|
![]() |
by
![]() |
![]() ![]() |
GIOVANNI PASCOLI
NUOVI POEMETTI
[1909]
II
PAVLO MAIORA
AI MIEI SCOLARI
DI MATERA MASSA LIVORNO MESSINA
PISA BOLOGNA
A voi che mi conoscete. A voiai quali non avrò sempremostrato molto ingegno e assai dottrinama animo onesto uguale sincerosìsempre. A voiai quali non credo aver dato mai esempi di prosunzione e diambizionedi malevolenza e di maldicenza. A voiinfineai quali io devo moltopiù che non diedi.
Perché vi devo l'abitudine di supporre sempre avanti me chescrivocome ho avanti me che parloanime giovaniliche è dovere e religionenon abbassareraffreddareviolare.
Così voi mi avete beneficato.
Così io sono lieto d'aver unito alla divina poesial'esercizio umano che più con la poesia si accorda: la scuola
Bologna24 giugno 1909.
Giovanni Pascoli
LA FIORITA
IL PITTIERE
I
Oh! tutti i giorni e tante volte al giorno
s'erano visti! L'uno era in orecchi
sempre che udisse spittinire intorno.
E s'ei tornava a casa con due stecchi
o due vinciglil'altro lo seguiva
da ramo a ramo. Erano amici vecchi.
Ma oggitutto maraviglia viva
nel petto rossol'uno alzava a scatti
la coda al dorso di color d'uliva.
Parea dicesse: - O dunque fa di fatti!? -
Ora alïava in terra tra lo sfagno
ora volava in cima a gli albigatti.
Con gli occhi tondi aperti sul compagno
molleggiava sul cesto e su l'ontano.
L'altro sedeva al calcio d'un castagno
con una vetta e un coltelluccio in mano...
II
Pareva savioun altro! Il suo coltello
fece alla vetta torno torno un segno
ugualenettoe un piccolo tassello.
Ed egli poi con arte e con ingegno
torse la buccia tra i due pugnie trasse
fuor della buccia umido e bianco il legno.
Tagliò del legno quanto gli tappasse
quel cannoncelloma non tutto e troppo.
Scese il pittiere su le stipe basse.
Provò se il fiato non avesse intoppo
soffiando un pocoe si drizzò contento.
Frullò il pittiere sur un alto pioppo.
Poinella selvacoi capelli al vento
lungo il ruscelloil fanciulletto Dore
col flauto verde annunzïò l'avvento
dei fiori brevi e dell'eterno amore.
III
O primo fiore! o bianca primavera!
Hai gli orli rossicome li ha l'aurora
e il sole biondo è nella tua raggiera!
Dore sonava. All'uccellino allora
sovvenne il nido. Alzòpartendoil canto
che lànegli alti monti ove dimora
canta alle solitudini soltanto.
IL SOLITARIO
Stette sul botrostette su lo scoglio
drittosonando il flauto di corteccia:
l'acqua rispose con un suo gorgoglio.
Intese la diana boschereccia
il vecchio boscoe la vitalba volle
togliersi i bianchi bioccoli alla treccia.
E passò l'acqua e risalì sul colle:
per tutti i poggi il sufolo selvaggio
schiudeva i bocciapriva le corolle.
Pioppi ed ontani pendereal passaggio
facean dai rami ciondoli e nappine;
chiedea l'avornos'era giunto maggio.
Metteachi fiori non poteale spine;
mettea le gemme l'albero più brullo:
piovea la querciavergognando alfine
le vecchie foglie a' piedi del fanciullo.
II
E il bel fanciullo nella lieta ascesa
passòcol fresco flauto tra le dita
presso macèe che furono una chiesa.
Pur v'è qualcosa della scorsa vita
poiché vi canta all'apparir del nuovo
giorno ed al vespro il passero eremita.
Vi canta ai biacchiche lì hanno il covo
ai grillialle lucertole che destre
vengono a guizzi di tra il cardo e il rovo.
Dore intonò col sufolo silvestre
la sua fanfara del ritorno; e il suono
sparse per tutto un vago odor cilestre:
per tutto un casto odoreun odor buono
dov'era già il sagratodove pare
fosse la crocedoveignotisono
sepolti i morti sotto il morto altare.
III
Viole castepallide viole!
Il fiore vama lascia un seme e il miele.
Apriteo fioriall'ape che vi vuole!
Il solitario udiva. Eccoe fedele
alla rovinaprese alcun fuscello
radiche e scorzecrini e ragnatele;
e fece il nidooh! rozzo assaima bello.
LA RONDINE
I
E fu tra i campi e stie' su l'altipiano
Doresonando. Ed ecco che un susino
bianco sbocciò sul verzicar del grano.
Come un sol fiore gli sbocciò vicino
un pescoe un altro. I peschi del filare
parvero cirri d'umido mattino;
d'un bel mattino a nuvilette chiare
rosate in cimache dall'Alpi d'oro
guàtino ancora palpitando il mare.
Usciano le api. Ed or s'udiva un coro
bassoun brusìo degli alberi fioriti
un gran sussurroun favellar sonoro.
Dicean del vernosi facean gl'inviti
di primavera. Per le viti sole
era ancor prestoe ne piangeanle viti
a grandi stillein cui fioriva il sole.
II
Nell'aiasotto un prugnosur un mucchio
di pioteegli chiamò le rondinelle
Dorecol flauto di castagno in succhio.
Le voci fuori ne traea più belle
e più lontane. Ed ecco che su l'aia
vide due rondini alïare snelle.
Svolar le vide sotto la grondaia
e poi sparire; e ritornar più tante
tornare in quattroin ottoin diecia paia.
E stava sotto il prugno tremolante
di bianchi fioritra il girar veloce
di tante nere rondinelle sante.
(Avean Gesù pur consolato in croce!)
Forse mancava a casa lor qualcosa:
parlavan altotutte ad una voce...
E su la soglia ecco che venne Rosa.
III
Torna la rondine! È fiorito il prugno!
Il prugno è in fiorein succhio è già il castagno
Qualedi marzoquale è in fiordi giugno.
Rosa tenea nel gomito il cavagno
pieno di ghiomi. Stette fissa al grido
del buon ritorno. Ognunail suo compagno!
L'albero ha il fiore e la rondine il nido.
LA CINCIALLEGRA
I
E poi cantò la cinciallegrae Rigo
tornò. T'avea sognata sul mattino
t'avea sognata tra un odor di spigo
sognatao Rosain un candor di lino
candor di fiori prima della foglia
senza una fogliao candido armellino!
Avevi i piedi ignudi su la soglia
tremavi come un armellino in fiore
che trema tutto al vento che lo spoglia.
Era rimasto a Rigoquel tremore;
nel cuore suoche per due cuori accanto
avea battuto un attimo... o quante ore?
Gli era rimasta una dolcezzaun pianto
per lei come pel bimbo che non parla!
Or pregherebbe come avanti un santo...
E vide Rosae non ardì guardarla.
II
Cantava a leich'era a ronzar nell'orto
la cinciallegrae l'era Rigo a mente
quando lo videlieto insieme e smorto.
«Rigo!» E lasciò cadere la semente
che aveva in grembo; e vide sésmarrita
tutt'arruffatacon le vesti scente...
Si ravviò con le veloci dita:
pareano i segni che si fanno in chiesa.
Sfiorò d'un tratto fronte spalle vita.
Come pareva anche più bellaaccesa
in visosfatto il nodo biondoun piede
ignudo fuor della gonnella tesa!
«Oh! quant'è mai che non vi si rivede!»
«Il babbo è indietro con le sue faccende:
gli legherò due viti o trese crede...»
Poi mormorò: «Ben rende chi ben prende».
III
Squittian nel sole sopra la fanciulla
chiedeano a lui le rondinelle nere
chiedeano: - Ed ora non le dici nulla? -
Ma Rigono; perché volea vedere.
- Sei tu che vieni a me tutte le aurore?
Sei tu che torni a me tutte le sere?
Faquando s'apreun fiore più rumore... -
IL TORCICOLLO
I
E dicea - Cincin... pota Cincin... pota-
la cinciallegra; e un canto uscì dal prato
d'erba lupina: un'altra voce nota.
Potava il babbo; lasciò star pennato
forbici e torchie poi seguìfischiando
anch'esso un po'l'altro messaggio alato.
Prese la vanga (questo era il comando
dell'altro uccello) dalla punta d'oro;
andò la bricia a tirar sucon Nando.
Poi spicciolò nel campo il suo tesoro
di chicchi d'oro; e gli diceaFa piano!
quell'incessante piagnisteo canoro.
Dicea: - Bada! Il granturco non è grano:
ben altra rappa nascerà da un chicco! -
Quasi parea glieli contasse in mano
dicendo: - A uno a uno! Non sei ricco! -
II
Poi l'ammoniva ch'era giunta l'ora
di seminar la canipa. Ma poca!
E tristo a lungo ripeteaLavora!
Ei t'ubbidivao poverella fioca
canipaiola: e seminò ben fitto
dicendo: «Non mai vincechi non gioca.
Il più del seme ai passeri lo gitto
per certo! È il meno che doventa tela».
Però d'intorno non s'udiva un zitto.
Ma il torcicollo a cui nulla si cela
avanti o dietroe che giammai non erra
cantava pur la lunga sua querela.
Ei li vedevai figli della terra
color di terrache tendeangl'ingordi!
Forse pensava: - E l'uomo muove guerra
per via di loroai torcicolli e a' tordi! -
III
Ma l'uomo fece un uomo d'una cappa
e d'un cappello. «E' vi darà buon conto!»
diceva: e se n'andò con la sua zappa.
Scesero allora i passeri. Il tramonto
era dorato. Erano cento e cento...
- Oh! il poveruomo! Ha l'alial volo è pronto;
ma è confittoe lo patulla il vento! -
IL CUCULO
I
Rigomentr'era buona ancor la luna
potava. Avevaa raccattar le brocche
la bionda Rosa e la Viola bruna.
Allegre. Oh! d'un viticcio tra le ciocche
ridean mezz'ora! e poi diceanridenti
col fascio in capo: «Siamo o no due sciocche?»
Rigo seguiva il loro andar con lenti
sguardicol tralcio che torceva in mano
ed un vinchietto tremolo tra i denti.
Ché s'affrettava. Era già alto il grano
avean le gemme l'uva in bocca. - O vigna! -
pensava: - il cucco già non è lontano! -
Pensava: - Il ben nel presto non alligna. -
Ma sìpotavapoi torceva a modo
il capo buonoquel che fa la pigna;
e lo legava con vie più d'un nodo.
II
Sì: presto e bene. E già finiva il tutto
quasi; e non s'era inteso il doppio accento
del cucco: - Un giorno molleun giorno asciutto; -
non s'era inteso annoverar tra il vento
dolce le viti ancora da potare
cuculïando il contadino lento.
Era all'ultima vite del filare
Rigoe le donne all'ultimo fastello;
e venne il canto da di là del mare.
Con la sua mucca risalìa bel bello
la mammae il babbo la scontrava in via.
Dore si ritrovò col suo fratello.
«L'ultimo nodo!» Rigo gridò: «Via!»
Rosa premeva il fascio coi ginocchi...
C'erano tuttiin pace e compagnia
col sol morenteche splendeanegli occhi.
III
Avea finito. E stettero alcun poco.
E teste bianche e teste bionde e nere
splendean sotto le nuvole di fuoco.
Udiano le due voci delle sere
di primaveralimpide e sonore
così lontano che parean non vere
così vicine che parean del cuore.
LA CAPINERA
I
Su l'alba Rigo udì cantar gli uccelli.
Parlavanora che nessun li udiva
tra lorode' lor piccoli castelli:
castelli in aria; in vetta a un meloin riva
a un botroappeso a un travedentro un muro
nel buco d'un castagno o d'un'oliva.
Il cinguettìocosì tra lume e scuro
cessò d'un tratto. Era comparso il sole.
Sparì ciascuno nel bel giorno puro.
E Rigo in cuore preparò parole
da dire a leiridireda vicino..
Oh! era tempo! E tutto può chi vuole.
Via via le rimutava in suo cammino
per via le fece belle a poco a poco...
Rosa stendeva sopra un biancospino
l'accia filata nell'inverno al fuoco.
II
E' parlò d'altroe disse in fine: «O Rosa...»
Rosa aspettava. «Tutte l'altre vanno
a nozze; e voi non vi farete sposa?»
«Mia madre non è quella d'or un anno.
Come faceva! come lavorava!
Ma ora fa le scale con l'affanno.
Viola è sempre piccolaed è brava
ma per le bestie. Orachi fa mangiare?
chi cuce un po'? chi tesse un po'? chi lava?
Da farein una casanon appare
ma c'è n'è tanto. E i bimbi? se sapeste!
Dore è piccinoa me mi sembra un mare.
Ora chi li rammenda e li riveste?
Ché tutti i giorni manca lor qualcosa.
Tutti i giorni! Non dico poi le feste...»
A lui così tu rispondestio Rosa.
III
E quando venne l'ora del ritorno
Rosa era allegrae Rigononon era.
Andava cupo sul morir del giorno.
E chiedeva alcunché la capinera
alto cantando con la voce chiara;
oh! non a lui! Ché nella rosea sera
le rispondeva un'altra voce cara.
LA LODOLA
I
Cantar gli uccelli Rigo udì su l'alba.
Parlavan piano di bambagia e piume
e fili e peli e pappi di vitalba.
Dei lor lettini essi garrian tra lume
e scuro. E venne il sole. E frullò via
ciascunoal boscoal pratoal campoal fiume.
- Casa mia! - pensò Rigo - una badia
tu sei davverocon un fraticello
romito e soloo trista casa mia!
E ci sarebbe pure tanto bello
se lei vedessi tutte le mattine
girare in pianellette ed in guarnello... -
Così pensavaepasso passoalfine
vide i cipressi neri della Pieve...
Rosa piegava una sua tela fine
che avea tessuta i giorni della neve.
II
Aveva i péstiaveva pianto. «O Rosa!
Rosaavete le guance scolorate
avete piantoRosa. Per che cosa?
Voi fate troppoautunno verno estate.
Rosase non lavatevoi stendete!
Rosase non tessetevoi filate!
Per voi non c'è momento di quïete.
Tutto tenete lindo netto asciutto
lustrate ogni solaioogni parete.
Parete un uccellettobiondosdutto
snelloche cala becca salta frulla
in un minuto. E sola fate il tutto!
E siete sempre piccola fanciulla...»
«Povera mammaè lei che non ha posa!
Senza mia madre non saprei far nulla».
A lui così tu rispondestio Rosa.
III
E' ritornò più tristoa capo chino.
Ed eccoin mezzo al grande ciel sereno
la lodolettauguale ad un puntino
cantava; e poicome venisse meno
dalla dolcezzasi gittò nel piano:
s'abbandonò sul nido suo terreno
s'abbandonò sul nido suo tra il grano.
L'USIGNOLO
I
Su l'alba udìma pianocome fosse
un gran segretobisbigliar di bianche
ova e celesti con goccine rosse
calde nel muscosopra i pappied anche
tra foglie secche... Prima ancor di giorno
volò ciascuno alle compagne stanche.
Ma tutto il giorno andava Rigo attorno
senza far nulla. Non guardò nell'orto
spighe di lilla e ciondoli d'avorno.
Violacciocchee' vi guardava torto
quando lo chiamavate con l'odore!
Ma verso sera egli là erasmorto...
E vide Rosa: aveva in grembo un fiore
non facea nullaed era sola e muta.
S'udia lontano il sufolo di Dore.
Guardava in ariaa nulla. Era seduta.
II
Rigo le prese le due mani. «O Rosa
ti voglio bene. Io t'amo e mi vergogno
di dirlo a tedi dirlo a te... mia sposa!
Non ho coraggioRosaed ho bisogno
che tu m'incuori. Il cuore trema: senti?
E non m'attento di parlarche in sogno.
Anche tu sembra allora che ti attenti.
Se mostro un po' di chiuder gli occhi e taccio
tu entri in casa senza aprir battenti.
Tu vaitu vieni... Oh! io non ti discaccio!»
Ecco e d'un braccio cinse a lei la vita
ed essa gli si abbandonò sul braccio.
«Tu sei l'anima miasei la mia vita.
Battereil cuoresenza il tuonon osa
più. Respiriamo con la bocca unita!
Apritialfineo mio bocciòl di rosa!»
III
Allor s'aprì la prima stella in cielo;
e dalla terra tacita e sorpresa
si levò un trillo come un lungo stelo.
Un'altraun altro. Ad ogni stella accesa
un nuovo canto. Un canto senza posa
correva ardendo lungo la distesa
del cielo azzurro. - È l'usignoloo Rosa! -
IL NAUFRAGO - IL PRIGIONIERO
IL NAUFRAGO
I
Il mareal buiofu cattivo. Urlava
sotto gli schiocchi della folgore! Ora
qua e là brilla in rosa la sua bava.
Intorno a mucchi d'alga ora si dora
la bava sua lungi da lui. S'effonde
l'alito salso alla novella aurora.
Vengono e vanno in un sussurro l'onde.
Sembra che l'una dopo l'altra salga
per veder meglio. E chiede unarisponde
l'altraspiando tra quei mucchi d'alga...
II
- Chi è? Non so. Chi sei? Che fai? Più nulla.
Dorme? Non so. Sì: non si muove. E il mare
perennemente avanti lui si culla.
Noi gli occhi aperti ti baciamo ignare.
Che guardi? Il vento ti spezzò la nave?
Il vento vano chesìèné pare?
E tu chi sei? Noiquasi miti schiave
moviamo insiemenoi moriamo insieme
costì con un rammarichìo soave...
Siamo ondeonda che cantaonda che geme...
III
Tu guardi triste. E dunque tua forse era
la voce che parea maledicesse
nell'alta notte in mezzo alla bufera!
Noi siamo onde superbeonde sommesse.
Ondee non più. L'acqua del mare è tanta!
Siamo in un attimoe non mai le stesse.
Ora io son quella che già là s'è franta.
E io già quella ch'ora là si frange.
L'onda che geme ora è lassùche canta;
l'onda che rideai piedi tuoi già piange.
IV
Noi siamo quello che sei tu: non siamo.
L'ombre del moto siamo. E ci son onde
anche tra voifigli del rosso Adamo?
Non sono. È il vento ch'agitaconfonde
mescealzaabbassa; è il vento che ci schiaccia
contro gli scogli e rotola alle sponde.
Pace! Pace! È tornata la bonaccia.
Pace! È tornata la serenità.
Tu dormie par che in sogno apra le braccia.
Onde! Onde! Onda che vieneonda che va...
LA MORTE DEL PAPA
I
«Oh! nonna! il Papa» uno gridò «sta male!»
un seggiolaio che da Montebono
salìa lungo Corsonna: «è sul giornale».
Andava all'Alpedove più non sono
che greggi errantie dove non si sente
fuor che di foglie al ventoaltro frastuono;
o il solitario scroscio del torrente
dopo un'acquatao il conversar tranquillo
presso le bianche nuvoledi gente
che non si vedeintorno cui lo squillo
de' campanacci va per le pratina
odorate di menta e di serpillo.
La vecchietta filava. A lei vicina
una sua pecorella da guadagno
strappava ciuffi d'erba pannocchina.
Essa filava all'ombra d'un castagno
centenarioe parlava alla sua recchia.
Infilato nel braccio era il cavagno.
E tra ch'ell'era dura un po' d'orecchia
e che il cielo echeggiava di cicale
aspre dal solea mezzodì; la vecchia
«Chi?» disse. «Il Papa». «Il Papache?» «Sta male».
II
Alzò le braccia col cavagno e il fuso
al cielo azzurroe mormorò: «Madonna
del Carmine!» La recchia levò il muso.
«Siete d'età» l'uomo riprese: «eh nonna?
Ma voi siete altra tiglia! A voi fa prode
l'aria di monte e l'acqua di Corsonna».
Ma la vecchina non sentì la lode.
Smerlucciò tra i castagniquasi intorno
fossea qualch'ombral'angiolo custode.
Ell'era nata lo stesso anno e giorno!
E da vent'anni le diceva il cuore
che farebbero insieme anche il ritorno.
«O dunque c'è la diceriache muore?»
«Più troppo!» Dunque non vedrebbe il rosso
delle fragole e il nero delle more!
«Addio 'n salute!» «Addio». «L'uno pel fosso
e l'altra prese per uno sgaruglio.
Avea le gambe flosceil fiato grosso.
Tornava a casa. O Vergine di luglio!
o bianca nuviletta del Carmelo!
La recchia dietro lei qualche cespuglio
brucavae poi stradava con un belo.
III
«Ta taNinata ta». Come gagliardi
eran quei tre castagni suoi! Che mèsse!
che cimi! E la chioccetta era nei cardi!
Il suo figliolo quando vi cogliesse
nella sera che accecano il metato
sìpenserebbe a farle dir due mésse.
Buttar due lire uguanno non fa stato.
Uguanno è annatase non è lo strino
che c'entri prima ch'abbiano animato.
La vecchietta era giunta al casalino;
ma non l'antico suo paiòl di rame
appese alla catena del camino.
Era avvilitae non le facea fame!
Mise un lenzuolo bianco al sacconcello
ma prima un poco ne rumò lo strame.
Poi si portò su l'uscio uno sgabello.
Sedé movendo ad or ad or la bocca.
Aspettò che venisse il suo gemello.
Sgranava qualche rappa nella cocca
del pannelloe chiamava Curre! Curre!
Poirinfilata nel pensier la rócca
filava in mezzo alle montagne azzurre.
IV
Dan dan... dan dan... Passava un carbonaio
col suo muletto. «O Chiozzase vedete
il Ciampail mi' figliolo di Renaio
diteglise non è per le faggete
che non l'ho visto da non so mai quanto
e che cammini. E ditel anco al prete.
Venga di quella via con l'olio santo».
«Servirò. Ma che avete? O che vi sente?»
«O Chiozzaè l'ora che par poco il tanto!»
«Che ditenonna?» «Anzi non par più niente!»
«Coraggio!» «Più che vecchinon si campa.
Da Roma il Papa ha da venire...» «O gente!»
«E voi sapete leggere?» «La stampa».
«Che scrivono?» «Che muore». «Eccotra poco
andrò con lui. Se lo vedeteil Ciampa
il mi' figliolo...» Ella parlava fioco
l'altro ripiva. Le montagne in faccia
brillavano d'un grande orlo di fuoco.
Dan dan... Sul petto ella piegò le braccia.
Dovean sonare Avemarie dintorno.
Dan dan... dan dan... Era finita l'accia
e pieno il fusoe terminato il giorno.
V
Il giorno dopo il Ciampa (era ai vincigli
poco lontano) entrò senza picchiare
col più piccino dei suoi sottofigli.
La trovò che sfaceva col cucchiare
nel laveggino nero una brancata
di farinain ginocchio al focolare.
«Ch'ha detto il Chiozzach'érite malata?»
«Oh! Gigi! Ahimè che tremo ho fatto! Provo
se mi fa bono un po' di farinata».
«Più bonoo mammavi farebbe un ovo».
«Con l'ova abbiamo da comprare il sale».
«O dunquemammacosa c'è di novo?»
«Forsefiglioloc'è più ben che male».
«Dio v'ascolti». «O codesto rapacchiotto?»
«È il Gigino del mi' pover Natale».
«Dio lo riposi. E in quanti sono?» «In otto».
«Polenta vi ci vuole ora e coraggio!»
«Su dunqueNini: porgigli il ricotto».
Nelle sue frasche e' lo teneadi faggio
verdicol cimo in dentro e fuori il calcio:
un fardelletto bello come un maggio
legato con un torchiettin di salcio.
VI
Ella guardòmestando. «O che gli porti
Ninialla nonna? O che tu l'hai saputo
ch'io vado in pacea ritrovare i morti?
Che glielo faccio a babboomoun saluto?
Che gli dico del bimbo? Eh! gli vuol detto
ch'è savioche dà rettach'è d'aiuto;
ch'ha il grembialinoch'ha il rastellinetto
che va colle sue genti alle faccende
anco alla ruspa dopo fatto appietto;
e ch'abbada alle pecoree contende
se vanno al dannoe poi che fa in Corsonna
le vetrici e le monda e le rivende.
Va colassùva colassù la nonna
con uno che ci sa; che puòse vuole
anco portarla avanti alla Madonna.
Da lui si farà dire le parole
per benedire i figli de' suoi figli
coi lor figlioli e colle lor figliole;
perché Dio vi protegga e vi consigli
e abbiate ogni anno lo stabbiato e il frutto
e lana e legnae le fronde e i vincigli
e la polenta d'ogni giornoe tutto.»
VII
La fronte e gli occhi si spazzò col dosso
della mano. S'alzò. Prese in un godo
del soppianello due cucchiai di bosso.
Prese anche il suo ch'era attaccato al chiodo.
Staccò il laveggioa stentodall'uncino:
riempì tre pianette: il tutto a modo.
Poi prese il fior di latte: anchea modino
aprì le fraschee giùper non lo sfare
lo sbacchiò sopra un borracciòl di lino.
E mangiarono avanti il focolare
in pace e amorecon di tanto in tanto
quattro parolea cucchiaiate rare.
Il bimbo in terra era seduto accanto
alla bisnonnae spesso dalle dita
di lei pigliava un suo bocconcin santo.
L'uscio era aperto. I fior di margherita
non aprivano ancora le corolle
di su le crepe della soglia erbita.
Brillava al sole ogni alberoogni colle;
ma la casuccia si godeva ancora
l'ombra sua propriapiccolaancor molle
della guazza caduta in su l'aurora.
VIII
«SentiteGigi. La recchietta voglio
che la meniate ora con voi nel branco.
È avvezza a qualche filo di trifoglio...
Un po' di tela c'è tavìa nel banco.
Ho due lenzuola nove; anco un rotello
da tanto tempoch'ha riperso il bianco.
Ci troverete qualche buon guarnello
persino una sottana con la gala
che mi son fattelà per làbel bello.
Faccio per dire che non son cicala
ch'ha un sol vestitoe quando è lisomuore.
Ma poisentite: penso a quella scala...
DiteloGigicon le vostre nuore
che quell'andare su la scala in chiesa
così legatam'è una spina al cuore!
Almeno almenosenza vostra spesa
vuo' per amor di Dio che mi mettiate
quella camicia nova ch'è lì stesa.
Io l'ho cucitaal sole della state;
io l'ho sbiancataal lume della luna;
io l'ho tessutaper le gran nevate;
filatapresso qualche vostra cuna».
IX
Il bimbo era lì fuori. Ella più presso
si fece al vecchio. «A Dio non si nasconde
quello che al preteed anche a voi confesso.
Ho fatto a volte un carico di fronde
in quel del Maso». «Un carichello!» «Ho colte
nel suoprima dell'albale sue gronde».
«Altro che grondeil pover Maso!» «A volte
per due fagiolim'allungavo all'orto.
Menavo a bere le mie bestie sciolte...»
«Ma il pover Maso...» «Il pover Maso è morto!
Fatemi dir due messeuna per Maso
una per me...» «Si fanno dire accòrto».
Erano usciti. «Siete persuaso?»
«Sì». «La recchietta vuol menata a mano
su le prime». «Si sa». «Fatene caso».
«Addiomadre». «Addio Gigi... State sano.
AddioNina. O che beli? Io mi contento
d'ire con lui che sta così lontano!»
Ai monti sparsi d'un vapor d'argento
ella accennava con la mano arsita
e foglie secchemosse un po' dal vento
parean in aria le sue cinque dita.
X
Quel giorno un tuono rimbombò che scosse
l'alta montagnaeterminato il tuono
invïò l'acqua a gocce rade e grosse.
Ed un'acquata venne giù col suono
d'un gran passaggio con un grande struscio.
A sera il tempo era tornato al buono.
Il cielo aveva l'iridi del guscio
di madreperla. Stava lì tranquilla
nel suo lettinocon aperto l'uscio
la vecchinase udisse ora la squilla
del sagrestanosi vedesse alfine
venir l'ombrella color bianco e lilla
salir di qua di là tante stelline
salir cantandocon in mano un cero
una fila di donne e di bambine.
E già scuriva. E sìvedevain vero
splender ora più fitte ora più rare
le luccioline avanti l'uscio nero.
Quante candele c'erano al sogliare!
Udivasìcantare; ma lontane
erano ancoracolaggiù; cantare
cantare le ranelle con le rane.
XI
E levò gli occhie ravvisò la strada
nel cielo azzurrotra le stelle ardenti
bianca ma quasi molle di rugiada
la tacita sul sonno delle genti
strada di Roma. Un tratto ne lucea
nel breve spazio in mezzo ai due battenti:
un sentieròlo con una macea
lassù nel cielo: un pallido biancore
presso le stelle di Cassiopea.
Al capo della viaforse a quell'ore
prendea con le due mani il pastorale
e si levava su forse il pastore.
Forse veniva tra un sussurro d'ale
d'angeli per l'azzurro cieloe un coro
d'anime nel silenzio siderale.
E passando cantavanoV'adoro
ogni momento... sopra gli alti monti.
Ed egli aveva la sua mitria d'oro.
Splendean le selverisplendean le fonti
al suo passaggiod'un baglior fugace
che ancor passava su le bianche fronti
d'uomini e donne addormentati in pace.
XII
Per quella via... Ma quella era la via
dell'Universol'alta sui burroni
dell'Infinito ignota Galaxia:
e prima d'essa Cani Idre Leoni
raggianti nelle tenebre celesti
gelide: stellecostellazïoni:
Soli: sciami di Solianzicon mesti
pianeti ognunodove il fuoco primo
par che si spenga e che l'amor si desti;
dove marcisce il puro fuoco in limo
di vitaimpurosu cui vola forse
l'uomo con l'alio sguazza il fauno simo.
Le costellazïoni indi trascorse
dalla fulgida Lira alla Carena
dalla fulgida Croce alle grandi Orse;
ecco la fitta polverela rena
ogni cui grano è Mondo che sfavilla
nella sua solitudine serena;
dove pare un pulviscolouna stilla
il nostro cielo dalla volta immensa...
se pur là c'è la notteuna pupilla
nell'ombrauno che vegliauno che pensa!
XIII
E la vecchiettadietro il suo pensiero
guardando il cieloora vedea sé stessa
non così vecchiasu per un sentiero.
Andava col su' omoera ben messa
incignava quel giorno anzi un guarnello:
andava a su per ascoltar la messa.
Lo conosceva quel vïotterello:
era pieno di fragole e di more.
Quasi quasi n'empiva il suo pannello.
Ma poi ben altro le diceva il cuore
perché sentiva scampanare a festa:
era la festa delle Quarant'ore.
Ella saliva i poggi lesta lesta
cantarellandofresca come brina;
ma in fondo al cuore era tra lieta e mesta.
E si trovava povera bambina:
frignavadicea Pappadicea Bombo:
un'altra voce ripetea: Cammina!
Tremava in aria più vicino il rombo
del doppio. Lestaché non è lontano!
Sìma le sue gambette erano un piombo.
Allor sua mamma la pigliò per mano.
XIV
Una sua nuoralì con la sua rócca
c'era a vegliarla. Ad or ad or lo sputo
dava alle dita e due prilli alla cocca.
Svagellavala nonna. Ogni minuto
parea l'ultimo. All'ultimo ecco a stento
aperse gli occhi. Essa lo avea veduto!
Il Papa! Era per l'Alpeera tra il vento
gelidoanch'essoera piccino e stanco
sfinito mortoma parea contento.
Come accaldato! Aveva corso in branco
co' suoi compagni: aveva il capo in fiamma.
Ora sudava freddo; e con un bianco
lino la fronte gli tergea sua mamma.
ZI MEO
Guardava ognunoper un po'la vigna
tua lì rimpettonell'uscir di chiesa.
Oh! c'era sempre qualche bella pigna!
«Non ha finito!» E in dir cosìsospesa
con l'acquasanta ancora avea la mano:
l'altra reggeva una candela accesa.
«Tutti vizzati buoni: colombano
e capobugio». E discendean le soglie
a due a duesalmodïando piano.
O tra la lieve nebbia che si scioglie
sole d'ottobre! o come lunghe aurore
giornate pure! o rosseggiar di foglie
presso a cadere! o limpide ultime ore!
Un pescotra le viti sciolterosso
era così come quand'era in fiore:
si ricordava! In faccia a luisul fosso
grandi castagni con i cardi a ciocche
in tutti i rami; e i cardi avean già mosso.
Erano a bocca apertae dalle bocche
già si vedea la bella buccia bionda.
Oh! il bel tempo del fuoco e delle rócche!
quando le genti siedono alla tonda
avanti al fuocoe quelle donnequale
fa le mondine e quale poi le monda:
quando l'annata sia pur ita male
ma il fuoco scalda! ma rallegra il vino!
e il vino è poco? Meno èpiù vale.
Andavano pensando a San Martino
sotto i castagnie c'erisu la bara
coi panni buonitumio buon vicino!
Dal Rio mandava la sua voce chiara
interrogandol'usignol dei Morti
ch'è il pettirossoe più l'alzava a gara.
Usignol della nebbiache i nostri orti
visiti quando non c'è più che bruchi
tu che ci lodi il verno che ci porti;
e ti fai cuoree vieni e vait'imbuchi
t'infraschie cerchi e fai sentire un canto
appena trovi sanguini o sambuchi:
un uomo noi portiamo al camposanto
checome tedimestico e silvano
godea del poco e non sapea del tanto.
I figli avea nell'oltremar lontano
e quasi solo vivucchiava in pace
contento del suo vino e del suo grano.
Covava il fuoco avendo nelle brace
poche castagnee già vecchietto stanco
pensava all'aspra giovinezza audace;
allor che in vetta all'alto pioppo bianco
non scendea; no: gli dava l'onda e in aria
prendeva a volo l'altro pioppo a fianco:
alla sua giovinezza aspra di paria
allor che dentro il suo metato in monte
dovea passar la notte solitaria;
maper il fumotenea fuor la fronte
e la lasciava al vento ed al nevischio
sino al primo baglior dell'orizzonte:
ché allora a casa discendea tra il fischio
del tramontanola crinella in collo
zeppa di frondeed ogni passo un rischio.
Era di ceppa vecchia egli rampollo!
Seguiva il cenno della madre austera
imperïosa sotto il suo corollo!
Che vitaallora! il pane allor non c'era
che per le Pasque! Ora godeva il verno
egli che non godé la primavera.
In vece qui con un saluto eterno
noi ti lasciamo. AddioZi Meo! Le zolle
che abbiam gettate sul tuo cuor fraterno!
E questa croce sul terreno molle
non reggerà! Verranno poi le acquate.
Poibianco il monte e sarà bianco il colle.
Poitorneranno i figli nell'estate
a prender l'aria. AddioZi Meo! La vita
è così fatta. Andiamodunque. - Andate
alla vendemmia non ancor finita! -
NANNETTO
Su qualche tetto erano forse al sole
o in qualche pratosimili a vedere
a bianche pietrein tanto verdesole.
Io le cercavauna di queste sere
guardando certe novità dell'orto
suo: peri nani con enormi pere.
Andavo su e giù come a diporto
col babbo suomentre cercavo intorno
le due colombe del fanciullo morto.
Le avea portate da Zurigo un giorno
e qui lasciate per tenergli il posto
nella sua casa fino al suo ritorno;
per aspettarlo fino al nuovo agosto;
noper restare anch'esso tra i suoi monti
e veder tuttodentro lor nascosto:
girare i boschibere ai puri fonti
della sua terrae te godere ancora
soleche così bello oggi tramonti
edopo ancor l'Avemariaquest'ora
chiara e la sera che s'addorme e pare
sognarsui montid'essere l'aurora.
A lui parrebbe d'essercie di fare
qualcosa anch'esso e d'aiutare un poco
i suoi compagni e lor sorelle care:
roncare insiemema così per gioco
tirar la piena stridula carretta
mettere al mucchio dell'erbacce il fuoco;
a un primo lampoa un primo tuonoin fretta
correre tutti ad ammucchiare il fieno;
condurre a mano la vacca soletta;
e per la stradasotto un ciel sereno
come oracon qualcuno che s'arresta
parlar di foriviadel piùdel meno;
andare ad ogni sagraad ogni festa
de' suoi villaggisemplice e fedele
con lo straniero berrettino in testa;
e contemplare il nuovo San Michele
venuto insin d'America ad Albiano
tra quel vapor d'incenso e di candele.
Oh! ci sarebbepur così lontano!
vedrebbe quisull'ali del suo paio
di colombelleviti ulivi e grano:
e le ceragie primee il primo staio
delle castagnee i primi fichi d'oro
vedrebbee il primo grispolletto vaio!
Dove son elle? Il cielo in vano esploro.
Dov'è il ricordo del fanciullo buono?
Ed ecco il padre un fischio dà sonoro.
Ed ecco un altro suono dietro il suono;
un lieve motoun fischioun voloun rombo.
Ei non c'è più; ma elle ancor ci sono.
Vien la colomba accanto al suo colombo
e tutti e due si posano su 'n ramo
snodando il collo del color di piombo.
Scattano il collo a rimirar chi siamo
a lungo a lungo. Esse beveano al fiume
quando le scosse il solito richiamo.
- Dov'è? - Guardano guardano nel lume
roseo. - Non c'è! - Riguardano. E non vanno.
Col becco intanto lisciano le piume.
Noche non c'è. Non tornerà quest'anno!
È il babbo solo... e tanto in cuor gli spiace
d'avervi fatto questo breve inganno.
Non c'èper ora. Ite a dormire in pace.
Nannetto vostro è sempre via pel mondo
eda quest'oraanch'esso dormee tace.
Non piùcolombeora a Zurigoin fondo
di Magnusstrasseritto dietro il banco
vede chi passail bel fanciullo biondo.
Vede bensì l'Eichhörnchen suoche stanco
è d'aspettaree siede sullo staggio
mostrando tutto il folto petto bianco.
Né prende i semi d'acero e di faggio
tra le zampinee pensa che l'estate
finisceed ei non torna dal vïaggio
fatto in cercar le due compagne alate.
BELLIS PERENNIS
I
Chi vede mai le pratelline in boccia?
Ed un bel dì le pratelline in fiore
empiono il prato e stellano la roccia.
Chi ti sapevao bianco fior d'amore
chiuso nel cuore? E tuttaall'improvviso
la nera terra ecco mutò colore.
Sono pensieriignoti giàche in viso
rimiran oraove si resti o vada;
nati cosìnell'ombrad'un sorriso
di stella e d'una goccia di rugiada...
O mezzo aperta come chi non osa
o pratellina pallida e confusa
che sei dovunque l'occhio mio si posa
e chini il capoall'occhio altrui non usa;
biancama i lievi sommolidi rosa;
tanto più rosa quanto più sei chiusa:
ti chiudi a serachi sa mai per cosa
sei chiusa all'albaed il perché sai tu;
o primo amoreo giovinetta sposa.
o prima e sola cara gioventù!
II
È il vernoe tutti i fiori arse la brina
nei prati e tutte strinò l'erbe il gelo:
ma te vedo fiorirprimaverina.
Tu persuasa dal fiorir del cielo
fioristi; ed oraquasi più non voglia
perché sei solaappena alzi lo stelo.
O fior d'amore su la trita soglia!
Tu tingi al sommo i petali d'argento
d'un rosso lieve. Una raminga foglia
ti copre un pocoe passa via col vento...
O fior d'amore su la soglia trita!
oquando tutto se ne vavenuta!
che vivi quando è per finir la vita!
e che non muti anche se il ciel si muta!
Hai visto i fiori nella lor fiorita:
vedi le foglie nella lor caduta.
Ti coglierà passando Margherita
col cuore assorto nell'amor che fu.
Ti lascerà cadere dalle dita...
- Egli non t'amaegli non t'ama più! -
LA PECORELLA SMARRITA
I
«Frate» una voce gli diceva: «è l'ora
che tu ti svegli. Alzati! La rugiada
è sulle fogliee viene già l'aurora».
Egli si alzava. «L'ombra si dirada
nel cielo. Il cielo scende a goccia a goccia.
Biancicain terraqua e làla strada».
S'incamminava. «Spunta dalla roccia
un lungo stelo. In cima dello stelo
grave di guazza pende il fiore in boccia».
S'inginocchiava. «Si dirompe il cielo!
Albeggia Dio! Plaudite con le mani
pini de l'Hermoncedri del Carmelo!»
Tre volte il gallo battea l'ali. I cani
squittìano in sogno. Le sei ali in croce
egli vedea di seraphim lontani.
Sentiva in cuore il rombo della voce.
Su luicon le infinite stellelento
fluiva il cielo verso la sua foce.
Era il dì del Signoreera l'avvento.
Spariva sotto i baratri profondi
colmi di stelle il tacito convento.
- Mucchi di stellegrappoli di mondi
nebbie di cosmi. Il frate disse: «O duce
di nostra casavieni! Eccoci mondi».
In quella immensa polvere di luce
splendeanoocchi di draghi e di leoni
VegaDenebAldebaranPolluce...
E il frate udìfissando i milïoni
d'astriil vagito d'un agnello sperso
la tra le grandi costellazïoni
nella profondità dell'Universo...
II
E il dubbio entrò nel cuore tristo e pio.
«Che sei tuTerraperché in te si sveli
tutto il misteroe vi s'incarni Dio?
O Terral'uno tu non seiche i Cieli
sian l'altro! Nondel tuo Signorsei l'orto
con astri a fiorie lunghi sguardi a steli!
Noi ti sappiamo. Non seiTerrail porto
del mare in cui gli eterni astri si cullano...
un astro seisenza più lucemorto:
foglia secca d'un gruppo cui trastulla
il vento eterno in mezzo all'infinito:
scheggiagranofavillaatomonulla!»
Così pensava: al sommo del suo dito
giungeva allora da una stella il raggio
che da più di mille anni era partito.
E vide una fiammella in un villaggio
lontanoa quelle di lassù confusa:
udì lontano un dolce suon selvaggio.
Laggiù da una capanna semichiusa
veniva il suono per la notte pura
il dolce suono d'una cornamusa.
E risonava tutta la pianura
d'uno scalpiccio verso la capanna:
forse pastori dalla lor pastura.
E il frate al suono dell'agreste canna
ripensò quelle tante pecorelle
che il pastor buono non di lor s'affanna:
tra i fuochi accesi stanno in pacequelle
sicure là su la montagna bruna;
e il pastor buono al lume delle stelle
quaggiù ne cerca intanto unasol una...
III
«Sei tu quell'unatu quell'unao Terra!
Soladel santo monteove s'uccida
dove sia l'odiodove sia la guerra;
dove di tristi lagrime s'intrida
il pan di vita! Tu non sei che pianto
versato in vano! Sangue seiche grida!
E tu volesti Dio per te soltanto:
volesti che scendesse sconosciuto
nell'alta notte dal suo monte santo.
Tu lo volesti in forma d'un tuo bruto
dal mal pensiero: e in una croce infame
l'alzasti in vista del suo cielo muto».
In cielo e in terra tremulo uno sciame
era di luci. Andavano al lamento
della zampognae fasci avean di strame.
Ma il frateandandocon un pio sgomento
toccava appena la rea terraappena
guardava il folgorìo del firmamento:
quella nebbia di mondiquella rena
di Soli sparsi intorno alla Polare
dentro la solitudine serena.
Ognun dei Soli nel tranquillo andare
traeva seco i placidi pianeti
come famiglie intorno al focolare:
oh! tutti savitutti buoniqueti
persino ignaricolassùdel male
che nonon s'amaanche se niun lo vieti.
Sonava la zampogna pastorale.
E Dio scendea la cerula pendice
cercando in fondo dell'abisso astrale
la Terrasola reasola infelice.
LA VERTIGINE
Si racconta di un fanciullo che aveva
perduto il senso della gravità...
I
Uominise in voi guardoil mio spavento
cresce nel cuore. Io senza voce e moto
voi vedo immersi nell'eterno vento;
voi vedofermi i brevi piedi al loto
ai sassiall'erbe dell'aerea terra
abbandonarvi e pender giù nel vuoto.
Oh! voi non siete il boscoche s'afferra
con le radicie non si getta in aria
se d'altrettanto non va susotterra!
Oh! voi non siete il marecui contraria
regge una forzaun soffio che s'effonde
laggiùdal cieloe che giammai non varia.
Eternamente il mar selvaggio l'onde
protende al cupo; e un alito incessante
piano al suo rauco rantolar risponde.
Ma voi... Chi ferma a voi quassù le piante?
Vero è che andategli occhi e il cuore stretti
a questa informe oscurità volante;
che fisso il mento a gli anelanti petti
andateingombri dell'oblio che nega
pendulio voi che vi credete eretti!
Ma quando il capo e l'occhio vi si piega
giù per l'abisso in cui lontan lontano
in fondo in fondo è il luccichìo di Vega...?
Allora iosempreio l'una e l'altra mano
getto a una rupea un alberoa uno stelo
a un filo d'erbaper l'orror del vano!
a un nullaquiper non cadere in cielo!
II
Oh! se la nottealmeno leinon fosse!
Qual freddo orrore pendere su quelle
lontanefreddebianche azzurre e rosse
su quell'immenso baratro di stelle
sopra quei gruppisopra quelli ammassi
quel seminìoquel polverìo di stelle!
Su quell'immenso baratro tu passi
correndoo Terrae non sei mai trascorsa
con noi pendentiin grande oblìodai sassi.
Io veglio. In cuor mi venta la tua corsa.
Veglio. Mi fissa di laggiù coi tondi
occhitutta la nottela Grande Orsa:
se mi si svellase mi si sprofondi
l'esseretutto l'esserein quel mare
d'astriin quel cupo vortice di mondi!
veder d'attimo in attimo più chiare
le costellazïoniil firmamento
crescere sotto il mio precipitare!
precipitare languidosgomento
nullosenza più peso e senza senso.
sprofondar d'un millennio ogni momento!
di là da ciò che vedo e ciò che penso
non trovar fondonon trovar mai posa
da spazio immenso ad altro spazio immenso;
forsegiù giùvia viasperar... che cosa?
La sosta! Il fine! Il termine ultimo! Io
io tedi nebulosa in nebulosa
di cielo in cieloin vano e sempreDio!
IL PRIGIONIERO
Prendiinfeliceil tuo dolore in pace!
«Perché?» Tuperché gridiurti la porta?
«Perché dolore è più dolorse tace».
Se lo nascondifrutterà. Sopporta
attendispera... «O vanità! Non spero.
Non credo». Eppure... «Dio non è!» Che importa?
C'è del mistero intorno a te... «Mistero?
Io non lo vedo». Ciò che tu non vedi
o prigionieroè un altro prigioniero;
e un altro e un altro. Hanno nei ceppi i piedi...
«Anch'io». Presto la morteora catene!
«Anch'io». Dunque tu saidunque tu credi.
Non li destare! «Iodormo forse?» Ebbene?
Se vuoi parlareparla sìma piano;
cantase vuoiciò che dal cuor ti viene:
cantama un dolce cantoesilevano
che su la piuma delle sue parole
li porti in collo al loro amor lontano:
cantalo quello che nel cuor ti duole!
piangano anch'essima dormendo ancora!
Chi piange in sognoè giunto a ciò che vuole
è giunto alfine a tutto ciò che implora
invano. Canta: e l'anima pugnace
tua placherai. Ritroverà l'aurora
anche te forse addormentato in pace.
I FILUGELLI
CANTO PRIMO
I
Con chi partisci quell'esigua messe?
La deve qualche luccioletta avere
che ti fa lume? o il ragnoche ti tesse?
o la formica? Le formiche nere
t'han fatto il mucchioche somiglia un poggio?
E mezzo devi il grano del podere
e lo misuri: e il tuo ditale è il moggio.
II
T'han fattoo Rosale formiche il mucchio.
Ora partiscibenché sia d'aprile;
San Marcoappunto; quando il gelso è in succhio.
E il tuo grano è una polvere sottile
e sembra nato tutto in una zolla...
Lo tribbiò il grillo dentro il suo cortile
e la vanessa ventilò la lolla.
III
Te lo tribbiò le lunghe sere il grillo
trillando acuto... Oppur codesto grano
tu l'hai mietuto al regamo e al serpillo?
O scosso t'hai nel cavo della mano
l'urna del fiore dell'obliodel fiore
del dolce sonno? Vi s'udiva un vano
scrosciar di pioggia in un lontano albore...
IV
E tu vuoi dunque seminare il sogno
del rosso fiore? Non è tardi? È molto
che cadde il fiore al melo ed al cotogno.
Fiorisce il grano già da te sepolto.
Pendono ai rami i pomi verdi e lazzi.
Fiorisce l'uva; e dal ciliegio folto
pendono bianche le ciliege a mazzi.
V
Ma tu ti sganci il candido corsetto
o bionda Rosa. Fuori è chiaro il sole
e due colombi tubano sul tetto
Ti slacci il busto. Odore di vïole
bianche è nell'orto. Oh! lascia come prima.
Bello è come è. Non altro fior ci vuole.
Ci son due bocci ch'hanno il rosso in cima.
VI
Non chiudere entro il bianco pettoo Rosa
il fior del sonno. Non la notte e il giorno
costì si veglia e mai non si riposa?
Ma senti a un tratto scalpicciare intorno
alla tua casa... Ora le lievi trine
tu lieve aggancied il corsetto adorno
richiudia un grido delle tue vicine.
VII
Chiamano: Rosa! A doppio le campane
suonano. Andate! Va con l'altre a schiera:
prega da Dio la cara pace e il pane.
Peregrinando suoni la preghiera
per campi e selvee per le vigne e gli orti.
Ristateo litanie di primavera
avanti a crociqua e làdi morti!
VIII
Appiedio Rosadelle vecchie croci
prega anche tu: che venga alle su' ore
il grano e l'uvae le gioconde noci
e le castagne; per il dolce amore
tuoper quei mortiche non sai chi sono...
Prega! Pregate che sfiorisca il fiore
che il bello passi ma che lasci il buono.
IX
Ai morti ignoti hanno pensatoed anche
al seme chiuso che lor è sul cuore
covato già da due lievi ale bianche...
E vanno via le vergini canore
e il canto lor si perde nella valle.
Cantano lontanando: Non si muore!
E poi: Lo sanno insino le farfalle!...
CANTO SECONDO
I
Nati! Son nati nel tuo petto i semi!
Ah! che son bruchisquallidi di pelo
neriinfiniti! Ma tu già non temi.
Tu cauta e pia nel piccolo suo telo
in un paniereadagi il tuo tesoro;
e su vi spargi lievemente un velo
di foglie trite e di germogli d'oro.
II
Ché savio il gelso come se c'intenda
ha messo a tempo. Ed ora ogni quattro ore
tu recherai la piccola profenda
al lor presepenell'ugual tepore
della tua stanza; ed essi pasceranno.
Ma eccoun dìnon toccano più fiore:
noia li prende; alzano il capoe stanno.
III
Dormono. Or tu non romperai quel sogno
che forse fanno. Non portar più frasca;
ché non d'altro che d'aria hanno bisogno.
Un giorno; e par che il gregge tuo rinasca.
Par nuovo. E tu gli porgi qualche cima
fresca a cui salga il nuovo greggee pasca;
e lo tramuti dal panier di prima.
IV
Cerca tre volte tanta una canestra:
prendi i germogli con sur ogni foglia
appeso una brancoe ponili giù destra.
Tre volte tanto mangiano. E tu spoglia
per loro i rami e spicca verdi i germi.
Mangino. In capo de' sei dì la voglia
del cibo è queta: alzano il capoe fermi!
V
Dormono. Il corpo a qualche cosa attorno
hanno legato con sottili bave
come di seta; e dormono un gran giorno.
Alfine ecco si svolgono dal grave
sonnorifatti. Ed ecco a cento a cento
li cogli a un ramoponi giù soave
in una stuoia il tuo cresciuto armento.
VI
Tre volte tanto brucano foraggio
così cresciuti. Ma tre volte tanto
verdeggia il gelso al puro sol di maggio.
Due rose aperte tu porrai da un canto.
Sognino nella stanza solitaria
d'essere in Cinai bachie per incanto
errar sui gelsi tra il color dell'aria!
VII
Dormono... Ebbene: tristo sogno è il loro.
Ma no: veglianoe sembranoall'aspetto
in doglia grande od a crudel lavoro.
Non vedi come il torvo capo eretto
per tutto un giorno dondolano stanchi?
Póntano i pie' di dietroalzano il petto
e di sé stessi escono puri e bianchi.
VIII
Ora in tre stuoie li porrainé ora
più dalle rame sgrapperai le fronde.
Porgi la rama floridache odora.
Non le hai deposte ancoraeccole monde.
Ma tu gli alunni muterai dal primo
lettopiù volteo almeno all'ultimoonde
l'ultimo sonno non s'invii sul fimo.
IX
Dormono... O Rosasiediti; ché giova.
Dormono alfin la grossa i filugelli
che tu tenestinel tuo senoin cova.
Ma tu mondi olivagnolie fastelli
scuotidi cesti; vieni e vai; ti spicci
ti studientriesciaprialzie sui castelli
tacita e grave stendi altri cannicci...
CANTO TERZO
I
Or sìconviene ai gelsi bianchiai mori
dare il pennato e portar foglia a fasci
con fruscìo grande e il fresco odor di fuori!
Ma su le prime indugi un po'; né lasci
che il gregge impinguie se ne perda il frutto:
attentaaccortaa man a man li pasci
più largamentefin che indulgi il tutto.
II
Ed ecco alloranell'opaca loggia
piena di verdeuno scrosciare uguale
un grosso allegro strepito di pioggia.
Sembra l'oscurità d'un temporale
che fa fuggire con le falci in pugno
le villanelle... Invece le cicale
cantano al soleal nuovo sol di giugno.
III
Cantanel sole immersala calandra
che inebbria il cielo. Tu tra i tuoi castelli
nella fresca ombra vegli sulla mandra.
Di quando in quando vengono i fratelli
portando rami striduli a bracciate:
entra con loro il canto degli uccelli
entra con loro il soffio dell'estate.
IV
Ma sazi alfine i tuoi voraci allievi
or l'uno or l'altrolasciano la foglia.
Erano pigriagili sono e lievi.
Vagano spinti da non so qual voglia.
Talvolta alcuno qua e là s'arresta.
Sembrano ciechi che da soglia a soglia
vadano tentennando con la testa.
V
Tu saitu vegli: a tempo tu facesti
nella tua selvao Rosaquando c'eri
pei primi funghiirsute stipe e cesti.
Rami d'ulivianche di meli e peri
anche di vititu serbasti insieme
equali alberipiccoli ma veri
gambi di rapedopo colto il seme.
VI
Di questi rami ed alberi minori
alzi in un tiepido angolo tranquillo
un bosco secco senza foglie e fiori.
- Che rifiorisca? - par che rida il grillo.
Non ride il ragno: egli fa pur le tele!
Né l'ape ch'ama il regamo e il serpillo:
tutto può darsi; ella fa pure il miele!
VII
Vanno inquïeticontro lor costume.
Qual monta i rittiqual s'appende al muro.
Traspare il corpo se si spera al lume.
Più nulla è in loroche non sia futuro.
Par che la bocca un fil di luce aneli.
Il verme è mondoil verme è tutto puro...
O Rosaè puroe cerca ove si celi.
VIII
Prendilio Rosacon le rosee dita:
portali al bosco. Dentro pochi giorni
l'arida selva rivedrai fiorita.
Vai dal castello al boscopoi ritorni
dal bosco lieta al tuo castello: lieta
che l'un si vuoti e l'altro già s'adorni
di biondi grandi bozzoli di seta.
IX
Non più castellio Rosa: altro non resta
che il bosco brullo. Or tu siedi romita
pensi all'amoreun po' lieta un po' mesta.
Dal bosco morto viene un'infinita
romba nel gran silenzio sonnolento.
Tra le sue rame odi un ansar di vita...
le già sue foglie odi stormire al vento.
LA MIETITURA
TRA LE SPIGHE
I
Il grano biondo sussurrava al vento.
Qualche fior rossoqualche fior celeste
tra i gambi secchi sorridea contento.
Pendeano li agli e le cipolle in reste.
S'udianmutata alfin la voce in gola
cantar gallettialtieri delle creste.
Tessea le spighe dello spigo a spola
la cara madreper i suoi rotelli
del banco grande e per le sue lenzuola.
Fioria la zuccaarsivano i piselli
nell'orto. Le ciliege erano andate:
per San Giovanni avevano i giannelli.
C'erano già le mele dell'estate
c'erano le susine di San Pietro.
Fatte via via più lunghe le giornate
il solestancoritornava indietro.
II
E biondo al vento mormorava il grano.
Fiorivano le snelle spadacciole
tra i gambi gialli; e non sapeanche in vano.
C'era un bisbiglio come di parole.
E l'intendea la lodola che in tanto
aveva lì la giovinetta prole.
Tardi avea fatto il nidolì da un canto.
Oh! ella amava il sole più che il nido!
Chissà? voleva far lassùcol canto!
Or sui piccini udiva già lo strido
della falciola; e li ammonìa di stare
accovacciati senza dare un grido.
Diceva: - Chiottecontro terrao care!
che non si mova un bruscolouno stelo!
V'ho fatte color terra: altro non pare
cosìche terrao nate per il cielo! -
III
E il grano al vento strepitava; e disse
il padre al figlio: «Mieteremo. Vedi:
verdino èsìma non vorrei patisse.
Ché il grano dice: - Io sto rittoe tu siedi.
Qui temo l'acquae il vento mi dà briga.
Altrondeo presto o tardio steso o in piedi
se il gambo è secco seccherà la spiga -».
TERRA E CIELO
I
E disse poicon tutti i figli attorno
appiè d'un melocarico di mele:
«Sì: mieteremo sull'aprir del giorno.
La terra è buona: durama fedele;
ma è una barcail sole per timone
e bianche e nere nuvole per vele.
Ci vuole il cielo: tutto a sua stagione;
e freddocaldodolceasproci vuole
e i lampi e i tuoni e il fumido acquazzone.
Il granoin primaebbe due barbe sole
quando escì fuoriun solo gambo in tutto.
Venne la neve: - Ah! vuoi goderti il sole?
No! Soffri un po'! Metti altre barbe! Frutto
non vien da seme che non sia già morto! -
Die' retta il grano. Marzo venne asciutto.
Guai se i miei campi li prendea per l'orto!
II
Si sa: marzo va seccoil gran fa cesto.
Il granper uno pallido e sottile
più ciuffi misequanto più fu pesto.
Talliva. Allora sopravvenne aprile
con le dolci acque. I giorni erano belli
ma e' passava con il suo barile.
Passava in altotra un cantar d'uccelli
con una gonfia nuvoletta nera...
E il gran fece il cannelloanzi i cannelli.
Doglia di vernogioia a primavera!
Tanti cannellitante spighenate
d'un chicco solo; e questo chicco ov'era?
Non c'era più. Restarea che? Pensate.
Il grano in tanto chiuso nello stelo
dentro le verdi lolle accartocciate
fioriva. Unita era la Terra e il Cielo.
III
Fioriva il grano. Erano in casai fiori
con l'uscio chiusoe nuovi della vita
mescean celati i loro dolci amori.
Alfin la spiga aperse con due dita
l'uscioe guardò stringendo a sé la veste.
Ma come vide al Ciel la Terra unita
anch'ella uscìma con un vel di reste.
E LAVORO
I
E il grano è bello. Ma non fu soltanto
la terra e il cielofu la nostra mano.
Chi prega è santoma chi fapiù santo.
E prima scelsi il seme del mio grano
tra il grano mio. Grani più duri e grossi
o più gentili non cercai lontano.
Altri granialtre terreed altri fossi
ed altri conci. Il grano da sementa
non lo tribbiai né macchinaima scossi.
Quando fu tempopresi calcespenta
da menon vecchia; tal chenon appena
l'acqua la bagnibulica e fermenta.
Ne feci lattee in una cesta piena
v'immersi il granoche un po' sempre molle
quando sentii la lunga cantilena
di grilli e ranesparsi sulle zolle.
II
Né lavorato avevo a fondo: a fondo
avevo sìma pel granturco d'anno.
Il grano è meglioe però vien secondo.
Sta pago il grano a quello che gli dànno.
Vuol sì la terra tritama non trita
tantochéanzigli sarebbe a danno.
Non diedi al granoche mi dà la vita
nemmeno il concio. Poco o nulla e' chiede
per far la spiga bella e ben granita.
Gli basta un po' del troppo che si diede
al formentoneche scialacqua egrande
com'ènon pensa al piccoletto erede.
Ad ogni acquata egli s'innalza e spande
si sogna d'essere alberofa vanti
e sfoggie vuole intorno a sé ghirlande
di zucche e di fagioli rampicanti...
III
Dov'e' lasciògrossipel fuocoi gambi
io questo grano seminai; non fitto;
e un sol governo valse per entrambi.
E visse e crebbepesto giallo afflitto...
Maor vedete: e' non s'alletta e sta.
È bello. Per tenere il capo ritto
giova la cara buona povertà!
IL PANE
I
Date la pietra a falci ed a frullane
o cari figli! spruzzolate l'aia
con acqua pura! Ché ritorna il pane.
Viene dai campi tratto a noi da paia
di vaccherellea l'aie bianche ov'erra
odor di fiori e odor di concimaia.
Fategli festa: ei viene di sotterra
e sé dà cibo a quei che l'hanno ucciso
il figlio pio del Cielo e della Terra!
Siete suoi figli; edopo che al sorriso
di vostra madredi tra le sue stesse
mammelle santeavete a lui sorriso.
Lo stringevateche non vi cadesse
con le due maniancora gronchieal core
dandogli un bacio. Egli le sue promesse
attienee per noi nasce e per noi muore.
II
Fategli festa. Era finito il grano...
il grano vecchio. Or quello ch'è più in cera
noi sceglieremo e batteremo a mano.
Il meglioil fiore dell'annata intera
noi manderemo subito al molino;
che l'abbia a giorno e che lo renda a sera.
L'affioreremo. Vuo' lo staccio fino.
Prepareremo il lievitoch'è quello
che il nonno in casa ritrovò bambino.
Sia buono il panema non sia men bello:
meglio che un brutto pan di fiore approvo
un bel colombo fatto di cruschello.
Sia ben levato e pieno come un ovo
e col suo sale; buono anche da solo.
Sia questo primo pane di gran nuovo
per temia figliache mi prendi il volo.
III
Ma da' la pietra alla tua falceo Rosa.
Mieti con gli altri. Mieterai più lenta
nei dì che passi tra fanciulla e sposa;
nei dì che il cuore sembra che si penta
di far le spighe che per ciò son nate...
Mieti anche tu. Nelle tue carni ei senta
l'odor del grano e della grande estate».
LA MESSE
I
I due fratelli con le due sorelle
stringendo il grano e le lunate falci
mietean le spighe e ne facean mannelle.
Torceano spigheper legarnon salci.
E le stendeano. O vitecosì stese
le carezzavi con l'ombrìa dei tralci.
L'erbe cosìmentre fioriansorprese
moriano al sole; onde alle bestie grata
si fa la paglia come fien maggese.
Passava il padre tutta la giornata
pei solchie ritte le mannelle in croce
ponease l'erba già vedea seccata.
Seguian nel campo l'opera veloce
lieti i fratelli e le sorelle accanto.
Ma non si udivao Rosala tua voce.
Un cantosìdi lodolettao un pianto.
II
In ogni campo alzarono due tonde
mete di spighe. Posero per prime
quattro mannellele più grosse e bionde.
Posero il calcio in terraalto le cime;
e poicon le altre sopra quelle e intorno
fecero una gran cupola sublime.
Mietean tre giorni. Sul finir del giorno
era finita. Placida la sera
erano i cuori placidi al ritorno.
«Il grano è belloedi verdugio ch'era
secco sin troppo. Con quel soleha sete.
Oggi la spiga ci parea leggiera»
diceva il babboe soggiungea: «Vedrete!
Il gran che il sole ora ha stremato e franto
poi si rifà la notte nelle mete
e s'enfia e s'empiee peserà più tanto».
III
Nere le mete: solo qualche lampo
facean le pagliecome se un tesoro
fosse disperso qua e là nel campo.
Diceano i grilli grazie mille in coro
a chitagliatoper lor agioil grano
gittò poi l'arma... La falciola d'oro
brillava in cielo e ricadea lontano.
I SEMI
I
L'alba sul monte e l'ombra nella valle.
I vermi chiusi ne' ben fatti avelli
piccole mummie rinascean farfalle.
Le spose uscian da' bozzoli più belli
candide e gravi. Col frullar dell'ale
movean ver loro i brevi maschi snelli.
La savia madre il letto nuzïale
bianco lor tese. Ognuno andava in traccia
d'una compagna all'opera immortale.
E venne Rosa dalle bianche braccia
nella stanzetta del fecondo rito.
Recava in grembo i bei rotelli e l'accia.
Rosa ristié vedendo già fiorito
di semi d'orotanti semiil panno.
Pensava: - Allora avrò l'anello al dito
non ci saròquando rinasceranno...
II
Sentiva tonfi e scrosci come pioggia
che sferzi i vetri. Il primo fior del grano
scotean laggiù nella sonante loggia.
Prendeva il babbo una mannella in mano
e la batteavoltandolapiù volte
forte e con garbosur un banco piano.
Secchebell'aspregià per prime colte
eran le spighee con tre colpi a sesto
davano fuori il grano lordisciolte.
Pioveano i chicchi. A Rosa vie più mesto
si fece il cuore. Ah! che il desio rimane
addietrospessoe il tempo va più lesto!
Capì la madre che pensava al pane
delle sue nozzepallida e sgomenta;
e dissevolti gli occhi in là: «Stamane
scuotono il granoma della sementa...»
III
E nelle braccia si trovò piangente
l'una dell'altra. «Oh! quello che più costa
figliaè la gioia: oh! non si dà per niente!»
«Se ho fatto malenon l'ho fatto apposta!
Lascia ch'io resti qui con tech'io stia
in un cantuccioma con tenascosta...
Non mi mandareo dolce madrevia!...»
IL CORREDO
I
«Non io ti mando. È un altro che ti manda.
Fa quel ch'io feciche per te fu bene.
Va col tuo velo e con la tua ghirlanda.
Te la faremo d'astri e di verbene;
di roserestie per un po'tu sola.
Va col corredo quale a te perviene.
Frullare il fuso e correre la spola
facesti assai! La telache tessesti!
Quante coperte e paia di lenzuola!
Tutte son tue; chequando là ti desti
nei primi giorniprima che sia giorno
pensi che i piùdegli anni tuoison questi.
Ti sentirai l'odor di casa attorno
il buon odor di spigo e di cotogno
e di tua mamma; ed ecco di ritorno
saraitra noise dopo dormiin sogno.
II
Facesti assai correre l'ago e il fuso
la spola e i ferri. Il benesi ritrova.
Hai quel ch'è d'usoed anche piùche d'uso.
Senza pensarciad una casa nuova
tu provvedevi: tuper quellain piazza
la seta e i polli tu portasti e l'uova.
Per quella i teli stavano alla guazza
ed alla luna. Dice il babboo Rosa:
- Ricca da sposaoprante da ragazza. -
Orail primo annoo figlia miariposa!
Godiche n'haile calzee le gonnelle
e le tovaglie a spinaa risoa rosa.
Per me l'hai fattee sono così belle!
La madre tua le dona a te... Ma pensa!
Quando i tuoi vecchi un giorno le ciambelle
ti porterannone ornerai la mensa».
III
Così diceva; ma di tanto in tanto
le si arrochiva e si spengea la voce.
Assieme allora elle faceano un pianto.
Come è qui tuttoinsino i fioria croce!
La madre altrove la condusseun banco
le apersenuovolucidodi noce.
«È tuocon tutto il suo tesoro bianco».
IL SALUTO
I
E il giorno avanti le sue nozze in fiore
rivideerrando per il colle e il piano
ciò ch'ella amavae che non era amore.
E salutò coi cenni della mano
la vigna verde che gli dava il vino
il campo grande che gli dava il grano;
e il melograno rosso e il biancospino
della sua siepee il campo così smorto
in cui fiorì come un bel cielo il lino:
ciò ch'era morto e ciò ch'era risorto
ciò che nasceva e che moriva al sole
la selvail pratol'oliveta e l'orto.
Di fioric'era un alto girasole
nell'ortoe qualche zinia ed astro in boccia.
Tutto era colto... A lei con l'ali sole
corsetra un rotto pigoliola chioccia.
II
Salutò l'aiail pozzoa tutte l'ore
gemente e frescoe la sua casa oh! tanto
e tanto amata! ma non era amore;
la camerettail letto a duecol Santo
che v'era in cima. Il capo sulla sponda
piangevaed ecco udiva un altro pianto.
«Oh! ella aspetta sempre che risponda
il vitellino!» Eraquel piantoun muglio.
Un muglio sìma era la sua Bionda!
Scesee facea per lei qualche cerfuglio
e qualche frasca. Ecco un ronzio sonoro.
Era uno sciame che sciamava in luglio.
Ronzare udiva quello sciame d'oro
e la sua mucca riudì mugliare.
Rondini udiva cinguettare in coro
venute al nido sopra il vento e il mare.
III
Ed il domani baciò Nando e Dore
che scappòil babbo a cui ballava il mento;
che amavaoh! quanto! ma non era amore.
Ei disse: «Gioia dentrolume spento».
Baciò la madreche la benedisse;
e Violettacol suo viso attento
tacitagravele pupille fisse.
IL CHIÙ
I
- Addio! - La nottetroppo grande il letto
era a Viola. Stava dal suo canto
con incrociate le due mani al petto;
ma non dormiva. Non aveva pianto.
Dicea di quando in quando una preghiera.
Dormirsognarenon volea; ché tanto...
non c'era più! Perché sognar che c'era?
non saper piùma per un pocoappena
ch'era partita al rosseggiar di sera?
La notte in cielo risplendea serena:
tra cielo e terra un murmureuno spesso
palpitol'onda d'un'assidua lena.
E Violetta si chiedea sommesso
dov'era quella che non c'era più.
Col dolce verso sempre mai lo stesso
le rispondeva di lontano il chiù.
II
Splendea lassù la gran luce di Sirio.
Recava odor di fiori pésti il vento.
- Ell'era andata a chi sa qual martirio!
Oradov'era? A lume acceso o spento?
Buon che le mise al collonell'aspetto
quella sua croce piccola d'argento!
Ella doveva ora vegliar nel letto
sola con lui! senza sperare aiuto! -
Viola i panni si stringea sul petto.
- Che cosa avrebbe egli da lei voluto?
Qual piaga dare tenera e mortale
a quelle carni bianchedi velluto?
Qual pianto fa di quel ch'è orae quale
rimpianto mai di quel ch'un giorno fu!... -
Col mesto verso eternamente uguale
le rispondeva di lontano il chiù.
III
Quando cantò la prima capinera
nel puro cielo d'ambra e di viola
dormivasciolta la gran chioma nera.
Dormiva fortestretta alle lenzuola;
e se sognònon ricordòche cosa.
Si levò tardi. E come teViola
anche i tuoi vecchi. E tu più tardio Rosa.
LE DUE AQUILE - I DUE ALBERI
LE DUE AQUILE
I
La rupe è là con altre rupi intorno
altanell'immobilità del gelo.
Talor vi ruota all'apparir del giorno
una grande ombra che vien giù dal cielo.
II
La rupe un giorno par che muovail ghiaccio
sembra che crocchi e crepitifin ch'esce
tristo un fil d'acqua da un sottil crepaccio.
Al sordo e cupo fremere si mesce
ora un bisbiglio ed un gorgoglio lene.
Con l'ali aperte scende l'ombracresce
all'improvvisoe grande sta. - Che avviene? -
III
E l'uccellaccio posa sopra il ciglio
dell'alta rupe; e sente che s'abbassa
la rupe sotto l'uno e l'altro artiglio.
Tacito vatacito vienepassa
con le grandi ali. Tronchi d'agrifoglio
e d'oleastro porta getta ammassa.
Ora il bisbiglio e il fievole gorgoglio
si fa rumoregiù di balza in balza
divien fracassogiù da scoglio a scoglio...
Tutta s'apre la fulva aquilas'alza...
IV
S'alza a vedere; tra le nubi e i venti
s'adagia in cielo. Nelle valli brune
vede gettarsi i botri ed i torrenti.
Vanno con un feroce urlo comune
chi qua chi là. Scendono ciechi al piano
portano massitravialbericune.
Hanno la cupa voce d'uragano
e di valanga; ed il fragor con loro
rapido vama non è mai lontano.
Fuor dalle nubirisplendente d'oro
l'aquila ruotaremeggiando lenta
sopra il terrestre vortice sonoro.
E s'alza ancora ed alto un grido avventa
atroceper le vane plaghe sole.
Tre volte gridae sta tre volte intenta
all'eco forse che ne mandi il sole.
V
Amore! amore! amore! Ecco apparita
sopra le nubiimmobile su l'ale
tremando in cuor lo squillo della vita
tremando in cuore il palpito immortale
della sua vital'altra aquila. S'alza
lentae ricorda a man a man che sale.
Ricorda tuttoe presso lui già sbalza
e insieme precipitano al profondo
prèdansi a furia; l'anno e l'ora incalza:
vuole due grandi aquile nuove il mondo!
VI
Amore! amore! Or egli tra lo scroscio
delle cascate s'inabissa a piombo
artiglia il dainolacera il camoscio;
e brani rossi portae sul rimbombo
delle valanghe suona aspro il suo grido
di sangue e morteche poi frena: il rombo
solo dell'ale ode il solingo nido.
VII
Amore! Ed ella cova. Il capo eretto
e gli occhi fissilunghi giorni e notti.
Col rostro adunco ora si spiuma il petto
sprimaccia il covo. Sente gli aquilotti...
LA PIADA
I
Il vento come un mostro ebbro mugliare
udii notturno. Errava non veduto
tra i montie poi s'urtava al casolare
piccoloed in un lungo ululo acuto
fuggiva ai boschie poi tornava ancora
più ebbrocon suoi gridi aspri di muto.
L'udii tutta la notteed all'aurora
non più. Dormii. Sognaisu la mattina
che la pace scendeva a chi lavora.
Or vedo: scende. Scende: era divina
l'anima. Il cielo tutto a terra cade
col bianco polverìo d'una rovina.
Non un'orma. Vanite anche le strade.
La terra è tutto un solo mare a onde
bianchedi porche ov'erano le biade.
Resta il mio casolare unicodonde
esploro in vano. Non c'è più nessuno.
E solo a me che chiamoecco risponde
il pigolio d'un passero digiuno.
II
Sul liscio faggio danzi corra voli
Marialo staccio! Siamo soli al mondo:
facciamo il pane che si fa da soli!
Voli lo staccio e treppichi giocondo
vaporando il suo bianco alito fino
che si depone sul tuo capo biondo.
O lieve staccioio t'amo. Il tuo destino
somiglia al mio: tener la crusca; il fiore
spargerlo puro per il tuo cammino.
E fai codesto con un tuo rumore
lietoin cadenza: semplicema bello
per l'orecchio del pio lavoratore.
Ma tristesotto mezzodìper quello
del viandanteche rasenta i triti
limitari del lungo paesello:
ch'ode un danzar segretoode tra i diti
di donna solain ogni casaandare
tecasalingo cembaloche inviti
lo sciame errante al tacito alveare.
III
Taciquerulo passero: t'invito.
Sempre diventa il tuo gridìo più fioco:
taci: or ora imbandisco il mio convito.
Il poco è molto a chi non ha che il poco:
io sull'aròla pongooltre i sarmenti
i gambi del granturcoabili al fuoco.
Io li riposi già per ciò. Ma lenti
sono alla fiamma: e i canapugli spargo
che la maciulla gramolò tra i denti.
Nulla gettai di quello che non largo
mi rese il campo: la mia man raccoglie
anche i fuscelli per il mio letargo.
Serbo per il mio verno anche le foglie
aride. Del granturcoecco via via
mi scaldo ai gambi e dormo sulle spoglie.
Ciò che secca e che cade e che s'oblia
io lo raccolgo: ancora ciò che al cuore
si stacca triste e che poi fa che sia
morbido il sonnoil giorno che si muore.
IV
Il mio povero mucchio arde e già brilla:
pian piano appoggio sopra due mattoni
il nero testo di porosa argilla.
Marianel fiore infondi l'acqua e poni
il sale; dono di teDio; ma pensa!
l'uomo mi vende ciò che tu ci doni.
Tu n'empi i marie l'uomo lo dispensa
nella bilancia tremula: le lande
tu ne condiscie manca sulla mensa.
Ma tuMariacon le tue mani blande
domi la pasta e poi l'allarghi e spiani;
ed ecco è liscia come un foglioe grande
come la luna; e sulle aperte mani
tu me l'arrechie me l'adagi molle
sul testo caldoe quindi t'allontani.
Iola giroe le attizzo con le molle
il fuoco sottofin che stride invasa
dal calor mitee si rigonfia in bolle:
e l'odore del pane empie la casa.
V
Chi picchia all'uscio? Tu forseAasvero
che ancor cammini per la terra vana
arida foglia per un cimitero?
Chi picchia all'uscio?... E fioca una campana
suona... Chi suona? Forse un vecchio prete
restato a guardia della tomba umana?
È solo; e ancora a mezzodì ripete
l'Angelused a rincasare invita
mortivoiche sotterra ora mietete.
Socchiudo l'uscio. - Antica ombra smarrita
che in cerca erri del corpo; ultima foglia
che stridi ancora dove fu la vita;
qual vento t'ha portato alla mia soglia
vecchio ramingoultima foglia morta
d'albero immenso che non più germoglia?
Ma tu sei vivo: hai fame! E qui ti porta
necessità. Sei vivo: soffri! Vivo
sei: piangi! Ed eccodunqueapro la porta:
entrafratello; ché ancor io... sìvivo. -
VI
Entravegliardoantico ospite: ed ecco
l'azimo antico degli eroiche cupi
sedeano all'ombra della nave in secco
(si levarono grandi sulle rupi
l'aquile; e nella macchia era tra i rovi
un inquieto guaiolar di lupi...):
il pane della povertàche trovi
tureduce aratoreesca veloce
che sol s'intrise all'apparir dei bovi:
il pane dell'umanitàche cuoce
in mezzo a tuttisopra l'arae intorno
poi si partisce in forma della croce:
il pane della libertàche il forno
sdegna venale; cui partiscio padre
tunelle più soavi ore del giorno:
ognuno in cerchio mangia le sue quadre;
piùi più grandie assai forse nessuno;
o forse n'ebbe più che assai la madre
cui n'avanza da darne un po' per uno.
VII
Azimo santo e povero dei mesti
agricoltoriil pane del passaggio
tu seiche s'accompagna all'erbe agresti;
il panecheverrà tempo e nel raggio
del cielosulla terra almagli umani
lavoreranno nel calendimaggio.
Ché porranno quel dì su gli altipiani
le tendee nel comune attendamento
l'arte ognun ciberà delle sue mani.
Ecco il gran fuocoche s'accende al vento
di primavera. Ma in dispartegravi
sulla palma le bianche onde del mento
parlano i vecchi di non so che schiavi
d'altri e di sé: ma sembrano parole
sepoltedei lontani avi degli avi.
Guardano poi la prole della prole
seder concordeecon le donne loro
e i loro figliin terra sotto il sole
frangere in pace il pane del lavoro.
GLI EMIGRANTI NELLA LUNA
CANTO PRIMO
Il brodiag e lo studente
I
Mancava ormai la legna e l'acquavite.
Non venne il sonno e ritornò la fame.
Disse un brodiag ai contadini: «Udite?»
Si lisciava la gran barba di rame
senza parlaree si togliea tra il pelo
le foglie secche e qualche fil di strame.
Quelli aprivano gli occhi color cielo
zuppi di sogno. «Il vento!» disse: «il vento
del nord! Quest'anno tarderà lo sgelo!»
E l'isba scricchiolò con un lamento
lungo ad un urto. Alzò le spalle un vecchio
senza levare dalle palme il mento.
Gli altri alla romba porsero l'orecchio.
«Hai panetu» ghignò il brodiag «tufieno!
legna nel canto! latte anche nel secchio!»
«Che farci?» disse il vecchio. «Olionon meno!...»
Il lume un po' guizzò palpitò sfrisse
si spense. Il vecchio disse: «Olionemmeno».
Che farci! Serrò gli occhi. Altro non disse.
Ecco e s'empiva l'abituro d'una
pallida nebbia. Ché via via men fisse
vanian le stelle all'alba della luna.
II
E la luna calante batté gialla
sull'impannata. Nettasenza brume
stavasul liscio mar di neve a galla.
L'immensa taiga biancheggiava al lume.
Qualche betulla nudaqualche cono
d'abetee solchi d'ombra d'un gran fiume.
E si levò tra quelle genti un suono
dolce di voce: «Il giovine straniero
giunto tra noiche parla a noich'è buono...
egli sa tutto; vede anche il pensiero
chiuso nei cuori... egli leggeva un giorno
un libroil libro che ci dice il vero...
La Lunadiceè un'altra Terraattorno
a questa Terra. E ci si va. C'è gente
che v'andòche ne parlaoraal ritorno...»
La giovinetta voce piovea lente
le sue parole. Balenava un raggio
or qua or là da due pupille attente.
E il contadino e il boscaiol selvaggio
e donne e bimbi nella solitaria
capannaudian la storia del passaggio
a quella lunaper il mar dell'aria.
III
Scrollò la testail vecchioe disse: «Fole!
L'uomo non volao garrula ghiandaia
come gli uccelli e come le parole!
L'acqua ci può. Sul fiume va l'alzaia
non già per aria. L'aria è aria; nulla.
Ma l'acqua è cosaquando pur traspaia.
Fole da dire sotto una betulla
d'estatea sera...» Ed ella disse: «Allora
le nuvole?...» E il brodiag: «Eccofanciulla!
Terra e lombrichi vede chi lavora
le terra. C'è nel mondo altroche il grano!
Il sole cade; e l'uomo fa l'aurora!
Uno bisbiglia; e l'ode uno lontano
le mille miglia! I carri vanno a torma
da sécon un fragore d'uragano!
E c'è chi vola senza lasciar l'orma.
Sì! Sì... come la nuvola che batte
nella lunae si ragna e si deforma...»
Le sue parole in un chiaror di latte
passavanonel loro alitar su.
Come nuvole presto fatte e sfatte
le rimirava l'umile tribù.
CANTO SECONDO
Com'è la luna
Scórsero i giornianche le notti; e il vento
soffiò più fortee si levò la luna
più tardie il fuoco morto e il lume spento
s'era più presto: un'altra nottee una
pallida nebbia errò su padri e figli
non sazi. Ma la madre era digiuna.
Destò la luna i languidi sbadigli
degli altri: a lei si rifletté su gli occhi
umidi e lustri sotto i curvi cigli.
Si scaldavano un poco ora i marmocchi
a lei. L'ultimoin terrail capo ciondo-
loni via via le urtava ai due ginocchi.
Ella parlò: «Se fosse qui quel biondo
grande... Ma egli prese la bisaccia
vuota; e chi sadov'ora è maidel mondo?
Io gli avrei detto: Non è lei che ghiaccia
i fossi e i fiumi? Non è lei che imbeve
del suo biancore i lunghi teli e l'accia?
Non fa la brina e il gelo essa? Ci deve
far così freddo! tra le stelle sole
liscielustranti! Quel biancore è neve...»
«Nomamma» disse la fanciulla: «è il Sole!»
II
E la tribù guardò nel cielo. Quella?
Dunque piena di sole essa trascorre
di nottecome una più grande stella?
Una piccola Terraor sulla torre
or sull'abete... Ma quell'ombre? Monti
quelle ombrerupi valli greppi forre...
rughe: le rughe delle vecchie fronti.
Ma elladunqueè vecchia calva ossuta
senza verde di frondiacqua di fonti?
E la fanciulla disse: «Io l'ho veduta.
In un suo libro. Egli sapea contare
i monti e i mari. Io l'ascoltava muta.
C'è il Mare di Serenità. C'è il Mare
di Nubi. Anchedi Pioggie e di Tempeste.
Un altro Mare senza l'acque amare.
C'è la Palude delle Nebbie meste.
C'è anche un Senoa goccia a goccia pieno
di guazza dalla grande alba celeste.
E c'è il Lago dei Sogni. Anche c'è il Seno
delle Iridi: tanti alti archi di porte
nel cielo: un infinito arcobaleno.
Vicino ai Sogniil Lago della Morte».
III
Anche la morte? e dunque anche i viventi?
«No! no! nessuno. Chi v'andòdiscese.
In terra avea del bene e le sue genti».
Dunque nessuno... O tacito paese
sopra le nubio isola del cielo
che fiorisci e sfiorisci d'ogni mese!
Il sole ha fatto colassù lo sgelo!
Gli stagni son coperti ora dei gigli
d'acquaa fior d'acqua sopra il lungo stelo.
Si sommergono gli alberi vermigli
dentro la cilestrina acqua dei laghi.
L'aria è fiorita dall'odor dei tigli.
E rossi e gialli spuntano tra gli aghi
d'abeti e piniche nessun calpesta
fioribocche di lupiocchi di draghi...
Al dolce vento trema la foresta.
Dalla foresta vengono col vento
lontane voci di campane a festa...
Vi s'ode ancora un palpito più lento
un tuffo molle a quando a quandoun va
e vieni: ondeggiamento sonnolento
lassùnel Mare di Serenità.
CANTO TERZO
In sogno
Scórsero i giorni; ancor le nottia una
a unasempre più stellate e scure;
e più tarda e più vana era la luna.
Ma quelli in sogno ecco prendean la scure
avanti l'alba. Eranochi tra un denso
nebbionechi su ventilate alture.
Chi s'arrestava avanti un mare immenso
chi camminavalungo un colonnato
d'enormi pinitra l'odor d'incenso.
E non vedeva che a sé stesso il fiato
ceruloognunoe s'ascoltava il gemito
aridonel silenzio inabitato.
A pini e cerri i pionieri estremi
davan la scure per la lor capanna
e i nuovi aratrie per la nave e i remi.
Quellain un poggioil tetto avea di canna
fiorita ancora. Questaumida ancora
nereggiava sotto alte iridiin panna.
Ma tristi gli emigranti erano! Allora
uno di tronchi costruì l'altare.
E saliva un soave innoall'aurora
dallo scosceso Caucaso lunare.
II
Duela fanciulla e il giovane che amava
ecco non più si videro. Interrotte
n'erano l'orme a un tondo orlo di lava.
Vicino al Lagoessidei Sogniin grotte
azzurreorlate d'ellera e vilucchio
vivean felici. V'era anche la notte
presso quel Lago! Era lor letto un mucchio
d'alghe e di felci; e li addormiva il vago
sogno dell'acque e il fievole risucchio.
Presso il Lago dei Sognic'era il Lago
dei Morti; e niuno ardìa venirci. Alfine
erano soli. Il loro cuor fu pago.
E i morti? Ebbeneanime pellegrine
anch'esseanch'esse giunte là dal lido
terrestrebuone e tacite vicine...
non s'udiva che un loro esile strido
di nottecome già sotto le gronde
a notte buia il pigolìo d'un nido:
lo stridoch'uno chiama uno risponde
allor che spunta dalle cimeed erra
nel cielo azzurroe tremola sull'onde
azzurrecome un grande astrola Terra.
III
Tutti felici! V'era solo Dio
lassù. Poneano nel lor campo un sasso
poneano un segno al lor canotto: È mio!
Ma non premeva le lor vieche il passo
di miti renne. Il lor tranquillo mare
solo sentiva remigar lo svasso.
Le donne al Mare senza l'acque amare
soleano andare all'acqua; ma lontano
gli uomini in pace le sentian cantare.
La vecchia fame li rodea... ma il grano
c'erama gialle non avea le reste;
ma già prendeano le falciole in mano.
Il vecchio freddo li pungea... la veste
c'era: in dosso alle renne era tuttora.
La legna c'erama nelle foreste.
E non c'è dì senz'albae l'alba è l'ora
più bella; e senza fiore non c'è frutto
e il fiore è belloil fiore è il più che odora.
Ed è bello ogni boccioanche s'è brutto...
Sì; ma il lor mondopiù vicino al dì
era una falceun'unghiaun filo... e tutto
in una luminosa alba vanì.
CANTO QUARTO
Ritorno in sogno
Ed il lor sogno anche vanì dai cuori.
E si sparsero intornocome i cani
dopo una morte: vagolano fuori
fiutano cento miglia oggidomani
piangono all'uscio. Quella madre a Dio
tendevasoladentro séle mani.
Ma c'eraahimè! tanto piagnucolìo
di madrial mondo! che potean soltanto
dired'un po' di carne viva: È mio!
Il cielo alfine si velòpoi franto
giù si versò. L'acqua s'udia cadere
col suono ora d'un cantoora d'un pianto.
Non c'erano nel mondo albe né sere.
C'era un silenzio fatto di frastuono
nei giorni oscurinelle notti nere.
Ed ecco che rimbombò lungo un tuono
allegroapparve in fondo al cielo un fioco
raggio di soleun suo sorriso buono.
E su la terra non restò per poco
che un luminoso sgocciolìo sonoro;
e poitra i cirri e i cumoli di fuoco
un filoun'unghiaera una falce d'oro!
II
Scórsero i giorni; ella cresceva: ed ecco
l'un dopo l'altro scesero a trovare
la lor capanna e la lor nave in secco.
L'erba cresceva sopra il limitare.
Lungo il lido la nave intarmoliva.
Là sui monti funghito era l'altare.
Chi stava in monteora scendeva in riva
del mare. Chi vivea presso lo stagno
ora cercava una sorgente viva.
E ciascuno s'urtava al suo compagno.
Tacitiprima; e quindi alcuno disse:
«Vamosca!» e l'altro ribatté: «Varagno!»
Al Mare Dolce s'accendean le risse
striduleacute. V'accorrean dai monti
l'ascie nei tronchi abbandonando infisse
gli uominicalmi e gravi in visoe pronti
nel cuorea tutto. Uno dicea sereno
il viso: «O donnamancheranno fonti!
Prendi l'orciuolo e va per acqua al Seno
della Rugiada!» Era sparita intanto
la luna; e folgorava egli un baleno
d'odio a colui che gli tremava accanto.
III
E malcontenti erravano già tutti
lassùnotturninell'odor del sole
che apriva i fiori e maturava i frutti.
E questi invece si mettea per gole
nere di montie quegli ambiva rade
nei grandi mariinesplorate e sole.
E quegliandando per anguste strade
vedeva un altrodi rincontroal varco.
Si vedeano con truci occhi di spade...
E questi cauto s'allestìa lo sbarco
tra giunchi e biodiquandoecco un burchiello
venirpiccolo e nerosotto un arco
d'iride... Ognuno fuggì via dal bello
e scese tra le nebbiealla Palude.
Ma vi trovava l'ombra del fratello.
E da per tutto s'incontravarude
in quella donna con la sua sommessa
vocecon quelle creature ignude.
In poco tempo il lor dolore messa
avea la sua radice anche su lì;
e quella Terra era già vecchia anch'essa:
soffriva ognuno ciò che già soffrì.
CANTO QUINTO
L'altra faccia lunare
Crescea la luna. Ognuno già per ogni
plaga passava come a lui straniera.
Ognuno al Lago ora pensòdei Sogni.
Forse la morte non temeantant'era
la lor tristezza. E il Lago era pur bello
con le bianche ninfee di primavera!
Ivi abbracciato al dolce oblìo gemello
era il ricordo. Ivi cantava un nido
da sépartito ch'era già l'uccello.
Cantava il cuoreorada sécol grido
d'alloraa notte! E ve l'udian cantare
i soli morti assisi lungo il lido.
Ed era il Lago ora nel lumee chiare
fiorian le schiume. Eccouna luce scialba
si diffondea nel Caucaso lunare.
E dalle grotte orlate di vitalba
videroi duerifulgere le accette
lassùnel montetra il chiaror dell'alba.
S'udiva per le valli e per le strette
l'arido scroscio delle foglie morte...
I lor compagni erano sulle vette
volti ai Laghi dei Sogni e della Morte!
II
E si levò tra quelle genti un suono
dolce di voce. Usciva allor da un velo
rado la luna penduladal cono
d'un abete. Una nebbiaun ragnatelo
di luce scialba tremolò su crani
lustrisu cenci e bioccoli di pelo;
e rifulsero allora occhi lontani
zuppi di sognoe bocche aperte a un alto
ululo. Il pugno si stringean le mani.
Videro tutti làdi soprassalto
quella fanciullacon le braccia in croce
bianca sul liscio lago di cobalto.
Ella parlava timida e veloce.
Quello che ammansaquello che consola
pioveva dalla giovinetta voce.
«Io l'ho veduta. Corre semprevola
passa. Ma mentre vache non mai posa
a noi non volge che una parte sola.
Vediamonoinel cielo azzurro o rosa
sempre quelle montagnesempre quelle
paludi. Sempre. Ma di là? Che cosa
è mai di làverso le grandi stelle?»
III
E la luna fu mezza. Erano tutti
di là. Ciascuno avea varcato un nero
cerchio di montiun bianco orlo di flutti.
Ciascuno andava per un suo sentiero.
Movean lassù per il paese vuoto
silenzïoso come il lor pensiero.
Movean pensosi; e cancellava il moto
l'orme sue stesse; per l'eternamente
non vistoper l'eternamente ignoto;
làdove il tutto rifiorìa dal niente
liberodove s'adempìa perenne
un sognosogno del buon Dio dormente.
C'era anche il pane. E c'erano le renne
placideil latteil fuoco: tutto! Oh! molto
pensava il vecchio: ma di là non venne.
Oh! la sua Terra! Egli torceva il volto.
Veder la Terra gli era assai; ché infine
e' non doveva ch'esservi sepolto.
Oh! pur dal fascioch'eralìdi spine
all'appressarsi dell'oscurità
veder la Terra rosseggiar sul crine
delle montagne e dileguar di là!
CANTO SESTO
In cerca della guida
Più che mezza la luna erae più ore
restava sutra l'iridato alone
e le notti imbevea del suo pallore.
E sonava il fragor d'un acquazzone
sempre: era il fiume che la terra brulla
fendeacantando la sua gran canzone.
Rimpennava ogni tiglioogni betulla.
Era la primaveraera lo sgelo.
Euna serauno esclamò: «Fanciulla!
Dov'è colui che sa le vie del cielo?
La luna è là. Le cose ormai son fatte».
Ciascuno attese. Anche quel vecchioanelo...
«Oh! no! Restiamo! O madre che si batte
perché ci nutra! O madre che si lascia
se non dà panedopo dato il latte!»
«Dov'è?» chiedeva con segreta ambascia
la trista madre. Che darebbe or ella
ai bimbia cena? il ferroormaidell'ascia?
«Dov'è?» Splendeva una solinga stella
presso la lunaper il gran deserto
del cielo. «Dove?» «Sìdov'èsorella?»
«Dov'è? Cerchiamo. In qualche luogo è certo».
II
Si sparsero dall'alba di quel giorno
come da quercia morta aride foglie
a una ventata che le sparge intorno.
Stavanocome indifferentia soglie
di vecchie casead ascoltar lìgronchi
l'uomo gridare e sfaccendar la moglie.
Battean le selve; il frullo dei bofonchi
parea parole: erano péste i picchi
dei picchi verdi sui marciti tronchi.
Sedean sopra le pietre nei crocicchi
guardando i carri; con pupille fisse
seguendo al passo i contadini e i ricchi.
Non c'era più! Non c'era più! Ma disse
alcuno: «Forse... se per suo costume
quello straniero sol a notte uscisse?»
E per le lande errarono nel lume
di lunatuttiper le selve rare
lunghesso il verde scintillìo del fiume.
Videro alcuni un uomo in mezzo a un mare
di luceneroe diedero la voce...
Ed era il vecchio che volea restare;
sopra un sepolcroa' piedi d'una croce.
III
E scórse un giorno. E spuntògrande grande
la luna pienae per il ciel si mosse.
Risplendean l'acquerisplendean le lande.
Come di giorno. Un giorno senza rosse
luciné voci; il giorno d'un riverso
silenzïosoche nessun più fosse.
Per verointornoqualche cane sperso
urlava a lupo. Al colmo era la luna
sola soletta in mezzo all'universo.
E nella terra errava quella bruna
compagnia d'ombre. Elle tendean le braccia.
Avean lassù tutta la lor fortuna!
E case e terre! E persa avean la traccia
della lor guida! E videro uno spetro
lontanocol bastone e la bisaccia.
Corsero. Corsecoi marmocchi dietro
la madre. E come furono di paro...
era il brodiag. Egli si fermòtetro.
La grande barba risplendeva al chiaro
di luna... «Guidaesso non c'èsii tu!
La luna è pronta...» Oh! come rise amaro!
Rideva; e i cani urlavano vie più.
I DUE ALBERI
I
Vento dei Santiil giorno si raccoglie
già per morire; e tu su' due gemelli
alberi soffie stacchi lor le foglie.
Ora le tocchi appenaora le svelli:
quali cadono a una a unaquali
partono a branchicome vol d'uccelli.
Tutta una fugaquando tu li assali
si fa nel cieloe in terrafra le zolle
un fruscìo grandeun vano tremor d'ali:
stridono e vannogirano in un folle
vorticefrullano inquïete attorno
calano con un abbandono molle.
A volte sembra muovano al ritorno
a sbalzi... Matu le riprendie porti
con tevia. Tutte son cadute e il giorno
è morto: tu lo saivento dei Morti!
II
Viene col vento un canto di preghiera
e di tristezzae vanno via le foglie
con luistridendo in mezzo alla bufera:
«Noi di noi siamo le fugaci spoglie:
la nostra vita è sempre là dov'era.
Il vento in vano all'albero ci toglie:
là rinverzicheremo a primavera».
Col vento via le vane foglie vanno;
gemonomentre intorno si fa sera.
«Non torneremo al rifiorir dell'anno:
noi ce n'andiamo avvolte nell'oblìo.
Non fu la vita che un fugace inganno.
L'albero è morto. Addio per sempre! Addio!»
È morto il giornoed anche muor la sera
ed anche muore il canto tristo e pio.
E il cielo splende su la terra nera.
III
Il vento trova la sua strada ingombra
di foglie e stelle. Gli alberisparito
e l'uno e l'altro. Io vedo una grande ombra.
Ne vedo un solo. All'animo lo addito
l'albero solo. Spunta da un velame
di nebbia eternaed empie l'Infinito.
Protende le invisibili sue rame
cui sono appesi d'ogni parte i mondi.
Si crolla ad un grande alito il fogliame;
e d'un perenne tremolìo le frondi
lustrano ardenti. Alcuna cade e brilla
giù per gli abissi ceruliprofondi.
Iosotto la coronache sfavilla
dell'Universoodosmarrito assòrto
uno stridìo. Forse una foglia oscilla
ancora a un ramo dell'albero morto.
LA VENDEMMIA
CANTO PRIMO
- Una vendemmia facosìpiacere!
Nemmeno un chicco marcio nella pigna.
- E tutte pignesalde fisse nere.
- Uva d'alberie pare uva di vigna.
- Ma qui ci son d'agosto le cicale
da levar gli occhi! qui la vite alligna!
- Porta il bigoncio. - È pieno.
- Avessi l'ale!
Avessi l'ale d'una rondinella!
Il nido lo farei nel tuo guanciale.
- Guarda: la vespa vuole la più bella.
- L'ape fa il mieleeppur le basta un fiore
fior di trifogliofior di lupinella.
- Ha fatto buono all'uva lo stridore
di tutta estate. - Ciò che fa per l'una
non fa per l'altro. - Oracontava l'ore.
«Qua le canestredonne».
- O bella bruna!
Quando nascestiin cielo una campana
sonava solaal lume della luna.
- Questa la stenderete sull'altana:
è troppo bella per andar nel tino.
- Ma anche quello è come vin di grana!
- Non ci fu pioggienon ci fu lo strino.
- Portate bere. Molto all'uva aggrada
sentirsi in viso l'alito del vino.
- Pigia il bigoncio un po'.
- «Sono in istrada
E che mi dàiche mi conviene andare?»
«Un bacio in boccaperché tu non vada».
- La paradisa ha pigne lunghe e chiare
e tutti d'oro sono i chicchie hanno
il sole dentroil sole che traspare.
- Rigodi tutte queste quisi fanno
cipelleacchétu con la moglie accanto
ne mangi all'albail primo dì dell'anno.
L'uva vuol dire il buonoil belloil tanto.
E porta beneo Rigo.
- Ho controio sento
fin le finestree quando passo e canto
si chiudono da loro senza vento.
II
Così staccavi la dolce uvaalfine
co' tuoi viciniché i vicini sono
mezzo parentie con le tue vicine
o Rigo. Il tempo era da un pezzo al buono
e la vendemmia si cocea matura
anche a bacìo; quando sentisti un tuono.
Dicesti: il bello è belloma non dura.
E vendemmiasti. Ed era un giorno asciutto
si scivolava per la grande asprura
cupo di vespe era un ronzìo per tutto
calda era l'uva enei bigonci ancora
rendeva già l'odor del mosto e il flutto.
La gente era venuta sull'aurora
quando la guazza o la nebbietta inerte
vapora in cieloe il cielo si colora.
Allor le donne ascesero per l'erte
parlando bassoe recideano a prova
le pigne con le piccole ugne esperte.
Le recideano al nodo che si trova
a mezzo il gambo. Le galline intorno
bandian l'annunzioad or ad ordell'ova.
Ma crebbe il vario favellìo col giorno.
Montavaper tagliare le pinzane
un giovinetto sul pioppo e sull'orno.
Cantava poiquand'erano lontane
le donnequando in una sua cestella
portava il vino Violetta e il pane.
Ell'era in casa della sua sorella
da un mese e più; ma stava per tornare
a casa suapiù pallida e più bella.
«C'è tempo:» Rigo alla gentil comare
diceva «addietro è là da voi la vite.
Poi verrò io: non c'è di mezzo il mare».
Era un piacere rivederle unite
le due sorelle al solito lavoro!
Ma quelle serenell'ottobre mite
anche si dava che piangean tra loro.
III
Erano quella sera alla finestra.
Salìano gli uni coi bigonci pieni
l'altre scendean con vuota la canestra.
Parlavano nel lungo va e vieni
altoché in loro anche parlava il vino.
«Si vuol finireprima che si ceni».
«Non resta che il filare qui vicino.
Saranno due bigonci o tre; ma un poco
perché li tengavuol pigiato il tino».
Il cielo già si colorava in fuoco.
Al colmo tino il giovinetto snello
si lanciò sucome a provar per gioco.
Stette sull'orlo un poco in piedibello
raggiante tutto del suo bel domani
a braccia spantesimile a un uccello.
Poi si chinòs'apprese con le mani
all'orloe dentrofra le pigne frante
tuffò le gambe e sul crosciar dei grani.
Il rosso mosto risalì spumante
sopra i garretti; ed ei girava a tondo
premendo coi calcagni e con le piante.
E il sole rosso illuminava il biondo
vendemmiatore; ed eccoda un remoto
canto del cielo un tintinnìo giocondo.
Unodal cieloaccompagnava il moto
dei piedi suoidi su quei rosei fiocchi
picchiando in furia sur un bronzo vuoto...
L'altro moveva rapidi i ginocchi
sul rosso mostoanche movea la testa
ben in cadenzail sole in mezzo agli occhi.
Ma era un suono di campane a festa.
E quei pigiava; quandoall'improvviso
Rosa lassùRosagià muta e mesta
si levò sumolle di pianto il viso
con un singhiozzoe Violettachina
a guardar fuori immersa in un sorriso
si volse biancae mormorò: Rosina!
CANTO SECONDO
I
«Rosina! L'hai promesso anche stamane...
Non pianger più!» Ma Rosa pianse ancora
tra il suono a festa delle due campane.
«O Violettami pareva or ora
fosse la gloria per un angiolino...
oh! come quando... Fu dopo l'aurora.
Sentii parlare ed un odor vicino.
Avean qualche garofano e viola:
una ghirlanda per il mio bambino.
E c'era il preteil prete con la stola.
- Ma tutto ha qui! le robe sue ben fatte
la sua cunella con le sue lenzuola
e un petto ancora pieno del suo latte!
II
Non vuol venire. È tristoche fa pena.
Oh! come è tristo! In vero è così poco
che ride un poco! Ci ha imparato appena! -
Ricordo un giorno lo sfasciavoal fuoco
e lo guardavo. Ei tese il dito a un occhio.
Lo vide lustrogli pareva un gioco
chi sa? vedeva un altro bel rabocchio
lì dentro. E io me lo tenea lontano
lo patullavo in alto d'in ginocchio
gli prendea la manina nella mano
e la scotevagli facea le rise;
ed eccoanch'egli si provò pian piano
fece bel bello le fossettee rise.
III
Rise. M'avea riconosciuta: ero io:
la mammaahimè!... Primadiceva al seno
con gli occhi e con le due manineÈ mio!
Dopoero suatuttané più né meno.
Ese vagiva e se piangevaal suono
della mia voce si facea sereno.
Com'era savio! Come savio e buono!
A voltequando era a dormir di giorno
entravoudito un gridoun tonfoun tuono...
S'è desto? Nulla. Qualche mosca intorno
ai vetri... Alzavo il velo della culla.
Sul guancialino coi belli orli a giorno
ridea tra séguardando in altoa nulla.
IV
Oh! non a nulla! Egli ridevaio penso
con gli angioletti. Io ci sentii l'odore
di giglia volte; o un vago odor d'incenso.
Nella sua stanza essi venian nell'ore
calde che i bimbi dormono. Alla gola
uno lo vellicava con un fiore;
e tutti attorno alla cunella sola
facean i giochied e' guardava attento
come lassù si canta e suona e vola:
scoteano i loro cembali d'argento
battean sui loro tamburelli vani...
Entravoe via sparivano col vento:
rideva essoannaspando con le mani.
V
Ma poi... piangeva. Mi si fece bianco
e stentoe quando lo attaccavo al petto
succhiava un poco e poi pareva stanco.
Non mi voleva. E quasi avea dispetto
della sua mamma. Quante n'ho cantate
di ninnenannesenza toccar letto!
Me lo ninnavo in collo le nottate
intere al frescouscendo con lui fuori
al lucciolìo dell'odorosa estate.
Pensavo ai mesi ch'ebbi in me due cuori...
Come piangeva or l'uno e l'altroaccanto!
E tra quella allegria di grilli mori
come passava triste ora quel pianto!
VI
- Ma che vuoi dunque? Andar con loro? E ch'io
ti lasci andare? A me tu lo domandi?
Per me t'ho fatto! - Eppure un giornoaddio!
- Hai pianto e pianto a ciò che ti rimandi
donde sei sceso. Ora ti lascio alfine! -
Restò con gli occhi aperti fissi grandi.
Gli misi la cuffietta con le trine;
la sua camiciala sua vesticciola
gli misi i fiori nelle sue manine.
L'accomodavo senza far parola
quando d'un tratto udii parlar da basso.
Gli misi le scarpine con la suola
novapulita... O Dionemmeno un passo!
VII
La terranon l'avean toccata ancora!
oh! i miei piedini!... I bimbi della scuola
venner coi fiori un po' dopo l'aurora.
E c'era il preteil prete con la stola.
Era pronto il bambinoera vestito.
Quando sonò la gloria alla chiesuola...
Che scampanìo festoso ed infinito!
L'angiolo andava a gli angiolia cui tanto
avea sorriso tacito e romito.
E vava purepiccolo mio santo...
Cos'è la mamma? E che può darti? Il petto
e un po' di latte; il cuoreun cuore affranto;
e poicos'altro? Oh! nienteangiolo eletto.
VIII
Va dunquee tuveglia su leisu loro.
E cosa ha fatto ella per te? T'ha fatte
due camicine: non un gran lavoro!
Lassù quell'uomo batte batte batte
sulle campane... Io guardo il bimbomuto
con gli occhi apertigli occhi ancor di latte...
Ah! che capiiche non avea voluto
che non voleva! Quel gran piantooh! era
che non volevae mi chiedeva aiuto!
Nella cassina stava lìdi cera
con le manine che facean Gesù
con gli occhi aperti sino da ier sera:
guardava... - O mammache non mi vuoi più! -
IX
Piangea più fortema s'alzò smarrita.
Sentivadentroun rodereun discreto
grattar all'uscioall'uscio della vita;
ma così pianoma così segreto
così lontano... Avea tre mesi appena...
Era già buioe tutto era già cheto.
L'uva era coltae si dovea far cena.
PIETOLE
Sacro all'Italia esule.
I
Siedeadagiato sotto la corona
d'un ampio faggioil dorso ad una siepe
il contadino. E piena d'api i fiori
la siepe manda un lieve suo sussurro.
Splendono intorno e fiumi e laghi al sole
al vento glauche fremono le spighe.
Ad ora ad ora un muglio di giovenchi
cupoe un tremulo ringhio di polledri;
e tubar rauche qua e là colombe
e gemebonde tortori sull'olmo.
Quegli ripete aspre parole ai pioppi
ai lunghi pioppi dondolanti in fila.
E dice:
- I am Italian
I am hungry... -
I pioppi a lui rispondonocol canto
d'un rusignolo ch'ha sui rami ognuno
l'un dopo l'altro; e lontanando il canto
va sino al Mincio ed al ceruleo Po.
II
Ché nell'autunno è per lasciare i campi
il campagnoloe dire addio per sempre
alla sua verde Pietole. Ché fugge
la Patria; dovee' non lo sa per ora.
Qual sia per luide' quattro ventiancora
e' non lo sa; né lo sa meglio il vento
il lieve vento ch'ora sulla palma
gli sfiora e sfoglia crepitando un libro
da portar seco nel cammino ignoto.
Ora a quel vento e' cómpita cantando
strane parole a chieder pane e fuoco
acqua e lavorooltr'alpi ed oltre mare
sotto altro sole...
- Ich bin Italiener
Ich bin hungrig... -
A quelle voci strane
dalle verdi acque echeggiano le rane
con la querela sempre ugualch'eterna-
mente gracidano gracidano...
III
- Soy Italiano
Tengo hambre... -
Ed ecco
brilla nei tardi avvolgimenti il Mincio
cinto d'un orlo tenero di canne;
s'iridacome d'un sorrisoil lago.
Leva tra i biodi la giovenca il muso
e fiuta l'aria con le froge larghe;
né più dismette di tubar su l'olmo
la tortore e la querula colomba.
Risuona tutta la campagna intorno
d'allegri ringhi e cupi mugli lunghi.
E di lontano ora vien su crescendo
la melodia de' rusignoli in coro
quasi canoro aereo ruscello
nel qualepianeguazzano le rane.
Bombisce a un tratto e palpita la siepe
efatto sciamevolano via l'api
come un'oscura nuvola. Ché tu
IV
tu sopra vieni; e ti si fanno incontro
tuttedai florei pascoli e dai bugni
l'api con suon d'avene e di campestri
buccine e franto strepere di trombe;
ecco e piegare al tuo passaggio i pioppi
i lunghi pioppicon l'ondulamento
d'opre che a tondo menino le falci;
ecco e fiottare al tuo passaggio i campi
d'orzo e di granocome ad un fecondo
soffioin un lustro tremolìo di reste;
e impazïenti a te muggir le stalle
chiuse; dall'aie a te squittir la forza
fida dei cani; a tedal pingue concio
rosso plaudirbattendo l'aleil gallo:
perché tu vieni ai dolci campiai noti
fiumiritorni al tuo natio villaggio
alla tua gente ed alla tua tribù
V
Virgilio! O tucui partorì la madre
nei campial soledentro un solco aperto
dal curvo aratro per il pio frumento;
o tuche avesti per gemello un pioppo
che si levò su tutti gli altri al cielo
sì che ai suoi rami si stessean le nubi:
appiè del diochiuso nell'aureo musco
venìan le incintee i loro blandi voti
s'unìan lassù col pigolìo dei nidi:
o tu cui l'arniedi cucite scorze
o di tessuti lenti vinchiall'ombra
dell'oleastropersuadeano il sonno
col grave romboquando a te tra i fiori
era la cuna: fiori d'ulivella
timbra e serpillo che lontano odora
e di viole scese a bere al fonte
al fonte che scivola molle e va;
VI
ritorni al luogodonde già vedesti
passar cacciato dalle sue maggesi
il contadino; che annestati i peri
piantato vignaseminato il grano
avea per altrie che non piùtornando
al regno suo cinto di siepe viva
alla sua reggia dal colmigno a piote
vedrebbe ormaiche qualche grama spiga:
passava avendo siepe e campi in cuore
e l'abituroe si parava innanzi
poche sue capree ne traeva a mano
una che addietro si volgea belando;
che avea lasciato due gemelli addietro
ah! su la ghiara: ed il pastore andava;
ed era l'ora del ritorno a casa
e della cena; e dai tuguri il fumo
salìa nella crescente oscurità.
VII
Virgilioe tudi tra i pastori uscito
vedesti intorno lo squallor dei campi
abbandonatie non più messie date
le curve falci al fonditor di spade
e tolto il coltro all'imporrito aratro:
l'aratro nuovo tu facestid'olmo
piegato a forzae l'erpice e la treggia
ed intessesti le crinelle e i valli;
e nella nuova primaveraal primo
tiepido soffiogli anelanti bovi
spingesti al solcoe nereggiava il suolo
al vostro tergoe si bruniva attrito
lo scabro e roggio vomere. La strada
così segnavi ai campagnoli ignari
l'opere e i giornied impararein prima
la dura terraed osservar nel cielo
la luna e il solee il volo delle gru.
VIII
Ritorni ai campio già dei campi uscito
uscito in riva all'infecondo mare;
in cui vedesti gli esuli del fato
venir col fuoco tratto fuor dal fuoco
venire in cerca dell'antica madre.
Una indugiavadelle stelle in fuga;
una splendea tra il rosso dell'aurora.
Italia! Italia! udivi tu gridare
di su le pruetra l'ànsito del mare.
Sul tremolante rosseggiar dell'onde
nere venìan le navi. E c'era a poppa
d'una un gran vecchio che libava il vino
con gli occhi al cielo. Ed in un verde prato
pasceandrizzando ad or ad or le orecchie
quattro cavalli d'un candor di neve.
Italia! E il mare col sussurro eterno
montava suridiscendeva giù...
IX
O madre grande d'ogni messeo grande
madre d'eroi! D'oro e d'incenso abbondi
nessuna terra è più di lei ferace.
Qui piene spighequi rigoglio d'uve
qui pingui uliviqui fecondi armenti.
Il bel cavallo qui le zampe al trotto
scambia a test'alta; qui con lenta possa
muovono i bianchi bovi trionfali.
Pasconla guerra e la vittoriainsieme!
Qui tiepide aure e il fiore d'ogni mese.
Eppur non tigrinon leonio l'erba
che buona sembra a cogliereche uccide;
né il serpe striscia in terra lungoe s'alza
ravvolto a spire... E quanta opera d'uomo!
Quante massiccie acropoli sui monti!
E quanti fiumi specchiano le grandi
mura di preromulee città!
X
I suoi due mari? dove il Po travolge
lo scintillìo de' ghiacciai su l'Alpi
e dove il sacro Tevere conduce
l'acque di neri sotterranei laghi?
E i grandi laghi? così grande alcuno
che come un mare si ribella al vento?
E i tanti porti? E nelle vene il rame
ebbe e l'argento; ebbe già l'oro: ha il ferro.
Ha questa terra una gagliarda stirpe
d'uominii Marsila genìa Sabella
aspra dal solei Liguri indomati
dalla fortuna. Questa terra al mondo
diede gli eroi: gli uomini pronti al fato
duri alla guerrai Deci ed i Camilli...
Eppur la terra è del buon Dio di pace
del buon fuggiasco ignoto Diola terra
della giustizia e della libertà!
XI
- Soy Italiano
Tengo hambre... -
E Roma
tu la vedesti quando ancor non era.
L'acque del sacro Tevere la nave
salivaall'ombra tremulasolcando
nel liscio specchio la boscaglia verde.
Sul mezzodì videro un colle sparso
di pochi tetti; ma quel dì la gente
cingea col relunghesso il fiumeun'ara
l'ara più grande. Ed in due cori i Salii
giovani e vecchiavendo al capo rami
di pioppo biancodissero un lor canto
tripudïandoal domator dei mostri
e della mortead Ercole sereno
al vïandante pacificatore
armato appena d'un fortuito tronco
d'albero. Ercole nudoErcole solo
figlio del cieloma né dio né re.
XII
E il re pastore e il povero senato
davano incensi all'araun tempo e sempre
massima. E il re del grande Pallantèo
scotean dal sonno i passeri annidati
sotto la stoppia della sua capanna.
Erano scortaal re per viadue cani.
Pascean nel Foro e nelle vie di Roma
mandre di bovi ad or ad or mugghianti;
ed echeggiava il Campidoglio ai mugghi.
Ed era tutto una silvestre macchia
il Campidoglioe ruderitra i bronchi
grandi giacean d'una città distrutta.
Roma era mortae ancor doveal'eterna
sorgere al sole; ancor dovea d'un muro
cingereRomai sette colliil Lazio
l'Italial'Alpii mari ed i deserti
tutte le genti e l'orbe intieroa sé.
XIII
Ma il contadino legge sempre al vento
le rauche cartee lungo sé non vede
Virgilioa cui fremon le messie i pioppi
paion falciare mollemente in aria.
Ed egli parlanon inteso all'uomo
suo paesano; l'odono le miti
giovenche intorno e i fervidi polledri.
O forse l'uomo udir non puòche sopra
ora gli ronza più che primad'api
tornate ai fiorila pasciuta siepe;
e d'ogni pioppo ora risuona il canto
d'un rusignolo; il dolce e triste canto
ch'e' fa notturnoe che somiglia al pianto.
E il migratore cómpita presago
a campi e nubi le sue voci strane;
e quatte quatte nelle placide acque
strepono or quale vecchie raneor là.
XIV
Dice Virgilio: «Oh! troppo fortunati
agricoltoricui la madre terra
latta da sécome una buona madre!
Giusta è la terra e non ti nega il cibo
la madremai: se il grano è pocol'uva
è tanta: è sempre di qualcosaannata.
Poic'è la pacee le gioconde feste
e il sonnellino sotto un olmoal canto
delle cicaleal mormorìo dell'acque.
Tu non sei ricco ed accallato hai l'uscio
sempredi casae la gallina becca
nell'atrio tuo; non hai tappeti e bronzi
e non odoral'aia tuad'amomo:
ma il bimbo riccoin casa tuas'invoglia
di tuttoe tutto ammirae tutto chiede
il paneil pomoil lattel'uovo; e sente
che il buono e il tutto è quello che non ha.
XV
Cerchino gli altri il pallido oro e il plauso
vertiginoso e lascino la soglia
trita dai loroe migrino: tu resta.
Tu con l'aratro i piccoli nepoti
nutrie la Patriae tieni gli occhi in alto
perché tu segui a mano a mano il sole.
Viene l'invernoe tu godi il fruttato
frangi le ulive e affumi quel secondo
orto ch'è il porco che mangiò la ghianda.
La nottevegliappunti facio tessi
valletti e cesti; e la tua moglie canta
tra l'alternar dei pettini e dei licci.
Oppure schiumapiù vicinaal fuoco
con una foglia l'onde che traboccano
entro il paiuolo tremulodel mosto.
O notti! O vita dolce assaich'ha sempre
amor la nottecome sole il dì!
XVI
E perché migri? e perché fuggi? Grande
assai non t'è questo tuo verde campo?
Non ha la siepeche lo fa più grande
perché più tuo? Mugliano i bovii galli
cantanol'api ronzano. Qui tutto
avrei passatoiosenza gloriail tempo!
Quila giustiziache tornava al cielo
sostòlasciando una parola in terra:
- Non l'uno il troppo ed abbia l'altro il poco!
Pace abbia il cuor dell'uomo e non lo muova
il ricco all'astio ed il mendico al pianto! -
Va coi vicinipoi ch'è festae steso
con lor su l'erbae col cratere in mezzo
bevi giocondo... Vissero nei campi
i forti antichi popoli; l'aratro
il solco eterno disegnò di Roma;
l'Italia detta dai giovenchiè qui».
XVII
- I am Italian
I am hungry... -
All'ombra
Virgilio siedenon a lui veduto;
ed in quel core egli ode la querela
del fuggitivo suo pastore antico.
«Non anche dunque al lor levante primo
vennero gli astri e ricominciò l'anno
dell'Universo? E non ne diede il segno
a cieli e terre un fievole vagito?
Non ritornò la Vergine? Non prese
dunque a regnareluce e vitail Sole?»
Virgilio pensa che il vicin suo gramo
fugge dai campioh! non a luinodolci
ch'egli ha solcato con servile aratro
e bovi d'altriper il pane e il sale.
«Dunque non è ricominciato il regno
del Dio latinodi quel Dio che giusto
semina e miete? E Roma non è più?»
XVIII
O buon profeta! o anima immortale
di nostra gente! La Saturnia terra
torni a chi l'amaa chi la vanga ed ara!
Rieda a' suoi posti il migratoree parco
alcuni scabri iugeri redima
come il tuo vecchio Cilicee vi pianti
la sua casettae viti ed arnie e fiori
grano per casae fieno pei giovenchi
e pei nepoti il molto cauto ulivo!
Tu sei con noi: la voce tua che suona
mista di trillidi ronziidi mugli
dal cielo annunzia il nuovo tempo umano.
Per tutto ondeggiasenza resteil grano
il miele sgorga dalle cave quercie
e pende l'uva dagl'incolti pruni.
Italia! Italia!... Ed altri eroi son nati
e saràtuttociò che ancor non fu.