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Franz Kafka

IL CACCIATORE GRACCO3

Ricordando la ferrovia di Kalda

[Diari, quaderno 7, fine agosto 1914:]

Per un certo tempo nella mia vita - sono ormai passati molti anni - ho

lavorato in una piccola stazione nell’interno della Russia. Non sono mai

stato così abbandonato come laggiù. Per diverse ragioni che ora non vale la

pena ricordare, in quel tempo ero alla ricerca proprio di un posto del genere,

e quanto più ero assediato dalla solitudine tanto più ero contento, e dunque

non voglio neppure ora lamentarmene. Nei primi tempi, l’unica cosa che mi

mancava era il da fare. Originariamente, la piccola ferrovia era stata

costruita per qualche ragione commerciale, il capitale però non era bastato,

la costruzione si era interrotta e invece di portare a Kalda, il centro più

grande, distante da noi cinque giorni di viaggio in carrozza, la ferrovia si

fermava in un piccolo insediamento nel mezzo di un deserto, dal quale, per

arrivare fino a Kalda, ci voleva ancora un intero giorno di viaggio. 1 Ora,

anche se fosse arrivata fino a Kalda, la linea sarebbe stata non redditizia per

un tempo imprevedibile, perché tutto il suo progetto era sbagliato, il paese

aveva bisogno di strade e non di ferrovie; ma nello stato in cui la linea si

trovava attualmente non poteva in generale neppure esistere, i due treni che

passavano ogni giorno portavano un carico che avrebbe potuto viaggiare su

una carrozza leggera, e i passeggeri erano soltanto, d’estate, un paio di

contadini. Tuttavia non si voleva abbandonare del tutto la linea perché si

sperava, mantenendola in attività, di attirare capitali per finire la

costruzione. Anche questa speranza, a mio parere, non era una vera

speranza, ma piuttosto disperazione e pigrizia. Si faceva viaggiare il treno

finché fossero durati materiale e carbone, si pagava a un paio di operai uno

stipendio irregolare e decurtato, come se si trattasse di una gratificazione, e

per il resto si aspettava che il tutto cadesse in rovina.

In questa ferrovia dunque ero impiegato, e abitavo in una catapecchia di

legno che era rimasta là dai tempi della messa in opera della linea, e che

contemporaneamente serviva da costruzione di servizio. Aveva un’unica

stanza, nella quale si trovava una panca per me e un leggio per il caso che

1 viaggio.] viaggio. [Perciò la ferrovia non poteva sussistere, era un’impresa del tutto priva di

prospettive, senza contare il fatto che, anche se fosse arrivata fino a Kalda, ancora per un

imprevedibile]

4

dovessi scrivere qualcosa, e su di esso era collocato l’apparecchio del

telegrafo. Quando arrivai, in primavera, l’unico treno passava nella stazione

molto presto la mattina - più tardi questo fu modificato - e a volte

succedeva che qualche passeggero scendesse mentre ancora dormivo.

Naturalmente non rimaneva allora all’aperto - le notti erano laggiù molto

fredde fino a metà dell’estate - ma bussava, io aprivo, e passavamo spesso

ore intere a chiacchierare. Io me ne stavo sulla mia panca, il mio ospite si

accoccolava sul pavimento o su mia indicazione bolliva il tè, che poi si

beveva insieme d’amore e d’accordo. Tutta questa gente di campagna è

tipicamente molto socievole. Io d’altra parte mi ero accorto di non essere

tagliato per una completa solitudine, anche se dovevo confessare a me

stesso che questa solitudine che mi ero scelto cominciava, già dopo poco

tempo, a disperdere le mie preoccupazioni di un tempo. In linea generale

ho accertato che una infelicità dimostra grande forza, se riesce a mantenere

il suo potere su un uomo in solitudine. La solitudine è più potente di ogni

altra cosa, e spinge di nuovo verso gli uomini. Naturalmente allora si tenta

di trovare nuove strade, in apparenza meno dolorose, in realtà solo

sconosciute.

Laggiù mi unii alla gente più di quel che avevo pensato. Naturalmente

non si trattava di un rapporto regolare. Dei cinque villaggi che potevo

considerare, ciascuno era lontano diverse ore sia dalla mia stazione, sia

dagli altri villaggi. Io non potevo allontanarmi troppo dalla stazione, se non

volevo perdere il posto; e questo, almeno nei primi tempi, non lo volevo

affatto. Dunque non potevo andare io stesso nei villaggi e dovevo fare

affidamento sui passeggeri in transito o su persone che non esitavano ad

affrontare la lunga strada per farmi una visita. Già nel primo mese avevo

trovato persone del genere, ma per quanto fossero amichevoli era facile

capire che venivano solo per fare affari con me; e d’altronde non

nascondevano neppure questa intenzione. Portavano diverse merci, 2 e nei

primi tempi, quando avevo denaro, compravo di solito tutto quasi alla cieca,

tanto mi erano gradite le persone, specialmente alcune. Più tardi però

limitai gli acquisti, fra l’altro anche perché credetti di notare che il mio

modo di comprare risvegliava il loro disprezzo. 3 Oltre a ciò, attraverso la

ferrovia mi arrivavano mezzi di sostentamento, che però erano di scarsa

qualità e persino molto più cari di quelli che mi portavano i contadini.

All’inizio avevo anche pensato di allestire un piccolo orto per la verdura, di

comprare una mucca e rendermi così, per quanto possibile, indipendente da

2 diverse merci] [burro, carne, mais] diverse merci 3 disprezzo.] disprezzo. [Una volta osservai dall’oblò della mia capanna un contadino che mi vendeva

mais,]

5

tutti. Avevo anche portato con me attrezzi da giardino e sementi, terreno ce

n’era a volontà e si estendeva intorno alla mia capanna, privo di qualsiasi

costruzione, in singole superfici senza la minima rilevatezza fin dove

l’occhio poteva arrivare. Ma io ero troppo debole per vincere questo

terreno, un terreno riluttante duro e ghiacciato in primavera e che si

opponeva anche alla mia zappa nuova e tagliente. La semente che vi

spargevo andava perduta. In questo lavoro ebbi degli attacchi di

disperazione. Allora me ne stavo giorni interi sulla mia panca, e non uscivo

neppure all’arrivo dei treni. Mi sporgevo con la testa dall’oblò che era

proprio sopra la panca, e annunciavo di essere malato. Il personale del treno

allora, che consisteva di tre persone, entrava da me per riscaldarsi, ma non

trovava molto calore, perché per quanto possibile evitavo di usare la

vecchia stufa di ferro, che avrebbe potuto esplodere facilmente. Piuttosto

rimanevo avvolto in un vecchio mantello caldo, coperto da diverse pelli che

avevo via via acquistato dai contadini. «Ti ammali spesso» mi dicevano

«sei un uomo malaticcio. Non te ne andrai mai più da qui.» Non lo

dicevano per rattristarmi, ma perché si sforzavano per quanto possibile di

dire la verità nuda e cruda. Per lo più dicevano questo spalancando gli occhi

in un modo del tutto particolare.

Una volta al mese, ma sempre in momenti diversi, veniva un ispettore

per controllare il mio registro, ritirare i soldi incassati e - questo però non

sempre - pagarmi lo stipendio. Il suo arrivo mi era sempre annunciato il

giorno prima dalle persone che lo avevano fatto scendere alla stazione

precedente. Ritenevano che questo annuncio fosse il più grande beneficio

che mi potessero fare, anche se naturalmente avevo tutto in ordine ogni

giorno. Inoltre, non c’era

[Diari, Convoluti:]

bisogno, per questo, del minimo sforzo. Ma anche l’ispettore ogni volta

entrava in stazione con l’aria di dover scoprire, stavolta, tutte le mie

manchevolezze. Spalancava sempre la porta con un colpo del ginocchio e

mi guardava. Non faceva in tempo ad aprire il mio registro che vi trovava

un errore. Ci voleva molto tempo perché, ripetendo il calcolo diverse volte

davanti ai suoi occhi, lo convincessi che non io, ma lui aveva sbagliato. Era

sempre insoddisfatto delle mie entrate, infine chiudeva il registro con un

colpo e mi guardava di nuovo con severità. «Dovremo chiudere la ferrovia»

diceva ogni volta. «Andrà a finire così» rispondevo io di solito.

Finito il controllo, il nostro rapporto cambiava. Io preparavo sempre

qualcosa da bere, e se possibile qualche dolciume. Si beveva insieme, lui

6

cantava con voce discreta, sempre però le stesse due canzoni, una era triste

e cominciava: Dove vai fanciul nella foresta?, l’altra era allegra e iniziava

così: «Lieta compagnia, sono uno di voi!» A seconda dell’umore in cui mi

riusciva di metterlo, ricevevo in parte il mio stipendio. Ma solo all’inizio di

questi rapporti lo consideravo con un certo rispetto, più tardi diventammo

del tutto solidali, insultavamo senza ritegno l’amministrazione, mi

sussurrava all’orecchio segrete promesse circa la carriera che voleva farmi

ottenere, e alla fine ci gettavamo insieme sulla panca in un abbraccio che

spesso non scioglievamo per dieci ore. Il mattino dopo se ne andava, ed era

di nuovo il mio superiore. Io stavo davanti al treno e lo salutavo, lui salendo

si voltava di solito ancora una volta verso di me e diceva: «Allora amico

mio, ci rivediamo fra un mese. Tu sai cosa è in gioco per te.» Vedo ancora

adesso il suo volto gonfio, girato a fatica verso di me, tutto era sporgente in

questo volto, le guance, il naso, le labbra.

Questa era, in tutto il mese, l’unica variazione importante durante la

quale mi lasciavo un po’ andare; se per caso era rimasta un po’ di grappa, la

mandavo giù subito dopo la partenza dell’ispettore, per lo più sentivo

ancora il segnale di partenza del treno mentre il liquido mi scivolava in

gola. La sete di una notte simile era terribile; era come se in me ci fosse un

secondo uomo che sporgeva testa e collo dalla mia bocca per chiedere

urlando qualcosa da bere. L’ispettore era ben fornito, si portava dietro in

treno sempre una buona provvista da bere, io invece dovevo adattarmi a

quel che restava.

Per tutto il mese però non bevevo nulla e non fumavo, facevo il mio

lavoro e non desideravo altro. Come ho detto, non era un gran lavoro, e lo

eseguivo con scrupolo. Per esempio avevo il compito di pulire e controllare

ogni giorno i binari un chilometro a destra e uno a sinistra dalla stazione. Io

però non mi limitavo a questa disposizione e andavo spesso molto più

lontano, tanto lontano che potevo a malapena vedere ancora la stazione.

Quando l’aria era limpida questa era visibile fino a cinque chilometri,

perché il terreno era perfettamente pianeggiante. Quando ero tanto lontano

che la capanna mi scintillava in lontananza davanti agli occhi, 4 mi sembrava

per miraggio che tanti puntini neri si muovessero su e giù davanti ad essa.

Erano intere compagnie, intere truppe. 5 A volte però veniva davvero

qualcuno, e allora, agitando la zappa, rifacevo di corsa tutta la lunga strada a

ritroso.

4 occhi,] occhi, [ridevo a volte dei molti puntini neri] 5 truppe.] truppe. [Una volta uno di questi puntini mi sembrò qualcosa di reale, forse mi confusi con

qualche albero, non so più cosa fosse, in casi simili si pensa]

7

Verso sera il mio lavoro era finito e mi ritiravo definitivamente dentro la

capanna. Di solito a quest’ora non avevo visite, perché il ritorno nei paesi,

di notte, non era del tutto sicuro. Nei dintorni si aggirava della gentaglia,

non di residenti però; ogni tanto cambiavano, ma tornavano sempre. La

maggior parte li avevo visti, la stazione solitaria li attirava, non erano

propriamente pericolosi ma bisognava essere severi con loro.

Erano gli unici che mi disturbassero durante i lunghi crepuscoli.

Altrimenti rimanevo sulla panca, non pensavo al passato, non pensavo alla

ferrovia, il prossimo treno sarebbe passato solo fra le dieci e le undici di

sera, insomma non pensavo proprio a niente. 6 Ogni tanto leggevo qualche

vecchia rivista che mi avevano lanciato dal treno e che conteneva storie

scandalistiche di Kalda che mi avrebbero interessato ma che non riuscivo a

ricostruire dai numeri così isolati. Oltre a ciò, in ogni numero c’era la

continuazione di un romanzo che si intitolava «la vendetta del

comandante». Questo comandante, che portava sempre un pugnale al

fianco 7 e in una particolare occasione lo teneva persino fra i denti, una volta

l’ho anche sognato. D’altronde non potevo leggere molto, perché scendeva

presto il buio e il petrolio e le candele di sego avevano un prezzo

esorbitante. Dalla ferrovia ricevevo ogni mese soltanto mezzo litro di

petrolio che finivo di usare ben prima che finisse il mese solo per accendere

il segnale per il treno una mezz’ora la sera. Ma nemmeno questa luce era

necessaria, e più tardi, almeno nelle notti di luna, non la accesi neppure più.

Assai giustamente prevedevo che, passata l’estate, avrei avuto ben più

grande necessità di petrolio 8 . Perciò scavai un buco in un angolo della

capanna, vi posi un vecchio barilotto di birra e ogni mese vi versavo il

petrolio risparmiato. Il tutto era coperto di paglia e nessuno lo notò. Quanto

più la capanna puzzava di petrolio, tanto più ero contento; l’odore era così

forte perché il barilotto era di legno marcito, e si era completamente

impregnato di petrolio 9 . Più tardi per prudenza seppellii il barilotto fuori

della capanna, perché una volta l’ispettore aveva fatto lo spaccone davanti a

me con una scatola di cerini e, siccome li volevo, li gettava accesi nell’aria

uno dopo l’altro.10 Tutti e due, e soprattutto il petrolio, correvamo un reale

6 niente.] niente. [E neppure leggevo. Libri non ne avevo,] 7 al fianco] [in mano] al fianco 8 petrolio] petrolio [e così scavai un buco in un angolo della capanna e là conservai il petrolio] 9 petrolio] petrolio [e questo causava la perdita di parecchio combustibile. Ma io lo sostituivo

ampiamente, in quanto io] 10 dopo l’altro.] dopo l’altro. [Eravamo realmente in pericolo, io salvai noi e il mio petrolio in questo

modo,]8

pericolo, io salvai la situazione 11 stringendolo al collo finché ebbe lasciato

cadere tutti i cerini.

Nelle ore libere pensavo spesso a come organizzarmi per l’inverno. Se

già ora, nella stagione calda, mi sentivo gelare - e la gente diceva che da

molti anni non faceva così caldo - quando fosse giunto l’inverno me la sarei

cavata molto male. Che avessi accumulato il petrolio era stata solo una

bizzarria, avrei dovuto ragionevolmente mettere da parte per l’inverno

parecchie cose; non c’era dubbio alcuno che la società non si sarebbe data

particolare cura di me, ma io ero troppo incosciente, o per dir meglio non

ero incosciente ma mi curavo troppo poco di me stesso per darmi molto da

fare in questo senso. Ora nella stagione calda le cose andavano

passabilmente, lasciai tutto com’era e non intrapresi nulla.

Una delle possibilità 12 che mi avevano attirato in questa stazione era la

prospettiva di praticare la caccia. Mi avevano detto che i dintorni erano

straordinariamente ricchi di cacciagione, e avevo già prenotato un’arma che

volevo farmi mandare appena avessi risparmiato un po’ di soldi. Ma ora era

risultato che di selvaggina da cacciare non c’era l’ombra, qui si potevano

incontrare solo lupi e orsi, benché nei primi mesi non ne vedessi neppure

uno, e inoltre c’erano qui dei ratti veramente enormi che potei osservare

subito mentre, come spinti dal vento, correvano in massa sopra la steppa.

Invece la selvaggina in cui speravo non c’era affatto. Non si trattava di una

indicazione sbagliata, i dintorni ricchi di selvaggina c’erano veramente, solo

si trovavano a tre di giorni di viaggio, - 13 non avevo riflettuto che in queste

regioni, che si estendono disabitate per centinaia di chilometri, le

indicazioni dei luoghi devono per forza essere imprecise. In ogni caso ora

non avevo bisogno dell’arma e potevo usare il denaro per qualcos’altro; per

l’inverno però dovevo comunque procurarmi un’arma e a questo scopo

mettevo regolarmente una somma da parte. Per i ratti, che di tanto in tanto

attaccavano il mio cibo, bastava il mio lungo coltello. Nei primi tempi,

quando ancora consideravo tutto con curiosità, infilzai una volta uno di

questi ratti e lo tenni davanti a me sul muro all’altezza degli occhi. Gli

animali più piccoli si possono vedere bene solo avendoli all’altezza degli

occhi; quando ci si piega a terra verso di loro e li si osserva laggiù, se ne

ottiene un’immagine falsa e incompleta. La cosa più curiosa in questi ratti

erano gli artigli, grandi, un po’ incavati ma appuntiti in cima, erano molto

adatti per scavare. Nel suo ultimo spasimo, il ratto sul muro davanti a me

allargò e irrigidì gli artigli, si sarebbe detto contro la loro natura vivente, ed

11 situazione] situazione [scaraventandolo sulla panca con un colpo, al quale io, se fossi stato al suo

posto, difficilmente sarei sopravvissuto.] 12 Una delle possibilità] [Prima del mio arrivo in questa stazione,] Una delle possibilità 13 viaggio, -] viaggio, - [laggiù c’erano addirittura due laghi,]9

erano simili a una piccola mano che si allunga verso qualcuno. In generale

questi animali mi davano poco fastidio, solo di notte ogni tanto mi

svegliavano quando, correndo rumorosamente sul pavimento duro, filavano

via oltre la capanna.14 Se allora mi mettevo a sedere e accedevo una

candela, in qualche buco sotto le assi degli stipiti potevo vedere il lavoro

febbrile degli artigli di un ratto, che si infilavano nel buco dal di fuori. Era

un lavoro del tutto inutile, perché per procurarsi un buco sufficiente avrebbe

dovuto lavorare per giorni interi, mentre fuggiva già alle prime luci del

giorno, e tuttavia lavorava come un lavoratore che conosce il suo obiettivo.

E il lavoro era buono, sotto il suo scavare volavano via pezzetti di terra

magari microscopici, ma l’artiglio non si allungava mai senza risultato.

Spesso nella notte stavo a guardare a lungo, finché la regolarità e la

tranquillità dello spettacolo mi cullavano nel sonno. Allora non avevo più la

forza di spegnere la candela, che ancora per un po’ illuminava il ratto al

lavoro. Una volta, in una notte calda, sentendo di nuovo lavorare gli artigli,

mi avvicinai con prudenza senza accendere luci, per vedere proprio

l’animale. Questi aveva piegato molto in basso la testa dal muso aguzzo,

quasi spingendola fra le zampette anteriori per avvicinarsi il più possibile al

legno e spingere il più profondamente possibile gli artigli sotto il legno. Si

sarebbe potuto credere che qualcuno nella capanna tenesse saldi gli artigli

per tirare dentro tutto l’animale, tanta era la tensione. Eppure, tutto era già

finito dopo un calcio, con il quale stesi morto l’animale. Del tutto sveglio,

non potevo permettere che si attaccasse la capanna, che era il mio unico

possesso.

Per assicurare la capanna contro i ratti, tappai tutti i buchi con paglia e

stoppa, e ogni mattino controllavo il terreno intorno. Avevo in mente poi di

coprire il pavimento della capanna, fino ad allora di semplice terra battuta,

con delle assi di legno, cosa che sarebbe anche stata utile per l’inverno. Un

contadino di nome Jekoz, dal villaggio più vicino, mi aveva promesso da

tempo che avrebbe portato a questo scopo delle belle assi asciutte, per

questa promessa lo avevo anche ospitato diverse volte, non restava mai via

lungo tempo, ma veniva ogni due settimane, e a volte faceva anche

spedizioni attraverso la ferrovia, ma non mi portò le assi. Si scusava di

questo in molti modi, per lo più affermando di essere troppo vecchio per

trascinare un simile peso e che suo figlio, che avrebbe portato le assi, era

occupato nei campi. Jekoz diceva di essere molto oltre la settantina, e anche

il suo aspetto lo confermava, però era un uomo alto e ancora molto forte.

Inoltre cambiava le sue giustificazioni, e un’altra volta parlò della difficoltà

di procurarsi assi così lunghe come io avevo bisogno. Io non insistei, le assi

110

non mi erano indispensabili, Jekoz stesso mi aveva dato l’idea di ricoprire

il pavimento, forse una simile copertura non era neppure vantaggiosa,

insomma, potevo stare a sentire tranquillo le bugie del vecchio. Tutte le

volte il mio saluto era: «Le assi, Jekoz!» 15 Subito cominciavano allora, in

un linguaggio mezzo balbettante, le giustificazioni, mi sentivo chiamare

ispettore o capitano, o anche solo telegrafista, 16 mi prometteva non solo di

portare le assi la prossima volta, ma di demolire con l’aiuto del figlio e di

alcuni vicini tutta la mia capanna per costruire una abitazione solida al suo

posto. Io lo stavo a sentire, finché mi stancavo e lo spingevo fuori. Ancora

sulla porta tuttavia alzava per chiedere scusa le braccia apparentemente così

deboli, con le quali in realtà avrebbe potuto schiacciare un adulto. Io sapevo

perché non portava le assi, pensava che, avvicinandosi l’inverno, ne avrei

avuto un bisogno più urgente e le avrei pagate meglio, inoltre lui stesso,

finché non mi forniva le assi, aveva un maggior valore ai miei occhi.

Naturalmente non era uno stupido e sapeva che intuivo i suoi pensieri, ma

vedeva per sé un vantaggio nel fatto che io non sfruttavo quel che intuivo, e

quel vantaggio voleva conservarlo.

Ma tutti i preparativi che facevo per proteggermi dagli animali e

premunirmi per l’inverno dovettero interrompersi perché - già si avvicinava

la fine del mio primo trimestre di lavoro - mi ammalai gravemente. Fino ad

allora, per anni, ero rimasto indenne da ogni malattia e anche dal più

leggero malessere, questa volta però mi ammalai. Cominciò con una forte

tosse. A circa due ore dalla stazione, verso l’interno, c’era un piccolo

torrente dove ero solito prendere la mia riserva d’acqua, mettendola in un

barile sopra una carriola. Laggiù facevo spesso anche il bagno, e la tosse ne

fu una conseguenza. Gli attacchi di tosse erano talmente forti che tossendo

dovevo piegarmi in due, credevo di non poter resistere alla tosse se non mi

piegavo raccogliendo così tutte le forze. Pensavo che il personale del treno

si sarebbe spaventato di quella tosse, ma loro la conoscevano e la

chiamavano la tosse del lupo. Da allora cominciai a sentire, nella tosse,

l’ululato. Sedevo sulla panchina nella capanna e ululando salutavo l’arrivo

del treno, ululando ne accompagnavo la partenza. Di notte mi inginocchiavo

sulla panca anziché stare sdraiato, e premevo il viso 17 nelle pelli per

risparmiarmi almeno di udire l’ululato. 18 Aspettavo teso che la rottura di

qualche vaso più importante ponesse fine a tutto. Ma non successe niente

15 Jekoz!»] Jekoz!» [E a questo lui rispondeva: «Non ancora, signor ispettore, non ancora»] 16 telegrafista,] telegrafista, [titolo che gli sembrava particolarmente alto] 17 viso] viso [sul nudo legno] 18 l’ululato.] l’ululato. [Durante tutto ciò non mi abbandonava mai la paura che]4 capanna.] capanna. [Che entrassero animali nella capanna, cosa a me assai sgradita, io dovevo]

11

del genere e in alcuni giorni la tosse era addirittura sparita. 19 Restò però una

febbre, che non passò.

Questa febbre mi rese molto stanco, persi ogni capacità di resistenza,

succedeva a volte che del tutto inaspettatamente la fronte mi si coprisse di

sudore, allora tremavo in tutto il corpo 20 e ovunque mi trovassi dovevo

mettermi sdraiato e aspettare, finché mi ritornassero i sensi. 21

19 sparita.] sparita. [Esiste un tè che può guarirla e che un conducente di locomotiva mi promise di

portarmi, spiegandomi però che bisognava berlo solo all’ottavo giorno dopo l’inizio della tosse,

altrimenti non recava alcun giovamento. All’ottavo giorno me lo portò veramente, e mi ricordo come,

oltre il personale del treno, anche due passeggeri, giovani contadini, entrarono nella mia capanna,

perché udire il primo colpo di tosse dopo il tè è segno di buon augurio. Lo bevvi, tossii ancora il primo

sorso sulla faccia degli astanti, ma poi sentii davvero subito un miglioramento, anche se per la verità la

tosse era già divenuta più debole negli ultimi due giorni.] 20 corpo] corpo [come un ottantenne] 21 sensi.] sensi. [Mi rendevo ben conto che non andavo migliorando, bensì peggiorando, e che era

assolutamente indispensabile per me andare a Kalda e rimanere là un paio di giorni finché il mio stato

migliorasse.]12

[Dalla serie «Jeder Mensch ist eigentümlich», agosto 1916:]

La capanna del cacciatore non era lontana dalla capanna dei legnaioli. I

legnaioli, dodici, abitavano là, ora che c’era buona neve, per preparare i

tronchi che di giorno venivano trasportati nella valle dalle slitte. C’era

molto da fare, ma ai lavoratori non sarebbe sembrato troppo se solo

avessero dato loro birra a sufficienza. Invece avevano solo un barilotto di

medie dimensioni che dovevano suddividere fra loro per una settimana, un

compito impossibile. Di questo si lamentavano sempre con il cacciatore,

quando questi la sera li andava a trovare. «Avete una vita dura», diceva il

cacciatore annuendo e loro versavano nel suo cuore i loro lamenti.

La capanna del cacciatore giace abbandonata nel bosco di montagna. Là

egli vive durante l’inverno con i suoi cinque cani. Come è lungo l’inverno

in questo paese! Si potrebbe quasi dire che dura una vita intera.

Il cacciatore è di buon umore, non gli manca niente di essenziale, delle

privazioni non si lamenta, pensa anzi di essere fin troppo ben attrezzato.

«Se venisse da me un cacciatore», pensa, «e vedesse il mio arredamento e

le mie provviste, sarebbe la fine di ogni caccia. Ma non è ugualmente la

fine? Non ci sono cacciatori.»

Va in un angolo dai cani, che dormono su coperte, coperti da coperte. Il

sonno dei cani da caccia. Non dormono, solo aspettano la caccia e questo ha

l’aspetto di un sonno.13

In soffitta

[Quaderno in ottavo A, metà dicembre 1916:]

I bambini avevano un segreto. In un angolo nascosto della soffitta, in

mezzo al ciarpame di un intero secolo, dove 22 nessun adulto avrebbe più

potuto farsi strada, Hans, il figlio dell’avvocato, aveva scoperto un

estraneo.23 Stava seduto su un baule che era appoggiato per lungo alla

parete. Quando vide Hans, il suo viso non mostrò paura o stupore, ma solo

apatia, con sguardo limpido 24 ricambiò lo sguardo di Hans. In testa aveva

ben calcato un grande berretto rotondo di agnello. Dei folti baffi si

estendevano rigidi da un lato e dall’altro del volto. Era avvolto in un ampio

mantello bruno, tenuto stretto da una cinghia robusta che ricordava il

finimento di un cavallo. Sul petto portava una corta sciabola curva in una

guaina che riluceva debolmente. I piedi erano infilati in stivali a gambale

muniti di speroni, un piede era posato su una bottiglia di vino rovesciata,

l’altro era ritto sul pavimento, il calcagno e lo sperone conficcati nel legno.

«Via», gridò Hans quando l’uomo allungò lentamente la mano per

afferrarlo, corse lontano nelle parti di soffitta costruite più di recente e si

fermò solo quando la biancheria stesa là ad asciugare lo colpì, umida, in

viso. Subito dopo, però, tornò indietro. Con il labbro inferiore piegato

nell’espressione di un certo disprezzo, l’estraneo era seduto là e non si

muoveva. Strisciando guardingo in avanti, Hans verificò che una tale

immobilità non fosse un’astuzia. Ma l’estraneo sembrava non avesse

davvero nessuna cattiva intenzione, stava lì seduto tutto fiacco, e per pura

fiacchezza la sua testa sembrava appena muoversi. Così, Hans trovò il

coraggio di spostare un vecchio e bucherellato coperchio di stufa che ancora

lo separava dall’estraneo, di avvicinarsi e infine addirittura di toccarlo.

«Come sei polveroso!» disse con stupore ritraendo la mano che si era

sporcata di nero. «Sì, polveroso», disse l’estraneo, e nient’altro. Aveva uno

strano accento, Hans capiva le parole solo nell’eco. «Io mi chiamo Hans»,

disse, «il figlio dell’avvocato e ora dimmi come ti chiami tu.» «Ecco»,

22 dove] dove [nessuna donna delle pulizie si avventurava più] 23 estraneo.] estraneo. [Come già altre volte, quando Hans da suo padre] 24 limpido] limpido [che si voltava lentamente]14

disse l’estraneo, «anch’io mi chiamo Hans, Hans Schlag, sono un cacciatore

del Baden e vengo da Ko ßgarten sul Neckar. Storie vecchie.» 25

Il dissidio, che c’era sempre stato fra Hans e suo padre, dopo la morte

della madre era diventato così aspro, che Hans abbandonò il negozio del

padre, se ne andò all’estero, accettò quasi alla cieca un piccolo impiego che

laggiù gli avevano offerto e cancellò ogni legame con il padre, sia epistolare

che attraverso conoscenti, con un tale successo, che venne a sapere della

sua morte, avvenuta per un attacco cardiaco circa due anni dopo la sua

partenza, solo attraverso la lettera dell’avvocato 26 il quale lo si informava

dell’eredità. Hans era designato erede universale, ma l’eredità era tanto

appesantita da debiti e lasciti che, come poté osservare già a una valutazione

superficiale, non gli sarebbe rimasto molto di più della abitazione paterna.

Non era molto: una vecchia e semplice costruzione a un piano, ma Hans

teneva molto alla casa, inoltre dopo la morte del padre non c’era più nulla

che lo trattenesse all’estero, ma anzi il disbrigo delle pratiche di eredità

richiedeva urgentemente la sua presenza, perciò sciolse subito i suoi

impegni, cosa che non gli fu difficile, e tornò a casa. Era una sera inoltrata

di dicembre, tutto era immerso nella neve, quando Hans arrivò davanti alla

casa paterna. L’amministratore, che lo aveva aspettato, uscì dal portone

appoggiandosi alla figlia, era un fragile vecchio che già aveva servito il

nonno di Hans. Si salutarono, benché senza grande cordialità, perché Hans

aveva sempre visto nell’amministratore lo stupido tiranno della propria

infanzia, e l’umiltà con cui ora costui gli si avvicinava gli risultava penosa.

Disse alla figlia, che portava il suo bagaglio seguendolo sulla scala ripida e

stretta, che non sarebbe cambiato nulla nella situazione e nello stipendio di

suo padre, indipendentemente dal lascito che gli era stato accordato. Fra le

25 Storie vecchie.»] Storie vecchie.» [«Sei un cacciatore? Vai a caccia?» chiese Hans. «Ah, sei ancora

un ragazzino» disse l’estraneo «e poi perché spalanchi tanto la bocca quando parli» Questo difetto lo

notava sempre anche l’avvocato, ma da parte del cacciatore, che parlava in modo appena comprensibile

e al quale lo spalancare la bocca poteva semmai essere raccomandato, un tale rimprovero era certo

inopportuno.] 26 dell’avvocato] dell’avvocato [che suo padre aveva nominato esecutore testamentario. Hans era

proprio dietro la vetrina del negozio di tessuti dove lavorava come aiutante e contemplava la pioggia

sulla piazza circolare della piccola cittadina di campagna, quando dalla chiesa arrivò il portalettere.

Alla padrona, che sedeva nel retro del {negozio, cancellato e non sostituito} su una sedia imbottita,

pesante nei movimenti e sempre scontenta, il portalettere consegnò la lettera e se ne andò. {Per qualche

motivo il suono debole e usuale del campanello colpì Hans, che alzò lo sguardo e vide che la padrona

avvicinava alla busta il suo volto peloso e fasciato di panni neri. In casi del genere Hans aveva

l’impressione che la lingua le si sarebbe srotolata fuori della bocca e anziché leggere avrebbe

cominciato a leccare come un cane.} Il campanello della porta suonò debolmente e la padrona disse:

C’è una lettera per lei. «No» disse H. e non si mosse dalla vetrina. «Hans, lei è un uomo strano» disse

la donna «qui c’è scritto chiaramente il suo nome.»]

15

lacrime, la figlia lo ringraziò, confessando che con ciò Hans eliminava la

principale preoccupazione che, dalla morte del povero signore, quasi non

consentiva a suo padre di dormire la notte. Un tale ringraziamento fece

prendere coscienza a Hans di quali fastidi nascevano per lui dall’eredità, e

quanti ne sarebbero ancora nati. 27 Tanto più si rallegrò al pensiero di

rimanere solo nella sua vecchia stanzetta, e pregustando questo piacere

accarezzò leggermente il gatto che, come primo ricordo sereno dei tempi

andati, gli scivolò vicino in tutta la sua lunghezza. Hans però non fu

condotto alla sua stanza, che in base alle sue disposizioni epistolari avrebbe

dovuto essere preparata per lui al suo arrivo, ma nella vecchia camera da

letto di suo padre. Chiese perché accadesse questo. La ragazza, ancora con

il fiatone per aver portato il bagaglio, gli stava di fronte, in quei due anni era

diventata alta e forte, e il suo sguardo era straordinariamente limpido.

Chiese scusa. Spiegò che nella stanza di Hans si era stabilito suo zio

Theodor, e che non si era voluto disturbare il vecchio signore, anche perché

questa stanza era pur sempre più grande e anche più comoda. Che zio

Theodor abitasse in casa era per Hans una novità.

27 nati.] nati. [Per il resto era una conseguenza naturale,]16

Il cacciatore Gracco

[Quaderno in ottavo B, fine dicembre 1916:]

Due ragazzi sedevano sul muretto del molo e giocavano a dadi. Un uomo

leggeva una rivista sui gradini di un monumento all’ombra dell’eroe che

brandiva la sciabola. Una ragazza alla fontana riempiva d’acqua il suo

mastello. Un fruttivendolo stava accanto alla sua merce guardando verso il

lago. In fondo a una bettola, attraverso porte e finestre vuote, si vedevano

due uomini con del vino. L’oste sonnecchiava davanti, seduto a un tavolo.

Un battello scivolò silenzioso, come se fosse trainato, dentro il piccolo

porto. Un uomo vestito di una casacca blu saltò a terra e tirò le funi

attraverso gli anelli. Altri due uomini, in giacca scura con bottoni d’argento,

portavano dietro al capitano una bara su cui evidentemente giaceva un

uomo, sotto un grande telo di seta ornato di fiori e di frange. Sul molo

nessuno si curò dei nuovi arrivati, neppure quando posarono la bara per

aspettare il capitano, che era ancora affaccendato con le funi, nessuno si

avvicinò, nessuno rivolse loro domande, nessuno li osservò più

attentamente. Il capitano fu trattenuto ancora un poco da una donna che, con

un bambino al seno e i capelli sciolti, appariva ora sul ponte. Infine giunse,

accennò a una casa giallastra a due piani che lì vicino, a sinistra, si alzava

verticale non lontano dall’acqua, i portatori sollevarono il peso e lo

trasportarono attraverso il portale basso ma formato da sottili colonne. Un

ragazzino aprì una finestra, fece in tempo a notare come il gruppo

scomparisse nella casa e richiuse in fretta. Anche il portale ora venne

chiuso, era ben costruito con pesante legno di quercia. Uno stormo di

colombe che finora aveva volato intorno al campanile si posò sulla piazza

davanti alla casa. Una di esse volò fino al primo piano e picchiettò sul vetro

della finestra. Erano uccelli di colore chiaro, vivaci e ben nutriti. Con

grande slancio, la donna dalla barca gettò loro del grano, gli uccelli lo

raccolsero e volarono verso di lei. Un uomo anziano con cilindro e fasciato

a lutto scese lungo una delle stradine sottili in forte pendenza che

conducevano al porto. Si guardava intorno con attenzione, tutto lo turbava,

la vista di immondizia in un angolo gli piegò il viso in una smorfia, sui

gradini del monumento c’erano bucce di frutta, egli le spinse giù, passando,

con il bastone. Giunto al portale con colonne, bussò, togliendosi al17

contempo il cilindro con la destra guantata di nero. Il portone si aprì

immediatamente, almeno cinquanta ragazzini formavano una fila nel lungo

corridoio, inchinandosi. Il capitano scese le scale, salutò il signore, lo

condusse di sopra, al primo piano fece con lui il giro del cortile circondato

da logge slanciate, ed entrambi entrarono, mentre i ragazzi si affollavano a

rispettosa distanza, in un grande ambiente fresco nel retro della casa, di

fronte al quale si ergeva non un’altra casa, ma solo una nuda parete di roccia

nerastra. I portatori erano impegnati ad alzare e accendere alcune lunghe

candele alla testa della bara; non per questo si ottenne luce, ma solo furono

snidate le ombre che prima riposavano, e ora ondeggiavano sulle pareti. Il

telo era stato rimosso dalla bara. Giaceva là un uomo con barba e capelli

cresciuti disordinatamente insieme, pelle abbronzata, di aspetto simile a un

cacciatore. Giaceva immobile, apparentemente senza respirare, con gli

occhi chiusi, tuttavia solo le circostanze inducevano a pensare che potesse

trattarsi di un morto.

Il signore si avvicinò alla bara, pose una mano sulla fronte dell’uomo

disteso, quindi si inginocchiò e pregò. Il capitano fece un cenno ai portatori

perché lasciassero la stanza, quelli uscirono, cacciarono i ragazzi che si

erano affollati là fuori e chiusero la porta. Ma al signore questa quiete

sembrò ancora insufficiente, guardò il capitano, questi capì e attraverso una

porta laterale passò nella stanza adiacente. Subito l’uomo nella bara aprì gli

occhi, con un sorriso doloroso volse il capo al signore e disse: «Chi sei?» Il

signore, senza stupore apparente, si alzò dalla sua posizione inginocchiata e

rispose: «Il sindaco di Riva.» L’uomo nella bara fece un cenno, indicò una

sedia con il braccio debolmente alzato e disse, dopo che il sindaco aveva

accolto il suo invito: «Naturalmente, signor sindaco, lo sapevo già, ma nel

primo momento dimentico sempre tutto, tutto mi gira intorno ed è meglio

che io chieda, anche quando so già tutto. Probabilmente anche lei sa che io

sono il cacciatore Gracco.» «Certo», disse il sindaco, «lei mi è stato

annunciato stanotte. Dormivamo da parecchio, quando verso mezzanotte

mia moglie esclama: “Salvatore” - così mi chiamo - “guarda la colomba

alla finestra”. C’era in effetti una colomba, ma grande come un gallo. Mi è

volata all’orecchio e ha detto: “Domani verrà il morto cacciatore Gracco,

accoglilo in nome della città.”» Il cacciatore fece un cenno e passò la punta

della lingua fra le labbra: «Sì, le colombe mi precedono in volo. Ma lei,

signor sindaco, crede che io debba fermarmi a Riva?» «Questo non posso

ancora dirlo», rispose il sindaco. «Lei è morto?» «Sì», disse il cacciatore,

«come lei può notare. Molti anni fa, ora devono proprio essere moltissimi

anni, nella Foresta Nera, che è in Germania, precipitai da una roccia mentre

inseguivo un camoscio. Da allora sono morto.» «Eppure lei è anche vivo?»18

disse il sindaco. «In un certo senso», disse il cacciatore, «in un certo senso

sono anche vivo. La mia barca funebre ha sbagliato strada, un falso

movimento del timone, un attimo di disattenzione del conducente, una

deviazione nella mia meravigliosa patria, non so che cosa fu, solo questo so,

che sono rimasto sulla terra e da allora la mia barca viaggia sulle acque

terrene. Così io, che avrei voluto vivere solo sui miei monti, viaggio dopo

la mia morte in tutti i paesi della terra.» 28 «E non ha parte alcuna

dell’aldilà?» domandò il sindaco con la fronte aggrottata. «Sono sempre

sulla grande scala che porta lassù,» rispose il cacciatore, «su questa

gradinata infinitamente ampia io mi aggiro, ora su ora giù, ora a destra ora a

sinistra, sempre in movimento. 29 Ma se prendo uno slancio decisivo verso

l’alto, e già la porta mi risplende lassù, allora mi risveglio nella mia vecchia

barca, che ristagna desolata in qualche acqua terrestre. L’errore di fondo

della mia morte di un tempo mi deride nella mia cabina, Julia, la moglie del

capitano, mi porta alla mia bara la bevanda mattutina del paese la cui costa

stiamo attraversando.» «Un brutto destino», disse il sindaco con la mano

alzata come per difendersi. «E lei non ne ha colpa?» «Nessuna», disse il

cacciatore, «ero un cacciatore 30 , forse è una colpa questa? Praticavo la

caccia nella Foresta Nera, dove a quei tempi c’erano anche i lupi. Tendevo

agguati, tiravo, colpivo, scuoiavo, è forse una colpa? Il mio lavoro era

benedetto. Mi chiamavano il grande cacciatore della Foresta Nera. E’ forse

una colpa?31 » «Non è compito mio deciderlo», disse il sindaco, «ma 32

neppure a me tutto questo sembra una colpa. Ma allora di chi è la colpa?»

«Del barcaiolo», disse il cacciatore

«E ora 33 lei pensa di rimanere da noi a Riva?» chiese il sindaco. «Io non

penso», disse il cacciatore sorridendo, e per attenuare lo scherzo pose la

mano sul ginocchio del sindaco. «Io sono qui, altro non so, altro non posso

fare. La mia barca è senza timone, viaggia con il vento che soffia nelle

regioni più basse della morte.»

Io sono il cacciatore Gracco, la mia patria è la Foresta Nera in Germania.

Nessuno leggerà ciò che io scrivo qui; nessuno verrà ad aiutarmi; se fosse

stabilito come compito di aiutarmi, allora tutte le porte di tutte le case

28 terra».] terra». [«E’ un grande onore per noi» disse il sindaco] 29 in movimento.] in movimento[, il cacciatore è diventato una farfalla. Non rida.» «Non sto ridendo»

protestò il sindaco. «Molto prudente» disse il cacciatore «molti ridono]. 30 ero un cacciatore] [dev’essere avvenuto come ho detto] ero un cacciatore 31 colpa?] colpa? [A Sant’Ubaldo ho costruito una cappella.] 32 ma] [tuttavia posso chiederlo al parroco, ne abbiamo uno anche qui] ma 33 E ora] [«Straordinario» disse il sindaco «straordinario] E ora19

rimarrebbero chiuse, tutte le finestre chiuse, tutti sarebbero nei loro letti,

con le coperte gettate sulla testa, tutta la terra sarebbe un dormitorio. Ciò è

ben comprensibile, perché nessuno sa di me, e se qualcuno sapesse non

saprebbe però dove abito, e se sapesse dove abito non saprebbe però

trattenermi là, e se sapesse trattenermi là non saprebbe però come venirmi

in aiuto. Il pensiero di volermi aiutare è una malattia e deve essere curata a

letto.

Questo io lo so e dunque non scrivo per procurarmi un aiuto, sebbene in

certi momenti in cui non mi controllo, come per esempio proprio ora, mi

viene da pensarci con forza. Ma per cacciare simili pensieri basta che io mi

guardi intorno e mi rammenti dove sono e dove abito - posso ben dirlo - da

secoli. Mentre scrivo tutto questo sono sdraiato su una panca di legno,

indosso - non è un piacere vedermi - una camicia funebre sporca, capelli e

barba, grigi e neri, crescono insieme inestricabili, le mie gambe sono

coperte da un telo da donna di seta, ornato di fiori e frange. Alla mia testa si

trova una candela da chiesa che mi fa luce. Sul muro davanti a me c’è un

piccolo quadro, evidentemente un boscimano, che con una lancia prende la

mira su di me e per quanto può si copre dietro uno scudo grandiosamente

decorato. Sulle navi si trovano spesso quadri stupidi, ma questo è uno dei

più stupidi. Per il resto la mia gabbia di legno è completamente vuota.

Attraverso un oblò della parete laterale arriva l’aria calda della notte

meridionale e ascolto l’acqua che batte contro la vecchia barca.

Qui io giaccio da allora, quando, mentre ero ancora il vivo cacciatore

Gracco, precipitai inseguendo un camoscio nella patria Foresta Nera. Tutto

andava secondo l’ordine delle cose. Io inseguivo, precipitai, mi dissanguai

in una scarpata, morii e questa barca doveva trasportarmi nell’aldilà.

Ricordo ancora con quanta felicità mi sono sdraiato per la prima volta su

questa panca, i monti non avevano ancora mai udito da me un canto come

quello che udivano queste quattro pareti, allora ancora al crepuscolo 34 .

Volentieri ero vissuto e volentieri ero morto, prima di salire a bordo lieto

gettai via da me l’impiccio del fucile, della borsa e della veste da caccia che

sempre avevo portato con orgoglio, ed entrai nella camicia funebre come

una fanciulla nella veste nuziale 35 . Giacevo qui e aspettavo.

Allora avvenne

[Quaderno in ottavo D, marzo-aprile 1917:]

34 crepuscolo.] crepuscolo. [Ero un buon cacciatore, benedetto dalla fortuna, felice nelle foreste] 35 nuziale] [per la danza] nuziale20

«Come sarebbe, cacciatore Gracco, tu viaggi da secoli in questa vecchia

barca?»

«Già da cinquecento anni.»

«E sempre in questa nave?»

«Sempre in questa barca. Barca è il nome giusto. Non ti intendi di navi,

vero?»

«No, è solo da oggi che me ne occupo, da quando so di te, da quando

sono salito sulla tua nave.»

«Non devi scusarti. Anch’io vengo dall’interno. Non ero un marinaio, né

volevo diventarlo, monti e foreste erano la mia felicità, e ora - il più anziano

viaggiatore sul mare, il cacciatore Gracco protettore dei marinai, il

cacciatore Gracco implorato dal mozzo che si torce le mani sulla coffa,

angosciato nella notte di tempesta. Non ridere.»

«Ridere io? No davvero. Con il cuore in tumulto stavo davanti alla porta

della tua cabina, con il cuore in tumulto sono entrato. I tuoi modi

amichevoli mi tranquillizzano un poco, ma non dimenticherò mai di chi

sono ospite.»

«Certo, hai ragione. Ad ogni modo, io sono il cacciatore Gracco. Perché

non assaggi un po’ di vino, non conosco la marca, ma è dolce e forte, il capo

mi tratta bene.»

«Ora no, ti prego, sono troppo agitato. Forse più tardi, se mi sopporterai

ancora qui 36 . Chi è il capo?»

«Il proprietario della barca. Questi capi a dire il vero sono persone

eccellenti. Io però non li capisco. Non mi riferisco alla loro lingua, anche se

naturalmente spesso non capisco neppure quella. Ma questo è collaterale.

Ho imparato abbastanza lingue nel corso dei secoli, e potrei fare da

interprete fra gli antenati e i contemporanei. Quello che non capisco dei

capi è il loro modo di pensare. Forse tu puoi spiegarmelo.»

«Non ho molta speranza. Come potrei spiegare qualcosa a te, davanti a te

sono solo un bambino che balbetta.»

«Non fare così, te lo dico una volta per tutte. Mi farai un piacere se ti

comporterai in modo un po’ più virile, un po’ più sicuro di te. Che me ne

faccio di avere per ospite un’ombra. Piuttosto lo soffio via sul mare

attraverso l’oblò. Ho bisogno di diverse spiegazioni. Tu che te ne vai in

giro là fuori puoi darmele. Ma se ciondoli qui intorno al mio tavolo e

ingannandoti dimentichi quel poco che sai, allora puoi anche levarti subito

di torno. Io non ho peli sulla lingua.»

«C’è qualcosa di giusto in quel che dici. In effetti per certi versi io ti

sono superiore. Cercherò di dominarmi. Fammi la domanda.»

36 qui.] qui. [D’altronde, non ho neppure il coraggio di bere dal tuo bicchiere.]21

«Meglio, molto meglio se esageri in questa direzione e ti immagini una

qualche superiorità. Devi solo capirmi per bene. Io sono un uomo come te,

solo più impaziente di quel paio di secoli di cui sono più anziano. Allora,

volevamo parlare dei capi. Fai attenzione. E bevi un po’ di vino per

aguzzarti il cervello. Senza paura. Forza. Ne abbiamo ancora una nave

intera.»

«Gracco, è un vino eccellente. Viva il capo.»

«Peccato che sia morto proprio oggi. Era un brav’uomo e se n’è andato

in pace. Giudiziosi ragazzi ormai cresciuti stavano al suo letto di morte, ai

suoi piedi la moglie ha perso i sensi, ma il suo ultimo pensiero lo ha

dedicato a me. Era un brav’uomo, di Amburgo.»

«Santo cielo, di Amburgo, e tu qui al sud sai che è morto oggi.»

«Come, non dovrei sapere quando muore il mio capo? Sei proprio un

sempliciotto.»

«Vuoi offendermi?»

«No, niente affatto, non lo faccio apposta. Tu però devi stupirti di meno

e bere di più. Con i capi la cosa sta nei seguenti termini: in origine, la barca

non apparteneva a nessuno.»

«Gracco, una preghiera. Prima di tutto dimmi in modo succinto ma

coerente come stanno le cose riguardo a te. Ti confesso la verità: non ne so

niente. Per te naturalmente si tratta di cose evidenti, e come fai di solito ne

presupponi la conoscenza nel mondo intero. Ora però in una breve vita

umana - perché la vita è breve, Gracco, cerca di capirlo - in questa breve

vita dunque si è già fin troppo impegnati a innalzare se stessi e la propria

famiglia. E per quanto il cacciatore Gracco sia interessante - e questa è

convinzione, non piaggeria - non si ha tempo per pensare a lui, informarsi di

lui e neppure per preoccuparsi di lui. Forse sul letto di morte, come il tuo

amburghese, questo non lo so. Forse in quel momento un uomo diligente ha

per la prima volta il tempo di distendersi e allora il verde cacciatore Gracco

sfiora finalmente i suoi pensieri oziosi. Ma altrimenti, come ho detto: io

non sapevo niente di te, sono qui nel porto a motivo dei miei affari, ho visto

la barca, la passerella era lì davanti, sono salito - ma ora vorrei sapere

qualcosa che ti riguardi.»

«Ah, che mi riguardi. Storie vecchie, vecchie. Tutti i libri ne sono pieni,

in tutte le scuole gli insegnanti le disegnano alla lavagna, la madre ne sogna

mentre il bambino si nutre al seno - e 37 tu stai qui seduto e mi chiedi

qualcosa che mi riguardi. Devi aver proprio bruciato la tua gioventù.»

37 al seno - e] al seno[, si bisbigliano durante gli abbracci, i commercianti le dicono ai loro clienti, i

soldati le cantano durante la marcia, il predicatore le proclama in chiesa, gli storici nelle loro stanzette

contemplano a bocca aperta ciò che è avvenuto da lungo tempo e lo descrivono senza sosta, sono

stampate sulle riviste e il popolo se le passa di mano in mano, il telefono è stato inventato perché girino22

«Può essere, succede a tutte le gioventù. Però credo che ti sarebbe assai

utile se tu per una volta ti guardassi un po’ intorno nel mondo. Per quanto

possa sembrarti comico, e io stesso in questo luogo quasi me ne stupisco, tu

non sei l’oggetto delle chiacchiere cittadine, di quante cose si possa parlare,

tu non sei fra quelle, il mondo va per il suo corso e tu per il tuo viaggio, ma

mai finora mi sono accorto che vi siate incrociati.»

«Queste, caro mio, sono osservazioni tue, altri ne avranno fatte di

diverse. Qui ci sono solo due possibilità. O tu stai tacendo quel che sai di

me per qualche tua definita intenzione, e allora ti dico francamente: sei su

una strada sbagliata. Oppure davvero credi di non ricordarti di me perché

confondi la mia storia con un’altra. E allora ti dico: io sono - no, non posso,

tutti lo sanno e proprio io dovrei raccontartelo! E’ passato tanto tempo.

Chiedilo agli storici! Nella loro stanzetta guardano a bocca aperta ciò che è

accaduto da tanto tempo e lo descrivono senza sosta. Vai da loro e poi

ritorna. E’ passato tanto tempo. Come posso conservarlo in questo cervello

così stracolmo.»38

«Aspetta, Gracco, voglio aiutarti, ti farò delle domande. Da dove vieni?»

«Dalla Foresta Nera, come tutti sanno.»

«Naturalmente, dalla Foresta Nera. E così hai cacciato laggiù nel quarto

secolo.»

«Senti, conosci la Foresta Nera?»

«No.»

«Ma non conosci proprio niente. Il bambino del timoniere sa più di te,

ma davvero, molto di più. Ma chi ti ha fatto entrare. E’ proprio un destino.

La tua modestia iniziale era davvero fin troppo ben fondata. Sei un nulla

che io sto riempiendo di vino. Ora viene fuori che non conosci neppure la

Foresta Nera.39 Io ho cacciato laggiù fino all’età di venticinque anni. Se il

camoscio non mi avesse attirato - ecco, ora lo sai - avrei avuto una lunga e

bella vita di cacciatore, ma il camoscio mi ha attirato, sono precipitato e mi

sono sfracellato sui sassi. Non farmi più domande. Qui io sto, morto, morto,

morto. Non so perché sono qui. Fui caricato sulla barca funebre, come si

il mondo più veloci, le si estrae dalle città sepolte e con loro l’ascensore corre alla vetta dei grattacieli, i

viaggiatori sui treni le annunciano dai finestrini ai paesi che attraversano, ma ancor prima le foreste

gliele urlano contro, si possono leggere nelle stelle e i mari le rispecchiano, i torrenti le trasportano giù

dalle montagne e la neve le riporta sulle vette. - E] 38 stracolmo.».] stracolmo». [«Fai come vuoi. Ora avresti avuto una buona opportunità di dirmelo. In

due parole. Siamo seduti, da amici, con del vino. Sarebbe un’opportunità. Ma se me ne andrò, non

tornerò più. Quest’ora sola era dedicata a te.»] 39 Foresta Nera.] Foresta Nera. [E tu da dove vieni?» «Dalla Boemia. E tu a tua volta non conosci la

Boemia.» «E’ vero, la Boemia non la conosco. Tu però hai proprio il cervello di una scimmia, se ti

permetti di confrontare la Boemia con la Foresta Nera. Nella Foresta Nera io sono nato, là ho cacciato

fino a venticinque anni. L’ho percorsa tutta in lungo e in largo. Potrei condurti a occhi chiusi in tutta la

Foresta Nera da sud a nord su strade che nessuno conosce. E là io sono nato,]23

conviene, un povero morto, furono fatte con me quelle tre o quattro

manovre come con tutti, perché fare eccezioni con il cacciatore Gracco,

tutto era in ordine, io giacevo disteso nella barca,

[Diari, quaderno 11, nota del 6.4.1917:]

6.4.17. Nel piccolo porto, dove di solito si fermano, oltre alle navi da

pesca, solo due vaporetti per trasporto passeggeri che coprono i

collegamenti del lago, c’era oggi una barca straniera. Una vecchia barca

pesante, relativamente bassa e molto panciuta, sporca e come inzaccherata

di acqua fangosa, sembrava che ancora ne gocciolasse la fiancata giallastra,

gli alberi incomprensibilmente alti, l’albero maestro spezzato nel terzo più

alto, le vele spiegazzate, grezze, color marrone giallastro tese di traverso fra

gli alberi, rammendate, inadeguate a qualsiasi soffio di vento.

Rimasi a guardare a lungo stupito, aspettai che qualcuno si mostrasse sul

ponte, non venne nessuno. Vicino a me, sul muretto del molo, si sedette un

operaio. «Di chi è la nave?» chiesi, «la vedo oggi per la prima volta.»

«Viene ogni due o tre anni» disse l’uomo «e appartiene al cacciatore

Gracco»24

Il cavaliere del secchio

[Prima versione: quaderno in ottavo B, fine dicembre 1916. Traduzione

secondo l’edizione definitiva curata da Kafka e pubblicata sulla rivista

Prager Presse , anno 1, n. 270, edizione del mattino del 25 dicembre 1921,

supplemento natalizio, p. 22:]

Consumato tutto il carbone; vuoto il secchio; inutile la pala; la stufa che

respira aria gelida; la stanza gonfia di gelo; davanti alla finestra, gli alberi

rigidi nella brina; il cielo, uno scudo d’argento contro chi cerca da lui un

aiuto. Devo procurarmi del carbone; non posso certo morire congelato;

dietro di me la stufa impietosa, impietoso il cielo davanti a me; perciò devo

andare al trotto in mezzo a loro, e nel frattempo, cercare aiuto dal

carbonaio. Questi però è ormai indurito contro le mie solite preghiere; devo

dimostrargli con chiarezza che non ho più neppure la più piccola particella

di carbone, e che dunque lui rappresenta per me il sole nel firmamento.

Devo arrivare come il mendicante intenzionato a morire sulla soglia

rantolando di fame, e al quale perciò la cuoca si decide a lasciare i fondi

dell’ultimo caffè; similmente il carbonaio, pur schiumante di rabbia, ma

sotto il raggio del comandamento «Non uccidere!», dovrà scaraventarmi nel

secchio un’intera badilata.

Già il mio decollo sarà decisivo; e dunque mi metto a cavalcare sul

secchio. Da cavaliere del secchio, la mano in alto sull’impugnatura, che è la

briglia più semplice, scendo con difficoltà le curve della scala; quando però

sono giù, il mio secchio allora sale splendido, splendido; i cammelli sdraiati

bassi per terra, quando il bastone del padrone li incita, non si sollevano con

maggiore eleganza. Trottando a velocità adeguata percorro le strade

congelate; spesso mi sollevo fino all’altezza del primo piano; non scendo

mai fino alle porte d’ingresso. E a straordinaria altezza mi libro sulle arcate

della cantina del carbonaio, dove questi sta rannicchiato laggiù al suo

tavolino scrivendo; per lasciar defluire l’eccessivo calore ha aperto la porta.

«Carbonaio!» grido con voce arsa e arrochita dal freddo, avvolto dalle

nuvole di vapore del mio respiro, «per favore carbonaio, dammi un po’ di25

carbone. Il mio secchio ormai è tanto vuoto che ci posso cavalcare sopra. Sii

buono. Appena posso te lo pago.»

Il carbonaio mette la mano all’orecchio. «Ho sentito bene?» chiede da

sopra la spalla a sua moglie, che lavora a maglia vicino alla stufa, «ho

sentito bene? Ci sono clienti.»

«Io non sento proprio niente», dice la donna, respirando tranquilla sopra

i ferri, piacevolmente riscaldata sulla schiena.

«Oh sì», grido io, «sono un cliente, un vecchio cliente, un cliente fedele,

solamente, per il momento impossibilitato a pagare.»

«Moglie», dice il carbonaio, «è così, c’è proprio qualcuno; non posso

ingannarmi fino a questo punto; dev’essere un vecchio, un vecchissimo

cliente se sa toccarmi così profondamente il cuore.»

«Che ti prende, marito?» chiede la donna, e riposandosi un attimo preme

sul petto il suo lavoro a maglia, «non c’è proprio nessuno; il vicolo è vuoto;

tutti i nostri clienti sono stati riforniti; potremmo anche chiudere il negozio

per giorni interi e riposarci.»

«Ma io sono qui, seduto sul secchio» grido, e lacrime insensibili di

freddo mi velano lo sguardo, «per favore, guardate in su; mi troverete

subito; vi prego, datemi una palata di carbone; e se me ne darete due, mi

farete felice oltre misura. In fondo, tutti gli altri clienti sono riforniti. Ah, se

lo sentissi già risuonare nel secchio!»

«Vengo», dice il carbonaio e con le sue gambe corte vorrebbe già salire

le scale della cantina, ma la moglie gli è già vicina, lo ferma prendendogli il

braccio e dice: «Resta qui. Se non la finisci con questa idea, salirò io stessa.

Ricordati che tosse hai avuto stanotte. Per un affare, e per di più

immaginario, dimentichi moglie e figli e metti in pericolo i tuoi polmoni.

Vado io.» «Allora però digli tutti i tipi di carbone che abbiamo in

magazzino; io da sotto ti dirò i prezzi.» «Va bene», dice la moglie, e sale

nel vicolo. Naturalmente mi vede subito.

«Signora carbonaia», grido, «i miei saluti più devoti; solo una palata di

carbone; subito qui nel secchio; me la porto a casa da solo; una palata del

peggiore. Naturalmente la pago a prezzo intero, non subito però, non

subito.» Che suono di campane, nelle due parole «non subito», e come

disorienta il loro mescolarsi con le campane serali che proprio ora

cominciano a suonare dal vicino campanile.

«Allora, cosa vuole?» grida il carbonaio. «Niente», gli risponde la

moglie, «non c’è nessuno; non vedo nessuno, non sento nessuno; solo

hanno suonato le sei e noi chiudiamo il negozio. Il freddo è terribile; c’è da

prevedere che domani avremo molto lavoro.»26

Non vede niente e non sente niente; però scioglie il grembiule e

agitandolo cerca di soffiarmi via. Purtroppo ci riesce. Il mio secchio ha tutti

i vantaggi di qualsiasi buon animale da cavalcare; ma non ha capacità di

resistenza; è troppo leggero; basta il grembiule di una donna per cacciarlo a

gambe levate.

«Cattiva!» le grido dietro, mentre lei, voltandosi verso il negozio, agita la

mano in aria un po’ sprezzante, un po’ soddisfatta di se stessa, «cattiva! Ti

ho chiesto una palata di carbone del peggiore e tu non me l’hai data.» E

dicendo così salgo nelle regioni delle montagne di ghiaccio e mi perdo per

non tornare mai più. 40

40 Nel manoscritto del quaderno in ottavo, separato da una linea, il testo prosegue con: Forse che

qui è più caldo che sulla terra invernale? Tutto intorno il bianco è accecante, l’unica cosa scura è il mio

secchio. Se prima ero in alto, ora sono profondamente in basso, mi si sloga il collo a guardare verso le

montagne. Il cielo una distesa bianca e ghiacciata, attraversata a strisce dal passaggio di pattinatori

scomparsi. Sulla neve alta, che sprofonda per un pollice appena, seguo le orme dei piccoli cani artici.

La mia cavalcata non ha più senso, sono sceso e porto il secchio in spalla.27

[Quaderno in ottavo D, aprile 1917:]

Frammenti «Rotpeter»

Tutti conosciamo Rotpeter, così come lo conosce mezzo mondo. Ma

quando giunse nella nostra città per una esibizione, decisi di conoscerlo più

da vicino, personalmente. Non è difficile essere ammessi alla sua presenza.

Nelle grandi città, dove tutti sono uomini di mondo e cercano solo di vedere

dal più vicino possibile il respiro delle persone famose, potevano sorgere

delle difficoltà, ma nella nostra città ci si accontenta di contemplare le

meraviglie dal parterre, e perciò, come mi disse il portiere dell’albergo, io

ero fino ad allora l’unico che avesse annunciato la propria visita. Il signor

Busenau, l’impresario, mi accolse con straordinaria cordialità. Non mi ero

aspettato di trovare in lui un uomo così modesto, e quasi meschino. Sedeva

nell’anticamera dell’abitazione di Rotpeter e mangiava una minestra di

uova. Benché fosse mattina, indossava già il frac serale con cui appariva alle

rappresentazioni. Appena mi vide, benché fossi un ospite estraneo e

insignificante, saltò su 41 , lui che era titolato degli ordini più alti, re dei

domatori, dottore honoris causa delle grandi università, - saltò su, mi strinse

la mano, mi obbligò a sedermi, pulì il suo cucchiaio sulla tovaglia e me lo

offrì con la massima amicizia, perché finissi di mangiare la sua minestra di

uova. Non accettò il mio rifiuto pieno di gratitudine, e voleva imboccarmi

di persona. Feci fatica a calmarlo, e a respingerlo insieme con piatto e

cucchiaio. «Lei è stato molto gentile a venire», disse allora con forte

accento straniero, «molto gentile. Inoltre lei arriva al momento giusto, non

sempre, purtroppo non sempre Rotpeter può ricevere visite, spesso ha

orrore di vedere esseri umani; in tal caso nessuno, chiunque sia, viene

ammesso, e io stesso, io stesso posso trattare con lui in un certo senso solo

professionalmente, sul palcoscenico. Ma subito dopo la rappresentazione

devo sparire, se ne va a casa da solo, si rinchiude nella sua stanza e per lo

più se ne resta così fino alla sera dopo. Nella sua camera da letto tiene

sempre un grosso cestino di frutta, che gli serve per nutrirsi in questi casi.

Naturalmente però io non posso lasciarlo incustodito, e così affitto sempre

la casa di fronte per sorvegliarlo da dietro le tende.»

41 saltò su] saltò su [come un omino di gomma]28

«Quando le sto seduto di fronte così, Rotpeter, la sento parlare, brindo

alla sua salute, allora davvero - che lei consideri questo un complimento

oppure no, è invece la pura verità - allora mi dimentico del tutto che lei è

uno scimpanzé. Solo a poco a poco, quando mi costringo a tornare dai miei

pensieri alla realtà, i miei occhi mi lasciano vedere di chi sono ospite.»

«Sì.»

«E’ diventato tutto silenzioso, ma perché? Solo poco fa mi ha espresso

giudizi così sorprendentemente giusti sulla nostra città, e ora è così

silenzioso.»

«Silenzioso?»

«Le manca forse qualcosa? Devo chiamare il domatore? Forse a

quest’ora lei è abituato a mangiare?»

«No, no. Va tutto bene. Posso anche dirle che cosa è stato. Ogni tanto mi

invade un tale orrore degli uomini che a malapena posso reprimere un

conato di vomito. Ciò naturalmente non ha nulla a che fare con le singole

persone, niente a che fare con la sua gentile presenza qui. E’ una cosa

rivolta contro tutti gli uomini. Non c’è neppure da stupirsene, se per

esempio lei dovesse vivere sempre con delle scimmie, anche lei, pur con

tutto l’autocontrollo, avrebbe di certo simili attacchi. Del resto non è

neppure l’odore degli uomini che mi circondano a destarmi tanto orrore, ma

piuttosto l’odore umano che io stesso ho assunto, e che si fonde con l’odore

della mia patria di un tempo. Prego, annusi lei stesso! Qui sul petto! Metta

il naso più a fondo nella pelliccia! Più a fondo, le dico.»

«Purtroppo non sento nessun odore particolare. L’odore solito di un

corpo ben curato, nient’altro. D’altronde, il naso della gente di città non fa

testo in questo caso. Ovviamente lei riesce a fiutare mille cose che a noi

sfuggono.»

«Questo un tempo, signore mio, un tempo. Cose passate.»

«Dato che ha iniziato lei il discorso, mi permetto di farle una domanda:

da quanto tempo è fra noi?»

«Cinque anni, il cinque di agosto sono cinque anni.»

«Un risultato eccezionale. Nel giro di cinque anni scrollare da sé la

natura di scimmia e percorrere al galoppo tutta l’evoluzione dell’umanità.

Questo davvero non l’ha mai fatto nessuno. In questa corsa lei è solitario.»

«So che è molto, e talvolta va anche al di là della mia comprensione. In

certe ore tranquille però il mio giudizio non è tanto esaltante. Lei sa come

sono stato catturato?»

«Ho letto tutto ciò che è stato stampato su di lei. Le hanno sparato, e poi

l’hanno catturata.»29

«Sì, mi hanno sparato due colpi, uno qui nella guancia, la ferita era

naturalmente molto più grande di quel che è ora la cicatrice, e uno sotto

l’anca. Mi toglierò i pantaloni, perché lei possa vedere anche questa

cicatrice. Questo è stato il preludio, questa fu la ferita grave e decisiva,

caddi dall’albero e quando mi risvegliai ero in una gabbia sul ponte di

mezzo di una nave.42 »

«In una gabbia! Sul ponte! A sentirne parlare lei in persona si intende la

cosa in modo assai diverso che a leggerne sui giornali.»

«E in modo ancor più diverso la si intende se la si è vissuta, caro signore.

Fino a quel momento non sapevo cosa significasse non avere vie di uscita.

Non era una gabbia con le grate alle quattro pareti, erano direi tre pareti

appoggiate a un baule, che costituiva la quarta parete. Il tutto era così basso

che non potevo stare in piedi, e così stretto che non potevo sedermi. Così,

potevo soltanto stare accoccolato con le ginocchia piegate. Nella mia collera

non volevo vedere nessuno, e così me ne stavo voltato verso il baule, in

attesa con le ginocchia tremanti per giorni e notti, mentre le sbarre della

gabbia mi affondavano nella carne. Custodire nei primi tempi in questo

modo gli animali selvatici è considerato vantaggioso, e dopo la mia

esperienza non posso negare che, in un senso umano, è proprio così. Ma

del senso umano non me ne importava, a quei tempi, ancora niente. Avevo

davanti a me il baule. Apri la parete di assi, scava a morsi un buco, infilati a

forza attraverso un’apertura che in realtà consente appena di sbirciare fuori

e che, appena scoperta, tu saluti con l’urlo felice di chi non capisce. Dove

vuoi andare? Dietro le assi comincia la foresta,

[Brief-Anfang in B327:]

Egregio signor Rotpeter,

ho letto con grande interesse, e direi persino con batticuore, la relazione

da Lei scritta per l’Accademia delle Scienze. Non c’è da stupirsi, perché io

sono stato il suo primo insegnante, per il quale lei nel ricordo ha trovato

parole così amichevoli. Forse, pensandoci un po’, Lei poteva evitare di

rammentare il mio soggiorno in sanatorio, ma riconosco che tutta la sua

relazione, nella franchezza che la caratterizza, non poteva sopprimere il più

piccolo dettaglio, anche se per me un po’ compromettente, una volta che Le

fosse venuto in mente durante la stesura. Ma ora non volevo parlare di

questo, ciò che mi sta a cuore è altro.

42 di una nave.] di una nave. [Signore mio, lei non mai stato una scimmia e non si è mai trovato in una

gabbia, e quindi non posso farle capire cosa intendo.]30

[Prima versione nel quaderno in ottavo D, aprile 1917; traduzione

secondo l’edizione definitiva curata da Kafka in Ein Landarzt , Kurt Wolff

Verlag 1919, uscito in realtà il 12 maggio 1920]

Una relazione per un’accademia

Eccellenti signori dell’accademia!

Voi mi fate l’onore di chiedermi per la vostra accademia una relazione

sulla mia precedente vita di scimmia.

In questo senso purtroppo non posso adempiere all’invito. Quasi cinque

anni mi dividono dalla condizione di scimmia, un tempo forse breve se

misurato sul calendario, ma infinitamente lungo da attraversare al galoppo

come ho fatto io, a tratti accompagnato da uomini eccellenti, da consigli,

consensi e musica d’orchestra, eppure fondamentalmente solo, perché tutto

l’accompagnamento si manteneva, per rimanere nell’immagine, lontano

dalla barriera. Questo risultato sarebbe stato impossibile se mi fossi ostinato

a voler rimanere attaccato alla mia origine e ai miei ricordi di gioventù. Una

piena rinuncia a ogni ostinazione è stato il primo comandamento che mi

sono imposto; io, che ero una scimmia libera, mi sono adattata a questo

giogo. A loro volta, però, i ricordi in questo modo mi si rifiutavano sempre

di più. Se in un primo momento il ritorno, quando fosse stato consentito

dagli uomini, mi era aperto attraverso un portale alto quanto il cielo sulla

terra, in seguito, parallelamente alla mia evoluzione che proseguiva a colpi

di frusta, esso divenne sempre più basso e più stretto; nel mondo degli

uomini mi sentivo sempre più a mio agio, sempre più compreso; la

tempesta che soffiava dal mio passato si calmò; oggi è solo una corrente

d’aria che mi rinfresca i calcagni; e quel buco lontano da cui questa corrente

viene e attraverso il quale sono passato un tempo è diventato così piccolo

che, anche se avessi forza e volontà sufficienti per correre a ritroso fin

laggiù, dovrei scorticarmi tutta la pelliccia per passarci attraverso. Parlando

chiaramente, benché io preferisca usare delle immagini per simili discorsi,

tuttavia parlando chiaramente: la vostra natura di scimmia, signori, per

quanto possiate averne una dietro di voi, non può esservi più lontana di

quanto la mia lo è da me stesso. Tuttavia, un prurito al calcagno lo sente

chiunque cammini sulla terra: il piccolo scimpanzé come il grande Achille.

Nel senso più limitato tuttavia posso rispondere alla vostra domanda, e lo

faccio persino con gioia. La prima cosa che ho imparato è stata la stretta di

mano; una stretta di mano dimostra franchezza; ora che sono al vertice della

mia carriera, possa anche una parola franca raggiungere quella prima stretta31

di mano. Una tale parola non aggiungerà novità essenziali per l’Accademia,

e rimarrà molto al di sotto di ciò che mi si richiedeva, ma deve mostrare

quale sia la linea di sviluppo di chi, un tempo scimmia, è riuscito a entrare e

a stabilirsi saldamente nella comunità umana. Non potrei tuttavia dire io

stesso quel poco che seguirà se non fossi pienamente sicuro di me stesso e

se la mia posizione su tutti i palcoscenici di varietà del mondo civilizzato

non fosse ormai incrollabile.

Sono nato nella Costa d’Oro. Di questo sono stato informato da estranei

dopo la mia cattura. Una spedizione di caccia della ditta Hagenbeck - con la

sua guida fra l’altro ho poi vuotato diverse bottiglie di buon vino rosso - si

era appostata nei cespugli sulla riva, quando la sera insieme al branco mi

avvicinai di corsa per bere. Spararono; io fui l’unico a essere colpito; mi

raggiunsero due colpi.

Uno nella guancia; questo era lieve; mi lasciò però una grossa cicatrice

rossa spelacchiata, che mi è valsa il nome di Rotpeter, un nome che odio,

del tutto inappropriato, che sembra proprio inventato da una scimmia, come

se solo questa macchia rossa sulla guancia mi distinguesse da quella

scimmia addomesticata che chiamano Peter, crepata di recente, famosa

soltanto qua e là. Ma questo, sia detto di sfuggita.

Il secondo colpo mi raggiunse sotto l’anca. Questo era grave, è colpa sua

se ancor oggi zoppico un poco. Ultimamente, nel lavoro di uno dei

diecimila fanfaroni che straparlano di me sui giornali, ho letto che la mia

natura di scimmia non sarebbe ancora del tutto soppressa, e lo

dimostrerebbe il fatto che provo piacere a togliermi i pantaloni davanti ai

visitatori per mostrare il foro d’entrata di quel colpo. A questo bel tomo

bisognerebbe far saltare ogni singolo ditino della mano con cui scrive. Io, io

posso togliermi i pantaloni davanti a chi mi pare; là sotto non troveranno

altro che una pelliccia ben curata e una cicatrice dovuta a un - scegliamo qui

per uno scopo definito una parola definita, che però non vuol essere

equivocata - la cicatrice dovuta a un colpo scellerato. Tutto è alla luce del

sole; non c’è niente da nascondere; quando un uomo di alti principi si

avvicina alla verità mette da parte i modi raffinati. Se invece fosse quel

giornalista a calare i pantaloni davanti ai visitatori, la cosa avrebbe un

aspetto diverso e ammetterò che sarebbe ragionevole se non lo facesse. Ma

allora che non rompa le scatole a me con le sue delicatezze!

Dopo quei colpi mi risvegliai - e qui cominciano pian piano i miei ricordi

personali - in una gabbia, sul ponte mediano del vaporetto Hagenbeck. Non

era una gabbia a quattro pareti; piuttosto si trattava di solo tre pareti

saldamente appoggiate a un baule; il baule formava così la quarta parete. Il

tutto era troppo basso per stare in piedi e troppo stretto per stare seduti.32

Perciò mi accoccolai sulle ginocchia piegate e un po’ tremanti e, poiché

probabilmente in un primo tempo non volevo vedere nessuno ma preferire

rimanermene al buio, mi voltai verso il baule, mentre dietro di me le sbarre

della gabbia mi entravano nella carne. Custodire nei primi tempi in questo

modo gli animali selvatici è considerato vantaggioso, e dopo la mia

esperienza non posso negare che, in un senso umano, è proprio così.

Ma allora non ci pensavo. Per la prima volta nella mia vita non avevo vie

d’uscita; per lo meno non ne avevo davanti a me; davanti a me c’era il

baule, un’asse stretta contro l’altra. Fra le assi c’era sì un’apertura che le

attraversava, e quando la scoprii la prima volta la salutai con l’urlo felice di

chi non comprende, ma questa apertura era di gran lunga insufficiente anche

per infilarci la coda, e tutta la forza di una scimmia non era sufficiente ad

allargarla.

Come poi mi hanno detto, ero insolitamente poco rumoroso, e da questo

se ne concluse che o sarei crepato presto oppure, se superavo il primo

periodo critico, sarei stato molto adatto a essere addomesticato. Superai

questo periodo. Un sordo singhiozzo, un doloroso spulciarsi, lo stanco

leccare una noce di cocco, battere con la testa la parete del baule, mostrare

la lingua all’avvicinarsi di qualcuno - ecco le prime occupazioni della mia

nuova vita. Ma in tutto ciò un solo sentimento: nessuna via d’uscita.

Naturalmente ciò che allora sentivo come scimmia posso descriverlo oggi

solo con parole umane e perciò manco il bersaglio, ma anche se non posso

più raggiungere l’antica verità di scimmia questa è per lo meno sulla linea

della mia descrizione, su questo non ho dubbi.

Fino ad allora avevo avuto tante via d’uscita, e ora neppure una. Ero

saldamente in trappola. Se mi avessero inchiodato, la mia libertà di

movimento non sarebbe stata minore. E questo perché? Puoi anche grattarti

la pelle fra le dita dei piedi, ma non troverai il perché. Non avevo vie

d’uscita, dovevo però procurarmele, altrimenti non avrei potuto vivere.

Sempre attaccato a questa parete di baule - sarei senza dubbio crepato. Ma

da Hagenbeck le scimmie devono stare contro la parete del baule - e così

smisi di essere una scimmia. Una linea di pensiero chiara e bella, che devo

avere in qualche modo covato in pancia, dato che le scimmie pensano con la

pancia.

Temo di non essere capito quando parlo di via d’uscita. Uso questo

termine nel suo senso più completo e abituale. E’ con intenzione che non

dico libertà. Non alludo a questo grande sentimento della libertà in tutte le

direzioni. Come scimmia forse la conoscevo, e ho incontrato uomini che

ambiscono ad essa. Ma per quanto mi riguarda, non desideravo la libertà

allora come non la desidero oggi. Fra parentesi: parlando di libertà gli33

uomini si ingannano un po’ troppo spesso. E come la libertà va annoverata

fra i sentimenti più sublimi, così anche il corrispondente inganno è dei più

sublimi. Spesso nei varietà, prima del mio numero, ho visto qualche coppia

di artisti darsi da fare lassù sotto il tendone sul trapezio. Si lanciavano, si

altalenavano, saltavano, si libravano abbracciati, uno teneva l’altro per i

capelli con i denti. «Anche questa è libertà umana», pensavo, «un

movimento padrone di sé.» O derisione della sacra natura! Non c’è

costruzione che resterebbe in piedi per le risate delle scimmie di fronte a un

tale spettacolo.

No, non era la libertà che volevo. Solo una via d’uscita; a destra, a

sinistra, era lo stesso; non avevo altre pretese; la via d’uscita poteva anche

essere un inganno; la pretesa era piccola, l’inganno non poteva essere più

grande. Avanti, avanti! Pur di non restare fermo a braccia sollevate,

schiacciato contro la parete di un baule. 43

Oggi 44 vedo con chiarezza; senza la più grande tranquillità interiore non

avrei mai potuto venirne fuori. E in effetti forse devo tutto ciò che sono

diventato alla tranquillità che mi invase, là nella nave, dopo i primi giorni.

Ma la tranquillità a sua volta la devo all’equipaggio della nave.

Sono brave persone, nonostante tutto. Ancora oggi ricordo volentieri il

suono dei loro passi pesanti, che risuonavano allora nel mio dormiveglia.

Avevano l’abitudine di prendere tutto con estrema lentezza. Se qualcuno

voleva stropicciarsi gli occhi, alzava la mano come sollevando un peso. I

loro scherzi erano grossolani, ma cordiali. Le loro risate erano sempre miste

a una tosse che suonava pericolosa, e invece era insignificante. Avevano

sempre in bocca qualcosa da sputare, e dove sputassero era per loro

indifferente. Si lamentavano sempre di trovarsi addosso le mie pulci; ma

non ce l’avevano mai seriamente con me; sapevano bene che nella mia

pelliccia le pulci prosperavano e anche che le pulci sono buone saltatrici; e

perciò si mettevano l’animo in pace. Quando non erano in servizio, a volte

alcuni di loro si sedevano in semicerchio intorno a me; parlavano appena,

ma si limitavano a tubare l’uno in direzione dell’altro; fumavano, sdraiati

sul baule, la pipa; si davano botte sulle ginocchia appena facevo il più

43 Nel manoscritto, si legge a questo punto il seguente passo, non cancellato ma non accolto nella

versione stampata: Gli uomini hanno più possibilità di una scimmia. Se un uomo viene imprigionato

non lo percepisce nemmeno come un cambiamento inaudito, perché già tutte le notti della sua vita si è

imprigionato nella propria abitazione, e soprattutto poi ha le vie di scampo dello spirito, attraverso una

via spirituale può svignarsela dalla sua cella. La scimmia ha solo l’uscita che passa attraverso la grata;

la sua via d’uscita è perciò semplice, più significativa della fuga corporea dell’uomo, molto più di lui

la scimmia è posta di fronte a un sì o a un no, se le riesce di scappare è salva, deve farlo però ad ogni

costo, sbattendo in avanti con la testa sanguinante, i castelli in aria dei sogni beati non le sono

consentiti. 44 Oggi] Nel manoscritto: [Non è contraddizione con quanto ho detto il fatto che una scimmia abbia

più bisogno di un uomo di calma interiore] Oggi34

piccolo movimento; e ogni tanto uno prendeva un bastone e mi grattava là

dove preferivo. Se oggi mi invitassero a fare un viaggio su una tale nave

certo declinerei l’invito, ma è altrettanto certo che quando penso a quel

ponte mediano non ho soltanto brutti ricordi.

La tranquillità che mi ero guadagnata fra questa gente mi trattenne

innanzitutto da ogni tentativo di fuga. Ripensandoci oggi mi sembra che

avevo almeno il presentimento che avrei dovuto prima o poi trovare una via

d’uscita, se volevo vivere, ma che tale via d’uscita non si raggiungeva con

la fuga. Non so più se una fuga era possibile, anche se credo di sì; a una

scimmia la fuga dovrebbe sempre essere possibile. Con i miei denti di oggi

devo stare attento anche quando rompo una semplice noce, ma allora con il

tempo mi sarebbe certo riuscito di rompere a morsi la chiusura della gabbia.

Non lo feci. Che cosa ci avrei guadagnato? Appena messa fuori la testa mi

avrebbero subito ripreso e rinchiuso in una gabbia ancor peggiore; oppure

senza rendermene conto sarei fuggito fra altri animali, magari in mezzo ai

boa, e sarei soffocato nel loro abbraccio; o magari mi sarebbe riuscito di

raggiungere il ponte e saltare fuori, così mi sarei dondolato per un poco

sull’oceano e poi sarei affogato. Gesti disperati. Non calcolavo come un

uomo, ma sotto l’influsso di chi mi circondava mi comportavo come se

avessi calcolato.

Non calcolavo, ma osservavo in tutta tranquillità. Guardavo questi

uomini andare su e giù, sempre le stesse facce, gli stessi movimenti, a volte

mi sembrava che fosse sempre lo stesso uomo. Quest’uomo o questi uomini

camminavano dunque indisturbati. Intravidi, come per ispirazione, un

superiore obiettivo. Nessuno mi prometteva che la gabbia sarebbe stata

aperta se fossi diventato come loro. Non si fanno simili promesse per

imprese apparentemente irrealizzabili. Ma se le imprese vengono portate a

termine, allora in seguito anche le promesse compaiono proprio là dove

prima le si era cercate invano. Ora, in questi uomini di per sé non c’era

nulla che mi attirasse molto. Se fossi un adepto di quella libertà di cui

parlavo prima, avrei certo preferito l’oceano alla via d’uscita che mi si

mostrava nel torbido sguardo di costoro. In ogni caso però io li osservavo

già da molto tempo prima di pensare a queste cose, furono anzi solo le

osservazioni accumulate a spingermi in quella definita direzione.

Era così facile imitare la gente. A sputare, imparai fin dai primi giorni.

Ci sputavamo in faccia a vicenda; l’unica differenza era che dopo io mi

leccavo la faccia per pulirla, loro no. Presto fumavo la pipa come un

vecchio; se premevo il suo fornello con il pollice, tutto il ponte ne rideva;

solo la differenza fra una pipa vuota e una carica mi rimase a lungo oscura.35

La fatica maggiore me la procurò la bottiglia di grappa. L’odore mi

ripugnava; mi costrinsi con tutte le forze; ma ci vollero settimane perché

riuscissi a vincermi. Queste lotte interiori, sorprendentemente, furono

dall’equipaggio prese sul serio più di ogni altra cosa. Ora non riesco più,

nemmeno nel ricordo, a distinguere le persone, ma uno di loro tornava

sempre, solo o in compagnia, di giorno o di notte, alle ore più diverse; mi si

metteva davanti con la bottiglia e mi dava lezioni. Non mi capiva, voleva

sciogliere l’enigma del mio essere. Stappava la bottiglia lentamente e mi

guardava, come per vedere se avevo capito; confesso che lo osservavo

sempre con un’attenzione selvatica e precipitosa; nessun insegnante umano

troverebbe in tutto il mondo un allievo umano altrettanto diligente; stappata

la bottiglia, la portava alla bocca; io lo seguivo con lo sguardo fino alla gola;

contento di me, mi fa un cenno e porta la bottiglia alle labbra; io, affascinato

dalla progressiva conoscenza, stridendo mi gratto per lungo e per largo dove

capita; lui se ne rallegra, alza la bottiglia e beve un sorso; io, impaziente e

disperato per la voglia di imitarlo, mi imbratto nella mia gabbia, cosa che di

nuovo lo riempie di soddisfazione; ora allontana ampiamente da sé la

bottiglia e di slancio la riavvicina, e, piegato esageratamente indietro per

insegnarmi, la vuota in un sorso. Io, stanco per l’eccessivo desiderio, non

posso più seguirlo e pendo debolmente dalle sbarre, mentre lui conclude la

sua lezione di teoria grattandosi la pancia con un ghigno.

Solo ora comincia l’esercizio pratico. Non sono già esaurito dalla teoria?

Sì, del tutto esaurito. Ciò fa parte del mio destino. Ciononostante, afferro

meglio che posso la bottiglia che mi viene tesa; tremando la stappo; con

questo successo ecco che pian piano acquisisco nuove forze; alzo la

bottiglia, e in questo gesto sono ormai quasi indistinguibile dal mio

modello; la porto alla bocca e - e la scaglio lontano con orrore, con orrore,

benché sia vuota e piena solo dell’odore, la scaglio con orrore per terra.

Questo è uno sconforto per il mio insegnante, e ancor maggiore per me; e

non posso riconciliare né lui né me per il fatto che, gettata via la bottiglia,

non dimentico di grattarmi la pancia e ghignare.

Fin troppe volte la lezione andava così. E, sia detto a onore del mio

insegnante: non era cattivo con me; certo, ogni tanto mi appoggiava la pipa

accesa sulla pelliccia, finché questa, dove arrivavo con difficoltà,

cominciava a bruciare, ma allora lui stesso me la spegneva con la sua

gigantesca mano piena di bontà; non era cattivo con me, capiva che

entrambi lottavamo dalla stessa parte contro la natura di scimmia, e che a

me toccava il compito più difficile.

Che vittoria fu allora per lui come per me, quando una sera, davanti a un

grande pubblico - forse era una festa, un grammofono suonava, un ufficiale36

passeggiava fra la gente - quando in quella sera, a tutti inosservato, afferrai

una bottiglia di grappa dimenticata per caso davanti alla mia gabbia, la

stappai secondo i dettami della scuola sotto l’attenzione crescente degli

astanti, la portai alla bocca e senza esitare, senza storcer la bocca, come un

esperto bevitore, con gli occhi sbarrati, la gola traboccante, la vuotai

letteralmente fino all’ultimo goccio; scagliai lontano la bottiglia non più

con disperazione, ma da vero artista; certo, dimenticai di grattarmi la

pancia; in compenso però, forse perché non potevo più trattenermi o perché

i miei sensi erano preda dell’ebbrezza, esclamai un «Ehilà!» con timbro

umano, con questo grido saltai nella comunità degli umani e percepii la loro

eco: «Sentite, sta parlando!» come un bacio su tutto il mio corpo

gocciolante di sudore.

Ripeto: non mi attirava imitare gli uomini; li imitavo solo perché cercavo

una via d’uscita, nient’altro. Inoltre, con quella vittoria ancora avevo

ottenuto poco. La voce mi sparì di nuovo subito dopo; solo dopo mesi

riuscii a ritrovarla; la ripugnanza contro la bottiglia di grappa si ripresentò

moltiplicata. Ma la strada era tracciata davanti a me una volta per sempre.

Quando fui consegnata ad Amburgo al primo domatore, compresi subito

l’alternativa che mi si poneva: zoo o varietà. Non ebbi esitazioni. Mi dissi:

cerca con tutte le tue forze di arrivare al varietà; questa è la via d’uscita; lo

zoo è soltanto una nuova gabbia; se ci entri sei perduto.

E così, signori, ho imparato. Ah, si impara bene quando si è obbligati; si

impara, quando si vuol trovare una via d’uscita; si impara senza riguardi per

nessuno. Ci si sorveglia da soli con la frusta; e alla minima resistenza ci si

strazia le carni. Come sparata fuori, la natura di scimmia uscì da me e

sparì, tanto che il mio primo istruttore finì per diventare lui stesso simile a

una scimmia, e presto dovette abbandonare la mia istruzione e ricoverarsi in

clinica. Fortunatamente presto ne uscì.

Ma io dovevo logorare molti istruttori, spesso diversi istruttori allo

stesso tempo. Quando fui più sicuro delle mie capacità, quando il pubblico

cominciò a seguire i miei progressi e il futuro a farsi più luminoso, io stesso

mi prendevo degli istruttori, li mettevo in cinque stanze consecutive e

imparavo da tutti contemporaneamente saltando senza posa da una stanza

all’altra.

Quali progressi! Come penetravano i raggi della scienza da ogni parte nel

cervello che si risvegliava! Non lo nego: ciò mi rendeva felice. Ma confesso

anche che allora come ora non sopravvalutavo tutto ciò. Con uno sforzo

quale finora non si è ripresentato sulla terra, ho raggiunto il grado di

istruzione medio di un europeo. Questo in sé sarebbe un nulla, ma è pur

sempre qualcosa dato che mi ha liberato dalla gabbia e mi ha offerto questa37

particolare via d’uscita, questa via d’uscita umana. Nella vostra lingua

esiste la bellissima espressione: «imboscarsi»; è proprio quello che ho fatto

io, mi sono imboscato. Non c’erano altre vie, se si premette che non si

poteva scegliere la libertà.

Se ora riconsidero la mia evoluzione e ciò che ho ottenuto finora, non

posso lamentarmi né dichiararmi soddisfatto. Con le mani nei pantaloni, la

bottiglia di vino sul tavolo, un po’ sto sdraiato, un po’ mi metto nella sedia

a dondolo e guardo dalla finestra. Se viene una visita la ricevo come si

conviene. Il mio impresario sta nell’anticamera; se suono, viene e ascolta

cosa ho da dire. La sera c’è quasi sempre lo spettacolo, e ormai non potrei

avere più successo di così. Se torno tardi dai banchetti, dalle società

scientifiche o da una piacevole compagnia, mi aspetta a casa una piccola

scimpanzé semiaddomesticata, e presso di lei me la spasso alla maniera

delle scimmie. Di giorno però non la voglio vedere; ha negli occhi la follia

dell’animale addestrato e confuso; solo io lo vedo e non riesco a

sopportarlo.

Nel complesso, ad ogni modo, ho raggiunto quel che volevo raggiungere.

Non si dica che non ne valeva la pena. Del resto non mi interessano i

giudizi umani, io voglio solo diffondere la conoscenza, fare relazioni, e

anche questa che ho presentato davanti a voi, eccellenti signori

dell’Accademia, era soltanto una relazione.