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Verne



L'ISOLAMISTERIOSA

 

 

 

 

PARTEPRIMA


INAUFRAGHI DELL'ARIA




CAPITOLO1



-Risaliamo?

-No! Anziscendiamo!

-Peggiosignor Cyrus. Cadiamo.

-Vivaddio! Giù della zavorra!

-E' l'ultimo sacco che si vuota.

-Il pallone si innalza?

-No.

-Mi pare di sentire uno sciacquio d'onde...

-Abbiamo il mare di sotto.

-Sarà a centocinquanta metri da noi!

Allorauna voce fortissima ordinò:

-Fuori tutto quello che pesa... tutto!... E ci aiuti Iddio!

Questele parole che risuonavano nell'ariaal di sopra di quello sterminatodeserto d'acque che è il Pacificoalle quattro del pomeriggiodel 23 marzo 1865. Nessunocertamenteha dimenticato il terribilevento di nord-est che si scatenò nel pieno dell'equinozio diquell'annodurante il quale il barometro precipitòsettecentodieci millimetri. Fu un ininterrotto uragano che imperversòdal 18 al 26 marzo seminando la rovina in Americain EuropainAsialungo una fascia di milleottocento miglia dal trentacinquesimoparallelo nord al quarantesimo parallelo sud. Città travolteforeste sradicatecoste assalite e sommerse da montagne d'acquanavi buttate a fracassarsi contro gli scogliterritori interispazzati da trombe d'acqua e di vento e migliaia e migliaia dipersone schiacciate sulla terra o inghiottite dai mari: questi glieffetti dello spaventoso uragano.

Oramentre tante catastrofi stavano succedendo sulla terra e sul mareundramma non meno terribile si svolgeva nell'aria agitata. Un palloneportato via come una palla in cima a una tromba d'aria e ghermito nelsuo vorticecorreva per lo spazio con una velocità dicentosettanta chilometri all'oragirando su sé stesso comeuna trottola gigantesca. Sotto il grosso pallone oscillava unanavicella che ospitava cinque passeggeriappena visibili dentro lenebbie fuligginose e piovose che pesavano dal cielo buio sul mare.

Dadove veniva quell'aerostatovero giocattolo in balia della paurosatempesta? Da qual punto del mondo si era lanciato? Certonon erapartito durante l'uragano; poiché l'uragano imperversava giàda cinque giornibisognava concludere che quel pallone veniva daassai lontano perché non aveva percorso meno di duemila migliaogni ventiquattr'ore.

Comunquei passeggeri non avevano potuto avere a loro disposizione alcun mezzoper conoscere la strada percorsa dalla loro partenzapoichémancava loro qualsiasi punto di riferimento. Si potevaanzistabilire questo fatto curioso: chetravolti dalla violenza dellatempestaessi non la subivano. Essi si spostavanogiravano su lorostessi senza avvertire per nulla quella rotazione e nemmeno i lorospostamenti in linea orizzontale. I loro occhi non potevano forare lespesse nebbie che si addensavano sotto la navicella. Non c'era chenebbia attorno a loro: una nebbia così opacache nonavrebbero saputo dire nemmeno se era giorno o notte. Nessun riflessodi luce lontananessun rumore di terra abitatanessuno scrosciod'onda era mai giunto sino alle loro orecchietanto si erano tenutialti. Soltantola loro repentina caduta aveva dato loro coscienzadei pericoli che correvano sopra i flutti oceanici.

Intantoil pallonealleggerito di tutti gli oggetti pesanticome lemunizionile armi e le provvisteera rimbalzato verso l'altofinoa millecinquecento metri. I passeggeriaccertato che avevano il maredi sottotrovando che era assai meno pericoloso restare in alto chein bassonon avevano esitato a buttare anche le cose piùutilie cercavano di non perdere nemmeno un atomo di quel fluido cheera come l'anima del loro apparecchio e che era quello che lisosteneva nell'aria.

Lanotte trascorse in mezzo a inquietudini che sarebbero riuscitemortali a spiriti meno energici. Poi il giorno riapparve econ lalucel'uragano parve accennare a moderarsi un poco. Con l'alba del24 marzo infattisembrò che la furia degli elementi un pocosi placasse.

Lenubi risalivano verso il cieloil ventoda tempestoso che erastatodiventò la «forte brezza» dei marinai.

Versole undici la parte bassa dell'atmosfera si era notevolmente ripulitae presentava quell'aspetto di umido nitore che si vedee anzi sisentedopo il passaggio dei fortunali. L'uragano non sembravaessersi allontanatoma piuttosto dissolto nell'ariaforseschiantatasi la tromba marinasi era frazionato in temporali carichidi elettricità.

Nonostantequestoproprio intorno alle undiciil pallone riprese a scendere;parevaanziche a poco a pocosi sgonfiasseche il suo involucrosi allungasse e assumesse una forma ovoidale.

Amezzogiornoinfatti l'aerostato filava a soli seicento metri al disopra del mare. Stazzava circa millesettecento metri cubi eingrazia a questo suo eccezionale volumeaveva potuto mantenersi alungo nell'aria sia raggiungendo altissime quotesia percorrendo unafortissima distanza.

Intanto frangentei passeggeri lanciarono gli ultimi oggetti cheancora rappresentavano un pesoi pochi viveri che avevanoconservatoperfino i minuscoli oggetti che avevano nelle lorotasche. Ma era chiaro che l'aerostato non poteva mantenersi in alto eche il gas sfuggiva da qualche lacerazione. In poche paroleeranoperduti!

Nonc'era infatti né un continentené un'isola sotto diloro: il più piccolo punto dove atterrarenemmeno un metroquadrato solido in cui la loro ancora potesse afferrarsi. Non c'erache il mare infinitoi cui flutti agitavano con incredibileviolenza. Non c'era che l'Oceano sterminatola sterminata pianuraliquida flagellata spietatamente dall'uragano che dall'alto dellanavicelladoveva apparire ai passeggeri come una folle cavalcata dionde furibonde impennacchiate di candida schiuma. Non una terranonin vista. Bisognava allora fermare a tutti i costi il movimento didiscesa per impedire che l'aerostato venisse travolto dalle onde. Ipasseggeri della navicella mettevano in opera tutti i mezzi pertentarlo; manonostante i loro sforziil pallone continuava adabbassarsifilando sempreportato dal ventoverso sud-ovest.

Qualesituazione per quei disgraziati! Ormainon erano più padronidel loro mezzo di locomozionee ogni loro tentativo era infruttuoso.

L'involucrodel pallone si sgonfiava sempre piùil gas ne sfuggivainesorabilmenteun'ora dopo mezzogiornola navicella non era piùche a duecento metri sopra l'Oceano.

Impossibilefermare o tamponare la fuga di gas che sfuggiva da una lacerazionedell'involucro; e anche liberando la navicella di tutto quanto essacontenevai passeggeri non avrebbero fatto altro che prolungare dipoco la loro agoniadi ritardare di poco la catastrofe; se qualcheterra non appariva prima di nottepasseggerinavicella e pallonesarebbero inesorabilmente finiti nel mare.

Lasola manovra che si potesse fare in siffatte circostanzevennefatta.

Evidentementei passeggeri erano uomini energiciche sapevano guardare la morte infaccia. Erano decisi a lottare sino all'ultimo minuto a fare di tuttoper ritardare la caduta. La navicella era una specie di grande cassadi vimini e non si sarebbe certo mai riusciti a farla galleggiare.

Alledueil pallone si trovava a centoventi metri dal pelo dell'acqua. Inquel momentouna maschia voce echeggiòe le risposero vocinon meno virili.

-E' stato gettato tutto?

-No! Ci sono ancora diecimila franchi in oro.

Unattimo dopoun sacco precipitava nelle onde.

-Ci solleviamo?

-Un po'; ma non tarderemo a riprendere la caduta.

-Che cosa c'è ancora da buttar fuori?

-Niente.

-Sì. La navicella.

-Attacchiamoci alle cordee a mare la navicella!

Erain realtàil soloestremo mezzo per alleggerire l'aerostato.Le corde che legavano la navicella all'involucro furono tagliateeil pallone balzò fulmineo nell'aria a un'altezza di seicentometri. I cinque passeggeri si erano issati sulla rete di corde cheavvolgeva l'involucro e si tenevano afferrati alle maglie guardandol'abisso.

Balzatocosì in altol'aerostato vi si tenne per qualche tempomapoifatalmentericominciò a discendere. La fuga del gas nonsi era fermataed era impossibile procedere a una riparazione. Tuttoquello che i passeggeri avevano potuto fareera stato fatto. Oramainon c'era più alcun mezzo umano di salvezza. Non restava cheaffidarsi a Dio.

Allequattroil pallone era ridisceso a centocinquanta metri dall'onde...Improvvisamentesi udì un latrato. Fra i cinque passeggeric'era anche un caneche si teneva aggrappato alle cordeaccanto alsuo padrone.

-Top ha visto qualche cosa - gridò uno dei cinque.

Esubitouna voce gridò:

-Terra! Terra!

Ilpalloneche il vento continuava a trascinare verso sud-ovestavevagià copertodall'albauna distanza notevolissimadicentinaia di miglia; e ora una terra abbastanza alta si profilavalontanasul mare. Maper raggiungerlac'erano ancora trenta migliada fare; c'era ancora una lunga ora da trascorreresempre che nons'andasse alla deriva. Un'ora! Ma il pallone non si sarebbe svuotatodel tutto prima che questa ora finisse?

Eccola terribile domanda. Sìtutti i passeggeri vedevanodistintamente quella strisciolina scura che bisognava raggiungere atutti i costi. Non sapevano che terra fossese isola o continente:

sapevanosoltantoe assai vagamenteverso quale parte dell'emisferol'uragano li aveva trascinati. Ma quella terraabitata o deserta chefosseospitale o inospitalebisognava raggiungerla.

Oraalle quattroera chiaro che il pallone non poteva ormai piùsostenersi. Radeva ormai la superficie del maree già lecreste spumose delle grandi onde avevano lambito più volte lecorde che strascicavano in bassoe l'aerostato non si risollevavaormai più che per ricadere in giùcome un grandeuccello ferito alle ali.

Mezz'orapiù tardila terra non era più che a un sol miglio; mail pallonesfattoflosciospiegazzato malamentenon conservavache un poco di gas nella sua parte superiore. I passeggeri aggrappatialle cordepesavano troppoe presto semituffati nelle acquefuronoschiaffeggiati dalle onde. Fu allora che l'involucro si piegòa forma di saccocciae il ventofacendo forza su quel viluppolospinse contro la costa. Oramai la terra agognata non era piùche a poche centinaia di metri; maall'improvvisoquattro urlaecheggiaronoangosciose. L'aerostatoper qualche misteriosaragioneribalzava verso l'altopercosso da un formidabile colpo dimaree raggiungeva in un baleno i cinquecento metri di altezzacomese fosse stato alleggerito di un'altra parte del suo peso. Lassùpreso in una forte ondata di ventocominciò a filareparallelamente alla costa; ma pochi minuti dopo ripiombava versoterra erapidamentesi afflosciava sulla spiaggialontano dalleonde.

Ipasseggeriaiutandosi l'un l'altrosi liberarono dalle corde esaltarono sulla sabbia. Il palloneliberato da quel pesofuriafferrato dal vento che lo succhiò di nuovo in alto e loportòcome un grande uccello ferito che ancora avesse trovatoun poco di forzachissà dove.

Lanavicellaperòaveva ospitato Cinque passeggeri e un cane; esulla spiaggia non c'erano che quattro persone. Evidentementeilquinto passeggero era stato strappato via dal colpo di mare che avevapercosso l'aerostatoe la sua scomparsa aveva provocato il balzoall'insù del pallone poco prima che toccasse terra.

Appenai quattro naufraghi - con quale altro nome potremmo chiamarli?

-ebbero messo piede a terraaccortisi che mancava un loro compagnogridarono:

Forsetenta di raggiungere a nuoto la riva. Salviamolo! Salviamolo!




CAPITOLO2


Nonerano né degli aeronauti di professionené deidilettanti di spedizioni aeree quelli che l'uragano aveva gettato suquella costa.

Eranodei prigionieri di guerrache l'audacia aveva spinto alla fuga instraordinarie circostanze. Cento volteavrebbero dovuto perire!

Centovolte il loro pallone strappato avrebbe dovuto precipitarlinell'Oceano! Ma il cielo li destinava a una sorte stranissimae il20 marzo dopo aver lasciato Richmondassediata dalle truppe delgenerale Ulisse Grantsi trovavano a sette mila miglia da quellacittàcapitale della Virginiaprincipale piazzaforte deiseparatisti durante la terribile guerra di Secessione. Il loroviaggio aereo era durato cinque giorni.

Edecco in quali strane circostanze era avvenuta la fuga di queiprigionierifuga che doveva concludersi con la catastrofe cheabbiamo raccontato.

Inquello stesso annonel febbraio del 1865in uno di quei colpi dimano che il generale Grant tentavainutilmenteper impadronirsi diRichmondmolti dei suoi ufficiali caddero prigionieri e furonorinchiusi dentro la città. Fra questi prigionieriuno dei piùdistinti apparteneva allo Stato maggiore federalee si chiamavaCyrus Smith.

CyrusSmithoriginario del Massachussetsera un ingegnereuno scienziatoautenticocui il governo dell'Unione aveva affidatodurante laguerrala direzione delle ferrovie: e si sa di quale importanzastrategica furono esse nella guerra. Vero tipo di Americano del nordmagroossutosui quarantacinque anniaveva corti capelli e labarba quasi grigia. La sua era una di quelle belle teste«numismatiche» che sembrano fatte per essere incise nellemedaglie.

Occhiardentibocca seriala sua era la tipica fisionomia delloscienziato della Scuola militare. Era uno di quegli ingegneri chehanno voluto cominciare a lavorare col piccone e il martello: comequei generali che hanno voluto cominciare a fare i semplici soldati.

Perquestoinsieme con l'ingegnosità dello spiritopossedeva unagrande abilità di manovalee vantava dei muscoli eccezionali.

Uomod'azione e uomo di pensiero al tempo stessoagiva senza alcunosforzomosso da una potente vitalità e da una fervidatenaciache sfidavano tutte le sfortune. Coltissimopraticissimosempre perfettamente padrone di séegli possedeva nella formapiù completa e al più alto grado tre qualitàfondamentali della energia umana:

l'operositàdello spirito e della manol'ardore dei desiderie la potenza dellavolontà. E la sua divisa avrebbe potuto essere quella diGuglielmo di Orange «Non ho bisogno di oprare per agirenédi riuscire per perseverare».

Nellostesso tempoCyrus Smith era il coraggio personificato. Aveva presoparte a tutte le battaglie della guerra di Secessione. Dopo avercominciato fra i volontari dell'Illinois agli ordini di Ulisse Grantsi era battuto a Paducaha Belmonta Pittsburg-Landing; all'assediodi Corintoa Port-Gibsona Chattanogaa Wildernesssul Potomak; edovunque era stato un soldato valoroso di quel generale che diceva:

«Ionon conto mai i miei morti». Cento volteCyrus Smith avrebbedovuto essere nel numero di quelli che il fierissimo generale nonusava contare; ma in tutte quelle battaglie la fortuna lo avevaassistito fino al giorno in cuiferitoera stato fatto prigionierosul campo di battaglia di Richmond.

Insiemea luiun altro personaggio importante cadeva nelle mani dei sudisti.Era nientemeno che Gedeone Spilettcronista del "New YorkHerald"che aveva avuto l'incarico dal suo giornale di seguiree riferire le vicende della guerra con gli eserciti del Nord. GedeoneSpilett apparteneva alla famiglia di quei sorprendenti cronistiinglesi o americani dalla quale erano usciti Stanley e altriche nonarretrano davanti a nulla pur di carpire un'informazione etrasmetterla nel più breve tempo possibile al loro giornale. Igiornali dell'Unione sono delle vere e proprie potenzee i loroinviati speciali delle autorità con le quali bisogna fare iconti.

OraGedeone Spilett era uno dei più ragguardevoli di questiinviati speciali. Uomo d'alti meritipieno di energiapronto atuttofertile di ideeconoscitore di tutti i Paesi del mondosoldato e artistaardente nei consiglirisoluto nell'azioneindifferente alle fatiche e ai pericoli quando si trattava diconoscere qualche cosa di utile per sé stesso e il suogiornalevero eroe della curiositàdell'informazionedell'ineditodell'ignotodell'impossibileegli era uno di quegliintrepidi osservatori che scrivono sotto il fischiar dellepallottolefanno la cronaca sotto le granatee per i quali ognipericolo rappresenta una fortuna.

Ancheegli era stato a tutte le battagliein prima filarivoltella nelladestrataccuino nella sinistrae la sua penna non tremava sotto lamitraglia. Egli non usava stancare incessantemente i fili deltelegrafocome fanno coloro che non hanno niente da dire; ma ognunadelle sue notebrevichiareprecisegettava piena luce sopra unpunto importante. Inoltrenon gli mancava una punta di umorismo. Fului chedopo la battaglia del Fiume Nerovolendo a tutti i costimantenere la precedenza allo sportello dell'ufficio telegrafico perannunciare al suo giornale il risultato dello scontrotelegrafòper due lunghe ore i primi capitoli della Bibbia. La faccenda costòduemila dollari al "New York Herald"ma il "New YorkHerald" fu il primo a conoscere e a pubblicare la notizia sullabattaglia.

GedeoneSpilett era d'alta staturasui quarant'annicon grossi favoritibiondo-rossicci che gli inquadravano il viso. Il suo occhio eracalmovivo e mobilissimo: era l'occhio di chi è abituato acogliere in un baleno tutti i particolari di un paesaggio o di unascena. Solidamente costruitoegli aveva affrontato tutti i climidella terratemprandovisi come una sbarra di acciaio nell'acquafredda.

Dadieci anniera il redattore viaggiante titolare del "New YorkHerald"che si arricchiva delle sue cronache e dei suoidisegnipoiché lo Spilett maneggiava altrettanto bene lapenna e la matita.

Quandofu presostava tracciando sul suo taccuino la descrizione e ildisegno generale della battaglia. Le ultime parole tracciate sul suotaccuino furono: «Un sudista mi sta mirando e...». MaGedeone Spilett se l'era cavatacome sempresenza la piùpiccola scalfittura.

LoSmith e lo Spilettche non si conoscevano se non di famaeranostati portati tutt'e due a Richmond. L'ingegnere guarìrapidamente della sua feritae fu durante la sua convalescenza chestrinse amicizia col cronista. I due uomini si piacquero e siapprezzarono a vicenda. E presto la loro vita non ebbe che un soloscopo: fuggireraggiungere l'armata di Grantriprendere le armi perl'unità federale.

Idue Americani erano dunque decisi ad approfittare di tutte leoccasionimaper quanto fossero stati lasciati liberi nella cittàRichmond era così meticolosamente vigilata che un'evasionepoteva considerarsi come impossibile.

IntantoCyrus Smith era stato raggiunto da un suo servitore che gli eradevoto per la vita e per la morte. Era un negronato nelle proprietàdell'ingegnere da genitori schiavima da lungo tempo reso libero daCyrus Smithabolizionista per ragionamento e per sentimento. Loschiavo divenuto libero non aveva voluto abbandonare il suo padrone.Sarebbe morto volentieri per luitanto lo amava. Era un giovanottosui trent'annigagliardoagilesveltointelligentedolce ecalmotalvolta ingenuosempre sorridenteservizievole e buono. Sichiamava Nabuccodonosorma non rispondeva che all'abbreviativofamiliare di Nab.

QuandoNab seppe che il suo padrone era stato fatto prigionierolasciòil Massachussets senza esitarearrivò davanti a Richmondea forza di astuzia e di abilitàriuscì a penetrarenella città assediata. Ed è inutile descrivere ilpiacere di Cyrus nel rivedere il suo Nab e la gioia del negro neltrovare il suo padrone.

Mase Nab era stato rapido nel penetrare in Richmondassai piùdifficilmente se ne sarebbe potuto uscirepoiché i sudistivigilavano da vicino tutti i prigionieri federali. Bisognava dunqueaspettare un'occasione eccezionale per tentarecon qualcheprobabilità di successoun'evasione: e tale occasione nonsolo non si presentavama era difficilissimo aiutarla a presentarsi.

IntantoGrant continuava le sue energiche operazioniLa vittoria diPetersburg gli era stata fieramente contesa; le sue forzeriunite aquelle di Butlernon riuscivano a conseguire risultati notevolidavanti a Richmonde nulla lasciava pensare che la liberazione deiprigionieri potesse avverarsi sollecitamente. Il cronistaal qualela prigionia non consentiva più nessuna raccolta di notizieinteressantinon resisteva più e non aveva che un'idea:uscire da Richmonda tutti i costi. Molte volteanzitentòla fuga; ma sempre fu fermato da insormontabili ostacoli.

Continuandoquell'assedioperòse ansiosi erano i prigionieri di evadereper correre a raggiungere l'armata di Grantnon meno ansiosi dievadere erano alcuni degli stessi assediati che anelavano diricongiungersi all'armata separatista. Fra questiun certo JonathanForstersudista arrabbiato. Infattise i prigionieri federali nonpotevano uscire dalla cittài sudisti non lo potevano nemmenoloro poiché l'armata del Nord li accerchiava. Il governatoredi Richmond già da molto tempo non poteva piùcomunicare col generale Leementre sarebbe stato del più altointeresse strategico fargli conoscere la situazione della cittàe orientarlo sulla sollecita marcia delle sue truppe. JonathanForster ebbe allora l'idea di innalzarsi in un pallone per traversarele linee degli assedianti e giungere al campo dei separatisti. Ilgovernatore autorizzò l'impresa ardimentosa; un aerostato fufabbricato e messo a disposizione del Forster che doveva essereaccompagnato da cinque compagnibene armati e ben provvisti diviveri. La partenza del pallone fu fissata per la notte del 18 marzo:

colfavore del vento di nord-ovestgli aeronauti contavano diraggiungere il campo del generale Lee in poche ore. Senonchéquella notteil vento di nord-ovest non fu una brezza favorevole:era una furia che annunciava l' uragano. E infattiben presto labufera assunse tali proporzioniche la partenza del Forster dovetteessere rinviata: era impossibile rischiare l'aerostato e la vita dicoloro che vi sarebbero saliti in mezzo all' infuriare di quellatempesta. Il pallonegià gonfiatoera làsullapiazza maggiore di Richmondpronto a partire alla prima caduta delvento; e l'impazienza dei cittadini diventava sempre maggiore davantiall' ostinato imperversare del maltempo. Il 18 e il 19 trascorseroinfatti senza che alcun mutamento si verificasse; era anzi difficiletrattenere solidamente al suolo il pallone che gli impeti del ventotentavano di strappare via a ogni momento. La mattina del 20l'uragano era sempre violentoe ogni idea di partenza fuprovvisoriamente abbandonata.

Proprioquel giornoCyrus Smith venne avvicinatoin una via di Richmonddaun uomo che non conosceva. Era un marinaio chiamato Pencroffsuitrentacinque annivigorosissimoabbronzatissimodalla facciabonacciona. Era un Americano del Nordche aveva corso per tutti imari del globoal quale erano capitate tutte le avventure chepossono capitarequaggiùa una creatura umana. A questo vaaggiuntoche Pencroff era uomo pieno di iniziativepronto a tuttorischiare e che nulla al mondo avrebbe potuto stupire. Sul principiodi quell'annoPencroff era capitato a Richmond con un giovinettoquindicenne della Nuova JerseyHarbert Brown. Harbert era figlio delcapitano di Pencroffera rimasto orfanoe il rude marinaio glivoleva bene come se fosse il suo proprio figlio. Sopravvenutol'assedionon aveva potuto più lasciare la cittàconsuo grande dispettoe non aveva avuto più che un'idea - anchelui!- quella di fuggire con ogni mezzo possibile. Egli conosceva difama l'ingegnere Cyrus Smithsapeva con quale impazienza quell'uomoaudacissimo mordeva il frenoequel giornonon esitò afermarlo e a dirgli senz'altro preambolo:

-Signor Smithnon ne avete abbastanza di Richmond?

L'ingegnereguardò fissamente lo sconosciuto che continuò a vocebassa:

-Signor Smithvolete fuggire?

-Quando? - rispose vivacemente l'ingegnere; ma è lecitoaggiungere che quella parola gli sfuggisse dalle labbra perchénon aveva ancora «soppesato» l'uomo che gli facevasiffatta proposta. Dopo averperòesaminato quella schiettae leale faccia di marinaiofu sicuro di avere davanti a sé unbrav'uomoe gli chiese:

-Chi siete voi?

Pencroffsi presentò.

Vabene - fece Smith. - E con qual mezzo dovremmo fuggire?

-Con questo fannullone d'aerostato che pare stia proprio aspettandoci.

Ilmarinaio aveva appena dette queste paroleche l'ingegnere lo afferròdi slancio per un braccio e se lo strascinò dietrofino nellasua stanza. QuiPencroff spiegò il suo progetto. Non sisarebbe arrischiato che la vitanell'impresa. L'uragano era nelpieno della sua violenza; ma un ingegnere accorto e ardimentoso comeCyrus Smith avrebbe ben saputo guidare un aerostato. Se Pencroffavesse conosciuto le manovrenon avrebbe esitato a fuggireconHarberts'intende. Ne aveva viste ben altreluie non si lasciavacerto sgomentare da una tempesta.

CyrusSmith era stato ad ascoltarlo senza parolema i suoi occhibrillavano. Eccofinalmentel'occasione propizia. E Smith non erauomo da lasciarsela sfuggire. Il progetto non era che pericolosodunque era realizzabile. Durante la nottenonostante lasorveglianzanon era difficile avvicinarsi al pallonesalire nellanavicellatagliare le gomenepartire. Certosi rischiava di finireammazzati; ma si poteva anche riusciree senza quella tempesta...Giàma senza quella tempestail pallone sarebbe giàpartito con i sudistiecon essol'occasione tanto attesa.

-Ma io non sono solo... - osservò Cyrus Smith.

-Quante persone vorreste condurre con voi?

-Due: il mio amico Spilett e il mio servo Nab.

-Fanno tre; econ me e Harbertcinque. Il pallone dovevatrasportarne sei...

-Il conto torna. Partiremo.

Quandoil giornalista fu informato del temerario progettol'approvòsenza la più piccola riserva; si meravigliò solo cheun'idea così semplice non gli fosse già balenata nelcervello. Quanto a Nabegli avrebbe seguito il suo padronedappertutto.

-Alloraa questa sera - disse Pencroff. - Ci troveremo in queiparaggi come curiosi e...

-Sì. Alle dieci precise confermò Smith. - E voglia ilcielo che l'uragano non si plachi prima di quell'ora.

Pencrofftornò nel suo alloggiodove il giovinetto Harbert loaspettava. Il ragazzo conosceva già il piano del marinaioeattendeva con ansia il risultato del suo colloquio col famosoingegnere.

Laseral'uragano non si era placatoe Jonathan Forster e i suoicompagni non pensavano certamente a una imminente partenza. Tutta lagiornata trascorse sotto la furia della bufera; e Smith temeva chequelle raffiche furibonde non finissero per lacerare il pallonetrattenuto a terra da solide gomene. Per lunghe ore ronzòsulla piazza quasi desertaintorno all'aerostatocomesorvegliandolo. Pencroffdal canto suofece altrettantole mani intascasbadigliando come un ozioso e disoccupato che non sa comeammazzare il tempo. Cadde la serala notte si fece profonda e buia.Cadeva la pioggia mescolata alla neve; faceva freddouna nebbiapesante pareva avesse inghiottito Richmond. Si sarebbe detto che lafuria del vento avesse stabilito una specie di tregua fra assediantie assediati: anche i cannoniinfattitacevano davanti allafragorosa violenza dell'uragano. Le strade della città eranodeserteecon quel tempo così spaventosoerano state tolteperfino le sentinelle di guardia al pallone. Tutto favoriva insommala partenza dei prigionieri; e se non fosse stato quell'orribiletempo...

-Maledetto uragano! - brontolava Pencroff fermandosi con un pugnosulla testa il cappello che il vento voleva strappargli via. - Behvedremo di cavarcela lo stesso...

Allenove e mezzo Cyrus Smith e i suoi due compagni giungevanoda oppostedirezionisulla piazza chespenti dal vento i fanali a gaseraimmersa nella più profonda oscurità. Non si vedevanemmeno l'enorme aerostato tutto schiacciato contro il suolo.

Icinque prigionieri si incontrarono vicino alla navicella. Nessuno liaveva visti etanta era l'oscuritàdurarono fatica lorostessi a vedersi. Senza dire una parolasalirono sulla navicellamentre Pencroffdietro ordine dell'ingegneretagliava uno dopol'altro i cavi che trattenevano il pallone. Tagliato il penultimo ilmarinaio raggiunse i suoi compagni. L'ingegnere era sul punto dispezzare l'ultimo ormeggio quando un cane piombòall'improvviso nella navicella. Era Topil cane di Smith cherottala sua catenaaveva inseguito e raggiunto il padrone. L'ingegnereesitò. Temeva in un eccesso di peso e stava per ributtare aterra il canema Pencroff gli disse:

-Per uno di più...- Così dicendo tagliò risolutol'ultimo cavo e il pallone rapito dal vento scattava in aria espariva nella notte dopo avere abbattuto con la navicella duecomignoli che aveva incontrato nel suo slancio.

L'uraganosi scatenava allora con spaventosa violenza. L'ingegnere per tutta lanotte mantenne l'aerostato assai alto; e quando sorse il giorno undenso strato di nebbia copriva la terra. Fu soltanto dopo cinquegiorni di viaggio che un'improvvisa schiarita lasciò vedere losconfinato mare al disotto del pallone che il vento continuava aspingere con tremenda velocità.

Abbiamovisto come di quei cinque uomini partiti il 20 marzoquattro fosserostati gettatiil 24sopra una spiaggia deserta a più diseimila miglia dalla città di Richmond.

Macolui che mancavacolui che i quattro scampati stavano ansiosamentecercandoera il loro capo naturalel'ingegnere Cyrus Smith.




CAPITOLO3


L'ingegnereera stato strappato via da un colpo di maree ii suo cane lo avevavoluto seguire precipitandosi dietro di lui come per aiutarlo.

-Andiamo - gridò il giornalista. E tutti e quattroGedeoneSpilettHarbertPencroff e Nabdimenticando stanchezza e faticacominciarono affannosamente le loro ricerche. Il povero Nab piangevadi rabbia e di disperazione al pensiero di aver perduto quello cheaveva di più caro al mondo. Ma non erano trascorsi piùdi due minuti fra l'attimo in cui l'ingegnere era stato strappato viadalle onde e il momento in cui i suoi compagni erano giunti sullaspiaggia: si poteva dunque sperare di arrivare in tempo a salvarlo.

-Cerchiamolo! Cerchiamolo! - gridava Nab.

-SìNab - gli disse Gedeone Spilett. - Stai sicuro che lotroveremo.

-Vivo?

-Vivo!

-Sa almeno nuotare? - chiese Pencroff.

-Sì - rispose Nab. - E poi Top è con lui...

Mail marinaiosentendo i ruggiti dell'infuriato marescosse la testadubbioso. L'ingegnere era scomparso a circa un mezzo miglio didistanza dal punto dove i naufraghi erano venuti a cadere colpallone.

Seegli avesse potuto raggiungere il punto più vicino della costaavrebbe toccato terra a mezzo miglio di distanza. Erano quasi le seidi serala nebbia salivala notte si annunciava assai buia. Inaufraghi camminavano verso nord seguendo la costa di quella terra sucui il caso li aveva buttati: terra ignota di cui non potevanonemmeno supporre la posizione geografica. Camminavano sopra una terrasabbiosa che pareva sprovvista d'ogni specie di vegetazioneassaiinegualescabrarotta qua e là da piccoli pantani cherendevano arduo il cammino. Da quei brevi specchi d'acqua immobilescattavano su in lento volo degli uccellacci che il buio della nottesubito inghiottiva.

Altriinvece prillavano via in interi stormi che facevano pensare a nuvolecacciate dal vento. Pencroff credette di riconoscere in essi deigabbiani le cui strida acute si udivano tra i ruggiti del mare.

Trattotratto i naufraghi si fermavanolanciavano delle grida e poisostavano muti ad ascoltare se qualche grido rispondesse dall'Oceano.

Pensavanochese fossero stati vicini al punto dove l'ingegnere avevaraggiunto la terrai latrati di Top avrebbero risposto ai loroappelli qualora l'ingegnere non fosse stato in condizioni di poterlanciare un grido. Ma non si udiva che lo schianto delle onde controla riva e il gruppo di uomini riprendeva il suo cammino.

Dopoventi minuti di ricerche i naufraghi furono fermati all'improvviso dauna schiumante striscia di onde. La terra finiva. Si trovavanosull'estremità di una punta rocciosa contro la quale il maresi rompeva con furore.

-E' un promontorio - osservò il marinaio - bisogna che noiritorniamotenendoci verso la destra; raggiungeremo così laterra ferma.

-Ma se egli fosse là!... - gridò Nab mostrando l'Oceanosu cui biancheggiavanonelle tenebrele schiume delle onde.

-Chiamiamo ancora!

Tuttiunendo le loro vocilanciarono alte grida; ma nessuno rispose.

Atteseroun attimo di quietegridarono ancora una voltanon rispose che ilsilenzio. I naufraghi tornarono allora verso terra seguendo la costaopposta del promontorio. Anche qui il suolo era sabbioso e sparso dipietre; ma Pencroff notò che il terreno saliva e pensòche doveva raggiungere a poco a poco un'alta scarpata che siprofilava confusamente nell'ombra della notte. Qui gli uccelli eranorariil mare appariva meno agitatole onde più tranquilles'udiva appena il mormorio del risucchio. Questo lato del promontoriodoveva senza dubbio formare una specie di baia semicircolare protettadalla violenza della tempesta che infuriava al largo.

Maseguendo quella direziones'andava verso il sud e ci si allontanavada quel tratto di costa sul quale l'ingegnere avrebbe potuto metterpiede. Dopo un cammino di un miglio e mezzo la costa non presentavaalcuna svolta che consentisse di tornare verso il nord.

Eppurebisognava bene che quel promontorio di cui si era girata la punta siunisse alla terra ferma; e i naufraghiquantunque sfatti dallafaticaprocedevano coraggiosamente sperando di trovare a ogni passoqualche angolo brusco che li rimettesse nella direzione primitiva.Senonché dopo circa due miglia di strada faticosa si videroancora una volta fermati dal mare sopra una punta rocciosa.

-Siamo sopra un isolotto - esclamò Pencroff - e noi l'abbiamotraversato da una estremità all'altra!

Ilmarinaio aveva detto il vero. I naufraghi erano stati gettati nonsopra un continente e nemmeno sopra un'isola vera e propriama sopraun isolotto che non misurava più di due miglia di lunghezza.Questo isolotto arido pietroso senza vegetazionesquallido rifugiodi gabbianifaceva forse parte di un arcipelago piùimportante? Chissà!

Ipasseggeriquando dalla loro navicella lo videro attraverso lenebbie non avevano certo potuto esaminarlo con cura. Ma Pencroffconi suoi occhi di marinaio abituati a vedere nelle tenebrecredette aun certo punto di distinguere verso occidente delle masse confuse chepotevano annunciare una costa montagnosa. Senonché ormai eranottenon si poteva pensare ad abbandonare l'isolotto accerchiatodal mare e bisognava rinviare all'indomani le ricerche dell'ingegnereche non aveva risposto purtroppo a nessuna delle invocazioni lanciatenella notte dai suoi compagni.

-Ma il silenzio di Cyrus non prova niente - osservò ilgiornalista. - Potrebbe essere svenutoferitoimpossibilitato peril momento a rispondere. Non bisogna disperare.

Epropose di accendere nell'isolotto un fuoco che potesse servire dapunto d'orientamento all'ingegnere. Ma invano cercarono legna osterpi secchi: non c'era che sabbia e pietrame. Facile immaginare ildolore di Nab e dei suoi compagniche erano così strettamenteuniti all'ingegnere. Bisognava convenire che erano impotenti aportargli alcun soccorso e che era necessario attendere il giorno. Eallorao l'ingegnere aveva potuto salvarsi con le sole sue forze eaveva già trovato rifugio sopra un altro punto dell'isolottooppure era perduto per sempre.

Furonoore lunghe e penose. Il freddo era acuto e tormentava dolorosamentema i naufraghi non se ne accorgevano nemmenoné pensarono diconcedersi un minuto di riposo. Dimenticando le loro pene fisicheilpensiero fisso al loro caposperando sempreandavano e venivanosull'arido isolottofrugandochiamandocercandotornando sempreverso la punta settentrionale dove pareva loro di trovarsi piùvicini al luogo dove si era perduto Cyrus Smithrestando in ascoltose venisse qualche grido lontano nella notte. A un certo puntoungrido di Nab parve riprodursi in un'eco; Harbert se ne avvidelofece notare a Pencroffe aggiunse:

-Questo proverebbe che dovrebbe esserci verso occidente una costaabbastanza vicina.

Ilmarinaio ne convenne. D'altro latoegli aveva intravisto qualchecosanel buioverso quella parte; i suoi occhi non potevanoingannarsi; sìdoveva esserci una terra verso occidente.

Quellaeco lontana fu la sola risposta che pervenisse alle orecchie deinaufraghi.

Intantoil cielo a poco a poco si puliva delle nuvole. Verso la mezzanottequalche stella apparve ese l'ingegnere fosse stato con loroavrebbe fatto osservare ai suoi compagni che non erano già piùle stelle dell'emisfero boreale. Infattinon si vedeva la stellapolarele costellazioni zenitali non erano quelle che si vedevanosui cieli settentrionali dell'Americala Croce del Sud splendeva sulpolo australe del globo.

Lanotte trascorse così. Verso le cinque del mattinoil cielocominciò a impallidire. Ancor buio era l'orizzontema poicon l'albauna nebbia pesante si stese sul mare e rapidamente: nonci si vedeva a venti passi di distanza. Era un motivo di nuoveangosce per i naufraghi che avevano atteso la luce del giorno contutta ansia e adesso non scorgevano assolutamente nulla.

-Non importa - disse Pencroff- se non vedo la costala sento... Elà... làne sono sicuro come sono sicuro di non esserepiù a Richmond.

Maquella nebbia non poteva tardar troppo a sollevarsinon era che unanebbia del bel tempoe il calore del sole l'avrebbe presto dissolta.Verso le seiinfatticominciò a farsi trasparente; prestol'intero isolotto si scoprì agli occhi dei naufraghipoi ilmareinfinito verso orientema chiuso verso occidente da una costaalta e diruta. Sì! La terra era là! Là lasalvezza sicuraalmeno per qualche tempo. Fra l'isolotto e quellacosta correva un braccio di marelargo mezzo miglio ma tormentato dauna corrente fortissima. Eppureuno dei naufraghinon ascoltandoche il proprio cuoresi buttò nell'acqua senza dire una solaparola. Era Nab. Egli aveva fretta di essere su quella costa e dispingersi verso nord. Nessuno avrebbe potuto trattenerlo. InvanoinfattiPencroff cercò di richiamarlo. E allora ilgiornalista si accinse a seguire il negro. Ma il marinaio lo fermò:

-Che volete fare? Buttarvi anche voi a nuoto verso la costa?

-Sì.

-Aspettatedate ascolto a me. Nab basteràse maiasoccorrere l'ingegnere. Se ci avventuriamo tutti in questo braccio dimarela corrente potrebbe portarci verso il largo. Orase nonm'ingannosi tratta di una corrente provocata dall'alta marea.Guardateadesso la marea accenna a scendere. Un po' di pazienzaequando il mare sarà bassotroveremo probabilmente unpassaggio guadabile.

-Sìavete ragione - ammise Spilett. - E' meglio che cisepariamo il meno possibile.

IntantoNab lottava con ostinatezza gagliarda contro la correntecercando diattraversarla in senso obliquo. Si vedevano le sue spalle nereemergere dall'acqua a ogni colpo di braccia; andava sì alladerivama si avvicinava sempre più alla costa. Gli ci vollepiù di mezz'ora per superare quel mezzo miglio d'acquaequando raggiunse la costa si trovava a parecchie centinaia di metripiù in là dal punto dell'isolotto dove si era lanciatoa nuoto. A terraNab si trovò subito davanti a una muragliadi granito. Si scosse vigorosamentepoicorrendosparì agliocchi dei compagni svoltando dietro una punta rocciosa che siprotendeva nel mare in direzione nord.

Isuoi compagni lo avevano seguito con trepidazione equando loperdettero di vistacominciarono a esaminare quella terra dove trabreve si sarebbero trasferiti in cerca di un rifugiosostenendosicon qualche arsella. Come colazioneera piuttosto magra; mabisognava rassegnarsi...

Lacosta che si vedeva di fronte formava una vasta baia conchiusa versosud da una punta assai acutasenza alcun segno di vegetazione edall'apparenza selvaggia. Verso settentrioneinvecela baiaaprendosiformava un litorale meno scabroche correva da sud-ovesta nord-est e terminava in un capo affilato. Fra quei due puntiestremi sui quali s'appoggiava l'arco della baiapotevano correrecirca otto miglia. Proprio davanti all'isolottoquella terramostravain primo pianouna spiaggia sabbiosa disseminata di roccenerastre che la calante marea veniva a una a una discoprendo. Insecondo pianos'alzava una cortina graniticatagliata a piccoincoronata da una cresta capricciosa alta un centinaio di metri sulmarelunga circa tre miglia e che finiva con una specie di panetagliato con tanta precisione che pareva opera umana anzichénaturale. Nessun alberoin quel paesaggio desolato che ricordavaquello che domina la città del Capo di Buona Speranzanaturalmente in proporzioni ridotte. Maverso destradall'isolottosi potevano scorgereal di là di quella specie di pantagliatole masse confuse di grandi alberi che si prolungavano aperdita d'occhio. Era una vista che rallegrava lo spiritoattristatodalla asprezza di quelle aride muraglie e di quelle spiagge desolate.E finalmentesul fondoin direzione nord-ovesta oltre settemigliasplendeva una cima bianca che i raggi del sole facevanobrillare. Era un cappuccio di neve stesa sopra un monte lontano. Machissà se quella terra era un'isola oppure un continente!Vedendo certi cumuli di rocce contorte e sconvoltenon era difficilearguire che si trattasse di terreni vulcanici. SpilettPencroff eHarbert guardavano con attenzione quella terra sulla quale siaccingevano a trasferirsisulla qualeforseavrebbero dovutovivere per anni e annie aspettarvi la finese essa non si trovavasopra qualche rotta marina...

-Pencroff - mormorò Harbert. - Che cosa ne pensi?

-Mah! - gli rispose il marinaio. - C'è del buono e del cattivocome in tutte le cose di questo mondo. Vedremo. Intantoperòla bassa marea comincia. Credo che fra tre ore potremo tentare ilguado. Quando saremo di làcercheremo di cavarcela e ditrovare l'ingegnere Smith.

Pencroffnon si era ingannato nelle sue previsioni. Tre ore dopocol marebassoquasi tutto il letto del canaleformato da sabbiaemergeva enon restava più fra l'isolotto e la terra ignota che unostrettissimo tratto di mare da traversare. Alle dieciSpilett e isuoi compagni si spogliaronosi assicurarono i loro abiti in unfagotto sopra le teste e si avventurarono in quel breve tratto dimareprofondo poco più di un metro e mezzo. Il solo Harbertancora piccolodovette nuotaree lo fece mirabilmente. In pochiminuti furonosenza faticasull'opposto litorale doveasciugatisial sole e rivestiti i loro abitisi sedettero a deliberare sul dafarsi.




CAPITOLO4


Subitoil giornalista disse a Pencroff di aspettarlo in quello stesso puntodove avevano toccato terraesenza il più piccolo indugiorisalì la costa seguendo la stessa strada che aveva poco primaseguito il negro Nabsparendo presto dietro un angolo di terra.Harbert avrebbe voluto accompagnarloma Pencroff lo avevatrattenutodicendogli:

-Restafigliolo. Dobbiamo preparare un accampamento e vedere se nonci è possibile trovare qualche cosa da mettere sotto i denti:qualche cosa di più sostanzioso delle arselle di ieri. Anche inostri amici avranno bisogno di rifocillarsiquando torneranno.Andiamo: al lavoro!

-Eccomi prontoPencroff.

-Vedrai che qualche cosa combineremo. Procediamo con metodo. Siamostanchiabbiamo fame e abbiamo freddo. Bisogna dunque trovare unricoverodel cibo e del fuoco. La foresta ha del legnoi nidiavranno delle uova; non ci resta che trovarci una casa.

-Andrò io a cercare una grotta dentro queste roccee finiròpure per trovare qualche bel buco dove potremo rifugiarci!

-Ecco. Andiamoragazzo.

Simisero in cammino ai piedi della enorme muraglia graniticasullaspiaggia che la bassa marea aveva scoperto per largo tratto. Andavanoperò verso sudperché Pencroff aveva osservato cheaun centinaio di metri al di sotto del punto dove erano arrivatilacosta presentava una specie di taglio chesecondo il marinaiodoveva essere la foce di un fiume o di un ruscello. Orase eraimportante trovare dell'acqua da bereera anche possibile che lacorrente avesse portato Smith proprio verso quella foce. La muragliadi granitoche si innalzavacome s'è dettodi un centinaiodi metriera compatta e nemmeno alla sua baseche pur venivalambita dalle ondepresentava la più piccola incrinatura.Erainsommauna specie di muraglione a picco liscio e durissimosulla cui sommità roteavano miriadi di uccelli acquaticitutt'altro che spaventati dalla presenza di quegli uomini chevedevano certo per la prima volta. Pencroff riconobbe in mezzo a essidue o tre specie di gabbianie pensò che con un sol colpo difucile se ne sarebbe potuto abbattere molti; ma per sparare un colpodi fucileè necessario un fucilee i due uomini nonl'avevano. D'altra partesi sa che i gabbiani non sono affatto buonida mangiare e nemmeno le loro uova sono gradevoli al gusto.

IntantoHarbertche si era allontanato di qualche passo verso sinistrascoprì delle rocce rivestite di alghe in mezzo alle qualiinnumerevoli erano certe conchiglie a doppia valva abbastanzasolleticanti per gente affamata. Chiamò subito Pencroffchesi affrettò a raggiungerlo.

-Perbacco! - gridò il marinaio. - Ma sono delle arselle!

-Non direi - osservò Harbert che le aveva esaminate conattenzione. - Le direi piuttosto dei litodomi.

-Si mangiano?

-Benissimo.

-E allorafacciamo colazione con questi signori.

Cisi poteva fidare di Harbertferratissimo in storia naturalecheavevaper volontà del padreseguito i corsi dell'Universitàdi Boston i cui professori avevano subito preso a ben volere quelgiovinetto studioso e appassionato. La sua profonda conoscenza disiffatta disciplina dovevaanzitornare di grande utilitàanche in avvenire.

Questilitodomi erano dei molluschi cosiddetti perforatori perché siscavano dei buchi dentro la pietra e hanno la conchiglia arrotondataverso le estremità.

Pencroffe Harbert ne fecero una scorpacciatacome se fossero ostrichee nondovettero nemmeno lamentarsi per la mancanza di pepe perché ilsapore di quei molluschi era già assai pepato per conto suo.

Calmatoun poco l'appetitobisognava pensare a trovare dell'acqua da bere.Raccolta un'ampia provvista di quei molluschiPencroff e Harbert simisero in cammino e duecento passi più in là arrivaronoa quella spaccatura della costa dove il marinaio aveva supposto lafoce di un corso di acqua. La sua supposizione era stata infattiesatta. Vi trovarono una specie di fiume che si cacciava dentro laspaccatura della muraglia di granito emezzo miglio più insuspariva dentro un bosco.

-Harbert! Guarda. Quil'acqua; làil bosco. Adesso non cimanca che la casa.

Eraun'acqua limpida ein quell'ora di bassa mareadolce. Invano peròHarbert cercò intorno una grottaun rifugio qualunque: lamuraglia di granito permaneva liscia e compatta. Peròproprioalla foce di quel corso di acquaa seguito di alcune franesi eranoformate non delle grottema come dei mucchi di rocce. Pencroff eHarbert si cacciarono per i sentieri di sabbia che correvano in mezzoa quella convulsione rocciosasfiorando pinnacoli che si reggevanoper miracoli di equilibrio naturalee duravano fatica a reggerecontro il vento che si infilava rabbioso e violento dentro queicamminamenti sabbiosi che formavano come un labirinto in mezzo allerocce.

-Fermiamoci - disse Pencroff. - Potremo utilizzareper orauno diquesti roccioni che presenti qualche cavità. Certose fossequi l'ingegnereegli saprebbe sfruttare assai meglio queste rocce...

-Tornerà presto - affermò Harbert. - Ma quando tornadeve trovare qui una dimora abbastanza abitabile. Del restolarenderemo abitabilese riusciremo a costruire una specie difocolarein una di queste cavitàe a lasciarvi un'aperturaperché il fumo possa uscirne.

-Ce la faremoragazzo mio. E prima di tuttoandiamo a raccogliere unpoco di combustibile; penso che il bosco ce lo fornirà; e cifornirà anche dei grossi legni per turare convenientemente lanostra grotta e sbarrare il passo a questo vento del diavolo.

Risalironoallora la sponda sinistra del corso d'acquanotando che la correnteera assai forte e si portava dietro dei tronchi d'alberi.

Certodurante l'alta mareaquelle acque dovevano essere risospinte all'indietro per un lungo tratto: e Pencroff pensò che si sarebbepotuto utilizzare benissimo quel movimento di flusso e riflusso pertrasportare degli oggetti pesanti.

Dopoaver camminato per un quarto d'orail marinaio e il ragazzoarrivarono dove il corso d'acqua descriveva una brusca giravolta e situffava dentro una foresta di alberi stupendiancor ricchi difogliame nonostante la stagione. Si trattava di coniferee Harbertil piccolo naturalistariconobbe subito la famiglia alla qualeappartenevano quelle conifere dal gradito profumoe poi mostròa Pencroff alcuni alti ciuffi di pini marittimi dal largo ombrello.

Camminandosotto quegli alberisotto le alte erbeil marinaio sentìscricchiolare e crepitare sotto i suoi passi delle legne secche.

-Ragazzo - fece Pencroff- io non conosco il nome di questi alberima so di poterli catalogare nel genere della «legna da ardere»:ed è quello cheper oraci interessa.

-Facciamone subito una buona provvista - gli rispose Harbertmettendosi senz'altro all'opera.

Laraccolta fu facile. Non occorreva nemmeno rompere dei rami ostrapparli dagli alberitanta era la quantità di legna seccache giaceva in terra. Il combustibileinsommanon mancava; quelloche mancava era un mezzo di trasporto. Secca com'eraquella legnadoveva ardere con estrema facilità e rapidità; sarebbequindi stato necessario portarne una forte provvista alla grottaeil carico di due uomini era ben lungi dal bastare.

-Non preoccupartiragazzo - fece Pencroff - troveremo bene un mezzoper trasportare questo combustibile. Ci si arrangia sempre. Certoseavessimo una carretta o una barcala cosa sarebbe fin troppo facile.

-Ma abbiamo il fiume - esclamò Harbert.

-Ecco. Il fiume sarà per noi la strada che cammina per contosuoe i traini di legname non sono stati inventati per nulla.

-Peròin questo momentoquesta nostra strada d'acqua corre inuna direzione proprio opposta alla nostra. C'è l'alta mareaeil corso d'acqua retrocede.

-Aspettiamo la bassa marea; e penserà quest'acqua a portarci ilcombustibile alla grotta.

Esubitotutt'e duecominciarono a portare verso la sponda del fiumegrossi fasci di legna secca. Poicon dei tronchi abbastanza grossilegati insieme con robuste liane secchecostruirono una specie dizattera sulla quale accumularono ordinatamente la legna raccolta. Inpoco più di un'orail carico era completoe il trainoassicurato alla spondaaspettava la bassa marea per prendere il viae lasciarsi portare dalla corrente.

C'eranoalcune ore da aspettare e venne a tutti e due il pensiero diimpiegarle salendo fin sopra la muraglia di granito per esaminare dilassù la terra sconosciuta sulla quale avevano posto il piede.A un centinaio di metri più in làla muraglia scendevadolcementecome a formare una scalinata naturale. Harbert e Pencroffla salirono agevolmente e in pochi minuti furono sulla sommitàdella gradinata granitica di dove potevano contemplare lo sterminatoOceano. Con ansiosa emozione scrutarono tutta la costasettentrionalesulla quale erano scesi col pallone. LàCyrusSmith era scomparsoe là i loro occhi cercarono se qualcherottame dell'aerostato non fosse per avventura rimasto a galleggiaresulle acque; ma il mare non era che un infinito deserto d'acquaedeserta appariva la costa. Non vi si scorgevano nemmeno Nab e ilgiornalista. Maforsein quel momentol'uno e l'altro stavanocercando ed esplorando in qualche altra parte della costa...

-Eppurequalche cosa mi dice - esclamò Harbert - che un uomocome l'ingegnere non ha potuto annegare come l'ultimo venuto. Eglideve aver raggiunto qualche altro punto della costa. Non lo crediPencroff?

Ilmarinaio scosse la testa con tristezza; egli non aveva troppesperanze di rivedere Cyrus Smith; ma non voleva distruggere lesperanze del ragazzoe gli rispose:

-Senza dubbiofigliolo; il nostro ingegnere è uomo da cavarsid'impiccio dove tutti gli altri uomini sarebbero fritti.

Versooccidentesi vedeva svettare la montagna con la sua cima coperta dineve. Larghe masse boscose l'ammantavano sino a una certa altezzaedove il bosco finivaspaziava una vasta prateria disseminata diciuffi di alberi. Laggiùqua e làsi vedeva anchescintillare l'acqua del fiume che certo doveva scendere dallamontagna.

-Chissà se siamo sopra un'isola! - mormorò pensosoPencroff.

-Comunquedovrebbe essere un'isola assai grande.

-Per quanto grande siasarebbe sempre un'isola...

Laquestione non poteva essere risolta in quel momento. Bastavaconstatare cheisola o continentequella terra era abbastanzafertilepiacevole come paesaggiovaria nei suoi prodotti.

-Bisogna ringraziare la Provvidenza - disse Pencroff - chein fondoci ha assistito nel nostro disastro.

-Sia dunque lodato Iddio - gli fece Harbertil cui giovane cuore erapieno di riconoscenza per il Creatore.

Poiripresero la strada del ritornoseguendo la cresta meridionale dellamuragliaorlata da un festone di rocce capricciose dalle qualialpassare dei due uominiscattavano a volo stormi di uccelli.

-Ma non sono dei gabbiani - esclamò Harbert.

-E allorache uccelli sono? Sembrerebbero dei piccioni!

-E difattisono dei colombi selvatici o colombi di roccia gli risposeHarbert. - Li riconosco benissimo dalla doppia banda nera chetraversa le loro alidalla macchia di piume bianche sul dorsoe dalcolore blu-cinerino delle loro piume. Esaiil colombo di roccia èottimo da mangiare: di conseguenza ottime devono essere le loro uova.

Oraper poche che ne abbiano lasciate nei loro nidi...

-Ahnon lasceremo loro il tempo di schiudersise non in tante bellefrittate.

-Già; ma e come le farai le frittate? Con che cosa?

-Hai ragione; non sono abbastanza mago per questo. Ma non importa; ciaccontenteremo di uova alla coque e di uova sode. Le più dureme le papperò io.

Nelleanfrattuosità di quelle roccein certi buchi annidati nellepieghe della pietratrovarono molte uova e ne raccolsero alcunedozzine che conservarono accuratamente nel largo fazzoletto delmarinaio. Quindiscesero verso il corso d'acqua. Quando arrivaronosulla spondaera un'ora del pomeriggioe la bassa marea giàcominciava. Bisognava approfittare del riflusso per avviare verso legrotte il carico di legna. Pencroff non voleva che quella zatteraandasse sulla corrente senza direzioneed'altro cantonon osavaimbarcarsi su quel fragile mezzo natante in mezzo a un fiumerapinosoma un marinaio non è mai in imbarazzoquando sitratta di cavi e di gomenee Pencroffin un battibalenoformòuna grossa e lunga corda intrecciando insieme delle tenacissimelianel'assicurò alla poppa della zattera e ne tenne un caponelle manimentre Harbertaiutandosi con una lunga perticamanteneva l'imbarcazione nella corrente.

Lacosa riuscì alla perfezione. Il grosso carico di legnafrenato dalla lunga corda vegetale tenuta nel pugno fermo delmarinaioseguiva docilmente il filo della corrente. La riva delfiume era pianeggiantenon c'era pericolo di urti che avrebberomesso a repentaglio il caricoe in poco meno di due orela zatteraveniva fermata a pochi passi di distanza dalle grotte.




CAPITOLO5


Scaricatoil legnoPencroff si dette subito da fare per rendere abitabile lagrotta scelta come abitazioneostruendo le aperture con sabbiapietrerami intrecciati saldamente e terra bagnata per evitare ilpassaggio dei venti. Venne lasciata una sola via liberauna speciedi condottoper il fumo. Nell'internola grotta era suddivisa intre o quattro camerese si potevano definire in tal modo certe tanedelle quali una fiera si sarebbe disdegnosamente accontentata. Ma cisi stava al riparoci si poteva stare in piedialmeno nella piùgrandeche era al centro della grotta. Il suolo era coperto da unasabbia finissima. Insommain attesa di meglioci si potevaarrangiare abbastanza bene.

Pencroffe Harbert lavoravano di buzzo buonoe parlavano.

-Non crediPencroffche i nostri compagni avranno trovato una casamigliore di questa nostra?

-Può darsi; manel dubbionon astenerti dal lavoro. Megliodue corde sull'arco che nemmeno una corda.

-Pur che riportino l'ingegnere Smithe non avremo più nulla dachiedere al Cielo.

-Sì... Che uomol'ingegnere! Non se ne trovava un altro...

-Trovava?!... Ma allora tu disperi di rivederlo?

-Dio me ne guardi.

Intantoil lavoro era finitoe Pencroff se ne dichiaròsoddisfattissimo.

-Ecco - disse. - Ora i nostri compagni possono tornare; troveranno unrifugio sufficiente.

Restavada costruire il focolare e preparare la cena. Una cosa semplice efacilein fondo. In fondo a una specie di corridoio scavato fra leroccenella grottasotto l'apertura che era stata lasciata appostaper l'uscita del fumofurono collocate delle grosse pietre rotonde epiatte. C'era anche questo di buono: quel calore che non se nesarebbe uscito insieme col fumo dall'aperturasarebbe bastato adassicurare alla «casa» una temperatura conveniente. Inuna delle «camere» venne ammassata la provvista di legnae poi il marinaio dispose sulle pietre del focolare improvvisato deigrossi ceppi mescolati a legna minuta. Fu a questo punto che Harbertgli domandò se avesse degli zolfanelli.

-Perbacco - gli rispose Pencroff. - E aggiungoper fortuna; perchésenza zolfanelli o senza escasaremmo in un brutto impiccio.

-Non potremmo fare del fuoco come i selvaggistrofinandoenergicamente due pezzi di legno uno contro l'altro? - Provaciprovacifiglioloe vedremo se ce la fai prima a ottenere il fuoco oa romperti le braccia.

-Eppureè un metodo assai in uso nelle isole del Pacifico.

-Non dico di no; ma bisogna concludere che quei selvaggi sanno come sifaoppure usano del legno particolareperché io l'ho provatocento voltee non ci sono mai riuscito. No; preferisco glizolfanelli. Dove sonoa proposito?

Pencroffcercò la scatola per tutte le tasche della giacca e deipantalonimacon sua grande sorpresanon la trovava.

-Ecco una cosa maledettamente seccante - brontolò. - La scatoladeve essermi caduta dalla tascae non me ne sono accorto. TuHarbertnon hai uno zolfanello o qualche cosa da accendere?

-NoPencroff!

Ilmarinaio uscì dalla grotta grattandosi la testa energicamenteecon Harbertsi dette a cercare ansiosamente nei dintornisullasabbiase per caso si trovasse la sua scatola preziosa. Era unascatola di ramee difficilmente avrebbe potuto sfuggire ai loroocchi.

-Sei sicuroPencroffdi non aver buttato fuori dalla navicella anchequella scatola?

-Ohme ne sono guardato bene. Soltantocapiraicon tutti quegliscossoni che abbiamo subitoè facile che un oggetto cosìpiccolo si sia smarrito. Anche la mia pipavediè sparita.Maledizione! Dove può mai essersi cacciata quella diabolicascatola?

-Guardail mare sta ritirandosi. Andiamo sul posto dove abbiamo presoterra.

Eraassai poco probabile trovare la scatola su quella sabbia dove le ondeavevano dovuto farla rotolare chissà dovema non si potevatrascurare neanche la più piccola possibilità. Corserodunque su quel punto della costae là frugarono con curaminuziosa in ogni anfrattoin ogni bucoin ogni angoloma senzatrovar niente. Evidentementese la scatola era caduta su quellasabbiadoveva poi essere finita in mare. Era una perdita gravissimanelle loro circostanze:

irreparabileanzie Pencroff non nascondeva il suo cruccio e il suo dispetto.Harbert cercò di confortarlo dicendogli chese anchel'avessero trovataquella scatola avrebbe ormai contenuto deglizolfanelli inservibiliinzuppati d'acqua di mare; ma il marinaioprotestò: la sua scatola era assolutamente impenetrabileaveva una chiusura ermetica.

-BehPencrofftroveremo certamente qualche altro mezzo perprocurarci del fuoco. E poiSpilett o l'ingegnere avranno bene intasca degli zolfanelli.

-Sìma intanto siamo senza fuocoe al loro ritorno troverannouna ben malinconica cena che li aspetta. E poiNab e l'ingegnere nonfumanoe perché vuoi che abbiano degli zolfanelli in tasca? Equanto a Spilettquello avrà conservato senza dubbio il suotaccuinoma non la sua scatola di zolfanelli.

Harbertnon rispose. Era sicuro che si sarebbe potuto ottenere del fuocoanche senza quella famosa scatola. Pencroff inveceper quanto nonfosse uomo da perdersi d'animonon era altrettanto sicuro.

Comunqueintanto non c'era che una cosa da fare: aspettare il ritorno di Nab edi Spilett. Addio però cena con le uova sode! Bisognavaaccontentarsi di carne cruda: e la cosafrancamentenon era granche allettante. A buon contoprima di tornare alla grottafecerouna nuova e abbondante provvista di litodomi. Lungo la strada delritornoPencroff camminava a testa bassacercando sempre per terrala sua scatolafermandosi a frugare sotto i ciuffi d'erbasotto isassilungo la riva del fiume. Alle cinque erano a «casa»e anche quidentro la vasta grotta e le sue «stanze» ei' suoi corridoifu cercato minuziosamente. Finalmentedecisero disospendere quelle ricerche evidentemente inutili.

Un'oradopoproprio mentre il sole stava scendendo a occidentedietro glialtipiani di quella terraHarbertche stava passeggiando sullasabbiavide Spilett e Nab che stavano tornando. Erano soli!...

Ilgiovinetto sentì stringersi il cuore. Ahil marinaio non siera dunque ingannato: l'ingegnere Smith non era stato trovato!

Ilgiornalistaappena arrivatosi sedette sopra un sasso senzaprofferire parola. Sfatto di stanchezza e di famenon aveva piùla forza di parlare. Quanto a Nabi suoi occhi pesti e arrossatidicevano quanto avesse pianto ecome fu davanti alla grottaricominciò a piangere.

Spilettfece poi il racconto di tutte le ricerche fatte. Insieme con Nab egliaveva percorso la costa per un tratto di otto migliae cioèera andato assai più in là dal punto dove era avvenutala prima caduta dell'aerostatocaduta che aveva provocatolascomparsadell'ingegnere. Ma la costa era deserta e non si era trovata alcunatracciaalcuna improntané un sasso rimosso di fresconéil segno di un piede umano sulla sabbia. Era evidenteanchechenessun abitante frequentava quella zona costiera. Ecorre la costadeserto era il mare. Forsein quel deserto d'acquaa qualchecentinaio di metri dalla rival'ingegnere aveva trovato la morte ela tomba!

Aqueste parole Nab si alzò di scatto e con voce convulsa edecisa gridò:

-No! No! Egli non è morto! No! No! Lui?!... Ma via... Qualsiasialtroforse... Ma luino! Luinon è possibile. Egli èun uomo che sa difendersi contro tutto e contro tutti...

Poidisfatto dall'angoscia e dalla stanchezzasi lasciò cadere aterradicendo:

-Non ne posso più!...

Harbertgli si avvicinò:

-CoraggioNab. Lo troveremovedrai. Dio ce lo restituirà. Maadessodovete aver fame; mangiateve ne prego; mangiate qualchecosa.

Cosìdicendooffriva al negro una manciata di conchiglieuna magra epovera cenain verità! Nabper quanto fosse digiuno da moltotemporicusò. Nosenza il suo diletto padroneegli nonvoleva vivere.

GedeoneSpilettinvecedivorò una grande quantità di queimolluschipoi si sdraiò sulla sabbiacontro una rocciaestenuato ma calmo.

Harbertgli si avvicinò e gli disse:

-Signorenoi abbiamo trovato un rifugio dove starete meglio di qui.

Stascendendo la notte. Venite a riposarvi. Domani vedremo...

Ilgiornalista si alzò eguidato dal giovinettosi avviòverso le grotte. A un tratto Pencroff lo fermò e gli chiesecon l'aria più naturale di questo mondo:

-A propositosignor Spilettnon avreste uno zolfanello?

Ilgiornalista si frugò nelle taschenon ci trovò nientee rispose:

-Ne avevosì; ma ho dovuto buttar via tutto...

Ilmarinaio rivolse la stessa domanda a Nabe n'ebbe la stessarisposta.

-Maledizione! - esclamò allora Pencroff fra i denti. Ma ilgiornalista lo sentì e gli chiese:

-Nemmeno uno zolfanello?

-Nemmeno unoeper conseguenzanemmeno un briciolo di fuoco.

-Ahse ci fosse qui il mio padrone - esclamò Nab - saprebbeottenere il fuoco anche senza zolfanelli!

Iquattro naufraghi si guardarono in viso preoccupati e perplessi. PoiHarbert ruppe quell'inquieto silenzio e disse:

-Signor Spilettvoi siete un accanito fumatoredovete sempre averedegli zolfanelli dispersi in qualche tasca. Forsenon avete cercatobene. Cercate ancora! Un solo zolfanello basterebbe...

Ilgiornalista frugò accuratamente tutte le tasche della giaccadel panciottodei pantalonie finalmentecon grande gioia diPencroffsentì un piccolo sottilissimo legno tra la stoffa ela fodera del panciotto. Doveva essere uno zolfanello; ma eral'unicoed era necessario estrarlo con grandissima cautela per nonstrappar via quel poco di fosforo.

-Volete lasciar fare a me? - chiese Harbert.

Econ molta leggerezza e abilitàil giovinetto riuscì aestrarreda quel nascondigliola fragile asticciola di legnoquelmisero e preziosissimo pezzo di legnoche rappresentavaper inaufraghiun vero e proprio tesoro.

-Uno zolfanello! - esclamò Pencroff. - Ma è come se neavessimo un carico intero.

Presein consegna il prezioso zolfanello eseguito dai suoi compagnientrò nella grotta. Bisognava ora servirsi di quel legnettocon grande sicurezza e cautelanon sciuparlo. Pencroff si assicuròanzitutto che fosse ben seccopoiguardandosi in girodisse: - Mioccorre un po' di carta.

Spilettstette un poco soprappensieropoisospirandostrappò unfoglio dal suo taccuinoe lo diede al marinaio che si era giàinginocchiato davanti al focolaree vi aveva collocato accuratamentealcune manciate di erbe secche. Ciò fatto piegò ilfoglio in forma di imbutocome fanno i fumatori di pipa perdifendere la fiamma dal forte soffio del ventoe lo cacciòsotto le foglie secche. Si trattava ora di accendere quell'unicozolfanello. Pencroff sospiròprese un ciottolo ben asciuttovi sfregò contro piano piano lo zolfanello; ma la fiamma nonsprizzò. Il marinaio aveva tenuto lo zolfanello troppoleggerotimoroso di rovinare la capocchia di fosforo.

-No! - fece. - Sento che non ci riuscirò mai... Non posso...Non voglio...

Sialzòpregò Harbert di far lui. Il ragazzo non era maistato così emozionato in tutta la sua vita. Il cuore glibatteva forte forte.

Preselo zolfanellolo fregò con vivacità sul ciottolosiudì un lieve crepitioe una piccola fiamma azzurrina spiccòin cima all'asticciola di legno. Harbert girò allora lozolfanello in modo da alimentare quella fiammellapoi la introdussedolcemente dentro l'imbuto di carta che si infiammò in unbalenoe pochi secondi dopo le erbe secche prendevano fuocolafiamma divampava alta e consolatriceattaccava la legna accumulatasul focolare.

-Ah! - esclamò Pencroff. - Non sono mai stato cosìcommosso!

Ilfocolare funzionava alla perfezione. Il fumo saliva per l'aperturaeun gradevolissimo calore si spandeva nella grotta.

Orasarebbe però stato necessario conservare quel fuocononlasciarlo spegnere maitenere sempre la bragia sotto la cenere; mainsommatutto si sarebbe risolto con un poco di perseveranza e dipazienza.

Intantoil marinaio provvide a preparare una cena che fosse un poco piùinvitante di quei molluschie Harbert portò due dozzine diuova di piccione. Spilettseduto un poco in disparteguardava queipreparativi e taceva. Tre pensieri lo tormentavano. Cyrus vivevaancora? E se vivevadove poteva mai trovarsi? Ese erasopravvissuto alla catastrofecome mai non era riuscito a dar segnidella sua presenza? Quanto a Nabsdraiato sulla sabbiapiangevasilenziosamente: egli non era ormai più che un corposenz'anima...

Pencroffche conosceva cinquantadue maniere di cuocere le uovanon avevamolta sceltain quel momento. Dovette accontentarsi di seppellirledentro la cenere calda e lasciarle cuocere così. Dopo qualcheminutoerano prontee il marinaio invitò i compagni a quellacena. La prima cena su quella ignota terra! Ma quelle uova eranosquisiteepoiché l'uovo contiene tutti gli elementiindispensabili al nutrimento dell'uomoi naufraghi ne risentironosubito un grande beneficio.

Ah!se ci fossero stati tutti! Se uno non fosse mancato! Se i cinqueprigionieri evasi da Richmond fossero stati tutti làsottoquel cumulo di roccedavanti a quella fiammata crepitantesu quellasabbia asciuttaavrebbero dovuto veramente ringraziare il cielo! Mail più ingegnoso di loroil più dottoquello che erail loro capoCyrus Smithmancava... e forse il suo corpo non avevanemmeno potuto avere una sepoltura!... Così trascorse quellagiornata del 25 marzo.

Intantoera scesa la nottesi udivafuorifischiare e gemere il ventoerompersi il mare contro la riva. I ciottolisulla sabbiapercossi espinti dall'ondafragorosamente rotolavano.

Ilgiornalista si era ritirato in fondo a un corridoio oscurodopo avertracciato sul suo taccuino sommariamente gli avvenimenti dellagiornataed era riuscito ad addormentarsi. Harbertdata lagiovanissima etàlo aveva preceduto nel sonno. Il marinaiosteso davanti al fuocodormiva con un occhio aperto preoccupatocom'era che il suo fuoco si spegnesse. Uno solo dei naufraghi nondormì: era l'inconsolabileil disperato Nab chenonostantetutte le preghiere dei compagniper quanto durò la nottegirò su e giù per la costa chiamando il suo padrone!




CAPITOLO6


L'inventariodi quanto possedevano quei naufraghi gettati dal caso sopra quellacosta che pareva disabitataè presto fatto. Essi nonpossedevano nullaall'infuori degli abiti che indossavano al momentodella catastrofe Va fatta eccezionetuttaviaper il taccuino e unorologio di Spilettconservati evidentemente per distrazione. Nonavevano nemmeno un'armanemmeno un utensilenemmeno un temperino.

Dallanavicellaall'ordine gettato dall'ingegnereera stato buttatoproprio tutto. Gli eroi immaginari di Daniel de Foe e di altriromanzierinon erano stati gettati sopra isole squallide e desertein condizioni tanto disastrose. Essi traevano delle risorseabbondanti dalla loro nave incagliata sugli scogli o fracassatacontro la costaoppure trovavano di che provvedere ai primi bisognidella loro nuova esistenza in qualche grosso rottame che il marebuttava sulla costa.

Insommanon si trovavano così totalmente disarmati in faccia allanatura. I nostri naufraghi non avevano nulla: e dal nullabisognavaarrivare a tutto!

Ealmenose Cyrus Smith fosse stato con loro! Almeno se l'ingegnereavesse potuto mettere la sua scienzail suo spirito inventivo alservizio di quella loro situazione disperata! Alloraforsetuttonon sarebbe stato perduto! Purtropponon si poteva piùsperare di rivedere Cyrus Smith. I naufraghi non dovevano attenderealtro aiuto se non dalle loro proprie forze e da quella Provvidenzache non abbandona gli uomini di fede.

Maprima di tuttodovevano essi fermarsi su quel punto della costasenza cercare di sapere a qual continente appartenevase era abitataoppure la costa deserta di un'isola disabitata? Era una questioneimportante da risolveree senza indugioperché dalla suasoluzione dipendevano le misure da prendere. Maprima diintraprendere qualsiasi esplorazioneseguendo il consiglio diPencroffrisolsero di attendere qualche giorno. Bisognava preparareuna scorta di viveri e procurarsi del cibo un poco piùnutriente di qualche uovo e di un po' di molluschi. Gli esploratoridovendo sopportare dure fatichesprovvisti di un comodo rifugio doveriposare la nottedovevanoanzituttopensare al modo dirifocillare le proprie forze abbondantemente. Intantoquella grottaoffriva un rifugio sufficiente; il fuoco era accesobastavaconservare la bragiauova e litodomi non facevano difetto. Chissàche non ci fosse modo di uccidere qualcuno di quei colombi di rocciache volavano a stormi di centinaia sulla sommità dellamuraglia! Magari a colpi di bastone o a sassate... E perchégli alberi della foresta non dovevano dare qualche frutto nutriente egustoso? E infine l'acqua dolce era là; a portata di mano.Tutto sommatofu deciso di restare per qualche giorno nella grottaa prepararvi una esplorazione accurata sia lungo la costa sianell'interno.

Questoprogetto piaceva soprattutto a Nab chesempre più chiusonelle sue ideenei suoi presentimentinon aveva alcuna fretta diabbandonare quel postoteatro della catastrofe. Egli non credevanon potevanon voleva credere che l'ingegnere fosse perduto; non glipareva possibile che un simile uomo fosse finito in quel modo banaleportato via da un colpo di mareannegato miseramente nei flutti aqualche centinaio di passi dalla costa! Fin che le onde non avesserobuttato sulla spiaggia il suo corpo; fino a che luiNabnonl'avesse visto coi suoi propri occhitoccato con le maniilcadavere del suo padroneegli non avrebbe creduto alla sua morte. Equesta idea si radicò sempre più nel suo cervellodiventò certezza segretaassoluta. Forseera un'affettuosaillusione; ma il marinaio non ebbe il coraggio di opporvisi. PerPencroffnon c'era più speranza:

l'ingegnereera perito nel mare; ma con Nabnon voleva discuterenon si potevadiscutere. Era come il cane che non può lasciare il posto doveil padrone è cadutoe il suo dolore era tale cheprobabilmente non sarebbe sopravvissuto.

Quelmattino del 26 marzofin dall'albaNab aveva ripreso lungo la costale sue ricerchespingendosi verso settentrioneed era tornato inquel punto dovepresumibilmenteil mare si era rinchiuso sopral'ingegnere.

Cometutta colazionequel giorno non c'eranocome la sera precedenteche delle uova e dei litodomi. Ma Harbert aveva trovato del saledepositato nelle cavità delle rocce per evaporazionee quellasostanza minerale giunse graditissima. Finita la colazionePencroffchiese al giornalista se voleva accompagnarli nella forestaperchélui e Harbert avevano deciso di farvi una escursione. Ma poituttoben ponderatoera meglioanzi necessario che qualcuno restasse allagrotta per custodire il prezioso fuoco e anche per il caso che Nabavesse bisogno di soccorso. Il giornalistadunquerestò.

-E noiHarbert - disse il marinaio - andiamo a caccia. Troveremodelle munizioni lungo il camminoe il nostro fucile ce lo taglieremonella foresta.

Almomento di partireperòHarbert fece osservare cheinmancanza di escasarebbe stato prudente tener pronto una sostanzache potesse sostituirla.

-Quale?

-Un pezzo di tela bruciacchiata. In caso di bisognoessa potràservirci da esca.

Ilmarinaio trovò la cosa giustissima; ma si rendeva necessariosacrificare un pezzo di fazzoletto. Poiché il sacrificiovaleva la pena di esser compiutoil fazzoletto a quadretti diPencroff fu subito ridotto di proporzionie una larga strisciadiventò uno straccetto bruciacchiato. Quella specie di micciafu allora collocata dentro una nicchietta sassosaal riparo d'ognivento e d'ogni umidità.

Eranole nove del mattinoil tempo era nuvolosoil vento soffiava da sudeste Harbert e Pencroff si misero in camminovolgendosi a guardaretratto tratto il fil di fumo che usciva dalla loro grotta.

Giuntinella forestaPencroff tagliò due solidi rami che trasformòin ottimi randelli dalla punta affilata contro un grosso sasso. Ahse si fosse avuto un coltello!... I due cacciatori cominciarono adavanzare fra le alte erbeseguendo la riva del fiume. A un certopuntoil fiume faceva una brusca svolta verso sud ovestrestringendosi un pocoe le sue rive formavano un letto incassatocoperto da una duplice arcata di rami fronzuti. Per non smarrire lastradaPencroff decise di seguire il corso del fiume; ma la spondapresentava qua e là degli ostacoli notevoli: rami chescendevano fino al pelo dell'acqualiane intrecciate tenacemente chebisognava rompere a colpi di bastone. Ogni tanto Harbertconl'agilità di un gattosi cacciava dentro il folto e sparivama il marinaio lo chiamava subitoansioso e preoccupatoe infine lopregò di non allontanarsi più.

Anchela forestacome la costaera immune d'ogni traccia di piede umano.Pencroff ci vide però impronte di quadrupedisegni dipassaggio recente di animalidei quali tuttavia non seppe precisarela specie. Anche Harbertcome il marinaiopensò che dovevatrattarsi di qualche grossa fieracon la quale si sarebbe presto otardi dovuto fare i conti. Ma nemmeno un albero portava i segni diuna scurein nessun angolo v'erano tracce di un fuoco anche lontanonel tempo. Madel restoquesta solitudine era forse da benedirsiperché la presenza di uomini su quella terra selvaggia inpieno Pacifico non sarebbe stata certo che una pericolosa presenza.

Pencroffe Harbert non si scambiavano che qualche rara parolaperchéle difficoltà del cammino erano numerose e gravi: tanto gravichedopo un'ora di stradanon avevano fatto che un miglio. Finoallorala caccia era stata infruttuosa; e pure molti erano gliuccelli che si sentivano cantare sugli alberi e si vedevano volare diramo in ramo; ma la presenza di quei due uomini pareva che li avesseresi improvvisamente diffidenti. Fra gli altria un certo puntoHarbert vide un uccello dal becco acuto e lungo che somigliava a ungrosso martin pescatorema con le piume assai più scure ed'uno splendore quasi metallico.

-Dovrebb'essere un jacamar - dissecercando di avvicinarsi a quelvolatile.

-Ben venga questo jacamarse ha la buona idea di lasciarsi metterearrosto - osservò Pencroff.

Proprioin quell'attimoHarbert lanciava con molta destrezza un sasso checolpiva l'uccello a un'ala: questo però non bastò adabbatterloperché la bestiaper quanto feritafilòvia nel foltocorrendo sulle sue zampe.

-Sono stato maldestro! - si rammaricò il giovinetto.

-Noragazzo. Tu hai tirato giustoe non so chi sarebbe riuscito acolpire quell'uccello come lo hai colpito tu. Ma lasciamolo perdere enon sviamoci. Lo troveremo un altro giorno.

Continuarononella loro esplorazione. Gli alberi erano sempre più stupendiinvano il marinaio cercava tra essi qualcuno di quei preziosi palmizicosì utili e provvidenziali per i frutti che offrono all'uomo.Qui non si vedevano che conifere: pini e abetialticertunifino acinquanta metri. A un certo puntoperòun fitto volo diuccelli non molto grandi e dalle bellissime piumevenne a sciamaresui rami bassi degli alberi intorno ai due esploratori.

-Sono dei «curucus» - osservò Harbert.

-Preferirei che fossero delle galline faraone - disse Pencroff.- Ma sipossono almeno mangiare?

-Sono buonissimie dalla carne assai delicata. Nota poi che silasciano avvicinare senza troppa diffidenza. Scommetto che li potremouccidere a colpi di bastone.

Scivolandocautamente fra tronco e troncoil marinaio e il ragazzo arrivaronosotto una pianta i cui rami bassi erano pieni di quegli uccelli cheaspettavano al loro passaggio mosche e farfalle per ghermirle emangiarle. I due cacciatorigiunti a tirosi alzarono bruscamente eusando i loro bastoni come falcispazzarono via delle intere file diuccelli che non pensavano affatto a volar via e si lasciarono cosìstupidamente abbattere. Quando si decisero a prendere il volouncentinaio di vittime giaceva sull'erba.

-Bene! - fece Pencroff. - Questa è selvaggina adatta acacciatori come noi. Potevamo prenderli anche con le mani!

Ilmarinaio infilò per i becchi quegli uccellicome allodolesopra un giunco flessibilee poi fu ripreso il cammino. Lo scopoprincipale di quella esplorazione era quello di procurare la maggiorquantità possibile di cibo agli abitanti della grotta. Oraloscopo non era ancora stato raggiunto a pienoe il marinaio chescrutava con attenzione ogni angolo e ogni ciuffo d'alberilanciavamaledizioni contro quegli animali che si vedevano correre e spariredentro il folto. Ahse almeno ci fosse stato il cane Top! Ma ancheTop era scomparso insieme col suo padrone.

Versole tre del pomeriggioaltri grossi voli di uccelli furono avvistatisopra gli alberi e su cespugli di ginepro; e all'improvviso si udìnella foresta un vero e proprio suono di tromba. Quella specie difanfaraera il canto di quegli uccellinei quali Harbert riconobbesubito dei «tetras» dalle piume giallo-brune e dalla codabruna. Pencroff decise che bisognava assolutamente catturare almenouno di quei grossi gallinaceicosì buoni da mangiare. Ma lacosa era tutt'altro che facileperché quegli uccelli non silasciavano avvicinare. Infattidopo alcuni tentativi infruttuosiilmarinaio si fermò e disse:

-Dal momento che non si possono uccidere al volocerchiamo diprenderli con la lenza.

-Come delle carpe? - rispose ridendo Harbert.

-Ecco: come delle carpe - rispose serio serio il marinaio.

Pencroffaveva trovato nell'erbe alcuni nidi di tetras con due o tre uovaciascuno. Non toccò quei nidiai quali dovevano certamentetornare i rispettivi titolari; ma intorno a essi pensò ditendere le sue insidie. Trasse così Harbert in disparteepreparò i suoi ingegnosi ordignimentre il ragazzo loguardava attentissimoma poco fiducioso nell'esito di quella nuova«pesca».

Ilmarinaio costrusse le sue lenze con delle sottili liane attaccatel'una all'altra e lunghe cinque o sei metri; alle estremità diogni liana venne assicurato un grosso spino ricurvotratto daarbusti di acacia; e come escavennero usati dei grossi vermi rossi.Preparati i suoi strumentiPencroffscivolando tra l'erbatornòverso i nidivi assicurò vicino un capo della sua lenzaetenendo l'altro capo in manosi appiattò con Harbert in unnascondiglio erboso. Cominciò allora la paziente attesa.Harbert era sempre meno fiducioso nel successo dell'impresa. Dopocirca una mezz'oraecco i tetras tornare verso i loro nidipropriocome Pencroff aveva pensato. Tornavano a coppiesi vedevanosaltellare intorno ai nidi sbeccucciando nell'erbasenza accorgersiaffatto della vicinanza dei due cacciatorichedel restoeranoassai ben nascostie avevano avuto cura di collocarsi sottovento.Anche il ragazzo adesso si era appassionato a quel nuovo genere dicaccia o di pesca che dir si vogliae come Pencrofftrattenevaperfino il respiroincantato a guardare avidamente quegli uccelliche passavano fra amo e amo mostrando di non accorgersene nemmeno. Fuallora che Pencroff diede una leggera scossa alla lenza; il movimentosi propagò a tutta la fila degli amie i vermi si agitaronocome se fossero ancora vivi. La cosa parve attirare l'attenzione deitetras chesenz'altrosi buttarono contro quei vermi e liattaccarono a colpi di becco. Tre uccellii più voraciinghiottirono insieme verme e amo; Pencroff diede uno strappo allalenzatirò la corda di lianee un furioso dibattersi d'aliindicò che gli uccelli erano presi!Evviva! gridò ilmarmalo precipitandosi verso la selvaggina.

Harbertaveva battuto le mani. Era la prima volta che vedeva prendere degliuccelli con la lenza; ma il marinaiomodestamentelo assicuròche non era alle sue prime armie chedel restonon era luil'inventore di quell'ingegnoso sistema di cattura.

-Maridotti come siamoragazzo miobisogna prepararci a vederne diben altre.

Coni tetras penzoloni sulle spallei due esploratorifelici di nontornare a mani vuoteripresero la strada del ritornoseguendo aritroso il corso del fiume. Alle sei di serapiuttosto stanchi dellungo camminorientravano nella grotta.




CAPITOLO7


GedeoneSpilett se ne stava immobile sulla spiaggiaa braccia conserteeguardava il mare all'orizzonte del quale si scorgeva una grossanuvola nera salire sotto la spinta di un forte ventoindizio di unanon lontana bufera.

Harbertentrò nella grottamentre Pencroff si avvicinava algiornalista chetutto preso dai suoi pensierinon lo vide venire.

-Avremo una pessima nottesignor Spilett - disse il marinaio.Siprepara una pioggia e un vento da far impazzire di gioia leprocellarie.

Spilettsi volsevide Pencroff e bruscamente gli domandò:

-Secondo voia quale distanza dalla costa abbiamo ricevuto quel colpodi mare che ha portato via il nostro compagno?

Ilmarinaioche non si aspettava una domanda siffattariflettéun pocopoi rispose:

-A quattrocento metrial massimo.

-E allora Cyrus Smith sarebbe scomparso a quattrocento metri dallacosta?

-Press'a poco.

-E anche il suo cane?

-Anche il suo cane.

-Quello che mi stupisce è cheammettendo che l'ingegnere siaperito abbia trovato la morte anche Tope non si trovi qui sullacosta né il corpo dell'uno né quello dell'altro.

-Non c'è troppo da stupirsenecon un mare così agitato.Può darsi che le correnti abbiano portato i corpi lontanodalla costa.

-E voi pensate proprio che l'ingegnere sia perito nel mare?

-Lo penso.

-Per conto miofatto tanto di cappello alla vostra esperienza inmateriatrovo che questa doppia scomparsa di Smith e del suo cane haqualche cosa di inspiegabile e di inverosimile.

-Vorrei pensarlo anch'iosignor Spilett; mapurtroppola miaconvinzione e' un altra.

CiòdettoPencroff entrò nella grottadove scoppiettava unallegro fuoco che illuminava le pareti rocciose del rifugio. Senzaindugioil marinaio si accinse a preparare la cena. Desideroso dioffrire ai suoi compagni un piatto un poco sostanziosospiumòdue tetrasli infilò sopra una bacchetta e li fece arrostiredavanti alla vigorosa fiamma del focolare.

Allesette di sera Nab non era ancora tornato. Pencroff era molto inquietoper questa assenza; temeva che fosse capitato qualche bruttoincidente al povero negro o che la disperazione gli avesse suggeritoqualche gesto insano. Harbert invecedal ritardo del negrotraevariflessioni d'altra natura: per luise Nab non tornava era perchégli si era presentata qualche nuova circostanza che lo avevaconsigliato a continuare nelle sue ricerche e a ritardare il suoritorno: oraquesta nuova circostanza non poteva che esserefavorevole. Infatti perché mai Nab non sarebbe rientrato seuna nuova speranza non lo tratteneva fuori? Forseaveva trovatoqualche indizioun'impronta sulla sabbiaun rottame indicatore...Forsein quello stesso momentostava seguendo una buona pista...Forseera già accanto al suo padrone...

Cosìpensava il giovinettoe i suoi pensieria un certo puntoespose aicompagniche lo lasciarono dire in silenzio. Soltanto il giornalistaebbe un cenno di consenso. Pencroff sosteneva invece che Nabavendospinto le sue ricerche più al di là della zona percorsail giorno primanon poteva essere di ritorno ancora. Harbertinpreda ai suoi presentimentiavrebbe voluto uscire e andare incontroal negro; ma Pencroff gli dimostrò checon l'oscuritàche era scesa e con quel tempo minacciosola sua sarebbe stata unacamminata inutile e non sarebbe mai riuscito a rintracciare Nab. Erameglio aspettarlo nella grotta.

Sel'indomani Nab non fosse stato ancora di ritornoallora anchePencroff si sarebbe unito ad Harbert per andare in cerca di Nab.

AncheSpilett diede ragione al marinaioe Harbert si arrese; ma due grosselacrime silenziose gli scesero dagli occhi: tanto che il giornalistanon poté trattenersi e abbracciò il generoso ragazzo.

Intantofuoriil tempo si era messo decisamente al brutto. Un vento diformidabile violenza spazzava la costail mare ruggiva contro gliscogli e la pioggia precipitava in rovesci terribilimescolata anuvole di sabbia sollevate dalle raffiche incessanti. Anche il fumodel focolarerespinto dal ventosi abbatteva all'indietro e siperdeva nella grottarendendola quasi inabitabile. E cosìnon appena gli uccelli furono prontiPencroff spense il fuoco eseppellì la bragia sotto la cenere.

Alleotto Nab non era ancora tornato; ma si poteva anche pensare chesorpreso dall'uraganoavesse cercato rifugio in qualche altro bucoroccioso per aspettare la fine del rovescio oalmenoil ritorno delsole. Sempre più impossibilecomunqueuscire per andargliincontro.

Itetras arrostiti erano eccellentie tutti li gustarono volentieri;Pencroff e Harbertpoistanchi della lunga camminatafecero a essiun onore eccezionale. Finita la cenaognuno si ritirò nel suocantuccioe Harbert fu il primo a cedere al sonnodisteso accantoal marinaiodavanti al focolare.

Fuoriintantocon l'avanzare della nottel'uragano si faceva sempre piùviolento. Per fortunal'ammasso di rocce che proteggeva la grottaera tale da costituire una barriera insormontabileper le raffiche.

Eppurequalche voltasotto l'impeto delle ventatequalcuno di quei graniticiclopici pareva perfino che tremassee Pencroffche ogni tantoappoggiava la sua mano sopra la parete della grottaavvertiva comedei brividi misteriosi. Dominava allora le sue inquietudinipensandoche quelle masse rocciose non correvano alcun pericoloanche sesentiva delle pietre staccarsi e rotolare fragorosamente sullaspiaggia. Due volteil marinaio si alzò e venne finoall'apertura della grotta a guardare lo spettacolo paurosodell'uragano; e tutt'e due le volte si rassicuròe tornòa distendersi tranquillo davanti al focolare. Nonostante il fragoreorrendo della buferaHarbert dormiva profondamentee anche Pencrofffinì per lasciarsi prendere dal sonno.

SoltantoSpilett restava svegliotormentato dall'inquietudine. Egli sipentiva di non aver accompagnato Nab. Sperava ancorai presentimentiche avevano agitato il giovinetto erano ora passati nel suo cuore.Perché mai Nab non era tornato? E si voltava e si rivoltavanel suo cantucciosulla sabbiaprestando appena appena orecchioalle furie degli elementi. Frattanto i suoi occhiappesantiti dallafaticasi chiudevanoma poi qualche improvviso pensiero glieliriapriva.

Potevanoessere le due del mattinoquando Pencroff si sentì svegliatobruscamente: il giornalista era curvo su di lui e gli diceva:

-Pencroff!... Ascoltate!... Ascoltate!...

Ilmarinaio ascoltòma non udì altro che gli urli delvento e i ruggiti del mare.

-Il vento - disse.

-No - gli sussurrò Spilett. - Mi è parso di sentire....

-Che cosa?

-I latrati di un cane...

-Di un cane!?... - esclamò Pencroff balzando in piediemozionato.

-Sì... dei latrati...

-Ma non è possibile. Nel fracasso della tempesta...

-Ascoltate... ascoltate...

Ilmarinaio stette in ascolto edifattiin un attimo di calmagliparve di udire un latrato.

-Avete sentito?

-Sì... sì...

-E' Top... Non può essere che Top - gridò Harbert che siera svegliatoe tutti e tre si lanciarono verso l'apertura dellagrotta.

Lafuria del vento era tale che durarono fatica a uscire. Finalmenteriuscirono a sbucare all'apertoma non poterono restare in piedi cheappoggiandosi contro le rocce. Guardavanoma non potevano parlare.Il buio era fittissimo; marecielo e terra tutto era fuso in unaeguale tenebra profonda. Per qualche minutotutti e tre stettero inascoltoschiacciati dal ventosotto la pioggiaaccecati da turbinidi sabbia; poi ancora sentirono quei latrati lontani. Sìnonpoteva essere che Top. Ma dove era mai? E chi lo accompagnava? Dovevaessere soloperché se Nab fosse stato con luisi sarebbeaffrettato a correre verso la grotta.

Aun certo puntoPencroff strinse una mano del giornalistacome perdirgli «aspettate»e rientrò nella grotta; e pocodopo ne uscì con un grosso legno infiammato che buttònelle tenebre davanti a séaccompagnando il gesto con deifischi acutissimi. A quei fischii latrati ripreseropiùvicinisempre più vicinie alla fine un cane piombòin mezzo a loro e corse dentro la grotta. PencroffSpilett e Harbertlo seguironobuttarono legna secca sul fuocoun'altra fiammacrepitò e divampò illuminando l'antro... SìeraTopil magnifico anglo-normanno dell'ingegnerevelocissimo egagliardofinissimo di fiuto e resistente. Ma era solo! Nél'ingegnerené il negro lo seguivano!

Macome mai il suo istinto aveva potuto condurlo fino alla grotta cheegli non conosceva? E in una notte così buia e tempestosapergiunta?

Particolareancora più misteriosoTop non appariva né stanco nédisfatto e nemmeno insudiciato di mota o di sabbia.

Harbertse lo era preso vicino e lo accarezzava; il cane si lasciava fare efregava il suo muso contro il braccio del ragazzo.

-Se si è trovato il canetroveremo anche il padrone - affermòil giornalista.

-Dio lo voglia! - esclamò Harbert. - Andiamo. Top ci guiderà.

Questavoltanemmeno Pencroff fece la più piccola obiezione.L'arrivo di Top poteva dare una smentita alle sue pessimistichecongetture.

-Andiamo - disse con risolutezza.

Copertacon cura la bragiail marinaioseguito da Harbert e dalgiornalistauscì nella notte dietro il cane che parevaesortare gli uomini ad affrettarsi con i suoi brevi latrati.

Latempesta aveva allora raggiunto il suo acme. La lunache si erafatta in quei giorninon riusciva a filtrare nemmeno un fil di lucetraverso le nuvole. Arduo era tenere una direzione precisaed erameglio lasciarsi condurre da Top. Spilett e Harbert camminavanodietro il caneil marinaio chiudeva la marcia. Non si potevaparlarela pioggia non era forte perché veniva polverizzatain aria dall'uraganoma la furia dell'uragano terribile. Ma unacircostanza si presentòfavorevolissimaper i tre temerari:e cioèil ventosoffiando da sud-estli spingeva; queiturbini di sabbia chese li avessero investiti di frontenonavrebbero loro permesso di procedereli ricevevano nella schiena ein tal modo la loro marcia non era per nulla ostacolata dallatempestaed era anzi assai più veloce di quanto non avesseroimmaginato e sperato. D'altro campoun'ardente speranza spronava iloro passi; questa volta non andavano più all'avventura; essisentivano con certezza che Nab aveva trovato il suo padrone e avevamandato alla grotta il fedelissimo e intelligentissimo Top. L'unicodubbio angoscioso era se avrebbero trovato ancor vivo l'ingegnere...

Dopoun primo tratto di camminosi fermarono un attimo a riprender fiatocontro una parete rocciosa che li proteggeva dall'uragano. In quelpuntopotevano parlareudirsi. Harbert aveva pronunciato il nome diCyrus Smithe Top aveva subito abbaiato come se avesse volutoassicurare i tre compagni che il suo padrone era salvo.

-TopTop... - disse Harbert- tu vuoi dire che il tuo padrone èsalvovero?

Toptornò ad abbaiare come se volesse rispondere all'affannosadomanda del ragazzo.

Furipresa la marcia. Erano le due e mezzo del mattino. L'alta mareacominciava a farsi sentireespinta dal ventominacciava di esserefortissima. Le grandi onde si spaccavano fragorose contro gli scogli.

Comeebbero lasciato la parete rocciosa che li difendevai tre uominifurono assaliti dalla furia del vento. Curvispinti dalla buferacamminavano di buon passo seguendo Toprabbrividendo per il freddoacuto che sentivano. Ma nessuno dei tre si lamentava: erano decisi aseguire l'intelligente cane fin dove esso li avrebbe condotti.

Versole cinquecominciò a balenare la luce del giorno. Qualchesfumatura grigiastra ruppe le tenebre a orientepoi una linea rossadisegnò vivacemente l'orizzontementrea occidenteemerserodal buio la costa rocciosa e il mare. Alle seiera giorno fatto. Sivedevano le nuvole correre rapide in altocacciate dal vento. Inquel momentoPencroff e i suoi compagni erano a circa sei migliadalla grotta. Camminavano sopra un greto pianeggiantelimitato allargo da una linea di rocce semisommerse dal maregonfio per l'altamarea. Dall'altro latouna fila di dune irregolari dava al paesaggioun aspetto squallido e triste. Qua e là due o tre alberisvettavano malinconicamente nel ventorami e fronde tesedisperatamente verso occidente. Più lontanonereggiava laforesta.

Aun certo puntoTop diede dei segni evidenti di agitazione. Correvaavantipoi tornava verso Pencroff agitando la coda e emettendo deiguaiti ansiosi: pareva che volesse stimolarli a far prestoancorapiù presto. Guidato dal suo infallibile istintoavevalasciato la costa e correva verso le dune. Lo seguirono; il luogo eradeserto. I monticelli sabbiosi si estendevano a perdita d'occhiocome una Svizzera in miniatura. In quel labirinto di collinettemicroscopiche tutti si sarebbero smarriti; ma Top andava consicurezzae li portò davanti a una specie di anfrattuositàscavata dentro una duna più alta. QuiTop si fermò eabbaiò forte. SpilettHarbert e Pencroff entrarono nellagrotta: e dentro trovarono Nab inginocchiato accanto a un corpodisteso sopra un letto d'erbe.

Erail corpo dell'ingegnere Cyrus Smith.




CAPITOLO8


Nabnon si mosse. Il marinaio gli chiese:

-Vivo?

Ilnegro non rispose. Spilett e Pencroff impallidironoHarbertcongiunse le mani e restò immobile. Era evidente che il poveronegroassorto nel suo dolorenon aveva visto i suoi compagni néinteso la domanda del marinaio. Il giornalista si inginocchiòaccanto al corpo dell'ingegneree gli posò l'orecchio sulpetto. Trascorse un minutoche parve un secolo; alla fine Spilett siraddrizzò e disse:

-Vive!

AnchePencroff si inginocchiò accanto all'immobile corpo di Smithanche il suo orecchio avvertì qualche battito lieve e unsottile soffio che uscì dalle labbra chiuse dell'ingegnere. Aun cenno del marinaioHarbert si precipitò fuoriper cercaredell'acqua. A cento passi dalla dunatrovò un ruscellod'acqua limpida e pura; non avendo nulla con cui raccogliere un pocodi quell'acquasi limitò a immergevi il suo fazzolettoe poitornò di corsa alla duna. Ma quel fazzoletto inzuppato d'acquabastò: Spilett lo appoggiò contro le labbradell'ingegneree quelle molecole d'acqua fresca operarono subito ilmiracolo... Un lungo sospiro sfuggì dal petto dell'ingegnere ele sue labbra si mossero come se pronunciassero qualche parola.

-Lo salveremo! - fece il giornalista.

Naba quelle paroleaveva ripreso animo. Svestì cautamente il suopadrone per vedere se avesse riportato qualche ferita; ma néil torsoné la testané le membra portavano il segnodi contusionie nemmeno di escoriature: e il fatto era veramentemiracolosoperché il corpo di Smith aveva dovuto rotolaresulla costain mezzo alle rocce.

Perfinole mani erano intatte; e non si riusciva a capire come mail'ingegnere non recasse i segni degli sforzi disperati che avevadovuto compiere per raggiungere la linea degli scogli.

Mala spiegazione di questo mistero doveva venire più tardi.Quando l'ingegnere avesse potuto parlareavrebbe raccontato tutte lesue vicende. Per il momento si trattava di richiamarlo in vitae losi sarebbe più agevolmente ottenuto con delle energichefrizioni. Il che fu subito fatto con fulmineo profitto. Riscaldato daquel massaggioinfattil'ingegnere mosse un poco le bracciarespirò più regolarmente. Era estenuato di stanchezza edi debolezza: ecertamentesenza l'arrivo tempestivo dei suoicompagninon si sarebbe risvegliato mai più.

-L'avevi creduto mortoil tuo padronevero? - chiese il marinaio aNab.

-Sìmorto; e se Top non vi avesse trovatiio avrei seppellitoil mio padrone e sarei morto accanto a lui.

Eccoa che cosa si doveva la vita di Cyrus Smith!

Nabraccontò poi le sue vicende. Dopo aver lasciato la grottaerarisalito lungo la costain direzione nord e cercato a lungo sullaspiaggia qualche piccolo indizio che lo mettesse sulla buona strada.

Avevascrutato soprattutto quella parte di spiaggia che l'alta marea noncopriva perchéaltroveil flusso e il riflusso dovevano avercancellato ogni traccia sulla sabbia. Nab non sperava ormai piùdi trovare il suo padrone vivo; ma andava alla ricerca del cadaveredel suo adorato padrone perché voleva seppellirlo con le suemani. Dopo lunghe e vane ricerchelasciata quella costasi eraspinto ancora verso nordpensando che forse la corrente poteva averspinto il corpo più lontano.

-Per altre due miglia - raccontò il negro - risalii la costavisitaiuno per unotutti gli scogli emersi per la bassa mareaegià disperavo di trovar qualcosaquandoverso le cinque diseravidi l'impronte di un passo.

-Impronte di un passo?

-Sì.

-E queste impronte cominciavano proprio alla fila di scogli?

-Nocominciavano al limite della mareaperché da questolimite agli scogli dovevano essere state cancellate.

-ContinuaNab - lo stimolò Spilett.

-Quando vidi quelle improntemi parve di impazzire. Eranoriconoscibilissimee si dirigevano verso le dune. Le seguii per unquarto di migliocorrendoma attentissimo a non perderle. Cinqueminuti dopoquando già scendeva la nottesentii il latratodi un cane. Era Tope fu Top che mi guidò quidentro questaspecie di grottaaccanto al mio padrone.

Nabfinì descrivendo il suo dolore trovando il corpo inanimatodell'ingegnere. Aveva cercato di sentire in quel corpo un segno divitama tutti i suoi sforzi erano stati inutilie si era persuasoche non gli restava ormai più che rendere gli estremi onori acolui che egli aveva adorato. Poi aveva pensato ai suoi compagni.C'era Top; non ci si poteva forse fidare della intelligenza edell'istinto di quel bravo animale? Nab disse alloraa voce fortedue o tre volteil nome del giornalistacome quello dei compagni diSmith che l'ingegnere conosceva da maggior tempo; quindi gli mostròla direzione da prendere; e il cane subito si lanciò abbaiandoverso il sud...

Icompagni di Nab avevano ascoltato il suo racconto con intensaattenzione. Ma c'era qualche cosa che non si riusciva a spiegare: ecioè come mai l'ingegneredopo gli sforzi che aveva dovutofare per sfuggire al maretraversando la scoglieranon avesse lapiù piccola graffiatura addosso; e altrettanto misterioso comefosse riuscito a raggiungerenelle condizioni nelle quali sitrovavaquella grotta scavata nelle dune.

-Non sei stato tu - chiese il giornalista a Nab - a portare il corpodell'ingegnere fino a qui?

-Nono.

-Bisogna concludere che l'ingegnere ci è arrivato da solo.

-Sìbisogna concludere così - ammise Spilett. - Ma èincredibile.

Laspiegazione del mistero non la si sarebbe potuta avere che dallabocca dello stesso ingegnere. Bisognava allora attendere che potesseparlare. Per fortunaperòla vita rifluiva in Cyrus Smithrapidamente; il massaggio aveva ristabilito la circolazione nelsangue. L'ingegnere tornò a muovere le bracciapoi la testapoi qualche incerta parola sfuggì dalle sue labbra. Nabcurvosu di luilo chiamavama l'ingegnere pareva non lo sentisse e isuoi occhi si mantenevano ostinatamente chiusi. Evidentementeisensi non si erano ancora risvegliati in lui.

Pencroffsi rammaricava di non poter fare un po' di fuoco. Avesse almenoportato con sé la striscia del suo fazzoletto bruciacchiata!

Avrebbepotuto facilmente ottenere del fuocobattendo una contro l'altra duepietre accanto a quella specie di miccia. Quanto alle taschedell'ingegnereerano assolutamente vuotetranne quella del suopanciotto che conteneva l'orologio. Bisognava trasportare subitol'ingegnere alla grotta: tutti furono dello stesso avviso.

Intantoperòle cure prodigate a Cyrus Smith dovevano restituirloalla vita più rapidamente di quanto nessuno sperasse. L'acquacon cui gli si umettavano le labbra lo rianimava a poco a poco.

Pencroffebbe a un certo punto l'idea di mescolare a quell'acqua un poco disugo della carne di tetrasche egli si era portato con sé.

Harbertcorse alla spiaggiae ne portò due grandi conchiglie cheaveva riempito d'acqua dolce al ruscello; Pencroff vi stemperòil sugoe quel liquido denso e scuro venne introdotto cautamentenella bocca di Smithche parve berlo con avidità.

Alloraaprì gli occhi. Nab e il giornalista erano curvi su di lui.

-Padrone! Padrone! - mormorò il negro.

L'ingegnerelo udì. Riconobbe Nab e Spilettpoi il marinaio e Harbertealzata faticosamente una manostrinse le loro mania una a unamollemente. E infinequalche parola sfuggì dalle sue labbraparole cheevidentementeaveva già dovuto pronunciare e cheindicavano quali pensieri tormentavano allora il suo spirito. Questavoltatutti le inteserole compresero:

-Isola o continente? - aveva sussurrato.

-Ah! - esclamò Pencroff. - Noi ce ne infischiamosignoringegneredal momento che siete vivo. Isola o continente? Lo vedremodopo.

L'ingegnerefece un debole cenno di assensoe parve addormentarsi.

Rispettaronoquel sonnoe il giornalista dispose subito perché lo sipotesse trasportare senza indugio alla grotta nelle condizionimigliori. NabPencroff e Harbert si diressero verso una duna vicinaalla sommità della quale sorgevano alcuni alberi magri.Andandoil marinaio ripeteva fra sé le parole mormoratedall'ingegnere:

-Isola o continente? Pensare a queste cose quando non si ha piùche un poco di respiro! Che sorta di uomo!

Giuntisulla dunai tresenz'altro utensile che le loro bracciastrapparono i rami maggiori di uno di quegli alberiecon queiramiformarono una specie di barella coperta di foglie e di erbe; edopo tre quarti d'oraverso le diecierano di ritorno. In quelmomentoCyrus Smith si risvegliava e si guardava intorno. Le sueguance avevano ripreso un po' di colore; riuscì a sollevarsisul gomito.

-Cyrus - gli chiese Spilett. - Potete ascoltarmi senza fatica?

-Sì.

-Io credo che il signor ingegnere vi sentirà anche megliointervenne Pencroff - se riassaggia ancora un poco di questo speciedi brodo freddo.

Eoffrì a Smith l'acqua nella quale era stato sciolto il sugo ditetrase dove il marinaio aveva mescolatoquesta voltaanchequalche pezettino di carne. Cyrus Smith masticò quei bocconidi carne lentamentementre gli altri si dividevano i resti di quellapoca carne che giudiziosamente Pencroff aveva portato con sé.

-La colazione è magra - osservò il marinaio- ma ciaspetta una colazione migliore nella nostra grotta. Signor Cyrusdovete sapere chelaggiùverso sudnoi abbiamo una casa condelle stanzedei lettiun focolare enella dispensaqualchedozzina di uova di colombi di roccia e degli uccelli che il nostroHarbert chiama coucourus. La barella è prontae quando ve lasentitenoi siamo qui per portarvi a casa.

-Grazieamico mio - gli rispose l'ingegnere. - Ancora un'ora o dueepotremo partire... IntantoditemiSpilett.

Ilgiornalista fece allora il racconto di tutto quello che era avvenutodalla caduta del pallonefino alla disperazione di Naballa suapartenza dalla grottaalla comparsa di Top.

-Ma...- chiese perplesso l'ingegnere- non siete stati voi a portarmiqui?

-No.

-A che distanza è questa grotta dalle scogliere?

-A circa un mezzo miglio - disse Pencroff; - e se vi meravigliate voianche noi siamo stupitie non poco.

-Già - mormorò Cyrus Smithche si era ripresonotevolmente. La cosa è veramente singolare.

-Non potete dirci che cosa vi è successo dopo che quel colpo dimare vi strappò dalla navicella? Cyrus Smith si concentròper ricordare; ma sapeva ben poco. Strappato via dal palloneeraaffondato in mare; tornato a gallaaveva sentito qualcosa aggirarsiaccanto a luiera il suo fedele Toplanciatosi in acqua persoccorrerlo. Alzando gli occhinon aveva più visto ilpallonechealleggerito dal suo pesoera balzato in alto con lavelocità di una freccia. Vistosi in marea una distanza di unbuon mezzo miglio dalla costatentò di nuotare con energiaaiutato da Top che lo reggeva per la giacca coi denti; poi unafortissima corrente lo preselo trascinò verso il nord. Dopouna mezz'ora di sforzisi era abbandonato insieme con Top alle ondee...

daquel momento non ricordava più niente.

-Eppurebisogna bene che siate stato gettato sulla costa osservòPencroff. - E bisogna che abbiate avuto la forza di trascinarvi sinquidal momento che Nab vi ha trovato.

-Già... bisogna pure...- disse pensoso Cyrus. - Ma... non avetevisto impronte di passi sulla sabbia?

-Nessuna - gli rispose Spilett. - Mad'altro cantose ci fosse unsalvatoreperché mai vi avrebbe abbandonato poisoloinquesta grotta?

-Anche questo è giustoSpilett. Nab - aggiunse l'ingegnerevolgendosi verso il suo fedelissimo negro- non sei stato tu a...

magaridurante un momento di abbandonodi incoscienza... Ma noèassurdo... Ci sono ancora delle impronte sulla sabbia?

-Sìpadrone - lo assicurò Nab. - Proprio contro questadunasul rovescioin un punto riparato dal vento e dal mare... Lealtre sono state cancellate dal mare.

-Pencroff - pregò l'ingegnere. - Usatemi la cortesia diprendere una delle mie scarpe e di controllare se vanno bene inquelle impronte.

Pencroffe Harbertguidati dal negrouscirono a eseguire quel controllomentre Cyrus Smith diceva al giornalista:

-Ci sono delle cose misteriose.

-Veramente misteriose.

-Per adessolasciamole stare. Cercheremo di spiegarle piùtardi.

Pochiminuti dopo Pencroff rientrava nella grotta. Non c'era possibilitàdi dubbio; le scarpe dell'ingegnere si adattavano esattamente aquelle impronte. Segno evidente che era stato lo stesso ingegnere alasciarvele.

-E va bene - concluse Cyrus. - Quegli attimi di incoscienza che iovolevo mettere in conto a Nabli ho avuti io. Avrò camminatocome un sonnambulosenza aver coscienza di quello che facevo; e saràstato Topnel suo istintoa guidarmi in questo sicuro rifugio. Topvieni qua! vieniTop!

Ilmagnifico animale balzò verso il padrone abbaiando e cercandodi lambirgli il viso teneramente...

Inrealtànon c'era altro modo per spiegare la cosa...

VersomezzogiornoCyrus Smithcon uno sforzo energico della sua volontàsi alzò in piedi; ma dovette appoggiarsi al marinaio per noncadere. Venne recata la barellaCyrus Smith vi si stese; e Pencroffe Nab reggendo il carico preziosotutti si misero in cammino versola grotta. C'erano otto miglia da fare; ma non si poteva andare infrettasarebbe stato necessario sostare ogni tantoera insommanecessario contare sopra sei ore di cammino per arrivare alla meta.

Ilvento era sempre violentoma non pioveva più. Lungo lastradal'ingegnereappoggiato al gomitoosservava la costa equella terra ignota. Non parlavama scrutava con attenzione terraforestasabbiaroccia; poidopo due orela stanchezza ebbe su dilui il sopravventoe si addormentò profondamente.

Allecinque e mezzo la comitiva arrivò presso la grotta; tutti sifermaronola barella fu deposta sulla sabbia. Cyrus Smith dormivasempre.

Pencroffcon suo sommo stuporeintanto si guardava intorno: la spaventosatempesta aveva cambiato la faccia al luogo. Nuovi ammmassamenti dirocce si erano formatie il mare doveva essere giuntocon le sueondate furentifino lìperché tutto apparivasconvolto caoticamente. Davanti all'ingresso della loro grottapoiil terreno era addirittura scavatosconquassatoirriconoscibile.

Ilmarinaio ebbe come un presentimento drammaticoe si precipitònella grotta. Quasi subito ne uscivae sostava immobilele bracciapenzoloniguardando angosciato i suoi compagni...

Ilfuoco era spento; le ceneri ridotte a fanghiglia; la striscia difazzoletto bruciacchiatascomparsa... Il mare aveva fatto irruzionefino in fondo alla grotta e vi aveva tutto distrutto.




CAPITOLO9


QuandoSpilettHarbert e Nab seppero dell'accadutonon si turbarono comePencroff avrebbe creduto. Per luiil disastro era gravissimo. MaNabfelice di aver ritrovatoe sano e salvoil suo padronenon loascoltò nemmeno; e Spilett disse al marinaio:

-Vi assicuroPencroffche non me ne importa proprio un gran che.

-Ma lo sapete che non abbiamo più fuoco?

-Peuh...

-E neanche un mezzo per riaccenderlo?

-Pazienza.

-Masignor Spilett...

-Non è quicon noiCyrus Smith? Non è quivivo esano? E allora state sicuro che troverà bene il modo diprocurarci del fuoco.

-Con che cosa?

-Con niente.

Checosa poteva rispondere Pencroff? Nienteperchéin fondodivideva egli pure la fiducia dei compagni nell'ingegnere. Per lorol'ingegnere era un piccolo mondoun concentrato di tutta la scienzae di tutta la intelligenza umana. Trovarsi in un'isola deserta conCyrus Smith era come trovarsi in una grande città americanasenza di lui.

Conluinon sarebbe mancato niente; con luiera inutile disperare.

Sefossero venuti a dire a quei naufraghi che una eruzione vulcanicastava per distruggere quella terrache quella terra stava persprofondare negli abissi dell'Oceanoessi avrebbero tranquillamenterisposto:

-C'è qui Cyrusandate a dirlo a lui.

Intantoperòl'ingegnere dormiva profondamentein preda a unaprostrazione provocata dai disagi di quel lungo trasportoe non sipoteva ricorrere a lui. La cena allora doveva necessariamente esserefredda e magra. Finita la carne di tetrasportati via dal mare icouroucusnon c'era che... rinviare a miglior occasione il pranzo.

Cosìprima di tuttovenne portato l'ingegnere dentro la grottanel puntomeglio riparatoe disteso sopra una cuccetta di alghe secche.

Lanotte era scesaecon la notteun freddo acuto chepenetrando perle fessure della grotta sconvolta dai marositormentava i naufraghi.Anche l'ingegnere si sarebbe trovato assai malese i suoi compagnilevatisi le giacchenon l'avessero sollecitamente coperto.

Pertutta cenaquella sera ci si dovette accontentare dei solitilitodomi abbondantemente raccolti sulla spiaggia da Harbert e da Nab.

MaHarbertai molluschiaggiunse una certa quantità di alghecommestibili che aveva trovato sopra alcune alte scogliere: eranoalghe gelatinose assai ricche di elementi nutritivi. Il giornalista ei suoi compagni le gustaronodopo i molluschie le trovaronoabbastanza buone.

-E' proprio tempo - osservò il marinaio - che l'ingegnere vengain nostro aiuto.

Nelfrattempoil freddo si era fatto pungentee non c'era alcun mezzoper difendersene. Il marinaio cercò tutti i modi possibili peraccendere un po' di fuocoe Nab l'aiutò del suo meglio. Avevatrovato delle erbe secche esfregando energicamente due pietreriuscì a ottenere delle scintille; ma le erbe secche non eranosufficientemente infiammabilie non si accesero. Insommaquelprocedimento fallì.

Pencrofftentò allora di fregare due pezzi di legnoall'usanza deiselvaggi. Certoi movimenti che Nab e il marinaio impressero ai duelegnise non bastarono a produrre il fuocosarebbero bastati a farbollire una intera caldaia. Maquanto a fuocoil risultato funulla.

Idue pezzi di legno si riscaldarono: i due operatori ancora di più;e questo fu tutto.

Dopoun'ora di quella erculea faticaPencrofftutto bagnato di sudorebuttò via i due legnie brontolò:

-Quando verranno a dirmi che i selvaggi accendono il fuoco in questamanierafarà caldo anche d'inverno. Accenderei piuttosto lemie bracciafregandole l'una contro l'altra. Ii marinaio sbagliavanel negare l'efficacia di quel procedimento. I selvaggi ottengonoveramente il fuoco; ma i loro movimenti sono rapidissimie poi nontutte le qualità di legno servono allo scopo; e infine c'èil «colpo»ossia il gesto preciso; ed è probabileche Pencroff non l'avesse...

Comunqueil cattivo umore del marinaio non fu di lunga durata. I due pezzi dilegno buttati via da luierano stati raccolti da Harbert che si eraaccinto vigorosamente all'impresa.

-Fregafregafigliolo - lo esortò ridendo Pencroff.

-Sìfrego; ma non ho altro scopo che di riscaldarmi un poco; epresto avrò caldo come tePencroff.

Edifattifu così. Quanto al fuocobisognò rinunciarviper quella notte. Spilett ripeté per la ventesima volta che alfuoco avrebbe senz'altro provveduto l'ingegnere; ein attesasistese sulla sabbiain un angolo della grottae ben presto tutti loimitarono.

Topdormiva accucciato ai piedi del suo padrone.

L'indomani28 marzosvegliandosi che erano le otto del mattinoCyrus Smith sivide intorno i suoi compagni che aspettavano il suo risveglioesubito chiese: - Isola o continente?

Eracome si vedela sua idea fissa.

-Signor Cyrus - gli rispose Pencroff. - Non ne sappiamo proprio nulla.

-Non lo sapete ancora?

-Ohma lo sapremo presto - aggiunse il marinaio. - Basterà chevoi ci guidate un poco per questo paese.

-Credo che sarò in condizioni di farlo - disse l'ingegnerealzandosi e tenendosi dritto in piedi senza troppo sforzo.

-Ecco una bella cosa! - esclamò Pencroff.

-Piuttosto - aggiunse Cyrus Smith- sento che sto per morire di fame.Amici mieiun po' di ciboper piacere. Penso che avrete un po' difuoco.

Aqueste parole fece seguito un desolato silenzio di tutti; poi ilmarinaiosospirandodisse:

-Ahimèsignor Cyrusnon abbiamo neanche un po' di fuoco; omeglionon ne abbiamo pi.

Egli raccontò quello che era accaduto il giorno primadivertendo l'ingegnere con la storia dell'unico zolfanello e dei suoidisperati e vani tentativi per procurare del fuoco secondo l'uso deiselvaggi.

-Behvedremo - fece l'ingegnere; - se non potremo procurarci qualchecosa che assomigli a un'esca...

-Allora?...

-Allorafabbricheremo degli zolfanelli.

-Chimici?

-Chimici.

-Facilissimocome vedete - intervenne Spilettbattendo una manosulla spalla di Pencroff. Quanto a Pencroff non era dello stessoparere circa la facilità di quella fabbricazionema non disseverbo.

Etutti uscirono. Il tempo si era fatto belloun sole fulgentebrillava sul mare e metteva iridescenze dorate sopra la muraglia digranito. Dopo aver guardato in giro per pocol'ingegnere si sedettesopra un sassoHarbert gli offrì una manciata di litodomo edi alghe.

-Non abbiamo altrosignor Cyrus.

-Ohgrazieragazzo mio. Basteràalmeno per questa mattina.

Emangiò con appetito quei magri cibi che annaffiò conl'acqua fresca e pura tratta dal fiume in una conchiglia. Intorno aluii suoi compagni lo guardavano in silenzio; e Cyrusrifocillatosicominciò:

-Alloraamici mieinon sapete ancora se il destino ci ha buttatisopra un'isola o un continente?

-No.

-Lo sapremo domani. E fino ad alloranon abbiamo niente da fare.

-Ohsì - fece Pencroff.

-E che cosa?

-Del fuoco.

-Ne faremoPencroff. Maa propositomentre ieri mi trasportavatemi è parso di vedere verso occidente una montagna che dominatutta questa zona. O m'inganno?

-Nono; la montagna non c'è - lo assicurò Spilett- edev'essere abbastanza alta.

-Benedomani saliremo sulla sua cima e vedremo se siamo sopraun'isola o sopra un continente. Fino a quel momentonon possiamo farnulla.

-Del fuocosignor ingegnere - ripeté l'ostinato marinaio.

-Ma sìma sìci sarà anche il fuoco -intervenne Spilett. Un po' di pazienzaPencroff!

Ilmarinaio guardò Spilett con aria di rimproverocome sevolesse dirgli: «se non ci foste che voiquiaddio speranzadi gustar mai dell'arrosto!». Ma non gli disse nulla.

CyrusSmith non aveva detto parolapareva preoccupatissimo di questafaccenda del fuocomadopo qualche secondo di riflessionedisse:

-Amici mieila nostra situazione è proprio miserrima; ma haquesto di buono: che è semplicissima. O siamo sopra uncontinentee alloraa costo di fatiche più o meno durearriveremo a qualche luogo abitato; o siamo sopra un'isolae inquesto caso due sono le ipotesi:

oessa è abitatae cercheremo di sistemarci coi suoi abitantio essa è disabitatae ce la caveremo da soli.

-Sìpiù semplice di così...- fece Pencroff.

-Maisola o continente - chiese Spilett - dove pensate mai chel'uragano ci abbia gettati?

-Con precisione proprio non saprei dirvi; presumo sopra una terra delPacifico. Difattiquando abbiamo lasciato Richmondil ventosoffiava da nord-este la sua stessa violenza ci dimostra che non hadovuto subire delle variazioni di direzione. Se la sua direzione si èdunque mantenuta da nord-est a sud-ovestnoi abbiamo traversato gliStati della Carolina del nord e del suddella Georgiail golfo delMessicoil Messico e quindi una porzione del Pacifico. Credo che ilpercorso coperto dal pallone non sia stato inferiore alle sei o settemigliaeper poco che il vento abbia variato d'un mezzo quartohadovuto portarci o sull'arcipelago di Mendanao sulle Pomotouoppurese soffiava con una velocità maggiore di quanto iopensianche sulle coste della Nuova Zelanda. Se quest'ultima ipotesifosse la verail nostro rimpatrio sarebbe facilissimo. Inglesi oMaoritroveremo sempre qualcuno con cui parlare. Seviceversaquesta costa appartiene a qualche isola deserta di qualche arcipelagodella Micronesiapotremo vederlo dall'alto della montagnadomanieallora studieremo di sistemarci qui come se non dovessimo andarcenemai più.

-Mai più?! - esclamò Spilett. - E siete voi che ci ditemai più?!

-Meglio sempre prevedere il peggioe serbare soltanto la sorpresa delmeglio.

-Ha ragione - intervenne Pencroff; - ha ragione il signor ingegnere.

Bisognapoi anche sperare che quest'isolase è un'isolanon siaproprio all'infuori delle rotte delle navi...

-Ma non sapremo mai niente di preciso fino a quando non avremo fattola salita di quella montagnaamici miei.

-Domani... - intervenne pensoso ed esitante Harbert; - domani visentirete poi in condizione di poter affrontare un'escursione comequella?

-Io lo spero - gli rispose l'ingegnere; - ma a una condizione: chePencroff e te vi dimostriate dei bravi cacciatori.

-Signor Cyrus - gli rispose pronto il marinaio- dal momento che ciparlate di selvagginaio vi dirò che se avessi la certezza dipoterla fare arrostire al mio ritorno così come ho la certezzadi portarvela qui alla grotta...

-Behvoi portatelaPencroff.

Fucosì deciso che Cyrus e Spilett sarebbero rimasti alla grottaper esaminare la costa e salire fino all'altipianomentre NabPencroff e Harbert sarebbero andati a compiere un lungo giro nellaforesta per far provvista di legna e dare addosso a tutta quellaselvaggina di piuma o di pelo che avessero potuto trovare.

Versole dieci del mattinopartironoHarbert tutto fiduciosoNab felicee Pencroff mormorante tra sé e sé:

-Se quando torno trovo del fuocoè segno che è sceso unfulmine ad accenderlo...

Poichiese ai suoi due compagni:

-Che facciamoprima? I cacciatori o i legnaioli?

-Facciamo i cacciatori - gli rispose Harbert. - Vedo Top che puntagià.

-E allora andiamo a caccia. Al ritornopasseremo di qui a fare laprovvista di legna.

Strapparonotre grossi rami a un albero e seguirono Top che andava correndo fral'alte erbe. Mainvece di seguire la sponda del fiumequesta voltaPencroff si diresse direttamente verso il cuore della foresta. Eranosempre le stesse conifere chequa e làavevano dimensionigigantesche e parevano quasi indicare che la latitudine di quellaignota terra fosse più elevata di quanto non supponessel'ingegnere. Tratto trattoqualche radura appariva completamentecoperta di legna seccae in tanta quantità da formare unariserva di combustibile inesauribile. Orientarsi in mezzo a quelcolonnato di conifere era assai difficile; per questoil marinaiosegnava la sua strada spezzando dei rami che lasciava penzoloni suglialbericosicché sarebbe stato poi facilenel ritornoriconoscere il cammino da seguire. Maforsesarebbe stato meglioseguire ancora il corso del fiumeperchédopo una buona oradi camminonon avevano incontrato ombra di selvaggina. Topcorrendofra l'erbenon aveva fatto levare che degli uccelli che non silasciavano avvicinare.

Invisibilierano anche i couroucuse pareva ormai fatale che il marinaio sidecidesse a tornare in quella parte acquitrinosa della foresta doveil giorno innanzi aveva così fruttuosamente «pescato»i tetras.

-Pencroff mio - disse a un certo punto Nab- se è tutta questala selvaggina che avete promesso di portare a casanon ci vorràcerto un gran fuoco per arrostirla.

-PazienzaNab; non sarà certo la selvaggina che mancheràal nostro ritorno.

-Non avete fiducia nel signor ingegnere?

-Sì.

-Ma non credete che potrà fare del fuoco?

-Lo crederò quando vedrò la fiamma scoppiettare sulfocolare.

-La vedretedal momento che il mio padrone ve lo ha assicurato.

-Staremo a vedere.

Continuaronoil camminoe Harbert trovò un albero dai frutti commestibili:era un pino carico di pignolipiccole mandorle specialiin perfettostato di maturità. Ne raccolsero moltissimee Pencroffriavviandosiosservò:

-Ecco qua: delle alghe come panedei molluschi come carne e deipignoli come frutta: il pranzo tipico di chi non possiede nemmeno unfiammifero!

-Non lamentiamociPencroff! - lo ammonì Herbert.

-Non mi lamentofigliolo mio; osservo soltanto che la carne èun po' poco rappresentata in questa lista.

-Top ha visto qualcosa... - gridò Nab correndo verso un foltodove il cane si era lanciato abbaiando. Ai suoi latrati simescolavano degli strani grugniti.

Pencroffe Harbert avevano seguito Nab. Se c'era qualche capo di selvagginanon era il momento di stare a discutere sul modo di farla cuocere;bisognava prima di tutto prenderla!

Appenaentrati in quel foltovidero Top alle prese con una bestia che avevaghermito per un orecchio: era una specie di piccolo porcolungo pocomeno di un metronerastrodal pelo duro e radoche si tenevadisperatamente aggrappato a terra con le sue zampe membranose.Harbert riconobbe subito in quell'animale un grosso roditore. Essoinvece di lottare contro il canese ne stava immobileguardando congli occhietti terrorizzati i tre uominiche forse gli erano unospettacolo nuovissimo. Nabarmato del suo bastonestava percolpirloquando l'animale si svincolò dalla stretta di Toplasciandogli un pezzo d'orecchio in boccagettò un minacciosogrugnito e si buttò contro Harbertrovesciandolo mezzo aterra e sparendo poi nel folto della foresta.

-Ahil manigoldo! - gridò Pencroff.

Tuttie tre si lanciarono sulle peste di Top e già stavano perraggiungerlo quando il cane si buttò dentro un vastoacquitrino steso all'ombra di pini secolari.

NabHerbert e Pencroff si fermarono a guardare. Top nuotava e cercava ilroditoreche si era accucciato sul fondo dello stagno e noncompariva.

-Dovrà pur tornare alla superficie a respirare! - disseHarbert.

-Non si annegherà? - chiese Nab.

-No; è quasi un anfibio. Stiamo attenti.

MentreTop nuotava in mezzo allo stagnoPencroff e Harbert andarono acollocarsi sulle rive in modo da chiudere ogni via di ritirata alroditore. Harbertdel restonon si era ingannato; dopo qualcheminuto l'animale riaffiorò alla superficie. Top con un balzogli fu addossoimpedendogli di rituffarsi e trascinandolo verso larivadove Nab lo finiva con una randellata precisa.

-Evviva! - esclamò Pencroff. - Datemi dei carboni ardentie vipreparerò un arrosto succulento.

Colroditore sulle spalleNab si avviòseguito dai due compagniper la strada del ritorno. Dall'altezza del solegiudicarono chedovessero essere le due del pomeriggio. A ritrovare la strada delritornonel folto della forestali aiutò assai l'istintodell'intelligente Top. Mezz'ora dopoinfattierano in vista dellagrotta. E allora Pencroff si fermòstettero un attimosilenziosopoi tendendo la mano verso la grottagridò:

-Evviva! Evviva! Guardateguardate!

Unacolonna di fumo saliva su dalla grotta e si perdeva in lente volutenel cielo.




CAPITOLO10


Qualcheminuto dopoi tre cacciatori si trovavano davanti a una bellafiammataaccanto alla quale sedevano l'ingegnere e il giornalista.

Pencroffreggendo la sua predali guardava in silenzio.

-Ebbenesìcaro mio - gli disse il giornalista. - Questo èfuocoun autentico fuoco che arrostirà questo magnifico capodi selvaggina al quale faremo tutti onore.

-Ma... chi l'ha acceso? - domandò Pencroff.

-Il sole.

Questarisposta di Spilett era esatta. Era stato il sole a fornire quelcalore che stupiva Pencroff. E Pencroff era talmente stupito che nonpensava nemmeno di interrogare l'ingegnere. Fu Harbert che glidomandò:

-Ma avevate una lentesignor Cyrus?

-Noragazzo mio - gli rispose Smith. - Me ne sono fabbricata una.

Emostrò l'apparecchio che gli aveva servito da lente. Non eraaltro che l'unione dei due vetri di orologio tratti dal suo e daquello del giornalista. Aveva riempito la cavità fra i duevetri di acqua e reso i loro orli aderenti per mezzo di un poco diargillae si era fabbricato così una vera e propria lente;concentrando i raggi del sole sopra dell'erba molto seccal'avevaincendiata.

Ilmarinaio guardò l'apparecchiopoi l'ingegneree non disseparola.

Mail suo sguardo parlavaed eloquentementeper lui. Se Cyrus Smithnon era un dioera certamente qualche cosa di più che unuomo.

Finalmenteparlòe disse:

-Notatenotate questo miracolo sul vostro taccuinosignor Spilett!

Pocodopoil roditore crogiolava sul fuoco.

Lagrotta era stata resa assai più abitabile: erano state turatetutte le falle e le incrinature fra parete e paretee il fuocodiffondeva dappertutto un gradevole calore. L'ingegnere e Spilettavevano bene impiegato la loro giornatainsomma. Ormai Cyrus avevacompletamente recuperato le sue forzee si era anzi spinto sinosopra la muraglia di granitoe di lassù aveva a lungocontemplatocon occhio espertola montagna che si proponeva discalare l'indomani. Essa si trovava a circa sei miglia di distanzaverso il sude doveva essere alta circa millecinquecento metri. Diconseguenzal'ingegnere calcolò che da quella vetta sisarebbe potuto spaziare con l'occhio per un raggio di circa cinquantachilometri. Era dunque probabile che si sarebbe potuto finalmenterisolvere il problema «isola o continente» cheperCyrusera il più assillante.

Quellaserasi cenò di gusto. La carne del roditore fu dichiarataeccellentele alghe e i pignoli completarono convenientemente lacena durante la qualeperaltrol'ingegnere parlò pochissimopreso com'era dai progetti per l'indomani. Due o tre voltePencroffespose delle idee su quello chesecondo luisarebbe statoconveniente fare; ma Cyrus Smithche era uno spirito metodicosiaccontentò di scuotere la testa.

-Domani - affermò - sapremo dove siamoe potremo decidere sulda farsi.

Finitala cenaaltre bracciate di erbe secche e di legna furono gettate sulfuocoe tutti gli ospiti della grottaTop compresosiaddormentarono tranquillamente. Fu una notte senza incidentiel'indomani - 29 marzo - tutti si svegliarono freschi e riposatipronti a intraprendere quella escursione che doveva decider dellaloro sorte.

Tuttoera pronto per la partenza. I resti del roditore potevano bastare pertutti per altre ventiquattr'oreed'altra partec'era la fondatasperanza di poter catturare altra selvaggina durante il viaggio.Furono rimessi al loro posto i due vetri dei due orologie Pencroffabbruciò un altro spicchio del suo fazzoletto perchéservisse da esca: come acciarinoavrebbero certamente trovato delleselci su quel terreno vulcanico.

Allesette e mezzo del mattinoarmati di nodosi randellii viaggiatorisi mettevano in camminolungo la forestache pareva la strada piùdiretta per arrivare alla montagnae seguendo per un buon tratto lasponda sinistra del fiume. Fu ritrovato il sentiero nel foltogiàaperto da Pencroff nei suoi precedenti viaggi. Alle noveeranogiunti al limite occidentale della foresta. Quiil terrenodaacquitrinoso primasi era fatto secco e sabbiosoe già inleggera pendenza che saliva verso l'interno del paese. Sotto glialberi si erano incontrati degli animali che erano fuggiti viavelocissimi all'avvicinarsi della comitiva. Top li faceva schizzarvia dai loro rifugi e avrebbe voluto inseguirlima l'ingegnererichiamava il cane con un fischio: non era ancora il momento dipensare alla caccia. Più tardise mai. Cyrus non era uomo dalasciarsi smuovere dalla sua idea fissa: probabilmenteanzinonguardava nemmeno il paesaggio: il suo solo obbiettivo era la montagnache voleva a tutti costi scalaree verso la quale puntava in lineadiretta.

Allediecifecero un alt di qualche minuto. Usciti dalla forestatuttoil sistema orografico della zona apparve ai loro occhi. La montagnasi componeva di due coni: il primotronco all'altezza di circaottocento metriappoggiava su dei capricciosi contrafforti cheparevano ramificarsi come le diverse ugne di un solo artigliopiantato sul terreno. Fra questi contrafforti si aprivano delle vallistrette e profondeirte di alberi altissimi. Verso nord-est peròil dorso del monte si faceva più brullo e vi si scorgevanodelle zebrature che dovevano essere colate di lava solidificata. Suquesto primo cono s'alzava un secondo conoleggermente arrotondatosulla cimae che era piantato un poco di traversocome un cappellomesso di sghimbescioe che era formato di terra aridaseminata dirocce rossastre. Bisognava salire sulla sommità di questosecondo cono e la cresta dei contrafforti pareva la strada miglioreper arrivarci.

CyrusSmith aveva detto ai compagni che quello era un terreno vulcanicoedessiseguendolocominciarono a inerpicarsi per il dorso di uno diquei contrafforti checon una linea sinuosa e perciò piùfacilmente accessibileportava alla sommità del primo cono.

Evidentie numerose eranoqua e làle tracce dei sommovimentivulcanici: blocchi erraticidetriti basalticipietre pomiciossidiane. Ogni tantoun ciuffo di coniferesempre più rade.

Durantequesta prima parte dell'ascensioneHarbert fece osservare leimpronte di grossi animalifiere od altreche testimoniavano di unpassaggio abbastanza recente.

-Penso - disse Pencroff - che questi animali non ci cederanno moltovolentieri il loro regno.

-In questo caso - gli rispose Spilettche aveva già cacciatola tigre nelle Indie e il leone in Africa - ce ne sbarazzeremo.Comunqueteniamoci pronti a ogni attacco.

Intantosi saliva a poco a poco. Il camminoallungato da volte e giravoltenecessarie per i molti ostacoli che si frapponevano a una salita inlinea rettaera assai lento. Tratto tratto il terreno mancavaall'improvvisoe ci si trovava sull'orlo di profondi crepaccichebisognava girare pazientemente. A mezzogiornoquando il gruppetto diviaggiatori si fermò per la colazione ai piedi di un grossociuffo di abetiaccanto a un ruscello che scendeva verso il piano incascatelle spumeggiantinon si era ancora giunti a mezza strada dalprimo cono cheverosimilmentenon sarebbe stato raggiunto che alcader della notte.

Dalpunto dove si trovavanol'orizzonte del mare spaziava assai; masulla destrail panoramainterrotto dal promontorio che si staccavadalla costanon consentiva di spingere gli sguardi più oltree stabilire se la costa continuasse o si agganciasse a qualche altraterra. Anche a sinistradel restogli sguardi dei viaggiatoriperquanto avessero davanti a loro un campo visivo di parecchichilometriera fermato dalla cresta di un contrafforte. Non sipoteva dunque dare una risposta neanche approssimativa alla domandadell'ingegnere Smith.

Allauna del pomeriggiosi rimisero in cammino. Passando sotto un boscoceduosi scorsero molti esemplari di fagiani di montegrossi comegalli normali; e Gedeone Spilett fu così abile e fortunatod'abbatterne uno con una sassata precisa. Pencroff corse araccoglierlo sentendosi venire l'acquolina in bocca. Usciti dalboscoi viaggiatori attaccarono una ripida scarpata che portavasopra un terrazzo naturaledi natura vulcanicasenza alberi eciuffi d'erbe.

Daquiil cammino si faceva più arduo: si trattava di tagliaredei pendii sassosi dove bisognava badar bene a piantare esattamenteil piede sopra un punto consistente per evitare di scivolare a valle.Nab e Harbert marciavano in testaPencroff chiudeva la marciaCyruse Spilett camminavano al centro. Gli animali che frequentavano quellazona - e non ne mancavano tracce qua e là - dovevanoappartenere certamente alla famiglia dei camosci o degli stambecchi.Se ne vide anzi qualcuno; e Pencroff esclamò additandoli:

-Làlà... dei montoni!

Sierano tutti fermati a guardare: erano una mezza dozzina di esemplariassai grossidalle piccole corna ricurve all'indietrodal pelolanoso color fulvo. Harbert li riconobbe subito per mufloni.

-Se ne possono trarre degli arrosti e delle costolette? chiesePencroff.

-Perbacco!

-E allorasono dei montoni.

Immobilisui sassiquei mufloni guardavano stupiti quei «bipedi»che vedevano molto probabilmente per la prima volta. Poia untrattopresi da chissà quale istintivo terroresi lanciaronoin un velocissimo battibaleno.

-Arrivederci - gridò Pencroff con un sospiro così comicoche tutti risero.

Furipresa la marcia. La natura vulcanica del suolo appariva sempre piùevidente. Tracce di laveche zigzagavano per il dorso del monte;piccole solfature che sbarravano tratto tratto il cammino; ceneribiancastre luccicanti di migliaia e migliaia di cristalli. Quando sifu vicini alla sommità del primo conole difficoltàdell'ascensione si accrebbero. Ormai - erano le quattro delpomeriggio - la zona alberata era cessata; non restava più chequalche pino isolato che durava certo fatica a resistere ai soffi delfreddo vento che veniva dal largo. Fortunatamenteil tempo erabellol'aria tranquillala serenità perfetta. Il sole eranascosto dietro lo schermo massiccio del secondo cono la cui ombragigantescastendendosi fino giù alla costadilagava semprepiù man mano che l'astro radioso scendeva verso l'orizzonte.Già qualche nebbia violacea cominciava ad apparire versooriente.

Undislivello di poco più di centocinquanta metri li dividevadalla sommità del primo cono dove Cyrus aveva deciso dipiantare l'accampamento per quella notte. Ma quei centocinquantametri diventarono un cammino di due miglia abbondanti per gliinnumerevoli zig zag che si resero necessari. Il terreno mancavasotto i piedi sull'erta ripidissima lastricata di lave sulle quali siscivolava senza che nulla si offrisse come appiglio ai cinquescalatori. Era quasi nottequando Cyrus e i suoi compagnistanchissimidopo sette ore di marciasbucavano sul pianoro chesegnava la sommità del primo cono.

Nonfu difficile trovarefra le rocce che formavano la base del secondoconoun ricovero ben riparato; venne raccolto del muschio secco edell'erba arida; Pencroffcon quelle pietrecostruì unaspecie di focolare; fu trovata una selce chepercossafecesprizzare alcune scintille e la miccia-fazzoletto le raccolsepoisotto il soffio di Nable trasformò in fiamma. Pochi minutidopo un fuoco vivificatore scoppiettava allegro dentro il rifugio.Come cenaNab servì i resti del roditore e qualche dozzina dipignoli: il fagiano di montedoveva servire per l'indomani.

Fualloraed era già quasi buioche Cyrus Smith ebbe l'idea diandare a riconoscere la base del cono superiore. Prima di riposareegli voleva accertarsi se quel cono poteva essere girato alla suabase nel caso che il suo dorso si presentasse troppo ripido per unascalata in linea retta. Lo tormentava il dubbio che il pianoro sulquale si trovavano fosse impraticabile dal lato opposto e che ilfianco del secondo cono fosse così impervio da non poterloassolutamente scalare:

nellaquale eventualitàbisognava rinunciare definitivamente araggiungere la sommità della montagna. E cosìnoncurante della stanchezzamentre Pencroff e Nab organizzavano lecuccette d'erbe per la notte e Spilett annotava sul suo taccuino lacronaca della giornatapartìaccompagnato da Harbert.

Lanotte era bella e tranquillal'oscurità non ancora profonda.I due camminavano l'uno accanto all'altro senza parlare. Dopo unaventina di minuti di camminofurono costretti a fermarsi: il pendiodei due coni era ormai un solo pendionon li divideva piùnemmeno una striscia di terreno; e salire su per quell'erta quasiverticalediventavamassime a quell'oraimpossibile. Ma davanti aidue esploratori si spalancava un profondo imbuto scavato nel terreno:era il collo del cratere superioreda dovequando il vulcano era inattivitàsgorgavano i rivoli di lava. Orale lavepietrificatele scorie incrostate formavano una specie di scalinatanaturale che facilitava l'ascensione della montagna. Cyrus s'avvidedi quella fortunata disposizione del terreno esenza esitareseguito dal ragazzosi avventurò dentro l'enorme cratere.C'era ancora un dislivello di oltre trecento metri da superare. Ma ipendii interni di quel cratere sarebbero stati praticabili? Cyruscontinuò il suo cammino; fortunatamentequei pendii sifacevano sempre più allungati e sinuosidescrivevano un largopasso di vite nell'interno del vulcano e favorivano l'ascensionedella montagna. Ormaiil vulcano era spento; spentoforsedasecoli. Non il più piccolo filo di fumo sfuggiva dai suoifianchinon la più piccola fiammané dalle sueviscereormai pietrificateuscivano quei sordi boatiquei fremitiche sono tipici dei fuochi sotterranei. L'atmosfera stessa delvulcanodentro il craterenon era affatto impregnata di vaporisolforosima purissima.

Iltentativo dell'ingegnere doveva avere successo. A poco a pocoHarbert e Cyrussalendo lungo le pareti interne del vulcanovideroil cratere allargarsi al di sopra delle loro testee il cieloinquadrato dentro gli orli di quel cratere accogliereman mano chesalivanosempre nuove costellazioni: le stupende costellazioni diquel cielo australe. Allo zenit brillava fulgentissima quella delloScorpione; poco lontano quella del Centauro; poi apparve quella delPesceil Triangolo australe efinalmentequasi al polo antarticodel globoquella scintillante Croce del Sud che è la stellaPolare dell'emisfero australe.

Alleotto Cyrus e Harbert mettevano il piede sulla sommità delsecondo conosulla vetta della montagna. Il buio era fondoaquell'orae lo sguardo non andava oltre un raggio di due migliaall'intorno. Il mare circondava quella terra da ogni latooppureessa si agganciavaa occidentea qualche altra terra del Pacifico?Non si poteva ancora vedere. Verso occidenteuna banda nuvolosanettamente disegnata all'orizzonteaccresceva il buio e l'occhio nonsapeva distinguere se il cielo e il mare si confondessero sopra unasola linea circolare.

Main un punto dell'orizzonteall'improvvisoapparve una debole luceche lentamente scendevaman mano che quella striscia di nuvolesaliva verso lo zenit. Era la falce della luna crescentegiàprossima al tramonto. Ma quella sua poca luce rossastra bastòa disegnare con precisione la linea orizzontaleallora staccatadalla banda nuvolosa:

el'ingegnere poté vedereper un attimoquell'arco di lunariflettersi sopra una superficie liquida. Alloraprese una mano alragazzo e gli disse con voce grave:

-E' un'isola!

Inquell'attimoil quarto di luna si spegneva calando dietro i fluttidel mare.




CAPITOLO11


Mezz'oradopoCyrus e Harbert erano di ritorno all'accampamentoel'ingegnere si limitava a comunicare ai compagni che la terra che liospitava era un'isola e chel'indomanisi sarebbe deciso sul dafarsi. Poi ognuno si accomodò meglio che poté einquell'anfratto rocciosoa ottocento metri d'altezzanellasilenziosa serenità della nottegli «isolani»dormirono d'un sonno profondo.

L'indomani30 marzodopo una rapida colazionenella quale il fagiano di montearrostito figurò al primo postoCyrus volle tornare in cimaal vulcanoesaminare con attenzionealla luce del solel'isola cheli ospitavavedere se a qualche distanza non si scorgesse qualcheterra e se non fosseper avventuralungo la rotta delle navi chevisitano gli arcipelaghi del Pacifico. Questa volta però tuttii suoi compagni lo accompagnarono: anch'essi erano ansiosi di vederel'isola dove il destino li aveva gettati.

Dovevanoessere circa le sette quando partirono. Nessuno appariva turbato.Erano pieni di fiducia in loro stessi; ma il punto d'appoggio di talfede non era però lo stesso in Cyrus Smith e nei suoicompagni.

Cyrusaveva fiducia perché si sentiva pronto a strappare a quellanatura selvaggia tutto ciò che sarebbe stato necessario allavita dei suoi compagni e sua. I suoi compagni invece avevano fiduciaperché avevano con loro l'ingegnere. Soprattutto Pencroffdopo la faccenda del fuoconon si sarebbe disperato nemmeno se sifosse trovato sopra una roccia ignudapur che l'ingegnere vi sitrovasse con lui.

-Siamo usciti da Richmond - disse il marinaio allegramente senza ilpermesso delle autorità. Figuratevi se non riusciremo ungiorno ad abbandonare quest'isola dove nessuno ci tratterrà...

Cyrusseguì la stessa strada della sera prima. Si giròintorno alla base del secondo cono fino all'orlo del grande cratere.Il tempo era stupendo e il sole inondava dell'oro dei suoi raggi ildorso della montagna. Si attaccò il craterele cui paretiinterne avevano una pendenza non superiore ai trentacinque gradi e sipotevano perciò scalare assai facilmentee prima delle ottoCyrus e i suoi compagni erano raccolti sulla sommità delmonteproprio sopra un cocuzzoletto che sorgeva sull'orlosettentrionale della vetta.

-Il mare! Il mare dappertutto! - gridarono a una voce.

Infattiintorno a loroil mare dilagava scintillante di sole. ForseCyrussalendo quella mattinaaveva avuto la speranza di scorgere qualcheterra all'orizzonteche la sera primaper l'oscuritànonaveva potuto vedere. Ma non appariva nullafino a dove l'occhiopoteva spaziarecioè per un raggio di almeno centochilometri: né una terrané una vela. L'immensitàdel mare era desertae la loro isola pareva il centro di un oceanoabbandonato.

Immobilie silenziosiCyrus e i suoi compagni guardarono per qualche minutoil marefino ai suoi limiti estremi. E neppure Pencroffche avevauna vista acutissimanon vide nullaassolutamente nulla! Poi dalmarei loro occhi tornarono sulla loro isola; e la prima domandavenne posta da Gedeone Spilett che chiese:

-Quale sarà la grandezza di quest'isola?

Certoin mezzo all'infinito oceanonon appariva molto considerevole.

Cyrusrifletté per qualche secondo; osservò attentamente ilperimetro dell'isolacalcolò l'altezza alla quale si trovavapoi concluse:

-Amici mieicredo di non sbagliarmi di molto dando al perimetro dellanostra isola una lunghezza di circa duecento chilometri.

-E la sua superficieallora?...

-E difficile calcolarlaperché questa terra è troppocapricciosamente conformata...

SecondoCyrusinsommal'isola aveva press'a poco le proporzioni di Malta oZantema eraperòassai più irregolaree meno riccadi capidi promontoridi punte e di baie. La sua forma sorprendeva;e quando Gedeone Spilett l'ebbesu preghiera di Cyrusdisegnata sulsuo taccuinosi trovò che somigliava a qualche fantasticoanimalea una specie di petropodo mostruoso addormentato sulle acquedel Pacifico.

Laparte orientale della costa - quella cioè sulla quale eranoapprodati i naufraghi - si apriva in una vasta baia chiusa a sud-estda un capo assai acutoe a nord-est da un golfocompreso fra altridue capiche ricordava la mascella spalancata di qualche gigantescosqualo. Da nord-est a nord-ovest la costa si arrotondava come lavolta cranica di una fiera; poi si gonfiava in una specie digibbosità; da dove il litorale continuava abbastanzaregolarmente in direzione nord- sud fino a un piccolo seno. Da qui siallungava nel mare in una lunga codasimile all'appendice caudale diun formidabile alligatore.

Questacoda era una vera e propria penisola lunga una sessantina dichilometri e conchiudentesi con una vasta rada.

Nelsuo punto più strettoe cioè fra la grotta che liaveva ospitati la prima notte e il piccolo senol'isola non misuravapiù di venti chilometri di larghezza; ma dalla mascella dinord-est all'estremità della penisoletta non misurava meno disessanta chilometri di lunghezza.

Nell'internoappariva molto boscosa nella sua parte meridionalearida e sabbiosaverso settentrione. Fra il vulcano e la costa orientaleCyrus e isuoi compagni furono meravigliati di vedere un lagoinquadratodentro una corona di alberi verdiche pareva allo stesso livello delmare. Mafatto un rapido calcoloCyrus assicurò i compagniche doveva trovarsi almeno a cento metri d'altezza sul livellodell'oceano.

-Allora sarà un lago d'acqua dolce - osservò Pencroff.

-Certo; e penso che sarà alimentato dalle acque che scendonodalla montagna - gli rispose l'ingegnere.

-Difattivedo un fiumiciattolo che vi si getta - esclamòHarbert additando una striscetta argentea che scendeva giù daicontrafforti montagnosi e finiva nel lago.

-E allora - concluse Cyrus - è probabile che altri corsid'acqua scarichino il lago nel mare. Lo vedremo al ritorno.

Questofiumiciattolo che scendeva dalla montagnae il fiume che i naufraghigià conoscevano vicino alla grottacostituiva l'interosistema idrografico dell'isolaquale appariva ai loro occhi dallavetta del monte. Ma era anche probabile che sotto le scure massedegli alberi che facevano di almeno due terzi dell'isola una solaimmensa forestaaltri ruscelli e corsi d'acqua scorressero verso ilmare. Lo si poteva supporre anche dal fatto che l'isola apparivaassai fertile e lussureggiante; nella sua parte settentrionaleinvecenessun indizio di acque correnti; forse qualche stagno opalude qua e là; e poi dunesabbieuna ariditàstranamente contrastante col rigoglioso verde che copriva tuttal'altra parte dell'isola.

Ilvulcano non si ergeva al centro dell'isolama nella zona nord-occidentalee pareva segnare il confine fra le due zone di essa: asud-ovesta sud e a sud-est i contrafforti scomparivano subito sottoun mantello di verzura al nordle loro ramificazioni si potevanoseguireignude e aridefino alla sabbia della costa. Era da questaparte cheal tempo delle eruzioni vulcanichele lave si eranoaperte un cammino fino al marelasciandovi le loro tracceimperiture.

Peroltre un'ora Cyrus Smith e i suoi compagni stettero lassù aguardare l'isola che si apriva sotto i loro occhi come un nitidoaltorilievo. Ma restava un problema importante da risolveree la cuisoluzione avrebbe decisamente influito sull'avvenire dei naufraghi.

Quell'isolaera abitata?

Fuil giornalista a formulare questa domandaalla quale tutti avrebberosentito di poter rispondere negativamentedopo l'esame fatto daquella cima. Da nessuna parte e in nessun punto appariva la tracciadi una vita umana. Non un agglomerato di casenon una capannanonun segno di pesca sulla costa; nessun filo di fumo che s'innalzassedai boschi. E' pur vero che circa sessanta chilometri separavano inaufraghi dalle punte estreme dell'isolae sarebbe stato difficileanche per occhi acutissimi come quelli di Pencroffscorgerea tantadistanzaun'abitazione. Era anche vero che non si poteva sollevarequel folto sipario di verzura che celava i due terzi dell'isola; ma ènoto chenormalmentegli isolani abitano verso la costa: e la costaappariva decisamente deserta. Insommafino a quando non si fossefatta un'esplorazione completasi poteva concludere che l'isola eradisabitata.

Maera almeno frequentata dagli indigeni delle isole vicine? Difficilerispondere a questa domanda. Nessuna terra appariva all'orizzonte perun raggio di cento chilometri. Ma cento chilometri sono un percorsofacilmente percorribile dalle barche malesi e dalle grandi piroghepolinesiane. Tutto dipendeva dalla posizione dell'isolainsomma: dalsuo isolamento nel Pacifico o dalla sua vicinanzasia pure relativacon qualche arcipelago. Cyrussarebbe riuscito un giorno a calcolareesattamente la longitudine e la latitudine? Ecco una cosa difficile;comunquenell'attesasarebbe stato prudente prendere certeprecauzioni per difendersi da eventuali assalti da parte di indigenivicini. Ormail'isola era stata esploratasia pure a volod'uccellola sua configurazione determinatail suo rilievo fattola sua superficie calcolatala sua idrografia e la sua orografiastabilite.

Sulloschizzo del giornalistaera stata segnata in linea generale anche ladisposizione delle foreste e delle pianure; non c'era che tornare alpiano ed esplorare il terreno al triplice scopo di identificare lerisorse mineralivegetali e animali dell'isola.

Maprima di dare ai compagni il segno della partenzaCyrus disse con lasua voce calma e grave:

-Eccoamiciil piccolo lembo di terra dove l'Onnipotente ha volutogettarci. E' qui che noi ci accingiamo a vivereforse per moltotempo. Forseun soccorso improvviso arriverà fino a noiperesempio una nave... Ma forsebadate bene; perché quest'isolaè assai poco importantee non offre nemmeno un porto dove unanave possa gettare le sue ancore. E' anche probabile che essa sitrovi all'infuori delle rotte ordinarie dei bastimentiche siacollocata troppo a sud per le navi che visitano gli arcipelaghi delPacificotroppo a nord per quelli che vanno in Australia doppiandoil capo Horn. Io non voglio nascondervi niente della nostrasituazione...

-E avete perfettamente ragionecaro Cyrus - gli rispose vivacementeSpilett. - Siamo tutti degli uomini; abbiamo tutti piena fiducia invoie voi potete contare su di noi. Non è veroamici?

-Io vi ubbidirò in tutto e per tuttosignor Smith - pronunciòcon fervore Harbert prendendo una mano dell'ingegnere.

-Siete il mio padrone sempre e dovunque - esclamò Nab.

-E io - disse il marinaio - e ioche possa perdere il mio nome semancherò al mio dovere. Per mille diavolise voi lo voletenoi faremo di quest'isola una piccola America. Vi costruiremo dellecittàvi getteremo delle ferrovievi pianteremo delle lineetelegrafichee un giornoquando sarà ben coltivatacivilizzataattrezzataandremo a offrirla in dono all'Unione. Peròmi occorre una cosa.

-E cioè?

-Mi occorre che nessuno più parli di naufragio. Noi siamo deicoloni venuti qui per colonizzare.

CyrusSmith sorrisee la mozione del marinaio venne approvata da tutti.Poil'ingegnere ringraziò i compagni della fiducia cheavevano in lui e li assicurò checon l'aiuto dellaProvvidenza e col concorso dei suoi compagniavrebbe vinto ogniavversità.

-E adessotorniamo alla nostra grotta - gridò Pencroff.

-Un momentoamici - fece l'ingegnere. - Direi che prima dobbiamo dareun nome a quest'isolaai suoi capiai suoi promontoriai suoifiumi.

-Benissimo - approvò il giornalista. - Questo semplificherànell'avvenire le istruzioni che dovremo dare o seguire.

-Già... E' sempre qualche cosa poter dire dove si va e da dovesi viene. Almenosi ha l'impressione di essere in qualche postopreciso.

-La nostra grottaper esempio...- disse Harbert.

-Già... Dopo quella camminata che abbiamo fattapotremmochiamarla... Camminata. Va benesignor ingegnere ?

-BenissimoPencroff.

-Quanto agli altrisarà altrettanto facile - proseguìil marinaio che era in vena. - Tiriamo fuori i nomi che usava quelRobinson di cui Harbert mi ha letto delle pagine. La «baiadella Provvidenza»la «punta dei capidogli»il«capo della Speranza delusa»...

-O piuttosto i nomi del signor ingegneredel signor SpilettdiNab... - propose Harbert.

-Il mio nome!... - esclamò tutto emozionato il negrospalancando la bocca in un sorriso che gli discoprì la candidadentatura.

-Perché no? - fece Pencroff. - Il «porto Nab»suona bene. E il «capo Gedeone»...

-Io preferirei prendere dei nomi che ci richiamassero la nostraAmerica - propose Spilett.

-Sìalmeno per i punti principali - convenne Cyrus. - Diamoaquesta vasta baia dell'estil nome di baia dell'Unione; a quel largogolfo del sudquello di baia Washington; a questa montagnail nomedi monte Francklin; a quel lago che vediamo laggiùil nome diGrant.

Sononomi che ci ricordano il nostro Paesee i suoi maggiori cittadini.Ma poiper i corsi d'acquai golfii capii promontori chevediamo da quassùscegliamo piuttosto dei nomi che ricordinola loro particolare configurazione. Si imprimeranno meglio nellanostra memoriae saranno più pratici. La conformazione diquest'isola è già abbastanza strana perché noisi debba lavorare di fantasia per cercare dei nomi immaginari. Checosa ne diteamici?

Tuttifurono dell'avviso dell'ingegnere; e venne deciso che Spilett avrebbesegnato sul suo schizzo i nomi man mano che venissero scelti eaccettati.

Sibattezzarono prima la baia dell'Unionela baia Washington e il monteFrancklin.

-E adesso - disse il giornalista - io proporrei di dare a quellapenisola che si allunga nell'oceano il nome di penisola Serpentinaequello di Rettile alla coda ricurva che la termina.

-Adottato - fece l'ingegnere.

-Adessoa quel golfo che somiglia a una mascella semiapertadarei ilnome di golfo dello Squalo- disse Harbert.

-Ben trovati - esclamò Pencroff. - Completerei quella partedell'isolachiamando Capi Mandibola le due estremità di quelgolfo.

-Ma i capi sono due...

-E alloraMandibola nord e Mandibola sud.

-Li ho già scritti sul disegno - fece Spilett.

-Ci resta da battezzare la punta all'estremità sud-occidentaledell'isola.

-L'estremitàcioèdella baia dell'Unione...

-Capo dell'Artiglio - propose Nabche voleva essere lui pure padrinodi qualche parte dell'isola. Ein veritàaveva trovato unnome eccellenteperché quel capo raffigurava esattamentel'artiglio potente di quel gigantesco animale mostruoso che pareval'isola sotto gli occhi dei «coloni».

Divertitia quel giuocoandarono a gara a trovare altri nomi per le altreparti dell'isola già conosciute; e così venne chiamatoFiume della Grazia il corso d'acqua che forniva loro l'acqua da bere;isola della Salvezza l'isolotto dove i naufraghi avevano posto ilpiede all'atto della loro caduta; altipiano della Bella Vista ilterrazzo naturale al di sopra della muraglia di granito; e poiforeste del Far Westtutti quei boschi che dilagavano per due terzidell'isola.

Insommatutto era ormai fattoe già stavano per mettersi in camminoper scenderequando Pencroff esclamò:

-Ma sapete che siamo dei famosi storditinoi!

-E perché mai? - chiese Gedeone Spilett.

-Ma... e la nostra isola? Ci siamo dimenticati di battezzarla!

Harbertpropose subito di chiamarla col nome dell'ingegneree tuttiavrebbero applauditoma Cyrus disse semplicemente:

-Chiamiamola col nome di un grande cittadinoamici miei: come dicolui che lotta oggi per difendere l'unità della repubblicaamericana.

Chiamiamolaisola Lincoln!

Treevviva accolsero le parole dell'ingegnere. E quella seraprima diaddormentarsii nuovi coloni parlarono del loro Paese lontano;parlarono di quella terribile guerra che lo insanguinava. Essi eranosicuri che il sud sarebbe stato presto sconfittoe che la causa delnordla causa della giustiziaavrebbe finito col trionfareinvirtù di Grantin virtù di Lincoln.

Erala sera del 30 marzo 1865; ed essi non potevano sapere chesedicigiorni dopouno spaventoso delitto sarebbe stato commesso aWashington e cheil giorno del venerdì santoAbramo Lincolnsarebbe caduto sotto le pallottole di un fanatico.




CAPITOLO12


L'indomani18 febbraiovenne esplorata tutta la parte boscosa che formava illitorale del promontorio del Rettile alla fine della Cascata. Sitrattava di una foresta larga da tre a quattro migliache vennefrugata a fondofra una costa e l'altra della penisola. Gli alberierano altissimi e stupendicosì da ricordare le forestevergini d'Africa e d'America. Ma lo scopo dei coloni non era quellodi ammirare e studiare le bellezze vegetali della zona. Essi sapevanoche la loro bella isoladegna di poter figurare accanto alleCanarieil cui primo nome era stato quello di isole Fortunatenonapparteneva più soltanto a loroma che altri ne avevano presopossessoun gruppo di scellerati che bisognava distruggere senzapietà.


Lungotutta la costa occidentalenon vennero trovate tracce di sorta.


-Non mi stupisce - osservò Cyrus. - I banditi sono scesisull'isola nei dintorni della Punta del Rottamee di là sisono subito cacciati nelle foreste del Far Westdopo aver traversatogli stagni dell'Anitra. Devono aver seguito press'a poco la stradache abbiamo fatto noi lasciando il Palazzo di Granito. E difatti viabbiamo trovato numerose tracce del loro passaggio. Magiunti sullacostadevono avere capito che non ci sarebbe stata più perloro una via di ritirata opportunae allora sono risaliti versosettentrionescoprendo così il nostro recinto.


-Doveforsea quest'orasono ritornati... - osservò ilmarinaio.


-Non lo credo - fece l'ingegnere. - Devono ben immaginare che lenostre ricerche ci porteranno là. Il recinto non dev'essereper loro che un luogo dove rifornirsinon un accampamentodefinitivo.


-Anch'io sono del vostro avvisoCyrus - disse il giornalista. Secondomeè tra i contrafforti del monte Franklin che avrannocercato e trovato un rifugio.


-E allorasignor Cyrusandiamo al recinto - fece Pencroff. Bisognafinirla e fin qui abbiamo perduto il nostro tempo.


-Noamico mio. Voi dimenticate che noi desideravamo sapere anche sele foreste del Far West celavano qualche abitazione. Nondimentichiamoci mai che la nostra esplorazione ha un duplice scopo.


Seda una partenoi dobbiamo punire un delittodall'altro abbiamo undovere di riconoscenza da assolvere.


-Giustosignor Cyrus - consentì il marinaio. - Aggiungeròda parte miache noi non troveremo quel fior di gentiluomo se nonquando e dove lui vorrà.


Pencroffcosì dicendonon faceva che esprimere l'opinione di tutti.


Erainfatti probabile che il rifugio del loro protettore fossealtrettanto misterioso del suo abitatore.


Quellaserail carro si fermò alla foce del fiume della Cascata. Sipose l'accampamento e si organizzò il servizio di guardia comele altre notti. Harberttornato il giovanotto gagliardo di primarifioriva sotto quelle foresteall'aria salubre del maresotto icaldi raggi del sole. Oramainon viaggiava più sul carromacamminava in testa alla colonna.


L'indomani19 febbraioi coloni risalirono il corso della Cascata sulla suariva sinistra. Erano a circa sei miglia dal monte Franklin.


Cyrusprogettava di scandagliare attentamente la valle e arrivarecautamente al recinto; se l'avessero trovato occupatoavrebbero datosenz'altro l'assalto ai banditi; se non lo erai coloni ne avrebberofatto il centro delle loro operazioni e delle loro ricognizioni lungoi contrafforti della montagna.


Cisi incamminò lungo la stretta valle fra i due piùpotenti contrafforti del monte Franklin. Era un terreno montuosoaccidentatopropizio alle imboscatee lungo il quale siavventurarono prendendo tutte le misure di precauzione possibili: Tope Jup facevano da esploratoririvaleggiando in agilità eintelligenza. Niente però indicava che quella valletta fossegià stata percorsa e verso le cinque di sera il carro sifermava a circa seicento metri dalla palizzata del recinto.


Sitrattava di riconoscere se era o meno occupato. Andarci apertamentein piena luceper poco che i banditi vi fossero annidativolevadire esporsi imprudentemente a ricevere qualche fucilata. Megliodunque aspettare che fosse scesa la notte. Ma Spilett era ansioso difare una ricognizionee Pencroff si offrì di accompagnarlo.


-Abbiate pazienzaamici - disse Cyrus. - Aspettate la notte. Io nonposso permettere che uno di voi si esponga cosìin piena lucedel giorno.


-Masignor Cyrus... - tentò di obiettare il marinaiopocodisposto a obbedire.


-Pencroffve ne prego - ripeté l'ingegnere; e il marinaio siarreseaccontentandosi di scagliare contro i pirati tutte lepittoresche ingiurie del suo vocabolario di marinaio.


Icoloni restarono così attorno al carrosorvegliandoattentamente la palizzata e la foresta. Passarono così treore. Non c'era più ventoun silenzio assoluto regnava sottole volte degli alberi. Tutto era tranquillo. Del restoTopsdraiatosull'erbail muso allungato sulle zampenon dava alcun segno diinquietudine.


Alleottola sera parve già abbastanza avanzata perché sipotesse effettuare la progettata ricognizione. Spilett e Pencroff siprepararono a partire. CyrusHarbert e Nab sarebbero rimasti alcarrocon Top e Jup. L'ingegnere fece qualche raccomandazione:

-Non arrischiatevi imprudentemente. Ricordatevi che non doveteimpadronirvi del recintoma soltanto accertare se è occupatoo no.


-D'accordo - fece Pencroff.


Ei due partirono.


Sottogli alberi c'era già una discreta oscurità. Ilgiornalista e il marinaio procedevano con estrema cautelacamminandoun poco discosti l'uno dall'altro onde non offrire grande bersaglioad eventuali sparatori; ein realtàsi aspettavano sempre disentire qualche detonazione. Dopo cinque minutierano sull'orlodella forestadavanti allo spiazzo in fondo al quale sorgeva lapalizzata. Si fermarono. Un po' di luce bagnava ancora l'erba delprato. La porta del recinto era a circa trenta passi da loroepareva chiusa. Ma quei trenta passi da farefra il bosco e la portacompletamente allo scopertocostituivano la zona pericolosa. Sarebbebastato che qualcuno sparasse dall'alto della palizzataperchénessuno potesse impunemente traversare quel breve tratto di prato.


Spilette Pencroff non erano certamente uomini da arrestarsi davanti a quelladifficoltà; ma sapevano anche che un'imprudenza da parte lorodella quale sarebbero poi rimasti le prime vittimesarebbe ricadutaanche sopra i loro compagni. Senonché Pencroffeccitato dalsentirsi vicino al recinto dove sperava di fare le sue vendettestava già per slanciarsiquando il giornalista lo trattenne:

-Tra pochi minuti sarà notte profondae sarà allora ilmomento di agire.


Pencroffcon un lungo sospiro si contennee atteseborbottando maledizioni.


Prestole ultime luci del crepuscolo si spensero; l'ombrache pareva usciredalla forestadilagò sul prato. Il monte Franklin si drizzavacome un nero schermo contro il cielo turchino. L'oscurità fupresto completa. Era il momento buono per avanzare.


Spilette Pencrofftenendosi per manocautamentestrisciarono allora versola palizzata e arrivarono alla porta del recinto. Il marinaio cercòdi spingerlama era chiusa. Pencroff poté peròappurare che i catenacci esterni non erano stati tirati. Si potevadunque pensare che i banditi occupassero il recintoe che avesseroben chiusa la porta dall'interno.


Teserol'orecchioma nessun rumore proveniva dall'interno. Mufloni e capreaddormentati nelle loro stallenon turbavano per nulla la calmadella notte. Scalare la palizzata e penetrare nel recinto?

Sarebbestato contrario alle istruzioni date dall'ingegnere.


L'operazionepoteva riuscired'accordo; ma poteva anche fallire. Orase ibanditi non dubitavano di nulla; se non avevano il più piccolosospetto di quello che si stava preparando contro di loro; seinsommaesisteva in quel momento una possibilità disorprenderlisi doveva pregiudicare quella possibilità dandola scalata alla palizzata imprudentemente?

Ilgiornalista credette meglio attendere e tentare l'impresa tuttiinsieme. Era intanto assodato che si poteva arrivare fino alla portadel recinto senza essere scorti e che la palizzata non era affattovigilata. Appurati questi due puntipotevano tornare al carro.


AnchePencroff fu dello stesso avvisoalmeno Spilett lo pensò nonsentendo il suo focoso compagno fare obbiezioni di sorta. E qualcheminuto dopo Cyrus era messo al corrente dei risultati dellaricognizione.


-Ebbene - fece l'ingegnere dopo un poco di riflessione - io sonoconvinto che i banditi non si trovano nel recinto.


-Lo sapremo quando avremo dato la scalata al recinto - disse Pencroff.


-Andiamociamici! - esclamò Cyrus.


-Il carro lo lasciamo nella foresta? - chiese Nab.


-No; è il nostro furgone delle munizioni e dei viveri; seoccorreci servirà da trincea.


-Avanti allora - disse Spilett.


Ilcarro uscì dal bosco e cominciò a rotolare sull'erbasenza rumoreverso la palizzata. Il buio era fittoil silenzioassoluto. Pencroff e il giornalista erano davantistrisciandosull'erba. I coloni erano pronti a far fuocoJup chiudeva la marciae Nab tratteneva al guinzaglio Top perché non balzasse avanti.


Inpochi istanti venne traversata la zona pericolosa e scopertailcarro si fermò davanti alla porta. CyrusSpilettHarbert ePencroffmentre Nab restava accanto ai due asinisi accinsero aforzare la porta... Ma uno dei battenti era aperto!

-Ma non mi avevate detto che?... - chiese Cyrus a Spilett e almarinaio.


Idue guardavano stupefatti.


-Sul mio onore - fece il marinaio - questa portapoco faera tuttachiusa!

Icoloni allora esitarono. Che i banditi fossero stati nel recintomentre il giornalista e Pencroff facevano la loro ricognizione? Nonpoteva che essere cosìdal momento che quella porta nonpoteva che essere stata aperta da loro. Ma vi si trovavano ancoraoppure ne erano usciti? O ne era uscito uno solo?

Mentrei coloni stavano ponendosi quelle domandeHarbertche aveva fattoalcuni passi dentro il recintone tornò tutto agitato edisse:

-C'è una luce!

-Nella casa?

-Sì!

Tuttie cinque entrarono nel recintoguardarono. Sìattraverso ivetri della finestra in faccia alla portasi vedeva tremare unadebole luce.


Cyrusprese subito una decisione.


-E' una vera fortuna trovare i banditi in casamentre non siaspettano affatto il nostro attacco. Sono nelle nostre mani! Avanti!

Icoloni scivolarono nel recintoil fucile pronto. Il carro era statolasciato fuoricon Top e Jupattaccati a una stanga perchénon compromettessero l'impresa. CyrusPencroff e Spilett da unaparteHarbert e Nab dall'altrarasentando la palizzatasiavvicinarono piano piano alla casa di legnoe si fermarono davantialla portache era chiusa. Cyrus allorafatto segno ai compagni dinon muoversisi avvicinò al vetro e guardò nellastanza. Sul tavolo brillava una lanterna accesaaccanto al tavolostava la cuccetta che serviva da letto ad Ayrtone su quellacuccetta era steso il corpo di un uomo!

Aun tratto Cyrus fece un passo indietro ed esclamò con vocesoffocata: - Ayrton!

Subitoi coloni spalancarono la portapiombarono nella stanza.


Ayrtonpareva addormentatoma il suo viso dimostrava che aveva sofferto alungo e duramentee intorno ai suoi polsi e alle sue caviglie sivedevano cicatrici profonde.


Cyrussi curvò su di lui e lo chiamòprendendolo leggermenteper un braccio.


Ayrtonaprì gli occhiguardò l'ingegneregli altrie gridò:

Voi?!...Voi?!...


-Ayrton! Ayrton! - ripeté Cyrus commosso.


-Ma dove sono?

-Nella casa del recinto!

-Solo?

-Sì... con noi...


-Ahma essi torneranno!... Difendetevi! Difendetevi!

EAyrton ricadde spossato.


-Spilett - disse allora l'ingegnere. - Possiamo essere attaccati da unmomento all'altro. Fate entrare il carro nel recintobarricate laportae poi ritroviamoci tutti qui.


PencroffNab e il giornalista si affrettarono a eseguire gli ordinidell'ingegnere. Non c'era un minuto da perdere. In un attimoattraversarono il recinto e furono alla portadietro alla quale sisentiva Top brontolare minacciosamente. Cyrus e HarbertlasciatoAyrtonuscirono coi loro fucili e sorvegliarono la cresta delcontrafforte che dominava il recintodove potevano essersi imboscatii banditi. In quel momentola luna apparve sopra il nero sipariodella forestae una candida luce inondò il recintocoi suoiciuffi d'alberiil ruscello che lo attraversava e il soffice tappetodi erbe. Quasi subito entrò il carrosi udì il rumoredella porta che veniva sprangata. Maproprio in quel momentoToprompendo con uno strappo la corda che lo teneva legato al veicolosislanciò verso il fondo del recinto abbaiando furiosamente.


-Attentiamici! - gridò Cyrus. - Pronti coi fucili!

Icoloni avevano puntato i loro fucili. Top abbaiava sempreJupcheaveva raggiunto il canefischiava minacciosamente. I coloni mosseroguardinghiverso i due animali e arrivarono sulla riva del ruscelloall'ombra degli alberi. E làilluminati in pieno dalla lunache cosa videro mai?

Cinquecorpi distesi sull'erba. Erano quelli dei banditi chequattro mesiprimaerano sbarcati sull'isola Lincoln.




CAPITOLO13


Checosa era successo? Chi aveva colpito i banditi? Ayrton forse? Non erapossibilepoichéun momento primaaveva mostrato dipaventare il loro ritorno. D'altro cantoAyrtondopo quelle pocheparole pronunciateera piombato in assopimento profondoe i coloniturbati da mille pensieriattesero tutta la notte nella casa dilegnosenza nemmeno tornare sul posto dove giacevano morti i pirati.Sapevanoè veroche nemmeno Ayrton avrebbe potuto chiarireil misterodal momento che non sapeva nemmeno di essere nel recinto;ma avrebbe raccontato quanto gli era accadutoquanto era accadutoprima di quella catastrofe.


L'indomaniinfattiAyrtonusciva dal suo torporeaccoglieva commosso letestimonianze di esultante affetto dei coloni ein poche paroleraccontava tutto quello che sapeva.


L'indomanidel suo ritorno al recintoe precisamente il 10 novembresul caderdella notteera stato sorpreso dai banditi che avevano dato lascalata al recinto. Fu legato e imbavagliato e trasportato inun'oscura cavernaal piede del monte Franklinche serviva dirifugio ai ribaldi. La sua morte era già stata decisaquandouno di essi lo riconobbe e lo chiamò col nome che Ayrtonportava quando era in Australia. I miserabili che volevano trucidareAyrtonrispettarono Ben Joyce. Ma da quell'istanteAyrton fu inpreda alle crudeli insistenze dei suoi antichi compagni che volevanoa tutti i costi che egli tornasse con loro e contavano su di lui perimpadronirsi dell'inaccessibile Palazzo di Granitosterminare icoloni e diventare indisturbati signori dell'isola. Ma Ayrton tenneduroe si sarebbe fatto ammazzare piuttosto che tradire i suoicompagni. Sempre legato e imbavagliatostette quattro mesi in quellacaverna. Intantoi banditiche nel recinto avevano trovato riserveabbondantivivevano di quellema non stavano nel recinto. L'11novembredue di loroessendo tornati al recintospararono suHarbert; uno di essi tornò nella caverna assicurando di avereucciso un colono; ma era solo. Il suo compagno era stato freddatodall'ingegnere. Figuriamoci l'inquietudine e la disperazione diAyrton quando apprese la morte del ragazzo. I coloni ormai eranosoltanto in quattro eper così direalla mercé deibanditi. Per tutto il tempo che i coloni restarono al recinto acurare Harberti pirati non abbandonarono la loro cavernamuovendosi soltanto per saccheggiare la Bella Vista. Ma imaltrattamenti inflitti ad Ayrton allora raddoppiarono. I suoi legamivennero ancor più strettie i suoi polsi e le sue caviglie neportavano le sanguinose impronte. A ogni minutosi aspettavad'essere ucciso... Si arrivò così alla terza settimanadi febbraio. I banditisempre in attesa di un'occasione favorevolelasciavano assai di rado la caverna e solo per qualche escursione dicaccia. Ayrton non aveva più notizie dei suoi amicie ormaidisperava di mai più rivederli. Un giornosfinito per icontinui maltrattamenticadde in una profonda prostrazionenonvidenon udì più nulla. Da alloraed erano trascorsipiù di due giorninon sapeva assolutamente quello che eraaccaduto.


-Ma come mai - chiese all'ingegnere - come maida quella cavernadov'ero tenuto prigionierosono arrivato fino al recinto?

-E come mai - gli replicò l'ingegnere - come mai i banditi sonolàmortisull'erbain mezzo al recinto?

-Morti?! - gridò Ayrton sollevandosi a sederenonostante lagrande stanchezzasul lettuccio.


Poivolle alzarsiesostenuto dai coloniuscì per vedere. Eraormai giorno. E làsulla riva del ruscellonella posizionedove li aveva sorpresi una morte indubbiamente folgorantegiacevanoi cinque banditi.


Ayrtonsembrava atterrito. Nab e Pencroffa un ordine di Cyrusvisitaronoquei cadaveri. Apparentementenon portavano alcun segno di ferita;madopo un esame più attentoil marinaio scoprì sullafronte di unonel petto di un altrosulla schiena di quellosullaspalla di questoun puntolino rossouna specie di contusione appenavisibile e di cui non si poteva assolutamente riconoscere l'origine.


-E' là che sono stati colpiti! - disse Cyrus.


-Ma con quale arma? - chiese il giornalista.


-Un'arma che fulmina e che noi ignoriamo.


-Ma chi li avrà così fulminati? - domandò ilmarinaio.


-Il giustiziere dell'isola - rispose Cyrus. - Colui che vi hatrasportato quiAyrton; colui che ancora una volta ha esercitato lasua influenza; colui che fa per noi tutto quello che noi non possiamofare e chedopo aver agitosi nasconde agli occhi nostri.


-Cerchiamolo! - proruppe Pencroff.


-Sìcerchiamolo - fece Cyrus. - Ma l'essere superiore checompie questi prodigi noi non lo potremo mai trovare fino a quandoegli stesso non ci chiami a lui! Noi cerchiamolo; e Dio voglia che cisia concesso un giorno di dimostrare a questo alto protettoredisdegnoso che non siamo degli ingrati. Ahche cosa non darei io perpotermi sdebitare con luirestituendoglisia pure a prezzo dellavitaun qualsiasi servizio!

Daquel giornola ricerca dell'ignoto benefattore fu la solapreoccupazione dei coloni...


Pocodopotutti rientravano nella casa di legnodove vennero prodigatead Ayrton tutte le cure possibilimentre Nab e Pencrofftrasportatii cinque cadaveri nella forestali seppellivano in fosse profonde.Poi Ayrton venne messo al corrente di tutto quello che era accaduto.


-E adesso- concluse Cyrus - non ci resta che un dovere da compiere.


Lametà del nostro dovere l'abbiamo compiuta; ma oggise nonabbiamo più da temere i banditinon lo dobbiamo a noi eall'opera nostra!

-Ebbene - esclamò Spilett - frughiamo tutto questo labirinto dicontrafforti del monte Franklin! Guardiamo dentro tutte le grotte etutti gli antri! Vi assicuro che mai giornalista al mondo si ètrovato alla presenza di un mistero così affascinante.


-Non torneremo al Palazzo di Granito - disse Harbert - prima di avertrovato il nostro benefattore!

-Sìnoi faremo tutto quello che è umanamente possibilefare affermò Cyrus; - ma vi ripeto che non lo troveremo se nonquando egli vorrà.


-Allorarestiamo al recinto? - chiese Pencroff.


-Restiamoci pure - disse l'ingegnere. - Le provviste vi sonoabbondantie qui siamo proprio nel centro delle nostreinvestigazioni. E del restose è necessarioil carro puòtornare al Palazzo di Granito.


-Vorrei fare un'osservazione - disse il marinaio.


-E cioè?

-Cioè che siamo nella bella stagionee non dobbiamodimenticare che abbiamo una traversata da fare.


-Una traversata? - chiese Spilett.


-Quella dell'isola Tabor. E' pur necessario portarci la notizia cheAyrton è qui e far conoscere la posizione della nostra isolanel caso che la nave di lord Glenarvan torni. A meno che non sia giàtroppo tardi...


-MaPencroff - domandò l'ingegnere - e come vorreste farequesta traversata?

-Tò! Sul "Bonaventura"!

-Il "Bonaventura"! - gridò Ayrton. - Non c'èpiùil "Bonaventura"!

-Non c'è più? - urlò Pencroff balzando in piedi.


-No. I banditi l'hanno trovato nel suo porticciolootto giorni fahanno preso il maree...


-E...?

-... enon avendo più Bob Harvey per manovrarlosono finiticontro gli scogli dove la barca si è fracassata.


-Ahmiserabili! Banditi! Farabutti! - gridò esasperato ilmarinaio.


-Pencroff - gli fece Harbert - calmati! costruiremo un'altra barcaepiù grande. Abbiamo tutti i ferri e le attrezzature delbrigantino a nostra disposizione!

-Giàma ci vorranno almeno cinque o sei mesi per costruireun'imbarcazione di trenta o quaranta tonnellate!

-Behavremo pazienzae rimanderemo la traversata al prossimo anno -disse Spilett.


-Bisognerà rassegnarsiPencroff mio - aggiunse l'ingegnere.


Speriamosoltanto che tanto ritardo non sia di grave pregiudizio ad Ayrton.


-Ahil mio "Bonaventura"! Il mio povero "Bonaventura"!andava ripetendo Pencroff addirittura annientato per la perdita dellasua cara barcadella quale era tanto fiero.


Laperdita della barca era certamente incresciosae fu deciso diricostruirne una seconda al più presto possibile. Intantoperòsi doveva portare a buon fine l'esplorazione delle piùsegrete zone dell'isola.


Quellostesso giorno19 febbraiofurono iniziate le ricerchee duraronoun'intera settimana. La base del montei suoi contrafforti e lenumerose ramificazioni formavano un vasto labirinto di vallette econtravvallette disposte capricciosamente. Era lào forseaddirittura nelle viscere stesse della montagna che bisognavacercareperché nessuna zona dell'isola si prestava comequella a dei nascondigli perfetti.


Icoloni visitarono prima di tutto la valle che si apriva a sud delvulcano e raccoglieva le prime acque del fiume della Cascata. Fu làche Ayrton mostrò ai compagni la caverna nella quale s'eranorifugiati i banditi e dove egli era stato tenuto prigioniero pertanto tempo. La caverna era nelle stesse condizioni nelle qualil'aveva lasciata Ayrtone ci si trovò una discreta quantitàdi munizioni e di viveriche i banditi avevano portato via dalrecinto.


Lavalle era ombreggiata da grandi alberisoprattutto coniferee fuesplorata con estrema attenzione. A un certo puntola valletta sistringevadiventava una gola dove gli alberi si facevano piùradi e l'erba veniva sostituita dalle pietre. Fra tutte le valli chesi staccavano dalla montagnatre sole erano boscosericche dipascoli e di ruscelli. Evidentementein una di queste valliun uomoavrebbe potuto benissimo nascondersisicuro di trovarvi tutto quantoè necessario per la vita. Ma i coloni le avevano frugatetutt'e tre e non vi avevano trovato nessun indizio che indicasse lapossibile presenza di un uomo.


Lazona settentrionale del montesi spaccava in due valli larghepocoprofondearideseminate di blocchi erratici. Fu una zona difficileda esplorareperché innumerevoli erano le grotte e leanfrattuositàassai ben nascoste e dal difficile accesso. Mai coloni le visitarono a una a unasi cacciarono in oscuri budellid'origine vulcanicailluminandosi la strada ardua con rami resinosiinfiammati.


Edappertuttoil silenzio e l'oscurità. Non pareva che unessere umano avesse mai posto il piede in quei sotterranei tenebrosiavesse mai toccato quelle pietre annerite da antichi fuochi.


Eppurese in quelle viscere dell'isola il deserto era assoluto e assolutal'oscuritàCyrus dovette convenire che non altrettantoassoluto era il silenzio. Infattigiunto alla fine di una di quellegallerielunga un centinaio di metriegli fu meravigliato di udiredei sordi brontolii che la sonorità della roccia rendeva anchepiù percettibili. Anche Spilettche lo accompagnavali udìperfettamente; e a più riprese tutt'e due si fermarono etesero ansiosamente l'orecchio. Furono infine d'accordo nel ritenereche qualche gigantesca reazione chimica stesse elaborandosi nelleviscere del monte Franklin.


-Che il vulcano non sia spento del tutto? - chiese il giornalista.


-E possibile che dopo la nostra escursione nel cratere risposel'ingegnere - qualche cosa sia avvenuto negli strati inferiori. Ognivulcanoper quanto spento siapuò riprendere la suaattività.


-Ma se si preparasse un'eruzione del Franklinnon credete che cisarebbe pericolo per la nostra isola?

-Non lo credoSpilett. Il cratere c'èed è ampioe iopenso che lave e vapori sfuggirebbero per le antiche strade.


-A meno che non se ne aprano delle nuove verso le zone fertilidell'isola.


-Ma perché non dovrebbero seguire il cammino del passato?

-Mah! I vulcani sono capricciosi!

-Ma osservate che l'inclinazione del monte favorisce lo scendere dellelave proprio verso quelle aride valli che stiamo ora esplorando.


Civorrebbe un terremoto per alterare il centro di gravità dellamontagna edi conseguenzail deflusso delle eruzioni vulcaniche.


-Un terremoto non è forse probabile in queste condizioni?

-Ahquesto sì: soprattutto quando le forze sotterraneecominciano a risvegliarsi e non trovano lo sfogo necessario perchéle vie d'uscita sono bloccate da secoli. Ci si può alloradomandare se un'eruzione del vulcano del Franklin non debbarappresentare per noi un fatto assai grave. Ma che cosa ci possiamofare? Niente. E allora... Comunquenon credo che il nostro dominiodella Bella Vista possa essere minacciato sul serio. Fraquell'altipiano e la montagna il terreno forma un avvallamentoconsiderevole enel caso poco probabile che le lave prendano lastrada del lagoverrebbero poi rovesciate sulle dune e nella zonadel golfo dello Squalo.


-Perònon s'è visto ancora sulla cima del monte nessunfilo di fumo che indichi la prossimità di un'eruzione.


-No; dal cratere non sfugge alcun vapore. E' però possibile chesul fondo di quell'imbutoil tempo abbia accumulato delle roccedelle ceneridelle lave indurite che facciano provvisoriamente datampone.


Maè anche probabile che al primo sforzo serioogni ostacolovenga divelto. Nomio caro Spilettstate pur sicuro che néla montagnache è la ciminierané l'isola che èla caldaianon salteranno sotto la pressione del gas. Naturalmentetorno a ripeterlosarebbe assai meglio che non avvenissero eruzioni.


-Eppuresentite? Non ci inganniamo! Questi sono dei sordi boati chescuotono le viscere stesse della montagna.


-Già - ammise Cyrusche ascoltava con grande attenzione. - Nonè possibile ingannarsi. Laggiù sta verificandosi unareazione della quale non possiamo calcolare né l'importanza négli effetti possibili.


Uscitidalla galleriaCyrus e Spilett comunicarono ai compagni le loroosservazioni.


-Ah sì? Questo signor vulcano vuol farne una delle sue? esclamòPencroff. - Faccia pure. Troverà chi lo serve a dovere.


-E chi mai?

-Il nostro genioche diamine. Penserà lui a imbavagliare ilcratere di questo maleducato d'un monte!

Lafiducia del marinaio nel genio protettore dell'isola era infinitaed'altra partela potenza di cui egli aveva dato prova ancherecentemente era fuori dell'ordinario. Intantoperòsfuggivaostinatamente a tutte le più minuziose ricerche chedal 19 al25 febbraioebbero come teatro la regione settentrionale dell'isola.


Cyrusnon lasciò un angolo inesplorato; salì fino allasommità del montepenetrò una seconda volta nelcratere ancora perfettamente spento ma nelle cui profondità siudirono i sordi boati e i brontolii che s'erano avvertiti nelsotterraneo. Ma nessuna traccia dell'ignoto protettore! Con la stessacura e la stessa tenacia vennero esplorate le dunepoi le altemuraglie d'origine vulcanica del golfo dello Squalo. Nulla! Nessuno!Cyrus e i suoi compagni ne erano avviliti e arrabbiati al tempostesso. Ma fu necessario pensare al ritornoperché quellericerche non potevano certo durare eternamente. D'altro cantoicoloni cominciarono a credere che il misterioso genio non abitassealla superficie dell'isola; e questo pensiero stimolò lefantasie di ognuno. Pencroff e Nabi più semplicilasciaronocon la loro immaginazionela realtà e silasciarono portare nell'irreale...


Il25 febbraio i coloni ritornavano al Palazzo di Granito e un mesedopoesattamentesalutavano il terzo anno della loro permanenzanell'isola Lincoln.




CAPITOLO14


Eranotrascorsi tre anni da quando i prigionieri di Richmond erano fuggitie quantequante voltein quei tre anniavevano parlato dellaPatriasempre presente ai loro cuori! Essi non mettevano in dubbioche ormai la guerra civile fosse finita e che la giusta causa delNord avesse trionfato. Ma quali erano mai stati gli episodi di quellaterribile guerra? Quanto sangue era mai costata? Quali amici eranocaduti? Parlando di queste cosenon riuscivano a immaginare ilgiorno in cui avrebbero potuto rivedere il loro Paese. Tornarcinonfosse che per qualche giorno; rinnovare i legami col mondo sociale;stabilire una comunicazione fra la loro Patria e la loro isola; e poitornare a trascorrere il più gran tempo possibile quisuquesta terra consacrata dai loro sforzi e che avrebbero offerto indono alla Confederazione... Era dunque un sogno irrealizzabile? Nonc'erano che due possibilità di realizzarlo: oun giornounanave giungerebbe nelle acque dell'isola Lincolnoppure i colonistessi costruirebbero una imbarcazione sufficientemente robusta persfidare il mare e una lunga traversata.


-A meno che - suggeriva Pencroff - il nostro genio protettore non cidia lui stesso i mezzi per rimpatriare.


Einfatti se si fosse detto al marinaio e a Nab che una nave ditrecento tonnellate aspettava nel golfo dello Squalo o al PortoPallonenon avrebbero fatto il più piccolo gesto di sorpresa.Da quell'ignoto protettoreessi si aspettavano tutto.


MaCyrusmeno fiduciosoli richiamava alla realtàe fu messain discussione la costruzione di una nuova imbarcazione per potereil più presto possibileportare nell'isola Tabornella casadove aveva abitato Ayrtonun documento che spiegasse ogni cosa; masparito il "Bonaventura"ci volevano almeno sei mesi percostruire una grande barca. Oral'inverno era alle portee latraversata non si sarebbe potuta farecomunqueprima della bellastagione.


-Abbiamo dunque il tempo di prepararci per la bella stagione disse ungiorno Cyrus a Pencroff. - Io pensoamico miochese noi dobbiamoricostruire una barcasia meglio farla di proporzioni maggioridell'altra. L'arrivo del panfilo di lord Glenarvan all'isola Tabor èproblematico; senza contare che può essere già arrivatoed essere ripartito poisenza avere trovato traccia alcuna diAyrton. E alloranon sarebbe meglio costruire un'imbarcazione chese necessariosia in grado di portarci fino agli arcipelaghi dellaPolinesia o alla Nuova Zelanda? Che ne ditevoi?

-Io dico che se voi vi ci mettetene potete costruire unagrandissimacome una piccola. Non ci manca né il legnamenétutta l'attrezzatura necessaria. Non è che una questione ditempo.


-E quanti mesi ci vorrannosecondo voiper costruire una nave di dueo trecento tonnellate?

-Almeno sette od otto mesi - rispose il marinaio. - Perònonbisogna dimenticare che l'inverno è qui e checoi grandifreddiil legno è difficile da lavorare. Bisogna dunquecontare su qualche settimana di forzato riposo. Insommase la nostraimbarcazione sarà pronta per il prossimo novembredovremmoreputarci molto fortunati.


-Benissimo. Sarebbe proprio l'epoca favorevole per una traversata siaall'isola Tabor sia a qualche terra anche più lontana - dissel'ingegnere.


-E alloravoi tracciate i vostri progetti. Gli operai sono pronti eio penso che Ayrton ci sarà molto utile in questa circostanza.


Icoloni approvarono la decisioneedel restoera proprio quello checonveniva fare in quella stagione. Naturalmentela costruzione diun'imbarcazione di due o trecento tonnellate di stazza era un'impresaassai gravosa; ma i coloni avevano tutta la ferma fiducia che isuccessi precedenti giustificavano pienamente.


MentreCyrus studiava i progettii suoi compagni abbattevano e preparavanogli alberi che dovevano servire alla costruzione. Furono le forestedel Far West che offrirono le querce più rigogliose. Glialberi furono poi trasportati alla Camminatadove venne stabilito ilcantiere. Si rendeva a questo punto necessario tagliare subito elasciare stagionare il legnoperché non lo si poteva usareverde: e i carpentieri lavorarono con fervore per tutto l'aprile. Jupli aiutava del suo megliosia arrampicandosi in cima agli alberi daabbattere per fissarvi le cordesia che prestasse le sue gagliardespalle per il trasporto dei tronchi.


Quelmese di aprile fu bello e serenocome avviene spesso per l'ottobredelle zone boreali. Non furono nemmeno trascurati i lavori agricolie in breve ogni traccia delle devastazioni piratesche sparìdai coltivati della Bella Vista. Venne rifabbricato il mulinoriedificate le stalleche ora ospitavano ben cinque asiniassairobusti. Ognuno dei coloni lavorava nel suo settorela salute e ilbuon umore erano costanti e completi. Le serate trascorrevanolietissimeal Palazzo di Granitopiene di progetti e di sogni...


NaturalmenteAyrton partecipava ormai pienamente all'esistenza comunee nonpensava più di andare a ritirarsi nel recinto. Talvoltaèverorestava triste e silenzioso e si univa con più slancioai lavori che ai lieti conversari della sera. Ma era un lavoratoregagliardo ed espertissimoera stimato e ben voluto da tutti.


Ilrecinto non fu però trascurato. Ogni due giorniuno deicolonicol carro o in sella a uno degli asinivi si recava perbadare al gregge dei mufloni e delle pecoree ne riportava il latteche veniva consegnato a Nab. In queste gitela caccia aveva il suoposto principale. Per questoHarbert e Spilettpiù deglialtriaccompagnati da Topcompivano la gita al recinto econ glieccellenti fucili dei quali ora disponevanoabbattevano sempre molticapi di selvaggina di pelo e di piuma. Avevano anche rimesso inefficienza la linea telegraficanecessaria soprattutto quando ilcolono che s'era recato al recintogiudicava meglio passarvi anchela notte. Del restoormai l'isola era perfettamente sicuraalmenoper quello che riguardava gli uomini. Senonchéquanto eraavvenutopoteva anche ripetersi. C'era sempre da temere un'altraincursione di banditi. Poteva darsi che altri complici di Bob Harveyancora detenuti a Norfolkriuscissero a fuggirefossero al correntedei progetti del loro compagno e intendessero seguirne le tracce. Perquestoi coloni non trascuravano mai di vigilare il litoralediscrutare l'orizzonte del mare: di stare in guardiain una parola.


Perquestouna sera Cyrus informò i compagni di un suo progetto aproposito del recinto. Egli intendeva fortificarloalzandone lapalizzata e fiancheggiandola di alcuni fortini ben nascostinell'erba.


IlPalazzo di Granito non dava preoccupazionidata la sua posizione;mentre il recintocon i suoi allevamentile sue stalle e i suoipascolipoteva sempre formare l'oggetto di un attacco da parte dipirati o di banditi.


Il15 maggiola chiglia della nuova imbarcazione si allungava giànel cantieree cominciavano a profilarsi le murate. La lunghezzadello scafo era di oltre trenta metri e la larghezza di oltre otto.Ma presto l'arrivo dei grandi freddi interruppe ogni lavoro. La finedi maggio fu contrassegnata da un tempo pessimo. Il vento soffiavacon la violenza di un uraganoe Cyrus ebbe qualche inquietudine aproposito dei capannoni del cantiere. Per fortunaperònonci furono danni serie Pencroff e Ayrtoni più zelanti inquei lavoricontinuarono fino al limite del possibile la loroattività nel cantiere. Ma verso il 10 giugnoil freddo s'erafatto così acuto che si dovette dare un addio al cantiere.


Cyrusaveva osservato già che i freddi invernali dell'isola Lincolnerano insolitamente rigidi.


-Di solito - spiegava ad Harbert - a latitudini ugualile isole e leregioni costiere sono meno fredde delle contrade mediterranee. Peresempiogli inverni nella pianura lombarda sono più rigidiche nella Scozia e questo perché il mare restituirebbe durantel'inverno una parte dei calori che ha assorbito durante l'estate. Eallorale isole si trovano nelle condizioni migliori per riceverequesti benefici influssi.


-Ma perché la nostra isola sfugge a questa legge? - chieseHarbert.


-Non sapreifigliolo. Forseper la sua posizione nell'emisferoaustrale checome saiè più freddo di quello boreale.


-Infatti - osservò Harbert - i ghiacci si incontrano nel sud alatitudini più basse che nel nord del Pacifico.


-Quando facevo il baleniere - ricordò Pencroff - mi ricordo diaver visto delle montagne di ghiaccio perfino all'altezza del capoHorn.


-Si potrebbe allora spiegare il freddo della nostra isola disseSpilett - pensando a dei banchi di ghiaccio relativamente vicini.


-Credo anch'io che sia per questa ragione - fece Cyrus. Dev'essere lavicinanza della banchisa che fa così rigidi gli inverninell'isola Lincoln.


Qualunquefosse la cagione di quei freddicerto è che essi costrinseroi coloni a restare ben chiusi dentro il Palazzo di Granito. E chisoffriva di più di quella forzata reclusione era Spilett.


-Vedi - disse un giorno a Nab - io ti cederei volentiericon attonotariletutte le eredità che mi toccherannoun giornosetu fossi così bravo da andare a farmi un abbonamento ad ungiornale qualunque.


Quelloche manca alla mia felicitàè di non poter sapereilmattinoquello che è capitato nel mondo nelle ventiquattroore precedenti.


Lacolonia dell'isola Lincolna parte questa malinconia professionaledi Spilettera allora nella sua maggiore prosperitàdopo treanni di lavori assidui e intelligenti. L'incidente del brigantino erastato una nuova fonte di ricchezza per i coloni. Senza parlaredell'attrezzatura navale che avrebbe servito alla nuova imbarcazionei magazzini del Palazzo rigurgitavano di attrezziutensiliarmimunizioniabitibiancheriastrumenti dl ogni genere e tipo. Ormainon sarebbe più stato necessario confezionare il feltro cheera servito sin lì a vestirli. I coloni potevano ormai sfidareimpunemente il freddo dell'invernoprotetti com'erano dai pesantiabiti tratti dalla squarciata stiva dell'"Attivo". Quantoalla biancheriane avevano moltissimae quella moltissima curavanoin modo particolare.


Cyrusera riuscito a ottenere della soda e del cloroche servirono perpulire e tener sempre candida la biancheria. Si facevano quattrograndi liscive all'anno e Pencroff e Spilett si dimostrarono deilavandai d'eccezione.


Cosìtrascorsero i mesi invernaliil lugliol'agosto e il settembre.


Furonomesi freddissimidurante i quali il termometro scese a oltre 13gradi sotto zero; ma sul focolare del Palazzo scoppiettava sempreun'allegra fiammatae il combustibile non faceva certo difetto!

Uominie bestieinsommagodevano di una salute eccellente. Il piùfreddoloso si mostrava mastro Jup; e fu necessario confezionargli unabuona veste da camera ben ovattata. Ma con tutto questoesso restavasempre quell'ammirevole servitorezelantesveltoinfaticabilediscretissimopunto chiacchieronee lo si poteva con ragioneproporre a esempio a tutti i suoi colleghi bipedi dell'uno edell'altro emisfero.


Pertutto l'invernoe durante il mese di settembrenon ci fu piùalcun segno del genio protettore; vero è che la sua azionesarebbe stata inutileperché non si verificò nessunincidente... C'era di più: cheper tutti quei mesiTop nondiede più nessun indizio di inquietudine a proposito del pozzodel Palazzo. Né il cane né lo scimmione provavano ormaila più piccola esitazione a passare accanto all'orifizio delpozzo. Ma bastava questo per distruggere ogni possibile enigma? Sipoteva dire che ormai non si sarebbe più presentatacircostanza di sorta nella quale il misterioso personaggio nondovesse ripresentarsi sotto forma di uno di quegli interventimiracolosi che lo avevano caratterizzato? Chi poteva presagirel'avvenire?

Finalmenteanche quell'inverno finì. E proprio nei primissimi giorni diprimaverasi verificò un fatto che avrebbe potuto avere lepiù funeste conseguenze.


Lamattina del 7 settembreCyrusche era andato a guardare la cima delmonte Franklinvide un fumo che incoronava il cratere e saliva aperdersi in lente volute nell'aria.




CAPITOLO15


Richiamatidall'ingegnere i coloni interruppero i loro lavorie vennero avedere. Il vulcano s'era dunque svegliatoe i vapori sotterraneiavevano rotto il tampone minerale che ostruiva il fondo del cratere!Ma i fuochi sotterraneiavrebbero ora provocato qualche violentaeruzione? Ecco un'eventualità che non si poteva in alcun modoprecisare. Anche ammettendo però l'eventualità diun'eruzioneera probabile che l'isola non ne dovesse gran chesoffrire. Non è detto che la discesa delle lave sia sempredisastrosa. Già nel passato l'isola era stata provata dasiffatta catastrofecome lo documentavano le colate di lava chezebravano i pendii settentrionali del monte. E poi la forma delcraterele spaccature aperte ai suoi orli dovevano convogliare lematerie ignee dell'eruzione verso la zona opposta a quella fertile.


Senonchéquanto era accaduto in passato costituiva necessariamente unasicurezza per l'avvenire? Non è raro il caso che nei vulcanisi formino nuovi crateri. Così era accaduto sull'EtnaalPopocatepeltall'Orizaba. Alla vigilia di un'eruzionesi puòtemere tutto. Sarebbe bastatoin poche paroleun terremoto -fenomeno abbastanza frequente nelle convulsioni vulcaniche - perchéla disposizione interna del monte si modificasse e nuove vie siaprissero alle lave incandescenti.


Cyrusspiegò tutte queste cose ai compagni esenza esagerarefeceloro conoscere insomma tutto il pro e il contro. Del restonon c'eraniente da fare. Il Palazzo di Granitoeccetto il caso di un violentoterremotonon avrebbe dovuto essere minacciato. Viceversailrecinto aveva tutto da temere se qualche nuovo cratere dovesseaprirsi in cima al monte Franklin.


Daquel giornoil fumo non cessò un'ora dall'impennacchiare lacima del Franklinanzi la colonna fumosa andò crescendosempre piùsenza peraltro che comparisse alcuna fiamma.Evidentementeil fenomeno si limitava ancora agli strati inferioridel cratere. Intantoi coloni continuavano alacremente nei lorolavorisoprattutto al cantiere dove Cyrusvalendosi dell'energiatratta dalla cascatapoté fabbricare una segheria idraulicache tagliò rapidamente e perfettamente i tronchi degli alberi.Così che verso la fine del settembre tutto lo scafo della naveera pronto sui suoi puntelli nel cantiere Era una vera e propriagolettasottile a pruache avrebbero attrezzato per una lungatraversata: e la cosa non era difficile perchéper fortunaavevano potuto salvare quasi tutto il ferro del brigantinonaufragato.


Ilavori al cantiere dovettero essere interrotti una settimana per ilavori della mietitura e il trasporto delle messi al Palazzo. Ma poitutte le giornate e tutte le ore di ogni giorno vennero consacrate alcantiere. Quando scendeva la nottei coloni erano davvero estenuatie si affrettavano al Palazzo di Granito per dormirvi sodo finoall'alba. Ma qualche voltala conversazionedopo cenaspecie se sitrattava un argomento appassionanterubava loro qualche ora disonno.


Parlavanodell'avveniredi quello che avrebbe potuto portare un viaggio con lagoletta sino a qualche terra abitata. Ma in tutte queste promettentivisioni di un avvenire ormai sicurodominava poi sempre l'idea ditornare all'isola Lincoln. Mai essi avrebbero consentito adabbandonare per sempre quella piccola terraquella colonia cheavevano fondato e curato con tanto amore e tanta passione e allaquale una possibile comunicazione con l'America avrebbe assicurato unmeraviglioso avvenire. Pencroff e Nabanchecontavano di finirci inpace i loro giorni.


-E tuHarbert - chiedeva il marinaio - ti sentiresti forse diabbandonare la nostra isola?

-Maimai: soprattutto se tu conti di restarci.


-Se ci conto? Per mille diavolie lo metteresti in dubbio! Tu verraiqui con tua moglie e i tuoi figlie dei tuoi figli iopoifaròdei famosi buontemponi!

-Ti prendo in parolaPencroff.


-Quanto poi a voisignor Cyrusvoi sarete naturalmentee sempreilgovernatore dell'isola. Maa propositoquanti abitanti potrannostarci? Almeno un diecimilanon vi pare?

Questii progetti per l'avvenire e i coloni vi si appassionavano tanto cheSpilett aveva deciso la fondazione di un giornaleil "NewLincoln Herald"...


Lasera del 15 ottobreverso le novedopo un paio d'ore di questeaffascinanti fantasticheriestavano già per andare a dormirequando il campanello elettrico del telegrafo all'improvviso squillò.


Eranotutti lìnella sala centraleal recinto non c'era dunquenessuno... Cyrus si alzòi suoi compagni lo guardavanosbalorditi ed emozionati.


-Che cosa significa? - chiese Nab. - Che sia il demonio?

Nessunorispose; solo Harbert tentò di osservare:

-Il tempo è temporalesco; e forse una scarica elettrica...


L'ingegnerefece segno di no con la testae Spilett disse:

-Aspettiamo. Se era un segnalechiunque sialo ripeterà.


-Ma chi volete mai che sia? - chiese Nab.


-Forse - mormorò Pencroff - forse è colui che...


Manon poté finire la sua fraseperché un nuovo squillodi campanello trillò. Cyrus si diresse allora versol'apparecchio e lanciò verso il recinto questa frasesul filoelettrico:

«Checosa volete?».


Qualcheattimo dopol'agomuovendosi sul quadrante alfabetico delricevitoredava questa risposta:

«Venitesubito al recinto più presto che potete».


-Finalmente! - esclamò Cyrus.


Sìfinalmente! Il mistero stava dunque per essere svelato. Davanti allaprospettiva di conoscere finalmente l'ignoto protettorei colonidimenticarono le dure fatiche della giornata di lavoroe silanciarono fuori dal Palazzo. La notte era neragrosse nuvoletemporalesche formavano una volta bassa e buia che intercettava anchei raggi delle stelle. Non c'era che qualche subitaneo chiarore dilampi lontani. Ma non era certo l'oscurità o la minaccia di untemporale che potevano fermare i coloni chea passo rapidoil cuorestretto da una profonda emozionecamminavano di buon passo verso ilrecinto. Nel gran silenzio della notteappesantito dalla sensazionedell'imminente temporalenon si udiva che il suono dei passi deicoloni che mantenevano essi pure il silenzio. Solo una volta si udìPencroff mormorare:

-Avremmo dovuto prendere una lanterna.


ECyrus rispondergli:

-Ne troveremo una al recinto.


Dopomezz'ora di camminoavevano già percorso tre migliaed eranoa oltre mezza strada. Ormaidei grandi lampi squarciavano frequentila nera nuvolaglia e mostravanoin quell'attimo di abbagliantecandorela foresta intorno tutta nera di rami e di fronde. L'uraganonon doveva tardare ad esplodere in tutta la sua violenza. Giàsordi brontolii di tuono andavano avvicinandosil'atmosfera pesava.I coloni accelerarono il passoe in breveal chiarore di un lamposcorsero la palizzata. Non avevano ancora spinto la portache untuono gigantesco rimbombò sulle loro testecome una salva dicento cannoni pesanti. In un baleno attraversarono lo spiazzogiunsero alla porta della casa di legno. Cyrus bussò allaporta chiusa. Nessuno rispose. Allora aprironoentrarono. Nessuno.Accesa una lanterna guardarono dappertutto. Nessuno.


-Che siamo stati tutti vittima di una illusione? - chiese Cyrus.


Nonon era possibile. Quel telegramma aveva detto chiaramente:

«Veniteal recinto più presto che potete».


Siavvicinarono al tavolo dove stava l'apparecchio telegrafico; ma tuttoera al suo solito posto.


-Chi è stato qui l'ultima volta?

-Iosignor Smith.


-Quando?

-Quattro giorni fa.


-Ah! Guardate! - esclamò Harbert mostrando un foglietto dicarta sulla tavola. Su quel foglietto qualcuno aveva scritto questeparole:

«Seguiteil nuovo filo».


-Andiamo! - gridò Cyrusche subito comprese come il telegrammanon fosse partito dal recintoma dal misterioso rifugio che un nuovofilo allacciato all'altroagganciava al Palazzo di Granito.


Nabprese la lanternae tutti uscirono. L'uragano si scatenava allora intutta la sua violenza. I lampi erano incessantiil tuono rimbombavasenza interruzionee a quelle livide luci si vedeva la cima delmonte cinta di diversi vapori.


Appenafurono usciti dalla palizzataCyrus scorse subitoal primo palotelegraficoun nuovo filo che dall'isolatore cadeva a terra.


-Eccolo! - gridò.


Ilfilo era steso a terrama protetto da una materia isolante come uncavo sottomarino. Pareva che si dirigesse dentro la forestapoiverso i contrafforti meridionali della montagna: insomma versooccidente.


-Seguiamolo - fece Cyrus.


Eaiutandosi ora con la lanternaora con la luce dei lampii colonisi lanciarono dietro quel filononcuranti dell'uragano. Salironoprima il contrafforte che si elevava fra la valletta del recinto equella del fiume della Cascatache guadarono in punto assai stretto;poi salirono un altro contraffortescesero sopra uno spiazzobasaltico. Ogni tantoqualcuno si chinava a terra per assicurarsiche il filo era sempre lì a guidarli. Ormai non c'era piùdubbio: quel filo li portava verso il mare. Certamentelàinqualche antro rocciososi apriva la segreta dimora del genioprotettore dell'isola!

Alledieci di serai coloni erano arrivati sull'orlo dell'altipianostrapiombante sull'oceano. Il temporale infuriava. Sotto di loroacentocinquanta metrisi sentiva muggire la furia del mare.


Aquel punto il filo correva fra le rocceseguendo il pendioe icoloni vi si gettaronoa rischio di provocare qualche fatale cadutadi sassi e di precipitare in mare. Ma essi non calcolavano ilpericolonon erano più padroni di loro stessiattratti versoquel punto misterioso dal quale era partito il richiamol'appellourgente!

Disceserocosì senza saperlo per quel pendio cheanche se fatto digiornoin piena luce solaresarebbe stato pericolosissimo. Cyrusera in testa a tuttiAyrton chiudeva il cammino. Ora andavanocautamenteora scivolavano sopra i sassiora cadevanopoi sirialzavano e continuavano l'arduo cammino senza dire una parola.


Finalmentearrivarono sulla riva del marefra gli scogli. Qui il filo correvafra i massiparallelo all'acqua; finchéa un certo puntosivide che si immergeva risolutamente nelle onde.


Icoloni si fermarono stupefattipoipresi com'erano da quella sortadi affascinante ansietàsi sarebbero buttati in acqua percercare una caverna sotterraneaquando l'ingegnere con un gesto lifermò.


-Un momento - disse. - Adessoè l'alta marea. Aspettiamo labassa mareatroveremo il cammino.


-Ma e se poi?... - cominciò Pencroff.


-Non ci avrebbe chiamati se poi dovessimo fermarci a mezza strada perl'impossibilità materiale di continuare.


Cyrusaveva parlato con tale accento di convinzione che tutti se nepersuasero. Non c'era che da aspettare qualche orae aspettaronoschiacciati contro uno scogliosotto l'acqua torrenziale cheprecipitava dal cielofra tuoni e lampi da fine del mondo. Dopocirca due ore di quell'attesa frementeCyruspresa la lanternascese fino al livello del mare a scrutare il filo. La bassa marea giàcominciava a farsi sentiree l'ingegnere poté scorgeredistintamentesotto l'acqua che stava a poco a poco ritraendosiildisegno di una vasta escavazionedentro la quale andava a finire ilfilo. Tornò allora vicino ai compagnie disse semplicemente:

-Fra un'orapotremo passare.


-C'è un passaggio? - fece Pencroff.


-E lo dubitavate? E' una caverna.


-Ma sarà piena d'acquaalmeno fino a una certa altezza.


-O si prosciugherà tutta con la bassa mareae la percorreremoa piedioppure ci sarà dell'acqua ancorae ci verràofferto un mezzo di trasporto qualunque.


Passòun'altra orain silenzio. A un cenno di Cyrustutti scesero finoall'orlo delle onde. Il maresotto l'effetto della bassa mareas'era ritirato di circa cinque metri. Si vedeva la cavernacon unarco di rocciasimile all'arco di un ponte; alto circa tre metri.


CurvandosiCyrus vide un oggetto nero che galleggiava; lo trasse a sé;era un canotto di tela impermeabilecon due remi sul fondotrattenuto a qualche spuntone di roccia da una lunga corda.


-Imbarchiamoci - disse l'ingegnere.


Salironotutti nel canottoNab e Ayrton presero i remiPencroff si pose altimoneCyrus a prua reggendo la lanterna. La volta della cavernaprima assai bassasi innalzava poi grandiosa: ma nell'oscuritànon si vedeva nullae la luce della lanterna era troppo deboleperché si potesse avere un'idea della vastità diquell'antro.


Ilsilenzio era impressionante. Non si udivano più né ituoni né lo scroscio della pioggia violenta. Che quellaimmensa caverna si stendesse sotto la stessa isola e fosse grandequanto essa? Da un quarto d'ora navigavano sotto la volta buiaeancora non si vedeva nulla. Improvvisamente Cyrusche era a prua ecercava di rischiarare il cammino sull'acquaordinò aPencroff: - A destra.


L'ingegnerevoleva accertare se il filo elettrico correva lungo la parete didestra della caverna. Infattiil filo era làsteso contro laroccia. Cyrus lo toccòsospirò di sollievoe disse: -Avanti!

Ilcanotto filò per un altro quarto d'ora sull'acqua chetaquando la voce dell'ingegnere fermò bruscamente i remi:Fermatevi!

Ilcanotto si fermò e i coloni videro stupefatti una lucevivissima che illuminava la grandiosa cripta rocciosa aperta nelleviscere dell'isola. Poterono allora farsi un'idea di quella caverna.A un'altezza di una trentina di metri la volta si curvavaappoggiandosi sopra colonne naturali di basalto fitte come unaforesta che l'acqua bagnava alle basi. Colpite dalla luce misteriosache pareva scaturire dall'acqua stessaquelle colonne scintillavanocome se fossero state di pietre preziose e si riflettevano poi nelleacquecreando uno spettacolo luminoso fantasmagorico. Néc'era da ingannarsi sulla natura di quella luce netta e rettilineache sgorgava accecante da un focolaio centrale. Il suo candorenetradiva l'origine. Si trattava di luce elettrica.


Aun segno di Cyrus i remi si rituffarono nell'acquae quando neuscirono parvero grondanti di gemme. Il canotto si diresse verso quelcentro di luce. E làdove l'acqua si allargava in una speciedi lago largo un centinaio di metrila luce era tale che la volta ele pareti della immensa caverna parevano splendere naturalmente. Inmezzo a quel lagoun lungo oggetto fusiforme galleggiava sulleacqueimmobile e silenzioso. La luce sgorgava dai suoi fianchi comeda due gole di ferro. L'oggettosimile al corpo di un immensocetaceomisurava circa settanta metri di lunghezza e si levava ditre metri o poco più dal livello del lago.


Ilcanotto gli si avvicinò piano piano. A pruaCyrus si eraalzato in piedi e guardavain preda a un'agitazione violenta. Poiall'improvvisoafferrando il braccio di Spilettesclamò:

-Ma è lui! Non può essere che lui!

Poiricadde a sedere sul banco del canottomormorando un nome chesoltanto il giornalista udì. E certo il giornalista conoscevaquel nomeperché fece su di lui una impressione enormee losi udì mormorare:

-Lui! Un uomo fuori della legge!

-Sì... Lui! - gli rispose Cyrus.


Poidiede un ordinee il canotto s'accostò al fianco sinistrodell'oggettodi doveattraverso un ampio e grosso cristallosivedeva scaturire un fascio luminoso. Cyrus e i suoi compagni salironosul dorso di quel cetaceo metallicovidero un'aperturavi siavventuraronoscendendo per una scalaal piede della quale siapriva un corridoio illuminato elettricamente. In fondo al corridoioc'era una portache Cyrus aprì.


Unagrande sala lussuosa: i coloni la attraversaronoentrarono in unabiblioteca dove un soffitto luminoso faceva piovere una luceabbagliante. Attraversarono anche la bibliotecain fondo alla qualec'era un'altra porta. Cyrus ne spinse i battentie i colonientrarono in un salone immensouna specie di museo dovecon tutti itesori della natura mineraleapparvero agli occhi strabiliati deicoloni bellissime opere d'artemeraviglie dell'industria...


Distesosopra un divano videro un uomoche parve non avvedersi nemmeno delloro arrivo.


AlloraCyrus Smith disse ad alta vocefra la commossa sorpresa dei suoicompagniqueste parole:

-Capitano Nemoci avete chiamati? Eccoci.




CAPITOLO16


Aquelle parolelo sconosciuto si raddrizzòe il suo visoapparve in piena luce: una testa magnificadall'ampia frontedallosguardo fierissimodai capelli bianchi e fluenti e dalla barbabianca. Egli si appoggiò con una mano al divano. Il suosguardo era serenoma si vedeva che una lenta malattia l'avevaconsumato per quanto la sua voce suonasse ancora forte. Disseconaccento di sorpresa:

-Io non ho nomesignore.


-Ma io vi conosco - gli rispose Cyrus.


Ilcapitano Nemo lo guardò con occhi sfavillanticome se avessevoluto incenerirlo. Poi si rilasciò cadere sul divanomormorando:

-Edopo tuttoche importa. Sto per morire!

Cyrusgli si avvicinò e Spilett prendendogli una mano sentìche scottava. Gli altri si tenevano timorosi e stupiti in disparte.


Intantoil capitanosvincolata la sua mano da quella di Spilettinvitòcon un gesto i due a sedere. Tutti lo guardavano con unaintraducibile emozione. Eccolo làdunqueil «geniodell'isola»l'essere onnipotente al cui intervento dovevano laloro salvezza!

Davantiai loro occhi non c'era che un uomomentre Pencroff e Nab eranosicuri di trovare un dioe un uomoper giuntache stava permorire!

Macome mai Cyrus conosceva questo capitano Nemo? E perché ilcapitano s'era drizzato su con tanto stupore e tanta collerasilenziosaquando aveva sentito il suo nome sulle labbradell'ingegnere?

Ilcapitanosollevato sopra un gomitoguardava intanto Cyrus e glichiedeva:

-Voi sapete il mio nomesignore?

-Lo socome so il nome di questo vostro magnifico sottomarino.


-Il "Nautilus"?

-Il "Nautilus".


-Ma... sapete anche... chi sono?

-Lo so.


-Eppure sono trent'anni che non ho più alcuna comunicazione colmondo abitato; trent'anni che io vivo in fondo al mareil soloambiente ove abbia trovato l'indipendenza. Chi ha mai potuto tradireil mio segreto?

-Un uomo che non aveva preso con voi nessun impegnosignoree cheper conseguenzanon può essere tacciato di tradimento.


-Quel francese che il caso ha portato a bordo del mio sottomarino?

-Lui.


-Alloraquell'uomo e i suoi due compagni non sono periti nelmaelstromquando il mio "Nautilus" si trovò presoin mezzo a quella terribile furia?

-Non sono peritied è comparsasotto il titolo "Ventimilaleghe sotto i mari"un'opera che contiene la vostra storia.


-La mia storia di qualche mese soltantosignore - rispose convivacità il capitano.


-E' vero; ma solo qualche mese di questa vostra stranissima vita sonobastati per farvi conoscere...


-... Come un grande colpevolemi immagino - continuò ilcapitano Nemo con un sorriso di sprezzo. - Sìun ribellemesso forse al bando dell'umanità!

L'ingegneretacque.


-Ebbenesignore?

-Non sta a me giudicare il capitano Nemo - fece Cyrus; - almeno perquello che si riferisce alla sua vita passata. Io ignorocomeignorano tuttiquali sono stati i moventi di questa vostramisteriosa esistenzae non posso giudicare degli effetti senzaconoscere le cause. Ma quello che soè che una mano benevolasi è sempre distesa verso di noi da quando siamo arrivatinell'isola Lincoln; e che tutti noi dobbiamo la nostra vita a unessere buonogenerosopotente; e che questo essere buonogenerosopotente siete voicapitano Nemo!

-Sìsono io - disse con semplicità il capitano.


L'ingegneree il giornalista si erano alzatii loro compagni si eranoavvicinatie la riconoscenza che gonfiava i loro cuori stava pertradursi in gesti e parolema il capitano li fermò con ungesto della mano e con una voce più commossa di quanto nonavrebbe volutodisse:

-Prima ascoltatemi...


Ein poche frasi nette e precise raccontò la sua storia. Fu unastoria brevema dovette chiamare a raccolta tutte le sue energie perarrivare fino m fondo. Era chiaro che stava lottando contro unaestrema debolezzae parecchie volte Cyrus lo interruppe per pregarlodi riposarsi un pocoma egli rispondeva scuotendo la testa da uomoal quale il domani non appartiene più e quando il giornalistagli offrì le sue curerispose:

-Sono inutilile mie ore sono ormai contate!

Ilcapitano Nemo era un Indianoil principe Dakkarfiglio del rajàdel territorio allora indipendente del Bundelkunde nipote dell'eroedell'India Tippo Saib. Suo padre lo mandò in Europa quandoaveva dieci anni perché vi ricevesse un'educazione completaenella segreta speranza che potesse un giorno lottare con armi egualicontro gli oppressori del suo Paese. Dai dieci ai trenta anni ilprincipe Dakkardotato di intelligenza superioregeneroso di cuoree di spiritosi istruì nelle scienzenelle lettere e nelleartiviaggiò per tutta l'Europa. La sua nascita e le suesterminate ricchezze lo facevano ricercatissimoma le seduzioni delmondo non lo affascinarono mai.


Giovanee bellorestò seriosilenziosodivorato solo dalla sete diimparare con un implacabile rancore nel cuore. Il principe Dakkarodiava: odiava il solo Paese dove non avesse mai voluto mettere ilpiedela sola nazione di cui ricusasse ostinatamente tutti gliinviti e le offerte: odiava l'Inghilterrae tanto più laodiava in quanto sotto molti punti di vista doveva ammirarla. In quelgiovane Indiano si riassumevano tutti gli odi violenti del vintocontro il vincitore.


L'invasorenon aveva trovato grazia presso l'invaso. Il figlio di uno di queisovrani cui il Regno Unito non aveva che formalmente evitato laschiavitùquel principedella famiglia di Tippo Saiballevato negli ideali di rivendicazione e di vendettainnamoratofino alla passione del suo Paese incatenato dagli Inglesinon vollemai mettere il piede sulla terra da lui maledetta alla quale l'Indiadoveva la sua schiavitù.


Ilprincipe Dakkar diventò un artista che le meraviglie dell'arteeuropea impressionavano profondamente; diventò uno scienziatoal quale non era straniera nessuna conquista della scienza: diventòun uomo politico che le università europee formarono ededucarono perfettamente. Agli occhi di chi lo guardava esteriormentediventò uno di quei cosmopoliti curiosi di tuttoma inadattiall'azione; uno di quei ricchissimi viaggiatorispiriti fieri eplatonici che amano correre il mondo e non mettono radici in nessunaterra mai. Non era così. Quell'artistaquello scienziatoquell'uomo politico era rimasto Indiano nel cuoreIndiano neldesiderio della vendettaIndiano nella speranza di rivendicare ungiorno i diritti sacrosanti del suo Paesedi cacciarne glistranieridi restituirgli la sua libertà!

Cosìil principe Dakkar tornò al suo Bundelkund nel 1849si sposòcon una nobile Indiana il cui cuore sanguinava come il suo per ledisgrazie della patria. E la felicità domestica non gli fecedimenticare la schiavitù dell'India. Aspettòun'occasione propizia.


Essasi presentò.


Ilgiogo inglese s'era fatto troppo pesante sulla popolazione. Dakkarfece sue le voci dei malcontentiseppe infondere nei loro cuoritutto l'odio che egli sentiva per lo straniero. Percorse non soltantole contrade della penisola indiana ma anche le regioni direttamentesottoposte all'amministrazione ingleserievocò i grandigiorni di Tippo Saib caduto eroicamente a Seringapatam difendendo lalibertà della sua Patria.


Nel1857 scoppiò la grande rivolta dei cipays. Il principe Dakkarne fu l'animaorganizzò l'immenso sollevamentomise il suoingegno e le sue ricchezze al servizio di quella causa. Pagòdi personacombattendo nelle prime filerischiando la vita come ilpiù umile di quegli eroi che s'erano ribellati per la libertàdel loro Paese. Fu ferito dieci volte in venti scontrie non potétrovare la morte quando gli ultimi soldati dell'indipendenza cadderosotto le pallottole inglesi.


Maila potenza britannica in India corse tanto pericoloe secome s'erasperatoi cipays avessero trovato un aiuto dal di fuorisarebbeforse finita per sempre l'influenza inglese in Asia.


Ilnome del principe Dakkar fu famosoa quel tempo. L'eroe che loportava non si nascosee lottò apertamente. La sua testa fumessa a prezzo ese non si trovò nessun traditore che loconsegnasse al nemicosuo padresua moglie e i suoi figli pagaronoper lui prima ancora che egli potesse sapere quali pericoli i suoicari correvano per causa sua. Il dirittoquella voltaaveva dovutocedere davanti alla forza. Ma la civiltà non indietreggiaepare che giustifichi tutti i suoi accessi in nome della necessità!I cipays furono vintie il Paese degli antichi rajà ricaddesotto il dominio britannico.


Ilprincipe Dakkarche non aveva potuto trovare la morte in battagliaritornò nelle montagne del suo Bundelkund; e làsolopreso da un immenso disgusto contro tutto ciò che portava unnome umanodivorato da un terribile odio contro il mondocivilizzatoansioso di fuggirlo per semprerealizzò i restidella sua fortunaraccolse una ventina dei suoi antichi compagnieun bel giornosparì.


Doveera mai andato a cercare quella indipendenza che la terra abitata glirifiutava? Sotto le acquenella profondità degli oceanidovenessuno avrebbe potuto seguirlo.


All'uomodi guerra si sostituì allora lo scienziato. In un'isoladeserta del Pacifico stabilì i suoi cantieri dovesecondo isuoi pianivenne costruito un sottomarinoazionatoilluminato eriscaldato dall'elettricità. Il marecoi suoi tesoriinesauribilile sue miriadi di pescila sua infinita massa di algheed erbe marinei suoi enormi mammiferi e con tutti i tesori che gliuomini vi hannolungo i secoliperdutobastò largamente aibisogni del principe e dei suoi uomini. Battezzò il suobattello "Nautilus"si chiamò il capitano Nemodisparve sotto i mari.


Peranni e anniegli visitò tutti gli oceanidall'uno all'altropolo. Poidel mondo abitatoraccolse nei fondi degli oceanimeravigliosi tesori.


Imilioni perduti nella baia di Vigo nel 1702 dai galeoni spagnoli glifornirono ricchezze inesauribili di cui dispose sempreanonimamenteper aiutare i popoli che si battevano per la libertà del loroPaese.


Lanotte del 6 novembre del 1866dopo tanto tempo che non aveva piùalcun rapporto col mondo abitatotre uomini furono gettati a bordodel suo sottomarino. Erano un professore franceseil suo domestico eun pescatore canadese. Questi uomini erano stati lanciati in mareper un urto fra il "Nautilus" e la fregata americana"Abraham Lincoln" che dava la caccia al sottomarino. Ilcapitano Nemo apprese da quel professore che il "Nautilus"considerato ora un mammifero giganteora una nave sottomarina dipiratiera braccato per tutti i mari del globo. Nemo avrebbe potutorestituire all'oceano quei tre uomini che il caso metteva nella suavita. Non lo feceli tenne suoi prigionieri a bordo del "Nautilus"e per sette mesi essi poterono ammirare tutte le meraviglie di unviaggio che continuò per ventimila leghe sotto i mari.


Ungiornoil 22 giugno 1867quei tre uominiche non sapevano nulladel passato del capitano Nemoriuscirono a fuggiredopo essersiimpadroniti del canotto del sottomarino. Ma proprio in quel momentoil "Nautilus" era stato ghermito dai gorghi del maelstrome trascinato verso le coste norvegesi; e il capitano credette chequei tre sciagurati fossero periti nello spaventoso vortice d'acqua.Non sapeva che il francese e i suoi due compagni erano stati invecemiracolosamente gettati sulla spiaggia e tratti in salvo da alcunipescatori dell'isola Loffodene che il Francesetornato in Franciaaveva pubblicato l'opera nella quale raccontava tutta la strana eavventurosa navigazione del "Nautilus".


Perlunghi anni ancora il capitano Nemo aveva continuato la sua esistenzain fondo ai mari; ma a poco a poco i suoi compagni morirono eandarono a riposare nel loro cimitero di corallo in fondo alPacifico. Il vuoto si fece intorno al "Nautilus" e allafine il capitano restò solo. Aveva allora sessant'anni. Riuscìa portare il sottomarino in uno di quei porti subacquei che gliservivano talora per le sue soste. Questo porto era aperto sottol'isola Lincoln.


Dasei anniil capitano Nemo era làin attesa della mortedelmomentocioèin cui si sarebbe ricongiunto coi suoicompagniquando il caso lo fece assistere alla caduta di un pallone:quello che trasportava i prigionieri di Richmond. Vestito del suoscafandrostava allora passeggiando sotto il mare quando l'ingegnerefu precipitato in acqua. Bastarono pochi passi al capitano Nemoel'ingegnere Cyrus Smith era in salvo.


Inprincipioavrebbe voluto fuggire quei cinque intrusigettati senzarisorse sull'isola deserta. Ma poiquando si accorse che erano deigalantuomini legati l'uno all'altro da un'amicizia fraterna siinteressò ai loro sforzi. Quasi senza volerlofinì perconoscere tutti i loro segreti. Col suo scafandro gli era facilissimoarrivare fino in fondo al pozzo del Palazzo di Granito e ascoltarlimentre ricordavano il loro passato e progettavano l'avvenire. Appresecosì il grande sforzo che stava compiendo l'America control'America stessa per abolire la schiavitù. Sì! Quegliuomini erano degni di riconciliare il capitano Nemo con l'umanitàche essi rappresentavano così nobilmente nell'isola!

Ilcapitano Nemo aveva salvato Cyrus. Era stato lui a guidare Top finoalla Camminatalui a lanciare il cane fuori dalle acque del lagolui a far trovare la cassa alla punta del Rottamelui a far scenderela piroga lungo la Grazialui a lanciare la scala giù dalPalazzo di Granito invaso dalle scimmielui a far conoscere lapresenza di Ayrton all'isola Taborlui a far saltare il brigantinodei pirati con una torpedinelui che aveva salvato Harbert facendotrovare il solfato di chinino sulla tavolaluifinalmentecheaveva fulminato i cinque banditi con le pallottole elettriche dellequali aveva il segreto e che usava nelle sue cacce sottomarine...


Quelgrande misantropo aveva sete di bene! Avrebbe voluto dare tanticonsigli a quei coloniesentendo battere nel suo cuore gliavvertimenti della morte vicinali aveva chiamati a sé conquel telegramma... Forsenon lo avrebbe fatto se avesse potutoimmaginare che Cyrus Smith conosceva la sua storia così dapoterlo chiamare col nome di capitano Nemo.


Ilcapitano aveva finito il racconto della sua vita. Cyrus prese allorala parola; ricordò tutti gli incidenti che avevano esercitatosu di loro una così provvidenziale influenza ein nome deisuoi compagni e suoringraziò l'essere generoso al qualedovevano tanto.


Mail capitano Nemo non pensava alla gratitudine. Un ultimo pensiero glitormentava lo spiritoeprima di stringere la mano che gli tendeval'ingegneredisse:

-E adessosignoreadesso che conoscete la mia vitagiudicatela!

Cosìdicendo il capitano Nemo alludeva evidentemente a un tragicoincidente del quale i tre stranieri gettati a bordo del suosottomarino erano stati testimoni e di cui certamente il Franceseaveva dovuto narrare i particolari nel suo libro.


Infattiqualche giorno prima che il professore e i suoi due compagnifuggissero dal "Nautilus"il sottomarinoinseguito da unafregata nelle acque settentrionali dell'Atlanticos'era buttato comeun ariete contro la nave e l'aveva colata a picco senza pietà.


Cyruscomprese tale allusionee restò silenzioso.


-Era una fregata inglesesignore - esclamò il capitano Nemotornato per un attimo il principe Dakkar. - Una fregata inglesecapite?... Mi attaccava. Ero chiuso in una baia stretta e pocoprofondae dovevo passare... Sono passato.


Poicon voce più calmaaggiunse:

-Ero nella giustizia e nel diritto. Dappertuttoho fatto il bene cheho potutoe anche il male che ho dovuto. Non è detto che lagiustizia sia sempre nel perdono.


Seguironoalcuni attimi di silenziopoi il capitano Nemo domandò:

-Che cosa pensate di mesignori?

Cyrusgli tese la mano econ voce grave e solennegli rispose:

-Capitanoil vostro torto è di aver creduto che si potevarisuscitare il passatoe avete combattuto contro il progressonecessario. E' stato uno di quegli errori che gli uni ammiranoglialtri biasimanoma soltanto Dio può giudicare e la ragioneumana deve assolvere. Chi si inganna in un'intenzione che reputabuonasi può combatterloma non si cessa di stimarlo. Ilvostro errore è di quelli che non escludono l'ammirazione e ilvostro nome non ha nulla da temere dal giudizio della storia. Essaama le eroiche folliepur condannando gli effetti che ne possononascere.


Ilpetto del capitano Nemo si sollevòla sua mano si alzòverso il cielola sua voce ansiosamente disse:

-Ho fatto male? Ho fatto bene?

Cyruscontinuò:

-Tutte le grandi azioni risalgono a Dio poiché da Dioprovengono.


CapitanoNemoi galantuomini che avete davanti a voiquelli che voi aveteaiutato e salvato vi piangeranno per sempre!

Harberts'era avvicinato al capitanoaveva piegato le ginocchia e s'eracurvato a baciargli una mano.


Unalacrima scese lungo le guance del morente che mormorò:

-Figlioloche tu sia benedetto!...




CAPITOLO17


Eraspuntato il giornoma nessun raggio di sole poteva penetrare dentroquella cavernache l'alta marea doveva aver ostruito. Ma la lucecontinuava fulgente sul "Nautilus" e fulgente ne irradiavatutto intorno.


Unaestrema stanchezza piegava il capitano Nemo che era ricaduto sul suodivano. Non si poteva certo pensare a trasportarlo nel Palazzo diGranitodal momento che aveva manifestato la volontà direstare fra le meraviglie del suo battello ad aspettarvi la morteormai vicina.


Smithe Spilett esaminarono il morenteche giaceva senza conoscenza.


Eraevidente che il capitano stava spegnendosi a poco a poco. Quel corpocosì gagliardo un giornoera diventato un fragile involucrodal quale l'anima era prossima a sfuggire. Tutta la vita era ormaiconcentrata nel cuore e nel cervello.


L'ingegneree il giornalista si consultarono sottovoce. C'era qualche cura dafare? Si potevase non salvarealmeno prolungare ancora un pocoquella vita? Lui stesso aveva detto che non v'era ormai piùrimedio possibilee aspettava sereno la morteche non gli facevapaura.


-Non possiamo far nulla - concluse Cyrus.


-Ma di che muore? - chiese Pencroff.


-Si spegne - rispose il giornalista.


-Non credete che se lo trasportassimo fuoriall'apertoin pienosolesi riprenderebbe?

-NoPencroff - fece l'ingegnere - non possiamo far nulla. D'altraparteil capitano Nemo non consentirebbe mai a lasciare il suobattello. Da trent'anni vive sul "Nautilus"è sul"Nautilus" che vuole morire.


Certoil capitano intese queste paroleperché si sollevò unpoco e dissecon voce debolissima ma chiara:

-Avete ragionesignore. Io devo e voglio morire qui. Anziho unapreghiera da farvi.


Disposeroi cuscini sul divano in modo che il morente potesse restare piùcomodamente distesoe gli si raccolsero intorno commossi esilenziosi. Il capitano Nemo si guardò lentamente in girocome se volesse ancora una volta contemplare tutte le meraviglieraccolte intorno a séfermò gli occhi sul motto chestava scritto sopra una parete di quel salone museo:

MOBILISIN MOBILE e poinel profondo silenzio dei coloni che avevanorispettato reverenti quel suo momentaneo raccoglimento nel passatoil capitano Nemo si volse verso di loro e disse:

-Credete davverosignoridi dovermi un po' di riconoscenza?

-Capitanonoi daremmo la nostra vitaper prolungare la vostra!

-Bene... promettetemi allora di eseguire le mie ultime volontàe io sarò compensato per tutto quello che ho fatto per voi.


-Ve lo promettiamo.


-Signoridomani io sarò morto.


Fermòcon un gesto della mano Harbert che stava per protestaree continuò:

-Domani sarò mortoe io desidero di non avere altra tomba chenon sia il mio "Nautilus". E' il mio feretro... Tutti imiei amici riposano in fondo al mare. Voglio riposarci anch'io perl'eternità.


Unsilenzio profondo accolse le parole del capitano Nemo.


-Ascoltatemi bene. Il "Nautilus" è imprigionato inquesta grottala cui entrata s'è ormai alzata. Mase non puòuscirnepuò almeno sprofondare nell'abisso che esso sovrastae conservare la mia spoglia mortale. Domanidopo la mia mortesignor Smithvoi e i vostri compagni lascerete il "Nautilus"perché tutte le ricchezze che esso contiene devono sparire conme. Un solo ricordo vi resterà del principe Dakkardi cui voisapete ora la storia. Quello scrigno...


là...rinchiude per parecchi milioni di diamantiquasi tutti ricordi deltempo in cuipadre e sposoho quasi creduto alla felicitàeuna collezione di perle raccolte dai miei amici e da me nel fondo deimari. Con quel tesoro potrete fareun giornodelle cose utili ebuone. In mano a voisignor Smithe ai vostri compagnilaricchezza non potrà mai essere un pericolo. Da lassùsarò associato alle opere che faretee mi sento sicuro.


Dopoqualche istante di riposo per riprendere lenail morente continuò:

-Domaniprenderete quello scrignolascerete questo salonedi cuichiuderete la porta; risalirete sulla piattaforma del "Nautilus"chiuderete l'aperturache assicurerete coi bulloni.


-Sarà fattocapitano - lo assicurò Cyrus.


-Bene. Prenderete posto nel canotto che vi ha portati qui; maprimadi lasciare il mio "Nautilus"andrete alla sua poppae làaprirete i due grandi rubinetti che troverete sulla sua linea diimmersione.


L'acquairromperà nei serbatoi e il Nautilus affonderà a poco apocofino a toccare il fondodove resterà per sempre.


CyrusSmith tentò un gestoma il capitano lo prevenne affermando:

-Ohnon abbiate paura: voi non seppellirete in fondo al mare che unmorto.


Nessunoosò dire una parola. Erano le sue ultime volontànonc'era che da promettere.


-Ho la vostra promessasignori?

-L'avete - disse l'ingegnere.


Ilcapitano fece un cenno di ringraziamentopoi pregò i colonidi lasciarlo solo per qualche ora; Spilett insisté per restarepresso di luima il morente ricusòe ripeté:

-Vivrò fino a domanisignore.


Tuttilasciarono allora il salonetraversarono la bibliotecala sala dapranzoe giunsero a pruanella sala delle macchine dove eranoinstallati tutti gli apparecchi elettrici che davano al sottomarinoil calorela luce e il movimento. Poi salirono sulla piattaformaevi si sdraiaronorestando silenziosi e pensosi.


L'uomoche li aveva protetti e salvatiil loro buon genio protettore loavevano finalmente trovatoma stava per morire! Qualunque poi fosseil giudizio che i posteri avrebbero pronunciato sul conto delprincipe Dakkar e di quella sua esistenza quasi sovrumanaessoresterebbe pur sempre uno di quegli uomini che non si dimenticanomai.


-Ecco un uomo! - esclamò Pencroff. - Pare inverosimile che siavissuto tanti e tanti anni in fondo ai mari! E dire che forse non viha trovato nemmeno quella pace che vi sperava!

-Ma il "Nautilus" avrebbe potuto servirci per lasciarel'isola Lincoln - osservò Ayrton.


-Per tutti i diavoli! Io non mi fiderei certo a governare un battellodi questa specie - fece il marinaio. - Correre sui marivada ancora;ma sotto... no!

-Io credo invece - disse il giornalista - che la manovra di unsottomarino come questo debba essere facilissimae che l'avremmoimparata subito. E poiniente tempeste o venti da temere; nienteincontri coi pirati. Un paio di metri sotto il livello del mareleacque sono calme come quelle di un lago.


-Possibilissimo - ribatté Pencroff. - Maper conto miopreferisco un buon colpo di vento sopra una nave bene attrezzata. Unbattello è fatto per andare sopra le ondemica sotto.


-Amici miei- li interruppe l'ingegnere - questa discussioneperquanto almeno si riferisce al "Nautilus"è inutile.Questo battello non è nostroe non abbiamo il diritto diservircene. Del restonon potrebbe mai fare al caso nostro. Prima ditutto non può uscire da questa caverna; poi il capitano Nemodesidera che esso si sprofondidopo la sua mortecon luinel fondodel mare. La sua volontà è precisae noi l'ubbidiremo.


Dopoqualche tempoCyrus e i suoi compagni ridiscesero nel salone dovetrovarono il capitano Nemo che s'era un poco ripreso e che li accolsecon un cordiale gesto della manoe con queste parole:

-Signorivoi siete degli uomini prodileali e buoni. Vi sieteconsacrati senza risparmio a un lavoro nobilissimo. Vi ho spessoosservati. Vi ho voluto benevi voglio bene... La vostra manosignor Smith!

Cyrustese la mano al capitanoche gliela strinse affettuosamentemormorando: - Sono contento...


Poiriprese:

-E adesso basta parlare di me. Devo parlarvi di voi stessi edell'isola sulla quale avete trovato rifugio. Contate diabbandonarla?

-Ma per tornarcicapitano! - proruppe vivacemente Pencroff.


-Tornarci?... - fece sorridendo il capitano. - Ohso quanto voletebene a questa isolache si è trasformata per merito vostroed è veramente vostra!

-Il nostro progetto - disse Cyrus - sarebbe quello di offrirla agliStati Uniti e fondarciper la nostra marinauna base che mi paresarebbe assai felicemente situata in questa zona del Pacifico.


-Voi pensate al vostro Paese - disse il capitano. - Lavorate per lasua prosperità e per la sua gloria. Avete ragione. LaPatria!... E' là che bisogna tornare! E' là che si devemorire!... E io mi spengo lontano da tutto quello che ho amato!...


-Avreste qualche ultima volontà da trasmettere? - chiesel'ingegnere.


-Qualche ricordo da consegnare agli amici che avete forse lasciatonelle montagne del vostro Bundelkund?

-Nosignor Smith; io non ho più amici. Sono l'ultimo della miagente... e sono morto da molto tempo per tutti coloro che hoconosciuto... Torniamo a noi. La solitudine è una cosa tristeal di sopra delle forze umane... Io muoio per aver creduto che sipotesse vivere solo... Voi dovete dunque tentare di lasciare l'isolaLincoln e di tornare sulla terra dove siete nati! So che queimiserabili hanno distrutto la barca che v'eravate costruiti...


-Stiamo costruendo una goletta - intervenne Spilett abbastanza grandeperché ci possa trasportare sino alle terre abitate piùvicine. Ma se potremo lasciarla un giorno o l'altronoi torneremoall'isola Lincoln. Troppi ricordi ci legano a essa perché noila possiamo dimenticare!

-E' qui che abbiamo conosciuto il capitano Nemo! - disse Cyrus.


-Non è che qui che potremo trovare la nostra intera felicitàesclamò Harbert.


-Ed è qui che io riposerò il mio sonno eterno se... -disse il capitano; ma esitò einvece di finire quella frasedisse:

-Signor Smithvorrei parlarvi... da solo a solo.


Icompagni dell'ingegnere si trassero in dispartee Cyrus restòper qualche minuto col capitano; poi li richiamòma non feceverbo di quella breve conversazione segreta. Spilett guardòallora l'ammalato con grande attenzione. Era chiaro che il capitanoera sostenuto soltanto da una grande energia spirituale ma che nonavrebbe potuto più a lungo resisterecontro la prostrazionefisica.


Lagiornata volse al termine senza che alcun cambiamento simanifestasse. I coloni non lasciarono un solo istante il "Nautilus".


Ilcapitano Nemo non soffrivama declinava. Il suo nobile visopallidissimo era sereno. Ogni tanto dalle sue labbra uscivano paroleinintelligibiliche si riferivano a episodi della sua vita passata.


Sisentiva che la vita se ne andava a poco a poco da quel corpole cuiestremità erano già fredde. Ancora una volta o duerivolse la parola ai colonie sorrise loro di quell'estremo sorrisoche pare continui anche dopo la morte. Poco dopo la mezzanotteilmorente fece un movimento supremoe riuscì a incrociare lebraccia sul petto.


Versola una del mattinotutta la vita pareva che si fosse rifugiata neisuoi occhi. Un ultimo fuoco brillò nelle sue pupille; poimormorò queste due parole:

-Dio... Patria.


Espirò dolcemente.


Cyruscurvatosi devotamentechiuse gli occhi di colui che era stato ilprincipe Dakkar e che non era ormai più nemmeno il capitanoNemo.


Harberte Pencroff piangevano; Ayrton si asciugò furtivamente unalacrima; Nab era in ginocchioaccanto al giornalista che stavaimmobile come una statua.


Cyrusalzò la destra sopra la testa del morto e disse:

-Che Dio accolga la sua anima!

Poisi volse ai compagni e mormorò:

-Preghiamo per colui che abbiamo perduto!

Qualcheora dopoi coloni esaudivano la promessa fatta al capitano.


Dopoaver preso lo scrigno avuto in dono supremolasciarono il battelloe salirono sulla piattaformaper prendere posto nel canotto ammaratoal fianco del "Nautilus". Si portarono alla poppa delsottomarino e aprirono i due rubinettil'acqua precipitò neiserbatoi e il "Nautilus"affondando a poco a pocodisparve sotto l'acqua.


Mai coloni poterono seguirlo ancora attraverso gli strati subacqueitanta era la luce che ne emanavapotentementre a poco a pocol'immensa caverna si andava riempiendo di buio. Poi anche quellasorgente di luce si spense: il "Nautilus"tomba delcapitano Nemoriposava sul fondo dei mari.




CAPITOLO18


All'albai coloni avevano raggiunto l'uscita della cavernache avevanobattezzato cripta Dakkarin memoria del capitano Nemo. La marea erabassae poterono facilmente passare sotto la volta.


Assicuraronoil canotto sulla spiaggiacontro la roccia perché fosse alsicuro. L'uragano era lontanonon pioveva piùma il cielorestava nuvoloso. Cyrus e i suoi compagni ripresero la strada delrecinto.


MentrecamminavanoHarbert e Nab avevano raccolto e andavano rotolando ilfilo che metteva in comunicazione il recinto col "Nautilus"e che avrebbe potuto tornare utile più tardi. Non riuscivano aparlare. Quanto era successo in quella notte li aveva profondamenteimpressionati. Il pensiero che il capitano Nemo non c'era piùche lui e il suo meraviglioso battello giacevano in fondo al mare liangustiava. Pareva loro di essere rimasti soliassai più solidi quanto non fossero mai stati prima. S'erano abituati a contare suquella misteriosa potenza che li proteggeva; e ora sapevano chequella potenza era finita per sempre...


Versole nove del mattinoin silenzioi coloni erano tornati al Palazzodi Granito.


Erastato deciso di proseguire i lavori al cantiere e Cyrus vi consacròtutto il suo tempo e le sue cure. Non si sapeva quel che riserbassel'avveniree per i coloni era una garanzia avere una buona golettache poteva affrontare senza pericolo un mare grosso e fare unatraversata anche lunga. Secome fosse finita la piccola naveCyruse i suoi compagni non si fossero decisi a lasciare l'isola Lincolnper tentare di raggiungere o le coste della Nuova Zelanda o un'isoladegli arcipelaghi della Polinesiadovevano almeno recarsi all'isolaTabor per lasciarvi la notizia relativa ad Ayrton. Era una misuranecessaria da prenderenell'eventualità che il panfilo delgentiluomo scozzese tornasse per riprendere l'abbandonato.


Ilavori furono dunque ripresi con grande alacrità. Bisognavache la goletta fosse pronta per il mese di marzoper poter fare ilviaggio sino all'isola Tabor in una stagione ancora propizia.


Lafine di quell'anno 1868 li vide immersi in quei lavori fervidissimiche giorno per giorno traducevano in realtà i pianidell'ingegnere.


Naturalmenteil più attivo era sempre Pencroffe bisognava sentirlo comebrontolava quando qualcuno dei suoi compagni lasciava l'ascia dicarpentiere per prendere il fucile e andarsene a caccia. Mad'altrocantole provviste di viveri esigevano pure delle battute di cacciasoprattutto in vista del prossimo inverno... Pencroff lo sapevabenissimo; ma tanta era la sua passione per quella goletta che glistava nascendo sotto le maniche non tratteneva i suoi brontoliiepoi si vendicava lavorando per sei!

Lastagione restava bruttail caldo opprimentel'atmosfera era quasisempre carica di elettricità. Il primo gennaio del 1869unuragano si abbatté violento sull'isolae numerosi fulmini vischiantarono molti grandi alberi. Che ci fosse qualche relazione fraquella inquietudine meteorologica e i fenomeni che stavanoverificandosi nelle viscere della montagna? Cyrus fu portato asupporloperché la serie di quei rovesci temporaleschicorrispondeva a una recrudescenza dell'attività del vulcano.Il 3 gennaio Harbertche all'alba era salito sulla Bella Vista persellare uno degli asinivide un gran pennacchio che sormontava lacima del vulcano. Chiamò subito i compagniche corsero aguardare.


-Questa volta sì - disse Pencroff - non si tratta più diqualche fumata. Il gigante fa sul serio.


Difattida quasi tre mesi il vulcano emetteva dal suo cratere dei vapori piùo meno intensi; ma quel giornoai vapori era seguito un fumo spessoe denso che si innalzava nell'ariasotto forma di una colonnagrigiastralarga quasi un centinaio di metri alla sua base e cheaduecentocinquanta metri di altezzasi apriva come un fungosmisurato.


-Il fuoco è nel cratere - disse Spilett.


-E noi non lo potremo spegnere - fece Harbert.


-Si dovrebbe poter spazzare anche le cappe dei vulcani - disse conmolta serietà Nab.


-E tu ti sentiresti di essere quello spazzacamino? - gli chiesePencroffridendo come un ragazzo.


Cyrusintanto osservava attentamente quella colonna di fumo e stava inascolto per sentire se si udisse qualche boato sotterraneo. Alla finedisse ai compagni:

-In realtàqualche cosa è cambiatolassù: èinutile nascondercelo.


Lematerie vulcaniche si sono incendiate e siamo alla vigilia di unavera e propria eruzione.


-Ebbenesignor Cyrusvedremo anche l'eruzione - fece il marinaio. -E se è bellal'applaudiremo. Non credo che noi si abbiaragione di preoccuparci.


-NoPencroffperché l'antica strada della colata delle lave èsempre apertaegrazie alla sua disposizioneil cratere dovrebberovesciare il suo contenuto verso settentrione. Però...


-... perònon c'è nessun vantaggio da aspettarci daun'eruzione - continuò il giornalista; - e sarebbe assaimeglio che non avvenisse.


-Chi lo sa? - ribatté Pencroff. - Forsequesto signor vulcanosarà così gentile di vomitare qualche materia che cimanca e ci potrà servire!

Cyrusscosse la testa dubitoso. Le conseguenze di un'eruzione lo mettevanoin una certa ansietà. Se le lave non minacciavano direttamentela parte coltivata dell'isolapotevano sorgere altre complicazioni:per esempio - e non sarebbe stato un fenomeno eccezionale -l'eruzione poteva essere accompagnata da un terremoto; e l'isoladata la sua formazione tutta vulcanicane poteva uscire assaisconquassata.


-Mi pare - disse a un certo punto Ayrton che s'era sdraiato in terra eaveva appoggiato l'orecchio contro il suolo - mi pare di sentire deisordi brontolii...


Icoloni tesero l'orecchioe udirono. SìAyrton non s'eraingannato:

eai brontolii si univano talora come dei muggiti profondi come se unvento sotterraneo passasse nelle viscere della montagna e nesquassasse le fibre. Però non si udiva alcuna esplosione:segno che vapori e fumate trovavano via libera nel cratere; e questomettevaalmeno per il momentoal sicuro da qualche pericolo.


-E se tornassimo ai nostri lavori? - disse il marinaio. - Che il monteFranklin fumiscatarrivomitifaccia quel che vuole: non èuna buona ragione per restare inoperosi. Andiamo? Signor Cyrusiopenso che oggi dobbiamo lavorare tutti. Fra due mesi bisogna che ilnostro nuovo "Bonaventura" - gli conserveremo questo nomevero? - galleggi sulle acque del Pacifico. Vianon perdiamo deltempo prezioso.


Tuttii colonirichiamati al dovere dalla passione di Pencroffscesero alcantieree vi lavorarono senza sosta per tutta quella giornatasenza più preoccuparsi del vulcano chedel restodalcantierenon si vedeva. Maun paio di voltedelle grandi ombregrigievelando il soleindicavano che quella colonna di fumo salivaaltissima e si allargava sul cielo purissimo. Evidentementeifenomeni vulcanici si accentuavano; ma anche per questoera diassoluto interesse continuare in fretta i lavori. Più prestofosse pronta la golettatanto meglio sarebbe per i coloni!

Laseradopo la cenaCyrusSpilett e Harbert risalirono sulla BellaVista. La notte era già buiama nelle tenebre sarebbe statofacile scorgere se il vulcano fosse in fiamme. Harbertpiùsvelto dei due compagnifu il primo a giungere sull'altipianoesubito lanciò un grido:

-Il cratere è tutto un fuoco!

Ilmonte Franklina sei miglia di distanzaappariva nella notte comeuna grande torcia; ma le fiammemescolate ai fumi densi e a nembi discorie e di cenerinon erano vive. Mandavano una specie di lucefulva che si diffondeva sulla foresta; e soprail cielo turchino eratutto imbrattato di nere nuvolacce fuligginose attraverso gli squarcidei quali brillavano le stelle.


-I progressi sono rapidi - mormorò Cyrus.


-Niente di strano - osservò Spilett. - Il risveglio del vulcanodata ormai da parecchio tempo. Non vi ricordateCyrusche vedemmo iprimi vapori quando esploravamo i contrafforti della montagna? Mipare che fosse il 15 ottobre.


-Sìdue mesi e mezzo fa - precisò Harbert.


-I fuochi sotterranei hanno dunque covato per dieci settimane; non èperciò strano che oggi si sviluppino e si manifestino conviolenza.


-Non sentite come dei fremiti nel terreno? - chiese Cyrus.


-Sìmi pare... ma siamo lontani da un terremotomi pare...


-Nonon dico che siamo minacciati da un terremoto. Dio ce ne scampi!

No.Questi fremiti sono causati dall'effervescenza del focolaio centraledell'eruzione. In fondola scorza terrestre è come la paretedi una caldaia; e voi sapete chequando è sotto la pressionedei gasla parete di una caldaia vibra come un disco sonoro.


-Ohche magnifiche fontane di fuoco! - gridò Harbert.


Inquel momento sgorgava dal cratere una specie di enorme mazzo difuochi artificiali: migliaia e migliaia di frammenti incandescenti siproiettavano dappertutto e ricadevano come una gran fontana di fuoco.


Contemporaneamenteuna serie di fragorose detonazioni si sgranava nel silenzio dellanottecome una batteria di gigantesche mitragliere che sparassero.


Dopoun'ora passata sulla Bella Vista a guardare quello spettacoloi trecoloni tornarono al Palazzo. L'ingegnere era pensosotanto cheSpilett gli chiese se prevedeva qualche pericolo imminente aproposito di quell'eruzione.


-Sì e no - gli rispose Cyrus.


-Vediamo un po' - disse il giornalista. - Il peggior male che potrebbetoccarci sarebbe un terremoto che sconquassasse l'isola. Ma questo mipare che non dovrebbe avveniredato che i vapori e le lave hannotrovato una via di sfogo.


-Nonemmeno io penso alla possibilità di un terremotonelsenso che si dà di solito alle convulsioni telluriche causatedall'espandersi di vapori sotterranei. Ma ci sono altre causechepossono portare a grandi disastri...


-Ma quali?

-Non lo so... Bisogna che io veda... che io visiti la montagna... Fraqualche giorno sarò tranquillo su questo punto.


Spilettnon insistée poco dopononostante i boati e le esplosionidel vulcanoi coloni dormivano profondamente.


Neitre giorni che seguironol'intera colonia lavorò assiduamenteal cantieresotto la guida fervida dell'ingegnere. Sulla cima delmonte Franklin permaneva un cappuccio di sinistre nuvole rossastreche le fiamme e rocce incandescenti attraversavano continuamente.Molte di quelle materie fiammanti ricadevano nel cratere dal qualepareva che le lave ancora non fossero traboccate.


Perquanto i lavori per la goletta richiedessero tutta l'attivitàdella colonianon furono trascurati nemmeno gli altri lavori.


Intantobisognava salire fino al recinto dove il gregge richiedeva le curedei coloni: e venne deciso che vi si sarebbe recato Ayrtonl'indomani7 gennaio. Di solito ci andava da solo; e per questoPencroff e gli altri si meravigliarono quando udirono l'ingegnere chediceva:

-Vi accompagnerò ioAyrton.


-Signor Cyrus - protestò il marinaio. - I nostri giorni dilavoro sono contatise anche voi ci lasciate domanisaranno quattrobraccia di meno qui!

-Torneremo il giorno dopoPencroff. Del restoho proprio bisogno diandare al recinto. Desidero vedere a che punto è l'eruzione.


-L'eruzionel'eruzione... - brontolò il marinaio. - Ecco unacosa che per me non ha proprio una grande importanza!...


L'indomaniCyrus e Ayrton partironosul carro trainato da due asini.


Soprala foresta passavano delle grandi nuvole fuligginose che lasciavanocadere una specie di nevischio di polvere nera. Al recintoalberipratispiazzi erano tutti coperti da quella lugubre nevicata dicenere. Poifortunatamenteil vento salì piuttostoimpetuosoe si portò via quella nuvolaglia vomitata dalvulcano.


-Strano - mormorò Ayrton.


-Direi che è un indizio grave - rispose Cyrus. - E' pozzolanapolverizzatapietre pomici ridotte in polvere: e questo dimostra chec'è un profondo turbamento negli strati inferiori del vulcano.


-Non si può far niente?

-Niente. Solo renderci un po' conto dello stato presentedell'eruzione. VoiAyrtonoccupatevi delle stalle e del gregge;intanto io salirò fino alle sorgenti del fiume Rosso edesaminerò lo stato del vulcano sul suo pendio settentrionale.Poi...


-Poisignor Smith?...


-Poi andremo a dare un'occhiata alla cripta Dakkar... Voglio vedere...Behverrò a prendervi fra un paio d'ore.


Ayrtonentrò nelle stalle a occuparsi del greggee Cyrusavventuratosi sulla cresta dei contrafforti orientaliarrivòdove lui e i suoi compagni avevano scoperto un giorno una sorgentesolforica.


Comeerano mutate le cose! Invece di un solo colonnino di fumol'ingegnere ne contò tredici che sgorgavano su dalla terralanciati violentemente in aria da una misteriosa forza sotterranea.Era chiaro chein quel puntola scorza terrestre subiva unaformidabile pressionel'atmosfera era satura di gas solforosodiidrogenodi acido carbonicomescolati a vapori acquei; e Cyrussentiva fremere quel tufo vulcanico disseminato un po' dappertuttosul terreno. Ma non vide però alcuna traccia di lave nuove.Non ne vide nemmeno sul pendio settentrionale del monte Franklin.Turbini di fumo e di fiamme sgorgavano dal cratere; una grandinata discorie incandescenti cadeva dappertutto; ma dagli orli del craterenon usciva nessun rigagnolo di lave. Evidentementeil livello dellematerie vulcaniche non aveva ancora raggiunto l'orlo del cratere.


-Eppureio preferirei che le lave uscissero già! - disse a sestesso Cyrus. - Almeno sarei sicuro che le lave riprendono le stradedi un tempo... E se si rovesciassero da un altro punto? Ma non èqui il pericolo. Ohil capitano Nemo lo ha ben presentito! Noilpericolo non è nelle lave!

Dopoun accurato esame della situazionel'ingegnere tornò alrecintodove Ayrton lo aspettava.


-Il gregge è all'ordinesignor ingegnere.


-BravoAyrton.


-Ma i mufloni sembrano inquieti.


-Ehgià!... E' l'istinto che si sveglia; e l'istinto non sisbaglia mai.


-Quando voleteio sono pronto.


-Prendete una lanternaAyrtone andiamo.


-Presero lo stretto sentiero che conduceva alla costa. Camminavanosopra un terreno ovattato dalle materie pulverulenti cadute dallanuvolaglia vulcanica. Nei boschi non si scorgeva né un uccelloné un quadrupede. Ogni tantoun po' di vento veniva ascompigliare la cenere disseminata ovunquee ne faceva zampillaredei piccoli turbini soffocanti. Non si poteva camminare moltorapidamentein quelle condizioni; ogni tanto bisognava fermarsi ariprendere fiato.


Finalmentedopo un'ora di quel faticoso camminoarrivarono all'orlo basalticoche strapiombava sul mare e attaccarono la discesa chefatta allaluce del soleera assai meno pericolosa di quanto era stata lanotte. In breve furono sulla riva del maree trovarono facilmentedata la bassa mareal'entrata della cripta Dakkar.


-C'è il canotto? - chiese Cyrus.


-Eccolo - rispose Ayrton.


-Alloraimbarchiamoci.


Salironosulla fragile imbarcazionee penetrarono nella cavernadove Ayrtonaccese la sua lanterna. Cyrus era al timone; Ayrton aveva preso i dueremiavendo piantato la lanterna a prua. Non c'era più lasfolgorante sorgente di luce del "Nautilus" a illuminare lagrande caverna; e solo la pallida luce della lanterna rischiarava ilsilenzioso cammino del canotto che seguiva la parete di destra. Ilpiù profondo silenzio regnava sotto la grande volta; ma quandofurono un poco addentro la caverna Cyrus sentì distintamentedei sordi e cupi brontolii che si propagavano nelle visceresotterranee della montagna.


-E' il vulcano - disse a mezza voce.


Quasisubitoinsieme a quei boati profondisi cominciò adavvertire la presenza nell'atmosfera di vapori solforosiche preseroalla gola l'ingegnere e il suo compagno.


-Ecco quello che temeva il capitano Nemo - disse Cyrus. Eppure bisognaandare fino in fondo.


-Andiamo - fece semplicemente Ayrton; ecurvatosi sui remiremòcon vigore. Venticinque minuti dopo essere entrati nella cavernaarrivarono alla sua parete terminale. Cyrussalito allora sopra ilbando del canottopassò la lanterna sulle diverse parti dellaparete rocciosa che divideva la cripta dal focolaio centrale delvulcano.


Qualera mai lo spessore di quella parete rocciosa? Era di trenta metri odi tre metri? Chi lo poteva dire? Ma i rumori sotterranei eranotroppo sensibili perché essa fosse molto spessa...


L'ingegneredopo avere scrutato attentamente la parete in senso orizzontalelegòla lanterna a un remo e l'alzò per vedere la parete a unamaggiore altezza. Làda fenditure appena visibiliattraversoi prismi mal congiunti della rocciavedeva traspirare un fumo acreche infettava l'atmosfera. Qualche frattura già zebrava lamuragliascendendo fino a un metro sopra il livello dell'acqua...


Cyrusrestò qualche istante sopra pensieropoi mormorò:

-Sìaveva ragione il capitano Nemo. Ecco il pericoloilgravissimo pericolo!

Ayrtonnon disse nulla; a un cenno dell'ingegnere riprese i remiemezz'ora dopoil canotto usciva dalla cripta Dakkar.




CAPITOLO19


L'indomanimattina8 gennaioCyrus e Ayrton ritornavano al Palazzo di Granitoe subito l'ingegnere radunò i coloni e comunicò loroche l'isola correva un gravissimo pericolo che nessuna forza umanaavrebbe mai potuto scongiurare.


-Amici - dissee la sua voce tradiva una profonda emozione l'isolaLincoln non è una di quelle isole che possono durare quanto ilglobo; essa è destinata a una distruzione più o menoprossimaed è essa stessa che porta nelle sue viscere lacausa di questa sua morte.


Icoloni si guardarono in visoe poi guardarono Cyrussgomenti.


-SpiegateviCyrus - disse Spilett.


-Mi spiegherò; opiuttostonon farò che trasmettervila spiegazione chenei pochi minuti del nostro colloquio segretomiha dato il capitano Nemo.


-Il capitano Nemo?!

-Sì; è l'ultimo servigio che ha voluto renderci prima dimorire.


-L'ultimo servigio?! Ma vedrete che anche da morto quell'uomo ciaiuterà! - esclamò Pencroff.


-E che cosa vi ha detto il capitano Nemo? - insisté ilgiornalista.


-Eccoloamici. L'isola Lincoln non è nelle condizioni dellealtre isole del Pacifico; e una sua struttura particolareche ilcapitano Nemo mi ha fatto conosceredevepresto o tardiprovocarelo schianto della sua armatura sottomarina.


-L'isola Lincoln!? Ma via! - gridò Pencroff chenonostante ilgrande rispetto che aveva per l'ingegnerenon poté fare ameno di alzare le spalle.


-AscoltatemiPencroff. Il capitano Nemo aveva constatatoe l'hoconstatato anch'io ieridurante l'esplorazione che ho fatto nellacripta Dakkarche questa cripta si prolungava fino al vulcano e chenon ne è separata che da una parete rocciosa. Oraquestaparete è già rotta qua e là da molte incrinaturee fenditure che lasciano passare i gas solforosi sviluppatisinell'interno del vulcano...


-E allora?... - fece il marinaio il cui volto impallidiva.


-Ebbeneho potuto constatare che quelle fenditure si allargavanosotto la pressione interna; che quella parete si andava a poco a pocofendendo e chepresto o tardifinirà per lasciar passarel'acqua del mare.


-E allora - tentò di scherzare Pencroff - il mare spegneràil vulcanoe tutto sarà finito.


-Sìtutto sarà finito. Il giorno in cui il mareprecipiterà nel focolaio del vulcanol'isola Lincoln salteràcome salterebbe la Sicilia se il Mediterraneo precipitasse nell'Etna.


Icoloni tacquero sbigottiti. Avevano capito quale gravissimo pericololi sovrastava. Insommaera evidente che la vita dell'isola erastrettamente legata alla resistenza della parete rocciosa dellacaverna contro le pressioni interne. Era allora una questione non dimesi o di settimane; ma di giorni: forse di ore!

Ilprimo sentimento dei colonifu un profondo dolore. Non pensarono alpericolo personale che correvanoma alla distruzione di quel suoloche li aveva ospitatiche essi avevano fecondato con tanto amore;alla distruzione di quella bella isola alla quale volevano tanto benee che avrebbero voluto rendere così fiorente e ricca ungiorno!

Pencroffnon riuscì a trattenere una grossa lacrimache gli scivològiù lungo la guancia. Poi si ripresero e discusseroserenamente sulle possibilità di salvezza che restavano loro.In conclusionericonobbero tutti che non si poteva perdere una solaora di lavoroche bisognava spingere i lavori intorno alla golettacon estrema sollecitudineperché quella goletta rappresentaval'unica loro possibilità di salvezza. Inutile ormai mietere ilgranoaccumulare riserveandare a caccia; quello che c'era neimagazzini bastava largamente per approvvigionare la goletta per unatraversata. Quello che occorreva era che la goletta fosse pronta alpiù presto.


Venneroallora ripresi i lavori con disperata energia. Il 23 gennaiolagoletta era quasi pronta. Fino a quel giornosulla cima del vulcanonon s'era ancora manifestato nessun cambiamento. Sempre fumatemistea pietre incandescenti e a ceneri. Poinella notte sul 24sottol'impeto delle lave che dovevano essere giunte al livello delcraterel'orlo venne schiantato con una formidabile esplosione. Icoloniche dormivanofurono risvegliati d'un colpoe siprecipitarono fuori del Palazzo. Erano le due del mattino. Il cieloera in fiamme. Il cono superiore del monteun massiccio altotrecento metripesante miliardi di chilogrammiera stato spaccatoalla base e precipitato sull'isoladi cui tutto il suolo tremò.Per fortunail cono già era inclinato verso norde caddesulla distesa di sabbia e di tufo che si stendeva tra il vulcano e ilmare. Il cratereallargatosi smisuratamentevomitava una luce cosìardente che tutta l'atmosfera pareva incandescentementre untorrente di lavegonfiandosi all'apertura del vulcanosi rovesciavain larghe cascatein mille serpenti di fuoco lungo i pendii delmonte.


-Il recinto! Il recinto! - gridò Ayrton.


Eraproprio verso il recinto che scendevano le lave edi conseguenzaera tutta la zona fertile dell'isolale sorgenti del fiume Rossoiboschi del Jacamarche venivano minacciati di immediata distruzione.


Algrido di Ayrton i coloni s'erano precipitati sulla Bella Vistaavevano attaccato di furia gli asini al carroe s'erano precipitativerso il recintoper mettere in libertà tutti gli animali chevi avevano raccolti. Vi giunsero alle tre del mattino. Urlaterrorizzate indicavano come i mufloni e le caprenelle stallesiagitassero disperatamente. Quando i coloni giunsero alla palizzatail torrente delle lave era vicinodivorava a poco a poco i pascolistava per lambire la palizzata. Piombarono nelle stallele aprironone scacciarono le bestie cheterrorizzatesi disperserofuoridella palizzatain ogni direzione. Un'ora dopole lave avevanoinvaso il recintovaporizzato l'acqua del ruscellofatto divamparela casa di legnocancellato ogni traccia di alberi e di pascolidistrutto ogni cosa.


Primadi tornare al Palazzo di GranitoCyrus e i suoi compagni vollerovedere la direzione che prendeva il torrente delle lave.


Purtroppoil pendio generale del suolo si abbassava verso ested era datemersi chenonostante i folti boschi dello Jacamarquel torrentemicidiale scendesse fino alla Bella Vista.


-Il lago dovrebbe difenderci - osservò Spilett.


-Lo spero anch'io - gli fece eco Cyrus.


Intantoil vulcanotrasfigurato per lo schianto del secondo cono del montecontinuava a vomitare torrenti di fuoco e di materie incandescentimentre mille esplosionituoni e boati echeggiavano paurosi. Ognitantodelle grosse rocce infuocate saettavano fuori dalla boccaignea del vulcano e andavano a finire lontanoschiantandosi comegranate. Il cielotemporalescorispondeva coi suoi fulmini e i suoituoni a quel finimondo.


Versole sette del mattinoi coloni non poterono più resistere dovesi trovavanosull'orlo dei boschi del Jacamar; non soltanto iproiettili in fiamme cominciavano a cadere anche intorno a loromail torrente di lavenella sua marciaminacciava di tagliar loro lastrada del ritorno. Ripresero allora la stradaandando lentamentetristementein preda a mille pensieri angosciosi. Già laforesta alle loro spalle crepitava in fiammementre gli alberiscoppiavano in aria come giganteschi fuochi d'artificio: le lavescendevano per il suolo in pendio velocemente... I coloni sifermarono sulle rive del lago.


Erauna questione di vita o di morteper loro. E Cyrusabituato aridurre in cifra ogni questionela precisò in terminichiarissimi:

-O il lago arresta il torrente di fuocoe una parte dell'isola saràsalvata da una totale devastazione; o il torrente invaderà leforeste del Far Weste non resterà nell'isola un albero soloe noi non avremo più alcuna risorsa su questo povero suolobruciacchiato in attesa che l'esplosione dell'isola intera cifinisca.


-E allorami pare che sia inutile pensare a continuare i nostrilavori - fece Pencroff incrociando le braccia sul petto.


-NoPencroff; bisogna fare il proprio dovere fino all'ultimo minuto -gli replicò Cyrus.


Inquel momento il torrente della lavadopo essersi aperto un passaggiodi fuoco tra quei bellissimi alberi che divoravaera arrivato sullerive del lago. Ma quiproprio prima della rivac'era un rialzo delterreno chese fosse stato un poco più accentuatosarebbeforse bastato per contenere la lava. Cyrus gridò:

-Al lavoroamici!

-Tutti compresero. Bisognava cercare di imbrigliareper cosìdirequel torrentee costringerlo a rovesciarsi nel lago. Volaronoal cantierene portarono attrezzi edi furiacon gli alberiabbattuticoi ramii sassila terrariuscirono in poche ore ainnalzare una diga alta un metro circa e lunga un centinaio sulfronte dell'inondazione incandescente. Pareva loro di aver lavoratopochi minuti: avevano lavorato delle lunghe ore. Ma era appena tempo.


Iltorrente raggiungeva la digail fiume fumante si fermòsigonfiò come se volesse debordare rovesciando quel fragileostacolo che gli chiudeva la strada delle foreste del Far West; maalla finedopo un attimo di esitazione che i coloni vissero inun'angoscia difficilmente descrivibileil torrente si precipitòdentro il lago da tre metri di altezza.


Icolonisenza respiroguardarono allora quella formidabile lotta frai due elementiil fuoco e l'acqua. Il lago sibilavafumando edevaporando al contatto di quelle materie incandescenti che viprecipitavanoe colonne altissime di vapore salivano al cieloturbinando. Peròper quanta fosse l'acqua del lagoessadoveva finire per venire assorbitadal momento che non potevarinnovarsimentre le lave ricevevano continuo incremento dallematerie infiammate che sgorgavano senza cessa dal cratere delvulcano. L'acqua doveva essere insomma vinta dal fuoco! E il lagotrasformarsi in un ammasso rovinoso di giganteschi blocchi di lavesolidificate.


Tuttaviaquella lotta fu una circostanza favorevole per i coloni; essa volevadire alcuni giorni di tempo. La Bella Vistail Palazzo di Granito eil cantiere sarebbero stati momentaneamente preservati dalla rovina.E in quei pochi giorni di relativa sicurezza avrebbero potuto finirela golettacalafatarlametterla in mare...


Durantei sei giorni dal 25 al 30 gennaio i coloni lavorarono come avrebberopotuto lavorare venti uomini almeno. Non prendevano che qualche oradi riposoe le fiamme dell'eruzione consentivano loro di proseguirea lavorare anche di notte. Intantola pioggia delle lave parevaessere diminuita di intensitàe fu una fortunaperchéil bacino del lago era già ormai quasi colmo di lava.


Intantoun altro torrente di lave era sceso lungo la vallata del fiume dellaCascatasenza trovare ostacolied era penetrato nella zonaoccidentale delle foreste del Far West incendiandola in modo che inun baleno la stupenda foresta fu in fiamme e tutti gli animali cheospitava fuggirono terrorizzati verso la Graziaverso gli stagnidell'Anatraal di là della strada di Porto Pallone. I colonierano troppo occupati dai loro lavoriper occuparsi di queglianimalianche dei più temibili. Del restoavevanoabbandonato il Palazzo di Granitoe accampavano sotto una tendavicino alle foci della Grazia.


Ognigiornosalivano sulla Bella Vista a guardare il vulcano e l'isola.Ma quale desolante spettacolo! Tutta la zona boscosa dell'isola eraormai ridotta in una terra arida e calcinatai fiumi non avevano piùuna goccia d'acqua nei loro letti; l'unica acqua da bere rimasta eraquella poca del lago Grantnella sua parte meridionale.


-Tutto questo spezza il cuore! - osservò una mattina Spilett aCyrus.


-SìSpilett - gli rispose l'ingegnere. - E che il Cielo ci diail tempo di finire la nostra golettaunico rifugio nostro ormai!

-Ma non trovateCyrusche il vulcano accenni a placarsi un poco?

Vomitasì ancora delle lavema con minore abbondanzami pare.


-Non ha molta importanzapurtroppo. Il fuoco cova sotto terrae ilmare può precipitarvi da un minuto all'altro. Siamo nellacondizione di passeggeri la cui nave sia divorata da un incendio chenon possono spegnere e che un'ora o l'altra raggiungerà laSanta Barbara. AndiamoSpilett! Non perdiamo un'ora di lavoro!

Peraltri otto giornie cioè fino al 7 febbraiole lavecontinuarono a diffondersima l'eruzione si conteneva nei limitimoderati che già avevano osservato Spilett e Cyrus. Verso il20 febbraioi coloni cominciarono a sentire dei fremiti strani nelsuolo. Mancava ancora un buon mese di lavoroprima che la golettafosse pronta. Ma l'isola avrebbe resistito fino ad allora? Cyrus ePencroff erano decisi a lanciare in mare la loro goletta non appenapotesse reggere il maresenza pensare di finire la sua attrezzaturainternache avrebbero finita anche in mare. Contavano di portarla alPorto Palloneabbastanza lontano cioè dal punto dellapossibile esplosionenella speranza di poterla salvare. Si arrivòcosì fino al 3 marzoe quel giorno deliberarono di varare lagoletta fra dieci giorni. I cuori di tutti si erano riaperti allasperanza.


-Ohla finiremola finiremo! - andava dicendo Pencroff. - Ed èorasapete. La stagione è quella buonae noi neapprofitteremo per andare all'isola Tabor. Del restoperchénon passeremmo l'inverno all'isola Tabor? Certo che l'isola Tabordopo un'isola Lincoln e... e... Ahmio Diochi l'avrebbe mai detto?Chi l'avrebbe mai pensato?

-Andiamo avanti! - rispondeva invariabilmente l'ingegnere.


Esi lavorava senza perdere un minuto.


-Signor padrone - disse qualche giorno più tardi Nab - se ilcapitano Nemo fosse ancora vivocredete voi che tutto questo sarebbesuccesso?

-SìNab.


-E io non lo credo - fece a voce bassa Pencroff al negro.


-Nemmeno io - gli fece eco Nab.


Nellaprima settimana di marzoil monte Franklin ridiventòminaccioso. Il cratere si ingorgò ancora di lave che sirovesciarono giù per tutti i fianchi del montee un torrentedi lavequesta voltaseguendo la riva sud-occidentale del lagoarrivò sulla Bella Vista distruggendo tutta l'appassionataopera dei coloni in pochi minuti. Fu un colpo terribile per lacolonia. Del mulinodelle stalledegli allevamentinon restòassolutamente più nulla.


IntantoTop e Jup davano segni di grande agitazione; il loro istinto liavvertiva che un gravissimo pericolo incombeva sull'isola. Poifinalmentele lavedall'altipiano della Bella Vistacominciarono aprecipitare sulla spiaggia in cateratte di fuoco. Durante la nottepareva un Niagara di acciaio fusocoi suoi vapori incandescenti incima e le sue masse bollenti al piede!

Icoloniridotti nel loro ultimo rifugiouna tenda presso ilcantierepresero una decisione eroicaquel giorno: l'indomani9marzoavrebbero messo in mare la goletta così come sitrovava!

Mala notte fra l'8 e il 9 marzouna enorme colonna di vaporisfuggendo dal crateresalìfra spaventose detonazionia piùdi mille metri di altezza verso il firmamento. La parete della criptaDakkar aveva ceduto sotto la pressione dei gas e il mare s'eraprecipitato nel cuore ardente del vulcanovaporizzandosiall'istante.


Mail cratere non aveva potuto dare uno sfogo sufficiente a quellagigantesca quantità di vapori. Un'esplosione che si sarebbepotuto udire a cento miglia di distanza squarciò l'atmosferadella notte.


Pezzidi montagna ricaddero nelle ondeepochi minuti dopoil Pacificosi stendeva sul luogo dove prima verdeggiava l'isola Lincoln.




CAPITOLO20


Unoscoglio isolatolungo dieci metri e largo cinqueemergente tremetri appenaera l'unico frammento di terra ferma su cui non sistendessero le onde dell'Oceano. Era tutto quello che restava delmassiccio granito del Palazzo di Granito. Tutto era scomparso;scomparso il monte Franklinscomparso il golfo dello Squaloscomparso l'altipiano della Bella Vistascomparso l'isolotto dellaSalvezzaPorto Pallonele rocce basaltiche della cripta Dakkarscomparsa la penisola Serpentina. Dell'isola Lincoln non era rimastoche quello spuntone di roccia che serviva di estremo rifugio ai seicoloni e al loro cane Top.


Tuttigli animali dell'isola erano periti nella ciclopica catastrofe; anchemastro Juppoverettoaveva trovato la morte in qualche crepacciodel suolo. Se Cyrus e i suoi compagni s'erano salvatilo dovevano alfatto cheal momento dell'esplosionesi trovavano nella loro tenda:erano stati lanciati in maree quando erano tornati alla superficiedelle ondenon avevano visto più nullasul desertodell'oceanoall'infuori di quello scoglio sul quale si eranoaffrettati a rifugiarsi.


Làormai vivevano da nove giorni. Qualche provvista trovata per miracolosullo scoglioproveniente dai magazzini del Palazzo di Granitounpo' d'acqua era rimasta nella incavatura rocciosa dello scoglioeccotutto quello che ormai possedevano quegli sciagurati.


Nonavevano modo di lasciare quello scoglionon avevano possibilitàdi accendere un fuoco. Erano destinati a perire!

Quelgiorno18 marzonon restava loro che un po' di cibo per altri duegiorni. Tutta la loro scienzatutta la loro intelligenza non potevaniente. Erano nelle mani di Dio: e basta.


Cyrusera calmissimoSpilett più nervosoPencroff animato da unasorda collera andava e veniva sullo scoglioNab e Ayrton eranorassegnati al destinoHarbert non lasciava un minuto l'ingegnere epareva che aspettasse da lui un aiutouna risorsa!


-Per mille e poi mille e poi ancora mille demoni! - ruggiva Pencroff.


-Se si avesse... macché barca... un guscioun guscio di noceio mi sentirei di portarvi all'isola Tabor! Ma inveceniente!niente!

niente!

-Il capitano Nemo ha fatto bene a morire - disse una volta Nab.


Neicinque giorni che seguironoi coloni vissero con la piùestrema parsimoniamangiando giusto quel pochissimo che bastava pernon morire di fame; ma la loro debolezza era impressionantee giàNab e Harbert davano segni di delirio.


Erapossibilein siffatte condizioniche conservassero ancora qualchesperanza? E poiquale speranza mai? Che una nave passasse in vistadel loro scoglio? Ma sapevano bene che quella zona del Pacifico erafuori delle solite rotte! Oppure potevano sperare cheper unaprovvidenziale fatalitàil panfilo scozzese venisse proprioin quei giorni a cercare Ayrton nell'isola Tabor? Ma anche searrivavai coloni non avevano potuto mettere nell'isola un segnoqualunque che indicasse dove era stato portato Ayrton; e il panfilonon si sarebbe certo sognato di venire verso quello scoglio isolato!

No.Non c'era proprio nessuna speranza di salvezzae una orribile mortela morte per la fame e per la seteli aspettava su quello spuntonedi roccia. E già vi si erano distesiquasi compostinell'attesa dell'attimo supremoinconsci di quanto accadeva intornoa loro. Ayrtona un certo puntoin uno sforzo disperatosollevòla testaguardò l'oceano infinito...


Erala mattina del 24 marzo. E le braccia Idi Ayrton si stesero verso unpunto dell'orizzonte. Poibarcollandoriuscì a mettersi inpiediad alzare le bracciaad agitarle unadue volte...


Unanave!... Una nave era in vista dello scoglio! Una nave che non andavaalla venturama puntava dritta dritta verso lo scoglioproprioverso lo scoglio...


-Il "Duncan"!... - mormorò Ayrtoncadendo svenutosullo scoglio.


QuandoCyrus e i suoi compagni ripresero conoscenzagrazie alle cure chevennero loro prodigatesi trovarono nella stanza di una navee nonriuscirono a capire come mai erano sfuggiti alla morte. Ma una paroladi Ayrton bastò per illuminare le loro menti.


-Il "Duncan"!

-Il "Duncan"?! - esclamò l'ingegnere levando lebraccia al cielo. - Dio onnipotentetu non hai dunque voluto che noifinissimo su quello scoglio!

Erainfatti il "Duncan"il bel panfilo di lord Glenarvancomandato allora da Robertofiglio del capitano Grantche era statospedito all'isola Tabor per riprendervi e rimpatriare Ayrton dopododici anni di espiazione.


Icoloni erano salvie sulla strada del ritorno!

-Capitano Roberto - domandò Cyrus - ma che cosa vi ha maiindottodopo aver lasciato l'isola Tabor senza trovarci Ayrtonapuntare verso quello scoglioa cento miglia a settentrionedell'isola Tabor?

-Masignor Smith! Sono venuto a cercare non soltanto Ayrton ma voi ei vostri compagni!

-I miei compagni e me?!

-Ma sì! All'isola Lincoln!

-L'isola Lincoln!? - esclamarono nello stesso tempo stupitissimiSpilettHarbertPencroff e Nab.


-E come conoscevate l'isola Lincoln dal momento che non èsegnata su nessuna carta? - domandò Cyrus.


-L'ho conosciuta leggendo quello che avete lasciato scritto nell'isolaTabor.


-Quello che ho lasciato scritto?...


-Sì; eccodel restoil documento - fece Roberto Grantmostrando un foglio nel quale era indicata la longitudine e lalatitudine dell'isola Lincoln «residenza attuale di Ayrton e dicinque coloni americani».


-Il capitano Nemo!... - mormorò Cyrus dopo aver letto quelfoglio e aver constatato che era stato tracciato dalla stessa manoche aveva scritto il documento relativo ad Ayrton.


-Ah! - fece Pencroff. - Alloraera stato lui a prendere il nostro"Bonaventura" e ad arrischiarsi fino all'isola Tabortuttosolo!...


-Per lasciarvi questo documento! - completò Harbert.


-Avevo ragione io allora - affermò trionfante il marinaioquando vi dicevo che il capitano Nemo ci avrebbe aiutati anche dopomorto!

-Amici! - disse con voce grave Cyrus - che il Signore di tutte lemisericordie accolga l'anima del capitano Nemonostro salvatore!

Icoloni si scoprirono a queste parolee mormorarono commossi il nomedel capitano Nemo.


Inquel momento Ayrtonavvicinandosi all'ingegneregli chiese:

-E dove posso mettere questo scrigno?

Eralo scrigno che Ayrton era riuscito a salvarea costo della propriavitaproprio nel momento in cui l'isola si sprofondava sfracellatadall'esplosionee che ora rimetteva coscienziosamente all'ingegnere.


-Ayrton! Ayrton! - esclamò Cyrus con una profonda emozione.Poiindirizzandosi a Roberto Grantfece:

-Signoredove voi avete lasciato un colpevoletrovate oggi un uomoche l'espiazione ha rifatto un galantuomoal quale io sono fiero distringere la mano!

RobertoGrant fu messo al corrente della strana storia del capitano Nemo edella colonia dell'isola Lincoln.


Quindicigiorni dopoi coloni sbarcavano in America e trovavano la loropatria pacificatadopo quella terribile guerra che aveva fattotrionfare il diritto e la giustizia.


Dellericchezze contenute nello scrigno lasciato in eredità dalcapitano Nemo ai colonila maggior parte fu usata nell'acquisto diun vasto dominio nello Stato di Iowa. La perla più bella vennemandata a lady Glenarvan in nome dei rimpatriati del "Duncan".


Làsu quel dominioi coloni chiamarono al lavorocioè allafortuna e alla felicitàtutti coloro ai quali avrebberovoluto offrire ospitalità sull'isola Lincoln. Là fufondata una grande colonia che battezzarono col nome dell'isolascomparsa nelle profondità del Pacifico. C'era anche un fiumeche fu chiamato della Graziaun monte che fu detto Franklinunlaghetto che fu il lago Grantdei boschi che diventarono le forestedel Far West. Era come un'isola sulla terra ferma.


Làsotto la guida intelligente dell'ingegneretutto prosperò.Non mancava nessuno dei coloni dell'isola Lincolnperchéavevano giurato di stare sempre insieme: Nab sempre accanto al suopadrone; Ayrton che si sarebbe fatto in mille per i suoi compagni;Pencroffpiù agricoltore che mai; Harberti cui studi sicompivano sotto la direzione di Cyrus SmithSpilett che finìper fondare e dirigere il "New Lincoln Herald"il giornalemeglio informato del mondo!...


LàCyrus e i suoi compagni ricevettero parecchie volte la visita di lorde lady Glenarvandel capitano John Mangles e di sua mogliesorelladi Roberto Grantdel maggiore Mac Nabbdi tutti coloro che eranostati mescolati alla doppia storia del capitano Grant e del capitanoNemo.


Làfinalmentefurono feliciuniti nel presente come lo erano stati nelpassato; e mai dovevano dimenticare la loro isolaquell'isola sullaquale erano arrivati nudi e poveri: quell'isola che per quattro anniera bastata a tutti i loro bisogni e di cui ormai non restava piùche uno spuntone di scoglio granitico battuto dalle onde delPacificotomba di colui che era stato il capitano Nemo!