun’altra in unacircostanza analoga. Di quelle penitenze diceva che non correggevano alcundifetto e servivano unicamente a incoraggiare l’orgoglio. Voleva che le suesuore stessero bene e avessero il corpo sano e lo spirito sereno. Subito dopoaver assunto la sua caricaper prima cosa si era fatta consegnare tutti icilici e le disciplinee inoltre aveva proibito di alterare gli alimenti con laceneredi dormire per terra e di procurarsi strumenti del genere. La secondainvecefece riconsegnare ad ogni suora il cilicio e la disciplina e feceritirare il Nuovo e l’Antico Testamento. Le favorite del regno precedente nonsono mai le favorite del regno che segue. Io fui indifferenteper non dire dipeggioalla superiora attualeper la semplice ragione che la precedente miaveva predilettama non tardai a peggiorare la mia sorte con azioni che voichiamerete imprudenza o fermezzaa seconda del punto di vista dal quale leconsidererete.

           La primafu quella di abbandonarmi a tutto il dolore che provavo per lascomparsa della nostra superiora; di farne l’elogio in ogni circostanza; dioccasionare confronti fra lei e quella che allora ci governavaconfronticertamente non favorevoli a quest’ultima; di descrivere la vita al conventonegli anni precedenti; di suscitare il ricordo della pace di cui godevamolasua indulgenza per noiil cibo sia spirituale che temporale del quale allora cinutriva; e di esaltare le abitudinii sentimentiil carattere di suor de Moni.La seconda fu quella di gettare nel fuoco il cilicio e di disfarmi della miadisciplina; di richiamare l’attenzione delle mie amiche sull’argomento e dispingerne alcune a seguire il mio esempio. La terzafu quella di procurarmi unAntico e un Nuovo Testamento. La quartadi rifiutare ogni sceltadi attenermial titolo di cristianasenza accettare il nome di giansenista o di molinista.La quinta fu quella di osservare strettamente la regola della casa rifiutandomidi fare qualcosa in più o in meno di quanto esigevae quindidi non prestarmia nessun atto facoltativogiacché quelli obbligatori mi sembravano giàabbastanza duri; di non salire all’organo che nei giorni di festadi noncantare se non quando avrei dovuto farlo nel corodi non tollerare più che siabusasse della mia compiacenza e dei miei donie che si esigesse da me tuttoetutti i giorni. Lessi le Costituzioni[19]le rilessi tanto dasaperle a memoria. Se mi veniva ordinata una cosa che non vi fosse espressa inmaniera chiarao che non vi fosse espressa affattoo che mi sembrasse incontraddizione con tali regolerisolutamente mi rifiutavo di obbedireprendevoil libro e dicevo: “Questie non altrisono gli impegni che ho assunto.”

           I miei discorsi fecero sì che alcune delle mie compagne si schierasserodalla mia parte. L’autorità delle maestre ne risultò assai sminuita; nonpotevano più disporre di noi come se fossimo state loro schiave. Quasi nonpassava giorno senza qualche scena clamorosa. Nei casi incerti le mie compagnemi consultavano ed io ero sempre dalla parte della regola contro il dispotismo.Ben presto ebbi l’ariae forse anche il comportamentodi una faziosa.

           I grandi Vicari dell’arcivescovo venivano chiamati di continuo. Io mipresentavomi difendevodifendevo le mie compagnee non è accaduto una solavolta che fossi condannatagiacché stavo bene attenta ad essere sempre dallaparte della ragione. Dal punto di vista dei miei doveriero inattaccabile: liadempivo scrupolosamentené chiedevo mai i piccoli favori che una superiora èsempre libera di accordare o di rifiutare. Non comparivo mai nel parlatorio;visite non ne ricevevo giacché non conoscevo nessuno. Avevo però bruciato ilcilicio e gettato la disciplina; avevo consigliato ad altre di fare la stessacosa; non volevo sentir parlare di giansenismo né in benené in male. Quandomi chiedevano se ero sottomessa alla Costituzionerispondevo di esserlo allaChiesa; se accettavo la Bollarispondevo che accettavo il Vangelo[20].Ispezionarono la mia cella: vi scoprirono l’Antico e il Nuovo Testamento. Miero lasciata sfuggire alcune affermazioni indiscrete sull’intimità sospettadi alcune delle favorite; la superiora aveva dei colloqui lunghi e frequenti conun giovane ecclesiastico ed io ne avevo messo in luce la ragione e il pretesto.Non tralasciai niente di quanto poteva farmi temereodiareperderee ottenniil mio scopo. Non vi furono più lamentele sul mio conto presso i superiorimasi ingegnarono a rendermi dura la vita. Fu proibito alle altre monache diavvicinarmi e ben presto mi ritrovai sola. Avevo un numero ristretto di amiche;sospettarono che avrebbero cercato di sottrarsi di nascosto all’imposizioneche avevano dovuto subire e che non potendo intrattenersi con me di giornosarebbero venute a trovarmi di notte o ad ore proibite. Ci spiarono: misorpresero ora con l’unaora con l’altra. Di tale imprudenza ne fecerol’uso che vollero e fui castigata nel modo più disumano: mi condannarono persettimane intere a restare in ginocchio per tutto il tempo dell’uffizioseparata dalle altrein mezzo al coro; a vivere di pane e d’acqua; a starmenechiusa in cella; ad attendere alle mansioni più umili del convento. Quelle chevenivano definite le mie complici non erano trattate molto meglio di me. Quandonon potevano cogliermi in fallosospettavano di me; mi venivano impartiti tuttiinsieme ordini incompatibili fra loro e mi punivano per non averli eseguiti. Amia insaputa si anticipavano le ore delle funzionidei pasti; si sovvertival’organizzazione abituale della vita claustrale di modo chepur stando beneattentaogni giorno infrangevo qualche regola e ogni giorno venivo punita. Nonmi manca il coraggioma nessuno resiste all’abbandonoalla solitudineallapersecuzione. Le cose arrivarono a un punto tale che il tormentarmi divenne undivertimento. Era ormai lo svago di cinquanta persone congiurate contro di me.Mi è impossibile entrare nei dettagli di quelle cattiverie: mi impedivano didormiredi vegliaredi pregare. Un giorno mi rubavano parte degli abitipoiera la volta delle chiavi o del breviario. Danneggiavano la mia serratura. Miimpedivano di far bene ciò che dovevo fare o rovinavano le cose che avevo fattobene. Mi venivano attribuiti discorsi mai fatti e azioni mai compiute. Mirendevano responsabile di tuttoe la mia vita era un susseguirsi di colpe realio simulatee di castighi.

           La mia salute non resse davanti a prove tanto lunghe e tanto dure;piombai nello sconfortonel dolorenella malinconia. Da principio andavo acercare forza ai piedi dell’altaree talvolta ve la trovai. Oscillavo tra larassegnazione e la disperazionesottomettendomi di volta in voltaall’asprezza del mio destinoo pensando di liberarmene con mezzi violenti. Infondo al giardino c’era un pozzo profondo: quante volte ci sono andata! Quantevolte vi ho guardato dentro! Accantoc’era una panchina di pietra; quantevolte mi ci sono sedutacon la testa appoggiata all’orlo del pozzo! Quantevoltenel tumulto dei pensierimi sono alzata bruscamentedecisa a porre untermine alle mie angustie! Chi mi ha trattenuta? Perché preferivo piangeregridare a gran vocecalpestare il velostrapparmi i capelli e graffiarmi ilviso con le unghie? Se era Dio che mi impediva di perdermiperché non evitarmianche tutte quelle manifestazioni?

           Vi dirò una cosa che forse vi parrà molto strana e che nondimeno èvera: sono assolutamente certa che le mie frequenti visite a quel pozzo sonostate notate e che le mie crudeli nemiche hanno caldamente sperato che un giornoo l’altro avrei messo in atto il proposito che covava dentro di me. Quando midirigevo da quella parteostentatamente se ne allontanavano e guardavanoaltrove. Diverse volte ho trovato la porta del giardino aperta in ore in cuiavrebbe dovuto essere chiusae stranamente nei giorni in cui avevanoparticolarmente infierito su di mein cui avevano spinto all’esasperazionel’irruenza del mio carattere e credevano che la mia mente fosse alienata. Manon appena credetti di intuire che quel mezzo per liberarmi dalla vita erapercosì direofferto alla mia disperazioneche mi conducevano per mano a quelpozzo e che lo avrei trovato sempre pronto ad accogliermismisi di curarmene.La mia attenzione si volse altrove. Rimanevo nei corridoi e misuravo l’altezzadelle finestre; la seramentre mi spogliavosaggiavo senza rendermene conto laforza delle mie giarrettiere; un altro giorno rifiutavo il cibo: scendevo alrefettorio e rimanevo con la schiena contro la paretele mani penzoloni lungo ifianchigli occhi chiusie non toccavo le pietanze che mi venivano servite.Quando ero in quello stato perdevo a tal punto la coscienza di me stessa chetutte le monache uscivano e io rimanevo lì. Si allontanavano ostentatamentesenza far rumore e mi lasciavano sola; poi venivo punita per non essere statapresente agli esercizi. Che dirvi d’altro? Mi levarono con tutti i mezzi lavoglia di togliermi la vitapoiché mi sembrò chelungi dall’opporvisitali mezzi mi venissero offerti. Evidentemente non vogliamo venir cacciati daquesto mondo e forsese avessero finto di trattenermioggi non sarei piùviva. Forsequando ci si toglie la vitasi vuol far sì che gli altri sidisperino. Ma se così facendo crediamo di dar loro soddisfazioneallora lanostra vita ce la teniamo. Si tratta di moti assai sottili del nostro animo. Inveritàse è possibile che ricordi in quali condizioni mi trovavo quando eroaccanto a quel pozzocredo che dentro di me gridassi contro quelle disgraziateche si allontanavano per favorire un delitto: “Fate un passo verso di memostratemi il benché minimo desiderio di salvarmiaccorrete per trattenermi esiate certe che arriverete troppo tardi.” In realtà vivevo soltanto perchédesideravano la mia morte. Fuori dal chiostro l’accanimento nel tormentare enel volere l’altrui perdita finisce con l’esaurirsinei chiostri invece nonsi esaurisce mai. Ero giunta a questo punto allorché riandando col pensieroalla mia vita passatami venne l’idea di fare annullare i miei voti. Fudapprima un pensiero superficiale: solaabbandonatasenza appoggiin che modocondurre in porto un progetto così difficileanche se avessi goduto di tuttoquell’aiuto che a me mancava? L’idea bastò comunque a tranquillizzarmi; ilmio spirito si acquietòritrovai la padronanza di me stessa. Evitai qualchecastigo e sopportai con maggior pazienza quelli che mi venivano inflitti. Ilcambiamento fu notato e suscitò stupore. Di colpo si arrestò la cattiveriacome un nemico vile che ti insegue e al quale fai fronte nel momento in cui menose lo aspetta.

           Una domanda che dovrei rivolgerlesignoreè perché fra tante ideefuneste che passano per la testa di una monaca disperatanon vi è quella diappiccare il fuoco alla casa. A me non è venuta in mentee neppure ad altrebenché sia la cosa più facile da farsi: in un giorno di gran vento bastaportare una torcia in un solaioin una legnaia o in un corridoio. Non vi sonomai stati conventi bruciati: eppure in queste circostanze si spalancano le portee si salvi chi può. Forse perché preferiamo ignorare un aiuto che dovremmocondividere con quelle che odiamo? Ma quest’ultima supposizione è tropposottile per essere vera.

           A forza di riflettere su una cosase ne sente la fondatezza e si arrivapersino a crederla possibile. A questo punto si è davvero molto forti. Per mesi trattò di una quindicina di giorni. La mia mente galoppa. Che cosa dovevafare? redigere un memoriale e farlo esaminare da qualcuno: due iniziative nonprive di pericolo. Da quando c’erano stati in me tutti quei mutamentivenivoosservata più attentamente di sempre. C’era un occhio che mi seguiva dicontinuo; ogni mio passo veniva spiatoogni mia parola soppesata. Fui di nuovoavvicinatafurono sondati i miei pensieri. Mi interrogavanoostentavanocommiserazione e amicizia; riandavano alla mia vita passatami accusavanofiaccamentemi scusavano; speravano che mi comportassi megliomi prospettavanoun avvenire più tranquillo. Ciò nonostantegiorno e nottead ogni istantecon ogni pretestobruscamentesordamenteentravano nella mia cellascostavano le tendese ne andavano. Dopo aver preso l’abitudine di coricarmivestitaavevo presa anche quella di scrivere la mia confessione. Nei giorni chesono stabiliti andavo a chiedere carta e inchiostro alla superiorala quale nonme li rifiutava. Cominciai quindi ad attendere il giorno della confessione eintanto andavo redigendo a memoria tutto quello che intendevo esporre. Sitrattavain sintesidi quanto ho scritto a voi fino a questo puntocon lasola differenza che mi servivo di nomi inventati. Commisi però tre sciocchezze:la prima fu di dire alla superiora che avrei avuto molto da scrivere e adducendoquesto pretestodi chiederle più carta di quanta ne viene concessa di solito;la secondadi occuparmi del mio memoriale e di trascurare la confessione; laterzadi non rimanere al confessionale che un istantedato che appunto nonavevo preparato la confessione e perciò non ero pronta a quell’atto direligione. Di tutto ciò non sfuggì nullae se ne dedusse che la carta cheavevo chiesto era stata destinata ad uno scopo diverso da quello che avevodichiarato. Ma secome appariva chiaronon era servita alla mia confessioneche cosa ne avevo fatto?

           Pur non avendo immaginato di suscitare tante inquietudinisentiicomunque che non si doveva trovare nella mia cella uno scritto di taleimportanza. In un primo momento pensai di cucirlo nel traversino o neimaterassipoi di nasconderlo fra gli abitidi sotterrarlo in giardinodibuttarlo nel fuoco. Non immaginerete mai quale fosse la mia fretta di scriverloe l’imbarazzo che mi creò quando fu scritto. Prima lo sigillaipoi me loinfilai in seno e mi recai all’uffizio che stava suonando. La mia inquietudineera tale che ogni mio movimento la tradiva. Ero seduta accanto a una giovanemonaca che mi voleva bene; a volte mi era capitato di cogliere la pietà nel suosguardo e di vederla piangere per me. Non mi rivolgeva mai la parolamacertamente soffriva delle mie pene. Noncurante di ciò che poteva accaderedecisi di affidarle il mio memoriale. In un momento di preghieradurante ilquale tutte le monache si inginocchiano curvandosi fino a sembrare immerse neiloro stallimi sfilai delicatamente il plico dal petto e glielo tesi dietro dime. Ella lo prese e a sua volta se lo nascose in petto. Fu questo il favore piùgrande fra quanti ne avevo ricevuti da lei e che già erano assai numerosi: permesi interisenza compromettersisi era data da fare per rimuovere tutti ipiccoli ostacoli che venivano frapposti fra me e i miei doveri per avere ildiritto di castigarmi. Veniva a bussare alla mia porta quando era l’ora diuscire; rimetteva ordine dove era stato creato disordine; andava a suonare o arispondere quando era necessariosi trovava ovunque mi dovevo trovare io. Ioignoravo tutto ciò.

           Avevo scelto il partito migliore. Quando uscimmo dal corola superiorami disse:

           “Suor Susannaseguitemi.”

           La seguii; poifermandosi davanti a un’altra porta:

           “Ecco” mi disse“la vostra cella. Quella dove dormivate primalaprenderà suor San Girolamo.”

           Entraie lei entrò con me. Stavamo entrambe sedute senza parlare quandoapparve una monaca con degli indumenti che posò su una sedia.

           La superiora mi disse allora: “Suor Santa Susannaspogliatevi eindossate questi abiti.”

           Obbedii in sua presenza mentre lei seguiva attenta tutti i mieimovimenti.

           La suora che aveva portato quegli indumenti era già sulla porta. Tornòindietroprese quelli che mi ero tolti ed uscì. La superiora la seguì. Non mifu detto il perché di tutto quell’armeggiarené io lo chiesi. Nel frattempola mia cella era stata accuratamente frugata; materassi e guanciale erano statiscuciti; fu spostato tutto ciò che si poteva spostare o che si supponeva lofosse stato. Ripercorsero i miei passi: verso il confessionalein chiesaingiardinoal pozzoverso la panchina di pietra. Io stessa vidi una parte diquelle ricerche. Il restolo sospettai. Non trovarono niente. Rimasero peraltroconvinte che c’era qualcosa. Continuarono a spiarmi per diversi giorni.Andavano dove ero andatascrutando ovunquema invano. Alla fine la superiorasi persuase che la verità l’avrebbe saputa soltanto da me. Un giorno entrònella mia cella e mi disse:

           “Suor Susannaavete dei difettima non quello di mentire. Ditemidunque la verità: che cosa ne avete fatto di tutta la carta che vi ho dato.”

           “Signorave l’ho già detto.”

           “Non può essere. Me ne avete chiesta molta e non siete rimasta alconfessionale che pochi istanti.”

           “È vero.”

           “Allorache cosa ne avete fatto?”

           “Quello che vi ho detto.”

           “Se è cosìgiurate per la santa obbedienza votata a Dio che questaè la verità e io vi crederònonostante le apparenze.”

           “Non vi è concessosignoraesigere un giuramento per cosa di cosìlieve importanzané a me è consentito farlo. Non posso giurare.”

           “Voi mi ingannatesuor Susannae non sapete a quali rischi viesponete. Che cosa avete fatto della carta che vi ho dato?”

           “Ve l’ho detto.”

           “Dov’è?”

           “Non l’ho più.”

           “Che cosa ne avete fatto?”

           “Ciò che si fa di quella specie di scritti che diventano inutiliquando hanno servito al loro scopo.”

           “Giuratemiper la santa obbedienzache tutta la carta è servita ascrivere la vostra confessione e che non l’avete più.”

           “Vi ripetosignorache non posso giuraregiacché questa secondacosa non è più importante della prima.”

           “Giurate” mi disse“o...”

           “Non giurerò.”

           “Non giurerete?”

           “Nosignora.”

           “Allorasiete colpevole?”

           “E di che cosa posso essere colpevole?”

           “Di tutto; non vi è niente di cui non siate capace. Avete ostentato dilodare colei che mi ha precedutaper umiliarmi; di avere in spregio gli usi cheaveva proscrittole leggi che aveva abolito e che io ho creduto opportunoristabilire; avete istigato alla ribellione tutta la comunità; avete infrantole regole; avete seminato discordiaavete mancato a tutti i vostri dovericostringendomi a punirvi e a punire quelle che avete sobillatoe questa è lacosa che mi costa di più. Avrei potuto infierire contro di voi ricorrendo aisistemi più duri; vi ho risparmiataho creduto che avreste riconosciuto ivostri tortiche avreste ritrovato la disposizione d’animo che conviene alvostro statoe che sareste tornata a me. Non l’avete fatto. Nel vostro animoaccadono cose non lodevoli; avete dei progetti; l’interesse del convento esigeche io li conosca e li conosceròve lo garantisco io. Suor Susannaditemi laverità.”

           “Ve l’ho detta.”

           “Adesso me ne vadoma farete bene a temere il mio ritorno... Mi mettoa sederevi concedo ancora un momento per decidervi... Le vostre carteseesistono...”

           “Non le ho più.”

           “Oppure il giuramento che contenevano soltanto la vostraconfessione.”

           “Non lo posso fare.”

           Rimase un momento in silenziopoi uscì e tornò con quattro delle suefavorite che avevano l’aria smarrita e furente. Mi gettai ai loro piediimplorai la loro misericordia. Gridavano tutte insieme:

           “Nessuna misericordiasignora! Non vi lasciate commuovere: checonsegni le sue carte o che se ne vada in pace.”

           Abbracciavo ora i ginocchi dell’unaora dell’altra. Chiamandole pernomedicevo:

           “Suor Santa Agnesesuor Santa Giuliache cosa vi ho fatto? Perchéaizzate la superiora contro di me? Mi sono forse comportata cosìio? Quantevolte non ho interceduto per voi? Lo avete dimenticato. E voi eravate in colpamentre io non lo sono.”

           La superioraimmobilemi guardava e mi diceva:

           “Consegna le tue cartesciaguratao rivela ciò che contenevano.”

           “Signora” le dicevano“non gliele chiedete più; siete troppobuona; voi non la conoscete; è un’anima indocile che non si può domare senon ricorrendo a estremi rimedi. È lei che vi costringe. Peggio per lei.”

           “Mia cara madre” le dicevo“non ho fatto niente che possaoffendere Dio o gli uominive lo giuro.”

           “Non è questo il giuramento che voglio.”

           “Ha scritto di sicuro contro di voicontro di noi; un memoriale algran vicarioall’arcivescovoe Dio sa come avrà descritto la vita dentro ilconvento. È facile credere al male! Signoradobbiamo domare questa creaturase non volete che sia lei a disporre di noi.”

           La superiora aggiunse:

           “Vedetesuor Susanna...”

           Mi alzai bruscamente e le dissi:

           “Ho visto tuttosignora; capisco bene che mi sto perdendoma unmomento prima o un momento doponon vale la pena di stare a pensarci. Fate dime quel che volete; date ascolto al loro furoreconsumate pure la vostraingiustizia.” Senza attenderetesi loro le braccia. Le sue compagne leafferrarono. Mi strapparono il velo; mi spogliarono senza pudore. Sul petto mitrovarono un ritrattino della mia superiora. Lo presero. Le supplicai dilasciarmelo baciare ancora una volta; me lo rifiutarono. Mi buttarono addossouna camiciami levarono le calzemi coprirono con un saccoe con la testa e ipiedi nudimi fecero percorrere i corridoi. Gridavochiedevo aiutoma avevanofatto suonare la campana per avvertire che nessuno si facesse vedere. Invocavoil cielocadevo per terrae allora mi trascinavano. Quando arrivai in fondoalle scaleavevo i piedi insanguinati e le gambe piene di lividi. Ero in unostato tale da commuovere un cuore di sasso. Intanto avevano aperto con dellegrosse chiavi un piccolo sotterraneo buiodove mi gettarono su una stuoiaimputridita dall’umidità. Vi trovai un pezzo di pane nero e una broccad’acqua oltre a qualche vaso indispensabile e grossolano. La stuoia arrotolataa un’estremità fungeva anche da guanciale. Su un blocco di pietra c’era unteschio con un crocifisso di legno.

           Il mio primo impulso fu quello di uccidermi; mi portai le mani alla golami strappai gli abiti con i dentigridai orrendamenteurlai come una belva.Battei la testa contro le paretimi coprii di sangue. Cercai di distruggermifinché le forze non mi mancarono. Non ci volle molto tempo. Fu lì chetrascorsi tre giornie credevo che vi sarei rimasta per tutta la vita. Ognimattina veniva una delle mie aguzzinee mi diceva:

           “Obbedite alla vostra superiorae uscirete presto di qui.”

           “Non ho fatto nientenon so quello che vogliono da me. Ahsuor SanClementevi è un Dio...”

           Il terzo giornoverso le nove di serafu aperta la porta: erano lestesse suore che mi avevano portata lì. Dopo aver fatto l’elogio della virtùdella nostra superiorami annunciarono che ella mi faceva grazia e che miavrebbero rimessa in libertà.

           “È troppo tardi” dissi“lasciatemivoglio morire qui.”

           Frattanto mi avevano sollevata e mi trascinavano via. Mi portarono nellamia celladove trovai la superiora.

           “Mi sono rivolta a Dio perché mi illuminasse sulla vostra sorte edEgli mi ha toccato il cuore: vuole che io abbia pietà di voi e gli obbedisco.Mettetevi in ginocchio e chiedetegli perdono.”

           Mi misi in ginocchio e dissi:

           “Mio Diovi chiedo perdono delle colpe che ho commessocome voi lochiedeste per me sulla croce.”

           “Che orgoglio!” esclamarono. “Si paragona a Gesù Cristo sullacroce e paragona noi ai Giudei che l’hanno crocifisso.”

           “Non considerate me” dissi loro“ma considerate voi stesse egiudicate.”

           “Non basta” affermò la superiora“giuratemi per la santaobbedienzache non parlerete mai di quello che è accaduto.”

           “Ciò che avete fatto è dunque molto gravese esigete ch’io giuridi mantenere il silenzio? Nessunose non la vostra coscienzane saprà mainienteve lo giuro.”

           “Lo giurate?”

           “Sìve lo giuro.”

           Dopo di che mi spogliarono delle vesti che mi avevano dato e milasciarono rivestire con le mie.

 

           L’umidità mi era penetrata nelle ossa; ero in condizioni critiche.Avevo il corpo coperto di lividi; da diversi giorni non avevo preso che qualchegoccia d’acqua e un po’ di pane. Credetti che quella persecuzione sarebbestata l’ultima che avrei dovuto sopportare. Tale è l’effetto momentaneo diquelle scosse violente le quali mostrano quale sia la forza della natura nellepersone ancor giovani: mi ristabilii in pochissimo tempo e quando ricomparvitrovai tutta la comunità convinta che fossi stata malata. Ripresi gli esercizidel convento e il mio posto in chiesa.

           Non avevo dimenticato le mie cartené la giovane monaca alla quale leavevo affidate. Ero sicura che aveva ben custodito il mio depositoma che nonlo aveva tenuto senza una certa inquietudine. Alcuni giorni dopo che fui uscitadi prigionenel coroproprio nel momento in cui glielo avevo datoe cioèallorché ci mettiamo in ginocchio e piegate le une verso le altre scompariamonegli stallimi sentii tirare piano piano per l’abito. Tesi la mano e mi fuconsegnato un biglietto che conteneva queste poche parole:

           “Come sono stata in pensiero per voi! E di queste carte crudeli checosa ne devo fare?”

           Dopo averlo letto lo appallottolai fra le mani e lo inghiottii. Tuttoquesto accadeva all’inizio della Quaresima. Si avvicinava il tempo in cui lacuriosità di ascoltarci richiama a Longchamp la buona e la cattiva società diParigi. Avevo una voce molto bella che non si era sciupata. È proprio neiconventi che si bada ai minimi interessi: ebbero per me qualche riguardogodetti di un po’ più di libertà; le monache che istruivo nel canto poteronoavvicinarmi senza doverne subire le conseguenze. Quella a cui avevo affidato ilmio memoriale era fra queste; nelle ore di ricreazione che trascorrevamo ingiardinola prendevo in dispartela facevo cantaree mentre cantava ledicevo:

           “Voi conoscete molta genteio non conosco nessuno. Non vorrei che vicomprometteste; preferirei morire piuttosto che esporvi al sospetto di avermiaiutata. Voi sareste perdutaamica mialo soe questo non mi salverebbe. Eanche se la vostra perdita rappresentasse la mia salvezzaio non la vorrei aquesto prezzo.”

           “Lasciamo stare” mi disse“che cosa avete fatto del miobiglietto?”

           “State tranquillal’ho inghiottito.”

           “State tranquilla anche voimi occuperò del vostro caso.”

           Notate benesignoreche mentre lei mi parlavaio cantavoche leicantava mentre io rispondevo e che la nostra conversazione era inframmezzata dapezzi di canto.

           Quella giovanesignoreè ancora nel convento e la sua sorte è fra levostre mani. Se si venisse a scoprire quanto ha fatto per menon le sarebberisparmiato nessun tormento. Non vorrei averle aperto la porta di una segreta.Preferirei essere io a tornarvi. Perciòsignorebruciate queste lettere. Sesi eccettua l’interesse che vorrete dimostrare per la mia sorteesse noncontengono niente che valga la pena di esser conservato. Ecco quello che vidicevo allorama ahimè! la mia giovane amica non è più di questo mondoe iosono sola.

           Ella non tardò a mantenere la parola e a tenermi informata secondo ilnostro solito sistema. Giunse la settimana santa: vi fu una notevole affluenzadi pubblico alle “tenebre”[21].Cantai abbastanza bene da suscitare il fragore di quegli applausi scandalositributati ai vostri attori nei teatri e che non dovrebbero mai essere sentitinei templi del Signoresoprattutto durante i giorni solenni e tristi in cui sicelebra la memoria di suo figlio inchiodato sulla croce per l’espiazione dellecolpe del genere umano. Le mie giovani allieve erano ben preparate; alcuneavevano una bella voce; quasi tutte erano dotate di espressione e buon gusto emi parve che il pubblico le avesse ascoltate con piacere e che la comunitàfosse soddisfatta del successo dovuto ai miei sforzi.

           Voi sapetesignoreche il giovedì si trasporta il Santissimo dal suotabernacolo ad un sepolcro particolare dove esso rimane fino al venerdìmattina. Durante quest’intervallo di tempo si susseguono le adorazioni dellemonache che si recano al sepolcro l’una dopo l’altraoppure a due a due. Suuna tabella viene indicata a ciascuna la propria ora di adorazione. Come fuifelice di leggervi: Suor Santa Susanna e suor Sant’Orsoladalle 2 alle 3del mattino. Mi recai dunque al sepolcro all’ora stabilita; la miacompagna vi si trovava di già. Ci mettemmo l’una accanto all’altra suigradini dell’altare; ci prosternammo insiemeadorammo Dio per una mezz’ora.A questo puntola mia giovane amica mi tese la mano e strinse la mia dicendo:“Forse non avremo mai l’occasione di stare insieme tanto a lungo e tantoliberamente; Dio sa in quali costrizioni viviamo e ci perdonerà se gliprendiamo un po’ del tempo che dovremmo dedicare a Lui. Non ho letto il vostromemorialema non è difficile immaginare ciò che contiene. Presto avrò larispostama qualora vi autorizzi a procedere allo scioglimento dei vostri votinon pensate che dovrete necessariamente conferire con uomini di legge?”

           “È vero.”

           “E che avrete bisogno di libertà?”

           “È vero.”

           “E che se intendete far beneapprofitterete della condizione attualeper procurarvela?”

           “Ci ho pensato.”

           “Allora lo farete?”

           “Vedrò.”

           “Ancora una cosa: se la vostra iniziativa prende l’avviorimarretequi abbandonata a tutto il furore della comunità. Avete previsto lepersecuzioni che vi attendono?”

           “Non saranno peggiori di quelle che ho già subito.”

           “Non ne sono sicura.”

           “Perdonatemi. In primo luogo non oseranno privarmi della mia libertà.”

           “E perché?”

           “Perché allora sarò sotto la protezione della legge; dovranno far sìche mi vedano; saròper così diretra il mondo e il chiostro; avrò lapossibilità di parlarequella di fare le mie rimostranze; vi chiamerò tutte atestimoni. Non oseranno farmi dei torti dei quali potrei lamentarmi; starannoattenti a non rendere il caso ancor peggiore. Io non chiederei di meglio che diessere trattata malema non lo faranno. State tranquilla che assumeranno uncontegno del tutto opposto a quello adottato finora. Mi rivolgerannoesortazioni; mi spiegheranno il torto che farò a me stessa e al convento epotete star certa che passeranno alle minacce soltanto quando avranno visto chedolcezza e seduzione non serviranno a nientee avranno escluso di far ricorsoalla forza.”

           “È davvero incredibile che nutriate tanta avversione per uno stato dicui adempite gli obblighi con una tale facilità e un tale scrupolo.”

           “Ma io la sento questa avversione; è nata con mee non mi lascerà.Finirei con l’essere una cattiva monaca; e devo prevenire quel momento.”

           “E se per disgrazia non ce la farete?”

           “Se non ce la faròchiederò di cambiare conventooppure morirò inquesto.”

           “Si soffre a lungo prima di morire. Ahamica miail vostro passo mifa fremere: tremo nel timore che i vostri voti non siano scioltima tremo ancheal pensiero che lo siano. In tal casoche ne sarà di voi? Che farete nelmondo? Siete bellaricca di spirito e di qualitàma dicono che tutto questonon serve a niente con la virtù. Ed io so che voi sarete sempre virtuosa.”

           “Voi rendete giustizia a mema non alla virtù. Io faccio assegnamentosoltanto su di essa: più è rara fra gli uominitanto più deve essere tenutain considerazione.”

           “La si lodama non si fa niente per essa.”

           “Ma è la virtù che mi incoraggia e mi sostiene nel mio progetto.Potranno farmi qualunque obiezionema dovranno rispettare i miei costumi.Almeno non si diràcome si dice di quasi tutte le altreche io sia stataindotta ad abbandonare il mio stato dietro la spinta di una passione sfrenata.Non vedo nessunonon conosco nessuno. Chiedo di essere liberaperché ilsacrificio della mia libertà non è stato volontario. Avete letto il miomemoriale?”

           “Noho aperto il pacchetto che mi avete dato perché era senzaindirizzo e ho pensato che potesse essere per mema sin dalle prime righe hocapito di che si trattava e non sono andata avanti. Che felice ispirazioneaveste nel darmelo! Un minuto dopol’avrebbero trovato su di voi... Ma ormaiil nostro turno sta per finire: inginocchiamociaffinché le monache cheprenderanno il nostro postoci trovino nella posizione dovuta. Chiedete a Dioche vi illumini e vi guidi; unirò ai vostri sospiri i miei sospiri e la miapreghiera.”

           La mia anima era un po’ sollevata. La mia compagna pregava eretta; iomi prosternai con la fronte appoggiata sull’ultimo gradino dell’altare e lebraccia tese sui gradini superiori. Non credo di essermi mai rivolta a Dio conmaggior consolazione e maggior fervore. Il cuore mi palpitava con violenza; inun attimo dimenticai tutto quello che mi circondava. Non so per quanto temporimasi in quella posizionené per quanto ancora vi sarei rimastama dovetteessere uno spettacolo davvero commovente per la mia compagna e le due suore chesopraggiunsero. Quando mi rialzaicredetti di essere sola. Mi sbagliavo: eranotutte e tre in piedi dietro le mie spallee si scioglievano in lacrime. Nonavevano osato interrompermi; aspettavano che uscissi spontaneamente dallo statodi trasporto e di rapimento in cui mi vedevano. Quando mi voltai dalla loroparteil mio volto doveva esprimere qualcosa che incuteva rispettoa giudicaredall’effetto che produsse su di loro e da quello che poi mi disseroe cioèche in quel momento assomigliavo alla nostra superiora di prima quando ciconsolavae che il vedermi aveva provocato in loro lo stesso trasalimento. Seavessi avuto una qualche inclinazione per l’ipocrisia o il fanatismoe seavessi voluto impormi nel conventosono certa che vi sarei riuscita. La miaanima si accende facilmentesi esaltasi commuove; quella stessa buonasuperiora mi ha detto cento volte abbracciandomi che nessuno avrebbe amato Diocome meche io avevo un cuore di carnementre le altre lo avevano di pietra.Non vi è dubbio che condividevo la sua estasi con estrema facilità; e chedurante le sue preghiere ad alta vocemi accadeva a volte di rubarle la paroladi seguire il filo delle sue idee ecome per ispirazionedi ritrovarmi a direciò che lei stessa avrebbe detto. Le altre l’ascoltavano in silenzio o laseguivano; io invece la interrompevoo la anticipavoo parlavo con lei. Moltoa lungo durava in me l’impressione che avevo ricevuta; evidentemente dovevorestituirgliene una partegiacché se nelle altre si vedeva che avevanoconversato con leiin lei si vedeva che aveva parlato con me. Ma che vuol direquando non c’è vocazione?...

           Finito il nostro turnocedemmo il posto alle monache che venivano dopodi noi. Prima di separarcila mia giovane compagna ed io ci abbracciammo congrande tenerezza.

           La scena del sepolcro fece rumore in convento; si aggiunga il successoottenuto con le “tenebre” del venerdì santo: cantaisuonaifuiapplaudita. Ohteste folli delle monache! Non ebbi quasi niente da fare perriconciliarmi con tutta la comunità; furono loro a venirmi incontrocon lasuperiora in testa. Alcune persone del gran mondo cercarono di fare la miaconoscenza. Ciò collimava troppo bene con il mio progetto perché potessirifiutarmi. Conobbi così il Primo Presidentela signora di Soubisee unaquantità di gente dabbenefratipretimilitarimagistratidonne piedonnedi mondo e fra gli altri quella specie di giovani vanesi che voi chiamate tacchirossi e che io mi affrettai a congedare. Non coltivai altre conoscenze senon quelle che non potevano venirmi rimproverate; il restolo abbandonai aquelle fra le nostre consorelle che non erano di gusti tanto difficili.

           Dimenticavo di dirvi che il primo segno di bontà che mi testimoniaronofu quello di riassegnarmi la mia cella. Ebbi il coraggio di richiedere ilritrattino della nostra superiora di primae loro non ebbero il coraggio dirifiutarmelo. Ha ripreso il suo posto sul mio cuore e vi resterà finché avròvita. Tutte le mattine il mio primo impulso è quello di elevare l’anima aDioil secondo è quello di baciare quel ritratto; quando voglio pregare esento la mia anima indifferenteme lo tolgo dal collome lo metto davantiloguardo e ne ricevo ispirazione. È davvero peccato che non abbiamo conosciuto isanti personaggi le cui immagini sono esposte alla nostra venerazione. Farebberouna ben altra impressione su di noi; non ci lascerebbero così freddi ai loropiedi o in loro presenza.  

 

           Ebbi la risposta al mio memoriale. Veniva da un certo signor Manouri enon era né favorevolené sfavorevole. Prima di pronunciarsi sul casomichiedeva un gran numero di delucidazioni che non avrei potuto dargli se non dipersona. Svelai perciò la mia identità e invitai il signor Manouri a venire aLongchamp. Quel genere di signori si sposta difficilmente. Tuttavia venne. Ciintrattenemmo molto a lungo: prendemmo accordi circa una corrispondenza con laquale mi avrebbe fatto pervenire con sicurezza le sue domande e io gli avreimandato le mie risposte. Per parte mia dedicai tutto il tempo che egliconsacrava al mio casoa ben disporre gli animia interessare gente alla miasorte e a procurarmi delle protezioni. Mi feci conoscere; raccontai il miocomportamento nel primo conventole mie pene tra le mura domestichela miaprotesta a Santa Mariail mio soggiorno a Longchampla vestizionelaprofessione dei votila crudeltà con la quale ero stata trattata da quando liavevo pronunciati. Mi compianseromi offrirono aiuto; presi atto della buonavolontà che mi veniva testimoniata per il tempo in cui avrei potuto avernebisogno senza fornire ulteriori spiegazioni. Nel convento non era ancoratrapelato niente. Avevo già ottenuto da Roma il permesso di fare ricorso controi miei votiben presto l’azione sarebbe stata intentata e in convento nessunosospettava niente. Vi lascio quindi immaginare quale fu la sorpresa della miasuperiora quando le fu notificataa nome di suor Maria Susanna Simoninunaprotesta contro i suoi voticon la richiesta di lasciare l’abito monastico edi uscire dal chiostro per disporre di se stessa come meglio avesse creduto.

           Avevo ben previsto che avrei trovato innumerevoli opposizioni: quelladelle leggiquelle del conventoe quella dei miei cognati e delle mie sorelleallarmati. Avevano ereditato tutti i beni di famiglia e temevano che una voltalibera mi sarei rivalsa su di loro. Scrissi alle mie sorellefeci appello allaloro coscienzaricordando come i voti mi fossero stati imposti; offrii loro dirinunciare con atto autenticato a tutte le mie pretese sull’eredità di miopadre e di mia madre. Non lasciai niente di intentato per convincerle che non sitrattava di un passo dettato dall’interesse o dalla passione. Non mi feciillusioni circa i loro sentimenti; l’atto da me propostoredatto mentre eroancora vincolata dai votinon sarebbe stato validoed esse non avevano alcunacertezza che lo avrei ratificato quando fossi stata libera. E poicheconvenienza avevano ad accettare le mie proposte? Potevano lasciare una sorellasenza asilo e senza fortuna? Avrebbero potuto godere del suo patrimonio? Checosa avrebbe detto la gente? Se venisse a chiederci un pezzo di panecomepotremmo rifiutarglielo? E se le fosse saltato in mente di sposarsichissà chegenere di uomo avrebbe sposato? E se avesse avuto dei figli?... Dobbiamo opporcicon tutte le nostre forze a questo pericoloso tentativo. Ecco ciò che dissero eciò che fecero.

           Appena la superiora ebbe ricevuto l’atto giuridico della mia domandaaccorse nella mia cella:

           “Ma comesuor Susanna” mi disse“volete lasciarci?”

           “Sìsignora.”

           “E farete ricorso contro i vostri voti?”

           “Sìsignora.”

           “Non li avete forse pronunciati liberamente?”

           “Nosignora.”

           “E chi vi ha costretta?”

           “Tutto.”

           “Il vostro signor padre?”

           “Mio padresì.”

           “La vostra signora madre?”

           “Proprio lei.”

           “E perché non protestare ai piedi dell’altare?”

           “Ero così poco in meche non ricordo nemmeno di averci assistito allacerimonia.”

           “Come potete parlare così?”

           “Dico la verità.”

           “Come! Non avete sentito il sacerdote quando vi chiedeva: “Suor SantaSusanna Simoninpromettete a Dio obbedienzacastità e povertà?””

           “Non lo ricordo.”

           “E voi credete che gli uomini vi crederanno?”

           “Mi credano o non mi credanonon per questo i fatti saranno menoveri.”

           “Figliola miase venisse dato ascolto a pretesti similiimmaginatequali abusi ne deriverebbero! Avete fatto un passo sconsiderato; vi sietelasciata trascinare da un desiderio di vendetta; provate rancore per i castighiche mi avete costretta ad infliggervi; avete creduto che sarebbero statisufficienti per sciogliere i vostri voti. Vi siete sbagliata: non è possibilené davanti a Dioné davanti agli uomini. Pensate che lo spergiuro è lapeggiore delle colpe. Pensate che voi l’avete già commessa nel vostro cuoree ora state per consumarla nei fatti.”

           “Non sarò spergiura. Non ho giurato niente.”

           “Se vi è stato fatto qualche tortonon è già stato riparato?”

           “Non sono stati quei torti a farmi decidere.”

           “Che cosa è stato allora?”

           “La mancanza di vocazionela mancanza di libertà nei miei voti.”

           “Se non eravate chiamatase eravate costrettaperché non lo dicestequando era tempo?”

           “E a che cosa mi sarebbe servito?”

           “Perché non dimostraste la stessa fermezza che avevate dimostrato aSanta Maria?”

           “La fermezza dipende forse da noi? Fui ferma la prima volta; la secondaero come inebetita.”

           “Perché non avete consultato un uomo di legge? Perché non aveteprotestato? Avete avuto ventiquattro ore di tempo per constatare il vostroripensamento.”

           “Che cosa ne sapevoiodi queste formalità? E anche se le avessisaputeero forse in grado di fare ricorso? E se anche fossi stata in grado difare ricorsol’avrei forse potuto? Ma comesignora! Voi stessa non vi sieteresa conto della mia alienazione? Se vi chiamo a testimonegiurerete che ero inpossesso di tutte le mie facoltà mentali?”

           “Lo giurerò.”

           “Ebbenesignorasarete voie non iola spergiura.”

           “Figliola miafarete uno scandalo inutile. Tornate in voive nescongiuro per il vostro interesseper quello del convento; queste cose nonaccadono senza portarsi dietro uno strascico di discussioni scandalose.”

           “Non sarà colpa mia.”

           “La gente è cattiva: farà le peggiori supposizioni sul vostrospiritosul vostro cuoresui vostri costumi; crederanno...”

           “Credano pure ciò che vogliono.”

           “Suvviaparlatemi a cuore aperto; se avete qualche segreta ragioned’essere scontentaqualunque essa siac’è un rimedio a tutto.”

           “Erosonoe sarò per tutta la vitascontenta del mio stato.”

           “E se fosse lo spirito maligno che è sempre attorno a noi e vuole lanostra perditache approfitta della troppo grande libertà che vi è stataconcessa da qualche tempoper ispirarvi tendenze funeste?”

           “Nosignora; voi sapete quanto mi costi un giuramento: ebbenechiamoDio a testimone che il mio cuore è innocente e che non ha mai nutrito nessunsentimento di cui dovessi vergognarmi.”

           “È inconcepibile.”

           “Eppuresignoranon vi è nulla di più concepibile. Ciascuno ha ilproprio carattereed io ho il mio. A voi piace la vita monasticaio la odio;voi avete ricevuto da Dio la grazia del vostro statoio non ne ho alcuna. Nelmondovoi vi sareste perdutae qui vi assicurate la salvezza eterna; io invecemi perderei quie spero di salvarmi nel mondo. Sono e sarei una cattivamonaca.”

           “E perché? Nessuno adempie i propri doveri meglio di voi.”

           “Ma a faticae controvoglia.”

           “Il vostro merito è ancor più grande.”

           “Nessuno può sapere meglio di me quello che meritoe sono costretta ariconoscere che sottomettendomi a tuttoio non merito niente. Sono stanca diessere ipocrita; facendo ciò che salva le altremi detesto e mi danno. Inpoche parolesignoranon conosco vere suore se non quelle che sono trattenutequi dentro dal loro amore per la vita ritirata e che vi resterebbero anche senon fossero circondate da grate e mura per trattenerle. Sono molto lontana daloro! Il mio corpo è quima non il mio cuore; esso è fuorie se dovessiscegliere tra la morte e la clausura perpetuanon esiterei a morire. Eccoquello che penso.”

           “Come! voi lascereste senza rimorsi questo veloquesti abiti che vihanno consacrata a Cristo?”

           “Sìsignoraperché li ho presi senza riflessione e senza libertà...”

           In verità le risposi con molta moderazione se penso a quello che misuggeriva il cuore. Esso mi diceva: “Ohquando giungerà il momento in cuipotrò stracciarli e buttarli lontano da me!”

           Ciò nonostantela mia risposta la scosse. La superiora impallidìtentòancora di parlarema le sue labbra tremavano; non sapeva bene nemmeno lei checosa dirmi. Io misuravo a gran passi la cellaed ella allora esclamò:

           “Ohmio Dio! che diranno le nostre sorelle? OhGesù! volgete su dilei uno sguardo pietoso! Suor Santa Susanna?”

           “Signora?”

           “Ma alloraè un partito preso? Voi volete disonorarcifarcidiventare la favola pubblicaperdervi!”

           “Voglio uscire di qui.”

           “Ma se è solamente perché questo convento non vi piace...”

           “È questo conventoè il mio statoè la religione; non voglioessere rinchiusa ne quiné altrove.”

           “Figliola miavoi siete posseduta dal demonio; è lui che vi spingealla ribellioneche vi fa parlareche vi trascina. Non c’è niente di piùvero: guardate in che stato siete!”

           Mi detti un’occhiata e vidi che in effetti il mio abito era scompostoil soggolo di traverso e che il velo mi era caduto sulle spalle. Miinfastidivano le parole di quella perfida superiora con il suo tono raddolcito efalsoe le dissi indispettita:

           “Nosignoranonon voglio più saperne di questo abitonon vogliopiù saperne...”

           Intanto cercavo di riaggiustarmi il velo; le mani mi tremavanoe più misforzavo di metterlo a postomeno ci riuscivo; spazientitalo afferrai conviolenzalo strappailo buttai per terrae rimasi di fronte alla miasuperiora con la fronte cinta da una fascia e tutta scapigliata. Nel frattempoleiincerta se restare o uscireandava e veniva dicendo:

           “OhGesù! questa qui è posseduta dal demonioè davvero possedutadal demonio...”

           E l’ipocrita si faceva il segno della croce con il rosario. Non mi civolle molto a tornare in me; sentii l’indecenza della mia condizione el’imprudenza dei miei discorsi; mi ricomposi come meglio potei; raccattai ilvelo e me lo rimisipoivolgendomi verso di leile dissi:

           “Signoranon sono né pazzané posseduta dal demonio; mi vergognodella mia violenza e ve ne chiedo perdono. Ma giudicate voi stessa quanto pocomi si addica la vita del chiostroe come sia giusto che io cerchise possodivenirne fuori.”

           E leisenza ascoltarmiripeteva:

           “Che dirà la gente? Che diranno le nostre sorelle?”

           “Signora” le dissi“volete evitare uno scandalo? Ci sarà pure unmezzo. La dote non mi interessa; io non chiedo che la libertà. Non chiedo chevoi mi apriate le portema che facciate in modooggidomaninei giorni cheverrannoche siano mal sorvegliate. Voi vi dovrete soltanto accorgere della miaevasione il più tardi possibile...”

           “Sciaguratache cosa osate propormi?”

           “Un consiglioche una buona e savia superiora dovrebbe seguire contutte quelle monache per le quali il convento è una prigione. E il convento perme è una prigione mille volte più orrenda di quella in cui vengono rinchiusi imalfattori; non posso che uscirne o morirvi... Signora” seguitai assumendo untono grave e uno sguardo fermo“mi ascolti: se le leggi alle quali ho fattoappello deludessero le mie aspettative e sespinta dagli impulsi di unadisperazione che conosco fin troppo bene... c’è un pozzo... ci sono dellefinestre in convento... ovunque vi sono dei muri... l’abito si può fare apezzi... e si può anche far ricorso alle mani...”

           “Bastasciagurata! mi fate fremere d’orrore... Come! Voipotreste...”

           “Potreiin mancanza di tutto quello che mette bruscamente fine ai malidella vitapotrei rifiutare il cibo; si è padroni di mangiare e di beresi èpadroni anche di non farlo... Se mai accadessedopo tutto quello che vi hodettoche io trovassi il coraggio... - e voi sapete bene che il coraggio non mimancae che talvolta ce ne vuole di più per vivere che per morire -immaginatevi al cospetto di Dio e del suo giudizioe ditemi chitra lasuperiora e la monacagli sembrerebbe più colpevole... Iosignoranon chiedoe non chiederò mai niente al convento; risparmiatemi una colparisparmiatevidei lunghi rimorsi: mettiamoci d’accordo...

           “Ma vi rendete contosuor Susanna? Io dovrei mancare al primo dei mieidoveridovrei collaborare a una colparendermi complice di un sacrilegio!”

           “Il vero sacrilegiosignorasono io che lo commetto tutti i giorniprofanando con il disprezzo gli abiti sacri che indosso. Toglietemelinon nesono degna; fate cercare in paese gli stracci della contadina più poveraefate in modo che la porta della clausura mi venga socchiusa...”

           “E dove andrete per stare meglio?”

           “Non so dove andròma si sta male soltanto laddove Dio non ci vuolee Dioquinon mi vuole.”

           “Non possedete niente.”

           “È veroma l’indigenza non è la cosa che mi fa più paura.”

           “Abbiate almeno paura dei disordini ai quali essa trascina.”

           “Il passatosignorasi fa garante dell’avvenire; se avessi volutodare ascolto al peccatoora sarei libera. Ma se mi sarà dato di uscire daquesto conventociò avverrà con il vostro consensoo per l’autorità delleleggi. Avete la scelta.”

           Era stata una lunga discussione. Nel ricordarlaarrossisco delle coseindiscrete e ridicole che avevo fatto e dettoma ormai era troppo tardi. Lasuperiora stava ancora esclamando “che dirà la gente! che diranno le nostresorelle!”allorché la campana che ci chiamava all’uffizio ci avvertì cheera giunto il momento di separarci.

           Nel lasciarmila superiora mi disse:

           “Suor Santa Susannaadesso state per andare in chiesa: chiedete a Dioche vi tocchi il cuore e che vi renda la consapevolezza del vostro stato.Interrogate la vostra coscienza e ascoltate ciò che essa vi dirà: èimpossibile che non vi faccia dei rimproveri. Vi dispenso dal canto.”



[1]Questa premessa su Diderot è tratta dal mio studio La “religieuse” di Diderot e “La Capinera” di Vergain VariaCultura anno 1 n.0/2000pp.17-24.

[2]SusannaSimonin (Suor Santa Susanna)nata da una relazione adulterina della madre è costretta al velo: è mandata al monastero delleclarisse di Santa Mariadove sta per pronunciare i votima in un attimo dilucidità a viva forza proferisce il suo no; suo padre non ha intenzione diprovvedere a leiil convento le garantirà una vita serena così si sottomette al padre e  viene inviata almonastero di Longchamp -nei dintorni di Parigi-; qui pronuncia i votievive lo stato incarnando la perfetta monacaligia ai doverima tristenell’anima poiché privata della libertà. Qui sarà oggetto della perfidia giansenista della priora Suor Cristina.Quando muoiono i suoi genitori Susanna non ha più vincoli: chiedel’annullamento dei votima l’avvocato Manouribenché persa la causale ottiene una dote che le permetterà di essere trasferita in un altromonastero dello stesso ordinead Arpajon. La nuova situazione in apparenza è migliorecela  ildisordine morale del convento. Susanna incitata da don Morel tenta la fuga.La sua storia termina  descrivendose stessa a lavorare presso  unastiratrice vicino Parigi.  Lecitazioni dei passi del romanzo sono tutte mie traduzionitesto de LareligiueseFolio 1988.

[3]Segnalo che alcuni traduttori preferiscono tradurre religieuse con monaca e non con religiosatermine questo che designa lo stato in sé: è preferibile la traduzione religiosasinonimo di monaca ed espressione compiuta dello stato di vitaed è la piùvicina al termine francese

[4]“Per la sua  formazionespirituale e il suo stile Diderot fu anche il più interessante deglienciclopedistiè l’uomo più ricco di idee del suo secolo. Il suomaterialismo è poetico e panteistico. Sulla visione della natura si basa lasua morale; sono le commoventi scene familiari che risvegliano il suoentusiasmo”. Erich AuerbachIntroduzionealla filologia romanzaEinaudi 1963pp. 253-254 con tagli.

[5]Diderot inviando il manoscritto a Meister scrive: “Non credo che sia maistata scritta una satira spaventevole contro i conventi”. In questamissiva è Diderot che chiarisce  ilvalore del suo romanzoè la risposta al divertimentoalla spensieratezza di Jacques le Fataliste.Dunque la storia di Susanna è seriamerita attenzione e deve indurre lariflessione.  

[6]George May ha  dimostrato che lafigura di Susanna si identificherebbe in Margherita Delamarreche tentò indue appelli di farsi annullare i votifra il 1752 e il 1758. La zona in cuila Delamarre visse è  pressoLongchampda cui si è dedotto che l’ordine a cui Susanna appartiene èquello delle Clarisse. Alcuni degli atti del processo della Delamarre furonopubblicatipertanto Diderot non poteva non esserne al corrente. CfrGeorge MayDiderot et “LaReligieuse”Presses Universitaires de France1954.

[7]La diatriba dell’identificazione di Susanna la scioglie la figlia diDiderotM.me De Vandeul che rivolgendosi a Meister  attesta che“Una sorella di mio padre volle consacrarsi allo stato religioso…abusarono della sua forza fisica. Il destino di questa suora ha dato a miopadre l’idea del romanzo della Monaca” cfrLa monacatraduzionedi P. BianconiB.U.R.Milano  1956;p.9.

[8]Laregola che Susanna professarà  aLongchamp  è quella di SantaChiara.

[9]Viè un passo (cap. IV) -enigmatico-  incui Susanna accenna al padre mortoin cui apparentemente la penna lavorrebbe vendicarema la pietà della monaca prevalearrivando a dire:“Chiudiamo subito gli occhilà dove mi mostrano il signor Simonincomenon voglio affatto ricordarlo. Non c’è più”. Questa situazione siriferisce alla lettera scritta da Susanna con la quale si sottometteva apronunciare i voti. Questo scritto indirizzato alla priora finì nelle manidei cognati. La velata allusione di Susanna è che fu il padre a consegnarliai generiaffinché dimostrassero che lei fu a scegliere di monacarsi.

[10]Su  madre De Moni alcuni criticiaccentuano il suo entusiasmo mistico e lo assimilano ad una forma dicondizionamento. Susanna precisa che  c’estpourtant sa bonté  qui m’aperdue. Trad.: è stata pertanto la sua bontà a smarrirmieDiderot le pone  in bocca frasidenigratorie verso  queireligiosi che biasimano la vita laica senza sforzarsi di comprenderne il piùalto valore. Madre De Moni nondimeno è la superiora più equilibrata del romanzoquale priora valuta ilcaso di Susanna con attenzionee come religiosa devota si affida allepreghiere per raccomandarla a Diopresaga del destino cui Susanna andràcontro quando il suo priorato terminerà.

[11]Credosia lecito supporre che per questa antipatiasuor Cristina confinò nellasegreta  più religioselo siintuisce dal contesto dei successivi capitoli

[12]Jene voulais entendre parler jansenisme et molinisme ni en bien ni en mal.Quand on me domandait si j'étais soumis à la constitution je repondais queje l'étais à l'église; si j'acceptais la bulle que j'acceptais l'évangile;nonvolevo ascoltare discorsi sul giansenismo e di molinismo né in bene né in male. Quandomi si chiedeva se fossi sottomessa alla costituzione rispondevo che lo eroalla chiesa se accettavo la bolla e il Vangelo.

Labolla cui allude Susanna è la Unigenitus (1713)promulgata daClemente XIche condanna in modo definitivo il giansenismo.

[13]Voltaire Dizionario filosoficotraduzione di Rino Lo Re e LiberoSosioB.I.T.Milano. Voce religionep. 273.

[14]Cfr.E. CATTANEOLe monacazioni forzate fra Cinque e Seicentoin AA.VV. Vita e processo di suor Virginiade Leyva monaca di MonzaGarzantiMilano 1985;cit p.161

[15]Vedere nota 6.

[16]I Foglianti sono religiosi appartenenti all’ordine di San Bernardo. Illoro convento era vicino alle Tuileries.

[17]Vicino Parigi.

[18]Aria del Castore e Polluce di Rameau1737.

[19]Sono le parti che regolano la vita pratica della Regola monastica.

[20]Vedi nota 11.

[21]Liturgia del venerdì santo.

Scendemmo apoca distanza l’una dall’altra. Quando l’uffizio ebbe terminementretutte le suore stavano per separarsila superiora dette un colpetto sul suobreviario che le fece fermare.

           “Sorelle” disse“vi invito a prosternarvi ai piedi dell’altaree ad implorare la misericordia di Dio su una monaca che egli ha abbandonatocheha perduto l’amore e lo spirito della religionee che sta per compiereun’azione sacrilega agli occhi di Dio e scandalosa agli occhi degli uomini.”

           Non saprei descrivervi la sorpresa generale; in un batter d’occhiociascuna di lorosenza muoversiscrutò il viso delle sue compagne cercando diindividuare la colpevole dal suo imbarazzo. Si prosternarono tutte quante epregarono in silenzio. Dopo un lasso di tempo abbastanza lungola priora intonòa bassa voce il Veni Creator e le monache ripresero a bassa voce il VeniCreator. Poidopo un altro momento di silenziola superiora batté sulleggio e tutte quante uscimmo.

           Vi lascio immaginare il mormorio che si levò dalla piccola comunità“Chi è? chi non è? che cosa ha fatto? Che cosa vuol fare?...” Gliinterrogativi non durarono a lungo. La mia domanda cominciava a fare scalpore insocietà; ricevevo continuamente visite: chi veniva a rimproverarmichi a darmiconsiglichi mi approvavachi mi biasimava. Avevo un solo modo pergiustificarmi agli occhi di tuttied era di metterli al corrente della condottadei miei genitori. Non vi sarà difficile immaginare con quale riserbo lodovessi fare. Solo a poche personeche mi restarono sinceramente affezionateeal signor Manouriche si era incaricato di patrocinare la mia causapotevoconfidarmi a cuore aperto.

           Quando ero spaventata dai tormenti che mi venivano minacciatiquellasegretadove già una volta ero stata trascinatatornava a presentarsi allamia immaginazione in tutto il suo orrore: conoscevo bene il furore dellemonache. Comunicai i miei timori al signor Manouri ed egli mi disse:

           “È impossibile evitarvi ogni genere di afflizioni: ne dovretesopportaree sicuramente vi siete preparata. Dovete armarvi di pazienza e farvicoraggio con la speranza che finiranno. Quanto alla segretavi prometto che nonci tornerete mai più; ci penserò io...”

           Pochi giorni dopoinfattipresentò alla superiora l’ordine di farmicomparire ogni qualvolta fosse stato richiesto. Il giorno seguentedopol’uffiziofui ancora raccomandata alle preghiere pubbliche della comunità:le monache pregarono in silenzioe a voce bassa fu intonato lo stesso inno delgiorno prima. Stessa cerimonia il terzo giorno con la differenza che mi fuordinato di rimanere in piedi in mezzo al coroe che furono recitate lepreghiere per gli agonizzantile litanie dei santicui rispondeva ogni voltala formula ora pro ea. Il quarto giorno fu la volta di una messa in scenache caratterizzava alla perfezione l’indole bizzarra della superiora. Allafine dell’uffiziomi fecero sdraiare in una bara in mezzo al coro: misero deicandelieri e un’acquasantiera ai lati della bara; mi coprirono con un sudarioe recitarono l’uffizio dei morti. Dopo di che ogni monacanell’andarsenemi asperse di acqua benedettadicendo “Requiescant in pace”. Bisognacapire la lingua dei conventi per cogliere la minaccia racchiusa in questeultime parole. Due monache sollevarono il sudario e mi lasciarono lìcon lapelle tutta bagnata dall’acqua con la quale mi avevano malignamenteinnaffiata. Gli abiti mi si asciugarono addosso; non avevo di che cambiarmi.

           Questa mortificazione fu seguita da un’altra. La comunità si riunì;fui guardata come una reproba; il passo che avevo compiuto fu tacciato diapostasia; a tutte le suore fu proibito di parlarmidi soccorrermidiavvicinarmie persino di toccare le cose che fossero servite a me. Questiordini vennero rigorosamente eseguiti. I nostri corridoi sono stretti e inalcuni punti due persone si incrociano a malapena: se mentre camminavo per icorridoi una monaca fosse venuta nella mia direzionetornava sui suoi passioppure si schiacciava contro la paretetenendosi il velo e l’abito per paurache mi sfiorassero. Se dovevano ricevere qualcosa da meio la posavo per terrae loro la prendevano con una pezzuola; se avevano qualcosa da darmime labuttavano. Se per disgrazia mi avevano toccatosi credevano insozzate eandavano a confessarsi e a farsi assolvere dalla superiora. È stato detto chel’adulazione è vile e bassama è anche assai crudele e ingegnosa allorchési tratta di piacere grazie alle mortificazioni che inventa.

           Quante volte mi sono ricordata le parole della mia celeste superiora deMoni:

           “Tra tutte queste creature che vedete intorno a mecosì docilicosìinnocenticosì dolcisappiatefigliola miache non ve n’è quasi unasolanoquasi una soladi cui non possa fare una bestia feroce; stranametamorfosi che è tanto più facile subire quanto più si è entrate giovani inuna cella e perciò meno si conosce la vita di società. Questo discorso vistupisce. Dio vi guardi dallo sperimentarne la veritàsuor Susannala buonamonaca è quella che porta nel chiostro qualche grave colpa da espiare.”

           Mi fu tolto ogni incarico. In chiesagli stalli a sinistra e a destradel mio venivano lasciati vuoti. Nel refettorioero sola a una tavola e nessunomi serviva; ero costretta ad andare in cucina per chiedere la mia porzione. Laprima volta la suora cuciniera mi gridò:

           “Non entratestate lontana...”

           Le obbedii.

           “Che cosa volete?”

           “Da mangiare.”

           “Da mangiare? Non siete degna di vivere.”

           Qualche volta me ne andavo e passavo la giornata senza mangiare niente.Qualche volta insistevo e allora mi mettevano sulla soglia certe vivande che cisi sarebbe vergognati a presentare a delle bestie; io le raccattavo piangendo eme ne andavo. Se mi capitava di arrivare per ultima alla porta del corolotrovavo chiuso. Allora mi inginocchiavo e aspettavo la fine dell’uffizio. Setrovavo chiusa la porta del giardinome ne tornavo nella mia cella. Intantomentre le mie forze andavano declinando per il cibo scarsola cattiva qualitàdi quello che prendevo e ancor più per il dolore che provavo nel doversopportare così innumerevoli e reiterate manifestazioni di inumanitàsentiiche se avessi persistito nella sofferenza senza protestarenon avrei mai vistola fine del mio processo. Mi decisi perciò a parlare alla superiora; ero mezzamorta di paura e ciò nonostante andai a bussare pian piano alla sua porta. Aprìe nel vedermi arretrò di diversi passigridandomi:

           “Allontanateviapostata!”

           Indietreggiai.

           “Ancora...”

           Indietreggiai ancora.

           “Che cosa volete?”

           “Giacché né Dioné gli uomini mi hanno condannata a morirevogliosignorache ordiniate di lasciarmi vivere.”

           “Vivere” mi disseripetendomi le parole della suora cuciniera“ne siete forse degna?”

           “Dio soltanto può saperloma vi avverto che se mi rifiutano ancora ilcibosarò costretta a fare le mie rimostranze a coloro che mi hanno presasotto la loro protezione. Sono qui soltanto di passaggioin attesa che venganodecisi la mia sorte e il mio stato.”

           “Andatevene” mi disse“non sporcatemi con i vostri sguardi;provvederò.”

           Me ne andaied ella sbatté con violenza la porta. È probabile cheabbia dato degli ordinima non per questo fui trattata meglio. Le monache sifacevano un vanto di disobbedire; mi gettavano le vivande più grossolane e perdi più le insozzavano di cenere e di ogni sorta di immondizie.

 

           Questa fu la mia esistenza finché durò il processo. Il parlatorio nonmi fu del tutto vietato; non potevano togliermi la libertà di conferire con imiei giudici o con il mio avvocato. Questi fu addirittura costretto alle minacceper poter incontrarmi. Una monaca mi accompagnava e protestava se parlavo a vocebassa; si impazientiva se restavo troppo a lungo; mi interrompevami smentivami contraddicevaripeteva i miei discorsi alla superiorali travisavaistillando velenoattribuendomi propositi che non avevo mai espresso. Chealtro? Giunsero al punto di derubarmidi spogliarmitogliermi sediecoperte ematerassi. Non mi davano più biancheria; gli abiti mi cadevano a brandellinonavevo quasi più calzené scarpe. A stento riuscivo ad ottenere dell’acqua;più di una volta sono stata costretta ad attingerla io stessa dal pozzodaquel pozzo di cui vi ho parlato; mi ruppero i vasi e così fui ridotta a berel’acqua che avevo tirato su senza poterla portar via. Se passavo sotto lefinestreero costretta a scappar via per non correre il rischio di buscarmiaddosso le immondizie buttate dalle celle. Alcune monache mi hanno sputato sulviso. Ero diventata di una sporcizia ripugnante. Temendo che me ne lamentassicon i nostri direttori spirituali mi proibirono di confessarmi.

           Un giorno di festa solenne - eracredoil giorno dell’Ascensione - mibloccarono la serratura e non potei andare a messa. Forse sarei mancata a tuttele altre funzioni senza la visita del signor Manouri al quale in un primomomento fu detto che nessuno sapeva che cosa ne fosse stato di meche non mi sivedeva piùe che non osservavo più nessuna pratica religiosa. Dopoinnumerevoli sforziriuscii tuttavia a far saltare la serratura e mi recai allaporta del coro che trovai chiusa come accadeva ogni volta che non arrivavo trale prime. Ero sdraiata per terracon la testa e la schiena appoggiate contro unmuro e le braccia incrociate sul pettoquando terminò la funzione e le suoresi apprestarono ad uscire. La prima si fermò di botto mentre le altrearrivavano dietro di lei. La superiora immaginò subito di che cosa si trattassee disse:

           “Camminatele sopra: è soltanto un cadavere.”

           Alcune obbedirono e mi calpestarono; altre furono meno disumanemanessuna osò tendermi la mano per rialzarmi. Mentre ne ero assentemi tolserodalla cella l’inginocchiatoioil ritratto della nostra fondatricele altreimmagini pieil crocifisso; non mi rimase che quello appeso al rosario e chenon mi fu lasciato a lungo. Vivevo dunque tra quattro muri nudiin una camerasenza portasenza sediein piedi o su un pagliericciosenza nessun vasonemmeno quelli più necessaricostretta a uscire di notte per soddisfare ibisogni naturaliaccusata la mattina di disturbare il riposo del conventodigirovagaredi stare impazzendo. Poiché la mia cella non si poteva piùchiudereentrarono di notte facendo un gran baccano. Gridando smuovevano illettorompevano le finestremi terrorizzavano in mille modi. Il rumore salivaal piano di soprascendeva al piano di sotto e quelle che non prendevano partealla gazzarra dicevano che in camera mia accadevano cose strane; che avevanosentito voci lugubrigridasbattere di catene e che io parlavo continuamentecon fantasmi e spiriti maligni; che dovevo aver fatto un patto con il demonio eche quanto prima si sarebbe dovuto evitare il mio corridoio.

           In una comunità vi sono anime semplici. Sono addirittura la maggioranza.Queste credevano a ciò che si diceva loronon osavano passare davanti alla miaporta e nella loro immaginazione distorta mi vedevano con una faccia ripugnantesi facevano il segno della croce quando mi incontravano e fuggivano gridando:

           “VatteneSatana! Mio Dioaiutatemi!...”

           Una volta accadde che una delle più giovani fosse in fondo al corridoioche io andassi verso di leie che non ci fosse più modo di evitarmi. Fu coltada un terrore indicibile; dapprima volse il viso contro il muromormorando convoce tremante:

           “Dio mio! Dio mio! Gesù! Maria!”

           Intanto io seguitavo ad andare avanti: sentendomi vicinasi copre ilviso con le mani per paura di vedermisi butta tutta dalla mia partesiprecipita con violenza tra le mie bracciaed esclama:

           “Aiuto! Aiuto! Misericordia! Sono perduta! Suor Santa Susanna non mifate del male; suor Santa Susannaabbiate pietà di me...”

           Così dicendoeccola che cade mezza morta per terra. Alle sue gridaaccorronola portano via.

           Non vi so dire come fu travisato quest’episodio. Se ne fece una storiadelle più criminose: si disse che il demone dell’impurità si era impadronitodi me. Mi furono attribuiti intentiazioni che non oso nominareoltre chedesideri anormali ai quali fu attribuito l’evidente disordine in cui era statatrovata la giovane monaca.

           A onor del veroio non sono un uomo e ignoro che cosa si possaimmaginare di una donna e di un’altra donna insiemee ancor meno di una donnasola. Tuttaviadato che il mio letto era senza cortine e per di più si potevaentrare in camera mia a qualunque orache posso dirvisignore? Con tutto illoro ritegno esteriorecon la modestia dei loro sguardila castità della loroespressionebisogna proprio che quelle donne abbiano il cuore davvero corrotto.Se non altro esse sanno che si possono commettere da sole azioni disonestementre io non lo so; perciò non ho mai capito bene di che cosa mi accusasseroed esse si esprimevano in termini così oscuri che non ho mai saputo che cosa cifosse da rispondere.

           Se dovessi riferire nei particolari quelle persecuzioninon la farei piùfinita. Ahsignore! se avete dei figlila mia sorte vi insegni che cosapreparereste loro se lasciaste che entrassero in religione senza manifestare isegni della vocazione più salda e più sicura. Come si è ingiusti nel mondo!Si permette a un figlio di disporre della propria libertà in un’età in cuinon gli è consentito disporre di uno scudo. Uccidete vostra figlia piuttostoche imprigionarla in un chiostro contro la sua volontà. Quante volte hodesiderato che mia madre mi avesse soffocata alla nascita. Sarebbe stata menocrudele. Ci credereste che mi tolsero il breviario e che mi proibirono dipregare Dio? Come ben potete immaginarenon obbedii: eraahiméla mia unicaconsolazione. Levavo le mani al cielogridavoe osavo sperare che le mie gridafossero udite dal solo essere che vedeva tutta la mia miseria. Ascoltavano allamia portae un giorno che mi rivolgevo a lui con il cuore pieno d’ambascia einvocavo il suo aiutomi dissero:

           “Chiamate Dio invanonon c’è più Dio per voi. Morite disperataesiate dannata..”

           Altre aggiunsero:

           “Così sia per l’apostata! Così sia per lei!”

           Ma ecco un episodio che vi sembrerà ben più strano di tutti gli altri.Non so se si tratti di cattiveria o illusione; comunque siabenché non facessiniente che rivelasse una mente malatae a maggior ragione uno spiritoossessionato dalle forze infernalidiscussero fra loro se non fosse il caso difarmi esorcizzaree all’unanimità fu concluso che avevo rinunciato albattesimo e alla cresimache i demoni mi possedevano e mi tenevano lontanadagli uffizi divini. Un’altra soggiunse che durante certe preghiere iodigrignavo i dentiche in chiesa ero percorsa da un fremito e cheall’elevazione del Santissimo mi torcevo le braccia. Un’altra ancora asserìch’io calpestavo il crocifissoche non portavo più il rosario (che miavevano rubato)e proferivo bestemmie che non oso ripetervi. Tutte quanteaffermarono che in me accadevano cose non naturali e che si doveva avvertire ilgran vicario. Così fu fatto.

           Il gran vicario era un certo monsignor Hébertuomo anziano e di grandeesperienzabrusco di modima giusto e illuminato. Gli fu descritto nei minimiparticolari il disordine del convento. Era sicuramente un grande disordine e seio ne ero la causaera una causa davvero innocente. Come di certo voiimmagineretenel rapporto che gli fu consegnatonon vennero tralasciati i mieivagabondaggi notturnile mie assenze dal corolo strepito nella mia cellaciòche l’una aveva vistociò che l’altra aveva sentitola mia avversione perle cose santele bestemmiegli atti osceni che mi venivano imputati.Dell’avventura della giovane monacane fecero poi quello che vollero. Sitrattava di accuse così gravi e così numeroseche con tutto il suo buonsensomonsignor Hébert non poté fare a meno di prestarvi fede almeno in partee non credere che vi fosse una larga parte di verità. La cosa gli parevaabbastanza importante per occuparsene di persona; fece annunciare la propriavisita e infatti giunse scortato da due giovani ecclesiastici addetti alla suapersona e che lo aiutavano nelle sue difficili mansioni.

           Qualche giorno primadi nottesentii che qualcuno entrava furtivamentenella mia cella. Non dissi niente e attesi che mi venisse rivolta la parola. Unavoce bassa e tremante mi chiamava:

           “Suor Santa Susannadormite?”

           “Nonon dormo. Chi è?”

           “Sono io.”

           “Chi voi?”

           “La vostra amica che muore di paura e rischia di perdersi per darvi unconsiglio forse inutile. Statemi a sentire: domanio dopoci sarà la visitadel gran vicario; sarete accusata: preparatevi a difendervi. Addio: fatevicoraggio e il Signore sia con voi.”

           Ciò dettosi allontanò leggera come un’ombra.

           Come vedetevi sono dunque anche nei conventi anime compassionevoli chenon si lasciano indurire.

           Intanto il mio processo seguiva il suo corso suscitando un interesseappassionato. Una folla di personedi ogni statosesso e condizionechenemmeno conoscevos’interessò alla mia sorte e intercedette in mio favore.Voi foste fra questie forse la storia dei mio processo vi è più nota che amegiacché verso la fine non potevo più conferire con il signor Manouri. Glivenne detto che ero malata. Sospettò che lo stessero ingannando ed ebbe paurache mi avessero gettato in una segreta. Si rivolse all’arcivescovadodove nonsi degnarono di dargli ascolto. Si era insinuato che fossi pazzao forsequalcosa di peggio. Si rivolse ai giudici; insisté sull’esecuzionedell’ordine già intimato alla superiora di farmi comparireviva o mortaquando le fosse stato intimato. I giudici secolari interpellarono i giudiciecclesiastici; questi ultimi previdero le conseguenze che l’incidente avrebbepotuto averese non fossero stati presi subito dei provvedimenti e fu questocheverosimilmenteaccelerò la visita del gran vicario. Quei signori infattistufi delle eterne beghe di conventodi solito non si affrettano adimmischiarsene: sanno per esperienza che la loro autorità viene sempre elusa ecompromessa.

           Approfittai del consiglio della mia amica per invocare l’aiuto di Diorassicurare la mia anima e preparare la mia difesa. Non chiesi al cielo altroche la fortuna di essere interrogata ed ascoltata senza parzialità; la ottennima ora sentirete a quale prezzo.

           Se era nel mio interesse comparire davanti al mio giudice innocente esaviaera altrettanto importante per la mia superiora che mi vedessero cattivaposseduta dal demoniocolpevole e pazza. Perciòmentre io raddoppiavo infervore e in preghierele mie consorelle raddoppiarono in malvagità; midettero da mangiare quanto bastava per non morire di fame; mi subissarono dimortificazioni; moltiplicarono intorno a me i motivi di terrore; mi privarono diogni riposo notturno; misero in opera tutto quel che può minare la salute eturbare la mente; usarono nella crudeltà una raffinatezza di cui non aveteidea. Giudicate voi stessi da questo episodio. Un giorno che uscivo dalla miacella per andare in chiesa o da qualche altra partevidi delle molle per terrain mezzo al corridoio; mi chinai per raccattarle e metterle in modo che coleiche le aveva smarrite potesse ritrovarle facilmente. La luce mi impedì divedere che erano arroventate; le presi in manoe questo bastò perché nellasciarle ricadere mi portassero via tutta la pelle dal palmo della mano nuda.Di nottenei posti dove dovevo passaremettevano degli ostacoli per terra oall’altezza della testa; mi sono ferita cento volte. Non so come ho fatto anon uccidermi. Non avevo niente per farmi luce ed ero costretta a procederetremante con le mani protese. Sotto i piedi mi seminavano bicchieri rotti.

           Ero ben decisa a raccontare tutto e riuscii a mantenere più o meno laparola. Trovavo chiusa la porta delle latrine ed ero costretta a scenderediversi piani e a correre in fondo al giardino quando la porta era aperta;quando non lo era... Ahsignorecome sono cattive le donne recluse quando sonosicure di assecondare l’odio della loro superiora e credono di servire Diogettandovi nella disperazione! Era tempo che arrivasse l’arcidiacono; eratempo che finisse il mio processo.

 

           Ecco il momento più terribile della mia vita. Dovete pensaresignoreche io ignoravo assolutamente sotto quali tinte ero stata dipinta agli occhi diquesto ecclesiasticoe che egli arrivava con la curiosità di vedere unafanciulla posseduta dal demonio o che fingeva di esserlo. Credettero chesoltanto un forte spavento potesse mostrarmi in quello statoed ecco in chemodo si comportarono per procurarmelo.

           Il giorno della sua visita; di primo mattinola superiora entrò nellamia cella; la accompagnavano tre monachedi cui una portava un’acquasantieraun’altra un crocifissoe la terza delle corde. Con voce forte e minacciosala superiora mi disse: “Alzatevi... mettetevi in ginocchio e raccomandatel’anima a Dio.”

           “Signora” le chiesi“prima di obbedirvipotrei chiedervi checosa ne sarà di meche cosa avete deciso e che cosa devo chiedere a Dio?”

           Un sudore freddo mi inondò tutta; tremavosentivo che le ginocchia misi piegavano; guardavo con terrore le tre monache fatali. Erano in piedi l’unaaccanto all’altracon il volto cupole labbra strette e gli occhi chiusi.Dalla mia bocca erano uscite parole rotte dallo spavento; a giudicare dalsilenziocredetti che non mi avessero sentita; perciòcon voce debole e chesi andava spegnendodissi:

           “Quale grazia devo chiedere a Dio?”

           Mi risposero:

           “Chiedetegli perdono per i peccati di tutta la vostra vita; parlateglicome se foste sul punto di comparire dinanzi a lui.”

           Nel sentire queste parole credetti che avessero tenuto consiglio eavessero preso la decisione di sbarazzarsi di me. Avevo sentito dire che a volteera questa la pratica che vigeva nei conventi di certi monaci: giudicavanocondannavanosuppliziavano. Non credevo che fosse mai stata esercitata unagiurisdizione così disumana in nessun convento di donnema erano tante le coseche non avevo indovinato. Eppure vi accadevano! All’idea della morte vicinavolli gridarema dalla mia bocca aperta non usciva alcun suono. Tesi verso lasuperiora le braccia supplichevoli. Mi sentii venir meno e il mio corpovacillava all’indietro. Caddima la mia caduta non fu violenta. In queimomenti di angosciain cui insensibilmente le forze ci abbandonanole membracedonosi affloscianoper così direle una sulle altre e la naturanell’impossibilità di sostenersisembra che cerchi di venir meno mollemente.Persi conoscenza e sentimento; sentivo soltanto ronzare intorno a me vociconfuse e lontane. Non so se fossero le monache a parlare o le mie orecchie aronzare; ioin ogni modonon sentivo che quel brusio ininterrotto. Ignoro perquanto tempo rimasi in quello statoma ne riemersi per una sensazioneimprovvisa di fresco che mi provocò una leggera convulsione e mi strappò unprofondo sospiro. Ero intrisa d’acqua che colava a terra dai miei abiti: eral’acqua di una grande acquasantiera che mi avevano rovesciata addosso. Erosdraiata sul fiancostesa in quell’acquacon la bocca semiaperta e gli occhispenti e socchiusi. Cercai di aprirli e di guardarema mi sembrò di essereavvolta in un’aria spessa attraverso la quale intravedevo soltanto unondeggiare di vesti cui cercavo inutilmente di aggrapparmi. Facevo forza sulbraccio libero. Avrei voluto alzarloma lo sentivo troppo pesante. A poco apoco diminuì quella mia estrema debolezza; mi sollevaiappoggiai la schienacontro il muro. Avevo le mani nell’acquala testa reclinata sul petto; dallelabbra mi usciva un lamento inarticolatospezzato e doloroso. Quelle quattrodonne mi guardavano con un’aria improntata a necessitàa inflessibilitàche mi toglieva il coraggio di implorarle. La superiora disse:

           “Mettetela in piedi.”

           Mi presero sotto le ascelle e mi sollevarono. La superiora soggiunse:

           “Dal momento che non vuole raccomandarsi a Diopeggio per leisapeteche cosa vi resta da fare; procedete...”

           Credetti che le corde che avevano portato fossero destinate astrangolarmi. Le guardaie i miei occhi si riempirono di lacrime. Chiesi ilcrocifisso da baciare; me lo rifiutarono. Chiesi le corde da baciare; me lepresentarono. Mi chinaipresi lo scapolare della superiora e lo baciai.

           Dissi:

           “Signoreabbiate pietà di me! Care sorellecercate di non farmisoffrire.”

           Offrii il collo.

           Non potrei dirvi che cosa ne fu di mené che cosa mi fecero: sono certache coloro che vengono condotti al suppliziocome io credevo di esserlosonomorti prima di essere giustiziati. Mi ritrovai sul pagliericcio che mi servivada lettocon le braccia legate dietro la schienasedutae un gran crocifissodi ferro sulle mie ginocchia...

           Capiscosignor marchesetutto il male che vi faccio; ma voi avetevoluto sapere se meritavo veramente la compassione che mi aspettavo da voi.

           Fu in quel momento che sentii la superiorità della religione cristianasu tutte le religioni del mondo; quale profonda saggezza in quella che la ciecafilosofia chiama la follia della croce. Nello stato in cui mi trovavoa checosa mi sarebbe servita l’immagine di un legislatore felice e ricolmo digloria? Io vedevo l’innocentecon il fianco trafittola fronte incoronata dispinela mani e i piedi forati dai chiodimentre spirava tra le sofferenzeemi dicevo: “Ecco il mio Dioe io oso lamentarmi!...” Mi aggrappai aquell’idea e sentii che la consolazione mi rinasceva nel cuore; riconobbi lavanità della vita e fui troppo felice di perderla prima di avere avuto il tempodi moltiplicare le mie colpe. Intanto però contavo i miei anniconstatavo diavere appena diciannove annie sospiravo. Ero troppo indebolitatroppoabbattutaperché il mio spirito potesse levarsi al di sopra dei terrori dellamorte; in piena salutecredo che avrei potuto risolvermi con più coraggio.

           Nel frattempo tornarono la superiora e le sue discrete[1] e mi trovarono con piùpresenza di spirito di quanto non si sarebbero aspettate e di quanto avrebberovoluto. Mi misero in piedimi velarono la facciapoi due di loro mi preserosotto le ascellementre una terza mi spingeva da dietro e la superiora miordinava di camminare. Andavo senza sapere dove andassima credendo di andareal supplizio. E intanto mi dicevo:

           “Mio Dioabbiate pietà di me! Mio Dionon mi abbandonate! Mio Dioperdonatemise vi ho offeso!”

           Entrai in chiesa. Il gran vicario aveva celebrato la messa. La comunitàvi era tutta radunata. Dimenticavo di dirvi che quando fui sulla porta le tremonache che mi conducevano mi stringevano da vicinomi spingevano con violenzasembravano tutte indaffarate intorno a me e mi trascinavano per le bracciamentre altre mi trattenevano da dietro per dare l’impressione che resistessi eche mi ripugnasse entrare in chiesacosa che non era affatto vera. Mi portaronoverso i gradini dell’altare; facevo fatica a stare in piedie loro mispingevano in ginocchio come se recalcitrassi e mi trattenevano come se avessiavuto l’intenzione di fuggire. Cantarono il Veni Creatorvenne espostoil Santissimovenne impartita la benedizione. Al momento della benedizionequando ci si inchina in segno di venerazionequelle che mi avevano afferrataper le braccia mi curvarono quasi di forza mentre le altre mi premevano le manisulle spalle. Sentivo quei diversi movimentima non mi riusciva indovinare loscopo. Infine tutto si fece chiaro.

           Dopo la benedizioneil gran vicario si tolse i paramentirivestìsoltanto la cotta e la stola e si avvicinò ai gradini dell’altare dove io eroinginocchiata. I due ecclesiastici gli stavano a fianco e tutti e treguardandodalla mia partevolgevano le spalle all’altare sul quale era esposto ilSantissimo. Il gran vicario mi si avvicinò e mi disse:

           “Alzatevisuor Susanna.”

           Le monache che mi trattenevano mi alzarono bruscamentealtre micircondavano e mi tenevano per la vita come se avessero avuto paura chescappassi.

           “Slegatela.”

           Non gli obbedirono. Finsero di trovare poco opportuno e addiritturapericoloso lasciarmi liberama vi ho detto che quello era un uomo decisoeinfatti ripeté con voce ferma e dura:

           “Slegatela.”

           Obbedirono. Non appena ebbi le mani libereemisi un lamento acuto edoloroso che lo fece impallidire; quelle monache ipocrite che erano vicino a mesi scostarono come spaventate. Si riprese; le monache si riavvicinaronotremando; io rimasi immobile mentre egli mi diceva:

           “Che cosa avete?”

           Per tutta risposta gli mostrai le braccia: la corda con la quale me leavevano legate mi era penetrata profondamente nella carne che era tutta violettaper il sangue che non circolava quasi più e si era travasato. Credette che milamentassi per il dolore improvviso del sangue che ricominciava a circolare.Disse:

           “Toglietele il velo.”

           Era stato cucito in diversi punti senza che me ne accorgessidi modo chefu necessario usare ancora violenza per una cosa che non l’avrebbe affattorichiesta; bisognava che quel prete mi vedesse ossessionatainvasata o pazza. Aforza di tirareil filo si ruppe in più puntimentre il velo o il mio abitosi strapparono da altre parti. Così mi videro.

           Il mio viso è interessante; il profondo dolore l’aveva alteratosenzatogliergli niente del suo carattere; la mia voce ha un timbro che tocca ilcuore: si sente che la mia espressione è quella della verità. Tutte questequalità messe insieme produssero una profonda impressione di pietà sui duegiovani assistenti dell’arcidiacono. Luiinveceera estraneo a questisentimenti: era giustoma poco sensibile; apparteneva al novero di coloro cheper loro sventura sono nati per praticare la virtù senza avvertirne ladolcezza; fanno il bene per un certo senso dell’ordinecosì come ragionano.Prese un capo della stola e posandomela sulla testa mi disse:

           “Suor Susannacredete in Dio PadreFigliolo e Spirito Santo?”

           Risposi:

           “Credo.”

           “Credete nella nostra santa madre Chiesa?”

           “Credo.”

           “Rinunciate a Satana e alle sue opere?”

           Invece di risponderecon un gran grido feci un movimento improvviso inavanti e la stola non fu più a contatto della mia testa. Il vicario rimaseturbatoi suoi compagni impallidirono; tra le monachealcune fuggirono e lealtre che erano nei loro stalli si alzarono in un gran tumulto. Fece cenno chestessero tranquille e intanto mi guardava e si aspettava di vedere qualcosa distraordinario. Lo rassicurai dicendo:

           “Non è nientesignore. Una di queste suore mi ha punto con qualcosadi aguzzo.”

           E alzando gli occhi e mani al cielo aggiunsi versando un fiume dilacrime:

           “Mi hanno ferita nel momento in cui mi chiedevate se rinunciavo aSatana e alle sue operee capisco bene perché l’hanno fatto.”

           Per bocca della superiora tutte protestarono vivamente che non mi avevanotoccata. L’arcidiacono mi impose di nuovo la stola sulla testa; le monachestavano per riavvicinarsima egli fece cenno che si scostassero e di nuovo michiese se rinunciavo a Satana e alle sue opere. Gli risposi fermamente:

           “Rinunciorinuncio!”

           Si fece portare un crocifisso e me lo dette da baciare; lo baciai suipiedisulle mani e sulla piaga del costato. Mi ordinò di adorarlo ad altavoce: io lo posai per terra e dissi in ginocchio:

           “Vi adoromio Diomio salvatorevoi che siete morto sulla croce peri miei peccati e per tutti quelli del genere umano; concedetemi il merito deivostri patimenti; fate scendere su di me una goccia del sangue che avete versatoe fate ch’io sia purificata. Mio Dioperdonatemi come io perdono a tutti imiei nemici.”

           Poi mi disse:

           “Fate un atto di fede”e lo feci..

           “Fate un atto d’amore”e lo feci..

           “Fate un atto di speranza”e lo feci..

           “Fate un atto di carità”e lo feci.

           Non ricordo con quali parole li avessi formulatima ritengo chesembrassero patetichegiacché strappai dei singhiozzi ad alcune monachefeciversare lacrime ai due giovani ecclesiastici e l’arcidiacono stupito mi chieseda dove avessi tratto le preghiere che avevo appena recitato. Gli risposi:

           “Dal fondo del cuore; sono questi i miei pensieri e i miei sentimenti.Chiamo a testimone Dio che ci ascolta ovunque ed è presente su questo altare.Sono cristianasono innocente; se ho commesso qualche colpalo sa Diosoltantoe lui soltanto ha il diritto di chiedermene conto e di punirmi...”

           A queste paroleil gran vicario lanciò alla superiora uno sguardoterribile.

           Il resto di quella cerimonia in cui la maestà di Dio era statainsultatale cose più sante profanate e il ministro della Chiesa ingannatogiunse alla fine e le monache si ritirarono. Con me rimasero la superiora e igiovani ecclesiastici. L’arcidiacono si sedettee tirando fuori il rapportoche gli era stato presentato contro di melo lesse ad alta voce e mi interrogòsui capi d’accusa che conteneva.

           “Perché non vi confessate?” mi chiese.

           “Perché me lo impediscono.”

           “Perché non vi avvicinate ai Sacramenti?”

           “Perché me lo impediscono.”

           “Perché non assistete né alla messané alle funzioni religiose?”

           “Perché me lo impediscono.”

           La superiora volle prendere la parolama con quel suo tono particolareil gran vicario le disse:

           “Tacetesignora... Perchédi notteuscite dalla vostra cella?”

           “Perché mi hanno privato dell’acquadella brocca per l’acquaedi tutti i vasi necessari ai bisogni naturali.”

           “Perché di notte si sente rumore nel vostro corridoio e nella vostracella?”

           “Perché fanno di tutto per togliermi il riposo.”

           La superiora volle parlare ancora; per la seconda volta il gran vicariole disse:

           “Vi ho già detto di taceresignora; rispondete quando vi interrogherò...Che cos’è questa storia di una monaca che vi hanno strappata dalle mani e cheè stata trovata riversa per terra nel corridoio?”

           “È a causa dell’orrore che le avevano ispirato nei miei riguardi.”

           “È amica vostra?”

           “Nosignore.”

           “Non siete mai entrata nella sua cella?”

           “Mai.”

           “Non avete mai fatto niente di indecente a leio ad altre?”

           “Mai.”

           “Perché vi hanno legata?”

           “Lo ignoro.”

           “Perché la vostra cella non si chiude?”

           “Perché ho rotto la serratura.”

           “Perché l’avete rotta?”

           “Per aprire la porta e assistere alla funzione il giornodell’Ascensione.”

           “Quel giornoalloravi hanno vista in chiesa?”

           “Sìsignore.”

           La superiora intervenne:

           “Non è verosignoretutta la comunità...”

           La interruppi:

           “...assicurerà che la porta del coro era chiusa; che mi hanno trovataprosternata davanti a quella porta e che voi avete ordinato di calpestarmi.Alcune lo hanno fatto; ma io le perdono e perdono voisignoraperquell’ordine che avete dato. Non sono venuta per accusarema perdifendermi.”

           “Perché non avete né rosarioné crocifisso?”

           “Perché me li hanno tolti.”

           “Dov’è il vostro breviario?”

           “Me l’hanno tolto.”

           “Ma allorain che modo pregate?”

           “Prego con il cuore e con la mentebenché mi abbiano proibito dipregare.”

           “Chi ve l’ha proibito?”

           “La signora.”

           La superiora si accingeva di nuovo a parlare.:

           “Signora- le disse - è vero o falso che le avete proibito dipregare? Rispondete sì o no.”

           “Io credevoe avevo motivo di credere...”

           “Non si tratta di questo; le avetesì o noproibito di pregare?”

           “Gliel’ho proibitoma...”

           Stava per proseguire.

           “Ma” riprese l’arcidiacono“ma... Suor Susannaperché siete apiedi nudi?”

           “Perché non mi danno né calzené scarpe.”

           “Perché la vostra biancheria e i vostri abiti sono così logori esporchi?”

           “Perché da più di tre mesi mi rifiutano la biancheria e perché sonocostretta a coricarmi vestita.”

           “Perché vi coricate vestita?”

           “Perché non ho né tendené materassoné copertené lenzuolanécamicia da notte.”

           “Perché non ne avete?”

           “Perché me li hanno tolti.”

           “Vi danno da mangiare?”

           “Lo domando.”

           “Allora non ve ne danno?”

           Tacquiegli soggiunse:

           “È davvero incredibile un trattamento così severo senza che abbiatecommesso qualche colpa che l’abbia meritato.”

           “La mia colpa sta nel non avere vocazione religiosae di aver fattoricorso contro dei voti che non ho pronunciato liberamente.”

           “La decisione in merito spetta alle leggie in qualunque modo sipronuncinovoi siete intanto tenuta ad adempiere i doveri della vitareligiosa.”

           “Nessunosignoreli adempie con maggiore scrupolo.”

           “Dovete essere trattata alla stessa stregua delle vostre compagne.”

           “Non chiedo altro.”

           “Non avete da lamentarvi di nessuno?”

           “Nosignoreve l’ho dettonon sono venuta per accusarema perdifendermi.”

           “Andate.”

           “Dove debbo andaresignore?”

           “Nella vostra cella.”

           Feci qualche passopoi tornai e mi prosternai ai piedi della superiora edell’arcidiacono.

           “Ebbene?” mi disse l’arcidiacono“che c’è di nuovo?”

           Mostrandogli la testa tutta contusai piedi insanguinatile bracciascarnite e piene di lividil’abito sporco e strappatogli dissi:“Guardate!”

 

           Mi pare di sentirvisignor marchesevoi e la maggior parte di coloroche leggeranno queste memorie: “tanti orroricosì diversicosìininterrotti! Un susseguirsi di atrocità così raffinate in anime religiose! Èinverosimile” direte voi e diranno gli altri. Sono d’accordo; ma tuttoquesto è veroe possa il cieloch’io chiamo a testimonegiudicarmi contutto il suo rigore e condannarmi al fuoco eternose ho permesso alle calunniedi oscurare una di queste righe con la sua ombra più leggera. Benché a lungoabbia provato come l’avversione di una superiora rappresentasse uno stimolopotente alla perversità naturalesoprattutto allorché questa può farsi unmeritolodarsi e vantarsi dei propri misfattiil risentimento non mi impediràdi essere giusta. Più ci pensoe più mi convinco che ciò che mi accade nonera ancora accaduto a nessuno e forse mai più accadrà. Alla Provvidenzalecui vie ci sono ignotepiacque una volta (e piacesse a Dio che fosse la prima el’ultima) accumulare su una sola sventurata tutte quante le crudeltà che peri suoi imperscrutabili disegni sono suddivise tra la moltitudine infinita dellesventurate che l’avevano preceduta in un chiostro e che sarebbero venute dopodi lei. Ho soffertoho sofferto molto; ma mi sembrae mi è sempre sembratoche il destino di quelle che mi perseguitano fosse da compiangersi molto piùdel mio. Preferireiavrei preferito morire piuttosto che cambiarmi con loro.Spero che per la vostra bontà le mie sofferenze finiscano. Il ricordolavergognae i rimorsi del male commesso non le abbandoneranno fino all’orasuprema. Già si accusano fra di lorosiatene certo; si accuseranno per tuttala vitae il terrore scenderà con loro nella tomba. Nonostante questosignormarchesela mia situazione presente è deplorevolela vita è un gran peso;sono una donna e il mio spirito è debole come in tutte quelle del mio sesso;Dio può abbandonarmi e non mi sento più né la forzané il coraggio disopportare ancora quello che ho sopportato. Signor marchesestate attentounmomento fatale potrebbe tornare; quand’anche foste straziato dai rimorsiquand’anche consumaste i vostri occhi a piangere sul mio destinonon perquesto risalirei dall’abisso in cui fossi caduta. Quell’abisso sichiuderebbe per sempre su una disperata.

 

           “Andate” mi disse l’arcidiacono.

           Uno dei due ecclesiastici mi tese la mano per farmi rialzareel’arcidiacono aggiunse:

           “Ho interrogato voi; ora interrogherò la vostra superiorae non usciròdi qui prima che l’ordine sia stato ristabilito.”

           Mi ritirai. Il convento era in allarme; tutte le monache erano sullasoglia delle loro celle e si parlavano da un capo all’altro del corridoio. Nonappena io apparvisi ritirarono e ci fu un lungo sbatacchiare di porte che sichiudevano con violenza le une dopo le altre. Rientrai nella mia cella; mi misiin ginocchio contro il muroe pregai Dio di tener conto della moderazione conla quale avevo parlato all’arcidiacono e di fargli riconoscere la miainnocenza e la verità.

           Stavo pregando allorché l’arcidiaconoi suoi due accompagnatori e lasuperiora comparvero nella mia cella. Vi ho già detto che nella mia cella erosenza tendesenza sediasenza inginocchiatoiosenza materassosenza copertesenza lenzuolasenza vaso di sortasenza porta che chiudessee con i vetriquasi tutti rotti alla finestra. Mi alzaie l’arcidiacono fermandosi di bottoe volgendo gli occhi pieni di indignazione verso la superiorale disse:

           “Allorasignora?”

           “Lo ignoravo” fu la sua risposta.

           “Lo ignoravate? Voi mentite! Avete forse trascorso un solo giorno senzavenire quie non ne venivate quando siete scesa?... Suor Susannaparlate: lasuperiora non è entrata qui oggi?”

           Non risposi. Non insisté; ma i due giovani ecclesiasticilasciandocadere le bracciacon la testa bassa e gli occhi rivolti a terranon potevanonascondere la loro pena e il loro stupore. Uscirono tuttie io sentiil’arcidiacono che diceva alla superiora nel corridoio:

           “Siete indegna della vostra carica; meritereste di essere deposta.Esporrò le mie accuse a monsignore. Intantosi ripari a questo disordine primach’io me ne vada.”

           E mentre continuava a camminare e a scuotere la testaandava dicendo:

           “È orribile. Delle cristiane! Delle monache! Delle creature umane!orribile.”

           Da quel momento non sentii più parlare di nientema ebbi biancheriatendelenzuolacopertevasiil mio breviarioi libri di pietàil rosarioil crocifissoi vetri alle finestrein una parola tutto ciò che mi restituivaallo stato comune delle monache; mi fu ridata anche la possibilità di andare inparlatorioma soltanto per parlare della mia causa.

           La mia causa andava male. Il signor Manouri pubblicò un primo memorialeche fece poca impressione. C’erano troppa intelligenzascarso sentimentopochissime ragioni. Non è il caso di farne una colpa al mio abile avvocato. Ionon volevo assolutamente che ledesse la reputazione dei miei genitori; volevoche risparmiasse lo stato religioso e soprattutto il convento in cui mi trovavo;non volevo che dipingesse con tinte troppo odiose i miei cognati e le miesorelle. In mio favore c’era soltanto una prima protestaa onor del verosolennema fatta in un altro convento e mai rinnovata da allora. Quando siimpongono dei limiti così ristretti alla propria difesa e si ha a che fare conun avversario che invece scatena liberamente i propri attacchiche calpesta ilgiusto e l’ingiustoche afferma e nega con la stessa impudenza e che nonarrossisce né delle accusene dei sospettiné della maldicenzané dellacalunniaè difficile vincere un processospecialmente davanti a dei tribunalidove la noia e l’abitudine delle cause trattate non permettono quasi che siesaminino con un certo scrupolo quelle più importantie dove le contestazionicome la mia vengono sempre considerate con occhio critico dall’uomo politico.Questi teme infatti che sulla scia del successo di una monaca che ricorra controi propri votiun’infinità di altre monache tentino lo stesso passo.Segretamente si avverte che se si tollerasse che le porte di quelle prigionivenissero abbattute a favore di una sventuratavi accorrerebbe una folla interae cercherebbe di forzarle. Fanno di tutto per scoraggiarci e farci rassegnare alnostro destino inducendoci a disperare di poterlo mai cambiare. Eppure a mesembra che in uno Stato ben organizzato dovrebbe essere il contrario: entrare inreligione difficilmenteuscirne facilmente. E perché non aggiungere questocaso a tanti altri in cui il benché minimo vizio di forma rende nulla unaprocedura peraltro ineccepibile? I conventi sono così essenziali allacostituzione di uno Stato? I monaci e le monache li ha forse istituiti GesùCristo? La Chiesa non può proprio farne a meno? Che bisogno ha lo sposo ditante vergini follie la specie umana di tante vittime? Non si sentirà mai lanecessità di ridurre l’ampiezza di queste voragini in cui si perdono legenerazioni future? Tutto quel pregare per abitudinevale un obolo che la pietàoffre a un povero? Dioche ha creato l’uomo socievoleapprova forse chel’uomo si rinchiuda? Dioche l’ha creato così incostantecosì fragilepuò forse autorizzare l’audacia dei voti? Quei voti che contraddicono latendenza generale della naturapotranno mai essere osservati se non da pochecreaturemal costituitein cui i germi delle passioni sono appassiti e che sipotrebbero a buon diritto collocare tra i mostri se i nostri lumi cipermettessero di conoscere la struttura interna dell’uomo con la stessafacilità con cui ne conosciamo la sua forma esterna? Tutte quelle lugubricerimonie con le quali si celebrano la vestizione e la professione quando siconsacra un uomo o una donna alla vita monastica e all’infelicitàsospendonoforse le funzioni animali? O invece queste si risvegliano nel silenzionellacostrizione e nell’ozio con una violenza che ignora la gente liberapresacom’è da tante distrazioni? Dov’è che si trovano menti ossessionate daspettri impuri che le perseguitano e le sconvolgono? Dov’è che si trovaquella noia profondaquel pallorequella magrezzatutti sintomi della naturache langue e si consuma? Dove sono le notti turbate da gemitii giorni bagnatidi lacrime versate senza ragione e precedute da una malinconia che non si sa ache cosa attribuire? Dov’è che la naturarivoltandosi contro una costrizioneper la quale non è creatainfrange gli ostacoli che le vengono frappostidiventa furiosatrascina l’economia animale in un disordine senza rimedio?Dov’è che il dolore e il malumore hanno annullato tutte le qualità sociali?Dov’è che non si trova né padrené madrené fratelloné sorellanéparentené amico? Dov’è che l’uomoconsiderandosi soltanto come unessere caducotratta i legami più dolci di questo mondo con distaccocome unviaggiatore tratta gli oggetti in cui si imbatte? Dove hanno dimora ilturbamentoil disgustoi deliqui? Dov’è la sede del servilismo e deldispotismo? Dove sono gli odi che non si spengono? Dove sono le passioni covatenel silenzio? Dove hanno dimora la crudeltà e la curiosità? Non conosciamo lastoria di questi asili - continuava il signor Manouri nella sua arringa - non laconosciamo. E in un altro punto aggiungeva: “Fare voto di povertàsignificaimpegnarsi con giuramento ad essere pigro e ladro; fare voto di castitàsignifica promettere a Dio l’infrazione costante della più saggia e della piùimportante delle sue leggi; far voto d’obbedienza vuol dire rinunciare allaprerogativa inalienabile dell’uomola libertà. Se si osservano questi votisi è criminali; se non si osservanosi è spergiuri. La vita claustrale è unavita da fanatici o da ipocriti.”

           Una fanciulla chiese ai genitori il permesso di entrare nel nostroconvento. Suo padre le disse che acconsentivama che le dava tre anni perriflettere. L’imposizione parve dura alla giovane tutta piena di fervore;nondimeno dovette sottomettersi. Poiché la sua vocazione era sempre saldaellatornò dal padre per dirgli che tre anni erano ormai trascorsi.

           “Benefiglia mia” le rispose il padre“vi ho accordato tre anniper mettervi alla provaspero che vorrete accordarmene altrettanti per prenderela mia decisione.”

           Questa nuova imposizione parve molto più dura alla fanciulla che visparse sopra qualche lacrimama il padre era un uomo risoluto e tenne duro.Dopo quasi sei anniella entrò in conventofece professione. Era una buonamonacasemplicepiaprecisa in tutti i suoi doverima volle il caso che idirettori abusassero della sua franchezza per informarsiin confessionesu ciòche accadeva nel convento. Le nostre superiore lo sospettarono; la rinchiuserole proibirono qualunque esercizio religioso; diventò pazza. Come potrebberesistere la testa alla persecuzione di cinquanta persone che dalla mattina allasera non fanno altro che tormentarvi? Precedentementeavevano teso alla madreun tranello che mette bene in luce l’avarizia del chiostro. Ispirarono allamadre della reclusa il desiderio di recarsi al convento e di visitare la celladella figlia. Si rivolse ai vicari che le accordarono il permesso richiesto.Entròcorse alla cella della sua figliolama quale fu il suo stupore nelvedere soltanto quattro pareti nude. Avevano portato via tuttocerte che quellamadre tenera e sensibile non avrebbe lasciato la figliola in tale stato. Infattifece mettere altri mobili nella cellala rifornì di indumenti e di biancheriaaffermando chiaramente alle monache che quella curiosità le costava troppo caraper potersela permettere una seconda voltae che tre o quattro visiteall’anno come quella avrebbero rovinato gli altri suoi figli. L’ambizione eil lusso sacrificano nei conventi una parte delle famiglie per avvantaggiarel’altra che ne rimane fuori. Sono la sentina in cui vengono gettati i rifiutidella società. Quante madri come la mia espiano una colpa segreta conun’altra colpa.

 

           Il signor Manouri rese pubblico un secondo memoriale che ottenne un po’più d’effetto. Vi furono calorosi interventi a mio favore. Ancora una voltaproposi alle mie sorelle di lasciar loro il possesso intero e indisturbatodell’eredità dei miei genitori. Vi fu un momento in cui il mio processo preseuna piega assai favorevole e in cui io sperai nella libertà; il mio disingannofu perciò più grande. All’udienza la mia causa fu perorata e perduta.L’intera comunità ne era al corrente quando ancora io non ne sapevo niente.Era tutto un agitarsi freneticoun gioirepiccoli abboccamenti segretiunandare e venire dalla superioraun incrociarsi di visite tra le monache. Io erotutta un tremito; non potevo restare nella mia cella e non potevo uscirne; nonc’era un’amica tra le cui braccia potessi rifugiarmi. Com’è crudele lamattina in cui si pronuncia la sentenza di un grande processo! Volevo pregarema non ci riuscivo; mi inginocchiavomi raccoglievocominciavo una preghierama la mia mente finiva sempremio malgradoper essere trascinata tra i mieigiudici: li vedevosentivo gli avvocatimi rivolgevo a lorointerrompevo ilmiotrovavo che la mia causa non era difesa a dovere. Non conoscevo nessuno deimagistratieppure me li figuravo in mille modiora favorevoliora loschioraindifferenti. Ero indicibilmente agitatacon le idee confuse. Al rumoresuccedette un profondo silenzio; le monache non si parlavano più; mi parve chenel coro le loro voci fossero più squillanti del solito: o per lo meno le vocidi quelle che cantavanopoiché ve n’erano che non cantavano affatto.Terminata la funzionesi ritirarono in silenzio. Pensai che l’attesa lerendesse inquiete come me. Nel pomeriggio peròrumore e movimento ripreserodappertutto improvvisamente: sentii porte che si aprivano e si chiudevanomonache che andavano e venivanoil mormorio di persone che si parlavano a vocebassa. Avvicinai l’orecchio alla serraturama mi parve che tacessero mentrepassavano e che camminassero in punta di piedi. Intuii di aver perso ilprocesso; il dubbio non mi sfiorò neppure per un istante. Cominciai a girareper la cella senza dir parola; soffocavonon riuscivo nemmeno a lamentarmi.Incrociavo le braccia sulla testaappoggiavo la fronte ora contro un murooracontro l’altro; volevo riposarmi sul lettoma il cuore mi batteva tanto forteda impedirmelo: sono certa che sentivo battere il mio cuore e in tal maniera disollevare l’abito. Ero in questo stato allorché vennero a dirmi chechiedevano di me. Scesima non osavo andare avanti. La suora che mi avevaavvertita era così allegra che ne dedussi che la notizia da comunicarmi dovevaessere ben triste; e tuttavia andai. Giunta davanti alla porta del parlatorio mifermai di botto e mi rifugiai in un angolo fra due pareti; non riuscivo areggermi in piedi. Ciò nonostante entrai. Non c’era nessuno; aspettai;avevano fatto in modo che colui che mi aveva fatto chiamarecomparisse prima dime. Naturalmente pensavano che fosse un emissario del mio avvocato e volevanosapere quel che sarebbe accaduto fra noi due. Perciò si erano tutte riunite perascoltare. Quando comparveio ero seduta con la testa piegata sul braccio eappoggiata contro le sbarre della grata.

           “Vengo da parte del signor Manouri” mi disse.

           “È per informarmi che ho perduto il processo” replicai.

           “Non lo sosignorama egli mi ha consegnato questa lettera. Aveval’aria molto addolorata quando me l’ha consegnata e sono venuto di corsacome mi ha raccomandato.”

           “Datemi...”

           Mi tese la lettera ed io la presi senza muovermi e senza guardarlo; laposai sulle ginocchia e non cambiai posizione. L’uomo mi chiese: “Non c’ènessuna risposta?”

           “No” gli dissi. “Andate pure.”

           Se ne andòmentre io rimasi immobile senza potermi muoverenédecidermi a uscire.

           In convento non è consentito scriverené ricevere lettere senza ilpermesso della superiora. A lei vengono consegnate sia quelle che si ricevonoche quelle che si scrivono. Dovevo perciò portarle la mia.

           Mi incamminai per farloma credetti che non sarei mai arrivata. Unprigioniero che esca dalla cella per andare ad ascoltare la propria condanna noncammina più lentamentené con maggior prostrazione. Eccomi davanti allaporta. Le monache mi scrutavano da lontano; non volevano perdere niente dellospettacolo del mio dolore e della mia umiliazione. Bussaimi fu aperto. Lasuperiora era con qualche altra monaca: me ne accorsi dall’orlo delle sottanegiacché non osai alzare gli occhi. Le presentai la lettera con mano tremante;la presela lesse e me la restituì. Me ne tornai nella mia cella; mi buttaisul letto con la lettera accantoe lì rimasi senza leggerlasenza alzarmi perandare a pranzosenza fare nessun movimento fino all’uffizio del pomeriggio.Alle tre e mezzo la campana mi avvertì che era ora di scendere. Alcune monacheerano già arrivate; la superiora che era all’ingresso del coromi fermò emi chiese di mettermi in ginocchio lì fuori; le altre monache entrarono e laporta fu chiusa. Dopo la funzioneuscirono tutte quante; le lasciai passare emi alzai per seguirleultima. Fin da quel momento cominciai a condannarmi dasola a tutto quello che avrebbero voluto: mi avevano proibito l’ingresso inchiesami proibii spontaneamente il refettorio e la ricreazione. Presi in esamela mia condizione sotto tutti gli aspetti senza vedere altra via d’uscita senon nella necessità che avevano dei miei doni musicali e nella miasottomissione. Mi sarei contentata di quella specie d’oblio in cui milasciarono per diversi giorni.

           Vennero per me diverse persone a trovarmima l’unica visita che mi fudato di ricevere fu quella del signor Manouri. Entrando in parlatorio lo trovaiesattamente come ero io quando avevo ricevuto il suo inviatocon la testaposata sulle braccia e le braccia appoggiate alla grata. Lo riconobbinon glidissi niente. Non osava guardarminé parlarmi.

           “Signora” mi disse senza muoversi“vi ho scritto; avete ricevutola mia lettera?”

           “L’ho ricevutama non l’ho letta.”

           “Allora non sapete...”

           “Nosignorenon ignoro niente. Ho indovinato qual è il mio destino esono rassegnata.”

           “Come vi trattano?”

           “Per il momento non si occupano ancora di mema il passato m’insegnaciò che l’avvenire mi prepara. Non ho che una consolazioneed è che privatadella speranza che mi sostenevaè impossibile che soffra quanto ho giàsofferto. Morirò. La colpa che ho commesso è di quelle che non si perdonano inconvento. Non chiedo a Dio di intenerire il cuore di coloro alla cui discrezionegli è piaciuto abbandonarmibensì di concedermi la forza di soffriredisalvarmi dalla disperazione e di chiamarmi a lui quanto prima.”

           “Signora” mi disse piangendo“se foste stata mia sorella nonavrei potuto far di meglio...”

           Quest’uomo è di cuore sensibile.

           “Signora” soggiunse“se posso esservi utile a qualcosadisponetepure di me. Andrò a trovare il primo presidente che ha stima di me; andrò atrovare i grandi vicari e l’arcivescovo.”

           “Non andate a trovare nessunosignoretutto è finito.”

           “E se fosse possibile farvi cambiare convento?”

           “Ci sono troppi ostacoli.”

           “E quali sono questi ostacoli?”

           “Un permesso difficile da ottenereun’altra dote da costituiresenon si può ritirare quella consegnata al convento dove mi trovo. E poichecosa troverò in un altro convento? Il mio cuore inflessibilesuperiore senzapietàmonache che non saranno migliori di questegli stessi doverile stessepene. Tanto vale che finisca qui i miei giorni; saranno più brevi.”

           “Masignoramolta gente onesta si è interessata al vostro caso e ingenere si tratta di persone facoltose. Non cercheranno di trattenervi quise vene andate senza portar via niente.”

           “Questo lo credo anch’io.”

           “Una monaca che se ne va o che muoreaccresce il benessere di quelleche restano.”

           “Ma quella gente onestaquelle persone facoltose non pensano più amee vedrete la loro freddezza quando si tratterà di farmi una dote a lorospese. Perché volete che sia più facile per la gente di mondo far uscire dalchiostro una monaca senza vocazione che per le persone pie farvene entrare unache abbia una vera vocazione? È forse più facile dare a quest’ultima unadote? Mio caro signoretutti si sono tirati indietro; dal giorno che ho persoil processonon vedo più nessuno.”

           “Affidatemisignoraquesto incarico; vedrete che sarò piùfortunato.”

           “Non chiedo nullanon spero nulla e a nulla mi oppongo; in me si espezzata anche l’ultima molla. Se solo potessi sperare che Dio opererà in meun cambiamento e che le qualità necessarie allo stato monastico prenderanno ilposto nella mia anima della speranza ormai perduta di abbandonarlo... Ma èimpossibile; questo abito mi si è incollato alla pellealle ossae non me neviene che un maggior disagio. Ahche destino! Essere per sempre monacaesentire che non sarò mai altro che una cattiva monaca! passare tutta la vita abattere la testa contro le sbarre della prigione!”

           A questo punto mi misi a gridare; cercavoma non potevodi soffocare lemie grida. Il signor Manourisorpreso da quello sfogomi chiese: “Potreifarvi una domandasignora?”

           “Fate puresignore.”

           “Un dolore così cocente ha forse qualche segreto motivo?”

           “Nosignore. Odio la vita solitariasento bene che la odiosento chela odierò sempre. Non potrei mai assoggettarmi a tutte le meschinità di cui èintessuta la giornata di una reclusa; è una trama di puerilità che disprezzo.Se avessi potutomi ci sarei abituata. Cento volte ho cercato di impormelodipiegarmi ai suoi obblighi; non mi riesce. Ho invidiatoho chiesto a Dio quellafelice imbecillità delle mie compagne; non l’ho ottenutae non me laconcederà. Faccio tutto maledico tutto di traverso; la mancanza di vocazionetraspare da tutti i miei attiè chiaro. Ad ogni istante insulto la vitamonastica. Chiamano orgoglio la mia inettitudine; si ingegnano a umiliarmi.Colpe e punizioni si moltiplicano senza fine e le giornate trascorrono amisurare con gli occhi l’altezza dei muri.”

           “Non posso abbatterlisignorama posso fare qualcos’altro.”

           “Non tentate di far nientesignore.”

           “Voi dovete cambiare conventoe io me ne occuperò. Verrò di nuovo atrovarvi: spero che non vi nascondano. Avrete presto mie notizie. Statetranquilla che se siete d’accordoriuscirò a farvi uscire di qui. Sedovessero maltrattarvifatemelo sapere.”

           Era tardi quando il signor Manouri se ne andò. Tornai nella mia cella epoco dopo suonò l’uffizio della sera. Giunsi fra le prime. Lasciai passare lemonache e mi tenni per detto che dovevo restare fuori della porta. Infatti lasuperiora me la chiuse in faccia. La seraa cenami fece cennomentreentravodi sedermi per terra in mezzo al refettorio. Le obbedii e non miservirono altro che pane e acqua. Ne mangiai un po’ annaffiandolo di lacrime.L’indomani fu tenuto consiglio. Tutta quanta la comunità fu chiamata agiudicarmi. Fui condannata a rimanere senza ricreazionea seguire per un mesel’uffizio dalla porta del coroa mangiare pane seduta per terra in mezzo alrefettorioa fare onorevole ammenda per tre giorni di seguitoa rinnovare lavestizione e i votia portare il cilicioa digiunare un giorno su dueaflagellarmi dopo l’uffizio della seraogni venerdì. Mentre venivapronunciata la sentenzaio stavo in ginocchiocon il velo sugli occhi.

           Fin dal giorno dopola superiora venne nella mia cella con una monacache portava un cilicio sul braccio e quell’abito di stoffa grossolana con cuimi avevano fatta vestire quando ero stata condotta nella segreta. Capii che cosavolesse dire: mi spogliaio meglio mi strapparono il velo e tutto quello cheindossavo. Poi indossai quell’abito. Avevo la testa nudai piedi nudii mieilunghi capelli mi ricadevano sulle spallee tutto il mio abbigliamento siriduceva a quel cilicio che mi avevano datoa una camicia ruvida e aquell’abito che dal collo mi scendeva fino ai piedi. Fu così che rimasivestita per tutta la giornata e che comparvi a tutti gli esercizi.

           La seraallorché mi fui ritirata nella cella sentii che venivano versodi me salmodiando le litanie; era tutto il convento disposto su due file.Entraronoed io mi presentai. Mi misero una corda intorno al colloin una manomi misero una fiaccola accesa e nell’altra una disciplina. Una monaca afferròun capo della cordami tirò tra le due file e la processione si incamminòverso un piccolo oratorio interno consacrato a Santa Maria. Erano arrivatecantando a bassa voce; se ne andarono in silenzio. Arrivata che fuiall’oratorio rischiarato da due lucimi ingiunsero di chiedere perdono a Dioe alla comunità per lo scandalo provocato. La monaca che mi teneva per la cordami andava dicendo a bassa voce quel che dovevo ripetereed io lo ripetevoparola per parola. Dopo di che mi tolsero la cordami spogliarono fino allavitami raccolsero i capelli che erano sparsi sulle spalleli fecero andare dauna sola parte del collomi misero nella mano destra la disciplina che primaera nella mano sinistrae intonarono il Miserere. Capii che cosa siaspettavano da mee lo eseguii. Terminato il Misererela superiora mirivolse una breve esortazione. Furono spente le lucile monache si ritiraronoed io mi rivestii.

           Dopo che fui rientrata nella mia cellaavvertii dei violenti dolori aipiedi; guardai e vidi che erano tutti coperti di sangue a causa dei tagliprodotti da cocci di vetro che per cattiveria avevano disseminato sul miocammino.

           Nei due giorni seguenti feci onorevole ammenda nello stesso modo.L’ultimo giornoaggiunsero un salmo al Miserere.

           Il quarto giorno mi restituirono l’abito religioso all’incirca con lastessa cerimonia con la quale lo si indossa nelle solennità pubbliche.

           Il quinto giorno rinnovai i voti. Per un mese eseguii il resto dellapenitenza che mi avevano impostodopo di che rientrai più o meno nell’ordinesolito della comunitàripresi il mio posto nel coro e nel refettorioripresia eseguire i compiti che mi spettavano nel convento. Ma quale fu la mia sorpresaallorché posai gli occhi sulla giovane amica che si interessava alla mia sorte.Mi parve cambiata quasi quanto me; era di una magrezza spaventosa; il suo voltoera soffuso del pallore della morteaveva le labbra bianche e gli occhi semispenti. Le dissi a bassa voce:

           “Suor Orsolache cosa avete?”

           Mi rispose:

           “Che cos’ho? Vi voglio benee voi me lo chiedete! Era ora chefinisse il vostro supplizio o io ne sarei morta.”

           Se negli ultimi due giorni della mia onorevole ammenda non mi ero feritai piediera perché lei aveva avuto il pensiero di spazzare furtivamente icorridoi ammucchiando sui lati i cocci di vetro. I giorni in cui ero condannataa digiunare a pane e acqualei si privava di una parte della sua razione dicibo che avvolgeva in un panno bianco e buttava nella mia cella. Avevanoestratto a sorte il nome delle monache che avrebbero dovuto tirarmi per la cordaed era toccato a lei. Risolutamente era andata dalla superiora e le avevaaffermato che avrebbe preferito morire piuttosto che assolvere quel compitoinfame e crudele. Per fortuna quella fanciulla apparteneva a una famiglia assaistimata e godeva di una cospicua pensione che amministrava secondo i voleridella superiora. Per qualche libbra di zucchero e di caffè trovò una monacache la sostituì. Non ardirei pensare che la mano di Dio si sia abbattuta suquella monaca indegnama ella è diventata pazza ed è stata rinchiusa. Lasuperiorainvece vivegovernatormentae sta benissimo.

           Non era possibile che la mia salute resistesse a prove così lunghe e cosìdure. Mi ammalai. Fu in tale circostanza che suor Orsola dimostrò tuttal’amicizia che nutriva per me: debbo a lei la vita. A volte lei stessa midiceva che non era un bene aiutarmi a mantenermi in vitaeppure non vi eraservigio che non mi rendesse nei giorni in cui il turno di infermiera spettava alei. Se gli altri giorni non ero abbandonataera grazie al suo interessamentoalle piccole ricompense che distribuiva a quelle che vegliavano su di me aseconda che ne fossi stata più o meno soddisfatta. Aveva chiesto di vegliare sudi me la notte e la superiora le aveva opposto un rifiuto col pretesto che eratroppo delicata per affrontare una simile fatica. Per lei fu un vero dolore.Tutte le sue cure non impedirono che il male progredisse. Mi ridussi agliestremi e ricevetti l’Estrema Unzione. Qualche minuto prima avevo chiesto divedere tutta la comunità riunita. Mi fu accordato. Le monache circondarono ilmio lettoe la superiora stava in mezzo a loro. Al capezzale c’era la miagiovane amica che mi teneva una mano e la ricopriva di lacrime. Supponendo cheavessi qualcosa da diremi sollevarono e mi tennero seduta contro dueguanciali. Rivolgendomi alla superiorala pregai allora di concedermi la suabenedizione e il perdono delle colpe che avevo commesso: chiesi perdono a tuttele mie compagne per lo scandalo che avevo dato. Mi ero fatta portare accantoun’infinità di piccolezze che servivano ad abbellire la mia cella o cheservivano a me personalmentee pregai la superiora che mi permettesse didisporne; ella acconsentì ed io le detti a quelle che le erano servite dasatelliti allorché mi avevano gettata nella segreta. Feci avvicinare la monacache mi aveva tirata per la corda il giorno della mia onorevole ammenda e mentrela baciavo e le presentavo il mio rosario e il mio crocifisso le dissi:

           “Cara sorellaricordatemi nelle vostre preghiere e siate certa che nonvi dimenticherò davanti a Dio...”

           Ma perché Dio non mi ha presa in quel momento? Stavo andando a lui senzaturbamento. È una felicità così grandee chi può assicurarsela una secondavolta? Che ne sarà di me nel momento supremo? Bisogna pure che ci arrivi. PossaDio rinnovare i miei tormenti e concedermene uno altrettanto sereno! Vedevo icieli spalancatie certamente lo eranogiacché la coscienza in quei momentinon ingannaed essa mi prometteva una felicità eterna.

           Dopo aver ricevuto i sacramenticaddi in una specie di letargia. Le miecondizioni rimasero disperate per tutta quella notte. Di tanto in tanto venivanoa tastarmi il polso; sentivo mani che mi sfioravano il voltoudivo voci diverseche dicevano come in lontananza: “Sta salendo... Il naso è freddo... Nonarriverà a domani... Il rosario e il crocifisso saranno per voi...” Eun’altra voce piena di corruccio protestava: “Andate viaandate via;lasciatela morire in pace; non l’avete forse tormentata abbastanza?” Fu unmomento davvero dolce per mequello in cui uscendo dalla crisi e riaprendo gliocchimi ritrovai tra le braccia della mia amica. Non mi aveva mai lasciata:aveva trascorso la notte ad assistermia ripetere le preghiere degliagonizzantia farmi baciare il crocifisso accostandolo alle proprie labbra dopoaverlo staccato dalle mie. Nel vedermi spalancare gli occhi e trarre un profondosospirocredette che fosse l’ultimo. E allora si mise a gridare e a chiamarmisua amicaa dire: “Mio Dioabbiate pietà di leie di me! Mio Dioaccogliete la sua anima! Cara amicaquando sarete al cospetto di Dioricordatevi di suor Orsola...” La guardai sorridendo tristementeversando unalacrima e stringendole la mano.

           In quel momento arrivò il dottor Bouvard che era il medico del convento.A quel che dicono è un uomo che sa il fatto suoma è dispoticoorgoglioso erude.

           Allontanò sgarbatamente la mia amica; mi tastò il polso e la pelle. Loaccompagnavano la superiora e le sue favorite. A monosillabi fece qualchedomanda su quanto era accaduto e commentò: “Se la caverà.” E guardando lasuperiora alla quale tale affermazione sembrava piacere poco:

           “Sìsignora” soggiunse“se la caverà; la pelle ha un aspettonormalela febbre è caduta e gli occhi cominciano a dar segno di vita.”

           A ciascuna delle sue parolela gioia illuminava il volto della miaamicamentre su quello della superiora e delle sue compagne si andavamanifestando non so qual disappunto dissimulato a fatica.

           “Signore” dissi al dottore“non chiedo di vivere.”

           “Peggio per voi” fu la sua risposta.

           Dette un ordine e se ne andò. Pare che durante la letargia avessiripetuto diverse volte:

           “Cara madrevengo a raggiungervie vi dirò tutto.” Certamente mirivolgevo alla mia superiora di prima. Non detti a nessuno il suo ritratto:volevo portarlo con me nella tomba.

           Si avverò la previsione del dottor Bouvard; la febbre diminuì escomparve del tutto con l’aiuto di abbondanti sudorazioni. Nessuno ebbe piùdubbi sulla mia guarigione. In effetti guariima ebbi una convalescenza assailunga.

           Era scritto che in quel convento avrei sofferto tutti i patimentipossibili e immaginabili. Nella mia malattia c’era stato come un malignocontagio. Suor Orsola non mi aveva quasi mai lasciata. Allorché cominciai arecuperare le forzele sue cominciarono a declinare. La sua digestione divennedifficile; nel pomeriggio era presa da svenimenti che a volte duravano un quartod’ora. Quando era in quello statoera come morta. La vista le si velavaunsudore freddo le imperlava la fronte e le gocce le scivolavano lungo le guance.Le braccia le pendevano inerti lungo i fianchi. Solo slacciandole e allentandoleun poco le vesti si riusciva a darle un po’ di sollievo. Quando si riprendevada quegli svenimentiil suo primo impulso era di cercarmi accanto a sé; mitrovava sempre. A voltequando le rimaneva un po’ di sentimento e diconoscenzamuoveva una mano intorno a sé senza aprire gli occhi. Il gesto eracosì significativo che le monachedopo essersi offerte al tocco di quella manoesitante che ricadeva inerte per non averle riconosciutemi dicevano: “Vuolevoisuor Susannaavvicinatevi...” Allora mi buttavo ai suoi ginocchiattiravo quella sua mano sulla mia fronte e ve la lasciavo fino a che durava ilsuo svenimento. Quando era passatomi diceva:

           “Allorasuor Susannasarò io che me ne andròe voi invecerimarrete; sarò io che la rivedrò per primale parlerò di voi ed ella non mipotrà ascoltare senza piangere. Se vi sono lacrime amareve ne sono anche dimolto dolcie se lassù si amaperché non vi si dovrebbe piangere?”

           Reclinava la testa sul mio colloversava molte lacrimee poisoggiungeva:

           “Addiosuor Susannaaddio amica mia. Chi condividerà le vostre penequando io non ci sarò più? Chi ? Ahamica miacome vi compiango! Me ne vadolo sentome ne vado. Se foste felicecome rimpiangerei di morire!”

           Il suo stato mi spaventava. Ne parlai alla superiora. Volevo che lamettessero in infermeriache la dispensassero dagli uffizi e dalla fatica deglialtri esercizi del conventoche chiamassero un medico. Mi risposero che non eraniente di graveche quegli svenimenti sarebbero passati da solie la cara suorOrsola non chiedeva di meglio che adempiere i propri obblighi e seguire la vitadella comunità.

           Un giornodopo il mattutino al quale era stata presentenon la sirivide. Pensai che stesse davvero male e terminato l’uffizio del mattinocorsi da lei. La trovai sdraiata sul letto tutta vestita. Mi disse:

           “Siete quimia cara amica? Ero certa che non avreste tardato a veniree vi aspettavo. Statemi a sentire. Com’ero impaziente di vedervi! Il miosvenimento è stato tanto lungo e tanto profondo che ho creduto di morire e dinon rivedervi più. Eccoprendete: questa è la chiave del mio inginocchiatoio;aprirete lo stipettotoglierete una piccola tavola che divide in due ilcassetto in basso.

           Dietrovi troverete un pacchetto di carte; non mi sono mai potutarisolvere a separarmenenonostante il pericolo che correvo nel conservarle e ildolore che provavo nel leggerle. Ahimè! le lacrime le hanno quasi completamentecancellate. Quando non ci sarò piùle brucerete.”

           Era così debole e sfinita che non riuscì a pronunciare queste paroleuna di seguito all’altra. Si soffermava quasi ad ogni sillabae poi parlava avoce così bassa che a stento riuscivo a sentirlabenché avessi l’orecchioincollato alla sua bocca. Presi la chiavele indicai col ditol’inginocchiatoio ed ella mi fece un cenno affermativo con la testa. Poipresentendo che stavo per perderlae persuasa che la sua malattia fosse unaconseguenza della miao di tutta la pena che le avevo cagionatoo delle cureche mi aveva prodigatomi misi a piangere e a disperarmi con tutta l’anima.Le baciai la frontegli occhiil voltole mani; le chiesi perdono. Ma lei eracome distratta e non mi sentiva. Una delle sue mani si posava sul mio visoaccarezzandolo; credo che non mi vedesse piùforse pensava che fossi uscitaperché mi chiamò:

           “Suor Susanna?”

           “Eccomi” le risposi.

           “Che ore sono?”

           “Sono le undici e mezzo.”

           “Le undici e mezzo! Andate a pranzo; andatetornerete subito.”

           La campanella del pranzo suonò e dovetti lasciarla. Quando fui allaportami richiamò. Tornai indietro. Fece uno sforzo per porgermi le guance; labaciaimi prese la mano e me la tenne stretta. Sembrava che non volessechenon potesse lasciarmi: “Eppure è necessario” disse lasciandomi la mano.“Dio lo vuole. Addiosuor Susanna. Datemi il crocifisso.”

           Glielo misi tra le mani e me ne andai.

           Stavamo per alzarci da tavola. Mi rivolsi alla superiora e in presenza ditutte le monache le parlai del pericolo che correva suor Orsolala sollecitaiad accertarsene di persona.

           “In tal caso” disse“sarà bene andare a vederla.”

           Salìaccompagnata da qualche altra monaca mentre io la seguivo.Entrarono nella cella. La poveretta era già spirata. Era stesa sul lettotuttavestitacon la testa reclinata sul guancialela bocca semiapertagli occhichiusi e il crocifisso tra le mani. La superiora la guardò freddamente e disse:

           “È morta. Chi avrebbe mai detto che fosse così prossima alla fine.Era una gran brava figliola. Fate suonare le campane per leie seppellitela.”

           Rimasi sola al suo capezzale. Non saprei descrivervi il mio doloreetuttavia invidiai la sua sorte. Mi avvicinai a leila coprii di lacrimelabaciai più volte e con il lenzuolo le coprii il visoi cui lineamenti giàcominciavano ad alterarsi. Poi pensai ad eseguire ciò che lei mi avevaraccomandato di fare. Per non essere interrotta durante quell’operazioneaspettai che tutte le monache fossero all’uffizio; aprii l’inginocchiatoiotolsi la tavoletta e trovai un rotolo di carte abbastanza voluminoso che bruciainon appena scese la sera. Era sempre stata una fanciulla malinconica: nonricordo d’averla mai vista sorrideresalvo una volta durante la malattia.

           Ero dunque rimasta sola in quel conventosola al mondogiacché nonconoscevo un solo essere che si interessasse di me. Non avevo più sentitoparlare dell’avvocato Manouri. Supponevo che fosse stato scoraggiato dalledifficoltà oppure che distratto dagli svaghi o dai suoi impegniavesse ormaidimenticato completamente l’aiuto che mi aveva promesso. Non gliene serbavorancore: per carattere sono portata all’indulgenza; posso perdonare tutto agliuominisalvo l’ingiustizial’ingratitudine e l’inumanità. Scusavo perciòl’avvocato Manouri il più possibilee tutta quella gente di mondo chedurante il processo mi aveva dimostrato tanto interesse e per la quale nonesistevo piùe anche voisignor marcheseallorché i nostri superioriecclesiastici fecero una visita al convento.

           Entranopercorrono le celleinterrogano le monachesi fanno rendereconto dell’amministrazione temporale e spirituale del conventoe secondo lospirito con il quale assolvono le loro funzionipongono riparo o accrescono ildisordine. Rividi così l’onesto e rude monsignor Hébert con i suoi duegiovani e compassionevoli ecclesiastici. Ebbero l’aria di ricordare in qualestato deplorevole ero comparsa dinanzi a loro. I loro occhi si inumidirono e sulloro volto osservai l’intenerimento e la gioia. Monsignor Hébert si sedettee mi fece sedere di fronte a lui; i suoi due coadiutori rimasero in piedi dietrola sua sedia; i loro sguardi erano fissi su di me. Monsignor Hébert mi disse:

           “Allorasuor Susannacome vi trattano adesso?”

           “Mi dimenticanosignore”gli risposi.

           “Meglio così.”

           “È quello che mi auguro anch’ioma avrei una grazia importante dachiedervi: fate venire qui la madre superiora.”

           “Perché?”

           “Perché se mai dovessero lamentarsi di lei presso di voimi riterràsenz’altro responsabile.”

           “Capisco. Ditemi comunque che cosa ne sapete.”

           “Vi supplico di farla chiamaresignoreperché lei stessa senta levostre domande e le mie risposte.”

           “Parlate lo stesso.”

           “Voi mi volete perderesignore.”

           “Nonon abbiate paura; da oggi non siete più soggetta alla suaautorità; prima della fine della settimana sarete trasferita a Sant’Eutropiopoco lontano da Arpajon. Avete un amico fedele.”

           “Un amico fedelesignore! Non ho nessun amico.”

           “È il vostro avvocato.”

           “Il signor Manouri?”

           “In persona.”

           “Non credevo che si ricordasse ancora di me.”

           “È andato dalle vostre sorelle; è andato dal monsignore arcivescovodal primo presidenteda tutte le persone note per la loro pietà. Vi hacostituito una dote nel convento di cui vi ho parlato; dovrete restare qui perbrevissimo tempo. Perciòse siete a conoscenza di qualche disordinepotetemettermi al corrente senza compromettervi. Ve l’ordino per la santaobbedienza.”

           “Io non so niente.”

           “Come! dopo l’esito del vostro processo si sono comportate con voicon la dovuta moderazione?”

           “Hanno creduto o hanno dovuto credere che avessi commesso una colpaappellandomi contro i miei voti e me ne hanno fatto chiedere perdono a Dio.”

           “Sono proprio le circostanze di questo perdono che vorrei sapere.”

           Così dicendo scuoteva la testaaggrottava le sopracciglia. Mi resiconto che dipendeva soltanto da me far ricadere sulla superiora una parte deicolpi di disciplina che mi aveva fatto infliggerema tale non era la miaintenzione. L’arcidiacono capì che non avrebbe saputo niente da me e uscìraccomandandomi il segreto circa quanto mi aveva confidato sul trasferimento aSant’Eutropio di Arpajon.

           Mentre quell’eccellente monsignore Hébert s’incamminava da solo nelcorridoioi suoi due assistenti si voltarono e mi salutarono con aria assaiaffettuosa e dolce. Ignoro chi sianoma che Dio mantenga loro quel caratteretenero e misericordioso così raro nel loro stato e che tanto si addice a chi èdepositario della debolezza dell’uomo e intercessore della misericordia diDio. Credevo che monsignor Hébert fosse intento a consolarea interrogare o adammonire qualche altra monacaallorché tornò nella mia cella.

           “Come avete conosciuto il signor Manouri?”

           “A causa del mio processo.”

           “Chi vi ha affidato a lui?”

           “La signora presidentessa.”

           “Lo avete dovuto incontrare spesso nel corso della vostra causa?”

           “Nosignorel’ho visto poche volte.”

           “In che modo lo avete tenuto al corrente?”

           “Con alcune note scritte di mio pugno.”

           “Avete copia di queste note?”

           “Nosignore.”

           “Chi gliele consegnava?”

           “La signora presidentessa.”

           “Come avevate fatto la sua conoscenza?”

           “Tramite suor Orsola che era amica mia e sua parente.”

           “Avete visto il signor Manouri dopo la fine del processo?”

           “Una volta.”

           “È poco. Non vi ha mai scritto?”

           “Nosignore.”

           “Voi non gli avete mai scritto?”

           “Nosignore.”

           “Vi metterà certamente al corrente di ciò che ha fatto per voi. Viordino di non incontrarlo in parlatorio; se vi scrivesia direttamente cheindirettamentevi ordino di mandarmi la lettera senza aprirla. Senza aprirlaè chiaro?”

           “Sìsignore. Vi obbedirò.”

           Quella diffidenza di monsignor Hébertsia che mi riguardassesia cheriguardasse il mio benefattoremi ferì.

           Il signor Manouri venne a Longchamp quella sera stessa. Mantenni laparola data all’arcidiacono e mi rifiutai di parlargli. Il giorno dopo mi fecescrivere dal suo incaricato. Ricevetti la letterae senza aprirla la mandai amonsignor Hébert. Se ben ricordoera di martedì. Aspettavo sempre conimpazienza il risultato della promessa dell’arcidiacono e dei passi compiutidal signor Manouri. Il mercoledìil giovedìil venerdì trascorsero senzache ci fossero novità. Come mi parvero lunghe quelle giornate! Tremavoall’idea che potesse essere sorta qualche difficoltà che avesse sconvoltotutti i piani. Non ritrovavo la mia libertàma cambiavo prigioneed era giàqualcosa. Un primo avvenimento felice fa germogliare in noi la speranza di unsecondo: forse è questa l’origine del proverbio “ una fortuna non giungesenza un’altra”.

           Conoscevo bene le compagne che lasciavo e non mi ci voleva molto asupporre che avrei pur sempre guadagnato qualcosa vivendo con recluse diverse.Comunque fossero non avrebbero potuto essere né più cattivené piùmalevole. Il sabato mattinaverso le noveci fu grande agitazione in convento.Ci vuol ben poca cosa per mettere le monache in subbuglio. Andavanovenivanoparlavano a bassa voce; le porte dei dormitori si aprivano e si chiudevano. Comeavete potuto constatare fin quiè questo il segnale delle rivoluzionimonastiche. Ero sola nella mia cella; aspettavoe il cuore mi batteva.Ascoltavo alla portaguardavo dalla finestrami agitavo senza sapere che cosafacessi; trasalendo di gioia andavo dicendo a me stessa:

           “Vengono e prendere me; fra poco non ci sarò più...” e infatti nonmi sbagliavo.

           Mi si presentarono due persone sconosciute: erano una monaca e laportinaia di Arpajon. In poche parole mi misero al corrente della ragione dellaloro visita. Presi in fretta e furia le poche cose che mi appartenevano; legettai alla rinfusa nel grembiule della portinaia che ne fece dei pacchetti. Nonchiesi nemmeno di vedere la superiora; suor Orsola non c’era piùnon avevonessuno da salutare.

           Scendo; mi aprono la porta dopo aver ispezionato quello che portavo conme; salgo su una carrozza ed eccomi partita.

           L’arcidiaconoi due giovani ecclesiasticila signora presidentessa eil signor Manouri si erano riuniti dalla superiora di Arpajon dove furonoavvertiti che avevo lasciato il convento. Via facendola monaca mi parlò delnuovo convento e ad ogni frase di quell’elogio che me ne veniva fattolaportinaia aggiungeva a mo’ di ritornello: “È la pura verità.” La miacompagna si rallegrava di essere stata scelta per venire a prendermi e volevadiventare mia amicaperciò mi confidò alcuni segreti e mi dette qualcheconsiglio sul modo di comportarmi. Quei consigli naturalmente andavano bene perleima non potevano servire a me. Non so se avete visto il convento di Arpajon.È una costruzione quadratadi cui una facciata guarda sulla strada maestra el’altra sulla campagna e i giardini. Ad ogni finestra della facciata che davasulla stradac’erano unadueo tre monache. Bastò quella circostanza adirmela più lunga di tutte le chiacchiere della monaca e della sua compagnasull’ordine che regnava nel convento. Evidentemente conoscevano la carrozzacon la quale arrivavoperché in un batter d’occhio tutte quelle teste velatescomparvero ed io giunsi alla porta della mia nuova prigione. La superiora mivenne incontro a braccia apertemi abbracciòmi prese per mano e mi condussenella sala della comunità dove alcune monache ci avevano già preceduto e dovealtre accorsero.

 

           Questa superiora si chiama Signora di ***. Non so resistere al desideriodi descriverla prima di proseguire. È piccolatutta tonda e nondimeno vivace esvelta nei movimenti; la testa non le sta mai ferma sulle spalle; nel suoabbigliamento c’è sempre qualcosa di stonato; il viso è più bello chebrutto; i suoi occhidi cui il destro è più alto e più grande dell’altrosono pieni di fuoco e svagati; quando camminamanda le braccia avanti eindietro. Se vuol parlare? apre bocca prima di aver riordinato le idee e cosìbalbetta un po’. Se è seduta? si agita sul sedile come se qualcosa lainfastidisse. Dimentica ogni decorosi toglie il soggolo per grattarsi lapelleincrocia le gambe. Vi interrogavoi le rispondetee lei non ascolta. Viparlae perde il filo del discorso; si ferma di bottonon sa più che cosastava dicendova in collera e vi dà della bestiadella stupidadell’imbecillese non la rimettete sulla via. A volte è familiare fino adare del tua volte imperiosa e altezzosa fino all’arroganza. I suoi momentidi dignità non durano a lungo ed èa fasi alternecompassionevole e severa.Il suo viso scomposto rivela l’incoerenza del suo animo e l’incostanza delsuo carattere; perciò nel convento ordine e disordine si susseguivano inpermanenza. C’erano giorni in cui tutto veniva mischiatoeducande e novizienovizie e professe; giorni in cui le une correvano nelle celle delle altre einsieme bevevano tècaffècioccolataliquori; giorni in cui si celebraval’uffizio con una rapidità indecente. In mezzo a tutta quella confusionedicolpo il viso della superiora cambiala campana suonale monache si chiudonosi ritiranoil silenzio più profondo succede al rumorealle gridaaltumulto. Si direbbe che all’improvviso tutto è morto. In questi casise unamonaca vien meno al più piccolo doverela superiora la fa andare nella suacellala tratta con durezzale ordina di spogliarsi e di darsi venti colpi didisciplina. La monaca obbediscesi spogliaprende la disciplinasi flagellama si è appena data qualche colpo che la superiora torna ad esserecompassionevolele strappa lo strumento di penitenzasi mette a piangerediceche si sente molto infelice per la punizione che le deve infliggerele bacia lafrontegli occhila boccala carezzala loda: “Ma guardate che pellebianca e morbida! Che aria florida! e che bel collo! e che bei capelli!... Seipazzasuor Augustina a vergognarti così! Sono donnae sono la tua superiora!lascia cadere quella camicia! Ohche bel seno! com’è sodo! E io dovreisopportare che tutta questa bellezza fosse ferita dalle sferzate! che non siamai...” La bacia ancoral’aiuta a rialzarsila riveste lei stessale dicele cose più tenerela dispensa dalle funzioni e la rimanda nella sua cella.

           Si è sempre a disagio con donne di questo genere. Non si sa mai che cosapossa piacere o dispiacere loroche cosa si deve evitare e che cosa si devefare; non vi è nessuna regola: o si è servite in abbondanzao si muore difame; l’economia del convento ne è tutta scombussolata; le rimostranze sonoaccolte male o ignorate. Si è sempre o troppo lontane o troppo vicine asuperiore con un carattere simile; non c’è né vera distanzané un giustomezzo; se ne godono i favorio si è in disgrazia senza sapere perché.

           Volete averein una cosa da nullaun esempio generale della suaamministrazione? Due volte all’anno correva di cella in cella e faceva buttaredalle finestre tutte le bottiglie di liquori che vi trovavae quattro giornidopo era lei stessa che ne rimandava alla maggior parte delle monache. Eccocom’era colei alla quale avevo fatto voto solenne di obbedienzadato che noiportiamo sempre i nostri voti da un convento all’altro.

           Entrai con lei che mi guidava tenendomi allacciata per la vita. Fuservita una merenda di fruttamarzapane e confetture.

           L’austero arcidiacono cominciò il mio elogio che interruppe dicendo:“Hanno avuto tortohanno avuto tortolo so...” L’austero arcidiaconovolle continuare e la superiora lo interruppe dicendo: “Come hanno potutoallontanarla? È la modestia e la dolcezza in persona; dicono che è piena diqualità...” L’austero arcidiacono volle riprendere dalle ultime parole; dinuovo la superiora lo interruppe dicendomi sottovoce nell’orecchio: “Vi amoalla folliae quando questi pedantoni se ne saranno andatifarò venire lenostre consorelle e voi canterete un’ariettavero?” Mi venne una granvoglia di ridere. L’austero monsignor Hébert fu alquanto sconcertatoi suoidue giovani assistenti sorridevano del suo imbarazzo e del mio.

           Intanto monsignor Hébertritrovando il suo carattere e le sue solitemaniere le ordinò bruscamente di sedersi e le ingiunse di tacere. La superiorasi sedettema non si sentiva a suo agio: mentre era sedutasi agitavasigrattava la testasi aggiustava l’abito che non ne aveva affatto bisognosbadigliava. E intanto l’arcidiacono discorreva con molto buon senso delconvento che avevo appena lasciatodi tutte le vicissitudini in cui eroincorsadel convento nel quale entravodegli obblighi contratti verso lepersone che mi avevano servito. A questo punto guardai il signor Manouri cheabbassò gli occhi. Allora la conversazione si fece generale; il penoso silenzioche era stato imposto alla superiora cessò. Mi avvicinai al signor Manouri e loringraziai per tutto quello che aveva fatto per me. Tremavobalbettavononsapevo quale riconoscenza promettergli. Il mio turbamentoil mio imbarazzoilmio intenerimentogiacché ero veramente commossalacrime e gioia mescolateinsiemetutto il mio modo di fareparlarono con molta più eloquenza di quantonon avrei saputo fare io.

           La sua risposta non fu meno sconnessa del mio discorsetto; era turbatoquanto me. Non so quel che mi andava dicendoma capii che se avesse addolcitola mia sortesarebbe stato più che ricompensato e che si sarebbe ricordato diquello che aveva fatto con un piacere ancor più grande del mioche glidispiaceva molto che i suoi impegni che lo tenevano legato al Palazzo di Pariginon gli permettessero di fare visite frequenti al chiostro di Arpajonma chesperava di ottenere dal signor arcidiacono e dalla signora superiora il permessodi informarsi sulla mia salute e sulle mie condizioni.

           L’arcidiacono non sentìma la superiora rispose:

           “Finché vorretesignore. Suor Susanna farà tutto quello che lepiacerà; cercheremo di riparare qui tutti i patimenti che ha dovutosoffrire.”

           Poia mesottovoce:

           “Figliola miahai proprio sofferto tanto? Ma come possono aver avutoil coraggio di maltrattartiquelle creature di Longchamp? Ho conosciuto la tuasuperiorasiamo state educande insieme a Port-Royal. Era la bestia nera dellesue compagne. Avremo tutto il tempo di vedercimi racconterai...”

           Così dicendo mi afferrava una mano sulla quale dava dei colpetti con lasua. Anche i giovani ecclesiastici mi fecero i loro convenevoli. Era tardi; ilsignor Manouri si congedò da noi; l’arcidiacono e i suoi compagni si recaronodal signor  ***...signore diArpajondal quale erano stati invitatied io rimasi sola con la superiora. Manon fu per molto. Tutte le monachetutte le novizietutte le educandeaccorsero alla rinfusa: in un attimo mi vidi circondata da un centinaio dipersone. C’erano visi di ogni tipo e si intrecciavano frasi di ogni genere.Capii però che non erano scontentené delle mie rispostené della miapersona.

           Dopo un certo tempo che durava quel chiacchierare importuno e dopo che fusoddisfatta la prima curiositàl’assembramento si disperse. La superioraallontanò quelle che rimanevano e venne di persona a sistemarmi nella miacella. Me ne fece gli onori a modo suomostrandomi l’inginocchiatoio edicendomi:

           “Ecco dove la mia amichetta pregherà Dio; voglio che le venga messo uncuscino su questo gradinoperché i suoi ginocchietti non si facciano male. Nonc’è più acqua benedetta in questa acquasantiera; quella suor Doroteadimentica sempre qualcosa. Provate questa poltronavedete un po’ se ci statecomoda...”

           E mentre parlavami fece sederemi fece appoggiare la testa sulloschienalemi baciò la fronte. Poi andò alla finestra per assicurarsi che ivetri si alzassero e si abbassassero facilmente; poi andò al lettodi cui tiròe ritirò le cortine per vedere se chiudevano bene. Esaminò le coperte: “sonocalde”disse. Prese il traversino e sprimacciandolo e facendolo gonfiarediceva: “questa cara testolina starà benissimo appoggiata qui... Questelenzuola non sono finima sono quelle della comunità... Questi materassi sonobuoni.”

           Dopo di che viene verso di memi abbraccia e mi lascia. Durante questascenaio dicevo dentro di me: “Che creatura folle!” E mi aspettavo di doveraffrontare giorni buoni e giorni cattivi.

           Mi sistemai nella cellapoi assistetti all’uffizio della seraallacena e alla ricreazione che seguì. Alcun monache mi si avvicinaronoaltre siallontanarono; le prime contavano sulla mia protezione nei confronti dellasuperiorale altre erano già allarmate per la predilezione che mi avevadimostrato. Quei primi momenti trascorsero in elogi reciprociin domande sulconvento che avevo lasciatoin tentativi di conoscere il mio caratterele mieinclinazioniil mio gustola mia intelligenza. Vi sondano dappertutto: è unsusseguirsi di piccoli tranelli che vi vengono tesi e dai quali si traggono leconclusioni più esatte. Per esempiodicono una frase maldicente e poi viguardano; cominciano una storia e aspettano che chiediate il seguito o che ve nedisinteressiate. Se usate un’espressione qualsiasila trovano deliziosa benchésappiano benissimo che non ha niente di speciale; di proposito vi lodano o vibiasimano. Cercano di penetrare nei vostri pensieri più segreti; vi interroganosulle vostre letturevi offrono libri sacri o profaninotano le vostre scelte.Vi invitano a commettere lievi infrazioni alla regola; vi fanno delleconfidenze; vi buttan lì qualche frasetta sulle bizzarrie della superiora:tutto viene raccolto e ripetuto. Vi lascianovi riprendono; indagano sui vostrisentimentisui costumisulla pietàsulla societàsulla religionesullavita monasticasu tutto questo. Da questi esperimenti reiterati deriva unepiteto che vi caratterizza e che viene unito come soprannome al nome cheportate; fu così che io venni chiamata suor Susanna la riservata.

           La prima sera ricevetti la visita della superiora che venne nel momentoin cui mi stavo spogliando. Fu lei che mi tolse il velo e il soggolo e che mipettinò per la notte; fu lei che mi spogliò. Mi disse cento paroline dolcimifece mille carezze che mi misero un po’ in imbarazzo senza che capissi perchédato che non ci capivo nulla e neppure lei. E anche oggi che ci riflettochecosa avremmo potuto capirci? In ogni modo ne parlai al mio direttore spiritualeil quale considerò quelle familiarità che a me sembravano e continuavano asembrare innocenticon molta serietà e mi proibì severamente di prestarmiciancora. La superiora mi baciò il collole spallele braccia lodò il miobell’aspetto e la mia vita sottilepoi mi mise a letto; mi rimboccò lecoperte da entrambi i latimi baciò gli occhitirò le cortine e se ne andò.Dimenticavo di dirvi che supponeva ch’io fossi stancae mi permise di restarea letto finché avessi voluto.

           Profittai del suo permesso e credo che sia stata la sola notte buona cheabbia passato in convento. E dal convento non sono quasi mai uscita. Il giornodopoverso le novesentii bussare delicatamente alla porta. Ero ancora aletto; risposientrarono. Era una monaca che mi dissepiuttosto di malumoreche era tardi e che la madre superiora chiedeva di me. Mi alzaimi vestii infretta e andai.

           “Buon giornofigliola” mi disse; “avete passato una buona notte?Ecco qui il caffè che vi aspetta da un’ora; credo sia buono; sbrigatevi aberlo e poi parleremo...”

           E mentre parlavastendeva un tovagliolo sulla tavolane spiegava unaltro su di meversava il caffèlo inzuccherava. Le altre monache facevanoaltrettantole une nelle celle delle altre. Mentre facevo colazionelasuperiora mi intrattenne sulle sue compagneme le descrisse a seconda della suaavversione o della sua simpatiami fece mille affermazioni di amiciziamilledomande sul convento che avevo lasciatosui miei genitorisu tutte le cosesgradevoli che avevo dovuto subire; lodòbiasimò secondo il suo estrononstette mai a sentire le mie risposte fino in fondo. Non la contraddissi mai; fumolto contenta di trovarmi ricca di spiritogiudiziosa e discreta. Nelfrattempo venne una monacapoi un’altrapoi una terzapoi una quartaunaquinta. Parlarono degli uccelli di una certa madredelle piccole manie di unacerta sorelladi tutte le imperfezioni ridicole delle assenti. Vi fu grandeallegria. In un angolo della cella c’era una spinetta; distrattamente vi posaile dita. Arrivata di recente al convento e non conoscendo le monache sulle qualistavano scherzandomi divertivo ben poco; e quand’anche fossi stata più alcorrentenon per questo mi sarei divertita di più. Ci vuole troppo spirito perscherzare come si devee poichi non ha qualcosa di ridicolo? Mentre ridevanoio accennavo a qualche accordo; a poco a poco l’attenzione si rivolse verso dime. La superiora venne dalla mia parte e dandomi un colpetto sulle spallemidisse:

           “Suvviasuor Santa Susannadivertici un po’; prima suonapoi dopocanterai.”

           Feci ciò che mi diceva; eseguii alcuni pezzi che mi venivanospontaneamente alle dita; improvvisai qualche preludio e infine cantai alcuniversetti dei salmi di Mondonville.

           “Davvero molto bene” disse la superiora“ma in chiesa abbiamosantità a sufficienza. Siamo sole; queste monache sono amiche mie e sarannoanche amiche tue; cantaci qualcosa di più allegro.”

           Alcune monache dissero:

           “Ma forse non conosce altro che questo; è stanca del viaggiobisognarisparmiarla; per una volta ha già suonato abbastanza.”

           “Nono” ribatté la superiora“si accompagna che è unameravigliaha la voce più bella del mondo (effettivamente la mia voce non èbruttabenché sia più intonatadolce e flessibile che forte e ampia). Non lalascerò libera finché non ci avrà cantato qualcos’altro.”

           Le parole delle monache mi avevano un po’ offesa; risposi allasuperiora che le monache non si divertivano più.

           “Ma io mi diverto ancora.”

           Mi aspettavo quella risposta. Perciò cantai una canzone alquantodelicata e tutte applaudironomi abbracciaronomi accarezzaronome nechiesero un’altra: moine ipocritedettate dalla risposta della superiora. Fradi loro non ve n’era una che non mi avrebbe rubato la voce e spezzato le ditase avesse potuto. Quelle che forse non avevano mai ascoltato musica in vitalorosi azzardarono a pronunciare sul mio conto giudizi ridicoli non meno chespiacevoliche però non ebbero presa sulla superiora.

           “Tacete” ella disse“suor Susanna suona e canta come un angelo evoglio che venga qui tutti i giorni: una volta sapevo suonare un po’ ilclavicembalo e voglio rimettermici con lei.”

           “Ahsignora” le dissi“se si è saputo una voltanon si èdimenticato tutto...”

           “Molto volentierilasciami il posto.”

           Dopo qualche preludiosuonò cose pazzebizzarrescucite come le sueideema attraverso tutti i difetti della sua esecuzionemi resi conto cheaveva la mano infinitamente più leggera della mia. Glielo dissi perché mipiace lodaree raramente ho perso l’occasione di farloquando potevo farlocon sincerità. È una cosa così dolce! Le monache si eclissarono una dopol’altra ed io rimasi pressoché sola con la superiora a parlare di musica. Iostavo in piedi; lei era seduta e mi afferrava le mani e mi diceva stringendole:

           “Non soltanto suona benema ha anche le più belle dita del mondo;guardate quisuor Teresa...”

           Suor Teresa abbassava gli occhiarrossivae balbettava; che io avessi onon avessi delle belle ditache la superiora avesse torto o ragione diosservarloche importanza poteva avere per quella monaca? La superiora miteneva allacciata per la vita e trovava che avevo il più bel vitino dei mondo.Mi aveva attirata a sé; mi aveva fatto sedere sulle sue ginocchia e misollevava la testa con le mani e mi esortava a guardarla. Lodava i miei occhila mia boccale mie guanceil mio incarnato. Io non rispondevo nientetenevogli occhi bassi e mi lasciavo andare a tutte quelle carezze come un’idiota.

           Suor Teresa era assortainquietaandava a destra e a sinistratoccavatutto senza aver bisogno di nientenon sapeva che fare della sua personaguardava dalla finestracredeva di aver sentito bussare alla porta. Lasuperiora le disse:

           “Suor Santa Teresapuoi andartene se ti annoi.”

           “Non mi annoiosignora.”

           “Il fatto è che ho mille cose da chiedere a questa figliola.”

           “Lo credo.”

           “Voglio sapere tutta la sua storia. Come potrò riparare tutto il maleche le hanno fattose lo ignoro? Voglio che me lo racconti senza ometterenientesono sicura che ne avrò il cuore straziato e che piangeròma nonimporta. Suor Santa Susannaquand’è che potrò sapere tutto?”

           “Quando me l’ordineretesignora.”

           “Te lo chiederei fra pocose ne avessimo il tempo. Che ore sono?”

           Suor Teresa rispose:

           “Sono le cinquesignorae i vespri stanno per suonare.”

           “Può sempre cominciare.”

           “Ma signorami avevate promesso un momento di consolazione prima deivespri. Ho dei pensieri che mi turbano; vorrei proprio aprire il cuore allamamma. Se vado all’uffizio senza averlo fattonon potrò pregaresaròdistratta.”

           “Nono!” disse la superiora“sei pazza con quelle tue idee.Scommetto che so già di che si tratta; ne parleremo domani.”

           “Ahcara madre!” disse suor Teresa gettandosi ai piedi dellasuperiora e sciogliendosi in lacrime“fate che sia fra breve.”

           “Signora” dissi alla superiora alzandomi dalle sue ginocchia doveero rimasta seduta“concedete alla mia consorella ciò che ella vi chiede;non la fate ancora soffrire così; avrò sempre il tempo di soddisfarel’interesse che volete testimoniarmie quando avrete ascoltato la mia sorellaTeresanon soffrirà più.”

           Feci il gesto di avviarmi verso la porta per uscire; la superiora mitratteneva con una mano; suor Teresain ginocchiosi era impadronitadell’altrala baciava e piangeva: la superiora le diceva:

           “In veritàsuor Teresasei molto importuna con le tue inquietudini;te l’ho già dettoè una cosa che non mi piaceche m’infastidisce; nonvoglio essere infastidita.”

           “Lo soma non sono padrona dei miei sentimenti; vorrei e non ciriesco...”

           Nel frattempo mi ero ritirata e avevo lasciato la giovane suora con lasuperiora. In chiesa non potei fare a meno di guardarla: c’erano ancora in leiabbattimento e tristezza; i nostri occhi si incontrarono diverse volte e miparve che le fosse difficile sostenere il mio sguardo. Quanto alla superiorasiera assopita nel suo stallo.

           L’uffizio fu sbrigato con tale velocità. Da quel che potei giudicareil coro non era il luogo del convento dove si stesse più volentieri. Le monachene uscirono veloci e cinguettanti come uno stormo d’uccelli che prenda il voloda una gabbia e si dispersero le une nelle celle delle altrecorrendoridendochiacchierando. La superiora si chiuse di nuovo nella sua cella e suor Teresa sifermò sulla soglia della suaspiandomi come se fosse stata curiosa di sapereche cosa avrei fatto. Io rientrai nella mia cella e la porta di suor Teresa sichiuse solamente dopo un certo tempoe si chiuse senza far rumore. Mi passòper la testa che quella fanciulla potesse essere gelosa di me e temesse ch’iole rubassi il posto che occupava nelle buone grazie e nell’intimità dellasuperiora. La osservai per diversi giorni di seguito e quando i miei sospettifurono sufficientemente confermati dai suoi scatti di colleradai suoi allarmipuerilidalla sua insistenza nel pedinarminell’interrompere i nostricolloquinel denigrare le mie qualitànel mettere in risalto i miei difettie ancora più dal suo palloredal suo doloredai suoi piantidal suo stato disalute fisica e persino mentalel’andai a trovare e le dissi:

           “Che cosa avetemia cara amica?”

           Non rispose; la mia visita la sorprese e la imbarazzò; non sapeva chedire o che fare.

           “Non siete giusta con me; ditemi la verità: voi temete ch’ioprofitti della simpatia che la nostra madre sente per meche vi allontani dalsuo cuore. State tranquillanon è nel mio carattere. Se mai fossi abbastanzafortunata da poter influenzare in qualche modo il suo animo...”

           “Voi avrete tutto quello che vorrete; lei vi ama; lei oggi fa per voiesattamente quello che ha fatto per me all’inizio.”

           “Ebbenein tal caso siate certa ch’io non mi servirò della fiduciache vorrà concedermi se non per rendervi più cara a lei.”

           “E questo dipenderà da voi?”

           “Perché non dovrebbe dipendere da me?”

           Invece di rispondermimi buttò le braccia al collo e mi dissesospirando:

           “Non è colpa vostralo so beneme lo dico ad ogni istante; mapromettetemi...”

           “Che cosa volete che vi prometta?”

           “Che...”

           “Ditecoraggio! Farò tutto quello che dipenderà da me.”

           Esitòsi copri gli occhi con le mani e con voce così bassa che appenala sentii: “Che la vediate meno che potrete.”

           La richiesta mi parve così strana che non potei fare a meno dirisponderle:

           “Che importa a voi ch’io veda di frequente o di rado la nostrasuperiora? A me non dispiace affatto che voi la vediate di continuo. A voi nondeve dispiacere ch’io faccia altrettanto; non vi basta la mia assicurazionech’io non vi faccia torto presso di leiné a voiné a nessun’altra?”

           Suor Teresa non mi rispose che con queste parole che pronunciò inmaniera dolorosa staccandosi da me e buttandosi sul letto:

           “Sono perduta!”

           “Perduta! E perché? Bisogna proprio che mi crediate la creatura piùperfida che ci sia al mondo!”

           Eravamo a questo punto quando entrò la superiora. Era passata nella miacella e non avendomi trovataaveva girato inutilmente per tutto il convento.Non le era venuto in mente che potessi essere da suor Santa Teresa. Dopo che levenne riferito dalle monache che aveva mandato alla mia ricercaaccorse. Losguardo e il volto rivelavano un certo turbamentoma tutta la sua persona eracosì di rado composta!

           Seduta sul suo lettosuor Santa Teresa taceva; io ero in piedi. Dissialla superiora:

           “Mia cara madrevi chiedo perdono di essere venuta qui senza il vostropermesso.”

           “È vero” mi rispose“che sarebbe stato meglio chiedermelo.”

           “Ma questa cara sorella mi ha fatto compassione; ho visto chesoffriva.”

           “E perché soffriva?”

           “Ve lo debbo proprio dire? E dopo tutto perché non ve lo dovrei dire?È per una delicatezza che fa molto onore alla sua anima e che manifesta inmaniera spiccata il suo attaccamento per voi. La bontà che mi avetetestimoniato ha messo in allarme la sua tenerezza: ella teme che il vostro cuorefinisca per preferirmi a lei. Questo sentimento di gelosiacosì onestod’altro cantocosì naturale e così lusinghiero per voimia cara madredaquel che mi è sembrato di capire era divenuto crudele per la mia sorellaed iola rassicuravo.”

           Dopo avermi ascoltatola superiora assunse un’aria severa e imponentee disse a suor Santa Teresa:

           “Suor Teresaio vi ho amata e vi amo ancora; non ho ragione dilamentarmi di voi e voi non avrete da lamentarvi di mema non posso tollerarequeste pretese di esclusività. Liberatevenese temete di spegnere quel che mirimane d’affetto per voie se vi ricordate la sorte di suor Agata...”

           Poirivolgendosi a mesoggiunse:

           “Sto parlando di quella bruna alta che nel coro sta di fronte a me.”

           (Io ero così schivaero da così poco tempo in quel conventoero cosìnuovache non sapevo ancora tutti i nomi delle mie compagne.)

           La superiora proseguì:

           “La amavoquando suor Teresa entrò in convento ed io cominciai aprediligerla. Suor Agata ebbe gli stessi turbamenticommise le stesse pazzie.Io l’avvertiie lei non si corresse. Allora fui costretta a ricorrere a mezziseveri che sono durati troppo a lungo e che sono del tutto contrari al miocarattere; tutte vi diranno infatti ch’io sono buona e non punisco se non amalincuore.”

           Poirivolgendosi a suor Santa Teresaaggiunse:

           “Figliola mianon voglio essere infastiditave l’ho già detto; voimi conoscetenon mi fate agire facendo violenza alla mia natura...”

           Poiappoggiandomi una mano sulla spallami disse:

           “Venitesuor Santa Susannaaccompagnatemi.”

           Uscimmo. Suor Santa Teresa fece il gesto di seguircima la superioravolgendo negligentemente lo sguardo sopra la mia spallale disse con tonoautoritario:

           “Tornate nella vostra cella e non uscitene senza il mio permesso.”

           Suor Santa Teresa ubbidìrichiuse la porta con violenza e si lasciòsfuggire alcune frasi che fecero fremere la superiora senza ch’io capissiperchégiacché non avevano alcun senso. Vidi la sua collera e le dissi:

           “Cara madrese avete qualche bontà per meperdonate la mia sorellaTeresa; ha perso la testanon sa quello che dice; non sa quello che fa.”

           “Volete ch’io la perdoni? La perdonerò; ma voiche mi darete?”

           “Ahcara madresarei così fortunataioda avere qualcosa che vipiacesse e che vi placasse?”

           La superiora abbassò gli occhiarrossìe sospirò; era proprio comeun innamorato. Poiabbandonandosi languidamente su di me come se si sentissemancaremi disse:

           “Avvicinate la vostra frontech’io la baci...”

           Mi curvai ed ella mi baciò la fronte. A partire da quel giornononappena una monaca aveva commesso qualche colpaio intercedevoed ero sicura diottenere per lei la sua grazia in cambio di qualche favore innocente; sitrattava sempre di un bacio sulla fronteo sul colloo sugli occhio sulleguanceo sulla boccao sulle manio sul pettoo sulle bracciama piùspesso sulla bocca. Ella trovava che avevo un alito puroi denti bianchi e lelabbra fresche e vermiglie.

           A dire il vero sarei davvero bellase meritassi la minima parte deglielogi che mi faceva: a sentir lei la mia fronte era biancaliscia e di unaforma incantevole; i miei occhi erano brillanti; le mie guance vermiglie edolci; le mie mani piccole e paffutelle; il mio petto era sodo come la pietra edi una forma perfetta; quanto alle mie braccianon ve n’erano di megliotornite e di più rotonde; nessuna delle suorepoiaveva un collo fatto megliodel mioné di una bellezza più squisita e più rara; e come potrei ricordaretutte le altre cose che mi diceva! C’eranelle lodi che mi facevaqualcosadi vero; a molte facevo la tarama non a tutte. Qualche voltaguardandomidalla testa ai piedi con un’aria di compiacimento che non avevo mai visto anessun’altra donnami diceva:

           “È la più grande fortuna del mondo che Dio l’abbia chiamata inconvento; con quel viso lìnel mondo avrebbe fatto dannare tutti gli uominiche avesse incontratoe si sarebbe dannata con loro. Dio fa bene tutto quelloche fa.”

           Intanto ci avvicinavamo alla sua cella; io mi accingevo a lasciarlamalei mi prese per mano e mi disse:

           “È troppo tardi per cominciare la vostra storia di Santa Maria e diLongchampma entrate lo stessomi darete una lezioncina di clavicembalo.”

           La seguii. Ebbe presto fattovivace com’eraad aprire ilclavicembaloa preparare uno spartitoad avvicinare una sedia. Mi sedetti.Pensò che potessi aver freddo; prese da una sedia un cuscino che posò davantia mesi chinòmi prese entrambi i piedi che posò sopra il cuscino; poi simise dietro la sedia e si appoggiò allo schienale. Dapprima accennai a qualcheaccordo; poi suonai qualche pezzo di Couperindi Rameaudi Scarlatti; leiintanto aveva sollevato un lembo della bavetta che mi copriva il collola suamano si era posata sulla mia spalla nuda e la punta delle dita sul mio petto.Sospiravasembrava oppressarespirava affannosamente; la mano che teneva sullamia spallain un primo momento la premeva con forzapoi non la premeva piùper nientecome se fosse stata senza forza e senza vitae allora la sua testaricadeva sulla mia. Quella pazza eraa onor del verodi una sensibilitàincredibile e aveva un gusto spiccato per la musica; non ho mai conosciutonessuno su cui la musica producesse effetti tanto singolari.

           Ci divertivamo cosìin maniera semplice quanto dolceallorchéall’improvviso la porta si spalancò con violenza; ne ebbi paura e così purela superiora. Era quella stravagante di suor Santa Teresacon gli abiti indisordine e gli occhi torbidi. Ci scrutava l’una e l’altra conl’attenzione più bizzarra; le tremavano le labbranon poteva parlare. Infineriuscì a tornare in sé e si gettò ai piedi della superiora; io unii la miapreghiera alla sua e ottenni ancora una volta il suo perdono. La superiora leassicurò nel modo più categorico che sarebbe stata l’ultima voltaalmenoper colpe di quel generee suor Teresa ed io uscimmo insieme.

           Tornando alle nostre celle le dissi:

           “State attentacara sorellavoi indisporrete la nostra madre. Io nonvi abbandoneròma voi finirete col togliermi ogni credito presso di lei e iosarò disperata di non poter più niente né per voiné per nessun’altra. Maquali idee avete in testa?”

           Nessuna risposta.

           “Che cosa temete da parte mia?”

           Nessuna risposta.

           “La nostra madre non può forse amarci in egual modo tutte e due?”

           “Nono” rispose lei con violenza“è impossibile; presto io leripugnerò e ne morrò di dolore. Ahma perché siete venuta qui! Non vi saretefelice a lungone sono sicura. E ioio sarò infelice per sempre.”

           “È una gran disgrazialo so” le risposi“aver perduto labenevolenza della propria superiorama io ne conosco una più grandeed èd’averla meritata; non avete nulla da rimproveravi?”

           “Ahcosì piacesse a Dio!”

           “Se in cuor vostro vi accusate di qualche colpadovete ripararla; e ilmezzo più sicuro è di sopportare pazientemente il castigo.”

           “Non sapreinon saprei proprioe in ogni casospetta a leipunirmi?”

           “A leisuor Teresaa lei! Si parla forse così di una superiora? Nonè una cosa buonaquesta; voi state trascendendo. Sono sicura che questa vostracolpa e più grave di tutte quelle che vi rimproverate.”

           “Ahcosì piacesse a Dio” ripeté“piacesse a Dio!”

           Ci separammolei per andare nella sua cella a desolarsiio per andarenella mia a riflettere sulle stranezze delle teste femminili.

           Questo è dunque l’effetto della clausura. L’uomo è nato per viverein società. Separateloisolatelole sue idee si dissocerannoil suocarattere cambierà radicalmentemille affetti ridicoli gli nasceranno nelcuorepensieri stravaganti gli germoglieranno nella mente come rovi in unaterra selvatica. Mettete un uomo in una forestadiventerà feroce; in unchiostrodove l’idea di necessità si associa a quella di schiavitùèancor peggio; si esce da una forestanon si esce più da un chiostro; si èliberi nella forestasi è schiavi in un chiostro. Forse occorre una forzad’animo ancor più grande per resistere alla solitudine che alla miseria; lamiseria avviliscela clausura deprava. È forse meglio vivere nell’abiezioneche nella follia. Non sarei in grado di decidere; ma bisogna evitare l’una el’altra.

           Vedevo crescere di giorno in giorno la tenerezza che la superiora avevaconcepito per me. Ero di continuo nella sua cellaoppure lei era nella mia; perla minima indisposizione mi ordinava l’infermeriami dispensava dallefunzioni religiosemi mandava a letto presto o mi proibiva l’orazione delmattino. Nel coroal refettorioa ricreazionetrovava il modo di testimoniarela sua amicizia. Se nel coro ci s’imbatteva in un versetto che esprimeva unsentimento affettuoso e tenerolo cantava dedicandolo a meoppure mi guardavase a cantarlo era un’altra. Al refettoriomi mandava sempre ad assaggiare icibi squisiti che le venivano serviti. Durante la ricreazionemi allacciava lavita e mi diceva le cose più dolci e amabili. Non riceveva regalo che nondividesse con me: cioccolatazuccherocaffèliquoritabaccobiancheriafazzolettiqualsiasi cosa. Aveva spogliato la sua cella di stampeutensilimobili e di un’infinità di cose piacevoli e comode per adornare la mia; nonpotevo allontanarmi un momento senza trovarlaal mio ritornoarricchita diqualche regalo. Andavo a ringraziarla nella sua cella ed ella provava una gioiaindescrivibile; mi abbracciavami accarezzavami prendeva sulle ginocchiamimetteva al corrente delle cose più segrete del conventoe si ripromettevaseio l’avessi amatauna vita mille volte più felice di quella che avrebbetrascorso nel mondo. Dopo di che si interrompevami guardava con occhiinteneriti e mi diceva:

           “Mi amatesuor Susanna?”

           “E come potrei non amarvi? Dovrei avere l’animo davvero ingrato.”

           “Questo è vero.”

           “Avete tanta bontà per me...”

           “Ditepiuttostoattrazione per voi.”

           Pronunciando queste paroleabbassava gli occhila mano con cui miteneva abbracciata mi stringeva più fortequella che mi aveva posato sulginocchioaccentuava la sua pressionemi attirava su di séil mio viso sitrovava sopra il suolei sospiravasi


[1]Le monache che compongono il consiglio della superiora.

rovesciavasullo schienale della sediatremavasi sarebbe detto che avesse da confidarmiqualcosa e non osasse; versava lacrimee poi mi diceva:

           “Ahsuor Susannavoi non mi amate!”

           “Io non vi amocara madre?”

           “No.”

           “Ditemi allora che cosa devo fare per provarvelo.”

           “Dovreste indovinare da sola.”

           “Cercoma non indovino niente.”

           Intanto si era tolta la bavetta e aveva posato la mia mano sul suo petto.Ella tacevae anch’io tacevo; sembrava che assaporasse il più grandepiacere. Mi esortava a baciarle la frontele guancegli occhila boccaed ioobbedivo: non credo che in questo ci fosse niente di male. Intanto il suopiacere aumentava e giacché io non chiedevo di meglio che accrescere la suafelicità in un modo così innocentele baciavo ancora la frontele guancegli occhi e la bocca.

           La mano che aveva posato sul mio ginocchio andava su e giù per i mieiabitidalla punta dei piedi fino alla cintolaora premendo in un puntoora inun altro; balbettando mi esortava con voce alterata e bassaa raddoppiare lemie carezze. Io le raddoppiavo. Giunse infine un momentonon so se di piacere odi dolorein cui divenne pallida come una morta; gli occhi le si chiuserotutto il suo corpo si irrigidì con violenzale sue labbra umide come di unaschiuma leggeraprima si strinseropoi la bocca le si dischiuse e mi parve chemorisse esalando un profondo sospiro. Mi alzai bruscamentecredetti che sisentisse malevolevo uscirechiamare aiuto. Aprì debolmente gli occhie midisse con voce spenta:

           “Innocentenon è niente. Che volete fare? Fermatevi...”

           La guardai sgranando gli occhi stupefattiincerta se restare o uscire.Aprì di nuovo gli occhi; non poteva più parlare per niente; mi fece cenno diavvicinarmi e di tornare a sedermi sulle sue ginocchia. Non so che cosa stessesuccedendo dentro di me; temevotremavoil cuore mi palpitava fortefacevofatica a respiraremi sentivo turbataoppressaagitataavevo pauramisembrava che le forze mi abbandonassero e che stessi per svenire; ciònonostante non potrei dire che provassi dolore. Mi avvicinai a lei; mi fece dinuovo cenno con la mano di sedermi sulle sue ginocchia; mi sedetti. Lei era comemortaed io come se stessi per morire. Entrambe rimanemmo alquanto a lungo inquello strano stato; se fosse sopravvenuta qualche monacain verità si sarebbeassai spaventata; sembrava che ci fossimo sentite male o che ci fossimoaddormentate. Nel frattempo mi parve che quella buona superiorapoiché èimpossibile essere così sensibili e non essere buonetornasse in sé; erasempre riversa sulla sedia con gli occhi sempre chiusi; ma il suo viso si erarianimato e aveva ripreso i più bei colori; mi prendeva una manola baciavaeio le dicevo:

           “Ahmia cara madremi avete fatto davvero paura...”

           Sorrise dolcemente senza aprire gli occhi.

           “Ma non avete sofferto?”

           “No.”

           “Ho creduto di sì.”

           “Che innocente! Ahche cara innocente! Come mi piace!”

           Nel dire cosìsi sollevòsi rimise a sederemi prese tra le bracciae mi baciò sulle guance con molta fogapoi mi disse:

           “Quanti anni avete?”

           “Non ho ancora diciannove anni.”

           “È inconcepibile!”

           “Cara madrenon c’è niente di più vero.”

           “Voglio conoscere la vostra vita; me la racconterete?”

           “Sìcara madre.”

           “Tutta?”

           “Tutta.”

           “Ma potrebbe entrare qualcuno; andiamoci a mettere al clavicembalo; mifarete lezione.”

           Andammo al clavicembaloma non so come accaddele mani mi tremavanolospartito non mi lasciava intravedere che un ammasso confuso di note; non fuicapace di suonare. Glielo dissie lei si mise a ridere. Prese il mio postomafu anche peggio; poteva appena sollevare le braccia.

           “Figliola mia” mi disse“vedo che tu non sei in condizioni didarmi lezioniné io di imparare; sono un po’ stanca; bisogna che mi riposi.Addio. Domanisenza più indugiarevoglio sapere tutto quello che è accadutoin quella vostra cara piccola anima. Addio.”

           Le altre voltequando uscivomi accompagnava fino alla portamiseguiva con gli occhi lungo tutto il corridoio fino alla mia; mi buttava unbacio con la mano e rientrava nella sua cella solo quando ero rientrata nellamia. Quella voltariuscì appena ad alzarsi; tutto quello che poté fare fu diraggiungere la poltrona che era accanto al suo letto; si sedettereclinò latesta sul guancialemi buttò il bacio con le manimentre gli occhi le sichiudevanoe io me ne andai.

           La mia cella era quasi di fronte alla cella di suor Santa Teresa. Laporta era aperta. Suor Santa Teresa mi aspettava.

           Mi fermò e mi disse:

           “Ahsuor Santa Susannavenite dalla cella della nostra madre?”

           “Sì” le risposi.

           “Vi siete rimasta a lungo.”

           “Tutto il tempo che lei ha voluto.”

           “Non è quello che mi avevate promesso. Osereste dirmi che cosa ciavete fatto?”

           Benché la mia coscienza non avesse nulla da rimproverarmivi confesseròsignor marcheseche quella domanda mi turbò. Lei se ne accorseinsistéedio risposi:

           “Forse cara sorellavoi non mi credereste; ma forse crederete allanostra cara madree io la pregherò di mettervi al corrente.”

           “Mia cara suor Santa Susanna” mi disse vivamente“guardatevenebene. Voi non volete la mia infelicità: non me lo perdonerebbe mai. Voi non laconoscete: è capace di passare dalla più grande sensibilità alla ferocia; nonso che cosa ne farebbe di me. Promettetemi di non dirle niente.”

           “Ci tenete proprio?”

           “Ve lo chiedo in ginocchio. Sono disperata; vedo bene che dovròdecidermie mi deciderò. Promettetemi di non dirle niente.”

           La feci rialzarele detti la mia parola. Ella ci fece assegnamento edebbe ragione. Poi ci chiudemmolei nella sua cellaio nella mia.

           Tornata che fui nella mia cellami resi conto di essere nelle nuvole.Volli pregaree non vi riuscii; cominciai un lavoro e lo lasciai per un altroche lasciai a sua volta per un altro ancora. Le mani mi si fermavano da sole emi sentivo come stupidita. Mai avevo provato qualcosa di simile; i miei occhi sichiusero da soli e feci un sonnellinobenché non dorma mai durante il giorno.Quando mi fui svegliatami interrogai su quello che era accaduto tra me e lasuperiora; feci un esame di coscienzapoiesaminandomi ancoracredetti diintravedere... ma erano idee così vaghecosì follicosì balordeche lerespinsi lontano da me. Il risultato delle mie riflessioni fu che forse sitrattava di una malattia della quale ella soffriva; poi mi venne ancheun’altra idea: che forse quella malattia fosse contagiosache suor Teresal’avesse contrattae che l’avrei contratta anch’io.

           L’indomanidopo l’uffizio del mattinola nostra superiora mi disse:“Suor Santa Susannaoggi spero proprio di sapere tutto quello che vi èsuccesso; venite da me.”

           Andai. Mi fece sedere nella sua poltrona accanto al letto ed ella si misesu una sedia un po’ più bassa. In tal modo la dominavoun po’ perché sonopiù alta e un po’ perché ero seduta in posizione più elevata. Con un gomitostava appoggiata al lettoed era così vicina a me che le mie ginocchias’intrecciavano con le sue. Dopo un breve momento di silenziole dissi:

           “Benché sia molto giovaneho sofferto non poco. Saranno prestovent’anni che sono al mondoe vent’anni che soffro. Non so se riuscirò adirvi tuttoe se voi avrete il coraggio di stare a sentire. Sofferenze in casadei miei genitorisofferenze nel convento di Santa Mariasofferenze nelconvento di Longchampsofferenze dappertutto. Cara madreda che parte voleteche cominci?”

           “Dalle prime.”

           “Cara madre” le dissi“sarà molto lungo e molto tristee nonvorrei addolorarvi per troppo tempo.”

           “Non temeremi piace piangere: per un’anima teneraversare lacrimeè una condizione deliziosa. Anche a te deve piacer piangere; tu asciugherai lemie lacrimeio asciugherò le tuee forse saremo felici in mezzo al raccontodei tuoi patimenti; chi lo sa fin dove può condurci l’intenerimento...”

           Nel pronunciare queste ultime parolemi guardò dal basso in alto conocchi già umidimi prese le manimi si avvicinò ancor di più in modo chelei mi toccavaed io la toccavo.

           “Raccontafigliola mia” mi disse“io sto aspettando e mi sentonella disposizione d’animo più propizia ad intenerirmi; non credo di aver maiavuto in vita mia un giorno più disposto alla comprensione eall’affetto...”

           Cominciai dunque a raccontare la mia storia all’incirca come l’hoscritta a voi. Non sono in grado di dirvi l’effetto che produsse su di leiisospiri che emisele lacrime che versòle manifestazioni di sdegno contro imiei crudeli genitoricontro le orribili monache di Santa Mariacontro quelledi Longchamp; mi dorrebbe assai se fossero state colpite dalla minima parte delmale che augurava loro: io non vorrei aver strappato nemmeno un capello dallatesta del mio più crudele nemico. Ogni tanto m’interrompevasi alzavaandava su e giù per la cellapoi si sedeva di nuovo al suo posto; altre voltealzava gli occhi e le mani al cieloe poi si nascondeva con la testa fra le mieginocchia. Quando le parlavo della mia scena nella segretadi quella del mioesorcismodella mia onorevole ammendasi mise quasi a gridare. Quando giunsialla fine del mio raccontotacquied ella rimase per un certo tempo con ilcorpo piegato sul lettoil viso nascosto nella coperta e le braccia tese soprala testa; e io intanto le dicevo:

           “Cara madrevi chiedo perdono per tutto il dolore che vi ho dato; viavevo avvertitosiete stata voi a volerlo...”

           E lei non mi rispondeva che con queste parole:

           “Che perfida creatura! Che orribile creatura! Solo nei conventil’umanità può arrivare a questi estremi. Quando l’odio si aggiunge almalumore abitualenon si sa più dove andranno a finire le cose. Per fortuna iosono dolceio amo tutte le mie monache; tuttechi più e chi menohanno presoqualcosa del mio caratteree si amano tutte fra loro. Ma come ha potutoresistere una salute così delicata a tanti patimenti? Come hanno fatto tuttequeste esili membra a non spezzarsi? Come ha potuto non lasciarsi distruggerequesto fragile organismo? E come mai lo splendore di questi occhi non si èspento tra le lacrime? Ahquale crudeltà! Stringere queste braccia con dellecorde!...”

           E mi prendeva le braccia e le baciava.

           “Annegare nelle lacrime questi occhi!...” E li baciava.

           “Strappare gemiti e lamenti da questa bocca!...” E la baciava.

           “Condannare questo visino delizioso e sereno a velarsi continuamentedelle nuvole della tristezza! ...” E lo baciava.

           “Fare appassire le rose di queste guance! ...” E le carezzava con lamanoe le baciava.

           “Disabbellire questa testastrapparle i capelligravare di affanniquesta fronte!...” E mi baciava la testala frontei capelli.

           “Osare cingere di una corda questo colloferire queste spalle condelle punte aguzze...” E scostava la bavetta e il velosbottonava il mioabito in alto. I capelli mi ricadevano sparsi sul collosulle spalle coperte esul petto seminudo. Dal tremito che la coglievadai suoi discorsi confusidallo smarrimento dei suoi occhi e delle sue manidal ginocchio che premeva trai mieidall’ardore con il quale mi stringeva e dalla violenza con la quale lesue braccia mi allacciavanomi accorsi allora che il suo male non avrebbetardato a riprenderla. Non so quel che stesse accadendo in mema mi sentivocolta da uno spaventoda un tremitoda un senso di mancamento che confermavanoil mio sospetto che quel suo male fosse contagioso.

           Le dissi:

           “Cara madreguardate in che disordine mi avete messa; se qualcunovenisse!”

           “Rimanirimani” mi disse con voce affannosa“non verrànessuno...”

           Io però facevo degli sforzi per alzarmi e strapparmi a leie intanto ledicevo:

           “Cara madrestate attentaecco il vostro male che vi riprende.Permettete che me ne vada...”

           Volevo andarmene; lo volevoquesto è certoma non potevo; avevoperduto ogni forzale ginocchia mi si piegavano. Lei era sedutaio in piedi.Lei mi attirava a séio avevo paura di caderle addosso e di farle male. Misedetti sull’orlo del lettoe le dissi:

           “Cara madrenon so che cos’homi sento male.”

           “Anch’io” mi disse“ma riposati un momentoora passanon èniente.”

           Infatti la superiora ritrovò la calma: ed io pure. Eravamo tutte e dueabbattute. Io tenevo la testa reclina sul guancialelei stava con la testaposata su un mio ginocchiola fronte su una mia mano. Restammo per un certotempo in quella posizione. Non so che cosa pensasse lei; quanto a menonpensavo a niente; non potevoero in preda a una debolezza che mi prendeva tuttaquanta. Stavamo in silenzio. La superiora lo interruppe per prima; mi disse:

           “Susannami è parsoda quel che mi avete detto della vostrasuperiorache vi fosse molto cara.”

           “Molto.”

           “Lei non vi amava più di mema era più amata da voi Nonrispondete?”

           “Ero infelicee lei addolciva le mie pene.”

           “Ma da che cosa nasce questa vostra ripugnanza per la vita religiosa?Voi non mi avete detto tuttoSusanna.”

           “Perdonatemisignora.”

           “Come! Non è possibileincantevole come sietegiacché lo sietefigliola mialo siete moltonon immaginate nemmeno quanto lo sietenon epossibile che nessuno ve l’abbia detto.”

           “Me l’hanno detto.”

           “E colui che ve lo dicevanon vi dispiaceva?”

           “No.”

           “Vi siete sentita attratta da lui?”

           “Per niente.”

           “Come! Il vostro cuore non ha mai sentito niente?”

           “Niente.”

           “Come! Non è stata una passione segretao non approvata dai vostrigenitoria far nascere in voi quest’avversione per il convento? Confidatevipure con me; sono indulgente io!”

           “Cara madrenon ho niente da confidarvi a questo proposito.”

           “Ancora una voltada dove nasce allora la vostra ripugnanza per lavita religiosa?”

           “Dalla vita religiosa stessa. Odio i doverile occupazioniil ritirole costrizioni che impone; mi sembra di essere chiamata a qualcosa didiverso.”

           “Ma che cos’è che vi da quest’impressione?”

           “La noia che mi opprime. Io mi annoio.”

           “Anche qui?”

           “Sìcara madreanche quinonostante tutta la bontà che midimostrate.”

           “Ma voi provate dentro di voi qualche impulsoqualche desiderio?”

           “Nessuno.”

           “Vi credo: la vostra indole sembra tranquilla.”

           “Abbastanza.”

           “Freddapersino.”

           “Non lo so.”

           “Voi non conoscete il mondo?”

           “Lo conosco poco.”

           “Quale attrazioneallorapuò avere per voi?”

           “Non mi è molto chiaro; eppure bisogna che ne abbia.”

           “Rimpiangete forse la libertà?”

           “È così. E forse molte altre cose.”

           “Quali sonoqueste altre cose? Amica miaparlatemi a cuore aperto;vorreste essere sposata?”

           “Sarebbe sempre preferibile a quello che sono adessoquesto ècerto.”

           “Perché una simile preferenza?”

           “Lo ignoro.”

           “Lo ignorate? Ma ditemiche impressione fa su di voi la presenza di unuomo?”

           “Nessuna. Se è intelligente e parla benesto a sentirlo con piacere;se ha un bell’aspettolo noto.”

           “E il vostro cuore non è turbato?”

           “Finora non ha provato nessuna emozione.”

           “Come! Quando hanno fissato i loro occhi accesi nei vostrinon avetesentito...”

           “Talvolta un certo imbarazzo che mi faceva abbassare i miei.”

           “Senza nessun turbamento?”

           “Nessuno.”

           “E i vostri sensi non vi dicevano niente?”

           “Non so che cosa sia il linguaggio dei sensi.”

           “Eppurehanno un linguaggio.”

           “Può darsi.”

           “E voi non lo conoscete?”

           “Affatto.”

           “Come! voi... È un linguaggio molto dolcevi piacerebbeconoscerlo?”

           “Nocara madrea che cosa mi gioverebbe?”

           “A dissipare la vostra noia.”

           “Ad accrescerlaforse. E poiche significato ha questo linguaggio deisensise non ha un oggetto?”

           “Quando si parlaci si rivolge sempre a qualcuno. Sicuramente meglioche intrattenersi da solibenché anche questo non sia del tutto privo dipiacere.”

           “Non capisco niente di quello che dite.”

           “Se tu volessicara figliolapotrei essere più chiara.”

           “Nocara madreno. Io non so niente e preferisco non sapere nientepiuttosto che conoscere cose che forse mi renderebbero più degna che esserecompianta di quanto già non lo sia. Non ho nessun desiderioe non voglioavernese non posso soddisfarli.”

           “Perché non potresti?”

           “Come potrei?”

           “Come me.”

           “Come voi! Ma non c’è nessuno in questo convento...”

           “Ci sono iocara amicaci siete voi...”

           “E con questo? che cosa sono io per voi? che cosa siete per me?”

           “Ohcom’è innocente!”

           “Ohsìè verocara madresono molto innocentee preferireimorire piuttosto che non esserlo più.”

           Ignoro che cosa potessero avere di sgradevole per lei queste ultimeparolema all’improvviso le fecero cambiare espressione; si fece seriaimbarazzata; la mano che aveva posato sul mio ginocchiodapprima smise dipremerepoi si ritirò. Teneva gli occhi bassi. Le dissi:

           “Mia cara madreche cosa è accaduto? Mi è forse sfuggita qualcheparola che potrebbe avervi offesa? Perdonatemi. Approfitto della libertà che miavete concessanon rifletto su quello che ho da dirvie inoltreanche seriflettessinon parlerei diversamente. Forse parlerei anche peggio. Le cose dicui stiamo parlandomi sono così estranee... Perdonatemi!”

           Nel così dire le gettai le braccia intorno al collo e le posai la testasulla spalla. Lei fece altrettanto e mi strinse a sé con molto calore.Rimanemmo così per qualche istante; poiritrovando la sua tenerezza e la suaserenitàmi disse:

           “Susannadormite bene?”

           “Benissimo” le risposi“soprattutto da un po’ di tempo a questaparte.”

           “E vi addormentate subito?”

           “Di solitosì.”

           “Ma quando non vi addormentate subitoa che cosa pensate?”

           “Alla mia vita passataa quella che mi resta ancoraoppure prego Dioo piangoche altro ancora?”

           “E la mattinaquando vi svegliate presto?”

           “Mi alzo.”

           “Subito?”

           “Subito.”

           “Non vi piace stare a fantasticare?”

           “No.”

           “A riposarvi tra i guanciali?”

           “No.”

           “A godere del tepore del letto?”

           “No.”

           “Mai...”

           A questo punto tacquee fece bene; quel che aveva da chiedermi non erauna cosa molto bellae forse io faccio anche più male a dirlama ho deciso dinon nascondere niente.

           “Non avete mai avuto la tentazione di guardare con compiacimento comesiete bella?”

           “Nocara madre. Non so se io sia proprio bella come dite voiequand’anche lo fossisi è belle per gli altrinon per se stesse.”

           “Non avete mai pensato ad accarezzare questo pettoqueste coscequesto ventrequeste carni così sodecosì dolcicosì bianche?”

           “Quanto a questoohno di certo! Sarebbe peccato. E se mi fossecapitata una cosa similenon so come avrei fatto a dirlo in confessione...”

           Non so che cos’altro ci stavamo dicendoquando vennero ad avvertirlache qualcuno la stava aspettando in parlatorio. Mi parve che quella visita nonle fosse gradita e che avrebbe preferito continuare a parlare con mebenchénon fosse proprio il caso di rimpiangere quello che ci stavamo dicendo. In ognimodo ci separammo.

           La comunità non era mai stata felice come dal giorno in cui io eroentrata a farne parte. La superiora sembrava che non avesse più i suoi sbalzid’umore; si diceva ch’io l’avessi equilibrata. Grazie a me ella concesseanche diversi giorni di ricreazionee quelle che sono chiamate delle feste; inquei giorni si è servite un po’ meglio del solitole funzioni sono piùbrevi e tutti gli intervalli tra le funzioni sono dedicati allo svago. Ma queltempo felice doveva passareper le altree per me.  

 

           La scena che vi ho descritto fu seguita da innumerevoli altre dellostesso genere sulle quali sorvolo. Ecco quale fu il seguito di quella di cui viho parlato.

           La superiora cominciava a dar segni di irrequietudine; perdeva la suabella allegriala saluteil riposo. La notte seguentementre tutte dormivanoe il convento era immerso nel silenzioella si alzò. Dopo aver girovagato perqualche tempo nei corridoivenne alla mia cella. Io ho il sonno leggero ed ebbil’impressione di riconoscerla. Si fermò; appoggiò probabilmente la frontecontro la porta e fece abbastanza rumore da svegliarmi caso mai avessi dormito.Rimasi silenziosa. Mi sembrò di sentire una voce che si lamentavaqualcuno chesospirava; mi colse dapprima un leggero brividopoi mi decisi a dire Ave. Invecedi rispondermisi allontanò a passi leggeri. Tornò poco tempo dopo; i gemitie i sospiri ricominciarono. Dissi ancora Avee si allontanò. Mitranquillizzaimi addormentai. Mentre dormivoentrò e si sedette accanto almio letto. Le tende erano socchiuse; ella teneva in mano una candela il cuibagliore mi rischiarava il visoe colei che la portava mi guardava dormire: perlo meno fu quello che arguii dal suo atteggiamento quando aprii gli occhi. Erala superiora.

           Mi sollevai di scatto; ella vide il mio spavento e mi disse:

           “Non abbiate pauraSusannasono io...”

           Posai di nuovo la testa sul guanciale e le chiesi:

           “Cara madreche cosa fate qui a quest’ora? Che cosa vi ha fattovenire qui? Perché non dormite?”

           “Non riesco a dormire” mi rispose“e ci vorrà molto prima chedorma. Sogni tormentosi non mi danno requie. Appena ho gli occhi chiusi tutto ilmale che avete patito si presenta alla mia immaginazione; vi vedo preda diquelle donne disumanevi vedo con i capelli sparsi sul viso; vi vedo con ipiedi insanguinatila torcia in manola corda intorno al collo; credo chestiano per uccidervi; rabbrividiscotremoun sudore gelido mi si diffonde pertutto i1 corpo; voglio accorrere in vostro aiuto; gridomi sveglioeinutilmente aspetto che torni il sonno. Ecco quello che mi è accaduto stanotte.Ho avuto paura che il cielo mi annunciasse che era accaduta una disgrazia allamia amica; mi sono alzatami sono avvicinata alla vostra portaho tesol’orecchiomi è sembrato che dormiste. Poi avete parlatoe allora me nesono andata. Sono poi ritornatavoi avete parlato di nuovoe ancora una voltame ne sono andata. Sono tornata una terza voltae quando ho creduto chedormistesono entrata. È già un po’ di tempo che sono accanto a voi e chetemo di svegliarvi. Dapprima sono stata incerta se scostare le vostre tende;volevo andarmene per timore di turbare il vostro riposoma non ho potutoresistere al desiderio di vedere se la mia cara Susanna stava bene. Vi hoguardata; come siete bellaanche quando dormite!”

           “Mia cara madrecome siete buona!”

           “Ho preso freddoma ora so che non ho nulla da temere per la miafigliolae credo che dormirò. Datemi la vostra mano.”

           Le detti la mano.

           “Com’è tranquillo il polso! com’è regolare! Non vi è niente chepossa eccitarlo.”

           “Ho un sonno abbastanza tranquillo.”

           “Come siete fortunata!”

           “Cara madrecontinuerete a prendere freddo”

           “Avete ragione; addio mia bella amicaaddio; ora me ne vado.”

           Ma non se ne andava e continuava a guardarmi: dagli occhi le sgorgavanodue lacrime.

           “Che cosa avetecara madre?” le dissi. “Voi piangete; come midispiace avervi raccontato le mie sofferenze!...”

           All’improvviso chiuse la portaspense la candelae si precipitò sudi memi teneva strettacon il viso incollato al mio. Le sue lacrime mibagnavano le guancesospiravae mi diceva con voce spezzata e lamentosa:

           “Cara amicaabbiate pietà di me.”

           “Che cosa avetecara madre?” le dissi. “Vi sentite male? Che cosadebbo fare?”

           “Tremo” mi disse“mi sento rabbrividire; un freddo mortale micorre per le ossa.”

           “Volete che mi alzi e che vi ceda il mio posto?”

           “No” mi disse“non è necessario che vi alziate; scostate solo unpoco la copertaperché mi possa avvicinare a voiper riscaldarmieguarire.”

           “Cara madre” le dissi“sapete che è proibito. Che cosa sidirebbese si venisse a saperlo? Ho visto punire delle monache per cose moltomeno gravi. Una voltanel convento di Santa Mariauna monaca andò di nottenella cella di un’altra che era sua buona amica; non so dirvi tutto il maleche ne pensarono. Il direttore spirituale mi ha chiesto più volte se nessuna miaveva mai proposto di venire a dormire accanto a me e mi ha severamenteraccomandato di rifiutare. Gli ho anche detto delle vostre carezze; io le trovomolto innocentima lui è di parere diverso. Non so come ho potuto dimenticarei suoi consigli; eppure mi ero ripromessa di parlarvene.”

           “Cara amica” mi disse“tutto dorme intorno a noinessuno ne sapràniente. Sono io che premio e che punisco; il direttore spirituale può direquello che vuoleio non vedo nessun male nell’accogliere accanto a séun’amica presa dall’ansiache si è svegliata e durante la nottenonostante i rigori della stagioneè venuta ad assicurarsi che la sua dilettanon correva alcun rischio. Susannain casa dei vostri genitorinon avete maicondiviso lo stesso letto con una delle vostre sorelle?”

           “Nomai.”

           “Ma se se ne fosse presentata l’occasionenon l’avreste fattosenza scrupolo? Se la vostra sorellainquieta e intirizzita dal freddofossevenuta a chiedervi un po’ di posto accanto a voil’avreste rifiutata?”

           “Credo di no.”

           “Io non sono forse la vostra cara madre?”

           “Sìlo sietema è proibito.”

           “Cara amicasono io che lo proibisco alle altrema che lo permetto elo chiedo a voi. Lasciate ch’io mi riscaldi un momentopoi me ne andrò.Datemi la vostra mano...”

           Gliela detti.

           “Ecco” mi disse“toccateguardate: tremorabbrividiscosono unpezzo di marmo.”

           Era vero.

           “Ohmia cara madre” le dissi“vi ammalerete. Ma aspettate! io mispingo verso il bordo del lettoe voi potrete mettervi nel posto più caldo.”

           Mi spostai da un latoalzai la copertae lei si mise al mio posto. Ohcome stava male! Le sue membra erano tutte un tremitovoleva parlarmivolevaavvicinarsi a me; non riusciva ad articolare parolanon riusciva a muoversi. Midiceva sottovoce:

           “Susannaamica miaavvicinatevi un poco...”

           Allungò le braccia; io le voltavo la schiena; mi strinse dolcementemitrasse a sé; passò il braccio destro intorno al mio corpol’altro sopraemi disse:

           “Sono un pezzo di ghiaccio; ho tanto freddo che ho paura a toccarvipaura di farvi male.”

           “Non abbiate timorecara madre.”

           Subito mi posò una mano sul petto e l’altra intorno alla vita; i suoipiedi stavano sotto i miei e io li premevo per riscaldarli. La cara madre midiceva: “Ahcara amicasentite come i miei piedi si sono riscaldati subitoperché non vi è niente che li separi dai vostri.”

           “In tal caso” le dissi“che cosa impedisce che vi scaldiatedappertutto nello stesso modo?”

           “Nientese volete.”

           Mi ero girata; lei aveva aperto la camicia ed io stavo per aprire la miaallorché all’improvviso furono bussati due colpi violenti alla porta.Spaventatami butto immediatamente fuori dal letto da una partementre lasuperiora fa altrettanto dall’altra parte; tendiamo l’orecchio e sentiamoqualcuno che tornain punta di piedinella cella vicina.

           “Ah” esclamai“è suor Santa Teresa; vi avrà vista passare nelcorridoio ed entrare da me; ci avrà ascoltato; avrà sorpreso la nostraconversazione; che cosa dirà?...”

           Ero più morta che viva.

           “Sìè lei” confermò la superiora con tono irritato“è leinon vi è dubbioma spero che si ricorderà per un pezzo della sua temerarietà.”

           “Ahcara madre” le dissi“non le fate del male!”

           “Susanna” mi rispose“addiobuona notte. Tornate a lettodormite bene. Vi dispenso dall’orazione. Vado da quella sventata. Datemi lamano...”

           Gliela tesi da una parte all’altra del letto e lei rimboccò la manicache mi copriva il braccio; lo baciò sospirando per tutta la lunghezzadallapunta delle dita fino alla spallapoi uscì assicurando che la temeraria cheaveva osato disturbarla se ne sarebbe ricordata. Subito mi spinsi dall’altraparte del letto verso la portae tesi l’orecchio. La superiora entrò da suorTeresa. Mi prese la tentazione di alzarmi e di andare a mettermi tra suor Teresae la superiora caso mai la scena si fosse fatta violenta. Ma ero così turbata ecosì a disagio che preferii restare a lettodove non riuscii a prendere sonno.Pensai che sarei diventata la favola del conventoche quella avventurache diper sé era del tutto innocentesarebbe stata riferita nella luce piùsfavorevole; che qui sarebbe stato peggio che a Longchampdove fui accusata diuna cosa che ignoro; che la nostra colpa sarebbe giunta alle orecchie deisuperioriche la nostra madre sarebbe stata deposta e che entrambe saremmostate severamente punite. Intanto stavo con l’orecchio teso e aspettavo conimpazienza che la nostra madre uscisse dalla cella di suor Teresa. Fua quantopareuna faccenda difficile da sistemarsiperché vi trascorse quasi tutta lanotte. Come la compiangevo! Era in camiciatutta nudafurente di colleraeintirizzita dal freddo.

           La mattinaavevo voglia di approfittare del permesso che mi avevaaccordato la superiora e di rimanere a lettoma ebbi come l’idea che sarebbestato meglio non farne niente. Mi vestii in fretta e mi trovai per prima nelcoro dove non si videro né la superiorané suor Santa Teresala qual cosa mifece molto piacere. In primo luogo perché mi sarebbe stato difficile affrontaresenza imbarazzo la presenza di suor Teresa; in secondo luogose le era statopermesso di non presentarsi all’uffizioc’era da presumere che avesseottenuto il perdono a condizioni che dovevano tranquillizzarmi.

           Avevo indovinato: era appena terminato l’uffizio che la superiora mimandò a chiamare. Mi recai da lei. Era ancora a letto e aveva un’ariaabbattuta. Mi disse:

           “Ho sofferto; non ho dormito; suor Santa Teresa è pazza; se sicomporta ancora cosìla farò rinchiudere.”

           “Ahcara madre” le dissi“non la fate rinchiudere mai.”

           “Dipenderà dal modo in cui si comporta. Mi ha promesso di miglioraree ci conto. Ma voicara Susannacome state?”

           “Benecara madre.”

           “Avete almeno riposato un po’?”

           “Pochissimo.”

           “Mi hanno detto che siete andata nel coro; perché non siete rimasta aletto?”

           “Non ci sono stata bene; e poi ho pensato che fosse meglio...”

           “Nonon ci sarebbe stato inconveniente di sorta... Oraperòhobisogno di dormire un po’; vi consiglio di fare altrettanto a meno che nonpreferiate accettare un posto accanto a me.”

           “Vi sono infinitamente obbligatacara madrema sono abituata adormire da sola e non potrei dormire con un’altra.”

           “Allora andate. Io non scenderò a pranzo in refettorio; mi faròservire qui. Forse non mi alzerò per il resto della giornata. Voi verrete conalcune altre sorelle che ho fatto avvertire.”

           “Ci sarà anche suor Santa Teresa?” le chiesi.

           “No” mi rispose.

           “Non mi dispiace.”

           “E perché?”

           “Non lo soforse ho paura di incontrarla.”

           “Stai tranquillafigliola mia; ti garantisco che ella ha più paura dite di quanta tu non debba averne di lei.”

           La lasciaiandai a riposarmi. Nel pomeriggiomi recai dalla superioradalla quale trovai un gruppo alquanto numeroso delle monache più giovani e piùcarine del convento; le altre avevano fatto la loro visita e se ne erano andate.Voi che vi intendete di pitturavi assicurosignor marcheseche era davveroun quadro delizioso. Immaginatevi un laboratorio di dieci o dodici personedicui la più giovane poteva avere quindici anni e la più vecchia non arrivava aventitré; una superiora di circa quarant’annibiancafrescarotondasemisollevata sul lettocon un doppio mento portato in giro con buona graziabraccia tonde come se fossero state tornitedita affusolate e punteggiate difossettedue occhi nerigrandivivaci e teneriquasi mai del tutto apertiocchi socchiusi come se colei che li possedeva facesse fatica ad aprirlilabbravermiglie come rosedenti bianchi come lattele più belle guance che sipossano immaginarela bella testa sprofondata in un morbido guancialelebraccia allungate mollemente lungo i fianchi con i gomiti appoggiati su duepiccoli cuscini. Io ero seduta sull’orlo del letto e non facevo nienteun’altra stava in una poltrona con un piccolo telaio da ricamo sulleginocchia; altreverso le finestrefacevano del merletto; ve n’erano seduteper terra su dei cuscini tolti dalle seggioleche cucivanoricamavanotessevano o filavano all’arcolaio. Alcune erano biondealtre brune; nessunaassomigliava all’altra benché tutte fossero belle. I loro caratteri eranovari come le loro fisionomie; ve n’erano di serenedi gaiedi malinconiche otristi. Tutte lavoravanosalvo iocome già vi ho detto. Non era difficilericonoscere le amiche dalle indifferenti e dalle nemiche; le amiche si eranomesse o l’una accanto all’altrao di frontee pur intente al lavorochiacchieravanosi consigliavanosi guardavano furtivamentesi toccavano ledita col pretesto di scambiarsi uno spilloun agodelle forbici. La superiorale seguiva con lo sguardo; all’una rimproverava l’eccessiva applicazioneall’altra la pigrizia; a questa l’indifferenzaa quella la tristezza. Sifaceva portare il lavorolodava o biasimava; a una monaca rimetteva a postol’acconciatura:

           “Questo velo scende troppo in avanti... Questa benda copre troppo ilvisonon si vedono abbastanza le guance... Guarda come stanno male questepieghe...”

           A ciascuna distribuiva leggeri rimproveri e lievi carezze. Mentreciascuna era occupata in tal modosentii battere piano alla porta. Mi mossi peraprire. La superiora mi disse:

           “Suor Santa Susannatornerete qui?”

           “Sìcara madre.”

           “Non mancateperché ho qualcosa di importante da comunicarvi.”

           “Torno subito.”

           Era quella povera suor Santa Teresa. Per qualche istante rimanemmoentrambe senza parlare; poi le chiesi: “Cara sorellacercate di me?”

           “Sì.”

           “Che cosa posso fare per voi?”

           “Ascoltatemi. Sono incorsa nella disgrazia della nostra cara madre;credevo che mi avesse perdonata e avevo qualche buona ragione per crederlo;invece voi siete tutte riunite da leimentre io non ci sonoed ho l’ordinedi rimanere nella mia cella.”

           “Vorreste entrare?”

           “Sì.”

           “Desiderate ch’io ne solleciti il permesso?”

           “Sì.”

           “Aspettatecara amicaci vado subito.”

           “Davvero le parlerete in mio favore?”

           “Certamente. Perché non ve lo dovrei promettere? E perché non dovreifarlo dopo avervelo promesso?”

           “Ah” esclamò guardandomi teneramente“le perdonole perdono lasimpatia che ha per voi. Voi possedete tutte le seduzionil’anima più bellae il corpo più bello.”

           Ero felicissima di poterle fare quel piccolo favore. Rientrai nellastanza. In mia assenza un’altra aveva preso il mio posto sull’orlo del lettodella superiora e stava china su di lei con il gomito appoggiato fra le suecoscefacendole vedere il lavoro che stava eseguendo. Con gli occhi semichiusila superiora diceva di sì o di no quasi senza guardarlamentre io ero in piediaccanto a lei senza che se ne accorgesse. Tuttavia non le ci volle molto ariprendersi dal suo leggero svagamento. La giovane mi restituì il mio posto. Misedetti di nuovo; poichinandomi dolcemente verso la superiora che si era unpo’ sollevata sui guancialirimasi in silenzioguardandola però come seavessi da domandarle una grazia.

           “Allora” mi chiese“che cosa c’è? Parlate! Che cosa volete? Èforse in mio potere rifiutarvi qualcosa?”

           “Suor Santa Teresa...”

           “Capisco; sono molto scontenta di leima suor Susanna intercede in suofavoree io le concedo il perdono; andate a dirle che può entrare.”

           Accorsi fuori. La poveretta aspettava alla porta; le dissi di venireavanti; tremando ubbidì con gli occhi bassi. Teneva in mano un lungo pezzo dimussola appuntato a un modello che le sfuggì di mano ai primi passi: loraccattai e prendendola per un braccio la condussi dalla superiora. Si buttò inginocchiole afferrò una mano che baciò sospirando e piangendo. Poi prese unamano anche a mela congiunse a quella della superiora e le baciò entrambe. Lasuperiora le fece cenno di alzarsi e di scegliersi un posto. Ubbidì. Fu servitauna merenda. La superiora si alzò; non si sedette con noima si aggiravaintorno alla tavolae ora posava la mano sulla testa di una monacarovesciandogliela delicatamente all’indietro e baciandola sulla fronte; orascopriva il collo di un’altra e vi posava sopra la mano; passava poi a unaterzae lasciava scorrere su di lei la sua mano carezzevole oppure glielaposava sulla bocca; spilluzzicava le cose che erano state servite e ledistribuiva a questa o a quella. Dopo che ebbe girato per un po’si fermò difronte a me guardandomi con occhi molto affettuosi e molto teneri mentre lealtre abbassavano i lorocome se avessero temuto di obbligarla a reprimersi o adistrarsispecialmente suor Santa Teresa. Terminata la merendami misi alclavicembalo ed accompagnai due monache che cantarono senza alcun metodoma congusto e con una bella voce intonata; cantai anch’io accompagnandomi. Lasuperiora era seduta ai piedi del clavicembalo e sembrava assaporare ungrandissimo piacere nel sentirmi e nel vedermi; le altre ascoltavano in piedisenza far nienteoppure si erano rimesse al lavoro. Fu un pomeriggio assaipiacevoledopo di che tutte si ritirarono.

           Stavo uscendo con le altrequando la superiora mi fermò: “Che oresono?” mi chiese.

           “Fra poco saranno le sei.”

           “Alcune discrete stanno per giungere. Ho riflettuto su quelloche mi avete detto a proposito della vostra uscita da Longchamp; ho comunicatoloro le mie idee che sono state approvatee adesso abbiamo una proposta dafarvi. È impossibile che non vada in portoe se va benesignificherà unapiccola fortuna per il convento e qualche vantaggio per voi.”

           Alle seientrarono le discrete. Nei conventi la discrezione èsempre alquanto vecchiapersino decrepita. Mi alzailoro si sedettero e lasuperiora mi disse: “Suor Santa Susannanon mi avete detto che dovevate allabontà del signor Manouri la dote che avete portata in convento?”

           “Sìcara madre.”

           “Perciò non mi sono sbagliata: le suore di Longchamp sono rimaste inpossesso della dote che avete portato entrando da loro?”

           “Sìcara madre.”

           “E non vi hanno restituito niente?”

           “Nocara madre.”

           “Non vi hanno costituito una pensione?”

           “Nocara madre.”

           “Non è giusto. Questo è quanto ho comunicato alle nostre discrete edesse pensanocome meche siete in diritto di far ricorso affinché tale dotevi sia restituita a vantaggio del nostro conventooppure che ne godiate larendita. Quel che avete ricevuto grazie all’interessamento del signor Manouriper voinon ha niente a che vedere con quello che vi debbono le suore diLongchamp; egli non vi ha fornito la vostra dote per saldare un debito conloro.”

           “Non credo; ma per assicurarsenela cosa migliore è di scrivereall’avvocato.”

           “Non vi è alcun dubbio; ma nel caso in cui la sua risposta fossequella che ci auguriamoecco quali sono le nostre proposte. Intenteremo unprocesso a vostro nome contro il convento di Longchamp; il nostro ne sosterràle spese che non saranno eccessive giacché vi sono tutti i motivi per credereche il signor Manouri non rifiuterà di incaricarsi di questo affare. Sevinciamoil convento dividerà a metà con voi il capitaleo la rendita. Checosa ne pensatecara sorella? Ma voi non rispondete. A che cosa statepensando?”

           “Sto pensando che quelle suore di Longchamp sono state molto crudelicon mema che sarebbe per me una grandissima afflizione se immaginassero cheintendo vendicarmi.”

           “Non si tratta di vendicarvi; si tratta di chiedere che vi venga resociò che vi spetta.”

           “Dare ancora una volta spettacolo di me!...”

           “Questo è l’inconveniente minore; voi non sarete quasi mai nominata.E poi la nostra comunità è poveramentre quella di Longchamp è ricca. Voisarete la nostra benefattricealmeno fintanto che vivrete. Sebbene non abbiamobisogno di questo motivo per interessarci a voi; noi tutte vi vogliamobene...”

           E tutte le discrete in coro:

           “Chi non le vorrebbe bene? È perfetta.”

           “Io potrei scomparire da un momento all’altro; potrebbe darsi cheun’altra superiora non provasse per voi gli stessi sentimenti che provo io.Ohno! non li proverebbe di certo. Potreste avere qualche piccola malattiaqualche piccola necessità... In tal caso è molto confortante possedere unpo’ di denaro di cui si possa disporre per soddisfare se stessi o perobbligare gli altri.”

           “Care madri” dissi loro“le vostre considerazioni non devonoessere trascurategiacché avete la bontà di farle; ve ne sono altre che mistanno più a cuorema non vi è ripugnanza ch’io non sia disposta a vincereper voi. La sola grazia che ho da chiedervicara madreè di non avviarenessuna pratica senza prima averne parlato in mia presenza con il signorManouri.”

           “Non vi è niente di più opportuno. Volete scrivergli voi stessa?”

           “Come volete voicara madre.”

           “Scrivetegli; e per non stare a ripensarci due voltepoiché questogenere di affari non mi piace per niente e mi annoia da morirescriveteglisubito.”

           Mi dettero pennacarta e inchiostro e senza por tempo in mezzo pregai ilsignor Manouri di degnarsi di venire ad Arpajon non appena le sue occupazioniglielo avessero consentitodato che avevo ancora bisogno del suo aiuto e delsuo consiglio per un affare di una certa importanza ecc. ecc.

           Il consiglio riunito lesse quella letterala approvò e quindi fuspedita.

           Il signor Manouri venne qualche giorno dopo. La superiora gli spiegò diche cosa si trattasse ed egli non esitò un attimo a condividerne il parere; imiei scrupoli furono definiti ridicolaggini; fu deciso che le monache diLongchamp sarebbero state citate subito l’indomanicome infatti avvenne. Edecco chemio malgradoil mio nome ricomparve nei memorialinegli allegatinelle udienzecon dovizia di particolarisupposizionimenzognee di tutte leinfamie suscettibili di rendere una persona invisa ai giudici e odiosa agliocchi del pubblico.

           Ma ditemisignor marcheseè proprio permesso agli avvocati calunniarecome aggrada loro? Non vi è modo di invocare giustizia contro di loro? Seavessi potuto prevedere tutte le amarezze che quella causa avrebbe comportatovi assicuro che non avrei mai permesso che venisse intrapresa. Si giunse alpunto di spedire a diverse monache del nostro convento gli atti pubblicaticontro di me. Ad ogni istanteesse venivano a chiedermi i particolari diavvenimenti orribili in cui non c’era parvenza di verità. Più mi dimostravoignarapiù mi credevano colpevole. Dal momento che non spiegavo nientenonconfessavo nientenegavo tuttocredevano che tutto fosse vero: sorridevanomidicevano parole sibillinema assai offensive; davanti alla mia innocenzafacevano spallucciate. Piangevoero desolata.

 

           Un dolore non arriva mai da solo. Giunse il tempo della confessione. Miero già accusata delle prime carezze ricevute dalla superiora e il direttorespirituale mi aveva esplicitamente proibito di prestarmici ancora. Ma come si faa rifiutarsi a cose che procurano tanto piacere a un’altra persona da cui sidipende totalmentee nelle quali non si vede alcun male?

           Poiché questo direttore spirituale avrebbe avuto un gran ruolo nelseguito delle mie memoriecredo che sia il momento opportuno per farveloconoscere.

           È un francescano e si chiama padre Lemoine; non ha più diquarantacinque anni. La sua fisionomia è tra le più gradevoli che si possanovedere: dolceserenaapertasorridentepiacevole quando non sta lì ariflettere. Ma quando riflettecorruga la fronteaggrotta le sopraccigliaabbassa gli occhi e il suo comportamento si fa austero. Non conosco due uominipiù diversi del padre Lemoine all’altare e del padre Lemoine in parlatoriosolo o in compagnia. Del resto tutti coloro che sono in religione si comportanonello stesso modo e anch’io mi sono sorpresa diverse volte in procinto direcarmi alla gratafermarmi di bottoaggiustarmi il veloatteggiare il visogli occhila boccale manile bracciail portamentoassumere per lacircostanza un contegno e una modestia che duravano più o meno a seconda dellepersone con cui dovevo parlare.

           Il padre Lemoine è altoben fattoallegroassai gradevole quandodimentica di controllarsi; parla meravigliosamente bene; nel suo convento hafama di gran teologoe nel mondo quella di gran predicatore; la suaconversazione incanta; è un uomo assai dotto in materie che nulla hanno a chevedere con il suo stato: ha una voce delle più belleconosce la musicalastoria e le lingue; è dottore della Sorbona. Benché giovane ha già rivestitole cariche principali del suo ordine; non è un uomo intrigantené ambizioso.È amato dai suoi confratelli. Aveva sollecitato la carica di superiore delconvento di Etampes come un posto tranquillo dove avrebbe potuto dedicarsi senzaesserne distratto a qualche studio che aveva cominciato. Gli era stataaccordata. È cosa di grande importanza per un convento di monache la scelta diun confessore: è bene essere dirette da un uomo importante e di qualità. Sifece di tutto per avere il padre Lemoinee lo si ebbeper un caso davverostraordinario.

           Gli mandavano la carrozza del convento la vigilia delle feste solenniegli veniva. Bisognava vedere che subbuglio provocava in tutta la comunitàl’attesa del suo arrivo; come si era allegre; come ci si chiudeva in cellacome ciascuna si preparava alla confessione e a tenerlo impegnato il più alungo possibile.

           Era la vigilia della Pentecoste. Aspettavamo il padre Lemoine. Io eroagitata. La superiora se ne accorse e me ne parlò. Non le nascosi la ragionedella mia preoccupazione. Mi parve più allarmata di mebenché facesse ditutto per tenermelo celato; definì il padre Lemoine un uomo ridicolosi fecegioco dei miei scrupolimi chiese se il padre Lemoine ne sapesse più dellanostra coscienza sull’innocenza dei suoi e dei miei sentimentie se la miacoscienza mi rimproverava qualcosa. Le risposi di no.

           “Ebbene” mi disse“io sono la vostra superioravoi mi doveteobbedienza e quindi vi ordino di non parlargli di queste sciocchezze. Inutileche andiate a confessarvise non avete che delle inezie da raccontargli.”

           Intanto era arrivato il padre Lemoine e io mi stavo preparando allaconfessione mentre le più frettolose si erano già impadronite di lui. Siavvicinava il mio turnoallorché la superiora venne verso di memi trasse indispartee mi disse: “Suor Santa Susannaho pensato a quello che mi avetedetto. Tornatevene nella vostra cellanon voglio che oggi andiate aconfessarvi.”

           “E perché” le risposi“cara madre? Domani è festa solenneegiorno di comunione generale; che cosa penserebbero se io fossi la sola che nonsi avvicina alla sacra mensa?”

           “Poco importa. Dicano pure tutto quello che voglionoma voi nonandrete a confessarvi.”

           “Cara madre” la pregai“se è vero che mi amatedi grazia non miinfliggete questa mortificazione.”

           “Nonoè impossibile; con quell’uomo mi combinereste qualcheguaioed io non ne voglio.”

           “Nocara madrenon vi procuerò nessun guaio!”

           “Allorapromettetemi... Ma è inutile; domattina verrete in cameramiavi confesserete a me; non avete commesso nessuna colpa per cui non possariconciliarvi con Dio e assolvervi. Così potrete comunicarvi insieme allealtre. Andate.”

           Mi ritiraie me ne stavo nella mia cellatristeinquietanervosanonsapendo quale partito prenderese andare dal padre Lemoine nonostante ildivieto della mia superiorase limitarmi alla sua assoluzione il giorno dopose partecipare alla comunione con il resto del conventoo tenermi lontana daisacramenti senza curarmi delle chiacchiere. In quel mentre la superiora entrò.Si era confessatae il padre Lemoine le aveva chiesto perché non mi avessevistoe se fossi malata. Ignoro cosa le avesse rispostoma la conclusione fuche mi aspettava al confessionale.

           “Andate” mi disse“giacché è necessarioma promettetemi chetacerete.”

           Io esitavo. Ella insisteva.

           “Piccola sciocca” mi diceva“che male volete che ci sia a tacereciò che non è male fare?”

           “E che male c’è a dirlo?” replicai.

           “Nessunoma vi può essere qualche inconveniente. Chi sa qualeimportanza quell’uomo vi può attribuire. Promettetemi perciò...”

           Esitai ancorama alla fine mi impegnai a non dire niente se non miavesse fatto domandee andai.

           Mi confessainon feci parola di quell’argomentoma il direttore miinterrogòed io non dissimulai nulla.

           Mi fece mille domande strane di cui continuo a non capire niente oggi chele ricordoma sulla superiora si espresse in termini che mi fecero fremere. Ladefinì indegnalibertinacattiva monacadonna perniciosaanima corrottaemi ingiunsesotto pena di peccato mortaledi non trovarmi mai da sola con leie di non tollerare nessuna delle sue carezze.

           “Ma padre” gli dissi“è la mia superioraella può entrarenella mia cellachiamarmi da lei quando le piace.”

           “Lo solo soe ne sono desolatocara figliola” mi disse“sialodato Iddio che vi ha preservata fino ad oggi! Non ardisco spiegarmi con voi piùchiaramente. Nel timore di diventare a mia volta complice della vostra indegnasuperiorae di avvizzire con l’alito avvelenatoche mio malgrado miuscirebbe dalle labbraun fiore delicato che si può conservare fresco e senzamacchia fino alla vostra età solo per una protezione speciale della divinaprovvidenzavi ordino di fuggire la vostra superioradi respingerne lecarezzedi non entrare mai da sola nella sua celladi chiudere a chiave lavostra portaspecialmente di nottedi lasciare il letto se entra nella vostracella vostro malgradodi andare nel corridoiodi chiamare gente se occorrediscendere nuda fino ai piedi dell’altaredi riempire il convento delle vostregridae di fare tutto quello che l’amore di Dioil timore del peccatolasantità del vostro stato e l’interesse della vostra salvezza viispirerebberose Satana in persona si presentasse a voi e vi perseguitasse. Sìfigliola miaSatana! È sotto questo aspetto che sono costretto a mostrarvi lavostra superiora; ella è sprofondata nell’abisso del peccato e cerca ditrascinarci anche voi; voi vi sareste già con leise la vostra stessainnocenza non l’avesse riempita di terrore e non l’avesse fermata.”

           Alzando gli occhi al cieloesclamò:

           “Mio Dio! continuate a proteggere questa figliola... Dite con me Satanavade retroapage Satana. Se quella sciagurata vi interrogaditele tuttoripetetele il mio discorso; ditele che sarebbe meglio che non fosse mai nataoche precipitasse da sola all’inferno per morte violenta.”

           “Ma padre mio” gli risposi“l’avete sentita voi stesso pocofa.”

           Non replicòma emettendo un profondo sospiroappoggiò le bracciacontro una parete del confessionalee vi posò sopra la testa come un uomopenetrato di dolore. Rimase per un certo tempo in quella posizione. Io nonsapevo che cosa pensare; mi tremavano le ginocchiaero turbata e sconvolta inmaniera incredibile. Ero quale un viandante che camminasse nelle tenebretraprecipizi invisibilicolpito da ogni lato da voci urlanti: “È finita perte!” Guardandomi poi con un’aria tranquillama inteneritami disse:

           “Godete buona salute?”

           “Sìpadre.”

           “Non sarebbe troppo duro per voi passare una notte senza dormire?”

           “Nopadre.”

           “In tal caso” mi disse“stanotte non andrete a letto; subito dopocena andrete in chiesavi prosternerete ai piedi dell’altare e vi passeretela notte in preghiera. Voi non sapete che pericolo avete corso; ringraziereteDio di avervi preservatae domani vi accosterete alla sacra mensa con tutte lealtre monache. Per penitenzavi terrete lontana dalla vostra superioraerespingerete le sue carezze avvelenate. Andate. Per parte mia unirò le miepreghiere alle vostre. Quante preoccupazioni mi cagionerete! Mi rendo conto ditutte le conseguenze del consiglio che vi doma sono costretto a darvelo: lodebbo a voicome lo debbo a me stesso. Dio è colui che comandae noi nonabbiamo che una legge.”

           Non mi ricordo di quello che mi dissesignoreche in maniera moltoapprossimativa. Oggi che metto a confronto il suo discorso così come ve l’horiferitocon l’impressione terribile che produsse su di metrovo che non viè nessun rapporto. Ciò deriva dal fatto che il mio racconto è frammentariosconnessoche vi mancano molte cose che non ricordo più perché non vicollegavo nessuna idea distinta e non vedevocome tuttora non vedoqualeimportanza avessero certe cose contro le quali recriminava con la massimaviolenza. Per esempioche cosa trovava di così strano nella scena delclavicembalo? Non esistono forse persone su cui la musica produceun’impressione vivissima? Anche a me hanno detto che certe ariecertemodulazionimutavano completamente la mia fisionomia; in quei momenti io erodel tutto fuori di menon sapevo che cosa mi stesse succedendo. Non per questocredo che fossi meno innocente. Perché non poteva accadere la stessa cosa allamia superiorache nonostante tutte le sue follie e i suoi sbalzi di umoreerauna delle donne più sensibili che ci fossero al mondo? Non poteva sentire unastoria un po’ commovente senza sciogliersi in lacrime. Quando le raccontai lamia storiala misi in uno stato pietoso. Perché le faceva una colpa anchedella sua commiserazione? E la scena della nottedella quale aspettava la finecon un terrore mortale?... Di sicuro quell’uomo è troppo severo.

           In ogni caso misi in atto punto per punto quello che mi aveva ordinatoedi cui aveva certamente previsto le conseguenze immediate. Appena uscita dalconfessionaleandai a prosternarmi ai piedi dell’altare. La mia mente erasconvolta dal terrore; rimasi là fino al momento della cena. La superiorapreoccupandosi per ciò che poteva essermi successomi aveva fatta chiamare; leera stato risposto che ero in preghiera. Più volte si era presentata alla portadel coroma io avevo finto di non scorgerla. L’ora della cena suonòe mirecai in refettorio. Cenai in frettae una volta terminata la cenatornaisubito in chiesa. Non comparvi alla ricreazione della sera; all’ora diritirarsi e di andare a coricarsinon risalii. La superiora non ignorava checosa stessi facendo. La notte era assai inoltrata e tutto il convento erasilenziosoallorché scese da me. Il ritratto con il quale il direttorespirituale me l’aveva dipintami si ripresentò all’immaginazione; iltremito mi colsenon osai guardarla. Pensai che l’avrei vista con un visoorrendotutto avvolto nelle fiammee dicevo dentro di me: Satana vaderetroapage Satana. Mio Diosalvatemiallontanate da me questo demonio!

           La superiora si inginocchiòe dopo aver pregato per un certo tempomidisse:

           “Cosa fate quisuor Santa Susanna?”

           “Lo vedetesignora.”

           “Sapete che ore sono?”

           “Sìsignora.”

           “Perché non siete rientrata nella vostra cella quando è suonatal’ora?”

           “Perché mi preparavo a celebrare domani la grande festa.”

           “Avevate dunque l’intenzione di passare qui la notte?”

           “Sìsignora.”

           “Chi ve ne ha dato il permesso?”

           “Me l’ha ordinato il direttore spirituale.”

           “Il direttore spirituale non può ordinare niente contro la regola delconventoe io vi ordino di andare a coricarvi.”

           “Questa è la penitenza che mi ha imposto.”

           “La sostituirete con altre opere.”

           “La scelta non spetta a me.”

           “Suvviafigliola mia” mi disse“venite. Il fresco della chiesadurante la notte vi nuocerà; pregherete nella vostra cella.”

           Dopo di che volle prendermi per la manoma io mi allontanai bruscamente.

           “Voi mi fuggite!” mi disse.

           “Sìsignoravi fuggo.”

           Rassicurata dalla santità del luogodalla presenza del divinodall’innocenza del mio cuoreosai alzare gli occhi su di lei; ma non appenal’ebbi guardataemisi un gran grido e cominciai a correre per il coro comeuna forsennatagridando: “VatteneSatana!...”

           La superiora non mi inseguiva. Rimaneva al suo posto tendendo le bracciaverso di memi diceva con la voce più commovente e soave:

           “Che cosa avete? Che cosa vi suscita tanto spavento? Fermatevi. Nonsono Satana. Sono la vostra superiora e la vostra amica.”

           Mi fermaivoltai di nuovo la testa verso di lei e vidi che ero stataspaventata da un’apparenza bizzarra creata dalla mia immaginazione. Questoaccadeva perché rispetto alla lampada della chiesalei si trovava in unaposizione tale che soltanto il viso e l’estremità delle mani venivano adessere illuminatementre il resto rimaneva in ombracosa che le conferiva unaspetto singolare. Riavutami un pocomi buttai a sedere in uno stallo. Ella siavvicinò e stava per sedersi nello stallo vicinoallorché io mi alzai e andaia mettermi nello stallo sottostante. Andammo così entrambe di stallo in stallofinché arrivammo all’ultimo. A questo punto mi fermai e la scongiurai dilasciare almeno uno spazio vuoto fra me e lei.

           “Va bene!” mi disse.

           Ci sedemmo entrambelasciando fra noi uno stallo vuoto. Allora lasuperiora prese la parola e mi disse:

           “Potrei sapereSusannaper quale ragione la mia presenza vi suscitatanto spavento?”

           “Cara madre” le dissi“perdonatemi. Non sono ioè il padreLemoine. Mi ha dipinto la tenerezza che avete per mele carezze che mi fate enelle quali vi confesso che io non vedo alcun malesotto le tinte piùspaventose. Mi ha ordinato di fuggirvidi non entrare più da sola nella vostracelladi uscire dalla mia quando entrate voi. Vi ha presentata ai miei occhicome il demonioe Dio sa cos’altro non ha detto su di voi...”

           “Gli avete dunque parlato?”

           “Nocara madrema non ho potuto fare a meno di rispondergli.”

           “Allorasono davvero orribile ai vostri occhi?”

           “Nocara madrenon posso impedirmi di amarvidi sentire tutto ilvalore delle vostre premuredi pregarvi di usarmele ancorama io obbedirò almio direttore spirituale.”

           “Cosìnon verrete più a trovarmi?”

           “Nocara madre.”

           “Non mi riceverete più nella vostra cella?”

           “Nocara madre.”

           “Respingerete le mie carezze?”

           “Mi costerà moltoperché sono nata per le carezze e mi piace esserecarezzata; ma dovrò farlol’ho promesso al direttore spirituale e l’hogiurato ai piedi dell’altare. Se potessi farvi intendere il modo in cui sispiega! È un uomo pioun uomo illuminato; che interesse può avere a mostrarmiil pericolo dove non esiste; ad allontanare il cuore di una monaca dal cuoredella sua superiora? Ma può essere che riconosca in azioni del tutto innocentida parte nostraUn germe di corruzione segreta che ritiene completamentesviluppato in voi e che teme voi sviluppiate in me. Non vi nasconderò cheripensando alle impressioni che a volte ho provato... Per quale motivocaramadreuscendo dalla vostra cella e tornando nella miami sentivo agitatasvagata? Perché quella specie di tedio che non avevo mai provato? Perchéioche non ho mai dormito di giornomi sentivo scivolare nel sonno? Credevo chesoffriste di una malattia contagiosa il cui effetto cominciava ad agire su dime. Il padre Lemoine la vede assai diversamente.”

           “E come la vede?”

           “Vede tutte le nefandezze del peccatola vostra perdita ormai senzasperanzala mia imminenteo che so io...”

           Suvvia” mi disse“il vostro padre Lemoine è un visionarionon èquesto il primo rabbuffo che mi riserva. Basta che una tenera amicizia mi leghia qualcuna perché subito si affanni a montarle la testa; poco c’è mancatoche rendesse pazza quella povera suor Santa Teresa. Ora comincia proprio a darmifastidio e mi libererò di quell’uomo; inoltre abita a dieci leghe da qui efarlo venire è sempre una complicazione. Non lo si può avere quando si vuole.Ma di questo parleremo con più calma. Non volete dunque risalire?”

           “Nocara madre; vi chiedodi graziache mi permettiate di passarequi la notte. Se venissi meno a questo doveredomani non oserei accostarmi aisacramenti con il resto della comunità. E voicara madrevi comunicherete?”

           “Certamente.”

           “Ma allorail padre Lemoine non vi ha detto niente?”

           “No.”

           “Come può essere?”

           “Non ha avuto l’occasione di parlarmene. Ci si va a confessare peraccusarsi dei propri peccati e io non trovo che sia un peccato amare teneramenteuna cara fanciulla come suor Santa Susanna. Se mai vi è peccatoè quello diconcentrare su di lei sola un sentimento che dovrebbe essere suddiviso tra tuttequelle che compongono la comunitàma questo non dipende da me; non possoimpedirmi di riconoscere il merito là dove si trova e di accordargli la miapreferenza. Non chiedo perdono a Dio e non capisco come il vostro padre Lemoineveda il sigillo della mia dannazione in una parzialità così naturale e dallaquale è così difficile difendersi. Io cerco di fare la felicità di tuttemave n’è una che stimo e che amo più delle altreperché più amabile e piùstimabile. Ecco qual è la mia colpa verso di voi; la trovate così gravesuorSanta Susanna?”

           “Nocara madre.”

           “Suvviacara figliolarecitiamovoi ed ioancora una preghierinaepoi ritiriamoci.”

           La supplicai di nuovo che mi permettesse di passare la notte in chiesa;acconsentìa condizione che non accadesse mai piùpoi si ritirò.

           Ripensai a ciò che mi aveva detto. Chiesi a Dio di illuminarmi.Riflettei etutto consideratoconclusi che per quanto due persone fosserodello stesso sessovi potesse essere un qualcosa di indecente nel modo in cuisi testimoniavano la loro amiciziache il padre Lemoineuomo austeroavesseforse esagerato le cosema che il consiglio di evitare l’estrema familiaritàdella mia superiora opponendole molto riserbofosse un consiglio da seguirsi.Mi ripromisi di farlo.

           La mattinaallorché le monache vennero nel coromi trovarono al mioposto. Si accostarono tutte alla sacra mensa con la superiora in testail chefinì di persuadermi della sua innocenzasenza peraltro indurmi a rinunciarealla decisione che avevo preso. E poi ero ben lontana dal sentire per leil’attrazione che lei provava per me. Non potevo fare a meno di paragonarlaalla mia prima superiora; che differenza! Non si ritrovava in lei né la stessapietàné la stessa gravitàné la stessa dignitàné lo stesso fervorenélo stesso spiritoné la stessa inclinazione all’ordine.

 

           Nello spazio di pochi giorni accaddero due grandi avvenimenti. Il primofu che vinsi il processo contro le monache di Longchamp; esse furono condannatea pagare al convento di Sant’Eutropio in cui mi trovavo una pensioneproporzionata alla mia dote; il secondofu il cambiamento di direttorespirituale. Fu la superiora in persona che mi mise al corrente di quest’ultimocambiamento.

           Iointantonon andavo più da lei se non accompagnataed ella nonveniva più da sola nella mia cella. Lei seguitava a cercarmima io la evitavo;se ne accorgeva e me lo rimproverava. Non so che cosa stesse accadendo inquell’animama doveva essere qualcosa di straordinario. Si alzava di notte esi aggirava per i corridoi; soprattutto nel mio; la sentivo passare e ripassarefermarsi davanti alla mia portalamentarsisospirare. Tremavomirincantucciavo nel letto. Di giornose ero alla passeggiatanella stanza dalavoro o in quella della ricreazionepassava ore intere ad osservarmiin modoche non potessi scorgerla. Spiava ogni mio movimento: se scendevola trovavo infondo alle scale; quando risalivola trovavo in cima. Un giorno mi fermò; simise a guardarmi senza dire una parola; un profluvio di lacrime le scorrevadagli occhi. Poiall’improvvisogettandosi a terra e stringendomi unginocchio fra le manimi disse:

           “Sorella crudelechiedimi la vita e te la daròma non mi evitare cosìnon posso vivere senza di te...”

           Il suo stato mi fece pietà; gli occhi le si erano spenti; aveva perdutoil suo bell’aspetto florido e i suoi colori; era la mia superioraera ai mieipiedicon la testa appoggiata sul mio ginocchio che teneva abbracciato. Le tesile mani e lei le prese con slancio. Le baciavapoi mi guardavapoi tornava abaciarle e a guardarmi. La sollevai. Vacillavacamminava a fatica; lariaccompagnai nella sua cella. Quando la porta fu apertami prese per la mano emi tirò dolcemente per farmi entrarema senza parlarmi e senza guardarmi.

           “Nocara madre” le dissi“nome lo sono promesso; è meglio pervoi e per me. Occupo troppo posto nella vostra anima e questo posto lo dovetetutto quanto a Dio.”

           “Spetta a voi rimproverarmelo?”

           Cercaimentre le parlavodi liberare la mia mano dalla sua.

           “Non volete proprio entrare?” mi chiese.

           “Nocara madreno.”

           “Non voletesuor Santa Susanna? Voi non sapete che cosa puòderivarnenon sapete... Mi farete morire!”

           Queste ultime parole mi ispirarono un sentimento del tutto diverso daquello che era nei suoi propositi; ritirai vivamente la mano e fuggii. Lasuperiora si voltòmi guardò per un po’ mentre me ne andavopoirientrando nella sua cella la cui porta rimase apertaproruppe in lamentialtissimi. La sentiimi penetrarono nell’anima. Per un momento fui incerta secontinuare ad allontanarmima non fu senza soffrire dello stato in cui lalasciavo: per natura sono portata alla compassione. Mi rinchiusi nella miacella; mi sentii a disagio. Non sapevo come occuparmi; camminai per un po’ inlungo e in largodistrutta e turbata; usciirientrai; alla fine andai abussare alla porta di suor Santa Teresa che era vicina alla mia. La trovai inconversazione intima con un’altra giovane monaca sua amica. Le dissi:

           “Cara sorellami dispiace interrompervima vi prego di ascoltarmi unistante perché avrei qualcosa da dirvi.”

           Mi seguì nella mia cellae io le dissi:

           “Non so che cos’abbia la nostra madre superiorama è desolata; seandaste a trovarlaforse la consolereste.”

           Non mi rispose; lasciò l’amica nella sua cellachiuse la portaecorse dalla nostra superiora.

           Il male di quella donna andò tuttavia peggiorando di giorno in giorno;si fece malinconica e seria; la gioia che aveva sempre regnato nel convento dalgiorno del mio arrivoscomparve di colpo; tutto rientrò nell’ordine piùaustero. Gli uffizi si svolsero con la debita dignità; gli estranei furonoquasi del tutto esclusi dal parlatorio; fu proibito alle monache di farsi visitereciproche nelle celle; gli esercizi ripresero osservando l’orario piùscrupoloso; non vi furono più riunioni dalla superiorapiù merende; le colpepiù leggere furono severamente punite; talora ci si rivolgeva ancora a me perintercedere presso la superiorama io mi rifiutavo ostinatamente di farlo. Lacausa di una simile rivoluzione non fu ignorata da nessuno. Le anziane non neerano affatto dispiaciute; le giovani se ne dispiacevano e mi guardavano ditraverso. Quanto a metranquilla circa la mia condottanon davo peso al loromalumore e ai loro rimproveri.

           La superiorache non potevo consolarené impedirmi di compiangerepassò successivamente dalla malinconia alla devozionee dalla devozione aldelirio. Non starò a seguirla nelle diverse fasi di questi stati d’animoperché dovrei scendere a particolari senza fine; vi dirò soltanto che nellaprima fase ora mi cercavaora mi evitava; a volte ci trattavame e le altrecon la sua solita dolcezza; a volte passava improvvisamente al rigore piùesagerato; ci chiamava le ci rimandava via; accordava la ricreazione e unmomento dopo ne revocava l’ordine; ci faceva convocare nel coro e quando tuttoil convento si era messo in moto per obbedirleun secondo tocco di campana cirinviava tutte nelle nostre celle. È difficile immaginare come fosse perturbatala nostra vita; la giornata trascorreva a uscire e a entrare nelle celleaprendere il breviario e a riporlo; ad abbassare il velo e a rialzarlo. La notteconosceva gli stessi ritmi spezzati del giorno.

           Alcune monache si rivolsero a mee cercarono di farmi capire che con unpo’ più di compiacenza e di riguardi per la superioratutto sarebberientrato nell’ordine (avrebbero dovuto dire nel disordine) solito; iorispondevo tristemente:

           “Vi compiangoma ditemi chiaramente che cosa debbo fare.”

           Alcune se ne andavano a testa bassa senza rispondere; altre mi davano deiconsigli che mi era impossibile conciliare con quelli del nostro direttorespirituale. Intendo dire di quello che era stato revocatoperchéquanto alsuo successorenon lo avevamo ancora visto.

           La superiora non usciva più di notte. Trascorreva settimane intere senzafarsi vedere né all’uffizioné in coroné in refettorioné allaricreazione. Stava rinchiusa in camera sua; girava per i corridoi o scendeva inchiesa; andava a bussare alla porta delle sue monache e diceva con vocelamentosa:

           “Suor tal dei talipregate per me; suor tal dei talipregate perme...”

           Si sparse la voce che si disponesse a una confessione generale.

           Un giorno che scesi per prima in chiesavidi un foglio fissato al velodella grata. Mi avvicinai e lessi:

           “Care sorellesiete invitate a pregare per una monaca che si è sviatadai propri doveri e che vuole tornare a Dio...”

           Fui tentata di strappare quel foglioma poi lo lasciai. Qualche giornodopo ce n’era un altro che diceva:

           “Care sorellesiete invitate a implorare la misericordia di Dio su unamonaca che ha riconosciuto il proprio traviamento. Esso è grande...”

           Un altro giorno fu la volta di un invito che diceva:

           “Care sorellesiete pregate di chiedere a Dio di allontanare ladisperazione da una monaca che ha perduto ogni fiducia nella misericordiadivina...”

           Tutti questi inviti in cui venivano descritte le crudeli vicissitudini diquell’anima in pena mi rattristavano profondamente. Una volta mi capitò dirimanere lì impalata davanti a quegli scritti. Dentro di me mi ero chiesta checosa fossero quei traviamenti che si rimproveravada dove venissero le angoscedi quella donnaquali colpe potesse avere da rimproverarsi; ripensavo alleesclamazioni del direttore spiritualericordavo le sue espressionine cercavoil senso che non trovavo e rimanevo come assorta. Alcune monache che miguardavanoparlottavano fra di loroe se non mi sono ingannatami guardavanocome se stessi per essere minacciata dagli stessi terrori.

           La povera superiora non si faceva vedere che con il velo calato sul viso;non si occupava più della direzione del convento; non parlava più a nessuno;si intratteneva spesso con il nuovo direttore spirituale che ci era statoassegnato. Era un giovane benedettino. Non so se fosse stato lui a imporle tuttele mortificazioni che lei praticava: digiunava tre giorni alla settimana; siflagellava; ascoltava l’uffizio stando negli stalli inferiori. Per andare inchiesa dovevamo passare davanti alla sua porta; quila trovavamo prosternatacon il viso a terrae si rialzava solo quando non c’era più nessuno; dinottescendeva in chiesa in camicia e a piedi nudi; se per caso suor SantaTeresa e io la incontravamolei si voltava e incollava il viso al muro. Ungiorno che uscivo dalla mia cellala trovai prosternatacon le braccia stese eil viso contro terra. Mi disse:

           “Venite avanticamminatecalpestateminon merito altrotrattamento.”

           Per tutti i mesi che durò quella malattiail resto della comunità ebbetutto il tempo di patirne e di prendermi in avversione. Non starò a tornare sututti gli affanni di una monaca odiata nel proprio convento: ormai dovetesaperne abbastanza. A poco a poco sentii rinascere il disgusto del mio stato.Quel disgusto e quelle mie pene le andai a riversar nel cuore del nuovodirettore spirituale. Si chiama don Morel: è un uomo di carattere ardente;aveva all’incirca quarant’anni. Mi sembrò che ascoltasse con attenzione einteresse. Volle conoscere le vicissitudini della mia vita; mi fece entrare neiparticolari più minuziosi sulla mia famigliasulle mie inclinazionisul miocaratteresui conventi nei quali ero statasu quello che c’era stato tra mee la superiora. Non gli nascosi niente. Non mi sembrò che annettesse alcomportamento della superiora nei miei riguardi la stessa importanza del padreLemoine; fu molto se sull’argomento pronunciò qualche parola: consideròquella faccenda come finita. Quello che lo interessava maggiormente erano le miedisposizioni segrete nei confronti della vita religiosa. Via via che mi aprivocon luila sua confidenza faceva gli stessi progressi. Io mi confessavo a luie lui si confessava a me. Ciò che mi raccontava delle sue sofferenze coincidevaperfettamente con le mie; era entrato in religione suo malgradosopportava ilsuo stato con un disgusto simile al mio.

           “Che farecara sorella?” mi diceva“vi è una sola risorsa:rendere la nostra condizione meno penosa possibile.” Poi dava a me gli stessiconsigli che seguiva lui: consigli saggi.

           “In questo modo” soggiungeva“non si evitano le sofferenzeci sirisolve soltanto a sopportarle. Le persone religiose non sono felici che inquanto si fanno un merito delle loro croci davanti a Dio; in tal caso se nerallegranovanno in cerca delle mortificazioni: più queste sono amare efrequentipiù se ne compiacciono. Hanno scambiato la loro felicità presentecon una felicità futura; si assicurano questa felicità con il sacrificiovolontario di quella. Quando hanno sofferto moltodicono: “AmpliusDomineancora di piùSignore”ed è una preghiera che Dio non mancamai di esaudire. Ma se i loro patimenti sono fatti per voi e per mecome perloronoi non possiamo permetterci la stessa ricompensa; noi non abbiamo la solacosa che conferirebbe ad essi un valorela rassegnazione. E questo è triste.Ahimécome farò ad ispirarvi la virtù che vi manca e che io non ho! Eppuresenza di essaci esponiamo al rischio di essere perduti nell’altra vita dopoessere stati molto infelici in questa. In mezzo alle penitenze noi ci danniamoquasi con la stessa certezza della gente che vive tra i piaceri del mondo. Noici priviamoloro godonoe dopo questa vita ci attendono gli stessi supplizi.Com’è penosa la condizione di chi è costretto alla vita religiosauomo odonna che siasenza vocazione! Tuttavia è la nostra condizionee non possiamocambiarla. Ci hanno caricato di pesanti catene che siamo condannati a scuoteresenza posasenza nessuna speranza di spezzarle; cercheremocara sorelladitrascinarle. Andate. Tornerò a trovarvi.”

           Tornò pochi giorni dopo. Lo vidi in parlatorio; lo osservai più davicino. Terminò di confidarmi la sua vitaio la mia: un’infinità dicircostanze che costituivano tra me e lui altrettanti punti di contatto e disomiglianza; aveva subito le stesse persecuzioni domestiche e religiose. Non mirendevo conto che la descrizione del suo disgusto era poco adatta a dissipare ilmio; ciò nonostante un tale effetto si stava verificando in mee credo che ladescrizione dei miei disgusti non agisse su di lui in maniera diversa. Fu cosìche aggiungendosi alla somiglianza dei caratteri quella delle nostre vicendepiùci vedevamopiù ci piacevamo l’uno all’altro; la storia dei suoi momentiera la storia dei miei; la storia dei suoi sentimentiera la storia dei miei;la storia della sua animaera la storia della mia.

           Dopo che c’eravamo intrattenuti a lungo su di noiparlavamo anchedegli altrie soprattutto della superiora. La sua qualità di direttorespirituale lo rendeva molto riservato; sennonchédai suoi discorsiintuii chelo stato d’animo attuale di quella donna non sarebbe duratoche ella lottavacontro se stessama invanoe che sarebbe accaduta una di queste due cose: ofra non molto sarebbe tornata alle sue tendenze precedentioppure le avrebbedato di volta il cervello. Ero molto curiosa di saperne di più. Avrebbe benpotuto illuminarmi su tutti gli interrogativi che mi ero posta senza potervi mairisponderema non osavo fargli domande; mi azzardai soltanto a chiedergli seconosceva il padre Lemoine.

           “Sì” mi disse“lo conosco; è un uomo di meritoe ne hamolto.”

           “Abbiamo cessato di vederlo fra noi da un momento all’altro.”

           “È vero.”

           “Non potreste dirmi come è accaduto?”

           “Mi dispiacerebbe se si venisse a sapere.”

           “Potete contare sulla mia discrezione.”

           “Credo che abbiano scritto contro di lui all’arcivescovado.”

           “E che cosa possono mai aver detto?”

           “Che abitava troppo lontano dal conventoche non lo si poteva averequando lo si volevache era di morale troppo austerache vi erano buoneragioni per sospettarlo di sentimenti innovatoriche seminava la discordia nelconvento e che allontanava gli animi delle monache dalla loro superiora.”

           “Da chi lo avete saputo?”

           “Me l’ha detto lui stesso.”

           “Alloralo vedete?”

           “Sìlo vedo. Qualche volta mi ha parlato di voi.”

           “Che cosa vi ha detto?”

           “Che eravate molto da compiangereche non riusciva a capire comeaveste resistito a tutte le pene che avete soffertoche sebbene avesse avutol’occasione di parlare con voi soltanto una volta o duenon credeva che visareste mai potuta adattare alla vita religiosache aveva in mente...”

           A questo punto si fermò di bottoed io aggiunsi:

           “Che cosa avete in mente?”

           Don Morel mi rispose:

           “Si tratta di una confidenza troppo particolare perché io possacontinuare.”

           Non insistei ulteriormente e mi limitai a soggiungere:

           “È vero che è stato il padre Lemoine a ispirarmi ripugnanza per lamia superiora.”

           “Ha fatto bene.”

           “Perché?”

           “Sorella” mi disse assumendo un’aria grave“attenetevi ai suoiconsigli e cercate di ignorarne la ragione finché vivrete.”

           “Mi sembra però che se conoscessi il pericolopotrei stare piùattenta ad evitarlo.”

           “Potrebbe anche essere il contrario.”

           “Dovete proprio avere una cattiva opinione di me.”

           “Dei vostri costumi e della vostra innocenzaho l’opinione che debboavernema credete a me: vi sono delle cognizioni funeste che non potresteacquisire senza rimetterci. È stata proprio la vostra innocenza a incutererispetto alla vostra superiora; se foste stata più scaltritavi avrebberispettato di meno.”

           “Non vi capisco.”

           “Tanto meglio.”

           “Ma che cosa ci può essere di pericoloso per una donnanelle carezzedi un’altra donna?”

           Nessuna risposta da parte di Don Morel.

           “Non sono forse la stessa di quando entrai qua dentro?”

           Nessuna risposta da parte di Don Morel.

           “Non avrei continuato ad essere la stessa? Dov’è il malenell’amarsinel dirselonel testimoniarselo? È una cosa tanto dolce!”

           “È vero” ammise Don Morel alzando su di me gli occhi che avevasempre tenuto bassi mentre io parlavo.

           “E questa è dunque una cosa tanto diffusa nei conventi? Poverasuperiora! In che stato è ridotta!”

           “È davvero penosoe temo che peggiorerà. Non era fatta per lo statoreligiosoed ecco quello che capita prima o poi. Quando ci si opponeall’inclinazione generale della naturaquesta viene traviata dallacostrizione verso affetti sregolatitanto più violenti in quanto non hannofondamento; è una specie di pazzia.”

           “È pazza?”

           “Silo èe sempre più lo diventerà.”

           “E voi credete che questa sia la sorte di tutti coloro che hannoaccettato uno stato al quale non erano chiamati?”

           “Nonon tutti. Ve ne sono che muoiono primave ne sono altri il cuicarattere docile alla lunga finisce per adattarsie altri ancora sorretti perun certo tempo da qualche vaga speranza.”

           “E quali speranze ci sono per una monaca?”

           “Quali? In primo luogo quella di far rescindere i voti.”

           “E quando si è perduta questa speranza?”

           “Rimane quella di trovare un giorno le porte aperte; o la speranza chegli uomini rinuncino alla stravaganza di far rinchiudere in sepolcri giovanicreature piene di vitae che i conventi siano aboliti; la speranza che ilconvento prenda fuocoche crollino i muri della clausurache qualcuno venga inaiuto. Tutte queste supposizioni si accavallano nella mente; passeggiando ingiardino si guardasenza pensarcise i muri sono molto alti; se si è nellacellasi afferrano le sbarre della grata e si scuotono pianodistrattamente;se la finestra dà sulla stradasi guarda in basso; se si sente passarequalcunoil cuore comincia a batteresi sogna sordamente un liberatore; sescoppia un tumulto e il clamore penetra fin nel conventosi spera; si conta suuna malattia che ci farà avvicinare a un uomoo che ci farà partire per unacura delle acque.”

           “È veroè vero!” esclamai“voi mi leggete in fondo al cuore; misono fattami farò continuamente delle illusioni.”

           “E quandoriflettendovisi arriva a perderlegiacché quei vaporisalutari che salgono dal cuore alla ragioneogni tanto si dissipanoallora sivede tutta la profondità della propria miseria; si piangesi gemesi gridasi sente l’approssimarsi della morte. Allora c’è chi corre a buttarsi aiginocchi della superiora per cercare da lei qualche consolazione; c’è chi siprosterna nella cella o ai piedi dell’altare e chiama in aiuto il cielo; ve nesono alcune che si stracciano gli abiti e si strappano i capelli; altre cercanoun pozzo profondofinestre molto alteun cappioe capita che lo trovino;altredopo essersi tormentate a lungopiombano in una specie di abbrutimento erestano come inebetite; altrela cui costituzione è debole e delicata siconsumano di languore; in altre ancora l’organismo si sconvolgel’immaginazione si perturba e finiscono col diventare furiose. Le più felicisono quelle in cui le illusioni consolanti rinascono e le cullano quasi finoalla tomba; la loro vita trascorre nell’alternativa dell’errore e delladisperazione.”

           “E le più infelici” aggiunsi io emettendo apertamente un profondosospiro “quelle che passano successivamente attraverso tutti questi stadi...Ahpadre miocome mi dispiace avervi ascoltato!”

           “E perché?”

           “Io non mi conoscevo; ora mi conosco. Le mie illusioni dureranno meno.Nei momenti...”

           Stavo per continuare allorché entrò un’altra monacapoi un’altrae poi una terzae poi quattrocinqueseinon so più quante. Laconversazione si fece generale. Alcune guardavano il direttore spirituale; altrelo ascoltavano in silenzio e con gli occhi bassi; diverse lo interrogavano tutteinsiemetutte si estasiavano sulla saggezza delle sue risposte. Intanto io miero ritirata in un angolo dove mi lasciai andare ad una fantasticheria profonda.Nel bel mezzo di tutte quelle conversazioni in cui ciascuna cercava di farsivalere e di attirare la preferenza del sant’uomo con il suo aspetto miglioresi sentì arrivare qualcuno a passi lentifermarsi a trattied emettere deisospiri. Ascoltammo. Una monaca disse a bassa voce:

           “È leiè la nostra superiora.”

           Poi ci fu silenzio e tutte quante si sedettero in cerchio. Era leiinfatti. Entrò: il velo le ricadeva fino alla cintura; teneva le bracciaincrociate sul petto e la testa reclina. Fui la prima ch’ella scorse; subitodal velo trasse una mano con la quale si coprì gli occhie volgendosi un po’di latocon l’altra mano ci fece segno a tutte di uscire. Uscimmo insilenzioe lei rimase sola con Don Morel.

           Prevedosignor marcheseche vi farete una cattiva opinione di memapoiché non mi sono vergognata affatto di ciò che ho compiutoperché dovreiarrossire nel confessarlo? E poicome sopprimere in questo racconto unavvenimento che non ha mai cessato di avere delle conseguenze? Diciamo allorache ho una mentalità piuttosto strana; quando le cose possono suscitare lavostra stima o accrescere la vostra commiserazioneio posso scrivere bene omalema con una rapidità e una facilità incredibili; l’anima mia è gaial’espressione mi viene senza faticale lacrime mi scorrono con dolcezzamisembra che voi siate presenteche vi vedae che voi mi ascoltiate. Se invecesono costretta a mostrarmi ai vostri occhi sotto una luce sfavorevolepenso condifficoltàl’espressione mi sfuggela penna non correperfino il caratteredella mia scrittura ne risentee se continuoe solo in quanto segretamentespero che voi non leggerete quei passi. Eccone uno:

           Allorché tutte le nostre sorelle se ne furono andate... “Ebbenechefaceste?”

           Non lo indovinate? Nosiete un uomo troppo onesto per questo...Ridiscesi in punta di piedi e andai a mettermi piano piano dietro la porta delparlatorio per ascoltare quello che si diceva là dentro. Molto malediretevoi... Ohquanto a questofeci molto malelo dico anch’io a me stessa; e ilmio turbamentole precauzioni che presi perché non mi vedesseroil numero divolte che mi fermaila voce della mia coscienza che ad ogni passo mi intimavadi tornare indietronon mi permettevano di avere dubbi. Ciò nonostante lacuriosità fu più fortee andai... Ma se fu male essere stata a spiare idiscorsi di due persone che si credevano solenon è neanche peggioriferirveli? Questa è ancora una di quelle cose che scrivo perché mi illudoche non le leggerete; so bene che non è veroma debbo convincermene.

           La prima parola che udii dopo un silenzio alquanto lungomi fecefremere: “Padresono dannata...”[1]

           Ripresi coraggio. Ascoltavoe il velo che fino a quel momento mi avevatenuto nascosto il pericolo che avevo corsosi stava lacerandoallorché michiamarono. Dovevo andareandai. Maahimè! avevo ascoltato anche troppo. Chedonnasignor marcheseche donna abominevole...

 

           A questo punto le memorie di suor Susanna si interrompono. Quelle cheseguono non sono più che brevi annotazioni di ciò che probabilmente siriprometteva di raccontare successivamente. Pare che la superiora sia impazzitae che i frammenti che riporterò debbano essere riferiti a quella sua sciaguratacondizione.

 

           Dopo la confessionegodemmo di qualche giorno di serenità. La gioiaricompare nella comunità e mi vengono rivolti rallegramenti che io respingo conindignazione.

           La superiora non mi sfuggiva piùmi guardavama la mia presenza nonaveva più l’aria di turbarla.

           Io mi sforzavo di nasconderle l’orrore che mi ispirava da quandoperuna fortunata e fatale curiositàavevo imparato a conoscerla meglio.

           Ben presto si fa silenziosa; non dice più che sì o no; passeggia dasola.

           Rifiuta il cibo. Il sangue le si accendela febbre l’assale e allafebbre succede il delirio.

           Solanel suo lettomi vedemi parlami invita ad avvicinarsimirivolge le espressioni più tenere.

           Se sente camminare intorno alla sua cameraesclama:

           “È lei che passariconosco il suo passolo riconosco. Chiamatela...Nonolasciatela andare.”

           La cosa strana è che non le capitava mai di sbagliarsi e di scambiarmicon un’altra.

           Rideva fragorosamente e un momento dopo si scioglieva in lacrime. Lenostre suore la circondavano in silenzio e alcune piangevano con lei.

           D’un tratto diceva:

           “Non sono stata in chiesanon ho pregato Dio. Voglio alzarmi da questoletto; voglio vestirmivestitemi.”

           Se si opponevanosoggiungeva:

           “Datemi almeno il mio breviario.”

           Glielo davano; lei lo aprivane sfogliava le pagine col dito econtinuava a voltarle anche quando non ve n’erano più. I suoi occhi eranosmarriti.

           Una nottescese da sola in chiesa; alcune suore la seguirono. Siprosternò sui gradini dell’altaresi mise a gemerea sospirarea pregaread alta voce. Uscì; tornò dentro; disse:

           “Andate a cercarla; è un’anima così puracosì innocente! Seunisse le sue preghiere alle mie...”

           Poirivolgendosi a tutta la comunità e voltandosi verso gli stalli cheerano vuotiesclamava:

           “Usciteuscite tutte! che rimanga sola con me. Non siete degne diavvicinarvi a lei; se le vostre voci si confondessero con la suail vostroincenso profano corromperebbe dinanzi a Dio la dolcezza del suo. Allontanateviallontanatevi...”

           Poi mi esortava a chiedere al cielo assistenza e perdono. Vedeva Dio; lesembrava che il cielo fosse solcato di lampiche si squarciassee le tuonassesulla testane scendevano angeli corrucciatigli sguardi della Divinità lafacevano tremare; correva per ogni dovesi rincantucciava negli angoli buidella chiesachiedeva perdonosi metteva con la faccia a terrae si assopivain questa posizionedove l’aveva sorpresa la freschezza umida del luogo.Allora la trasportavano come morta nella cella.

           L’indomani ella non sapeva nulla della scena terribile della notte.Diceva:

           “Dove sono le nostre sorelle? Non vedo più nessuno; sono rimasta solain questo convento; mi hanno abbandonata tutte quanteanche suor Santa Teresa.Hanno fatto bene. Dal momento che suor Santa Susanna non c’è piùpossouscire. Non l’incontrerò più. Ahse la incontrassi! Ma lei non c’è piùvero? Non è forse vero che lei non c’è più?... Fortunato il convento che laospita! Dirà tutto alla nuova superiora: che penserà di me?... Suor SantaTeresa è forse morta? Ho sentito suonare a morto tutta la notte. Poverafigliola! È perduta per sempre! e sono stata iosono stata io... Un giorno lesarò messa a confronto; che cosa le dirò? Che cosa le risponderò?... Sventuraa lei! Sventura a me !”

           Un’altra volta diceva:

           “Sono tornate le nostre sorelle? Dite loro che sono molto malata...Sollevate il mio guanciale... Slacciatemi... Sento qualcosa che mi opprime... Mibrucia la testatoglietemi la cuffia... Mi voglio lavare... Portatemidell’acqua. Versateversate ancora... Sono bianchema la sozzuradell’anima è rimasta... Vorrei essere morta; vorrei non essere nata... almenonon l’avrei vista.”

           Una mattina fu trovata a piedi nudiin camiciascarmigliataurlantecon la schiuma alla boccamentre correva intorno alla sua cellacon le manisulle orecchiegli occhi chiusi e il corpo schiacciato contro il muro.

           “Allontanatevi da questa voragine! Le sentite queste grida? Èl’inferno! Salgono da quest’abisso profondo delle fiamme ch’io vedo; dallefiamme sento venire voci confuse che mi chiamano... Mio Dioabbiate pietà dime! Prestoandatesuonateriunite la comunità; dite che preghino per meanch’io pregherò... Ma spunta appena il giornole nostre sorelle dormono.Non ho chiuso occhio per tutta la nottevorrei dormiree non ci riesco...”

           Una delle nostre sorelle le diceva:

           “Signorac’è qualcosa che vi tormenta; confidatemelaforse neavrete qualche sollievo.”

           “Suor Agataascoltateavvicinatevi... di più... ancora di più...non ci devono sentire; ora vi rivelerò tuttotuttoma serbatemi il segreto...L’avete vista?”

           “Chisignora?”

           “Non è vero che nessuna ha la stessa dolcezza? Che andatura! Chedecoro! E quanta nobiltà! Quanta modestia!... Andate da leiditele... Nonondite nientenon andatenon la potreste avvicinare... Gli angeli del cielo lacustodisconovegliano su di lei; io li ho vistili vedreste anche voinesareste spaventata come me. Restate... Se andasteche cosa le direste?Inventate qualcosa di cui non debba arrossire...”

           “Ma signorase consultaste il nostro direttore...”

           “Sìma sì... Nonotanto lo so quello che mi dirà; l’ho sentitomille volte... Di che cosa gli parlerei? Se potessi perdere la memoria!... Sepotessi rientrare nel nullao rinascere! Non chiamate il direttore spirituale.Preferirei che mi venisse letta la passione di nostro Signore Gesù Cristo.Leggete... Cominciò a respirare... Basta una goccia di quel sangue perpurificarmi... Guardatesgorga ribollendo dal suo costato... Inclinate quellasacra piaga sulla mia testa... Il suo sangue scorre su di me e non vi rimane...Sono perduta!... Allontanate questo crocifisso... Riportatemelo...”

           Le veniva riportato; se lo stringeva fra le braccialo baciava da ognipartee poi aggiungeva:

           “Sono i suoi occhiè la sua bocca; quando la rivedrò? Suor Agataditele che l’amodescrivetele il mio statoditele ch’io muoio.”

           Fu salassatale fecero fare dei bagnima i rimedi sembrava cheaccrescessero il suo male. Non oso descrivervi tutte le azioni indecenti da leicompiuteripetervi tutti i discorsi disonesti che le sfuggivano nel delirio. Adogni istante si portava la mano alla fronte come per scacciarne idee confuseimmaginichissà quali immagini! Riaffondava la testa nel lettosi copriva ilviso con il lenzuolo.

           “È il tentatore” diceva“è lui. Che forma strana ha assunto!Prendete dell’acqua benedettagettate dell’acqua benedetta su di me...Bastabastanon c’è più!”

           Non si tardò a segregarlama dalla sua prigione per quanto bensorvegliataun giorno riuscì a fuggire. Si era stracciata le vestisiaggirava tutta nuda per i corridoidalle braccia le pendevano i capi dellacorda spezzata. Gridava:

           “Sono la vostra superioratutte ne avete fatto giuramentoobbeditemi!Mi avete imprigionata; sciagurateecco qual è la ricompensa per la mia bontà!Mi offendete perché sono troppo buona; non lo sarò più... Al fuoco!...All’assassino!... Al ladro!... Aiuto!... A mesuor Teresa... A mesuorSusanna!”

           Intanto l’avevano riafferrata e la riportavano nella sua prigione; elei diceva:

           “Avete ragioneavete ragione; ahimè! sono diventata pazzalosento.”

           Talvolta sembrava ossessionata dallo spettacolo dei vari supplizi. Vedevadonne con la corda al collo o le mani legate dietro la schiena; ne vedeva altrecon le torce in mano; si univa a quelle che facevano onorevole ammenda; sicredeva condotta a morte; diceva al boia:

           “Ho meritato la mia sortel’ho meritata... Se almeno questosupplizio fosse l’ultimo; ma un’eternità! Un’eternità di fiamme!...”

           Non dico niente che non sia vero; e tutto quello che dovrei ancora diredi vero non mi torna in menteo arrossirei se ne insozzassi queste pagine.

 

           Dopo aver vissuto per diversi mesi in quello stato miserandolasuperiora morì. Che mortesignor marchese! Io l’ho vista la terribileimmagine della disperazione e del peccato all’ora suprema. Si credevaattorniata da spiriti infernali che aspettavano la sua anima per impadronirsene;diceva con voce soffocata:

           “Eccoli! Eccoli!...” e opponendo loro a destra e a sinistra uncrocifisso che teneva in manourlavagridava:

           “Mio Dio!... Mio Dio!...”

           Suor Teresa la seguì poco tempo dopoe noi avemmo un’altra superioraanzianalunatica e superstiziosa.

           Mi accusano di aver stregato la superiora che l’ha preceduta; ella locredee le mie pene si rinnovano.

           Anche il nuovo direttore spirituale è perseguitato dai suoi superiori; emi persuade a fuggire dal convento.

 

           La mia fuga è progettata. Esco in giardino tra le undici e mezzanotte.Mi lanciano delle cordeio me le lego intorno alla persona. Le corde sispezzanoe io cado; ho le gambe tutte scorticate e una violenta contusione allereni. Un secondoun terzo tentativo mi consentono di issarmi sulla sommità delmuro; scendo. Quale è mai la mia sorpresa! Invece di una sedia di posta dovesperavo di essere accoltatrovo una sgangherata carrozza pubblica. Eccomi sullavia di Parigi con un giovane benedettino. Non tardai ad accorgermidal tonoindecente che prendeva e dalle libertà che si permettevache non osservava conme nessuna delle condizioni che avevo convenuto. Allora rimpiansi la mia cella esentii tutto l’orrore della mia situazione.

 

           È a questo punto che descrivo la scena della carrozza. Che scena! Cheuomo! Grido; il vetturino viene in mio aiuto. Rissa violenta tra il vetturino eil monaco.

           Arrivo a Parigi. La carrozza si ferma in una vicolodavanti a una portastretta che si apre su un viale buio e sporco. La padrona di casa mi vieneincontro e mi sistema all’ultimo piano in cui trovo appena i mobiliindispensabili. Ricevo alcune visite della donna che occupa il primo piano.

           “Siete giovanevi dovete annoiaresignorina. Scendete da mevitroverete in buona compagniauomini e donne; non tutte le donne sono carinecome voima quasi altrettanto giovani.

           “Si parlasi gioca a carte; si balla; ci divertiamo in cento modi. Sefate girare la testa di tutti i nostri cavalierivi giuro che le nostre signorenon ne saranno gelosené dispiaciute. Venitesignorina...”

           Colei che mi parlava così era una donna di una certa etàdallo sguardotenerola voce dolce e la parola insinuante.

           Trascorro una quindicina di giorni in quella casaesposta a tutte leprofferte del mio perfido rapitore e a tutte le scene tumultuose di una casaequivocaprontaad ogni istantea cogliere l’occasione di scappare.

 

           Finalmenteun giornol’occasione si presentò. Era notte inoltrata.

           Se fossi stata vicina al conventovi sarei tornata subito. Corro senzasapere dove vado. Alcuni uomini mi fermano; sono presa dal panicocado svenutasulla soglia della bottega di un candeliere. Mi soccorrono. Quando riprendo isensimi trovo distesa su un giacigliocircondata da diverse persone. Michiedono chi sono; non so che cosa risposi. Mi fanno riaccompagnare dalladomestica di casa; la prendo sottobracciocamminiamo insieme.

           Avevamo già percorso un bel pezzo di stradaquando quella ragazza michiese:

           “Signorinasapete di preciso dove stiamo andando?”

           “Nofigliola mia; all’ospiziopenso.”

           “All’ospizio? Vi hanno forse cacciata di casa?”

           “Ahimèsì.”

           “Che cosa avete mai fatto per essere cacciata a quest’ora?... Maeccoci alla porta di Santa Caterina; vediamo un po’ se riusciamo a farciaprire; in ogni modonon abbiate paura; non resterete per la stradadormiretecon me.”

           Torno dal candeliere. Spavento della domestica nel vedere le mie gambescorticate per la caduta fatta scappando dal convento. Trascorro la notte conlei. La sera del giorno successivotorno a Santa Caterina. Vi rimango tregiornitrascorsi i quali mi viene annunciato cheo debbo andare all’ospiziogeneraleo accettare il primo lavoro che mi capiterà.

 

           Pericolo corso a Santa Caterina da parte di uomini e di donne; da quelloche poi ho saputo è lì che vanno a rifornirsi i libertini e le ruffiane dellacittà. La prospettiva della miseria non rese più persuasive le seduzioni allequali fui esposta. Vendo i miei panni vecchi e ne scelgo di più adatti alla miacondizione.

 

           Entro al servizio di una lavandaiapresso la quale mi trovo tuttora. Midanno la biancheriae io la stiro. La mia giornata è faticosa; sono malnutritamale alloggiataho un letto scomodoma in compenso sono trattata conumanità. Il marito è vetturino di piazza; la moglie è di maniere un po’bruschema in fondo è una buona donna. Sarei abbastanza contenta della miasortese potessi sperare di goderne tranquillamente.

 

           Sono venuta a sapere che la polizia aveva preso il mio rapitore el’aveva consegnato nelle mani dei suoi superiori. Pover’uomo! È dacompiangersi più di me. Il suo tentativo di aggressione ha fatto scalporeenon sapete con quale crudeltà i religiosi puniscono gli scandali; una segretasarà la sua dimora per il resto dei suoi giorni; è la sorte che aspetta ancheme se vengo ripresama lui ci vivrà più a lungo di me.

           Il dolore della mia caduta si fa sentire. Ho le gambe gonfie e non possofare un passo. Lavoro sedutaperché farei fatica a stare in piedi. Ciònonostante temo il momento della mia guarigione: che pretesto avrò allora pernon uscire? E a quali pericoli mi esporreifacendomi vedere? Ma per fortuna hoancora tempo davanti a me.

           La mia famigliache non può avere alcun dubbio sulla mia presenza aParigifa sicuramente tutte le perquisizioni immaginabili. Avevo deciso di farvenire il signor Manouri nella mia soffittadi chiedere e seguire i suoiconsiglima non era più di questo mondo.

           Vivo in un continuo allarme. Al minimo rumore che sento in casaper lescalenella stradami prende il terroretremo come una fogliai ginocchi sirifiutano di reggermi e il lavoro mi cade dalle mani.

           Trascorro quasi tutte le notti senza chiudere occhio; se dormomisveglio di continuo; parlochiamogrido. Non riesco a immaginare come quelliche mi circondano non mi abbiano ancora scoperta.

           Sembra che la mia evasione sia di dominio pubblico. Me l’aspettavo. Unadelle mie compagne me ne parlava ieri aggiungendovi circostanze odiose e quelgenere di riflessioni che suscitano desolazione. Per fortuna stava stendendosulle corde la biancheria bagnata e non ha potuto rendersi conto del mioturbamento. La padronainveceavendo notato che piangevomi ha detto:

           “Che cosa aveteMaria?”

           “Niente” le ho risposto.

           “Ma come?” ha soggiunto“sareste tanto sciocca da impietosirvi suuna cattiva monaca scostumatasenza religioneche aveva un amorazzo con unfrataccio col quale scappa dal convento? Dovreste proprio avere compassione dabuttar via. Non aveva che da beremangiarepregare Dioe dormire; stava benedov’era; perché non c’è rimasta? Se fosse stata soltanto tre o quattrovolte al fiume col tempo che fasi sarebbe riconciliata col suo stato.”

           Al che ho risposto che si conoscono bene soltanto i propri patimenti.Avrei fatto bene a starmene zittaperché lei non avrebbe concluso: “Andiamoandiamo... è una svergognata che Dio punirà!”

           A queste parole ho chinato la testa sul tavoloe così sono rimasta finoa che la mia padrona non mi ha detto:

           “Ora vi siete messa a sognareMaria? Mentre dormiteil lavoro non vaavanti.”

 

           Non ho mai avuto la vocazione per il chiostroe si vede abbastanzachiaramente dal mio comportamento. Ciò non toglie che in convento mi siaabituata a certe pratiche che ripeto macchinalmente. Suona una campana? Mifaccio il segno della croceoppure mi inginocchio. Bussano alla porta? Dico Ave.Mi chiedono qualcosa? La mia risposta finisce sempre con un sì o con un nocara madre o sorella. Se sopraggiunge un estraneole braccia mi siincrociano sul petto e invece di fare la riverenzami inchino. Le mie compagnesi mettono a ridere e credono che mi diverta ad imitare la monaca; ma èimpossibile che continuino nell’errore; le mie storditaggini mi scoprirannoeio sarò perduta.

 

           Signoresbrigatevi a venire in mio aiuto. Voi certamente mi direte:“Ditemi che cosa posso fare per voi.” Ecco qui: non ho grandi ambizioni. Mici vorrebbe un posto di cameriera o di guardarobierao anche di semplicedomesticapurché viva ignorata in campagnain fondo a una provinciain casadi gente dabbeneche non ricevesse molto. Non importa il salario; mi bastanosicurezzariposopane e acqua. Potete esser certo che saranno soddisfatti delmio servizio; in casa di mio padre ho imparato a lavorarein convento aobbedire. Sono giovaneho un carattere mite. Quando le gambe mi sarannoguariteavrò più forza di quanta ne occorra per fare il mio lavoro. Socucirefilarericamarelavare. Quando non ero ancora in conventoaccomodavoda sola i miei merlettie farò presto a rimettermici; non sono maldestra innullae saprò abbassarmi a qualunque lavoro. Ho una buona voceconosco lamusica e so suonare discretamente il clavicembaloquanto basta per divertirequalche madre che se ne dilettasse; e potrei anche dare lezioni ai suoi figli.Quantunque avrei timore di essere tradita da questi segni di un’educazionericercata. Se dovessi imparare a pettinareho un certo gustoprenderci unmaestroe non mi ci vorrebbe molto ad acquisire questa piccola arte. Signoreuna condizione sopportabilese possibileo una condizione qualsiasiè tuttoquello che mi occorree non desidero niente di più. Voi potete rispondere deimiei costumi; nonostante le apparenzesono una fanciulla dabbene; sono anchedevota. Ahsignore! tutti i miei mali sarebbero ormai finitie non avrei piùnulla da temere dagli uominise Dio non mi avesse fermata. Quel pozzo profondolà in fondo al giardino del conventoquante volte l’ho visitato! Se non mici sono buttata dentroè perché mi lasciavano tutta la libertà di farlo.Ignoro quale sia il destino che mi è riservatoma se un giorno dovessi tornarein un conventoqualunque fossenon rispondo di niente: ci sono pozzidappertutto. Signoreabbiate pietà di mee non preparate a voi stesso lunghirimorsi.

 

           P.S. Sono esausta dalla stanchezzacircondata dal terrore. Non dormo più.Queste memorie che scrivevo precipitosamentele ho appena rilette a mentefrescae mi sono accorta che senza averne avuto la minima intenzionead ogniriga mi sono mostratainfelice come realmente eroma molto più gradevole diquanto non sia. Sarà forse perché noi riteniamo gli uomini meno sensibili alladescrizione delle nostre sofferenze che all’immagine delle nostre attrattivee ci ripromettiamo maggior felicità nel sedurli che nel commuoverli? Li conoscotroppo poco e non mi sono mai studiata abbastanza per saperlo. E se nondimeno ilmarcheseal quale si attribuisce il tatto più delicatogiungesse apersuadersi che non alla sua beneficenzabensì alle sue debolezze io mirivolgoche cosa penserebbe di me? Questa riflessione è per me motivo diinquietudine. In verità avrebbe tortose imputasse a me personalmente unistinto che è proprio di tutto il mio sesso. Sono una donnaforse un tantinocivettacome posso saperlo? Ma con tutta naturalezza e senza artificio alcuno.



[1]Questa battuta fucon ogni probabilitàdettata a Diderot da Madame D’Holbachcon cui l’autore ebbe qualche scambiod’idee sul romanzo.