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Stendhal

 

LA BADESSA DI CASTRO

 

 

 

1.

 

Il melodramma italiano ci ha mostrato così spesso i briganti del Cinquecentoe tanta gente ne ha parlatosenza conoscerliche noi abbiamo intorno ad essi le idee più false.

Si può direin generaleche i briganti costituirono l'"opposizione" contro gli atroci governi che in Italia succedettero alle repubbliche del Medioevo. Il nuovo tiranno fu di solito il più ricco cittadino della defunta repubblicail qualeper accattivarsi il favore del basso popoloornava la città di splendide chiese e di bei quadri.

Tali furono i Polentani di Ravennai Manfredi di Faenzai Riaro di Imolagli Scaligeri di Veronai Bentivoglio di Bolognai Visconti di Milanoe finalmente i meno bellicosi e i più ipocriti di tuttii Medici di Firenze. Nessuno tra gli storici di questi piccoli stati ha avuto il coraggio di raccontare gli avvelenamenti e gli innumerevoli assassinii ordinati dalla paura che tormentava quei tirannelli: quei pesanti storici erano al loro soldo.

Notate che ogni tiranno conosceva uno per uno i repubblicani da cui si sapeva esecrato (Cosimo granduca di Toscanaper esempioconosceva lo Strozzi) e che parecchi tiranni morirono assassinatie allora comprenderete la serietà del Cinquecentol'odio profondo e l'eterna diffidenza che diedero tanto ingegno e tanto coraggio agli Italiani del Cinquecento e tanta genialità agli artisti di quel secolo. Vi accorgerete che passioni così forti impedirono la nascita di quel pregiudizio piuttosto ridicolo che al tempo della signora di Sévigné si chiamava l'"onore" e che consiste soprattutto nel sacrificare la propria vita per servire il padrone di cui si è nati sudditi e per piacere alle dame. Nel Cinquecento l'attività di un uomo e il suo reale valore non potevano rivelarsi in Francia e suscitare l'ammirazione se non per mezzo di atti coraggiosi sul campo di battaglia o nei duelli; e poiché alle donne piace il coraggio e soprattutto l'audaciai giudici supremi del valore di un uomo furono per l'appunto le donne.

Nacque lo "spirito di galanteria"che preparò via via l'annientamento di tutte le passionie perfino dell'amorea tutto profitto di quel crudele tiranno a cui obbedisce ognuno di noi: la vanità. I re si misero a proteggere la vanitàe ben a ragione: donde l'impero delle onorificenza.

In Italia un uomo si faceva conoscere con ogni genere di meritocoi gran colpi di spada come con le scoperte negli antichi manoscritti: vedete il Petrarcal'idolo del proprio tempo. Una donna del Cinquecento amava un uomo dotto in greco più di quel che avrebbe amato un uomo celebre per il valore militare. Si videro allora delle passionie non già l'abitudine della galanteria.

Ecco la grande differenza tra l'Italia e la Franciaecco perché l'Italia ha visto nascere un Raffaelloun Giorgioneun Tizianoun Correggiomentre la Francia produceva tutti quei valorosi capitani del secolo decimosestooggi così dimenticatiognuno dei qualituttaviauccise così gran numero di nemici.

Chiedo perdono per le dure verità che dico. Comunque siale vendette atroci e "necessarie" dei tirannelli italiani del Medioevo conquistarono ai briganti il cuore del popolo. Senza dubbioi briganti erano odiati quando rubavano cavalligranodanaroquanto insomma occorreva loro per vivere; mainsommail cuore del popolo era per loro; e le ragazze del contado preferivano il giovanotto cheuna volta nella vitaera stato costretto "a darsi alla macchia"cioè a fuggire nei boschi e a rifugiarsi presso i briganti a cagione di qualche grossa imprudenza.

Anche oggi tutti certamente hanno paura d'un incontro coi briganti; ma quando poi sono punitiognuno li compatisce. Il fatto è che questo popolo così perspicacecosì scanzonatocosì pronto a turbarsi degli scritti a stampa approvati dalla censura dei suoi padronilegge abitualmente poesie che narrano con ammirazione la vita dei più famosi briganti. Quel che c'è d'eroico in queste storie commuove la fibra artistica sempre viva "nella plebe" ed'altra partequesta è così sazia delle lodi ufficiali tributate a certe persone che quanto non è ufficiale in codesto genere le va diritto al cuore. Bisogna sapere che il basso popolo in Italia soffre di alcune cose di cui il viaggiatore straniero non s'accorgerebbe maianche se rimanesse dieci anni nel paese.

Quindici anni faper esempioprima che la saggezza dei governi avesse soppresso il brigantaggio(e' Gasparonel'ultimo brigante. Nel 1826 entrò in trattative col governo. Fu rinchiuso nella fortezza di Civitavecchia con trentadue dei suoi uomini.

Solo la mancanza d'acqua sulle cime dell'Appennino dove s'era rifugiato poté costringerlo alla resa. E' un uomo di spiritoe d'aspetto abbastanza piacente)non era infrequente il caso che i banditi punissero con le loro imprese le angherie dei governatori di piccole città. Questi governatorimagistrati assoluti il cui stipendio non supera gli otto scudi mensiliobbediscono naturalmente alla famiglia più cospicua del luogola quale perciòcon questo mezzo molto sempliceopprime i propri nemici.

Se non sempre i briganti riuscivano a punire quei piccoli governatori tirannicialmeno s'infischiavano di loro e li sfidavano; e questo non è poco agli occhi di un popolo intelligente come l'italiano. Un sonetto satirico lo consola di tutti i suoi malie un'offesa non è mai dimenticata. Ecco un'altra differenza capitale tra l'Italiano e il Francese.

Nel Cinquecentose il governatore d'una borgata condannava a morte un povero terrazzano preso di mira dalla famiglia principalenon era raro il caso che i briganti prendessero d'assalto la prigione e cercassero di liberare l'oppresso. La famiglia potentedal canto suonon fidandosi troppo degli otto o dieci soldati posti dal governo a guardia della prigionemetteva in armi a sue spese un drappello di soldati avventizi. I "bravi" bivaccavano nei dintorni della prigione ed erano incaricati di scortare fino al luogo del supplizio il povero diavolo la cui morte era stata patteggiata a suon di danari. Se nella famiglia potente c'era un giovanequesti si metteva alla testa di quei soldati improvvisati.

Un simile stato di civiltà offende la moraled'accordo: oggi noi abbiamo il duellola noiae giudici che non si vendono; ma quei costumi del Cinquecento erano mirabilmente adatti a creare uomini degni di questo nome.

Molti storiciancor oggi lodati dalla stracca letteratura accademicahan cercato di dissimulare uno stato di cose che verso il 1550 formò dei caratteri così grandi. Le loro prudenti menzogne furono ricompensate con tutti gli onori di cui potevano disporre i Medici a Firenzegli Estensi a Ferrarai viceré spagnoli a Napolieccetera. Un povero storicoil Giannoneha voluto sollevare un lembo di velo; mapoiché non ha osato dire che una piccolissima parte della veritàe anche questa in forma dubitativa e oscuraegli si è dimostrato uno scrittore molto noioso: il che non ha impedito che sia morto in prigione a ottantadue anni il 7 marzo 1758.

Quando si vuol conoscere la storia d'Italiabisogna prima di tutto evitare di leggere gli scrittori generalmente approvati: in nessun paese è stato meglio conosciuto quale valore ha la menzognain nessuno essa è stata meglio pagata. (Pieni di menzogne sono Paolo Gioviovescovo di Comol'Aretinoe cento altri meno divertentisfuggiti all'infamia grazie alla noia che ispiranoRobertsonRoscoe. Il Guicciardini si vendette a Cosimo Primoche si burlò di lui. Ai nostri giorni il Colletta e il Pignotti hanno detto la verità: l'ultimo con la continua paura d'esser destituitobenché pensasse a far pubblicare la sua opera solo dopo la sua morte.) Le prime storie che siano state scritte in Italia dopo la grande barbarie del secolo nonofanno già menzione dei brigantie ne parlano come se esistessero da tempo immemorabile. (Si veda la raccolta del Muratori). Quandodisgraziatamente per il pubblico beneper la giustizia e per il buon governoma fortunatamente per le belle artile repubbliche del Medioevo furono soppressei repubblicani più energiciquelli che amavano la libertà più della maggioranza dei loro concittadinisi rifugiarono nei boschi. Il popolonaturalmentevessato com'era dai Baglionidai Malatestadai Bentivogliodai Medici e via dicendoamava e rispettava i loro nemici. Le crudeltà dei tirannelli che succedettero ai primi usurpatorile crudeltàper esempiodi Cosimo Primogranduca di Firenzeche faceva assassinare perfino a Veneziaperfino a Parigii repubblicani rifugiatisi làdiedero delle reclute a quei briganti. Per parlare soltanto dei tempi prossimi a quelli in cui visse la nostra eroinanegli anni intorno al 1550Alfonso Piccolomini duca di Monte Mariano e Marco Sciarra si misero con buon consenso alla testa di bande armate che nei dintorni di Albano sfidavano i soldati del papa allora molto valorosi.

La linea delle operazioni di questi famosi capi che il popolo ammira tuttoraandava dal Po e le paludi di Ravenna fino ai boschi che allora coprivano il Vesuvio. La foresta della Faiolacosì celebrata per le loro impresesituata a cinque leghe da Roma sulla via di Napoliera il quartiere generale di Sciarrachedurante il pontificato di Gregorio Tredicesimoqualche volta mise insieme parecchie migliaia di soldati. La storia particolareggiata di questo illustre brigante riuscirebbe incredibile alla generazione attuale perché non si potrebbero comprendere i motivi dei suoi atti. Egli non fu vinto che nel 1592. Quando vide che i suoi affari volgevano al peggiointavolò trattative con la repubblica di Venezia e passò al servizio di questa coi suoi soldati più devoti ose si vuolepiù colpevoli. Alle proteste del governo romanoVeneziache aveva firmato un patto con Sciarralo fece assassinare e mandò i suoi valorosi soldati a difenderecontro i Turchil'isola di Candia. Ma la saggezza veneta ben sapeva che a Candia infieriva una micidiale pestilenzae in pochi giorni i cinquecento soldati che Sciarra aveva condotto con sé al servizio della repubblica furono ridotti a sessantasette.

La foresta della Faiolai cui alberi giganteschi ricoprono un antico vulcanofu l'ultimo teatro delle imprese di Marco Sciarra.

Tutti i viaggiatori vi diranno che è il posto più bello di quella stupenda campagna romanail cui fosco aspetto sembra fatto apposta per la tragedia. Essa incorona con la sua nera verdura le vette del monte Albano.

Noi dobbiamo questa magnifica montagna a certa eruzione vulcanica anteriore di parecchi secoli alla fondazione di Roma. In un tempo che ha preceduto ogni storia essa emerse in mezzo alla vasta pianura che una volta si estendeva tra gli Appennini e il mare.

Monte Cavoche si innalza circondato dalle cupe ombre della Faiolane è il punto culminante. Dappertutto si vededa Terracina e da Ostia come da Roma e da Tivolie l'orizzonte di Roma così noto ai viaggiatori è limitato a mezzogiorno dai colli albanioggi gremiti di ville. Un convento di monaci neri ha sostituito sulla vetta di Monte Cavo il tempio di Giove Feretriodove i popoli latini venivano a sacrificare in comune e a rinsaldare i vincoli d'una sorta di federazione religiosa.

Protetto dall'ombra di superbi castagniil viaggiatore arriva in poche ore agli enormi blocchi diroccati dell'antico tempio; ma sotto quelle ombre cupecosì deliziose in un clima caldo come quello del Lazioguarda inquieto verso il fondo della foresta:

anche oggi egli ha paura dei briganti. Raggiunta la vetta di Monte Cavosi accende il fuoco nelle rovine del tempio per preparare da mangiare. Da questo puntoche domina tutta la campagna romanaall'ora del tramontosi scorge il maree sembra a due passi benché sia a tre o quattro leghe. Si distinguono fin le più piccole barche; col più debole cannocchiale si possono contare le persone che vanno a Napoli sul bastimento a vapore. Da tutte le altre parti lo sguardo spazia su una splendida pianura che è limitata a levante dall'Appenninosopra Palestrinae a settentrione da San Pietro e dagli altri edifici di Roma. E poiché Monte Cavo non è molto altol'occhio coglie i minimi particolari di questo sublime paesaggio che potrebbe fare a meno di illustrazione storicae tuttavia ogni ciuffo d'alberiogni pezzo di muro in rovinaveduto nella pianura o sul pendio della montagnaricorda una di quelle battaglie raccontate da Tito Livioammirevoli per il patriottismo e per il valore.

Anche oggiper salire ai blocchi enormi che sono i resti del tempio di Giove Feretrio e che servono di muro di cinta al giardino dei monaci nerisi può seguire la "via trionfale" percorsa un tempo dai primi re di Roma. E' lastricata di pietre tagliate molto regolarmente; e in mezzo alla foresta della Faiola se ne trovano dei lunghi tratti.

Sull'orlo del cratere spento che oggiriempito di un'acqua limpidaè divenuto il lago di Albano di cinque o sei miglia di circonferenzacosì profondamente chiuso entro rocce di lavaera situata Albala madre di Romadistrutta dalla politica romana fin dal tempo dei primi re. Qualche secolo più tardia un quarto di lega da Albasul versante della montagna che guarda il mareè sorta Albanola città modernaseparata dal lago da una parete di rocce che nascondono il lago alla città e la città al lago. Quando la si scorge dalla pianurale sue bianche case spiccano sulla verdura nera e profonda della foresta così cara ai briganti e così spesso nominatache incorona da ogni lato la montagna vulcanica.

Albanoche conta oggi cinque o seimila abitantinon ne aveva tremila nel 1540quando la famiglia Campirealidi cui stiamo per raccontare le sventurefioriva tra le più nobili.

Traduco questa storia da due voluminosi manoscrittiuno romano e l'altro fiorentino. Con mio gran pericolo ho osato riprodurne lo stileche somiglia a quello delle nostre vecchie leggende. Lo stile così fine e così misurato del nostro tempo mi pare che non sarebbe andato d'accordo con le azioni raccontate e soprattutto con le riflessioni degli autori. Questi scrivevano verso il 1598.

Chiedo venia al lettore per loro e per me.

 

 

 

 2.

 

"Dopo aver narrato tante storie tragiche- dice l'autore del manoscritto fiorentino- finirò con quella che più di tutte mi fa pena a raccontare. Parlerò di quella famosa badessa del convento della Visitazione a CastroElena di Campirealidel cui processo e della cui morte tanto si parlò nell'alta società romana e italiana.

Verso il 1555 i briganti già spadroneggiavano nei dintorni di Roma: i magistrati erano venduti alle famiglie potenti. Nel 1572che fu l'anno del processoGregorio TredicesimoBoncompagnisalì il soglio di Pietro. Questo santo pontefice riuniva in sé tutte le virtù apostoliche; ma si è potuta rimproverare qualche debolezza al suo governo civile: egli non seppe né scegliere giudici onestiné reprimere il brigantaggio; s'affliggeva dei delitti e non aveva la forza di punirli. Gli sembrava che infliggendo la pena di morte si sarebbe assunto una tremenda responsabilità. Il risultato di questo modo di pensare fu che un numero quasi infinito di briganti popolò le strade che menano alla città eterna. Per viaggiare con una certa sicurezza bisognava esser amico dei briganti. La foresta della Faiola domina la strada di Napoli che passa per Albanoe perciò era da un pezzo il quartiere generale d'un governo in guerra con quello di Sua Santità. Parecchie volte Roma fu costretta a trattare da potenza a potenza con Marco Sciarrauno dei re della foresta. La forza di questi briganti era nell'amore che avevan per loro i contadini dei dintorni.

"Questa graziosa città d'Albanocosì vicina al quartier generale dei brigantivide nascere nel 1542 Elena di Campireali. Suo padre passava per il patrizio più ricco del paesee perciò aveva potuto sposare Vittoria Carafache possedeva grandi terre nel regno di Napoli. Potrei nominare alcuni vecchi che vivono ancora e che hanno conosciuto bene Vittoria Carafa e la sua figliola. Vittoria fu un modello di prudenza e d'intelligenza; macon tutto il suo genionon poté prevenire la rovina della sua famiglia. Strano! Le spaventose sciagure che saranno il triste argomento della mia narrazione non possonoa quanto mi sembraessere rimproverate in particolare a nessuno dei personaggi che sto per presentare al lettore: vedo in loro degli sventuratimain veritàin nessuno posso riconoscere il colpevole. La meravigliosa bellezza e l'anima così tenera della giovane Elena erano due grandi pericoli per lei e sono la scusa del suo amante Giulio Branciforteproprio come l'assoluta mancanza d'intelligenza di monsignor Cittadinivescovo di Castropuò fino a un certo punto scusarlo. Egli era debitore della sua rapida ascensione nella carriera degli onori ecclesiastici all'onestà della sua condottae soprattutto all'aspetto più nobile e al volto più regolarmente bello che non si poteva vederlo senza amarlo.

"Poiché non è mia intenzione adulare nessunonon dissimulerò che un santo monaco del convento di Monte Cavoil quale spesso era stato sorpreso nella sua cella sollevato a parecchi piedi dal suolocome san Paoloda non altro che dalla grazia divina sostenuto in quella posizione straordinaria (Anche oggi le popolazioni della campagna romana ritengono che questa strana posizione sia un segno certo di santità. Verso l'anno 1826 un monaco di Albano fu sorpreso più volte sollevato da terra per grazia divina. Gli furono attribuiti numerosi miracoli; da luoghi distanti venti leghe la gente accorreva per riceverne la benedizione; signore della più alta società lo videro nella sua cella sospeso a tre piedi da terrapoiimprovvisamentescomparve)aveva predetto al signor di Campireali che la sua famiglia si sarebbe spenta con lui e che egli avrebbe avuto due soli figliolii quali perirebbero tutti e due di morte violenta.

Per questa predizione non gli riuscì di ammogliarsi nel paese e andò a cercare fortuna a Napolidove ebbe la buona sorte di trovare grandi ricchezze e una moglie capace con la sua intelligenza di mutargli il cattivo destino se una cosa simile fosse possibile.

Il signor di Campireali aveva fama di perfetto gentiluomo e faceva grandi elemosine; ma non aveva alcun ingegnoe per questo a poco a poco cessò di dimorare a Roma e finì col trascorrere quasi tutto l'anno nel suo palazzo di Albano. Si dedicava alla coltivazione delle sue terresituate in quella ricca pianura che si stende tra la città e il mare. Per consiglio della moglie fece educare magnificamente il suo figliolo Fabiogiovane orgogliosissimo della propria nascitae la sua figliola Elenache fu un miracolo di bellezzacome attesta il suo ritratto che si conserva tuttora nella collezione Farnese. Dopo che ho incominciato a scrivere questa storia sono andato al palazzo Farnese per contemplare la veste mortale che il cielo aveva dato a questa donnail cui funesto destino levò tanto rumore ai suoi tempi e occupa ancora la memoria degli uomini. La forma del capo è un ovale allungatola fronte è molto ampiai capelli sono d'un biondo cupo. La fisionomia è piuttosto lieta. Gli occhigrandihanno un'espressione profondae le sopracciglie castane formano un arco perfettamente disegnato. Le labbra sono molto sottili e si direbbe che le linee della bocca sono state disegnate dal famoso pittore Correggio. Veduta in mezzo ai ritratti che la circondano nella galleria Farneseha l'aspetto d'una regina. Accade molto di rado che l'aspetto allegro accompagni la maestà.

"Dopo aver passato otto anni interi nel convento della Visitazione della città di Castroora distruttadove erano mandate in quel tempo le fanciulle di quasi tutti i principi romaniElena ritornò nel proprio paesema prima di lasciare il convento fece offerta d'uno splendido calice all'altare maggiore della chiesa. Appena fu ritornata ad Albanoil padre fece venir da Romaoffrendogli una lauta pensioneil celebre poeta Cecchinoallora molto avanzato in età. Questi ornò la memoria di Elena dei più bei versi del divino Virgilio e dei suoi famosi discepoliDanteil Petrarca e l'Ariosto".

Qui il traduttore è costretto a saltare una lunga dissertazione sui diversi gradi di gloria che il secolo decimosesto assegnava a questi grandi poeti. Parrebbe che Elena sapesse il latino. I versi che le facevano imparare a memoria parlavano d'amoree di un amore che ci sembrerebbe molto ridicolo se lo trovassimo in quest'anno di grazia 1839; voglio dire l'amore appassionato che si nutre di grandi sacrificinon può sussistere se non avvolto di mistero ed è sempre vicino alle sciagure più tremende.

Tale era l'amore che ad Elena appena diciassettenne seppe ispirare Giulio Branciforte. Era questi uno dei suoi vicinipoverissimo:

abitava una casupola costruita sulla montagnaa un quarto di lega dalla cittàin mezzo alle rovine dell'antica Alba e sul ciglio di quel precipizio alto centocinquanta pieditappezzato di verdurache circonda il lago. La casavicinissima alle cupe e magnifiche ombre della foresta della Faiolafu poi abbattuta per la costruzione del convento di Palazzolo. Quel povero giovane non aveva altro bene che il suo aspetto svelto e vivace e l'indifferenza non simulata con cui sopportava la sua mala fortuna. Aveva un volto espressivo senza essere belloe questo era quanto di meglio si poteva dire in suo favore. Ma si diceva che aveva combattuto valorosamente al comando del principe Colonnatra i suoi "bravi"in due o tre imprese molto rischiose.

Poveronon belloegli era nondimeno il cuore di cui le ragazze di Albano avrebbero fatto più volentieri la conquista. E poiché era ben accolto dappertuttoGiulio Branciforte non aveva avuto che facili amori fino al momento in cui Elena ritornò dal convento di Castro.

"Quandopoco dopoil gran poeta Cecchino si trasferì da Roma al palazzo Campireali per insegnare le belle lettere alla fanciullaGiulioche lo conoscevagli diresse una poesia in latino sulla felicità che la sua vecchiaia avrebbe avuto nel vedere due occhi così belli fissi nei suoi e un'anima così pura essere felice quando egli si fosse degnato di approvarne i pensieri. La gelosia e il dispetto delle ragazze corteggiate da Giulio prima del ritorno di Elena resero ben presto inutili tutte le precauzioni a cui egli ricorreva per tenere nascosta la sua nascente passionee io devo confessare che i due giovani innamorati (lui aveva ventidue anni e lei diciassette) si comportarono da principio in un modo che la prudenza non potrebbe approvare. Non erano passati tre mesi che il signor di Campireali s'avvide che Giulio Branciforte passava troppo spesso sotto le finestre di quel suo palazzo che ancora si vede a metà della grande strada che sale verso il lago".

La franchezza e la rudezzaconseguenza naturale della libertà tollerata dalle repubblichee l'abitudine delle libere passioni non ancora represse dai costumi monarchicisi rivelano appieno nel primo passo del signor di Campireali. Il giorno stesso in cui fu offeso dalle frequenti apparizioni del giovane Branciforte lo apostrofò in questi termini:

- Come osi passare così di continuo davanti alla mia casa e lanciare occhiate impertinenti alle finestre di mia figliatu che non possiedi nemmeno vestiti per coprirti? Se non temessi che i vicini giudicassero male la cosati regalerei tre zecchini d'oro e tu andresti a Roma a comperarti una tunica più decente. Almeno i miei occhi e quelli di mia figlia non sarebbero così spesso offesi dalla vista dei tuoi cenci.

Il padre di Elena esagerava: i vestiti del giovane Branciforte non si potevano dir cenci: erano di stoffa comune; maancorché ben puliti e spazzolatibisogna confessare che apparivano logori per il lungo uso. Giulio fu così profondamente addolorato per i rimproveri del signor di Campireali che di giorno non si fece più vedere davanti al palazzo.

Come abbiamo già dettoi due archiresti d'un antico acquedottoche servivano di mura principali alla casa costruita dal padre del Branciforte e da lui lasciata al figliolonon distavano da Albano più di cinque o seicento passi. Per discendere da quell'alto luogo alla città moderna Giulio era costretto a passare davanti al palazzo Campireali: Elena poté dunque notare l'assenza di quello strano giovane chea quel che dicevano le sue amicheaveva tralasciato ogni altra relazione per darsi tutto alla felicità che pareva provare nel guardar lei.

Una sera d'estateverso mezzanottela finestra di Elena era aperta: la fanciulla respirava il venticello marino che si fa sentire molto bene sulla collina d'Albanoper quanto tra questa città e il mare si estendano tre leghe di pianura. La notte era cupail silenzio profondo: si sarebbe sentita cadere una foglia.

Elenaaffacciata alla finestrapensava forse a Giulioquando intravide qualcosa come l'ala silenziosa d'un uccello notturno che passava pian piano proprio contro la finestra. Si ritrasse spaventata. Non le venne l'idea che potesse trattarsi d'un oggetto offerto da qualche passante: la sua finestra era al secondo piano del palazzoa più di cinquanta piedi da terra. Tutt'a un tratto le parve di riconoscere un mazzo di fiori in quella cosa strana che nel silenzio profondo passava e ripassava davanti alla finestra a cui era affacciata. Il cuore le batté con violenza.

Il mazzo di fiori sembrava fissato all'estremità di due o tre di quelle canne o grandi giunchiabbastanza simili al bambùche crescono nella campagna romana e danno delle aste lunghe tra i venti e i trenta piedi. La debolezza delle canne e il vento abbastanza forte facevano sì che Giulio provasse una certa difficoltà a tenere fermo il suo mazzo di fiori proprio davanti alla finestra a cui pensava che fosse affacciata Elenae d'altra parte la notte era così buia che a quell'altezza non si poteva scorgere nulla. Immobile davanti alla finestraElena era profondamente agitata. Se avesse preso quel mazzo di fiorinon sarebbe stata una confessione? D'altra parte ella non provava nessuno di quei sentimenti che una simile avventura farebbe nascere oggi in una giovinetta dell'alta societàpreparata alla vita da una raffinata educazione. Poiché suo padre e suo fratello Fabio erano in casail suo primo pensiero fu che il minimo rumore sarebbe seguito da un colpo d'archibugio sparato contro Giulio: le venne pietà del pericolo che correva quel povero giovane. Il suo secondo pensiero fu che questibenché a lei quasi ignotoera però la persona che avesse più cara al mondo dopo la sua famiglia.

Finalmentedopo qualche minuto d'esitazioneafferrò il mazzo di fiori e toccando le corolle nella profonda oscurità sentì che un biglietto era attaccato a uno stelo. Corse subito sullo scalone del palazzo per leggere quel biglietto alla luce di una lampada che ardeva davanti all'immagine della Madonna.

"Imprudente! - si disse quando le prime righe l'ebbero fatta arrossire di gioia- se mi vedono sono perdutae la mia famiglia non lo perdonerà a questo povero giovane". Ritornò nella sua camera e accese la lampada. Quel momento fu delizioso per Giulioil qualevergognoso del suo passo e come per nascondersi nell'oscurità profonda della nottes'era stretto al tronco enorme d'uno di quei lecci dalle forme bizzarre che si vedono anche oggi intorno al palazzo Campireali.

Nella sua lettera Giulio raccontava con perfetta schiettezza l'umiliante reprimenda che aveva ricevuto dal padre di Elena.

"Io sono poveroè vero- diceva- e difficilmente voi potreste immaginarvi l'eccesso della mia povertà. Ho soltanto la mia casaquella che forse voi avrete notato sotto le rovine dell'acquedotto di Alba: intorno alla casa c'è un giardino che io stesso coltivo e con le cui erbe mi sostento. Posseggo anche una vigna che affitto per trenta scudi l'anno. In verità io non so perché vi amo: non posso proporvi di certo di venire a condividere la mia miseria. E tuttaviase voi non mi amatela vita non vale più nulla per me; è inutile dirvi che sarei pronto a darla mille volte per voi.

Eppureprima del vostro ritorno dal conventoquesta mia vita non era infelice: era anzi piena delle più splendide fantasticherie.

Posso perciò dirvi che l'aspetto della felicità mi ha reso infelice. Nessuno al mondoalloraavrebbe avuto il coraggio di dirmi le parole con cui vostro padre mi ha umiliatoché mi sarei fatto immediatamente giustizia col mio pugnale. In quei giornicol mio coraggio e con le mie armimi sentivo pari a tutti: nulla mi mancava. Ora tutto è cambiato: conosco il timore. Ma scrivo troppo: forse voi mi disprezzate. Se invece avete un po' di compassione per menonostante i poveri vestiti che mi copronoosserverete che tutte le serequando batte la mezzanotte al convento dei Cappuccini in cima alla collinaio sono nascosto sotto il gran leccio di fronte alla finestra che guardo continuamente perché penso sia quella della vostra camera. Se non mi disprezzate come mi disprezza vostro padregettatemi un fiore del mazzo che vi ho offertoma badate che non cada su una delle cornici o uno dei balconi del vostro palazzo".

La lettera fu letta parecchie voltee a poco a poco gli occhi di Elena si riempirono di lacrime; ella guardava con tenerezza quel magnifico mazzo di fiori che era legato con un fil di seta molto forte. Tentò di strapparne un fiorema non ci riuscì; poi il rimorso la prese. Strappare un fioresciupare in un modo qualsiasi un mazzo offerto da un innamoratoper le ragazze di Roma significava esporsi a far morire quell'amore. Ebbe timore che Giulio si spazientissecorse alla finestra; ma sul punto di affacciarsi pensò che l'avrebbero vista troppo beneperché la luce della lampada riempiva la camera. Elena non sapeva più qual segno potesse permettersi: le sembrava che non ce ne fosse nessuno che non dicesse troppo.

Tutta vergognosarientrò correndo nella camera. Ma il tempo passava. Le venne un'idea improvvisa che la gettò in un grande turbamento: Giulio poteva credere che lei lo disprezzavacome suo padreperché povero! S'accorse di un piccolo frammento di marmo prezioso deposto sul suo tavolinolo annodò nel fazzolettoe gettò questo ai piedi del leccio davanti alla sua finestra. Poi fece segno che bisognava allontanarsi e sentì che Giulio le ubbidivaperchénell'andarsenenon cercava più di attutire il rumore dei passi. Quando egli ebbe raggiunto la vetta della cerchia di rocce che separa il lago dalle ultime case di AlbanoElena sentì che cantava parole d'amore: gli fece allora dei segni d'addioquesta volta meno timidie poi si rimise a leggere la lettera.

Il giorno dopoe nei giorni seguentici furono lettere e colloqui dello stesso genere; ma poiché in un villaggio italiano vien tutto osservatoe poiché Elena era il partito di gran lunga più ricco del paeseil signor di Campireali fu avvertito che tutte le sere dopo la mezzanotte si vedeva illuminata la finestra della camera di sua figliae che la finestra (cosa ben altrimenti straordinaria) era apertaed Elena vi stava affacciata come se non avesse alcun timore delle zanzare (insetti molto fastidiosi che sono il guaio delle belle serate nella campagna romana: ancora una volta devo chiedere venia al lettore: quando si cerca di conoscere gli usi dei paesi stranieri bisogna aspettarsi di trovare idee molto stranediversissime dalle nostre). Il signor di Campireali preparò il proprio archibugio e quello del suo figliolo. La seraquando suonarono le undici e tre quartiavvisò Fabioe tutti e duefacendo il minor rumore possibilesi mesero in agguato su un grande balcone di pietra al primo piano del palazzoproprio sotto la finestra di Elena.

I massicci pilastri della balaustra di pietra li riparavano fino alla cintola dai colpi d'archibugio che si sarebbero potuti tirar loro dall'esterno. Suonò la mezzanotte: il padre e il figlio sentirono qualche piccolo rumore sotto gli alberi che fiancheggiavano la via di fronte al palazzo; mae la cosa li riempì di stuporenon si vide luce alla finestra di Elena. La fanciullache fino ad allora era stata così semplice che sembrava una bambina per la vivacità del carattereda quando amava era del tutto mutata. Sapeva bene che la minima imprudenza poteva compromettere la vita del suo innamorato: se un signore potente come suo padre uccideva un povero diavolo come Giulio Brancifortese la cavava con un'assenza di tre mesi che sarebbe andato a passare a Napoli: intanto i suoi amici di Roma avrebbero aggiustato la faccendae tutto sarebbe finito con l'offerta d'una lampada d'argento di qualche centinaio di scudi all'altare della Madonna allora di moda. La mattinaElena s'era accortadalla fisionomia di suo padrech'egli era in gran collera; e dal modo che la guardava quando credeva di non essere osservato pensò che in quella collera lei doveva averci una gran parte. Andò subito a spargere un po' di polvere sul legno dei cinque magnifici archibugi che il padre teneva appesi vicino al lettoe ricoprì anche d'un leggero strato di polvere i pugnali e le spade. Durante tutta la giornatacome presa da una forte allegriaperlustrò la casa da cima a fondo; in ogni momento s'avvicinava alle finestrecon la ferma intenzione di fare a Giulio un segno negativose mai avesse la fortuna di scorgerlo. Non le venne in mente che il povero ragazzoprofondamente umiliato dal rabbuffo del ricco signor di Campirealinon si faceva mai vedere di giorno in Albano: la domenica soltanto andava per dovere alla messa parrocchiale. La madre di Elenache l'adorava e che non sapeva rifiutarle nullaquel giorno uscì tre volte con lei; ma fu inutile: Elena non incontrò Giulio. Era disperata. E a qual punto salì la sua disperazione verso sera allorché esaminando le armi del padre si accorse che due archibugi erano stati caricati e quasi tutte le spade e i pugnali maneggiati! La sola cosa che la distraeva dalla sua mortale inquietudine era l'estrema attenzione con cui badava a non lasciar vedere dagli altri il proprio stato d'animo. Ritirandosi alle dieci della serachiuse a chiave la porta della sua stanza da letto che dava sull'anticamera della madre: poiseduta sul pavimento in modo che non la vedessero dall'esternonon si mosse più dalla finestra. Si pensi all'ansia con cui sentì suonare le ore: non era più questione dei rimproveri che si faceva per essersi affezionata così presto a Giulio e mettersi quindi al rischio di apparire meno degna d'amore agli occhi di lui. Nel cuore di Elena il giovane prese più posto in quel giorno di quel che avrebbe fatto dopo sei mesi di costanza e di proteste. "Perché mentire? - si diceva la giovinetta: - o che forse non l'amo con tutte le forze dell'anima mia?".

Alle undici e mezzo vide benissimo suo padre e suo fratello porsi in agguato sotto il balcone di pietra sopra il quale c'era la sua finestra. Due minuti dopo che la mezzanotte era suonata al convento dei Cappuccinisentì il passo del suo amanteche si fermò sotto la gran quercia. Notò con gioia che suo padre e suo fratello sembravano non essersi accorti di nulla: per cogliere un così lieve rumore ci voleva l'ansietà della passione.

"Ora- si disse- verranno ad uccidermima bisogna impedire ad ogni costo che scoprano la lettera di questa seraaltrimenti non cesserebbero di perseguitare il povero Giulio". Si fece il segno della croce eafferrandosi con una mano alla ringhiera di ferro si penzolò dalla finestra il più che poteva. Non era passato un quarto di minuto che il mazzo di fiori attaccato come al solito alla canna le venne ad urtare il braccio. Lo afferrò; ma nell'atto di strapparlo alla canna a cui era attaccato fece urtare questa contro il balcone di pietra. Istantaneamente partirono due colpi d'archibugio a cui seguì un gran silenzio. Suo fratello Fabionon vedendo bene nel buio se l'oggetto che urtava contro il balcone non fosse per caso una fune per mezzo della quale Giulio si calasse dalla camera della sorellaaveva sparato sulla ringhiera.

Il giorno dopo Elena trovò il segno della palla che si era schiacciata contro il ferro. Il signor di Campireali aveva sparato in stradasotto il balcone di pietraperché Giulio aveva fatto un po' di rumore nel trattenere la canna che stava per cadere.

Giulioda parte suasentendo rumore sul suo capoaveva indovinato quel che stava per accadere e s'era messo al riparo sotto la sporgenza del balcone.

Fabio ricaricò in fretta l'archibugio e corsequalsiasi cosa il padre potesse dirglinel giardino della casaaprì piano una porticina che dava su una via laterale e camminando con cautela si mise a spiare chi si trovasse sotto il balcone del palazzo.

Giulioche quella sera era ben accompagnatostava in quel momento a venti passi da luiappoggiato a un albero. Elenachina alla ringhiera e inquieta per il suo amantea voce molto alta rivolse la parola al fratello di cui aveva avvertito la presenza in strada: gli chiese se aveva ucciso qualche ladro.

- Non crediate che la vostra perfida astuzia mi abbia ingannato! - le gridò Fabioe misurava coi passi la strada in tutti i sensi. - Ora è il momento di piangereperché ammazzerò quell'insolente che ce l'ha con la vostra finestra.

Non aveva ancora finito di pronunciare queste parole che Elena sentì sua madre picchiare alla porta della camera. S'affrettò ad apriredicendo di non riuscire a capire come mai la porta fosse chiusa.

- Non fingere con meamor mio- le disse la madre; - tuo padre è furibondo e forse t'ucciderà; vieni con me nel mio lettoe se hai una letteradammelala nasconderò.

- Ecco il mazzo di fiori- rispose Elena- la lettera è nascosta tra i fiori.

La madre e la figlia erano appena a letto che il signor di Campireali rientrò nella camera della moglie: ritornava dalla cappella di casa dove s'era messo a cercare e vi aveva messo tutto sottosopra. Elena fu impressionata soprattutto dalla lentezza che suo padrepallido come uno spettrometteva in ogni gestocome chi sa perfettamente quel che deve fare. "Sono morta!"si disse Elena.

- Noi ci rallegriamo d'avere dei figli- disse suo padre passando accanto al letto della moglie per andare in camera della figliae dovremmo invece piangere lacrime di sangue quando questi figli sono femmine. Gran Dio! è mai possibile? La loro leggerezza può disonorare uno che in sessant'anni non ha dato adito alla minima diceria.

Nel dire queste parole entrò nella camera della figlia.

- Sono perduta- disse Elena alla madre- le lettere sono sotto il piedistallo del crocifissovicino alla finestra.

La madre balzò dal letto e corse dietro a suo marito: si mise a esporgli le peggiori ragioni che potesse trovare per farlo andare in bestiae ci riuscì. Il vecchio diventò furiososi mise a fracassare quanto trovava nella stanza della figliae intanto la madre poté portar via le lettere senza che l'uomo se ne accorgesse. Dopo un'oraquando il signor di Campireali si fu ritirato nella sua cameraattigua a quella della mogliee nella casa ritornò la calmala madre disse ad Elena:

- Ecco le lettere: non voglio leggerle: pensa a che rischio ci han messo! Fossi tele brucerei! Abbracciamie vattene.

Elena si ritirò nella sua camera e scoppiò in lacrime: dopo quelle parole di sua madre le pareva di non amar più Giulio. Si accinse a bruciar le lettere; ma prima di distruggerle non poté fare a meno di leggerle ancora una volta. E tanto le lesse e le rilesse che il sole era già alto all'orizzonte quando si decise finalmente a seguire il prudente consiglio che le era stato dato. Il giorno dopo era domenicaed Elena s'incamminò con la madre verso la parrocchia. La prima persona che vide in chiesa fu Giulio Branciforte. Con un'occhiata poté accertarsi che non era ferito.

Si sentì felice: quanto era accaduto nella notte era a mille leghe dalla sua memoria. Aveva preparato cinque o sei bigliettini scritti su pezzetti di carta ingiallita e li aveva imbrattati di mota perché sembrassero di quelle cartacce che qualche volta si trovano sul pavimento delle chiese. Codesti bigliettini contenevano tutti lo stesso avvertimento.

"Avevano scoperto tuttosalvo il suo nome. Non si faccia più vedere per strada. Ci si vedrà quispesso".

Elena lasciò cadere uno di quei pezzetti di cartae con un'occhiata avvertì Giulio che lo raccattò e scomparve. Nel ritornare a casa un'ora dopotrovò sulla grande scala del palazzo un frammento di carta che le diede nell'occhio perché era in tutto e per tutto simile a quelli di cui s'era servita al mattino. Se ne impadronìsenza che nemmeno la madre s'accorgesse di nullae lesse:

"Fra tre giorni lui ritornerà da Roma dove è costretto ad andare.

In pieno giornoverso le dieciquando ci sarà mercatosi sentirà un canto in mezzo al frastuono dei contadini".

La partenza per Roma parve strana a Elena. "Teme forse i colpi d'archibugio di mio fratello?"si chiedeva tristemente. L'amore perdona tuttosalvo l'assenza volontaria: questa è il peggiore dei supplizi. Invece di cullarsi in una dolce fantasticheria e di star lì a pesare una per una le ragioni che si hanno d'essere innamoratadubbi crudeli tormentano il cuore. "Madopo tuttoposso credere che non m'ami più?"si diceva Elena durante le tre lunghe giornate dell'assenza del Branciforte. Tutto ad un tratto una folle gioia dissipò le sue pene: al terzo giorno lo vide in pieno mezzogiorno che passeggiava davanti al palazzo di suo padre.

Aveva un vestito nuovoquasi lussuoso. Mai la nobiltà della sua andaturala coraggiosa e allegra ingenuità della sua fisionomia si erano manifestate così a pieno; e maiprima di quel giornosi era parlato così spesso in Albano della povertà di Giulio. Questa parola crudele era ripetuta dagli uomini e soprattutto dai giovanotti; ma le donne e soprattutto le ragazze non finivano di magnificare il suo aspetto.

Giulio in tutta la giornata non fece altro che andare in su e in giù per la città: gli pareva di ripagarsi i mesi di reclusione a cui l'aveva costretto la sua povertà. Come conviene ad un innamoratoera armato di tutto punto sotto la sua tunica nuova.

Oltre la daga e il pugnaleaveva indossato un "giaco" (specie di lungo panciotto di maglia di ferromolto fastidioso a portarema molto buono per guarire i cuori italiani da una triste malattia di cui in quel secolo si provavano quasi di continuo gli accessi crudelivale a dire dalla paura di essere ucciso al lato della strada da qualcuno dei propri nemici). Giulio sperava in quel giorno d'intravedere Elenae d'altronde gli ripugnava di trovarsi solo con se stesso nella sua solitaria camera; ed ecco perché:

Ranuccioun vecchio soldato di suo padredopo aver fatto con lui dieci campagne nelle compagnie di ventura di diversi "condottieri"e da ultimo in quelle di Marco Sciarraaveva seguito il proprio capitano quando questi per le sue ferite era stato costretto a ritirarsi. Il capitano Branciforte aveva le sue ragioni di non voler vivere a Roma: si sarebbe messo a rischio d'incontrare i figli di persone uccise da lui: anche in Albano stava attento a non darsi del tutto in balia della legittima autorità. Invece di comperare o affittare una casa in cittàpreferì costruirne una in un luogo da dove potesse scorgere di lontano chi venisse a fargli visita. Trovò un posto magnifico nelle rovine di Alba: da lìsenza esser visto dai visitatori indiscretipoteva rifugiarsi nella foresta dove spadroneggiava il suo antico patrono e amico il principe Fabrizio Colonna. Il capitano Branciforte s'infischiava del tutto dell'avvenire di suo figlio. Quando lasciò il servizionon più che cinquantennema carico di feritecalcolò che gli restavano più o meno una decina d'anni di vitae una volta che ebbe costruito la sua casaspese ogni anno la decima parte di quanto aveva accumulato nei gloriosi saccheggi di città e villaggi a cui aveva partecipato.

Egli comperò quella vigna che rendeva trenta scudi l'anno a suo figlio per rispondere allo scherzo sgarbato di un borghese di Albanoil quale gli aveva dettoun giorno che discutevano animatamente sugli interessi e l'onere della cittàche toccava a un ricco proprietario come lui dar consigli agli "anziani" di Albano. Il capitano comperò la vigna e annunciò che ne avrebbe comperate molte altre; poiun giorno che incontrò in un luogo solitario il sarcastico borgheselo freddò con una pistolettata.

Dopo otto anni di questa vita il capitano morì. Il suo aiutante di campo Ranuccio adorava Giulio; tuttaviastanco di stare in ozioriprese servizio nella compagnia del principe Colonna. Veniva spesso a vedere quello che egli chiamava "il suo figliolo Giulio"e una voltaalla vigilia d'un pericoloso assalto che il principe doveva sostenere nella sua rocca della Petrellalo aveva condotto con sé a combattere. Vedendolo molto coraggiosogli aveva detto:

- Bisogna che tu sia pazzo e per di più molto sciocco per vivere così nei dintorni di Albano come l'ultimo e il più povero abitante di quel paesementre con la bravura che vedo in te e col nome di tuo padre potresti essere un magnifico soldato di ventura e fare fortuna.

A Giulio quelle parole misero il diavolo in corpo. Egli sapeva il latinoche gli era stato insegnato da un prete; ma poiché suo padre s'era sempre burlato di tutto ciò che il prete diceva oltre il latinonon aveva ricevuto la minima istruzione. In compensodisprezzato com'era per la sua povertà e isolato nella sua casa remotagli si era sviluppato un buon senso che per la sua audacia avrebbe riempito di stupore i dotti. Per esempioprima di innamorarsi di Elenae senza sapere il perchéadorava la guerrama gli ripugnava il saccheggio che agli occhi del capitano suo padre e di Ranuccioera come la commediola da ridere che viene dopo la tragedia. Da quando amava Elenail buon senso che le riflessioni solitarie avevano sviluppato in lui faceva il supplizio di Giulio. Quell'animacosì indifferentenon osava consultare nessuno intorno ai propri dubbied era tutta passione e dolore. Che cosa direbbe il signor di Campireali se sapesse ch'era un soldato di ventura? Certo i suoi rimproveri avrebbero un giusto fondamento. Giulio aveva sempre contato sul mestiere di soldatocome su un mezzo sicuro per il tempo in cui avesse speso il danaro che poteva ricavare dalle collane d'oro e dagli altri gioielli ritrovati nella cassetta di ferro di suo padre. Se egli non aveva scrupolo a rapirelui così poverola figliola del ricco signor di Campirealiera che in questo tempo i genitori lasciavano i propri beni a chi gli piacessee il signor di Campireali era padrone di assegnare alla propria figliola un'eredità di mille scudi soltanto. Su un altro problema si affaticava l'immaginazione di Giulio: primoin quale città andare a vivere con Elena dopo averla sposata e rapita a suo padre?

secondocon quale danaro le avrebbe procurato da vivere?

Quando il signor di Campireali gli ebbe fatto il rimprovero sanguinoso che lo aveva fatto soffrire tantoGiulio passò due giorni in preda alla rabbia e al dolore più vivo: non poteva risolversi né ad uccidere il vecchio insolentené a lasciarlo vivere. La notte non faceva altro che piangere. Finalmente decise di consultare Ranuccioil solo amico ch'egli avesse in questo mondo; ma l'amico l'avrebbe compreso? Cercò invano Ranuccio in tutta la foresta della Faiola: fu costretto a spingersi sulla strada di Napolioltre Velletridove Ranuccio capeggiava un'imboscata: aspettavano làlui e la sua numerosa bandail generale spagnolo Ruiz d'Avalosche si recava a Roma per via di terraimmemore che di recente egli aveva parlato con disprezzodavanti a molte personedei soldati di ventura della compagnia Colonna.

Poiché il suo cappellano gli ricordò molto a proposito di questo fatto di poca importanzaRuiz d'Avalos decise di far armare un bastimento e di venire a Roma per mare.

Non appena il capitano Ranuccio ebbe sentito il racconto di Giulio:

- Descrivimi con precisione- gli disse- l'aspetto di codesto signor di Campirealiperché la sua imprudenza non costi la vita a qualche bravo abitante di Albano. Appena avremo sbrigato con un sì o con un no la faccenda che ci trattiene quitu te ne andrai a Roma e ti farai vedere a qualunque ora del giorno negli alberghi e in altri pubblici locali: bisogna che nessuno sospetti di te per via dell'amore che porti alla sua figliola.

Giulio durò fatica a sedare la collera dell'antico compagno di suo padre e finì con l'offendersi.

- Credi tu- gli disse finalmente- che io voglia ricorrere alla tua spada? Non ho una spada anch'io? Sono venuto da te per un buon consiglio.

Ranuccio concludeva ogni suo discorso con queste parole:

- Tu sei giovanenon sei feritoe l'insulto è stato pubblico; orbeneun uomo senza onore è disprezzato dalle donne.

Giulio gli rispose che voleva ancora riflettere sui propri sentimentie per quanto Ranuccio cercasse di trattenerlo e di convincerlo che prendendo parte all'attacco contro la scorta del capitano spagnolo si sarebbe fatto onore e avrebbe per giunta guadagnato dei bravi doppioni d'orose ne ritornò solo alla sua casetta. Fu là che ricevette Ranuccio e il suo caporaledi ritorno dal Velletranoproprio il giorno prima che il signor di Campireali gli tirasse un colpo d'archibugio. Ranuccio volle vedere per forza la cassetta di ferro in cui il suo padroneil capitano Brancifortechiudeva un tempo le catene d'oro e gli altri gioielli che non riteneva opportuno di spendere subito dopo una spedizione. Ci trovò in tutto due scudi.

- Ti consiglio di andare a farti frate- disse a Giulio- hai tutte le virtù che ci voglionocominciando dalla povertàe qui ce n'è la prova: che hai l'umiltà si prova dal fatto che ti sei lasciato insultare sulla pubblica strada da un riccone di Albano:

ti mancano soltanto l'ipocrisia e l'ingordigia.

Ranuccio mise per forza cinquanta doppioni d'oro nella cassetta di ferro.

- Ti do la mia parola- disse a Giulio- che se di qui a un mese il signor di Campireali non è sotterrato con tutti gli onori dovuti alla sua nobiltà e alla sua ricchezzail mio caporale qui presente verrà qui con trenta uomini a demolire la tua casetta e a dar fuoco alla tua povera mobilia. Il figlio del capitano Branciforte non deve fare una brutta figura così con la scusa che è innamorato.

Quando il signor di Campireali e suo figlio tirarono i due colpi di archibugioRanuccio e il caporale s'erano appostati sotto il balcone di pietrae ci volle del bello e del buono perché Giulio impedisse loro di uccidere Fabioo almeno di rapirloquando questicome abbiamo già dettofece quell'imprudente sortita dalla parte del giardino. Ranuccio si lasciò persuadere da questo ragionamento: non bisogna uccidere un giovanotto che domani può diventare qualcuno ed essere utilementre c'è il vecchio peccatore che è più colpevole di lui e che non ha da fare altro che andare sotto terra.

Il giorno dopo Ranuccio sparì nella foresta e Giulio partì per Roma. La gioia che provò nel comperare dei bei vestiti nuovi coi doppioni datigli da Ranuccio era crudelmente turbata da questa idea davvero straordinaria in quel secolo e che annunziava l'alto destino che gli era riservato. Si diceva: "Bisogna che l'Elena sappia chi sono". Ogni altro uomo dell'età sua e di quel secolo avrebbe pensato soltanto a godere del suo amore e a rapire Elena senza curarsi né di ciò che ella sarebbe divenuta dopo sei mesi né dell'opinione che la giovane si sarebbe fatta di lui.

Ritornato ad Albanoproprio nel pomeriggio che si pavoneggiava davanti a tutti nel bel vestito portato da Romaseppe dal vecchio Scottisuo amicoche Fabio era uscito a cavallo dalla città per recarsi in una terra che suo padre aveva comprato a tre leghe di làin riva al mare. Vide poi il signor di Campireali che in compagnia di due preti si avviava verso quel magnifico viale di lecci che incorona l'orlo del cratere nel cui fondo è il lago di Albano. Non erano passati dieci minuti che una vecchia s'introduceva arditamente nel palazzo Campireali col pretesto di vendere della bella frutta: la prima persona nella quale si imbatté fu la piccola camerista Mariettaconfidente intima di Elenache arrossì fino al bianco degli occhi nel ricevere un bel mazzo di fiori. C'era nascosta una lettera che non finiva più; Giulio raccontava tutto quello che aveva provato a partire dalla notte dei colpi d'archibugio; ma per uno strano senso di vergogna non osava confessare ciò di cui sarebbe stato orgoglioso ogni altro giovane di quel tempocioè ch'egli era figlio di un capitano famoso per le sue avventure e che anche lui si era distinto per il suo coraggio in più di un combattimento. Il fatto è che pensava sempre alle riflessioni che quei fatti avrebbero ispirato al vecchio Campireali. Bisogna sapere che nel secolo quindicesimo le giovinettepiù vicine al buon senso repubblicanostimavano molto di più un uomo per ciò che aveva fatto lui stesso che non per le ricchezze accumulate dai suoi padri o per le famigerate imprese di costoro. Ma questi erano soprattutto i sentimenti delle giovani popolane. Le ragazze appartenenti a famiglie ricche o nobili avevano paura dei briganti e avevano in molta stimacom'è naturalela nobiltà e la ricchezza. La lettera di Giulio terminava con queste parole: "Io non so se i vestiti decenti che ho portato da Roma vi hanno fatto dimenticare l'ingiuria crudele che una persona da voi rispettata mi ha fatto recentemente per via del mio miserevole aspetto; avrei potuto vendicarmianzi avrei dovutoché l'onore mio lo esigeva: non l'ho fatto pensando alle lacrime che la mia vendetta avrebbe fatto spargere agli occhi che adoro. Questo vi provise mai per mia sventura ancora ne dubitiateche si può esser poverissimo e avere nobili sentimenti. Devo del resto rivelarvi un segreto tremendo:

non proverei la minima pena nel dirlo a qualunque altra donna; ma tremonon so perchéal pensiero di dirlo a voi. L'amore che voi sentite per me potrebbe essere distrutto in un solo istante:

nessuna protesta da parte vostra potrebbe soddisfarmi. Voglio vedere nei vostri occhi quale effetto avrà questa confessione. Uno di questi giornial cadere della nottevi vedrò nel giardino che è dietro il vostro palazzo. In quel giorno Fabio e vostro padre saranno assenti: quando avrò acquistato la certezza che con tutto il loro disprezzo per un povero giovane mal vestito essi non potranno toglierci tre quarti d'ora o un'ora di conversazionesi vedrà sotto il vostro palazzo un uomo che mostrerà ai ragazzi del paese una volpe addomesticata. Più tardiquando suonerà l'"Ave Maria"sentirete in lontananza un colpo d'archibugio:

avvicinatevi allora al muro del giardino ese non siete solamettetevi a cantare. Se non si sentirà nullail vostro schiavo vi si getterà ai piedi tutto tremante e vi dirà cose che forse vi faranno fremere d'orrore. In attesa di quel giorno decisivo e tremendo per menon mi arrischierò più ad offrirvi dei mazzi di fiori a mezzanottema verso le due di notte passerò cantandoe chi sa che voinascosta nel gran balcone di pietranon lasciate cadere un fiore colto da voi stessa nel vostro giardino. Sarà forse l'ultimo segno d'affetto che voi darete allo sventurato Giulio".

Tre giorni dopo il padre e il fratello di Elena si recarono a cavallo in quel loro possedimento sulla riva del mare: dovevano ripartire prima del tramonto per essere di ritorno a casa verso le due di notte. Ma al momento di mettersi in cammino non soltanto i loro cavallima tutti quelli della fattoria erano scomparsi.

Molto meravigliati per un furto così audacesi misero in cerca dei cavalli; ma questi non furono ritrovati che il giorno dopo nella foresta d'alto fusto che si trova lungo il mare. I due Campirealipadre e figliofurono costretti a ritornare ad Albano con una vettura campestre trainata da buoi. Quella seraquando Giulio si gettò alle ginocchia di Elenanon ci si vedeva quasi piùe la povera fanciulla fu felice di quel buio: per la prima volta si trovava alla presenza dell'uomo che ella amava teneramenteche lo sapeva benissimoma a cui non aveva mai rivolto la parola.

S'accorse che Giulio era più pallido e tremante di leie questo le rese un po' di coraggio. Lo vedeva ai suoi ginocchi. - Davvero- egli disse- non ho la forza di parlare -. Fu certo un momento di beatitudine: si guardarono l'un l'altrama senza poter articolare una parolaimmobili come un patetico gruppo di marmo.

Giulioinginocchiatoteneva nelle sue una mano di Elenae questaa capo chinolo fissava attentamente.

Giulio sapeva bene quello che gli avevano detto certi suoi amici di Romagiovanotti libertini; che in momenti simili si deve tentare qualche cosa; ma ebbe orrore di quell'idea. Un'altra idea venne invece a destarlo da quello stato d'estasiche era forse la felicità più viva che l'amore possa daree l'idea era questa: il tempo vola via rapidamente; i Campireali si avvicinano al palazzo.

Si rese conto che con un'anima scrupolosa come la sua non avrebbe raggiunto una felicità duratura finché non avesse fatto alla sua amante quella tremenda confessione che i suoi amici di Roma avrebbero giudicato una solenne sciocchezza.

- Vi ho parlato d'una confessione che forse non dovrei farvi- disse ad Elena.

Diventò pallidissimo e riprese a faticacome se gli mancasse il respiro.

- Forse vedrò scomparire codesti sentimenti nella cui speranza è tutta la mia vita. Voi mi credete povero; ma questo non è tutto:

SONO BRIGANTE E FIGLIO DI BRIGANTE.

Elenafiglia d'un uomo ricco e che aveva tutte le paure della sua castaa queste parole si sentì mancare: le parve di cadere.

"Quale angoscia- pensava- ne avrebbe il povero Giulio! Si crederebbe disprezzato". Egli le stava inginocchiato dinanzi. Si appoggiò a lui per non cadere e poco dopo si abbandonò senza conoscenza tra le sue braccia.

Come si vedenel secolo sedicesimo le storie d'amore si raccontano con precisione. Il fatto è che l'ingegno non si esercitava su codeste storie per giudicarlema l'immaginazione le sentivae la passione del lettore s'identificava con quella dei personaggi. I due manoscritti che noi seguiamoe segnatamente quello che presenta alcuni giri di frase propri del parlar fiorentinonarrano fin nei minimi particolari la storia di tutti gli appuntamenti che tennero dietro a questo primo. Il pericolo annullava i rimorsi della fanciulla. Spesso i rischi furono estremi; ma quei due cuoriin cui era gioia ogni sensazione che venisse dal loro affettone traevano un ardore anche più grande.

Parecchie volte furono sul punto di essere sorpresi da Fabio e dal padre. Questi erano furibondicredendosi sfidati: sapevano dalla voce pubblica che Giulio era l'amante di Elena e tuttavia non potevano scoprire nulla. Fabiogiovane impetuoso e orgoglioso della propria nascitapropose al padre di far ammazzare Giulio.

- Fino a quando che rimarrà in questo mondo- gli diceva- la vita di mia sorella corre il più gran pericolo. Chi ci dice che uno di questi giorni il nostro amore non ci costringerà a bagnare le mani nel sangue di questa caparbia? E' arrivata a tal punto di audacia che non nega più il suo amore: voi stesso l'avete vista rispondere ai vostri rimproveri con un cupo silenzio: ebbenequel silenzio è la condanna a morte di Giulio Branciforte.

- Voi sapete chi è stato suo padre- rispondeva il signor di Campireali- certonon ci sarebbe difficile andare a passare sei mesi a Romae intanto questo Branciforte scomparirebbe. Ma chi ci dice che suo padreil quale fu coraggioso e generoso nonostante tutti i suoi delittigeneroso a tal segno da arricchire parecchi dei suoi soldati e rimanere poverochi ci dice che suo padre non abbia ancora amici sia nella compagnia di Monte Mariano sia nella compagnia Colonna che occupa spesso i boschi della Faiola a mezza lega da casa nostra? In tal caso siamo tutti ammazzativoiio e forse anche la vostra sventurata madre.

Questi discorsi del padre e del figlio rimanevano nascosti solo in parte a Vittoria Carafamadre di Elenae le davano una grande inquietudine. Il risultato delle discussioni tra Fabio e il padre fu la persuasione in tutti e due che era un disonore per loro il tollerare pacificamente la continuazione delle voci che correvano per Albano. Poiché non era prudente fare scomparire quel giovane Branciforte che si mostrava ogni giorno più insolente e che oramagnificamente vestitosi arrogava il diritto di rivolgere la parola in pubblico sia a Fabio sia allo stesso signor di Campirealibisognava risolversi a scegliere uno di questi due partiti o forse adottarli tutti e due: ritornare tutti a vivere a Roma e rimandare Elena nel convento della Visitazione a Castrodove sarebbe rimasta finché si fosse trovato da accasarla convenientemente.

Elena non aveva mai confessato il suo amore alla madre: madre e figlia si amavano teneramentepassavano insieme le loro giornateeppure non s'erano dette una sola parola su quell'argomento che stava a cuore a tutti e due quasi con la stessa intensità. La comune inquietudine si rivelò per la prima volta nei loro discorsi quando la madre informò la figliola che si parlava di andar tutti a stabilirsi a Roma e forse di rimandare lei per qualche anno al convento di Castro.

Da parte di Vittoria Carafa quella conversazione era un'imprudenza che si può scusare soltanto con la grande tenerezza che sentiva per la figliola. Elenapazza d'amorevolle provare all'amante che non si vergognava punto della sua povertà e che aveva una fiducia illimitata nel suo onore. "Chi lo crederebbe? - esclama lo scrittore fiorentino. - Dopo tanti convegninel giardino paterno euna volta o duepersino in cameraa rischio d'incorrere in una morte orrendaElena era pura!

Forte della propria virtùpropose all'amante di uscire verso mezzanotte dal palazzopassando dal giardinoe di trascorrere il resto della notte nella casupola costruita sulle rovine di Albavale a dire alla distanza di un quarto di lega e più. Si mascherarono da frati francescani. Elena aveva una statura slanciata e vestita a quel modo sembrava un novizio di diciotto o vent'anni. Ciò che non si crederebbee che attesta la presenza del dito di Dioè che nello stretto sentiero scavato nella roccia (quella ancora che si vede lungo il muro del convento dei Cappuccini) Giulio e la sua amante incontrarono il signor di Campireali e suo figlio Fabio mentre ritornavano da Castelgandolfoborgo situato sulle rive del lagoa poca distanza da Albanocon la scorta di quattro domestici bene armati e preceduti dal paggio che portava una torcia accesa.

Per lasciar passare i due amantii Campireali e i loro domestici si collocarono a destra e a sinistra di quel sentiero scavato nella roccia e che non è più largo di quattro piedi. Fortunata Elenase l'avessero riconosciuta in quel momento! Sarebbe stata uccisa da una pistolettata del padre o del fratello e il suo supplizio non sarebbe durato che un istante; ma il Cielo aveva decretato altrimenti (superis aliter visum)".

A proposito di questo memorando incontro va notata un'altra circostanza che la signora di Campirealigiunta all'estrema vecchiaia e quasi centenariaraccontava ancoratalvoltadinanzi a gravi personaggii qualimolto vecchi anche lorome l'hanno riferita quando la mia insaziabile curiosità li interrogò su quell'argomento e su molti altri.

Fabio di Campirealiche era un giovane orgoglioso del proprio coraggio e pieno di albagiaosservando che il più vecchio dei due frati non salutava né suo padre né luinel passare accanto esclamò:

- Guardate che frataccio superbo! Dio sa che cosa vanno a fare fuori dal conventolui e il suo compagnoa quest'ora indebita!

Non so chi mi trattiene dal tirar giù questi loro cappucci: così vedremmo che facce hanno.

A queste parole Giulio afferrò la daga che portava sotto la tonaca fratesca e s'interpose tra Fabio ed Elena. Tra lui e Fabio non c'era che un passo in quel momento; ma il Cielo dispose altrimenti e con un miracolo acquietò il furore di quei due giovaniche dovevano ben presto trovarsi di fronte.

Nel processo che fu intentato più tardi contro Elena di Campireali si pretese che quella passeggiata notturna era una prova di corruzione. Era bensì il desiderio di un giovane cuore infiammato da una folle passionema quel cuore era puro.

 

 

 

3.

 

Occorre sapere che gli Orsinieterni rivali dei Colonna e onnipotenti allora nei villaggi più vicini a Romaavevan fatto condannare a morte poco primadai tribunali del governoun ricco coltivatore chiamato Baldassarre Bandininativo della Petrella.

Sarebbe troppo lungo riferire le differenti azioni che venivano attribuite al Bandini: la maggior parte di esse oggi verrebbero qualificate delittima nel 1559 non potevano essere giudicate così severamente. Il Bandini era prigioniero in un castello di proprietà degli Orsinisituato in montagnadalle parti di Valmontonea sei leghe da Albano. Il bargello di Romacon una scorta di centocinquanta sbirripassò una notte sulla strada maestra per catturare il Bandini e condurlo a Roma nelle carceri di Tordinona. Il Bandinidopo la sentenza capitaleera ricorso in appello a Roma. Ma poichécome già abbiamo dettoera nativo della Petrella e questa fortezza appartiene ai Colonnasua moglie disse in pubblico a Fabrizio Colonna che si trovava alla Petrella:

- Lascerete giustiziare uno dei vostri fedeli servitori? - Il Colonna rispose:

- A Dio non piaccia che io manchi mai di rispetto alle sentenze emesse dai tribunali del Papa mio signore.

Immediatamente furono dati ordini ai suoi soldati e i suoi partigiani ricevettero avviso di tenersi pronti. L'appuntamento era nei dintorni di Valmontonecittaduzza costruita sul cocuzzolo di una roccia non molto altama a cui serve di baluardo un precipizio molto estesoa piccoalto tra i sessanta e gli ottanta piedi. I partigiani degli Orsini e gli sbirri del governo erano riusciti a trasportare il Bandini in questa città dipendente dal Papa. Tra i più zelanti partigiani dell'autorità c'erano il signor di Campireali e suo figlio Fabioi quali del resto erano imparentati con gli Orsini. Giulio Branciforte e suo padreinveceerano da lungo tempo fedeli ai Colonnacome già s'è detto.

Date le circostanzeai Colonna non conveniva agire apertamente e avevano perciò adottato una precauzione molto semplice. La maggior parte dei contadini romaniallora come oggifacevano parte di qualche confraternita di penitentii quali non si mostravano mai in pubblico se non col capo coperto da un cappuccio di tela che non lascia vedere la faccia e ha due buchi davanti agli occhi.

Quando i Colonna non volevano capeggiare apertamente un'impresainvitavano i loro partigiani a raggiungerli in cappa di penitenti.

Dopo lunghi preparativifu fissato per una domenica il trasferimento del Bandinidi cui si parlava in paese da quindici giorni. Fin dalle due del mattino il governatore di Valmontone aveva fatto suonare le campane a stormo in tutti i villaggi della foresta della Faiola. (I costumi repubblicani del Medioevoquando la gente si batteva per ottenere quel che le stava a cuoreavevano temprato l'animo di quei contadini che erano ancora molto valorosi: al giorno d'oggi nessuno muoverebbe un dito).

Quella domenica si poteva osservare qualcosa di molto strano: via via che il gruppetto di contadini uscito con le armi da ogni villaggio entrava nella forestaecco che diminuiva della metà: i partigiani dei Colonna si dirigevano verso il luogo dell'appuntamento fissato da Fabrizio. I loro capi sembravano convinti che non ci sarebbe stata battaglia: al mattino essi avevano ricevuto l'ordine di diffondere quella voce. Fabrizio percorreva la foresta coi suoi migliori partigianiai quali aveva dato dei giovani cavalli mezzo selvaggi del suo allevamento. Egli passava in rassegnaper così direle diverse bande di contadinima per non compromettersi non diceva loro una parola.

Fabrizio era un uomo alto e magroincredibilmente agile e forte:

benché avesse soltanto quarantacinque anniaveva bianchissimi i baffi e la barbae questo lo infastidiva moltoperché era un contrassegno che non gli permetteva di passare in incognito dove sarebbe stato opportuno. Man mano che i contadini lo vedevanosi mettevano a gridare: "Viva Colonna!"e infilavano i cappucci di tela. Il principe stesso portava appeso al petto il cappuccio in modo da metterselo in capo appena il nemico si fosse mostrato.

Il sole spuntava appena sull'orizzonte quando un migliaio di uomini più o menoappartenenti alla fazione degli Orsini e provenienti da Valmontoneentrarono nella foresta e passarono a circa trecento passi dai partigiani di Fabrizio Colonnaai quali egli aveva ordinato di coricarsi a terra bocconi. Pochi minuti dopo che l'avanguardia degli Orsini fu sfilatail principe diede ai suoi uomini l'ordine di marciare: aveva deciso di attaccare la scorta del Bandini un quarto d'ora dopo che fosse entrata nel bosco. In quel punto la foresta è tutta sparsa di piccole rocce alte quindici o venti piedi: sono delle colate di lava più o meno antiche su cui i castagni vengono su magnificamente e intercettano quasi del tutto la luce. Poiché quelle colatepiù o meno consumate dal temporendono il terreno molto inegualela strada maestra è stata scavata in alcuni punti nella lava stessaper evitare una quantità di inutili discese e salitee molto spesso il piano stradale è a tre o quattro piedi al di sotto di quello della foresta.

Vicino al luogo che Fabrizio aveva designato per l'attacco c'era una radura erbosa; attraversata in uno dei suoi lati dalla strada maestrarientrava poi nella foresta che in quel punto era piena di rovi e di cespugli fra i tronchi degli alberi e perciò del tutto impraticabile. Fabrizio aveva fatto schierare i suoi fanti a cento passi dalla forestadalle due parti della strada. A un segno dato dal principe ogni contadino infilò il cappuccio e si appostò con l'archibugio dietro un castagno: i soldati del principe si misero dietro agli alberi più vicini alla strada. I contadini avevano l'ordine di tirare solo dopo i soldati e questi non dovevano far fuoco che quando il nemico fosse a venti passi.

Fabrizio fece abbattere in fretta una ventina di alberiche precipitando con i loro rami sulla stradaabbastanza stretta in quel punto e sprofondata tre piedi al di sottola ostruirono in pieno. Il capitano Ranuccio seguì l'avanguardia con cinquecento uomini; aveva l'ordine di attaccarla solo quando avesse sentito i primi colpi d'archibugio tirati dagli alberi che erano stati abbattuti per ostruire la strada.

Quando Fabrizio Colonna vide i suoi soldati e i suoi partigiani appostati ciascuno dietro un alberoben risoluto ad agirepartì al galoppo coi suoi uomini a cavallo tra i quali si notava Giulio Branciforte. Il principe prese a destra della strada maestra un sentiero che lo conduceva al punto della radura più lontano dalla strada.

S'era allontanato soltanto di qualche minuto quando si vide venire da lontanoper la strada di Valmontoneuna numerosa schiera di uomini a cavallo; erano gli sbirri e il bargelloche scortavano il prigionieroe tutti i cavalieri degli Orsini. Baldassarre Bandini era in mezzo a lorocircondato da quattro carnefici vestiti di rosso: essi avevano l'ordine di eseguire la sentenza dei primi giudici e di giustiziare subito il Bandini se per avventura avessero visto i partigiani dei Colonna pronti a liberarlo.

La cavalleria di Fabrizio arrivava appena al lembo della radura o prateria più lontano dalla strada maestraquando si sentirono i primi colpi d'archibugio dell'imboscata ch'egli aveva preparato dietro la barriera d'alberi abbattuti. Mise subito al galoppo la sua cavalleria e si gettò con quella sui quattro carnefici vestiti di rosso che circondavano il Bandini.

Noi non seguiremo tutta la narrazione di quest'avventura che non durò più di tre quarti d'ora. I partigiani degli Orsinisorpresisi sbandarono; ma all'avanguardia fu ucciso il valoroso capitano Ranuccioe l'avvenimento ebbe una funesta influenza sul destino del Branciforte. Questi aveva appena dato qualche sciabolataavvicinandosi pian piano agli uomini vestiti di rossoquando si trovò di fronte a Fabio di Campireali.

Alto su un focoso cavallo e coperto d'un giaco dorato Fabio gridava:

- Chi sono quei miserabili mascherati? Togliamo loro la maschera con una sciabolata. Vedete come faccio io!

Quasi nello stesso istante Giulio Branciforte ebbe da lui una sciabolata orizzontale sulla fronte. Il colpo gli era stato vibrato con tanta destrezza che la tela da cui il viso era coperto cadde giù nello stesso tempo ch'egli sentiva gli occhi accecati dal sangue grondante dalla feritacomunque non grave. Giulio trasse indietro il proprio cavallo per avere il tempo di respirare e di asciugarsi il viso. A nessun conto egli voleva battersi col fratello di Elena. Il suo cavallo era già a quattro passi da Fabioquando ricevette in pieno petto una furiosa sciabolata che non lo ferì grazie al giacoma gli tolse per un momento il respiro. Quasi nello stesso tempo si sentì gridare all'orecchio:

- Ti conoscoporco! Canagliati conosco. Così tu guadagni il danaro per sostituire i tuoi cenci.

Giuliopunto dall'ingiuriadimenticò il suo primo proposito e affrontò di nuovo Fabio:

- Ed in mal punto tu venisti! - gridò.

Le rabbiose sciabolate che si scambiarono facevano cadere a brandelli le sopravvesti che ricoprivano le loro cotte di maglia.

Quella di Fabio era dorata e magnificaquella di Giulio semplicissima.

- In quale fogna hai raccattato il tuo "giaco"? - gli gridò Fabio.

In quel momento Giulio trovò l'occasione che da un mezzo minuto cercava: la splendida cotta di maglia di Fabio non era abbastanza stretta al colloe Giulio lo colpì lì di punta. La spada penetrò circa un mezzo piede nella gola di Fabio e fece zampillare un enorme sbocco di sangue.

- Insolente! - esclamò Giulio.

Poi galoppò verso gli uomini vestiti di rossodue dei quali erano ancora a cavalloa cento passi da lui. Mentre si avvicinava a loroil terzo cadde. Nel momento in cui Giulio arrivava vicino al quarto carneficequestivedendosi circondato da più di dieci cavalieriscaricò a bruciapelo una pistola sul viso della sventurato Baldassarre Bandiniche cadde a terra.

- Cari signoriqui non c'è più nulla da fare! - gridò il Branciforte. - Prendiamo a sciabolate la canaglia di sbirri che scappano da tutte le parti.

Tutti lo seguirono.

Circa mezz'ora più tardiGiulio ritornò presso Fabrizio Colonna che gli rivolse per la prima volta la parola. Mentre credeva di trovarlo esultante per la vittoria che era totale e dovuta soltanto ai provvedimenti da lui stesso presiGiulio vide che era furibondo; perché gli Orsini avevano circa tremila uomini e Fabrizio per quell'impresa non aveva potuto metterne insieme più di millecinquecento.

- Abbiamo perduto il vostro valoroso amico Ranuccio! - esclamò il principe rivolgendosi a Giulio.- E' già freddo: io stesso gli ho toccato or ora la fronte. Il povero Baldassarre Bandini è ferito a morte. Perciòin conclusionepossiamo dire che ci è andata male.

Ma l'ombra del valoroso capitano Ranuccio si presenterà a Plutone bene scortata. Ho dato ordine che tutta questa canaglia di prigionieri sia impiccata ai rami degli alberi. Badate bene a non disobbedirmisignori! - disse alzando la voce.

E ripartì al galoppo per raggiungere il luogo dove si era svolto il combattimento d'avanguardia. Giulio era più o meno il comandante in seconda della compagnia di Ranuccioe seguì il principe. Questiarrivato presso il cadavere di quel valoroso soldatoche era steso a terra tra cinquanta cadaveri nemiciscese da cavallo una seconda volta per prendere la mano di Ranuccio. Giulio l'imitò piangendo.

- Tu sei molto giovane- disse il principe a Giulio. - Ma vedo che sei coperto di sanguee tuo padre fu un uomo valoroso. Assumi il comando di quel che resta della compagnia di Ranuccioe fa trasportare il suo cadavere nella chiesa della Petrella. Bada che forse ti assaliranno per strada.

Giulio non fu assalitoma un colpo di spada uccise uno dei suoi soldati che gli rinfacciava d'esser troppo giovane per comandare.

Fu un'imprudenzama gli andò bene perché era ancora coperto del sangue di Fabio. Lungo tutta la strada trovava gli alberi carichi d'impiccati. Quest'orrendo spettacoloe il pensiero della morte di Ranuccio e soprattutto di Fabiogli toglievano quasi il senno.

L'unica sua speranza era che s'ignorasse il nome del vincitore di Fabio.

Tre giorni dopo il combattimentoGiulio poté ritornare per qualche ora ad Albano. Raccontò ai suoi conoscenti ch'era stato colto a Roma da una febbre violenta e che per tutta la settimana era dovuto restare a letto.

Ma dappertutto veniva trattato con visibile rispetto: le persone più ragguardevoli della città lo salutavano per primee qualche imprudente arrivò perfino a chiamarlo "signor capitano". Egli era passato più volte davanti al palazzo Campirealiche era interamente chiusoe poiché il nuovo capitano era molto timido quando si trattava di fare certe domandesoltanto verso la metà della giornata prese il coraggio a due mani per dire a un certo Scottiun vecchio che l'aveva trattato sempre con bontà:

- Dove sono i Campireali? Vedo che il palazzo è chiuso.

- Caro mio- gli rispose lo Scotti con un'improvvisa tristezza nella voce- non pronunciate mai più quel nome. I vostri amici son persuasi che è stato lui ad affrontarvie lo diranno dappertutto; mainsommaera il principale ostacolo al vostro matrimonio; lascia una sorella immensamente riccainnamorata di voi. Si può anche aggiungeree in questo momento l'indiscrezione diventa virtùche è innamorata al punto da venirvi a far visita di notte nella vostra casetta di Alba. Così si può direnel vostro interesseche voi eravate marito e moglie prima del fatale combattimento dei Ciampi (era il nome che si dava in paese al combattimento che abbiamo descritto).

Il vecchio s'interruppe perché s'accorse che Giulio era scoppiato a piangere.

- Saliamo all'albergo - disse Giulio.

Scotti lo seguì. Diedero loro una camera in cui si chiusero a chiavee Giulio domandò al vecchio il permesso di raccontargli quanto gli era accaduto in quegli otto giorni.

- Vedo bene dalle vostre lacrime- disse il vecchio quando fu terminato il racconto- che nella vostra condotta non c'è stata nessuna premeditazione. Ma la morte di Fabio resta comunque un avvenimento molto crudele per voi. Bisogna assolutamente che Elena dichiari a sua madre che da molto tempo voi siete il suo sposo.

Giulio non risposee il vecchio attribuì il silenzio ad un lodevole senso di discrezione. Assorto in una profonda fantasticheriaGiulio si domandava se Elenairritata per la morte del fratelloavrebbe reso giustizia alla sua delicatezza; e si pentì di quanto un tempo era accaduto. Il vecchiointerrogatogli raccontò sinceramente tutto quello che era avvenuto in Albano il giorno del combattimento. Fabio era stato ucciso alle sei e mezzo del mattino a più di sei leghe da Albanoe fin dalle nove - cosa incredibile! - si era incominciato a parlare della sua morte.

Verso mezzogiorno era stato visto il vecchio Campirealitutto in lacrime e sorretto dai suoi domesticisalire al convento dei Cappuccini. Poco dopotre di quei buoni padriinforcati i migliori cavalli dei Campirealis'erano diretti con una numerosa schiera di domestici verso il villaggio dei Ciampi dove s'era svolto il combattimento. Il vecchio Campireali voleva assolutamente seguirli: ma ne era stato dissuasocon la ragione che Fabrizio Colonna era furioso (non si sapeva troppo bene perché) e avrebbe potuto fargli un brutto tiro se lo avesse fatto prigioniero.

La seraverso mezzanottela foresta della Faiola sembrava in fiamme: erano tutti i frati e tutti i poveri che andavano incontro al corpo del giovane Fabio ciascuno con un grosso cero acceso.

- Voi sapete- continuò il vecchio abbassando la voce come se temesse d'essere udito- che la strada di Valmontone e dei Ciampi...

- Ebbene? - lo interruppe Giulio.

- Ebbenequella strada passa davanti a casa vostrae si dice che quando il cadavere di Fabio è arrivato lì il sangue ha zampillato da un'orrenda ferita che egli aveva al collo.

- Che orrore! - esclamò Giulio levandosi in piedi.

- Calmatevi figlio mio- disse il vecchio: - bisogna bene che sappiate tutto. E ora posso dirvi che la vostra presenza quioggiè sembrata un po' prematura. Se mi fate l'onore di consultarmicapitanoaggiungerei che non è conveniente che prima di un mese vi lasciate vedere in Albano. E non ho bisogno di avvertirvi che neppure a Roma sarebbe prudente mostrarvi. Non si sa ancora in qual modo il Santo Padre si comporterà coi Colonna.

Si crede che egli presterà fede alla dichiarazione di Fabrizioil quale pretende di aver saputo del combattimento dei Ciampi soltanto dalla voce pubblica. Ma il governatore di Romache è tutto degli Orsiniè furibondo e sarebbe felice se potesse far impiccare qualcuno dei bravi soldati di Fabriziocosa contro cui questi non potrebbe ragionevolmente protestare dal momento che giura di non aver assistito alla battaglia. Dirò di piùe anzi mi permetterò di darvi un consiglio militarebenché voi non me lo chiediate: in Albano vi vogliono benealtrimenti non ci vivreste così sicuro. Pensate che da parecchie ore andate in giro per la cittàche qualcuno della famiglia Orsini può credersi sfidato da codesto modo di fare o almeno vagheggiare una bella ricompensa da ottenere a buon mercato. Il vecchio Campireali ha ripetuto mille volte d'esser pronto a dare la più bella terra a chi vi uccida.

Avreste fatto bene a far venir in Albano qualcuno di quei soldati che tenete in casa...

- Non ho nessun soldato in casa.

- Se è cosìcapitanovoi siete pazzo. Questo albergo ha un giardinonoi usciremo per di là e sgaiattoleremo attraverso le vigne. Io vi accompagnerò: son vecchio e non ho armi; mase incontreremo qualche male intenzionatoio gli parlerò e voi almeno potrete guadagnare tempo.

Giulio si sentiva straziare il cuore. Oseremo dire a qual grado di follia egli era arrivato? Non appena aveva saputo che il palazzo Campireali era chiuso e che tutti gli abitanti erano partiti per Romaaveva avuto l'idea di andare a rivedere quel giardino dove così spesso era stato a colloquio con Elena. Sperava perfino di rivedere la camera di leidove così spesso era stato ricevuto durante l'assenza della madre. Sentiva il bisogno di premunirsi contro la propria collera rivedendo quei luoghi che gli ricordavano il tenero amore della fanciulla.

Al Branciforte e al generoso vecchio non capitò alcun brutto incontro nel seguire i viottoli che attraversano le vigne e salgono verso il lago.

Giulio si fece raccontare di nuovo i particolari delle esequie di Fabio. La salma di quel valoroso giovanescortata da molti pretiera stata trasportata a Roma e sepolta nella cappella gentiliziache è nella chiesa di Sant'Onofrio al Gianicolo. Era stato osservato che alla vigilia della cerimonia il padre aveva ricondotto Elena al convento della Visitazione di Castroe questo aveva confermato la diceria pubblica secondo cui ella aveva sposato segretamente il soldato di ventura che aveva avuto la disgrazia di ucciderle il fratello.

Quando fu arrivato a casa suaGiulio trovò il caporale della propria compagnia insieme con quattro soldatii quali gli dissero che il loro antico capitano non sarebbe mai uscito dalla foresta senza avere con sé alcuni dei suoi uomini. Il principe aveva detto che chi volesse farsi uccidere per imprudenza poteva farlo benissimoma prima doveva presentare le proprie dimissioni per non lasciargli sulle spalle un morto da vendicare. Giulio Branciforte riconobbe giuste queste ideeche prima gli erano del tutto estranee. Come i popoli ancora primitiviegli aveva creduto che la guerra consista nel battersi con coraggio. Obbedì subito ai suggerimenti del principe ed ebbe appena il tempo di abbracciare quel vecchio avveduto e generoso che l'aveva accompagnato fino a casa.

Pochi giorni dopopreso da un accesso di malinconiaGiulio volle rivedere ancora il palazzo Campireali. Con tre dei suoi soldatitravestiti come lui da mercanti napoletanipenetrò in Albano al cadere della notte. Presentatosi da solo in casa di quel tale Scottiseppe che Elena era sempre relegata nel convento di Castro e che il padrecredendola maritata con colui che chiamava l'assassino di suo figlioaveva giurato di non rivederla più. Non le aveva rivolto lo sguardo neppure nel ricondurla in convento. La tenerezza della madre pareva invece raddoppiatae spesso ella lasciava Roma per andare a passare uno o due giorni con la figliola.

 

 

 

4.

 

"Se non mi giustifico con Elena- si disse Giulio raggiungendo di notte il quartiere occupato nella foresta dalla sua compagnia- finirà col credermi un assassino. Dio sa quali storie le avranno raccontato intorno a quel fatale combattimento!".

Andò alla rocca della Petrella a prendere gli ordini del principe e gli domandò il permesso di andare a Castro. Fabrizio Colonna corrugò le sopracciglia:

- La faccenda di quel fatto d'armi non è ancora accomodata con Sua Santità. Voi dovete sapere che ho dichiarato quel che è verovale a dire che io son rimasto del tutto estraneo a quello scontrodi cui non ho avuto notizia che il giorno dopoqui nel mio castello della Petrella. Tutto mi fa credere che Sua Santità finirà col prestare fede alla verità di questa relazione. Ma gli Orsini sono potenti e tutti dicono che voi vi siete distinto in quella baruffa. Gli Orsini dicono persino che alcuni prigionieri sono stati impiccati ai rami degli alberi. Voi sapete quanto queste dicerie son false. Tuttavia c'è da temere rappresaglie.

Il profondo stupore che brillava nello sguardo ingenuo del giovane capitano mise di buon umore il principeil quale nondimenodinnanzi a tanta innocenzagiudicò che conveniva parlargli più chiaro.

- Ritrovo in voi- disse seguitando- quel valore che ha reso noto in tutta Italia il nome Branciforte. Spero che avrete per la mia casa quella fedeltà per cui vostro padre mi era così caro e che io ho voluto ricompensare in voi. Ecco la parola d'ordine della mia compagnia: Non dir mai la verità per quel che si riferisce a me o ai miei soldati. Se nel momento in cui vi si costringe a parlare non vedete l'utilità di alcuna menzognamentite a casoe guardatevi dal dire la minima veritàcome se si trattasse di peccato mortale. Voi comprendete che una vostra ammissioneriscontrata con altre notiziemetterebbe sulle tracce dei miei progetti. Sodel restoche voi avete una passioncella nel convento della Visitazione a Castro. Andate pure a passare una quindicina di giorni in quella cittaduzzadove gli Orsini hanno amici e anche agenti. Passate dal mio maggiordomo che vi consegnerà duecento zecchini. L'affetto che avevo per vostro padre- aggiunse il principe ridendo- m'induce a darvi qualche direttiva sul modo di condurre a termine in modo soddisfacente codesta impresa amorosa e militare. Voi e tre dei vostri soldati vi travestirete da mercanti. Fingerete di arrabbiarvi con uno dei vostri compagni che si mostrerà sempre ubriaco e si procurerà molti amici pagando da bere a tutti gli sfaccendati di Castro. Ma- aggiunse il principe con un altro tono di voce- se gli Orsini vi catturano e vi condannano a mortenon confessate mai il mio nome e tanto meno che dipendete da me. Non ho bisogno di raccomandarvi una cosa: quando arrivate in quel borgofatene prima il giro tutt'intorno e poi entrate per la porta opposta alla strada da cui siete venuto.

Giulio fu commosso da questi consigli paterni che gli venivano da un gentiluomo abitualmente così grave. Il principe dapprima sorrise vedendo che il giovane aveva le lacrime agli occhi; poi si commosse anche lui e la voce gli si alterò. Si sfilò uno dei molti anelli che portava alle dita; e Giulionel riceverlobaciò quella mano celebre per tante imprese.

- Neppure mio padre mi avrebbe parlato così- esclamò entusiasmato.

Due giorni dopopoco prima dell'albaentrava nella cittadina di Castro. Cinque soldati lo seguivanotravestiti come lui. Due di essi andavano per conto proprioe pareva che non conoscessero né lui né gli altri tre. Già prima di entrare nella città Giulio aveva scorto il convento della Visitazionevasto edificio chiuso da nere mura che pareva quasi una fortezza. Entrò subito nella chiesa: era splendida. Le religiosetutte nobili e quasi tutte di ricca famigliagareggiavano nell'arricchire la chiesache era la sola parte del convento visibile al pubblico. Era uso che la religiosa nominata badessa dal Papasu una terna presentata dal cardinale protettore dell'Ordine della Visitazionefacesse un'offerta ragguardevole per rendere immortale il proprio nome. La badessa la cui offerta era inferiore a quella della badessa che l'aveva preceduta era disprezzata com'era disprezzata la sua famiglia.

Giulio s'inoltrò in quella magnifica navatatutta risplendente di marmi e di dorature. Ma né all'oro né al marmo faceva attenzione:

gli pareva d'essere sotto gli occhi di Elena. L'altare maggiorecome gli disseroera costato più di ottocentomila lire ma il suo sguardosenza curarsi delle ricchezze di quell'altaresi dirigeva verso una cancellata dorataalta quasi quaranta piedi e divisa in tre parti da due pilastri di marmo. Questa cancellatache per la sua enorme grandezza sembrava qualcosa di terribileera situata dietro l'altare maggiore e separava il coro delle monache dalla chiesa aperta a tutti i fedeli.

Giulio pensava che dietro quella cancellata dorata dovevano stare durante le funzioni le monache e le educande. Làsi potevano recare anche da solein qualsiasi ora del giornole monache o le educande che avessero bisogno di pregare. Su questa circostanzanota a tuttisi fondavano le speranze del povero innamorato. E' vero che un immenso velo nero era calato dalla parte interna della cancellata. "Ma quel velo- pensava Giulio- non deve impedire troppo alle educande di guardare dalla parte della chiesa aperta al pubblicodal momento che iopur non potendo avvicinarmi che fino a un certo puntovedo benissimo attraverso il velo le finestre da cui il coro prende luce e posso distinguere i minimi particolari architettonici".

Ogni sbarra di quella cancellata magnificamente dorata era munita di una punta diretta contro quelli che si avvicinassero troppo.

Giulio scelse un posto bene in vista di faccia al lato sinistro della cancellatadove c'era più luce; e là passava le sue giornate a sentire una messa dopo l'altra. Attorniato com'era di soli contadinisperava d'essere notato anche attraverso il velo nero che scendeva sulla parte interna della cancellata. Per la prima volta nella sua vita quel giovane così semplice cercava di richiamare su di sé l'attenzione dei presenti: s'era vestito con ricercatezzafaceva abbondanti elemosine entrando e uscendo dalla chiesa. Così lui come i suoi uomini facevano molte cortesie a tutti gli operai e ai fornitori che avevano qualche relazione col convento. Il terzo giorno soltanto poté avere qualche speranza di far pervenire una lettera a Elena. Aveva dato ordine che si pedinassero attentamente le due suore converse incaricate di comperare una parte delle provvigioni del conventoe così seppe che una di loro aveva una relazione con un modesto mercante. Uno dei soldati di Giulioche era stato fratefece amicizia con costui e gli promise uno zecchino per ogni lettera consegnata all'educanda Elena di Campireali.

- Come? - disse il mercante alla prima proposta che gli fu fatta.

- Una lettera alla MOGLIE DEL BRIGANTE!

Erano passati appena quindici giorni da che Elena era a Castro e già la si chiamava in quel modotanto in quella popolazione appassionata per i particolari esatti si diffondono i racconti che parlano all'immaginazione.

Il mercante aggiunse:

- Almeno questa qui è maritata! Ma quante di quelle signore non hanno questa scusa e ricevono dal di fuori altro che lettere!

In quella prima lettera Giulio raccontava coi più minuziosi particolari quanto era accaduto nel giorno fatale della morte di Fabioe nel chiudere domandava: "Mi odiate?".

Elena risposecon un solo rigoche non odiava nessunoma quanto le restava di vita l'avrebbe passato a cercare di dimenticare chi aveva ucciso suo fratello.

Giulio si affrettò a rispondere: dopo qualche invettiva contro il destinosecondo il platonismo allora di moda: "Vuoi dunque- continuava- dimenticare la parola di Dio trasmessaci dalle Sacre Scritture? Dice Dio: la donna lascerà la famiglia e i genitori per seguire lo sposo. Avresti il coraggio di negare che tu sei mia moglie? Ricordati la notte di San Pietro. L'alba spuntava dietro Monte Cavo e tu ti gettasti in ginocchio davanti a me: volli usarti misericordia: tu eri miase io avessi volutoperchè non avevi la forza di resistere all'amore che sentivi per me.

Improvvisamente mi venne quest'idea: poiché io t'avevo detto parecchie volte che da un pezzo ti avevo sacrificato la mia vita e tutto quello che avevo di più caro al mondotu mi potevi rispondere che tutti quei sacrifici non convalidati da alcun atto esterno potevano essere anche immaginari. Ed ecco che un'altra idea m'illuminòcrudele per mema in fondo giusta. Pensai che non a caso io avevo la possibilità di sacrificare al tuo interesse la più grande felicità che mai mi fosse dato sperare. Tu eri già tra le mie bracciae senza difesaricordati: la tua bocca stessa non osava rifiutare. In quel momento al convento di Monte Cavo suonò l'"Ave Maria" del mattino e quel suonoper un caso miracolosoarrivò fino a noi. Tu mi dicesti: "Fa' questo sacrificio alla Madonna Santissimamadre di ogni purità". Già da un istante io avevo l'idea di quel sacrificio supremoil solo reale sacrificio che io avessi avuto mai l'occasione di farti. Mi parve singolare che la stessa idea fosse venuta anche a te. Il suono lontano di quell'"Ave Maria" mi commossedevo confessarloe ti accordai quel che chiedevi. Il sacrificio non fu tutto per te: pensai di mettere la nostra futura unione sotto il segno della Madonna. Allora pensavo che gli ostacoli non sarebbero venuti da teperfidama dalla tua nobile e ricca famiglia. Se non ci fosse stato un intervento soprannaturalecome mai quell'"Ave Maria" sarebbe potuta arrivare a noi da tanto lontanoattraverso le cime degli alberi d'una buona metà della forestaagitate in quel momento dal vento del mattino? Ti ricordi? T'inginocchiastie io mi levai in piedimi trassi dal petto la croce che portoe tu giurasti su questa croceche è qui davanti a mee sulla tua dannazione eternache in qualunque luogo ti fossi mai trovataqualunque cosa ti fosse mai accadutaappena io te ne dessi l'ordinetu ti saresti messa interamente a mia disposizionecom'eri in quel momento che l'"Ave Maria" di Monte Cavo ti giunse all'orecchio da tanto lontano. Dicemmo poi devotamente due "Ave" e due "Pater". Ebbene! per l'amore che allora tu sentivi per mee secome temotu te ne sei scordataper la tua dannazione eternaio ti ordino di farmi entrare questa notte nella tua camera o nel giardino del convento".

L'autore italiano riferisce curiosamente molte delle lettere scritte da Giulio Branciforte dopo questa prima; ma dà solo qualche tratto delle risposte di Elena di Campireali. Dopo duecentosettantott'anni i sentimenti d'amore e di religione di cui son piene quelle lettere sono così remoti da noi che ho temutoriproducendoled'essere prolisso.

Dalle lettere sembra che Elena obbedì all'ordine contenuto in quella che abbiamo tradotto abbreviandola. Giulio trovò il modo d'introdursi nel convento: si può argomentare che per farlo si sia travestito da donna. Elena lo ricevettema soltanto mostrandosi all'inferriata di una finestra del pian terreno che guardava sul giardino. Con dolore inesprimibile Giulio vide bene che la fanciullaun tempo così tenera e appassionataera divenuta come un'estranea: lo trattò quasi "con cortesia". Facendolo entrare in giardino aveva ceduto quasi unicamente alla religione del giuramento. Il colloquio fu breve: dopo qualche minutol'orgoglio di Giulioforse un poco eccitato dagli avvenimenti degli ultimi quindici giorniriuscì a vincere il suo profondo dolore.

"Io mi vedo davanti- disse a se stesso- nient'altro che la tomba di quell'Elena che in Albano sembrava mi si fosse data per tutta la vita".

Giulio nascose le lacrime che gli inondavano il viso. Quando Elena ebbe finito di giustificare il mutamento così naturalediceva leidopo la morte d'un fratelloGiulio le disseparlando molto lentamente:

- Voi non rispettate il giuramentonon mi ricevete in un giardinonon siete inginocchiata davanti a me com'eravate dopo mezzo minuto che avevamo sentito l'"Ave Maria" di Monte Cavo.

Dimenticate il vostro giuramentose potete. Quanto a menon dimentico nulla: che Dio vi assista!

Nel dire queste parole baciò l'inferriata presso cui sarebbe potuto restare quasi un'ora. Un istante prima chi avrebbe detto che abbreviasse di sua propria volontà quel colloquio tanto desiderato? Il sacrificio gli spezzò il cuore; ma pensava che avrebbe ben meritato il disprezzo di Elena se avesse risposto alle sue "cortesie" altrimenti che lasciandola in preda ai rimorsi.

Uscì dal convento prima dell'albae subito montò a cavallo ordinando ai suoi soldati di aspettarlo a Castro tutta una settimana e poi di rientrare nella foresta. Era pazzo di disperazione. Si diresse verso Roma.

"Come? - si diceva ad ogni passo- mi allontano da lei? Siamo diventati così estranei l'uno per l'altra? O Fabio! sei ben vendicato!".

La vista degli uomini che incontrava per strada lo inaspriva sempre più. Lanciò il cavallo attraverso i campi e diresse la sua corsa verso la regione incolta e deserta che si stende lungo il mare. Quando s'accorse che non incontrava più quei pacifici contadini di cui invidiava la sorterespirò: lo spettacolo di quel luogo selvaggio s'accordava con la sua disperazione e gli leniva la collera. Allora soltanto poté abbandonarsi alla contemplazione del suo triste destino.

"Alla mia età- si disse- ho un impegno: innamorarmi di un'altra donna!".

A questo triste pensierola sua disperazione raddoppiò: vide troppo bene che per lui non c'era che una donna sola al mondo.

S'immaginava il supplizio che avrebbe provato se avesse avuto il coraggio di rivolgere una parola d'amore a un'altra che non fosse Elena: una simile idea gli straziava il cuore.

Fu preso da un accesso di riso amaro.

"Eccomi qua- pensò- proprio come quegli eroi dell'Ariosto che viaggiano soli in paesi deserti quando devono dimenticare d'aver trovato la loro perfida donna tra le braccia d'un altro cavaliere... Ma lei non è così colpevole: - disse scoppiando in un pianto dopo quel folle accesso di riso- la sua infedeltà non arriva ad amare un altro. Quell'anima vivace e pura si è lasciata fuorviare dalle cose atroci che le hanno raccontato di me. Le hanno detto senza dubbio che mi sono armato per quella fatale spedizione senz'altro motivo che la segreta speranza di uccidere suo fratello se l'occasione mi si fosse presentata. I malevoli avranno fatto di più: mi avranno attribuito questo sconcio calcolo: cheuna volta morto suo fratellolei sarebbe divenuta la sola erede di un immenso patrimonio... E io sono stato così sciocco da lasciarla per quindici giorni in preda alle seduzioni dei miei nemici! Davvero io sono molto disgraziatoma il Cielo mi ha anche negato quel senso con cui ci si regola nella vita. Sono un grande infeliceun essere molto spregevole! La mia vita non serve né a ma né agli altri".

In quel momento il giovane Branciforte ebbe un'ispirazione ben poco comune in quel secolo: il suo cavallo andava lungo l'orlo della spiaggia e le onde di tanto in tanto gli bagnavano le zampe:

gli venne l'idea di spingerlo nel mare e di mettere fine alla sua misera vita. Che cosa avrebbe potuto fare mai ora ch'era stato abbandonato dal solo essere che gli avesse fatto sentire l'esistenza della felicità? Ma un'altra idea improvvisamente lo trattenne.

"Che cosa sono mai le pene che soffro- si disse- a paragone di quelle che soffrirò tra un momentose porrò fine a questa vita infelice? Elena non soltanto non sentirà nulla per me come orama la vedrò nelle braccia d'un rivalee questo rivale sarà qualche giovane romanoricco e "stimato": perché i diavolisecondo il loro compitocercheranno le immagini più crudeli per torturarmi l'anima. Cosìneppure nella morte potrò scordarmi di Elena: anzila mia passione per lei raddoppieràperché sarà il mezzo più sicuro a cui l'eterna potenza potrà ricorrere per punirmi del mio orrendo peccato".

Per finire di scacciare la tentazione Giulio si mise a recitare devotamente delle avemmarie. Al suono dell'"Ave Maria" del mattinopreghiera dedicata alla Madonnaegli era stato un giorno sedotto e trascinato ad un'azione generosa che riteneva ora il più grande errore della sua vita. Per un senso di rispetto non osava andare più in là ad esprimere interamente l'idea che lo assillava.

"Se per un'ispirazione della Madonna ho commesso un errore fatalenon deve ellacon un atto della sua infinita giustiziafar nascere qualche circostanza che mi renda la felicità?".

L'idea della giustizia della Madonna fece dileguare a poco a poco la sua disperazione. Levò il capo e si vide di rimpettooltre Albano e la forestaMonte Cavo rivestito della sua cupa verdura e quel santo convento la cui "Ave Maria" mattutina l'aveva indotto a quel che ora egli chiamava un inganno infame. L'aspetto imprevisto di quel santo luogo lo consolò.

"No- esclamò- non è possibile che la Madonna mi abbandoni. Se Elena fosse stata mia mogliecome il suo amore permetteva e come voleva la mia dignità d'uomoil racconto della morte di suo fratello avrebbe trovato nel suo cuore il ricordo del vincolo che la legava a me. Si sarebbe detta che era mia molto tempo prima del caso fatale per cui mi sono trovato su un campo di battaglia faccia a faccia con Fabio. Egli aveva due anni più di meaveva pratica delle armiera più ardito in ogni sensopiù forte. Mille ragioni avrebbero provato a mia moglie che io non avevo mai provato il minimo sentimento di odio per suo fratelloanche quando egli mi tirò un colpo d'archibugio. Mi ricordo che al nostro primo appuntamentodopo il mio ritorno da Romaio le dicevo: che vuoi? L'onore esigeva così: non posso biasimare un fratello!".

Ritornatagli la speranza grazie alla sua devozione per la MadonnaGiulio spronò il cavallo e in poche ore giunse al luogo dov'era acquartierata la sua compagnia. La trovò che si stava armando: per Monte Cassino dovevano raggiungere la via che va da Napoli a Roma.

Il giovane capitano cambiò cavallo e si mise in marcia coi suoi soldati. Quel giorno non ci fu combattimento. Giulio non si domandòché non gliene importavaquale fosse lo scopo della marcia. Nel momento in cui si vide alla testa dei suoi soldati il suo destino gli apparve sotto un altro aspetto:

"Sono un vero sciocco- si disse- ho fatto male a lasciar Castro. Elena forse è meno colpevole di quel che l'ira me l'abbia fatta vedere. Noquell'anima così ingenua e purain cui ho visto nascere i primi moti d'amoreè sempre mia! Non mi ha proposto più di dieci volte di fuggire con me e di andare a far benedire le nostre nozze da un frate di Monte Cavo? A Castroprima di ogni altra cosaavrei dovuto ottenere un secondo appuntamento e ragionare bene con lei. Davvero la passione mi rende sventato come un ragazzo! Dio! avessi un amico a cui raccomandarmi per un buon consiglio! Un passo che mi propongo di fare come opportunissimodue minuti dopo mi sembra pessimo!".

A seraquando si stava per lasciare la strada maestra ed entrar nella forestaGiulio si avvicinò al principe e gli domandò se poteva restare ancora per qualche giorno in quel luogo che sapeva.

- Vattene al diavolo! - gli gridò Fabrizio. - Credi che proprio in questo momento io possa pensare alle tue fanciullaggini?

Un'ora dopo Giulio ripartì per Castro; lì ritrovò i suoi uominima non sapeva come fare per scrivere a Elena dopo il modo brusco con cui l'aveva lasciata. La sua prima lettera non conteneva che queste parole: "Mi si vorrà ricevere questa notte?".

La risposta fu di tre parole: "Si può venire".

Dopo la partenza di GiulioElena s'era creduta abbandonata per sempre. Allora aveva misurato tutte le conseguenze del ragionamento di quello sventurato giovane: gli era moglie prima ch'egli avesse avuto la disgrazia di incontrare suo fratello sul campo di battaglia.

Questa volta Giulio non fu accolto con quei modi cortesi che gli erano sembrati così crudeli durante il primo colloquio. Elena si mostrò anche questa volta dietro l'inferriata; ma era tutta tremantee poiché Giulio parlava in tono molto riservato e le sue frasi erano simili a quelle che avrebbe usato parlando con un'estranea. Toccò ora ad Elena sentire quanto c'è di crudele nel tono quasi ufficiale che succede alla più dolce intimità. Giulioche temeva soprattutto d'avere il cuore straziato da qualche parola fredda che Elena si fosse lasciata sfuggireaveva preso il tono d'un avvocato per provare che Elena era sua moglie molto prima del funesto combattimento dei Ciampi. Elena lo lasciò parlare perché temeva d'essere sorpresa dal pianto se gli avesse risposto altrimenti che con poche parole. Finalmenteaccorgendosi che stava per tradirsipregò il suo amico di tornare il giorno dopo. Si era alla vigilia di una gran festae il mattutino doveva esser cantato di buon'ora: potevano essere scoperti. Giulioche ragionava come un innamoratouscì dal giardino profondamente pensieroso: non sapeva diree se ne crucciavase era stato ricevuto bene o male; e poiché le idee militariche gli erano state ispirate dalle conversazioni coi suoi cameratiincominciavano a germogliare nella sua testasi disse:

"Una volta o l'altrabisognerà arrivare al punto di rapire Elena".

Poi si mise ad esaminare i mezzi con cui penetrare d'assalto nel giardino. Poiché il convento era molto ricco e si prestava ad essere oggetto di ricattoera custodito da una gran quantità di domesticiquasi tutti vecchi soldati. Questi abitavano in una sorta di caserma le cui inferriate si affacciavano sullo stretto andito che portava dalla porta esterna del conventoaperta in un muro alto più di ottanta piedialla porta interna custodita dalla suora guardiana. La facciata del conventosulla piazzaconsisteva in un muro annerito dal tempo e non aveva altra apertura che la porta esterna e un finestrino attraverso il quale i soldati potevano vedere quel che accadeva fuori. Si può immaginare quale aspetto cupo doveva avere quel gran muro con quell'unica porta sulla quale dei chiodi enormi tenevano fisseper rinforzarladelle larghe piastre di lattae con quell'unico finestrino di quattro piedi d'altezza su diciotto pollici di larghezza.

Noi non seguiremo l'autore del manoscritto nel lungo racconto dei successivi colloqui che Giulio ottenne da Elena. I due amantiritrovandosierano tornati ad un tono d'intimità perfettacome un tempo nel giardino di Albano: Elena però non aveva mai voluto acconsentire a discendere in giardino. Una notte Giulio la trovò profondamente pensierosa: sua madre era venuta da Roma per vederla e per qualche giorno aveva preso dimora nel convento. Quella madre era così affettuosa e aveva avuto sempre delle attenzioni così delicate per i sentimenti che supponeva della figliolache questa provava un profondo rimorso a doverla ingannare: insommacome avere il coraggio di rivelarle che riceveva l'uccisore di suo figlio? Elena finì col confessare chiaramente a Giulio che se quella madre così buona con lei l'interrogava in un certo modonon avrebbe avuto la forza di mentirle. Giulio comprese tutto il pericolo della situazione: la sua sorte dipendeva dal casoche poteva suggerire una parola alla signora di Campireali. La notte dopo egli parlò con aria risoluta in questo modo:

- Domani verrò più presto e staccherò una delle sbarre di quest'inferriata: voi scenderete in giardino ed io vi condurrò in una chiesa della città dove un prete di cui mi posso fidare ci unirà in matrimonio. Prima di giorno sarete di nuovo in questo giardino. Una volta che sarete mia moglieio non temerò più nullae obbedirei a vostra madre in tuttoanche se esigesse che io passassi parecchi mesi senza vedervi in espiazione dell'orrenda sventura che tutti e due deploriamo.

E poiché Elena sembrava costernata a questa propostaGiulio aggiunse:

- Il principe mi richiama presso di sé: l'onore e tante altre ragioni mi costringono a partire. La proposta che vi ho fatto è la sola che possa assicurare il nostro avvenire: se non volete consentireè meglio che ci separiamo per semprequisul momento. Partirò col rimorso della mia imprudenza. HO CREDUTO ALLA VOSTRA PAROLA D'AMOREvoi mancate al giuramento più sacroed io spero che a lungo andare il giusto disprezzo che la vostra leggerezza m'ispirerà potrà guarirmi da quest'amore che da troppo tempo forma l'infelicità della mia vita.

Elena scoppiò in un pianto:

- Gran Dio! - esclamò tra le lacrime. - Quale orrore per mia madre!

Poi acconsentì alla proposta che le era stata fatta.

- Ma- aggiunse- potrebbero scoprirci nell'andare o nel ritornare: pensate allo scandalo che avverrebbepensate all'orribile situazione in cui verrebbe a trovarsi mia madre:

aspettiamo la sua partenza che sarà tra qualche giorno.

- Siete arrivata a farmi dubitare della cosa per me più sacrosanta: la fede nella vostra parola. Domani noi saremo marito e moglie o altrimenti è questa l'ultima volta che ci vediamo su questa terra.

La povera Elena non poté rispondere che piangendo: il cuore le si spezzava soprattutto sentendo il tono risoluto e crudele con cui Giulio le parlava. Aveva davvero meritato il suo disprezzo? Era così cambiato l'amante un tempo così docile e affettuoso?

Finalmente acconsentì a quel che le era stato ordinato. Giulio s'allontanò. Da quel momento Elena aspettò la notte nelle alternative dell'ansietà più straziante. Se si fosse dovuta preparare a una morte certail suo dolore sarebbe stato meno angoscioso: avrebbe potuto trovare un certo coraggio nell'idea dell'amore di Giulio e nel tenero affetto di sua madre. Il resto di quella notte passò in un continuo doloroso volere e disvolere.

In certi momenti avrebbe voluto dir tutto alla madre. Il giorno dopo questa la trovò così pallida che dimenticò tutti i sui savi proponimenti e si gettò nelle braccia della figliola esclamando:

- Che cosa accade? Gran Dio! Dimmi che cosa hai fatto o che cosa stai per fare! Se tu pigliassi un pugnale e me lo cacciassi in cuoremi faresti soffrire meno che continuando in codesto silenzio.

L'estremo affetto della madre era così evidente agli occhi di Elenavedeva così chiaramente che cercava di moderare l'espressione dei suoi sentimenti anziché esagerarlache alla fine si sentì vinta dalla commozione e le cadde ai piedi. E poiché la madrecercando d'indovinare il fatale segretoaveva detto che Elena avrebbe sfuggito la sua presenzaella rispose che il giorno dopo e tutti i giorni seguenti non l'avrebbe lasciata maima che la scongiurava di non domandarle di più. Queste parole imprudenti furono ben presto seguite da una confessione completa. La signora di Campireali inorridì quando seppe che l'uccisore del suo figliolo le era così vicino. Ma il dolore che ne provò fu compensato da una vivissima e purissima gioia. Come potremmo descrivere il suo giubilo quando seppe che la figlia non aveva mancato mai ai suoi doveri?

In un batter d'occhio i disegni di quella madre prudente cambiarono totalmente: si credette lecito di ricorrere all'inganno nei confronti di quell'uomo che per lei non era nulla. Elena si sentiva il cuore straziato dai più crudeli impeti di passione. E poiché la sua anima tormentata aveva bisogno di sfogosi confessò alla madre con la più grande sincerità. La signora di Campirealiche ormai credeva di poter permettersi tuttoinventò una serie di sottili ragionamenti che qui sarebbe troppo lungo riferire.

Senza troppa difficoltà dimostrò alla figlia che invece d'un matrimonio clandestinoe destinato a rimanere come una macchia nella vita d'una donnapoteva ottenere un matrimonio pubblico e perfettamente onorevole solo che consentisse a rimandare di otto giorni l'atto di obbedienza che doveva ad un amante così generoso.

Intanto leila signora di Campirealisarebbe andata a Roma ed avrebbe esposto al marito che Elena era la moglie di Giulio già molto tempo prima della fatale battaglia dei Ciampi. La cerimonia era avvenuta la notte stessa in cui travestita da frate aveva incontrato il padre e il fratello sulle rive del lagoin quel sentiero scavato nella roccia lungo il muro del convento dei Cappuccini.

La donna si guardò bene dal lasciare la figlia durante tutta quella giornatae finalmenteverso seraElena scrisse al suo amante una lettera ingenua ea parer nostromolto commoventein cui gli esprimeva i contrasti che le avevano lacerato il cuore.

Finiva con l'implorare da lui una proroga di otto giorni: "Nello scriverti questa lettera- aggiungeva- che un messo di mia madre aspettami pare di vederti irritatomi pare che i tuoi occhi mi guardino con odio: ho il cuore straziato dai più crudeli rimorsi. Tu dirai che ho un carattere molto deboleche sono molto pusillanimemolto spregevole; ed io te lo confessoangelo mio.

Ma immagina quale spettacolo: mia madretutta in lacrimeai miei piedi. Allora per me non è stato più possibile nascondere che una certa ragione m'impediva di consentire alla sua domanda; euna volta lasciatami sfuggire per debolezza quelle imprudenti parolenon so più quel che è avvenuto in mema mi è stato impossibile nasconderle quel che c'era stato tra noi. Per quel che posso ricordaremi sembra che la mia animapriva d'ogni forzaavesse bisogno d'un consiglio. Speravo di trovarlo nelle parole di mia madre... purtroppo ho dimenticatoamor mioche quella madre tanto amata aveva un interesse contrario al tuo. Ho dimenticato il mio primo dovereche è l'ubbidienza a tee mi pare di non essere capace di quel vero amore che dicono superiore a tutte le prove.

DisprezzamiGiulio miomain nome di Dionon cessare di amarmi. Portami viase vuoima rendimi questa giustiziachese mia madre non fosse stata nel conventoi più tremendi pericolila vergogna stessanulla al mondo m'avrebbe impedito d'ubbidire ai tuoi ordini. Questa madre è così buona! è così intelligente! è così generosa! Ricordati quello che un giorno ti ho raccontato:

quando mio padre cercò nella mia cameralei trafugò le tue lettere che io non avevo più modo di nasconderee poipassato il pericolome le rese senza volerle leggere e senza aggiungere una sola parola di rimprovero! Ebbenedurante tutta la mia vita si è comportata con me come si comportò in quel momento supremo. Mi ha detto che per il caldo voleva passare la notte in giardino sotto una tenda: sento di qui i colpi di martelloproprio ora preparano la tenda: impossibile dunque vederci questa notte. Temo anche che il dormitorio delle educande sia chiuso a chiavee così le due porte della scala a chiocciolacosa che non si fa mai. Queste precauzioni mi metterebbero nell'impossibilità di scendere in giardinoanche se credessi utile di far questo passo per calmare la tua collera. Ahcome in questo momento mi abbandonerei a tese potessi! Come correrei in quella chiesa dove ci si deve sposare! Come ti seguirei dovunque tu volessi!".

Questa lettera finiva con due pagine di frasi folliin cui ho notato dei ragionamenti esaltati che sembrano d'imitazione platonica: nel tradurre la lettera ho soppresso parecchie eleganze di questo genere.

Giulio Branciforte fu molto stupito nel riceverla un'ora circa prima dell'"Ave Maria" della sera: aveva preso allora gli ultimi accordi col prete. Ebbe un impeto di collera.

"Non ho bisogno del suo consiglio per rapirla: creatura debole e pusillanime!".

E partì immediatamente per la foresta della Faiola.

Ecco d'altra parte qual era la posizione della signora di Campireali. Suo marito era moribondolentamente ucciso dall'impossibilità di vendicarsi del Branciforte. Invano aveva fatto offrire somme ragguardevoli a "bravi" romani: nessuno aveva voluto impicciarsi con un "caporale"come dicevanodel principe Colonna: erano troppo sicuri di essere sterminatiessi e le loro famiglie. Un anno appena era trascorso da che un villaggio intero era stato bruciato per vendicare la morte d'un soldato del Colonnae tutti gli abitanti che avevano cercato di fuggire in campagnauomini e donneerano stati legati con funi per le mani e per i piedi e quindi lanciati nelle case in fiamme.

La signora di Campireali aveva grandi terre nel regno di Napoli.

Il marito le aveva ordinato di far venire di là gli assassinima lei aveva ubbidito solo apparentemente perché credeva la figlia legata a Giulio Branciforte da un nodo indissolubile. E perciò pensava che Giulio sarebbe dovuto entrare nell'esercito spagnoloche allora combatteva in Fiandra contro i ribellie fare con esso due o tre campagne. Se non era uccisopensavavoleva dire che Dio non disapprovava un matrimonio necessario: in tal caso avrebbe dato alla figliola le terre di sua proprietà nel regno di Napolie Giulio Brancifortedopo aver assunto il nome di una di quelle terresarebbe andato con la moglie a passare qualche anno in Spagna.

Dopo tutte quelle prove forse lei avrebbe avuto la forza di vederlo. Ma dopo la confessione della figlia tutto aveva cambiato aspetto: il matrimonio non era più necessario: anzi! E mentre Elena scriveva al suo amante la lettera che abbiamo tradottola signora di Campireali scriveva a Pescara e a Chietiordinando ai suoi fattori di mandarle a Castro persone sicure e capaci d'un colpo di mano e non nascondendo che si trattava di vendicare la morte di suo figlio Fabioil loro giovane signore. Il corriere partì con le lettere prima che finisse quel giorno.

 

 

 

5.

 

Dopo tre giorni Giulio era di ritorno a Castro e conduceva con sé otto dei suoi soldati. Questi avevano acconsentito a seguirlo e ad esporsi alla collera del principeche qualche volta aveva punito con la morte imprese del genere di quella in cui stavano per impegnarsi. Giulio aveva cinque uomini a Castro e otto dunque ne conduceva con sé; e nondimeno quattordici soldatiper quanto coraggiosi essi fosserogli sembravano insufficienti per l'impresaperché il convento era come una fortezza.

Si trattava di oltrepassare con la forza o con l'astuzia la prima porta del convento: bisognava poi inoltrarsi in un andito lungo più di cinquanta passi. A sinistracome s'è già dettosi aprivano le inferriate d'una sorta di caserma dove le religiose avevano apportato trenta o quaranta domesticivecchi soldati.

Appena dato l'allarmeda quelle inferriate sarebbe partito un fuoco ben nutrito.

La badessa che era allora in caricadonna di testaaveva sempre dinanzi agli occhi le imprese dei capi Orsinidel principe Colonnadi Marco Sciarra e di tanti altri che spadroneggiavano nei dintorni. Come resistere a ottocento uomini risoluti che occupassero all'improvviso una cittadina come Castro e mirassero al convento credendolo pieno d'oro? La Visitazione di Castro aveva di solito quindici o venti "bravi" nella caserma a sinistra dell'andito che portava alla seconda porta del convento; a destra di codesto andito c'era un gran muro attraverso il quale non si poteva passare; in fondo all'andito si trovava una porta di ferro che dava su un atrio colonnato; dopo l'atrio c'era il gran cortile del conventoe a destra il giardino. La porta di ferro era vigilata dalla suora guardiana.

Quando Giulioseguito dai suoi otto uominifu a sei leghe da Castrosi fermò in una locanda fuori mano per lasciar passare le ore del gran caldo. Là soltanto rivelò il suo progetto; e poi tracciò sulla sabbia del giardino la pianta del convento che bisognava assaltare.

- Alle nove di sera- disse ai suoi uomini- ceneremo fuori dalla città; a mezzanotte entreremo; troveremo cinque dei vostri camerati che aspettano vicino al convento. Uno di loroche sarà a cavallofingerà d'essere un corriere arrivato da Roma per chiamare la signora di Campireali presso suo marito che è in punto di morte. Noi cercheremo di oltrepassare senza rumore la prima porta del convento che voi vedete in mezzo alla caserma- disse indicando loro la pianta tracciata sulla sabbia. - Se incominciamo a combattere alla prima portai "bravi" delle monache farebbero presto a tirarci dei colpi d'archibugio mentre noi saremmo sulla piazzetta che voi vedete qui davanti al convento o mentre c'inoltreremmo nello stretto passaggio che mena dalla prima alla seconda porta. Questa seconda porta è di ferroma io ne ho la chiave. E' vero che ci sono delle enormi sbarre infisse nel muro che quando sono messe al loro posto impediscono di aprirsi ai due battenti della porta. Ma queste due sbarre di ferro sono troppo pesanti perché la suora guardiana possa manovrarleed ioche pure sono passato più di dieci volte per quella porta di ferronon le ho viste mai al loro posto. Anche questa sera conto di passarci senza difficoltà. Comprenderete che nel convento c'è qualcuno d'accordo con me. Il mio scopo è di rapire un'educanda e non già una monaca. Ma ecco quel che soprattutto importa: dobbiamo ricorrere alle armi soltanto in caso di assoluta necessità. Se incominciassimo a combattere prima di arrivare a quella seconda porta munita di sbarre di ferrola suora guardiana chiamerebbe subito due vecchi giardinieridi settant'anniche abitano nell'interno del conventoe i vecchi fisserebbero contro i battenti della porta le sbarre di ferro di cui vi ho parlato. Se accadesse questa disgraziasaremmo costrettiper oltrepassare la portaa demolire il muroe perderemmo una decina di minuti. In ogni caso io andrò per primo verso quella porta. Uno dei giardinieri è pagato da me; ma s'intende che mi sono ben guardato dal parlargli del mio progetto di ratto. Oltrepassata quella seconda portasi gira a destra e si arriva al giardino: una volta nel giardinos'incomincia il combattimentoe allora bisogna fare man bassa di quanto si presenta. Resta ben inteso che voi farete uso soltanto delle spade e delle dagheperchè il minimo colpo d'archibugio metterebbe a soqquadro tutta la cittadinanzache potrebbe attaccarci all'uscita. Con tredici uomini come voi certamente io non temerei di attraversare quella bicocca: nessunocertooserebbe discendere in strada; ma parecchi borghesi hanno degli archibugie tirerebbero dalle finestre. In questo casodiciamolo di passatabisognerebbe camminare rasentando i muri delle case. Una volta nel giardino del conventovoi direte a bassa voce a ogni uomo che si presenterà: "Andate via"; e ucciderete a colpi di daga chiunque non ubbidirà subito. Io salirò nel convento per la porticina del giardino con quelli di voi che mi saranno vicini e tre minuti dopo scenderò con una o due donne che porteremo via tra le braccia senza permettere loro di camminare. Senza por tempo in mezzo fuggiremo dal convento e dalla città. Due di voi resteranno alla porta e tireranno una ventina di colpi d'archibugiodi minuto in minutoper spaventare i borghesi e tenerli a distanza.

Giulio ripeté due volte questa spiegazione.

- Avete capito bene? - disse ai suoi uomini. - Ci sarà buio in quell'atrio: a destrail giardinoa sinistrail cortile: non bisogna sbagliare.

- Contate su di noi! - esclamarono i soldati.

Poi andarono a bere. Ma il caporale non li seguì e chiese il permesso di parlare al capitano.

- Nulla di più semplice- gli disse- del progetto di Vossignoria. Ho già forzato due conventi: questo qui sarà il terzo. Ma siamo troppo pochi. Se il nemico ci costringe a demolire il muro che sostiene i cardini della seconda portabisogna pensare che i "bravi" della caserma non rimarranno in ozio durante quella lunga operazione: vi uccideranno a colpi di archibugio sette o otto uominie allora si corre il rischio di vedersi portar via la donna al ritorno. E' proprio quello che ci è accaduto in un convento vicino a Bologna: ci uccisero cinque uomini: noi ne ammazzammo otto; ma il capitano non ebbe la donna.

Faccio due proposte a Vossignoria. Conosco quattro contadini che abitano nei dintorni dell'albergo in cui ci troviamo: essi hanno prestato servizio sotto Sciarra e per uno zecchino si batteranno come leoni per tutta la notte. Ruberanno un po' d'argenteria nel convento; ma a voi poco importa: il peccato è loro: voiin fin dei contili assoldate per avere una donna. Ed ecco la mia seconda proposta: Ugone è un ragazzo istruito e molto furbo: era medico quando ammazzò suo cognato e si diede alla macchia. Voi potete mandarlo al convento un'ora prima che faccia notte:

domanderà lavoro e farà in modo che lo ammetteranno nel corpo di guardia: là farà bere i domestici delle monacheed è anche capace di bagnare la miccia dei loro archibugi.

Giulioper sua disgraziaaccettò la proposta del caporale.

Questinell'andarseneaggiunse:

- Noi stiamo per attaccare un convento: c'è SCOMUNICA MAGGIOREe per di più è un convento sotto la protezione diretta della Madonna...

- Avete ragione! - esclamò Giulio come risvegliato da quelle parole. - Rimanete con me.

Il caporale chiuse l'uscio e ritornò per dire il rosario insieme a Giulio. Pregarono per un'ora intera. A notte si rimisero in marcia.

Allo scoccare della mezzanotteGiulioche era entrato da solo in Castroverso le undiciritornò a prendere i suoi uominiai quali s'erano aggiunti tre contadini bene armati; li riunì coi cinque soldati che aveva in città; e fu così alla testa di sedici uomini ben risoluti. Due di essi erano travestiti da domesticicon una lunga giubba di tela nera per nascondere il giaco e con un berretto senza piume.

A mezzanotte e mezzoGiulioche si era assunto la parte di corrierearrivò al galoppo alla porta del conventofacendo un gran rumore e gridando che si aprisse senza indugio a un corriere inviato dal cardinale. Notò con piacere che i soldati che gli rispondevano dal finestrino erano più che brilli. Secondo l'usoscrisse il proprio nome su un pezzo di cartae un soldato andò a portarlo alla suora guardiana che aveva la chiave della seconda porta e doveva svegliare la badessa nelle grandi occasioni. La risposta si fece aspettare per tre mortali quarti d'oradurante i quali Giulio durò molta fatica a fare stare zitti gli uomini della sua banda. Già alcuni borghesi incominciavano ad aprire timidamente le finestrequando finalmente arrivò la risposta favorevole della badessa. Giulio entrò nel corpo di guardia per mezzo d'una scala lunga cinque o sei piedi che gli tesero dal finestrinoperché i "bravi" del convento non vollero disturbarsi ad aprire la porta grandee salì seguito da due soldati travestiti da domestici. Saltando dalla finestra nel corpo di guardiai suoi occhi incontrarono quelli di Ugone: grazie a questotutto il corpo di guardia era ubriaco. Giulio disse al capo che tre domestici di casa Campirealich'egli aveva fatto armare come soldati per servirsene da scorta durante il viaggioavevano comperato della buona acquavite e chiedevano d'entrare anche loro per non annoiarsi da soli sulla piazza: il che fu concesso all'unanimità. Quanto a luiaccompagnato dai suoi uominiscese per la scala che dal corpo di guardia portava nell'andito.

- Cerca di aprire la porta grande- disse a Ugone.

Senza alcun pericolo arrivò egli stesso alla porta di ferro. Là trovò la buona suora guardianala quale gli disse che essendo passata la mezzanotte bisognava che la badessa ne scrivesse al vescovoe perciò questa lo faceva pregare di consegnare le sue lettere a una monachella mandata apposta per prenderle. Giulio rispose che nel trambusto causato dall'improvvisa agonia del signor di Campireali egli non aveva se non una lettera di presentazione scritta dal medico e che tutti i particolari li avrebbe esposti a voce alla moglie e alla figlia del malato se erano ancora in convento e in ogni caso alla madre badessa. La suora guardiana andò a portare il messaggio. Presso la porta non c'era che la monachella mandata dalla badessa. Giuliochiacchierando e scherzando con leipassò le mani attraverso le grandi sbarre di ferro della porta e continuando a ridere cercò di aprirla. La suorache era molto timidas'impaurì e prese male lo scherzo. Allora Giulioche vedeva volar via un tempo preziosoebbe l'imprudenza di offrirle un pugno di zecchini pregandola di aprirgli e aggiungendo che era troppo stanco per aspettare.

Come osserva lo storicoegli ben s'accorgeva di commettere una sciocchezza: bisognava agire col ferro e non già con l'oro; ma gli mancò il coraggio: eppurenulla era più facile che afferrare la suoradistante da lui non più di un piede di là della cancellata.

All'offerta degli zecchini la giovane entrò in sospetto. Disse poi che dal modo in cui Giulio le parlava aveva capito bene ch'egli non era un semplice corriere: è l'innamoratopensòdi una delle nostre religioseche viene qui per avere un appuntamento; e la monachella era devota. Presa d'orroresi attaccò con tutte le forze alla corda d'una campanella che era nel grande cortile e che subito fece un frastuono da destare i morti.

- Il combattimento incomincia- disse Giulio ai suoi uomini. - Attenti!

Prese la chiave e passando il braccio attraverso le sbarre di ferro aprì la portamentre la monachelladisperatacadde in ginocchio e si mise a recitare delle avemmarie gridando al sacrilegio. Anche allora Giulio avrebbe dovuto costringere al silenzio la giovinettama anche allora non ne ebbe il coraggio.

L'afferrò uno dei suoi uomini e le mise la mano sulla bocca.

Nel medesimo istante Giulio sentì un colpo d'archibugio nel passaggiodietro di sé. Ugone aveva aperto la porta grande: il resto dei soldati entrava senza far rumorequando uno dei bravi di guardiameno ubriaco degli altris'avvicinò a una delle inferriate estupito di vedere tanta gente nel passaggiogridò bestemmiando che nessuno procedesse. Bisognava non rispondere e continuare a inoltrarsi verso la porta di ferro e questo fecero i primi soldati; ma quello ch'era in coda a tuttiuno dei contadini reclutati nel pomeriggiotirò una pistolettata contro quel "bravo" che parlava dalla finestrae lo freddò. Quella pistolettata nel cuore della notte e le grida degli ubriachi che vedevano cadere i loro camerati destarono i soldati del convento che erano a letto e che non avevano potuto assaggiare il vino d'Ugone. Otto o dieci dei "bravi" del convento saltarono mezzo nudi nell'andito e si misero ad attaccare energicamente i soldati del Branciforte.

Come abbiamo già dettoquesto trambusto incominciò proprio nel momento in cui Giulio aveva finito d'aprire la porta di ferro.

Seguito dai suoi due soldatiegli si precipitò nel giardino correndo verso la porticina della scala delle educande; ma fu accolto da cinque o sei pistolettate. I due soldati caddero e lui ebbe una palla nel braccio destro. Quelle pistolettate le avevano sparate i famigli della signora di Campirealia cui essa aveva ordinato di passare la notte nel giardino giovandosi d'un permesso del vescovo. Giulio corse da solo verso la porticina a lui ben nota che metteva dal giardino nella scala delle educande. Fece ogni sforzo per scuoterlama era saldamente chiusa. Cercò i suoi uomini; ma questiboccheggiantinon poterono rispondergli. Nel buio profondo s'imbatté in tre domestici dei Campireali contro cui si difese a colpi di daga.

Corse nell'atrioverso la porta di ferroper chiamare i suoi soldati; ma la porta era chiusa: destati dalla campana della monachellai vecchi giardinieri avevano messo a posto e inchiavardato i due pesanti bracci di ferro.

- Me l'han fatta! - si disse Giulio.

E lo disse ai suoi uomini. Invano tentò di forzare uno dei chiavacci con la sua spada: se ci fosse riuscitoavrebbe sollevato una delle due sbarre e aperto un battente della porta.

La punta della spada gli si spezzò nell'anello del chiavaccioe nel medesimo istante fu ferito alla spalla da uno dei domestici venuti dal giardino. Si voltò espinto contro la porta di ferrosi sentì assalito da parecchi uominiper cui mise mano alla daga per difendersi. Per fortunapoiché era buio fittoquasi tutti i colpi di spada andavano a finire nella sua cotta di maglia.

Sentendosi dolorosamente ferito al ginocchiosi slanciò contro uno degli uomini che s'era troppo spinto per colpirlolo uccise con un colpo di daga in faccia ed ebbe la fortuna di prendergli la spada. Allora si credette salvoe si appostò sul lato sinistro della portadalla parte del cortile. I suoi uomini che erano accorsi tirarono cinque o sei pistolettate attraverso le sbarre di ferro della porta e misero in fuga i domestici. Nell'atrio non c'era altra luce che quella prodotta dalle pistolettate.

- Non sparate dalla mia parte! - gridava Giulio ai suoi uomini.

- Vi han preso in una trappola- gli disse il caporale con un gran sangue freddo parlandogli attraverso le sbarre- ci hanno ammazzato tre uomini. Butteremo giù lo stipite della porta dal lato opposto a quello dove siete voi. Non vi avvicinate; le palle stanno per colpirci: ci sono nemici nel giardino?

- Quella canaglia di servi dei Campireali- disse Giulio. Non aveva finito di parlare col caporale che dalla parte dell'atrio verso il giardino due pistolettate furono tirate contro di loro da qualcuno che aveva sentito le loro voci. Giulio si rifugiò nello stanzino della suora guardianache era a sinistra di chi entrava.

 

Ebbe un vivo moto di gioia nel trovarci una lampadina quasi impercettibile che ardeva dinanzi all'immagine della Madonna. La prese con grande cautela perché non si spegnesse e s'accorse con dolore che tremava. La ferita al ginocchio lo faceva soffrire molto: la guardò e vide che il sangue colava abbondantemente.

Nel volgere intorno lo sguardoriconobbe con molta sorpresain una donna che giaceva svenuta su una poltrona di legnola fidata cameriera di Elenala piccola Marietta. La scosse con energia.

- Come! signor Giulio- esclamò la donna piangendo- siete proprio voi che volete uccidere la Mariettala vostra amica?

- No davvero! Di' a Elena che le chiedo perdono d'aver turbato il suo riposo. E dille che si ricordi dell'"Ave Maria" di Monte Cavo.

Ecco un mazzo di fiori che ho colto nel suo giardino di Albano; ma c'è qualche macchia di sangue: lavalo prima di darglielo.

In quel punto si sentì una scarica di colpi d'archibugio nell'andito: erano i "bravi" delle monache che attaccavano i suoi uomini.

- Dimmi dunque dov'è la chiave della porticina- disse a Marietta.

- Non la vedo; ma le do' le chiavi dei chiavacci delle sbarre di ferro che chiudono la grande porta. Con queste potrete uscire.

Giulio prese le chiavi e si slanciò fuori dallo stanzino.

Ci fu un momento d'assoluto silenzio mentre tentava di aprire un chiavaccio con una delle piccole chiavi. Ma aveva sbagliato:

avrebbe dovuto servirsi dell'altra. Finalmente aprì il chiavaccio.

Ma proprio nel momento in cui sollevava la sbarra di ferro ricevette quasi a bruciapelo una pistolettata nel braccio destro e sentì subito che il braccio non era più buono a nulla.

- Sollevate la sbarra di ferro! - gridò ai suoi uomini. Non c'era bisogno di dirlo. Al chiarore delle pistolettate essi avevano visto il capo ricurvo della sbarra di ferro per metà fuori dall'anello infisso alla porta. Tre o quattro mani vigorose sollevarono la sbarrae quando questa fu fuori dall'anello la lasciarono cadere. Allora fu possibile aprire un poco uno dei battentie il caporaleentratodisse a bassa voce a Giulio:

- Non c'è più nulla da fare: siamo in tre o in quattro non feriti:

cinque sono morti.

- Io ho perso molto sangue- disse Giulio- mi sento venir meno:

dite loro di portarmi via.

Mentre Giulio parlava col valoroso caporalei soldati del corpo di guardia tirarono tre o quattro colpi d'archibugioe il caporale cadde morto. Per fortuna Ugone aveva sentito l'ordine dato da Giulio e chiamò due soldati che portarono via il capitano.

Ancora in sentimentiegli comandò che lo trasportassero in fondo al giardinopresso la porticina. Quest'ordine fece bestemmiare i soldatiche nondimeno ubbidirono.

- Cento zecchini a chi apre quella porticina di legno! - esclamò Giulio.

Ma la porta resistette agli sforzi furiosi di tre uomini.

Uno dei giardinieriappostato a una finestra del secondo pianotirò contro di loro una quantità di pistolettateche servirono a far luce.

Dopo gli inutili tentativi contro la portaGiulio svenne e Ugone disse ai soldati di portar via al più presto il loro capitano.

Egli intanto entrò nello stanzino della suora guardianamise alla porta la piccola Marietta ingiungendole con una voce terribile di andarsene via e di non dir mai a nessuno chi aveva riconosciuto.

Sventrò il letto e ne trasse fuori la pagliaspezzò qualche sedia e appiccò il fuoco alla stanza. Quando vide che il fuoco aveva presose la diede a gambe tra i colpi d'archibugio tirati dai "bravi" del convento.

A centocinquanta buoni passi dal convento della Visitazione trovò il capitano completamente svenuto che veniva portato via in gran fretta. Dopo qualche minuto furono fuori città e Ugone diede l'ordine di fermarsi: non aveva più che quattro soldati con sédue dei quali rimandò in città con l'ordine di tirare dei colpi d'archibugio ogni cinque minuti.

- Procurate di ritrovare i vostri camerati feriti- disse loro- e uscite dalla città prima che faccia giorno: noialtri seguiremo il sentiero della Croce rossa. Se potete appiccare il fuoco in qualche postonon mancate di farlo.

Quando Giulio rinvenneerano a tre leghe dalla città e il sole era già molto alto sull'orizzonte.

- La vostra banda non conta più che cinque uominidi cui tre feriti. Due contadini che sono sopravvissuti hanno avuto due zecchini di gratificazione per ciascuno e sono fuggiti. I due uomini non feriti li ho mandati al borgo vicino per cercare un chirurgo.

Il chirurgoun vecchio tutto tremantearrivò ben presto cavalcando un magnifico somaro: per convincerlo ad andare con loro c'era voluta la minaccia di bruciargli la casa. Era così spaventato che bisognò fargli bere dell'acquavite per rimetterlo in grado di agire. Finalmente si mise all'opera e disse a Giulio che le sue ferite non erano affatto gravi.

- Per quella del ginocchio non c'è pericolo- aggiunse- ma zoppicherete per tutta la vitase non rimarrete in riposo assoluto per almeno quindici giorni.

Il chirurgo curò i soldati feriti. Ugone fece a Giulio una strizzatina d'occhio e mise due zecchini in mano al chirurgo che non la finiva più di ringraziare. Col pretesto di ricompensarlo ancoragli fece bere tanta acquavite che l'uomopoco dopocadde in un sonno profondo. Era quel che ci voleva. Lo trasportò in un campo vicinomise quattro zecchini in un cartoccetto che gli ficcò in tasca come compenso dell'asino che servì a trasportare Giulio e uno dei soldati ferito ad una gamba. Andarono a passare le ore più calde in un'antica rovina presso uno stagnoe poi marciarono durante tutta la notte evitando i villaggi che del resto erano poco numerosi lungo quella stradae finalmenteall'alba del terzo giornoGiulioportato dai suoi uominisi destò nel bel mezzo della foresta della Faiolanella capanna del carbonaio che era il suo quartier generale.

 

 

 

6.

 

Il giorno dopo il combattimento le religiose della Visitazione trovarono con raccapriccio nove cadaveri nel giardino e nell'andito che portava dalla porta esterna a quella munita di sbarre di ferro: otto dei loro "bravi" erano feriti. Nel monastero non avevano mai provato tanto spavento. Qualche volta s'erano sentiti colpi d'archibugio tirati sulla piazzama mai erano stati tirati tutti quei colpi d'armi da fuoco nel giardinodentro il convento e sotto le finestre delle religiose. La zuffa era durata un'ora e mezzo e il trambusto era stato grandissimo nell'interno del convento. Se Giulio Branciforte avesse avuto anche un minimo aiuto da qualcuna delle monache o delle educandeil colpo gli sarebbe riuscito: bastava che gli avessero aperto una delle molte porte che danno sul giardino. Ma tutto fremente d'indignazione e di collera contro quello che egli chiamava lo spergiuro di ElenaGiulio aveva voluto vincere con la prepotenza. Gli sarebbe sembrato di venir meno alla propria dignità se avesse confidato il suo progetto a qualcuno che avesse potuto riferirlo ad Elena.

Eppureuna sola parola detta alla piccola Marietta sarebbe bastata per assicurare il buon successo dell'impresa. Marietta avrebbe aperto una delle porte che danno sul giardino e un solo uomo che fosse apparso nei corridoi del conventocon quel terribile accompagnamento di colpi d'archibugio che veniva da fuorisi sarebbe fatto ubbidire senz'altro.

Al primo colpo d'arma da fuoco Elena aveva tremato per la vita del suo amante e non aveva pensato ad altro che a fuggire con lui.

Come descrivere la sua disperazione quando la piccola Marietta le parlò della spaventosa ferita che Giulio aveva avuto al ginocchio e dalla quale lei aveva veduto uscire sangue in abbondanza? Elena aveva orrore della propria viltà e pusillanimità:

- Ho avuto la debolezza di dire una parola a mia madree Giulio è stato ferito: poteva perdere la vita in questo sublime attacco in cui il suo coraggio ha fatto tutto.

I "bravi"ammessi nel parlatorioavevano detto alle monache tutte ansiose di ascoltarli che durante tutta la loro vita non avevano mai visto un coraggio pari a quello del giovane vestito da corriere che dirigeva gli sforzi dei briganti. Se tutte ascoltavano quei racconti col più vivo interessesi può immaginare con quanta passione Elena domandava ai "bravi" dei particolari sul giovane capo dei briganti. Dopo i lunghi racconti che si fu fatta fare da loro e dai vecchi giardinieritestimoni imparzialile parve di non voler più nessun bene alla madre. Tra madre e figliache pure alla vigilia del combattimento si amavano teneramenteci fu un breve dialogo molto vivace. La signora di Campireali fu spiacevolmente sorpresa nel vedere delle macchie di sangue su un certo mazzo di fiori da cui Elena non si separava neppure per un minuto.

- Bisogna gettare codesti fiori macchiati di sangue.

- Sono io che ho fatto versare questo sangue generosoed esso è stato versato perché ho avuto la debolezza di farvi una confidenza.

- Amate ancora l'assassino di vostro fratello?

- Amo il mio sposo che per mia eterna sventura è stato aggredito da mio fratello.

Dopo quelle frasi la signora di Campireali e la figlia non si dissero più una parola durante i tre giorni che la signora passò ancora in convento.

Il giorno dopo la sua partenzaElena riuscì a fuggireapprofittando della presenza di molti muratori che erano stati introdotti nel giardino per costruirvi nuove fortificazioni e che passavano e ripassavano per le due porte del convento. Si travestì da operaioe così la piccola Marietta. Ma i borghesi facevano buona guardia alle porte della cittàe uscire non fu facile.

Finalmentequel modesto mercante che le aveva fatto avere le lettere del Branciforte acconsentì a farla passare per la propria figlia e ad accompagnarla fino ad Albano. Elena si nascose presso la sua balia che aveva potuto aprire una botteguccia grazie ai suoi regali.

Appena arrivata scrisse al Branciforte e la baliacon grande difficoltàtrovò un uomo che accettò di avventurarsi nella foresta della Faiola senza avere la parola d'ordine dei soldati dei Colonna.

Il messaggero ritornò dopo tre giorni molto spaventato. Non gli era stato possibile trovare il Brancifortee poiché le domande che non cessava di fare sul giovane capitano avevano finito col renderlo sospettoera stato costretto a fuggire.

"Non c'è dubbioGiulio è morto- si disse Elena- e sono io che l'ho ucciso! Questa è la conseguenza della mia sciagurata debolezza e della mia pusillanimità: avrebbe dovuto amare una donna fortela figlia di qualcuno dei capitani del principe Colonna".

La balia credette che Elena fosse sul punto di morire. Salì al convento dei Cappuccininei pressi di quel sentiero scavato nella roccia dove il signor di Campireali e Fabio avevano incontrato i due amanti nel cuore della notte. La balia parlò a lungo col suo confessore e sotto il suggello sacramentale gli confidò che Elena di Campireali doveva raggiungere il proprio sposo Giulio Branciforte e che era disposta ad offrire una lampada d'argento alla chiesa del conventodel valore di cento piastre spagnole.

- Cento piastre! - rispose il frate irritato. - E che sarebbe del nostro convento se si riversasse su di noi l'odio del signor di Campireali? Non centoma mille piastre egli ci ha dato quando siamo andati a prendere il corpo di suo figlio sul campo di battaglia dei Ciampisenza contare la cera.

Ad onore del convento bisogna dire che due frati anzianiavendo saputo dell'esatta posizione di Elenascesero ad Albano e andarono a visitarla con l'intenzionedapprimad'indurla per amore o per forza ad alloggiare nel palazzo paterno: sapevano che agendo così sarebbero stati riccamente ricompensati dalla signora di Campireali. Tutta Albano parlava della fuga di Elena e delle magnifiche promesse fatte da sua madre a quelli che potevano darle notizie della figlia. Ma i due frati furono così commossi nel vedere la giovane così disperata per la creduta morte di Giulio che invece di tradirlarivelando alla madre il luogo del suo ritiroacconsentirono a scortarla fino alla fortezza della Petrella. Elena e Mariettasempre travestite da operaisi recarono a piedidi nottea una certa fontana situata nella foresta della Faiola a una lega da Albano. I due frati vi avevano fatto condurre dei mulie all'alba si misero tutti in cammino alla volta della Petrella. Si sapeva che i frati erano protetti dal principee perciò i soldati ch'essi incontravano nella foresta li salutavano rispettosamente. In quanto ai due giovani che erano con loroi soldati dapprima si avvicinavano fissandoli con occhio molto severopoi scoppiavano a ridere e si congratulavano coi frati che avevano dei mulattieri così graziosi.

- State zittimiscredentie sappiate che quanto facciamo lo facciamo per ordine del principe Colonna- rispondevano i frati continuando a camminare.

Ma Elena era disgraziata. Alla Petrella il principe non c'erae quando al suo ritornodopo tre giornile accordò finalmente un'udienzasi mostrò molto duro.

- Perché venite quisignorina? Che cosa vuol dire codesto passo sconsiderato? Le vostre chiacchiere di donna hanno fatto morire sette dei più valorosi uomini che fossero in Italia: nessun uomo assennato ve lo perdonerà mai. A questo mondobisogna volere o non volere. C'è di più: per altre chiacchieresenza dubbioGiulio Branciforte proprio ora è stato dichiarato "sacrilego" e condannato ad essere attanagliato per due ore con tenaglie arroventatee poi bruciato come un ebreoluiuno dei migliori cristiani che io conosca! Come si sarebbe potutosenza qualche chiacchiera infame da parte vostrainventare quest'orrenda menzognache Giulio Branciforte era a Castro il giorno che fu dato l'assalto al convento? Tutti i miei uomini vi diranno che proprio quel giorno l'hanno visto qui alla Petrella e che verso sera io lo mandai a Velletri.

- Ma è vivo? - gridò per la decima volta Elena sciogliendosi in lacrime.

- E' morto per voi- rispose il principe- voi non lo vedrete più. Vi consiglio di ritornare nel vostro convento di Castro:

cercate di non commettere più indiscrezioni ed entro un'orave lo comandolasciate la Petrella. Soprattuttonon raccontate a nessuno che mi avete vistoo saprò ben punirvi.

La povera Elena si sentì straziare l'anima nel vedersi accolta così duramente da quel famoso principe Colonna per cui Giulio aveva tanto rispetto e a cui essa voleva bene perché lui gli voleva bene.

Qualsiasi cosa ne dicesse il principe Colonnail passo di Elena non era poi così sconsiderato. Se si fosse recata alla Petrella tre giorni primaci avrebbe trovato Giulio Branciforte: la ferita al ginocchio gli impediva di camminaree il principe l'aveva fatto trasportare nella grossa borgata di Avezzanonel regno di Napoli. Alla prima notizia della terribile sentenza che il signor di Campireali aveva ottenutopagandocontro il Brancifortesentenza che lo dichiarava sacrilego per violazione di clausura conventualeil principe aveva capito che per proteggere Giulio non poteva più fare affidamento sui tre quarti dei suoi uomini.

Era un peccato contro la Madonnaalla cui protezione ognuno di quei briganti credeva di avere diritti particolari. Se a Roma ci fosse stato un bargello abbastanza coraggioso da andare ad arrestare Giulio Branciforte in mezzo alla foresta della Faiolaavrebbe potuto riuscirvi.

Arrivando ad AvezzanoGiulio prese il nome di Fontanae gli uomini che lo trasportavano furono discreti. Quando furono di ritorno alla Petrellaannunciarono con dolore che Giulio era morto in camminoe da quel momento ogni soldato del principe seppe che era riservata una pugnalata a chi avesse pronunciato quel nome fatale.

Invano dunqueritornata ad AlbanoElena scrisse lettere su lettere e spese tutti gli zecchini che aveva per farle recapitare al Branciforte. I due frati anzianiche erano divenuti suoi amici (perché l'estrema bellezzadice il cronista di Firenzeesercita un certo impero anche su cuori induriti da quanto hanno di più bassol'egoismo e l'ipocrisia)i due fratidicevamoavvertirono la fanciulla che inutilmente cercava di fare arrivare una parola al Branciforte: il Colonna aveva dichiarato ch'egli era mortoe Giulio certamente non sarebbe riapparso nel mondo se non quando il principe lo avesse voluto.

La balia di Elena le annunciò piangendo che la madre aveva scoperto il suo ritiro e che erano stati impartiti gli ordini più severi perché fosse trasportata con la forza nel palazzo Campireali di Albano. Elena comprese che una volta in quel palazzo vi sarebbe rimasta come in una prigione di rigore e che le sarebbe stata assolutamente vietata ogni comunicazione con l'esternomentre nel convento di Castro avrebbe potuto ricevere e inviare lettere con la stessa facilità con cui le ricevevano e inviavano le altre religiose. D'altra partee fu questa la considerazione che la persuasenel giardino di quel convento Giulio aveva versato il sangue per lei: là lei avrebbe potuto rivedere quella poltrona di legno della suora guardiana dove Giulio si era seduto un momento per guardarsi il ginocchio ferito: là aveva dato a Marietta quel mazzo di fiori macchiato di sangue che lei non lasciava più.

Ritornò dunque tristemente al convento di Castro e la sua storia potrebbe finir qui. Sarebbe meglio per leie forse anche per il lettore. Dovremo infatti assistere alla lunga decadenza di un'anima nobile e generosa. Le misure prudenti e le menzogne della civiltàche d'ora in avanti l'assedieranno da ogni partesi sostituiranno ai moti sinceri delle passioni energiche e naturali.

Il cronista romano fa qui una riflessione piena d'ingenuità e si chiede perché una donna che ha messo al mondo una bella figlia crede di avere le qualità necessarie per dirigerla nella vita.

Quando aveva sei anni le diceva con ragione: signorinarimettetevi a posto la baverinaquando la figlia ha diciott'anni e la mamma ne ha cinquantaquando la figliola ha ingegno non meno della mamma e a volte anche di piùquest'ultimatrasportata dalla smania di dominaresi arroga il diritto di regolare la vita dell'altra e perfino di ricorrere alla menzogna.

Vedremo che proprio Vittoria Carafacon una serie di combinazioni abili e lungamente studiatecagionò la morte di quella figlia dilettadopo averla afflitta per dodici annitriste risultato della smania di dominare.

Prima di morire il signor di Campireali aveva avuto la gioia di vedere pubblicare in Roma la sentenza che condannava il Branciforte ad essere attanagliato per due ore con ferri roventi nei principali crocicchi di Roma e poi bruciato a fuoco lentoe le sue ceneri gettate nel Tevere.

Gli affreschi del chiostro di Santa Maria Novellaa Firenzemostrano ancor oggi come si eseguivano quelle crudeli sentenze contro i sacrileghi. Di solitoci voleva un gran numero di guardie per impedire al popolo indignato di sostituirsi ai carnefici nel tristo uffizio. Ognuno credeva di essere l'amico intimo della Madonna. Il signor di Campireali s'era fatto ancora una volta leggere la sentenza pochi momenti prima di morire e all'avvocato che l'aveva ottenuta aveva dato in dono la sua bella tenuta tra Albano e il mare. Quest'avvocato aveva i suoi meriti.

Il Branciforte era stato condannato a quell'atroce suppliziosenza che nessun testimonio l'avesse riconosciuto in quel giovane vestito da corriere che pareva dirigere con tanta autorità i movimenti degli assalitori. La magnificenza di quel dono mise in orgasmo tutti gli intriganti di Roma. C'era allora alla Corte un certo fratoneuomo profondo e capace di tuttoanche di costringere il Papa a dargli il cappello cardinalizio. Curava gli affari del principe Colonnae questo terribile cliente gli valeva una grande considerazione.

Quando la signora di Campireali vide la figlia di ritorno da Castrofece chiamare il fratone.

- Vostra reverenza sarà magnificamente ricompensata se vuol contribuire alla riuscita di un affare molto semplice che ora le esporrò. Tra qualche giorno sarà pubblicata e resa esecutiva nel regno di Napoli la sentenza che condanna Giulio Branciforte ad un tremendo supplizio. Invito vostra reverenza a leggere questa lettera del viceré che è un poco mio parente e che si degna di comunicarmi questa notizia. In qual paese potrà il Branciforte trovare un asilo? Io farò consegnare cinquantamila piastre al principe con la preghiera di darle tutte o in parte al Branciforte a patto che vada a servire il re di Spagna mio signore contro i ribelli di Fiandra. Il viceré darà un brevetto di capitano al Brancifortee perché la sentenza di sacrilegioche io spero di rendere esecutoria anche in Spagnanon lo impacci nella sua carrieraegli prenderà il nome di barone Lizzara: è una terricciola che io ho negli Abruzzi e di cui troverò modoper mezzo di vendite simulatedi fargli trasferire la proprietà.

Immagino che vostra reverenza non avrà mai visto una madre trattare a questo modo l'assassino del proprio figlio. Mediante cinquecento piastre noi avremmo potuto da un pezzo liberarci di quest'essere odioso; ma non abbiamo voluto guastarci coi Colonna.

Degnatevi dunque di fargli osservare che il mio rispetto per i suoi diritti mi costa dalle sessanta alle ottantamila piastre. Non voglio mai più sentir parlare di questo Branciforte; e non mancate di presentare i miei rispetti al principe.

Il fratone disse che di lì a tre giorni sarebbe andato a fare una passeggiata dalle parti di Ostiae la signora di Campireali gli diede un anello che valeva cento piastre.

Qualche giorno più tardi il fratone si fece rivedere a Roma e disse alla signora di Campireali che non aveva potuto fare al principe quella propostama che entro un mese il giovane Branciforte si sarebbe imbarcato per Barcellonadove per mezzo d'un banchiere di quella città gli si poteva far consegnare la somma di cinquantamila piastre.

Il principe trovò Giulio ostile al progetto: per quanti fossero i pericoli che ormai lo minacciavano in Italiail giovane innamorato non poteva decidersi a lasciare questo paese. Invano il principe gli lasciò intravedere che la signora di Campireali poteva morire; invano gli promise che in tutti i casitrascorsi i tre annisarebbe potuto rientrare in patria: Giulio piangevama non acconsentiva.

Il principe fu costretto a chiedergli come un servizio personale quella partenza. Giulio non poteva rifiutare nulla all'amico di suo padre; maprima di tuttovoleva andare a prendere gli ordini di Elena. Il principe si degnò d'incaricarsi di una lunga letterae permise anzi a Giulio di scriverle dalla Fiandra ogni mese.

Finalmente l'amante disperato s'imbarcò per Barcellona. Tutte le lettere che egli scrisse dopo quella furono bruciate dal principeil quale non voleva che Giulio ritornasse mai più in Italia.

Abbiamo dimenticato di dire che il principesebbene alieno per carattere da ogni fatuitàaveva creduto necessario di dirgliper la buona riuscita del negozioche quella piccola fortuna di cinquantamila piastre la dava lui al figlio unico di uno dei più fedeli servitori di casa Colonna.

Elena era trattata come una principessa nel convento di Castro. La morte di suo padre le aveva dato la proprietà d'una notevole fortunae immense eredità le sopraggiunsero. Nell'occasione della morte di suo padre fece dare cinque canne di panno nero a tutti gli abitanti di Castro o dei dintorni che dichiararono di voler portare il lutto del signor di Campireali. Portava da qualche giorno i vestiti da lutto quando una mano del tutto sconosciuta le consegnò una lettera di Giulio. Sarebbe difficile descrivere l'ansietà con cui aprì questa lettera e così la profonda tristezza che la lettura di essa le diede. La esaminò con la più grande attenzione: era proprio la scrittura di Giulio. La lettera parlava di amore; ma quale amoregran Dio! L'aveva scritta la signora di Campirealiche pure era così intelligente. Il suo progetto era questo: incominciare il carteggio con sette o otto lettere d'amore appassionatoe così preparare le altrein cui l'amore si sarebbe spento a poco a poco.

Sorvoleremo rapidamente su dieci anni di una vita infelice. Elena si credeva del tutto dimenticatae tuttavia aveva respinto con alterigia gli omaggi dei giovani signori più ragguardevoli di Roma. Esitò per altro un istante quando le parlarono di Ottavio Colonnafiglio primogenito di quel famoso Fabrizio che un giorno l'aveva accolta così male alla Petrella. Le pareva che dovendo assolutamente prender maritoper dare un protettore alle terre che ella possedeva nello stato romano e nel regno di Napolile sarebbe stato meno odioso portare il nome d'un uomo a cui Giulio un tempo aveva voluto bene. Se avesse acconsentito a questo matrimonioElena avrebbe saputo ben presto la verità sul conto di Giulio Branciforte. Il vecchio principe Fabrizio parlava spesso e con calore degli atti di sovrumano coraggio del colonnello Lizzara (Giulio Branciforte)che proprio come gli eroi dei vecchi romanzi cercava di scordareoperando valorosamenteun amore infelice che lo rendeva insensibile ad ogni piacere. Egli credeva Elena maritata da un pezzo: la signora di Campireali aveva avviluppato anche lui nelle sue menzogne.

Elena s'era mezzo riconciliata con quella madre così abile.

Ardentemente desiderosa di vederla maritataquesta pregò il suo amicoil vecchio cardinale Santi Quattroprotettore della Visitazioneche si recava a Castrodi annunziare in confidenza alle monache più anziane del convento che il suo viaggio era stato ritardato da un atto di grazia. Il buon Papa Gregorio tredicesimomosso a pietà per l'anima di un brigante chiamato Giulio Branciforteche un giorno aveva tentato di violare il loro monasteroaveva volutonel venire a conoscenza della sua morterevocare la sentenza che lo dichiarava sacrilegoben persuaso che sotto il peso di tale condanna egli non sarebbe mai potuto uscire dal purgatorio; sorpreso e ammazzato nel Messico dai selvaggi ribelliaveva avuto la fortuna di andare almeno in purgatorio.

Questa notizia mise in agitazione tutto il convento di Castro e giunse ad Elena che in quei tempi si abbandonava a tutte le follie che il possesso di una grande fortuna può ispirare ad una persona profondamente annoiata. A partire da quel momento non uscì più dalla sua camera. Bisogna sapere che per riuscire a trasformare come propria camera lo stanzino della suora guardianadove Giulio s'era rifugiato un momento durante la notte dell'assaltoaveva dovuto far ricostruire una metà del convento. Superando gravi ostacoli e sollevando uno scandalo molto difficile da soffocarefinalmente riuscì a scoprire ed a prendere al proprio servizio i tre "bravi" che il Branciforte aveva assoldatoi soli superstiti dei cinque che un giorno scamparono dal combattimento di Castro.

Tra questi c'era Ugoneormai vecchio e crivellato di ferite. La vista di quei tre uomini aveva sollevato più d'un mormorio; ma finalmente il timore che l'altero carattere di Elena incuteva a tutta la comunità aveva preso il sopravventoe tutti i giorni si vedevano i trevestiti della sua livreaandare a prendere i suoi ordini alla cancellata esterna e spesso rispondere a lungo alle sue domande sempre sullo stesso argomento.

Dopo i sei mesi di clausura e di distacco da tutte le cose del mondo che seguirono all'annuncio della morte di Giulioil primo sentimento che riscosse quell'anima già spezzata da un'irrimediabile sventura e da una lunga noiafu un sentimento di vanità.

La badessa era morta da poco. Secondo l'usoil cardinale Santi Quattroche era ancora il protettore della Visitazione nonostante il peso dei suoi novantadue anniaveva formato la lista delle tre monache tra cui il papa doveva scegliere la badessa. Perché Sua Santità leggesse gli ultimi due nomi della terna ci volevano delle ragioni molto gravi: di solito si limitava a cancellare quei due nomi con un tratto di pennae la nomina era fatta.

Elena un giorno era alla finestra del vecchio stanzino vuoto della suora guardianadivenuto ormai l'estremità della nuova ala che ella aveva fatto aggiungere al convento. Quella finestra era alta non più di due piedi sul passaggio che un giorno era stato bagnato dal sangue di Giulio e che ora faceva parte del giardino. Ella teneva gli occhi fissi a terraprofondamente assorta. Le tre monache che da qualche ora erano nella lista del Cardinale per succedere alla defunta badessa passarono davanti alla finestra di Elena. Lei non le vide e non poté perciò salutarle. Una delle tre si sentì offesa e disse alle altre a voce abbastanza alta:

- Bel modo di fare da parte di una pensionante! Scegliersi una camera esposta al pubblico!

Scossa da queste paroleElena alzò gli occhi e incontrò tre sguardi cattivi.

- Ebbene- disse chiudendo la finestra senza salutare- già da troppo tempo faccio in questo convento la parte dell'agnellobisogna diventar luponon foss'altro per variare un poco i divertimenti dei curiosi della città.

Un'ora dopouno dei suoi uomini più fidati fu mandato a consegnare questa lettera a sua madreche da dieci anni abitava a Roma e aveva saputo acquistarsi un gran credito:

"Madre rispettabilissimaOgni anno tu mi dai trecentomila franchi nel giorno della mia festa: io, qui, spendo questo danaro in pazzie, onorevoli a dire il vero, ma che nondimeno sono pazzie. Benché tu non me lo dica più da un pezzo, io so che avrei due modi per provarti la mia riconoscenza per tutte le buone intenzioni che hai avuto verso di me. Non mi mariterò, ma diventerei con piacere BADESSA DI QUESTO CONVENTO. Quest'idea mi è venuta quando ho visto che le tre monache della lista presentata al Santo Padre dal nostro cardinale Santi Quattro sono mie nemiche: qualunque di esse sia nominata, devo aspettarmi ogni sorta di angherie. I danari che mi dai per la mia festa dalli alle persone a cui bisogna offrirli. Prima di tutto, facciamo in modo che ci sia nella nomina un ritardo di sei mesi: la priora del convento, mia intima amica, che oggi dirige temporaneamente la comunità, toccherà il cielo col dito. Per me sarà un principio di gioia, e tu sai che tua figlia adopera di rado questa parola quando parla di sé. Riconosco che la mia è un'idea pazza; ma se tu vedi che c'è qualche probabilità di riuscita, prima che passino tre giorni io metterò il velo bianco, perché otto anni di soggiorno in convento, senza mai pernottare fuori, mi danno diritto a sei mesi di esenzione. La dispensa non si nega mai, e costa quaranta scudi.

Sono con rispettomia veneranda madre".

Elena

Questa lettera riempì di gioia la signora di Campireali. Quando la ricevetteera già profondamente pentita di aver fatto annunciare alla figliola la morte di Giulio. Non sapendo dove sarebbe sboccata quella profonda malinconia in cui Elena era cadutaprevedeva qualche pazzia e temeva perfino che le venisse l'idea di recarsi nel Messico a visitare il luogo dove s'era detto che il Branciforte fosse stato ammazzatonel qual caso era probabile che a Madrid venisse a conoscere il vero nome del colonnello Lizzara.

D'altra parte quel che la figliola le chiedeva per mezzo di quel corriere era la cosa più difficile da otteneresi poteva dire anzi la più assurda.

Una giovinettache non era neppure monacae che s'era fatta conoscere soltanto per la folle passione di un brigantepassione ch'ella aveva forse condivisoessere posta alla testa d'un convento dove tutti i principi romani avevano qualche parente!

Mapensò la signora di Campirealisi dice che ogni processo può esser discusso e perciò vinto. Nella sua risposta Vittoria Carafa diede delle speranze alla figliolache di solito aveva sidesideri assurdima che in compenso se ne disgustava con molta facilità. La seranel prendere informazioni su quanto da vicino o da lontano si riferiva al convento di Castroseppe da parecchi che il suo amico cardinale Santi Quattro era di pessimo umore:

voleva combinare un matrimonio tra la propria nipote e don Ottavio Colonnafiglio primogenito di quel Fabrizio di cui s'è parlato così spesso in questa storia. Il principe gli offriva invece il suo secondogenitodon Lorenzoperché a rimettere in sesto il suo patrimoniostranamente compromesso dalla guerra che il re di Napoli e il papafinalmente d'accordo facevano ai briganti della Faiolabisognava che la moglie del suo primogenito portasse in casa Colonna una dote di seicentomila piastre (3210000 franchi).

Ora il cardinale Santi Quattroanche diseredando in modo sconveniente tutti gli altri suoi parentinon poteva offrire che una fortuna di circa quattrocentomila scudi.

Vittoria Carafa passò la serata ed una parte della notte a farsi confermare questi fatti da tutti gli amici del vecchio Santi Quattro. Il giorno dopo erano appena le sette quando si fece annunciare in casa del vecchio cardinale.

- Eminenza- gli disse- siamo tutti e due vecchi. E' inutile che cerchiamo d'ingannarcichiamando con bei nomi cose non belle.

Vengo a proporvi una pazzia: non si trattaè verodi cosa odiosaanche secome a me paresommamente ridicola. Quando si stava trattando del matrimonio tra don Ottavio Colonna e mia figlia Elenami sono affezionata a quel giovanee perciò il giorno del suo matrimonio vi consegnerò duecentomila piastre in terre o in danaroche voi mi farete il favore di fargli avere. Ma perché una povera vedova come me possa fare un sacrificio così enormebisogna che mia figlia Elenala quale ha ormai ventisette anni e dall'età di diciannove non ha dormito una sola notte fuori dal conventosia nominata badessa di Castro: bisogna ritardare l'elezione di sei mesi: la cosa è canonica.

- Che cosa dite maisignora? - esclamò il vecchio cardinale fuori di sé. - Neppure Sua Santità potrebbe fare quel che voi chiedete a un povero vecchio impotente.

- Perciò ho detto a Vostra Eminenza che si trattava di una cosa ridicola: gli sciocchi diranno che è una pazzia; ma le persone ben informate di quel che avviene alla Corte penseranno che il nostro ottimo sovranoil buon papa Gregorio tredicesimoha voluto ricompensare i leali e lunghi servigi di Vostra Eminenza facilitando un matrimonio che tutta Roma sà che è desiderato da voi. Del resto la cosa è possibilissima e del tutto canonicane rispondo io. Domani mia figlia metterà il velo bianco.

- Ma la simonìasignora!... - esclamò il vecchio con voce terribile.

La signora di Campireali era sul punto di andarsene.

- Cos'è codesta carta che lasciate?

- E' l'elenco delle terre che presentereidi valore pari a duecentomila piastrenel caso che non si volesse danaro contante.

Il trapasso di proprietà di queste terre potrebbe essere tenuto nascosto per un gran pezzo. Per esempiola casa Colonna potrebbe intentarmi dei processi che io perderei...

- Ma la simonìasignora! l'orrenda simonìa!

- Bisogna incominciare col differire di sei mesi l'elezione.

Domani verrò a prendere gli ordini di Vostra Eminenza.

Sento il bisogno di spiegare ai lettori nati al nord delle Alpi il tono quasi ufficiale di parecchie battute di questo dialogo.

Ricorderò che nei paesi strettamente cattolici la maggior parte dei dialoghi su argomenti scabrosi finiscono con l'arrivare al confessionalee allora è tutt'altro che indifferente essersi servito d'una parola rispettosa o d'un termine ironico.

Il giorno doponel pomeriggioVittoria Carafa seppe che per un errore di fattoscoperto nella terna presentata per la nomina della badessa di Castrol'elezione era rimandata di sei mesi: la seconda monaca della terna aveva in famiglia un rinnegato: un suo prozio s'era fatto protestante a Udine.

La signora di Campireali credette opportuno fare un passo presso il principe Fabrizio Colonnaalla cui casa stava per offrire un così ragguardevole aumento di patrimonio. Dopo due giorni di praticheriuscì ad ottenere un colloquio in un villaggio vicino a Roma. Ma da quell'udienza ne uscì tutta spaventata; aveva trovato il principedi solito così calmotanto preoccupato della gloria militare del colonnello Lizzara (Giulio Branciforte) che aveva creduto del tutto inutile chiedergli il segreto su quel punto. Il colonnello era per lui un figlioloanzi anche di più: un allievo prediletto. Il principe passava il tempo a leggere e rileggere certe lettere venute dalla Fiandra. Che cosa sarebbe stato del progetto che la signora di Campireali accarezzava da tanti anni e a cui aveva sacrificato tante cosese la figlia fosse venuta a conoscenza dell'esistenza e della gloria del colonnello Lizzara?

Credo bene tacere molte circostanze che a dire il vero rappresentano i costumi di quel tempoma che sarebbe triste raccontare anche se l'autore del manoscritto romano ha fatto non poca fatica per arrivare a fissare la data precisa di particolari che io sopprimo.

Due anni dopo il colloquio tra la signora di Campireali e il principe ColonnaElena era badessa di Castro. Ma il vecchio cardinale Santi Quattro era morto di crepacuore dopo quel gran peccato di simonìa. In quel tempo Castro aveva per vescovo il più bell'uomo della corte pontificiamonsignor Francesco Cittadininobile milanese.

Questo giovaneragguardevole per la sua grazia modesta e per il suo tono dignitosoebbe frequenti relazioni con la badessa della Visitazione soprattutto nell'occasione della muratura del nuovo chiostro con cui Elena aveva abbellito il convento. Il giovane vescovo Cittadiniche aveva allora ventinove annis'innamorò pazzamente della bella badessa. Nel processo che fu istruito un anno dopouna quantità di monachechiamate come testimoniriferiscono che il vescovo moltiplicava quanto gli era possibile le visite al convento e diceva sovente alla badessa:

- Altrove comando ioelo confesso con rossoreci provo una certa soddisfazione; qui da voi ubbidisco come uno schiavoma con un piacere che supera di molto quello di comandare altrove. Sono sotto l'influsso di un essere superiore: anche se tentassi di farlonon potrei avere altra volontà che la suae preferirei essere eternamente l'ultimo dei suoi servi che essere re lontano dai suoi occhi.

I testimoni riferiscono che la badessa interrompeva spesso queste frasi eleganti ordinandogli di tacereanche con parole dure e sprezzanti.

- Al dire il vero- continua un altro testimonio- la signora badessa lo trattava come un domestico. E allora il povero vescovo abbassava gli occhisi metteva a piangerema non se ne andava.

Trovava ogni giorno un nuovo pretesto per ripresentarsi al conventoil che scandalizzava molto i confessori delle monache e le nemiche della badessa. Ma la signora badessa era vivamente difesa dalla priorasua intima amicache regolava la disciplina interna del monastero sotto gli ordini immediati di lei.

- Voi sapetemie nobili sorelle- diceva la priora- che dopo la passione infelice provata dalla nostra badessanella sua prima gioventùper un soldato di venturale sono rimaste in capo molte idee bizzarre. Ma sapete anche che il suo carattere ha questo di notevole: quando ha mostrato disprezzo per una persona non muta mai di parere. Orain tutta la sua vita non le sono forse uscite di bocca tante parole sprezzanti quante ne ha rivolte in presenza nostra al povero monsignor Cittadini. Noi lo vediamo ogni giorno trattato in tal modo che ci viene da arrossire per la sua alta dignità.

- Sì- rispondevano le monache scandalizzate- ma ritorna tutti i giorni: dunquenon è poi trattato così malee in ogni caso questa apparenza d'intrigo nuoce alla buona fama del santo ordine della Visitazione.

Il padrone più duro non rivolge al servo più inetto la metà delle ingiurie con cui ogni giorno l'altera badessa umiliava quel giovane vescovo dalle maniere così untuose. Ma egli era innamoratoed era venuto dal suo paese con questa massima fondamentaleche quando s'è incominciata un'impresa di quel genere bisogna mirare unicamente allo scopoe non curarsi dei mezzi.

- In fin dei conti- diceva il vescovo al suo confidente Cesare del Bene- il disprezzo è riservato all'amante che ha rinunciato all'attacco prima di esserci costretto da cause di forza maggiore.

Ora il triste compito del narratore si limita a dare un sunto molto arido del processo che causò la morte di Elena. Questo processoche ho letto in una biblioteca di cui devo tacere il nomeoccupa almeno otto volumi.

L'interrogatorio e il ragionamento sono in latinole risposte in italiano. Vi ho letto che nel novembre 1572verso le undici di serail giovane vescovo si recò da solo alla porta della chiesa dove i fedeli sono ammessi durante tutta la giornata. La badessa stessa gli aprì la porta e gli permise di seguirla. Lo ricevette in una stanza dove andava spesso a trattenersi e che per una porta segreta metteva nelle tribune che corrono lungo le navate della chiesa. Era trascorsa un'ora appena quando il vescovotutto stupitofu congedato. La badessa lo ricondusse fino alla porta della chiesa e gli disse queste precise parole:

- Ritornate nel vostro palazzo e lasciatemi subito. Addiomonsignore: mi fate orrore; mi sembra di essermi data a un servitore.

Tre mesi dopo si era in carnevale. Gli abitanti di Castro erano famosi per le feste che si scambiavano tra loro in quelle settimane: la città era piena del chiasso delle mascherate.

Nessuna di queste mancava di passare davanti ad un certo finestrino che dava luceper una servitùa una scuderia del convento. E' facile capire che durante i tre mesi del carnevale la scuderia si trasformava in un salotto e che nei giorni in cui c'erano mascherate era piena zeppa di gente. Un giornomentre il popolo festeggiavail vescovo venne a passar di là con la sua carrozza. La badessa gli fece un segnoe la notte seguenteall'unaegli non mancò di trovarsi alla porta della chiesa.

Entrò; ma dopo tre quarti d'ora all'incirca fu congedato con rabbia. Dopo il primo appuntamento in novembreegli seguitava ad andare al convento quasi tutte le settimane. Gli si leggeva in volto non so che espressione di trionfo e di melensaggine che non sfuggiva a nessunoma che aveva il privilegio di urtare profondamente il carattere altero della giovane badessa. Il lunedì di Pasquacome altre voltela badessa lo trattò come l'ultimo degli uominie gli rivolse parole tali che il più miserando dei servi del monastero non le avrebbe sopportate. Tuttaviaqualche giorno dopogli fece capire con un segno di trovarsi a mezzanotte alla porta della chiesae il bel vescovo non mancò all'appuntamento: l'aveva fatto venire per dichiarargli che era incinta. A questa notiziadice il processoil bel giovane impallidì per l'orrore e "istupidì dalla paura". La badessa ebbe la febbre: fece chiamare il medico e non gli nascose il proprio stato. L'uomo conosceva bene il carattere generoso dell'ammalata e le promise di trarla d'impaccio. Incominciò col metterla in relazione con una giovane e graziosa popolana che non era propriamente una levatricema s'intendeva di parti. Suo marito era fornaio. Elena fu soddisfatta della conversazione che ebbe con questa donnala quale le dichiarò che per la buona riuscita dei progetti con cui sperava di salvarla era necessario avere due confidenti nel monastero.

- Per una donna come voipassi! Ma una mia pari! No. Andatevene immediatamente.

La levatrice se ne andò. Ma Elena non credeva prudente esporsi alle chiacchiere di quella donnae fece chiamare il medicoil quale rimandò la levatrice al conventodove fu generosamente trattata. Ella disse che anche se non l'avessero richiamata non avrebbe mai divulgato il segreto che le era stato confidato; ma dichiarò ancora una volta che non poteva occuparsi di nulla se non c'erano nel monastero due donne che sapessero tutto e che fossero devote alla badessa. (Pensava senza dubbio all'accusa d'infanticidio). Dopo averci molto pensatola badessa decise di confidare il tremendo segreto alla signora Vittoriapriora del conventodella nobile famiglia dei duchi di C... e alla signora Bernardafiglia del marchese P... Fece giurar loro sul breviario che non avrebbero detto una parolaneppure al tribunale della penitenzadi quanto stava per confidare. Le due monache si sentirono agghiacciate dal terrore. Nei loro interrogatori esse confessarono che conoscendo il carattere così altero della badessa s'aspettavano la confidenza di qualche assassinio.

La badessa disse con semplicità e freddezza:

- Ho mancato a tutti i miei doveri: sono incinta.

La signora Vittoriala prioraprofondamente commossa e turbata per l'amicizia che da tanti anni la legava ad Elenae per niente spinta da vana curiositàdomandòcon le lacrime agli occhi:

- Chi è dunque l'imprudente che ha commesso questo delitto?

- Non l'ho detto neppure al mio confessore: pensate se posso dirlo a voi!

Le due monache cercarono in tutta fretta il modo di nascondere il fatale segreto alle altre religiose. Prima di tutto stabilirono di trasportare il letto della badessa dalla sua cameraposto molto centralealla farmacia che era stata collocata nel luogo più remoto del monasteroal terzo piano di quella grande ala fatta costruire dalla generosa Elena. Fu là che la badessa diede alla luce un bambino maschio. La moglie del fornaio era nascosta da tre mesi nell'appartamento della priora. Mentre camminava in fretta nel chiostrocol bambino in colloquesto si mise a gridaree la donnaspaventatasi rifugiò nella cantina. Un'ora dopo la signora Bernarda riuscì con l'aiuto del medico ad aprire una porticina del giardinoe la moglie del fornaio uscì in fretta dal monastero e poco dopo dalla città. Arrivata in aperta campagna e presa dal panicosi rifugiò in una grotta che il caso le fece trovare tra certe rocce. La badessa scrisse a Cesare del Beneconfidente e primo cameriere del vescovoche corse a cavallo alla grotta indicataprese il bambino in groppa con sée partì al galoppo per Montefiascone. Il bambino fu battezzato nella chiesa di Santa Margherita e gli fu imposto il nome di Alessandro.

L'ostessa del luogo procurò una balia a cui Cesare consegnò otto scudi. Molte donneche s'erano accalcate intorno alla chiesa durante la cerimonia del battesimochiesero ad alte grida al signor Cesare il nome del padre del bambino.

- E' un gran signore di Roma- egli rispose - che si è permesso di sedurre una povera contadina come voi.

E scomparve.

 

 

 

7.

 

Sembrava che tutto dunque andasse bene in quell'immenso monasteroabitato da più di trecento donne curiose. Nessuno aveva visto nullanessuno aveva sentito nulla. Ma accadde che la badessa diede al medico alcune manate di zecchini coniati di recente nella zecca di Roma. Il medico a sua volta diede parecchie di quelle monete alla moglie del fornaio. La donna era graziosa e il marito geloso: questi le frugò nella valigiaci trovò quelle belle monete d'oro tutte lucentie credendo che fosse il prezzo del suo disonore costrinse la mogliecol coltello alla golaa dirgli da chi le aveva avute. Dopo molte tergiversazionila donna confessò la veritàe la pace fu fatta. I due sposi passarono a discutere sull'uso che potevano fare d'una tal somma. La fornaia voleva pagare certi debiti; ma il marito pensò che era meglio comperare un muloe così fecero. Quel mulo fece scandalo nel vicinatoche conosceva bene la povertà dei due sposi. Tutte le comari della cittàamiche e nemichevenivano le une dopo le altre a chiedere alla moglie del fornaio quale amante generoso l'aveva messa in condizioni di comperare un muloe la donnairritataqualche volta rispondeva dicendo la verità. Un giorno che Cesare del Bene era andato a vedere il bambino e ritornava a rendere conto della sua visita alla badessaquestabenché indispostavenne fino alla gratae gli fece rimproveri sulla poca discrezione usata dagli agenti di cui egli s'era servito. Il vescovoda parte suacadde ammalato per la paurae scrisse ai suoi fratelli di Milano per raccontare l'ingiusta accusa che gli facevano e per invitarli a venire in suo aiuto. Benché gravemente ammalatodecise di lasciare Castro; ma prima di partire scrisse alla badessa:

"Saprete già che la gente sa tutto. Perciòse avete interesse a mettere in salvo non solo la mia reputazionema anche la mia vita e se volete evitare un più grave scandalopotete incolpare Giambattista Dolerimorto da qualche giorno. Se con questo mezzo non provvedete al vostro onoreil mio almeno non correrà più alcun pericolo".

Il vescovo chiamò don Luigiil confessore del monastero di Castro.

- Consegnate questa lettera- gli disse- nelle mani della signora badessa.

Questadopo aver ricevuto l'infame bigliettoesclamò davanti a tutte le persone che erano nella stanza:

- Così meritano d'essere trattate le vergini folli che preferiscono la bellezza del corpo a quella dell'anima!

Notizia di quanto avveniva a Castro giunse rapidamente alle orecchie del "terribile" cardinale Farnese che da qualche tempo aveva assunto quel tal carattere perché sperava di avere nel prossimo conclave l'appoggio dei cardinali zelanti. Il podestà di Castro ebbe subito l'ordine di fare arrestare il vescovo Cittadini. Tutti i suoi domesticiper lo spavento d'esser messi alla torturapresero la fuga. Il solo Cesare del Bene restò fedele al suo padrone e gli giurò che sarebbe morto fra i tormenti piuttosto che confessare cosa che potesse nuocergli. Monsignor Cittadinivedendo il suo palazzo circondato di guardiescrisse di nuovo ai suoi fratelli che arrivarono da Milano in tutta fretta. Lo trovarono chiuso nella prigione di Ronciglione.

Raccolgo dal primo interrogatorio che la badessapur confessando la propria colpanegò di aver avuto rapporti con monsignor vescovo: il suo complice era stato Giambattista Doleriavvocato del convento.

Il 9 settembre 1573 Gregorio tredicesimo ordinò che il processo fosse fatto in tutta fretta e col massimo rigore. Un giudice criminaleun fiscale e un commissario si recarono a Castro e a Ronciglione. Cesare del Beneprimo cameriere del vescovoconfessa soltanto d'aver portato un bambino presso una balia. E' messo a confronto con le signore Vittoria e Bernarda. Torturato per due giorni di seguitosoffre orribilmente; ma fedele alla sua parolanon confessa se non quanto è impossibile negaree il fiscale non può trargli nulla di bocca.

Quando viene la volta delle signore Vittoria e Bernardache avevano assistito alle torture inflitte a Cesarele stesse confessano quanto hanno fatto. Tutte le religiose sono interrogate circa il nome dell'autore del delitto: quasi tutte rispondono di avere sentito dire che è monsignor vescovo. Una delle suore portinaie riferisce le parole oltraggiose che la badessa aveva rivolto al vescovo nel metterlo alla porta della chiesa. E aggiunse:

"Quando si parla con un tono similegli è che da un pezzo si amoreggia. Infatti monsignor vescovoche di solito era pieno di sicumeranell'uscir di chiesa era tutto vergognoso".

Una delle religioseinterrogata davanti allo strumento di torturarisponde che l'autore del delitto dev'essere il gattoperché la badessa se lo tiene sempre in grembo e lo accarezza molto. Un'altra religiosa pretende che l'autore del delitto dev'essere il ventoperchè nelle giornate ventosela badessa è felice e di buon umore e si espone all'azione del vento su un belvedere che ha fatto costruire apposta; e quando si va a chiederle là una grazianon la rifiuta mai. La moglie del fornaiola baliale comari di Montefiasconespaventate dalle torture che avevano visto infliggere a Cesaredicono la verità.

Il giovane vescovo era malato o si fingeva malato a Ronciglione; e questo diede occasione ai suoi fratelliaiutati dal credito e dall'alta posizione della signora di Campirealidi gettarsi più volte ai piedi del Papae di chiedergli che la procedura fosse sospesa finché il vescovo non si fosse ristabilito in salute. Il terribile cardinale Farnese accrebbe allora il numero dei soldati che ne vigilavano la prigione. Non potendo il vescovo essere interrogatoi commissari incominciavano tutte le loro sedute facendo subire un nuovo interrogatorio alla badessa. Un giorno che la madre le aveva fatto dire di tenere duro e continuare a negare tuttolei confessò ogni cosa.

- Perché da principio avete accusato Giambattista Doleri?

- Perché la viltà del vescovo mi faceva penae d'altra parte se egli riesce a salvar la pellepotrà curarsi di mio figlio.

Dopo questa confessionela badessa fu chiusa in una stanza del convento di Castrole cui muracome la voltaavevano la grossezza di otto piedi. Le monache parlavano con orrore di quella cellaconosciuta col nome di stanza dei monaci. La badessa era guardata a vista da tre donne.

Poiché la salute del vescovo migliorò un pocotrecento sbirri o soldati andarono a prenderlo a Ronciglionelo trasportarono a Roma in lettigae lo deposero nella prigione chiamata Corte Savella. Pochi giorni dopo anche le religiose furono condotte a Roma: la badessa fu chiusa nel monastero di Santa Marta. Quattro erano le accusate: le signore Vittoria e Bernardala guardiana e la portinaia che aveva sentito le parole oltraggiose rivolte al vescovo dalla badessa.

Il vescovo fu interrogato dall'uditore della Camera Apostolicauno dei primi personaggi dell'ordine giudiziario. Fu nuovamente sottoposto alla tortura il povero Cesare del Beneil quale non solo non confessò nullama disse cose che "dispiacquero al Pubblico Ministero"e questo si vendicò con un'altra applicazione della tortura. Anche alle signore Vittoria e Bernarda fu inflitto questo supplizio supplementare. Il vescovo negava tutto scioccamentema con coraggiosa ostinatezza: dava contofin nei minimi particolaridi quanto aveva fatto nelle tre serate che evidentemente aveva trascorso con la badessa.

Finalmente furono messi a confronto la badessa di Castro e il vescovoe benché la badessa dicesse costantemente la veritàfu sottoposta alla tortura. Poiché ripeteva quel che aveva sempre detto dopo la sua prima confessioneil vescovoconforme alla propria indolele rivolse ingiurie.

Dopo parecchie altre misureragionevoli in fondoma ispirate da quella crudeltà che prevaleva troppo spesso nei tribunali italianidopo il regno di Carlo Quinto e di Filippo Secondoil vescovo fu condannato alla prigione perpetua in Castel Sant'Angelo e la badessa a passare tutta la vita in quel convento di Santa Marta dove era stata condotta. Ma l'attività della signora di Campireali non si fermava dinanzi ad alcun ostacolo: essa aveva incominciato a far scavare un passaggio sotterraneo per salvare la figlia.

Il passaggio partiva da una di quelle fogne aperte dalla magnificenza degli antichi Romani e sboccava in una profonda cripta dove si deponevano le spoglie mortali delle religiose di Santa Marta. Largo due piedi all'incircail passaggio aveva pareti di tavole per arginare la terra a destra e a sinistrae via via che si procedeva nello scavo gli si costruiva sopra una specie di volta con due tavole convergenti come le gambe di una A maiuscola.

Lo scavo era press'a poco a trenta piedi di profondità. Il difficile stava nel dargli la direzione giusta: ogni momento s'incontravano pozzi o fondamenta di antichi edifici che costringevano gli operai a deviare. Un'altra grande difficoltà consisteva nell'ingombro della terra scavatadi cui non si sapeva cosa fare: sembra che di notte la trasportassero fuori e la spargessero qua e là in tutte le vie di Roma. La gente si meravigliava di tutta quella gran quantità di terra che sembrava piovuta dal cielo.

La signora di Campireali spendeva denari a piene maniperché adorava la figlianonostante le osservazioni che s'era permessa di farle. Eppurecon tutto il genio che non le contestano i vecchi che l'hanno conosciuta e da cui ho saputo questi curiosi particolariil suo passaggio sotterraneo sarebbe stato senza dubbio scoperto.

Ma il papa Gregorio tredicesimo venne a morire nel 1585e con la sede vacante incominciò il regno del disordine.

Elena era trattata molto male nel convento dov'era stata rinchiusa. Si può facilmente immaginare con quale zelo semplici religiose piuttosto povere com'erano quelle di Santa Marta tormentavano una badessa molto ricca e rea confessa d'un tal delitto. Elena aspettava ansiosa il risultato dei lavori intrapresi dalla madre. Ma improvvisamente il suo cuore ebbe strane emozioni. Già da sei mesi Fabrizio Colonnaprevedendo la prossima morte di Gregorio tredicesimoformava grandi progetti per l'interregno: egli aveva mandato uno dei suoi ufficiali da Giulio Branciforteormai ben conosciuto nell'esercito spagnolo sotto il nome di colonnello Lizzaraper richiamarlo in Italia.

Giulioche ardeva dal desiderio di rivedere il suo paesesbarcò con un falso nome a Pescarapiccolo porto dell'Adriatico sotto Chieti in Abbruzzoe attraverso le montagne arrivò fino alla Petrella. La gioia che n'ebbe il principe fece stupire tutti. Egli disse a Giulio che l'aveva fatto chiamare per nominarlo suo successore e affidargli il comando delle sue truppe. Il Branciforte gli rispose che l'impresamilitarmente parlandonon valeva nullae glielo provò facilmente: se la Spagna l'avesse voluto sul serioin pochi mesi e con poca faticaavrebbe potuto distruggere tutti i soldati di ventura d'Italia.

- Ma insomma- aggiunse il giovane Branciforte- se tale è la vostra volontàprincipeeccomi pronto a marciare. In me voi troverete sempre il successore del bravo Ranuccio ucciso ai Ciampi.

Prima dell'arrivo di Giulioil principe aveva ordinatocome sapeva ordinar luiche nessunoalla Petrellasi lasciasse andare a parlare di Castro e del processo della badessa: la minima chiacchiera sarebbe stata punita con la pena di morteinesorabilmente. Tra le calde dimostrazioni di amicizia con cui accolse il Brancifortelo pregò di non recarsi ad Albano se non con luie prima d'intraprendere il viaggio fece occupare la città da mille dei suoi uomini e collocarne milleduecento in avanguardia sulla strada di Roma.

Si pensi a quel che provò Giulio quando il principedopo aver fatto venire il vecchio Scottiche viveva ancoranella casa dove aveva collocato il proprio quartiere generalelo fece salire nella camera dov'era lui col Branciforte. Dopo che i due amici si furono gettati l'uno nelle braccia dell'altrodisse:

- E orapovero colonnelloaspettati quel che ci può essere di peggio.

Spenta la candelachiuse a chiave i due amici nella stanza e se ne andò.

Il giorno dopo Giulio non volle uscire dalla sua camera e fece chiedere al principe il permesso di ritornare alla Petrella e di non vederlo per qualche giorno. Gli fu riferito che il principe era scomparso con le sue truppe: gli era giunta nella notte la notizia della morte di Gregorio Tredicesimoe dimentico del suo amico Giulio batteva la campagna. Con Giulio erano rimasti soltanto una trentina di uomini appartenenti all'antica compagnia di Ranuccio. E' noto che allora le leggi erano lettera morta in tempo di sede vacante: ognuno pensava a sfogare la proprie passionie non c'era altra forza che la forza. Perciòprima che finisse quel giornoil principe Colonna aveva fatto impiccare più di cinquanta dei suoi nemici. Quanto a Giuliobenché avesse con sé meno di quaranta uominiosò marciare verso Roma.

Tutti i domestici della badessa di Castro le erano rimasti fedelie avevano preso alloggio nelle casupole vicine al convento di Santa Marta. L'agonia di Gregorio Tredicesimo s'era prolungata per più d'una settimana. La signora di Campireali aspettava con impazienza le giornate di disordini che dovevano seguire alla morte del papa per fare scavare gli ultimi cinquanta passi del suo sotterraneo. Ma poiché bisognava attraversare le cantine di parecchie case abitatetemeva molto di non potere nascondere al pubblico la fine della sua impresa.

Due giorni dopo l'arrivo del Branciforte alla Petrellai tre vecchi "bravi" di Giulioche Elena aveva preso a serviziosembravano impazziti. Benché tutti sapessero benissimo che lei viveva nella più assoluta reclusionevigilata a vista da religiose che l'odiavanoUgoneuno dei "bravi"picchiò alla porta del convento e insisté stranamente perché gli fosse concesso di vedere la sua padrona... e subito. Fu respinto e messo alla porta. Disperatol'uomo rimase lìe dava un "baiocco" (un soldo) a ognuno dei domestici del convento che entravano e uscivanodicendo loro queste precise parole:

- Rallegratevi con meil signor Giulio Branciforte è arrivatoè vivo: ditelo ai vostri amici.

I due camerati di Ugone passarono la giornata a portargli dei baiocchie continuarono a distribuirli giorno e notte dicendo sempre le stesse parole finché non ne rimase loro neppure uno. Ma i tre "bravi"dandosi il turnocontinuarono lo stesso a montar la guardia davanti alla porta del convento di Santa Martae a ripetere ai passanti le stesse parole con grandi gesti di saluto:

- Il signor Giulio è arrivatoeccetera.

L'idea di questa brava gente ebbe un felice successo: meno di trentasei ore dopo che il primo baiocco era stato distribuitola povera Elena sapeva nel fondo della sua segreta che Giulio era vivo: quelle parole le diedero una sorta di frenesia: - O mamma! - esclamava- quanto male mi avete fatto!

Qualche ora più tardi la stupefacente notizia le fu confermata dalla piccola Mariettache sacrificando tutti i suoi gioielli d'oro ottenne di seguire la suora guardiana incaricata di portare i pasti alla prigioniera. Elena le si gettò tra le braccia piangendo di gioia.

- Sembra un sogno- le disse- ma io non rimarrò più a lungo con te.

- S'intende! - le disse Marietta. - Sono certa che non passerà il tempo di questo conclave senza che la vostra prigione sia commutata in un semplice esilio.

- Ah! cararivedere Giulio! e rivederlocolpevole come sono!

Nella terza notte dopo questo colloquiouna parte del pavimento della chiesa sprofondò con un gran rumore: le religiose di Santa Marta credettero che il convento stesse per crollare. Ci fu un grandissimo turbamento: tutti gridavano al terremoto. Un'ora dopo la caduta del pavimento di marmo della chiesala signora di Campirealipreceduta dai tre "bravi" al servizio di Elenaentrò nella segreta per via sotterranea.

- Vittoriavittoriasignora! - gridavano i "bravi". Elena ebbe uno spavento mortale: credette che Giulio Branciforte fosse con loro. Si rassicurò ben prestoe i lineamenti del suo volto ripresero la consueta espressione severaquando gli uomini le dissero che con loro c'era soltanto la signora di Campireali e che Giulio era ancora ad Albanooccupata da lui con parecchie migliaia di soldati.

Dopo qualche minuto apparve la signora di Campireali: camminava con molta faticaappoggiata al braccio del suo scudieroche era in gran costume e con la spada al fiancoma con quel magnifico costume tutto sudicio di terra.

- Elena mia! vengo a salvarti! - esclamò la signora di Campireali.

- E chi vi dice che io voglia essere salvata?

La signora di Campirealistupitaguardava la figlia con occhi spalancati: sembrava presa da una grande agitazione.

- EbbeneElena mia- disse finalmente- il destino mi sforza a confessarti un'azione forse molto naturaledopo le sventure che un giorno hanno colpito la nostra famiglia; ma non me ne pentoe ti prego di perdonarmi: Giulio... Branciforte... è vivo...

- E proprio perché vive io non voglio vivere.

La signora di Campireali da principio non comprendeva quel che la figliola volesse dire. Si mise a supplicarla teneramentema non ottenne nessuna risposta. Elena s'era voltata verso il suo crocifisso e pregava senza ascoltarla. Invanoper un'ora interala signora di Campireali fece di tutto per ottenere una parola o uno sguardo. Finalmentespazientitala figlia le disse:

- Le sue lettere erano nascoste sotto il marmo di questo crocifissonella mia cameretta di Albano: sarebbe stato meglio lasciare che mio padre mi pugnalasse! Uscitee lasciatemi del danaro.

La signora di Campireali voleva parlare ancora alla figliamalgrado i segni che le faceva lo scudiero impauritoma Elena proruppe:

- Lasciatemi almeno un'ora di libertà: mi avete avvelenato la vita e ora volete avvelenarmi anche la morte.

- Saremo padroni del sotterraneo ancora per due o tre ore: spero che ti ricrederai! - esclamò la signora di Campireali tutta in lacrime.

E riprese la via del sotterraneo.

- Ugoneresta qui con me- disse Elena a uno dei suoi "bravi"e sii bene armatoragazzo mioperché forse bisognerà difendermi.

Vediamo la tua dagala tua spadail tuo pugnale!

Il vecchio soldato le mostrò le sue armiche erano in buono stato.

- Ebbenetieniti lì sulla porta della prigione. Io scriverò una lunga lettera a Giulio che tu stesso gli consegnerai: voglio che passi soltanto per le tue maniperché non ho nulla per sigillarla. Tu puoi leggerla tutta. Mettiti in tasca queste monete d'oro che mia madre ha lasciato. Per me non ho bisogno che di cinquanta zecchini: mettili sul mio letto.

Dopo queste parole. Elena si mise a scrivere.

"Non dubito di teGiulio mio: se me ne vadoè perché morirei di dolore tra le tue braccia vedendo quale sarebbe la mia felicità se non avessi commesso una colpa. Non credere che io abbia amato un altro al mondo dopo di te. Anzi il mio cuore era pieno del più vivo disprezzo per l'uomo che ammettevo nella mia camera. La mia è una colpa nata soltanto dalla noia: una colpase si vuoledi libertinaggio. Pensa che il mio animomolto indebolito dopo l'ultimo tentativo della Petrellaquando ebbi una così crudele accoglienza dal principe che veneravo perché tu l'amavipensadicoche il mio animo molto indebolito durante dodici anni di menzognefu come assediato. Tutto quel che mi circondava era falsità e ingannoe io lo sapevo. Ebbi da principio una trentina di lettere da te: pensa con quale impeto di passione aprii le prime! Mavia via che leggevoil cuore mi si agghiacciava.

Esaminavo quella scrittura: ci riconoscevo la tua manoma non il tuo cuore. Pensa che quel primo inganno ha sconvolto a tal punto l'essenza della mia vita che potevo aprire senza gioia una lettera scritta da te! Il tremendo annuncio della tua morte finì di uccidere quanto sopravviveva in me della nostra felice giovinezza.

Il mio primo pensierocome tu ben comprenderaifu quello di visitare e toccare con le mie mani la spiaggia messicana dove si diceva che i selvaggi t'avevano ucciso. Se avessi seguito quel pensiero... ora saremmo feliciperché a Madridper numerose e furbe che fossero le spie messemi alle calcagna da chi vigilava su di meavrei tratto dalla mia tutte le anime in cui resta ancora un po' di compassione e di bontàe probabilmente sarei arrivata a sapere la verità. Già il tuo valoreGiulio mioaveva richiamato su te l'attenzione del mondoe forse a Madrid qualcuno sapeva che tu ti chiamavi Branciforte. Vuoi che ti dica quel che impedì la nostra felicità? Prima di tuttoil ricordo dell'atroce e umiliante accoglienza che ebbi dal principe alla Petrella: quanti e quali ostacoli avrei dovuto affrontare per andare da Castro al Messico! Come tu vedil'energia della mia anima già incominciava a scemare. Mi venne poi una tentazione di vanità. Avevo fatto fare delle grandi costruzioni nel convento per trasformare in camera da letto per me lo stanzino della suora guardianadove tu ti eri rifugiato nella notte del combattimento. Guardavo un giorno quella terra che tu avevi bagnato del tuo sangueper me; ed ecco che mi giunse all'orecchio una parola sprezzante: levai il capoe vidi delle facce cattive: volli esser badessa per vendicarmi. Mia madreche sapeva bene che tu eri vivofece cose eroiche per ottenere una nomina così stravagante. L'alto grado non fu per me che una fonte di guai: finì di avvilirmi l'anima. Sentivo piacere nell'esercitare il mio potere a danno delle altre: fui ingiusta.

Mi vedevo a trent'anni virtuosa agli occhi del mondoriccarispettatae nondimeno profondamente infelice. Allora si presentò quel pover'uomoche era la bontà stessama anche la dabbenaggine in persona. Proprio grazie a quella dabbenaggine diedi ascolto alle sue prime parole. La mia anima era così addolorata da tutto quel che mi circondava dopo la tua partenza che non aveva più la forza di resistere alla minima tentazione. Ti confesserò una cosa molto sconveniente? Ma pensa che a una morta tutto è permesso.

Quando leggerai queste righei vermi divoreranno questa bellezza che avrebbe dovuto essere soltanto tua. Ma insomma devo dire questa cosa che mi fa tanto pena: non capivo perché non avrei gustato anch'iocome tutte le dame di Romal'amore grossolano.

Ebbi un pensiero licenziosoma non ho potuto mai darmi a quell'uomo senza provare un senso di disgusto e di orrore che annullava ogni piacere. Ti vedevo sempre vicino a menel nostro giardino di Albanoquando la Madonna t'ispirò quel pensiero apparentemente generosoma che puredopo mia madreè stata la disgrazia della nostra vita. Non eri minacciosoma tenero e buono come sei stato sempre: mi guardavi; e io allora avevo degli impeti di collera contro quell'altro e arrivavo al punto di batterlo con tutte le mie forze. Ecco tutta la veritàGiulio mio: non volevo morire senza dirtelae pensavo anche che questa conversazione con te avrebbe allontanata da me l'idea della morte. Ora vedo anche meglio quale sarebbe stata la mia gioia nel rivedertise mi fossi mantenuta degna di te. Ti ordino di vivere e di seguitare codesta carriera militare che mi ha dato tanta gioia quando ho saputo dei tuoi primi felici successi. Che cosa sarebbe accadutogran Dio!

se avessi ricevuto le tue letteresoprattutto dopo la battaglia di Achenne! Vivie conserva memoria di Ranuccioucciso ai Ciampie di Elenache per non vedere un rimprovero nei tuoi occhiè morta a Santa Marta".

Dopo che ebbe scrittoElena si avvicinò al vecchio soldato e vide che dormiva. Gli tolse la dagasenza ch'egli se ne avvedessee lo svegliò.

- Ho finito- disse- temo che i nostri nemici s'impadroniscano del sotterraneo. Corri in fretta a prender la lettera sulla tavola e consegnala tu stesso a Giulio: TU STESSOhai capito? Dagli anche questo fazzoletto: digli che l'amo in questo momento come l'ho sempre amatoSEMPREhai ben capito?

Ugonein piedinon se ne andava.

- Vattenedunque!

- Signoraavete riflettuto bene? Il signor Giulio vi ama tanto!

- Anch'io l'amo: prendi la lettera e dagliela tu stesso.

- Ebbeneche Dio vi benedica: siete così buona!

Ugone si mosse per andar viapoi ritornò in fretta e trovò Elena morta: aveva la daga nel cuore.