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Franco Sacchetti



IL TRECENTONOVELLE


Proemio



Considerando al presente tempo e alla condizione dell'umana vitala quale con pestilenziose infirmità e con oscure morti è spesso vicitata; e veggendo quante rovine con quante guerre civili e campestre in essa dimorano; e pensando quanti populi e famiglie per questo son venute in povero e infelice stato e con quanto amaro sudore conviene che comportino la miserialà dove sentono la lor vita esser trascorsa; e ancora immaginando come la gente è vaga di udire cose nuovee spezialmente di quelle letture che sono agevoli a intenderee massimamente quando danno confortoper lo quale tra molti dolori si mescolino alcune risa; e riguardando in fine allo eccellente poeta fiorentino messer Giovanni Boccacciil quale descrivendo il libro delle Cento Novelle per una materiale cosaquanto al nobile suo ingegno... quello è divulgato e richie... che infino in Francia e in Inghilterra l'hanno ridotto alla loro linguae grand...so; io Franco Sacchetti fiorentinocome uomo discolo e grossomi proposi di scrivere la presente opera e raccogliere tutte quelle novellele qualie antiche e modernedi diverse maniere sono state per li tempie alcune ancora che io vidi e fui presentee certe di quelle che a me medesimo sono intervenute.
E non è da maravigliare se la maggior parte delle dette novelle sono fiorentine... che a quelle sono stato prossima... e se non al fatto piú presso a la... e perché in esse si tratterà di... condizioni di genticome di... marchesi e conti e cavalierie di... grandi e piccolie cosí di grandi donnemezzane e minorie d'ogni altra generazione; nientedimeno nelle magnifiche e virtuose opere seranno specificati i nomi di quelli tali; nelle misere e vituperosedove elle toccassino in uomini di grande affare o statoper lo migliore li nomi loro si taceranno; pigliando esempio dal vulgare poeta fiorentino Danteche quando avea a trattare di virtú e di lode altruiparlava eglie quando avea a dire e' vizii e biasimare altruilo faceva dire alli spiriti.
E perché molti e spezialmente quellia cui in dispiacere toccanoforse dirannocome spesso si dice: "queste son favole"a ciò rispondo che ce ne saranno forse alcunema nella verità mi sono ingegnato di comporle. Ben potrebbe esserecome spesso incontrache una novella sarà intitolata in Giovannie uno dirà: ella intervenne a Piero; questo serebbe piccolo errorema non sarebbe che la novella non fosse stata. E altri potran dire...


NOVELLA II

Lo re Federigo di Cicilia è trafitto con una bella storia da ser Mazzeo speziale di Palermo.

Di valoroso e gentile animo fu il re Federigo di Cicilia nel cui tempo fu uno speziale in Palermochiamato ser Mazzeoil quale avea per consuetudine ogni anno al tempo de' cedernicon una sua zazzera pettinata in cuffiamettersi una tovagliuola in collo e portare allo re dall'una mano in un piattello cederni e dall'altra mele; e lo re questo dono ricevea graziosamente.
Avvenne che questo ser Mazzeovenendo nel tempo della vecchiezzacominciò alquanto a vacillaree non sí però che l'usato presente di fare non seguisse. Fra l'altre volteessendosi molto ben pettinatoe assettata la chioma sotto la cuffiatolse la tovagliuola e' piattelli de' cederni e delle mele per fare l'usato presente; e messosi in camminopervenne alla porta del palazzo del re.
Il portinaioveggendolocominciò a fare scherne di lui e a tirargli il bendone della cuffia; e contendendosi da luie un altro il tirava d'un'altra parteperò che quasi il tenevano insensato; e cosí datoli la viaor da uno e ora da un altro fu tanto tirato e rabbuffato che tutto il capo avea avviluppato; e con tutto questos'ingegnò di portar pure a salvamento il presentegiugnendo dinanzi al re con debita reverenza. Lo reveggendolo cosí schermigliatodisse:
- Ser Mazzeoche vuol dir questoche tu sei cosí avviluppato?
Rispose ser Mazzeo:
- Monsignoreegli è quello che voi volete.
Lo re disse:
- Come è?
Ser Mazzeo disse:
- Sapete voi qual è la piú bella storia che sia nella Bibbia?
Lo reche era di ciò intendentissimorispose:
- Assai ce ne sonoma il superlativo grado non saprei ben quale.
Allora ser Mazzeo disse:
- Se mi date licenzia vel dirò io.
Rispose lo re:
- Di' sicuramente ciò che tu vuogli.
E ser Mazzeo dice:
- Monsignore lo rela piú bella istoria che sia in tutta la Bibbia è quando la reina di Sabaudendo la sapienza mirabile di Salamonesi mosse cosí da lungi per andare a vedere le terre sue e lui in Egitto; la qualegiugnendo alle terre governate per Salamonetanto trovava ogni cosa ragionevolmente disposta che quanto piú vedeapiú si maravigliavae piú s'infiammava di vedere Salamonetanto chegiugnendo alla principal cittàpervenne al suo palazzoe di passo in passo ogni cosa mirando e considerandovidde li servi e' sudditi suoi molto ordinati e costumati; tanto chegiunta in su la gran salafece dire a Salamone come ella era e perché quivi venuta. E Salamone subito uscío della camera e faglisi incontro; il quale la detta reina veggendosi gittò inginocchionidicendo ad alta voce: "O sapientissimo rebenedetto sia il ventre che portò tanta prudenzaquanta in te regna".
E qui ristette ser Mazzeo.
Disse allora il re Federigo:
- Be'che vuoi tu dirser Mazzeo?
E ser Mazzeo rispose:
- Monsignor lo revoglio dire che se questa reina comprese beneper l'ordine e costume delle terre e de' sudditi di Salamoneesser lui il piú savio uomo del mondo; io per quella medesima forma posso considerare voi essere il piú matto re che vivapensando che iovostro minimo servovenendo con questo usato dono alla vostra maestàli servi vostri m'abbino concio come voi vedete.
Lo reveggendo e considerando ser Mazzeolo consolò con parolevolendo sapere chi e come era statoquelli tali fece dinanzi a sé veniree corressegli e puní innanzi a ser Mazzeoe del suo servizio gli cacciò; comandando a tutti gli altri che quando ser Mazzeo volesse venire a luigiammai porta non gli fusse tenuta e sempre a lui facessono onore: e cosí seguirono di faremaravigliandosi il detto del fine di sí notabile istoriaa proposito detta per un vecchierello a cui la mente già diffettava. Fu cagione questo ser Mazzeocol suo direche questo re d'allora innanzi tenne molto meglio accostumata la sua famiglia che prima non tenea: ed è talor di necessità che si truovino uomeni di questa forma.


NOVELLA III

Parcittadino da Linari vagliatore si fa uomo di cortee va a vedere lo re Adoardo d'Inghilterrail quallodandoloha da lui molte pugnae poibiasimandoloriceve dono.

Lo re Adoardo vecchio d'Inghilterra fu re di gran virtú e famae fu tanto discreto che la presente novella ne dimostrerrà in parte. Fu adunque nel suo tempo uno vagliatore a Linari in Valdensa nel contado di Firenzeil quale aveva nome Parcittadino. Venne a costui volontà di lasciare in tutto il vagliare ed esser uomo di cortee in questo diventò assai sperto; e cosí spermentandosi nell'arte cortigianagli venne gran volontà di andare a vedere il detto re Adoardo; e non sine quarema perché avea udito molto delle sue magnanimitàe spezialmente verso li suoi pari. E cosí pensatouna mattina si misse in camminoe non ristette mai che elli pervenne in Inghilterra alla città di Londradove lo re dimorava; e giunto al palagio realedove il detto re dimoravadi porta in porta trapassandogiunse nella saladove lo re il piú del tempo facea residenza; e trovollo fiso giucare a scacchi con lo gran dispensiere.
Parcittadinogiunto dinanzi al reinginocchiandosi con le reverenti raccomandazioniquella vista o quella mutazione fece il re come prima che giugnesse: di che stette Parcittadino per grande spazio in tal maniera. E veggendo che lo re alcun sembiante non faceasi levò in piede e cominciò a dire:
- Benedetto sia l'ora e 'l punto che qui m'ha condottoe dove io ho sempre desideratocioè di vedere il piú nobile e 'l piú prudente e 'l piú valoroso re che sia fra cristiani; e ben mi posso vantare piú che altro mie paridappoi che io sono in luogo dove io veggio il fiore di tutti li altri re. O quanta gloria mi ha conceduta la fortuna! ché oggimaise io morissecon poca doglia verrei a quel passodappoi che io sono innanzi a quella serenissima corona la qualecome calamita tira il ferrocosí con la sua virtú tira ciascuno con desiderio a veder la sua dignità.
Appena ebbe insino a qui Parcittadino condotto il suo sermoneche lo re si levò dal giuocoe piglia Parcittadinoe con le pugna e calcicacciandolo per terratante gliene diede che tutto il pestò; e fatto questosubito ritornò al giuoco delli scacchi. Parcittadino assai tristolevandosi di terraappena sapea dove si fosse; parendoli aver male spesi i passi suoie similmente le lode date al resi stava cosí tapinonon sapendo che si fare. E pigliando un po' di cuorevolle provare sedicendo il contrario al regliene seguisse meglioda che per lo ben dire glien'era colto male; incominciando a dire:
- Maladetto sia l'ora e 'l dí che in questo luogo mi condusseche credendo esser venuto a vedere un nobile recome la fama risuonae io sono venuto a vedere un re ingrato e sconoscente: credea esser venuto a vedere un re virtuosoe io sono venuto a vedere un re vizioso: credea esser venuto a vedere un re discreto e sinceroe io sono venuto a vedere un re malignopieno di nequizia: credea esser venuto a vedere una santa e giusta coronae io ho veduto costui che male per ben guiderdona; e la prova il dimostrache me piccola creaturamagnificando e onorando luim'ha sí concio ch'io non so se mai potrò piú vagliarese mai al mio mestiero antico ritornare mi convenisse.
Lo re si lieva la seconda volta piú furioso che la primae va a una portae chiama un suo barone. Veggendo questo Parcittadinoqual elli diventò non è da domandareperò che parea un corpo morto che tremassee s'avvisò essere dal re ammazzato; e quando udí lo re chiamare quel baronecredette chiamasse qualche justiziere che lo crucifiggesse.
Giunto il barone chiamato dal relo re gli disse:
- Va'da' la cotal mia vesta a costuie pagalo della veritàch'io l'ho ben pagato della bugia io.
Il barone va subitoe recò a Parcittadino una robba reale delle piú adorne che lo re avessecon tanti bottoni di perle e pietre preziose chesanza le pugna e' calci ch'egli ebbevalea fiorini trecento o piú. E continuo sospettando Parcittadino che quella robba non fosse serpe o badalischio che 'l mordessea tentone la ricevette. Dappoi rassicuratosi e messasela indossoe dinanzi allo re si appresentòdicendo:
- Santa coronaqualora voi mi volete pagare a questo modo delle mie bugieio dirò rade volte il vero.
E conobbe lo re per quello che avea uditoe lo re ebbe piú diletto di lui.
Dappoistato quello che gli piacqueprese commiato e dal re si partítenendo la via per la Lombardia; dove andò ricercando tutti li signoriraccontando questa novellala quale gli valse piú di altri fiorini trecento; e tornossi in Toscanae andò a rivedere con quella robba gli suoi parenti vagliatori da Linaritutti polverosi di vagliatura e poveri; li quali maravigliandosiParcittadino disse loro:
- Tra molte pugna e calci fui in terrapoi ebbi questa robba in Inghilterra.
E fece bene a assai di loro; poi si partí e andò a procacciare sua ventura.
Questa fu cosí bella cosa a uno recome potesse avvenire. E quanti ne sono cheessendo lodati come questo renon avessono gonfiato le gote di superbia? Ed elli sappiendo che quelle lode meritavavolle dimostrare che non era verousando nella fine tanta discrezione. Assai ignorantiessendo lodati nel loro cospetto da piasentierise lo crederanno; costuiessendo valorosovolle dimostrare il contrario.


NOVELLA IV

Messer Bernabò signore di Melano comanda a uno abate che lo chiarisca di quattro cose impossibili; di che uno mugnaiovestitosi de' panni dello abateper lui le chiarisce in forma che rimane abate e l'abate rimane mugnaio.

Messer Bernabò signore di Melanoessendo trafitto da un mugnaio con belle ragionigli fece dono di grandissimo benefizio. Questo signore ne' suoi tempi fu ridottato da piú che altro signore; e come che fosse crudelepur nelle sue crudeltà avea gran parte di justizia. Fra molti de' casi che gli avvennono fu questoche uno ricco abateavendo commesso alcuna cosa di negligenza di non avere ben notricato due cani alaniche erano diventati stizzosied erano del detto signoreli disse che pagasse fiorini quattromila. Di che l'abate cominciò a domandare misericordia. E 'l detto signoreveggendolo addomandare misericordiagli disse:
- Se tu mi fai chiaro di quattro coseio ti perdonerò in tutto; e le cose son queste che io voglio che tu mi dica: quanto ha di qui al cielo; quant'acqua è in mare; quello che si fa in inferno; e quello che la mia persona vale.
Lo abateciò udendocominciò a sospiraree parveli essere a peggior partito che prima; ma purper cessar furore e avanzar tempodisse che li piacesse darli termine a rispondere a sí alte cose. E 'l signore gli diede termine tutto il dí sequente; e come vago d'udire il fine di tanto fattogli fece dare sicurtà del tornare.
L'abatepensosocon gran malenconiatornò alla badíasoffiando come un cavallo quando aombra; e giunto làscontrò un suo mugnaioil qualeveggendolo cosí afflittodisse:
- Signor mioche avete voi che voi soffiate cosí forte?
Rispose l'abate:
- Io ho ben di cheché 'l signore è per darmi la mala ventura se io non lo fo chiaro di quattro coseche Salamone né Aristotile non lo potrebbe fare.
Il mugnaio dice:
- E che cose son queste?
L'abate gli lo disse.
Allora il mugnaiopensandodice all'abate:
- Io vi caverò di questa faticase voi volete.
Dice l'abate:
- Dio il volesse.
Dice il mugnaio:
- Io credo che 'l vorrà Dio e' santi.
L'abateche non sapea dove si fossedisse:
- Se 'l tu faitogli da me ciò che tu vuogliché niuna cosa mi domanderaiche possibil mi siache io non ti dia.
Disse il mugnaio:
- Io lascerò questo nella vostra discrizione.
- O che modo terrai? - disse l'abate.
Allora rispose il mugnaio:
- Io mi voglio vestir la tonica e la cappa vostrae raderommi la barbae domattina ben per tempo anderò dinanzi a luidicendo che io sia l'abate; e le quattro cose terminerò in forma ch'io credo farlo contento.
All'abate parve mill'anni di sustituire il mugnaio in suo luogo; e cosí fu fatto.
Fatto il mugnaio abatela mattina di buon'ora si mise in cammino; e giunto alla portalà dove entro il signore dimoravapicchiòdicendo che tale abate voleva rispondere al signore sopra certe cose che gli avea imposte. Lo signorevolontoroso di udire quello che lo abate dovea diree maravigliandosi come sí presto tornasselo fece a sé chiamare: e giunto dinanzi da lui un poco al barlumefacendo reverenzaoccupando spesso il viso con la mano per non esser conosciutofu domandato dal signore se avea recato risposta delle quattro cose che l'avea addomandato.
Rispose:
- Signor sí. Voi mi domandaste: quanto ha di qui al cielo. Veduto appunto ogni cosaegli è di qui lassú trentasei milioni e ottocento cinquantaquattro mila e settantadue miglia e mezzo e ventidue passi.
Dice il signore:
- Tu l'hai veduto molto appunto; come provi tu questo?
Rispose:
- Fatelo misuraree se non è cosíimpiccatemi per la gola. Secondamente domandaste: quant'acqua è in mare. Questo m'è stato molto forte a vedereperché è cosa che non sta fermae sempre ve n'entra; ma pure io ho veduto che nel mare sono venticinque milia e novecento ottantadue di milioni di cogna e sette barili e dodici boccali e due bicchieri.
Disse il signore:
- Come 'l sai?
Rispose:
- Io l'ho veduto il meglio che ho saputo: se non lo credetefate trovar de' barilie misurisi; se non trovate essere cosífatemi squartare. Il terzo mi domandaste quello che si faceva in inferno. In inferno si tagliasquartaarraffia e impiccané piú né meno come fate qui voi.
- Che ragione rendi tu di questo?
Rispose:
- Io favellai già con uno che vi era statoe da costui ebbe Dante fiorentino ciò che scrisse delle cose dell'inferno; ma egli è morto; se voi non lo credetemandatelo a vedere. Quarto mi domandaste quello che la vostra persona vale; e io dico ch'ella vale ventinove danari.
Quando messer Bernabò udí questotutto furioso si volge a costuidicendo:
- Mo ti nasca il vermocan; sono io cosí dappoco ch'io non vaglia piú che una pignatta?
Rispose costuie non sanza gran paura:
- Signor mioudite la ragione. Voi sapete che 'l nostro Signore Jesú Cristo fu venduto trenta danari; fo ragione che valete un danaro meno di lui.
Udendo questo il signoreimmaginò troppo bene che costui non fosse l'abatee guardandolo ben fisoavvisando lui esser troppo maggiore uomo di scienza che l'abate non eradisse:
- Tu non se' l'abate.
La paura che 'l mugnaio ebbe ciascuno il pensi; inginocchiandosi con le mani giunteaddomandò misericordiadicendo al signore come egli era mulinaro dell'abatee come e perché camuffato dinanzi dalla sua signoria era condottoe in che forma avea preso l'abitoe questo piú per darli piacere che per malizia.
Messer Bernabòudendo costuidisse:
- Mo viapoi ch'ello t'ha fatto abatee se' da piú dí luiin fé di Dioe io ti voglio confirmaree voglio che da qui innanzi tu sia l'abateed ello sia il mulinaroe che tu abbia tutta la rendita del monasterioed ello abbia quella del mulino.
E cosí fece ottenere tutto il tempo che visse che l'abate fu mugnaioe 'l mugnaio fu abate.
Molto è scura cosae gran pericolod'assicurarsi dinanzi a' signoricome fe' questo mugnaioe avere quello ardire ebbe lui. Ma de' signori interviene come del maredove va l'uomo con grandi pericolie ne' gran pericoli li gran guadagni. Ed è gran vantaggio quando il mare si truova in bonacciae cosí ancora il signore: ma l'uno e l'altro è gran cosa di potersi fidareche fortuna tosto non venga.
Alcuni hanno già detto essere venuta questao simil novellaa... papail qualeper colpa commessa da un suo abateli disse che li specificasse le quattro cose dette di soprae una piúcioè: qual fosse la maggior ventura che elli mai avesse aúto. Di che l'abateavendo rispetto della rispostatornò alla badíae ragunati li monaci e' conversiinfino al cuoco e l'ortolanoraccontò loro quello di che avea a rispondere al detto papa; e che a ciò gli dessono e consiglio e aiuto. Eglinonon sappiendo alcuna cosa che si direstavano come smemorati: di che l'ortolanoveggendo che ciascheduno stava mutodisse:
- Messer l'abateperò che costoro non dicono alcuna cosae io voglio esser colui e che dica e che facciatanto che io credo trarvi di questa fatica; ma datemi li vostri pannisí che io vada come abatee di questi monaci mi seguano; e cosí fu fatto.
E giunto al papadisse dell'altezza del cielo esser trenta voci. Dell'acqua del mare disse: "Fate turare le bocche de' fiumiche vi mettono entroe poi si misuri". Quello che valea la sua personadisse: "Danari ventotto"; ché la facea due danari meno di Cristoché era suo vicario. Della maggior ventura ch'egli avesse maidisse: "Come d'ortolano era diventato abate"; e cosí lo confermò. Come che si fosseo intervenne all'uno e all'altroo all'uno soloe l'abate diventò o mugnaio o ortolano.


NOVELLA V

Castruccio Interminelliavendo un suo famiglio disfatto in uno muro il giglio dell'arma fiorentinaessendo per combatterelo fa combattere con un fante che avea l'arma del giglio nel palveseed è morto.

Ora voglio mutare un poco la materiae dire come Castruccio Interminellisignore di Luccacastigò uno gagliardo contro le mura. Questo Castruccio fu de' cosí saviastuti e coraggiosi signori come fosse nel mondo già è gran tempo; e guerreggiando e dando assai che pensare a' Fiorentiniperò che era loro cordiale nimicofra l'altre notabili cose che fece fu questa: che essendo a campo in Valdinievolee dovendo una mattina andare a mangiare in uno castello da lui presodi quelli del Comune di Firenzee mandando un suo fidato famiglio innanzi che apparecchiasse le vivande e le menseil detto famigliogiugnendo in una saladove si dovea desinarevide tra molte armecome spesso si vededipinta l'arme del giglio del Comune di Firenzee con una lanciache parea che avesse a fare una sua vendettatutta la scalcinò.
Venendo l'ora che Castruccio con altri valentri uomeni giunsono per desinareil famiglio si fece incontro a Castruccio ecome giunse in su la saladisse:
- Signore mioguardate come io ho acconcio quell'arma di quelli traditori Fiorentini.
Castrucciocome savio signoredisse:
- Sia con Dio; fa' che noi desiniamo.
E tenne nella mente quest'operatanto che a pochi dí si rassembrò la sua gente per combattere con quella del Comune di Firenze; là doveappressandosi li due esercitiper avventura venne che innanzi a quello de' Fiorentini venía uno bellissimo fante bene armato con uno palvese in bracciodove era dipinto il giglio.
Veggendo Castruccio costui essere de' primi a venirli incontrochiamò il suo fidato famiglioche cosí bene avea combattuto col muroe disse:
- Vien qua; tu desti pochi dí fa tanti colpi nel giglio ch'era nel muro che tu lo vincesti e disfacesti: va' tostoe armati come tu saie fa' che subito vadi a dispignere e vincere quello.
Costui nel principio credette che Castruccio beffasse. Castruccio lo costrinsedicendo:
- Se tu non vi vaiio ti farò impiccar subito a quell'arbore.
Veggendosi costui mal paratoe che Castruccio dicea da doverov'andò il meglio che poteo. Come fu presso al fante del gigliosubito questo fante di Castruccio fu morto da quello con una lancia che 'l passò dall'una parte all'altra. Veggendo questo Castruccionon fece alcun sembiante d'ira o cruccioma disse:
- Troppo bene è andato -; e volsesi a' suoidicendo: - Io voglio che voi appariate di combattere con li vivie non con li morti.
O non fu questa gran justizia? ché sono molti che danno per li faggi e per le mura e nelle cose mortee fanno del gagliardocome se avessono vinto Ettore; e oggi n'è pieno il mondoche in questa formao contra minimi o pecorellesempre sono fieri; ma per ciascuno di questi tali fosse uno Castruccio che li pagasse della loro folliacome pagò questo suo famiglio.
Assai notabili cose fece ne' suoi dí Castruccio; fra l'altredicea a unoche a sua petizione avesse fatto un tradimento:
- Il tradimento mi piacema il traditore no; pagati e vatti con Dioe fa' che mai tu non mi venga innanzi.
Oggi si fa il contrarioché se uno signore o Comune farà fare uno tradimentofa il traditore suo provvisionato e sempre il tiene con luifacendoli onore. Ma a molti è già intervenuto che quelli che hanno fatto fare il tradimentodal traditore poi sono stati traditi.


NOVELLA VI

Marchese Aldobrandino domanda al Basso della Penna qualche nuovo uccello da tenere in gabbiail Basso fa fare una gabbiaed entrovi è portato a lui.

Marchese Aldobrandino da Estinel tempo che ebbe la signoria di Ferraragli venne vaghezzacome spesso viene a' signoridi avere qualche nuovo uccello in gabbia. Di che per questa cagione mandò un dí per uno Fiorentino che tenea albergo in Ferrarauomo di nuova e di piacevolissima condizioneche avea nome Basso della Penna. Era vecchio e piccolo di personae sempre pettinato andava in zazzera e in cuffia. Giunto questo Basso dinanzi al marcheseil marchese sí gli dice:
- Bassoio vorrei qualche uccello per tenere in gabbiache cantasse benee vorrei che fosse qualche uccello nuovoche non se ne trovassono molti per l'altre genticome sono fanelli e calderellie di questi non vo cercando; e però ho mandato per teperché diversa gente e di diversi paesi ti vengono per le mani al tuo albergo; di che possibile ti fia che qualcuno di questi ti metta in viadonde se ne possa avere uno.
Rispose il Basso:
- Signore mioio ho compreso la vostra intenzionela quale m'ingegnerò di mettere ad effettoe cercherò di far sí che subitamente serete servito.
Udendo il marchese questogli parve avere già in gabbia la fenicee cosí si partío. Il Bassoavendo già immaginato ciò che far doveagiunto che fu al suo albergomandò per un maestro di legnamee disse:
- Io ho bisogno di una gabbia di cotanta lunghezzae tanto larga e tanto alta; e fa' ragione di farla sí forte ch'ella sia sofficiente a un asinose io ve l'avessi a metter dentroe abbia uno sportello di tanta grandezza.
Compreso che 'l maestro ebbe tuttofu in concordia del pregioe andò a fare la detta gabbia; fatta che l'ebbela fe' portare al Basso e tolse i denari.
Il Basso subito mandò per uno portatoree là venuto entrando nella gabbiadisse al portatore che 'l portasse al marchese. Al portatore parve questa una nuova mercanzia e quasi non volea; se non che 'l Basso tanto disse che pur lo portò. Il qual giunto al marchesecon grande moltitudine di popolo che correa dietro alla novità; il marchese quasi dubitònon conoscendo ancora che cosa fosse quella. Ma appressatosi la gabbia e 'l Basso ed essendo su portato presso al marcheseil marcheseconoscendo ciò che eradisse:
- Bassoche vuol dir questo?
Il Bassocosí nella gabbiacon lo sportello serratocominciò a squittiree disse:
- Messer lo marchesevoi mi comandaste pochi dí fa che io trovasse modo che voi avesse qualche nuovo uccello in gabbiae che di quelli tali pochi ne fossono al mondo; di checonsiderando chi io sono e quanto nuovo sonoché posso dire che nessuno ne sia piú nuovo di me in su la terrain questa gabbia intraie a voi mi rappresentoe mi vi dono per lo piú nuovo uccello che tra' cristiani si possa trovare; e ancora vi dico piúche non ce n'ha niuno fatto com'io: il canto mio fia taleche vi diletterà assai; e però fate posare la gabbia da quella finestra.
Disse il marchese:
- Mettetela sul davanzale.
Il Basso dice:
- Oimènon fateché io potrei cadere.
Dice il marchese:
- Mettetelo suché 'l davanzale è largo.
E cosí messo suaccennò a un suo famiglio che dondolasse la gabbiae nientedimeno la sostenesse.
E 'l Basso dice:
- Marcheseio ci venni per cantaree voi volete ch'io pianga.
E cosíquando il Basso fu rassicuratodisse:
- Marchesese mi darete mangiare delle vivande che mangiate voiio canterò molto bene.
Il marchese li fece venire un pane con un capo d'aglioe tennelo tutto quel dí su la finestrafacendo a lui di nuovi giuochi; e tutto il popolo era sulla piazza a vedere il Basso nella gabbia; e in fine la sera cenò col signoree poi si ritornò all'albergoe la gabbia rimase al marcheseché mai non la riebbe.
Il marchese da quell'ora innanzi ebbe il Basso piú caro che maie spesso l'invitava a mangiaree facevalo cantare nella gabbiae pigliava gran diletto di lui. Chi sapesse la disposizione de' signoriquando fossono in buona temperaognora penserebbono di cose nuovecome fece il Bassoche per certo ben serví il marchesee non andò in India per l'uccello; ma essendogli presso pressofu servito del piú nuovo e unico uccello che si potesse trovare.


NOVELLA VII

Messer Ridolfo da Camerinoal tempo che la Chiesa avea assediato Forlífa una nuova e notabile assoluzione sopra una questione che aveano valentri uomeni d'una insegna.

Messer Ridolfo da Camerinosavissimo signorecon poche parole e notabil judiciocontentò una brigata di valentri uomeni di quello che domandorono sopra una questionesí come il Basso d'un nuovo uccello contentasse il marchese.
Al tempo che la Chiesae messer Egidio di Spagna cardinale per quellaavea per assedio costretta la città di Forlí per gran dimora; e di quella essendo signore messer Francesco Ardelaffinotabile signoremolti signori notabili e valentri uomeni a petizione della Chiesa erano concorsi al detto assedio; ed essendo in una parte raccolti con una questione quasi quelli che erano i maggiori del campoe tra loro essendo messer Unghero da Sassoferratoil quale avea l'insegna del Crocifissola quale è quella insegna che è piú degna che alcun'altra; ed essendo gran contesa tra loroperò che quello che avea l'insegna dicea aver caro quel beneficio fiorini duemila; altri diceano: io vorrei innanzi fiorini duecento; e tali diceano fiorini centoe tali fiorini trecentoe chi dicea di meno e chi di piú; passando per quel luogo messer Ridolfo da Camerinoche andava provveggendo il campos'accostò a loro domandando di quello che contendeano; di che per loro gli fu detto la cagionepregandolo ancora che la loro questione diffinissee quello che si dovea prezzare la detta insegna.
Messer Ridolfoavendo tosto considerata la questionefece la risposta dicendo che chi tenea che la detta insegna si dovea prezzare e avere cara duecentoo trecentoo milleo duemilanon potea avere ragione; però che quando il nostro Signore Jesú Cristo fu in questa vitae di carne e d'ossafu venduto trenta danarie ora ch'egli è dipinto nella pezza e morto e in croceche si possa o debba ragionevolmente stimar piúè cosa vanae per la ragione allegata non potere justamente seguire. Udito che ebbono tutti questa sentenziacon le risa s'accordorono a por fine alla questionee dissono tuttieccetto messer Ungheromesser Ridolfo avere ben detto e giudicato.
Notabile detto e strano fu quello di messer Ridolfoe come che paresse osticoraccontando come disse del nostro Signorea ragione il judicio fu giusto; e mostròsanza dirloche son molti che fanno maggiore stima delle viste che de' fatti. E quanti ne sono già stati che hanno procacciato d'essere Gonfalonieri e Capitanie d'avere l'insegna e reale e dell'altresolo per vanagloriama dell'opere non si sono curati! E di questi apparenti ne sono statie tutto il dí sono piú che degli operanti. E non pur nelle cose dell'arme ma eziandio di quelli che in teologia si fanno maestrarenon per altrose non per essere detto Maestro; Dottore di leggiper essere chiamato Dottore; e cosí in filosofia e medicinae di tutte l'altre cose: e Dio il sa quello che li piú di loro sanno!


NOVELLA VIII

Uno Genovese sparutoma bene scienziatodomanda Dante poeta come possa intrare in amore a una donnae Dante gli fa una piacevole risposta.

Questo che seguita non fu meno notabile consiglio che fosse il judicio di messer Ridolfo. Fu già nella città di Genova uno scientifico cittadino e in assai scienze bene spertoed era di persona piccolo e sparutissimo. Oltre a questo era forte innamorato d'una bella donna di Genovala qualeo per la sparuta forma di luio per moltissima onestà di leio per che che si fosse la cagionegiammainon che ella l'amassema mai gli occhi in verso lui teneama piú tosto fuggendoloin altra parte gli volgea. Onde costuidisperandosi di questo suo amoresentendo la grandissima fama di Dante Allighierie come dimorava nella città di Ravennaal tutto si dispose d'andar là per vederlo e per pigliare con lui dimestichezzaconsiderando avere da lui o consiglio o aiuto come potesse entrare in amore a questa donnao almeno non esserli cosí nimico. E cosí si mossee pervenne a Ravennalà dove tanto fece che fu a un convito dove era il detto Dante; ed essendo alla mensa assai di presso l'uno all'altroil Genoveseveduto tempodisse:
- O messer Danteio ho inteso assai della vostra virtú e della fama che di voi corre; potre' io avere alcuno consiglio da voi?
Disse Dante:
- Purché io ve lo sappia dire.
Allora il Genovese dice:
- Io ho amato e amo una donna con tutta quella fede che amore vuole che s'ami; giammai da leinon che amore mi sia stato concedutoma solo d'uno sguardo mai non mi fece contento.
Udendo Dante costuie veggendo la sua sparuta vistadisse:
- Messereio farei volentieri ogni cosa che vi piacesse; e di quello che al presente mi domandatenon ci veggio altro che un modoe questo è che voi sapete che le donne gravide hanno sempre vaghezza di cose strane; e però converrebbe che questa donna che cotanto amateingravidasse: essendo gravidacome spesso interviene ch'ell'hanno vizio di cose nuovecosí potrebbe intervenire che ella avrà vizio di voi; e a questo modo potreste venire ad effetto del vostro appetito: per altra forma sarebbe impossibile.
Il Genovesesentendosi morderedisse:
- Messer Dantevoi mi date consiglio di due cose piú forte che non è la principale; però che forte cosa sarebbe che la donna ingravidasseperò che mai non ingravidò; e vie piú forte serebbe che poi ch'ella fosse ingravidataconsiderando di quante generazioni di cose ell'hanno vogliache ella s'abbattesse ad avere voglia di me. Ma in fé di Dioche altra risposta non si convenía alla mia domanda che quella che mi avete fatto.
E riconobbesi questo Genoveseconoscendo Dante per quello ch'egli erameglio che non avea conosciuto séche era sí fatto che erano poche che non l'avessono fuggito. E conobbe Dante sí che piú dí stette il Genovese in casa suapigliando grandissima dimestichezza per tutti li tempi che vissono. Questo Genovese era scienziatoma non dovea essere filosofocome la maggior parte sono oggi; però che la filosofia conosce tutte le cose per natura; e chi non conosce sé principalmentecome conoscerà mai le cose fuora di sé? Costuise si fosse specchiatoo con lo specchio della menteo col corporaleaverebbe pensato la forma sua e considerato che una bella donnaeziandio essendo onestaè vaga che chi l'ama abbia forma di uomoe non di vilpistrello.
Ma e' pare che li piú son tocchi da quel detto comune: "E’ non ci ha maggiore inganno che quello di sé medesimo".


NOVELLA IX

Messer Giovanni della Lana chiede a uno buffone che faccia un bel partito: quelli ne fa uno molto nuovo: a colui non piace; fanne un altrodonde messer Giovanni scornato si parte.

Non so qual fosse piú sparuto di personao il Genovese passatoo messer Giovanni della Lana da Reggiodel quale brievemente dirò in questa novella. Il quale messer Giovanninon possendo stare in Reggiostando in Imolaed essendo in uno cerchio di valentri uomeninon considerando alla deformità della sua persona (ché era piccolissimo judicee avea una foggetta in capo foderata d'indisiache pare' l'erba lucciaed era troglioo vero balbo)disse a uno uomo di cortechiamato maestro Piero Guercio da Imolapiacevole buffone e sonatore di stormentiil quale era nel detto cerchio:
- Dohmaestro Pierofate qualche bel partito dinanzi a questi valentri uomeni.
Rispose maestro Piero:
- Io il faròpoiché voi volete. Il partito è questo: qual volete voi pigliare delle due cose l'unao volete che io cachi in codesta vostra foggiao voletevi cacare voi?
Disse il maestro Giovanni quasi mezzo imbiancato:
- Io non voglio né l'uno né l'altro; fatene un altro che diletti questa brigata.
Disse il buffone:
- Io lo faròpoiché voi volete; dicendo: "Qual volete voimesser Giovanniquando avesse cacato nel vostro cappuccioo mettervelo in capo voio volete che io vel metta in capo io?"
Messer Giovanni udendo questose al primo partito era divenuto biancoa questo secondo diventò rosso e bizzarrorimanendo scornatodicendo:
- Mo vi nasca il vermocanché vui se' in brutto rubaldo di merdae cosí di quella vi menate per boccaché da altro non se' vui.
Il maestro Piero con motti si difendea e dicea:
- Vo' se' judiceveggiamo a ragione chi ha il torto di noi due -; pigliandolo per lo lemboacciò che non si partisseperò che era già in cammino; pur con quella poca di forza che aveasi spiccò e andonne rampognando; gli altri rimasono ridendo.
Cosí a messer Giovanni fu insegnato dal maestro Piero una legge che giammai piú non l'avea trovata. Cosí s'acquista spesso con gli uomeni di corteche spesso s'entra in motti con loroed elli vituperano altrui; e però non si potrebbe errare a taceree lasciar dire un altro. Per farsi innanzi messer Giovannie non considerando a séfu beffeggiato da questo buffone con due cosí nobili partiticome avete udito.


NOVELLA X

Messer Dolcibeneessendo con messer Galeotto alla valle di Josafat e udendo che in sí piccol luogo ciascuno ha a concorrere al diejudiciopiglia nuovamente luogo per non affogare allora.

Messer Dolcibene fusecondo cavaliere di corted'assaiquanto alcun altro suo parie molte novelle assai vaghe e di brutta materia si possono scrivere di lui; e in questa novellanon per via di fare partitocome volea fare il maestro Piero da Imolama per altra formaandando al Sepolcro con messer Galeotto e con messer Malatesta Ungherotrovò nuovo stile per dare diletto a questi due signori.
Andando adunque messer Galeotto e messer Malatesta dettie messer Dolcibene con loroal Santo Sepolcrogiugnendo là costoro e passando dalla valle di Josafatdisse messer Galeotto:
- O Dolcibenein questa valle dobbiamo tutti venire al diejudicio a ricevere l'ultima sentenzia.
Disse messer Dolcibene:
- O come potrà tutta l'umana generazione stare in sí piccola valle?
Disse messer Galeotto:
- Sarà per potenza divina.
Allora messer Dolcibene scese da cavalloe corre nel mezzo d'un campo della detta vallee calati giuso i panni di gambalasciò andare il mestiere del corpodicendo:
- Io voglio pigliare il luogoacciò che quando sarà quel tempoio truovi el segno e non affoghi nella calca.
Li due signori diceano ridendo:
- Che vuol dire questo? e che fai tu?
Messer Dolcibene risponde:
- Signoriio ve l'ho detto: e' non si può essere saviose l'uomo non s'argomenta per lo tempo che dee venire.
Dice messer Galeotto:
- O Dolcibenelasciavi la parte del nibbio che serà maggiore segnale.
Disse allora messer Dolcibene:
- Signorese io ci lasciassi el segnale che voi mi ditee' non sarebbe buono per due cagioni: la primach'e' ne serebbe portato da' nibbie 'l luogo rimarrebbe senza segno; e l'altrache voi perdereste la mia compagnia.
Allora gli fu risposto da quelli signori:
- Per certoDolcibenetu sai ben dire gli argomenti a ogni cosa; sali a cavalloché per certo tu hai ben provveduto -; e con questo sollazzo seguirono il loro cammino.
O questi son li trastulli de' buffonie' diletti che hanno li signori! Per altro non son detti buffonise non che sempre dicono buffe; e detti giucolariché continuo giuocono con nuovi giuochi. E’ non fu però questo messer Dolcibene sí scellerato che non componesse in questa andata del Sepolcro in versi vulgari una orazione alla nostra Donna che gli facesse graziaraccontando tutti i luoghi santi che oltre mare avea vicitato.


NOVELLA XI

Alberto da Siena è richiesto dallo inquisitoreed elliavendo paurasi raccomanda a messer Guccio Tolomei; e in fine dice che per Donna Bisodia non è mancato che non abbia aúto il malanno.

Al tempo di messer Guccio Tolomei fu in Siena uno piacevole uomo e semplicee non malizioso come messer Dolcibene. Era costui balbo della linguae avea nome Alberto; il quale essendo uomo di pura condizionee usando spesso in casa del detto messer Guccioperò che 'l cavaliere ne pigliava gran dilettoavvenne che uno dí di quaresimatrovandosi messer Guccio con lo inquisitoredi cui era grande amicocompose con lui che l'altro dí facesse richiedere il detto Albertoe quando fosse dinanzi da luigli opponessi qualche cosa di resíae di questo ne seguirebbe alquanto di piacere e allo inquisitore e a lui.
Come il detto messer Guccio sí desse ordinetornato che fu a casal'altro dí di buon'ora il detto Alberto fu richiesto che subito comparisse dinanzi allo inquisitore. Alberto tutto tremantee se prima era balboa questo puntoavendo quasi perduta la linguaappena poté dire: - Io verrò -; e andato a trovare messer Gucciodicendo: - Io vi vorrei parlare -; e messer Guccio comprendendo quello che eradisse:
- Che novelle?
Dice Alberto:
- Cattive per meché lo inquisitore mi ha fatto richiedereforse per paterino.
Dice messer Guccio:
- Averestú detto alcuna cosa contra la fede cattolica?
Dice Alberto:
- Io non so che s'è la fede calonicama io mi credo essere cristiano battezzato.
Dice messer Guccio:
- Albertofa' come io ti dirò; vattene al vescovo; e di': "Io fui richiestoe appresentomi dinanzi a voi"; e sappi quello che ti vuol dire: dopo te poco stante verrò io; e lo inquisitore è molto mio amicoe cercherò dello spaccio tuo.
Disse Alberto:
- Ecco io voe affidomi in voi. E cosí si partíe andonne al vescovo.
Il quale là giuntocome il vescovo il videcon uno fiero viso disse:
- Qual se' tu?
Alberto balbo e tremante di paura disse:
- Io sono Albertoche fui richiesto che io venisse dinanzi da voi.
- Or ben so- dice il vescovo- se' tu quell'Alberto che non credi né in Dioné ne' santi?
Dice Alberto:
- Signor miochi ve l'ha detto non dice il veroché io credo in ogni cosa.
Allora dice il vescovo:
- E se tu credi in ogni cosadunque credi tu nel diavolo; e questo è quello che a me non bisogna altro ad arderti per paterino.
Alberto mezzo uscito di sédomandando misericordia; dice il vescovo:
- Sai tu il Paternostro ?
Dice Alberto:
- Messer sí.
- Dillo tosto- disse lo inquisitore.
Alberto cominciò; e non accordando l'aggettivo col sustantivogiunse balbettando a uno scuro passolà dove dice: da nobis hodie ; e di quello non ne potea uscire. Di che lo inquisitoreudendolodisse:
- Albertoio l'ho inteso; ché chi è paterinonon puote dire le cose sante; va'e fa' che domattina tu torni a mee io formerò il processo secondo che meriterai.
Dice Alberto:
- Io tornerò da voi; ma io vi prego per l'amore di Dio che io vi sia raccomandato.
Disse lo inquisitore:
- Va'e fa' che io ti dico.
Allora si partíe tornando verso casatrovò messer Guccio Tolomei che allo inquisitore per questa faccenda andava. Messer Guccioveggendolo tornaredice:
- Albertola cosa dee stare benequando tu torni.
Disse Alberto:
- Gnaffe! non istàperò che dice che io sono paterinoe che io torni a lui domattinae ancora non mancò per quella puttana di donna Bisodia che è scritta nel Paternostro che non mi facesse morire allotta allotta. Di che io vi prego per l'amore di Dio che andiate a lui e preghiate che io gli sia raccomandato.
Disse messer Guccio:
- Io vo làe ingegnerommi fare ciò che io potrò al tuo scampo.
E cosí andò messer Guccioe portando all'inquisitore la novella di donna Bisodiane feciono per due ore grandissime risa. E mandando lo inquisitoreinnanzi che messer Guccio si partisseper lo detto Albertoed elli con gran timore tornandovigli diede lo inquisitore ad intendere che se non fosse messer Gucciol'averebbe arso; e ben lo meritavaperò che di nuovo avea inteso ancora peggioche d'una santa donnacioè di donna Bisodiasanza la quale non si puote cantare messaavea detto essere una puttana; e ch'egli andasse e tenesse sí fatti modi che non avesse piú a mandare per lui. Albertochiamando misericordiadisse non dirlo mai piúe tutto doloroso della paura che avea aútacon messer Guccio a casa si tornò. Il quale messer Guccioavendo condotto la cosa come avea volutogran tempo nella sua mente ne godeoe senza Alberto e con Alberto.
Belle sono le inventive de' gentiluomeni per avere diletto di nuove e di semplici persone; ma piú bello fu il caso che la fortuna trovò in Albertoessendo impacciato da donna Bisodia; e forse forsese Alberto fosse stato uno ricco uomolo inquisitore gli averebbe dato tanto ad intendere che si serebbe ricomperato de' suoi denariper non essere arso o cruciato.


NOVELLA XII

Come Alberto dettorimenando uno ronzino restío a casarisponde a certiche 'l domandano nuovamentecome nuovo uomo era.

Dappoi che io ho messo mano in Alberto da Sienaseguirò ancora di dire di lui una piacevole novellettala qualese la fece per sennoserebbe stata bella a qualunque savio; ma credo piú tosto fosse per semplicità. Costuiavendo bisogno d'andare a un suo luogo fuori di Sienaaccattò da un suo vicino un ronzinosul quale salendo susoe andando insino alla portacome là giunseil ronzino si cominciò a tirare addietrocome se della porta avesse aúto paurao fosse aombratoo che si fosse posto in cuore di non volere uscire della terra. Albertoaccennandoli cotale alla tristanon lo poteo mai fare andare; ma cominciandosi a sinistraree Alberto avendone grandissima pauraper lo migliore discese in terrae prese le redinelo volse indietro e cominciollo a rimenare a casa di chi gli l'avea prestato: là dove il ronzino non ch'egli andasse di passoma andava sí di trotto che facea ben trottare Alberto.
E cosí arrivò per lo campo di Siena; al quale quelli Sanesi che v'erano avendo gli occhiveggendo menare uno ronzino a manoa gran boci gridavano:
- O Albertodi cui è cotesto ronzino? O Albertodove meni tu questo ronzino?
A quelli che diceano: "Di cui è cotesto ronzino?" rispondea: "Èssi me' suo". A quelli che diceano: "Dove il meni tu?" rispondea: "Anzi mena elli me".
E cosí diede che pensare a' Senesi buona pezzatanto che seppono l'effetto di quello che dicea; e Alberto rendé il ronzinodicendo a colui:
- To' ti il ronzino suodappoi che e' non vuole che io vadi in villa oggi -; e cosí si rimase Albertoche non andò in villa quel giorno.
Io per me credo che Alberto in questo fosse molto savio; ché sono molti che dicono: "Io vincerei pur la prova". Quando uno avesse a domareo scorgere un suo puledroforse è da consentire; ma vincere la prova d'un cavallo altruicolui che si mette a questo non corregge il suo cavalloma piú tosto puote pericolare sé.



NOVELLA XIII

Come Albertoessendo per combattere con li Sanesisi mette il cavallo innanzied ellismontatoli sta di dietro a piedee la ragione che elli assegna quello esser il meglio.

Similmente questo Alberto in questa sua terza novellache seguenon mi pare molto sciocco; però che essendo li Sanesiper certa guerra che aveano co' Peruginiassembrati per combatteree 'l detto Alberto essendo a cavallo tra la brigata sanesee bene armatoscese da cavalloe misesi il cavallo dinanzied egli stava di drieto a piede. Veggendo gli altri che v'erano Alberto stare per questa formadiceano:
- Che fai tuAlberto? sali a cavalloperò che noi siamo subito per combattere.
A' quali Alberto rispose:
- Io voglio stare cosíchése 'l cavallo mio fosse mortoserà fatto la menda di lui; ma se io fosse mortonessuna menda di me serebbe fatta.
E come Dio vollela gente si recò a battagliadove li Sanesi furono sconfitti. Ed essendo molto addietro il detto Alberto cosí a piedeil suo cavallo fu presoed elli si fuggí e cogliendolo la notte in certe vie tra boschie traendo vento che facea sonare le fogliegli parea avere mille cavalieri dietro; e come uno pruno il pigliava dicea:
- Oimè! io mi t'arrendonon mi uccidere -; credendo che fossono nimici che 'l pigliassono: e cosí con gran paura e con grande affanno consumò tutta quella nottetanto che la mattina su l'alba si trovò presso a Siena.
E giunto a Sienacome che assai avessono da pensare ad altropure erano di quelli che domandavono:
- Albertocome è ita la cosa? tu se' a piede? ove è il cavallo?
E quelli rispondea:
- Egli è perduto: cosí avess'elli fatto come fe' quell'altro d'uno di questi díche non avesse voluto uscire fuori della porta.
Ma la cosa andò peggio per Albertoche domandando la mendafu detto che non era stato a cavallo come si dovea; e non la poté mai avere.
Fu savio avviso quello di costuise gli fosse venuto fattoché s'averebbe levato spesa da dosso; e arebbe aúto denarie la persona salva era ritornata a Siena. E qui si puote vedere da quanto prezzo è il sesso umano; ché d'ogni animale è fatto stima di valutaeccetto che dell'uomoma di questo non si domanda menda: benché si potrebbe dire per la sua nobilità eccede tanto agli altrie per questo non è prezzo che lo possa ricomperare. Ma ancora è piú sicuro in una guerrae piú fortel'uomo povero che 'l ricco; se lo ricco è presoè menato lui e 'l cavallo per li denari suoi; se lo povero è preso a cavalloè lasciato l'uomoe 'l cavallo n'è menato. E questo non è altro se non che tutto l'universo è corrotto per la monetae per quello a ogni cosa si mette ciascuno.


NOVELLA XIV

Come Albertoavendo a far con la matrignaessendo dal padre trovatoallega con nuove ragioni piacevolmente.

Non voglio lasciare la quarta novella d'Albertodi quelle che già udi' di luicome che molte altre ne facesse. Avea il detto Alberto una matrigna assai giovane e complessa e atticciatail quale in nessun modocome spesso intervienepotea avere pace con lei; e di questo suo caso dolendosi spesse volte con alcuni suoi compagnida loro gli fu dato questo consigliodicendo:
- Albertose tu non trovi modo d'avere a far di leinon isperar mai di star con lei se non in battaglia e in mala ventura.
Dice Alberto:
- Credete voi cotesto?
Coloro rispondono:
- Noi l'abbiamo per lo fermo.
Dice Alberto:
- E’ serebbe troppo gran peccato! e pur s'i' 'l facessee venisse agli orecchi dello inquisitoree' m'ha colto animo addossoleggermente mi farebbe morire.
E quasi come se non vi avesse l'animosi partí dalle parole di costoro; e da altra parte pensò di mettere il consiglio ad effettoe nol dissono a sordo; ché un díessendo andato il padre fuori e la donna rimanendo in cameraAlberto sanza dire troppe parole ché male le sapea direvenne a' fatti e in sul letto l'uno e l'altro si condussonoe fu fatta la paceche parea una casa cheta e riposatache prima parea tempestosa e indemoniata. Nella qual pace e amore continuando Albertoaiutando alle fatiche del padreavvenne un dí che l'uno e l'altro stando di meriggio a giacereche 'l padre ch'era andato in villatornò in quell'orae andato sutrovò sul letto sprovveduti la donna e Alberto.
Albertoveggendo il padresi gittò alla panca lungo il muro; e 'l padre piglia la mazza del letto per darglidicendo: "Sozzo traditore"e quando: "ria puttana".
E andando Alberto ora in su e ora in giúsecondo come la mazza del padre si menavae gridando e l'uno e l'altrotutta la vicinanza trasse al romoredicendo:
- Che vuol dire questo?
E Alberto dice:
- E’ questo mio padreche ebbe a fare cotanto tempo con mia madree mai non gli dissi una parola torta; e ora perché mi ha trovato giacer con la moglienon altro che per buono amoremi vuole ucciderecome voi vedete.
Gli viciniudendo la ragione allegata per Albertodissono il padre avere il torto; e tirandolo da partedissono che non era senno il suo di fare palese quelle cose che si doverriano nasconderee fecionli credere checonoscendo eglino la condizione d'Albertoche egli non era salito su quel letto per alcun malema per molta dimestichezzaavendo voglia di dormire. E cosí si dié pace il padree la donna si dié pace con Alberto per la domestichezza che avea presa con leifacendo ciascuno da quell'ora innanzi i fatti loro sí occulti e sí cheti che 'l padre mentre che visse non ebbe piú a giucare del bastone.
Buono fu il rimedio che dato fu ad Alberto a stare in pace con la matrignae buona fu la ragione d'Albertoch'elli disse a' vicini quando trassono. E cosí credo che assai (non tutte) averebbono pace co' figliastrise elli facessono quello che costuie massimamente quelle che son mogli degli antichi padricome era costeile qualiessendo giovanivoglion vegliaree' vecchi mariti voglion dormire.


NOVELLA XV

La sorella del marchese Azzoessendo andata a marito al giudice di Gallurain capo di cinque anni torna vedova a casa. Il frate non la vuol vedereperché non ha fatto figliuolied essa con un motto il fa contento.

Il marchese Azzo da Esti andò cercando il contrario d'una sua sorocchia. Questo marchese credo fosse figliuolo del marchese Obizzoe avendo una sua sorocchia da marito chesalvo il veroebbe nome madonna Aldala quale maritò al giudice di Gallura; e la cagione di questo matrimonio fu che 'l detto judice era vecchio e non avea alcun eredené a chi legittimamente succedesse il suo; onde il marchesecredendo che madonna Aldao madonna Beatrice come certi hanno detto avesse nomefacesse di lui figliuoli che rimanessono signori del judicato di Gallurafece queto parentado volentieri: e la donna sapea troppo bene a che fine il marchese l'avea maritata.
Avvenne cheessendo andata a maritostette cinque anni con lui e mai alcuno figliuolo non fece; e morendo il detto judice di Gallurala donna tornò vedova a casa del marchese: alla quale né andò incontro il detto marchesené alcuno sembiante fecese non come il detto caso mai non fosse intervenuto. La qual donna giuntae credendo essere dal marchese ricevuta teneramentee veggendo tutto il contrarioe maravigliandosi di questoe andando alcuna volta dove era il detto marchese per dolersi della sua fortunae fare con lui il debito lamentonessuno atto faceama volgevasi in altra parte.
Continuando questo piú díla giovanedesiderosa di sapere la cagione de' modi e del cruccio del marcheseimpronta verso lui andando un dícominciò a dire:
- Potre' io saperefratel mioperché tanta ira e tanto sdegno tu dimostri verso di me sventurata vedovellae piú tosto posso dire orfanavenendomi tu menoche altro ricorso non ho?
Ed ellivolgendosi verso lei con nequitoso animorispose:
- O non sai tu la cagione? e perché ti maritai io al judice di Gallura? come non ti vergogni tu di essere stata cinque anni sua moglieraed essermi tornata in casa senza avere fatto figliuolo alcuno?
Appena lo lasciò la donna infino a qui direcome quella che lo intesee disse:
- Fratel mionon dire piúch'io t'intendo; e giuroti per la fé di Dio cheper adempiere la tua volontàch'io non ho lasciato né fantené ragazzoné cuoconé altrocon cui io non abbia provato; mase Dio non ha volutoio non ne posso far altro.
Cosí si rallegrò il marchese di questocome si fosse rallegrato un altro chedopo grande abbominio dato a una sua sorellala trovasse poi senza difetto; e in quell'ora l'abbracciò teneramentee amandola e avendola piú cara che mai; e maritolla poi a un messer Marco Viscontio a messer Galeazzo. Ha detto già alcuno ch'ella fece una fanciulla che ebbe nome Joannae maritossi a messer Ricciardo da Caminosignore di Trevisi. E questo par che tocchi Dantecapitolo ottavo del Purgatoriodove dice in parte:

Quando serai di là dalle larghe onde
Di' a Giovanna miache per me chiami
Là dove agli innocenti si rispondeecc.

Come che siaquesta donna contentò il fratello. Vogliono dire alcunie io sono colui che 'l credoche questa fosse savia e casta donna; maveggendo la disposizione del fratellocon le sue parole lo volle fare contento di quello che elli avea vogliae tornare nel suo amore. E cosí si contenta l'animo di quelli che guardano pure alla utilitàe non all'onore; e questa donna se ne avvidee diegli di quella vivanda che voleafacendolo contento con quello che pochi se ne averebbono dato pace.


NOVELLA XVI

Uno giovene Sanese ha tre comandamenti alla morte del padre: in poco tempo disubbediscee quello che ne seguita.

Ora verrò a dire di una che s'era maritata per pulzellae 'l marito vidde la prova del contrario anzi che con lei giacessee rimandolla a casa suasenza avere mai a fare di lei.
Fu a Siena già un ricco cittadinoil qualevenendo a mortee avendo un figliuolo e non piúche avea circa a venti annifra gli altri comandamenti che li fecefurono tre. Il primoche non usasse mai tanto con uno che gli rincrescesse; il secondoche quando elli avesse comprato una mercanziao altra cosaed elli ne potesse guadagnareche elli pigliasse quello guadagno e lasciasse guadagnare ad un altro; il terzoche quando venisse a tòr moglietogliesse delle piú vicinee se non potesse delle piú vicinepiú tosto di quelle della sua terra che dell'altre da lunge. Il figliuolo rimase con questi ammonimentie 'l padre si morío.
Era usato buon tempo questo giovene con uno de' Forteguerriil quale era stato sempre prodigoe avea parecchie figliuole da marito. Li parenti suoi ogni dí lo riprendevano delle spesee niente giovava. Avvenne che un giorno il Forteguerra avea apparecchiato un bel desinare al giovene e a certi altri; di che li suoi parenti li furono addossodicendo:
- Che fai tusventurato? vuo' tu spendere a prova col tale che è rimaso cosí riccoe hai fatto e fai li corredie hai le figliuole da marito?
Tanto dissono che costui come disperato andò a casae rigovernò tutte le vivande che erano in cucinae tolse una cipollae puosela su l'apparecchiata tavolae lasciò che se 'l cotal giovene venisse per desinare gli dicessono che mangiasse di quella cipollache altro non v'erae che 'l Forteguerra non vi desinava.
Venuta l'ora del mangiareil giovene andò là dove era stato invitatoe giugnendo su la sala domandò la donna di lui: la donna rispose che non v'erae non vi desinava; ma che elli avea lasciatose esso venisseche mangiasse quella cipollache altro non v'era. Avvidesi il giovenesu quella vivandadel primo comandamento del padree come male l'avea osservatoe tolse la cipollae tornato a casa la legò con un spaghetto e appiccolla al palco sotto il quale sempre mangiava.
Avvenne da ivi a poco tempo cheavendo elli comprato un corsiere fiorini cinquantada indi a certi mesipotendone avere fiorini novantanon lo volle mai daredicendo ne volea pure fiorini cento; e stando fermo su questoal cavallo una notte vennono li dolorie scorticossi. Pensando a questoil giovene conobbe ancora avere male atteso al secondo comandamento del padre etagliata la coda al cavallol'appiccoe al palco allato alla cipolla.
Avvenne poi per caso ancoravolendo elli pigliare moglienon si potea trovar vicinané in tutta Sienagiovene che li piacessee diési alla cerca in diverse terree alla fine pervenne a Pisalà dove si scontrò in un notaioil quale era stato in officio a Sienaed era stato amico del padree conoscea lui.
Di che il notaio gli fece grande accoglienzae domandollo che faccenda avea in Pisa. Il giovene li disse che andava cercando d'una bella sposaperò che in tutta Siena non ne trovava alcuna che li piacesse.
Il notaio disse:
- Se cotesto èDio ci t'ha mandatoe serai ben accivito; però che io ho per le mani una giovene de' Lanfranchila piú bella che si vedesse maie dammi cuore di fare che ella sia tua.
Al giovene piacquee parveli mill'anni di vederlae cosí fece. Come la vides'accostò al mercatofu fatto e dato l'ordine quando la dovesse menare a Siena. Era questo notaio una creatura de' Lanfranchie la giovene essendo disonestae avendo avuto a fare con certi gioveni di Pisaella non s'era mai potuta maritare. Di che questo notaio guardò di levare costei da dosso a' suoi parenti e appiccarla al Sanese. Dato l'ordine della camerieraforse della ruffianala quale fu una femminetta sua vicinachiamata monna Bartolomeacon la quale la donna novella s'andava spesso trastullando di quando in quando; e dato ogni ordine delle cose opportune e della compagniatra la quale era alcuno giovene di quelli che spesso d'amore l'avea conosciutasi mosson tutti col marito e con lei ad andare verso Sienae là si mandò innanzi a fare l'apparecchio.
E cosí andando per camminoun giovene de' suoi che la seguía parea che andasse alle forchepensando che costei era maritata in luogo stranieroe che senza lei gli convenía tornare a Pisa; e tanto con pensieri e con sospiri fece che 'l giovene quasi e di lei e di lui si fu accorto: perché ben dice il proverbio che l'amore e la tosse non si può celare mai. E con questo vederepreso gran sospettotanto fece che seppe chi la giovene era e come il notaio l'avea tradito e ingannato. Di che giugnendo a Staggialo sposo usò questa malizia disse che volea cenare di buon'oraperò che la mattina innanzi dí volea andare a Sienaper fare acconciare ciò che bisognava; e disselo sí che 'l valletto l'udisse.
Erano le camere dove dormirono quasi tutte d'assi l'una allato all'altra. Il marito ne avea unala sposa e la cameriera un'altrae in un'altra era il giovene e un altroil quale non fu senza orecchi a notare il detto del Sanese; ma tutta la sera ebbe colloquio con la camerieraaspettando l'alba del giornoe cosí s'andorono al letto. E venendo la mattinaquasi un'ora innanzi a díe lo sposo si levò per andare a Siena come avea dato ad intendere. E sceso giusoe salito a cavallocavalcò verso Siena quasi quattro balestratee poi diede la volta ritornando passo passo e cheto verso l'albergo donde si era partito; e appiccando il cavallo a una campanellasu per la scala n'andò; e giugnendo all'uscio della camera della donnaguardò pianamente e sentí il giovene essere dentro; e pontando l'uscio mal serratov'entrò dentro; e accostandosi alla cassa del letto pianamentese alcun panno trovasse di colui che s'era colicatoper avventura trovò i suo' panni di gambae quelli del lettoo che sentissonoe per la paura stessono chetio che non sentissonoquesto buon uomo si mise le brache sottoe uscito della camerascese la scalae salito a cavallo con le dette brachecamminò verso Siena.
E giunto a casa sual'appiccò al palco allato alla cipolla e alla coda.
Levatasi la donna e l'amante la mattina a Staggiail valletto non trovando le brachesanza esse salí a cavallo con l'altra brigatae andorono a Siena. E giunti alla casadove doveano essere le nozzesmontorono. E postisi a uno leggiero desinare sotto le tre cose appiccatefu domandato il giovane quello che quelle cose appiccate significavano. Ed elli rispose:
- Io vel dirò; e prego ognuno che mi ascolti. Egli è piccol tempo che mio padre moríe lasciommi tre comandamenti: il primo sí e síe però tolsi quella cipolla e appicca' la quivi; il secondo mi comandò cosíe in questo il disubbidi'; morendo il cavallotaglia' li la coda e quivi l'appiccai; il terzoche io togliesse moglie piú vicina che io potesse; e ionon che io l'abbia tolta dappressoma insino a Pisa andaie tolsi questa giovenecredendo fosse come debbono essere quelle che si maritono per pulzelle. Venendo per cammino questo gioveneil quale siede quiall'albergo giacque con leie io chetamente fui dove elli erano; e trovando le brache sueio ne le recai e appicca' le a quel palco: e se voi non mi credetecercateloche non l'ha: - e cosí trovorono. - E però questa buona donnalevata la mensavi rimenate in drietoche mainon che io giaccia con leima io non intendo di vederla mai. E al notaioche mi consigliò e fece il parentado e la cartadite che ne faccia una pergamena da rocca.
E cosí fu. Costoro con la donna si tornorono a piè zoppo col dito nell'occhio; e la donna si fece per li tempi con piú maritie 'l marito con altre mogli.
In queste tre sciocchezze corse questo giovene contro a' comandamenti del padreche furono tutti utilie molta gente non se ne guarda. Ma di questo ultimoche è il piú fortenon si puote errare a fare li parentadi vicinie facciamo tutto il contrario. E non che de' matrimonima avendo a comprare ronziniquelli de' vicini non vogliamoche ci paiono pieni di difettie quelli de' Tedeschi che vanno a Romain furia comperiamo. E cosí n'incontra spesse volte e dell'uno e dell'altrocome avete uditoe peggio.


NOVELLA XVII

Piero Brandani da Firenze piatiscee dà certe carte al figliuolo; ed elliperdendolesi fuggee capita dove nuovamente piglia un lupoe di quello aúto lire cinquanta a Pistoiatorna e ricompera le carte.

Nella città di Firenze fu già un Piero Brandani cittadino che sempre il tempo suo consumò in piatire. Avea un suo figliuolo d'etade di diciotto annie dovendo fra l'altre una mattina andare al Palagio del Podestà per opporre a un piatoe avendo dato a questo suo figliuolo certe cartee che andasse innanzi con essee aspettasselo da lato della Badía di Firenze; il qualeubbidendo al padrecome detto gli aveaandò nel detto luogoe là con le carte si mise ad aspettare il padree questo fu del mese di maggio.
Avvenne cheaspettando il garzonecominciò a piovere una grandissima acqua: e passando una foreseo treccacon un paniere di ciriege in capoil detto paniere cadde; del che le ciriege s'andarono spargendo per tutta la via; il rigagnolo della qual via ognora che piove cresce che pare un fiumicello. Il garzonevolonterosocome sonocon altri insiemealla ruffa alla raffa si dierono a ricogliere delle dette ciriegee infino nel rigagnolo dell'acqua correano per esse. Avvenne chequando le ciriege furono consumateil garzonetornando al luogo suonon si trovò le carte sotto il braccio però che gli erano cadute nella dett'acquala quale tostamente l'avea condotte verso Arnoed elli di ciò non s'era avveduto; e correndo or giúor sudomanda quadomanda làelle furono paroleché le carte navicavano già verso Pisa. Rimaso il garzone assai dolorosopensò di dileguarsi per paura del padre: e la prima giornatadove li piú disviati o fuggitivi di Firenze sogliono farefu a Prato; e giunse ad uno albergolà dove dopo il tramontare del sole arrivorono certi mercatantinon per istare la sera quivima per acquistare piú oltre il cammino verso il ponte Agliana. Veggendo questi mercatanti stare questo garzone molto tapinodomandarono quello ch'egli avea e donde era: risposto alla domandadissono se volea stare e andare con loro.
Al garzone parve mill'annie missonsi in camminoe giunsono a due ore di notte al pont'Agliana; e picchiando a uno albergol'albergatoreche era ito a dormiresi fece alla finestra:
- Chi è là?
- Àpriciché vogliamo albergare.
L'albergatore rampognando disse:
- O non sapete voi che questo paese è tutto pieno di malandrini? io mi fo gran maraviglia che non sete stati presi.
E l'albergatore dicea il veroché una gran brigata di sbanditi tormentavono quel paese.
Pregorono tanto che l'albergatore aperse; ed entrati dentro e governati li cavallidissono che voleano cenare; e l'oste disse:
- Io non ci ho boccone di pane.
Risposono i mercatanti:
- O come facciamo?
Disse l'oste:
- Io non ci veggio se non un modoche questo vostro garzone si metta qualche straccio indossosí che paia gaglioffoe vada quassú da questa piaggiadove troverrà una chiesa: chiami ser Cioneche è là pretee da mia parte dica mi presti dodici pani: questo dico perchése questi che fanno questi mali troverrano un garzoncello malvestitonon gli diranno alcuna cosa.
Mostrato la via al garzonev'andò malvolentieriperò che era di nottee mal si vedea. Paurosocome si dee crederesi mosseandandosi avviluppando or qua or làsanza trovare questa chiesa mai; ed essendo intrato in uno boschettoebbe veduto dall'una parte un poco d'albore che dava in uno muro. Avvisossi d'andare verso quellocredendo fosse la chiesa; e giunto là su una grande aias'avvisò quella essere la piazza; e 'l vero era che quella era casa di lavoratore: andossene làe cominciò a bussare l'uscio. Il lavoratoresentendogrida:
- Chi è là?
E 'l garzone dice:
- Apritemiser Cioneché il tal oste dal ponte Agliana mi manda a voiche gli prestiate dodici pani.
Dice il lavoratore:
- Che pani? ladroncello che tu se'che vai appostando per cotesti malandrini. Se io esco fuoriio te ne manderò preso a Pistoiae farotti impiccare.
Il garzoneudendo questonon sapea che si fare; e stando cosí come fuor di sée volgendosi se vedesse via che 'l potesse conducere a migliore portosentí urlare un lupo ivi presso alla proda del boscoe guardandosi attorno vide su l'aia una botte dall'uno de' latitutta sfondata di sopraed era ritta; alla quale subito ricorseed entrovvi dentroaspettando con gran paura quello che la fortuna di lui disponesse.
E cosí standoecco questo lupocome quello che era forse per la vecchiezza stizzosoe accostandosi alla bottea quella si cominciò a grattare; e cosí fregandosialzando la codala detta coda entrò per lo cocchiume. Come il garzone sentí toccarsi dentro con la codaebbe gran paura; ma pur veggendo quello che eraper la gran temenza si misse a pigliar la codae di non lasciarla mai giusto il suo podereinsino a tanto che vedesse quello che dovesse essere di lui. Il luposentendosi preso per la codacominciò a tirare: il garzone tien fortee tira anco elli; e cosí ciascuno tirandoe la botte cadee cominciasi a voltolare. Il garzone tien fortee lo lupo tira; e quanto piú tiravapiú colpi gli dava la botte addosso. Questo voltolamento durò ben due ore; e tantoe con tante percosse dando la botte addosso al lupoche 'l lupo si morí. E non fu però che 'l giovane non rimanesse mezzo lacero; ma pur la fortuna l'aiutòché quanto piú avea tenuto forte la codapiú avea difeso sé stessoe offeso il lupo. Avendo costui morto il luponon ardí però in tutta la notte d'uscire della bottené di lasciare la coda.
In sul mattinolevandosi il lavoratorea cui il giovene avea picchiata la portae andando provveggendo le sue terreebbe veduto appiè d'un burrato questa botte: cominciò a pensaree dire fra sé medesimo: "Questi diavoli che vanno la notte non fanno se non maleché non che altroma la botte miache era in su l'aiam'hanno voltolata infino colaggiú"; e accostandosivide il lupo giacere allato la botteche non parea morto. Comincia a gridare: - Al lupoal lupoal lupo -; e accostandosie correndo gli uomini del paese al romoreviddono il lupo morto e 'l garzone nella botte.
Chi si segnò di qua e chi di làdomandando il giovene:
- Chi se' tu? che vuol dire questo?
Il garzonepiú morto che vivoche appena potea ricogliere il fiatodisse:
- Io mi vi raccomando per l'amore di Dioche voi mi ascoltiate e non mi fate male.
Li contadini l'ascoltaronoper udire di sí nuova cosa la cagioneil quale dissedalla perdita delle carte insino a quel puntociò che incontrato gli era. A' contadini venne grandissima pietà di costuie dissono:
- Figliuolotu hai aúta grandissima sventurama la cosa non t'anderà male come tu credi: a Pistoia è uno ordine che chiunque uccide alcun lupoe presentalo al Comuneha da quello cinquanta lire.
Un poco tornò la smarrita vita al gioveneessendoli profferto da loro e compagnia e aiuto a portare il detto lupo; e cosí accettoe. E insieme alquanti con luiportando il lupopervennono all'albergo al pont'Aglianadonde si era partitoe l'albergatore della detta cosa si maraviglioecome si dee immaginaree disse che e' mercatanti se ne erano itie che egli ed eglinoveggendo non era tornatocredeano lui essere da' lupi devoratoo essere da' malandrini preso. In fine il garzone appresentò il lupo al Comune di Pistoiadal qualeudita la cosa come stavaebbe lire cinquanta; e di queste spese lire cinque in fare onore alla brigatae con le quarantacinquepreso da loro commiatotornò al padre; e addomandando misericordiagli contò ciò che gli era intervenutoe diegli le lire quarantacinque. Il qual padrecome povero uomogli tolse volentierie perdonògli; e con li detti denari fece copiare le cartee dell'avanzo piatío gagliardamente.
E perciò non si dee mai alcuno disperareperò che spesse voltecome la fortuna togliecosí dà; e come ella dàcosí toglie. Chi averebbe immaginato che le perdute carte giú per l'acqua fossono state rifatte per un lupo che mettesse la coda per uno cocchiume d'una bottee sí nuovamente fosse stato preso? Per certo questo è un caso e uno esemplonon che da non disperarsima di cosa che venga non pigliare né sconforto né malinconia.


NOVELLA XVIII

Basso della Penna inganna certi Genovesi arcatorie a un nuovo giuoco vince loro quello ch'egli avevano.

Come questo giovene acquistò puramentee con grande simplicitàle lire cinquantacosí con grande astuzia il piacevol uomo Basso della Pennaraccontato a drietoin questa novella vinse a un nuovo giuoco piú di lire cinquanta di bolognini. A questo Basso capitorono all'albergo suo a Ferrara certi Genovesi che andavano arcando con certi loro giuochi; e 'l Bassoavendo compresa la loro manieraun giorno innanzi desinare si mise allato lire venti di bolognini d'ariento e una pera mézzaché era di luglioconsiderando che dopo desinarelavate le maniin su la sparecchiata tavola d'arcare loroe cosí fece. Ché avendo desinatoed essendo con loro ragionamenti alla mensa sparecchiatadisse il Basso:
- Io voglio fare con voi a un giuoco che non ci potrà avere malizia alcuna.
E mettesi mano in borsae trae fuori bologninie dice:
- Io porrò a ciascun di noi uno bolognino innanzi su questa tavolae coluia cui sul suo bolognino si porrà prima la moscatiri a sé i bolognini che gli altri averanno innanzi.
Costoro cominciorono con gran festa ad essere contenti di questo giuocoe parea loro mill'anni che 'l Basso cominciasse. Il Bassocome reosi mette il bolognino sotto con le mani tra gambe sotto la tavoladove elli avea una pera mézza: e venendo a porre a ciascuno il bolognino innanziquello che dovea porre a sé ficcava nella pera mézzaonde la mosca continuo si ponea sul suo bologninosalvo che delle quattro volte l'una ponea quello della pera dinanzi a uno di loroacciò che vincendo qualche volta non si avvedesseno della malizia.
E pur cosí continuandocominciorono a pigliare sospettoparendo loro troppo perderee dissono:
- Messer Bassonoi vogliamo mettere i bolognini uno di noi.
Disse il Basso:
- Io sono molto contentoacciò che non prendiate sospetto.
Allora uno di loro co' suoi bolognini asciutti e aridiche non aveano forse mai tocca pera mézzacominciò mettere a ciascuno il suo bolognino. Il Basso lasciava andare sanza malizia alcuna volta che vincessino; quando volea vincere ellie 'l bolognino gli era posto innanzispesse volte il polpastrello del dito toccava il mézzo della perae mostrando di acconciare il bolognino che gli era messo innanzilo toccava con quel ditoonde la mosca subito vi si poneabenché gli bisognava durare poca faticaperò che le hanno naso di bracchetto e volavano tutte verso il Bassosentendo la pera mézzae ancora il luogo su la tavola dinanzi da luidove di prima il bolognino unto del Basso avea lasciato qualche sustanzia; e cosí provando or l'uno or l'altro dei Genovesinon poterono tanto fare che 'l Basso non vincesse loro lire cinquanta di bolognini con una fracida peraonde gli arcatori furono arcaticome avete udito.
E molte volte interviene che son molti che con certe loro maliziose arti stanno sempre avvisati d'ingannaree di tirare l'altrui a loroe hanno tanto l'animo a quello che non credono che alcun altro possa loro ingannaree non vi pongono cura.
Se facessono la ragione del compagnoil quale molte volte non è cieconon interverrebbe loro quello che intervenne a costoro; però che spesse volte l'ingannatore rimane a piede dell'ingannato.


NOVELLA XIX

Basso della Penna a certi forestieriche domandorono lenzuola bianchele dà loro sucideed eglino dolendosiprova loro che l'ha date bianche.

Questa pera mézzacon la quale il Basso fece cosí bene i fatti suoimi reduce a memoria un'altra novella di pere mézzefatta già per lo detto Bassonella quale si dimostra apertamente che insino nell'ultimo della sua morte fu piacevolissimo. Ma innanzi che venisse a questoio dirò due novelletteche fece in meno di due mesi anzi che morisseavendo continuo o terzana o quartanache poi lo indusse a morte.
A Ferrara arrivorono alcuni Fiorentini all'albergo suo una serae cenato che ebbonodissono:
- Bassonoi ti preghiamo che tu ci dia istasera lenzuola bianche.
Basso risponde tostoe dice:
- Non dite piúegli è fatto.
Venendo la seraandandosi al lettosentivano le lenzuola non essere odoroseed essere sucide. La mattina si levavonoe diceano:
- Di che ci servistiBassoche tanto ti pregammo iersera che ci dessi lenzuola bianchee tu ci hai dato tutto il contrario?
Disse il Basso:
- O questa è ben bella novella; andiamole a vedere.
E giunto in camera caccia in giú il copertoioe volgesi a costoro e dice:
- Che son queste? son elle rosse? son elle azzurre? son elle nere? non son elle bianche? Qual dipintore direbbe ch'elle fossono altro che bianche?
L'uno de' mercatanti guatava l'altroe cominciava a ridere dicendo che 'l Basso avea ragionee che non era notaio che avesse scritto quelle lenzuola essere d'altro colore che bianche. E con queste piacevolezze tirò gran tempo tanto a sé la gente che non si curavono di letto né di vivande.
E questa è una loica piacevoleche sta bene a tutti gli artierie massimamente agli albergatoria' quali molti e di diversi luoghi vengono alle mani. Questa novelletta ha fatti moltiche l'hanno uditasavii; e io scrittore sono uno di quelli che giugnendo a uno albergovolendo lenzuola netteaddomando che mi dea lenzuola di bucato.


NOVELLA XX

Basso della Penna fa un convitolà dovenon mescendosi vinoquelli convitati si maraviglionoed egli gli chiarisce con ragionee non con vino.

Questo Basso (ed è la seconda novella di quelle che io proposi in queste di sopra) in questi due mesi di sopra contatine' quali era già febbricoso del male che poi moríoparve che volesse fare la cena come fece Cristo co' discepoli suoi; e fece invitare molti suoi amiciche la tal sera venissono a mangiare con lui. La brigata tutta accettoe; e giunti la sera ordinataessendo molto bene apparecchiate le vivandepostisi a tavolae cominciando a mangiaregli bicchieri si stavonoche nessuno famiglio metteva vino.
Quando quelli che erano a mensa furono stati quanto poteanodicono a' famigli:
- Metteteci del vino.
Gli famiglicome aombratiguardano qua e làe rispondono:
- E’ non c'è vino.
Di che dicono che 'l dicano al Bassoe cosí fanno; onde il Basso si fa innanzie dice:
- Signoriio credo che voi vi dovete ricordare dell'invito che vi fu fatto per mia parte: io vi feci invitare a mangiare mecoe non a bereperò che io non ho vino che io vi dessené che fosse buono da voie però chi vuol beresi mandi per lo vino a casa suao dove piú li piace.
Costoro con gran risa dissono che 'l Basso dicea il veromandando ciascuno per lo vinose vollono bere.
Il Basso fu loico anco quima questa non fu loica con utilese non che risparmiò il vino a questo convito; ma se volea risparmiare in tuttoera migliore loica a non gli avere convitatiche arebbe risparmiato anco le vivande; ma e' fu tanta la sua piacevolezza che volle e fu contento che gli costasse per usare questo atto.


NOVELLA XXI

Basso della Penna nell'estremo della morte lascia con nuova forma ogni anno alle mosche un paniere di pere mézzee la ragioneche ne rendeperché lo fa.

Ora verrò a quella novella delle pere mézzeed è l'ultima piacevolezza del Bassoperò che fu mentre che moría. Costui venendo a morteed essendo di statee la mortalità sí grande che la moglie non s'accostava al maritoe 'l figliuolo fuggía dal padree 'l fratello dal fratelloperò che quella pestilenzacome sa chi l'ha vedutos'appiccava fortevolle fare testamento; e veggendosi da tutti i suoi abbandonatofece scrivere al notaio che lasciava ch'e' suoi figliuoli ed eredi dovessino ogni anno il dí di San Jacopo di luglio dare un paniere di tenuta d'uno staio di pere mézze alle moschein certo luogo per lui deputato. E dicendo il notaio: "Bassotu motteggi sempremai"; disse Basso:
- Scrivete come io dico; però che in questa mia malattia io non ho aúto né amico né parente che non mi abbia abbandonatoaltro che le mosche. E però essendo a loro tanto tenutonon crederrei che Dio avesse misericordia di mese io non ne rendesse loro merito. E perché voi siate certo che io non motteggioe dico da doveroscrivete che se questo non si facesse ogni annoio lascio diredati li miei figliuolie che il mio pervenga alla tale religione.
Finalmente al notaio convenne cosí scrivere per questa volta; e cosí fu discreto il Basso a questo piccolo animaluzzo.
Non istante moltoe venendosi nelli stremiche poco avea di conoscimentoandò a lui una sua vicinacome tutte fannola quale avea nome Donna Buonae disse:
- BassoDio ti facci sano; io sono la tua vicina monna Buona.
E quelli con gran fatica guata costeie disse che appena si potea intendere:
- Oggimaiperché io muoiame ne vo contentoché ottanta anni che io sono vissuto mai non ne trovai alcuna buona.
Della qual parola niuno era d'attorno che le risa potesse teneree in queste risa poco stante morí.
Della cui morte io scrittoree molti altri che erano per lo mondone portorono doloreperò che egli era uno elemento a chi in Ferrara capitava. E non fu grande discrezione la sua verso le mosche? Sanza che fu una grande reprensione a tutta sua famiglia; ché sono assai che abbandonano in cosí fatti casi quelli che doverrebbono mettere mille morti per la loro vitae tale è il nostro amore che non che li figliuoli mettessino la vita per li loro padrima gran parte desiderano la morte loroper essere piú liberi.


NOVELLA XXII

Due frati minori passano dove nella Marca è morto uno; l'uno predica sopra il corpo per forma che tale avea voglia di piagnere che fece ridere.

Non fu sí canonizzata la fama del Basso di piacevolezza dopo la sua mortequanto fu canonizzata la fama d'uno ricco contadino falsamente in santità in questa novella. E’ non è gran tempo che nella Marca d'Ancona morí nella villa un ricco contadinoche avea nome Giovanni; ed essendoinnanzi che si sotterrassetutti gli suo' parenti e uomeni e donne nel pianto e ne' dolorivolendoli fare onorenon essendo ivi vicina alcuna regola di fratiper avventura passorono due frati minorili quali da quelli che erano diputati a fare la spesa furono pregati che alcuna predicazione facessono a commendazione del morto.
Li fratinuovi sí del paesee sí d'avere conosciuto il mortocominciorono tra loro a sorrideree tiratisi da parte disse l'uno all'altro:
- Vuo' tu predicar tuo vuogli che io predichi io?
Disse l'altro:
- Di' pur tu.
Ed egli seguí:
- Se io prédicoio voglio che tu mi prometta di non ridere.
Rispose di farlo.
Dato l'ordine e l'orae saputo il nome del mortoil valentre frate andòcome è d'usanzadove era il morto e tutta l'altra brigata; e salito alquanto in altopropose:
- Quequi . Per que s'intende Janniper qui s'intende Joanni dello Barbaianni; non ci dico cavelleperché vola di notte. Signori e donneio sento che questo Joanni è stato bon peccatoree quando ha possuto fuggire li disagivolentiera ce l'ha fatto; ed è ben vivuto secondo il mondo; hacci preso gran vantaggio nel servire altruied ègli molto spiaciuto l'essere diservito: largo perdonatore è stato a ciascuno che bene gli abbia fattoe in odio ha avuto chi gli abbia fatto male. Con gran diletto ha guardato li santi dí comandati; e secondo ho sentitogli dí da lavorare s'è molto guardato da' mali e dalle rie cose. Quando li suoi vicini hanno avuto bisognofuggendo le cose disutilisempre gli ha serviti: è stato digiunatore quando ha aúto mal da mangiare: è vissuto castoquando costato li fosse. Oratore m'è detto che è stato assai: ha detto molti paternostriandandosi al lettoe l'Ave Maria almenoquando sonava nel popul suo. Spesso ne' dí fuor di settimana facea elemosine. Venendo alla conclusioneli costumi e le opere sue sono state tali e sí fatte che sono pochi mondani che non le commendassono. E chi mi dicesse: "O fratecredi tu che costui sia in Paradiso?" Non credo. "Credi tu che sia in Purgatorio?" Dio il volesse. "Credi tu che sia in Inferno?" Dio nel guardi. E però pigliate confortoe lasciate stare li lamentie sperate di lui quel bene che si dee sperarepregando Dio che ci dia grazia a noiche rimagnamo vivistare lungo tempo con li vivie li morti co' magliannida' quali ci guardi qui vivit et regnat in secula seculorum. Fate la vostra confessione ecc.
La voce andò tra quella gente grossa e lacrimosa costui avere nobilmente predicatoe che elli avea affermato il morto per la sua santa vita essere salito in sommo cielo.
E’ frati se n'andorono con un buono desinare e con denari in borsaridendo di questo per tutto il loro cammino.

Forse fu piú vera e sustanzievole predica questa di questo fraticello che non sono quelle de' gran teologhiche metteranno con le loro parole li ricchi usurai in Paradisoe sapranno che mentono per la gola; e sia chi vuoleche se un ricco è mortoabbia fatto tutti e' mali che mai furnoniuna differenzia faranno dal predicare di lui al predicare di San Francesco; però che piagentano per empiersi di quello delli ignoranti che vivono.


NOVELLA XXIII

Messer Niccolò Cancellieri per esser tenuto cortese fa convitare molti cittadinie innanzi che vegna il dí del convito è assalito dall'avariziae fagli svitare.

Questo inganno che questo frate fece con coverte parole a fare tenere un uomo santoche non v'era pressonon volle usare in sé messer Niccolò Cancelliericavaliere dabbenesalvo che era avarissimo. Il quale volendo coprire in sé questo vizionell'ultimo si penteoe nol fece.
Questo cavaliero fu da Pistoiauomo sperto e cortigianostato e usato quasi il piú della sua vita con la reina Giovanna di Pugliae con li signori e baroni di suo tempo e di quello paese. Essendo tornato costui a Pistoiae facendo là sua dimorafu stimolato e pinto dalli suoi prossimanidicendo:
- Dehmesser Niccolòvoi sete un cavaliero d'assaise non che l'avarizia vi guasta; fate un bello corredoe mostrate a' Pistolesi non essere avaro come sete tenuto.
Tanto gli dissono che costui fece invitare bene otto dí innanzi tutti li notabili uomeni di Pistoia a mangiare una domenica mattina seco. E cosí fattoquando giugne al quinto díche s'appressava al tempo di comprare le vivandeuna notte fra sé medesimo pensò e fondossi pur su l'avariziaperò che il dí vegnente dovea cominciare a sciogliere la borsadicendo in sé medesimo: "Questo corredo mi costerà cento fiorinio piú; e se io ne facesse cinquanta come questoserebbe uno: non fia che sempre io non sia tenuto avaro. E per tantopoiché 'l nome dell'avarizia non si dee spegnereio non sono acconcio per spenderci denaio".
E cosí prese per partito che la mattinalevato che fuchiamò quel medesimo famiglio che per sua parte avea invitato li cittadinie disse:
- Tu hai la scritta con che tu invitasti que' cittadini a desinare meco; recatela per manoe come tu gl'invitastiva'e svitali.
Dice il famiglio:
- Dohsignore mioguardate quello che voi fatee pensate che onore ve ne seguirà.
Dice il cavaliere:
- Bene sta; onore con danno al diavol l'accomanno; va'e fa' quello che io ti dico; e se alcuno ti domanda la cagionerispondi che io mi sono pensato ch'io perderei la spesa.
E cosí andò il fantee cosí fecelaonde molti dí se ne disse in Pistoiafacendo scherne al detto messer Niccolò. Il qualeessendogli manifestodicea:
- Io voglio innanzi che costoro dicano male di me a corpo vòtoche a corpo satollo del mio.
Io non so se questa fu maggiore cattività che quella che averebbono fatto gli svitatiquando avessono avuto li corpi pieniche forse con grandissime beffe di lui averebbono patito quelle vivandedicendo:
- Ben potrà spenderee fare convitiché cosa sforzata pare e sempre avaro fia tenuto.
El cavaliere si rimase nella sua misertà e fuori della pena del convitoche non li fu piccola. Ebbe questo difettoil quale nel mondo sopra li piú regna per sí fatta forma ch'egli è forse cagione delli maggiori mali che si commettono nel cerchio della terra.


NOVELLA XXIV

Messer Dolcibene al Sepolcroperché ha dato a uno Judeoè preso e messo in un loro tempiolà dove nella feccia sua fa bruttare i Judei.

Se nella precedente novella il cavaliere non volle ingannare altrui e mostrare sé essere quello che non eracosí in questa messer Dolcibene mostrò e fece credere certamente a certi Judei il falso per lo vero. Come addietro è narratomesser Dolcibene andò al Sepolcro; e come egli era di nuova condizionee vago di cose nuovevenendo a parole con uno Judeoperché dicea contro a Cristoschernendo la nostra fede; dalle quali parole vennono a tanto che messer Dolcibene diede al Judeo di molte pugna; onde fu preso e menato a gran furoredove fu serrato in un tempio de' Judei.
Venendo in su la mezza notteessendo tristo e solo cosí incarceratogli venne volontà d'andare per lo bisogno del corpoe non potendo altro luogo piú comodo averenel mezzo del tempio scaricò la soma. La mattina di buon'ora vennono certi Judeie apersono il tempiodove nel mezzo dello spazzo trovorono questa bruttura. Come la viddonocominciano a gridare:
- Moramora lo cristiano maladettoche ha bruttato lo tempio dello Dio nostro.
Messer Dolcibeneessendo da costoro assalito e presoavendo gran pauradisse:
- Io non fui io; ascoltatemise vi piace: stanotte in su la mezza notte io senti' gran romore in questo luogo; e guardando che fossee io vidi lo Dio vostro e lo Dio nostro che s'aveano preso insieme e dàvansi quanto piú poteano. Nella fine lo Dio nostro cacciò sotto il vostroe tanto gli diede che su questo smalto fece quello che voi vedete.
Udendo li Judei dire questo a messer Dolcibenedando alle parole quella tanta fede che aveanotutti a una corsono a quella fecciae con le mani pigliandolatutti i loro visi s'impiastraronodicendo:
- Ecco le reliquie del Dio nostro.
E chi piú si studiava di mettersene sul visoa quello parea essere piú beato; e lasciando messer Dolcibenen'andorono molti contenticon li visi cosí lordi: e ancora procurando per luiperò che la tal cosa con gran verità avea loro revelatail feciono lasciare.
Molto fu piú contento messer Dolcibene ch'e' Judei; però che fu molto novella da esaltare un suo pari e da guadagnare di molti doniraccontandola a' signori e ad altri. E io credo ch'ella fosse molto accetta a Dioe che in quello viaggio non facesse cosa tanto meritoria che quelli increduli dolorosi s'imbruttassino in quelle reliquie che allora meritavano.


NOVELLA XXV

Messer Dolcibene per sentenzia del Capitano di Forlí castra con nuovo ordine uno pretee poi vende li testicoli lire ventiquattro di bolognini.

La seguente novella di messer Dolcibenedella quale voglio ora trattarefu da doverodove la passata fu una beffa.
Nel tempo che messer Francesco degli Ardalaffi era signor di Forlíuna volta fra l'altre v'arrivò messer Dolcibene: e volendo il detto signore per esecuzione fare castrare un pretee non trovandosi alcuno che 'l sapesse fareil detto messer Dolcibene disse di farlo elli. Il capitano non averebbe già voluto altroe cosí fu fatto. E messer Dolcibene fece apparecchiare una bottee sfondata dall'uno de' latila mandò in su la piazza facendo là menare il preteed elli col rasoio e con uno borsellino andò nel detto luogo.
Giunti là e l'uno e l'altroe gran parte di Forlí tratta a vederemesser Dolcibene avendo fatto trarre le strabule al pretelo fece salire su la botte a cavalcionie li sacri testicoli fece mettere per lo pertugio del cocchiume. Fatto questoed elli entrò di sotto nella bottee col rasoio tagliata la pellegli tirò fuora e misseli nel borsellinoe poi gli si mise in uno carniereperò che s'avvisòcome maliziosodi guadagnarecome fece. Il prete dolorosolevato di su la bottene fu menato cosí capponato a una stiae là alquanti dí si fece curare. Il capitano di queste cose tutto godea.
Avvenne poi alquanti dí che uno cugino del prete venne a messer Dolcibene in segretopregandolo caramente che quelli granelli gli dovesse dareed elli farebbe sí che serebbe contento; però che 'l prete capponato sanza essi dire messa non potea. Messer Dolcibeneaspettando questo mercatantegli avea già misalti e asciuttie quanto gli dicessee come gli mercatasseegli n'ebbe lire ventiquattro di bolognini. Fatto questocon grandissima festa disse al capitano che cosí fatta mercanzia avea venduta; e 'l sollazzo e la festa che 'l capitano ne fece non si potrebbe dire. E in fineper diletto e non per avariziadella quale fu nimicodisse che volea questi denari e che elli apparteneano a lui. Messer Dolcibene si poteo assai scuotereché convenne che tra le branche di Faraone si cavassono lire dodici di bologninidando la metade al detto capitano.
E cosí rimase la cosa che 'l prete se n'andò senza granelli dell'uno de' quali ebbe il capitano lire dodicie messer Dolcibene altrettanti dell'altro.
Questa fu una bella e nuova mercanzia: cosí delle simili si facessono spessoché ne serebbe molto di meglio il mondo; e che fossono tratti a tutti gli altriacciò chericomperandosiavessono l'uno e l'altro dannoe poi gli si portassono in uno borsellinoche almeno non serebbono li viventi venuti a tanto che bandissono ogni dí le croci sopra le mogli altruie che tenessono le femmine alla banditachiamandole chi amichechi mogli e chi cugine; e li figliuoli che ne nasconoloro nipoti gli battezzanonon vergognandosi d'avere ripieni li luoghi sacri di concubine e di figliuoli nati di cosí dissoluta lussuria.


NOVELLA XXVI

Bartolino farsettaio fiorentinotrovandosi nel bagno a Petriuolo col maestro Tommaso del Garboe col maestro Dino da Olenainsegna loro trarre il sangueecc.

La dottrina che seguita non fu meno maestrevole che quella di messer Dolcibenela quale usoe Bartolino farsettaiotrovandosi nel bagno a Petriuolo col maestro Tommaso del Garbo e con maestro Dino da Olenaragionando d'assai cose da diletto con loroperò che come fossono scienziatierano non meno piacevoli che Bartolino. Fra l'altre cose che costui disse a questi due medicifu che gli domandò se sapeano come si traea il sangue al peto. Udendo li due valentri uomeni questocominciano ad entrare nelle risa per sí fatta forma che quasi rispondere non poteano; pur in fine dissono che noma che volentieri l'apparerebbono.
Disse Bartolino:
- Che volete che vi costi?
Disse il maestro Tommaso:
- Voglio che ogni volta che tu avrai maleesser tenuto di medicarti in dono.
E 'l maestro Dino disse che gli volea essere obbligato che ogni volta si volesse far fare uno farsetto non farlo mai fare per altra mano che per la sua.
Disse Bartolino allora:
- E io sono contento; state attentie io ve lo mostreroe testeso.
E subito fece un peto nell'acqua del bagnoil quale immantenente gorgogliando venne a galla e fece una vescica. E Bartolino come vide la vescica:
- Ora vi converrebbe avere la saettuzza e darvi entro
Quanti ne avea nel bagnodelle risa furono presso che affogatie li medici piú che gli altri.
Io scrittore non so qual fosse meglioo quello che promissono questi medici a Bartolinoo quello che Bartolino insegnò loro. Come che fosseonestamente Bartolino riprese l'arte loroche tanto ne sanno molti quanto Bartolino ne 'nsegnò loroo meno.


NOVELLA XXVII

Marchese Obizzo da Esti comanda al Gonnella buffone che subito vada viae non debba stare sul suo terreno; e quello che segue.

Il Gonnella piacevole buffoneo uomo di corte che vogliamo diremostrò al marchese da Ferrara non meno che Bartolino. Però che avendo il detto buffone commessa alcuna cosa piccola contro al marchese Obizzoo per avere diletto di luigli comandò espressamente che sul suo terreno non dovesse stare; ché se vi stessegli farebbe tagliare la testa. Di che il Gonnellanuovo come egli erase ne andò a Bolognae là accattoe una carrettae su vi misse terreno di quello de' Bolognesie detto e accordatosi col guidatore della carretta del pregiovi salí suso e ritornò in su questa carretta dinanzi al marchese Obizzo. Il qualeveggendo venire il Gonnella in sí fatta manierasi maravigliò e disse:
- Gonnellaio t'ho detto che tu non debba stare sul mio terrenoe tu mi vieni su una carretta dinanzi. Che vuol dire questo? ha' mi tu per cosí dappoco?
E disse a' famigli suoi che 'l pigliassono a furore.
Disse il Gonnella:
- Signor mioascoltatemi per Dioe fatemi ragionefacendomi impiccare per la golase io ho fallato.
Il signorevolonteroso d'udirloche ben pensava qualche nuova ragione dirsi per luidisse:
- Aspettate un pocotanto che dica ciò che vuole.
Allora il Gonnella disse:
- Signorevoi mi comandaste che io non stesse sul vostro terreno; di che io me ne andai subito a Bolognae misi su questa carretta terreno bolognesee su quello sono stato e al presente sonoe non sul vostroné sul ferrarese.
Il marcheseudendo costuicon gran sollazzo patí questa ragionedicendo:
- Gonnellatu se' una falsa gonnella e con tanti colori e sí diversi che non mi vale né ingegno né arte contro alla tua malizia: sta' ove tu vuoglich'io te la do per vinta.
E con questa piacevole astuzia rimase a Ferrarae rimandò la carretta a Bolognae 'l marchese l'ebbe per da piú che prima.
E cosí con una nuova legge che niuno dottore giammai seppe allegareil Gonnella allegò sí che a ragione il marchese non seppe contraddiree 'l Gonnella ne guadagnò una roba.


NOVELLA XXVIII

Ser Tinaccio prete da Castello mette a dormire con una sua figliuola uno giovenecredendo sia feminae 'l bel trastullo che n'avviene.

Piú nuova e piú archimiata mostra fece colui che si mostrò in questa novella essere feminaed era uomo. Venendo alla novellanel mio tempo fu prete d'una chiesa a Castellocontado di Firenzeuno che ebbe nome ser Tinaccioil quale essendo già vecchioavea tenuto ne' passati tempio per amica o per nimicauna bella giovane dal Borgo Ognissantie avea avuto di lei una fanciullala quale nel detto tempo era bellissima e da marito: e la fama era per tutto che la nipote del prete era una bella cosa.
Stava non troppo di lungi a questa uno giovanedel cui nome e famiglia voglio tacereil qualeavendo piú volte veduta questa fanciullaed essendone innamoratopensò una sottile malizia per essere con leie venneli fatto. Una sera di tempo piovosoessendo ben tardicostui si vestí come una foresee soggolato che s'ebbesi mise paglia e panni in senofacendo vista d'essere pregna e d'avere il corpo a golae andossene alla chiesa per addomandare la confessionecome fanno le donne quando sono presso al partorire. Giunta che fu alla chiesaera presso a un'ora di nottepicchiò la portae venendo il cherico ad apriredomandò del prete. Il cherico disse:
- Elli portò poc'ora fa la comunione a unoe tornerà tosto.
La donna grossa disse:
- Ohimètristach'io sono tutta trambasciata.
E forbendosi spesso il viso con uno sciugatoiopiú per non essere conosciuto che per sudore che avesse sul voltosi pose con grande affanno a sedere dicendo:
- Io l'aspetteròché per la gravezza del corpo non ci potrei tornare; e ancose Dio facesse altro di menon mi vorrei indugiare.
Disse il cherico:
- Sia con la buon'ora.
Cosí aspettandoil prete giunse a un'ora di notte. Il popolo suo era grande: avea assai populane che non le conoscea. Come la vide al barlumela donna archimiata con grande ambasciae asciugandosi il visogli disse che l'avea aspettatoe l'accidente il perché. E 'l prete la cominciò a confessare. La maschia donnacom'erafece la confessione ben lungaacciò che la notte sopravvenisse bene. Fatta la confessionela donna cominciò a sospiraredicendo:
- Tristaove n'andrò oggimai istasera?
Ser Tinaccio disse:
- E’ serebbe una sciocchezza; egli è notte buia e pioveggina e par che sia per piovere piú forte; non andate altrove: statevi stasera con la mia fanciullae domattina per tempo ve n'anderete.
Come la maschia donna udí questogli parve essere a buon punto di quello che desiderava; e avendo l'appetito a quello che 'l prete diceadisse:
- Padre mioio farò come voi mi consigliateperò che io sono sí affannata per la venuta che io non credo che io potesse andare cento passi sanza gran pericoloe 'l tempo è cattivo e la notte èsí che io farò come voi dite. Ma d'una cosa vi pregoche se 'l mio marito dicesse nullache voi mi scusiate.
Il prete disse:
- Lasciate fare a me
E andata alla cucinacome il prete la invioecenò con la sua fanciullaspesso adoprando lo sciugatoio al viso per celare la faccia.
Cenato che ebbonose ne andorono al letto in una camerache altro che uno assito non v'avea in mezzo da quella di ser Tinaccio. Era quasi sul primo sonno che 'l giovane donna cominciò a toccar le mammelle alla fanciullae la fanciulla già avea dormito un pezzo; e 'l prete s'udía russare forte; pur accostandosi la donna grossa alla fanciullae la fanciullasentendo chi per lei si levavacomincia a chiamare ser Tinacciodicendo:
- Egli è maschio.
Piú di tre volte il chiamò pria che si svegliassi; alla quarta:
- O ser Tinaccioegli è maschio.
E ser Tinaccio tutto dormiglioso dice:
- Che di' tu?
- Dico ch'egli è maschio.
Ser Tinaccioavvisandosi che la buona donna avesse fatto il fanciullodicea:
- Aiutaloaiutalofigliuola mia.
Piú volte seguí la fanciulla:
- Ser Tinaccioo ser Tinaccioio vi dico ch'egli è maschio.
E quelli rispondea:
- Aiutalofigliuola miaaiutaloche sie benedetta.
Stracco ser Tinacciocome vinto dal sonno si raddormentoee la fanciulla ancora stracca e dalla donna grossa e dal sonnoe ancora parendoli che 'l prete la confortasse ad aiutare quello di cui ella diceail meglio che poteo si passò quella notte. E presso all'albaavendo il giovene adempiuto quanto volle il suo desideriomanifestandosi a leiche già sanza mandorle s'era domesticatae chi egli erae come acceso del suo amore s'era fatto feminasolo per essere con lei come con quella che piú che altra cosa amavae per arralevatosiin sul partire gli donò denari che aveva allatoprofferendoli ciò che avea essere suo; ed ancora ordinò per li tempi avvenire come spesso si trovassono insieme; e fatto questo con molti baci e abbracciamenti pigliò commiatodicendo:
- Quando ser Tinaccio ti domanderà "che è della donna grossa"dirai: "Ella fece istanotte un fanciul maschioquando io vi chiamavae istamane per tempo col detto fanciullo s'andò con Dio".
Partitosi la donna grossae lasciata la pagliache portò in senonel saccone di ser Tinaccio; il detto ser Tinacciolevandosiandò verso la camera della fanciullae disse:
- Che mala ventura è stata questa istanotteche tu non mi hai lasciato dormire? Tutta notte ser Tinaccioser Tinaccio : benche è stato?
Disse la fanciulla:
- Quella donna fece un bel fanciul maschio.
- O dove è?
Disse la fanciulla:
- Istamane per tempissimocredo piú per vergogna che per altrose n'andò col fanciullo.
Disse ser Tinaccio:
- Deh dagli la mala pasquaché tanto s'indugiano che poi vanno pisciando li figliuoli qua e là. Se io la potrò riconoscereo sapere chi sia il maritoché dee essere un tristoio gli dirò una gran villania.
Disse la fanciulla:
- Voi farete molto beneché anco me non ha ella lasciato dormire in tutta notte.
E cosí finí questa cosaché da quell'ora innanzi non bisognò troppo archimia a congiugnere li pianetiche spesso poi per li tempi si trovorono insieme; e 'l prete ebbe di quelle derrate che danno altrui. Cosípoiché non si può far vendetta sopra le loro mogliintervenisse a tutti gli altrio sopra le nipoteo sopra le figliuolecome fu questasimile ingannoche per certo e' fu bene uno de' maggiori e de' piú rilevati che mai si udisse.
E credo che 'l giovene facesse piccolo peccato a fallire contro a coloro chesotto la coverta della religionecommettono tanti falli tutto dí contro alle cose altrui.


NOVELLA XXIX

Uno cavaliero di Franciaessendo piccolo e grassoandando per ambasciadore innanzi a papa Bonifazionell'inginocchiare gli vien fatto un petoe con un bel motto ramenda il difetto.

Io uscirò ora alquanto di quelle materie e inganni ragionati di soprae verrò a uno piacevole motto che uno cavaliere francesco gittò dinanzi a papa Bonifazio ottavo.
Uno cavaliere valente di Francia fu mandato per ambasciador con alcun altro dinanzi a papa Bonifazioche avea nome messer Ghiribertoil quale era bassetto di sua personae pieno e grasso quanto potea. E giunto il dí che costui dovea sporre questa ambasciatacome uomo non usato a simil faccendadomandò alcuno che reverenzia si costumava fare quando un suo pari andava dinanzi al Papa. Fugli detto che convenía che s'inginocchiasse tre volte per la tal forma. Essendo il cavaliere di tutto informatoandò il dí medesimo dinanzi al Papa per disporre l'ambasciata; e volendo fare destramente piú che non potea la sua personas'inginocchiò la prima volta; come che gli fosse faticapur n'uscío; venendo alla seconda inginocchiazionela fatica della prima aggiugnendosi con la secondae 'l volere fare presto e non poterelo costrinse a far sí che la parte di sotto si fe' sentire. El cavaliereveggendo esser vituperatosubito soccorsedandosi delle mani nell'anchedicendo:
- Lascia parlare moiche mala mescianza vi don Doi.
Papa Bonifazioche ogni cosa avea sentitoe ancora il piacevole motto dello ambasciadoredisse:
- Dite ciò che voi voleteche io v'intenderò bene.
E giugnendo appiè del Santo Padrecon grande sollazzo il ricevette; ed elli seguío la sua ambasciatae per averla sposta con due bocche ebbe meglio dal Papa ciò che domandò.

Molto fu da gradire il tostano rimedio di questo cavalieroil qualesentendosi contra il suo volere caduto in tal vergognasubito ricorse a quelloché altro rimedio non vi erané piú piacevole. Altri scientifichi uomeni già sono statiche dicendo una ambasciata dinanzi al Papasanza che caso sia occorso loro di vergognasono cascatinon sappiendo perchéin sí fatta maniera che sono penati una gran pezza a ritornare in loro.


NOVELLA XXX

Tre ambasciadori cavalieri sanesi e uno scudiere vanno al Papa. Fanno dicitore lo scudieree la cagione perchée quello che con piacere ne seguío.

Non fu meno coraggioso questo ambasciadore sanese a dire arditamente la sua ambasciata dinanzi al Papache fosse il cavaliero di Francia.
Fu in Siena al tempo di Gregorio papa decimo ordinato di mandarli una solenne ambasciataed elessono tre cavalieri e uno che non era cavaliereil quale era il migliore dicitore di Sienaquando tre o quattro volte avesse bevuto d'un buon vino prima che disponesse l'ambasciata: e non beendo per lo modo dettonon averebbe saputo dire una gobbola. E questa condizioneo naturaa me scrittore mi pare che fosse delle strane e delle diverse che mai s'udissono.
Mossonsi questi quattro ambasciadori sanesie andarono a Corte: ed essendo la mattina che doveano sporre l'ambasciatatiratisi da parte all'albergocominciò a dire alcuno de' cavalieri:
- Chi dirà?
Disse uno di loro:
- Cioè? E chi nol sa chi dee dire? dica il tale.
Costui si cominciò a difendereche non era cavaliere; e chedicendo egliera fare vergogna agli altri compagni ambasciadoriche erano cavalieri; e quella per niun modo volea fare.
Brievementee' si poteo ben dire di Berta e di Bernardoche costui pinto da' tre convenne che fosse il dicitore. E col modo usato fu mandato per lo migliore vino della terra e per li confetti. Beúto che n'ebbe il dicitore tre volteandorono a disporre l'ambasciatala quale fu per lo scudiere tanto ben dispostaquanto altra che disponesse mai. Fatto questoed essendo per quella mattina dal papa licenziatitornorono all'albergo. Ed essendo alquanto ristretti insiemedisse il dicitore a' cavalieri:
- Io non so se io dissi benee a vostro modo.
Dissono li cavalieri:
- Per certo tu dicesti meglio che tu dicessi mai.
Rispose il dicitore e presto:
- Per lo santo sangue di Dioche se io avesse beúto un altro tratto io gli averei dato nel viso.
Quanto li cavalieri del detto di questo loro compagno risononon si potrebbe dire. E 'l dicitore mostrò chechi non ha cuorelasciando ogni temeritàgiammai non può ben dire.
E cosí è veramenteche 'l dicitorequando parlaconviene che sia sicuro e coraggiosoperò che 'l dire sempre manca per lo timore; e chi è ben pronto e ardito dinanzi al sommo ponteficerade volte o non mai avviene che dinanzi ad ogni signore non dica arditamente.


NOVELLA XXXI

Due ambasciadori di Casentino sono mandati al vescovo Guido d'Arezzo; dimenticano ciò che è stato commessoe quello che 'l vescovo dice loroe come tornati hanno grande onore per aver ben fatto.

Se lo passato ambasciadore ampliava il suo direo la sua rettorica per bere il vinoin questa mostrerrò come due ambasciadori per lo bere d'un buon vinocome che non fossono di gran memoriama quella cotanta che aveano quasi perderono.
Quando il vescovo Guido signoreggiava Arezzosi creò per li Comuni di Casentino due ambasciadoriper mandare a lui addomandando certe cose. Ed essendo fatta loro la commessione di quello che aveano a narrareuna sera al tardi ebbono il comandamento di essere mossi la mattina. Di che tornati la sera a casa loroacconciarono loro bisaccee la mattina si mossono per andare al loro viaggio imposto. Ed essendo camminati parecchie migliadisse l'uno all'altro:
- Hai tu a mente la commessione che ci fu fatta?
Rispose l'altro che non gliene ricordava.
Disse l'altro:
- O io stava a tua fidanza.
E quelli rispose:
- E io stava alla tua.
L'un guata l'altrodicendo:
- Noi abbiàn pur ben fatto! O come faremo?
Dice l'uno:
- Or ecconoi saremo tosto a desinare all'albergoe là ci ristrigneremo insiemenon potrà essere che non ci torni la memoria.
Disse l'altro:
- Ben di' -; e cavalcando e trasognando pervennono a terza all'albergo dove doveano desinaree pensando e ripensandoinsino che furono per andare a tavolagiammai non se ne poterono ricordare.
Andati a desinareessendo a mensafu dato loro d'uno finissimo vino. Gli ambasciadoria cui piacea piú il vino che avere tenuta a mente la commessionesi comincia ad attaccare al vetro; e béi e ribeicionca e ricioncaquando ebbono desinatonon che si ricordassino della loro ambasciata ma e' non sapeano dove si fossonoe andarono a dormire. Dormito che ebbono una pezzasi destaron tutti intronati. Disse l'uno all'altro:
- Ricorditi tu ancora del fatto nostro?
Disse l'altro:
- Non so io; a me ricorda che 'l vino dell'oste è il migliore vino che io beessi mai; e poi ch'io desinainon mi sono mai risentitose non ora; e ora appena so dove io mi sia.
Disse l'altro:
- Altrettale te la dico; bencome faremo? che diremo?
Brievemente disse l'uno:
- Stiànci qui tutto dí oggi; e istanotte (ché sai che la notte assottiglia il pensiero) non potrà essere che non ce ne ricordi.
E accordaronsi a questo; e ivi stettono tutto quel giornoritrovandosi spesso co' loro pensieri nella Torre a Vinacciano. La sera essendo a cena e adoperandosi piú il vetro che 'l legnamecenato che ebbonoappena intendea l'uno l'altro. Andaronsi al lettoe tutta notte russorono come porci. La mattina levatisidisse l'uno:
- Che faremo?
Rispose l'altro:
- Mal che Dio ci diaché poi che istanotte non m'è ricordato d'alcuna cosanon penso me ne ricordi mai.
Disse l'altro:
- Alle guagneleche noi bene stiamoche io non so quello che si siao se fosse quel vinoo altroche mai non dormi' cosí fisosanza potermi mai destarecome io ho dormito istanotte in questo albergo.
- Che diavol vuol dir questo? - disse l'altro. -
Saliamo a cavalloe andiamo con Dio; forse tra via pur ce ne ricorderemo.
E cosí si partironodicendo per la via spesso l'uno all'altro:
- Ricorditi tu?
E l'altro dice:
- Noio.
- Né io.
Giunsono a questo modo in Arezzoe andorono all'albergo; dove spesso tirandosi da partecon le mani alle gotein una cameranon poterono mai ricordarsene. Dice l'unoquasi alla disperata:
- AndiamoDio ci aiuti.
Dice l'altro:
- O che diremoche non sappiamo che?
Rispose quelli:
- Qui non dee rimanere la cosa.
Misonsi alla venturae andorono al vescovo; e giugnendo dove erafeciono la reverenziae in quella si stavano senza venire ad altro. Il vescovocome uomo che era da moltosi levò e andò verso costoroe pigliandoli per la manodisse:
- Voi siate li ben venutifigliuoli miei; che novelle avete voi?
L'uno guata l'altro:
- Di' tu.
- Di' tu.
E nessuno dicea. Alla fine disse l'uno:
- Messer lo vescovonoi siamo mandati ambasciadori dinanzi alla vostra signoria da quelli vostri servidori di Casentinoed eglino che ci mandanoe noi che siamo mandatisiamo uomeni assai materiali; e ci feciono la commessione da sera in fretta; come che la cosa siao e' non ce la seppono direo noi non l'abbiamo saputa intendere. Preghianvi teneramente che quelli Comuni e uomeni vi siano raccomandatiche morti siano egli a ghiadi che ci mandoronoe noi che ci venimmo.
Il vescovo saggio mise loro la mano in su le spallee disse:
- Or andatee dite a quelli miei figliuoliche ogni cosa che mi sia possibile nel loro benesempre intendo di fare. E perché da quinci innanzi non si diano spesa in mandare ambasciadoriognora che vogliono alcuna cosami scrivinoe io per lettera risponderò loro.
E cosí pigliando commiatosi partirono.
Ed essendo nel camminodisse l'uno all'altro:
- Guardiamo che e' non c'intervenga al tornarecome all'andare.
Disse l'altro:
- O che abbiamo noi a tenere a mente?
Disse l'altro:
- E però si vuol pensareperò che noi averemo a dire quello che noi esponemmoe quello che ci fu risposto. Però che s'e' nostri di Casentino sapessono come dimenticammo la loro commessionee tornassimo dinanzi da loro come smemoratinon che ci mandassono mai per ambasciadorima mai offizio non ci darebbono.
Disse l'altroche era piú malizioso:
- Lascia questo pensiero a me. Io dirò che sposto che avemo l'ambasciata dinanzi al vescovoche egli graziosamente in tutto e per tutto s'offerse essere sempre presto a ogni loro benee per maggiore amore disse che per meno spesa ogni volta che avessono bisogno di luiper loro pace e riposo scrivessero una semplice letterae lasciassono stare le 'mbasciate.
Disse l'altro:
- Tu hai ben pensato; cavalchiamo pur forteche giunghiamo a buon'ora al vino che tu sai.
E cosí spronandogiunsono all'albergoe giunto un fante loro alla staffanon domandorono dell'ostené come avea da desinarema alla prima parola domandorono quello che era di quel vino.
Disse il fante:
- Migliore che mai.
E quivi s'armorono la seconda volta non meno della primae innanzi che si partissonoperò che molti muscioni erano del paese trattiil vino venne al bassoe levossi la botte. Gli ambasciadori dolenti di ciò la levorono anco ellinoe giunsono a chi gli avea mandatitenendo meglio a mente la bugia che aveano composta che non feciono la verità di primadicendo che dinanzi al vescovo aveano fatto cosí bella aringhierae dando ad intendere che l'uno fosse stato Tulio e l'altro Quintilianoe' furono molto commendatie da indi innanzi ebbono molti officiiche le piú volte erano o sindachio massai.
Oh quanto interviene spessoe non pur de' pari di questi omicciattima de' molto maggiori di loroche sono tutto dí mandati per ambasciadoriche delle cose che avvengono hanno a fare quello che 'l Soldano in Francia; e scrivono e dicono che per dí e per notte mai non hanno posatoma sempre con grande sollecitudine hanno adoperatoe tutta è stata loro fattura; che attagliono e intervengonoed eglino seranno molte volte con quel sentimento che un ceppo; e fiano commendati da chi gli ha mandatie premiati con grandissimi officii e con altri guiderdoni perché li piú si partono dal vero e spezialmente quando per essere loro creduto se ne veggiono seguire vantaggio.


NOVELLA XXXII

Uno frate predicatore in una terra toscanadi quaresima predicandoveggendo che a lui udire non andava personatruova modo con dire che mostrerrà che l'usura non è peccatoche fa concorrere molta gente a lui e abbandonare gli altri.

Meglio seppe comporre una sua favola uno fratedel quale parlerò in questo capitoloche non seppono comporre la loro gli ambasciadori di Casentino. Però che in una terra delle grandi di Toscanapredicandosi nel tempo di quaresimacome è d'usanzain piú luoghiuno frate predicatore veggendo che agli altri che predicavonocome spesso intervieneandava molta gentee a lui quasi non andava personadisse uno mercoledí mattina in pergamo:
- Signoriegli è buona pezza che io ho veduto tutti gli teologhi e predicatori in un grande errore; e questo è ch'egli hanno predicato che 'l prestare sia usura e grandissimo peccatoe che tutti i prestatori vanno a dannazione. E io per quello che io posso comprenderee che io ho trovatoho veduto che 'l prestare non è peccato. E acciò che voi non crediate che io dica da beffeo che io faccia stremi argomenti di loicaio vi dico ch'egli è tutto il contrario di questoch'egli hanno sempre predicato. E perché non crediate che io dica favoleperché la materia è grandese io averò il tempoio ne predicherò domenica mattina; e se io non avesse il tempoun altro dí che mi venga a tagliosí che ne anderete contentie fuori d'ogni errore.
La gente udendo questochi mormora di quae chi borboglia di là. Finita la predicaescono della chiesa; la boce va qua e là; ciascuno pensa: "Che vuol dire questo?" Gli prestatori stanno lietie gli accattatori tristi; e tale non avea prestatoche comincia a prestare. Chi dice: "Costui dee essere un valentissimo uomo"; e chi dice che dee essere una pecora; questo non si disse mai piú.
E in brieve tutta la terra aspettava la domenica mattinala qualevenuta che fucome li popoli son sempre vaghi di cose nuovetutti corsono a pigliare luogoe gli altri predicatori poterono predicare alle panche. Costui avea prima gli uditori sí radi che dall'uno all'altro avea parecchie braccia; ora v'erano sí stretti che affogava l'un l'altro; e questo era quello che elli avea desiderato. Giugnendo il frate in pergamoe detta l'Avemariaper non guastare la sua predicazionepropuose sopra l'Evangelioe disse:
- Io dirò prima certe cose morali; poi dirò la storia dell'Evangelio; e ultimamente alcune parti a nostro ammaestramentocome la materia richiedee dopo questo dirò dell'usuracome io vi promisi di dire.
E predicando per grande spazio questo valentre fratemise gran tempo su le parti dell'Evangelio; e venendo a quella dell'usuraera molto tarda l'oraperò che era passata terzae ciò avea fatto in prova per tranquillare la gente. Di che disse:
- Signoriquesto Evangelio mi ha ingannato in questa mattinaperò che egli è di grande sustanziae la midolla sua è profondacome avete uditoe sono per questo sí trascorso oltre che in questa mattina non avrei tempo di dire quello che io v'ho promesso; ma abbiate pazienziaché in queste mattine che verranno non serà sí lungo il predicare; e quando mi vedrò il tempoio ve ne predicheròche mi pare mill'anniper trarvi di questo errore.
E cosí gli pasceo d'oggi in domane insino all'altra domenicanella quale concorse maggior populo che prima. Essendo salito in pergamo e avendo predicatodisse:
- Signoriio so che la cagione che tanta moltitudine è qui è solo per udire quello che piú volte v'ho dettocioè del prestare. Di che io mi vi scusoché io sono stato un poco riscaldato di febbre; e pertanto m'abbiate stamane per iscusato; ma il tal dí venitee se Dio mi farà graziave ne predicherò.
E ora facendo una scusae ora un'altratutta Quaresima fece venire gente a sétenendoli sospesi insino a domenica d'olivo. Allora disse:
- Io vi ho promesso tante volte di dire la tal cosa che io non voglio trapassare questa mattina che io non vi dica ciò che io v'ho promesso. Voi sapetesignoriche la carità è accetta a Dioquanta altra virtú che siao piú. E la carità non è altro che sovvenire al prossimoe 'l prestare è sovvenimento; adunquedico che 'l prestare si può faree ch'egli è licito; e ancora piúche chi prestamerita. Ma dove sta il peccatoe dove è? Il peccato è nel riscuotere; e però il prestaree non riscuoterenon che sia peccatoma egli è grandissima mercèed essere accetto a Dio. E ancora dico piú che 'l riscuotere si può fare con modoche non che sia peccatoma è grandissima carità. Verbigraziauno presta a un altro fiorini centoriscuote a certo dí li fiorini centoe non piú; questo prestare e questo riscuotere è licitoe molto piace a Dioe ancora piacerebbe piúse per via d'amore o di carità non si riscotessonoma liberamente si lasciassono al debitore. Sicché avete che l'usura sta nel riscuotere piú che la vera sortaperò che 'l peccato nel tenimento non sta ne' fiorini centoma sta in quello che si dà piú che la vera sorta; e questa piccola quantità fa perdere tutta la carità che serebbe ne' fiorini centoe ancora il servigio e bene che averebbe fatto al buon uomo che gli accattoee torna in cosa inlicita e di restituzione. E però conchiudendofratelli mieiio vi dico e affermo che 'l prestare non è peccatoma il gran peccato è il riscuotere oltre la vera sorta; e con questo ve ne andatee gagliardamente prestateché sicuramente potete prestare per lo modo che ho predicato; e guardatevi di riscuoteree cosí facendo serete figliuoli del vostro padrequi in coelis est.
E fece la confessionela quale non fu né intesa né udita per lo grande mormorío e bisbigliare che vi era; e chi facea grandissime risadicendo:
- Questi ce n'ha ben fatto unae tutta quaresima ci siamo venuti per udire questa predicae istamane ci venimmo che non era dí. Deh morto sie egli a ghiadoche dee essere uno ciurmatore.
Chi stiamazza di qua e chi di làpiú giorni per la terra non si disse altro. Questo frate poté essere uno valentre uomoperò che egli avea mostratoo voluto mostrare al populoquanto era leggieroe che correano piú tosto alle frasche e alle cose nuove che a quelle della Santa Scrittura; e ancora andavano volentieri a udire chi dicesse cose secondo gli appetiti loro.
Corse a questa predica prestatorie chi avea voglia di prestare; e questi rimasono scherniti come meritavano; come ch'egli hanno preso tanto del campo che da loro hanno fatto un concettoche Dio non veggia e non intendae hanno battezzata l'usura in diversi nomicome dono di tempomeritointeressocambiocivanzabaroccoloritrangola e molti altri nomi: le quali cose sono grandissimo erroreperò che l'usura sta nell'opera e non nel nome.


NOVELLA XXXIII

Lo vescovo Marino scomunica messer Dolcibenee ricomunicandolo poidando della mazzuola troppo fortemesser Dolcibene si levae cacciandolsi sottogli dà di molte busse.

Come il frate predicatore nella passata novella fece scherne di un gran populocosí in questa parve che messer Dolcibene volesse fare la vendetta contra un vescovo.
Essendo adunque costui arrivato in una terra de' Malatesti in Romagnauno vescovo Marinoo per eccesso commesso per luio per averne dilettol'avea scomunicato o fatto vista. E di ciò avendone piú di que' signori gran dilettoquesto vescovonon volendolo ricomunicareil tenea accannatoed elli avea gran bisogno di ritornare a Firenzee cercava la ricomunica. Avvenne che alcuno de' signoricome aveano ordinatoli disse:
- Io ho tanto fatto col vescovo che ti ricomunicherà; fa' che tu sia domattina nella cotal chiesaed elli farà verso te quello che fia da fare.
Ed elli disse di farlo.
E 'l signoreche avea ordinato che 'l vescovo gli desse che gli dolesseandò anco là la mattinae non parea suo fattostandosi nel coro. E messer Dolcibene giunse nel detto luogo per accozzarsi con lui. E in quell'ora era entrato il vescovo in una cappellae aspettava che l'amico andasse a luie 'l signore disse a messer Dolcibene:
- Il vescovo è là: va'spàcciati.
Ed elli cosí andò; e giunto che fu nel luogo dinanzi dal vescovoponendosi inginocchione; e 'l vescovoche avea un buono camato in manofatta che gli ebbe la confessione sopra il capodisse:
- Di'Miserere mei Deus secundum magnam misericordiam tuam.BR>E quelli dicendolo piú voltecome si fa; e 'l vescovo menando la bacchetta che parea che facesse una sua vendetta; come dice: "Di'Miserere mei Deus secundum magnam misericordiam tuam "; e mena la mazza; e messer Dolcibene si levae pigliando il vescovoe dicendo a un tratto: "Et secundum magnam multitudinem pugnorum "; e darlie cacciarselo sottofu tutt'uno.
E quando gli ha dato quanto vollecorre nel grembo del signoreche era pressoe tutto avea veduto. La famiglia del vescovo correndogli drieto per pigliarloil signore mostrandosi turbato disse:
- Menatelo a casa miaché questa punizione voglio fare io.
E questo disse per consolare il vescovo e levarlo dalle sua mani. Mandatone messer Dolcibene presoe 'l signore si accostò al vescovodicendo:
- Come sta questa cosa?
E 'l vescovo rispose:
- Per Corpus Christiquod cacavit eum Sathana.
E cosí forbottato il vescovo si tornò al vescovadoe messer Dolcibene stette rimbucato piú dí. E in fine il signore diede ad intendere al vescovo che gli avea fatto dare tanta colla che forse mai non serebbe sano delle braccia; e feceli mettere uno sciugatoio al colloe allenzare il braccio; e 'l vescovo per questo parea tutto aumiliato. E forse in capo d'otto dí messer Dolcibeneavvisandone il signoree dovendo dire il vescovo una messa pianaessendo alla chiesa il signore da parteandò alla detta messa quasi in sul celebraree fattosi innanzi quanto poteoprendendo il vescovo il corpo di Cristoe messer Dolcibene esce:
- Né mica disse istamane cotestui il paternostro di san Giuliano.
Il vescovosentendo questo diavolo ivie udendo il mottoavendo il calice nelle manigli venne sí fatte risache fu presso che 'l calice non gli cadde di mano. E detta la messache già messer Dolcibene s'era partito col signoregli perdonò quella medesima mattinae fu poi sí grande suo amico che appena il vescovo sapea vivere sanza lui. E 'l signore vidde andare questo fatto come egli avea vogliae rimase contento.
E cosí una pensa il ghiottoun'altra il tavernaio. Il vescovo s'avvisò di mazzicaree non fece ragione d'essere ingoffatocome avete udito. E forseperché fosse vescovoavea bisogno di disciplinacome messer Dolcibene. E non si dee ancorané da beffané da doveroaspreggiare uno peccatorequando viene a contrizioneperò che nelle cose sacre non si vuole scherzare; ché per menare la bacchetta oltre al debito modon'acquistò un bene gli sta che mai non gli venne meno.


NOVELLA XXXIV

Ferrantino degli Argenti da Spuletoessendo al soldo della Chiesa a Todicavalca di fuorie poiessendo tornato tutto bagnato di pioggiava in una casadove truova al fuoco di molte vivande e una giovenenella quale per tre dí sta come li piace.

Altro gastigamento diede Ferrantino degli Argenti da Spuleto a uno calonaco di Todi; però cheessendo il cardinale del Fiesco per la Chiesa in Todie avendo condotti soldatifu tra questi uno che avea nome Ferrantino degli Argenti da Spuletoil quale io scrittore e molti altri viddono esecutore in Firenze nel MCCCXC o circaper tal segnale che cavalcava uno cavallo con uno paio di posole di sí smisurata forma che le loro coregge erano molto bene un quarto di braccio larghe.
Essendo stato tolto uno castello nel Todino da uno gentiluomo di Todiconvenne che tutti li soldati vi cavalcassinofra' quali fu questo Ferrantino; e fatto intorno al castello quel danno che poterono sanza riaverlotornandosi verso Todivenne grandissima piovadi che tutti si bagnaronoe fra gli altri si bagnò Ferrantino piú che nessunoperché li suoi panni pareano di sadirlandatanto erano rasi.
Essendo costui cosí bagnatoentrò in Todie andò a smontare ad una casetta che tenea a pigionee disse ad uno suo paggetto acconciasse i cavalli nella stallaed egli andò cercando per la casa se fuoco o legne d'accenderlo trovasse: niuno bene vi trovòperò che era povero scudieree la sua magione parea la Badía a Spazzavento.
Come costui vidde questoe che era tutto bagnato e agghiacciavadice: "Cosí non debb'io stare". Subito se n'uscío fuorie d'uscio in uscio mettendo il capoe salendo le scalesi mise andare cercando l'altrui casee fare dell'impronto per asciugarsise fuoco vi trovasse. Andando d'una in altraper fortuna capitò ad una portalà dove intrato e andando sutrovò in cucina uno grandissimo fuoco con due pentole pienee con uno schidone di capponi e di starnee con una fante assai leggiadra e giovenela quale volgea il detto arrosto. Era peruginae avea nome Caterina. Costei veggendo cosí di subito venire Ferrantino nella cucinatutta venne menoe disse:
- Che vuoi tu?
E quelli disse:
- Io vegno testeso di tal luogoe sono tutto bagnatocome tu vedi: in casa mia non ha fuocoe indugiare non mi poteaché io mi serei morto: io ti prego che mi lasci rasciugaree poi me n'andrò.
Disse la fante:
- O asciugati tostoe vatti con Dioché se messer Francesco tornasseche ha una gran brigata a cena con luinon l'averebbe per benee a me darebbe di molte busse.
Disse Ferrantino:
- Io 'l faròchi è questo messer Francesco?
Ella rispose:
- E’ messer Francesco da Narniche è qui calonacoe sta in questa casa.
Disse Ferrantino:
- O io sono il maggior amico ch'egli abbia -; (e non lo conoscea però).
Disse la fante:
- Deh spàcciatiché io sto tuttavia con le febbri.
Ferrantino dicea:
- Non temereché io serò tosto asciutto.
E cosí standomesser Francesco tornòe andando in cucina a provvedere le vivandevidde Ferrantino che s'asciugavae dice:
- Che ci fa' tu? Chi è costui?
E Ferrantino dice chi ècome è.
Disse messer Francesco:
- Mal che Dio ti dia; tu déi essere un ladroncelloa entrare per le case altrui; escimi testè di casa.
Dice Ferrantino:
- O Pater reverendepatientia vestratanto che io m'asciughi.
Dice il calonaco:
- Che Pater merdente ? io ti dico escimi di casa per lo tuo migliore.
E Ferrantino fermoe dice:
- Io mi asciugo forte.
- Io ti dico che tu m'esca di casase non ch'io t'accuserò per ladro.
E Ferrantino dice:
- O prete Deimiserere mei -; e non si muove.
Quando messer Francesco vede che costui non si parteva per una spadae dice:
- Al corpo di Dioche io vedrò se tu mi starai in casa a mio dispetto -; e corre con la spada verso Ferrantino.
Veggendo questoFerrantino si leva in piedee mette la mano alla suadicendo:
- Non truffemini.
E tratta della guaina si fa incontro al calonacotanto che lo rinculò nella salae Ferrantino incontroglie cosí amendue si trovorono in salafacendo le scaramucce sanza toccarsi.
Quando messer Francesco vede che non lo può cacciar fuorieziandio avendo presa la spadae come Ferrantino digrigna con la suadisse:
- Per lo corpo di Dioch'io andrò testeso ad accusarti al cardinale.
Disse Ferrantino:
- Io voglio venire anch'io.
- Andiamoandiamo.
E scendendo amendue giú per la scalagiunti alla portadice messer Francesco a Ferrantino:
- Va' oltre.
Dice Ferrantino:
- Io non andrei innanzi a voiche sete officiale di Cristo.
E tanto disseche messer Francesco uscí fuori prima.
Come fu uscitoe Ferrantino pigne l'uscioe serrasi dentro; e subitocome su èquante masserizie poté trovare da ciò gittò giú per la scalaacciò che l'uscio dentro fusse ben puntellato; e cosí n'empié tutta la scalatanto che due portatori non l'arebbono sgombra in un dí; e cosí s'assicurò che l'uscio si potea ben pignere di fuorima aprire no. Veggendosi il calonaco di fuori cosí serratogli parve essere a mal partitoveggendo in possessione della carne cotta e della cruda uno che non sapea chi si fosse; e stando fuorimolto piacevolmente chiamava gli fosse aperto.
E Ferrantino fassi alle fenestree dice:
- Vatti con Dio per lo tuo migliore.
- Deh apri- dicea il calonaco.
E Ferrantino dicea:
- Io apro -; e apriva la bocca.
Veggendo costui esser fuori della sua possessione e dell'altre cosee ancora esser beffatose n'andò al cardinalee là si dolse di questo caso.
In questovenendo l'ora della cenala brigata che dovea cenare con luis'appresentano e picchiano l'uscio. Ferrantino si fa alle fenestre:
- Che volete voi?
- Vegnamo a cenare con messer Francesco.
Dice Ferrantino:
- Voi avete errato l'uscio; qui non sta né messer Francesconé messer Tedesco.
Stanno un poco come smemoratie poi pur tornano e bussano. E Ferrantino rifassi alle fenestre:
- Io v'ho detto che non istà qui; quante volte volete ch'io vel dica? Se voi non vi partite io vi getterò cosa in capo che vi potrà putiree serebbe meglio che voi non ci foste mai venuti -; e comincia a gittare alcuna pietra in una porta di rincontro perché facesse ben gran romore.
Brievementecostoro per lo migliore se n'andorono a cenare a casa lorolà dove trovorono assai male apparecchiato; e 'l calonacoche s'era ito a dolere al cardinalee che avea cosí bene apparecchiatoconvenne si procacciasse d'altra cena e d'altro albergo: e non valse che 'l cardinale mandasse alcuno messaggio a dire ch'egli uscisse di quella casa; ma come alcuno picchiava l'usciogli gittava presso una gran pietra; di che ciascuno si tornava tosto a drieto.
Essendo ognuno di fuori straccodice Ferrantino alla Caterina:
- Fa' che noi ceniamoché io sono oggimai asciutto.
Dice la Caterina:
- Me' farai d'aprire l'uscio a colui di cui è la casae andarti a casa tua.
Dice Ferrantino:
- Questa è la casa mia; questa è quella che Dio misericordioso m'ha istasera apparecchiato. Vuo' tu che io rifiuti il dono che m'ha dato sí fatto signore? Tu hai peccato mortalmente pur di quello che tu hai detto.
Ella la poté ben sonare che Ferrantino n'uscisse; e' convenneo per forza o per amorech'ella mettesse le vivande in tavolae ch'ella sedesse a mensa con Ferrantinoe cenorono l'uno e l'altro molto bene: poi rigovernato l'avanzo delle vivandedisse Ferrantino:
- Qual'è la camera? andiànci a dormire.
Dice la Caterina:
- Tu se' asciuttoe ha' ti pieno il corpoe or ci vogli dormire? in buona fé tu non fai bene.
Dice Ferrantino:
- DohCaterina miase per questa mia venuta qui io avesse peggiorata la tua condizioneche mi diresti tu? io ti trovai che cocevi per altrui in forma di fantee io t'ho trattata come donna; e se messer Francesco e la sua brigata fosse venuta a cena quila tua parte serebbe stata molto magralà dove tu l'hai avuta molto doppiae hai acquistato paradiso a sovvenire meche era tutto molle e affamato.
La Caterina dice:
- Tu non déi essere gentiluomoché tu non faresti sí fatte cose.
Dice Ferrantino:
- Io sono gentiluomoe ancora contela qual cosa non sono quelli che doveano cenar qui; e tanto hai tu fatto maggior bene: andiànci a dormire.
La Caterina disdiceama pur nella fine si coricò con Ferrantinoe non mutò lettoperò che in quello medesimo dormía col calonaco; e cosí tutta notte si rasciugò con lei Ferrantinoe la mattina levatositanto stette in quella casa quanto durorono le vivandeche fu piú di tre díne' quali messer Francesco andò per Todie guardando alcun'ora da lungi verso la sua casaparea uno uomo uscito di sémandando alcuna volta spie a sapere se Ferrantino ne fosse uscito; e se alcuno v'andavale pietre dalle fenestre erano in campo. Nella fineconsumate le vivandeFerrantino se n'uscío per un uscio di drietoché per quello dinanzi per le molte masserizie gittate dentro non poteo; e andossene alla casa sua povera e mal fornitalà dove il paggio e due sua cavalli aveano assai mal mangiatoe ivi fece penitenza; e messer Francesco tornò a casa sua per l'uscio di drietoed ebbe a trassinare e racconciare di molte masserizie in iscambio della cena.
E la Caterina li diede ad intendere che ella avea sempre contesoe difesosi da luie come di lei alcuna cosa non avea aúto a fare. Poi il cardinaleper lo richiamo del calonacomandò e per l'uno e per l'altrodicendo a Ferrantino che si scusasse d'uno processo che gli avea formato addosso. Ferrantino scusandosi dicea:
- Messer lo cardinalevoi non ci predicate altro se non che noi abbiamo carità verso il prossimo: essendo io tornato dell'oste tutto bagnatoin forma che io era piú morto che vivoin casa mia non trovando né fuoconé altro benemorire non volea. Abbatte'micome volle Iddioin casa questo valentre religiosoil quale è quitrovandosi uno gran fuoco con pentole e con arrosti intorno; mi puosi a rasciugare a quellosanza fare o molestia o rincrescimento a persona. Costui giunse làe cominciommi a dire villaniae che io gli uscisse di casa. Io continuo con buone parolepregandolo mi lasciasse asciugare: non mi valse alcuna cosama con una spada in mano mi corse addosso per uccidermi. Ioper non esser mortomisi mano alla mia per difendermi da lui infino alla porta da vialà dove uscendo elli fuoriper poter menarla alla largae uccidermi com'io uscisse dell'uscioio mi serrai dentro e lui di fuorisolo per paura della morte; e là sono stato per questa paurasa Dio comeinfino ad oggi. Se mi vuol far condennareegli ha il torto; io non ci ho che perdere alcuna cosae posso andare e stare a casa mia: io non ci usciròche io non sappia perché; ché quanto iomi tengo offeso da lui.
Udendo il cardinal questochiamò il calonaco da partee disse:
- Che vuoi tu fare? tu vedi quello che costui dicee puoi comprendere chi egli è; facendo pace fra voicredo che sia il meglioinnanzi che tu ti voglia mettere a partito con un uomo di soldo: - di che elli consentío.
E simigliantemente chiamò Ferrantino da partee insieme li pacificòe non sí che 'l calonaco non guardasse a stracciasacco Ferrantino un buon pezzo.
Cosí Ferrantinoasciutto che fued empiutosi il corpo tre díe con la femina del calonaco aúto quel piacere che volleebbe buona pace; la qual vorrei che avesse ogni laico o secolareadoperando le cose morbide e superflue de' chericie a loro intervenisse sempre delle loro vivande e conviti e feminequello che intervenne a questo nobile calonacoche sotto apparenza onesta di religioneogni vizio di goladi lussuria e degli altricome il loro appetito desiderasanza niuno mezzo usano.



NOVELLA XXXV

Uno chericonesanza sapere gramaticavuole con interdotto d'uno cardinaledi cui è servosupplicare dinanzi a papa Bonifazio uno benefiziolà dove dispone che cosa è il terribile.

E per mostrare bene quanto gran parte de' cherici vengono avere li beneficii sanza scienza e discrizionedirò qui una novellettache tulettoreil potrai molto ben conoscere. Al tempo di papa Bonifazioessendo servo d'uno de' suoi cardinali uno chericonechenon che sapesse gramaticaappena sapea leggerevolendo il detto cardinale di lui fare qualche cosagli fece fare una supplicazione per impetrare alcuno beneficio dal santo padre. E conoscendolo bene grossolanodisse:
- Vie' qua. Io t'ho fatto fare una supplicazionela qual voglio che tu dea innanzi al santo padree io ti menerò dinanzi da lui. Va' arditamenteperò che ti domanderà alcuna cosa per gramatica; se sai rispondere da te a quello che ti domandarispondi e non temere; se non lo intendie non sapessi rispondereguarderai a meche sarò da costa al papaed io t'accennerò quello che tu debba diresí che mi potrai intendere; e secondo comprenderai da mecosí risponderai.
Disse il chericoneche averebbe meglio saputo mangiare uno catino di fave:
- Io lo farò.
Lo cardinale trovò la supplicazionee datoglieleil menò dinanzi al paparaccomandandolo alla sua santità; e 'l chericonegittandosi ginocchioneglie la porse; e 'l cardinale si mise ritto da lato al papae volto verso il chericonesolo per accennarli quello che dovesse dire se bisognasse. Come il papa ebbe la supplicazionela lesse; e guardato questo chericoconsiderando che fosse chi egli èlo domandò:
- Quid est terribilis?
Il chericoudendo questo nome cosí terribilee non sapendo che rispondereguardava il cardinaleil quale menava il bracciocome quando si dà lo 'ncenso col terribile. E 'l chericopensando a quello che gli accennavadisse a lettere grosse:
- Il tale dell'asinoquando egli è rittopadre santo.
Il papaudendo questoparve che dicesse: "Egli ha meglio risposto che potesse. E qual'è piú terribile cosa che quella?" E disse:
- Fiatfiat -; e volto al cardinale ridendodisse: - Menalo via; fiatfiat.
E cosí fu fatto.
Quanto fu grosso questo chericoneche non considerò quello che dissené innanzi a cuifacendo cosí bella sposizione! e per questo ebbe il beneficio; ché avendo saputo qualcosaforse non l'arebbe aúto. E forse fu questa sua grossezza cagione di farlo venire a maggiore dignitàcome spesso interviene a moltia cui viene il nostro Signore tra le manili quali hanno meno discrizione che gli animali irrazionali.


NOVELLA XXXVI

Tre Fiorentiniciascuno di per sée con nuovi avvisi per la guerra tra loro e' Pisanicorrono dinanzi a' Prioridicendo che hanno veduto cose che niuna era presso a cento miglia; e cosí ancora che avevano fattoe non sapeano che.

Molto seppono meno quello che dicessono tre Fiorentini in questo capitoloche 'l cherico passato. Nel tempo che l'ultima volta li Fiorentini ebbono guerra co' Pisaniessendo gl'Inghilesiche erano dalla parte de' Pisanicavalcati verso il terreno fiorentinouno Geppo Canigianiil quale era a un suo luogo a San Cascianospaventato da uno romore o d'acquao di ventocome interviene quando viene mal tempos'avvisò quello poter esser l'esercito de' nimicie portar la novella a' Signori da Firenzeper venire in grazia. E cosí salito a cavalloa spron battuti n'andò al palagio de' Priori a smontare; e andato dinanzi a' Signoridisse che venía da San Cascianoe ch'e' nimici con grandissimo romore ne veníano verso Firenze.
Li Signori domandano se gli ha veduti; colui dicea di noma che gli avea sentiti.
- Come gli sentisti?
E quelli dicea che avea udito un gran romore.
Dicono li Priori:
- O che sai tu che quel romore fossono li nimici? Rispose:
- O egli erano cavalierio ell'era acqua.
Strinsono le spalle e ringrazioronloe andossi con Dio.
Il secondo fu uno che avea nome Giovanni da Pirano il quale essendo fuori della porta a San Niccolò su uno suo cavallacciocerti buoi fuggendo verso la porta dettaelli credendo avere li nimici al gheronediede delli sproni alla giumentae fuggendo nella terra dinanzi a' detti buoinon restò mai che egli fu dinanzi a' detti Prioridicendo:
- Mercè per Dioche tutti i buoi digiogati fuggono dentro per la porta San Niccolò.
E’ Priori notano costui con l'altro di soprae dissono che stesse attentoe spesso recasse loro novelle.
Il terzo fu uno che avea nome Piero Fastelliil qualebenché fosse mercatanteavea per usanza con uno balestro e con le corazzine andarsi in tempo di guerra cosí a piedequando un miglio e quando due. Avvenne cheessendo gl'Inghilesi col campo pisano nel piano di Ripole presso due miglia a Firenzee per uno pessimo tempo piovoso e nebbiosodurato molti díessendo ito Piero una mattina forse una balestrata fuori della detta portasaettoe uno verrettone verso il greto d'Arno; tornò a Firenzee subito andò a' detti Priorie disse:
- Signori mieiio vegno presso presso al campo de' nimicie ho saettato un gran verrettone in gran danno di loro; ma la folta nebbia non m'ha lasciato discernere.
Li Signoriguatano l'uno l'altroe dicono:
- Pierode' tuoi pari ci vorrebbe assaiché con meno di cinquanta verrettoni si sconfiggerebbono li nimici: va' e ingegnati di saettarnee recaci novelle spesso.
Cosí furono avvisati questi signori in pochi dí da tre valentri uomeni di guerra di tre cose sí fatte che 'l Dabuda n'averebbe scapitato. E però chi è uso alla mercanzia non può sapere che guerra si sia; però si disfanno le comunitàquando non istanno in pace; che standosi a fare l'arte lorodicono: "Noi abbiamo sconfitto li nimici"; come fa la moscache è in sul collo del buequando gli fosse detto: "Che faimosca?" e quella dice: "Ariamo".


NOVELLA XXXVII

Bernardo di Nerinovocato Crocevenuto a questione a uno a uno con tre Fiorentiniconfonde ciascuno di per sé con una sola parola.

Seppe meglio quello che disse in tre cose a tre uomeniessendo a contesa con lorocostui di cui parlerò al presente. Bernardo di Nerinovocato Crocefu nel principio barattieree in questo tempo fu di sí forte e disprezzata natura che si metteva scorpioni in boccae con li denti tutti gli schiacciavae cosí facea delle botte e di qual ferucola piú velenosa. S'egli era di diversa naturaciascuno il pensiche per accesacontinua e mortal febbresfidato da' mediciveggendolo molto arderevollono fare notomia di sí fatta naturaaddomandandola elli: il feciono mettere nudo in una bigoncia d'acqua freddacome esce del pozzoe preso costui cosí ardente e nudove l'attufforono dentroil quale cominciando a tremare e schiacciare li dentistato un pezzolo rimisono nel lettoe subito cominciò a miglioraree spegnersi l'arsione in forma che guerío.
Oratornando alla materiacostui prestando in Frioli di barattiere nudo tornò ricco a Firenzee venendo spesso a parole con altruiporgea detti nel quistionare che confondea ognuno; e io scrittore fui presente a tre voltele quali a piedi si diranno. La prima fuche avendo parole con uno stato barattierecom'elliassai disutile uomochiamato Fascio di Canocchioil detto Fascio disse al Croce:
- E’ ti pare essere un gran maestroe' mi darebbe cuore di venderti sul ponte a Sorgano.
E 'l Croce rispose:
- Io ne sono molto certoed è segnalequando si trovasse il compratore di meche vaglio qualche cosa; ma e' non mi darebbe cuore di vendere te in sul ponte al Rialtotenendoviti suso tutto il tempo della vita miatanto se' tristo e doloroso.
Costui ammutoloe e rimase confuso.
La seconda volta il detto Croce ebbe questione su la piazza di mercato nuovo con uno chiamato Neri Boncianiil quale parea piú tapino che Fascio di Canocchioera sparuto e avarissimoed eranvi molti cittadini tratti al romore. Quando vedde assai gente là corsae quelli si volge a lorodicendo contra il detto Neri:
- Deh guardatesignoriper cui fu morto Cristoche è cosa da non esser mai lieto né contento.
La brigata tutta comincia a rideree a Neri si turò la strozza in sí fatta forma che si partíe mai non disse parola.
La terza fu che Giovanni Zatinon essendo ancora cavalieroessendo molto piccolo e sparutoe avendo il padre prestato in Friolivolle mordere il Croce dell'anima nel prestare che avea fattoe lui mettea in parole nel paradiso; e 'l Croce disse dopo molte parole:
- Giovanniio ti vorrei fare una piccola questione; e questa è che io vorrei saper da tese tu andassi al luogo comunee fatto el mestiero del corpoe avessi bisogno d'adoperare la pezzae in quel luogo fosse dall'un lato sciamitidall'altro drappida un'altra parte fossono pezze per quello mestieroqual piglieresti per nettarti?
Rispose:
- Piglierei le pezze da quel mestiero.
E 'l Croce disse presto:
- E cosí farà il diavolo di te.
Costui sentendosi cosí morderee la sparuta vista e l'opere sueche ancora non meritavono paradisocome si dava a crederemai né allora né poi si stese in simil ragionamenti con lui.
E cosí questo Croce cavò d'errore questi tre errati di loro medesimili quali sono molti come costoro che s'ingannono sí forte che credono che tutti gli altri siano ciechie a loro pare avere gli occhi del lupo cervierenon pensando chi sianoné quanto vaglino l'opere loroessendo peggiori che tali con cui contendonosi vogliono fare di buona terramostrandosi buoniessendo il contrario. E per questo nacque quel proverbio: "Lo sbandito corre drieto al condennato". Ma a tutti intervenisse che s'abbattessono al Croceil quale non essendo Socratenon Pittagoranon Origenené degli altri filosofi ch'ebbono profonde sentenziema uno omicciatto disutilecon cosí nuove ragioni che gli confondesse come confuse questi tre con cui venne a questione: questo non gli diede scienzama sottigliezza e ingegno di natura.


NOVELLA XXXVIII

Messer Ridolfo da Camerino con una bella parola confonde il dire de' Brettoni suoi nimicifacendosi beffe di luiperché fuor di Bologna non uscía.

Le notabil parole e i brevi detti di messer Ridolfo da Camerino la passata novella mi reduce a memoria; de' quali ne dirò alcuni qui dappiè. Però che io scrittoretrovandomi in Bologna buon tempo con luiquando era generale capitano di guerra de' Fiorentinie di tutta l'altra lega per la guerra della Chiesaquando il cardinale di Genèvache poi ebbe nome papa Clemente in Vignoneera venuto con li Brettoni alle porte della detta terrae uno nipote del detto messer Ridolfo nato di sua sorellachiamato Gentile da Spuletoandando per guadagnarecome fanno gli uomeni d'armefacendo scaramucce coi detti Brettonifu preso da loro. E sapiendo gli Brettoni ch'egli era nipote di messer Ridolfocon disprezzamento gli diceano:
- Noi aspettiamo il capitano vostro: perché non esc'elli fuori? noi sentiamo che si sta pur nel letto: venga fuorivenga.
Gentile rispose ch'egli aspettava gentee che ben gli andrebbe a vedere a luogo e a tempo. Puosonli ducati cinquanta di tagliae lasciaronlo alla fede che gli andasse a procacciare. Tornato in Bolognae andando a messer Ridolfodisse messer Ridolfo:
- Che dicono li Brettoni?
- Dicono: "Che fa questo vostro capitanoche si sta pur dentro? Che non esc'egli fuori? noi l'aspettiamo".
Disse messer Ridolfo:
- Come rispondesti?
Disse Gentile:
- Risposi che tosto usciresti fuoriperò che voi aspettavate gente.
Disse messer Ridolfo:
- Mal dicestiche Dio mal ti faccia.
E Gentile disse:
- Perchémessere?
Disse messer Ridolfo:
- Se' per tornarci?
Disse Gentile:
- Signor síperò che ho portare loro cinquanta ducati per la taglia che m'hanno posta.
Dice messer Ridolfo:
- Se ti dicono piú: "Perché non esce fuori messer Ridolfo?" e tu rispondi: "Perché voi non c'entriate dentro"; e d'altro non t'impacciare.

Or non fu bella parola questa a uno capitano di guerra? per certo bella e notabilecome se l'avesse detta Scipione o Annibale: e troppo maggiore prova fu a' nimici questa riposta (se Gentile la disse loro) di mostrare loro chi messer Ridolfo erae da quantoche se due volte gli avessi sconfitti in battaglia campale. Altri poco sperti e pratichi nella maestria dell'arme si sarebbono andati incastagnando di parolee quante piú ne avessono detteda meno serebbono stati reputati.


NOVELLA XXXIX

Agnolino Bottoni da Siena manda un cane da porci a messer Ridolfo da Camerinoed egli lo rimanda in dietro con parole al detto Agnolino con dilettevole sustanza.

Molto fu da ridere quest'altro motto che segue del detto messer Ridolfo. Francescosignore di Matelicaebbe un tempo guerra col detto messer Ridolfo; e morendo il detto Francescorimasono suoi figliuolili qualiper istare sicuri e per difendersi da luiuno Foscherello da Matelicache era gran caporale in una compagna d'uno che avea nome Boldrinofacea sua camera in Matelica per provvisione ch'avea Boldrino a tutta sua brigata da' figliuoli di Francesco. E come s'usa per le guerrequesto Foscherellocome cordiale nimico di messer Ridolfofece una cavalcata con gente d'arme sul terreno di messer Ridolfoper la quale menoe e predoe ottocento porcie condusseli a Matelica.
Stando per alcuni dínon potendo messer Ridolfo vendicarsi sopra i nimicisopravvenne uno famiglio d'Agnolino Bottoni da Siena con uno bellissimo cane alano a manoe andato dinanzi a messer Ridolfoe fatta la reverenzadisse che Agnolino Bottoni gli presentava quel cane. Messer Ridolfoguardando il cane e 'l famigliodomandò da quello che quel cane era buono. Il famiglio gli rispose:
- Da porcisignor mio.
E messer Ridolfo disse:
- E come ne piglia?
Il famiglio disse:
- Quando unoe quando due per dísecondo come l'uomo gli truova.
Disse allora messer Ridolfo:
- Amico mioquesto non è cane da merimenalo ad Agnolinoe di' che io l'ho per ricevutoma che questo cane non è per li fatti miase non piglia piú che un porco per volta. Se gli ne venisse alle mani uno di quelli di Foscherello da Matelicache ne piglia ottocento per voltapriegalo che me lo mandi.
Il famiglioudendo costuie veggendo che dono non riceveasi partí quasi scornatorapportando il cane e la 'mbasciata ad Agnolinoil qualeintendendo il fatto disse che messer Ridolfo dicea molto benedappoi che elli avea aúta sí poca considerazione cheessendoli stati tolti in quelli dí ottocento porcigli mandava un cane che forse non avvenia del mese una volta che ne pigliasse uno.
Quanto fu piacevole il detto di messer Ridolfo! ché rade volte interverrebbe cheessendo presentato uno dono a unoe quelli non lo volessi e rimandassilo in drietoche non ne portasse cruccio o sdegno quelli che l'ha mandato. E 'l dire suo fu sí piacevole che non che Agnolino ne portassema e' confessò aver fallatosolo per la perdita delli ottocento porci di messer Ridolfo.


NOVELLA XL

Il detto messer Ridolfo a un suo nipotetornato da Bologna da apparare ragionegli prova che ha perduto il tempo.

E questa che segue non fu meno bella novellané meno bel dettoil quale disse a un suo nipoteil quale era stato a Bologna ad apparar legge ben dieci anni; e tornando a Camerinoessendo diventato valentrissimo legistaandò a vicitare messer Ridolfo. Fatta la vicitazionedisse messer Ridolfo:
- E che ci hai fatto a Bologna?
Quelli rispose:
- Signor mioho apparato ragione.
E messer Ridolfo disse:
- Mal ci hai speso il tempo tuo.
Rispose il gioveneche gli parve il detto molto strano:
- Perchésignor mio?
E messer Ridolfo disse:
- Perché ci dovei apparare la forzache valea l'un due.
Il giovene cominciò a sorrideree pensando e ripensando egli e gli altri che l'udironoviddono esser vero ciò che messer Ridolfo avea detto. E io scrittoreessendo con certi scolari che udiano da messer Agnolo da Perogiadissi che si perdeano il tempo a studiare in quello che faceano. Risposono:
- Perché?
E io segui':
- Che apparate voi?
Dissono:
- Appariamo ragione.
E io dissi:
- O che ne faretes'ella non s'usa?
Sí che per certo ella ci ha poco corso; e abbia ragione chi vuoleche se un poco di forza piú è nell'altra partela ragione non v'ha a far nulla. E però si vede oggiche sopra poveri e impotenti tosto si dà iudizio e corporale e pecuniale; contra i ricchi e potenti rade volteperché tristo chi poco ci puote.


NOVELLA XLI

Molte novellettee detti del detto messer Ridolfo piacevolie con gran sustanza.

E’ mi conviene in questa novellapoi che io sono entrato a dire di questo valentre uomodire certi suoi detti; però cheal mio pareree' fu filosofo naturale di pochissime parole. Dico adunque che un suo amicoche era stato gran tempo che non l'avea vedutodisse:
- Messer Ridolfovoi siete ringiovenito dieci annipoi che io non vi vidi.
E messer Ridolfo guarda costui con la coda dell'occhiodicendo:
- Di quello che dicine prendo confortoma saccio che non ci dici lo vero.
Dicea il detto messer Ridolfo che non volea ch'e' servi suoi del suo avessono meglio di lui. Quando era il freddo grandedicea:
- Andate accendere il fuocoe là vi scaldatee quando egli ha fatta la braciami chiamate.
Volea ch'e' fanti avessono il fummo e non lo volea elli.
Essendo il detto messer Ridolfo al servigio del re Luigi di Ciciliaandando con certa gente d'armefu assalito; di che convenne che tutti si fuggissono a sproni battutie camporono. Tornato poi messer Ridolfo nel cospetto del ree lo re gli disse:
- Ridolfoper quanto aresti dato quelli sproni?
E quelli rispose:
- Di cotesto non saccio: ma ben saccio per quanto ci sarei rattenuto a fare lo patto.
Le candele della cera facea volgere alla mensa sua capo piedemettendo di sopra il lato piú grosso della cera verdedicendo che alli servi suoi volea che toccasse poi il sottile e non a lui; e da questo si cominciorono a fare delle candele mozze.
Essendo a Bologna il detto messer Ridolfo capitano di guerra per li Fiorentiniquando ebbono guerra con la Chiesagli fu detto che 'l papa avea venduto o impegnato Vignone per voler far gran guerra; ed egli disse:
- Molto c'è savio lo papa nostro; vuol vendere quello ch'egli haper acquistar quello che non sa.
Quando messer Ridolfo fu con la reina e con gli altri a dare ordine che fosse fatto il papa da Fonditornando a casa suatrovò messer Galeotto suo generoil quale dicendoli quanto era contra a Dio e all'anima sua quello ch'egli avea fattorispose:
- Aiolo fatto perché abbiano tanto a fare de' fatti loro ch'e' nostri lascino stare.
Essendo il detto messer Ridolfo andato a vicitare messer Gian Auguthche era con lo esercito suo fuori di Perogiae andando poi a vicitare l'abate di Mon maiore che per lo papa signoreggiava Perogiae in quelli dí era fatto cardinalegli disse:
- Avendoci fatto malese' fatto cardinale; se ci avessi fatto peggiosaresti fatto papa.
Avendo maritata una sua figliuola giovane a messer Galeottoche era già vecchiomolti suoi prossimani e uomeni e donne gli diceano:
- Dohmesser Ridolfoche avete voi fatto a dare una giovane a un vecchio?
Rispondea:
- Hoccelo fatto per noie non per lei.
Fu dipinto a Firenzequando venne in disgrazia del comuneper farli vergogna; essendoli dettodisse:
- E’ si dipingono li santi: sonci fatto santo.
Ancora per questa cosí fatta cosa essendo a una sua terrae trovando un suo suddito che tornava d'acconciare sue vigne e suoi terrenilo domandò onde venía; disse che venía d'acconciare vigne e altri suoi fatti.
Disse a certi che erano con lui:
- Pigliate costuie andatelo ad impiccare pe' piedi
Costoro ed elli domandano:
- Signoreperché?
Ed elli rispose:
- Perché li Fiorentini m'hanno fatto impiccare pe' piedi perché io ci ho fatto i fatti miei; secondo quella ragione e quella legge (ché si dee credere ch'e' Fiorentini ne veggano assai) costui dee essere impiccato; andate e impiccatelo.
E stante un poco lo licenziò; e per questo scusava sée accusava altrui.
Dicea che de' santi si facea come del porco: quando il porco muoretutta la casa e ciascuno ne fa festae cosí per la morte de' santi tutto il mondo e tutti i cristiani ne fanno festa.
Ancora spesso dicea: "Tristo a quel figlioche l'anima del suo padre ne va in paradiso".
Quando li Fiorentini nel MCCCLXII ebbono guerra co' Pisaniessendo elli capitano di guerrae avendo posto il campo in Valderaavendo due consiglieri fiorentiniforse mercatanti o lanaiuolili quali una notte pensarono che 'l campo non stava bene in quel luogo e che egli starebbe meglio su uno monte ivi vicino; e levatisi la mattina con questo pensierotirorono messer Ridolfo da parte e dissono che parea loro che 'l campo stesse molto meglio nel tal luogo; messer Ridolfocome gli ebbe uditighignando e guardandogli disse:
- Iateiateiate sí alle botteghe a vennere i panni.
Se dicea il vero ogni uomo il pensiquello che ha a fare la mercatanzia o l'arte meccanica con la industria militare.
Non tenendosi quelli del reggimento di Fiorenza contenti di lui nella fine della guerra della Chiesalo feciono dipignerecome a drieto è detto. Di chedappoi a certo tempoessendo stato spintofurono mandati a lui certi ambasciadori fiorentini a' quali fece due cose. La primache essendo a tavola del mese di luglio da lui convitatiera di drieto a loro a uno camino cosí acceso un gran fuococome se fosse stato del mese di gennaio. Gli ambasciadorisentendo alle spalle il fuoco penace per lo sollionedomandorono messer Ridolfo che cagione era il perché di luglio tenesse il fuoco acceso alla mensa. Messer Ridolfo rispose che ciò facea perché quando i Fiorentini l'aveano dipintol'aveano dipinto sanza calze in gamba; di che per quello avea sí infrigidite le gambeche mai da là in qua non l'avea possute riscaldaree però gli convenía tenere il fuoco presso per riscaldarle. Gli ambasciadori sorrisono un pocoma quasi ammutolorone. Poi seguendo alle vivande vennono capponi lessie le lasagnele quali messer Ridolfo ordinò che la sua scodella fosse minestrata tanto innanzi ch'ella fosse tiepidae quelle degli ambasciadori venissono bollenti e caldissime in tavola. E cosí alla tavola giontemesser Ridolfo comincia sicuramente pigliarne pieno il cusoliere. Gli ambasciadoricosí veggendoebbono per fermo poterle pigliare altresí sicuramente; onde al primo boccone tutto il palato si cossonosí che l'uno cominciò a lagrimaree l'altro cominciò a guatare il tettoe a singhiozzare.
Messer Ridolfo dice:
- Che miri?
E quelli dice:
- Guardo questo tettoche fu cosí ben fatto: chi lo fece?
Dice messer Ridolfo:
- Fecelo maestro Súffiaci; nol conosci tu?
Gli ambasciadori intesono il tedescoe lasciorono affreddare le lasagne; e fra loro poi dissono:
- E’ ci sta molto beneche corriamo subito a dipignere gli signori come fossono portatori ed elli ci ha ben dimostrato quel che ben ci sta.
E cosí quasi scornati si tornorono a Firenzedove saputa la novellafu tenuto messer Ridolfo avere renduto pan per focaccia.
Avea mandato un fante con letteree preso da un suo nimicogli fa tagliare le mani. E tornando al detto messer Ridolfo con le mani mozzedisse:
- Signor mioquesto ho aúto per voi.
Ed elli rispose:
- All'abbottonar te n'avvedraise l'avrai aúto o per te o per me.
Essendo ripreso da Messer Galeotto ch'egli era vecchio sanza figliuoli maschi... maritare e tenea certe terre altruirispose:
- Saccio che ognora...
E lo re Carlo mandò a dolersi di luiche avea dato aiuto al duca... per venirli addosso. Rispose:
- Hogli messo il calderugio nella gabbia; ora stase lo sa pigliare.


NOVELLA XLII

Messer Macheruffo da Padova fa ricredenti i Fiorentini di certe beffe fatte contro a lui da certi gioveni sciaguratie con opere ancora il dimostra.

Messer Macheruffo de' Macheruffi da Padovaantico cavaliere d'annie anticamente venuto podestà di Firenzein questa novella tiene molto bene la lancia alle rene a messer Ridolfo. Però chevenendo podestà di Firenzecome è dettocon uno tabarro e co' batoli dinanzi in forma da parere piú tosto medico che cavalierefu ragguardato e considerato da tuttie massimamente da certi nuovi uomeni e sollazzevolili quali piú che gli altri facendosene beffeproposono di fare sopra lui qualche cosa; e come che 'l fatto s'andasseil primo dí che entrò in officiovenente la nottegli fu appiccato con certi chiovi un buon numero d'orinali alla portaciascuno con orina dentro. La mattina seguente per tempoaprendosi lo sportelloché volea andare il cavaliere alla cercatirando lo sportello il portinarovidde ben dieci orinali essere appiccati ad esso. Di che maravigliandosi e facendosi fuora a guardare la portavidde tutto il rimanentee subito corre a dirlo al podestà; il qualeinteso che l'ebbedisse:
- Va'e fagli tutti venire su e fagli venir ben salviche non se ne rompa alcuno.
E per questo fareconvenne che 'l cavaliere adoperasse tutta la famigliache era apparecchiata d'andar con lui alla cercaa portare li detti orinali dinanzi al podestà. Veggendoli il podestà se gli cominciò a uno a uno a recare in manoe guardando l'acquegli diede poi a' fanti che gli appiccassino intorno alla sala grandee se non v'era dovefece conficcare degli aguti. Cosí comandatofu fatto; avendo considerato questo valentre uomo quelle tante e diverse acquené piú né meno che facesse un medico.
L'altro dí seguenteo che 'l consiglio si facesse come anticamente in quella sala si faceao che 'l podestà mandasse per molti nobili cittadini; gli quali giugnendo sanza sapere il fattotuttiveggendo quelli orinalisi maravigliavano; e cosí essendo ragunatiil podestà giunse fra loroe cominciò a dire:
- Signori fiorentiniio ho sempre udito dire che voi sete li piú savi uomeni del mondo; e poi che io venni quiin sí piccolo tempo conosco voi sete molto piú savi che non ci si crede; e la prova il manifesti: che essendo io venuto qui vostro podestàe voicome saviconsiderando che 'l rettor della terra conviene che purghi li vizii e' malori di quelli che ha a reggerené piú né meno come il medico conviene che curi le infirmità de' suoi infermimi avete in questa notte appresentato le vostre acqueli vostri segni in questi orinali che vedete d'intorno appiccatili quali orinali mi sono stati confitti alla porta; e io avendoli proccuraticome che molto sofficiente in medicina non siaveggio e ho compreso in questi vostri cittadini grandissime infirmitàle quali con la grazia di Dio penserò di curar sí che io vi creda lasciare piú sanie in migliore stato che io non vi truovo.
Quando costui ebbe cosí parlatoli cittadini si tirorono da partee feciono uno risponditore per tutti; il quale disse al podestà che non potea essere che nelle gran terre non fossono diverse condizioni di gentie semplici e sciocchi e matti; e che lo confortavono che cercasse chi avesse quelli orinali appiccatie che ne facesse sí fatta punizione che a tutti gli altri fosse esemploe molte altre cose.
E 'l podestà disse loro:
- Voi mi dite che ci sono diverse genti e ignoranti e stolti; per quelli tali e io e gli altri rettori siamo eletti: chése tutti li populi fossono savinon bisognerebbe ci andasse rettori e oficiali.
E cosí presono commiato e partironsi.
Il qual podestà rimasocome che fosse valentre uomomosso ancora dallo sdegnonon dormío; ma con informazioni e con gran sollecitudini segretamente seppe chi erano quelli che erano di mala condizione e di cattiva vita; e cominciò ora uno per ladroora due per micidialie quando tre e quando quattroe mettitori di mali dadi e d'altre pessime condizionia spacciare e mandarli nell'altro mondoe ancora fu in questo numero di quelli che aveano appiccati gli orinali. E in brieve tanti ne impiccòe tanti ne decapitò e justiziò per ogni formache nella fine del suo officio lasciò sí sanicata e sí guerita la nostra città che si riposò molto bene per assai tempo.
E però non si dee mai giudicare secondo le apparenzee fare scherne d'altruie massimamente de' rettori; però che l'apparenza mostra molte volte quello che è d'assaidappocoe quello che è dappocomostra d'assai. Come che io credo che questa fosse permissione di Diovolendo che ciò avvenisse perché li cattivi fossono punitie che quella mala erba fosse diradicata per forma che quella città ne rimanesse in migliore stato.


NOVELLA XLIII

Un cavaliero di piccola persona da Ferrara andò podestà d'Arezzo: quando entra nella terra s'avvede essere sghignatoe con una parola si difende.

Meglio s'avvide degli attiche gli Aretini faceano contro a luiuno cavaliere piccolo e sparutissimo da Ferraraquando entrò capitano d'Arezzoche non fece messer Macheruffoperò che nel principio del suo officio al giuramento tagliò la via a chi avesse animo d'appiccare orinali o fare simili frasche. Però cheavveggendosi nel suo entrare in Arezzo che molti ghignavano e sghignazzavono della sua sparuta personcinatutto sdegnoso n'andò alla maggiore chiesadove gli anziani e' rettori erano presentia farli leggere li capitoli e dare il giuramento. Quando il cancelliere ebbe letto ciò che doveagli porse il libro e disse:
- E cosí giurate a le sante die Vangele?
E 'l capitano guardando dattorno verso il populo disse
- Io giuro ciò che è...


NOVELLA XLVII (frammento)
... Tasso se la guerisse. Però che io sono stato con lei quarantatré maladett'annie ora dice che mi vuol venir drieto. Non siaper l'amor di Dio. Arrogete ancora al maestro Giovan dal Tasso il maestro Tommaso del Garboe a loro due per egual parte lascio li fiorini duecento in quanto la guariscano.
Li parenti furono tutti susoe spezialmente li fratelli della donna.
- O Jacopoche volete voi fare? volete voi lasciare a' medici il vostro? ove rimarrebbe la vostra fama? ché ciascuno dirà: "Jacopo ha voluto lasciare piú tosto a due mediciche l'hanno forse sí mal curato che se n'è mortoche lasciare a una sua moglie che l'ha servito quarantatré anniche non gli tocca per annolasciandole fiorini ducentofiorini cinque". Or pensate bene.
E quelli risposeche appena si potea intendere:
- O che so io chi m'ha piú tosto mortoo' medicio ella?
E brievemente tanto fu combattuto che quasi come vintoo col dire "sí" con parole o con cenniil testamento ritornò che lasciasse alla donna fiorini duecentoe questo fece a grandissima pena: e poco stante si morí. E la donna fece il pianto grandissimocome tutte fannoperché costa loro poco; e sotterrato il maritoe rasciutto le lacrimese avea difettosi fece curare gagliardamentee poi intese ad acconciarsi per sí fatta maniera checon la dota sua e col lascioin meno di due mesi uscío de' panni vedovili e rimaritossi.
Se la donna fece dello infingardomolto gli stava beneche gli andasse drieto: ma io credo ch'ella concepea nella sua mente di mostrarsi nelle parole e negli atti che 'l marito li lasciasse acciò chemorto luisi potesse meglio rimaritare com'ella fece.
Niuna cosa si passa e dimenticaquanto la morte; e la femmina che piú si percuote e nel pianto e nel lamento è quella creatura che piú tosto la dimentica; e questa ne fa la provaché appena era sotterrato il marito che pensò d'averne un altro; e 'l marito andò forse a torre una moglie in infernoper aver fatti lasci che espettavano piú al corpo che all'anima; e quella ch'egli avea lasciatanon accese mai una candela per l'anima sua.
Per questa donna si può notare leggiermente questi tre versetti:

Donna non èche non adori Venere
Tal in sua deitàe qual è vedova
Non si cura di quel ch'è fatto cenere.




NOVELLA XLVIII

Lapaccio di Geri da Montelupo a la Ca' Salvadega dorme con un morto: caccialo in terra dal lettonon sappiendolo: credelo avere mortoe in fine trovato il veromezzo smemorato si va con Dio.

Tanto avea voglia questa contata donna d'andar drieto al morto marito quanto ebbe voglia di coricarsi allato a un morto in questa novella Lapaccio di Geri da Montelupo nel contado di Firenze. Fu a' miei díe io il conobbie spesso mi trovava con luiperò che era piacevole e assai semplice uomo. Quando uno gli avesse detto: "Il tale è morto"e avesselo ritocco con la manosubito volea ritoccare lui; e se colui si fuggíae non lo potea ritoccareandava a ritoccare un altro che passasse per la viae se non avesse potuto ritoccare qualche personaaverebbe ritocco o un caneo una gatta; e se ciò non avesse trovatonell'ultimo ritoccava il ferro del coltellino; e tanto ubbioso viveache se subitoessendo stato toccoper la maniera detta non avesse ritocco altruiavea per certo di far quella morte che colui per cui era stato toccoe tostamente. E per questa cagionese un malfattore era menato alla justiziao se una bara o una croce fosse passatatanto avea preso forma la cosa che ciascuno correa a ritoccarlo; ed elli correndo or drieto all'uno or drieto all'altrocome uno che uscisse di sé; e per questo quelli che lo ritoccavonone pigliavono grandissimo diletto.
Avvenne per caso cheessendo costui per lo comune di Firenze mandato ad eleggere uno podestà ed essendo di quaresimauscío di Firenzee tenne verso Bologna e poi a Ferrarae passando piú oltrepervenne una sera al tardi in un luogo assai ostico e pantanoso che si chiama la Ca' Salvadega. E disceso all'albergotrovato modo d'acconciare i cavalli e maleperò che vi erano Ungheri e romei assaiche erano già andati a letto; e trovato modo di cenarecenato che ebbedisse all'oste dove dovea dormire. Rispose l'oste:
- Tu starai come tu potrai; entra qui che ci sono quelle letta che io hoe hacci molti romei; guarda se c'è qualche proda; fa' e acconciati il meglio che puoiché altre letta o altra camera non ho.
Lapaccio n'andò nel detto luogoe guardando di letto in letto cosí al barlumetutti li trovò pieni salvo che unolà dove da l'una proda era un Ungheroil quale il dí dinanzi s'era morto. Lapaccionon sapiendo questo (ché prima si serebbe coricato in un fuoco che essersi coricato in quel letto)vedendo che dall'altra proda non era personaentrò a dormire in quella. E come spesso interviene che volgendosi l'uomo per acconciarsigli pare che il compagno occupi troppo del suo terrenodisse:
- Fatti un poco in làbuon uomo.
L'amico stava cheto e fermoché era nell'altro mondo. Stando un pocoe Lapaccio il toccae dice:
- O tu dormi fisofammi un poco di luogote ne priego.
E 'l buon uomo cheto.
Lapaccioveggendo che non si moveail tocca forte:
- Dehfatti in là con la mala pasqua.
Al muro: ché non era per muoversi. Di che Lapaccio si comincia a versaredicendo:
- Dehmorto sia tu a ghiadoche tu déi essere uno rubaldo.
E recandosi alla traversa con le gambe verso costuie poggiate le mani alla lettieratrae a costui un gran paio di calcie colselo sí di netto che 'l corpo morto cadde in terra dello letto tanto gravee con sí gran bussoche Lapaccio cominciò fra sé stesso a dire: "Oimè! che ho io fatto?" e palpando il copertoio si fece alla spondaappiè della quale l'amico era ito in terra: e comincia a dire pianamente:
- Sta' su; ha' ti fatto male? Torna nel letto.
E colui cheto com'olioe lascia dire Lapaccio quantunche vuoleché non era né per risponderené per tornare nel letto. Avendo sentito Lapaccio la soda caduta di costuie veggendo che non si doleae di terra non si levavacomincia a dire in sé: "Oimè sventurato! che io l'avrò morto". E guata e riguataquanto piú miravapiú gli parea averlo morto: e dice: "O Lapaccio doloroso! che farò? dove n'andrò? che almeno me ne potess'io andare! ma io non so dondeché qui non fu' io mai piú. Cosí foss'io innanzi morto a Firenze che trovarmi qui ancora! E se io stoserò mandato a Ferrarao in altro luogoe serammi tagliato il capo. Se io il dico all'osteelli vorrà che io moia in prima ch'elli n'abbia danno". E stando tutta notte in questo affanno e in penacome colui che ha ricevuto il comandamento dell'animala mattina vegnente aspetta la morte.
Apparendo l'alba del díli romei si cominciano a levare e uscir fuori. Lapaccioche parea piú morto che 'l mortosi comincia a levare anco ellie studiossi d'uscir fuori piú tosto che poteo per due cagioni che non so quale gli desse maggior tormento: la prima era per fuggire il pericolo e andarsene anzi che l'oste se ne avvedesse; la seconda per dilungarsi dal mortoe fuggire l'ubbía che sempre si recava de' morti.
Uscito fuori Lapacciostudia il fante che selli le bestie; e truova l'ostee fatta ragione con luiil pagavae annoverando li danarile mane gli tremavono come verga. Dice l'oste:
- O fatti freddo?
Lapaccio appena poté dire che credea che fosse per la nebbia che era levata in quel padule.
Mentre che l'oste e Lapaccio erano a questo puntoe un romeo giungee dice all'oste che non truova una sua bisaccia nel luogo dove avea dormito; di che l'oste con uno lume acceso che avea in manosubito va nella camerae cercando e ricercandoe Lapaccio con gli occhi sospettosi stando dalla lungaabbattendosi l'albergatore al letto dove Lapaccio avea dormitoguardando per terra col detto lumevidde l'Unghero morto appiè del letto. Come ciò vedecomincia a dire:
- Che diavolo è questo? chi dormí in questo letto?
Lapaccioche tremando stava in ascoltonon sapea s'era morto o vivoe uno romeoe forsi quello che avea perduto la bisacciadice:
- Dormívi colui- accennando verso Lapaccio.
Lapaccio ciò veggendocome colui a cui parea già aver la mannaia sul collochiamò l'oste da parte dicendo:
- Io mi ti raccomando per l'amor di Dioche io dormii in quel lettoe non potei mai fare che colui mi facessi luogoe stesse nella sua proda; onde iopignendolo con li calcicadde in terra; io non credetti ucciderlo: questa è stata una sventurae non malizia.
Disse l'oste:
- Come hai tu nome?
E colui glilo disse. Di cheseguendo oltrel'oste disse:
- Che vuoi tu che ti costie camperotti?
Disse Lapaccio:
- Fratel mioacconciami come ti piace e cavami di qui. Io ho a Firenze tanto di valutaio te ne fo carta.
Veggendo l'oste quanto costui era semplicedice:
- Dohsventurato! che Dio ti dia gramezza; non vedestú lume iersera? o tu ti mettesti a giacere con un Unghero che morí ieri dopo vespro.
Quando Lapaccio udí questogli parve stare un poco meglioma non troppo; però che poca difficultà fece da essergli tagliato il capo ad esser dormito con un corpo morto; e preso un poco di spirito e di sicurtàcominciò a dire all'oste:
- In buona fé che tu se' un piacevol uomo; o che non mi dicevi tu iersera: egli è un morto in uno di quelli letti? Se tu me l'avessi dettonon che io ci fosse albergatoma io sarei camminato piú oltre parecchie migliase io dovessi essere rimaso nelle valli tra le cannucci; ché m'hai dato sí fatta battisoffia che io non sarò mai lietoe forse me ne morrò.
L'albergatoreche avea chiesto premio se lo campasseudendo le parole di Lapaccioebbe paura di non averlo a fare a lui; e con le migliori parole che poteo si riconciliò insieme col detto Lapaccio. E 'l detto Lapaccio si partíandando tosto quanto poteaguardandosi spesso in drieto per paura che la Ca' Salvadega nol seguisseportandone uno viso assai piú spunto che l'Unghero mortoil quale gittò a terra del letto; e andonne con questa pena nell'animoche non gli fu piccolaper un messer Andreasgio Rosso da Parma che aveva meno un occhioil quale venne podestà di Firenze; e Lapaccio si tornòrapportando aver fatta elezione al detto podestàed esso l'avea accettata. Tornato che fu il detto Lapaccio a Firenzeebbe una malattia che ne venne presso a morte.
Io credo che la fortunaudendo costui essere cosí obbioso e recarsi cosí il ritoccare de' morti in auguriovolesse avere diletto di lui per lo modo narrato di soprache per certo e' fu nuovo casoavvenendo in costui: in un altro non serebbe stato caso nuovo. Ma quanto sono differenti le nature degli uomeni! ché seranno molti che non che temino gli auguriima elli non vi daranno alcuna cosa di giacere e di stare tra' corpi morti; e altri seranno che non si cureranno di stare nel letto dove siano serpentidove siano bottescorpionie ogni veleno e bruttura e altri sono che fuggono di non vestirsi di verdeche è il piú vago colore che sia; altri non principierebbono alcun fatto in venerdíche è quello dí nel quale fu la nostra salute; e cosí di molte altre cose fantastice e di poco sennoche sono tante che non capirebbono in questo libro.


NOVELLA XLIX

Ribi buffonetornando da uno paio di nozze con certi gioveni fiorentiniè preso di notte dalla famiglia: giunto dinanzi al podestàcon un piacevole motto dilibera lui e tutta la brigata.

Molto fu piú ardito e piú coraggioso Ribi buffone incontro a uno cavaliere d'uno podestà che 'l presee ancora col podestàche non fu Lapaccio vile e timidoper essere stato in un letto con un uomo morto. Questo Ribi fu piacevolissimoe fu fiorentinoe molto si ridussecome fanno li suoi parinelle Corte de' signori lombardi e romagnuoliperché con loro facea bene i fatti suoiché dava parolee ricevea robe e vestimenti; e quando venía in Firenzenon guadagnandoricorrea alcuna volta alle nozzedove pur alcuna cosa leccava.
Essendo costui in Firenze una voltae facendosi là verso Santa Croce un bello paio di nozzeegli vi stette quasi tutto il díe vegnente la notteavendo ciascun uomo e donna e cenato e ballatoe coricatosi lo sposo e la sposail detto Ribi con una brigata di gioveni di buone famiglie si partí per andare albergo con loro.
Avvenne chepassando questa brigata da San Romeos'abbatterono nel cavaliero del podestà che andava alla cerca; il quale comincia a dire:
- Che gente siete voi?
Risposono:
- Amicimessere.
- Passate innanzi; quanti siete voi?
Dissono:
- Vedetelo.
E fra 'l noveraree dire: "Tanti uomenitanti torchi"al cavaliere venne veduto un torchiola cui cera non era sei once.
Disse il cavaliere:
- Quello torchio non è di peso.
Ribi fassi innanzi:
- Messer síè.
Disse il cavaliero:
- E’ dee pesare tre libbree non è quattro once.
Ribi rispose e subito:
- L'avanzo aveste voi in culo.
Come il cavaliero ode questo:
- Zafamigliapigliate costui; piglia zae piglia làmenategli tutti al palazzo.
Ribi dicea:
- Perchémessereomè! perché?
- Come perché? - dice il cavaliere - dunque credi che io sia un bambarottolo: io ci ho impeso gli uomeni per minor parola che quella che in vituperio della Corte ci hai detta tu.
Dicea Ribi:
- Dohmesser lo cavalierenoi venghiamo dalle nozze e siamo caldi; quello che noi diciamodiciamo per sollazzare.
- Per sollazzare nella malora; - dice il cavaliere - e dite che sete caldi; altrimenti vi ci farò riscaldareper le chiabellate di Dio; se giunghiamo a palazzoci parlerete d'altro verso su la colla; menateli oltre.
E con questo busso furioso la famiglia condusse la brigata in palagio: e giugnendo dentro nella corteil podestàche credo era da Santo Geminoandando per lo verone in capo della scalaperò che era di statee 'l caldo grandeveggendo costorodisse che gente era quella. Il cavaliereche ratto andava verso luidisse se volea gli menassi dinanzi da lui. Rispose di sí; e cosí tutti vennono dinanzi al podestà. Il quale addomandò il cavaliere perché coloro fossono presi. A cui il cavaliere risposevolgendosi verso Ribie dice:
- Signor mioquesto rubaldo ha fatto gran vergogna a voi e a tutta la vostra Corte.
- E che ci ha fatto? - dice il podestà.
Dice il cavaliere:
- Hacci fatto cosa che mai non ce la direi.
E 'l podestà dice:
- Che ha detto nella malora?
Disse il cavaliero:
- La piú laida cosae la piú vituperosa che tu udissi mai; piacciatisignor mionon la volere udireché c'è troppo abbominevole.
Il podestà al tutto dice:
- Io ce la voglio sapere; e se mi ci metti a iraquello doverrò fare a lorofarò a te ipso.
E 'l cavalierealla maggior pena del mondogli disse:
- Podestà mio questo cattivo uomoessendo con questa brigatache è quia luoganaavea questo torchio che qui vedete che non è sei once; io ci dicea che non era al peso secundum formam statuti : esso dicea pur di sí; e io dissi: "Come di' tu di síché non è quattr'once?" e quello disse: "L'avanzo avestú in culo".
Disse Ribi:
- Messer lo podestàio non dissi con l'aste.
Disse il cavaliero:
- E che ci hanno a fare l'asteche t'affranga Dio e la Matre?
Allora il podestàchecome savioavea già compreso il fatto e pigliavane dilettosi volse al cavalieroe disse:
- Se costui non disse con l'astee la cera è pocacome tu di' e vediessendo intervenuto ciò che ti dissenon te ne serebbe venuto né debilimento di membroné altro male; avesse detto con l'asteserebbe stato cassale e mortale.
Disse il cavalieroquasi sdegnato:
- Facci che ti piaceper le budella di Diose ce l'avesse a punirela lingua con che lo disse gli farei trarre dalla canna.
Disse il podestà:
- Io ti dicocavalieroche si vuole aver discrizione: se costui non disse con l'astenon mi pare che meriti alcuna pena.
Disse uno judice del maleficio che era col podestàed era fratello di quello messer Niccola da San Lupidioa cui Ribi altra volta trasse le brachecome si narra nel libro di messer Giovanni Boccacci:
- Questi Toschi ci sono tutti gavazzierideasi lo sacramento a issose disse con l'aste.
E 'l podestà disse:
- E cosí si faccia.
E datoli il juramentoRibialzando la manodice:
- Io giuro per quello Diocui adoroche io non dissi con l'aste. Dohmesser lo podestàsere' io sí fuori della memoria? ché so che se io l'avessi detton'andrebbe il fuocoo la mitera.
Disse il podestà:
- Vacci con Dio; per questa fiata t'aio perdonatoe guàrdate bene per un'altra voltaquando la cera del torchio fosse di piú pesoad un altro cavaliero non dicessi simili parole; però chebenché tu non dicessi con l'astee la cera fosse tanta quanto vuole lo statuto che siaed ella entrassi al cavaliere dove tu dicestie' serebbe sí pericoloso che tu potresti aver la mala ventura.
Ribi ringraziò il podestà della licenzia e dell'ammaestramentoe partissi con tutta la brigata; e 'l podestà ne rimase in gran sollazzo con li judici suoi; e 'l cavaliero dicea che di ciò la Corte si era vituperatae rimase tutto scornatoe non volea fare officioe molti dí combatté il podestàvolendosi pur partiredicendo che mai in quello officio non credea aver altro che vergognapoiché non s'era fatta justizia di sí vituperato delitto.
Alla per fine pur si reconciliòe la novella si comprese sí per la terra che quando quel cavaliero era vedutoandando alla cercaera detto da' garzoni:
- Quello è il cavaliero del torchio con l'aste.
Gran gentilezza usò questo rettoreche considerò alla qualità e al modoe all'uomo chi erae grande disperazione fu quella del cavaliere; ma pur procedea da justizia e da buon animo. Ma pur considerando quello che dovea consideraree chi Ribi eradi quello che avea detto si dovea dar paceperò che a' loro pari pare che debba essere lecito ciò che dicono e ciò che fanno. Bella e nuova allegazione fece Ribie ragionevolmente da non potervi apporreperò che quanto piú dicea il cavalieroquella cera essere di piccolo pesotanto era la colpa di Ribi minoree piú allegava per lui.


NOVELLA L

Ribi buffonevestito di romagnuoloessendo rotta la gonnellase la fa ripezzare con iscarlatto alla donna di messer Amerigo Donatie quello che rispondea a chi se ne facea beffe.

Troppo fece rappezzare meglio una sua gonnella un'altra volta questo Ribie a suo utileche non ripezzò la scusa del torchio con l'aste. Però cheavendo in dosso una gonnella romagnuolaed essendo vecchiaavea una rottura nel petto e una nel gomito. Ed essendo una mattina a desinare con messer Amerigo Donati di Firenzeandò alla donna sua in cameraperò che avea contezza con le donne de' cavaliericome sempre hannoe disse:
- Madonna taleaveresti voi un poco di scarlatto?
Disse la donna:
- Ribise' tu per motteggiare?
Disse Ribi:
- Madonna noanzi dico dal migliore senno ch'io hoperò che io vorrei volentieri che voi mi rappezzaste questa gonnella.
Disse la donna:
- O che buona ventura! vuo' tu ripezzare il romagnuolo con lo scarlatto?
Disse Ribi:
- Dehnon ve ne caglia: madonnase voi l'avetefatemi questo servigio.
La donnavaga di veder questa novitàdisse:
- Io n'ho benee acconcerottelapoiché tu vuogli; ma una nuova cosa fia a vederla.
Disse Ribi:
- Madonnavoi dite il vero: e perché io vo cercando cose nuovecome nuovo che io sonoperò fo questo; e quando fia fattonon starete tre dí chesapiendo la cagioneserete contenta.
E brievementepreso alquanto di rispittoche come ebbe desinato con messer Amerigoegli diede una mezza voltae con un'altra gonnella in dosso recò quella sotto il braccio alla detta donnala quale in quel dí la ripezzò con due pezzetti di scarlatto di colpo nuovi. Avendo Ribi la gonnella ripezzatase la misse addosso l'altra mattinae uscí fuoriandando in mercato nuovodove piú gente credea trovare. Chi lo vedeadicea:
- O Ribiche è questo? o tu hai ripezzato il romagnuolo con lo scarlatto!
E Ribi rispondea:
- Tal fosse l'avanzo!
E cosí con questa gonnella e con questo motto diede piacere parecchi dí a' Fiorentiniavendo con loro buone cene e desinari. Dappoi (che fu piú nuova cosa) n'andò in Lombardiaportando questa gonnella cosí fatta nella valigiae dinanzi a piú signori comparío con essa. E quando li diceano:
- Che vuol dir questoRibi? perché hai tu ripezzato il romagnuolo con lo scarlatto?
E quelli dicea:
- Tal fosse l'avanzo -; aggiugnendo un'altra particella: - Gli uomeni di Firenze che non sono signori di terreveggendomi vestito cosí male di romagnuolie che la gonnella era rotta qui e quimi cominciorono a farla di scarlatto in due luogoracome vedete. Pensai e penso chevegnendo con essa dove fossono de' signoriche l'avanzoche è molto piúper loro si compiesse.
E cosí dicea a tuttidov'elli andava: tanto che quel romagnuolo gli fu tutto coperto di scarlatto e ancora n'ebbe parecchie belle robbe. Quando la donna di messer Amerigo sentí quello che due pezzuole di scarlattoposte sul romagnuoloerano valute a Ribiebbe per certo lui essere savio e avveduto quanto altro buffone.

Questa parola o motto di Ribi viene spesse volte a proposito d'allegarebenché oggi non so se quello ripezzare fosse tenuto o povertào leggiadria; però chenon che i panni di dosso con molti cincischi e colori si frastaglino e ripezzinoma le calze non basta si portino una d'un colore e l'altra d'un altro; ma una calza sola dimezzata e attraversata di tre o quattro colori; e cosí per tutto si tagliano e stampano i panni che con gran fatica sono tessuti.


NOVELLA LI

Ser Ciolo da Firenzenon essendo invitatova ad un convito di messer Bonaccorso Bellincioni; èlli detto; e quelliessendo golosorisponde sí che e allora e poi mangiovvi spesso.

Ser Ciolo non ebbe minore volontà d'empiersi il corpo che avesse Ribi di vestirlo; però cheessendo in questi tempi vecchietto assai goloso e ingordofacendo messer Bonaccorso Bellincionicavaliere famoso fiorentinouno corredo a notabili cavalieri e altriil detto ser Cioloavendo sentita la gridadeliberò di appresentarsi tra gli altri al detto convito; e se per forza non ne fossi cacciatoporsi alla mensae di quello mangiare ch'eglino. Movendosi con questo pensierosi misse in viae andò verso la casa del detto messer Bonaccorsolà doveveduto nella via dinanzi all'uscio suo ragunarsi i cavalierie gli altri valentri uomenicome è d'usanzae quelli affretta i passie giugne e mescolasi tra loro.
E cosí standovenuta che fu tutta la brigatae detto loro che passino sue ser Ciolo ne va su per le scale con loro insieme. Giunti in su la scalaciascun si trae il mantello; e ser Ciolo prestamente si trae il suo. Dice uno de' famigli della casa a un altro:
- Che diavol ci fa ser Ciolo?
Dice l'altro:
- Non so io; e' fa una gran villaniaché io so bene che e' non fu su la scritta.
E accostansi a lui e dicono:
- Ser Ciolovoi non fuste invitato; voi farete bene d'andarvene a casa.
Dice ser Ciolo:
- Io farei un bell'onore a messer Bonaccorso! ché direbbe ogni uomo che per avarizia m'avesse fatto cacciare. Io per me ci sono venuto per benee non per far vergogna a persona: se io non sono stato invitatonon è mio difetto; la colpa è stata di chi l'ha aúto a fare; - e accostasi al bacinoaccozzandosi con un altroe toglie l'acqua alle mani.
E’ poterono assai dire e con parole e con cenniche ser Ciolo si serrò sí con gli altri checome furono per andare a tavolasi ficcò tra loroe puosesi a sedere a mensa. Messer Bonaccorsoche ogni cosa avea consideratamangiato che ebbedomandò li suoi donzelli che cagione era statao di cui interdottoche ser Ciolo fosse venuto quivi a desinaree di quello che con loro contendea. Egli risposono che 'l domandavono chi l'avea invitatoe quello che risposee la cagione perch'egli era venuto. Di che messer Bonaccorsoudendo come ser Ciolo avea risposto a' famiglifu piú contento e del modo e della novella di ser Cioloe del desinare che ebbeche di quello che ebbono tutti gli altri: e compiuta questa festal'altro dí mandò messer Bonaccorso per ser Cioloche desinasse con lui; e ripetendo le cose del dí dinanzicon lui ne prese gran piaceree chiamò li suoi famigli e in sua presenza e' disse a loro:
- Ogni festa ch'io do mangiare altruifate che voi provveggiate di uno tagliere piú per ser Ciolo; e voglio ch'egli possa e debba sempre venire a mangiare ad ogni mio convito -; e voltossi a ser Cioloe disse: - E cosí v'invito.
E ser Ciolo accettò molto volentieri.
E per questo messer Bonaccorso il misse in tale andare che nessuno facea in Firenze convito che ser Ciolo non vi si rappresentassee che non facesse un tagliere d'avanzo per ser Ciolose vi venisse; e con questa preeminenza visse nella sua vecchiezza.
E però è uno volgare che dice: "Or va' tue non fare dell'impronto." Questo mondo è delli improntie 'l vizio della gola fa gli uomeni molto impronti; ma rade volte se ne arriva benecome arrivoe ser Cioloil qualemosso da questo vizioudendo le vivande che messer Bonaccorso apparecchiava per lo detto corredobramoso di mangiare di quellesi mise a pericolo di avere di molte mazzateed esserne cacciato con vergogna; ed egli si dice che fu il primo che dissetornando dal desinare di messer Bonaccorso a casa suaqueste paroleo questo motto che vogliàn dire: "Chi va leccae chi sta si secca".


NOVELLA LII

Sandro Tornabelliveggendo che uno il vuol fare pigliare per una cartadella quale avea fines'accorda col messo a farsi pigliaree ha il mezzo guadagno dal messo.

E questa che segue fu una astuta malizia ad empiersi la borsacosí bene come ser Ciolo s'empié il corpo. E’ non è molti anni che in Firenze fu un cittadino chiamato Sandro Tornabelliil quale era sí vago d'acquistare moneta che sempre stava con l'arco teso per veder se potesse fare un bel trattoe sempre andava in gorgiera. Costuiessendo già antico d'annisentendo che un giovane il volea far pigliare per una carta antica già pagata al suo padree 'l giovane non lo sapeae 'l detto Sandro avea la fine; onde Sandro ciò sapendonon posoe mai che s'accozzoe col messo che avea questa tramae la commissione in manoil quale ebbe nome Totto Feie disse:
- Fratel mioio so che 'l tale vuole che tu mi pigli a sua petizionee vuolti dare fiorini dodicio piú. La cartaper che mi vuol fare pigliareè pagatae io ho la fine in casa; di che io ti voglio dire cosí: "Tu se' bisognosoe anco io non sono il piú ricco uomo del mondoio voglio che tu segua questa faccendae tu fa' patto con lui d'avere piú denari che tu puoie poi mi pigliaché io sono contentocon questo: che e' denarii quali averai da luisieno mezzi tuoi e mezzi miei; e preso che tu mi averai e aúto il pagamentoe io mostrerrò la fine a quell'ora che fia di bisogno".
Questo messoudendo il detto Sandros'accordò piú tosto di pigliarlo con questo inganno che senza esso: però che la sua condizione era cattivaper tal segnale che elli avea mozza la mano; e la cagione fu cheavendo detta una testimonianza falsa in servigio d'un suo amicofu condennato in lire ottoo nella mano: di che coluiin cui servigio l'avea dettagli mandò alla prigione lire ottoe disse che la ricomperasseperò che innanzi volea quel danno che a sua cagione li fosse mozza. Costuiveggendosi questi denari su un descoche erano tutti grossi d'arientoe guardandoli fisodall'altra parte mettendo sul desco la mano che dovea perderecominciò a dire in sé medesimo: "Qual è meglio che io parta da meo la manoo' danari? e' mi rimane una manoessendomi tagliata l'altrae con l'una mi notricherò ben troppoe vie meglioavendo le lire otto che con le duenon avendolee stando povero e mendico come sono"; e poi pensava averne veduti assai sanza alcuna manoed esser vissuti; di che al tutto s'attenne a' danarie lasciossi tagliar la mano.
Ho voluto dir questoper dimostrare la condizione di questo messo. Accordatosi costui col detto Sandroe molto volentieriperò che egli era assai gran cittadinoe massimamente che tuttio la maggior parte degli officii di Firenze avea aútisí che pochi messinon essendo di suo volere tra per gli officiie perché era di diversa condizioneserebbono stati contenti di porli le mani addosso. Avendo adunque il detto Sandro ogni cosa composta e ordinata con questo cosí fatto messoda ivi a pochi dí fu preso dal detto Totto Feie per la detta cagione è menato in palagio del podestàe messo nella Bolognana.
Colui che l'avea fatto pigliareavendoli il messo fatto sentire la presura subito venne al detto palagio a raccomandarloe fare scrivere la catturacome è d'usanza.
Sandro era a una finestra ferrata della prigione che risponde su la cortee crollava il capo contro al detto messo come con lui avea ordinato; e 'l messo s'accostava e domandava fiorini sedici al giovaneli quali gli avea promessi di dare. E Sandro dalla finestra avea gli occhi e gli orecchi a ogni cosa; e 'l giovane dava parole al messo:
- Ben te gli darò.
Il messo comincia a dire:
- Oimei! o è questa mercanzia da dire "io te gli darò"ché essendo in prigionemi minacciache ne sarò ancora forse morto a ghiado?
E andava poi in qua e 'n làaccostandosi spesso appiè della finestradove era il detto Sandro presoe come il messo s'accostavae Sandro diceasí che l'udía il giovene e ogni altro:
- Per lo corpo di Dioche io te ne pagherò -; e poi dicea piano al messo: - hatt'egli pagato?
Il messo accennava di no; e Sandro usciva dicendo forte:
- Non poss'io mai aver cosa che buona mi siase io non te ne pago e se questa presura non ti costa amara.
Totto col suono di Sandro andava volteggiando verso il giovanee diceva:
- Dehpagamiché io vorrei piú volentieri della mia povertà averne dati altrettanti a tee non averlo preso; ché egli mi minacciacome tu odiper forma che mi leverà di terrasí che non mi stentaree priegotene.
E quelli rispondea:
- Aspettami un poco; e' pare che io me ne sia per andare per debito.
E 'l messocome cruccioso e adiratotirando in su le spalleandava verso la finestra; il quale quando Sandro sel vedea pressolo domandava pianamente se gli avea aúti; e dicendo di novie piú aspramente minacciava il messofacendo tanto cosí che 'l messo ebbe fiorini sedici. Come Sandro seppe da Totto che 'l pagamento era fattofece vista di mandare uno a casa sua; e come tornòcominciò a dire:
- E’ ci ha una brigata di buon fanciulli che fanno pigliare di carte pagate: per lo corpo e per lo sangue! che si vorrebbono impiccare per la gola -; e in presenza di tutti quelli della corte che v'eranoe di chi l'avea fatto pigliareappresentò la carta della finela quale veggendo il giovanerimase tutto scornato e addomandò perdonanza a Sandroperò che di ciò non sapea alcuna cosa.
Sandro disse:
- Se tu nol sapeie tu l'appara: chi mi rende l'onore mio della vergogna che tu m'ha' fatta?
E brievemente e' misse su e parenti e amici per essere in pace con Sandroe a gran pena gli venne fatto: e rimasesi fuori di fiorini trecentoche credea dovere avere come Ughetto dell'Asinoe de' fiorini sedici che diede a Totto Fei.
Una sottile e cattiva malizia fu questache questo Sandro volesse usare tant'artee avere tanta vergogna per pochi denari; ma piú nuova cosa fu chequando uno è preso per debitocolui che l'ha fatto pigliare aspetta che paghie a lui par mill'anni d'aver pagato per uscir di prigione: questo era tutto il contrario; ché colui che era preso aspettava che il creditoreche l'avea fatto pigliarepagasse sí che elli uscisse di prigione.
E perciò non si vorrebbe mai risparmiare la penna. Il padre lasciò al giovane la carta accesae niuno ricordo lasciò che n'avesse fatto fineo che fosse pagatoe perciò questo gl'intervenne. E anco se Sandro avesse aúto un figliuoloo parente follegli potea intervenire peggio.


NOVELLA LIII

Berto Folchiessendo in una vigna congiunto con una foresealcuno viandante passando di sopra un muronon accorgendosigli salta addossoil quale credendo sia una bottafuggendo grida accorr'uomoe mette tutto il paese a romore.

Ben venne ad avere il suo intendimento d'uno amorazzo Berto Folchie ancora il priore Oca con sottile inganno a godere una vignacosí bene come ad effetto del suo volere venisse Sandro Tornabelli. Questo Berto Folchi fu uno piacevole cittadino della nostra cittàe leggiadro e innamorato ne' suoi dí. Costuiavendo piú tempo dato d'occhio con una forese nel populo di Santo Felice ad Emanella per fine un díessendo la detta forese in una vignail detto Berto non abbandonando questo suo amorene venne alla suae appiè d'un muro a secco che cingea la vignadietro al quale passava una viasi puosono. Era nel sollione per un gran caldoche passando due contadini che veníano da Santa Maria Imprunetadisse l'uno all'altro:
- Io ho una gran sete; vuo' tu andare in quella vigna per un grappolo d'uveo vuogli che vi vadia io?
Disse l'altro:
- Vavi pur tu.
Di che l'unosaltato con una lancia sul muroe gittatosi di là co' piedi su l'anche di Berto che era addosso alla detta foresefu tutt'uno: del quale colpo ebbe maggiore paura e danno Berto che la foreseperò che ella si sentí meglio calcata. Il contadino che avea saltatosentendosi giugnere co' piedi su una cosa mollicciasanza volgersi addietro comincia a fuggire per la detta vignafracassando e pali e vitigridando: "Accorr'uomoaccorr'uomo" con le maggiori voci che aveva in testa.
Berto nientedimeno si studiava di fare li fatti suoicome che gli paresse essere nel travaglio. Al romore del contadino chi correa qua e chi là:
- Che è? che è?
E quelli dicea:
- Oimè! che io ho trovata la maggior botta che mai si trovasse.
Il romore crescea; ed elli li diceano:
- Se' tu impazzatoche tu metti il paese a romore per una botta?
E quelli pur gridava:
- Oimè! fratelli mieich'ella è maggiore che un vassoio. Io vi saltai susoe parvemi saltare come su uno grandissimo polmoneo fegato di bestia; oimè! che io non tornerò mai in me.
D'altra parte il suo compagnoo parente che fosseche aspettava l'uvetemendo forse per briga che aveanoudendo il romoreche colui non fosse assalito e mortocomincia a gridare anco elli: "Accorr'uomo" e fugge indietro quanto puote. Le campane di Santo Felice cominciano a sonare a martelloe quelle da Pozzolaticoe di tutto quel paese. Chi trae dall'un lato e chi dall'altroe ciascun corre:
- Che è? che romore è questoe in quest'ora?
La donna s'era spiccata da Bertofugge verso la casa del maritogridando:
- Oimè trista! che romore è questo?
E abbattesi al maritoil quale come gli altri verso la piazza di Santo Felice correadicendo:
- Oimè! marito mioche vuol dir questo? ché sallo Dio con quanto diletto facea erba nella vigna per lo bue nostroed elli si levò questo bussoche son quasi mezza morta.
Berto giugne da un altro lato della piazzae dice:
- Che novella è questa? che buona ventura è?
Disse il lavoratore che gli avea saltato addosso:
- Comeche è? o non l'avete voi sentito? non credo che niuno vedesse o trovasse mai sí gran botta come io trovai nella tal vigna; e peggio fu che io gli saltai addosso; che è maraviglia ch'ella non mi schizzò il veleno; e pur cosí non so se io me ne morroe.
Disse Berto:
- In buona fé che tu se' un piacevol uomo; o se tu avessi trovato un diavoloche avresti tu fatto?
Disse colui:
- Vorrei innanzi trovare un diavolo che una botta a quel modo.
In questol'altro compagno giunse alla piazza trambasciatogridando; e veggendo il compagno corre ad abbracciarlodicendo:
- Oimè! compagno mioche hai tu aúto? chi t'ha assalito? io credetti che tu fosse stato morto.
E quellimezzo smemoratodicea di questa botta. E Berto Folchi verso costoro si volge ancorae dice:
- Che cortesi uomeni siete voi? avete con questo vostro romore scioperato quanti uomeni ha in questo paesee io era sopra a fare una mia faccendae sono stato sí bestia che io ci son corso anch'io.
E rispondendo e dicendochi di qua e chi di làe Berto dice:
- Egli è buon pezzo che io usai in questo paesee già fa buon tempo udi' dire che uno trovò una gran botta in quella vigna; forse è questa dessa.
Tutti a una voce affermarono che cosí dovea essereperò che v'erano li muri a seccoe certe muricce di sassi rovinati; egli è possibile che ella vi sia ancora molto cresciuta.
Tutti con questo si tornorono a casa. E appena erano compiuti di partirsie Berto tornando verso Firenzeche 'l priore Ocapriore del detto luogouomo piacevolissimotornando da Firenzenon di lungi una balestrata dalla piazza si scontrò in luiil quale salutandolo come molto suo domesticoil rimenò addietrovolendo che quella sera si stesse con lui. E accettato Berto e tornando insieme col prioredice il priore:
- Io ho udito tra via che ci è stato un gran romore; che cosa è stata questa?
Disse Berto:
- Priore miose voi mi terrete credenzaio vi dirò la piú bella novella che fosse poi che voi nasceste.
Il priore dice:
- Bertoponla su (e porgegli la mano) e cosí ti giuroe anco sai che io sono prete.
Di che Berto gli disse il principiomezzoe fine di ciò ch'era stato. Il priore era grasso; egli stette un gran pezzo che non potea ricogliere l'alitotanto ridea di voglia. E cenatoe albergato con gran festa di ciò insiemeil detto Berto la mattina seguente si tornò a Firenze; e 'l prioredopo la messapensò di far sí che quella novella gli valesse qualche cosadicendo a' suoi popolani e del caso intervenutoe del romoreammonendoli tutti che non si accostassino a quella vignaperò che cosí fatta botta era di gran pericolopur guardando altruinon che schizzando il veleno. Di che pochi erano che vi fossono arditi di entrare entrose già non fosse stato Berto e la forese.
E 'l prioreveggendo che non era alcuno che la volesse lavorares'accordò con colui di cui ell'eradi torla a fittodicendo:
- Io metterò a rischioe so alcuna orazionee alcuno incanto che è buono a ciò; e anche quel mio fante è uno mazzamarone che non se ne curerà.
Abbreviando la novellae' tenne la detta vigna a fitto parecchi anni per una piccola cosae traevane l'annoquando cogna otto e quando cogna diece di vinoe a colui di cui ell'erapur ch'ella non rimanesse sodama fosse lavorataparea guadagnare la detta vigna. E cosí tirò l'aiuolo il priore Ocaandando spesso Berto a bere di quel vino con luifacendo sí che alla botta mai non fu piú saltato addosso.
Che diremo adunque de' casi e degli avvenimenti che amore conduce? Tra quanti nuovi ne furono mainon credo che ne fosse nessuno simile a questoe con tutta la fortuna a suono di campane a martelloe a romore di popoloBerto condusse a fine il suo lavorío; e 'l priore Ocaper dare una buona ammonizione a' suoi popolanine guadagnò in parecchi anni forse quaranta cogna di vino: e fugli bene investitoperò che era goditore e volentieri facea cortesia altrui.


NOVELLA LIV

Ghirello Mancini da Firenze dice alla moglie quello che ha udito di leie quella scusandosifa a littera quello di che è stato ragionato in una brigata.

La moglie di Ghirello Mancini usò mercatanzia d'un'altra man panicciapagando il marito di quella moneta ch'elli andava cercando. Alla piazza di San Pulinari nella città di Firenze sempre usò nuova generazione di gentee di diverse contrade. Avvenne un dí per caso cheessendo adunato un cerchio d'uomeni nel detto luogotra' quali era uno che avea nome ser Naddoe Ghirello Mancinie altri; di che una mala lingua di quelli del cerchiocominciò a dire di nuove cose della moglieper metterli in giuoco a dire delle loro e dell'altrui. Onde dicendo l'uno e dicendo l'altro e pro e contro delle loro moglidisse ser Naddo a Ghirello che contro alla moglie di ser Naddo dicea:
- Ghirellola tua monna Duccina è sí grassa ch'ella non si dee poter forbire la tal cosaquando è ita al luogo comune.
E cosí avendo detto e delle loro e dell'altre ciò che vollonola notte e l'ora da tornarsi a casa gli partí dal ragionamento. E tornato Ghirello in casa e cominciato a spogliareche era di giugno e caldo grandes'accostò alla camera; e andato al lettostandosi cosí a sedere prima che entrasse sottoe la sua moglie monna Duccina essendo per la camera in camiciaracconciando sue bazzicaturee Ghirello vedutalaricordandosi di quello che ser Naddo avea la sera dettodisse:
- Duccinao non sai tu quello che mi fu detto dianzi al canto di San Pulinari?
Disse la Duccina:
- Qualche male: o che?
Disse Ghirello:
- Fu detto che quando tu hai fatto el mestiero del corpoche tu non ti déi poter forbire la cotal cosa.
La Duccinaudendo questocomincia a dire:
- Deh davi il malanno a la mala pasquaché mai non fate altro che dire male di altrui.
E con un impeto grandissimo d'irasubito chinandosi cosí in camicia in mezzo dello spazzodisse:
- Guatase io mi posso chinare.
E pignendo la mano verso il cocchiumecome se l'avesse a forbiretirò uno peto sí grande che parve una bombarda.
Ghirelloavendo veduto prima l'attoe poi sentito il tuonodisse:
- Duccinaa cotesto non ti risponderei iose non ci fosse ser Naddo.
E la Duccinavolendosi ricopriredisse:
- Sí che fu ser Naddo; deh dàgli tanti maglianni quanti mai ne vennono a creaturavecchio rimbambito ch'egli è; ché se io lo truovogli dirò tanta villania quanta ad asino.
Disse Ghirello:
- Tu hai fatta la pruovae adiriti: o se tu non l'avessi fattache diresti tu?
Ed ella disse:
- Che pruova nella malora? che siete tutti piú tristi che 'l tre asso.
Disse Ghirello:
- Donnaor va'dormi oggimaiva'. Io ci menerò domani ser Naddoe vedremo quello che dee essere di questo fattoe che ne vuole la ragione.
Disse la Duccina:
- Che ragione? ben che voi sete ragione. Alla croce di Dio che se tu cel meniche io gli getterò un mortaio in capo. Sa' tu com'egli è del fattoGhirello? E’ vide ben ser Naddo a cui sel dire; chése tu fussi quello che tu dovessinon avrebbe avuto ardire di dire male d'una tua donnaove tu fussi.
Belli ragionamenti che sono i vostri! lasciate stare li fatti miei e dell'altre donnee ragionate de' vostriche tristi siate voi dell'ossa e delle carni! ché ben vorrei che ser Naddo e gli altri cattivi fossono stati quicome ci se' tue avessi fatta la pruova in sul viso lorocome io l'ho fatta innanzi a teche d'altro non eravate degni.
E cosí se ne andò la Duccina al lettoe non sanza borbottaretanto che s'addormentoe; e la mattina levatosi Ghirelloe stato un pezzo fuorisi ritrovoe con ser Naddo e con gli altrie predicorono la pruova che la Duccina avea fattae dissono tutti ch'ella avea ragionee ch'ella tirerebbe un balestro non che un petoquando bisognasse.
Nuova cosa è quello che usano spesse volte li mariti disonestiche spesso in cerchio diranno di cose vituperose delle loro donnee piú ancor dell'altree chi venisse bene considerandoelle ne potrebbon far dire forse piú degli uomeni; e hanno tanta discrezione che nol fanno; e gli uomenidove dee essere piú virtú e piú saveresono meno discreti di loro; ché non bastò a Ghirello d'essere a udire e dire forse male della Duccina; ma egli lo ridisse perché ella il sapesse.


NOVELLA LIX (frammento)

... e presso a quel luogo era fatta una fossa per sotterrare un pellegrino. Il signoreveggendo questodice:
- Che questione è questa?
Dicono i contadini:
- Signor nostroegli è morto qui un pellegrinoil quale alcuna cosa non troviamo ch'egli abbia di che si possa sotterrare. Noiper meritare a Dioabbiamo fatta la fossa; preghiamo il prete rechi la croce e' doppieriacciò che lo sotterriamo; e' dice che vuol denarie mai non lo farà altramente; e 'l cherico dice peggio di luie hacci voluto quasi dare.
Disse il signore:
- Venite ciào messer lo pretee voi messer lo cherico; è vero quello che costoro dicono?
Dice il prete e 'l cherico a un tratto:
- Signorenoi dobbiamo avere el debito nostro.
Disse il signore:
- E chi vel de' dare? il morto che non ha di che?
Ed e' risposono:
- Noi dobbiamo pur avere il debito nostrochi che ce lo dia.
Disse il signore:
- E io vel darò io: debito vostro è la morte; dov'è il morto? adugélo qua; mettetel nella fossa: pigliate 'l prete; cacciatel giú: dov'è il cherico? mettetel su; mo tira giú la terra.
E cosí fece sotterrare il prete e 'l cherico sul morto pellegrinoe andò a suo viaggio.
E stato alcun dí a questo suo luogoritornò a Melano; e tornando per una viadov'era un'altra delle sue prigioni ed era su l'ora di terzagli prigioniche aveano sentito il beneficio ch'egli avea dato agli altrisentendo il signore passarecominciorono a gridare:
- Misericordiamisericordia.
Quelli ristettedicendo:
- Che è quello?
Il guardiano si fece innanzi.
- Signoresono li prigionieriche vi domandono misericordia.
Disse il signore:
- Síhanno apparato dagli altri.
Chiamò uno de' suoi famigli da cavalloe disse:
- Va'metti in prigione questo guardiano cogli altrie guarda la prigione tue fa' che tu non déi né mangiare né bere ad alcuno di lorose io non torno da Chiaravallelà dove io andrò com'io avrò desinato; e guarda che tu faccia ciò che io dicoch'altrimenti io t'impiccherò per la gola.
Come dettocosí fatto. Il signore andò a desinaree come ebbe desinatomontò a cavallo e andò a Chiaravalledove è una gran badíae uno bellissimo abituro per lo signore: e stato là tutto quel dí e l'altroalla reina venne grandissimo male; di che subito gli fu mandato a dire. Come lo sentíche cosí avea d'usanzabenché fosse di nottesubito fu mosso per vicitar la reina; e questo credo fosse fattura di Dioperché quelli prigioni non morissonoch'erano già stati quarantadue ore sanza mangiare e sanza bereavendovi di quelli già che cominciavono a balenare. Tornato che fuebbono tutti mangiare e berecome poteanoringraziando tutti il loro Creatore.
Or queste tre cose avvennonosi può direin un piccol viaggio: la prima fu di gran caritàe volle che fosse sí valida ch'ella valesse eziandio a chi v'era per debito: la seconda fu mossa da justiziae fu seguita con gran crudeltà: la terza fu sdegnoe tòr materia che ogni dí non avessi avvenire.
Non notando quelli comuni queste cose che sempre stanno in cacciare l'uno l'altroe non vogliono vicinonon conoscendo il bene che Dio ha dato loro.


NOVELLA LX

Frate Taddeo Dinipredicando a Bologna il dí di Santa Caterinamostra un braccio contro a sua volontàgittando un piacevol motto a tutta la predica.

Molte volte interviene che delle reliquie si truovano assai ingannicome poco tempo intervenne a' Fiorentini. Avendo aúto di Puglia un braccioil quale fu dato loro per lo braccio di santa Reparatae facendolo venire con gran cerimoniae mostrandolo parecchi anni per la sua festa con gran solennitànella fine trovorono il detto braccio esser di legno.
Era adunque frate Taddeo Dini dell'ordine de' Predicatorivalentissimo uomoil dí di Santa Caterina a Bologna; e al monistero di Santa Caterina per la festa la mattina predicandoavvenne checompiuta la predicazioneanzi che scendesse del pergamo e pervenisse alla confessionecon molti torchi gli fu recato un forzieretto di cristallocoperto con drappidicendo:
- Mostrate questo braccio di santa Caterina.
Frate Taddeoche non era smemoratodice:
- Come il braccio di santa Caterina! Io sono stato al Monte Sinaie ho veduto il suo corpo gloriosointero con le due braccia e con tutte l'altre membra.
Dissono quei pretoni:
- Bene sta; noi tegnamo che questo sia veramente il suo braccio.
Frate Taddeo con chiare ragioni diceva non esser da mostrarlo. La Badessasentendo questolo mandò pregando il dovesse mostrare; però chese non si mostrassela devozione del monastero si perderebbe. Veggendo frate Taddeo che pur mostrare gli lo conveníaaprí il forzierinoe recatosi in mano il detto bracciodisse:
- Signori e donnequesto braccio che voi vedete dicono le suore di questo monastero che è il braccio di santa Caterina. Io sono stato al Monte Sinaie ho veduto il corpo di santa Caterina tutto interoe massimamente con due braccia; s'ella ne ebbe trequest'è il terzo -; cominciando con esso a segnare in crocecome si fatutta la predica.
Gl'intendenti di questo risonoparlando tra loro; molti uomini e feminelle semplici si segnarono devotamentecome quelli che non intesono frate Taddeoné avvidonsi mai di quello che avea detto.
La fede è buona e salva ciascuno che l'ha; ma veramente solo il vizio dell'avarizia fa di molti inganni nelle reliquie; che è a dire che non è cappella che non mostri aver del latte della Vergine Maria! ché se fusse come dicononessuna sarebbe piú preziosa reliquiapensando che del suo corpo glorioso alcuna cosa non rimase in terra; ed e' si mostra tanto latte per lo mondodicendo esser del suoche se fosse stata una fonte ch'avesse piú dí rampollatoquello si basterebbe. Se se ne potesse far provacome frate Taddeo fece del detto bracciociò non avverrebbe. Ora la fede nostra ci fa salvi; e chi archimia sí fatte cosene porta pena in questo o nell'altro mondo.


NOVELLA LXI

Messer Guglielmo da Castelbarcoperché un suo provvisionato mangia maccheroni col panegli toglie ciò che con lui molti anni ha guadagnato.

Nelle contrade di Trento fu già un signorechiamato messer Guglielmo da Castelbarcoil qualeavendo seco uno (secondo ch'io già udi') a provvisionech'avea nome Bonifazio da Pontriemolie volendoli sommo beneperò che lo meritavacome valente uomo ch'avea guidato suo' dazi e gabelle; e per questa sua provvisionee per l'utile delli officiifacendo pur lealmenteera divenuto ricco di forse sei mila lire di bolognini; essendo un venerdí costui a tavola col signoree con altra sua brigataessendo recati maccheroni e messi su per gli taglieri innanzi a ciaschedunoessendo venuto il cosso al signoree veggendo il detto Bonifazio mangiare li maccheroni col paneed era carestia ne' detti paesisubito comandò a' suoi sergenti che 'l detto Bonifazio fusse preso; li quali mossisubito il presono. Costuimaravigliandosidice:
- Signor mioche cagione vi muove a farmi pigliare cosí furiosamente?
Dice il signore:
- Tu 'l saprai bene: dunque mangi tu il pane col pane? e guardi d'affamare il mondoche vedi il caro esser sí grande? e credi che io sia un mattoe non me ne avveggia?
Bonifazioudendo la cagionecredette il signore facesse per aver dilettoe quasi cominciò a sorridere.
Disse il signore:
- Tu ridiah? io ti farò ben rider d'altro verso. Menatelo là alla prigionee guardate non fuggisse.
Fu menato costui e messo nella prigione; e ivi a pochi dí fu condennato in lire sei mila di bologniniper aver voluto turbare lo statonon che di luima di tutta la sua provinciae spezialmente per fame. Convenne che costui rimettesse ciò che mai avea acquistato con luie quello che egli avea a casa suae pagò i detti danarigittandogli il signore parolecome grandissima grazia gli aveva fatta di non averli tolta la vita.
Stia dunque co' signori a bastalena chi vuole; che per certochi non si sa partir da loroe sta con essi a bastalenarade volte ne capita benecome a molti è intervenutocome contar si potrebbe. Questo messer Guglielmo ancora tolse ciò avea un suo famiglio o sottoposto perché avea fatto metter l'arme sua in una pietra da caminoopponendo che l'aveano messa al fumoperché l'affogasse. Poi ebbe quello che e' meritava... il feciono morire in prigione.


NOVELLA LXII

Messer Mastinoavendo tenuto uno provisionato a far sua fattie parendogli che fusse arricchitodomanda veder ragione da luiil quale con nuova malizia fa ch'egli è contento non rivederla.

Ne' tempi che messer Mastino signoreggiava Veronagli capitò alle mani uno ch'era come uno per fante a piedea fare suoi servigi; il quale come pratico ed esperto stato ben venti annifacendo ancora molto bene i fatti del signorediventò ricco. A messer Mastino venne l'appetito che venne a messer Guglielmo nella precedente novella; e pensossi di domandare di veder ragione da costuie cosí fece; ché lo chiamò una mattina e disse:
- Vien ciàva'apparecchia tutte tue scritture de' fatti miei che ti sono pervenuti per le manipoi che tu fusti nella corte mia.
Al buon uomo parve essere impacciatopensando non poter mai mostrare al signore quello che dimandava; ma pure rispose:
- Datemi respittoe io penserò di soddisfare al vostro comandamento.
Ed egli disse:
- Va'e quando hai le cose prestevieni; e io darò ordine chi debba per me esser con teco a vedere le dette ragioni.
Rispose costui:
- E’ sarà fattosignor mio.
Tornasi a casa e partesi dal signoree pensando e ripensandoquanto piú pensava piú gli pareva essere impacciato; e guardando per casaebbe veduta la rotellala cervellierauno lanciottouno farsettaccio con un coltellocon le quali cose era venuto di primaquando s'era acconcio al servigio di detto signore. E vestitosi nel modo ch'era venutoe prese quelle medesime arme appuntoin quella forma l'altra mattina senza piú aspettare s'appresentò innanzi a messer Mastino.
Il quale veggendolosi maravigliòdicendo:
- Che vuol dir questoche tu se' cosí armato?
- Signor mio- disse quello- voi m'avete comandato che io vi mostri ragione di ciò c'ho aúto a far de' vostri fattipoi che io fui servitore di vostra signoria; io vi dico cosísignor mioche io non veggio modo nessuno ch'io ve la potessi mai mostrarese non questo che voi vedete. Voi sapetesignor mioche quando io venni al vostro servigioio era povero mascalzonecon quello in dossoe con quelle povere armicellecon le quali mi vedete al presente. E per tanto la ragione è fatta; nessuna altra cosache quello che io ci recaime ne porterò; e cosí me n'andrò poverocom'io ci venni: tutto l'altro mio rimanentee la casacon ciò che v'è dentrolascio alla vostra signoria.
Messer Mastinocome savio signoreconsiderando l'avvedimento e modo di costuidisse:
- Non voglia Dioche io ti tolga quello che hai con me guadagnato; va'e fa' lealmente e' fatti mieie da mo innanzi non aver pensiero che io ti vegna mai meno.
Costui ringraziò el signore; e parvegli aver avuto buon modo a mostrar la detta ragione; e stette nella corte di messer Mastino tutto il tempo della vita suae fugli piú caro che altro uomo ch'egli avesse.
Or consideralettorequant'è ignorante chi fa lunga dimora nella corte d'uno signoree come in uno punto e' si volgono e disfanno altrui.
E guarda s'egli è pericolosochésognando che un servo l'uccidasel reca a vero e disfallo. E però chi si può levar dal giuocoquando ha piena la tascanon vi stia a guerra finita; però che la maggior parte ne rimangon disfatticome apertamente per molti si poría vedere.


NOVELLA LXIII

A Giotto gran dipintore è dato uno palvese a dipingere da un uomo di picciolo affare. Egli facendosene schernelo dipinge per forma che colui rimane confuso.

Ciascuno può aver già udito chi fu Giottoe quanto fu gran dipintore sopra ogni altro. Sentendo la fama sua un grossolano arteficee avendo bisognoforse per andare in castellaneriadi far dipignere uno suo palvesesubito n'andò alla bottega di Giottoavendo chi gli portava il palvese drietoe giunto dove trovò Giottodisse:
- Dio ti salvimaestro; io vorrei che mi dipignessi l'arme mia in questo palvese.
Giottoconsiderando e l'uomo e 'l modonon disse altrose non:
- Quando il vuo' tu? - e quel glielo disse.
Disse Giotto:
- Lascia far me.
E partissi. E Giottoessendo rimasopensa fra sé medesimo: "Che vuol dir questo? serebbemi stato mandato costui per ischerne? sia che vuole; mai non mi fu recato palvese a dipignere: e costui che 'l reca è uno omicciatto semplicee dice che io gli facci l'arme suacome se fosse de' reali di Francia; per certo io gli debbo fare una nuova arme". E cosí pensando fra sé medesimosi recò innanzi il detto palvesee disegnato quello gli pareadisse a un suo discepolo desse fine alla dipintura; e cosí fece. La qual dipintura fu una cervellierauna gorgieraun paio di braccialiun paio di guanti di ferroun paio di corazzeun paio di cosciali e gamberuoliuna spadaun coltelloe una lancia.
Giunto il valente uomo che non sapea chi si fossefassi innanzi e dice:
- Maestroè dipinto quel palvese?
Disse Giotto:
- Sí bene; va'recalo giú.
Venuto il palvesee quel gentiluomo per procuratore il comincia a guardaree dice a Giotto:
- O che imbratto è questoche tu m'hai dipinto?
Disse Giotto:
- E’ ti parrà ben imbratto al pagare.
Disse quelli:
- Io non ne pagherei quattro danari.
Disse Giotto:
- E che mi dicestú che io dipignessi?
E quel rispose:
- L'arme mia.
Disse Giotto:
- Non è ella qui? mancacene niuna?
Disse costui:
- Ben istà.
Disse Giotto:
- Anzi sta malche Dio ti diae déi essere una gran bestiache chi ti dicesse: "chi se' tu?" appena lo sapresti dire; e giungi quie di': "Dipignimi l'arme mia". Se tu fussi stato de' Bardiserebbe bastato. Che arma porti tu? di qua' se' tu? chi furono gli antichi tuoi? dehche non ti vergogni! comincia prima a venire al mondoche tu ragioni d'armacome stu fussi il Dusnam di Baviera. Io t'ho fatta tutta armadura sul tuo palvese; se ce n'è piú alcunadilloe io la farò dipignere.
Disse quello:
- Tu mi di' villaniae m'hai guasto un palvese.
E partesie vassene alla grascia e fa richieder Giotto.
Giotto comparíe fa richieder luiaddomandando fiorini dua della dipintura: e quello domandava a lui. Udite le ragioni gli officialiche molto meglio le diceva Giottogiudicarono che colui si togliesse il palvese suo cosí dipinto e desse lire sei a Giottoperò ch'egli avea ragione: onde convenne togliesse il palvesee pagassee fu prosciolto.
Cosí costuinon misurandosifu misurato; ché ogni tristo vuol fare arma e far casati; e chi taliche li loro padri seranno stati trovati agli ospedali.


NOVELLA LXIV

Agnolo di ser Gherardo va a giostrare a Peretolaavendo settanta annie al cavallo è messo un cardo sotto la coda; di che movendosi con l'elmo in testail cavallo non restache corre insino a Firenze.

Non è gran tempo che in Firenze fu un nuovo pesceil quale ebbe nome Agnolo di ser Gherardouomo quasi giullareche ogni cosa contraffacea: e usando con assai cittadiniche di lui pigliavono dilettoed essendo andazzo di giostrareandando con certi a Peretola che andavano per ciò faregiostrò anco ellie avea accattato un cavallaccio di quelli della Tinta di Borg'Ognissantiche era una buscalfanaalto e magroche parea la fame. Giunto a Peretolael brigante si fece armareed era dalla parte di là dalla piazza sí che veniva a correre verso Firenze. E messogli l'elmo in testae data l'astae appiccatogli un cardo sotto la codafu tutt'uno. Era la sella altissima: altro non era a vederlose non un elmo nella sellache parea coluicui elli piú volte in brigata raccontava.
Mosso la scuccumedra con Agnolo suvvie sentendo il cardosi comincia a lanciare e a percuotere Agnolo or qua or là negli arcionisí che l'asta si rassegnò in terrae 'l cavalloscagliandosi e traendocomincia a correre verso Firenze. Tutti quelli dattorno scoppiavono delle risa. Agnolo non tenea ridereperò che si sentía dare i maggior colpi del mondo negli arcionie cosí essendo lacerato ad ogni passo e percossogiunse alla Porta del Pratoed entrò dentrocorrendo e nabissando che fece smemorare e' gabellieri; e giú per lo Pratoche ogni uomo e femina per maraviglia diceano: "Che vuol dir questo?"entrò nel Borgo Ognissanti.
Or quivi era la fuggita e da' lanci e da' calci del cavallo! ognun fuggendo e gridando:
- Chi è questi? che fatto è questo?
E cosí non restette mai il cavallo che giunse alla Tintadov'era il suo albergolà dove il cavallo fu preso per le redine e menato dentro.
Essendo domandato: "Chi se' tu?"colui soffiava e doleasi: dilacciarongli l'elmoe quel grida e duolsi:
- Oh mefate piano.
E cosí trattogli l'elmoil capo di Agnolo parea uno teschioo uno uomo morto di piú dí.
Fu tratto della sella con fatica d'altruie con dolor di lui; ed eglipur dolendosiper nessun modo si potea sostenere in piede; onde fu condotto su uno letto; e giunto di fuori colui di cui era e la casa e 'l cavalloquando tutto seppescoppiava di risa. E giugnendo dove Agnolo eradice:
- Ohio non credeaAgnoloche tu fussi Gian di Granae che tu giostrassialmeno me l'avestú detto quando tu accattasti el mio cavalloche mel déi aver guastoperò che non era da giostra.
Disse Agnolo:
- Guasto ha egli meche mi par restío: s'io avessi aúto un buon cavalloio avrei dato a colui una grande scigrignatae avrei aúto onoredove io sono vituperato. Io ti prego per Dio che tu mandi per li panni mia a Peretolae fa' dire a que' giovani che io non m'ho fatto mal niunoperò che la buon'arme m'ha campato.
E cosí fu mandato per li suoi panniche vennono con essi tutti quelli che di lui avevono aúto in ciò diletto. E giunti ad Agnolo dicono:
- Oimèser Benghi (ché cosí era chiamato) se' tu vivo?
- O fratelli miei- dicea quelli- io non vi credetti mai rivedere: io sono tutto lacero; quel maladetto cavallo m'ha morto; io non provai mai peggior bestia; quando io v'era sumi parea esser la secchia de' vasgellai; io debbo aver rotta tutta la sella e le corazze; dell'elmo non ti dicoche talora si percotea su la sella per forma che de' esser tutto rotto.
Se la brigata ridevanon è da domandare. Alla perfine il vestirono la sera al tardie a braccia il condussono a casa sua; là dove correndo la donna all'usciocominciò il piantocome se fusse mortodicendo:
- Oimèmarito miochi t'ha fedito?
Agnolo non dicea alcuna cosa; la moglie pur domandava:
- Che è questo?
Dicevano i compagni:
- Non è cosa che vi bisogni piagnere.
- E lasciatolos'andarono con Dio; e la donna abbracciando Agnolocomincia a dire:
- Marito miodimmi quel che tu hai.
E Agnolo chiese d'entrar nel letto; il quale la donna spogliandolo e veggendolo tutto lividodisse:
- Chi t'ha cosí bastonato?
E’ parea il corpo suo o di profferito o di marmoritotanto era percosso.
Alla fine ritornato l'alito ad Agnolodisse:
- Donna miaio andai con una brigata a Peretolae convenne che ciascuno giostrasse; ioper non esser piú tristo che li altrie pensando a' miei passati da Cerretomaggiovolli giostrare anch'io; e se 'l cavallo ch'era restíoe hammi concio come tu vedifusse stato buonoio avea oggi maggior onore che uomo che portassi mai lancia già fa parecchi anni.
La donnach'era saviae conoscea le frasche d'Agnolocomincia a dire:
- Síche tu se' uscito della memoria affattoo vecchio mal vissuto; che maladetto sia il dí ch'io ti fu' data per moglieche mi consumo le braccia per nutricar li tuo' figliuolie tutristanzuolodi settanta anni vai giostrando: o che potrestú fareche a ragione di mondo non pesi dieci once? Va' va'che ora serai tu messo nel sacco de' prioriche n'ha' pisciato cotanti maceroni. Ed è peggiocheperché tu se' chiamato ser Benghidi' che tu vi se' per notaio. Doh tristonon ti conosci tu? e se questo pur fossequanti notai ha' tu veduto giostrare? Se' tu fuori della memoria? Non consideri tuche tu se' lavorante di lanae altro non haise non quello che tu guadagni? Se' tu impazzito? Dehva'ricollicatisventurato; ch'e' fanciulli ti verranno oggimai drieto co' sassi.
Agnolo con voce lena dice:
- Donna miatu di' che io mi ricolichi; dolente sonoche m'è convenuto collicare; io ti prego che tu stia chetase tu non vuoi ch'io muoia affatto.
E quella dice:
- Or fustú mortoinnanzi che vivere con tanto vituperio.
Dice Agnolo:
- O son io il primoa cui venga sciagura ne' fatti d'arme?
- Dehva' col malanno- disse la moglie - va'scamata la lanacome tu se' usoe lascia l'arte a quelli che la sanno fare.
E non restette insino a notte la contesa; e la notte pure si rabbonacciorono come poterono. Agnolo mai non giostrò piú.
Molto fu piú savia questa donna che il marito; però che ella conoscea lo stato suoe quello del marito; ed elli non conoscea solo sé: se non che la moglie gli disse tanto che giovò.


NOVELLA LXV

Messer Lodovico da Mantova per una piccola parolache per sollazzo dice un suo provisionatogli toglie ciò ch'egli ha.

Ancora mi viene innanzi come piccola cagione muove un signore a dar la mala ventura altrui. Essendo messer Lodovico di Gonzaga signore di Mantovauno suo provisionato avea detto con certi altripiú per diletto che per altro "Signore è vino di fiascola mattina è buonoe la sera è guasto". La detta parola fu rapportata al signore; sí come spesso intervieneper venire in grazia del signore sempre vi sono li rapportatori. Udendo ciò messer Lodovicofece chiamare a sé quel provisionatoe disse:
- Mo mi di'; ha' tu detto le ta' parole?
Quel rispose:
- Signor miosí; ma le parole mie non furon dette se non per mottoperò che altra volta l'udi' dire a un valente uomo.
Disse il signore:
- Sí che tu di' che dicesti per mottoe non ti pare avere detto alcun male; e ha' mi nominato e appareggiato con un fiasco di vino. In fé di Dioio ho voglia di farti giuocoche sempre te ne verrebbe puzza; ma acciò che tu lo possa ben dire da doverospogliati in farsettocome quando tu venisti a far con mi: e vatti con Dio.
Costui si dileguò in orache mai non apparí a Mantova; e lasciò il valer di due mila lire di bologniniil quale avere tutto si tolse el signore. Cosí intervenne che signore e vin di fiascol'uno era vino e l'altro l'ha disfatto.


NOVELLA LXVI

Coppo di Borghese Domenichi da Firenzeleggendo una storia del Titoliviogli venne sí fatto sdegno cheandando maestri per danari a luinon gli ascoltanon gli intendee cacciagli via.

Fu un cittadino già in Firenzee savioe in istato assai il cui nome fu Coppo di Borghesee stava dirimpetto dove stanno al presente i Leoniil quale faceva murare nelle sue case; e leggendo un sabato dopo nona nel Titoliviosi venne abbattuto a una storia; come le donne romaneessendo stata fatta contra loro ornamenti legge di poco tempoerano corse al Campidogliovolendo e addomandando che quella legge si dirogasse. Coppocome che savio fosseessendo sdegnosoe in parte bizzarrocominciò in sé medesimo muoversi ad iracome il caso in quella dinanzi a lui intervenisse; e percuote e 'l libro e le mani in su la tavolae talora percuote l'una con l'altra manodicendo:
- OimèRomanisofferrete voi questoche non avete sofferto che re o imperadore sia maggior di voi?
E cosí si nabissavacome se la fante in quell'ora l'avesse voluto cacciare di casa sua.
In questa cosí fatta furia stando il detto Coppoed ecco venir li maestri e manovali che uscivano d'operae salutando Coppodomandarono denaricome che molto il vedessino adirato. E Coppo come uno serpente volgesi a costorodicendo:
- Voi mi salutatee io vorrei volentieri essere a casa il diavolo; voi mi chiedete danari delle case che mi acconciateio vorrei volentieri ch'elle rovinasseno testesoe rovinassonmi addosso.
Costoro si volgeano l'uno all'altromaravigliandosidicendo:
- Che vorrebb'egli?
E dissono:
- Coppose voi avete cosa che vi spiaccianoi siamo malcontenti; se noi possiamo fare alcuna cosache vi levassi dalla noia che avetediteceloe farenlo volentieri.
Disse Coppo:
- Dehandatevi con Dio oggi al nome del diavoloch'io vorrei volentieri non esser mai stato al mondopensando che quelle sfacciatequelle puttanequelle doloroseabbiano aúto tanto ardire ch'elle sieno corse al Campidoglio per rivolere gli ornamenti. Che faranno li Romani di questo? ché Coppoche è quinon se ne puote dar pace: e se io potessitutte le farei ardereacciò che sempre chi rimanesse se ne ricordasse: andatevenee lasciatemi stare.
Costoro per lo migliore se n'andornodicendo l'uno all'altro:
- Che diavolo ha egli? e' dice non so che di romani: forse da stadera.
E l'altro dicea:
- E’ conta non so che di puttane: avrebbegli la donna fatto fallo?
E uno manovale disse:
- A me pare che dica del capo mi doglio ; forse gli duole il capo.
Disse un altro manovale:
- A me pare che si dolga che gli sia versato un coppo d'oglio.
- Che che si sia- dicon poi - noi vorremmo e' danari nostrie poi abbia quel vuole.
E cosí deliberarono di non andare piú a lui per allorama di tornarvi la domenica mattina; e Coppo si rimase nella battagliadella quale essendo la mattina raffreddoe tornandovi e' maestridiede loro ciò che doveano averedicendo che la sera avea altra maninconia.
Savio uomo fu costuicome che nuova fantasia gli venisse; ma ogni cosa considerataella si mosse da giusto e virtuoso zelo.


NOVELLA LXVII

Messer Valore de' Buondelmonti è conquiso e rimaso scornato da una parola che un fanciullo gli diceessendo in Romagna.

Molti sono che viddono e udirono già messer Valoree sannocome che fusse reputato mattoquanto fu reo e malizioso. Egli erano poche cose di che non s'intendesse e ragionassecon uno atto quasi di stolto. Essendo pervenuto a una terra una sera in Romagnae favellando dov'erano Signori e gentili uominio che gli fusse fatto in prova fareo che da sé lo facessevenne un fanciulloil quale era d'età forse di quattordici annie accostandosi a messer Valoreil cominciò a guatare in visodicendo:
- Vo' siete un grande calleffadore.
Messer Valore con la mano pignendolo da sédice:
- Va'leggi.
Costui fermo; e messer Valore dicendo per sollazzo con costoro dicea:
- Quale avete voi che sia la piú preziosa pietra che sia?
Chi dicea il balasciochi 'l rubinoe chi l'elitropia di Calandrinoe chi unae chi un'altra.
Dice messer Valore:
- Voi non ve ne intendete; la piú preziosa pietra è la macina del grano; e s'ella si potesse legare e portarla in anelloogni altra pietra passerebbe di bontà.
Dice il fanciullo (e tira messer Valore per lo gherone):
- Mo qual volete voi piúe qual val piúo un balascioo una macina?
Messer Valore guata costuie scostagli la mano da sée dice:
- Vanne a casapisciadura.
E que' fermo. La brigata comincia a ridere e sí della macina da granoe sí del detto del fanciullo. Messer Valore dice:
- Voi ridete? Io vi dico tantoche io ho trovato esser maggior virtú in un piccolo sasso che non è macina da granoche io non ho trovato né in pietre preziosené in parolené in erbee pur l'altro dí ne feci la sperienzae sapete che si dice che in quelle tre cose lasciò Dio la virtúe udite comee credo che voi stessi il confesserete. Egli era l'altro dí un giovanetto su uno mio ficoe facevami dannocogliendo que' fichi che v'erano su. Io cominciai a provar la virtú delle paroledicendo: "Scendi giúvanne"; e infine minacciando quanto poteie' non si mosse mai per le mie parole. Veggendo che le parole non valeanocominciai a cogliere dell'erbee facendo di quelle mazzuolile gittavae davagli con esse alcuna voltae le furono novelleche mai si partisse. Veggendo che ancora non mi valevano l'erbemisi mano alle pietree cominciai a gittare verso luidicendo: "Scendi giú". Com'egli vedde pur ricorre la seconda pietraavendo gittata la primasubito scese a terra del ficoe andossi con Dio. Questo non averebbe fatto quanti rubini e quanti balasci furono mai.
La brigata tutta con grande sollazzo dissono messer Valore aver ragionee dire il vero; e 'l fanciullo guarda messer Valore con un atto maliziosoe dice:
- In fé di Dioquesto gentiluomo è molto amico delle pietree ne deve avere piena la scarsella.
E pongli mano a un carniere ch'egli avea. Messer Valore si volgee dice:
- Vanne col malanno; chi diavol è questo fanciullo? Serebb'egli Anticristo?
Dice il fanciullo:
- Io non so che Anticristo; s'io potessi far quello che possono gli signori di Romagnain fé di Dioche io vi darei tante di queste pietreche hanno sí gran virtú che portandole in Toscana voi ne andreste ben fornito.
Messer Valore quasi tutto scornatoudendo le parole di questo fanciullodice verso la brigata:
- E’ non fu mai nessun fanciullo savio da piccolino che non fusse pazzo da grande.
Il fanciulloudendo questodisse:
- In fé di Diogentiluomovoi dovest'essere un savio fantolino.
Messer Valorestrignendosi nelle spalledisse:
- Io te la do per vinta.
E rimase quasi tutto smemoratodicendo:
- Non trovai mai nessun uomo che mi mattassee uno fanciullo m'ha vintoe matto.
Il piacere che quelli dattorno ebbono di ciò non è da domandare; e quanto piú ridevanomesser Valore piú imbiancava. Nella fine disse messer Valore:
- Chi è questo fanciullo?
Fugli detto come era figliuolo d'un uomo di cortechiamato o Bergaminoo Bergolino. Disse messer Valore:
- E’ m'ha sí bergolinatoche io non ho potuto dir parolache non m'abbia rimbeccato.
Dice alcuno:
- Messer Valoremenatelo con voi in Toscana.
Dice messer Valore:
- Non che io lo meni in Toscanaio fuggirei di stare làquando egli vi fusse: fatevi con Dioe bastivi questoché se gli altri Romagnuoli sono della razza di questo fanciulloe' non ne fia mai nessuno ingannato.
E cosí a Firenze si tornò scornato e beffato da uno fanciullo colui che tutti gli altri beffava.


NOVELLA LXVIII

Guido Cavalcantiessendo valentissimo uomo e filosofoè vinto dalla malizia d'un fanciullo.

La passata novella mi fa venire a mente questa che seguitala quale fu in questa forma. Giucando a scacchi uno d'assai cittadinoil quale ebbe nome Guido de' Cavalcanti di Firenzeuno fanciullo con altri facendo lor giuochio di palla o di trottola come si faaccostandosegli spesse volte con romorecome le piú volte fannofra l'altrepinto da un altro questo fanciullo il detto Guido pressò; ed eglicome avvieneforse venendo al peggiore del giuocolevasi furioso e dando a questo fanciullodisse:
- Va'giuoca altrove.
E ritornossi a sedere al giuoco delli scacchi. Il fanciullo tutto stizzito piagnendocrollando la testa s'aggiravanon andando molto da lungae fra sé medesimo dicea: "Io te ne pagherò." E avendo uno chiovo da cavallo allatoritorna verso la via con gli altridove il detto Guido giucava a scacchi; e avendo un sasso in manos'accostò drieto a Guido al muricciuolo o pancatenendo in su essa la mano col detto sassoe alcuna volta picchiava; cominciando di rado e pianoe poi a poco a poco spesseggiando e rinforzandotanto che Guido voltosi disse:
- Te ne vuoi pur anche? Vattene a casa per lo tuo migliorea che picchi tu costí cotesto sasso?
E quello dice:
- Voglio rizzare questo chiovo.
E Guido agli scacchi si rivolgee viene giucando.
Il fanciullo a poco a pocodando col sassoaccostatosi a un lembo di gonnella o di guarnaccala quale si stendea su la detta panca dal dosso di detto Guidosu essa accostato il detto chiovo con l'una manoe con l'altra col sasso conficcando il detto lemboe con li colpi rinforzandoacciò che ben si conficcasse e che 'l detto Guido si levasse; e cosí avvenne come il fanciullo pensò; ché 'l detto Guido essendo noiato da quel bussosubito con furia si lievae 'l fanciullo si fuggee Guido rimane appiccato per lo gherone. Sentendo questoe quel tutto scornato si fermae con la mano minacciando verso il fanciullo che fuggivadicendo:
- Vatti con Dio; che tu ci fusti altra volta!
E volendo spastoiarsie non potendose non volea lasserare il pezzo della guarnaccagli convenne cosí preso aspettare tanto che venissono le tanaglie.
Quanto fu questa sottil malizia a un fanciulloche colui che forse in Firenze suo pari non avea per cosí fatto modo fusse da un fanciullo schernito e preso e ingannato!


NOVELLA LXIX

Passera della Gherminellacredendo trovare gente grossa per arcarene va in Lombardiae trovandoli piú sottili che non volearitorna a fare il suo giuoco a Firenze.

Passera della Gherminella fu quasi barattieree sempre andava stracciato e in cappellinae le piú volte portava una mazzuola in mano a modo che una bacchetta da Podestàe forse due braccia di corda come da trottolae questo si era il giuoco della gherminellache tenendo la mazzuola tra le due mani e mettendovi su la detta cordadandogli alcuna voltae passando uno grossolano dicea:
Che l'è dentro, che l'è di fuori?avendo sempre grossi in mano per metter la posta.
Il grossolano veggendo che la detta corda stavache gli parea da tirarla fuoridicea di quello "che l'è di fuori"e 'l Passera dicea: "E che l'è dentro".
Il compagno tiravae la cordacome che si facesserimanea e fuori e dentro come a lui piacea; e spesse volte si lasciava vincere per aescare la gente e dar maggior colpo. Quando con questo giuoco ebbe consumato quasi ogni uomoe spezialmente sul canto de' Marignolli dove si vende la pagliagli disse un dí uno che di questa sua arte con lui alcuna volta si trovava alla taverna:
- Passeraio m'ho pensato chese tu vai in Lombardiala gente v'è grossatu guadagnerai ciò che tu vorraie spezialmente a Como e Bergamoche vi sono gli uomini che paiono montonisí sono grossi; e se tu vuoglime ne verrò con teco.
Disse il Passera:
- Sie fatto; quando vogliamo?
- Andiamo in tal dí.
Venuto el dí postoel Passera col suo consigliere si mossee giugnendo a Bolognadove dall'albergo di Felice Ammannati erano molti e Fiorentini e Bolognesicome Felice il vededice:
- Buon buono! Legatevi le borsebrigatache ecco il Passera.
Il Passera si partí da giuoco il meglio che potée non gli parve di stare in Bolognané di perdersi la fatica. L'altro dí pervenne a Ferrara; là fu ancora sí conosciuto che non vi approdò alcuna cosa. Andossene a Modonae quivi in su la piazza tese la retelà dove non pigliò alcuna cosa. Come vao come stainteso che aveano el giuocociascun s'andava con Dio. Andò a Reggioe quivi misse innanzi il giuocoe chiamando a sé gente.
- Che volete voi dire? Guardate questo giuoco.
L'uno tirava una reggiaria e l'altro un'altra: e 'l Passera si volge al consigliero e dice:
- Tu m'hai pur condotto bene.
E quel dice:
- Non ti sgomentare; andiamo pur oltre a Parma.
Provorono; chi dicea:
-E’tira quella cordella.
L'altro dicea:
- E’ se la tiriché io non voglio apparare testeso giuoco nuovo.
E cosí o peggio a Piacenzache ben lo piagentavanodicendo:
- O barbae che giuoco è questo?
E’ poteva assai direch'egli era quivi uccellato. A Lodi su la piazza lodavono il giuocoe domandovonlo onde egli era. Giunto a Melanodov'erano le buone borsegli era detto:
- Mo guarda chi crede arcare li Melanesi!
E in tutte le terre passate non guadagnò soldi ventiche gli scotti gli erano costati piú di cento novanta.
Andaronsene a Como tosto tostocredendo trovar quelli Comasini grossissimi; e là in su la piazza cacciò il Passera fuori la mazzuola e la cordella.
- Chi mette? e che l'è dentro?
Giugne l'uno e dice:
- A mi che fa?
E quel dice:
- E che l'è di fuori?
E un altro giugnee dice:
- E che fa a mi?
Mai non gli fu fatta altra risposta.
Andaronsene a Bergamoa Bresciaa Veronaa Mantovaa Padova e in molte altre terree non trovorono chi dicessese non: "A me che fa?" e "Che fa a mi?" o peggio tanto chetornati a Firenzeil Passera trovò aver guadagnato lire quattro e soldi ottoe trovò avere speso in lui e nel consigliero lire quarantasette e soldi. Ondeper rifarsicominciò a tender la trappola in Firenze al luogo usato. Il primo dí che vi fucorrevano le genti come se mai non l'avessino vedutocredendo che 'l Passera fusse mortoe ciascuno gli facea festa; e chi piú era caduto alle sue reti per li tempi passatipiú di nuovo vi cadeae guadagnò co' fatappi in pochi dí ciò ch'egli avea in Lombardia messo al di sotto: dicendo con assai poi questa novellaaffermando che tra quanti luoghi avea cerchie in Lombardia e altrovemai non avea trovata gente paolina come là dov'egli era nato.


NOVELLA LXX

Torello del Maestro Dino con uno suo figliuolo si mettono a uccidere dua porci venuti da' suo' poderie in finevolendogli fedireli porci si fuggono e vanno in un pozzo.

Nella nostra città fu uno pratico e avvisato uomo chiamato Torello del maestro Dinoal quale essendo venuto per le feste di Pasqua due porci da' suo' luoghi da Volognanoche pareano due asini di grandezza; e convenendo che cercasse chi gli uccidesseacconciasse e insalassepensò che ciò non si potea fare senza buon costo; e pertanto disse al figliuolo:
- Ché non uccidiàn noi questi porci noie conciànli? noi abbiamo il fantee risparmierenci i danari che vorrebbe chi gli acconciasse; e credo che noi farèn bene come loro.
E dice al figliuolo:
- Che di'?
E que' risponde:
- Dico che noi il facciamo.
- Or benetroviamo due invoglie e uno coltellino bene appuntatoe metteremo l'uno in terra; e io - disse Torello - l'uccideròe voi lo terrete che non fugga.
Risposono che ben lo farebbono. Torellorecatosi in concio che era gottoso e debolesi mette il grembiulee chinasi e fa chinare gli altri a pigliare il detto porco per le gambee fannolo cadere in terra: come gli è in terraTorello che avea attaccato il coltellino alla coreggiase lo reca in manoe volendo fedire il porco per ucciderloe standoli col ginocchio addosso e senza brachee 'l figliuolo essendo andato per un catino per la dolciaappena era il ferro entrato nella carne un'onciache 'l porco cominciò a gridare; l'altro che era sotto una scalasentendo gridare il compagnocorre e dà tra' calonaci di Torello. Come il ferito sente il compagno venuto alla riscossafuriosamente dà un guizzo sí fatto che caccia Torello in terra. In questo giugne il figliuoloe Torello dice:
- Tu se' stato tu che non torni mai.
- Anzi tu.
- Anzi tu.
E con questa tenzioneil porco uscito lor tra le branchecorre per uno andronee l'altro porco drietolie dànno su per una scala. Torello levatosie 'l figliuolodicono:
- Ohimè! male abbiamo fatto.
Dànno su per la scala dietro a' porcilà dove il sangue per tutto zampillava. Giunti in salacaccia di quacaccia di làe quello ferito dà in una scanceria tra bicchieri e orciuoliper forma e per modo che pochi ve ne rimasono saldi.
Alla perfine il porco s'accostò al pozzo ch'era su la sala e gittòvisi dentroe l'altro porco drietogli.
Quando Torello vede questodàssi delle mani su l'anche dicendo:
- Oimèor siàn noi diserti -; e fassi alle sponde guardando nel pozzo. - Che faremo e che diremo?
Alla per fine voltosi al suo fanteil pregò per amor di Dio che si collasse nel pozzoe togliesse un buon coltello appuntato e una funee o vivi o morti pensasse di legarli; ed egli e 'l figliuolo tirerebbon su la fune del pozzoalla quale accomandasse li detti porci. Il fante bestia volle servire Torelloe preso il detto fornimento s'attaccoe alla fune del pozzoe còllavisi entro. Come fu giunto giusoe 'l porco ferito gli dà di ciuffo alla gambae quanto ne prese tanto ne levò.
Sentendo il fante il dolore del morsocomincia a gridare: "Accorr'uomooimèoimè!" a sí alte voci che la vicinanza trassee truovano cosí fortunoso caso; e saputo come il fatto era itodicono a Torello:
- In buona fétu hai fatto un bel risparmio; quando tu riaverai questi porcifara'celo assaperee peggio è ch'egli averanno morto questo buon uomo che v'entrò dentro.
E fassi alcuno alla sponda dicendo:
- Se' tu vivo?
E quello dice:
- Oimèper Dio! tirate la fune e io m'atterrò a essa per uscire di qui.
E 'l porco in quell'ora anco l'assanna; ed egli si volge in su:
- Oimètiratechése voi non tirateio son morto.
Alla fine tirarono la funecome se attignessero acqua; ed eccoti il tristo su con una gamba guasta e tutta stracciatache piú mesi ne penò a guariree gridava:
- Oimè! Torelloa che partito me avete messo? io non serò mai piú uomo.
Torello dicea:
- Sta' cheto; io ti farò medicare al maestro Banco che è molto mio amicoma de' porci come si fa?
Dice il fante:
- Il pensiero sia vostroche volete tòr l'arte a' tavernai.
Alla per fine e' s'andò per due beccai che desseno e consiglio e aiuto: e dissono voleano d'ogni porco fiorini uno a trargli del pozzo. Torelloveggendosi mal paratodisse:
- Sie fatto.
E domandorono se gli volea uccidereperò che laggiú convenía s'uccidessino. Disse di sí:
- Fate tostoe fate come voi volete.
Allora l'uno s'armò come se andasse a combatteree con uno coltello appuntato a spillo andò giusoe brievedopo gran penagli uccisee legati prima l'uno e poi l'altro alle funi del pozzogli tirorono fuori: dell'acconciatura poi gli pagò quello se ne veníache fu forse un altro fiorino. L'acqua del pozzo rossa di sangue umano e di sangue porcinoconvenne che in poco tempo si rimondassee lavasse il pozzo piú di otto voltee costò bene fiorini tre. I porci non ebbono dolcela carne fu tutta livida e percossae fu assai di peggio. Or questo risparmio fece questo valente uomo ch'e' porci valeano forse dieci fiorini ed egli ne spese poi forse altrettantisenza le beffe che furono via piú.
La novella dettaper alcuno giovane fu già scrittae molto piú lungamenteperò che mette ch'e' porci andorono in cucina e in quella tempestorono ciò che v'era. E questo non fu vero; però che quello della cucina avvenne a uno gentiluomo de' Cerchivicino di Torellochesentendosi piú giovane e meglio in gambe di luivolle provare d'uccidere un suo porco; il quale da lui feditocome questosí gli uscí tra manie correndo su per la scalaimbrattando ogni cosa col sanguen'andò in cucinae là fece gran dannotempestando ciò che v'era. Questi porci mi fanno ricordare d'alcun'altra novellaper lo serrarsi insiemequando sono offesila quale racconterò qui da piede.


NOVELLA LXXI


Uno Frate romitano di quaresima in pergamo a Genova ammaestra ch'e' Genovesi debbano fare buona guerra.


E’ non è molt'anni che trovandom'io in Genova di quaresimae andandocom'è d'usanzala mattina alla chiesafui alla chiesa di Santo Lorenzodove predicava in quell'ora un frate romitanoed era la guerra tra Genovesi e Viniziani; e in quelli dí li Viniziani aveano forte soprastato a' Genovesi. Oraaccostandomi e porgendo gli orecchi per udire alquantole sante parole e' buoni esempli che io gli udi' dire furono questi. E diceva:
- Io sono Genovesee se io non vi dicessi l'animo mioe' mi parrebbe forte errare; e non abbiate a maleché io vi dirò il vero. Voi siete appropiati agli asini; la natura dell'asino è questa: che quando molti ne sono insiemedando d'uno bastone a unotutti si disserranoe qual fugge quae qual fugge làtanto è la lor viltà; e questa è proprio la natura vostra. Li Viniziani sono appropiati a' porcie sono chiamati Viniziani porcie veramente egli hanno la natura del porcoperò che essendo una moltitudine di porci stretta insiemee uno ne sia o percosso o bastonatotutti si serrano a unae corrono addosso a chi gli percuote; e questa è veramente la natura loro: e se mai queste figure mi parvono propriemi paiono al presente. Voi percotesti l'altro dí li Viniziani: e' si sono serrati verso voi a lor difesa e a vostra offesa; e hanno cotante galee in mare con le quali v'hanno fatto e sí e sí; e voi fuggite chi qua e chi làe non intendete l'uno l'altro; e non avete se non cotante galee armate: egli n'hanno presso a due tanti. Non dormitedestateviarmatene voi tante che possiatese bisognanon che correre il marema entrare in Vinegia.
Poi fa fine a queste paroledicendo:
- Non l'abbiate a maleché io serei crepatos'io non mi fusse sfogato.
Or questa cotanta predica udi' ioe torna' mi a casa; l'avanzo lasciai udire agli altri. Avvenne per caso quel medesimo dí che nel luogo de' mercatantiessendo io dov'erano in un cerchio e Genovesie Fiorentinie Pisanie Lucchesie ragionandosi de' valenti uominidisse uno savio Fiorentino che ebbe nome Carlo degli Strozzi:
- Per certo voi Genovesi siete gli migliori guerrieri e piú prod'uomini che siano al mondo: noi Fiorentini siamo da fare l'arte della lanae nostre mercanzie.
Ed io risposi:
- E’ c'è ben la ragione.
Il perché tutti dissono:
- Come?
E io rispondo:
- Li nostri fratiquando predicano a Firenzeci ammaestrano del digiuno e dell'oraree che dobbiamo perdonaree che dobbiamo seguire la pace e non far guerra; li frati che predicano qui insegnano tutto il contrario; però che in questa mattina ritrovandomi in Santo Lorenzoio porsi gli orecchi a un frate romitano che predicava; gli ammaestramenti e gli esempli che il populo qui poté udire furono questi: - e raccontai ciò che avea udito.
Tutti si maravigliorono: e allora da chi aveva udito com'ione seppono la veritàe ciò uditodissono che io aveva ragione; e parve a tutti una nuova predica.
E cosí siamo spesse volte ammaestratitanto è ampliata la nostra fedesalendo tale in pergamo che Dio il sa quanta sia la loro prudenzao la loro discrezione.


NOVELLA LXXII

Un Vescovo dell'ordine de' Servi al luogo della chiesa loro di Firenzedicendo le piú nuove cose del mondoe le piú stoltetira a sé di molta gente.

La novella passata mi tira a dire quello chefra l'altre nuove predicazioni che faceadisse un dí un Vescovo dell'ordine de' Servi nella loro chiesa in Firenze in sul pergamo predicando. Questo Vescovo lavacecivogliendo ammaestrare nel vizio della golariprendea gli Fiorentini dicendo:
- Voi siete molto golosi; e' non vi basta magnare le pastinache fritteché voi le mettete ancora nell'agliata cotta; e quando mangiate li ravazzuolinon vi bastaquando hanno bollito nel pignattomangiarli con quel buglioneché voi gli traete del loro proprio brodo e friggeteli in un altro pignattoe poi gli minestrate col formaggio.
E molte altre cose simili che tutte veníano dalla sua profonda celloria.
E in questa medesima predicache credo fosse quel dí della Assunzionevenendo a dire come Cristo n'andò in cielocomincia a dire:
- E’ n'andò ratto piú che cosa che si potesse dire. Come n'andò ratto? andonne come uccello che volasse? piú; andonne come freccia che uscisse d'arco? piú; o come strale che uscisse di balestro? piú; come n'andò? Come se mille paia di diavoli ne l'avessino portato.
Udendo questa cosí bella predicami ritrovai in quel dí col Priore dell'ordinee domandolo qual scrittura dicesse quello che quel Venerabile Mellone aveva detto in pergamo; ed egli rispose ch'egli era de' piú valenti uomini che avesse l'ordinema ch'elli credea che per infirmità ch'egli avea aúto fusse alcun'ora impedito nella mente; e io risposi che quella infirmità era continua e ch'ella durava troppoperò che in ogni predica che faceadicea cose simili a quelle o vie piú nuoveper sí fatta forma che la gente correa piú al detto frate per avere diletto delle sue dolci paroleche non andavono per divozione alla Nunziata per avere da lei grazia. Riconobbono il loro erroreche 'l faceano predicaree la stoltizia di colui che predicava; e disposono lui della predicae feciono predicare un altro. E pensa tulettoreche frate costui potea essere; ché passando io scrittore poi ad alcun dí per Mercato Vecchiocostui era sopra un paniere di fichie dicea alla forese:
- O donnaquante fiche date vui per un dinaro?
E comprandole le mangiava in piazza.
Le cose stratte fuori di formae nuove di scienzae con sciocchezza adornate nelle sue predichefurono tante che lingua appena le potrebbe contarenon che io scrivere. Tanto dico cheessendo costui cosí scortola gente lasciava l'altre predicazionie correano alla sua; essendogli fatte alcuna volta di nuove cosee fra l'altre gli vidi un dí conficcare la cappa su le sponde del pergamoe altre cose assai; e tanto se n'avvedea dell'altrui beffe quanto farebbe una bestia.
E questi tali ci ammaestrano spesse voltee noi cosí appariamo che manco fede abbiamo l'un dí che l'altro.
Questo frate tenea oppinione che quando il nostro Signore andò in cielo che n'andasse cosí veloce e ratto come avete udito. Uno mio amico veggendo il dí dell'Ascensione all'ordine de' frati del Carmine di Firenzeche ne faceano festail nostro Signore su per una corda andare in su verso il tettoe andando molto adagiodicendo uno:
- E’ va sí adagio che non giugnerà oggi al tetto.
E quel disse:

  • Se non andò piú rattoegli è ancor tra via.



NOVELLA LXXIII

Maestro Niccolò di Ciciliapredicando in Santa Crocegittò un motto verso il Volto santoil qual è...e fa rider tutta la gente.

Avendo narrato le dua precedenti novelle di quelli due smemorabili fratimi si fa innanzi a dire una novelletta de un valentissimo maestro in teologia dell'ordine di Santo Francescoil quale ebbeo ancora ha (però che non so s'egli è vivo) nome maestro Niccola di Cicilia. E acciò che questa novelletta mostri il suo fondamentoè da sapere che questi valenti frati minori che sono statio ancora che sono in Ciciliagiammai non soffersonodove abbiano possutoche 'l Volto santo si dipinga in alcun luogo loroe sono stati malvoglienti di chi mai n'ha fatto dipignere alcuno.
Capitò questo maestro Niccola nella nostra città per una questione che aveva mosso contro a lui uno Inquisitore de' frati predicatori in Cicilia; e andavasi a diffinire in Corte dinanzi al Sommo Ponteficenel tempo ch'e' Fiorentini ebbono guerra co' pastori della Chiesa. E sentendosi per Firenze la profonda scienza del maestro Niccolafecionlo pregare dovesse predicare qualche díegli predicò tre festel'una dello Spirito Santol'altra della Trinitàla terza del Corpo di Cristo; tutte altissime materie e da non meno valente uomo che fusse elli.
Essendo una di queste feste in pergamo il dí dopo desinareed essendovi moltissima gentefra l'altre cosegiugnendo in una partevolendo dare ad intendere l'essenzia del nostro Signore Jesu Cristodice:
- Com'è fatta la faccia di Cristo?
E furioso si volge verso il Volto santo dicendo:
- Non è fatta come la faccia del Volto santo che è colà che ben ci vegno a creparese Cristo fu cosí fatto.
E detto questosi ritorna a quello che avea a dire.
La predica comincia a rideree ridi e riditanto che per buona pezza né il detto Maestro poteo direné altri ascoltare. E io scrittore mi trovai con un altro valente frate maestro in teologiache avea nome maestro Ruggieri di Cicilia nella detta chiesa; vidi certi che 'l pregavano se volea acconciare una questionemandasse per Dino di Geri Tigliamochi (questo Dino avea fatto fare quello Volto santo); rispose maestro Ruggieri:
- Questo Dino che voi dite che io mandi per luiè quello Dino che ci ha posto quel Volto santo colae?
Dissono di sí; e que' disse:
- Se tutti gli pianeti avessono disposto che questo accordo si facesseadoperandosi questo Dino in ciòlo farebbe discordareimmaginando ch'el ci abbia fatto porre questo Volto santo in questo luogo.
E mai non volle mandare per lui.
E cosí questi due valenti uomini con cosí fatta piacevolezza vollono mostrare e mostravono a chi andava alle loro camere che del nostro Signore avevano figure assaisenza cercare di cose nuove; e che il nostro Signore e di viso e d'ogni membro fu il piú bel corpo che fusse mai e che questo Volto santo che parea uno mascherone era il contrario.


NOVELLA LXXIV

Messer Beltrando da Imola manda un notaio per ambasciadore a messer Bernabòil qualeveggendolo piccolino e gialloil tratta come merita.

Egli è poco tempo cheessendo messer Beltrando degli Alidosi signore d'Imolamandò un notaio per ambasciadore a messer Bernabò signore di Melanoil qual notaio avea nome ser Bartolomeo Giraldiomicciuolo sparutopiccolissimotutto nero e giallocon gli occhi giallissimiche parea se gli fosse sparto su il fiele. Giugnendo costui dove era il signoretrovò che era su una scalaper salire a cavalloe 'l cavallo era ivie' famigli già alla staffa. Fatta la riverenza questo ambasciadore cosí fattoe messer Bernabò dalla prima volta in sunon che lo guardassema tenea volto il viso in altra partee dicea:
- Di' pur via ciò che tu vuogli.
E cosícostui dicendoe messer Bernabò mostrandoli le renechiamò a sé un suo famiglio e disse:
- Va'sella il tale cavalloe allungali le staffe quanto puoie menalo subito qui.
Il famiglio andò prestoe menò il cavallo nella forma che il signore avea detto. Come 'l signore vide il cavallochiamò il famiglioe disse:
- Quando io vel dicoo accenneròaiutate porre a cavallo questo ambasciadoree non raccorciate le staffe.
E come dissecosí fu fatto; ché messer Bernabò disse:
- Messer l'ambasciadoresali su quel cavalloe verra' con mi parlando.
E detto questosalí il signore a cavalloe l'ambasciadore ciò veggendovolendo salire sul cavallo delle staffe lunghee non potendofu da' famigli postovi sucome un fanciullo. El signore cavalca tosto; e costuinon avendo modo né d'acconciarsiné da raccorciar le staffecavalca come puote. Questo cavalloche 'l signore avea fatto veniresempre andava aizzato e intraversando; e messer Bernabò dicea:
- Dite ciò che voi volete; lasciate pure andare il cavallo.
E non lo guardava però in visose non poco. Costui s'andava con le gambucce spenzolate a mezzo le bardecombattendo e diguazzando; e quello cotanto che dicevalo dicea con molte notecome se dicesse uno madrialesecondo le scosse che aveache non erano poche. E messer Bernabò quanto piú il vedea diguazzarepiú dicea:
- Di' pur oltre i fatti tuoiché io t'intenderò bene.
Brievemente egli il menò quattr'ore a questa manierache assai volte fu l'ambasciadore per rassegnarsi in terrae mai non poté mettersi e' panni sottoné acconciarsisí che le coscenon che le gambenon portasse scoperte. Alla fine tutto lacerocome quello che avea poco prosperitàritornò col signore alla cortedonde s'era partitopiú giallo e piú cattivelluccio che mai; e 'l signoresceso che fudisse che ben gli risponderebbee andò suso.
Quando l'ambasciadore ne sceses'attaccoe agli arcionilasciandosi spenzolare; e non giugnendo a un braccio a terrafuper una volta che 'l cavallo diedepresso che caduto. Alla fine assai debolmente si posò in terra ferma; e mai non poté andare innanzi al signorestando in Melano piú di quindici dí; es'ebbe rispostagli fu fatta per altruie tornossi al signore che l'avea mandato.
Il qualeudito dal giallo ambasciadoruzzo come era stato trattatos'avvisò che messer Bernabò aveva ciò fatto per la strutta e dolorosa apparenza del suo ambasciadoreil quale parea uno rigogolo piú tosto che persona.
Molto si dovrebbe piú guardarequando l'uomo manda gli ambasciadoriche non si fa. Vogliono essere attempati e savie apparenti; altrimenti chi gli manda n'ha poco onoree vie meno eglino che sono mandati. E cosí intervenne a questo ambasciadore giallo detto di sopra.


NOVELLA LXXV


A Giotto dipintoreandando a sollazzo con certivien per caso che è fatto cadere da un porco; dice un bel motto; e domandato d'un'altra cosane dice un altro.


Chi è uso a Firenzesa che ogni prima domenica di mese si va a San Gallo; e uomini e donne in compagnia ne vanno là su a dilettopiú che a perdonanza. Mossesi Giotto una di queste domeniche con sua brigata per andareed essendo nella via del Cocomero alquanto ristatodicendo una certa novellapassando certi porci di Sant'Antonioe uno di quelli correndo furiosamentediede tra le gambe a Giotto per sí fatta maniera che Giotto cadde in terra. Il quale aiutatosi da sé e da' compagnilevatosi e scotendosiné biastemò i porciné disse verso loro alcuna parola; ma voltosi a' compagnimezzo sorridendodisse:
- O non hanno e' ragione? ché ho guadagnato a mie' dí con le setole loro migliaia di liree mai non diedi loro una scodella di broda.
Gli compagniudendo questocominciorono a rideredicendo:
- Che rileva a dire? Giotto è maestro d'ogni cosa; mai non dipignesti tanto bene alcuna storia quanto tu hai dipinto bene il caso di questi porci.
E andaronsene su a San Gallo; e poi tornando da San Marcoe da' Servie guardandocom'è usanzale dipinturee veggendo una storia di nostra Donna e Josefo ivi da latodisse uno di costoro a Giotto:
- Deh dimmiGiottoperché è dipinto Josef cosí sempre malinconoso?
E Giotto rispose:
- Non ha egli ragioneche vede pregna la mogliee non sa di cui?
Tutti si volsono l'uno all'altroaffermandonon che Giotto fusse gran maestro di dipignerema essere ancora maestro delle sette arti liberali. E tornatisi a casanarrorono poi a molti le due novelle di Giottole quali furono tenute parole proprio di filosofo dagli uomini che avevono intendimento. Grande avvedimento è quello di uno vertuoso uomocome fu costui.
Molti vanno e guardano piú con la bocca apertache con gli occhi corporeio mentali; e però qualunche vive non può errare d'usare con quelli che piú che lui sannoperò che sempre s'impara.


NOVELLA LXXVI

Matteo di Cantino Cavalcanti stando su la piazza di Mercato con certiuno topo gli entra nelle bracheed egli tutto stupefatto se ne va in una tavoladove si trae le bracheed è liberato dal topo.

E’ non è molt'anniche in casa Cavalcanti fu un gentiluomo chiamato Matteo di Cantinoil quale io scrittore e molti altri già vedemmo. Era stato il detto Matteo di Cantino ne' suoi dí e giostratore e schermitore; e ogni altra cosa com'altro gentiluomo seppe fare; era sperto e pratico com'altro suo pari e costumato. Essendo d'età di settant'annie molto prosperosoed essendo il caldo grande (però che era di luglio)e avendo le calze sgambatee le brache all'antica co' gambuli larghi in giusodicendosi novelle in un cerchiodov'erano e gentiluomini e mercatanti in su la piazza di Mercato Nuovo; e 'l detto Matteo essendo nel detto cerchiovenne per caso che una brigata di fanciulli di quelli che servano a' banchieriche là sonocon una trappoladove aveano preso un topoe con le granate in mano si fermano in sul mezzo della piazza e pongono la trappola in terrae quella posta in terraaprono la cateratta; aperta la caterattail topo esce fuorie corre per la piazza: li fanciulli con le granate menandocorrendogli dietro per ucciderloed egli volendosi rimbucaree non veggendo dovecorre nel cerchiodov'era il detto Matteo di Cantinoe accostatoglisi alle gambesalendo su subito verso il gambuleentrò nelle brache. Sentendo ciò Matteopensi ciascuno come gli parve stare. Egli uscí tutto fuor di séli fanciulli l'aveano perduto di veduta:
- Ov'è? dov'è?
L'altro dicea:
- E’ l'ha nelle brache.
La gente trae; le risa son grandi. Matteocome fuori della memoriase ne va in una tavola; gli fanciulli con le granate drietoglidicendo:
- Caccial fuori; e' l'ha nelle brache.
Matteo agguattasi dietro all'appoggio del bancoe cala giú le brache. De' fanciulli erano dentro con le granategridando:
- Caccial fuoricaccial fuori.
Giunte le brache in terrail topo schizza fuori. Li fanciulli gridano:
- Eccoloeccolo: al topoal topo: e' l'avea nelle brache; alle guagnele! E’mandò giú le brache.
Gli fanciulli uccidono il topoMatteo rimane che parea un corpo morto; e piú dí stetteche non sapea dove si fosse. E’ non è uomoche non fosse scoppiato di risache l'avesse vedutocom'io scrittore che 'l vidi. Brievemente e' si botò alla Nunziata di non portare mai in tutta la sua vita piú le calze sgambatee cosí attenne.
Che diremo de' diversi casi che avvengono? Per certo che mai non credo n'avvenisse nessuno cosí nuovoné cosí piacevole. Starà l'uomo con gran pompa e superbiae una piccola cosa il metterà a dichino; anderà sgambato per le pulcie uno sorgo l'assalisce in forma che esce di sé. E’ non è sí piccola ferucola che non dea che fare all'uomo: e l'uomo anco le vince tuttequando si dispone.


NOVELLA LXXVII

Due hanno una quistione dinanzi a certi officialie l'uno ha dato all'un di loro un buee l'altro gli ha dato una vaccae l'uno e l'altro s'ha perduta la spesa.

In una città di Toscanala quale per onestà non dirò qual fusse né ancora dirò quali officialiné in tutto né in partefu giàe forse ancor duraun grande officio di valenti cittadinii quali aveano grandissima balía e di ragione e di fatto a terminar le questioni che interveniano e tra' cittadinie tra' contadini; avvenne per caso che due ricchi uomini mercatanti di bestie aveano quistione di lire trecento o piú tra loro; e venne la quistione dinanzi a questo officio: e non terminandosi tosto a modo che l'uno di loro voleae avendo paura non gli fusse fatto tortopensò fare qualche dono a uno di quelli del detto officioil quale fusse da piú e meglio il potesse aiutare. Ebbe considerato quello che egli immaginava. Aveva una possessionela quale era bella e buonama l'uomo non era addanaiato sí che di buoi la tenesse ben fornita; e pensò di scoprirglisie andare a luie raccomandandosi perché lo mantenesse e favellasse nelle sue ragionie donargli un bueché molti n'avea; e come ebbe pensatocosí fece. E l'amico non si fece molto direche si tolse il detto bue.
L'altroche avea la quistione con questo che avea donato il buenon sapiendone alcuna cosagli fu venuto un medesimo pensierodicendo: "Il tale è il maggior uomo dell'officio; io gli vorrei fare qualche bel donoacciò che mi sostenesse nelle mie ragioni"; e pensò lo stato suoe ch'egli avea un luogo bello da tener bestie grosse; e per non essere abbiente di danarinon ve le tenea. E però andò a raccomandarsi a luie donògli una vaccadicendo:
- Io voglio che voi la tenghiate per mio amore nel vostro luogo.
Costui se la tolsee ha avuto il bue e la vaccae niuno non sa dell'altro alcuna cosa: se non che da ivi a pochi dí essendo li due boattieri con la quistione dinanzi al detto officioe rovesciandosi quasi la cosa addosso a quello che avea donato il bue; e li compagni diceano a quello da piú dell'officio:
- Ciò che te ne parequello parrà a noi.
E quelli stava chetoe non facea parola. Colui che avea dato il bue a costuiche stava mutoloaspettando da lui avere soccorsoe vedea che non dicea parolaesce fuori con la vocee dice:
- O che non favellibue?
E quei risponde:
- Perché la vacca non mi lascia.
L'uno si volge di qua e l'altro di là.
- Che vuol dire quello che costui ha detto?
E domandandoloe' diede loro a credere che dicea a sé medesimo; e l'officialeche avea detto della vaccadisse loro che gli era uno proverbioche sempre questi mercatanti di bestie usavano quando aveano quistioneponendo nome a chi avea il migliore della quistionebuee a chi avea il peggiorevacca.
Avvenne poicome che s'andasseche quello della vacca vinse il piato; forse ne fu cagione che la vaccaquando fu donataera pregnae in quel tempo che si diede la sentenziafece un vitello.
Ora cosí spesse volte gli animali inrazionali sottopongono quelli che sono razionalia confusione di molti comunidove non si può aver ragionise leprio capriuolio porci salvatichi non compariscono. E io per meveggendo questa gelosa consuetudinefarei innanzi un mio figliuolo cacciatoreche legista. E non dirò quello che seguitaper vantarmi d'averlo detto per grandissima virtúma averlo detto come uomoaiutato da maggiore signore; ché la parola non fu miama sua. Io era podestà d'una terra dov'io descrissi le predette novelle; e venendo uno terrazano di quella a domandare di grazia alcuna cosala qualeavendola fattaera e mia disgrazia e mia vergognaio gliela negaie non la feci.
Partitosi costui da medisse alcuno:
- Messer lo Podestàvoi avete perduta una lepre; però che colui che non avete servito in quella sua domandaè uno buon cacciatoree avea disposto di mandarve una leprese voi l'aveste servito.
E io risposi:
- Se mi avesse data la lepreio l'arei mangiata e patita; ma la vergogna non si sarebbe mai patita.
E cosí è veramentecome che io mi confesso essere in ciò peccatore come gli altri; ma egli è una gran miseria che una piccola cosache all'appetito diletti e dura un attimoe subito è corrottasottoponga e vinca la ragione d'onoreche dura sempre. Ora ne cogliesse e incontrasse a tutticome incontrò a quel mercatante che donò il bue: e a chi o per avarizia o per gola sottopone la ragionegiú pel palato fusse saziato con quello fu saziato Crasso.


NOVELLA LXXVIII

Ugolotto degli Agli si lieva una mattina per tempoed essendoli poste le panche da morti all'usciodomanda chi è morto égli risposto che è morto Ugolottoonde ne fa gran romore per tutta la vicinanza.

E’ non è vent'anni che fu un Ugolotto degli Agli nella città di Firenzeil quale era magroasciutto e grandee avea bene ottant'anni; e sempreperché era uso nella Magnavolea favellar tedesco; e sempre gli dilettò tenere sparviereed era pauroso della morte piú che altro uomo. E come spesso avvieneche nelle gran terre è di nuovi uominicosí fra gli altri unoche avea nome... del Riccovocato Ballerino di Ghiandaandò una notteché spesso andava attornoe picchiò l'uscio d'Ugolotto. Ugolottoche avea la camera sopra l'usciosi destòe levatosisi fece alla finestra. Ballerino tirasi a drietoe Ugolotto dice:
- Chi è la?
Dice Ballerino:
- Sete voi Ugolottovoi?
Dice Ugolotto:
- Sísono.
Dice Ballerino:
- Sia col malannoe con la mala pasquache Dio sí vi dia.
Dice Ugolotto:
- Aspetta un pocoaspetta un poco -; e piglia una sua spada rugginosa e anticae scende giú per la scalapercotendo sí la detta spada che Ballerino l'udisseacciò che si fuggisse.
Ballerinoche ogni cosa udíae sentiasi bene in gambesi fermae aspetta quello che Ugolotto dee fare. E cosí Ugolotto apre l'uscioe stropiccia la spada al muro.
- Chi è la? ove se'ladroncello?
Ballerino comincia a latrareo baiare come un canee fare come quando al cane sono tirati gli orecchi. Ugolotto fassi innanzie dice:
- Aspetta un pocoaspetta -; e colui fassi in drietoe continuo l'aizzavatanto facendo cosí che la famiglia d'uno esecutoregiunto di poco in officiosopravvenne. Ballerinoche era bene in gambelevala; e Ugolotto con la spada riman presoed ènne menato a furore. E giunto a Palagio l'esecutore domanda; la famiglia dice che 'l trovorono fuori con la spada gnuda. Parve all'esecutore una nuova cosae subito il volea mettere alla collase non che uno gli disse:
- Costui è vecchiocome vedete; lasciatelo stare di qui domattinae saprete la verità.
E cosí fecee con tutto che lo esecutore udisse quello per che Ugolotto era uscito di casa con la spadanon c'era modo (però che egli era de' grandie 'l detto esecutore è sopra loro con gli ordini della Justizia) che non lo volesse condennare per turbare il pacifico stato. Alla per fine con molte preghiere se ne levò e fece pagare al detto Ugolotto per la spada lire cinquantadue e mezzo; e tornossi a casarammaricandosiquando in latino e quando in tedescodi questa noia a lui fatta e della sventura che gli era occorsa. Ma egli stette poco che gl'intervenne peggio che peggio.
L'altra mattina seguente fu andato alla campana da casa Tornaquincidove sempre stanno beccamorti alla bottega d'uno spezialee appena che si vedesse lumefu bussatoe detto che mandassino a casa gli Agliche era morto Ugolotto; quanto iocredo che costui fusse anco Ballerino di Ghiandao Pero del Miglioreche con lui usava.
Come i beccamorti sentirono questosubito furono prestie mandorono a spazzare a casa gli Agli e porre le panche.
Ugolottolevandosi per tempoperò che non potea dormire per la malenconia delle lire cinquantadue e mezzo che avea pagategiugne all'uscio per uscir fuorie veggendo queste panche postedice a quelli che le poneano:
- O chi è morto?
E que' rispondono:
- E morto Ugolotto degli Agli.
E Ugolotto dice:
- Comediavolmorto Ugolotto degli Agli! ècci piú Ugolotto di me?
- Noi non ne sappiamo nulla- rispondono coloro- né conosciamo Ugolotto; noi facciamo quello che c'è detto.
Ugolotto grida:
- Portate via le pancheche siate mort'aghiado.
Costoro senza toccarle se ne vannoe diconlo a' beccamorti; li qualiciò uditone vanno làe come veggono Ugolotto nella viatutti spaventano:
- Che vuol dir questo?
E Ugolotto fassi incontro a loroe dice:
- Qual Ugolotto è mortoche siate tagliati a pezzi? per lo corpo di Dios'io fussi giovanecome già fuiche voi non faresti mai metter piú panche ad uomo che morisse.
Quelli diceano:
- Voi avete ragione; se colpa ci èell'è di chi cel venne istamane a dire.
- O chi fu? - dice Ugolotto.
Dicono coloro:
- Egli era sí per tempo che noi non lo potemmo scorgere.
Dice Ugolotto:
- Serà stato un ladroncelloche mi fece pagare ieri lire cinquantadue e soldi dieci.
Dicono quelli:
- E se voi il sapetenon ne riputate noi.
Dice Ugolotto:
- Io non lo sochi fosse non posso sapere; ma io me n'andrò testeso all'esecutore -; e messosi in viacosí fece.
I beccamortiche aveano tese le panche per beccaresanza alcun utile se le riportorono a casa; ed Ugolotto si dolse allo esecutoree del primo caso e del secondo. L'esecutoreavendo la cosa scortafra sé medesimo ne cominciò a pigliar diletto; e voltosi a Ugolottodisse:
- Gentiluomoavvisiti tu di nessuno che queste cose ti faccia?
Dice Ugolotto:
- Io non mi posso immaginare chi sia.
Disse l'esecutore:
- Pensaci susoe se nessuno indizio mi darailascia fare a me.
Ugolotto disse di farloe partissipensando e ripensandotanto che per lo pensare e la vecchiezza e' stette buon pezzo che parea tralunato; e nella fine si diede pacee innanzi che passassino quindici mesile panche si posono da doveroe fussene fuori.
Perché questo Ugolotto era ubbioso di temer la morteperò trassono nuovi uccelli aver diletto di lui. E veramente ella fu cosa da un suo parida darsene e pena e fatica; e a quelli che 'l fecionofu il contrario; ché se fussi stato un uomo paziente dovea lasciare andare e ridersenee al pagare de' beccamorti se n'avrebbe riso anco elli.


NOVELLA LXXIX

Messer Pino della Tosaessendo a uno corredo in casa di messer Vieri de' Bardiha una quistione con uno cavalieree messer Vieri l'assolve e fa rimanere il cavaliere contento.

Al tempo che messer Vieri de' Bardi vivea a un suo corredo andorono a mangiar con lui molti notabili cittadini cavalieritra' quali fu messer Pino della Tosauomo grandissimo della nostra città. Il quale messer Pino con un altro cavaliere vennono a ragionare de' fatti di Firenze; ed è vero che 'l detto messer Pino sempre cavalcava una mulala quale avea tenuta gran tempo. E cosíragionandodi parole in parolevennono in una questioneche 'l cavaliere dicea:
- Con quante barbute si correrebbe Firenze?
Dicea messer Pino:
- Correrebbesi con duecento.
Dicea il cavaliere:
- Non si correrebbe con cinquecento.
E messer Pino rideae dicea:
- E’mi darebbe cuore di correrla con centocinquanta.
E l'altro se ne facea beffee dicea cose assaivolendo tener fermo el numero suo. Abbattessi messer Vieri alla detta questionee dice:
- Di che contendete voi?
- Contendiamo cosí e cosí.
Dice messer Vieri:
- Che dice messer Pino?
Risponde il cavaliero:
- Dice che correrebbe Firenze con centocinquanta barbute.
Dice messer Vieri:
- Io l'ho molto per certoche correrebbe Firenzee con assai minor quantitàperò che egli ha fatto via maggior fattoche l'ha signoreggiata con una mula già fa cotant'anni -; e contò un gran numero.
Gli altri cavalieriche questo udironodissono veramente che messer Vieri avea dato buon judizioe che egli credeano che per la ragione che messer Vieri avea dettanon che messer Pino corresse con centocinquanta lance Firenzema che la correrebbe con un asinoquando elli volesse.
E oggi si può molto piú credere questa novellaperò che sono assaiche senza cavalloo asinoe senza correrlala signoreggiano; e ancora dirò una cosa piú forteche la signoreggiano senza fare iustizia.


NOVELLA LXXX

Boninsegna Angioliniessendo in aringhiera bonissimo dicitoresu quella ammutola come uomo balordoe tirato pe' pannimostra agli uditori nuova ragione di quello.

Anticamente nella città di Firenze si ragunava il consiglio in San Piero Scheraggioe ivi si ponea o era di continuo la ringhiera; di cheessendo nel detto luogo ragunato una volta il consiglio ed essendo fatta la propostacom'è d'usanzaBoninsegna Angiolinisavio e notabile cittadinosi levòe andò su la ringhierae cominciando il suo dire bene e pulitamentecom'era usocome fu a un passo dove conchiudere dovea quello ch'egli avea dettoe quel subitocom'uomo aombratonon dice piú; ma sta su la ringhiera buona pezzae alcuna cosa non dicea. Maravigliandosi gli uditorie spezialmente gli signori Priori che erano di rincontro a luimandorono un loro comandatore a Boninsegna a dirli che seguisse il suo dire; e 'l comandatore subito va appiè della ringhierae tirando Boninsegna pel gheronedice per parte de' Signoriche segua il suo dire. E Boninsegnaun poco destatosidice:
- Signori mieie savi consiglieriio venni in questo luogo per dire il mio parere su le vostre propostee cosí avea fatto insino che io giunsi al passo dov'io ammutolai. E dicoviSignoriche non che io mi ricordi di cosa che io dovessi direma io sono quasi uscito di me medesimoveggendo i goccioloni che in quello muro che m'è dirimpetto sono dipinti; ché per certo e' sono i maggiori goccioloni che io vedessi mai. E ancora c'è peggioche morto sia a ghiado il dipintore che gli dipinseche dovett'esser forse Calandrino che fece loro le calze vergate e scaccate; sappiateSignorichi mai portò calze cosí fatte? di che io vi dicoSignoriche mi si sono sí traversati nel capoche se non escononé ora né mai non potrò dire cosa che io voglia.
E scese della ringhiera.
A' Signori e a quelli del consiglio parve questa nuova cosae ciascuno ridendo guatava quelli goccioloni. Chi dice:
- O bene! non è egli una nuova cosa a vederli?
L'altro dicea:
- Io non vi posi mai piú mente; chi sono elli?
L'altro dicea:
- E’ si potrebbe dire di quelleche disse una volta uno Sanese sul campo di Siena. Passando unoche era vestito mezzo bianco e mezzo nerotutto da capo infino a piedeeziandio coreggia e scarpette; e l'uno disse: "Chi è quello?"e 'l Sanese rispose: "E’ tel dice"; io non so chi costoro sianoma e' tel dicono.
L'altro dicea:
- E’ sono profeti.
E l'altro dicea:
- E’ sono patriarchi
Come che si siae' sono lunghissimicome ancora oggi si vededallo spazzo insino al tetto; e considerandogli ciascunocome gli considerò Boninsegnaforse che quello che intervenne a lui interverrebbe a molt'altrie spezialmente veggendogli con le calze vergate e scaccate.
E però veramente al dicitoreche ha a dire bene alcuna cosanon gli conviene avere l'animo né il pensiero se non solo a quello che dé' direperò che ogni piccola cosache viene alla mente fuori della sua dicerialo impedisce per forma che spesse volte rimane in su le seccheed è incontrato già a perfetti dicitori.


NOVELLA LXXXI

Uno Sanesestando da casa i Rossi in Firenzeavendo prestato danari a uno di lorova dov'e' giuoca e coluiveggendoloe avendo vintocomincia a biastemaree 'l Sanese dice che non gli de' dar nulla.

Nel tempo che molti gentiluominiavendo perduta la signoria di Sienafurono confinati molti di loro chi qua e chi làfu confinato tra gli altri uno Nastoccio o Minoccio de' Saraciniil quale tolse una casa a pigione da casa i Rossi; e là dimorandoera usantecome sono li Sanesied era giucatore di tavole bonissimo. Aveva prestato costui a un Borghese de' Rossi circa fiorini diecied era passato ben due mesi che riavere non gli potea. Ora questo Saneseessendo da alcuni vicini invitato di beredice l'uno:
- Io ho fatto venire un fiasco di vino di villaandianne a bere.
Dice il Sanese:
- Per lo santo sangue di Dioche non potrebbe esser buono Iddiose fusse in fiasco; e ancora si laverebbe prima un ventre che un bicchiere casereccio: andiàncene alla tavernaché è qui presso un buon vino al Canto a' quattro paoni.
La brigataudendo li piacevoli motti del Sanesenon seppono disdire. Andarono a bere con lui alla taverna; e avendo quasi beúto quello che piacea lorovenne un suo compagno a dirli che colui che gli dovea dare dieci fiorini giucava a tavole da casa i Gucciardinie che avea vinto ben trenta fiorini. Udendo il Sanese questodisse a' compagni:
- Dehandiamo di quassú dal pozzo Toscaneglie torneremo in giú verso il ponteché m'è detto che 'l tale giuocae ha vinto; forse mi renderà dieci fiorini.
Mossonsidicendo:
- Fa' la via a tuo sennoe noi seguiremo.
E cosí andandocome costui si venne appressandoe Borgheseveggendolocomincia adirarsi e percuotere le tavolecome se mai non avesse vinto; e come il Sanese gli fu pressopiú mostrava Borghese l'iravolgendo il viso al cieloe biastemando tutta la corte del paradiso.
Giunto il Sanesee veggendo gli atti dolorosi di Borghesee immaginando che ciò facea ad arteper non aver materia di pagaredice a Borghese:
- Ciòenon biastemaretu non mi dee dare cavelle.
Borghese col busso delle tavolee col furorefece orecchi di mercatanteonde il Sanese s'andò con Diocon intenzione di non addomandarli e di non averli mai.
Avvenne da ivi a certi dí che Borghesegiucando e avendo perdutovolea accattare denaried essendovi il Saneselo richiese di prestanzadicendo:
- Io ti debbo dare dieci fiorini; prestamene cinquee fieno quindici.
Il Sanese risponde:
- A me non déi tu dar cavelle.
Dice Borghese:
- Come? Io ti debbo pur dar dieci fiorini; al corpo e al sangueche io te gli darò domane.
Il Sanese dice:
- Io ti dico che non debbo avere da te nulla.
E colui pur rimettesi. E 'l Sanese mai non disse altroche:
- A me non déi tu dare cavelle.
E cosí si rimase la cosa; e non credo che mai gli riavesse; ché se quel gentiluomo de' Rossi avesse aúto conoscimentose non gli dovesse mai aver renduti al Sanesegli dovea rendereper la piacevolezza delle parole usate verso lui.


NOVELLA LXXXII

Uno Genovese quasi uomo di corte per una festa che si fa a Melanogiugne dinanzi a messer Bernabòil qualevolendo vedere come sostiene al bereil fa provare con un gran bevitore suo famiglio; e 'l Genovese il vince.

Quando messer Marco Visconti primogenito di messer Bernabò menò la donna sua che avea nome madonna Isabetta della casa di Bavierao di quelle maggiori della Magnacapitò a questa cortecom'è d'usanzauno Genovese piacevolissimoed era come uno uomo di cortebevitore era grandissimo e mai il vino non gli facea noia. Avvenne che costui andò a vicitare messer Bernabòe stando dinanzi a lui inginocchionie dicendo sue novellee messer Bernabòconsiderandocome colui che conoscea gli uomini all'alitoil lasciò star piú d'un'orache mai non disse che si levasse. Alla per finedolendo al Genovese le ginocchiada sé stesso si levòdicendo:
- Signor mioio non posso piú stare inginocchioni.
Il signore guarda costuie dice:
- Tu déi essere uno obbriaco.
Dice il Genovese:
- Io non sono obbriacoSignore; ma beo volentieri.
Dice messer Bernabò:
- Se tu bei cosí volentierivuo' tu bere a prova con un mio famiglio?
Dice il Genovese:
- UtinamDomine.
Dice messer Bernabò:
- Aspetta un poco -; e fa chiamare il bevitore suo.
Il qualsubito fu dinanzi a luidice il signore:
- Vien za; vuo' tu fare a prova di bere con costui?
E quegli risponde:
- Signorevolentiera.
- Or mo via- dice il signore- qualunche vinceràio gli farò un dono com'io crederrò che lo meriti; e colui che perderàconverrà che bea dodici tratti della mia malvasía.
- Sia con Dio- dissono i bevitori.
Allora il signore dice a' servi:
- Andà addurre uno boccale d'Orlando.
E vannoe recono uno quarto di un vino biancoo di Cretio donde che si fosseche era sí grande che pochi uomini erano che n'avessono beúto tre volte che non rimanesseno ammazzati. E perché questo vino era cosí grandee cosí vincea ciascunoe però il signore il chiamava Orlando. Oraapparecchiato il vinoe molti bicchieri lavatidice il signore:
- Pigliàve per la manoe cominciate a ballare.
E quelli cosí fanno. E 'l signore gli chiamae dice:
- Date bere a ciascuno tre muiuoli.
E cosí feciono; poi gli facea ballare. Il Genovese ballava molto piú destro.
Chiamatigli la seconda voltadice:
- Date sei bicchieri a bere a ciascuno.
E cosí beono: poi fa loro ripigliare il ballo.
Il Genovese saltache parea un beccherello. Il bevitore di messer Bernabò comincia a innaspare da piede. Sono chiamati la terza voltae dato nove bicchieri per uno; ripigliano il terzo ballo. Il Genovese fa scambiettilanciandosi in alto piú destro che se fosse stato una lontra; il bevitore del signore non si poteva azzicaree andava a ondecome se fosse in fortuna. La quarta volta beve il Genovese dodici bicchieri; quel del signoreche era nell'altro mondoappena gli poté bere; pur gli bevvesforzandosi quanto poteo.
Ed entrando nel quarto ballonel quale il Genovese facea cose maravigliosel'altro ogni passo era per caderee nella fine cadde in terra disteso. Com'elli caddeil Genovese a cavalcioni li salí addosso; e pregò il signore che lo dovesse far cavaliere in sul corpo di quello obbriaco; e 'l signore disse che lo meritava benee fecelo cavaliere in su l'ubbriaco.
Fatto cavaliereil Genovese guarda il signoree dice:
- Con vostra licenzavolete voi che io facci lui cavaliere bagnato sí come merita?
Dice il signore:
- Fa' ciò che tu vuogli.
Il Genovese mette mano alle brachee scompisciò l'obbriaco con piú orina che non avea beúto malvagíache ne avea bevuto trenta bicchieri; e scompisciato che l'ebbecol mazzapicchio gli dié tale in su la gota che s'udí come se fussi stata una gran gotatae disse:
- Questa è la gotata ch'io ti do; e voglio che per mio amore tu abbi nome messer Cattivo.
E cosí fu sempre chiamato.
Quando messer Bernabò ebbe assai di queste cose risofece portare il corpo di messer Cattivo dal cortiledov'erano le stalle de' cavalli suoie feciolo gittar su un monte di letamedicendo:
- Tu l'hai fatto cavalier pisciatoe io lo farò cavalier sconcacado; e teche meriti d'avere onorevoglio che sia a mia provvisione per quello che tu domanderai (e fa venire due bellissime robbee donògliele)e come tu hai battezzato lui messer Cattivoe io voglio battezzar te messer Vinci Orlando.
E cosí fu sempre chiamato.
A cui vien fatta una cosa o bella o laidadinanzi a un signorequando è ben dispostoli vien ben fattocome venne a questo Genovese: ma a molti è incontrato già il contrarioperché l'animo d'un signore parrà talora chetoe tra sé medesimo combatte con diverse genti e in diverse parti. Piú sicuro sariaa chi 'l può faredi non s'impacciaree non sarà impacciato.


NOVELLA LXXXIII

A Tommaso Baronciessendo de' Priorisono fatte da' Priori tre piacevoli beffe.

Essendo de' Priori ne' loro tempi Marco del Rosso degli Strozzie Tommaso Federighie Tommaso Baroncie altriavvennecome spesso intervieneche volendo pigliare il detto Marco e Tommaso Federighi alcuno piacere d'alcuno de' compagniebbono procurato Tommaso Baronci esser quello di cui gran piacere si potea pigliare. Essendo il detto Tommaso Baronci Propostouno suo paio di scarpette co' becchetti grosse (essendo andato al letto) gli arrovesciorono una sera; e la mattinalevandosie sonando in fretta a' collegimettendosi le dette scarpette al buioessendo sollecitaton'andò nella udienza; e là postosi a sederestatovi gran pezzatanto che tutti i collegi v'eranoMarco guardando a' pie' di Tommasodisse:
- Che è questo Proposto? Vuo' tu andare a cacciare con coteste scarpette?
Quelli guatale e dice:
- Come! che mala ventura è questa? Elle non paiono le miabenché io non le veggo benese io non ho gli occhiali.
E cavossi gli occhiali da latoe misseselie con essi si chinava quanto poteafacendosi verso la finestra; ciascun guatava che scarpette son quelle.
Dicea Tommaso:
- Elle non sono le miech'ell'aveano i becchettie queste non l'hanno.
Alla per fine se n'andò alla camera suae là se le cavòe guata e riguata; il Toso famiglioche v'era presentedisse:
- Tommasoqueste scarpette sono state arrovesciate -; e mostrògli i becchettich'erano dentro.
Dice Tommaso:
- Tosotu di' vero; che serebbe stato questo?
Quel rispose:
- Io non so; il meglio che ci sia è dirizzarle.
E tra egli e 'l Toso ebbono che fareanzi che l'avessino addirizzateben insino a terza; e pur si passò Tommaso senza darsi piú briga. Marco e Tommaso il dí medesimo feciono un altro giuocoche gli fororono l'orinaledovestando in sul letto rittoorinava la nottee riposonlo nel luogo suo; e la sera a cenaessendo su la mensa di molti capponi arrostoTommaso Baroncicome Propostodiede uno cappone al Tosoe disse:
- Va'mettilo nella cassa mia; e domattina il porterai alla Lapa- cioè alla moglie.
Toso cosí fece. Marcoe Tommaso Federighiveduto questoquando ebbono cenatosegretamente feciono pigliare una gatta di quelle della casae tolto il capponeche era nella cassavi missono la gattae dentro ve la serrarono. E cosí disposto e l'orinale e la gattaaspettarono il tempo che la detta loro faccenda ordinata venisse a quel fine che desideravono.
Andatisi al letto tutti li signorisu la mezza notte e Tommaso si rizza sul lettopigliando l'orinalefacendo quello che era usato. Marcoche era destodice:
- O Propostotu ci desti ogni notte con questo tuo orinare.
Tommaso stillava su per lo lettoe fece orecchi da mercatantee appiccando l'orinale s'avvide ogni cosa esser ita su per lo lettoe colicandosiappena trovò un poco d'asciutto. Levandosi la mattinavenendo il Toso ad aiutarlo vestiredice Tommaso:
- Toso mioio sono vituperatoe non so che mi fare; la cotal cosa m'è intervenuta; l'orinale mostra che sia rotto; istanotteorinandovi entrocom'io sogliotutta l'orina è ita per lo lettoe se i miei compagni veggonodiranno v'abbia pisciato.
Disse il Toso:
- Io v'ho detto piú volte che sarebbe meglio uscire un poco fuore del lettoperò che 'l vetro scoppia molte voltee spezialmente per l'orinae ciò che v'è dentro s'esce di fuori.
Dice Tommaso:
- Ben la pisceremo! o perché terre' io l'orinales'io dovesse uscir del letto?
Dice il Toso:
- E’ mi pare che ci sia pisciato troppo: - e stende il copertoio - eccoio porterò le lenzuola a casa vostrae dirò che me ne dia un altro paio.
Dice Tommaso:
- Non fare; se la Lapa le vedesse cosí conceio non arei poi pace con lei; ma fa' com'io ti dirò: portera'le a casa tuae da'le a qualche feminettache le lavi in acqua fresca e asciughilee non dire di cui sianoe poi le porterai a casama fa' che oggi siano asciuttee poi le porteraie allora vorrò che porti il cappone.
E Toso cosí feceche portò le lenzuolae fecele lavaree subito le pose ad asciugaree asciutte che furonoel Toso le rapportò a Tommasoil quale el commendò della sollecitudine che aveva aútadi far fare un bucato senza fuocoe disse:
- Vie' quaandiamo per quel capponeche la Lapa è una donna diversae s'ella dicesse nulla delle lenzuolaveggendo il capponesi rattempererà un poco.
E cosí ragionando Tommaso col Tosogiunsono alla camerae Tommaso aprendo la cassadov'era il capponee la gatta schizza fuorie dàgli nel petto; il quale impaurito lascia cadere il coperchioe fuggesi fuori tutto smarritoche quasi era per perdersi affatto. Marcoe l'altro Tommasopasseggiavano di rincontro per vedere a che la novella dovesse riusciree giunti dov'era Tommasodicono:
- Che avestiche tu fuggisti fuor della camera?
Dice Tommaso:
- Io credo che fusse il nimico di Dio; e serà stato quello che m'arrovesciò le scarpette.
Disse il Toso:
- A me parve egli una gatta.
Disse Tommaso:
- Benche fu gatto maschio: e' mi parve tre cotanti che una gatta.
Disse il Toso:
- Andiamo alla cassae datemi il capponech'io il porti.
E tornano ad aprirla; e apertalasul tagliere non era alcuna cosa.
Dice Tommaso:
- Oimè! che 'l Toso arà detto il veroch'ella s'ha manicato il cappone.
Dice Marco e 'l compagno:
- Onde v'entrò la gatta? ha la cassa gattaiuola?
E 'l Baroncio trae fuora le masseriziee guatando dice:
- Io non ci veggo né gattaiuolané buca.
Dice Tommaso Federighi:
- E’ m'avvenne una voltach'io fui de' signoricom'orasimil caso; e brievementequando io mandai il famiglio col tagliereche 'l mettesse nella cassauna gatta v'era entro a dormire: e' non se n'avveddee mangiossi quello ch'era sul taglieree poi se n'uscí in questa forma che questa.
- Mala venturache cosí nuova fortuna non m'avvenne mai piúe credo che da ieri in qua sia dí ozíaco per me. Or eccoio non credo mai compiere questo officio che io ritorni alla Lapa miache con lei non ho mai paura; e qui ci starò oggimai con gran temenzaperò che io credo che tra queste camere sia qualche mala cosa.
Vo' dite pur: gattagatta: arrovesciommi la gatta le scarpettee anco altroche fu peggio?
Dice Marco:
- E’ può ben essere: a cotesto vagliono molte orazioni e paternostri; abbine consiglio con questi maestri in teologia.
E mandò tre dí per certi teologhili quali li dierono consiglio ch'egli orasse e dicesse paternostri otto dí dalle quattro ore insino a mattutino; e questo consiglio fu fattura de' due compagni.
Il detto Tommasocome invilito dalla pauracosí fece che otto notti quasi non dormíarmandosi con molti paternostriacciò che 'l nimico non entrasse piú nella cassae scemato quaranta libbrefiní l'officioe tornossi alla Lapanelle cui braccia prese gran sicurtàdicendole che non volea mai piú esser de' Prioriperò che 'l demonio era in quelle cameree a lui avea fatto le cose scritte di sopraraccontandogliele a una a una: e con questa credenza stette finché visseche fu poco.
Per le simplicità di molti si muovono spesso de' savi a fare cose da trastulliper passar tempo; ché benché gli uomini siano signoriperché spesso hanno malinconiepare che non si disdica fare simili cose per sollazzare la mente.


NOVELLA LXXXIV

Uno dipintore sanesesentendo che la moglie ha messo in casa un suo amanteentra in casa e cerca dell'amicoil quale trovando in forma di crocifissovolendo con un'ascia tagliarli quel lavoríoil detto si fuggedicendo: "Non scherzare con l'ascia".

Fu già in Siena uno dipintoreche avea nome Minoil quale avea una sua donna assai vanaed era assai bellala quale un Sanese buon pezzo avea vagheggiatae anco avea aúto a fare con leie alcuno suo parente piú volte gliel'aveadettoe quel nol credea. Avvenne un giorno cheessendo Mino uscito di casaed essendo per alcuno caso andato di fuori per vedere certo lavoríosoprastette la notte di fuori. L'amico della donnadi ciò avvisatola sera andò a stare con la moglie del detto dipintore a suo piacere. Come il parente sentí questoche avea messo le spie per farnelo una volta certosubito andò di fuori dove Mino erae tanto fece chedicendo per certa cagione dovere andare e tornare dentrofu mandato uno con le chiavi dello sportello: e questo parenteuscendo fuorilasciò quello delle chiavi dello sportello che l'aspettassee andò a Minoel quale era a una chiesa presso a Siena; e giunto là disse:
- Minoio t'ho detto piú volte della vergogna che mogliera fa a te e a noie tu non l'hai mai voluto credere; e peròse tu ne vuogli esser certovienne testeso e troverra'loti in casa.
Costui subito fu mosso e intrò in Siena per isportello; e 'l parente disse:
- Vattene a casae cerca molto beneperò checome ti sentiràl'amico si nasconderàcome tu déi credere.
Mino cosí fecee disse al parente:
- Dehvienne meco; e se non vuogli entrare dentrostatti di fuori.
E quel cosí fece.
Era questo Mino dipintore di crocifissi piú che d'altroe spezialmente di quelli che erano intagliati con rilevamento; e aveane sempre in casatra compiuti e tra maniquando quattro e quando sei; e teneaglicom'è d'usanza de' dipintoriin su una tavolao desco lunghissimoin una sua bottega appoggiati al muro l'uno allato all'altrocoperti ciascuno con uno sciugatoio grande; e al presente n'avea seili quattro intagliati e scolpitie li due erano piani dipintie tutti erano in su uno desco alto due bracciaappoggiati l'uno allato all'altro al muroe ciascuno era coperto con gran sciugatoi o con altro panno lino. Giugne Mino all'uscio della sua casae picchia. La donna e 'l giovaneche non dormianoudendo bussare l'usciosubito sospettano che non fosse quello che era; e la donnasenza aprire finestra o risponderecheta cheta va a uno piccolo finestrinoo buco che non si serravaper vedere chi fosse; e scorto che ebbe essere il maritotorna allo amantee dice:
- Io son morta: come faremo? il meglio ci sia è che tu ti nasconda.
E non veggendo ben doveed essendo costui in camiciacapitorono nella bottega dov'erano li detti crocifissi.
Disse la donna:
- Vuo' tu far bene? sali su questo desco e pònti su uno di quelli crocifissi piani con le braccia in crocecome stanno gli altrie io ti coprirrò con quel panno lino medesimocon che è coperto quello; vegna cercando poi quanto vuole che io non credo che in questa notte e' ti truovie io ti farò un fardellino de' panni tuoi e metterògli in qualche cassatanto che vegna il dí; poi qualche santo ci aiuterà.
Costuicome quello che non sapea dove s'erasale sul desco e leva lo sciugatoioe in sul crocifisso piano si concia propriocome uno de' crocifissi scolpitie la donna piglia el panno lino e cuopreloné piú né menocom'erano coperti gli altrie torna a dirizzare un poco il letto che non paresse vi fusse dormito se non ella; e tolto le calzee scarpettee farsettoe gonnella e l'altre cose dello amantesubito n'ebbe fatto un assettato fardellino e mettelo tra altri panni. E ciò fattone va alla finestrae dice:
- Chi è?
E que' risponde:
- Apriio son Mino.
Dice quella:
- O che otta è questa? - e corre ad aprirli.
Aperto l'uscioe Mino dice:
- Assai m'ha' fatto starecome colei che se' stata molto lieta che io ci sia tornato.
Disse quella:
- Se tu se' troppo statoè defetto del sonnoperò che io dormiva e non t'udía.
Dice il marito:
- Ben la faremo bene.
E toglie uno lume e va cercando ciò che v'era insino a sotto il letto.
Dice la moglie:
- O che va' tu cercando?
Dice Mino:
- Tu ti mostri nuova; tu 'l saprai bene.
Dice quella:
- Io non so che tu ti di': sapera'tel pur tu.
Andando costui cercando tutta la casapervenne nella bottegadov'erano li crocifissi. Quando il crocifisso incarnato lo sente ivipensi ciascuno come gli parea stare; e gli convenía stare come gli altri che erano di legno; ed egli avea il battito della morte. Aiutollo la fortunaché né Mino né altri mai averebbe creduto essere in quella forma colui che era nascoso. Stato che Mino fu nella bottega un pocoe non trovandolos'uscí fuori. Era questa bottega con una porta dinanzila quale si serrava a chiave di fuoriperò che uno giovene che stava col detto Minoogni mattina l'apriva come s'aprono l'altree dalla parte della casa era uno uscetto làdonde il detto Mino entrava nella bottega; e quando ne uscía della bottega e andavane in casaserrava il detto uscetto a chiavesí che il vivo crocifisso non se ne poteva uscirese avesse voluto.
Essendosi combattuto Mino il terzo della nottee non trovando alcuna cosala donna s'andò al lettoe disse al marito:
- Va' tralunando quantunche tu vuogli; se tu ti vuogli andare al lettosí ti va'; e se nova' per casa come le gattequanto ti piace.
Dice Mino:
- Quand'io arò assai soffertoio ti darò a divedere che io non sono gattasozza troiache maladetto sia il dí che tu ci venisti.
Dice la moglie:
- Cotesto potre' dir'io: è biancoo vermiglio quello che favella?
- Io tel farò bene assapere innanzi che sia molto.
Dice quella:
- Va' dormiva'e farai il tuo miglioreo tu lascia dormir me.
Le cose per istracca si rimasono per quella notte; la donna s'addormentòe ancora egli andò a dormire. Lo parenteche di fuori aspettava come la cosa dovesse riuscirestandovi insino passata la squillase n'andò a casadicendo: "Per certoin tanto che io andai di fuori per Minol'amante se ne sarà andato a casa sua".
Levatosi la mattina Mino molto per tempoe ancora ragguardando per ogni buconella fineavendo assai cercatoaprí l'uscetto e venne nella bottega: e 'l suo garzone aperse la porta di fuori da via della detta bottega.
E in questoguardando Mino questi suoi crocifissiebbe veduto due dita d'uno piede di colui che coperto stava.
Dice Mino fra sé stesso: "Per certo che quest'è l'amico". E guardando fra certi ferramenticon che digrossava e intagliava quelli crocifissinon vidde ferro esser a lui piú adatto che un'ascia che era tra essi. Presa quest'asciae accostatosi per salire verso il crocifisso vivoper tagliargli la principal cosa che quivi l'avea condottocoluiavvedutosischizza con un saltodicendo:
- Non ischerzar con l'asce.
E levala fuori dell'aperta porta; Mino drietoli parecchi passigridava: "Al ladroal ladro"; colui s'andò per li fatti suoi.
Alla donnache tutto avea sentitocapitò un converso de' frati predicatori che andava con la sporta per la limosina per lo convento. Andato su per le scalecome talora fannodisse:
- Frate Pucciomostrate la sportae io vi metterò del pane.
Quegli la diede. La donnacavato il panevi misse il fardellino che l'amante avea lasciatoe sopra esso gittò suso il pane del frate e quattro pani de' suoie disse:
- Frate Puccioper amor d'una donna che recò qui questo fardellino dalla Stufadove pare che il tale ier sera andasseio l'ho messo sotto il pane nella vostra sporta acciò che nessuno male si potesse pensare; io v'ho dato quattro pani; io vi priego (ché egli sta presso alla vostra chiesa) quando n'andateche voi glielo diate a luiche 'l troverrete a casa; e ditegli che la donna della Stufa gli manda i suoi panni.
Dice Fra Puccio:
- Non piú! lasciate far me.
E vassi con Dio; e giugnendo all'uscio dell'amantemostrando chieder del panedomandava:
- Ècci il tale?
Colui era nella camera terrena; udendosi domandaresi fece all'uscioe dice:
- Chi è là?
Il frate va a luie dàgli i pannidicendo:
- La donna della Stufa ve li manda.
E colui gli dié duo panie 'l frate partissi. E l'amante considera bene ogni cosae subito ne va al campo di Sienae fu quasi de' primi vi fusse quella mattinae là facea de' suoi fatticome se mai tal caso non fusse avvenuto. Mino quando ebbe assai soffiatoessendo rimaso scornato del crocifissoche s'era fuggitone va verso la moglie dicendo:
- Sozza puttanache di' che io sono gattae che io ho beúto bianco e vermiglioe nascondi i bagascioni tuoi in su' crocifissi; e' convienne che tua madre il sappia.
Dice la donna:
- Di' tu a me?
Dice Mino:
- Anche dico alla merda dell'asino.
- E tu con cotesta ti favella- disse la donna.
Dice Mino:
- E anche non hai facciae non ti vergogni? che non so ch'io mi tegno che io non ti ficchi un tizzon di fuoco nel tal luogo.
Dice la donna:
- Non saresti arditos'io non ho fatto l'uomperché; ché alla croce di Dio! stu mi mettessi mano addosso non facesti mai cosa sí caro ti costasse.
Costui dice:
- Dehtroia fastidiosache facesti del bagascione uno crocifissoche cosí gli avess'io tagliato quello che io volea com'egli s'è fuggito.
Dice la donna:
- Io non so che tu ti beli: qual crocifisso si poté mai fuggire? non sono egli chiavati con aguti spannali? e se non fusse stato chiavatoe tu te ne abbi il dannose s'è fuggito però che egli è tua colpae non mia.
Mino corre addosso alla donna e cominciala a 'ngoffare:
- Dunque m'hai tu vituperato e anco m'uccelli?
Come la donna si sente dareche era molto piú prosperevole che Minocomincia a dare a lui; da' di quada' di làeccoti Mino in terra e la donna addossolie abburattalo per lo modo. Dice la donna:
- Che vuoi tu dire? Pigliala comunche tu vuoiche vai inebbriando di qua e di làe poi ne vieni in casa e chiamimi puttana; io ti concerò peggio che la Tessa non acconciò Calandrino: che maladetto sia chi mai maritò nessuna femina ad alcuno dipintoreché siete tutti fantastichi e lunatichie sempre andate inebbriando e non vi vergognate.
Minoveggendosi mal paratopriega la donna che lui lasci levaree ch'ella non gridiacciò che i vicini non sentinochetraendo al romorenon trovassino la donna a cavallo. Quando la donna udí questodice:
- Io vorrei volentieri che tutta la vicinanza ci fosse.
E levossi susoe cosí si levò Mino col viso tutto pesto; e per lo migliore disse alla donna che gli perdonasseché le male lingue gli avevano dato a creder quello che non erae che veramente quello crocifisso s'era fuggito per non essere stato confitto. E andando il detto Mino per Sienaera domandato da quel suo parente che l'avea indotto a questo:
- Come fu? come andò?
E Mino gli disse che tutta la casa avea cerco e che mai non avea trovato alcuno; e cheguatando tra' crocifissil'uno gli era caduto sul visoe avealo concio come vedea. E cosí a tutti e' Sanesi che domandavano: "Che è quello?" dicea che uno crocifisso gli era caduto sul viso.
Ora cosí avvenneche per lo migliore si stette in pace dicendo fra sé medesimo: "Che bestia son io? io avea sei crocifissi e sei me n'ho: io avea una moglie e una me n'ho; cosí non l'avess'io! a darmi brigapotrò arrogere al dannocome al presente m'è incontrato; e s'ella vorrà esser trista tutti gli uomini del mondo non la potrebbono far esser buona"; se non intervenisse già come intervenne a uno nella seguente novella.


NOVELLA LXXXV

Uno Fiorentino toglie per moglie una vedova stata disonestissima di sua personae con poca fatica la gastiga sí ch'ella diviene onesta.

Nella città di Firenze fu già unosecondo che io udi'che ebbe nome Gherardo Eliseiil quale tolse per moglie una donna vedova; la quale essendo disonesta e vana con l'altro maritoera stata tenuta assai cattiva di sua persona; e avea nome monna Ermellina. Oracome questo Gherardo tolse questa donna per mogliemolti suoi parenti e amicianzi che consumasse il matrimoniodicono:
- Gherardoche hai tu fatto? tu sei savioe hai tolto cui tu hai: che fama ti fie questa? - e molte altre cose.
Dice Gherardo:
- Io vi fo certi che io so chi costeiche io ho toltoè stata: e so ches'ella non mutasse modoio averei mal fatto; ma con la grazia di Dio io credo far sí che con meco ella non fia com'ella è statama fia tutto il contrario; e però di questo non ne prendete piú pensiero che me ne prenda io.
La brigata si strignea nelle spallee tra loro se ne facean beffedicendo:
- Dio ti dia bene a fare.
E cosí dopo alquanti dí monna Ermellina ne venne una sera a maritoe avendo cenatoed essendo l'ora d'andarsene al letton'andò alla cameralà dove Gherardo ancora si rappresentòcom'è d'usanza; e serratomonna Ermellinaaccostandosi al lecconecomincia a ragionare amorosamente col detto Gherardo; e Gherardo si comincia a spogliare in farsettinoe monna Ermellina in giubba. Ed essendo le cose tutte ben disposte a tal vicenda dalla parte di monna Ermellina dettae Gherardo esce dall'uno de' canti della camera con un bastone in manoe dàe dàe dà alla sposa novella. Costei comincia a gridaree quanto piú gridava e Gherardo piú bastonava. Quando ebbe un pezzo cosí bastonatoe la donna dicendo:
- Oimèfortunadove m'hai tu condotto? chésenza saper perchéla prima sera io sono cosí acconcia da colui con cui io credea aver sommo piacere; volesse Dio che io mi fosse ancora vedovaché io era donna di mee ora sono sottoposta in forma e a cui io non sarò mai piú lieta.
E Gherardo rifà il giuoco; e bussato insino dove vollee la donna dicendo pur: "Perché mi fa' tu questo?"; e Gherardo gli dice:
- Io non voglio che tu credaErmellinache io t'abbia tolta per moglie che io non abbia molto ben saputo che femina tu se' stata; e bene soe ho udito che costumi sono stati e' tuoi e quanta onestà è stata nella tua persona; e credo chese 'l marito che avesti t'avessi gastigata di quello che ora t'ho gastigat'ioqueste battiture non bisognavono. E però considerandoora che se' mia mogliegli tuoi passati costumi le tue disonestà e' tuoi vituperi non essere stati gastigatiioinnanzi ch'io abbia voluto teco consumare il matrimonioho voluto purgare ciò che tu hai fatto da quinci addietro con le presenti battiture; acciò checonsiderando tu se per li passati falli da te commessi quando non eri mia moglie io t'ho data disciplinapensa quella che io farò e che battiture serebbono quelle che da me averaise da quinci innanziessendo mia mogliedi quelli non ti rimarraie piú non ti dico: tu se' savia e 'l mondo e grande.
Brievementequesta buona donna si lagnò assaie avea di chefacendo scuse di quello che Gherardo dicea. Alla fine s'andò al lettoe non che quella nottema durante un mese o piú non gli giovò trovarsi col maritocome quella che era tutta pesta. Di tempo in temporabbonacciandosi con Gherardoqueste battiture ebbono tanta virtú checom'ella era stata per li passati tempi dissoluta e vanacosí da indi innanzi fu delle caredelle compiute e delle oneste donne della nostra città.
Oh quanti sono li dolorosi mariti che fanno cattive mogli! piú ne sono cattive per difetto de' mariti che per lo loro. Da' una fanciulla a uno fanciullo e lascia far loro. Che dottrina imprenderà ella dall'ignorante giovane? e quella via ch'ella pigliaper quella corre.
E non si truova sempre il bastone di Gherardo né quello che si conterà nella seguente novella.


NOVELLA LXXXVI

Fra Michele Porcelli truova una spiacevole ostessa in uno albergoe fra sé dice: "Se costei fusse mia moglieio la gastigherei síche ella muterebbe modo". Il marito di quella muore; Fra Michele la toglie per moglie e gastigala com'ella merita.

Passati sono circa a trent'anniche fu uno Imolesechiamato Fra Michele Porcelloil quale era chiamato Fra Michelenon perché fosse fratema era di quelli che hanno il terzo ordine di Santo Francescoe avea moglieed era un uomo malizioso e reoe di diversa maniera; e andava facendo sua mercanzia di merce per Romagna e per Toscana; poi si tornava ad Imolacome vedea che per lui si facesse. Tornando costui una volta tra l'altre verso Imolagiunse una sera a Tosignanoe smontò a un albergo d'uno che avea nome Ugolino Castroneil quale Ugolino avea per moglie una donna assai spiacevole e smancerosachiamata monna Zoanna: sceso che fu Fra Michel da cavalloe venendosi rassettandodisse all'oste:
- Fa' che noi abbiàn ben da cena; hai tu buon vino?
- Sí benevoi starete bene.
Disse Fra Michele:
- Dehfa' che noi abbiamo una insalata.
Disse Ugolino:
- Zoanna- chiamando la moglie- va'cògli una insalata.
La Zoanna torce il grifoe dice:
- Va'co' tela tu.
Il marito dice:
- Deh va' vi.
Ella risponde:
- Io non vi voglio andare.
Fra Micheleveggendo i modi di costeisi rodea tutto di stizza. Ancoraavendo Fra Michele voglia di beredice l'albergatore alla moglie:
- Deh va' per lo tal vino.
E porgeli l'orciuolo.
Dice madonna Zoanna:
- Va' tuche tornerai piú tostoe hai l'orciuolo in manoe sai meglio la botte di me.
Fra Micheleveggendo la spiacevolezza in moltissime cose di costeidice all'oste:
- Ugolino Castronetu se' ben castroneanco pecora; per certos'io fosse come teio farei che questa tua moglie farebbe quello ch'io gli dicesse.
Disse Ugolino:
- Fra Michelese voi fuste com'iofareste quel che fo io.
Fra Michele si consumava di nequiziaveggendo i modi fecciosi della moglie d'Ugolinoe fra sé stesso dicea: "Signore Iddiostu mi facessi tanta grazia che morisse la donna mia e morisse Ugolinoper certo e' converrebbe che io togliessi costei per moglieper gastigarla della sua follia". Passossi Fra Michele la sera come poteoe la mattina se n'andò ad Imola.
Avvenne che l'anno seguente in Romagna fu una mortalitàper la quale morí Ugolino Castrone e la donna di Fra Michele. Da ivi a parecchi mesicessata la pestilenzae Fra Michele adoprò tutti gl'ingegni ad avere per moglie madonna Zoanna; e in fine fu adempiuto il suo intendimento. Venuta questa buona donna a maritoe andandosi la sera a lettodov'ella si credea esser vicitata con quello che sono le novelle sposee Fra Michele che non avea sgozzato ancor la 'nsalata da Tosignanola vicita con un bastonee cominciagli a daree sanza restare tanto gli diede che tutta la ruppe; e la donna gridandoegli era nullaché costui gliene diede per un pastoe poi s'andò a dormire.
Da ivi a due seree Fra Michele disse ch'ella ponesse dell'acqua a fuocoche si volea lavare i piedi; e la moglieche non dicea: "Va'ponla tu"cosí fece; e poi levandola dal fuocoe messala nel bacinoFra Michele si cosse tutti e' piedisí era calda. Com'egli sente questonon dice: che ci è dato? ; rimette l'acqua nell'orciuoloe riposela al fuocotanto ch'ella levò il bollore.
Come questo fu fattotoglie il bacinoe mettevi l'acquae dice alla moglie:
- Va'siediche io voglio lavare i piedi a te.
Costei non volea; alla fine per paura di peggio le convenne volere. Costui lavala con l'acqua bollentela donna squittisce: "oimè"; e tira i piedi a sé. Fra Michele gli tira nell'acquae dàgli un pugno e dice:
- Tieni i piè fermi.
La donna dice:
- Tristaio mi cuoco tutta.
Dice Fra Michele:
- E’ si dice: "Togli moglie che ti cuoca"; e io t'ho tolta per cuocer teinnanzi ch'io voglia che tu cuoca me.
E brievementee' la cosse síche piú di quindici dí stette che quasi non potea andaresí era disolata. E un altro dí gli disse Fra Michele:
- Va' per lo vino.
La donna che non potea appena metter li piedi in terratolse la 'nghestarae andava a stento come potea. Com'ella è in capo della scalae Fra Michele di dietro gli dà un pugnodicendoli:
- Va' tosto -; e gettala giú per la scala; e poi aggiunge: - Credi tu che io sia Ugolino Castroneche quando ti disse: "Va' per lo vino"; e tu rispondesti: "Va'vi tu"?
E cosí questa donna Zoannacottalivida e percossaconvenía che facesse quello che quando ell'era sana non volea fare.
Avvenne che un dí Fra Michele Porcello serrò gli usci della casa per fare l'ottava con lei; questaavvedendosifuggí di soprae per una finestra d'in sul tetto se n'andò fuggendo di tetto in tettotanto che giunse a una vicina di Fra Michelealla quale venendognene pietàse la ritenne in casa; e poi alcuno e vicino e vicinavenendo a pregar Fra Michele che ritogliesse la sua donnae che stesse con lei come dovesseegli rispose che com'ella se n'era ita cosí ritornasse; s'ella se n'era andata su per le tettoraper quella medesima via ritornassee non per altra; e se ciò non facessenon aspettasse mai di ritornare in casa sua. La vicinanza sappiendo chi era Fra Michelefeciono che su per le tettacome le gattela donna ritornò al macello. Com'ella fu in casae Fra Michele comincia a sonare le nacchere. La donna macera e tormentatadice al marito:
- Io ti priego che innanzi che tu mi tormenti ogni dí a questo modosenza saper perchéche tu mi dia morte.
Dice Fra Michele:
- Poiché tu non sai ancora perché io fo questoe io tel voglio dire. Tu ti ricordi bene quando io venni una sera allo albergo a Tosignanoche tu eri moglie d'Ugolino Castrone; e ricorditi tu quando egli ti disse che tu andassi a cogliere la insalata per mie tu dicesti: "Va' vi tu"? - E su questagli diede un grandissimo pugno; e poi dice:
- E quando disse: "Va' per lo tal vino"; e tu dicesti: "Io non vi voglio andare"? - E dàgliene un altro.
- Allora me ne venne tanto sdegno che io pregai Iddio che desse la morte a Ugolino Castrone e alla moglie che io aveaacciò che io ti togliesse per moglie. Eglicome pietoso esauditore de' miei prieghigli mandò ad esecuzione; e ha fatto sí che tu se' mia moglieacciò che quello gastigamento che 'l tuo Castrone non ti davaio te lo dea io; sí che ciò che t'ho fatto infino a qui è stato per punirti de' falli e de' fastidiosi tuoi modiquando eri sua moglie. Or pensa cheessendo tu da quinci innanzi mia mogliese tu vorrai tener quelli modiquello che io farò; per certociò che io ho fatto fino a qui ti parrà latte e mele; sí che a te stia oggimaise tu con le prove e io co' bastoni e con li spuntonise bisognerà.
La donna disse:
- Marito miose io ho fatto per li tempi passati cosa che non si convegnatu m'hai ben data la pena. Dio mi dia grazia che da quinci innanzi io faccia sí che tu ti possa contentare; io me ne 'ngegnerò e Dio me ne dia la grazia.
Fra Michele disse:
- Messer Batacchio te n'ha fatta chiara; a te stia.
Questa buona donna si mutò tutta di costumicome s'ella rinascesse; e non bisognò che Fra Michele adoperassenon che le battiturema la linguach'ella s'immaginava quello che egli dovesse voleree non andandoma volando per la casae fu bonissima donna.

Io per mecome detto ècredo ch'e' mariti siano quasi il tutto di fare e buone e cattive mogli. E qui si vede che quello che 'l Castrone non avea saputo farefece il Porcello. E come che uno proverbio dica: buona femmina e mala femmina vuol bastone; io sono colui che credo che la mala femmina vuole bastonema alla buona non è di bisogno; però che se le battiture si danno per far mutare i cattivi costumi in buonialla mala femmina si vogliono dare perch'ella muti li rei costumi; ma non alla buonaperché s'ella mutasse li buonipotrebbe pigliare li reicome spesso intervienequando li buoni cavalli sono battuti ed aspreggiatidiventano restii.


NOVELLA LXXXVII

Maestro Dino da Olena medicocenando co' Priori di Firenze una seraessendo Dino di Geri Tigliamochi gonfaloniere di justiziafa tanto che 'l detto Dino non cenavolendo dar poi i confini al detto maestro Dino.

Dino di Geri Tigliamochi fu uno cittadino di Firenze mercatanteuso molto ne' paesi di Fiandra e d'Inghilterra. Era lunghissimo e magherocon uno smisurato gorgozzule; ed era molto schifo d'udire o di vedere brutturee per questofavellando mezzo la lingua di làavea un poco del nuovo. Essendo gonfaloniere di justiziafece invitare maestro Dino a cenae 'l detto maestro Dino era vie piú nuovo che 'l detto Dino. Essendosi adunche posti a tavolail detto gonfaloniere in capo di tavolae 'l maestro Dino allatoglie poi era Ghino di Bernardo d'Anselmoche era prioree forse componitore col maestro Dino di quello che seguí della presente novellaposta la tavolafu recato un ventre di vitella in tavola; e cominciandosi a tagliaredice il maestro Dino a Dino:
- Per quanto mangereste in una scodelladove fosse stata la merda parecchi mesi?
Dino guarda costuie turbatosidice:
- È mala mescianza a chi è mal costumato; porta viaporta.
Dice il maestro Dino:
- Che è questo che è venuto in tavola? è ancor peggio.
Dino sconvolge il suo gorgozzule:
- E che parole son queste?
Dice il maestro Dino:
- Sono secondo quello che è venuto in tavola per la prima vivanda: confessatemi il vero; non è questo ventre il vasello dove è stata la feccia di questa bestiapoi ch'ella nacque? E voi sete il signore che voi setee pascetevi di sí lorda vivanda?
- È mala mescianzaè mala mescianza; levate via- dice a' donzelli- e 'n fé del Criatore vo' non ci mangerè plus.
Dino infino a qui non mangiò né del ventrené alcuna cosa. Levata questa vivandavennono starne lesse; e maestro Dino dice:
- Quest'acqua delle starne pute -; e dice allo spenditore: - Dove le comperasti tu?
Dice lo spenditore:
- Da Francesco pollaiuolo.
E maestro Dino dice:
- Egli ne sono venute molte a questi díe alcuno mio vicino n'ha comperatecredendo siano buonepoi l'ha trovate tutte verminose; e queste fiano di quelle.
E Dino dice:
- È mala mescianzamala mescianzanell'ora mala a tanto scostume -; e dà la sua scodella al famiglioe dice:
- To' via.
Dice maestro Dino:
- E’ mi conviene pur pur mangiares'io voglio vivere; lascia stare.
E Dino in gotee non mangiae parea il Volto santo.
Levata questa vivandavennono sardelle in tocchetto. Dice il maestro Dino:
- Gonfalonieree' mi risovviene quando e' miei fanciulli erano piccoliche uscivano loro i bachi da dosso.
E Dino levasi:
– È mala mescianza a chi è mal costumato; per Madonna di Parigiche non m'avete lasciato mangiar stasera con sí laida maniera di parlare; ma per mie foi non verrete piú a questo albergo.
Maestro Dino ridea e pregavalo tornasse a tavolae non ci fu mai modoché se ne andò tra le cameredicendo:
- Nostro Signore vi doni ciattiva giornea; un poltroniere venuto in tal magionee tiensi esser gran maestro di musicae le sue parlanze sono piú da rubaldi che votono li giardini che da quelli che debbon dare esempli e dottrinecome doverrebbe dar elliche si può dire esser vecchio mal vissuto.
Ghino di Bernardoe gli altri signoriche di ciò avevono grandissimo piaceresi levarono da tavola e andorono dove Dino erae trovaronlo molto in gran mescianzae non voler vedere il maestro Dino; pur tanto fecionoche un poco si raumiliò: e maestro Dino con lui a' versitanto che si conciliò con lui. Ma poco duroeperò che stando un pezzoe maestro Dino volendosi partiredisse Ghino di Bernardo:
- Maestropigliate commiato da Dino e fategli reverenza.
E 'l maestro Dino piglia per la mano Dinoe dice:
- Messer lo gonfalonierecon la grazia vostradatemi licenzia -; e quel li porge la mano; e 'l maestro Dinopigliandolasubito si volgee mandate giú le brachea un tratto gli scappuccia il culo e 'l capo.
Or non piú; Dino si comincia afferrare:
- Pigliatelopigliatelo.
Ghino e gli altri diceano:
- O Dinonon gridate; anderemo nell'udienzae là faremo quello che fia da fare.
Maestro Dino dice:
- Signoriio mi vi raccomando che per aver fatta debita reverenza io non perisca -; e pur scendendo le scale si va con Dio.
Dinorimaso furiosola sera medesima va nell'audienzaraguna i compagnie mette il partitoché era Propostodi mandare uno bullettino allo esecutoree che 'l maestro Dino abbia i confini. Metti il partitoe metti e rimettinon si poté mai vincere. Veggendo Dino questocol gorgozzule gonfiato chiama li donzelli che facciano accendere i torchiché se ne volea andare a casa. Li compagni scoppiavono delle risae diceano:
- DohDinonon andare istasera.
E Dinobrievementenon rattemperandosin'andò a casae la mattina fu mandato per lui; e non c'ebbe mai modo che lo dí seguente tornasse in Palagio; tanto che uno de' signoricon uno carbonenella minore audienza ebbe dipinto nel muro proprio Dino con uno gorgozzule grandee con la gola lungache parea proprio desso. Essendo la sera di notteche Dino non era voluto tornare in Palagiovi mandorono li signori ser Piero delle Riformagionipregandolo dovesse tornare acciò che e' fatti del comune non remanessino senza governo; e ancora per provvedere che 'l maestro Dino fosse punito del fallo commesso. Dopo molte paroleDino si lasciò vincere e la mattina seguente tornò al Palagioe come sul dí giunse nell'udienza minoreebbe vedutoessendo con Ghino di Bernardo insiemeil viso ch'era stato dipinto nel muro; e guardando quellocominciò a soffiare: e Ghino dice:
- Dehlasciate andare queste cosenon ve ne combattete piú.
Dice Dino:
- Come diavolo mi di' tu questoche m'ha ancora dipinto in questo muro? E se tu non mi credivedilo.
Ghinoche scoppiava dentro sí gran voglia avea di rideredice:
- Comebuona venturavi recate voi a noia questo visoe dite che sia dipinto per voi? Questo fu dipintogià fa piú tempoper lo viso del re Carlo primoche fu magro e lungocol naso sgrignuto. E perdonatemiDinoche io ho udito dire a molti cittadini che 'l vostro viso è proprio quello del re Carlo primo.
Dino a queste parole diede fedee ancora si racconsolòsentendosi assomigliare al re Carlo primo: e stando alquantoritornò in sul maestro Dinoe tiratosi nell'audienzamette a partito el bullettino e' confinie non si vincee disperavasene forte. Alla per fine disse Ghino:
- Poiché questo partito non si vincecommettete in due di noi che mandino per lo maestro Dinoe dicangli quello che si convienefacendogli una gran paura -; e cosí feciono.
E fu Ghino e un altroche mandorono per lo maestro Dino: e come fu venutoe Ghino comincia a rideree in fine gli disse che Dino il voleva pur per l'uomo mortoe che tutte l'altre cose averebbe dimessee datosene pacesalvo che del trarre delle brache. Dice il maestro Dino:
- Egli è una parte del mondo che è grandissimaed èvvi un re che è il maggioree ha molti principi sotto sée chiamasi il re di Sara: quando uno fa reverenza a uno di quelli principisi trae il cappuccio; e quando si fa reverenza allo re maggioresi cava a un tratto il cappuccio e le brache; e ioconsiderando il gonfaloniere della justizia essere il maggior signorenon che di questa provinciama di tutta l'Italiavolendogli far reverenzafeci il simile che s'usa colàe.
Udendo li due priori questa ragionerisono ancora vie piúe tornorono a Dino e agli altrie dissono come aveano vituperato il maestro Dinoe fattogli una gran villania; e che s'era scusato con la tale usanza che è in tal paese; e se cosí eranon aver elli tanto errato; pregando Dino che non se ne desse pensieroe che a loro lasciassono questa faccenda. Brievementea poco a poco Dino venne dimenticando la ingiuria del maestro Dinoma non sí che non gli tenesse favella parecchi anni; e 'l maestro Dino di ciò ne godeae dicea:
- Se non mi favelleràe io non andrò a medicarloquando avrà male -; e cosí stettono buon tempoinfino a tanto che 'l maestro Tommaso del Garbodando loro a cena una sera un ventre e delle starnefe' loro far pace.
Sempre conviene che tra' signori officiali e brigate sia uno che pe' suoi modi gli altri ne piglino diletto. Questo Dino fu di quelli: non già per vizioma per costumeera biasimevole delle cose lordee non volea udire; e perché maestro Dino ebbe piaceree' dienne a' signori. E però è grazia a Dio d'avere sí fatto stomaco che ogni cosa patisca.


NOVELLA LXXXVIII

Uno contadino da Decomano viene a dolersi a messer Francesco de' Medici che uno suo consorto gli vuol tòrre una vignae allega si piacevolmente che messer Francesco fa ch'ella non gli è tolta.

Fu a Decomanonon è molt'anniuno contadino assai agiatoe avea possessione insino in su quello di Vicchio; là dove tenea a sue mani una bella vignala quale uno de' Medici gli volea tòrreed era presso che per aversela. Veggendosi costuiche Cenni credo avea nomea mal partitopensò d'andarsene a dolersene a Firenze al maggiore della casa; e cosí fece; ché salito una mattina a cavalloandò a Firenzee saputo che messer Francesco era il maggiorese n'andò a luie giunto làdisse:
- Messer Francescoio vengo a Dio e a voia pregarvi per l'amor di Dioche io non sia rubatose rubato non debbo essere. Uno vostro consorto mi vuol tòrre una vignala quale io fo perdutase da voi non sono aiutato. E dicovi cosímesser Francescoche se egli la dee avereio voglio che l'abbia; e dirovvi in che modo. Voi dovete sapereche sete molto vissutoche questo mondo corre per andazzie quando corre un andazzo di vaiuoloquando di pestilenze mortaliquando è andazzo che si guastano tutti e' viniquando è andazzo che in poco tempo s'uccideranno molt'uominiquando è andazzo che non si fa ragione a persona: e cosí quando è andazzo d'una cosae quando d'un'altra. E peròtornando a propositodico che contro a quelli non si pote far riparo. Similmente quello di che io al presente vi vo' pregare per l'amor di Dioè questo: che s'egli è andazzo di tòr vigneche il vostro consorto s'abbia la mia vigna segnata e benedettaperò che contro all'andazzo non ne potreiné non ne voglio far difesa; mase non fusse andazzo di tòr vigneio vi prego caramente che la vigna mia non mi sia tolta.
Udendo messer Francesco la piacevolezza di costuiil domandò come avea nome; e quel gliel disse; e poi dice:
- Buon uomoil mio consorto con teco non potrebbe aver ragionee sie certo cheandazzo o non andazzo che siala vigna tua non ti fia tolta -; e disse: - Non t'incresca di aspettare un poco.
E mandò per quattro i maggiori della casa; e dice loro questa piacevol novella; e piúche chiama Cenni e dice:
- Di' a costoro ciò che hai detto a me -; e quelli 'l disse a littera.
Costoro tutti di concordia mandarono per lo loro consorto che già s'avea messo a entrata la vignae riprendonlo del fattoe brievemente liberarono la vigna dalle mani di Faraonee dissongli che Cenni avea allegato la ragione degli andazziper forma che non potea avere il torto; e che di ciò facesse sí che mai non ne sentissino alcuno richiamo. E cosí promesse loropoiché andazzo non eradi liberare la vignae di non seguire piú la sua impresa.
Per certo la legge non arebbe in molto tempo fatta fare quella ragione a Cenniche l'allegare suo piacevole dell'andazzo fece. E non se ne faccia alcuno beffe; ché chi vi porrà ben curada buon tempo in quami pare che 'l mondo sia corso per andazzisalvo che d'una cosacioè d'adoprare benema di tutto il contrario è stato bene andazzoed è durato gran tempo.


NOVELLA LXXXIX

Il prete da Mont'Ughiportando il corpo di Cristo a uno infermoveggendo uno su uno suo ficocon parole nuove e disoneste lo gridapoco curandosi del sacramento che avea tra le mani.

Alla chiesa di San Martino a Mont'Ughi presso a Firenzefu poco tempo fa un prete che avea nome Ser... il quale era poco devotoma piú tosto scellerato; e fra l'altre cosetutta la chiesa tenea mal copertae sopra l'altare peggio che in altro luogo era copertoper tal segnaleche 'l dí della sua festapiovendo su l'altaree' vicini e gli altri diceano:
- Dohpreteperché non cuopri tu che non piova su l'altare?
E quelli rispondea:
- Tal sia di luise vuole che gli piova addosso. E’ disse fiate fu fatto il mondo; ben può dir cuoprie fia copertoe non gli pioverà addosso.
E cosí era di diversa condizione in ogni cosa.
Avvenne per caso cheessendo ammalato a morte un suo populano nel tempo di statefu mandato per lui acciò che portasse la comunione; ed egli pigliando il corpo di Cristoandò per comunicare lo infermo; e non essendosi molto dilungato dalla chiesaguardando per un suo campovide su uno fico uno garzone che mangiava e coglieva de' fichi suoi; e come uomo non cattoliconé che andasse con la comunione nelle manima come uno malandrino disperatovoltosi a quellodisse gridando:
- Se il diavol mi dà grazia ch'io ponga giú costuiio ti concerò sí che cotesti saranno i peggiori fichi che tu manicassi mai.
Il garzoneche avea del reoe anco forse avea voglia di farli dir peggiodice:
- O Dominevoi portate il Signoreet ego vado in tentatione ficorum.
Dice il prete:
- Io fo boto a Dio che m'uccella! Che dirai? Scendineche sie mort'a ghiado.
Il garzoneavendo il corpo pienodisse:
- Or eccoio scendoe' fichi tuoi ti rendo.
E tirò un peto che parve una bombarda; e 'l prete se n'andò al suo viaggio tutto gonfiato; e 'l nostro Signore tra 'l prete discretoe 'l ghiottoncello che era sul ficocosí fu onorato; e l'infermo dal venerabile prete cosí ben disposto fu comunicato.
Che diremo che fosse quella ostia da sí devoto cherico sacrata e portata? Io per me non credo che cattivo arbore possa fare buon frutto. E tutto il mondo n'è pieno di taliche Dio il sa tra cui mani è venuto.


NOVELLA XC

Un calzolaio da San Ginegio tratta di tòrre la terra a messer Ridolfo da Camerinoal quale essendo venuto agli orecchicon belle parole lo fa ricredente del suo erroree perdonagli.

Ancora mi conviene tornare a una delle novelle di messer Ridolfo da Camerinola quale sta in questa forma. Uno calzolaio della terra di San Ginegiola qual tenea il detto messer Ridolfofu una volta sí presuntuoso che cominciò a parlare e a trattare per via di stato contro al detto messer Ridolfo; di che gli venne agli orecchi. Essendo il detto messer Ridolfo nella detta terrae saputo che ebbe il convenente del fattonon corse a furiacome molti stolti fanno; e non volle che queste cose paressinose non come da calzolaio. E ancora non volendo mostrare viltàma piú tosto magnanimitàmostrò d'andare a sollazzo per la terra; e andando dove questo calzolaio stava con la sua stazzonee messer Ridolfo si ferma e dice:
- Perché fa' tu quest'arte? - E quelli dice: - Signor mioper poter vivere - . E messer Ridolfo dice: - Non ci puoi vivere con essanon è tua arte e non è tuo mestieroe non la sai fare -; e toglie le forme e falle portar via.
Il calzolaio poté assai direche non si trovasse senza le forme; e non sapendo che si faree non potendo pensare quello che questo volesse direse ne va piú volte a messer Ridolfo a richiedere le sue forme. Alla per fine v'andò una voltae trovò messer Ridolfo con una brigata di valentri uomini; e avvisandosise chiedesse le forme dinanzi a tantigli verrebbe meglio fatto di riaverleconsiderando il detto messer Ridolfo per vergogna piú tosto gliene rendesse; e fattosi innanziin presenza di tutti dice:
- Signor mioio vi priego mi rendiate le mia formeché io non posso lavorarené far l'arte mia.
E messer Ridolfo guarda costuie dice:
- Io ci t'ho dettoche non è l'arte tua di cucire ciabatte e fare calzari.
E 'l calzolaio disse:
- O se questa non è l'arte miache sempre ce l'ho fatta qual è la mia?
Disse messer Ridolfo:
- Ben ci hai domandato; l'arte tua è di stare per questo bello palazzoe darti alle cose piú alte; e io voglio tener quelle formeper imprender di cuciree di fare le scarpe e' calzarise mi bisognassi.
Questo calzolaiocontinuando le sue domandee messer Ridolfo facendo risposte strane e chiusee gli omeni che qui erano pareano come smemorati a udire il calzolaio domandare le forme e le risposte che 'l signor facea. Stati per alquanto spazioe messer Ridolfo dice:
- Questo ciabattino che voi vedete quiha trattato di tormi la signoria; e iosappiendo ciòe veggendo che l'animo suo de' esser grandissimoe non da tirare li cuoi con li dentima piú tosto da esser signore in questi palazzigli ho tolto le formeperò chese cerca questo mestiero e parli che questo debba essere il suodi quello non ha a fare alcuna cosaperò che non è suo mestierema è molto vile e basso al suo grand'animo.
Questo calzolaio si scusavae cominciorongli a tremare li pippioni: e messer Ridolfo dice:
- Nella tua mal'oranon ti pure scusarech'io so ogni cosae voglioti condannare in presenza di costoro -; e disse a uno che andasse per le forme.
Quando il calzolaio udí questos'avvisò che con le dette forme il dovesse fare uccidere. Giunte le formedice messer Ridolfo:
- Dappoi che ci hai detto innanzi a costoro che questo è il tuo mestieroe io ti voglio crederee rendoti le forme; ma lascia stare il mio mestiero che non è da tené da tuo parie torna a tagliare e a cucire le scarpe nella tua mal'ora; e va' e fammi lo peggio che puoi.
Al calzolaio cominciò a tornare lo spirito; e disse:
- Signor mio- inginocchiandosi- io prego Dio che vi dia lunga e buona vita; e della grazia che mi avete fatta vi dia quel merito che alla vostra virtú e alla vostra misericordia si richiede. Io per me non sono da tanto che mai ve lo potesse meritare; ma bene siate certo d'una cosa che l'animo mioe ciò che io possoè tutto dato a voi.
E cosí si partí in quell'orache mai non pensòné in detto né in fattose non ad esaltazione del suo signore. E 'l detto messer Ridolfo per questo ne divenne al suo populo sí amato che tutti parve che... con un fervente amore ad ogni suo bisogno.
Oh quanto egli è da commendare uno signore quando per uno vile uomo gli è fatto simile offensache egli se ne curi come curò costuimostrando la sua magnanimità e l'animo liberaleil quale il fa grande e montare fino alle stelleper aver annullate e fatto poca stima di quelle cose le quali molti vili fanno maggioritemendo che ogni mosca non gli offenda.


NOVELLA XCI

Minonna Brunelleschiessendo ciecodi notte guida altrui ad imbolare pesche; e alcun altro furto per lui piacevolmente fatto.

Minonna Brunelleschi da Firenze fu ne' miei díe fu ciecocome che in molte cose passava gli alluminatiper tale che niuno suo vicino era chese aveva a mettere cannella in botte di vinonon mandasse per lo Minonna che la mettesse; e io piú volte il vidi che mai non versava gocciola di vinogiucava a zara e andava solo sanza niuna guida. Avea costui un suo luogo alle Panchee avea per vicino un Giovanni Manfredivocato Giogo. Avea appostato il Minonna nella vigna di questo Giogo certi peschi carichi di bonissime pesche; e una sera di notte ebbe due compagnie disse:
- Volete voi venire meco in tal luogo per le pesche?
Dissono costoroch'erano capitati a casa suaed erano fiorentini:
- O noi non sappiamo il luogo noi.
Dice il Minonna:
- Non ve ne caglia; verretecome io vi guideròe recate questo sacco.
Costoro due guardano l'un l'altrodicendo:
- Questa è ben gran cosache gli alluminati sogliono guidar e' ciechie questo cieco vuol guidare gli alluminati.
Infiammorono via piú d'andaree dissono:
- Andiamoper vedere tanto nuova cosa.
Andoronoe troppo bene di campo in campo il Minonna gli ebbe guidati; e giugnendo per entrare nella vignadov'erano li peschiquesta era molto bene affossatae con buona siepe. Dice il Minonna:
- Lasciate andare me innanzi; venite in quaggiúché ci dee essere una cotale callaietta nascosa -; e coloro dietro.
Quando fu alla callaiadice il Minonna:
- Or passate quie tenete da man rittae vedrete i peschi.
Costoro cosí fannoe cosí truovono ciò che dice; e 'l Minonna con tutto ciò fu a' peschi quand'eglino; e coglievane egli per amendue loro: in fine egli empierono 'l sacco; e 'l Minonna volea che gliel mettessono in collo. Costoro non vollonoe pigliono questo sacco il meglio che possonoe tornansi a casa e vannosi a letto.
La mattina il Minonna ed ellino se ne vanno a Firenzee questi due non potendosi tenere che la detta novella non divolgassinopervenne la detta cosa agli orecchi di Giovanni Manfredi. Non potendosi il detto dar pacesanza dir alcuna cosala seguente notte se ne va con alcuno nell'orto del Minonnae tagliato molti belli cavoli che v'eranoe colti quelli frutti che poté portaree fare dannofece.
Arriva la novella al Minonnae subito si pensa essere stato Giovanni Manfredi; e comincia a soffiare che parea un porco feditocon un naso sgrignuto e con un leggío di drieto per ispalleche parea un dalfino quando sopra il mare si getta soffiando a indovinare tempesta. Subito si mette la via fra gambee caccia il capo innanzi con la foggiacome andavaper andare alle Panche; e passando con questo impeto dalla bottega di Caperozzolodi fuori nella via era uno bariglione su uno desco con non so che cose da fare o lattovari o savori in mollee davvi si fatta entro che 'l bariglione e 'l descocon ciò che v'eraandò per terra; e va pur oltre a suo cammino.
Caperozzoloo suo lavoratoreche pestava dentrovedendo questoesce fuori e guata dietro al Minonnagridando:
- Morto sie tu a ghiadoo non vedi tu lume? che perdere postú gli occhi.
Il Minonna fece vista di non udiree va pur viae giugne alle Pancheed entra nell'ortoe va tastando li cavoli con ciò che v'èdolendosi fortee massimamente de' cavoli de' quali spesso mangiava gran minestre; e stette alcun dímostrando non sapere chi ciò gli avesse fatto. Alla per fine pensò che la cosa non rimanesse qui. Una sera ebbe due contadinie pregolli fussino con luie cosí fu; ché venuta la nottecon due sacca e con coltellini andorono all'orto di Giovanni Manfredidove era un campo d'agli di smisurata bellezzae de' quali il detto Giovanni sempre ragionavae questi agli divegliendo a uno a unotagliarono li capi e mettevano ne' sacchie 'l gambo rificcavono nella terrae cosí tutti gli ebbono divelti e portati i capi e lasciati i gambi nel luogo loro.
Da ivi a due díessendo e Giovanni e Minonna al Trebbiodove usavonoil Minonna si dolea de' cavoli suoi. Dice Giovanni Manfredi:
- Io vorrei che mi fussino stati innanzi tolti gli agli mieiche si guastassino come pare che si guastino.
Dice il Minonna:
- Come? egli erano cosí belli.
E quelli dice:
- E’ sono tutti appassati da ieri in qua.
Dice il Minonna:
- Saranno forse bruciolati.
Costui se ne vae comprende troppo bene che 'l Minonna abbia fatto qualche cosa; ed entrato nell'ortotira uno agliotirane duee' poté assai tirare che trovasse il capo a niuno. Subito immaginò quel che era; e l'altro díessendo al Trebbionon si poté tenere il Giogo che non dicesse:
- Minonnaalmeno ne avestú lasciato qualche uno.
Disse il Minonna:
- Ha' tu il farnetico?
Disse il Giogo:
- Io l'ho benequando tu m'hai tolto gli agli miei.
Dice il Minonna:
- Di' tu de' cavoli miei? mandastegli tu a vendere alla Ciacca?
- Che Ciaccache sia mort'a ghiado?
- Anzi sia tu.
- Anzi tu -; e vanno l'un contro all'altro per darsi.
Aveano centocinquant'anni tra amenduee uno era ciecoe l'altro avea gli occhi arrovesciati che pareano foderati di scarlatto. La gente fu sufeciono fare la pace; al Minonna rimasono gli aglial Giogo i cavoli... e mai non si vollono benee sempre borbottavano... niuno per ammendarsiaveano i piè nella fossae imbolavano agli e cavoli: averebbono ben tolto altroperché cane che lecchi cenere non gli fidar farina.


NOVELLA XCII

Soccebonel di Frioliandando a comprare panno da uno ritagliatorecredendolo avere ingannato nella misurae 'l ritagliatore ha ingannato lui grossamente.

Fu in Frioli nel castello di Spilinbergo già uno ritagliatore fiorentino; e andando uno friolanoche avea nome Soccebonela comprare pannocominciò a domandare del panno di qualche bel coloreperò che volea fare una cioppa da barons. Lo ritagliatore dice:
- Vuo' tu celestrino?
- No.
- Vuogli verde?
- No.
- Vuogli sbiadato?
- No.
- Vuogli cagnazzo?
- No.
- Vuogli una cappa di cielo?
- Sísísí.
Avvisossi al nomeche vi fosse il sole e la lunae le stellee forse gran parte del Paradiso. Fatto venire questo cappa di cielofurono in concordia del pregio per quattro canne. Il ritagliatore truova la cannae dice a Soccebonel:
- Piglia costíe comincia a metter su la canna.
Il friolano mettevae tirava il panno piú su che la cannaquando uno sommessoe quando piúe stavasi tanto attento che ad altro non guatava. Il fiorentinoche nel principio subito se ne fu avvedutoquando mettea il panno su la canna lasciava mezzo braccio della canna a drietoe quando piúsí che ogni quattro braccia tornavano al buon uomo forse tre e mezzo. Misurate le quattro cannee pagatoil friolano se ne fa portare il panno; e perché lo 'nganno s'occultassedice il venditore:
- Vuo' tu far bene? attuffalo in una bigoncia d'acqua e lascialo stare tutta nottesí che bea benee vedrai poi panno ch'el fa.
Costui cosí fece; e la mattina lo scola alquanto dall'acquae mandalo al cimatoreche l'asciughi nella soppressa e che lo cimi. Cimato il pannoe Soccebonel va per essoe dice:
- Che de' tu avere?
Dice el cimatore:
- E’ mi par nove braccia; da' nove soldi.
Dice costui:
- Come nove braccia? oimè! che di' tu?
Il cimatore il truovae dice:
- Vedilomisuralo tu.
Rimisuraloe non lo truova piú; e dice:
- Per lo corpo della madre di Jesu Cristoche mi serà stato furato.
E va al ritagliatoree va di quae va di là; l'uno gli dicea:
- Questi panni fiorentini non tornano nulla all'acqua.
E il ritagliatore dicea:
- Guarda dov'egli stette la notte che 'l mettesti in molleche chi che sia non l'avesse imbolato.
Un altro dicea:
- Questi cimatori sono tutti ladri.
E un compagno del ritagliatoreche forse sapea il fattodicea:
- Vuo' ti dica il verogentiluomo? Ché non è molto che io udi' dire che uno levò un braccio di panno fiorentinoe la sera l'attuffòcome tu facesti questoin uno bigonciuolo d'acquae lasciovvelo stare tutta nottela mattina quando andava per trarlo dell'acquaegli lo trovò tanto rientrato che non vi trovò nulla.
Dice Soccebonel:
- Aupuò esser cest?
E que' rispose:
- Sípuò esser canestre.
Or cosí costui credendo ingannarerimase ingannatoe fu per impazzarne; e la cappa di cielo tornò che non arebbe coperto un ciel d'un piccol forno; e la cappa da barons si convertí in un mantellinoche parea un saltamindosso.
E cosí avviene spesse volte che tanto sa altri quant'altri.


NOVELLA XCIII

Maso del Saggio fa una gran ragunata di cittadini che abbiano grandi nasi in Santo Piero Scheraggie poi con piacevolezza dimostra loro ch'egli hanno grandissimi nasi.

In Firenze fu già uno piacevole e sollazzevole uomoche ebbe nome Maso del Saggioe fu sensale. Veggendo costui per la nostra terra una brigata di cittadini che aveano grandissimi nasipensò di ragunarli insieme tutti una mattinae preso tempo d'uno día uno a uno gli andò invitandodicendo:
- Uno cittadino molto dabbene ti priegache tu sie domattina con gli altri che vi fiano in San Piero Scheraggio. E perché tu non sappi al presente chi sia il cittadinonon te ne cagliaperò che non si dice chiper alcuna cagione.
E cosí a uno a uno disse a tutti. Costoro udendo cosí nuova...


NOVELLA XCVII( frammento)

... boccafacendo: Sciuuuu. Il preteo frate che vogliamo direcome la vede con quest'attidice in verso la ciovetta:
- E tu l'ha' tue?
E scagliando il calice verso lei con tutto il vino disse:
- E tu t'abbi or questo al nome del diavolo.
Come ebbe scagliato il calicee quelli vede l'ostia in su l'altaree non comprendendo ch'ella fosse stata sotto il calicedice:
- Ecco che ci ha aúto paurae perciò l'ha reportato qui -; e volgendosi al popolo disse per miracolo come la ciovetta avea furata l'ostiae che per paura della gittata di quel calice verso li suoi occhi strabuzzanti l'avea rendutae riposta su l'altaree aveasi ritenuto il vino.
La ciovetta parea che intendesse queste coseguardando ora il preteora il chericoora il populocontinuoora chinando il capo a terrae ora levandolo in altoschiacciando col beccofacea: Sciuuuu. Quelli che erano con qualche intendimento ivi alla messanon poteano tenere le risa. Altri villani croi e grossi diceano:
- O nella mal'oraa che ci tiene frate Sbrilla la ciovetta presso all'altares'ella ci fura il corpo di Cristo?
E troppo bene lo credeano.
Frate Sbrillaminacciata la ciovetta che non starebbe piú in quel luogofecesi dare le ampolluzze al chericoe riforní il calice col vinoe compieo la messa.
E a questo modoe tra cosí fatte manie cosí discreti sacerdoti è condotto il nostro Signore; che spegnere se ne possa il seme!


NOVELLA XCVIII

Benci Sacchetti trae ad una brigata un ventre della pentola e mandaselo a casa per il fantee in iscambio di quello mette nella pentola una cappellina.

Nella città di Vinegia furono già certi mercatanti fiorentinii quali per lunga dimora aveano presa amistà e compagnia insiemeper tale che le piú volte mangiavano insiemee spesso recava ciascuno la parte suae accozzavano insiemee faceano taniscae per quello che io udisse già io scrittore da mio padreil quale fu principio della presente novellaegli era uno Giovanni DucciTosco GhinazziPiero di Lippo BuonagraziaGiovannozzo di Bartolo FedeNoddo d'Andreach'ancora è vivoe Michel Cinie Benci del Buon Sacchettie certi altri. Avvenne per caso che Giovanni Ducciel Toscoe Piero di Lippofacendosi una vitella grandissima e bellafeciono borsae comperorono il ventre per mangiarlo la seguente domenica a cenae fra loro puosono che niente se ne dicesse: chése gli altri compagni il sapessononon lo potremmo avere in pacepoco ne toccherebbe per uno.
Disse il Tosco:
- Cosí si vuol fareché io n'ho aúto voglia un gran pezzo: io intendo farne corpacciata.
E cosí tennono il segretoe messer Gherardo Ventraia fu portato a casa Giovanni Ducci.
Quella medesima mattinache era sabatoandandocom'è d'usanzaBenci e Noddo a vedere la beccheriaper comperare per la domenicacapitorono al desco dove la detta vitella si vendea.
Dice l'uno:
- O questa è bella carne.
- Ben di' vero.
- Quanto la libbra?
E comperaronne una pezza. E pesandola il beccaiodice:
- Gnaffe! i compagni vostri ebbono poco fa il ventre.
Dice Benci:
- O chi?
E 'l beccaio dice:
- Giovanni Duccie talee tale.
- E a casa cui andò il ventre?
Dice il beccaio:
- A casa Giovanni Ducci; e là pare a meche lo mangeranno doman da sera.
Dicono costoro:
- Or sia con Dio.
Tolgono la carnee partonsi; e tornando a casadice l'uno all'altro:
- Questa cosa non vuole andare a questo modo.
Dice Noddo:
- Gnaffe! io piglierò la tenuta doman da sera a buon'otta.
Dice Benci:
- Noddoe' la non vuole andare a cotesto modo; vuo' tu lasciar fare a me?
Dice Noddo:
- Sí bene.
Dice Benci.
- Non dir nulla; io credo far sí che noi aremo il ventreed egli avranno la broda; sta' chetoe non dir nulla: fa' ch'io ti truovi domane due ore innanzi ora di cenae farai com'io ti diròe vedrai il piú bel giuoco che tu vedessi mai -; e cosí si fermarono.
Bencitornato a casava cercando d'uno fodero di cappellina vecchio biancoe per avventura n'ebbe trovato una cappellinala quale avea usato già il padre della donna sua che era grandissima e sucida; levonne il panno e tolse il foderoe apparecchiò una bisacciae dentro vi misse il detto fodero; e trovò uno aguto di mezzo braccioe feceli dalla punta un poco d'oncinoe misse nella bisaccia. Trovate queste masseriziel'altro dí su l'ora imposta si trovò con Noddoed ebbono Michele Ciniche era sensale di mercatanziae strettisi insiemedice Benci:
- Io non soMichelese tu sai questo fatto; la cosa sta sí e sí.
Michele fu tosto accordato. Dice Benci:
- Tu anderai un poco innanzie chiamerai la Benvegnudache ti rechi la chiave del fondacoe che tu voglia vedere qualche balla di mercatanzia; Noddo e io intreremo dentroe tu la tieni a bada quanto puoi; volgi e rivolgi le ballee digli che t'aiuti; e andremo su alla cucinae lascia fare a noi.
E cosí ordinoronomenando Benci un suo fante in mantello con la bisaccia e con l'altre masserizie. E Michele Cini giugnee picchia l'uscioe chiama la Benvegnudache rechi la chiave del fondaco. La Benvegnuda viene subito con le chiavi. Dice Michele:
- Va' apriché voglio veder certe balle per farle vendere a Giovanni.
Dice la Benvegnuda:
- Serrate l'uscio.
Dice Michele:
- Giovanni è pressoche ne viene co' mercatanti; lascialo pur stare aperto.
E cosí fece.
Andato ella per aprire il fondacola brigata della bisaccia entrano dentroe vanno alla cucina. Quando Michele vede andato su Benci con gli altriva nel fondacoche la Benvegnuda avea apertoe quivi volgi e rivolgiaiutandogli la fante per buon spazio. Benci e gli altrich'erano in cucinatrovorono messer Gherardo che bollia fortee Benci subito recasi in mano le masserizieche parea volesse travagliaree cava fuori l'aguto uncinuto e lo fodero della cappellina; e cacciato nella pentola il detto uncinopiglia messer Gherardo con la sua donna monna Muletta; e traendolo fuori del laveggioil mise nella bisacciae diello al fantee disse:
- Vanne a casae non dir nulla.
Andato il fanteBenci caccia il fodero della cappellina arrovesciato nella pentolae pisciovvi entroe coperta com'ella stavas'uscirono della cucinae scendendo la scalaper l'uscio ancora aperto se n'uscirono fuori. Micheleche era con la Benvegnuda nel fondacoquando crede essere stato assai dice:
- Per certo Giovanni Ducci ha aúto qualche storpio; serra il fondacoe io anderò a saper quello che fa.
La Benvegnuda cosí fece. Michele s'andò con Dioe sul Rialto trovato Noddoche scoppiava di risadice:
- Ov'è Benci?
Dice Noddo:
- È ito a casa a far trarre il ventre della bisacciae metterlo in una pentola a fuocoperché se avesse manco di cottoche si cuoca; e dissemiquando fosse oranoi andassimo là a cena.
E cosí feciono: ché su l'ora della cena Noddo e Michele con la maggior festa del mondo andarono a manicare il detto ventreaspettando la gran festa che doveano avere di questa novella. Dall'altra parte la brigata che avea comperato il ventres'avviano andare a cena. Dicea Piero per la via:
- Io ho aúto voglia d'un ventre ben un annoe non m'è venuto fatto d'averlo.
Dice il Tosco:
- Altrettal te la dico.
Dice Giovanni:
- Istasera ce ne caveremo la voglia -; e cosí ragionandogiunsono a casa: - O Benvegnudafa' che noi ceniamo.
Data l'acqua alle manisi posono a tavola. La Benvegnuda avea subito fatta la suppacome si facon le spezie e tutto; e caccia il manico del romaiolo nella pentolatrae fuorie mette in uno catino sí subito che avveduta non si fu di quello che era; ma subito porta a tavola quello e la suppa; e costoro cominciano a manomettere la suppae manicando truovano i taglierie fatto venire dell'acetoe tutti scoperto il catinoe prese le coltella per tagliare un pezzo del ventremena il coltellopartire non si poteae stettono buon pezzo.
Alla per fine dice uno:
- O che è cotesto?
Dice l'altro:
- Non so iopiglialoe tiralo su.
- Buon buono! o che diavolo è questo? a me par'egli una cappellina.
- Una cappellina?
Chi avea della suppa in boccagetta fuori:
- Alle guagneleche noi ce n'abbiamo una...
Chiama la Benvegnuda; ed ella giugne:
- Buon pro vi faccia.
- Tu sia la malvenuta- dice Giovanni Ducci- o che ci hai tu recato in tavola?
Dice quella:
- Hovvi recato un ventre che voi mi mandaste.
Dice il Toscoch'era levato rittoe stava dal lato di fuori:
- Guata se egli è ventre.
E levalo suso alto.
Dice la Benvegnuda:
- Oimèche vuol dir questo?
Dice il Tosco:
- Vuol dir panico pesto -; e aperta questa cappellinaessendo la fante volta per tornar nella cucinagli lo cacciò in capo.
La fante gettalo in terra:
- Che diavolo è questo che voi fate?
Dice Giovanni:
- Vie' qua: dimmi il verochi c'è venuto?
Ed ella dice:
- Venneci Michele Cini.
Dicono costoro:
- I nostri compagni ce l'hanno calata.
E sappiendo come Michele era venutoe ciò che avea fatto e dettol'ebbono per lo fermo; dicendo Piero:
- Io ho ben veduto Noddo molto ridere da dianzi in qua.
Dice l'altro:
- Come che ci abbiano fatto la piú sucida beffa che noi avessimo maiio credo ci abbiano fatto molto bene; avevamo diviso la compagnia per un ventre.
Dice Giovanni:
- Truovaci qualche marzolino; e metti questa cappellina in bucatoché io la vorrò rendere al Benciche debb'essere stato il principio di tutto questo fatto.
Dissono gli altri:
- Me' faremo a mandarlilo ora -; e tolgono uno piattelloe coprono; e dicono: - Va'di' a Benci che Giovanni Ducci gli manda del ventre della vitella.
E cosí giugnendo a Benci con l'ambasciata e col presentedice Benci:
- Di' che gran merzè; ma che 'l tavernaio l'ingannòché cotesto è di pecorae non è di vitella.
Ritorna il fantee dice quello che Benci e gli altri hanno dettoe ch'egli era di pecora. Dice il Tosco:
- Ed egli ben ci ha trattato come pecore.
E con tutto questoquelli che l'ebbonoe quelli che 'l doveano mangiarefurono troppo contenti di sí bella beffa; e poitrovandosi l'uno con l'altrotutti rideano a un modoper tale che tutta Vinegia otto dí n'ebbe piacere.
Oggi se ne ucciderebbono gli uomini; e nota che da questo si dice: "Egli ha fatto una sucida beffa" però che quella cappellina era sucidissima.
E cosí si davano i mercatanti dilettoe insiemedi ciò che si faceanoerano contentie aveanlo a caro. Ma io credo bene che poi sia intervenuto il contrario; però che le risa son quasi per tutto convertite in pianto per li difetti umanio per li iudicii divini.


NOVELLA XCIX

Bartolino farsettaioveggendo la sua donna esser molto neracon belle parole la mordecome ch'ella non mostrasse intenderle.

Bartolino farsettaio menò moglie una donna vedovala quale era nerissima; e la sera andando al lettoquesta donna era tutta spogliatae sedea sul lettosegnandosidicendo sue orazioni. Bartolino era già coricatoe non coricandosi la donnae quelli la guatae pareagli ch'ella fosse in gonnella monachinaperò che le carne sua aveano quel colore. Dice Bartolino:
- Spogliatie vatti al letto.
Dice la donna:
- Io sono spogliata.
Bartolino la tocca; ed ella squittisce.
- O di' tu di vero? entra sotto.
Ed ella entrò.
Questo ho detto per tanto ch'ella era nerissimatanto che fra l'altre volte Bartolino desinando una mattina carne di castronee oltre disse facesse molto bene della salsaché n'era vago. Venneli innanzi piccola scodellina di salsa. Dice Bartolino:
- O che vuol dir questoche io ho sí poca salsa?
La donna disse:
- E’ non si trovorono dell'erbe.
Dice Bartolino:
- E’ mi pare bene che se ne trovassinoche tu te l'hai mangiataper tal segnale che tu hai il viso tutto verde.
Dice la donna:
- E’ non è quel che tu credi.
- O che è?
- È che io mi voglio levare questa carne salvatica di soprache per lo stare in contado è arrozzita.
Dice Bartolino:
- Datte ben faticache poi che tu foste mia moglie t'ha' fatto piú volte il dibucciocome che tu creda che io non me ne sia avveduto; e quanto piú cavipiú mi pare che truovi il nero; e però per lo mio amoredonna mianon cavare piúperò che tu potrai trovare lo 'nfernotanto anderai giú.
La donna disse:
- Dehben istà; io voglio pur comparire come l'altree non voglio parere una manimorcia.
Dice Bartolino:
- Or fa' che ti piacech'egli è meglio a mio parere che tu cuopra il tristoanzi che tu lo scuopra.
La donna disse:
- Non so che tristo; se io sarò tristaio me n'avrò il danno.
E se mai si fece uno dibuccioda questa volta in là se ne fece quattrotanto che ella diventò un'aringa nerae col suo senno s'andò sempre al mercatoparendoli esser bellissima; e Bartolino stette contentoe alla mostarda e alla salsa.
Molto è ingannata la donna di sé per lo vizio della vanagloria; e quanto piú si vede nello specchio sozzameno si conosce; ma con nuove arti s'ingegna pur di comparirenon lasciando stare né 'l visoné alcuno membro come Dio l'ha creato; e non pensa che la piú bella che siain piccol tempocome un fiorevien menoe diventa secca nell'ultima vecchiezzae in fine diventa uno testio.


NOVELLA C

Romolo del Bianco dice al frate in Santa Reparatapredicando dell'usurache predichi di quelli che accattonoperò che ivi erano tutti poveri.

Una piccola novelletta m'è venuto voglia di raccontare di uno vecchierello fiorentinoil quale ha bene ottant'annied è ancora vivoe ha nome Romolo del Bianco. Costui ha le piú nuove parole del mondo alle manie la maggior parte come filosofiche. Andando di quaresima costui alla predica che si fa la sera alla chiesa maggiore di Santa Reparataalla qual predica vanno tutti poveri lavoranti di lanapoi che sono uscitie serrate le botteghee fanti e fante e servigiali ancora a quella vanno; uno giovane frate romitano ogni sera predicava dell'usurae che ciascuno si guardasse dal prestareperò ch'ell'era quella cosa che conducea l'uomo a dannazione; e poi ritornava pure in usura e su' contratti inleciti. Quando Romolo del Bianco assai ha bene udito di questa usuralevasi sue dice:
- Messer lo frateio ve l'ho creduto dire già è parecchie serema sommene tenutoché credea che voi uscisse a predicare d'altra matera che dell'usura; ora mi pare che voi non sete per predicare d'altro; io vi voglio far chiaro che voi vi perdete le paroleperò che quanti voi ne vedete a questa predica accattanoe non prestanoché non hanno chee io sono il primo. E peròse voi ci sapete dare alcuno conforto sopra li nostri debiti e sopra che dobbiamo dare altruiio ve ne priego; quanto che noe io e gli altri che ci sonopotremo fare senza venire alla vostra predica.
Il fratee tutta la predicacome smemorati guatavono onde questa boce veníaperò che v'era buioche quasi non vedea l'un l'altro; e pur scorsono che era Romolo del Biancodicendo tutti:
- Egli ha molto ben ragioneché non c'è alcuno di noi che non abbia piú debito che la lepre.
E 'l frate da quindi innanzi predicò della povertàcome con pazienza si volea comportare; dicendo spesso: "Beati pauperesecc. "e fu loro grandissimo conforto per le parole che Romolo avea predicate al predicatore.
E però conviene che il predicatore sia sí discreto che se predica a una gente in una terrache sieno ricchi per usuremolto li riprenda su questoe se predica a' poverili conforti su la povertà; se sono macolati di sfrenate concupiscenzecontro a quelle dicanoe da estorsionisí di ruberiee di guerree cosí degli altri vizii de' fare il simile; acciò che non sia ripreso da uno pover uomo come fu colui.


NOVELLA CI

Giovanni Apostolo sotto ombra di santa personaentra in un romitoroavendo a fare con tre romiteche piú non ve n'avea.

Fu a Todinon è moltouno che era chiamato Giovanni dell'Innamoratoed era di questi che si chiamano Apostoliche vanno con le fogge vestiti di bigio sanza levare mai gli occhi in alto; e ancora facea in Todi l'officio del barbiere.
Era costui molto usato d'andare di fuori in certi luoghi di Todie spesso passava da uno romitorodove erano tre giovene romiteche l'una era bellissima quanto potesse essere. E 'l detto Giovanni era spesse volte domandato:
- Perché hai tu per soprannome dello 'nnamorato?
E quelli rispondea:
- Perché sono innamorato della grazia di Jesu.
E quasi da tutti era tenuto un santoe spezialmente da queste tre romitele quali a lui erano molto devote.
E questo Giovanni dicea che era innamorato di Jesue molto segretamente era innamorato piú della bella romita. Andò questo Giovanni un dí fuori di Todi a una religione di monaci presso a tre migliae tornando la sera tardi per mal tempo freddo e nevicosogiunse a quel romitorio a ora che in Todi non serebbe entratosí era serae ciò fece bene in prova. Giunto làpicchia la ruota.
- Dominechi è?
Risponde:
- Sono il vostro Giovanni dello 'nnamorato.
- O che andate voi facendo a quest'otta?
E quelli dice:
- Io andai istamane alla tale badíae sommi oggi stato con don Fortunatoe ora tornava a Todie l'ora tarda e 'l tempo reo m'hanno condotto quie non so che mi fare.
A questo romitoro non era presso né casa né tetto. Dicono le romite:
- Che fu a muovervi cosí tardi?
Dice l'Apostolo:
- E’ non è stato soleli nuvoli m'hanno ingannato: poiché la cosa è quiio vi priego che mi mettiate un poco costí dentro al coperto.
Dicono le romite:
- O non sapete voi che noi non ci mettiamo persona?
Dice l'Apostolo:
- E’ non s'intende per meche sono quel che voidalla parte del Signore: e ancora il caso della nottee del tempo che qui m'ha condottoè cosa di necessità; e voi sapete che 'l nostro Signore ci comanda che noi aiutiamo quelli che sono in necessità.
Le donnech'erano verginidierono fede alle suo parolee apersonli. Quando viene chedette l'ore e mangiato un pocosi debbono andare a posaredice Giovanni:
- Andatevi pure a dormireio mi dormirò su questa panchetta.
Aveano queste un lettuccio soloe dicono:
- Noi ci getteremo su queste cassee tu ne va' nel letto.
Brievementenon volle; ma disse:
- Andatevi al lettoe io mi dormirò in qualche modo.
Costoro se n'andorono in questo letticciuolo; la bella si colicò da capoe un'altra allatoli dalla proda lungo il muroe da piede lungo il muro si colicò la terza. E stando un pocodice una romita:
- Giovannie' ci incresce di teconsiderando il freddo che è.
Dice Giovanni:
- Io il sento benee ho ben paura che non mi dia qualche beccatache io triemo tutto -; e piglia una lucerna che v'era accesae dice: - Io voglio andare qui in cucinae accenderò un poco di fuoco -; e ito làsul focolare non era fuoco.
Come ciò vides'immaginò: "S'io spengo la lucernafuoco non c'è piúio verrò meglio ad effetto de' fatti miei"; e spenta la lucernadice:
- Oimèio volea accendere un poco di fuocoed egli è spento la lucerna.
- Come ci farai? - disse la piú bella romita.
Dice Giovanni:
- Poiché qui sono (e accostasi alla lettiera) io enterrò in questa proda qui da' tuo' piedi -; e tastando con le manis'abbatte a toccare il viso alla romita; e andando in giúentrò in quella prodae dice: - Perdonatemiche meglio è fare cosí che morire.
Le romite stavano chete piú per vergogna che per altroe forse alcuna dormía. Come Giovanni è nel lettoegli era piccolonon potea fare non toccasse della bella romitae prima i piedii quali erano morbidissimi. Dicea Giovanni:
- Benedetto sia Jesu Cristoche sí belli piedi fece.
E dai piedi tocca le gambe:
- Benedetto sie tuJesuche sí belle gambe creasti.
Va al ginocchio:
- Sempre sia lodato il Signoreche cosí bel ginocchio formò.
Tocca piú su le cosce:
- O benedetta sia la virtú divinache sí nobil cosa generò.
Dice la romita:
- Giovanninon andar piú suché c'è lo 'nferno.
Dice Giovanni:
- E io ho qui con meco il diavoloche tutto il tempo della mia vita ho cercato di metterlo in inferno -; e accostasi a costeimettendo il diavolo in infernocome che con le mani un poco si contendesse.
E dicea:
- Che è questoGiovanniche tu fai? noi ci saremmo tutte confessate da tee io spezialmentee tu tieni cosí fatti modi.
Dice Giovanni:
- Credi tu che Jesu abbia fatta la tua bellezza perch'ella si perda? Non lo credere.
Quando Giovanni fu stato quello che volletornò alla sua proda. L'altre due romiteche forse aveano fatto vista di dormiredice quella che è allato a Giovanni da lato del muro:
- O che trigenda è questa istanotteGiovanni? In verità di Jesuche tu ci fai poco onoree non dovevi entrare nel letto nostro.
Dice Giovanni:
- O santa sie tu; che credi tu che io abbia fatto altro che bene? Io non ci ho detto parola che non abbia lodato il Salvadore. E poinon pensare che alla vostra fragilità se non fosse aiutatoil demonio piglierebbe gran possa sopra di voi; e quello che io ho fatto appunto sta cosí -; e fassi verso costeie comincia a' piedicome all'altra; e tuttocome avea fatto a leifece a costei.
Sentendo la terza il tramestioed essendo stata in ascoltodice:
- In buona féGiovannise noi t'aprimmotu ce n'hai renduto buon merito.
Dice Giovanni:
- Sciocche che voi sete! credete voi che ciò che io ho fatto sia altro che bene? Credete voi che molte rinchiuse come voi non si disperassonose alcuno mio pari spesse volte non desse loro di questi conforti? Voi sete giovanie sete femine: credete voi che per questo ne diminuisca la gloria di Dio in voi? E voi sapete che con la sua bocca disse che noi provassimo ogni cosae quello che è buono tenessimo.
E questo è anco a' miei pari utilissimoperò checome io abbia questo abitosono pur uomoe spesso mi assaliscono gli amorosi desiderii; e a questi non è modo che s'attutassino maise non si domassono e'come si domanocon voi. E io cosí ho fatto e farò quanto sia di vostro piaceree non piú.
Dice questa romita:
- Voi dite che il nostro Signore dice che si vuole provare ogni cosae 'l buono ritenereio non ho provato nullasí che io non so quello ch'io mi debba ritenere.
Dice Giovanni:
- Io lodo Diotoccando li membrie cominciando dal piede -; e accostasi a costei: - e quando io son qui allo 'nfernoe io v'attuto el mio diavolo entro -; e cosí fececome all'altreed ella si stetteperché le some furono ragguagliate.
E Giovannifatta tutta la cercasi ritornò al luogo suo là dove trovò i piedi piú morbidi; e riposatosie dormito un pezzoritornò alla bella romita a confortarlae spegnereil fuoco a luila quale non si contendea troppo. La mattina per tempissimo levandosidisse:
- Suore mieio vi ringrazio quanto posso della vostra caritàche ver me usaste ier seraad accettarmi in questa vostra casetta santa; quello Signore che mi ci condusse dia grazia e a voi e a me di salvare l'anime nostrerendendovi quel merito che desiderate. A me pare essere già levato in alto verso Jesu parecchie bracciaessendo stato con la vostra santità. Se io ho a far per alcun tempo alcuna cosafate di me sicuramente come dovete.
Elle rispondono:
- Giovanninoi ti preghiamo che ti sia raccomandato questo piccolo romitorioe che esso vegni a vicitare come tua casa; va' nella pace di Dio.
E cosí si partíche pareaquando giunse a Todiuno cappone vero.
E piú tempo continuò questa cosí fatta vicitazioneper forma che diventòdi fresco e coloritoquasi magrissimo e pallidoe andava onestoche parea San Gherardo da Villamagnaessendo tenuto santo; e quando morí ogni uomo e femina gli andava a baciar la manodicendo che facea miracoli.

Or guardate quanto è nascosa la ipocrisia del mondoche colui ch'era della condizione di sopra scritta si fece piú tosto santo nella sua fine. O quanti ne sono tenuti santi e beatiche le loro anime non vi sono presso per la ipocrisia che sempre regnò; e troppo è difficile a poter cognoscere il cuoreo gli segreti dentro dell'uomo.


NOVELLA CII

Uno tavernaio di Settimonon potendo mettere e appiccare un porco alla cavigliagrida accurr'uomo e fa trarre tutto il paese: giunta la moltitudinedomanda aiutoed èlli fatto.

Presso a Settimo è un luogo in su la strada che si chiama la Casellinae sempre v'è stato un tavernaio che ha tagliato carnee fra l'altrebonissime vitelle e gran porci. Avvenne per caso cheessendovi un beccaio grassissimonon è gran tempocomprò un porco grassissimoche pesava libbre quattrocento; e una mattina per tempissimoavendolo mortoabbruciato e conciovolendolo appiccare alla cavigliae levarlo da terraper niuno modo il poté fare; e aiuto non avease non d'una sua donnache gli avea aiutato insino allorae abbruciare e fareed era poco prosperosae a quello poco gli potea dare aiuto Questo beccaio aspettò ben un'ora che passasse chi che siamai non vi passò persona; e se alcuno vi passòera o femine o fanciulli che niente venía a dire.
Alla per fineessendo costui trafelato e quasi come disperato di non lo potere appiccare alla cavigliasi rizza in punta di piedivolgendosi attorno attornocon le maggior grida che gli uscissono di boccagridando: "accurr'uomoaccurr'uomo" per sí fatta maniera che duecento contadini che erano a lavorare per li campi chi con marra e chi con vanga trassedicendo: "Che è? che è?" avvisandosi fosse stato un lupoche usava in quelle contradee avea morto assai fanciulli.
Dice il beccaio:
- Comeche è? Ho morto questo porcoed egli ha presso che morto mevolendolo appiccare alla cavigliae mai c'è passato chi m'abbia aiutato ben un'ora; e sono tutto trafelatoche mai simile fatica non durai; e peròfratelli mieiaiutatemi a levarlosí che io l'appicchi alla caviglia.
E 'l romore si leva tra quelli che erano tratti:
- Dehtagliato sia tu a pezzi come tu taglierai cotesto porco -; diceano la maggior parte. - Dunque hai tu messo a romore questo paeseper appiccare un porco?
Quelli si scusava:
- Io non ho potuto fare altro; io l'ho fatto per voicome per meche l'avete a manicare.
Altri diceano:
- Io fo boto a Dioche noi ti accuseremo al Podestàe converrà che tu ci ristori dello scioperio nostro; e anco sarai condannato di mettere a romore questa contrada.
Un'altra brigatache vi davano poco d'essere stati scioperatirideano il meglio che poteanoe vannone certi verso luie aiutanlo.
Dice il tavernaio:
- Quella di coloro è cattiva discrizioneche dice m'accuseranno: che dovea io fare?
Quelli che erano iti aiutarlo erano giovanie diceano:
- Tu di' veroe facesti quello che tu dovevi -; e levoronlo susoe appiccaronlo alla caviglia.
E 'l tavernaio disse loro pianamente:
- Venite domattina asciolver mecoché io voglio ch'e' migliacci sien vostri.
Egli accettarono e asciolverono molto bene la domenica mattina; poi il dí ritrovandosi a loro usanzequelli savi riprendeano molto il tavernaiodicendo che gli si verrebbe gran punizione. Quelli giovaniche aveano aúti de' migliaccisi volgeano a costorodicendo:
- E’ vi par'esser piú savi che Matasalaoe ciascun dice la sua: anzi fece molto bene; che dovea far costuise non avea aiuto?
Dicono quest'altri:
- Ben foste di quelli che gli aiutasti; cosí spendeste voi l'avanzo del tempo vostro che ci avete a vivere.
E dice un altro:
- Dio il volesseché noi c'empiemmo stamane molto bene il corpo di quel porco con buon migliacci.
- Ohnon maraviglia.
- Se voi ve ne fate maravigliae voi v'abbiate il dannoche voi non ve ne ugneste il grifo.
E cosí rimase la cosache i cittadini che erano attorno per le ville n'ebbono per buon pezzo piacere col beccaio della detta novellaavendolo molto per piacevolepiú assai che non lo tenevono in prima. Ed egli diede sempre poi buona carne a quelli che l'aiutoronoe fece loro miglior mercato ch'agli altri. E però dice: "Servie non guardare a cuie averai de' migliacci".


NOVELLA CIII

Uno preteportando il corpo di Cristoe passando la Sieve con essoil fiume cresceed elli s'aiutae con una bella risposta dice che ha campato il corpo di Cristo a certi che erano in su la riva.

Presso a Sieve fu già un preteil quale avea nome ser Diedatoed era piacevole e non molto cattolicoil quale avendo a portare il corpo di Cristo a uno infermoed essendo stato venuto per lui di là dalla Sievee convenendo che il detto preteandando a comunicare il detto infermoguadasse l'acquadisse a quelli che erano venuti per lui:
- Andatevene innanzie aspettatemi dalla proda di là dal fiumesí che io veggia dov'è il passoe poi ce n'anderemo insieme.
Quellicome il prete dissecosí andorono. Andati che furonoil prete trova il corpo di Cristo e 'l cherico con la campanuzzae mettesi in viae giunti in su la proda per passare di làser Diedato e 'l cherico si mettono a passare. Il cherico avea una mazza e andava innanzi tastando il guado. E come spesso adivienecheessendo piovuto nel Mugellola Sieve cominciò a crescerequelli che aspettavano il prete su la spondagridavano:
- Passate tostoché 'l fiume cresce.
Quelli s'affrettano; l'acqua era già alla cintura al pretee pur si studiava quanto potealevando in alto le manicon le quali tenea il corpo di Cristo; e l'acqua pur crescea tanto che gli giugnea al bellico. E nel vero si sarebbe molto meglio il prete difesose non che convenía guardasse di salvare con le braccia alte il corpo di Cristo; pureaiutandosi quanto poteoa grandissima pena giunse alla prodalà dove erano quelli che l'aspettavonoli quali dissono:
- Ser Diedatovoi avete molto da ringraziare il nostro Signore Jesu Cristoil quale avete in manoché per certo noi vi vedemmo annegatose non fosse stato il suo aiuto.
Dice ser Diedato:
- In buona fése io non avesse aiutato lui altrimenti che elli aiutasse menoi seremmo affogati ed elli ed io.
Disse uno di quelli:
- E’ non mi dispiace la ragion vostra.
E racconcio che si fucol cherico insieme con la campanuzza si missono in viae andarono a comunicare il detto infermo. E questa novella si divulgò per tutto infino a Firenzee nacquene quistionepiú per diletto che per altroquale aiutasse l'uno l'altro. Ebontà della nostra fede ch'è molto ampliatali piú diceano che 'l prete avea condotto ogni cosa a salvamento; essendo assai che allegavano a chi dicesse il contrario:
- Se tu fossi in uno gran pelago e fossi per affogarequal vorresti innanzi avere addossoo 'l vangelo di Santo Giovannio la zucca da notare?
Udendo questa ultima partetutti concorsono che vorrebbono innanzi avere la zucca. E cosí la ragione di ser Diedato fu confermata; e dell'altradove tutta la nostra fede de' starene fu fatto beffe.
Quando io penso quanta fede èvia meno ne truovo che io non credo; però che ciascuno va drieto a quelle cose che giovano al corpoe non all'anima. Il prete bestia volle dire che avea aiutato il nostro Signorecome se avesse gran bisogno dell'aiuto d'uno pretignuolo.
Se lo disse per motti ancora fece gran male. L'altro diede il partito d'una zucca vota al vangelo di Santo Giovanni; e noi siamo ben zucche votee nella fine ciascuno se n'ha vedere.


NOVELLA CIV

Messer Ridolfo da Camerinoper avere diletto d'alcunodice a Bologna una novella verache par miracolo; e per gli altri gli è risposto con altre due novellepiú vere e incredibili che la sua.

Essendo a Bologna messer Ridolfo da Camerinogenerale capitano della Legache era col Comune di Firenze contro a' Pastori della Chiesaerano l'ambasciadori del Comune di Firenzetra' quali fui io scrittorein quelli tempi che 'l cardinale di Genèva passò di qua co' Brettoni. Ed essendo un dí a casa del detto messer Ridolfo e io e altriappresso alla piazza de' frati Predicatori di Bolognae uno morto era portato a sepellire. Veggendo ciò messer Ridolfosi volge a noidicendo:
- Che nuova usanza ho veduto in alcun paeseche quando uno è portato alla fossadrieto gli vanno una gran brigatatra' quali molti innanzi vanno in camicia cantandoe poi ne vanno drieto a costoro grandissimo numero d'uomini e di donne piangendo; e questi che piangonoin fine danno denarie pagono quelli che cantano!
Dice subito uno ambasciadoreche avea un poco del nuovoe messer Ridolfo se n'era accorto:
- O dove si fa cotesto?
A messer Ridolfo e gli altri vennono le risa grandissimedicendo:
- Fassi in ogni luogo.
Ancora non lo intese. E io dissi:
- E’ ci è via piú nuova cosae non dirò di lunge di strani paesiche io veggio in Bologna portare il vino nelle ceste e mangiare i cocchiumi delle botti.
Ciascun dice:
- Vogliàn noi fare a chi maggiore la dice?
- Io non so che maggiore: non vedete voi che ora di vendemmia portare il mosto in quelli cestoni? Non vedete voi che mangiano per casa cocchiumi bianchi di botti?
E cosí era. Dice un altro:
- Quando io venni in Bolognaio trovai piú nuova cosach'io mi scontrai in unopresso di qui due migliache avea il capo di ferro e le gambe di legnoe favellava con le spalle.
- O questa è ben piú nuova- dicon tutti.
Dice costui: - Ell'è piú vera che l'altre.
Dicono elli: - Dehdicci comese ti cal di me.
- E io vel voglio dire: io trovai un uomo con una cervelliera in capo ch'andava a cogliere pine nel pineto di Ravennae andava a gruccie; e domandandolo se uno famiglio che io avea mandato innanziavea vedutoe quelli ristrinse le spalledicendo con esse che non l'avea veduto.
Or cosí si raccontarono qui per diletto quelli veri che aveano faccia di menzogna. E ben v'erano de' nuovi uominiché v'era tale che avea comprato ochee turato loro gli orecchi con la bambagial'avea messe sotto la lettiera dove dormía nell'albergo di Felice Ammannatidicendo ch'elle non ingrassavono per lo star molto in ascoltoe non beccavono; e però avea turato loro gli orecchi. Ma io scrittore il posso dire di vedutach'ell'avevono appuzzato la camera con tutto l'albergo in forma che gli osti non vi voleano stare; e ben lo seppe Felice Ammannati che con tutto il puzzo ne fece di belle novellepigliandone con altrui gran diletto. E’ si conviene molte volte dare inframesse di frasconie mostrare di nuove novellenate da nuovi uomenicome erano queste.
E benché nel primo dire paiano frasche e bugienell'effetto son pur veree la novità degli uomini si truova di molti modii quali il piú delle volte sono verie non paiono.


NOVELLA CV

Essendo amunito messer Valore che muti foggiamettesi il cappuccio a goteche mai piú non l'avea portato.

Messer Valore de' Buondelmontidel quale adrieto è assai dimostrato chi fuusando sue diversità e sue nuove manierefu uno dí da' suoi consorti amunito che se non mutasse foggia elli lo metterebbono in luogo che se n'avvedrebbe che l'avessino per male. Messer Valore risponde a costoro:
- Io v'ho intesoe non vi bisogna piú direche siate certi ch'io muterò foggiapoiché voi volete.
Ed e' risposono:
- Fatelo per lo vostro miglioresí che noi ce n'avveggiamo.
E quelli disse:
- Io lo farò.
E vassene a casae chiama "Mamma" (una sua madre che ave' ben novantacinqu'annied egli n'avea settantacinque); e dice quello che gli hanno detto e' suoi consorti e ch'ella gli truovi li suoi cappuccich'egli intendea di portare il cappuccio a goteche sempre l'avea portato a foggia. E trovatone uno largola mattina sel misee uscí fuori col cappuccio a gotee andando per Firenzepensate nuova cosa che pareaché sempre l'avea portato a foggia. Chi lo vedeadicea:
- O che è questomesser Valore? io non vi conoscea; avete voi i gattoni?
- Anzi ho mutato foggiache m'hanno detto i miei consorti che se io non muto foggiache mi metteranno in prigione; e però siate mie' testimoni che io l'ho mutata.
E cosí andò per Firenze rispondendo a chiunque il domandavatanto ch'e' consorti dissono un dí.
- Messer Valoreancor son questi de' modi?
Onde messer Valoreper disperatoe per levarsi loro dinanzise n'andò in contado a Montebuonie là facea sue faccende: e fra l'altre un dí facea fare un muro a terra; e arrivando là certi suoi vicinidicono:
- Che è questomesser Valore? o voi murate a terrae riprenderesti tutti gli altri uomini?
Dice messer Valore:
- Egli è meglio tenere a terra che vendere a calcina; e' mi conviene essere buon garzonech'e' consorti miei m'hanno minacciato e non vogliono ch'io porti foggia; e quando voi ne vedete alcuno di lorovi priego dichiate come io sono disposto e come io fo masserizia.
E cosí si partironoed egli stette piú tempo in contadoe le sue cose uscirono di mente a' suoi consorti.
Avea presa la forma e avea passato settantacinque anni; impossibile era che mutasse foggia dell'animo: quella del cappuccio fu agievole a mutare. Vecchio di tempo e nuovo di costumicome che siano differentirade volte si parte l'uno dall'altro.


NOVELLA CVI

Una moglie d'uno orafo riprendendo il marito d'avere aúto a far con altraed elli riprende lei per simigliante cosa; ed ella risponde che l'ha fatto in utile della casae vince la quistione.

Nel borgo alla Noce nella città di Firenze fu già uno orafo d'ottonee avea una sua moglie molto cortese della sua personaed elli se n'avvedea in gran parte; ma per lo miglioree per aver pacesel tacea. Avvenne caso che questa donna infermòed ebbe lunga malattiaper tale che il marito alcuna volta s'era infardato con un'altra tristae alla donnao moglie che vogliamo direera la detta cosa venuta agli orecchi; di che cominciò ad avere parole col maritoe tra molte parole cominciò a dire:
- Tu hai uno grande pensiero de' fatti mieiche mentre che io sono stata per moriree tu se' stato or con una tristaor con un'altra.
Dice il marito:
- Oggimai dich'io che tu se' guaritapoiché tu cominci a squittire.
- Che squittire con la mala pasqua! Síche io sono coccoveggia. Parevati mill'anni che io morisse; non t'è venuto fatto. So che tu stavi a barba spimacciataper torti poi una di queste tue triste.
Dice il marito:
- Io son certo che qualche buona panichina t'ha messo nel capo questi imbratti.
- Ben che tu se' imbratto e vituperio con tuo' struffinacci: va' struffinati con essi quanto tu vuogli che a me non t'accosterai tu piúsozzo can vituperato.
Quando costui ha assai uditodice a costei:
- Io mi sono assai stato chetoe per li tempi passati e ora; ma io non mi posso piú tenere. Deh dimmibuona feminache ti par esser Santa Verdiana che dava mangiare alle serpi: non credi tu che io sappia chi tu se'? e non ti misurie biasimi pur mee taglimi legne addosso. Se fusse pur quel che tu di'tu hai aúto male cotanto tempoe teco non ho potuto usaree per questo se io fosse ito ad altra feminanon sarebbe stato cosí grande avolterioma io che sono stato sano già cotanto tempoe tu hai potuto usare con me come l'altre usano co' loro maritie ha' mi fatto falloe non credi forse che io lo sappia? ben lo so bene.
Dice la moglie:
- E tu tel sappiche se io l'ho fattol'ho fatto in utile della casa col nostro lavoratoreche ci fa buona misura e dacci le staia colme. Ma tu l'hai fatto in danno della casae tu 'l sai che hai messo in culo a queste tue troiaccee metti ciò che tu puoi.
Dice il marito:
- A me pare che tu sia fatta una trecca baldella; io non sono per perdermi piú il fiato con teco.
Dice quella:
- Io ne son certa che tu lo vuoi ben perdere con l'altre.
Dice il marito:
- Sa' com'è del fatto? fa' come ti piaceche poco impaccio m'ho dato da quinci addietroe vie meno me ne darò da quinci innanzi. Una cosa ti ricordarò: abbi a mente l'onore tuo e pensa che tu déi morire.
Disse la moglie:
- Pènsavi pur tuche morrai prima di me.
Disse il marito:
- E cosí sia; tu m'hai ben fracido; io te la do per vinta.
Dice la moglie:
- E tuttavia mi di' villaniasí che io sono quella che t'ho fracido; va' domandane i cessami tuoise t'hanno fracido o eglinoo ioché tu non fosti mai degno d'avermiche maladetta sia la fortunaché mio padre mi potea maritare a Baldo Baldovini che serei stata con lui come gemma in anello; e poi mi diede a una bella gioia.
Dice il marito:
- Io ti dico che io te la do per vinta; lasciami vivere -; e volte le spallese n'andò alla bottega e tornossi nel modo suo di prima: che se avesse trovato con lei quello dello staio colmofacea vista di non vedere.
Ed ellacome buona massaiasempre s'ingegnò di fare la faccenda in utile della casainfin ch'ella poteo.


NOVELLA CVII

Volpe degli Altovitiessendo a tagliere con unotaglia testicciuole di cavrettoe 'l compagnomentre che tagliasi mangia l'occhi; il qualeciò veggendogli proffera si mangi anco i suoi.

Io ho pur voglia di raccontare una brieve novellettae piacevolela quale col piú bel motto del mondo gittò a mensa uno degli Altoviti chiamato il Volpe. Il quale essendo ad un suo luogo in una villa che si chiama Palazzuolopresso all'Ancisa a un migliogli capitorono di maggio certi Pratesi che andavano verso Arezzo; ed elli per sua cortesia li ritenne la sera a cena e albergo. Ed essendo venuta l'ora della cenae postosi a tavolavennono certe testicciuole di cavretto; e 'l Volpeessendo a tagliere con uno di lororecasi innanzi una testicciuola e cominciala a partire: e messo un occhio sul tagliereil Pratesesanza aspettar altrosubito il piglia e manucaselo. E 'l Volpe pone in sul tagliere l'altro; e come fu in sul taglieree quelli fa il somigliante. Quando il Volpe vede questopon giuso il coltelloe voltosi verso costuialzando le mani agli occhie sciarpatilifu tutt'unodicendo a questo Pratese:
- Dehmangiati anco questi per lo mio amore.
Il Pratese conobbe il motto e vergognossidicendo che avea il pensiero altrove. Dissono i compagni:
- Per certo tu se' assai piacevole compagnone a tagliere.
E costui disse:
- Volpe mioio l'ho in boto: che poi che gli occhi d'una giovane m'uccisonoessendo da loro mortoio mi botai sempre mangiare gli occhiovunche io gli trovassecom'uomo che fo una mia vendetta.
Il Volpe udendo questolevasi e dilungasi da lui su uno deschetto:
- Alle guagnele! se codesto èquelli che io ti profferea tu non se' per avere; e se mai tu mangerai piú mecoio vorrò il salvocondotto per gli occhio tu ti anderai con Dio.
L'amico lasciava pur dire e foderavasidando al tagliere il comandamento dello sgombraretale che se 'l Volpe avesse posto piú occhi che non furono mai di cera appiccati a Santa Luciatutti se gli arebbe mangiati. E cosí si recò la cattività in ischerzoridendosi del suo costume. E 'l Volpe poi sel menò una volta a cenae non gli dié testicciuole né occhima diégli peduccisí ch'egli apparasse a sonar le sampogneo di sonare zuffoli diventasse buon maestro. E cosí con piacere e con dilettoe con nuove vivande venne sí digrossando questo Prateseche era uno grandissimo manicatoreche rado poi volle mangiare col Volpeassai lo invitasse.
Grande scostume èstando a un tagliere con un altroche uno non ha tanta temperanza che si possa un poco aspettaree non fa la ragione del compagno. A molti n'è stata fatta tanta vergogna che sarebbe meglio che avessono fatto tre dí dieta.


NOVELLA CVIII

Testa da Todiessendo de' Prioriha sotto carne arrostita insalatae uno catello all'olore gli entra sottoe abbaiae tanto fa ch'elli la gettae rimane scornato.

Al tempo d'Urbano papa Vera per lo detto papa nella terra di Todi uno suo nipotech'avea nome messer Guglielmoassai cavaliere dabbenea tener luogotenente per lo detto papa. Era l'officio de' priori nel loro palagioed era di loro priore de' priorial modo loroe al modo nostro è chiamato il propostoe avea nome Testail quale avea per usanza ogni mattina di bere a buon'ora; e fra l'altre mattine una mattinaperché 'l vino non gli facesse noiae anco per potere bere meglioprese una fetta di carne salatae con uno pane sotto se n'andò alla cucinae mettendo la detta carne su la braciacome la si fu un poco riscaldatae messer Guglielmo giugneche vuole favellare a' priorie subito e chiamato il proposto:
- Venite che messer Guglielmo è venuto che vuole favellare a' priori.
Il Testach'era propostosubito per non perdere quella sua arrosticciana o carbonata che vogliamo diremettela in uno pane e cacciasela sotto e giugne in salaed entra nell'audienzatrovando i compagnie chiamando messer Guglielmo.
Avea il detto messer Guglielmo uno catello quasi tra botolo e bracchettoe mai non si partiva da lui; ed essendo tra lui e tra' priorisentí l'odore della carne salatae andava pur col muso fiutando a uno a unoe poi si fermava al propostoe piú volte andandogli intornoora levandosi rittoe ora intrandogli sotto il mantelloe alcuna volta ulolava. Alla perfinenon partendosi questo canema stropicciando il proposto attorno attornoel proposto cava il pane e la carne secca di sotto e gettala al cane e dice:
- E tu te l'abbi al nome del diavolo.
Gli altri priori come grossi diceano:
- E che hai tu dato al caneproposto?
Ed egli dicea:
- Andate pur dietro a quello che siamo per fare.
Dice messer Guglielmo:
- Guardasignoriquanto il vostro proposto è amator della chiesa di Roma; che non che sia tenero di monsignor lo papa o di meche sono suo vicarioma egli è tenero di uno mio vile cagnucciuoloal quale vedete che ha dato cosí ben da mangiare in questa mattina.
Tutti i priori parvono montonisí stettono chetie al proposto parve aver pisciato nel vagliotanto che quasi per vergogna ammutolò. E 'l cavaliere detta la sua faccenda si partíraccontando poi al papa Urbano la piacevole novella del proposto di Todi e del suo cucciolino; della quale il papa e gli altri della sua Corte che 'l sepponopiú tempodicendo questa novellan'ebbono piacere grandissimo.
Ancora s'usano di simili reggimenti che pasciuti e avvinazzati vanno sempre ad ordinare e dare li loro consigli; ed ella sta come la stae Italia il sache con molte fatichedi male in peggio va.


NOVELLA CIX

Uno va podestàe lascia che la donna abbia guardia d'una botte di vinosí che la ritrovi. Ella il dà a un suo divoto fratee 'l maritotornato d'officionon se ne ricordò; di che ella pone a' Servi una botte di cera.

Presso alla chiesa de' Servi da Firenze fu già un uomo d'assai buona condizionee avea una sua donna molto bella. Il quale essendo per andar podestà del Borgo a Santo Lorenzolasciò e comandò alla moglie che d'una sua botte di finissimo vino vermiglio per alcuna persona non se ne dovesse cavare; ma che gli lo dovesse serbaresí che alla sua tornata trovasse e la botte e 'l vino nella forma che lasciava. La moglie disse che ciò che diceaserebbe fatto; il marito andò in signoriae la moglie rimase a fare la masserizia. Essendo questa donna stata circa due mesiuno frate suo confessore o devotodella detta chiesa de' Servicominciò ad esser di mala vogliae la donna vicitandolo alcuna voltae domandando come stavaed elli rispondea che stava bene s'elli trovasse uno vino che li piacesse. Disse la donna:
- Io credo che in casa ne sia uno finissimo; ma il mio marito m'ha fatto tale comandamento che io non ardirei di toccarlo.
Udendo il frate questograndissima volontà gli venne d'avernedicendo alla donna:
- Dehmandatemene una piccola ingastaduzza pur per assaggiare.
La donna disse:
- Per una inghestara sia che vuolech'io ve la manderò.
E mandatoli la detta inghestadaal frate gli piacque sí che gli parve gli rimettesse la vita addosso; e raccomandandosi molto a questa donnadi guastada in boccalettoe di boccaletto in guastadail frate visitò sí questa botteche un mese innanzi che 'l detto tornasse dell'officioil vino ebbe del bassoe 'l frate era guarito e gagliardo.
Dice un dí la donna al frate:
- Oimè tristacome farò che 'l marito mio è per tornaree la botte che mi raccomandò cotanto è vota?
Dice il frate:
- Buona donnanon ti dare pensiero; raccomandati e botati a questa nostra Annunziatae lascia fare a lei.
Dice la donna:
- Se la mi fa grazia che 'l mio marito non mi tormenti per questa botte del vinoio gli porrò una botte di cera.
Disse il frate:
- E cosí fa'e vedrai ch'ella t'aiuterà.
Compiuti li sei mesiel marito tornò di podesteriae come che s'andasse la cosaaffatappiato o aoppiato che fossegiammai non si ricordò né di questa bottené del vinose non come mai non fosse stato in quella casa. La donna piú volte disse questo al frateil quale le disse:
- Siate certa ch'Ella non abbandonò mai personae ha fatti sempre grandissimi miracoli.
Onde la donna fece fare una botte di cerae mandolla alla detta Annunziata de' Serviper aver vota una botte di vinoe per essere tornato il suo marito di podesteria sanza la memoria.
Di questi boti e di simili ogni dí si fannoli quali son piú tosto una idolatria che fede cristiana. E io scrittore vidi già uno ch'avea perduto una gattabotarsise la ritrovassemandarla di cera a nostra Donna d'Orto San Michelee cosí fece.
O non è questa non mancanza di fedema uno gabbamento di Dio e di nostra Donna e di tutti suoi Santi? E’ vuole il cuore e la mente nostra; non va caendo immagini di cerané queste borie e vanità. Chi si recasse ben la mente al pettoe' vederebbe che molti lacciuolicon li quali si crede andare in paradisole piú volte tirano altrui allo inferno.


NOVELLA CX

Uno gottoso facendo uccidere un porco di Santo Antonioil porco gli fugge addosso in sul lettoe tutto il pestae assanna chi l'ha voluto uccideree campa.

E’ fu non è ancora molt'anniuno mio vicinoil quale era tanto perduto di gotte che quasi mai di gran tempo non era possuto uscire del letto; e per questa sua malattia non avea perduto la golané alcun dente ancorama sempre agognava come potesse menare le mascelle. Avea fatto suo refettoro costui in una camera terrena appresso alla viadonde s'entrava nella sua casae ivi molti suoi calonaci s'andavano a stare con lui vicitandolo molto spessoperò che mai altro che mangiare e bere non si facea nel detto luogo. Avvenne per caso che due porci di Santo Antoniobellissimiquasi ogni dí entravono dalla porta da viae poi subitamente entravono nella detta camera. Un giorno fra gli altriessendo entrati questi porci nella detta cameradice il gottoso a uno suo mazzamortone contadino:
- Che recadía è questa di questi porci? voglianne noi uccidere uno?
Risponde quelli:
- Purché voi vogliate.
Dice alcun che v'era:
- Oimè non ischerzate con Santo Antonio.
Dice il gottoso:
- Se' tu di questi sciocchi ancora tu che credi che Santo Antonio abbia a insalare carne? per cui? per la sua famiglia? tu sa' bene che colassú non si bee e non si mangiama questi suoi gaglioffi col T nel pettosono quelli che divorano e dannoci a credere queste frasche; tutto il peccato si sia mio; lasciate fare a me.
E dice al fante:
- Troverrai una scure e appoggera'la in cotesto cantoe lascerai poscia governare a me questo fatto.
E cosí fu messo in ordine.
L'altra mattinanon essendovi altri ch'elli nel letto attrattocome ho dettoe questo suo fanteed ecco li porcied entrono nella camera. Dice il gottoso al fante:
- Serra l'uscio e fornisci.
Quelli era un bastracone che averebbe gittato in terra una casa. Piglia la scure e menae dà con essa al porco nel capo; e non gli dié di sodoché la scure schianci; e 'l porco feditogittando molto sanguegettasi sul lettoe l'altro dietroglie volgonsi verso il fantefacendo gran romore. Il gottoso che avea i porci addossocomincia a gridare. Il fante il vuole soccorrere; sale sulla cassaper cacciare li porci; e' porcicom'è di loro usanzaco' visi volti al fante gli si faceano incontro e continuo ammaccavano il gottoso; e 'l gottoso gridava; e' porciquando il sentivanogrufolavano verso il suo visouscendo tuttavia il sangueche parea una doccia. Il fante combattea di su la cassae non potendoli per alcun modo cacciaresale sul lettoe su questo salirepose i piedi su' piè del gottoso; il quale comincia a gridare:
- Accurr'uomoch'io son morto- e avea il viso tutto sanguinoso.
E 'l fante come fu sul lettoe un porco l'assannò per la gambae comincia a gridare anco elli; e cosí in questa baruffapigiando i porci il gottosogridando il gottosoche avea ben di chelamentandosi il fantee stridendo i porcila famiglia del capitano passando per la via sente questo romorecorre dentro: - Avrí za -; e caccia in terra l'uscio della camera ch'era serratoed entrando dentro il cavaliere vede il gottoso col viso tutto insanguinatovede il fante sul letto tra' porci feditoe vede fedito un porco su la testa.
- Che vuol dir questo? - con le spade e co' berrovierifacendosi contro a' porcipercotendoli; e' porci difendendosima non potendo piúfacendosi adrietocaddono tra la lettiera e 'l muroed eranvi sí stivati che uscire non ne poteano; e per questo faceano si grande le stridae 'l gottoso i muglie 'l fante i dolorie la famiglia il romoreper sí fatto modo che parea l'inferno; e tutto il mondo era tratto e traea; e ancora non avea potuto il cavaliere sapere quello che questo fosse.
Alla perfine il gottoso che appena potea favellaree perché favellasseper lo romore de' porci non era uditodice:
- Oimèio sono mortoio sono tutto lacero; volendo fare cacciare fuori questi porcie' ci si rivolsono addossoe hannomi concio come voi vedete.
E’ porci tuttavia stridivano.
Udito ciò il cavaliereva col bastone verso i porcidicendo:
- Nella mal'oradoveteci uccidere gli uomeni? - e dà loro del bastone.
Egli erano in soppressae perché avessono volutonon ne potevano uscire. Essendo il cavaliere quasi straccoe udendo la cagionedisse alla famiglia:
- Jamoci -; e cosí si partí.
Rimasa cosí la cosali porci non si poterono mai trarre di quel luogo che convenne che 'l gottoso fosse portato altrovee convenne si disfacesse la lettiera; e con questo erano sí accanati e accesi che fu gran pena a poterli cacciar fuori. E cosí terminò questa caccia che 'l gottoso ne venne presso a morteessendo le carne sue tutte peste; sopra le gotte ebbe male sopra malenon potendo guarire in parecchi mesi delle pedate e percosse de' porci. Il fante fu per perderne la gamba. Santo Antonio fece questo miracoloe però dice: "Scherza co' fanti e lascia stare i santi".


NOVELLA CXI

Frate Stefanodicendo che con l'ortica farà levare la figliuola della comareche piú non dormaha a fare di lei; e la fanciulla gridandoe la madre dice che faccia fortesí ch'ella si levicredendo che faccia con l'ortica; poi in fine lo conobbe per falso compare e piú non volle sua domestichezza.

Nella Marca in uno castello che si chiama San Mattia in Cascianoofficiava in una chiesa un frate che avea nome frate Stefano; il quale presso alla chiesa avea per vicino una sua comare e costei avea una bella figliuola d'etade di quattordici anni o quindici. Ed essendo nel tempo della state che comunemente alli giovani piace il dormiredormendo questa fanciulla che avea nome Giovannae chiamandola la madre che si levasseed ella rispondea che si levava; e chiamando molte volte: "Giovannalevati"; ed ella dicendo: "Io mi levo"; e non levandosi; lo detto frate Stefanoudendo tanto chiamareed essendo nella chiesasubito si trae le brachee lasciale in un canto; e colseche ve n'avea pressoparecchi gambi d'orticaed esce fuori della chiesae va verso la sua comaredicendo:
- Comare miavuo' tu che io la vadia a orticheggiaresí ch'ella si lievi?
La madre disse:
- Io ve ne prego - : avvisandosi che questo suo compare e parrocchiano fosse cattolicocome dovea essere.
Giunse frate Stefano al lettodov'era la detta Giovannae scoprendo li panni del letto montò addosso alla detta Giovanna pigliando e piacere e dilettoma non sanza faticaperò che la detta fanciulla piangea e gridava. La madre sentendoladicea:
- Orticheggialaorticheggialafrate Stefano.
E lo detto frate Stefano dicea:
- Lascia fare a me -; e diceva frate Stefano: - E levera'ticicattiva.
E la madre dicea pure:
- Orticheggialaorticheggialasí che si lievi.
E finalmente avendola orticheggiata per questa manierae adempiute le sue lascive volontatiritornò verso la comare con l'ortica in mano; ritornando alla chiesadice alla comare:
- Ognora ch'ella non si lievachiama pur mevedrai come io la orticheggerò.
Partito lo fratela Giovanna si levò piangendoe vanne verso la madre; la qual disse:
- Hatti bene orticheggiata?
La Giovanna disse:
- Altro ci ha che ortica; andate a veder lo letto.
E la madre l'andò a vederee vide li segni che frate Stefano l'avea tradita e vituperata; e cominciò a dire:
- Compare falsotu m'hai ingannata; ma per la morte di Dio te ne pagherò.
Quel dí medesimo frate Stefano ebbe sí poca faccia che domandò la comare se la sua figliuola s'era levata. Ed ella rispose:
- Vannecompare falsoche per la passion di Dio non ce ne beccherai mai piú - : e non gli entrò mai piú in casa.
Non è adunque maraviglia se le piú non vogliono presso frati o pretida poi che cosí sfrenatamente assaliscono le femine. Un altroe io scrittore sono di quelliche facendo prima mille madriali e ballatenon acquisteremo un saluto; e costuivenutoli il pensierocalate le vele e lasciate in guardia a quelli Santi dipinti della chiesan'andòcome uno indomito toroa congiungersi con una fanciulla.
E perciò ha provveduto bene la città di Vinegiache poiché altri non si può vendicare sopra lor mogli o figliuoleche a ciascuno sia lecito sanza pena fedire i cherici di qualunque fedite non muoiano ellinoed ènne pena soldi cinquanta; e chi è stato làl'ha potuto vedere; ché pochi preti vi sono che non abbiano di gran catenacci per lo volto. E di questo freno è infrenata la loro trascurata e dissoluta baldanza.


NOVELLA CXII

Essendo Salvestro Brunelleschi a ragionamento con certicome l'avere a fare con le mogli era dannoso; e Franco Sacchetti dicendo che di ciò ingrassava; la moglie del detto Salvestro udendo ciò da una finestrafa ciò ch'ella puote la notte perché 'l suo marito ingrassi.

Non è ancora dieci anni che Salvestro Brunelleschimolto piacevolissimo uomodiede cena a una brigatatra la quale mi trovai io scrittore. E avendo il detto comperato una filza di salsiccioni per metterne su ogni tagliere uno lessoavendogli fatti lessaregli misse a freddare su una finestra. Quando la brigata fu a tavolavennono su' taglieri capponi lessi; dicendo Salvestro:
- Signoriio mi vi scuso che vi avevo a dar salsicciuoli che erano su una finestra a freddare; non ve gli ho trovati; non so se gatta o altri gli avesse tolti.
Dico io:
- Per certo serà stato uno nibbio che io vidi testè per aria con una filza che portava; e' siano stati dessi.
E cosí fu; che per maggior prova piú di sei mesi continuò ogni dí a quell'ora venire verso la detta finestraavvisandosi ogni dí fosse pola.
Ora avendo cenatoe usciti fuoriavendo il detto Salvestro una sua donna piacevolissima com'eglied era Friolanastando quella sera alla finestra; e su una panca appiè della sua casa essendovi molti vicinicom'è d'usanzaed eranvi de' ben satollie io scrittore mi trovai tra quelli; vi si cominciò a ragionare dell'usar con le moglie la proposta fu: quanto l'uomo rimanea vinto per quella faccenda. Dice Salvestro:
- Quando io ho aúto a fare della donnami par essere nell'altro mondosí rimango vinto.
Dice un altro:
- A me comincia andare la cappellina in su l'occhio manco.
Dice un altro:
- A me intervien peggioché quando io mi voglio trovare con la donna miala cappellina si rimane sul capezzale.
Dice unoche ha nome Cambio Arrighi; avea settant'anni:
- Io non so che voi vi dite; quando io sono stato una volta con la mia per quello affaree' mi par esser piú leggiero che una penna.
Dice Salvestro:
- Sta' con lei due voltee volerai.
Io udendo costorodico:
- Io ho gran vantaggio da voiche l'usar con la donna mia mi tiene grasso e gagliardo; quanto piú uso con leipiú ingrasso.
La donna Friolana ci era sopra capo a una finestracom'ho dettoe ogni cosa notava. E uno maestro Concoil quale era di barattiere divenuto pollaiuoloe di pollaiuolo era diventato medicoche era vago delle femine come i fanciulli delle palmatedice:
- O sciocchisciocchie' non è piú inferma cosa a' vostri corpie da cacciarvi piú tosto sotterrache quello di che voi dite.
Venne la nottee partí questo ragionamentoe ciascuno s'andò a casa. Salvestro andatosi a letto con la sua donna che ogni cosa aveva uditala donna gli s'accosta allato e dice:
- Salvestroora m'avveggio perché tu se' cosí magro; e ben veggio che Franco ha detto istasera il vero di quello che voi ragionavate.
Dice Salvestro: - Di che?
Dice quella:
- O tu ti mostri delle cento miglia; ciascuno degli altri dicea che l'usar con le loro mogli gli cacciava sotterrae Franco disse che ne ingrassava; e però se tu se' magroegli è stato tuo difetto; io intendo che tu ingrassi -; e tanto feceche convenne che Salvestro piú volte si sforzasse se potea ingrassare.
Venuta la mattinae io mi stava su la panca da viae Salvestro scendendo la scalauscendo fuorie io salutandolo gli do il buon dí. E quelli risponde:
- Cotesto non dich'io a tema piú tosto ho voglia di dire che Dio ti dia cento milia malanni.
E io dico:
- Perché?
E quelli dice:
- Come perché? tu stai la sera a dire che l'usare con la tua donna t'ingrassae la donna mia t'udí; ella mi giunse istanottedicendo: "Or veggio perché tu se' magro; alla croce di Dioe' conviene che tu ingrassi"; e hammi fattoper le tue parolefar quelle coseche Dio sa come sono sofficiente a ciò.
Continuo era la donna alla finestrae con grandissime risa dicea ch'ella intendea d'ingrassare Salvestrocom'era ingrassato io: "e quel maestro di firusica del Concoche disse sí e síche Dio gli dia il malannoche sta con la bottega piena d'orci invetriati e di torni da balestrae tiravi su le gambe attrattee' andò pur l'altro dí a Peretola a tagliare uno gavocciolo tra la coscia e 'l corpo; gli trasse il granelloe morisseneche arso sia ellicom'egli è degno; sta a dire che noi cacciamo sotterra i mariti; e' gli si vorrebbe ben fare quello che merita; lasci stare le moglicon la mala venturaché egli non può parlare di quello che non prova; tanto s'intende di questoquanto della medicina; ché bene è tristo chi alle mani gli viene". E poi voltasi verso me disse:
- E’ par bene che Franco conosca quanto il maestro Conco: e' non vi fu niuno che dicesse il veroaltri ch'elli. E tuSalvestrone potrai bene scoppiareche giugni fuori e non lo salutiper quello che disse; che converrào vuogli tuo noche io m'ingegni d'ingrassarti.
Or cosíper le mie parolefu condotto il detto Salvestro che spesse volte convenía che vegliasseche volentieri averebbe dormito; e la donna lo studiavae quanto piú lo studiavapiú dimagrava; tanto che la donna gli dicea spesse volte:
- Per certoSalvestrotu se' di cattiva razza; quando io credo che tu ingrassie tu dimagheri; averesti tu la pipita?
- Gnaffe sí ch'io l'ho; ma né mica l'hai tutanto becchi volentieri.

Quando ebbono avuto in su questo un pezzo di piacerene feciono pacee tornoronsi in sul dormiree in sul russarestandosi pianamentecome la natura richiedea.




NOVELLA CXIII

Al proposto di San Miniato un venerdí santo da uno della brigata delli scopatoricon la boccaè tolta l'offerta che avea su l'altare.

In San Miniato al Tedescoche oggi si chiama fiorentinofu un proposto riccocome ancora oggi si vede la rendita di quello propostatoma era tanto avaro che Mida non fu il terzo. Avvenne per caso che uno venerdí santo andandosi a visitar le chiesee offerere su gli altari ogni maniera di gentee oltre a questo molte compagnie e regole di battuticol Crocifisso innanzi; avvicinandosi su la nonail proposto s'accostò all'altare per vedere come fosse fornito; e vedutovi suso assai danarigli cominciò a raccogliere per riporli però che mezzo dí era passatosperando non dovervi venire piú a dare offerta alcuna gente. E raccolti i detti danari su uno monticello in su l'altaree aprendo la tasca per mettervegli entroed ecco giugnere una compagnia di battutiper inginocchiarsi all'altare e offerere: come vede costorolevasi dall'altaree lasciavi li denari; e 'l cherico da parte; pensando che quando elli vedessino tanti danarimaggiore divozione gittasse al suo maggiore altare; e partissie uscío per alquanto fuori della chiesa. Quando gli scopatori ebbono dinanzi a quello altare orato inginocchione quanto vollonovanno a baciar l'altaree cosí giugnendo all'altareuno di loro gittato gli occhi a quel monticello de' dinarimandato un poco la visiera dell'elmofacendo vista di baciare l'altarepose la bocca aperta su' detti danarie quanti con la bocca ne poteo pigliaretanti ne pigliò; e data la voltaseguendo gli altris'uscío fuori. Stando alquantoil proposto torna per ricoglieree credendo ch'e' denari fosseno cresciutigli trova scemati per sí fatto modo che sanza riguardare o comeo chedice al cherico:
- Ove sono questi denari?
Dice il cherico:
- E’ sono come voi gli lasciasti.
- Come sonocom'io gli lasciai? - dice il proposto. Piglia costuie dagliene per uno pasto.
Il cherico si scusò assaima niente gli valsee 'l proposto stette di ciò gonfiato e tristo un buon temponon potendo mai sapere che viaggio avessono fatto detti denari; e colui che se n'empié la boccacon alcuno compagno fece che si convertirono in capponi; e per l'anima del proposto feciono tra loro una bella piatanza; ed elli con l'avanzo che v'erano rimasi si stette misero e tapino.


NOVELLA CXIV

Dante Allighieri fa conoscente uno fabbro e uno asinaio del loro erroreperché con nuovi volgari cantavano il libro suo.

Lo eccellentissimo poeta volgarela cui fama in perpetuo non verrà menoDante Allighieri fiorentinoera vicino in Firenze alla famiglia degli Adimari; ed essendo apparito caso che un giovane cavaliere di quella famigliaper non so che delittoera impacciatoe per esser condennato per ordine di justizia da uno esecutoreil quale parea avere amistà col detto Dantefu dal detto cavaliere pregato che pregasse l'esecutore che gli fosse raccomandato. Dante disse che 'l farebbe volentieri. Quando ebbe desinatoesce di casae avviasi per andare a fare la faccendae passando per porta San Pierobattendo ferro uno fabbro su la 'ncudinecantava il Dante come si canta uno cantaree tramestava i versi suoismozzicando e appiccandoche parea a Dante ricever di quello grandissima ingiuria. Non dice altrose non che s'accosta alla bottega del fabbrolà dove avea di molti ferri con che facea l'arte; piglia Dante il martello e gettalo per la viapiglia le tanaglie e getta per la viapiglia le bilance e getta per la viae cosí gittò molti ferramenti. Il fabbrovoltosi con uno atto bestialedice:
- Che diavol fate voi? sete voi impazzato?
Dice Dante:
- O tu che fai?
- Fo l'arte mia- dice il fabbro- e voi guastate le mie masseriziegittandole per la via.
Dice Dante:
- Se tu non vuogli che io guasti le cose tuenon guastare le mie.
Disse il fabbro:
- O che vi guast'io?
Disse Dante:
- Tu canti il libro e non lo di' com'io lo feci; io non ho altr'artee tu me la guasti.
Il fabbro gonfiatonon sapendo rispondereraccoglie le cose e torna al suo lavoro; e se volle cantarecantò di Tristano e di Lancelotto e lasciò stare il Dante; e Dante n'andò all'esecutorecom'era inviato. E giugnendo all'esecutoree considerando che 'l cavaliere degli Adimari che l'avea pregatoera un giovane altiero e poco grazioso quando andava per la cittàe spezialmente a cavalloche andava sí con le gambe aperte che tenea la viase non era molto largache chi passava convenía gli forbisse le punte delle scarpette; e a Dante che tutto vedeasempre gli erano dispiaciuti cosí fatti portamenti; dice Dante allo esecutore.
- Voi avete dinanzi alla vostra Corte il tale cavaliere per lo tale delitto; io ve lo raccomandocome che egli tiene modi sí fatti che meriterebbe maggior pena; e io mi credo che usurpar quello del Comune è grandissimo delitto.
Dante non lo disse a sordo; però che l'esecutore domandò che cosa era quella del Comune che usurpava. Dante rispose:
- Quando cavalca per la cittàe' va sí con le gambe aperte a cavalloche chi lo scontra conviene che si torni adrietoe non puote andare a suo viaggio.
Disse l'esecutore:
- E parciti questo una beffa? egli è maggior delitto che l'altro.
Disse Dante:
- Or eccoio sono suo vicinoio ve lo raccomando.
E tornasi a casalà dove dal cavaliere fu domandato come il fatto stava.
Dante disse:
- E’ m'ha risposto bene.
Stando alcun díil cavaliere è richiesto che si vada a scusare dell'inquisizioni. Egli comparisceed essendogli letta la primae 'l giudice gli fa leggere la seconda del suo cavalcare cosí largamente. Il cavalieresentendosi raddoppiare le penedice fra sé stesso: "Ben ho guadagnatoche dove per la venuta di Dante credea esser proscioltoe io sarò condennato doppiamente".
Scusatoaccusatoche si futornasi a casae trovando Dantedice:
- In buona fétu m'hai ben servitoche l'esecutore mi volea condennare d'una cosainnanzi che tu v'andassi; dappoi che tu v'andastimi vuole condennare di due -; e molto adirato verso Dante disse: - Se mi condanneràio sono sofficiente a pagaree quando che sia ne meriterò chi me n'è cagione.
Disse Dante:
- Io vi ho raccomandato tantoche se fuste mio figliuolo piú non si potrebbe fare; se lo esecutore facesse altroio non ne sono cagione.
Il cavalierecrollando la testas'andò a casa. Da ivi a pochi dí fu condennato in lire mille per lo primo delittoe in altre mille per lo cavalcare largo; onde mai non lo poté sgozzare né egliné tutta la casa degli Adimari.
E per questoessendo la principal cagioneda ivi a poco tempo fu per Bianco cacciato di Firenzee poi morí in esilionon sanza vergogna del suo Comunenella città di Ravenna.


NOVELLA CXV

Dante Allighierisentendo uno asinaio cantare il libro suoe dire: arri; il percosse dicendo: cotesto non vi miss'io; e lo rimanente come dice la novella.

Ancora questa novella passata mi pigne a doverne dire un'altra del detto poetala quale è breveed è bella. Andandosi un dí il detto Dante per suo diporto in alcuna parte per la città di Firenzee portando la gorgiera e la bracciaiuolacome allora si facea per usanzascontrò uno asinaioil quale avea certe some di spazzatura innanzi; il quale asinaio andava drieto agli asinicantando il libro di Dantee quando avea cantato un pezzotoccava l'asinoe diceva:
- Arri.
Scontrandosi Dante in costuicon la bracciaiuola li diede una grande batacchiata su le spalledicendo:
- Cotesto arri non vi miss'io.
Colui non sapea né chi si fosse Dantené per quello che gli desse; se non che tocca gli asini fortee pur:
- Arriarri.
Quando fu un poco dilungatosi volge a Dantecavandoli la linguae facendoli con la mano la ficadicendo:
- Togli.
Dante veduto costuidice:
- Io non ti darei una delle mie per cento delle tue.
O dolci parole piene di filosofia! che sono molti che sarebbono corsi dietro all'asinaioe gridando e nabissando ancora tali che averebbono gittate le pietre; e 'l savio poeta confuse l'asinaioavendo commendazione da qualunche intorno l'avea uditocon cosí savia parolala quale gittò contro a un sí vile uomo come fu quell'asinaio.


NOVELLA CXVI

Prete Juccio della Marca è accusato allo Inquisitore per le sue cose lascivieed essendo dinanzi a luigli dà di piglio a' granelli in forma che mai non li lasciòche lo prosciolse.

E’ mi conviene pur tornare nella Marcaperò che di piacevoli uomeni sempre è stata piena. Fu nella terra di Montecchio già un preteil quale avea nome prete Juccioil quale era cattivo in ogni crimine di lussuria; e per questopurch'egli avesse possuto contentare le sue volontàogni affezione vi metteacome se nel Vangelo per la bocca di Cristo gli fosse comandato; e sempre avea per usanza d'andare sanza panni di gamba. Avvenne per caso chearrivando nella detta terra uno Inquisitore dell'ordine di Santo Francescoquesto prete Juccio li fu accusato de' suoi cattivi costumi; e fra l'altre cosefu detto allo Inquisitore che elli non portava panni di gamba:
- E questovenendo a voiil potrete fare vederee seretene certo; e secondo li vostri decreti senza brache non si puote cantar messaed elli la canta tutto dí.
Udito l'Inquisitore gli accusatorifece richiedere prete Juccioil quale di presente comparí. Come lo Inquisitore il videdisse:
- Fatti in cià ad escusarti d'una inquisizione.
E quelli accostasi a lui. Dice l'Inquisitore:
- Èmmi detto che ci vai sanza brache.
Dice prete Juccio:
- Signor mioegli è veroche per questi caldi non le posso portare.
Dice lo Inquisitore:
- Anzi ci vai senz'esseper esser piú presto alli stimoli della lussuria.
- Come che siaio sono a' vostri comandamenti.
Dice lo Inquisitore:
- Se' tu prete Juccioil quale fai tante cattivanze?
E quelli rispose:
- Non fe' mai niuna cattività.
E detto questodà di piglio alli testicoli con l'altre appartinenze dello Inquisitoree dice:
- Perché tenete voi questo pascipeco? questo è quello che va facendo le cattivanzee contra li comandamenti di Dio -; e tirando quanto poteadicendo: - Mai non ti lascerò il tuo pascipecose tu non mi prosciogli d'ogni cosa che lo mio pascipeco ha fatto.
E tanto tirò che lo Inquisitore per forza l'assolveo della formata inquisizione. E partendosi il detto Inquisitoreprete Juccio ringraziò il pascipeco dello Inquisitorelo quale l'avea assoluto de' suoi peccatidicendo quel verso delle letane: Propitius estoparce nobis domine . E cosí per nuovo modo fu deliberato prete Juccio; e l'Inquisitore se n'andò con la borsa e col pascipeco molto ristretto e forte indolinzitoin forma ch'andando a cavallodalla sella era molestato piú che non averebbe voluto.
E cosí questi cherici marchigianiandando sbracatisono sí fieriche ogni persona fanno venire a ubbidienzase non s'abbattessino a messer Dolcibeneche gli sapea capponare.


NOVELLA CXVII

Messer Dolcibeneessendo nella città di Padovae non volendo il Signore che si partissecon una nuova e sottile astuzia al suo dispetto si parte.

Nella città di Padova con messer Francesco vecchio da Carrara si trovò messer Dolcibeneil quale a drieto in piú novelle è stato raccontatoa una sua festa; ed essendo stato piú díe avendo aúto quella utilità che gli uomeni di corteche traggono a' signoripossono averee piú nulla sperandopensò di voler mutare asgiere e di partirsichiedendo commiato al signore. Il signoreveggendo che costui si volea partireperché non vedea da potere piú trarre a sénon lo licenziò; ed elli pur ritornando a domandar licenzaperò che non avendo il bullettino non potea uscire di Padovail signore ordinò con quelli delle bullette gli facessino il bullettinoe a quelli delle porte avea ordinato non lo lasciassono andarese elli medesimoo suo famiglionon dicesse loro. Messer Dolcibeneandando e' co' bullettini e con licenzapervenuto alla porta per uscir fuoriniuna cosa gli valea. Ritornando in fine al signore e dicendogli: - Al nome del diavolonon mi straziar piúlasciamene andare -; dice il signore:
- Va'per me non ti tengo; e acciò che tu 'l creda benetu vedrai testeso la prova.
E chiamò messer Ugolino Scovrignie disse:
- Sali a cavalloe va' con Dolcibenee di' a' portinari lo lascino andare.
A messer Dolcibene parve esser licenziato da doveroe muovesi col detto messer Ugolino; e come furono alla portadice messer Ugolino:
- Lasciate andare messer Dolcibenee io ve lo dico per bocca del signore.
Dissono i portinari:
- Se il signore il dicesse qui in personanoi non siamo per lasciarlo andare.
Messer Ugolino strigne le spallee tornasi con messer Dolcibene al signoree dice quello ch'e' portinari hanno detto. E 'l signore mostra di adirarsie dice:
- Dunque m'hanno i miei servi per cosí dappoco? per lo corpo e per lo sangueche io scavezzerò loro le braccia su la colla.
Messer Dolcibeneche s'avvedeadice al signore:
- Dehnon facciamo tanti atti; tu fai fare tutto questoe fa' lo per istraziarmi; ma quando io mel porrò in cuoreio me n'andrò a tuo dispetto.
Disse il signore:
- Se tu puo' far cotestoo che vieni per licenzia e per bullette? vattene ogni ora segnato e benedetto.
Disse messer Dolcibene:
- Vuo' tus'io posso?
Disse il signore:
- Sí síva' pur via.
E messer Dolcibene si partee vassene a uno luogo s'uccideano li castroni e' porci; e toglie uno coltellaccioe tutto quanto l'avviluppò nel sanguee sale a cavalloe portalo alla scoperta in altomostrando che con esso avesse fatto omicidio; e dà degli spronicorrendo verso la porta. La gente gridava: "Che èche è?" E chi dicea: "Piglia"; e chi: "Pigliate"; e messer Dolcibene gridava:
- Oimè lasciatemi andarech'io ho morto il todesco Casalino.
Come la gente udiva questochi a man giunte gli priega drietoe chi in un modoe chi in un altrodicendo:
- Dio ti dia grazia che tu scampi e che tu vada salvo.
Giugnendo alla portai portinari si fanno incontro per pigliarlo e con le spade e con lancee averebbonlo fatto; ma come udirono lui dire avere morto il tedesco Casalinole lance e le spade di piatto si menavonoe davano maggiori colpi che poteano su la groppa al cavallogridando: "Pigliapiglia"; ogni cosa fecionoperché fuggisse bene; e cosíuscendo fuori della porta a sproni battutis'andò con Dio.
E acciò che questa novella sia meglio gustataquesto tedesco Casciolino fu il piú sgraziato padovano che mai fosse in Padovae non era niunonon che bene gli volessema che non bramasse a lui venire ogni male. Era ricchissimoe per questa disgrazia si partí di Padova con ciò ch'egli aveae vennesene a Firenzee comperò casae puosesi su la piazza di Santa Croce; e comperò il bel luogo da Ruscianoil quale è oggi di messer Antonio degli Alberti. E come in Padova non avea grazia in personain Firenze n'ebbe vie menoe ivi si morí. Il signore di Padovasentendo in che maniera messer Dolcibene se n'era andatopensi ciascuno che piacer ne presenon ch'ellima tutta Padova. E 'l tedesco Casalino era guardato da ciascuno con gran risa; ed elli n'aombrò di questa novella per sí fatta maniera che quasi ne parea fatto piú tristo che prima. Messer Dolcibeneuscito di Padovase n'andò ricercando i signori di Lombardiae con questa novella guadagnò di molte robee ritornossi a Firenze con esse. E ritrovandosi fra' rigattieripoiché con esse ebbe fatto un pezzo la mostrale recò a contanti; e poi se n'andò a un suo luogo a Leccio in Valdimarinae con quelli danari fece fare di be' lavori.


NOVELLA CXVIII

Il piovano da Giogoli ingannato da un suo fanteil quale con una gran piacevolezza li fichi buoni per sé mangiavae' cattivi portava al piovano; dopo non molti dí veduto il fatton'ebbono gran sollazzo.

Alla pieve a Giogolipresso a Firenzepoco tempo fafu un piovanoche avea un suo fanteil quale quasi ogni cosa a lui opportuna faceainsino al cuocere. Essendo di settembree avendo in un suo orto un bel fico castagnuoloe avea molti belli fichi; una mattina dice il piovano al detto fante:
- Va' togli quel canestroe va' al tale ficoch'io vi gli vidi molto belli ierie recamene.
Il fante tolse il canestro e andò al detto ficoe salendovi susoveggendoli molto bellie assai di quelli pengigliantiche aveano la lagrimasi mettea in boccache parea ch'egli avesse a fare una sua vendetta; e quando coglieaper suo mangiareuno di quelli cosí fatti fichi che aveano la lagrimadicea:
- Non pianger noche non ti mangerà messere -; e mandava giú; e se mille fichi avesse mangiato con quella lagrimaa ciascun dicea: - Non pianger nonon ti mangerà messere -; e manicavaselo elli.
Nel canestro mettea fichi tortonio con la bocca apertache appena gli averebbono mangiati i porci; e portali al piovano; il quale veggendolidice:
- Son questi fichi del fico ch'io ti dissi?
Disse il fante:
- Messer sí.
E piú mattine il piovano mandò il detto fantee mai non poté avere un buon fico. Una mattina fra l'altreavendolo mandato il piovano per li detti fichidice a un suo cherico:
- Dehva' sotto la tale pergolae guarda che 'l fante non ti veggiae vedi di qual fichi mi recae quello che fa; che per certo altro che Dio non può fare che costui mi rechi de' fichi di quel fico.
E 'l cherico va sotto la pergola e sta in guatoaccostandosi piú al ficodove il fante erache potea. Essendovi su il fanteebbe veduto troppo bene checogliendo quelli piú belli fichiche piagnevano dell'inganno del loro signoreil fantesanza partirlise gli mangiavadicendo a ciascuno:
- Non pianger nonon ti manicherà messere.
Quando il cherico ha veduto e udito il fattocatalone catalonese ne va e torna al piovanoe dice:
- Messeree' ci è la piú bella novella che voi udiste mai; il vostro buon garzone va troppo bene al ficodove voi il mandatee quelli belli che voi vorreste e che al becco hanno la lagrimatutti gli manuca per sé; ed ècci peggio delle beffe che fa di voi: ché ciascuno che gli viene alle mani di queglidice: "Non pianger nonon ti mangerà messere"; e manucaseli tutti a questo modo.
Dice il piovano:
- Per certo questa è ben bella novella; ben dicea ioquesto non poter mai essere -; e aspetta che lo amico torni co' fichied eccolo tornare.
Il piovano scuopre il canestroe non truova se non fichi duri e a bocca aperta. Volgesi al fante:
- Deh morto sie tu a ghiado; quanto io ho assai sofferto! che fichi son questi che tu m'hai recato parecchi mattine?
Quelli risponde:
- Messereson di quel fico che voi mi mandaste
Dice il piovano:
- E tu di' veroma di quelli del lamento della Maddalena non me ne tocca niuno a me.
Dice il fante:
- Che hanno a fare i fichi con la Maddalena?
- Ben lo sai tu- dice il piovano- come tu hai consolato quelli che aveano la lagrimache se' stato sí pietoso del piagnere che faceano che tu gli hai tutti divorati.
Il fante si difendea; ma pur sentendo dire il piovanocon la testimonianza del chericoebbe per certo il guato essere scopertoe dice:
- Messer lo piovanoquello che io facea io mel credea fare per vostro vantaggio; io vi recava de' fichi che stavano divisi e a bocca aperta. E perché ve gli recava partiti e divisi? Perché voi sempre gli partitequando gli mangiate; e perciò che non gli aveste a partiree non duraste quella fatica; che quanto io per menon ne parto mai niunoe però mangiava gl'interi. L'altra ragioneil perché io ve gli recava a bocca apertatenendo per me e mangiando quelli della lagrimaè perché io conosco che le cose allegre vogliono esser de' signorie le triste de' fanti. Io vi recava i fichi lieti e che rideano di sí gran volontà con la bocca apertache se avessino aúto dentitutti si sarebbono annoverati; e per me mi toglieva li tristi di pianto e lagrimosi.
Dice il piovano:
- Per certotu m'hai rendute ragioni che tu déi molto ben sapere il Rinforzato -; e fra sé medesimo godea di questa novella; ma pur non síche trovando da ivi a pochi dí che 'l fante detto allegando un testo del Codicogli facea danno in cucinalo mandò viaessendo rimaso il detto piovano molto piú sperto e piú cauto.


NOVELLA CXIX

Messer Gentile da Camerinomandando l'oste a Matelicacerti fanti da Boveglianoessendo ebbricombàttieno uno pagliaioe nella finecogliendo ciriegesono tutti presi.

Messer Gentile da Camerino fece bandire una volta per lo suo territorio che cotanti per centinaio dovessino con le loro arme compariresapendo che volea mandare l'oste a Matelica; e per obbedireogni suo sottoposto s'apparecchiò d'andare nella detta oste; e fra gli altri comuni e villeandarono alla detta Matelica una nuova generazione di gente d'una villa che si chiama la pieve di Bovegliano; della qual villa si partirono per andar nell'oste trenta e dieci buon fantie ben armati tutti si misseno in camminoe arrivorono ad una tavernadove la detta brigata si rinfrescarono; e poi che ebbono molto ben beútoche tutti erano obbriachiandarono in su un'aiadove era un grande pagliaio di pagliae chi si voltolava di quae chi di là. Disse uno di loro che avea nome Nazzetto:
- Brigatanoi andiamo nell'oste a Matelicae se noi non proviamo prima le nostre personeinnanzi che giugniamo a Matelicanon sapremo che faree là saremo vituperati; e perciò credo che sia lo meglio che noi diamo la battaglia a questo pagliaioe facciamo ragione che sia un castello; e come faremo quicosí faremo a Matelica.
E cosí si furono accordati; e armandosi tutti di palvesie di rotellee di balestrae lancioni; tutti ad una voce gridando: "Alla terraalla terra"; alcuno gridava: "Arrendetevicattivelli"; e gittansi addosso al detto pagliaiolanciando forte e balestrando verrettonifacendo gran prove contro al detto pagliaio.
Ma il migliore fante che ci fossefu Nanziuolo di Nazzarelloche lanciò la lancia per fino allo stocco nel detto pagliaio. E questo detto: "infino allo stocco"s'intendesecondo il vulgare della Marcaquando tutto il ferro v'è entrato dentro. E tanto fecero la detta brigata che tutto lo detto pagliaio buttorono per terrae poi si coricorono a dormire nella detta paglia; e traversando le gambe e intraversando l'una sopra l'altraquando si svegliaronoe uno guarda fra le dette gambee videle cosí infrascate. Dice alla brigata:
- Fratelli mieicome faremo noiche non serà chi ci recappi queste gambeperché io non so qual si sieno le mie.
E l'altro rispondea:
- Per le maraviglie di Dioche tu dici lo vero che non reconosciamo le gambe l'uno dell'altro.
E chi facea boto a San Venanzoe chi a San Givingioe chi a Santo Ieminoe chi a unoe chi a un altroche li campasse e rendesse le sue gambe. E standosi in questa manierapassando uno da San Genagioil quale avea nome Giovanni di Casuccioed era abbottonato d'argento dal capezzale infino al piededa loro fu chiamatodicendo:
- Noi ti preghiamo che ritruovi a ciascuno di noi le nostre gambee a ciascuno rendi le sue.
Lo detto Joannifacendosi presso a costorodisse:
- E che mi ci daretese io ce le ritruovo?
Furono in patto di darli soldi dieci per ciascuno; egli furono contentie pagaronlo innanzi tratto; e chi diede danari e chi pegni.
Quando fu da ciascuno accordatoed egli piglia uno bastone e gitta tra le gambe di questi pappacchioni. Quando egli veggiono questociascuno si tira le sue gambe sottoe ciascuno riebbe e riconobbe le sue; e lodando lo detto Joanni per buon maestroe Santo Venanzoe gli altri santia cui s'aveano raccomandatiche aveano mandato costui perché non fossono vituperatipigliando ciascuno le loro arme e le loro gambee andarono a Matelica. Giugnendo nel campo lo dí seguenteli trenta e dieci buon fanti dalla pieve di Bovegliano andarono a mangiare le ciriege per una vignae chi stava ad alto e chi a terra. Quelli di Matelica uscirono fuori a scaramucciare; e traendo uno d'uno balestrouno di questi che stava a terracominciò a gridare e lamentaredicendo:
- O compagno mioacciutemiche io sono morto -; tenendosi l'arme a' fianchiparendoli esser mortocome diceasolo per lo diserrare del balestro.
E 'l compagno scende del ciriegioe guarda costui e dice:
- Che hai tu?
E quelli dice:
- Guarda a chinche è colto quilloquillo che fu su per l'aere.
E lo compagno guardae dice:
- E qui non è niente.
Ed elli risponde:
- Se no è quiadunque è in quella folta sepe.
E stando in questa questioneli Matelicani furono alla detta brigatae pigliaronodelli trenta e dieci buon fantitrenta e undici. Alli qualia cui furono tratti i dentia cui mozzi gli orecchi; e pagarono quello che poteano per uscire di prigione. E cosí capitarono questi gagliardicheessendo armati di mostocombatterono con la pagliae poi appiè d'un ciriegio furono vintisenza fare alcuna difesa.


NOVELLA CXX

Essendo messo di notte un bando in Firenze da casa Bardiun chericoessendo entrato in uno monimento per certe faccendecomincia a gridaree 'l banditore si fuggecredendo sia stata un'anima.

Al tempo che 'l Duca d'Atene signoreggiava Firenzemorí un cavaliere de' Bardiil quale fu riposto in uno monimento da Santa Maria sopr'Arnoche ancora oggi si vede essere nel muro dalla faccia dinanziil quale è sopra la via. E la notte vegnenteessendo salito alcuno cherico sul detto monimentoe avendolo scoperchiatoed entratovi dentro per ispogliare il detto cavaliere mortoper alcun caso convenne andare un bando per parte del Duca in quell'ora della notte; e giugnendo il banditore a bandire nella via appiè del detto monimentocome ebbe compiuto el bandoe costui che era nel monimento si lievauscendo mezzo della sepolturae percotendo le manigridoe:
- Siasiasia.
Il banditore veggendo e udendo il romore e le grida uscire con un corpo di un monimentodà delli sproni al cavalloe levalacome avesse mille diavoli addossocredendo fermamente che anime di quello monimento si fossono levate e avessono fatto il detto romoreaffermando il detto banditore a ciascuno che per certo di quella sepoltura un'animalevandosidicendo: "Siasiasia"gli avea messa tal paura addosso che mai non che credesse bandire piúma che il fiato suo avea perduto in tal forma ch'egli era molto presso a morte.
Tutta Firenze il giorno seguente andorono a vedere il detto monimento; chi tralunava di qua e chi di là; nella fine dissono che 'l banditore ave' aúto le traveggole e che non sapea quello che si dicea. Il Ducasappiendo questovolle sapere dal banditore questo fatto; e alla finecredendo che l'avesse fatto per mettere la terra a romorelo volea fare impiccare. Poi per la paura aúta il banditore parea che fosse invasato e fuori della memoriae per questo campò la vita; che 'l Duca il fece cassaree mai piú non fu banditoree anco ne fu contento. Nuovi casi s'accozzorono insieme a far maravigliare il Duca e tutti i cittadinie a far presso che impiccare il banditore. E per questo e per moltr'altre cose si può comprendere come la fortuna spesso avvilisce chi va piú di sicuro; come costuiche per bandire fu per morire.


NOVELLA CXXI

Avendo maestro Antonio da Ferrara a Ravenna perduto a zaracapita nella chiesa dov'è il corpo di Dantee levando tutte le candele dinanzi al Crocifissole porta tutte e appiccale al sepolcro di detto Dante.

Maestro Antonio da Ferrara fu uno valentissimo uomo quasi poetae avea dell'uomo di corte; ma molto era vizioso e peccatore. Essendo in Ravenna al tempo che avea la signoria messer Bernardino da Polentaavvenne per caso che 'l detto maestro Antonioessendo grandissimo giucatoree avendo un dí giucatoe perduto quasi ciò che aveae come disperato vivendoentrò nella chiesa de' Frati Minoridov'è il sepolcro del corpo del fiorentino poeta Dante; e avendo veduto uno antico Crocifissoquasi mezzo arso e affumicato per la gran quantità della luminaria che vi si ponea; e veggendo a quello allora molte candele accesesubito se ne va là e dato di piglio a tutte le candele e moccoli che quivi ardevanosubitoandando verso il sepolcro di Dantea quello le puose dicendo:
- Togliche tu ne se' ben piú degno di lui.
La genteveggendo questopieni di maraviglia diceano:
- Che vuol dir questo? - e tutti guatavano l'uno l'altro.
Uno spenditore del signorepassando in quell'ora per la chiesae avendo veduto questotornato che fu al palagiodice al signore quello che ha veduto fare a maestro Antonio. Il signorecome sono tutti vaghi di cosí fatte cosefece sentire all'arcivescovo di Ravenna quello che maestro Antonio avea fattoe che lo facesse venire a luifacendoli vista di formare processo sopra la eretica pravità per paterino. L'arcivescovo ebbe subito commesso che fosse richiesto; e quelli comparí; ed essendoli letto il processo che si scusassee' non disdisse alcuna cosama tutto confessòdicendo all'arcivescovo:
- Se voi mi doveste arderealtro non vi direi; però che sempre mi sono raccomandato al Crocifisso e mai altro che male non mi fece; e ancora tanta cera veggendoli mettere che è quasi mezz'arso (cosí fuss'elli tutto)io gli levai quelli lumi e puosigli al sepolcro di Danteil quale mi parea che gli meriti piú di lui; e se non mi credeteveggansi le scritture dell'uno e dell'altro. Voi giudicherete quelle di Dante esser maravigliose sopra natura a intelletto umano; e le cose evangeliche esser grosse; e se pur ve n'avesse dell'alte e maravigliosenon è gran cosache colui che vede il tutto e ha il tuttodimostri nelle scritture parte del tutto. Ma la gran cosa è che un uomo minimo come Dantenon avendonon che il tuttoma alcuna parte del tuttoha veduto il tutto e ha scritto il tutto; e però mi pare che sia piú degno di lui di quella luminaria; e a lui da quinci innanzi mi voglio raccomandare; e voi vi fate l'oficio vostro e state bene ad agioche per lo suo amore fuggite tutti il disagio e vivete come poltroni. E quando da me vorrete sapere piú il chiaroio vel dirò altra voltache io non abbia giucato ciò che io ho.
All'arcivescovo parve essere impacciatoe disse:
- Dunque avete voi giucato e avete perduto? tornerete altra volta.
Disse maestro Antonio:
- Cosí aveste voi perduto voie tutti i vostri pariciò che voi avetech'io ne sarei molto allegro. Il tornare a voi starà a me; e con tornaree senza tornaremi troverrete sempre cosí disposto o peggio.
L'arcivescovo disse:
- Mo andeve con Dio o volí con Diavoloe se io mandassi per voinon ci verrete. Andate almeno a dar di queste frutte al signoreche avete dato a mi -; e cosí si partí.
Il signoresaputo ciò che era statoe piacendoli le ragioni del maestro Antoniogli fece alcuno donosí che potesse giucare; e delle candele poste a Dante piú dí con lui n'ebbe gran piacere; e poi se n'andò a Ferrara forse meglio disposto che maestro Antonio. In quelli tempi che morí papa Urbano quintouna tavola essendo di lui posta in una nobile chiesa d'una gran cittàvidi a quella essere posto un torchio acceso di dua libbree al Crocifissoil quale non era molto di lungiera una trista candeluzza d'uno denaio. Pigliò il detto torchioe appiccandolo al Crocifissodisse:
- Sia nella mal'ora se noi vogliamo volgere e mutare la signoria del cielocome noi mutiamo tutto dí quelle della terra.
E cosí se n'andò a casa. Questa fu cosí bella e notabile parolacome mai potesse avvenire a simile materia.


NOVELLA CXXII

Messer Giovanni da Negroponteavendo perduto a zara ciò ch' elli aveaandò per vendicarsie uccise uno che facea li dadi.

Messer Giovanni da Negroponteavendo un dí perduto a zara ciò ch'egli aveaessendo grandissimo e valente uomo di cortecaldo caldocon l'ira e con l'impeto del giuocoandò con un coltello a trovare uno che facea dadie sí l'uccise. Ed essendo preso e menato dinanzi al signore di quella terrache era despoto... il quale gli volea tutto il suo benedal signore fu domandato:
- Dohmesser Giovanniche v'ha mosso a uccidere uno vile uomo e mettere alla morte voi?
Quelli rispose:
- Signor miosolo l'affezione che io porto alla vostra personapensando l'amore che mi portate; e la ragione è questa. Io avea perduto a giuoco ciò ch'io aveae fui presso a una dramma per uccidermi; e disponendomi pur di fare omicidioe considerando l'amore che mi portatee che senza me non sapete stare; perché voi non perdeste mee perché io non perdesse voiandai a dar luogo all'ira sopra colui che faceva i dadipensando quella essere dignissima vendetta; però che molti signori e vostri pari mettono spesse volte pene a chi giuoca; ma considerando quanti mali dal giuoco vengonoio credo che serebbe molto meglio a tutto il giro della terra spegnere tutti gli altricome io ho spento questo unoche lasciarli in vita; e pensate quanti mali dal giuoco vegnonoe forse le ragioni mie non vi doverranno dispiacere.
Il signorech'era di perfetta condizionepensò le ottime ragioni di messer Giovanni da Negropontefece legge che per tutto suo terreno fosse pena l'avere e la persona a qualunche facesse dadie che ancora chi gli facesse potesse esser morto sanza alcuna pena; e a qualunque fossono trovati addossopena di lire milleo la mano; e chi giucassedove dadi fossonopena l'avere e la persona. E cosí spense per tutto suo terreno questa pessima barba e questa maligna radice; la qual'è biestemmar Dioconsumare le ricchezzecongiugnimento di superbia e iraper avarizia cercar furti e ruberieuccidere e... darsi al vizio della golae per questo venire alle sfrenate lussurie e a tutti i mali che può far natura. E a messer Giovanni da Negroponte fu perdonato; e quello che facea i dadie che fu mortose n'ebbe il danno.


NOVELLA CXXIII

Vitale da Pietra Santaper introdotto della mogliedice al figliuolo che ha studiato in leggeche tagli uno cappone per gramatica. Egli lo taglia in forma chedalla sua parte in fuorine tocca agli altri molto poco.

Nel castello di Pietra Santain quello di Luccafu già un castellano abitante in quelloch'avea nome Vitale. Erasecondo di làabientee orrevole contadino; ed essendogli morta una sua donnalasciandogli uno figliuolo d'anni ventie due figliuole femineda' sette infino a' dieci annigli venne pensiero che questo suo figliuoloche già era bonissimo gramaticodi farlo studiare in leggee mandollo a Bologna. E mentre che era a Bolognail detto Vitale tolse moglie. E stando insiemecome per li tempi avvieneVitale cominciò aver novelle come questo suo figliuolo diveniva valentissimo; e quando bisognava danari pe' librie quando per le spese per la sua vitael padre mandava quando quaranta e quando cinquanta fiorini: e molto di danari si votava la casa. La donna di Vitalee matrigna del giovane che studiava a Bolognaveggendo mandare questi danari cosí spessoe pensando che per questo a lei diminuiva la prebendacominciò a mormoraree dice al marito:
- Or getta ben via questi parecchi danari che ci sono; mandagli benee non sai a cui.
Dice il marito:
- Donna miache è quel che tu di'? o non pensi tu quello che ci varràe l'onore e l'utile? Se questo mio figliuolo serà giudicopotrà poi esser dottorio conventinatoche ne saremo saltati in perpetuo seculo.
Dice la donna:
- Io non so che secolo; io mi credo che tu se' ingannatoe che costuia cui tu mandi ciò che puoi fare e diresia un corpo mortoe consumiti per lui.
E in questa maniera la donna s'avea sí recato in costume di dire questo corpo morto che come il marito mandava o denari o altrocosí costei era alle manidicendo al marito:
- Mandamandaconsumati beneper dar ciò che tu hai a questo tuo corpo morto.
Continuando questa cosa in sí fatta manieraagli orecchi del giovane che studiava in Bologna pervenne come la matrigna il chiamava in questa contesa che facea col marito "corpo morto". Il giovane lo tenne a mente; ed essendo stato alquanti anni a Bologna e bene innanzi nella legge civilevenne a Pietra Santa a vedere il padre e l'altra famiglia. E 'l padreveggendoloed essendo piú lieto che lungofece tirare il collo a un capponee disse lo facesse arrostoe invitò il prete loro parrocchiano a cena.
Venendo l'ora e postisi a tavolain capo il preteallato a lui il padrepoi la matrigna e seguentemente le due fanciullech'erano da maritoil giovane studente si pose a sedere di fuori su uno deschetto. Venuto il cappone in tavolala matrignache guatava il figliastro in cagnescoa ceffo tortocomincia a pispigliare pianamente al maritodicendo:
- Che non gli di' tu che tagli questo cappone per gramaticae vedrai s'egli ha apparato nulla?
Il marito semplice gli dice:
- Tu se' di fuori sul deschettoa te sta il tagliare; ma una cosa voglioche tu cel tagli per gramatica.
Dice il giovanech'avea quasi compreso il fatto:
- Molto volontieri.
Recasi il cappone innanzie piglia il coltelloe tagliandogli la crestala pone su uno tagliere e dàlla al pretedicendo:
- Voi siete nostro padre spirituale e portate la cherica; e però vi do la cherica del capponecioè la cresta.
Poi tagliò il capoe per simile forma lo diede al padredicendo:
- E voi siete il capo della famigliae però vi do il capo.
Poi tagliò le gambe co' piedie diedele alla matrignadicendo:
- A voi s'appartiene andar faccendo la masserizia della casae andare e giú e sue questo non si può far senza le gambe; e però ve le do per vostra parte.
E poi tagliò li sommoli dell'aliee puoseli su uno tagliere alle sue sirocchiee disse:
- Costoro hanno tosto a uscire di casae volare fuori; e però conviene abbiano l'aliee cosí le do loro. Io sono un corpo morto: essendo cosíe cosí confessoper mia parte mi torrò questo corpo morto -; e comincia a tagliaree mangia gagliardamente.
E se la matrigna l'avea prima guatato in cagnescoora lo guatò a squarciasaccodicendo:
- Guatate gioia! - e pian piano dicea al marito: - Or togli la spesa che tu hai fatta.
E assai si poté borbottareche la brigata che v'era l'averebbono voluto tagliare in volgaree spezialmente il preteche parea che avesse il mitritospecchiandosi in quella cresta. Da indi a pochi díessendo il giovane per tornare a Bolognafece piacevolmente certo tutti il perché avea partito il cappone per sí fatta forma. E spezialmente con una mezza piacevolezza dimostrò alla matrigna il suo errore; e partissi e dagli altri e da lei con amore; come che io credo che ella dicesse con la mente: "Va'che non ci possi mai tornare".


NOVELLA CXXIV

Giovanni Cascio fa temperare Noddoessendo a tagliere con luidi non mangiare li maccheroni caldicon una nuova astuzia.

Noddo d'Andreail quale al presente viveè stato grandissimo mangiatoree di calde vivande mai non s'è curatose non come s'elle andassono giú per un pozzoquando se l'ha messe giú per la gola. E io scrittore ne potrei far provache avendo mandato uno tegame con uno lomboe con arista al fornoe 'l detto Noddo avendone mandato un altro con un busecchio pieno non so di cheal fornaiomandando Noddo per lo suogli venne dato il mio; il quale come gli venne innanzisubito trangusgiando e l'arista e poi il lombotenendolo in mano interodandovi il morso entrodice la donna sua:
- Che fa' tu? questo non è il tuo busecchio; questo tegame è carne d'altruie non è la nostra.
Quando l'ebbe presso che recata a finefacendo vista di non udir la donnadà alla fante il tegame con quell'ossa che erano rimasee dice:
- Va' al fornaioche mi mandi el mio tegameche questo non è il mio.
Il fornaiosenza metter molto cura su la detta faccendacercò di quello dov'era il busecchioe mandòglilo. E 'l fante mio va poi per lo mio tegame: il quale giuntoe scoprendolopoco v'avea altro che ossa. Dico al fante:
- Va' al fornaioe sappi se io ho a far dadi.
Il fornaio si scusò dell'erroree Noddo con molte risa si mangiò la cena sua e la mianon curando caldo che fosse in essafacendo tosto tosto. Or questo voglio aver dettoad informazione di cosí fatta naturavenendo ad una piccola novelletta delle sue. Egli pregava pure Dioquando fosse stato a mangiare con altruiche la vivanda fosse roventeacciò che mangiasse la parte del compagno; e quando erano pere guaste ben caldeal compagno rimaneva il tagliere: d'altro non potea far ragione. Avvenne per caso una volta che mangiando Noddo e altri insiemeed essendo posto Noddo a tagliere con uno piacevole uomochiamato Giovanni Cascio; e venendo maccheroni boglientissimi; e 'l detto Giovanniavendo piú volte udito de' costumi di Noddoveggendosi posto a tagliere con luidicea fra sé medesimo: "Io son pur bene arrivatoche credendo venire a desinaree io sarò venuto a vedere trangusgiare Noddoe anco i maccheroni per piú acconcio del fatto; purché non manuchi meio n'andrò bene". Noddo comincia a raguazzare i maccheroniavviluppae caccia giú; e n'avea già mandati sei bocconi giúche Giovanni avea ancora il primo boccone su la forchettae non ardivaveggendolo molto fumicareappressarlosi alla bocca. E considerando che questa vivanda conveniva tutta andarne in Cafarnause non tenesse altro mododisse fra sé stesso: "Per certo tutta la parte mia non dee costui divorare". Come Noddo pigliava uno bocconeed egli ne pigliava un altroe gittavalo in terra al canee avendolo fatto piú voltedice Noddo:
- Omeiche fa' tu?
Dice Giovanni:
- Anzi tu che fai? non voglio che tu manuchi la parte mia; vogliola dare al cane.
Noddo ridee studiavasi; e Giovanni Cascio si studiava e gittava al cane.
Alla per fine dice Noddo:
- Or oltrefacciamo adagioe non gli gittare.
E quelli risponde:
- E’ mi tocca torre due bocconiquando tu unoper ristoro di quello che hai mangiatonon avendo io potuto mangiare uno boccone.
Noddo si contendea; e Giovanni dicendo:
- Se tu torrai piú che uno bocconequando io dueio gittarò la parte mia al cane.
Finalmente Noddo consentíe convenne che mangiasse a ragione; la qual cosa in tutta la vita sua non avea fattoné avea trovato chi a tavola il tenesse a siepe. E la detta novella piacque piú a quelli che v'erano a mangiareche tutte le vivande che ebbono in quella mattina. Cosí trovòchi sanza misura trangusgiavachi gli diede ordine di mangiare consolatamente con una nuova esperienza.


NOVELLA CXXV

Re Carlo Magnocredendo fare tornare alla fede... Giudeoil detto... essendo a mensa con luilo riprende come egli non osserva la fede cristiana come si deeonde il detto... testa rimane quasi conquiso.

Re Carlo Magno fu re sopra tutti gli altriche mai il mondo avessed'assaie coraggioso moltotanto che praticando di valorosi cristiani signoricostuie lo re Artúe Gottifredi di Buglionesono di piú virtú tre reputati; e' Pagani sono altri treEttoree Alessandro Magnoe Cesare; e tre judeiDavidJosuèe Juda Maccabeo. Tornando alla storiaavendo acquistato lo re Carlo Magno tutta la Spagnagli venne per le mani uno Spagnuoloo Judeoo al tutto Paganoil quale era uomo di molto sentimento e industria. Di che lo reconsiderando la virtú dello Spagnuolos'ingegnò che tornasse alla fede cristianae venneli fatto.
Ed essendo una mattina a mangiar col detto restando ad alto a mensacome usano li signoriuno poverello era là a bassoquasi in terra o su basso sedere a una povera mensae desinava. E questo era che sempre questo requando mangiavadava mangiare a uno poveroo a piúper simile formaper ben dell'anima sua. Veggendo lo Spagnuolo questo povero mangiare in tal manieradomandò il re chi colui era e quello che significava il mangiar suo per quel modo. E lo re rispose:
- Quello si è un povero di Cristo; e quella limosina che io fo a luifo a Cristo; però checome tu saie' n'ammaestra chequalunche ora noi facciamo carità a uno di questi suoi minimi poverellinoi la facciamo a lui.
Dice lo Spagnuolo:
- Monsignorevoletemi perdonar quello che io dirò?
- Di' ciò che tu vuogli.
E quelli dice:
- Assai cose stolte ho trovato in questa vostra fede e questa mi par maggior che alcuna dell'altre. Però che se voi tenete per vera fede che quel poverello sia il vostro Signore Jesu Cristoqual'è la ragione che voi gli date mangiar vilmente colà in terra e voi cosí onorevolmente mangiate quassú in alto? a me mi paresecondo il dir vostroche doverreste fare il contrariocioè mangiare là voied egli mangiasse qui nel luogo vostro.
Lo re veggendosi mordere per modo che male si potea difendereallegò assai cosema non sí che lo Spagnuolo non rimanesse al di sopra di quello che avea dettoe dove credette il signore fare accostar costui alla fedeegli lo fece dilungare piú di cento migliae ritornò nella fede sua di prima. E non disse il vero questo Spagnuolo? che cristiani siàn noie che fé è la nostra? delle cose che non ci costanolargamente le diamo a Diocome paternostriavemarie e altre orazionidarci delle mani nel pettometterci canavacci in dosso e cacciarci le mosche dalle reneandare alle processioni e alle chiesestare devoti alle messe e simili coseche non ci costano; ma se si darà mangiare al povero: dàgli un poco di brodamettilo in un cantocome un cane; farassi una piatanza: votiamo la botte del vin cattivofassi macinare il grano intignatoe l'altre vivandedi quelle che non piacciono a noile diamo a Cristo.
Crediamo che sia struzzoloche patisce il ferro. Chi avrà la figliuola guerciasciancatao contraffattadice: "Io la voglio dare a Dio"; la buona e la bella tien per sé. Chi ha il cattivo figliuoloprega Iddio che 'l chiami a sé; chi l'ha buonoprega Dio che non lo chiami a séma che li dia lunga vita. E cosí potrei contare migliaia di coseche tutte le peggiori diamo a quel Signore che a noi ha donato e prestato ogni cosa. Sí che per certo la ragione dello Spagnuolo fu perfettaperché nel mondo la ipocrisia ha sottoposto l'umana fede.


NOVELLA CXXVI

Papa Bonifazio morde con una parola messer Rossellino della Tosail quale con una piacevole risposta si difende.

Messer Rossellino della Tosa da Firenze fu uno cavaliere molto dabbene; il qualeavendo bene ottant'annifu mandato ambasciadore a papa Bonifazio. Questo messer Rossellinocome che avesse gran tempospesso spesso gli nascea un figliuolo; e al detto papa piú volte quasi per cosa maravigliosa era stato detto. Di che avendo il detto messer Rossellino sposta la sua ambasciatae 'l papa avendo ben considerato messer Rossellinocome quelli che avea udito de' figliuoli che gli nasceanodisse:
- Dohmesser Rossellinovo' siete antico di cotanto temposecondo che ho udito; io sento che ogni dí avete uno figliuolo; questa è grandissima graziache viene da Dio; per alta ragione ella si può dire cosa maravigliosa.
Messer Rossellinoudendo il papadisse:
- Padre Santovegna l'agnello donde vuolenasca elli dentro alla mia cortinaio non me ne curo.
Udendo il papa le sue paroledisse:
- Messer Rossellinovoi foste sempre savio cavaliere e ora mi parete piú savio che maipensando che di quelle cose che non si può far pruovae andarla cercando serebbe cosa stoltavoi prendete quella parte che alcuno non vi potrebbe apporre.
Messer Rossellino rispose:
- Padre Santoio ho sempremai udito dire che tanto ha l'uomo brigaquant'elli se ne dà -; e cosí finirono questi ragionamenti.
Ma molti ignoranti averanno figliuolie sarà alcuno domandato: "È tuo questo?" e quelli risponde: "Io credo di síma io non ne so altro". E chi dicesse a lui che possederà quello del padre con grande avere: "E tu come sai che tu sie figliuolo di cui tu ti tieni?" non lo saprebbe né provare né mostrare. Adunque questo valente cavaliereessendo trafitto dal papa delle cose incertese le fece certe; e molti matticome di sopra ho dettole certe faranno incertee con loro vergognae con loro vituperio.


NOVELLA CXXVII

Messer Rinaldello da Meza dell'Orenoessendo in Firenzee veggendo molti giudicisi maraviglia come Firenze non è disfatta considerando che un solo ha consumato la sua patria.

Uno cavaliere chiamato messer Rinaldello da una terrache si chiama Meza dell'Orenoarrivò una volta nella città di Firenze; e stando in quella per alquanti dívenne per caso che questo gentiluomo vidde a uno mogliazzo gran numero di cittadinitra' qualicome intervienedinanzi andavono molti addobbati con vaio. E quelliveggendolidomandò alcuni fiorentini chi erano quelli che portavano vaio e che andavano innanzi. Fugli risposto che erano cavalierie giudicie medici. Dice il gentiluomo: - E quanti giudici vi sono?
E quelli guatanoe cominciano a noverare: - Quattro e altri tresette: èvvene sette.
E quelli dice: - E haccene piú?
Risposono: - Sí bene.
E messer Rinaldello disse allorasegnandosi e guardando in alto le case della città: - Oh che miracolo è questoche in questa città sia alcuna casa che non sia disfattae sia per terra!
I Fiorentini udendo costui e vedendolo segnaredissono:
- E di che vi maravigliate voi?
E quelli rispose:
- Io vel dirò. Io sono d'una cittàche si chiama Meza dell'Orenola quale è stata grande e nobile cittàe in grande concordia e pace; e in tale maladetta ora e punto uno ricco uomo di quella mandò un suo figliuolo a studiare a Bolognae fecelo giudiceche tornando in quella terragiammai non abbiamo sentito che ben sia; in discordia ci ha messi; la paceche solevamo avereè convertita in guerranoi stiamo tanto malequanto mai stemmo bene; e questo tutto viene da questo iudicioche in quella è venuto. E però pensando che voi mi ditela quantità che di questi giudici qui aveteio mi maraviglio cheavendo un soloha cosí guasta la nostra terrache questiche tanti avetequi abbiano lasciato pietra sopra pietra.
Li Fiorentiniudendo costuidissonoridendo:
- Volete voi che noi diciamo il vero? e' ci danno la mala pasqua.
Il cavaliere rispose:
- Se non v'hanno fatto altrovoi n'avete buon mercato; ché a noi ha dato quell'uno la mala ventura per tutti li tempi che viveremoe noi e li nostri discendenti.
E cosí finirono le parole.
E quando io considero bene chi sono ne' presenti tempi questi con li vai in testaio penso messer Rinaldello aver detto il vero; e considero poter avere poca pace il luogo dove stannoe meno chi a loro crede; e la prova il dimostra: che quella terra marinache tanto è stata nel suo buon reggimentogiammai non ebbe alcuno judice; giammai viniziano non ne fu alcuno. E Norciache è piccola terra a rispetto di quellamai non volle di questi giudiciné chi sotto coverta di scienza l'avesse voluta guastare; per tal segnaleche ne' loro consigli non vogliono alcun troppo savioe dicono: "Escanne fuori li sapii". E con questo si regge cosí bene come terricciuola d'Italia.


NOVELLA CXXVIII

Il vescovo Antonio fiorentino con uno piacevole motto confonde certi gentiluomini fiorentinili quali si doleano che a un suo fedele e servitoree loro congiuntoessendo morto per usuraionon lo lasciava sotterrare.

Fu in Firenze per li tempi passati uno vescovo Antoniovescovo di quella cittàuomo molto venerabile e dabbene; il quale avea uno suo cordiale amico e servidoredella famiglia de' Pazzi di Firenzeben veramente gentiluomoche uccellaree cacciaree cavalcaree ogni altra cosa da diletto ottimamente facea. Avea certi suoi danarie prestavagli a usura. Il detto vescovo non sapea né starené andareche questo gentiluomo appena mai si potesse partire da lui. Avvenne per caso che questo de' Pazziavendo grande infirmitàsi morí. Come fu mortoil vescovo manda a vietarli la sepolturae che non sia sotterrato in sagrato s'e' libri suoi non gli sono appresentatie se non si soda di rendere a ciascuno da cui elli avesse aúto usura. Alli suoi congiunti e consorti parve questa una nuova cosapensando l'amore che detto vescovo portava al morto; e mossonsi certi di loro e andaronsene al vescovo; li qualia lui giuntifatta primamente la reverenzadissono:
- Venerabile padrenoi vegnamo alla vostra paternitàchecome voi sapeteegli è piaciuto a Dio di chiamare a sé il tale vostro servitore e nostro consorto; ed è venuto alla sua casa e vostro messo e comandamentoche elli non sia sotterrato se non sono fatte quelle cose che si appartengono di fare quando uno usuraio muore. Di checonsiderando quanto il tenevate per figliuolo e servidoremaravigliàncene fortepregandovi per la vostra benignitàe per non oscurare la sua famae per quello amoreil quale sempre gli avete portatoche vi debba piacere in questo fine della sua vita vi sia raccomandato.
Il vescovoavendo uditi costororispose:
- Io vi confesso che al vostro consortoil quale morto èportai nella sua vita tanto amore quanto ad alcuno io portasse mai; ma la cagione di partire questo amore non è venuta da mema è venuta da lui; e però m'abbiate per iscusatoperò che io seguo gli ordini del vescovadoli quali io ho giurato di seguire. S'egli ha fatto cauzionebene sta; quanto che nofate di sodare e appresentare e' librie io mi porterò il piú benignamente che potrò.
E cosí convenne che facessono. E 'l vescovo si portò poi síe con la sua prudenzae con la virtú di Santo Giovanni Boccadoroche a' consorti del mortoparendo smemorati della risposta del vescovoconvenne esser contenti: e 'l morto fu sotterrato.
Bella risposta fu quella del vescovos'ella non fosse stata mossa da avarizia; e veramente si vede ogni amor mancarepurché l'uomo possa tirare a sée spezialmente e' chericiche per lo denaio ad ogni cosa si mettononon curando ch'ella sia o onesta o disonesta. E non dico per questo vescovoche fu valentre uomoma dicolo per la maggior parte comunemente.


NOVELLA CXXIX

Marabotto da Macerata con una nuova letterarichieggendo di battaglia un gran Tedescolibera per piú mesi la sua patria che non è cavalcata.

Al tempo che la Chiesa di Roma perdeo la Marca d'Anconafu un uomo che si chiamava Marabotto da Macerata ed era grandissimo di persona; ed essendo guerra nella detta Marcauno Todescoche avea nome Sciversmarsera al soldo della Chiesae la stanza sua era a Monte Fano. Facendo gran guerra il detto Tedesco a Maceratalo detto Marabotto andò alli Priori di Maceratae domandò licenzache volea mandare una lettera allo detto Sciversmarsa richiederlo di battagliae per li Priori gli fu conceduta. Lo detto Marabotto scrisse la lettera in questa forma: "A voinobile uomo Sciversmars della MagnaMarabotto della Valle d'Ebron vi saluta. Ho udito dire della vostra nobilitàe che voi sete un buon uomo d'armee che a queste contrade avete fatto grandissima guerra contr'a' villani; e io sono venuto dalle mia contrade con settecento cavalli per trovare di buoni uomini d'armie provare la mia persona con loroe non con li villani. E perciò vi prego che vi vogliate provar con meco su nel camposoloed eleggere il campo dove vi piaceche mi pare mill'anni che io vi sia; e se non volessi combattere solo con meco a corpo a corpopigliate de' vostri quel numero che vi piace di veniree io verrò con altrettanti; e ancora vi farò vantaggioche la mia brigata serà meno dieci che la vostra per ogni cento combattitori. E questo vi priego quanto posso che facciatee non vogliate provar la vostra gentilezza co' villanima con buoni uomeni d'arme. E di questo vi piaccia subito per vostra lettera farmi rispostaecc.e da mo innanzi per questo terreno non venireperciò che io vi tratteria come inimico mortale".
Avendo Sciversmars la detta letterae udendo il nome maraviglioso di chi la mandavae ch'egli era della Valle d'Ebrontutto invilíimmaginando costui non dover esser altro che gran fatto; e mai non iscrissené fece risposta. E per questa cosí fatta lettera impauritopiú mesi stette che non fece guerrané cavalcò sul terreno di Maceratasolo per paura del detto Marabotto.
Questa di questo Marabotto fu sottile inventivache con un poco d'inchiostro cacciò il nemico della sua terrae valse quella lettera assai piú a Macerata che non serebbono valuti trecento uomeni a cavallo.


NOVELLA CXXX

Berto Folchi è presostandosi al fuocoda una gattae se non fosse la moglie che con un sottile avviso il liberoeegli ne venía a pericolo di morte.

Adrieto in una novella è dimostrato come Berto Folchi fu colto in iscambio d'una botta; ora in questa piccola novelletta voglio mostrare come fu colto in iscambio d'uno topo; la quale sta per questa forma. Il detto Bertoessendo del mese d'ottobreed essendo a uno suo luogo a Scandiccicontado di Firenzeavea uno ciccione nel sedereappunto dove si tiene il brachiere; ed era sí velenoso che molti dí gli avea quasi dato un poco di febbre; e convenía che per quello s'andasse e stesse per casa sanza panni di gamba.
Avvenne che una seraavendo quattro bellissimi tordie volendoli arrostire a suo modoavea detto a una sua fanticella gli recasse a un fuoco che era in sala; e quivi acconciando lo schedoneponendosi a sedere su uno deschetto e pigliando la palettae acconciando il fuocoe volendo che li detti tordi per ragione fossono cotti per mangiarseli in santa pace con la sua donna; essendo una sua gatta sotto il deschettocome sempre stannoebbe veduta la masserizia di Berto pengigliare tra li piè del deschetto; avvisandosi forsi quella essere un topoavventasi e dàgli d'uncico.
Come Berto si sente cosí presogetta le mani verso la gattae pigliandolase la volea levar da dosso; ma quanto piú questo faceala gattafacendo gnaopiú l'afferrava; tanto che per la pena cominciò a gridare. La fanteche volgea lo schedonedicea:
- Che avete voiBerto?
E Berto dicea:
- Non lo vedi tu?
E la fantebench'ella il vedessenon ardiva accostarsi per onestà verso le masserizie di Bertoma comincia a chiamar la gatta: "Muscinamuscimuscimuscina"; e brevemente la gattanon che ella il lasciassema continuo piú strignea; tanto che Berto continuando le stridae la donnasentendolosubito corse.
Come Berto la vededice:
- Oimèdonna miaio muoio; la gatta m'ha presocome tu puoi vedere; io muoioio muoio.
La donna tenera del suo marito e delle sue masseriziegettasi làe piglia la gatta e strignela perché le lasci: e la gatta allora piú afferrava: poi la piglia per la gola e strigne perch'ell'apra la bocca. S'ella l'aprivaa mano a mano con un morso ripigliava; tanto che Berto comincia a gridare: "Accurr'uomo". La donnavedendosi mal paratacome savia e avveduta e tenera delle carni del maritopensò un sottil modo: ch'ella prese lo schedone de' quattro tordiche era a fuocoche appena erano caldie accosta i tordi al ceffo della gatta. La gattache era affamatasentendo l'odore de' tordilascia i calonaci e dà d'uncico a' tordili quali strascicò con tutto lo schedone per tutta la casae a piú bell'agio del mondo gli mangiòperò che la donna e la fante aveano altra faccenda tra mano e di quelli poco si curavano.
Berto uscito tra le branche della gattae per le strette e per li graffiparea morto; le sue masserizie erano tutte azzannatee parea vi fosse fatto su alla trottola.
La valentre donna mandò per uno medico de jure coglionicae fecelo curare. Il quale ebbe assai che fare piú di due mesi a guarirlo; e se non fosse la buona moglieche volle innanzi perder la cena che 'l maritoBerto Folchi era a pericolo di non esser mai piú uomo; e sempre da indi innanzi tenne Berto avere la vita per la sua valentrissima donna.


NOVELLA CXXXI

Essendo andato una volta Salvestro Brunelleschi al bagno per contentar la donnaper generare figliuolila donna l'altro anno vi vuole ritornare; Salvestro gli dice che non è piú buono a ciòe ch'ella provi con altruie la donna vi va sanza lui.

Salvestro Brunelleschidel quale adrieto è fatta menzioneavendo una sua donna piacevolissima friolanae non avendo alcuno figliuoloe la donna avendone molto maggior voglia d'aver di luidisse uno dí:
- Salvestroe' m'è detto se noi andiamo al bagno a Petriuoloche io ingrosserò e avremo figliuoli.
Salvestro dicea:
- Donna miaella vuol essere altr'acqua che quella del bagno.
La donna si fermò a volere che Salvestro con lei andassono al bagnoe Salvestro convenne che consentisse; e prese le purgagionie saputo il modo che avevano a tenereil quale era o d'uccidere Salvestroo aver figliuolisi mossono una mattinae giugnendo alla fonte di San Piero Gattolinotrovarono uno piovano de' Macchi che abbeverava uno suo ronzinoed era molto goditoreil quale domandò Salvestro dove andava. Salvestro disse:
- Andiamo al bagnobenché io potrei dire che io vo al macello.
Dice il piovano:
- Per certo voi non dovete andare senza mee vedrete com'io vi farò godere.
Salvestro disse:
- Sia nella buon'ora -; e cosí si missono in camino.
E questo piovano volle essere lo spenditorecomprando le migliori vivande che poteasí che stettono alla paperina. Ed essendo a Petriuoloe bagnandosicome a casa tornati eranoe la moglie dicea a Salvestro:
- Tu sai bene quello che 'l medico disse -; e accostandosi al lecconeconvenía che Salvestro consumasse il matrimonio.
E tanto seguí questa faccenda chenon che consumasse il matrimonioegli ebbe quasi tutto che consumato sé; tanto che tornati a Firenze gli venne una gran malattiatal che ne venne presso a morte. E con tutto il male dicea alla donna:
- Noi abbiàn pur ben procacciato; per procacciare uno fanciullo ha' voluto perdere il marito.
E pur gueritoe la donna non ingrossatastettono circa un anno; ed essendo detto alla donna da altre donne che 'l bagno si volea continuarea voler fare figliuolie giugnendo a Salvestro questa sua donna un dígli dice ch'ella vorrebbe ritornare al bagnoperò che gli è detto che per una volta non giova alcuna cosase non si continua d'andarvi spesso. Salvestroudendo la mogliee veggendo come della prima volta n'era arrivatodice:
- Donna miatu sai che noi v'andammo annoe misi tutta la forza mia e l'ingegno perché tu adempissi il tuo appetito di far figliuoli; e sai che per quello io ne venni in fine di morte; io non ci serei piú buono a questo; se tu ti vuogli andare tu stessava'e prova con altruiche quanto io non ci son buono.
La donna cominciò a ridere; e Salvestro disse:
- Tu ridi? Io ti dico va' nella buon'orae togli quelli danari che tu vuogli; e pruova la tua ventura con chi ti piaceché quanto io ho provata la mia fino alla mortee veggio che io non ci son buono a nulla.
La donna non poté mai menarvi Salvestroe andovvisi ellae menò alcuno suo parente; e come ch'ella si facesseella ha ancora a ingrossare; e da ivi a poco tempo si moríe Salvestro si rimasee non andò al bagno per non conducersi a morte per acquistar figliuoli.
E fu molto savio; però chedelle sei voltele cinque l'uomo ha volontà d'aver figliuolili quali son poi suoi nimici desiderando la morte del padre per esser liberi.


NOVELLA CXXXII

Essendo stati assaliti quelli da Macerata dal conte Luzzouna notte venendo una grande acquacredendo che siano li nimicicon nuovi modi tutta la terra va a romore.

Nel tempo che 'l comune di Firenze e gli altri collegati feciono perdere gran parte della Marca alla Chiesa di Romail conte Luzzo venne nella Marca con piú di mille lancee puose il campo a Macerata dal lato d'una porta che si chiama la porta di San Salvadore; e dall'altro lato si puose messer Rinalduccio da Monteverdeche allora era signore di Fermo; puose lo campo da un'altra portacioè alla porta del mercato; e ivi al terzo dí dierono la battaglia alla terracredendola aver per forza. E lo conte Luzzo con la sua brigata ruppono le mura appresso delle mura di San Salvadore in tre luoghiavvegnadio che della sua gente assai ne fossono feriti e morti. E partendosi il quarto dí la detta ostee ritornando in quello di Fermoda ivi a pochi díuna sera a tre ore di nottevenne una grandissima acqua a Macerata; e correndo forte le vie della terramenando l'acqua ogni bruttura delle stradeturò una fogna. Di che l'acqua non possendo uscire di fuoriné fare il suo corsoentrò per le case che gli erano dappresso. Di che andando una femina per lo vinoché volea cenareandando di sicurotrovò la casa piena d'acqua; e prima che di ciò s'accorgesseentrò nell'acqua infino alle coscee forse piú suond'ella cominciò a gridare: "Accurr'uomo". Lo marito correndo al romore per aiutare la mogliee 'l lume si spensesi trovò nella detta acqua; ed essendo nell'acqua cominciò a gridare: "Accurr'uomo". Li viciniudendo il romorescendeano le scale per sapere che fosse: e quando erano all'uscio non poteano uscire fuori per l'acqua che era per le vie e per le case. Di che anco eglino cominciarono a gridareavvisandosi fosse il diluvio. Lo guardiano che stava nella terra cominciò a chiamare le guardieudendo lo romorechiamò lo cancelliero e li prioridicendo che alla porta di San Salvadore si gridava: "All'armeall'arme!" E li priori diceano:
- Odi mo che che dice.
E lo guardiano dice:
- Elli gridano che la gente è dentro.
Li priori rispondono e dicono:
- Suonacampanarosuonacampanaroall'arme; che sie impeso!
Lo campanaro cominciò a sonare all'arme. Le guardie che erano in piazzapigliarono l'armee vanno alle bocche delle vie della piazzamettendo le catenegridando:
- All'armeall'arme.
Ogni gentesentendo la campanausciva fuori armatapensando essere assaliti dal conte Luzzo; e venendo in piazzatrovorono le guardie a difendere le catene della piazza: li quali gridavano: "Chi è làchi è là?" e chi diceva: "Viva messer Ridolfo"; e chi rispondea: "Amiciamici"; ed era sí grande lo romore che non s'udía l'un l'altroessendo tutto lo populo armato in piazzaaspettando la gente ad ora ad oraperò che molti diceano che la gente era dentroe che era giunta a una chiesa che si chiama San Giorgiola quale è a mezza via dalla porta alla piazza.
Vedendo li priori che niuno non veníamandando certi messi verso la detta porta per sapere novellee molti ve n'andorono che feciono come il corboche mai non tornorono. Fra li quali fu mandato un frate Antonio dell'ordine di Santo Antonioil quale avea uno palvese in braccio e con uno battaglio d'una sua campana in colloil quale il dí dinanzi era caduto da una sua campana; andando per sapere del romore e recarne novelleritornando con la imbasciatalo detto frate cadde sul detto palvesee perché elli era molto grande che parea uno gigantenon potendo sbracciar lo palvesenon si potea levareed era poco dilungi dalla piazza; un altro stava su la via poco dilungi dalla piazzaudendo il detto fracasso del palvese che facea il detto frate per levarsi e non poteacominciò a gridare:
- A mebrigatache ecco la gente.
Un altro cominciò a gridare:
- A loroa loro.
E una parte uscí fuori delle catene e andavano per la viagridando:
- Alla mortealla morte.
E quando furono presso al frate che era in terrachi gridava:
- Chi e' tu?
E chi gridava:
- Renditetraditore.
E chi gridava:
- Chi vive?
E 'l frate che giacea in terragridava:
- Accorrete per l'amor di Dio.
Vedendo costoro che questo era il fratecon gran pena lo levarono su. Egli era tutto dirottoperò che quando cadde in terrail battaglio uscendogli di manoe l'uncino s'appiccò allo scapularee volendosi lo detto frate rilevarelo battaglio gli avea molto dato per gli fianchi e per le reni; e per questo tutto era pesto ed era quasi mezzo morto. E ritornando alla piazza con la detta brigataandò alli priori dicendo la novella della detta acquae com'elli era cadutoe al pericolo ch'elli era stato; dicendo chese quello guardiano che lo udí bussare non l'avesse uditoch'egli sería morto ivi; dicendo alli priori chepoiché Dio l'avea campato di questoche mai palvese non portaria piú; e com'elli giugnesse a casadi quello farebbe mille pezziper non portarlo mai piú. Li priori udendo la detta novellaritornò loro il polso che quasi aveano perdutodando licenza ad ogni uomo che ritornasse a casa. E di questa novellae per Macerata e per l'altre terre da pressopiú dí n'ebbono gran piacere considerando all'acqua e alla caduta di frate Antonio.
E cosí sono spesse volte e ignoranti e matti i popoli che in tempo di guerra massimamentecadendo un quarto di nocio rompendo una gatta uno catinosi moveranno a romore credendo che siano inimici: e su questo come tordi ebbri s'anderanno avviluppando perdendo ogni loro intelletto.


NOVELLA CXXXIII

Uberto degli Strozziessendo de' Priorial tempo che lo Imperadore Carlo passò a pigliare la coronain uno dí con due piacevoli detti quella tristizia fa convertire in risa.

Quando lo imperadore Carlo re di Buem passò in Italia a pigliare la coronaessendo in Italia molto prosperatoe spezialmente in Toscanaavendo Pisa e Siena e Luccaa' Fiorentini parea stare assai male. Era fra quelli tempi de' priori Uberto degli Strozzi e Salvino Beccanugie altri loro compagni; li quali facendo un consiglio di richestied essendo molti cittadini ragunati nella salae confortandosi per li savi la gente; dicendo alcuni essoper non aver denariconvenirsi tosto partire di Toscana; altri diceano: "Di maggiori pericoli siamo campati"; e confortavasi la brigata molto con gli agliettiUberto degli Strozzi che era de' prioriera uno uomo antico e piacevolissimo quanto avesse la nostra cittàe con questo era molto povero; Salvino Beccanugi era anco poverissimo. Di che essendo nel consiglio de' richiesti per li consiglieri detto quanto facea di bisogno; Uberto degli Strozzi per l'ufficio de' priori si levò sue disse:
- Savi consiglierii Signori hanno udito li vostri consiglie veggendogli molto uniti n'hanno preso grandissimo confortopensando tosto metterli ad esecuzione. Una cosa vi voglio dire come Uberto: il diavolo non è nero come si dipigne. Questo imperadore ci può star molti dícome volare per aria; però che veramente sappiamo ch'egli è piú povero che non è Salvino Beccanugiche è qui nostro compagno.
Salvino era molto antico: sente dire questo a Ubertolevasi e faglisi incontrodicendo:
- Che di' tuche di' tu di me? che povero? io sono piú ricco di te.
Ed era sí infiammato che Uberto non potea fare conclusione al suo dire; e dice:
- Per dire il veronon sono lasciato dire: Salvino m'interrompe il dire; apri la portae andatevi con Dio.
Or di questo Salvino non si potea dar paceperché rimase tutto scornatocontendendo con Uberto. E Uberto li dicea:
- DehSalvinodattene pace; che cosí foss'io ricco iocome tu se' de' piú poveri uomeni ch'io sappia.
E Salvino piú infiammava. E durò la detta questione tanto chetornati nella udienzafece il proposto venire un buon vino e de' confettie fece far pace insieme a quelli due poveri gentiluomeni. E quel dí medesimoessendo andato Rosso de' Ricciche poi fu messer Rossoa provvedere alle castellatornò dinanzi a' Signorie ragionando e rapportando: il tale castello ha bisogno della tal cosae lo tale della taledisse come al castello di Fucecchio bisognava vi si mandassono tre bombarde. Come Uberto l'ebbe uditoalza la gamba e lascia andare una gran coreggiadicendo:
- Eccon'unafatti dare a' compagni l'altre due.
Rossosentendo la bombardaristrignesi nelle spalleed esce fuori dicendo:
- Io sono pagato pur di buona moneta da questi mie' Signori; se io avessi tal onore dell'altre coseio potrei star molto lieto.
I priori smascellavano delle risae fra quelle riprendeano Uberto; e spezialmente Salvino che dicea:

  • Io fo bot'a Dio; Uberto... tutti gli uomini per asini tu troverrai... che ti farà di quelloche ben ti... –

Dice Uberto:
- E’ non ne poteva andar di meno... una brigata si vanno trastullando alle spese del comune; e poi tornanoe per mostrare abbiano fatte cose maravigliose dicono che si mandino le bombarde a Peteccio. Io torrei a sostenere che Aristotile non averebbe meglio rispostoe che in questo palagio mai non si fece piú bella risposta a simile materia.
E’ priori con le risa pensarono forse Uberto non avere il torto; e a Rosso dissono che metterebbono ad esecuzione quello che a loro avea rapportato; e ancora il commendavano che ottimamente avea fatto. E Uberto dicendo:
- Non guardareRossoalla risposta che io ti feciperò che 'l male del fianco m'ha assalito già fa due dí: non te ne curare.
Rosso rispose come si conveníae nel commiato disse:
- Ogni acconcio d'Uberto è mioe spezialmente essendo de' miei Signori; però che le cattive cose non si vogliono tenerema voglionsi lasciare andare -; e andossi con Dio.


NOVELLA CXXXIV

Petruccio da Perugiaessendoli dato per debitore il Crocifisso dal suo preteva con una scure percotendo il Crocifissoe volendo da lui per ogni denaio centoin fine è pagato.

In quello di Perugia fu già uno che avea nome Petrucciouomo di nuova condizioneassai diverso. E andando ogni domenica a udire la messa al suo popoload una chiesa che si chiama Santo Agapitoil prete ricogliendo l'offerta dicea com'è d'usanza: Centum per unum accipietis et possidebitis vitam aeternam ; e mettea li danari in uno ceppo che era ivi presso collegato nel legno appiè d'un Crocifisso. Di che continuando queste messe e questa offertadisse un dí Petruccio al prete:
- Questo cento per uno che ci promettetee quando gli averemo? e chi ce li de' dare?
Disse il prete:
- Questo nostro Signoreil quale è qui in croceogni volta che tu vorraipurché tu vogliati renderà cento per uno; ed elli li ricevecome tu vediche tutti gli do a luimettendoli in quel ceppo.
Disse Petruccio:
- Se cotesto èben mi piace.
Sta un mese e sta due; e avvisandosi che 'l Nostro Signore si movesse a dargli cento per unoe 'l pagamento non venía; né coluicioè Nostro Signore che gli era dato in pagamentonon si movea; una sera disse Petruccio:
- Io non sono pagato dal debitore che 'l prete piú volte m'ha assegnato; piú non intendo di aspettare. Per certo conviene ch'io sappia se io debbo esser pagato da questo debitore che 'l prete m'ha dato tante volte.
E toglie una scuree vassene un dí nella chiesarimpetto al Nostro Signoree dice:
- Rendimi li miei denari.
Nostro Signore si stavae fermo e cheto; dice Petruccio:
- E’ par che tu mi gabbi; e peggioche non mi rispondi; per le chiabellate e per le budellache conviene che tu mi paghi -; e dà della scure sí fatta nel ceppodov'erano i denariche 'l ceppo si spezzòe con tutti li denari e con lo Crocifisso ne viene in terra.
Veggendo Petruccio li denari per terraricolse li denarie dice:
- Va'tu non mi credevi; cosí t'acconcerò iose non mi paghi; non ci ho ancor del sacco le cordelle -e vassene con dieci lireo circa.
Torna il prete alla chiesavede questo fracasso per terravolgesi a una casiera che aveae dice:
- Chi diavol c'è stato? che truovo lo cippo spezzatoe rubati li danarie 'l Crocifisso per terracome che di quello poco mi curo.
Dice la casiera:
- Io ci vidi entrare Petruccio; non so se l'avesse fatto elli.
Il prete vae truova Petruccioe dice:
- Io ci ho trovato il tal lavorío fatto in chiesa; ed èmmi detto tu fosti là; averesti veduto chi ce l'avesse fatto?
Dice Petruccio:
- Hoccelo fatto io.
Disse il prete:
- O perché?
E Petruccio risponde:
- Questo è lo pagamento delle promesse che m'hai dettoche sí novo ci ti mostri? mille volte m'hai promesso che ci riceverò cento per unoe che quello che buttai per terra me gli dovea dare[né mai] non ci pote' aver danarose non fusse [quello] che ci ho fattobontà della scura.
E dicoti ancora che ne rimango aver assai; se non ci fai accordaree non trovass'io pagatorelo giuoco che ho fatto a quisto farò a te isso.
Il prete dice:
- Ah Petruccio mio! tu non m'hai bene inteso; ché io ti dicea che cento per uno ti darebbe nell'altro mondo.
Dice Petruccio:
- Sicché m'assegni quello che non saccio? e che saccio che ci sia nell'altro mondo? e che bisogno ci avrò là di denari? arò a comprare delle fave? se non ci sono pagato interamentevedrai quello che ti farò.
Il prete veggendosi mal paratoe che per questo venía a perder la divozione della chiesas'accordò con Petruccioe diégli altrettanti denarie pregollo che mai piú offerta non gli desse; e cosí fece.
E cosí questo prete pagò a contanti quellodi che facea debitore Cristo nell'altro mondo. E intervenisse cosí agli altrinon bisognerebbe dire: Centum per unum accipietis.


NOVELLA CXXXV

Bertino da Castelfalfifacendo una cortese lemosina a uno saccardo povero e infermoessendo da' nimici presodal detto saccardo in avere e in persona è liberato.

Come nella precedente novella era assegnato al Perugino cento per uno nell'altro mondocosí nella seguente voglio dimostrare come un buon uomoservendo un vile saccardo con uno dono d'una piccola cosafu meritato da lui e dell'avere e della persona; e non è mill'anni che questo fuma è sí piccolo tempo che io ho favellato al buon uomo a cui questa novella che io racconteròavvenne; il quale fu Bertino da Castelfalfiuomo di bonissima condizionee asgiato contadinoesecondo suo pariricco di bestiame. Aveva recato costuinel tempo ch'e' Fiorentini aveano guerra col conte di Virtúanno 1391suoi casci freschifatti di pochi día vendere al mercato a Santo Miniatoe stando su la piazza con questi cascie uno saccardo infermo con uno pezzo di pane in mano domandò a questo Bertino un poco di quel cascioper mangiarlo con quel pane. Bertino disse:
- To' ciò che tu vuogli -; ed egli peritandosie Bertino ne tolse unoe disse: - Toglimangia -; e avea questo Bertino molto grosso il dito grosso della mano ritta.
Lo saccardotogliendo il casciosi puose ivi a sedere; e pigliandone uno pezzolo mangiò con quello cotanto pane che avea. Quando l'ebbe mangiatodisse:
- Gnaffebuon uomoio non ho alcuno denaio da dartie non ho piú pane.
Bertino avendo pietà di costuiavea due pani con secotoglie questi due panie disse:
- Vie' qua con meco -; e toglie l'avanzo del cascioe menollo alla tavernae ivi gli mise li due pani innanzie disse: - Mangia gagliardamente.
Essendo costui ed elli alla tavernamangiò quanto li piacque e del pane e del cascio di Bertino; e del vinoche Bertino fece venirebevve quanto gli fu di piacere. Fatto che Bertino ebbe questa cortese lemosinadisse:
- Va'che sie benedetto -; e partissi.
Avvenne poi per caso che certa gente d'arme de' nimicicavalcando verso Castelfalfi se ne menorono molto bestiame minuto del detto Bertino. E avendolo menatofeciono loro avviso che coluidi cui egli eraandrebbe per riscattarlo; e missono certo aguato. E cosí venne lor fatto; che andando Bertino co' suoi fiorinida costoro fu preso e menato a Casolesu quel di Volterra: e là fu nelle gambe sconciamente inferriato. E cosí stando un giorno co' ferri in gamba al solelo saccardoa cui elli avea dato il casciopassando dove Bertino assai tapino si stavacominciò a figurare il detto Bertinoe avendolo mirato un pezzodice:
- Buon uomoe' mi ti par pure conoscere.
E Bertinoguardando luidicea:
- Gnaffeio non conosco tech'io sappia.
E questo era assai possibile; però che 'l saccardo era gueritoe bene in arnese; e dice a Bertino:
- Per certo tu se' essoper tal segnaleche tu hai il dito grosso.
Allora Bertino cominciò quasi a conoscerlo. E 'l saccardo disse:
- Raccordati del cascio che mi desti a Santo Miniato?
E quelli disse:
- Figliuolo mioio ti conosco ora.
Dice il saccardo:
- Non voglia Dio che io non te ne renda guidardone; farai com'io ti dirò: io ti recherò domattina una lima sordacon che tu segherai cotesti ferri; e menerò coluiche t'ha presoaltrovee io tornerò per tee accompagnerotti insino a casa tua.
Bertino disse:
- Figliuoloio terrò sempre la vita per te.
Questo saccardo la mattina portò la lima a Bertinoe menò alla taverna chi 'l tenea preso; e quando fu bene avvinazzatolo condusse a giucare; ed essendo avviluppato nel giuocoil saccardo lo lasciò e tornò a Bertinoil quale s'era spastoiatoe condusselo a Castelfalfie mai non lo abbandonò. Dove il detto Bertino gli volle dare de' suoi fiorinie nessuno non ne volle torree tornossene.
Quanta virtú ebbe questo saccardoe quanta remunerazione usò in un piccolo benefizio ricevutoè cosa maravigliosa a udire. Io per me credose fusse stato de' maggiori Romaniserebbe degno di memoria. E però non si può errare a serviree sia l'uomo minimo quanto vuole; però che Isopo ci ammaestra nella sua favolaquando il leone ebbe bisogno del rattodicendo: Tuqui summa potesne despice parva potenti .


NOVELLA CXXXVI

Prova maestro Albertoche le donne fiorentine con loro sottigliezza sono i migliori dipintori del mondoe ancora quelle che ogni figura diabolica fanno diventare angelicae visi contraffatti e torti maravigliosamente dirizzare.

Nella città di Firenzeche sempre di nuovi uomeni è stata doviziosafurono già certi dipintori e altri maestrili quali essendo a un luogo fuori della cittàche si chiama San Miniato a Monteper alcuna dipintura e lavorío che alla chiesa si dovea fare; quando ebbono desinato con l'Abate e ben pasciuti e bene avvinazzaticominciorono a questionare; e fra l'altre questione mosse unoche avea nome l'Orcagnail quale fu capo maestro dell'oratorio nobile di Nostra Donna d'Orto San Michele: - Qual fu il maggior maestro di dipignereche altroche sia stato da Giotto in fuori? - Chi dicea che fu Cimabuechi Stefanochi Bernardoe chi Buffalmaccoe chi uno e chi un altro. Taddeo Gaddiche era nella brigatadisse:
- Per certo assai valentri dipintori sono statie che hanno dipinto per forma ch'è impossibile a natura umana poterlo fare -; ma questa arte è venuta e viene mancando tutto dí.
Disse unoche avea nome maestro Albertoche era gran maestro d'intagli di marmo:
- E’ mi pare che voi siate forte erratiperò che certo vi mosterrò che mai la natura non fu tanto sottile quant'ella è oggie spezialmente nel dipigneree ancora del fabbricare intagli incarnati.
Li maestri tuttiudendo costuirideanocome se fossi fuora della memoria. Dice Alberto:
- O voi ridete! io ve ne farò chiarise voi volete.
Unoche avea nome Niccolaodice:
- Dehfaccene chiari per lo mio amore.
Alberto risponde:
- Ciò faròpoiché tu vuogli; ma ascoltate un poco - (perché tutti erano a modo delle gallinequando schiamazzono); e Alberto cominciae dice: - Io credo che il maggior maestro che fosse mai di dipigneree di comporre le sue figureè stato il nostro Signore Dio; ma e' pare cheper molti che sonosia stato veduto nelle figure per lui create grande difettoe nel tempo presente le correggono. Chi sono questi moderni dipintori e correttori? Sono le donne fiorentine. E fu mai dipintoreche sul neroo del nero facesse biancose non costoro? E’ nascerà molte volte una fanciullae forse le piúche paiono scarafaggi; strofina di quaingessa di làmettila al solee' fannole diventar piú bianche che 'l cecero. E qual artistao di pannio di lanao dipintore èche del nero possa far bianco? certo niuno; però che è contro natura. Serà una figura pallida e giallacon artificiati colori la fanno in forma di rosa. Quella che per difettoo per tempopare seccafanno divenire fiorita e verde. Io non ne cavo Giottoné altro dipintoreche mai colorasse meglio di costoro: ma quello che è vie maggior cosache un viso che sarà mal proporzionatoe avrà gli occhi grossitosto parranno di falcone; avrà il naso tortotosto il faranno dirittoavrà mascelle d'asinotosto l'assetteranno; avrà le spalle grossetosto le pialleranno; avrà l'una in fuori piú che l'altratanto la rizzafferanno con bambagia che proporzionate si mostreranno con giusta forma.
E cosí il pettoe cosí l'anchefacendo quello sanza scarpello che Policreto con esso non averebbe saputo fare. E abbreviando il mio direio vi dico e raffermo che le donne fiorentine sono maggiori maestre di dipignere e d'intagliareche mai altri maestri fossono; però che assai chiaro si vede ch'elle restituiscono dove la natura ha mancato. E se non mi credeteguardate in tutta la nostra terrae non troverrete quasi donna che nera sia. Questo non è che la natura l'abbi fatte tutte bianche; ma per istudio le piúdi nere son diventate bianche. E cosí èe del loro viso e dello 'mbustoche tutticome che naturalmente siano e diritti e torti e scontortida loro con molti ingegni e arti sono stati ridotti a bella proporzione. Or se io dico il verol'opera lodi il maestro.
E voltosi alla brigatadisse:
- E voi che dite?
Allora tutti a romore di populo diconogridando:
- Viva il messereche troppo bene ha giudicato -; e su quella prateriach'è di fuoridopo l'assoluta questionedierono a maestro Alberto la bacchettae feciono venire del vino della bottecon lo quale si rifiorirono molto benedicendo all'Abate che la domenica seguente tornerebbono tutti a dire il loro parere sopra quello di che avevono aúto consiglio. E cosíla seguente domenicatutti insiemetornorono a fare con lo Abate quello medesimo che aveano fatto quel dísalvo che portarono...


NOVELLA CXXXVII

Come le donne fiorentinesenza studiare o apparare leggihanno vinto e confuso già con le loro leggeportando le loro foggealcuno dottore di legge.

Assai è dimostrato nella precedente novella quanto le donne fiorentine con sottile industria avanzano di dipignere tutti li dipintori che furono mai; e come li diavoli fanno parere e diventare angioli di bellezza; e ancora come ogni difetto di natura elle addirizzano e racconciano. Ora in questa voglio mostrare come la loro legge ha già vinto gran dottorie come elle sono grandissime loichequando elle vogliono.
Egli è non gran tempo che io scrittore essendobenché indegnode' Priori nella nostra cittàvenne uno judice di ragioneil quale avea nome messer Amerigo degli Amerighi da Pesarobellissimo uomo del corpoe ancora valentissimo della sua scienza. E appresentandosi nella sua venuta all'officio nostro con quelle solennità e parole che bisognaandò ed entrò nell'officio. Ed essendosi fatta nuova legge sopra gli ornamenti delle donnefu poi da ivi a certi dí mandato per luie ricordato che sopra quelli ordini procedesse tanto sollecitamente quanto si potesse; e quelli rispose di farlo. E andato alla sua casaveduto sopra quelli ordinipiú e piú dí la sua famiglia andò cercando; e quando il notaio tornavagli dicevaquando trovava alcuna donnacom'elli la volea scriverel'argomento che ciascuna faceae 'l notaio ne parea quasi che mezzo uscito di sé; e messer Amerigo avea notato e considerato tutti i rapporti del suo notaio.
Avvenne per caso cheveggendo certi cittadini le donne portare ciò che elle voleano senza alcun freno; e sentendo la legge fatta; e ancora sentendo l'officiale nuovo esser venuto; vanno di loro certi a' Signorie dicono che l'officiale nuovo fa sí bene il suo officio che le donne non trascorsono mai nelle portature come al presente faceano. Onde li Signori mandorono per lo detto officialee dicendoli come si maravigliavono del negligente officio che facea sopra gli ordini delle donneil detto messer Amerigo rispose in questa forma:
- Signori mieiio ho tutto il tempo della vita mia studiato per apparar ragionee oraquando io credea sapere qualche cosaio truovo che io so nullaperò che cercando degli ornamenti divietati alle vostre donne per gli ordini che m'avete datisí fatti argomenti non trovai mai in alcuna leggecome sono quelli ch'elle fanno; e fra gli altri ve ne voglio nominare alcuni. E’ si truova una donna col becchetto frastagliato avvolto sopra il cappuccio; il notaio mio dice: "Ditemi il nome vostro; però che avete il becchetto intagliato"; la buona donna piglia questo becchetto che è appiccato al cappuccio con uno spilloe recaselo in manoe dice ch'egli è una ghirlanda. Or va piú oltretruova molti bottoni portare dinanzi; dicesi a quella che è trovata: "Questi bottoni voi non potete portare"; e quella risponde: "Messer sípossoché questi non sono bottonima sono coppellee se non mi credeteguardatee' non hanno picciuoloe ancora non c'è niuno occhiello". Va il notaio all'altra che porta gli ermellinie dice: "Che potrà apporre costei?" "Voi portate gli ermellini"; e la vuole scrivere; la donna dice: "Non iscrivetenoché questi non sono ermellinianzi sono lattizzi"; dice il notaio: "Che cosa è questo lattizzo?" e la donna risponde: "È una bestia". E 'l notaio mio come bestia...Truova spesse volte donne con...
- Noi abbiamo tolto a contender col muro.
Dice un altro:
- Me' faremo attendere a' fatti che portano piú.
Dice l'altro:
- Chi vuole il malannosí se l'abbia.
E infine dice uno:
- Io vo' che voi sappiate ch'e' Romani non potero contro le loro donneche vinsono tutto il mondo; ed elle per levar gli ordini sopra gli ornamenti lorocorsono al Campidoglioe vinsono e' Romaniavendo quello che voleano; per tal segnale che Coppo del Borghese in una novella di questo libro leggendo in Tito Livio la detta istoriane fu per impazzare. E cosí allegando or l'uno or l'altrofu detto per tutto l'officio a messer Amerigoche guardasse di far quello che ben fosse e l'avanzo si stesse. E questo fu detto in tal orae in tal puntoche quasi d'allora in qua nessuno officiale quasi ha fatto officioo datosene fatica; lasciando correre le ghirlande per becchettie le coppelle e i lattizzie' cinciglioni. E però dice il Friolano: "Ciò che vuole dunnavuol signò; e ciò che vuol signòtirli in birli".


NOVELLA CXXXVIII

Non essendo obbedito dalla sua famiglia Buonanno di ser Benizoarmatosi tutto a ferrocorre la casa per sua.

Buonanno di ser Benizo fu uno fiorentino mercatante di spezieria. Era un uomo basso e largo e grosso; andava con uno tabarrosempre sgollatopiloso molto nel collo; e avea per costume di bere la mattinaquando una volta e quando piú; e alcuna fiata s'abbatté a taleche dicendo: "Andiamo a bere"; e 'l compagno gli dicea:
- Io non bereise non fussi la cotal ora -; e Buonanno dicea:
- A cotest'ora purgo io il ventre -; ma dicealo a lettere grosse.
Ora venendo al fattoquesto Buonanno avea una sua moglie molto diversa; e quando Buonanno dicea: "Mela"; ed ella dicea: "Mela e pera"sempre borbottando e attraversandoe con lei non potea aver concordia. E veggendo il fante e la fante che la donna delle sue contese le piú volte rimanea al disoprael fante e la fante ancoraritrosendo contra Buonannopoco il serviano. Ondeveggendosi Buonanno mal paratopensò un dí d'andare in uno suo fondachettoe ivi (ché v'erano l'armadure) s'armò da capo a piede; e quando fu armatosi reca in mano una sua spada nudaed esce fuori e comincia in terreno correre per tutto e dar della spada per gli assitigridando:
- Viva Buonanno.
Per tutto il terreno non trovò se non il fante; verso cui percosse con la spada di piattodicendo:
- Che viva?
Il fante mezzo fuor di sédice:
- Che vuol dir questo?
Dice Buonanno:
- Viene a dire panico pesto -; e dàgli di piatto sul capoe dice: - Di'viva Buonannoo io t'ucciderò.
Il fante grida alle maggiori voci che poteo:
- Viva Buonanno.
E Buonanno dàlla su per la scalae giugne alla cucina:
- Viva Buonanno.
La fante cominciò tutta a tremare. Buonanno dà con la spada in una pentolae fanne mille pezzi. La fante stava come smemoratae per la putta paura grida:
- Viva Buonannoviva Buonanno.
E Buonanno ritorna in sala; e nel mezzo di quellacavate e poste le brachegrida vie piú forte:
- Chi vuol portar le brache or ne venga per esse -; e grida: - Viva Buonanno -; facendo intorno alle brache grandissimi colpi e grandissime menature.
La donnaudendo il romorefassi in capo di sala. E Buonanno cosí armato si fa incontro:
- Viva Buonanno; - e dàgli una buona di piatto.
La donna dice:
- Se' tuBuonanno? o che vuol dir questo?
E Buonanno croscia un'altra buona piattonata:
- Viva Buonanno.
Ancora nol disse; onde Buonanno tocca la terza
- Io dico: di': viva Buonannoo io t'ucciderò.
La donna a mal in corpo dice:
- Viva Buonannoviva Buonanno.
E cosí per tutta la casa per questo modo trascorre.
E tornando verso la moglie e l'altra famigliadisse:
- Ècci nessuno che si vogli mettere le mie brache? elle sono qui in terravada per esse. Io sono il signore...


NOVELLA CXXXIX

Uno Massaleo da Firenzeessendo in prigione con uno giudice stato della Mercatantiacon una strana piacevolezza usata nel giudice si mostra avere errato.

Massaleo degli Albizi fu uno nuovo uomoe con molte nuove piacevolezze. Essendo costui stato in prigione buon pezzo e ancora essendovivenne per caso che uno giudice della Mercatantiaassai giovane e pulito e chiaronel tempo del suo sindacatoper certa cosa accusatonon potendo per quella dar mallevadoreconvenne che andasse alle Stinche. Massaleo veggendo questo giudiceentrò con lui in ragionamentoe per quello che v'erae molte altre cose; e in fine lo invitò a cenaed elli cenò con lui. Avendo cenatoe vegliato un pezzoMassaleo veggendo che 'l giudice ancora non era fornito del suo lettolo invitò a dormire con lui; e 'l giudice ancoraveggendo la domestichezza di Massaleosi coricò nel letto. Dove ragionato che ebbono un pezzoe venendo sul cominciare a sonneferare; e Massaleo mosso piú per piacevolezza che per vizioe per comprendere un poco de' modi del giudiceperò che a lui stesso parea un bigolonedisteso il braccio per lo letto verso luigli pigliò il picciuoloe cominciandolo a rimenare; il giudiceche già era mezzo addormentatosubito destossidice:
- Oimèo che fé a costui vu?
Massaleo subito risponde:
- Perdonatemiche io credea che fosse il mio.
E 'l giudice disse:
- In fé di Diovoi smarriresti bene un'altra cosaquando voi smarrite questa.
E Massaleo disse:
- Io era abbarbagliato già dal sonnoe non credea che altro che 'l mio ci fosse in questo letto - : e cominciò ad allegare con una gramatica grossa: - Domine judexreputate non esse malitiamsed errorem.
Dice il giudice:
- Momesser Massaleoe' par che vo' sia per caleffare; lagàme dormireche io ve ne prego.
E Massaleo ed egli s'addormentoronoe cosí finí quest'opera. Che saputa che questa novella di fuori fu per Firenzeli piú valenti uomeni che v'erano scoppiavono delle risa.
E 'l giudice poi per maraviglia del grande erroree di Massaleoquando a ciò pensavaparea quasi un uomo invasato; e fecesi recare un letto per luie in quellomentre che stette in prigionesi dormíacciò che Massaleo piú non cadesse in simile errore.


NOVELLA CXL

Tre ciechi fanno compagnia insiemee veggendo la loro ragione a Santa Gondavegnono a tanto che si mazzicano molto bene insiemee dividendo l'oste e la mogliesono da loro anco mazzicati.

Nel popolo di Santo Lorenzo presso a Santa Orsa nella città di Firenze tornavano certi ciechidi quelli che andavono per limosinae la mattina si levavono molto per tempoe chi andava alla Nunziatae chi in Orto San Michelee chi andava a cantare per le borgorae spesse volte deliberavano chequando avessono fatta la mattinatasi trovasseno al campanile di Santo Lorenzo a desinaredove era uno oste che sempre dava mangiare e bere a' loro pari. Una mattina essendovene due a tavolae avendo desinatodice l'unoragionando del loro avereo della loro povertà:
- Io accecai fors'è dodici annie ho guadagnato forse mille lire.
Dice l'altro:
- Ohi tristo a me sventuratoch'egli è sí poco che io accecaiche io non ho guadagnato duecento lire.
Dice il compagno:
- O quant'è che tu accecasti?
Dice costui:
- È forse tre anni.
Giugne uno terzo ciecoche avea nome Lazzero da Cornetoe dice:
- Dio vi salvifratelli miei.
E quelli dicono:
- Qual sei tu?
E quelli risponde:
- Sono al buiocome voi -; e segue: - E che ragionate? E quelli contorono il tempo de' loro guadagni.
Disse Lazzero:
- Io nacqui ciecoe ho quarantasett'anni; s'io avessi e' danari che io ho guadagnatiio sarei il piú ricco cieco di Maremma.
- Bene sta- dice il cieco di tre anni- che io non truovo niuno che non abbia fatto meglio di me.
E facendo cosí tutti e tre insiemedice questo cieco:
- Di grazialasciamo andare gli anni passati; vogliàn noi fare una compagnia tutti e tree ciò che noi guadagnamosia a comune; e quando andremo fuori tutti trenoi andremo insiemepigliandoci l'uno con l'altro; se bene bisognerà chi ci meniil piglieremo.
Tutti s'accordoronoe alla mensa s'impalmorono e giurorono insieme. E fatta questa loro compagnia alquanto in Firenzeuno che gli avea uditi fermare questo loro trafficotrovandogli uno mercoledí alla porta di Santo Lorenzodà all'uno di loro un quattrinoe dice:
- Togliete questo grosso tra tutti tre voi -; e continuandodove costoro si fermavano insieme a certe festecostui facea sempre limosina d'uno quattrinodicendo: - Togliete questo grosso tra tutti e tre.
Dice coluiche lo riceve alcuna volta:
- Gnaffee' ci è dato un grosso che a me par piccolo com'uno quattrino.
Dicono gli altri due:
- O non ci cominciare già a volere ingannare.
Questi rispose:
- Che inganno vi poss'io fare? quello che mi fia datoio metterò nella tascae cosí fate voi.
Disse Lazzero:
- Fratellila lealtà è bella cosa.
E cosí si rimase; e ciascuno ragunava; e deliberarono tra loro ogni capo d'otto dí mescolare il guadagno e partire per terzo.
Avvenne cheivi a tre dí che questo fuera mezzo agosto; di che si disposonocome è la loro usanzad'andare alla festa della nostra Donna a Pisa; e movendosi ciascuno con un suo cane a manoammaestratocome fannocon la scodellasi misono in cammino cantando la intemerata per ogni borgo; e giunsono a Santa Gonda un sabatoche era il dí di vedere la ragione e partire la moneta; e a uno ostedove albergoronochiesono una camera per tutti e tre loroper fare li fatti loro quella notte; e cosí l'oste la diede loro.
Entrati questi ciechi con li cani e co' guinzagli a manoquando fu il tempo d'andare a dormire nella detta cameradisse uno di loroche avea nome Salvadore:
- A che ora vogliam noi fare la nostra faccenda?
Accordoronsiquando l'oste e la sua famiglia fosse a dormire; e cosí feciono. Venuta l'oradice il terzo cieco che avea nome Graziaed era quello che era stato men cieco:
- Ciascuno di noi seggae nel grembo noveri gli danari ch'egli hae poi faremo la ragione; e colui che n'avrà piúristorerà colui che n'avrà meno.
E cosí furono d'accordocominciando ciascuno annoverare. Quando ebbono annoveratodice Lazzero:
- Io trovosecondo ho annoveratolire tresoldi cinquedanari quattro.
Dice Salvadore:
- E io ho annoverato lire tredanari due.
Dice Grazia:
- Buonobuono; io ho appunto quarantasette soldi.
Dicono gli altri:
- O che diavolo vuol dire questo?
Dice Grazia:
- Io non so.
- Come non sai? che déi avere parecchi grossi in ariento piú di noie tu ce la cali a questo modo: è la compagnia del lupo la tua: tu hai nome Graziama a noi se' tu disgrazia.
Dice costui:
- Io non so che disgrazia; quando colui dicea che ci dava un grossoa me parea egli uno quattrino; e che che si fossecome io vi dissiio il mettea nella tasca; io non so; io serei leale come voi in ogni luogoche mi fate già traditore e ladro.
Dice Salvadore:
- E tu se'poiché tu ci rubi il nostro.
- Tu menti per la gola- dice Grazia.
- Anzi menti tu.
- Anzi tu -e cominciansi a pigliare e dare delle pugna; e danari caggiono per lo spazzo.
Lazzerosentendo cominciata la mischiapiglia la sua mazzae dà tra costoroper dividerli; e quando costoro sentono la mazzapigliano le loro e cominciansi a batacchiaree tutti li danari erano caduti per lo spazzo. La battaglia crescegridandoe giucando del bastone; li loro cani abbaiavono fortee tale pigliava per lo lembo co' denti or l'uno or l'altro; e' ciechimenando le mazzespesso davano a' canie quelli urlavano: e cosí parea questo uno torniamento. L'osteche dormía di sotto con la mogliedice alla donna:
- Abbiàn noi demoni di sopra?
Levasi l'uno e l'altroe tolgono il lume e vanno sue dicono:
- Aprite qua.
I ciechiche erano inebriati su la battagliaudivano come vedeano. Di che l'oste pinse l'uscio per forzae aprendolointrò dentroe volendo dividere i ciechiebbe d'una mazza nel viso; di che piglia uno di loroe gittalo in terra:
- Che vermocane è questoche siate mort'a ghiado? - e pigliando la mazza suadando a tutti di puntadicea: - Uscitemi di casa.
La donna dell'oste accostandosi e schiamazzandocome le femmine fannouno cane la piglia pel lembo della gonnellae quanto ne presetanto ne tirò. Alla per fine perdendo costoro la lenaed essendosi molto bene mazzicatie chi era caduto di qua e chi di làdice Lazzero:
- Oimèosteche io son morto.
Dice l'oste:
- Dio gli ti mandiuscitemi testè di casa.
E quelli tutti si dolgono e dicono:
- Oimèostevedi come noi stiamo -; che aveano li visi lividi e sanguinosi - e peggioche tutti li nostri danari ci sono caduti.
Allora l'oste dice:
- Che denariche siate mort'a ghiadoche m'avete presso che cavato l'occhio?
Dice Lazzero:
- Perdonaciche noi non veghiamo piú che Dio si voglia.
- Io vi dico: uscitemi di casa.
E quelli dicono:
- Rico' ci li danari nostrie faremo ciò che tu vorrai.
L'oste fa ricogliere i danari; i quali non assegnò mezzie disse:
- Qui ha forse cinque lire; voi m'avete a dare delli scotti lira duarestacene lire tre; io voglio andare al Vicario quassúe voglio che mi faccia ragioneche m'avete feditoe alla donna mia da' vostri cani è stata stracciata la gonnella.
Quando costoro odono questotutti ad una voce dicono:
- Amicoper l'amor di Dionon ci volere disfare; togli da noi quello che possiamoe anderenci con Dio.
L'oste disse:
- Poiché cosí èio non so se mi perderò l'occhio; datemi tanto che io mi possa far medicareemendate la cotardita della donna miache pur l'altro dí mi costò lire sette.
Brevementeli ciechi dierono all'albergatore li danari cadutiche erano nove liresoldi duee altrettanti che n'aveano addosso; e cosí di nottepregorono l'oste che perdonasse loroe andaronsene cosí vergheggiatichi sciancatoe chi col viso infiatoe chi col braccio guastoper bella paura tanto oltreche furono sul contado di Pisala mattina. Quando furono a una taverna appiè di Marticominciorono a rimbrottare l'uno l'altro; e l'osteveggendoli sanguinosi e accaneggiatisi maravigliavadicendo:
- Chi v'ha cosí conci?
E quelli dicono:
- Non te ne caglia - : e ciascuno addomanda uno quartuccio di vinopiú per lavarsi le busse o le percosse del visoche per bere.
E fatto questodice Grazia:
- Sapete che vi dico? io facea in fede i fatti vostricome i mieie non fu' mai né ladro né traditore; voi m'avete dato di ciò uno buon meritoche io ne sono quasi disfatto in avere e in persona: egli è meglio corta follia che lungae farò come colui che dice: "Unodue e treio mi scompagno da te"; e con voi non ho piú a fare nullae l'oste ne sia testimone -; e vassi con Dio.
Dicono questi altri:
- Tu hai nome Graziama tale la dia Dio a techente tu l'hai data a noi.
E andossene solo a Pisa: e Lazzero e Salvadore se n'andorono anche alla festa con questa tempesta. E perché oltre all'essere ciechierano tutti laceri dalle bastonatefu loro fatte a Pisa tre cotanti limosine; onde ciascuno di quelle mazzatenon che se ne dessi pacema e' non averebbon voluto non averle per tutto il mondosolo per l'utilità che se ne vidono seguire.


NOVELLA CXLI

Come a uno Rettore capitò innanzi con una questione una femmina con tre sordie come nuovamente e piacevolmente diffiní la loro questione.

La passata novella di tre ciechi tira me scrittore di dire unala quale intervenne al piú mio singulare amico che io avesse mai; e come quella racconta tre ciechicosí questa racconterà tre sordi. Fu adunque il mio cordiale amico Podestà in una terra non di lungi dalla nostra venticinque miglia; e quasi presso all'uscita del suo officio gli venne una questione innanzie già era stato tratto uno Podestà successore a luiil quale in tutto era sordo; e 'l Podestà presente lo sapeaperò che quando la campana grossissima delle tre sonava in Firenzeli vicini veggendo che costui non l'udivae perché non fosse preso dalla famigliagli accennavanoalzando le dita all'ariache se n'andasse a casa; sí che per tutto si sapea che il sordo Podestà dovea entrare in officio da ivi a un mese. Avvenne per caso che una femmina con uno suo fratello vennono un dí a questo mio amico podestàe la femmina cominciò a dire:
- Messer lo Podestàio vegno a Dio e a voiperò che un mio vicino m'ha fatto col torto una grande cattività; però che per uno mio chiasso dirieto egli è entrato e hammi guasta e rotta una mia ficaiache io avea nell'orto; e però vi prego checom'egli me l'ha fatto col tortoche voi me lo rifacciate col diritto e con la ragione.
Il Podestàudendo costeiavea voglia di rideree pur si ritenea. E poi dice questa donna:
- E questo mio fratello dee avere da lui danari di quattro operee la menda d'uno asino che gli guastònon contro a voi dicendo altro che bene.
Il Podestà domanda costui s'egli è vero quello che la donna dice. Ed egli dice:
- Messer lo Podestàio non odo ben lume; questa mia sirocchia v'ha detto come sta la cosa.
Il Podestà chiama il messoe manda per l'altra mattina a richiedere colui che dovea avere guasto la ficaia. Venendo l'altra mattinae la donna del richiamoe 'l fratelloe lo richiestovenneno alla stanga. Dice il Podestà:
- Buona donnache domandi tu a costui?
E quella dice la ragione della sua ficaia e quella del fratelloperò che era uno sordacchione balordo. Detto che l'ebbe'l Podestà dice all'altra parte:
- È vero quello che dice questa donna?
Colui viene aggirando gli orecchie dice:
- Messer lo Podestàio non odo bene.
Alcuno che gli era allatodicendo al Podestà che non udíagli accostò la bocca agli orecchigridando forte:
- Il Podestà dice s'egli è vero.
E quelli dice:
- Io non so a quello io debbo rispondere.
Dice la donna:
- E’ si mostra delle cento miglia; egli ha ben del sordoma egli ode benquando vuole udire.
Il Podestàper levarsi questa pena da dossoe perché ancora erano parentidisse alla donna che volea che la compromettessono in uno amico di mezzoe cosí fece sonare all'altra parte negli orecchi; e brevemente e' chiamorono unoe per l'altro dí gli fece diree all'albitro e alle partivenissono a lui.
E cosí l'altro dí essendo costoro venuti innanzi al Podestàil Podestà disse cheudita la questionela dovesse terminare fra tre díalla pena di venticinque lire. Questo albitro stava come un uomo di legno; e brevementese le parti aveano mal udirel'albitro era quasi sordo affatto. Quivi erano molti terrazzanie chi ridea di quae chi di là. Dice il Podestà:
- Buona donnae' non ci è niuno che oda altro che tu; e io a te dico che io voglio dare sentenza sopra questa questione.
Dice la donnacredendo subito avere ragione della sua ficaia:
- Io ve ne prego per l'amor di Dio.
- La sentenza che io doè questa: che veggendo che l'uno e l'altro di questi che hanno la questione son sordie l'arbitro che avete eletto è anco sordoe io non saprei né intenderviné favellare per cenni; considerando che 'l nuovo Podestà ci sia di qui a un mesea lui lascio la vostra questione.
La donnache udiva benefacea croce delle bracciapregando il Podestà che la spacciasse ellie ch'ella non dovesse stare tanto tempo ad aspettare ragione della sua ficaia. E 'l Podestà dice:
- Donnacom'io ho dettocosí condanno; va' nella buon'ora.
La donna e' sordacchioni s'andorono a casa; e quelli che v'eranoudendo questo giudiciocompresono bene ciò che 'l Podestà volle dire.
Che altro non fu se non cheessendo coloro tutti e tre sordiaspettassino il Podestà sordo; ed ellicome pratico de' costumi de' sorditerminarebbe quella questione sordamentecome tra sordi si dovea terminare.


NOVELLA CXLII

Uno buffone di Casentino morde uno avaro con una nuova rispostae fàllo ricredente della sua miseria.

Agnolo Morontivocato Agnolo Dogliosofu uno piacevole uomo di corte di Casentinoil quale essendo per una pasqua di Natale a pasquare col conte Rubertoed essendovi ancora uno fiorentino assai riccoil quale molto avea avuto diletto de' modi e de' costumi del detto Agnolo; al partirsi dietro alla pasquaciascuno accomiatandosi l'uno dall'altroAgnolo pigliò per le mani il ricco fiorentino e 'l fiorentino luiforse per aver il detto Agnolo da lui qualche cosacome è d'usanza de' suoi pari; il fiorentino disse:
- Agnolo mioio sono molto contento d'averti conosciutoperò che mai non vidi tanto piacevole uomo quanto tu se'e volentieri farei cosa che ti piacesse; ma non posso qui altramente essere fornito che io mi siaperò che ho poca vesta e men danari con meco; ma se tu vieni a Firenze a questi tempiio non t'avrò mai per amicose non te ne vieni diritto a casa; e allora ti potrò donarenon quello che tu meritima quello che sarà caparra della tua amiciziaad essere tua sempre la mia casa.
Agnoloche non disdegnava le proffertese non come tutti i suoi pari fannoaccettò graziosamente le profferte del fiorentinoe ancoracome uomo di buona memoriaper la festa di Santo Giovanni Battista seguente pensò d'andare a Firenzee a casa di costuie cosí fece. E giunto in Firenzesubito n'andò a cavallo a casa di colui che tutto il mondo dovea essere salsa. E domandando di luie la moglie disse che non v'erama che dovea essere là al canto a un ridotto. Agnoloudendo questoscende da cavalloe appiccalo a un arpione di fuorie vassene a quel luogo dove la donna dissee trovò l'amico sedere; e Agnolo con lieta facciaandando verso lui che sedeanon parve che 'l fiorentino l'avesse mai veduto; e Agnolo di ciò avveggendosifra suo cuore disse: "Io avrò fatto cattivo sogno"; e dice:
- Io sono venuto a vedere la festae ho voluto attenerti la promessa; io sono stato a casa tuae ho appiccato il ronzino di fuori; io il vorrei mettere nella stalla.
Dice quel fiorentino:
- Or vedi ben sciagurache la stalla mia è tutta impacciatache certi lavoratori mi vennono dinanzi con some e hannola piena d'asiniper forma che non vi capirrebbe un canenon che uno ronzino.
Agnolo presto presto dice:
- O tu che fai costí?
E quelli disse:
- Stommicome tu vedi.
E quelli disse:
- Cosí non ti stessi tuche tu ne seresti forsi di meglio cinquecento fiorini.
Dice costui:
- Come?
Dice Agnolo:
- Ben lo so io.
- Deh dimmideh dimmi.
Egli lo lasciò con questa gozzaia in quell'orae in quel puntoche costui non levò mai il pensiero di questi fiorini cinquecento che si dovea avere peggioratie da ivi a meno di due mesi si moríe Agnolo l'avea detto per motti e per dargli che pensare. Serebbe stato il meglioche 'l fiorentino gli avesse fatto cortesiae non avesse ritenuto gli asini de' lavoratoriche forse non ve n'avea alcuno.
E cosí Agnolo si tornò in Casentinoe non trovò la festa come credettema forse la diede peggiore a colui che ne fu cagione.


NOVELLA CXLIII

Il Piovano da Settimo rimane scornatoperché unoche era bastardoscontrandolo gli dimostracon una piacevole novellacome anco elli è mulo.

La passata novella dimostra come a uno fu fatto poco onore per essere affigurato a uno asino; in questa che seguitabrievemente si dimostrerrà come un altro per essere affigurato d'essere mulosi scornò in forma che sempre fu nimico di chi gli lo disse. Fu adunque poco tempo fae ancora èuno piacevolissimo e povero suo pariil quale con la sua famiglia sempre è stato nel Castello de' Pulcicome colui che sempre è stato una creatura di que' Pulci. Era costui bastardoe niente si curava di dirlo elli stessoora con uno mottoora con un altropur che credesse dare diletto altrui. Al tempo che 'l Comune di Firenze ave' guerra con la Chiesa di Romapartendosi costuich'era chiamato lo Innamoratoper andare a Firenze a fare alcuna sua faccendavidde per avventura pigliare bestiecioè muli e asinicome si fa spesso in tempo di guerraper mandare fuori certa vituaglia; e ritornandosi verso il castellopoi che ebbe fatta la faccendascontrò nella strada da Settimo il Piovano di quella pieveil quale ancora era bastardoche andava a Firenze. Il quale Piovanosalutando lo Innamoratodomandò che novelle avea a città. Lo Innamorato rispose:
- Andate voi là?
Disse il Piovano:
- Mai síche mi convien comprare certe cose che io ho bisogno.
Disse lo Innamorato:
- Io per me v'andava ancora per fare certi mia fatti; ma quando io fui alla portae' vi si pigliava tutti e' muli per mandare non so dove; di che io diedi voltae sonmene venuto per non essere preso; voiche faretemessere?
Come il Piovano ode costuisi mutò di mille coloricome colui che si sentiva essere fatto a staccio; e dice:
- Dehdatti la mala pasquache se' uno ribaldo.
E l'Innamorato dice:
- Dehnon v'adirate di quello che non m'adiro io.
E 'l Piovano dice:
- Dunque vuo' tu agguagliare lo stato tuo al mio?
E l'Innamorato dice:
- O volete stateo volete vernoche secondo la nazione noi nascemmo a un modoe io per me vi tengo per maggiore fratello.
E 'l minacciare e 'l rimbrottare del Piovano fu assaie stette coppie d'anni che non favellò allo Innamorato; il quale non vi dié nulladicendo questa novella e nel contado e nella cittàe dando gran diletto a molti che lo stavono ad ascoltare.


NOVELLA CXLIV

Stecchi e Martellinocon un nuovo giuoco e con un lordoin presenza di messer Mastinocon la parte di sotto gittando molto fastidioo feccia stemperatainfardano due Genovesi con li loro ricchi vestimentida capo a piede.

Quando messer Mastino era nel colmo della rota nella città di Veronafacendo una sua festatutti i buffoni d'Italiacome sempre intervienecorsono a quella per guadagnare e recare acqua al loro mulino. E durante la festaessendo là venuti due Genovesi molto puliti e pieni di moscadocome soleano andareed erano ancora uomeni assai sollazzevolimezzi cortigianie facevano spesso certi giuochi da dare diletto a' signori; tra gli altri uomeni di corte che v'eranofu uno che avea nome Martellinoe uno che avea nome Stecchitanto piacevoli buffoni quanto la natura potesse fare. Li qualiveggendo quanto a questi due Genovesi parea essere gran maestrie come andavono adornivantandosi un giorno l'uno: "io farei"; e l'altro: "io direi"; dice Stecchi e Martellino:
- Messer Prezzivalle- (ché cosí avea nome l'unoe l'altro messer Zatino)- noi vogliamo fare una cosache vi parrà forse stranache io Stecchi cacherò quanto uno granello di panicoe non piú né meno.
Dicono li Genovesi:
- E per lo sanghe de Deche non porie essere.
Dice Stecchi:
- Se non può tessereella fili.
Ed essendo questa tencionemesser Mastino sopraggiunsee udendolidice:
- Che contesa è la vostra?
E quelli il dissono. Lo signoreché sempre sono volontorosi di nove cose tuttidisse:
- Questo intendo pur di vedere.
Dice Stecchi:
- Alla prova.
E messer Mastino dice:
- O apparecchiàvee fàve nella sala.
Dice Stecchi:
- Fate che ci sia uno saggiuolo con uno granello di panicoacciò che ciascuno vegga questa sperienza; ma io voglio che questi gentiluomeni genovesi veggano sí questo fatto che ne siano certi.
Li Genovesi dicono:
- E noi vogliamo essere quelli che veggiamo e pesiamo questo fatto; che ci credete beffare come ghiottoni?
Dice Stecchi:
- Trovate il saggiuolo e lo granello del panicoe io andrò con Martellino nella camerae verrò nella sala -; e cosí fu.
Messer Mastino andò nella sala al luogo suoaspettando questo fatto vedere con tutti quelli della corte sua. Li Genovesi giunsono col saggiuolo e con lo granello del panico. Stecchi era andato con Martellinoe ad una conca d'acqua messo il forame (come sempre parea che facessequando volea)tutta quella conca dell'acqua per la parte di sotto tirò nel ventree cosí pieno si rassegnò nella sala; e domandato al signore dove volea che facesse il giuocoe messer Mastino disse:
- Là dove io vegga primae poi tutti gli altri.
E cosí nel mezzo della sala Stecchicalate le brachee alzando le parti di sottoe' Genovesi all'altra parte col saggiuolo e col granello del panicostesono una mantellina per ricogliere questa piccola cosatanto appunto quanto Stecchi dicea che dovea fare. Stecchi pontavao facea vistae dicea a' Genovesi:
- Appressatevi sía guardare questa piccola cosache voi la veggiate.
Li Genovesil'uno dall'uno latoe l'altro dall'altrodiceano:
- Fa' pur mo via i fatti tuoiche noi stiamo bene sí attentiche non t'usciría l'anima di quaggiú che noi non la vedessimo.
Martellino tenea i pannie dicea quanto potea perché i Genovesi accostassino il viso nella sperae quando gli ebbono appunto dove vollonoe Stecchi disserra la caterattae schiza a costoro ciò che avea beúto di sottoe tanto piú quant'era la lavaturache erano alquante dramme di fecciache parve una doccia di mulinoper sí fatta forma ch'e' Genovesi non ne perderono gocciolache tutta l'ebbono tra sul viso e su' loro vestimentied eziandio in sul saggiuolo. Vedendosi costoro sí mal parativannosene verso una camera dicendo:
- Mala gramezza! e' debbono essere due leccaoriche cuzí ci hanno bruttao in presenza del signore.
Il signoree tutti quelli che v'eranoquasi per le risa piangeano. E 'l signore fece mandare a quelli Genovesi chi gli mettesse in bucato e lavasseli benedicendo come di ciò farebbe gran punizione. E pur lavato costoro il meglio che si potéle robe non si poterono lavare cosí tostoe non se le poteano mettere; di che ebbono materia di mandare a chiedere a messer Mastino due vestimentio a loro convenía stare nel letto per non avere che si mettere; onde il signore mandò loro due robe. Come Martellino sente che 'l signore ha dato due robe a costoromanda a pregare il signore che gli ne dia una a luiperò che quella mostarda con molti sprazzi l'avea tutto bruttato. Il signore disse:
- Mo dagliene unache nasca loro il vermocanepoiché mi conviene vestire chi m'ha sconcagà la mia corte.
Stecchi tornato nella camera suae Martellino con luial quale fu recata una roba presente Stecchi; e Stecchi considerando come li Genovesi e Martellinoper esser tutti lordiaveano aúto le robedice:
- Oimè sventurato! egli era meglio che io fosse stato convolto in un privatose per questo io dovea avere merito dal signore.
Li Genovesi lavaticon le robe donate dal signorecomparirono dinanzi a quellodolendosi di quel cattivo villano che con sí brutto giuoco gli avea vituperatipregandolo il dovesse punire per forma che gli altri non corresseno mai in simil follia. Martellino non era molto di lungiudí ciò che costoro diceano al signore; e vassene a Stecchie diceli ciò che ha udito.
Dice Stecchi:
- Or bene: sai com'è da fare? io entrerò nel lettoe dirò che per questo fatto io ne sono per morireperò che le busecchie m'escono di corpo: cerca in quella mia bisacciae dammi un cuffia di seta che v'è; e io me la metterò dentro nella parte di sottoe lascerò un poco del bendone di fuorie tu fai il giuocoe' Genovesi veggendomi a quel partitorimarranno contentie 'l signore forse mi donerà qualche robapoiché l'ha data agli altrie non a me. E però vattene al signoree digli com'io sto grave; però che per molto ristrignere che io feciper uscire uno granello di panico e non piúla cosa si ruppe ecome viddeuscí alla dilagata fuori per forma che le busecchie sono trascorse per uscirmi del corpoe già una se ne vede di fuori: e se voi il volete vedere in quel medesimo luogoe voie' Genovesie tutti gli altri ve ne farà chiari.
Martellino con questo si partee truova messer Mastino che ancora avea li Genovesi innanzi; e dice:
- Signor mioStecchi è a mal partitoperò che per ritenere di non uscire del corpo se non uno granello di panicola cosa si ruppecome si videe brievemente le busecchie gli escono di corpo; e di ciò ve ne vuol fare prova in quel luogo medesimoacciò che questi gentiluomeni genovesi non credino ch'egli avesse fatto in prova quello che disavvedutamente è incontrato.
Messere Mastinoche altre volte avea saputo chi era Stecchi:
- Mo fosse già mortosozzo rubaldoche ha guasto a costoro tutte le loro robe; madiesíche io gli voglio vedere uscire le budelle di corpo.
E presi li Genovesi per le manigli menò in salae postisi da partecomanda che sia detto a Stecchi che di presente venga in sala. Martellino subito vae acconcialo ch'egli era livido come un uomo morto; e sostenendolo che non parea si potesse azzicareil menò nella salalà dove tutto affannato fece reverenza al signoredicendo
- Signor mioio sto male.
Dice il signore:
- E tu lo meriti molto bene a fare sí fatte cattiverie nella mia corte.
Dice Stecchi:
- Io me ne ho la penae se non mi credeteio ve la mosterrò.
E’ Genovesi essendo presentidice il signore:
- Mostra ciò che tu vuogliche io voglio che si veggia il rimanente di questa tua bruttura.
Martellino toglie una panchettaStecchi vi si reca a traverso col viso di sottomostrando il culattario al signore e a tutta la brigata. Martellinoscoprendo i panni con quelli di gamba ancoradel centro di quella luna tisica e nera si vede uscire uno bendone biancoche parea uno busecchio; il quale Martellino recandosi in manodice:
- Guardatesignorequanta sventura è venuta in questo vostro servidore di Stecchiche per volere dare sollazzo a quelli che sono venuti a questa vostra corteegli è guasto della persona in forma che non serà forse vivo di qui a vespro.
E comincia a tirare il bendoneil quale a ciascuno parea uno busecchio; e quando Martellino tiravae Stecchi gridava:
- Oimè! - dolendosi quanto piú potea.
E cosí tirando appoco appocoe Stecchi urlandoecco uscire fuori la cuffia; allora Stecchi grida con le maggiori grida che può:
- Oimè! che 'l ventre se ne va.
La maggior parte della brigata l'aveano per fermo. Quando Martellino l'ha quasi tirato fuorie Stecchi pare come mortochiama alcuni:
- Deh aiutatesí che vada a morire sul letto.
Molti corsono aiutarloe' Genovesi dicono:
- O messer Martellinodeh lagaci vedere quel ventre.
Dice Martellinoche se l'avea messo in una tasca:
- O io l'ho mandato a sotterrare in sagrato.
Dicono i Genovesi:
- E mandà voi alla ecclesia sí fatte reliquie?
Dice Martellino:
- Cosí comanda il Papa che si faccia.
La mattina vegniendoessendo stato Stecchi nel letto insino allorae Martellino va alla beccheriae compera un ventre di porcoe portalo alla scoperta che ognuno il vede; e con un medico innanzi che era molto bene informato di questa faccendatale che per tutto si tenea essere grandissimo medico di sofisticane vanno a Stecchiavendo dato a intendere a ciascuno che voleano rimettere il ventre a Stecchi.
Quelli che 'l credeanostavano trasognati; e quelli che s'erano avveduti del giuocopiaceva loro sí questa novella che quasi scoppiavano delle risa. Entrato il medico e Martellino nella camera dove era lo sventurato Stecchivi stettono un pezzodicendo le piú belle novelle del mondo; e puosono che Stecchi l'altra mattina uscisse a campo sano e lietoe col ventre del porco squittito in scambio del suolodandosi della bella cura del medico sofistico. E uscito della camera il medico da tutti era guatato; e molti il domandorono come stava Stecchie quelli dicea:
- Bene; e credo ch'egli uscirà domane fuoriperò che io gli ho rimesso un ventre di porcoe già adopera come faceva il suoo meglio.
La gente allora piú smemorava.
La mattina seguente Stecchiche parea ancora affannatocomparisce nella cortee ciascuno il guatava per maraviglia; e su la terza si rappresentò al signoreil quale sogghignando disse: - O io credea tu fosse sotterrato.
E chiama i Genovesi e dice:
- Mo guardàse voi vedeste mai sí bel morto.
E quelli dicono:
- In fé di Diomessere Stecchiche poiché voi non avete il ventrenoi ci potremo piú fidare di voiche voi non ci porré sconcagare. Ma come non sé vu morto? - Dice Stecchi:
- Perché uno valentre sofistico m'ha messo nel porco un ventre di corpo.
- Mo andave con Dio- dicono li Genovesi- che voi ci avé ben infardàche Dio vi dia la mala perda.
Dice Stecchi:
- A voi non dich'io maleche ben vi venga: voi dite che io v'ho sconcagato; lo sconcacato par essere a meche voi sete vestiti che parete d'oroe io sono tutto affumicatobontà di questo signore che ha vestito voie di me non mette cura; ma io me ne voglio andaree voglio morire (se povero e nudo debba stare) innanzi a casa mia che morir qui -. Messer Mastinoudendo Stecchichiama un suo cortigiano e dice:
- Va' reca a Stecchi la tal robache gli nasca il vermocanedappoi che mi convien vestire lo sconcagadore e li sconcagadi.
E giunta la robagliela diedela quale valse piú che tutte e tre l'altre che avea date. Li Genovesiveggendo questodicono:
- Messere Stecchilo male non sta dove si pone: ma chi ha fare con Tosconon conviene che sia losco.
E cosí rimasono messer Mastino con gran diletto di cosí fatta cosaed eglino tutti amici l'uno dell'altro rimasono; e mentre che quella festa duròebbono gran piacere; e compiuta la festaciascuno si tornò a casa suarimanendo a' Veronesi che dire di cosí fatta novella piú d'uno anno: sanza che messer Mastino ne godé gran tempocome signore che gran diletto avea di cosí fatte cose.


NOVELLA CXLV

Facendosi cavaliere messer Lando da Gobbio in Firenze per essere Podestàmesser Dolcibene schernisce la sua miseriae poi nella sua corte essendo mossa questione a messer Dolcibenecon nuova astuzia e con le peta vince la questione.

A Firenze vennenon è gran tempouno podestàil qualeprima che entrasse nell'oficiosi fece cavaliere di populo; il quale ebbe nome messer Lando o messer Landuccio da Gobbio; e fu sí magnanimo che la corazza e la barbutacon che fu fatto cavalierefu datacom'è d'usanzaa messer Dolcibeneché cosí è d'usanza donarla a un uomo di corte; il qualevendendo le dette armaduren'ebbe in tutto soldi quarantaduesí che messer Dolcibene poté fare assai larghe spese. È vero che fu ristorato da ivi a poco tempomangiando col podestà un dí di quaresimacol cavolo e con la tonnina. Al quale messer Dolcibeneessendo sussequenti a lui a tavola li due collateraliveggendo loro porre innanzi tanta tonnina che non arebbe scoccata la trappolasi volge a loro e dice:
- Messer li collateralimettetevi gli occhiali che vi parrà due cotanti.
O non intesono il mottoo fecion vista di non intenderlo. Oraavendo questo messer Dolcibene un poco contezza nella detta cortee avendo in casa una sua nipotefanciulla bellissima e pulcella; essendo il dettocome li piú delli suoi pari sonotenuto anzi scellerato che no; i parenti della fanciulla da lato di madrenon potendola avere tratta di casa messer Dolcibenemossongli piato alla corte del podestà dinanzi a uno judiceche parea il piú nuovo squasimodeo che si vedesse mai. Egli avea una foggia alta presso a una spannacon uno gattafodero che parea una pelle d'orsatanto era morbidoe avea uno collaretto a un suo guarnaccioneo vero collaraccio che era sí largo e spadato che averebbe tenuto due staia alla largae avea uno occhio piccolo e uno grandepiú in su l'uno che l'altro; e uno naso che parea una carota; ed era da Rieti. Richiesto messer Dolcibeneandò a uno procuratore molto suo domestico e piacevole uomoche avea nome ser Domenico di ser Guido Puccie comparendo là messer Dolcibenee togliendo libello e dando libellouna mattina fra l'altreessendovi molta genteudendo il giudice l'una parte e l'altrae messer Dolcibene dicendo che la fanciulla appartenea piú a lui che a loroe
- Messer Dolcibenenos volumus conservare virginitatem suam .
Dice messer Dolcibene:
- Faciatis facere unam bertescam super culum suum .
Il judice guata messer Dolcibene e dice:
- Che parole son queste? favellaci onesto nella mal'ora.
E come dice questoser Domenico tira un peto che stordí il judice con tutti quelli che erano al banco; dicendo il giudice e guatando or l'uno or l'altrodice:
- Per le budella di Dio! se posso sapere chi buffa a questo modoio lo farò savía buffare per altro verso.
E tornato su la questionee ser Domenico dicendo:
- Noi vogliamo la copia della petizione- e tirare un altro peto fu tutt'uno.
Il giudice che era a sederelevasi e guata i visi dattorno e dice:
- E’ pur di quella vena nella mal'ora! chése ci posso vedere chi cosí fa scherne al bancoio gli faraggio cosa che gli potrà putireche mi ci pare essere venuto nella corte degli asini.
Dice messer Dolcibene:
- Messer lo giudicee' sono questi che m'hanno mosso questionequelli che vi suonano queste trombe; voi farete bene a punirli.
Dice ser Domenico:
- Egli è gran villaniae poco onore a chi fa sí brutte cose dinanzi a tanto uomo quanto è questo giudice.
Il giudiceudendo questocomanda a due di quelli che vadano su. Quelli si scusano che quelle cose non hanno fatto. Onde chiama la famiglia e fagli menar su; e levatosi dal bancodinanzi al Podestà disse quello che coloro aveano fatto. Egli si scusavano: alla per fine il Podestà disse che desse loro un poco di colla la serasí che apparassino di spetezzare al banco. E cosí fece loro il giudice; ed eglino diceano:
- Dohmesseretrovate il veroché noi non fummo noi.
Dicea il giudice.
- Come non ci foste voi nella mal'ora? onde credete che io sia? avetemi sí per orbo che io non veggia lume? io ci fo come la lepre che dorme con gli occhi aperti.
E voltosi a quelli che aveano la fune in manodice:
- Tirate su -; e 'l tirare e 'l gridare su la colla fu tutt'uno.
E 'l Podestàudendo il lamentomandò a dire al giudice non gli collasse piúchése ci aveano col fiato di sotto offesoche con quello di sopra erano bene stati puniti. E 'l giudice gli lasciòdicendo loro che simil cosa mai non facessinoperò che non troverebbono un podestà cosí benivolo. E quelli dolendosidissono:
- Noi vi ringraziamo che voi non ci avete morti affattoma noi vi raffermiamo veramente che noi non facemmo quelle cose dinanzi al banco vostroe non siamo uomeni da ciò; ma tale v'ha detto che quello facemmo noiche elli l'ha fatto elli; èssi vendicato di noi a questo modo; faccia come li piace e tengasi la nipote nostra come vuoleché noi non ci torneremo piú.
E 'l giudiceminacciando per le parole che diceanoessendo licenziatise n'andorono a casa. Messer Dolcibene l'altra mattina col suo procuratore furono al banco e niuno di costoro vi comparí. Veggendo messer Dolcibene questo comincia a pigliare del campo ché ben sapea quello che a coloro era intervenuto e dice:
- Guardate benmesser lo giudicequesti cattivi uomeni che istamane non ce n'è alcunoe iermattina credeano vincere la questione con le peta; e' sono di mala condizione; e voleano questa fanciulla a mal fine.
Dice ser Domenico:
- Messer lo giudiceistamane pare il banco vostro una cosa riposatacome vuole la ragionema iermattina ci si udiano truoni e bombarde; ora potete comprendere che uomeni sieno coloro che hanno la questione con messer Dolcibeneche veramente e' sono di quelli che non si vorrebbono udire.
Dice il giudice:
- Ego dedi bene eis disciplinam ; mase non fossi il meo Podestàpeggio ci facea a issi.
Levato il bancomesser Dolcibene e ser Domenico disse al giudice che qualunch'ora quelli ladroncelli venissono a dire piú nullamandassi per loroche eglino verrebbono con cose di grande onore della corte e vituperio di loro; e cosí si partirono e vinsono la questione; e quelli che aveano la ragione e domandavono le cose onestefurono tormentati e perderono la questione.
O quanti rettorise non sono ben cautie chi con maliziae chi sanza maliziadannano li innocentie assolvono li nocentie se mai fual tempo ch'è oggi si manifesta. Chi a uno fine e chi a un altro dànno iudicioe Dio il sa come; ché nelle corte si fa sí fatta ragione che guai a chi s'induce in esse con alcuna questione.


NOVELLA CXLVI

Uno standosi in contadofacendo volentieri dell'altrui suoimbola un porcoe con sottil malizia nel menae morto che l'ha con sottil frodo il mette in Firenzeil qualeessendo scopertopaga lire ventottoe ancora lo restituisce a cui l'avea imbolatoe in tutto gli costa fiorini diecie rende il porco.

Un povero gentiluomosecondo il volgare falso del mondoma vizioso e spezialmente nel fare dell'altrui suostava sempre in contado a un suo podere in una sua casettapresso a Firenze meno d'un miglio; e sempre si dava attornorecando e di dí e di notte a sé delle cose del paese. E fra l'altre volteebbe una volta tanta sicurtà d'andare a imbolare un porco di notteche chetamente elli e uno compagno lo trassono del porcile avendo uno catinetto di non so che biada e una cordella con che legarloe lo ne menò cheto cheto; e venendo per uno campo ad una fossa assai larganon veggendo come il porco si potesse far passare quellae ancorapigliandolofarebbe romoredice al compagno suoch'era uno contadino bene atante e grandeben fatto e sempre con lui uso d'andare a fare di dette faccende:
- Facciamo com'io ti dirò; scenda uno di noi in questa fossae chinisi a traversotanto che faccia ponte delle renie l'altro su per quel ponte mandi il detto porco -; e cosí s'accordarono.
Il contadino scese nella fossa e subito chinatosiebbe fatto un ponte che vi serebbe passato su un bue; e 'l capomaestro gli dà il canestruzzo della biada che lo metta dall'altra parteed egli pianamente con ingegni tanto fece che il detto porco passò Rubicone. Passato il porcopoco stettono che giunsono alla magionedonde s'erano partiti; ed essendo tre dí presso a San Tommèche piglia il porco per lo pèavendo costui un altro porco in casa allevatodeliberò quella notte col suo compagno uccidere l'uno e l'altroe per debito che aveamandarli a Firenze a un suo amico tavernaioe farne danarie cosí feciono. E abbruciati e sparatie cavate e rigovernate le cose dentrogli appiccorono in una cella terrenae serrorono l'uscio. La mattina vegnente dice il lavoratore e alcuno vicino a costui:
- O che avea istanotte il tuo porco?
E que' risponde:
- Avea male per luiperò che io l'ho morto; io ho a dare danari a certe personee m'hanno posto l'assedioio lo voglio vendere e pagare ognuno.
Dicono coloro:
- Oh non vendere almeno e' migliaccifa' che noi n'abbiamo.
- Ben aremo de' migliacci! che mai di piccolo porco come quello non credo che tanta dolcia uscisse.
Era forse libbre centocinquanta: l'imbolato era trecento. Stato un pezzo e mangiatoed egli e lo suo compagno andorono a Firenzee a uno tavernaio dal Ponte alla Carraia; e con lui parlato di vendere dua porci morti e acconciche gli stimavono libbre quattrocentocinquantaed essendo in concordia del pregiodisse gli mandasse la sequente mattina; e cosí si partironoe diede ordine al fattocome udirete. Tornato che fu la sera in contadodice il gentiluomo da beffe al suo compagno:
- Tu sai che del porco intero si paga alla porta quaranta soldie pagando lire quattromi gitterebbe mala ragione; prestami domattina l'asino tuoe cogli di molto alloroe fa' d'esserci per tempoché io ho pensato che io non pagherò se non quaranta soldi d'amendue; il Comune ruba tanto altrui che io posso ben rubar lui.
Dice quelli:
- Io verrò la mattinae con l'alloro e con l'asinoe porterolli dove tu mi dirai.
Dice il nobile gentiluomo:
- Portera' li in Terma a casa la tale mia parentee mettili nella camera terrenae io vi sarò tosto dopo tee poi li manderemo al tavernaio.
E cosí andò il contadinoe la mattina di buon'ora giunse con l'asino e con l'alloro; e trovato colui che aspettavamise l'asino e l'alloro dentroe andorono nella cella dove erano li porci. Dice il principale:
- Sa' tu quello ch'io ho pensato? che io voglio che noi spariamo bene quel porco grandee mettervi dentro quel piccoloe poi l'affascineremo con questo alloroe non fia niuno che possa immaginare che sia altro che uno.
E brievemente cosí di questi due porci feciono uno; e messo su l'asinoe legatoe acconcioe aúto soldi quaranta per la gabellasi mise in via. Giunto alla portali gabellieri dicono:
- Paga di quel porco tu -; e quelli comincia annoverare sul tavolello li quaranta soldi; e mentre ch'elli annoveravacerti garzonottigiucatori e sviaticome spesso si riparano alle portiguatavano questo porcoe quando toccavano le sannee quando i piedie dicevano tra loro: "Questo è un bel porco".
Annoverati i denarie detto arrie dato della mazza all'asinofu tutt'uno; ed essendo dilungato forse trecento passiuno di quelli garzoni che avevono ben procurato il porcos'accostò a' gabellieri e dice:
- Di che vi dié la gabella quello di quel porco?
Dicono i gabellieri:
- Pagocci d'un porco.
Disse il garzone:
- Io per me vidi dirieto tre piedi di porco e sono stato gran pezzo per ismemorato; che io so ben ch'e' porci hanno due piedi dirietoe non tre.
Il maggior gabelliere comandò a uno che corresse e giugnesse coluie menasselo a drieto; e cosí fu fatto. Giunto costui e detto: "Torna addietro"; subito divenne di mille colori; e quando fu alla portai gabellieri cercano quel porcoe guatando trovorono il minore in corpo a quello. Come l'hanno trovatodicono:
- Eja! questo è pure il piú bel frodo che si vedesse mai.
Dice il contadino:
- Gnaffe! io porto quello che m'è dato.
- Va'che sia tagliato a pezzi- dicono i gabellierie mandano alla gabella con l'asino e con la soma.
Giunto dinanzi a' maestriciascuno si maraviglia di sí falsa sottigliezzadomandando di cui erano; ed egli il disse e fu per averne la mala ventura; ma tanto valsono le preghiere ch'egli pagò di soldi quarantae per ogni denaio trediciche furono ben ventotto lire. In questo mezzo a colui a cui era stato imbolato il porcoragionandosi di questo frodogli venne agli orecchi; e pensando chi e comee che non era uomo da tenere due porcisi diede e a cercare e a investigaree trovò che 'l porco suo era il maggiore di quelli due. Di che mandò uno a colui che gliene avea furatodicendoli quale e' volesseo subito restituire il suo porcoo che egli andasse al rettore. Costui per uno di mezzo il fece contentoallegando non era stato ellima che gli era stato recato a casa.
E cosí questo cattivo uomo non capitò alle forchecome era degno; ma pure ebbe parte di quello che meritavaché rimase sanza il porcoe con danno e con vergogna gli costò piú di dieci fiorini. E però non si puote errare a lasciare stare le cose altrui; chése non che costui morí da ivi a poco tempoe' venía a fine che averebbe vituperato sé e tutta la sua progenie.


NOVELLA CXLVII

Volendo frodare un ricco di danari la gabellas'empie le brache d'uova; essendo detto a' gabellieriquando passa il fanno sederee tutte l'uova rompeimpiastrandosi tutto di sotto; e pagando il frodorimane vituperato.

La novella detta di sopra mi fa ricordare d'un'altra novella d'un ricco fiorentinoma piú misero e piú avaro che Midail qualeper frodare una gabella di meno di sei danarine pagòcon danno e con vergognamaggior quantitàbenché s'armasse il culo con una corazza di guscia d'uova.
Fu adunque uno tristo ricco di ben ventimila fioriniil quale ebbe nome Antonio (il soprannome non voglio direper onore de' suoi parenti) il qualetrovandosi in contadoe volendo mandare a Firenze ventiquattro o trenta uovadisse il fante:
- E’ si vuole dare la gabellaperò che le quattro pagono uno denaio di gabella.
Quando questi ode dire questopiglia il canestroe chiama il fantee vassene in camerae dice:
- A ogni tempo è buona la masserizia; io voglio risparmiare questi danari.
E detto questoe prese a quattro a quattro l'uovaalzandosi il lembo dinanzicominciasele a mettere nelle brache. Dice il fante:
- O ove le mettete voi? o voi non potrete andar per la via.
Dice Antonio:
- Nòe! ell'hanno un fondo in giuso queste mie brache che ci capirrebbono le galline che l'hanno fattenon che l'uova.
Il fante si volsee fecesi il segno della Santa Croce per maraviglia. E Antoniointascato che ebbe l'uovasi mette in camminoe andava largocome s'egli avesse aúto nelle brache due pettini da stoppa; e quando fu presso alla portadisse al fante:
- Vattene innanzie di' a' gabellieri sostenghino un poco la porta.
E 'l fante cosí fece; ma non si poté tenere che a uno gabelliere non dicesse in grandissimo segreto il fatto; il quale gabelliere disse agli altri:
- E’ ci è la piú bella novella che voi udisse maiché 'l tale passerà testè quiche viene dal luogo suo e hassi piene le brache d'uova.
Dice alcuno:
- Dohlasciate fare a mee vederete bel giuoco.
Dissono gli altri:
- Fa' come ti piace.
E cosí giunse Antonio:
- Buona serabrigataecc.
Dice quel gabelliere:
- Antoniodeh vieni qua un pocoe assaggerai un buon vino.
Quelli dicea non volea bere.
- Per certo sí farai -; e tiralo per lo mantelloe condottolo dove voleadice: - Siedi un poco.
Colui risponde:
- Non bisogna -; e per niun modo vuole.
Il gabelliere dice:
- Io posso pur sforzare unovolendoli fare onore -; e pignelo a sedere su una panca.
E come si ponee' parve si ponessi a sedere su un sacco di vetri.
Dicono i gabellieri:
- Che hai tu sottoche fece cosí grande scrosciata? sta' un poco su.
Dice il maggiore:
- Antoniotu déi volere che noi facciamo l'officio nostro; noi vogliamo vedere quello che tu hai sottoe che fece cosí grande romore.
Dice Antonio:
- Io non ho sotto nulla -; e alzò il mantellodicendo: - E’ sarà questa panca che avrà cigolato.
- Che panca? non fu busso di panca quello; tu alzi il mantellola cosa dee essere altrove -; e fannolo alzare a poco a pocoe brievementeveggono certo giallore venire giú per le calzee dicono: - Questo che è? noi vogliamo vedere le brachedonde pare che venga questa influenza.
Quelli si scuote un poco; un altro alza subito e dice:
- Egli ha piene le calze d'uova. Antonio dice:
- Dehstate chetiche le sono tutte rotteio non sapea altrove dove metterle; e questa è piccola cosaquanto alla gabella.
Dicono i gabellieri:
- Elle dovettono essere parecchie serque.
Dice Antonio:
- In realtàch'elle non furono se non trenta.
Dicono i gabellieri:
- Voi parete un buon uomoe giurate in lealtà; come vi dobbiamo noi dare fede? quando voi frodate il Comune vostro d'una piccola cosaben lo faresti d'una grande; e sapete ch'e' dice: "Can che lecchi cenerenon gli affidar farina". Or benelasciateci una ricordanzae domattina ci conviene andare a' maestri a dire questo fatto.
Dice Antonio:
- Oimè! per Dioio sarei vituperato; togliete ciò che voi volete.
Dice uno di loro:
- Dehnon facciamo vergogna a' cittadini: paga per ogni danarotredici.
Antonio mette mano alla borsae paga soldi otto; e poi dà loro un grossoe dice:
- Toglietebevetegli domattina; ma d'una cosa vi pregoche non ne diciate alcuna cosa a persona -; e cosí dissono di fare; ed egli si partí col culo nello intriso e bene impiastrato.
E giunto a casadice la moglie:
- Io credea che tu fossi rimaso di fuori; che ha' tu tanto fatto?
- Gnaffe! - dice costui- non so io -; e mettevasi le man sottoe andava largo com'uno crepato.
Dice la donna:
- Se' tu caduto?
E quelli dice ciò che intervenuto gli era. Come la donna l'odecomincia a dire:
- Doh! tristo sventuratotrovossi mai piú questo o in favolao in canzone? benedetti sieno gli gabellieri che ti hanno vituperatocome eri degno.
Ed egli dicea:
- Dehsta' cheta.
Ed ella dice:
- Che sto cheta? che maladetta sia la ricchezza che tu haiquando tu ti conduci a tanta miseria! volevi tu covar l'uovacome le galline quando nascono i pulcini? non ti vergogni tuche anderà questa novella per tutta Firenzee sempre ne serai vituperato?
Dice Antonio:
- Li gabellieri m'hanno promesso non dirlo.
Dice la donna:
- O questo è l'altro tuo sennoche non fia domane sera che ne sarà ripiena tutta questa terra -; e cosí fu come la donna disse.
E Antonio rispondea:
- Or eccodonnaio ho errato; de' si mai restare? errasti tu mai tu?
Disse la donna:
- Maisích'io posso avere erratoma non di mettermi l'uova nelle brache.
E quelli dicea:
- O tu non le porti.
E la donna dice:
- Mal e danno s'io non le porto; e se io le portassevorrei prima esser cieca che aver fatto quello che tu; e ancora non apparirei mai tra persona: quanto piú vi pensotanto piú mi smemoroche per due dinari tu se' vituperato per sempre mai: tu non doverresti mai esser lietose tu avessi conoscimento; ché pur io non apparirò mai tra donne ch'io non me ne vergogni; credendo che tuttavia mi sia detto: "Vedi la moglie di colui che portò l'uova nelle brache".
Antonio dicea:
- Dehnon dir piú; gli altri se ne stanno chetie tu par che 'l vogli bandire.
Dice la donna:
- Io me starò ben chetama e' non se ne staranno cheti gli altri che 'l sanno. Io ti dicomarito miotu eri tenuto prima dappocoe ora serai tenuto quello che tu serai. Io fui data a una gran ricchezzama e' si potea direa una gran tristezza.
Antonioche già avea studiato e letto l'abicí in sul mellonesi venne pur ripensando aver fatto gran tristizia di sée che la donna dicea molto bene il vero; e pregò umilmente la donna di questo fatto si desse pacee ancoras'egli avesse fallatoella stessa sopra lui pigliasse la vendetta. La donna un poco si cominciò a rattemperaree disse:
- Va' pur con tuo senno a mercatoche io me ne camperò il meglio che potrò -; e cosí si rimasono.
Direm noi che le donne non siano spesse volte in molte virtú avvedute piú che gli uomeni? Questa valentre donna in quante maniere ritrovò il marito! Ella era ben cosí d'assai tra le donnecome elli dappoco tra gli uomeni. Le novelle vennono pur al fine meno; ma non per Firenzedove di questo sempre si disse con diletto d'altruie con vituperio del bell'amico. Il qualecavatesi le brache perché la fante non se ne accorgessedisse che la mattina scaldasse uno orciuolo di rannoe déssignelo nel bacino a buon'orae la sera se ne fece dare un altrocon che si lavò il culoma non sí che non ingiallasse le lenzuoleprima che avesse parecchie rannate; le quali li furono di necessitàtanto erano le torlacon li albumi e con li gusciincrosticate e appiccate nel sedere. Or cosí guadagnò questo tapino la gabella di trenta uovach'elli ne fu si vituperatoche sempre di questo se ne dissee ancora oggi se ne dice piú che mai.


NOVELLA CXLVIII

Bartolo Sonaglini con una nuova e sottile astuzia fa sí cheessendosi per porre molte gravezzed'essere convenevolmente riccoè reputato poverissimoed ègli posto una minima prestanza.

Come nelle due passate novelle quelli che vollono ingannare il Comune e la gabella n'arrivorono assai malecome avete uditoe sí in mancare di moneta come in crescere di vergogna; cosí in questa voglio raccontare uno che ingannò il suo Comunee seguígline innanzi bene che male. Fue ancora èuno Fiorentinochiamato Bartolo Sonaglinimercatante assai avvedutoe spezialmente in questa novellala quale io racconterò; nella qualenon che fosse avvedutoma egli fu antiveduto e circunspetto. Però cheessendo li Fiorentini per entrare nella maggior guerra ch'egli avessono maila quale fu col Conte di Virtúe ragionandosi d'acconciare gli estimi e le prestanzecostui s'avvisò troppo bene: "E’ si chiameranno quelli delle Settinee fiano una brigata che caricheranno pur li mercatantie la spesa fia tanta che chi non si fia argomentatoo sia da Dio aiutatoserà diserto". Ondecome vide tempoe che la cosa pur seguíaeglilevandosi la mattinascendea all'uscio suoe se passava alcunoe quelli lo chiamavae dicea:
- È egli sonato a consiglio? - e stava dentro.
Dicea lo amico:
- O che vuol dir questoBartolo?
E quelli rispondea:
- Oimè! fratel mioio sono disfatto; però chemandando certa mercanzia oltre mareil mare me la tolsee sonne rimaso disfatto; però cheper volere pur sostenere il mio onoredebbo dare a certi buona somma di monetali qualisentendo lo stato mioil quale è tanto povero che appena è alcuno che lo stimassevogliono esser pagatie volesse Dio che io avesse di che.
Dice colui:
- E’ me ne 'ncresce -; e vassi con Dio.
L'altra mattina qualunche passava ed elli diceastando con l'uscio un poco socchiusochiamando or l'uno or l'altro:
- O taleè sonato a consiglio?
Chi dicea síe chi dicea no; e tali diceano:
- O questo che vuol direBartolo? motteggi tu?
Ed elli rispondea:
- Io non ho da motteggiareché mi converrà delle due cose fare l'unao dileguarmi del mondoo morire in prigione: ché alcuno trafficoche io avea di fuorim'ha disfattoe posso dire che io sono tra le forche e Santa Candida.
E in questa maniera continuò piú d'un mesetanto che le Settine si cominciorono a ragunaree fare l'estimo o le prestanze. Quando veníano alla partita di Bartolo Sonagliniciascuno dicea:
- Egli è disertoe guardasi per debito.
E l'uno dicea:
- E’ dice il veroché pur una di queste mattine non ardiva d'uscire di casae domandava s'egli era sonato.
E l'altro dicea:
- E anco cosí disse a me.
E l'altro dicea:
- Egli è vero come costoro dicono; una naveche andava a Torissisecondo che m'è dettogli ha dato la mala ventura.
Dice un altro:
- Egli è cotestoe anco sento che uno gli ha dato la mala pasqua.
- Sia come si vuole- dicono gli altri- e' si vuole trattar secondo povero.
E tutti a una voce gli posono tanta prestanza quanta si porrebbe a uno miserabileo poca piú.
Fatte le prestanzee suggellatee mandate alla camerae registrati i librie cominciatesi a bandire (ché si bandíano a quattro a quattro) il detto Bartolo Sonaglini cominciò a uscir fuorie non domandava se era sonato a consiglio. E fra l'altre mattine alcuno suo vicinoche s'era avveduto de' fatti suoidice una mattina:
- Bartolocom'hai tu fattoche tu non pare che ti guardi piú?
E Bartolo rispondea:
- Io sono in alcuna convenga co' miei creditorie mi converrà navicare secondo i venti.
E in brieve costuiessendo riccocon questa astuzia fece sí chemostrandosi ben poverofu trattato nelle prestanze come poverissimoe non sentí molti guai di quelli che sentirono moltiche copertamente erano dentro poverissimi e di fuori pareano ricchi.
Io scrittore credo che 'l detto Bartolo serebbe forte da riprenderese Brutoo Catoneo loro discendenti fussono stati di quelle Settine; ma considerato come la volontà avea sottomesso la discrezione di quelliche 'l savio Bartolo Sonaglini avea compreso essere eletti già a fare le Settineio reputo lui essere degno di perpetua memoria come uomo mercatante avveduto in tutte le cose. E cosí in tutta quella guerrache li banditori andavano bandendo le smisurate prestanzee Bartolo dicea di fuori:
- O mala venturaché questa guerra mi disfarà affatto.
Ma in casae fra sé stesso dicea: "Bandite pur forteché lo non me ne curo; e fate pur guerra forteché per certo tal me l'averebbe appiccatach'io l'ho appiccata a lui" dicendo:
- Siedi e gambettae vedrai vendetta
E cosí tutta quella guerra costò al circospetto Bartolo Sonaglini piccolissima cosadove molti altri piú ricchi di lui ne rimasono disfatti.


NOVELLA CXLIX

Uno abate di Tolosa con una falsa ipocrisiafacendo vita che da tutti era tenuto santofu eletto vescovo di Parigilà dove essendo a quello che sempre avea desideratofacendo una vita pomposa e magnificasi dimostrò tutto il contrariorecando molto bene a termine li beni del vescovado.

Ora mi viene a caso di dire come uno religiososotto coverta d'ipocrisiafrodò il mondo e capitonne bene quanto al corpoma quanto all'anima credo il contrario. Fu in Francia uno abate di Tolosail quale avea grandissimo desiderio di venire o gran vescovoo altro grandissimo prelatoe di fuori mostrava tutto il contrario; però che parea a' costumi suoi che la sua badía gli fosse troppo gran beneficiodicendo spesse volte:
- E che è di bisogno questi grandi beneficii? niuno doverrebbe volere se non tanto quanto regolatamente gli fosse a bastanza.
E con questomangiava sottilmentefacendo vita piú tosto arida che delicatadigiunando tutti li dí comandatie molti degli altri. E allo spenditore suo avea comandato chequando andasse alla pescheríatogliessi de' minori pescie di meno valore che vi fossono: però che non era buono essemplio al mondo che li suoi pari andassino per loro vivere cercando le cose di vantaggio; e 'l fante cosí facea. Tanto che continuando questo abate questa astinente vitaper tutto era tenuto il migliore religioso che fosse in tutta Francia.
Avvenne per caso che 'l vescovo di Parigi morío; di chepensando e gli elettori e la comunità di nuovo vescovotutti traevano nel segno con le voci a questo abate per lo piú santo uomo che fosse in Francia. E considerando la sua vita e la sua santitàa furore di populo fu eletto vescovo di Parigi. E andatagli la elezione confirmata dal papacostui si mostrò di non la voleree che avea troppo grande beneficio pur di quella badía ch'egli avea. E facendo questa archimiata mostraallora piú accendendo gli animi di quelli che 'l voleanoconvenne che consentisse a quello che lungo tempo avea desiderato. Di che lasciò la badíae a Parigi andò a pigliare possessione e tenuta del detto vescovado; e come al piú cattolico e santo uomo ch'egli avessono maitutti l'andavono a vicitarebasciandoli le mani per grandissime reliquie.
Stando questo venerabile vescovo nella magione del vescovadoavvenne per caso che uno dí che non si mangiava carneper lo antico suo spenditore furono comperati pescetti di poco valore al modo usatocome quando era abate; ed essendo a tavola per desinarefurono recati questi pescatelli in su la mensa.
Come il vescovo li vededice:
- E che vuol dire questo? non avea altro pesce alla peschería?
Dice lo spenditore:
- Signor mioe' v'erano di molti belli pesci e grossi d'ogni ragione; ma io comperai di quelli piccoli che solevate volere.
E 'l vescovo sorridendodice:
- O matto che tu se'io pescava allora con quelli piccoli per pigliare de' grossi. Io sono nel vescovado di Parigial quale si richiede troppo piú magnifica vita che all'abate di Tolosa; e però da quinci innanzi le migliori vivande abbi mente di comprare per la mia mensache tu puoi -; e cosí disse il suo famiglio di fare.
E se prima il detto vescovo digiunava o facea astinenzaora non sapea o non volea sapere che cosa fosse digiunoallegando la gran fatica che in quello beneficio li convenía avere. Li Pariginiveggendo li suoi costumi e la sua pulita vitasi maravigliorono forte di questa trasformazione in cosí poco tempodicendo in loro lingua un proverbio che spesso diciamo noi toscani: "Non ti conosco se non ti maneo". E 'l vescovo ne dicea un altro: "Piú non ti curodomineche uscito son del verno". E cosí stettementre che visse vescovo di Parigicon sí fatta vita e con sí pomposa che quello che venne drieto poté dire:
- Io mi credea esser vescovo di Parigie io mi truovo abate della badía a Spazzavento.


NOVELLA CL

Uno cavaliereandando in una podesteríaporta uno suo cimiero; uno Tedesco il vuole combatter con lui ed elli niega la battaglia: in fine si fa dare fiorini cinqueche gli è costatoe pigliane un altroe avanza fiorini tre.

Uno cavaliere de' Bardi di Firenzepiccolissimo della personae poco o quasi mai nientenon che uso fosse in armema eziandio poco s'era mai esercitato a cavalloil quale ebbe nome messer... essendo eletto Podestà di Padovae avendo accettatocominciò a fornirsi di quelli arnesi che bisognavano d'andare al detto officio: venendo a voler fare uno cimieroebbe consiglio co' suoi consorti che cosa dovesse fare per suo cimiero. Li consorti si ristrinsono insieme e dicono:
- Costui è molto sparuto e piccolo della persona; e pertanto ci par che noi facciamo il contrario che fanno le donnele qualiessendo piccoles'aggiungano sotto i piedie noi alzeremo e faremo grande costui sopra il capo.
Ed ebbono trovato uno cimiero d'un mezzo orso con le zampe rilevate e rampantie certe parole che diceano: "Non ischerzare con l'orsose non vuogli esser morso". E fatto questo e ogni suo arneseed essendo venuto il tempoil detto cavaliere molto orrevolmente partí di Firenze per andare nel detto officio.
E giugnendo a Bolognafece la mostra della maggior parte delle sue orrevoli cose; e poi passando piú oltreintrando in Ferrarala fece via maggioreimmaginandosi tuttavia accostarsi a entrare nel detto officio. E mandato innanzi e barbute e sopravestee 'l suo gran cimiero dell'orsopassando per la piazza del Marcheseessendo nella piazza molti soldati del Marchesepassando costui per mezzo di lorouno cavaliere tedescoveggendo il cimiero dell'orsocomincia a levarsi del luogo dove sedeae favellare in sua lingua superbamente dicendo:
- E chi è questo che porta il mio cimiero? - e comanda a uno suo scudiere che meni il cavalloe rechi le sue armadureperò ch'egli intende di combattere con colui che 'l porta e intende di appellarlo di tradimento.
Era questo cavaliere tedesco uno uomo valentissimo di sua personagrande quasi come terzuolo di gigantee avea nome messer Scindigher. Veggendo alcuni e tedeschi e italiani tanta fierezzafurono intorno a costui per rattemperarlo e niente venía a dire; se non che due per sua parte andorono all'albergo a dirli che convenía metter giú quel cimiero dell'orsoo e' gli convenía combatterlo con messer Scindigher tedescoil quale loro lui mandavadicendo che questo era il suo cimiero. Il cavaliere fiorentinonon uso di questa faccendarisponde che elli per sé non era venuto a Ferrara per combatterema per passar oltre e andare alla podestería di Padova; e che elli avea ognuno per fratello e per amico: e altro non ebbono. Tornando a messer Scindigher con questoegli era già armatocominciando a menar maggior tempestae chiamando li fosse menato il cavallo. Gli ambasciadori il pregano si rattemperi e che vogliono ritornare a lui: e cosí feciono. E giunti all'albergodicono a questo cavaliero:
- Egli è il meglio che qui si vegga modoperò ch'egli è tanta la furia del cavaliere tedescoch'egli è tutto armatoe crediamo ora che sia a cavallo.
Dicea il cavaliere de' Bardi:
- E’ può armarsi e fare ciò che vuoleché io non sono uomo da combatteree combattere non intendo.
Alla per fine dopo molte parole dice costui:
- Or benerechiànla a fiorinie l'onore stia dall'uno de' lati; se vuole che io vada a mio viaggiocome io c'entraiio me n'andrò incontenente; se vuole dire che io non porti il cimiero suoio giuro su le sante Dio guagnele ch'egli è mioe che io lo feci fare a Firenze a Luchino dipintoree costommi cinque fiorini; se egli il vuolemandimi fiorini cinquee tolgasi il cimiero.
Costoro ritornorono con questo a messer Scindigheril quale come gli udíchiama un suo famiglioe fa dare a costoro cinque ducati di zeccae dice al famiglio vada con loro per quello cimieroe cosí feciono; che portorono fiorini cinquee 'l cavaliere per lo migliore se gli tolse e diede il cimiero; il quale con uno mantello coperto il portorono a messer Scindigheral quale parve aver vinto una città. E 'l Podestà che andava a Padovarimaso sanza il cimierofece andar cercando se in tutta Ferrara si trovasse qualche cimieroil quale con seco portasse in scambio dell'orso. E per avventura trovò a uno dipintore uno cimiero d'uno mezzo babbuinovestito di giallo con una spada in mano; e copertamente essendoli recatodisse uno suo giudice:
- E’ v'è venuta la piú bella ventura del mondo; fate levare a questo la spada di manoe per iscambio di quella abbia un piccone rosso in manoe serà l'arma vostra.
Al Podestà piacquee cosí fu fattoche gli costò in tutto forse uno fiorino; ed in spignere e ripignere alcuna targhettacostò un altroe in tutte l'altre cose era l'arma sua alla distesa. Sí che egli avanzò fiorini tree 'l tedesco rimase con l'orsoe costui lo rimutò in babbuinoe andossene alla podesteria dove dovea.
Mase costui avesse fatto di quelle che uno fece in simil casoforse ne serebbe riuscito piú nettoil quale avendo uno cimiere d'una testa di cavallouno todesco gli mandò a dire che portava il suo cimieroe che lo ponesse giúo elli lo volea combattere con lui. E quelli rispose:
- O che cimiero è quello che porta questo valentre uomo?
E colui disse:
- Una testa di cavallo.
E quelli rispose:
- E la mia è una testa di cavalla; sí che non ha fare nulla con quello.

E rimase il todesco per contentoe colui ne riuscí con questa sottile rispostae schifò la battagliadella quale non ne sarebbe stato molto vago.


NOVELLA CLI

Fazio da Pisa volendo astrologare e indovinare innanzi a molti valentri uomenida Franco Sacchetti è confuso per molte ragioni a lui assegnate per forma che non seppe mai rispondere.

Nella città di Genova io scrittore trovandomi già fa piú anniessendo nella piazza de' mercatanti in uno gran cerchio di molti savi uomeni d'ogni paesetra' quali era messer Giovanni dell'Agnello e alcuno suo consorto e alcuni Fiorentini confinati da Firenzee Lucchesi che non poteano stare a Luccae alcuno Sanese che non potea stare in Siena e ancora v'era certi Genovesi; quivi si cominciò a ragionare di quelle cose che spesso vanamente pascono quelli che sono fuori di casa lorocioè di novelledi bugie e di speranzae in fine di astrologia; della quale sí efficacemente parlava uno uscito di Pisa che avea nome Faziodicendo pur che per molti segni del cielo comprendea che chiunque era uscito di casa sua fra quello anno vi dovea tornareallegando ancora che per profezia questo vedea; e io contradicendo che delle cose che doveano venire né elli né altri ne potea esser certo; ed elli contrastandoparendogli essere Alfonso o Tolomeoderidendo verso mecome egli avesse innanzi ciò che dovea veniree io del presente non vedesse alcuna cosa. Onde io gli dissi:
- Faziotu se' grandissimo astronomacoma in presenza di costoro rispondimi a ragione: qual è piú agevole a sapereo le cose passate o quelle che debbono venire?
Dice Fazio:
- O chi nol sa? ché bene è smemorato chi non sa le cose che ha veduto adrieto; ma quelle che debbono venire non si sanno cosí agevolmente.
E io dissi:
- Or veggiamo come tu sai le passate che sono cosí agevoli: Dehdimmi quello che tu facesti in cotal díor fa un anno.
E Fazio pensa. E io seguo:
- Or dimmi quello che facesti or fa sei mesi.
E quelli smemora.
- Rechiànla a somma: Che tempo fu or fa tre mesi?
E quelli pensa e guatacome uno tralunato.
E io dico:
- Non guatare; ove fusti tu già fa due mesi a questa ora?
E quelli si viene avvolgendo.
E io il piglio per lo mantello e dico:
- Sta' fermoguardami un poco: Qual navilio ci giunse già fa un mese? e quale si partí?
Eccoti costui quasi un uomo balordo. E io allora dico:
- Che guati? mangiasti tu in casa tua o in casa altrui oggi fa quindici dí?
E quelli dice:
- Aspetta un poco.
E io dico: - Che aspetta? io non voglio aspettare: Che facevi tu oggi fa otto dí a quest'ora?
E quelli:
- Dammi un poco di rispitto.
E io dico:
- Che rispitto si de' dare a chi sa ciò che dee venire? Che mangiasti tu il quarto dí passato?
E quelli dice:
- Io tel dirò.
- O che nol di'?
E quelli dicea:
- Tu hai gran fretta.
E io rispondea:
- Che fretta? di' tostodi' tosto: Che mangiasti iermattina? o che nol di'?
E quelli quasi al tutto ammutolòe. Veggendolo cosí smarritoe io il piglio per il mantello e dico:
- Diece per uno ti metto che tu non sai se tu se' desto o se tu sogni.
E quelli allora risponde:
- Alle guagneleche ben mi stareise io non sapessi che io non dormo.
- E io ti dico che tu non lo sai e non lo potresti mai provare.
- Come no? o non so io che io son desto?
E io rispondo:
- Sí ti pare a te; e anche a colui che sogna par cosí.
- Or bene- dice il Pisano- tu hai troppi sillogismi per lo capo.
- Io non so che sillogismi: io ti dico le cose naturali e vere; ma tu vai drieto al vento di Mongibello; e io ti voglio domandare d'un'altra cosa: Mangiastú mai delle nespole?
E 'l Pisano dice:
- Sí mille volte.
- O tanto meglio! Quanti noccioli ha la nespola?
E quelli risponde:
- Non so ioch'io non vi misi mai cura.

– E se questo non saich'è sí grossa cosacome saprai mai le cose del cielo? Or va' piú oltre- diss'io:
- Quant'anni se' tu stato nella casa dove tu stai?
Colui disse:
- Sonvi stato sei anni e mesi.
- Quante volte hai salito e sceso la scala tua?
- Quando quattroquando seie quando otto
- Or mi di': Quanti scaglioni ha ella?
Dice il Pisano:
- Io te la do per vinta.
E io gli rispondo:
- Tu di' ben vero che io l'ho vinta con ragionee che tu e molti altri astronomachi con vostre fantasíe volete astrologare e indovinaree tutti sete piú poveri che la cotae io ho sempre udito dire: "Chi fosse indovino serebbe ricco". Or guarda bello indovino che tu se'e come la ricchezza è con teco!
E per certo cosí èche tutti quelli che vanno tralunandostando la notte su' tetti come le gattehanno tanto gli occhi al cielo che perdono la terraessendo sempre poveri in canna. Or cosí co' miei nuovi argomenti confusi Fazio pisano. Essendo domandato da certi valentri uomeni se le ragioni con che io avea vinto Fazio avea trovato mai in alcun libroe io dissi che síche io l'avea trovate in uno libro che io portava sempre mecoche avea nome il Cerbacone; ed eglino rimasono per contentifacendosene gran maraviglia.


NOVELLA CLII

Messer Giletto di Spagna dona uno piacevole asino a messer Bernabòe Michelozzo da Firenzeavvisandosi il detto signore essere vago d'asinigliene manda due coverti di scarlattode' quali gli è fatto poco onorecon molte nuove cose che per quello dono ne seguirono.

Uno cavaliere di Spagna il quale avea nome messer Gilettoandando o venendo dal Sepolcroarrivò a Melanoe avea con seco un asinoil piú piacevol bestiuolo che fosse mai: e' si rizzava in ponta di piè di drieto come uno catellino francescoe dicendo alcuna parola il cavaliereegli andava ritto in piede quasi ballando; e quando messer Giletto dicea che cantasseelli ragghiava piú stranamente che tutti gli altri asini; e brievemente e' facea un tomo quasi come una personae molte altre cose molto strane a natura d'asino.
Essendo in Melano il detto cavaliero andò a vicitare messer Bernabòe fecesi menare il sopradetto asino dirieto: e giunto che fu dinanzi a lui e fatta reverenziaveggendo venire il signore questo asinosubito ebbe gli occhi a quellodicendo:
- E di cui è quell'asino?
Disse lo cavaliero che gli era presso:
- Signoreegli è mio; ed è il piú piacevole bestiuolo che fosse mai.
L'asino era molto d'arnese dorato ben fornito; di che messer Bernabò udendo il cavaliere e veggendo l'asinoli parve che fosse o che dovesse essere quello che messer Giletto dicea; e tirossi in uno chiostro e puosesi a sedere col detto cavaliere allato. E giugnendo l'asinodice il cavaliere:
- Signorevolete voi vedere una nuova cosa di questo asino?
Messer Bernabòche avea vaghezza di nuove cosedice al cavaliere:
- Io ve ne prego.
Era per avventura quivi presso uno Fiorentino che avea nome Michelozzoil quale vide tutti li giuochi che questo asino fecee ancora vide che messer Bernabòveggendoloscoppiava delle risa; e messer Giletto che in fineveggendo che 'l signore ne avea dilettogli disse:
- Signor mioio non ho maggior fatto da donare alla vostra signoria; s'egli è di vostro piacerea me serà grandissima grazianon ch'io lasci questo asino a voiperò che la vostra signoria non richiede sí vil cosama che io il lasci a questi vostri famigliacciò che n'abbiano alcuna volta diletto.
Messer Bernabò disse che l'accettava graziosamente; e in quel dí medesimo il signore donò a messer Giletto un ricco palafreno che valea piú di cento fiorini; e fattogli ancora grande onore si partíe andò a suo viaggio.
Michelozzoche tutto avea vedutoancora pigliando commiato dal signorein quelli dí si tornò a Firenze; e venutoli uno pensiero assai sformatoche se potesse trovare due belli asinimandandogli per sua parte al signorepoter venire grandemente nella sua grazia; e subito mandò in Campagna e in terra di Roma cercando di due. Nella fine ne trovò due bellissimili quali li costorono fiorini quaranta.
E venuti li detti asini a lui a Firenzemandò per uno banderaio volendo sapere quanto scarlatto avea a levare per covertarli; e saputo che l'ebbesubito il detto panno ebbe levato; e rimandato per lo banderaiofece tagliare le due coverte magnifiche e grandiche non ch'altro ma li loro orecchi coprivano; e fecevi metterecom'è d'usanzanella testiera e nel pettoe da lato l'arma de' Viscontie appiè di quelle la sua.
E messo ogni cosa in punto con uno fante e uno paggio a cavalloe uno a piede che innanzi a loro guidava li detti asinicosí covertati li mandò al signore detto. Ed essendo veduta questa maraviglia per Firenzecome spesso si corre a vederel'uno domandava e l'altro domandava:
- O che è questo?
Il famiglio rispondea:
- Sono due asini che Michelozzo manda a messer Bernabò.
Chi stringea le mascelle e chi le spalle: e chi dicea:
- O è fatto messer Bernabò vetturale?
E chi dicea:
- Ha egli andare ricogliendo la spazzatura?
- O io fo boto a Dio- dicono li piú- che questa è cosí ordinata pazziacome si facesse mai -; e molte altre cose come dicono le piú volte e' populi.
Quando gli asini con li loro famigli furono fuori della porta a San Gallole coverte furono levate loro da dossoe messe in una valigia; e giunti a Bolognaprima che entrassono nella terra feciono mettere loro le coverte; ed entrati per la terradiceano li Bolognesi:
- E che son questi?
Chi credea che fossono corsieri da palioe chi ronzini; poiveggendo quello ch'egli eranol'uno dicea all'altro:
- In fé di Dio e' sono asini -; e domandavono il famiglio: - E che vuol dir questo?
E quelli dicea:
- Sono due asiniche uno gentiluomo di Fiorenza presenta al signore di Melano.
E mentre che domandavonol'uno cominciò a ragghiare. Dicono alcuni:
- In fé di Dio voi gli dovea mandare in una gabbiapoiché cantano cosí bene.
Giugnendo all'albergo di Felice Ammannatior quivi furono le domande e quivi le risa.
- Che è questo? - dice Felice e molti altri. E 'l famiglio rispondea.
- O vatti con Dio! - dicea ciascuno- che questa è delle gran novità che si vedesse maiche a cosí gran signore sia presentato due asini.
E mentre che erano guatati nel ridotto dell'albergol'uno comincia a spetezzare e fare lo sterco. Dice Felice:
- Disse Michelozzo che voi presentasse queste peta e questo sterco a me?
E voltosi al famiglio disse:
- Abbiate cura a una cosache quando voi gli appresentate al signore ch'e' non ispetezzassino a questo modoperò che voi potreste esser pagati e del lume e de' dadi.
Dice il famiglio:
- Noi faremo ben sí che la cosa andrà benee 'l signore sa bene che gli asini cagano.
Felicee tutti i Fiorentini che v'eranoe Bolognesi non si poteano ricredere di questo cosí nuovo dono; e poi che gli asini si furono partitipiú d'uno mese n'ebbono che dire. E abbreviando la novellala quale serebbe molto lunga; quello che parve a quelli di Modanaperò che per ogni terra gli asini con le coverte e con l'arma faceano la mostra; quello che diceano li Reggiani; e 'l miracolo che questo parve a Parmaa Piacenza e a Lodi; e quello che per le dette terre si dissee come la parve loro nuova cosanon si direbbe in uno mese.
Giunti a Melanoor quivi fu il correre del populo a vedere: "E che è? e che è?" ciascuno si strignea e potevano mal dire quello che averebbono voluto. Giunti alla corte del signoree 'l famiglio degli asini dice al portinaiocome per parte di Michelozzo viene a presentare alcun dono al signore. Il portinaio vede per lo sportello questi due asini coverti; va al signore e diceli la cosae ancora piúche dice che gli par vedere che siano due asini coverti di scarlatto. Come il signore ode costuitutto si mutò in vista e dice:
- Va'di' che venga.
Il famiglio andò al signore e spuose l'ambasciata e 'l dono che per parte di Michelozzo gli appresentava. E 'l signore udito che l'ebbedisse:
- Dirai a Michelozzo che m'incresce che mi presenti li suoi compagni e che sia rimaso cosí solo -; e licenzòlli; e mandò per uno che tutte le some del signore conduceail quale avea nome Bergamino da Crema; e dice: - Va'ricevi quelli asini e togli quelle vestee fa' tagliare subito una gonnella a te e una per uno a quegli altri che vanno con li muli e con gli asiniportando le mie saline; e lo scudo ch'elle hannociascuno n'abbia uno dirieto e uno dinanzie quel di Michelozzo dappiè; e a quelli che gli hanno menati di' che aspettino la risposta.
Bergamino cosí feceche ne andò nel chiostroe tolse gli asini e misseli nella stallae quelle coverte mise in una sala; e 'l dí medesimo mandò per uno sartoe fece tagliare a sé e a tre altri quattro gonnelle di questo scarlattoli quali erano tutti uomeni mulattieri e asinai della corte. E fatte le gonnelle e vestitisimisono gli basti agli asini donati; e andando di fuori di Melanoe tornando carichi con biadae 'l Bergamino e gli altri drietoerano domandati:
- Che cosa è questa? voi sete cosí vestiti di scarlattoe con quest'armedrieto a questi asini?
Dice Bergamino:
- Uno gentiluomo da Firenze che ha nome Michelozzo m'ha mandato questo dono di questi asini di scarlattoe io n'ho vestiti me e costoro per suo amore.
E tutto ciò avea fatto come gli avea imposto il signore.
Fatto che ebbono cosíe Bergamino fece fare una risposta a Michelozzo per lo cancelliere del signoree per parte di lui com'elli avea ricevuti dua asini coperti di scarlattoe che subito avea messo loro i bastiadoperandoli ne' servigi del signoreli quali molto bene portavano le sue some; e ancora di quello scarlatto del quale avea vestiti gli asini se n'era vestito egli con tre altri asinai; e con l'arme del signoree con la sua a basso per farli piú onorepiú dí cosí vestiti erano andati per Melano drieto a' detti asinifacendo la mostra e dicendo chi ne gli avea mandati. E fatta la lettera con molte altre cose dettatala fece serraredicendo appiede: "Bergamino da Crema castaldo della salmeria del magnifico signore di Melanoetc.". E la soprascritta dicea: "Al mio fraello Michelozzo o vero Bambozzo de' Bamboli da Fiorenza". E tutta compiuta e sugellatala diede al famiglio e disse:
- Ecco la risposta; ogni volta che tu vuolitu te ne puoi andare.
Questo famiglio volea pur parlare al signorepensando forse d'aver danari per lo presentato dono; elle furono novelle che mai non poté andare a lui.
Di che si tornò a Firenze con la lettera di Bergamino; e giunto a Michelozzo gli la puose in mano; e cominciando a leggere la soprascrittatutto venne meno. Aprendo la lettera legge chi la manda; e allora peggio che peggio. Letto che l'ebbesi dà delle mani nelle manie chiama il famiglio e dice:
- A cui desti tu la lettera?
E quelli dice:
- A messer Bernabò.
- E che ti disse?
- Disse gl'increscea che voi rimaneste soloe che voi gli aveste mandati quelli che erano vostri compagni.
- Chi ti dié questa lettera?
- Uno suo fante; e mai lui non pote' piú vedere.
- Oimè! - dice Michelozzo- tu m'hai disfattoche so io chi sia Bergamino o Merdolino? escimi di casaché meco non starai tu mai piú.
Dice il famiglio:
- E l'andare e lo stare mio serà come voi vorrete; ma io vi dirò pur tanto che in ogni luogo era fatto beffa di noi; e se io vi dicesse ogni cosa che c'era dettavoi ve ne maravigliereste.
Michelozzo soffiava e dicea:
- E che t'era detto? o non si donò mai cosa alcuna a niuno signore?
Dicea il fante:
- Maisíma non asini.
Dice Michelozzo:
- Dehmorto sie tu a ghiado! se tu non foste stato meco quando quel cavaliere spagnuolo gli donò il suoe che diresti tu?
Dice il fante:
- Quello fu un casoe anco era un nuovo bestiuoloe questo è un altro.
Disse Michelozzo:
- E’ valeva piú un piè di uno di questiche tutto quello asinoche mi sono costati con le veste piú di cento fiorini.
Dice il fante:
- Li vostri erano da portar somae cosí alle some furono subito messi.
Dice Michelozzo:
- Ella è pur bene andata quando io mandava gli asini a messer Bernabòe tu gli hai dati a Bergamino da Crema. Che diavol ho io a fare con Merdolino da Cremache secondo la lettera dice che è asinaio? levamiti dinanziche ti nasca mille vermocani.
Il fante si partíe in capo di due dí lo ritolse ben volentieri. E al detto Michelozzo venne poi una malattia che mai non parve sanoforse piú per malenconia che per altro difetto. E veramente e' fu nuovo donoed egli ne fu trattato nuovamente e come si convenía.


NOVELLA CLIII

Messer Dolcibeneandando a vicitare uno cavaliere novelloricco e avarocon uno piacevol morso il desta a farsi fare qualche dono.

E’ mi conviene pur tornare a messer Dolcibeneil quale in piú novelle a drieto è stato raccontatoperò che fu il da piú uomo di corte che fosse già è gran tempoe non sine quare Carlo di Buem Imperadore il fece re dei buffoni e delli istrioni d'Italia. Essendosi fatto in Firenze uno cavaliereil quale sempre avea prestato a usura ed era sfolgoratamente riccoed era gottoso e già vecchioin vergogna e vituperio della cavalleriala quale nelle stalle e ne' porcili veggo condotta: e se io dico il veropensi chi non mi credesse s'elli ha vedutonon sono molti annifar cavalieri li meccanicigli artieriinsino a' fornai; ancora piú giúgli scardassierigli usurai e rubaldi barattieri. E per questo fastidio si può chiamare cacalería e non cavalleriada che mel conviene pur dire. Come risiede bene che uno judice per poter andare rettore si faccia cavaliere! E non dico che la scienza non istea bene al cavalierema scienza reale sanza guadagnosanza stare a leggío a dare consiglisanza andare avvocatore a' palagi de' rettori. Ecco bello esercizio cavalleresco! Ma e' ci ha peggioche li notai si fanno cavalierie piú su; e 'l pennaiuolo si converte in aurea coltellesca. Ancora ci ha peggio che peggioche chi fa uno spresso e perfido tradimento è fatto cavaliere. O sventurati ordini della cavalleríaquanto sete andati al fondo!
In quattro modi son fatti cavalierio soleansi fareche meglio dirò: cavalieri bagnaticavalieri di corredocavalieri di scudo e cavalieri d'arme. Li cavalieri bagnati si fanno con grandissime cerimonie e conviene che siano bagnati e lavati d'ogni vizio. Cavalieri di corredo son quelli che con la veste verdebruna e con la dorata ghirlanda pigliano la cavallería. Cavalieri di scudo sono quelli che son fatti cavalieri o da' popoli o da' signorie vanno a pigliare la cavallería armati e con la barbuta in testa. Cavalieri d'arme son quelli che nel principio delle battaglie o nelle battaglie si fanno cavalieri. E tutti sono obbligativivendoa molte cose che serebbe lungo a dirle; e fanno tutto il contrario. Voglio pur aver tocco queste partiacciò che li lettori di queste cose materiali comprendano come la cavallería è morta. E non si ved'elliche pur ancora lo diròessere fatti cavalieri i morti? che bruttache fetida cavallería è questa! cosí si potrebbe fare cavaliere un uomo di legnoo uno di marmoche hanno quel sentimento che l'uomo morto; ma quelli non si corrompono e l'uomo morto subito è fracido e corrotto. Ma se questa cavallería è validaperché non si può fare cavaliere un bueuno asinoo altra bestia che hanno sentimentobenché l'abbiano inrazionabile? ma il morto non l'ha né razionabile né inrazionabile. Questo cotal cavaliere ha la bara per cavalloe la spada e l'arme e le bandiere innanzi come se andasse a combattere con satanasso. O vana gloria dell'umane posse!
E ritorno al cavaliere novello di sopra; al quale andando messer Dolcibenecome i suoi pari fannoper acquistare o dono di roba o di danarilo trovò stare malinconoso e pensosocome se facesse mestiero di qualche suo parentee poco farsi lieto della cavallería e meno della sua venuta.
Di che messer Dolcibene comincia a dire:
- O che pensate?
Que' soffiava come un porco; e non rispondendo se non a stentodisse messer Dolcibene:
- Dohmesser... non vi date tanta malenconiaché per lo corpo di Dio se voi ci avete a viverevoi ne vedrete fare de' piú cattivi di voi.
Il cavaliere disse:
- O pur benevoi me n'avete appiccata una.
Disse messer Dolcibene:
- Se voi ne sete fuori per unabuon per voi; ma se voi non pigliate altro partitoio ve n'appiccherò piú di quattro.
Il cavaliere si stae non dice piú parola; se non che fa venire i confetti e da beree ad altro non riesce. Alla per fine veggendo messer Dolcibene che questo cavaliere non riescía ad altrocomincia a dire:
- Io sono venuto a voiperò che 'l Comune ha posto una gabella che ogni cattivo debba pagare lire dieci; e io per lo detto Comune son venutoper riscuoterla da voi.
Dice il cavaliere:
- Se io debbo pagare cotesta gabellaio sono contento; ma fatevi pagare a questo mio figliuoloil quale è qui presenteil quale è due cotanti cattivo di meche a quella medesima ragione ha a pagar lire venti.
Messer Dolcibene si volge al giovane:
- Fa' tosto quello che tu déi -; e abbreviando le parolee' non valse lo scontorcereché messer Dolcibene per lire trenta tra amendue ebbe fiorini ottoe anco non gli cancellò del libro della detta gabella; però che con bocca per grande improntitudine gli assannò in quelli díempiendosi il corpo come poteo.
E 'l cavalieroo che si pentisse del sogno avea fatto o come che s'andassefu piú misero nella cavallería che non era stato prima; e questo incontra sempreperò che chi nasce cattivonon ne guarisce mai.


NOVELLA CLIV

Uno giovene di Genovaavendo menata moglienon possendo cosí le prime notti giacere con leipreso sdegno se ne va in Caffae stato là piú di due anniritorna a casa con piú denari che non portòavendolo la moglie aspettato a bell'agio a casa il padre.

Uno giovene degli Spinoli di Genovanon è gran tempotolse per moglie una gentil giovene genovesela quale piú tempo gli era piaciuta; e presa la dotaessendo una domenica la giovene andata a maritoed essendo le nozze di Genova di quest'usanzach'elle durano quattro díe sempre si balla e cantamai non vi si proffera né vinoné confetti (però che dicono cheprofferendo il vino e' confettiè uno accommiatare altrui)e l'ultimo dí la sposa giace col marito e non prima; essendo venuta questa giovenee 'l maritoavendo vaghezza d'essere con leipregò le donne che dovesse loro piacere ch'elli giacesse la domenica sera con lei. Qui non fu mai modo che acconsentito fosse di rompere questa usanza. Passossi quel díe seguendo il lunedíe 'l giovane piú infiammavae cominciò a dire:
- Io voglio al tutto istasera giacere con la mia mogliera.
Le donne e gli altri dissono non volere al tutto che la loro usanza si rompesse. E 'l martedí ancora il simile volea: niente ci fu mai modo. Venuto il mercoledíche l'usanza dava di giacere con la sposalo giovane sdegnatoavendo veduta una nave che era per far vela per andare in Caffaebbe uno suo famiglioe impuosegli segreto che di quello che facesse non dovesse ad alcuno appalesare; e fatto alcuno suo fardello di robe e d'altre cose opportunee tolti fiorini mille dugentotra della dota e altriandò sulla detta navela quale con prospero vento subito fu dilungata. Le nozze continuando li loro balli e suoni appressandosi la serale donne e gli altri non veggendo il giovaneforte si maravigliavanodicendo:
- Che può esser questoche costuiche a quest'altre sere è stato cosí volonterosoistaseraquando è il tempo d'essere con la sua donna com'elli desideravanon si truova?
Domanda di quacerca di làil bell'amico non si trovavache forse otto miglia o piú era di lunge. La brigata e' parenti stavano tutti smemoratie forse la donna novella che avea perduto il marito prima che l'avesse avuto. Brievementeella si coricò al modo che l'altre. L'altro dí non s'ebbe altro a fare che cercaredomandare e aspettare. Aspetta il corbo! ché quanto piú aspettavono l'amicopiú si dilungava. E stando per alquanti díritornata la donna a casa sanza avere consumato il matrimonios'e' parenti stavano dolorosi non è da domandare; però che aveano dato una dota di fiorini millee riaveano in tal forma la giovane a casache non poteano sapere se l'era vedova o maritata.
Alla per fine dolendosi un dí alcuno suo parente su la piazza di San Lorenzo di questo casouno padrone d'una navela quale pochi dí nel porto di Genovatornando d'Alessandriaavea scaricatoe avea nome messer Gian Fighonessendo presente a questa doglienzadice:
- Per lo sangue de De'che io lo vidiessendo al portosalire su la tal nave che andò in Caffache serà andà su quella nave.
Questo suo parente udendo costuie domandandolo da lui a sé distesamenteebbe per certo ciò essere vero; e ritruova tutto il parentado e dice ciò ch'egli ha udito. Di che se ne vanno a casa dello sposo smarritoe cercano de' suoi pannie non trovando né quelliné 'l famigliodicono per certo costui avere fatto mal viaggio per la sposaed ebbonlo tutti per fermo; e mandando lettere e domandando se alcuno tornava di quel paesestettono ben otto mesi che non ne sentirono novella.
Alla fine tornando di Caffa uno Genovese degli Omelliniessendo domandato di questo fattodisse avere il detto giovane lasciato in Caffa e che di poco su la tal nave era là giunto. Di che tutti e' parentiavendo questa cosa per certasollecitorono con letterequanto poteronoe massimamente il padre e' fratelli di leiche l'aveano data la dota e mandata al maritoe riaveansela in casa; e brievementee' poterono assai mandare o scrivere che questo buon uomo tornassese non in capo d'anni duemesi quattro e dí dodiciche di Caffa tornò a Genova con fiorini duemila. E quando a' parenti fu dettosallo Dio l'allegrezza e 'l correre ad abbracciarlocome è d'usanza de' Genovesi. E chi dicea:
- O scattivaoove seu stao? - e chi una cosa e chi un'altra dicendo.
Dice il giovane:
- Io vegno cozzí di Caffa.
Or pensate l'animo de' Genovesi che disse questo giovane: "Io vegno cozzí di Caffa"come fosse tornato da porto Alfinoed egli era venuto trentacinque migliaia di migliache è de' maggiori navicari che si faccia. Or in brievegiunto costuifu domandatoe che cosa l'avea dilungato tanto paeseavendo la novella sposa. E quelli risposenon altro che ira o sdegnodicendo il perchée poi disse:
- E io sono or quie dico chese la vostra o nostra usanza è buona di stare il quarto giorno prima che si dorma con la moglierae io dico che la mia che io ho cominciata a fareè buona e ottimaperò che sono stato molti piú dí che quattro. E perdonàme tutti quantiché io credo che ciò che è intervenuto sia stata grazia di Dio; però che io ebbi sempre voglia nella mia giovenezzalà dove ancora sonod'andare in Caffa; ed essendo per questo sdegno o caso andatoio sono molto piú contento esservi andato prima che io giacesse con la mia moglierache poiperò che da molti savi Genovesi che sono stati in Francia ho udito dire che nella sala dello re è una dipintura di tre diverse maniere di gentie a ciascuna è fatta con mano una figa: la prima è quella che toccherebbe a me; se io fosse giaciuto con la mia sposa e poi fussi andato in Caffami serebbe là fatta la figaperò che dice ch'egli è molto folle chi toglie moglierae quando ha dormito con sé alquantopartesi da leifacendo gran viaggio da lungiadicendo: "Chi toglie mogliera giovene e sta un poco con leie poi piú tempo si dilungaè forte ingannato; però che mette il fuoco nel pagliaioe poi si dilunga e non crede ch'egli arda". La seconda (acciò che voi sappiate che io so come quella dipintura sta)è quando uno dee avere fiorini centoo altra quantità da un altroe 'l debitore gliene vuole dare una partee quello gli fa un'altra figa.
E 'l terzo è chequando a uno è dato un gran segreto e quello il dice a un altrodicendo e pregando che tenga segreto quello che non ha possuto tenere elloe costui ha un'altra figa. Ora tornando a' fatti nostriio vi dico che io mi parti' per isdegnoche tre sere non potei giacere con la mia mogliera; e questo feci mal volentieri e pur me ne incontra beneche di fiorini mille dugento che io portaiio n'ho addutto duemila. E per la ragione della figa di Franciaio sono piú contento d'essere andato in Caffa prima che io fosse con leiche dappoi. E perciò io vi dirò brievemente l'animo mio: poiché Dio m'ha ricondotto quise voi mi volete mandare la donna che dee essere miaa casafate che la vi sia istasera; piú nozze non ho a fare; e s'ella non vi fia a buon'oracome io sono andato in Caffacosí andrò al Dalí.
Come costoro udirono questotosto tosto s'avacciarono la sposa vi fu a mezza nonae questo giovene lavorò il suo terreno che era fatto tanto maggesecome li piacquee ristorò e' tempi perduti il meglio che poteostando fermo con la sua mogliesanza andare in molti viaggi.
Come che bene gli serebbe stato che in quel tempo che stette in Caffa un altro se l'avesse accaffato; e stavagli molto benenon potendosi astenere un dí di quello che avea a usufruttare tutto il tempo della vita sua.


NOVELLA CLV

Maestro Gabbadeo da Prato è condotto a Firenzeper avviarsi dopo la morte del maestro Dinoil quale venutogl'interviene che guardando uno orinale a cavalloe 'l cavallo aombrandocorre a suo mal grado insino alla porta al Pratoed egli non lasciò mai l'orinale.

Maestro Dino del Garbo fu in que' tempi il piú famoso mediconon che di Firenzama di tutta la Italiail quale finendo i dí suoiessendo passato di questa vitamolti medici d'attornosentendo la sua mortecorsono a Firenzee tali chenon che sapesseno medicinanon arebbon saputo trovare il polso alle gualchiere. E fra gli altri era in questi tempi in Prato un medico antico e assai grosso di quella scienzail quale sempre portava una foggia altissimacon un becchetto corto da latoe largo che vi serebbe entrato mezzo staio di granoe con due batoli dinanzi che pareano due sugnacci di porco affumicati. Ed essendo costui in Prato e poco guadagnando di suo mestierouno suo amico gli disse:
- Maestro Gabbadeovoi dovete sapere ch'egli è morto a Firenze il maestro Dinoil qualementre che viveaniuno vostro pari vi potea guadagnare niente; ora per quello che io ho sentitociascuno corre làe credo che un vostro pari farebbe là tutto il bene del mondo; e stando voi quivi starete sempre tra due soldi e ventiquattro danarie non si conoscerebbe la vostra virtú.
Di che maestro Gabbadeoudito l'amico suogli disse:
- Io veggo certo che tu mi di' il mio benee quello che serebbe l'onor mio; ma io non potrei durare alla spesaperò che mi converrebbe tenere un ronzino e uno fantee converrebbemi renovare li miei vestimenti e le mie fodere di vaile quali in questo castello sono ancora assai orrevoli.
E questi suoi ornamentinon ragionando de' panni lanima vai e foderierano sí pelati che non è niun pellicciaio che avesse potuto conoscere di che bestie fusson fatte quelle pelli.
L'amicoche avea pur voglia ch'egli andasse a Firenze a pigliar corsogli disse:
- E’ non si vuol stare a lellareanzi si vuol pigliare partitoinnanzi che gli altri piglino luogo prima di voi; però che sapete che la vostra è un'arteche quando una famiglia si comincia a medicare da un medicorade volte lo mutano maie la spesa non fia come voi immaginate; però che del cavallo che voi terretese torrete un poltracchielloin che spendiate otto in dieci fiorinine raddoppierete i danari in meno d'un anno; però che i vostri pari gli scorgono beneche tutto 'l dí gli menano in qua e 'n làe poi riescano i migliori cavallie i piú sicuri che si scorgano.
E 'l medicosenza udire piúdice all'amico:
- Or eccoio ne voglio consiglio con la donna miae se me ne consiglieràsubito piglierò partito.
E di subito con gran festa se ne va alla donna suaove molto lietamente gli raccontò il consiglio gli dava l'amico suo. La donna volontorosa che 'l marito uscisse di mendicumedice:
- Marito miochi ti consiglia di questo non ti vuol male; non istate a badea; pigliàtene partito il piú tosto che potete; e io ci voglio mettere un orlo di vaio che io ho alla mia guarnacca celestra; e se non basteràtorrò anco i manicottolie con quello t'acconcerò i batoli de' vostri tabarrie leveronne quei pelatiche vi sono.
E brievemente cosí fu fatto. E acconce le sue robe per questa formaaccattò uno ronzinoe venne a Firenze in casa un suo pratese che vi stava; e dettogli la faccendail menòaddobbato il meglio che potéa Santa Maria della Tromba; e là a una bottega di speziale cominciò a fare residenza; e avendo informato l'amico suo di volere uno poltracchiellogliene fu menato uno ch'era d'Ormannozzo del Bianco Detiil quale sempre si dilettava di scorgere puledri; e comprollo fiorini dieci a termine d'uno mese; e mandatolo a casala seguente mattinaaccattato una posolatura tutta doratasalí sul detto poltracchio e giunse in mercato vecchio alla bottega dello speziale. E stando ivi alquanto a cavallogli fu posto un orinale in manoil quale era d'una donna inferma che stava in Torcicodala quale s'era cominciata a medicare da lui. Avendo tratto l'orinale della cassa il maestro Gabbadeoe stando sul poltracchio attento a procurare l'orinauno portatore venía di rincontro con uno porco in capo; come il poltracchio vede il detto porcocomincia a soffiare e averne paura per sí fatta forma che comincia a fuggire. Il mediconon lasciando l'orinales'ingegnava di ritenere il cavallo. Lo speziale e la gente d'attorno gridavano:
- Riteneteritenete.
Egli era nullache la levava quanto potea; e mai per questo il medico non lasciò l'orinale; ma diguazzandosi di qua e di làtutta l'orina gli andò sul cappuccio e sul viso e su la robae alcune zaffate nella boccae con tutto ciò non lo lasciò mai. Correndo il cavallo già tra' ferravecchi col detto medicoe con l'orinale in manoandando lungo una bottega di ferrovecchioed essendo appiccato molte grattuge e romaiuoli e padelle e catene da fuocodà tra queste masserizie e tutte le fece caderee la foggia del cappuccioessendo presa da una catena da fuocofece rimanere il cappuccio con tutto il vaio appiccatoche n'era ben fornito. E 'l medico scappucciato col cavalloche per lo romore de' ferramenti caduti molto piú correvasanza lasciare mai l'orinaledàlla giuso da casa i Tornaquinci e giuso verso la porta del Pratoche mai non lo poté tenere.
E brievementee' l'averebbe rimenato a Pratose non ch'e' gabellieriveggendolo venirechiusono la portae ivi ristette il cavallo. E’ gabellieriveggendo questo medico senza cappuccio con l'orinale in manodomandavono:
- Che vuol dir questo?
Il medico non potea appena favellare; poi raccolto lo spiritodisse a' gabellieri ciò che intervenuto gli era; e per lo migliore insino a sera stette nella loro casellina; e accattato uno cappuccioal tardi si ritornò a piedefacendo menare il poltracchio a mano a casa lo amico suolà dove giuntoveggendolo l'amico pratesedice:
- O che vuol dire questo? siete voi caduto?
E quelli disse di noraccontando ciò che era stato. Dice l'amico:
- Voi aveste cattivo consiglio a comprare poltracchioperò ch'e' vostri pari non conviene che abbiano a contendere co' cavallied è maraviglia come e' non v'ha morto.
Dice il medico:
- Tu di' vero; io credetti a un mio amicoche mi disse che io raddoppierei i denarise io comprasse uno poltracchio.
Disse l'amico:
- Chi ve ne consigliò non fu vostro amico; però che essendo di tempocome setenon si fanno i poltracchi per voi.
- La cosa è pur qui- dice il maestro Gabbadeo; - a' rimedii: il cappuccio rimase appiccato a una catena da fuoco tra' ferravecchi; io ti priego guardi s'ello si può riavere.
E l'amico disse di farlo. E la mattina per tempo va fra' ferravecchie domanda dov'è il cappuccio che correndo quello cavallo era rimaso.
Fugli insegnato che era rimaso presso dalla Volta delle stelle. E andato làtrovò il fabbro che l'avea; e dicendogli la sventuragli addomandò il cappuccio. Il fabbro dice:
- Io non so chi e' si sia; a me pareva elli un pazzo; e' m'ha rotto le padellee ciò che io aveva appiccato di fuori; - e mostra a costui il dannoe domandando la menda.
Di che l'amico s'accordò che de' primi danari guadagnasse il medicogli darebbe un fiorino; e riebbe il cappuccioche non valea trenta soldie riportollo al maestro Gabbadeo dicendoli in che forma l'avea riaúto. Il medico sel mise in capo che ancora non era ben asciutto dell'orina; e quel dí medesimo cercò con Ormannozzo che si ritogliesse il suo poltracchielloe che elli ne volea perdere due fiorini; e fu fatto. Poi comprò un ronzino vecchio per fiorini ottoil quale assai cattivamente il portavae rassettatosi in una casettache tolse a pigione in Campo Corbolinoil meglio che poté s'avviò. E per dischiesta di mediciin poco tempo pagò il ronzino e mandò fiorini uno al fabbro; e con poca scienzain sul ronzino vecchioproccurando l'acque degli orinalisanza versarlesi addossopochi anni avanzò ben fiorini secentoe poi si moríportando el libro sul corpo suo nella baracome se fosse stato Ipocras o Galieno.


NOVELLA CLVI

Messer Dolcibene fa in forma di medico nel contado di Ferrara tornare una mana a una fanciullache era sconcia e svoltanel suo luogo; e questo fa gittandovisi su a sedere.

Nessuna cosa è tanto dolce quanto è il benechi volesse ben contemplare; e però essendo vago e dell'uno e dell'altroritornerò pur a quel nomedove ciascuno di questi due s'inchiudecioè a messer Dolcibeneil quale drieto in piú novelle è stato raccontato. E perché il valentre medico maestro Gabbadeo nella passata novellacon quella scienza e con quella pratica che la natura gli avea donatocon grandissimo ordine volendo bene considerare in sul poltracchiello l'orinale della sua infermae per quello poltracchiello essere quasi pericolato; voglio dimostrare in questa seguente come costui senza sapere o filosofia o medicinaessendo in caso che non trovava albergo né casa che si potesse alloggiarefece una nuova e bellissima esperienzae non mai usata per nessun medico stato innanzi a lui.
Venendo adunque alla novellamesser Dolcibeneessendo stato fatto per adrieto re degl'istrioni d'Italia da Carlo imperatore di Buemsentendo che 'l detto imperadore la seconda volta ritornava in Italiaessendo già giunto in Lombardiail detto messer Dolcibene con parecchi cavalli si partí di Firenze per andare in Lombardia incontro a vicitare il detto imperadore. E giugnendo una sera al tardi in Ferraratrovò là essere il detto imperadoree per la gran quantità di genteche avea secoavea preso tutte le stanze e gli alberghidentro in Ferrara e di fuori parecchie miglia; onde convenne che 'l detto messer Dolcibenesanza trovare alloggiamentose n'andasse al palagiodove l'imperadore era. E sceso nella viae lasciato i cavalli a' suoi famiglin'andò alla sua presenzae fattali la reverenzadisse:
- Signor mioabbiate buona speranzache voi avete modo di vincere tutto il mondo; però che voi state bene e col Papa e con meco: voi con la spadail Papa co' suggelli e io con le parole; e a questo nessuno potrà resistere.
L'imperadore avendoli fatta risposta come si conveníae messer Dolcibene disse:
- Sacra coronaio non sono ancora alloggiatoio voglio andare a cercarese ci èov'io cappiae poi tornerò alla vostra maestà.
E cosí partitosi e salito a cavallodi luogo in luogo domandava dove potesse stare con cinque cavalli ch'egli avea. E brievementenon trovando albergo in Ferrarauscí fuori e tenne la via verso Francolino; e domandando di casa in casa dove potesse stareandò parecchie miglia; e in fine s'abbatté a una casa di qua dal Ponte al Lago Scuro; dove veduto che ebbe una donna molto malinconosa all'usciodisse:
- Com'è il vostro nomemadonna?
E quella rispose:
- Perché 'l disé voi? io ho nome donna Margotta.
E messer Dolcibene disse:
- O vostro marito com'ha nome?
E quella rispose:
- Ha nome Salisin.
Ed elli seguí:
- Madonnapotrestemi voi ricettare con questi cavalli per questa seradandovi quel pagamento che voi stessa addomanderete?
A cui la donna rispose:
- Messerio ho tanta briga che mi si screva il core.
E quelli disse:
- Che avete voi?
Ed ella rispose che una sua figlia di quattordici anniche piú non aveas'avea sconcia e travolta una mano e 'l braccioessendo caduta pur mo a terra d'una figae non fa altro che piagnere e lagnarse.
E messer Dolcibene dice:
- Madonna Margottaio sarò l'angiolo di Dio che serò venuto qui per voie per la vostra putta; però che io sono il migliore medico di racconciare ossa che sia in Italia o nella Marca Trivisgiana. Io vi guarirò questa fanciullas'ella avessenon che stortema rotte quante ossa ella ha addosso.
La donnaudendo messer Dolcibenee parendoli nella apparenza quello che diceacomincia a riceverli graziosamente; e acconci li cavallie tirati li colli a sue gallineapparecchiò ogni cosasí che 'l detto stette forse cosí bene come l'imperadore. E in questo tornò Salisinoche era andato a pescare e avea arrecato due porcellettee donna Margotta fattalisi incontroraccontò con dolore la caduta della loro figliuolae con allegrezza la ventura che gli era venuta a casadi sí valentre uomo medico. Il marito fece reverenzaraccogliendo messer Dolcibenee fece cuocere le porcellettee poi li raccomandò la figliuola. Onde messer Dolcibene fu menato al letto a veder la fanciullala quale era assai bellasecondo l'aria ferrarese; e veduta la mano la qualeessendovi caduta susol'avea rivolta sotto il braccioquasi come uno uncino alla in su; messer Dolcibene domandando di molte cosee in fine non trovandone quivie volendo fare pure una bella curafece quasi una poltiglia da cavallie stracciate pezze e fatte fasce e lenzeimpiastrò la mano e 'l braccio della fanciulla per modo che stesse ben morbidoe fatto questola fece sostare un'ora acciò che stesse ben morbidaed elli andò a provvedere e' cavalli e assaggiare il vino e a studiare le galline e le porcellette. E stato per alquantotornò al suo magisteroe sfascia la fanciullae la fanciulla gridando forte del duoloel padre e la madreavendo paura non morisse di spasimopregavano che per Dio non facesse con le mani per forza. Messer Dolcibene disse:
- Io non ci porrò le manisopra la mia fé- e fessi arrecare molta stoppa e due taglieri grandi; e messo il braccio su uno di questi tagliericon lo scrigno dell'oncino di soprae con molta stoppa di sotto e di soprapuose sopra quella l'altro taglieresí che quasi in strettoie si dovesse fare ritornare nel suo luogo.
E detto questo e fattorecandosi cortesedisse:
- Non abbiate paurache niuna delle mani adopero -; e dato voltadicendo: - Tenete ben fermo il braccio com'io l'ho acconcio -; vi diede tal su del culo che averebbe dirizzato un palo di ferro che fosse stato torto.
E subito voltosi e preso il braccio con istecchecon sue poltiglie e allenzamenti l'ebbe fasciatogittando dell'acqua nel viso alla fanciullala quale per lo gran dolore urlava quanto potea; pur da ivi appresso un'ora si racchetòe 'l braccio e la mano stavano diritti e ciascuno nel luogo suo. E voltosi a Salisino e a madonna Margottadice:
- Come vi pare che sia andato?
E quelli dissono:
- Molto benemaestroche Dio vi doni buona e lunga vita.
Allora messer Dolcibenevantandosidice:
- Or pensate quello che io farei con manoquando col culo ho fatto cosí grande esperienza.
Dappoi andorono a cena con gran letiziae fu tenuto alla paperinanon pagando alcun danaio; e la mattina per tempo levatosicome ebbe preso commiato e salito a cavalloun gran paio di capponi morti si trovò agli arcionie promissonli di fare piú oltrese mai arrivasse piú in quel luogo. E tornato a Ferrara con questa novellatenne piú dí a sollazzo la corte dello imperadoree profferevasi a tutti quelli uomeni d'armeche securamente si sconciasseno l'ossache egli le racconcerebbe subito col culomeglio che altro uomo con mano. E valsegli questa volta piú che se uno sommo medico avesse guarito di simile cosa uno grandissimo signore.


NOVELLA CLVII

Messer Francesco da Casale signore di Cortona mena Pietro Alfonso a mostrarli il corpo di santo Ugolinolà dove con nuove parole si raccomanda a luie con vie piú nuove si stae parte dal detto messer Francesco.

Nella città di Cortona al tempo di messer Francesco da Casalesignore di quellaarrivò un valentre uomo di Spagnaper avventura parente di messer Gilio di Spagna cardinaleil qual ebbe nome Pietro Alfonso. Costuiessendo piacevolissimo uomo e assai gran mangiatorespesse volte era domandato quanta carne gli basterebbe al pasto; ed elli rispondea:
- Alle cui spese?
E se quelli diceano: "Alle tue"; ed elli allora dicea:
- Io sono piccolo mangiatoree ogni poca vivanda m'è assai.
Se diceano: "All'altrui spese"; rispondea: - Io sono gran mangiatore e vorrei buone vivande e assai.
E altri piacevoli motti simili a questi sempre avea.
Ora essendo questo Pietro Alfonso col detto signore per alcun díil signore gli cominciò a dire di molte belle reliquiele quali nella terra avea; e che v'era il corpo di santa Margherita.
Pietro rispose:
- Cotesta è nobile reliquiapensando a chi fu la santa.
Disse il signore:
- Ella non è quellaanzi è una santa Margheritala quale fu di questa terra.
Disse Pietro:
- E’ può ben essereperò che pare che sempredove hanno regnato i signorivi siano assai corpi di santi e spezialmente martiri.
Lo signore rispose:
- In fedee' ci sono assai dell'altree fra esse c'è un corpo di santo Ugolinola piú venerabile reliquia che mai tu vedessi: e voglio domattina che noi andiamo a vederla; e se tu ti raccomandi a quel corpoper certoPietroegli ha fatto assai miracoli; e di quello che lecitamente addomanderaitroverrai ti farà grazia.
Dice Pietro:
- Signoree' mi piacee ve ne prego che cosí sia.
La mattina seguente si mosse il signoree Pietro con lui e andorono alla chiesa dov'era il detto corpo; ed entrati in una cappellali cherici il trassonoo dell'altare o armarioe involtocom'è d'usanzadi molti veli e drappi d'oroisfasciando a parte a parteil signore essendo innanzie Pietro cosí da costaistando inginocchione. Essendo scoperto in tutto il detto corpoed essendo nero pauroso con l'ossa scopertedisse il signore:
- Pietroaccostati e raccomandati a lui.
Pietro sentendo dire: "Accostati"gli s'arricciarono tutti i capelli; e pur per obbedire s'accostòe cominciasi a fare il segno della Santa Crocedicendo:
- Messer santo Ugolinoio vi prego per l'amore di Dioche voi non mi facciate né bene né male -; e questo disse tre voltesegnandosi continuamente.
Lo signoreveggendo costuie maravigliandosidisse:
- Pietrohai tu paura de' santi?
E Pietro rispose:
- Signor mioio non l'ebbi mai tale -; e levoronsi di ginocchione; e fattosi da capo il segno della Santa Crocesi partirono.
E per la via ragionandodisse il signore:
- Pietrotu m'hai fatto assai maravigliare della maniera e delle parole che tu hai usate dinanzi al venerabil corpo di questo santo.
E Pietro rispose:
- Signore mioio non ebbi mai simile pauraperò che piú scuro corpo mai non vidi; e se li corpi de' santi sono cosí paurosiche debbono essere e' corpi dannati? Io vi voglio direin fedeparecchie parole: il mondo è pieno di novitàe ciascuno ha vaghezza delle cose nuovequia omnia nova placent ; questo vostro santo Ugolino poté essere un santo uomoma il corpo mio non accambierei al suo. Nel catalogo de' santi non trovai mai santo Ugolinoe non so chi si fu. Se voi avete reverenza e devozione in quelloe voi quello adorateche quanto ionon sono per adorarlo: ma mille anni mi pare che io mi vada con Dioil quale voglio adoraree voi v'adorate santo Ugolino; ma fate di vedere il suo corpo il meno che voi potete; che quanto ionon sono acconcioné intendo vederlo mai piú.
Messer Francescoudendo costuidisse:
- Per certoPietroquesta è delle belle reliquie del mondoma tu non la conosci.
- Signor mio- disse Pietro- e' può ben essere ch'ella vi par bellae avetemela forse mostrata per cacciarmi; e io me ne voglio andareperò che a me ha ella fatto grandissima pauratale che fatevi con Dioe di me non fate ragione mentre che in Cortona questo corpo di santo Ugolino fia.
E salito a cavallodisse al signore:
- Fatevi con santo Ugolinoe io voglio fare sanza lui.
E 'l signore rispose:
- Pietropoiché ti vuogli pur partirevattene con santo Ugolino.
E Pietro disse:
- Signore miovoi direte poco piúche io non saperò se io mi debba stareo se io me ne debbo andare -; e dato degli spronie detto al signore: - Rimanetevi con santo Ugolino -; si partí.
E cosí avviene oggi nel mondoche li signori e gli altri viventi sono sí vaghi di cose nuove che se elli potessonomuteríano la signoria del cielocome spesso mutano quella delle terre. Abbiamo li santi canonezzati e cerchiamo di quelli che non sappiamo se sono. Abbiamo il nostro Signore Jesu Cristola sua Madregli Apostoli e gli altri maggiori del Paradisoe andremo dietro a san Barduccio. Dall'una parte diremo che chi muore scomunicatoil corpo suo si sta intero e non si disfà: dall'altra parte diremo un corpo mortoche non si consumaessere santo. E segue tanto questa idolatria che s'abbandonano li veri per questi taliche spesse volteessendo dipintiè fatto loro maggiore luminaria e posto piú immagini di cera che al nostro Signore. E cosí spesso s'abbandona la via vecchia per la nuova; e' religiosi spesso ne sono cagionedicendo spesso che alcuno corpo sotterrato alla chiesa loro averà fatto miracoloe dipingonlo per tirarenon acqua a lor mulinoma cera e denari; e la fede si rimane dall'uno de' lati.


NOVELLA CLVIII

Soldo di messer Ubertino degli Strozziessendo capitano di Santo Miniatousa certe astuzie con la malizia de' Sanminiatesi; e in finesanza tenere la metà de' fantivinse le sètte loroed ebbe onore.

Al tempo che 'l Comune di Santo Miniato in Toscana era in sua libertàcome avea per usanzamandava quasi continuo la elezione del capitanato a uno fiorentinoe per la diversità degli uomeni di quello e per lo male reggimento de' rettoriche là andavanorade volte intervenía che alli piú di questi rettori non fosse fatta vergognae talora tanta che talora se ne veníano in camiciae talora erano presso che morti. Avvenne per caso che fu eletto per capitano un Soldo di messer Ubertino degli Strozziuomo piacevolissimo e saputoe non abbienteed era forte gottosoe quasi di ciò perduto. Avendo costui la elezionecominciò a pensaree dall'una parte il tirava il bisognoe dicea: "Io voglio andare"; dall'altra dicea: "Io non voglio andare a morire; io sono vecchioe sono attratto di gotte: li Sanminiatesi hanno fatto sí e sí al tale e cosí all'altrettale; egli è meglio ch'io rifiuti".
Alla per finecombattendo molte cose nella sua mente deliberò d'andareper sovvenire alla sua necessitàe con una sottile astuziaper riparare alle furie e alle sètte de' Sanminiatesi; e cosí accettoe. E venuto il tempoandò nel detto officio; nel quale standoapparí una gran mortalitàla quale fu molto prosperevole al detto Soldocome appiede di questa novella si dimostrerrà.
Ora stando costui nel principio del suo capitanatoapparve un casoche uno da Coligarlio di quello paesefu preso per alcuno eccessodel qualeessendo colpevolemeritava d'essere dicapitato. Come la setta di messer Bindaccio Mangiadori il seppesubito furono a luiprotestando che 'l detto non morisse; e per opposito la setta de' Ciccioni con ogni loro forza e argomento voleano che 'l preso non campasse. E questa era un'aspra contesacome spesso interviene tra due sètte.
Veggendo Soldo questofra sé medesimo comincia a dire: "Io non debbo essere venuto qui per farmi uccideree sono poco adatto a combattere con costoroperò che io sono vecchio e infetto: a me conviene avere senno per la loro.. e portarmene quello che io avanzeròche n'ho bisogno. E cosí pensatodisse una mattina all'una setta e all'altra che la sera andassono al banco a luie che piglierebbe lodo tale su' fatti del preso che l'una parte e l'altra doverrebbe rimanere per contenta; e cosí si partirono. E venuto poi l'ora del vesproessendo Soldo al bancol'una e l'altra setta comparirono alla difesa e all'offesadicendo ciascuna parte ciò che voleano. Disse Soldo:
- Io v'ho intesie serei molto contento della vostra pace e della vostra concordiaperò che unitamente credose ciò fosseconsigliereste che io facesse giustiziala quale ho giurato di farefacendo ragione a ciascheduno; e di questo non me ne storreise già per voi non si facesse una cosa.
Udendo questo quelli che voleano che 'l preso campassedissono fare ciò che comandasse loro.
Allora disse Soldo:
- Ogni parola che voi fate è vanaaltro che quello che io vi dirò. Andatee diliberate tra voi quello che voi volete che io faccia di costuie di concordia tornate a mese mi direte che egli muoiaserà fatto; se mi direte che io lo lascisubito fia lasciato.
Detto questociascuno guarda l'un l'altroe chi soffiava di qua e chi di là; alla fine si partironoe dissono di tornare l'altra mattina. Elle furono favoleché non che s'accordassonoma elli non s'accozzorono mai insieme che ne ragionassono. Tornati la mattina e l'una parte e l'altrae procurando chi pro e chi controdisse Soldo:
- Io voglio spacciare questo fatto; che mi rispondete voi a quello che io vi dissi ieri?
Rispose l'uno dell'una parte:
- Messer lo capitanonoi non seremo mai in concordiaperò che noi vogliamo che campiché ci pare che non meriti mortee costoro vogliono che muoia.
Gli altri rispondeano:
- E’ dice il veroche noi vogliamo che muoiacome il peggiore uomo che mai fosse in questo paesee merita mille morti; e sapetemesser lo capitanoche la justizia è quella che conservanon che questa terrama il mondo; e però vi preghiamo che facciate ragione.
Quando costui ebbe detto che facesse ragionedisse Soldo all'altra parte:
- Voi udite che costoro non sono di concordia con voiné voi con loroe dicono che io faccia ragione; e voi volete che io faccia ragione o no?
A costoro parve essere nelle pastoiee dissono:
- E anco noi vi preghiamo che voi facciate ragione.
Disse Soldo:
- Voi diciavate poco fa che non eravate di concordia; in questa parte voi sete uniti e in concordiacioè che io faccia ragione; e io cosí farò; e ancora vi dico cosíciò che prima vi dissiche se di qui a tre dí verrete di concordia l'una parte e l'altrao che io il salvio che io il danniquello seguiròse bene direte; quanto che noio farò ragionecome di concordia m'avete detto.
Cosí tutti si partirono non sapendo che si diree ma' s'accordorono. Di che Soldo seguí il suo corsoe fece morire il preso... E cosí fece sanza fare alcuna... o mottoo totto. E cosí il buon rettore quando vuol fare quello che deenon è mai cosa non abbiase non per l'altrui folliae rade volteanzi non è maiche se vuole fare ragioneche non possa. Essendo dicapitato costuila parte che n'era stata malcontenta alcuna volta pensava di nimicarlo in certe cattivanzuolecome nel rassegnare la famigliae altre cose. Ed essendosi il detto Soldo di ciò avvedutoe durante la mortalità e avendo meno famiglia che non doveatenea quando sei e quando otto gonnelle in una sala de' fanti sopra una stanga. Venendo il rassegnatoreil detto Soldo dicea:
- Rassegnate come vi piace -; e mostrando loro le gonnelledicea: - Io ne feci sotterrare istanotte quelli che voi vedete; andate giuso alle letta e troverrete assaiche hanno il gavoccioloe qual sta male e qual si muore.
Come il notaio della rassegna vede e ode queste coseparea cacciato da mille diavolie turandosi il naso si fuggía fuori del palagioe andavasi con Dio.

Quelli che aspettavono che 'l detto Soldo fosse condennatoudendo il rassegnatoresi segnavono; e non che gli mandassono il rassegnatorema non passavano dal suo palagio per la pestilenzala quale udivano v'era appresa. E cosí e di questo e d'altro si passò questo avveduto capitano con l'altrui divisione e folliatrattando li sudditi suoi come meritavono; e tornossi a Firenze sano e salvo e gottosocome v'andòe forse con la borsa piena e con molto onorelasciando loro e con le loro sètte e con le loro divisioni; le quali ciascuno che le seguefanno venire a ultima e finale destruzione; come sempre e per antico e per moderno s'è veduto nel mondo
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NOVELLA CLIX

Uno cavallaccio di Rinuccio di Nellosciogliendosiper correre drieto a una cavalla in Firenzee 'l detto Rinuccioseguendolocon nuovi casi fece quasi correre a seguirlo la maggior parte de' Fiorentini.

Uno cittadino molto antico d'anni e nuovo di costumi funon è gran temponella città di Firenzeil quale ebbe nome Rinuccio di Nellouomo assai di famiglia antico; e stava presso a Santa Maria Maggiore. Costui avea sempre cavalloper suo cavalcareche era piú nuovo di luie non so da qual razza si veníano quelli cotanti che tenne ne' suoi díche tutti pareano piú sgraziato l'uno che l'altro. Fra gli altriquasi nell'utimo della sua vitan'ebbe uno che parea uno cammellocon una schiena che parea Pinza di montee con una testa di mandragolala sua groppa era che parea un bue magro; quando elli li dava una spronatae' si movea d'un pezzocome se fosse di legnoalzando il muso verso il cielo; e sempre parea addormentatose non quando avesse veduto una ronzina; allora rizzando la codaun poco anitriva e spetezzava. Non era però da maravigliare se 'l detto cavallo era incordatoperò che gli dava spesso a rodere sermenti per paglia e ghiande per biada. Avvenne un giorno per casochevolendo cavalcare il detto Rinuccioavea appiccato il detto cavallo di fuori nella via; ed essendo venuta una ronzina alla piazza dove si vendono le legneche era quasi dirimpetto alla sua casaed essendosi sciolta da uno arpionecominciò a fuggire per la via dov'era appiccato il detto cavallo; il qualecome sentí la giumenta correre dirietrotiroe la testa a sé con sí dura maniera che ruppe uno briglione assai forte; però che il detto Rinuccio l'avea fatto fare in provamostrando a ciascuno per quello che 'l cavallo fosse sí poderoso che appena si potea governare. Tirato addietro la testa con tutta la personaspezzò la brigliae voltosi dietro alla cavalla verso Santa Maria Maggioregli tenne dietro furiosocom'è d'usanza degli stalloni.
Rinuccio che era per uscire fuori e montare a cavallosente un gran romoreche ogni uomo correa drieto a tanta novità; fassi alla portanon truova il cavallodomanda dove gli è ito. Uno calzolaio gli dice:
- Rinuccio mioil vostro cavallo ne va drieto a una cavalla col mazzafrusto tesoe in su la piazza di Santa Maria Maggiore mi parve gli salisse addosso: soccorreteloché si potrebbe troppo ben guastare.
Rinuccio non dice: "che ci è dato?"; mettesi a corsoe con gli sproni in piede fu piú volte presso che caduto; e tenendo per nuove vie drieto a questa sua buscalfanapervenne in Mercato Vecchio; là dove giuntovide il cavallo addosso alla ronzina; e ciò veggendocomincia a gridare:
- San GiorgioSan Giorgio.
I rigattieri cominciano a serrare le botteghecredendo che 'l romore sia levato. Le bestie entrano tra' beccaiche allora stavano alla scoperta in mezzo della piazza; e giugnendo a uno desco d'uno che avea nome Gianoche vendea le vitellela ronzina si gettò sul detto descoe 'l cavallo drietole per forma che Gianoche era assai nuovo pescefu presso che morto; e le pezze della vitella di latteche erano tese per lo descofurono tutte pestee convertironsi in pezze di vitella di loto. E detto Gianoquasi come smemoratofuggí in una bottega di speziale. E Rinuccio aombrato gridava: - San Giorgio -; e Giano gridava: - Oimèch'io sono diserto.
Coluidi cui era la ronzinaera tuttavia drieto con un bastonee volendo attutare la concupiscenza della carne dava di gran bastonatequando al cavallo e quando alla ronzina; e spesse voltequando dava al cavalloe Rinuccio gli si gettava addossoe dicea:
- Per Santo Loichese tu dài al mio cavalloche io darò a te.
E cosí pervennono con questo romore per Calimalalà dove tutti i ritagliatori gittavano i panni dentroe serravono le botteghe. Chi dicea:
- Che è?
E chi dicea:
- Che vuol dir questo? - e chi stava come smemorato; e molti seguivono le bestiele qualivoltesi per lo chiassolino che va in Orto San Micheleentrorono tra' granaiuoli e le bigonce del grano che si vendea sotto il palagiodov'è l'Oratorioe scalpitarono molti granaiuoli.
E di quelli ciechiche sempre ve ne stavano assai nel detto luogo al Pilastrosentendo il romore ed essendo sospinti e scalpitatinon sappiendo il caso del romoremenavano i loro bastonidando or all'uno e or all'altro.
La maggior parte di quelliche si sentivano dare del bastonesi rivolgeano a loro non sappiendo che fossono ciechi. Altriche sapeano che coloro erano ciechidiceano e riprendeano quelli che contro a loro faceano; e quelli tali si rivolgeano loro addosso. E cosí chi di qua e chi di làe chi per un verso e chi per un altrosi cominciarono a ingoffarefacendo molte mislee da piú parti; e con queste mischie uscirono fuori de Orto San Michele le scuccomedrenon essendo ancora attutato il caldo del bestiale amorazzo del cavalloanzi piú tosto cresciutoe forse con alcune pugna che ebbe Rinuccio e quello della ronzinagiunsonocosí percotendosie con busso e con romoresu la piazza de' Priori. Li quali Priori e chi era in palagioveggendo dalle finestre tanto tumultuoso popolo giugnere da ogni parteebbono per certo il romore essere levato. Serrasi il palagioe armasi la famigliae cosí quella del capitano e dello esecutore. Su la piazza era tutto pienoe parte combatteano con pugnae gran parte d'amici e parenti erano drieto a Bucifalasso e a Rinuccioper aiutarloche già non potea piú.
Come la fortuna volleil cavallo e la ronzina quasi congiunti entrorono nella corticella dello esecutorelà dove lo esecutoreper grandissima pauranon sappiendo che fossema avvisandosi che 'l furore del populo gli venisse per uno che avea tra manodel quale era gran contesa che non morisseed elli il volea far morire; si fuggí drieto a un letto d'un suo notaioe di là entrò sotto la lettieraessendo già quasi mezzo armato. Il popolo ancora si bussava in gran parte con le pugnaed era per venire a' ferri; se non che subito la porta dello esecutorela qual giammai non si serrafu subito serratae a gran fatica fu preso il cavallo e la giumentali quali tutti gocciolavono di sudoree Rinuccio di Nello era piú morto che vivoe non sudavaperò che non avea omoree le rotelle degli sproni gli erano cascate di dietroe intrate sotto le piantele quali gli aveano laceri tutti gli fiossi de' piedi.
Li Signori rassicuratich'aveano veduto ciò che eramandarono comandatori e famiglia ad acchetare la zuffa e 'l romoree con bandi e con comandamenti ebbono assai che fare di potere acchetare la moltitudine.
Nella fineessendo le cose rabbonacciatela gente si cominciò a partire; ma drieto a Rinuccio e al suo Baialardo n'andorono centinaiaguardando Rinuccio per grande novità. Quello della ronzina se n'andò in Vinegia tutto pesto e afflitto con la sua ronzinae là si riposò tanto che tornò un poco in sé: e giurò di non tenere mai piú ronzina tutto il tempo della vita sua; e cosí fece. Il Podestà e 'l capitanoessendosi armatiquando sentirono le cose non essere di pericoloe la cagione del romoree come già era chetosalirono a cavalloe con le loro brigate quasi a un'ora giunsono su la piazza. Fu fatto beffe di loro da quelli che v'erano rimasiche pochi erano; ed eglino aveano seguito l'ammaestramento di Cato: rumores fuge . E là stati per alquantodicendo: "E dove son issi? e dove son quissi?" alla fine si partirono.
Uno cittadino che era ito per lo esecutoreil quale era ricoveratodice a un suo spenditore:
- O che fa l'esecutore? dorm'elli?
Costui rispose:
- Quando questo romore cominciòio vidi che si armavae dappoi non l'ho mai veduto.
Risponde il cittadino:
- E’ sarà ricoverato in qualche cesso; egli ha fatto un bello onore a sé e a meche andai per lui; hanno fatto cosí gli altri rettori?
E cosí dicendoandorono nel suo palagioe domandando il cittadino dello esecutoreciascuno si stringea nelle spallee non si trovava. Alla per fine un suo piú fidatoche sapea dove era fuggitoandò alla camera dov'era sotto il lettoe dice:
- Jateci forinon è cavelle.
Costui esce fuori tutto pieno di paglia e di ragnateli; e uscito un poco nella salasi scontra nel cittadino; al quale disse il cittadino:
- Dohmesser l'esecutoredonde venite voi? che onore v'è questoa non essere uscito fuori oggi?
E quelli dicea:
- Egli è tanto che non ci armaiche nulla armatura ci ho trovata bonae la guardancanna piú d'un'ora m'ha tenutoche eran guasti li fibbiali a potercela mettereancora non è acconcia: ma parcitiamico mioche ancora vada in piazza?
- Andate il piú tosto che potete.
- Va'truovaci il cavalloe jamoci.
E mettesi una barbutache della farsata uscironocom'e' la preseuna nidiata di topi.
Quando lo esecutore vide questosi cominciò a segnaretirandosi a drietodicendo:
- Per Dioquesto c'è lo dí ozíaco.
E volgesi a uno famiglioe dice:
- Dove ci ponesti questa barbutache t'affranga Cristo e la Madre?
Pur cosí fatta se la mise in testa; e salito a cavallo con una sopravvesta di ragnateliprofilata di pagliauscí in su la piazzalà dove di due ore ogni cosa era finito. Quelli che vedeano costuidiceano:
- Buonobuono! a bell'otta! costui dee essere pazzo.
Diceano altri:
- Onde diavolo esc'egli? a me par che venga da Nepi.
E altri diceano:
- Egli esce di qualche stalla; ché si dovea essere fuggito per paura.
E cosí si fermò làdove si pone il Saracino; e volgendosi attorno dicea:
- E dove ci sono quissi che fanno romore? per certoche mo ce li scanno.
Alcuni gli s'accostanoe dicono:
- Messer l'esecutoreandatevene a casach'egli è spento.
E altri diceano:
- Andate a farvi scuoteree poi tornateché voi sete pieno di ragnateli.
E in questo si volgea verso le finestre de' Signorifacendo segnose voleano che facesse alcuna cosa. I Priori gli mandarono a dire che s'andasse a disarmaree ch'egli avea aúto l'onoreperché 'l campo era rimaso a lui. Questo esecutore se n'andò; e nel vero gli parve rimanere vituperato; e disarmato che fusi pensò di rimediare alla vergognae l'altro dí ebbe formato una inquisizione addosso a Rinuccio di Nelloper turbare il pacifico stato. Detto Rinuccio ricorse a' Signorichiamando mercè per Dioche per un suo cavallo gagliardo e di gran cuore non fosse disfatto. I Priori avendo diletto di piú cose con luimandorono per lo esecutoreil quale non poterono rimuovere in quattro díche lo volea pur condennareo gittare la bacchetta. Alla fine pur stette contento al quiae allo esecutore parve avere grandissimo onoredolendosi piú d'un meseche non avea potuto fare justizia; e cosí si rimase la cosa. Or pensino quelli che tengono gli statiquanto è leggiera cosa quella che fa muovere a romore i popoli! Per certo chi vi pensassequanto piú gli paresse essere di grande statocon maggior paura viverebbe. E se ciò è intervenuto in molti popoli giàpensa tulettoree sotto qual fidanza si può stare sicuro.


NOVELLA CLX

Uno mulo traendo calci in Mercato vecchio fa fuggire tutta la piazzae guasta la carne ed e' panni di cui era caricofa venire in quistione i lanaiuoli co' beccari; e dopo molte nuove coseil fine che n'è seguito.

Fammi venire a memoria la precedente novella d'un'altra che già io vidi; però che non è molti anni che in Mercato vecchio nella detta città era allevato un corbotanto piacevole a far male quanto altro fosse mai. Il quale uno dí di sabato santoquando la beccheria era piú fornita di carnee' cittadini in moltitudine a comperarneessendo venuto a un desco molto ben fornito di castroniuno con dua muli carichi di panni che veníano dalle gualchieree lasciato i muli da parte e comprando castronesi mosse a voloe postosi su uno soccodagnolo de' detti mulivolto con la coda verso la groppa del mulo cominciò a chinare la testa verso il rotto del detto muloed entro vi diede del becco. Il qual mulo sentendosi bezzicare quel luogodi che piú sono schificome ciascuno puote immaginarecominciò a trarre e a tempestare sí diversamente che dando tra le caviglie e tra' castronitutti facendoli caderecon questi calci diede tra' deschi de' tavernai. L'altrobenché non fosse trafittocon grande diversità seguía il compagnotraendo e saltando non men di lui.
Li tavernai e li cittadini abbandonano i deschi e fuggono per le botteghe d'intorno. Questi muli parea che dicessono: "Facciamo il peggio che possiamo"; che insino su per li deschi saltando e traendo ogni cosa cercoronoe ad assai e tavernai e cittadini feciono male. Nella piazza non era rimaso creaturase non due bestie vive e tutte l'altre morte. Intorno intorno per le botteghe era tutta la gente fuggita e la maggior parte ridea; ma a' tavernai non tenea ridere. E quando ebbono tempestato la carnevollono delle frutte; e verso la Lisa trecca s'inviaronoe voltorono con li calci tutti i loro panieriassai si potesseno elle arrostare. I panni delle gualchiere che aveano addossotutti gli aveano gittati per terra e quali erano su per li deschi; ed e' castroni erano per terra. E quando ebbono assai tempestatos'andorono a rinfrescare con monna Menta che vendea l'erbee là si rodeano sue lattughe e suo' camangiari.
Alla perfine colui di cui egli eranotutto uscito di sécon l'ambascia della morte n'andò là a ripigliarli. Quando i tavernai veggono ripresi e' muliescono delle botteghe; e quelli che avevano ricevuto dannos'avviano verso costui gridando:
- Sozzo ladrosozzo traditoretu ci hai disfatti -e voleanlo pur uccidere e averebbonlo mortose non fossono stati assai cittadini che per temperarli dissono:
- Menatelo al Podestà che 'l punirà e faravvi restituire ogni vostro danno.
Costoro convertirono la loro furia in menarlo preso al Podestà; e non poté ricogliere i panniné menar seco i muli; li quali furon legati a' piedi d'un desco; né appena poteo dire: "Domineaiutami"che come elli avesse morti tutti e' beccaicosí con gran furore ne lo menorono. Altri rimasi a ricogliere la carne che era per terraveggendola convolta nel fango e guastasí come arrabbiati si mossono con coltellacci e con stangoni ad andare verso i mulie a lorocome avessono a mazzicare verricon li coltellacci di piatto e con gli stangoni gli mazzicarono per tal forma che quasi guasti rimasono.
Altri artefici dattorno per pietà raccolsono quelli panni che veníano dalle gualchiere e riposonli tutti calpestati e alcuni rotti da' ferriquando e' muli traevano.
In questo tempo il Podestà domanda i tavernai che aveano menato preso il tapinelloquello che colui avea fatto. Risposono ch'egli avea a emendare la carne e 'l danno lorola quale era grande quantità di dinarisanza ch'elli avea messo a romore la terra. Colui che era presorispondea:
- Signor mioio non ci ho colpaperò che io venía dalle gualchiere e portava panni a certi lanaiuoli nella Vignadi che passando per mercatoio lasciai li muli da parte e comperava un poco di castrone; li muli non so che si hanno aúto ch'elli hanno pericolato tutta quella piazza; e di ciò io sono dolentenon è mia colpa.
El Podestà che avea nome messer Agnolo da Rietidisse al preso:
- E perché ci meni li mulise sono restiiper la piazza dello mercatodove tanta gente e tanto populo stanno?
Colui rispondea che mai non aveano fatta simile ritrosíae non sapea che ciò volesse dire: e' ancora non sapea che fosse stato il corbo. Il Podestà volea desinare: fa mettere in prigione il preso e a' tavernai dice vadano a fare i fatti loro e che troverrebbe la veritàpunendo chi avesse fallato. Di che si partironoe 'l cattivello rimase preso.
In questo intervallola novella giunse nella Vigna a quelli lanaiuolidi cui erano i panninon dicono: "che ci è dato?"; avviansi verso Mercato Vecchio e domandano di questa faccenda e ancora de' panni loro. Fu detto loro a passo a passo come il fatto era andato e del principio del corbo e d'ogni altra cosa. Vanno nelle botteghe dove i panni sonoe truovanli assai male in ordine e alcuni ne truovano rotti; cominciano a dire:
- Che diavolo è questo? queste sono state tagliature di coltellacci; ella non andrà a questo modo; credono questi bestiali trattare l'Arte della lana a questo modo? dove diavolo sono i muli?
Fu loro mostrato. Mandorono certi marruffini per essi; li quali sciogliendoli e menandoli a loronon si poteano azzicaresí si doleano. Alloracome gli vidonomontando piú in furoredicono:
- E’ hanno guasto questi due muli che valeano presso a cento fiorini -; però che era loro stato detto tutto il convenente dal principio alla fine.
E fanno mettere i panni su quelli muli cosí fatticome eranoe muovonsidicendo:
- Andiamo al Podestà noie vedremo se ci fia fatta ragionee se l'Arte della lana e quei che fanno i panni in Firenze sono venuti sí al poco che parecchi ladroncelli di beccai li trattino a questo modo.
Alcuno bestialeudendo costorodice:
- E voi andate al Podestà; ché se voi vendete e fate pannie noi vendiamo la carnela quale nutrica questo populo.
Alcuno marruffino s'inviava verso costui: quelli avea il coltellaccio in mano. Veggendo ciò uno di quelli lanaiuoli piú savitirò il marruffino a drietodicendo:
- Andiamo dove si fa ragionee vedremo se 'l Podestà farà quello che dee fare; che s'egli il fae' sarebbe meglio ch'egli avessono preso un cane per la coda.
E cosí andorono con li due muli zoppicarichi di panni che pareano tinti in lotodinanzi al Podestàcon la doglienza che ciascuno dee estimare. E non vi furono sí tosto giunti che una frotta di beccaiandando lor drietovi giunsono quasi a un'ora: e cominciano a dire:
- Messer lo Podestànon credete loroperò che per maggioranza ci vogliono torre il nostro; noi siamo poveri uomenie hannoci questi loro muli concio sí oggi la nostra mercatanzia che non ce ne rizzeremo a panca di questo anno; li muli e' panni son fatti come là vennono; ma la carne nostra non si può celare: mandate il vostro cavaliere a vederlaché non troviamo alcuno che ne voglia dare denaio.
Dicono e' lanaiuoli:
- Questi muli hanno avuto tante stangonatee con coltellacci e con ogni altra cosada loroche di cento fiorini che valeano non se ne troverrebbe quarantasanza i panni che son peggio assai piú; noi vi preghiamo che voi ci facciate ragione.
Li beccai dissono:
- E noi anche ve ne preghiamo che ce la facciate; ma mandate il cavaliero a vedere il danno nostroche è veroe non v'andiamo con frottole.
Dice uno lanaiuolo:
- Oh buonobuono! lo sbandito corre drieto al condennato.
Dice il Podestà:
- Non saccio ancora chi ci dee essereo sbandito o condennato; jatecie manderò el mio cavaliero.
I lanaiuoli dicono:
- Messer lo Podestàrendeteci il preso.
Il Podestà non volea; nella fine i lanaiuoli sodorono per lui; e rendello e disse ciascuno s'andasse a casaed elli s'informerebbe della verità e farebbe ragione. Passossi il dí della Pasqua; e poi il lunedívolendo il Podestà seguire la giustizia e la ragionesi mosse da ogni parte a volersi investigare del vero; e tutta l'Arte della lana e quella de' beccai con ogni studio erano in palese e in segreto a lavorare nella corteperché ciascuno s'ingegnava di rimanere al di sopra della loro gara. Nella per finedicendo e pensando il Podestà la colpa essere principiata da' mulidisse:
- Che debbo fare? condanneròcci il vetturale che non ci ha colpa? non lo debbo fare: dirò che li beccai mendino li panni e' muli a' lanaiuoli? non mi par ragione.
Di cheavendo il martedí e l'una e l'altra parte dinanzie udendo e ascoltando ciascunopensò di levarsi questa cosa da dossoconchiudendo in questa forma:
- Savi lanífici e beccari: io aggio molto pensato su questa vostra questionee ho veduto che 'l nimico dell'umana jenerazione s'è ingegnato di commettere rissa e scandalo tra voili quali dovete essere uniti come fratelli; però che come l'Arte della lana e quella della beccheria paiano molto dissimilantielle sono tutte una; però che della pecora si può dicere sia principio l'arte di ciascuno. L'uno di voi fa l'arte con la sua lanae l'altro con la sua carne. E che 'l nimico di Dio ci abbia fatto quello che detto v'hoio vel mostroe ancora vi voglio mostrare che ogni rettore non può mai dare diritto judiciose non truova la radice e 'l fondamento d'ogni delitto e d'ogni questione che innanzi gli viene; e io cosí ho trovato in questa vostra questione. E per farvi di ciò chiarivoi dovete saperee cosí ho saputo ioche un corbo è stato principio di tutto questo male; e sapete che 'l corbo è proprio affigurato al demonioperò ch'egli è nero e ha voce infernale e tutte l'opere sue sono a fare a odoperare male; e tutta questa è la natura del demonio. Cosí ha fatto questo maladetto corboche è venuto a mettere scandolo tra quelle due arti che fanno mestiero di quello animale dove nel figliuolo è affigurato l'agnello di Dio; sí che si può dire questa questione essere tra 'l corbo e la pecora. E se qui ciò è come vedetela questione mosse il diavolo e mossela contra il figliuolo di Diocioè contra la pecora e l'agnello suo figliuolo. E peròfigliuoli mieisiete fratelli e comportate in pazienza il danno che avete ricevutoché da nessuno di voi è venuta la colpa. Colui da cui ella è venutacioè quello maladetto corbacchionese ce lo potrò averepunirò luie uno c'ha nome Luisi barattiero che lo tienein forma che sarete contenti.
Costoro guatorono l'uno l'altro e non sappiendo che si diredissono:
- Noi ci raccomandiamo della ragione.
E cosí si partironodicendo per la via alcuni:
- Alle guagnelechese elli punirà il corboche noi bene seremo soddisfatti de' danni nostri.
Altri diceano:
- Elli dee essere una sciagurata persona.
Altri che erano forse quelli che erano contenti che 'l Podestà non procedessediceano che elli dovea essere uno valentre uomoe che elli avea assegnato molto belle ragioni; e cosí ciascuno s'andò a fare i fatti suoiciascuno mettendo a uscita il suo danno il meglio che poteo.
Luisi barattiere e 'l corbo furono richiestima 'l corbo fece come quello dell'Arcache fatto ch'egli ebbe quest'operanon si rividde mai; però che Luisiavendo sentito la intenzione del Podestànon aspettò la richiestama accompagnossi con Giovanni Piglia 'l fascio e col suo corbo e andossene verso Terra di Romadove era il Muscino Rafacani che avea un altro corboe là dimorò con lui piú mesi. E 'l Podestàvolendo pur procedereda alcuno cittadino vicino di Mercato gli fu tanto detto che fu posto piedi a' fatti di Luisi e del corbacchionenon però sí che 'l detto Luisi tutto il tempo del detto Podestà ardisse di tornare a Firenze. Questo caso del Podestà fu da molti commendato e da molti ripreso. Io scrittore credo cheveggendo elli che quasi nessuno giudicio potea dare giustoelli trovasse quella inventiva e del corbo e della pecorae ch'egli ebbe in ciò grande discrezionela quale se cosí avesse usata negli altri suoi processiavrebbe aúto onorelà dove nella fine del suo officiocredo che avesse vergogna.


NOVELLA CLXI

Il vescovo Guido d'Arezzo fa dipignere a Bonamico alcuna storiala quale essendo spinto da una bertuccia la notte quello che 'l dí dipigneale nuove cose che ne seguirono.

Sempre fu che tra' dipintori si sono trovati di nuovi uomeni e infra gli altrisecondo che ho uditofu uno dipintore fiorentinoil quale ebbe nome Bonamicoche per soprannome fu chiamato Buffalmaccoe fu al tempo di Giotto e fu grandissimo maestro. Costuiper essere buono artista della sua artefu chiamato dal vescovo Guido d'Arezzo a dipingere una sua cappellaquando il detto vescovo era signore d'Arezzo: di che il detto Bonamico andò al detto vescovo e convennesi con lui. E dato ordine il come e 'l quandoil detto Bonamico cominciò a dipignere. Ed essendo nel principio dipinti certi Santied essendo lasciato il dipignere verso il sabato serauna bertucciaovvero piú tosto un grande bertuccioneil quale era del detto vescovoavendo veduto gli atti e' modi del dipintore quando era sul pontee avendo veduto mescolare i colori e trassinare gli alberelli e votarvi l'uova dentroe recarsi i pennelli in mano e fregarli su per lo muroogni cosa avendo compresoper far malecome tutte fanno; e con questoperch'ella era molto rea e da far dannoil vescovo gli facea portare legato a un piede una palla di legno; con tutto questo la domenicaquando tutta la gente desinavaquesta bertuccia andò alla cappellae su per una colonna del ponte appiccandosisalí sul ponte del dipintore; e salita sul ponterecandosi gli alberelli per le mani e rovesciando l'uno nell'altro e l'uova schiacciando e tramestandocominciò a pigliare i pennelli e fiutandoli e intignendoli e stropicciandoli su le figure fattefu tutt'uno. Tanto che in picciolo spazio di tempo le figure furono tutte imbrattatee' colori e gli alberelli volti sottosopra e rovesciati e guasti.
Essendo el lunedí mattina venuto Buonamico al suo lavorío per compiere quello che avea tolto a dipigneree veduto gli alberelli de' suoi colori quale a giacere e quale sottosoprae' pennelli tutti gittati qua e làe le figure tutte imbrattate e guastesubito pensò che qualche Aretinoper invidia o per altro l'avessono fatto; e andossene al vescovodicendo ciò ch'egli avea dipinto esserli stato guasto. Il vescovo di ciò isdegnatodisse:
- Buonamicova' e rifa' quello che è stato guasto; e quando l'hai rifattoio ti darò sei fanti co' falcioniche voglio ch'egli stiano in guato con teco nel tal luogo nascosie qualunche vi vienenon abbiamo alcuna misericordiache lo taglino a pezzi.
Disse Buonamico:
- Io andrò e racconcerò le figure piú tosto che potròe fatto che ciò fiaio ve lo verrò a diree potrassi fare quello che di ciò dite.
E cosí deliberatoBuonamico rifecesi può direla seconda volta le dette dipinture; e fatte che l'ebbedisse al vescovo a che punto la cosa era. Di che il vescovo subito trovò sei fanti armati co' falcionia' quali impose che fussono con Buonamico in certo luogo riposti presso alle dette figure; e se alcuno vi venisse a disfarlesubito il mettessono al taglio de' ferri.
E cosí fu fattoche Buonamico e' sei fanti co' falcioni si missono in guato a vedere chi venisse a guastare le dette dipinture. E stati per alquanto spazioed egli sentirono alcuno rotolare per la chiesa; subito s'avvisorono che fussono quelli che venissono a spignere le figure; e questo rotolare era il bertuccione con la palla legata a' piedi. Il quale subito accostatosi alla colonna del pontefu salito sul palchetto dove Buonamico dipignea; e tramestando a uno a uno tutti gli alberellie mettendo l'uno nell'altro e pigliando l'uova e rovesciandole e fiutandopresi i pennelli e ora con l'uno e ora con l'altrostropicciandoli al muroogni cosa ebbe imbrattata.
Buonamicoveggendo questoridette e scoppiava a un punto; e voltosi a' fanti de' falcionidice:
- E’ non ci bisognano falcionivoi vi potete andare con Dio; la cosa è spacciataché la bertuccia del vescovo dipigne a un modo e 'l vescovo vuole che si dipinga a un altro; andatevi a disarmare.
E cosí usciti del guatovenendo verso il ponte dov'era la bertucciasubito la bertuccia si cominciò a inalberaree fatto loro paurapignendo il muso innanzicominciò a fuggire e andossi con Dio. Buonamico con li suoi masnadieri se n'andò al vescovodicendo:
- Padre mioe' non è di bisogno che voi mandiate per dipintore a Firenzeché la vostra bertuccia vuole che le dipinture siano fatte a suo modo; e ancora ella sa sí ben dipignere che le mie dipinture ha corrette due volte. E peròse della mia fatica si viene alcuna cosavi prego me 'l diatee anderommi verso la città dond'io venni.
Il vescovoudendo questobenché male li paresse che la sua dipintura era cosí condottapur scoppiava delle risapensando a sí nuovo casodicendo:
- Buonamicotante volte hai rifatte queste figure che ancora voglio che le rifacci; e per lo peggio che io potrò fare a questo bertuccioneio il farò mettere in una gabbia presso dove dipignerailà dove vedrà dipignertie non potrà ispignere; e tanto vi starà che la dipintura fia dipinta di piú dí e 'l ponte levato.
Buonamico ancora s'accordò a questoe dato ordine del dipignere e fatto una gabbia alla grossa e messavi la bertucciafu tutt'uno. La qualequando vedea dipignereil muso e gli atti ch'ella facea furono cose incredibili; pur convenne ch'ella stesse contenta al quia . E dopo alcuni dícompiuta la dipintura e levati i pontifu tratta di prigione; la quale piú dí vi tornòper vedere se potesse fare la simile imbrattatura; e veggendo che 'l ponte e 'l salitoio piú non v'eraconvenne che attendesse ad altro. E 'l vescovo con Buonamico goderono piú dí di questa novità. E per ristorare il detto vescovo Buonamicol'ebbe da partepregandolo gli dovesse fare nel suo palagio un'aguglia che paresse viva che fosse addosso a un leone e avesselo morto. Al quale Buonamico disse:
- Messer lo vescovoio il farò; ma e' conviene che io sia coperto attorno attorno di stuoie e che nessuna persona non mi veggia.
Il vescovo disse:
- Non che di stuoiema io la farò fare d'assisí che starà per forma che mai non serai veduto -; e cosí fece.
Buonamico trovati gli alberelli e' coloricon l'altre masserizie entrò nella chiusa dove dovea dipignere; e quivi tutto per contrario cominciò a dipignere quello che 'l vescovo gli avea impostofacendo un fiero e gran leone addosso a una sbranata aguglia; e compiuto che l'ebbeserrato tenendo quel chiuso dove l'avea dipintodisse al vescovo gli mancavano alcuni colori e che avea bisogno alcuni serrami serrassino il chiuso dove dipigneatanto che andasse e tornasse da Firenze.
Udito ciò il vescovofece dare ordine si serrasse e con chiavistello e con chiavetanto che Buonamico tornasse da Firenze. E cosí Buonamico si partí e vennesene a Firenze; e 'l vescovoaspettando l'un dí e un altroe Buonamico non tornando ad Arezzoperò che partito s'erae avea compiuta la dipintura e con animo di non tornarvi piúquando il vescovo fu stato piú dí e vide che Buonamico non tornavacomanda a certi famigli che vadano a spezzare l'asse del ponte e veggano quello che Buonamico ha dipinto. Di che alcuni andoronoe apersono e vidono la dipintura fatta; e ciò vedutovanno al vescovo e dicono:
- La dipintura sta per forma che 'l dipintore v'ha ben servito alla 'ndreto.
- O come sta?
Fugli detto. E volendone esser certol'andò a vedere; e veduta che l'ebbevenne in tanta ira che gli fece dar bando dell'avere e della personae insino a Firenze il mandò a minacciare. E Buonamico rispose a quelli che 'l minacciava per sua parte:
- Di' al vescovo che mi faccia il peggio che puote; ché se mi vorràconverrà che mi mandi la mitera.
E cosí avendo veduto il vescovo i costumi di Buonamico e avendoli dato bandoripensandosi poicome savio signoreche ciò che Buonamico avea fattoavea fatto bene e saviamentelo ribandí e riconciliollo a sé; e mandando per lui spesse voltementre che visse lo trattò come suo intimo e fedele servidore. E cosí avviene spesse volte che gli uomeni da meno con diverse astuzie vincono quelli che sono da piúe fannoseli benivoli quando piú attendano a nimicarli.


NOVELLA CLXII

Popolo d'Ancona buffoneper grande improntitudine e con nuova sottigliezza di parolecava una cappa di dosso al cardinale Egidioquasi contro al suo voleree vassene con essa.

Ne' tempi che la Chiesa di Roma era in grande e prospero statoallora che 'l cardinale Egidio dominava per lei la Marca e 'l Ducato e molte provincie d'attornotrovandosi il detto cardinale nella città d'Anconacon festa e allegrezza di vittorie per la Chiesa ricevuteavvenne per caso che un uomo di corte chiamato Popolo d'Anconaandando al detto cardinale con animo e con intenzione di spogliarlo e di vestire sécome tutti sono usiché mai non posano se tutte le robe de' signori e de' gentili non recano a loro. E volesse Dio che ragione o cagione si vedesseche questo a loro si dovesse fare! però checonsiderando la loro naturaio non so seper loro vizii o scelleratezzealcuni sono tenuti di donare a loroo per cattività di quelli che donanocredendosi essere magnanimi tenuti per non essere da loro infamati. Come che siaveduto s'è esperienza che alcuni di questa generazione sono stati moderati e virtuosi uomeni da ogni grande affareche da' signori e tiranni hanno sempre poco acquistato o niente; dall'altra parte sono stati di quelli che aranno usato brutti costumifastidiose operazioni; e con queste averanno recate le facce di molti signori in risae con quelle faranno loro grandissimi doni di robe e d'altre provvisioni. Altri serannoche con nuove e piacevoli industrie faranno tanto che moveranno e' signori e gli altri a dare loro alcune veste e doniquasi sforzatamente; e di questi cotali fu questo Populo d'Anconauomo piacevole e ingordocheavendosi recato nella mente d'acquistare una roba da qualche signoreo per ingegnoo per forzao per piacevolezzagiammai non restava che veniva a effetto del suo proponimento.
Giugnendo adunquecome di sopra dissiquesto Popolo dinanzi al cardinale Egidio e veggendoli una bellissima cappa cardinalesca addossocominciò a dirli suoi motti e sue novelle; e in fineaccostandosi e pigliando il lembo della cappadomandò al cardinale gliela donasse. Il cardinaleveggendo la improntitudine del buffonesi volse a luie disse:
- Con li denchi con li denchi piglia del mio ciò che ti piacebéi e mangia del mio quanto ci puoie piú non aspettare.
Rispose Popolo:
- Signore miovolete voi che con li denti io pigli del vostro quanto mi piace?
Il cardinale rispose:
- A`jotelo detto che sí.
Come ciò fu dettoil buffone piglia la cappa cardinalesca co' denti e tira quanto puotenon dimorsandola mai; tanto chenon potendoselo il cardinale partire da sémisse le mani al cordiglio del capezzale e quello scioltocon le mani gli gettò la cappa addossodicendo:
- Vacci nella malora -; e a' famigli suoi voltosidisse lo cacciassono viae giammai a lui non lo lasciassono piú venireperò che piú non intendea d'essere morso co' denti di tal buffone che era stato peggio verso lui che un cane arrabbiato.
Grande fu l'astuzia di questo buffoneconsiderando che con li suoi morsi avea spogliato un cosí fatto prete e cardinalee massimamente avendo spogliato uno di quelli che con le loro cerimonie si vestono sempre delle spoglie altrui.


NOVELLA CLXIII

Ser Bonavere di Firenzeessendo richiesto a rogare un testamento e non trovando nel calamaio inchiostroè chiamato un altro notaio a farlo; di che elli ne compera una ampollae portandola allatosi versa sopra una roba d'uno judice a palagio.

Nel popolo di Santo Brancazio di Firenze fu già uno notaioil quale ebbe nome ser Buonavere; ed era uno uomo grande e grosso di sua persona e molto gialloquasi impolminato e mal fattosí come fosse stato dirozzato col piccone; sempre con desiderio era piatitore e del quistionare a ritto e a torto giammai non finava: e con questo era sgovernatoche mai nel pennaiuolo che portava non avea né calamaioné pennané inchiostro. Se fosse stato richiestoandando per una viafacesse un contrattocercavasi el pennaiuolo e dicea avere lasciato il calamaio e la penna a casa per dimenticanza; e pertanto dicea andassono allo speziale e recassono il calamaio e 'l foglio.
Avvenne per caso che un ricco uomo di quelle contradedopo lunga infirmità venendo a mortevolendo fare testamento subitoavendo i suoi parenti paura che non sopravvenisse la morte prima che lo potesse farefacendosi alcuno di loro alla finestraebbono veduto questo ser Buonavere passar per la via; onde lo chiamò che andasse susoe feceglisi incontro a mezza scaladicendo che per Dio venisse a fare quel testamentoche era di gran bisogno. Ser Buonavere si cercò il pennaiuolo e disse non avere il calamaioe subito disse andare per esso e cosí andò. Giunto a casapenò ben un'ora a trovare il calamaio e a trovare una penna. Quelliche voleano che 'l buon uomo che moriva testassevedendo tanto stare ser Buonavereavendo paura che l'infermo non morisseandorono subito per ser Nigi da Santo Donato e a lui feciono fare il testamento.
E partitosi che fuser Buonavereavendo penato a macerare i peli del calamaio buono spazio di tempogiunse per fare il testamento. Fugli detto che era tanto stato che l'aveano fatto fare a ser Nigi; onde tutto scornato si tornò indrieto; e fra sé facendo grandissimo lamento della perdita che gli parea avere fattosi pensò di fornirsi per grandissimo tempo d'inchiostro e di fogli e di penne e di pennaiuolo fornitoacciò che tal caso non potesse piú intervenire. E andatosene a uno spezialecomperò un quaderno di fogli e legandogli strettise gli misse nel carnaiuoloe comperò un'ampolla con la cassa piena d'inchiostroe appiccossela alla correggia; e comperònon una pennama un mazzo di penne e penonne a temperare una gran brigata bene un dí; e in uno sacchettino di cuoio da tenere spezie se l'appiccò allato; e cosí fornitodisse:
- Or veggiamo s'io serò presto a fare un testamento come ser Nigi.
Essendo la cosa di ser Buonavere cosí ben fornitaavvenne casoche egli andò a palagio del Podestà quel dí medesimo per dare una accezione a uno collaterale d'uno Podestà che c'era da Monte di Falco; il quale collaterale essendo vecchioportava una berretta attorniata intorno intorno con pance di vaio tutte intereed era vestito d'un rosato di grana. E cosí sedendo al bancoil detto ser Buonavere giugne col fiaschettino allato e col foglio della accezione in mano e cacciatosi tra una gran calca che v'eragiunse dirimpetto al giudice; era avvocato dell'altra parte messer Cristofano de' Ricci e ser Giovanni Fantoni procuratore; li qualiavendo veduto ser Buonavere con l'accezioneficcansi tra la calcae dovidendo le schiere giunsono al giudicee ristretto ser Buonavere al giudiceed eglino altresídisse messer Cristofano:
- Che accezione e che pisgiagione? questa cosa si riciderà con le scuri.
E cosíficcandosi l'uno addosso all'altrol'ampolla dello inchiostro si ruppee dello inchiostro la maggior parte andò su la cioppa del collateralee alcuno sprazzo su quella dello avvocato. E messer lo collateraleveggendo questo e alzando il lembomaravigliandosicomincia a guardare intorno e chiama famigli che serrino la porta del palagiosí che si truovi onde quello trementaio era venuto. Ser Buonaveree veggendo e udendosi mette la mano sotto: e cercando l'ampollala truova tutta spezzata e l'inchiostro avere ancora elli in gran parte addosso: subito esce tra uomo e uomoe vassi con Dio. Il collateraleessendo rimaso quasi da piede capoe messer Cristofano in isprazziguardava l'uno l'altroe quasi come usciti della memoria chi guardava l'uno e chi l'altro. E 'l collaterale guardava le voltese di lassú fosse venutoe poi si volgea verso le mura; e non veggendo donde tal cosa uscissesi volse verso la pancaguardandola di soprae poi chinando il capola guardò di sotto; e poiscendendo gli scaglioni del bancoa uno a uno gli venne guardando; nella fine ogni cosa vedutasi cominciò a segnare per forma che quasi fu per uscire della memoria. Messer Cristofano e ser Giovanniper avere migliore ragione del piatodicevano:
- O messer lo collateralenol toccatelasciatelo seccare.
Altri diceano:
- Cotesta roba v'è stata guasta.
Altri diceano:
- E’ pare uno annuvolato di quelli che si soleano portare.
E cosí guardando e dicendo ciascunoil judice cominciò a sospettare; e volto il viso verso quellidisse:
- E sapete chi ci sia stato quelli che mi ci ha vituperato?
Chi rispondea a un modo e chi a un altro. Tanto che 'l judicecome uscito di sédisse al cavaliero che facesse richiedere il cappellano che ponesse la dinunzia. E 'l cavalieroquasi ridendodisse:
- E contro a cui la porràché voia cui il caso è venuto addossonon sapete chi? il meglio che potete fare è di guardare che alcuno non rechi al banco inchiostro; e la cioppache ci avete fatta nera da piedefatecela mozzare; e perché ella sia piú cortanon fa forzache parrete mezzo uomo d'arme.
Udendo tante ragioni il judicee da ogni parte essendo quasi gabbatoprese il partito che 'l cavaliero gli dissee rimase vinto di questa cosa; e durò ben due mesi che al banco guardava ciascuno che vi veníacredendo che continuo gli fosse gittato inchiostro addosso; e di quello che tagliò da piedefece calcetti e guantiil meglio che poté. Messer Cristofano dall'altra parte scese gli scaglionie alzandosi i gheroni strignea la bocca per maravigliae ser Giovanni Fantoni con lui dicea:
- Per evangelia Christiquod est magnum mirum .
E cosí ne smemororono parecchi in una mattinasenza che ser Buonavere non avea piú che un paio di calzacce bianchee quelletrovandosi a casatrovò tutte spruzzate d'inchiostro che parea una tavola de' fanciulli dell'abbaco. Ciascuno si lavò e riparo fece all'inchiostro il meglio che seppe; ma la medicina migliore fu il darsene pace; ché ben sarebbe stato meglio che 'l detto ser Buonavere non fosse stato notaioe se pur fuandare avvisato e fornito con l'arte suacome gli altriche sono circunspettivanno. Però chese ciò avesse fattoaverebbe fatto il testamento che gli serebbe valuto assai; non arebbe guasta la roba del collateralené quella di messer Cristofano; né non arebbe fatto uscire di sé il collaterale e gli altri che v'eranoe non s'averebbe versato l'inchiostro sul suo gonnellonee su le calze che gli gittò peggiore ragione; e in fine non averebbe fatto spesa nella rotta ampollané in quello inchiostro che dentro v'era: come che l'aiutasse in gran parte la fortunaché se quello collaterale si fosse di lui avvedutoaverebbe aúto a mendare le robe guaste e forse averebbe aúto peggio.
E cosí si rimase la cosarimanendo in questo quel proverbio che dice: "In cento anni e 'n cento mesi torna l'acqua in suo' paesi". Cosí incontrò a ser Buonavereche essendo andato gran tempo secco e sanza inchiostrose ne puose poi tanto allato che ne tinse la corte d'uno Podestà.


NOVELLA CLXIV

Riccio Cederni fa un sognocome è diventato ricco con gran tesoro; la mattina vegnente una gatta il battezza con lo sterco suoed è piú tapino che mai.

Se nella precedente novella ser Buonavereper essere trascurato e non portare l'arte sua a cintolacome è d'usanzaperdeva e' suoi guadagnie visse poveroin questa seguente voglio mostrare come uno fiorentino in una notte divenne molto ricco e la mattina ritornò in poverissimo stato.
Dico adunque che in quelli tempi che 'l conte di Virtú disfece messer Bernabò suo zio e signore di Melanoe nella città di Firenze di ciò molto parlandosiavvenne per caso che unoil quale avea nome Riccio Cederniuomo assai di piacevole condigionee avea briga mortalee per quella andava sempre armato di panziera e di pianella; avendo udito un giorno molte parlanze di quanti danari e di quanti gioielli il conte rimanea signorela seraandandosi a letto e cavandosi la pianellala mise su uno forziere sottosopraacciò che del sudore quella si rasciugassee andandosi a letto e dormendocominciò a sognaree fra l'altre cose sognò come egli era arrivato a Melanoe che messer Bernabò e 'l conte di Virtú facendoli grandissimo onorel'aveano condotto in uno de' loro grandissimi palazzie là stato per alquanto spaziocome se fosse stato l'Imperadorel'aveano posto a sedere in mezzo di loroe quivi fatti venire grandissimi vasi d'oro e d'argentopieni di ducati e di fiorini nuovigli aveano a lui donati; e oltre a questogli profferevono ogni loro terra; e quasi in sonno questo Riccio era diventato o leone o falcone pellegrino.
Di che essendo costui in questa sonnolenzia e addormentata gloriaavvicinandosi all'aurorail detto Riccio si svegliò e quasi come uomo uscito di séperché per l'essere desto riconobbe da grandissimo stato e ricchezza ritornare alla sua povertà... grandissimo guaio si riconobbe... si cominciò a lagnare di cosí grandissima sventuracome era stata quella del tornare a Mongibello. E poicosí doglioso e quasi fuor di sési levò e vestissi per andare fuori. E andando con questa fantasia giú per la scala a gran penanon sapea se dormía o se era desto.
Giugnendo all'uscio per uscir fuorie cominciando a pensare su la ricchezza che gli parea avere perdutae volendosi mettere la mano a grattare il capocome spesso interviene a quelli che hanno malenconiatrovossi la cappellina in capo con la quale la notte avea dormitoe accozzando la smemoraggine con la malinconiadiede la volta indrietoe subito ritornò alla camera e gittò la cappellina sul letto; subito andò al forzieredove lasciato avea la pianella nel cappuccio e quella presa prestamente e messalasi in caposu per le tempie e per le guance sentí colare in abbondanzia di molta puzzolente bruttura. E questo era che una gattala nottedi sterco avea ben fornito quella pianella. Sentendosi il detto Riccio cosí bene impiastratosubito si trae la pianellala quale avea molto rammorbidata la farsatae chiama la fantemaladicendo la fortuna; e narrando il sogno suodicea:
- Oimè sventurato! quanta ricchezza e quanto bene io ho aúto istanotte in sognoe ora mi truovo cosí infardato!
La fantequasi smemoratail volea lavare con l'acqua fredda; e 'l Riccio comincia a gridare ch'ella accenda il fuoco e ch'ella metta del ranno a scaldare; ed ella cosí fece: e 'l Riccio stette tanto a cervelliera scoperta quanto il ranno si penò a scaldare.
Come fu caldose n'andò in uno corticinoperché per una fogna la lavatura di quello fastidio avesse l'uscitae quasi per ispazio di quattr'ore si penò a lavare il capo. Quando del capo e' fu lavatoma non sí che piú dí non gliene venisse fraoredisse alla fante che recasse la pianella; la quale era si fornita d'ogni parte che né elliné ella ardivano a toccarla. Ed essendo una bigoncetta nella corteprese partito d'empierla d'acqua; ed empiuta ch'ella fuvi cacciò entro la pianella dicendo:
- Sta' costí tanto che ben la vaglia -; ed egli si misse in capo il piú caldo cappuccio che aveama non sí che per non portare la pianellaper arrota non gli venisse il mal de' dentidi che convenne stesse in casa piú dí; e la fanteche parea lavasse ventriscuscendo la farsata e lavandola per ispazio di due dí.
Il Riccio si dolearaccordandosi del ricco sognoe in quello che gli era convertitoe del male de' denti; infinedopo molte novellee' mandò per uno maestro che gli fece una farsata nuovae scemato il duolo de' dentiuscí di casa e andò al Canto de' tre Mugghilà dove stava a bottegae là a molti si dolse e del caso e della fortuna sua; e compensato l'avere dell'oro della notte con la feccia della gattaconvenne che si desse pace.
Or cosí interviene spesso de' sogni; ché sono molti uomeni e feminelle che ci danno tanta fede quanta si potesse dare a una cosa ben vera; e guarderannosi di non passare il dí per uno luogo dove aranno sognato avere disavventura. E l'una dice all'altra: "Io sognai che la serpe mi mordea" e s'ella romperà il dí un bicchieredirà: "Ecco la serpe di stanotte". L'altra avrà sognato d'affogare nell'acqua; caderà una lucerna e dirà: "Ecco il sogno mio di stanotte". L'altra sognerà d'essere caduta nel fuoco; combatterà il dí con la fante che non abbia ben fattoe dirà: "Ecco il sogno di stanotte". E cosí si può interpretare il sogno del Riccioche era fra oro e monetae la mattina si coperse di sterco di gatta.


NOVELLA CLXV

Carmignano da Fortune con una nuova immaginazione sfinisce una questione di tavole passando per la viala quale non si potea sfinire per chi non avesse veduto.

Carmignano da Fortune del contado di Firenze fu uno uomo di stratta condizioneperò che quasi vissenon come uomo moderatonon come uomo di cortema vestito in gonnella bisgiasanza mantellocol cappuccio a gotecinto larghissimobrutto piú che altro uomoche sempre el naso e gli occhi gli colava; tanto era goloso che sempre le cose altrui andava cercando; fuggito era da' schifidagli altri era accettato piú per udire dir male e' malefici d'altrui (che meglio che altro uomo gli seppe dire) che per altra virtú che fosse in lui; e cosí fatto come eraper scusare il suo mal diredicea una buona parola: che non era male il dir malema che il male era a rapportarlo. Chi considera a ciòelle son parole di filosofoperò che la nostra fragile naturainclinata a' viziispesse volte e a desinari e a cene ragiona piú de' fatti altrui che de' suoi; e non rapportandosirade volte ne doverrebbe uscire male; donderapportandospesse volte ne escono e brighe e uccisioni.
Questo Carmignano considerava troppo bene la qualità e degli uomeni e delle donnee quando trovava da potere dire male di loroadornava e incastrava il suo dire per sí fatta forma cheudendolocolui a cui toccava se ne ridea. Quando giucava a scacchi e quando a tavole; e allorase alcuno gli avesse detto alcuna cosa o dato noiasubito parea che avesse la risposta a vituperare quel tale. Sempre andava sanza bracheper tal segnale che giucando un dí a scacchivedendosi per alcuno giovene di gran famiglia le sue masseriziedisse:
- Carmignanovatti quella pedona?
Carmignano che sapea la madre di colui esser cattiva di sua persona statasubito rispose:
- Meglio la conobbe mammata.
Uno mercatantechiamato Leonardo Bartolinidicendogli alcuna cosa che non gli piacquequando giucava a tavolee quelli pensò essere costui con molti fratellitra' quali era un maestro Marcovalentre in teologiae uno che avea nome Tobiadi poco valore e quasi scimonitodisse:
- Io me lo soffero da tecome da bestiae 'l piú savio che sia tra voi è il Tobiamettendovi ancora il maestro Marco.
E cosí avea le sue risposte pronte piú che altro uomo.
Dico adunque chepassando costui al Frascatotrovò a un giuoco di tavole esser grandissima contesa. L'uno che giucava era possente uomo di famiglial'altro era uno omicciuolo di piccolo affare. D'intorno era assai gentee niuno volea dire chi avesse la ragione o il torto. Carmignanoavendo compreso il fattosi fa innanzi e dice:
- Io diròa rappellare di miochi ha il torto.
Dice il possente che non avea voglia che si dicesse
- Come il dirai che non c'eri?
E Carmignano rispose:
- Io ti dico che io so la questionee dirolla che non ci avrà alcuno ma.
Dice l'omiciatto che giucava:
- Io per me son contentoe priegotene per l'amore di Dio che lo dica.
Veggendo il maggiore tanto innanzi la cosamosso da arroganzia si volse verso Carmignanodicendo:
- E io son contentopur per vedere quello che tu dirai.
Allora Carmignano dice:
- E io il diròe dico che tu hai il tortoperò che se tu avessi la ragionequesti che son qui te l'arebbon datacome la questione mossee arebbonlo detto; ma perché non l'hainessuno di costoro per la tua maggioranza non l'hanno osata dire; e però costui che giuoca tecoha la ragione.
Ciascuno che era intornodicea sotto voce:
- E tu di' il vero.
Colui minacciava Carmignano e dicea:
- Tu mi fai perdere questo giuoco; al corpo e al sangue che io te ne pagherò.
Carmignano allora disse:
- Io ti dissi nel principio che io volea difinire la questione a rappellare di mioe cosí ancora vogliose male ho giudicato. Costoro che sono qui presenti il dicanoe se la lingua loro di ciò è impeditafa' venire delle fave bianche e neree dicanlo le fave.
Quello possente di questo partito sbigottí fortee disse:
- E’ non si mettono alle fave i giuochi delle tavole -; e crollando il capo disse: - I' me 'l terrò a mente.
Carmignano disse:
- E tu te 'l tieni; - e dato la volta col cappuccio a gote alla largae col naso e con gli occhi rampollantis'andò con Dio.
Questa novella mi fa ricordare quanto il mondo corre oggi in questo erroree ben lo sa il men possentequando ha questione col possente; chénon che gli sia fatta ragionema non si truova chi per lui apra la boccao chi giudicare voglia contro al piú possente. E nelle terre che dicono reggersi a comunequesto vizio piú incontrae la prova il manifestiché anni otto o dieci durerà un piato e quando in gran tempo non è spacciatociascuno può pensarecome pensò Carmignanoche la maggioranza per non pagare dilunga la questione. E non si vede egli nella justizia che tutti i poveri uomeni e tapini sono gli esecutori di quellama i possenti non la vogliono per loro?


NOVELLA CLXVI

Alessandro di ser Lambertocon nuovo artificio fa cavare un dente a un suo amico dal Ciarpafabbro in Pian di Mugnone.

Poiché le menti de' mortali sono cosí disposte e non vogliono adoperare le virtú per addirizzare quelleseguirò ora di dire d'alcune pestilenze corporalivenute in corpi di picciolo affareche da nuove maniere di medici sono state sanate. Fue ancora èper li tempi nella città di Firenze uno piacevole cittadinochiamato Alessandro di ser Lamberto il quale fu e sonatore di molti stormenti e cantatore: e con questo avea per le mani molti nuovi uomeniperò che con loro volentieri pigliava dimestichezza. Vennegli per caso che un suo amicorammaricandosi molto che un dente gli doleae spesso spesso il conducea a tanta pena che era per disperarsi; al qualeconsiderato Alessandro un nuovo pescefabbro di Pian di Mugnonechiamato Ciarpadisse:
- Ché non te lo fai tu cavare?
E quelli rispose:
- Io lo farei volentierima io ho troppo gran paura de' ferri.
Disse Alessandro:
- Io t'avvierò a un mio amico e vicino di contadochenon che ti tocchi con ferroe' non ti toccherà con mano.
Rispose costui:
- O Alessandro mioio te ne prego; se lo faiio serò sempre tuo fedele.
Alessandro disse:
- Vientene domani a starti meco e andremo a luiperò ch'egli è un fabbro di Pian di Mugnonechiamato Ciarpa.
E cosí fu fatto; ché l'altra mattinagiunti l'uno e l'altro al luogo d'Alessandrosubito se n'andorono al detto Ciarpail quale trovorono alla fabbrica che fabbricava un vomere. Giunti costoro a luiAlessandro che col Ciarpa sapea ben ciarparecominciò a dire del difetto del dente del compagno suoe com'egli si dimenava e che volentieri se lo volea cavare; ma che egli non volea gli fosse tocco con ferriné con manose possibil fosse.
Disse il Ciarpa:
- Lasciamelo vedere -; e toccandolo con manoquelli diede un grande strido.
Sentí che si dimenava; onde disse:
- Lascia far meché io tel caverò e non vi metterò né ferro né mano.
Quelli rispose:
- Dehsí per Dio.
Il Ciarpasanza partirsi dalla fabbricamanda un suo garzone per uno spaghetto incerato con che si cuciono le scarpette; e venuto che fudisse a costui:
- Addoppia quello spaghetto e fa' nel capo tu stessi un nodo scorritoio e mettivi pianamente il dente dentro.
Costui di gran pena cosí fece. Fatto questodisse:
- Dammi l'altro capo in mano -; e aúto che l'ebbe in manoil legò a uno aguto che era nel ceppo della fabbricae disse a colui: - Serra sí il cappio che tenga il dente -; e colui il serroe.
Fatto questodice il Ciarpa:
- Or statti pianamenteché io ho a dire alcuna orazionee subito il dente uscirà fuori -; e menava la bocca come se la dicessee niente meno avea il bomere nel fuoco; e colto che ebbe il tempo che lo vidde ben roventecava fuori questo bomere e difilalo verso colui con un viso di Satanassodicendo: - Che dente e che non dente? apri la bocca -; mostrando di volerglilo ficcare nel viso.
Colui che avea il dente nel cappiomosso da maggior paurasubito si tira a drieto per fuggirein forma che il dente rimase appiccato al ceppo dell'ancudine. Rimaso colui quasi smemoratosi cercava se avea il dente in boccae non trovandoselodicea per certo che mai sí bella e sí nuova sperienza non avea veduto e che niuna pena avea aútase non della paura di quel bomeree che non se l'avea sentito uscire. Alessandro rideae volgesi all'amicodicendo:
- Averesti mai creduto che costui fosse sí buono cavatore di denti?
L'amico appena era ancora in séche cominciò a dire:
- Io avea paura d'un paio di tanagliee costui me l'ha tratto con un bomere; sia come vuolech'io sono fuori d'una gran pena.
E per rimunerare il fabbrola domenica vegnente gli diede un buon desinare e Alessandro con loro.
Questa fu nuova e bella esperienzaché con una grandissima paura fecenon che dimenticare la minore paurama eziandio non si ricordò di quellae non sentendo alcuna penasi trovò guarito. Gnuna cosa fa trottare quanto la paura; e io scrittore già vidi prova d'uno gottoso che piú tempo era stato che mai non era itoma portato fu sempre: stando costui a sedere in mezzo d'una via su una carriuolacorrendo un suo corsiere che gli venía a ferire addossoessendo perduto de' piedi e delle mani e in tutto di gotte attrattosubito con le mani prese la carriuola e con parecchi salti con essa insieme si gettò da partee 'l cavallo correndo passò via. Un altro gottosonon in tutto attrattoma doglioso di gotte fortestando su uno lettoin una terra di Lombardiaambasciadoresi levò il romore in quella; ed essendo tutto il populo in armegridavano alla morte verso quello ambasciadore; di chesentendolo il gottoso che appena sul letto stare non potea sanza gran guaiprestamente schizzoe del lettoe dato giú per la scala dell'albergo si fuggí buon pezzo di via verso la chiesa de' Fra' Minori; e non parve gottosoma piú tosto barbaresco o can da giugnere; e campò la persona; e ancora piú che piú tempo stette sanza pena di gottedove prima ogni dí l'avea. E cosí "bisogno fa la vecchia trottare".


NOVELLA CLXVII

Messer Tommaso di Neri manda un suo lavorante di lana al maestro Tommaso perché lo curi d'alcuno difetto; e portando l'orina al maestrone porta un pieno orinale e un mezzo orciuolo; e quello che ne seguita.

Un'altra bella sperienza mi fa venire a memoria la precedente novella; la quale consigliò maestro Tommaso del Garbo.
Funon è gran tempoun fattore di arte di lanail quale era grandissimo bevitoree stava con messer Tommaso di Neri di Lippoe messer Tommaso di lui spesse volte avea gran piaceree tenealo per suo grande amico. Avvenne per caso che questo fattore piú volte s'era doluto col detto messer Tommasocome spesse volte si sentía gran doglia nella testae che volentieri ne averebbe consiglio con qualche medico intendente. Messer Tommaso disse:
- Vattene lunedí mattinache è festada mia parte al maestro Tommasoe portagli l'acqua tuae digli il tuo difettoe guarderai quello che ti dice.
Questo fu un sabato dopo nonae messer Tommaso gli disse del lunedíacciò che la domenica stesse riposatoe poi il lunedí portasse il segno. Come gli dissecosí pensò di fare. La domenica seguentedove costui dovea tenere vita di mezzoe' cominciò la mattina andare bevendo con sue brigatee insino alla sera giurò non restare. Vegnente la nottee levandosi per orinare su la mattinala donna li porse l'orinalee orinando lo empié che traboccava; disse alla donna che tosto trovasse uno orciuolo; e quello empié ben mezzo.
Fatto dícostui portanon il segnoma uno diluvio d'orina al medicoe portò l'orinale e l'orciuolo; e giunto nella bottega di Pietro... nel Garboche era spezialesotto le case del detto maestro Tommaso appiccò l'orinalee l'orciuolo si ritenne sotto... e là postosi a sederetanto stette che 'l maestro giunse a procurare l'acqua degl'infermicom'è d'usanzao di quelli che si vogliono purgare. E vedute piú e piúgiunse a quella dell'amico; il quale subito se gli accostò allatodicendo essere uno fedel servitore di messer Tommaso di Neriil quale a lui il mandava acciò che gli desse aiuto e consiglio a quello difetto che si sentía.
Maestro Tommaso disse:
- Ov'è l'acqua tua?
E quelli tolse l'orinale che presso gli era.
Come il maestro misse le mani nella cassa per trarre l'orinale fuoriattuffò le dita nell'orina però che era pieno sanza gorgiera; tirò fuorie maravigliandosidisse a costui:
- E’ non pare che tu abbi il male del fianco -; e veggendo fare alcuno atto di quello orciuolo che avea sotto il mantellodisse: - Che hai tu costí?
E quelli rispose:
- È l'avanzo dell'acqua che io feci.
Veggendo questo il maestrodisse a costui:
- Che facestú ieri?
E quelli rispose che avea bevuto co' suoi compagni.
Allora disse il maestro:
- Va'e fa' tre dí allato allato come facesti ierie non aver pensiero che se alcun difetto averaisi purgherà per l'orina.
Costui tolse i vasi suoie ritornossi con essisalvo che quando fu in Santo Martinogli votò in una cateratta di quelli lanaiuoliche ne corse il rigagnolo piú di venti braccia; e tornossi a casa mettendo in esecuzione ciò che 'l maestro Tommaso gli avea detto.
E messer Tommaso di Neri il dimandò il dí medesimo quello che 'l maestro Tommaso gli avea detto. E quelli rispose:
- Dice che io facci alcuna cosa assai agevolee serò guerito.
Disse messer Tommaso:
- O bene sta.
Avvenne per caso che scontrandosi il martedí messer Tommaso col maestroil maestro disse:
- Messer Tommasoho io a fare oricello?
E quelli rispose:
- Come?
E quelli disse come un suo fattore era venuto a lui per sua partee aveagli recato un segno maraviglioso e sformato d'uno orinale pieno e d'uno orciuolo. Messer Tommaso uscí quasi di sée udendo la novellae del bere la domenicae del rimedio di maestro Tommasodisse:
- Dehmorto sie egli a ghiado; non maraviglia che non è stato oggi a bottegache seguirà su le taverne el consiglio che gli avete dato; - e partissi con risa.
E messer Tommaso disse il tutto al suo fattoree ripreselo forte; ma non sí che non seguisse quello che 'l medico gli aveva detto che facesseaffermando che molto gli giovava; e se prima era bevitorediventò tracannatore; e messer Tommaso se ne strinse le spalle.

E questa era la doglia del capo: ché sono molti che berranno tanto che non che dolga loro il capoma e' diventeranno paralitichi ritruoplichie col male della gocciola che piú tosto si potrebbe dire il male del quarto; che a tanto è venuto questo misero difetto ch'e' giovani tutti se ne guastonousando la mattina piú e piú volte bere la malvasía e altri vinie poi corrono alla lussuria; e cosí si guastano e mancano i corpi.


NOVELLA CLXVIII

Maestro Gabbadeo con una bella cura fa uscire a uno contadino certe fave che gli erano entrate nell'orecchiabattendole su l'aia.

Ancora ritornerò pur alla medicinae al maestro Gabbadeodel quale a drieto in una bella novella è stato narrato.
Fu nel contado di Prato un contadino di forte naturachiamato l'Atticciato; il quale nel mese di luglio battendo favegli ne venne schizzato una nell'orecchiae volendosela cavare con sue dita grossequanto piú s'ingegnava di trarlapiú la ficcava in entro; tanto che per viva forza convenne che ricorresse al maestro Gabbadeo; il qualeveggendolodisse:
- Qui vuole essere un partito chebenché ti dolganon te ne caglia.
Disse costui:
- Fate che vi piaceescan'ella.
Allora il maestro ch'era grande e atante della personafacendo vista di guardare ora l'una orecchia e ora l'altra prese tempoe lascia andaree dà uno grandissimo punzone a costui dall'altra partedove la fava non eraper sí fatta forma che costui cadde in terra dalla parte dove era la fava; e tra per lo pugno e per la percossa in terrala fava uscío fuori dall'orecchia. Il lavoratoreavendo aúto questo colposi dolea del pugno e della cadutae alla fava non pensava. Dice il maestro Gabbadeo:
- Lasciami vedere l'orecchia -; e quellidolendosigli la mostròe vide la fava esserne uscita.
Colui si dolea d'un gran botto che gli parea aver ricevuto; e maestro Gabbadeo dicea:
- O sciocconon sai tu che quando t'entra alcuna cosa nella guaina del coltellino che tu la volgie tanto picchi ch'ella n'esce? cosí mi convenne fare di teche mi convenne dare il colpo dall'altra parteacciò che quella orecchia che avea la fava percotesse in terrae cosí n'è uscita. Altri medici t'avrebbono tenuto un mese impiastrie serebbene andato tutta la ricolta tua. Va'e procaccia di far benee quando ti verrà fattorechera'mi un paio di capponi.
Quelli si racconsolòché avea paura che non si volesse pagare piú agramenteoltra averli dato delle bussee disse:
- Io non ho capponima se voi non gli avete a schifoio vi recherò un paio di paperi.
- E tu cotesti mi recae va' che sia benedetto; e se nella villa tua avvenisse che nessuno avesse alcun maleracconta la bella sperienza che io t'ho fattae avvialo a me.
Colui disse che lo farebbee andossene assai dogliosocome quelli che per guerire della fava avea avuto una gran percossatalché stette piú dí che non poté battere; e come fu sdolutoportò i paperi a maestro Gabbadeo; il quale della bella cura acquistò gran fama per lo paeseche fu sperienza nuova e mai piú non usata.
E lo Atticciato fu sempre grandissimo suo amico. E ben lo dice il proverbio: "batti il villanoe ara'lo per amico".


NOVELLA CLXIX

Bonamico dipintore dipignendo santo Ercolano su la piazza di Perugiail dipigne col diadema di lasche in capoe quello che ne seguita.

Come il maestro Gabbadeo con medicina non mai piú provata né scritta gabbò bene l'Atticciatoe di non pensato per un gran colpo da giostra gli uscío fuori la fava degli orecchi; cosí in questa susseguente dirò una piccola novelletta di Buonamico dipintoredel quale a drieto in un'altra s'è fatto menzione. E questa novella mostrerà checome il maestro Gabbadeo con grandi scherne curò l'Atticciato; cosí questo Buonamico con grandi scherne adornò un Santo de' Peruginiin forma che gli lasciò tutti inteschiati.
Fu ne' tempi del detto Buonamicoallora che Perugia era in prospero statodiliberato per li Perugini che in su la piazza di Perugia fosse dipinto un Santo Ercolano tanto magnificamente quanto dipignere si potesse. E cercato qual dipintore in superlativo grado potesseno averefu messo loro innanzi questo Buonamicoe cosí presono di mandare per lui. E mandato che ebbonoe giunto in Perugiae fatto il pattoe datogli il luogo e dove e come; il detto Buonamicocom'è d'usanza de' depintorivolle essere tutto chiuso d'asse o di stuoie; e per piú dí dato ordine alla calcina e a' colorinella fine salí sul ponte e cominciò a dipignere. Quando fu in capo d'otto o di dieci díli Peruginiche voleano che Santo Ercolano fosse gittato in pretellecominciaronoquando in brigate andavano passeggiando su per la piazzaaccostarsi verso il ponte dove costui dipingevae l'uno dicea:
- O maestrosarà mai fatta questa uopra?
Stando uno pezzoveniva un altro e dicea:
- O maestroquanto è innanzi questo lavoro?
E quelli stava pur cheto e in... come tutti i dipintori fanno. Un'altra brigata andava a luie diceano:
- O maestroquando vedremo questo nostro padrone? e' dovrebbe essere finito sei volte; deh spacciatipregamote.
E cosí tutti i Perugini con diversi dettinon una volta il díma parecchieandavono a Buonamico a sollecitarlo; tanto che Buonamico fra sé medesimo dice: "Che diavolo è questo? costoro sono tutti pazzie io dipignerò secondo la loro pazzia". Entrolli nel capo di fare Santo Ercolano incoronatonon d'allorocome poetinon di diademacome i santinon di corona d'orocome li rema d'una coronao ghirlanda di lasche. E vedutoquando la figura era quasi compiutadi farsi fare il pagamentoattesee aúto il pagamentodisse avea ancora a rifiorire tutti li ornamenti per ispazio di due dí; e furono contenti. Il rifiorire che Buonamico fecesi fu che fece una corona ben fornita di lasche a detto Santo Ercolano; e fatta che l'ebbeuna mattina per tempo si trovò con Giovanni [Piglialfascio] e uscí di Perugiae tornò verso Firenze. I Perugini faceano al modo usatoe diceano alcuni:
- O maestrotu lo puoi ben cominciare a scoprire; mostracelo un poco.
Il maestro stava cheto che camminava verso Firenze. Quando tutto quel dí ebbono consumato in diree chi una cosa e chi un'altra; e non sentendo alcuna rispostal'altro dí pensorono costui non esserviperché veduto non lo aveano; e domandando dove tornava allo albergofu loro detto ch'egli era presso a due dí ch'egli avea accordato l'ostee credeano si fosse ito con Dio.
Udendo questo i Peruginivanno alcuni per una scalae appoggianla al ponte per vedere a quello che questa cosa era; e salitovi susovide questo Santo inghirlandato di molte lasche; subito scende e va agli anzianie dice loro come il dipintore di Firenze gli ha ben servitie che per dilegionedove dovea fare una corona di santo a Santo Ercolanoegli avea fatto una ghirlanda piena di laschedelle maggiori che mai uscissino del lago. Essendo questa novella nel palagiosubito fanno cercare tutta Perugia per giugnere Buonamicoe di fuori feciono trovare certi cavallari in su cavalle che lo giugnessono. Elle furono frasche; ché Buonamico se ne venne sano e salvo. La fama di questo fatto si dilatò per Perugiae ciascuno correa verso questo nuovamente dipinto Santo Ercolano: e a furore ne levorono e l'assi e le stuoiee fu una cosa incredibile a vedere e a udire quello che diceanoe non pure di Buonamicoma di tutti i Fiorentinie spezialmente sparlavano contro a quelli che erano in Perugia. Alla per fine tolsono subito uno dipintore che quelle lasche convertisse in uno diademae a Buonamico dierono bando dell'avere e della persona. La qual cosa quando Buonamico seppedicea:
- Eglino col bandoe io con le lasche; che io per mese mi facessero imperadorenon dipignerei in Perugia mai piúperò che sono li piú nuovi inteschiati che io trovasse mai.
Cosí rimase la cosae Buonamico dimostrò assai a' Perugini la ignoranza loroche credono piú in Santo Ercolano che in Cristo; e tengono che sia innanzi al maggiore Santo in Paradiso. Se vi fosse con le lasche in capo forse direbbono il veroche quelli Apostoli che furono pescatoriveggendoli le lasche in capogli farebbono grande onore.


CLXX

Bartolo Gioggi dipintore avendo dipinto una camera a messer Pino Brunelleschi di Firenzeil nuovo motto e altro che seguí.

Non fu meno nuovo che BuonamicoBartolo Gioggi dipintore di camere; il quale avendo a dipignere una camera a messer Pino Brunelleschiessendogli stato detto che tra gli alberi di sopra dipignessi molti uccellinella fineessendo ito il detto messer Pino in contado per ispazio d'un meseessendo la dipintura quasi compiutae messer Pino veggendo la camera col detto Bartoloil quale gli domandava denari; messer Pinoavendo considerato ogni cosadisse:
- Bartolotu non m'hai servito benené come io ti dissi; però che tu non hai dipinti tanti uccelli quanti io volea.
Al quale Bartolo subito rispose:
- Messereio ce ne dipinsi molti piú; ma questa vostra famiglia ha tenute le finestre aperteonde se ne sono usciti e volati fuori maggior parte.
Messer Pinoudendo costuie conoscendolo gran bevitoredisse:
- Io credo bene che la famiglia mia ha tenuto aperto l'uscio della voltae hatti dato bere per sí fatta forma che tu m'hai mal servitoe non serai pagato come credi.
Bartolo volea denarie messer Pino non gli li volea dare. Di che essendo presente uno che avea nome Pescionee non vedea lumeassai criatura del detto messer Pinodisse Bartolo Gioggi:
- Voletela voi rimettere nel Pescione?
Messer Pino disse di si. Il Pescione comincia a rideree dice:
- Come la volete voi rimettere in me che non veggio lume? che potrei io vedere quanti uccellio come?
Elle furono paroleché la rimisono in lui. Il qualeessendo studiatoe massimamente da Bartolo Gioggivolle sapere quanti uccelli Bartolo avea dipinti; e con certi dipintori aútone consigliocenando una sera di verno col detto messer Pinoil Pescione disse che su la questione di Bartolo Gioggi avea aúto consiglio da piú e da piúe veramente di quelli uccelli che nella camera erano dipinti messer Pino se ne potea passare. Messer Pino non dice: "Che ci è dato?"; subito si volge al Pescionee dice:
- Pescioneescimi di casa.
La notte era; il Pescione dicea:
- Perché mi dite voi questo?
E quelli dice:
- Io t'intendo beneescimi di casa -; e a uno suo famiglio che avea nome Giannino che non avea se non uno occhiodice: - Togli il lumeGiannifagli lume.
Il Pescioneessendo già alla scala dicea:
- Messereio non ho bisogno di lume.
E quelli dicea:
- Io t'intendo benevatti con Dio; fagli lumeGianni.
- Io non ho bisogno di lume.
E a questo modo il Pescionesanza lucee Giannino con un occhio e con un lume in mano scesono la scalae 'l Pescione se ne andò a casadall'una parte soffiando e dall'altra ridendo; e poi di questa novella facendo ridere molticon cui usava. E stette parecchi mesi innanzi che messer Pino gli rendesse favella; e Bartolo Gioggi a lungo andare fece un buono scontose volle essere pagato.
Io per me non so qual fu piú bella novella di queste dueo 'l subito argomento di Bartolo Gioggio il lume che messer Pino facea fare al Pescione vocolo.
Ma tutto credo che procedesseo di non pagareo di dilungare il pagamento.


NOVELLA CLXXI (frammento)

Il Vescovo dell'Antella di Firenze avendo fatto dipignere l'altare di Santo Bastiano nella maggior chiesa... .


NOVELLA CLXXII (frammento)

- ...denaio de' suoi; e se gli avessi aútise gli averebbe fatti daree averebbe pagato l'oste. Ma qui mi pare che ci sia una gran malizia: che 'l fiorentino colse tempo sul principio della messa e disse al frate che costui avea difettoe che gli dicesse certe orazioni; e venendo poi costui al frateudito che disse: "Va' e vieni a terzae io farò ciò che fia da fare"Nuccio avea creduto che dica di darli i danaried egli averà detto delle orazioni. Nuccio Smemora allora piú gridava e dicea che gli avea promesso Roma e Toma. I frati diceano:
- Nucciosappi meglio fare un'altra volta che sia certo che colui averà fatto il desinaree stato nell'albergo alle tue speseperò che dee essere tutto proprio come frate Avveduto ha detto.
Costui gridava e quasi come aombrato se n'andò al Vescovo; il quale fece richiedere il frate; e carminandosi la questione per tutte le congiunturefu veduto che 'l cavaliero Gonnella era stato cattiva gonnella per l'ostetale che gli dié il mal verno; e con lettere e con amiciscrivendo a Firenze di questo cavaliero e chi fossegiammai non ne poté sentire alcuna cosa; però che 'l Gonnella si tornò al marchese a Ferraradond'era partitodi che malagevole sarebbe stato a rinvenirlo.
E Nuccio (che per lui si dice Nuccio Smemora) non facendo le cose sue cautecredendo guadagnareperdé grossamentee ancora ne rimase buon tempo come aombratocome il Gonnella l'avea fatato.


NOVELLA CLXXIII

Gonnella buffone predetto in forma di medicocapitando a Roncastaldo arca certi gozzutie ancora il Podestà di Bologna; e con la borsa piena si va con Dioe loro lascia col danno e con le beffe.

Perché simil malizia o maggiore segue in questa novella che non è stata la passatacome che ancora ella fu del Gonnellabrievemente la dirò; però che io non truovo tra tutti i buffoni che furono mai sí diverse astuzie e cosí strani modi usarenon per guadagnarema per rubare altrui.
Come nella passata novella è stato dettoil Gonnella il piú della sua vita stette col marchese di Ferrarae alcuna volta venía a Firenze; e fra le altre venendo una fiatae avendo passato Bolognae giugnendo una mattina a desinare a Scaricalasinoebbe veduto per la sala e in terreno certi contadini gozzuti; di che come vide il fattosubito informò in camera uno suo famiglioe fecesi trovare una roba da medico che nella valigia aveae miselasi in dosso; e venendo alla mensaed essendo posto a mangiareel suo famiglio s'accostò a uno lavoratore gozzuto che era nella salae disse:
- Buon uomoquel valentre medico che è colà a tavolaè gran maestro di guerire di questi gozzi; e non è alcuno sí grande che non abbia già gueritoquando egli ha voluto.
Disse il lavoratore:
- Dohfratel mioe' n'ha in questa montagna assai; io ti prego che sappiquand'egli ha mangiatose ne volessi curare parecchi chesecondo uomeni d'Alpesono assai agiati.
Gnaffe! costui nol disse a sordoché come il medico Gonnella ebbe desinatoil famiglio gli s'accostò da partee tirollo in camerae dissegli il fatto; onde il medico fece chiamare il contadinoe disse:
- Questo mio famiglio mi dice sí e sí; se tu vuogli guarireio non mi impaccerei per uno soloperò che mi serà un grande sconcio di tornare a Bologna e recare molte cose. Ma fa' cosí: se ti dà cuore d'accozzarne otto o dieciva' subitoe menali quie togli uomeni che possano spendere fiorini quattro o cinque per uno.
Il contadino disse subito farlo; e partitosi non andò molto di lungi che ne accozzò con lui ottoo piú. I quali subito vennono al maestro Gonnellae là ragionato per buono spazio con luiel medico disse:
- E’ m'incresce che io non sono in luogo piú abile alle cose che bisognano; poiché cosí èio tornerò a Bolognae bisognerà due fiorini per uno di voi; e tanto che io torniordinerò ciò che avete a fare e lascerocci il fante mio. Se voi voletediteloe io darò ordine ad ogni cosa.
Tutti risposono:
- Sí per Dioe' danari son presti.
Disse il medico:
- Aveteci voi niuna casa adatta dove possiate in una sala stare tuttie fare fuoco di per sé ciascuno?
- Sí bene- risposono.
Allora disse:
- Trovate per ciascuno una concao calderone di rameo altro vaso di terrae trovate de' carboni del cerroe legne di castagnoe abbiate uno doccione di canna per ciascuno e ciascuno per quello soffi ne' carboni e nel fuoco; questo soffiare con alcuna unzione che io vi farò nel gozzoassottiglierà molto la materia del vostro difetto; e 'l fante mio non si partirà da questo albergo infin ch'io torno.
Come dettocosí fu fatto; che questo medico ebbe fiorini dua per unoe prima che si movesse gli acconciò in una casaciascuno col fuoco e col trombone a boccae unse loro i gozzie disse non si partisseno finché tornasse. Quelli dissono cosí fare. Maestro Gonnella si partíe vennesene a Bologna; e spiato che là era un Podestà giovenedesideroso d'onorese n'andò a luie disse:
- Messer lo Podestàio credo che per avere onore voi fareste ogni spendio; e pertanto se mi volete dare fiorini cinquanta che son povero uomoio ho alle mani cosa che vi darà il maggiore onore che voi aveste mai.
Il rettore volontoroso disse che era contentoma che gli dicesse di che materia era la cosa. E quelli disse:
- Io vel dirò. In una casa sono una brigata che fanno moneta falsadate buona compagnia al vostro cavalieroe io il metterò sul fattosí veramente che perché sono uomeni di buone famiglie non vorrei loro nimistà. Quando io avrò messo il vostro cavaliero sul fattoio mi voglio andare a mio cammino.
Questa cosa piacque al Podestà; e apparecchiato il cavaliero con buona famigliasappiendo che avea andare da lungidiede fiorini cinquanta al Gonnellae la notte gli mandò viatanto che giunsono alla casa dove si conciavono i gozzi. E trovato il fante suo che era in puntodissono:
- Qui sono la brigata; e fatevi con Dioch'io non voglio che paia che io abbia fatto questo.
Il cavaliero disse:
- Va' pur via -; e dando nella portadice: - Avrite za.
Quelli rispondeano:
- Sete voi il maestro?
- Che maestro? avrite za.
- Sete voi il maestro?
- Che maestro?
Spezza la portaed entrarono dentrodove trovorono la brigata tutta soffiare sanza mantachi nel fuoco. Piglia quapiglia là; costoro furono tutti presisanza poter dire: "Domine aiutami"; e se voleano dire alcuna cosanon erano uditi: e' gozzi loro erano divenuti due tanticome spesso incontra a similiquando hanno paura con impeto d'ira.
Brievementea furore ne furono menati a Bologna; là dove giunti al Podestàe 'l Podestàveggendoli tutti gozzutisi maravigliò e fra sé stesso disse questa era una cosa molto strana; e menatili da parte l'uno dall'altroprima che elli li mettesse alla colladomandò che moneta elli faceano. Elli diceano ogni cosa come stato erae oltre a questo giunse lo albergatoree altri da Scaricalasinoe dissono ordinatamente come il fatto stava; e accordossi ciascuno di per sée quelli che vennonoche questo era che un medico di gozzi era passato di làe dicea di guarirlie acconciolli a soffiare nel fuococome gli trovaste; e poi disse venire a Bologna per cose che bisognavonoe che l'aspettassono in quella casa cosí soffiando nel fuoco.
Il cavalieroudendo questotirò da parte il Podestàe disse:
- Ello dee essere veroperò che come io giunsi alla portalà dove eranoe bussandodicendo che aprissonoe' diceano: "Sete voi il maestro?" e poi voi vedete che costoro son tutti co' gozzi; la cosa rinverga assaichéa fare moneta falsaotto serebbe impossibile fossono tutti gozzuti.
Ma sapete che vi voglio dire? questo medego dee essere assottigliatore piú di borse che di gozzi; e cosí egli ha assottigliata la borsa di questi poveri uomenie anco la vostra; a buon fine il faceste; da' tradimenti non si poté guardare Cristo; rimandate costoro alle loro famigliee pensate di sapere chi è questo mal uomo che ha beffato e loro e voi; e se mai potetegli date o fate dare di quello che merita.
Elle furono novelle; la brigata fu lasciatae tornoronsi tutti a Scaricalasino; e 'l Podestà poté assai cercare che trovasse chi costui era stato; però che io non voglio che alcun pensi che venisse allora a Firenzeanzi diede volta ad altra terra. E quando era cavalieree quando medicoe quando giudicee quando uomo di cortee quando barattiericome meglio vedesse da tirare l'aiuolo; sí che posta di lui non si potea averecome colui che sempre stava avvisato in queste faccende. La brigata gozzuta giunti a Scaricalasino aspettarono il mediconon ostante a questopiú dícredendo che tornasse; e non tornandoguatavano i gozzi l'uno dell'altro per maravigliaquasi dicendo: "È scemato gnuno?"o "È scemato l'uno piú che l'altro?". Poi se ne dierono pace; ma non s'avvisorono maicome gente alpigiana e grossacome il fatto fosse andato; e avvisoronsi che qualche malivoloperché non guerissono de' gozziavesse condotto là quella famiglia; e pensando or una cosa e or un'altrase prima erano grossidiventorono poi grossissimi e stupefatti. E ancora per maggiore novità parve ch'e' gozzi loronon che altrone ingrossassono.
Perché chi nasce smemorato e gozzutonon ne guarisce mai.


NOVELLA CLXXIV

Gonnella medesimo domanda denari che non dee averea due mercatantil'uno gli dà denaril'altro il paga di molte pugna.

Vassi capra zoppase 'l lupo non la intoppa. Veggendo adunque con quanta maliziae falsa arteil Gonnella ha in due novelle arrapato o rubatocon utile di sée con danno altruicome che a chi ode le dette novelle con festa se ne ridanientedimeno quellicontro a cui elle son fatteispesse volte ne piangonocome l'albergatore da Norcia e i gozzuti da Roncastaldo. Ma perché spesse volte sono degli uomeni che come di sí fatte novelle ridenopur alcuna volta serebbono molto allegri che la volpe fosse colta alla trappolae per dare contentamento a questi talicome che in questa terza novella il Gonnella rubasse cinquanta fiorini con nuova astuzianella fine pur colto ma non come meritava.
Essendo venuto questo Gonnella da Ferrara a Firenzee tornando su la piazza di Santa Croce in casa uno buffone chiamato Moccecae sentendo la qualità de' mercatanti di Firenzepensò un nuovo modo d'avere danarie forse mai non piú usato. Costui se ne andò una mattina a uno fondaco d'una buona compagnia in Porta Rossa; i quali forse non stavano benecome altri pensavaperò che cominciavono a mancare del credito; e giunto al cassieredisse:
- Vedi la ragion miae dammi quelli duecento fiorini che io debbo avere.
Costuie alcuno scrivano che v'eradisse:
- In cui son elli scritti?
E quelli rispose:
- Buonobuono! in me; e' non pare che voi mi vedessi mai piú; cercate quel librovoi mi vi troverrete bene.
Costoro cercano e ricercanoe nulla trovavano; di che dicono a costui:
- Noi non troviamo alcuna cosa; quando i nostri maggiori ci serannoe noi il diremo loro.
Costui comincia a gridaredicendo:
- Io griderò tanto: "Accorr'uomo" che ci trarrà tutta Firenze; dunque mi mettete voi il mio in questione?
Uno d'un fondaco che era allato a quello si fa cosí oltree dice al Gonnella:
- Buon uomova'e tornaci dopo mangiaree pensaci beneche io credo che tu abbi errato il fondaco.
Dice il Gonnella a costui:
- Non l'ho erratono; io verrò bene a te per quelli che tu mi déi dare che cotesta è un'altra ragione che io ho a fare teco.
Di che costui si scostae dice:
- Io ho fatto un bello acquisto; io volea levare la questione altruie holla recata a me.
Tornasi nel fondaco suoe 'l Gonnella grida nel primo fondacoe dice che vuol essere pagato. Giunge uno de' capomaestrie maravigliasi:
- Che vuol dire questo?
E il Gonnella grida:
- Voi non mi ruberete.
Brievementela cosa andò tanto oltre che costui il tirò nel fondaco della mostra dentroe chiamò il cassiere dicendo:
- Questa è dell'altre mia venture -; e disse: - Dara'gli fiorini cinquantae non ci dir piú parola.
Al Gonnella parve mill'anni torselie andossi con Dio. L'altra mattinae quelli disse al Mocceca:
- Vuo' tu venire? io voglio andare a tirare l'aiuolo a cinquanta fiorinis'io posso.
Quelli disse:
- Maisíche io verròforse me ne toccherà qualche cosa.
E cosí mosso il Gonnella col Moccecagiunse al fondacaio da latoa cui egli avea detto che avea avere anco da luie disse:
- Truova la mia ragionee pagami.
Il fondacaio che avea considerato la condizione di costuie come elli avea aúto fiorini cinquanta dal fondaco da latodisse:
- Buon uomo che de' tu avere?
E quelli disse:
- Fiorini dugento che io gli depositai a un'ora con quelli da lato.
Colui rispose:
- Il cassiere è istamane ito riscotendo; tornaci dopo mangiaree averai ciò che tu déi avere.
Il Gonnella disse:
- Sia con Dio; io ci tornerò oggi.
E andato a desinare col Moccecadisse:
- Io credo d'avere oggi da quel fondaco buon pagamentoperò che non ha voglia che io gridi.
Dice il Mocceca:
- Questo mondo è degl'impronti; io non ci avrò mai nulla.
Il fondacaiocome saggio e avvedutodice:
- Per certo che io non gitterò fiorini cinquantacome il vicino mio di qua; d'altra moneta pagherò costui -; vassene in Mercato Vecchio a due suoi amici barattierie dice: - Io voglio un grande servigio da voiche quando voi avete desinato vegnate al fondacoe darete a uno quante pugna e calci voi potrete; e la cagione è che questa cosa è licita a Dio e al mondo; e disse loro come il fatto stava di passo in passo.
Risposono che molto volentierie che parea loro mill'anni essere alle mani; e cosí fermoronoche dopo mangiare furono al fondaco di buon'orae 'l fondacaio ancora con loro; il quale li menò dentro nella mostrae disse:
- Statevi qui; quando colui verrà per li danarie io il menerò dentroe dirò: "Date quelli danari a costui"; e voi sprangate.
Detto e acconcio questo fattoe 'l Gonnella giunsee lascia il Mocceca di fuorie dice al fondacaio:
- Io vengo per quelli danari.
Il fondacaio dice:
- Volontieri; andiamo di là al cassiere -; e avviasi di làdove coloro erano; e 'l Gonnella drieto.
Il qualecome giunse dentroil fondacaio dice a coloro:
- Date quelli danari a costui.
Come costui dice questoe costoro aprono le bracciae cominciono a pagare colui di quella moneta che meritava; e dannogliene per sí fatta maniera che tutto il ruppono; e se volea gridaree quelli diceano:
- E di quelli ti paga.
Di che avendogliene datonon per un pastoma forse per tre corrediil detto Gonnella con le mani e col mantello al visoper ricoprirsiesce per lo mezzo del fondacodicendo:
- O pagano i mercatanti a questo modo chi dee avere? - ed escesene fuoralà dove il Mocceca l'aspettava.
Veggendolo uscire del fondaco cosí rabbuffato e venire verso luidice:
- Se' tu pagato?
E 'l Gonnella risponde:
- Mainò: ma io sono sodo molto benein forma ch'io non gli ho piú a domandare.
Disse il Mocceca:
- Vuo' tu ch'io ti dica il veroGonnella? el t'è coltod'assai cose che tu hai fattebuona ventura; ma pur tu hai fatte assai di quelle che tu averesti meritato di perder la vitanon che di avere una gran battitura come tu hai aúta oggi; questo ti puote essere esemplo al tempo che dee venire. Tu sai che l'arte nostra è d'acquistare con piacevolezzae non di rubarené di tòrrese non come l'uomo vuole; non con falsitànon con maliziase non in quantocon ogni modo che puoitu facci che ti sia donato; lascia andare queste falsità che sono da pericolare e te e altruie tòrnati dal marchese tuo da Ferrarae statti pianamentee viviti di limaturae non di rubatura.
Il Gonnella udendo costui disse:
- Moccecatu non se' mocceca e da'mi buon consiglioe vie migliore me l'averesti dato se tu fosse stato partecipe del pagamento che ho aúto stamane; e bene ho sempre udito dire: "Passasi il folle con la sua folliae passa un tempoma non tuttavia".
E cosí prese commiato dal Moccecastando molti anni che non tornò a Firenzee andossene a Ferrara.
Or cosí intervenisse a tutti gli altri che domandono falsamente quello che non debbono avere; che è venuto il mondo a tanto che ciascuno si mette a domandare quello non dee; e veggendo che niuna pena se ne dà oggi nel mondodicono: "Io non posso altro che acquistare; se non se n'avvedeio me la abboe se se n'avvedeio me la gabbo". E l'altro dice: "Muovi liteacconcio non ti falla". E cosí va oggi il piú del reggimento che è sopra la terra. Volesse Dio che almeno ciascuno la comprasse come qui la comprò il Gonnella.


NOVELLA CLXXV

Antonio Pucci da Firenze truova esser messo in uno suo orto di notte certe bestiee con nuovo modo s'abbatte a chi l'ha fatto.

Io non voglio per ora raccontare piú dell'opere del Gonnellaperò che mi conviene dar luogo agli altri; e ancoraperché Antonio Puccipiacevole fiorentinodicitore di molte cose in rimam'ha pregato che io il discriva qui in una sua novella; la qualeperché con risa se la portò in pace pensando ancora chi gli la feceè da prenderne ancora un poco di trastullo.
Antonio Pucci avea una casa dalle fornaci della via Ghibellinae là avea uno orticello che non era appena uno staioroe in quello poco terreno avea posto quasi d'ogni frutto e spezialmente di fichie aveavi gran quantità di gelsomino; ed eravi uno canto pieno di querciuoli e chiamavalo la selva. E questo cosí fatt'ortocon le proprietà sueavea messo il detto Antonio in rimain capitolocome Dante e in quello trattava di tutti li frutti e condizioni di quell'ortoné piú né meno come se fosse ubertosocome la piazza di Mercato Vecchio di Firenzedella quale già mise in rima tutte le sue condizionemagnificandola sopra tutte le piazze d'Italia. Era in questi tempi certi piacevoli uomeni in Firenzel'uno de' quali era un Girolamo che ancora viveuno Gherardo di... e Giovanni di Landozzo degli Albizie uno che avea nome Tacchello tintoree altrili quali erano piú nuovi l'uno che l'altro. Erano costoro cosí nuova brigata come ne' loro tempi fosse nella nostra città.
Udendo costoro tanto e per prosa e per versi dire ad Antonio di questo ortosi posono in cuore di mettervi una notte certe bestie dentro che 'l pascessonoe Antonio facessono smemorare; e brievementeuna sera al tardi al prato del Renaio vidono un muletto e due asini magri e vecchi alla pastura. Trovorono modo che uno di loro gli mise in uno luogo di drieto a questo ortolà dove era uno uscetto serrato con legname e ancora di fuori murato a seccoe dentro con chiavistello e toppa serrato a chiave che gran tempo non era stato aperto. E sul primo sonnoandando due innanzi a smurare il muro di fuorie altri su per le mura entrati dentroaprironoo con grimaldello o con altro artificioil detto serramesí che l'uscio e smurato e aperto rimase. Fatto questoi due micci e 'l muletto furono ivi menati e messi dentro. Il quale muletto era stato adornato a casa il Tacchelloprima che ve lo menassonod'una gorgiera di cuoio e altre cose assai maravigliose. E poi che fu introdutto nell'ortodi quello gensomino gli feciono e posoliera e briglia in grande adornamento e là il legorono a' piedi d'un lastrone tondo dove Antonio cenava la sera; e su quello lastrone missono molti cavolii quali nel dett'orto aveano coltiacciò ch'egli avesse buona profenda. E fatto questosubito serrano l'uscio con ingegni per modo che non parea mai stato aperto; e sequentemente murorono di fuoricome prima erae vannosi con Dio.
La mattina vegnente Antonioche avea una cameretta sul detto ortodall'altra parte dove era la casae ivi dormíalevandosi la donna prima ed elli poie andandosi affibbiando per l'ortoebbe vedute queste tre bestie selvaggee oltre a ciò che non aveano lasciato filo di buona operaavendo ogni cosa e roso e guastoquasi uscí di sédicendo:
- Che vuole dir questo? - e andato all'usciodond'erano entratitrovando serrato come prima eramaggior maraviglia si diedono; e piú ancora che andò di fuori e videlo murato come prima.
Brievementela malenconia dell'orto guasto fu grande; ma maggiore era il pensiero donde fossono entrati. E fra l'altre coseveggendo il mulo cosí addobbato co' cavoli innanziancora piú si maravigliavono dicendo:
- Che inghirlandamento è questo?
Dicendo Antonio Pucci:
- Io credo pur essere nato di legittimo matrimonio -; e volgendosi alla mogliedicea: - E cosí credo che sia anco tu; questa è una nuova cosa e non so quello che io me ne creda! percuotere ne potrei il capo al muro e altro non avrei; pur m'ingegnerò con ogni sottigliezza trovare chi m'abbia fatto questoe diàncene pace.
Detto questos'ingegnorono mettere il bestiame fuori dell'orto; il quale convenne passasse per una cameretta dove dormía Antonio e la moglie; e convennesi disfare la lettieraperché potessino passare: e messigli nella viasi ritornorono a pascere al Renaio; e cosí rimase la cosa.
Quel dí medesimo il detto Antonio pensò un sottil modo per trovare chi avesse fatto la faccenda; e qualunche trovava suo domesticosalutandosi con luidicea:
- Ben t'ho.
Colui che era salutato da lui e non era stato a fare quella faccendas'andava con Diosanza dire altro. Scontrossi in quello dí nel Tacchello tintoreil quale disse:
- AddioAntonio.
E Antonio rispose:
- Addio Tacchelloben t'ho.
E Tacchello risponde:
- Alle guagneleAntonioche io non fu' io.
Allora Antonio s'accosta al Tacchello e dice:
- O chi fu altri che tu?
E quelli rispose:
- E’ furono i tali e tali.
E per questa maniera seppe di qualunche v'era stato; e a uno a uno dolutosicostò a ciascheduno una cena e fu fatta la pace: facendo poi Antonio Pucci uno sonetto di tutto questo fatto che non fu meno piacevole che la novella.
Un altro averebbe abbaiato tre mesi e in su ogni canto averebbe detto: "E’ m'è stato fatto sí e sí: per lo corpo e per lo sangueche converrà che sia Roma e Toma". Costuicome saggiosanza dire o mostrare alcuna cosacon uno ben t'ho chetamente seppe chi gli avea messo le bestie nell'ortoe dall'altro ebbe migliore pastura che non furono i cavoli che furono dati al mulo; e poi dicendo la novella a moltipiú tempo se ne risono.


NOVELLA CLXXVI

Scolaio Franchi da Firenzebeendo con certi e avendo un bicchiere di trebbiano in mano e avendo commendate le bontà di quelloCapo del Corso con dolce modo gli lo toglie.

Un'altra beffaforse mai piú non usatami tira dover dire quello che intervenne a un piacevole fiorentinoil quale era di età di settantacinque anni o piúed ebbe nome Scolaio Franchi. Costui essendo buono bevitore e vicitando volentieri le taverne dove i buon vini si vendeanovendendosi una mattina uno buon trebbiano a una taverna in Firenzeluogo che si chiama al Fico; e questo Scolaio andandovi a bere egli e uno Guido Colombi e Bianco di Bonsiessendo mesciuto una terzeruola e avendo ciascuno i bicchieri in manoe specchiando gli occhi loro nel vetro e in quello trebbiano che era buono e chiarodi color d'oro; e Scolaio guatando nel bicchierecomincia a dire:
- O lavoratoribenedetti siate voi che lavorate queste vigne; e maledetto sia chi mai vi pose estimo; ché le vostre mani si vorrebbono imbalsimare. E se voi non fosseche vino potremmo noi mai bere? per lo corpo di Diose mai mi truovo de' Priori che io troverrò modo che ne' loro estimi e nelle loro imposte e' saranno sgravati. E non si ved'egli che durano tutto l'anno fatica per noi quelli che governono queste vigne? non ne beono per loroe tutto ciò che fannofanno per noi. Se voi non mi credestesappiate chi lavorò queste vignevoi troverrete che beono aceto annacquato. Or dunque non è egli gran male a chiamarli villaniaffaticandosi in ogni cosa per dare a noi? Si possono molto piú tosto chiamare cortesied essere veramente figliuoli di Dioil quale ogni cosa fa per noie cosí costoro.
E cosí col bicchiere in manoseguendo il ragionamentovenne in su uno parlare divinodicendo a' compagni:
- Io vo' che voi sappiate che nel principio del mondo fu deliberato che Scolaio beesse questo bicchiere di trebbiano.
Era appresso dirieto a lui uno amico del detto Scolaiochiamato Capo del Corso; il qualeavendo udito la predica che Scolaio avea fatta sul bicchieree in fine udendoli dire che ab eterno era stato deliberato che beesse quello bicchiere di trebbianosubito manda la mano oltre e leva quel bicchiere di mano a Scolaiodicendo:
- Anzi fu deliberato che io il dovea bere io -; e detto questo e beútolofu tutt'uno.
Scolaio si volgee veggendoli essere stato tolto e beúto il suo bicchiero da Capo del Corsodi cui era amicodisse:
- Vatti con DioCapoche io non dirò mai piú queste paroleche io non lo bea in prima.
Disse Capo:
- E tu farai molto benese tu non vuoi errareperò che ogni cosa è giudicata nel suo fine; e però quello bicchiere dovea essere mio e non tuo.
Disse Scolaio:
- E però non lo dirò io mai piú che io non bea prima.
Questi furono due motti di gran piacevolezza; lo primo fu quello di Scolaio che propose la questione del destinato; e Capo del Corso la fortificò e assolveo; e questo fu il secondo.
O dolcezza del frutto che piantò Noè! Quante belle novelle si potrebbon dire di molti che hanno oltre modo seguito il sugo delle vite; e ancora si potrebbono contare delle vituperose che hanno seguito coloro che trasordinatamente hanno usato l'uso del vino; però che nessun frutto fece il nostro Signore Dio che tanto dea dolcezza e conforto e mantenimento alla natura umanaquanto fu questousandolo moderatamente; e cosí per e converso niuno è che tanto distrugga il corpo umano quanto questousandolo stemperatamente.
Volesse Dio che gli uomeni del mondoe spezialmente li giovenise ne avvedessenoli quali oggi darebbono scaccomatto e a Scolaio Franchi e a Capo del Corsoessendo fatti non bevitori ma gorgionibeendo la mattina piú volteinnanzi che sia l'ora del desinaremalvagía. E con questa cosí fatta virtú vogliono soprastare a quelli che potrebbono essere loro padridicendo essi essere piú degni de' reggimenti delle terre di Baccoche coloro li qualicon virtú e con temperanzadiscretamente vivono.


NOVELLA CLXXVII

Il piovano dell'Antella di Firenze sente che messer Vieri de' Bardi fa venire magliuoli da Corniglia; truova modoquando vengonogli fa scambiare e to' gli per luie quello che seguita.

Tanto è grande lo studio divino che da un gran tempo in qua gran parte delli Italiani hanno sí usato ogni modo d'avere perfettissimi vini che non si son curati mandarenon che per lo vinoma per li magliuoli d'ogni parte; acciò che ognora se gli abbino veduti e usufruttati nella loro possessione; e perché siano stati chericinon hanno aúto il becco torto.
Funon è molti anniuno cavaliere ricco e savio nella città di Firenze che ebbe nome messer Vieri de' Bardiil quale era vicino al piovano all'Antellalà dove a un suo luogo dimorava spesso. E veggendosi in grande statoper onore di sé e per vaghezza di porre nel suo alcuno nobile vino stranieropensò trovare modo di far venire magliuoli da Portovenere della vernaccia di Corniglia. E per alcuno amico fece scrivere a un messer Niccoloso Manieri da Portovenere che quelli magliuoli dovesse mandare. E aúto buona rispostatrovandosi alcuna volta con messer lo piovano in quella villa suo vicinodicea come avea trovato modo d'avere de' magliuoli della vernaccia di Cornigliae che gli aspettava d'ora in ora. Il piovanoudendo messer Vierie avendone aúto voglia gran tempodisse:
- Ben fate; ma quanto io per me vorrei vitigni che facesseno vino assai; cotesto è vitigno da far debito.
Messer Vieri rispose:
- Io non lo pongo per avanzarema per farne cortesia.
E cosí per alquanti dí si rimase la cosatanto ch'e' magliuoli un giorno giunsono in su la sera che era domenica e 'l piovano per avventura era col detto messer Vieri. E messer Vieri avendo letta la letteradisse:
- Ecco il fatto.
E 'l piovano rispose:
- Guardate che voi non gli poneste se la luna non dà volta.
Messer Vieri dice che non sapea gli andamenti della luna.
- Quando fia buon porli?
E quelli rispose:
- Da domane in là; sotterrategli istasera in qualche luogo qui di fuorie poi gli porrete.
Messer Vieri cosí fece fare; e 'l piovano si tornò alla sua pievelà dove subito ebbe due lavoratorili qualicome che fosse da seraandassono a portare certe sue pergole d'uve angiole e verdoline e sancolombane e altri vitignie subito le recassono; li quali cosí feciono; e recate che l'ebbonoil piovano disse:
- Voi avete andare con questi magliuoli al luogo di messer Vieri de' Bardidove voi troverrete dal tale lato sotterrati certi magliuoli; recatemi quelli e in quel luogo sotterrate questi.
Costoro ubbidentisubito andorono; e fatta la faccendagli recorono al piovano; il quale detto loro che mai alcuna cosa ne dicessonola mattina di buon'ora in un suo pezzo di terra divelta fece porre i detti magliuolie messer Vieri similmente fece porre quelli che gli erano stati scambiati. E cosí li due posticci stettono due anni anzi che mostrasseno l'uvecome è della ragione de' posticci. Quando l'uve si cominciorono a vederee messer Vieri andando per lo suo posticcioil quale credea essere vernaccia da Cornigliavide nuove ragione d'uve al suo intendimentoe dove bianche di ragione verdigna e dove cimiciattole e dove angiolee cosí diversi vitignicome nel piú delle vigne poste alla mescolata si truova.
E con tutto questo di grappolo in grappolo molti acini assaggioetanto che facendo una assaggiatura di quasi tutti i grappoliebbe fatto sí grande corpacciata che quasi per lo 'nfiamento del dolore e per lo mangiare degli acini non potea ritornare a casa. E veramente il suo fu grandissimo doloreperò che dietro a lunga faticaaspettando il fruttose ne truovò fuori.
Di che stando in questa afflizionesubito scrisse a messer Niccoloso da Portovenere come molto bene l'avea servito de' magliuolili quali gli avea mandati di forse due anni; però chedove credea gli avesse mandati magliuoli da Cornigliagli avea avuti di vitigni dolorosi e tristii quali ogni volta si poteano vedere. Aúto la lettera messer Niccolosocome colui che si sentía avere ben servito l'amico suosubito si turboecome colui che veramente con l'occhio era stato a far potare la migliore vernaccia di Portovenere; e riscrisse a messer Vieri che elli per sé gli avea mandato diritti magliuoli di vernaccia; e se trovava il contraroche suo difetto non erama che elli cercasse beneche o per cammino o a casa sua non fossono stati scambiati.
Avendo messer Vieri la letteranon pensò mai se non come potesse rinvenire il fatto; e tanto si diede attornosappiendo chi in quelli tempi per lo paese avea poste vigneche gli venne trovato che 'l piovano dell'Antella gli avea scambiati i detti magliuolicome a drieto è stato detto. Di che sappiendo ciòe' s'avea pensato fare cose incredibili contro al piovano; e sarebbonli venute fattese non che gli venne maggiore fortunala quale gli fece dimenticare tutte queste cose; però che in questo tempo i Bardi furono cacciatidi che il piovano si rimase co' magliuoli e usufruttolli tutto il tempo della sua vitae ancora s'usufruttano per li successori. Questa novella mi fu narrata a Portovenerelà dove io scrittore nel 1383 arrivaiandando a Genova: e fummi interamente detta pur un'altra novellala quale quel medesimo giorno avvenne che fu questa.
Andando uno villano di Portovenere un giorno nei dí di marzo quando là mi trovaia potare quella medesima vigna donde questi magliuoli erano venuti; e intrando in una gondolettacome hanno d'usanzaper maree approdare e scendere appiè delle vignee portando un poco di vivanda per mangiaree legando la gondoletta quando è sceso in terra; ed essendo d'usanzaper la quantità di molti lupi che sono in quel luogoalcuna volta venire di quelli alla riva e lanciarsi nella barchetta e pascersi e di pane e di carne che truovono; cosí in questo di uno affamato lupo si lanciò in quella barchettala quale non essendo bene legatasubito essendo pinta dal luposi scostò dalla rivae in poca d'ora fu per mare di lungi da terra messer lo lupo piú di trenta braccia. E 'l contadinoil quale era attento a potare la vignapur volgendosicome spesso usanoverso il marevide la barchetta sua partita dalla riva e pigliar mare; e non scorgendo bene chi la menavacominciò a gridare:
- O tu che meni la mia barcatorna alla riva che ti nasca il vermocaneche per lo sanghe de De ti farò appiccare alle forche basse.
E cosí gridando e strangolandosi e non veggendo tornare la barca indietroma dilungandosi piú tosto dalla prodacorse giú per la piaggia in verso il maree chiamando e guardando ben fisoebbe veduto il lupo nella barca. E vedutolo e fattosi il segno della crocee gridato: "Soccorretesoccorrete"era tutt'uno. Tanto che di voce in voce il romore giunse a Portovenerelà dove la gente tutta cominciò a correrechi con le balestrae chi con la lanciae chi con ispiedi; ed entrati in certi legni e navicando verso il romoregiunsono alla piaggia dove il contadino gridava; e domandandolo della cagione del romorerispose:
- Vedé gran maraviglia che 'l lupo cozzí se ne va con la mia barchetta.
Costoro voltisi a quelladanno de' remi in acquae giunti intorno alla barca dove era il lupocominciano ad alte vocetirando le balestra:
- In fé di Diomesser lo luvovo' farrí il mal viaggio.
Gli atti che 'l lupo faceaveggendosi colto in mareerano cosa maravigliosa; e costoro attorniatolo con loro legni e con le balestra carichecomincioronlo a saettaretanto che il lupo fu morto. Morto il lupolevorono il contadino su la sua barca e fecionlo sedere sul lupoe con gran festa nel menorono a Portovenerefacendosi ciascuno maraviglia di tal casogodendo tutta la brigata insiememangiorono questo lupo. E maestro Ubertino di Fetto Ubertini in teologiafrate eremitanoin quello tempotornando da Genovatrovai in Portovenereil qualecom'iofu presente a tutte queste cose.
E veramente considerando questo casochi fia colui che sappia dove dee morire e comepensando dove i lupi spesse volte son presi? E qual caso di morte piú nuovo che esser preso e morto un lupoper aver messo la coda nel cocchiume d'una bottegrattandosi della rognao della stizzacome addietro nella novella è fatta menzione? E qual caso piú nuovo che essendo un lupo quell'animale ch'èpiú selvaggio e piú terreno e piú spaventevole e spezialmente perché egli è quella bestia che piú ha d'ardire a uccidere la natura umanaessersi condotto in un piccolo battello per mare a esser morto per questa forma? Io per me credo che quando queste cose intervengono ci sono mostrate per figura dall'eterno Diose noi le conoscessimo. E non sono affigurati i lupi a' tiranni? e qual tiranno è che possa vivere sicuro e guardisiquantunche sa che il piú delle volte non sia colto a nuove tagliuole e in luogo dove l'uomo non lo penserebbe giammai? Ma ancora ci ha piú nuova cosa: che quelle pecorellele quali piú elli devoranosono quelle che danno loro mortecome intervenne a questo lupo.
S'e' tiranni lupigni pensassino alla presente novellapiú tosto porterebbono vestigio e natura di pecorella che di lupo; ma la superbia e l'avarizia vuole che ciascuna città per li suoi peccati sia dilungata da' giusti pastori e soggiaccia sotto a' lupi rapacili quali sono nimici della justizia e amici della forza.


NOVELLA CLXXVIII

Giovanni Angiolieriandando a vedere donne in Veronapercuote il piede in una pietrae con empio animo col coltello voltosi verso leicome fosse uomo la volea uccidere.

Non furono tanto fieri quelli di Portovenere a uccidere il lupo che navicavaquanto era fiero a volere uccidere una pietra Giovanni Angiolieri nostro fiorentino. Il quale trovandosi in Veronaed essendo uno bell'uomo attempatocon Piero Pantaleonidi simil età formosoavendo le gorgiere intorno alla golacome allora s'usava per li Fiorentinie ancora avendo il detto Giovanni il coltello allatodisse a Piero se elli volea con lui andare a vagheggiare. Pieroche piacevole uomo erafu subito prestoe disse:
- Andiamo.
E mossi che furonogiugnendo a uno scontrazzo di donnee Giovanniche lussurioso era moltoandando e guardando le donnepercosse in una pietra per forma che tutto fu che caduto in terrae riaútosi che s'ebbetutto il guardare che facea verso le donne convertí contro alla pietracon un fiero piglio pigliando con la mano le cornicella del coltellodicendo:
- Per lo corpo di Cristo che se tu fussi uomocome tu se' pietraio ti ficcherei questo coltello infino alle cornicelle; e pur cosí cosínon so a ch'io mi tenga ch'io nol faccio.
Piero che ciò vedeacon grandissime risadice:
- DohGiovannidatti pace; queste sono cose che intervengono tutti dí al mondo.
Giovanni si volge a Pieroe risponde subito
- Dehsia col nome del diavolose noi ci lasceremo cacare in capo.
A Piero parve questa una nuova novellae assai gli fu fatica a temperare Giovanni che non volesse pur uccidere quella pietra. E via piú nuova parve a quelli uomeni e donne veronese che questo vidono; che senza questo caso erano uccellati quelli fiorentini che per lo mondo erano veduti in gorgiera; ed era scorto un volgare che dicea: - "O Lapo rico' quel danaio".- Non ricogliere'se fosse un quattrino. BrievementePiero si tornò a casa col detto Giovanni il piú tosto che poteoe ad animo riposato la sera ebbe Giovannie disse:
- Giovannitu vedesti oggi a quanta ira tu venisti per quel caso che ti occorse di quel sasso; e' non è gran fattocome molti stimanoperò che per Giovanni da Sasso i Fiorentini vennono poco tempocome tu saia gran guerra co' Pisanie fu pe' fatti di Pietrabuona. Sí che tu vedi e puoi conoscere checome gran virtú è nelle pietrecosí spesso v'è il contrario; però che una piccola pietra molte volte uccide un uomoe 'l male della pietra è uno grandissimo male. Ma quello che mi pare gran cosa è che chi ha gli occhi s'acciechi elli stesso. Noi ci abbiamo questa nostra usanza di queste gorgiereo doccioni da cesso che vogliamo dire; ne' quali tegnamo la gola sí incannata che noi non ci possiamo tenere mente a' piedie con questo siamo scherniticome tu puoi vedere: abbiàn noi brigase non con noi stessi? questa fatica a che ci diàn noi? E non ti dico delle bracciaiuoleche è assai nuova cosaalmeno a' forestieriquando le veggono che ben possono dire che noi portiamo la gola nel doccione e 'l braccio nel tegolo. Lasciamo questa foggia a chi la vuolee andiamo in forma che noi ci possiamo por mente a' piedi.
Giovannicome ebbe udito Pierosubito dice:
- E cosí sia fatto.
E subito spogliatosisi sfibbia la gorgierae dàlla a Pieroe dice:
- Nel primo fardello che faraimandala a vendere a Firenze.
E cosí similmente Piero si digozzò; e in quelli dí infreddorono si della gola che non faceano altro che tossiretanto che convenne facessono per piú mesi collaretti foderatise vollono poter resistere al freddo che sosteneano per la levata gorgiera. E quando cominciorono a uscire fuorie andare per Veronaa chi gli avea veduti in gorgiera parea una nuova cosae diceano:
- Guarda li Toscani che s'han levado la gorzera -; e molte altre cose.
E cosí rimase la cosa. E non fu ella al mondo sopra tutte le altre usanze maravigliosa questa della gorgiera? Di tutte l'altre che furono mai nel mondoquesta fu la piú strana e la piú noiosa. E racorda a me scrittore che io udi' dire a Salvestro Brunelleschi che essendo elli stato quasi sempre in Friolitornò a Firenze quando i suoi consorti aveano grandissima briga con una famiglia loro vicinachiamata gli Agli; e tornando in quel tempo della Magna uno degli Agli chiamato Guernizoo per lo nomeo perché fiero uomo tenuto fossetutti i Brunelleschi s'armarono per forma che a Salvestro fu messa la gorgiera; e in quella mattinaandando a desinaree avendo una scodella di ceci innanzie pigliandoli col cucchiaio per metterseli in boccagli si misse giú per la gorgiera. Egli erano caldi; il collo e la gola il sentí per forma che elli disse:
- Io m'avea messa la gorgiera per paura del Guenizeed ella m'ha arsa tutta la gola -; e levatosi da tavolala si trasse e gittolla per lo spazzodicendo: - Io voglio innanzi esser morto da' miei inimici che uccidermi io stessi.
O quante usanze per la poca fermezza de' viventi sono ne' miei tempi mutatee spezialmente nella mia città. Che fu a vedere già le donne col capezzale tanto aperto che mostravono piú giú che le ditelle! e poi dierono uno saltoe feciono il collaretto infino alli orecchi; e tutte sono usanze fuori del mezzo. Io scrittore non potrei contare per altrettanta scritturaquanto tutto questo volume contienele usanze mutate ne' miei dí; ma come ch'elle si mutasseno spesso nella terra nostranon era che nella maggiore parte dell'altre città del mondo elle non stessono ferme; però ch'e' Genovesi non aveano mai mutate le loro foggee' Viniziani mainé Catelani mutavano le loroe cosí medesimamente le loro donne; oggi mi pare che tutto il mondo è unito ad avere poca fermezza; però che gli uomeni e donne FiorentiniGenovesiVinizianiCatelanie tutta Cristianità vanno a uno modonon conoscendosi l'uno dall'altro. E volesse Dio che vi stessono su fermi; ma egli è tutto il contrarioché se uno arzagogo apparisse con una nuova foggiatutto il mondo la piglia. Sí che per tutto il mondoe spezialmente Italia è mutabile e corrente a pigliare le nuove fogge.
Che è a vedere le giovenetteche soleano andare con tanta onestàavere tanto levata la foggia al cappuccio che n'hanno fatto berrettae imberrettatecome le mondane vannoportano al collo il guinzagliocon diverse maniere di bestie appiccate al petto. Le maniche loroo sacconi piú tosto si potrebbono chiamarequal piú trista e piú dannosa e disutile foggia fu mai? pote nessuna tòrre o bicchiere o boccone di su la mensa che non imbratti e la manica e la tovaglia co' bicchieri ch'ella fa cadere? Cosí fanno i giovenie peggio che si fanno questi maniconi a' fanciulli che poppano. Le donne vanno in cappucci e mantelli. I piú de' gioveni sanza mantello vanno in zazzera. Elle non hanno se non a tòrre le brachee hanno tolto tutto; elle sono sí piccole che agevolmente verrebbe loro fattoperò ch'egli hanno messo il culo in uno calcetto; e al polso danno un braccio di panno; mettono in uno guanto piú panno che in uno cappuccio.
D'una cosa mi conforto che ciascuno s'ha incatenare i piediseguendo cosí nell'altra persona. Forse serà fare penitenza ciascuno di tante cose vane; che si sta un dí in questo mondoe in quello si mutano mille fogge e ciascuno cerca libertàed elli stesso se la toglie. Ha fatto il nostro Signore il piè libero; e molti con una punta lunghissima non possono andare. Fece le gambe a gangherie molti con lacci se l'hanno sí incannate che appena si possono porre a sedere; lo 'mbusto è tutto in istrettoiele braccia con lo strascinío del pannoil collo asserragliato da' cappuccini; il capo arrandellato con le cuffie in su la zazzera di notte che tutto il dí poi la testa par segata. E cosí non si finirebbe mai di dire delle donneguardando allo smisurato traino de' piedie andando infino al capo; dove tutto dí su per li tettichi l'increspae chi l'appianae chi l'imbiancatantoche spesso di catarro si muoiono.
O vanagloria dell'umane posseche per te si perde la vera gloria. E di questo piú non vo' parlare; però ch'io mi avvilupperei ne' fatti loroe dell'altre cose non potrei parlare.


NOVELLA CLXXIX

Due donnedi due conti Guidi mogliesi mordono con due maleficiosi dettimossi per parte guelfa e ghibellina.

Perché io in parte di sopra ho parlato della vanità feminilemi viene a memoria di dire una novella di due donne le qualicon acutissimo ingegno e maleficio di parolel'una verso l'altra cominciòe come l'altra sagacemente rispose.
Funon è gran tempoin casa conti Guidi maritate due donne; l'una fu figliuola del conte Ugolino della Gherardescail quale i Pisani feciono morire di fame co' suoi figliuoli; l'altra fu figliuola di Buonconte da Montefeltrouomo quasi capo di parte Ghibellinae che erao egli o' suoistato sconfitto con gli Aretini da' Fiorentini a Certomondo. Avvenne adunque per caso che del mese di marzo queste due donneandando a sollazzo verso il castello di Poppi e giugnendo in quel luogo a Certomondodove i Fiorentini aveano data la detta sconfittala figliuola del conte Ugolino si volse alla compagna e disse:
- O madonna taleguardate quanto è bello questo granoe questo biadodove furono sconfitti i Ghibellini da' Fiorentini; son certa che 'l terreno sente ancora di quella grassezza.
Quella di Buonconte subito rispose:
- Ben è bello; ma noi potremo morire prima di fame che fosse da mangiare.
La buona donna che cominciò a trafiggeresentendosi cosí morderefece vista di non s'avvedere delle velenose parolee andorono per loro viaggio. Ora che diremo dello ingegno della malizia feminina? Piú aguto hanno l'intellettoe piú subito e a fare e a dire il male[e piú] assai che gli uomeni sono fatte parziali; che al buon tempo elle averebbono ripresi e' mariti lorooggi li confortono a combattere per parte.
E per questo da loro è disceso assai male nel mondoe discenderannese Dio per sua providenza non dispone gli animi a meglio che vedere si possa.


NOVELLA CLXXX

Messer Giovanni de' Medici balestra con una artificiosa parola Attaviano degli Ubaldiniil quale con quello strale la rende a lui.

Non fu meno velenosa risposta quella che fece su la piazza de' nostri Signori Attaviano di messer Aghinardo degli Ubaldini a messer Giovanni di Conte de' Medici. Il quale Attavianoessendo stato in Firenze dappoi che 'l padre era stato presoe dato ha Monte Colereto e tutto il suo al Comune di Firenzeavea preso quasi formacome gli altri cittadinid'andare e a' priori la mattina ch'egli entravonoed eziandio a' gonfaloni. E fra l'altre volte una mattina a dí otto di gennaiodandosi i gonfalonise n'andò a casa del Gonfaloniere con brigatacome faceano gli altri cittadinie poi con tutta la brigata seguí il Gonfaloniere insino in su la piazza; e lasciatolo alla ringhierane venne in Vacchereccia con quelli cavalieri che v'eranoe spezialmente con messer Giovanni di Conte là si puose a sedere. Ed è vero che poco tempo innanzi del MCCCLX era stato uno trattato in Firenze di molti cittadinie furonne due dicapitati; il qual trattato nell'effetto era di cacciare alcune famiglie; e in questo fu Bartolommeo di messer Alamanno de' Medici; e ancora tra' Medici e gli Ubaldini non fu mai né pace né buona volontà. Ora venendo al fattostandosi cosí a sedere messer Giovanni col detto Ottavianoincominciò a dire:
- DehOttavianochi averebbe mai creduto che gli Ubaldini fosseno venuti in tal mattina accompagnare i gonfaloni in questa nostra città?
E Ottaviano subito rispose:
- Allora si serebbe creduto questoche si serebbe creduto che i Medici avesseno voluto sovvertere il popolo di Firenze.
Messer Giovanni ammutolò per forma che non disse piú verbo.
E però non si potrebbe essere troppo cauto in pensare quello che l'uomo comincia a dire; però che le parole conducono spesse volte gli uomeni nel lecceto in forma che chi ha mosso riceve parole che sono peggio che spontonate. A molti è già nociuto il favellare; il tacere mai non nocque ad alcuno.


NOVELLA CLXXXI

Messer Giovanni Augut a due frati minoriche dicono che Dio gli dia pacefa una subita e piacevole risposta.

Quella che fece messer Giovanni Augut a due frati minori fu assai piacevole risposta; i quali fratiandando a lui per alcun loro bisogno a uno suo castelloladdove egli erachiamato Montecchioquasi uno miglio di qua da Cortonae giugnendo dinanzi alla sua presenzacome di loro usanzadissono:
- MonsignoreDio vi dia pace.
E quelli subito risponde:
- Dio vi tolga la vostra elemosina.
Li fratiquasi spaventatidissono:
- Signoreperché ci dite voi cosí?
Disse messer Giovanni:
- Anzi voi perché dite voi cosí a me?
Dissono i frati:
- Noi credevamo dire bene.
E messer Giovanni rispose:
- Come credete dir bene che venite a mee dite che Dio mi facci morir di fame? non sapete voi che io vivo di guerrae la pace mi disfarebbe? e cosí come io vivo di guerracosí voi vivete di lemosina; sí che la risposta che io v'ho fatta è stata simile alla vostra salutazione.
I frati si strinsono nelle spallee dissono:
- Signorevoi avete ragione; perdonateciché noi siamo gente grossa.
E fatta alcun'altra faccenda che aveano a fare con lui si partirono e tornorono al convento di Castiglione Aretinoe la contorono questa per una bella e nuova novellaspezialmente per messer Giovanni Augutma non per chi averebbe voluto stare in pace. E per certo e' fu quell'uomo che piú durò in arme in Italia che altro durasse maiché durò anni sessantae ogni terra quasi gli era tributaria; ed elli ben seppe faresí che poca pace fu in Italia ne' suoi tempi. E guai a quelli uomeni e populi che troppo credono a' suoi pariperò che populi e' comuni e tutte le città vivono e accrescono della paceed eglino vivono e accrescono della guerrala quale è disfacimento delle cittàe struggonsi e vengon meno. In loro non è né amorené fede. Peggio fanno spesse volte a chi dà loro i soldiche non fanno a' soldati dell'altra parte; però chebenché mostrino di voler pugnare e combattere l'uno contro all'altromaggior bene si vogliono insieme che non vogliono a quelli che gli hanno condotti alli loro soldi; e par che dicano: ruba di costàche io ruberò ben di qua. Non se n'avveggono le pecorelle che tutto dí con malizia di questi tali sono indotte a far guerrala quale è quella cosa che ne' popoli non può gittare altro che pessima ragione. E per qual cagione sono sottomesse tante città in Italia a signorele quali erano libere? Per qual cagione è la Puglia nello stato ch'ella èe la Cicilia? E la guerra di Padova e di Verona ove le condussee molte altre cittàle quali oggi sono triste ville?
O miseri adunque quelli pochiche pochi sonoche vivono liberi: non credano alli inganni della gente dell'arme; stiano in pacee innanzi siano villaneggiati due o tre volteche si movano a far guerra; però che la si comincia agevolmentee balestra in parte che nessuno il credee 'l suo male non si può emendare per fretta.


NOVELLA CLXXXII

Messer Ridolfo da Camerinoessendo invitato di combattere a corpo a corpocon una piacevole risposta il fa conoscente.

Ancora non voglio lasciare una risposta di messer Ridolfo da Camerino. E’ sono molti già stati che avendo invidiaodio o nimistào guerracon uno signore d'assaihanno pensato e sottigliezze e astuzie come con piccol costo potessono vituperare quel tal signore. Fu adunque uno signorello nella Marca o di Matelicao di Maceratapotrei errareil quale non possendo resistere agli assalti di messer Ridolfogli venne un pensiero di mandarlo a richiedere di combattere a corpo a corpoimmaginando: messer Ridolfo non vorrà combattere e rimarrà vituperato. E preso un suo ambasciadoregli commise l'ambasciata. E avuto il salvocondottoandò alla presenza di messer Ridolfo; il qual giunto a luidisse:
- Il tal signore per ogni modo che puòvi sfidae vuole combattere con voi; eleggete il campo e 'l díed elli è presto.
Messer Ridolfo guarda costuie sghignando chiamò un suo famiglioe disse:
- Va'reca da bere a costui delle buone novelleché par che 'l tal signorenostro nimicodi signore sia fatto medico.
E piú oltre non dissetanto che l'ambasciadore ebbe bevuto: beúto che ebbedisse messer Ridolfo:
- Tu sie il ben venuto; le tue parole aio intese; torna al tuo signore e di': "E’ dice Redulfo che tu lo sfidiche non credea che tu fossi fatto medico; poiché vede che ci sei medicoogni volta che gli verrà febbre o altro difetto nella personaegli ti manderà l'orina".
L'ambasciadore quasi intronò di questa rispostae disse:
- Signorevolete che io dica altro?
E messer Ridolfo disse:
- Io ho detto assaise lo saprà intendere.
Partesi l'ambasciadore e tornò al suo signore con questa risposta. Come quello signore l'udíse prima gli portava odiogliene portò poi molto piú; e ancora dicea in se medesimo: "E’ mi sta molto bene; io mando sfidandoe s'egli avesse voluto combattereio non so se io mi vi fosse condotto; e' m'ha dato la risposta che io meritava". E da questa ora innanzi sempre cercò d'esser suo amico.
Assai ne sono stati che sanza fare alcuna comparazionerichiederanno di combattere con uno a corpo a corpoe Dio il sa come verrebbono agli effetti. Ma questa battaglia è lecito ad ogni savio uomo di schifarla.


NOVELLA CLXXXIII

Gallina Attaviani dà un bel mangiare a uno forestiericredendo sia gran maestro d'una artee mangiatotruova il contrario; di che s'ha perduta spesae rimane scornato.

Ora lascerò le subite risposte e verrò a dire d'alcun nuovo avviso fatto per un nostro fiorentinoil quale ebbe nome Gallina Attaviani. Fu costui orafo in Porta Santa Mariae continuocome fannoscolpiva suoi intagli dentro allo sportello.
Era per ventura in quel tempo venuto a Firenzeper andare a Romauno Rinaldo da Monpolieriil qualeuscendo la mattina dall'albergo de' Macciove tornavaandava in Orto San Michele a udire messa o a vedere Nostra Donna; e poi andava in Mercato Nuovodistendendosi per Porta Santa Marialà dove avea preso per uso di posarsi e d'appoggiarsi allo sportello del Gallinae làsanza dire alcuna cosaguardava e considerava lo 'ntagliare del Gallina. E continuando questo piú volte in diversi díal Gallina venne in pensiero costui dovere essere uno grandissimo maestro d'intagli. E avvisandosi quasi fosse Pulicretouna mattinasanza sapere altrogli disse:
- Gentiluomoio vi prego che domattina voi desiniate meco.
Rinaldo disse piú volte:
- Gran mercè -; non bisognava; e che sempre era con luiecc.
Allora il Gallina piú infiammavae tanto gli disse ch'egli accettò lo 'nvito. La fortuna fu favorevole al Gallinaacciò che potesse fare piú magna spesa; egli era di quaresimae al Ponte avea storioni e lamprede. Egli andò e invitò certi suoi vicini gentiluomeni e de' Bardie de' Rossie fece uno mangiare di quattro taglieri bellissimo. Venuta l'altra mattinae Rinaldo s'appresentò alla bottega del Gallinae andarono a desinare; là dovecom'è d'usanzatutti facevono reverenzia al forestieree domandavono el Gallina chi egli era. E 'l Gallina dicea che nol sapeama che gli parea comprendere ch'egli era un gran maestro d'intagli e innanzi ch'egli uscisse da tavolaegli il domanderebbe che mestiere era il suo. E cosí mangiandoavendo desinatoe venendo l'acqua alle maniel Gallina dice:
- Voi dovete essere un gran maestro a Monpolieri; deh ditemise Dio vi guardi: che arte o che mestiere è 'l vostro?
Rinaldo risponde:
- Fra' mioson concagador di boccali.
Dice il Gallina:
- Che dite voi che siete?
Rinaldo dice:
- Son concagador di boccali; noi chiamiamo concagare quello che voi vedete vi si dipigne sue boccali quelli che voi chiamate orciuoli.
Quando il Gallina intese tuttodisse fra sé stesso: "Buona spesa ho fatta; se io fo l'altre a questo modoio potrò tosto lavorare vasi di terracome costuie lasciare stare quelli dell'ariento". Gli altri che erano a desinare scoppiavano di voglia che avevano di ridere; e levatisi da mensaGuerrieri de' Rossiche era al desinare statopigliò il Gallina per la mano da partee dissegli:
- E’ t'è venuto istamane la maggior ventura che io vedesse mai venire a uomo del mondosí che sia contento della spesa che hai fattacome che costui sia concagadore di boccali. Tu hai nome Gallinae costui ha nome Rinaldo; quando fu mai che la volpe potesse appressarsi alla gallina ch'ella non se la manicasse? hatti aiutato la fortuna che gli mettesti dell'altre vivande assai innanzidi che tu se' campato; spiccati da lui il piú tosto che puoie lascialo concagare i boccali.
Dice il Gallina:
- Guerrieritu motteggi sempre; io me n'ho una mia una.
E Guerrieri rispose:
- E io me n'ho un'altrache quella lampreda fu la miglior cosa che io manicasse anche.
E cosí alla piazza a Ponte si rise piú tempo di questa novella; e Rinaldo e 'l Gallina se n'andorono verso la bottegae indi a pochi dí Rinaldo si tornò a Monpolieri a concagare i boccali.


NOVELLA CLXXXIV

Uno Piovanogiucando a scacchivincendo il compagnosuona a martelloper mostrare a chi traecome ha dato scaccomatto; e quando gli arde la casaniuno vi trae.

A San Giovanni in Soana in Valdipesa fu già uno piovano molto piacevole uomo e grande giucatore a scacchie spesse volte giucava per spassare tempo alla sua pieve con uno gentiluomo de' Giandonatie dicendo molte cose su lo scacchierecome sempre fanno li giucatori delli scacchied essendo venuto la cosa in gara: - Io ti darò scaccomatto. - Non farai. - Sí farò -; il piovano o che ne sapesse piúo come si fossedelle sei volte le cinque gli dava scaccomatto. E quello de' Giandonatinon che si confessasse averlo aútoma spesse volte dicea averlo dato a lui.
Avvenne per caso che un dí fra gli altrigiucando e terminandosi il giuocoil prete si recava a darli scaccomatto. Colui dicea di no. E 'l piovano dice:
- Io tel darò nel mezzo dello scacchiere.
- Che darai? non farai; io il darò a voi.
Eccoti aúto scaccomatto dal piovano in mezzo dello scacchieree non lo volea consentire. Il piovanoveggendo questocorre alle campane e suona a martello. Come il popolo sente sonareognuno trae. Giunti alla pievefannosi al piovano:
- Che è? che è?
Dice il piovano:
- Voglio che voi il veggiate e siate testimoni che io gli ho dato scaccomatto in mezzo dello scacchiere.
I contadini cominciono a ridere; e dicono:
- Messer lo piovanofateci pur scioperare- e vannosi con Dio.
E cosí sta per spazio d'uno mese che poi interviene un'altra volta questo caso; e 'l piovano suona a martello. La gente traema non tanti quanti la prima volta. E 'l piovano mostra loro come gli ha dato scaccomatto in mezzo dello scacchiere. I contadini si cominciano a scornare e doleredicendo:
- Voi la potrete ben sonare che noi ci vegnamo piú.
E da questo vogliono dire alcuni che venisse il motto che dice: "Tu la potrai ben sonare". Il piovano disse avesseno pazienzaperò che meritavano a venire a trarre un uomo del suo errore. I contadini diceano:
- Noi non sappiamo che erroresappiamo bene che tra la prima volta e questanoi siamo scioperati una opera per uno.
E 'l piovano disse:
- Voi sapete che nella morte di Cristo disse Caifas: "E’ conviene che uno uomo muoia per lo popoloanzi che tutta la moltitudine perisca"; e io dico a voi ch'egli è di necessità che tutti abbiate un poco di faticaacciò che costui esca del suo errore; or non siano piú parole; se ci volete venireci venitee se nosí vi state -. E quasi brontolando si partirono.
Avvenne per casocome spesso incontraed è piacere di Dioche da ivi a due mesivolendo una femina di questo piovano fare bucatos'apprese il fuoco nella sua casa in cucina; e fu su la compieta; di che subito il piovano suona la campana a martello. I contadini erano per li campichi con vanga e chi con marraessendo già l'ora d'uscire d'opera; chi si getta la vanga e chi la marra in collo e vannosene verso le loro casedicendo:
- El prete la potrà ben sonare; se giuoca a scacchied elli si giuochi; meglio serebbe che egli attendesse a dire l'ore e gli altri beneficii.
E cosí non si curando costoro del sonare a martellola casa in gran parte arse. La mattina vegnentecome la voce va per lo popolosi dice la casa del piovano essere arsa; chi si duolee chi dice:
- Ben gli sta.
Vénnonne una gran brigata verso la chiesadove il piovano stava tristo e afflittoe dice a costoro:
- Io l'ho ben potuta sonare acca per traverso; sonala ben che Dio t'aíche io ho la mala pasquabontà di voi che non mi avete soccorso.
Allora quelli che v'eranotutti a una voce dissono:
- Noi credevamo che voi giucassi a scacchi.
Il piovano rispose:
- Io giucava ben ora a scacchi col fuoco; ma elli m'ha dato scaccomatto e hammi diserto.
Certi de' contadini risposono:
- E voi ci allegasti l'altro dí Caifas che disse cha era di bisogno che uno perisse per lo popoloanzi che perisse tutta l'umana generazione; fate ragione che noi abbiamo seguita questa profezianon che voi siate morto per lo popoloma che voi abbiate aúto una disciplina o una gastigatoiaanzi che 'l popolo vostro periscaché ogni dí ci facciavate correre qui come smemorati.
Dice il piovano:
- Io credo che voi diciate il vero e allegate molto bene; e 'l riso degli scacchi m'è convertito in pianto. Io saprò oggimai che mi faree serrerò la stallapoi che io ho perduto i buoi.


NOVELLA CLXXXV

Pero Foraboschi truova in un'oca cotta un capo di gattae quello perché gli fu fattoe quello che gli avviene.

Pochi anni sono passati che in Firenze fu un gentiluomo chiamato Pero Foraboschiil qualeessendo antico d'anni e avendo del nuovotornando di Valdarno verso Firenze e arrivando a Casciafu invitato del mese d'ottobrequasi in finea bere là con uno contadino; il quale accettando l'invitogli furono recate castagne seccheper sí fatto modo che togliendone Pero parecchie in manoe cominciando a volerne mangiare unatra ch'egli avea pochi denti e cattivi e la castagna era dura come pietrae' non vi fu modo che e' non se la cavasse di bocca e rimettessela in manoe ripresene un'altra la quale in simil forma non si macerò mai; e provando or l'una or l'altratutte le provò e in mano se le ritolsesanza poterle domare. E cosí avendole in manopigliò commiato; e venendo verso Firenzegiammai non le dimorsòche sempre tra via or l'una or l'altra si metteva in boccae quanto piú le biasciava e rugrumavapiú induravano. A questo modo giunse questo Pero a Firenzelà dove giugnendouno Bartolozzo speziale che stava in su quel canto de' Figliuo'petriassai piacevole persona e nuovo uomogli si fa incontroe salutando il piglia per la manoe sceso da cavallolo invitò a bere. Pero disse:
- Lasciami rimettere il ronzino in casae io ne vengo -; e mostragli le castagne e dice: - E anco ho l'esca da me.
Disse Bartolozzo:
- Io me ne vo innanzivienne a tuo agio.
Rimesso il ronzino nella stallaPero se n'andò a bere con Bartolozzo; dove essendovi degli altri vicinie Pero porse la mano delle castagne alla brigata. E togliendone ciascunoo che le castagne fossono intenerite o che uno di loro avesse migliori denti che Perodisse:
- O elle son vincide.
E Pero rispose:
- Elle possono ben essere vincideche io l'ho recate in bocca da Cascia in qua.
La brigata si volge e sputano quelle tante che aveano in bocca; e Bartolozzo dice:
- Come diavolo l'hai recate in bocca?
Pero grosso raffermò la faccenda; e gli altri si guatorono insieme e spaccioronsi di bere e andoronsi con Dio. Bartolozzotornando alla bottegafra sé stesso si dolea dicendo: "Io fo onore a Peroed elli mi fa villania dogli del migliore vino ch'io hoed elli m'ha dato della lava sua: non sia io mai uomose io non gnene fo una piú sucida a lui".
Avvenne per caso che la fortuna da indi a pochi dí fu favorevole al desiderio suoperò chevenendo la vilia d'Ognissantie Peroo che li fosse stata donatao che avesse comprata una grassissima oca pelatadisse a uno contadino che era con lui:
- Va' e portala alla bottega di Bartolozzo spezialee di' che me la serbi.
E 'l contadino cosí fece. Come Bartolozzo vide questadisse a uno fanciullo della bottega:
- Va'riponla.
E pensando in che modo ne potesse fare una a Peroandandosene a desinareebbe veduto una gatta morta presso all'uscio suo e occultamente a uno fanciullo se la fece tirare in casa; e fatto questotagliò il capo della gatta e l'imbusto fece gittare segretamente fuori.
Desinato che ebbeportò il capo della gatta sotto il mantello alla bottegae veduto tempo che segreta potesse fare la faccendatolse l'oca di Perola quale non era ancora mossa dalla bottega; e sparata che l'ebbe e cavato ciò che dentro aveavi misse il capo della detta gattae cuscitolo dentrola rappiccò donde spiccata l'avea.
Non fece Bartolozzo questo per lo fine a che venne poiperò che s'avvisoe che mandando Pero per l'ocae facendola aprire per mettervi o agli o mele cotognetrovasse in iscambio delle cose dentro dell'ocala testa della gatta; e di questo vedesse la novità che ne seguisse. Ma la fortuna volle che la cosa andasse piú oltre e in altra forma. Però che mandando Pero per la detta ocae per avventura essendo in quel dí venuta a stare una fante con lui che avea nome Ceccala qualenon essendo mai stata con altruidicea saper ben fare ogni cucinanon essendosi mai partita da Baragazzadond'ella erase non allora che venne a Firenzee alla prima casa che arrivòfu a casa Pero Foraboschi; credendo Pero che questa fosse figliuola di Pellinodisse che acconciasse quell'oca e portassela al forno. Costeivedendola sparata e ricucitaavvisossi ch'ella fosse acconcia d'ogni cosa che bisognava; e tolto uno tegame e acconciala dentrola portò al forno. Venuta la sera d'Ognissantie la Cecca andata per l'ocae Pero e la sua famiglia essendo a tavolafacendo venire la detta ocacome la vide cosí rilevata nel corpodisse:
- Per certo bene è riuscita quest'oca bella e grassacom'io credea; guarda quant'ella è piena -; e recasela innanzie col coltello in mano la cominciò a spolpare e a mangiare.
Quando le parti di sopra furono quasi mangiatee Pero comincia a entrare nel groppone; là dove aprendo da parte di drietoparve che s'aprisse uno cimitero; e a un tratto giugnendo il puzzo al naso e agli occhi il capo della gatta incostricciato e digrignante che parea un teschioPero quasi smemoratosegnandosi e levandosi da tavoladice:
- Che mala ventura è questa?
La donna sua sbigottita conforta Peroe pensa quella essere una malíadicendoli che si boti di porre una immagine alla Nunziata s'ella gli fa grazia che rimanga libero di tale accidente. Pero dice:
- E cosí la prego e cosí prometto.
E levatosi la cosa dinanzi e gittata viacome si dee crederela notte quasi non dormílamentandosi di quello che avea mangiato. E pensando tutta notte sopra a ciòla mattina vegnente andò investigando chi fossono quelli che gli aveano venduta quell'ocao a luio al notaio della Grascia dov'egli era officialeil quale si crede veramente che gli la donassecome ancora oggi si fa. Donde ch'ella venissePero consumò quasi tutta la mattina de' Morti e per paura della malíae per ogni altra cagionein andare investigandoe chi l'avesse vendutae ancora Bartolozzo che l'avea serbatase potesse trovare chi avesse messo il capo della gatta dentro all'oca. E non potendone alcuna cosa trovare per fuggire il pericolo di che dubitavasi tornò a casae 'l dí tre di novembre s'andò in Orto San Michelefacendosi fare di cera; e dopo alquanti dí compiuta la immaginela fece portare alla chiesa de' Servie là alla Nunziata la presentò.
La quale poi fu messa a' ballatoi del legname che sono di sopra; e insino al dí d'oggi si vedech'ella somiglia propio Pero Foraboschi.
Or cosí intervenne a Peroper dire che avea recate le castagne in bocca da Cascia in quache furono due stoltizie: l'una recare parecchie castagne da Casciae l'altra dire che l'avea macerate in bocca; di che a lui fu messo a macerare il capo della gatta nel culo dell'oca; ed elli ne diventò di ceraappresentandosi a' Servi. E per recare per miseria sei castagnuzze da Casciagli venne comprata l'una piú di venti soldi. E cosí l'avaro molto spesso spende piú che 'l largocome nel mondo tutto dí interviene.


NOVELLA CLXXXVI

Messer Filippo Cavalcanti calonaco di Firenze credendo avere la sera d'Ognissanti una sua oca cottaper nuovo modo gli è tolta.

Una novella d'un'altr'oca mi viene a memoria di raccontarela qualecon gran diligenza essendo pienanon di capo di gatta ma d'allodole e d'altri uccelletti grassivenne alle mani di certi che se l'ebbonocome la fu cotta; e coluidi cui l'erasi stette alla musa la sera d'Ognissanti. Non è molti anni che in Firenze in Porta del duomo furono certi giovenili quali si pensarono tra loro di fare uno Ognissantisanza fatica e sanza costoalle spese altrui. E avviatisi la sera d'Ognissanti a certi fornitolsono alcune oche a' fanti e alle fanti che le portavono a casa. E giugnendo molto tardi al forno della piazza de' Bonizistando di fuori assai nascosiveníeno i servi al fornoe diceano:
- Dammi l'oca del tale de' Ricci.
Quando udivano dire de' Riccidiceano:
- Questa non è l'oca nostra -; se diceano de' Medicio degli Adimaridiceano il simile.
Avvenne che uno fante bergamasco giugne e dice:
- Dammi l'oca di messer Filippo Cavalcanti - (che era calonaco di Santa Reparata).
La brigata dice l'uno all'altro:
- O questa è l'oca nostra.
E aúto che 'l fante ebbe la detta oca nel tegamecome è consuetudines'avviò d'andare a casa messer Filippo con essache stava in quella via appiè del campanile; dove sempre v'era tavernae luogo assai oscuro. Come i gioveni vidono mosso l'amicocosí gli s'inviano dirieto; e giugnendo il fante all'uscio che era serratocome cominciò a picchiaree due s'accostaro; l'uno dà d'uncico all'ocae l'altro il tiene dirietoe lasciatoloe fuggendo tutti come cavriuolifu tutt'uno. Il fante comincia a chiamare messer Filippo con alta boceché ancora non avea aperto:
- O messer Filippol'oca sen vao messer Filippol'oca sen va.
Messer Filippo ciò udendosi muove dicendo:
- Come sen va l'ocache sie mort'a ghiado? non è ella mortae cotta?
E 'l fante spesseggiava:
- Io vi dico ch'ella sen vavenite tosto.
- Come sen vache sia tagliato a pezzi? è ella viva? - e con questo giugne all'uscioe apre.
E 'l fante dice:
- Oimèmesserecerti ghiottoni m'hanno rubato l'oca.
Dice messer Filippo:
- O non potevi tu dire: l'oca m'è tolta? che sia impiccatocome seranno ellino.
E cosí dettoandò ben cento passi gridando:
- Pigliate i ladri.
Trassono fuori de' vicini.
- Che èche è?
Ed e' risponde:
- Come diavol: "che è?"; èmmi stata tolta l'oca che venía dal forno.
Dice il fante:
- Voi dite villania a meperché io dicea che l'oca se n'andava; e voi dite ch'ella venía dal forno; o come venías'ell'era mortae non era viva?
Messer Filippo guata costuie dice:
- O questo è ben peggio che 'l fante vuole loicare mecoquando s'ha lasciato tòr l'oca: va'fa' che noi abbiamo degli agli a cenache Dio ti dia il malanno e la mala pasqua.
Alcuni vicini che scoppiavono al buiodiceano:
- O messer Filippopazienzia.
E quelli rispondea:
- Come pazienzia? che è cosa da rinnegare la fede!
L'altro dicea:
- Volete cenar meco?
Egli era sí infiammato che non udía e non intendea; avea l'animo a quelli uccelletti che erano nell'oca che l'aiutorono a volare; e poi se n'andò in casae tutta sera gridò col fantee ancora dicea:
- S'io posso sapere chi me l'ha toltamai non vederà oca che di quella non gli venga puzzo.
Elle furono parole: e' convenne che facesse sanza l'ocae mangiasse altro; e molto stette che pace non se ne diede.
E perché dice: "Una pensa il ghiottoe l'altra il tavernaio". E la pazienza dicono che noi seguiamoe per loro poco o niente la vogliono.-


NOVELLA CLXXXVII

A messer Dolcibene si dà mangiare una gatta per scherno: dopo certo tempo elli dà a mangiare sorgi a chi gli dié la gatta.

Molto fanno ridere queste beffe gli uditorima molto piú dilettano quellequando il beffatore dal beffato riceve le beffecome in questa si dimostrerrà. Ciascuno puote avere inteso per certe novelle passate chi fu messer Dolcibene. Costui fu invitato a mangiare una volta dal piovano della Tosail quale tenea Santo Stefano in Panedicendo ch'egli avea un coniglio in crosta. E a questo mangiare vi fu el Baccello della Tosae alcun altro che sapea il fatto. E questa si era una gattala quale era venuta alle mani del piovanoe messer Dolcibene n'era schifo. Essendo adunque il piovanomesser Dolcibene e altrifra l'altre vivande recandosi la crosta della gattaconiglioella fu sí buona che messer Dolcibene ne mangiò piú che niuno. Come la crosta fu mangiatae 'l piovano con gli altri cominciano a chiamare: "muscia"; e chi miagolavacome fa la gatta.
Messer Dolcibeneveggendo questoimbiancòecome il piú de' buffoni fannoe temperossidicendo:
- Ell'è stata molto buona -; per non gli fare lietie per render lorocome vedesse il bellopan per cofaccia.
Giammai non gli uscí questo fatto della mentefin a tanto che venendo la figliatura delli stornellide' quali era molto copioso a un suo podere in Valdimarinae in quello tempo provvide di pigliare con trappole e con altri ingegni in un suo granaio parecchi sorgiacciò che gli avesse presti e ordinò con un suo fante che una gabbiata di stornelli giovenimescolatovi alcuno pippionerecasse dopo desinare quando lo vedesse col piovano al Frascatoe paresse gli portasse in mercato a venderedicendo con lui: "Per quanto volete voi che io gli dia?"
Conoscea messer Dolcibene la natura del piovano e del Baccelloche come gli vedessonocosí dicessono: "Tu non ci dài mai mangiare di queste tue uccellagioni"e che gli chiederebbono cena.
E cosí proprio intervenne; che giunto il fanteil piovano piglia la gabbiae disse non renderlilase non desse loro cena. Di che messer Dolcibene acconsentíe fessi dare la gabbiae andonne a mettere in ordine la cena. E giunto a casatolse due pippioni e otto sorgii quali acconciò per fare una crostalevando i capie le gambee' piedie le codearrocchiandogli per mezzosí che nella crosta pareano proprii stornelli; e mescolò due pippioni a quarti tra essie della carne insalatae fece fare la crosta; e 'l fante mandò a vendere l'avanzo.
Giunta l'ora della cenala brigata s'appresentò a casa messer Dolcibene. Come li videdisse:
- Voi non manicherete istasera se non della gabbiata che togliestesí che non sperat'altro.
E cosí di motto in motto se n'andorono a mensa. E venendo la crostatadice il piovano:
- Aveteci voi messo alcuno pollastro dentro?
E messer Dolcibene disse:
- La colombaia mia non ne fa; io n'ho fatta una crosta di pippioni e stornelli.
Dice il piovano:
- O da che sono li stornelli? elle son bene delle cene vostre.
Dice messer Dolcibene:
- Io ne mangio tutto l'annoe sono molto buoni.
Dice il Baccello:
- Sí manichereste voi topinon vi costass'elli.
E cosí vennono a cavare la vivanda della crosta; e 'l primo che assaggiò di quei topistornellifu il piovanoe disse:
- E’ son migliori che io non credea.
Messer Dolcibene s'era messo in codache non poteano ben vedere il suo mangiaree toccava spesso il taglierema poco se ne mettea in boccase non un poco di carne salatafacendo di pane gran bocconi. Quando la crosta fu mangiatasanza fare rilievo di topivenuta l'acqua alle manidisse messer Dolcibene:
- Fratelli carissimiio v'ho dato cena istaserae convennemi cacciaree non sanza gran faticaperò che ogni ingegno e arte ci misi per spazio d'uno dí e una notteacciò che voi stessi bene. Ben vorrei che la cacciagione fosse stata di maggiore bestiecome sete voi; ma piacque alla fortunache balestra spesso dove si convieneche furono topi; i quali da lei messi nelle mie maniparve che io dovesse dire "Non ti ricordi tu della gatta ch'e' tuo' amici ti dierono a mangiare? va'e rendi loro quello che meritano"; e brievemente per suo consiglio feci fare la crostadove tutti quelli che mangiasti per stornellifurono topi. Se vi sono paruti buonisonne contento; se non fossono stati buonireputatelo alla fortuna ché di buon grano sono stati notricatitanto che me n'hanno roso parecchie staia.
Come il piovano e gli altri udirono questodiventorono che parvono interriatidicendo quasi con boce sbalordita:
- Che di' tu Dolcibene?
- Dico che furono topie la vostra fu gatta: cosí nel mondo spesso si baratta.
Poco poterono rispondere a messer Dolcibene a ragioneche non gli confondesse; però ch'egli avevono cominciato. E dee ciascuno che vive in questo mondorecarsi a quella vera legge che chi la seguisse mai non errerebbecioè: non fare altrui quello che non vorreste fosse fatto a te. E pur come non istimatori di questa leggené del primo fallo venuto da loros'adirorono forte; e tale disse:
- Dolcibenee' ti si vorrebbe darti una coltellata nel volto.
E que' rispondea:
- A voi sta; che come dalla gatta a' topicosí dalla coltellata alla lanciata anderà: uscitemi di casa; e qualunch'ora voi vorrete de' miei mangiariio ve gli darò secondo che meriterete.
E se n'andorono scornatie co' ventri attopati. E quello di che mai non si poterono dar pace fu che messer Dolcibene un buon pezzodicendo questa novella per la terrascornava forte costoro; tanto che 'l piovano e gli altri il pregorono non dovesse dir piú; e feciono pace per non essere piú vituperati.
Or cosí interviene a chi non fa mai la ragione del compagno. E se alcuno uomo di corte fu vendicativoe tenesse a mentefu messer Dolcibene; e ben lo seppe un uomo di corte chiamato messer Bonfi; il qualeavendo parole d'invidia con messer Dolcibeneperò che non era se non da dare zaffateun dí innanzi a molti gli diede una zaffata; messer Dolcibene non la sgozzò maitanto che colto un dí tempocon un ventre pieno il giunse in Mercato Nuovoe in presenza di tutti i mercatanti gli lo percosse al viso per forma che si penò a lavare una settimana o piú.
Colui l'offese con l'orinaed elli si vendicò con lo sterco.

E però non si può mai errare a porsi nel luogo del compagno e fare la ragion sua come la sua propria; e cosí facendorade voltevivendoincontra all'uomo altro che bene.


NOVELLA CLXXXVIII

Ambrogino da Casale di Melano compra una trotae messer Bernabò non può avere pesce; manda per Ambroginoe vuol sapere di che fa sí larghe spese; ed elli con un leggiadro argomento si spaccia da lui.

Non si dilettò di simil vivandequali furono quelle della passata novellaAmbrogino da Casale gentiluomo di Melano; il quale ne' tempi che regnava messer Bernabòessendo ricco di forse cinquemila fiorinie avendo considerato la quantità delle imposte e delle gravezze del signoree in quanto tempo convenía che tutto il suo fosse del signoresi pensò di logorarsi il suo e darsi il piú bel piacere del mondo (e chi venisse di drieto serrasse l'uscio) e in cavallo e in vestiree sopra tutto magnare co' suoi compagni delle migliori vivande che potea avere.
Avvenne per caso cheessendo venuta una ricca ambasciata dello re di Francia al detto messer Bernabòe volendoli onorareconvenne che uno venerdí diliberasse dare loro mangiare; e mandò il suo spenditore alla pescheria perché comprasse del pesce; il qualeandando e nulla trovandodomandò i pescatori che fosse la cagione. Risposono credeano fosse cagione del vento che allora eraperò che in quella mattina altro che una trota di venticinque libbre v'era statala quale avea comprata Ambrogino da Casale. E con questo lo spenditore tornò al signoreniente avendo comprato; e raccontando come solo una trota v'era statae quella avea comprata Ambroginocommise a uno famiglio che andasse per lui. Ito per luiAmbrogino cominciò a tremarenon avendo freddoe subito ne va dinanzi al signore il qualecome il videdisse:
- Mo dimmionde ti viene che tu fai sí larghe speseche tu comperi una trota di venticinque libbree ioche sono il signorenon posso avere un poco di pesce per dar mangiare altrui?
Ambrogino tutto timoroso volea diree non ardivae 'l signorevedendo ciòdisse:
- Di' sicuramente ciò che tu vuoglie non avere di me alcuna paura.
Ambroginoessendo assicurato da colui di cui avea pauradisse:
- Signor miopoiché voi mi comandate che io vi dichi la veritàio ve la diròpregandovi per misericordia che di ciò a me non ne segua alcuna novità.
Il signore ridisse:
- Di' sicuramente e non aver paura.
Allora disse Ambrogino:
- Magnifico signoreegli è buona pezza che io m'avvidi che tutto il mio dovea venire a voi; di checonsiderando questoio mi sono sforzato di logorare il mio quant'ho potutoprima che il logoriate voi; e in questa mattina comprai quella trota per istudiarmi di mangiare innanzi il mio che voi ve 'l mangiate voi. E questa è la cagione e niuna altra cosa mi muove.
Il signoreudendo costuicominciò a rideree disse:
- Ambroginoin fé di Dioio credo che tu sie il piú savio uomo che sie in Melano; va' e godi e spendi largamenteche io ti confermo nella tua buona volontàe voglio che ti goda il tuopiú tosto che io lo voglia per me; e per lo tempo che dee venire tu te ne avvedrai -; e licenziollo.
Partitosi Ambrogino con la debita reverenziatornò a casa suae parendoli avere fatta buona mattinatasi pensò di presentare la trota al signoree trovato uno intendente famigliola puose in su un bianco tagliere grandeche già era cominciata a conciare per cuocersi; e copertola d'una bianca tovagliuoladisse al famiglio:
- Va' al signore messer Bernabò e di': "Il vostro servidore Ambrogino vi presenta questa trotaperch'ella si confà molto meglio alla sua signoria che alla mia debile condizione"; e che che io me gli abbia detto in questa mattinaio ho molto piú caro quello che prende del mio che quello che mi rimane.
Il famiglio con la imbasciata portò il presente al signore. Al quale il signore rispose:
- Di' ad Ambrogino che in questa mattina io avea compreso assai della sua condizioneora ho maggiormente compreso della sua virtú; va' e digli da mia parte ch'egli ha ben fatto.
Il messo cosí rapportò ad Ambrogino.
Venuto il dí dopo mangiarecome spesso intervieneche li signori a cui vogliono far male il fanno fuor di misurae a cui vogliono far bene il fanno senz'alcun mezzo; essendo partiti da mangiare gli ambasciadori di Francia e messer Bernabòconosciuta la condizione d'Ambroginosubito lo elesse suo provvisionato a maggiore salario degli altrio come gli altrie mandò per lui. Le grazie d'Ambrogino verso il signoreudendo il beneficio a lui datonon si potrebbono scrivere; e spesso il mandò per rettorequando in una terra e quando in un'altra; tanto checome vivesse poconon avea pensiero di spendere di quelli di casa ma di riporre quelli che gli avanzavono di quelli che 'l signore gli dava. E cosí quello che vissebontà della trota che gli venne per le manivisse riccamente e in buono statoe in quello si morí.
Per questa novella veramente si può comprendere che allo stato che si vede e de' signori e de' comuni (e specialmente oggiche altro non cercano se non per gravezze quello de' loro sudditi consumare) che Ambrogino saviamente provvedesse a volersi prima manicare il suoche altri lo mangiasse. E io scrittore sono di quelli che già dissi che la spesa della gola era tra l'altre la piú trista; e cosí solea essere. Ma essendo venuto il mondo a tanto che tutte l'altre cose conviene che vadino in rovinereputo oggi il mangiare e 'l bere essere quella cosa che li principi del mondo possono meno avere.
Però chese io considero a' contantiquelli sono la prima cosa dove percuotono; se io considero alle possessionisempre v'hanno l'occhio a tirarle a loro; se alle masseriziesempre sono la prima cosa che le famiglie e' messi ne portonose alle belle robe che uomeni o donne portinoo s'impegnano o si vendono per pagare: solo il mangiare è quello che giammai non possono avere. E però saviamente facea Ambroginoperò che molti ne sono già stati che con grande avarizia averanno ammassata ricchezzae mai non aranno goduto un'ora che gli è sopravvenuto un caso di guerrache converrà che la maggiore parte del suo si paghi alla gente scellerata dell'armei quali del loro goderanno gran pezzeed eglino non aveano cuore di contentarne l'animo loro d'uno minuzzolo.
E però dice: "Chi per sé ragunaper altri sparpaglia".
E ancora intervien peggioche quello che l'avaro spesso arà ritenuto di spendereche ragionevolmente spendere si doveaper altrui scialacquatamente sarà speso e gittatocon grande sua tristizia e dolore. Non dico però che in ogni cosa la via del mezzo è quella che è piú commendabile.


NOVELLA CLXXXIX

Lorenzo Mancini di Firenzevolendo fare uno matrimonio e non potendo accostare il pregio della dotacon nuovo modo conchiude.

E’ mi convien venire a una novella d'un nostro cittadinoil qualedisponendosi di volere fare un matrimonio tra due suoi amicie l'uno volendo gran dota e l'altro non potendo darlaalla fine con una sua piacevole astuzia fece sí cheessendo le parti molto da lungele fece sí prossimane che 'l parentado venne a conclusione. Fu costui uno piacevole e pratico uomochiamato Lorenzo Manciniil qualeessendo grandissimo e amico e compagno di Biagio di Fecino Ridolfie avendo compreso di dar moglie al detto Biagioconsiderò che Arrigo da Ricasolimolto suo cordiale amicoavendo una bella figliuola da maritoin quella dovesse mettere e la fatica e l'ingegno acciò ch'ella fosse sua moglie. E andato un dí a Biagiogli disse tutto il convenente che si dee dire sopra sí fatta materialodandoli la mercanzia quanto si dee per fare sí che la cosa venisse ad effetto. Biagio acconsentí al piacere del parentado; ma alla dota si puose di volere fiorini millee non meno. Quando Lorenzo udí il suono di fiorini milleun poco gli mancò il pensiero; ma pur per primo colpo non lasciò né lo scudo né la lanciama partitosidisse:
- Or bene -; e andò a quello da Ricasolie simile gli disse come s'avea pensatoche desse la sua figliuola a Biagio di Fecinoe se li piacea d'avere a fare con lui.
Rispose di sí. Seguí Lorenzo:
- Che gli vuoi tu dare?
L'amico disse:
- RagionaLorenzo mioche io vivo di renditacome tu vedi; e' mi sarà molto malagevole a potere aggiugnere a cinquecento fiorini.
Allora rispose Lorenzo:
- Quando l'uomo truova cosa che gli piacee' conviene che si sforzi.
Colui rispose:
- Quello che non si puote è piú duro che pietra.
Disse Lorenzo:
- Tu farai quello che vorranno gli amici -; e partissi.
E stando un pezzosi trovò con Biagioe disseli che credea accapezzare le cose in quanto elli condiscendesse alla dotala quale a lui parea troppo alta. Biagio stette pur fermo a millee mai non iscese. Andò Lorenzo a quello da Ricasoli a provare con quante ragioni potesse di farlo salire; giammai non vi fu modo; ché in conclusione Lorenzo durò grandissima fatica circa d'un mesee mai non poteo fare scendere li millené salire li cinquecento. Alla per fine si pensò un modo nuovoquasi disperandosidicendo: "Che diavol è questo? io credo che l'uno di costoro sia di porfido e l'altro di diamante; ben piglierò un poco di sicurtàche io m'ingegnerò di trarre innanzi questo parentado. El peggio che ci possa incontrarese lo rompono poi: ed elli se lo rompano".
Andossene a Biagio e disse:
- Il fatto è fatto -; e poi n'andò a quello da Ricasoli e disseli il simile: - Dove volete voi essere oggi?
Composono d'essere in Santa Maria sopraporta e pochi per partee Lorenzo fosse dicitore delle parole. E cosí feciono; che Lorenzo molto lietamente disse e in principio e mezzo e fineandando pur d'attornonon narrando mai né dota né alcuna quantitàdicendo:
- Dio vi dia buona ventura.
La gente cominciandosi a partiree Biagio dice a Lorenzo:
- O tu non hai detto della dota.
Dice Lorenzo:
- Tu credi che io sia notaio: vo' sete oggimai parentiben v'accorderete.
A Biagio non piacquono molto le parolee a male in corpo si partíperché Lorenzo studiò che avea un poco a fare in quel dí; né la sera cenòné la notte dormí Biagio che buono gli paresseparendogli mill'anni che l'altra mattina fosse con Lorenzo. E cosí venutae Biagio si trovò con Lorenzo e disse che 'l dí dinanzi e' non avea ben chiarito la dota. Lorenzo rispose:
- Biagio mioio non durai mai maggiore fatica che fare questo parentado; però che tu ti ponesti su' mille fiorini e mai non ne scendestie l'altro si pose su' fiorini cinquecento e mai non salí; io avea pur voglia di fare il parentado e cosí ho fatto: se su la dota c'è a fare nientevoi sete parentivoi il farete meglio che altri.
Dice Biagio:
- Motteggi tu?
Lorenzo dice:
- Io dico il vero.
Dice Biagio:
- Se tu di' il veroe tu l'attieni per techéquanto ionon sono per attenerlo io.
Risponde Lorenzo:
- Se tu non lo atterraie' non si disfarà il mondoe la vergogna fie tua e non mia; fa' che ti pare: io ho fatto il parentado.
La novella venne agli orecchi dell'altra parteche di questo non facea contesa; accostossi con Lorenzo e disse:
- A che siàn noi?
Disse Lorenzo:
- E’ mi pare piatire alle civili; fate che vi piace.
Nella fine e' s'accordorono per men vergogna di loroe per non si recare a nimico Lorenzo; e costò a quello da Ricasoli questa dota in tutto fiorini cinquecentoper recarla a fiorini come fece Lorenzo.
Giammai alcun sensale non arebbe concluso questo matrimonio: solo una nuova astuzia di Lorenzo fece fare quelloche essendo ito la cosa con grand'ordinegiammai non si serebbe fatta. E però è buono alcuna volta pigliar confidanza nelli amici e uscire de' termini; però che spesse volte uno trasandare acconcia una cosache tutto il seguire dell'ordine che fu mai non l'acconcerebbe.


NOVELLA CXC

Gian Sega da Ravenna con nuova astuzia ha a fare con una giovene giudeae tutti li Giudei che sono con lei fa entrare in uno necessario.

Assai fu di minore fatica a Gian Sega da Ravenna a venire ad effetto d'un suo disordinato appetito di lussuria verso una giovene giudea. E per farmi un poco a drieto a questa storiaquesto Gian Segaal tempo di messer Bernardino da Polentastando in Ravennae seguendo maniera d'uomo di corteed essendo pure d'una diversa condizioneavendo già morti uomini in diverse maniereavvenne per caso checome spesso si mutano gli animi de' signori e le subite risa si convertono in piantocosí subito questo signore fece pigliare Gian Segae in mano del Podestà essendo al martorioconfessò avere morti uomeni e altre cose assai; di che gli fu dato il comandamento dell'animaper essergli tagliato il capo. E la mattina che ciò si dovea fareandando la famiglia alla prigione su la mezza terza per legarlocostuicon la forza delle braccia e co' morsi e calcicontro la famiglia stette per ispazio d'un'ora anzi che fosse legato; alla per fineessendo con gran fatica tratto fuoriniuno se gli accostava presso checo' denti e con gittarsi in terranon desse assai che fare a ciascuno che piú presso gli stava; tanto cheessendo su la nonanon avendolo potuto conducere a mezza viamandorono per un asino e a traverso ve lo legorono sunon sanza grandissima fatica... che andava a fare la... però che poi che fu legato... tanto si divincolò... dall'un de' latiche...
lamentandosi di questo Gian Segadice:
- Signor miogiammai non faceste tanta degna cosa quanto a levare di terra quel mal uomo che mandaste a dicapitare; però che tra l'altre cose e' mi diede fuori della porta parecchie bastonate.
Disse il signore:
- Sozzo rubaldosí che tu mi lodiappropiandoti ch'io faccia una tua vendetta.
E subito chiama un suo segretarioe dice:
- Monta sul corsieree corri al luogo della justiziae di' al cavalierose Giovan Sega non ha mortoche subito lo rimeni a me.
Il famiglioubbidendo al signorecorsee trovò Gian Sega col collo sul ceppo e con fanti addossoche per forza il teneanoe 'l giustiziere con la mannaia e col mazzo apparecchiarsi: dicendo:
- Rimenate costui al signore sano e salvo -; e cosí subito fu fatto.
E Gian Segaquasi mezzo morto e per lo combattersie per lo fine della morte dove elli erae per la soperchia allegrezza della boceche disse rimenatelo sano e salvomescolata col doloregiunse al signore come uno uomo aombrato. A cui il signore disse:
- Gian Segaio mi sono ricordato che al tal tempouscendo io fuori di questa terra e tu eri con mecoessendo assalito da gente d'armetu entrasti tra loro e me e tanto gli tenesti a badacombattendo con loroche io scampaie tu fosti preso.
Venne a memoria a messer Bernardinodopo il detto di colui che lodava la justizia che faceaquesto atto che Gian Sega avea fatto per la sua salutee su questo si fondòparendoli virtú camparlo per questoe 'l contrario per lo detto di quell'uomo.
Gian Segacominciando a riavere gli spiritili quali erano assai smarritidisse:
- Signore...
e domandato licenza a messer Benardinose n'andò a Rimine a messer Galeotto Malatesticol quale stando alquanti mesisopraggiugnendo l'anno del giubileo 1350pensò d'andare in Porto Cesenatico e là tenere uno albergo: e cosí fu là. Doveessendo in questa maniera avviatoavvenne per caso chetra certi judei che stavano in Ravenna e certi altri judei che stavano ad Ariminosi contrasse uno matrimonioche uno di quelli che stavano a Ravenna tolse per moglie una bella giovene judea di quelli che stavano a Rimine. Ed essendo andati circa sei di quelli di Ravenna a Rimine con lo sposo per congiugnere il matrimoniocome hanno per usanzae poi menando la sposa con la cameriera a Ravennaarrivorono una sera a Porto Cesenatico all'albergo di Gian Sega. Il qualeavendo ricevuto li giudei e veggendo la giovene judea bellissimanon ricordandosi della passata ventura ma ritornando alle sue scellerate operepensò in che forma potesse avere a fare con questa judea. E con una nuova malizia andò alla rivalà dove ordinò con certi marinai che la sera di notte dovessono giugnere alle porte dell'albergofacendo busso e tumulto e con arme e con bastonisí come volessono e rubare e predare e uccidere qualunche dentro v'era; e questo facessono per tre voltemettendo poco dall'una volta all'altrae continuo si crescesse l'assaltogittando maggiore paura a quelli dentro.
Come Gian Sega ordinò co' marinaricosí fu fatto. E vegnendo la notteessendo le porte dell'albergo tutte serrateli marinaicome gente scherana o sbanditagiungonopercotendo le portedicendo:
- Aprite cià.
Come li judei sentono questoebbono grandissima paurapregando l'oste che gli debba scampare. E l'oste dice:
- State fermitanto che io vada a vedere dalla finestra chi e' sono.
E cosí andò l'oste e tornòe disse:
- Questi sono sbanditide' quali io ho maggiore paura fra la notte che io non ho ora; però statevi pianamente e veggiamo se altro segue.
Li giudei stavano ristretti e cheti come olio. Stando per alquanto spaziogli marinai giungono la seconda volta e con maggiore furore che la prima. Li giudei dicono all'oste:
- Oimè! ostescampaci la vita.
Dice l'oste:
- Venite con meco -; e menolli in un'altra camera e stalla molto buia e disse: - Statevi qui.
Li giudei stavanocome l'oste dicea. E l'oste va a una finestra e dicesí che li judei udíano:
- Andatevi con Dioche io non ci ho istasera alcuno forestiero.
Ed elli rispondeano:
- Aspettera' ti un pocoché noi ne vorremo saper altro; - e partironsi.
E poco stante tornorono cum fustibus et cum lanternisfacendo sembiante di voler mettere fuoco nell'albergo. Li giudeisentendo il romore e udendo dire del fuocoe veggendo per li spiragli delle porte la fiammadicono all'oste:
- Noi siamo mortise non ci metti in qualche luogo ben occulto.
Era in uno cantolà dov'egli eranouno necessario presso che pienocon due assi copertodove l'oste gli condussedicendo:
- Entrate quiche io non credo che vi truovino per fretta.
Costorovolontorosi di fuggire la mortein calca v'entrorono dentro. E in questo giunse la camerierache avea sentito tuttoraccomandando e lei e ancora la sposa judea. A cui l'oste disse:
- Entrate anche qui voi: della giovane non abbiate paura; io dirò che sia mia figliuolao metterolla sotto il letto.
La cameriera subito entrò dove gli altri; e ivi chi si trovò nella malta insino a gola e chi insino al mentoe coperchiati dall'assi vi stettono quasi tutta la notte; però che Gian Sega spesso facea romorecome se fossono all'uscio per volere entrar dentro. E avendo serrato col chiavistello l'uscio della camera dove costoro eranose n'andò dove la giudea era; a cui ella si gittò al collomorendo di paura; e Gian Sega la condusse verso il letto e disse non avesse paura ellama dicesse che fosse sua figliuolae dormisse con lui in quel letto. La giovene tremante di paura cosí fece; e Gian Sega in quello subito si coricòusufruttando la fanciulla e abbracciando la legge giudaica quanto li piacque; e alcun'ora si levavaandando verso la portafacendo romore come i malandrini vi fossonoacciò che i giudei stessono ben ristretti nel cessame. E cosí continuò tutta notteora al letto con la giudeaora alla porta con lo falso romore; tanto cheapparendo il giornoegli acconciò il letto con la judea insiemenon parendo mai che vi si fosse giaciuto; e ammaestrolla entrasse dietro al lettodicendo che tutta notte per gran timore vi fosse stata; ed ella cosí fecee serrossi dentro nella camera.
Avendo Gian Sega cosí ordinato i fatti suoi e della sposaandò verso la fecciosa tomba per trarre il popolo judaico della conservadicendo:
- Uscite fuoriche Dio ci ha fatto gran graziaperò ch'egli è giorno e ormai siamo sicuri.
Il primo che uscí fu la camerierala quale parea che uscisse d'uno brodetto. Come i judei vidono fare la via alla camerierasubito l'uno dopo l'altro tutti e seicosí infardati come si dee crederecon gran fatica se n'uscirono fuori; e 'l marito della sposa subito domanda di lei; a cui Gian Sega disse:
- Vorrei che cosí fosse stati voiperò che come ella sia stata con molto spaventocome fanciulla ella si serrò nella camera e là s'è stata tutta nottee voi sete stati in forma che molto me n'incresce; ma io non credea che questa fossa fosse cosí piena: ma ogni cosa sia per lo miglioreché per lo migliore si fece.
I giudei risposono che di ciò erano certima che l'oste venisse al rimediocome lavare si potesseno. L'oste disse:
- Lasciate fare a meio farò scaldare tant'acquache l'uno dopo l'altro vi laverete in questa casa di dietroe poi enterrete nel lettoe io m'anderò alla marina a lavare i vostri panni; e quando siano asciutti potrete andare al vostro viaggio.
A' giudei parve essere a buon portoe cosí presono per partitoaspettando parecchi dítanto ch'e' panni fossono e lavati e rasciutti. E questo non nocque punto a Gian Segaperò che ebbono a pagare molti scottie forse qualche altra volta si trastullò con la judea.
E dopo alquanti dí co' panni non troppo ben lavati si tornorono a Ravenna.
Che diremo adunque degli avvenimenti della fortuna? ché in poco tempo si trovò Gian Sega nell'ultimo della morte e scampato da quellasolo per combattersi dalla famiglia; chése fosse ito senza contesaserebbe stato morto parecchie ore innanzi. E però dice: "Passa un'ora e passine mille". Dappoidiventato albergatorecontentò l'animo suo della judeaforse piú che 'l maritoil quale lui con l'altra compagnia judaica mise in una puzzolente conserva di cristiani; ché molto averebbono aúto meno a male d'essere affogati in isterco di judei. Cosí avvenisse a tutti gli altri che stanno pur pertinaci contro alla fede di Cristochépoiché non si vogliono rivolgere dalla loro incredulitàfossono fatti rivolgere in quel vituperoso fastidio che Gian Sega gli fece attuffare con obbrobio e con vergogna di loro.


NOVELLA CXCI

Buonamico dipintoreessendo chiamato da dormire a vegliare da Tafo suo maestroordina di mettere per la camera scarafaggi con lumi addossoe Tafo crede sieno demoni.

Quando un uomo vive in questo mondofacendo nella sua vita nuove o piacevoli e varie cosenon si puote raccontare in una novella ciò ch'egli ha fatto in tutta la vita sua; e pertanto io ritornerò a unodi cui a drieto alcune novelle sono detteche ebbe nome Buonamicodipintoreil quale cercò di dormirequando venía la nottedove Gian Sega nella passata novella cercò il contrario. Costui nella sua giovenezza essendo discepolo d'uno che avea nome Tafodipintoree la notte stando con lui in una medesima casae in una camera a muro soprammattone allato alla suae com'è d'usanza de' maestri dipintori chiamare i discepolispezialmente di vernoquando sono le gran nottiin sul mattutino a dipignere; ed essendo durata questa consuetudine un mezzo verno che Tafo avea chiamato continuo Buonamico a fare la vegliaa Buonamico cominciò a rincrescere questa faccendacome a uomo che averebbe voluto piú presto dormire che dipignere; e pensò di trovare via e modo che ciò non avesse a seguire; e considerando che Tafo era attempatos'avvisò con una sottile beffa levarlo da questo chiamare della nottee che lo lasciasse dormire. Di che un giorno se n'andò in una volta poco spazzatalà dove prese circa a trenta scarafaggi; e trovato modo d'avere certe agora sottile e piccole e ancora certe candeluzze di ceranella camera sua in una piccola cassettina l'ebbe condotte; e aspettando fra l'altre una notte che Tafo cominciassi a svegliarsi per chiamarlocome l'ebbe sentito che in sul letto si recava a sedereed egli trovava a uno a uno gli scarafaggificcando li spilletti su le loro reni e su quelli le candeluzze acconciando accesegli mettea fuori della fessura dell'uscio suomandandoli per la camera di Tafo.
Come Tafo cominciò a vedere il primoe seguendo gli altri co' lumi per tutta la cameracominciò a tremare come vergae fasciatosi col copertoio il visoché quasi poco vedease non per l'un occhiosi raccomandava a Dio dicendo la intemerata e' salmi penitenziali; e cosí insino a dí stava in timore credendo veramente che questi fossono demoni dell'inferno. Levandosi poi mezzo aombratochiamava Buonamicodicendo:
- Hai tu veduto stanotte quel che io?
Buonamico rispose:
- Io non ho veduto cosa che siaperò che ho dormito e ho tenuto gli occhi chiusi; maravigliomi io che non m'avete chiamato a vegliare come solete.
Dice Tafo:
- Come a vegliare? ché io ho veduto cento demoni per questa cameraavendo la maggiore paura che io avesse mai; e in questa nottenon che io abbia aúto pensiero al dipignerema io non ho saputo dove io mi sia; e per tantoBuonamico mioper Dio ti prego truovi modo che noi abbiamo un'altra casa a pigione: usciamo fuoriperò che in questa non intendo di star piúché io son vecchioe avendo tre notti fatte come quella che ho avuto nella passatanon giugnerei alla quarta.
Udendo Buonamico il suo maestro cosí diredice:
- Gran fatto mi pare che di questo fattodormendo presso a voicom'io fonon abbia né veduto né sentito alcuna cosa: egli interviene spesse volte che di notte pare vedere altrui quello che non èe ancora molte volte si sogna cosa che pare vera e non è altro che sogno: sí che non correte a mutar casa cosí tostoprovate alcun'altra notte; io vi sono pressoe starò avvisatose nulla fossedi provvedere a ciò che bisogna.
Tanto disse Buonamico che Tafo a grandissima pena consentí; e tornato la sera a casanon facea se non guardare per lo spazio che parea uno aombrato; e andatosi al lettotutta la notte stette in guatosanza dormirelevando il capo e riponendolo giúnon avendo alcuno pensiero di chiamare Buonamico per vegliare a dipingere; ma piú tosto di chiamarlo al soccorsose avesse veduto quello che la notte di prima.
Buonamicoche ogni cosa comprendeaavendo paura non lo chiamasse a fare la veglia sul mattutinomandò per la fessura tre scarafaggi con la luminaria usata. Come Tafo gli videsubito si chiuse nel copertoioraccomandandosi a Diobotandosi e dicendo molte orazioni; e non ardí di chiamare Buonamico; il qualeavendo fatto il giuocosi ritornò a dormireaspettando quello che Tafo la mattina dovesse dire.
Venuta la mattinae Tafo uscendo del copertoiosentendo che era dí si levò tutto balordocon temorosa boce chiamando Buonamico. Buonamicofacendo vista di svegliarsidice:
- Che ora è?
Dice Tafo:
- Io l'ho ben sentite tutte l'ore in questa notteperò che mai non ho chiuso occhio.
Dice Buonamico:
- Come?
Dice Tafo:
- Per quelli diavoli; benché non fossono tanti quanto la notte passata. Tu non mi ci conducerai piú; andianne e usciamo fuoriché in questa casa non sono per tornare piú.
Buonamico gli poté dire assai cose che la sera vegnente ve lo riconducessese non con questo: che gli diede a intenderese uno prete sagrato dormisse con lui ch'e' demoni non arebbono potenza di stare in quella casa. Di che Tafo andò al suo parrocchiano e pregollo che la notte dormisse e cenasse con lui; e dettagli la cagione e sopra ciò ragionandos'accozzorono con Buonamico e tutti e tre giunsero in casa. E veggendo il prete Tafo presso che fuor di sé per pauradisse:
- Non temereché io so tante orazioniche se questa casa ne fosse pienaio gli caccerò via.
Dice Buonamico:
- Io ho sempre udito dire ch'e' maggiori nimici di Dio sono li demoni; e se questo èe' debbono essere gran nimici de' dipintoriche dipingono lui e gli altri Santie per questo dipignere se n'accresce la fede cristiana che mancherebbe forte se le dipinturele quali ci tirano a devozionenon fossono; di cheessendo questoquando la notteche' demoni hanno maggiore potenzaci sentono levare a vegliare per andare a dipignere quello di che portano grand'ira e doloregiungono con grand'impeto a turbare questa cosí fatta faccenda. Io non affermo questo; ma parmi ragione assai evidente che puote essere.
Dice il prete:
- Se Dio mi dia beneche cotesta ragione molto mi s'accosta; ma le cose provate sono piú certificate -; e voltosi a Tafodice: - Voi non avete sí grande il bisogno di guadagnare chese quello che dice Buonamico fosseche voi non possiate fare di non dipignere la notte: provate parecchie nottie io dormirò con voidi non vegliare e di non dipigneree veggiamo come il fatto va.
Questo fu messo in sodo: che piú notti vi dormí il pretech'e' scarafaggi non si mostrorono.
Di che tennono per fermo la ragione di Buonamico essere chiara e vera; e Tafo fece bene quindici nottisenza chiamare Buonamico per vegliare. Essendo rassicurato Tafo e costretto dal proprio utilecominciò una notte di chiamare Buonamicoperché avea di bisogno di compire una tavola allo Abate di Bonsollazzo. Come Buonamico vide ricominciare il giuocoprese di nuovo de' scarafaggi e la seguente notte gli mise a campo per la camera su l'ora usata. Veggendo questo Tafocacciasi sottodolendosi fra sé stessodicendo:
- Or va'vegliaTafoor non ci è il prete; Vergine Mariaatatemi -; e molte altre cosemorendo di paurainsino che 'l giorno venne.
E levatosi egli e Buonamicodicendo Tafo come li demoni erano rappariti; e Buonamico rispose:
- Questo si vede chiaro ch'egli è quello che io dissiquando il prete ci era.
Disse Tafo:
- Andiamo insino al prete.
Andati a luigli dissono ciò che era seguito. Di che il prete affermò essere la cagione di Buonamico verae per verissima la notificò al populoin tal maniera chenon che Tafoma gli altri dipintori non osorono gran tempo levarsi a vegliare. E cosí si divolgò la cosa che altro non si dicea; essendo tenuto Buonamico checome uomo di santa vitaavesse vedutoo per ispirazione divinao per revelazionela cagione di que' demoni essere apparita in quella casa; e da questa ora innanzi da molto piú fu tenutoe di discepolo con questa fama diventò maestro; partendosi da Tafonon dopo molti dí fece bottega in suo capoavvisandosi d'essere libero e potere a suo senno dormire; e Tafo rimase per quelli anni che visse trovandosi un'altra casalà dove tutti e' dí della vita sua si botò di non fare dipignere la notteper non venire alle mani delli scarafaggi.
Cosí interviene spesse volte che volendo il maestro guardar pure al suo utilenon curandosi del disagio del discepoloil discepolo si sforza con ogni ingegno di mantenersi nelle dotte che la natura ha bisogno; e quando non puote altrimentis'ingegna con nuova arte d'ingannare il maestrocome fece questo Buonamicoil quale dormí buon tempo poi quanto li piacque; infino a tanto che un'altra volta una che filava a filatoio gli ruppe piú volte il sonnocome nella seguente novella si racconterà.


NOVELLA CXCII

Buonamico detto con nuova arte fa sí che una che fila a filatoionon lasciandolo dormirenon fila piú; ed egli dorme quanto vuole.

Essendo Buonamicodel quale di sopra è dettomaestro in suo capo e vago di dormire e di vegliare secondo il tempo; però che gli convenía esercitare l'arte altramente quando era sopra sé che quando era sotto altrui come discepolo; avendo una sua casae avendo per vicino a muro mattone in mezzo uno lavoratore di lana un poco asgiatoil quale avea nome o era chiamato Capodoca assai nuovo squasimodeo; ed era costui quello che nella bottega d'Andrea di Veri gli fece già di nuovi trastulli; avea costui una sua mogliela quale ogni notte di verno si levava in sul mattutino a vegliare e filare lo stame a filatoio presso al letto di Buonamiconon essendovi altro in mezzo che 'l muro di mattone soprammattonecome detto è. E Buonamico vegliava da dopo cena infino a mattutinosí che a mattutino andava a dormiree 'l pennello si riposava quando il filatoio cominciava. Essendo il focolaredove costei coceaallato al detto muropensò Buonamico una nuova astuzia; però cheavendo considerato che questa buona donnaquando coceamettea la pentola rasente a quel murofece un foro con un succhio in quel murorasente a quella pentolae poi lo turava con un pezzuolo di mattone in forma che la donna non s'accorgesse. E quando pensava o vedea che la donna mettesse a fuocoavea uno soffionetto di canna assai sottilee in quello mettendo salequando sentía non esservi la donnamettendolo per lo foro all'orlo della pentolavi soffiava entro per forma che nella pentola metteva quanto sale volea.
E avendo per cosí fatta forma salato la pentola che quasi mangiare non si potessetornando Capodoca a desinarela prima volta gridò assai con la donnae in fine conchiusese piú cadesse in simile folliagli farebbe Roma e Toma. Di che Buonamico che ogni cosa sentíaper adempire il suo proponimentoinsalò la seconda volta molto piú che la prima. E tornando il marito per desinare e postosi a mensavenendo la scodellail primo boccone fu sí insalato che glilo convenne sputaree sputato e cominciato a dare alla donna fu tutt'unodicendo:
- O tu se' impazzata o tu inebbriiché tu getti il sale e guasti il cotto per forma chetornando dalla bottega affaticatonon posso mangiare come fanno gli altri.
La donna rispondea a ritroso; e colui con le battiture si svelenava tanto che 'l romore andò per la contradae Buonamicocome vicino piú prossimano trasseed entrando in casadisse:
- Che novelle son queste?
Dice Capodoca:
- Come diavoloche novelle sono? Questa ria femina m'ha tolto a consumare; e' pare che qui siano le saliere di Volterrache io non ho potuto due mattine assaggiare del cotto ch'ell'abbia fattotanto sale v'ha messo dentro; e io ho di molto vino d'avanzo! ché n'ho un pocoe costommi fiorini otto il cogno e piú.
Dice Buonamico:
- Tu la fai forse tanto vegliare che quando ella mette a fuococome persona addormentata non sa quello ch'ella si fa.
Finito il romoredopo molte paroledice Capodoca:
- Per certo io vederò se tu se' il diavolo; io tel dico in presenza di Buonamico: fa' che domattina tu non vi metta punto di sale.
La donna disse di farlo. Buonamico lasciò quella pentola nella sua sciocchezza. E tornato il marito a desinaree assaggiando la sciocca vivandacomincia a mormorare dicendo:
- Cosí vanno i fatti miei; egli è peggio questa vivanda che l'altra; va'recami del sale che vermocan ti nascasozza troiafastidiosa che tu se'che maladetta sia l'ora che tu c'entrasti; che io non so a che io mi tengo che io non ti getti ciò che c'è nel viso.
La donna dicea:
- Io fo quello che tu mi di'; io non so che modo mi tenga teco; tu mi dicesti che io non vi mettesse sale puntoe io cosí feci.
Dice il marito:
- E’ non s'intendea che tu non ve ne mettessi un poco.
La donna dicea:
- E se io ve n'avessi messoe tu m'averesti zombata come ierisí che per me io non ti posso intendere; dammelo oggimai per iscritto di quello che tu vuoi che io facciae io n'avrò consiglio sopra ciò di quello ch'io debbo fare.
Dice il marito:
- Vedila! ancora non si vergogna; io non so a ch'io mi tengo che io non ti dia una gran ceffata.
La donna gonfiataper non ricorrere il passato dísi stette cheta per lo migliore. E Capodocaquando ha mangiato come ha potutodice a lei:
- Io non ti dirò oggimainé non insalare né insala; tu mi déi conoscere; quando io troverò che la cosa non facci a mio modoio so ciò ch'io m'ho fare.
La donna si strigne nelle spallee 'l marito ne va alla bottega. Buonamicoche ogni cosa avea sentitasi mette in punto col salee col soffione per la seguente mattina che venne in giovedí; che sono pochi che in tal mattina non comprino un poco di carnestando a lavorare tutta la settimanacome facea costui. Avendo il mercoledí notte assai male dormito Buonamico e a suono di filatoiocome in sul fare del dí el filatoio ebbe posa per mettere la carne in molle la donna e trovare la pentolae per accendere il fuoco spezzare col coltellaccio alcuno pezzo di legnecosí Buonamico col sale e col soffione si misse in guato; e preso tempose la seconda volta avea molto piú salato che la primala terza salò ben tre cotanti; e questo fece passata terza per due cose: la primaperché questa donna insino a terza non facea altro che assaggiare la pentolamettendovi il sale a ragionedicendo: "Ben vedrò se 'l nimico di Dio serà ogni mattina in questa pentola"; la seconda eraperché la donna ogni mattinasonando a Signore a una chiesa sua vicinaandava a vedere il Signoree serrava l'uscio; sí che in quell'ora i saggi erano fattied elli poteva molto bene soprasalare.
Fatte tutte queste cosee venendo l'ora e tornando Capodoca a desinarepostosi a tavola e venendo la vivandacome l'ebbe cominciata a mangiarecosí il romorele grida e le busse alla moglie in tal maniera furono che tutta la contrada corse; dicendo ciascuno la sua.
Costui avea tant'ira sopra la donnache quasi non si sentía; se non che Buonamico giunsee accostandosi a luiil temperò dicendo:
- Io t'ho detto piú volte che questo vegliareche tu fai fare a questa tua donnaè cagione di tutto questo male. E simil cosa intervenne un'altra volta a un mio amicoe se non che levò via il vegliaremai non averebbe mangiato cosa che buona gli fosse paruta: Santa Maria! hai tu sí gran bisogno che tu non possa fare sanza farla vegliare?
Molto fu malagevole a temperare il furore di Capodoca che non volesse uccidere la moglie. Infine gli comandò innanzi a tutti i vicini chese ella si levasse piú a vegliar maiche le farebbe giuoco ch'ella dormirebbe in sempiterno. La donna per paura non si levò a vegliare piú d'un annoe Buonamico poté dormire a suo senno; in fuor che da ivi ben a quattordici mesiessendosi la cosa quasi dimenticatach'ella ricominciò; e Buonamiconon avendo arso il soffioneseguí il suo artificio; tanto che Capodoca ricominciò anche a risonare le nacchere; e Buonamico con dolci parole il fece molto piú certo per lo caso che tanto tempo era stato chenon vegliando la donnala pentola sempre era stata insalata a ragione; e a Capodoca parve la cagione essere verissimaper tanto che con minacce e con lusinghe trovò modo che la donna non vegliò mai piúed ebbe buona pace col maritoscemando a lei grandissima fatica di levarsi ogni nottecome facea; e Buonamico poté dormire senz'essere desto da cosí grande seccagginecome gli era il filatoio. E cosí non è sí malizioso uomo né sí nuovo che non se ne truovi uno piú nuovo di lui. Questo Capodoca fu nuovo quanto alcun suo pari; e fu sí nuovo che nelle botteghedove lavorò d'arte di lanae spezialmente in quella de' Rondinellifece di nuove e di strane cosecome già furono raccontate per Agnolo di ser Gherardoancora piú nuovo di lui. E questo Buonamico fu ancora via piú nuovoe la pruova della presente novella il manifesta.
E cosí interviene spesso di tutte le cose e massimamente sopra cosí fatti uomeni che truovono spesso di quelle derrate che danno altrui. E sono questi cosí fatti uomeni sí ciechi di loro che non credono che piacevolezza siase non quella che ciascuno in sé e in altrui adopera. Se io scrittore dico il veroguardisi l'esemplo: come a uno di questi talio a giullario a uomeni di corteche sono quasi similiapparisce uno che con una cosa che facciao con un motto gli mordao mostri me' di lorosubito pèrdono che paiono morti. Non è altro a direse non che si fidano tanto in loro detti e malizie e trastulli solo perché pensano nessuno sapere né fare né direcom'eglino. Ed eglino cosí ne rimangono spesso ingannaticome tutto dí si vede; e hanno spesse volte tal derrate che si rimangono con le beffe e col dannocome fece questo Capodoca e molti altri già staticome tutto dí si truova nelle cose modernee per scritture de' passati tempi.


NOVELLA CXCIII

Messer Valore de' Buondelmonti di Firenzeandando a uno corredo di Piero di Filippoil morde con nuove parolee Piero assai bene se ne difende.

Ancora ritornerò a un nuovo uomo raccontato a drieto in certe novelleil qualecome che fusse novissimo e matto sciocco tenuto da gran parte degli ignorantidagli intendenti non nuovoma vecchio e savio e reo era reputatoe spezialmente in questa novellettala quale ebbe forte e del savio e del reo.
Fu costui messer Valorecavaliere de' Buondelmontifiorentino; il qualeavendo sentito che Piero di Filippo degli Albizi di Firenzesavio e notabile cittadino e grande quanto mai avesse la sua cittàavea invitato molti cittadini e forestieri a un grande convito; la qual cosa sentendo messer Valore sanza essere invitatola mattina a desinarecome gli altriandò al detto corredoe portò seco in mano un grande aguto spannale; il quale giugnendo tra la brigatae Pieroveggendologli si fece incontropigliandolo per la manodicendo:
- Dehcome avete ben fatto a essere venuto a farmi onore a questo mio convito!
Messer Valoreche era in gonnellache sempre andava senza mantello in cappuccio a foggiaavendo l'aguto in manoche tutto il cerchio de' convitati il vedeadisse:
- Pieroio vegno per mangiar teco e con questi nobeli uomeni e per ricordarti alcune paroleche come elle ti parranno fatteio te le diròcredendo ti siano molto utili; e mise l'aguto sopra uno caminosí che ciascuno il vedea. Tu déi avere letto per le croniche de' Romani che quando alcuno consolo tornava con gran vittoria sul carro trionfaleperché non si lasciasse assalire alla superbiaera messo in mezzo di due rubaldii quali li diceano villaniasputandoli talora nel viso e facendo altre cose assai vituperose. Fa' ragionePiero mioche io sia uno di quelli rubaldi e tu sia in sul carro del gran trionfo; però chese io considero benetu se' il maggiore cittadino che mai fosse in questa cittàe dentro e di fuori sei il piú savio che avesse questa terra per alcun tempo; se' stato in Puglia e in molti luoghi del mondo: in ogni parte se' stato reputato savissimo oltre a tutti gli altri. Sí che io non veggio che tu non sie sí alto che piú non puoi andare in su; io veggio troppo bene che tu se' nel colmo della rota e non ti puoi muovereche tu non scenda e capolevi. Per questa cagione io t'ho recato quello aguto che tu vedi a quel caminoacciò che tu conficchi la rota; e se ciò non faivolgendosi com'ella fae' ti converrà cominciare a scenderee forse venire al di sotto.
Pieroche intendea bene il tedescorispose:
- Messer Valoreio mi credea che voi venisse a mangiare con questi valentri uomini per mangiare delle vivande che io dava loroe voi sete venuto e avetemi dato delle vivande vostresí che io posso dire che io desino con voi istamane; ma almeno me l'aveste voi date alle frutteche serebbono state migliori che quelle di frate Alberigo. Macome ch'io non sia a mezza via giuntolà dove voi mi ponetee' mi pare chese la rota si potesse conficcarela libbra del ferro tornerebbe alla valuta d'oroperò che sono tanti che la vorrebbono conficcareche 'l ferro tutto intrerrebbe in quella rota. E oltre a ciòse pur si potesse conficcarlaserebbe fare grandissima ingiustizia a quelli che sono di sotto e nel mezzo e da latoche vogliono ch'ella volgaper migliorare stato.
Disse allora messer Valore:
- E per lo dire che tu hai fatto incontro alle mie sciocchezzecostoro che mangiono qui con teco ti possono tenere molto da piú che io non ho detto; e pertanto sono meglio contento d'esserci venuto per la evidente pruova che nel tuo parlare hai dimostrata a tutti costoro.
E cosí l'uno all'altro dissono assai cose di sentenziae puosonsi a mensa. Dove mangiato che ebbonomesser Valore pigliando comiatoPiero gli disse:
- Togliete l'aguto vostroché io nol potrei conficcare dove dite; però che Cesare e Alessandro e molti altri nol poterono conficcarenon che io che sono un piccolo uomo: e potendolo fare non voglioacciò che 'l mondo non perisca.
Messer Valore tolse lo aguto e disse:
- Et tu es Petruset super hanc petram è edificata la sapienzia; e fatti con Dio.
E cosí finirono e 'l convito e' ragionamenti.
O qual cosa è piú certa che questa rotala cui velocità nel volgere mai non ebbe posae quanti ree quanti signorie quante sètte de' populi e de' comuni l'hanno già provato! Quanto piú si vedemeno si crede. Chi è in alto stato non pensa mai al calare; e quanto piú va in sudi maggior pericolo è la caduta. Non voglio mettere tempo in allegare le fortune degli antichi signori; guardisi pur una canzonetta che colui che la feceve ne mise una gran partela qual comincia: "Se la fortuna e 'l mondoMi vuol pur contastareec.". E non dirò come fu in cima della rota Troiae come Priamoe come fu grande Tebee come fu alta Cartaginee 'l suo Annibalee la setta Barchinae l'altra; e lascerò stare Roma che signoreggiò tutto l'universoe ora quello ch'ella tiene; e qual furono i cittadini suoie qual sono oggi: ogni cosa è volta di sotto e attuffata nella mota.
Che vo io cercando le cose antiche che si potrebbe dir: forse non fu cosí? diciamo di quelle che ieri vedemmo quanto volubilmente la rota mandò sul colmo re Carlo terzoe essere re di Puglia e d'Ungheriae come subito il mandò in altotanto subito o piú il volse a basso. Come condusse questa in superiore stato messer Bernabò signore di Melanoper farlo venire nella inferiore partelà dove sanza ritegno fu disfatto. I signori della Scala come sono arrivati? I Gambacorti signori di Pisa al tempo di Carlo imperadore esser disfattie poi disfatto chi signoreggiò dopo loro; poi ritornare messer Pietro Gambacorti e' suoi nella signoria; e in fine essere morti e cacciati. Non è questo un fare all'altalena? non è questo un farsi certo che sempre questa rota giri? Quanti sono quelli che l'hanno provato e d'ogni stato e d'ogni condizione! non caperebbe in questo volume a raccontarli; e alcuno non pensapurché abbia ricchezza stato o signoria. E non considera una cosa essere certache la ricchezza corre al suo fineche è la povertà; lo stato ha spesse volte fine di morte o di suggezioneche gli è tolto da un altro che 'l conduce in miseria; la signoria viene infine in servitute. Adunque chi volesse vedere dirittamenteo miseri mortaliquelli è beato che non è sottoposto alle ricchezzeche non ha mai il dolore d'averle perdute; chécome dice Dantenon è nel mondo alcun maggior dolore. Colui è beato che non ha paura di perdere grande statoe similmente chi non ha la signoriache non istà con sospetto e con paura di perderlasí come rispose un filosofo a un che 'l domandò chi fosse il piú avventurato uomo d'una terra; e quelli rispose:
- Colui che tu credi che sia in maggiore miseria.
Chi notasse questo dettoe considerassi bene con gli occhi della menteserebbe molto meglio a nascere e vivere e morire povero che nascere ricco e vivere ricco e in grande statocon grande sollecitudine e sospettoe poi forse nella fine vivere in miseria. Affatichisi dunque chi ha voglia di statoo di ricchezzache nella fine il mondo paga ciascuno della sua fatica.


NOVELLA CXCIV

Massaleo degli Albizzi da Firenzecon tre belle ragionimorde l'avarizia d'Antonio Tanaglia suo vicino.

Non s'indugiò molto tempo Matteo di Landozzovocato Massaleo degli Albizzia fare la vendetta di Piero di Filippo suo consortoin mordere d'avarizia un suo vicino; e questo Matteo è raccontato a drieto in una novelletta per un buono sonatore di vivuola a uno giudice della Grascia nelle carcere del Comune di Firenze. Questo Matteo fu d'una piacevole condizione; e avendo per vicino uno ricchissimo cittadino di Firenze e molto avarochiamato Antonio Tanagliae considerato tutte le sue condizioni che erano di pruova a volersi serbare il suoe non lo partecipare né con lui né con alcun altropensatosi una notteebbe trovato uno piacevole modo di morderlo la seguente mattina; e trovatosi con lui in presenza di alquanti a sedere disse:
- Antonio mioio ho veduto che io ho e posso avere vie meglio della tua ricchezza che non hai tu stesso.
Costui tutto spaventòcredendo forse che Matteo gli avesse o furato o tolto gran parte del suoe affisossi nel guardarlo per veder quello che costui volesse dire. Massaleoche vedea gli atti di costuidice:
- Tu guati: se mi valesse dire: "che vuoi che ti costie farottenne chiaro?"il fareima serebbe predicar nel deserto; ma sanza costo alcuno (e se tu me lo volesse dareio il rifiuto)io ti voglio far chiaroo vogli tu o noper farti vivere piú malinconoso che tu non vivi. Elle sono tre cose: la prima si è che della tua ricchezza tu non hai benené io anche n'ho benee qui siamo del pari; la seconda si è che tu guardi la tua ricchezza con gran fatica per non diminuirlao per non perderlae questa fatica non ho iosí che in questa seconda parte io ho vantaggio da te; la terza si è chese tu la perdessio venisseti menotu morresti a doloreo impiccherestiti per la gola; e io n'arei grandissima allegrezza e ballerei e canterei; e in questa terza parte io starei tanto meglio di tequanto serebbe da essere io nel Cielo Impirio e tu essere nel profondo dello abisso. Sí che vediquanto della tua ricchezza io ho meglio di te.
Antonio si volgea attornocome fuori di sée volgeasi a quelli d'attornoli quali tutti diceano:
- Antoniose tu non ti provvediil Massaleo dice il vero con molto belle ragioni; che rispondi tu?
E quelli dice:
- Io voglio per me il miose io l'ho.
Dice Massaleo:
- Ben dicestise tu l'hai; e io ti dico che tu non l'hai né tu né io.
Costui si leva tutto bizzarro e partesi dalla brigatabrontolando verso Matteoe andossene in casa; dovepensando sul detto di Matteo e su le tre cose per lui dettein sé medesimo contendea e dicea: "E’ par vero ciò che dicee non è vero nullaperò che io tegno la mia ricchezzaed elli si tiene la sua povertà; ma per lo corpo di Dio che m'ha fatto vergogna e fammi avarodove a me pare esser poveroanzi prodigo vo' dire. Una cosa gli farò: che una volta gli diedi bere d'un buon raspeo che io avea fatto; se io vivesse mill'annimai non gliene darò piúné agli altri di questa contrada che sghignavano per invidia che hanno della mia ricchezzama per loro amore io m'ingegnerò da quinci innanzi di spendere meno che io potrò e di crescere il mio a loro dispetto: e ben ne potrà crepare Matteo con tutti loro".
E cosí fra sé si venne tutto un dí combattendoe nella fine ristrettosi e dolutosene con l'avariziase ne dié pace; e le ragioni dette per Matteo si divulgorono per la terra per forma chese Platone l'avesse dettenon serebbono state piú famose.
Cosí è fatta la condizione dell'avaro: che quando è punto da alcuno in simil formas'avvisa che quel tale il dica perché vorrebbe che gittasse via il suoo per invidiao per empiersene il corpo; di che per avariziae per non far contento coluicontinuo affina in essae mai non si toglie fame.


NOVELLA CXCV

Uno villano di Francia avendo preso uno sparviero del re Filippo di Valose uno mastro uscier del revolendo parte del dono a lui fatto ha venticinque battiture.

Uno contadino di Francia mi si fa innanzi a volere che io lo descriva in suo sottile accorgimentoil quale usò contro a uno maestro uscier del re Filippo di Valosperché con appetito d'avarizia gli volea tòrre quello che lo re avea ordinato di dare a lui.
Avvenne per caso che regnando il detto ree facendo il suo dimoro in Parigiavea un suo sparvieroche di bellezza e di bontà passò tutti che nella sua Corte fossono maiavendo e' sonagli o d'oro o d'argento smaltati tutti con gigli dell'arme reale. E venendoli volontàcome spesso incontrad'andare a sollazzo e con questo e con altri uccelli e caniper vedere volaregiunti in uno luogodove era copia di pernisilo sparveratore del re che lo avea in manogittò questo sparvero a una pernisee lo sparvero la prese. Andando piú oltregittò a un'altrae non pigliandolache che si fosse la cagioneo villania che lo sparviere ricevesse o altrodove solea essere tanto maniero che semprenon pigliandod'aria in pugno ritornavafece tutto contrarioche egli volò in alto e tanto di lunge che lo perderono di veduta. Onde il reveggendo questomandò circa otto de' suoi scudieri sergenti e lo sparveratore a seguire lo sparvierotanto che lo ritrovassino. E cosí andorono per diverse particonsumando otto giorni che mai niente ne poterono trovaree ritornorono a Parigi rapportando ciò al re.
Di che il re se ne dié malinconiacome che fosse uno valoroso ree questo fosse un nobile sparviere... tutto dí incontra.
E stando per alcuno spazioe non essendo appresentato lo sparviero per alcuno che l'avesse presofece mettere un bando che chi pigliasse il detto sparvieroe rappresentasseloaverebbe da lui duecento franchie chi non lo rappresentasseanderebbe al giubbetto. E cosí andò e la grida e la famae conseguendo per spazio d'uno mesequesto sparviero capitò nel contado di... là dove essendo su uno arboree 'l contadino narrato di sopralavorando ne' campi appiè di quelloebbe sentito e' sonaglie accostandosi quasi per scedee mostrando la callosa e rozza manocon uno allettare assai disusatolo sparviero gli venne in mano. Al contadinooltre al ghermire degli artigliparv'essere impacciato; ma veduti i sonagli col segno realee avendo due fanciulle da maritoperché avea inteso la fama del bandocome uomo poco sperto a questa faccendagli parve essere mezzo impacciato; ma purpresi i geti e lasciata la zappas'avviò verso la sua casae tagliata una cordella da un basto d'uno asinol'attaccò a' geti e legollo su una stanga. E considerando chi egli erae come era adatto a portarlo a Parigi innanzi la presenza del retutto venía meno. E com'egli era a questo puntoun mastro usciere del reper alcuna faccenda passando dalla casa di costuisentendo li sonaglidisse:
- Tu hai preso lo sparviere del re.
Quelli rispose:
- Io credo di sí.
Allora costui gli lo chiededicendo:
- Tu lo guasterestise tu lo portassidàllo a me.
Il contadino rispose:
- Egli è ben vero ciò che voi ditema piacciavi non mi tòr quello che la fortuna m'ha dato; io lo porterò il meglio che potrò.
Costui si sforzò e con parole e con minacce averlo dal contadinoe mai non vi fu modo; di che gli disse:
- Or eccose non vuogli far questofammi un servigio; io sono innanzi col re assaiio ti serò buono in ciò che potrò; e tu mi prometti di darmi la metà di quello che 'l re ti darà.
Il contadino disse:
- Io sono contento -; e cosí promisse.
Vassene costui a Parigi; e 'l contadinotrovato un guanto di panno tutto rotto e mandato a uno d'una terra vicina suo amicoche si dilettava... gli prestò un cappelloe pasciuto lo sparviere e incappellatosi mise la via tra gambetanto che con gran faticaper portare cosa non mai usatae perché villano avea preso gentilegiunse a Parigi dinanzi al re. Il qualeveggendoloebbe allegrezza dello sparviere trovato e risa assaiveggendo quanto stava bene in mano al contadino. Di che il re disse:
- Domanda ciò che tu vuoi.
Il contadino rispose:
- Monsignor le Roiquesto sparviere mi venne a mano come piacque a Dio; hollo recato il meglio che ho potutoil dono che io voglio da voi è che mi facciate dare cinquanta o bastonate o scoreggiate.
Lo re si maravigliòe domandò la cagione di quello che domandava. Egli lo disse: come il tal suo mastro usciere volle che io gli promettessi dargli il mezzo di quello che a vostra santa corona mi donasse; fate a lui e le venticinque a me. E come che io sia povero uomo e arei bisogno per due mie figliuole da marito d'avere altro dalla vostra signoriaio me n'andrò molto piú contentoavendo quello che io vi domandoper vedere dare a lui quello che meritabenché io l'abbia simile a luiche se voi mi deste del vostro oro e del vostro argento.
Lo recome saviointese il dire del materiale contadinoe pensò con la justizia mandarlo contentodicendo a' suoi:
- Chiamatemi il tale mio mastro usciere.
Subito fu chiamato; e giunto dov'era la presenza del relo re lo domanda:
- Trovastiti tu làdove costui avea preso questo sparviere?
Quelli rispose:
- Oímonsignore le Roi.
Disse lo re:
- Perché non lo recavi tu?
E quelli rispose:
- Questo villano non volle mai.
Lo re disse:
- Piú tosto fu la tua avariziaper avere da lui mezzo il dono ch'egli avesse.
E 'l villanoudendo disse:
- E cosí fusignor mio.
- E io- disse il re - dono a questo contadino cinquanta sferzate a carni nudedelle qualicome tu patteggiasti con luin'hai avere venticinque.
E comanda a un suo giustiziere che subito lo faccia spogliare e mettale ad esecuzionee cosí fu fatto. E lo re lo fece venire dinanzi a lui e al villano e disse:
- Io t'ho dato mezzo il dono e hotti cavato d'obbligo che l'avei promesso a questo rubaldo; l'avanzo non voglio guire di dare a te.
Ma dice a uno suo cameriero:
- Va'fa' dare dugento franchi a costuiacciò che mariti le sue figliuole; e da ora innanzi vieni a me quando tu hai bisognoche sempre sovverrò alla tua necessità.
E cosí si partí il contadino con buona ventura; e 'l mastro usciere si fece di scorreggiate un'armaduraper andar piú drieto al ben proprio che a quello del suo re.
Grande fu la justizia e la discrezione di questo re; ma non fu minore cosa uscire del petto d'uno villanoanzi d'un animo gentilesi potrebbe diretanto degna domandaper pagare la cupidigia di colui che mai non fu in grazia dello re Filippocome era prima.


NOVELLA CXCVI

Messer Rubaconte Podestà di Firenze dà quattro belli e nuovi judicii in favore di Begnai.

Perché mi pare esser entrato in certi giusti judiciie ricordandomi quanto fu diritto il judicio di Salamone verso quelle due donne che domandavono il fanciullo; e ancora avendo udito già la novella di colui che avea sognato d'avere avere due buoi dal suo vicinoi quali gli avea toltie 'l giusto giudiceveggendo che avea ferma la sua domanda secondo il sognofece venire due buoi di mezzo giornoquando il sole piú luceae mandatili su per uno pontemenando l'addomandatore con luimostrando l'ombre de' buoi nell'acquagiudicò quelli essere i buoi suoie che quelli pigliasse; cosí racconterò in brevità quattro judicii dati per uno podestà di Firenzechiamato messer Rubaconevenendo tutti e quattro in favore d'un semplice e nuovo uomochiamato Begnai.
Innanzi che questo Podestà fosse stato due mesi in officioessendo questo Begnai su uno ponteche allora era di legnamevenendo gran fiotto di gente a cavallo dall'altra partefu costretto Begnai di salire su la spondache era di legnonon molto larga. Di chepassando la gente allato a luie' fu sospinto e cadde in Arno addosso a uno che si lavava le gambeil quale se ne morí. I parenti del morto fanno pigliare Begnai a furoree dinanzi a questo Podestà domandono che sia mortoconciossiacosa ch'egli ha morto il tale. Il Podestàconsiderando il casocome che la legge dica: "Chi uccide dee essere morto"; contastava agli accusatori. E fra l'altre cosedicendo eglino: "Noi vogliamo il nostro onore"el Podestà disse:
- E io ve lo voglio daree voglio che voi vi vendichiate; e 'l modo è questoe questa sentenzia do: che questo Begnai si vada a lavare i piedi in Arnolà dove il morto se gli lavavae uno di voide' piú distretti al mortovada su la sponda del pontedonde cadde costuie caggia addosso a lui.
A costoro parve avere mal piato e non sapere che risponderee abbandonarono la questionee Begnai fu lasciato.
La seconda cosa fu cheessendo caduto uno asino a uno lavoratoree non potendosi levareil lavoratore l'aiutava dinanzipregò Begnai l'aiutasse di drieto; e Begnaipigliandolo per la coda e tirandolo in su quanto poteala coda gli rimase in mano. A quel dell'asino parendo essere disertoricorse al detto Podestàe fece richiedere Begnai; e 'l Podestà di questo casoudendo Begnai allegare che credea che la coda dell'asino fosse meglio appiccatascoppiava delle risa. E quel di cui era l'asinodicea:
- Io non ti dissi che tu gli divellessi la coda.
Il Podestà dice:
- Buon uomomenatene l'asino a casachéperché non abbia codae' porterà bene la salma.
Colui rispondea:
- O con che s'arrosterà dalle mosche?
Onde il Podestà giudicò che 'l buon uomo se ne menasse l'asino suoe se non volesseBegnai se lo tenesse tanto elli che rimettesse la codae poi glielo rendesse. Begnai rimase liberoe 'l villano se nel menò a casa sua cosí codimozzo per lo migliore.
La terza cosa fu che a Begnai venne trovato una borsa con quattrocento fiorini; e colui che l'avea perdutaandandone cercandoBegnai gli la rendeo: poi fa questionequelli di cui era la borsacon Begnaie dice che vi sono meno fiorini cento. Colui risponde:
- Io te la do com'io la trovai.
Va la questione dinanzi a questo Podestàil quale udendodice a chi domanda:
- Come è da crederese costui avesse voluto far maleche te gli avesse renduti di sua volontà?
- No- dicea colui- e' mia erano fiorini cinquecento.
Dice il Podestà:
- Or viaio giudico che Begnai tenga questa borsa di fiorini quattrocentotanto che tu truovi la tua di fiorini cinquecento; salvo che se tu se' contento pigliarla come te l'ha datatu l'abbisí veramente che tu sodi chese questa di fiorini quattrocento fosse d'altruidi restituirla.
Costui se la prese e arrose il sodamentoe Begnai fu liberato.
La quarta e ultima avvenne quasi nell'ultimo del suo officio; e fu cheandando Begnai a cavallo alla fiera a Pratoquando fu verso Peretolas'accompagnòcome incontracon certi che erano a cavallo con donne; di cheavendo Begnai il cavallo un poco spiacevolecominciò a gittarsi addosso a un altro in su che era una donna gravidala quale ne cadde in terra per forma che si scipòe. Il marito e' fratelli vanno con l'accusa dinanzi al Podestà; e richiesto Begnaicomparisce dicendo che elli per sé non fu ellianzi fu il cavalloil quale mai non avea conosciutoné aveali favellato. E 'l Podestà dice:
- In fé di DioBegnaiche tu se' un gran malfattoretante cose ho aúte a finire de' fatti tuoi!
E voltosi a quelli della donnadice:
- Che domandate voi?
E quelli dicono:
- Messer lo Podestàparvi convenevole che costui abbia fatto sconciare questa donna?
E 'l Podestà dice:
- Voi udite che non ha colpa elli: e' cavalli son pur bestie; che se ne dee fare?
E quelli rispondono:
- E noi come riabbiamo la donna nostra gravida com'ell'era?
E 'l Podestà dice:
- E io voglio giudicare questa questione cosí; che voi mandiate la donna a casa di questo Begnaie tanto la tenga che la renda gravida com'ell'era.
Udendo ciò costorose n'andoronoe non la mandorono a Begnai; di che elli rimase libero.
Venuto il tempo del sindacatoebbe il Podestà assai petizione sopra le faccende di Begnaiallegando che non avea seguíto né la leggené gli statuti del Comune. Il Podestà dicea:
- La migliore legge che si possa usare è quella della verità e della discrezione; però che la legge dice: "Chi uccide dee essere morto"; ma egli è grandissima differenza da una morte a un'altra; ché sono morti che potrebbono meritare premionon che avere pena di mortee sono morti che meriterebbono mille morti. E pertanto conviene che qui sia uno mezzo che pigli un'altra via che seguire le leggi; e questa via conviene che sia il discreto rettorecome che io non sia di quellima per discrezione e per bene ho giudicato.
Li sindachiudendo li judicii dati per luie spezialmente quelli di Begnaidissono tutti che non meritava pur d'essere proscioltoma d'avere uno grandissimo onore dal Comune.
E tanto feciono co' Signoriche con li loro consigli ordinorono che 'l detto Podestà avesse uno pennone e una targa dal popolo di Firenze. E questo fu lo primo che si desse a' nostri rettori.
Volesse Dio che oggi si dessono discretamentecome per li tempi passati si davono. Allora si davano per rimunerare la virtúoggi per compiacenza o per amistà.


NOVELLA CXCVII

Il canonaco de' Bardi fiorentino si richiama di ser Francesco da Enticaperché non volle prestare il ronzino a Aghinolfo; e messer Bonifazio da Savignano dà il judicio.

Qual fu piú nuovo judicio o piú piacevole che quello che diede messer Bonifazio da Savignano Podestà di Firenze nella presente novella contro a ser Francesco di ser Giovanni da Entica? il quale era sí trascurato che avendo a vedere una carta compiuta dal canonaco de' Bardiper consiglio che volea da luie 'l detto calonaco ritornando per essaquelli cercò tutta la casae non potendola trovaredicea:
- O tu non me l'arrecastio io te l'ho renduta -; e in finenon potendola averee dicendo la novella il canonaco alla piazza con certi a Ponte Rubaconteda indi a un mese e' porci di Santo Antonio passandol'uno avea una carta in bocca.
Coloro udita la novella e passando il porcodicono:
- Quella serà la carta tua -; e seguendolo certi famiglia gran pena la riebbonola maggior parte morsecchiata e rottacome quella che un mese era stata in la loro jurisdizioneed era dessa.
E cosí si gittava ogni cosa a' piedie la sua porta era sempre ròsa o da cani o da porcisí che v'era sempre l'entrata per lo buco che s'aveano fatto.
Di cheessendo costui scorto un poco per pecorinospezialmente da' Bardi suo' viciniAghinolfo de' Bardi gli chiese un dí un suo ronzino da soma per andare o mandare a una sua villa. Quelli disse che non poteaperò che l'avea a mandare per suoi fatti; e non disse però il vero. Di che Aghinolfo convenne ricorrere ad altruie accattonne uno dal calonaco suo consorto; il qual ronzinoo per soperchia faticao per che che si fossetornò guasto al detto calonaco; il perchéveggendo avere come perduto il suo ronzinoe pensando che ciò fosse intervenuto perché ser Francesco da Entica non gli avea voluto prestare il suo; e considerando quello che ser Francesco avea fatto della sua cartae quanto era di materiale condizionee ancora avendo singulare conoscenza col detto Podestàpensò di richiamarsi di lui; ma prima da sé a lui gli l'andò a dire: e dicendogliloser Francesco disse:
- Motteggi tu?
Il calonaco disse:
- Io dico dal miglior senno che io ho.
Dice ser Francesco:
- E qual legge hai tu trovata che dica cotesto?
E quelli rispose:
- E’ci è una legge e ordinee honne aúto buon consiglio.
Dice ser Francesco:
- Ben veggio che io non ho ancora apparato; ché io per me non la trova' mai.
Dice il calonaco:
- Volete voi dir altro?
E quelli dice:
- Che altro? deh va' in buon'orava'.
E colui risponde:
- Sia al nome di Dio -; e volte le spallene va diritto al Podestàe informalo di questa faccendae fallo richiedere per lo primo dí juridico.
Come ser Francesco si sente richiestodice:
- Alle guagnele! che par che dica da dovero!
E trovando Aghinolfo gli dice:
- O questa è ben bella novella che 'l calonaco si richiami di me: perché io non ti prestai il ronzino miodice che io gli debbo mendare il suo che tu gli hai guasto; se menda si venissetu gliel'averesti a fare tu.
Dice Aghinolfo:
- Se voi avete a fare col calonacoe' me ne incresce; io non ho a mendare nulla; quando io serò chiamatoio risponderò.
Dice ser Francesco fra sé stesso: "L'uno dice male e l'altro peggio; va' abbi a fare con maggiori di te! Costoro pare che mi vogliono rubare; io venni a stare qui tra le maggioranzepoteva avere nel Canestruccio una casa per un pezzo di paneed era presso a' palagi de' rettori: or togli ser Francescova'sta' allato a' maggiori di te: Dio m'aiuti; io ho la ragionevedremo che fia".
Venuto il dí della richiestae ser Francesco è dinanzi al rettore; là dove il calonaco dice ordinatamente tutta la sua domanda. E 'l Podestà dice all'altra parte:
- E tu che di'?
Dice ser Francesco:
- Che ne pare elli a voi?
Dice il Podestà:
- Sono io Podestào tu o ioché tu domandi me?
A ser Francesco parve nuovo introito questo per luie chiese perdonanzadicendo:
- Io vi prego che voi mi facciate ragione.
E allegando l'una parte e l'altraser Francesco allega uno testo di messer Bartolo da Sassoferrato. Dice il calonaco:
- Io non dico che 'l ronzino sia sferratoanco dico ch'egli è guastoe non che 'l ronzinoma tutto il basto è rotto.
- Buono buono! - dice ser Francesco di ser Barbagianni- io allego uno dottore di legge che ebbe nome messer Bartolo da Sassoferratoe non dico di ronzino sferrato.
Dice il calonaco:
- Io vi farò ben mostrare all'avvocato mio il contrario in cotesto medesimo dottore.
Brievementeil Podestà e 'l collaterale suo dissono e allegorono tanto in contrario del detto ser Francesco che quasi egli si credette avere il torto. E quando il Podestà l'ebbe condotto dove voleadisse che per lo migliore accordasse il calonaco o che si compromettessino in avvocati comuni; e cosí fecero. Li quali avvocati furono anco partecipi di questo piaceree in fine feciono o di tutto o di gran parte il calonaco contento.
E cosí arrivò ser Smemoraper non rigovernare sí la carta ch'e' porci di Santo Antonio non gli l'avessin tolta; e 'l calonaco e Aghinolfo se ne goderono di questa novella piú mesie 'l Podestà non si stette. Ser Francesco ne rimase stordito affattoché fra se stesso pensava pure se questo fatto era sogno o se era da dovero; e trovato che era pur veroe' dicea in sé medesimo: "O io non ho bene apparatoo io sono smemorato"; e quasi mai non se ne diede pace. Egli allegava al calonaco Sassoferratoe 'l calonaco sapeva lo 'nforzatoe con quello vinse la questione.


NOVELLA CXCVIII

Uno cieco da Orvieto con gli occhi mentaliessendoli furato cento fiorinifa tanto col suo senno che chi gli ha tolti gli rimette donde gli ha levati.

Molto fu piú avveduto un cieco da Orvietocon gli occhi d'Argoa riavere fiorini cento che gli erano stati tolti sanza avere andare ad alcuno rettoreo chiamare avvocati arbitrio allegar legge o noteria. Fu costui uno che già avea vedutoe avea nome Colaed era stato barbiere: avendo circa anni trentaperdé la lucee non possendo vivereché povera persona erapiú col guadagno né di quella artené d'alcuna altraconvenne che si desse a domandare la limosina; e avea preso per uso alla chiesa maggiore d'Orvieto fare ogni mattina almeno infino a terza la sua dimorae quivi gli era fatto per l'amor di Dioda' piú della terracaritàtanto che in non molto tempo gli avanzò cento fiorinie quelli segretamente tenea addosso in uno suo borsello.
Avvenne per caso che moltiplicando costui in avanzaremolto piú che non facea con le forbicine o col rasoiogli venne pensiero una mattinacredendo essere rimaso nella chiesa dirieto a tutti gli altrid'andare dopo la porta e mettere la borsa de' cento fiorini sotto uno mattone dell'ammattonato; ché già avea veduto come quello spazzo stava. E cosí come avea pensatofecenon credendo che alcuno fosse nella chiesa rimaso che 'l vedesse. Era per avventura rimaso nella chiesa uno Juccio pezzicheruolo che adorava dinanzi a santo Giovanni Boccadoroil quale adorandovide ciò che Cola razolavama non sapea lo 'ntrinseco; onde elli aspettò tanto che Cola si fu partitoe subito andò nel luogo drieto a quella portae guardandovide un mattone fuori di forma mosso dagli altrie con uno coltello quasi come una lieva levatolo susovide il borsello; e subito se lo recò in manoe racconciò il mattone come primae con li detti danari se n'andò a casa suaper animo di non manifestarli mai.
Avvenne per caso che innanzi che passassono tre dí il cieco ebbe voglia di sapere se il suo era dove l'avea sotterrato; e colse tempoe andò al mattone sotto il quale avea nascoso il suo tesoroe levandoloe cercando della borsae non trovandolagli parve stare assai male; ma pur ripose il mattone in suo statoe malinconoso se n'andò a casa. E là pensando come in un punto avea perduto quello che a poco a poco in gran tempo avea acquistatogli venne in pensiero acutocome a' piú de' ciechi intervieneche egli la mattina vegnente chiamò un suo figliuolo di nove annie disse:
- Vienie menami alla chiesa.
E 'l fanciullo ubbidí al padre; ma innanzi ch'elli uscissi di casal'ebbe nella sua camerae disse:
- Vie' quafigliuol mio: tu verrai meco alla chiesanon ti partire da me; sederai dov'io nell'entrata della portae quivi guarderai molto bene tutti uomeni e donne che passerannoe terrai a mente se niuno vi passa che mi guardi piú che gli altrio che ridao che faccia alcuno atto verso mee tieni a mente chi egli è: sapra' lo tu fare?
Dice il fanciullo:
- Sí.
Informato il fanciulloil cieco ed ello se n'andorono alla chiesae puosonsi alla posta loro. Il fanciullostando attento a' comandamenti del padrestette tutta quella mattina alla mira di ciaschedunoe in brieve e' s'accorse che questo Jucciopassandoavea affisato e sorriso inverso il cieco padre. Ed essendo venuta l'ora di tornare a casa a desinareprima che salisse il cieco col figliuolo la scalail cieco fece l'esaminee disse:
- Figliuolo miohai tu veduto niente di quello che io ti dissi?
Disse il fanciullo:
- Padre mioio non ho veduto se non uno che vi guardò fiso e rise.
E 'l padre disse:
- Chi fu?
E quelli disse:
- Io non so come s'ha nomema io so bene ch'egli è pizzicheruoloe sta qui presso da' Frati minori.
Dice il padre:
- Saprestimi tu menare alla sua bottega e dirmi stu 'l vedi?
Il fanciullo dice di si. Il cieco levò via ogni dimoranzae dice al fanciullo:
- Menami làe stu lo vedidimmelo: e quando favello con lui scostati e aspettami.
Il fanciullo guidò il padre tanto che lo trovò alla stazzone che vendea formaggioe disselo al padree accostollo a lui. Come il cieco l'udí favellare con quelli che compravonoconobbe lui essere Jucciocol qualequando avea la luceebbe già conoscenza; e cosí seguendodisse che gli volea un po' parlare da sé e lui in luogo secreto. Juccioquasi sospettandoil menò dentro in una cella terrenae dice:
- Colache buone novelle?
Dice Cola:
- Frate mioio vegno a tee con gran fidanza e con grande amore: come tu saiegli è buon tempo che io perdei il vedereed essendo in povero stato con gran famigliam'è stato forza di vivere di lemosina; e per grazia di Dio e per bontà e di te e degli altri Orvietaniio mi trovo avere fiorini duecentode' quali fiorini cento ho in un luogo a mia petizionee gli altri ho dati in serbanza a piú mia parenti che in otto dí gli averò. E pertantose tu vedessi modo di pigliare questi duecento fiorinie farmi per amore di messer Domeneddio quella parte di guadagno che ti paia convenente per sostenere e me e' miei figliuoliio ne serei molto contentoperò che in questa terra non è alcuno in cui piú mi fidassie non voglio che di ciò si faccia alcuna scritturae che niente se ne dica e che niente se ne sappia. Sí che io ti priego caramenteche che partito tu pigliche di ciò che io t'ho detto mai per te non se ne dica alcuna cosa; però che tu sai che come si sapesse che io avesse questi danaritutte le limosine che mi sono date mancherebbono.
Juccioudendo costui e immaginando di potere tirare l'aiuolo anco a' fiorini centodisse a Cola assai parolee di tenerli credenzae che l'altra mattina tornasse a lui e risponderebbegli. Il cieco si partíe Jucciopreso tempoil piú tosto che poté andò con la borsache ancora non avea toccaalla chiesae sotto quello mattone donde l'avea toltala ripose: però che ben s'avea pensato ch'e' fiorini cento che Cola dicea avere a sua posta erano i fiorini cento che avea sotto il mattone ripostied elliperché la faccenda degli altri cento non mancasseandò e riposevegli.
Cola dall'altra parte immaginò che nel dire di Juccio "domattina ti risponderò" fosse da credere che per avere gli altri cento potrebbe intervenire cheinnanzi che facesse la rispostave gli riporterebbe: andò quel dí medesimo alla chiesae pensato di non essere vedutolevò il mattonee cercato sotto trovò la detta borsa; la qual subito si cacciò sottoe rimise il mattone sanza curarsene troppoe tornossi a casaavendo la buona notte; e la mattina vegnente andò a udire Juccio. Il quale come lo videgli si fece incontro dicendo:
- Dove va il mio Cola?
Cola disse:
- Io vegno a te.
Entrati in luogo segretodisse Juccio:
- La gran confidenza che mi portimi fa sforzare a fare ciò che domandi; fa' d'avere li duecento fiorini: per di qui otto dí io farò una investita di carne salata e di cacio cavalloch'io credo guadagnare sí che io ti farò buona parte.
Dice Cola:
- Sia con Dio; io voglio andare oggi per fiorini centoe forse anco per gli altrie recherottegli; fammi poi quel bene che tu puoi.
Disse Juccio:
- Va' con Dioe torna tostopoiché ho deliberato fare questa investitaperò che messer Comes raguna per la Chiesa gran gente d'armee credesi che faranno capo grosso qui; e' soldati son molto vaghi di queste due cose. Sí cheva'procacciaché io credo farne molto bene e per te e per me.
Cola n'andòma non con quell'animo che Juccio credeaperò che 'l cieco accecava ora l'alluminato. E venuto l'altro díCola con un viso tutto malinconoso n'andò a Juccioil qualeveggendolotutto ridente gli si fece incontroe disse:
- Lo buon giorno t'incappiCola.
Disse Cola:
- Ben lo vorrei avere comunalenon che buono.
Dice Juccio:
- E che vuol dir questo?
Dice Cola:
- Male per meché dov'io avea riposti cento fiorininon gli ci truovoche mi sono stati furati; e quelli miei parenti dov'io avea in serbanza gli altri cento in piú partitechi mi dice non gli ha e chi peggio; sí che io non ho altro che strignere le pugnatanto dolore ho.
Dice Juccio:
- Questa è dell'altre mie venturechédove io credea guadagnareperderò fiorini cento o piú; ed ècci peggioche io ho quasi fatta l'investita; chése colui che m'ha venduta la mercanzia vorrà pur che 'l mercato vada innanziio non so di che mi pagare.
Dice Cola:
- E’ me ne pesa quanto puote per tema per me me ne duole molto piú forteche rimango in forma che mal potrò viveree converrammi ricominciare a fare capital nuovo; mase Dio mi fa grazia che mai io abbia piú nullaio non gli ficcherò per le buchené ad alcuna personase fosse mio padregli fiderò o darò in serbanza.
Juccioudendo costuipensò se si potesse rattaccare in su' cento che gli parea avere perdutie dice:
- Questi fiorini cento che hanno i parenti tuoise tu gli potessi avere e darmegliio m'ingegnerei d'accattare gli altri centoacciò che la investita andasse innanzi: e questo facendopotrebbe molto ben essere che innanzi che fosse moltotu te ne troverresti duecento in borsa.
Dice il cieco:
- Juccio miose io volesse appalesare i fiorini cento de' parenti mieiio me ne richiamerei e serebbemi fatto ragionema io non gli voglio far palesiperché io averei perduto le limosinecome si sapesse. E pertanto io gli fo perdutise già Iddio non gli spirassesí che da me non isperare alcuna cosapoiché la fortuna ha cosí disposto: come che io rimangaio per meveggendo la tua buona disposizionela quale era di farmi riccoreputo d'averlo ricevuto e d'avere in borsa fiorini duecentocome se tu l'avessi fattoperò che da te non è mancato. Una cosa faròche io farò fare l'arte a un mio amicose nulla mi potesse dire di chi fosse stato; e se ventura ce ne venisseio tornerò da te: fatti con Dioché io non ci voglio dormire.
Dice Juccio:
- Or eccova' e ingegnati con ogni modose puoi rinvenire e riavere il tuo; e se ti venisse ben fattotu sai dov'io stose niente ti bisogna; datti pace il piú che tu puoi e vatti con Dio.
E cosí finí l'investita del cacio cavallo e della carne insalatala qual non si fece; e 'l cieco raddoppiò il suoe tra sé stesso se ne sollazzò un buon tempodicendo: "Per santa Lucia! che Juccio è stato piú cieco di me". E ben dicea il veroch'elli avea preso l'alluminato alla lenzaaescando cento fiorini per riavere gli altri.
E non è perciò da maravigliareperò che i ciechi sono di molto piú sottile intendimento che gli altri; ché la luce il piú delle voltemirando or una cosa e or un'altraoccupa l'intelletto dentro; e di questo si potrebbono fare molte provee massimamente una piccola ne conterò. E’ seranno due che favelleranno insieme: quando l'uno è a mezzo il ragionamentopasserà una donna o un'altra cosaquelliguardandoresta il dire suo e non lo segue; e volendolo seguiredice al compagno:
- Di che diceva io?
E questo è solo che quel vedere occupò lo 'ntelletto in altro; di che la linguala quale era mossa dallo 'ntellettonon poté seguire il corso suo. E però fu che Democrito filosofo si cavò gli occhi per avere piú sottili intendimenti. Juccio dall'altra parte si doleaparendoli avere perduto fiorini cento; e dicea fra sé: "Non mi sta egli molto bene? io avea trovato cento fiorinie volevane anche centoil maestro mio mi dicea sempre: "Egli è meglio pincione in mano che tordo in frasca'; e io non l'ho tenuto a mente; però che io ho perduto il pincione e non ho preso il tordoe uno cieco m'ha infrascato; ché veramente egli ha aúto cento occhicome li cento fiorinia farmi questo; e' mi sta molto beneche non mi bastava d'avere li centoche l'avarizia mi mosse a volerne anche cento. Or togliJuccioche avevi comprata la carne insalataché ben fu vero che io comprai fiorini cento la carne del ciecoche è bene stata per me la piú insalata che io comprasse mai". E non se ne poté dar pace buon tempo; dicendo a molti che li diceano: "Che hai tu?" rispondea che avea perduto in carne insalata fiorini cento. E ben gli stetteperò che chi tutto vuoletutto perde; e lo 'ngannatore molto spesso rimane appiè dello ingannato.


NOVELLA CXCIX

Bozzolo mugnaioessendogli mandato grano a macinaree con la guardia d'un fante che non si partisse acciò che non lo imbolassefa pescare la gattae imbola piú che mai.

Assai meglio seppe fare in su l'altrui Bozzolo mugnaio dalle mulina degli Angetti che non fece Juccio in tenere fiorini cento trovati; però che costuiavendo voce del miglior mugnaioe di colui che miglior macinato facesse gran tempoe togliendosi molto bene del grano altruicome i piú fannonella fine il piú coperto ladro divenne che quasi mai macinasse granoperò cheavendo quasi recati al suo mulino la maggior parte de' Fiorentininella fine se gli fece suoi fratellidividendo con loro per metà quello che gli era portato.
Avvenne per caso che Biancozzo de' Nerligentiluomo fiorentinoavendo mandato piú volte al suo mulino per la gran fama che di lui udivae sí del buon macinatoe sí della lealtàe in finetrovando la cosa non riuscire alle forficima di male in peggiotrovando piú l'una volta che l'altra scemare la farina di quello che dovea; e andando insino al mulino Biancozzo de' Nerli piú voltee' dice a Bozzolo che la farina gli tornava quando meno il quarto e quando il terzoche ciò piú non potea sofferire se non lo ristorasse. Rispose Bozzolocome i suo' pari ancora fanno:
- E’ non dee potere essere; ché cosí m'aiuti Dio e san Brancaziodi cui sono divotoche lealmente fo i fatti vostri; ma nel vostro grano ha molto del vòto.
Dice Biancozzo:
- Io non so che vòto; io ti dico del pienoe se non mi ristorilo mi richiamerò di te.
Risponde Bozzolo:
- Fate cosí: mandateci chi che sia che 'l rechi e non si partatanto che sia macinatoe vederete se è mio difetto o del grano.
Dice costui:
- Or benetu m'hai inteso -; e vassi con Dio.
E da ivi a pochi dí ebbe a mandare a mulinoe pensossi per le parole del mugnaio mandare un suo fante che avea nome Nutino; e fatto trovare il granogli comandò che con esso andasse a mulinoe mai non si partisse né dalla macinané dalla tramoggiache avesse a casa ritornato la farina. Il fante si partíe disse di cosí fare. Giunto al mulinodice a Bozzolo:
- Questo grano è del tale; pregati tu lo macini testeso ché vuole che io ne riporti subito la farina.
Dice Bozzolo:
- Egli ha preso sfidanzae io voglio lasciare ogni altra cosa per servir lui.
E messo il grano nella tramoggiae cominciato a macinaree Nutino postosi a sedere appressofu tutt'uno. E stando Nutino molto attentovedendo Bozzolo che non potea sbozzolare come voleacome avea ordinato chiamò la Saccenteche cosí avea nome la mogliee dice che scenda dal palco e meni la gattaché vuole andare a pigliare parecchi pesci. Nutino al suon della macina cominciava quasi a sonneferare; ma a quello della gatta gli uscio il sonnoe levandosi disse:
- Questo ben voglio vedere.
E cosí la donna scende d'una scaletta con una gatta legata e col guinzaglio a mano e con un frugatoioil quale diede a Bozzolo che avea il bigonciuolo da pesci già recatosi in manoe uscendo dell'uscio si mettono in via.
Nutinoavendo tutto consideratodice in sé medesimo: "Non èdovesse andare quanto grano fu maiche questo io non vada a vedere"; e uscito del mulinotiene drieto a costoro. Come Nutino è di fuori e segue la gattadentro il garzone del mugnaiocome ordinato eras'attacca al grano di Nutino il meglio che puote; tanto che quasi avvenne come del buon cottoché a mezzo torna. La brigatache su per la riva con la gatta andavono pescandonon pigliavono pesci; il mugnaio col frugatoio percoteva l'acquacon diversi atti guatando la gatta; Nutino smemoratino tralunava; il fante del mugnaio rinsaccava. Bozzolopoiché un pezzo ebbe menato la giumenta al torneodice:
- Per certo egli è mia sventura che quasi in tutto uguanno non sono uscito piú a pescare con la gattache io non abbia preso almeno una libbrache gli averei mandati a Biancozzo de' Nerli; non si può piú: altra volta ci ristoreremo.
E ritorna a mulinoe dietro a lui Nutinoil quale giuntodisse:
- Come! è macinato?
Disse il garzone del mulino:
- Presso tieni il sacco -; e comincia a mettere la farinae cosí empiendo dicea: - Mai se si rammarica di questoben dirò che non sia mai d'aver piú fede in persona.
Piene le saccae Nutino portò la farina; e giunto a casa dice:
- Per certose questo non è buon lavoríomai non ne fia alcuno.
E cosí standoel signore chiama Nutinoe dice:
- Come hai fatto?
- Signore miobene; ho recato farina da far fanciulli maschi.
Chiama la fantee dice:
- Abburattae misura com'ella è tornata.
La fanteabburattata che l'ebbe e misurata la seratruova le sei staia di grano esser tornate quattro di farina; e dicelo al signore. Il signore adirato chiama Nutinoe dice:
- E’ da fanciulli maschi questa farina? anzi è da figliuoli delle forcheche sie mort'a ghiadoch'io credo che tu ne sia stato col mugnaio.
Nutino si scusa. Il signore dice:
- Dimmi il vero e non aver paura: partistiti tu mai dal grano?
Quelli comincia a intrefolarsi. Dice il signore:
- Di' sicuramente.
Allora il fante narra tutta la faccendae come la pescagione della gatta avea fatto il mugnaio; e che elli non se ne sarebbe mai tenuto che non fosse ito a vedere; e pertanto gli perdonasse; e se per partirsi dal mulino il mugnaio avea imbolato il granotutto il mettesse a sua ragione. Il signore si ristrinse nelle spallee disse:
- Ogni cosa è d'ugn'anno; vatti con Dioché da' furti de' mugnai non veggio di potersi mai guardare. Una cosa faròche Bozzolo mai non mi sbozzolerà mio grano; portalo oggimai a' frati d'Ognissanti.
E Nutino cosí fece; stando ne' tempi che vennono piú attento a guardare il granosanza vedere pescare la gatta.
Cosí è fatta l'astuzia de' ladriche con tutte le sottigliezze del mondo stanno avvisati di tòrre l'altrui; e se in alcuna gente è questo difettoè ne' mugnai. Da' a peso e ritogli a pesoda' a misurasta' a vedere e fa' ciò che tu vuogliche è? non c'è modo niuno che non imbolinocome ciascuno ha provato e tutto dí prova.


NOVELLA CC

Certi gioveni di notte legano i piedi di una orsa alle fune delle campane di una chiesala qual tirandole campane suonanoe la gente trae credendo sia fuoco.

La precedente novella fu con danno e con le beffe; questa che seguitafu d'una nuova beffaquanto mai fosse alcunae con poco danno altrui; la quale sta in questa forma. Certi Fiorentini erano a cena in una casa di Firenzela quale era non molto a lungi dal palagio del Podestà; ed essendo tra loro in quel luogo entrata una orsala quale era del Podestà ed era molto domesticaandando questa piú volte sotto la mensa a lorodisse uno di loro:
- Vogliàn noi fare un bel fatto? quando noi abbiamo cenatoconduciamo quest'orsa a Santa Maria in Campodove il vescovo di Fiesole tien ragione (ché sapete che non vi s'incatenaccia mai la porta) e leghiànli le zampe dinanzil'una a una campanae l'altra a un'altrae poi ce ne vegniamo; e vedrete barili andare.
Dicono gli altri:
- Dehfacciànlo.
Era del mese di novembreche si cena di notte; essendo in concordiadanno di mano all'orsae per forza la conducono nel detto luogo; ed entrati nella chiesasi avviano verso le funi delle campanee preso l'uno di loro l'una zampa e l'altro l'altrale legorono alle dette campanee subito danno voltaandandosene ratti quanto poterono. L'orsa sentendosi cosí legatatirando e tempestando per sciogliersile campane cominciano a sonare sanza niuna misura. Il prete e 'l cherico si destanocominciano a smemorare:
- Che vuol dir quello? chi suona quelle campane?
Di fuori si comincia a gridare:
- Al fuocoal fuoco .
La Badía comincia a sonareperché l'Arte della lana è presso a quel luogo. I lanaiuoli e ogni altra gente si levano e cominciano a trarre:
- Dov'è dov'è?
In questo il prete ha mandato il cherico con una candela benedetta accesaper paura che non fosse la mala cosaa sapere chi suona. Il cherico ne va là con un passo innanzi e due a drieto e co' capelli tutti arricciati per la paura; e accostandosi al fattosi fa il segno della santa croce; e credendo che sia il demonioil volgersie 'l fuggire e 'l gridare: in manus tuasdomineè tutt'uno. Giugnendo con questo romore al preteche non sapea dove si fossedice:
- Oimè! padre mioche 'l diavolo è nella chiesae suona quelle campane.
Dice il prete:
- Come il diavolo? truova dell'acqua benedetta.
Truova e ritruovanon ebbe ardire d'entrare nella chiesama d'un buon galoppo per la porta del chiostro se n'uscí fuorie 'l cherico drietogli. E giugnendomolta gente trovò che cominciava a chiamare il pretedicendo:
- Dov'è il fuoco?
E giugnendo fuoriessendo domandato: "Dov'è questo fuocoprete?" appena potea rispondereperché avea il battito della morte. Pur con una boce affinita e affiocatadice:
- Io non so di fuoco alcuna cosané chi suona queste campane; costui v'è ito (e dice del cherico) a sapere chi le suona; par che dica che gli pare la mala cosa.
- Come la mala cosa? - rispondono molti; - reca qua i lumi; abbiàn noi paura di mali visi? chi ha paura si fugga.
E avviandosi in là cosí al barlumee veggendo la bestianon scorgendo bene quello che si fossela maggior parte si tornano indietrogridando:
- Alle guagneleche dice il vero!
Altri piú sicuri s'accostano e veggendo quello ch'ègridano:
- Venite quabrigatach'ell'è un'orsa.
Corrono là moltie 'l prete e 'l cherico ancora; e veggendo questa orsa cosí legatae tirare e nabissarsi con la boceciascuno comincia a ridere:
- Che vuol dir questo?
E non era però niuno che ardisse di scioglierlae tuttavia le campane sonavonoe tutto il mondo era tratto.
In fine certi che conosceano l'orsa del Podestà essere mansuetas'accostorono a lei e sciolsonla; avvisandosi i piú che qualche nuovi pesci avessono fatto questo per far trarre tutti e' Fiorentini. E tornatisi a casapiú dí ragionorono di questo casoe ciascuno dicea chi serebbe stato. I piú rispondeano:
- Dillo a me e io il dirò a te.
Alcuni diceano:
- Chiunque fufece molto bene; ché sempre sta quella porta apertache non ispenderebbe né 'l vescovo né il prete un picciolo per mettervi uno chiavistello.
E cosí terminò questa novella; e quelli che l'aveano fattoerano in un letto e scoppiavono delle risaessendosi fatti piú volte alle finestre con gridare con le piú alte voci che aveano: "Al fuocoal fuoco "; e quanta piú gente traeapiú ne godevano; domandando piú che gli altri in quelli di che volle dir quelloper avere diletto di chi rispondea loro.
E per ciò si dice: "Li nuovi uomenile nuove cose". Costoro vollono o immaginoronsi di vedere la gente armata che trae al fuoco; ché per certo chi vi pon ben mente come comparisconoela è cosa d'avere dilettoa vedere le nuove cappellinele nuove cuffie e le nuove cianfarde che recanosanza le nuove chiocciole e' nuovi gabbanii nuovi tabarronie le antiche arme; sí che appena si conoscono insiemesguarguatando l'uno insino in sul viso all'altroprima che si conoscano. Ma piú nuova cosa è a vedere l'usanza e l'avarizia de' chericiche tutte le chiese e le loro case lasciano andare a ruina prima che vogliano fare una piccola spesa. Cosíper misertà d'un chiavistello di cinque soldistava la porta di questa chiesa aperta: ché molto meritava piú il vescovo e 'l prete che quelli che legarono quest'orsa alle funi delle campanel'avessono loro legata a' coglioni.


NOVELLA CCI

Madonna Cecchina da Modenaessendo rubatacon uno pesce grosso e uno piccoloe uno suo figliolettosonando la campanella... .

Questo fu un bel giuoco di questa orsa; ma questo che segue di due pesci fu con piú sustanzia. Egli è gran tempo che nella città di Modena fu una donna vedovarimasa di poco tempo d'uno mercatante assai riccola quale avea nome madonna Cecchinae con lei era rimaso un suo figlioletto di forse dodici anni. E come in tutte le terre avvienee spezialmente oggi che le vedove e' pupilliessendo pecore e agnellihanno cattivi effetti co' lupidove ne sono; cosí questa donnaessendogli da' gran cittadini tolto oggi un pezzo del suoe domane un altronella fine perdendoed essendoglisi può direrubata una sua possessionee non trovando avvocati a' suoi piati che la difendessonoe se gli trovavala forza pascea il pratomossa da una mezza disperazionesi pensò di tenere un modo cosí fatto. Ella richiese un suo amico vicino che gli dovesse piacere di farli un gran servigioe questo era che gli accattasse una campanellain quella forma che quelle di santo Antoniosolo per un díe poi tornasse da lei. Accattato questo buon uomo una campanella da chiesao da cui si fossecon essa ne venne alla donna. Come la donna l'ebbeche era di quaresimadice all'amico:
- Mo viaio voglio che tu venga con mi e con lo mio figliuolo alla pescheriae comperamicom'io ti diròdue pesciuno grande e uno picciolino; e quando gli averai toltimetterai il picciolino mezzo in gola al grandee con essi scopertiche ogni uomo gli veggiatorneremo a casa; e 'l mio figliuolo averà in mano questa campanella e verrà presso a te sonandola; e io serò dall'altra parte. Se alcuno domanderà: "Che vuol dir questo?" laghe rispondere a me.
L'amico si maravigliò fortedomandando per quello che ciò volea fare. La donna rispose:
- Fa' quello che io t'addomandoe pregoti; ché ancor oggi lo saperai e sera' ne contento.
Costui dice:
- Io farò ciò che voi volete.
La donna piglia un suo mantelloe dà la campanella al figliuoloammaestrandolo che non sonassese non quando gli lo dicesse; e cosí si partirono tutti e tre una mattinae andarono alla pescheria. Giunti che furono làla donna guarda e dice all'amico:
- Compra quello luccio grande e compra uno di quelli pesci piccolini che sono all'altra banca.
L'amico cosí fece; e aperta la gola al lucciogli misse dentro insino al mezzo il pesce piccolo; e dicendoli la donna in che forma lo recassesí che ciascuno il vedesse benedice al figliuolo:
- Sta' allato a costuie non restare mai di sonare la campanella -; ed ella dall'altro lato dicea: - Andiamo a casa.
E messisi in via con questa novità mostrando il pescee 'l figliuolo sonando la campanellala gente traea. Chi dicea:
- Che è questomadonna Cecchina? che vuol dir questo?
Chi domandava in un modo e chi in un altro. A tutti rispondea ch'e' pesci grandi si mangiavano i piccolini; e cosí continuo a tutti risposee mai non disse altrotanto che giunse a casa.
E avendo adoperata la vocee 'l figliuolo la campanellae l'amico mostrando l'esemploo che non fosse chi leggesse né chi intendessepoco frutto ne seguíse non chefatto cuocere lo pesce grande e piccolosel mangiarono a desinare tutti e tre.
E questo fu a tempo ch'e' Pigli erano signori di Modena. Io credo che assai intendessono la donnama feciono vista di non l'intendere. Sia certo ciascheduno che chi sostiene che le vedove e' pupilli siano rubati con doloroso fine vengono a perdere il loro stato. E ben si dimostrò in questi che erano signoriché ivi a poco tempoperdendo la signoriavenne la terra sotto a quelli da Gonzaga.
E notalettoreche quasi tutte le terre venute a signoreo a distruzionene sono stati cagione li cittadini possenti delle gran famiglie di quelle città che facendo divisione e contese fra loroper essere ciascuno il maggiorecaccia l'uno l'altro e rimane la signoria a pochio a una famigliae poi dopo alcun tempo viene un solocioè un tirannoe caccia coloroe pigliasela elli. Esempli ne sono assai; ma quattro ne conterò che non è settant'anni che caddono in questa ruina. Cremona che in questo modo ne erano signori li Cuncioni; Parma che la signoreggiavono li Rossi; Reggio signoreggiavano quelli da Fogliano; e Modena detta gli Piglicome detto è. Viene per caso che in Lombardia si creò una legaforse a fine di pigliare queste terretra' marchesi da Ferraraquelli di Gonzagae' Visconti e quelli della Scala. Questa lega tolse la signoria a quelli signori di queste quattro terre; e poi come elle erano quattrocosí le divisono tra loro quattro. Li marchesi ebbono Modenaquelli da Gonzaga ebbono Reggioi Visconti ebbono Cremonae quelli della Scala Parma: e anco poi e Reggio e Parma ha raso un altro barbiere. E ciò non avviene se non ch'e' signori contendono alle ambizione delle signorienon curandosi di fare né ragione né justiziasanza la quale ogni regno e ogni città viene a ruina.


NOVELLA CCII

A uno pover'uomo di Faenza è rubata a poco a poco una pezza di terra: fa sonare tutte le campanee dice che è morta la ragione.

Simil invenzione fu quella che viene alla passatama molto trovò justizia piú questa; però cheessendo signore di Faenza Francesco de' Manfredi padre di messer Ricciardo e d'Alberghettinosignore e savio e dabbene sanza alcuna pompache piú tosto tenea costume e apparenza con onestà di grande cittadino che di signore; avvenne per caso che uno possente di quella città avea per confine una pezza di terra a una sua possessionela quale era d'uno omiciatto non troppo abbiente; e volendola comperare e piú volte fattone pungae non essendovi mai modo perché quello omicciuolo il meglio che potea la governavae mantenevasi la sua vitae prima averebbe venduto sé che quella; di chenon potendo questo cittadino possente venire a effetto della sua volontàsi pensò usare la forza. Però cheessendo una piccioletta fossa tra lui e quell'altro per confineogni anno quasi quando s'arava la suapigliavaquando con un solco e un altro per announ braccio o piú di quella del vicino.
Il buon uomobenché se n'accorgessenon ardiva quasi dirne alcuna cosa; se non che con certi suoi amici secretamente si doleva; e tanto andò questa cosa oltre in pochi anni che se non fosse uno ciriegio che trovò nel detto campo che era troppo evidente a passarloperò che ciascuno sapea il ciriegio essere nel campo di quello omicciuoloe' s'averebbe in poco tempo preso a poco a poco. Di cheveggendosi questo buon uomo cosí rubaree scoppiando d'ira e di sdegnoe appena non potere non che dolersima dirne alcuna cosa; come disperatosi muove un dí con due fiorini di moneta in borsa e va a tutte le gran chiese di Faenzapregandoli e prezzandoli a uno a unoche tutte le loro campane alle cotante ore dovessono sonarepigliando ora disusata dal vespro e dalla nona. E cosí seguí; ch'e' religiosi ebbono que' danarie al tempo dànno nelle campane gagliardamenteper forma che tutti quelli della terra dicono:
- Che vuol dir questo? - guatando l'uno l'altro.
Il buon uomocome uscito di sécorrea per la terra. Ciascuno veggendolo dicea:
- O voiche correte? O taleperché suonano queste campane?
Ed egli rispondea:
- Perché la ragione è morta -; e in altra parte dicea: - Per l'anima della ragionech'è morta.
E cosí col suono delle campane gittò questo detto per tutta la terratanto che 'l Signoredomandando perché sonavonoe in fineessendoli detto non saperne altro se non quello che 'l tal uomo andava gridando; il Signore mandò per luiil quale v'andò con gran paura. Come il Signore il videdisse:
- Vie' qua; che vuol dir quello che tu vai dicendo? e che vuol dire el suono delle campane?
Elli rispose:
- Signor mioio ve lo diròma priegovi che io vi sia raccomandato; il tale vostro cittadino ha voluto comprare un mio campo di terrae io non gli l'ho voluto vendere; di chenon potendolo avereogni anno quando s'è arata la suaha preso della miaquando un braccio e quando duetanto ch'egli è venuto allato a un ciriegio che piú là non può bene andareche non fosse molto evidente; che benedetto sia chi 'l piantò! ché se non vi fosse statoe' s'avea in poco tempo tutta la terra.
Di cheessendomi tolto il mio da uomo sí ricco e sí possentee io essendosi può direun poverellonon sanza gran pena sostenuta e soperchio doloremi mossi come disperato a salariare quelle chiese che hanno sonato per l'anima della ragione ch'è morta.
Udendo il Signore il motto di costuie la ruberia fattali dal suo cittadinomandò per lui; e saputa e fatta vedere la verità del fattofece restituire la terra sua a questo povero uomofacendo andare là misuratorie darli di quella del possente allato a lui tanta quanta tolta gli avea della sua; e fecegli pagare due fiorini che avea speso in fare sonare le campane.
Questa fu gran justizia e gran benignità di questo Signorecome che colui meritasse peggio; ma purogni cosa computataella fu gran virtú la suae la justizia del povero uomo non fu piccolae dove dicea ch'elle sonavano per la ragione che era mortae' si potrebbe dire ch'elle sonorono per far resuscitare la ragione. Le quali oggi potrebbono ben sonare che ella resuscitasse.


NOVELLA CCIII

Barone di Spartanodovendo ricevere un suo castello dal Papamolto tempo con istento è tenuto in corte; di che con un notabil dettomordendo il Papaè spacciato.

E questa che seguita ancora fu bella astuzia a destare chi molto avea dormito in farli ragione. E’ non sono molti anni passati che là verso l'isola di Cipri nacque una gran questione tra certi castellanili quali addomandavono a uno barone di Spartano alcune castella che teneadovere essere loro. Di cheingrossando la questionel'una parte ricorse al Papail quale era Gregorio XIe l'altra parte ricorse a' Genovesie in loro commettendo la detta questionesi misono le castella nelle mani del Papae che nella fine desse le castella a colui di cui elle erano. Al tutto si vide che quelli castellani alcuna ragione non aveano nelle castella del detto barone di Spartanoe cosí si diffiní. Sentendo ciò il detto baroneche per questo era andato a Vignoneattese con ogni sollecitudine e spèndio di riavere la tenuta di quelle castelladelle quali era stato fuori durante la detta questione. Il Papatra che la corte avea in quelli tempi assai che faree anco perché chi ha preso sa mal lasciare; tenne questa cosa tanto per lunga che questo buon uomoavendo speso assai denari che avea portatovi stette ben tre anni innanzi che potesse riavere le sue castella. Onde un dí per disperato s'andò al Papae disse:
- Padre santoio sono stato qui circa tre anni per la tale questione delle mie castelladelle quali me ne spodestaie sotto la vostra clemenza le commisie ancora cosí sono. Avete veduto e terminato che a me debbono ritornaree io ho consumato tanto tempo e ancora non le posso riavere; di che io vi dico cosíche quando io venni quiio ci recai un sacco pieno di denarie uno pieno di veritàe un altro pieno di bugie: quello de' danari ci ho tutto spesoe altresí quello de' veri ho tutto e speso e consumatorestami quello delle bugienon ho altro a che por mano. Io prego caramente la vostra benignità che mi vogliate restituire le mie castellaaltrimente io comincerò a spendere il sacco delle bugiee non avrò con che tornare a casa. Vogliate adunque farmi ragionese la domandoe a me serà somma grazia; e non vogliate che io consumi e spenda il terzo saccocom'io ho speso quelli duee che io mi ritorni a casa con qualche cosa.
Il Papaudendo costuie sentendosi trafiggere e ancora comprendendo che non avea piú che spenderediede sorridendo certe scusee l'altro dí spacciò e scrisse la lettera che le castella del barone Spartano gli fossono rendute. Ed eglitolta la lettera e preso commiato dal santo Padresi ritornò a casa e riebbe la tenuta delle sue castella.
Grande e lunghissime sono le corticome ch'ell'abbiano nome corti; ma maggiore è l'avarizia che le fa essere lunghee spezialmente quella de' cherici che mai non ispaccianoinfino ch'e' danari duranopelando i cattivellicome credo fosse pelato costui: ché è venuto a tanto il mondo che tutte le cose che si fannochi ben consideranon hanno riguardo se non a' danaria tirare a sé.
E assai cose se ne potrebbono direle quali serebbono tutte parole al vento; e però non voglio piú stendermi sopra la presente materia.


NOVELLA CCIV

Messer Azzo degli Ubertini nel palagio de' signori di Firenze riprende uno soldato che si duoledomandando denariin otto dí non essere spacciatoallegando sé per lo contrario.

Molto fu piú nuova cosa quella che al presente voglio raccontaree io scrittore mi vi trovai. Nel tempo che il duca d'Angiò passò per venire contro al re Carlo terzocome diceaper vendicare la eccellentissima regina madonna Giovanna; e avendo lo Siri di Cosí con Marco da Pietramala e con altri preso Arezzoe quasi in un'ora venendo la novella a Firenze di questa presuraparendo assai dolorosanon stette molto che venne la novella che 'l duca d'Angiò era morto; la quale fu un prezioso unguento a sanare la mortal piaga della perdita d'Arezzo. Tanto che infine al Siri di Cosí essendo dati buona quantità di denaridiede Arezzo al Comune di Firenze; il qualenon essendo morto il ducanon che l'avesse o dato o vendutoma egli era a gran pericolo la nostra città di non perdere il suo stato.
Venuto Arezzo sotto la signoria del Comune di Firenzei Fiorentini cercorono d'avere tutte le sue castella da certi che contro a ragione le tenevano; fra' quali fu richiesto un savio e valoroso cavalierechiamato messer Azzo degli Ubertini d'Arezzoche restituisse alcune castella che del contado d'Arezzo indebitamente teneaperò che al Comune di Firenze era stato venduto Arezzo con tutte le sue castellae con ogni sua jurisdizione. Il cavalierenon contradicendo alcuna cosama piú tosto affermandocomparí dinanzi a' Signoridicendo:
- Signori mieise io avesse mille ragioni contro la vostra volontà e contro la vostra intenzionenon intendo d'allegarne nessuna. Una sola cosa vi dico: io tegno cotante castella; se tutte le voletetutte ve le doed ecco le chiavipensando di rimanere molto piú ricco e maggioreessendo povero e ubbidendo li vostri comandamentiche tenere ciò che io hoo ciò che io potesse averecontro alla vostra volontà.
Con questo principio e mezzo e finegiammai non rimutandosivolendo dare al Comune del suofu tenuto piú mesi con istento e con fatica che non potea essere spacciatoe ogni dí era in casa li Signori. E ancoradiliberandosi per loro di volere certe castella delle sue o d'Arezzo che teneamai non dicendo altro che fiatancora era tenuto per lunganon potendosi in piú mesi spacciare e tornare a casa sua.
Avvenne per caso che un díessendo nel palagio de' Priori il detto messer Azzo nella sala di fuori della porta della loro audienzauno gentiluomo d'arme caporaleche era andato a' Signori a pregarli che dovesse loro piacere di farlo pagare di denari che avea servitocome che gli fosse rispostoegli uscí fuori tutto adiratorampognando e quasi biestemando. Di che veggendolo messer Azzoil domandò quello ch'elli avea. A cui elli rispose:
- Come diavol che ho? ché debbo avere dugento fioriniserviti con gran fatica e sí e síe sonci venuto ben quindici díe non posso esser pagato!
Allora disse messer Azzo:
- Obuon uomotu déi essere poco uso in questo palazzo; io voglio che tu sappi che io ci sono stato presso a quattro mesie voglio dare il mio al Comunee non posso essere spacciato: or pensa omai chi ha piú da dolersio tu o io.
Il gentiluomoudendo il cavalieredisse:
- In fé di Diovoi mi date buona speranza di futura pena.
Fu rapportata la parola di messer Azzo da alcuno uditore a' Signori; e brievemente uno dell'officioforse il piú intendentedisse:
- Egli ha detto molto beneche non ci si dà spaccio a niuna cosa; ed è un bello onore che noi facciamo stare sei mesi e un anno talora un gentiluomo per gli alberghie mai di cosa che abbiamo a fare non ne caviamo le mani.
Di che tutti di concordiamossi per queste parolesi posono in cuore di non intender mai ad altro che messer Azzoe quel soldato serebbe spacciato; e sanza pigliare alcuno respittol'altro dí amendue furono spacciati.
Or questa virtú ebbono le parole del cavaliereche feciono destare chi dormía. E qual'è piú bella cosa e piú onorevole a quelli che hanno a dare judicio che spacciare le cose che vengono loro innanzi ragionevolmente? tanto è bella cosa ch'e' sudditi non vorrebbon mai altra signoria; e tanto è penosa e sdegnosa cosa a fare il contrario ch'e' sudditi vorrebbono innanzi essere sotto il diavolo dell'inferno che sotto quelli che li menano sí per lungache molto tempo con fatica e danno consumanoanzi che possano vedere il fine d'una loro questione.


NOVELLA CCV

Messer Ubaldino della Pila fa tanto dell'impronto con un Vescovoche fa licenziare al Vescovo che uno suo ortolano si faccia pretee vienli fatto.

Molto fece dell'impronto per avere da uno Vescovo il suo intendimento messer Ubaldino della Pilail qualesecondo il veroessendo degli Ubaldini e stando piú del tempo a sue castellaaveva allevato un garzone contadinoil quale avea tenuto per fante e per ortolano. Essendo l'un dí piú grosso che l'altroveggendo che non era piú da perdere tempo in luicercò di levarlo dalle cose terrenee con le callose e dure mane metterlo ad esercitare le cose divine; e cominciollo a fare chericosanza sapere quasi leggere; e quanto piú venía in tempomeno sapea. Dopo questocercò di farlo prete d'una sua chiesa; e convenendo che avesse la licenzia dal Vescovoe mandarlo a lui che lo desaminasselo mandò adornato quanto poteo con panni d'altro cherico; e ammonitolo che modi dovesse tenere nel giugnerenello stare e nel partireli diede una letterala quale per sua parte appresentasse al detto Vescovo. Il cherico ammaestratoma non che nel capo li fosse entratosi mossegrossolano come erae con la lettera andò accompagnato da un altrotanto che pervenne dinanzi al Vescovo; e come giunsedà la lettera a messer lo Vescovoe appena mettendosi la mano al cappucciodisse:
- Dio vi salvimessere.
Disse il Vescovo:
- Qual se' tu?
E quelli rispose:
- Vegno di villa.
E 'l Vescovo disse:
- Cosí mi pare -; e lesse la lettera.
Letta che l'ebbefece una risposta a messer Ubaldinodicendo che si maravigliava che elli volea fare prete un montone; e ritornossi con la lettera indrieto. Messer Ubaldino ammaestrandolo di nuovoaltra volta lo rimandò a luiil quale ancora era piú ingrossato che prima. E 'l Vescovo risponde che ciò non può fare sanza sua grandissima vergognae che l'avesse per iscusato. E abbreviando la novellamandando piú volte per questa cagionee 'l Vescovo non consentendoperò che 'l chericonon che gli paresse da ciòma e' gli parea quasi piú tosto bestia che personain fine lo mandò a luipregandolo caramente per una letteradicendo:
Io vi prego che ne facciate un prete chente n'esce.
Il Vescovoudendo questo vocaboloparve che dicesse: "Qui non si può dire di no"; e diede licenzia che se ne facesse un prete chente n'uscisse; e fu fatto prete chente n'uscío. E messer Ubaldino il mise nella sua chiesa; della quale si può dire che facesse uno porcileperò che non vi mise pretema misevi un porco per le speseil quale non avea né gramaticané altro bene in sé; ché quando dicea il pater nostro e volea dire: sicut in coelo et in terrae quelli dicea: se culi in cielo e se culi in terra ; e altre cose strane come la sua grossezza l'avea dotato. E cosí tenne quel beneficio per messer Ubaldinochéquanto verso Diofu maleficio.
Molto n'è pieno il mondo di questi cosí fatti preti; che Dio il sa senon sappiendo le parole della messa altramente che si sappiano se quello che celebrano è il corpo di Cristo; ma secondo la novella si potrebbe dire: "Egli è chente n'esce". E questi cotali non basta loro una chiesama spesso n'hanno due o tre per uno.
E a cosí fatti sacerdoti il nostro Signore in molti paesi viene nelle mani! Grande ignoranzia è de' maggiori prelati a correre a farli sí di leggieroe l'avarizia vuol pur che cosí sia.


NOVELLA CCVI

Farinello da Rieti mugnaioessendo innamorato di monna Collagiala moglie suasappiendolofa tanto che nella casa e nel letto di monna Collagia entra e per parte della donna amata Farinello va a giacere con leie credendo avere a fare con monna Collagiaha a fare con la moglie.

Per dare alcuna inframessavoglio venire in su alcune novelle d'amorazziassai piacevoli a cui non fossono tocchi. Nella città di Rieti fu già un giovene mugnaioil quale ebbe nome Farinelloe avea una sua donna assai giovane che avea nome Vanna. Ed essendo costui un poco leggiadrosecondo mugnaioperché era innamorato d'una giovane vedova di bassa condizionesí come era ellie anzi bisognosa che nola quale avea nome monna Collagiavolendo mettere ad esecuzione questo suo amore piú volte si mise a richiedere la donnaprofferendoli di donare due quarti di granoli quali sono ogni quarto quasi libbre centocinquantaperò che il ruggio di Rieti è libbre seicentoe 'l ruggio è quattro quarti.
Continuando costui questa sua improntitudine di molestare la donnaprofferendoli questo donoed ella non possendo piú resistere a tanta importunitàun giorno se n'andò a monna Vannadonna del detto Farinelloe giunta che fu a leili disse come ella si venía a dolere di quelle cose che 'l suo marito ogni dí gl'addomandavanon lasciandola requiarele quali erano fuori d'ogni onestà; narrandole a parte a parte ciò che Farinello li profferevadicendo di due quarti di grano. Allora monna Vannaudendo questa donnapensò una sottile malizia con la quale quello che 'l marito dovea fare a monna Collagia si convertisse nella sua persona; e non fu di quelle che al tempo d'oggi arebbono schiamazzatocome quando la gallina fa l'uovofacendo sentire il loro vituperio e de' loro mariti a' vicini e alli stranima con uno cheto modo e benigno ricolse monna Collagiadicendo:
- Voi siate la ben venuta; se voi volete fare quello che io vi diròio vi leverò questa pena da dosso; e 'l modo è questoche cosí come elli ti richiedecosí da' ordine qual notte venga a tedella qual tu m'informerai; e quella notte va' segretamente a giacere con qualche tua vicinae lascerai la casa a me; e dirai che ti rechi due quarti di granoe io te ne vorrò dare uno iosí che fiano tre; e poi lascia spacciare questa faccenda a me.
La donnaudendo questoe che senza perdere la sua onestà avea cresciuto il suo guadagnopensando già che Farinello averebbe di quel che ben gli stessefu subito accordata; e partitasisi scontrò in Farinello che portava una soma a macinaree accostatosi a leidisse:
- Io ho presto quel grano ognora che voi lo volete.
La donna pianamente li disse cheper bisogno che ella aveali convenía fare il suo piacere; e che quella sera lo recasse e venisse a lei; e cosí fu data la ferma.
Farinelloavendo promessa di quello che buona pezza era ito cercandoconsiderando al macinare che avea a fare la seguente nottequasi quel giorno al macinare del mulino non attesema ordinò li due quarti di grano in due saccaper portarli la seguente notte a casa di donna Collagia; e pensò d'uno fidato compagno che gli aiutasse portare uno de' sacchi.
E cosí pensatorichiese un suo intimo amicomugnaio com'elliche avea nome Chiodioche la notte con lui insieme gli aiutasse portare il suo saccoe che 'l tenesse segreto. Era questa cosa molto differente e contraria al costume de' mugnaiperò che si caricono volentieri di grano o di farina quando la tolgono altruima rade volte si caricono per donarlo. Tornando donna Collagia a monna Vanna il dí medesimogli narroe come avea fatto patto che Farinello la seguente notte li recasse il grano e andasse a giacere con leie ch'ella anderebbe a casa d'una sua vicinacome informata l'aveaed ella della casa facesse il suo piacere. Donna Vanna rispose:
- Bene avete fatto; io verroe là istasera a ordinare quello che fare voglioe voi non vi date piú fatica -; e cosí fu fatto.
Farinello era uso di stare gran parte della notte al mulinoe se mai vi stette tutta la nottequesta fu dessaperò che dal mulino si mossee altrove stette tanto che tutta la consumò. Però che monna Vanna sua moglie era andata a pigliare la possessione e letto di monna Collagiae là aspettava il suo Farinello in iscambio di quella cui elli tanto avea bramato.
Quando Farinelloavendo la ventura rittagli parve tempo di dare le mosse alla giumentadall'uno lato col suo sacco di grano su le renie con l'altro l'amico suo Chiodiosi misono in camminoe giunti all'uscio della donnalo trovorono succhiuso; pinto che l'ebbonointrorono dentroe scaricarono le sacca. Scaricate che l'ebbonodice Farinello a Chiodio:
- Non t'incresca di aspettarmi un pezzo; chése m'aspettia te anco potrà giovare.
Chiodio udendo questodice:
- Amico miova' e sta' quanto tu vogliché io non mi partirò infino a tanto che tu tornerai.
Rimaso coluiFarinello ne va verso la cameradove era data la posta e dove donna Vanna per iscambio di donna Collagia l'aspettava. E giunto al letto al barlumesi coricò allato a lei sanza favellare o l'uno l'altroper non essere sentitigittando gran sospiriaccennando pur la donna che non si parlassemostrando ch'e' vicini fossono da lato; e ciò facea perché Farinello non la conoscesse. E Farinello di ciò la contentòaccostandosi a leie usufruttando con quel pensiero con che s'era mossoma non quello che credea; e per non grande spazio ricolse la decima quattro voltee nell'ultimo si levòdicendo:
- Io vo a orinaree torno subito.
E cosí fatton'andò in verso Chiodio che l'aspettavae dice:
- Fratel miocostei m'ha fatto molto stentareprima che abbia acconsentito al mio volere: tu ci recasti altrettanto grano quant'io; se tu vuogli essere partefice di questo beneficioo maleficio che siatu te ne puoi andare diritto nella camerae là sanza parlare punto entra nel lettoe fa' ragione d'essere meché quanto ion'ho assai per istanotte.
Udendo Chiodio questonon fu sordo; ma prestamente va alla camerae intrato nel letto allato alla donna in luogo di Farinelloper tre volte in poco di tempo contentò il suo disio; e partitositornò a Farinello che lo aspettavae andorono al mulino donde partiti s'erano.
E la donnacredendosi in tutto esser giaciuta con Farinellosi ritornò a casa la mattina per tempo; e donna Collagia ancora la mattina dalla sua vicina si ritornò a casa sualà dove trovò il letto molto bene sprimacciato. Aspettando donna Vanna a casa sua dove la cosa dovesse riuscireed ecco Farinello che sí franco cavaliero era statoe diceli che tutta notte s'è sentito male al mulinoe che li vada a volgere due uova al fuoco. Dice la donna:
- Elle vogliono essere sette.
Dice Farinello:
- Che vuol dir questo? io non ne voglio se non due.
Dice la donna:
- Elle vogliono pur essere sette.
E quelli dice:
- Hai tu il farnetico?
La donna risponde:
- Farneticato avrai tu.
Farinello stava come tralunato. Dice la donna:
- Traluna beneché tu hai bene di che; tu se' stato stanotte un pro' cavaliereché hai macinato sette volte; e sa' ben dovema non con cui tu hai credutoché io sono stata ioe non monna Collagia quella dove tu hai macinato istanotte sette volte; per tal segnale chefinite le prime quattrotu ti levasti per andare a pisciaree poi ritornasti e tre volte ancora rifacesti il giuoco; sí che io ho aúto quello da teessendo sconosciutache da te conosciuta mai non ebbi. Or mi domandi l'uovache hai aúto mal di macinato. Tu di' ben veroché tu hai macinato su le carni mia; della qual cosa ne se' molto tristoe Dio tristo ti facciache mi credi trattare per fancella e vai donando il granoe io n'ho donato anco un sacco ioe ho fatta migliore spesa con un sacco che tu con due. Cosí intervenisse a tutti gli altri cattivi che con vitupero fanno fallo alle loro mogli; e alle loro donne intervenisse come è intervenuto a me stanotte. Ogni volta che tu vuogli di queste derratesempre mi troverai presta a dartene. Sí che va'e macina al tuo mulinoe arai assai che fare; procaccia di vivereché n'hai gran bisognoe non andare infarinando le vedove con la mala ventura che ti vegna.
Udendo Farinello tante cosenon sapea che si direse non che dicea:
- Io non so che tu ti di'; se non che 'l tu di' per non mi dare dell'uova.
- Sí che tu hai a covare; - dice la donna- va'cova al tuo mulinoe togli quante uova ti piacemacinando come tu hai fatto istanotte.
Farinello per lo migliore pose fine alle paroleveggendo che lo aguato era scoperto fuori della sua credenzae parveli avere molto mal fatto: l'una che non avea macinato dove credea; e l'altra che a Chiodio avea fatto macinare nel suo mulinocredendolo fare macinare nell'altrui. E andossene al mulino tutto tristotrasognandosanza avere mangiato dell'uova; e trovando Chiodio disse come la sua donna parea che sapesse il tramazzo di quella nottee che per Dio il tenesse segretoperò ches'e' parenti di donna Collagia il sapessonosarebbono amendue a gran pericolo. E mai per ciò non li scoperse che con donna Vanna fosse giaciuto. Dappoiessendo Farinello un po' tornato in sési riconciliò un poco con la donnadicendo:
- Son io il primo che sia innamoratoo smemorato? tu hai saputo sí fare che di questo tu déi essere contenta; e io anco mi sono contentatoavendo opinione che tu fossi quella che io credea.
A me costa questo fatto molto caroché ho messo piú su la tramoggia che io non poteae tu te n'hai aúto il pro: ha'mene fatto una che m'è montata piú di sette.
E cosí convenne che Farinelloper racchetare il gridare della donnacon molte parole si rabbonacciassee poi spesse volte consumasse il matrimonio di quelle che averebbe dormito piú volentieri; però che quando stava sanza macinarela donna subito rimproverava le sette volte di donna Collagiale quali li fruttorono piú che sette volte sette in poco tempoed elli ne divenne quasi dicervellato. E cosí ebbe fine questa novellache monna Vanna fu pagata d'operee donna Collagia di granocon la metà piú. Farinello comperò quella derrata che non volea e che non andava cercando; e Chiodio sanza costo ebbe di quella farina scambiata che era di Farinellocredendosempre che visseessere giaciuto con donna Collagia.
Cosí avviene spesso a chi ha a fare con femineperò che in cosí fatti casi di simili astuzie trapassano gli uomini; e ancora pare che Amore porga a loro di nuovi ingegni e malizie. Questa donna Vanna con questa sottigliezza fece una degna opera; chévolendole il marito mancare di lavorío alla sua possessionetrovò modo che la lavorò meglio che mai li fosse lavorata. E 'l tristo del marito non gli bastava che donna Collagia se gli avesse dato l'amor suopigliarlo in grandissima graziasí la volle vituperare col compagnoe 'l vituperato rimase elli. E mai non trovai che amore desse ad alcuno un sí degno ben gli sta come qui diede a Farinello. Madonna Vannaadoperando beneebbe il contrarioperò che non meritava che Chiodio giacesse con lei; ma pur seguí una cosa molto disusatache mai monna Vanna non seppe che quelle sette volte fossono se non del marito; e Chiodio mai non seppe che le sue tre fossono con donna Vanna.


NOVELLA CCVII

A Buccio Malpanno d'Amelia è fatto crederecolicandosi un frate minore con una sua donna e lasciandovi le bracheche quelle son quelle di santo Francescoed egli se 'l crede.

D'altra maniera e altro inganno fu questo che vieneessendo a uno semplice marito da uno frate minore mostrata la luna nel pozzo. Nella città d'Amelia fu già uno semplice uomochiamato Buccio Malpannoe avea una sua moglie che avea nome donna Caterinad'etade di venticinque anniassai bella e non meno cortesee spezialmente a uno giovene frate Antonio del detto ordinedal qualecome da suo devotospesso era visitata; tanto che forseperché il marito era magretto e di poco spiritoe una cosa e un'altrail detto frate usufruttava piú i suoi ben temporali che non facea elli.
Avvenne per caso che Buccioavendo una notte la guardiacome spesso in molte terre intervieneil detto frate diede posta d'andare a giacere con la detta donna Caterina: e perché de' piú de' suoi pari viene un poco di caprinoelli s'avea tratto li panni lini suscidi e aveasi mutato panni lini sottili e bianchissimi. E tutto fattoe giunto nella camera della donnaandandosi a coricaresi cavò le bianche brache e misele sul capezzale. Di che occorse per alcuno accidente che Buccioavendo bisogno d'essere a casaebbe la parola dall'officiale della guardia; e giugnendo all'usciomettendo la chiave nel serramee volgendola per aprirloil fratesentendo il saliscendosubito si levacome colui che era destrissimo e sospettosoe aggrappato la tonaca e gli altri panni enon accorgendosilasciando le brachesi gettò da una finestra non molto alta dalla viae 'l meglio che poteo s'andò con Dio.
Bucciogiunto alla cameras'andò a posare nel luogo suoil quale era stato di poco sagrato; e dormito che ebbono egli e la donnache n'aveano aúto bisognosí per lo vegliare della guardia e per lo vegliare del culatarioinfino a dí chiaro; aprendo la finestrae veggendo Buccio le brache sul capezzalecredendo che fossono le suele prese per mettersele; e guarda su la cassane vide un altro paio; di che in sé pensando dice: "Che vuol dire questo? io so bene che io non porto due paia di brache"; e conosciuto che quelle del capezzale non erano le suele ripose in una cassa e misesi le sue.
E immaginando d'un pensiero in un altro di cui potessono essere le bracheche alla grandezza pareano state d'uno gigantegli era intrato una malinconia che quasi non mangiava. Frate Antonio dall'altra parteparendoli avere mal fatto di avere lasciato le brache o la trabacca che fossesecretamente lo fece sapere alla donnaraccomandandoli le brache che avea lasciate. La donnache niente non sapeanon trovandoleveggendo il marito cosí malinconososi pensò troppo bene che esso l'avesse trovate e riposte; e stava con gran timorecome ch'ella non lo mostrasse; dondenon potendo adempire quello che 'l suo devoto voleali rispose che 'l marito l'avea trovate e ch'ella non sapea dov'ella si fossetanto dolore n'aveaimmaginando che scusa da potere fare non aveae aspettava la mala ventura.
Sentito il frate questoe per lei e per lui li parve essere a mal partito. E dolutosi di ciò segretamente con un frate Domenico molto suo fidatoil qualeperché era molto scienziato e spertogli era data molta fedee ancora d'anni era assai antico; a cui il detto frate Domenico diede con parole assai riprensione; e per ovviare alla infamia dell'ordine primae poi a quella di frate Antoniodisse alla fine:
- Or eccoio m'ingegnerò levare questo sospetto a Buccio -; e disse a frate Antonio: - Andiamotanto che troviamo il detto Buccio; e lascia dire a me.
E cosí si misono in viae tanto andorono che scontrorono il detto Buccio; e andati verso luifrate Domenico salutandolo il prese per la manoe guardandolo in visoli disse:
- Buccio miotu hai malinconia.
Disse Buccio:
- O di che? non ho malinconia alcuna.
E frate Domenico disse:
- Veramente io il so per revelazione di santo Francesco; e per la verità io volea venire a casa tua per una reliquia che la tua donna portò a questi dí. E acciò che tu lo sappi benenoi abbiamo una reliquiala quale ha grandissima virtú a fare generare le donne che non menano figliuolie queste sono li panni di gamba del beato messer santo Francescole quali spesso prestiamo per questa cagione; e recandole una donnache l'avea accattatealla nostra sagrestiaabbattendovisi la donna tuae sentendo la virtú loro e ch'ella era sterilecon grandissima benignità me le chiese acciò che santo Francesco gli desse grazia di fare figliuolicom'ella desiderava; e ioconsiderando l'amore che io ti portoglile prestaie halle tenute piú dí. Oraessendomi chieste per altre donneché ce ne sono assai che non fanno figliuolice ne conviene pur servire ed esserne piú larghi forse che non si converrebbe; sí che io t'ho chiaritos'alcuno sospetto avessi. E però ti prego che non t'incresca che andiamo per esse con quella reverenza che si convieneperò che sono reliquie di povertà e d'umiltà.
Detto che ebbe il frate queste paroledisse Buccio:
- Io credo che voi siate l'Angelo di Dioche ogni cosa m'avete detto di che io dubitavae avetemi ben chiarito ogni mio sospetto che era di maledov'egli è sommo bene.
E cosí si misono in viaandando alla casa di detto Buccio; là dove giuntidisse il frate:
- Dov'è questa santa reliquia?
E Buccio lo menò a una cassadov'erano altre masseriziee disse:
- Queste sono desse -; essendovi continuo presente la donna.
Quando il frate vede come l'ha tenutetrae fuori uno mantile di setae dice:
- Buccio miosono queste cose d'averle tenute in tal maniera? tu hai peccato mortalmente.
E prese le dette reliquiee mettendole nel mantile della setacominciò a dire: De profundis clamavie molti altri salmiper darli meglio a credere la bugia; e oltre a ciò li fece la confessione; e dandoli a credere che era caduto in iscomunicazionedandoli molto bene d'una mazzuola su le spallelo ricomunicoe con molti ammaestramentili quali tutti furono in favore dell'appetito di frate Antoniomettendo ad esecuzione come li piacque.
Il cattivello di Buccio si rimase con questa credulitàaspettando ogni dí ch'ella fosse gravida; ma ben lo poté aspettareché tutto il tempo della vita sua donna Caterina non fece figliuolima ben se ne sforzò con frate Antonio quanto poteo. E frate Domenico con frate Antonio se ne portorono quella culare reliquiala quale con altre donne non adoperò forse meno per li tempi avvenire che avesse adoperato con donna Caterina.
Che sperienza o che arte dirén noi che fosse questa che usò questo frate Domenico? cheessendoli dato piú fede che ad alcun altro frate di tutto l'ordineabbandonò ogni onestà per ricoprire il defetto del suo compagnoed eziandio del suo convento; e volendo ricoprire questo disonesto adulteriomaggiore disonestà usò contro al beato messer santo Francesco sotto il cui ordine viveae a cui elli intitoloe cosí venerabile reliquia; che ben potea almeno averla intitolata in qualche altrocome che male era; ma molto era il meglio che avesse tenuto con gastigamento e con sí stretta vita frate Antonio che 'l disordinato caldo li fosse attutato; ma non si vergognò di ciurmaree di trovare una cattiva falsitàintitolando san Francescoil quale tra quanti santi sono non truovo in alcuno mostrarsi tanto miracolosa e divina potenza quanta il nostro Signore mostrò in luia segnarlo delle sue preziose stimate sul santo monte della Vernia. Il quale luogose fosse tra gl'Infedelise ne farebbe molto maggiore stima che a esserci cosí presso; però che in tutto il mondo sono due luoghi superlativamente notabili; il primo tra gl'Infedeli è il Sepolcroil secondo tra Cristiani è questo.
E questo ipocritopiú tosto rubaldo che religiosoessendo suo fratenon si vergognò in sí vituperosa opera comporre una falsitàcon tanta disonestà del beato messer santo Francescodi cui era frate: ma a lungo andare la comperò come meritava; perché divenne lebbroso in forma che convenne si dilungasse e dall'ordine e dalla terra. E piú anni vivette con sí puzzolente infirmitàe poi morí come era degno. E fu de' miracoli che fa il nostro Signoreche questo ipocrito e vizioso fratemostrandocon la coverta di santo Francescoessere un uomo di santa vitaconvenne che mostrasse di fuori con malattia di lebbrala quale stava dentro del suo corpo covertail suo difetto.


NOVELLA CCVIII

Mauro pescatore da Civita_nuovarecando granchi marini gli mette nella rete sul lettoescene uno fuori la nottee piglia la donna nel luogo della vergognae Maurosoccorrendo co' dentiè preso dal granchio per la bocca; e quello che ne seguita.

Nuova novella di moglie e di marito è questa che seguitae differente forse da tutte quelle che s'udiranno mai. Nella terra di Civita_nuova nella Marca presso alla marinafu già un pescatore di piccole pescagionipescando con ami e con lenze e con reticelle di minore maniera; era giovane e avea nome Mauroavendo una moglie giovanetta chiamata Peruccia. E venendo per caso un giorno che questo Mauroessendo andato a pescareavesse preso certi granchi marini; li qualiperché sono molto malagevoli a tenerliavea messo in un carniere di rete; e chi ha già veduto li detti granchipuò considerareveggendo le loro bocchequanto sono piacevoli quando afferrano altrui.
Tornato questo Mauro con la detta pescagione in su la seravolontoroso e di mangiare e di berecome incontra a chi usa quell'artedisse a Peruccia:
- Truova modo che io ceni -; e questo carniere da piede puose sul letto; e poi per poco spazioessendo apparecchiato da cenail marito e la moglie si posono a cena; e cenato che ebbonovolontorosi d'andarsi a posarese n'andorono a dormiresanza ricordarsi di muovere il detto carniere.
Di chedormendoquasi sul primo sonnouno di questi granchisí come quelli che mai non truovono luogocercando de' fori donde possano usciree ancora rimbucarsiuscí per la bocca del detto carniereed entrò tra l'uno lenzuolo e l'altroaccostatosi alla donna verso la parte dove è la bocca senza dentiforse per rimbucarsi; e la donna sentendolocome paurosacon la mano toccandolo per sentire quello che fossee 'l granchio per lo sentirsi toccarecome fannoristrignendosiper lo labbro prese la detta boccae stringendofu costretta Peruccia di trarre un gran guaio. Al cui romore il suo marito Mauro si destòdicendo:
- Che hai tu?
Ed ella risponde:
- Marito mioio non so che fiera m'ha preso nella tal parte.
E 'l marito subito si levae va per lo lume e dice:
- Ov'èdov'è? - come quando si trae al fuoco.
La donna con istrida manda il copertoio giúe dice:
- Per Dio! guata quello che m'ha vituperata -; e con questo tuttavia forte languendo.
Mauroveggendo il granchiocome e dove l'avea afferratadice:
- Per Santa Maria dell'Oreno! che uno di quelli granchi marini che iersera pigliaiè uscito del carnieri che puosi sul lettoe hatti cosí agghermigliata -; e ingegnandosi con le mani pigliare ora un piede e ora l'altrotirava il granchio per spartirlo dalla donna; e 'l granchiocome è di lor naturaquanto piú si sentiva tirarepiú mordevae piú assannavae con l'altra bocca s'ingegnava pigliare le mani di chi lo tirava; e la donnagridandosentiva soperchio dolore.
Ond'il marito s'avvisò di provare un altro magisteroe molto semplice; e questo fu chechinato il capo verso quel luogos'avvisò con li denti troncare quella zanca la quale cosí forte molestava la donna; e come la bocca porseper pigliare co' denti la zanca del granchioel granchio con l'altra bocca afferra costui per lo labbroil quale subito comincia a gridaree la donna grida e tirae colui grida e tira.
El gridare di Mauro era molto grandeperò che rimbombava nella citerna; e quanto piú tiravanoe 'l granchio piú mordea. A questo romore quelli della casa traggonogridando:
- Che è?
E li vicini traggono; e intrati dentroaccostansi alla camerala quale essendo da un debole uscetto serratapinsono in terraed entrorono dentro; e domandati che aveanodissono la cagionecome che Mauro la dicea con gran faticacome quelli che era preso per lo labbro della bocca. La donna per vergognaoltre l'altra penatirava il copertoio in su: il marito gridava però cheoltre al duoloaffogava sotto il copertoio. Quelli della casa piú baldanzosi dissono:
- Per certo noi vederemo che è questo -; e scuoprono il copertoioe veggendo presi la moglie e 'l marito da uno granchio marino in due si diversi luoghisi maraviglianosegnandosi con la croce; e Mauro si lamentae dice il meglio che puote che l'aiutino.
Era fra la brigata uno valente maniscalcoil quale disse a un suo discepolo che per le tanaglie andasse alla sua stazzoneil quale subito andato e tornato con esseil maniscalco troncoe le bocche del granchio; delle quali tanaglie e Peruccia e Mauro ebbono gran paurasanza la vergognache non fu minore. E cosí la moglie e 'l marito vituperatifurono dal maniscalco liberati dal granchio marino; il quale lasciò loro sí fatti segni e sí dogliosi che 'l marito andò piú dí con una pezzuola d'unguento sul labbroe la donna forse si medicò anch'ellaperò che buon pezzo andò a gambe aperte. E gli uomini della terra di tal novella piú tempo n'ebbono a ridere e a parlare. Ma ancora ci fu meglioche 'l maniscalco domandò d'essere pagatoe Mauro contradicevaallegando che si dovea pagare di ferraree non di sferrare. E 'l maniscalco rispondea:
- Come! o non mi debb'io pagarequando io medico uno cavallo levandolo da pericolo di morteo d'altro fortunoso caso? o se uno cane rabbiosocom'era questo granchioavesse afferrato uno cavalloe non lo lasciassee io facessi sí che lo lasciasse e guarisselonon doverrei io essere pagato? - e di molte altre belle ragioni disse tanto che li diede soldi venticome se avesse ferrato uno cavallo.
Cosí avviene spesso agli uomini trascuratio piú tostosi potrebbe diresmemorati; chévenendo costui dal mare co' granchili puose sul lettoe gli ne intervenne quello che ben gli stette; però che s'egli avea preso il granchioe 'l granchio si vendicòpigliando lui e la moglie per sí fatta maniera che quando il granchio ne fu levato dal maniscalco si potea direcome disse Dante: "La bocca sollevò dal fiero pasto ec.". E cosí in questa vita spesso son presi gli uomini da diversi casie sono tanti che uomo non gli potria mai immaginare. E però non si dee alcuno fidare della fortuna però che spesse volte il morso d'un piccolo ragnolo ha morto uno fortissimo uomo.


NOVELLA CCIX

Il Minestra de' Cerchiavendo debito e guardandosistando a Candeghi è preso da' messili quali l'aescarono con una anguilla messa in una fonte.

Ma che dirén noi della novella che seguela quale dimostrerrà come con una anguilla fu preso alla lenza uno gentiluomo fiorentino? Il Minestra de' Cerchi fu uno uomo grasso e con corto vedereed era molto golosoe sempre parea che stesse in debito. Avea uno suo luogo a Candegghilà dove il piú si dimoravae là stava in casae quasi mai non usciva fuori per paura di non esser preso. Di che avvenne chedovendo uno avere buona quantità di denari da luie avendone gran bisognoe non possendo vedere né via né modo in che maniera potesse essere pagatotrovando un dí due messi della nostra cittàche l'uno avea nome Mazzone e l'altro Messucciodisse loro se alcuno modo vedessono di pigliare questo suo debitoree pigliassono il prezzo come a loro piacesse. Di che si tirorono da parte e pensorono in che modo il potessono fare; e dissono al creditore che dava loro il cuore di síma che voleano fiorini dieci.
A colui parve mill'annie disse che era contento. Fatto il patto e considerato ciò che aveano a fareeglino andorono tanto cercando a' pescatori ch'egli ebbono una anguilla viva di circa due libbree con questa in uno orciuolo d'acqua se n'andorono verso la Badía a Candegghi; però che sapeano che 'l detto Minestra beeva dell'acqua d'una fontenon molto di lungi dal luogo suoe che la sua fante a quella andava per l'acqua per lui. Onde andorono alla detta fonteed entro vi misono quella anguilla. Messa che ve l'ebbononascosamente si misono in aguatoper essere presti a quello che poi venne lor fatto. Venendo l'ora dopo desinareandando la fante per l'acqua forse per lavare le scodelleguardando nella fonteebbe veduta questa anguillae sforzandosi quanto poté di pigliarlavi consumò una mezz'ora; e in fineabbandonatalasi torna con la mezzina dell'acqua a casa; là doveparendo al Minestra che troppo fosse statadice:
- Il diavol ti ci reca; che hai tu tanto fatto?
Ella risponde:
- Non gridateché io v'ho creduto recare una bella anguilla che è nella fonteche è grossa come quell'asta di lancia; e credendola piú volte avere presaella m'è schizzata di manoche sapete com'elle sdrucciolano.
Disse il Minestra:
- Sciocca che tu se'ella fia una serpe; onde verrebbe l'anguilla costí?
Dice la fante:
- Sia col buon annos'io non conosco il baccello da' paternostri! io vi dico ch'ella è un'anguilla.
Il Minestraudendo questoché già se la cominciava a manicaredisse:
- Per certos'io dovesse essere presoio non me ne terrei che io non v'andasse.
E tolto un bucinetto che avea in casa da pigliare passere alle bucheandò alla detta fonte e menò seco la fanteperò che elli non averebbe veduto la bufola nella nevenon che l'anguilla nella fonte. E dicendo alla fante:
- Vedila tu?
Ella dice che sí; ed elli li dice come ella debbe adoperare quel bucine.
La fanteubbidendoin poco d'ora la tirò su nel bucine; e 'l Minestra cosí nella rete se la recò in mano dicendo: - Padella!
E avviandosi con essa verso casaed ecco Mazzone e 'l compagno uscire dell'aguatoe giugne e piglia il Minestradicendo:
- Tu non la mangerai sanza me.
Il Minestraconoscendolo alla voceché poco lo scorgea con la vistadice:
- EjaMazzoneche vuol dir questo?
Dice Mazzone:
- Convientene venir con noi -; ché v'erano ancora quattro berrovieri.
Il Minestra cominciò a gridare:
- Accurr'uomoche io sono stato tradito.
Dicono i messi alla famiglia:
- Menatelo oltre a Firenze.
E tolsonsi l'anguilla loro; pregandoli il Minestra quanto poteo che 'l lasciassino e non lo volessono disfare. Elle furono paroleché lo menorono a Firenze presoe rassegnoronlo in Bolognanae andorono al creditore a significarli la presa essere fatta; il quale per letizia abbraccioe e bascioe Mazzonedicendo e domandando in che maniera l'aveano preso. Eglino gli 'l dissono. Di chedel modo ancora piú si maravigliò; e subito gli menò dove accattò fiorini diecie pagollie andollo a raccomandare per lo suo debito. E 'l Minestraper paura di non v'essere staggito per altruisubito trovò modo di pagare; e cosí gli costò cara l'anguilla.
Né piú né meno feciono questi messi come fa il demonioil quale sempre sta avvisato di pescare e d'uccellare con nuove eschee con nuovi zimbellie con nuove trappole per pigliare l'anime: e quanti n'ha già preso nel vizio della golae con l'anguille e con le lampredee con gli altri cibi! Ben fu preso in questo Nozzino Raúgi nostro fiorentinoche fu lasciato ricchissimo dal padree nella gola consumò ciò ch'egli aveae avvolse la lampreda intorno al capponee arrostigli insiemeponendogli nome il baccalare cinghiato : ma nella fine fu ben cinghiato di tanta miseria che morí miseramente. E molti altri potrei contareche per questo vizio sono venuti in miseria e in ruine.
E notino li padri e le madriche allevano i loro figliuoliacciò che non li crescano in questo vizio; ché questo è quel vizio che per lo primo peccato ci ha condotto a mortee fa altrui incorrere in molti terribili peccati e disfazione di famiglie; però che dalla gola viene lussuriaprodigalitàgiuoco e molti mali; e in fine quando manca l'avereche non abbia di che supplire all'appetitoa tutti e' mali si reca per avere danari. Se io volessi descrivere quanti e qualinon so se capessono in questo libro. E come il demonio aesca nella golacosí nella lussuria e nella concupiscenza carnalecosí nell'avarizia con la moneta e con le ricchezze e stati e beni terreni; e quando li giugne alla fontecome Mazzone giunse il Minestragli piglia e dagli a' berroviericioè a' diavoliche gli menino alla Bolognananel centro dell'abisso; e allora è pagato colui che dee averee al debitore è dato quello che merita.


NOVELLA CCX

Certi gioveni fiorentiniuccellando alle quaglieandandoper ben cenare con le quaglie preseal Pantanoluogo di Curradino Gianfigliazzi si trovorono piú là che Malalbergo.

Io non so chi arrivasse peggioo questo Minestradi cui sopra è dettoper volere mangiare l'anguilla presao certi gioveniper volere mangiare le quaglie che aveano prese. Come è d'usanzadel mese di settembrequelli che tengono sparvieres'accozzano insieme e cercano diversi piani per andare uccellando a quaglie; e cosí feciono brigatanon è molti annicerti gioveni fiorentini di buone famigliee uccellorono tutto un dí tra Prato e Pistoia: e avendone prese convenevolmentedeliberorono andare la sera a cena e albergo a uno luogo chiamato il Pantanodove dimorava un gentiluomo de' Gianfigliazzichiamato Curradino. E cosí s'avviarono di concordia; là dove giugnendoperò che 'l luogo era affossato intornoe valicavasi il fosso su per un'asse assai stretta di faggiocominciorono a chiamare Curradinoil qualefattosi dall'altra parte su la ripa del fossodice:
- Voi siate i ben venuti; scendete e passate su per l'assee' cavalli mettete a nuoto per lo fossoché altremente non possono passare.
Udendo costoro questol'uno guarda l'altro; e alla fineessendo lor forza il giuocoscendono e danno i cavalli a' lor fantie dicono:
- Mettetevi per l'acquae passate di là.
I fanti malvolentieri pur vi si missono; ed eglino passorono su per l'asseche per la debolezza si piegava sí che parea ognora ch'ella si volesse rompere. Pur passati a grande stentoe quelli del ponte e quelli del guadola raccoglienza fu grandissimacome è d'usanza de' gentiluomini; dicendo pur in fine:
- Voi starete come voi potrete; or viamettete i cavalli qua -; e avviolli in uno casolare che era mezzo coperto di paglia e mezzo noe disse: - Acconciateli qui -; là dove per la strettezza s'accostava sí l'uno all'altro che poteano ben morderema non trarre l'uno all'altro; il tetto che era di sopranon era tanto largo ch'e' cavalli non stessono all'aria dal mezzo in giú.
Il gentiluomo della casa dice a' fanti:
- Date lor berese non hanno beúto.
I fanti rispondono:
- Egli hanno aúto acqua assai.
Li gioveni delle quaglie erano continuocom'è d'usanzaa fare governare le loro bestiee quanto piú s'affaticavonopiú le vedeano sgovernate. Passoronsene come poterono; e avvioronsi a trovare le quaglie e pelareper dare ordine alla cena; e venendo al fuoco per arrostirledissono venissono delle legne. Quivi furono recati sagginalidicendo:
- Noi ardiamo poco altre legne.
In effetto elle si convennono arrostire co' sagginaliperò che l'ora era tardae volendo essere andati a trovare modo d'avernesi convenía al buio passare Rubicone. Quando le quaglie furono cotteo vero affumicatee' furono posti a uno descaccio che tuttavia parea che fosse in fortunae su una panchetta che stava peggio.
- Hacci del vino? - dice uno di loro.
Dice il gentiluomo a uno della casa:
- Va'fa' del vino.
E quelli vae preme in uno orciuolo grappoli d'uve con le mani. Dicono gli uccellatori:
- O che fa quelli?
Dice il gentiluomo:
- Io non beo altrimenti in questo tempoch'egli è mesi che mi mancò il vino vecchio.
Chi strigne le labbra e chi le spalle: e' convenne loro pur bere; sanza l'acquache era naturale secondo il nome del luogo; il pane parea di mazzero e biscottocome se fossono in galea: egli erano bene in fortuna. E poco stettono a tavola che andorono a vedere e' cavallili quali parea che dicessono favolee non guardavano meno li loro signori ch'e' loro signori guardassono loro.
Ad abbreviarlaegli stettono male quanto dire si puote. Pensorono di passare le loro pene questi uccellatori col dormire il piú tosto che potessono; e inviati a una camerao vero cella cavatao vivaio che vogliamo direscesono quattro scaglionie all'ultimo era un'asse che era ponte dallo scaglione alla panchetta del letto; però che nella detta camera era l'acqua alta un mezzo braccio. Passò la brigata il detto pontelieti come ciascun dee credere; e volendo andare alla guarderobatre passi in su tre pietre convenía lor fare in punta di piediper non toccare l'acqua; poi entroronoquattro ch'egli eranoin uno letticciuolo che avea una coltricetta cattivache parea piena di gomitoli e di penna d'istricecon uno copertoio tutto stampanatoe con ogni altra cosa da fare penitenza. E Curradino si parte da lorodicendo:
- Fate penitenzaio son povero gentiluomoe sto come fanno i gentiluomini; godete e datevi buon tempo.
E cosí si partíe la brigata rimase in guazzetto. Dice l'uno:
- Dic'elli che noi godiamo? se noi fossomo ranocchianguille o granchipotremmolo fare.
Dice l'altro:
- Noi fummo ben granchi a venirciche morti siàn noi a ghiadoche ci venimmo.
Dice un altro:
- Egli è il tale che vuole risparmiare lo scotto dell'albergo; egli era ben meglio andare all'albergo al Ponte Aglianacom'io dissi.
Il quarto dice:
- E’ son be' risparmi i nostri; e' ci potrà costare questa venuta ancora sí cara che tristi a noi che mai ci venimmo; noi ce ne avvedremo a' medici e alli sciroppi e alle suzzacchereche sapete quello che costonoe anche non so se noi ce ne camperemo.
E cosí tutta notte quasi non dormironoparendo loro mill'anni che fosse dí per levarla. Uno vantaggio ebbonoche tutta notte pisciorono per la camerae non si parea. Venuto il giornocol canto delle botte e de' ranocchisi levorono e uscirono del molticciofacendo subito sellare i cavalli e chiamando i canie tolti gli sparvieri in bracciodissono:
- Curradinofàtti con Dio.
Curradino disse:
- Io v'aspetterò a desinare.
Risposono:
- Se noi verremotu te ne avvedrai -; e passorono il pontee' cavalli il fosso a nuoto; e saliti a cavallocome se 'l diavolo gli ne portasse si dileguorono per dilungarsi dal Pantano.
E dicevano insieme tra loro:
- Non v'avessimo noi lasciati gli occhicredendoli riavereche noi vi ritornassimo -; e spesso si volgeano a drietoo per vedere se dal Pantano s'erano ben dilungatio per paura che non andasse loro drieto; e mai non ristettono che ritornorono a Firenze; affermando tuttinon che di ritornare mai al Pantanoma stare un anno che non uscirebbono della porta al Prato.
E riempierono Firenze della gentilezza che aveano trovatache fu ancora piú nuova che io non ho scritto.
Molto ha preso oggi la gentilezza romitana formaperò che con grande astinenza vivono quelli che sono chiamati gentiluominisalvo che quando pigliano di rattoe siano questi di qualunche vita sia o viziosa o scelleratasi dice: "E’ sono pur de' taliche sono gentilissima famiglia"; e pare che per tale titolo e' si convenga loro usare qualunche vita piú laida siao non s'intende per costoro che non aveano piú che s'avessono. E cosí s'usa il verso di Dante per lo contrario: "È gentilezza dovunch'è virtuteec.".


NOVELLA CCXI

Il Gonnella buffone vende alle fiera di Salerno stronzi di cane per galle di grandissima virtúe spezialmente da indovinare; e comericevuto di ciò gran prezzose ne va libero.

Ancora non mi pare che certi arrivassono molto bene in volere assaggiare d'una vivanda che comperorono da uno che la vendeacome che non l'avessono a cuocere co' sagginali. Gonnella buffoneil quale di fare cose nuove non ebbe paricome ancora in certe novelle a drieto è narratoandando spesso per lo mondo in piú strani luoghi che poteaarrivò una volta in Puglia alla fiera di Salerno. E veggendo assai gioveni che aveano piene le borse per comprare mercanzias'addobbò d'una veste in forma che parea uno medico venuto d'oltramare; e trovata una scatola bassa e largae una tovagliuola bianchissima messa dentroe distesalasu quella pose quasi trenta pallottole di stronzi di cane; e con questa in mano alla scopertae con uno de' capi della tovagliuola in su la spallagiunse in su la detta fierae postosi da parte su uno descoavendo seco un famiglio da latopuose la detta mercanzia; e cominciando a parlare quasi gergone col famigliocome venisse dal Torissifece trarre a sé diversa gente. Alcuni lo domandavono
- Maestroche mercanzia è questa?
E quelli dicea:
- Andatevi con Dio; ella non è da fatti vostriell'è cosa di troppo valoree non si fa per chi non ha da spendere.
E a cui dicea in una forma e a chi in un'altrasolo per aguzzar piú gli appetiti di quelli che erano d'attorno: tanto che certi giovanitirandolo da parteli dissono:
- Maestronoi ti vogliamo pregare che tu ci dica che pallottole sono quelle.
E quelli dice:
- Voi mi parete uomeni da dirvi il veroe non parete caleffatori- e parlando quasi tra tedesco e latinodisse: - Quella è mercanzia che chi la conoscesse l'arebbe piú cara che tutto quello che è su questa fiera; e se voi mi vedeste quando ci vennila recai io proprioe non la fidai al mio famiglio.
Costoro pur domandono. Elli disse che quelle pallottole aveano tanta virtú che chi ne mangiava pur unasubito sapea indovinare: e che con gran pena avea aúto questa ricetta dallo re di Sarache signoreggia trentadue reami d'infedeli; e perché elli spesso usava di mangiareera venuto cosí gran signore.
Dissono i gioveni:
- Che costerebbe l'una?
Rispose il Gonnella:
- Ella non può costare quello che non sia grandissimo mercato; però che voi sapete che dice il proverbio: "Fammi indovino e farotti ricco"; e io era povero uomoe per averle usate sto sí bene che io son riccoe non mi manca nulla; ma perché voi mi parete gentiluomeniio vi torrò fiorini cinque dell'una.
Ellino dissonoper amore e per grazia ne voleano quattroe darli fiorini dodici. Il Gonnellaudendo la proffertas'allegrò dentroe di fuori si mostrò delle cento migliadicendo:
- Io non le darei ad altrui per tre cotanti.
Alla fine caddono in patto di fiorini quindici; ed elli disse:
- Fate una cosa; direte al desco che me n'abbiate dato fiorini cinque dell'una -; e cosí dissono di fare.
Il Gonnella che pensavacome maliziosoal finedice a costoroperché la fiera durava tutto il giovedí vegnente:
- E’ ve li conviene pigliare in venerdí a digiuno tra la terza e la nonaperò che è quel dí e quell'ora che 'l nostro Signore ebbe la passione; altrimente non avereste fatto nulla.
Coloro dissono di farlo; e ch'ella era leggiera cosa a fare. Ed elli tolse fiorini quindicie diede loro quattro pallottole. Gli altri d'attornoveggendo spacciareudendo la fama che già erache chi mangiava una di quelle subito indovinavaconcorsono a comprare per lo miglior patto che poteronotutti avendo la ricetta dal Gonnella di pigliarle il venerdí a digiunoe all'ora detta; tanto che tutte e trenta le vendé circa fiorini centoventi.
Fatto questo il Gonnellail venerdí a buon'ora col suo famiglio e con la valigia sale a cavallo; sanza dire all'albergatore che via tenesseentrò in cammino. Venuta l'ora ch'e' comperatori desideravanocioè di mangiare le pallottole per indovinaredue di quelli gioveni primi comperatorivolonterosi d'essere indovinidanno di morso a gran bocconi ciascuno in unae subito l'uno sputa fuorie dice:
- Oimè! che sono stronzi di cane- e l'altro fa il somigliante; e subito vanno all'albergoe domandono del medico che vendea le pallottole.
L'albergatore dice:
- E’ dee essere dilungato sei migliatanto è ch'egli andò.
- E dove?
Rispose non saperema per questa via tenne. Li gioveni erano bene in gambecominciano a piè a camminaree vanno tanto ratti che lo giunsono a... che era a cavallo per partirsi dall'albergo. Come giungono a luidicono:
- Maestrotu ci hai venduto troppo cari li stronzi del cane; come noi gli avemmo in boccale sputammo.
Disse il Gonnella:
- Che vi dissi io?
- Dicesti che subito indovineremmo.
Rispose il Gonnella:
- E cosí avete indovinato -; ed essendo bene a cavallodà delli sproni elli e 'l famiglio e vannosi con Dio.
Li gioveniquasi rimasi scornatie veggendo non poter tenerli dietrosi tornano addietro assai dolentidicendo:
- Noi ce n'abbiamo una nostra una; egli è peggio ancor la beffa che 'l danno.
E giunti a Salernotruovano degli altri che aveano comprata di quella mercanzia; chi s'era messo alla cerca da una parte e chi da un'altrae chi si stava come smemoratoe ciascuno si doleva e stava scornato di sí brutta beffa. Alcuni altrisappiendo la novellacominciorono a cantare:
- A chi vuole indovinarein bocca li possa un can cacare.
E cosí si rimasono i comperatori scornati per un buon tempo: e 'l Gonnella se n'andò al suo viaggio verso Napolilà dove con via piú nuova malizia tirò a sé piú denari che non furono questicome nella seguente novella si dichiarerà.
Io son certo che 'l Gonnella dicea poi avere guadagnato; e' si potea dire piú tosto rubatoe con grandissimo inganno e tradimento; nelle quali cose nessuno altro mai fu con sí sottile e acuto ingegno. E grande maraviglia mi pare che ne' dí suoi non trovasse chi lo pagasse del lume e de' dadicome meritavacome che le sue erano cose da ridere a cui non toccava.


NOVELLA CCXII

D'una grande sperienza che 'l Gonnella buffone al tempo del re Ruberto fece verso Napolitraendo da uno ricchissimo e avarissimo abate quello che mai da alcuno non fu possuto trarre; e per questo n'ebbe e dal re e da' suoi baroni grandissimi doni.

Giunto il Gonnella una volta a Napoliandò a fare la reverenza allo re Ruberto; e làessendo conosciuto e dal re e da' suoi baronial tutto si disposono di non darli alcuna roba o dono se elli non trovasse modo di farsi donare a uno abate ricchissimo e avarissimo di Napoli alcuna cosa; considerando che mai dal detto abate alcuno non poté trarre solo un bicchiere d'acqua. Il Gonnellaudendo e lo re e' baroniper fare prova di sénon se ne scontentò però molto. E saputo dove stava questo abatesubito pensato il modosi vestí assai poveramente come pellegrino. E partendosi dallo re e da' baronidisse:
- Santa coronapoiché cosí mi comandate con la vostra baroníaio vo dov'è di vostro piaceree metterommi alla ventura.
E mettesi in viae va in verso la Badía; e giunto alla portadomanda dello abatedicendo che avea gran bisogno di favellarli. Il portinaio andò all'abatee disse:
- Alla porta è giunto uno pellegrino che dice che ha gran bisogno di favellarvi.
L'abateciò udendodice:
- Serà qualche gaglioffo che vorrà limosina -; e muovesie va nella chiesae dice: - Digli che vegna a me.
Ciò dettoe 'l pellegrino n'andò nella chiesa a luie inginocchioni lo pregò che lo dovesse confessare. L'abate rispose che li darebbe uno de' suoi monaci che lo confesserebbe. Il pellegrino dice:
- Padre santoio vi prego per misericordia che voi mi confessiate voiperò che io ho uno peccato sí grande che io non lo direise non a persona di maggior dignità che monaco; e però contentatemi di questo; e io ve ne prego per l'amor di Dio.
L'abateudendo costuigli venne voglia d'esaudire a' suoi preghi per sapere che peccato fosse quello che era sí grande; e disse s'aspettasse un pocotanto che andasse alla sua camera: e cosí s'aspettò. E stando un pocol'abate viene vestito d'una bellissima cappa paonazzacon li cordoni di seta dinanzi e con alcuni monacelli drieto; e andato a una sedia del corochiamò il pellegrinoil quale subito fu presto; e inginocchiatosi a piede dello abatecominciò la sua confessione; e fondossi sopra il peccato avea sí grande che quasi non ardiva di dirloe non credea che Dio mai avesse misericordia di lui.
L'abate come fannoil confortava che dicesse sicuramente. Aliora il pellegrino dice:
- Messer l'abateio ho una natura o condizione sí perversache spesse volte io divento lupocon sí gran rabbia che qualunche persona m'è innanzi io divoroe non so da che né donde proceda; e perché l'uomo fosse armatocosí lo divoro come se fosse gnudo; e piú e piú volte questo caso m'è avvenutoe come io sono per diventare lupoio comincio a sbadigliare e a tremare forte.
L'abateudendo costuisi cominciò tutto a cambiareavendo grandissimo timore. Il Gonnellache avea gli occhi d'Argocome ciò vedecomincia a tremare e sbadigliare fortedicendo:
- Oimèoimè! che io comincio a diventar lupo! - e aprendo la bocca verso l'abate.
All'abate non parve scherzo; levasi in piede e fugge verso la sagrestia. Il pellegrinocome accortoavea afferrato la cappae non lasciandolasull'entrare dell'uscio della sagrestia l'abatesfibbiandosi il cordonelasciò la cappa di fuorie serrossi dentro all'uscio. Gli altri monaci per la paura s'erano dileguati chi qua e chi là. Il pellegrinomessasi la cappa sottose ne va quanto piú puote nella Corte del redove avea lasciati li sua panni; e spogliatisi li panni peregrinisi vestí di quelli che piú portavae andò nella presenza del re e de' suoi baronie disse in credenza quello che avea fattoe ciò che seguíto era.
Lo re e' baroni con grandissime risa si maravigliarono della industria e sagacità del Gonnella; e lo re con tutti li baroni li donorono grandementesí che acquistò per la cappa dell'abate molto piú che con li stronzi di cane venduti a Salerno. E spacciate in Napoli le sue faccendesi partíe andò a suo viaggio. L'abatetutto stordito con li suoi monacicredea per certo essere colui stato il nimico di Dio che in forma di peregrino era venuto a mordere la sua avarizia; e disse questa novella con alcunisí che pervenne alli orecchi del re. Il quale mandò per luie domandollo se fosse vero quello ch'egli avea udito. L'abate affermava di síe che veramente credea fosse stato il diavoloe in fine soffiava e sospirava della sua cappa. Lo re e' baroniche ciò sapeanoudendo l'abatene presono doppio sollazzo; e in fine credo che l'abate il sapessebenché mai non mostrò di saperlo per non arrogere li scorni e le beffe al danno.
Molto dee essere caro a' piú de' lettoriquando si fatte beffe veggono fare agli uomeni cosí avari e spezialmente a' chericine' quali ogni vizio di cupidità regnaavendo sempre gli animi per quella a dire menzognea fare escatia tendere trappolea vendere Iddio e le cose sacre. Sallo Elli medesimoche a loro gli ha concedutichi sono o da che sono li piú che hanno a governo li suoi templi; ché serebbe meno male che quelli rovinassono che essere fatti ostelli di sí viziosa gente.


NOVELLA CCXIII

Cecco degli Ardalaffivolendo correre un'asta di lancia verso li nimici facendosi guidare a Giannino suo famiglio il quale trascorrendoli innanziil detto Cecco pone a luicredendo porre a' nimici.

Non fu netto il tratto che volle fare Cecco degli Ardalaffi come furono netti li tratti del Gonnella. Passando il duca d'Angiò con gran brigata di cavalieri vicino di Forlíquando andò in Puglia contro al re Carlo della Pacee venendo verso la terra certa gente fioritail detto Cecco chiamò un suo famiglioch'avea nome Gianninoe disseli che apparecchiasse un suo gran cavallo con le sue arme e certa compagnia d'armati. E ciò fattos'armò nobilementee salito a cavallo con la sua compagniae Giannino allato alla brigliae certi con le lance mollis'avviò verso la porta dal lato di Cesenae uscendo di quellaperché avea molto il vedere cortochiamò Giannino e disse:
- Mettimi il bacinetto in testae dara'mi la miglior lancia in su la cosciae guidami e appressami quanto tu puoidove è la brigata che tu sai.
Giannino guida il cavallocome dicee tutti gli altri drietoli. Come si furono appressati a un trarre di balestrodice Giannino:
- Signor mioprendete l'astach'e' nimici vi sono dinanzi a rincontro.
E ingozzata l'astapigliando Giannino il cavallo per le redinedando delli sproni a un ronzino su che erae Cecco seguendoloessendo quasi a mezza viaavendo lasciato Giannino il cavalloe Cecco con l'asta bassa correndo fortecredendo porre a uno di quelli cavalieri gli venne posto nel culo al detto Giannino. Il qual Ceccocredendo avere fatto un bel colpo in qualche valentre uomocominciò a gridare:
- O Gianninova' per quel prigione.
Giannino dall'altra partesentendosi inaveratocon gran voci comincia a dolersie dire:
- Oimè! Ceccovoi m'avete morto.
Dice Cecco:
- Io ti dicova' per quel prigioneche ti nasca il vermocane.
Allora Giannino con alte voci piú si duoledicendo:
- Io vi dico che voi m'avete confitto il culo nella sella.
Ceccocome infiammato di letiziadicea pur:
- Va' pel prigione.
E Giannino nel fine sferra l'astala quale nel vero tra pelle e pelle era entratae viene verso Ceccoe dice:
- Ecco il vostro prigione.
Ancora dice Cecco:
- Dov'è?
Giannino si disperae dice:
- Favell'io grecoo ècci cosí buio? io vi dico che 'l prigion vostro in cui voi avete cosí ben postoson io; e se non fosse per mal parereio vel farei toccare con mano; maperché il colpo è nel culonon voglio.
Cecco ancora dice che ciò non potea essereperò che gli parea aver dato a uno che avea l'arme dorate.
Dice Giannino:
- Forse avev'io il culo fregiato di lucciole; io non credea che voi lo nimicasse cosí fieramente; e che se l'asta fosse cosí giunta nel mezzocom'ella giunse da latoio non era mai piú Giannino.
Dice Cecco:
- In fé di Dioe' mi pare strano che ciò possa essereio credea che tu caleffassi.
Dice Giannino:
- Io non ho da caleffareché mi pare mill'anni che io sappia da qualche medico se 'l colpo è cassale o nosí che lo mi possa acconciare dell'anima.
Allora Cecco disse:
- Se tu mi guidasti in forma che ne sia seguito quello che tu di'tu stesso t'hai fatto il male: dicevat'io che tu facesse che la mia lancia ti si ponesse al culoche appena mi pare che debba potere essere?
Dice Giannino:
- Io veggio che voi non credete ancorama io ne farò certo ciascuno.
E innanzi a tutta la brigata alza li panni e mostra la fedita e la selladove l'asta si confissee dice:
- Deh guardatese questo vi pare colpo di Calaves?
Chiarito per questo modoCecco cominciasi a contorcere dicendo:
- Vie' zaGianninonoi torneremo a Forlíe io ti farò curare al medico nostro; ma a lui e a qualunche altro dirai che uno di quelli di làcorrendo verso teti puose la lancia.
E cosí promiseed elli lo fece curare; ché nel vero poco male aveaperò che la lancia tra pelle e pelle l'avea confitto nella sella; e guarito che fumai non lo volle addestrare piúperò che Cecco era una buona lanciama la cattiva vista gli facea errare la postae averebbeglila possuto porre un'altra volta in luogo che gli serebbe putito tutti i dí della vita sua.
Non è molto strana cosaquando il vedere ha alcuno impedimentod'errare per simile forma o per altra; però che la fragilità de' nostri sensiessendo ancora sanza difettospesse volte gli fa errare. E non si vede elli manifesto che colui che avrà piú chiaro il vedere spesse volte crederrà vedere una cosaed elli ne vede un'altra? Un altro crederrà d'udire una voce in uno bussoo uno suonoed e' fia un altro. Un altro con l'odorato crederrà sentire o un odore o un puzzoe quello fia un altro. Un altro crederà toccare una cosaed ella fia un'altra; e un altro crederrà conoscere per lo gusto uno saporecredendo quello essere d'uno frutto o d'una speziee quello fia d'un'altra. E cosí interviene ancora de' sensi intellettivi. Sí che quello di Ceccoavendo gli occhi difettofu difetto della natura; ancora essendo stati chiarissimiil detto caso potea intervenire. E però nessunoo signoreo qual vuole si siasi può fidare nelle sue potenzie; ché tutto dí interviene che l'uomo crederrà trarre in uno luogoe trarrà in un altrosí come il bueche spesso crede andare a pasceree anderà ad arare.


NOVELLA CCXIV

Uno gentiluomo nel contado di Firenze va a furare un porcoe mettelo su una cavalla; guastasi la cavallae 'l porco per poco sale pute; e un altro che era insalato in casa fa il simigliante; e cosí rimane tristo e doloroso.

Molto fu di maggiore scorno e di piú danno la novella che seguitaperò che non è gran tempo che verso Montelupo contado di Firenze fu uno gentiluomoil cui nome tacerò per onestàriguardando a' suoi consorti. Avea costui molto per costumequando avesse possutodi fare dell'altruisuo. Avvenne per caso ch'egli ebbe aocchiato un porco di smisurata grassezzail quale era d'uno notaio del detto paese; e fatto ragionamento con due contadiniche spesso lo accompagnavono a fare delle sue mercatanziesi puosono di volere furare il detto porco; e una nottesalito il gentiluomo su una sua ronzinas'avviò con detti contadini per fare la faccenda; e giunti con l'esca e con argomenti perché la cosa andasse chetail trassono del porcilee avvioronsi col detto porcoil quale per la grassezza andava a grande stento. E dilungati alquantogiugnendo in uno burratoe 'l porco non possendo fare l'ertanon sapeano che si fare; e strascinare non lo voleanoperò che arebbe fatto romore; di che deliberorono d'ucciderloe di porlo su la ronzinae avviluppatoli al grogno quanti panni aveanoperché il suo stridere non si sentissel'uccisono; e poi con gran pena e con grande affannoconsumando grand'ora della notteil puosono su la ronzina; e a grande stentocamminando con la cavallache molto male potea quella somagiunsono alla magione del gentiluomo; là dove la ronzina giunse straccae in fine guastache mai piú non fu da farne conto. E 'l gentiluomo ancora era presso che stracco; ma perché la materia avea bisogno di spedizioneelli feciono ragionamento in che modo il porco s'insalasse; e non essendo sale in nessuna delle loro casedisse il gentiluomo:
- Io salai un porco forse otto dí fae misevisi su tanto sale che io credo che quello abbia preso il sale che dee: l'avanzo spazziamo e mettiamo su questoe credo che basterà.
Presono il detto partito; e' due contadini abbruciorono e governorono il porcoe intanto il gentiluomo andò a dormire. E levatosi innanzi dí alquantospezzorono la carnee insaloronla con l'avanzo dell'altro porco.
E cosí stando la cosa per alcuni giorniessendo la cavalla guastavenendosi a cavare li due porci di salenon che elli ne venisse di dolcema in quella casa di puzzo non si potea staresí che per forza convenne la carne o sotterrassino o gittassesi via. In questo mezzo venne sentore al notaio come il suo porco gli era stato imbolato e da cui; di che egli pensòcome il piú delle volte intervienedi combattere co' dua contadinie del cittadino lasciare andare la mazza. E facendo li detti convenire e facendo vista di farli impiccareebbe da loro fiorini dodicie stettonsene cheti per lo migliore; e al gentiluomo parve avere cacato nel vaglioveggendosi aver perduta la ronzina e 'l porco suo che avea insalatoe quello che avea imbolatoe ancora fiorini dodicili quali credo che la maggior parte furono suoiperché li contadini non lo dicessono.
E cosí il volere imbolare un porco ad altri gli fece perdere il porco suo e 'l salee 'l porco imbolatoe la ronzinae fiorini dodici.
E giusto e degno fuperò che spesso avviene che chi vuole con rapinacon furto e con altro modo l'altruiDioche tutto vedegli fa perdere il suo. E non si può errare che l'uomo in questa vita faccia col suo e lasci stare l'altrui; e se altro non fosse o non avvenissel'uomoche non ha lealtà e vuole quello che dee essere d'altruida ciascheduno è schifato; e colui che vive lealestando contento del suoda ciascuno è ricevuto e amato. Ma li gentili d'oggi tengono essere gentilezza vivere di ratto su l'altrui ricchezza.


NOVELLA CCXV

Jacopo di ser Zello mena uno garzone contadino da Altomena per farlo sperto orefice; e certi suoi compagni li mostrano come meni lo smaltodi che si ritorna a casa.

Non volle Jacopo di ser Zello nostro cittadino che uno garzonetto figliuolo d'uno contadino stesse in contado acciò che non gli fosse furato il porco. Questo Jacopoessendo ricco oreficeandando a suo' luoghi ad Altomenaed essendo tra certi contadinicominciò a ragionare che la spazzatura della sua bottega valea ogni anno piú d'ottocento fiorini; e voltosi verso lorodisse:
- E voi state sempre qui poveri a rivolgere le zolle!
E veggendo uno figliuolo d'uno ivi presenteche avea forse sedici annidisse se volea darliloche lo avviarebbe e farebbelo buon uomo. Al contadino parve mill'annicredendo subito che divenisse riccoe spezialmente considerando alla valuta della spazzatura ch'egli avea detto.
E tornando Jacopo a Firenzene menò il detto garzone con secoe l'altro dí vegnente il menò alla sua bottega; e passato in uno fondachettodove lavoravono due piacevoli uomenili quali l'uno era chiamato Miccio e l'altro Mascioil raccomandò lorodicendo che come a sua cosa gl'insegnassono ben l'arte. Costoro dissono di farlo: e partitosi un poco Jacopo da lorodice l'uno all'altro:
- Questo nostro maestro è un nuovo pesceche non gli pare che noi abbiamo tanto a fare a digrossare l'arientoche ci mena di contado contadini a dirozzare.
- Alle guagnele! - dice Mascio- che io gl'insegnerò come fia degno.
E andato su per una scalettail detto Masciocome s'era composto col Micciosalí su un palco dove menavano lo smaltoe là su chiamò il garzone; il quale giunto susoe Mascio mettendosi mani alle brachedice a costui:
- Va'mena qua.
Il giovene tutto vergognoso si volge d'altra parte. E Mascio dice:
- Va'mena quati dico.
Risponde il garzone:
- Io non so che voi mi vogliate far fare; io non ci venni per questo.
E Masciodettogli ancora che menassee 'l giovane aombrando e contradicendoperò che avea ragioneMiccioche era di sotto e ogni cosa udíachiama Jacopo e dice:
- Voi ci menate gent'ebreae voleteli fare orafi! quel vostro da Altomena è sul palcoe non vuol fare cosa che Mascio gli dica.
Come Mascio sente Jacopo di sottogrida forte al garzoneche meni; e dice forte:
- O Jacopoe' non vuole menare.
Jacopo che avea il pensiero al menare dello smaltogridavolgendosi in su:
- Menache sie mort'a ghiadoe' mi sta molto beneio ho tolto a dirozzare villani: menache tu sia tagliato a pezzi.
Il giovanesentendosi tanto direandò verso Mascioper ubbidire al suo maestroe non senza grande e temerità e vergogna. E Mascioveggendo cosí venire il semplice verso luirimise la cosa naturale nel debito luogoe lui menò verso il menatoio dello smaltodicendo:
- Figliuoloperché tu non intenda cosí benenello 'mprincipio non te ne curareché io feci anche io cosí io -; e cosí gli fece menare lo smalto poi da dovero quasi tutto dí.
L'altra mattina vegnenteo per la prima novità di Mascioo per la fatica d'avere menato lo smaltoil garzonesanza dire alcuna cosasi tornò al padre ad Altomena; e 'l padremaravigliandosidomandava della cagione. Il garzone dicea:
- Mandatevi un altro che appari quell'arteché io non son buono a ciò.
E tanto lo scongiurò che 'l garzone li disse ciò che Berta filò. Il padresmemorato della novità del fattofra sé stesso dicea: "È questa la spazzatura che valea fiorini ottocento? deh! dàgli il malanno a lui e agli altri mercatantise sono cosí fatti". E passati certi giornitornò Jacopo ad Altomena; trovandosi col padre e col garzonesi dolea che se n'era venutoe come per la prima cosaciò era il menare dello smaltoegli avea preso ombraed erasene venuto; e che chi si ponea ad un'artenon che dovesse menare lo smalto quando gli era dettomase gli fosse detto mena il diavol di ninfernoil dovea fare; sí che non si vuol fare cosí dell'o ci .
- Io l'avea accomandato a due migliori lavoranti che io avesse mai in bottegaed èvvi tale che guadagna l'anno mille fiorinie ha nome Miccioche 'l dovete conoscere pur al nome; ma sapete che vi dico? statevi nelle zollee voi zolle averete.
Il padre disse:
- Jacopo mioio credo che gli uomeni nascono con le venture in mano: sta pur che le sappiano pigliare; e cosí sono di quelli che nascono con le sciagure in manoe questo mio figliuolo è di quelli: steasi in contado tra le zollee forse fia il suo megliore.
E mai non disse piú oltree cosí rimase la cosa.
Assai vollono dimostrare questi due piacevoli uomeni a Jacopose elli l'avesse voluto intendereche non erano con lui a quello mestiere per dirozzare contadini. E ciò che feciononon feciono perché fosse occultoma perché la novella si sapesse d'attornoriputandosi d'esserne tenuti piú piacevoli; però che chi udío poi la novellatre cotanti rideano di Jacopoche essendo di sotto biestemmava il garzone perché non volea menareche non rideano o di loro o del garzone.


NOVELLA CCXVI

Maestro Alberto della Magnagiugnendo a uno oste sul Pogli fa un pesce di legno con lo quale pigliava quanti pesci voleapoi lo perde l'ostee va cercando il maestro Alberto acciò che gliene faccia un altroe non lo può avere.

E’ mi conviene entrare in alcune altre novellee prima ne nominerò una d'uno valentissimo e sant'uomoil quale ebbe nome maestro Alberto della Magnail qualeandando per le parti di Lombardias'abbatteo una sera a una villa sul Poche si chiama la Villa di Santo Alberto. Entrato in casa un povero albergatore per cenare e per posarsi quella seragli vide molte reti con che elli pescavae da altra parte vide molte fanciulle femine; onde domandò l'oste di suo statoe come era abientee se quelle erano sue figliuole. E quelli rispose:
- Padre mioio sono poverissimoe ho sette fanciulle femine; e se non fosse il pescareio morrei di fame.
Allora maestro Alberto domandò come ne pigliava. Ed elli rispose:
- Gnaffe! non ne piglio quanto mi bisognerebbee non ci sono in questa arte molto avventurato.
Allora maestro Albertoinnanzi che la mattina si partisse dall'albergoebbe fabbricato un pesce di legnoe chiamò a sé l'oste e disse:
- Togli questo pescee legalo alla rete quando tu peschie piglierai con esso sempre grandissima quantità di pesci; e fiano forse tanti che ti faranno grande aiuto a maritare queste tue figliuole.
Il povero osteudendo ciòmolto volentieri accettò il donorendendo grandissime grazie al valentre uomo; e cosí si partí la mattina dell'albergoandando al suo viaggio verso la Magna. Rimaso l'oste con questo pesce di legnovolontoroso di vedere la provain quello dí andò con esso a pescare: tanta moltitudine di pesci traevano a quelloed entravano nelle retiche appena gli potea trarre dell'acqua né recare a casa. E continuando questa sua venturamolto bene facea i fatti suoie di povero uomo si facea ricco per forma che in poco tempo averebbe maritate tutte le sue figliuole.
Avvenne per caso che la fortunainimica di tanto benefece sí che uno dítirando costui la rete con gran numero di pescila cordellina del pesce di legno s'era rottae 'l pesce se n'era ito giú per lo Poin forma che mai non lo poteo ritrovare; ondese mai fu alcuno dolente di caso che gl'intervenissecostui fu dessopiagnendo la sua sventura quanto piú potea; e con questo provava di pescare sanza il pesce di legnoma niente eraché de' mille l'uno non pigliava. Onde tapinandosi: "Che faròche dirò?"si dispose al tutto di mettersi in camminoe di non restare maiche fosse nella Magna alla casa di maestro Albertoe a lui dimandare di grazia che li rifacesse il pesce perduto. E cosí non ristette mai che elli giunse dov'era maestro Alberto; e quivi con grandissima reverenzia e piantoinginocchiandosigli contò la grazia che da lui avea ricevutae come infinita quantità di pesci pigliavae poi comela corda del pesce essendosi rottail pesce se n'era ito giú per lo Poe perduto l'avea: e pertanto pregava la sua santità cheper bene e per misericordia di lui e delle sue figliuolegli dovesse rifare un altro pesceacciò che ritornasse in quella grazia che egli gli avea donata di prima.
Guardando maestro Alberto costuiforte gli ne increbbedicendo:
- Figliuol mioben vorrei poterti fare quello che mi addomandi; ma io non posso; però che io ti fo assapere che quando ti feci quello pesce che io ti diediil Cielo e tutti i pianeti erano in quell'ora disposti a fare avere quella virtú a quel pesce; e se io o tu volessimo dire: questo punto o questo caso può ritornareche un altro se ne possa fare con simile virtúe io ti dico di fermo e di chiaro che questo non può avvenire di qui a trentasei migliaia d'anni: sí che or pensacome si può rifare quello che io feci.
Udendo l'albergatore questo tempo tanto lungocominciò a piagnere dirottamentepiagnendo maggiormente la sua sventuradicendo:
- Se io l'avessi saputoio l'avrei legato con un filo di ferroe tenutolo sí che mai perduto non lo avrei.
Disse allora maestro Alberto:
- Figliuolodatti paceperò che tu non se' il primo che non hai saputo tenere la venturaquando Dio la ti manda; ma e' sono stati molti e piú valentri uomeni di techenon che l'abbiano saputa prendere e usare quel picciolo tempo che l'hai usata tuma e' non l'hanno saputa pigliare quand'ella s'è fatta loro innanzi.
E poi dopo molte parolecon simili confortiil povero albergatore si partíe tornossi nella sua stentata vitaguardando piú tempo per lo Po se rivedesse il perduto pesce; ma ben poté guardarech'egli era forse già per lo mare maggiore con molti pesci attorno; e non v'era con lui né l'uomo né la ventura. E cosí visse quel tempo che piacque a Diocon uno repetío in sé del perduto pesce; che molto serebbe stato il meglio che mai quello non avesse veduto.
Cosí fa tutto dí la fortuna che molte volte si mostra lietaper vedere chi la sa pigliaree molte volte chi meglio la sa pigliare ne rimane in camicia; e molte volte si mostra acciò che chi non la sa pigliare sempre poi se ne dolga e viva tapinodicendo: "Io potei avere la cotal cosa e non la volli". Altri la pigliano e sannola tenere molto pococome fece questo albergatore. Maa considerare tutti i nostri avvenimentichi non piglia il bene quando la fortuna e 'l tempo gnel concedeil piú delle voltequando si ripensail rivorrebbe e non lo ritruovase non aspettasse trentasei migliaia d'annicome disse il valentre uomo. Il qual detto mi pare che sia conforme a quello che certi filosofi hanno già dettoche di qui a trentasei migliaia d'anni il mondo tornerà in quella disposizione che è al presente. E sono stati già a' miei dí di quelli che hanno lasciato ch'e' loro figliuoli non possono né vendere né impegnareche mi pare che debbano credere a questa opinione acciò che truovino il loro quando torneranno in capo di trentasei migliaia d'anni.


NOVELLA CCXVII

Uno Altopascino di Siena fa un brieve a una donna di partoacciò che ella partorisca sanza penae giovali moltoe simile a molte donne a cui ella il prestòdopo certo tempo il brieve s'apretruovasi che dice cose strane e di grandi schernedi che tutta Siena con grande risa ne rimase scornata.

Altramente fu viziosa questa novella che seguita e di grande scorno. Fu in Sienaal tempo che reggeva l'officio de' Noveuna gentil giovane di pochi anni andata a maritoe quelli figliuoli che faceafacea con grandissima pena e fatica; e al presente era gravida di sette mesi; e come paurosaognora cercava di leggende di santa Margheritae di medicine e di brievie d'ogni altra cosa che credesse che li giovasse alla sua passione.
Avvenne per caso che uno Altopascinocome sempre ne sono per le terrevolendo trarre da questa giovene alcuna quantità di danaridisse un dí a una feminetta che usava nella casa che elli avea udito dire a due frati Ermini che elli sapeano fare un brieve chetenendolo la donna addossonon serebbe sí duro partoche sanza pena non partorisse. La feminetta udendo questoavvisò di portare novelle da roba; e andata alla casa della giovenedisse ciò ch'ella avea udito: di che alla donna venne talento d'avere questo brieve. E mandata la feminetta a trovare il modoe patteggiare come il brieve s'avessel'amico disse che gli convenía trovare due fratiche erano da Finibus_terree che bisognavanotra per loro e per le cosefiorini cinque.
- Per denari- disse la feminuccia- non mancherà -e tornata alla giovenegli parve mill'anniche subito le dié fiorini cinque per avere il detto brievee con li detti denari tornò all'amico; il quale tantosto fece vista d'andare fuori di Sienae disse:
- Io vo a trovare gli amicie credo recare il brieve anzi che sia molti dí.
E andò a stare in questo mezzo a una Badía di Buonconventoe là fece una cedola scrittae piegatalala legò tra piú zendadi e cucilla in diverse manieree ritornato da ivi a piú dí a Sienamandò per la feminettae mostrandosi molto affaticato le disse:
- Sallo Dio che pena m'è stata ad avere questo brieve ma lodato Dioio l'ho pur recato; ché ne voleano piú ben due fiorini; andate e dite alla donna che 'l porti addossoe mai non l'apraché subito perderebbe la sua virtú; e se mai lo prestasse a personadicali similmente che guardino che non lo aprissono.
E cosícon questo rapportoportò il brieve alla giovene; la quale con tanta fede il ricevette quanto avesse ricevuto il verace corpo di Cristo e venne in sul partoe sanza nessuno dolore partorí. E ancora tanto si sparse la fama di quello brieve che beata quella donna gravida in Siena lo potesse accattare; e per tutta Siena piú anni e anni ebbe grandissimo corso; beata quella donna che 'l detto brieve potea avere. E come che si andasse la mazzané la donna che l'avea compratoné dell'altre che l'accattassonone perivano; e cosí durò molti anni.
Io mi credo chequando la persona porta molta fede che uno brieve o altra cosa gli abbia a giovareche quella cosa non gli possa fare altro che utile; e cosí poté avvenire anco di questa.
Ma per ispazio di piú annivenendo volontà alla donna di sapere che parole erano quelle che avessono cotanta virtúse n'andò un dí con una compagna che sapea leggere in una camera dinanzi alla tavola di nostra Donna; e con grandissima reverenza cominciorono a scucire il detto brieve; e trovata la scritta in carta sottilissima di cavrettolessono il detto brieveil cui tenore dicea cosí:
"Gallinagallinaccia
Un orciuolo di vino e una focaccia
Per la mia gola caccia
S'ella il può faresí 'l faccia
E se non sísi giaccia"
.
Udito che ebbon le donne queste sante parolequasi con risa uscirono di loro stessee l'una si volgea all'altradicendo:
- Per certo questo è un bel brieve; e fu pur buona spesa quella di cinque fiorini!
E in fined'una donna in un'altratutta la terra se ne riempiéper tanto che gran tempo vi durò che quando una donna gravida passava per la viao fanciulli o altri diceano:
- Gallinagallinaccia -; e quasi le donne se ne vergognavono.
E venendo ciò agli orecchi del marito di quella che l'avea comperato fiorini cinquevolle sapere chi era stato il mercatantee trovò che forse d'uno anno innanzi s'era morto; ché forse si fece per luiperò che era materia da poterli dare la mala ventura: e cosí terminò questo brieve.
Buona cosa è avere la fedema spesso è il peggio averne troppa; però che si dee pensare chi è colui che ti dice o che ti dà la cosae quanto è credibile o verisimile quello che t'è detto. Molto ci corrono le donnee spezialmente cotali feminelleche paiono sorocchie di santa Verdiana; ed elle se ne rimangono poi con le beffe e col dannocome rimase questa.


NOVELLA CCXVIII

Uno judeo fa un brieve a una donna perché uno suo figliuolo crescaed essendo da lei ben pagatose ne va; poi a certi dí s'apre il brievee truovasi scritto in forma di gran beffe e scorno.

Ben fu maggior beffa questa che séguitaconsiderando come e chi la fece. Fu già in Mugellocontado di Firenzeuna giovane castellana vedova e assai abbiente e avea un suo figlioletto di forse undici anniil qualeo che fosse di razza d'esser piccoloo che alla madre non paresse che crescesse come si conveníadelle maggior pene era ch'ella portasse. Di che un giorno di festastandosi a sedere a un uscio su la strada e avendo seco questo suo fanciulloper avventura passò alcuno judeo; e sceso da cavallo per acconciare una cinghia che gli s'era rottae in questo cominciò a domandare la donna come stava; e quellaconsiderando già che era judeoe pensandocome poco saviain lui dovere essere gran virtú a poterli dare rimedio al suo doloredisse:
- Io sto benese Dio mi facesse grazia che questo mio figliuolo crescesseche non cresce e non crepa -; e poi soggiunse: - Dehvoi sete judeoe sapete fare assai cose; non mi dareste voi qualche remedio che elli crescesse?
Allora il judeocome reos'avvisò di guadagnare gran parte delle spese che avea fatte per camminoe rispose:
- Madonnase la spesa non vi dolessevoi sete bene abbattutaperò che io non credo che sia alcuno che possa meglio dare rimedio a quello che desiatecome poss'io.
Allora disse la donna:
- Sia la spesa qual io la possa fareio non la ricuserò.
Disse il judeo:
- Madonnae' conviene che sia un brieve formato e composto su molte coseche monterebbe la spesa otto o nove fiorini.
Disse la donna:
- Per insino in fiorini otto non voglio che manchi.
Il judeo rispose:
- Poiché cosí mi diteio non mi partirò che io avrò fatto ciò che bisogna; e voi seguirete diligentemente ciò ch'io vi dirò.
La donna allorapiú volontorosadisse che facesse ciò che fosse da faree li denari erano prestipurché ella vedesse che questo suo figliuolo non fosse un piccinaco. Lo judeo stette in quella notte ad uno albergoe disse di fare ciò che bisognavae la mattina darebbe compimento alla faccenda. La donna il pregò che cosí facessee la sera gli presentò vivande e vini nobilmente. Poi egli ordinò uno brieve fasciato e legato con molte cerimonie; la mattina vegnente andò a casa la donnaalla quale non parve vedere uno judeoma piú tosto uno angiolo del paradiso. Il quale judeocome reodisse:
- Madonnanon sanza gran fatica io ho fatto questo brieveil quale appiccherò al collo a questo vostro figliuoloe terrallo nove dí e nove notti; e in capo di nove dí lo menerete al prete e alla chiesa del vostro populodicendo che lo discioglia e legga innanzi al populoe faccia quello che dice; e vedrete grande sperienza del crescere che avrà fatto.
La donnavolontorosadisse che ogni cosa serebbe fattoe diede fiorini otto al judeoil qualelasciato il brieve al collo del figliuolos'andò a suo viaggio; e la donna rimase con grandissima speranza de' nove dí.
E fatto ogni cosa con diligenziacome gli avea detto il judeovenuto in capo di nove dí mattina la donnaper vedere la perfezione di quel brievemenoe il figliuolo alla chiesae disse al prete che li dovesse piacere d'aprire quel brieve e leggerlo dinanzi al populo. Il qualescuscendo e aprendo il brievelesse le parolele quali furono queste:
"Sali su un toppo
E serai grande troppo;
Se tu mi giugni
Il cul mi pugni"
.
Udendo il prete e la donna e gli altri questa leggendaciascuno si maraviglia. La donnacome quella che non seppe occultare lo intrinseco della sua passioneaspettando della sua speranza in quella mattina avere il fruttocon grandissimo pianto disse al prete e al populo come uno judeo l'avea gabbata; e promettendoli di fare uno brieve che 'l suo figliuolo serebbe cresciuto sterminatamentee avendone aúto buon prezzole parole del brieve erano fatte come ciascuno vedea. Allora chi la racconsolò di qua e chi di là; e spezialmente il prete che disse:
- Questo brieve non ha mentito niente di quello che vi fu promesso; però chese voi mettete il fanciullo su uno toppocome diceben sapete ch'elli crescerà -; e cosí ciascuno dicea la sua.
E la donna nella fine si volse al fanciullodicendo:
- Se tu vuogli essere nanoe tu ti siaché mai né judeo né cristiano non m'archerà piú -; e rimenatolo a casa piccolo come erasi diede pace come poteo.
Quanto è nuova cosa questo aventarsi nell'opere de' judei! e molte volte interviene che si crederrà piú tosto a uno judeo che a mille cristiani: benché i cristiani sono oggi sí tristie con sí poca fedeche abbiansene il danno. E anco non so dove manchi piú la fedeo nell'uno o nell'altro. Credo io chequal femina va caendo brievi per volere fare una creatura grande che Dio ha voluto far piccoladoverrebbe ringraziare Dio di ciò che fa; e se altro volesse da Luicon l'orazioni umilmente pregarlose 'l meglio dovesse essereesaudisse i suoi prieghi: e tenersi otto fiorini in borsa e non gli dare a' judei.


NOVELLA CCXIX

Due cognate moglie di duo fratelliavendo gran voglia di far figliuolipigliano beveraggio da uno judeoe paganlo bene; poi ad alcuno mese si truova che ha dato loro uova di serpie quello di ciò seguío.

Se la passata donna fu semplicequeste due giovene sequenti furono molto stolte in quello che credettono a uno altro judeo. Il mondo è pieno d'arcadorili quali con diversi lacciuoli s'ingegnano d'uccellare o di pescare a' ranocchinon pensando mai se non come possano trovare modi che tirino li denari a loro: e se di questi sono de' maliziosi e falsisono tra' judeie tanto hanno bene quanto ingannano con falsità li cristiani.
Fu adunquegià è buon tempo passatonella città di Firenze due giovinette gentili e di buona famigliaed erano mogli di due giovani fratelli molto ricchie ogni bene mondano aveanosalvo che nessuna di loro facea figliuolie tanta volontà n'aveano che niuna cosa averebbono lasciato a fare per averne. Avvenne cheessendo una volta di state a una loro possessione di fuori della terrae standosi a cuscire o filare come hanno per usanzauno judeo che avea nome Davidassai pover uomocapitò nel paese; ed essendo presso al luogo dov'erano le donne a due balestrateveggendo il casamento dalla lungacominciò a domandare una vecchia contadina che filava a filatoio come si chiamava quella villa e di cui era quel bel luogo che vedea; e ogni cosa investigatasi fermò ad aescare sopra le due giovani che non faceano figliuoli; e messosi in cammino verso quel palagioappunto s'abbatteo alla porta dove le due giovane cuscivanoe salutatoleseguí:
- O quanto bene avereste da Diose voi faceste figliuoli! ogni bene avete fuor che questo; voi giovani e belle e ricchecon li vostri mariti gentiluomini e dabbene.
Udendo queste donne questo David cosí favellaremaravigliandosilo domandorono chi egli era e come cosí sapea li fatti loro. E quelligittando un grande sospirodisse:
- Madonne mieio sono uno cosí fattocome voi vedetee sono judeo; e come io so i fatti vostrie non ci fui mai piúcosí saprei di molti altri che sono per lo mondo; e anco mi darebbe il cuore di darvi a pigliar cosa cheusando co' vostri maritisubito ingravidereste.
Costui non disse a sorde; però cheveggendo le donne costui esser quasi profetasappiendo tutti i lor fattis'accostorono a pregarlo teneramente che desse loro forma come elle ingravidassono.
Rispose il judeo:
- Se io non andasse a Fiorenza a comprare cose assai che bisognano ad alcuno beveraggio che bisognanon lo potrei fare; e a questo bisogna denariche da me non hoché io son poverocome voi vedete -; e brievemente disse che a due beveraggi bisogna fiorini quattro di spezierie e altre cose; della sua fatica facessono a loro discrezione.
Le donne gli dierono subito fiorini quattroe dell'avanzo dissono fare sí che serebbe contento. David si partí con quattro fiorinie andossi tanto aggirando che trovò uova di serpie quelle divise per metàmettendole in due bocciuoli di canna con altre cose miste; e ivi a certi dí tornò il detto judeo alle donnele quali con grande desiderio l'aspettavano; e' mariti quasi ogni mattina veníano a Firenzecom'è d'usanza.
Giunto dinanzi a lorodiede a ciascuna il suo bocciuolodicendo:
- Direte domattina tre paternostri a reverenzia del Dio patree poi ciascuna pigli il suoe con li vostri mariti ingegnatevi d'usare quanto sie possibilee in poco sentirete grandissima prova del vostro gravidamento.
Le giovani parea che n'andassino in cielo; e tolti li bocciuolidierono ancora denari al judeoil quale detto loro quanto li piacque si partíricevendo da loro ogni cortesia che si dee fare a un povero e valentre uomocome parea elli.
La mattina vegnente la piú attempata delle due cognatecome piú mastrasi pensòe fra sé stessa disse: "Che so io chi è costui che è venuto a darci questa ricetta? per lo mondo vanno di cattivi uomenie per uno denaio tradirebbono Cristo; e costui è judeoche lo tradirono e venderono trenta danari: io per me non voglio avere sí gran voglia di figliuoli che io mi metta a fare cosa che mi mettesse peggiore ragione". Diliberò al tutto di riporre il bocciuolo del beveraggio e dire alla compagnase la domandasse: io l'ho preso ; e mise questo bocciuolo in una cassadove era lino; e quella serratavolle stare a vedere come la cognata di questa ricetta capitasse.
E stando per uno spazio di tempoforse piú di due mesila piú giovane cognata che era stata volontorosa a pigliare la medicinadice alla maggiore cognata:
- E’ par che mi cresca el corpoe parmi sentir guizzare il fanciullo; sentilo tu ancora tu?
E quella disse:
- Io non sento ancora cosa che di fermo io potesse dire alcun sentore ch'io abbiama ben mi pare avere un poco di cambiamento -; e con questo si partono con gran letiziaquella che sentía il buzzicarecredendo essere grossae l'altra che era stata a vedere come la barca arrivasselieta andava a pigliare il beveraggio che avea messo nella cassa del lino per ingrossare come la compagna. E andata alla cassa e aperta che l'ebbetra quello lino trovò e vide avvolte certe serpicellenate di picciol tempo; ondecome saviaguardando nel bocciuoloconsiderò di quello cannone essere uscite quelle serpie veramente alla sua cognata essere nate nel ventre quelle di che ella dicea sé gravida sentire. Di cheaúto il suo maritogli disse ciò che era loro intervenutocapitando loro uno judeo all'uscioe quella bevanda avea loro datala quale veramente avea presa la sua cognatae già diceva sentire novità al corpo.
- E per questocredendo lei essere gravidaavendo insino a qui voluto stare a vederecorsi alla cassa per pigliare quello che avea lasciato a me com'a leidi che io ho trovato queste serpicellecome tu vedi.
Il maritoassai doloroso di questa cosadisse che male avean fattoe che si volea accozzare col fratelloe vedere modo che la gioveneche a quello passo era condottaper consiglio di medici si curasse. Accozzatosi col fratello; e poi andati alla cassa e con quella donna che non avea presoogni cosa compresapensaro di avere consiglio di valentri medici; li qualiogni cosa veduta e intesaaoppiorono la giovane e ordinorono d'avere latte e appiccare la giovane con la bocca di sottoe tenere alla bocca il lattesí che li serpicinicorrendo al latten'uscissono.
E cosí per grande spazioe non sanza grande industriali serpicini per la bocca uscirono fuori al lattee la giovane rimase libera: e destasi dello aoppiamentole fu detto per lo marito e per lo cognato a che partito per sua stoltizia s'era messacredendo a cosí fattinon uomeni ma diavoliessendo judei; facendo ciò che poterono in fine delle parole per giugnere quello judeonon possendolo mai ritrovare. Cosí si rimase ancora questa cosa e con la beffa e col danno. Poi quando Dio volle feciono de' figliuolie forse piú che non averebbono voluto.
O quanto è stolta cosa che la donnanon volendo Dio che abbia figliuolivorrà fare d'averli per fattura d'uno judeoo eziandio per fattura d'alcuno uomo terreno! Gran cosa è che li cristiani uomeni e femine daranno maggiore fede a uno judeo che a cento cristiani; ed eglino niuna fede darebbono a uno cristiano! ma noi siamo vaghi di cose strane. Piú tosto torranno i cristiani moglie da lunga che vicina; e piú tosto comperranno un cavallo che meneranno doglioso gli erri dalla Magna a Romache non comperranno quello del vicinosentendolo perfetto. Ma molto è piú nuova cosa che una donna voglia sforzare Dio e la natura per avere figliuoli; e molto maggior dolore è averne che non averne: nel non averne è una passionenell'averne sono assai tormenti. Se sono cattivivivono assaie mai altro che male non se n'ha; se son buonie' si muoiono; e ciascuno cerca pur di volernee le piú volte cerca la sua mala ventura.


NOVELLA CCXX

Gonnella buffone compera un paio di capponie andando uno fanciullo con lui per li denari si contraffae per forma che 'l fanciullo per paura si fugge e dice che non è desso.

Bello inganno di poca cosa fu quello del Gonnella buffoneil quale fu maestro de' maestricome a drieto in alcune novelle è fatto menzione; fu questa piccola cosa e piacevole. Capitando il Gonnella in alcuna terra in Pugliae avendo bisogno per uno carnesciale d'uno paio di capponipensando come gli potesse avere sanza costocome era usoassai bene addobbato per avere il credito andò in polleria; e convenutosi d'un paio di capponi per soldi quarantacinquedisse al pollinaro mandasse un suo fantino co' capponi insino al banco e darebbegli i danari. Il pollinaro diede li capponi a uno garzonettoe disse:
- Va' con luie reca quarantacinque soldi.
Partesi il Gonnella col fanciullo drietoe quando vede tempolascia i capponi a casa d'un suo amicoe dice al fanciullo:
- Andiamo alla tavola per li denari.
Il garzon drietoli. E 'l Gonnella ne va drieto a un bancoe là ragionava alcuna volta di Berta e di Bernardo; e 'l fanciullo aspettava di dreto a lui che si volgesse con li denari: e stato per ispazio di presso a un'oranon volgendosi il Gonnella e non facendo sembianti di darli e' denariil garzone tirò il Gonnella per lo mantello. Come il Gonnella si sente tiraresubito si trae della scarsella una gran sanna di porcoe mettesela alla boccae ciò fatto s'arrovescia le ciglia degli occhi che pareano di fuocoe con questi facendo un fiero visosi volse al garzoncellodicendo:
- Che vuo' tu?
Il garzoneveggendo questo viso cosí orribilepieno di spaventodice:
- Voi non siete essoio non dico a voi -; e come smemorato guarda di qua e guarda di lànella fine tornò al suo maestro sanza denaridicendo:
- Io andai con lui alla tavolae aspettai un buon pezzoe nella finetirandolo per lo mantello e' si volse che parea un diavolo con gli occhi rossi e con le sanne grandissime; io dissi: "Voi non sete esso"; e guardai di quello che ebbe e' capponimai non lo potei rivedere.
Lo pollinaro cominciò a gridare allo fanciullo e a darlidicendo:
- Perché lasciastú li capponiprima che ti desse i denari?
Le scuse furono assai. Il pollaiuolo andò tutto dí guardando se rivedesse quel de' capponi; ma il Gonnella s'avea già mutata un'altra vestache mai non l'averebbe riconosciuto; e fece il carnesciale con quelli capponi di buon mercato; ma il fanciullo credo che ebbe cattivo carnescialeavendo di molte busse e dell'erbese ne seppe mangiare.
Questa novelluzza del Gonnella fu uno peccato venialee di gran piacere a chi la seppe poi; ma non fu di piacere al pollaiuolo né al suo garzonetto. E poche cose facea maise non con trappole; e pertanto in questa vita non si può stare troppo avvisatoperò che d'ogni parte sono tesi gli inganni e' tradimenti per fare dell'altrui suo. Meglio serebbe a non avere che avere: a tanto è venuto il mondo che la piú sicura vita che sia è la povertàse altrui la conoscesse.



NOVELLA CCXXI

A messer Ilario Doriavenuto a Firenze ambasciadore per lo imperadore di Costantinopolicon una sottile malizia da unomostrandosi famiglio di uno cittadino di Firenzeè tolta una tazza d'argento di valuta di trenta fiorini.

Non voglio lasciare una novelletta che fu ne' miei dí poco tempo fa. Per lo imperadore di Costantinopoli venne alla città di Firenze e in altri luoghi uno ambasciadore molto orrevoleil quale avea nome messer Ilario Doria gentiluomo di Genovae dal Comune e da' singulari cittadini gli fu fatto grande onore e ricchi doni. Tornava il detto ambasciadore da casa i Pazzi all'albergo della Corona. Standosi per alquanti dí il valentr'uomo al detto albergouno che non si poté mai trovare chi fosse (ma io scrittore credo che fosse discendente del Gonnella)avvisandosi di tirare a sé qualche piattello d'argentoe forse ne avea maggiore bisogno di luicon una gran reverenza spuose dinanzi da lui che uno gentiluomo fiorentino e suo amicoil quale poi lo verrebbe a vicitarelo mandava pregando caramente che mandasse uno de' suoi famigli con uno de' suoi piattelli d'argentoche li volea mandare de' suoi confetti.
Il gentiluomo Doriaudendo costuichiamò un suo famiglioe fégli dare una tazza che passava ben tre libbre d'argentoe disse:
- Va' con costuie fa' quello che ti dice.
Partironsie facendo la via verso le scalee della Badía di Firenzegiunti a quelledice colui che era ito all'ambasciadore:
- Dammi il piattelloché io voglio andare a farl'empieree aspettati qui.
Il famiglio forestieronon uso nella cittàveggendo le scalee della Badías'avvisò che andasse in una casa di qualche gentiluomo: diégli liberamente il piattello. Tolto il piattelloquesto cattivo uomo entra nel cortile della Badíae 'l forestiere rimane ad aspettare. Come quello del piattello entra per l'una portacosí se n'esce per quella che va in Santo Martino e dà de' remi in acqua e vassene col piattello. Il famiglio forestiero aspetta il corboe aspetta tanto che la grossa è sonata.
Andando la famiglia del Podestà alla cercacome son fuori veggono costuie piglianloe dicono:
- Che fai tu qui?
Quelli il mandano al Podestàe 'l Podestà il domanda. Quelli dice ch'egli è famiglio del tale ambasciadoree la cagione il perché aspettava. Udendo il Podestà costuimandò il cavaliero all'albergo della Coronasappiendo se era uno suo famiglioe udito di sí e la cagione piacevolelo lasciò; avendo gran voglia di spiare chi fosse quello rubaldo che avesse fatto quella cattività; e maicom'io ho detto di sopranon si poté trovare chi fosse. L'ambasciadorenon istante al danno e alla beffase ne risedicendo che per certo in Firenze dovea avere di sottili uomini da saper tirare a loro.
Ella va pur cosíché chi ha fatto le mane a uncini e vuole vivere di rattoognora pensa come possa arraffare; e colui che viverà puramentenon si guardama vive alla sicura: e come detto èmalagevole è vivere sanza questi pericoliperò che chi ha bisogno non pensa se non come possa avere; e quando ciò fannonon pensano alle forche.


NOVELLA CCXXII

Messer Egidio cardinale di Spagna manda per messer Giovanni di messer Ricciardoperché sente avere fatto contro a lui; ed elli vi vae con sottile avvedimento gli esce dalle manie torna a casa.

Un bello ingannoo piú saperevoglio raccontare nella presente novella. Ne' tempi che messer Egidio cardinale di Spagna con felice tempo dominavaessendo ad Anconagli venne sentito che messer Giovanni di messer Ricciardo de' Manfredisignore di Bagnacavallodi Valdilamona in gran partee di Modigliana e d'altre terreavea trattato o ragionamento stretto con messer Bernabòsignore di Melanoallora signor di Luco ivi vicinoe ciò era contro al detto Cardinalee in loro difesa. Di che mandò per lo detto messer Giovanni; ed ellinon sanza gran sospettoandò ad Ancona; e poi che là fu giuntogli fu detto da alcuno che s'egli andasse al Cardinale egli era a ristio non tornare mai a Bagnacavallo. Con tutto ciòcome saputo cavalierepoiché insino a quivi era venutosi diliberò al tutto andare a lui; e cosí fattogiunto al Cardinale con la debita reverenziail Cardinale gli domandò piú cosefra le quali fu che elli volea porre l'oste a Lucoe ciò facendo avea bisogno della sua vettovagliae che elli avea bisogno della maggior quantità che potesse de' suoi bon fanti; e in ultimo bisognava che li prestasse fiorini dieci mila.
Messer Giovanni alla prima chiesta disse che della vittuaglia gli era graziaperò che cosí si venderebb'ella ad altrui: de' fanti disse che volentieri n'averebbe ogni numero che a lui fosse possibile: de' denari disse che gliene potea prestare ventimila sanza alcuno sconcio; e del rendere si fidava di luie questo fosse a ogni suo piacere.
Udendo il cardinale sí libere rispostepensò di tirare l'aiuoloe spezialmente all'ultimadicendo:
- Quando poss'io avere i dinari?
Rispose il cavaliero:
- Mandate con meco il tesoriere vostroquando io ne voe daròglile.
Il Cardinaleudendo la buona intenzione di messer Giovannimandò con lui il tesorieredando della mano in su la spalla a messer Giovannie disse:
- Ecce filius meus dilectusqui mihi complacuit -; e disse: - Va'e reca quelli denariche messer Giovanni ti darà.
Giunti che furono a Bagnacavalloe messer Giovanni smonta e va alla sua camerae dopo piccol spazio di tempo torna al tesorieree dice che 'l suo camerieroche ha la chiave del cassoneè andato in Toscana per alcuna cagione che portavae pertanto lo scusi al suo signore messer lo Cardinale e da ivi a otto dí torni a lui. Lo tesoriere si tornò zoppo col dito nell'occhioe giunse al Cardinale che aspettava con la borsa aperta; e udita la risposta del tesorieres'avvisò avere teso nello spaniatoe che male avea creduto a quella voltae pentesi d'avere lasciato venire a Bagnacavallo messer Giovanniper credere a san Giovanni Boccadoro; e innanzi che fossono passati dí quindici del termineil signore detto di Faenza s'accordò con messer Bernabòcome avea principiatoe 'l Cardinale si rimase sanza il pincione per volere il tordo della frasca.
Come il denaio fu creatocosí nacque l'inganno. Essendo questo Cardinale degli astuti signori del mondoe avendo di questo signore gran sospettocome la profferta de' denari fu fattaogni altra cosa mise in abbandono; e la gran profferta fatta da messer Giovanni fu lo scampo suochése cosí non avesse fattoavea forse mal tirato; e 'l Cardinale si dee credere n'avesse gran pentimentoma poco li valse.


NOVELLA CCXXIII

Lo conte Joanni da Barbiano fa al marchese che tiene Ferrara uno grande ingannoovvero trattato doppiopromettendogli d'uccidere il marchese Azzo da Esti che gli facea guerrae dandogli a divedere che l'ha mortoriceve da lui castella e denari.

Poiché qui sonoio voglio raccontare un altro inganno con una sottile astuzia fatto per lo conte Joanni da Barbiano. Nel tempo che 'l marchese Azzofigliuolo del marchese Francesco da Estiera fuori di Ferraracome lungo tempo era statoed eziandio il padreavvenne per caso che morí il marchese Albertoil quale con li suoi fratelli lungamente avea signoreggiato; ed essendo l'ultimoe non rimanendo di loro altro che un solo figliuolo naturale del detto marchese Alberto; al detto marchese Azzocome valentre signorevenne volontà di trovare modo se potesse rientrare in casa sua; e accozzatosi col conte Joanni dettoe facendo grande apparecchio di passare sul Ferraresea quelli che teneano la terra per lo fanciullo parve che lo stato di Ferrara fosse a gran pericolovivendo luie spezialmente veggendo ch'egli era per fare suo sforzo quanto potea per passare là. Di che pensarono e ordinorono in ogni modo che potessonoper piú stato sicurofare morire per qualche modo il detto marchese Azzo.
Di cheaccozzatisi con uno Giovanni da San Giorgiobolognese e amico del detto conte Joannitrattorono chese potesse fare che 'l conte Joanni uccidesse il detto marchesegli voleano donar Lugo e Conselice. Onde Joanni si mossee andò a trattare la detta faccenda; e favellato col detto conte Joanni quanto in ciò s'apparteneail detto conte gli rispose in ogni cosa essere presto e apparecchiato; ma che volea vedere che sicurtà aveaciò facendod'avere le castella.
Disse il commissario:
- Io scriverrò al consiglio del marchese che mandino tanta argenteria in Conselice che vaglia fiorini quindici mila; e io starò qui stadico che mai non mi partirò infino che all'opera averete dato effetto e che la tenuta delle dette castella abbiate.
Il conte fu contentoe 'l commessario fece tutto come detto avea. Lo contetrattando con questo Joanniciò che facea o dicea ogni cosa conferiva col marchese Azzoed eziandio con un valentre caporale del detto conteil quale avea nome Conseliceavvisandosi di fare uno trattato doppiocome fece. E ordinorono insieme che uno todescoassai simigliante di fazione del detto marchesevestisse ne' suoi pannidicendo che voleano fare una beffa a quello Joanni da San Giorgiodicendoli che fosse il marchese. Coluiridendosi lasciò vestire; e cosí fattoli dissono stesse là dall'un canto nascosto. E poi il detto Conselice menò il detto Joanni da San Giorgio nella camera a vedere Azzo marchesee favellare con lui. E cosí stati un pezzodisse Conselice ch'egli era ora d'andare a cena.
E Joanni disse:
- Andiamo -; dicendo al marchese: - Signorefate con Dio.
E cosí andandoquando furono alquanto fuori dell'uscioil marchesecom'era ordinatoandò su per una scaletta sopra un sopraletto e là si nascose; e Conselicequando credette lui essere nascostoritenne alquanto Joannie disse:
- Tu attenderai bene ciò che tu hai promesso?
Colui di nuovo gl'impalmò e promise.
Allora disse Conselice:
- Non ti partire di quiché io voglio andare a spacciarlo.
E lasciato ivi Joannitorna nella camerae va inverso il tedesco che era nascosoe con una dagadandoli nel pettol'uccise; e perché lo detto morto non potesse esser conosciutotutto il viso di piú colpi percosse. Poi esce fuorie chiama il detto Joannie dice:
- Vie' qua a vedere com'io te l'ho concio.
Costui andò a vederloe veggendolo in terra con quelli propri pannidisteso in terra mortoebbe per certo il marchese essere stato mortoperché altrui nella detta camera veduto non avea. E subito scrisse al giovane marchese e al suo consiglio che 'l marchese Azzo era stato mortoe ch'elli si potea dire esservi stato presentee avealo vedutoe che mandassono i segni a Bavagasse castellano di Conselice per lo marcheseche desse il castello a cui Joanni dicesse. Allora il marchese e suo consiglio mandorono uno ingegnere del marchesechiamato mastro Bartolino con ben cinquanta uomeni a cavallo con pieno mandato chedi ciò certificatosifacesse dare le castellae 'l corpo del marchese poi facesse portare onorevolmente a Ferrara.
Giunto il maestro Bartolinoe veggendo il mortoebbe per certo quello essere il marchese; e ancoraper dare piú colore all'operamostrò Conselice avere preso Azzo da Ronigliae tutti i caporali del marchese Azzo; e questi presi sapeano bene il trattato. Maestro Bartolino gli fece allora mettere in tenuta di Lugo e di Conselice; e 'l detto maestro Bartolinopartitosi dal Barbiano con la sua brigataportando il corpo mortoquando furono al molino presso a Lugo uscirono fuori la brigata del conte Joannigridando:
- Alla mortealla morte! - e pigliorono maestro Bartolino con tutta la brigata: e Conseliceentrando in Conseliceebbe la terra e l'argenteria che era venuta da Ferrara.
E in Barbiano si cominciò con grida a far festa della resurrezione del marchese Azzo; e cosí ebbe termine questo trattato o inganno doppio.
Se ogni inganno o tradimento venisse a quello fine che venne questopochi se ne principierebbonoe massimamente quando colui che lo muove rimane preso da quel laccio che vuol fare pigliare altrui. Di questa stirpe da Esti non era rimaso alcun signore legittimose non costui; e per por fine a questa progenie era ordinata la morte sua per cosí fatta forma.


NOVELLA CCXXIV

Ancora il conte Joanni da Barbiano fa uno sottile trattocredendo pigliare una bastía fiorentina edificata in suoi dannicome che non gli vien fattoe tornasi addietro sanza avere approdato alcuna cosa.

Perché questo conte Joanni da Barbianoquasi poco tempo dopo alla scritta novella di sopra mosse un altro ingannobenché non gli venisse fatto al suo pensierolo voglio raccontare. Guerreggiando il detto conte con Astorre de' Manfredi per li Fiorentiniche erano con lui in legafu posta una bastía presso a Barbianola quale si chiamava la bastía fiorentinae faceali grandissimo danno; onde per questo il conte si pensò con sottile inganno quella pigliare.
Era allora soldato di detto Astorre uno todesco che avea nome Guernieriil quale con numero di dieci suoi compagni sempre assaliva il detto contepredando insino alle mura di Barbiano. Avvisò il conte di mettere un dí parecchie paia di buoi tra Barbiano e la bastíae con li loro bifolchi arassono la terra; e dall'altra partearmato uno in somiglianza di Guernierie dieci compagni simili d'arme e di veste a' suoigli cacciò fuori di Barbiano il piú celato che poteo da quelli della bastíae mandolli verso Faenza. Poi dato volta che parea fosse Guernieri e' suoi compagni che di là venisseassalirono li bifolchi co' detti buoie quelli presono. Com'egli erano a questo passoil detto caccia fuori tutta sua brigatae questi cosí fatti assaliscono quelli che aveano presi i buoigridando:
- Alla mortealla morte.
Quelli de' buoiammaestratimostrando essere Guernieririfuggono con la preda verso la bastíagridando che gli soccorressino e aprissono. Quelli della bastíacredendo per lo fermo essere Guernieri con li suoiaprirono la porta del cerchio di fuori; onde elli entrorono dentro: e quando egli erano per aprire la porta del secondo cerchiouno di quelli de la bastíapiú antico d'anni e piú saggiodisse:
- Non apritese prima Guernieri non vi si mostra fuori del bacinettoperò che altrimente potremo ricevere grande inganno.
Detto costui questa santa parolagridarono tutti:
- Guerniericàvati il bacinetto che noi ti vogliamo vedere.
Come li detti sentono questa vocesubito danno volta. Quelli della bastíacon le pietre e con la balestradanno loro addossotanto che ebbono ben caro potersi ricogliere sanza troppo impedimentoe non sí che non ne fossono fediti quattro e lasciandovi quattro paia di buoi; e tornoronsi a Barbiano con questo acquisto. E 'l conte Joanni mise i buoi e l'altro acquisto che qui feceappiè di quello inganno che prima avea fatto del marchese Azzoperò che la cosa gli andò tutta per lo contrario; e quelli della bastíadi non pensatosi guadagnorono quattro paia di buoi e scamporono d'un grande pericolo.
Molto sono strani gli avvisi degli uomeni dell'armee grandi sono le industriee dove non giucassono l'inganni o' tradimenticare sono a udirlee ancora a comprenderleper poterle usare quando il caso avvenisse. Ben pare che oggi niuna coscienza si facciae spezialmente nella maestria dell'armedi faree con tradimenti e con inganni e con ogni modoquello male che si puote.
Non costumava cosí ScipioneCatone e gli altri virtuosima facealo CurioCatellina e Jugurta e simili altri. Questo contee di molti altri che sono nel presente tempodirebbono che Scipione fosse stato un uomo con poca virtúquandoavendo vinti quelli di Celtiberiagli venne nelle mani la vergine d'infinita bellezza chesanza alcuna maculala rimandò cosí verginebene accompagnata e ancora da lui dotataal padre. Cosí si fa nel presentechenon che le verginima eziandio li fanciulli innocenti pigliano e crescono con gran vergogna e vituperioe pongono loro nome paggicon tanti vizii che io non so vedere come l'abisso non inghiotte l'universoe spezialmente tutta Italia.


NOVELLA CCXXV

Agnolo Moronti fa una beffa al Golfodormendo con luisoffia con uno mantaco sotto il copertoioe facendoli credere sia ventolo fa quasi disperare.

Sollazzevole inganno fu quello che fece a unoAgnolo Moronti di Casentinopiacevole buffonedel quale a drieto in alcuna novella è fatta menzione. Erasi partito il detto Agnolo da casa suae andato a una festa per guadagnarecome li suoi pari fanno; e tornando indietros'avviò verso il Pontassievedove un'altra festa si facea; alla quale appressandosisi mise un suo asino innanziil quale avea appiccato un cembolo alla sellae aveali messo un cardo sotto la coda; di che l'asinoper lo cardo scontorcendosi e saltandonell'andare facea sonare il cembaloe alcun'ora con lo spetezzare li facea il tenore; e Agnolo drieto ballando con questo asino e con questo stormentogiunse alla festa; là dove ciascunoper novitàcon grande risa corse a vedere il detto trastullo. E standosi tutto dí a questa festanon andò a suo viaggioma fu ritenuto la sera a casa alcuno cittadinoe a cena e albergo. E veduto che ebbe tra la brigata un nuovo Gufoo Golfo che avesse nomechiese di grazia al signore della magione che con quello Golfo lo facesse dormire la notte; e cosí gli fu promesso.
Cenato che ebbono fu dato la camera ad Agnolo e al Golfo; e donde Agnolo se l'avesseo da sé o d'altruielli si colicò da piedi con uno mantachetto segretamentee 'l Golfo da capocoprendosi molto beneperché era attempato. Come Agnolo vede che Golfo è per legare l'asinocomincia a soffiare col mantaco sotto il copertoio inverso il Golfo; il qualecome sente il ventocomincia a dire: - Ohimè! Agnoloe' ci dee avere qualche finestra apertaché ci trae un gran vento.
Dice Agnolo:
- Io non sento ventoio non so che tu ti di' -; e stando un pocoe' risoffia col mantico.
Il Golfo comincia a gridaree dice:
- Oimè! o tu di' che 'l non senti; io aggiaccio -; e tira il copertoiocalzandosi con esso attorno attorno.
Dice Agnolo:
- Io non so che tu ti fai; tu mi lievi il copertoio da dossoe di' che aggiacci; io credo che tu sogni; a me non fa freddo: lasciami dormirese tu vuogli.
E come lo vedea posato un poco e per cominciare a dormiree Agnolo mantacava.
Il Golfo levasi a sedere sul lettoe grida:
- Io non ci voglio staree' debbono essere aperti gli usci e le finestre -; e guarda attorno attornoe poi guatava verso il palco.
Dice Agnolo:
- Golfose tu non vuo' dormirelascia dormire almeno a me.
Dice il Golfo:
- Alle guagnele! che tu non hai ragione; a me pare essere a campotanto vento viene su questo letto; nol senti tu?
- Io non sento- dice Agnolo- né vento né freddo; io credo che tu abbi i capogirli.
Il Golfo si rimette a giaceree Agnolostando un poco sanza soffiaredice il Golfo:
- Ora non mi par che ci sia il freddo che era dianzi.
E Agnolo si stette infin che 'l sentí cominciare a russare; e ricomincia adoperare il mantaco.
Il Golfo chiama quello della casache dormía in una camera vicino a quellae dice:
- Morto sie tu a ghiado che qui mi menastiche rovinare possa questa casa infino a' fondamenti! e' mi par esserecome se io fosse nudo sul monte al Pruno.
Agnolo da altra partemantacandodicea:
- Se Dio mi dà grazia che io esca di questa nottetu non mi ci coglierai mai piú; per certoGolfotu déi essere indozzatoio so ben ch'io sono di carne e d'ossa come tu e non sento questo giaccio.
Dice il Golfo:
- Buonobuono! sí che io sono smemorato che io non sento il vento che ci è! - e comincia a gridareuscendo del lettoe mettendosi suo' panni addossova alla cameradove dormivano degli altrie grida: - Apritemi per Dioché io son morto di freddo.
La brigata era stretta nel letto: aprironostando un pezzoa grande stentoe feciono alquanto luogo a Golfo che avea quasi il tremito della mortedicendoli chi una cosa e chi un'altrae ne fu per impazzare; e infine uno se n'uscí di quel lettoperché vi stava strettoe andò a dormire con Agnolo Morontidonde il Golfo era partitodicendo ad Agnolo:
- Che ha il Golfo istanotte? ha' gli tu fatto nulla?
Agnoloscoppiando delle risadice la novella dal capo alla fine. Di che coluiudito e veduto comegran parte della notte ne risono insieme.
La mattinalevato Agnolodicea:
- E’ par bene che 'l Golfo sia allevato nella città; io nacqui e invecchiato sono nella montagnadi che non mi curo né di freddo né di venti; e 'l Golfo gridava istanottequando un farfallino volava per la cameraper quello poco del vento che facea con l'alie.
Dice il Golfo:
- Ben eran alienon fossono elle state d'avoltoio! e' mi par mill'anni che io ne vada a Firenze nella camera mia.
E cosí si tornò con l'altra brigatadicendo che a quella festa né a quel luogo mai non tornerebbe; e Agnolo se n'andò in Casentinoavendo fatto appieno ciò ch'egli avea pensato.
Nuove condizioni e nuovi avvisi hanno li piacevoli uomenie spezialmente i buffoni. Costui aocchiò in tutta quella brigata il piú nuovo uomo che vi fossee chiese di grazia di dormire con lui per fare questa novitàla quale diede gran piacere a tuttie quasi un anno duròpoi che furono tornati a Firenzeil sollazzo che aveano del Golfoudendo le cose che dicea della gran freddura che avea aúto in quella camerae quanto n'era diventato ventoso. E fu forse cagione che n'andò poi al Bagno alla Porrettae non vivette diciotto mesipoi che la detta novella fu.


NOVELLA CCXXVI

La Castellana di Belcariveggendo passere da una finestrae poi un asinogitta un piacevol motto.

Alcuna inframessa è da dare a questi inganniperò che le piú volte n'escono cattivi scherzi; e voglio venire a certi motti venuti da piacevoli donne e onestecome che quelli paiano disonesti nelle parole. Verso la Proenza vicino al Rodanonon molto di lungi a Vignoneè una terra che si chiama Belcarie 'l suo principe si chiamava il Castellano di Belcarie la sua donna era chiamata la Castellana di Belcaridonna bella e valorosa e piacevole piú che altra. Stando costei a un balcone del suo palagio un giorno di primaverae avendo a piedi di sé la sua camerieraguardando verso una piaggetta vicina di rincontro dove augelli e bestiame molto usavaebbe veduto una passera calcare ben cento volte un'altrae scendere e saliree dire pi picom'elle fanno. E avendo l'occhio a questo giuocosopravvenne che un asino ragliandocon la ventura dirittacorre verso l'asina per dare nella chintana; ondelevato la donna gli occhi dal primo giuocoveggendo il principio e la fine del secondochiama verso la camerierae dice in sua lingua:
- O Marioneper mie foych'egli è meglio uno aiari che cento pi pi; che mala ventura ègiú e supi pie sali e scendipi pi.
La camerierao Marione che vogliamo direpiacevole anco ella moltodice:
- Madamaegli è bella ciosa a sapere vedere e conoscere la natura degli animali; lo passere rade volte fase non malee non è quasi se non da danno all'umana natura; l'asino è lo contrarioché porta e adduce per servire a noi; e nostro Signore volle nascere appresso di luie anco lo portòcome savete. Sí che a me pare che 'l vostro judicio diritto sia a parerve meglio l'opere dell'asen che quelle del passer; e io vorrei innanzi un asen che mille passere.
Dice la Castellana:
- Io non credeaMarioneche tu sapessi cosí la santa scritturache cosí bella oppinione con essa hai diffinita: e per certoal partito che piglierestinon mi pare che tu sia matta; ma tengo che aggi molto saggia la mente.
Marione rispose:
- In finemadamaio v'ho detto senza menzogna; se ho detto cosa di vostro piacereson molto contenta; se non l'avessi dettoserebbe difetto dell'appetito e dell'ignoranzadella qual vi domanderei continuo perdono.
E cosí si terminò questa disputazione.
Piacevole Castellanae piacevole Marioneche per passare tempo con sollazzo mosse questa opinione. E cosí li signori e le loro donne con piacevolezza spesso muovono detti che paiono sozzi e vituperosie nelle loro operazioni sono stati onestissimicome che chi disse: "Qui de terra estde terra loquitur "e altri assai tengono che di quello in cui uomo e donna si dilettadi quella materia li giova di parlare. Io credo che sono molti che parlano di cose non molto oneste per dilettoche negli effetti sono onestissimi; e cosí per e converso gl'ipocriti nelle parole e negli atti mostrano santi e negli effetti sono diavolicome già vidi alcuno che tanto avea diletto quanto pescava e stava nell'acquae non mangiava mai pesci; e cosí di molti simile si potrebbe dire.


NOVELLA CCXXVII

Una donna fiorentinaveggendo passere in amoregitta un piacevole motto verso la suocera.

Un'altra passera mi viene alla mente di raccontare con piú brevità. Nella città di Firenze morí già un gentiluomoe lasciò una sua donna con un solo fanciullo maschioil qualecrescendo con poca prosperitàe non molto di forte naturala madre ne facea gran guardia; e pureperché la famiglia non rimanesse spentali diede moglie una fanciulla baldanzosa e gaia e di forte naturae con questo piacevolissima; e ogni cosa consideratala madreavendo paura del mancamento del figliuolorade volte lo lasciava giacere con lei.
Avvenne per caso cheessendo questa giovene e con la suocera e con altre donne in salachi cucendo e chi filandoebbe veduta a uno orticello fuori d'una finestrao a uno tetto che fosseuna passera calcare l'altra spessissime voltecome hanno per uso; e subito dice:
- Buon per tepasserache non avesti suocera.
Le donneguardando l'una l'altracominciano a squittire delle risaed ella anco se ne rise; ma la suocera torse il capo e cominciò a borbottare; e la gioveneche uscí pur oltreche non parve suo fatto. Questa novelletta o motto si sparse per la terra in forma chequando alcuna donna si trovava con leidicea:
- Buon per tepasserache non avesti suocera.
Ed ellacome baldanzosase ne ridevae anco facea piú chiaro loro la faccenda con molte ragioni.
Spesso intervieneed è intervenuto a molteche è dato loro maritoe poi è loro tolto o prestato a certi lunari. E non so se questa via tiene il giovane con meno pericolo però che quando se ne fa gran carestiacon maggior desiderio si sforza poi la naturaquando si congiunge insieme. Credo chequando è dato moglie a un giovane per tale formasi doverrebbe fare ragione della compagnache non si marita perch'ella viva casta. E a molti è già intervenuto checominciando e non seguendo l'uso carnalele donne tavolta son ite cercando di mettere uno scambio in luogo del marito; però che molto è gran follia mettere fuoco in un pagliaioe non credere ch'egli arda. In tutte le cose chi si veste i panni del compagno non può errare.


NOVELLA CCXXVIII

Il duca di Borgognaandando a vedere certi suoi tesorieri in piú partis'abbatte a uno che non ricevendolo riccamente li dice che è la cagione; diceli che non vuole rubare; e quello che ne segue.

De' mottetti che certe piacevole donne hanno già detto ne sono assaicome per a drieto d'alcune è narrato e come innanzi forse se ne potrà direcome alla memoria verranno; ma ora voglio dire una novelletta che potrà essere esemplo a molti.
E’ fu già uno duca di Borgognavalentrissimo principeil quale si disposecome spesso s'usaandare per gran parte del suo tenitorio e vedere gli suoi officialiche erano per quelli luoghie spezialmente li suoi tesoriericome facessono e come si portassono. E giugnendo alle magioni di sei suoi tesorieri che in diversi luoghi eranodalli cinque primi riccamente e onorevolmente fu ricevutoe in bellissimi palazzi; dal sestoch'era il piú vecchio e piú anticamente v'era statofu ricevuto in piccola casetta assai debolmente. Il ducaciò veggendosi maravigliae conta al tesoriere de' palazzi e dell'onore che gli altri gli hanno fattoe domanda quale di ciò sia la cagione. Risponde allora il tesoriere:
- Monsignores'io avesse voluto rubare e imbolarecome per avventura fanno degli altriio averei ricca e bella magione; ma io mi sono vissuto forse con troppa lealtàa volere vivere riccamente come quelli che raccontate.
Disse il duca:
- E io voglio che tu rubi e facci come gli altriacciò che con bella magione io ti truoviquando altra volta io rivenisse qui.
Disse allora il tesoriere:
- Poiché cosí vi piacee io lo farò.
E lo duca l'altro dí si partí e tornò a casa. E stando per ispazio d'un anno e mezzo o piúsimilmente tornò a rivedere i suoi tesorierie giunto a casa di costuie veduto ch'ebbe gli altriniuno a rispetto di questo era da vedere; e cosí della vita che faceail simigliante. Onde il duca chiamò lo tesorieree disse:
- Io ho compreso che tu sai fare e bella vita e belli palazzi con la licenzia ch'io ti diedi; e considerato che tal cosa puote venire in pregiudizio di moltie forse piú in danno di me che degli altriio non voglio che da quinci innanzi tu imbolio abbi piú: tu hai bella magione e piú ricca che alcuno degli altricon quella ti riposeraie con quella come mio tesoriere riccamente ognora mi potrai ricogliere.
Risponde il tesoriere:
- Monsignoreio di primiera tenea la via che ora volete che io tegnae a voi piacque che quella piú io non seguissema che io seguisse la contraria; la quale in poco tempo ho sí ben compresa che alla prima non saprei per alcun modo ritornare.
El duca disse che al tutto non volea che piú imbolasse o rubasse. Lo tesoriere rispose non saperlo fare; e pertanto li piacesse tòrre il suo palazzoe ogni tesoro e avere il quale aveae un altro tesoriere prendesseperò ch'egli era vecchioe piú per lui non facea. Lo duca poté assai direche mai costui non si rivolsetanto che lo licenziò e lasciollo partire da sé con poco averee tolsene un altro.
Cosí si partí da giuoco questo saggio tesorieree forse volentiereper non perdere l'anima per lo duca; e questa serebbe stata gran virtúavere usata una medicina per lo contrario e lasciare il buono e 'l male acquisto al duca. E forse avea assaggiato sì il boccone dello imbolare e del rubare che non li dava cuore di vivere altrimente; e questo serebbe stato gran vizio. E non si maravigli alcun lettore di ciòperò che vulgarmente si dice che chi comincia a imbolarenon se ne riman mai. Ma lasciamo andare queste due opinionil'una buona e l'altra rea... dello tesoriere. In questa novelletta si comprende chiaramente quello che dicono certicioè che lealtà... lendini. E ben si vede nel moderno tempo. Chi fa e chi possiede le gran ricchezze o' gran palazzida qual via o da qual parte hanno aúto principio? ché le piú hanno fondamento di furti o d'imbolareo vero che ogni cosa si chiama guadagno; e li piú in questo latino trascorronoe fannosi la minestra come a loro piace. Ma una cosa ci èche Colui che 'l tutto vede fa poi li taglierie taglia come a lui pare che si convenga.


NOVELLA CCXXIX

Maestro Jacopo da Pistoiafacendo una sepoltura a messer Aldighieri degli Asinacci da Parmafa diverse beffe a un preteed elli si gode il suo.

Messer Aldighieri degli Asinacci da Parma volle procacciare da fare la magione della mortecome il duca di Borgogna quella della vita. Questo messer Aldighieri fu gran cittadino e molto innanzi con messer Galeazzo Visconti; al quale venendo voglia di far fare una ricca sepoltura di marmoessendo a Melano un grande maestro fiorentino d'intagli di marmichiamato maestro Albertoe lavorando il piú del tempo della sua vita a petizione del detto messer Galeazzoveggendo lui non potere averevolle il suo consiglio donde ne potesse aver uno che 'l detto sepolcro li facesse; ed egli consigliatolo d'uno maestro Jacopo da Pistoiachiamato Pistoiaed essendo mandato per luifu tutt'uno.
Era questo maestro di strana condizione; il quale venutoe accozzatosi con messer Aldighieri nella magione di Santo Antonio in Parmadove il detto sepolcro si dovea faree rispondendo nuovamente e alla traversa spesse volte a messer Aldighierilo fece pensare piú volte non essere costui uomo da fare il suo lavorío. Ma pur immaginando che maestro Alberto gli l'avea accattato e che valentre artista di ciò dovea esseresi fermò di sofferire la sua fantasia e dare alla sua opera effetto. E ordinando il detto maestro d'andare a procacciare per lo marmo a Carraraebbe compreso e veduto un giovane prete di quel luogo come morbidamente viveae come avea una pulita camerae come di quelli dí se n'era andata una sua femina. Si partí con uno nuovo avvisoe giunto làe avendo dato ordine al marmosi ritornò a Parma. Dovetirando un dí il prete da parteli disse che a Carrara avea trovata una giovanela quale da lui s'era partitae che uno vecchio se la teneaed era molto copiosa d'avere; ma pur ella stava sì mal volentieri con lui chese elli andasse per leila se ne menerebbe. Lo preteche altro non desideravapensò subito di mettersi in cammino e andare a Carrara.
Ito il preteil Pistoia fece tanto con messer Aldighieri che la camera del prete convertí a suo usoe venneli ben fattosalvo che 'l fiato della feminaal quale la camera era molto usataa lui molto non piacea. Andando lo prete a suo viaggiopassando per Lunigianada malandrini fu preso e rubatoe cosí male in arneseuscito delle loro maniseguí il suo viaggio.
Giunto a Carraraguarda e riguardaa ogni pezzo di marmo si volgeacredendo fosse la femina sua; e in fine non veggendolacominciò a domandare. Ciascuno si strignea nelle spalledicendo che niente ne sapeano; onde cosí rubato e smemorato si ritornò a Parma: là dove giugnendo dove il Pistoia eradisse che mai trovato l'amica sua non avea; ma avea ben trovato malandrini che l'aveano spogliato d'ogni suo bene. Lo Pistoia rispose a lui parere gran fatto; madovendovi a pochi dí tornarevedrebbe chi di loro fosse che dicesse il vero. E ritornò l'altro dí a Carrarasanza vedere quello che vedere non potea né volea; si ritornò a Santo Antonio a Parmae 'l primo che li si fece innanzi fu lo preteal quale subito disse il Pistoia:
- Se voi sete ciecoch'è mia colpa? io la vidie ancora piúche di sua mano mi diede bere e dissemi che se voi vi andassi (che gli pare mill'anni)di subito se ne verrebbe con voi e piú tostoper partirsi da quel vecchio malagurato.
Il preteciò udendosubito fu mossodicendo al suo maggiore che andava a suo paese a vedere certi parenti; e cosí partitosigiunto a un altro passofu da robatori ancora spogliato; e con tutto ciòcaldo d'amore e freddo di vestimentoseguí pur il suo cammino. E giunto a Carrara cosí scamiciatodomandando molto piú che la prima voltae con questo consumandosi e nulla trovandotristo tristo si tornò a Parma; e al maestro Pistoia raccontò la sua sventurae come niente mai avea trovato. Il Pistoia si segnòdicendo:
- O ella canta unae fa un'altra! o jamo... come si dice; e questo è che quando siete dov'ellae voi non vedete.
Dice il prete:
- O vuole cieco o vuole alluminatoio non sono per andarvi piúe di quello che io sono itomi pento; - e con questo il prete cominciò a cantare la canzone di maestro Antonio da Ferrara: - Egli è molto da pregiareChi ha perduto e lascia andare .
E 'l meglio che poteo si cominciò a rassettare nella camera sua; dalla quale dubitando il maestro Jacopo non li convenisse partiredormendo insieme col prete nel suo lettopiccolo a duema ben fornitopensòpoiché piú non lo potea mandare a Carrarad'ingannarlo altramente. Onde li disse che di quelli dí che v'era stato avea trovato nella camera una gran serpee alcuna volta nel letto.
Il pretepauroso di ciòcome si dee crederedicea ciò mai non avere veduto elli; e se ciò eraelli abbandonerebbe Parmanon che la camera.
Disse il Pistoia:
- Forse non è quello che mi pare; ma se pur fiaqualche cosa per innanzi ne vedremo.
Stando il prete sbigottitoe 'l Pistoia avendo tesa la trappolaandò tanto che trovò una pelle d'anguillala quale di suoi artificii empieo; e acconcialala notte vegnente dormendo insiemela cacciò tra' piedi al prete; il qualesubito gridandoschizza fuori del letto. Il Pistoia mostra di destarsi e dice:
- Che è?
Lo prete gli lo dice. Allora il Pistoia racconta al prete che guardi che al buio non li ponesse piedeche subito co' morsi velenosi l'ucciderebbe. Dice il prete:
- Come n'esco? io ci vorrei uscire.
Il Pistoia allora dice:
- Io sono della casa di San Paulose io li ponesse piedenon me ne curo; se voi volete io vi porterò... per quella scalettatanto che io vi caverò di qui.
Il prete pauroso dice:
– Io ve ne priego per l'amore di Dio.
Il Pistoia s'accosta allora a una cassae 'l prete li si cala addosso; e con questa soma ne va a uno uscettodal quale scendea una scaletta in una stalla; e quando fu a mezza scalafacendo vista d'incespicaregetta il prete a terra della scala nella stalla; e rammaricandosi forteil Pistoia ancora si doleafacendo vista d'aversi travolta o rotta la gamba. E lo preteavendo un gran cimbottostette parecchi dí nel lettodicendo che una gran serpeapparita nella sua cameran'era stata cagioneil perchéfuggendo di notte dalla tal scalaera caduto; e che 'l maestro Pistoia non se ne curavadicendo che era ciurmato:
- Steavisi sanza astioche ivi non son io per dormire mai piú.
E cosí maestro Jacopo ebbe la camera libera; e 'l prete si dormí buon tempo con un altro prete assai strettamente. Davali il Pistoia spesso a credere nuove cose di questa serpee come s'era avvezzo con leie non gli farebbe maleperò che era ciurmato ec.
Io mi credo che se 'l prete avea commesso assai peccato in tenere quella feminamaestro Jacopo non avea commesso minorema maggiore peccato...


NOVELLA CCXXX (frammento)
...............
... credette essere divorato dicendo:
- Che romore è quello? - fu segno che quasicome quelli che avea il battito della mortenon conoscea quello essere il raglio dell'asinoe comincia a chiamare Filippo.
Filippo a nulla risposese non che quelli due dissono:
- Priega per l'anima.
Allora il Bateaddolorando piú che maied essendo quasi tre ore di notteessendo per loro menato l'asino in un certo luogonel mezzo d'una pianiera strada lo scaricarono a traversoe lascioronlo stare tutta la notte.
La mattina la brigatae Filippo con lorosi levorono per tempoe andorono a Firenze e lasciorono che quelli dueche erano due contadinila mattina di buon'ora facesson vista d'andare verso Firenze e vedessono ciò che del fatto seguisse. I quali cosí feciono; e giugnendo al luogosí come furono informati con altri che anco passavonoveggendo un sacco pienoe 'l buzzicare e 'l dolersisí fanno vista di maravigliarsifacendosi il segno della croce. E sciogliendolodicono:
- Buon uomochi se' tu?
Quelli si duolee dice ciò che gli è intervenuto; e guardando attornodice:
- Ove son io?
Coloro dicono:
- E’ serebbe meglio a stare in infernoche stare in questo contado; che è a direche allato alla porta sieno gli uomeni presi e insaccati!
Dice il Bate:
- E’ m'hanno tutta notte martoriato in questo saccoe lodato sia Iddiopoiché qui sonoche non m'hanno morto; ma io credo ch'egli abbino morto Filippo Baronich'era il maggiore amico che io avesse in questo mondo.
Dicono i contadini:
- Loda Iddiopoiché tu se' qui.
Dice il Bate:
- E io lo lodo e ringrazioche non so ancora dov'io mi sia.
Dicono coloro:
- Se' presso a Firenze un miglio.
Il Bateessendo alquanto rivenuto in séprese commiato e passo passo se ne venne a Firenzee giunto in via Maggiola novella era sparta come da dovero fosse; e ciascuno lo guardava per maraviglia. Li suoi compagni gli si faceano incontro; e quelli dicea:
- Voi la levaste meglio di me; saprestemi voi dire quello che è di Filippo Baroni?
Dicono che n'è beneperò che l'aveano preso e scampato. Quelli dice:
- Lodato sia Dio sempreche io averei giurato che gli avessono segate le veni -; e mai non ristette che lo trovò e disse: - Come se' tu campato? io t'udi'si può direfacendo l'atto della golaquando t'uccisono.
Disse Filippo come cauto: - Quando tu udisti quello attofu che mi voleano uccideree io presi uno di loro per la canna e avere' lo strangolatose non che allora io mi fuggi'.
Lo Bate credette ogni cosae botossi di non andare piú a cena fuori della porta; e botossie fecesi fare in un sacco di cera co' malandrini d'intornoe mandollo a Cigoli. Li Fiorentini di questo caso impaurironoe chiamorono uno bargello del contado; e la cosa stette gran tempo segretaavendo chi la sapea gran dilettoquando faceano dire al Bate tutti gli andamenti.
Egli è bella cosa a trovar nuovi sollazziper passare tempoma questo fu de' novissimiperò che non era gran fatto se elli se ne fossi morto; ma io credo che quella notte gli fosse un gran purgatorioperò che prestava a usurae anco avea degli altri vizii assai brutti.


NOVELLA CCXXXI

Donnellino vende due oche a una donna a un nuovo pregiosí ch'egli ha da lei ciò che vuole; la lascia vituperata e con danno e con beffe.

Questa che segue fu una gran beffae in gran vergogna e danno d'una donna. Fu in Firenze un giovene chiamato Donnellinopiacevolissimo quanto alcun altro. Questo Donnellino era tenuto di dare a uno cittadino fiorentino un paio d'oche per la festa d'Ognissanti; di che si levò quella mattina per tempoe comperò le dette ochee portatole a una fantina che le portasse; giugnendo presso a San Frianosi recò l'oche in manoe una bella donnavedendoledisse alla fante:
- Chiama quel forestiero -; credendo che fosse uno villano.
Lo chiamòed elli venne corteseed ella il domandò se le vendea; e Donnellino a nulla rispuoseperò cheguardando la donnache era bellissimadisse:
- Io non le vendoma io le dono a voie altro non ne voglio che solo basciarvi.
Disse la donna:
- Siàn noi sul motteggiare? io ti dico se tu le vendi.
Donnellino sta gran pezza come mentecatto. Dice la donna:
- O che non rispondi?
E Donnellino dice:
- Madonnavoi m'avete feritocome che forte sono innamorato di voie siete quella che il cuore m'avete toltosí che morto mi sentose non m'aiutate. Vi priego dunquedonna caraaiutate un vostro servo... spirito da me si partee togliete l'ochee una volta mi contentate... resuscitarmi da morte.
La donnaveggendo parlare sí disonestamentegitta... e dice:
- O che di' tu? a cui credi tu direche Dio ti maladica? chése 'l marito mio t'udissee' ti farebbe giuoco che mai mangeresti piú al mondoe ben ti starebbe che t'uccidesse.
Ed elli disse:
- O donnaio fo... che vostro marito mi...
Disse la donna:
- Non ci dare piú brigavattene con esse; chése elli ti ci giugnete n'anderai con mal commiato; ti consiglio per lo migliore.
Donnino dice:
- Poiché vi piacee io me n'andrò...
Dice la fante:
- Buono! madonnase potete guadagnare quell'oche per cosa che non si può sapere dalla genteché non le guadagnate?
La donna dice:
- O questa è ben piú bella novella! guarda quello che questa fancella dicesozza che tu se'!
Ed ella adirata risponde:
- Meglio farete a torvele; per una volta che 'l baciatecredete voi che ve la scemi?
La donna dice:
- O questa è ben nuova cosa a volere dare altrui questo consiglio! guarda... per luise elli te le vuole darepigliale da lui; e se non le ti vuole darevedi ben quello che mi consigli.
Allora la fante vuol cominciare a chiamarlodicendo:
- O buon uomo dell'ochetorna qua.
E Donnellino torna e dice:
- Che voletemadonna?
La donna dice:
- Ti vuol questa mia fanteed ella ti...


NOVELLA CCXXXII (frammento)
Lo re Filippo di Francia manda allo re di Spagna per un cavalloil quale abbia tutte le proprietà di bene; e quelli li manda uno stallone e una cavallae dice se ne faccia fare uno come li piace.


NOVELLA CCLIV

Uno piacevole motto che uno disse sul punto estremo della sua morte non gittò minor frutto che facessono le parole di messer Ottone Doria. E’ fu già grandissima guerra tra Catalani e Genovesie come spesso incontrale guerre vengono spesso sí crudeli e sí perfide chesanza alcuna discrezione e umanitàcon ogni modo disperato l'uno uccide l'altro; e li Catalani l'hanno aúto molto per costume. In quelli tempiarrivando una galea di Genovesi o d'altra nazioneche con loro teneanelle mani d'un'armata di Catalani della quale era ammiraglio un uomo sanza alcuna pietàvolendo vendicarsi d'alcuna offesa in quelli dí ricevutacon animo fellone e sdegnoso dispose di gittare in mare a uno a uno tutti quelli di quella galea; eper maggiore dilegionedare prima mangiare a uno a uno mezzo panattelloo mezzo biscottelloe dopo quello mangiaredire: "Va'bei"; e gittarli in mare.
E cosífacendo questa crudeltà insino a trentatoccò a uno di venire a cosí fatto judicio; il qualementre che mangiava il panecon le mani giunteinginocchionedisse all'ammiraglio:
- O monsignorequesto è piccol mangiare a tanto bere.
Udito l'ammiraglio costuio che l'aumiliassono quelle paroleo che avesse pietà de' modi che a costui vidde fareperdonò a costui e a tutti gli altriche erano piú di cento che l'uno dietro all'altro aveano a fare cosí aspra morte. E quando vide tempo e modoli mise in terrae lasciogli andaree tolsesi il corpo della galea.
In questa novelletta si puote comprendere di quanta virtú sono le parolequando uno mottetto d'uno vile marinaio si può dire avesse tanta virtú che uno cosí crudele ammiraglio facesse diventare umile. Ben si può comprendere quanta virtú dee essere nell'orazionequando si fa a Colui che è Somma Misericordia; nessuna cosa è che tanto vaglia all'animaquando è detta per forma che vegna dal cuore. E nessuna cosa mosse mai il nostro Signorequanto questaa dare salute all'anima di colui che l'ha detta con puro cuore. Esempli ne sono assaiche serebbe lungo il contarlicome la Evangelica e la Santa Scrittura ne dimostra.


NOVELLA CCLV ( frammento)

Messere Albertaccio da Ricasoli allega a un suo fratello una usanza di Franciache si fa per luiquelli ne allega un'altra che 'l vince.

Piacevol motto fu quello che è seguíto tra due gentiluomeni fratelli fiorentini. Fu nella nostra città uno cavaliere valoroso e moralechiamato messer Albertaccio da Ricasoli; il qualeper divisa che avesse a fare con li suoi fratellio per questione che avessono per lo divideredisse...considerando l'usanza di Francia; quanto è gran ritegno di no...


NOVELLA CCLVIII

Ser Francesco dal Poggio a Vico vuole mandare pippioni a vendere; la mattina truova essere morto l'asinoche gli dovea portareda un lupo; e 'l lupo è poi morto.

Se al signoredi cui abbiamo detto nella precedente novellafosse incontratodell'avere robato quello mercatantecome incontrò a un lupo di quello che rapí in questa novellamolto bene gli stava. Fu già ne' dí miei un notaio in Valdisievecontado fiorentinoil quale era chiamato ser Francesco dal Poggio a Vico.
Avea costui una bellissima e grande colombaiae avendone tratti gran quantità di pippioniuna domenica del mese di luglio disse e ordinò col fante suo che 'l lunedí mattina all'alba si dovesse levare e sellare l'asinoe andare per lo fresco a Firenze a vendere i detti pippioni. Il fante disse di cosí fare; e andatosi la sera al lettoacconciato l'asino e datagli la biadaquando fu un pezzo fra notteun lupo passando ebbe sentore di questo asino; e guardato una finestra aperta e non ferrataalta poco piú di tre braccias'avventò a quella e gittossi dentro. E 'l giugneree 'l dar di piglio all'asinoe mortoe pascersi di quella carnaccia per gran spazio di nottefu tutt'uno.
Quando fu pieno quanto poteacominciò a saltare verso la finestra dond'era entratoe non vi giugnea a due bracciaperò ch'egli avea pieno il ventree delle busecchie avea fatte salsicce d'asino; sí che la cosase all'entrare era stata leggieraall'uscire non v'era modotant'era gravissima. E cosí riprovandosi il lupo tutta notte di uscirnee non potendogiunse l'albaquando il fante si dovea levaree chiamandolo ser Francescoil fante si levò; e non avendo lumeandando nella stalla per sellare l'asinopigliando la sellacredendola mettere all'asino la volea porre in sul lupo. Il lupocome è di loro usanzamai non istette fermo. Di che il fante cominciò a gridare:
- Istàche sie mort'a ghiado! - e seguendolo gran pezzoper metterli la sellacredendo quello essere lo asino il lupo continuo avvolgendosiil fante continuo gridando: - Truteistàche ti scortichi!
E ser Francescodestandosi al romoredice:
- O verra' ne mai a capodoloroso? lasciati pur còrre al dí.
Il fante risponde:
- Come diavolo! ché mi levai ben un'orae per cosa che sia non posso mettere la sella a questo asino!
Ser Francescoche non volea ch'e' pippioni soprastessinosubito si lievae toglie un lume e va alla stalladicendo:
- Quest'asino non suole mai fare questo -; e giugnendo nella stallapercosse nell'asino morto con le gambein forma che quasi fu caduto; e dice al fante: - Fatti qui: ov'è l'asino?
E 'l fante risponde:
- Andò testè in quel canto -; e chinando il lumevede l'asino morto e sbudellato; e alzando il lumevede il lupo là ricantucciato.
- Alle guagnele! - dice ser Francesco- noi abbiamo poco ben fatto; l'asino è qui mortoe costà è il lupoche l'ha devorato: serra la finestra...