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Nathaniel Hawthorne
Racconti raccontati due volte
a cura di
Patrizio Sanasi
PREFAZIONE DELL'AUTORE
L'autore di
Racconti raccontati due volte ha diritto a un titolo distintivo e non si perita di vantarlo perchénessuno dei suoi confratelli letterari si curerà mai di contestarglielo. Egli è stato, per molti anni, il più oscuro uomo di
lettere d'America.
Questi racconti sono stati pubblicati su riviste e annuari nell'arco di un periodo di dieci o dodici anni, e
comprendono tutta la produzione giovanile dello scrittore, senza mai suscitare (per quanto egli sappia) la minima
impressione sul pubblico. Uno o due tra questi, e
Un rivolo d'acqua della fontana cittadina in misura forse superioreagli altri, hanno avuto una certa circolazione sui giornali, ma in quanto agli altri egli non ha motivo di supporre che, alla
loro prima pubblicazione, abbiano avuto la buona o cattiva sorte di essere letti da alcuno. Per tutto il periodo su
accennato, egli non è stato spronato alla produzione letteraria da qualche ragionevole prospettiva di fama o di profitto,
ma soltanto dal piacere in sé del comporre, un piacere tutt'altro che vacuo a suo modo, e forse essenziale per la qualità
dell'opera, ma che, a lunga scadenza, difficilmente impedirà il raffreddarsi del cuore di uno scrittore, o l'intorpidirsi
delle sue dita. È a questa assoluta mancanza di interesse, all'età in cui la sua mente sarebbe stata più effervescente, che il
pubblico deve il fatto (sicuramente non deprecabile da una parte e dall'altra) che l'autore non può esibire nulla, in quanto
al pensiero e all'attività di quella parte della sua vita, se non la quarantina di racconti contenuti in questa raccolta.
Molto di più egli scrisse, in effetti, e una piccolissima parte potrebbe essere riesumata (ma non ne varrebbe la
pena) tra le pagine ingiallite dei periodici d'una ventina di anni fa, o tra le copertine sgualcite di marocchino di ricordi
sbiaditi. I restanti racconti di cui si parla hanno avuto vita molto breve ma, in quanto a splendore, hanno avuto
un'accoglienza di gran lunga superiore a quella dei loro fratelli che sono arrivati alle stampe. Insomma, l'autore li ha
bruciati senza pietà e rimorso (e, soprattutto, senza successivi rimpianti), avendo più di una volta occasione di
meravigliarsi che quella robaccia, quale egli giudicava i suoi manoscritti condannati, fosse abbastanza infiammabile da
appiccar fuoco al camino.
Dopo molto tempo venne pubblicato il primo volume della raccolta dei racconti. A quel punto, se l'autore fosse
stato pungolato da ambizioni letterarie (ciò che non ricorda, né ritiene probabile), queste si sarebbero per sempre estinte
per penuria di nutrimento. E questa fu una fortuna, perché il successo del libro non fu certo tale da appagare una sua
sotterranea ansia di notorietà. Una limitata edizione fu «sistemata» (per usare la significativa espressione dell'editore) in
un periodo ragionevole, ma senza dare in effetti all'autore e alla sua produzione una maggiore notorietà di prima. La
gran massa dei lettori ignorò probabilmente il libro, ben pochi lo lessero e lo apprezzarono al di là dei suoi meriti. Dopo
tre o quattro anni, il secondo volume della raccolta fu pubblicato e incontrò più o meno la stessa cortese, ma distaccata e
molto limitata accoglienza. La circolazione dei due volumi fu circoscritta prevalentemente al New EngIand, e fu
soltanto molto tempo dopo, ammesso che ciò sia accaduto, che l'autore poté pensare di rivolgersi al pubblico americano,
o comunque, a un qualsiasi pubblico. Egli scriveva semplicemente, infatti, per i suoi amici noti o ignoti.
Quando rilegge queste pagine da tempo dimenticate e ripensa alla sua vita durante la loro stesura, l'autore può
capire chiaramente perché le cose andarono in questo modo. Dopo tanti anni giudiziosi, egli avrebbe ben motivo di
vergognarsi se non fosse capace di criticare equamente la sua opera quanto quella di chiunque altro e, anche se non è
affar suo, e forse ancor meno suo interesse, difficilmente riesce a resistere alla tentazione di provarci. Se gli scrittori
avessero facoltà di farlo, e assolvessero questo compito con assoluta sincerità e senza riserve, i loro giudizi sulla propria
produzione sarebbero spesso più utili e istruttivi delle loro stesse opere.
In ogni caso, non c'è niente di male se l'autore osserva che è più stupito del qualsivoglia successo riscosso dai
Racconti raccontati due volte
che del fatto che esso sia stato così lento e graduale. Questi racconti hanno il tenue coloredei fiori sbocciati in un'ombra troppo appartata, nel freddo di una tendenza contemplativa, che pervade i sentimenti e le
osservazioni di ciascun bozzetto. Invece di passione si trova sentimento, e anche quando vengono proposti ritratti di vita
reale, incontriamo l'allegoria, e non sempre così calorosamente rivestita di carne e ossa da poter essere recepita dalla
mente del lettore senza un brivido. Per carenza di energia o per un'invincibile reticenza, i tocchi dell'autore producono
spesso un effetto attenuato: il lettore più ameno riesce difficilmente a ridere del suo più aperto umorismo, la lettrice più
sensibile difficilmente verserà calde lacrime nei momenti più patetici. Questo libro, se si vuole trovarvi qualcosa di
preciso, richiede di essere letto nell'atmosfera crepuscolare, limpida e scura, in cui è stato scritto; e se è aperto alla piena
luce del sole, apparirà probabilmente troppo simile a un volume di pagine bianche.
Considerate le suddette caratteristiche, proprie della produzione di un uomo che vive appartato (qual era
l'autore a quel tempo), il libro è privo di altre che sarebbe naturale cercare. Questi bozzetti, inutile a dirsi, non sono
profondi, ma ancor più singolare è il fatto che essi mostrino raramente, se mai, l'intenzione dell'autore di farli apparire
tali. Non contengono l'astrusità di idee o l'oscurità di espressione , che caratterizza le comunicazioni scritte di una mente
solitaria con se stessa. Non è mai necessaria una loro interpretazione, e lo stile è in realtà quello di un uomo di società.
Ogni frase, per quanto racchiude pensieri o sentimenti, può essere compresa e percepita da chiunque si dia la cura di
leggerla, e legga il libro in un umore appropriato.
Questa dichiarazione di peculiarità apparentemente opposte ci conduce a comprendere ciò che sono realmente
questi bozzetti. Non sono la conversazione di un uomo appartato con la sua mente e il suo cuore (perché, se così fosse,
avrebbero quasi certamente maggior profondità e perdurante valore), ma il suo tentativo, riuscito in modo molto
imperfetto, di inaugurare un rapporto con il mondo..3
L'autore sarebbe dispiaciuto se si pensasse che egli intende deprecare o lamentare lo scarso successo riscosso
dai suoi precedenti tentativi letterari presso il pubblico in generale. È talmente vero il contrario che egli è stato indotto a
scrivere questa prefazione soprattutto perché essa gli offre l'occasione di esprimere tutto il piacere che gli hanno
procurato questi racconti, sia prima sia dopo la loro pubblicazione. Sono il ricordo di anni molto tranquilli e non
infelici. È vero, non sono riusciti a conseguire una vasta popolarità, né poteva essere altrimenti, ma talvolta, quando egli
li considerava ormai completamente dimenticati, una breve nota o l'articolo di un critico americano o straniero
gratificavano le sue velleità di autore con inaspettati elogi, elogi troppo generosi, in effetti, e troppo poco temperati
dalle critiche, che egli imparava, appunto per questo, a rivolgere alle sue stesse opere. E, tra l'altro, è un sintomo molto
preoccupante della scarsa popolarità di un libro quando esso non solleva aspre critiche. Questa, in particolare, è stata la
fortuna dei
Racconti raccontati due volte. Non si sono attirati inimicizie, ma se ne è saputo e parlato così poco chequanti li hanno letti, e magari apprezzati, tendevano a provare per il libro quella simpatia che si nutre istintivamente per
una scoperta personale.
Questi gentili sentimenti si estendevano (almeno in taluni casi) anche all'autore che, in base alla testimonianza
contenuta nei suoi bozzetti, era considerato un uomo mite, schivo, delicato, malinconico, eccessivamente sensibile e
non molto energico, che nascondeva i suoi rossori sotto un falso nome, il cui significato curioso era considerato
emblematico dei suoi tratti personali e letterari. Ed egli non è affatto certo che parte della sua successiva produzione
non sia stata influenzata e modificata da un istintivo desiderio di adeguarsi a un profilo così amabile e di agire in
conformità con il carattere a lui attribuito, né potrebbe rinunciarvi, nemmeno ora, senza qualche lacrima di tenera
suscettibilità. Per concludere, questi racconti hanno dato spunto a piacevoli relazioni sociali e alla formazione di
amicizie imperiture. Molti fili d'oro si sono intrecciati con l'attuale felicità dell'autore, il quale può seguirli più o meno
direttamente fino a scoprire lì il loro inizio, così che il suo piacevole cammino attraverso la realtà sembra avere origine
dal mondo dei sogni della sua giovinezza ed essere costeggiato dall'ombra di quel fogliame che lo ripara dalla calura del
giorno. L'autore è perciò soddisfatto di ciò che hanno fatto per lui i
Racconti raccontati due volte, e pensa che ciò siamolto meglio della fama.
Lenox, 11 gennaio 1851
IL PALADINO CANUTO
Ci fu un tempo in cui il New England gemeva sotto il peso di torti ancor più gravosi di quelli minacciati che
furono causa della Rivoluzione. Giacomo II, il bigotto successore di Carlo il dissoluto, aveva annullato gli statuti
autonomi di tutte le colonie e inviato un militare inflessibile e spietato a soffocare le nostre libertà e minacciare la nostra
religione. Ben poche erano le connotazioni della tirannide che mancavano al governo di sir Edmund Andros: il
governatore e il suo Consiglio esercitavano il potere regale in assoluta indipendenza dal paese; le leggi e le tasse erano
imposte senza consultare il popolo, direttamente o attraverso i suoi rappresentanti; i diritti dei privati cittadini erano
violati e tutti i titoli di proprietà terriera abrogati; le voci di dissenso erano soffocate dalla censura imposta alla stampa,
e infine il malcontento era intimidito dalla prima banda di mercenari che abbia mai calpestato il nostro libero suolo. Per
due anni i nostri antenati furono ridotti in una cupa sottomissione, a causa di quella devozione filiale che aveva sempre
assicurato la loro fedeltà alla madre patria, fosse il suo capo un parlamento, un reggente o un sovrano papista. Tuttavia,
fino a quei tempi bui tale fedeltà era stata soltanto nominale e i coloni si erano governati da soli, godendo di ben
maggiori libertà di quanto sia tuttora privilegio dei sudditi nativi della Gran Bretagna.
Giunse poi ai nostri lidi la notizia che il principe d'Orange si era avventurato in un'impresa il cui successo
avrebbe assicurato il trionfo dei diritti civili e religiosi e la salvezza del New EngIand. Era soltanto una voce e poteva
rivelarsi falsa oppure il tentativo fallire, e in ambedue i casi colui che si era mosso contro re Giacomo avrebbe perso la
testa. Eppure la notizia produsse un evidente effetto. Nelle strade la gente sorrideva con aria d'intesa e lanciava sguardi
di sfida agli oppressori, mentre s'avvertiva ovunque un sommesso e tacito fermento, come se il più lieve segnale potesse
destare tutto il paese dalla sua apatica sottomissione. Consapevoli del pericolo, i governanti decisero di scongiurarlo con
una massiccia dimostrazione di forza, e forse di inasprire il loro dispotismo con misure ancora più oppressive. E in un
pomeriggio dell'aprile 1689 sir Edmund Andros e i suoi più fidati consiglieri, accalorati dal vino radunarono le giubbe
rosse della Guardia del governatore e fecero la loro comparsa nelle strade di Boston. Il sole stava per tramontare quando
la marcia ebbe inizio.
In quell'inquieto fermento, il rullo dei tamburi sembrò percorrere le strade non come una marcia marziale, ma
come un'adunata per i loro abitanti. Una moltitudine di persone, affluite da diverse strade, si raccolse in King Street,
destinata a diventare teatro, quasi un secolo dopo, di un altro incontro tra le truppe di Gran Bretagna e un popolo che
lottava contro la sua tirannide. Anche se più di sessant'anni erano trascorsi dall'arrivo dei Pellegrini, questa folla di loro
discendenti mostrava ancora i fieri e gravi lineamenti del loro carattere, forse ancora più evidenti in quella cupa
circostanza che in più liete occasioni. Era comune l'abbigliamento sobrio, la generale severità dell'aspetto, l'espressione
preoccupata ma indomita dello sguardo, il linguaggio ispirato alle Scritture, e la fiducia nella benedizione del Cielo su
una causa giusta, tutto ciò che avrebbe distinto un gruppo dei primi puritani minacciati da qualche pericolo in quella
terra inesplorata. E in verità non era ancora tempo che si estinguesse l'antico spirito, perché quel giorno c'erano nella.4
strada uomini che avevano pregato sotto agli alberi, prima ancora che una casa fosse elevata in onore del Dio per cui
erano diventati esuli. Erano presenti anche vecchi soldati del Parlamento, che sorridevano al pensiero che le loro
vecchie braccia potessero sferrare un altro colpo alla casa degli Stuart, e anche veterani della guerra contro re Filippo,
che avevano incendiato villaggi e massacrato giovani e anziani con devota ferocia, mentre le anime pie in tutto il paese
li aiutavano con le preghiere. Parecchi ministri del culto erano mescolati tra la folla che, a differenza da altre masse
turbolente, li guardava con deferenza, quasi che la santità fosse rappresentata dai loro stessi indumenti, e questi
sant'uomini esercitavano la loro influenza per placare la popolazione, ma non per disperderla. Intanto, lo scopo del
governatore, che veniva a turbare la quiete cittadina nel momento in cui il minimo incidente poteva provocare tumulti in
tutto il paese, era oggetto di generale curiosità e di varie interpretazioni.
«Satana colpirà tra poco», gridavano alcuni, «perché sa che il suo tempo è contato. E tutti i nostri buoni pastori
saranno trascinati in prigione! Li vedremo in un rogo di Smithfield in King Street!».
Dopo di che i fedeli di ogni parrocchia si strinsero ancor più intorno ai loro pastori, che alzarono lo sguardo al
cielo, assumendo il contegno apostolico che più si confaceva al più alto onore della loro missione, la corona del
martirio. Si immaginava, a quel tempo, che il New England potesse avere un suo John Rogers, che prendesse il posto di
colui che lo occupava degnamente nel Primer.
«Il papa di Roma ha ordinato una nuova notte di san Bartolomeo!», gridavano altri. «Saremo tutti massacrati,
gli uomini e i figli maschi!».
E questa voce non era considerata del tutto infondata, anche se i più accorti pensavano che il piano del
governatore non fosse così efferato. Si sapeva che il suo predecessore Bradstreet, governatore ai tempi del vecchio
statuto e venerabile compagno dei primi coloni, si trovava in città, e c'era motivo di supporre che sir Edmund Andros
volesse seminare il terrore con una prova di forza militare, e gettare scompiglio nell'opposizione facendo prigioniero il
suo principale rappresentante.
«Difendi il vecchio statuto, governatore!», gridava la folla, facendo propria questa idea. «Viva il buon vecchio
governatore Bradstreet!».
E mentre questo grido risuonava sempre più forte, la folla fu colta di sorpresa dall'apparizione della ben nota
figura del governatore Bradstreet in persona, un patriarca di quasi novant'anni, che comp arve sui gradini più alti di una
porta e con la sua caratteristica mitezza d'animo, li supplicò di sottomettersi all'autorità costituita.
«Figli miei», concluse il vegliardo, «non fate nulla di avventato. Non gridate, ma pregate per il bene del New
England, e attendete con pazienza quella che sarà la volontà del Signore!».
La situazione doveva essere subito risolta. Per tutto il tempo, il rullo dei tamburi aveva continuato ad
avvicinarsi lungo Cornhill, sempre più forte e intenso, echeggiando di casa in casa accompagnato dal passo cadenzato
dei soldati, finché non fece irruzione nella strada. Comparve allora una doppia fila di soldati che la occuparono in tutta
la sua larghezza, con i fucili in spalla e le micce accese così che presentavano una fila di fuochi nella penombra. La loro
marcia regolare era come l'avanzata di una macchina che tutto travolgeva al suo passaggio. Subito dietro cavalcava
lentamente, con un sordo rimbombo di zoccoli sul selciato, una schiera di gentiluomini a cavallo, tra i quali spiccava nel
mezzo sir Edmund Andros, ormai anziano ma ancora eretto e marziale. Intorno a sé aveva i suoi fidati consiglieri,
acerrimi nemici del New England. Alla sua destra cavalcava Edward Randolph, il nostro arcinemico, quello
«sciagurato» come l'ha definito Cotton Mather, colui che ha provocato la caduta del nostro antico governo ed era
seguito da una giusta maledizione per tutta la vita, fino alla tomba. All'altro fianco cavalcava Bullivant, distribuendo
gesti di scherno al suo passaggio. Dietro seguiva Dudley, con gli occhi bassi, temendo a buon motivo di incontrare gli
sguardi sprezzanti di coloro che lo consideravano, unico loro compatriota per nascita, uno degli oppressori della sua
terra natale. Erano presenti anche il capitano di una fregata ancorata nel porto e due o tre funzionari civili della Corona.
Ma la figura che maggiormente attirava gli sguardi e suscitava i più profondi sentimenti, era quella del pastore
episcopale di King's Chapel, che cavalcava altezzosamente tra i magistrati nelle sue vesti sacerdotali, degno
rappresentante del potere prelatizio e della persecuzione, dell'unione tra Chiesa e Stato, e di tutte quelle infamie che
avevano spinto i puritani in questa landa inesplorata. Un'altra doppia fila di soldati della guardia chiudeva la sfilata.
Tutta la scena rappresentava la condizione del New England e la sua morale, l'aberrazione di un governo che
non nasce dallo stato naturale delle cose, e il carattere di un popolo. Da una parte la moltitudine dei devoti, con i loro
volti gravi e il severo abbigliamento, dall'altra la schiera dei dispotici governanti con l'alto prelato nel mezzo, qua e là
un crocifisso sul petto, e tutti sfarzosamente addobbati, accalorati dal vino, orgogliosi della loro iniqua autorità,
indifferenti ai gemiti di dolore tutt'intorno. E poi i soldati mercenari, che attendevano un solo cenno per inondare di
sangue la strada, ostentando gli unici mezzi con cui l'ubbidienza poteva essere imposta.
«O Signore delle milizie celesti!», gridò una voce tra la folla. «Dai un paladino al tuo popolo!».
L'implorazione fu pronunciata a gran voce, e fu come uno squillo di tromba che introduceva la comparsa di un
autorevole personaggio. La folla si era intanto ritratta ed era ora accalcata quasi in fondo alla strada, mentre i soldati
erano avanzati oltre un terzo della sua lunghezza. Lo spazio in mezzo a loro era deserto, un solitario lastricato tra alti
edifici che vi gettavano un'ombra crepuscolare. E d'improvviso comparve lì la figura di un vegliardo che sembrava
uscito dalla folla, e camminava tutto solo nel mezzo della strada, incontro ai soldati armati. Indossava gli abiti dei
vecchi puritani, una cappa scura e un cappello a punta, nella foggia di almeno cinquant'anni prima, e una pesante spada
pendeva lungo la coscia, ma un bastone in mano assisteva l'incerto passo della sua età..5
Giunto a una certa distanza dalla folla, il vegliardo si voltò lentamente, mostrando un viso di antica maestosità,
ancor più venerabile per la barba canuta che gli scendeva sul petto. Fece un gesto che era insieme di incoraggiamento e
di ammonizione, poi si voltò di nuovo e riprese il cammino.
«Chi è quel canuto vegliardo?», domandavano i giovani ai loro padri.
«Chi è quel venerabile fratello?», si domandavano gli anziani tra loro.
Ma nessuno seppe dare una risposta. I padri del popolo, gli ottantenni e oltre, erano sconcertati, giudicando
strano che avessero dimenticato un uomo di così manifesta autorità che dovevano aver conosciuto ai vecchi tempi,
insieme con Winthrop e tutti i vecchi consiglieri che stabilivano le leggi, elevavano preghiere e li guidavano contro i
selvaggi. E anche gli anziani avrebbero dovuto ricordarlo nella loro giovinezza, quando aveva capelli grigi come i loro
erano adesso. E i giovani, come avevano potuto cancellare dal ricordo quel canuto progenitore, quella reliquia di tempi
ormai lontani, che sicuramente aveva posato la mano benedicente sui loro capi scoperti di fanciulli?
«Da dove è giunto? Quale scopo si propone? Chi può essere questo vegliardo?», mormorava la folla sbigottita.
E intanto il venerabile sconosciuto proseguiva il suo solitario cammino, il bastone in mano, nel mezzo della
strada. Quando fu più vicino ai soldati che avanzavano e il rullo dei loro tamburi giunse più nitido alle sue orecchie, il
vegliardo prese un portamento più eretto, mentre il peso degli anni sembrava scivolargli dalle spalle, lasciandolo nella
sua canuta ma intatta dignità. Poi si fece avanti con passo marziale, al ritmo del rullo dei tamburi, mentre lo
schieramento di soldati e notabili avanzava dall'altra parte, finché, quando furono divisi solo da una ventina di metri, il
vecchio impugnò nel mezzo il suo bastone e lo tese davanti a sé come uno scettro di comando.
«Fermi!», esclamò.
Lo sguardo, il volto, l'atteggiamento imperioso e il tono solenne ma bellicoso di quella voce, adatta a
comandare un esercito in battaglia come a elevarsi a Dio in preghiera, ebbero un effetto irresistibile. Alla sua
esclamazione e al suo braccio teso, il rullo dei tamburi tacque immediatamente e lo schieramento che avanzava si fermò
immobile. Un timido entusiasmo si diffuse tra la folla. Quella figura solenne, che univa in sé quella del condottiero e del
santo, così canuta e indistinta, nel suo antico abbigliamento, poteva essere soltanto quella di un paladino della giusta
causa che il tamburo dell'oppressore aveva destato dalla tomba. E la folla alzò allora un grido di intimidito stupore e di
esultanza, rivolgendo il pensiero alla liberazione del New England.
Il governatore e i notabili del seguito, accorgendosi di esser stati costretti a un inatteso arresto, si affrettarono
allora a spingere avanti le loro scalpitanti e impaurite cavalcature, quasi che intendessero spronarle contro quella canuta
apparizione. Ma il vegliardo non arretrò d'un passo e, volgendo lo sguardo severo intorno al gruppo che quasi lo
circondava, lo posò infine gravemente su sir Edmund Andros. Si sarebbe potuto pensare che fosse lui al comando, e che
il governatore, i consiglieri e i soldati al loro seguito, rappresentanti il potere e l'autorità della Corona, non avessero
altra scelta che ubbidire.
«Che fa qui questo vecchio?», esclamò furibondo Edward Randolph. «Avanti, sir Edmund! Comandi ai soldati
di avanzare e dia a questo rimbambito la stessa scelta che lasciamo ai suoi compatrioti: farsi da parte o essere
calpestati!».
«No, no, dobbiamo mostrare rispetto a questo antenato», intervenne Bullivant ridendo. «Non vedete che è
qualche vecchio dignitario col cappello rotondo, che ha dormito per questi trent'anni e non sa nulla del cambiamento dei
tempi? Senza dubbio pensa di poterci fermare con qualche proclama a nome del vecchio Noll!».
«Sei impazzito, vecchio?», domandò sir Edmund Andros con voce alta e aspra. «Come osi arrestare la marcia
del governatore di re Giacomo?».
«Ho già arrestato la marcia di un re in persona», replicò il canuto personaggio con severa sicurezza. «Io sono
qui, governatore, perché il grido di un popolo oppresso mi ha destato nel mio luogo segreto, e implorando questa grazia
al Signore, mi è stato concesso di ricomparire su questa terra per la buona causa dei suoi Santi. E perché parli di
Giacomo? Non siede più un tiranno papista sul trono d'Inghilterra, e domani stesso il suo nome sarà pronunciato con
disprezzo in questa strada, dove tu ne hai fatto sinonimo di terrore. Vai indietro, tu che eri governatore, indietro! Da
questa notte il tuo potere è finito, e domani ti attende il carcere. Indietro, se non vuoi che ti predica il patibolo!».
La folla si era intanto avvicinata sempre più e si beava delle parole del suo paladino, che parlava con accenti da
tempo desueti, come chi non è più avvezzo a conversare se non con i defunti. Ma la sua voce fortificava i loro animi,
che ora affrontavano i soldati non del tutto disarmati, pronti a trasformare le pietre del selciato in armi micidiali. Sir
Edmund Andros guardò il vecchio, poi spostò sulla folla il suo sguardo gelido e crudele che bruciava di una livida
rabbia difficile da contenere e dissimulare, e di nuovo lo posò su quel vecchio che ora si teneva in disparte, in uno
spiazzo in cui nessuno, né amici né avversari, aveva osato avvicinarsi. Quali fossero i suoi pensieri, non pronunciò
parola che potesse rivelarli, ma certo è che l'oppressore, fosse intimidito dalla sua espressione o percepisse il pericolo
nell'atteggiamento minaccioso della folla, infine cedette e diede ordine ai suoi soldati di iniziare una lenta e guardinga
ritirata. Prima che il sole tramontasse di nuovo, il governatore e tutti coloro che cavalcavano così orgogliosamente al
suo fianco furono fatti prigionieri, e molto prima che si sapesse dell'abdicazione di Giacomo, Guglielmo fu proclamato
re in tutto il New England.
Ma dov'era il paladino canuto? Alcuni raccontarono che quando le truppe si ritirarono da King Street, incalzate
tumultuosamente dalla folla, il vecchio governatore Bradstreet fu visto abbracciare un personaggio ancora più anziano
di lui. Altri assicurarono che mentre ammiravano il suo aspetto venerabile e maestoso, il vecchio era svanito davanti ai
loro occhi, sciogliendosi lentamente nei colori del crepuscolo finché era rimasto deserto lo spazio in cui stava. Tutti
concordavano però nel dire che quel canuto personaggio era scomparso. Gli uomini di quella generazione attesero di.6
vederlo ricomparire, alla luce del sole o nel crepuscolo, ma nessuno lo vide mai più, né seppe mai quando erano
avvenuti i suoi funerali, e dove si trovava la sua tomba.
Ma chi era il paladino canuto? Forse il suo nome si può trovare nei registri di quella severa Corte di Giustizia
che emise una sentenza troppo importante per il suo tempo ma celebrata in tutti quelli a venire, per l'umiliante lezione
impartita al sovrano e il fulgido esempio dato ai sudditi. Ho sentito dire che quando i discendenti dei puritani devono
mostrare lo spirito dei loro padri quel vecchio appare di nuovo. Trascorsi ottant'anni, ha camminato di nuovo per King
Street, e cinque anni dopo, nella fioca luce di un mattino di aprile, si è mostrato sul prato davanti alla casa pubblica di
Lexington, dove ora un obelisco di granito con una lastra d'ardesia incastonata commemora i primi caduti della
Rivoluzione. E mentre i nostri padri costruivano quella notte la cinta fortificata di Bunker's Hill, il vecchio guerriero si
aggirava intorno. Per molto tempo ancora possa esso resistere, fino al suo ritorno! La sua ora è quella delle tenebre,
delle avversità e del pericolo. E se la tirannide all'interno ci opprime, se il piede dell'invasore viola il nostro suolo, ben
venga ancora il paladino canuto, perché egli rappresenta lo spirito avito del New England, e la sua oscura marcia, nel
momento del pericolo, deve impegnare i figli del New England a essere sempre degni dei loro antenati.
DOMENICA IN CASA
Ogni mattino di domenica, in estate, scosto la tenda della finestra per osservare l'alba che scende furtivamente
su un campanile di fronte alla mia camera. Inizia a risplendere per prima la banderuola sul tetto, poi un più lieve
riverbero fa svettare la guglia e si diffonde sulla torre, facendo brillare come oro la lancetta del quadrante che indica la
cifra dorata dell'ora. Scintilla la finestra più alta, poi quella più bassa, e la struttura scolpita del portale si delinea
vividamente. E infine, lo splendore del mattino, calando dal cielo, si posa sui gradini di pietra, uno dopo l'altro, e il
campanile s'innalza fulgente di fresca radiosità, mentre le ombre della notte si annidano ancora tra gli angoli degli
edifici adiacenti. E anche se è lo stesso sole che lo illumina ogni limpido mattino, a me sembra che il campanile indossi,
per la domenica, un particolare abito di fulgida luce.
Chi abita accanto a una chiesa ben presto sviluppa un particolare sentimento per questo edificio. Istintivamente
lo personifichiamo, immaginiamo che nelle sue massicce mura e nel suo fioco interno sia insito uno spirito sereno,
pensoso e un po' malinconico. Ma il campanile si erge ancor più nei nostri pensieri, oltre che nel paesaggio circostante.
Ci appare come un gigante, dotato di una sua mente abbastanza acuta e comprensiva per prendersi cura degli assilli
grandi e piccoli di tutta la città. Nel mentre rivela una morale a tutti coloro che pensano, rammenta ogni ora a migliaia
di persone affaccendate i loro personali e più segreti affari. Ed è ancora il campanile che propaga i rintocchi affannosi e
irregolari dell'allarme generale, le ore liete e festose non trovano espressione migliore della sua voce e, quando i defunti
trapassano lentamente nella loro casa, il campanile usa una voce malinconica per dar loro il benvenuto. Eppure,
nonostante questo suo rapporto con le vicende umane, quale solitudine morale aleggia nei giorni feriali intorno alla sua
imponente altezza! Non mostra alcuna affinità con le case che sovrasta, e guarda dall'alto la stretta strada, ancora più
solitario perché la folla si accalca al di sotto. Uno sguardo all'edificio della chiesa approfondisce questa sensazione.
All'interno, alla luce di lontane finestre e tra ombre spezzate, distinguiamo i banchi vuoti, le navate deserte, l'organo
silenzioso, il pulpito senza voce e l'orologio che racconta alla solitudine come sta passando il tempo. Il tempo che non è
vissuto dall'uomo che altro è se non eternità? E nella chiesa possiamo immaginare che si depositano, nel corso della
settimana, tutti i pensieri e i sentimenti che hanno attinenza con l'eternità, finché non ritorna il giorno festivo a liberarli.
Il suo luogo più appropriato non potrebbe essere allora la periferia della città, dove i vecchi alberi hanno spazio per
stormire tutt'intorno e gettare le loro ombre solenni su un prato silenzioso? Ne parleremo ancora più avanti.
Ma nel giorno festivo guardo i primi raggi del sole e immagino che un più santo splendore segni la giornata,
quando non ci sarà più brusio di voci al mercato, né trambusto nei negozi, né folla, né alcun'altra attività che in chiesa.
Molti altri l'hanno immaginato. Da parte mia, sia che la veda filtrare tra l'intrico degli alberi o splendere apertamente sui
campi, o stagliarsi tra due edifici di mattoni, o delineare il telaio della finestra sul pavimento della mia camera, sempre
riconosco la luce del sole domenicale. E che possa sempre riconoscerla! Alcune illusioni, e questa tra esse, sono l'ombra
di grandi verità. I dubbi possono volteggiare intorno a me, o chiudere le loro ali maligne per posarsi, ma finché
immagino che la terra è santificata e che la luce del cielo mostra la sua santità nei giorni festivi, quando quella luce
benedetta del sole vive dentro di me, la mia anima non potrà mai perdere l'istinto della sua fede. Se ho smarrito la
strada, questo istinto ritornerà.
Amo trascorrere questi piacevoli giorni festivi, da mane a sera, dietro alla tenda della mia finestra aperta. Sono
forse malamente spesi? Ogni luogo, così vicino alla chiesa da essere visitato tutt'intorno dall'ombra del campanile, oggi
dovrebbe essere considerato terra consacrata. E a maggior ragione si può dire che un cuore devoto può consacrare un
covo di furfanti, così come un cuore malvagio può parimenti corrompere un tempio. Il mio cuore non possiede forse
tanta santità né, oso sperare, tanta sacrilega potenza. Mi è sufficiente che, anche se la mia persona è assente, il mio
intimo frequenti assiduamente la chiesa, mentre molti, la cui presenza fisica occupa il consueto banco, hanno lasciato a
casa la loro anima. Ma io sono qui prima ancora del mio amico sagrestano. E infine arriva, quest'uomo di cortese ma
severo aspetto, con i suoi abiti grigi e i capelli dello stesso colore, e introduce la chiave nell'ampio portale. E ora i miei
pensieri possono passare tra i banchi polverosi o salire sul pulpito senza compiere sacrilegio, ma ben presto ne
usciranno di nuovo per godere la musica della campana. Che suono lieto, ma anche solenne! Tutti i campanili della città.7
stanno ora parlando insieme, attraverso l'aria illuminata dal sole, e si allietano tra loro, mentre le loro cuspidi si elevano
verso il cielo. E intanto, ecco che i bambini si radunano per la scuola domenicale, che si trova dentro la chiesa. Spesso,
mentre osservo l'arco del portale, sono stato allietato dalla vista di una decina di questi bambini, nei loro abitini rosa,
azzurri, gialli e cremisi, che improvvisamente sciamano fuori nella luce del sole, simili a festose farfalle che sono state
rinchiuse nella solenne penombra. Oppure potrei paragonarli a cherubini che affollano quel luogo sacro.
Un quarto d'ora circa prima dei secondi rintocchi della campana, iniziano a comparire i membri della
congregazione. La prima è sempre una vecchina vestita di nero, la cui figura con le spalle curve è evidentemente
oberata dal peso di qualche dolore che è impaziente di posare sull'altare. Fossero il doppio, le domeniche, per il bene di
questa vecchia anima afflitta! Ecco un uomo anziano che arriva anch'egli di buon'ora, e si appoggia all'angolo della
torre, dentro la sua linea d'ombra, abbassando lo sguardo corrucciato. A volte immagino che la vecchina sia la più felice
dei due. Dopo di loro arrivano gli altri fedeli, da soli o in gruppi di due o tre, e scompaiono oltre il portale oppure
prendono posto nelle vicinanze. E infine, apparentemente inaspettata come sempre, la campana rintocca sopra alle loro
teste e getta un suono irregolare che fa vibrare la torre fin dalle fondamenta. Come se quel suono fosse dotato di magici
poteri, i marciapiedi della strada, da una parte e dall'altra, si affollano immediatamente di due lunghe file di persone che
convergono verso la chiesa e affluiscono al suo interno. Forse questa è l'eco lontana di una carrozza che si avvicina, un
rombo ancora più profondo in contrasto col circostante silenzio, finché scendono davanti al portale, tra i loro più umili
fratelli, i fedeli facoltosi. Oltre a questo ingresso, non esistono in teoria distinzioni di rango terreno, né il sontuoso
abbigliamento sfoggiato alla luce del sole apparirebbe tale all'interno. E quelle graziose ragazze, perché turbano le mie
devote meditazioni? Tra tutti i giorni della settimana, proprio la domenica dovrebbero sforzarsi di apparire meno
affascinanti, anziché accrescere la loro mortale bellezza, come per rivaleggiare con gli angeli e distogliere i nostri
pensieri dal cielo. Fossi io il pastore, dovrei necessariamente guardare. Una ragazza indossa mussola bianca dalla
cintola in su e seta nera fino alle scarpette; una seconda arrossisce dal nastro dei capelli a quello delle scarpe, nel suo
uniforme color scarlatto; un'altra splende di un giallo smagliante, come se indossasse la luce del sole. La maggior parte
ha però scelto tonalità più attenuate di colori. I loro veli, soprattutto quando il vento li solleva, conferiscono leggerezza
all'effetto generale e le fanno apparire eterei fantasmi quando scivolano su per i gradini e scompaiono oltre la scura
soglia. Anche se è davvero strano che io lo sappia, indossano quasi tutte calze bianche, candide come neve, e graziose
scarpine allacciate di traverso con un nastro nero un po' sopra alla caviglia. Una calza bianca è infinitamente più
seducente di una nera.
Ecco che arriva il pastore, lento e solenne nella sua severa semplicità, e non ha bisogno di una veste di seta
nera per mostrare il suo ufficio. Il suo aspetto mi impone deferenza, ma non può conquistare il mio affetto. Se dovessi
rappresentare san Pietro che tiene chiuse le porte del cielo, guardando accigliato, più severo che pietoso, i miseri
postulanti, mi ispirerei a quel volto. Dalla mezza età, o ancor prima, la fede si è in generale imposta sul cuore, o ne è
stata temperata. Quando il pastore entra in chiesa, la campana trattiene la sua voce di ferro e il sommesso brusio dei
fedeli si spegne. Il grigio sagrestano guarda su e giù per la strada, poi rivolge lo sguardo alla tenda della mia finestra, e
quasi mi sembra che, attraverso lo spioncino, abbia incontrato il mio sguardo. Ora anche i ritardatari sono entrati, e la
strada è addormentata sotto il placido sole, mentre un senso di solitudine si impadronisce di me, insieme col disagio di
aver mancato ai miei diritti e doveri. Sì, sarei dovuto andare in chiesa! Il beve trambusto dei fedeli che s'alzano in piedi
per pregare giunge alle mie orecchie. Se solo potessi portare il mio cuore all'unisono con quello di coloro che pregano
in quella chiesa, ed elevarlo verso il cielo con fervore di supplica, ma senza alcuna precisa richiesta: non sarebbe questa
la migliore delle preghiere? «Oh Signore, abbassa su di me il tuo sguardo con misericordia!». Con un tale sentimento
che si effonde dalla mia anima, non mi sarebbe consentito lasciare a Lui tutto il resto?
Ascolta, è il coro! Questa è almeno una parte della funzione che posso godere qui meglio che tra quelle mura,
dove tutto il coro e la musica greve dell'organo mi opprimerebbero. A questa distanza, mi percorre e fa vibrare le corde
del mio cuore, dandomi piacere ai sensi e allo spirito. Grazie al cielo, non so niente di musica, e le più dolci armonie mi
piacciono soltanto come una ninnananna. Le note sono cessate, ma si prolungano nella mia mente con echi di fantasia,
finché mi ridesto dal mio sogno e mi accorgo che il sermone è iniziato. Per mia sfortuna, raramente i sermoni danno
frutti con regolarità, se non quando sono stampati. Il primo concetto profondo che il predicatore esprime dà origine a
una successione di pensieri che mi porta, passo dopo passo, a non ascoltare più la voce del brav'uomo, se non è quella
del tuono. Davanti alla mia finestra aperta, afferrando di quando in quando una frase del sermone. mi trovo come se
fossi ai piedi del pulpito. I frammenti sparsi e spezzati di questo discorso diventeranno i testi di molti altri sermoni
predicati da quegli altri pastori, suoi colleghi ma spesso avversi, che sono la mia mente e il mio cuore. La prima si finge
studiosa in materia e mi sconcerta con questioni dottrinali, il secondo mi prende sull'onda dei sentimenti, e tutti e due,
come molti altri predicatori, spendono le loro forze con ben poco risultato. Io, il loro unico ascoltatore, non riesco
sempre a comprenderli.
Immaginiamo che alcune ore siano trascorse e mi trovino ancora dietro alla tenda, poco prima della fine della
funzione pomeridiana. La lancetta dell'orologio ha superato le quattro, e il sole si nasconde declinando dietro al
campanile, proiettando la sua ombra attraverso la strada, così che nella mia camera cala la penombra, come per una
nuvola. Intorno al portale della chiesa c'è soltanto solitudine, e oltre la soglia si estende un'impenetrabile oscurità. Si
ode un trambusto, i sedili sono rovesciati indietro e sono chiusi gli sportelli dei banchi, poi una moltitudine di piedi
calpesta le invisibili navate e tutta la congregazione dei fedeli esce improvvisamente dal portale. Per prima sgambetta
una frotta di ragazzi, dietro ai quali avanza una fitta e scura massa di uomini adulti, seguiti infine da una folla di donne
con bambini più piccoli e qualche marito. Questa improvvisa esplosione di vita nella solitudine della strada è una delle.8
scene più amene della giornata. Alcune di queste brave persone si strofinano gli occhi, come per far capire che sono
state immerse, per così dire, in una sorta di sacra estasi nel fervore della loro devozione. Ecco un giovanotto, una specie
di bellimbusto, la cui prima preoccupazione è sempre quella di sventolare un fazzoletto bianco per spolverarsi il fondo
di un paio di pantaloni neri di seta che brillano come se fossero stati lucidati. Devono esser fatti di quella stoffa
chiamata «eterna», o forse di quella indossata da Cristiano nel
Viaggio del Pellegrino, perché li porta già da due estati enon hanno ancora perso la loro lucentezza. Mi diverto molto nel guardare questi pantaloni neri di seta. Ma ecco che le
signore, tra inchini e saluti scambiati con le amiche, prendono sotto braccio i rispettivi consorti e s'incamminano con
passo grave verso casa, e anche le ragazze se ne vanno con passo danzante, dopo aver combinato una passeggiata serale
con lo scapolo che preferiscono. La sera del giorno festivo è la vigilia dell'amore. E infine tutta la congregazione si
scioglie. No, ecco che, con volti lucidi come di seta nera, s'avanzano due dame scure accompagnate da un gentiluomo
altrettanto scuro e, subito dietro a loro, il pastore, che ammorbidisce la sua severa espressione per rivolgere una cortese
parola ad ambedue. Poverine! Per loro, la più accattivante promessa di beatitudine in cielo è questa: «Là saremo
bianche!».
Ora regna di nuovo la solitudine. Ma si ode poi un cinguettio spezzato di voci, e al loro dolce suono si
accompagnano, nella loro grandiosità, le solenni note dell'organo. Chi sono i coristi? Lasciatemi immaginare che gli
angeli, discesi dal cielo in questo felice mattino per mescolarsi al culto delle anime buone, stiano suonando e cantando
per congedarsi da questa terra, e sulle ali di quella dolce melodia stiano risalendo in cielo.
Questo, gentili lettori, è soltanto un volo poetico. Alcuni uomini e donne del coro si sono attardati in chiesa e
hanno alzato le loro voci, accompagnandosi con qualche distratta nota dell'organo, eppure hanno elevato il mio animo
più che con tutte le precedenti melodie. E ora se ne sono andati, questi figli della musica, e il grigio sagrestano sta
chiudendo il portale. Per sei giorni non comparirà volto umano tra i banchi, nelle navate, nelle gallerie, né si alzerà una
voce dal pulpito e musica dal coro. Valeva forse la pena di erigere questo imponente edificio, per farne un deserto nel
cuore della città e popolarlo soltanto per alcune ore il settimo giorno? Sì, la chiesa è simbolo della religione, e il suo
luogo, che è stato consacrato il giorno in cui è stato abbattuto il primo albero, possa essere conservato sacro per sempre,
luogo di solitudine e di pace tra gli affanni e le vanità del nostro mondo dei giorni feriali! Si può sentire una morale, e
quindi anche una religione, perfino tra quelle mura silenziose. E il suo campanile possa svettare sempre verso il cielo,
ed essere rivestito della santa luce del sole della domenica mattina!
I RINTOCCHI DELLA CAMPANA NUZIALE
Ho sempre guardato con particolare interesse una certa chiesa nella città di New York, a causa di un
matrimonio lì celebrato in singolari circostanze durante l'infanzia di mia nonna, una veneranda signora che assisté
casualmente all'avvenimento, facendone in seguito uno dei suoi racconti preferiti. Non sono abbastanza esperto di
antichità per sapere se l'edificio, che sorge tuttora nello stesso luogo, sia identico a quello di cui lei parlava, né sarebbe
importante correggere eventualmente un mio comprensibile errore andando a leggere la data della sua costruzione
apposta su una targa sopra il portale. È una chiesa imponente, circondata da un recinto di verdissimo prato, in cui
sorgono urne, pilastri, obelischi e altre monumentali costruzioni di marmo, testimonianze di affetti privati o più
imponenti omaggi alla polvere della storia. A un luogo come questo, nonostante il fermento della città che scorre sotto il
suo campanile, si è ben disposti ad attribuire qualche interesse di leggenda.
Questo matrimonio potrebbe essere considerato il coronamento di un precedente fidanzamento, anche se nel
frattempo la sposa era già convolata due volte a nozze, e lo sposo aveva trascorso quarant'anni di celibato. All'età di
sessantacinque anni, il signor Ellenwood era un uomo schivo, ma non del tutto misantropo, egoista come tutti coloro
che rimuginano troppo sui propri sentimenti, eppure capace di manifestare, in rare occasioni, una vena di generosità;
uno studioso per tutta la sua vita, anche se piuttosto indolente, perché i suoi studi non avevano un fine particolare, né
per pubblica utilità né per personale ambizione; un gentiluomo di buona famiglia e un po' schizzinoso, anche se talvolta
si concedeva prolungate pause dalle convenzioni della società. In verità, il suo carattere presentava molte contraddizioni
e anche se egli si ritraeva con morbosa sensibilità dall'attenzione pubblica, era suo destino diventare così spesso
argomento del giorno, per le stravaganze del suo comportamento, che alcuni cercavano nel suo albero genealogico
qualche ramo ereditario di follia. Ma non ce n'era necessità, perché i suoi capricci avevano origine da una mente che
mancava del sostegno di un solido proposito e da sentimenti che si alimentavano di se stessi in mancanza di altro
nutrimento. Se era folle, ciò era la conseguenza, e non la causa, di una vita insulsa e priva di scopo.
La vedova era l'esatto opposto del suo terzo marito, in ogni aspetto tranne l'età, come si può ben immaginare.
Costretta a rompere il suo primo fidanzamento, si era unita a un uomo col doppio dei suoi anni, del quale era stata sposa
esemplare e alla cui morte era entrata in possesso di una cospicua fortuna. Un gentiluomo del Sud, considerato più
giovane di lei, era succeduto alla sua mano, e l'aveva portata con sé a Charleston, dove, dopo molti anni difficili, ella si
era trovata di nuovo vedova. Sarebbe stato strano se qualche delicatezza di sentimenti fosse rimasta viva dopo
un'esistenza come quella della signora Dabney, perché non poteva che essere calpestata e uccisa dalla sua prima
delusione, dal freddo rapporto di dovere del suo primo matrimonio, dal turbamento dei suoi innati principi conseguente
alle sue seconde nozze con un grossolano uomo del Sud, che l'aveva inevitabilmente indotta ad associare la sua morte
con la propria felicità. Insomma, era quel tipo di donna accorta, ma non amabile, abbastanza razionale per sopportare i.9
tormenti del cuore con filosofia, per rinunciare a tutto ciò che poteva darle felicità, e per approfittare di ciò che le
rimaneva. Pur essendo così accorta, la vedova si rendeva forse un po' più simpatica per l'unica debolezza che la rendeva
ridicola: non avendo figlie, non poteva conservare la sua bellezza per la loro interposta persona, e quindi si rifiutava di
diventare brutta e vecchia, e combatteva col tempo, aggrappandosi alle proprie grazie nonostante lui, finché il furtivo
vegliardo sembrava aver abbandonato le sue spoglie, non ritenendo che valesse la pena prendersele.
Il prossimo matrimonio di questa donna di mondo con un uomo così poco mondano come il signor Ellenwood
fu annunciato poco dopo il ritorno della signora Dabney nella sua città natale. Gli osservatori superficiali e quelli più
profondi sembravano convenire nel ritenere che la signora in questione doveva aver svolto una parte non passiva nel
combinare il matrimonio, essendoci considerazioni di opportunità che ella aveva probabilmente valutato molto meglio
del signor Ellenwood, ed essendoci anche quella parvenza di romantico sentimentalismo, nella tarda unione di questi
due ex innamorati, che talvolta può ingannare una donna quando ha smarrito i suoi genuini sentimenti a causa delle
traversie della vita. Ciò che stupiva era il fatto che il signor Ellenwood, così privo di buonsenso pratico e così
tormentato dalla sua coscienza del ridicolo, potesse esser stato indotto a compiere questo passo, a un tempo così accorto
e così esilarante. Ma mentre la gente continuava a parlarne, arrivò infine il giorno delle nozze. La cerimonia doveva
essere celebrata secondo il rito episcopale e pubblicamente in chiesa, con tanta pompa da richiamare numerosi
spettatori, che erano seduti nelle prime file delle gallerie, sui banchi vicini all'altare e lungo la navata centrale. Era stato
convenuto, o era forse consuetudine a quel tempo, che i due cortei nuziali giungessero separatamente in chiesa, ma per
qualche contrattempo lo sposo fu un po' meno puntuale della vedova e dei suoi accompagnatori. Dopo l'arrivo di questi
ultimi, e dopo questo tedioso ma necessario preambolo, si può dire che ha inizio l'azione del nostro racconto.
Si udì il cigolio delle ruote di alcune antiquate carrozze, poi gentiluomini e dame che componevano il corteo
della sposa entrarono in chiesa, producendo l'immediato e lieto effetto di un raggio di sole. Tutto il gruppo, con
l'eccezione della protagonista, era composto da giovani festosi, e mentre avanzavano per la navata centrale, tra i banchi
e i pilastri che sembravano illuminarsi da una parte e dall'altra, i loro passi risuonavano rumorosamente, come se
avessero scambiato la chiesa per una sala da ballo e si accingessero a danzare mano nella mano intorno all'altare. Era
uno spettacolo così spumeggiante che pochi si accorsero di un singolare evento che aveva segnato il loro ingresso: nel
momento in cui il piede della sposa aveva varcato la soglia, la campana aveva suonato pesantemente nella torre sopra di
lei, facendo udire il suo cupo rintocco. Le vibrazioni si erano appena spente quando risuonarono di nuovo, con
prolungata solennità, mentre la sposa procedeva all'interno della chiesa.
«Buon Dio, che cattivo auspicio!», sussurrò una giovane al suo fidanzato.
«Sul mio onore», replicò il giovane, «io credo che la campana abbia suonato di propria iniziativa. Che cosa
hanno a che vedere quei rintocchi con una cerimonia di nozze? Se fossi tu, mia cara Julia, ad avvicinarti all'altare, la
campana lancerebbe il suo suono più festoso, ma per lei sono soltanto rintocchi funebri».
La sposa e il suo seguito erano troppo distratti al loro ingresso per udire il primo malaugurante rintocco, o
quanto meno per riflettere su questo singolare benvenuto all'altare, e perciò proseguirono la marcia con immutata
allegria. Gli sfarzosi abbigliamenti del tempo, le giacche di velluto cremisi, i cappellini con i nastri dorati, le gonne con
la crinolina, le sete, i broccati e i tessuti ricamati, le fibbie, i bastoni e gli spadini, tutti ostentati a vantaggio di queste
persone avvezze a tanta eleganza, facevano apparire il corteo più simile a un quadro vivacemente colorato che a una
vera cerimonia. Ma per quale gusto perverso l'artista aveva rappresentato la protagonista così avvizzita e cadente pur
adornandola dei più splendidi abiti, come se un'adorabile fanciulla fosse di colpo invecchiata, per impartire così una
lezione alle belle donne intorno a lei? Lo scintillante corteo proseguiva comunque il suo cammino e aveva percorso un
terzo della navata quando un altro rintocco della campana sembrò celare una fitta oscurità nella chiesa, avvolgendo il
lieto corteo come in una nebbia, dalla quale riemerse poi ancora scintillante.
Questa volta la sposa e i suoi accompagnatori trasalirono, si fermarono e si strinsero vicini l'un l'altro, mentre
qualche dama lanciava un gridolino e gli uomini mormoravano confusamente tra loro. Tutti vacillavano avanti e
indietro, così che potevano essere fantasiosamente paragonati a uno splendido mazzo di fiori improvvisamente investito
da una folata di vento che minacciava di spogliare dei suoi petali una vecchia rosa appassita sullo stesso stelo con due
freschi boccioli: questa era l'immagine che offriva la vedova tra le sue giovani e avvenenti damigelle. Era tuttavia
ammirevole per la sua forza d'animo: dopo aver trasalito con irrefrenabile tremore, come se il cupo rintocco della
campana fosse piombato sul cuore, la vedova si era poi ripresa, mentre i suoi accompagnatori erano ancora turbati,
aveva preso la testa del corteo e aveva proseguito con sicurezza il cammino lungo la navata. Ma la campana continuava
a rintoccare e vibrare, con la stessa dolente regolarità di quando un defunto viene accompagnato alla tomba.
«I miei giovani amici hanno i nervi alquanto scossi», osservò poi la vedova, sorridendo al pastore davanti
all'altare. «Ma tanti matrimoni sono stati annunciati con lieti rintocchi di campane per poi rivelarsi infelici, che spero in
miglior fortuna sotto questi diversi auspici».
«Signora», rispose sconcertato il pastore, «questo strano evento mi richiama alla mente uno dei sermoni nuziali
del celebre vescovo Taylor, nel quale egli mescolava tanti pensieri di morte e di future calamità, che, per dirla nel suo
stile colorito, sembrava addobbare di nero la camera nuziale e ritagliare l'abito della sposa da un drappo funebre. Ma era
consuetudine anche di altre popolazioni infondere un po' di tristezza nelle loro cerimonie nuziali, così da ricordare la
morte mentre si stringe il vincolo che è il più importante della vita. E pertanto possiamo trarre una triste, ma utile
lezione da questi rintocchi funebri».
Ma anche se aveva dato al suo sermone un significato più profondo, il pastore non mancò tuttavia di inviare un
suo assistente a indagare su quei rintocchi misteriosi e farli cessare, per quanto fossero tristemente appropriati a quel.10
matrimonio. Trascorse un po' di tempo, durante il quale il silenzio fu interrotto soltanto da qualche sussurro e da risatine
soffocate scambiate tra gli accompagnatori della sposa e gli astanti, che dopo il primo momento di turbamento, erano
ora disposti a trovare un maligno motivo di divertimento nell'episodio, perché i giovani hanno minor compassione per le
follie degli anziani che questi ultimi per quelle della gioventù. Per un attimo la vedova rivolse lo sguardo verso una
finestra della chiesa, come per cercare la consunta lastra di marmo che aveva dedicato al suo primo marito, poi abbassò
le palpebre sugli occhi spenti e i suoi pensieri furono attratti irresistibilmente verso un altra tomba. Due uomini sepolti,
l'uno con voce che giungeva al suo orecchio, l'altro con un grido lontano, la chiamavano a giacere accanto a loro. Forse,
in un momento di sincerità, pensava a come sarebbe stato più lieto il suo destino se, dopo molti anni di felicità, la
campana suonasse ora per il suo funerale e lei fosse accompagnata alla tomba dal suo primo amore, divenuto da molto
tempo suo marito. Ma perché era ritornata a lui solo quando i loro freddi cuori si ritraevano l'uno dall'altro?
Intanto, la campana a morto continuava a rintoccare così lugubre nell'aria che la stessa luce del sole sembrava
offuscarsi. E una voce, divulgata da chi era più vicino alle finestre, si diffuse poi per la chiesa: un carro funebre, seguito
da parecchie carrozze, stava avanzando lentamente nella strada per portare un defunto al cimitero, mentre la sposa
attendeva un vivente all'altare. Subito dopo, si udirono alla porta i passi dello sposo e dei suoi amici. La vedova gettò
allora lo sguardo lungo la navata e strinse il braccio di una delle damigelle con la sua mano ossuta, e con tanta
involontaria forza che la bella ragazza tremò.
«Mi ha spaventata, signora!», esclamò. «In nome di Dio, che cosa accade?».
«Niente, mia cara, niente», rispose la vedova, poi le sussurrò all'orecchio: «È una sciocca fantasia di cui non
riesco a liberarmi. Mi aspetto di veder entrare in chiesa il mio sposo accompagnato dai miei due precedenti mariti come
testimoni!».
«Guardi!», esclamò allora la damigella. «Che cos'è, un funerale?».
Mentre parlava, una lugubre processione entrò lentamente in chiesa. Venivano per primi un vecchio e una
vecchia, come i più stretti congiunti a un funerale, vestiti da capo a piedi in un color nero che faceva risaltare i loro
pallidi volti e i candidi capelli, e l'uomo, appoggiato a un bastone, sosteneva la decrepita figura della vecchia col suo
braccio inerte. Dietro a loro comparve un'altra coppia, e poi un'altra, altrettanto vecchie, nere e luttuose come la prima.
Quando furono più vicini, la vedova riconobbe in ogni volto i tratti di suoi amici d'un tempo ormai dimenticati, e
ritornati, come dalle loro tombe, per avvertirla di preparare un sudario, o col proposito, altrettanto deprimente, di
mostrarle le loro rughe e infermità, e chiedere la sua compagnia come segno del suo stesso decadimento. Per molte
allegre serate aveva danzato con loro in gioventù, e ora, in quell'età senza gioia, si aspettava che qualche avvizzito
compagno chiedesse la sua mano, e che si unissero tutti in una macabra danza ai rintocchi della campana a morto.
Mentre questi vecchi dolenti passavano lungo la navata, si vedeva che un brivido scorreva da un banco all'altro
tra gli astanti impauriti, come se qualcosa, fin'allora nascosto da quelle figure, apparisse ora alla vista. Molti distolsero
lo sguardo, altri rimasero con espressione impietrita, una ragazza diede una risatina isterica e poi svenne col riso ancora
sulle labbra. Mentre la spettrale processione si avvicinava all'altare, ogni coppia si separava lentamente, finché, in
mezzo a loro comparve la figura che era stata degnamente introdotta con questa lugubre pompa, accompagnata dalla
campana a morto e dal corteo funebre: era lo sposo, vestito nel suo sudario.
Nessun abbigliamento poteva essere più adatto al suo cadaverico aspetto: gli occhi avevano il bagliore di una
lampada sepolcrale, tutto il resto del corpo era irrigidito nella severa compostezza che i vecchi mostrano nella bara. Il
cadavere stava immobile, tuttavia si rivolse alla vedova con una voce che sembrava confondersi coi rintocchi della
campana, che cadevano pesantemente nell'aria mentre lui parlava.
«Vieni, mia sposa!», le dissero quelle labbra esangui. «Il carro funebre è pronto, il necroforo ci sta attendendo
sulla porta del cimitero. Sposiamoci, e poi andiamo alle nostre bare!».
Come descrivere l'orrore della vedova, che le conferì l'espressione glaciale della sposa di un morto? I suoi
giovani amici si fecero da parte, tremando alla vista del corteo funebre, dello sposo coperto dal sudario e della sposa:
tutta la scena esprimeva, con una vivida immagine, la vana battaglia delle dorate vanità del mondo a confronto con le
infermità e le sofferenze della vecchiaia e della morte. L'inorridito silenzio fu infine rotto dalla voce del pastore.
«Signor Ellenwood», disse in tono pacato, ma anche imperioso, «lei non sta bene, la sua mente è stata
sconvolta dalle insolite circostanze in cui lei si trova. La cerimonia dev'essere rimandata: mi permetta, come suo
vecchio amico, di invitarla a ritornare a casa».
«A casa, si, ma non senza la mia sposa», rispose il vecchio, con la stessa voce cavernosa. «Voi pensate che sia
una burla, o forse follia. Se avessi vestito la mia vecchia e curva figura con abiti scarlatti e ricamati, se avessi forzato le
mie labbra avvizzite a sorridere nonostante il cuore ormai spento, questa sarebbe stata una burla o una follia. Ma ora
giudichino i vecchi e i giovani: chi di noi è venuto qui senza gli abiti nuziali, lo sposo o la sposa?».
Detto ciò, fece un malfermo passo avanti e si fermò accanto alla sposa, mettendo a confronto la drammatica
semplicità del suo sudario con lo sfarzo scintillante degli abiti con cui ella s'era abbigliata per questo infelice
avvenimento. Nessuno che li guardasse poteva negare la terribile forza della lezione che la mente sconvolta del vecchio
aveva voluto impartire.
«Crudele!», gemette sgomenta la sposa.
«Sì, crudele!», ripeté lui; poi la sua cadaverica compostezza lasciò posto a uno sfogo d'amarezza. «Giudichi il
cielo chi di noi è stato crudele con l'altro. In gioventù mi hai privato della felicità, delle speranze, di ogni scopo, hai
privato la mia vita di ogni sostanza e l'hai trasformata in un sogno, senza nemmeno la realtà sufficiente per piangerne,
lasciando soltanto un'opprimente tristezza attraverso la quale ho camminato stancamente, senza curarmi di nulla. Ma.11
dopo quarant'anni, quando ho costruito la mia tomba, non volendo rinunciare al pensiero di riposarti, e non dopo quella
vita che un tempo sognavamo, allora tu mi hai chiamato all'altare, e al tuo richiamo io sono qui. Ma altri mariti hanno
goduto della tua gioventù, della tua bellezza, del calore del tuo cuore, di tutto ciò che può essere considerato la tua vita.
Che cosa mi è rimasto, se non la tua decadenza e la morte? E così ho invitato questi amici al funerale, ho chiesto i
solenni rintocchi funebri del sagrestano, e sono venuto qui nel mio sudario per sposarti, come in una funzione funebre,
così che possiamo congiungere le nostre mani davanti all'ingresso del sepolcro ed entrarvi insieme».
Non era follia, non era nemmeno l'ebbrezza di una forte emozione cui il suo cuore non era avvezzo, quella che
ora si impadronì della sposa. La severa lezione di quel giorno aveva prodotto il suo effetto e il suo spirito mondano era
scomparso. Prese allora la mano dello sposo.
«Sì!», esclamò. «Sposiamoci, anche davanti alla soglia del sepolcro! La mia vita se n'è andata in vacua vanità,
ma al suo termine è rimasto almeno un sentimento sincero, che ha fatto di me ciò che ero in gioventù, che mi rende
degna di te. Non abbiamo più tempo, tutti e due: sposiamoci ora per l'eternità!».
Con un lungo sguardo profondo lo sposo la guardò negli occhi, mentre le lacrime bagnavano i suoi. Che strano,
quell'affiorare di sentimenti così umani dal gelido petto di un cadavere! Poi si asciugò le lacrime col sudario.
«Amore della mia gioventù», le disse, «sono stato un folle. La disperazione di tutta la mia vita è riaffiorata d'un
tratto e mi ha fatto impazzire. Perdonami, e sarai perdonata. Sì, è ormai sera per noi, e non abbiamo realizzato nessuno
dei nostri sogni mattutini di felicità. Ma ora uniamo le nostre mani davanti all'altare, come innamorati che circostanze
avverse hanno separato per tutta la vita, ma che si incontrano di nuovo mentre stanno per lasciarla e scoprono che il loro
amore terreno si è trasformato in qualcosa di sacro come la religione. E che cos'è il tempo per coloro che sono sposati
per l'eternità?».
Tra le lacrime di molti e un tumulto di sentimenti nelle persone più sensibili, fu così celebrata l'unione tra due
anime immortali. Il corteo dei vecchi dolenti, lo sposo canuto nel suo sudario, il pallore della sposa sfiorita e i rintocchi
della campana a morto che sovrastava con la sua voce profonda le parole del rito nuziale, tutto ciò segnò il funerale di
quelle speranze terrene. Ma mentre proseguiva la cerimonia, l'organo, come commosso da quella scena impressionante,
innalzò un inno che si mescolò dapprima con i lugubri rintocchi e poi si alzò con più elevate note, finché l'anima si
chinò a guardare le sue pene. E quando la triste cerimonia fu terminata e, una gelida mano nell'altra gli sposi
dell'eternità si ritirarono, le solenni note trionfali dell'organo sommersero i lugubri rintocchi della campana nuziale.
IL VELO NERO DEL PASTORE
Parabola
Nel portico della chiesa di Milford, il sagrestano stava tirando energicamente la fune della campana. I vecchi
del villaggio avanzavano chini su per la strada. I bambini, accesi in volto, sgambettavano allegramente accanto ai
genitori, oppure imitavano un passo più grave, consapevoli della dignità dei loro abiti domenicali. Azzimati giovanotti
lanciavano occhiate alle belle ragazze, immaginando che il sole del giorno di festa le rendesse ancor più graziose che
negli altri giorni. Quando la piccola folla fu quasi tutta affluita oltre il portico, il sagrestano iniziò a far rintoccare la
campana, tenendo d'occhio la porta di casa del reverendo Hooper. L'apparizione della figura del pastore era il segnale
che faceva cessare i rintocchi della campana.
«Ma che cos'ha sul volto il buon pastore Hooper?», esclamò sbigottito il sagrestano.
Nell'udirlo, tutti si voltarono immediatamente, rivolgendo lo sguardo verso la figura del pastore Hooper che
avanzava con passo lento e assorto verso il luogo di culto. Come di comune accordo tutti trasalirono, mostrandosi
stupiti come se qualche pastore sconosciuto fosse lì giunto a occupare il posto del reverendo Hooper sul pulpito.
«Sei sicuro che sia proprio il nostro parroco?», domandò al sagrestano Goodman Gray.
«Certo che è il buon pastore Hooper», rispose il sagrestano. «Doveva scambiare il pulpito col pastore Shute di
Westbury, ma questi ha mandato ieri le sue scuse perché doveva tenere un sermone a un funerale».
La causa di tanto scalpore può sembrare piuttosto insignificante. Il reverendo Hooper, una dignitosa persona
d'una trentina d'anni, era vestito come si conviene a un ecclesiastico, e, benché fosse ancora scapolo, sembrava che una
moglie premurosa gli avesse inamidato il collare e spolverato con cura, come ogni settimana, l'abito domenicale.
Soltanto una cosa dava nell'occhio, nel suo aspetto: un velo nero cinto sulla fronte e sospeso sul volto fin dove era
scosso dal suo alito. Visto più da vicino, il velo sembrava comporsi di due falde di crespo, che celavano completamente
il volto. tranne la bocca e il mento, ma probabilmente non gli ostruivano la vista, se non per mostrargli un aspetto più
scuro di tutte le cose viventi e inanimate. Con questa cupa ombra davanti a sé, il buon reverendo Hooper camminava
con passo lento e sicuro, un po' chino a guardare in terra, com'è consuetudine degli uomini assorti, ma rivolgendo
garbati cenni del capo a quei suoi parrocchiani che ancora sostavano sui gradini della chiesa. Ma erano così sconcertati,
costoro, che quasi non gli ricambiavano il saluto.
«Non riesco davvero a immaginarla, la faccia del buon reverendo Hooper, dietro a quel pezzo di crespo»,
osservò il sagrestano.
«Non mi piace», brontolò una vecchia, zoppicando dentro il luogo di culto. «Si è tramutato in qualcosa che fa
paura, solo nascondendosi il volto».
«Il nostro parroco è impazzito!», esclamò Goodman Gray, seguendolo oltre la soglia..12
La voce di qualche inspiegabile avvenimento aveva preceduto il reverendo Hooper dentro il luogo di culto, e
aveva suscitato un certo fermento in tutta la congregazione dei fedeli. Pochi si trattennero dal volgere la testa verso la
porta, molti si alzarono in piedi e si avviarono direttamente verso l'uscita, alcuni bambini s'arrampicarono sui sedili,
discendendone poi con grande fracasso. Il trambusto era generale, tra il frusciare delle sottane e lo scalpiccio dei piedi,
ben diverso da quell'attutita deferenza che solitamente accompagnava l'ingresso del pastore. Ma il reverendo Hooper
non sembrò accorgersi del fermento che serpeggiava tra i suoi fedeli. Entrò con passo quasi impercettibile, rivolgendo
lievi cenni del capo a una fila e all'altra dei banchi, inchinandosi nel passare accanto al suo più anziano parrocchiano, un
canuto vegliardo che occupava una sedia a braccioli nel mezzo della navata. Fu singolare a vedersi la lentezza con cui il
venerando fedele si accorse di qualcosa di strano nell'aspetto del suo pastore, e sembrò partecipare al generale stupore
solo quando il reverendo Hooper ebbe salito i gradini e si mostrò sul pulpito, faccia a faccia davanti alla sua
congregazione, non fosse stato per quel misterioso velo nero che mai fu sollevato dal suo volto. Il velo si muoveva col
respiro cadenzato del pastore al canto del salmo, rifletteva la sua oscurità sulla sacra pagina quando lui leggeva le
Scritture, e mentre egli pregava, copriva la sua elevata espressione. Forse voleva nasconderla al supremo Essere al quale
egli si rivolgeva?
Tale fu l'effetto di quel semplice lembo di crespo, che più di una donna delicata di nervi fu costretta a lasciare
il luogo di culto. Ma forse i volti pallidi dei suoi fedeli erano per lui una vista quasi altrettanto sconcertante di quella che
offriva loro il suo velo nero.
Il reverendo Hooper aveva fama di buon predicatore, anche se non molto vigoroso, e si sforzava di conquistare
il suo gregge al Regno dei Cieli con la dolce forza della persuasione, anziché costringerlo con i fulmini della parola. Il
sermone che pronunciò era caratterizzato dallo stesso tono e stile della sua solita oratoria dal pulpito, ma conteneva
anche qualcosa, vuoi nel sentimento o nell'immaginazione dei suoi ascoltatori, che ne faceva l'arringa più eloquente che
essi avessero mai udito dalle labbra del loro pastore. Anche se un po' più oscuro del solito, il sermone era improntato
dalla delicata malinconia tipica del temperamento del reverendo Hooper, e l'argomento si riferiva a quei segreti peccati,
a quei dolorosi misteri che teniamo celati anche alle persone più care e vicine, e che vorremmo nascondere anche alla
nostra stessa coscienza, dimenticando che l'Onnisciente può sempre riconoscerli. Una forza sottile emanava dalle sue
parole, e tutti i membri della congregazione, dalla più innocente fanciulla all'uomo più incallito, avevano la sensazione
che il predicatore penetrasse dentro di loro, dietro a quel suo pauroso velo, scoprendo tutte le loro iniquità accumulate
nei fatti e nei pensieri. Molti tra loro tenevano le mani intrecciate sul petto. In ciò che diceva il pastore non v'era niente
di terribile, e tanto meno di violento, eppure, a ogni tremito della sua voce malinconica, gli ascoltatori erano percorsi da
un brivido. Un'emozione mai prima provata si accompagnava alla soggezione che egli incuteva. Gli ascoltatori
avvertivano un qualche indesiderato potere nel loro pastore, tanto da desiderare che un alito di vento sollevasse il suo
velo, quasi credendo che si sarebbe allora rivelato il volto di uno sconosciuto, anche se la figura, i gesti e la voce erano
quelli del reverendo Hooper.
Al termine della funzione, i fedeli si affrettarono all'uscita in una ressa indecorosa, impazienti di comunicare il
loro represso stupore, consapevoli del loro sollievo non appena quel velo nero era scomparso davanti ai loro occhi.
Alcuni si radunavano in capannelli, stringendosi accanto agli altri e bisbigliando tutti insieme, altri si incamminavano
soli verso casa, immersi in silenziose meditazioni, altri ancora parlavano ad alta voce, profanando anche il giorno
festivo con ostentate risate. Alcuni scrollavano maliziosamente la testa, dando a credere che potevano svelare quel
mistero, uno o due affermavano che non esisteva nessun mistero, ma soltanto il fatto che gli occhi del reverendo Hooper
erano così affaticati dalla luce notturna della lampada da richiedere il riparo di quel velo. Dopo qualche tempo uscì
anche il buon reverendo Hooper, al seguito del suo gregge. Volgendo il volto velato da un gruppo di persone all'altro,
rese il debito omaggio alle teste canute, salutò i fedeli di mezza età con affabile dignità, in quanto loro amico e guida
spirituale, si rivolse ai giovani con amorevole autorità e posò la mano sul capo dei più piccoli per benedirli, com'era sua
consuetudine nei giorni festivi. Occhiate strane e sconcertate ripagarono questi suoi gesti di cortesia, ma nessuno
ambiva, come in precedenti occasioni, all'onore di camminare a fianco del suo pastore. L'anziano cavalier Saunders,
sicuramente per una fortuita amnesia, dimenticò di invitare il pastore Hooper al suo desco, dove il buon ecclesiastico
era solito benedire il cibo quasi tutte le domeniche dal giorno del suo insediamento. Il pastore fece quindi ritorno alla
sua canonica e, al momento di chiudere la porta, si voltò a guardare i suoi fedeli, che avevano tutti gli occhi puntati
verso di lui. Un triste sorriso comparve fugacemente sotto al velo nero, increspandogli le labbra, e balenò mentre egli
scompariva alla vista.
«Che strano», commentò una donna, «che un semplice velo nero, simile a quello che qualsiasi donna potrebbe
portare sul suo cappellino, possa sembrare qualcosa di così orribile sul volto del reverendo Hooper!».
«Qualcosa dev'essersi sicuramente guastato nell'intelletto del reverendo Hooper», diagnosticò suo marito, il
medico del villaggio. «Ma ciò che è ancor più strano è l'effetto che produce questa stravaganza anche su una mente
lucida come la mia. Quel velo nero, anche se copre soltanto il volto del nostro pastore, esercita la sua influenza su tutta
la sua persona e lo fa apparire uno spettro da capo a piedi, non ti sembra?».
«Certamente», rispose la moglie, «e non vorrei trovarmi sola con lui per tutto l'oro del mondo. Mi domando se
non abbia timore di essere solo con se stesso!».
«Gli uomini, a volte, sono fatti così», commentò suo marito.
Anche la funzione pomeridiana si svolse in analoghe circostanze. Quando terminò, la campana suonò per il
funerale di una giovane donna. I parenti e gli amici erano radunati nella casa, mentre i semplici conoscenti stavano sulla
porta e parlavano delle qualità della defunta quando la loro conversazione fu interrotta dalla comparsa del reverendo.13
Hooper, il volto ancora coperto dal velo nero, emblema ora appropriato alla circostanza. L'ecclesiastico entrò nella
stanza in cui era composta la salma e si chinò sul feretro per prendere l'estremo congedo dalla sua defunta parrocchiana.
Mentre era lì chino, il velo gli ricadde dalla fronte, così che, se le sue palpebre non fossero state chiuse per sempre, la
giovane defunta avrebbe potuto vedere il suo volto. Il reverendo Hooper aveva forse così paura di quello sguardo da
affrettarsi ad accostare il suo velo nero? Una persona che assisté a quell'incontro tra la defunta e il vivente non esitò ad
affermare che, non appena il pastore rivelò le sue fattezze. il cadavere fu percorso da un lieve brivido che fece fremere il
sudario e la cuffia di mussola, anche se l'espressione conservò la compostezza della morte, ma una vecchia superstiziosa
fu l'unica testimone di questo prodigio. Dal feretro, il pastore Hooper passò poi alla stanza in cui erano raccolti i dolenti,
e da lì salì in cima alle scale, dove pronunciò l'orazione funebre. Fu un'orazione tenera e commovente, intrisa di dolore
ma anche così colma di ultraterrene speranze che la musica celestiale di un'arpa, pizzicata dalle dita della defunta,
sembrò echeggiare fiocamente tra i più mesti accenti del pastore. I presenti tremarono, pur comprendendo solo
vagamente il significato, quando il pastore pregò che essi, lui stesso e tutti i mortali fossero pronti, come confidava che
fosse la giovane defunta, a quell'ora fatale che avrebbe strappato il velo dal loro volto. Poi i necrofori avanzarono con
passo pesante, seguiti dai dolenti che rattristavano la strada dietro al feretro, seguiti a loro volta dal reverendo Hooper
col suo velo nero.
«Perché ti volti a guardare?», domandò una della processione alla sua vicina.
«Ho avuto la sensazione», rispose questa, «che il pastore e lo spirito di quella fanciulla stessero camminando
mano nella mano».
«Anch'io l'ho avuta, nello stesso momento», le disse l'altra.
Quella sera, la più bella coppia del villaggio di Milford doveva essere unita in matrimonio. Pur essendo
considerato un uomo malinconico, il pastore Hooper mostrava in queste occasioni una bonaria giovialità che suscitava
spesso un sorriso di simpatia, laddove una più vivace allegria sarebbe stata disdicevole, e nessun altro aspetto del suo
carattere lo rendeva benvoluto come questo. La compagnia degli invitati attendeva il suo arrivo con impazienza,
augurandosi che fosse stata ora fugata quella strana cappa di mestizia che l'aveva accompagnato tutto il giorno. Ma ciò
non era accaduto: all'arrivo del reverendo Hooper, la prima cosa su cui si posarono i loro sguardi fu quello stesso
orribile crespo nero che aveva reso ancora più mesto il funerale, e che poteva far presagire soltanto male a una
cerimonia di nozze. Tale fu l'effetto immediato tra gli ospiti che una fosca nube sembrò sollevarsi da sotto al crespo
nero. offuscando la luce delle candele. La coppia di sposi si alzò in piedi davanti al pastore, ma le gelide dita della sposa
fremevano nella mano tremula dello sposo, e il suo mortale pallore indusse taluni a mormorare che la fanciulla da poche
ore sepolta fosse risorta dalla tomba per sposarsi. Se un altro matrimonio fu altrettanto lugubre fu quello, divenuto
famoso, in cui furono suonate le campane a morto. Celebrata la cerimonia, il reverendo Hooper sollevò un bicchiere di
vino alle labbra per augurare felicità ai novelli sposi, con uno sforzo di giovialità che avrebbe dovuto ravvivare
l'espressione degli invitati come l'allegro bagliore del focolare. Ma in quel momento il pastore scorse la propria
immagine nello specchio e il velo nero avvolse anche il suo spirito in quella sensazione di angoscia che aveva
sopraffatto tutti gli altri. Il suo corpo fu percorso da un brivido, le labbra gli si sbiancarono, e il reverendo rovesciò sul
tappeto il vino che non aveva ancora assaggiato, poi corse fuori nel buio. Anche la terra ora era coperta da un velo nero.
E giorno dopo tutto il villaggio di Milford non parlava quasi d'altro che del velo nero del parroco Hooper.
Questo velo e il mistero che nascondeva offrivano argomento di discussione a coloro che s'incontravano per strada e
alle brave donne che pettegolavano alle loro finestre aperte. Era questa la prima notizia che l'oste dava ai suoi avventori,
e anche i bambini ne farfugliavano mentre andavano a scuola. Un monello che voleva imitarlo si coprì il volto con un
vecchio fazzoletto nero e impaurì a tal punto i suoi compagni di gioco che fu contagiato dal loro stesso spavento, e per
poco non uscì di senno a causa della sua stessa burla.
Strano a dirsi, tra tutti i ficcanaso e gli impertinenti della parrocchia, nessuno si azzardava a chiedere al
reverendo Hooper ragione del suo comportamento. Fin'allora, ogni volta che si presentava il minimo motivo per tali
interferenze, non gli erano mai mancati consigli, né egli si era mai mostrato riluttante ad ascoltare gli altrui pareri. Se
mai aveva commesso qualche errore, era stato anzi per una sua penosa mancanza di fiducia in sé, tale da indurlo a
considerare una colpa la propria indifferenza anche alla più lieve delle critiche. Tuttavia, pur conoscendo bene questa
sua amabile debolezza, nessuno dei suoi parrocchiani si azzardò a fare di quel velo oggetto di amichevoli censure. Una
sensazione di paura, non apertamente confessata né attentamente dissimulata, induceva ognuno a scaricarne su altri la
responsabilità, finché fu infine giudicato opportuno inviare una delegazione della parrocchia per chiedere al reverendo
Hooper delucidazioni su quel mistero, prima che diventasse uno scandalo. Mai ambasciatori assolsero così male la loro
missione. Il pastore li accolse con cordiale cortesia, ma rimase in silenzio quando si furono seduti, lasciando ai suoi
visitatori l'oneroso compito di introdurre l'importante questione, anche se era facile supporre quale fosse l'argomento. Il
velo nero era lì, cinto intorno alla fronte del reverendo Hooper, nascondendo ogni suo lineamento al di sopra della
serena espressione della bocca, sulla quale si poteva scorgere di quando in quando l'accenno di un malinconico sorriso.
Ma quel lembo di crespo sembrava ai loro occhi sospeso sul suo cuore, come simbolo di un pauroso segreto che si
frapponeva fra loro. Se il velo fosse caduto, avrebbero potuto parlarne liberamente, ma soltanto allora. Rimasero perciò
seduti lì a lungo, incapaci di parlare, confusi e intimoriti sotto gli occhi del reverendo Hooper, che sentivano puntati su
di sé con uno sguardo invisibile. Infine la delegazione ritornò mortificata ai suoi mandanti, dichiarando che la questione
era troppo grave per essere trattata da altri che da un consiglio delle chiese, se non, addirittura, da un sinodo generale.
Un'abitante del villaggio non era stata però contagiata dalla paura che quel velo nero incuteva a tutte le persone
che ella aveva intorno. Quando i delegati fecero ritorno senza dare alcuna spiegazione, e senza aver nemmeno osato.14
chiederne una, questa donna prese la decisione, con la serena determinazione del suo carattere, di cacciar via quello
strano alone che sembrava incombere sul reverendo Hooper e divenire di momento in momento più cupo. Come sua
promessa sposa, sarebbe stato suo privilegio scoprire per prima che cosa celava quel velo nero. Alla prima visita del
pastore, affrontò quindi l'argomento con una schietta semplicità che rese più facile il compito per ambedue. Quando il
pastore si fu seduto, ella appuntò attentamente lo sguardo sul velo, ma senza riuscire a scorgere quella cappa di paura
che aveva tanto intimidito gli altri: era soltanto una doppia falda di crespo, sospesa dalla fronte alla bocca, dove
s'increspava lievemente al suo respiro.
«No», disse la donna ad alta voce, sorridendo, «questo pezzo di crespo non ha niente di terribile, se non che
nasconde un volto che guardo sempre con piacere. Orsù, mio signore, lascia splendere il sole dietro a quella nuvola!
Metti da parte quel velo nero, e poi dimmi perché l'hai messo sul tuo volto».
E reverendo Hooper mostrò un fievole sorriso.
«Arriva sempre un momento», rispose, «in cui tutti noi dobbiamo scostare i nostri veli. Ma non avertene a
male, cara amica, se fin'allora porterò questo pezzo di crespo».
«Anche le tue parole sono misteriose», replicò la giovane donna. «Spoglia almeno queste del loro velo».
«Lo farò, Elizabeth», rispose il pastore, «per quanto può consentirmelo il mio voto. Devi sapere, dunque, che
questo velo è un emblema, un simbolo, e devo portarlo sempre, alla luce e al buio, nella solitudine e davanti allo
sguardo della moltitudine, di fronte agli estranei e agli amici più cari. Nessuno sguardo di mortale lo vedrà mai
sollevarsi. Quest'ombra cupa deve separarmi dal mondo, e nemmeno tu, Elizabeth, potrai mai varcarla!».
«Quale funesta sventura ti ha colpito», domandò lei con maggior ardore, «per cui devi oscurare così il tuo
sguardo per sempre?».
«Se fosse un segno di lutto», rispose il reverendo Hooper, «anch'io, forse, al pari di quasi tutti i mortali, avrei
tali pene da rappresentarle con un velo nero».
«E se il mondo non credesse che questo è il simbolo di un comune dolore?», lo incalzò Elizabeth. «Per quanto
tu sia amato e rispettato, può correre voce che tu nasconda il tuo volto per la coscienza di qualche segreto peccato. Per
amore del tuo sacro ufficio, fai cessare questo scandalo!».
Un rossore le imporporò le guance nell'alludere alla natura delle voci che già correvano nel villaggio. Ma la
consueta dolcezza non venne meno al reverendo Hooper, e sorrise di nuovo, con quel solito mesto sorriso che sempre
trapelava, come un fievole barlume di luce, dall'oscurità dietro al suo velo.
«Se nascondo il mio volto per qualche dolore, il motivo può essere sufficiente», si limitò a rispondere. «E se
mai lo coprissi per un segreto peccato, quale altro mortale non potrebbe fare altrettanto?».
E con questa dolce, ma irriducibile ostinazione, il pastore resisté a tutte le suppliche di Elizabeth, che alla fine
rimase in silenzio. Per qualche minuto sembrò assorta nei suoi pensieri, meditando forse su quali altri espedienti tentare
per allontanare il suo amato da così cupe fantasie che, se non avevano altri significati, erano forse sintomo di qualche
malattia mentale. Benché fosse di carattere più forte di lui, le lacrime le scesero sulle gote. Ma, come in un attimo, un
nuovo sentimento prese il posto del dolore, e mentre il suo sguardo insensibile era posato su quel velo nero, il terrore
che esso incuteva calò intorno a lei come un'ombra improvvisa nell'aria. Allora Elizabeth si alzò e rimase tremante
davanti a lui
«È questo che provi, allora?», le domandò lui con voce dolente.
Lei non diede risposta, ma si coprì gli occhi con la mano, poi si voltò per lasciare la stanza. Lui la rincorse e
l'afferrò per un braccio.
«Devi essere paziente con me, Elizabeth», esclamò con passione. «Non mi abbandonare, anche se questo velo
deve stare sempre tra noi su questa terra. Sii mia, e poi non ci sarà più velo sul mio volto, né oscurità tra le nostre
anime. Non è che un effimero velo, non è per l'eternità! Ah, tu non sai quanto sono solo, quanta paura ho di rimanere
solo dietro al mio velo nero! Non mi lasciare per sempre in questa infelice oscurità!».
«Alza quel velo almeno una volta e guardami in faccia», lei gli chiese.
«Mai, non posso!», esclamò il reverendo Hooper.
«E allora addio», disse Elizabeth.
Ritrasse il braccio dalla sua presa e lentamente si allontanò, fermandosi sulla porta per rivolgergli un lungo,
tremante sguardo che sembrò quasi penetrare il mistero del velo nero. Ma, nonostante il suo dolore, il reverendo Hooper
sorrise, nel pensare che soltanto un simbolo materiale lo aveva separato dalla felicità, anche se il turbamento che esso
incuteva doveva essere per sempre calato cupamente anche tra i più appassionati amanti.
Dopo d'allora non fu più fatto alcun tentativo per far rimuovere il velo nero del reverendo Hooper, né per
scoprire, con una diretta petizione, qual era il segreto che si supponeva nascondesse. Da coloro che si dichiaravano
superiori ai pregiudizi popolari era considerato soltanto un'eccentrica stravaganza, simile a quelle che sovente
s'introducono nel comportamento assennato di persone peraltro ragionevoli, improntandolo con una parvenza di follia.
Ma per la moltitudine il buon reverendo Hooper era ormai definitivamente uno spauracchio. Non poteva passeggiare
tranquillamente per le strade, assillato com'era dal pensiero che le persone miti e timide avrebbero scantonato per
evitarlo e che altre, invece, incrociavano volutamente il suo cammino per dar prova della loro forza d'animo. Fu
l'impudenza di questi ultimi che lo costrinse infine a rinunciare alla sua solita passeggiata al tramonto, fino al cimitero,
dove, chinandosi pensoso sul cancello, vedeva sempre volti che spiavano il suo velo nero dietro alle lapidi. Si
raccontava anche la favola che fossero gli sguardi dei defunti a condurlo fin lì. Il pastore si rattristava fin nel profondo
del cuore nel vedere i bambini che fuggivano al suo avvicinarsi, interrompendo i loro giochi spensierati quando la sua.15
malinconica figura era ancora lontana. La loro istintiva paura lo induceva sempre più a pensare che qualcosa di terribile,
sovrannaturale, doveva essere intrecciato tra i fili di quel crespo nero. In verità, tale era la sua ben nota avversione per
quel velo che evitava sempre di passare davanti a uno specchio o di chinarsi a bere a una fontana per tema di essere
spaventato dalla sua stessa immagine riflessa nelle limpide acque. Era ciò che dava conferma alle voci secondo cui la
coscienza del reverendo Hooper era tormentata da qualche terribile delitto, troppo grave per essere tenuto del tutto
nascosto, se non rivelandolo così oscuramente. Da sotto a quel velo nero si alzava perciò alla luce un'ambigua cappa di
peccato e di rimorso che avvolgeva il povero pastore, tanto da impedire che affetto e simpatia potessero raggiungerlo. Si
diceva anche che lì sotto spettri e demoni si annidassero accanto a lui. Tra tremiti interiori ed esterne paure, il pastore
camminava continuamente all'ombra del suo velo, brancolando nel buio della sua anima, oppure scrutando il mondo
intorno a sé attraverso quella cortina che lo immalinconiva. Persino il vento senza legge, si diceva, rispettava il suo
spaventoso segreto, e mai un suo alito sollevava quel velo. Eppure, il buon reverendo Hooper continuava a sorridere
tristemente ai volti pallidi della folla terrena davanti a cui passava.
Tra tutte le sue nefaste influenze, quel velo nero ebbe però l'unico positivo effetto di trasformare chi lo portava
in un ecclesiastico molto capace. Grazie all'aiuto di quel misterioso simbolo, non essendoci altre cause apparenti, il
pastore diventò un uomo dotato di un enorme potere sulle anime di coloro che erano tormentati dal peccato. Le persone
da lui convertite lo guardavano sempre con un loro peculiare timore e affermavano, ma solo in senso figurato, che prima
di essere condotte da lui alla luce del cielo gli erano state accanto dietro al velo nero. La sua malinconia gli consentiva
infatti di essere in sintonia con tutti i più cupi sentimenti. I peccatori morenti invocavano il suo nome, e trattenevano
l'ultimo respiro finché egli non compariva, anche se, quando si chinava per sussurrare parole di consolazione,
trasalivano davanti a quel volto velato così vicino al loro. Tale era il terrore che incuteva quel velo nero, anche quando
la morte aveva denudato il suo volto! Forestieri giungevano da lontane località per assistere alle funzioni nella sua
chiesa, col solo ozioso scopo di vedere la sua figura, essendo vietato contemplarne il volto, e molti erano quelli che
tremavano fino al momento della partenza. Un giorno, durante l'amministrazione del governatore Belcher, il reverendo
Hooper fu invitato a pronunciare un sermone elettorale. Coperto dal suo velo, si presentò al primo magistrato, al
consiglio e ai rappresentanti, e produsse una così profonda impressione che le misure legislative di quell'anno furono
improntate tutte dalla malinconica pietà della nostra più antica tradizione.
In tal modo il reverendo Hooper trascorse una lunga vita, esteriormente irreprensibile, ma circondata da foschi
sospetti: dolce e amorevole, sebbene non amato e oscuramente temuto, era un uomo separato dagli altri uomini, da loro
scansato quand'erano felici e in buona salute, ma sempre chiamato in loro soccorso al momento della mortale agonia.
Mentre gli anni trascorrevano, sciogliendo le loro nevi sul suo luttuoso velo, egli acquistava fama in tutte le chiese del
New England, dov'era ora chiamato padre Hooper. Quasi tutti i suoi parrocchiani, che erano d'età matura quando si era
insediato nel suo incarico, erano stati ormai portati via da molti funerali, così che ora egli aveva una congregazione
nella chiesa e un'altra, più numerosa, nel cimitero. Dopo aver lavorato fino a così tarda ora della sera e avendo svolto
così bene la sua opera, giunse infine il momento di riposare anche per il buon padre Hooper.
Parecchie persone erano visibili alla fioca luce delle candele intorno al capezzale del vecchio ecclesiastico.
Non aveva parenti naturali, ma era presente il medico, dignitoso e grave, seppur imperturbabile, il quale si sforzava
soltanto di mitigare gli ultimi tormenti del paziente che non poteva più salvare. Erano presenti i diaconi e altri eminenti
e devoti membri della sua chiesa. Era presente anche il reverendo Clark di Westbury, un giovane e zelante ecclesiastico,
accorso in tutta fretta a pregare al capezzale del pastore moribondo. E c'era l'infermiera, non una prezzolata ancella della
morte, ma una donna che aveva conservato fin'allora la sua serena devozione, in segreto, in solitudine, nel gelo dell'età
avanzata, e che non desisteva nemmeno nell'ora della morte. E chi poteva essere, se non Elizabeth? E lì, sul guanciale,
era posato il capo canuto del buon padre Hooper, col suo velo nero sempre cinto intorno alla fronte e calato sul volto,
così che s'increspava a ogni sempre più stentato ansito del suo fievole respiro. Per tutta la sua vita quel lembo di crespo
era stato calato tra lui e il mondo, l'aveva separato dall'allegra compagnia dei fratelli e dall'amore di una donna, l'aveva
tenuto prigioniero nella più triste delle celle, il suo cuore, e ancora era calato sul suo volto, come per accrescere la
malinconia di quella stanza buia e ripararlo dalla luce del sole dell'eternità.
Per qualche tempo la sua mente confusa aveva vagato nel dubbio, tra passato e presente, librandosi di quando
in quando aldilà, nell'indistinto mondo a venire. Aveva avuto accessi febbrili, che l'avevano squassato da parte a parte,
logorando quelle poche forze che ancora aveva. Ma anche nei suoi momenti più convulsi, nei più incontrollati
vaneggiamenti della sua mente, quando nessun altro pensiero conservava lucidità, egli mostrava sempre l'assillante
preoccupazione che il velo nero gli scivolasse dal volto. Tuttavia, anche se la sua anima tormentata poteva averlo
dimenticato, una donna fedele era sempre accanto al suo capezzale e, distogliendo lo sguardo, avrebbe coperto quel
volto invecchiato che per l'ultima volta aveva contemplato nella bellezza della maturità. Infine, il vecchio moribondo si
distese nel torpore dello sfinimento fisico e mentale, col polso quasi impercettibile e il respiro sempre più fievole, se
non quando un ansito più lungo, profondo e irregolare sembrava preludere all'esalazione del suo spirito.
Il pastore di Westbury si avvicinò al capezzale.
«Venerabile padre Hooper», gli disse, «il momento della tua liberazione è vicino. Sei pronto a sollevare il velo
che separa il tempo dall'eternità?».
Padre Hooper rispose dapprima soltanto con un lieve movimento del capo, ma poi, forse temendo che il suo
significato potesse essere dubbio, si sforzò di parlare.
«Sì», rispose con voce fievole, «la mia anima dovrà stancamente pazientare finché sarà sollevato quel velo»..16
«Ma è giusto», soggiunse il reverendo Clark, «che un uomo così dedito alla preghiera, un così immacolato
esempio, santo nelle azioni come nei pensieri, per quanto può giudicare un mortale, è giusto che un padre della chiesa
lasci sul suo ricordo un'ombra che sembra oscurare una vita così pura? Ti prego, mio venerabile fratello, non lasciare
che ciò avvenga! Consentici di allietarci alla vista del tuo trionfante aspetto mentre vai a ricevere la tua ricompensa!
Prima che si alzi il velo dell'eternità, permettimi di levare questo velo nero dal tuo volto!».
Così dicendo, il reverendo Clark si chinò per svelare il mistero di tanti anni. Ma allora, mostrando
un'improvvisa energia che fece trasalire tutti i presenti, padre Hooper sollevò ambedue le mani da sotto le coperte e le
premette con forza sul velo nero, ben deciso a opporsi se il pastore di Westbury avesse voluto sfidare un moribondo.
«Mai!», esclamò l'ecclesiastico velato. «Su questa terra mai!».
«Vecchio tenebroso!», esclamò il pastore spaventato. «Con quale tremendo delitto sulla coscienza stai ora per
presentarti al giudizio?».
Padre Hooper respirava affannosamente, rantolando, ma con un estremo sforzo tese avanti le mani chiuse,
come per afferrare la vita e trattenerla finché non fosse riuscito a parlare. Si sollevò perfino sul letto e si mise seduto,
rabbrividendo tra le braccia della morte. Il velo era calato sul viso, terribile fino a quell'ultimo momento, nell'angoscia
che aveva raccolto per tutta la vita. Eppure, quel lieve e mesto sorriso, che così spesso era comparso, ora sembrava
balenare nell'oscurità e aleggiare sulle labbra di padre Hooper.
«Perché tremate soltanto per me?», esclamò, volgendo il viso velato intorno alla cerchia degli spettatori
impalliditi. «Tremate anche l'uno dell'altro! Gli uomini mi hanno scansato, le donne non hanno mostrato alcuna pietà, i
bambini sono fuggiti gridando, e soltanto per il mio velo nero? Che cosa, se non il mistero che così oscuramente
simboleggia, fa apparire così spaventoso questo pezzo di crespo? Quando l'amico mostrerà l'intimo suo cuore all'amico,
e l'amante alla donna amata, quando l'uomo non tenterà vanamente di sottrarsi alla vista del suo Creatore, custodendo
miserevolmente il segreto del suo peccato, allora consideratemi pure un mostro per il simbolo sotto il quale sono vissuto
e ora muoio! Guardo intorno a me ed ecco, su ogni volto, vedo un velo nero!».
Mentre gli ascoltatori si ritraevano l'uno dall'altro, in preda a reciproco spavento, padre Hooper ricadde sul
cuscino, un cadavere velato con un lieve sorriso che aleggiava ancora sulle sue labbra. Ancora velato lo adagiarono
nella bara e fu un cadavere velato quello che portarono alla tomba. L'erba di molti anni è cresciuta ed è appassita su
quella tomba, la lapide è coperta di muschio e il volto del buon reverendo Hooper non è che polvere, ma ancora fa paura
pensare che si è dissolto sotto quel velo nero.
L'ALBERO DI MAGGIO DI MONT'ALLEGRO
Si trovano interessanti spunti per un romanzo filosofico nella curiosa storia del primo insediamento di Mount
Wollaston, detto Mont'Allegro. Nel breve racconto qui abbozzato, i fatti, quali sono registrati nelle ponderose pagine
dei nostri annalisti del New England, si sono elaborati quasi spontaneamente in una sorta di allegoria. Le mascherate,
le pantomime e le feste descritte nel testo sono conformi a quelle in uso a quel tempo. Le fonti in proposito si possono
trovare nel libro di Strutt sugli «Sport e passatempi inglesi».
Erano gioiosi i tempi a Mont'Allegro, quando l'Albero di maggio era l'asta dello stendardo di quell'amena
colonia! Coloro che lo innalzavano, per farne il loro trionfante vessillo, dovevano inondare di sole le selvagge colline
del New England e spargere sulla terra sementi di fiori. Allegria e malinconia si contendevano il dominio di
quell'impero. La vigilia di mezz'estate era giunta, portando un verde più intenso nella foresta, e rose nel suo grembo di
una più vivida tonalità dei teneri boccioli di primavera. Ma Maggio, col suo spirito giocoso, abitava tutto l'anno intorno
a Mont'Allegro, spassandosela nei mesi estivi, facendo baldoria in quelli autunnali, crogiolandosi al fuoco del caminetto
in inverno. Nel mezzo di un mondo di fatiche e di stenti, Maggio aleggiava con un sognante sorriso, e scendeva lì per
trovare asilo tra i cuori spensierati di Mont'Allegro.
Mai l'Albero di Maggio era festosamente addobbato come al tramonto della vigilia di mezz'estate. Questo
venerato emblema era un albero di pino che aveva conservato l'esile grazia della giovinezza, pur eguagliando le più alte
cime dei vetusti sovrani della foresta. Sulla sua cima garriva uno stendardo di seta con i colori dell'arcobaleno, più a
terra l'albero era addobbato con grossi rami di betulla e altri del più vivido verde, alcuni con foglie argentee, legati con
nastri che fluttuavano con fantastici fiocchi di venti diversi colori, nessuno dei quali era triste. Fiori di giardino e
boccioli selvatici ridevano lietamente nella verzura, così freschi e rugiadosi che sembravano cresciuti come per magia
su quel felice albero di pino. Là dove terminava questo verde e fiorito splendore, il tronco dell'Albero di Maggio era
dipinto con i sette vividi colori dello stendardo sulla sua cima. Sul ramo verde più basso era appesa una ricca ghirlanda
di rose, alcune raccolte nei luoghi più soleggiati della foresta, e altre, di più intenso rossore, coltivate dai coloni con i
semi d'Inghilterra. Gente dell'età dell'oro, il principale prodotto del vostro lavoro nei campi erano i fiori che coltivavate!
Ma che cos'era quella turbolenta moltitudine che stava mano nella mano intorno all'Albero di Maggio? Non
potevano essere fauni e ninfe che, scacciati dai loro classici boschetti e dimore delle antiche leggende, avevano cercato
rifugio, come tutti i perseguitati, nei freschi boschi d'Occidente, perché quelle lì intorno erano creature gotiche, anche se
forse di discendenza greca. Sulle spalle di un aggraziato giovane si ergevano la testa e le corna ramificate di un cervo;
un altro, umano in ogni altro aspetto, aveva il truce volto di un lupo; un terzo, anch'esso col tronco e le gambe di un.17
mortale, mostrava la barba e le corna di un venerabile caprone. Comparivano le sembianze di un orso eretto, selvatico in
tutto tranne che nelle zampe posteriori, rivestite con calze rosa di seta, e altrettanto stupefacente si ergeva un vero orso
della cupa foresta, che offriva le zampe anteriori alla presa di mani umane, pronto a danzare come tutti gli altri,
alzandosi nella sua inferiore statura per incontrare quella dei suoi compagni che stavano chini. Altre facce mostravano
le sembianze di uomini e donne, ma distorte e bizzarre, con nasi rossi pendenti sulla bocca, che sembrava di spaventosa
profondità e tesa da un orecchio all'altro in un'interminabile risata. Qui si vedeva l'Uomo dei Boschi, ben noto in
araldica, peloso come un babbuino e inghirlandato con foglie verdi. Al suo fianco, stava una più nobile figura, ma
anch'essa contraffatta, quella di un cacciatore indiano, con la sua criniera piumata e il perizoma di perline. Molti, in
questa strana compagnia, portavano berretti da giullare e avevano campanellini appesi ai loro abiti, che tintinnavano con
suono argentino, rispondendo alla musica inudibile dei loro cuori gioiosi. Alcuni giovani e fanciulle indossavano vestiti
più sobri, ma occupavano il loro posto in mezzo a quella folla eterogenea con l'espressione festosa ed esultante dei loro
voti. Questi erano i coloni di Mont'Allegro, raccolti nel diffuso sorriso del tramonto intorno al loro venerato Albero di
Maggio.
Se un viandante smarrito nella malinconica foresta avesse udito quella baldoria e avesse lanciato di nascosto
uno sguardo quasi impaurito alla scena, avrebbe potuto immaginare che costoro erano una schiera di baccanti, alcuni già
trasformati in bruti, altri a metà tra l'uomo e la bestia, e altri ancora in preda all'euforica ebbrezza che precedeva la
trasformazione. Ma alcuni puritani, che osservavano non visti la scena, paragonavano quelle maschere ai demoni e alle
anime perdute di cui la superstizione popolava quella cupa landa desolata.
All'interno di quella cerchia di mostri, comparvero poi le due creature più eteree che avessero mai calpestato
qualcosa di più solido delle nuvole purpuree e dorate. Uno era un giovane in abiti sgargianti, con una fusciacca color
dell'arcobaleno di traverso sul petto. La sua mano destra impugnava uno scettro dorato, simbolo di alta dignità tra i
festanti, la sinistra stringeva le esili dita di un'avvenente fanciulla, non meno pittorescamente abbigliata del suo
accompagnatore. Splendide rose scintillavano in contrasto con i riccioli scuri e lucenti di ambedue, ed erano sparse ai
loro piedi, oppure vi erano sbocciate spontaneamente. Dietro a questa leggiadra coppia, e così vicino all'Albero di
Maggio che i suoi rami ne ombreggiavano il volto gioviale, stava la figura di un sacerdote inglese, vestito con abiti
canonici, ma decorati anch'essi con fiori, come quelli dei pagani, e con una corona di pampini in testa. Con i suoi occhi
roteanti e con la profana decorazione della sua sacra veste, sembrava lì il più mostruoso di tutti, il Bacco di quella
schiera di baccanti.
«Devoti dell'Albero di Maggio!», esclamò il sacerdote decorato di fiori, «lietamente i boschi hanno echeggiato
tutto il giorno della vostra allegria. Ma questa sia la vostra ora più lieta, miei cari! Ecco, qui stanno il Signore e la
Signora di Maggio, che io, ecclesiastico di Oxford e primo pastore di Mont'Allegro, sto ora per unire nel santo
matrimonio. Su col vostro lieve spirito, danzatori di moresca, e voi, uomini dei boschi e cantatrici del coro, orsi e lupi e
signori cornuti! Su, cantiamo in coro, ora, con tutta l'allegria della vecchia Inghilterra e con lo spirito più selvaggio di
questa ombrosa foresta, e poi danziamo, per mostrare a questa giovane coppia com'è fatta la vita, e come devono
attraversarla lievemente! Tutti voi che amate l'Albero di Maggio, unite la vostra voce al canto nuziale del Signore e
della Signora di Maggio!».
Questa cerimonia nuziale era qualcosa di più serio di molti altri avvenimenti di Mont'Allegro, dove la celia e
l'inganno, lo scherzo e la fantasia davano vita a un ininterrotto carnevale. Il Signore e la Signora di Maggio, pur
dovendo abbandonare i loro titoli al tramonto seguente, dovevano essere realmente compagni in quella danza della vita,
a iniziare da quell'animata vigilia. La ghirlanda di rose, appesa al ramo più basso dell'Albero di Maggio, era stata
intrecciata per loro, e sarebbe stata gettata sulle teste di ambedue come simbolo della loro unione fioreale. Dopo che il
sacerdote ebbe parlato, si alzò un tumultuoso clamore da quella folla di mostruose figure.
«Dia lei inizio all'accordo, reverendo», gridarono tutti, «e mai i boschi risuonino di così allegri canti come
quelli che innalziamo noi dell'Albero di Maggio!».
E subito un preludio di cetre, zampogne e viole, suonate con la dovuta maestria, si fece udire da un vicino
boschetto, e con ritmo così vivace che anche i rami dell'Albero di Maggio fremettero a quel suono. Ma il Signore di
Maggio, colui che impugnava lo scettro dorato, guardò casualmente negli occhi della sua dama e rimase sconcertato
dallo sguardo quasi pensoso che incontrò il suo.
«Edith, dolce Signora di Maggio», sussurrò, quasi in tono di rimprovero, «quella ghirlanda di rose è forse una
corona posata sulle nostre tombe, per farti apparire così triste? Oh, Edith, questo è il nostro momento dorato! Non
offuscarlo con l'ombra pensosa della mente, perché può darsi che nulla, in futuro, sia più luminoso del semplice ricordo
di ciò che sta ora trascorrendo».
«Era proprio questo il pensiero che mi rattristava! Come mai è passato anche per la tua mente?», rispose Edith,
in tono ancor più sommesso, perché la tristezza era considerata alto tradimento a Mont'Allegro. «È per questo motivo
che sospiro in mezzo a questa musica di festa. E poi, caro Edgar, mi dibatto come in un sogno, e mi sembra che queste
immagini dei nostri spensierati amici siano una visione, che la loro allegria sia irreale, e che noi non siamo i veri Signori
di Maggio. Qual è il mistero che si annida nel mio cuore?».
Proprio in quel momento, come sciolta da un incantesimo, una lieve pioggia di petali di rosa sfioriti cadde
dall'Albero di Maggio. Ahimè! Non appena i cuori dei giovani amanti si erano accesi di vera passione, essi avevano
sentito qualcosa di effimero, di inconsistente nel loro precedente piacere, e avevano avuto il cupo presentimento di un
inevitabile mutamento. Nel momento in cui si erano realmente amati, si erano assoggettati al comune destino della terra,
quello degli affanni, dei dolori, del tormentato piacere, e non avevano più posto a Mont'Allegro. Questo era il mistero di.18
Edith. Ma ora lasciamo che il sacerdote li sposi e che le maschere folleggino intorno all'Albero di Maggio, finché
l'ultimo raggio di sole scomparirà dalla sua cima e le ombre della foresta si mescoleranno malinconicamente alle danze.
E nel frattempo possiamo scoprire chi erano queste spensierate persone.
Duecento e più anni fa, il vecchio mondo e i suoi abitanti si erano stancati l'uno degli altri. Gli uomini si
imbarcarono a migliaia per l'Occidente, alcuni per barattare perline e simili cianfrusaglie in cambio delle pelli dei
cacciatori indiani, altri per conquistare imperi vergini, e un austero gruppo di loro per pregare. Ma nessuna di queste
motivazioni aveva molta importanza per i coloni di Mont'Allegro. I loro capi erano uomini che se l'erano tanto spassata
nella vita che quando arrivava il momento della riflessione e della saggezza, anche questi sgraditi ospiti erano dispersi
da tutte le vanità che essi avrebbero dovuto fugare. L'ozioso pensiero e la pervertita saggezza erano messi in maschera
per fare la parte del buffone. Gli uomini di cui parliamo, dopo aver perduto la fresca gaiezza del cuore, avevano
escogitato una sfrenata filosofia del piacere, ed erano lì giunti per tradurre in realtà il loro sogno, trovando seguaci in
tutta quella giocosa tribù la cui intera vita è come un giorno di festa per gli uomini morigerati. Al loro seguito
accorrevano cantastorie, ben noti nelle strade di Londra, attori girovaghi, i cui teatri erano stati i saloni dei nobiluomini,
e guitti, funamboli, saltimbanchi, di cui si sarebbe sentita a lungo la mancanza nei veglioni, alle feste della birra e alle
sagre, insomma i buontemponi di ogni risma, quali abbondavano in quell'epoca, ma che iniziavano allora a essere
osteggiati dalla rapida diffusione del puritanesimo. Lievi erano stati i loro passi sulla terra, e altrettanto lievemente
avevano attraversato il mare. Molti di loro erano stati follemente indotti a una spensierata disperazione a causa di
precedenti traversie, altri erano altrettanto follemente gioiosi nell'euforia della giovinezza, come il Signore di Maggio e
la sua dama, ma qualunque fosse la causa del loro buonumore, vecchi e giovani erano parimenti giocosi a Mont'Allegro.
I giovani si consideravano felici, e i più anziani, anche quando sapevano che l'allegria è solo la contraffazione della
felicità, seguivano nondimeno caparbiamente quell'illusoria chimera, perché i suoi indumenti, almeno, erano più
sgargianti. Dediti per tutta la loro esistenza alle frivolezze, non volevano avventurarsi nelle cose serie della vita,
nemmeno per essere felicemente benedetti.
Tutte le feste tradizionali della vecchia Inghilterra furono là trapiantate. Il sovrano di Natale fu opportunamente
incoronato, e il Signore del Disordine esercitava il suo dominio. Alla vigilia di San Giovanni, i coloni abbattevano interi
acri di alberi della foresta per farne falò, e danzavano tutta la notte alla luce delle fiamme, inghirlandati di fiori e
gettandone altri nel fuoco. All'epoca del raccolto, anche se questo era molto scarso, costruivano una figura con i covoni
di granturco, la inghirlandavano con fiori autunnali e la portavano trionfanti nelle loro case. Ma ciò che maggiormente
distingueva i coloni di Mont'Allegro era il loro culto dell'Albero di Maggio, che ha fatto della loro storia una fiaba per
poeti. La primavera addobbava il venerato emblema con freschi boccioli e giovani virgulti verdi, l'estate portava rose
del colore più intenso e il fogliame rigoglioso della foresta, l'autunno lo arricchiva con quello splendore rosso e giallo
che trasforma ogni foglia selvatica in un fiore dipinto, e l'inverno lo inargentava di nevischio e vi sospendeva ghiaccioli
tutt'intorno, fino a farlo scintillare alla fredda luce del sole, divenendo anch'esso un gelido raggio. E così ogni
successiva stagione rendeva omaggio all'Albero di Maggio, e gli faceva dono del suo maggior splendore. I suoi devoti
vi danzavano intorno almeno una volta ogni mese, e talvolta lo chiamavano loro religione o loro altare, e comunque
esso era sempre il vessillo di Mont'Allegro.
Purtroppo, vivevano nel nuovo mondo anche uomini di una fede più austera di quella di questi adoratori
dell'Albero di Maggio. Non lontano da Mont'Allegro abitava infatti una colonia di puritani, perlopiù tristi personaggi
che recitavano le loro preghiere prima dell'alba e lavoravano poi nella foresta e nei campi di grano fino a sera, quando
giungeva ancora l'ora della preghiera. Le loro armi erano sempre a portata di mano, per uccidere i selvaggi vagabondi.
Quando si riunivano in assemblea, non era mai per far rivivere il buonumore della vecchia Inghilterra, ma per ascoltare
sermoni lunghi tre ore o per stabilire taglie sulle teste dei lupi o sugli scalpi degli indiani. Le loro feste erano giorni di
digiuno, il loro principale passatempo era il canto dei salmi. E guai ai giovani e alle fanciulle che solo si sognavano di
danzare! Il consigliere faceva cenno alla guardia, e il reprobo ballerino era messo in ceppi, oppure, se danzava, era
intorno al palo della fustigazione, che si potrebbe definire l'Albero di Maggio dei puritani.
Una spedizione di questi capi puritani, facendosi strada a fatica nella foresta, carico ciascuno come un mulo di
un'armatura di ferro che rendeva ancor più pesanti i suoi passi, si avvicinava talvolta ai soleggiati dintorni di
Mont'Allegro, dove i frivoli coloni folleggiavano intorno al loro Albero di Maggio, insegnando magari a danzare a un
orso, sforzandosi di trasmettere la loro allegria a qualche grave indiano, oppure mascherandosi con pelli di daini o di
lupi che essi cacciavano a questo particolare scopo. Spesso tutta la colonia giocava a moscacieca, comprese le autorità,
e tutti con gli occhi bendati, tranne un unico zimbello che i non vedenti peccatori inseguivano al tintinnio dei
campanelli appesi ai suoi vestiti. Una volta, a quanto si diceva, erano stati visti seguire fino alla tomba un cadavere
ricoperto di fiori, tra allegri canti e musiche festose. Ma il defunto forse rideva? Nei loro momenti più pacati, i coloni
cantavano ballate e raccontavano storie a edificazione dei devoti visitatori, oppure li sconcertavano con i loro giochi di
prestigio, facevano smorfie attraverso i collari dei cavalli, e, quando il gioco diventava noioso, si facevano beffe della
loro stessa stupidità e davano inizio a una gara di sbadigli. Anche alla minima di queste sciocchezze, gli uomini vestiti
di ferro scuotevano la testa e aggrottavano così cupamente la fronte che quei buontemponi alzavano lo sguardo al cielo,
immaginando che una nuvola passeggera avesse offuscato la luce del sole, che lì doveva splendere perpetuamente. Dal
canto loro, i puritani affermavano che quando risuonava un salmo dal loro luogo di culto l'eco rimandata dalla foresta
sembrava spesso quella di un coro festoso che si concludeva con uno scroscio di risate. Ma chi erano, se non il demonio
e i suoi schiavi, ovvero la combriccola di Mont'Allegro, coloro che li turbavano in tal modo? Sorse così, col tempo, una
reciproca ostilità, severa e aspra da una parte, e profonda dall'altra, per quanto poteva esserlo tra quei giocosi spiriti che.19
avevano giurato fedeltà all'Albero di Maggio. Nell'importante contesa era in gioco tutto il futuro del New England. Se
quei tetri santoni avessero affermato la loro giurisdizione sugli spensierati peccatori, allora il loro spirito avrebbe
rabbuiato tutta la regione, ne avrebbe fatto per sempre una terra di volti cupi, di duro lavoro, di sermoni e di salmi. Se
invece avesse avuto fortuna il vessillo di Mont'Allegro, il sole avrebbe brillato su quelle colline, i fiori avrebbero
decorato la foresta, e i posteri avrebbero reso omaggio all'Albero di Maggio.
Dopo questi autentici accenni storici, ritorniamo ora alle nozze del Signore e della Signora di Maggio.
Purtroppo abbiamo indugiato troppo a lungo, e il nostro racconto deve divenire tutt'a un tratto più cupo. Quando
rivolgiamo di nuovo lo sguardo all'Albero di Maggio, un solitario raggio di sole sta infatti svanendo sulla sua cima,
lasciando soltanto una pallida sfumatura dorata che si mescola con i colori arcobaleno dello stendardo. Anche quella
fioca luce ora scompare, lasciando tutto il regno di Mont'Allegro alle tenebre della sera, che è calata così
improvvisamente dai neri boschi circostanti. Ma alcune di queste cupe ombre sono comparse d'improvviso in forma
umana.
Sì, con il calare del sole era trascorso anche l'ultimo giorno di festa a Mont'Allegro. Il cerchio delle allegre
maschere era stato scompigliato e disciolto, il cervo aveva abbassato sgomento le sue corna, il lupo si era fatto più
docile dell'agnello , i campanelli dei danzatori di moresca tintinnavano con tremulo timore. I puritani avevano imposto
la loro peculiare presenza nelle pantomime dell'Albero di Maggio. Le loro cupe figure si mescolavano con le folli
immagini dei loro avversari, e trasformavano quella scena, come nel momento in cui i pensieri del risveglio prendono
forma tra le disperse fantasie del sogno. Il capo del manipolo nemico stava ora nel mezzo del cerchio, circondato dalla
massa di quei mostri intimiditi, simili a spiriti maligni alla presenza di un temuto stregone. Nessuno di quegli irreali
buffoni riusciva a guardarlo in faccia. Così severo era il suo vigoroso aspetto che tutto l'uomo, il suo volto, il corpo e
l'anima, sembravano fatti di ferro, dotati di vita e di pensiero, ma pur sempre di un'unica sostanza, con il suo cimiero e
la corazza. Era il puritano dei puritani, era Endicott in persona!
«Scostati, sacerdote di Baal!», esclamò con cupo cipiglio, senza posare la mano reverente sulla cotta. «Io ti
conosco, Blackstone! Tu sei l'uomo che non potrebbe sopportare nemmeno il dominio della sua stessa chiesa corrotta,
sei giunto qui per predicare l'empietà, per darne esempio nella tua vita. Ma ora vedremo che il Signore ha santificato
questa landa selvaggia per il suo proprio popolo. Guai a coloro che osano corromperla! E, primo tra tutti, questo
abominio cosparso di fiori, l'altare del tuo culto!».
E, con la sua spada affilata, Endicott si avventò contro il venerato Albero di Maggio, e questo non resistette a
lungo al suo braccio. Gemendo con lugubre rumore, inondò di foglie e boccioli di rosa l'implacabile giustiziere, e infine
il vessillo di Mont'Allegro si schiantò con tutti i suoi rami verdi, i nastri e i fiori, simbolo di trascorsi piaceri. E mentre
si abbatteva, racconta la tradizione, il cielo della sera si fece più scuro e gli alberi gettarono ombre più cupe.
«Ecco!», esclamò Endicott, guardando trionfante la sua opera. «Qui giace l'unico Albero di Maggio del New
England. Forte è in me la convinzione che la sua caduta prefigura la sorte dei fatui e oziosi buontemponi presenti tra noi
e i nostri posteri. E così sia, dice John Endicott!».
«E così sia!», gli fecero eco i suoi seguaci.
I devoti dell'Albero di Maggio emisero invece un gemito per il loro idolo abbattuto. A quel suono, il capo dei
puritani lanciò uno sguardo a quella schiera di baccanti, altrettante immagini di incontenibile allegria, che però, in quel
momento, esprimevano stranamente mestizia e sgomento.
«Valoroso capitano», intervenne Peter Palfrey, il veterano del suo manipolo, «quali ordini si devono eseguire
con i prigionieri?».
«Pensavo di non pentirmi, abbattendo un Albero di Maggio», rispose Endicott, «ma ora sento nel mio cuore il
desiderio di piantarlo di nuovo, per offrire a ciascuno di questi animaleschi pagani un'ultima danza intorno al loro idolo.
Pochi altri pali sarebbero stati adatti come questo alla fustigazione!».
«Ma qui intorno non scarseggiano altri alberi», suggerì il suo luogotenente.
«È ben vero, mio buon veterano», rispose il suo capo. «Perciò legate questa banda di pagani, e somministrate a
ciascuno una buona dose di nerbate, come anticipo della nostra futura giustizia. Mettete in ceppi alcuni di questi
furfanti, così che possano riposarsi, non appena la Provvidenza ci condurrà in uno dei nostri ben ordinati insediamenti,
in cui si possano trovare simili strumenti. Ulteriori punizioni, quali la marchiatura e il taglio delle orecchie, saranno
prese in considerazione in seguito».
«Quante nerbate per il sacerdote?», domandò il veterano Palfrey.
«Nessuna, per ora», rispose Endicott, posando il suo severo cipiglio sul colpevole. «Spetterà alla Corte grande
e a quella generale stabilire se le nerbate, la lunga carcerazione e altre severe punizioni possono riparare le sue
trasgressioni. Che badi a se stesso! Per coloro che violano il nostro ordine civile, può esserci consentito di mostrare
clemenza. Ma guai agli sciagurati che turbano la nostra religione!».
«E quest'orso ballerino», domandò ancora l'ufficiale, «deve anch'esso dividere le nerbate dei suoi compari?».
«Sparategli in testa», rispose il drastico puritano. «Sospetto la mano della stregoneria in questa bestia».
«Ecco qui una coppia di illustri personaggi», proseguì Peter Palfrey, indicando con la sua arma il Signore e la
Signora di Maggio. «Sembrano avere alto grado tra questi malfattori, e penso che la loro dignità non possa essere
onorata con meno di una doppia dose di nerbate».
Endicott si appoggiò alla sua spada ed esaminò attentamente l'abbigliamento e l'aspetto dell'infelice coppia.
Erano lì, pallidi, afflitti e impauriti, eppure mostravano un atteggiamento di reciproco conforto, di puro e semplice
affetto, come di chi chiede aiuto e lo dà, che li rivelava come marito e moglie, uniti da un amore che aveva la sanzione.20
di un sacerdote. In quel momento di pericolo, il giovane aveva lasciato cadere il suo scettro dorato e aveva posato il
braccio sulla sua Signora di Maggio, che s'appoggiava al suo petto, troppo lievemente per essergli di peso, ma
abbastanza per far capire che i loro destini erano legati insieme, nel bene o nel male. Si guardarono dapprima l'un l'altra,
poi rivolsero lo sguardo al volto accigliato del capitano. Stavano lì, nella prima ora delle loro nozze, mentre i vani
piaceri, di cui i loro compagni erano rappresentanti, lasciavano posto ai più gravi affanni della vita, personificati da quei
cupi puritani. Ma la loro giovanile bellezza non era mai apparsa così pura e luminosa come quando la sua luce era
offuscata dalle avversità.
«Giovanotto», disse Endicott, «vi trovate in una brutta situazione, tu e la tua giovane sposa. Preparatevi, perché
ho intenzione di dare a tutti e due un esempio per ricordare il giorno delle vostre nozze!».
«Uomo senza cuore», esclamò il Signore di Maggio, «come posso commuoverti? Se ne avessi i mezzi,
resisterei fino alla morte, ma essendo impotente, ti supplico! Fai di me ciò che vuoi, ma risparmia Edith!».
«Nient'affatto», replicò l'inflessibile puritano. «Non intendiamo mostrare una vana benevolenza verso quel
sesso che richiede invece la più severa disciplina. Tu che ne dici, ragazza? Il tuo tenero sposo dovrà subire anche la tua
parte di pena, oltre alla sua?».
«Sia la morte», rispose Edith, «ma soltanto per me!».
In verità, come aveva detto Endicott, gli infelici amanti si trovavano in una penosa situazione. I loro nemici
trionfavano, i loro amici erano prigionieri e umiliati, la loro casa era deserta, le tenebre della foresta li circondavano, e
un crudele destino, impersonato dal capo dei puritani, era tutto ciò che li attendeva. Eppure, le ombre calanti della notte
non potevano del tutto nascondere che quell'uomo di ferro era impietosito, quando sorrise davanti al tenero spettacolo
dell'amore giovanile, e quasi sospirò per quelle giovanili speranze così crudelmente infrante.
«Le avversità della vita sono precocemente calate su questa giovane coppia», osservò Endicott. «Vedremo
come si comporteranno davanti a questa prova, prima di gravarli con altre più severe. Se, nel bottino, si trovano
indumenti di foggia più decente, siano fatti indossare a questo Signore di Maggio e alla sua signora, invece di queste
vacue frivolezze. Che provveda qualcuno di voi».
«E i capelli di questo ragazzo non saranno tosati?», domandò Peter Palfrey, guardando inorridito le ciocche e i
lunghi riccioli lucenti del giovane.
«Che siano rasati immediatamente, e nell'autentica foggia a guscio d'uovo!», ordinò il capitano. «Poi riportateli
qui tra noi, ma con maggior riguardo dei loro compagni. Questo giovane ha qualità che possono renderlo valoroso in
battaglia, resistente alla fatica e devoto nella preghiera, e in quanto alla fanciulla, può essere adatta a diventare una
madre nella nostra Israele, per allevare bambini in modo migliore di quanto lei stessa lo sia stata. E non pensate,
giovani, che essi siano i più felici, anche nel breve arco della nostra vita, tra quanti l'hanno mal spesa danzando intorno
a un Albero di Maggio!».
E allora Endicott, il più severo dei puritani che posarono le fondamenta del New England, sollevò la ghirlanda
di rose dall'Albero di Maggio abbattuto, e la gettò con la sua mano guantata sulle teste del Signore e della Signora di
Maggio. Fu un gesto profetico. Come il rigore morale del mondo ne sopraffà tutta la voluta gaiezza, così il loro focolare
di sfrenata allegria diventò deserto nella triste foresta. Non vi fecero più ritorno, ma come la loro ghirlanda fiorita era
intrecciata dalle più vivide rose che lì erano cresciute, così nel legame che li unì erano intessute le loro prime gioie, le
più pure e le più belle. Andarono verso il cielo, sostenendosi l'un l'altra nel difficile cammino che era loro destino
percorrere, e mai sprecarono un pensiero di rimpianto alle vanità di Mont'Allegro.
IL DOLCE FANCIULLO
Nel corso dell'anno 1656 fecero la loro comparsa nel New England parecchi di coloro che sono chiamati
quaccheri, spinti, a loro dire, da un intimo impulso dell'animo. Per via della fama che li aveva preceduti di essere
propugnatori di oscuri e perniciosi principii, i puritani subito si sforzarono di ostacolare e impedire l'ulteriore
propagazione della nascente setta. Ma le misure adottate per epurare quella regione dall'eresia, anche se più severe del
necessario, si rivelarono del tutto infruttuose. I quaccheri, considerando queste persecuzioni come un richiamo divino
sul posto del pericolo, fecero appello a un sacro coraggio che era sconosciuto agli stessi puritani, i quali erano sfuggiti
alla crocefissione scegliendo per il pacifico esercizio del loro culto una remota e disabitata regione. Anche se, per un
fatto singolare, ogni nazione della terra aveva respinto i randagi fanatici che professavano la pace verso tutti gli uomini,
essi prescelsero la provincia di Massachusetts Bay, proprio perché era quella di maggior disagio e pericolo.
Le ammende, le incarcerazioni e le fustigazioni dispensate a profusione dai nostri devoti antenati, l'ostilità
popolare, così radicata che perdurò per quasi un secolo ancora dopo la fine delle persecuzioni vere e proprie,
costituivano per i quaccheri un'attrazione così irresistibile quanto possono esserlo la pace, l'onore e le ricompense per
gli uomini di mondo. Ogni vascello trasportava dall'Europa nuovi carichi di membri della setta, ansiosi di recare la loro
testimonianza contro l'oppressione che speravano di condividere, e quando i capitani delle navi furono dissuasi con
pesanti ammende dal concedere loro il trasporto, i quaccheri si avventurarono in lunghi e tortuosi tragitti attraverso le
regioni degli indiani per comparire infine nella provincia, come guidati da qualche forza sovrannaturale. Il loro
fanatismo, esasperato fin quasi alla follia dal trattamento loro riservato, era tale da dar luogo ad azioni sconsiderate,
contrarie alle regole del buon senso nonché a quelle della savia religione, e singolarmente contrastanti con il contegno.21
severo e compassato degli attuali successori di questa setta. L'imperativo dello spirito, percettibile soltanto dall'anima e
non contestabile sul piano dell'assennatezza umana, costituiva giustificazione per le più indecorose esibizioni che,
considerate in astratto, ben meritavano la moderata punizione della frusta. Queste intemperanze, e le persecuzioni che
ne furono insieme causa ed effetto, si inasprirono sempre più fin quando, nell'anno 1659, il governo di Massachusetts
Bay finì col concedere a due membri della setta dei quaccheri la corona del martirio.
Le mani di tutti coloro che consentirono questo misfatto sono macchiate indelebilmente di sangue, ma una gran
parte di questa tremenda responsabilità dev'essere attribuita alla persona che era a quel tempo a capo del governo.
Questi era un uomo di intelligenza limitata e di insufficiente istruzione, che accendeva e inaspriva la sua ottusa
bigotteria con violenti e incontrollati furori. Quest'uomo esercitò la sua autorità in modo indegno e ingiustificabile per
procurare la morte dei fanatici, e tutta la sua condotta nei loro confronti fu improntata a pari crudeltà. I quaccheri, la cui
sete di vendetta non fu meno profonda perché non poté esprimersi, continuarono a ricordare quest'uomo e i suoi accoliti
anche in epoche posteriori. Lo storico della setta sostiene che la collera del Cielo si abbatté sulla regione, in prossimità
della «sanguinaria cittadina», di Boston, per cui neppure più una spiga di grano vi crebbe, in particolar modo sulle
tombe degli antichi persecutori, e racconta trionfante le dure prove che li attesero nella vecchiaia e nell'ora della morte.
Lo storico racconta che morirono tutti all'improvviso, di morte violenta o precipitati nella follia, ma nulla può superare
l'amaro sarcasmo con cui descrive la malattia disgustosa e la «morte per imputridimento» del feroce e crudele
governatore.
Sull'imbrunire del giorno d'autunno che aveva visto il martirio dei due uomini di fede quacchera, un colono
puritano faceva ritorno dalla città al vicino paese di campagna in cui abitava. L'aria era fresca, il cielo limpido, e il tardo
crepuscolo era rischiarato dai raggi di una giovane luna che era allora quasi sulla linea dell'orizzonte. Il viandante, un
uomo di mezza età avvolto in un grigio mantello di lana, affrettò il passo quando arrivò ai sobborghi della città, perché
lo attendeva un desolato tratto di strada lungo circa quattro miglia prima di arrivare alla sua dimora. Le case basse,
coperte da tetti di paglia, erano disseminate a lunghi intervalli lungo la strada, e in quella regione, colonizzata da appena
trent'anni, la foresta originaria contendeva ancora non poca parte alle terre coltivate. Il vento d'autunno turbinava tra i
rami e ne strappava le foglie, tranne che dai pini, e gemeva, come lamentando la desolazione di cui era esso stesso
strumento. La strada penetrava nell'intrico dei boschi che erano assai vicini alla cittadina e stava per sfociare in uno
spiazzo, quando alle orecchie del viandante giunse un suono più lamentoso ancora di quello del vento. Era come il
gemito di qualcuno che soffriva, e sembrava provenire da sotto un alto abete solitario, nel mezzo di un terreno non
cintato e incolto. Il puritano non poté trattenersi dal ricordare che era quello il luogo divenuto maledetto qualche ora
prima per l'esecuzione dei quaccheri, i cui cadaveri erano stati gettati insieme in una fossa frettolosamente scavata sotto
l'albero del loro supplizio. Ricacciò indietro, tuttavia, i timori superstiziosi propri di quell'epoca e si costrinse a fermarsi
e ad ascoltare.
«La voce è sicuramente umana, né avrei motivo di temere se così non fosse,» pensò il colono, aguzzando la
vista nel fioco chiarore della luna. «Mi sembra il pianto di un bambino, di un adolescente che ha perduto la mamma ed è
capitato per caso in questo luogo di morte. Per tranquillità della mia coscienza, devo andare a vedere».
Lasciò quindi il sentiero e, alquanto trepidante, si avventurò attraverso lo spiazzo. Il terreno, ora così desolato,
era stato nondimeno calpestato quel giorno dal migliaio di piedi di coloro che erano andati ad assistere allo spettacolo e
che ora se n'erano andati lasciando i morti alla loro solitudine. Il viandante arrivò infine all'abete che, dalla metà in su
era coperto di verdi fronde, anche se al di sotto era stato eretto il patibolo ed erano stati fatti gli altri preparativi per
l'opera di morte. Sotto questo funereo albero, che in epoche successive si diceva stillasse veleno insieme con la rugiada,
era seduta una figura solitaria che piangeva quel sangue innocente. Era un ragazzetto smilzo, vestito con abiti leggeri
che, col viso appoggiato su un cumulo di terra smossa e quasi gelata, gemeva amaramente, ma con voce soffocata, quasi
che il suo dolore potesse essere punito come un delitto. Il puritano, giunto accanto al bambino senz'essere udito, gli
posò una mano sulla spalla e gli si rivolse mosso da pietà.
«Hai scelto un ben lugubre rifugio, mio povero bambino, e non c'è quindi da meravigliarsi del tuo pianto», gli
disse. «Ma asciugati le lacrime, ora, e dimmi dove abita la tua mamma. Ti prometto che se la strada non è troppo lunga
ti riporterò questa sera stessa tra le sue braccia».
Il ragazzetto, che aveva subito smesso di piangere, alzò il viso verso lo sconosciuto. Era un viso pallido, con
occhi molto vivi, e certamente non doveva avere più di sei anni, anche se il dolore, la paura e il bisogno avevano
cancellato in gran parte la sua espressione infantile. Il puritano, nel vedere lo sguardo spaventato del fanciullo e nel
sentire che tremava sotto la sua mano, si sforzò di tranquillizzarlo.
«No, bambino, se volevo farti del male, non avevo che da lasciarti semplicemente qui. Ma come? Non temi di
stare seduto sotto una forca, sopra una tomba appena scavata, e invece tremi al tocco della mano d'un amico? Fatti
animo, figliolo, e dimmi come ti chiami e dov'è la tua casa».
«Amico», gli rispose il fanciullo, con voce dolce ma esitante, «il mio nome è Ilbrahim e la mia casa è qui».
Quel volto pallido e spirituale, quegli occhi che sembravano confondersi con il chiarore della luna, quella voce
dolce ed eterea, quel nome esotico indussero quasi il puritano a pensare che il ragazzetto fosse in realtà una creatura
sorta dalla stessa tomba su cui sedeva. Quando però si rese conto che l'apparizione non era svanita dopo una breve
preghiera recitata mentalmente, e che il braccio da lui toccato era quello di una persona viva, optò per un'ipotesi più
razionale. «Il povero bambino dev'essere toccato nel cervello», si disse, «ma le sue parole suonano davvero spaventose.22
in un luogo come questo». Poi riprese a parlare in tono dolce e pacato, cercando di assecondare le strane idee del
fanciullo.
«La tua casa è ben poco confortevole, Ilbrahim, in questa fredda notte d'autunno, e temo che tu non abbia di
che mangiare. Io mi sto affrettando verso una cena calda e un letto, e se verrai con me potrai avere la tua parte!».
«Ti ringrazio, amico, ma anche se sono affamato e tremo dal freddo, tu non mi darai né cibo né alloggio»,
rispose il ragazzetto con la voce pacata che la disperazione gli aveva insegnato, pur in così giovane età. «Mio padre era
della gente che tutti gli uomini odiano. L'hanno adagiato qui, sotto questo mucchio di terra, e qui è la mia casa».
Il puritano che aveva preso la mano del piccolo Ilbrahim, la lasciò subito andare come se avesse toccato un
rettile ripugnante. Aveva però un cuore capace di pietà, che nemmeno il pregiudizio religioso poteva indurire come la
pietra.
«Dio mi castighi se lascerò qui a perire questo bambino, anche se egli fa parte di quella dannata setta», disse
tra sé. «Non siamo tutti originati, forse, dalla stessa mala pianta? Non siamo tutti immersi nelle tenebre fin quando la
luce non risplenderà su di noi? No, questo bambino non perirà, né nel corpo né nell'anima se la preghiera e l'educazione
lo soccorreranno». Si rivolse allora con dolcezza a Ilbrahim, che aveva di nuovo nascosto il viso sulla fredda terra della
tomba, e a voce alta disse: «Ti è stata dunque chiusa ogni porta della terra, figliolo mio, per cercare rifugio in questo
luogo sconsacrato?».
«Mi hanno fatto uscire dalla prigione quando hanno portato qui mio padre», spiegò il ragazzo, «e da lontano ho
osservato la folla; poi, quando tutti se ne sono andati, sono venuto qui e ho trovato soltanto questa tomba. Ho capito che
qui dormiva mio padre e allora mi sono detto: "Questa sarà la mia casa!"».
«No, bambino mio, no, finché avrò un tetto sopra la testa e un boccone di pane da dividere con te!», esclamò il
puritano, acceso ora da una commossa simpatia. «Alzati, vieni con me, e non temere alcun male».
Il fanciullo scoppiò di nuovo in lacrime e si strinse al cumulo di terra, come se il freddo cuore lì sotto fosse per
lui più caldo d'ogni petto vivente. Il viandante continuò tuttavia a insistere dolcemente, così da acquistare un po' della
fiducia del bambino, che alla fine si alzò. Ma le sue gracili gambe vacillavano per la debolezza, e la testolina gli girava,
così che dovette appoggiarsi all'albero della morte per sostenersi.
«Sei così debole, mio povero bambino?», domandò il puritano. «Da quando non tocchi cibo?».
«Ho mangiato pane e acqua con mio padre in prigione», rispose Ilbrahim, «ma non gliene hanno portato né ieri
né oggi, dicendo che aveva mangiato a sufficienza per arrivare alla fine del viaggio. Ma non ti preoccupare, mio caro
amico, perché già tante altre volte il cibo mi è mancato».
Il viandante prese il bambino tra le braccia e lo avvolse dentro il suo mantello, mentre il cuore gli fremeva di
vergogna e di collera per la gratuita crudeltà che era strumento di quella persecuzione. Nel ridestato calore dei suoi
sentimenti, decise che, qualunque fosse il rischio, non avrebbe abbandonato il povero essere indifeso che il Cielo aveva
affidato alle sue cure. Con questa determinazione, l'uomo lasciò il campo maledetto e riprese la strada di casa dalla
quale l'aveva distolto il pianto del fanciullo. Il lieve e immobile fardello non gli intralciava quasi il cammino, e ben
presto scorse il riverbero del camino dalle finestre della fattoria che lui, nato in lontane regioni, aveva costruito nella
solitudine di quelle terre a occidente. La costruzione era circondata da una vasta distesa di terreno coltivato ed era
situata al riparo di una collina boscosa, come se lì si fosse nascosta in cerca di protezione.
«Guarda lassù, figliolo», disse il puritano a Ilbrahim, che teneva la debole testa reclinata sulla sua spalla. «Là
c'è la nostra casa».
Alla parola «casa» un brivido percorse da capo a piedi il bambino, che però continuò a restare in silenzio.
Pochi momenti dopo erano davanti alla porta della fattoria, e a essa il padrone di casa bussò, perché in quei tempi
lontani, in cui i selvaggi si aggiravano ovunque, spranga e chiavistello erano indispensabili per la sicurezza delle
abitazioni. Alla chiamata rispose uno schiavo, un pezzo d'uomo vestito rozzamente e privo d'espressione, e dopo essersi
accertato che era stato il padrone a bussare, gli aprì la porta e gli fece luce con una fiammeggiante torcia di legno di
pino. Più avanti, nel corridoio, la fiamma rossastra illuminò una donna d'aspetto matronale, ma non frotte di bambini
che correvano a salutare il ritorno del padre. Una volta entrato, il puritano scostò il mantello e mostrò alla donna il volto
di Ilbrahim.
«Dorothy, ecco un piccolo proscritto che la Provvidenza ha posto nelle nostre mani», disse l'uomo. «Sii buona
con lui, come se fosse uno di quei piccoli cari che ci hanno lasciato».
«Chi è questo pallido bambino dal vivido sguardo, Tobias?», domandò la donna. «È uno dei bambini che i
selvaggi hanno strappato alla loro madre cristiana?».
«No, Dorothy, questo povero bambino non era prigioniero dei selvaggi», rispose l'uomo. «I selvaggi pagani gli
avrebbero dato da mangiare del loro scarso cibo, e da bere nelle loro ciotole di betulla, ma i cristiani, ahimè, l'avevano
abbandonato alla morte».
Poi le raccontò come aveva trovato il piccolo sotto il patibolo, sulla tomba del padre, e come il cuore gli aveva
ordinato, simile a una voce dentro di sé, di portare a casa il piccolo proscritto e di essere buono con lui. Le comunicò la
sua decisione di nutrirlo e di vestirlo, come se fosse figlio suo, e di dargli l'educazione necessaria per contrastare i
perniciosi errori che erano stati instillati nella sua giovane mente. Dorothy, che era una donna di buon cuore ancor più
del marito, approvò senza riserve la sua condotta e le sue decisioni.
«Hai la mamma, figliolo?», domandò.
Le lacrime scoppiarono dal profondo del cuore del bambino, mentre tentava di rispondere, ma Dorothy, alla
fine, comp rese che egli aveva una madre la quale, al pari dell'altra gente di quella setta, andava raminga e perseguitata..23
La donna era stata portata fuori dalla prigione poco tempo prima e abbandonata nelle lande disabitate e selvagge, per
morirvi di fame o sbranata dagli animali feroci. Era questo un sistema non inconsueto per sbarazzarsi dei quaccheri, i
quali solevano affermare che gli abitanti del deserto erano più ospitali degli uomini civilizzati.
«Non temere, piccolino, non avrai più bisogno di una buona madre», gli disse Dorothy quando ebbe saputo
tutto ciò. «Asciugati le lacrime, Ilbrahim, e sii il mio figliolo, come io sarò la tua mamma».
La buona donna gli preparò poi il lettino, dal quale i suoi figli erano stati portati via, a uno a uno, per un altro
luogo di riposo. Prima di acconsentire a occuparlo, Ilbrahim volle inginocchiarsi, e Dorothy, nell'ascoltare la sua
semplice e commovente preghiera, si domandò com'era possibile che fossero stati giudicati meritevoli di morte i
genitori che gliel'avevano insegnata. Quando il bambino si fu addormentato, ella si chinò sulla sua smunta e spirituale
figura, e impresse un bacio sulla pallida fronte, gli rincalzò le coperte intorno al collo e uscì con una malinconica gioia
nel cuore.
Tobias Pearson non era stato tra i primi emigrati dal vecchio continente. Era rimasto in Inghilterra durante i
primi anni della Guerra civile, nella quale aveva avuto una certa parte come alfiere dei dragoni sotto Cromwell. Quando
però gli ambiziosi progetti del suo capo cominciarono a rivelarsi appieno, Pearson aveva abbandonato l'esercito del
Parlamento, cercando rifugio lontano dalla battaglia, che non era più santa, tra la gente della sua fede nella colonia del
Massachusetts. La sua decisione era stata forse influenzata anche da una più pratica considerazione, perché il New
England offriva qualche vantaggio materiale agli uomini di scarse fortune, così come a quelli insoddisfatti per motivi
religiosi, e Pearson aveva fino ad allora provveduto con difficoltà a una moglie e a una famiglia sempre più numerosa.
A questa presunta impurità delle motivazioni i puritani più bigotti tendevano a imputare la dipartita di tutti i suoi figli,
del cui bene terreno il padre si era eccessivamente preoccupato. Essi avevano lasciato il loro paese natio fiorenti come
rose, e come rose erano appassiti in terra straniera. Questi interpreti dei piani della divina Provvidenza, che avevano in
quel modo giudicato il loro fratello e attribuito ai suoi peccati i suoi dolori familiari, non si mostrarono più
misericordiosi quando videro che lui e Dorothy cercavano di colmare il vuoto dei loro cuori adottando un figlio della
setta maledetta. Né mancarono di esprimere la loro disapprovazione a Tobias il quale, come risposta, si limitava a
indicare semplicemente quel bambino dolce e gentile, il cui aspetto, la cui condotta costituivano il più valido argomento
tra quanti potevano essere addotti in suo favore. Ma perfino la sua bellezza e i suoi modi accattivanti producevano a
volte un effetto alla fine sfavorevole perché i bigotti, una volta raddolcita la superficie esterna dei loro cuori di pietra,
tornavano a indurirla e affermavano che nessuna causa semplicemente naturale avrebbe potuto produrre su loro un
simile effetto.
La loro antipatia nei confronti del povero bambino era accresciuta anche per l'insuccesso di svariate discussioni
teologiche con le quali avevano tentato invano di convincerlo degli errori della sua setta. In verità, Ilbrahim non era un
abile contraddittore, ma il senso della sua religione era in lui radicato e istintivo, e non era possibile distoglierlo, né con
le lusinghe né in altro modo, dalla fede per cui suo padre era morto. L'astio suscitato da questa ostinazione ricadeva in
gran parte anche sui protettori del bambino, tanto che Tobias e Dorothy cominciarono ben presto a conoscere una delle
più amare forme di persecuzione, ovvero il raffreddarsi dei rapporti con molti amici che avevano avuto cari. L'altra
gente manifestava in modo anche più aperto le sue opinioni. Pearson era un uomo d'un certo rispetto, in quanto
rappresentante alla Corte generale e stimato tenente della milizia, eppure a una settimana di distanza dall'adozione di
Ilbrahim era additato al pubblico ludibrio. E una volta, mentre camminava per un bosco solitario, udì perfino una
persona che, non vista, gli gridava ad alta voce: «Che cosa ne faremo del rinnegato? Sì! La sferza è bell'e pronta per lui,
e anche lo staffile a nove code, e ogni coda tre nodi!». Questi insulti infastidivano Pearson sul momento, ma poi gli
entrarono anche nel cuore, divenendo agenti impercettibili ma assai efficaci verso un fine che nemmeno nel suo intimo
osava ancora immaginare.
Giunta la seconda domenica da quando Ilbrahim era divenuto membro della loro famiglia, Pearson e sua
moglie ritennero opportuno che il ragazzo partecipasse con loro a una cerimonia religiosa pubblica. Da parte del
ragazzo avevano previsto qualche resistenza, ma questi si preparò in silenzio, e all'ora convenuta si fece trovare vestito
di tutto punto col nuovo abito a lutto che Dorothy gli aveva preparato. A quel tempo, e per molti anni in seguito, la
chiesa era sprovvista di campane, e quindi il segnale d'inizio del rito religioso era dato col rullo del tamburo. Al primo
rullo di quell'appello marziale al luogo di sante e quiete meditazioni, Tobias e Dorothy si misero in cammino, tenendo
ciascuno per una mano il piccolo Ilbrahim, come due genitori uniti insieme dal frutto del loro amore. Strada facendo
attraverso i boschi brulli, si imbatterono in molte persone di loro conoscenza, e tutti li scansarono passando dall'altra
parte, ma la loro tenacia doveva essere messa ancora a più dura prova quando, discesa la collina, si avvicinarono alla
disadorna casa di preghiera costruita in legno di pino. Ai lati della porta, sulla quale il tamburino lanciava ancora i suoi
roboanti richiami, era schierata una compatta falange composta da parecchi dei membri più anziani della congregazione,
da molti membri di mezza età e da quasi tutti i maschi più giovani. Pearson sostenne a fatica il loro unanime sguardo di
disapprovazione, ma Dorothy, che era di mentalità diversa, trasse il bambino più stretto a sé e non esitò nell'avvicinarsi.
Varcata la soglia, udirono dietro di sé i mormorii del crocchio, e quando le voci ingiuriose dei più piccoli percossero le
orecchie di Ilbrahim, questi scoppiò a piangere.
L'interno della casa di culto era squallido. Il soffitto basso, i muri non intonacati, le nude travi di legno, e il
pulpito spoglio di addobbi non offrivano niente che stimolasse la devozione, la quale, senza questi rinforzi esteriori,
spesso rimane latente nel cuore. Il pavimento era occupato da lunghe file di comuni panche non imbottite, che.24
sostituivano i banchi, mentre l'ampio corridoio formava una barriera di divisione tra i sessi, invalicabile se non da
bambini al di sotto di una certa età.
Pearson e Dorothy si divisero sulla soglia della chiesa, e Ilbrahim, non avendo superato l'età dell'infanzia,
rimase insieme con quest'ultima. Le beghine rugose si imbacuccarono nei loro scialli polverosi quando il bambino passò
loro accanto, e perfino le giovinette di mite aspetto sembrarono temere d'esserne contaminate, mentre molti vecchi
arcigni si alzavano in piedi e voltavano la faccia disgustata e disumana verso il povero bambino, come se il santuario
fosse profanato dalla sua presenza. Egli era un dolce fanciullo dei cieli che aveva perduto la strada di casa, ma tutti
quanti gli abitanti di questo miserabile mondo gli chiudevano i loro cuori impuri, ritiravano i loro abiti sporchi di terra
al suo contatto e dicevano: «Noi siamo più mondi di te».
Ilbrahim, seduto a fianco della sua madre d'adozione e tenendola stretta per mano, prese un contegno grave e
dignitoso, quale si conviene a una persona di gusto e d'intelligenza maturi che trovandosi in un tempio dedicato a un
culto che non riconosce, si sente nondimeno in dovere di rispettarlo. Il rito non era ancora iniziato quando l'attenzione
del bambino fu richiamata da un episodio apparentemente insignificante. Una donna, col viso coperto dal cappuccio e la
figura interamente avvolta nel mantello, avanzò lentamente lungo l'ampio corridoio per andare a prendere posto nella
prima panca. Il pallore di Ilbrahim si accese, i suoi nervi fremettero, mentre lo sguardo non riusciva a distogliersi dalla
donna incappucciata.
Al termine della preghiera introduttiva e dell'inno, il pastore si alzò e, dopo aver capovolto la clessidra posta a
fianco di una grossa Bibbia, iniziò il suo sermone. Ormai provato dagli anni, questi era un uomo pallido e magro
d'aspetto, con capelli grigi accuratamente coperti da una papalina di velluto nero. In gioventù aveva conosciuto per
diretta esperienza il significato della parola «persecuzione» dall'arcivescovo Laud, e non era disposto ora a dimenticare
la lezione contro la quale egli stesso aveva borbottato a quel tempo. Introdotta la dibattutissima questione dei quaccheri,
tracciò la storia di quella setta e fece l'esposizione delle loro dottrine, nelle quali l'errore predominava e il pregiudizio
distorceva l'aspetto di ciò che era vero. Vo lse poi l'attenzione ai recenti provvedimenti adottati nella provincia e mise in
guardia i suoi ascoltatori più sensibili dal dubitare della giusta severità che magistrati timorati di Dio erano stati costretti
alla fine ad applicare. Parlò dei pericoli della pietà, in alcuni casi una virtù lodevole e cristiana, ma non applicabile a
quella setta nefasta. Osservò che tale era la loro diabolica pervicacia nell'errore che perfino i bambini piccoli, e perfino i
lattanti erano da considerarsi eretici irrecuperabili. Affermò che nessuno, senza un particolare mandato del Cielo,
doveva tentare la loro conversione per non precipitare a sua volta nel baratro, mentre tendeva loro la mano per trarli dal
pantano.
I granelli di sabbia della seconda ora erano per la maggior parte nella metà inferiore della clessidra quando il
sermone ebbe fine. Seguì un mormorio di approvazione, poi il pastore, dopo aver intonato l'inno, prese posto a sedere
molto soddisfatto di sé, tentando di leggere sui volti degli ascoltatori gli effetti della sua eloquenza. Mentre le voci da
ogni parte dell'edificio si apprestavano a intonare il canto, avvenne però un fatto che, pur non essendo molto insolito in
quel periodo nella provincia, non aveva precedenti in quella parrocchia.
La donna incappucciata, che fino a quel momento era rimasta a sedere immobile in prima fila, si alzò e con
passo lento, solenne e sicuro salì i gradini del pulpito. I tremuli accordi dell'incipiente armonia subito si zittirono e il
predicatore rimase seduto senza parola, in preda a un attonito stupore, mentre la donna apriva il cancelletto e saliva sul
sacro palco dal quale egli aveva poco prima tuonato le sue maledizioni. Poi la donna si spogliò del mantello e del
cappuccio e si mostrò in un singolare abbigliamento. Un'informe tunica di tela di sacco le era cinta intorno alla vita da
una corda annodata, i capelli corvini le ricadevano giù per le spalle con striature grigiastre della cenere con cui si era
cosparsa la testa. Le sopracciglia, nere e marcate, facevano risaltare il mortale pallore di un viso che, emaciato dalle
privazioni e acceso dall'esaltazione e da non comuni dolori non mostrava più traccia della primitiva bellezza. La figura
rimase a fissare intensamente il pubblico ammutolito e immobile, percorso soltanto dal lieve tremito che ciascuno
percepiva nel proprio vicino, ma quasi non avvertiva dentro di sé. Alla fine, presa dallo slancio dell'ispirazione, la
donna parlò, dapprima a bassa voce e con pronuncia non sempre chiara. Il suo discorso rivelava una fantasia
aggrovigliata senza speranza con la ragione; era una confusa, incomprensibile rapsodia che nondimeno sembrava
propagare la sua atmosfera sull'anima dell'ascoltatore e scuotere i suoi sentimenti per una qualche influenza disgiunta
dalle parole. Mentre la donna proseguiva il discorso, balenavano talvolta belle e ombrose immagini, come oggetti
splendenti che si muovono in un torbido corso d'acqua, oppure balzava fuori un'idea forte e singolarmente espressa che
faceva breccia nella mente e nel cuore insieme. Ma la sua eloquenza quasi sovrannaturale ben presto la condusse, nel
suo svolgersi, alle persecuzioni subite dalla sua setta, e di qui il passo ai suoi personali dolori fu breve. Era per natura
una donna di possenti passioni, e l'odio e la vendetta si annidavano tra le pieghe del manto della pietà; poi il carattere
del suo discorso si mutò, le immagini, seppur esasperate, si fecero più chiare, e le denunce presero un tono quasi
diabolicamente amaro.
«Il governatore e i suoi potenti», disse la donna, «si sono riuniti, si sono consigliati tra loro, si sono domandati:
che cosa faremo di questa gente, e di tutta la gente che è venuta in questa terra per far arrossire di vergogna le nostre
iniquità? Ed, ecco!, il diavolo che entra nella camera di consiglio, ha l'aspetto d'un uomo basso e zoppicante, è
compuntamente abbigliato, ha espressione tetra e perversa, con occhi scintillanti e sfuggenti. E si aggira tra i governanti,
va avanti e indieto, sussurrando qualcosa a ciascuno e ciascuno gli presta orecchio, perché la sua parola è questa:
"Ammazza! Ammazza!". Ma io vi dico: Sventura a coloro che ammazzano! Sventura a coloro che versano il sangue dei
santi! Sventura a coloro che hanno assassinato il marito e condannato il figlio, il tenero adolescente, a vagare senza
casa, nella fame e nel freddo, fino alla morte, a coloro che hanno risparmiato la vita alla madre, nella crudeltà della loro.25
misericordia! Sventura a loro nel corso della vita, maledetti siano nei piaceri e nella dolcezza del loro cuore! Sventura a
loro nell'ora della morte, sia che avvenga all'improvviso, nel sangue e nella violenza, o dopo lunghi e lenti tormenti!
Sventura nella casa delle tenebre, nella putrefazione della tomba, quando i figli dei figli oltraggeranno le ceneri dei
padri! Sventura, sventura, sventura, fino al giorno del giudizio, quando tutti i perseguitati e tutti gli uccisi in questa terra
grondante di sangue, e il padre, la madre e il figliolo li attenderanno in un giorno che essi non possono sfuggire!
Sementi della fede, voi, sementi della fede, voi che sentite i cuori mossi da una forza sconosciuta, su alzatevi, lavate le
vostre mani di questo sangue innocente! Fate sentire le vostre voci, o prescelti, gridate forte, invocate con me la
punizione e la giustizia!».
Dopo aver dato sfogo alla piena dei suoi astiosi sentimenti che scambiava per ispirazione, la donna rimase in
silenzio. Alla sua voce fecero seguito le grida isteriche di alcune donne, ma in generale i sentimenti del pubblico non
furono trascinati dalla corrente con quelli della donna. I presenti rimasero attoniti, come incagliati nel mezzo di un
torrente che li assordava con il suo ruggito ma non li trascinava con la sua violenza. Il pastore, che fino a quel momento
non avrebbe potuto estromettere l'intrusa dal pulpito se non con la forza fisica, ora le si rivolse col tono della giusta
indignazione e della legittima autorità.
«Scendi di lì, donna, scendi dal sacro luogo che profani», le intimò. «È qui, nella casa del Signore, che vieni a
dar sfogo alla perfidia del tuo cuore e all'ispirazione del demonio? Scendi di lì, e ricorda che la condanna a morte ti
pende sul capo, sì, e sarai giustiziata, non foss'altro per quello che hai fatto quest'oggi!».
«Me ne vado, amico, me ne vado, ora che la mia voce ha avuto eco», gli rispose la donna, con tono rassegnato,
perfino mite. «Ho compiuto la mia missione verso te e verso la tua gente, e ora ricompensatemi con le frustate, con la
prigione o la morte, come vi sarà concesso».
La debolezza succeduta all'esaurirsi della passione fece vacillare i suoi passi mentre scendeva i gradini del
pulpito. Gli astanti, nel frattempo, si agitavano avanti e indietro per la chiesa, mormoravano tra loro e lanciavano
occhiate verso l'intrusa. Molti di loro riconobbero allora in lei la donna che aveva aggredito il Governatore con inaudito
linguaggio, mentre questi passava sotto la finestra della sua prigione, e ricordarono anche che era stata giudicata
meritevole di morte e che era stata poi salvata soltanto per essere deportata nel deserto. Il nuovo oltraggio, col quale
aveva voluto segnare il suo destino, sembrava rendere impossibile ulteriore indulgenza nei suoi confronti. Un uomo in
uniforme militare, seguito da un altro più robusto di rango inferiore, si avviò verso la porta del tempio dove rimase ad
attenderla. La donna aveva però appena messo piede sul pavimento quando avvenne una scena imprevista. In quel
momento di pericolo, mentre gli sguardi di tutti chiedevano corrucciati la morte, un piccolo, timido bambino si fece
avanti e gettò le braccia al collo della madre.
«Sono qui, madre mia, sono io, e verrò con te in prigione», esclamò il bambino.
La donna lo scrutò con espressione sconcertata, quasi sgomenta, perché sapeva che il suo bambino era stato
abbandonato alla morte e non sperava più di rivedere il suo viso. Temeva, forse, che fosse soltanto una delle felici
allucinazioni con cui la sua fantasia esaltata l'aveva spesso ingannata nella solitudine del deserto o del carcere. Ma
quando sentì la mano calda del bambino nella propria e udì le brevi parole del suo amore infantile, cominciò a capire
che era ancora madre.
«Che tu sia benedetto, figlio mio», singhiozzò la madre. «Il mio cuore era appassito, sì, era morto con te e con
tuo padre, e ora mi batte come nel primo momento che ti ho stretto al seno».
Si inginocchiò e lo abbracciò ancora e ancora, mentre la gioia, che non trovava parole per esprimersi, si
manifestava in accenti spezzati, come bolle d'acqua che affiorano e scompaiono sulla superficie di una più profonda
sorgente. I tormenti del passato e il più cupo pericolo che incombeva ora su di lei non gettavano alcuna ombra sulla luce
di quel momento fuggevole. Ben presto, però, gli spettatori videro mutare l'espressione del suo viso, come se vi fosse
riaffiorato il ricordo della sua triste condizione, e fosse il dolore ad alimentare la fonte delle lacrime che la gioia aveva
fatto sgorgare. E le parole che pronunciò fecero pensare che il naturale amore a cui si era abbandonata le avesse dato
momentaneamente la coscienza degli errori commessi, facendole capire quanto si fosse allontanata dal dovere per
seguire i dettati di un inconsulto fanatismo.
«In un'ora dolorosa sei ritornato, mio povero bambino», disse la donna, «perché la strada della tua mamma si è
andata rabbuiando sempre più finché ora la sua mèta è la morte. Figlio, figlio mio, ti ho tenuto tra le braccia quando le
mie gambe vacillavano, ti ho nutrito con il mio cibo quando mi sentivo svenire, eppure sono stata in vita una cattiva
madre per te e ora non ti lascio altra eredità che la sventura e la vergogna. Per quanto cercherai nel mondo, troverai tutti
i cuori chiusi per te e i più dolci affetti tramutati in amari sentimenti per colpa mia. Figlio mio, figlio mio, quante
sofferenze attendono il tuo dolce animo, e io sono la causa di tutto!».
Nascose il viso sopra la testa di Ilbrahim e i suoi lunghi capelli corvini, sbiaditi dalla cenere della penitenza,
calarono su di lui come un velo. Un gemito sordo e spezzato fu la voce dello strazio del suo cuore, e non mancò di
suscitare la commozione di molti che considerarono un peccato la loro involontaria virtù. Singhiozzi si udivano
provenire dalla parte della chiesa riservata alle donne, e ogni uomo che fosse padre teneva la mano sugli occhi. Tobias
Pearson era inquieto e a disagio, ma un certo sentimento come di colpa lo opprimeva, così che non poteva farsi avanti e
presentarsi come protettore del bambino. Dorothy aveva invece osservato lo sguardo del marito, e avendo la mente
sgombra dall'influenza che aveva cominciato a farsi sentire in lui, si avvicinò alla donna quacchera e si rivolse a lei
facendosi udire da tutta la congregazione.
«Straniera», le disse prendendo la mano di Ilbrahim, «affidami questo bambino, e io gli farò da madre. La
Provvidenza ha designato chiaramente mio marito a proteggerlo, ed egli ha mangiato alla nostra tavola, ha alloggiato.26
sotto il nostro tetto, già da molti giorni ormai, finché i nostri cuori si sono molto affezionati a lui. Lascia a noi questo
tenero fanciullo e stai tranquilla per quanto concerne il suo benessere».
La donna quacchera si alzò da terra, ma stringendo ancor più il bambino, mentre guardava Dorothy fissamente
in volto. I suoi lineamenti, dolci ma tristi, erano in armonia con il suo abbigliamento severo e matronale, e insieme
componevano quasi un verso di poesia domestica. Il suo stesso aspetto dimostrava che, per quanto mortale, era senza
pecca davanti a Dio e agli uomini mentre la fanatica, rivestita della sua tunica di sacco legata dalla corda annodata,
aveva violato, con altrettanta evidenza, i doveri della vita presente e futura, concentrandosi esclusivamente su
quest'ultima. Le due donne, che tenevano ciascuna una mano di Ilbrahim, formavano una vivente allegoria: da una parte
la ragione e la pietà, dall'altra il fanatismo senza freni si contendevano il dominio di un piccolo cuore.
«Tu non sei della nostra gente», disse poi malinconicamente la donna quacchera.
«No, noi non siamo della tua gente», rispose Dorothy con dolcezza, «ma siamo cristiani e guardiamo come te
allo stesso Cielo. Non dubitare, il tuo bambino ti incontrerà lassù se sarà benedetta l'amorosa e devota educazione che
gli impartiremo. Lassù, ne sono sicura, sono saliti i miei figli prima di me, perché anch'io sono stata madre. Ora non lo
sono più», soggiunse con voce tremante, «e tuo figlio avrà tutte le mie cure».
«Ma tu lo guiderai lungo il sentiero che i suoi genitori hanno percorso?», domandò la quacchera. «Saprai
insegnargli la fede luminosa per la quale suo padre è morto, per la quale anch'io devo divenire tra breve un'indegna
martire? Il bambino è stato battezzato nel sangue: conserverai questo marchio rosso e vivo sulla sua fronte?».
«Non voglio ingannarti», rispose Dorothy. «Se tuo figlio diventerà nostro figlio, dobbiamo crescerlo secondo
gli insegnamenti che ci sono stati impartiti dal Cielo; dobbiamo recitare con lui le preghiere della nostra fede; dobbiamo
agire nei suoi confronti secondo i dettami della nostra coscienza, e non della tua. Se facessimo diversamente,
tradiremmo la tua fiducia, pur rispettando i tuoi desideri».
La madre abbassò lo sguardo sul suo figliolo, tormentata, poi alzò gli occhi verso il cielo. Sembrò pregare in
cuor suo, con l'animo evidentemente dibattuto.
«Amica», disse alla fine a Dorothy, «non dubito che mio figlio riceverà dalle tue mani tutta l'umana tenerezza.
Voglio credere anche che la tua luce imperfetta possa guidarlo verso un mondo migliore, perché tu sei di certo su quella
strada. Ma tu hai parlato di tuo marito. Egli è qui, in mezzo a questa moltitudine? Che si faccia avanti, allora, perché io
devo conoscere la persona a cui affido questa preziosissima eredità».
Si volse verso il gruppo degli uomini, e dopo un attimo d'indugio Tobias Pearson si fece avanti in mezzo a
loro. La donna quacchera vide subito l'uniforme che ne rivelava il grado militare e scrollò il capo, ma poi si accorse
della sua espressione esitante, degli occhi che si incontravano timidamente con i suoi e che, incerti, non sapevano dove
posarsi. E mentre lo osservava, un sorriso privo di gioia le si distese sul viso, come un raggio di sole che si fa strada
malinconicamente in qualche landa desolata. Le sue labbra si schiusero senza parlare, poi alla fine disse:
«La sento, la sento. La voce parla dentro di me e dice: "Lascia il bambino, Catharine, perché il suo posto è qui,
e vai oltre perché ho altri compiti da affidarti. Spezza i vincoli dei naturali affetti, sacrifica il tuo amore, e sappi che in
tutto ciò la saggezza eterna ha i suoi fini". Ora vado, amici, vado. Prendete voi il mio figliolo, il mio gioiello prezioso.
Io vado oltre, sicura che tutto andrà bene e che nella vigna ci sarà lavoro anche per queste mani di fanciullo».
Poi si inginocchiò e sussurrò all'orecchio di Ilbrahim, il quale, dapprima, si aggrappò disperatamente alla
madre, con singhiozzi e lacrime, ma rimase poi calmo e rassegnato quando ella gli ebbe baciato la guancia e si fu alzata
da terra. Poi, dopo avergli posto le mani sul capo, in una muta preghiera, la donna si preparò a partire.
«Addio, amici, nel mio momento estremo», disse poi a Pearson e a sua moglie, «la buona azione che mi avete
reso è un tesoro depositato in cielo, che vi sarà ripagato mille volte nel futuro. E addio anche a voi, miei nemici, che non
siete degni né di torcermi un capello né di stare ai miei piedi nemmeno per un attimo. Giorno verrà che sarete chiamati
davanti a me a discolparvi di questo peccato, e allora io mi alzerò e risponderò».
Poi volse i suoi passi verso la porta, e gli uomini che vi si erano posti di guardia si fecero da parte e la
lasciarono uscire loro malgrado. Un generale sentimento di pietà aveva avuto la meglio sulla virulenza dell'odio
religioso. Santificata dal suo amore e dal suo dolore, la donna si allontanò e tutti rimasero a guardarla, finché, salita la
collina, scomparve alla vista dietro la sua cresta. Se ne andò così, apostolo del suo stesso cuore inquieto, a riprendere le
peregrinazioni degli anni trascorsi. La sua voce, infatti, era già stata udita in molte regioni della Cristianità, e il suo
corpo aveva languito nelle celle dell'Inquisizione cattolica, prima ancora di conoscere la sferza e il carcere dei puritani.
La sua missione era arrivata anche tra i seguaci del Profeta, e da essi aveva avuto l'attenzione e il rispetto che tutte le
sette contendenti della nostra religione più pura le avevano negato. Suo marito e lei avevano soggiornato per molti mesi
in Turchia, dove lo stesso sultano aveva mostrato loro la sua simpatia; in quella terra pagana era anche nato Ilbrahim, e
il suo nome orientale era appunto un segno di riconoscimento delle buone azioni compiute da un miscredente.
Quando Pearson e sua moglie ebbero così acquisito tutti quei diritti su Ilbrahim che potevano essere delegati, il
loro affetto per lui diventò, al pari del ricordo della terra natia e del quieto dolore per i loro morti, una parte inalienabile
dei loro cuori. E anche il bambino, dopo una o due settimane di inquietudine, cominciò a contraccambiare i suoi
protettori rivelando con molti gesti spontanei che li considerava come genitori e la loro casa come la sua. Prima che
fosse sciolta la neve dell'inverno, il piccolo perseguitato, l'esule di un lontano paese pagano, sembrava nato in quella
fattoria del New England e inseparabile dal calore e dalla sicurezza del suo focolare. Per effetto di questa tenerezza e
per la consapevolezza d'essere amato, quella precoce maturità indotta dalla sua precedente condizione andò
scomparendo nel comportamento di Ilbrahim, che diventò più infantile e poté rivelare liberamente il suo carattere.27
naturale. Era sotto molti aspetti un bel bambino, anche se le disordinate fantasie dei suoi genitori, del padre come della
madre, avevano forse lasciato una certa instabilità nella sua mente. In generale, Ilbrahim trovava motivo di piacere nelle
cose più insignificanti che accadevano e in ogni oggetto che aveva intorno, e sembrava scoprire grandi tesori di felicità
grazie a una facoltà analoga a quella dell'amamelide, che usano i rabdomanti per scoprire l'acqua nascosta dove tutto
appare sterile all'occhio. La sua briosa gaiezza, che egli derivava da mille occasioni, si propagava alla famiglia, per la
quale Ilbrahim era come un domestico raggio di sole che illuminava i visi crucciati e scacciava le tenebre dagli angoli
bui della casa.
D'altro canto, essendo la sensibilità alla felicità anche quella che ispira il dolore, l'esuberante allegria
prevalente nel ragazzo cedeva talvolta a momenti di cupo sconforto. Non sempre era possibile risalire all'origine di
questi momenti di afflizione, ma spesso, anche se Ilbrahim era ancora troppo giovane per rattristarsi per simili cause,
sembravano aver origine da un amore ferito. L'esuberanza di questa allegria lo faceva spesso eccedere dai limiti del
decoro di una casa puritana, e in queste occasioni non sempre Ilbrahim sfuggiva al rimprovero. Ma la minima parola
realmente aspra, che egli sapeva distinguere infallibilmente dalla collera simulata, sembrava pesargli sul cuore e
avvelenargli tutti i piaceri fin quando non si rendeva conto d'esser stato completamente perdonato. Della malizia che
solitamente si accompagna a una superficiale sensibilità Ilbrahim era completamente sprovvisto: se mortificato, non si
risollevava; se ferito, non poteva che morire. Il suo spirito mancava di quella forza che dà la sicurezza di sé: era come
un arbusto che fiorisce splendidamente quando è avvolto a un fusto più robusto, ma se viene respinto o strappato non gli
resta che avvizzire a terra. Con la sua perspicacia, Dorothy comprese che la severità avrebbe soffocato l'intelligenza del
fanciullo, e lo nutrì quindi con la delicatezza di chi tiene in mano una farfalla. Suo marito dimostrava un uguale affetto
anche se questo diventava ogni giorno meno prodigo di carezze.
I sentimenti dei vicini nei confronti del piccolo quacchero e dei suoi protettori non erano favorevolmente
mutati, anche se l'infelice madre era riuscita a conquistare momentaneamente le loro simpatie. Il disprezzo e l'astio di
cui era oggetto pesavano molto su Ilbrahim, soprattutto quando egli capiva da qualche episodio che i bambini suoi
coetanei condividevano l'ostilità dei genitori. Il suo carattere tenero e socievole traboccava d'affetto per tutto ciò che
aveva intorno, eppure restava in lui un residuo d'amore non speso che bramava rivolgere ai piccoli che imparavano
invece a odiarlo. Quando arrivarono i tiepidi giorni di primavera, Ilbrahim prese l'abitudine di restare da solo per ore e
ore, silenzioso e in disparte, ad ascoltare le voci degli altri bambini che giocavano, ma con la sua consueta delicatezza di
sentimenti evitava di farsi notare da loro, e anzi li sfuggiva e si nascondeva al più piccolo tra loro. Il caso, tuttavia,
sembrò aprirgli alla fine una via di comunicazione tra il suo cuore e il loro, e l'occasione si presentò nella persona di un
ragazzo di un paio d'anni più grande di lui, che si ferì cadendo da un albero in prossimità della casa dei Pearson.
Essendo un po' lontana l'abitazione di questo ragazzo, Dorothy lo accolse ben volentieri sotto il suo tetto e ne divenne la
premurosa e sollecita infermiera.
Ilbrahim possedeva un notevole intuito, senza saperlo, in fatto di fisionomie, e questo l'avrebbe sconsigliato, in
altre circostanze, di tentare di diventare amico di questo ragazzo. L'aspetto di quest'ultimo, infatti, impressionava subito
sfavorevolmente chi l'osservava, e bastava poco per comprendere che la causa era dovuta a una leggera distorsione della
bocca, ai lineamenti irregolari e sconnessi, alla linea quasi congiunta delle sopracciglia. Analoghe, forse, a queste lievi
deformità, aveva impercettibili storture delle articolazioni e un'insolita prominenza del petto, e tutto ciò formava un
corpo quasi regolare nell'insieme, ma pieno di piccole imperfezioni. Il carattere del ragazzo era inoltre chiuso e
scontroso, e il maestro del villaggio lo giudicava ottuso, anche se negli anni successivi avrebbe rivelato ambizioni e
particolari attitudini. Tuttavia, nonostante queste imperfezioni fisiche e morali, Ilbrahim gli si affezionò subito, fin dal
momento in cui il ragazzo fu portato ferito alla fattoria: il fanciullo perseguitato sembrò allora confrontare il suo destino
con quello dell'infermo e avvertire una sorta di affinità tra loro, che disgrazie d'origine diversa avevano costituito.
Trascurando il cibo, il riposo e l'aria aperta, di cui aveva tanto bisogno, Ilbrahim prese posto al capezzale dell'estraneo,
e con affettuosa perseveranza si sforzò di essere il tramite di tutte le cure e le attenzioni che gli venivano prodigate.
Quando il ragazzo entrò in convalescenza, Ilbrahim escogitava giochi adatti alle sue condizioni, o lo divertiva con una
sua particolare dote che aveva forse respirato con l'aria del suo selvaggio paese natale. Era la dote di raccontare
fantasiose avventure inventate sul momento, e in successione apparentemente inesauribile. Naturalmente i suoi racconti
erano assurdi, incongruenti e insensati, ma erano sottesi da una curiosa venatura di umanità e di tenerezza che sembrava
un dolce viso familiare incontrato nel mezzo di uno scenario selvaggio e irreale. L'ascoltatore prestava molta attenzione
a questi racconti e talvolta li interrompeva con brevi osservazioni su questo o quell'episodio che rivelavano una
sottigliezza superiore ai suoi anni e insieme un'ambiguità morale che strideva aspramente con l'innata rettitudine di
Ilbrahim. Nulla poteva però scoraggiare l'affetto di quest'ultimo, e mo lti sintomi rivelavano che trovava risposta
nell'animo oscuro e chiuso del ragazzo cui era rivolto. Infine, i genitori del ragazzo lo riportarono sotto il loro tetto per
terminare le cure.
Ilbrahim non andò a far visita al nuovo amico dopo la sua partenza, ma continuò a chiedere ansiosamente
notizie di lui e del giorno in cui sarebbe ricomparso tra i suoi compagni di giochi. In un bel pomeriggio estivo, i ragazzi
del vicinato si erano raccolti in un piccolo spiazzo circondato dalla foresta, dietro alla chiesa, e tra loro c'era anche il
piccolo infermo, ormai in via di guarigione, che si appoggiava a un bastone. L'allegria che scaturiva da una ventina di
petti ancora puri si faceva udire in voci argentine e squillanti, che si rincorrevano tra gli alberi come raggi di sole
divenuti udibili; e gli adulti di questo stanco mondo, passando lì vicino, si domandavano meravigliati perché la vita,
iniziata in tanta letizia, dovesse poi proseguire nella malinconia, ed erano i cuori o la fantasia a rispondere loro che
l'incanto della fanciullezza ha origine dall'innocenza. Ma avvenne poi che la piccola e allegra brigata si accrebbe.28
inaspettatamente. Era Ilbrahim che si faceva incontro ai ragazzi con un'espressione di dolce sicurezza sul suo bel viso
spirituale come se, avendo manifestato il suo affetto a uno di loro, non avesse più da temere d'essere respinto dalla sua
compagnia. Il silenzio calò sulle voci gioiose dei bambini, nel momento stesso in cui lo riconobbero, e cominciarono
allora a confabulare tra loro mentre Ilbrahim si avvicinava, poi il demone dei loro genitori entrò nel cuore degli
scatenati, e lanciando grida acute e feroci si avventarono contro il povero bambino quacchero. In un attimo, Ilbrahim si
trovò nel mezzo di una turba di piccoli spietati nemici che alzavano bastoni contro di lui e lo colpivano con pietre,
mostrando un istinto di distruzione molto più ripugnante della sete di sangue degli adulti.
Il piccolo infermo, che nel frattempo si era tenuto in disparte dalla ressa, gridava intanto ad alta voce: «Non
aver paura, Ilbrahim, vieni qui e prendimi per mano». Dopo aver osservato con calmo sorriso e senza batter ciglio
l'infelice amico che si sforzava faticosamente di raggiungerlo, il piccolo farabutto sollevò poi il suo bastone e colpi
Ilbrahim sulla bocca così forte che il sangue gli sgorgò a fiotti. Il poverino, che teneva le mani sulla testa per ripararsi
dai colpi, le lasciò allora ricadere subito. Poi i piccoli aguzzini si accanirono sul poveretto caduto a terra, calpestandolo
e trascinandolo per i lunghi capelli biondi. Ilbrahim stava per diventare un autentico martire, tra quanti sono mai entrati
sanguinanti in cielo, se il tumulto non avesse richiamato l'attenzione delle persone vicine, le quali si diedero la pena di
soccorrere il piccolo eretico e di portarlo alla porta di casa dei Pearson.
Se le lesioni fisiche subite da Ilbrahim erano gravi, lunghe e amorose cure resero possibile la sua guarigione,
ma il male arrecato al suo animo sensibile era ancora più grave, anche se meno visibile. Le sue manifestazioni erano
soprattutto negative, e potevano essere percepite soltanto da coloro che l'avevano conosciuto in precedenza. Il
comportamento del bambino fu da quel momento tardo, uniforme e immutato da quegli improvvisi accessi di vivacità
che un tempo corrispondevano alla sua straripante allegria; il suo contegno fu più grave, e la nuvola che incombeva
sulla sua vita ne cancellò il precedente modo d'espressione, simile a danza dei raggi del sole riflessa nell'acqua corrente,
mentre la sua attenzione era attirata molto meno dagli avvenimenti di tutti i giorni e sembrava incontrare molta maggior
difficoltà, che in un passato felice, nel comprendere ciò che per lui era nuovo. Un estraneo, basando il suo giudizio su
questi elementi, avrebbe detto che l'apatia intellettuale del bambino contraddiceva apertamente ciò che prometteva
l'espressione del suo volto, ma la causa consisteva nella direzione dei pensieri di Ilbrahim, che continuavano a covargli
dentro, anziché manifestarsi naturalmente all'esterno. Un tentativo di Dorothy di ravvivare la sua precedente gaiezza
diede lo spunto all'unica occasione in cui il torpore del bambino lasciò il posto a un violento sfogo del suo tormento, e
allora egli scoppiò a piangere a dirotto e corse a nascondersi, perché il cuore gli pesava a tal punto che anche una mano
gentile lo tormentava come il fuoco. Talvolta, alla notte e probabilmente nel sogno, lo si udiva gridare: «Mamma!
Mamma!», come se quel posto, che un'estranea aveva preso nel tempo in cui Ilbrahim era felice, non potesse avere
sostituzioni nel momento della più profonda afflizione. Forse, tra i tanti infelici stanchi della vita che erano allora sulla
terra, nessuno univa la disperazione all'innocenza come quel povero bambino dal cuore spezzato, così precocemente
vittima della propria celeste natura.
Mentre questa malinconia prendeva il sopravvento su Ilbrahim, un'altra trasformazione di precedente origine e
di diversa natura si compiva nel suo padre adottivo. Nell'episodio da cui trae spunto questo racconto, Pearson si trovava
in uno stato di apatia religiosa e insieme di inquietudine mentale dettata dall'ardente desiderio di una più fervida fede di
quella che aveva. Il primo effetto della sua tenerezza per Ilbrahim fu quello di indurre in lui un attutito sentimento,
come una incipiente simpatia per l'intera setta cui il bambino apparteneva, ma insieme a ciò, e derivante forse da
diffidenza verso se stesso, si accompagnava un orgoglioso e ostentato disprezzo per le dottrine e le stravaganti
esibizioni di questa setta. Tuttavia, nel corso di lunghe riflessioni su questo argomento che continuava irresistibilmente
ad agitarsi nella sua mente, le assurdità di questa dottrina cominciarono ad apparigli meno evidenti, e i punti che più
avevano offeso la sua ragione gli si presentarono sotto una diversa luce o svanirono completamente. Questo travaglio
interiore sembrava proseguire perfino durante il sonno, e quello che gli si era presentato come un dubbio al momento di
coricarsi spesso si trasformava in verità, confermata anche da qualche dimostrazione dimenticata, quando al mattino
ricapitolava i suoi pensieri. E mentre veniva così contagiato dalla dottrina dei fanatici, il suo disprezzo per loro non
accennava però a diminuire, e anzi si inaspriva verso se stesso, fino a credere di scorgere un sogghigno sulla faccia di
ogni suo conoscente e di avvertire un certo sarcasmo in ogni parola che gli veniva rivolta. Questo era dunque il suo
stato d'animo all'epoca della disavventura di Ilbrahim, e l'emozione provocata da quell'avvenimento completò la
trasformazione di cui il bambino era stato originariamente lo strumento.
Nel frattempo, non accennavano a diminuire né la ferocia dei persecutori né l'esaltazione delle vittime. Le
carceri non erano mai vuote, le strade di quasi tutti i villaggi echeggiavano ogni giorno del sibilo delle sferze, ed era
stata anche sacrificata la vita di una donna il cui mite animo cristiano non poteva essere inasprito da nessuna crudeltà,
mentre altro sangue innocente doveva ancora macchiare le mani che così spesso si congiungevano nella preghiera. Poco
tempo dopo la Restaurazione, i quaccheri inglesi denunciarono a Carlo II che «una vena di sangue scorreva nei suoi
dominii», ma anche se ciò dispiacque al voluttuoso sovrano, il suo intervento non fu altrettanto tempestivo. A questo
punto il nostro racconto deve andare oltre di molti mesi, durante i quali Pearson conoscerà il disonore e la sventura, sua
moglie sopporterà mille tormenti con animo fermo, il povero Ilbrahim languirà e sfiorirà come un bocciolo di rosa
corroso, e sua madre vagherà verso una falsa meta, dimentica della missione più santa che possa essere affidata a una
donna.
Una sera tempestosa d'inverno era calata cupa sulla casa dei Pearson, e non vi era volto gioioso che fugasse la
malinconia del suo ampio focolare. È vero che un bel fuoco mandava benefico tepore e vivida luce, e che grossi ceppi
gocciolanti di neve non ancora sciolta erano accatastati per essere gettati sulle braci, ma la casa era triste per la.29
mancanza di quell'agiatezza che una volta l'aveva allietata, dopo che il suo padrone si era impoverito per le continue
ammende e per la poca cura che egli stesso rivolgeva agli affari temporali. E con gli utensili della pace, anche gli
strumenti di guerra erano parimenti scomparsi: la spada era spezzata, l'elmo e la corazza erano stati buttati via per
sempre; il soldato aveva messo fine alle battaglie e ora non poteva alzare che la sua mano nuda per ripararsi. Ma la
Sacra Bibbia era rimasta, posata su un tavolo che era stato avvicinato al fuoco, e lì sedevano due membri della setta
perseguitata che cercavano conforto nelle pagine del libro.
L'uomo che ascoltava leggere l'altro era il padrone di casa, ora emaciato nell'aspetto e trasformato
nell'espressione e nel colorito, perché la sua mente si era troppo a lungo attardata in visionarie meditazioni e il suo
corpo era stato logorato dalla prigione e dalla frusta. Il vecchio vigoroso e segnato dalle intemperie che gli sedeva a
fianco mostrava meno di lui i patimenti di un più lungo corso dello stesso genere di vita. Nella persona, era alto e
dignitoso e aveva, ciò che sarebbe bastato a farlo odiare dai puritani, lunghi cernecchi grigi che gli ricadevano sulle
spalle da sotto alla larga tesa del cappello. Mentre il vecchio leggeva ad alta voce le pagine del sacro libro, la neve
turbinava contro le finestre o si insinuava tra le fessure della porta, mentre raffiche di vento scendevano ululando per il
camino e la fiamma balzava furiosamente in alto come per scovarlo. E talvolta, quando il vento scendeva giù dalla
collina con una certa angolatura e spazzava la gelida pianura della fattoria, faceva sentire la voce più lamentosa che si
possa immaginare: sembrava che fosse il Passato a parlare, che i Morti vi contribuissero ciascuno con un sussurro, che
la Desolazione dei Secoli alitasse in quel gemito.
Il quacchero chiuse infine il libro, tenendo tuttavia la mano tra le pagine che aveva letto, e guardò Pearson fisso
in volto. L'atteggiamento e i lineamenti di quest'ultimo testimoniavano il dolore fisico che sopportava, mentre teneva la
fronte china tra le mani, i denti serrati, e il corpo era percorso di quando in quando da un tremito di agitazione nervosa.
«Amico Tobias», domandò il vecchio con voce colma di pietà, «non hai trovato conforto in questi passi
benedetti della Scrittura?».
«La tua voce mi è arrivata all'orecchio come suono lontano e indistinto», rispose Pearson senza sollevare lo
sguardo. «È così, e quando prestavo ascolto attentamente le parole mi sembravano fredde e inanimate, intese per
un'altra persona e per un dolore meno grande del mio. Metti via il libro», soggiunse in tono di cupa amarezza. «Io non
partecipo delle sue parole di consolazione ed esse non fanno altro che inasprire il mio dolore».
«No, povero fratello, non essere come coloro che non hanno mai visto la luce», replicò il quacchero anziano
con voce ferma ma dolce. «Non sei tu colui che sarebbe stato contento di dare tutto e di sopportare tutto, per il bene
della tua coscienza, che desiderava perfino affrontare speciali prove affinché la tua fede fosse purificata e il tuo cuore
mondato dai desideri terreni? E ora vuoi cedere sotto il peso d'una afflizione che accade parimenti a coloro che hanno la
loro parte quaggiù come a quelli che ripongono il loro tesoro nel cielo? No, non ti accasciare, perché il tuo fardello è
ancora lieve!».
«Lieve? È più pesante di quanto possa portare!», esclamò Pearson con l'esasperazione del suo animo mutevole.
«È dalla giovinezza che sono vittima designata della collera, e anno dopo anno, giorno dopo giorno, ho sopportato
dolori che altri non conoscono in tutta la loro vita. E non parlo, bada, dell'amore trasformato in odio, dell'onore divenuto
disonore, degli agi e dell'abbondanza di ogni cosa tramutati in pericolo, penuria, indigenza. Tutto ciò avrei potuto
sopportarlo, e mi sarei considerato fortunato. Ma quando il mio cuore era afflitto da tante perdite, l'ho riposto nel figlio
di una sconosciuta, ed egli mi è divenuto più caro dei miei morti. E ora anch'egli deve morire, quasi che il mio amore
fosse un veleno. È la verità, sono un uomo maledetto, e vorrei giacere nella polvere e non rialzare mai più il capo».
«Tu commetti un peccato, fratello, ma non sta a me rimproverarti, perché anch'io ho avuto le mie ore buie,
durante le quali ho imprecato anche contro la croce», replicò il vecchio quacchero. Poi, forse nella speranza di
distogliere i pensieri del compagno dai suoi affanni proseguì: «Anche di recente la luce si è oscurata dentro di me,
quando i sanguinari mi hanno bandito, pena la morte, e i conestabili mi hanno condotto di villaggio in villaggio verso il
deserto. Una mano forte e crudele tirava le corde annodate che mi entravano fin dentro la carne, così che si sarebbe
potuto seguire ogni mio passo vacillante dalla scia di sangue che lasciavo dietro di me. E mentre proseguivamo...».
«E io non ho forse sopportato tutto ciò senza lamentarmi?», lo interruppe Pearson con impazienza.
«No, amico, ascoltami», proseguì l'altro. «Mentre proseguivamo il viaggio, la notte oscurò il nostro cammino,
così che nessuno avrebbe potuto vedere il furore dei persecutori né la costanza della nostra sopportazione, per quanto il
Cielo mi vieti di vantarmene. Le luci cominciavano ad accendersi nelle finestre delle fattorie, e potevo distinguerne gli
abitanti raccolti nell'intimità e nella sicurezza, ciascuno insieme con la moglie e i figli, accanto al focolare della sera.
Alla fine giungemmo in un tratto di terra coltivata, dove la foresta intorno non era visibile nella fioca luce e, ascolta!,
era lì un'abitazione coperta di paglia, simile in tutto alla mia casa lontana, al di là dello sterminato oceano, laggiù nella
nostra lontana Inghilterra. Allora mi passarono per la mente amari pensieri, sì, ricordo che erano di morte per la mia
anima. Mi passarono davanti agli occhi la felicità della mia giovinezza, l'inquietudine della maturità, la mutata fede
della vecchiaia. Ricordai com'ero stato indotto ad andarmene randagio quando mia figlia, la più giovane, la più cara del
mio gregge, giaceva sul letto di morte e...».
«E tu hai potuto ubbidire al comando in un momento come quello?», esclamò Pearson con un brivido.
«Sì, sì», rispose in fretta il vecchio. «Ero inginocchiato al suo capezzale quando la voce parlò perentoria dentro
di me, e immediatamente mi alzai, presi il bastone e mi misi in cammino. Oh, mi sia consentito dimenticare il suo
dolente sguardo quando ritrassi il braccio e la lasciai andar sola nella valle buia! Sì, perché la sua anima era fragile e lei
la sosteneva alle mie preghiere. Ed ecco che in quella notte d'orrore fui assalito dal pensiero di essere stato un cattivo
cristiano e uno snaturato genitore; sì, perfino mia figlia, col suo pallido volto di morente sembrava starmi accanto e.30
sussurrare: "Padre, ti sei ingannato: torna a casa e metti al riparo la tua testa grigia". Oh, Tu, Tu cui ho guardato nelle
mie remote peregrinazioni», esclamò ancora il quacchero alzando al cielo gli occhi spiritati, «non infliggere al più
sanguinario dei nostri persecutori l'implacabile strazio della mia anima, quando ho creduto che tutto quanto ho fatto e
sofferto per Te fosse per istigazione di un demonio che mi derideva! Ma non cedetti, mi inginocchiai e combattei con il
tentatore mentre la sferza mi mordeva ancora più crudelmente la carne. La mia preghiera fu accolta e proseguii il
cammino in pace e letizia verso il deserto».
Anche se il suo fanatismo aveva in generale tutta la calma della ragione, il vecchio era profondamente
commosso mentre raccontava e la sua inconsueta emozione sembrò avere l'effetto di mortificare e reprimere quella del
compagno. I due uomini rimasero seduti in silenzio, col viso rivolto verso il fuoco, immaginando forse di vedere, nelle
sue ardenti braci, nuove scene di persecuzioni ancora da affrontare. La neve continuava a turbinare fuori dalla finestra e
talvolta scendeva giù per l'ampio camino, dove la fiamma dei ceppi era andata calando, e sfrigolava sul focolare. Un
cauto scalpiccio si udiva di quando in quando provenire dalla stanza contigua, e quel rumore richiamava ogni volta gli
occhi dei due quaccheri verso la porta della stanza. Poi, quando una raffica di vento più violenta e altisonante portò i
suoi pensieri, per associazione di idee, a coloro che vagavano senza casa in una notte come quella, Pearson riprese la
conversazione.
«Anch'io ho quasi ceduto sotto il peso della parte che mi è stata riservata in questa prova», osservò, traendo un
profondo sospiro, «eppure vorrei che mi fosse raddoppiata, se questo servisse a risparmiare la madre del bambino. Le
sue ferite sono state molte e profonde, ma questa sarà la più crudele di tutte».
«Non temere per Catharine», rispose il vecchio quacchero, «perché io conosco quella donna valorosa e ho visto
come sa portare la croce. Il cuore della madre batte forte dentro di lei, è vero, e può semb rare che sia prepotentemente in
competizione con la sua fede, ma ben presto si ergerà in piedi e renderà grazie perché suo figlio è stato così presto
accolto come sacrificio. Il fanciullo ha compiuto la sua opera, e lei capirà che è stato portato via di qui per un atto di
bontà verso di lui come verso lei stessa. Benedetti, benedetti coloro che con così poche sofferenze possono accedere alla
pace celeste!».
Le raffiche furiose del vento furono in quel momento sovrastate dal sinistro rumore di qualcuno che bussava
rapidamente ed energicamente alla porta esterna. L'esangue colorito di Pearson si fece più pallido ancora, perché le
molte visite dei persecutori gli avevano insegnato che cosa temere, mentre il vecchio, dal canto suo, si alzò in piedi con
lo sguardo fermo del veterano che attende il nemico.
«Gli uomini sanguinari sono venuti a cercarmi», osservò con voce calma. «Hanno saputo che sono stato
indotto a ritornare dall'esilio, ed ora vogliono ricondurmi in prigione, e di lì alla morte. È una fine cui aspiro da molto
tempo. Aprirò io, perché non possano dire: "Guardate, ha paura!"».
«No, mi presenterò io a loro», replicò Pearson, con rinnovata forza d'animo. «Può darsi che cerchino soltanto
me e non sappiano che ti trovi in casa mia».
«Andiamo tutti e due con coraggio», propose allora il suo compagno. «È sconveniente che l'uno o l'altro
indietreggi».
Insieme si avviarono quindi verso la porta, che aprirono ordinando al visitatore: «Entra, in nome di Dio!». Una
furiosa folata di vento spinse la tormenta in faccia a loro e fece spegnere la lampada, così che essi ebbero appena il
tempo di intravvedere una figura, così bianca di neve dalla testa ai piedi da sembrare l'Inverno in persona, giunto in
aspetto umano per cercare riparo dalla sua stessa desolazione.
«Entra, amico, e compi la tua missione, qualunque essa sia», esclamò Pearson. «Dev'essere cosa urgente, se sei
venuto in una notte di tempesta come questa».
«La pace sia in questa casa», disse la persona sconosciuta mentre i due uomini erano ancora sulla soglia.
Pearson trasalì, mentre il vecchio quacchero smuoveva le braci assopite del camino che alzarono allora una
viva fiammata. Era una voce di donna quella che aveva parlato, ed era una figura femminile quella che si stagliava,
intirizzita, nel confortante chiarore.
«Catharine, donna benedetta!», esclamò il vecchio. «Sei ritornata dunque in questa terra buia? Sei giunta a
portare la tua valorosa testimonianza come negli anni passati? La frusta non è stata più forte di te, e dalla prigione sei
uscita trionfante, ma ora il tuo cuore deve farsi forza. Catharine, perché il Cielo ti metterà alla prova ancora questa
volta, prima che tu possa andare alla tua ricompensa».
«Rallegratevi, amici», replicò Catharine. «Tu, che da tanto tempo sei dei nostri, e tu, che un piccolo bambino
ha condotto a noi, rallegratevi! Sì, sono giunta come messaggero di liete novelle, perché i giorni della persecuzione
sono finiti. Il cuore del re, Carlo il giusto, si è mosso a pietà di noi ed egli ha inviato le sue lettere per fermare la mano
degli uomini sanguinari. Una nave carica di nostri amici è arrivata in città e anch'io, ho fatto lietamente il viaggio
insieme a loro».
Mentre Catharine parlava, i suoi occhi vagavano per la stanza in cerca di colui che ora le faceva avere cara la
sicurezza. Pearson rivolse un silenzioso cenno al vecchio, il quale non si ritrasse dal penoso incarico che gli era stato
assegnato.
«Sorella», iniziò a dire con voce dolce e pacata insieme, «tu ci parli del Suo amore, manifestato nella sicurezza
terrena, e ora noi dobbiamo parlarti di quello stesso amore rivelato nel castigo. Finora, Catharine, sei andata per una
strada difficile e oscura, conducendo il tuo piccolo per mano: ben volentieri avresti rivolto continuamente il tuo sguardo
al cielo, se le cure richieste dal piccolo figlio non avessero tenuto legati i tuoi occhi e i tuoi affetti alla terra. Sorella,
continua a rallegrarti, perché i suoi passi vacillanti non intralceranno più i tuoi»..31
Ma l'infelice madre non poteva essere consolata da queste parole, e tremò come una foglia e sbiancò come la
neve che aveva tra i capelli. Il vecchio vigoroso le tese la mano per sostenerla, tenendo gli occhi fissi nei suoi, come a
reprimere ogni suo sfogo passionale.
«Io sono una donna, sono soltanto una donna, ed Egli vuole mettermi a una prova superiore alle mie forze?»,
disse Catharine con voce concitata e sommessa, come un sussurro. «Sono stata ferita dolorosamente, e molto ho
sofferto, molte volte nel corpo, molte volte nell'animo; sono stata crocefissa nella mia persona e nelle persone che mi
erano più care. E certo», soggiunse dopo un lungo brivido, «Egli mi ha risparmiato una cosa soltanto». Poi ruppe in un
improvviso e incontenibile grido di violenza. «Dimmi, uomo senza cuore, che cosa mi ha riservato Iddio? Mi ha forse
gettato così in basso da non potermi più rialzare? Ha forse voluto infrangere il mio cuore con le Sue stesse mani? E tu a
cui ho affidato il mio bambino, tu come hai assolto il tuo compito? Ridammi il mio bambino, bello, sano, vivo, vivo,
oppure la terra e il cielo mi vendicheranno!».
Al grido straziato di Catharine rispose la voce flebile, molto flebile di un bambino.
Quel giorno era apparso evidente a Pearson, al suo anziano ospite e a Dorothy che il breve e tormentato
cammino di Ilbrahim era ormai prossimo alla fine. I primi due sarebbero rimasti volentieri accanto a lui, per recitare
preghiere e gli edificanti discorsi che ritenevano confacenti alla circostanza, e che, pur essendo, nel mondo in cui è
diretto, impotenti in quanto all'accoglienza destinata a chi parte, possono nondimeno confortarlo nel momento del
congedo dalla terra. Ma Ilbrahim, pur senza lamentarsi, era turbato dai visi che lo guardavano, così che le preghiere di
Dorothy e la loro stessa convinzione che i passi del fanciullo avrebbero percorso i sentieri del Cielo senza infangarli,
avevano indotto i due quaccheri ad allontanarsi. Ilbrahim aveva allora chiuso gli occhi e si era calmato, e se non fosse
stato per qualche parola gentile rivolta sommessamente di quando in quando alla sua assistente, si sarebbe pensato che
fosse assopito. Col calar della sera e con l'inizio della tormenta, qualcosa sembrò tuttavia turbare il riposo del piccolo e
rendere il suo senso dell'udito più attivo e acuto. Se una raffica di vento più forte scuoteva la casa, il piccino si sforzava
di voltare la testa in quella direzione, se la porta cigolava nei cardini, egli guardava a lungo, ansiosamente, verso di
essa; se la voce grave del vecchio che leggeva le Scritture si alzava anche leggermente, il bambino quasi tratteneva il
suo respiro morente per ascoltare, se una folata di neve investiva la fattoria con un rumore simile al frusciare delle vesti,
Ilbrahim sembrava porsi in attesa dell'arrivo di qualche visitatore.
Dopo qualche attimo, però, abbandonava quella segreta speranza che sembrava averlo agitato, e con un lungo,
lamentoso sospiro, voltava di nuovo la guancia sul cuscino. Egli allora si rivolgeva a Dorothy e con la sua consueta
dolcezza le chiedeva di farsi più vicina a lui, poi, accontentato, le prendeva la mano tra tutte e due le sue, stringendola
con lieve pressione come per accertarsi di averla. Di quando in quando, e senza alterare l'espressione rilassata, era
percorso dalla testa ai piedi da un lievissimo tremore, come se un vento leggero ma gelido avesse alitato su di lui,
facendolo rabbrividire. E mentre il bambino la teneva così per mano, nel suo quieto cammino verso i confini
dell'eternità, Dorothy aveva quasi la sensazione di poter scorgere la prossima, ma ancor nebulosa delizia della casa che
egli stava per raggiungere, e allora non avrebbe richiamato indietro il piccolo viandante, anche se rimpiangeva di
doverlo lasciare e ritornare sui suoi passi. Ma proprio mentre i suoi piedi stavano per varcare la soglia del Paradiso,
Ilbrahim udì una voce dietro di sé e questa lo fece tornare indietro di qualche passo sul faticoso cammino che aveva
percorso. E Dorothy, osservando i suoi lineamenti, si accorse che la loro placida espressione era di nuovo turbata,
mentre i suoi pensieri erano così immersi in lui che non udiva nemmeno tutti i suoni della tempesta e delle voci umane;
ma quando il grido di Catharine penetrò nella stanza, il ragazzo di sforzò di sollevarsi.
«Amica mia, è giunta finalmente! Aprile la porta!», gridò il bambino.
In un attimo, la madre era inginocchiata al suo capezzale e lo stringeva al petto, e Ilbrahim vi si rifugiò, non
con la violenza della gioia, ma appagato, come se potesse finalmente abbandonarsi al sonno. Poi la guardò in viso e,
leggendone lo strazio, dis se con flebile sicurezza:
«Non piangere, madre carissima. Ora sono felice». E con queste parole il fanciullo morì.
L'ordine del re di far cessare le persecuzioni nel New England si rivelò efficace nel prevenire ulteriori martirii,
ma le autorità della colonia, confidando nella lontananza e forse nella supposta instabilità del governo del re,
rinnovarono ben presto la loro severità sotto tutti gli altri aspetti. Il fanatismo di Catharine si fece ancor più esasperato
dopo il suo distacco da tutti i legami umani, e ogni volta che la sferza veniva alzata, era lei che riceveva il colpo, ogni
volta che le porte del carcere si aprivano, era lei che vi era gettata sul pavimento. Ma col passare del tempo, uno spirito
più cristiano, uno spirito di tolleranza se non di cordialità o di approvazione, cominciò a diffondersi in quella terra nei
confronti della setta perseguitata. E allora, quando i vecchi pellegrini arcigni cominciarono a guardarla con pietà più che
con collera, quando le donne di casa la sfamarono con gli avanzi del cibo dei loro figli, e le offrirono alloggio su un
duro e umile letto, quando le turbe di scolari non lasciarono più i loro giochi per correre a scagliar pietre dietro alla
fanatica vagabonda, allora Catharine ritornò all'abitazione dei Pearson e vi prese alloggio.
Come se la dolcezza di Ilbrahim ancora emanasse dalle sue ceneri, come se la sua gentilezza fosse scesa dal
cielo per insegnare alla madre una vera religione, il carattere fiero e vendicativo di Catharine si addolcì per quegli stessi
dolori che un tempo l'avevano esasperato. E quando il corso degli anni ebbe reso familiare nella regione il volto di
quella donna infelice e discreta, Catharine divenne oggetto di interesse non acuto, ma generale, come una creatura alla
quale potevano essere rivolte le simpatie, altrimenti superflue, di tutti. Tutti parlavano di lei con quel tanto di pietà che
fa piacere conoscere, tutti erano pronti a usarle quelle piccole gentilezze che non costano care e nondimeno rivelano
buona volontà, e quando alla fine morì, un lungo corteo di coloro che erano stati un tempo i suoi crudeli persecutori la.32
accompagnò, con mesto cordoglio e lacrime non simulate, al suo luogo di riposo, accanto alla tomba verde e profonda
di Ilbrahim.
LA SVENTURA DEL SIGNOR HIGGINBOTHAM
Un giovane venditore ambulante di tabacco era in viaggio da Morristown, dove aveva fatto molti affari col
diacono dell'insediamento degli Shaker, verso il villaggio di Parker's Falls, sul fiume Salmon. Aveva un bel carretto
verde, dov'era dipinta su ambedue le fiancate una scatola di sigari e l'immagine di un capo indiano sul retro, con la pipa
in mano e una pianticella dorata di tabacco. Il venditore lo faceva trainare da una piccola giumenta, ed era un giovane di
ottimo carattere, dotato di senso degli affari, ma nondimeno apprezzato dagli Yankee che, a quanto dicono, preferiscono
essere rasati con una lama affilata piuttosto che con una smussata. Era benvoluto soprattutto dalle graziose fanciulle del
Connecticut, di cui era solito accattivarsi i favori con doni del miglior tabacco da fumo della sua scorta, ben sapendo
che le ragazze di campagna del New England sono in generale esperte fumatrici di pipa. E poi, come si vedrà nel corso
del mio racconto, il venditore era un giovane curioso e un po' chiacchierone, sempre attento ad ascoltare le novità e
impaziente di riferirle.
Dopo una mattiniera colazione a Morristown, il nostro venditore di tabacco, che si chiamava Domenicus Pike,
aveva viaggiato per circa sette miglia attraverso un tratto solitario di boschi, senza parlare con anima viva se non con se
stesso e la sua piccola giumenta grigia. Erano quasi le sette, e il giovane era sempre più impaziente di fare qualche
chiacchiera mattutina, come un bottegaio di città lo è di leggere il giornale del mattino. E sembrò offrirsene l'occasione
quando alzò lo sguardo, dopo essersi acceso un sigaro con una lente da sole, e scorse un uomo che scendeva la collina ai
cui piedi il giovane aveva fermato il suo carretto verde. Dominicus lo osservò mentre scendeva il fianco, e notò che
portava sulla spalla un fagotto appeso all'estremità di un bastone, e che camminava con passo stanco ma risoluto. Non
sembrava che si fosse messo in cammino col fresco del mattino, ma che avesse camminato per tutta la notte e che
intendesse proseguire per tutto il giorno.
«Buon giorno, signore», disse Dominicus, quando l'uomo fu abbastanza vicino per udirlo. «Lei cammina
davvero di buon passo... E quali sono le ultime novità a Parker's Falls?».
L'uomo sollevò l'ampia tesa del suo cappello grigio e rispose, in tono piuttosto infastidito, che non veniva da
Parker's Falls, un nome che il venditore aveva menzionato solo perché era la meta del suo viaggio per quel giorno.
«E allora», replicò Domenicus Pike, «sentiamo quali sono le ultime novità del luogo da cui lei viene. Non mi
interessa Parker's Falls in particolare, qualsiasi posto può andar bene».
Il viaggiatore che era stato così importunato, un brutto ceffo da incontrare in un tratto solitario del bosco,
sembrò esitare un po', come se stesse cercando nella memoria qualche novità da raccontare, o soppesasse l'opportunità
di raccontarla. Infine, salì sul gradino del carretto e sussurrò all'orecchio di Dominicus, anche se avrebbe potuto gridare
a gran voce perché nessun altro mortale l'avrebbe udito.
«Ricordo ora una notiziola», sussurrò. «Il vecchio signor Higginbotham di Kimballton è stato ucciso nel suo
orto alle otto di ieri sera da un irlandese e da un negro. L'hanno appeso al ramo di un pero di San Michele, dove nessuno
l'ha trovato fino al mattino».
Non appena comunicata la terribile notizia, lo sconosciuto riprese il cammino con passo ancor più spedito, e
non voltò nemmeno la testa quando Dominicus lo invitò a fumare con lui un sigaro spagnolo e a raccontargli tutti i
particolari. Il venditore chiamò allora con un fischio la sua giumenta, e salì su per la collina, meditando sulla triste sorte
del signor Higginbotham, che aveva conosciuto nel suo commercio, avendogli venduto molti pacchetti di sigari a buon
prezzo e una grossa partita di trecce di tabacco e di trinciato fine e grosso. Era piuttosto stupito dalla rapidità con cui la
notizia si era diffusa. Kimballton era lontana quasi sessanta miglia in linea diretta, e se l'omicidio era stato commesso
alle otto della sera precedente e Dominicus ne aveva avuto notizia già alle sette del mattino, quando i famigliari del
povero signor Higginbotham ne avevano probabilmente scoperto da poco il cadavere appeso all'albero di pero di San
Michele, lo sconosciuto viandante doveva calzare gli stivali delle sette leghe per viaggiare così velocemente.
«Le cattive notizie volano, a quanto dicono», pensò Dominicus Pike, «ma questa corre ancor più veloce della
ferrovia. Quel tipo dovrebbe essere assunto per portare a spron battuto i messaggi del presidente».
L'enigma fu risolto immaginando che il messaggero avesse commesso l'errore di un giorno, nella data
dell'avvenimento, così che il nostro amico non esitò a raccontare l'accaduto in tutte le taverne e le botteghe che incontrò
lungo la strada, vendendo nel frattempo un bel mucchio di sigari spagnoli tra una ventina almeno di inorriditi
ascoltatori. Essendo sempre il primo latore della notizia, fu ogni volta così tempestato di domande che non poté evitare
di arricchire di nuovi particolari i dati del racconto, che diventò infine una storia degna di tutto rispetto. Trovò anche
un'attendibile testimonianza, perché il signor Higginbotham era un bottegaio, e un suo ex commesso, al quale
Dominicus aveva riferito l'accaduto, confermò che l'anziano signore era solito ritornare a casa al tramonto attraverso
l'orto, portando in saccoccia il denaro e i documenti importanti del negozio. Il commesso manifestò ben poco
rammarico per la sventura del signor Higginbotham, lasciando intendere ciò che il venditore di tabacco aveva già
scoperto nei suoi rapporti con lui, che era un vecchio bilioso e taccagno. Tutte le sue proprietà sarebbero state ora
ereditate da una graziosa nipote che insegnava nella scuola di Kimballton..33
Raccontando queste notizie a beneficio del pubblico, e occupandosi nel frattempo dei propri affari, Dominicus
perse tanto tempo, strada facendo, che decise di fermarsi in una taverna a circa cinque miglia da Parker's Falls. Dopo
cena, acceso uno dei suoi sigari migliori, andò a sedersi nella sala del bar e anche lì riferì la storia dell'omicidio,
divenuta ormai così corposa che impiegò una mezz'ora a raccontarla. Erano una ventina gli avventori del locale, e
diciannove di loro la ascoltarono come vangelo. Il ventesimo era invece un anziano contadino, arrivato a cavallo poco
tempo prima, che stava seduto in un angolo fumando la sua pipa. Una volta terminato il racconto, si alzò lentamente dal
tavolo, portò la sua sedia davanti a Dominicus e lo guardò in faccia, alitandogli una zaffata del più pestilenziale tabacco
che il venditore avesse mai annusato.
«Lei è disposto a fare una dichiarazione giurata», gli domandò col tono solenne di un giudice che interroga un
testimone, «che l'anziano signor Higginbotham di Kimballton è stato assassinato nel suo orto la notte prima e trovato
appeso al suo grande albero di pero ieri mattina?».
«Riferisco la storia quale l'ho udita, signore», rispose Dominicus, lasciando cadere il mozzicone spento del suo
sigaro. «Non dico di aver visto l'accaduto, e quindi non posso giurare che sia stato ucciso esattamente in quel modo».
«Io posso invece giurare», replicò il contadino, «che se il signor Higginhotham è stato ucciso l'altra sera, ho
bevuto un bicchiere di amaro col suo fantasma, questa mattina. Essendo un mio vicino di casa, mi ha invitato nella sua
bottega, quando sono passato di lì a cavallo, mi ha offerto da bere e poi mi ha chiesto di fargli una piccola commissione
lungo la strada. E non sembrava essere a conoscenza del suo omicidio più di quanto ne so io».
«Perbacco, allora non può essere vero!», esclamò Dominicus Pike.
«Penso che me ne avrebbe accennato, se lo fosse stato», replicò il vecchio contadino, poi riportò la sua sedia
nell'angolo, lasciando Dominicus ammutolito.
Ecco dunque la resurrezione del vecchio signor Higginbotham! Il venditore ambulante non aveva più coraggio
di unirsi alla conversazione, ma si consolò con un bicchiere di gin e acqua e poi andò a letto, sognando per tutta la notte
di impiccagioni al pero di San Michele. Per evitare di imbattersi nel vecchio contadino (che ora detestava al punto che
la sua impiccagione gli avrebbe fatto più piacere di quella del signor Higginbotham), Dominicus si alzò quando la luce
del mattino era ancora grigia, attaccò la piccola giumenta al suo carretto verde e se ne andò trotterellando lestamente in
direzione di Parker's Falls. L'aria fresca, la rugiada sulla strada, la piacevole alba estiva gli rinfrancarono lo spirito e
l'avrebbero incoraggiato a raccontare ancora la sua storia se qualcuno fosse stato sveglio per ascoltarla. Ma non incontrò
né carri di buoi né calessi, né uomini a cavallo o a piedi, finché, attraversando il fiume Salmon, vide un uomo che
veniva arrancando verso di lui sul ponte, con un fagotto in spalla appeso a un bastone.
«Buon giorno, signore», disse il venditore ambulante, tirando le redini della giumenta. «Se lei viene da
Kimballton o dai dintorni, forse può dirmi la verità su questa storia del vecchio signor Higginbotham. È vero che il
vecchio è stato assassinato due o tre sere fa da un irlandese e da un negro?».
Dominicus aveva parlato troppo in fretta per accorgersi subito che anche lo sconosciuto aveva la carnagione
scura di un negro. Nell'udire questa brusca domanda, l'etiope sembrò cambiar pelle, e il suo colorito giallastro diventò
spaventosamente bianco mentre rispondeva, tremando e balbettando:
«No, no! Non c'era nessun uomo di colore! È stato un irlandese a impiccarlo ieri sera alle otto... Io me ne sono
andato alle sette! E i suoi parenti non possono averlo ancora cercato nell'orto...».
L'uomo aveva appena parlato quando s'interruppe, e anche se prima sembrava piuttosto stanco, proseguì subito
il cammino con un passo che avrebbe costretto al piccolo trotto la giumenta di Dominicus, il quale lo seguì con uno
sguardo molto perplesso. Se l'omicidio non era stato commesso fino a martedì sera, chi era quel veggente che l'aveva
previsto, in tutti i suoi particolari, fin da martedì mattina? E se il cadavere del signor Higginbotham non era stato ancora
scoperto dai suoi famigliari, come faceva il mulatto, a una trentina di miglia di distanza, a sapere che quell'uomo era
appeso nel suo orto, tanto più che aveva lasciato Kimballton prima che lo sventurato fosse ancora impiccato? Queste
controverse circostanze, unite all'espressione di sorpresa e sgomento dello sconosciuto, indussero Dominicus a pensare
di lanciare l'allarme e di denunciarlo come complice del delitto, perché un delitto, a quanto pareva, era stato
effettivamente commesso.
«Ma lasciamolo andare, quel povero diavolo», si disse il venditore ambulante. «Non voglio avere sulla
coscienza il suo sangue nero, e anche se impiccassero quel negro, ciò non servirebbe a disimpiccare il signor
Higginbotham. Disimpiccare quel vecchio gentiluomo... È un peccato, lo so, ma non sopporterei che ritornasse in vita
per darmi del bugiardo!».
Tra queste meditazioni, Dominicus Pike arrivò col suo carretto nella strada principale di Parker's Falls, che,
come tutti sanno, è un villaggio reso fiorente da tre cotonifici e una segheria. I loro macchinari non erano ancora in
movimento e solo poche botteghe erano già aperte quando Dominicus arrivò alla stalla della taverna, e per prima cosa
ordinò un intero gallone di avena per la sua giumenta. Il suo secondo compito fu naturalmente quello di informare lo
stalliere della sciagura del signor Higginbotham. Ritenne però opportuno non mostrarsi troppo sicuro sulla data del
funesto evento, e anche incerto se il delitto era stato commesso da un irlandese e un mulatto, o dal solo figlio di Irlanda.
E nemmeno dichiarò di appellarsi alla propria autorità o a quella di altri, ma riferì l'accaduto come una voce
generalmente diffusa.
La notizia si propagò per il villaggio come un incendio tra i boschi, e diventò subito così universale che
nessuno sapeva dire da dove avesse avuto origine. Il signor Higginbotham era tra i più conosciuti cittadini di Parker's
Falls, essendo comproprietario della segheria e importante azionista dei cotonifici, e gli abitanti del luogo ritenevano
quindi che dalla sua sorte dipendesse anche la loro prosperità. Tale era il fermento generale che la «Gazzette» di.34
Parker's Falls anticipò il suo regolare giorno di pubblicazione e uscì con mezza pagina bianca e una colonna in corpo
tipografico doppio, evidenziata dal titolo cubitale ORRIBILE ASSASSINIO DEL SIGNOR HIGGINBOTHAM! Tra gli
altri agghiaccianti particolari, l'articolo descriveva il segno della corda intorno al collo della vittima e precisava anche di
quante migliaia di dollari era stato derubato. Molta commozione destava anche il dolore di sua nipote, colta da uno
svenimento dopo l'altro da quando suo zio era stato rinvenuto appeso al pero di San Michele con le tasche rovesciate. Il
poeta del villaggio celebrò a sua volta i patimenti della giovane con una ballata di diciassette stanze. I consiglieri
municipali si riunirono e, in considerazione dei meriti acquisiti dal signor Higginbotham nel villaggio, stabilirono di far
affiggere manifesti che offrivano una ricompensa di cinquecento dollari per la cattura dei suoi assassini e il recupero
della refurtiva.
Nel frattempo, l'intera popolazione di Parker's Falls, composta da bottegai, affittacamere, operaie e operai delle
fabbriche e scolaretti, accorreva nelle strade e compensava abbondantemente, col suo inarrestabile cicaleccio, il silenzio
delle macchine dei cotonifici, che si astenevano dal loro consueto frastuono per rispetto del defunto. Se il signor
Higginbotham si fosse curato della sua postuma notorietà, il suo spettro avrebbe esultato davanti a simile tumulto. Il
nostro amico Dominicus, lusingato nella sua vanità, accantonò le sue precedenti precauzioni e, salito sulla pompa
dell'acqua, si dichiarò latore della notizia originaria che aveva suscitato così straordinario scalpore. Subito diventò
l'uomo del momento, e aveva appena iniziato a raccontare una nuova versione dell'accaduto con la voce di un
predicatore, quando la diligenza della posta arrivò nella strada del villaggio. Aveva viaggiato per tutta la notte, e doveva
aver cambiato i cavalli a Kimballton alle tre del mattino.
«Ora potremo conoscere tutti i particolari!», gridò la folla.
La diligenza arrivò cigolando fino alla piazza della taverna, seguita da un migliaio di persone, perché se
qualcuno avesse badato agli affari suoi fin'allora, ne sarebbero rimasti sei o sette ad ascoltare le notizie. Dominicus, il
primo tra gli inseguitori, scoprì a bordo due passeggeri, ambedue risvegliati bruscamente da un placido sonnellino per
trovarsi al centro di questo tumulto. E tutti li assillavano con domande diverse, ma formulate tutte insieme, così che la
coppia rimase senza parole, anche se uno era un avvocato e l'altra una giovane donna.
«Il signor Higginbotham! Vogliamo sapere tutti i particolari sul vecchio signor Higginbotham», strepitava la
folla. «Qual è il verdetto del medico legale? Gli assassini sono stati catturati? E la nipote del signor Higginbotham si è
ripresa dagli svenimenti? Il signor Higginbotham... Vogliamo sapere del signor Higginbotham!».
Il postiglione non disse una sola parola, oltre a lanciare terribili imprecazioni allo stalliere che non aveva
ancora portato una coppia fresca di cavalli. L'avvocato, che aveva di solito il controllo di sé, anche quando dormiva,
non appena capì il motivo di quel tumulto estrasse innanzi tutto un grosso portafoglio rosso. Nel frattempo, Dominicus
Pike, che era un giovane molto educato, e presumendo anche che una donna potesse riferire l'accaduto con la stessa
eloquenza di un avvocato, aveva aiutato la giovane a scendere dalla diligenza. Era una bella e spigliata fanciulla, ora
ben desta e fresca come una rosa, e la sua bocca era così dolce e invitante che Dominicus avrebbe preferito ascoltare da
lei parole d'amore piuttosto che la descrizione di un delitto.
«Signore e signori», disse l'avvocato ai bottegai, alle operaie e agli operai degli opifici. «Posso assicurarvi che
qualche inspiegabile equivoco, o più probabilmente una deliberata falsità, malignamente intesa a offendere il buon
nome del signor Higginbotham, ha suscitato questo singolare fermento. Siamo passati per Kimballton alle tre del
mattino, e sicuramente sarei stato informato del delitto, se mai fosse stato perpetrato. Ma ho qui una prova del contrario,
inoppugnabile quanto una testimonianza orale dello stesso signor Higginbotham. È un appunto relativo a una sua
istanza presso la corte del Connecticut, che mi è stato consegnato da quel gentiluomo in persona, e vedo che è datato
alle ore dieci della scorsa sera».
Così dicendo, l'avvocato esibì la data e la firma dell'appunto, da cui risultava inconfutabilmente che quel
maligno signor Higginbotham era vivo e vegeto quando l'aveva scritto, oppure - ciò che alcuni ritenevano più probabile
- era così assorto negli affari di questo mondo da continuare a trattarli anche dopo la morte. Ma stava per presentarsi
un'inattesa testimonianza: la giovane donna, dopo aver ascoltato le spiegazioni del venditore ambulante, attese un
attimo per aggiustarsi la gonna e i riccioli, poi comparve sulla porta della taverna e fece un lieve cenno con la mano per
farsi ascoltare.
«Brava gente», disse poi, «sono io la nipote del signor Higginbotham».
Un mormorio di stupore attraversò la folla nel vedere così fresca e rosea quella stessa infelice nipote che,
secondo la «Gazette» di Parker's Falls, doveva giacere svenuta e prossima alla morte, anche se alcuni, più accorti,
avevano sempre dubitato che una giovane donna fosse davvero così disperata per la morte di un vecchio e ricco zio.
«Come vedete», soggiunse la signorina Higginbotham con un sorriso, «questa strana storia è del tutto priva di
fondamento per quanto mi riguarda, e credo di poter affermare che lo è altrettanto per quanto riguarda il mio caro zio. Il
signor Higginbotham ha avuto la gentilezza di darmi ospitalità nella sua casa, anche se io contribuisco al mio
mantenimento insegnando a scuola. Sono partita da Kimballton questa mattina per trascorrere le vacanze di fine
settimana con un'amica, a circa cinque miglia da Parker's Falls. Il mio generoso zio, nell'udirmi sulle scale, mi ha
chiamato al suo letto e mi ha dato due dollari e cinquanta per pagarmi il prezzo del viaggio, e un dollaro per le altre mie
spese. Ha poi riposto il portafoglio sotto il cuscino, mi ha stretto le mani e mi ha consigliato di portare con me un po' di
biscotti nella borsetta, anziché far colazione per strada. Ho quindi fiducia, avendo lasciato in vita il mio amato parente,
di ritrovarlo tale al mio ritorno».
La giovane donna fece quindi un inchino al termine del suo discorso, così sensato, forbito e pronunciato con
tanta grazia e proprietà che tutti la giudicarono meritevole della carica di preside della miglior Accademia dello Stato..35
Un estraneo avrebbe tuttavia pensato che il signor Higginbotham dovesse essere oggetto di esecrazione a Parker's Falls
e che un pubblico ringraziamento fosse stato elevato per la sua morte, tanto fu la collera dei suoi abitanti quando
scoprirono l'errore in cui erano incorsi. Gli operai della segheria decisero anche di rendere pubblici onori a Dominicus
Pike, incerti soltanto se impeciarlo e ricoprirlo di piume o se innaffiarlo con un'abluzione dalla pompa cittadina, in cima
alla quale egli si era dichiarato latore della notizia. Gli assessori municipali, consigliati dall'avvocato, parlarono anche
di perseguirlo legalmente per diffusione di notizie false e per grave turbamento della quiete pubblica. Niente avrebbe
salvato Dominicus dalla giustizia sommaria della folla o da un regolare tribunale se la giovane nipote non avesse
elevato un appello in sua difesa. Dopo aver pronunciato qualche parola di sentita gratitudine per la sua benefattrice,
Dominicus salì sul suo carretto verde e se ne andò subito dal villaggio, accompagnato dalle scariche di artiglieria degli
scolaretti, che trovarono abbondanti munizioni nelle vicine pozzanghere e nelle cave di argilla. Quando si voltò per
rivolgere uno sguardo d'addio alla nipote del signor Higginbotham, il povero Dominicus fu colpito proprio sulla bocca
da una di queste palle, grossa come un budino, che gli diede un ancor più miserevole aspetto. Tutta la sua persona era
ora così inzaccherata da questi melmosi missili che pensò quasi di ritornare per invocare la minacciata abluzione alla
pompa cittadina, che pur non essendo intesa a fin di bene, sarebbe stata ora un atto caritatevole.
Ma ora il sole splendeva alto sul povero Dominicus, asciugando il fango, simbolo di tutte le macchie
dell'immeritato ludibrio, che poté essere facilmente spazzato via. Ed essendo di carattere ameno, Dominicus ben presto
si rallegrò e non riuscì a trattenere una grassa risata al pensiero di tutto il tumulto che il suo racconto aveva suscitato. I
manifesti affissi dai consiglieri avrebbero provocato inoltre l'incarcerazione di tutti i vagabondi dello Stato, l'articolo
della «Gazette» di Parker's Falls sarebbe stato ripubblicato dal Maine fino alla Florida, e forse avrebbe dato spunto ad
altri articoli sui giornali londinesi, e molti taccagni avrebbero tremato per i loro averi e per la loro vita nell'apprendere
ciò che era capitato al signor Higginbotham. Il venditore ambulante ripensò anche, con devozione, al fascino della
signorina Higginbotham, e si disse che nemmeno Daniel Webster aveva mai parlato così angelicamente come quella
giovane insegnante, quando l'aveva difeso dalla collera della popolazione di Parker's Falls.
Era ora giunto in vista del casello della gabella di Kimballton, luogo che aveva già deciso di visitare, anche se
gli affari lo avevano distolto dalla strada più diretta per Morristown. Avvicinandosi alla scena del supposto delitto,
Dominicus continuava a rimuginare sulle circostanze e sugli stupefacenti aspetti che aveva assunto tutta la vicenda. Se
niente fosse intervenuto a confermarlo, il racconto del primo viaggiatore poteva sembrare ora una burla, ma il mulatto
era evidentemente a conoscenza della notizia o del fatto avvenuto, ed era sospetta anche la sua espressione sgomenta e
colpevole quando era stato bruscamente interrogato. Se a questa singolare coincidenza di eventi si aggiungeva che la
voce corrispondeva esattamente al carattere e alle abitudini del signor Higginbotham, e il fatto che egli aveva
effettivamente un orto con un pero di san Michele davanti al quale passava sempre al tramonto, le circostanze
apparivano così convincenti da indurre Dominicus a dubitare che lo fossero altrettanto il testo autografo esibito
dall'avvocato e la stessa testimonianza diretta della nipote. Svolgendo prudenti indagini lungo la strada, il venditore
venne anche a sapere che il signor Higginbotham aveva al suo servizio un irlandese di dubbia reputazione, che aveva
ingaggiato senza alcuna raccomandazione per fare economia.
«Che sia io stesso impiccato», esclamò allora Dominicus, mentre arrivava in cima a una solitaria collina, «se
mai crederò che il vecchio Higginbotham è stato disimpiccato, finché non lo vedrò con i miei occhi e lo udirò dalla sua
bocca! E allora, se è davvero un imbroglione, chiamerò a testimoniare il pastore o qualche altro autorevole
personaggio!».
Stava facendosi sera quando Dominicus arrivò al casello della gabella di Kimballton, a circa un quarto di
miglio dall'omonimo villaggio. La sua piccola giumenta trottava lestamente dietro a un uomo a cavallo poco avanti a lui
che, dopo aver superato il casello, fece un cenno di saluto al gabelliere e proseguì verso il villaggio. Dominicus
conosceva il gabelliere, e mentre gli pagava il dovuto scambiò con lui i soliti commenti sul tempo.
«Immagino», disse poi il venditore, posando come una piuma la frusta sul fianco della giumenta, «che tu non
veda da qualche giorno il vecchio signor Higginbotham...».
«Ma certo», rispose il gabelliere, «è passato qui al casello poco prima di te, ed eccolo là a cavallo, se riesci a
vederlo nel buio della sera. È stato a Woodfield, questo pomeriggio, per una vendita all'incanto, e solitamente mi stringe
la mano e scambia qualche chiacchiera con me, ma questa sera mi ha fatto soltanto un cenno, come per dire "mettilo in
conto", e poi ha proseguito, perché, ovunque vada, dev'essere sempre a casa per le otto in punto».
«Così mi hanno detto», assenti Dominicus.
«Non ho mai visto nessuno così pallido e malconcio come quell'uomo», soggiunse il gabelliere. «E così mi
sono detto, questa sera: sembra più un fantasma o una vecchia mummia che un uomo in carne e ossa».
Il venditore tese lo sguardo nel crepuscolo, ma riuscì soltanto a distinguere un uomo a cavallo, ora molto avanti
sulla strada per il villaggio. Gli sembrò di riconoscere la schiena del signor Higginbotham, ma nelle ombre della sera e
nella polvere degli zoccoli del cavallo, la figura appariva vaga e indistinta, come se quel misterioso vecchio fosse
modellato nelle tenebre e nella luce grigia. Dominicus si sentì percorrere da un brivido.
«Il signor Higginbotham è ritornato dall'altro mondo», pensò, «passando per il casello di Kimballton».
Diede allora un colpo di redini e proseguì, mantenendosi pressappoco alla stessa distanza da quella vecchia
figura grigia, finché questa non scomparve dietro a una curva della strada. Quando arrivò in quel punto, il venditore non
vide più l'uomo a cavallo, ma si trovò all'inizio della strada del villaggio, non distante da alcune botteghe e da due
taverne raggruppate intorno al campanile della chiesa. Alla sua sinistra vide un muro di pietra e un cancello, il limitare
di un bosco, e dietro a questo un orto, più avanti un campo mietuto, e in fondo una casa. Era questa la proprietà del.36
signor Higginbotham, la cui abitazione si trovava ai margini della vecchia strada maestra, ma sullo sfondo della gabella
di Kimballton. Dominicus conosceva bene il posto e la sua giumenta si fermò per istinto, perché egli non s'accorse
nemmeno di aver tirato le redini.
«Per l'anima mia, non posso andar oltre questo cancello», si disse tremando. «Non sarò mai più me stesso,
finché non vedo se il signor Higginbotham è appeso al pero di san Michele!».
Saltò giù dal carretto, legò le redini a un palo del cancello e corse per il verde sentiero nel bosco, come se il
diavolo in persona lo inseguisse. In quel momento l'orologio del villaggio suonò le otto e a ogni rintocco Dominicus
trasalì e poi corse ancor più di prima finché, indistinto e solitario nel mezzo dell'orto, vide il fatale albero di pero. Un
grande ramo si estendeva sul sentiero dal suo vecchio tronco contorto, e in quel punto gettava una cupa ombra. Ma
qualcosa sembrava dibattersi sotto il ramo!
Il venditore non si era mai vantato di avere più coraggio di quanto si addicesse alla sua pacifica occupazione, e
non poté spiegarsene il motivo in questo caso d'emergenza. Certo è, comunque, che accorse sul posto, abbatté un
robusto irlandese col manico della sua frusta, e infine trovò... non ancora appeso all'albero del pero di San Michele, ma
tremante al di sotto, con un cappio già intorno al collo, proprio il vecchio signor Higginbotham!
«Signor Higginbotham», esclamò Dominicus con voce tremante, «lei è un uomo onesto e la sua parola mi
basta... Mi dica, lei è stato impiccato o no?».
Se l'enigma non è stato ancora risolto, poche parole possono spiegare il semplice accaduto per cui «il prossimo
evento proiettò avanti la sua ombra». Tre uomini avevano progettato di derubare e uccidere il signor Higginbotham, due
di loro avevano poi perso il coraggio e se l'erano squagliata, rimandando ciascuno il delitto di un giorno rispetto alla
propria scomparsa, e il terzo era nell'atto di compierlo quando un paladino, che ciecamente obbediva al richiamo del
fato, come gli antichi eroi dei romanzi, era comparso nella persona di Dominicus Pike.
Rimane soltanto da dire che il signor Higginbotham prese a cuore il venditore ambulante, raccomandò i suoi
meriti alla graziosa maestra di scuola e destinò tutti i suoi averi ai loro figli, assicurandone a loro gli interessi. E a suo
tempo il vecchio gentiluomo coronò questi suoi favori morendo cristianamente nel suo letto, e dopo questo triste evento
Dominicus Pike si è trasferito da Kimballton per costruire una grande fabbrica di tabacco nel mio paese natale.
LA PASSEGGIATA DELLA PICCOLA ANNIE
Din-don! Din-don!
Il banditore ha suonato la sua campanella a un lontano angolo della strada, e la piccola Annie è sui gradini
della casa di suo padre, sforzandosi di udire che cosa dice quell'uomo con la voce stentorea. Voglio ascoltare anch'io!
Ehi! sta annunciando alla gente che un elefante, un leone, una tigre reale, un cavallo con le corna e altri strani animali di
paesi lontani sono giunti in città e riceveranno tutti coloro che desiderano visitarli. Forse anche la piccola Annie
vorrebbe andare a vederli. Sì, posso vedere che la graziosa bambina è annoiata da questa larga e piacevole strada, con i
suoi alberi verdi che gettano la loro ombra attraverso la placida luce del sole, con il selciato e i marciapiedi puliti come
se la domestica li avesse appena spazzati con la scopa. Sente l'impulso di fare una passeggiata, quel desiderio di
scoprire i misteri del gran mondo che molti bambini sentono, e anch'io sentivo alla loro età. La piccola Annie farà una
passeggiata con me: devo soltanto tenderle la mano, ed ecco che come un uccellino nell'aria limpida, col suo vestitino di
seta azzurra svolazzante sulla calzamaglia bianca, la piccola Annie attraversa saltellando la strada.
Aggiustati quei riccioli bruni, Annie, lascia che ti leghi la cuffia, e ora mettiamoci in cammino! Che strana
coppia, questa che va a passeggio insieme. Uno cammina vestito in nero, con passo misurato e serio in volto, lo sguardo
pensoso posato a terra, mentre la gaia ragazzina saltella lievemente, come se fosse costretta a tenermi per mano
altrimenti i suoi piedi la farebbero danzare lontano da questa terra. Eppure c'è affinità tra noi. Se mi vanto di qualcosa, è
del mio sorriso che incanta i bambini, e d'altronde sono poche le signore adulte che riuscirebbero ad attirarmi lontano
dalla piccola Annie, perché mi rallegra lasciar andare la mia mente accanto a quella di un'innocente bambina. Su,
andiamo, Annie, e se ti faccio una predica mentre camminiamo, non prestarmi ascolto, ma pensa soltanto a te e sii
felice!
Voltato l'angolo, vediamo carrozze con due cavalli e diligenze con quattro che rimbombano incrociandosi,
carri e carretti che si muovono più lentamente, carichi di barili provenienti dal molo, e cigolanti calessi che forse
vedremo andare in pezzi sotto i nostri occhi. Più avanti, ecco che viene un uomo che spinge una carriola sul selciato.
Ma la piccola Annie non ha paura di tutta questa baraonda? No, non si ritrae nemmeno accanto a me, ma passa oltre con
intrepida fiducia, felice in mezzo a questa grande folla di adulti, che mostrano lo stesso rispetto per la sua giovane età
quanto per l'estrema vecchiaia. Nessuno la spinge, ma tutti si fanno da parte per lasciare il passo alla piccola Annie, e
ciò che è più singolare è che lei sembra consapevole del suo diritto a questo rispetto. E ora i suoi occhi si illuminano di
piacere: un suonatore ambulante è seduto sui gradini di quella chiesa laggiù e riversa le sue note sulla città affaccendata,
una melodia che si perde nello scalpiccio dei passi, nel brusio delle voci, nel cigolio delle ruote. Chi presta ascolto al
povero suonatore di organetto? Nessuno, oltre a me e alla piccola Annie, i cui piedi iniziano a muoversi al ritmo di
quella musica vivace, come se le dispiacesse che andasse sprecata senza una danza. Ma dove potrebbe trovare un
cavaliere, la piccola Annie? Alcuni hanno la gotta o i reumatismi, altri sono rigidi per l'età, alcuni sono fiaccati dalle
malattie, altri sono così magri che le loro ossa scricchiolerebbero, oppure così ponderosi che i loro movimenti.37
spezzerebbero il lastricato. Ma molti, molti altri hanno piedi di piombo, perché i loro cuori sono molto più pesanti del
piombo, ed è un triste pensiero quello in cui mi sono imbattuto. Che coppia di ballerini saremmo! Ma anch'io sono un
posato gentiluomo, cara Annie, e quindi proseguiamo con passo regolare il nostro cammino.
Mi domando chi prova maggior piacere a guardare le vetrine dei negozi, se questa frivola giovinetta o il
ponderato signore che sono io. Amiamo le sete di sgargianti colori, che risplendono dentro i negozi bui di azzimati
venditori di tessuti, siamo piacevolmente abbagliati dagli oggetti di argento brunito e di oro cesellato, dagli anelli di
matrimonio e dai costosi monili di fidanzamento che scintillano nella vetrina del gioielliere, ma Annie, più di me, si
sforza anche di intravvedere la sua immagine mentre passa davanti agli specchi polverosi dei negozi di articoli
casalinghi. Tutto ciò che è vivace e brillante attira l'attenzione di ambedue.
Ecco un negozio al quale i ricordi della mia infanzia, oltre che le mie attuali propensioni, conferiscono
particolare fascino. Che piacere lasciar correre la fantasia tra le leccornie di un pasticciere: quelle torte di pasta sfoglia
così bianca e di misterioso contenuto, sia un abbondante ripieno di prugne e uva passa oppure di mele fragranti,
delicatamente insaporite con essenza di rosa, e quei pasticcini a forma di cuore o rotondi, ammucchiati in un'alta
piramide, e quei dolci cerchietti dolcemente chiamati baci, e quelle masse scure e imponenti, pronte a diventare torte
nuziali al matrimonio di qualche ereditiera, in forma di montagne con la sommità incappucciata di zucchero simile a
neve! E poi quei tesori di zuccherini, bianchi, cremisi o gialli, contenuti in grandi vasi di vetro, e canditi d'ogni varietà,
e quei cioccolatini, o come si chiamano, molto apprezzati dai bambini per la loro dolcezza, e ancor più, per le frasi che
contengono, da fanciulle e giovanotti innamorati! Oh, sento l'acquolina in bocca, e anche tu, piccola Annie, ma non ci
lasceremo indurre in tentazione, se non da un'immaginaria scorpacciata, e perciò proseguiamo in fretta il cammino,
divorando la visione di un bel budino.
Ed ecco piaceri di un genere più elevato, come direbbero alcuni, nella vetrina di un libraio. Annie è una
letterata? Sì, è appassionata lettrice dei libri di Peter Parley, ha una crescente passione per le fiabe, anche se raramente
soddisfatta oggigiorno, e l'anno prossimo si abbonerà alla «Miscellanea» giovanile. Però, per dire la verità, tende a
distogliere lo sguardo dalla pagina stampata per rivolgerlo alle belle illustrazioni, come quelle di vivaci colori che fanno
di questa vetrina una continua attrazione per i bambini. Che cosa dirà Annie, se nel libro che intendo mandarle per
Capodanno trovasse la sua dolce personcina rilegata in seta o in marocchino con i bordi dorati, dove rimarrà finché lei
sarà una donna adulta, con figli che leggeranno lì dell'infanzia della loro mamma? Sarebbe davvero buffo.
Ora la piccola Annie è stanca di illustrazioni e mi tira per la mano finché d'improvviso ci fermiamo davanti al
più meraviglioso negozio di tutta la città. Oh, buon Dio! è un negozio di balocchi o il paese delle fiabe? Qui vediamo
infatti un cocchio dorato sul quale il re e la regina delle fiabe possono viaggiare fianco a fianco, mentre i loro cortigiani
a cavallo galoppano in trionfale processione davanti e dietro alla regale coppia. Qui vediamo anche stoviglie di
porcellana, pronte per essere apparecchiate davanti agli stessi regali personaggi, quando imbandiscono un sontuoso
pranzo nella sala più maestosa del loro palazzo, alta cinque piedi, e guardano gli altri nobili che banchettano sulla lunga
prospettiva della tavolata. Tra il re e la regina dovrebbe sedere la mia piccola Annie, la più bella di tutte le fate. Ecco
qui un turco col turbante che ci minaccia con la sua sciabola, come un brutto ceffo di pagano qual è. E lì accanto, ecco
un mandarino cinese, che annuisce col capo verso Annie e me. Qui possiamo passare in rassegna un intero esercito di
cavalieri e fanti in uniformi rosse e azzurre, con tamburi, pifferi, trombe e ogni sorta di silenziosi strumenti musicali,
che si sono fermati sul ripiano di questa vetrina dopo la loro faticosa marcia da Lilliput. Ma che cosa importa ad Annie
dei soldati? Lei non è una regina conquistatrice, non è Semiramide né Caterina di Russia: tutto il suo cuore è rivolto a
quella bambola che ci osserva con uno sguardo così incantevole. È questo il vero giocattolo della bambina: anche se è
fatta di legno, una bambola è un personaggio visionario ed etereo, dotato di una sua peculiare vita dalla fantasia
dell'infanzia, è un'eroina di romanzo, un'attrice, una dama che soffre in migliaia di immaginarie situazioni, la principale
protagonista di quel mo ndo fantastico in cui i bambini scimmiottano quello vero. La piccola Annie non capisce ciò che
dico, ma guarda con occhi sognanti l'orgogliosa dama nella vetrina. La inviteremo a casa con noi al nostro ritorno. Per
adesso arrivederci, signora Bambola! Anche tu sei un giocattolo, e guardi dalla tua vetrina molte signore che sono
giocattoli anch'esse, anche se camminano e parlano, e una folla di persone in cerca di giocattoli, anche se sono così serie
in volto. Tu, con i tuoi occhi che non si chiudono mai, se solo avessi l'intelligenza per trovare una morale in tutto ciò
che scorre davanti a loro, che bambola saggia saresti! Su, andiamo, piccola Annie, troveremo altri giocattoli, ovunque si
vada.
Ora ci facciamo di nuovo strada in mezzo alla folla. È strano incontrare, nella parte più affollata della città,
creature viventi che sono nate in qualche luogo remoto e solitario, ma hanno acquistato una seconda natura nel mondo
selvaggio degli uomini. Guarda, Annie, quel canarino nella sua gabbia fuori dalla finestra. Poverino, le sue piume
dorate sono macchiate da questa luce fumosa del sole. Sarebbe stato lucente il doppio nelle isole dell'estate, ma ormai è
diventato cittadino, con tutti i suoi gusti e abitudini, e non canterebbe certo così bene senza il tumulto che sommerge la
sua musica. È un peccato che non sappia com'è infelice. Ed ecco un pappagallo che strilla «Loreto bello, Loreto bello!»,
mentre passiamo davanti. Stupido uccello, che parla della sua bellezza a sconosciuti, tanto più che non è un bel Loreto,
anche se è vestito con sgargianti piume verdi e gialle. Se avesse detto «Annie bella», sarebbe stato più sensato. E guarda
quello scoiattolo grigio sulla porta del negozio del fruttivendolo, che gira così allegramente nella sua ruota di metallo!
Condannato alla tortura della ruota, ne ha fatto un suo divertimento: che ammirevole filosofia!
Ecco che arriva un grosso cane irsuto, il cane di qualche contadino alla ricerca del suo padrone, e annusa i piedi
di tutti, sfiora la mano di Annie col suo freddo naso, ma se ne va in fretta, anche se lei l'avrebbe volentieri accarezzato.
Auguri per la tua ricerca, amico fedele! E là sul davanzale di una finestra se ne sta sdraiato un grosso gatto giallo, un.38
gatto corpulento e placido che guarda questo mondo effimero con i suoi occhi di gufo, e fa sicuramente alcune succinte
considerazioni, o ciò che sembra, su quella stupida bestia. Fammi spazio accanto a te, saggio micio, e saremo una
coppia di filosofi!
E là vediamo qualcosa che ci ricorda il pubblico banditore, con la sua campanella squillante. Guarda! guarda il
grande telo teso nell'aria, dipinto tutt'intorno con animali selvaggi, come se si fossero lì riuniti per eleggere un re,
secondo le loro tradizioni fin dai tempi di Esopo. Ma non stanno eleggendo un re né un presidente, altrimenti udiremmo
orribili voci ringhianti. Sono invece venuti dai boschi profondi, dalle montagne selvagge, dalle sabbie del deserto, dalle
nevi polari solo per rendere omaggio alla mia piccola Annie. E quando entriamo tra loro, il grande elefante ci fa un
inchino nella migliore etichetta elefantica, chinando lentamente la sua enorme mole, il tronco abbassato e una zampa
tesa di dietro. Annie restituisce il saluto, con gran compiacimento dell'elefante che è certamente il mostro più educato
del serraglio. Il leone e la leonessa hanno da fare con due ossa succulente, e la tigre reale, bella e indomabile, continua a
passeggiare nella sua stretta gabbia con fare altero, incurante degli spettatori, o ricordando le feroci imprese della sua
vita di un tempo, quando era solita avventarsi su questi animali inferiori nelle giungle del Bengala.
Qui vediamo il lupo, ma non avvicinarti, Annie!, lo stesso lupo che ha divorato Cappuccetto Rosso e la sua
nonna. Nella gabbia accanto vediamo una iena dell'Egitto, che ha sicuramente ululato intorno alle piramidi, e un orso
bruno delle nostre foreste, che sono compagni di prigionia ed eccellenti amici. Esistono forse due creature viventi che
hanno così poche simpatie comuni da non poter essere amiche? Ecco qui un grande orso bianco, che un comune
osservatore direbbe una bestia molto stupida, però intuisco che è solo assorto in meditazione: pensa ai suoi viaggi tra gli
iceberg, alla sua comoda casa nelle vicinanze del Polo Nord, e ai suoi cuccioli che ha lasciato a ruzzolare tra le nevi
eterne. E in realtà è un orso sentimentale, ma come sono prive di sentimenti quelle scimmie, quegli strani, piccoli bruti,
sogghignanti e scimmiottanti, pettegoli, maleducati e dispettosi! Ad Annie non piacciono le scimmie, la loro bruttezza
spaventa i suoi gusti istintivamente delicati e inquieta la sua mente per la loro primitiva e oscura rassomiglianza con
l'umanità. Ma ecco qui un piccolo pony, così piccolo che Annie potrebbe cavalcarlo, e galoppa intorno in cerchio,
battendo gli zoccoli al ritmo di una banda musicale. E arriva poi un ometto con la giacca gallonata, il tricorno in testa e
la frusta roteante in mano, così piccolo che potrebbe essere il re delle, fate, e così brutto che potrebbe esserlo degli
gnomi, e con un balzo salta in groppa. Allegra suona la musica, allegro galoppa il pony, allegro lo cavalca il piccolo
gentiluomo. Su, Annie, ritorniamo in strada, forse potremo vedere anche lì scimmie a cavallo...
Misericordia, ma in quale mondo chiassoso viviamo, noi gente tranquilla? La piccola Annie ha mai sentito
parlare dello strepito della città di Londra? E con quali robusti polmoni grida quell'uomo che la sua carretta è piena di
aragoste! Ecco che ne arriva un altro su un carro, soffiando in un roco e assordante corno di latta per annunciare: «pesce
fresco!». Ascolta! Una voce dall'alto, come quella di un muezzin in cima a una moschea, comunica che uno
spazzacamino è risalito all'aria aperta dal fumo e dalla fuliggine di antri cavernosi. Ma che cosa può interessare al
mondo? Ahimè! Udiamo anche un acuto grido di dolore, la voce di un bambino che si alza sempre più ogni volta che si
ripete quel secco e acuto rumore prodotto da una mano aperta sulla tenera carne. Annie se ne rattrista, anche se non ha
esperienza diretta di questo crudele dolore. Ecco di nuovo il banditore cittadino, con qualche nuovo annuncio da
comunicare al pubblico ascolto. Ci darà notizia di un'asta, di un portafoglio smarrito, di una mostra di belle figure di
cera, o di qualche mostruoso animale, ancora più orribile di quelli del serraglio? Propendo per quest'ultima ipotesi.
Guarda come solleva la campanella nella mano destra e la scuote dapprima lentamente, poi sempre più in fretta, finché
il batacchio sembra colpire ambedue i lati contemporaneamente, e il suono si propaga in rapida successione, vicino e
lontano.
Din-Don! Din-Don!
E ora si alza la sua voce limpida e forte sopra al frastuono della città, soffocando il brusio di molte bocche,
distogliendo ogni mente dai propri affari, echeggiando su e giù nella strada, salendo nel silenzio delle camere dei malati,
penetrando fin nello scantinato delle cucine, dove la cuoca accaldata lascia i fornelli per ascoltare. Tra tutti coloro che si
rivolgono al pubblico ascolto, sia in chiesa, in tribunale o nell'aula del municipio, chi ha un pubblico così attento come
il banditore cittadino? E che cosa dice ora l'oratore del popolo?
«È scomparsa dalla sua casa una bambina di cinque anni. Indossa un abitino azzurro e calzamaglia bianca, ha
riccioli bruni e occhi color nocciola. Chiunque la riporti alla sua mamma in pena...».
Basta così, banditore: la bambina scomparsa è ritrovata! Oh, mia cara Annie, ci siamo dimenticati di informare
tua mamma della nostra passeggiata, ed ella è così in pena che ha mandato il banditore a gridare nelle strade,
spaventando giovani e anziani, per dar notizia dello smarrimento di una bambina che non ha mai lasciato la mia mano!
Bene, affrettiamoci verso casa, e mentre andiamo, cara Annie, non dimenticare di ringraziare il cielo che dopo aver
vagabondato un po' per il mondo, puoi far ritorno al primo richiamo, col cuore sgombro e leggero, ed essere di nuovo
una bambina felice. Io, invece, ho smarrito troppo la strada perché il banditore venga a cercarmi!
Dolce è stata la compagnia dell'infanzia per il mio spirito, in questa passeggiata con la piccola Annie! Non dite
che è stato uno spreco di tempo prezioso, un'oziosa attività, un cicaleccio di discorsi e fantasie infantili su argomenti
indegni dell'attenzione di un uomo adulto. È stato soltanto questo? Non direi, e non sono veramente saggi coloro che lo
pensano. Come l'alito puro dei giovani ridà vita agli anziani, così la nostra natura morale riprende vita grazie ai loro
liberi e semplici pensieri, ai loro ingenui sentimenti, alla loro fresca allegria, dovuta a poco o nessun motivo, ai loro
dolori, presto destati e altrettanto presto sopiti. La loro influenza su noi è almeno reciproca a quella che noi abbiamo su
loro. Quando la nostra infanzia è quasi dimenticata, e ormai lontana è la fanciullezza, anche se sembra soltanto ieri,
quando la vita cala pesantemente su noi e dubitiamo di poterci chiamare ancora giovani, allora è bene evadere dalla.39
società degli uomini barbuti, e anche da quella più gentile delle donne, e trascorrere un'ora o due in compagnia dei
bambini. Dopo esserci abbeverati a queste fonti ancora fresche di vita, ritorneremo nella folla, come io faccio ora, per
riprendere la lotta e fare la nostra parte, forse con ancora maggior fervore, ma, per una volta, con cuore più puro e dolce,
con spirito più lieve e saggio. E tutto ciò grazie al tuo dolce incantesimo, cara piccola Annie!
WAKEFIELD
In qualche vecchia rivista o giornale, ricordo d'aver letto la storia, riferita come vera, di un uomo, cui daremo il
nome di Wakefield, il quale abbandonò per lungo tempo sua moglie. Questo fatto, così astrattamente enunciato, non è
particolarmente insolito, e senza un'opportuna descrizione delle circostanze, non può nemmeno essere giudicato crudele
o insensato. Nondimeno, anche se non è il più grave, questo è forse il più strano caso registrato di inadempienza nei
doveri coniugali, e anche un singolare esempio tra quanti se ne possono trovare in tutti gli annali delle umane
stravaganze. La coppia abitava a Londra, e l'uomo, col pretesto di partire per un viaggio, prese alloggio in una strada
vicina alla sua casa e lì, all'insaputa della moglie e degli amici, e senza un'ombra di motivo per questo volontario esilio,
visse per più di vent'anni. Durante questo periodo, si recava ogni giorno a vedere la sua casa, e non di rado anche la
moglie abbandonata. E dopo un così lungo intervallo della sua felice vita coniugale, quando la sua morte era ormai data
per certa, divise le sue proprietà, cancellato il suo nome dal ricordo, e la moglie ormai da tempo rassegnata alla sua
autunnale vedovanza, una sera costui si presentò alla porta di casa, tranquillamente come dopo un giorno di assenza, e
divenne uno sposo devoto fino alla morte.
Questi fatti essenziali sono tutto ciò che ricordo. Ma l'episodio, per quanto assolutamente originale, senza
precedenti e probabilmente irripetibile, è tale, io credo, da richiamare la generale curiosità della gente. Ciascuno di noi
sa bene che non potrebbe commettere una simile follia, eppure, la sensazione che qualcun altro ne sarebbe capace.
Questo episodio è stato ripetutamente oggetto delle mie personali riflessioni, quanto meno, suscitando sempre il mio
stupore, accompagnato però dalla sensazione che dev'essere accaduto realmente, nonché da una certa idea del carattere
del suo protagonista. Ogni volta che un argomento richiama così insistentemente l'attenzione della mente, è ben speso il
tempo dedicato a riflettervi. Se il lettore preferisce, lo lascerò alle sue personali riflessioni, ma se volesse vagabondare
con me attraverso quei vent'anni di stravaganza di Wakefield, gli do il benvenuto, confidando che vi sia contenuto un
senso e una morale, anche se non riuscissimo a trovarli, ben riordinati e condensati nella sua conclusione. Il pensiero ha
sempre la sua utilità, e ogni avvenimento singolare la sua morale.
Che tipo d'uomo era Wakefield? Siamo liberi di farcene una nostra idea e di attribuirla al suo nome. Era allora
nel fiore degli anni, e le sue passioni coniugali, mai smodate, si erano attutite in un sentimento tranquillo e
consuetudinario; tra tutti i mariti era probabilmente il più fedele, perché una certa indolenza teneva a riposo il suo cuore,
ovunque potesse essere rivolto. Era un intellettuale, ma non in modo attivo: la sua mente s'intratteneva in lunghe e
oziose meditazioni che non tendevano a nessun fine, o non avevano forza sufficiente per raggiungerlo, i suoi pensieri
erano di rado abbastanza risoluti da trovare espressione nelle parole. L'immaginazione, nel senso proprio del termine,
non faceva parte delle doti di Wakefield. Con un cuore freddo, ma non corrotto né volubile, e con una mente mai
infiammata da pensieri turbolenti, né turbata da pensieri originali, chi avrebbe potuto immaginare che il nostro amico si
sarebbe meritato un posto di primo piano tra gli autori di eccentriche imprese? Se ai suoi conoscenti fosse stato
domandato chi era l'uomo, in tutta Londra, che sicuramente non avrebbe fatto oggi niente che potesse essere ricordato
l'indomani, tutti avrebbero pensato a Wakefield. Soltanto la compagna della sua vita avrebbe forse esitato. Pur senza
aver analizzato il carattere del marito, ella avvertiva vagamente in lui un placido egoismo che aveva arrugginito la sua
mente già inattiva, una sua peculiare vanità, la sua caratteristica più inquietante, una certa disposizione all'inganno, che
di rado aveva prodotto effetti maggiori di qualche piccolo segreto che teneva celato, e che non meritava nemmeno
d'essere rivelato, e infine, quella che lei definiva una vaga stranezza che si manifestava a volte nel buon uomo. Questa
sua ultima peculiarità era indefinibile, e forse nemmeno esistente.
Immaginiamo ora Wakefield mentre si congeda dalla moglie. È il crepuscolo di una sera d'ottobre, e lui indossa
uno sbiadito cappotto, un cappello coperto di tela cerata, stivali alti, tiene un ombrello in una mano e una valigetta
nell'altra. Ha informato sua moglie che deve prendere la diligenza della sera per la campagna. Lei vorrebbe informarsi
sulla durata del viaggio, sul suo scopo e sulla probabile data del ritorno, ma rispettando quella sua innocua passione per
il mistero, si limita a interrogarlo soltanto con uno sguardo. Lui le dice di non aspettarlo con certezza al ritorno della
diligenza e di non preoccuparsi se mai dovesse trattenersi fuori casa per tre o quattro giorni, ma di attenderlo in ogni
caso per venerdì sera all'ora di cena. Si può pensare che nemmeno lo stesso Wakefield ha ancora idea di ciò che
accadrà. Le porge la mano, lei gli dà la sua, e si scambiano un bacio distratto come avviene dopo dieci anni di
matrimonio, poi il signor Wakefield, un uomo di mezza età, se ne va, già quasi deciso a sconcertare la sua buona moglie
con un'intera settimana di assenza. Dopo che la porta si è chiusa alle sue spalle, lei si accorge che viene leggermente
scostata, e attraverso lo spiraglio le appare il volto del marito, che le sorride e un attimo dopo scompare alla sua vista. In
quel momento ella trascura l'episodio, senza nemmeno pensarci, ma molto tempo dopo, quando è da più anni vedova
che moglie, quel sorriso riaffiora fugacemente in tutti i suoi ricordi del volto del marito. Nelle sue ripetute meditazioni,
circonda quel sorriso di una moltitudine di fantasie, che lo fanno apparire strano e inquietante: se, per esempio, lo
immagina dentro una bara, quello sguardo d'addio è raggelato sui suoi pallidi lineamenti, o se lo sogna nei Cieli, il suo.40
spirito mostra ancora quel tranquillo e scaltro sorriso. Ma è proprio per quel sorriso, quando tutti gli altri danno
Wakefield per morto, che lei dubita a volte di essere vedova.
Ma l'oggetto del nostro interesse è il marito. Dobbiamo affrettarci a seguirlo per strada, prima che perda la sua
individualità e si mescoli con la gran folla della vita londinese, dove sarebbe inutile cercarlo. Seguiamolo allora da
vicino, finché, dopo molte deviazioni e giri viziosi, lo troviamo comodamente seduto accanto al caminetto di un piccolo
appartamento da lui precedentemente affittato. Si trova ora nella strada accanto a quella di casa sua, ed è giunto al
termine del suo viaggio. Non riesce quasi a credere alla sua fortuna, di essere arrivato fin là inosservato, ricordando che
a un certo punto è stato trattenuto dalla folla proprio sotto la luce di un lampione acceso, che gli è sembrato di udire
passi che lo seguivano, distinti dallo scalpiccio della moltitudine intorno a lui, e che, in un'altra occasione, ha udito una
voce che gridava e gli era parso che chiamasse il suo nome. Sicuramente, almeno una decina di ficcanaso deve averlo
visto, e avrà già raccontato tutto a sua moglie. Povero Wakefield, non ti rendi conto di come sei insignificante in questo
vasto mondo! Nessun occhio di mortale, tranne il mio, ha seguito le tue tracce. Vattene tranquillamente a letto, babbeo,
e domani, se sei saggio, ritorna a casa tua, dalla buona signora Wakefield, e dille tutta la verità. Non allontanarti mai,
nemmeno per una breve settimana, dal tuo posto nel suo casto seno. Se mai, anche per un solo momento, ella dovesse
considerarti morto, scomparso o per sempre diviso da lei, ti accorgeresti allora amaramente di un permanente
mutamento nella tua fedele moglie. È pericoloso provocare fratture negli affetti umani, non perché esse si divaricano
sempre più, ma perché si chiudono così rapidamente!
Quasi pentito della sua marachella, o come si voglia chiamarla, Wakefield si corica di buon'ora, e trasalendo
nel suo primo sonno allunga le braccia nella solitaria distesa di quel letto sconosciuto. «No», pensa avvolgendosi nelle
coperte, «non dormirò un'altra notte da solo!».
Il mattino dopo si alza più presto del solito, e riflette seriamente su ciò che in realtà intende fare. I suoi
ragionamenti sono infatti così vaghi e tortuosi che egli è giunto a questa singolare decisione sì con la coscienza di uno
scopo, ma senza la capacità di definirlo abbastanza bene per poterlo esaminare. La nebulosità del progetto e il
precipitoso impegno con cui si è accinto a realizzarlo denotano in pari misura un uomo di debole carattere. Wakefield,
tuttavia, vaglia minuziosamente i suoi pensieri, e si scopre la curiosità di sapere come vanno le cose a casa, come la
moglie esemplare sopporterà la sua vedovanza di una settimana, come reagirà alla sua scomparsa la piccola cerchia di
persone e cose di cui lui era il centro. In fondo a tutta la faccenda, c'è quindi una sua morbosa vanità. Ma come può
conseguire il suo scopo? Non certo chiudendosi in questo comodo alloggio dove, pur avendo dormito ed essendosi
destato nella strada accanto a casa sua, ne è in effetti lontano come se la diligenza lo avesse velocemente trasportato per
tutta la notte. Ma se mai ricomparisse a casa, tutto il suo piano andrebbe in fumo. Il suo povero cervello è
disperatamente dilaniato dal dilemma, e infine egli si avventura fuori di casa, quasi deciso ad attraversare l'incrocio per
lanciare un frettoloso sguardo al suo domicilio abbandonato. L'abitudine, perché egli è un uomo abitudinario, lo prende
per mano e lo conduce, assolutamente inconsapevole, fino alla porta di casa. dove, proprio nel momento fatidico, è
risvegliato dallo scalpiccio del suo piede sul gradino. Wakefield! Dove vai?
In quel momento, il suo destino sta ruotando su un perno. Senza pensare al futuro verso cui lo porterebbe quel
primo passo indietro, Wakefield fugge via, ansimante, per un'agitazione finora sconosciuta, e non osa quasi voltare la
testa quando giunge in fondo alla strada. Può essere che nessuno l'abbia visto? Gli abitanti della casa, la decorosa
signora Wakefield, la scaltra servetta e il piccolo, sudicio garzone, non solleveranno un putiferio per le strade di Londra,
all'inseguimento del loro padrone e signore fuggitivo? Una fuga ben riuscita! Prende coraggio per fermarsi e guardare
verso casa, ma è sconcertato nel vedere una sorta di mutamento avvenuto in quell'edificio così famigliare, come capita a
tutti noi quando, a distanza di mesi o di anni, rivediamo una collina, un lago o un'opera d'arte con cui eravamo una volta
in rapporto. Comunemente, questa indescrivibile sensazione è provocata dal confronto e dalla differenza tra i nostri
imperfetti ricordi e la realtà. Nel caso di Wakefield, invece, è stato l'incantesimo di una sola notte a produrre una simile
trasformazione, perché in quel breve lasso di tempo è avvenuto un profondo mutamento morale, anche se lui ne è
ignaro. Prima di andarsene, coglie una lontana e fuggevole apparizione di sua moglie mentre passa davanti alla finestra
di fronte, col viso rivolto verso il fondo della strada. Lestamente, l'ingenuo se la squaglia, temendo che, tra tante
migliaia di atomi di mortalità, lo sguardo di lei possa averlo riconosciuto. È felice in cuor suo, ma frastornato nella
mente, quando si ritrova davanti al caminetto del suo alloggio.
Questo per quanto riguarda l'inizio di questa prolungata stravaganza. Dopo l'idea iniziale e tutto il fermento
della pigra mente di quest'uomo per tradurla in pratica, la vicenda si svolge secondo un ordine naturale. Possiamo
immaginare che Wakefield, dopo lunghe riflessioni, acquisti, nella bottega di qualche rigattiere ebreo, una nuova
parrucca di pelo rossiccio e scelga con cura vari indumenti di foggia diversa dal suo solito abito marrone. E' fatta, ora
Wakefield è un altro uomo. Stabilito un nuovo stile di vita, un ritorno al vecchio sarebbe quasi altrettanto difficile del
passo che l'ha portato in questa situazione senza precedenti. E si incaponisce ancor più a causa di un'occasionale
ombrosità del suo carattere, provocata ora dalla sensazione che nel cuore della signora Wakefield non è stata prodotta
un'adeguata reazione. Non farà ritorno a casa fin quando sua moglie non sarà spaventata a morte. Già due o tre volte ella
è passata davanti ai suoi occhi, ogni volta con passo più pesante, più pallida e preoccupata in volto, e la terza settimana
dalla sua scomparsa egli vede entrare nella casa un funesto presagio, nelle vesti di un farmacista. L'indomani, il
batacchio della porta viene attutito con un panno. Verso sera, arriva la carrozza di un medico, e deposita il suo
imparruccato e austero occupante davanti alla porta di casa, da dove egli esce dopo una visita di un quarto d'ora, forse
per preannunciare un funerale. Povera donna, morirà? A questo punto Wakefield è in preda a un certo fermento di
sentimenti, ma ancora si trattiene lontano dal capezzale della moglie, e si giustifica con la propria coscienza dicendosi.41
che ella non dev'essere disturbata in questo momento critico. Se qualcos'altro lo trattiene, egli non se ne rende conto.
Nel corso di alcune settimane, la moglie si ristabilisce: la crisi è superata, il suo cuore è afflitto, forse, ma tranquillo e,
presto o tardi che lui ritorni, non sarà più tormentato a causa sua. Queste idee balenano nella nebbia della mente di
Wakefield, il quale acquista confusamente coscienza del fatto che un baratro ormai quasi incolmabile separa ora
l'alloggio preso in affitto dalla sua casa d'un tempo. «È soltanto nella strada accanto!», dice talvolta tra sé. Sciocco, è in
un altro mondo! Finora ha rimandato il suo ritorno da un giorno con l'altro, ma ora questa data diviene imprecisata. Non
domani, forse la prossima settimana, abbastanza presto, comunque. Poveretto! I morti hanno pressappoco le stesse
probabilità, che ha l'autoesiliato Wakefield, di rivisitare le loro dimore terrene.
Come vorrei avere un in-folio da scrivere, anziché un racconto d'una decina di pagine! Potrei allora spiegare
come un'influenza al di là del nostro controllo prende nelle sue salde mani ogni atto che noi compiamo, e ne ordisce in
un ferreo tessuto le inevitabili conseguenze. Wakefield è ora prigioniero del suo destino. Dobbiamo ora lasciarlo, per
una decina d'anni, mentre s'aggira intorno a casa sua, senza varcarne mai la soglia, sempre fedele a sua moglie, con tutta
la devozione di cui è capace il suo cuore, mentre la sua figura lentamente sbiadisce in quello di lei. Già da tempo, si
deve rilevare, egli ha perso coscienza della bizzarria del suo comportamento.
Ed ecco la scena fatale! Nel mezzo della folla di una strada londinese, riconosciamo un uomo, ormai avviato
alla vecchiaia, con poche caratteristiche che possano richiamare l'attenzione di osservatori distratti, il quale mostra,
tuttavia, in tutto il suo aspetto, l'impronta di un destino non comune, per coloro che hanno la capacità di vederla.
È dimagrito, la sua fronte bassa e stretta è percorsa da profonde rughe, i suoi occhi, piccoli e opachi, si
guardano talvolta intorno nervosamente, ma più spesso sembrano guardare dentro di sé. Cammina a capo chino, con una
strana andatura obliqua, come se non volesse mostrare al mondo la vista frontale di sé. Osservatelo abbastanza bene per
vedere ciò che abbiamo descritto, e anche voi dovrete convenire che le circostanze, le quali spesso creano persone
singolari da un comune prodotto della natura, hanno qui forgiato uno di questi uomini. Dopo averlo lasciato mentre
cammina furtivamente sul marciapiede, volgete ora lo sguardo nella direzione opposta, dove una donna prosperosa,
giunta evidentemente al declino della vita, sta dirigendosi con un libro di preghiere in mano verso la chiesa vicina. Il
suo placido contegno è quello di una vedova ormai abituata alla sua condizione. I suoi rimpianti si sono ormai sopiti,
oppure sono divenuti così indispensabili al suo cuore che potrebbero essere quasi scambiati per una gioia. Proprio
mentre l'uomo magro e la donna prosperosa stanno passando, avviene un breve ingorgo che porta le due persone
direttamente a contatto. Le loro mani si toccano, la pressione della folla spinge il seno di lei contro la spalla dell'uomo, e
si trovano lì, faccia a faccia, guardandosi l'un l'altra negli occhi. Ed è così che, dopo dieci anni di separazione,
Wakefield incontra sua moglie!
Poi la folla li trascina via, separa le loro strade. La tranquilla vedova riprende il suo passo e prosegue verso la
chiesa, ma si ferma davanti al portale e lancia uno sguardo perplesso nella strada. Ma poi varca la soglia, aprendo il suo
libro di preghiere. E l'uomo? La sua espressione è così stravolta che anche i londinesi, così affaccendati e individualisti,
si fermano a guardarlo mentre s'affretta a ritornare al suo alloggio, e lì giunto chiude col chiavistello la porta e si getta
sul letto. I sentimenti sopiti negli anni ora prorompono, e la sua fragile mente riceve una momentanea energia dal loro
impulso, tutta la miserabile stravaganza della sua vita gli si rivela in un lampo, e allora esclama con tutta la sua
passione: «Wakefield! Tu sei pazzo!».
Forse era proprio così. La peculiarità della sua situazione deve averlo condizionato a tal punto che, a confronto
con i suoi simili e con la vita in generale, non si può dire che egli possedesse tutte le sue facoltà mentali. Gli è riuscito,
o piuttosto gli è capitato di separarsi dal mondo, di scomparire, di rinunciare al suo posto e ai suoi privilegi tra i viventi,
senza però essere ammesso tra i defunti. La vita dell'eremita non è paragonabile alla sua. Egli viveva una volta nel
fermento della città, ma la folla gli è passata accanto e non l'ha visto; è sempre stato, si può dirlo in senso figurato,
accanto a sua moglie e al suo focolare, ma senza mai sentire il calore dell'uno, né l'amore dell'altra. Il destino particolare
di Wakefield era quello di conservare il suo posto di prima negli affetti degli esseri umani e di essere ancora coinvolto
nei loro interessi, mentre aveva ormai perduto ogni sua influenza su ambedue. Sarebbe interessante ricostruire qui gli
effetti di tali circostanze sul suo cuore e sulla mente, separatamente e nell'insieme. Eppure, per quanto fosse mutato,
raramente se ne rendeva conto, ma si considerava sempre lo stesso uomo. Barlumi di verità in effetti gli apparivano, ma
solo momentaneamente, ed egli continuava a ripetersi: «Ritornerò presto!», senza accorgersi che continuava a dirlo
ormai da vent'anni.
Penso anche che questi vent'anni dovevano sembrargli, retrospettivamente, di poco più lunghi della settimana
che aveva inizialmente posto come limite alla sua assenza, e che considerava tutta la vicenda poco più di un interludio
tra le cose più importanti della sua vita. Quando, dopo un po' di tempo ancora, avesse deciso che era tempo di far
ritorno nel suo salotto, sua moglie avrebbe battuto le mani di felicità nel vedersi riapparire davanti quell'attempato
signor Wakefield. Quale errore, ahimè! Se il tempo attendesse la fine delle nostre amate follie, saremmo tutti quanti
giovani, e fino al Giorno del Giudizio.
Una sera, vent'anni dopo la sua scomparsa, Wakefield sta facendo la sua solita passeggiata verso la dimora che
considera ancora sua. È una ventosa sera d'autunno, con frequenti scrosci di pioggia che battono il selciato e terminano
prima ancora che si sia aperto l'ombrello. Fermatosi nei pressi di casa sua, Wakefield intravvede, attraverso le finestre
del salotto al secondo piano, il riverbero rossastro, i guizzi e i bagliori delle fiamme di un allettante focolare. Sul soffitto
appare l'ombra grottesca della buona signora Wakefield. La sua cuffia da notte, il naso, il mento, le larghe anche
formano una bizzarra caricatura, che danza insieme con le fiamme che s'alzano e s'abbassano, un'ombra quasi troppo
gaia per essere quella di un'anziana vedova. Proprio in quel momento vuole cadere uno scroscio d'acqua che una.42
dispettosa folata di vento getta sul volto e sul petto del signor Wakefield, penetrandolo col suo gelo autunnale. Deve
rimanere lì, inzuppato e tremante, quando nel suo camino è acceso un bel fuoco che lo riscalderà, mentre sua moglie
corre a prendergli la vestaglia grigia e gli indumenti intimi, che di sicuro ha amorevolmente custodito nell'armadio della
loro camera da letto? No, Wakefield non è così sciocco! Sale i gradini con passo pesante, perché vent'anni gli hanno
rattrappito le gambe, da quando li ha scesi l'ultima volta, anche se lui non se ne rende conto. Fermati, Wakefield! Vuoi
proprio andare nella sola dimora che ti è rimasta? Allora calati nella tua tomba! La porta si apre, e mentre lui ne varca la
soglia diamo un ultimo sguardo di commiato al suo volto e riconosciamo quel furbesco sorriso che aveva anticipato
l'innocente burla che egli ha continuato a giocare ai danni della moglie. Come ha imbrogliato impietosamente quella
povera donna! Be', auguriamo a Wakefield una buona notte di riposo!
Questo lieto evento, ammesso che sia tale, può essere avvenuto soltanto senza premeditazione. Non seguiremo
il nostro amico al di là della soglia. Ci ha già offerto sufficiente materia di meditazione, e questa dovrà almeno in parte
prestarsi a una morale e prendere la forma di una metafora. Nell'apparente confusione del nostro mondo misterioso, gli
individui sono così ben adattati a un sistema, e i sistemi l'uno all'altro, e a tutto un insieme, che un uomo, se si fa da
parte per un solo attimo, si espone al terribile rischio di perdere il suo posto per sempre. Al pari di Wakefield, egli può
divenire, per così dire, il reietto dell'universo.
UN RIVOLO D'ACQUA DELLA FONTANA CITTADINA
(La scena è l'incrocio di due strade principali, la Essex e la Washington Street di Salem, dove la fontana cittadina sta
parlando attraverso il suo beccuccio.)
È mezzogiorno, all'orologio del Nord! È mezzogiorno, a quello dell'Est! È mezzogiorno in punto anche a questi
caldi raggi del sole, che cadono un po' di sbieco sulla mia testa, e fanno quasi ribollire e fumare l'acqua nella vaschetta
sotto al mio naso. In verità, noi personaggi pubblici abbiamo una vita davvero dura! E tra tutti i funzionari cittadini
nominati alla riunione di marzo, qual è quello che sostiene, in un solo anno, il peso di tutti i molteplici compiti che sono
perpetuamente imposti alla fontana municipale? Il titolo di «tesoriere cittadino» mi spetta di diritto, in quanto custode
del tesoro più prezioso che ha la città. I patronati dei poveri dovrebbero nominarmi loro presidente, perché io provvedo
generosamente agli indigenti, senza alcuna spesa per coloro che pagano le tasse. Sono anche il capo dei pompieri, e uno
dei medici della commissione d'igiene. Come tutore della pace sociale, tutti i bevitori d'acqua dovranno ammettere che
sono pari al capo della polizia. Assolvo inoltre alcuni compiti del messo cittadino, divulgando gli avvisi pubblici
quando sono affissi sulla mia faccia. Senza esagerare, sono il principale personaggio della municipalità, e rappresento
anche un ammirevole esempio per gli altri ufficiali, per la freddezza, la continuità, la rettitudine, la schiettezza e
l'imparzialità con cui assolvo i miei compiti, e per la costanza con cui mantengo il mio posto. Sia inverno o estate,
nessuno mi cerca invano, e per tutto il giorno sono visibile all'angolo più movimentato della città, proprio davanti al
mercato, dove distendo le mie braccia a ricchi e poveri, e la notte tengo una lanterna sul mio capo, sia per mostrare dove
sono, sia per non far incespicare i passanti.
In questo afoso mezzogiorno, sono coppiere degli assetati, per i quali è stata incatenata alla mia cintola una
tazzina di ferro. Come un venditore ambulante di liquori sulla piazza cittadina, nei giorni più affollati, grido a tutti
quanti indistintamente, con i toni più semplici e con tutta la mia voce: Eccomi qua, signori! Ecco il buon liquore!
Venite, venite, signori, avvicinatevi! Ecco qualcosa di superiore, la genuina bevanda di nostro padre Adamo, migliore
del cognac, dell'acquavite, del rhum, della birra e del vino di qualsiasi prezzo, eccola qui, a barili o a singoli bicchieri, e
non pagherete un centesimo! Venite, signori, avvicinatevi e servitevi!
Sarebbe un peccato se tutte queste grida non attirassero clienti. Ed ecco che arrivano. È una giornata calda,
signori, tracannate e bevete ancora, così da mantenervi in un bell'abito fresco. E lei, amico mio, ha bisogno di un'altra
bella tazza per lavare la polvere nella sua gola, se ne è così coperta come lo sono le sue scarpe di pelle. Vedo che lei ha
camminato per una decina di chilometri oggi, e saggiamente è passato oltre le bettole, fermandosi invece ai ruscelli e
alle sorgenti, altrimenti, nella calura di fuori e nel fuoco di dentro, si sarebbe ridotto in cenere, o si sarebbe sciolto in
niente. come gelatina! Beva, e poi faccia posto a quell'altro signore che chiede il mio aiuto per spegnere la bruciante
febbre delle libagioni di ieri sera, e che certo non ha attinto dalla mia tazza. Benvenuto, rubizzo signore! Lei e io siamo
stati estranei, finora, e, per dire il vero, il mio naso non è così ansioso di avere maggiore intimità con lei, finché gli
effluvi del suo alito non saranno un po' meno pesanti. Misericordia, signore! L'acqua gorgoglia giù per il suo
gargarozzo, e si trasforma subito in vapore in quell'inferno in miniatura che lei confonde col suo stomaco. Si riempia
ancora la tazza e mi dica, sull'onore di un onesto ubriacone: in una cantina, taverna o in qualsiasi spaccio di vini ha mai
speso i soldi del cibo dei suoi figli per bere una sorsata così deliziosa? E ora, per la prima volta in dieci anni, lei conosce
il gusto dell'acqua fresca! Arrivederci, e ogni volta che ha sete ricordi che ne ho un'inesauribile scorta, qui alla vecchia
colonnina. Chi c'è dopo? Ah, mio piccolo amico, tu sei stato scacciato da scuola e sei venuto qui per pulire il tuo viso
arrossato e annegare, con una sorsata d'acqua della fontana, il ricordo di certe bacchettate e di altre amarezze della
scuola. Bevi pure, è pura come la linfa della tua giovane vita. Bevi, e ti auguro che il tuo cuore e la lingua non siano mai
inariditi da una sete più bruciante di questa! Prendi, ragazzo mio, manda giù questa tazza, e lascia il tuo posto a questo
anziano signore che avanza così cautamente sul selciato da far pensare che tema di romperlo. Ma come! Se ne va via.43
zoppicando, senza nemmeno ringraziarmi, come se le mie generose offerte fossero rivolte soltanto a coloro che non
hanno una cantina di vini. Bene, signore, niente di male, mi auguro. Vada pure a stappare la bottiglia, a riempire la
caraffa, ma quando l'alluce del piede la farà gridare di dolore, non saranno affari miei. Se lor signori preferiscono il
piacevole solleticamento della gotta, fa lo stesso per la fontana cittadina. Questo cane assetato, con la lingua rossa
penzoloni, non disprezza la mia ospitalità, ma si siede sulle zampe posteriori e lappa avidamente dalla vasca. E guardate
ora come saltella via nuovamente! Bobi, vostra Eccellenza, hai mai avuto la gotta?
Siete tutti soddisfatti? Allora asciugatevi la bocca, miei buoni amici, e mentre la mia fonte prende qualche
attimo di tregua, delizierò la cittadinanza con qualche reminiscenza storica. Nella remota antichità, sotto l'ombra scura
di venerabili rami, zampillava una sorgente dalla terra cosparsa di foglie, proprio qui dove ora mi vedete, sul
marciapiede assolato. L'acqua era limpida e chiara, ed era considerata preziosa quanto un diamante liquido. I capi tribù
indiani la bevevano da tempi immemorabili, finché il fatale diluvio dell'acqua di fuoco si è abbattuto sugli uomini rossi,
e ha spazzato via tutta la loro stirpe dalle fresche sorgenti. Endicott e i suoi seguaci sono venuti dopo, e spesso si sono
inginocchiati qui a bere, immergendo le loro lunghe barbe nell'acqua della sorgente, quando il più ricco calice era fatto
allora di corteccia di betulla. Il governatore Winthrop, dopo un viaggio a piedi da Boston, si abbeverò qui dalla cavità
della sua mano. Higginson il vecchio bagnò qui il palmo della mano e lo posò sulla fronte del suo primo figlio nato in
città. Per molti anni è stata il bagno termale, per così dire, il lavabo dei dintorni, cui ricorrevano tutte le persone pulite
per detergersi il volto e guardarlo dopo, quanto meno le belle ragazze, nello specchio delle sue acque. Nei giorni festivi,
quando doveva essere battezzato un neonato, il sacrestano riempiva qui il suo bacile e lo posava sul tavolo comune
dell'umile luogo di preghiera, che occupava in parte il posto di quello di mattoni, più imponente, che è laggiù. E così
una generazione dopo l'altra sono state consacrate al cielo con le sue acque, e hanno gettato sulla sua vitrea superficie le
loro tremule ed effimere ombre, per poi scomparire dalla terra, come se la vita dei mortali fosse soltanto la fugace
immagine di una sorgente. E infine anche la sorgente è scomparsa. Sotterranei sono stati scavati tutt'intorno, carri pieni
di ghiaia sono stati scaricati sulla sorgente dalla quale sgorgava poi un torbido rigagnolo che formava una pozzanghera
melmosa all'angolo di due strade. Nei mesi più caldi, quando il suo refrigerio era più necessario, nuvole di polvere si
posavano sul luogo natale, ormai dimenticato, di quelle acque, divenuto ora la loro tomba. Ma poi, col tempo, una
pompa è stata calata sul fondo dell'antica sorgente, e quando la prima fontana si è rovinata, un'altra ha preso il suo
posto, e un'altra ancora, e poi un'altra, finché eccomi qui, signore e signori, pronta a servirvi con la mia tazza di ferro.
Bevete e rinfrescatevi! L'acqua è ancora pura e fresca come quella che spegneva la sete dei capitribù pellerossa sotto gli
antichi rami degli alberi, anche se ora il cuore della foresta è custodito sotto queste pietre roventi, dove non calano
ombre se non da questi edifici di mattoni. E questa sia la morale della mia storia, che come questa antica fontana, a
lungo perduta, è ora conosciuta e apprezzata di nuovo, così saranno riconosciuti da tutti i pregi dell'acqua fresca, troppo
poco dai valutati tempi dei vostri padri.
Vi chiedo scusa, brava gente! Ora devo interrompere il flusso della mia eloquenza e sgorgare un flusso d'acqua,
riempiendo così la vasca per questo carrettiere e i suoi due buoi aggiogati, che sono venuti qui da Topsfield, o da
qualche luogo in quella direzione. Nessuna parte del mio lavoro mi dà piacere come dissetare il bestiame. Guardate
come si abbassa rapidamente il livello dell'acqua dentro la vasca, mentre il loro capace stomaco si riempie di un paio di
galloni! E ora possono concedersi il tempo di respirare, sospirando soddisfatti e volgendo il loro placido sguardo
intorno al bordo del loro enorme abbeveratoio. Il bue è davvero un grande bevitore.
Ma mi sembra di capire, cari amici, che siete impazienti di ascoltare il resto del mio racconto. Non datene la
colpa, vi prego, alla mia mancanza di modestia, se insisto ancora un po' su un argomento così importante com'è quello
dei miei multiformi meriti. È anche per il vostro bene, perché se pensate bene di me vi scoprirete anche uomini e donne
migliori. Non parlerò del mio determinante contributo nei giorni del bucato, perché se fosse solo per questo potrei
dichiararmi patrono della casa di centinaia di famiglie. Lungi da me, rispettabili amici, alludere anche allo spettacolo di
facce sporche che voi presentereste senza i miei sforzi per tenerle pulite. E non vi ricorderò nemmeno quante volte, ai
rintocchi notturni della campana, avete tremato per la vostra infiammabile cittadina e siete corsi alla fontana
municipale, trovandomi sempre al mio posto, salda in mezzo al trambusto, sempre pronta a prosciugare la mia linfa
vitale in vostro soccorso. Né è il caso di sottolineare troppo il mio diritto a una laurea in medicina, in quanto che il
semplice esercizio della pratica medica è preferibile a tutta la nauseante erudizione, che ha scoperto uomini malati e li
ha lasciati tali, fin dai tempi di Ippocrate. Si deve avere una più ampia visione della mia benefica influenza su tutta
l'umanità.
No, tutte queste sono bazzecole a confronto col merito che gli uomini saggi mi riconoscono, non a me
singolarmente, ma come rappresentante di una categoria, quello di essere la grande riformatrice del nostro tempo. Dalla
mia fonte e da altre fonti come la mia, deve scorrere il fiume che pulirà la nostra terra dai crimini e tormenti che in gran
parte sono sgorgati dalle nefaste fonti della distillazione. In questa grandiosa impresa, la mucca sarà la mia grande
alleata: latte e acqua, la fontana e la mucca! Questa è la gloriosa alleanza che abbatterà le distillerie e le fabbriche di
birra, estirperà i vigneti, distruggerà le presse da mele per il sidro, manderà in rovina il commercio del tè e del caffè, e
infine monopolizzerà tutto il mercato che si occupa di spegnere la sete. Sia benedetta quest'opera! Allora la povertà
scomparirà dalla terra, non trovando alcun tugurio così miserevole in cui possa trovar rifugio il suo squallore. Allora la
malattia, in mancanza di altre sue vittime, si roderà il cuore e perirà. Allora il peccato, se non si estinguerà
completamente, perderà almeno metà della sua forza. Finora, il delirio di una febbre ereditaria ha infuriato nel sangue
degli uomini, trasmettendosi di padre in figlio, riaccendendosi a ogni successiva generazione con altre sorsate del
liquido di fuoco. Quando quelle fiamme interiori si estingueranno, il calore delle passioni non potrà che raffreddarsi, e.44
le guerre, l'ubriachezza delle nazioni, forse cesseranno. Quanto meno, non ci saranno più guerre nelle case. Marito e
moglie, abbeverandosi a semplici piaceri, a una serena felicità di temperati affetti, attraverseranno insieme la vita, mano
nella mano, e giaceranno infine, senza rimpianti, alla sua tarda conclusione. Per loro, il passato non sarà un tumulto di
folli sogni, né il futuro un'eternità di quei momenti che seguono al delirio dell'ebbrezza. Dopo la morte, i loro volti
esprimeranno ciò che erano e devono essere i loro spiriti, con un perdurante sorriso di ricordi e di speranze.
Ehm! tutto questo concionare è un'impresa che secca la gola, specialmente per un'oratrice improvvisata come
me. Non ho mai pensato, finora, alla fatica che devono fare a mio nome i predicatori di temperanza, e d'ora in poi il
compito spetterà soltanto a loro. Su, qualche buon cristiano dia un colpo di pompa, tanto per bagnarmi il becco! Grazie
a lei, signore! Miei cari ascoltatori, quando il mondo sarà rigenerato grazie a me, dovrete raccogliere tutti i vostri inutili
tini e barili di liquori in un gran mucchio e farne un falò in onore della fontana cittadina. E quando anch'io cadrò in
rovina, al pari dei miei predecessori, allora, se avete caro il mio ricordo, dovrete erigere una fontana di marmo,
riccamente scolpita, che prenda il mio posto in questo luogo. Monumenti come questo dovrebbero essere eretti
ovunque, e scolpiti con i nomi dei più eminenti campioni della mia causa. E ora ascoltate, perché ho ancora qualcosa di
molto importante da dire.
Ci sono due o tre miei cari amici, e amici sinceri, lo so bene, che ciò nonostante, col loro pugnace impegno a
mio favore, mi espongono al pauroso rischio di rompermi il naso o perfino di rovesciarmi completamente sul selciato,
con conseguente perdita del tesoro che io custodisco. Vi prego, illustri signori, fate qualcosa per porvi riparo. È giusto,
secondo voi, ubriacarsi di fervore di temperanza e difendere l'onorevole causa della fontana cittadina nello stesso modo
in cui un ubriacone si batte per la sua bottiglia di brandy? Forse non è possibile dimostrare le ottime qualità dell'acqua
fredda in altro modo che tuffandosi sconsideratamente nell'acqua calda, e in tal modo ustionare dolorosamente se stessi
e altre persone? Credete a me, è possibile. Nella battaglia morale che dovete ingaggiare, e anzi in tutta la condotta della
vostra vita, non potreste scegliere un esempio migliore di me, che non ho mai permesso alla polvere, all'atmosfera
inquinata, alle turbolenze e alle molteplici inquietudini del mondo intorno a me di raggiungere quel profondo e sereno
pozzo di purezza che può essere definito la mia anima. E ogni volta che riverso quell'anima, è per raffreddare la febbre
del mondo o per pulire le sue macchie.
E l'una! Be', se inizia a suonare l'ora del pranzo, io posso allora rimanere in silenzio. Ecco che viene una
graziosa fanciulla di mia conoscenza, con una grande brocca di pietra che devo riempirle. Le auguro di trovare marito,
mentre attinge l'acqua, come successe a Rachele nei tempi antichi. Porgi la tua brocca, mia cara! Ecco, è colma fino
all'orlo, e ora corri a casa, scrutando la tua dolce immagine nell'acqua mentre vai, e non dimenticare, quando alzi un
bicchiere del mio nettare, di bere al successo della fontana cittadina!
IL GRANDE CARBONCHIO
Il mistero delle Montagne Bianche
In una sera di molti anni fa, sul versante impervio di una delle Montagne di Cristallo, un piccolo gruppo di
avventurieri stava rifocillandosi dopo un'estenuante e infruttuosa giornata di ricerche del Grande Carbonchio. Erano lì
giunti non come amici, né come soci nell'impresa, ma spinti ciascuno per proprio conto, a parte una giovane coppia di
sposi, dalla personale ed esclusiva cupidigia di possedere la meravigliosa gemma. Il loro senso di fratellanza era
nondimeno abbastanza forte per indurli a darsi reciproco aiuto nel costruire una primitiva capanna di frasche e
nell'accendere un gran fuoco con i pini sradicati che la corrente precipitosa dell'Amonoosuck aveva trascinato, là sulla
riva bassa del fiume dove si accingevano a trascorrere la notte. Uno soltanto tra loro, forse, era diventato così refrattario
alla naturale simpatia per i propri simili, a causa dell'esclusiva dedizione a quella ricerca, da non provare piacere alla
vista di facce umane nella selvaggia e solitaria regione in cui si erano inoltrati. Una vasta distesa disabitata li divideva
dal più vicino insediamento, mentre poco più di un miglio sopra alle loro teste si profilava quel nero crinale sul quale le
colline si spogliano del loro irsuto mantello boscoso e si ammantano di nuvole, oppure si ergono nude, simili a torrioni,
nel cielo. Il ruggito dell'Amonoosuck sarebbe stato troppo pauroso per un solitario viandante, mentre il torrente
montano dialogava con il vento.
Gli avventurieri si scambiavano quindi saluti cordiali e si davano il benvenuto l'un l'altro in quella capanna in
cui ciascuno era l'anfitrione e tutti erano gli ospiti della compagnia. Imbandirono con le loro provviste la superficie
piana di una roccia e parteciparono tutti insieme al banchetto, al termine del quale si avvertiva in mezzo a loro un caldo
sentimento di cameratismo, anche se condizionato dal pensiero che la ripresa delle ricerche del Grande Carborichio, il
mattino dopo, li avrebbe fatti ritornare estranei l'un l'altro. Sette uomini e una giovane donna si riscaldavano insieme al
fuoco che estendeva il suo chiarore su tutta la facciata della loro capanna. E mentre osservavano le variegate e
contrastate figure che componevano la compagnia, ciascuna simile a una caricatura di sé, nella luce instabile che
guizzava sopra di loro, giunsero insieme alla conclusione che una più stravagante associazione non si sarebbe mai
potuta mettere insieme, nella città o nel deserto, sulle montagne o in pianura.
Il più anziano del gruppo, un uomo alto e allampanato, segnato dalle intemperie, che dimostrava una sessantina
d'anni, era vestito con pelli di animali selvatici, dei quali imitava tanto bene il modo di vestire perché il daino, il lupo e
l'orso erano da lungo tempo i suoi più intimi compagni. Era costui uno di quegli sventurati mortali, quali sono
considerati dagli Indiani, che nella loro prima gioventù il Grande Carbonchio aveva contagiato d'una particolare pazzia,.45
divenendo il sogno esclusivo della loro vita. Tutti coloro che visitavano quella regione lo conoscevano col nome di
Cercatore, e nessun altro. Nessuno ricordava quando aveva iniziato la ricerca, e correva quindi una leggenda nella valle
del Saco secondo la quale l'uomo, per l'inconsulta cupidigia del Grande Carbonchio, era stato condannato a vagare
senza sosta tra le colline per tutti i secoli a venire, sempre con la stessa febbrile speranza all'alba e con la stessa
disperazione al tramonto. Accanto all'infelice Cercatore sedeva un ometto piccolo e anziano che aveva in testa un alto
cappello a cilindro che faceva pensare a un crogiolo. Veniva di là dall'oceano, dove era conosciuto come dottor
Cacaphodel, e si era rinsecchito come una mummia stando continuamente chino su fornaci a carbone e respirando
insalubri esalazioni durante le sue ricerche chimiche e alchimistiche. Vero o falso che fosse, si diceva di lui che agli
inizi dei suoi studi avesse prosciugato il suo corpo di tutte le parti più ricche del sangue, sciupandole con altre
preziosissime sostanze in un esperimento fallito, e che da allora non fosse più stato in salute. Un altro degli avventurieri
era l'onorevole Ichabod Pigsnort, un influente mercante e consigliere municipale di Boston, e anziano della famosa
chiesa di Mister Norton. I suoi nemici avevano fatto circolare la ridicola storia che l'onorevole Pigsnort fosse avvezzo a
trascorrere un'ora intera, dopo le preghiere del mattino e della sera, sguazzando nudo in mezzo a una montagna
immensa di scellini di pino, che costituivano allora la più antica moneta argentea del Massachusetts. La quarta persona
di cui faremo conoscenza non aveva un nome che fosse noto ai suoi compagni, i quali lo distinguevano soprattutto per
un ghigno che gli distorceva sempre il viso affilato e per un paio di formidabili occhiali, che pareva dovessero
deformare e scolorire la faccia stessa della natura agli occhi di questo gentiluomo. Anche del quinto avventuriero non
era conosciuto il nome, e questo era un gran peccato perché aveva un'aria da poeta. Era un uomo dallo sguardo vispo,
ma d'una magrezza da far spavento, e pareva quindi perfettamente verosimile che la sua normale dieta, come qualcuno
sosteneva, consistesse di nebbia, di bruma mattutina e di una fetta della più densa nuvola che aveva a portata di mano,
condita con un raggio di luna, quando gli riusciva di acchiapparne. Certo è che la poesia che emanava da lui aveva il
sapore di tutte queste squisitezze. Il sesto componente del gruppo era un giovanotto dall'aria sdegnosa che stava seduto
un po' in disparte dagli altri e teneva altezzosamente in testa il cappello piumato dei suoi antenati, mentre la fiamma si
rifletteva scintillando sui ricchi fregi del suo abito e mandava il suo intenso riverbero sull'elsa ingioiellata della sua
spada. Questi era Lord de Vere, del quale si diceva che a casa sua trascorresse gran parte del tempo nella cappella
mortuaria dei suoi avi, rovistando tra le loro bare ammuffite in cerca di tutti i vanti e le vanità terrene che si
nascondevano tra le ossa e la polvere, così che, oltre alla propria, aveva anche tutta la boria messa insieme della sua
dinastia.
Per ultimi c'erano un bel giovane rusticamente abbigliato e, al suo fianco, una personcina appena sbocciata,
nella quale un'ombra delicata di riservatezza femminile ben si fondeva con la ricchezza dei sentimenti di una giovane
sposa. Il suo nome era Hannah e quello di suo marito Matthew, due nomi comuni che ben si addicevano alla semplice
coppietta, che sembrava stranamente fuori posto in mezzo a quella bizzarra compagnia che il Grande Carbonchio faceva
spasimare.
Al riparo di un'unica capanna, davanti alla viva fiamma dello stesso fuoco, era dunque seduta questa
accozzaglia di avventurieri, tutti così assorbiti da un unico oggetto che, di qualsiasi cosa iniziassero a parlare, si poteva
star certi che le loro ultime parole sarebbero state illuminate dal Grande Carbonchio.
Parecchi di loro avevano già raccontato le circostanze che li avevano condotti in quel luogo. Uno aveva
ascoltato, nel suo lontano paese, la descrizione della pietra meravigliosa fatta da un viaggiatore, e subito era stato colto
da una tale sete di possederla che avrebbe potuto spegnerla soltanto dentro il suo intenso bagliore. Un altro, ancora ai
tempi in cui il famoso capitano Smith navigava lungo queste coste, l'aveva vista risplendere dal mare e da allora non
aveva avuto più quiete fin quando non aveva dato inizio alla ricerca. Un terzo, trovandosi accampato durante una
battuta di caccia a una quarantina di miglia a sud delle Montagne Bianche, si era svegliato a mezzanotte e aveva visto il
Grande Carbonchio risplendere come una meteora, tanto che le ombre degli alberi si proiettavano davanti a lui.
Parlarono poi degli innumerevoli tentativi compiuti per raggiungere quel luogo, e della singolare fatalità che aveva fino
ad allora impedito il successo a tutti gli avventurieri, anche se sarebbe sembrato così facile arrivare alla fonte di una
luce che era più forte di quella della luna ed era quasi pari a quella del sole. Appariva evidente che ciascuno sorrideva di
scherno per la follia degli altri che speravano in una fortuna migliore che in passato mentre accarezzava la convinzione
mal dissimulata di essere proprio lui il prescelto della fortuna. Come per tenere a freno le loro ottimistiche speranze,
chiamarono in causa le antiche leggende indiane, secondo le quali uno spirito stava di guardia alla gemma e si faceva
gioco di coloro che la cercavano, o spostandola da una cima all'altra delle più alte colline o facendo alzare una nebbia
dal lago incantato sul quale essa era sospesa. Ma questi racconti erano giudicati non degni di fede, e tutti si dicevano
convinti che la ricerca era stata infruttuosa per la scarsa sagacia o perseveranza dei ricercatori, o per quali altre cause
naturali possano ostruire l'accesso a un qualsiasi luogo, tra gli intrichi della foresta, della valle e della montagna.
Durante una pausa della conversazione, l'uomo dai formidabili occhiali volse intorno a sé lo sguardo,
soffermandolo a turno su ciascuno dei presenti, che diveniva oggetto del sogghigno che incessantemente gli era dipinto
sul viso.
«Allora, compagni d'avventura», disse l'uomo, «eccoci qui, sette uomini saggi e un'avvenente damigella, la
quale senza alcun dubbio è assennata quanto ogni barba grigia della nostra compagnia, eccoci qui, dicevo, tutti
impegnati nella stessa grande impresa. A me dunque non pare sconveniente che ciascuno di noi dichiari ciò che si
propone di fare col Grande Carbonchio, sempre ammesso che abbia la buona sorte di metterci sopra le mani. Dunque,
che cosa ci dice il nostro amico coperto di pelle d'orso? Come intende lei, caro signore, godersi il premio che sta
cercando da Dio sa quando tra le Montagne di Cristallo?»..46
«Come godermelo?», esclamò con amarezza il vecchio Cercatore. «Non spero proprio niente, io... questa folle
idea me la sono tolta di mente già da un pezzo! Io continuo la ricerca di quella stramaledetta pietra perché la vana
ambizione della mia gioventù è diventata la condanna della mia vecchiaia. Questa ricerca è la mia unica fonte di forza,
l'energia della mia anima, il calore del mio sangue, il midollo stesso delle mie ossa! Se dovessi abbandonarla, cadrei
stecchito a terra sull'altra parte del Passo, che è la via d'accesso alla regione delle montagne. Eppure, nemmeno se mi
fosse restituito il tempo sprecato della mia vita rinuncerei alle speranze che ripongo nel Grande Carbonchio! Se lo
trovassi, lo porterei in una certa caverna che io solo conosco, e li, stringendolo tra le braccia, mi coricherei per morire,
tenendolo sepolto con me per sempre».
«Miserabile, incurante degli interessi della scienza», protestò il dottor Cacaphodel, con l'indignazione del
filosofo. «Tu non sei degno di vedere nemmeno da lontano il bagliore della gemma più preziosa che mai sia stata
concepita nel laboratorio della Natura! Il mio è l'unico scopo che un uomo saggio possa avere per desiderare il possesso
del Grande Carbonchio. Non appena lo avrò conquistato, perché io ho il presentimento, brava gente, che questo premio
è destinato a coronare la mia fama di scienziato, ritornerò subito in Europa e dedicherò gli anni che mi restano da vivere
a scomporlo nei suoi elementi primari. Una parte della pietra la ridurrò in finissima polvere, altre parti le dissolverò
negli acidi, o in qualsiasi altro solvente capace di agire su una così mirabile composizione, e il resto progetto di fonderlo
in un crogiolo o di bruciarlo con il ferruminatore. Grazie a questi diversi metodi, potrò fare le più accurate analisi, e
infine donerò al mondo il frutto delle mie fatiche in un volume in-folio».
«Magnifico!», esclamò l'uomo con gli occhiali. «Né deve esitare, dotto scienziato, davanti alla necessaria
distruzione della gemma, perché la consultazione del suo volume in-folio potrà insegnare a ogni figlio di mamma come
fabbricarsi un Grande Carbonchio per proprio conto».
«In verità», interloquì l'onorevole Ichabod Pigsnort, «per parte mia, sono contrario a queste contraffazioni che
hanno l'unico scopo di ridurre il valore commerciale della gemma autentica. Io vi dico francamente, signori, che ho
interesse a tenerne alto il prezzo. Ecco, ho abbandonato il mio regolare commercio, affidando il mio magazzino alla
cura dei miei impiegati, metto a grave rischio la mia reputazione, e come se non bastasse affronto il pericolo d'essere
ucciso o catturato da questi maledetti selvaggi pagani... e tutto ciò senza azzardarmi nemmeno a chiedere le preghiere
della mia congregazione, perché la ricerca del Grande Carbonchio è considerata poco meno che un traffico col demonio.
E voi credete che avrei arrecato questo grave pregiudizio alla mia anima, al mio corpo, alla mia reputazione e ai miei
beni senza una ragionevole probabilità di profitto?».
«Io no davvero, devoto e onorevole Pigsnort», affermò l'uomo con gli occhiali. «Io non ti avrei mai creduto
capace d'una simile follia».
«Lo spero bene», replicò il mercante. «Ora, non appena avrò toccato questo Grande Carbonchio, sarò libero di
possedere ciò che nemmeno ho mai immaginato, ma fosse anche la centesima parte splendente di quanto dice la gente,
sicuramente supererà il valore del diamante più bello del Gran Mogol, che egli ha avuto a un prezzo incalcolabile.
Dunque, ho intenzione di imbarcare il Grande Carbonchio e di mettermi in viaggio con esso per l'Inghilterra, la Francia,
la Spagna, l'Italia, o anche per le Terre dei Pagani, se la Provvidenza vorrà inviarmi laggiù; insomma voglio vendere la
gemma al miglior offerente tra i potenti della terra, e questi potrà conservarla tra i gioielli della corona. E ora, se
qualcuno di voi ha un progetto migliore, lo tiri fuori».
«Io ne ho uno, uomo miserabile!», esclamò il poeta. «Tu, che non desideri nulla di più lucente dell'oro,
trasformeresti dunque questo etereo bagliore nella sconcezza in cui già sguazzi? In quanto a me, nascosta la gemma
sotto il mio mantello, andrò a nascondermi nel mio attico, in uno dei vicoli più bui di Londra, e lì la contemplerò giorno
e notte, così che essa si irradierà sulla mia anima, si trasfonderà sul mio intelletto, e risplenderà viva del suo bagliore in
ogni verso della mia poesia. E così, per secoli e secoli dopo che sarò morto, lo splendore del Grande Carbonchio
illuminerà il mio nome!».
«Ben detto, signor Poeta!», esclamò l'uomo con gli occhiali. «Nasconderlo sotto il tuo mantello, dici? Già, così
risplenderà attraverso i suoi buchi e ti darà la sembianza di un fuoco fatuo!».
«Ma pensa!», interloquì Lord de Vere, parlando più a se stesso che ai suoi compagni, il migliore dei quali egli
giudicava assolutamente indegno della sua considerazione. «Pensare che un tipo così, avvolto in un mantello
rappezzato, parli di portare il Grande Carbonchio in una soffitta della Strada degli Scribacchini! Non sono forse giunto
già alla conclusione che in tutta la terra non vi è ornamento più adatto per la grande sala del mio avito castello? Li
risplenderà per secoli, rischiarerà la mezzanotte come a mezzogiorno, scintillerà sulle armature, sugli stendardi e sugli
scudi appesi alle pareti, e illuminerà il ricordo degli eroi. Per questo motivo tutti gli avventurieri hanno cercato sempre
invano il premio che io solo sono destinato a conquistare, per farne il simbolo delle glorie del mio nobile casato. E mai,
sul diadema delle Montagne Bianche, il Grande Carbonchio avrà avuto un posto così onorato come quello che gli è
riservato nel salone dei De Vere!».
«Un nobile proposito», commentò il Cinico, con un sogghigno ossequioso. «Eppure, se mi è consentito dare un
suggerimento, la gemma potrebbe diventare una straordinaria lampada sepolcrale e celebrare le glorie dei progenitori di
Vostra Signoria nella loro cappella mortuaria più degnamente che nel salone del castello».
«No davvero», osservò Matthew, il giovane campagnolo che sedeva tenendo per mano la sua sposa, «questo
gentiluomo ha pensato di fare un uso acconcio della pietra splendente. Hannah e io la stiamo cercando per uno scopo
analogo».
«Come, come?», esclamò sbigottito Sua Signoria. «Quale salone di castello hai tu ove appenderla?»..47
«Nessun castello», rispose Matthew, «ma una graziosa fattoria quant'altre non si vedono nelle Colline di
Cristallo. Dovete sapere, amici miei, che Hannah e io, essendoci sposati la scorsa settimana, abbiamo intrapreso la
ricerca del Grande Carbonchio perché avremmo bisogno della sua luce nelle lunghe sere d'inverno, e questa sarà anche
una bella cosa da mostrare ai vicini che verranno in visita. Esso splenderà per tutta la casa, così che potremo ritrovare
anche uno spillo in qualsiasi angolo, e tutte le finestre si illumineranno, come se nel camino ardesse un gran fuoco di
ceppi di pino. E poi, che bellezza sarebbe svegliarsi nel cuore della notte e potersi vedere in faccia l'un l'altra!».
Un sorriso si propagò tra gli avventurieri per la semplicità di ciò che progettava di fare la giovane coppia con
questa pietra meravigliosa e inestimabile, della quale il più grande monarca della terra sarebbe stato orgoglioso di
adornare il suo palazzo. In particolare l'uomo con gli occhiali, il quale aveva sogghignato alle parole di ciascuno, ora
contorse la faccia in una smorfia di tale beffarda ilarità che Matthew gli domandò, piuttosto risentito, che cosa
intendesse fare lui del Grande Carbonchio.
«Il Grande Carbonchio!», ripeté il Cinico, con indicibile disprezzo. «Ebbene, testone che non sei altro, sappi
che non esiste nulla di simile in
rerum natura. Ho percorso trecento miglia per arrivare fin qui, e sono deciso a posare ilpiede su ogni cima di queste montagne e a ficcare il naso in ogni precipizio per l'unico scopo di dimostrare, a
soddisfazione di tutti coloro che sono un tantino meno asini di te, che il Grande Carbonchio è soltanto un'impostura!».
Vani e insensati erano i motivi che avevano portato la maggior parte degli avventurieri tra le Colline di
Cristallo, ma nessuno era così vano, così insensato, e anche così scellerato, come il motivo del sapientone dai
formidabili occhiali. Egli era uno di quegli uomini tristi e maligni che preferiscono rivolgere le loro brame verso le
tenebre del sottosuolo anziché verso la luce del cielo, uomini che, se potessero spegnere tutte le luci che Dio ha acceso
per noi, considererebbero le tenebre della notte come loro maggior vanto. Mentre il Cinico parlava, parecchi membri
della compagnia trasalirono alla vista di un raggio di rosso splendore che illuminava la sagoma enorme delle montagne
circostanti e il letto pietroso dell'impetuoso torrente con una luce diversa da quella che il loro fuoco spargeva sui tronchi
e sui rami neri degli alberi della foresta. Restarono in ascolto del rombo del tuono, ma non udirono nulla, e si
rallegrarono che il temporale non si avvicinasse. Le stelle, quei punti meridiani del cielo, avvertirono allora gli
avventurieri di chiudere i loro occhi al riverbero dei ceppi e di aprirli, nel sogno, allo splendore del Grande Carbonchio.
La giovane coppia di sposi aveva preso dimora nell'angolo più appartato della capanna, dov'era separata dal
resto della compagnia da una cortina di ramoscelli stranamente intrecciati, quale forse poteva essere stata appesa, in fitti
festoni, intorno alla camera nuziale di Eva. Era stata la piccola e riservata sposa a intessere quel tendaggio mentre gli
altri convitati conversavano. Poi lei e il marito si addormentarono con le mani teneramente allacciate, tra visioni di
ultraterrena radiosità, per incontrare al risveglio una luce più benedetta l'uno negli occhi dell'altra. Si risvegliarono nello
stesso istante, con i volti illuminati da un unico felice sorriso, che si fece ancor più luminoso con la coscienza della
realtà della vita e dell'amore. Ma la sposa aveva appena ricordato dove si trovavano quando vide, sbirciando tra le
fessure della cortina di frasche, che l'altra parte della capanna era ormai deserta.
«In piedi, Matthew caro!», gridò in gran fretta. «Gli stranieri se ne sono andati tutti! In piedi, subito, altrimenti
perderemo il Grande Carbonchio!».
In verità, questi due poveri giovani meritavano così poco l'ambito premio che li aveva condotti in quel luogo
che avevano dormito saporitamente tutta la notte, fin quando le vette delle colline si erano illuminate dei raggi del sole,
mentre gli altri avventurieri si erano rivoltati nel loro giaciglio in preda a una febbrile insonnia, o avevano sognato di
scalare precipizi, e poi, alle prime luci dell'alba, si erano messi in cammino per realizzare i loro sogni. Matthew e
Hannah, dopo il loro sonno ristoratore, erano però leggeri come due giovani daini e si attardarono soltanto a recitare le
preghiere, a rinfrescarsi in una gelida pozza dell'Amonoosuck, e a mangiare un boccone, prima di volgere il viso verso
il fianco della montagna. Come in un dolce ritratto di amore coniugale, diedero inizio all'ardua salita, traendo forza dal
reciproco aiuto che si davano. Dopo tanti piccoli infortuni, quali una veste stracciata, una scarpa perduta e i capelli di
Hannah impigliati tra i rami d'un albero, essi raggiunsero il limitare più alto della foresta, da dove dovevano ora
proseguire un più avventuroso cammino. I tronchi innumerevoli e la fitta vegetazione della foresta avevano fino allora
posto una cortina ai loro pensieri, che in quel momento si ritrassero impauriti davanti alla regione del vento, delle
nuvole e delle nude rocce, del desolato e assolato paesaggio che si alzava smisurato sopra di loro. Si volsero a guardare
l'oscura solitudine che avevano attraversato e desiderarono essere sepolti ancora nelle sue profondità anziché
avventurarsi in così vasta e visibile desolazione.
«Andiamo avanti?», domandò Matthew cingendo col braccio la vita di Hannah, sia per proteggerla sia per
rinfrancare il proprio cuore che l'aveva ora più vicina.
Ma la piccola sposa, per quanto semplice fosse, aveva la passione di tutte le donne per i gioielli, e non poteva
abbandonare la speranza di possederne il più brillante di tutti, nonostante i pericoli che comportava la sua conquista.
«Saliamo un po' più su», mormorò, seppur con voce tremula, mentre volgeva il viso in alto, verso il cielo
solitario.
«Andiamo, allora», disse Matthew, facendo appello al suo coraggio virile e trascinandola con sé, perché ella
tornava a essere timida nel momento che lui si faceva intrepido.
E insieme salirono, i pellegrini del Grande Carbonchio, avanzando ora al di sopra della cima e dei rami
fittamente intrecciati dei pini nani che, col trascorrere dei secoli, e sebbene coperti dal muschio degli anni, non
raggiungevano il metro d'altezza. Arrivarono poi ai macigni e agli spuntoni di nuda roccia, accumulati alla rinfusa
insieme, come un tumulo eretto da giganti in ricordo del capo dei giganti. In questo desolato regno dell'etere, nulla
respirava, nulla cresceva, non vi era vita se non quella concentrata nei loro due cuori: erano saliti così in alto che la.48
Natura stessa sembrava non tener loro più compagnia. Si era fermata sotto di loro, al limitare della foresta, e da lì
lanciava uno sguardo d'addio ai suoi due figli che si smarrivano là dove le sue grandi impronte verdi non erano mai
arrivate. E ben presto essi scomparvero alla sua vista. Densa e buia, la nebbia cominciò ad addensarsi al di sotto,
proiettando cupe macchie d'ombra sul vasto paeasggio, e navigando lentamente verso un unico centro, come se il picco
più alto delle montagne avesse convocato un raduno delle nuvole sue affini. Infine i vapori si saldarono in un'unica
massa, presentandosi nell'aspetto di un pavimento, sul quale i viandanti avrebbero potuto camminare, ma dove
avrebbero vanamente cercato una strada per ritornare alla terra benedetta che avevano perduto. E i due amanti
rimpiangevano quella verde terra, e più intensamente ancora, ahimè, di quanto, sotto un cielo rannuvolato, avessero mai
desiderato uno squarcio di cielo. Provarono perfino un senso di sollievo alla loro desolazione quando le nebbie, salendo
a poco a poco per il versante della montagna, arrivarono a nasconderne la vetta solitaria, cancellando così, almeno per
loro, l'intera distesa di spazio visibile. Ma si stringevano più vicini ancora, con sguardo innamorato e malinconico, nella
paura che quella nuvola infinita li derubasse l'un l'altro della vista.
Eppure, sarebbero stati forse ugualmente risoluti a salire ancora, sempre più in alto, tra la terra e il cielo, fin
dove potevano posare il piede, se le forze di Hannah non avessero cominciato a mancare, e con quelle anche il suo
coraggio. Ansimante, Hannah non voleva aggravare il marito con il suo peso, ma spesso vacillava al suo fianco, e ogni
volta si riprendeva con sforzo sempre più fievole. Alla fine si accasciò su uno dei gradini rocciosi della salita.
«Siamo perduti, Matthew caro», sospirò tristemente. «Non ritroveremo più la strada per la terra. Ah, come
potevamo essere felici nella nostra fattoria!».
«Amore caro! Saremo ancora felici laggiù», replicò Matthew. «Guarda! In questa direzione i raggi del sole
penetrano attraverso la tetra nebbia. Con il loro aiuto posso dirigere il nostro cammino verso il Passo. Ritorniamo
indietro, amore mio, e non sogniamo più il Grande Carbonchio!».
«Il sole non può essere in quella direzione», obiettò Hannah con sconforto. «Ormai dev'essere mezzogiorno, e
se potesse arrivare qui un raggio di sole, scenderebbe da sopra alle nostre teste».
«Ma guarda!», insisté Matthew, in tono ora diverso. «È sempre più luminoso, di momento in momento. Se non
è il sole, che cosa può essere?».
La giovane sposa non poté più negare che raggi di luce facevano breccia nella nebbia e ne mutavano il pallido
colore in un rosso cupo, che si faceva sempre più vivido, come se particelle splendenti permeassero quella cortina
opaca. Ora, anche la nuvola cominciava a scendere dalla montagna e mentre si ritirava sempre più, un oggetto dopo
l'altro usciva dalla sua impenetrabile oscurità, mostrandosi alla vista, proprio come in una nuova creazione, prima che le
forme indistinte del caos primordiale si delineassero completamente. E mentre il fenomeno si manifestava sempre più,
videro, vicino ai loro piedi, lo scintillio dell'acqua e si trovarono sulla riva di un lago di montagna, lucente, limpido,
profondo, serenamente bello, che si stendeva da un bordo all'altro di un bacino scavato nella dura roccia. Un raggio
meraviglioso guizzava sulla sua superficie. I viandanti cercarono con gli occhi la sua provenienza, ma li chiusero con un
fremito di intimidita ammirazione per respingere il vivo bagliore che risplendeva dal ciglio di una roccia che incombeva
sul lago incantato. I due semplici sposi avevano infatti raggiunto il lago del mistero, dov'era la tanto ricercata culla del
Grande Carbonchio!
Si buttarono l'uno nelle braccia dell'altra, tremanti del loro successo perché, mentre le leggende su questa pietra
meravigliosa si affollavano nel loro ricordo, si sentirono segnati dal fato, e questa consapevolezza faceva loro paura.
Spesso, fin dall'infanzia, l'avevano vista brillare come una stella lontana, e ora quella stella gettava sui loro cuori il suo
più intenso splendore. Ora ciascuno sembrava diverso agli occhi dell'altro, nel vivo rossore che imporporava le loro
guance con la stessa fiamma che si stendeva sul lago, sulle rocce, nel cielo e sulla nebbia che si era diradata davanti alla
sua potenza. Ma quando guardarono di nuovo, scorsero qualcosa che attrasse la loro attenzione, distraendola perfino
dall'incantesimo della pietra. Ai piedi della roccia, proprio sotto il Grande Carbonchio, si vedeva la figura di un uomo
con le braccia protese nell'atto di arrampicarsi, e con la faccia rivolta in alto, come per dissetarsi allo zampillo
straripante di quello splendore. Ma la figura non si muoveva, proprio come se si fosse tramutata in marmo.
«È il Cercatore», mormorò Hannah, stringendo convulsamente il braccio del marito. «Matthew, è morto».
«La gioia del successo lo ha ucciso», spiegò Matthew, percorso da un violento tremito. «O forse la luce stessa
del Grande Carbonchio è stata la sua morte!».
«Il Grande Carbonchio», esclamò una voce stizzita alle loro spalle. «Il Grande Imbroglio, piuttosto! Se l'avete
trovato, di grazia mostratemelo».
Si voltarono e si trovarono davanti il Cinico, con i suoi formidabili occhiali appoggiati con cura sul naso, che
volgeva lo sguardo ora al lago, ora alle rocce, ora alle lontane masse di vapore, e ora diritto al Grande Carbonchio, ma
apparentemente insensibile alla sua luce, come se tutte le nuvole sparse si fossero condensate intorno a lui. Anche se i
raggi della mirabolante gemma proiettavano l'ombra dell'incredulo ai suoi piedi, quando questi le volgeva la schiena,
egli non voleva convincersi che ci fosse il minimo bagliore lì intorno.
«Dov'è dunque il vostro Grande Imbroglio?», ripeté. «Vi sfido a farmelo vedere!».
«Eccolo là», esclamò Matthew, esasperato da tanta caparbia cecità, e fece voltare il Cinico verso la roccia
illuminata. «Tolga questi occhiali, e non potrà fare a meno di vederlo!».
Si deve sapere che questi occhiali colorati oscuravano probabilmente la vista del Cinico almeno quanto i vetri
affumicati attraverso i quali si osservano le eclissi. Con risoluta aria di sfida, egli tuttavia se li strappò dal naso e fissò
audacemente lo sguardo sul fulgore rossastro del Grande Carbonchio. Ma lo aveva appena incontrato quando, con un
lungo, agghiacciante gemito, lasciò ricadere la testa e premette ambedue le mani sui suoi poveri occhi. Da quel.49
momento, non ci fu più, in verità, nessuna luce per il povero Cinico, né quella del Grande Carbonchio, né le altre luci
della terra e nemmeno quelle del cielo. Da troppo tempo era abituato a vedere tutte le cose attraverso quel filtro che le
privava del minimo barlume di luce, e un solo lampo di quello stupefacente fenomeno, colpendo i suoi occhi nudi, li
aveva accecati per sempre.
«Matthew», esclamò Hannah, aggrappandosi a lui. «Andiamocene di qui!».
Matthew si accorse allora che era svenuta e, inginocchiandosi, la prese tra le braccia, gettandole poi sul viso e
sul petto un po' dell'acqua gelida e vivificante del lago incantato. Questo la fece ritornare in sé, ma non servì a restituirle
il coraggio.
«Sì, mia cara!», rispose Matthew, stringendo al petto il corpo tremante di lei, «ce ne andremo di qui e
ritorneremo alla nostra umile fattoria. La luce benedetta del sole e quella serena della luna illumineranno le nostre
finestre. Alla sera, accenderemo l'allegra fiamma del nostro focolare e ci allieteremo alla sua luce. Mai, mai più
desidereremo altra luce di quella che abbiamo in comune con il resto del mondo».
«No, no», fece eco la sua sposa, «come potremmo vivere di giorno, o dormire alla notte, nello spaventoso
bagliore del Grande Carbonchio?».
Nel cavo della mano, bevvero ambedue un sorso dal lago, che offrì loro le sue acque incontaminate da labbra
umane. Poi, prestando la loro guida al Cinico accecato, che ora non pronunciava più una parola e anzi soffocava i
lamenti nel suo cuore infelice, i due sposi cominciarono a scendere la montagna. Tuttavia, prima di lasciare la riva, fino
a quel momento inviolata, del Lago dello Spirito, lanciarono uno sguardo d'addio verso la roccia, e videro i vapori che
si andavano addensando e la gemma che in mezzo a essi splendeva cupamente.
Per quanto riguarda gli altri pellegrini del Grande Carbonchio, la leggenda racconta ancora che il devoto e
onorevole Ichabod Pigsnort rinunciò ben presto alla ricerca, considerandola un investimento senza speranza, e
saggiamente decise di riprendere la strada del suo magazzino, vicino al porto di Boston. Ma mentre attraversava il Passo
tra le montagne, una tribù guerriera di indiani catturò il nostro sfortunato mercante e lo portò a Montreal, tenendolo
prigioniero finché non fu pagato un forte riscatto, che egli dovette malinconicamente sottrarre al suo mucchio di scellini
di pino. E oltre a ciò, a causa della sua prolungata assenza, i suoi affari erano andati in malora, tanto che, per il resto dei
suoi giorni, invece di sguazzare nell'argento, raramente si trovava in possesso d'una monetina di rame. Il dottor
Cacaphodel, l'alchimista, ritornò al suo laboratorio con un enorme pezzo di granito, che egli macinò in polvere, sciolse
negli acidi, fuse nel crogiolo e bruciò col ferruminatore, pubblicando i risultati dei suoi esperimenti in uno dei più
poderosi volumi in-folio dei suoi tempi. E per questo scopo, la gemma non sarebbe stata certamente più adatta del
granito. Il poeta, cadendo in un analogo abbaglio, fece tesoro di un gran pezzo di ghiaccio che trovò in un ombroso
crepaccio delle montagne, e giurò che esso corrispondeva, in tutto e per tutto, all'idea che si era fatto del Grande
Carbonchio. I critici affermano che la sua poesia, se mancava dello splendore della gemma, aveva invece tutto il gelo
del ghiaccio. Lord de Vere fece ritorno al suo avito castello, dove dovette accontentarsi della cera di un candeliere, e
andò a riempire, a tempo debito, un'altra bara nella cappella mortuaria dei suoi antenati. E lì, quando le torce funebri
illuminarono quell'oscuro antro, del Grande Carbonchio non ci fu alcun bisogno per rivelare la vanità dell'orgoglio
terreno.
Il Cinico, messi da parte i suoi occhiali, andò vagando come un relitto per il mondo, e fu punito con una
tormentosa sete di luce per la perversa cecità dei suoi anni trascorsi. Per tutta la notte teneva le sue orbite spente alzate
verso la luna e le stelle, e all'alba le volgeva verso levante, con la perseveranza di un adoratore del sole; fece perfino un
pellegrinaggio a Roma per poter assistere alla sfarzosa illuminazione della basilica di San Pietro, e infine perì nel
grande incendio di Londra, in mezzo al quale si era gettato con la disperata intenzione di cogliere almeno un fievole
riverbero di quel rogo che illuminava cielo e terra.
Matthew e la sua sposa trascorsero molti anni sereni, raccontando ben volentieri la leggenda del Grande
Carbonchio. Verso la fine delle loro lunghe vite, la leggenda però non incontrava più il credito che le era stato conferito
da coloro che ricordavano l'antico splendore della gemma. Si dice infatti che da quando due mortali si erano mostrati
così semplicemente saggi da rifiutare un gioiello che avrebbe offuscato ogni altra luce terrena, lo splendore della
gemma andò affievolendosi. Quando altri pellegrini raggiunsero la roccia, trovarono soltanto una pietra opaca, con
granelli di mica che risplendevano sulla sua superficie. Racconta un'altra leggenda che, una volta allontanatasi la
giovane coppia, la gemma si distaccò dal ciglio della roccia, ricadendo nel lago incantato, e che lì, a mezzogiorno, si
può vedere ancora la figura del Cercatore china sopra l'inestinguibile luce della pietra.
Alcuni altri credono invece che questa inestimabile gemma risplenda ancora come nei tempi antichi, e
affermano di averne intravvisto i raggi, come il saettare di un lampo d'estate, in fondo alla valle del Saco. E io stesso
devo ammettere che, a molte miglia di distanza dalle Montagne di Cristallo, vidi una luce meravigliosa rifulgere intorno
alle sue cime e, con la fede della poesia, fui indotto a diventare l'ultimo pellegrino del Grande Carbonchio.
I RITRATTI PROFETICI
«Che pittore!», esclamò Walter Ludlow in tono entusiasta. «Non soltanto eccelle nella sua arte, ma possiede
anche vaste conoscenze in tutti gli altri campi della cultura e della scienza. Parla in ebraico col dottor Mather, dà lezioni
di anatomia al dottor Bolyston. Insomma, è in grado di confrontarsi da pari a pari con i più dotti tra noi. E poi è un.50
gentiluomo così compito, un cittadino del mondo, sì, un vero cosmopolita, perché sa parlare come un indigeno di ogni
clima e luogo del globo, tranne che nelle nostre foreste, dove si sta ora recando. E non è soltanto questo che ammiro
maggiormente in lui».
«Davvero?», gli fece eco Elinor, che aveva ascoltato con femminile curiosità la descrizione di quest'uomo.
«Eppure tutto ciò è già abbastanza apprezzabile!».
«Puoi ben dirlo», replicò il suo innamorato, «ma molto meno della sua naturale capacità di adattarsi a ogni tipo
di carattere, in quanto che tutti gli uomini, e anche le donne, Elinor, troveranno un ritratto di sé in questo meraviglioso
pittore. Ma la più grande meraviglia non è stata ancora detta».
«Certamente no, se possedesse doti ancor più meravigliose di queste», replicò Elinor con una risata. «Boston è
un posto pericoloso per questo gentiluomo. Stai parlando di un pittore o di uno stregone?».
«In verità», rispose lui, «questa domanda potrebbe essere fatta molto più seriamente di quanto immagini.
Dicono che egli dipinga non soltanto i lineamenti di una persona, ma anche la sua mente e il cuore. Sa cogliere i
sentimenti e le passioni segrete, e le rende sulla tela come un raggio di sole, e fors'anche, nei ritratti di persone
tenebrose, come un bagliore di fuoco infernale. È una dote che incute paura», soggiunse Walter, abbassando il suo tono
di voce entusiasta. «Ho quasi timore di posare per lui».
«Walter, parli seriamente?», esclamò Elinor.
«Per amor del cielo, carissima Elinor, speriamo che non dipinga lo sguardo che hai ora sul volto», disse il suo
innamorato, con un sorriso un po' titubante. «Ecco, ora sta scomparendo, ma mentre parlavi sembravi spaventata a
morte, e anche molto triste. A che cosa pensavi?».
«A niente», si affrettò a rispondere Elinor. «Tu dipingi le tue fantasie sul mio volto. Bene, vieni a prendermi
domani, e andremo a far visita a questo meraviglioso artista».
Quando però il giovane se ne fu andato, una strana espressione era innegabilmente ancora dipinta sul bel volto
giovanile della sua amata. Era uno sguardo triste e inquieto, che poco si confaceva a quelli che dovevano essere i
sentimenti di una giovane donna alla vigilia delle nozze. Eppure Walter Ludlow era il prescelto del suo cuore.
«Uno sguardo!», disse tra sé Elinor. «Non stupisce che l'abbia turbato, se esprimeva ciò che talvolta sento. So
bene, per mia stessa esperienza, quanto può essere pauroso uno sguardo. Ma è stata soltanto una fantasia. Non ci
pensavo in quel momento, non ho più visto niente da allora, l'ho soltanto sognato».
E si chinò al ricamo di una gorgiera, con la quale intendeva essere ritratta.
Il pittore di cui parlavano non era uno di quegli artisti locali che, in un'epoca successiva, prendevano a prestito
i loro colori dagli indiani e costruivano i loro pennelli con il pelo di animali selvatici. Forse, se avesse potuto
ricominciare la sua vita e prestabilire il suo destino, avrebbe forse scelto di appartenere a quella scuola che non aveva
un maestro, nella speranza di essere almeno originale, perché lì non esistevano opere d'arte da imitare, né regole da
seguire. Era invece nato e si era educato in Europa. La gente diceva che aveva studiato la grandiosità e la bellezza della
concezione artistica e che il tocco di qualsiasi maestro in tutti i più celebri dipinti conservati nelle pinacoteche, nelle
gallerie e sulle pareti delle chiese, non aveva più nulla da insegnare alla sua mente superiore. Se l'arte non poteva
aggiungere niente alla sua lezione, poteva invece farlo la natura. Era andato perciò a visitare un mondo in cui nessuno
dei suoi colleghi l'aveva preceduto, per ispirarsi alla vista di immagini che, pur suggestive e pittoresche, non erano mai
state trasferite sulla tela. L'America era troppo povera per offrire altre visioni allettanti a un artista così eminente, ma
all'arrivo del pittore molti esponenti dell'aristocrazia coloniale avevano espresso il desiderio di tramandare ai posteri le
loro fattezze per mezzo della sua arte. Ogni volta che venivano avanzate queste proposte, l'artista fissava sul postulante
il suo sguardo penetrante e sembrava esaminarlo da capo a piedi. Se vedeva davanti a sé soltanto un volto disteso e
placido, nonostante i merletti per adornare il ritratto e le ghinee d'oro per pagarlo, declinava garbatamente l'incarico e la
relativa ricompensa. Se invece un volto rivelava qualcosa d'insolito, nel pensiero, nel sentimento o nell'esperienza, o se
egli incontrava nella strada un accattone con la barba bianca e la fronte solcata da rughe, se capitava talvolta che un
bimbo alzasse verso di lui il suo viso sorridente, allora egli dedicava a loro tutta la sua arte che aveva negato a persone
ben più facoltose.
La pittura era allora così rara nelle colonie che l'artista era diventato oggetto di generale curiosità. Se pochi, o
nessuno, potevano apprezzare le qualità tecniche della sua produzione, per altri aspetti l'opinione della massa era
apprezzabile quanto il raffinato giudizio dell'intenditore. Egli studiava quindi la reazione che ogni suo dipinto
produceva su quei profani osservatori, e traeva vantaggio dai loro commenti, mentre essi avrebbero pensato di poter
dare consigli alla natura stessa, prima che a colui che sembrava competere con essa. La loro ammirazione era però
condizionata, si deve dire, dai pregiudizi del tempo e del luogo. Alcuni ritenevano che fosse un'offesa alla legge
mosaica, e perfino un arrogante derisione del Creatore, il dar vita a così vivide immagini delle sue creature. Altri,
spaventati da un'arte che poteva evocare fantasmi a sua volontà e conservare tra i vivi l'immagine dei defunti, erano
inclini a considerare il pittore come uno stregone o magari come il famigerato «uomo nero» dei tempi delle streghe,
intento a tramare sventure in una diversa forma. Queste sciocche fantasie erano molto diffuse tra la gente, ma anche
nelle sfere più alte la sua personalità incuteva un vago timore reverenziale, che in parte si alzava come una voluta di
fumo dalle superstizioni popolari, ma era soprattutto sollevato dalle variegate conoscenze e capacità che egli asserviva
alla sua professione.
Walter Ludlow ed Elinor, essendo alla vigilia delle nozze, erano impazienti di avere il loro ritratto, il primo,
come speravano, di quella che sarebbe stata una lunga serie di ritratti di famiglia. Il giorno dopo la conversazione su
citata, si recarono in visita nell'abitazione del pittore. Un domestico li introdusse in un appartamento in cui l'artista non.51
era presente, ma erano in vista personaggi che a stento si trattennero dall'ossequiare. Sapevano, in realtà, che tutto quel
consesso era composto soltanto da ritratti, tuttavia era per loro impossibile distinguere l'immagine della vita e
dell'intelletto da quei loro sconcertanti simulacri. Parecchie persone lì raffigurate erano a loro note, sia come eminenti
personaggi del tempo, sia come conoscenze personali. C'era il governatore Burnet, che sembrava aver appena ricevuto
qualche sgradita comunicazione della Camera dei rappresentanti, alla quale si accingeva a dare una brusca risposta. Il
signor Cooke era appeso accanto al governatore suo avversario, solido e alquanto puritano nell'aspetto, come si
confaceva a un capopolo. L'anziana consorte di sir William Phips li scrutava dalla parete opposta, con gorgiera e
crinolina, una vecchia dama imperiosa, non esente da sospetti di stregoneria. John Winslow, allora molto giovane,
mostrava quell'espressione bellicosa che molto tempo dopo ne avrebbe fatto un celebre generale. Le loro personali
conoscenze erano riconoscibili a prima vista, perché il loro carattere era rivelato nel contegno e si concentrava in un
solo sguardo, così che, paradossalmente, gli originali non sembravano quasi così somiglianti a se stessi quanto il loro
ritratto.
Tra queste moderne personalità comparivano anche due vecchi santi barbuti, che quasi scomparivano
nell'oscurità della tela. E c'era anche una pallida, ma non sbiadita Madonna, che era stata forse venerata a Roma, e ora
osservava gli amanti con uno sguardo così dolce e santo che anch'essi avrebbero voluto venerarla.
«È strano pensare», osservò Walter Ludlow, «che questo bel volto sia stato bello per oltre duecent'anni! Ah, se
la bellezza si conservasse sempre così a lungo! Non la invidi, Elinor?».
«Potrei, se la terra fosse il cielo», rispose lei. «Ma dove ogni cosa svanisce, come sarebbe triste essere l'unica
che non svanisce!».
«Questo vecchio e cupo san Pietro ha uno sguardo severo e accigliato, per quanto sia santo», soggiunse Walter.
«Mi inquieta, mentre la Vergine ci guarda dolcemente».
«Sì, ma anche malinconicamente, mi sembra», replicò Elinor.
Sotto a questi tre antichi dipinti stava un cavalletto che ne sosteneva un altro da poco iniziato. Dopo averlo
osservato, iniziarono a riconoscere i lineamenti del loro pastore, il reverendo Colman, che stava prendendo forma e vita,
come uscendo da una nuvola.
«Che buon vecchio!», esclamò Elinor. «Mi guarda come se stesse per pronunciare qualche parola di paterno
consiglio».
«E guarda me», soggiunse Walter, «come se stesse per scrollare il capo, rimproverandomi qualche sospetto
peccato. Ma anche l'originale fa altrettanto. Non mi sentirò mai tranquillo sotto il suo sguardo, finché non ci
presenteremo davanti a lui per sposarci».
Udirono allora un passo alle loro spalle, e, voltandosi, videro il pittore, che già da qualche minuto era nella
stanza e aveva ascoltato alcuni dei loro commenti. Era un uomo di mezza età, e il suo contegno era all'altezza del suo
pennello. In effetti, per via del suo abbigliamento pittoresco, benché incurante, o forse perché il suo spirito era sempre
presente nelle forme che dipingeva, assomigliava lui stesso a uno dei suoi ritratti. I suoi visitatori avvertirono qualche
affinità tra l'artista e le sue opere, ed ebbero la sensazione che uno dei personaggi ritratti sulla tela ne fosse uscito per
salutarli.
Walter Ludlow, che era vagamente conosciuto dal pittore, gli spiegò lo scopo della loro visita. Mentre parlava,
un raggio di sole illuminava di traverso la sua figura e quella di Elinor, con un così felice effetto che anch'essi
sembravano immagini viventi della gioventù e della bellezza baciate dalla radiosa fortuna. L'artista ne rimase
evidentemente colpito.
«Il mio cavalletto è occupato per parecchi giorni a venire, e il mio soggiorno a Boston dovrà essere breve»,
disse pensosamente; ma dopo uno sguardo più attento soggiunse: «Ma i vostri desideri saranno esauditi, anche se dovrò
deludere il primo magistrato e la signora Oliver. Ma non posso perdere questa occasione per dipingere qualche misura
di broccato».
Il pittore espresse poi l'intenzione di introdurre i loro ritratti in un'unica composizione, rappresentandoli in
qualche opportuna occupazione. Il progetto, che peraltro piaceva molto ai due innamorati, fu però necessariamente
accantonato, perché una tela così grande sarebbe stata inadatta alla stanza che essi volevano decorare, e s'accordarono
perciò per due ritratti a mezzo busto. Dopo che si furono congedati, Walter Ludlow chiese a Elinor con un sorriso se si
rendeva conto di quale influenza sul loro destino stava per acquistare il pittore.
«Le vecchie di Boston», soggiunse, «affermano che dopo essersi impossessato del volto e della figura di una
persona, il pittore può rappresentarla in qualsiasi atto o situazione, e che questo ritratto sarà profetico. Tu ci credi?».
«Non molto», rispose Elinor con un sorriso. «Comunque, se anche avesse questa magica facoltà ha qualcosa di
così delicato nel suo modo di fare che di certo saprà farne uso appropriato».
Il pittore preferì dipingere i due ritratti contemporaneamente, adducendo come motivo, nell'esoterico
linguaggio che talvolta usava, che i loro volti gettavano luce l'uno sull'altro. Di conseguenza, dava un tocco ora al
ritratto di Walter, ora a quello di Elinor, e le fattezze dell'uno e dell'altra iniziarono a delinearsi così vividamente che
sembrava quasi che la sua arte trionfante estraesse le loro immagini dalla tela. Tra ricche luci e ombre profonde, essi
vedevano comparire le loro immagini, ma anche se la somiglianza sembrava essere perfetta, non erano del tutto
soddisfatti dall'espressione, che sembrava più incerta che nelle altre opere del pittore. Questi era nondimeno soddisfatto
delle sue prospettive di successo, ed era così interessato al ritratto degli innamorati che, a loro insaputa, dedicava anche
il suo tempo libero a disegnare l'immagine a carboncino delle loro figure. Durante le sedute di posa, li intratteneva in
conversazione, accendendo nei loro volti peculiari espressioni che si proponeva di amalgamare e fissare sulla tela per.52
quanto mutassero continuamente. E finalmente annunciò che, alla loro prossima visita, ambedue i ritratti sarebbero stati
pronti per la consegna.
«Se il pennello riuscirà a essere fedele alla mia visione, negli ultimi tocchi che sto meditando», concluse,
«questi due ritratti saranno le mie opere migliori. Raramente, infatti, un artista ha avuto a disposizione simili soggetti».
Mentre parlava, continuava a posare su loro il suo sguardo penetrante, senza distoglierlo finché essi non
giunsero in fondo alle scale.
Tra tutte le vanità umane, nessuna ha maggior presa sull'immaginazione di quella di far dipingere il proprio
ritratto. Ma perché è così? Lo specchio, i lucidi pomelli degli alari del camino, il riflesso dell'acqua, e ogni altra
superficie che rifletta ci offrono continuamente un ritratto di noi, o piuttosto un nostro simulacro che contempliamo e
subito dimentichiamo. Ma lo dimentichiamo solo perché esso svanisce. È l'idea della durata, dell'immortalità terrena che
conferisce un così misterioso fascino al nostro ritratto dipinto. A ciò non erano insensibili Walter ed Elinor, mentre
s'affrettavano puntualmente, all'ora convenuta, verso lo studio del pittore per conoscere quelle loro sembianze dipinte
che dovevano rappresentarli nella posterità. La luce del sole entrò con loro nell'appartamento, che rimase però un po' in
ombra quando fu chiusa la porta.
I loro sguardi furono subito richiamati dai loro ritratti, che erano posati contro la parete opposta della stanza. A
prima vista, nel vedersi a distanza nella luce fioca, in quello che era il loro naturale atteggiamento e nell'atmosfera che
riconoscevano così bene, lanciarono contemporaneamente un'esclamazione di compiaciuto stupore.
«Eccoci qui», esclamò Walter entusiasta, «fissati per sempre alla luce del sole. Nessuna cupa passione può
oscurare i nostri volti!».
«No», soggiunse Elinor in tono più pacato, «nessun funesto mutamento potrà rattristarci».
Era questo che dicevano mentre si avvicinavano e avevano una visione ancora imperfetta dei loro ritratti. Il
pittore, dopo averli salutati, si era appartato a un tavolo per terminare uno schizzo a carboncino, lasciando che i suoi
visitatori si formassero un proprio giudizio sulle sue opere finite. Di quando in quando, lanciava loro un'occhiata da
sotto alle sue folte sopracciglia, osservando la loro espressione di profilo, con la matita sospesa sopra al bozzetto. Erano
là già da qualche minuto, ciascuno davanti al ritratto dell'altro, contemplandoli con affascinata attenzione, ma senza
pronunciare parola. Infine, Walter fece un passo avanti, poi uno indietro, osservando il ritratto di Elinor sotto varie luci,
e finalmente parlò.
«Non vedi un cambiamento?», domandò, in tono perplesso e pensoso. «Sì, questa sensazione si fa sempre più
netta, più lo guardo. È certamente lo stesso ritratto che ho visto ieri: l'abito, i lineamenti sono gli stessi, eppure qualcosa
è mutato».
«Forse il ritratto è meno somigliante di quanto era ieri?», domandò il pittore avvicinandosi, spinto da
invincibile curiosità.
«I lineamenti sono esattamente quelli di Elinor», rispose Walter, «e a prima vista anche l'espressione appariva
la sua. Ma mi è sembrato che il ritratto mutasse espressione mentre lo guardavo. Gli occhi sono fissi nei miei con uno
sguardo stranamente triste e inquieto. Sì, uno sguardo di dolore e di paura! Non ti sembra, Elinor?».
«Confronti il volto reale con quello dipinto», suggerì il pittore.
Walter lanciò un'occhiata di traverso alla sua amata, e trasalì. Immobile e assorto, affascinato quasi nella
contemplazione del ritratto di Walter, il volto di Elinor aveva assunto esattamente l'espressione che Walter lamentava.
Se si fosse esercitata per ore davanti a uno specchio, Elinor non sarebbe riuscita a cogliere così bene quella espressione.
Se il ritratto fosse stato uno specchio, non avrebbe potuto riflettere il suo attuale aspetto con maggiore e più malinconica
verosimiglianza. Elinor non sembrava nemmeno ascoltare la conversazione tra l'artista e il suo fidanzato.
«Elinor!», esclamò Walter sgomento, «quale trasformazione è avvenuta in te?».
Lei non lo udì e nemmeno distolse il suo sguardo fisso, finché lui le prese la mano richiamando la sua
attenzione, e allora, con un improvviso tremito, ella spostò lo sguardo dal ritratto al volto originario.
«Non vedi alcun mutamento nel tuo ritratto?», gli domandò.
«Nel mio? No, nessuno», rispose Walter osservandolo. «Ma lasciami guardare... Sì, vedo un lieve mutamento,
in meglio mi sembra, nel ritratto, ma non nella somiglianza. Mostra un'espressione più vivace di ieri, come se qualche
pensiero gli brillasse negli occhi e stesse per essere pronunciato dalle sue labbra. Ora che ho colto quello sguardo, mi
appare ancor più evidente».
Mentre Walter faceva queste osservazioni, Elinor si rivolse al pittore, guardandolo con tristezza e sgomento, ed
ebbe la sensazione che lui la ricambiasse con uno sguardo di comprensione e pietà, anche se lei poteva intuirne solo
vagamente il motivo.
«Quello sguardo!», mormorò rabbrividendo. «Come è comparso sul suo volto?».
«Signora», rispose il pittore tristemente, prendendola per mano e portandola in disparte, «in tutti e due i ritratti
ho dipinto ciò che vedevo. L'artista, il vero artista, deve guardare sotto all'esteriorità. Il suo dono più prezioso, ma
spesso anche il più doloroso, è quello di vedere l'anima interiore e, grazie a un potere che nemmeno lui saprebbe
definire, farla rifulgere o oscurarsi sulla tela, attraverso sguardi che esprimono pensieri e sentimenti di anni. Volesse il
cielo che mi convincessi di essere in errore in questo caso!».
Si erano ora avvicinati al tavolo, sul quale erano posate teste di gesso e mani espressive quasi quanto un volto,
bozzetti di chiese ricoperte d'edera, di casupole col tetto di paglia, di vecchi alberi colpiti dal fulmine, di costumi esotici
e antichi, e tutte quelle pittoresche divagazioni di un artista nei suoi momenti oziosi. Mentre li rivoltava con aria
apparentemente distratta, l'artista mostrò un disegno a carboncino di due figure..53
«Se fossi in errore», proseguì, «se il suo cuore non si riconosce in questo suo ritratto, se lei ha qualche
recondito motivo per diffidare della mia rappresentazione dell'altro, non è troppo tardi per modificarli. Potrei
trasformare anche l'azione di queste figure. Ma ciò potrebbe influire sull'evento?».
Diresse allora l'attenzione di Elinor verso lo schizzo. Un brivido percorse Elinor, e un grido le affiorò alle
labbra, ma lei lo trattenne, con quell'autocontrollo che diventa abituale a tutti coloro che nascondono nel seno pensieri
di paura e d'angoscia. Voltandosi dal tavolo, ella s'accorse che Walter si era avvicinato abbastanza per vedere lo
schizzo, anche se non poteva sapere se aveva attratto la sua attenzione.
«No, non faremo modificare i ritratti», si affrettò a rispondere. «Se il mio è triste, apparirò ancora più gaia al
confronto».
«E così sia», concluse il pittore con un inchino. «Mi auguro che le vostre pene siano così immaginarie che
soltanto i vostri ritratti possano piangere per esse! In quanto alle vostre gioie, possano essere sincere e profonde, e
dipingersi su questo bel volto, fino a smentire la mia arte!».
Dopo il matrimonio di Walter ed Elinor, i due ritratti costituivano il più prezioso ornamento della loro dimora.
Erano appesi fianco a fianco, separati da una stretta striscia, e sembravano scrutarsi sempre l'un l'altro, ma ricambiando
sempre lo sguardo di chi li osservava. Alcuni viaggiatori, che si dichiaravano esperti in materia, li giudicarono tra i più
pregevoli esemplari della moderna ritrattistica, mentre i comuni osservatori li confrontavano in ogni tratto con gli
originali, ed esaltavano con lodi sperticate la loro somiglianza. Ma era su una terza categoria, non di esperti viaggiatori
né di comuni osservatori, ma di persone dotate di naturale sensibilità, che quei ritratti esercitavano il loro massimo
effetto. Costoro potevano dare inizialmente uno sguardo distratto, ma, una volta interessati, ritornavano giorno dopo
giorno per studiare quei volti dipinti come pagine di un mistico libro. Era il ritratto di Walter Ludlow che attirava per
primo l'attenzione. Quando lui e la sua sposa non erano presenti, questi osservatori discutevano talvolta sull'espressione
che il pittore aveva inteso conferire ai suoi lineamenti, e tutti convenivano che era uno sguardo evidentemente allusivo,
anche se nemmeno due vi attribuivano la medesima interpretazione. Le opinioni erano meno divergenti per quanto
riguardava il ritratto di Elinor. Divergevano in effetti, nel tentativo di giudicare la natura e la profondità della
malinconia che aleggiava sul suo volto, ma convenivano tutti che era un'espressione malinconica, ed estranea al naturale
temperamento della loro giovane amica. Una persona dotata di particolare immaginazione dichiarò infine, dopo così
approfondito esame, che tutti e due i ritratti facevano parte di un solo disegno, e che la malinconica forza espressiva di
Elinor faceva riscontro alla più vitale espressione, o come lui la definì, alla sfrenata passione del ritratto di Walter. Per
quanto digiuna d'arte, questa persona provò perfino ad accennare uno schizzo in cui l'azione delle due figure doveva
corrispondere alle rispettive espressioni.
Tra gli amici si sussurrava che il volto di Elinor assumeva giorno dopo giorno una sempre più profonda
pensosità, tale da minacciare di renderla una controparte troppo somigliante al suo malinconico ritratto. Walter, dal
canto suo, anziché acquistare il vivido sguardo che il pittore gli aveva conferito sulla tela, diventava riservato e
depresso, non mostrava alcun lampo esteriore di emozione, per quanto questa potesse covare dentro di lui. Dopo
qualche tempo, Elinor appese uno sgargiante telo di seta purpurea, ricamato con fiori e decorato con vistose nappe
dorate, davanti ai ritratti, adducendo il motivo che la polvere poteva corroderne i colori e la luce sbiadirli. Ciò fu
sufficiente a dare ai visitatori la sensazione che quello spesso telo di seta non sarebbe mai stato rimosso, e che dei
ritratti non si sarebbe più parlato in loro presenza.
Il tempo trascorse, e infine il pittore fece ritorno. Si era spinto abbastanza lontano, nel nord, per vedere le
cascate argentee delle Colline di Cristallo, e per ammirare la vasta distesa di nuvole e foreste dall'alto della vetta delle
più elevate montagne del New England, ma senza profanare quello spettacolo con la finzione della sua arte. Aveva
anche attraversato in canoa il bacino del lago George, rispecchiando la sua anima nella sua bellezza e grandiosità, tanto
che nessun dipinto del Vaticano era rimasto altrettanto vivido nel suo ricordo. Si era recato con i cacciatori indiani alle
cascate del Niagara, dove aveva gettato nel precipizio la sua inutile matita, nella convinzione che non avrebbe potuto
rappresentare il ruggito delle acque più di qualsiasi altra cosa che componeva quelle meravigliose cateratte. In verità,
raramente sentiva l'impulso di ispirarsi a scene naturali, se non come contesto per delineare il volto e la figura degli
esseri umani, i loro istinti e pensieri, le loro passioni e sofferenze. Fatto tesoro di tutto ciò, il suo viaggio avventuroso
l'aveva arricchito con la conoscenza della severa dignità dei capi indiani, dell'ombrosa bellezza delle ragazze indiane,
della vita domestica nelle loro tende, delle marce furtive e delle battaglie all'ombra delle pinete, di un fortino di frontiera
con la sua guarnigione, della bizzarria di un vecchio pioniere francese, educato nelle corti ma invecchiato nella
selvaggia solitudine: questi erano i ritratti e le scene che aveva abbozzato. Il bagliore del pericolo, i lampi di sentimenti
primordiali, le battaglie di forze prepotenti, come l'amore, l'odio, il dolore, l'impulso, insomma tutto il cuore della
vecchia terra, gli si erano rivelati sotto nuova luce. Il suo albo era fitto delle sintetiche illustrazioni del suo libro di
ricordi, che il genio avrebbe poi tramutato nella sua essenza e imbevuto d'immortalità. Aveva la sensazione che la
profonda ispirazione della sua arte, che aveva così lontano ricercata, era stata infine trovata.
Tuttavia, nella maestosità o nella bellezza della natura, nei pericoli della foresta o nel suo imponente silenzio,
due fantasmi erano sempre stati compagni del suo cammino. Come tutti gli uomini dominati da uno scopo sovrastante,
anche il pittore era isolato dalla massa del genere umano. Non aveva altro fine, piacere o inclinazione se non ciò che era
associato con la sua arte. Per quanto cortese fosse nei modi, ed elevato nei propositi e nelle azioni, egli non conosceva
sentimenti di bontà, il suo cuore era freddo e nessuna creatura vivente poteva avvicinarsi a lui abbastanza per
riscaldarlo. Per questi due esseri umani, invece, aveva provato nella massima intensità quell'interesse che sempre lo
avvicinava ai soggetti del suo pennello. Aveva indagato nelle loro anime con la sua più acuta intuizione, e ne aveva.54
dipinto l'effetto sui loro lineamenti, così da arrivare quasi a quel livello che nessun genio può mai raggiungere, la
soddisfazione del proprio severo giudizio. Aveva strappato alle tenebre del futuro, questo almeno immaginava, un
pauroso segreto, e l'aveva oscuramente rivelato nei loro ritratti. Tanta parte di sé, della sua immaginazione e delle sue
altre facoltà, aveva profuso nello studio di Walter ed Elinor che li considerava quasi proprie creature, al pari delle
migliaia con cui aveva popolato il regno della pittura. Essi aleggiavano quindi nel crepuscolo dei boschi, nel pulviscolo
delle cascate d'acqua, lo guardavano dallo specchio del lago, e non si dissolvevano al sole del mezzogiorno. Erano
sempre presenti nelle sue visioni pittoriche, e non come imitazioni della vita, né come pallidi spiriti di defunti, ma in
forma di ritratti, ognuno con l'inalterabile espressione che la sua magia aveva evocato dalle profondità dell'anima. Non
avrebbe potuto riattraversare l'Atlantico senza vedere ancora una volta i modelli di quegli eterei ritratti.
«Ah, arte immortale!», meditava tra sé il pittore con fervore, mentre camminava per strada. «Tu sei l'immagine
del creatore stesso. Le forme innumerevoli che si librano nel nulla iniziano a divenire a un tuo cenno. I morti vivono
ancora, e tu li rievochi nei loro scenari d'un tempo, e dai alle loro grigie ombre la lucentezza di una vita migliore, al
tempo stesso terrena e immortale. Tu catturi i momenti fuggevoli della storia, e grazie a te non esiste passato, perché, al
tuo tocco, tutto ciò che è grande diventa presente per sempre, e gli uomini illustri vivono attraverso i secoli, nel visibile
compimento delle imprese che li hanno resi tali. Ah, arte possente, tu che fai apparire il nebuloso passato in quella
stretta striscia di luce che chiamiamo "adesso", non puoi tu evocare il futuro ancora ammantato per incontrarlo qui? Non
è questo che io ho compiuto? Non sono io il tuo profeta?».
Così egli declamava quasi ad alta voce, con orgoglioso ma malinconico fervore, mentre passava per le strade
brulicanti di persone che nulla sapevano delle sue fantasie, né potevano comprenderle e curarsene. Non è bene che un
uomo accarezzi in solitudine le sue aspirazioni perché, se non ha intorno a sé quelle persone col cui esempio egli può
controllarsi, i suoi pensieri, desideri, speranze diventeranno stravaganti, ed egli stesso assumerà la parvenza, se non la
realtà, di un folle. Leggendo nel cuore degli altri, con perspicacia quasi sovrannaturale, il pittore non riusciva a vedere il
disordine dentro il suo.
«Ecco, questa dovrebbe essere la casa», si disse, alzando lo sguardo verso la sua facciata prima di bussare alla
porta. «Il cielo mi aiuti! Quel ritratto... penso che non svanirà mai. Se guardo queste finestre, questa porta, lo vedo
incorniciato là dietro, vividamente dipinto, splendente dei più ricchi colori, vedo i volti ritratti, le figure e l'azione
rappresentate nello schizzo!».
Bussò alla porta.
«I ritratti! Sono qui dentro?», domandò al domestico, poi si riprese: «I suoi padroni... sono in casa?».
«Sì, ci sono, signore», rispose il domestico, poi, osservando il bizzarro aspetto di cui il pittore non poteva mai
spogliarsi, soggiunse: «E anche i ritratti!».
L'ospite fu introdotto in un salotto che comunicava, attraverso una porta centrale, con una stanza interna delle
stesse dimensioni. Essendo deserto il primo locale, si diresse all'ingresso del secondo, e lì il suo sguardo incontrò quei
personaggi viventi, e i ritratti che li rappresentavano, che per tanto tempo erano stati oggetto del suo peculiare interesse.
Involontariamente, si fermò sulla soglia.
Non si erano accorti del suo arrivo. Walter ed Elinor erano in piedi davanti ai loro ritratti, dai quali il primo
aveva appena rimosso il pesante telo di seta pieghettato, trattenendone una nappa dorata con una mano, mentre l'altra
stringeva quella della sua sposa. I ritratti, tenuti celati per mesi, rifulgevano ancora d'immutato splendore, e, anziché
essere illuminati da un riverbero preso a prestito, sembravano gettare una cupa luce nella stanza. Quello di Elinor era
divenuto quasi profetico. Una pensosità e poi una dolce malinconia si erano successivamente posate sulla sua
espressione, approfondendosi, col trascorrere del tempo, in una sommessa angoscia. Un miscuglio di paura era ciò che
ora avrebbe reso l'espressione di quello sguardo. Il volto di Walter era accigliato e opaco, oppure era animato da
sporadici sprazzi, che dopo averlo illuminato brevemente lasciavano un'ombra ancora più scura. Spostò lo sguardo da
Elinor al suo ritratto, e poi sul proprio, e lì si soffermò infine in contemplazione.
Al pittore sembrò di udire i passi del destino che si avvicinavano alle sue spalle, proseguendo verso le sue
vittime, e uno strano pensiero gli attraversò la mente. Non era forse lui stesso la figura in cui quel destino si era
incarnato, non era lui il principale artefice del male che aveva prefigurato?
Walter rimaneva in silenzio davanti al ritratto, raccolto in comunione con esso come col proprio cuore,
abbandonandosi al sortilegio della maligna influenza che il pittore aveva calato sui suoi lineamenti. A poco a poco il
suo sguardo si accese, e mentre Elinor osservava il furore che si diffondeva sul suo volto, quello di lei assumeva
un'espressione inorridita, finché, quando lui si voltò verso di lei, la rassomiglianza di ambedue ai loro ritratti diventò
perfetta.
«Il nostro destino incombe su di noi!», gemette Walter. «Muori!».
Estratto un coltello, la sostenne con un braccio, mentre lei s'afflosciava a terra, e lo puntò al suo petto. In
quell'azione, nello sguardo e nell'atteggiamento di ambedue, il pittore poté riconoscere le figure del suo disegno. Il
ritratto, con tutta la sua terribile impronta, era ora finito.
«Fermati, pazzo!», gridò con voce perentoria.
Era avanzato dalla porta e si era interposto tra quei due infelici con la stessa capacità di dominare il loro
destino quanta ne aveva nel modificare una scena sulla tela. Rimase lì come uno stregone, controllando gli spiriti che
egli stesso aveva evocato.
«Come?», balbettò Walter LudIow, ricadendo dalla sua furiosa esaltazione in una tetra apatia. «Il destino
impedisce l'esecuzione del suo stesso decreto?»..55
«Stupida donna!», esclamò il pittore. «Non l'avevo forse avvertita?».
«Sì, è vero», rispose sommessamente Elinor, mentre il terrore lasciava posto alla silenziosa malinconia che
esso aveva turbato. «Ma... io l'amavo!».
Non contiene una profonda morale, questo racconto? Auguriamoci che l'esito di una nostra azione, o di tutte,
possa essere prefigurato e posto davanti a noi: alcuni lo chiameranno destino, e s'affretteranno oltre, altri saranno
sopraffatti dalle loro passioni, ma nessuno ne sia distolto da un ritratto profetico.
DAVID SWAN
Una fantasia
Possiamo essere solo in parte a conoscenza degli stessi eventi che influenzano realmente il corso della nostra
vita e il nostro destino ultimo. Sono innumerevoli gli altri eventi, se così possono essere chiamati, che ci sfiorano ma
passano oltre senza esito, e senza nemmeno rivelare la loro vicinanza con il riflesso di una luce o di un'ombra che ci
attraversi la mente. Se potessimo conoscere tutte le vicissitudini delle nostre sorti, la vita sarebbe troppo fitta di
speranze e timori, di entusiasmi e delusioni, per concederci una sola ora di autentica serenità. Quest'idea potrebbe essere
illustrata da una pagina della storia sconosciuta di David Swan.
Non sappiamo niente di David finché non lo troviamo, all'età di vent'anni, sulla strada principale che dal suo
luogo natale conduce alla città di Boston, dove suo zio, un piccolo commerciante di spezie, doveva metterlo al lavoro
dietro al banco. Basti dire che era nato nel New Hampshire da rispettabili genitori e che aveva ricevuto una comune
educazione scolastica, conclusa con un classico anno finale all'accademia di Gilmanton. Dopo aver camminato dall'alba
fin quasi a mezzodì in una giornata d'estate, la stanchezza e la crescente calura gli fecero prendere la decisione di
sedersi nel primo posto ombreggiato e di attendere lì l'arrivo della diligenza. Come se fosse stata piantata lì apposta per
lui, gli apparve ben presto una piccola macchia di aceri con un delizioso recesso nel mezzo, e una fresca e spumeggiante
sorgente che sembrava zampillare per nessun altro viandante che David Swan. Fosse vergine o no, egli la baciò con le
sue labbra assetate e poi si lasciò cadere sul suo limitare, facendosi cuscino con qualche camicia e un paio di pantaloni
legati insieme con un fazzoletto di cotone a strisce. I raggi del sole non potevano raggiungerlo, la polvere della strada
non si alzava ancora, dopo l'acquazzone del giorno prima, e così quell'erboso giaciglio si confaceva al giovane più di un
letto di piume. La fonte mormorava pigramente accanto a lui, i rami degli alberi stormivano come in sogno nel cielo
azzurro sopra alla sua testa, e un sonno profondo, che forse nascondeva sogni nelle sue profondità, scese su David
Swan. Ma qui dobbiamo parlare di eventi che egli non sognò.
Mentre era profondamente addormentato all'ombra, altre persone erano ben deste e passavano di lì avanti e
indietro, a piedi, a cavallo e su ogni sorta di veicoli, lungo la strada soleggiata che passava accanto alla sua alcova.
Alcuni non guardavano né a destra né a manca, e non s'accorsero della sua presenza; altri lanciarono soltanto
un'occhiata da quella parte, ma senza tener conto del dormiente tra i loro gravi pensieri; alcuni risero nel vedere come
dormiva profondamente, e alcuni altri, col cuore traboccante di disprezzo, riversarono su David Swan tutta la loro
superflua velenosità. Una vedova di mezza età si affacciò per un attimo nell'anfratto, mentre nessuno era nei pressi, e si
disse che quel giovane addormentato era davvero affascinante. Un predicatore di temperanza lo vide, e introdusse
l'ignaro David nel filo del suo sermone serale, come orribile esempio di ubriachezza sul ciglio della strada. Ma il
biasimo, l'approvazione, il dileggio, il disprezzo o l'indifferenza erano tutt'uno, anzi niente, per David Swan.
Dormiva solo da qualche minuto quando una carrozza scura, tirata da una bella coppia di cavalli, sfrecciò
lungo la strada e si arrestò quasi davanti al luogo in cui David riposava. Il chiodo di un mozzo era caduto, facendo
slittare fuori una delle ruote. Era un lieve inconveniente, e aveva provocato solo un attimo di apprensione a un anziano
mercante e a sua moglie, che facevano ritorno a Boston a bordo della carrozza. Mentre il cocchiere e un domestico
riparavano la ruota, la donna e suo marito andarono a ripararsi all'ombra degli aceri, e il scorsero la fonte zampillante e
David Swan addormentato accanto. Attratto da quel fascino che solitamente ispira anche il più umile dormiente, il
mercante si avvicinò quanto più lievemente gli consentiva la gotta, e sua moglie ebbe cura di non far frusciare la sua
gonna di seta per non destare David di soprassalto.
«Come dorme saporitamente!», sussurrò l'anziano gentiluomo. «Da quali profondità attingerà quel tranquillo
respiro? Un sonno come questo, non indotto da sonniferi, varrebbe per me più della metà dei miei guadagni, perché
presuppone buona salute e una mente sgombra di affanni».
«E anche gioventù», soggiunse sua moglie. «Una sana e serena vecchiaia non consente di dormire così. Il
nostro sonno non è più come il suo, non più della nostra veglia».
Più a lungo lo guardavano, più l'anziana coppia era interessata a quel giovane sconosciuto, al quale il ciglio
della strada e l'ombra degli aceri facevano da segreta alcova, avvolgendolo nella fitta penombra di tende damascate.
Accorgendosi che un raggio di sole cadeva sul suo volto, la donna riuscì a spostare il ramo d'un albero in modo che lo
intercettasse. E dopo aver compiuto questo piccolo gesto di cortesia si sentì come una madre per lui.
«Sembra che sia stata la Provvidenza a condurlo qui», sussurrò rivolta al marito, «e che abbia condotto qui
anche noi per trovarlo, dopo la delusione per il figlio di nostro cugino. Mi sembra di vedere una somiglianza col nostro
povero Henry. Vogliamo destarlo?».
«A quale scopo?», domandò il mercante, esitante. «Non sappiamo nulla del carattere di questo giovane»..56
«Guarda quell'espressione aperta!», replicò sua moglie, sempre con voce attutita, ma anche commossa. «Quel
sonno innocente!».
Mentre venivano scambiati questi sussurri, il cuore del dormiente non trasaliva, né il suo respiro s'interrompeva
né i suoi lineamenti tradivano la minima ombra d'interesse. Eppure la fortuna si era chinata su di lui, pronta a ricolmarlo
d'oro. Il vecchio mercante, infatti, aveva perduto il suo unico figlio e non aveva eredi a cui lasciare i suoi averi, tranne
un lontano parente, della cui condotta era insoddisfatto. In questi casi, le persone compiono talvolta azioni più strane di
quelle che avvengono per magia, e possono destare nella ricchezza un giovane che si era addormentato nella povertà.
«Non vogliamo destarlo?», ripeté la signora, in tono ancor più persuasivo.
«La carrozza è pronta, signore», annunciò il domestico dietro a loro.
L'anziana coppia trasalì, arrossì e s'allontanò in fretta, domandandosi ambedue come avevano potuto solo
immaginare qualcosa di così ridicolo. Il mercante risalì in carrozza, dove occupò la sua mente col progetto di un
magnifico ospizio per uomini d'affari caduti in disgrazia. E nel frattempo David Swan continuava a dormire beatamente.
La carrozza non poteva aver percorso più di un miglio o due quando una graziosa fanciulla arrivò lì con passo
spigliato, che rivelava esattamente come il suo piccolo cuore le danzava in petto. E forse fu proprio questo suo
movimento disinvolto che le fece sciogliere la giarrettiera: forse c'è del male a dirlo? Accorgendosi che il reggicalze di
seta, se di seta era, stava per cadere, la fanciulla si voltò al riparo degli aceri e lì vide un giovane addormentato accanto
alla sorgente. Arrossendo come una rosa per essersi introdotta nell'alcova di un uomo, e per di più a quello scopo, la
giovane stava per fuggire in punta di piedi, ma un pericolo incombeva accanto al dormiente. Un'ape mostruosa ronzava
sopra la sua testa, ora volteggiando tra le fronde, ora guizzando attraverso i raggi del sole, ora perdendosi nell'ombra,
finché sembrò in procinto di posarsi sulla palpebra di David Swan. La puntura di un'ape può essere a volte mortale, ma
la fanciulla, intrepida quant'era innocente, assalì l'intrusa col suo fazzoletto e la scacciò energicamente da sotto l'ombra
degli aceri. Che delizioso quadretto! Compiuta questa buona azione, ansimante e ancor più rossa in viso, lanciò
un'occhiata al giovane sconosciuio, per il quale aveva dato battaglia a quel drago dell'aria.
«Com'è bello!», pensò, arrossendo ancor più.
Com'era possibile che un sogno di felicità non sorgesse dentro di lui, così impetuoso che, travolto dalla sua
stessa forza, non prorompesse per consentirgli di percepire la presenza della fanciulla tra le sue visioni? Perché, almeno,
un sorriso di benvenuto non illuminò il suo volto? Era lì giunta quella fanciulla la cui anima, secondo un'antica e bella
immagine, si era separata dalla sua, colei che, nei suoi sogni confusi ma appassionati, lui anelava solo di conoscere. Lei
soltanto egli poteva amare con amore perfetto, e lui soltanto ella poteva ricevere nell'intimità del suo cuore. E ora
l'immagine di quella fanciulla arrossiva lievemente nella fontana al suo fianco, e quando fosse scomparsa, il suo lieto
riverbero non avrebbe più illuminato la sua vita.
«Come dorme profondamente!», mormorò la ragazza.
Poi se ne andò, ma il suo passo sulla strada non era così lieve come quando era lì giunta.
Si dava il caso che il padre della ragazza fosse un facoltoso mercante della campagna circostante e che, in quel
momento, fosse alla ricerca di un giovanotto proprio come David Swan. Se David avesse conosciuto casualmente sua
figlia, sarebbe divenuto l'aiutante del padre, con tutto ciò che consegue nella successione naturale. E anche qui la
fortuna, la migliore delle fortune, gli si era avvicinata così furtivamente che i suoi indumenti l'avevano sfiorato, ma lui
non ne seppe mai nulla.
La ragazza era da poco scomparsa alla vista quando due uomini voltarono sotto l'ombra degli aceri. Avevano
ambedue volti cupi, celati da berretti di stoffa che tenevano di sbieco sulla fronte, e vestivano miseramente, ma con una
certa eleganza. Erano una coppia di malviventi che campavano di ciò che il diavolo offriva loro, e ora, fra l'una e l'altra
delle loro imprese, avevano scommesso il comune bottino della loro prossima ribalderia su un gioco di carte, che
doveva essere deciso proprio lì sotto gli alberi. Ma nel vedere David addormentato accanto alla fonte, uno dei furfanti
sussurrò al suo compare:
«Ehi, l'hai visto quel fagotto sotto la sua testa?».
L'altro gaglioffo annuì e strizzò l'occhio con aria d'intesa.
«Scommetto una pinta di brandy», soggiunse il primo, «che quel tipo ha un portafoglio o un bel gruzzolo di
monete nascosto lì tra le sue camicie. E se non è lì, lo troveremo nella tasca dei suoi pantaloni».
«E se si sveglia?», domandò l'altro.
Il suo compare si slacciò il panciotto, indicò il manico di un pugnale e fece un cenno d'intesa.
«E così sia!», mormorò l'altro malvivente.
Si avvicinarono a David, ancora addormentato, e mentre l'uno gli puntava il pugnale al cuore l'altro si diede a
frugare nel fagotto sotto alla sua testa. I loro ceffi, cupi, grinzosi, sfigurati dalla colpa e dalla paura, erano chini sulla
vittima, ed erano così orribili da poter sembrare quelli di due diavoli, se David si fosse destato d'improvviso. Gli stessi
furfanti, se avessero dato uno sguardo alla fonte, difficilmente si sarebbero riconosciuti nel riflesso dell'acqua. Ma
David Swan non aveva mai avuto un'espressione così serena, nemmeno quando era al seno di sua madre.
«Devo strappar via il fagotto», sussurrò uno dei briganti.
«Se si muove, lo colpisco», mormorò l'altro.
Ma in quel momento un cane, annusando per terra, si addentrò tra gli alberi, e guardò prima l'uno, poi l'altro
dei malviventi, e infine il silenzioso dormiente, poi lappò l'acqua della sorgente.
«Maledizione!», esclamò uno dei manigoldi. «Ora non possiamo fare più niente, il padrone del cane dev'essere
qui vicino»..57
«Beviamo qualcosa e squagliamocela», propose l'altro.
L'uomo ripose il pugnale dentro il panciotto e prese un'altra arma dalla tasca, ma non di quelle che uccidono
con un solo colpo. Era una fiaschetta di liquore con un bicchiere di metallo avvitato in cima. Ciascuno bevve
un'abbondante sorsata, poi se ne andarono insieme, scherzando e ridendo della ribalderia non commessa tanto da far
pensare che andassero a festeggiarla. Poche ore dopo avevano dimenticato tutto l'accaduto, non immaginando
lontanamente che un angelo aveva registrato sulle loro anime il delitto di omicidio, con lettere indelebili nell'eternità. In
quanto a David Swan, continuava a dormire beatamente, inconsapevole sia dell'ombra della morte che si era posata su
di lui, sia della nuova vita che si era accesa quando quell'ombra era scomparsa.
Continuava a dormire, ma non più profondamente come prima. Un'ora di sonno aveva risollevato la sua
robusta costituzione dalla stanchezza di molte ore di fatica. Ora s'agitava, ora muoveva le labbra senza proferire suono,
ora parlava tra sé e sé, rivolgendosi ai fantasmi diurni dei suoi sogni. Ma uno sferragliare di ruote si fece sempre più
forte lungo la strada, finché irruppe tra le disperse nebbie del sonno di David, che vide allora la diligenza e balzò in
piedi nel pieno possesso di tutte le sue idee.
«Ehilà, cocchiere!», gridò. «Mi dai un passaggio?».
«C'è posto sul tetto», gli rispose il conducente.
David salì a bordo e partì allegramente alla volta di Boston, senza nemmeno voltarsi a guardare quella fonte di
oniriche vicissitudini. Non sapeva che una chimera di ricchezza aveva dipinto d'oro le sue acque, né che una d'amore
aveva sospirato lievemente al loro mormorio, e nemmeno che un'altra di morte le aveva quasi arrossate del suo sangue,
e tutto nella breve ora in cui aveva dormito. Nel sonno o nella veglia, tutti noi non udiamo i lievi passi delle strane cose
che quasi accadono. Non vuole forse affermare, una superiore Provvidenza, che mentre eventi invisibili e inattesi
attraversano continuamente il nostro cammino, la nostra vita mortale dovrebbe essere abbastanza regolare per rendere
possibile, almeno in parte, la premonizione?
IMMAGINI DA UN CAMPANILE
Sì, sono salito in alto, e la mia ricompensa è poca. Sono qui con le ginocchia molli, come di terra, un
vertiginoso baratro di sotto, ma il cielo è lontano, ancora così lontano da me. Oh, se potessi librarmi lassù fino allo
zenith, fin dove uomo non ha mai respirato né aquila ha volato, dove l'azzurro etereo si scioglie alla vista e sembra
soltanto un'ombra più scura del nulla! Eppure rabbrividisco a questo gelido, solitario pensiero. Quante nubi si
addensano all'occidente dorato, con funesti intenti contro la luce e il calore di questo pomeriggio d'estate! Sono come
pesanti navi dell'aria, nere come la morte e cariche di tempesta, e di quando in quando il tuono, come una cannonata di
questa minacciosa flotta, brontola in lontananza nelle profondità del cielo. I cumuli più vicini di queste vaporose
pecorelle, tra le quali vorrei gettarmi e rotolare tutto il giorno, sembrano spargersi qua e là, per dare riposo agli stanchi
pellegrini del cielo. Forse - chi può dirlo? - sono graziosi spiriti che qui si trastullano e allietano la mia vista mortale con
la breve apparizione dei loro riccioli di luce dorata e con i loro volti ridenti, belli e impercettibili come personaggi di un
roseo sogno. Oppure, dove questa massa galleggiante ostruisce imperfettamente il colore del firmamento, un lieve piede
e un arto, posandosi troppo pesantemente su quel fragile sostegno, possono sprofondare e d'improvviso si ritraggono,
mentre un'ardente fantasia li segue invano. Laggiù si vede un etereo arcipelago, dove i raggi del sole amano indugiare
nei loro viaggi attraverso lo spazio. Ognuna di quelle piccole nubi è stata immersa e impregnata in una luce radiosa che
la più lieve pressione può sciogliere in un'argentea profusione, come acqua strizzata dai capelli di una sirena. Sono
vivide come le visioni di un giovane, e al pari di queste si realizzerebbero nel freddo, nell'oscurità e nelle lacrime. Non
le guarderò più.
Su tre lati di questo cerchio visibile, al cui centro è il campanile, distinguo campi coltivati, villaggi, bianche
case di campagna, tortuosi percorsi di ruscelli, placidi laghetti, e qua e là un'altura che vorrebbe essere chiamata collina.
Sul quarto lato si vede il mare, che si estende verso invisibili confini, azzurro e calmo, tranne dove una passeggera
ombra di collera increspa la sua superficie e poi scompare. In qua, una vasta insenatura penetra profondamente nella
terra, e ai limiti del porto, formato dalla sua estremità, sorge una città sopra la quale io sto come un guardiano, che tutto
osserva inosservato. Se questa moltitudine di camini potesse parlare, come quelli di Madrid, e rivelare con fumosi
sussurri i segreti di tutti coloro che, fin dalle fondamenta, si sono raccolti intorno a questi focolari! Se il Diavolo Zoppo
di Lesage fosse appollaiato qui accanto a me, e tendesse la sua bacchetta su questa di stesa di tetti, scoprendo tutte le
camere per farmi far conoscenza dei loro abitanti! Il modo più desiderabile di vivere potrebbe essere quello di un Paul
Pry spirituale, che aleggia invisibile intorno a uomini e donne, testimoniando le loro azioni, penetrando nei loro cuori,
appropriandosi della luce della loro felicità e dell'ombra dei loro dolori, senza conservare alcun proprio sentimento. Ma
niente di tutto ciò è possibile, e per conoscere l'interno di questi muri di mattoni e i misteri del cuore umano dovrei solo
indovinarli.
Laggiù si vede una bella strada che si estende verso nord e sud. Signorili dimore si ergono sui due lati del suo
tappeto verdeggiante, e una lunga rampa di gradini scende da ogni porta fino al selciato. Alberi ornamentali, come
l'ippocastano latifoglio, l'olmo così alto e curvo, l'aggraziato e insolito salice, e altri di cui non conosco il nome,
crescono fiorenti tra mattoni e pietre. I raggi obliqui del sole sono intercettati da questi verdi abitanti della città e dalle
sue case, così che un lato della strada offre un'ombreggiata e piacevole passeggiata. Lungo tutta la sua estensione si.58
vede ora un solo passante, che avanza dall'estremità più in alto, e questi, se non sono la distanza e il cannocchiale con
cui lo guardo a rendergli troppa giustizia, è un bel giovane d'una ventina d'anni. Cammina lentamente, battendo un paio
di guanti piegati sul palmo della mano sinistra, e tiene gli occhi abbassati, alzandoli di quando in quando per dare
un'occhiata davanti a sé. Ha certamente un'aria pensosa: sarà assillato dai dubbi o dai debiti? è innamorato, se la
domanda è lecita? si sforza di apparire malinconico e signorile? Oppure è semplicemente oppresso dalla calura? Ma per
il momento mi congedo da lui. La porta di una delle case, un aristocratico edificio con tende color porpora e oro alle
finestre, si apre e ne scendono i gradini due signore roteando i loro ombrellini, vestite con abiti leggeri per una
passeggiata estiva. Sono ambedue giovani e graziose, ma a me sembra che quella di sinistra sia la più bella delle due, e
anche se in questo momento è così seria, giurerei che dentro di sé nasconde un tesoro di gentile gaiezza. Si trattengono a
conversare un po' sui gradini, e infine proseguono per la strada. E ora, mentre mi voltano il viso, posso rivolgere altrove
lo sguardo.
Su quel molo e nella strada corrispondente, si svolge un operoso fermento che contrasta con la tranquillità della
scena che ho or ora osservato. Qui ferve evidentemente l'attività, e molte persone stanno sciupando questo pomeriggio
d'estate tra lavori e affanni, perdendo ricchezze e guadagnandone, quando sarebbero più saggi a rifugiarsi in qualche
piacevole villaggio di campagna, o presso un ombroso laghetto nei boschi, o su una spiaggia solitaria e fresca. Vedo
vascelli che scaricano sul molo merci preziose, ora sparse per terra in abbondanza, come sul fondo del mare, quel
mercato dal quale le merci non fanno ritorno, dove non c'è comandante o commissario di bordo che renda conto delle
vendite. Qui, invece, gli impiegati si occupano diligentemente delle loro carte e penne, i marinai maneggiano i bozzelli
dei paranchi sospesi sulla stiva, accompagnando le loro fatiche con lunghe grida raucamente melodiose, finché balle e
casse sono sollevate in aria. A poca distanza, un gruppo di uomini è raccolto davanti alla porta di un magazzino. Sono
severi e anziani signori, e scommetterei, se di questi tempi fosse prudente garantire per qualcuno, che il meno eminente
tra loro potrebbe competere col vecchio Vincenzo, l'incomparabile mercante di Pisa. Potrei riconoscere persino il più
ricco della compagnia: è quell'anziano personaggio vestito in un nero quasi rugginoso, con i capelli incipriati, il cui
superfluo candore è visibile sopra il bavero della sua mantella. Le sue venti navi sono sparse sulle loro molteplici rotte,
sospinte da tutti i venti che soffiano, e il suo nome, mi azzardo a dire, anche se non lo so per certo, è ben noto a tutti i
lontani mercanti d'Europa e delle Indie.
Ma ho rivolto troppo a lungo la mia attenzione da questa parte. Nel guardare di nuovo il lungo viale
ombreggiato, mi accorgo che le due belle ragazze hanno incontrato il giovane, che dopo un timido cenno di
riconoscimento ritorna con loro sui suoi passi. Ha anche dato conferma ai miei gusti, per quanto riguarda le sue
compagne, collocandosi all'interno del marciapiede, più vicino alla Venere cui io, assumendo da questo campanile la
parte di Paride sul monte Ida, ho aggiudicato il pomo d'oro.
Su due strade che convergono ad angolo retto verso la mia torre di guardia, scorgo tre diverse processioni. Una
è un'orgogliosa sfilata di soldati volontari in sgargianti uniformi, che assomigliano, visti dall'alto, ai veterani dipinti che
presidiano le vetrine dei negozi di giocattoli. Eppure eccitano il mio cuore: la loro marcia regolare, i loro pennacchi al
vento, il riverbero del sole sulle loro baionette e sulle canne dei loro moschetti, il rullo dei loro tamburi che sale fino a
me e quello dei pifferi che di quando in quando lo trapassa, tutto ciò ha destato il mio ardore marziale, per quanto possa
essere un uomo pacifico. Dietro a loro, marcia un battaglione di scolaretti, disposti in disordinati e irregolari plotoni,
che imbracciano bastoni e sollevano aspri e dissonanti suoni da uno strumento di latta, scimmiottando comicamente le
complesse manovre del drappello davanti a loro. Tuttavia, essendo scarsamente percepibili queste lievi differenze dal
campanile di una chiesa, si è quasi tentati di domandarsi: «Quali sono i ragazzi?», o piuttosto: «Quali sono gli
uomini?». Ma ora, distogliendoci da loro, rivolgiamo l'attenzione alla terza processione che, pur esteriormente più triste,
può suscitare analoghe riflessioni in una mente pensosa. È un funerale, con un carro funebre trainato da un nero e ossuto
destriero coperto da una polverosa gualdrappa. Due o tre carrozze percorrono rumorosamente l'acciottolato, guidate da
sonnacchiosi cocchieri e seguite da qualche decina di distratti dolenti, nei loro abiti di tutti i giorni: non era questo il
modo in cui i nostri padri accompagnavano un amico alla tomba. Non si odono nemmeno i dolenti rintocchi delle
campane che annunciano il lutto della città. Forse che la Regina delle Tenebre incuteva maggior rispetto ai loro tempi
che ai nostri, in cui l'esperienza e la filosofia hanno potuto produrre un simile mutamento? Non è così. Vediamo qui una
prova che essa conserva tutta la sua maestà, quando i militari, uomini e ragazzi, voltano l'angolo e si trovano proprio
davanti al funerale. Immediatamente il tamburo tace, e ogni altro rumore, tranne il battito che dà la cadenza al passo,
poi i soldati lasciano strada al polveroso carro funebre e al suo umile corteo, mentre i ragazzini sciolgono le fila e si
raggruppano sui marciapiedi, con timorosa e istintiva curiosità. Il corteo funebre entra nel cimitero della chiesa, ai piedi
del campanile, e si ferma davanti a una fossa aperta tra le pietre tombali. Il lampo illumina i dolenti mentre calano la
bara e il tuono rimbomba cupamente mentre gettano terra sul coperchio. In verità, il temporale si avvicina, e sono in
ansia per il giovanotto e le ragazze, che sono ora scomparsi dal lungo viale alberato.
Come sono diverse le situazioni delle persone al riparo dei tetti sotto di me, e come sono disparati i casi che
capitano loro in questo momento! Il neonato e l'anziano, il moribondo, la persona in buona salute e quella da poco
defunta sono tutti nelle camere di queste numerose abitazioni. L'ottimista e il soddisfatto, il miserabile e l'infelice
abitano insieme nella sfera della mia vista. In alcune delle case su cui si aggira freddamente il mio sguardo, la colpa sta
penetrando in cuori che sono ancora abitati da una precaria e calpestata virtù, una colpa che sta per essere commessa e
potrebbe essere ancora scongiurata, ma quando è compiuta il colpevole si domanda se può essere revocata. Sono diffusi
pensieri quelli che si dibattono nella mia mente, e se riuscissi a ordinarli distintamente, potrebbero esprimersi in modo
eloquente. Guarda! cadono le prime gocce di pioggia..59
In breve tempo, le nuvole si sono ammassate nel cielo e incombono come in procinto di precipitare sulla terra
in una sola massa compatta. Di quando in quando, la folgore lampeggia nel profondo del loro cuore, serpeggia e
scompare, poi la segue il tuono, viaggiando più lentamente dietro alla fiamma sua gemella. Si è alzato un forte vento e
ulula nelle strade buie, sollevando dense nuvole di polvere come per ribellarsi alla tempesta che s'avvicina. I soldati
sbandati si danno alla fuga, il corteo funebre è già scomparso, al pari del defunto, e tutti si affrettano verso casa, tutti
coloro che l'hanno, mentre alcuni si trattengono agli angoli, oppure riprendono faticosamente il cammino quando
possono. In uno stretto vicolo, che comunica con il viale alberato, scorgo il ricco e vecchio mercante che cammina col
passo più veloce possibile, perché la pioggia non riduca in poltiglia la cipra sui suoi capelli. Infelice! Dal trattenuto
impeto e dalla faticosa cautela con cui cammina, appare evidente che la podagra gli ha lasciato sull'alluce il suo
lancinante marchio. Ma ecco che laggiù, con passo ben più lesto, arrivano altre tre mie conoscenze, le due belle ragazze
e il giovanotto, inopportunamente interrotti nella loro passeggiata. I loro passi sono sostenuti dalla polvere che s'è alzata
e il vento accresce la loro velocità, così che volano tutti e tre come uccelli di mare spinti verso terra dal vento di
burrasca. Le due dame non gareggerebbero forse con Atalanta se solo sapessero che qualcuno sta comodamente
osservandole. Purtroppo, mentre si affrettano sulla loro strada, ridendo in faccia alla natura rabbiosa, non sanno che
vanno incontro a un'inattesa disavventura. All'angolo in cui il vicolo confluisce nella strada principale, si trovano infatti
di fronte al vecchio mercante, il cui cammino di tartaruga l'ha condotto fino a quel punto. Costui è contrariato dal
piacevole incontro, e l'aria cupa del temporale si addensa subito sul suo volto, poi segue qualche attimo di imbarazzo da
ambedue le parti. Infine, il vecchio, poco garbatamente, scosta da parte il giovane, prende per un braccio ambedue le
ragazze e prosegue il suo arrancante cammino, come un mago che ha fatto prigioniere due belle fate. Tutto ciò è
facilmente comprensibile. Come rimane sconsolato il povero corteggiatore! Incurante della pioggia che minaccia di
recare grave danno ai suoi abiti ben confezionati, rimane lì finché non coglie un ultimo sguardo allegro di occhi
ammiccanti, e allora se ne va con quel po' di consolazione che ne ha avuto.
Il vecchio e le sue figlie sono ora al sicuro in casa, e il temporale scatena allora la sua furia. Immagino i volti
delle casalinghe che in tutte le abitazioni s'affrettano a chiudere le imposte, per impedire l'accesso all'acquazzone
impetuoso, per poi ritrarsi, davanti alle sue rabbiose folate. I goccioloni cadono con veemenza sui tetti d'ardesia e se ne
alzano fumanti, si ode uno scroscio tumultuoso, come di un fiume che attraversa l'aria, e rivoli melmosi ribollono
maestosamente lungo i marciapiedi, turbinando con la loro torbida schiuma nei canaletti di scolo, e infine scompaiono
dentro le grate di ferro. Così è scomparsa anche Aretusa. Non mi piace la mia posizione quassù, nel mezzo di un
tumulto che sono impotente a dirigere o placare, tra il lampo azzurrino che mi fa aggrottare la fronte e il tuono che mi
mormora all'orecchio le sue prime parole minacciose. Scenderò da qui, ma prima lasciatemi dare un altro sguardo al
mare, dove la schiuma si frange in lunghe strisce bianche su una vasta distesa scura, oppure ribolle in lontananza, come
una cima innevata, nei vortici della burrasca; lasciatemi guardare ancora la verde pianura, le collinette di campagna
sulle quali avanza a grandi passi il gigante del temporale col suo manto nebbioso, e la città con le sue strade buie e
deserte, che la fanno sembrare una città di morti. Poi, alzando ancora per un attimo lo sguardo al cielo, ora cupo come le
prospettive di uno scrittore, mi preparo a riprendere il mio posto sulla terra qui sotto. Ma guarda! una piccola chiazza
d'azzurro si è allargata nel cielo a occidente e i raggi del sole trovano un varco per penetrare gioiosamente la tempesta, e
su quella nuvola più scura laggiù, simile alla fulgida speranza della gloria di un altro mondo, sorto dagli affanni e dalle
lacrime di questo, compare luminosamente l'arcobaleno!
LA VALLETTA TRA LE TRE COLLINE
In quegli strani, vecchi tempi, in cui fantastici sogni e folli fantasie si avveravano tra gli avvenimenti reali della
vita, due persone si incontrarono in un luogo e un'ora convenuti. Una era una giovane donna, aggraziata nelle forme e
nell'aspetto, benché pallida e tormentata, afflitta da una precoce malinconia in quello che doveva essere il fiore dei suoi
anni. L'altra era una vecchia miseramente vestita e di sgradevole aspetto, così avvizzita e decrepita che perfino l'inizio
del suo decadimento doveva essere anteriore al comune arco dell'esistenza umana. Nel luogo in cui si incontrarono,
nessun mortale avrebbe potuto vederle: tre piccole colline si ergevano una accanto all'altra, e nel centro, fra esse, era
incassata una piccola valle quasi perfettamente circolare, larga una trentina di metri e così profonda che un maestoso
albero di cedro poteva essere appena visibile dal di sopra. I pini nani abbondavano sulle colline e in parte bordavano i
limiti esterni della cavità, in mezzo alla quale non c'era altro che l'erba ingiallita d'ottobre e qualche tronco d'albero
caduto qua e là, che da molto tempo marciva senza che niente di verde ne prendesse il posto dalle radici. Una di queste
masse di legno putrescente, che era un tempo una maestosa quercia, giaceva accanto a una pozza d'acqua verde e
stagnante sul fondo della valletta. Luoghi come questo, raccontano oscure leggende, erano un tempo ritrovo di una
maligna potenza e dei suoi docili sudditi, che a mezzanotte o al fosco calare della sera, si riunivano qui intorno alla
pozza stagnante, turbandone le putride acque con sacrileghi riti battesimali. La gelida bellezza di un tramonto autunnale
indorava ora le cime delle tre colline, da dove una sfumatura più tenue scendeva lungo i fianchi della valletta.
«Ecco che avviene il nostro piacevole incontro», disse la vecchia megera, «come tu desideravi. Dimmi in fretta
che cosa vuoi da me, perché abbiamo soltanto una breve ora per trattenerci qui»..60
Mentre la vecchia avvizzita parlava, un sorriso brillò sul suo volto, come un cero su una pietra sepolcrale. La
giovane donna rabbrividì e lanciò uno sguardo verso il bordo della valletta, come pensando di ritornare senza
conseguire il suo scopo, ma ciò non era prestabilito.
«Sono straniera in questa terra, come sai», disse infine. «Da dove vengo non ha importanza, ma dietro a me ho
lasciato coloro con cui il mio destino era intimamente legato, e dai quali sono ora per sempre separata. Questo è un peso
sul mio petto da cui non posso liberarmi, e sono venuta qui per avere loro notizie».
«E chi, accanto a questa pozza verde, può darti queste informazioni dall'altro capo della terra?», esclamò la
vecchia, scrutando il suo volto. «Non è dalle mie labbra che puoi udire queste notizie, ma se sarai coraggiosa, la luce del
giorno non sarà scomparsa sulla cima di quelle colline quando il tuo desiderio sarà esaudito».
«Farò ciò che ordini, anche a costo della vita», rispose la giovane donna disperata.
La vecchia si sedette sul tronco dell'albero caduto, calò il cappuccio che copriva i suoi capelli grigi e fece
cenno all'altra di avvicinarsi.
«Inginocchiati», le disse, «e posa la fronte sulle mie ginocchia».
La donna esitò un attimo, ma l'ansia che da tempo covava ora divampava dentro di lei. Mentre si
inginocchiava, bagnò il bordo della sua veste nella pozza d'acqua, poi posò la fronte sulle ginocchia della vecchia e
questa le avvolse una mantella intorno al volto, immergendola nel buio. Poi la giovane donna udì le parole biascicate di
una preghiera, nel mezzo della quale trasalì e fece per alzarsi.
«Lasciami fuggire», gridò. «Lasciami fuggire e lascia che mi nasconda così che non possano vedermi». Ma
quando ritornò il ricordo, rimase in silenzio, immobile come la morte.
Sembrava che altre voci, familiari nella sua infanzia e non dimenticate attraverso i molti vagabondaggi e le
vicissitudini del suo cuore e delle sue fortune, si mescolassero con le parole della preghiera. Erano dapprima voci
fievoli e indistinte, non tanto per la lontananza, ma simili piuttosto alle opache pagine di un libro che ci sforziamo di
leggere a una luce imperfetta che diventa a poco a poco più nitida. In questo modo, mentre proseguiva la preghiera,
quelle voci diventavano più distinte all'orecchio, finché, al termine dell'invocazione, la conversazione di un uomo ormai
vecchio e di una donna cadente quanto lui diventò chiaramente udibile alla donna inginocchiata. Ma quegli sconosciuti
non sembravano essere nella valletta tra le tre colline, le loro voci erano racchiuse ed echeggianti tra le pareti di una
camera, le cui finestre erano sferzate dal vento. Il regolare ticchettio di un orologio, lo scoppiettio di un camino, lo
sfrigolio dei tizzoni che cadevano tra le ceneri rendevano vivida la scena, come dipinta allo sguardo. Accanto a un
malinconico focolare erano seduti due vecchi, l'uomo taciturno e affranto, la donna gemente e in lacrime, e le loro
parole erano tutte di dolore. Parlavano di una figlia, una vagabonda di cui non sapevano più nulla, che portava con sé il
disonore e lasciava gravare sui loro capi canuti la vergogna e il dolore che li avrebbero portati alla tomba. Alludevano
anche a un altro più recente dolore, ma nel mezzo del discorso le loro voci sembrarono mescolarsi con quella del vento
che soffiava lamentosamente tra le foglie d'autunno, e quando la giovane donna alzò lo sguardo si trovò inginocchiata
nella valletta tra le tre colline.
«Una vita dolorosa e solitaria, quella che ha trascorso questa anziana coppia», commentò la vecchia megera,
sorridendole.
«Anche tu li hai uditi, allora!», esclamò la giovane donna, vinta da un senso di intollerabile umiliazione, più
forte del tormento e della paura.
«Sì, e abbiamo ancora altro da udire», rispose la vecchia. «Perciò affrettati a coprirti la faccia!».
E di nuovo la vecchia avvizzita intonò le monotone parole di una preghiera che non era rivolta al cielo, e ben
presto, tra le pause dei suoi ansiti, iniziarono a farsi udire strani mormorii che a poco a poco diventavano più forti, fino
a sommergere e soffocare gli incantesimi da cui erano evocati. Acute grida trapassarono l'oscurità dei suoni, e furono
seguite dal canto di dolci voci femminili, che a sua volta lasciò posto a sguaiati scrosci di risate, improvvisamente
interrotti da gemiti e singhiozzi, che formavano tutti insieme una paurosa accozzaglia di terrore, angoscia e sfrenata
allegria. Sferragliavano catene, voci crudeli e imperiose pronunciavano minacce, e ai loro ordini risuonava il sibilo della
sferza. Tutti questi suoni prendevano corpo e sostanza alle orecchie di chi ascoltava finché ella poté distinguere ogni
delicato e sognante accento di una canzone d'amore, che senza motivo si spense in un inno funebre. Rabbrividì per un
improvviso accesso di collera che divampò senza motivo, come una fiammata spontanea, e si sentì mancare per la
paurosa allegria che sentì diffondersi miserevolmente intorno a lei. Nel mezzo di questa delirante scena, in cui sfrenate
passioni si scontravano le une con le altre, come in un'orgia di ubriachi, si udì la solenne voce di un uomo, che un tempo
poteva esser stata virile e melodiosa. L'uomo andava avanti e indietro continuamente, facendo risuonare i suoi passi sul
pavimento, e in ogni componente di quella frenetica compagnia, i cui febbrili pensieri erano divenuti un mondo
esclusivo, cercava un ascoltatore del racconto dei torti da lui subiti, e ne interpretava le risate o le lacrime come una
reazione di scherno o di compassione. Parlava della perfidia femminile, di una moglie che aveva infranto i suoi sacri
voti, di una casa e un focolare abbandonati. E mentre l'uomo andava avanti e indietro, le grida, le risate, le strida, i
singhiozzi si alzavano all'unisono, fino a tramutarsi nel cupo, intermittente e disuguale ululato del vento, che si faceva
strada tra i pini su quelle tre solitarie colline. La donna alzò lo sguardo e vide la vecchia avvizzita che le sorrideva.
«Avresti mai immaginato che ci fosse tanta allegria in un manicomio?», le domandò la vecchia.
«È vero, è vero», disse tra sé la giovane donna. «C'è allegria tra le sue mura, ma infelicità, tanta infelicità, al di
fuori».
«Vuoi ascoltare ancora?», domandò la vecchia.
«C'è un'altra voce che vorrei ascoltare ancora», rispose fievolmente la donna..61
«Allora posa subito la testa sulle mie ginocchia, così che tu possa andartene da qui prima che sia trascorsa
l'ora».
I lembi dorati della luce del sole indugiavano sulle colline, ma fitte ombre oscuravano la valletta e la pozza
d'acqua, come se la cupa notte stesse alzandosi di là per distendersi su tutto il mondo. La megera iniziò a intrecciare di
nuovo i suoi incantesimi, che rimasero a lungo inascoltati, finché il rintocco di una campana si introdusse tra una parola
e l'altra, come un clangore che avesse viaggiato a lungo attraverso la valle e le alture, e stesse per spegnersi nell'aria. La
giovane donna si agitò sulle ginocchia della vecchia nell'udire quel suono funesto. Poi si fece più forte e più triste,
approfondendosi nel suono di una campana a morto che rintoccava dolorosamente da qualche torre ammantata d'edera e
portava annuncio di morte e di lutto nella piccola casa, nelle sue stanze e al solitario viandante, così che tutti potessero
piangere per la triste sorte destinata a ciascuno di essi. Si udì poi un passo cadenzato e lento, come di dolenti che
portavano una bara trascinando le loro vesti per terra, così che il carro funebre potesse misurare la lunghezza del loro
mesto corteo. Davanti a loro veniva il sacerdote che leggeva la funzione funebre su un libro le cui pagine frusciavano al
vento. E anche se nessuno oltre a lui parlava ad alta voce, si udivano imprecazioni e anatemi, sussurrati ma distinti, di
uomini e donne che mormoravano contro la figlia che aveva tormentato il vecchio cuore dei suoi genitori, contro la
moglie che aveva tradito la fiducia e l'amore del marito, contro la madre che aveva peccato contro i più naturali affetti,
lasciando morire suo figlio. Poi il prolungato brusio del corteo funebre si dissolse come un filo di fumo, e il vento, che
poco prima sembrava scuotere il drappo funebre, gemette tristemente ai margini della valletta tra le tre colline. Ma
quando la vecchia scrollò la donna inginocchiata, questa non alzò il capo.
«È stata una piacevole ora di divertimento», esclamò allora la vecchia avvizzita, ridacchiando tra sé.
LA GIORNATA DEL GABELLIERE
Un bozzetto di vita quotidiana
Per chi ha l'istinto di osservare le correnti della vita, anziché immergersi nei suoi flutti tumultuosi, non mi
sembra che sia un rifugio indesiderabile il casello del dazio lungo qualche strada di grande traffico. In gioventù, è forse
bene che l'osservatore scorrazzi per la terra, lasciando in lungo e in largo le orme dei suoi passi, che si mescoli con lo
svolgersi di innumerevoli vicissitudini, e infine, nel silenzio della solitudine, alimenti la sua indole pensosa con tutto ciò
che ha visto e sentito. Esistono tuttavia nature troppo indolenti, o troppo sensibili, per sopportare la polvere, il sole o la
pioggia, il tumulto degli elementi morali e fisici cui si espongono tutti i viandanti del mondo. Per una tale persona,
sarebbe un piacevole miracolo se la vita potesse dipanarsi nella sua variegata lunghezza davanti alla soglia del suo
eremo, e se il globo terrestre compisse le sue rivoluzioni e mutasse i suoi molteplici aspetti davanti ai suoi occhi, senza
però coinvolgerlo nel suo corso. Se qualche mortale ha il privilegio di un simile destino, questi è il gabelliere. È questo,
almeno, che ho spesso pensato quando mi attardo su una panchina dinanzi alla porta di un piccolo edificio quadrato che
sta nel mezzo di un lungo ponte tra due spiagge. Sotto alle tavole del ponte, va e viene la marea di un braccio di mare, e
al di sopra, come linfa vitale in un'arteria, pulsa continuamente il traffico del nord e dell'est. Seduto su questa panchina,
mi diletto a immaginare, accompagnandomi con numerosi schizzi tracciati in aria con la matita, la giornata del
gabelliere.
Al mattino, un fioco, grigio e nebbioso mattino d'estate, il lontano cigolio di pesanti ruote inizia a mescolarsi
col sonno del mio vecchio amico, scricchiolando sempre più stridente in mezzo ai suoi sogni, sostituendoli a poco a
poco con la realtà. Non ancora conscio del trapasso dal sonno alla veglia, il gabelliere si trova parzialmente vestito ad
aprire i cancelli del dazio per far passare un fragrante carico di fieno. Le tavole del ponte gemono sotto alle ruote che
girano lentamente, un robusto contadino cammina piano accanto ai buoi, e in cima ai covoni di fieno, alla fioca luce
della lanterna quasi spenta sul casello del dazio, compare il volto assonnato di un suo compagno, che si è goduto un
sonnellino lungo una decina di miglia. Viene pagato il dazio, cigolano di nuovo le ruote del carro, e l'enorme cumulo di
fieno scompare nella nebbia del mattino. La natura non è ancora desta, e gli oggetti più familiari appaiono come in una
visione. Ma ecco che, proveniente dalla costa con uno sferragliare di ruote e un confuso rimbombo di zoccoli, arriva
l'instancabile postiglione, che per tutta la notte silenziosa ha corso senza sosta a perdifiato. Il ponte risuona di un
ininterrotto scampanellio mentre la diligenza continua a correre senza fermarsi, consentendo al gabelliere solo un breve
sguardo agli assonnati passeggeri, che ora stiracchiano i muscoli intorpiditi e annusano una fiaschetta di cordiale
nell'aria salmastra. Il mattino respira su di loro, mentre arrossisce, ed essi dimenticano come si è trascinata
faticosamente la notte. E guardate ora la fervida aurora, che nel suo carro di luce scintilla obliquamente sulle onde, non
dimenticando di lanciare un omaggio dei suoi raggi dorati sul piccolo eremo del gabelliere. Il vecchio guarda verso est,
ed essendo un filosofo formula un'analogia tra la diligenza e il carro del sole.
Mentre il mondo si sveglia, possiamo dare una breve occhiata alla scena del nostro bozzetto. Si trova sopra al
centro della vasta marea, un luogo non di terra ma nel mezzo delle acque, che scorrono mormorando sotto alle travi
massicce. Sopra alla porta del casello è appeso un cartello consunto dalle intemperie, dove sono scritte le tariffe dei
pedaggi con lettere quasi cancellate che nemmeno la dorata luce del sole rende più leggibili. Sotto alla finestra c'è una
panca di legno, sulla quale si è riposata una lunga processione di stanchi viandanti. Scrutando attraverso la porta,
scorgiamo le pareti imbiancate e decorate con varie stampe litografiche, cartelli pubblicitari di prodotti d'importazione e
l'enorme manifesto di un serraglio itinerante. E lì siede il nostro buon vecchio gabelliere, magnificato dai primi raggi di.62
sole. Come può rivelare il suo aspetto, è un uomo di indole quieta e pensosa, scaltra ma semplice, che della saggezza
sparsa nel suo cammino dal mondo che passa ha fatto considerevole scorta.
Ora il sole sorride sul paesaggio, e la terra sorride a sua volta al cielo. I viaggiatori sono più frequenti, e
l'orecchio esperto del gabelliere sa distinguere il peso di ciascun veicolo, il numero delle sue ruote e dei cavalli che
calpestano le tavole rimbombanti sotto i loro passi ferrati. Ecco che su un solido calesse familiare, partito di buon'ora
per approfittare della strada ancora fresca, arrivano un gentiluomo e sua moglie, con la loro paffuta figlioletta seduta
graziosamente in mezzo a loro. Sul fondo del calesse sono ammucchiate variegate cappelliere e sacche da viaggio, sotto
l'assale dondola un baule di pelle impolverato dal viaggio. Subito dopo compare un grosso carro a quattro ruote,
popolato da sei o sette ragazze, tirato da un solo cavallo e condotto da un solo carrettiere. Sfortunato lui, che per tutto
questo giorno d'estate è condannato a essere bersaglio della maliziosa ilarità di queste vivaci signorine! Ritto in piedi su
un sediolo arriva un tipo smilzo e acido in volto, che nel pagare il pedaggio porge al gabelliere un cartoncino stampato
da appendere alla parete. Quel tipo con la faccia d'aceto si rivela un fabbricante di sottaceti. Ora cavalca lentamente, da
una tavola all'altra, un cavaliere vestito in nero, meditabondo in volto come chi, ovunque lo porti il suo destriero,
viaggerebbe sempre avvolto in un alone di profondi pensieri. È un predicatore di campagna, che va a fare il suo
mestiere in qualche prolungata riunione. Il successivo veicolo diretto verso la città è il carro di un macellaio, coperto
con un tendone ad arco di cotone bianco come la neve. Dietro a lui arriva un ortolano che conduce un carretto carico di
patate novelle, spighe verdi di grano, carote, rape e cocomeri, ed è seguito da due vecchie comari, avvizzite e rugose
come streghe, a bordo di una carrozzella antidiluviana tirata da un cavallo di altre generazioni, che vanno a vendere
cassette di mirtilli. Ecco qui un uomo che spinge una carriola di aragoste, e poi un carro del latte, coperto da un telo
verde, che avanza speditamente, trasportando il contributo di un'intera mandria di mucche in grossi bidoni di stagno. Ma
lasciamo che tutti paghino il loro pedaggio e passino oltre, perché ora sta arrivando uno spettacolo che fa sorridere
benevolmente il vecchio gabelliere, come se questi viaggiatori portassero con sé la luce del sole e ne dispensassero la
benefica influenza lungo la strada.
È un biroccio di nuovissima foggia, con i fianchi appena verniciati che riflettono tutto il circostante paesaggio
in movimento e mostrano anche un ritratto del nostro amico col volto allargato, così che il suo pensoso sorriso si
trasforma in un'espressione grottesca di ilarità. All'interno è seduto un giovane, fresco come questo mattino d'estate, e
accanto a lui una giovane donna vestita in bianco, con guanti bianchi che le coprono le mani sottili, e un bianco velo che
le scende sul volto, anche se mi sembra che il rossore delle sue guance bruci attraverso il candido velo. Un'altra vergine
vestita in bianco siede davanti. Chi sono queste persone, sulle quali e su tutto ciò che loro appartiene sembra non essersi
mai posata la polvere di questa terra? Sono due innamorati, che il sacerdote ha benedetto in questo benedetto mattino e
ha mandato, insieme con una delle damigelle della sposa, in viaggio di nozze. Abbiate anche la mia benedizione, felici
giovani! Che il cielo non sia mai imbronciato sopra di voi, che le nuvole non vi bagnino mai con la loro gelida e triste
pioggia! Che il caldo sole non accenda mai la febbre nei vostri cuori! Che il vostro pellegrinaggio nella vita possa
essere felice come il viaggio di questo primo giorno, e che la sua fine sia allietata da ancor più viva attesa di quella che
santifica la vostra prima notte di nozze!
I giovani passano oltre, e il riflesso della loro felicità non è ancora svanito sul volto di colui che osserva
quando un altro spettacolo getta un'ombra di mestizia sul suo spirito. In una piccola carrozza è seduta una fragile figura
tutta infagottata, che rabbrividisce anche al più lieve alito dell'estate. Si appoggia a un uomo che la cinge con un
braccio, come per proteggere il suo tesoro da qualche nemico. Trascorreranno poche settimane, e quando tenterà di
abbracciare la sua amata, stringerà solo desolazione al suo petto.
Ora il mattino ha raccolto tutte le sue perle di rugiada e se n'è andato, il sole rotola sfolgorante nel cielo e non
trova nemmeno una nuvola per rinfrescarsi la faccia. I cavalli si trascinano pigramente sul ponte e sollevano in brevi
ansiti i fianchi lucidi di sudore quando sono tirate le redini davanti al casello del gabelliere. Sono lucidi anche i volti dei
viaggiatori, i loro indumenti sono coperti di polvere, sembrano canuti i loro capelli e baffi, le loro gole sono riarse dalla
polvere che hanno lasciato dietro di sé. Non un alito di vento soffia nella strada, e la natura non osa quasi respirare, per
timore di aspirare qualche soffocante nuvola di polvere. «Che caldo e che polvere!», esclamano i poveri pellegrini,
mentre si asciugano la fronte annerita, benedicendo quella parvenza di brezza che il fiume porta con sé. «Un caldo
tremendo! Una polvere soffocante!», replica il comprensivo gabelliere. Riprendono il cammino per superare
quell'infuocata fornace, mentre il gabelliere rientra nel suo fresco eremo, che spruzza con un paiolo di acqua salmastra
raccolta nella corrente di sotto. Pensa tra sé che qui il caldo non è feroce come altrove e che il lieve alito dell'aria non
l'ha dimenticato in questi giorni afosi. Sì, vecchio amico, e un cuore sereno allevierà sempre un giorno di canicola. Ode
un passo stanco e scorge un viaggiatore con fagotto e bastone che va a sedere sull'ospitale panchina, togliendosi il
cappello dalla fronte madida di sudore. Il gabelliere gli offre un bicchiere di acqua fresca, e, scoprendo che il suo ospite
è un uomo di buon senso, lo intrattiene in proficua conversazione, enunciando le massime di una filosofia che ha
scoperto nella sua anima, ma senza sapere da dove proviene. E quando il viandante si accinge a riprendere il cammino,
gli suggerisce qualche infallibile rimedio per i piedi piagati.
Ecco che arriva mezzogiorno, tra tutte le ore la più simile a mezzanotte, perché hanno ambedue il loro
tranquillo riposo. Ben presto, tuttavia, il mondo riprende a ruotare sul suo asse, e allora questo sembra il momento più
affaccendato della giornata, quando solo un accidente può impedire lo svolgersi delle cose sotto la luna. Il ponte
levatoio viene alzato per consentire il passaggio di una goletta col suo carico di legname delle foreste orientali, che poi
si arresta immobile proprio di traverso sotto il ponte. Nel frattempo, da una parte e dall'altra del ponte scalpita una folla
di impazienti viaggiatori. Ecco due marinai su un calesse col tettuccio abbassato, tutti e due col sigaro in bocca, e.63
lanciano ogni sorta di imprecazioni da angiporto. E poi, su un signorile biroccio, un gentiluomo e la sua signora
elegantemente vestiti, lui appena uscito dalla bottega di un sarto, lei dalla saletta di una modista: gli aristocratici di un
pomeriggio d'estate. E chi sono i più presuntuosi tra noi, se non gli effimeri aristocratici di un'afosa giornata d'estate?
Ecco un lattoniere, la cui scintillante mercanzia abbaglia tutti coloro che la guardano, come un meteorite ambulante, o
come un pianeta in opposizione, e dall'altra parte un venditore di birra d'abete, un vivace alcolico racchiuso in parecchie
decine di bottiglie di pietra. Arriva una comitiva di dame a cavallo, in verdi abiti da amazzoni, e di gentiluomini al loro
seguito, e poi un gregge di pecore destinate al mercato, che attraversano il ponte col dissonante scalpiccio dei loro
piccoli zoccoli. Ecco un francese con un organetto di Barberia sulla spalla, e un gioielliere ambulante svizzero. Da
questa parte, annunciato da squilli di chiarina e di corno, arriva un convoglio di carri che trasportano tutti gli animali
selvaggi di un serraglio, e dall'altra una compagnia di soldati che marciano da un villaggio all'altro per una campagna di
festeggiamenti, accompagnati da una banda d'ottoni. Se guardiamo ora la scena, vediamo che appare emblematica di
quella misteriosa confusione, di quell'enigma apparentemente insolubile in cui sembrano spesso coinvolti i singoli
individui, o anche il mondo intero. Quale miracolo riporterà tutto nel suo ordine?
Guarda! la goletta ha spinto il suo massiccio scafo al di là del ponte levatoio, che viene abbassato, così che i
viaggiatori a piedi e a cavallo passano oltre, lasciando il ponte sgombro da un capo all'altro. «E così», riflette il
gabelliere, «anche se il mondo intero sembrava essersi fermato, grazie alle soste l'ho incontrato». Che vecchio saggio!
A occidente, il sole sempre più rosso getta ora un vasto manto di vivida luce sul mare, e agli occhi di lontani
barcaioli splende attraverso le tavole del ponte. I cittadini fanno qui una passeggiata per abbeverarsi alla brezza
rinfrescante. Alcuni calano lunghe lenze e pescano platesse che si dibattono, labri, piccoli merluzzi, e magari
un'anguilla; altri, e tra questi alcune belle ragazze, giungono ancora accaldati in volto, e si chinano sul parapetto per
osservare i mucchi di alghe che galleggiano nella marea crescente. Ora, i cavalli attraversano stancamente il ponte,
pensando con nostalgia alle loro stalle. Riposati, stanco mondo, perché domani il succedersi di fatica e di piacere sarà
gravoso come oggi, ma tutti e due ti porteranno un giorno avanti nel cammino per l'eternità. Il vecchio gabelliere guarda
verso il mare e scorge il faro che s'accende su una lontana isola, e anche le stelle che s'accendono in cielo, come se
fossero solo un po' discoste, e mescolando visioni del cielo e ricordi della terra, tutta la processione di mortali
viaggiatori, tutto il polveroso pellegrinaggio cui ha assistito sembra una fugace sfilata di fantasmi che danno spunto di
meditazione al suo animo pensoso.
LA VISIONE DELLA FONTE
All'età di quindici anni, sono andato ad abitare in un villaggio a più di cento miglia da casa mia. Il mattino
dopo il mio arrivo, un mattino di settembre, ma caldo e limpido come in luglio, sono andato a girovagare in un bosco di
querce con alcuni alberi di noce qua e là, che formavano una fitta ombra sopra di me. Il terreno era sassoso e
accidentato, infestato da cespugli e da macchie di arbusti, e percorso soltanto da tratturi per il bestiame. Il tratturo sul
quale per caso mi avventurai mi condusse a una fonte cristallina cinta d'erba tutt'intorno, fresca e verde come un mattino
di maggio, e ombreggiata dal ramo di una grande quercia. Un solitario raggio di sole aveva trovato la strada per
scendere e sguazzava come un pesce rosso nell'acqua.
Fin dall'infanzia mi è sempre piaciuto fermarmi a guardare queste fonti. L'acqua riempiva una pozza circolare,
piccola ma profonda, e cintata intorno da pietre, alcune ricoperte di viscido muschio, altre nude e di variegati colori, dal
rossastro al bianco e al marrone. Il fondo era cosparso di sabbia, che scintillava sotto il solitario raggio e sembrava
illuminare, di sua propria luce, tutta la fonte. In un punto, gli zampilli facevano turbinare la sabbia, ma senza intorbidare
l'acqua e incresparne la vitrea superficie. Sembrava che qualche creatura vivente stesse per affiorare, forse qualche
Naiade delle fonti, in forma di una bella fanciulla con una lunga veste trasparente di muschio, una cintura di rugiada
iridata e un'espressione fredda, pura e distaccata. Come avrebbe allora tremato l'osservatore, di piacere ma anche di
paura, nel vederla seduta su una pietra, battendo i candidi piedi nell'acqua increspata e sollevandone scintille alla luce
del sole! Ovunque posasse le mani, nell'erba e tra i fiori, questi si inumidivano subito, come di rugiada mattutina. E poi
si sarebbe accinta al lavoro, come una diligente donna di casa, spazzando dalla fonte le foglie ingiallite, i pezzi levigati
di legno, le vecchie ghiande delle querce al di sopra, i chicchi di grano lasciati dal bestiame che s'abbeverava, finché la
sabbia scintillante nell'acqua limpida sarebbe apparsa come un tesoro di diamanti. Ma se l'intruso si fosse troppo
avvicinato, avrebbe trovato soltanto le gocce di un'acquazzone estivo, che brillavano dove lui l'aveva vista.
Chino sul bordo erboso, dove doveva essere quella dea di rugiada, mi tesi avanti, e due occhi incontrarono i
miei dallo specchio d'acqua. Erano il riflesso dei miei. Guardai ancora, ed ecco apparire un altro volto, più profondo
della mia immagine nella fonte, più distinto nei lineamenti, eppure vago come un pensiero. La visione aveva l'aspetto di
una soave fanciulla, con riccioli di pallido oro, una gioiosa espressione che le rideva negli occhi e increspava tutta la
vaga immagine, fino ad assomigliare a ciò che sarebbe stata una fonte se, danzando lietamente alla luce del sole, avesse
assunto una figura di donna. Attraverso la carnagione rosea delle sue guance, potevo intravvedere le foglie brune, i
ramoscelli levigati, le ghiande, la sabbia scintillante. Il solitario raggio di sole si diffondeva tra i capelli dorati, che si
scioglievano nel suo vago chiarore ed esaltavano la bellezza di quel volto..64
La mia descrizione non può dare l'idea di come la fontana fu d'improvviso abitata, e di come fui altrettanto
subitaneamente abbandonato. Respirai, ed ecco quel volto! Trattenni il fiato, ed era scomparso! Era passato oltre, o era
svanito nel nulla? Non sapevo nemmeno se fosse mai apparso.
Miei cari lettori, che ora sognante e deliziosa ho trascorso, là dove quella visione mi ha trovato e lasciato! Per
molto tempo sono rimasto là perfettamente immobile, in attesa che ricomparisse, timoroso che il più lieve movimento,
anche solo un respiro, potesse spaventarla. Così mi sono spesso destato da un piacevole sogno, e sono poi rimasto
immobile, nella speranza di richiamarlo a me.
Profondi pensieri mi assillavano sulle qualità e gli attributi di quell'eterea creatura. Ero stato io a crearla? Era
un parto della mia fantasia, simile a quelle strane figure che compaiono sotto le palpebre dei bambini? E la sua bellezza
mi aveva allietato per quel breve attimo, per poi dileguarsi per sempre? Era una ninfa della fonte, oppure una fata, o una
divinità dei boschi che aveva fatto capolino alle mie spalle, oppure era lo spettro di qualche fanciulla abbandonata che si
era annegata lì per amore? Oppure era in realtà una deliziosa ragazza, con un cuore caldo e labbra da baciare, che era
comparsa furtivamente alle mie spalle, gettando la sua immagine nell'acqua della fonte?
Rimasi a guardare in attesa, ma quella visione non ricomparve. Infine me ne andai, ma sentivo dentro di me un
sortilegio che mi costrinse a ritornare, quello stesso pomeriggio, alla fonte incantata. Lì l'acqua zampillava, la sabbia
scintillava, il raggio di sole brillava, ma non vi comparve la visione, bensì una grossa rana, eremita in quella solitudine,
che subito ritrasse il suo muso maculato e si rese invisibile, tranne le lunghe gambe che comparivano sotto a una pietra.
Mi sembrò un'apparizione diabolica, e avrei potuto ucciderla come una malefica strega che teneva la misteriosa
fanciulla prigioniera nella fontana.
Triste e depresso, stavo facendo ritorno al villaggio. Tra me e il campanile della chiesa sorgeva una piccola
collina, e sulla sua sommità vidi una macchia d'alberi, isolati dal resto del bosco. che ricevevano da occidente la loro
parte di luce e gettavano a oriente la loro ombra solitaria. Il pomeriggio stava ormai declinando, e la luce del sole
sembrava quasi pensosa mentre l'ombra appariva festosa, così che gioia e malinconia si mescolavano nella placida luce,
come se gli spiriti del giorno e della notte si fossero incontrati in amicizia sotto quegli alberi, scoprendosi affini. Stavo
ammirando quell'immagine quando una figura di fanciulla comparve da dietro una macchia di querce. Il mio cuore la
conosceva: era la visione, ma appariva così distante ed eterea, così ultraterrena e intrisa della pensosa grandezza del
luogo in cui stava, che sentii sprofondare il mio spirito dentro di me, ancora più triste di prima. Come avrei mai potuto
raggiungerla?
Mentre la guardavo, un improvviso scroscio di pioggia cadde tra le foglie, e in un attimo l'aria fu piena di
fragranza, mentre ogni goccia di pioggia catturava una parte di luce nel cadere, così che quel dolce acquazzone appariva
come una foschia, ma abbastanza corposa per sostenere il peso della luce. Un arcobaleno, vivido come quello del
Niagara, si dipinse nell'aria, e il suo lembo meridionale scese davanti alla macchia d'alberi, avvolgendo la dolce visione,
come se tutti i colori del cielo fossero l'unico indumento della sua bellezza. Poi, quando l'arcobaleno scomparve, colei
che sembrava farne parte non era più lì. La sua essenza era stata assorbita nel più incantevole fenomeno della natura, e
la sua pura figura si era dissolta nella luce variegata? Eppure non disperavo di vederla ritornare perché, ammantata
nell'arcobaleno, era l'emblema stesso della speranza.
Fu così che la visione mi lasciò, e seguirono molti giorni dolorosi fino al momento della partenza. Accanto alla
fonte e nel bosco, sulla collina e nel villaggio, nell'alba rugiadosa, sotto il sole cocente di mezzogiorno e in quell'ora
magica del tramonto in cui era scomparsa alla mia vista, la cercai, ma invano. Le settimane si succedevano,
trascorrevano i mesi, ma lei non ricompariva. Non confidai a nessuno il mio segreto, ma vagavo avanti e indietro
oppure sedevo solitario, come chi ha avuto una fugace visione del cielo e non può più trovare gioia sulla terra. Mi
ritrassi in un mondo interiore, dove vivevano e respiravano i miei pensieri, e la visione era in mezzo a loro. Senza
volerlo, diventavo insieme autore e protagonista di un romanzo, in cui immaginavo rivalità, avvenimenti, azioni altrui e
mie, conoscevo ogni mutamento di passione, finché gelosia e disperazione erano coronate dalla felicità. Oh, se la
bruciante fantasia della mia giovinezza si accompagnasse alle più distaccate doti della maturità, la mia capacità di
espressione, care lettrici, farebbe vibrare i vostri cuori al mio racconto!
Intorno alla metà di gennaio fui richiamato a casa. Il giorno prima della partenza, andai a visitare i luoghi che
erano stati benedetti dalla visione e scoprii che la fonte aveva il fondo gelato, e nient'altro che neve e un raggio di sole
invernale illuminavano la cima della collina dell'arcobaleno. «Devo sperare», mi dissi, «altrimenti il mio cuore sarà
gelido come la fontana, e tutto il mondo desolato come questa collina innevata». Gran parte della giornata la trascorsi
preparandomi al viaggio, che doveva iniziare alle quattro del mattino dopo. Un'ora circa dopo cena, quando tutto era
pronto, scesi dalla mia camera nel salotto per congedarmi dal vecchio pastore e dalla sua famiglia, di cui ero stato
ospite. Un alito di vento spense la mia lampada mentre varcavo l'ingresso.
Secondo le sue immutabili abitudini, così piacevoli quando divampa allegramente il fuoco nel camino, la
famigliola era seduta nel salotto, illuminato soltanto dalla luce del focolare. Il magro stipendio costringeva il buon
pastore a fare ogni sorta di economia, ed egli accendeva sempre il fuoco con un mucchio di tannino o di corteccia che
continuava a fumare dal mattino alla sera, con un freddo calore senza fiamma. Quella sera, il mucchio di tannino era
stato da poco acceso e ricoperto da tre ceppi umidi di quercia rossa e da alcuni rami secchi di pino che non avevano
ancora preso fuoco. Non c'era luce, oltre a quel po' che emanavano fiocamente due tizzoni quasi spenti, senza illuminare
nemmeno gli alari del camino. Conoscevo però la posizione della poltrona del vecchio pastore, e anche dov'era seduta
sua moglie, che stava sferruzzando e sapevo anche come evitare le loro due figlie, una robusta ragazza di campagna e
un'altra tubercolotica. Brancolando nella penombra, trovai posto accanto al figlio maschio, un dotto studente.65
universitario che era ritornato a casa per insegnare a scuola durante le vacanze invernali, e mi accorsi che quella sera era
inferiore al solito lo spazio tra la sedia dello studente e la mia.
Come sempre accade, le persone erano taciturne nel buio, e nemmeno una parola fu pronunciata per qualche
tempo dopo il mio ingresso, e nulla interrompeva quel silenzio se non il regolare rumore dei ferri da calza della padrona
di casa. Di quando in quando, il fuoco lanciava qualche breve e fosco bagliore, che si rifletteva negli occhiali del
vecchio e aleggiava vagamente sulla nostra cerchia, ma troppo debole per illuminarne i singoli componenti. Non
eravamo come fantasmi? In quel clima irreale non poteva essere una scena in cui alcuni defunti, che si erano conosciuti
e amati, si riunivano per sempre in comunità? Eravamo coscienti della presenza degli altri, non alla vista, all'udito o al
contatto fisico, ma come per una interiore consapevolezza. Non era così anche tra i morti?
Il silenzio fu rotto dalla figlia tubercolotica, che rivolse qualche parola a un'altra persona della cerchia,
chiamandola Rachel. Alla sua voce flebile e incerta rispose una sola parola, ma pronunciata da una voce che mi fece
trasalire e chinare verso il luogo da cui proveniva. Avevo mai udito quella voce dolce e sommessa? In caso contrario,
perché evocava tanti vecchi ricordi, o le loro parvenze, ombre di cose familiari ma sconosciute, e riempiva la mia mente
di confuse immagini dei lineamenti di colei che aveva parlato, anche se erano sepolti nella penombra della stanza? Chi
era stato riconosciuto dal mio cuore, tanto da farlo vibrare? Rimasi in ascolto, per catturare il suo lieve respiro e mi
sforzai, aguzzando lo sguardo, di immaginare una figura là dove nessuna era visibile.
D'improvviso, il legno secco di pino prese fuoco e divampò una fiammata con un riverbero rossastro, e là dove
era buio, comparve lei, la visione della fonte! Spirito della sola luce, era scomparsa con l'arcobaleno, ed era ricomparsa
al chiarore della fiamma, forse per vibrare con essa e scomparire di nuovo. Eppure le sue gote erano rosee e vitali, e i
suoi lineamenti, nel calore della stanza, erano ancora più dolci e teneri di quanto li ricordassi. Mi conosceva! La sua
espressione, che rideva nei suoi occhi e increspava i suoi lineamenti quando ne ammiravo la vaga bellezza nell'acqua
della fonte, era ora ancora più ridente e increspata. Per un attimo i nostri sguardi si incontrarono, ma subito dopo il
mucchio di tannino soffocò il legno acceso e l'oscurità riprese con sé quella figlia della luce, per non restituirmela mai
più!
Care lettrici, non ho altro da dire. Devo forse rivelare il semplice mistero che Rachel era la figlia del magis trato
del villaggio e se n'era andata da casa per il suo collegio il mattino seguente al mio arrivo, per farvi ritorno il giorno
prima della mia partenza? Se l'avevo trasformata in un angelo, è ciò che tutti i giovani innamorati fanno delle loro
amate. In questo consiste l'essenza del mio racconto. Ma così lieve è il cambiamento, dolci fanciulle, per trasformarvi in
angeli!
LA LANTERNA MAGICA DI FANTASIA
Racconto morale
Che cos'è la colpa? Una macchia sull'anima. Ed è una questione di grande interesse appurare se l'anima può
contrarre queste macchie, in tutta la loro profondità ed evidenza, a causa di fatti che possono essere stati progettati e
decisi, ma che, materialmente, non sono mai avvenuti. La mano dell'uomo, il suo corpo in carne e ossa devono
suggellare i malvagi propositi dell'anima per dare a essi piena validità contro il peccatore? Oppure, anche se non sono
riconosciuti come delitti realmente commessi da un tribunale degli uomini, questi malvagi propositi, di cui la
realizzazione non è altro che l'ombra, meriteranno tutto il peso di una condanna davanti al supremo tribunale
dell'eternità? Nella solitudine notturna di una camera o in un deserto, lontano dagli uomini, oppure in una chiesa dove il
corpo è inginocchiato, l'anima può macchiarsi anche di quei delitti che siamo abituati a considerare soltanto materiali.
Se ciò è vero, è una terribile verità.
Proviamo a illustrare la questione con un esempio immaginario. Un rispettabile gentiluomo, tale signor Smith,
da sempre considerato modello di rettitudine morale, stava riscaldando il suo vecchio sangue con qualche bicchiere di
vino generoso. I suoi figli erano fuori casa per i loro affari mondani, i suoi nipotini a scuola, ed egli sedeva solo in una
grande e comoda poltrona, con i piedi sotto un tavolo di mogano riccamente scolpito. Alcuni vecchi hanno paura della
solitudine, e quando non possono avere migliore compagnia si rallegrano persino nell'udire il regolare respiro di un
bambino addormentato. Ma il signor Smith, i cui capelli argentei erano l'evidente emblema di una vita immacolata, se
non per quelle pecche che sono inscindibili dalla natura umana, non aveva bisogno di un bambino che lo proteggesse
con la sua purezza, né di un adulto che si frapponesse tra lui e la sua anima. Nondimeno, l'uomo deve conversare con la
sua età, oppure la donna deve consolarlo con le sue dolci cure, o l'infanzia deve allietarlo giocando intorno alla sua
sedia, altrimenti i suoi pensieri vagheranno nelle nebbiose regioni del passato, e il vecchio diventerà gelido e triste, e il
vino non servirà sempre a rallegrarlo. Questa poteva essere la condizione del signor Smith quando, grazie al contributo
del suo frizzante bicchiere di Madeira invecchiato, vide tre personaggi che entravano nella stanza. Erano la Fantasia,
che aveva assunto l'abbigliamento e l'aspetto di un intrattenitore ambulante, con una lanterna magica appesa sulla
schiena; la Memoria, nelle vesti di un impiegato con la penna dietro all'orecchio, un calamaio portatile appeso a un
occhiello e un enorme volume manoscritto sottobraccio, e dietro a questi due, infine, un terzo personaggio avvolto in un
tetro mantello che ne nascondeva il volto e la figura. Ma il signor Smith intuì che doveva essere la Coscienza.
Che gentili erano, la Fantasia, la Memoria e la Coscienza, a far visita al vecchio gentiluomo, proprio quando
cominciava a pensare che il vino non era così limpido e vivace, né così prelibato di sapore, come quando lui e quel.66
liquore erano meno vecchi! Attraversando tutta la buia lunghezza della stanza, in cui tendaggi color cremisi attutivano
la luce del sole e la immergevano in una fitta penombra, i tre personaggi si avvicinarono al vecchio signore dai capelli
argentei. La Memoria, con un dito tra i fogli del suo librone, si pose alla sua destra; la Coscienza, col volto ancora
nascosto dal suo fosco mantello, prese posto alla sinistra, per essere vicina al suo cuore, mentre la Fantasia posò sul
tavolo la lanterna magica, con la lente d'ingrandimento adatta al suo occhio. Possiamo soltanto abbozzare due o tre delle
molte immagini che, tirando una cordicella, popolarono successivamente la scatola con la parvenza di scene animate.
Una di queste era una scena notturna, dove appariva sullo sfondo un'umile abitazione, e in primo piano,
ombreggiate in parte da un albero, ma illuminate da sprazzi di luce, si vedevano due figure giovanili di un uomo e una
donna. Il giovane stava con le braccia conserte, uno sprezzante sorriso sulle labbra e un'espressione trionfante negli
occhi abbassati sulla giovane donna inginocchiata, quasi prostrata ai suoi piedi, evidentemente oberata dal peso della
vergogna e del tormento, tanto da non poter quasi alzare le mani congiunte in gesto di supplica, e ancor meno lo
sguardo. Ma né il suo tormento, né i bei lineamenti su cui era dipinto, né la tenera grazia della figura che ne era
oppressa sembravano far breccia nel cuore inesorabile del giovane, la personificazione dell'altezzoso disprezzo. Strano a
dirsi, mentre il vecchio signor Smith scrutava l'immagine attraverso la lente d'ingrandimento che faceva risaltare le
figure dalla tela come per magia, iniziò a riconoscere la fattoria, l'albero e tutti e due i personaggi della scena. Il
giovane, in tempi ormai lontani, aveva spesso incontrato il suo sguardo nello specchio, e la fanciulla era l'immagine
stessa del suo primo amore quando viveva nella fattoria, la sua Martha Burroughs! Il signor Smith era scandalizzato:
«Vile, calunniosa immagine!», esclamò. «Quando mai ho disprezzato una così disperata innocenza? E Martha non si era
forse sposata, non ancora ventenne, con David Tomkins, che aveva conquistato il suo amore di fanciulla e ha a lungo
goduto del suo amore di moglie? E dopo la sua morte, Martha non ha forse vissuto un'onorata vedovanza?». Nel
frattempo, la Memoria stava sfogliando le pagine del suo librone, facendole frusciare avanti e indietro con dita
malferme, finché, tra le prime pagine, trovò quella che si riferiva a quell'immagine, e la lesse all'orecchio del vecchio
signore. Registrava soltanto un pensiero colpevole che non s'era mai tradotto in azione, ma, mentre la Memoria leggeva,
la Coscienza svelò il suo volto e sferrò una pugnalata al cuore del signor Smith, e il colpo, pur non essendo mortale, gli
diede un atroce dolore.
La proiezione proseguì, e una dopo l'altra la Fantasia mostrò le sue immagini, che sembravano tutte dipinte da
qualche malizioso artista col solo scopo di tormentare il signor Smith. Non un'ombra di prova poteva essere addotta in
un tribunale terreno per dimostrare che egli era colpevole del minimo dei peccati che gli erano mostrati davanti agli
occhi. In una scena compariva un tavolo apparecchiato, con numerose bottiglie e bicchieri pieni a metà di vino, che
riflettevano i pallidi raggi di una lampada prossima a spegnersi. Era stata baldoria e allegria finché la lancetta
dell'orologio non era arrivata a mezzanotte, quando l'Assassinio aveva fatto il suo ingresso tra i compagni di bagordi.
Uno di questi era caduto a terra e giaceva immobile, con un'orribile ferita alla tempia, mentre sopra di lui, con una
delirante espressione di rabbia mista a orrore, stava l'immagine giovanile del signor Smith. E il giovane assassinato
aveva le sembianze di Edward Spencer! «Che cosa vuole significare, questo mascalzone di pittore?», esclamò il signor
Smith, provocato oltre ogni limite. «Edward Spencer è stato il mio primo e più caro amico per oltre mezzo secolo, e mi
era fedele quanto io lo ero a lui! Né io né altri l'hanno mai assassinato! Non era forse vivo ancora cinque anni fa, e non
mi ha lasciato, in pegno della nostra lunga amicizia, il suo bastone col manico d'oro e un anello di lutto?». Di nuovo la
Memoria sfogliò il suo libro e si soffermò a lungo su una pagina così confusa che doveva averla sicuramente scritta in
preda ai fumi dell'alcol. Il significato, tuttavia, era che mentre il signor Smith e Edward Spencer riscaldavano col vino il
loro giovane cuore, una lite era divampata tra loro, e il signor Smith, in preda a furia omicida, aveva scagliato una
bottiglia contro la testa dell'amico. In verità, aveva mancato il bersaglio e aveva quasi mandato in frantumi uno
specchio, poi, il mattino dopo, quando i due amici avevano confusamente rievocato l'episodio, si erano stretti la mano
con una cordiale risata. E di nuovo, mentre la Memoria leggeva, la Coscienza svelò il suo volto e colpì con una
pugnalata al cuore il signor Smith, mettendo poi a tacere le sue rimostranze con un gelido sguardo. Anche questa volta
il dolore fu lancinante.
Alcune immagini erano state dipinte con mano così incerta e con colori così sbiaditi e pallidi che i soggetti
potevano essere indovinati a fatica. Una nebbia opaca era stata stesa sulla superficie della tela, sulla quale sembravano
svanire le figure che l'occhio si sforzava di fissare, ma in ogni scena, per quanto oscuramente rappresentata, il signor
Smith era sempre perseguitato dalle proprie fattezze in diverse età, come in uno specchio polveroso. Dopo aver
esaminato per alcuni minuti una di queste immagini offuscate e quasi irriconoscibili, cominciò a vedere che il pittore
aveva inteso rappresentarlo, ormai nel declino della vita, mentre spogliava degli abiti tre bambini emaciati. «Questa è
davvero sorprendente!», esclamò il signor Smith, col tono ironico di chi sente la coscienza a posto. «Chiedo scusa al
pittore, ma devo dire che è folle, oltre che un furfante matricolato! Un uomo della mia condizione che deruba questi
bambini dei loro abiti... è ridicolo!». Ma, mentre egli parlava, la Memoria stava sfogliando il suo fatale librone e trovò
infine una pagina che, con la sua voce triste e pacata, gli lesse all'orecchio. Il suo contenuto non era privo di attinenza
con quella nebulosa scena, e riferiva che il signor Smith era stato seriamente tentato, in base a molti diabolici cavilli
legali, a intentare processo contro tre orfanelli, coeredi di una considerevole proprietà, ma per fortuna, prima che fosse
presa una decisione, le sue pretese erano state respinte in quanto prive di fondamento legale. Quando la Memoria cessò
di leggere, la Coscienza scostò di nuovo la sua mantella e avrebbe colpito ancora col velenoso pugnale la sua vittima, se
questa non si fosse difesa congiungendo le mani davanti al cuore, ma subendo nondimeno un'altra dolorosa ferita.
Perché seguire la Fantasia in tutta questa serie di orribili immagini? Dipinte da un artista dotato di stupefacente
abilità e di una terribile conoscenza dei segreti dell'animo, queste scene rappresentavano i fantasmi di tutti i peccati che.67
non erano stati commessi nell'arco della vita del signor Smith. E queste nebulose creazioni della fantasia, così simili al
nulla, potevano costituire una valida prova contro di lui, il giorno del giudizio? Comunque fosse, abbiamo motivo di
ritenere che una sola lacrima di autentico pentimento avrebbe cancellato tutte quelle dolorose immagini, lasciando la
tela candida come neve. E invece il signor Smith, in preda a rimorsi di coscienza troppo acuti da sopportare, gridò le sue
indignate proteste finché scoprì a un tratto che i suoi tre ospiti erano scomparsi. Allora rimase lì seduto da solo, quel
vecchio dai capelli argentei da tutti riverito, nella fitta penombra della stanza con i tendaggi cremisi, senza più una
lanterna magica sul tavolo, ma solo una caraffa di eccellente Madeira. Eppure, il suo cuore sembrava sanguinare ancora
per i colpi del velenoso pugnale.
Nondimeno, l'infelice gentiluomo avrebbe potuto dibattere la questione con la Coscienza, e addurre molti
motivi per cui essa non doveva rimordergli così crudelmente. Se dovessimo assumere le sue difese, si potrebbe farlo
pressappoco nel seguente modo. Il proposito di un delitto, finché non è posto in essere, assomiglia molto a una
successione di eventi nel progetto di un racconto, che per produrre un senso di realtà nella mente del lettore dev'essere
concepito dall'autore con tanta verosimiglianza da sembrare, pur alla luce della fantasia, più aderente alla realtà, passata,
presente o futura, della semplice narrativa. Il potenziale colpevole, da parte sua, tesse la trama del suo delitto, ma
raramente o mai ha l'assoluta certezza che sarà realmente commesso. I suoi pensieri sono improntati da una diffusa
atmosfera di sogno, e come in un sogno egli sferra il colpo mortale al cuore della sua vittima, e allora vede le sue mani
indelebilmente macchiate di sangue. In tal modo, uno scrittore o un drammaturgo, che creano un personaggio
romanzesco e i delitti da lui commessi, e il personaggio della realtà, che progetta delitti da commettere, possono quasi
incontrarsi a metà strada tra la realtà e la fantasia. Solo quando il delitto è commesso, il senso di colpa stringe nella sua
morsa il cuore del colpevole e lo rivendica a sé. Solo allora, e non prima, il peccato è realmente sentito e riconosciuto, e
se non è accompagnato dal pentimento, diventa mille volte più virulento a causa della sua coscienza di sé. Si consideri,
inoltre, che l'uomo spesso sopravvaluta la sua capacità di fare il male. A distanza di tempo, quando le circostanze
contingenti non si impongono alla sua attenzione, e le sue nefaste conseguenze sono solo intravviste, l'uomo può
sopportare di contemplarlo. L'uomo può compiere i passi che conducono al delitto, spinto dallo stesso tipo di
meccanismo mentale che elabora un problema matematico, ma esserne dissuaso dal rimorso all'ultimo momento. Non
sapeva qual era l'azione che si riteneva deciso a compiere, perché non esiste in realtà, nella natura umana, qualcosa
come una ferma e assoluta decisione nel bene o nel male, se non al momento stesso dell'esecuzione. Speriamo quindi di
non incorrere in tutte le terribili conseguenze del peccato, se non quando l'atto compiuto avrà posto il suo suggello al
pensiero.
Eppure, nel fragile contesto di fantasia che abbiamo costruito, sono intrecciate anche alcune terribili verità.
L'uomo non deve disconoscere la sua fratellanza anche col più colpevole degli uomini perché, anche se le sue mani
sono pulite, il suo cuore è stato sicuramente inquinato dai fugaci spettri del male. Deve ricordare che, quando busserà
alle porte del Paradiso, non sarà una parvenza di vita immacolata a consentirgli l'ingresso. Il pentimento deve
inginocchiarsi e la pietà discendere dallo sgabello del trono, altrimenti quelle porte dorate non si apriranno mai!
L'ESPERIMENTO DEL DOTTOR HEIDEGGER
Quel vecchio stravagante del dottor Heidegger invitò un giorno quattro suoi venerandi amici a fargli visita nel
suo studio. Tre erano canuti gentiluomini con la barba, il signor Medbourne, il colonnello Killigrew e il signor
Gascoigne, una era un'avvizzita signora che era chiamata vedova Wycherly. Erano vecchie creature malinconiche che
erano state sfortunate nella vita, e la loro maggiore sfortuna era che già da tempo non fossero state calate nella fossa. Il
signor Medbourne era una volta un facoltoso mercante, quand'era nel vigore degli anni, ma aveva poi perso tutti i suoi
averi in una dissennata speculazione, e ora era poco più di un mendicante. Il colonnello Killigrew aveva sperperato i
suoi anni migliori, la salute e le sostanze nel perseguimento di peccaminosi piaceri, che avevano proliferato una
progenie di malanni, tra cui la gotta, e vari altri tormenti del corpo e dell'anima. Il signor Gascoigne era un fallito uomo
politico che godeva pessima fama, o così almeno era stato finché il tempo non l'aveva cancellato dal ricordo dell'attuale
generazione, facendone un personaggio oscuro, anziché tristemente famoso. In quanto alla vedova Wycherly, le voci
correnti dicevano che era stata una gran bellezza ai suoi tempi, ma da lungo tempo viveva ormai in rigida clausura a
causa di certe storie scandalose che l'avevano compromessa agli occhi della buona società cittadina. Merita di essere
menzionata la circostanza che tutti e tre quegli anziani signori, il signor Medbourne, il colonnello Killigrew e il signor
Gascoigne, erano stati amanti della vedova Wycherly, e che erano quasi arrivati a tagliarsi l'un l'altro la gola per causa
sua. Prima di procedere oltre, mi limiterò ad accennare anche che il dottor Heidegger e i suoi quattro ospiti erano
talvolta considerati un po' bislacchi, come non di rado capita ai vecchi quando sono assillati da presenti preoccupazioni
o da dolorosi ricordi.
«Miei cari e vecchi amici!», esclamò il dottor Heidegger, facendo loro cenno di accomodarsi. «Vorrei avere la
vostra collaborazione in uno di quei piccoli esperimenti di cui mi diletto qui nel mio studio».
Se tutto ciò che si diceva era vero, lo studio del dottor Heidegger doveva essere un luogo davvero inconsueto.
Era una camera buia e antiquata, festonata di ragnatele e ricoperta dalla polvere degli anni. Alle pareti erano appoggiate
alcune librerie di quercia, i cui ripiani inferiori erano occupati da file di imponenti in-folio e da altri volumi in quarto
scritti in caratteri gotici, e quelli più alti da dodicesimi con copertina di pergamena. Sulla libreria di mezzo era posato.68
un busto bronzeo di Ippocrate col quale, secondo alcune fonti, il dottor Heidegger era solito consultarsi in tutti i casi più
difficili della sua professione. Nell'angolo più buio della stanza si trovava un armadio alto e stretto di quercia, e
attraverso la sua porta dischiusa si poteva intravvedere vagamente uno scheletro. Tra due delle librerie era appeso uno
specchio alto e polveroso, dentro un'annerita cornice dorata. Tra le molte e fantasiose storie che si raccontavano di
questo specchio, si favoleggiava anche che dentro la sua cornice dimorassero gli spiriti di tutti i pazienti defunti del
medico, che lo guardavano in faccia ogni volta che egli vi si specchiava. La parete opposta della stanza era decorata col
ritratto ad altezza naturale di una giovane donna abbigliata con sontuosi e sbiaditi abiti di seta, raso e broccato, e con un
volto sbiadito quanto i suoi indumenti. Più di mezzo secolo prima, il dottor Heidegger era stato sul punto di sposarsi con
quella giovane donna, ma costei, affetta da qualche lieve malattia, aveva inghiottito una medicina che il fidanzato le
aveva prescritto, e la sera delle nozze era morta. Ma non è stato ancora menzionato l'oggetto più bizzarro contenuto
nello studio, un ponderoso volume in-folio rilegato in pelle nera con massicce fibbie d'argento. Sul dorso non si
leggevano iscrizioni, e nessuno ne conosceva il titolo, ma si sapeva bene che era un libro di magia, e quando una
domestica l'aveva sollevato per spolverarlo, lo scheletro aveva scricchiolato nel suo armadio, il ritratto della giovane
donna aveva posato un piede a terra, e molti volti spettrali si erano affacciati allo specchio, mentre il busto bronzeo di
Ippocrate aveva esclamato corrucciato: «Non toccarlo!».
Questo era lo studio del dottor Heidegger. Quel pomeriggio d'estate di cui parliamo, un tavolino rotondo, nero
come l'ebano, era disposto nel mezzo della stanza e sosteneva un vaso di vetro molato, di bella foggia ed elaborata
fattura. La luce del sole, penetrando attraverso le finestre tra due pesanti drappi di tende damascate, ricadeva proprio
attraverso questo vaso, così che un lieve riverbero si rifletteva sui volti cinerei dei cinque vecchi seduti tutt'intorno al
tavolo, sul quale erano posati anche cinque calici di vetro.
«Miei cari e vecchi amici», ripeté il dottor Heidegger, «posso quindi far conto sul vostro aiuto per compiere un
esperimento davvero singolare?».
Il dottor Heidegger era un ben strano tipo di vecchio gentiluomo, e la sua eccentricità aveva dato spunto a
migliaia di storie fantasiose, alcune delle quali, sia detto a mia vergogna, potrebbero forse risalire alla mia stessa
persona, e perciò, se qualche passo di questo racconto dovesse scrollare la fiducia del lettore, mi rassegnerò a portare le
stimmate del mentitore.
Quando i quattro ospiti del dottore lo sentirono parlare di un esperimento, non pensarono a niente di più
straordinario che l'uccisione di un topolino in una pompa ad aria, oppure l'esame di una ragnatela al microscopio, o
simili altre bagatelle con cui egli era solito importunare continuamente i suoi frequentatori. Invece, senza attendere
risposta, il dottor Heidegger attraversò zoppicando la stanza e ritornò con quel ponderoso volume in-folio, rilegato in
pelle nera, che secondo le voci correnti era un libro di magia. Dopo aver sganciato le fibbie d'argento, aprì il tomo e tra
le sue pagine in caratteri gotici estrasse una rosa, o quella che era stata un tempo una rosa, perché ora le sue foglie verdi
e i petali cremisi avevano assunto un colore marroncino, e il vecchio fiore sembrava prossimo a sbriciolarsi tra le dita
del medico.
«Questa rosa», soggiunse il dottor Heidegger con un sospiro, «questo stesso fiore avvizzito e quasi disfatto è
fiorito cinquantacinque anni fa. Mi è stato dato da Sylvia Ward, il cui ritratto è là appeso, e io dovevo portarlo sul petto
il giorno delle nostre nozze. Per cinquantacinque anni è stato gelosamente custodito tra le pagine di questo antico
volume. E ora, credereste possibile che questa rosa di mezzo secolo fa fiorisca di nuovo?».
«Sciocchezze!», esclamò la vedova Wycherly, scrollando stizzita il capo. «Potrebbe chiederci parimenti se è
possibile che il volto raggrinzito di una vecchia fiorisca di nuovo».
«State a vedere!», replicò il dottor Heidegger.
Scoprì allora il vaso e gettò la rosa avvizzita nell'acqua che esso conteneva. Dapprima il fiore galleggiò
lievemente sulla superficie senza assorbire apparentemente l'umidità, ma ben presto iniziò a divenire visibile un
singolare mutamento. I suoi petali frantumati e secchi si mossero lievemente e presero una sfumatura più profonda di
cremisi, come se il fiore si fosse destato dal sonno della morte, l'esile gambo e i ramoscelli di foglie si rinverdirono, e
poco dopo ricomparve la rosa di mezzo secolo prima, ancora fresca come quando Sylvia Ward l'aveva donata al suo
innamorato. Non era ancora completamente sbocciata, e alcuni dei suoi delicati petali rossi s'arricciavano timidamente
intorno all'umido bocciolo, dentro il quale scintillavano due o tre gocce di rugiada.
«È sicuramente un trucco ben congegnato», sentenziarono gli amici del medico, ma con un certo distacco,
avendo già assistito a ben altri miracoli nello spettacolo di un illusionista. «Ci dica, ora: come ha fatto?».
«Avete mai sentito parlare della Fontana della Giovinezza?», domandò il dottor Heidegger, «di cui Ponce de
Leon, l'avventuriero spagnolo, andò alla ricerca due o tre secoli fa?».
«Ma Ponce de Leon l'ha mai trovata?», domandò la vedova Wycherly.
«No», rispose il dottor Heidegger, «perché non andò a cercarla nel posto giusto. La famosa Fontana della
Giovinezza, se sono stato correttamente informato, si trova nella regione meridionale della penisola di Florida, non
lontano dal lago Macaco. La sua fonte è nascosta da gigantesche piante di magnolia che, pur essendo vecchie di molti
secoli, si sono mantenute fresche come violette grazie alle virtù di quest'acqua meravigliosa. Un mio amico, conoscendo
la mia curiosità per queste cose, mi ha inviato l'acqua che ora vedete nel vaso».
«Ehm!», tossicchiò il colonnello Killigrew, che non credeva a una parola del racconto del dottore. «E quale
potrebbe essere l'effetto di questo liquido sulla costituzione umana?».
«Giudicherà lei stesso, mio caro colonnello», rispose il dottor Heidegger, «e tutti voi, miei rispettabili amici,
siete invitati ad assaggiare quel tanto di questo liquido che può restituirvi al fiore degli anni. In quanto a me, avendo.69
fatto tanta fatica per invecchiare, non ho alcun desiderio di diventare di nuovo giovane. Quindi, col vostro permesso, mi
limiterò ad osservare l'effetto dell'esperimento».
Mentre parlava, il dottor Heidegger aveva riempito i quattro calici con l'acqua della Fontana della Giovinezza,
che era evidentemente satura di qualche gas effervescente, perché le sue bollicine salivano continuamente dal fondo dei
bicchieri, scoppiettando con argentei zampilli in superficie. Nel sentire il gradevole aroma che il liquido diffondeva, i
quattro vecchi non dubitarono delle sue proprietà toniche e corroboranti, e pur essendo ancora scettici sulle sue capacità
di ringiovanimento, erano ora disposti a berlo immediatamente. Ma il dottor Heidegger li pregò di attendere ancora un
momento.
«Prima di bere, miei rispettabili amici», disse, «sarà bene che, ispirandovi alla vostra esperienza, vi atteniate ad
alcune regole generali di comportamento, nel passare per una seconda volta attraverso le insidie della giovinezza.
Sarebbe davvero disdicevole e vergognoso se, nonostante i vostri peculiari vantaggi, non foste esempi di virtù e di
saggezza per tutti i giovani della nostra epoca!».
I quattro venerabili amici del dottore non gli diedero risposta, se non con qualche fievole e tremula risatina,
tanto ridicola era l'idea che, pur sapendo come il pentimento segua da vicino l'errore, potessero smarrire di nuovo la
retta via.
«Bevete, dunque», soggiunse il medico con un inchino. «Mi rallegro di aver scelto così bene i soggetti del mio
esperimento».
Con mani tremanti essi sollevarono i calici alle labbra. Se quel liquido possedeva davvero le virtù che il dottor
Heidegger gli attribuiva, non avrebbe potuto essere somminis trato a quattro esseri umani che ne avevano più
penosamente bisogno. Sembrava che non avessero mai conosciuto la giovinezza e il piacere ma, come frutti di
un'aberrazione della natura, fossero sempre stati quelle creature grigie, decrepite, avvizzite, infelici, che ora sedevano
chine intorno al tavolo del dottore, prive della vitalità sufficiente, nell'anima e nel corpo, per animarsi anche alla
prospettiva di ritornare giovani. Bevvero l'acqua, poi posarono di nuovo i calici sul tavolo.
Com'era stato promesso, nel loro aspetto avvenne un quasi immediato miglioramento, come quello che
potrebbe produrre un buon bicchiere di vino generoso, accompagnato da uno sprazzo di raggiante buonumore che
illuminò tutti insieme i loro volti con un sano colorito che si soffondeva sulle loro guance, prendendo il posto del
grigiore che li faceva apparire così cadaverici. Si guardarono l'un l'altro, e immaginarono che qualche magico potere
avesse realmente iniziato a cancellare le malinconiche e profonde scritte che il Padre Tempo aveva inciso sui loro volti.
La vedova Wycherly, sentendosi di nuovo donna, si aggiustò il cappellino.
«Ci dia ancora un po' di quell'acqua meravigliosa!», gridarono impazienti. «Siamo più giovani, ma siamo
ancora troppo vecchi! Su, svelto, ce ne dia ancora!».
«Calma, calma!», rispose il dottor Heidegger, che stava lì seduto a osservare l'esperimento con filosofico
distacco. «Avete impiegato tanto tempo per invecchiare che di certo potete accontentarvi di ringiovanire in mezz'ora!
Comunque, l'acqua è a vostra disposizione».
Riempì di nuovo i loro calici di quell'elisir di giovinezza, e nel vaso ne rimase ancora abbastanza per restituire
a metà dei loro più vecchi concittadini l'età dei loro nipoti. Mentre le bollicine zampillavano ancora sull'orlo, i quattro
ospiti del dottore sollevarono avidamente i calici dal tavolo e ne inghiottirono il contenuto in un solo sorso. Quale
sortilegio! Mentre la sorsata scendeva ancora nelle loro gole, sembrò produrre già una trasformazione in tutto il loro
organismo. I loro occhi divennero limpidi e chiari, una sfumatura scura coprì, i loro capelli d'argento, finché intorno al
tavolo furono seduti tre uomini di mezza età e una donna che aveva da poco superato la primavera degli anni.
«Mia cara vedova, com'è affascinante!», esclamò il colonnello Killigrew, che aveva tenuto lo sguardo fisso sul
suo volto, mentre da esso si alzavano le ombre degli anni, come tenebre all'alba.
La bella vedova sapeva per esperienza che i complimenti del colonnello Killigrew non erano semp re temperati
dalla sincerità, e allora si alzò dal tavolo e corse allo specchio, temendo che la brutta faccia di una vecchia avrebbe
incontrato ancora il suo sguardo. Nel frattempo, i tre gentiluomini si comportavano in modo tale da far pensare che
l'acqua della Fontana della Giovinezza avesse poteri inebrianti, se non fosse stato che la loro euforia era dovuta
realmente a un senso di vertigine provocato dall'improvvisa rimozione del peso degli anni. La mente del signor
Gascoigne sembrava rincorrere questioni politiche, anche se non era facile capire se si riferivano al passato, al presente
o al futuro, perché le stesse idee ed espressioni erano rimaste in voga in tutti quei cinquant'anni. Ora sciorinava reboanti
dichiarazioni sul patriottismo, la gloria nazionale, i diritti dei cittadini; ora confidava pericolosi progetti in un subdolo e
confuso brontolio, e con tanta prudenza che perfino la sua coscienza stentava a carpirne il segreto; ora parlava in tono
misurato e deferente, come se qualche regale orecchio stesse ascoltando le sue frasi forbite. Il colonnello Killigrew, nel
frattempo, canticchiava una licenziosa canzone da osteria, accompagnandosi col suono del bicchiere che faceva
tintinnare, nel mentre lanciava occhiate alla prosperosa figura della vedova Wycherly. All'altro capo del tavolo, il signor
Medbourne era impegnato in un calcolo di dollari e centesimi, con cui si mescolava il misterioso progetto di rifornire di
ghiaccio le Indie orientali, imbrigliando una squadra di balene agli iceberg polari.
In quanto alla vedova Wycherly, stava davanti allo specchio inchinandosi e ammiccando alla propria
immagine, salutandola come se fosse stata un'amica che aveva amato più di ogni cosa al mondo. Avvicinava il viso allo
specchio per controllare che qualche non dimenticata ruga o zampa di gallina fosse effettivamente scomparsa,
esaminava i suoi capelli per accertarsi che la cappa di neve si fosse completamente sciolta, così da poter finalmente
buttar via il suo rispettabile cappellino. Infine si voltò bruscamente e, con passo quasi danzante, ritornò al tavolo.
«Mio caro, vecchio dottore», esclamò, «mi favorisca, la prego, un altro bicchiere!»..70
«Certamente, mia cara signora, certamente!», rispose compiacente il dottore. «Guardi, ho già riempito i
bicchieri!».
E in effetti i quattro calici erano già colmi fino all'orlo di quell'acqua meravigliosa, la cui delicata
effervescenza in superficie assomigliava al tremulo bagliore dei diamanti. Era quasi calato il tramonto, e la stanza era
adesso ancora più buia, non fosse stato per il lieve splendore lunare che s'irradiava dal vaso, posandosi sui quattro ospiti
e sulla venerabile figura del dottore. Questi era seduto su una sedia di quercia a braccioli con un alto dorsale,
elaboratamente scolpito, e il suo aspetto grigio e dignitoso poteva essere confacente al Padre Tempo in persona, la cui
autorità non era mai stata contestata, se non da quella spensierata combriccola. Mentre scolavano il terzo bicchiere della
Fontana della Giovinezza, gli invitati rimasero quasi impauriti dall'espressione misteriosa del suo volto.
Ma un attimo dopo la linfa esilarante della giovinezza schizzò dentro le loro vene, riportandoli agli anni felici
della verde età. Il tempo, col suo doloroso carico di affanni, dolori e malanni, era ricordato soltanto come un sogno
fastidioso, dal quale si erano gioiosamente destati. La freschezza dell'anima, così presto perduta, senza la quale gli
eventi successivi della vita erano soltanto una galleria di sbiaditi dipinti, ora illuminava di nuovo col suo fascino tutte le
loro prospettive. Si sentivano creature appena nate in un mondo appena nato.
«Siamo giovani! Siamo giovani!», gridavano esultanti.
La giovinezza, al pari del tramonto della vita, aveva cancellato i tratti ormai radicati nella mezza età, e
altrettanto li assimilava. Erano ora un gruppo di giovani spensierati, quasi ubriacati dall'esuberante allegria dei loro
anni. L'effetto più sconcertante di questa loro euforia era l'impulso di scimmiottare le infermità della tarda età, di cui
erano poco prima oberati. Ridevano a crepapelle del loro abbigliamento antiquato, delle giubbe e dei panciotti larghi e
penzolanti dei giovani d'allora, dei sorpassati cappellini e gonne delle fanciulle di quei tempi. Uno zoppicava per la
stanza come un nonno gottoso, un altro inforcava un paio d'occhiali sul naso, fingendo di decifrare i caratteri gotici del
libro di magia, un terzo si sedeva su uno scranno a braccioli, imitando il contegno venerabile e dignitoso del dottor
Heidegger. Tutti quanti strepitavano allegramente e saltellavano per la stanza. La vedova Wycherly, se una così vivace
damigella poteva essere chiamata vedova, arrivò danzando davanti alla sedia del dottore, con un'espressione divertita e
maliziosa sul volto roseo.
«Buon vecchio dottore», esclamò, «su, venga a danzare con me!». E allora i quattro giovani risero ancora più
forte, al pensiero della ridicola figura che avrebbe fatto quel povero vecchio.
«La prego di scusarmi», rispose il dottore in tono pacato, «ma sono vecchio e ho i reumatismi, i tempi in cui
danzavo sono passati da un pezzo. Ma chiunque di questi giovanotti sarà ben lieto di avere una dama così graziosa».
«Danza con me, Clara», la implorò il colonnello Killigrew.
«No, no, sarò io il suo cavaliere!», esclamò il signor Gascoigne.
«Mi ha promesso la sua mano cinquant'anni fa!», intervenne il signor Medbourne.
Fecero tutti ressa intorno a lei: chi le prendeva ambedue le mani in una stretta appassionata, chi le cingeva la
vita con un braccio, chi affondava la mano tra i lucidi riccioli raccolti sotto al suo cappellino. Arrossendo, ansimando,
dibattendosi, gridando, ridacchiando, soffiando il suo alito caldo su ognuna di quelle facce, la vedova si sforzava di
districarsi, ma sempre rimaneva avvolta nel loro triplice abbraccio. Mai si era visto un più animato spettacolo di
giovanile rivalità che aveva come premio una così ammaliante bellezza. Eppure, per un bizzarro effetto provocato dalla
penombra della stanza e dagli antiquati abiti che essi ancora indossavano, si dice che l'alto specchio riflettesse le
immagini di tre vecchi ruderi grigi e avvizziti che comicamente si disputavano la scarna bruttezza di una vecchia nonna
rinsecchita.
Ma erano giovani, ed erano le loro brucianti passioni a dimostrarlo. Infiammati fino alla follia dalla civetteria
di quella giovane vedova, che non concedeva né del tutto rifiutava i suoi favori, i tre rivali iniziarono a scambiarsi
minacciose occhiate, e poi, senza lasciare la presa dell'ambito premio, si presero l'un l'altro per la gola. Nella
colluttazione che seguì, il tavolo si rovesciò e il vaso andò in mille pezzi e la preziosa Acqua della Giovinezza cadde in
un rivolo scintillante sul pavimento, bagnando le ali di una farfalla che, invecchiata col declino dell'estate, si era lì
posata per morire. L'insetto svolazzò lievemente per la stanza, poi andò a posarsi sulla candida testa del dottor
Heidegger.
«Ma andiamo, signori! e anche lei, signora Wycherly!», esclamò il dottore. «Devo proprio protestare per
questa gazzarra».
Si arrestarono tutti, rabbrividendo, perché sembrò che il grigio Tempo li avesse richiamati dalla loro luminosa
giovinezza fin giù nel gelido e tetro antro degli anni. Guardavano il vecchio dottor Heidegger, che seduto sulla sua sedia
a braccioli scolpita, teneva in mano una rosa vecchia di mezzo secolo che aveva recuperato tra i cocci del vaso
frantumato. A un cenno della sua mano, i quattro contendenti ripresero il loro posto a sedere, ancor più prontamente
perché quei violenti sforzi li avevano affaticati, per quanto fossero giovani.
«La rosa della mia povera Sylvia!», sospirò il dottor Heidegger, portandola alla luce del tramonto tra le nuvole.
«Sembra che stia appassendo di nuovo».
E così era. Ancor mentre la compagnia lo guardava, il fiore continuava ad avvizzirsi, fino a divenire rinsecchito
e fragile come quando il dottore l'aveva gettato nel vaso. Poi questi scrollò le poche gocce che erano rimaste tra i suoi
petali.
«Mi piace anche così, come quand'era fresca di rugiada», osservò portando la rosa appassita alle sue labbra
avvizzite. Mentre così diceva, la farfalla si alzò in volo dalla sua testa canuta e ricadde sul pavimento..71
I suoi ospiti rabbrividirono di nuovo. Uno strano senso di gelo, non sapevano se del corpo o dello spirito,
penetrava a poco a poco dentro di loro. Si osservarono l'un l'altro e sembrò loro che ogni fuggevole momento strappasse
qualcosa del loro fascino, lasciando un solco sempre più profondo dove prima non c'era. Era forse un'illusione? Forse i
mutamenti di tutta una vita si erano addensati in così breve arco di tempo, e ora erano quattro vecchi seduti accanto al
loro vecchio amico, il dottor Heidegger?
«Così presto siamo divenuti ancora vecchi!», esclamarono amaramente.
E in verità era così. Il potere che aveva l'Acqua della Giovinezza era più effimero di quello del vino.
L'effervescenza che aveva provocato era ormai svaporata. Sì, erano di nuovo vecchi. Con un tremito istintivo che
rivelava ancora la sua femminilità, la vedova si coprì il volto con le mani ossute, e si augurò che fosse celato dal
coperchio di una bara, perché non poteva più essere bello.
«Sì, amici, siete di nuovo vecchi», confermò il dottor Heidegger. «Guardate! L'Acqua della Giovinezza è tutta
sparsa per terra, ma non me ne rammarico, perché se la sorgente sgorgasse sulla mia porta di casa non mi chinerei a
bagnarvi le labbra, no, anche se questa ebbrezza perdurasse per anni, anziché per momenti. Questa è la lezione che voi
mi avete insegnato!».
Ma i quattro amici del dottore non avevano imparato la lezione e presero la decisione di recarsi in
pellegrinaggio in Florida per abbeverarsi, mattino, pomeriggio e sera, alla Fontana della Giovinezza.
LA FESTA IN MASCHERA DEL GOVERNATORE HOWE
Leggende del Palazzo della Provincia
I
Un pomeriggio della scorsa estate, mentre passeggiavo per Washington Street, il mio sguardo fu richiamato da
un'insegna che si protendeva sopra a una stretta arcata, quasi di fronte alla vecchia Chiesa meridionale. L'insegna
rappresentava la facciata di un imponente edificio, designato come «Vecchio Palazzo della Provincia, gestito da
Thomas Waite». Fui lieto che mi fosse così ricordata l'intenzione, da lungo tempo coltivata, di visitare e perlustrare la
dimora degli antichi governatori reali del Massachusetts, e una volta imboccata l'arcata, che penetrava in mezzo a una
doppia fila di botteghe di mattoni, solo pochi passi mi portarono dal cuore operoso della moderna Boston in un piccolo
e appartato cortile. Un lato di questo spazio era occupato dalla facciata quadrata del Palazzo della Provincia, alto tre
piani e sormontato da una cupola, in cima alla quale si poteva vedere la figura di un indiano dorato con l'arco teso e la
freccia incoccata, quasi stesse mirando la banderuola sulla guglia della vecchia Chiesa meridionale. La figura
conservava quella posizione da settant'anni e più, fin da quando il buon diacono Drowne, abile incisore del legno,
l'aveva posta di sentinella sopra alla città.
Il Palazzo della Provincia è una costruzione di mattoni che sembra esser stata intonacata di fresco con una
mano di leggero colore. Una rampa di gradini rossi di pietra tagliata, chiusa da una balaustra di ferro battuto, sale dal
cortile a un ampio porticato, sul quale una balconata è cinta da una balaustra di ferro, di disegno e fattura simili a quella
inferiore. Le lettere e le cifre, 16 P.S. 79, sono incise nel ferro battuto della balaustra, e indicano probabilmente la data
dell'edificio e le iniziali del suo fondatore. Un'ampia porta con doppi battenti mi condusse nella sala o atrio d'entrata,
alla cui destra si apriva l'ingresso della locanda.
Era in questa sala, presumo, che gli antichi governatori davano i loro ricevimenti con sfarzo viceregale,
circondati da militari, consiglieri, magistrati e altri funzionari della corona, mentre tutti i sudditi della provincia
accorrevano per rendere loro omaggio. Ma la sala, nel suo attuale stato, non può vantare nemmeno l'ombra di quella
magnificenza. I pannelli che ricoprono le pareti sono incrostati di sporcizia, e acquistano una tonalità ancora più tetra a
causa della cupa ombra che getta sul Palazzo l'isolato di mattoni che lo separa da Washington Street. Un raggio di sole
non penetra mai in questo locale, non più del riverbero delle torce accese durante le feste, che sono state spente
dall'epoca della rivoluzione. L'oggetto più vetusto e ornamentale è un caminetto decorato con piastrelle di maiolica
azzurra, con figure che rappresentano scene delle Scritture e, per quanto ne so, la consorte di qualche governatore può
essersi seduta accanto a questo caminetto, raccontando ai suoi bambini la storia illustrata in ciascuna piastrella azzurra.
Un bar di stile moderno, ben fornito di caraffe, bottiglie, scatole di sigari e ceste di limoni, e provvisto anche di una
spina per birra e di un sifone per selz, si allunga su una parete del locale. Al mio ingresso, un anziano cliente stava
leccandosi le labbra, con tale gusto da farmi pensare che le cantine del palazzo contenessero ancora pregiati liquori,
anche se certo di altre annate di quelli sorseggiati dai vecchi governatori. Dopo aver centellinato un bicchiere di sangria
di Porto, preparata dalle abili mani del signor Thomas Waite, ho pregato questo degno successore e rappresentante di
tanti storici personaggi di condurmi a visitare la loro avita dimora.
Lui prontamente accondiscese, ma per dire la verità dovetti attingere strenuamente alla mia immaginazione per
trovare qualcosa di interessante in una dimora che, priva dei suoi connotati storici, poteva sembrare semplicemente una
di quelle taverne frequentate abitualmente da una clientela di rispettabili cittadini e di vecchi gentiluomini di campagna.
Le camere, probabilmente più spaziose in altri tempi, sono ora separate da pareti divisorie e scomposte in piccole
nicchie, ognuna delle quali concede scarso spazio al piccolo letto, alla sedia e al tavolino di un unico occupante. La
grande scalinata può essere invece definita, senza iperbole, un elemento di sfarzo e magnificenza. Si snoda nel mezzo.72
del palazzo con rampe di ampi gradini, ciascuna delle quali termina su un pianerottolo quadrato, da dove la salita
prosegue verso la cupola. Una balaustra scolpita, da poco dipinta ai piani inferiori, ma sempre più scrostata salendo,
fiancheggia la scala con pilastri bizzarramente contorti e intrecciati. Queste scale erano un tempo calpestate dagli stivali
dei militari e dalle scarpe di molti gottosi governatori, quando salivano sulla cupola, che offriva loro un'ampia vista
della metropoli e della campagna circostante. La cupola è un ottagono con molte finestre e una porta che si apre sul
tetto. Da questa posizione, mi piace immaginare che Gage osservasse la sua disastrosa vittoria a Bunker Hill (se non era
nascosta da una delle tre colline), e Howe seguisse l'avanzata dell'esercito assediante di Washington, anche se gli
edifici, già allora eretti nelle vicinanze, ostruivano la vista di quasi tutto, tranne il campanile della vecchia Chiesa
meridionale, che sembra quasi a portata di braccio. Scendendo dalla cupola, mi sono soffermato nella soffitta per
osservarne la massiccia struttura di quercia bianca, molto più solida di quella delle case moderne, tanto da assomigliare
a un antico scheletro. Le pareti di mattoni, importati dall'Olanda, e le travi di legno del palazzo sono ancora robuste
come un tempo, ma i pavimenti e altre parti interne, decadenti come sono, hanno suggerito il progetto di sventrare
l'edificio e di costruirne uno nuovo dentro la struttura delle antiche mura. Tra gli altri inconvenienti del palazzo, il mio
anfitrione ha ricordato che ogni scossa o movimento scrolla la polvere degli anni dai soffitti delle stanze, facendola
cadere sul pavimento sottostante.
Attraverso la grande finestra della facciata siamo usciti sulla balconata dove, un tempo, il rappresentante del
sovrano era solito mostrarsi alla folla dei suoi sudditi, ricambiando le loro ovazioni e lanci di cappelli con solenni
inchini della sua nobile persona. A quei tempi, la facciata del Palazzo della Provincia guardava sulla strada e tutto lo
spazio occupato ora dalla fila delle botteghe di mattoni, oltre che l'attuale cortile, era disposto in aiuole erbose,
sovrastato da alberi e cinto da una cancellata di ferro battuto. Ora il vecchio e aristocratico palazzo nasconde il suo volto
consunto dal tempo dietro a uno sfacciato edificio moderno, e a una delle sue finestre retrostanti ho osservato alcune
graziose sartine che cucivano, chiacchieravano e ridevano, lanciando di quando in quando una distratta occhiata alla
balconata. Discesi da lì, siamo entrati di nuovo nella sala del bar, dove l'anziano signore summenzionato, che col suo
schioccar di labbra aveva testimoniato così a favore dei liquori del signor Waite, poltriva ancora sulla sua sedia.
Sembrava, se non un inquilino, un frequentatore abituale della locanda, e si poteva immaginare che avesse un suo conto
aperto al bar, una sua sedia davanti alla finestra aperta nei mesi estivi, e un suo angolo preferito accanto al camino in
inverno. Nel vedere la sua aria socievole, mi azzardai a rivolgermi a lui con qualche osservazione, calcolata per far
affiorare le sue reminiscenze storiche, se ne aveva, e scoprii con piacere che, tra ricordi e tradizioni, il vecchio
gentiluomo conosceva realmente alcuni divertenti aneddoti sul Palazzo della Provincia. La parte del suo racconto che
maggiormente mi interessò fu l'abbozzo della seguente leggenda. Assicurò di averla appresa, in un paio di puntate, da
un testimone oculare, ma questa fonte, nonché il trascorrere del tempo, devono aver introdotto molte varianti nel
racconto, così che non essendo possibile stabilire una precisa e assoluta verità storica, non ho scrupolo ad apportare
quelle ulteriori modifiche che sembrano vantaggiose per il lettore e il suo diletto.
Durante uno dei ricevimenti offerti al Palazzo della Provincia nel corso dell'ultima parte dell'assedio di Boston,
avvenne un episodio che non ha mai avuto soddisfacente spiegazione. Gli ufficiali dell'esercito britannico e
l'aristocrazia lealista della provincia, raccolta per la maggior parte dentro la città assediata, erano stati invitati a un ballo
in maschera, essendo politica di sir William Howe nascondere le ansie e i pericoli di quel periodo, nonché la situazione
disperata dell'assedio, ostentando un'atmosfera festosa. Lo spettacolo di quella sera, se si può dar credito ai più anziani
membri della cerchia di corte, era il più allegro e sfarzoso tra quelli registrati negli annali governativi. I locali vivamente
illuminati del palazzo erano affollati da personaggi che sembravano usciti dalle tenebrose tele dei ritratti storici, o fuori
dalle pagine incantate di un romanzo, o quanto meno da uno dei teatri londinesi, senza nemmeno cambiare i costumi.
Cavalieri con la corazza dei tempi della Conquista, barbuti statisti della regina Elisabetta e dame di corte con l'alta
gorgiera si mescolavano con personaggi della commedia, quali un variopinto giullare col berretto tintinnante di
campanellini, un Falstaff ridanciano quasi quanto il suo prototipo, un Don Chisciotte armato di una pertica come lancia
e di un coperchio come scudo.
Ma la maggiore ilarità era suscitata da un gruppo di persone comicamente abbigliate con vecchie divise
militari, che sembravano acquistate da un rigattiere o trafugate in qualche deposito di vecchie uniformi dell'esercito
francese e inglese. Alcune di queste divise erano state probabilmente indossate all'assedio di Louisburg, e le uniformi di
foggia più recente erano state forse lacerate e sforacchiate da spade, baionette e pallottole già ai tempi della vittoria di
Wolfe. Uno di questi bei tomi, un tipo allampanato che brandiva una spada arrugginita di spropositata lunghezza,
affermava di essere nientemeno che il generale George Washington, e altri ufficiali dell'esercito americano, quali Gates,
Lee, Putnam, Schuyler, Ward e Heath, erano rappresentati da analoghi spaventapasseri. Un dialogo in stile eroicomico
tra i soldati ribelli e il comandante in capo britannico fu accolto con scroscianti applausi, ancora più calorosi da parte
dei fedeli lealisti della colonia. Uno degli invitati se ne stava però in disparte, osservando queste buffonerie con
espressione severa e sprezzante, e un amaro sorriso sul volto accigliato.
Era un vecchio che godeva una volta di alto grado e considerazione nella provincia, e che era stato ai suoi
tempi un famoso soldato. Aveva destato un certo stupore il fatto che una persona di ben noti principi liberali come il
colonnello Joliffe, anche se ormai troppo vecchio per prendere parte attivamente alla contesa, fosse rimasto a Boston
durante l'assedio, e soprattutto che avesse acconsentito a mostrarsi nel palazzo di sir William Howe. Ciò nonostante era
giunto, accompagnato da una graziosa nipote al braccio, e lì, in mezzo a tutte quelle risate e buffonerie, stava la sua
vecchia e severa figura, il personaggio più rispettabile tra le maschere, perché rappresentava così bene l'antico spirito
della sua terra natale. Gli altri invitati dicevano che il cupo cipiglio puritano del colonnello Joliffe gettava un'ombra.73
scura tutt'intorno a lui, ma, nonostante la sua severa presenza, la loro allegria continuava a divampare, simile, per
malaugurante paragone, alla tremula fiammella di una lampada che ha ancora poco da ardere. Undici colpi erano
rintoccati mezz'ora prima dall'orologio della vecchia Chiesa meridionale quando iniziò a circolare voce tra i convitati
che stava per andare in scena qualche nuovo spettacolo o recita, che avrebbe dato degna conclusione alla splendida festa
di quella sera.
«Quale altra farsa ha in serbo sua Eccellenza?», domandò il reverendo Mather Byles, i cui scrupoli di
presbiteriano non l'avevano tenuto lontano dal ricevimento. «Creda a me, signore, ho già riso più di quanto si conviene
al mio abito, durante la sua omerica conversazione con quello straccione di generale dei ribelli. Un altro di questi
accessi di risa, e dovrò gettare via la parrucca e la baverina ecclesiastica».
«Nient'affatto, buon dottor Byles», rispose sir William Howe, «se l'allegria fosse un delitto, lei non avrebbe
mai ottenuto la sua laurea in teologia. In quanto a quest'altra farsa, non ne so più di lei, e forse meno. Sinceramente,
dottore, non ha forse sobillato la mente morigerata di qualche suo parrocchiano per far recitare una scenetta nella nostra
mascherata?».
«Forse», intervenne ironicamente la nipote del colonnello Joliffe, il cui spirito era stato pungolato da tante
frecciate contro il New England, «forse assisteremo a una sfilata di figure allegoriche: la Vittoria, con i trofei di
Lexington e di Bunker Hill, l'Abbondanza con la cornucopia, per rappresentare l'attuale ricchezza di questa fortunata
città, e la Gloria, con una corona d'alloro per la fronte di sua Eccellenza».
Sir William sorrise a queste parole, cui avrebbe risposto aggrottando severamente la fronte se fossero state
pronunciate da una bocca adornata di barba. Gli fu risparmiata la necessità di dare una replica a causa di una strana
interruzione. Un suono di musica giunse da fuori il palazzo, come alzandosi da una banda di strumenti musicali di
stanza nella strada, ma non suonava qualche festoso motivo adatto all'occasione, bensì una lenta marcia funebre. I
tamburi sembravano attutiti e le trombe emettevano un lamentoso gemito, che subito zittì l'allegria degli ascoltatori,
riempiendoli tutti di stupore, e alcuni di apprensione. Molti pensarono che il corteo funebre di qualche importante
personaggio si fosse fermato davanti al Palazzo della Provincia, o che un feretro rivestito di velluto e riccamente
decorato stesse per essere traslato dal portale della chiesa. Dopo aver ascoltato per qualche attimo, sir William Howe
chiamò con voce imperiosa il capo dell'orchestra, che aveva fin'allora allietato il ricevimento con musiche gaie e
festose. L'uomo era il primo tamburino di uno dei reggimenti britannici.
«Dighton», domandò il generale, «che cosa significa questa stravaganza? Ordini ai suoi uomini di far tacere
questa musica mortuaria, altrimenti, sul mio onore, avranno sufficienti motivi per suonare questi lugubri accordi. Li
faccia zittire, signore!».
«Mi scusi, vostro onore», rispose il capo tamburino, il cui volto rubizzo aveva perso tutto il suo colore, «ma la
colpa non è mia. Io e la mia banda siamo qui tutti insieme, e dubito che qualcuno di noi saprebbe suonare questa marcia
senza spartito. L'ho udita prima una volta soltanto, ed è stato in occasione dei funerali della sua defunta Maestà, re
Giorgio II».
«Bene, bene!», rispose sir William Howe, riprendendo la sua compostezza. «Sarà il preludio musicale di
qualche altra burla in maschera. Suonino pure».
Si presentò allora un personaggio, ma nessuna delle molte maschere sparse in quei locali sapeva dire
esattamente da dove venisse. Era un uomo vestito con un antiquato abito di saia nera, e aveva l'aspetto di un
maggiordomo o di un primo cameriere nella casa di un nobiluomo o di un ricco proprietario terriero inglese. L'uomo
avanzò fino alla porta esterna del palazzo e, dopo averne spalancato ambedue i battenti si scostò leggermente da una
parte e si voltò a guardare la grande scalinata, come aspettandosi che qualcuno ne discendesse. In quel momento, la
musica in strada diventò un profondo e doloroso appello. Gli sguardi di sir William Howe e dei suoi ospiti erano tutti
rivolti verso la scalinata quando apparvero, sul più alto pianerottolo visibile dal basso, alcuni personaggi che
scendevano verso la porta. Il primo era un uomo col volto severo che portava un cappello a pan di zucchero e uno
zucchetto al di sotto, un mantello nero e alti stivali grinzosi che salivano a metà della gamba. Sotto il braccio teneva una
bandiera arrotolata che sembrava quella inglese, ma era stranamente lacera e strappata; nella mano destra impugnava
una spada e nella sinistra stringeva una Bibbia. Il personaggio seguente era di più mite aspetto, ma non meno dignitoso,
e portava un ampio collarino, sul quale scendeva la barba, una tunica di velluto ricamato, farsetto e calzoni di raso nero
stretti al ginocchio, e nella mano stringeva un manoscritto arrotolato. Dietro a questi due scendeva un giovane di
singolare contegno e portamento, con profondi pensieri e meditazioni scavati sulla fronte, e forse un lampo di
entusiasmo negli occhi. Il suo abbigliamento, come quello dei suoi predecessori, era di foggia antiquata, e sulla sua
gorgiera si vedeva una macchia di sangue. Insieme a costoro comparvero altri tre o quattro uomini, tutti altrettanto
dignitosi e autorevoli, che si comportavano come personaggi avvezzi agli sguardi della moltitudine. Gli osservatori
pensavano che questi personaggi andassero a unirsi al misterioso funerale che si era fermato davanti al Palazzo della
Provincia, ma questa supposizione sembrava contraddetta dal modo trionfante con cui agitavano le mani quando
varcavano la soglia e scomparivano oltre la porta.
«In nome di Dio, che cosa succede?», mormorò sir William Howe rivolto a un gentiluomo accanto a lui. È
forse una processione dei giudici regicidi di re Carlo, il martire?».
«Costoro», rispose il colonnello Joliffe, rompendo il silenzio forse per la prima volta quella sera, «costoro, se
non vado errato, sono i governatori puritani, coloro che governano l'antica, originaria democrazia del Massachusetts.
Erano Endicott, con la bandiera da cui aveva strappato il simbolo dell'asservimento, e Winthrop, sir Henry Vane,
Dudley, Haynes, Bellingham e Leverett»..74
«E perché quel giovane aveva una macchia di sangue sulla gorgiera?», domandò la signorina Joliffe.
«Perché», rispose suo nonno, «in anni successivi, egli posò la testa più saggia d'Inghilterra sul ceppo, in nome
dei principi di libertà».
«Sua Eccellenza non vuole chiamare le guardie?», sussurrò lord Percy, che con altri ufficiali britannici aveva
fatto circolo intorno al generale. «Può esserci un complotto sotto questa pantomima».
«Sciocchezze! Non abbiamo niente da temere», rispose sprezzantemente sir William Howe. «Non può essere
tradimento più grave di una farsa, anche se delle più noiose. Ma anche se fosse mordace e aspra, la nostra miglior
politica sarebbe riderne. Guardate, ecco che arrivano altri di questi gentiluomini».
Un altro gruppo di personaggi stava ora discendendo la scala. Il primo era un venerabile e canuto vegliardo,
che cautamente saggiava il terreno avanti a sé con un bastone, e dietro a lui s'affrettava, tendendo avanti una mano
guantata, come per afferrargli la spalla, un uomo alto, d'aspetto militaresco, con un cimiero piumato, una lucida corazza
e una lunga spada che risuonava contro i gradini. Appariva poi un uomo robusto, abbigliato con ricchi indumenti di
corte, ma senza atteggiamento cortigiano: il suo passo mostrava il movimento oscillante tipico dei marinai, e quando
rischiò di inciampare sui gradini, andò subito in collera e fu udito imprecare. Era seguito da un personaggio di nobile
aspetto con la parrucca arricciata, simile a quelle, rappresentate nei ritratti dei tempi della regina Anna e anche prima, e
con una cotta decorata sul petto con una stella ricamata. Mentre avanzava verso la porta, s'inchinava a destra e manca,
con modi molto aggraziati e accattivanti, ma nel varcare la soglia, a differenza degli altri governatori puritani, sembrò
torcersi le mani inquietamente.
«La prego, faccia lei la parte del coro, buon dottor Byles», disse sir William Howe. «Mi dica, chi sono questi
personaggi?».
«Se non dispiace a vostra Eccellenza, sono vissuti un po' di tempo prima di me», rispose il dottore. «Ma
sicuramente il nostro amico colonnello li ha conosciuti da vicino».
«Non ho mai visto i loro volti in vita», rispose gravemente il colonnello, «anche se ho parlato faccia a faccia
con molti governatori di questa regione, e a un altro ancora impartirò la benedizione di un vecchio, prima di morire. Ma
parliamo di questi personaggi: presumo che quel venerabile vegliardo sia Bradstreet, l'ultimo dei puritani, che era
governatore a novant'anni circa. Lo seguiva sir Edmund Andros, un vero tiranno, come può dirvi qualsiasi scolaretto del
New England, e perciò il popolo l'ha fatto precipitare in prigione dal suo alto seggio. Veniva poi sir William Phips,
pastore, bottaio, capitano di mare e infine governatore: che possano molti suoi compatrioti elevarsi così in alto da così
umili origini! E infine avete visto il grazioso conte di Bellamont, che ci ha governato sotto re Guglielmo».
«Ma qual è il significato di tutto ciò?», domandò lord Percy.
«Se io fossi un ribelle», intervenne la signorina Joliffe, quasi ad alta voce, «potrei immaginare che gli spettri di
questi antichi governatori siano stati convocati a formare il corteo funebre dell'autorità regale nel New England».
Parecchie altre figure comparvero poi in cima alle scale. Il primo mostrava in volto un'espressione pensosa,
inquieta, quasi furbesca, e nonostante i suoi modi altezzosi, che esprimevano evidentemente uno spirito ambizioso e una
lunga permanenza in alte cariche, non sembrava incapace di umiliarsi davanti a chi gli era superiore. Pochi passi dietro
a lui veniva un ufficiale in una purpurea uniforme arabescata, di foggia così antiquata che poteva esser stata indossata
dal duca di Marlborough. Il suo naso aveva un colorito paonazzo che, insieme con il luccichio degli occhi, poteva far
pensare che fosse amante del vino e della buona compagnia, ma nonostante queste sue caratteristiche sembrava lì a
disagio, e spesso si guardava intorno, come temendo qualche segreto trabocchetto. Veniva poi un corpulento
gentiluomo con indosso un abito di ruvido panno bordato di raso. Mostrava in volto buon senso, perspicacia e spirito, e
teneva sotto il braccio un volume in folio, ma il suo aspetto era quello di un uomo afflitto oltre la sopportazione, e
angosciato fin quasi alla morte. Si affrettò a scendere la scala, seguito da un dignitoso personaggio vestito con un abito
di velluto purpureo riccamente ricamato. Il suo portamento sarebbe stato maestoso, non fosse stato per un doloroso
attacco di gotta che lo costringeva a saltellare da un gradino all'altro, con contorcimenti del volto e del corpo. Quando il
dottor Byles vide questa figura sulla scala, rabbrividì come in preda alla febbre, ma continuò a guardarla fermamente,
finché il gottoso gentiluomo non raggiunse la soglia e, dopo un gesto di angoscia e disperazione, scomparve nel buio di
fuori, dove lo chiamava l'inno funebre.
«Il governatore Belcher, il mio vecchio protettore! e proprio com'era fatto e vestito!», ansimò il dottor Byles.
«Questo è un oltraggioso dileggio!».
«Una tediosa scempiaggine, piuttosto», ribatté sir William Howe con aria indifferente. «Ma chi erano i tre che
lo precedevano?».
«Uno era il governatore Dudley, un astuto uomo politico, ma la sua astuzia l'ha condotto una volta in
prigione», rispose il colonnello Joliffe. «Gli altri erano il governatore Shute, già colonnello nell'esercito di
Marlborough, temuto dalla gente anche fuori dalla provincia, e il dotto governatore Burnet, tormentato dalla legislatura
fino a contrarre una febbre mortale».
«Direi che erano miserevoli personaggi, questi regali governatori del Massachusetts», commentò la signorina
Joliffe. «Guardate come si affievolisce la luce!».
E infatti il grande lampadario che illuminava la scala mandava ora una luce fioca e crepuscolare, e le figure che
scendevano in fretta per scomparire nel porticato sembravano ombre più che persone in carne e ossa. Sir William Howe
e i suoi invitati stavano sulle porte dei locali circostanti e osservavano questa singolare sfilata con vari sentimenti di
collera, indignazione o inconfessata paura, ma sempre con ansiosa curiosità. Le figure, che sembravano ora affrettarsi a
raggiungere la misteriosa processione, erano riconoscibili per il loro peculiare abbigliamento o per qualche tratto.75
vistoso del portamento, più che per qualche visibile rassomiglianza con i lineamenti dei loro prototipi, perché i loro
volti erano sempre tenuti in ombra. Ma il dottor Byles e altri spettatori che avevano avuto familiarità con i successivi
governatori della provincia bisbigliavano i nomi di Shirley, di Pownall, di sir Francis Bernard e dell'indimenticato
Hutchinson, riconoscendo così che gli interpreti, chiunque fossero, di questa spettrale sfilata di governatori, erano
riusciti a rappresentare un pur vago ritratto dei personaggi reali. Mentre scomparivano oltre la porta, queste ombre
continuavano a gesticolare nel buio della notte, manifestando dolorosamente il loro tormento. Dietro al rappresentante
di Hutchinson veniva un personaggio marziale che si copriva il volto con la feluca che si era tolto dalla testa incipriata,
ma le spalline e altre insegne del rango erano quelle di un generale, e qualcosa del suo portamento ricordava agli astanti
una persona che era stata poco prima padrone del palazzo e capo di tutta la provincia.
«È la figura di Gage, autentica come in uno specchio!», esclamò lord Percy, impallidendo.
«No di certo!», esclamò la signorina Joliffe, con una risatina nervosa. «Non poteva essere Gage, altrimenti sir
William avrebbe abbracciato il suo vecchio compagno d'armi! Forse non lascerà uscire impunemente il prossimo della
fila».
«Oh, di questo stia certa, signorina!», rispose sir William Howe, fissando uno sguardo molto eloquente sul
volto impassibile di suo nonno. «Troppo a lungo ho atteso di rendere il dovuto omaggio di padrone di casa a questi
invitati che se ne vanno. Il prossimo che prenderà congedo riceverà il debito saluto».
Un improvviso e lugubre suono penetrò nella sala attraverso la porta aperta. Sembrava che la processione,
dopo aver aumentato progressivamente i suoi ranghi, fosse ora in procinto di muoversi, e che quel perentorio squillo di
trombe lamentose e quel rullo di tamburi attutiti fosse un invito ad affrettarsi rivolto a qualcuno che s'attardava. Molti
sguardi, come mossi da un irresistibile impulso, si rivolsero allora verso sir William Howe, come se fosse lui la persona
che quella lugubre musica chiamava al funerale del defunto potere.
«Guardate! Ecco che arriva l'ultimo!», esclamò la signorina Joliffe, indicando la scala con mano tremante.
Una figura era comparsa infatti alla vista, come se stesse scendendo le scale, ma il luogo da cui emergeva era
così buio che alcuni spettatori ebbero la sensazione di aver visto questa forma umana che prendeva improvvisamente
corpo tra le tenebre. La figura scese le scale con passo solenne e marziale, e quando raggiunse l'ultima rampa si vide che
era un uomo alto, con stivali e un mantello militare avvolto intorno alla faccia, fino a raggiungere la tesa floscia di un
cappello merlettato. I suoi lineamenti erano perciò completamente nascosti, ma alcuni ufficiali britannici pensarono di
aver già visto quel mantello militare e di riconoscere perfino lo sfilacciato ricamo del collare e la guaina dorata della
spada che spuntava tra le pieghe del mantello e scintillava in un vivido raggio di luce. Oltre a questi piccoli particolari,
altre caratteristiche del passo e del portamento costringevano gli sconcertati invitati a spostare lo sguardo dalla figura
ammantata a quella di sir William Howe, come per convincersi che il loro ospite non fosse improvvisamente scomparso
in mezzo a loro.
Videro poi che il generale, col volto cupamente arrossato di collera, estraeva la spada e si faceva incontro a
quella figura ammantata, prima che questa mettesse piede sul pavimento.
«Furfante, rivela il tuo volto!», esclamò. «Non andrai oltre!».
Il personaggio, senza ritrarsi d'un passo dalla spada puntata al suo petto, si arrestò con aria solenne e abbassò il
cappuccio del mantello avvolto intorno alla faccia, ma non abbastanza per consentire agli spettatori di intravvederla.
Ma, evidentemente, sir William Howe ne aveva visto abbastanza. La sua espressione sdegnata lasciò posto a uno
sguardo di incontenibile stupore, se non d'orrore, mentre si ritraeva di alcuni passi dalla figura, lasciando cadere la
spada sul pavimento. La marziale figura avvolse di nuovo il mantello intorno al volto e passò oltre, ma quando
raggiunse la soglia, con le spalle voltate agli spettatori, fu vista battere i piedi per terra e scuotere in aria i pugni chiusi.
Alcuni affermarono in seguito che sir William Howe ripeté l'identico gesto di rabbia e di disperazione quando per
l'ultima volta, e come ultimo governatore del re, varcò la porta del Palazzo della Provincia.
«Udite! La processione si muove...», esclamò la signorina Joliffe.
La musica andava infatti spegnendosi lungo la strada, e i suoi lugubri accordi si mescolavano con i rintocchi di
mezzanotte del campanile della vecchia Chiesa meridionale e con il rombo dell'artiglieria, l'annuncio che l'esercito
assediante di Washington si era trincerato su un'altura più vicina. Quando il cupo rombo del cannone giunse alle sue
orecchie, il colonnello Joliffe si alzò in tutta la statura della sua tarda età, e rivolse al generale britannico un aspro
sorriso.
«Sua Eccellenza vuole sapere altro del mistero di questa sfilata?», domandò.
«Badi alla sua testa canuta!», esclamò fieramente sir William Howe, ma con labbra tremanti. «Troppo a lungo
è rimasta sulle spalle di un traditore!».
«Deve affrettarsi a tagliarla, allora», replicò pacatamente il colonnello, «perché tra qualche ora tutto il potere di
sir William Howe e del suo padrone non potrà più far cadere nemmeno uno di questi capelli bianchi. Il dominio di
Britannia su questa antica provincia è ormai al suo scadere, questa notte, e già mentre parlo è cadavere. Penso che le
ombre dei vecchi governatori meritino di partecipare al suo funerale,».
Dette queste parole, il colonnello Joliffe si avvolse nel suo mantello e, preso il braccio della nipote, se ne andò
dall'ultima festa che un governatore britannico diede nell'antica provincia del Massachusetts. Si sospettò che il
colonnello e la sua giovane nipote fossero a conoscenza di qualche segreta intesa in merito alla misteriosa processione
di quella sera, ma comunque fosse, questa conoscenza non è mai stata divulgata. Gli autori di quella rappresentazione
sono scomparsi in un'oscurità ancora più profonda di quella che avvolse i selvaggi indiani che gettarono a mare i carichi
di tè delle navi britanniche, e trovarono posto nella storia, ma senza lasciare il loro nome. Tuttavia tra le altre leggende.76
di questa dimora, la superstizione popolare racconta tuttora che la sera dell'anniversario della sconfitta britannica gli
spettri degli antichi governatori del Massachusetts scivolano ancora attraverso la porta del Palazzo della Provincia. E,
ultima tra queste, compare una figura avvolta in un mantello militare, gesticolando con i pugni chiusi e battendo gli
stivali chiodati sui larghi gradini di pietra, apparentemente in preda a convulsa disperazione, ma senza fare alcun
rumore.
Quando i veritieri accenti dell'anziano gentiluomo si spensero, trassi un profondo respiro e mi guardai intorno
per la sala, sforzandomi con tutta la mia immaginazione di conferire un'impronta di grandiosità storica alla realtà di
quella scena. Ma le mie narici annusarono l'odore di fumo del sigaro, che il narratore aveva emesso in nuvolette, quasi a
rappresentare vis ibilmente, immagino, la nebulosa oscurità del suo racconto. Queste mie fantasie erano purtroppo
disturbate anche dal tintinnio di un cucchiaio nel bicchiere di punch al whiskey che il signor Thomas Waite stava
mescolando per un cliente. Né contribuiva a evocare l'aspetto pittoresco di quelle pareti il cartellone di uno spettacolo
teatrale di Brooklin, che era lì appeso in vece del blasone di qualche governatore d'antico lignaggio. Un cocchiere,
seduto davanti a una finestra, stava leggendo un giornale popolare del tempo, il «Boston Times», presentando
un'immagine che non poteva certo essere raffigurata in una qualsiasi illustrazione del «Times in Boston» di una
settantina d'anni prima. Sul davanzale di una finestra era posato un pacchetto, ben confezionato in carta marrone, e per
oziosa curiosità ne lessi l'indirizzo: «Signorina Susan Huggins, presso il Palazzo della Provincia». Era qualche graziosa
cameriera, senza dubbio. In verità, è un disperato tentativo quello di rievocare l'atmosfera di canute antichità in luoghi
in cui il mondo vivente e il giorno che sta trascorrendo hanno ancora qualcosa a che fare. Eppure, mentre guardavo la
maestosa scalinata dalla quale era discesa la processione degli antichi governatori, e poi, mentre uscivo attraverso il
venerabile portale dove le loro figure mi avevano preceduto, avvertii con piacere un brivido di emozione. Poi, dopo aver
attraversato lo stretto archivolto, alcuni passi ancora mi portarono in mezzo alla più fitta folla di Washington Street.
IL RITRATTO DI EDWARD RANDOLPH
Leggende del Palazzo della Provincia
II
Il vecchio avventore che narrava le leggende del Palazzo della Provincia rimase nel mio ricordo dalla metà
d'estate fino a gennaio. In un'oziosa serata dello scorso inverno, sicuro di trovarlo nel cantuccio più caldo della locanda,
presi la decisione di fargli un'altra visita, nella speranza di ben meritare dal mio paese, strappando all'oblio qualche altro
inedito episodio della sua storia. La notte era gelida e inclemente, ancora più tempestosa a causa di un forte vento che
soffiava in Washington Street, facendo crepitare e tremolare le fiammelle dentro i lampioni a gas. Mentre mi affrettavo,
la mia fantasia era occupata da un confronto tra l'aspetto attuale della strada e quello che probabilmente aveva quando i
governatori britannici abitavano ancora il palazzo verso cui ero diretto. Gli edifici di mattoni erano pochi, a quei tempi,
finché una catena di devastanti incendi non aveva spazzato via, più di una volta, le abitazioni e i magazzini di legno del
più popoloso quartiere della città. Gli edifici erano allora isolati e indipendenti, non mescolavano come ora le loro
separate esistenze in file connesse, con una sola, monotona facciata, ma possedevano ciascuno una propria identità,
come se il gusto personale del proprietario li avesse modellati, e tutto l'insieme presentava una pittoresca irregolarità, la
cui mancanza non è certo compensata dalle bellezze della nostra architettura moderna. Questa scena, che fiocamente
scompariva alla vista, al lume delle candele di sego che brillavano ai piccoli pannelli delle finestre sparse qua e là,
offriva un netto contrasto con la strada che io ora vedevo, con i lampioni a gas che ardevano da un angolo all'altro
gettando fasci di luce dentro ai negozi e illuminandoli a giorno attraverso le enormi vetrine.
Ma il cielo basso e grigio, che vidi alzando lo sguardo, aveva sicuramente lo stesso volto imbronciato che
mostrava agli abitanti del New England prerivoluzionario, e il vento invernale soffiava con lo stesso sibilo che era
familiare alle loro orecchie. Anche la vecchia Chiesa meridionale puntava già allora nel buio la sua antica guglia, che si
perdeva tra la terra e il cielo, e mentre passavo, il suo orologio, che aveva ricordato a tante generazioni com'era effimero
il loro arco di vita, scandiva lentamente e gravemente, anche per me, lo stesso inascoltato messaggio. «Sono soltanto le
sette», pensai. «Chissà se le leggende del mio vecchio amico riusciranno ad ammazzare il tempo fino all'ora di andare a
letto».
Oltrepassata la stretta arcata, attraversai il cortile, illuminato tutt'intorno da una lanterna sospesa sopra al
portale del Palazzo della Provincia. Entrato nella sala del bar, trovai, come mi aspettavo, il vecchio conservatore di
leggende seduto accanto a un bel fuoco d'antracite, sollevando nuvole di fumo dal suo grosso sigaro. Mi riconobbe con
evidente piacere, perché le mie doti di paziente ascoltatore rendevano sempre gradita la mia compagnia agli anziani
gentiluomini e signore che avevano propensione alla narrazione. Dopo aver portato una sedia accanto al fuoco, chiesi al
padrone del locale di prepararci due bicchieri di punch al whiskey, che furono prontamente serviti, ancora fumanti, con
una fetta di limone sul fondo, uno strato di porto rosso scuro in superficie e una spruzzata di noce moscata sul tutto.
Mentre facevamo tintinnare insieme i nostri bicchieri, il mio amico delle leggende si presentò col nome di Bela Tiffany,
e mi fece piacere la stranezza di quel nome, perché conferiva alla sua immagine e al suo carattere una sorta di peculiare
personalità. La bevanda ebbe l'effetto di sciogliere la memoria del vecchio gentiluomo, che traboccò ben presto di.77
racconti, tradizioni e aneddoti su personaggi defunti e su antiche usanze, alcuni dei quali infantili come una ninna nanna
per bambini, altri meritevoli dell'attenzione di un serio cultore di storia.
Nessuna tra queste storie mi impressionò quanto quella di un oscuro e misterioso dipinto che era appeso in una
delle camere del Palazzo della Provincia, proprio sopra alla sala in cui sedevamo. La seguente è una fedele versione
dell'episodio, quant'altre il lettore potrebbe trovare in qualsiasi altra fonte, anche se colorita di qualche sfumatura
romanzesca che la fa sembrare quasi incredibile.
In una delle sale del Palazzo della Provincia era da tempo conservato un antico dipinto con la cornice nera
come l'ebano e la tela stessa così scurita dal tempo, dall'umidità e dal fumo che non era possibile distinguervi un solo
tocco del pennello dell'artista. Il tempo vi aveva steso sopra un impenetrabile velo, lasciando alla tradizione, alla
leggenda e all'immaginazione il compito di stabilire che cosa rappresentasse una volta. Durante il mandato di molti
successivi governatori, il quadro era sempre stato appeso, per tassativo e indiscusso diritto, sopra al caminetto della
stessa camera, e occupava ancora il suo posto quando il vicegovernatore Hutchinson assunse l'amministrazione della
provincia, alla dipartita di sir Francis Bernard.
Un pomeriggio, il vicegovernatore era seduto sulla sua imponente sedia a braccioli, il capo posato sul suo
dorso scolpito, e scrutava pensosamente la vuota oscurità del dipinto. Il momento non era di certo adatto a queste oziose
meditazioni, perché questioni della più grave importanza richiedevano una decisione del governatore. Un'ora prima,
infatti, Hutchinson aveva ricevuto notizia dell'arrivo di una flotta britannica che portava a bordo tre reggimenti di
Halifax con il compito di reprimere l'insubordinazione della popolazione, e queste truppe erano in attesa della sua
autorizzazione per occupare la fortezza di Castle William e tutta la città. Ma invece di apporre la sua firma all'ordine
ufficiale, il vicegovernatore stava lì seduto, osservando così intensamente quella nera estensione di tela che il suo
comportamento richiamò l'attenzione di due giovani che gli erano vicini. Uno di questi, con una divisa militare di pelle
indosso, era un suo parente, Francis Lincoln, capitano provinciale di Castle William; l'altra, seduta su un basso sgabello
accanto alla sua sedia, era la prediletta nipote Alice Vane.
Vestita interamente in bianco, era una pallida, eterea creatura che, pur essendo nata nel New England, era stata
educata all'estero, e sembrava non soltanto una straniera di altri lidi, ma quasi un essere di un altro mondo. Per molti
anni, finché era rimasta orfana, aveva vissuto con suo padre nella solatia Italia, dove aveva acquisito un fervido
interesse per la scultura e la pittura, che trovava scarse occasioni di appagare nelle spoglie abitazioni dell'aristocrazia
coloniale. Si diceva che i primi prodotti del suo pennello mostrassero non inferiore talento, anche se, forse, la rude
atmosfera del New England aveva intorpidito la sua mano e offuscato i vividi colori della sua immaginazione. Ma la sua
curiosità fu stimolata nel vedere lo sguardo fisso dello zio, che sembrava scrutare attraverso la nebbia degli anni per
scoprire il soggetto di quel dipinto.
«Qualcuno sa, mio caro zio», domandò, «che cosa rappresentava un tempo questo vecchio dipinto? Forse, se
fosse possibile renderlo visibile, potrebbe rivelarsi un capolavoro di qualche grande artista. Perché, altrimenti, avrebbe
occupato così a lungo un posto così importante?».
Lo zio non diede un'immediata risposta, contrariamente alle sue abitudini, essendo sempre attento a tutti gli
umori e i capricci di Alice come se fosse stata sua figlia, e allora il giovane capitano di Castle William se ne assunse a
compito.
«Questo vecchio e scuro quadrato di tela, mia bella cugina», le disse, «è un cimelio del Palazzo della Provincia
da tempi immemorabili. In quanto al pittore, non posso dirti niente, ma se è vera una metà soltanto delle storie che
raccontano, nessuno dei grandi maestri italiani ha mai prodotto un'opera meravigliosa come quella che ti sta davanti».
Il capitano Lincoln riferì poi alcune delle strane favole e fantasie a proposito di quel vecchio dipinto che,
essendo inconfutabili per testimonianza oculare, erano divenute articoli di credenza popolare. Una delle versioni più
inverosimili, e nello stesso tempo la più accreditata, affermava che era un originale e autentico ritratto del Maligno,
dipinto durante un sabba di streghe nei pressi di Salem, e che la sua spiccata e terribile rassomiglianza era stata
confermata da parecchie streghe che confessarono al loro processo in tribunale. Si diceva parimenti che uno spirito
domestico o un demone abitava dietro alla patina nera del dipinto, e che si era mostrato, in momenti di pubbliche
calamità, a più di uno dei governatori. Shirley, tra gli altri, aveva visto quella funesta apparizione alla vigilia
dell'umiliante e sanguinosa sconfitta del generale Abercrombie sotto le mura di Ticonderoga. Molti domestici del
Palazzo della Provincia avevano intravvisto un volto che li guardava aggrondato al mattino, al crepuscolo o nel cuore
della notte, mentre attizzavano il fuoco nel camino al di sotto, ma se qualcuno avesse avuto l'audacia di sollevare una
torcia davanti al dipinto, questo sarebbe apparso nero e indecifrabile come sempre. Il più vecchio abitante di Boston
ricordava che suo padre, ai cui tempi il ritratto non era ancora completamente scomparso alla vista, lo aveva guardato
una volta, ma si rifiutava di essere interrogato sul volto che era lì rappresentato. In relazione a queste storie, era
singolare il fatto che in cima alla cornice fossero rimasti alcuni brandelli di seta nera, a indicare che un velo era stato
precedentemente sospeso davanti al dipinto, finché l'ombra del tempo non lo aveva celato completamente. Ma, dopo
tutto, l'aspetto più strano della faccenda era che tanti orgogliosi governatori del Massachusetts avessero consentito di
lasciare l'obliterato dipinto al suo posto nella camera di Stato del Palazzo della Provincia.
«Alcune di queste favole sono davvero terrificanti», commentò Alice Vane, che aveva talvolta rabbrividito ma
anche sorriso mentre suo cugino parlava. «Sarebbe forse il caso di ripulire la patina nera della tela, perché il dipinto
originale non può certo essere così impressionante come quelli che la fantasia dipinge in sua vece».
«Ma sarebbe possibile», domandò suo cugino, «restituire questo scuro dipinto ai suoi colori originari?»..78
«Quest'arte è conosciuta in Italia», rispose Alice.
Il vicegovernatore si era intanto ridestato dalle sue meditazioni, e ascoltava sorridendo la conversazione dei
suoi giovani congiunti. Ma il tono della sua voce aveva un che di diverso quando si accinse alla spiegazione del mistero.
«Mi dispiace, Alice, smentire la tua fiducia, in queste leggende che tanto ti affascinano», osservò, «ma le mie
ricerche di antiquario mi hanno portato già da tempo a conoscenza del soggetto di questo dipinto, se dipinto può essere
definito, che non è più visibile, né lo sarà mai, al pari del volto dell'uomo, ormai da tempo sepolto, che una volta
rappresentava. Era, questo, il ritratto di Edward Randolph, il fondatore di questo palazzo, un personaggio celebre nella
storia del New England».
«Quell'Edward Randolph», esclamò il capitano Lincoln, «che ottenne l'abrogazione del primo statuto
provinciale, in base al quale i nostri antenati avevano goduto diritti quasi democratici! Colui che era considerato
arcinemico del New England, il cui ricordo è ancora detestato, come distruttore delle nostre libertà!».
«Proprio quello stesso Randolph», confermò Hutchinson, muovendosi a disagio sulla sedia. «Era suo destino
assaggiare l'amaro sapore dell'odio popolare».
«I nostri annali», proseguì il comandante di Castle William, «dicono che la maledizione del popolo seguì
Randolph ovunque andasse, e portò male in tutti i successivi eventi della sua vita, e che si manifestò anche nelle
circostanze della sua morte. Dicono anche che l'effetto di quella maledizione lo colpì esteriormente, ed era visibile
nell'aspetto di quell'infelice, rendendolo troppo orribile a vedersi. Se così è, e se questo ritratto rappresenta realmente il
suo aspetto, è stato un atto di pietà che l'ha ricoperto di questo velo di oscurità».
«Queste leggende sono soltanto sciocchezze per chi, come me, ha verificato come siano sorrette da così scarsa
verità storica», replicò il vicegovernatore. «Per quanto riguarda la vita e il carattere di Edward Randolph, troppo credito
è stato dato al dottor Cotton Mather, il quale, anche se un po' del suo sangue scorre nelle mie vene, ha infarcito la nostra
antica storia di pettegolezzi di vecchie comari, fantasiosi e strampalati come le leggende dell'antica Grecia e di Roma».
«Eppure», mormorò Alice, «queste favole non potrebbero contenere una morale? Secondo me, se il volto di
questo ritratto è così spaventoso, non è senza motivo che sia rimasto così a lungo appeso in una sala del Palazzo della
Provincia. Quando i governanti si considerano privi di responsabilità, è bene che sia loro ricordato il terribile peso della
maledizione popolare».
Il vicegovernatore trasalì e guardò per un attimo sua nipote, come se queste sue infantili fantasie avessero
risvegliato nel suo petto qualche sentimento che tutti i suoi principi politici non potevano completamente accantonare.
Sapeva bene che Alice, nonostante la sua educazione all'estero, conservava lo spirito originario di una ragazza del New
England.
«Taci, sciocchina», esclamò, in un tono più aspro di quello che era solito usare con la dolce Alice. «Il
rimprovero di un re è molto più temibile del clamore di una moltitudine turbolenta e mal consigliata. Capitano Lincoln,
ormai è deciso: la fortezza di Castle William dev'essere occupata dalle truppe di Sua Maestà. Gli altri due reggimenti
devono essere acquartierati in città, oppure accampati nel parco. È tempo che dopo tanti anni di tumulto, quasi di
rivolta, il governo di Sua Maestà stabilisca un suo baluardo».
«Abbia fede, signore, abbia fede ancora un po' nella fedeltà del popolo», replicò il capitano Lincoln, «e non gli
insegni che con i soldati britannici può avere altri rapporti che quelli della fratellanza, come quando combattevano
fianco a fianco nella guerra contro i francesi. Non trasformi le strade della sua città natale in un accampamento. Ci pensi
due volte prima di consegnare il vecchio Castle William, la chiave della nostra provincia, in altre mani che quelle degli
autentici abitanti del New England».
«Giovanotto, ormai è deciso», ribadì Hutchinson, alzandosi dalla sedia. «Un ufficiale britannico sarà a
disposizione, questa sera, per ricevere le opportune istruzioni in merito al dislocamento delle truppe. È richiesta anche
la sua presenza, e fin'allora mi congedo da lei».
Dette queste parole, il vicegovernatore lasciò in fretta la sala, seguito più lentamente da Alice e da suo cugino,
che confabulavano tra loro, fermandosi per guardare dietro a sé il misterioso ritratto. Il comandante di Castle William
pensò che l'aspetto e il contegno della fanciulla potevano essere quelli di uno spirito delle favole, di una fata o di una
creatura delle antiche mitologie, che talvolta si mescolano con le vicende dei mortali, vuoi per capriccio ma anche per
sensibilità alla loro buona o cattiva sorte. Quando il giovane le aprì la porta, Alice fece un cenno verso il quadro e
sorrise.
«Vieni fuori, cupa e perfida figura!», esclamò. «È giunta la tua ora!».
Quella sera, il vicegovernatore Hutchinson era seduto nella stessa sala in cui era avvenuta la precedente scena,
circondato da varie persone convenute lì a causa dei loro diversi interessi. Erano i consiglieri comunali di Boston,
semplici, patriarcali padri del popolo, eccellenti rappresentanti dei vecchi fondatori puritani, la cui tempra austera aveva
lasciato una così profonda impronta sul carattere del New England. Contrastavano con questi alcuni altri membri del
Consiglio, riccamente vestiti con parrucche bianche, panciotti ricamati e altri ricercati indumenti del tempo, che
facevano sfoggio di un ostentato cerimoniale di corte. Era presente anche un maggiore dell'esercito britannico, in attesa
degli ordini del vicegovernatore per lo sbarco delle truppe, rimaste ancora a bordo dei mezzi di trasporto. Il comandante
di Castle William stava accanto alla sedia di Hutchinson a braccia incrociate, guardando con espressione quasi
sprezzante l'ufficiale britannico, dal quale doveva essere presto sostituito al comando. Su un tavolo, nel mezzo della
sala, un candelabro d'argento a braccia gettava la luce di una decina di candele su una carta che attendeva
evidentemente la firma del vicegovernatore..79
In parte nascosto dalle voluminose pieghe di una delle tende che dal soffitto scendevano a terra, si vedeva il
tessuto bianco di una lunga veste femminile. Può sembrare strano che Alice Vane fosse lì presente in quel momento, ma
il suo peculiare carattere aveva qualcosa di così fanciullesco e imprevedibile, così lontano dalle comuni regole, che la
sua presenza non sorprese coloro che se n'erano accorti. Nel frattempo, il presidente dei consiglieri stava rivolgendo al
vicegovernatore una lunga e solenne protesta contro l'ingresso delle truppe britanniche in città.
«E se Vostro Onore», concluse questo anziano gentiluomo, più che rispettabile ma un po' prolisso, «riterrà
opportuno accogliere questi mercenari armati di spade e moschetti nelle nostre pacifiche strade, non sulle nostre teste
ricadrà la responsabilità. Rifletta, signore, finché c'è ancora tempo: se una sola goccia di sangue sarà versato, quel
sangue sarà una macchia indelebile sul ricordo di Vostro Onore. Lei, signore, ha scritto con abile penna le imprese dei
nostri padri. Ancor più auspicabile, quindi, è che lei stesso meriti di essere onorevolmente ricordato come autentico
patriota e giusto governante, quando le sue azioni saranno trascritte nella storia».
«Non sono insensibile, mio caro signore, al naturale desiderio di ben figurare negli annali del mio paese»,
replicò Hutchinson, temperando con la cortesia la sua impazienza, «ma non conosco modo migliore di conseguire
questo fine se non quello di oppormi a quel temporaneo spirito di insubordinazione che, mi scusi, sembra aver
contagiato anche persone più anziane di me. Vuole forse che attenda finché la marmaglia avrà messo a sacco anche il
Palazzo della Provincia, come già è avvenuto nella mia residenza privata? Creda a me, signore, può venire il momento
in cui sarete lieti di fuggire al riparo della bandiera del re, che ora vi appare così ripugnante quando viene innalzata».
«Proprio così», soggiunse il maggiore dell'esercito britannico, che attendeva con impazienza gli ordini del
vicegovernatore. «I demagoghi di questa provincia hanno evocato il diavolo, e ora non sanno come ricacciarlo. Ma lo
esorcizzeremo noi, in nome di Dio e del sovrano».
«Se v'intromettete col diavolo, fate attenzione alle sue grinfie!», esclamò il comandante di Castle William,
provocato dalla sferzante battuta contro i suoi compatrioti.
«Le chiedo scusa, giovane signore», replicò il venerabile consigliere, «ma non lasci influenzare le sue parole
da uno spirito malevolo. Ci batteremo contro l'oppressore con la preghiera e il digiuno; come avrebbero fatto i nostri
antenati. E al pari di loro ci sottometteremo al destino che una saggia Provvidenza vorrà imporci, pur dopo tutti i nostri
sforzi per modificarlo».
«Ed ecco che spuntano le grinfie del diavolo», mormorò Hutchinson, che ben sapeva qual era la sottomissione
dei puritani. «Questa faccenda sarà sbrigata senza indugio. Quando ci sarà una sentinella a ogni angolo di strada e un
corpo di guardia davanti al municipio, ogni galantuomo potrà avventurarsi a passeggiare fuori di casa. Che cosa
significa per me il tumulto della folla, in questa remota provincia del regno? Il re soltanto è il mio signore, e l'Inghilterra
è il mio paese! Giustificato dalla sua violenza armata, poso il mio piede su questa marmaglia, e la sfido!».
Poi afferrò la penna, e stava per apporre la sua firma al documento sul tavolo quando il comandante di Castle
William gli posò una mano sulla spalla. La confidenzialità del gesto, così contrario al cerimonioso rispetto che allora
era considerato dovuto al rango e alla dignità, destò il generale stupore, e ancor più nel vicegovernatore. Alzando
indignato lo sguardo, Hutchinson si avvide allora che il suo giovane parente stava indicando col dito la parete opposta, e
seguendo con l'occhio quella direzione vide ciò che fin'allora era rimasto inosservato, che una tendina nera di seta era
sospesa davanti al misterioso ritratto, in modo da nasconderlo completamente. I suoi pensieri ritornarono subito alla
scena del pomeriggio precedente, e pur sorpreso, sconcertato da confusi sentimenti, intuì che sua nipote doveva aver
avuto parte in quel fenomeno, e la chiamò ad alta voce.
«Alice! Vieni qui, Alice!».
Non appena ebbe parlato, Alice Vane scivolò fuori e, portandosi una mano sugli occhi, scostò con l'altra la
luttuosa tendina che celava il ritratto. Un'esclamazione di stupore proruppe da tutti i presenti, ma la voce del
vicegovernatore aveva invece un tono inorridito.
«In nome del Cielo», mormorò sommessamente, parlando più a se stesso che alle persone intorno. «Se lo
spirito di Edward Randolph dovesse comparire tra noi dal luogo di tormento in cui è, non potrebbe maggiormente
mostrare sul suo volto gli orrori dell'inferno!».
«Per qualche saggio fine», osservò l'anziano consigliere in tono solenne, «la Provvidenza ha disperso la nebbia
degli anni che ha così a lungo offuscato questa spaventosa effigie. Fino ad ora, nessun essere vivente ha visto ciò che
noi osserviamo!».
Dentro l'antica cornice, che fino a poco tempo prima aveva racchiuso un nero quadrato di tela, appariva un
ritratto visibile, ancora scuro, è vero, nei colori e nelle sfumature, che però risaltava ora in forte rilievo. Era il mezzo
busto di un gentiluomo, abbigliato con abiti sontuosi, ma molto antiquati, di velluto arabescato, con un ampio collare, la
barba, e un cappello che con la sua tesa gli metteva in ombra la fronte. Sotto a quest'ombra, gli occhi avevano uno
sguardo particolare, che sembrava quasi vivente. L'intera figura del ritratto risaltava così distintamente sullo sfondo da
dare l'effetto di una persona che guardava dalla parete gli spettatori sbigottiti e atterriti. L'espressione del volto, se le
parole possono darne un'idea, era quella di un criminale sorpreso in qualche vergognoso misfatto, ed esposto all'odio, al
dileggio e all'esecrazione di una vasta folla circostante. Lo sguardo di sfida era rintuzzato e sopraffatto dal peso
opprimente della vergogna, il tormento dell'anima affiorava nella sua espressione. Sembrava che il ritratto, celato
dall'ombra di chissà quanti anni, avesse acquistato nel frattempo una più intensa e cupa espressione, fino ad illuminarsi
di nuovo, per gettare il suo funesto auspicio sul fatidico momento. Questo era il ritratto di Edward Randolph, se si può
credere alla leggenda, quale egli appariva quando la maledizione popolare aveva lasciato la sua impronta sulla natura di
quell'uomo..80
«Mi porterà alla follia, quell'orribile volto!», mormorò Hutchinson, che sembrava contemplarlo affascinato.
«Fai attenzione, allora!», sussurrò Alice. «Costui ha calpestato i diritti del popolo: tieni a mente la sua
punizione, ed evita di commettere un delitto come il suo!».
Il vicegovernatore tremò per un attimo, ma facendo appello alla sua forza di carattere, che non era comunque la
sua dote principale, riuscì a liberarsi dall'incantesimo prodotto dall'espressione di Randolph.
«Ragazza!», esclamò con un'aspra risata, voltandosi verso Alice, «tu hai portato qui la tua arte della pittura, il
tuo spirito italiano dell'intrigo, i tuoi trucchi teatrali, e pensi forse di influenzare così le deliberazioni dei governanti e
gli affari delle nazioni, con questi bassi espedienti? Stai a vedere!».
«Attenda ancora!», intervenne il consigliere, quando Hutchinson prese di nuovo la penna. «Se mai un essere
mortale ha ricevuto un ammonimento da un'anima tormentata, lei, Vostro Onore, è quell'uomo!».
«Via di qui!», rispose Hutchinson infuriato. «Anche se quell'insensato ritratto mi gridasse: "Fermati", non
riuscirebbe a smuovermi!».
Dopo aver lanciato uno sguardo di sfida al volto del ritratto, che in quel momento sembrò accrescere l'orrore
della sua espressione infelice e maligna, il vicegovernatore scarabocchiò sul foglio, con caratteri che rivelavano tutta la
sua disperazione, il nome di Thomas Hutchinson. Poi, a quanto si dice, fu percorso da un tremito, come se quella firma
gli avesse precluso la salvezza.
«È fatta», mormorò, posandosi una mano sulla fronte.
«Che il Cielo perdoni questa azione», sussurrò Alice Vane con sommesso e mesto accento, simile alla voce di
uno spirito buono che volava via.
Il mattino dopo, una sommessa voce correva per la casa, e da lì si diffuse poi nella città, secondo cui il cupo e
misterioso ritratto aveva lasciato la parete e aveva parlato faccia a faccia col vicegovernatore Hutchinson. Se questo
miracolo avvenne realmente, non ne rimasero però tracce, perché dentro l'antica cornice nulla si poteva distinguere, se
non l'impenetrabile ombra che aveva sempre coperto la tela a memoria d'uomo. Se la figura ne era realmente uscita,
doveva esservi ritornata all'alba, come uno spirito, per nascondersi dietro una secolare oscurità. La verità,
probabilmente, era che la segreta arte usata da Alice Vane per restaurare i colori del dipinto aveva avuto soltanto un
temporaneo effetto. Ma coloro che in quel breve lasso di tempo avevano potuto contemplare il terrificante volto di
Edward Randolph non desiderarono mai vederlo una seconda volta, e sempre tremarono al ricordo di quella scena,
come se uno spirito maligno fosse apparso visibilmente in mezzo a loro. In quanto a Hutchinson, quando giunse la sua
ultima ora al di là dell'oceano, mentre rantolava gemette che stava soffocando nel sangue del massacro di Boston, e
Francis Lincoln, già comandante di Castle Williams, che stava al suo capezzale, riconobbe nel suo sguardo tormentato
una somiglianza con quello di Edward Randolph. Il suo spirito dolente sentì forse, in quel momento fatale, il peso
tremendo della maledizione del popolo?
Al termine di questa leggenda, domandai al padrone della locanda se il ritratto era ancora appeso nella sala
sopra a noi, ma il signor Tiffany mi informò che già da tempo era stato rimosso ed era forse sepolto in qualche angolo
dimenticato del museo del New England. Forse qualche antiquario curioso potrà riportarlo alla luce e, con l'aiuto del
signor Howorth, il restauratore, potrà dare una non inutile prova dell'autenticità dei fatti qui raccontati. Mentre questa
storia veniva narrata, fuori si era scatenato un temporale che infuriava sopra al Palazzo della Provincia, tanto da far
pensare che tutti i vecchi governatori e i grandi uomini d'un temp o facessero baccano ai piani superiori, mentre il signor
Bela Tiffany parlava di loro al di sotto. Nel corso delle generazioni, dopo che molti hanno vissuto e sono morti in
un'antica casa, il sibilo del vento attraverso le fessure e lo scricchiolio delle travi assumono stranamente il suono di voci
umane, di stentoree risate o di pesanti passi che si trascinano attraverso le camere ormai deserte. È come se gli echi di
mezzo secolo si fossero ridestati. Questi erano gli spettrali suoni che echeggiavano e mormoravano nelle nostre orecchie
quando presi congedo dal circolo intorno al caminetto del Palazzo della Provincia e, discesi i gradini d'ingresso, mi feci
strada verso casa contro le raffiche di una tempesta di neve.
LA MANTELLA DI LADY ELEANORE
Leggende del Palazzo della Provincia
III
Il mio ottimo amico Thomas Waite, gestore della locanda del Palazzo della Provincia, ebbe la compiacenza,
l'altra sera, di invitare il signor Tiffany e me a una cena di ostriche. Questa piccola prova di rispetto e gratitudine,
osservò squisitamente, era ben poca cosa al confronto con ciò che l'affascinante narratore di leggende e io, umile
scrivano dei suoi racconti, avevamo meritato con la pubblica notorietà che le nostre conversazioni avevano richiamato
al suo locale. Molti sigari erano stati fumati nella sua locanda, molti bicchieri di vino e di più potente acquavite erano
stati scolati, molti pranzi erano stati consumati da sconosciuti avventori incuriositi che, se non fosse stato per il
fortunato incontro tra il signor Tiffany e me, mai si sarebbero avventurati oltre quel buio vicolo che dà accesso allo
storico cortile del Palazzo della Provincia. Insomma, se si deve dar credito alle cortesi assicurazioni del signor Thomas
Waite, noi avevamo dato pubblicità al suo dimenticato locale come se avessimo abbattuto la schiera di volgari botteghe.81
di calzolaio e di commestibili che ne nasconde l'aristocratica facciata da Washington Street. Ma è forse sconsigliabile
parlare troppo dell'accresciuta clientela del locale, altrimenti il signor Waite potrebbe trovarsi in difficoltà nel
rinnovarne il contratto d'affitto a condizioni favorevoli come prima.
Così accolti come benefattori, né il signor Tiffany né io ci facemmo scrupolo di fare onore a tutte le buone cose
che furono apparecchiate davanti a noi. Anche se il banchetto fu meno sontuoso di quelli cui avevano assistito quelle
stesse pareti coperte di pannelli nel secolo trascorso, anche se il nostro anfitrione presiedeva con minor pompa di quanta
si conveniva a un successore dei regali governatori, e anche se i suoi ospiti facevano una figura meno imponente degli
imparruccati, incipriati, ricamati dignitari che banchettavano un tempo al loro tavolo e ora dormono nei loro blasonati
sepolcri su Copp's HilI o intorno a King's Chapel, posso però affermare senza tema di smentita che mai, dai tempi della
regina Anna alla rivoluzione, una più gaia combriccola si riunì nel Palazzo della Provincia. L'occasione era ancora più
interessante per la presenza di un vegliardo, i cui personali ricordi risalivano ai tempi di Gage e di Howe, e gli
suggerivano anche qualche dubbio aneddoto a proposito di Hutchinson. Era un rappresentante di quella esigua, e ormai
quasi estinta, categoria di persone la cui fedeltà alla monarchia e alle istituzioni e usanze coloniali a essa connesse non
si è mai arresa alle eresie democratiche di tempi posteriori. La giovane regina di Britannia non ha mai avuto un suddito
così fedele nel suo reame, e forse nessuno che s'inginocchierebbe con tanta devozione davanti al suo trono, come questo
antico gentiluomo la cui testa è incanutita sotto il mite governo della repubblica, che egli nondimeno definisce
usurpatrice nei suoi momenti più condiscendenti. Eppure, questi pregiudizi così ostinati non hanno fatto di lui un
compagno scorbutico e infrequentabile; anzi, per dire la verità, la vita di questo vecchio lealista è stata così solitaria e
inquieta, avendo avuto così poca scelta d'amicizie, ed essendone stata così spesso priva, che probabilmente non
rifiuterebbe di scambiare un brindisi d'amicizia con Oliver Cromwell o John Hancock, per non dire dei democratici che
sono oggi alla ribalta. In un altro articolo della serie, potrò forse offrire al lettore un suo più accurato ritratto.
Quando fu il momento, il nostro anfitrione stappò una bottiglia di Madeira, di aroma e gusto così squisiti che
certo doveva averla scovata in qualche recondito deposito, nelle profondità della più profonda cantina, dove qualche
allegro cantiniere doveva averla messa da parte con gli altri vini più pregiati del governatore, dimenticandosi poi di
rivelarne il nascondiglio sul letto di morte. Diamo pace al suo spettro col naso rosso, e libiamo alla sua memoria! Il
prezioso nettare fu centellinato dal signor Tiffany con particolare gusto, e dopo aver sorseggiato il terzo bicchiere, egli
ci raccontò con piacere una delle più strane leggende che aveva ancora da rastrellare nel deposito in cui le conserva.
Con alcuni opportuni orpelli aggiunti dalla mia fantasia, la storia è più o meno la seguente.
Non molto tempo dopo che il colonnello Shute aveva assunto il governo di Massachusetts Bay, or sono quasi
centovent'anni, una giovane dama d'alto rango e fortuna arrivò qui dall'Inghilterra per chiedere la sua protezione come
tutore. Il colonnello era un suo lontano parente, ma il più prossimo che era sopravvissuto alla graduale estinzione della
sua famiglia, e perciò nessun rifugio più desiderabile del Palazzo della Provincia di una colonia d'oltre Atlantico poteva
essere trovato per la ricca e altolocata lady Eleanore Rochcliffe. La consorte del governatore Shute era stata come una
madre nella sua infanzia, ed era ora ansiosa di accoglierla, nella speranza che nella primitiva società del New England la
bella giovane fosse esposta a pericoli infinitamente minori che tra gli artifici e le tentazioni della corte. Se il governatore
e la sua consorte avessero maggiormente pensato alla loro tranquillità, avrebbero probabilmente tentato di rimettere in
altre mani la responsabilità, perché lady Eleanore si distingueva oltre che per alcuni nobili e ammirevoli tratti del
carattere, anche per uno sprezzante e inflessibile orgoglio e per un'altezzosa coscienza dei propri privilegi ereditari e
personali che la rendevano pressoché incapace di controllo. A giudicare da molti aneddoti, questo suo peculiare tratto
del carattere era quasi monomaniaco, oppure, se gli atti che ispirava erano quelli di una persona sana di mente, sembra
giusto che la Provvidenza facesse seguire questo peccato d'orgoglio da una così severa punizione. Quella sfumatura di
miracoloso che ammanta tante di queste leggende ormai dimenticate ha conferito probabilmente un ulteriore tocco di
particolarità alla strana storia di lady Eleanore Rochcliffe.
La nave su cui era giunta era sbarcata a Newport, da dove lady Eleanore era stata trasportata a Boston sulla
carrozza del governatore, accompagnata da una piccola scorta di gentiluomini a cavallo. L'imponente corteo preceduto
da quattro cavalli neri richiamò molta curiosità al suo rumoroso passaggio attraverso Cornhill, circondato com'era dai
rampanti destrieri di una decina di cavalieri con le spade sospese sulla staffa e le pistole nel fodero. Attraverso i grandi
finestrini di vetro della carrozza, la popolazione poteva distinguere al suo passaggio la figura di lady Eleanore, che
stranamente associava una maestosità quasi regale con la grazia e la bellezza di una fanciulla non ancora ventenne. Una
strana voce correva tra le dame della provincia, che la loro bella rivale doveva gran parte del suo irresistibile fascino a
un certo capo d'abbigliamento, una mantella ricamata, opera della più abile sarta di Londra e dotata di proprietà
addirittura magiche. In quell'occasione, però, ella non doveva nulla alla magia dell'abbigliamento, essendo vestita con
un abito da amazzone di velluto, che sarebbe apparso rigido e sgraziato su qualsiasi altra persona.
Il cocchiere tirò le redini dei suoi quattro cavalli neri, e tutto il corteo si arrestò davanti alla balaustra di ferro
battuto che divideva il Palazzo della Provincia dalla pubblica strada. Per una malaugurata coincidenza la campana della
vecchia Chiesa meridionale stava proprio allora suonando a morto, così che, invece dei lieti rintocchi che solitamente
annunciavano l'arrivo di qualche illustre ospite, lady Eleanore Rochcliffe fu introdotta da queste dolenti note, come se
qualche calamità si fosse incarnata nella sua bella persona.
«Una grave mancanza di rispetto», esclamò il capitano Langford, un ufficiale britannico che di recente aveva
portato i dispacci al governatore Shute. «Il funerale doveva essere rinviato, per non deprimere l'umore di lady Eleanore
con una così lugubre accoglienza»..82
«Col suo permesso, signore», replicò il dottor Clarke, un medico e ben noto esponente del partito popolare,
«nonostante tutta l'ostentazione degli araldi, un mendicante morto deve avere precedenza su una regina vivente. La
morte conferisce questo privilegio».
I due uomini scambiavano queste battute mentre si facevano strada in mezzo alla folla che si era raccolta ai due
lati del cancello, lasciando aperto un varco fino all'ingresso del Palazzo della Provincia. Uno schiavo negro in livrea
balzò a terra dietro al cocchio e corse ad aprirne la porta, mentre il governatore Shute scendeva la rampa di scale della
sua dimora per aiutare lady Eleanore a smontare. Ma il solenne incedere del governatore fu interrotto da un episodio che
destò il generale stupore: un giovane pallido, con neri capelli arruffati, corse fuori dalla folla per andare a prostrarsi a
fianco della carrozza, offrendosi come poggiapiedi per lady Eleanore Rochcliffe. Costei rimase per un attimo
sconcertata, come domandandosi se il giovane fosse degno di sostenere il suo peso, ma non sembrò contrariata nel
ricevere un così umiliante atto di omaggio da un altro mortale.
«In piedi, signore», ordinò il governatore in tono severo, alzando nel contempo il suo bastone sull'intruso.
«Che cosa significa questa ridicola follia?».
«No», intervenne lady Eleanore in tono scherzoso, ma più sprezzante che benevolo, «Vostra Eccellenza non lo
batta. Quando gli uomini chiedono soltanto di essere calpestati, sarebbe un peccato negare un favore così facile da
concedere e così ben meritato!».
Poi, pur lieve come un raggio di sole su una nuvola, posò il piede su quel corpo rattrappito e allungò una mano
per prendere quella del governatore. Per un breve attimo lady Eleanore conservò questa posa, e mai l'aristocrazia e
l'orgoglio ereditario che calpestavano l'affinità e la fratellanza umana furono rappresentati così eloquentemente come
nell'immagine che presentavano in quel momento queste due figure. Eppure gli spettatori erano così folgorati dalla
bellezza della dama, in cui l'orgoglio appariva così connaturato, che tutti esplosero contemporaneamente in un'ovazione.
«Chi è quel giovane insolente?», s'informò il capitano Langford, che era ancora accanto al dottor Clarke. «Se è
nel pieno delle sue facoltà, la sua impertinenza merita una bella bastonatura. Se è un folle, lady Eleanore dovrebbe
essere protetta da altre molestie, segregando quell'uomo».
«Si chiama Jervase Helwyse», rispose il medico, «ed è un giovane senza titoli di nascita e fortune, né altri
privilegi, se non quelli della mente e dell'anima che la natura gli ha dato. Essendo segretario del nostro agente coloniale
a Londra, ha avuto la sfortuna di incontrare questa lady Eleanore Rochcliffe, se n'è innamorato e il suo disprezzo l'ha
fatto impazzire».
«Era già pazzo, se aspirava a tanto», commentò l'ufficiale britannico.
«Può darsi», replicò il dottor Clarke, aggrottando la fronte. «Ma le dirò, signore, che potrei quasi dubitare della
giustizia del Cielo sopra di noi, se questa dama che ora incede così orgogliosamente verso quella dimora e che vuole
porsi al di sopra di ogni sentimento di fratellanza tra i comuni mortali non conoscerà qualche esemplare umiliazione.
Vedrà se la natura umana non s'imporrà a lei in qualche modo che la faccia scendere al livello dei più umili!».
«Non sia mai!», esclamò il capitano Langford indignato. «Né in vita sua, né quando sarà posata accanto ai suoi
antenati».
Non molti giorni dopo, il governatore diede un ballo in onore di lady Eleanore Rochcliffe, al quale tutta la
migliore società della colonia fu formalmente invitata attraverso dispacci sigillati con tutti i crismi dell'ufficialità, che
furono recapitati nelle rispettive dimore, vicine e lontane, da corrieri a cavallo. All'invito rispose quindi un generale
concorso di personaggi facoltosi, d'alto rango e di bell'aspetto, e raramente le grandi porte del Palazzo della Provincia si
aprirono davanti a una così numerosa folla di illustri ospiti come la sera del ballo in onore di lady Eleanore. Senza tema
di esagerare, lo spettacolo potrebbe essere definito splendido perché, secondo la moda di quei tempi, le dame
rifulgevano in ricchi abiti di seta e di raso, dis tesi sopra ampie crinoline, e gli uomini scintillavano dei ricami dorati che
coprivano senza parsimonia il velluto purpureo, scarlatto e azzurro delle loro marsine e giustacuori. Quest'ultimo capo
d'abbigliamento, che aveva particolare importanza, avvolgeva il corpo di chi lo indossava fin quasi alle ginocchia ed era
adornato riccamente di fiori e foglie dorate, tanto da equivalere forse all'ammontare del reddito di un intero anno. I
mutati gusti dell'epoca, che testimoniavano una profonda trasformazione di tutta la società, facevano forse apparire
ridicole tutte quelle sfarzose figure, ma gli invitati di quella sera, sbirciando la loro immagine riflessa nelle specchiere,
si rallegravano nel vederla brillare in mezzo a quella folla scintillante. Peccato che uno di quei magnifici specchi non
abbia conservato un quadro della scena che, per i suoi stessi aspetti così effimeri, potrebbe insegnarci molte cose che
meriterebbero di essere conosciute e ricordate!
Sarebbe bene, almeno, che un pittore o uno di quegli specchi potesse suggerirci una pur vaga idea di un capo
d'abbigliamento di cui s'è già parlato in questa storia, la mantella ricamata di lady Eleanore, che secondo le voci
popolari era dotata di magiche proprietà, tali da conferire nuova e inusitata grazia alla sua figura ogni volta che la
indossava. Foss'anche un'oziosa fantasia, questa misteriosa mantella ha avvolto in un alone inquietante l'immagine che
ho di questa giovane dama, sia a causa dei suoi favoleggiati poteri, sia perché era opera di una donna ormai prossima
alla morte, e forse doveva la sua sovrannaturale bellezza al delirio della morte incombente.
Dopo le presentazioni ufficiali, lady Eleanore si era appartata dalla massa degli invitati, isolandosi con una
ristretta e distinta cerchia di persone, alle quali mostrava un più manifesto favore che alla massa delle altre. Le candele
illuminavano vivamente la scena, mettendo in rilievo i suoi particolari più brillanti, ma lei si guardava distrattamente
intorno, mostrando di quando in quando un'espressione di stanchezza o indifferenza, celate però da tanta grazia
femminile che i suoi ascoltatori a stento percepivano la corruzione morale di cui esse erano espressione. Lady Eleanore
osservava lo spettacolo non con volgare sarcasmo, come disdegnando quell'imitazione: provinciale di una festa di corte,.83
ma col più profondo disprezzo di chi si considera troppo in alto per partecipare ai divertimenti degli altri comuni
mortali. Forse i ricordi di coloro che la videro quella sera furono influenzati dagli straordinari avvenimenti a cui ella fu
successivamente associata, fatto è che la sua figura riaffiorò poi nella loro mente distinta da un che di anomalo e
innaturale, anche se, in quel momento, tutti parlavano della sua straordinaria bellezza e dell'indefinibile fascino che le
conferiva la mantella. Alcuni più attenti osservatori riconobbero in effetti un febbrile rossore che si alternava al pallore
della sua carnagione, con conseguenti e repentini mutamenti d'umore, accompagnati talvolta dai sintomi di un penoso e
invincibile languore, come se fosse sul punto di accasciarsi a terra. Poi, con un tremito nervoso, sembrava ridestare le
sue energie, intervenendo nella conversazione con qualche brillante e scherzoso sarcasmo, anche se velato quasi di
cattiveria. I suoi modi e i suoi umori avevano qualcosa di così strano da sconcertare tutti i suoi ascoltatori, e uno
sguardo e un sorriso furtivi e indecifrabili sul suo volto sollevavano i loro dubbi sulla sua serietà e sanità mentale, così
che la cerchia di persone intorno a lady Eleanore Rochcliffe andò gradualmente assottigliandosi, finché rimasero
soltanto quattro gentiluomini. Erano il capitano Langford, l'ufficiale inglese di cui s'è già parlato, un piantatore della
Virginia, giunto nel Massachusetts per qualche impegno politico, un giovane ecclesiastico episcopale, nipote di un
conte inglese, e infine il segretario privato del governatore Shute, che si era guadagnato la tolleranza di lady Eleanore
grazie ai suoi modi ossequiosi.
In momenti successivi della serata i domestici in livrea passavano tra gli invitati con enormi vassoi di rinfreschi
e di vini francesi e spagnoli. Lady Eleanore Rochcliffe, che rifiutava di bagnarsi le labbra anche con una goccia di
champagne, era sprofondata in una grande poltrona di damasco, evidentemente tediata dall'eccitazione della serata o
dalla sua monotonia, e mentre ascoltava distrattamente le voci, le risa e la musica, un giovane le si avvicinò
furtivamente e s'inginocchiò ai suoi piedi. Portava in mano un vassoio sul quale era posato un calice d'argento cesellato,
colmo di vino fino all'orlo, che egli le offrì con deferenza, come a una regina incoronata, o piuttosto con la tremante
devozione di un sacerdote che fa un sacrificio davanti al suo idolo. Accorgendosi che qualcuno le aveva sfiorato la
veste, lady Eleanore trasalì e aprì gli occhi davanti al volto pallido e tormentato e alla capigliatura scompigliata di
Jervase Helwyse.
«Perché mi perseguita in questo modo?», domandò con voce languida, ma con un tono più benevolo di quanto
si consentiva solitamente. «Mi dicono che io le ho fatto del male».
«Il Cielo sa se è così», rispose il giovane con tono solenne. «Ma per riparare a quel male, lady Eleanore, se così
è, e per la sua salvezza terrena e ultraterrena, la prego di bere un sorso di questo vino benedetto, e di passare poi il calice
tra gli invitati. E questa sarà la prova che lei non ha voluto separarsi dalla catena della solidarietà umana, perché
chiunque la infranga dovrà tener compagnia agli angeli caduti».
«Dove l'ha rubato, il folle, quel sacro boccale?», esclamò l'ecclesiastico episcopale.
La domanda richiamò l'attenzione dei presenti sul calice d'argento e tutti riconobbero che era quello della
patena della vecchia Chiesa meridionale e, per quanto se ne sapeva, era colmo di vino consacrato.
«Forse è vino avvelenato», disse a mezza voce il segretario del governatore.
«Versatelo in gola a quel furfante!», esclamò indignato il virginiano.
«Cacciamolo dalla casa!», gridò il capitano Langford, afferrando così rudemente la spalla di Jervase Helwyse
che il sacro calice si rovesciò e il suo contenuto spruzzò la mantella di lady Eleanore. «Sia un furfante, un pazzo o un
mentecatto, è intollerabile che costui sia ancora in libertà».
«Vi prego, signori, non fate male a questo mio povero ammiratore», intervenne lady Eleanore Rochcliffe, con
un lieve e stanco sorriso. «Portatelo lontano dalla mia vista, se così vi piace, perché nel mio cuore non trovo altro da
fare che ridere di lui, mentre, in tutta onestà e coscienza, dovrei piangere per il male che ho fatto!».
Mentre i presenti si affannavano a trascinar via l'infelice giovane, questi si divincolò dalla presa e, con toni
accesi e appassionati, presentò un'altra e ancor più bizzarra petizione a lady Eleanore: niente meno che gettasse via la
mantella che, mentre lui le offriva il calice d'argento colmo di vino, lei aveva stretto ancor più intorno a sé, fino a
esserne quasi interamente avvolta.
«La getti lontano da sé!», esclamò Jervase Helwyse, stringendo le mani nella supplica. «Forse non è ancora
troppo tardi! Dia alle fiamme quel maledetto indumento!».
Ma lady Eleanore, con una risata sprezzante, strinse ancor più sul capo le ricche pieghe della mantella
ricamata, conferendo così al suo bel volto un nuovo aspetto, metà nascosto e metà esposto, tale da sembrare quello di
una misteriosa creatura.
«Addio, Jervase Helwyse», mormorò. «Conservi la mia immagine nel suo ricordo, quale la vede adesso».
«Ahimè, signora», rispose lui, in tono non più acceso, ma triste come un rintocco funebre. «Dovremo
incontrarci tra breve, quando il suo volto avrà forse un altro aspetto, e sarà quella l'immagine che dovrò conservare
dentro di me».
Poi non oppose più resistenza alla violenza dei gentiluomini e dei domestici intorno, che quasi lo trascinarono
fuori dalla casa, gettandolo brutalmente al di là del cancello di ferro del Palazzo della Provincia. Il capitano Langford,
che aveva preso parte molto attivamente all'impresa, stava ritornando alla presenza di lady Eleanore, quando si imbatté
nel dottor Clarke, col quale aveva scambiato qualche battuta occasionale il giorno del suo arrivo. Il medico si teneva in
disparte, e tutta la lunghezza della sala lo divideva da lady Eleanore, ma la osservava con tale intensità che il capitano
Langford gli attribuì inconsciamente il merito di aver scoperto qualche recondito segreto.
«Lei sembra colpito, dopo tutto, dal fascino di questa regale fanciulla», osservò, sperando così di carpirgli
qualcosa di ciò che aveva scoperto..84
«Dio non voglia!», rispose il dottor Clarke, con un grave sorriso. «E se lei è abbastanza saggio, elevi anche per
sé la stessa preghiera. Guai a coloro che saranno colpiti da lady Eleanore! Ma ecco là il governatore, e ho qualche
parola da scambiare con lui in privato. Buona notte!».
Quindi si avvicinò al governatore Shute e gli parlò in tono così sommesso che nessuno dei presenti poté
cogliere una parola di ciò che diceva, ma l'improvviso mutamento dell'espressione fin allora lieta di Sua Eccellenza
rivelò che la comunicazione non era certo delle più piacevoli. Pochi attimi dopo, fu annunciato agli invitati che una
circostanza imprevista imponeva di concludere anzi tempo la festa.
Il ballo al Palazzo della Provincia fu argomento di conversazione ancora per alcuni giorni in quella metropoli
delle colonie, e lo sarebbe stato ancora a lungo se una questione di più generale interesse non l'avesse accantonato nel
ricordo. Fu la comparsa di una spaventosa epidemia che a quei tempi, e molto tempo prima e dopo, sterminò centinaia e
migliaia di persone su una costa e l'altra dell'Atlantico. Nella circostanza di cui parliamo, si distingueva per una
particolare virulenza che lasciava le sue tracce, o più propriamente le sue cicatrici, sulla storia del paese, che fu gettato
nel caos a causa delle sue devastazioni. Dapprima, a differenza dal suo consueto corso, la malattia sembrò confinarsi
alle sfere più alte della società, scegliendo le sue vittime tra i più orgogliosi, i nobili e i facoltosi, penetrando
incontrastata in camere principesche e adagiandosi con i dormienti tra lenzuola di seta. Alcuni dei più illustri ospiti del
Palazzo della Provincia, anche coloro che la sprezzante lady Rochcliffe aveva giudicato non indegni dei suoi favori,
furono colpiti dal fatale morbo. Fu osservato, con un certo ingeneroso compiacimento, che i quattro uomini, il
virginiano, l'ufficiale britannico, il giovane ecclesiastico e il segretario del governatore, che erano stati i suoi più assidui
cavalieri la sera del ballo, furono i primi a essere colpiti dal contagio. Ma il morbo, continuando a dilagare, cessò ben
presto di essere prerogativa dell'aristocrazia, il suo marchio rosso non fu più conferito come un titolo nobiliare o come
un ordine cavalleresco. Il morbo penetrò nei vicoli stretti e tortuosi, nelle case più umili e buie, e posò la sua impronta
di morte anche sui ceti lavoratori della cittadinanza. Costrinse ricchi e poveri a sentirsi fratelli, dilagando attraverso le
Tre Colline con un furore che ne faceva un nuovo flagello. Era l'implacabile conquistatore, quella piaga che terrorizzava
i nostri antenati, il vaiolo.
Non si può immaginare il terrore che questo morbo ispirava un tempo, se lo vediamo come il mostro senza
zanne che è ai nostri giorni. Dobbiamo ricordare invece lo sgomento con cui assistevamo ai giganteschi passi del colera
asiatico da una costa all'altra dell'Atlantico, in marcia come il fato ineluttabile verso remote città, che la fuga aveva già
quasi spopolato. Non esiste paura così terribile e disumana come quella che costringe l'uomo a non respirare la vitale
aria del cielo per tema che sia avvelenata, a non stringere la mano del fratello o dell'amico per paura che la morsa della
pestilenza possa ghermirlo. Questo era lo sgomento che seguiva allora la marcia dell'epidemia e la precedeva attraverso
le città. Le tombe erano in gran fretta scavate e le vittime della pestilenza altrettanto in fretta sepolte, perché i morti
erano nemici dei vivi, e volevano trascinare anch'essi nella loro lugubre fossa. Le pubbliche assemblee erano sospese,
come se la saggezza umana potesse rinunciare ai suoi strumenti, ora che un disumano usurpatore si era insediato nel
palazzo dei governanti. Se una flotta nemica fosse approdata sulla costa, o un esercito avesse calpestato il nostro suolo,
la popolazione avrebbe probabilmente affidato la sua difesa a quello stesso implacabile conquistatore che aveva
prodotto quella calamità e non si sarebbe permessa di interferire col suo dominio. E questo conquistatore aveva un
simbolo del suo trionfo, una bandiera rosso sangue che sventolava nell'aria ammorbata, sulla porta di tutte le abitazioni
in cui il vaiolo era penetrato.
Questa bandiera sventolava già da tempo sopra al portale del Palazzo della Provincia, perché era da lì che la
calamità aveva avuto inizio, come era stato poi scoperto risalendo alle origini. Il focolaio era proprio nella sontuosa
camera da letto di una dama, la più orgogliosa tra tutte, colei che era così sublime da non sembrare fatta di carne e ossa,
la donna sprezzante che si poneva sopra a tutti i sentimenti umani, lady Eleanore! Non v'era più dubbio che il contagio
si era annidato in quel sontuoso manto che le aveva conferito un così strano fascino durante la festa. Il suo splendore era
stato concepito nel delirio di una donna in punto di morte, era l'ultima fatica delle sue dita irrigidite che avevano
intessuto la sua sorte infelice tra quei fili dorati. Questa voce terribile, dapprima sussurrata, era divenuta ora di dominio
pubblico, e la gente inveiva contro lady Eleanore, gridava che il suo sprezzante orgoglio aveva evocato il demonio, e
che da il era nato tutto il male. A volte. la rabbia e la disperazione prendevano la forma del sogghignante sarcasmo, e
quando la bandiera rossa della pestilenza era issata sulla porta di un'altra casa, la gente si prendeva per mano e gridava
per le strade, con amara derisione: «Guardate, un altro trionfo di lady Eleanore!».
Uno di questi tristi giorni, si avvicinò alla porta del Palazzo della Provincia una figura scarmigliata e, a braccia
incrociate, si fermò a guardare la bandiera vermiglia che una lieve brezza di passaggio faceva sventolare a sprazzi,
come per cacciar via il contagio che rappresentava. Infine, arrampicandosi su uno dei pilastri al di là della cancellata di
ferro, l'uomo strappò la bandiera ed entrò nel palazzo sventolandola sopra alla testa. Ai piedi della scalinata incontrò il
governatore, con stivali, speroni e il mantello avvolto tutt'intorno, evidentemente in procinto di partire per un viaggio.
«Maledetto pazzo, che cosa cerchi qui?», esclamò Shute, allungando il bastone per tenersi a distanza dal
contatto. «Qui non c'è nient'altro che morte. Torna indietro, altrimenti la incontrerai!».
«La morte non mi toccherà, perché io sono il portabandiera della pestilenza», rispose Jervase Helwyse,
scuotendo lo stendardo rosso. «La morte e la pestilenza, che hanno l'aspetto di lady Eleanore, attraverseranno le strade
questa notte, e io devo precederle con questa bandiera!».
«Perché sprecare parole con questo individuo?», mormorò tra sé il governatore, avvolgendosi il mantello sulla
bocca. «Che importanza ha la sua miserabile vita, quando nessuno di noi ha la certezza di respirare ancora
ventiquattr'ore? Vai pure, folle, vai alla tua distruzione!»..85
Lasciò quindi il passo a Jervase Helwyse, il quale salì subito la scalinata, ma giunto sul primo pianerottolo fu
fermato dalla salda presa di una mano sulla sua spalla. Alzando lo sguardo inferocito, col folle impulso di divincolarsi e
avventarsi contro il suo avversario, rimase però impotente davanti a uno sguardo calmo e severo, che aveva la
misteriosa capacità di placare subito il suo furore. La persona che aveva incontrato era il dottor Clarke, che per triste
incombenza della sua professione doveva ora recarsi spesso nel Palazzo della Provincia, dove era raramente ospite in
tempi più fortunati.
«Giovanotto, che intenzioni hai?», gli domandò.
«Cerco lady Eleanore», rispose Jervase in tono sommesso.
«Tutti sono fuggiti da lei», disse il medico. «Perché vuoi vederla adesso? Devi sapere che la sua infermiera è
caduta morta sulla soglia di quella camera fatale. Non sai forse che ai nostri lidi non è mai giunta una maledizione come
questa affascinante lady Eleanore? che il suo respiro ha ammorbato l'aria? che ha seminato pestilenza e morte su questa
terra, dalle pieghe della sua maledetta mantella?».
«Lasci che la guardi!», lo supplicò il folle giovane, in tono più acceso. «Lasci che la guardi nella sua terribile
bellezza, abbigliata nei regali abiti della pestilenza! Lei e la morte sono assise insieme su un trono. Lasci che
m'inginocchi davanti a loro!».
«Povero giovane!», mormorò il dottor Clarke, e commosso da quella debolezza umana, increspò il labbro in un
amaro sorriso. «Vuoi venerare ancora la donna che ha seminato distruzione, circondare la sua immagine di sogni ancor
più sfrenati del male che ella ha prodotto? È questo che l'uomo fa sempre con i suoi tiranni! Avvicinati, allora! La follia,
come ho già notato, ha questo vantaggio, di proteggere dal contagio, e forse la sua cura si trova proprio in quella
camera».
Salita un'altra rampa di scale, spalancò una porta e fece cenno di entrare a Jervase Helwyse. Il povero pazzo
aveva probabilmente accarezzato l'illusione che la sua sprezzante signora fosse lì seduta in gran pompa, refrattaria al
pestilenziale contagio che, come per magia, spargeva intorno a sé, e sognava che la sua bellezza non ne fosse offuscata,
ma anzi esaltata in un sovrumano splendore. Con queste speranze si avvicinò con deferenza alla porta, sulla quale stava
il medico, ma si fermò sulla soglia, scrutando timorosamente nella penombra della camera.
«Dov'è lady Eleanore?», sussurrò.
«Chiamala», rispose il medico.
«Lady Eleanore! Principessa, regina della morte!», gridò Jervase, avanzando di tre passi nella camera. «Non è
qui! Là, su quel tavolo, vedo il riverbero di un diamante che aveva un tempo sul petto. E qui», soggiunse con un
brivido, «qui è appesa la sua mantella, sulla quale una donna morente ha ricamato un mortale incantesimo. Ma dov'è
lady Eleanore?».
Qualcosa si mosse dietro alla tenda di seta di un baldacchino, e un sommesso lamento giunse alle orecchie di
Jervase, che distinse poi una voce femminile che gemeva per la sete. Gli sembrò perfino di riconoscere il timbro di
quella voce.
«La mia gola! La mia gola brucia...», mormorò la voce. «Datemi un goccio d'acqua!».
«Chi sei?», domandò il giovane fuori di senno, avvicinandosi al letto e scostandone le tende. «A chi hai rubato
la voce per mormorare miserevoli preghiere, come se lady Eleanore potesse soffrire le infermità dei mortali?
Vergognati, povera mortale, perché ti nascondi nella camera della mia signora?».
«Ah, Jervase Helwyse», sospirò la voce, e nel parlare la figura si contorse, sforzandosi di nascondere il suo
volto devastato. «Non guardare la donna che hai amato! La punizione del cielo mi ha colpito, perché non ho voluto
chiamare fratelli gli uomini, e sorelle le donne. Mi sono avvolta nell'orgoglio come in una mantella, ho disprezzato le
affinità della natura, e di conseguenza la natura ha fatto di questo povero corpo uno strumento di mortale affinità. Sei
stato vendicato, tutti sono vendicati, la natura è vendicata, perché io sono Eleanore Rochcliffe!».
Il rancore covato nella sua mente malata, l'amarezza che s'annidava in fondo al suo cuore, per quanto fosse
folle, a causa di una vita delusa e rovinata, e dell'amore ripagato con crudele disprezzo, si destarono nel petto di Jervase,
il quale puntò il dito contro l'infelice fanciulla. Le tende del baldacchino, tutta la camera furono scosse dall'eco della sua
folle risata.
«Un altro trionfo di lady Eleanore!», esclamò. «Tutti sono stati sue vittime! E chi è più degno di lei di essere
l'ultima vittima?».
In preda a un'altra allucinazione della sua mente malata, Jervase afferrò allora la fatale mantella e corse fuori
dalla camera e dal palazzo. Quella notte passò per le strade, alla luce delle torce, una processione che portava nel mezzo
l'effigie di una donna avvolta in una mantella riccamente ricamata, e Jervase Helwyse la precedeva, agitando il rosso
vessillo della pestilenza. Arrivata davanti al Palazzo della Provincia, la folla bruciò quell'effigie, e un forte vento ne
spazzò via le ceneri. Si disse che da quel momento la pestilenza cessò, come se il suo potere avesse qualche misterioso
rapporto, dalla prima fino all'ultima vittima, con la mantella di lady Eleanore. La sorte di quell'infelice giovane rimane
avvolta nel mistero, tuttavia si racconta che in una camera del palazzo si può talvolta intravvedere nella penombra una
figura femminile, rannicchiata nell'angolo più buio, il viso avvolto in una mantella ricamata. Se la leggenda fosse vera,
chi altri potrebbe essere se non l'orgogliosa lady Eleanore?
Il padrone della locanda, il vecchio lealista e io applaudimmo calorosamente questo racconto che ci aveva tutti
così intensamente appassionati, perché chi legge difficilmente può immaginare come sia accresciuto l'effetto di simili
narrazioni quando, come in questo caso, si può dare assoluta fiducia alla veridicità di chi le racconta. Da parte mia, ben.86
conoscendo la scrupolosità del signor Tiffany nell'accertare le fonti di ciò che racconta, non avrei potuto credergli più
ciecamente, anche se avesse dichiarato di esser stato testimone oculare delle azioni e delle sofferenze della povera lady
Eleanore. Alcuni scettici, è vero, potrebbero esigere testimonianze e prove, o chiedergli addirittura di esibire quella
mantella ricamata, dimenticando che, grazie al Cielo, essa è stata ridotta in cenere. Ma poi il vecchio lealista, riscaldato
da quegli applausi, iniziò a parlare a sua volta delle leggende del Palazzo della Provincia, facendo capire che, se
eravamo d'accordo, poteva aggiungere alcuni suoi ricordi a questo filone. Il signor Tiffany, non avendo motivo di
temere rivali, lo pregò subito di farcene qualche esempio e io aggiunsi naturalmente le mie suppliche in tal senso, così
che il nostro venerando amico, ben lieto di avere un uditorio così ben disposto, attese soltanto il ritorno del signor
Thomas Waite, che era stato chiamato a servire alcuni avventori sopraggiunti. E forse i lettori, ma sia a loro e nostra
discrezione dirimere la questione, potranno leggerne i risultati in un'altra leggenda del Palazzo della Provincia.
LA VECCHIA ESTHER DUDLEY
Leggende del Palazzo della Provincia
IV
Il nostro ospite, dopo aver ripreso il suo posto a sedere, si dichiarò molto ansioso, al pari del signor Tiffany e di
me, di conoscere la storia cui aveva accennato il lealista. Il vegliardo giudicò innanzi tutto opportuno bagnarsi la gola
con un altro bicchiere di vino, poi, voltando il viso verso il fuoco del caminetto, fissò per alcuni momenti lo sguardo
nelle profondità di quell'allegro bagliore. Infine raccontò con grande facondia la sua storia. Il generoso liquore che
aveva sorbito, nel mentre riscaldava il suo sangue raggelato dagli anni, parimenti scioglieva il gelo nel suo cuore e nella
mente, dandogli una forza di pensare e sentire che difficilmente avrebbe potuto presumere di trovare sotto le nevi di
ottant'anni. I suoi sentimenti mi sembravano anzi più vivi di quelli di un uomo più giovane o, quanto meno, gli stessi
sentimenti si manifestavano con più visibile intensità di quando la sua capacità di giudizio e di volontà aveva il vigore
della vita a mezzogiorno. Nei momenti più commoventi del suo racconto, facilmente si scioglieva in lacrime, e quando
un sussulto d'indignazione lo percorreva, il sangue gli infiammava il volto avvizzito fino alla radice dei capelli canuti, e
allora egli scuoteva i pugni davanti al terzetto dei suoi pacifici ascoltatori, come immaginando di vedere nemici in
coloro che mostravano solo compassione per la sua vecchia anima afflitta. Ma di tanto in tanto, talvolta nel bel mezzo di
un accalorato discorso, la mente del vegliardo ne perdeva il filo e andava brancolando alla sua ricerca nella nebbia dei
ricordi. Allora gracchiava una fievole risata e si domandava se le sue meningi, come gli piaceva definire le sue facoltà
mentali, non stavano un po' logorandosi.
Per via di questi inconvenienti, il racconto del vecchio lealista ha richiesto una maggior revisione di quelli
della serie precedente, per essere adattata al nostro pubblico, né si può negare che lo spirito e il tono della storia hanno
subito una lieve metamorfosi, e forse più che lieve, nel corso della sua trasmissione al lettore per il tramite di un
convinto democratico. Il racconto in sé è un semplice abbozzo, senza alcuna complessità di trama né eventi
particolarmente interessanti, tuttavia possiede, se l'ho trascritto correttamente, quella pensosa influenza sulla mente che
l'ombra del vecchio Palazzo della Provincia cala su chi passa nel suo cortile.
Era giunta l'ora, l'ora della sconfitta e dell'umiliazione, in cui sir William Howe doveva varcare la soglia del
Palazzo della Provincia e, senza le trionfali cerimonie da lui promesse un tempo, imbarcarsi a bordo della flotta
britannica. Ordinò ai domestici e agli attendenti di precederlo e si trattenne ancora qualche momento nella solitudine del
palazzo per spegnere quelle aspre emozioni che si dibattevano nel suo petto con un palpito di morte. Avrebbe forse
giudicato preferibile il suo destino se la morte sul campo gli avesse lasciato almeno il diritto a qualche palmo di terra
come tomba, nella colonia che il re gli aveva dato da difendere. Mentre i suoi ultimi passi echeggiavano giù per la scala
con la funesta premonizione che il dominio dell'Inghilterra stava per scomparire per sempre nel New England, batté i
pugni chiusi sulla fronte e imprecò contro il destino che aveva addossato a lui la vergogna dello smembramento di un
impero.
«Volesse il Cielo», esclamò, trattenendo a stento lacrime di rabbia, «che i ribelli fossero qui sulla soglia! Il mio
sangue versato sul pavimento testimonierebbe allora che l'ultimo governatore britannico è stato fedele al suo mandato».
La voce tremula di una donna rispose alla sua esclamazione.
«La causa del Cielo e quella del re sono tutt'uno», disse la voce. «Vada pure, sir William Howe, e confidi che il
Cielo riporterà qui in trionfo un governatore del re».
Dominando subito la passione cui aveva ceduto soltanto nella convinzione di non avere testimoni, sir William
Howe si accorse che un'anziana donna, appoggiata a un bastone col pomello d'oro, stava in piedi tra lui e la porta. Era la
vecchia Esther Dudley, che abitava nel palazzo da tempi quasi immemorabili, tanto che la sua presenza ne sembrava
inseparabile quanto i ricordi della sua storia. Discendeva da un'antica e un tempo eminente famiglia, decaduta nella
povertà e nell'oblio, che aveva lasciato alla sua ultima discendente nessun'altra risorsa che la generosità del sovrano e
nessun altro riparo che le mura del Palazzo della Provincia. Le era stato assegnato qualche incarico nella casa, con
compiti soltanto formali, come pretesto per pagarle una piccola pensione, che lei spendeva per la maggior parte per
abbigliarsi con abiti antiquati e sfarzosi. I diritti del nobile sangue di Esther Dudley erano stati riconosciuti da tutti i.87
successivi governatori, che la trattavano con tutta la dovuta cortesia che lei pretendeva puntigliosamente, ma non
sempre con successo, da un mondo che l'aveva dimenticata. L'unico compito effettivo che ella si assumeva nella
gestione del palazzo era quello di scivolare a tarda notte attraverso i suoi corridoi e le camere pubbliche, per accertarsi
che i domestici non avessero appiccato fuoco con le loro torce accese o lasciato tizzoni ardenti e scoppiettanti nei
camini. Forse era stata questa sua immutabile abitudine di aggirarsi nel silenzio della notte a far nascere la superstizione
che attribuiva all'anziana donna doti paurose e misteriose, favoleggiando che aveva varcato il portale del Palazzo della
Provincia nessuno sapeva da dove, al seguito del primo governatore del re, e che era suo destino abitare lì finché non ne
fosse partito l'ultimo. Ma se mai aveva udito questa leggenda, sir William Howe se n'era dimenticato.
«Signora Dudley, perché si attarda ancora qui?», le domandò, in tono quasi severo. «È mio privilegio essere
l'ultimo a lasciare questo palazzo».
«Non è così, se non dispiace a Vostra Eccellenza», replicò quella donna oberata dagli anni. «Questo tetto mi ha
ospitata a lungo, e non lo lascerò finché non mi porteranno alla tomba dei miei antenati. Quale altro riparo esiste per la
vecchia Esther Dudley, oltre al Palazzo della Provincia o la tomba?».
«Che il Cielo mi perdoni!», disse tra sé sir William Howe. «Stavo per lasciare sola questa povera vecchia, a
morire di fame o mendicare. Prenda questa, buona signora Dudley», soggiunse, mettendole in mano una borsa. «La
testa di re Giorgio su queste ghinee d'oro è ancora valevole, e continuerà a esserlo, le assicuro, anche se i ribelli
dovessero incoronare John Hancock loro re. Con questa borsa potrà acquistare un miglior asilo di quello che le offre ora
il Palazzo della Provincia».
«Finché sarò oberata dal peso della vita, non avrò altro riparo che questo», insisté Esther Dudley, battendo il
bastone sul pavimento, con un gesto che confermava la sua irremovibile decisione. «E quando Vostra Eccellenza
ritornerà in trionfo, io mi trascinerò sul portico per darle il benvenuto».
«Mia povera, vecchia amica!», esclamò il generale britannico, e tutto il suo virile e marziale orgoglio non poté
più a lungo trattenere le amare lacrime. «Questa è un'ora triste per lei e per me. La provincia che il sovrano mi ha
affidato è perduta. Me ne vado da qui infelice, forse in disgrazia, per non fare più ritorno. E lei che si identifica con il
passato, lei che ha visto un governatore dopo l'altro salire in gran pompa questi gradini, lei che ha dedicato la vita al
rispetto di regali cerimonie e al culto del sovrano, lei come sopravviverà al cambiamento? Venga con noi, dica addio a
questa terra che ha infranto la sua fedeltà, venga con noi ad Halifax, ancora sotto la bandiera del re!».
«Mai!», esclamò caparbiamente la vecchia. «Continuerò ad abitare qui, e re Giorgio avrà ancora un fedele
suddito nella sua provincia infedele».
«Sia maledetta questa vecchia pazza!», mormorò tra sé sir William Howe, sempre più esasperato dalla sua
ostinazione, e vergognandosi della commozione che l'aveva sopraffatto. «È l'essenza stessa di antiquati pregiudizi, e
non potrebbe vivere altrove che in questo ammuffito palazzo. Ebbene, signora Dudley, visto che vuole proprio
trattenersi, affiderò a lei il Palazzo della Provincia. Prenda questa chiave e la tenga al sicuro finché io o qualche altro
governatore del re verremo a chiedergliela».
Sorridendo amaramente di se stesso e di lei, prese la pesante chiave del Palazzo della Provincia e la consegnò
nelle mani dell'anziana dama, poi si avvolse nel mantello per andarsene. Quando si voltò a guardare la decrepita figura
di Esther Dudley, il governatore pensò che era proprio adatta a quell'incarico, una perfetta rappresentante di un passato
defunto, di un'epoca trascorsa, insieme con le sue abitudini, opinioni, credenze e sentimenti, tutti ormai caduti nell'oblio
o nel ridicolo, di ciò che era un tempo una realtà, ma ora era soltanto un'immagine di svanito splendore. Poi sir William
Howe se ne andò, stringendo ancora i pugni nel rabbioso tormento del suo spirito, mentre la vecchia Esther Dudley
rimaneva di guardia nel Palazzo della Provincia ormai deserto, convivendo lì con i suoi ricordi, e se mai la speranza
sembrò affiorare ancora intorno a lei, era sempre un ricordo camuffato.
Tutti i cambiamenti che seguirono alla partenza delle truppe britanniche non scacciarono la vegliarda dalla sua
roccaforte. Per molti anni a venire non ci fu più un governatore del Massachusetts, e i magistrati incaricati di tali
compiti non ebbero da obiettare alla permanenza di Esther Dudley nel Palazzo della Provincia, soprattutto perché,
altrimenti, avrebbero dovuto pagare qualcuno che se ne prendesse cura, ciò che per lei era un'amorosa fatica, e così la
lasciarono indisturbata padrona dello storico palazzo. Erano molte e stravaganti le favole che si sussurrano intorno a lei
in tutti gli angoli della città. Tra gli ormai consueti mobili lasciati nel palazzo, c'era anche un alto e antico specchio che
meriterebbe forse una storia a sé, e ne sarà forse in futuro l'argomento. L'oro della sua istoriata cornice era ormai
annerito e la sua superficie era così offuscata che l'immagine della vecchia dama, quando si soffermava lì davanti,
appariva indistinta e spettrale. Tuttavia era generale credenza che i governatori della caduta dinastia, e le belle dame che
avevano un tempo allietato le loro feste, i capi indiani che si erano presentati al Palazzo della Provincia per tenervi
convegni o giurare alleanze, i fieri soldati della Provincia, i severi ecclesiastici, insomma tutto il corteo dei tempi
passati, tutti i personaggi che erano sfilati davanti a quella grande lastra di vetro potevano essere evocati dalla vecchia
Esther, per popolare il mondo interiore dello specchio come ombre di una vita trascorsa. Leggende come questa,
insieme con la bizzarria della sua isolata esistenza, i suoi anni e le infermità che ogni inverno aggiungeva, ne facevano
oggetto di timore e di pietà, e fu anche a causa di questi sentimenti che, nonostante tutti gli abusi di quei tempi, né torti
né insulti caddero sul suo capo indifeso. Era anzi così sprezzante il suo atteggiamento verso gli intrusi, tra i quali erano
compresi tutti i rappresentanti delle nuove autorità, che per guardarla in faccia era necessario un certo coraggio. E per
rendere giustizia a quelle persone, convinti repubblicani quali erano diventate, esse erano ben contente che quella
vecchia gentildonna, in sbiadite crinoline e merletti, abitasse ancora quel palazzo di decaduto orgoglio e potere, come
simbolo di un defunto sistema, che incarnava tutta una storia nella sua persona. E così, anno dopo anno, la vecchia.88
Esther Dudley continuava ad abitare il Palazzo della Provincia, sempre deferente verso ciò che gli altri avevano ormai
dimenticato, sempre fedele al suo re, il quale, fin quando la veneranda dama avesse conservato il suo posto, poteva
sempre dire di avere ancora un fedele suddito nel New England e una carica nell'impero che gli era stato strappato.
Ma la vecchia dama abitava lì in completa solitudine? Non era così, secondo le voci che correvano. Quando il
suo cuore gelido e sfiorito sentiva bisogno di calore, ella era solita evocare dallo specchio offuscato uno schiavo negro
del governatore Shirley e inviarlo alla ricerca di ospiti che un tempo erano familiari in quelle stanze ormai deserte. E il
funebre messaggero andava, illuminato dalla luce delle stelle e della luna, e compiva la sua missione nei cimiteri,
bussando alle porte di ferro delle tombe o sulle lastre di marmo che le ricoprivano e sussurrando a chi vi era dentro: «La
mia signora, la vecchia Esther Dudley, vi invita al Palazzo della Provincia a mezzanotte». E puntualmente, quando
l'orologio della vecchia Chiesa meridionale scandiva dodici colpi, le ombre degli Oliver, degli Hutchinson, dei Dudley,
di tutti i grandi di trascorse generazioni scivolavano oltre il portale, dentro il ben noto palazzo in cui Esther si
mescolava con loro come se fosse stata anch'essa un'ombra. Senza voler giurare sulla veridicità di queste leggende, è
certo che la signora Dudley riuniva talvolta alcuni dei vecchi e irriducibili, ma ormai mogi conservatori che erano
rimasti nella città ribelle in quei tempi tumultuosi e tribolati. E da una bottiglia polverosa, contenente liquori che
qualche governatore del re avrebbe forse assaporato con gusto, costoro brindavano al sovrano e farfugliavano di
tradimenti contro la repubblica, come se l'ombra protettrice del trono fosse ancora sospesa sopra di loro. Ma dopo aver
scolato le ultime gocce del liquore, costoro facevano timorosamente ritorno a casa, e non rispondevano più se qualche
popolano screanzato li insultava per le strade.
Ma gli ospiti più assidui e graditi di Esther erano i bambini della città, e con loro non era mai severa. La sua
natura tenera e affettuosa, ostacolata altrove nel suo corso da mille incrollabili pregiudizi, trovava sfogo con i più
piccoli. Corrompendoli con pan di zenzero, che lei stessa faceva stampandolo con una corona reale, stimolava la loro
spensierata giocosità sotto l'austero portale del Palazzo della Provincia, e spesso li allettava a trascorrere lì intere
giornate, seduti in un cerchio intorno alla sua crinolina, ascoltando avidamente le sue storie di un mondo passato. E
quando lasciavano quel cupo e misterioso palazzo, i bambini se ne andavano sconcertati, pieni di obsoleti sentimenti
che persone più esperte di loro avevano da tempo dimenticato, strofinandosi gli occhi nel vedere il mondo intorno a
loro, come se si fossero smarriti nei tempi antichi e fossero divenuti bambini del passato. A casa, quando i genitori
chiedevano loro dove avevano bighellonato per tutto quel tempo e con chi avevano giocato, i bambini parlavano di tutti
i defunti dignitari della Provincia, fin dai tempi del governatore Belcher e della sprezzante dama di sir William Phips.
Sembrava che fossero stati seduti sulle ginocchia di questi celebri personaggi, che la tomba copriva ormai da mezzo
secolo, giocando con i ricami dei loro preziosi giustacuori, o tirando dispettosamente i lunghi riccioli delle loro fluenti
parrucche. «Ma il governatore Belcher è morto da molti anni», obiettava una madre, «e tu l'hai visto davvero nel
Palazzo della Provincia?». «Oh sì, cara mamma, l'ho visto!», rispondeva il bambino in tono quasi sognante. «Ma
quando la vecchia Esther ha cessato di parlare di lui, è scomparso dalla sua sedia». E così, senza spaventare i suoi
piccoli ospiti, Esther li conduceva per mano attraverso le stanze del suo focolare deserto, e mostrava alla loro fantasia i
fantasmi che le abitavano.
Vivendo continuamente chiusa nella sua sfera di idee, mai adeguando la sua mente alla situazione presente,
Esther Dudley sembrava essere quasi impazzita. Non aveva nemmeno idea dello svolgimento e della situazione reale
della Guerra d'indipendenza, ma conservava l'incrollabile fede che le armate britanniche fossero vittoriose in ogni
campo e destinate al trionfo finale. Quando la città esultava per una battaglia vinta da Washington, Gates, Morgan o
Greene, la notizia, varcando la soglia del Palazzo della Provincia, come fosse stata quella del mondo dei sogni, si
trasformava in un incongruente annuncio delle prodezze di Howe, Clinton o Cornwallis. Presto o tardi, Esther ne era
fermamente convinta, le colonie sarebbero state prostrate ai piedi del suo sovrano, e talvolta sembrava dare per scontato
che ciò fosse già avvenuto. Un giorno mise in subbuglio tutta la cittadinanza illuminando a festa il Palazzo della
Provincia con candele a ogni finestra e una composizione trasparente delle iniziali del re e di una corona luminosa alla
grande vetrata del balcone. La figura della vecchia dama, vestita dei suoi più sfarzosi abiti di velluto e broccato
ammuffiti, fu vista passare da una finestra all'altra, finché si fermò davanti al balcone, agitando sopra alla testa
un'enorme chiave. Il suo volto rugoso era raggiante di trionfo, come se anche l'anima dentro di lei fosse stata un
lampadario acceso.
«Che cosa significa tutto questo fulgore di luci? E che cosa vuol dire il giubilo della vecchia Esther?», sussurrò
uno spettatore. «Fa paura vederla passare da una stanza all'altra, ed esultare anche se non c'è un'anima a tenerle
compagnia».
«È come se facesse festa in un cimitero», commentò un altro.
«Sciocchezze! Non c'è nessun mistero», intervenne un vecchio, dopo aver frugato un po' nella memoria. «La
vecchia Dudley sta festeggiando il compleanno del re d'Inghilterra».
Allora la gente si sbellicò dalle risate, e avrebbe gettato manciate di fango contro l'immagine trasparente della
corona e delle iniziali del re se non avesse avuto compassione di quella povera vecchia che tripudiava così
pateticamente tra le rovine del regime politico cui apparteneva.
Spesso aveva l'abitudine di salire la faticosa scala che si arrampicava verso la cupola, e da lì appuntava lo
sguardo offuscato verso il mare e la campagna, in attesa di veder comparire una flotta britannica o una grandiosa
processione al seguito della bandiera del re. I passanti nella strada sottostante riconoscevano il suo volto e allora
alzavano un grido: «Quando l'indiano dorato sul palazzo scaglierà la sua freccia, quando canterà il gallo sulla guglia
della chiesa, allora rivedremo un governatore del re!», una frase divenuta ormai proverbiale in città..89
E finalmente, dopo molti, molti anni, la vecchia Esther Dudley venne a sapere, o più probabilmente sognò che
un governatore del re stava per ritornare nel Palazzo della Provincia, per ricevere la pesante chiave che sir William
Howe le aveva affidato. Il fatto era che una notizia, vagamente analoga alla versione che Esther ne dava, correva allora
tra la cittadinanza. Esther mise allora ordine nel palazzo, per quanto glielo consentivano le sue forze, e dopo essersi
addobbata con sete e ori anneriti, rimase a lungo davanti a quello specchio annebbiato per ammirarsi in tutto il suo
splendore. E mentre si guardava, quella dama grigia e avvizzita muoveva le sue labbra ceree, parlando a mezza voce
alle figure che vedeva dentro lo specchio, alle ombre della sua fantasia, alle familiari compagnie dei suoi ricordi, e le
esortava a esultare con lei, ad andare con lei incontro al governatore. E mentre era assorta in questa conversazione, la
vecchia Dudley udì il trepestio di molti passi in strada e, guardando fuori dalla finestra, vide ciò che le sembrò l'arrivo
del governatore del re.
«Oh, giorno felice! oh, fortunato momento!», esclamò. «Desidero soltanto dargli il benvenuto sulla porta, e poi
la mia missione nel Palazzo della Provincia e nella vita sarà terminata!».
E allora, con passi esitanti che l'età e la tremula emozione facevano incespicare, si affrettò a scendere la grande
scalinata nel fruscio delle sue sete, e sembrava che un corteo di spettrali cortigiani usciti dallo specchio annebbiato
facesse ressa con lei. Non appena la grande porta si fosse spalancata, immaginava Esther Dudley, tutto lo sfarzo e lo
splendore di tempi ormai trascorsi avrebbero fatto maestosamente ingresso nel Palazzo della Provincia, e i dorati
arredamenti del passato avrebbero scintillato di nuovo alla luce del presente. Allora girò la chiave, la ritrasse dalla
toppa, aprì la porta e ne varcò la soglia. Nel cortile avanzava una persona di dignitoso aspetto, con tutte le sembianze,
quali apparvero a Esther, della nobiltà, dell'alto rango e di un'innata autorità, perfino nel passo e in ogni suo gesto. Era
riccamente vestito, ma portava scarpe da gottoso, che tuttavia non diminuivano la maestosità del suo portamento.
Intorno e dietro a lui avanzavano persone in semplici abiti civili e due o tre veterani di guerra, evidentemente ufficiali
d'alto rango, vestiti con uniformi azzurre e marroni. Ma la vecchia Esther, salda nella convinzione che si era radicata nel
suo cuore, guardava soltanto il personaggio principale, senza mai dubitare che quello fosse il tanto atteso governatore
del re, cui doveva rendere il suo mandato. Quando questi si avvicinò, ella cadde spontaneamente in ginocchio e,
tremante. gli porse la pesante chiave.
«Prenda ciò che mi è stato affidato, subito!», gridò, «perché credo che la morte stia giungendo a strapparmi il
momento del trionfo, ma ormai è troppo tardi! Grazie a Dio per questo momento benedetto! Dio salvi re Giorgio!».
«È una ben strana supplica, signora, da elevare in questo momento», replicò lo sconosciuto ospite del Palazzo
della Provincia togliendosi garbatamente il cappello e offrendole il braccio per rialzarsi. «Ma per rispetto ai suoi capelli
canuti e a una fede così a lungo conservata, Dio non voglia che alcuno qui la contraddica. Per tutti i regni che
riconoscono ancora il suo scettro, Dio salvi re Giorgio!».
Esther Dudley balzò allora in piedi e, affrettandosi a riprendere la chiave, scrutò con timorosa attenzione lo
sconosciuto, poi, come ridestandosi da un sogno, i suoi occhi sgranati riconobbero vagamente, dubbiosamente quel
volto. Molti anni prima lo aveva conosciuto tra l'aristocrazia della Provincia, ma poi il bando del re era caduto sul suo
capo. E come poteva, allora, essere lì il condannato? Proscritto, escluso da ogni clemenza, divenuto il più temuto e
odiato nemico del sovrano, questo mercante del New England aveva trionfato contro il potere di un regno, e il suo piede
calpestava ora una monarchia umiliata, mentre saliva i gradini del Palazzo della Provincia come governatore del
Massachusetts prescelto dal popolo.
«Che io sia maledetta!», mormorò la vecchia, e con espressione così straziata da strappare le lacrime dagli
occhi dello sconosciuto. «Ho dato il benvenuto a un traditore! Ben venga la morte, e subito!».
«Ahimè, veneranda signora», disse il governatore Hancock, offrendole sostegno con tutta la deferenza che un
cortigiano poteva mostrare a una regina. «La sua vita è stata prolungata fin quando il mondo è mutato intorno a lei. Lei
ha gelosamente conservato tutto ciò che il tempo ha privato di valore, i principi, i sentimenti, i modi di essere e di agire
che un'altra generazione ha accantonato, e ora lei è un simbolo del passato. E io e tutte le persone intorno a me
rappresentiamo una nuova stirpe di uomini, che vivono non più nel passato, non ancora nel presente, ma proiettiamo la
nostra vita nel futuro. Dopo aver cessato di conformarci ad antiche superstizioni, il principio della nostra fede è quello
di spingerci avanti, sempre avanti! Però», soggiunse, rivolgendosi ai suoi attendenti, «rendiamo ora omaggio per
l'ultima volta ai rigidi e grandiosi pregiudizi del vacillante passato!».
Mentre parlava, il governatore della repubblica aveva continuato a sostenere il corpo inerte di Esther Dudley,
che diventava sempre più pesante tra le sue braccia, ma a un tratto, con un improvviso sforzo per liberarsi, la vecchia
cadde a terra accanto a uno dei pilastri del portico. La chiave del palazzo le scivolò di mano e risuonò contro la pietra.
«Sono stata fedele fino alla morte», mormorò. «Dio salvi il re!».
«Ha compiuto la sua missione», disse Hancock in tono solenne. «La seguiremo con deferenza fino alla tomba
dei suoi antenati, e poi, miei compatrioti, avanti, avanti! Non siamo più figli del passato!».
Quando il vecchio lealista concluse il suo racconto, l'ardore che aveva illuminato a sprazzi i suoi occhi
infossati e aveva vibrato sul suo volto rugoso scomparve, come se tutto il fuoco ancora rimasto nella sua anima si fosse
spento. Proprio in quel momento una luce sopra al caminetto gettò un ultimo bagliore che si spense altrettanto
rapidamente, costringendo i nostri occhi a spostarsi da un'immagine all'altra al fioco riverbero del focolare. A quel
fuoco morente, pensai, a quel fioco bagliore, si erano spente le glorie del vecchio regime nel Palazzo della Provincia,
quando lo spirito della vecchia Esther Dudley si era involato. E ora l'orologio della vecchia Chiesa meridionale faceva
udire di nuovo la sua voce antica nel vento, e i puntuali rintocchi del passato risuonarono attraverso la popolosa città,.90
riempiendo le nostre orecchie, mentre eravamo lì seduti nella penombra della stanza, col profondo riverbero della loro
voce. In quello stesso palazzo, in quella stessa stanza, quanta parte di storia era stata scandita attraverso le ore, da quella
stessa voce che vibrava ora nell'aria! Molti governatori avevano udito quegli accenti notturni, desiderando scambiare i
loro gravi problemi con qualche ora di sonno. In quanto al nostro ospite, al signor Bela Tiffany, al vecchio lealista e a
me, avevamo fantasticato su sogni del passato fin quasi a immaginare che l'orologio rintoccasse ancora in un secolo
trascorso. Nessuno di noi si sarebbe stupito se il fantasma in crinolina di Esther Dudley fosse entrato vacillando nella
stanza, durante le sue perlustrazioni nel silenzio della notte, come faceva un tempo, e ci avesse fatto segno di spegnere
le ultime braci nel camino prima di lasciare quel luogo storico a lei e alle ombre come lei. Ma una simile visione non
sarebbe stata ben accetta, e quando mi ritirai senza invito avrei voluto consigliare al signor Tiffany di cercare un altro
ascoltatore, essendo ben deciso a non mostrarmi più nel Palazzo della Provincia per un bel po' di tempo, se mai ciò
fosse accaduto ancora.
LA MENTE TORMENTATA
Che momento straordinario è il primo, quando abbiamo appena iniziato a riprenderci, dopo esserci destati dal
sonno della notte fonda! Aprendo gli occhi così d'improvviso, sembra di aver sorpreso i personaggi dei nostri sogni
convocati intorno al letto e di catturarli con un unico sguardo prima che possano dileguarsi nell'oscurità. Oppure, per
usare un'altra metafora, ci troviamo per un solo istante completamente svegli in quel regno dell'illusione nel quale il
sonno è stato il passaporto, e ne osserviamo gli spettrali abitanti e le fantastiche scene, percependo la loro stranezza,
come mai accade quando il sogno è ininterrotto. L'eco di una campana lontana è trasportata lievemente dal vento, e
allora ci domandiamo, quasi seriamente, se è giunta furtivamente all'orecchio della veglia da qualche torre grigia che
stava entro i confini del sogno. Mentre si è ancora nel dubbio, un altro orologio lancia il suo pesante rintocco sulla città
addormentata, con un suono così pieno e nitido e una vibrazione così prolungata nell'aria circostante che si ha la
certezza che debba provenire dal campanile della chiesa più vicina. Si contano i rintocchi, uno, due, e poi cessano con
un rimbombo che sembra raccogliere un terzo colpo dentro la campana.
Se fosse possibile scegliere un'ora di veglia in tutta la notte, sarebbe questa. Da quando siamo andati a letto,
alle undici, abbiamo avuto abbastanza riposo per liberarci dal peso della stanchezza del giorno prima, mentre davanti a
noi, finché non sorgerà il sole dal «lontano Catai» a illuminare la nostra finestra, abbiamo quasi lo spazio di una notte
d'estate: un'ora da trascorrere pensando con gli occhi della mente semichiusi, due in piacevoli sogni e due nel più strano
dei piaceri, l'oblio delle gioie e dei dolori. Il momento di alzarsi appartiene a un altro periodo di tempo, e sembra così
distante che il tuffo dal tepore del letto nell'aria gelida non può ancora essere prospettato con timore. Il giorno prima è
già svanito tra le ombre del passato, il domani non è ancora affiorato dal futuro, e abbiamo trovato uno spazio
intermedio in cui gli affari della vita non interferiscono, in cui il momento fuggevole si trattiene e diventa realmente il
presente, un luogo in cui il padre Tempo, pensando che nessuno lo osservi, si siede sul ciglio della strada per riprendere
fiato. Oh, se cadesse addormentato, lasciando vivere i mortali senza invecchiare!
Finora siamo rimasti perfettamente immobili, perché il minimo movimento potrebbe dissipare i frammenti del
sonno, ma ora che siamo definitivamente desti scrutiamo attraverso la tenda tirata a metà della finestra e vediamo che il
vetro è decorato dal gelo con bizzarri disegni, e che ogni pannello ha qualcosa di un sogno raggelato. Avremo
abbastanza tempo per scoprire l'analogia, in attesa di essere chiamati per la colazione. Attraverso il nitido ritaglio di
vetro, dove non si ergono le vette di montagne argentate nel paesaggio gelato, l'oggetto più rilevante appare il
campanile, la cui guglia innevata punta verso il limpido firmamento invernale. Si possono quasi distinguere le cifre
dell'orologio che ha appena scoccato le ore. Questo cielo di ghiaccio, i tetti innevati, la lunga prospettiva della strada
gelata e tutta bianca, e l'acqua distante, indurita come roccia, potrebbero farci rabbrividire anche sotto quattro coperte e
una trapunta di lana. Ma guarda quella solitaria stella sfolgorante! I suoi raggi si distinguono da tutti gli altri e gettano
perfino l'ombra della finestra sul letto, con una radiosità ancora più intensa della luce della luna, anche se non altrettanto
nitida nel profilo.
Sprofondiamo sotto le coperte e imbacucchiamo anche la testa, continuando a rabbrividire, ma non tanto per
una sensazione corporea, quanto per la sola idea di quel clima polare. È troppo freddo perfino per arrischiare fuori i
pensieri. Riflettiamo sul piacere di trascorrere un'intera esistenza a letto, come un'ostrica nel suo guscio,
abbandonandoci alla pigra estasi dell'inazione, sonnacchiosamente coscienti soltanto di un delizioso tepore, che
iniziamo a sentire di nuovo. Ahimè! Questa idea ne ha portato con sé un'altra ben più triste, che induce a pensare ai
morti che giacciono nel loro freddo sudario e nell'angusta bara attraverso il tetro inverno della tomba, e non riusciamo a
convincerci che essi non rabbrividiscono quando la neve si ammucchia sui loro tumuli, o quando aspre raffiche di vento
ululano contro la porta della fossa. Questo lugubre pensiero ne porta con sé una moltitudine di altri, che gettano la loro
ombra su quest'ora di veglia.
Nelle profondità di ogni cuore, si trovano una tomba e una cella sotterranea, anche se le luci, la musica, le
baldorie del mondo di sopra possono farci dimenticare la loro esistenza e quella dei sepolti, o prigionieri che esse
nascondono. Ma talvolta, e più spesso ancora di notte, questi antri oscuri si spalancano. In un'ora come questa, quando
la mente ha una sua passiva sensibilità, ma nessuna forza attiva, quando l'immaginazione è come uno specchio che
rende vivide tutte le idee, senza la capacità di sceglierle e controllarle, allora preghiamo che i nostri dolori possano.91
assopirsi, e che non sia la fraternità del rimorso a spezzare le loro catene. Ma è ormai troppo tardi. Un corteo funebre
scivola davanti al nostro letto, in cui la passione e il sentimento assumono figura corporea, e le cose della mente
diventano foschi spettri allo sguardo. Ecco il nostro primo Dolore, una pallida, giovane dolente che assomiglia come
una sorella al nostro primo amore, tristemente bella e avvolta da un alone di dolcezza nei malinconici lineamenti e di
grazia nello strascico delle sue vesti a lutto. Appare poi un'ombra di disfatta bellezza, con polvere tra i capelli dorati e
vivaci indumenti ormai sbiaditi e logori, che sfugge al nostro sguardo a capo chino, come temendo un rimprovero: era la
nostra più dolce Speranza, ma così ingannevole che ora può essere chiamata Delusione. La segue una figura severa, con
la fronte corrugata e un'espressione di ferrea autorità: non si può chiamarla con altro nome che Fatalità, simbolo delle
nefaste influenze che regolano le nostre sorti, un demone al quale ci siamo sottomessi per errore all'inizio della vita,
divenendo suoi schiavi per sempre avendole ubbidito una volta. Guarda quei diabolici lineamenti scolpiti nel buio, quel
labbro arricciato nel disprezzo, lo scherno di quello sguardo, il dito puntato che indica le piaghe nel nostro cuore! Se
ricordiamo qualche nostra terribile follia, della quale arrossiremmo anche nella più remota caverna della terra, allora
riconosciamo la Vergogna.
Vattene, orribile corteo! Ed è un bene, per chi veglia, se una tumultuosa massa di figure ancora più crudeli non
lo circonda, quella dei demoni di un cuore colpevole che cova dentro di sé il suo inferno. E se il Rimorso assumesse le
sembianze di un amico offeso? E se il demonio apparisse in vesti femminili, con una pallida bellezza tra il peccato e la
desolazione, e giacesse al nostro fianco? E se si mostrasse ai piedi del letto, simile a un cadavere con una macchia
insanguinata sul sudario? È sufficiente, anche senza questo senso di colpa, l'incubo dell'anima, questa prostrazione dello
spirito, questa oscurità invernale del cuore, questo indistinto orrore della mente che si mescola con le tenebre della
camera.
Con uno sforzo disperato, riusciamo a sederci eretti, affiorando da una sorta di sonno cosciente, e guardiamo
smarriti intorno al letto, come se i demoni potessero essere altrove che nella propria mente tormentata. Nello stesso
momento, i tizzoni che covano nel focolare sprigionano un bagliore che illumina di pallida luce tutta la camera accanto
e guizza attraverso la porta della camera da letto, ma senza disperdere completamente l'oscurità. Lo sguardo cerca ciò
che può ricordarci il mondo vivente, e con ansiosa meticolosità prende nota del tavolo accanto al camino, del libro col
tagliacarte d'avorio tra le pagine, della lettera aperta, del cappello, del guanto caduto. Presto la fiammata si spegne, e
con essa scompare tutta la scena, anche se la sua immagine rimane ancora un attimo nella mente, dopo che il buio ha
inghiottito la realtà. In tutta la camera cala la stessa oscurità di prima, ma non sono uguali le tenebre dentro il cuore.
Quando la testa ricade sul cuscino, si pensa - sia detto in un sussurro - a come sarebbe piacevole sentire in questa
solitudine notturna un respiro più lieve del nostro, la delicata pressione di un petto più morbido, il placido pulsare di un
cuore più puro che trasmette la sua serenità al nostro cuore tormentato, come se l'amata dormiente ci coinvolgesse nel
suo sogno.
La sua influenza ci avvolge, anche se ella esiste solo in questa momentanea immagine. Ci sentiamo
sprofondare in un luogo fiorito, ai confini tra il sonno e la veglia, e i pensieri si alzano davanti agli occhi in immagini
sconnesse, ma unite tutte da un senso diffuso di felicità e di bellezza. Al turbinare di flottiglie festose che scintillano nel
cielo seguono le grida gioiose di bambini davanti alla porta di una scuola, all'ombra screziata di vecchi alberi,
sull'angolo di un viottolo di campagna. Siamo sotto la pioggia luminosa di un acquazzone estivo, vaghiamo tra gli alberi
soleggiati di un bosco d'autunno, alziamo lo sguardo verso il più vivido arcobaleno, che si stende sopra una coltre
ininterrotta di neve sul lato americano del Niagara. La mente vaga piacevolmente tra la luce danzante di un focolare
nella casa di un giovane e della sua novella sposa e il volo cinguettante di uccellini in primavera, intorno al loro nido da
poco costruito. Si sente l'allegro rullio di una nave nella brezza, si osservano i passi aggraziati di rosee fanciulle che
intrecciano l'ultima e più lieta danza in una splendida sala da ballo, ci troviamo tra la folla animata di un teatro mentre
cala il sipario su una scena luminosa e gaia.
Trasalendo involontariamente, riprendiamo coscienza e ci troviamo quasi svegli, mentre tracciamo un confuso
parallelo tra la vita umana e l'ora che è appena trascorsa. In ambedue i casi, si esce da un mistero per passare attraverso
vicissitudini che si possono controllare solo in parte ed essere poi trasportati verso un altro mistero. Si odono poi i
rintocchi di una campana lontana, sempre più fievoli mentre si sprofonda di nuovo nella solitudine del sonno. È come il
rintocco funebre di una morte temporanea. Lo spirito si diparte e vaga liberamente tra gli abitanti di un mondo
indistinto, che guardano strane cose, ma senza meraviglia o sgomento. Così sereno sarà forse l'ultimo cambiamento, e
così placido, come tra cose ben note, sarà l'ingresso dell'anima nella sua dimora eterna.
LO ZIO DEL VILLAGGIO
Rievocazioni immaginarie
Su, un altro ceppo nel camino! Sì, il nostro piccolo salotto è accogliente, soprattutto qui, dove il vecchio è
seduto nella sua vecchia poltrona, ma la sera del Giorno del Ringraziamento la fiamma dovrebbe danzare più alta nella
cappa e lanciare una pioggia di scintille nel buio di fuori. Gettate altre manciate di quelle scaglie secche di quercia,
ultimi relitti del legname della Sirena, le ossa della tua omonima, Susan. Ancora più alta e più limpida sarà la fiamma,
finché le finestre della nostra casa saranno le più splendenti del villaggio e la luce del nostro allegro focolare brillerà su
tutta la baia, fino a Nahant. E ora vieni, Susan, venite bambini miei, portate le vostre sedie intorno a me, tutti voi. Ma.92
vedo le vostre figure offuscate! Siete lì seduti, vibrando indistintamente a ogni guizzo della fiamma che turbina intorno
a voi come un flusso di marea, così che avete tutti l'aspetto di visioni, o di persone che si trattengono solo alla luce del
fuoco e scompariranno per sempre dalla vita come le vostre ombre, quando la fiamma sprofonderà tra i tizzoni ardenti.
Ascoltate! lasciatemi ascoltare lo sciabordio delle onde, che dovrebbe essere udibile per più di un miglio a terra, in una
sera come questa. Sì, ora mi giunge il suono, ma è solo un incerto mormorio, come se fosse molto lontano sulla
spiaggia, anche se, secondo l'almanacco, alle otto è l'ora dell'alta marea, e le onde dovrebbero frangersi a una trentina di
metri dalla nostra porta. Ahi, l'udito dei vecchi mi sta tradendo, e anche la vista e forse la mente, altrimenti non sareste
tutti come ombre, alla luce di questo fuoco nel Giorno del Ringraziamento.
Com'è strano il passato che scruta alle spalle del presente! A giudicare dai miei ricordi, sono trascorsi solo
pochi momenti da quando ero seduto in un'altra stanza. Quel modellino di nave non era lassù, né quel vecchio
cassettone, e nemmeno il profilo mio e di Susan in quella cornice dorata: niente, insomma, tranne questo stesso fuoco,
che posava la sua luce su libri, su carte, su un ritratto, e rivelava quasi la mia figura solitaria in uno specchio. Ma era
una figura più pallida di questo vecchio rugoso che sono ora, e anche più giovane di quasi mezzo secolo. Parlami,
Susan, parlatemi miei cari, perché la scena appare di nuovo alla mia vista, e più si ravviva più sbiadisce la vostra. Oh,
dovrei essere restio a perdere il tesoro della mia trascorsa felicità per diventare ancora ciò che ero allora, un eremita
nelle profondità della mia mente che talvolta sbadigliava su sonnacchiosi volumi, un anonimo scribacchino di roba
ancora più noiosa di quella che leggevo, un uomo che era uscito dal mondo reale ed era entrato nella sua ombra, dove i
suoi guai, le gioie, le vicissitudini erano così lievi che quasi non sapeva se viveva o sognava soltanto di vivere. Grazie al
Cielo, sono vecchio, ora, e ho finito con tutte queste vanità.
Ancora questo velo sui miei occhi! Avvicinati, Susan, e rimani davanti alla viva fiamma del camino. Ora ti
vedo illuminata dalla testa ai piedi, con la tua cuffia pulita e la decorosa sottana, con quelle care ciocche di capelli grigi
che spiovono sulla fronte, e un sereno sorriso sulle labbra, mentre gli occhi soltanto sono celati dal riverbero rosso del
fuoco sui tuoi occhiali. Ecco, mi hai fatto tremare di nuovo! Quando ha vibrato la fiamma, mia dolce Susan, tu hai
vibrato con essa, e sei divenuta indistinta, come sciogliendoti nella calda luce, così che la tua ultima apparizione
potrebbe essere una visione come è stata la prima, molti, molti anni fa. Ricordi? Stavi su quel piccolo ponte sul ruscello
che attraversa King's Beach fino al mare. Era il crepuscolo, le onde rotolavano, il vento accarezzava le nuvole cremisi
che sbiadivano a occidente, la luna d'argento si illuminava sulla collina, e sul ponte c'eri tu, fluttuante nella brezza come
un uccello marino che può prendere il volo a suo piacere. Sembravi una figlia del vento invisibile, una creatura della
schiuma dell'oceano e della luce cremisi, che trascorreva lietamente la vita danzando sulla cresta delle onde che
alzavano i loro spruzzi per sostenere i tuoi passi. Mentre mi avvicinavo, immaginavo che tu fossi affine alla famiglia
delle sirene e pensavo come sarebbe stato bello abitare con te tra le baie silenziose, all'ombra delle scogliere,
vagabondare su spiagge solitarie di sabbia immacolata e, quando i nostri lidi settentrionali si intristivano, partire con te
per le isole verdi e deserte dei mari dell'estate. Eppure, dopo queste sciocche fantasie, mi divertiva vedere che eri
soltanto una graziosa ragazzina, contrariata dal vento impertinente che agitava la tua sottana.
E così, anche con Susan feci come con molte altre cose della mia giovinezza, immergendo la sua immagine
nella mia mente e tingendola dei mille colori della fantasia, prima di poterla vedere quale realmente era. Ed ecco, Susan,
un autentico ritratto del nostro villaggio: era un piccolo agglomerato di abitazioni, che sembravano gettate lì dal mare,
come i detriti e le alghe che rigetta dopo una burrasca, o trascinate a riva con i barili e l'altro legname spazzati via dal
ponte di una goletta. Aveva spazio appena sufficiente per quella strada stretta e sabbiosa che si snodava tra la spiaggia
davanti e una scoscesa collina che ergeva la sua faccia rocciosa dietro, tra cespugli di ginepro e l'incolta distesa di un
pascolo. Era un villaggio pittoresco, al pari dei suoi edifici, anche se era tutto così primitivo. Qui c'era una vecchia
casupola, costruita forse con legname alla deriva, là una fila di rimesse per le barche, e al di là un'abitazione a due piani,
d'aspetto scuro e battuto dalle intemperie, e nel tutto erano mescolate alcune casette dipinte di bianco, qualche porcile e
la bottega di un calzolaio. Due empori stavano uno di fronte all'altro nel centro del villaggio. Erano questi i luoghi di
ritrovo, nelle ore libere, di una piccola folla di robusti pescatori, in camicie di panno rosso, pantaloni di tela cerata e
stivali di pelle scura che coprivano tutta la gamba, proprio come quelli delle sette leghe, ma più adatti a guadare
l'oceano che a camminare sulla terra. Gli uomini che li portavano sembravano anfibi, come se uscissero dall'acqua
salata solo per crogiolarsi al sole, e non sarebbe stato strano vedere i loro arti inferiori coperti dai gusci di piccoli
crostacei, come quelli che s'abbarbicano alle rocce e agli scafi delle vecchie navi su cui sale e scende la marea. Quando
la loro flottiglia di barche era bloccata dal maltempo, i venditori di pesce aumentavano il prezzo, e allora lo spiedo
aveva da fare più delle padelle per friggere, perché questo era un posto di pesca, ben conosciuto come tale in tutti i
dintorni, e l'aria stessa aveva odore di pesce, profumata dalle scorpene, dagli scorfani e dai gattucci disseminati su tutta
la spiaggia. Come vedete, figlioli, il villaggio è ben poco cambiato da quando vostra madre e io eravamo giovani.
Era come un sogno, quando mi chinavo su una pozza d'acqua, in un limpido mattino, e vedevo che l'oceano mi
aveva spruzzato con la sua schiuma, facendo di me un pescatore! Avevo l'incerata, la camicia di panno, i pantaloni di
tela cerata e gli stivali delle sette leghe, e quelli erano i miei lineamenti, ma così arrossati dal sole e dal vento di mare
che mi sembrava di avere un'altra faccia, e posata anche su altre spalle. I gabbiani, le strolaghe e io avevamo ora un
comune lavoro, quello di sfiorare la cresta delle onde e di cercarvi sotto la nostra preda, e l'uomo ne aveva altrettanto
godimento degli uccelli. Quando il cielo a oriente diventava purpureo, spingevo sempre in acqua la mia barca, il mio
piccolo scafo col fondo piatto, e remavo con le mani incrociate fino a Point Ledge, al Middle Ledge, e talvolta anche
oltre Egg Rock, spesso gettavo l'ancora perfino a Dread Ledge, un posto pericoloso per scafi senza pilota, a volte mi
avventuravo attraverso la baia fino a South Shore e gettavo le lenze in vista di Scituate. Al calare della sera trascinavo.93
in secca sulla spiaggia la mia barca carica di merluzzi rossi di scoglio o di quelli con la pancia bianca delle acque
profonde, di eglefini con i segni neri delle dita di san Pietro vicino alle branchie, di naselli con la lunga barba e un
fegato che contiene olio a sufficienza per una lampada, e di quando in quando qualche enorme ippoglosso col dorso
largo come la mia barca. E in autunno andavo a pesca di quei bei pesci che sono gli scombri. Quando si alzava il vento,
quando le baleniere ancorate al largo della Punta si salutavano inchinando i loro alberi sottili, quando i pescherecci
beccheggiavano nella risacca, quando la spiaggia di Nahant rumoreggiava a tre miglia di distanza e gli spruzzi si
alzavano tre metri in aria ai piedi della lontana Egg Rock, quando il mare grosso e tumultuoso minacciava di precipitare
sulla strada del nostro villaggio, allora facevo vacanza sulla terraferma.
In quei giorni stavo spesso comodamente seduto nella bottega del signor Bartlett, prestando ascolto ai racconti
dello zio Parker, che era zio di tutto il villaggio per diritto di anzianità, anche se aveva sangue del Sud e non aveva
parenti nel New England. La sua figura mi appare ora davanti, troneggiante su un barile di scombri, un vecchio smilzo e
molto alto, ma curvato dagli anni e contorto in una forma sgraziata da sette ossa rotte, scavato dalle rughe e dalle
intemperie, come se ogni burrasca, per quasi un secolo, lo avesse colto in qualche parte del mare. Sembrava un
messaggero di tempesta, un compagno di bordo dell'Olandese volante. Dopo innumerevoli viaggi a bordo di navi da
guerra e mercantili, di golette e pescherecci, il vecchio lupo di mare era diventato padrone di un carretto che spingeva
ogni giorno per le strade dei dintorni, arrivando talvolta a suonare il suo corno anche per quelle di Salem. Un occhio di
zio Parker era stato strappato via dalla polvere da sparo, l'altro baluginava appena nella sua orbita. Rivolgendolo in alto
mentre parlava, si divertiva a raccontare di incursioni contro i francesi e di battaglie con i suoi compagni di bordo,
quando lui e l'avversario stavano seduti a cavalcioni su una cassa, tutti e due bloccati da un grosso chiodo attraverso i
pantaloni, e poi combattevano. A volte effondeva il delizioso odore di un uccello selvatico simile all'anitra che i marinai
catturano con l'amo e la lenza al largo dei Grand Banks. Raccontava estasiato di un interminabile inverno trascorso
sull'isola di Sables, quando se l'era spassata tra le nevi polari col rhum e lo zucchero recuperati dai relitti di una goletta
delle Indie Occidentali. E agitava rabbiosamente il pugno quando parlava di una banda di uomini di Cape Cod che
avevano depredato lui e i suoi compagni del loro legittimo bottino ed erano poi salpati con tutti i barili di vecchio rhum
giamaicano, senza lasciarne nemmeno un goccio in cui annegare il suo dispiacere. Erano furfanti, e di quella perfida
congrega di cui si diceva che legassero lanterne alle code dei cavalli per portare fuori rotta i marinai sulle infide coste
del Cape.
Ancora adesso mi sembra di vedere quel gruppo di pescatori con il vecchio lupo di mare nel mezzo. Uno di
loro è seduto sul banco, un secondo a cavalcioni su un barile d'olio, un terzo è sdraiato pigramente su un rotolo di lenza
per la pesca del merluzzo, un altro ancora sta col fondo incatramato dei calzoni adagiato su un mucchio di sale che tra
poco sarà spruzzato sui pesci. Sono un gruppo di uomini veri. Alcuni hanno navigato fino alle Indie Orientali e nel
Pacifico, molti si sono imbarcati sulle golette di Marblehead dirette a Terranova, alcuni altri non sono arrivati oltre a
Middle Banks, e uno o due hanno pescato sempre lungo la costa, ma, come diceva zio Parker, sono stati tutti battezzati
in acqua salata e ne sanno più di coloro che hanno vissuto nei boschi. Uno strano personaggio, per contrasto con loro, è
un commerciante di pesce giunto dall'interno, che ascolta con occhi sgranati questi racconti che potrebbero sconcertare
anche Sinbad il marinaio. State bene, fratelli miei! Ve ne siete tutti andati, alcuni nelle vostre fosse sotto terra, altri nelle
profondità dell'oceano, ma ho fiducia che siate tutti felici, perché ovunque io vi veda, sia in sogno o in immagine, ogni
amico scomparso aspira il suo lungo sigaro, e una caraffa di quella scura e giusta passa da una bocca all'altra!
Ma dov'era la sirena, in quei tempi deliziosi? In una certa vetrina, vicino al centro del villaggio, erano esposti
in bella mostra uomini e cavalli in pan di zenzero, libri illustrati e ballate, piccoli ami, aghi e spille, caramelle e ditali
d'ottone, vari articoli nei quali i giovani pescatori spendevano il loro denaro per pura e semplice galanteria. E che bella
figura faceva Susan dietro al banco! Era una fanciulla sottile, anche se i suoi genitori erano robusti, e aveva un vitino di
vespa, riccioli bruni che le scendevano sul collo, una carnagione piuttosto pallida, tranne quando era arrossata dalla
brezza di mare, e da un po' di efelidi che diventavano graziose macchioline sotto alle palpebre. Come facevi, Susan, a
parlare e comportarti con tanta disinvoltura, ma sempre nel modo migliore, facendo tutto ciò che per te era giusto, e mai
ciò che era sbagliato per me, senza mai irritare un gusto che fino a quel momento era stato anche troppo sensibile? E
dove avevi preso quella dote felice di allietare ogni argomento con una spontanea gaiezza, pacata ma irresistibile, che
faceva sentire i tuoi raggi di sole anche agli animi più tetri, che mai si ritraevano? Era la natura che aveva fatto
l'incantesimo, che aveva fatto di te una fanciulla così schietta, semplice, gentile, sensibile, gioiosa. E tu, ubbidendo alla
natura, sprigionavi tutto ciò senza immodestia, mostravi a tutti i tuoi pensieri di fanciulla, ti mostravi candida e nuda
come Eva.
Era bello vedere come la tua natura semplice e felice si mescolava con la mia. Accendeva un focolare dentro il
mio cuore, e lì prendeva dimora, anche in quell'antro gelido e solitario, nel quale erano sospesi ghiaccioli scintillanti di
fantasia. Mi dava calore di sentimenti, mentre l'influenza della mia mente induceva la sua alla contemplazione. Le
insegnavo ad amare la luce della luna, quando la distesa della baia racchiusa era levigata come un grande specchio e
dormiva in un'ombra trasparente, mentre oltre Nahant il vento increspava il cupo oceano in un sognante lucore che
andava affievolendosi al largo, ma senza divenire più cupo. Tenendole la mano, le indicavo le lunghe onde della risacca
che rotolavano placidamente sulla spiaggia in una linea ininterrotta d'argento, e tacevamo insieme finché il suo
profondo e quieto mormorio passava oltre. Quando il sole del giorno festivo illuminava i recessi della scogliera,
conducevo lì la sirena e le dicevo che quelle enormi rocce grigie battute dalle onde, il suo mare natio, che infuriava
sempre contro di esse come in burrasca, e la sua fragile bellezza in quello scenario così severo, tutto ciò si mescolava in
una vena di poesia. Ma la vigilia del giorno di festa, dopo che sua madre si era ritirata presto a letto e la sua dolce.94
sorella si era congedata da noi con un sorriso, quando sedevamo soli davanti al focolare silenzioso, con gli oggetti
domestici intorno a noi, era lei a farmi sentire che esisteva una più profonda poesia e che quella era l'ora più dolce di
tutte. E così proseguiva il nostro fidanzamento, in attesa che io catturassi abbastanza uccelli selvatici per riempire di
piume il nostro letto nuziale, e infine la Figlia del Mare diventò mia.
Costruii una casetta per Susan e per me, con un ingresso a forma di arco gotico, ricavato dalle mandibole di
una balena. Acquistammo una giovenca col suo primo vitellino, e coltivavamo un orticello sul fianco della collina per
rifornirci di patate e ortaggi verdi da accompagnare al pesce. Il nostro salotto, piccolo e lindo, era decorato con i nostri
due profili in una cornice dorata, con conchiglie e graziosi sassolini sulla mensola del caminetto, scelti tra i tesori del
mare raccolti sulla spiaggia di Nahant. Sul desco, sotto lo specchio, era posata la Bibbia, che avevo iniziato a leggere ad
alta voce dal libro della Genesi, e il libro di canto che Susan usava per i salmi della sera, e oltre all'almanacco non
avevamo altri libri da leggere. Il solo altro libro che conoscevo era una storia d'indiani o di un naufragio, venduta da un
mercante ambulante a qualche abitante del villaggio, che la leggeva stentatamente a un assonnato pubblico. Al pari dei
miei fratelli pescatori, ero anch'io convinto che tutto il sapere umano fosse concentrato nel nostro maestro di scuola, e
che i suoi occhiali verdi e la severa fisionomia che mostrava quando si recava nel piccolo edificio scolastico attraverso
una distesa di sabbia, potessero meritargli un diploma in qualsiasi università del New England. In realtà lo temevo, e
quando i nostri figli ebbero l'età per essere affidati alle sue cure, aggrottavo la fronte, Susan, mentre tu eri orgogliosa
per gli encomi rivolti da questo dotto insegnante al loro profitto. Temevo che anche la sola conoscenza dell'alfabeto
potesse essere per loro la chiave di qualche pernicioso tesoro.
Amavo invece condurli per mano sulla spiaggia e mostrar loro la natura nella sua vastità e nei minuti
particolari: il cielo, il mare, la terra verde, i sassolini e le conchiglie. E discorrevo con loro delle immense opere e
dell'altrettanto grande bontà della divinità, con la semplice saggezza di un uomo che aveva tratto profitto dalla
solitudine nel mare e dai caldi, puri affetti del focolare serale. A volte la mia voce si perdeva in una tremula profondità,
perché sentivo su di me il Suo sguardo mentre parlavo. Una volta, mentre mia moglie e tutti noi ci specchiavamo in una
pozza d'acqua lasciata dalla marea in una cavità della sabbia, indicai il cielo riflesso al di sotto, e feci osservare che la
religione era presente ovunque sul nostro cammino, perché anche una casuale pozzanghera ricordava l'idea di quella
casa verso cui viaggiavamo, per riposare per sempre con i nostri figli. E d'improvviso, la tua immagine, Susan, e tutti i
piccoli volti riflessi da voi e da me, sembrarono svanire intorno a me, lasciando solo un pallido viso simile al mio in
gioventù, dentro la cornice di un grande specchio. Che strana sensazione!
La mia vita è scivolata via, e il passato sembra mescolarsi col presente e assorbire il futuro, finché tutto si
distende davanti al mio sguardo. La mia maturità è da tempo svanita in un'ineluttabile decadenza, e i miei coetanei di un
tempo, dopo una vita di continua salute, riposano tutti, senza aver conosciuto la stanchezza della tarda età. E ora, con la
fronte solcata da rughe e con radi capelli bianchi come emblema della mia dignità, sono diventato io il patriarca, lo zio
del villaggio. Amo questo nome: allarga la cerchia delle mie amicizie e unisce tutti i giovani nella mia casa, in una
parentela di affetti.
Al pari di zio Parker, le cui ossa reumatiche sono state gettate contro Egg Rock quarant'anni fa, intreccio
anch'io lunghi racconti. Seduto sulla frisata di una barca da pesca, o nella parte soleggiata di una rimessa per barche,
dove il tepore gratifica le mie ossa, oppure davanti al mio camino in compagnia di qualche amico, trabocco di racconti,
ma senza mai tediare. Con la mia voce rotta, dispenso molta saggezza, e tale è ancora il vigore delle mie forze, grazie al
Cielo!, che molti usi dimenticati e tradizioni già antiche nella mia infanzia, e giovanili avventure mie e di altri, finora
cancellate da avvenimenti più recenti, riacquistano nitidezza nella mia memoria. Ricordo i giorni felici in cui gli eglefini
nelle acque di pesca erano più numerosi delle scorpene nella risacca, in cui i merluzzi delle acque profonde nuotavano
vicino a riva, in cui il gattuccio col suo corno velenoso non aveva ancora imparato ad abboccare all'amo . Posso
enumerare tutte le burrasche di equinozio, quando il mare inondava le strade e le cantine del villaggio, e infuriava
vicino ai nostri focolari; posso raccontare la storia della grande balena che si era arenata su Whale Beach, le cui
mandibole, che sono ora all'ingresso della mia casa, rimarranno lì per molto tempo ancora dopo che la mia bara sarà
passata sotto di esse. E da qui è facile la digressione all'ippoglosso, di poco più piccolo della balena, che è corso per sei
lunghe lenze, trascinando la mia barchetta fino all'imbocco del porto di Boston, prima che potessi raggiungerlo con la
fiocina.
Se la malinconia fosse il tema della conversazione, potrei raccontare di un mio amico che fu strappato dalla sua
barca da un enorme pescecane, e la triste, autentica storia di un giovane che, alla vigilia del matrimonio, scomparve per
nove giorni e fu poi trovato annegato su quello stesso sentiero di Marblehead Neck che spesso l'aveva condotto
all'abitazione della sua futura sposa, come se il suo corpo avesse voluto ritornare dove lo attendeva la giovane in lutto.
Quale terribile fedeltà aveva indotto l'innamorato a ritornare per adempiere il suo voto! Un'altra storia spesso ripetuta è
quella di una fanciulla impazzita che conversava con gli angeli e aveva il dono della profezia, e che tutto il villaggio
amava e compativa, anche se ella andava di casa in casa accusandoci di peccare ed esortandoci al pentimento,
minacciando altrimenti la nostra distruzione per un'inondazione o un terremoto. Se i giovani vantano ora la loro
conoscenza di secche e rocce sommerse, io posso parlare di timonieri che riconoscevano il vento dal suo odore e le onde
dal sapore, che avrebbero potuto far rotta a occhi bendati verso qualsiasi porto tra Boston e Mount Desert, guidati
soltanto dalla memoria e dal suono peculiare della risacca su ciascuna isola, spiaggia e cordone di rocce lungo la costa.
È questo che racconto, e tutti i miei ascoltatori ne fanno esperienza, anche se lo giudicano un passatempo.
Non ricordo una parte più felice della mia vita di questa, la mia serena vecchiaia. È come il pendio soleggiato e
riparato di una valle, dove nel tardo autunno l'erba è più verde che in agosto e mescolata con i denti di leone dorati, che.95
si vedono soltanto ora, dai primi tepori dell'anno. Ma ai miei occhi la verzura e i fiori non sono gelati nemmeno nel
mezzo dell'inverno, perché uno spirito giocoso è penetrato di nuovo nella mia mente, un'affinità con ciò che è giovane e
gaio, uno spassionato interesse per le cose degli altri, una lieve ed errabonda curiosità, che hanno forse origine dalla
sensazione che la mia fatica sulla terra è terminata e che la breve ora prima del sonno può essere spesa giocando.
Eppure, immagino che sotto questa superficiale leggerezza vi sia profondità di sentimenti e di pensieri, propria di chi ha
vissuto a lungo e deve presto morire.
Mostratemi qualsiasi cosa che possa far sorridere un bambino e vedrete un lampo d'allegria sulle canute rovine
del mio volto. Posso trascorrere una piacevole ora al sole, osservando i bambini del villaggio che giocano ai bordi del
bagnasciuga, inseguendo fin sulla sabbia bagnata l'onda che si ritira e poi furtivamente risale per baciare i loro piedi
nudi, oppure ruggisce minacciosamente dietro alla combriccola che scappa ridendo al di là della sua portata. Perché non
dovrebbe divertirsi anche un vecchio, quando il grande mare gioca con quei bambini? Mi diverto anche a seguire da
lontano un'allegra comitiva di giovanotti e ragazze che vanno a passeggiare sulla spiaggia dopo una cena di buon'ora
alla Punta. Ecco che, portando i fazzoletti al naso, si chinano su un mucchio di alghe, tra le quali è impigliata una razza
morta, così stranamente contorta con due zampe e una lunga coda che i ragazzi la prendono per qualche animale
annegato. Pochi passi più avanti, le signorine lanciano un grido e i loro cavalieri si fanno avanti a proteggerle da un
giovane pescecane, simile a un gattuccio, che rotola con movimento vitale nella marea che l'ha gettato a riva. Poco
dopo, sono colti da meraviglia alla vista di un carretto carico dei gusci neri di aragoste vive, avvolte in alghe di roccia
per essere vendute al mercato. E quando arrivano alla flottiglia di barche appena tirate a riva dopo una giornata di pesca,
come ridacchio tra me, e talvolta anche apertamente, per l'ingenuità di quei giovani e lo spirito malizioso dei pescatori!
In inverno, quando il nostro villaggio è in subbuglio per l'arrivo di una decina di commercianti di città, venuti a
mercanteggiare il pesce gelato da trasportare per centinaia di miglia ed essere mangiato fresco nel Vermont o in Canada,
sono uno spettatore divertito, ma ozioso, in quella folla, perché non metto più in mare la mia barca.
Quando ero solo sulla spiaggia, ho provato un piacere che sembrava quasi esaltarmi nell'osservare i giochi o le
contese di due gabbiani che roteavano e volavano l'uno accanto all'altro, lanciando rauche strida, battendo le ali sulla
schiuma di un'onda e subito dopo librandosi in cielo, finché il loro bianco petto si mescolava con la luce del sole. Nella
quiete di un tramonto d'estate, trascino le mie vecchie membra, con un po' di ostentazione perché sono così vecchio, fin
sulla cima della collina rocciosa. E da lì guardo le bianche vele di molti vascelli diretti al largo o di ritorno a casa, e il
pennacchio nero di fumo dietro al vaporetto dell'Est, e vedo anche il sole che cala, ma non malinconicamente, e l'oceano
infinito che si mescola col cielo, a ricordarmi l'eternità.
Ma l'ora più dolce di tutte è quella delle allegre conversazioni che segue al crepuscolo e precede la luce delle
candele, accanto al mio caminetto acceso. E mai, nemmeno il primo Giorno del Ringraziamento, quando Susan e io
eravamo qui soli con le nostre speranze, né il secondo anno, quando uno sconosciuto è stato inviato ad allietarci, come
tangibile immagine del nostro amore, mai ho provato tanta gioia come ora. Tutto ciò che mi appartiene è qui: la morte
non ha preso nessuno, e nessuno è stato allontanato dalla malattia, né le contese hanno diviso qualcuno dai genitori, o
l'uno dall'altro. Non turbati da povertà o ricchezza, né dalla miseria di ambizioni superiori alla loro sorte, tutti hanno
continuato la festa del New England intorno al desco del patriarca. Sì, perché io sono un patriarca! Sono qui seduto tra i
miei discendenti, nella mia vecchia poltrona, in questo solito cantuccio, mentre il fuoco del camino getta una luce
appropriata sulla mia veneranda figura. Susan, figli miei! Qualcosa mi sussurra che quest'ora più felice dev'esser
l'ultima e che mi rimane soltanto da benedirvi tutti e andarmene in Cielo con questo tesoro di gioie rievocate. Vorrete
incontrarmi lassù? Ahimè, le vostre figure si fanno indistinte, svaniscono in immagini nell'aria e in più fievoli profili,
mentre il fuoco guizza sulle pareti di una stanza che ben conosco, e mostra il libro che ho posato e il foglio lasciato
scritto a metà, una cinquantina d'anni fa. Alzo lo sguardo verso lo specchio e vedo soltanto la mia immagine, se non è
quella della sirena, che si ritira nelle profondità dello specchio, con un tenero e malinconico sorriso.
Ah, si sente un gelo, non corporeo, ma nel cuore, e poi una sciocca paura di guardare dietro a sé, dopo questi
diversivi della mente. Posso immaginare esattamente la tristezza e la paura che proverebbe uno stregone dopo aver
fugato le ombre che impersonavano gente morta o lontana, e aver spogliato il suo antro di quell'irreale splendore che
l'aveva trasformato in un palazzo. E ora, per dare una morale a questa mia fantasia: se l'immaginazione può creare così
vividi sogni di felicità, non sarebbe forse meglio sognare dalla giovinezza alla vecchiaia, piuttosto che svegliarsi e
lottare con animo incerto per qualcosa di reale? No, il lieve tessuto del sogno non può proteggerci dalla dura realtà della
sventura, non più di quanto una ragnatela può respingere il gelido soffio dell'inverno. Sia questa la morale, allora. Nei
caldi e casti affetti, negli umili desideri, nell'onesta fatica per qualche utile fine, c'è salute per la mente e pace per il
cuore, c'è la prospettiva di una vita felice e la più bella speranza del Cielo.
L'OSPITE AMBIZIOSO
In una sera di settembre una famigliola era raccolta intorno al focolare, dove aveva accatastato la legna
trascinata dai ruscelli di montagna, le pigne secche dei pini, i ceppi frantumati dei grandi alberi precipitati giù dalla
montagna. Il fuoco divampava fin su nella cappa del camino e illuminava la stanza del suo diffuso bagliore. I volti del
padre e della madre sprizzavano allegria, i figlioletti ridevano, la figlia maggiore era il ritratto della felicità a diciassette.96
anni, e la vecchia nonna, seduta a sferruzzare nell'angolo più caldo, era l'immagine della felicità nella vecchiaia.
Avevano trovato l'«erba della serenità» nel luogo più desolato di tutto il New England. La famiglia abitava nel passo del
Notch delle White Mountains, dove il vento soffia sferzante per tutto l'anno, ed è impietosamente freddo in inverno,
avvolgendo la loro casa nel suo gelo inclemente prima di discendere nella valle del Saco. Vivevano in un luogo freddo,
e anche pericoloso, perché la montagna incombeva sulle loro teste, così scoscesa che le pietre precipitavano spesso dai
suoi fianchi, svegliandoli di soprassalto nel cuore della notte.
La figlia aveva appena detto qualche facezia, che aveva riempito tutti di buonumore, quando il vento scese
nella gola e sembrò fermarsi davanti alla loro villetta, bussando alla loro porta con un gemito lamentoso prima di
proseguire giù nella valle. Per qualche attimo quella voce li rattristò, anche se non aveva niente di insolito. Ma tutti
ritrovarono l'allegria quando si accorsero che il chiavistello della porta era stato sollevato da qualche viandante, i cui
passi non avevano udito nel cupo fragore che ne aveva preannunciato l'arrivo, e aveva continuato a gemere mentre lui
entrava, per poi allontanarsi lamentosamente dalla porta.
Anche se vivevano in solitudine, quelle persone avevano rapporti quotidiani con il mondo. Il suggestivo passo
del Notch è una grande arteria, attraverso la quale scorre continuamente la linfa dei commerci tra il Maine, da una parte,
e le Green Mountains e le rive del San Lorenzo dall'altra. La diligenza si fermava sempre davanti alla porta della
villetta, e il viandante, senz'altra compagnia che il suo bastone, si tratteneva lì per scambiare qualche parola, per non
essere vinto dalla solitudine, prima di valicare quella fenditura della montagna e raggiungere le prime case nella valle. E
il postiglione, in viaggio per il mercato di Portland, trovava lì alloggio per la notte, e se era scapolo poteva trattenersi
qualche tempo oltre la consueta ora di coricarsi, e magari rubare un bacio alla giovane montanara al momento del
commiato. Era una di quelle rustiche taverne in cui il viaggiatore paga soltanto il vitto e l'alloggio, ma trova anche una
familiare accoglienza che non ha prezzo. Quando udivano rumore di passi tra la porta esterna e quella interna, tutti i
componenti della famiglia si alzavano, la nonna, i nipotini e tutti quanti, come per dare il benvenuto a uno di loro, il cui
destino era legato al loro.
La porta fu aperta da un giovanotto. Il suo volto mostrò dapprima un'espressione malinconica, quasi depressa,
come di chi viaggia tutto solo per strade impervie e desolate al calar della notte, ma ben presto si illuminò nel vedere il
cordiale calore di quell'accoglienza, e sentì allora nel suo cuore l'impazienza di conoscere tutte quelle persone, dalla
vecchia che spolverava una sedia col suo grembiule, al bimbetto che gli tendeva le braccia. Uno sguardo e un sorriso
portarono lo sconosciuto a un rapporto di innocente familiarità con la figlia maggiore.
«Ah, questo fuoco è proprio ciò che ci vuole», esclamò, «soprattutto quando è circondato da una così simpatica
compagnia. Sono proprio intirizzito: il Notch è davvero come la bocca di un grande mantice, e mi ha soffiato in faccia il
suo terribile vento per tutta la strada da Bartlett».
«Lei è in viaggio per il Vermont?», domandò il padrone di casa al giovane, mentre lo aiutava a togliersi dalle
spalle un leggero zaino.
«Sì, fino a Burlington e oltre», rispose. «Volevo arrivare a Ethan Crawford's, questa sera, ma chi va a piedi
perde tempo su una strada come questa. Ma poco importa, perché quando ho visto il vostro bel fuoco e tutte le vostre
facce allegre ho avuto la sensazione che l'aveste acceso apposta per me e che foste in attesa del mio arrivo. Perciò mi
accomoderò tra voi e farò come a casa mia».
Il gioviale sconosciuto aveva appena accostato la sua sedia al fuoco quando si udì da fuori un rumore come di
passi pesanti che scendevano precipitosamente il ripido fianco della montagna con balzi lunghi e affrettati, e spiccando
un tale balzo, nel passare accanto alla villetta, da arrivare fino al precipizio opposto. Tutta la famiglia trattenne il fiato
perché conosceva bene quel rumore, e istintivamente anche l'ospite lo trattenne.
«La vecchia montagna ci ha scagliato un sasso, per timore che ce ne fossimo dimenticati», commentò il
padrone di casa, riprendendosi. «A volte scrolla la testa e minaccia di venir giù, ma siamo vecchi vicini di casa e
andiamo abbastanza d'accordo, nell'insieme. E poi abbiamo un rifugio sicuro, qui vicino, se mai dovesse fare sul serio».
Immaginiamo ora che lo sconosciuto abbia terminato la sua cena di carne d'orso e che, con la sua naturale
spontaneità, si sia messo a suo agio con tutti i membri della famiglia, così che parlavano insieme liberamente, come se
anche lui facesse parte del loro ceppo montanaro. Era di spirito orgoglioso, ma affabile; altero e riservato tra i ricchi e i
potenti, ma sempre pronto a chinare il capo davanti alla porta della più umile dimora, a comportarsi come un figlio o un
fratello accanto al focolare di un pover'uomo. In quella casa nel Notch aveva trovato calore e semplicità di sentimenti,
quella diffusa intelligenza del New England, e una poesia, cresciuta in quel luogo, che essi avevano assorbito senza
nemmeno avvedersene, tra le vette e i crepacci di quelle montagne, sulla stessa soglia della loro romantica e pericolosa
dimora. Il giovane aveva viaggiato a lungo, sempre solo, tutta la sua vita era stata anzi un solitario cammino, perché
l'altera diffidenza del suo carattere l'aveva tenuto separato da coloro che sarebbero potuti essere suoi compagni. E anche
quella famiglia, pur così generosa e ospitale, aveva quella coscienza della propria unità e di separazione dal mondo in
generale che dovrebbe fare di ogni cerchia domestica un luogo sacro, inaccessibile agli estranei. Ma quella sera una
spontanea simpatia induceva quel giovane colto e raffinato ad aprire il suo cuore a quei semplici montanari, e
costringeva anch'essi a rispondergli con la stessa disinvolta fiducia. E così doveva essere: l'affinità di un comune destino
non è forse un vincolo più forte di quello della nascita?
Il segreto riposto nel carattere di quel giovane era un'elevata e astratta ambizione. Poteva essere disposto a
condurre un'esistenza anonima, ma non a essere dimenticato nella tomba. Questa sua aspirazione si era trasformata in
speranza, e la speranza, a lungo accarezzata, era divenuta la certezza che, oscuramente come egli ora viaggiava, la
gloria avrebbe illuminato tutto il suo cammino, anche se, forse, non mentre lo percorreva. Ma quando i posteri avessero.97
voltato lo sguardo a quelle che erano ora le tenebre del presente, avrebbero visto il fulgore dei suoi passi, ancora
splendenti mentre glorie più effimere sbiadivano, e allora avrebbero capito che un uomo dotato era trapassato dalla culla
alla tomba senza essere riconosciuto da nessuno.
«Ma finora», esclamò il giovane, accendendosi di passione nel viso e negli occhi, «finora non ho fatto nulla. Se
scomparissi domani dalla terra, nessuno saprebbe di me quanto voi: che un anonimo giovane è arrivato qui al calar della
sera dalla valle del Saco, vi ha aperto il suo cuore e ha valicato il Notch all'alba, per non essere più visto. Nessuno si
domanderebbe: "Chi era? Dove andava quel viandante?". Ma io non posso morire prima d'aver compiuto il mio destino.
E allora venga pure la morte, avrò eretto il mio monumento!».
Un flusso incessante di naturali passioni scaturiva tra i suoi astratti sogni e consentiva alla famigliola di
comprendere i suoi sentimenti, che pure erano così diversi dai loro. Accorgendosi prontamente di cadere nel ridicolo, il
giovane arrossì del trasporto a cui si era abbandonato.
«Voi ridete di me» esclamò , prendendo la mano della figlia maggiore e ridendo a sua volta. «Penserete che la
mia ambizione sia priva di senso, come se mi lasciassi morire assiderato in cima al monte Washington solo per essere
osservato dalla gente dei luoghi circostanti. Eppure, in verità, che nobile piedestallo sarebbe questo per il monumento
d'un uomo!».
«È meglio rimanere qui seduti, accanto a questo fuoco», rispose la ragazza arrossendo, «e starsene comodi e
soddisfatti, anche se nessuno pensa a noi».
«Immagino», soggiunse suo padre, dopo una pausa di riflessione, «che ci sia qualcosa di naturale in ciò che
dice questo giovane, e se la mia mente si fosse rivolta in quella direzione, avrei forse provato gli stessi sentimenti. È
strano, moglie mia, come questi discorsi abbiano fatto correre i miei pensieri verso cose che quasi certamente non
avverranno mai».
«Può darsi che accadano», replicò la moglie. «L'uomo pensa mai a ciò che farà quando rimarrà vedovo?».
«No, no!», esclamò il marito, respingendo l'idea in tono di garbato rimprovero. «Quando penso alla tua morte,
Esther, penso anche alla mia. Ma pensavo che mi piacerebbe avere una bella fattoria a Bartlett, a Bethlehem, a Littleton,
o in qualche altra cittadina intorno alle White Mountains, ma non dove queste montagne potrebbero precipitarci sulla
testa. Mi piacerebbe vivere in pace con i vicini di casa, essere chiamato cavaliere ed essere eletto alla Corte generale per
una scadenza o due, perché un uomo semplice e onesto potrebbe fare lì tanto bene quanto un avvocato. E quando
diventerò vecchio, e anche tu sarai vecchia, e non saremo più a lungo separati, vorrei allora morire felicemente nel mio
letto e lasciarvi tutti in lacrime intorno a me. Una lapide d'ardesia mi andrebbe bene quanto una di marmo, dove sia
scritto soltanto il mio nome, l'età e il versetto di un inno, o qualcos'altro per far sapere alla gente che sono vissuto
onestamente e sono morto cristianamente».
«Ecco!», esclamò il giovane. «È nella nostra natura desiderare un monumento, sia d'ardesia, di marmo o di
granito, un glorioso ricordo nella mente universale dell'uomo».
«Siamo di uno strano umore, questa sera», osservò la moglie con le lacrime agli occhi. «Dicono che è segno di
qualcosa, quando i pensieri vanno così girovagando. Ascoltate i bambini!».
Tutti si misero in ascolto. I bambini più piccoli erano stati messi a letto in un'altra stanza, ma con la porta
aperta, così che si poteva udirli mentre parlavano animatamente tra loro. Sembravano contagiati dalla cerchia intorno al
fuoco, e facevano a gara tra loro con sogni strampalati e infantili progetti su ciò che avrebbero fatto una volta divenuti
uomini e donne. Dopo un po', un ragazzino, invece di rivolgersi ai fratelli e alle sorelle, chiamò ad alta voce sua madre.
«Ti dirò io che cosa desidero, mamma», gridò. «Vorrei che tu e papà, la nonna e tutti noi, e anche il forestiero,
andassimo subito a bere l'acqua del bacino del Flume!».
Nessuno poté trattenere le risa a quell'idea di lasciare un caldo letto e di trascinare tutti quanti lontano da
quell'allegro fuoco per recarsi sul corso del Flume, un ruscello che cadeva al di là del precipizio, nelle profondità del
Notch. Il ragazzo aveva appena parlato quando un carro arrivò cigolando sulla strada e si fermò per qualche minuto
davanti alla porta. A bordo sembravano esserci due o tre uomini che si rincuoravano cantando a squarciagola un coro
che risuonava in note spezzate tra le rocce, mentre i viandanti erano incerti se proseguire il loro viaggio o trattenersi lì
per la notte.
«Papà», disse la ragazza, «ti stanno chiamando».
Ma il buon uomo non sapeva se chiamavano proprio lui, ed era restio a mostrarsi troppo avido di guadagno
invitando quelle persone a onorare la sua casa. Non si affrettò quindi ad andare alla porta, e dopo uno schiocco di frusta
i viaggiatori s'immersero nel Notch, sempre cantando e ridendo, anche se quei canti e quelle risate sembravano ora
echeggiare cupamente dal cuore della montagna.
«Ecco, mamma!», gridò di nuovo il bambino. «Forse ci avrebbero dato un passaggio fino al Flume».
Di nuovo tutti risero di quell'ostinato capriccio di una gita notturna. Ma poi una nube fugace passò sul cuore
della fanciulla, che guardò gravemente le fiamme e trasse un respiro che era quasi un sospiro, sfuggito nonostante il suo
debole tentativo di trattenerlo. Poi, trasalendo e arrossendo, lanciò un rapido sguardo alla cerchia di persone intorno a
lei, come se esse avessero potuto vedere dentro il suo cuore. Il forestiero le chiese a che cosa stesse pensando.
«A niente», rispose lei con un timido sorriso. «È soltanto che mi sono sentita sola, in quel momento».
«Ah, io ho la dote di sentire ciò che è nel cuore degli altri», disse lui in tono semiserio. «Posso indovinare quei
tuoi segreti? Io so che cosa pensare, se una fanciulla rabbrividisce al tepore del focolare, e se si lamenta della sua
solitudine quando è accanto a sua madre. Posso esprimere con parole questi sentimenti?»..98
«Non sarebbero più sentimenti di una fanciulla, se potessero essere espressi con parole», rispose ridendo quella
ninfa di montagna, ma evitando il suo sguardo.
Tutto ciò fu detto in disparte. Forse un germoglio d'amore stava sbocciando nei loro cuori, così puro che poteva
fiorire in paradiso, perché non avrebbe potuto maturare sulla terra. Le donne, infatti, amano una dolce nobiltà d'animo
come quella del giovane, e uno spirito fiero, pensoso, eppure gentile, è molto spesso catturato dalla semplicità di una
fanciulla come lei. Ma mentre parlavano sommessamente, e lui osservava la lieta malinconia, le luminose ombre, i
timidi aneliti della sua natura di fanciulla, il vento che soffiava nel Notch prese un suono più profondo e cupo.
Sembrava, disse il fantasioso forestiero, un coro degli spiriti della tempesta che negli antichi tempi degli indiani
avevano la loro dimora tra quelle montagne, e delle loro vette e antri facevano una regione sacra. Lungo la strada si udì
un gemito, come se stesse passando un funerale. Per scacciare la malinconia, gettarono altri rami di pino nel fuoco, e nel
crepitio delle foglie secche le fiamme si alzarono, illuminando di nuovo una scena di serena e umile felicità con una
luce che scendeva intorno a loro e li accarezzava amorevolmente. Si vedevano i piccoli volti dei bambini che spiavano
dai loro letti distanti, la robusta figura del padre e quella mite e riservata della madre, l'altero giovane e la fanciulla in
fiore, e la buona nonna che sferruzzava ancora nell'angolo più caldo. Poi la vecchia alzò lo sguardo dal suo lavoro e,
senza interromperlo, prese la parola.
«I vecchi hanno le loro idee», disse, «così come i giovani. Avete parlato dei vostri desideri e progetti, lasciando
correre i vostri pensieri da una parte e dall'altra, fino a far vagare anche la mia mente. E ora, che cosa potrebbe
desiderare una vecchia come me, quando ha da compiere soltanto un passo o due prima di giungere alla tomba? Figlioli,
ciò mi perseguiterà notte e giorno, finché non ve ne parlerò».
«Che cosa c'è, madre?», esclamarono insieme marito e moglie.
Con un'aria di mistero che fece avvicinare tutti ancor più al fuoco, la vecchia disse loro che già da alcuni anni
aveva provveduto ai suoi abiti per la tomba: un bel sudario di lino, un copricapo con la gorgiera di mussola, e tutto ciò
che di più bello avrebbe indossato dal giorno delle sue nozze. Ma quella sera le era ritornata stranamente in mente una
vecchia superstizione. Si diceva, quando lei era più giovane, che se qualcosa era fuori posto sulla salma, se soltanto la
gorgiera non era ben stirata o il copricapo era storto, il cadavere nella bara sottoterra si sarebbe sforzato di sollevare le
sue gelide mani per sistemarlo. Il solo pensiero la inquietava.
«Non parlare così, nonna!», esclamò la ragazza con un brivido.
«E ora», proseguì la vecchia, in tono molto serio, eppure sorridendo stranamente della propria stravaganza,
«vorrei che uno di voi, figli miei, quando vostra madre sarà vestita nella bara, vorrei che uno di voi ponesse uno
specchio sopra al mio volto. Chissà che non possa guardarmi e accertarmi che tutto sia a posto?».
«Vecchi e giovani, tutti immaginiamo tombe e monumenti», mormorò il giovane forestiero. «Mi domando che
cosa provano i marinai quando la loro nave sta affondando, e loro, sconosciuti e anonimi, stanno per essere sepolti
insieme in mare, in quel grande sepolcro senza nome!».
Per qualche minuto i lugubri pensieri della vecchia occuparono a tal punto le menti dei suoi ascoltatori che un
rumore nella notte, simile al ruggito del vento, continuò a diffondersi, cupo e terribile, prima che quel predestinato
gruppo di persone se ne accorgesse. La casa, con tutto ciò che vi era dentro, tremò, e sembrarono scuotersi anche le
fondamenta della terra, come se quel pauroso rumore fosse lo squillo della tromba del giudizio. Giovani e adulti si
scambiarono uno sguardo atterrito, e rimasero lì fermi per un attimo, pallidi, sgomenti, incapaci di parlare e di
muoversi. Poi, lo stesso grido uscì contemporaneamente dalle loro bocche.
«La frana! La frana!».
Le più semplici parole possono solo suggerire, ma non rappresentare tutto l'indicibile orrore della catastrofe. Le
vittime corsero fuori dalla villetta e cercarono riparo in un posto che ritenevano più sicuro, dove era stato eretto una
sorta di baluardo per questi casi di emergenza. Purtroppo essi avevano lasciato la sicurezza per correre incontro al
disastro. Tutto il fianco della montagna crollò in un fiume di rovine che, poco prima di raggiungere la casa, si divise in
due tronconi, e lì non fece nemmeno tremare le finestre, ma sommerse tutta l'area circostante, bloccando la strada e
distruggendo tutto ciò che incontrava nel suo mortale cammino. Ancor prima che il tuono di quell'immane frana
cessasse di echeggiare tra le montagne, la tragedia si compì e le vittime riposarono in pace. I loro corpi non furono mai
ritrovati.
Il mattino dopo, un lieve filo di fumo fu visto alzarsi dal camino della villetta, su per il fianco della montagna.
All'interno, il fuoco fumava ancora nel focolare, circondato dalle sedie, come se gli abitanti della casa fossero usciti
soltanto per vedere la devastazione prodotta dalla frana, per ritornare ben presto a ringraziare il Cielo di essere
miracolosamente scampati. Ognuno di loro aveva lasciato un suo particolare ricordo, e tutti coloro che avevano
conosciuto la famiglia versarono per loro una lacrima. Chi non aveva udito il loro nome? La loro storia è stata
raccontata diffusamente, e sarà per sempre una leggenda tra quelle montagne. I poeti hanno cantato la loro sorte.
Alcune circostanze inducevano a pensare che un forestiero fosse stato accolto nella casa, quella terribile notte,
e avesse diviso la catastrofe con tutti i suoi abitanti. Altri negavano che esistessero sufficienti motivi per fare una simile
congettura. Piangiamo per la sua spirituale giovinezza, con i suoi sogni di terrena immortalità! Il suo nome e la sua
persona sono sconosciuti, la sua storia, il suo modo di vivere, i suoi progetti sono un mistero che mai sarà svelato, e
sono parimenti un enigma la sua morte e la sua esistenza. Di chi è stata l'agonia in quel momento mortale?
LE SORELLE ANNATE.
99La scorsa notte, tra le undici e mezzanotte, quando la vecchia Annata stava lasciando le sue ultime impronte
sulla soglia del regno del Tempo, si trovò a disposizione alcuni momenti liberi e si mise a sedere, tra tutti i posti del
mondo, proprio sui gradini del nostro nuovo Municipio. La luce della luna invernale mostrava che appariva stanca nel
corpo e triste nel cuore, come molti altri viandanti della terra. I suoi indumenti, troppo esposti alle intemperie e logorati
dall'uso, erano in pessime condizioni, e le scarpe, cui la fretta del viaggio non aveva mai concesso un attimo di requie,
erano così malconce che non meritavano nemmeno di essere riparate. Ma dopo essersi trascinata ancora per breve tratto,
questa povera vecchia Annata era destinata a godersi un lungo sonno. Ho dimenticato di dire che, sedendosi sui gradini,
aveva depositato accanto a sé una capace scatola di cartone in cui, com'è abitudine dei viaggiatori del suo sesso, portava
molte sue preziose proprietà. Oltre a questo bagaglio, teneva sotto braccio un volume in folio, molto simile agli annuari
dei giornali. Posato il volume sulle ginocchia, e i gomiti sopra a questo, con la testa tra le mani, la stanca e lacera
vecchia Annata tirò un profondo sospiro, apparentemente non molto soddisfatta dalle rievocazioni della sua trascorsa
esistenza.
Mentre attendeva così il rintocco della mezzanotte, che l'avrebbe richiamata tra le sue innumerevoli sorelle
delle Annate passate, giunse una giovane fanciulla che camminava lievemente in punta di piedi nella strada, dalla
direzione del deposito ferroviario. Era evidentemente forestiera, forse giunta in città col treno della sera, e il suo bel
volto di fanciulla mostrava un'espressione sorridente e gaia che rivelava la sua fiducia in una festosa accoglienza da
parte della moltitudine di persone di cui avrebbe fatto presto conoscenza. I suoi abiti erano un po' troppo leggeri per
quella stagione, e vistosamente decorati con nastri svolazzanti e altri orpelli che presto sarebbero stati strappati dalla
bufera o sarebbero sbiaditi alla calda luce del sole, tra cui avrebbe proseguito il suo mutevole cammino. Aveva
nondimeno un meraviglioso aspetto, così promettente e pieno di indescrivibili speranze che difficilmente qualcuno
avrebbe potuto incontrarla senza attendersi dai suoi buoni uffici qualcosa di molto desiderabile, la realizzazione di
qualche sogno a lungo accarezzato. Qualche persona delusa può esserci, qua e là nel mondo, che così spesso è stata
ingannata dalle belle fanciulle promettenti come lei da non riporre più alcuna fiducia nelle sottane di una nuova Annata,
ma da parte mia nutro grande fiducia in lei, e se dovessi vivere per vederne altre cinquanta come lei, mi attenderei
sempre di ricevere da ciascuna delle sue successive sorelle qualcosa per cui vale la pena vivere.
La nuova Annata, perché la fanciulla era proprio questo personaggio, portava tutti i suoi averi in un cesto di
non grandi dimensioni e peso, che teneva appeso a un braccio. Salutò molto affettuosamente la sconsolata vecchia
Annata e si sedette accanto a lei sui gradini del Municipio, in attesa del segnale d'inizio dei suoi vagabondaggi per il
mondo. Le due erano sorelle, e ambedue nipoti del Tempo, e anche se l'una sembrava molto più vecchia dell'altra, ciò
era dovuto alle avversità e agli affanni più che all'età, perché tra loro correvano soltanto dodici mesi di differenza.
«Be', mia cara sorella», disse la nuova Annata, dopo i primi convenevoli, «mi sembri stanca morta. Che cosa
hai fatto durante il tuo soggiorno in questa parte dello Spazio infinito?».
«Ho registrato tutto in questo mio Libro delle cronache», rispose la vecchia Annata in tono grave. «Ma non
contiene niente che potrebbe divertirti, e ben presto avrai sufficiente conoscenza di queste cose per tua personale
esperienza. È una lettura davvero noiosa».
Nondimeno, sfogliò le pagine dell'in-folio alla luce della luna e provò un irresistibile interesse nella lettura di
questa sua biografia, anche se gli episodi erano ricordati senza alcun piacere. Il volume, anche se era citato come Libro
delle cronache, sembrava né più né meno una raccolta della «Gazette» di Salem del 1838, e la sagace vecchia Annata
aveva tanta fiducia nell'attendibilità di questo giornale che riteneva superfluo registrare la propria storia con la sua
penna.
«Che cosa hai fatto in campo politico?», domandò la nuova Annata.
«Be', il mio corso qui negli Stati Uniti...», rispose la vecchia Annata, «anche se forse dovrei arrossire nel
confessarlo, devo riconoscere che il mio corso politico è stato piuttosto oscillante: talvolta propendeva per i Whig, poi
faceva alzare grida di trionfo al partito dell'Amministrazione, e a volte sollevava di nuovo lo stendardo, che sembrava
quasi prostrato, dell'Opposizione, così che gli storici non sapranno come giudicarmi, sotto questo aspetto. Ma i Loco
Focos...».
«Non mi piacciono questi soprannomi di partito», la interruppe la sorella, che sembrava piuttosto suscettibile
su alcuni argomenti. «Forse ci lasceremo di miglior umore, se evitiamo discussioni politiche».
«Ben volentieri», rispose la vecchia Annata, che era già stata mortalmente tormentata da simili diatribe. «Non
mi dispiace affatto se i nomi dei Whig e dei Tory, con le loro interminabili dispute sulle banche e sul Tesoro,
sull'Abolizione, sul Texas, sulla guerra in Florida e su milioni di altre questioni che ben presto conoscerai per tuo
diletto, non mi dispiace, dicevo, se questi nomi non saranno più sussurrati al mio orecchio. Eppure, hanno occupato
tanta parte della mia attenzione che quasi non so che cosa raccontarti d'altro. In effetti, è scoppiata una strana guerra al
confine col Canada, dove è stato versato sangue in nome della libertà e della patria, ma spetta a qualche Annata futura,
forse molto distante, stabilire se questi sacri nomi sono stati invocati a torto o a ragione. Niente mi deprime tanto, nella
mia visione delle cose mortali, quanto vedere sprecate energie, gioie e vite umane per fini che il più delle volte
appaiono sconsiderati. e ancor più spesso restano irrealizzati. Ma i più saggi e i migliori mantengono caparbiamente la
fiducia che il progresso dell'umanità è in avanti e in alto, e che le fatiche e le sofferenze del cammino serviranno a
eliminare le imperfezioni dell'immortale Pellegrino, che non esisteranno più quando sarà compiuta la loro opera».
«Forse», esclamò fiduciosa la nuova Annata, «forse io vedrò quel lieto giorno!»..100
«Dubito che sia così vicino», replicò la vecchia Annata, con un grave sorriso. «Presto ti stancherai di attendere
quel felice evento, e per divertirti (come io spesso ho fatto) volgerai allora l'attenzione agli affari di qualche piccola e
modesta città, come questa di Salem, dove sediamo sui gradini del nuovo Municipio, completato durante la mia
amministrazione. Ti farebbe ridere vedere come il gioco della politica, di cui il Campidoglio a Washington è la grande
scacchiera, è qui giocato in miniatura. La bruciante Ambizione trova qui il suo alimento, qui il Patriottismo parla
vigorosamente a favore del popolo, e la virtuosa Economia reclama una riduzione degli emolumenti di un lampionaio,
mentre gli assessori comunali schierano la loro dignità di senatori intorno al seggio del sindaco, e il consiglio comunale
ritiene che essi siano i depositari della libertà. Insomma, le debolezze e le virtù umane, la passione e la politica, le
tendenze dell'uomo, i suoi fini e i modi di perseguirli, il suo carattere individuale e quello collettivo possono essere
studiati qui quasi come nel consesso delle nazioni, e con questo grande vantaggio, che se anche la lezione fosse
altrettanto disastrosa, le sue dimensioni lillipuziane faranno sempre sorridere l'osservatore».
«Hai fatto qualcosa per il miglioramento della città?», domandò la nuova Annata. «A giudicare da quel poco
che ho visto, sembra decrepita e consunta dal tempo».
«Ho inaugurato la ferrovia», rispose l'Annata più vecchia, «e sei o sette volte al giorno udrai suonare la
campana, che un tempo chiamava alle loro funzioni i monaci di un convento spagnolo, per annunciare l'arrivo o la
partenza dei treni. La vecchia Salem ha ora un aspetto molto più vivace di quando l'ho vista per la prima volta. I
forestieri arrivano a centinaia da Boston, facce nuove affollano Essex Street, i tram a cavalli e gli omnibus sferragliano
sulle strade selciate. Si registra un sensibile aumento di ostricai e di altri negozi per dare accoglienza a una moltitudine
di ospiti giornalieri. Ma un cambiamento ancora più importante attende questa veneranda città: un enorme cumulo di
ammuffiti pregiudizi sarà spazzato via grazie alla libera circolazione della società. Il suo peculiare carattere, di cui gli
stessi abitanti sono scarsamente coscienti, sarà cancellato dall'attrito con elementi stranieri. Molti effetti saranno buoni,
e parimenti alcuni altri non lo saranno altrettanto. Nel bene o nel male, avverrà probabilmente una diminuzione
dell'influenza morale della ricchezza e del dominio che l'aristocrazia ha esercitato qui da tempi immemorabili, più
saldamente che in ogni altra città del New England».
La vecchia Annata, avendo ormai esaurito quasi tutto il poco fiato che le rimaneva, chiuse allora il Libro delle
cronache, e stava per prendere congedo, ma sua sorella la trattenne ancora un po' domandandole qual era il contenuto
dell'enorme scatola di cartone che così faticosamente trascinava con sé.
«Sono soltanto alcune cianfrusaglie», rispose la vecchia Annata, «che ho raccolto nei miei vagabondaggi, e ora
depositerò nel ricettacolo delle cose trascorse e dimenticate. Noi sorelle Annate non portiamo mai via con noi dal
mondo cose realmente preziose. Questi sono esempi di alcune cose che ho portato in voga e che hanno già vissuto oltre
il tempo loro assegnato, e sarai tu a sostituirle, con altre cose altrettanto effimere. Ecco qui, in questi vasetti di ceramica,
come quelli del belletto, una certa quantità di rossore femminile, che ho rubato a belle donne sconsolate, le quali
nutrono ora un certo rancore nei miei confronti. Ho anche un mucchio di capelli neri maschili, ormai ingrigiti o del tutto
scomparsi. Le lacrime di mogli e mariti vedovi e di altri mortali afflitti, che sono stati consolati in questi ultimi dodici
mesi, sono conservate in qualche decina di flaconi d'essenze, ben tappate e sigillate. Ho anche parecchi fasci di lettere
d'amore, che trasudano eloquentemente eterne e brucianti passioni, ma ormai fredde ed estinte quasi prima che
l'inchiostro fosse asciutto. E poi, ecco ancora un assortimento di molte migliaia di promesse e altre cose infrante, tutte
molto leggere e contenute in poco spazio. La cosa più pesante che porto con me è un grosso pacco di speranze deluse,
che ancora poco tempo fa erano così aeree da gonfiare una mongolfiera».
«Ho anch'io un bel po' di speranze qui nel mio cesto» osservò la nuova Annata. «Sono fiori dolcemente
profumati, simili alle rose».
«Perderanno presto il loro profumo», replicò cupamente la vecchia Annata. «E che cos'altro hai portato per
assicurarti il benvenuto tra questa malcontenta razza di mortali?».
«Be', per dire la verità, nient'altro o ben poco», rispose sua sorella con un sorriso, «oltre a qualche almanacco e
annuario nuovo, e a qualche regalo di Capodanno per i bambini. Ma auguro di cuore ogni bene ai poveri mortali, e
intendo fare ciò che posso per la loro felicità».
«Un ottimo proposito», convenne la vecchia Annata. «Già, ho anch'io un bell'assortimento di buoni propositi,
ma sono diventati ormai così rancidi e ammuffiti che mi vergogno a portarli ancora con me. Fosse solo per paura che le
autorità cittadine mandino il capo della polizia Mansfield a cercarmi con un mandato di arresto, dovrei gettarli subito
per strada. Molte altre cose sono contenute nella mia scatola, ma tutte insieme non avrebbero una sola offerta nemmeno
a un'asta di vecchi mobili usati, e visto che non valgono niente né per te né per altri, è inutile tediarti con un più lungo
elenco».
«Dovrò raccogliere anch'io tutti questi bagagli inutili nei miei viaggi?», domandò la nuova Annata.
«Certamente, e ti auguro di non avere un fardello più pesante da portare», rispose l'altra. «E ora, cara sorella,
devo congedarmi da te, consigliandoti caldamente di non attenderti gratitudine né buona volontà da questo mondo
irascibile, irragionevole, ingrato e mal intenzionato che ancor peggio si comporta. Anche se i suoi abitanti sembrano
accoglierti calorosamente, puoi fare tutto il possibile e dispensare loro tutte le occasioni di felicità a tua disposizione,
ma loro continueranno a lamentarsi, a desiderare ciò che non hai facoltà di concedere, continueranno a sperare in
qualche altra Annata per la realizzazione di progetti che non dovevano mai essere formulati e che, anche se realizzati,
diventerebbero soltanto nuovi motivi di malcontento. E se questi ridicoli personaggi vedranno mai in te qualcosa di
apprezzabile, lo scopriranno solo quando te ne sarai andata per sempre»..101
«Eppure», esclamò la fiduciosa nuova Annata, «mi sforzerò di lasciare gli uomini più saggi di quanto li trovo.
Offrirò generosamente quei doni che la Provvidenza mi consente di dispensare, e dirò loro di essere grati di ciò che
hanno, e di sperare umilmente di averne ancora, e di certo, se non sono proprio sciocchi, accetteranno di essere felici e
riconosceranno che sono stata un'Annata felice. Perché la mia felicità dipende necessariamente da loro».
«Mi dispiace per te, mia povera sorella», disse allora la vecchia Annata con un sospiro, mentre prendeva il suo
fardello. «Noi nipotine del Tempo siamo nate per soffrire. La felicità, come dicono, abita nella dimora dell'Eternità, ma
noi possiamo soltanto condurvi i mortali passo dopo passo, tra riluttanti mormorii, e noi stesse dovremo morire sulla
soglia. Ma ascolta... il mio compito è terminato!».
L'orologio nell'alto campanile della chiesa del dottor Emerson batté le dodici, e gli rispose quello della chiesa
del dottor Flint, nel quartiere opposto della città, e mentre i rintocchi echeggiavano ancora nell'aria la vecchia Annata
volò via o scomparve, e né la saggezza degli angeli, né la loro potenza e tanto meno il rimpianto di milioni di uomini
che ne avevano fatto cattivo uso avrebbero potuto costringere quell'Annata scomparsa a ritornare indietro d'un passo.
Ma anch'essa, al pari del Tempo e di tutte le sue sorelle, deve poi tenere i conti col genere umano. E così sarà anche per
la giovane nuova Annata, che all'ultimo rintocco dell'orologio si alzò dai gradini del Municipio e iniziò un po'
timidamente il suo cammino terreno.
«Felice annata!», le gridò un guardiano notturno, scrutando sospettosamente la sua figura, ma senza
immaginare nemmeno di rivolgersi alla nuova Annata in persona.
«Grazie mille!», rispose la nuova Annata, donando al guardiano una delle rose di speranza del suo cesto. «Ti
auguro che questo fiore conservi il suo dolce profumo per molto tempo ancora!».
Poi si avviò di buon passo per le strade silenziose, e coloro che erano desti in quel momento esclamarono
nell'udire i suoi passi: «La nuova Annata è arrivata!». Ovunque ci fosse un capannello di nottambuli, stavano brindando
alla sua salute. Lei tuttavia sospirò, nell'udire che l'aria risuonava funestamente, come sempre avviene in questo mondo,
dell'estremo respiro dei mortali che si erano attardati fino al suo arrivo per essere sepolti da lei. Ma milioni di persone
erano ancora vive per rallegrarsi del suo arrivo e così ella proseguì il suo cammino con fiducia, disseminando fiori
simbolici sulla soglia di quasi tutte le abitazioni, e questi fiori alcuni raccoglieranno e porteranno al petto, altri
calpesteranno sotto ai piedi. Il portalettere può aggiungere soltanto che all'alba di questo mattino ella ha riempito il suo
cesto di indirizzi augurali della nuova Annata, assicurandogli che l'intera cittadinanza con il nostro nuovo sindaco, gli
assessori e il consiglio comunale in testa, faranno a gara per averne una copia. Gentili signori, non volete mantenere
l'impegno della nuova Annata?
FIOCCHI DI NEVE
È carico di neve quel freddo grigio cielo mattutino laggiù, e attraverso il vetro quasi gelato della finestra mi
piace osservare il progressivo inizio della bufera. Alcuni fiocchi, simili a piume, sono già sparsi nell'aria e si librano con
volo incerto, ora quasi posandosi a terra, ora turbinando di nuovo in alto, verso remote regioni dell'atmosfera. Non sono
quelle grosse falde cariche di umidità, che si sciolgono toccando terra e sono foriere di pioggia, ma è una vera e propria
bufera di neve. Le due o tre persone che si vedono sui marciapiedi hanno un aspetto sofferente e il naso paonazzo, e
mostrano una resistenza al gelo che hanno evidentemente già assunto in previsione di una giornata rigida e inclemente.
Al tramonto, o comunque prima che il sole posi su noi un ultimo sorriso scintillante, la strada e il nostro piccolo
giardino saranno coperti da cumuli di neve. Il terreno, già gelato nelle scorse settimane, si prepara a sostenere quel
fardello che può esservi posato sopra, e allo sguardo di chi vive nel Nord il paesaggio perderà la sua malinconica
desolazione per acquistare una peculiare bellezza, quando la Madre Terra, al pari dei suoi figli, indosserà gli indumenti
di lana del suo abbigliamento invernale. Gli spiriti delle nuvole stanno già tessendo lentamente il suo bianco mantello.
In effetti, la superficie scura della strada è appena coperta da un lieve strato di bianca brina gelata ed è ancora visibile il
verde appassito delle aiuole, mentre i tetti d'ardesia delle case iniziano ad apparire grigi anziché neri. Se la neve che è
finora caduta entro il raggio della mia vista fosse ammucchiata tutta insieme, non arriverebbe quasi all'altezza del
tumulo di una tomba. È così che, attraverso silenziosi e furtivi influssi, si verificano a poco a poco i grandi mutamenti.
Queste minuscole particelle di neve, sparse a manciate nell'aria dallo spirito della tempesta, seppelliranno tutta la grande
terra sotto il loro cumulo, non consentendole di rivedere sua sorella, la volta del cielo, per alcuni monotoni mesi. E
anche noi perderemo di vista il volto familiare di nostra madre, e dovremo accontentarci di guardare più spesso il cielo.
E ora, lasciamo la neve al suo compito e sediamoci, con la penna in mano, accanto al caminetto. Anche se può
sembrare malinconica, l'atmosfera di una giornata di neve esercita un'influenza che può produrre allegria e favorire
l'immaginazione. Chi è nato nei climi del Sud può corteggiare la musa all'ombra delle fitte fronde d'estate, sopra a
sponde erbose, mentre il canto degli uccelli e il mormorio dei ruscelli si intonano alla mu sica della sua anima. Nella
nostra breve estate, io non riesco a pensare, ma esisto soltanto nel vago rapimento di un sogno. Il mio momento
d'ispirazione, se mai accade, è quando il ceppo verde sfrigola nel camino e la vivida fiamma, ancor più vivida nella
penombra della stanza, divampa in alto nella cappa, mentre i tizzoni si spengono cadendo nel mucchio crescente della
cenere. Quando le raffiche di vento scuotono il telaio della finestra e i fiocchi di neve o le gocce di pioggia tempestano i
suoi vetri, allora distendo il mio foglio di carta, con la certezza che pensieri e fantasie vi si accenderanno, come stelle al
crepuscolo o come violette in maggio, forse per svanire altrettanto presto. Per quanto sia effimero il loro bagliore,.102
almeno splende nell'ombra scura che le nuvole nel cielo di fuori calano nella stanza. Sia allora benedetto e benvenuto da
me, suo autentico figlio, l'inverno del New England che ci rende tutti simili a bambini in balia della tempesta, che ci
canta la sua familiare ninna-nanna anche nell'ululato del vento di dicembre. E ora guardiamo di nuovo fuori, per vedere
quanta parte della sua opera ha compiuto lo spirito della bufera.
Lento e sicuro, ha davanti a sé una giornata intera, forse tutta una settimana, e può quindi prendersi il tempo
che vuole per seppellire la Natura sotto la neve. Un lieve manto si è appena disteso sull'erba appassita dell'aiuola, e gli
steli secchi delle piantine annuali fanno capolino nella superficie bianca in ogni parte del giardino. I cespugli spogli
delle rose rabbrividiscono in un piccolo cumulo di neve, e sembrano sconsolati, poveretti, come se avessero una
coscienza umana di questa scena desolata. È un momento triste per le piante che non muoiono con l'estate, in cui non
sono vive né morte, e ciò che rimane della vita sembra soltanto un gelido alito di morte. Come sono tristi i cespugli di
fiori nel cuore dell'inverno! I tetti delle case sono ora tutti bianchi, tranne dove il vento turbinante li ha denudati sugli
angoli esposti alle sue folate. Per vedere la reale intensità della bufera si deve fissare lo sguardo su qualche punto
lontano, come quella guglia laggiù, e osservare il vento impetuoso mentre combatte con la neve che cala nello spazio
interposto. A volte tutta la prospettiva si oscura, poi ricomp are una visione nitida, ma momentanea, dell'alto campanile,
simile allo spettro di un gigante, e ancora i fitti mulinelli turbinano nel mezzo, come se alcuni demoni si scagliassero
l'un l'altro folate di neve nell'aria. Guarda laggiù nella strada, dove il combattimento di quei demoni immaginari delle
sfere superiori trova una divertente analogia nella battaglia a palle di neve tra quegli scolaretti. Che simpatica parodia
della guerra e della gloria militare si potrebbe scrivere, in forma di racconto per bambini, descrivendo le battaghe a palle
di neve tra due scolaresche rivali, le alterne sconfitte e vittorie di ciascuna, e il trionfo finale di una di esse, o forse di
nessuna! Che accanite battaglie, degne di essere cantate in versi omerici! Che impetuosi assalti a fortezze nemiche, tutte
costruite in massicci blocchi di neve! Quali imprese di prodezza individuale, che fulgidi esempi di ardore marziale! E
infine, quando una combattuta e decisiva vittoria pone fine alla guerra, ambedue gli eserciti si uniranno per erigere un
imponente monumento di neve sul campo di battaglia, sormontato dalla statua del vincitore, scolpita anch'essa nello
stesso marmo gelato. Pochi giorni o settimane dopo, il passante osserverà quel cumulo informe nella piazza
pianeggiante, e ormai dimentico della celebrata vittoria si domanderà: «Come mai è qui? Chi l'avrà ammucchiato? E
che cosa significa?». I piedistalli di molti monumenti abbattuti di battaglie hanno suscitato analoghe domande, quando
nessuno sapeva dare risposta.
Ritorniamo al caminetto e sediamoci lì a meditare, prestando ascolto al vento, finché sembrerà forse una voce
articolata che suggerisce fantastica ed eterea materia per la penna. Se solo mi ispirasse il bozzetto della personificazione
di un inverno nel New England! E questa idea, se riesco a cogliere le figure ammantate di neve che volteggiano nella
mia fantasia, sarà l'argomento della prossima pagina.
Come annuncia il suo arrivo l'inverno? Con il soffio lacerante dell'ultimo autunno, che è il grido di lamento
della natura quando il distruttore fa irruzione tra i boschi tremanti in cui essa si è trattenuta e sparge le foglie secche
nella tempesta. Quando odono quel grido, gli uominì si avvolgono nei loro mantelli e scuotono sconsolati la testa,
dicendo: «L'Inverno è vicino!». Allora l'ascia del boscaiolo risuona secca e laboriosa nella foresta, allora i mercanti di
carbone si rallegrano perché ogni grido di dolore della natura aumenta di un po' il prezzo della loro merce, allora il
fumo della torba effonde la sua aromatica fragranza nell'aria. Pochi giorni ancora, e alla sera i bambini guardano fuori
dalla finestra e vagamente intravvedono nell'aria il fluttuare di un velo di neve, la severa veste dell'Inverno, allora
accorrono intorno al focolare e si stringono alle gonne della madre o tra le ginocchia del padre, spaventati da quella
voce cavernosa che muggisce giù per la cappa del camino. È la voce dell'Inverno, e, quando la odono, genitori e figli
rabbrividiscono ed esclamano: «L'Inverno è arrivato! Il freddo Inverno ha iniziato già il suo regno!». E ora, in tutto il
New England, ogni focolare diventa un altare che alza il fumo di un prolungato sacrificio all'implacabile divinità che
tiranneggia sulla foresta, sulla campagna e sulla città. Avvolto nel suo bianco mantello, impugnando come bastone
un'enorme stalattite, la barba e i capelli spazzati dal vento e incrostati di neve, l'Inverno vaga sulla terra, nel mezzo della
bufera del nord, e guai al vagabondo senza casa che egli sorprende sul suo cammino! Lì egli rimane, irrigidito, come
una statua umana di ghiaccio, sul luogo in cui è raggiunto dall'Inverno. A lunghi passi avanza il tiranno sui fiumi
impetuosi e sui vasti laghi, che si trasformano in roccia sotto ai suoi piedi. Il suo spoglio impero è così stabilito, e
tutt'intorno si estende la desolazione del Polo. Eppure non devono essergli ingrati i suoi figli del New England, perché
l'Inverno è il nostro signore, seppure rigido e severo, e nemmeno rimproverargli la sua inclemenza, che ha nutrito la
nostra inflessibile forza di carattere. E dobbiamo anzi ringraziarlo anche per i nostri viaggi in slitta, allietati dalla
musica di allegre campanelle, per il focolare che scoppietta, mentre la luce rossa del fuoco illumina le figure degli
uomini induriti e le rosee gote delle donne, e per tutti i piaceri della casa e le affini virtù che fioriscono in questa terra
gelata. Non è che ci lamentiamo quando, dopo circa sette mesi di tempesta e di rigido gelo, vediamo ricomparire la
Primavera, che in veste di vergine inghirlandata scaccia il canuto despota tempestandolo con manciate di viole e
disseminando di erba verde il sentiero alle sue spalle. Spesso, finché non rinuncia definitivamente al suo impero, il
vecchio Inverno ritorna furiosamente, scagliando folate di neve contro la tremante Primavera, ma passo dopo passo è
costretto a ritirarsi a nord, per trascorrere i mesi estivi dentro i confini del Circolo artico.
Queste fantasie, mescolate con più gravi pensieri, hanno fatto trascorrere piacevolmente questa giornata
invernale. Nel frattempo, la bufera ha infuriato senza sosta e ora, mentre va declinando il breve pomeriggio, scaglia
masse di neve ancora più fitte nell'aria. Sul davanzale della finestra si è già posato uno strato di neve che arriva a metà
della lastra di vetro più bassa. Il giardino è una sola coltre uniforme. Nella strada si vedono ancora due o tre chiazze di
terra nuda, dove il vento ha spazzato la neve, ammucchiandola altrove, sulla cima delle palizzate, o in enormi cumuli.103
davanti alla porta delle case. Si vede un solitario passante, che arranca sprofondando fino a metà gamba nella neve e poi
sgambetta sul terreno scoperto, nella sua mantella gonfiata dal vento. Si ode poi un tintinnio di campanelle e un fruscio
sibilante che risponde alla faticosa avanzata di un cavallo tra i cumuli ininterrotti di neve, annunciando il passaggio di
una slitta con un ragazzino aggrappato dietro, il capo chino per non essere scorto dal conducente. Giunge poi una slitta
più grande, carica di legname per qualche padrone di casa imprevidente che l'Inverno ha sorpreso davanti al camino
spento. Ma quale malinconico corteo avanza ora a fatica nella strada accidentata? È un carro funebre, coperto di neve,
che attraverso la bufera porta un defunto al suo letto gelato. Com'è triste un funerale in inverno, quando il grembo della
madre Terra non ha calore da offrire al suo povero figlio!
La sera, la prima vigilia di dicembre, inizia a distendere il suo velo sempre più fitto sulla desolata scena; la luce
del fuoco a poco a poco si ravviva e getta la mia ombra guizzante sulle pareti e sul soffitto della stanza, ma intanto la
bufera continua a infuriare e a scuotere le finestre. Rabbrividisco e penso che è il momento dello sconforto, ma mentre
lancio un ultimo sguardo alla Natura morta sotto il suo sudario, intravvedo uno stormo di tordi che si libra lievemente in
volo nella tempesta e svolazza da un cumulo di neve all'altro, con la stessa agilità delle rondini al delizioso sbocciare
dell'estate. Da dove sono venuti? Dove costruiscono il loro nido e cercano il cibo? Perché, pur dotati di ali, non
inseguono l'estate intorno alla terra, anziché diventare compagni di gioco della bufera e svolazzare ai margini desolati
dell'inverno? Non so da dove vengono, né perché, eppure il mio spirito è stato allietato da quello stormo vagabondo di
tordi.
I SETTE VAGABONDI
Mentre vagabondavo a piedi nella primavera della mia vita e nell'estate di quell'anno, giunsi un pomeriggio a
un crocevia che mi offriva la scelta tra tre direzioni. Davanti a me, la strada principale si estendeva polverosa fino a
Boston, alla sinistra una diramazione andava verso il mare e avrebbe allungato il mio cammino di venti o trenta miglia,
mentre seguendo il sentiero di destra sarei potuto giungere attraverso colline e laghi fino al Canada, visitando lungo la
strada la celebre cittadina di Stamford. Su uno spiazzo erboso, ai piedi del cartello stradale, mi apparve qualcosa che,
pur essendo locomotore per un diverso principio, mi ricordava la casa portatile di Gulliver tra i Brobdingnag. Era un
grande carrozzone coperto, o, più propriamente, una piccola casa su ruote, con una porta da una parte e una finestra
chiusa da imposte verdi dall'altra. Due cavalli, legati accanto al veicolo, biascicavano la biada nei cesti appesi al collo, e
un piacevole suono di musica proveniva dall'interno, così che immaginai subito che fosse qualche spettacolo ambulante,
fermatosi alla confluenza delle strade per intercettare oziosi viandanti come me. Una grossa nuvola di pioggia saliva già
da tempo nel cielo a occidente, e ora incombeva così nera sulla strada davanti a me che ritenni prudente chiedere lì
rifugio.
«Ehilà! Chi è di guardia? Sta dormendo il guardiano?», gridai, avvicinandomi a una scaletta di due o tre
gradini calata giù dal carro.
La musica cessò al mio richiamo, e sulla porta comparve non già il tipo di figura che avevo mentalmente
attribuito al saltimbanco ambulante, ma un rispettabile e anziano personaggio, così che mi dispiacque di averlo
interpellato in tono così confidenziale. Indossava un pastrano color tabacco, abiti modesti, alti stivali bianchi, e
mostrava quella modesta dignità dell'aspetto e dei modi che si può spesso notare nei vecchi maestri di scuola, e a volte
nei diaconi, nei consiglieri municipali e in altre simili autorità. Una piccola moneta d'argento fu il mio passaporto per
entrare in casa sua, dove trovai una sola altra persona che in seguito descriverò.
«È una brutta giornata per gli affari», disse l'anziano signore, introducendomi nel carro, «ma ho fatto sosta qui
solo per rinfrescare i cavalli, perché sono diretto al raduno all'aperto di Stamford».
Forse la scena mobile di questo racconto sta ancora peregrinando per il New England, consentendo così al
lettore di verificare la precisione della mia descrizione. Lo spettacolo, perché non userò l'indegno termine di teatrino
delle marionette, consisteva in una moltitudine di minuscoli personaggi riuniti su un palcoscenico in miniatura. Tra essi,
comparivano artigiani d'ogni genere, nella posa del loro lavoro, un gruppo di belle dame e allegri cavalieri che si
preparavano alla danza, e una compagnia di fanti schierati sul palco, con un aspetto così severo e truce da dare sollievo
al pensiero che non erano alti più di tre pollici, e sul tutto faceva bella mostra di sé un buffone, col cappello a punta e
l'abito variopinto del suo mestiere. Tutti gli abitanti di questo mondo in miniatura erano immobili, come figure di un
quadro, o come coloro che un attimo prima sono vivi, nel mezzo delle loro attività e divertimenti, e quello dopo sono
trasformati in statue, preservando per sempre l'impressione di un lavoro terminato o di un piacere che non può essere
più provato. Subito dopo, però, l'anziano signore girò la manovella di un organetto, e la sua prima nota produsse un
effetto elettrizzante su quelle figure, ridestandole tutte alle loro consuete occupazioni e passatempi. Per questo stesso
impulso, il sarto infilò il suo ago, il martello del fabbro calò sull'incudine, i ballerini volteggiarono in punta di piedi, la
compagnia dei soldati si divise in plotoni e si ritirò dal palcoscenico, dove fu seguita da un drappello di cavalleggeri con
tanti squilli di tromba e rimbombo di zoccoli da spaventare don Chisciotte in persona, mentre un vecchio e inveterato
ubriacone sollevava una bottiglia nera per trangugiare una generosa sorsata. Nel frattempo, il buffone iniziava a fare
salti e capriole, dimenando i fianchi, annuendo col capo e strizzando l'occhio in modo così verosimile che sembrava
ridicolizzare l'assurdità delle cose umane e farsi gioco degli altri personaggi sotto di lui. Infine, il vecchio stregone (lo.104
paragonavo infatti a Prospero, che intratteneva i suoi ospiti con una rappresentazione di ombre) interruppe lo spettacolo
per darmi modo di esprimere il mio stupore.
«Che mirabile capolavoro!», esclamai, alzando le mani per l'ammirazione.
E in effetti ero ammirato dello spettacolo, e anche incuriosito dalla gravità di quel vecchio che vi presiedeva,
perché sono esente da quella insulsa saggezza che induce a riprovare ogni attività che non sia utile in questo mondo di
vane apparenze. Se possiedo una capacità in misura superiore a molti altri, è quella di calarmi mentalmente in situazioni
estranee alla mia e di riconoscere allegramente gli aspetti desiderabili di ciascuna. Potevo invidiare la vita di quell'uomo
dai capelli grigi, trascorsa in un corso di sicure e piacevoli avventure, guidando il suo grande veicolo a volte tra le
sabbie di Cape Cod e altre volte sulle impervie strade tra le foreste del nord e dell'est, fermandosi ora sul prato
antistante la casa di riunione di un villaggio, ora sulla piazza lastricata di una metropoli. Quante volte il suo cuore
doveva essere stato allietato dallo stupore dei bambini che guardavano queste figure animate! e quante volte il suo
orgoglio dev'essere stato lusingato mentre spiegava dottamente a un pubblico di adulti i meccanismi che producevano
così stupefacenti effetti! e quante volte la sua galanteria (una qualità di cui questi uomini così gravi non sono mai privi)
dev'essere stata solleticata dalla visita di graziose fanciulle! E con quanta rinnovata vitalità deve poi fare ritorno, di
quando in quando, alla sua peculiare dimora!
«Vorrei avere anch'io una vita felice come la sua», pensai.
Anche se il carrozzone avrebbe potuto contenere quindici o venti spettatori, in quel momento ospitava soltanto
il suo proprietario e me, oltre a una terza persona cui lanciai un'occhiata entrando. Era un giovanotto d'aspetto garbato e
compito, tra i ventidue e i ventitré anni: il suo cappello grigio e la redingote verde col bavero di velluto erano eleganti,
ma non più nuovi, e un paio di occhiali verdi, che sembravano inutili per i suoi occhietti vivaci, gli conferivano un'aria
da studioso o letterato. Dopo avermi lasciato il tempo sufficiente per ammirare le marionette, si fece avanti con un
inchino e richiamò la mia attenzione verso alcuni libri in un angolo del carrozzone, che iniziò poi a esaltare con
straordinario eloquio di forbite parole e con così ingenuo entusiasmo da conquistare il mio cuore, essendo anch'io il più
generoso dei critici. In effetti il campionario richiedeva una certa capacità di convinzione da parte del venditore, perché
comprendeva alcuni miei vecchi amici, i romanzi di quei tempi felici in cui i miei affetti oscillavano tra i clan scozzesi e
Pollicino, oltre ad altri di più recente data, i cui meriti non sono stati riconosciuti dal pubblico. Fui lieto di trovare quel
caro e venerando volume che è il
Sillabario del New England, in apparenza antico come sempre, anche se giunto allasua millesima ristampa, e un fascio di ormai antiquati libri illustrati con la costola dorata mi fecero sentire così bambino
che, un po' per le sgargianti copertine, un po' per le fiabe contenute, li acquistai in blocco, e anche un assortimento di
ballate e canti popolari attinse abbondantemente dal mio borsellino. Per compensare queste spese, lasciai da parte
sermoni e libri di scienza e morale, anche se erano lì presenti, e anche una
Vita di Franklin, in carta così ruvida ma cosìlussuosamente rilegata da semb rare emblematica del Dottore stesso, nell'abito di corte che si rifiutò di indossare a
Parigi, nonché un manuale di pronuncia Webster, alcuni poemetti minori di Byron e cinque o sei piccoli Testamenti al
prezzo di venticinque cents ciascuno.
Fin qui questa miscellanea poteva essere stata ramazzata in una grande libreria o scelta in una sala delle aste,
ma vidi anche un libriccino con la copertina azzurra che il venditore mi porse con aria così particolare che lo acquistai
subito al suo prezzo, e allora, per la prima volta, mi colse il pensiero che avevo forse parlato faccia a faccia con
l'autentico autore di un libro stampato. Il letterato mi manifestò allora molta gentilezza, così che mi azzardai a
domandargli in quale direzione stesse viaggiando.
«Oh», mi rispose, «tengo compagnia a questo anziano signore, e siamo diretti ora verso il raduno all'aperto di
Stamford».
Mi spiegò poi che per quella stagione aveva affittato un angolo del carrozzone come libreria che, come osservò
argutamente, era diventata una vera e propria Biblioteca circolante, perché erano poche le parti del paese che non avesse
ancora visitato. Approvai entusiasticamente il progetto, e iniziai a elencare tra me e me tutti gli insoliti piaceri della vita
di un venditore ambulante di libri, soprattutto quando il suo carattere assomigliava a quello del personaggio che avevo
davanti. In primo luogo, era da tener presente il quotidiano piacere di colloqui come questo, in cui egli diventava
oggetto dell'ammirazione di uno sconosciuto di passaggio, facendogli sapere che un uomo di gusti letterari e perfino
autore di libri viaggiava per il paese a bordo di un carrozzone per spettacoli di marionette. Ancor maggiore
soddisfazione, ma non meno frequente, poteva trovarla nella conversazione con qualche anziano ecclesiastico che
vegetava da tempo in qualche sperduto insediamento tra le montagne, i boschi o le acque del New England, che nel
mentre arricchiva la sua biblioteca col campionario di sermoni del venditore ambulante, lo avrebbe esortato a perseguire
un'istruzione universitaria e a diventare il primo allievo del suo corso. Ancor più dolci e gratificanti sensazioni poteva
provare quando, parlando di poesia nel vendere sillabari, avrebbe incantato la mente e forse toccato il cuore di qualche
graziosa maestrina di campagna, lei stessa sconosciuta poetessa e dotata di una cultura che nessuno, tranne lui, si era
mai degnato di considerare. Ma il momento del suo maggiore trionfo poteva averlo quando il carrozzone faceva sosta
per la notte e il suo campionario di libri era esibito in qualche affollata taverna, e alla variegata compagnia, fosse un
viaggiatore di città, un carrettiere delle colline, un possidente dei dintorni, il padrone stesso del locale o il suo incolto
stalliere, egli avrebbe decantato le opere adatte a ciascun gusto e capacità, dimostrando nel frattempo, con le sue acute
critiche e profonde osservazioni, che il tesoro contenuto nei suoi libri era financo inferiore a quello del suo cervello.
Felicemente, avrebbe così attraversato il paese, a volte come araldo nel cammino della Mente, a volte
camminando sotto braccio all'imponente Letteratura, raccogliendo ovunque una messe di autentica e tangibile
popolarità, nella quale non avrebbero mai potuto sperare i reclusi scribacchini delle cui fatiche egli viveva..105
«Se mai avrò a che fare con la letteratura», pensai allora, ergendomi con adamantina determinazione, «sarà
come venditore ambulante di libri».
Anche se era ancora metà del pomeriggio, era ormai tutto scuro intorno a noi, e qualche goccia di pioggia
cominciò a cadere sul tetto del carrozzone, picchiettando come le zampette di un uccello che lì si era posato per
riposare. Un'eco di piacevoli voci ci fece mettere in ascolto, e poco dopo comparve sulla scaletta la graziosa figura di
una damigella, con un volto così roseo e sorridente che, anche in quella luce fosca, sembrava che i raggi del sole
facessero capolino sotto alla sua cuffia. Vedemmo poi un bel giovane bruno che, con maggior galanteria di quanta era
da attendersi nel cuore della terra degli Yankee, la aiutava a salire sul carro. Fu subito evidente, quando i due
sconosciuti si affacciarono alla porta, che la loro professione era affine a quella dei miei compagni. Fui particolarmente
compiaciuto della gentilezza più che ospitale, perfino paterna, con cui il vecchio burattinaio li accolse, mentre il
giovane letterato si affrettava ad accompagnare la ridente fanciulla per farla accomodare su una lunga panca.
«Avete trovato alloggio appena in tempo, miei giovani amici», disse il padrone del carro. «Il cielo sarebbe
piombato su di voi entro cinque minuti».
La risposta del giovane rivelò che era forestiero, non per qualche diversità nell'idioma o nell'accento del
corretto inglese, ma perché parlò con maggior cura e precisione di chi ha una perfetta conoscenza della lingua.
«Sapevamo che un acquazzone incombeva su di noi», rispose, «e ci siamo domandati se era meglio salire alla
casa sulla cima di quella collina laggiù, ma nel vedere il vostro carrozzone nella strada...».
«... abbiamo deciso di venire qui», soggiunse la ragazza con un sorriso, «perché ci sentiamo più a nostro agio
in una casa ambulante come questa».
Nel frattempo, io osservavo attentamente, tra molte e confuse fantasie, quei due colombi che erano volati nella
nostra arca. Il giovane, alto, snello e atletico, aveva una massa di riccioli neri e lucenti che incorniciavano un viso scuro
e vivace, che pur non essendo più espressivo, era quanto meno più mobile e attirava maggior attenzione dei placidi volti
dei nostri conterranei. Quand'era comparso, era carico di una bella cassa di mogano di quasi due metri quadri, ma molto
leggera in proporzione alle sue dimensioni, che aveva subito scaricato dalle spalle per posarla sul pavimento del carro.
La ragazza aveva una carnagione quasi chiara come le nostre belle donne, ma ancor più luminosa; la
leggerezza della sua figura, che sembrava fatta apposta per traversare tutto il mondo senza stancarsi, ben si intonava
all'espressione radiosa del volto, e il suo vivace abbigliamento, che comb inava le sfumature dell'arcobaleno, dal cremisi
al verde e all'arancione, si confaceva al suo leggiadro aspetto come se l'avesse indosso da quando era nata. La gaia
sconosciuta aveva con sé, come si conveniva, quell'allegro strumento che è il violino, e il suo compagno glielo prese di
mano per iniziare poco dopo ad accordarlo. Nessuno di noi della precedente compagnia del carrozzone aveva bisogno di
chiedere qual era il loro mestiere, perché non poteva essere un mistero per coloro che frequentavano allegre brigate,
feste religiose, mostre di bestiame e altri festosi raduni della nostra terra austera. Un mio caro amico sorriderà se questa
pagina richiamerà alla sua memoria una cavalleresca impresa da noi compiuta per salvare la lanterna magica di una
coppia come questa dalle grosse mani di una folla di contadini.
«Ebbene», dissi alla damigella di brioso aspetto, «vogliamo visitare insieme tutte le meraviglie del mondo?».
Lei capì subito la metafora, anche se non mi sarei molto sorpreso se avesse acconsentito al significato letterale
delle mie parole. La cassa di mogano era stata posata nella posizione adatta, e sbirciai attraverso la sua finestrella
rotonda d'ingrandimento, mentre la ragazza seduta al mio fianco descriveva con brevi cenni le immagini che si
susseguivano, una dopo l'altra, alla mia vista. Visitammo insieme, almeno nella fantasia, molte città famose, nelle cui
strade sognavo da tempo di passeggiare: ricordo che una volta eravamo nel porto di Barcellona, da dove guardavamo
verso la città, dopo di che mi portò per via aerea in Sicilia, dove mi invitò ad ammirare l'Etna incandescente, poi
prendemmo il volo per Venezia, dove passammo in gondola sotto il ponte di Rialto, e quindi mi fece accomodare tra la
folla degli spettatori all'incoronazione di Napoleone. Ma c'era ancora una scena, in un luogo che lei non seppe dirmi,
che richiamò la mia attenzione più a lungo di tutti quegli splendidi palazzi e chiese, perché la fantasia mi diceva che la
precedente estate avevo già visto quell'umile casa di riunione, proprio in quell'angolino circondato dai pini nelle nostre
verdi montagne. Tutte queste immagini erano eseguite piuttosto bene, ma di qualità di gran lunga inferiore alle
descrizioni della ragazza, e non era facile capire come riuscisse in così poche frasi, e in una lingua che per lei doveva
essere straniera, a presentare una così alata visione di ogni diversa scena. Dopo aver viaggiato in tutta la vasta
estensione della cassa di mogano, guardai in volto la mia guida.
«Dove stai andando, mia graziosa fanciulla?», le domandai, usando le parole di una vecchia canzone.
«Ah», rispose la gaia damigella, «potresti domandare nello stesso modo dove va il vento d'estate. Siamo
vagabondi, qui, là e ovunque. Ovunque c'è allegria, i nostri lieti cuori sono lì richiamati. E in effetti oggi ci hanno
parlato di grandi feste e baldorie da queste parti, e quindi la nostra presenza è forse necessaria in quello che chiamate
raduno all'aperto di Stamford».
E allora, nella mia spensierata giovinezza, mentre la sua piacevole voce risuonava ancora nelle mie orecchie,
sospirai, perché nessuno quanto me, pensai, meritava di essere suo compagno in una vita che sembrava la realizzazione
delle mie sfrenate fantasie, accarezzate per tutta un'infanzia di sogni fino a quel momento. Per questi due sconosciuti. il
mondo era nella sua età dell'oro, non perché fosse meno cupo e triste che mai, ma perché la sua stanchezza e i suoi
dispiaceri non avevano nulla in comune con la loro eterea natura. Ovunque li portasse il loro felice pellegrinaggio, la
Giovinezza avrebbe riecheggiato la loro allegria, la Maturità provata dagli affanni avrebbe trovato un attimo di tregua
dalle sue fatiche, e la tarda Età, zoppicando tra le tombe, avrebbe sorriso per loro nella sua appassita letizia. La casupola
solitaria, la strada stretta e buia, l'ombra cupa avrebbero colto un fuggevole bagliore, come quello che splendeva ora tra.106
noi, quando questi spiriti lieti passavano lì accanto. Benedetta coppia, la cui casa felice era ovunque nel mondo!
Guardai le mie spalle, e mi sembrarono abbastanza larghe per sostenere quelle città e montagne lì rappresentate; e anche
i miei piedi erano elastici e instancabili come le ali dell'uccello del paradiso, e il mio cuore, che era allora privo di
affanni, poteva proseguire cantando il suo lieto cammino.
«O fanciulla!», esclamai allora ad alta voce, «perché non venisti qui sola?».
Mentre la ragazza e io eravamo occupati con la lanterna magica, la pioggia incessante aveva spinto un altro
viandante verso il carrozzone. Sembrava avere più o meno l'età del vecchio burattinaio, ma era molto più piccolo,
magro ed emaciato di lui, e meno decorosamente vestito nel suo abito grigio rappezzato; aveva inoltre un contegno
incerto e scaltro, e due piccoli occhi grigi che scrutavano un po' troppo acutamente dalle loro orbite infossate. Il vecchio
scherzava col burattinaio in un modo che faceva presumere una precedente conoscenza, ma quando vide che la ragazza
e io avevamo cessato di parlare, prese dalla tasca un documento piegato e me lo presentò. Come avevo previsto, si
trattava di un certificato, scritto in bella e leggibile calligrafia, e firmato da alcuni eminenti personaggi che non avevo
mai sentito nominare, e in esso si dichiarava che il latore della presente si era imbattuto in ogni sorta di disavventura e
lo si raccomandava all'attenzione di tutte le persone caritatevoli. I precedenti esborsi mi avevano lasciato soltanto una
banconota da cinque dollari, con la quale mi offrii di fare un'elemosina al mendicante, a condizione che me ne desse il
resto. L'oggetto della mia beneficenza mi scrutò in volto e riconobbe che non avevo quello spirito abominevole, che è
pur caratteristico di tutti i veri Yankee, incline a provare piacere nel vedere la frode anche negli atti più innocenti.
«Forse», rispose il lacero mendicante, «non saprei dire se questa banca è in buone condizioni, ma posso avere
con me abbastanza di che cambiare la tua banconota».
«È una banconota della banca del Suffolk», protestai, «e vale più della moneta d'oro».
Il mendicante non ebbe niente da obiettare e prese allora un sacchetto di pelle scamosciata, accuratamente
legato con un laccio per scarpe, e quando lo aprì comparve un vero tesoro di monete d'argento di ogni tipo e
dimensione, tra le quali mi sembrò di veder scintillare perfino il piumaggio dorato di quel raro uccello della nostra
numismatica, che è l'Aquila americana. In quel prezioso gruzzolo fu depositata la mia banconota, con un tasso di
cambio considerevolmente sfavorevole a me. Soddisfatti così i suoi bisogni, il povero indigente prese dalla tasca un
vecchio mazzo di carte bisunte, che avevano probabilmente contribuito a gonfiare il suo sacchetto di pelle, e in più di un
modo.
«Su», mi disse, «intravvedo una rara fortuna sul tuo volto, e per altri venticinque cents ti dirò di che si tratta».
Non rifiuto mai di sbirciare nel futuro, e così, dopo che furono mescolate le carte e la bella damigella le ebbe
tagliate, ne distribuii una parte al profetico accattone. Come altri suoi colleghi, prima di predire gli oscuri eventi che
stavo per incontrare, diede prova delle sue doti sovrannaturali descrivendo episodi che avevo già vissuto. Mi sia ora
concesso credito di una pura e semplice verità: quando il vecchio ebbe letto una pagina nel suo libro del destino, puntò i
suoi acuti occhi grigi nei miei e iniziò a riferire, in tutti i più minuziosi particolari, quello che era stato fin'allora il più
singolare avvenimento della mia vita. Era un episodio che non avevo alcuna intenzione di rivelare, fino al giorno in cui
saranno svelati tutti i segreti, e non sarebbe un caso molto più strano di imperscrutabile conoscenza, o di fortunata
congettura, se oggi stesso un mendicante mi incontrasse per strada e ripetesse, parola per parola, ciò che ho scritto in
questa pagina. Poi il cartomante, dopo avermi predetto un destino che col tempo sembra riluttante ad avverarsi, prese le
sue carte, nascose il sacchetto del suo tesoro e iniziò a conversare con gli altri occupanti del carrozzone.
«Dunque, vecchio amico», disse il burattinaio, «non ci hai ancora detto da quale parte rivolgi la faccia, questo
pomeriggio».
«Sono in viaggio per il nord, con questo caldo», rispose l'indovino, «attraverso il Connecticut, dapprima , e poi
il Vermont, e forse fino in Canada prima dell'autunno. Ma prima devo fermarmi ad assistere all'inaugurazione del
raduno all'aperto di Stamford».
Cominciavo a pensare che tutti i vagabondi del New England stessero convergendo a quel raduno e si fossero
dati appuntamento al carrozzone. Il suo proprietario propose allora che, una volta cessato l'acquazzone, proseguissero
insieme sulla strada per Stamford, essendo talvolta consuetudine di queste persone formare insieme una sorta di
sodalizio o confraternita.
«Anche la giovane dama» intervenne il galante bibliofilo, profondendosi in un inchino, «e questo forestiero, a
quanto ho capito, sono in gita di piacere per lo stesso luogo. Sarebbe di mio incalcolabile piacere, e presumo anche del
mio collega e del suo amico, se si lasciassero convincere a unirsi alla nostra comitiva».
La proposta fu approvata per unanime consenso, e nessuna delle persone interessate era sensibile ai suoi
vantaggi quanto me, che non avevo alcun titolo per far parte della compagnia. Avendo già conosciuto i diversi modi con
cui gli altri quattro perseguivano la felicità, mi impegnai allora a scoprire quali erano i peculiari piaceri del vecchio
straccione, come la gente di campagna avrebbe sicuramente definito quel mendicante e profeta. Considerata la
familiarità che egli vantava col demonio, immaginai che fosse propenso a perseguire il suo modo di vita e a trarne
piacere impadronendosi di alcune delle sue caratteristiche mentali e morali, quelle più superficiali e ridicole
nell'immaginazione popolare, tra le quali l'amore per l'inganno fine a se stesso, la capacità di riconoscere e sfruttare le
debolezze umane e le sue ridicole infermità, il talento nel meschino inganno. Quel vecchio avrebbe quindi trovato
piacere anche nella coscienza, per alcuni insopportabile, che tutta la sua vita era una truffa ai danni del mondo, e che nei
rapporti con gli altri le sue piccole astuzie avevano la meglio sulla loro intelligenza congiunta. Ogni giorno gli avrebbe
offerto una serie di meschini successi, come quando, per esempio, le sue importune insistenze strappavano un'elemosina
dal cuore di un avaro, o come quando la mia sciocca bontà d'animo mi aveva indotto a trasferire una parte dei miei.107
magri averi nel suo gonfio sacchetto di pelle, come quando qualche compiaciuto signore gettava con ostentazione una
moneta a quel lacero mendicante che era in realtà più ricco di lui, o come quando, pur non essendo sempre così
diabolico, la sua presunta indigenza gli faceva dividere il misero pasto di un vero indigente. E poi, quale inesauribile
miniera di piacere dovevano offrire al suo spirito maligno le sue presunte capacità profetiche, che gli consentivano di
riconoscere tanta ingenuità e di realizzare insieme tanti piccoli raggiri!
Tutto ciò contribuiva a una sorta di felicità che potevo ben immaginare, anche se mi era poco congeniale.
Forse, se fossi stato disposto ad ammetterlo, avrei capito che quella vita raminga era più adatta a lui che a tutti i suoi
compagni, perché Satana, al quale avevo paragonato il pover'uomo, si è sempre divertito fin dai tempi di Giobbe a
«vagare su e giù per la terra», e in effetti la scaltrezza, che non agisce con piani prestabiliti, ma attraverso sconnessi
stratagemmi, non potrebbe avere un sufficiente campo d'azione se non è naturalmente stimolata da continui mutamenti
della scena e dell'ambiente sociale. Le mie riflessioni furono a questo punto interrotte.
«Abbiamo un'altra visita», esclamò il vecchio burattinaio.
La porta del carrozzone era stata chiusa contro il temporale che stava ora infuriando e strepitando con insolita
violenza e fragore, e batteva contro il nostro rifugio come per rivendicare come sua legittima preda tutti quei vagabondi
senza tetto, mentre noi, incuranti della furia degli elementi, continuavamo tranquillamente a parlare. Qualcuno stava
tentando di aprire la porta, e seguì poi una voce che pronunciava strane parole incomprensibili, che i miei compagni
interpretarono come greco, mentre io sospettai che fosse un gergo usato dai ladri. In ogni caso, il padrone del carro si
fece avanti per dare accesso a un personaggio tale da farmi pensare che il carro fosse ritornato indietro di due secoli nel
passato, oppure che la foresta e i suoi antichi abitanti fossero sorti intorno a noi come per incantesimo.
Era un pellerossa, armato di arco e frecce. Portava un copricapo adorno di una sola piuma di qualche uccello
selvatico e una giubba di tela azzurra che lo fasciava strettamente, e sul suo petto erano appesi, come onorificenze, una
mezzaluna e un cerchio, e altri ornamenti d'argento, mentre un piccolo crocefisso faceva capire che il Santo Padre, il
papa, si era interposto tra l'indiano e il Grande Spirito, che questi aveva venerato nella sua ingenuità. Poi questo figlio
della foresta e profugo della tempesta prese posto silenziosamente in mezzo a noi. Superato il primo momento di
sorpresa, immaginai a ragione che facesse parte della tribù dei Penobscot, di cui avevo visto spesso comitive nelle loro
escursioni estive lungo i nostri fiumi orientali, dove spingevano le loro canoe di betulla tra le golette ancorate lungo la
costa, costruivano le loro tende accanto a qualche diga ruggente e facevano un po' di commercio con i loro canestri là
dove i loro padri cacciavano un tempo il daino. Il nostro visitatore stava probabilmente attraversando la regione alla
volta di Boston, mantenendosi grazie all'incurante elemosina di chi incontrava e sfruttando con profitto la sua abilità di
arciere colpendo le monetine che erano il premio della sua infallibile mira.
L'indiano si era da poco seduto quando la nostra allegra damigella tentò di coinvolgerlo nella conversazione.
Sembrava in effetti circonfusa del sole di maggio, perché non c'era niente di scuro e tetro che il suo amabile sguardo
non potesse illuminare, e anche il selvaggio, simile a un abete della sua foresta natale, iniziò ben presto a illuminarsi in
una sorta di cupa giovialità. Infine, la giovane gli domandò se il suo viaggio aveva una particolare meta o scopo.
«Vado a tirar con l'arco al raduno di Stamford», rispose l'indiano.
«E qui ce ne sono altri cinque», osservò la ragazza, «tutti diretti anch'essi al raduno. Sarai dei nostri, perché
anche noi viaggiamo col cuore leggero, e in quanto a me canto allegre canzoni e racconto storie allegre, sono piena di
pensieri allegri e danzo allegramente per la strada, così che non c'è mai tristezza tra coloro che sono in mia compagnia.
E invece ti sembrerebbe molto noioso il cammino tutto solo fino a Stamford!».
Le mie considerazioni sul carattere dell'aborigeno mi indussero a temere che avrebbe preferito le sue solitarie
meditazioni all'allegra compagnia che gli era offerta, ma al contrario la proposta della ragazza fu immediatamente
accettata, e sembrò anzi animarlo di un vago senso di attesa. Iniziai poi una successione di pensieri che, derivassero da
questo concorso di avvenimenti o fossero ispirati da un'estemporanea fantasia, fecero vibrare la mia mente come
ascoltando una musica intensa. Vidi l'umanità, in questa stanca vecchiaia del mondo, che trascinava una pigra esistenza
tra il fumo e la polvere delle città, oppure, quando respirava un'aria più pura, distesa nella notte senz'altra speranza che
quella di consumare il domani e tutti i domani della vita nello stesso monotono ambiente e nella stessa logorante fatica
che avevano offuscato la luce del sole di oggi. Ma ve n'erano alcuni, animati da spirito primordiale, che conservavano la
freschezza della gioventù fino agli ultimi anni grazie alla continua emozione di nuovi oggetti, nuove imprese, nuove
conoscenze, e che ben poco si curavano se, pur essendo nati qui nel New England, sarebbero stati calati in una tomba in
Asia centrale. Il destino aveva chiamato a convegno questi spiriti liberi, ed essi, ignari dello stimolo che li dirigeva
verso una comune meta, erano convenuti qui da luoghi vicini e lontani, e ultimo tra loro era comparso il rappresentante
di quei nobili nomadi che avevano cacciato il daino per migliaia di anni, e lo cacciavano ancora nelle terre del Grande
Spirito. Mentre egli vagava attraverso la distesa del tempo, le foreste erano scomparse sul suo cammino, il suo braccio
aveva perduto un po' della sua forza, il piede la sua agilità, il contegno la sua fiera regalità, il cuore e la mente le loro
primitive virtù e la forza spontanea, ma, refrattario alle consuetudini della vita artificiale, ramingo sulla strada polverosa
come un tempo tra gli alberi della foresta, l'indiano era sempre presente.
«Ebbene», disse ad un tratto il vecchio burattinaio tra queste mie riflessioni, «eccoci qui in onesta compagnia:
uno, due, tre, quattro, cinque, sei: tutti diretti al raduno di Stamford. E ora, sperando di non recargli offesa, vorrei sapere
dove è diretto questo giovanotto».
Trasalii, domandandomi: come mai mi trovo tra questi vagabondi? La mente libera, che preferiva la propria
follia all'altrui saggezza, lo spirito aperto, che trovava ovunque compagnia, e soprattutto un'innata inquietudine, che così
spesso mi aveva fatto sentire infelice in mezzo ai piaceri: questi erano i motivi per cui mi trovavo con loro..108
«Amici miei!», esclamai, facendo un passo verso il centro del carrozzone, «verrò con voi al raduno di
Stamford!».
«Ma con quali capacità?», domandò il vecchio burattinaio, dopo un attimo di silenzio. «Tutti noi possiamo
guadagnarci il pane in qualche modo plausibile. Ogni persona onesta dovrebbe guadagnarsi da vivere, e tu, a quanto
pare, sei soltanto un giovin signore a passeggio».
Li informai allora che la natura, dandomi questa propensione al loro modo di vita, non mi aveva lasciato del
tutto privo delle risorse necessarie, anche se non potevo negare che le mie capacità erano inferiori e forse meno
redditizie delle più modeste delle loro. Il mio progetto, insomma, era quello di imitare i favolisti di cui hanno parlato i
viaggiatori in Oriente, e di diventare un narratore ambulante che raccontava le sue fantasie estemporanee al pubblico
che riusciva a raccogliere.
«Questa è la mia vocazione», conclusi, «altrimenti sono nato invano».
Il cartomante, ammiccando furbescamente alla compagnia, propose di ingaggiarmi come apprendista dell'una o
dell'altra delle sue professioni, che sicuramente avrebbero offerto ambedue ampie prospettive a quelle capacità
inventive che potevo possedere. Il bibliofilo si pronunciò contro il mio progetto, in parte influenzato, sospetto,
dall'invidia dello scrittore, in parte dal timore che questa pratica orale potesse diffondersi tra i narratori, a infinito
discapito del commercio librario. Temendo di essere respinto, sollecitai allora l'interesse dell'allegra damigella.
«Allegria!», esclamai, appropriandomi opportunamente delle sue parole. «Sei tu che corteggio! Allegria,
ammettimi nella tua compagnia!».
«Assecondiamo questo povero giovane», rispose l'Allegria, con una dolcezza che me la rese ancor più cara,
anche se non ero così vanitoso da fraintendere le sue motivazioni. «Ho scorto in lui molte qualità promettenti. È vero,
una nuvola passa talvolta attraverso la sua fronte, ma subito dopo torna a risplendere la luce del sole. Non è mai
colpevole di tristi pensieri, perché quelli allegri sono loro gemelli. Portiamolo con noi, e vedrete che strapperà a tutti
una risata prima che si arrivi al campo di Stamford».
La sua voce mise a tacere le remore degli altri e mi guadagnò l'ammissione nella confraternita, in base ai cui
termini, in mancanza di beni e profitti comuni, dovevamo prestarci aiuto l'un l'altro e scongiurare tutto il male per
quanto ci era possibile. Sistemata la questione, una meravigliosa euforia si impadronì di tutta la nostra tribù,
manifestandosi secondo le diverse caratteristiche individuali. Il vecchio burattinaio, seduto all'organetto, diede vita alle
anime di quel popolo di pigmei con uno dei ritmi più scatenati del suo libro di musica, e sarti, fabbri, dame e
gentiluomini sembrarono tutti partecipare allo spirito di quel momento, mentre il buffone recitava la sua parte in modo
più faceto che mai, annuendo e ammiccando a me in particolare. Il giovane forestiero suonò il suo violino con mano
magistrale, accompagnando la melodia del burattinaio, mentre il bibliofilo e la damigella iniziavano
contemporaneamente a danzare, il primo esibendosi nel passo doppio con uno stile che tutti dovevano testimoniare,
prima che la settimana delle Elezioni fosse cancellata dal tempo, e la seconda, con ambedue le mani sui fianchi sottili e i
gomiti in fuori, dava prova di tale lieve agilità, armonia e varietà di pose e movimenti che non riuscivo a pensare come
potesse fermarsi, e in quel momento immaginai che la Natura l'avesse creata, così come il vecchio burattinaio aveva
creato le sue marionette, per nessun altro scopo terreno che danzare la giga. L'indiano lanciò una serie di orribili grida,
spaventandoci un po', finché le interpretammo come un canto di guerra con cui, a imitazione dei suoi antenati,
preannunciava l'assalto a Stamford. Nel frattempo, l'illusionista stava seduto appartato in un angolo, assistendo con
malizioso piacere a tutta la scena e rivolgendo a me in particolare, come il faceto buffone, le sue strane occhiate.
In quanto a me, galvanizzata la mia fantasia, iniziai a disporre e dipingere gli episodi di un racconto col quale
mi proponevo di intrattenere il pubblico quella sera stessa, perché capivo che i miei compagni erano un po' imbarazzati
dalla mia presenza e che non potevo perdere tempo nell'ottenere un pubblico riconoscimento delle mie capacità.
«Andiamo, compagni di ventura», esclamò infine il vecchio burattinaio, che avevamo eletto nostro presidente,
«il temporale è finito e dobbiamo fare il nostro dovere per quelle povere anime di Stamford».
«Andremo tra loro in processione con danze e musiche», gridò l'allegra damigella.
Di conseguenza, dovendo fare a piedi il nostro pellegrinaggio, ci precipitammo fuori dal carrozzone, saltando
tutti a terra, compreso l'anziano burattinaio con gli alti stivali bianchi, e scivolando quando atterrammo in fondo alla
scaletta. Sopra alle nostre teste, splendeva un tale trionfo di luce e di nuvole, e di sotto un tale scintillio di verzura che,
come osservai modestamente in quel momento, sembrava che la Natura si fosse lavata il volto e avesse indossato i suoi
migliori gioielli e una nuova gonna verde in onore del nostro sodalizio. Volgendo lo sguardo a nord, scorgemmo allora
un uomo a cavallo che s'avvicinava lentamente, sguazzando nelle pozzanghere sulla strada per Stamford. Veniva avanti
ergendosi rigidamente perpendicolare sulla sella, un'alta e smilza figura vestita in un nero rugginoso, nella quale il
burattinaio e l'illusionista ben presto riconobbero, come il suo aspetto rivelava a sufficienza, un predicatore itinerante di
grande fama tra i metodisti. Ciò che ci incuriosiva era il fatto che il suo volto sembrava distolto, anziché rivolto al
campo del raduno di Stamford. Tuttavia, quando questo nuovo seguace della vita vagabonda si avvicinò allo spiazzo
verde in cui si trovavano il cartello stradale e il carrozzone, i miei sei compagni e io accorremmo intorno a lui per
domandargli all'unisono:
«Quali notizie, quali notizie vengono dal raduno all'aperto di Stamford?».
E missionario abbassò lo sguardo, sorpreso da una così strana congrega di persone, quali avrebbe potuto
scegliere tra tutti i suoi eterogenei ascoltatori. In effetti, considerando che potevamo essere tutti classificati nella
categoria generale dei vagabondi, si riscontrava grande diversità di carattere tra il compassato burattinaio, lo scaltro
mendicante profetico, il forestiero violinista e la sua allegra damigella, il brillante bibliofilo, il grave e solenne indiano e.109
me, il narratore itinerante, uno smilzo giovane di diciott'anni. Mi sembrò perfino che un sorriso tentasse di turbare la
ferrea gravità sulle labbra del predicatore.
«Buona gente», rispose, «il raduno all'aperto è stato sciolto».
Detto ciò, il pastore metodista spronò la sua cavalcatura e proseguì la strada verso occidente. Annullata così la
nostra unione per la scomparsa del suo fine, ci separammo subito ai quattro venti. Il cartomante, con un cenno del capo
a tutti quanti e una particolare strizzata d'occhio rivolta a me, partì per il suo viaggio nel nord, ridacchiando tra sé
mentre prendeva la strada per Stamford. Il vecchio burattinaio e il suo assistente letterario stavano già attaccando i
cavalli al carrozzone, con l'intenzione di peregrinare verso sud lungo la costa. Il forestiero e l'allegra damigella presero
congedo ridendo, e proseguirono sulla strada verso est che io avevo già percorso quel giorno, e nell'andarsene il giovane
suonò una vivace melodia, mentre il lieto spirito della damigella eruppe in una danza, e così, sciogliendosi tra i raggi di
sole e l'allegra musica, quella simpatica coppia scomparve alla mia vista. E infine, con una nuvola pensosa sulla mente,
eppure emulo della spensierata filosofia dei miei precedenti compagni, mi unii all'indiano Penobscot e ci mettemmo in
cammino insieme verso la lontana città.
LA VECCHIA DAMA BIANCA
I raggi della luna penetravano attraverso due profonde e strette finestre e rivelavano una camera spaziosa,
riccamente arredata in uno stile antico. Da una grata, l'ombra dei vetri romboidali cadeva sul pavimento, e attraverso
l'altra la luce spettrale si addormentava su un letto, cadendo tra i pesanti tendaggi di seta e illuminando il volto di un
giovane uomo. Ma come giaceva immobile il dormiente! com'erano pallidi i suoi lineamenti! e come assomigliava a un
sudario il lenzuolo che avvolgeva il suo corpo! Era un cadavere, vestito nei suoi abiti funebri.
D'improvviso, quei rigidi lineamenti sembrarono muoversi con un cupo effetto. Che strana fantasia! Era
soltanto l'ombra della tenda frangiata che oscillò tra il volto del defunto e la luce della luna quando la porta della camera
si aprì e una ragazza si avvicinò silenziosamente al capezzale. Fu forse un illusorio effetto dei raggi lunari, oppure il suo
gesto e il suo sguardo tradirono un lampo di trionfo quando la giovane si chinò sul pallido corpo e posò le sue labbra
viventi su quelle fredde del morto? Quando si ritrasse da quel lungo bacio, i lineamenti della giovane fremettero, come
se un cuore orgoglioso stesse lottando col suo tormento. E di nuovo sembrò che i lineamenti del defunto si fossero
mossi, come rispondendo a quelli di lei. Era ancora un'illusione: la tenda di seta si era mossa una seconda volta tra il
volto del morto e la luce della luna quando un'altra giovane avvenente aveva aperto la porta, scivolando come uno
spettro accanto al letto. Lì rimasero le due fanciulle, ambedue belle, con la pallida bellezza del morto in mezzo a loro.
Ma colei che era entrata per prima era orgogliosa e altera, l'altra era tenera e fragile.
«Vattene!», esclamò la giovane altera. «Tu l'hai avuto in vita. Il morto è mio!».
«È tuo!», ripeté l'altra tremando. «Hai detto bene: il morto è tuo!».
La ragazza orgogliosa trasalì e la guardò in volto con espressione grave. Ma uno sguardo sgomento e dolente
passò sul viso dell'altra, che poi si afflosciò sul letto, debole e impotente, il capo sul cuscino accanto a quello del
defunto, mescolando i suoi capelli con i riccioli neri di lui. Era una creatura di speranza e di gioia, e il suo primo dolore
l'aveva prostrata.
«Edith!», esclamò la sua rivale.
Edith gemette, come per un'improvvisa compressione del cuore, e sollevando la guancia dal cuscino si alzò
ritta in piedi, incontrando timorosa lo sguardo della ragazza altera.
«Mi tradirai?», domandò quest'ultima con voce pacata.
«Finché il defunto non mi ordinerà di parlare, rimarrò in silenzio», rispose Edith. «Lasciaci soli insieme! Vai,
vivi per molti anni e poi ritorna e raccontami la tua vita. Anche lui sarà qui! E allora, se parlerai di sofferenze più che di
morte, ti perdoneremo tutti e due».
«E quale sarà il pegno?», domandò la ragazza altera, come se in cuor suo riconoscesse un significato in queste
parole esasperate.
«Questo ricciolo di capelli», rispose Edith, sollevando uno dei folti riccioli scuri che cadevano sulla fronte del
morto.
Le due giovani unirono le loro mani sul petto del defunto e concordarono un giorno e un'ora, molto lontani nel
tempo, per il loro prossimo incontro in quella camera. Poi la giovane altera lanciò un lungo sguardo a quei lineamenti
immobili e se ne andò, ma si voltò di nuovo tremante, finché non chiuse la porta, come temendo che il suo amante
perduto la seguisse con sguardo accigliato. E anche Edith! Non era la sua figura bianca quella che si dissolveva alla luce
della luna! Disprezzando la propria debolezza, la giovane proseguì il cammino e si accorse allora che uno schiavo negro
era in attesa nel corridoio con una candela, che poi sollevò tra il suo volto e quello di lei, guardandola, così le sembrò,
con una brutta espressione divertita. Sollevando ancor più la candela, lo schiavo le illuminò la strada giù per le scale,
poi le aprì il portone del palazzo. Il giovane pastore della cittadina aveva appena salito i gradini d'ingresso, e con un
cenno del capo le passò accanto senza pronunciare parola.
Molti anni trascorsero, e il mondo sembrò rinnovarsi, tanto più vecchio era divenuto dalla notte in cui quelle
due pallide ragazze avevano intrecciato le loro mani sopra al petto del defunto. Nel frattempo, una donna solitaria era
passata dalla gioventù all'estrema vecchiaia, ed era conosciuta da tutti, in città, come «la vecchia dama del sudario». Un.110
tocco di follia aveva segnato tutta la sua vita, ma era così sommesso, triste e dolce, così privo di qualsiasi accenno di
violenza, che ella poteva inseguire le sue innocue fantasie senza essere molestata dal mondo, con i cui affanni e piaceri
non aveva nulla a che spartire. Abitava sola, e mai usciva alla luce del sole se non per seguire i funerali. Ogni volta che
un feretro era portato nella strada, col sole, la pioggia o la neve, fosse seguito da un solenne corteo di ricchi e potenti,
oppure da pochi e umili dolenti, dietro a loro veniva quella donna solitaria nella sua lunga veste bianca che per la gente
era il suo sudario. Non prendeva posto tra i parenti e gli amici, ma rimaneva sulla soglia per ascoltare l'orazione funebre
e camminava poi dietro la processione, come se il suo compito terreno fosse quello di visitare la casa del lutto, essere
l'ombra dell'afflizione, assicurarsi che i defunti fossero propriamente sepolti. Era sua consuetudine da tanto tempo che
gli abitanti della città la consideravano parte integrante di ogni funerale, quanto il feretro o il defunto stesso, e
pensavano che fosse di malaugurio per la sorte del peccatore se la «vecchia dama del sudario» non scivolava come un
fantasma al suo seguito. Una volta, dicevano, aveva atterrito un convivio nuziale con la sua pallida apparizione
improvvisa nella grande sala illuminata, mentre il sacerdote stava unendo in matrimonio un uomo facoltoso con una
falsa vergine, prima che il suo amante fosse morto da un anno.
L'augurio era funesto per quel matrimonio. A volte, usciva furtivamente alla luce della luna per visitare le
tombe della venerabile Integrità, dell'Amore nuziale, della verginale Innocenza, e ogni altro luogo in cui si
consumavano i resti di anime gentili e fedeli. Sui cumuli di questi morti prediletti tendeva le braccia come per spargere
semi, e molti credevano che li portasse dal giardino del paradiso, perché le tombe che visitava erano verdi sotto la neve
e coperte di delicati fiori da aprile a novembre, così che la sua benedizione era migliore di una preghiera recitata sulla
lapide. Così trascorreva la sua lunga esistenza, triste, tranquilla e immaginaria, finché pochi furono vecchi come lei, e le
successive generazioni si domandavano com'erano stati sepolti i morti, e come i dolenti avevano sopportato il dolore
senza la presenza della «vecchia dama del sudario».
Trascorrevano gli anni e lei seguiva sempre i funerali, senza essere ancora chiamata alla celebrazione della sua
morte. Un pomeriggio, la strada principale della città ferveva di attività e di fermento, anche se ormai il sole indorava
soltanto la metà superiore del campanile della chiesa, dopo aver lasciato in ombra i tetti delle case e le cime degli alberi
più alti. Era una scena allegra e animata, nonostante la cupa ombra che calava tra gli alti edifici di mattoni in cui
abitavano gli arroganti mercanti con le parrucche bianche e gli abiti di velluto merlettato, i volti abbronzati di capitani
di mare; i modi stranieri, l'aria di creoli spagnoli e il portamento sprezzante dei nativi della vecchia Inghilterra, il tutto
in contrasto col rude aspetto di alcuni coloni dell'interno che negoziavano il prezzo del legname di foreste in cui non
aveva mai echeggiato prima il rumore dell'ascia. Di quando in quando passava di lì qualche signora nella sua gonfia
sottana ricamata, i passi ondeggianti sulle scarpe dal tacco alto, che rispondeva con altezzosa grazia ai compiti omaggi
degli uomini. La vita cittadina sembrava avere il suo centro non lontano da un vecchio palazzo che stava un po' discosto
dalla strada lastricata, circondato da erbacce incolte, con una strana aria solitaria che sembrava accentuata, anziché
attenuata, dalla vicinanza con la folla. Il suo posto poteva essere degnamente occupato da uno splendido edificio della
Borsa, o da eleganti negozi di mattoni con varie insegne, e il palazzo stesso poteva essere trasformato in un'aristocratica
locanda con un regale cartello appeso fuori e ospiti in ogni camera, anziché essere relegato nella sua attuale solitudine.
Invece, a causa di qualche disputa sull'eredità, la dimora era rimasta a lungo senza inquilini, decadendo di anno in anno,
mentre continuava a gettare la sua ombra severa e cupa sulla parte più animata della città. Questa era la scena, e questo
il momento in cui comparve in lontananza nella strada una figura dissimile da tutte quelle che sono state descritte.
«Vedo comparire una strana vela, laggiù», osservò un capitano di Liverpool. «Quella donna, con la lunga veste
bianca!».
Il marinaio, al pari di alcuni altri che nello stesso momento scorsero la figura, sembrava molto colpito
dall'oggetto che aveva richiamato la sua attenzione, e quasi subito i vari argomenti di conversazione lasciarono posto a
diverse congetture bisbigliate sul significato di quella inconsueta apparizione.
«Può esserci forse un funerale a quest'ora tarda del pomeriggio?», domandò qualcuno.
I presenti guardarono le porte delle case per scorgervi qualche segno di morte: il necroforo, il carro funebre, i
parenti vestiti a lutto, tutto ciò che distingue la triste pompa dei funerali. Alzarono lo sguardo anche verso il campanile
della chiesa indorato dal sole, e si domandarono perché non rintoccasse la sua campana, che fin'allora aveva sempre
suonato quando quella figura compariva alla luce del giorno. Ma nessuno aveva sentito dire di defunti che dovevano
essere portati nella loro dimora quel giorno, né si vedevano segni di funerali, oltre alla comparsa della «vecchia dama
del sudario».
«Che cosa può significare?», domandava ognuno al suo vicino.
Tutti sorridevano nel porre questa domanda, ma con una certa inquietudine nello sguardo, come se una
pestilenza o qualche altra calamità fossero preannunciate da quell'inopportuna intrusione tra i viventi della triste donna
che era sempre associata con la morte e il lutto, che era per la città ciò che una cometa significa per la terra. Eppure
proseguiva il cammino, tra brusii di sorpresa che si zittivano al suo passaggio, tra umili e potenti che si scostavano per
non essere sfiorati dalla sua veste bianca. Era una lunga veste sciolta, di immacolato candore, e chi la indossava
appariva molto vecchia, pallida, emaciata e fragile, eppure avanzava senza mostrare il passo malfermo della sua tarda
età. A un certo punto del suo cammino, un fanciullino roseo corse fuori da una porta e con le braccia aperte andò
incontro alla donna spettrale, come se si aspettasse un bacio dalle sue labbra esangui. La donna si fermò un attimo,
fissando lo sguardo su lui con un'espressione di non terrena dolcezza, così che il bimbo tremò e rimase impietrito, più
che spaventato, mentre la vecchia dama passava oltre. Forse la sua veste poteva essere contaminata anche dal contatto
con un bambino; forse il suo bacio poteva significare la morte entro l'anno per il dolce fanciullo..111
«Non è che un'ombra!», sussurravano i superstiziosi. «Il bambino ha teso le braccia, ma non è riuscito ad
afferrare la sua veste!».
Lo stupore aumentò quando la vecchia dama passò sotto il porticato del palazzo disabitato, ne salì i gradini
coperti di muschio, sollevò il picchiotto di ferro e diede tre colpi. Gli astanti potevano immaginare soltanto che qualche
vecchio ricordo, che tormentava la sua mente turbata, avesse spinto la povera donna a far visita ad amici della sua
gioventù, tutti scomparsi dalle loro case da lungo tempo e per sempre, a meno che i loro spiriti non la abitassero ancora,
come degna compagnia della «vecchia dama del sudario». Un uomo anziano si avvicinò ai gradini e, scoprendosi
rispettosamente i capelli grigi, tentò di darle una spiegazione.
«Signora», le disse, «nessuno abita questa casa dai quindici anni trascorsi dalla morte del vecchio colonnello
Fenwicke, i cui funerali ricorderà forse d'aver seguito. I suoi eredi, essendo in disaccordo tra loro, hanno lasciato andare
in rovina il palazzo».
La vecchia dama si guardò lentamente intorno con un lieve gesto di una mano e un dito dell'altra sulle labbra,
più che mai simile a un'ombra nella penombra del porticato. Ma poi sollevò di nuovo il picchiotto e diede questa volta
un unico colpo. Poteva essere che si udis se ora un rumore di passi che scendevano la scala del vecchio palazzo, da tutti
ritenuto per tanto tempo disabitato? Lentamente, debole ma pesante, come il passo di una persona vecchia e malata, il
rumore si avvicinò sempre più distintamente a ogni gradino finché raggiunse il portone. Il chiavistello ricadde
all'interno, la porta si aprì. Uno sguardo in alto, verso il campanile della chiesa, da cui era appena svanita la luce del
sole, fu l'ultimo che la gente vide della «vecchia dama del sudario».
«Chi ha aperto la porta?», domandarono molti.
A questa domanda, per via dell'ombra profonda sotto il porticato, nessuno seppe dare risposta soddisfacente.
Due o tre anziani, dopo aver protestato contro le supposizioni che potevano essere avanzate, affermarono che la persona
all'interno della casa era un negro, e che mostrava una singolare rassomiglianza con il vecchio Caesar, già schiavo in
quella casa ma liberato dalla morte una trentina d'anni prima.
«Il suo richiamo ha destato un servitore della vecchia famiglia», disse qualcuno in tono semiserio.
«Aspettiamo», replicò un altro. «Tra breve altri ospiti busseranno alla porta. Ma dovrebbe essere aperto il
cancello del cimitero!».
Il crepuscolo si era disteso sulla città prima che la folla iniziasse a disperdersi e che si esaurissero i commenti
sull'episodio. Uno dopo l'altro gli spettatori avevano preso la strada di casa quando una carrozza, un'apparizione non più
frequente a quei tempi, imboccò lentamente la strada. Era un'antiquata vettura, di poco sospesa sul terreno, con insegne
dipinte sui portelli, un lacchè dietro e un grave, corpulento cocchiere ritto davanti, e il tutto imponeva un'impressione di
solenne dignità. Qualcosa di pauroso accompagnava il sordo cigolio delle ruote mentre la carrozza avanzava nella strada
finché, giunta davanti al cancello del palazzo abbandonato, si fermò, e il lacchè saltò a terra.
«Di chi è questa lussuosa carrozza?», gli domandò un curioso spettatore.
Il lacchè non diede risposta, ma salì le scale del vecchio palazzo, diede tre colpi col picchiotto di ferro e ritornò
ad aprire il portello della carrozza. Un vecchio, esperto delle tradizioni araldiche così comuni a quei tempi, osservò il
blasone dipinto sul portello.
«In campo azzurro, una testa di leone cancellata in mezzo a tre iris», disse, poi sussurrò il nome della famiglia
a cui queste insegne appartenevano. L'ultimo erede di tali onori era morto da poco tempo, dopo aver vissuto a lungo
nello splendore della corte d'Inghilterra, dove la nascita e le ricchezze gli avevano conferito non poco rango. «Non ha
lasciato figli», soggiunse l'esperto di araldica, «e queste insegne, racchiuse in una losanga, significano che la carrozza
appartiene alla sua vedova».
Ulteriori rivelazioni potevano forse essere fatte, se chi parlava non fosse stato improvvisamente zittito dal
severo sguardo di una vecchia signora che si affacciò fuori dalla carrozza, accingendosi a discenderne. Alla sua
comparsa, gli spettatori videro che indossava uno splendido abito e aveva una figura imponente, nonostante l'età e gli
acciacchi, come un maestoso rudere, ma uno sguardo che era insieme orgoglioso e infelice. I suoi lineamenti decisi e
severi incutevano soggezione, a differenza di quelli della vecchia dama bianca, ma anche un senso di disagio. Mentre
l'anziana signora saliva i gradini, china sul suo bastone col pomello dorato, la porta si aprì alla luce di una torcia che
illuminava i ricami del suo abito e scintillava sui pilastri del porticato. Dopo un attimo di sosta e uno sguardo dietro di
sé, con uno sforzo disperato entrò nel palazzo. L'uomo che aveva decifrato il blasone si era spinto fino al gradino più
basso, ma si ritrasse subito, pallido e tremante, e riferì che la torcia era sollevata dall'immagine stessa del vecchio
Caesar.
«Ma un ghigno così orribile», soggiunse, «non si è mai visto sul volto di un essere mortale, bianco o nero che
sia, e mi perseguiterà finché campo».
Nel frattempo, la carrozza si era voltata con un insolito cigolio sul selciato, e risalì rumorosamente la strada,
scomparendo nel crepuscolo mentre l'orecchio continuava a seguirne il rumore. Era appena scomparsa e già la gente
iniziava a domandarsi se la carrozza e il suo equipaggio, l'anziana signora, lo spettro del vecchio Caesar e anche la
vecchia dama non fossero tutti una strana illusione collettiva che sottintendeva qualche oscuro significato misterioso.
Tutta la città era ora in fermento, così che la folla, anziché disperdersi, continuava ad aumentare per guardare le finestre
del palazzo, inargentate dalla luna che le illuminava. Gli anziani, lieti di abbandonarsi ai ricordi, com'è tipico della loro
età, raccontavano degli ormai sbiaditi splendori della famiglia, dei ricevimenti che erano stati dati, e degli invitati, i più
importanti dei dintorni, ma anche nobili e titolati giunti dall'estero, che erano passati sotto quel portale. Questi vividi
ricordi sembravano evocare i fantasmi delle persone di cui parlavano, ed era così forte l'impressione su alcuni degli.112
ascoltatori più dotati di immaginazione che due o tre di loro furono colti contemporaneamente da accessi di tremore,
mentre affermavano di aver udito distintamente altri tre colpi del picchiotto di ferro.
«È impossibile!», esclamarono altri. «Guardate! La luna splende dietro al porticato, e ne illumina ogni parte,
tranne la stretta ombra di quel pilastro. E lì non c'è nessuno!».
«Non si è aperta la porta?», sussurrò una di quelle persone impressionabili.
«Anche tu hai visto?», domandò sconcertato un suo vicino.
Tuttavia, l'opinione generale era contraria all'idea che un terzo visitatore si fosse presentato alla porta del
palazzo disabitato. Alcuni erano invece convinti di questo nuovo miracolo e dichiaravano persino di aver visto un
bagliore rosso, come quello di una torcia, dietro alla grande vetrata di fronte, come se lo schiavo negro stesse
illuminando la scala a un invitato. Anche questa fu giudicata una fantasia, ma d'improvviso la moltitudine degli
spettatori trasalì e ciascuno poté vedere il proprio terrore dipinto sul volto degli altri.
«Che cosa spaventosa!», gridarono.
Un grido, troppo paurosamente nitido per dubitarne, era stato udito improvvisamente dentro il palazzo, seguito
da un profondo silenzio, come se un cuore si fosse spezzato nel lanciarlo. La gente non sapeva se scappar via dalla vista
stessa del palazzo, o se correre dentro, tremante, per svelare il mistero. In questo sconcerto e sgomento generale, la folla
fu un po' rinfrancata dall'apparizione del suo pastore, un venerando patriarca e un sant'uomo che aveva insegnato ai
presenti e ai loro genitori la via del paradiso per un periodo di tempo superiore a una comune vita terrena. Era un
personaggio venerabile, con lunghi capelli bianchi che gli scendevano sulle spalle, una barba bianca che arrivava al
petto, ed era così chino sul suo bastone che sembrava guardare continuamente in terra, come per scegliere una tomba
adatta alla sua stanca figura. Solo dopo qualche tempo, i presenti riuscirono a far capire l'accaduto, per quanto era
comprensibile, al buon vecchio, che era sordo e di vacillante intelletto, ma quando egli comprese riacquistò
un'inaspettata energia.
«In verità», disse allora il vecchio ecclesiastico, «sarà opportuno che entri nel palazzo del degno colonnello
Fenwicke, prima che qualcosa di male accada a quella vera cristiana che voi chiamate "vecchia dama del sudario"».
Ecco dunque che il venerabile pastore sale i gradini del palazzo, accompagnato da un uomo anziano che porta
una torcia, lo stesso che aveva rivolto la parola alla vecchia dama, che aveva poi dato spiegazioni sul blasone della
carrozza e aveva riconosciuto le fattezze dello schiavo negro. Al pari dei loro predecessori, batterono anch'essi tre colpi
col picchiotto di ferro.
«Il vecchio Caesar non arriva», disse il pastore. «So bene che non presta più servizio in questa casa».
«Di certo, allora, era qualcosa di ben peggio, nelle sembianze del vecchio Caesar», osservò il suo
accompagnatore.
«Sia fatta la volontà di Dio», rispose l'ecclesiastico. «Guarda! Le mie forze, pur molto indebolite, sono
sufficienti per aprire questo pesante portone. Su entriamo, e saliamo le scale».
Accadde poi qualcosa di strano che testimoniava le condizioni precarie della mente di un uomo così anziano.
Mentre saliva l'ampia scalinata, il vecchio pastore sembrava muoversi con cautela, facendosi di quando in quando da
parte, e più spesso chinando il capo come per salutare, compiendo tutti i gesti di chi si fa strada in mezzo alla folla.
Giunto in cima alla scala, si guardò intorno con espressione triste e benevola, mise da parte il bastone e scoprì i suoi
capelli canuti, mostrandosi evidentemente in procinto di iniziare un'orazione.
«Reverendo», disse allora il suo accompagnatore, considerando tutto ciò un opportuno preludio alle successive
ricerche, «non sarebbe bene che la gente si unisse a noi nella preghiera?».
«Ahimè!», esclamò il vecchio pastore, guardandosi intorno con aria smarrita. «Sei qui solo con me, e non c'è
nessun altro? In verità, i tempi trascorsi sono ricomparsi davanti a me e ho pensato che dovevo recitare un'orazione
funebre, come tante altre volte, dall'alto di questa scalinata. E invero ho visto le ombre di molti che sono ormai
scomparsi. Sì, ho pregato ai loro funerali, uno dopo l'altro, e la "vecchia dama del sudario" li ha accompagnati alle loro
tombe».
Divenuto ora più cosciente del loro attuale compito, il pastore prese il bastone e lo batté con forza sul
pavimento, finché da ogni stanza deserta giunse un'eco, ma nessun servo, in risposta al suo richiamo. Proseguirono poi
per il corridoio e si fermarono di nuovo davanti alla grande finestra dalla quale si vedeva la folla, riunita nell'ombra e
nella luce parziale della luna nella strada sottostante. Alla loro destra, era aperta la porta di una stanza, e un'altra, chiusa,
era alla loro sinistra, e verso il pannello di quercia scolpita di quest'ultima il pastore puntò il suo bastone.
«Dentro questa camera», ricordò, «un'intera vita fa, mi sono seduto al letto di morte di un bravo giovane,
giunto ormai all'ultimo respiro...».
Le idee che balenavano ora nella sua mente sembravano dargli una forte emozione, e allora, presa la torcia
dalla mano del suo compagno, spalancò la porta con così improvvisa violenza che la fiamma si spense, lasciando
nessun'altra luce oltre ai raggi della luna, che spiovevano nella spaziosa camera attraverso due finestre. Ma erano
sufficienti per scoprire tutto ciò che si poteva sapere. Su una poltrona di quercia dall'alto dorso, sedeva eretta, con le
mani intrecciate sul petto e il capo rovesciato indietro, la «vecchia dama del sudario». L'austera signora della carrozza
era caduta in ginocchio con la fronte posata sulle sante ginocchia della vecchia dama, una mano posata sul pavimento,
mentre l'altra, premuta convulsamente sul cuore, stringeva una ciocca di capelli, un tempo neri e ora scoloriti in una
muffa verdastra. Mentre il pastore e il suo accompagnatore avanzavano nella camera, il volto della vecchia dama prese
una tale parvenza di mutevole espressione che essi si attesero di udire svelato il mistero con una sola parola. Ma era
soltanto l'ombra di un lacero tendaggio che oscillava tra il volto della defunta e la luce della luna..113
«Sono ambedue morte!», esclamò il venerabile pastore. «Chi svelerà allora il segreto? Credo che continuerà a
balenare nella mia mente, come la luce e l'ombra sul volto della vecchia dama. E ora se n'è andata!».
IL TESORO DI PETER GOLDTHWAITE
«E allora, Peter, non vuoi nemmeno pensarci, a quell'affare?», domandò il signor John Brown, abbottonandosi
il soprabito attillato sulla rotondità della sua persona, mentre si infilava i guanti. «Dunque ti rifiuti di cedermi questa
catapecchia e il terreno sottostante e adiacente al prezzo proposto?».
«Né a quel prezzo, né al triplo della somma», rispose l'ingrigito e macilento Peter Goldthwaite. «Il fatto è, caro
Brown, che devi cercarti un altro posto per costruire il tuo palazzo di mattoni, e rassegnarti a lasciare la mia casa al suo
attuale proprietario. La prossima estate ho intenzione di costruire una splendida nuova dimora sulle fondamenta della
vecchia casa».
«Andiamo, Peter!», esclamò il signor Brown, mentre apriva la porta della cucina. «Accontentati di costruire
castelli in aria, dove il terreno costa meno che sulla terra, per non dire del prezzo dei mattoni e della calce. Quelle
fondamenta sono abbastanza solide per le tue costruzioni, mentre quelle qui sotto sono adatte alle mie, e così potremmo
essere contenti tutti e due. Che cosa ne dici, allora?».
«Esattamente ciò che ho detto prima, caro Brown», rispose Peter Goldthwaite. «E in quanto ai miei castelli in
aria, può darsi che non siano sontuosi come quell'altra architettura, ma sono forse altrettanto solidi quanto i
rispettabilissimi edifici di mattoni con botteghe di commestibili, sartorie e banche al piano inferiore, e studi di avvocati
a quello superiore, con i quali sei così ansioso di sostituirli».
«E i soldi, Peter?», replicò il signor Brown, ritraendosi quasi come un bambino capriccioso. «Quelli, immagino
che te li procurerai sui due piedi, andando a incassare un assegno alla banca dei sogni!».
John Brown e Peter Goldthwaite erano tutti e due noti nel mondo commerciale, venti o trent'anni prima, come
titolari della ditta Goldthwaite e Brown, una società che però era stata rapidamente sciolta a causa della naturale
incompatibilità delle parti che la costituivano. Dopo d'allora, John Brown, dotato delle stesse qualità di migliaia di altri
John Brown, e usando i loro stessi metodi oculati, aveva fatto una splendida fortuna, diventando uno dei più ricchi John
Brown della terra. Peter Goldthwaite, al contrario, dopo innumerevoli progetti che avrebbero dovuto portare nelle sue
casse tutto il denaro in carta e moneta del paese, era ora indigente quant'altri che portavano abiti con le pezze. La
differenza tra lui e il suo socio di un tempo può essere così riassunta brevemente: Brown non aveva mai fatto
affidamento sulla fortuna, che però l'aveva sempre assistito, mentre Peter la considerava principale condizione dei suoi
progetti, e sempre gli era mancata. Fin quando i mezzi gliel'avevano consentito, aveva fatto grandiose speculazioni, che
però, negli ultimi anni, si erano limitate perlopiù a piccole operazioni, come avventure alla lotteria. Una volta si era
unito a una spedizione di cercatori d'oro in qualche posto del sud, ed era riuscito ingenuamente a svuotarsi ancor più le
tasche, mentre altri riempivano sicuramente le loro con lingotti d'oro trovati più vicino. In tempi più recenti, aveva
investito un'eredità di mille o duemila dollari nell'acquisto di un certificato di proprietà in Messico, col quale era
divenuto padrone di una provincia che, come poté poi scoprire, si trovava dove avrebbe potuto acquistare un impero per
la stessa somma, ovvero nel regno delle nuvole. Dalla ricerca di questa sua preziosa proprietà terriera, Peter fece ritorno
così striminzito e macilento che, al suo arrivo nel New England, perfino gli spaventapasseri nei campi di grano gli
facevano cenni di saluto al suo passaggio. «Forse stavano soltanto agitandosi al vento», pensava Peter Goldthwaite. No,
Peter, stavano salutandoti, perché gli spaventapasseri riconoscono i loro simili!
All'epoca della nostra storia, tutto il suo reddito visibile non sarebbe stato sufficiente a pagare le tasse della
vecchia dimora in cui l'abbiamo trovato. Era una di quelle case di legno, coperte di ruggine e muschio, e irte di
pinnacoli, che sono sparse per le strade delle nostre più vecchie città, con un austero secondo piano che si elevava dalle
fondamenta come se guardasse accigliato le novità che lo circondavano. Da questo palazzo avito, che pure gli avrebbe
procurato una bella somma di denaro, situato com'era nel mezzo della strada principale della cittadina, l'intraprendente
Peter, pur bisognoso com'era, aveva i suoi motivi per non separarsi mai, fosse all'asta o in una vendita privata.
Sembrava anzi che la volontà del fato lo legasse al suo luogo di nascita, perché, anche se si era trovato spesso sull'orlo
della bancarotta, dove si trovava tuttora, non aveva ancora compiuto il passo al di là che l'avrebbe costretto a cedere la
casa ai suoi creditori. E così abitava lì con la malasorte, in attesa che arrivasse quella buona.
E nella cucina di quella casa, l'unico locale in cui una fiammella alleviava ancora il gelo di quella sera di
novembre, il povero Peter Goldthwaite aveva appena ricevuto la visita del suo ricco socio d'un tempo. Al termine del
colloquio, Peter abbassò uno sguardo mortificato sui suoi abiti, alcuni dei quali sembravano risalire ai tempi della sua
società con Brown. Il suo indumento superiore era una specie di soprabito, penosamente sbiadito e rabberciato con
stoffa più recente sui gomiti, al di sotto indossava una logora giacchetta nera, con alcuni bottoni sostituiti da altri di
foggia diversa, e anche se non mancava di un paio di pantaloni grigi, questi erano ormai lisi e in parte divenuti marrone
a causa della frequente esposizione dei suoi stinchi al misero fuoco. La stessa persona di Peter era intonata al suo
sontuoso abbigliamento: la testa grigia, gli occhi scavati, le guance smunte, il corpo scarno erano il perfetto ritratto di
un uomo che si era nutrito di fumosi progetti e di vacue speranze, finché non aveva più potuto vivere di intrugli così
malsani né digerire cibi più sostanziosi. Ma questo Peter Goldthwaite, pur sprovveduto e squinternato com'era, avrebbe
forse potuto fare una brillante figura nel mondo se avesse dedicato la sua fantasia all'eterea professione della poesia,.114
anziché dannarsi l'anima per conseguire successi mercantili. Dopotutto, non era una cattiva persona, era anzi innocuo
come un bambino, onesto, rispettabile e signorile, qual era destinato per sua natura, per quanto potevano consentirlo a
chiunque una vita disordinata e sfortunate circostanze.
Mentre Peter Goldthwaite era lì sul pavimento sconnesso davanti al camino, guardando la squallida cucina
intorno a sé, il suo sguardo si accese di una luce di entusiasmo che mai a lungo lo abbandonava. Sollevò una mano
chiusa a pugno e la batté energicamente contro la parete affumicata sopra al camino.
«Il momento è venuto!», esclamò. «Con un tale tesoro a disposizione, è una follia continuare a essere povero.
Domani mattina, inizierò dalla soffitta, e non cesserò finché non avrò abbattuto tutta la casa!».
In un angolo del camino, simile a una strega in un antro oscuro, era seduta una vecchietta che aggiustava una
delle due paia di calze che riparavano dal congelamento le dita dei piedi di Peter Goldthwaite, ma non essendo più
possibile rammendarle, aveva dovuto tagliare qualche pezzo di una vecchia sottana di flanella per farne altre suole.
Tabitha Porter era una vecchia domestica, e aveva più di sessant'anni, cinquantacinque dei quali li aveva trascorsi seduta
in quello stesso angolo del camino, da quando il nonno di Peter Goldthwaite l'aveva portata via dall'asilo dei poveri.
Non aveva altri amici che Peter, e Peter non ne aveva altri che Tabitha, e finché questi avesse avuto un riparo per la
testa, anche Tabitha sapeva dove riparare la sua. Se fosse rimasta senza tetto avrebbe preso il suo padrone per mano per
condurlo nella sua casa d'origine, l'asilo dei poveri. Se fosse stato necessario, gli era così affezionata da sfamarlo col suo
ultimo boccone, e l'avrebbe vestito con la sua sottoveste. Ma Tabitha era una bizzarra vecchietta, e pur non essendo
stata contagiata dalle stravaganze di Peter, si era così abituata alle sue follie che le considerava ormai una cosa normale.
Nell'udire che minacciava di abbattere tutta la casa, alzò tranquillamente gli occhi dal suo lavoro.
«Meglio lasciare la cucina per ultima, signor Peter», gli suggerì.
«Prima sarà abbattuta tutta la casa, meglio sarà», replicò Peter Goldthwaite. «Sono stufo marcio di vivere in
questa vecchia bicocca fredda, buia, ventosa, affumicata, scricchiolante e lugubre. Mi sentirò più giovane quando
entreremo nella mia splendida dimora di mattoni, e vi entreremo, se piacerà al Cielo, il prossimo autunno. E tu avrai una
camera al sole, mia vecchia Tabby, tutta finita e arredata come meglio si addice ai tuoi gusti».
«Mi piacerebbe una stanza uguale a questa cucina», rispose Tabitha. «Non sarà mai casa mia, se quest'angolo
del camino non sarà annerito dal fumo com'è ora, e ciò non avverrà prima di cent'anni. Quanto ha intenzione di
spendere per la casa, signor Peter?».
«Che cosa vuol dire?», replicò Peter altezzosamente. «Forse il mio prozio Peter Goldthwaite, morto settant'anni
fa, di cui mi onoro di portare il nome, non ha lasciato un tesoro sufficiente per costruire una ventina di case come
questa?».
«Non posso dire che non sia così, signor Peter», rispose Tabitha, infilando l'ago.
Tabitha sapeva bene che Peter alludeva a un immenso gruzzolo di metalli preziosi che, a quanto si diceva, era
nascosto in qualche posto, in cantina, dentro le pareti o sotto i pavimenti, oppure in qualche cassetto nascosto o in una
nicchia non vista nella vecchia casa. Questo tesoro, secondo la tradizione, era stato accumulato da un precedente Peter
Goldthwaite, il cui carattere sembrava avere notevoli analogie con quello del Peter di cui parliamo. Anche lui faceva
folli progetti, sempre sperando di accumulare oro a palate e carrettate, anziché metterlo pazientemente da parte, pezzo
dopo pezzo. Al pari del secondo Peter, anche i suoi progetti erano quasi sempre falliti, e se non fosse stato per lo
splendido successo dell'ultimo tentativo, l'avrebbero lasciato soltanto con una giacca e un paio di braghe per coprire la
sua emaciata e ingrigita persona. Varie ipotesi erano state fatte sulle origini di questa sua fortuna: alcuni insinuavano
che il primo Peter avesse accumulato il suo oro con l'alchimia, altri che l'avesse cavato dalle tasche altrui con l'uso della
magia nera, e secondo una terza ipotesi, ancora più inverosimile, il demonio in persona gli avrebbe dato accesso alle
casse del vecchio tesoro della provincia. Si diceva anche che qualche misterioso ostacolo gli avesse però impedito il
godimento delle sue ricchezze e che avesse qualche motivo per nasconderle al suo erede, e comunque era morto senza
rivelare il suo nascondiglio. Il padre del nostro Peter dava abbastanza credito a queste storie per far scavare tutta la
cantina di casa, e lo stesso Peter voleva considerarle una verità incontrovertibile, così che, in mezzo a tutti i suoi guai,
aveva almeno quest'unica consolazione, che se fosse fallito ogni altro espediente, poteva sempre costruire le sue fortune
mettendo sottosopra la sua casa. Tuttavia, se non fosse stato per qualche suo recondito dubbio su questa storia del
tesoro, sarebbe difficile spiegare perché aveva consentito al tetto paterno di rimanere così a lungo in piedi, anche se non
vedeva il momento che il tesoro del suo antenato trovasse abbondante spazio nella propria cassaforte. Ma ora il
momento era critico. Se avesse ritardato ancora un po' la ricerca, la casa sarebbe stata sottratta alla linea ereditaria, e con
essa quel mucchio d'oro, che sarebbe rimasto sepolto finché quelle vecchie mura non fossero crollate, rivelandolo a
sconosciuti di future generazioni.
«Sì!», esclamò di nuovo Peter Goldthwaite. «Domani mi accingerò alla ricerca».
Più pensava a tutta la faccenda, più Peter si sentiva sicuro del successo. Tale era il suo naturale ottimismo che
ancora ora, giunto ormai al malinconico autunno degli anni, poteva spesso competere con la primaverile gaiezza di
persone più giovani. Elettrizzato da queste luminose prospettive, Peter si diede a fare capriole per la cucina come un
folletto, gesticolando e dimenando buffamente i suoi arti macilenti e denutriti. Poi, in preda a quella incontenibile
euforia, prese ambedue le mani di Tabitha e la fece danzare sul pavimento della cucina, finché i comici movimenti
reumatici della vecchia non lo fecero esplodere in uno scroscio di risate che echeggiarono in tutte le camere della casa,
come se Peter Goldthwaite stesse ridendo in ognuna di esse. Infine fece un balzo in aria, scomparendo quasi alla vista
nella nuvola di fumo sul soffitto della cucina, e, ritornato a terra, si sforzò di riprendere la sua consueta compostezza..115
«Domani mattina all'alba», ripeté, prendendo la lampada per ritirarsi a letto, «vedrò se questo tesoro è nascosto
in un muro della soffitta».
«E già che siamo a corto di legna, signor Peter», disse Tabitha, ancora ansimante per quell'esercizio ginnico,
«non appena avrà abbattuto la casa, accenderò un bel fuoco con i suoi pezzi».
Grandiosi furono, quella notte, i sogni di Peter Goldthwaite. Si vedeva girare una pesante chiave in una porta di
ferro, non dissimile da quella di un sepolcro, ma che, aprendosi, rivelava una cripta colma di monete d'oro, abbondanti
come spighe dorate in un granaio. E c'erano anche calici cesellati, zuppiere, vassoi, piatti e coperchi, tutti d'oro o
d'argento dorato, accanto a catene e altri gioielli, tutti d'incalcolabile valore, anche se macchiati dall'umidità della
nicchia, perché, di tutte le ricchezze irrimediabilmente perdute dagli uomini, fossero sepolte sotto terra o immerse nei
mari, era in questo nascondiglio che Peter Goldthwaite avrebbe trovato il suo tesoro. In un altro sogno ritornava nella
sua vecchia casa, povero in canna come sempre, ed era accolto sulla porta dalla figura emaciata e grigia di un uomo che
avrebbe potuto scambiare per se stesso, non fosse stato per gli abiti che erano di foggia più antica. Ma senza perdere il
suo precedente aspetto, la casa era stata trasformata in un palazzo di metalli preziosi. I pavimenti, le pareti e i soffitti
erano d'argento brunito; le porte, gli infissi delle finestre, le cornici, le balaustre e i gradini della scala erano d'oro;
d'argento, col fondo d'oro, erano le sedie, e d'oro, posati su gambe d'argento, erano i cassettoni, e d'argento i letti, con
coperte d'oro intessuto e lenzuola di lamine d'argento. La casa era stata evidentemente trasformata come con un tocco di
magia, perché conservava tutte le cose che Peter ricordava, ma erano in oro e in argento, anziché in legno, e le iniziali
del suo nome, che aveva inciso quand'era bambino sullo stipite della porta, erano ancora altrettanto profonde nell'oro
massiccio. Peter Goldthwaite sarebbe stato un uomo felice, se non fosse stato per qualche inganno della vista per cui,
quando si voltava a guardare, la casa perdeva il suo scintillante splendore per ritornare al cupo squallore del giorno
prima.
Peter si alzò di buon'ora, prese ascia, martello e sega, che aveva già posto accanto al letto, e si affrettò a salire
in soffitta. Era già fiocamente illuminata da un gelido frammento di raggio di sole, che iniziava allora a far capolino
attraverso il lucernario quasi opaco. In una soffitta, un moralista potrebbe trovare abbondanti spunti per le sue assorte e
irrealizzabili meditazioni. È questo il limbo di mode sorpassate, di vecchie bagattelle d'un tempo, e di tutto ciò che è
stato prezioso per una sola generazione, e che è stato consegnato alla soffitta quando quella generazione è stata
consegnata alla tomba, non per essere custodito al sicuro, ma per essere tolto di mezzo. Peter vedeva intorno a sé
mucchi di registri ingialliti e ammuffiti, coperti di pergamena, sui quali creditori, da tempo morti e sepolti, avevano
scritto i nomi di debitori anch'essi morti e sepolti, con inchiostro ormai così sbiadito che erano più leggibili le loro
pietre tombali coperte di muschio. Trovò vecchi indumenti divorati dalle tarme, tutti ridotti in cenci e brandelli, perché
altrimenti avrebbe potuto usarli. Scoprì una spada snudata e arrugginita, non una spada da soldato, ma un piccolo stocco
che non era mai stato estratto dal fodero finché non l'aveva perduto. Rinvenì bastoni da passeggio di venti diversi tipi,
ma nessuno col pomello d'oro, e fibbie per scarpe di varie fogge e materiali, ma non d'argento né incastonate con pietre
preziose. Riesumò una grossa scatola piena di scarpe a punta con i tacchi alti, e su un ripiano una moltitudine di fiale,
riempite a metà con vecchie medicine, che erano state portate lì dalla camera mortuaria, quando l'altra metà aveva
terminato la sua opera. E là, per non fare un più lungo inventario di oggetti che non saranno mai messi all'asta, vide un
frammento di specchio ad altezza naturale che, sulla sua superficie impolverata e opaca, faceva apparire ancora più
vecchi che nella realtà tutti questi vecchi reperti. Quando Peter, non sapendo che quello era uno specchio, vide le pallide
tracce della sua immagine, pensò quasi che il precedente Peter Goldthwaite fosse ritornato per assisterlo o ostacolarlo
nella sua ricerca del tesoro nascosto. E in quel momento una strana idea gli balenò nella mente, quella di essere lo stesso
Peter che aveva nascosto il tesoro e di dover sapere perciò dove si trovava. Ma, per qualche inspiegabile motivo, se l'era
dimenticato.
«Allora, signor Peter!», gridò Tabitha dalle scale della soffitta. «Ha buttato giù qualche pezzo di legno per
riscaldare almeno l'acqua del tè?».
«Non ancora, vecchia Tabby», rispose Peter, «ma sarà fatto presto, vedrai».
Appena pronunciate queste parole, sollevò l'ascia e l'abbatté così vigorosamente che si alzò una nuvola di
polvere, le assi si frantumarono e, un attimo dopo, la vecchia si trovò coperta di detriti e pezzi di legno.
«Avremo legna per tutto l'inverno», osservò Tabitha.
Una volta iniziata l'opera, Peter continuò ad abbattere tutto ciò che aveva davanti, sferrando colpi e spaccando
assi e travi, strappando chiodi e tavole, facendo un terribile frastuono dall'alba al tramonto. Avendo cura, però, di
lasciare intatto l'involucro esterno della casa, in modo che i vicini non sospettassero ciò che stava accadendo.
In tutte le sue stravaganze, che pure l'avevano reso felice finché duravano, mai Peter si era sentito felice come
ora. Forse, nell'animo di Peter Goldthwaite c'era qualcosa, dopo tutto, che gli dava una ricompensa interiore per tutti i
danni esterni che provocava. Anche se era povero, lacero, affamato e bisognoso com'era, anche se era sempre sul
baratro di un'incombente rovina, era però soltanto il suo corpo che viveva in quelle miserabili condizioni, mentre il suo
spirito ottimista si crogiolava al sole di un radioso futuro. Era nella sua natura essere sempre giovane, e la sua
disposizione di spirito lo manteneva sempre tale. I capelli grigi non avevano importanza, né le rughe e gli acciacchi,
poteva sembrare vecchio ed essere spiacevolmente associato con la sua macilenta figura, ormai così consunta dal
tempo, ma il vero, l'autentico Peter Goldthwaite era un giovanotto di belle speranze che faceva allora il suo ingresso nel
mondo. Non appena era acceso un altro fuoco, la sua giovinezza bruciata risorgeva dai tizzoni e dalle ceneri spente, e
anche ora divampava di esultanza. Dopo aver vissuto fin'allora, non troppo a lungo, ma fino alla giusta età, come un
timido scapolo, animato da tiepidi e teneri sogni, Peter prese dunque la decisione che, non appena l'oro nascosto avesse.116
brillato alla luce, si sarebbe dato a corteggiare la più bella fanciulla della città, per conquistarne l'amore. Quale cuore
avrebbe potuto resistergli? Beato te, Peter Goldthwaite!
Ora che da tanto tempo Peter non frequentava più i suoi precedenti luoghi di ritrovo, gli uffici delle
assicurazioni, le redazioni dei giornali e le librerie, ora che l'onore della sua presenza era raramente richiesto nei circoli
privati, trascorreva tutte le sue sere in compagnia di Tabitha, seduti amichevolmente davanti al camino della cucina,
sempre ben rifornito dei residui della sua giornata di lavoro. Alla base del fuoco era posto un massiccio ceppo di quercia
rossa che, essendo stato riparato dalla pioggia e dall'umidità per oltre un secolo, sibilava ancora al calore e trasudava
rivoli d'acqua alle sue estremità, come se l'albero fosse stato abbattuto qualche settimana prima. Accanto a questo erano
posti altri grossi ciocchi di legno, solidi, neri e pesanti, che non conoscevano il decadimento ed erano distruttibili
soltanto dal fuoco, e ardevano come sbarre di ferro incandescenti. Su questa solida base Tabitha innalzava una catasta
più leggera, composta da pannelli di porte, da cornici ornamentali e da tutti quei combustibili che prendevano subito
fuoco come paglia e gettavano la loro vivida fiamma su per la spaziosa canna fumaria, facendo apparire le sue pareti
fuligginose fino in cima. Il buio della vecchia cucina era intanto disperso dagli angoli coperti di ragnatele e dalle scure
travi sulle loro teste, per essere spinto chissà dove, mentre Peter sorrideva come un uomo felice e Tabitha sembrava il
ritratto della serena vecchiaia. Tutto ciò non poteva che essere il presagio della radiosa fortuna che la distruzione della
casa avrebbe portato ai suoi abitanti.
Mentre la legna secca ardeva crepitando, simile a un irregolare raffica di moschetti, Peter stava lì seduto in
contemplazione e in ascolto, piacevolmente incantato, ma quando la breve fiammata e il suo ruggito lasciavano posto al
cupo riverbero rosso, al diffuso tepore e al canto sommesso che si protraevano per tutta la serata, il suo umore si faceva
più loquace. E anche quella sera, per l'ennesima volta, sollecitò Tabitha a raccontargli qualcos'altro a proposito del suo
prozio.
«Tu che sei stata seduta in quell'angolo del camino per cinquantacinque anni, vecchia Tabby, devi aver udito
molte storie sul suo conto», le disse Peter. «Non sei stata tu a dirmi che quando sei entrata in questa casa una vecchia
era seduta proprio dove siedi tu ora, ed era la governante del famoso Peter Goldthwaite?».
«Proprio così, signor Peter», rispose Tabitha, «ed era quasi centenaria. Raccontava che lei e il vecchio Peter
Goldthwaite trascorrevano spesso queste serate insieme, al fuoco della cucina, più o meno come facciamo noi ora,
signor Peter».
«Quel vecchio doveva assomigliarmi per diversi aspetti», assentì Peter, «altrimenti non sarebbe diventato così
ricco. Ma, secondo me, avrebbe potuto investirli meglio, i suoi soldi, senza interessi e in solidi titoli, e far abbattere
anche la casa! Perché li teneva così nascosti, Tabby?».
«Perché non poteva spenderli», rispose Tabitha. «Perché ogni volta che stava per aprire la sua cassaforte, il
diavolo gli arrivava alle spalle e gli afferrava il braccio. Quei soldi, dicevano, li aveva dati a Peter di tasca sua, e voleva
che Peter gli desse l'atto di proprietà di questa casa e della terra, ma Peter giurava che non gliel'avrebbe mai dato».
«E anch'io ho giurato a John Brown, il mio vecchio socio», osservò Peter. «Ma tutte queste sono sciocchezze,
Tabby, non credo a queste storie!».
«Be', può darsi che non sia tutta la verità», rispose Tabitha, «perché altri dicono che Peter cedette
effettivamente al demonio la proprietà della casa, ed è per questo che è sempre stata sfortunata per coloro che vi hanno
abitato. E non appena Peter gli ha ceduto la proprietà, il coperchio della cassa si è spalancato e Peter ha subito afferrato
una manciata d'oro, ma quando ha guardato non aveva nel pugno altro che un mucchietto di stracci».
«Bada a come parli, vecchia stupida Tabby!», esclamò Peter, montando su tutte le furie. «Erano belle ghinee
d'oro, come tutte quelle che portano l'effigie del re d'Inghilterra! Mi sembra quasi di poter ricordare tutte le circostanze,
quando io, o il vecchio Peter o chiunque fosse, affondai dentro la mia mano, e la ritrassi piena di oro luccicante. Sì,
davvero vecchi stracci!».
Ma non erano certo le leggende di una vecchia che potevano scoraggiare Peter Goldthwaite. Tutta la notte
dormiva tra sogni dorati e all'alba si svegliava con una gioiosa esultanza nel cuore, come pochi hanno la fortuna di
provare quand'è trascorsa l'infanzia. Giorno dopo giorno lavorava sodo, senza mai interrompersi un momento, se non
all'ora dei pasti, quando Tabitha lo chiamava a mangiare maiale e cavoli, o qualche altro cibo che aveva trovato o la
Provvidenza aveva mandato. Peter, uomo sinceramente devoto, non mancava mai di chiedere la benedizione del Cielo,
e se il cibo non era dei migliori pregava ancor più fervidamente, quanto più era necessario, né trascurava di ringraziarlo
se il pasto era scarso, almeno per il buon appetito, che era sempre meglio del mal di stomaco a un banchetto. Poi si
affrettava a ritornare al suo lavoro, e un attimo dopo scompariva alla vista in una nube di polvere e calcinacci caduti
dalle vecchie mura, ma pur sempre percepibile all'orecchio per il frastuono che sollevava nel mezzo. Com'è invidiabile
la coscienza di essere utilmente occupato! Niente assillava Peter, se non quei fantasmi della mente che possono
sembrare vaghi ricordi, ma assomigliano anche a presentimenti. Talvolta si fermava, l'ascia sollevata in aria, e si
domandava: «Peter Goldthwaite, non l'hai già sferrato questo colpo?», oppure: «Peter, che bisogno c'è di abbattere tutta
la casa? Pensaci un po', e ricorderai dov'è nascosto il tesoro». Ma i giorni e le settimane trascorrevano senza alcuna
importante scoperta. A volte, qualche topo smilzo e grigio faceva capolino e guardava quell'uomo smilzo e grigio,
domandandosi che diavolo era accaduto in quella vecchia casa, fin'allora sempre così tranquilla. E altre volte Peter
provava pietà per il dolore di una topolina che aveva appena dato al mondo cinque o sei piccoli, morbidi e delicati, solo
per vederli schiacciati da quelle rovine. Ma fin'allora non si vedeva nessun tesoro.
A questo punto, Peter Goldthwaite, determinato come il destino e puntuale come il tempo, aveva ormai
terminato la sua opera nei locali più alti, ed era sceso al secondo piano, dov'era occupato ora in una delle camere.117
antistanti. Questa era un tempo la camera da letto di rappresentanza, e la tradizione voleva che avessero qui dormito il
governatore Dudley e molti altri illustri ospiti. I mobili erano ormai scomparsi, e rimanevano solo brandelli di sbiadita
carta da parati, tranne che in più ampi spazi di parete nuda, che era decorata con schizzi a carboncino, soprattutto profili
di teste. Erano testimonianze, queste, del genio giovanile di Peter, e lo rattristava distruggerli, ancor più che se fossero
stati affreschi di Michelangelo sulla parete di una chiesa. Ma uno di questi schizzi, il più bello, richiamò diversamente
dagli altri la sua attenzione. Rappresentava un uomo lacero che si appoggiava a una vanga, il corpo scarno chino su una
fossa e una mano protesa ad afferrare qualcosa che aveva trovato. Ma proprio dietro a lui, con un maligno sogghigno sul
volto, compariva una figura con le corna, la coda arricciata e gli zoccoli biforcuti.
«Vade retro, Satana!», gridò Peter. «Quest'uomo avrà il suo oro!».
Sollevata l'ascia, sferrò un tale colpo sulla sua testa cornuta che non soltanto demolì la figura, ma anche quella
del cercatore d'oro, facendo scomparire come per magia tutta la scena. L'ascia sfondò anche il pannello intonacato,
rivelando una cavità.
«Dio abbia pietà di noi, signor Peter, sta forse litigando con Satanasso?», domandò Tabitha, salita a cercare un
po' di combustibile per la pentola della cena.
Senza darle risposta, Peter abbatté un altro pezzo di parete, scoprendo a fianco del camino un armadietto alto
fino al petto da terra. Conteneva soltanto una lampada d'ottone, incrostata di verderame, e un polveroso pezzo di
pergamena. Mentre Peter lo esaminava, Tabitha prese la lampada e iniziò a spolverarla col suo grembiule.
«Non serve a niente strofinarla, Tabitha», le disse Peter. «Non è la lampada di Aladino, anche se mi sembra un
auspicio di altrettanta fortuna. Guarda qui, Tabby!».
Tabitha prese la pergamena e l'avvicinò al naso, sul quale era inforcato un paio di occhiali cerchiati di ferro.
Ma, non appena ebbe iniziato a esaminarla, scoppiò in una gorgogliante risata, poggiando ambedue le mani sui fianchi.
«Non è bello prendersi gioco di una povera vecchia!», esclamò. «Questa è la sua calligrafia, signor Peter, la
stessa della lettera che mi ha inviato dal Messico!».
«Si vede certamente una notevole rassomiglianza», osservò Peter, esaminando di nuovo la pergamena. «Ma
come sai anche tu, Tabby, quell'armadietto è stato murato lì prima che tu entrassi in questa casa, prima ancora che io
venissi al mondo. No, questa è la calligrafia del vecchio Peter Goldthwaite, e queste colonne di scellini e sterline sono le
cifre che indicano l'ammontare del tesoro, e questo qui, in fondo, è sicuramente un riferimento al luogo in cui è
nascosto. Ma l'inchiostro è sbiadito o si è scrostato, e così è assolutamente illeggibile, che peccato!».
«Be', questa lampada è come nuova, almeno», osservò Tabitha.
«Una lampada» pensò Peter. «Ciò significa una luce sulle mie ricerche».
Per il momento, Peter sembrava più incline a meditare su questa scoperta che a riprendere il lavoro. Quando
Tabitha ridiscese le scale, Peter rimase a decifrare la pergamena davanti a una finestra, così appannata dalla polvere che
il sole riusciva a stento a gettare sul pavimento una vaga ombra del suo telaio. Peter la aprì a fatica e lanciò uno sguardo
alla strada principale della cittadina, mentre il sole penetrava nella vecchia cassa. L'aria, pur tiepida e quasi calda, sferzò
come acqua gelida il volto di Peter.
Era il primo giorno del disgelo di gennaio. La coltre di neve era ancora alta sui tetti delle case, ma stava
rapidamente sciogliendosi in una miriade di goccioline che scorrevano giù scintillanti alla luce del sole, con il rumore di
un acquazzone estivo sotto le grondaie. Nella strada, la neve calpestata era dura e compatta come un pavimento di
marmo bianco, non essendosi ancora sciolta nella temperatura primaverile. Ma quando mise fuori la testa, Peter vide
che gli abitanti, se non tutta la città, stavano già scongelandosi al tepore della giornata, dopo due o tre settimane di
rigore invernale. Lo rallegrò e lo fece sospirare di sollievo il vedere quel passaggio di dame che scivolavano sui
marciapiedi sdrucciolevoli, con le loro guance arrossate e incorniciate dai cappucci imbottiti, con stole e mantelle nere,
simili a rose in mezzo al nuovo fogliame. I campanelli delle slitte tintinnavano avanti e indietro continuamente,
annunciando talvolta l'arrivo di una slitta dal Vermont, carica dei corpi congelati di maiali, pecore e magari qualche
daino, o di altre guidate da venditori del mercato con polli, oche, tacchini e tutti gli altri abitanti della fattoria, oppure da
contadini con le mogli, venuti in città per fare una gita, per fare compere o anche per vendere un po' di uova e di burro.
Una coppia viaggiava a bordo di un'antiquata slitta quadrata; usata già da una ventina di inverni, e rimasta altrettante
estati al sole accanto alla porta di casa. Ecco là un gentiluomo e la sua signora che scivolavano sulla neve a bordo di
un'elegante vettura quasi a forma di conchiglia, ecco una grande slitta, con le tendine alzate per far entrare il sole, che
sfrecciava per la strada turbinando tra gli altri veicoli che ostruivano il passaggio. Ecco che arrivava, oltre l'angolo, una
specie di arca di Noè sui pattini, un'enorme slitta aperta con una cinquantina di posti a sedere, tirata da una dozzina di
cavalli. Lo spazioso veicolo era popolato da allegri giovanotti e fanciulle, da ragazzi e ragazze, da persone più anziane,
e tutti se la spassavano un mondo ridendo a crepapelle. Si alzava da lì un brusio di voci concitate e di risate che a volte
prorompevano in alte grida gioiose, alle quali gli spettatori rispondevano con tre acclamazioni, mentre una banda di
monelli lanciava palle di neve in mezzo all'allegra combriccola. La slitta passò oltre, e, quando scomparve oltre l'angolo
della strada, si udirono ancora le sue lontane risate.
Mai Peter aveva assistito a una scena così animata, composta da una tale varietà di ingredienti, il sole
sfolgorante, le gocce d'acqua e la neve scintillanti, la gaia moltitudine di persone, la varietà delle veloci vetture, il
tintinnio degli allegri campanelli che facevano danzare il cuore alla loro musica. Non si vedeva lì intorno niente di
triste, se non quel pezzo d'antiquariato della casa appuntita di Peter Goldthwaite, che mostrava un'aria così tetra
all'esterno perché un'inesorabile consunzione la divorava all'interno. E la scarna figura di Peter, appena visibile al
secondo piano dell'edificio, era ben degna della sua casa..118
«Peter! Come va, amico mio?», gridò una voce al di là della strada, mentre Peter ritraeva la testa. «Guarda,
sono qui!».
Peter allungò lo sguardo e vide il suo vecchio socio John Brown sul marciapiede opposto, disinvolto e
imponente nel suo tabarro di pelliccia aperto, che rivelava al di sotto un elegante soprabito. La sua voce aveva diretto
l'attenzione di tutta la cittadinanza verso la finestra di Peter Goldthwaite e la sua figura di spaventapasseri impolverato.
«Ehi, Peter!», gridò ancora il signor Brown. «Che diavolo stai facendo, ché sento sempre tutto questo fracasso
ogni volta che passo qui davanti? Stai riparando la tua vecchia casa, immagino, stai facendone una nuova, vero?».
«È troppo tardi, ormai», rispose Peter. «Se ne facessi una nuova, sarebbe nuova dentro e fuori, dalla cantina in
su».
«Non sarebbe meglio lasciarlo fare a me, questo lavoro?», domandò il signor Brown in tono allusivo.
«Non ancora!», rispose Peter, affrettandosi a chiudere la finestra, perché, fin da quando si era accinto alla
ricerca del tesoro, non sopportava più di essere guardato dalla gente.
Mentre si ritraeva, vergognandosi della sua esteriore povertà, ma anche orgoglioso della segreta ricchezza che
aveva a portata di mano, un sorriso sprezzante comparve sul suo viso, ed ebbe lo stesso effetto dei fiochi raggi di sole in
quella squallida camera. Si sforzò di assumere lo stesso contegno che doveva mostrare probabilmente il suo antenato
quando si gloriava della costruzione di quella roccaforte che sarebbe stata la dimora di molte generazioni di suoi
discendenti. Ma la stanza era troppo buia per i suoi occhi abbagliati dalla neve, e anche troppo triste al confronto con
l'animazione cui aveva appena assistito. Quel breve sguardo che aveva dato in strada gli aveva lasciato una profonda
impressione di come il mondo si manteneva allegro e prospero grazie ai piaceri mondani e ai rapporti sociali, mentre
lui, recluso com'era, inseguiva qualcosa che poteva essere una chimera, usando metodi che gli altri avrebbero
considerato folli. Un grande vantaggio della vita in comune è che ciascuno corregge la propria mentalità in base a quella
degli altri e impronta il proprio comportamento secondo quello dei suoi simili, così che raramente cade nell'eccentricità.
Peter Goldthwaite si era esposto a queste influenze semplicemente guardando fuori dalla finestra. Per qualche tempo si
domandò se esisteva davvero quel tesoro nascosto, e in caso contrario, se era conveniente abbattere la sua casa solo per
convincersi della sua inesistenza.
Ma fu solo un dubbio momentaneo. Peter il distruttore si riaccinse all'opera che il destino gli aveva assegnato,
e non ebbe più esitazioni finché non fu compiuta. Nel corso della ricerca, si imbatté in molte cose che si trovano
solitamente tra le macerie di una vecchia casa, e anche in altre meno comuni. Quella che sembrò più appropriata al suo
scopo fu una chiave arrugginita, infilata in una fessura del muro, cui era legato un cartellino di legno con le iniziali P.G.
Un'altra singolare scoperta fu quella di una bottiglia di vino, murata dentro un vecchio forno. Secondo una tradizione di
famiglia, il nonno di Peter, un gioviale ufficiale nella vecchia guerra con i francesi, aveva messo da parte parecchie
dozzine di bottiglie del pregiato nettare, a beneficio dei futuri beoni della famiglia. Peter, che non aveva bisogno di un
tonificante per sostenere le sue speranze, mise da parte la bottiglia per brindare poi al suo successo. Trovò anche
numerose monete spagnole, e anche la metà di una moneta da un penny, che sicuramente doveva esser stata un pegno
d'amore, nonché una medaglia d'argento per l'incoronazione di Giorgio III. Ma la cassaforte del vecchio Peter
Goldthwaite sembrava scomparire da un buio angolo all'altro, e comunque sfuggiva sempre alle grinfie del secondo
Peter finché questi, per approfondire le sue ricerche, avrebbe dovuto scavare sotto terra.
Non seguiremo, passo dopo passo, questa sua memorabile impresa. Basti dire che Peter lavorò indefessamente
e che, in quel solo inverno, terminò l'opera che tutti i precedenti abitanti della casa, con tutto il tempo e gli elementi a
loro favore, avevano compiuto solo a metà nell'arco di un secolo. Tranne la cucina, tutte le stanze erano state ormai
smantellate, e della casa non rimaneva altro che l'involucro, la parvenza di una casa, irreale come le quinte dipinte di un
teatro, simile a una grande forma di formaggio scavata da un topo finché non ne era rimasta che la crosta. E quel
topolino era Peter.
Ciò che Peter aveva abbattuto, Tabitha l'aveva bruciato, ritenendo saggiamente che, rimasti senza casa, non
avrebbero avuto bisogno di legna per riscaldarla, e che era quindi insensato fare economie. Si potrebbe ben dire, perciò,
che tutta la casa era andata in fumo ed era volata tra le nuvole attraverso la grande cappa nera del camino. Era
un'impresa singolarmente analoga a quella dell'uomo che aveva ingoiato se stesso giù per la gola.
La notte tra l'ultimo giorno d'inverno e il primo di primavera, ogni nicchia e interstizio erano stati ormai
esplorati, tranne che tra le mura della cucina. Quella sera fatale era davvero molto brutta: una bufera di neve era iniziata
qualche ora prima, ed era ancora sospinta e trascinata nell'atmosfera come un autentico uragano, infuriando contro la
casa come se il principe dell'aria in persona volesse dare il colpo di grazia alle fatiche di Peter. L'intera struttura, priva
di tutti i sostegni interni, era ormai così indebolita che sarebbe stato un miracolo se i muri marci e il tetto appuntito
dell'edificio, sferzati da qualche raffica più forte di vento, non fossero crollati sulla testa del suo proprietario. Questi era
però incurante del pericolo, anzi era inquieto e agitato come quella stessa notte, o come le fiamme che ruggivano su per
il camino a ogni folata di quel vento furioso.
«Il vino, Tabitha!», gridò. «Quel vecchio vino generoso di mio nonno, lo berremo adesso!».
Tabitha si alzò dalla sua panca annerita dal fumo del camino e posò la bottiglia davanti a Peter, accanto alla
vecchia lampada d'ottone che era stata parimenti il premio delle sue ricerche. Peter la sollevò davanti agli occhi e,
attraverso quel liquido schermo, osservò la cucina illuminata da uno splendore dorato che avvolgeva anche Tabitha,
indorando i suoi capelli argentei e trasformando le sue umili vesti in abiti regali. Gli ritornarono allora alla mente i suoi
sogni dorati.
«Signor Peter», domandò Tabitha, «dobbiamo berlo adesso, quel vino, prima che sia trovato il tesoro?»..119
«Il tesoro è stato trovato!», esclamò Peter, quasi con rabbia. «Quella cassa è ormai vicina, e non dormirò finché
non avrò girato la chiave nella sua serratura arrugginita. Ma prima di tutto beviamo!».
In casa non c'erano cavatappi, e perciò Peter colpì il collo della bottiglia con la chiave arrugginita, decapitando
il sughero d'un sol colpo. Riempì poi due tazzine di porcellana che Tabitha gli aveva portato dalla credenza con quel
vecchio vino, che era così limpido e brillante da far apparire ancora più vividi i ramoscelli di fiori scarlatti dipinti sul
fondo delle tazzine. Il suo aroma ricco e delicato si diffuse in tutta la cucina.
«Beviamo, Tabitha!», esclamò Peter. «E sia benedetto quel bravo vecchio che ha tenuto da parte per noi questo
nettare! Alla memoria di Peter Goldthwaite!».
«Buoni motivi abbiamo per ricordarlo», gli fece eco Tabitha mentre beveva.
Per quanti anni, e attraverso quali mutamenti di fortuna e varie calamità, aveva conservato la sua effervescenza
quella bottiglia che ora finalmente trangugiavano quei due compagni di baldoria! Una parte dell'allegria di un'epoca
lontana era stata conservata per loro, ed era ora sprigionata, in mezzo a tante esaltanti visioni, per allietarli nella
tempesta e nella desolazione del momento presente. E finché non avranno terminato di bere la bottiglia, possiamo
volgere altrove la nostra attenzione.
Si dava il caso che in quella notte tempestosa il signor John Brown si sentisse a disagio nella sua sedia
imbottita a braccioli, davanti alla graticola incandescente d'antracite che riscaldava il suo elegante salotto. Era per sua
natura un brav'uomo, sollecito e generoso ogni volta che la notizia delle altrui disgrazie gli arrivava al cuore attraverso
le sue vesti ben imbottite di uomo facoltoso. Quella sera aveva pensato parecchio al suo vecchio socio Peter
Goldthwaite, alle sue stravaganze e alla sua continua sfortuna, alla miseria del suo alloggio quando gli aveva fatto visita
l'ultima volta, al suo aspetto allucinato e sparuto quando gli aveva parlato alla finestra.
«Poveraccio!», pensò John Brown. «Povero squinternato Peter Goldthwaite! In nome della nostra vecchia
amicizia, dovrei prendermi cura di lui in questo gelido inverno».
Questi pensieri diventarono così insistenti che alla fine, nonostante il tempo inclemente, il signor Brown prese
la decisione di fare subito visita a Peter Goldthwaite. La forza di quell'impulso era davvero singolare, e il gemito di ogni
folata sembrava un richiamo, o lo sarebbe sembrato se John Brown fosse stato abituato a sentire nel vento gli echi della
sua fantasia. Molto meravigliato di questa sua solerte benevolenza il signor Brown si avvolse nel suo mantello, si riparò
gola e orecchie con sciarpe di lana, e così intabarrato uscì a sfidare la tempesta. Ma le forze della natura ebbero quasi la
meglio nella battaglia, e mentre il signor Brown stava superando l'angolo della casa di Peter Goldthwaite, la bufera lo
sollevò da terra e lo scaraventò a faccia in giù su un banco di neve, seppellendo poi le sue parti protuberanti sotto altre
folate. Sembravano esserci poche speranze che il signor Brown ricomparisse prima del prossimo disgelo. Nello stesso
momento, gli fu strappato via il cappello che scomparve turbinando in remote regioni, dalle quali non ne sono arrivate
finora notizie.
Nondimeno, il signor Brown riuscì a scavarsi un varco attraverso i cumuli di neve, e a capo chino per ripararsi
dalla bufera si trascinò fino alla porta di casa di Peter. Il pazzesco edificio era squassato da scricchiolii, gemiti e cigolii,
ed era così sinistramente traballante che i suoi occupanti difficilmente avrebbero udito anche il più energico bussare alla
porta, e perciò il signor Brown entrò senza tanti complimenti e si fece strada verso la cucina.
Nemmeno allora Peter e Tabitha si accorsero della sua intrusione, mentre stavano con la schiena rivolta alla
porta, chini su una grande cassa che, a quanto pareva, avevano appena estratto da qualche cavità o anfratto sul lato
sinistro del camino. Alla luce della lampada che la vecchia teneva in mano, il signor Brown vide che la cassa era serrata
con sbarre di ferro, rinforzate da lamine d'acciaio, e borchiate con robusti chiodi, Così da essere un sicuro ricettacolo in
cui conservare le ricchezze di un secolo e tramandarle a quelli successivi. Peter Goldthwaite stava intanto infilando una
chiave nella serratura.
«Oh, Tabitha!», esclamò con tremula emozione, «riuscirò a resistere a quel fulgore? Il fulgore dell'oro, l'oro
scintillante! Mi sembra quasi di poter ricordare l'ultima volta che l'ho visto, prima che il coperchio laminato d'acciaio si
chiudesse. E fin da allora, per settant'anni, ha continuato a splendere segretamente, conservando il suo fulgore in attesa
di questo trionfale momento! E ora ci abbaglierà come la luce del sole!».
«E allora si ripari gli occhi, signor Peter!», gli suggerì Tabitha, un po' meno paziente del solito. «Ma per amor
di Dio, giri quella chiave!».
E allora, con grande sforzo di ambedue le mani, Peter girò la chiave arrugginita nei meandri della serratura
anch'essa arrugginita. Nel frattempo, il signor Brown si era avvicinato e si affacciò in mezzo agli altri due con sguardo
impaziente, nel momento in cui Peter sollevava il coperchio. Ma nessun improvviso bagliore illuminò la cucina.
«Che cos'è?», domandò Tabitha, aggiustandosi gli occhiali sul naso e sollevando la lampada sopra alla cassa
aperta. «È il tesoro dei vecchi stracci di Peter Goldthwaite!».
«Più o meno è così, Tabby», confermò il signor Brown, sollevando una manciata di quel tesoro.
Quali fantasmi di ricchezze morte e sepolte aveva esumato Peter Goldthwaite, tanto da spaventare il suo stesso
scarso cervello! Era la parvenza di una somma incalcolabile, sufficiente ad acquistare tutta la città e a ricostruire ogni
sua strada, ma per quanto ingente fosse, nessun uomo sano di mente l'avrebbe pagata uno spicciolo. Che cos'era allora,
in realtà, quell'ingannevole tesoro contenuto nella cassa? Erano vecchie carte di credito della provincia, buoni del
tesoro, banconote di vecchie banche locali e altre cartacce senza valore, dalla prima emissione di oltre un secolo e
mezzo prima fin quasi al tempo della rivoluzione. Banconote di mille sterline erano mescolate con altre monete
incartapecorite, e non valevano più di queste ultime..120
«Ed è questo, dunque, il tesoro del vecchio Peter Goldthwaite!», commentò John Brown. «Il tuo omonimo
Peter doveva essere un tipo come te, e quando la moneta della provincia si è deprezzata del cinquanta o settantacinque
per cento, ne ha fatto incetta, nella speranza di un rialzo. Ho sentito raccontare da mio nonno che il vecchio Peter aveva
dato a suo padre un'ipoteca su questa casa e sulla terra, per racimolare altri contanti per questo suo assurdo progetto. Ma
questa moneta continuava a deprezzarsi, finché nessuno l'ha voluta più, nemmeno in regalo, e così il vecchio Peter
Goldthwaite, al pari di Peter il secondo, si è trovato con tutto quel denaro in cassaforte, e nemmeno una giacca per
vestirsi, e allora è diventato matto. Ma non importa, Peter! Questo è proprio il capitale adatto per costruire castelli in
aria!».
«La casa ci crollerà sulla testa!», gridò Tabitha, mentre il vento la scuoteva con crescente violenza.
«E che crolli!», rispose Peter, sedendosi a braccia incrociate sulla cassa.
«No, no, mio vecchio amico Peter!», disse John Brown. «Ho spazio in casa per te e per Tabby, e un posto
sicuro per custodire la cassa del tesoro. Domani tenteremo di venire a un accordo per la vendita di questa vecchia casa. I
valori immobiliari sono in ascesa, e posso prometterti un buon prezzo».
«E io», soggiunse Peter Goldthwaite rincuorato, «ho un progetto per investire quei soldi con profitto».
«Be', in quanto a questo», disse tra sé John Brown, «dobbiamo rivolgerci alla prossima riunione della Corte per
nominare un tutore che si prenda cura di questi soldi, e se Peter insiste a fare speculazioni, potrà farlo, per sua
soddisfazione, con il tesoro del vecchio Peter Goldthwaite!».
SCHEGGE DI UNO SCALPELLO
Parecchi anni or sono, mentre trascorrevo un'estate a Edgartown, nell'isola di Martha's Vineyard, feci
conoscenza di un certo incisore di pietre tombali, che era giunto lì dall'interno del Massachusetts in cerca di lavoro. Il
tentativo aveva avuto tale successo che il mio amico si aspettava di trasformare l'ardesia e il marmo in argento e oro per
l'ammontare almeno di un migliaio di dollari, durante i mesi del suo soggiorno a Nantucket e sulla Vineyard. La vita
appartata, lo spirito semplice e primitivo che caratterizza ancora gli abitanti di quelle isole, e in particolare quelli di
Martha's Vineyard, assicurano ai loro amici defunti un ricordo più caro e duraturo di quanto le vicissitudini d'ogni
giorno e il fermento incessante del mondo possono concedere altrove agli esseri umani del passato. Tuttavia, anche se
ogni famiglia desidera erigere un monumento funebre ai suoi membri scomparsi, l'alito incontaminato dell'oceano offre
tanta salute e longevità agli abitanti di queste isole da causare un malinconico ristagno degli affari per un artista che
vuol vivere qui di questo mestiere. Un proprio monumento funebre, che ricordi la sua stessa morte per fame, sarebbe
probabilmente uno dei primi esemplari della sua attività. Le pietre tombali sono quindi divenute, in generale, un articolo
di importazione.
Nelle mie passeggiate per il cimitero di Edgartown, dove i morti giacciono da tanto tempo che il terreno, un
tempo fertilizzato dalla loro decomposizione, è ritornato alla precedente sterilità, in quell'antico cimitero, dicevo, ho
potuto osservare una grande varietà di sculture funerarie. Le pietre più antiche, che risalgono a un secolo addietro e
anche più, hanno i bordi elaboratamente scolpiti con fiori e con molteplici teschi, tibie incrociate, falci, clessidre e altri
lugubri emblemi di morte, intercalati qua e là da un cherubino alato per elevare lo spirito dei dolenti. Questi prodotti del
gusto gotico dovevano essere superiori alle capacità dei coloni di quei tempi, ed erano stati probabilmente scolpiti a
Londra e trasportati oltre oceano per commemorare i meriti dei defunti di quest'isola solitaria. Le pietre tombali più
recenti sono semplici lastre d'ardesia di comune fattura, senza superflui ghirigori per mettere in risalto la nuda
iscrizione. Ma altre, quelle che più impressionavano il mio gusto e i miei sentimenti, erano state rozzamente tagliate
dalle rocce grigie dell'isola, evidentemente dalle mani inesperte di amici e parenti superstiti. Su alcune erano incise
soltanto le iniziali di un nome, su altre frasi scorrette in prosa o in poesia, scritte con lettere profonde che il muschio, il
vento e la pioggia di molti anni non erano riusciti a cancellare. Erano queste le tombe in cui dormivano le persone care!
Sono un frequente motivo di ironia la falsità e la vanità dei panegirici monumentali, ma quando sono l'amore e il
rimpianto che scolpiscono le parole con dolorosa fatica, allora possiamo essere certi che sono ispirate dal registro dei
loro cuori.
Questo mio conoscente, lo scultore (che può ben dividere questo titolo con Greenough perché anche un
imbrattatele è pittore quanto Raffaello), aveva quindi trovato ampio mercato per tutte le sue lastre di marmo intonse, e
piena occupazione per inciderle con lettere e decorazioni. Era un uomo anziano, discendente della vecchia famiglia
puritana dei Wigglesworth, e dotato di una certa semplicità e schiettezza di mente e di cuore, che a mio parere si trova
più raramente tra noi Yankee che in ogni altra comunità. Nonostante la testa canuta e la fronte solcata da rughe, era
proprio come un bambino in ogni cosa, tranne quelle che riguardavano in qualche modo il suo mestiere. Se la fantasia
non mi inganna, sembrava considerare l'umanità sotto nessun altro aspetto che quello di persone bisognose di pietre
tombali, e le sue cognizioni letterarie, in prosa e in poesia, comprendevano evidentemente ben poco che, in una
circostanza o l'altra, non fosse stato inciso sull'ardesia o nel marmo. La sua unica incombenza tra gli immortali
pellegrini dell'aldilà, il compito per cui la Provvidenza aveva mandato al mondo questo vecchio quasi con uno scalpello
in mano, era quello di dare un nome ai defunti perché non fosse dimenticato al momento della resurrezione. Eppure era
riuscito, pur in questa ristretta prospettiva, a mietere alcuni ramoscelli di saggezza terrena, e non solo terrena, il raccolto
di molti sepolcri..121
Per quanto lugubre possa sembrare la sua vocazione, era un tipo ameno, per quanto potevano consentirglielo la
salute, l'integrità e la mancanza di preoccupazioni, e soleva sempre accingersi a incidere qualche dolente scritta con lo
stesso spirito che stimola altri a fischiettare quando lavorano. Nell'insieme, trovavo nel signor Wigglesworth un
personaggio divertente e spesso istruttivo, se non proprio interessante, e in parte per il piacere della sua compagnia, e
ancor più perché il suo lavoro ha sempre un certo fascino per «l'uomo che nasce da donna», presi l'abitudine di
trascorrere qualche ora al giorno nella sua bottega. Le sue osservazioni bizzarre, che non di rado contenevano una verità
condensata e aguzzata dal suo limitato punto di vista, conferivano alla sua conversazione una vivacità che un semplice
spirito mondano e una generale cultura avrebbero subito dissipato.
A volte discutevamo dei rispettivi meriti delle varie qualità del marmo, di cui erano posate numerose lastre
contro le pareti della sua bottega, e altre volte trascorrevamo un'ora o due in silenzio, senza che una parola fosse
pronunciata da una parte o dall'altra, mentre osservavo il suo scalpello che incideva nitidamente una lettera dopo l'altra
dei nomi dei Norton, dei Mayhew, dei Luce, dei Dagget, e di altre imperiture famiglie della Vineyard. Spesso, con
orgoglio d'artista, il vecchio scultore parlava degli esemplari preferiti della sua produzione, sparsi nei cimiteri di tutti i
villaggi del New England. Ma il mio maggiore e più istruttivo divertimento era quando assistevo ai suoi colloqui con i
clienti, che si intrattenevano con lui in interminabili discussioni sulla foggia e lo stile dei monumenti funebri desiderati,
sulle qualità sepolte da commemorare, sul tormento da esprimere e, infine, sul più basso costo da pagare, in dollari e
centesimi, per avere una trascrizione in marmo dei loro sentimenti. In realtà, la mia mente si arricchiva allora di molte
nuove idee, che forse vi rimarranno ancora più a lungo di quanto il marmo più duro del signor Wigglesworth conserverà
le profonde impronte del suo scalpello.
Un'anziana signora venne a ordinare un monumento funebre per il suo primo amore, che era stato ucciso da
una balena nell'oceano Pacifico non meno di quarant'anni prima. Era strano che una traccia così profonda dei suoi
giovanili sentimenti si fosse conservata attraverso tutti i mutamenti della sua vita successiva, nel corso della quale era
diventata moglie e madre e, per quanto potevo giudicare, una donna agiata e felice. Riflettendo tra me, mi sembrava che
questo imperituro dolore, quale lei lo considerava in tutta buona fede, fosse una delle circostanze più fortunate della sua
vita, dando un ideale alla sua mente e conservandola più pura e spirituale di quanto sarebbe stata altrimenti, e astraendo
una parte dei suoi interessi dalle cose terrene. Tra la moltitudine dei piaceri, l'assillo delle preoccupazioni mondane e
tutto l'immediato materialismo della sua vita, aveva comunicato con una visione, e grazie a questo rapporto era
diventata migliore. Fedele al marito della sua maturità, e amandolo con un sentimento molto più reale di quello che
avrebbe mai potuto provare per il sogno della sua fanciullezza, aveva nondimeno conservato un'immaginaria devozione
per colui che era sepolto nell'oceano, così che un carattere comune come il suo ne era stato elevato e raffinato, e i suoi
sospiri erano divenuti l'alito del cielo sulla sua anima. La buona signora desiderava che la lapide proposta fosse decorata
con un bordo scolpito di piante marine, intrecciate con contorte conchiglie, quali probabilmente fluttuavano sui resti del
suo amato, o erano disseminate tutt'intorno nelle profondità del Pacifico. Ma lo scalpello del signor Wigglesworth non
era all'altezza del compito, ed ella fu perciò costretta ad accontentarsi di una rosa col capo reclinato su uno stelo
spezzato. Quando se ne fu andata, osservai che il simbolo non era dei più adatti.
«Eppure», replicò il mio amico scultore, racchiudendo nella sua immagine tutti i pensieri che erano passati
nella mia mente, «quella rosa spezzata ha sparso il suo dolce profumo per quarant'anni della vita di questa buona
donna».
Raramente mi accadeva di trovare così piacevole materiale di contemplazione come nel caso precedente.
Nessuno dei clienti, credo, mi fece un'impressione così sgradevole come un anziano signore che si presentò con la sua
quarta moglie sotto braccio, per ordinare le lapidi funerarie per le tre precedenti occupanti del suo talamo. Attesi con
una certa impazienza di vedere se il ricordo che conservava di una di loro era più dolce di quello delle altre due, ma non
riuscii a scorgerne alcun indizio. Le tre lapidi dovevano essere tutte dello stesso materiale e foggia, ciascuna decorata in
bassorilievo con due salici piangenti, uno dei quali chino sul suo vicino, che doveva essere spezzato nel mezzo e posare
su un'urna sepolcrale, il simbolo generalmente usato dal signor Wigglesworth per indicare il lutto coniugale. Rabbrividii
al pensiero di questo grigio poligamo, che aveva completamente perduto il sacro senso dell'individualità del vincolo
coniugale, tanto da essere incline, pensai, a contare sulla punta delle dita quante erano le donne che avevano dormito al
suo fianco e che ora dormivano sotto terra. Mi sembrò perfino, e se gli faccio torto non è cosa molto grave, che
lanciasse un'occhiata di sbieco alla sua sposa vivente, come pensando di concludere un più vantaggioso affare
ordinando in aggiunta una quarta pietra tombale. Fui più favorevolmente impressionato da un ruvido vecchio capitano
di baleniere, che diede disposizione per una grande lastra di marmo divisa in due parti, una delle quali doveva contenere
l'epitaffio per la sua defunta moglie e l'altra rimanere in bianco finché la morte non vi avesse inciso anche il suo nome.
Come spesso accade ai balenieri di Martha's Vineyard, tanta parte della vita di questo vedovo sferzato dai venti era
trascorsa in mari lontani che dei suoi vent'anni di matrimonio ne aveva vissuti appena tre sotto il suo tetto, e anche
questi intervallati l'uno dall'altro. E così la sposa della sua giovinezza, anche se era morta quando erano ambedue
vecchi, conservava ancora nel ricordo le fresche gocce di rugiada delle loro nozze.
Queste osservazioni mi diedero l'idea, confermata dal signor Wigglesworth, che i mariti erano più inclini delle
mogli a elevare monumenti in memoria del coniuge defunto. Non ero così maligno da immaginare che le donne fossero
meno sicure degli uomini della loro devozione per darne testimonianza nel marmo. È più probabile che gli uomini
riescano a riflettere sulle loro compagne perdute come ricordi distinti da sé, mentre le donne, da parte loro, sono
consapevoli che una parte di loro stesse se n'è andata con il defunto, ovunque egli sia. L'anima si aggrappa all'anima, la
polvere vivente ha affinità con la polvere della tomba, e proprio a causa di questa affinità la vedova rifugge ancor più.122
dal ricordare al mondo l'esistenza del defunto, perché il legame è già abbastanza forte, e non necessita di un simbolo
visibile. E anche se è un'ombra quella che cammina sempre accanto a lei, ed è il tocco di una mano gelida quella che si
posa sul suo petto, nondimeno la vita, e forse anche i suoi naturali desideri, possono essere sempre caldi dentro di lei, e
ispirarle nuove speranze di felicità. Dovrebbe allora dare rilievo alla tomba, il cui odore si avverte ancora sul cuscino
delle sue seconde nozze? No, meglio spianare il suo tumulo verde col terreno circostante, come se quel luogo, quando
lei scaverà di nuovo nel proprio cuore sepolto, avrà cessato di essere una tomba. Nonostante questi sentimentalismi, fui
straordinariamente divertito da un episodio al quale non ebbi la fortuna di assistere, ma che mi riferì il signor
Wigglesworth con considerevole senso dell'umorismo. Una gentildonna della città, avuta notizia della scomparsa di suo
marito in mare, aveva ordinato una bella lastra di marmo, e faceva visita ogni giorno per controllare i progressi dello
scalpello del mio amico. Un pomeriggio, proprio mentre la buona donna e lo scultore stavano componendo l'epitaffio, la
cui lettura avrebbe dato grande consolazione allo spirito del defunto, chi entra nella bottega se non il defunto stesso, in
carne e ossa oltre che in spirito? Era stato raccolto in mare, e attualmente non abbisognava di pietre tombali né di
epitaffi.
«E come ha reagito sua moglie», domandai, «a questa lieta sorpresa?».
«Be'», rispose il vecchio, allargando il ghigno di un teschio, al quale il suo scalpello stava lavorando, «mi sono
davvero dispiaciuto per quella povera donna: era una delle mie lastre di marmo più belle... e dover gettarla via per un
vivente!».
Una donna avvenente, con un bocciolo di figlia, si presentò un giorno a scegliere una pietra tombale per la
figlia gemella che era morta un mese prima. Rimasi impressionato dalla diversità dei loro sentimenti per la defunta: la
madre era composta e dolorosamente rassegnata, pienamente conscia della sua perdita, come di un tesoro che non aveva
per sempre posseduto, e quindi consapevole che poteva esserle strappato, mentre la figlia non aveva evidentemente una
reale cognizione della morte, che comprendeva con la mente, ma non col cuore. Mi sembrò che, per l'impronta lasciata
dalla sorella defunta sullo spirito della superstite, quest'ultima avesse quasi la sensazione di essere ancora a fianco della
sorella scomparsa, mentre osservava quelle lastre di marmo, e una volta o due si guardò intorno con un radioso sorriso,
che presto si offuscò confusamente, così come quello della sorella si era spento per sempre. Forse la sua coscienza era
più reale del suo riflesso, forse la compagnia della sorella morta era più vicina che nella vita. Madre e figlia parlarono a
lungo col signor Wigglesworth dell'epitaffio più adatto e infine scelsero un comune versetto di rime mal combinate, che
era già stato inciso su innumerevoli altre lapidi. Tuttavia, quando ridiamo della banalità delle iscrizioni tombali,
dimentichiamo che il Dolore sa leggerle più profondamente di noi, e scoprire un significato autentico e personale in ciò
che sembra così vago e convenzionale quando da esso non è interpretato. È il Dolore che rinnova ogni epitaffio, anche
se le identiche parole possono esser state usate per migliaia di altre tombe.
«Eppure», dissi poi al signor Wigglesworth, «avrebbero potuto fare una scelta migliore. Mentre discutevate
dell'argomento, sono stato colpito da almeno una decina di altre semplici e naturali espressioni uscite dalle labbra della
madre e di sua figlia, e una di queste poteva ispirare un'iscrizione altrettanto originale e appropriata».
«No, no», replicò lo scultore, scrollando la testa. «Si può ricavare molta consolazione da questi vecchi versetti
di poesia, e raccomando sempre di preferirli a quelli di nuovo conio. In qualche modo, sembra che possano estendersi
fino a un grande dolore, oppure ridursi nelle dimensioni di uno piccolo».
Non di rado, ciò che avveniva tra il signor Wigglesworth e i suoi clienti stimolava immagini anche ridicole.
Una scaltra gentildonna che gestiva una taverna in città voleva acquistare due o tre lapidi per i membri defunti della sua
famiglia, e proponeva di pagare queste solenni onoranze offrendo il vitto allo scultore. Si affacciò allora nella mia
mente l'immagine del buon signor Wigglesworth seduto a pranzo davanti a una gran pietra tombale, mentre tagliava uno
dei suoi rubicondi cherubini di marmo, rosicchiava un paio di tibie incrociate e beveva dentro un teschio, un lacrimatoio
o un'urna sepolcrale, mentre i congiunti defunti dell'ostessa osservavano l'orrendo banchetto. Quando riferii al vecchio
questa mia assurda fantasia, egli rise di cuore e dichiarò che il mio spirito era appropriato.
«Ho trascorso tutti i miei giorni a questo desco», commentò, «e ho mangiato non poche quantità di ardesia e
marmo».
«Un duro pasto!», replicai sorridendo. «Ma a quanto pare l'ha digerito ottimamente!».
Un uomo d'una cinquantina d'anni, con espressione accigliata e scostante, venne un giorno a ordinare una
lapide per la tomba del suo peggior nemico, col quale aveva ingaggiato battaglia per quasi tutta la vita, procurandosi
reciproca infelicità e rovina. Il mistero era che l'odio era di venuto il sostentamento e il piacere di quella povera anima
infelice, prendendo il posto di ogni gentile affetto, creando in realtà un vincolo di affinità tra lui e l'uomo che
condivideva tale sentimento, e quando se n'era estinto l'oggetto, l'implacabile nemico era stato l'unico a piangere la sua
morte. L'uomo espresse anche il proposito di essere sepolto a fianco del nemico defunto.
«Dubito che le loro polveri si mescoleranno», commentò poi il vecchio scultore, perché spesso non mancava
uno spirito terreno nelle sue osservazioni.
«Già», risposi, dopo aver meditato a lungo sull'episodio. «E, quando risorgeranno, questi irriducibili nemici
potranno scoprirsi amici. Perché, a mio giudizio, ciò che essi credevano odio non era che amore mascherato».
Un gentiluomo con propensioni di storico venne ad acquistare una lapide in memoria di un indiano di
Chabbiquidick, uno dei pochi di sangue puro rimasti nella regione, spiegando che era un capotribù ereditario,
discendente del
sachem che aveva dato il benvenuto al governatore Mayhew nella Vineyard. Il signor Wigglesworthfece del suo meglio per scolpire un arco spezzato e un fascio di frecce sparse, in ricordo dei cacciatori e guerrieri la cui.123
razza s'era estinta, ma aggiunse anche un cherubino per far intendere che quel povero indiano aveva condiviso la
speranza dei cristiani nell'immortalità.
«Caspita!», esclamai, dopo aver osservato a lungo il fanciullo alato, l'arco e le frecce. «Sembra più la tomba di
Cupido che quella di un capo indiano!».
«Sciocchezze!», replicò lo scultore, con l'orgoglio offeso dell'artista, poi soggiunse, col suo consueto spirito:
«Come può morire Cupido quando tante belle fanciulle abitano nella Vineyard?».
«Verissimo», risposi, e per il resto della giornata pensai ad altre cose che alle pietre tombali.
Quando lo vidi di nuovo, lo trovai intento a cesellare un libro aperto su una lastra di marmo, e pensai che ciò
volesse esprimere l'erudizione di qualche dotto ecclesiastico della scuola di Cotton Mather. Si rivelò, invece, la
rappresentazione della conoscenza delle Scritture di un'anziana donna che non aveva mai letto altro che la Bibbia, e il
monumento era un omaggio della chiesa ortodossa, di cui ella faceva parte, alla sua pietà e alle sue buone azioni. In
strano contrasto con questa lapide in memoria di una donna cristiana, vidi quella di un miscredente, la cui pietra
tombale testimoniava, per sua personale disposizione, la convinzione che il suo spirito si sarebbe estinto come una
fiammella, e che il nulla da cui nasceva lo avrebbe accolto di nuovo. Il signor Wigglesworth mi chiese se era opportuno
consentire che le ceneri di un defunto pronunciassero questa terribile convinzione.
«Se pensassi», soggiunse, «che un solo mortale possa leggere questa scritta senza rabbrividire, il mio scalpello
si rifiuterebbe di incidere una sola lettera. Ma mentre la tomba pronuncia tali falsità, l'anima di quest'uomo conoscerà la
verità e ne sarà inorridita».
«Così sarà», risposi, colpito da questa idea. «Questo povero miscredente può sforzarsi di predicare cose
blasfeme dalla tomba, ma sarà soltanto un altro modo per imprimere nell'anima la coscienza dell'immortalità».
Un vecchio di nome Norton era ben noto in tutta l'isola per le sue ingenti ricchezze, accumulate grazie alla sua
astuzia unita a una sordida avarizia. Questo infelice spilorcio, ben sapendo che nessun amico si sarebbe ricordato di lui
nella tomba, aveva preso personalmente le opportune precauzioni per essere ricordato dai posteri, ordinando un'enorme
lastra di marmo bianco con un lungo epitaffio di lettere in rilievo, da realizzare splendidamente con tutta l'abilità del
signor Wigglesworth. Questo espediente per far valere il suo denaro anche dalla lapide della sua tomba aveva qualcosa
di sintomatico, e probabilmente gli procurò maggior piacere nei pochi mesi da lui vissuti in seguito che in tutto un
secolo, ora che è posata sopra le sue ossa. Questo episodio mi fa ricordare una giovinetta, una pallida, fragile creatura,
ben diversa dalle altre rosee e floride fanciulle della Vineyard, tra le quali la sua bellezza andava sfiorendo. Giorno
dopo giorno, la povera ragazza veniva nella bottega dello scultore per esaminare una lastra di marmo dopo l'altra, finché
scrisse infine il suo nome su una piccola lapide che, penso, doveva essere di un bianco più immacolato delle altre. Non
la vidi più, ma poco dopo trovai il signor Wigglesworth che incideva il suo nome di vergine sulla lastra che ella aveva
scelto.
«È morta, povera ragazza», mi disse, interrompendo il motivetto che stava fischiettando, «e ha scelto un bel
materiale per la sua lapide. E ora mi dica, su quale di queste lastre vorrebbe veder scritto il suo nome?».
«Be', per dirle la verità, caro signor Wigglesworth», risposi dopo qualche attimo di silenzio, un po' sconcertato
dalla brusca domanda, «per essere sincero, m'importa poco o niente di una pietra sulla mia tomba, e sono anzi un po'
scettico sull'opportunità di erigere monumenti sulla polvere che un tempo è stata umana. Il peso di queste lastre di
marmo, anche se non lo sentono i cadaveri e le anime liberate, incombe sullo spirito di chi rimane in vita, e lo induce ad
associare l'idea della morte con la prigionia della tomba, anziché con la libertà dei cieli. Ogni lapide che lei ha scolpito è
il simbolo visibile di una concezione errata. I nostri pensieri dovrebbero librarsi in alto con le farfalle, non trattenersi
con le spoglie che ci hanno imprigionati. In tutta verità e ragione, né quelli che chiamiamo viventi, e ancor meno i
defunti hanno a che fare con la tomba».
«Mai udito niente di così profano!», esclamò allora il signor Wigglesworth, sconcertato e contrariato da queste
opinioni che contraddicevano tutte le sue idee e sentimenti, e significavano che era stato sprecato, e ancor peggio, tutto
il lavoro della sua vita. «Allora si dimenticheranno gli amici scomparsi nel momento stesso che vanno sotto terra!».
«Non sono sotto terra!», replicai. «E perché dovrei allora segnare il luogo in cui non è nascosto alcun tesoro?
Dimenticarli? No! Ma per ricordarli propriamente, dimenticherei ciò che essi hanno prodigato. E allora, per trovare il
più vero significato della morte dovrei dimenticare la tomba!».
Ma il buon vecchio scultore continuava a borbottare e inciampava tra le lapidi, dove aveva camminato per tutta
la vita. Che avesse torto o ragione, io ero divenuto più saggio grazie alla sua compagnia e alle mie osservazioni sulla
natura e il carattere di coloro che si recavano nella sua bottega, con i loro vecchi o nuovi dolori per farli ricordare sulle
sue lastre di marmo. Eppure, con la saggezza avevo acquisito anche l'incertezza, perché nella mia mente si agitava uno
strano dubbio: se l'ombra cupa di questa vita, con i suoi dolori e rimpianti, non trovi in essi tanta consolazione
(lasciando da parte l'influenza religiosa), quanto in ciò che definiamo i suoi piaceri.
LA CERIMONIA NUZIALE DEGLI SHAKER
Un giorno, al capezzale di padre Ephraim, che per quarant'anni era stato primo degli anziani nella comunità
Shaker di Goshen, erano riuniti parecchi capi di quella setta. Alcuni erano giunti dal ricco insediamento di Lebanon, da
Canterbury, da Harvard, da Alfred e da tutte le altre località in cui questa strana gente ha reso fertili le selvagge colline.124
del New England con metodica laboriosità. Era presente anche un anziano che era giunto in pellegrinaggio da un
villaggio di fedeli nel Kentucky, lontano circa mille miglia, per far visita ai suoi congiunti spirituali, i figli della santa
madre Ann. Aveva condiviso la semplice abbondanza del loro desco, aveva bevuto il loro famoso sidro, e si era unito
alla sacra danza, di cui si diceva che ogni passo alienava il fedele dalla terra per elevarlo a celestiale purezza e
beatitudine. I suoi fratelli del nord l'avevano poi cortesemente invitato a presenziare a una cerimonia in cui era
particolarmente auspicato il concorso di tutti i membri eminenti della loro comunità.
Il venerabile padre Ephraim era seduto nella sua poltrona, non soltanto canuto e infermo per l'età, ma logorato
anche da una lunga malattia che, con tutta evidenza, avrebbe ben presto fatto trasferire in altre mani il suo bastone di
patriarca. Davanti a lui stavano un uomo e una donna, ambedue vestiti col tipico abbigliamento degli Shaker.
«Fratelli miei», disse padre Ephraim agli anziani che lo circondavano, facendo un debole sforzo per
pronunciare queste poche parole, «ecco qui il figlio e la figlia ai quali affiderei la responsabilità di cui la Provvidenza
sta per sgravare le mie stanche spalle. Leggete nei loro volti, vi prego, e ditemi se il movimento interiore dello spirito ha
guidato giustamente la mia scelta».
Ogni anziano guardò allora i due candidati con attento sguardo scrutatore. L'uomo, che si chiamava Adam
Colburn, aveva un volto cotto dal sole per il lavoro nei campi, eppure intelligente, pensoso e segnato dalle
preoccupazioni di tutta una vita, anche se aveva appena raggiunto la mezza età. Il suo aspetto aveva un che di severo, e
una certa rigidità segnava la sua persona, caratteristiche che in generale lo facevano sembrare un maestro di scuola,
professione che in effetti aveva precedentemente esercitato per parecchi anni. La donna, Martha Pierson, aveva da poco
superato la trentina, era magra e pallida, come quasi tutte le sorelle Shaker, e aveva quell'aspetto un po' cadaverico che
l'abbigliamento di queste sorelle vuole appositamente conferire.
«Questa coppia è ancora nell'estate degli anni», osservò il perspicace anziano di Harvard. «Preferirei vedere la
bianca brina dell'autunno sulle loro teste. Mi sembra anche che siano esposti a particolari tentazioni, a causa dei desideri
carnali che sono intercorsi in precedenza tra loro».
«No, fratello», obiettò l'anziano di Canterbury. «La brina bianca ha già compiuto la sua opera su fratello Adam
e su sorella Martha, così come ne vediamo a volte le tracce sui nostri campi di grano quando sono ancora verdi. E
perché dovremmo dubitare della saggezza della scelta del nostro venerando padre, anche se questa coppia si è amata in
gioventù come si amano le persone del mondo? Non vi sono forse tra noi molti fratelli e sorelle che hanno vissuto
insieme nel vincolo coniugale eppure, adottando la nostra fede, hanno scoperto i loro cuori mondati di ogni sentimento
che non sia spirituale?».
Comunque fosse, sia che il loro precedente amore rendesse o no inopportuno che ora Adam e Martha
presiedessero insieme su un villaggio di Shaker, era sicuramente molto singolare che questo fosse l'esito di molte vive e
tenere speranze. Nati in famiglie vicine di casa, il loro reciproco affetto risaliva a prima ancora dei tempi di scuola, e
sembrava qualcosa di innato, infuso in tutti i loro sentimenti, non tanto in un particolare ricordo, quanto connesso a tutto
l'insieme dei loro ricordi. Ma proprio quando erano giunti all'età adatta per unirsi, la sfortuna aveva colpito
dolorosamente ambedue, rendendo necessario che iniziassero a lavorare per sopravvivere. Ma anche in queste
circostanze, Martha Pierson avrebbe probabilmente acconsentito a unire il suo destino a quello di Adam Colburn e,
sicura della felicità del loro reciproco amore, avrebbe pazientemente atteso i doni meno importanti della buona sorte.
Ma Adam, che era di carattere pacato e prudente, era riluttante a rinunciare ai vantaggi che si offrono a un uomo solo
per elevarsi nel mondo, e così, anno dopo anno, il loro matrimonio era stato rimandato. Adam Colburn aveva seguito
molte vocazioni, aveva viaggiato a lungo, aveva visto gran parte del mondo e della vita. Martha si era guadagnata il
pane lavorando a volte come cucitrice, o come aiutante della moglie di un contadino, come maestra nella scuola del
villaggio, e a volte come infermiera e assistente dei malati, acquistando così una varia esperienza, il cui ultimo impiego
non aveva previsto. Ma niente di tutto ciò aveva fatto prosperare i due innamorati, e in nessun momento successivo il
matrimonio sarebbe stato una scelta più prudente di quando si erano separati, ancora nel fiore degli anni, per cercare
miglior fortuna. Eppure, avevano tenuto vivo il loro reciproco amore. Martha poteva diventare moglie di un uomo eletto
senatore nel suo Stato d'origine, Adam avrebbe potuto ottenere la mano, come ne aveva conquistato il cuore senza
volerlo, di una ricca e avvenente vedova. Ma nessuno dei due desiderava la fortuna, se non per spartirla con l'altro.
Infine, quella serena rassegnazione che si impadronisce soltanto dei caratteri forti e un po' ostinati, e non cede
ad altri barlumi di speranza, calò sullo spirito di Adam Colburn, il quale chiese un colloquio con Martha e le propose di
unirsi con lui nella società degli Shaker. Gli adepti di questa setta sono più spesso spinti tra le sue mura ospitali dalle
disgrazie terrene che attratti da una fanatica fede, e vi sono accolti senza molte domande sulle loro motivazioni. Martha,
che gli era sempre fedele, prese allora la mano del suo innamorato e lo accompagnò nel villaggio degli Shaker. Qui, le
naturali doti di ambedue, coltivate e rafforzate nelle avversità della loro vita precedente, ben presto meritarono loro un
rango importante nella società, i cui membri sono solitamente al di sotto del livello comune d'intelligenza, nel mentre la
loro fede e i loro sentimenti si assimilavano in qualche misura con quelli dei loro correligionari. Adam Colburn si
acquistò a poco a poco rispetto non solo nella gestione degli affari temporali della società, ma anche come eloquente e
limpido predicatore della loro dottrina, e Martha non si distingueva meno nelle incombenze proprie del suo sesso.
Infine, quando gli acciacchi della salute gli avevano consigliato di cercare un successore nel suo ufficio patriarcale,
padre Ephraim aveva pensato a Martha e Adam, proponendo di rinnovare nelle loro persone la forma primitiva del
governo degli Shaker, qual era stata stabilita da Madre Ann. Dovevano essere loro il padre e la madre del villaggio, e la
semplice cerimonia che doveva insediarli nell'incarico stava ora per compiersi..125
«Fratello Adam e sorella Martha», disse il venerabile padre Ephraim, fissando su di loro il vecchio sguardo
penetrante, «se potete in coscienza assumere questa carica, parlate, così che i fratelli non dubitino della vostra idoneità
al compito».
«Padre», rispose Adam, con la pacatezza propria del suo carattere, «sono giunto al vostro villaggio come un
uomo deluso, stanco del mondo, logorato da continui affanni, e cercavo soltanto sicurezza contro l'avversa fortuna
perché non avevo speranza di trovare quella propizia. Anche il mio desiderio di aver successo nel mondo era quasi
spento dentro di me, e sono venuto qui come si potrebbe andare alla tomba, pronto a giacere nelle sue tenebre e nel suo
freddo, per averne in cambio la pace e la quiete. Nutrivo soltanto un affetto terreno nel mio petto, che si era sopito dopo
la giovinezza, così che fui felice di portare qui Martha come mia sorella, nel nostro nuovo focolare. Siamo fratello e
sorella, e non vorrei che fosse altrimenti. E in questo pacifico villaggio ho trovato tutto ciò che spero e desidero. Mi
impegnerò con tutte le mie forze per il bene spirituale e temporale della nostra comunità, la mia coscienza non ha dubbi
in proposito. Sono pronto a ricevere l'incarico».
«Hai parlato bene, figlio Adam», disse il padre. «Dio ti benedica nell'incarico che sto per lasciare».
«E la nostra sorella?», domandò l'anziano di Harvard. «Non ha anch'essa il dono di dichiarare i suoi
sentimenti?».
Martha trasalì e mosse le labbra come per dare una formale risposta alla domanda, ma se avesse tentato, i
vecchi ricordi, i sentimenti a lungo repressi nell'infanzia, nella giovinezza e nell'età matura sarebbero forse sgorgati dal
suo cuore con parole che sarebbero state una profanazione in quel luogo.
«Adam ha parlato», si affrettò a rispondere, «e i suoi sentimenti sono uguali ai miei».
Ma mentre pronunciava queste poche parole Martha impallidì, tanto da sembrare pronta per la bara, più che a
stare in presenza di padre Ephraim e degli anziani; rabbrividì come se qualcosa di orribile si presentasse in quella
situazione e nel suo destino. Non era sufficiente una femminile saldezza di nervi per sostenere lo sguardo fisso di
uomini così venerati e famosi tra quelli della loro setta, uomini che avevano dominato le loro naturali propensioni per le
debolezze e gli affetti umani. Uno di loro si era unito alla società portando con sé la moglie e i figli, ma da quel
momento non aveva mai più rivolto una parola d'affetto alla prima, né aveva più preso sulle ginocchia gli amati figli.
Un altro, la cui famiglia si era rifiutata di seguirlo, aveva avuto la forza d'animo di abbandonarla alla pietà del mondo. Il
più giovane degli anziani, un uomo d'una cinquantina d'anni, era stato allevato fin dall'infanzia in un villaggio degli
Shaker, e si diceva che non avesse mai stretto tra le sue la mano di una donna, che non avesse mai immaginato un più
stretto legame di quello formale e fraterno della setta. Il vecchio padre Ephraim era il più inflessibile di tutti: dopo una
giovinezza di dissoluto libertinaggio, era stato convertito da madre Ann in persona, e aveva condiviso con i primi
Shaker il periodo della loro fanatica intransigenza. I fedeli, quand'erano seduti intorno ai camini del villaggio,
raccontavano che madre Ann era stata costretta a marchiare con un ferro rovente il suo cuore di carne per purificarlo
dalle passioni terrene.
Comunque fosse, la povera Martha aveva un tenero cuore di donna, che gemeva dentro di lei, mentre guardava
quegli strani vecchi, e da loro spostava lo sguardo verso il volto impassibile di Adam Colburn. Tuttavia, accorgendosi
che gli anziani la osservavano con sospetto, si fece forza e parlò di nuovo.
«Con le poche forze che mi hanno lasciato le molte traversie», soggiunse, «sono pronta ad assumere l'incarico
e a fare del mio meglio».
«Figli miei, unite le vostre mani», disse allora padre Ephraim.
E così fecero. Gli anziani si alzarono in piedi tutt'intorno e padre Ephraim si sollevò in una posizione più eretta,
pur rimanendo seduto sulla sua poltrona.
«Vi ho ordinato di unire le vostre mani», soggiunse, «non per un terreno affetto, perché voi vi siete liberati per
sempre delle sue catene, ma come fratello e sorella uniti nell'amore spirituale, come aiutanti l'uno dell'altra nel compito
che vi è stato assegnato. Insegnate agli altri la fede che avete ricevuto, aprite le porte di cui vi consegno le chiavi,
spalancatale a tutti coloro che rinunceranno alle iniquità del mondo e verranno qui a condurre una vita di purezza e di
pace. Accogliete coloro che sono stanchi, dopo aver conosciuto la vanità della terra, accogliete i bambini, così che
possano non imparare mai quella sciagurata lezione. E la benedizione accompagni i vostri sforzi così che possa
affrettarsi il giorno in cui la missione di madre Ann si realizzerà, in cui non nasceranno più bambini e non ne
moriranno, e l'ultimo superstite della razza umana, un uomo vecchio e stanco come me, possa veder calare il sole per
non sorgere mai più su un mondo di peccato e di dolore!».
Il vecchio padre si lasciò ricadere esausto sulla poltrona, e gli anziani tutt'intorno ritennero, a ragione, che fosse
giunto il momento in cui i nuovi capi del villaggio dovevano assumere i loro compiti di patriarchi. Mentre rivolgevano
la loro attenzione a padre Ephraim, avevano però distolto lo sguardo da Martha, che nel frattempo era divenuta sempre
più pallida, senza che se ne accorgesse nemmeno Adam Colburn, il quale aveva ritratto la mano da quella di lei e aveva
incrociato le braccia con un'espressione di appagata ambizione. Ma al suo fianco Martha diveniva sempre più pallida
finché, come un cadavere in abiti funebri, si accasciò ai piedi del suo innamorato d'un tempo, perché, dopo tante prove
sostenute con forza, il suo cuore non poteva più sopportare il peso della sua tormentosa desolazione.
BOZZETTI NOTTURNI
sotto un ombrello.126
Com'è piacevole una giornata invernale di pioggia tra le pareti domestiche! In una giornata come questa, la
migliore occupazione, o il miglior passatempo, si chiami come si vuole, è un libro di viaggi che descriva scene quanto
più diverse dalla fosca immagine che si presenta nebulosamente attraverso le finestre. Come ho già sperimentato, la
fantasia riesce allora a conferire ancor più nitidi lineamenti e vividi colori alle scene che lo scrittore descrive sulla
pagina, e le sue parole diventano magici incantesimi che evocano mille immagini diverse. Strani paesaggi baluginano
tra le pareti familiari della stanza, e figure di altre terre si affacciano quasi tra i sacri confini del focolare domestico. Per
quanto sia piccola la mia stanza, lo spazio è sufficiente per contenere la distesa oceanica di un deserto d'Arabia e le sue
sabbie riarse, percorse dalla lunga fila di una carovana con cammelli che pazientemente procedono sotto gli implacabili
raggi del sole. Anche se il soffitto non è molto alto, riesco nondimeno a erigere al di sotto le montagne dell'Asia
centrale, finché le loro vette scintillano sopra alle nuvole dell'atmosfera. E con i miei modesti mezzi, una ricchezza che
non è tassabile, posso trasportare qui le splendide mercanzie di un bazar orientale e richiamare una folla di compratori
da lontani paesi, pronti a pagare un giusto prezzo per i preziosi articoli messi in mostra tutt'intorno. Vero è, tuttavia, che
in mezzo al trambusto e a tutto ciò che sembra accadere intorno a me, si ode di quando in quando battere la pioggia
contro i vetri delle mie finestre, che si affacciano su una delle più tranquille strade di una cittadina del New England.
Dopo qualche tempo, anche le visioni svaniscono e non ricompaiono più al mio ordine. E allora, mentre cala la sera, un
cupo senso di irrealtà deprime il mio spirito e mi costringe ad avventurarmi fuori, prima che l'orologio suoni l'ora di
andare a letto, per convincermi che tutto il mondo non è fatto di cose così nebulose come quelle che mi hanno occupato
per tutto il giorno. Un sognatore può indugiare così a lungo tra le sue fantasie che le cose fuori di lui possono sembrare
irreali come quelle dentro.
Quando la sera è già inoltrata, esco quindi di casa, abbottonandomi con cura lo stropicciato pastrano e issando
l'ombrello, la cui cupola di seta risuona subito del tambureggiare delle invisibili gocce di pioggia. Soffermandomi
sull'ultimo gradino, metto a confronto il tepore e l'allegria del mio caminetto abbandonato con la cupa oscurità e il gelo
cui sto andando incontro. Vedo allora funesti presagi, innumerevoli come le gocce di pioggia, e se non fosse l'orgoglio a
pungolarmi, ritornerei in casa per riprendere la mia poltrona, le ciabatte e il libro, e trascorrere una sera di pigro piacere
come è stata la giornata, per andarmene poi a letto ingloriosamente. La stessa tremebonda titubanza ha sicuramente
soffocato per qualche attimo lo spirito avventuroso di molti viaggiatori, quando i loro passi, destinati a percorrere la
circonferenza terrestre, stavano per lasciare le ultime impronte sulle strade di casa.
Nel mio caso, si può concedere qualche attenuante alla debole natura umana. Alzo lo sguardo e non vedo il
cielo, e nemmeno un insondabile vuoto, ma soltanto un nero, impenetrabile nulla, come se la volta celeste e tutte le sue
luci fossero state cancellate dall'universo, come se la natura fosse morta, il mondo si fosse vestito a lutto e le nuvole
piangessero per essa. Con le loro lacrime sulle guance, volgo lo sguardo a terra, ma anche qui trovo scarsa
consolazione. Un lamp ione è fiocamente acceso a un angolo lontano e getta nella strada abbastanza luce per mostrare,
esagerandoli al suo debole chiarore, i pericoli e le difficoltà che insidiano il mio cammino. Laggiù, i resti biancastri di
un enorme cumulo di neve ingombreranno il marciapiede fino agli ultimi giorni di marzo, e oltre o attraverso quella
distesa invernale devo avventurarmi. Al di là, si distende un abisso di dolore, un intruglio di fango e liquida sporcizia,
che arriva fino alla caviglia, al ginocchio o al collo, insomma di insondabile profondità, sul quale non si riflette
nemmeno la luce del lampione, che però ho osservato di quando in quando, dall'alba al tramonto, mentre dilagava
gradualmente il suo orrore. Se dovessi sprofondare nelle sue profondità, potrei forse dire addio alla terra! E senti come
scroscia impetuoso un torrente d'acqua, il cui corso turbolento è in parte arrossato dal chiarore del lampione, e altrove
scorre rumorosamente nelle più fitte tenebre! Se fossi travolto nel guardare le acque impetuose e sudicie di quel
ruscello, la polizia avrebbe il suo da fare con questo sfortunato gentiluomo che ha voluto porre fine ai suoi guai proprio
in una pozzanghera!
No, non esiterò un attimo ancora davanti a questi cupi pericoli, che diventano sempre più oscuramente
insormontabili più mi trattengo a misurarli. In cammino! Ed ecco che con pochi danni, oltre a una raffica di pioggia
sulla faccia e sul petto, uno schizzo di fango sui pantaloni e lo stivale sinistro pieno di acqua gelida, mi vedete arrivare
all'angolo della strada. Il lampione getta un alone rossastro intorno a me, e aguzzando lo sguardo da un angolo della
strada all'altro distinguo altre chiazze di luce che mi illuminano il cammino verso lidi più luminosi. Ma questo è un
luogo desolato e tetro: gli alti edifici lanciano la loro cupa sfida al temporale, con le imposte tutte chiuse, come un uomo
che socchiuda gli occhi davanti alle folate di pioggia. Come scroscia rumorosamente la pioggia giù dalle grondaie di
lamiera! Le raffiche di vento sono sempre più violente e sembrano aggredirmi da varie parti contemporaneamente.
Come mi è capitato più volte di osservare, questo angolo è un luogo di sosta e di ritrovo per quei venti che non sono
impegnati con le grandi navi che solcano le nostre coste frastagliate, né nelle foreste a strappare i silvestri giganti con
una pertica di terra attaccata alle loro enormi radici. Qui si divertono invece a combinare più innocenti marachelle: in
questo momento stanno assalendo quella povera donna laggiù, che sta passando sotto la luce del lampione, e una folata
si accanisce contro il suo ombrello, rovesciandolo, un'altra spolvera il cappuccio della sua mantella, calandoglielo sugli
occhi, mentre una terza si prende le più scandalose libertà con la parte inferiore del suo abito. Per fortuna, la buona
signora non è un fuscello, ma è fatta di rotonda e carnosa sostanza, altrimenti questi aerei monelli la solleverebbero in
aria come una strega sulla scopa, per poi depositarla, sicuramente, nel più sudicio rigagnolo qui intorno.
Da qui mi trascino sul solido selciato fino al centro cittadino, dove trovo una scintillante illuminazione, come
per festeggiare qualche importante vittoria sul campo di battaglia o alle urne. Due file di negozi, con grandi vetrine che
arrivano fin quasi a terra, diffondono il loro chiarore da una parte all'altra della strada, mentre la notte scura è sospesa al.127
di sopra come un baldacchino, impedendo così alla luce di disperdersi. I marciapiedi bagnati scintillano come un vasto
tappeto di luce rossa; brillano anche le gocce di pioggia, come se il cielo stesse rovesciando rubini, e i rigagnoli
scorrono come fuoco. La scena mi sembra emblematica di quel bagliore ingannevole che i mortali spargono intorno ai
loro passi nel mondo, rimanendone abbagliati fino a dimenticare l'impenetrabile oscurità che li avvolge e che può essere
dispersa soltanto da una luce dall'alto. Dopo tutto, è una scena priva di allegria, così come sono privi di allegria coloro
che vi si aggirano. Ecco, arriva un personaggio che ha tanta familiarità con le intemperie da prendere le raffiche della
bufera per il saluto di un amico che gli chiede: «Come va?». È un capitano di mare a riposo, avvolto in qualche
indefinibile indumento di tipo marinaresco, che sta facendo rotta verso l'ufficio di Assicurazione della Marina per
intrecciare lì racconti di bufere e naufragi con un equipaggio di vecchi lupi di mare come lui. E il vento farà sentire la
sua voce tra quelle rauche dei marinai, per essere udito da tutti. Incontro poi un infelice signore male in arnese, con una
mantella gettata in fretta sulle spalle, che corre a gara col vento impetuoso sforzandosi di scivolare tra una goccia e
l'altra di pioggia. Qualche accidente domestico deve averlo strappato dal suo caldo caminetto per correre in cerca di un
dottore! E guarda quel piccolo vagabondo che se ne sta noncurante proprio sotto una grondaia mentre guarda incuriosito
qualche oggetto in una vetrina! Di certo l'acqua è il suo elemento: dev'essere piovuto giù dalle nuvole, come dicono che
facciano le rane.
Ecco una graziosa scenetta: un giovanotto e una ragazza, avvolti tutti e due nelle mantelle e stretti l'uno all'altro
sotto la precaria protezione di un ombrello di cotone. Lei porta soprascarpe di gomma, ma lui calza soltanto scarpette da
ballo, e infatti sono sicuramente in cammino per qualche festa o ballo di beneficenza, un dollaro a testa rinfresco
compreso, e affrontano ora la tempesta attratti da qualche visione di splendidi festeggiamenti. Ma ecco un malaugurato
incidente: distratti dalle luci rosse, azzurre e gialle della vetrina di una farmacia, sono scivolati su una lastra residua di
ghiaccio, precipitando in una confluenza di rigagnoli in piena all'angolo di due strade. Sfortunati amanti, se la mia
natura non fosse quella di uno spettatore della vita, tenterei di accorrere in vostro soccorso, ma così non è, e allora mi
impegno solennemente, se doveste annegare, a raccontare la patetica storia del vostro triste destino, tale da strappare
tante lacrime da farvi annegare di nuovo. Avete toccato il fondo, miei giovani amici? Sì, ecco che emergono come una
ninfa delle acque e una divinità fluviale e sguazzano mano nella mano fuori dalla profondità della scura pozza d'acqua.
Poi si affrettano verso casa, fradici, sconsolati, delusi, ma il loro amore è troppo caldo per essere raffreddato dalla gelida
acqua. Hanno affrontato una prova che potrebbe rivelarsi troppo ardua per molti, ma sempre fedeli, anche se inzuppati
fino al midollo!
Vado avanti, partecipando con piacere o con dolore alle varie vicissitudini della vita dei mortali, sia quando la
mia figura è illuminata dalla luce delle finestre, o quando è oscurata passando in un tratto buio. Ma non è che il mio
spirito camaleontico, privo di proprie sfumature. Ora passo per una strada più appartata, dove le abitazioni di ricchi e
poveri sono mescolate insieme e presentano una gamma di immagini in forte contrasto. Ma anche qui si può trovare la
via di mezzo. Dentro quel caseggiato intravvedo una cerchia familiare: la nonna, i genitori, i figli, tutti guizzanti come
ombre al riverbero del camino. Può pure infuriare la bufera, e il vento gelido può battere contro i vetri della finestra, ma
non riusciranno a raffreddare il tepore di quel camino! Certo che è una dura sorte, la mia, quella di vagabondare qui
senza casa, stringendo al petto soltanto la notte, la bufera e la solitudine, anziché una moglie e i figli. Ma mi do pace,
perché so bene che anche ospiti più cupi sono seduti intorno al camino, anche se l'allegra fiamma illumina soltanto
immagini gioiose. Ma ecco una scena ancora più brillante: una sontuosa dimora illuminata per un ballo, con lampadari
di cristallo e lampade d'alabastro accese in tutte le stanze, e soleggiati paesaggi appesi alle pareti. Ecco che una carrozza
si è fermata e ne scende una lieve bellezza che, al riparo di due ombrelli, scivola sotto il portale e scompare tra lontane
note di musica. Sentirà mai il vento della notte e la pioggia? Forse sì. La morte e il dolore entreranno mai in
quell'orgogliosa dimora? È certo, come è certo che questa notte i ballerini saranno allegri tra le sue pareti. Questi
pensieri rattristano il mio cuore, ma anche lo rassicurano, perché insegnano che il pover'uomo, nel suo misero tugurio
battuto dalle intemperie, senza un fuoco che lo riscaldi, può chiamare fratello il ricco, essendo affratellato dal dolore che
deve visitare le loro case, e dalla morte, che sicuramente condurrà ambedue in altre dimore.
Vado ancora avanti, sprofondando nella notte. Ora ho raggiunto gli estremi limiti della città, dove l'ultimo
lampione lotta fievolmente con le tenebre, come la più lontana stella che sta di sentinella ai confini dello spazio non
creato. È strano che sensazioni sublimi possano aver origine dalle cause più comuni, come quelle suggerite dal cupo
ruggito di una cataratta sotterranea, là dove l'impetuosa corrente di un rigagnolo precipita sotto una grata di ferro e
scompare dalla terra. Ascolto per un po' la sua voce misteriosa, e la fantasia la ingigantisce, finché, trasalendo, sorrido
di questa illusione. Ecco un altro rumore, lo sferragliare di ruote della diligenza postale, diretta fuori città, che rotola
pesantemente sul selciato, schizzando il fango e l'acqua della strada. Per tutta la notte i poveri passeggeri saranno
sballottati avanti e indietro, tra una sonnacchiosa veglia e un sonno agitato, sognando i loro comodi letti e svegliandosi
ancora per il movimento della vettura. È più lieto il mio destino, che mi riporterà subito nella mia solita stanza per
brindare comodamente davanti al fuoco, meditare, appisolarmi di quando in quando, e immaginare gli strani aspetti di
ciò che tutti possono vedere. Ma prima voglio guardare quella figura solitaria che viene avanti con una lanterna di latta
che getta a terra, tutt'intorno a lui, cerchi di luce attraverso i suoi fori. Si avventura intrepido nel buio inesplorato, dove
io non lo seguirò.
Questa figura mi suggerirà una morale, in mancanza di una più appropriata, con cui concludere il mio bozzetto.
Quell'uomo non teme di percorrere l'oscura strada davanti a sé, perché la lanterna, che ha acceso al camino di casa sua,
gli illuminerà la via del ritorno a quello stesso focolare. E anche noi, vagabondi nella notte di un mondo tempestoso e.128
cupo, se portiamo la lampada della fede, accesa a un fuoco celeste, saremo sicuramente ricondotti nel cielo dal quale
quella luce è stata presa a prestito.
ENDICOTT E LA CROCE ROSSA DI SAN GIORGIO
A mezzogiorno di una giornata d'autunno di oltre due secoli fa, i colori inglesi furono issati dal portabandiera
della milizia di Salem, addestrata alle arti marziali agli ordini di John Endicott. Era un periodo in cui gli esuli religiosi
erano abituati a indossare l'armatura e a esercitarsi nel maneggiare le armi. Fin dai tempi della colonizzazione del New
England, mai la situazione era stata così triste. I dissensi tra Carlo I d'Inghilterra e i suoi sudditi erano allora, e per molti
anni a venire, relegati all'aula del parlamento. Le misure adottate dal sovrano e dai suoi ministri erano ancor più
tiranniche e oppressive a causa di un'opposizione che non aveva ancora acquistato sufficiente fiducia nella propria forza
per resistere con la spada alle ingiustizie del re. Il bigotto e altezzoso primate d'Inghilterra Laud, arcivescovo di
Canterbury, controllava le questioni religiose del regno, ed era perciò investito di poteri che potevano provocare la
rovina delle due colonie puritane di Plymouth e Massachusetts. Esistono testimonianze che i nostri antenati, pur
consapevoli del pericolo, erano ben decisi a impedire che il loro giovane paese soccombesse senza dare battaglia, anche
sotto la possente forza del braccio del sovrano.
Questi erano i tempi in cui il vessillo d'Inghilterra, con la croce rossa in campo, fu dispiegato sopra un gruppo
di puritani. Il loro capo, il celebre Endicott, era un uomo di contegno severo e risoluto, al quale contribuiva anche una
barba brizzolata che gli copriva la parte superiore della corazza. Questo pezzo della sua armatura era così lucido che
tutto quanto era intorno rifletteva la sua immagine nell'acciaio scintillante, sul quale spiccava ora un umile edificio, che
non aveva guglie né campane a rivelare ciò che era: una casa di preghiera. A monito dei pericoli di quella landa
desolata, era esposta la truce testa di un lupo, da poco ucciso nei dintorni della cittadina, e inchiodato sul portico della
chiesa, come voleva allora il regolamento per chi ne rivendicava la taglia. Il suo sangue gocciolava ancora sui gradini
d'ingresso. Erano anche visibili, in quella stessa ora di mezzogiorno, tanti altri esempi dei tempi e dei modi di vivere dei
puritani, che dobbiamo sforzarci di descriverli sommariamente, anche se meno vividamente di quanto erano riflessi
sulla lucida corazza di John Endicott.
Nelle vicinanze di quel sacro luogo compariva anche un importante strumento dell'autorità dei puritani, il palo
della fustigazione, sul terreno più volte calpestato dai piedi dei malfattori, lì condotti per essere richiamati alla
disciplina. A un angolo della chiesa si vedeva la gogna, all'altro i ceppi, e per singolare fortuna del nostro racconto, la
testa di un episcopale, sospettato anche d'essere cattolico, era grottescamente incorniciata nel primo strumento, mentre
un altro colpevole, che aveva rumorosamente brindato alla salute del re, era imprigionato con le gambe nei ceppi. Una
accanto all'altra, sui gradini della chiesa, comparivano una figura maschile e una femminile. L'uomo era un allampanato
ed emaciato emblema del fanatismo, che portava sul petto un cartello con la scritta «falso evangelizzatore», il che
significava che si era azzardato a dare la sua interpretazione delle Sacre Scritture, senza l'avallo dell'infallibile giudizio
delle autorità civili e religiose. Il suo aspetto non mostrava mancanza di fervore nel mantenere le sue posizioni
eterodosse, nemmeno lì esposto al ludibrio generale. La donna aveva un morso sulla lingua, pena che le era stata inflitta
perché aveva preso le parti di quell'indegno membro contro gli anziani della chiesa, e il suo contegno dava motivo di
temere che, non appena fosse stato rimo sso quel morso, la ripetizione del reato avrebbe richiesto altre ingegnose misure
punitive.
I succitati personaggi erano stati condannati a subire queste umiliazioni per l'arco di un'ora a mezzogiorno. Ma
tra quella folla erano presenti anche alcune persone punite per tutta la vita: ad alcuni erano state tagliate le orecchie,
come ai cagnolini, altri erano stati marchiati sulle guance con le iniziali dei loro misfatti, a uno erano state tagliate e
cauterizzate le narici, un altro portava una cavezza al collo, che aveva divieto di togliersi o di nascondere sotto gli
indumenti, e forse era stato dolorosamente tentato di appendere l'altro capo della fune a una trave o a un ramo. Era
presente anche una giovane e bella donna, la cui condanna era quella di portare la lettera A sul davanti del suo abito,
agli occhi di tutto il mondo e dei suoi stessi figli, che sapevano anch'essi che cosa significava quell'iniziale. Per
ostentare il marchio d'infamia, quella creatura perduta e disperata aveva dovuto ricamare il funesto simbolo su una
stoffa scarlatta con filo dorato, usando tutta la sua arte nel cucito, così che quella lettera maiuscola A poteva essere
interpretata nel senso di «ammirevole», o in altri significati diversi da «adultera».
Il lettore non deve dedurre, sulla base di questi esempi, che i tempi dei puritani fossero più perversi dei nostri,
quando, nel passare per la stessa strada qui descritta, non vediamo simili marchi di infamia su uomini o donne. Era
infatti consuetudine dei nostri antenati scoprire anche i più reconditi peccati ed esporli al ludibrio, senza pudori e
privilegi, alla luce del sole di mezzogiorno. Fosse questa la consuetudine anche ai giorni nostri, potremmo
probabilmente trovare materiali per descrivere scene non meno colorite di questa.
Fatta eccezione per i su citati malfattori, per i malati e gli infermi, tutta la popolazione maschile della cittadina,
compresa tra i sedici e i sessant'anni, faceva parte dei ranghi della milizia. Alcuni austeri selvaggi, in tutta la pompa e la
dignità degli antichi pellerossa, stavano assistendo allo spettacolo. Le loro frecce con la punta di selce erano armi
infantili a confronto con gli archibugi dei puritani, e avrebbero solo scalfito innocuamente gli elmi d'acciaio e le corazze
di ferro battuto che racchiudevano ciascun milite come in una fortezza individuale. Il valoroso John Endicott guardò
con orgoglio i suoi baldi seguaci e si preparò a riprendere gli esercizi marziali di quel giorno..129
«Avanti, miei prodi!», esclamò, estraendo la spada. «Mostriamo a questi poveri pagani come sappiamo
maneggiare le nostre armi. E buon per loro se non ci costringono a darne reale dimostrazione!».
La compagnia corazzata si schierò in fila, e ognuno posò il pesante calcio del suo archibugio accanto al piede
sinistro, in attesa degli ordini del capitano. Ma mentre Endicott scrutava a destra e manca la fila dei suoi uomini, scorse
in lontananza un personaggio con cui era d'uopo parlamentare. Era un anziano gentiluomo che indossava un mantello
nero con la fascia e un cappello a larga tesa sotto il quale si vedeva uno zuccotto di velluto, il tipico abbigliamento di un
pastore puritano. La venerabile persona impugnava anche un bastone, che sembrava essere stato tagliato da poco nella
foresta, e le sue scarpe erano inzaccherate, come se avesse viaggiato a piedi attraverso le paludi di quella landa desolata.
Il suo aspetto era esattamente quello di un pellegrino, e a esso si aggiungeva anche un'apostolica dignità. Quando
Endicott lo avvistò, l'uomo mise da parte il suo bastone e si chinò a bere a una fontana che zampillava al sole, a una
decina di metri dall'angolo della chiesa. Ma prima di bere, il brav'uomo alzò lo sguardo al cielo con gratitudine, e poi,
scostando la barba grigia con una mano, raccolse un po' d'acqua nel palmo dell'altra.
«Ehilà, buon signor Williams!», gridò Endicott. «Ci è gradito il suo ritorno nella nostra pacifica cittadina.
Come sta il nostro degno governatore Winthrop? E quali notizie giungono da Boston?».
«Il governatore gode buona salute, devoto signore», rispose Roger Williams, riprendendo il suo bastone e
avvicinandosi. «E in quanto alle notizie, ho qui una lettera che Sua Eccellenza mi ha affidato, sapendo che sarei venuto
qui oggi. Verosimilmente, contiene notizie di grande importanza, perché ieri è giunta una nave dall'Inghilterra».
E signor Williams, pastore di Salem, e pertanto ben noto a tutti i presenti, era ora giunto dove Endicott era in
piedi sotto lo stendardo della sua compagnia, e gli mise in mano la missiva del governatore, col grande sigillo impresso
col suo blasone. Endicott si affrettò ad aprire la lettera e iniziò a leggerla, ma mentre scorreva la pagina la sua virile
espressione si fece sempre più adirata. Il sangue gli affluì sul volto, che sembrò accendersi di un fuoco interiore, ed era
immaginabile che anche la sua corazza divenisse incandescente per le fiamme di collera che ardevano nel suo petto.
Arrivato alla conclusione, scrollò rabbiosamente in mano la missiva, che frusciò rumorosamente come la bandiera che
garriva sulla sua testa.
«Brutte notizie, signor Williams», commentò. «Le più brutte che siano mai giunte nel New England.
Sicuramente lei ne conosce il contenuto, vero?».
«Lo conosco, in realtà», rispose Roger Williams, «perché il governatore si è consultato in proposito con i miei
confratelli del clero di Boston, e parimenti è stata chiesta la mia opinione. E Sua Eccellenza la prega, per mio tramite,
che la notizia non sia improvvisamente divulgata, per tema che la popolazione scateni qualche tumulto e dia così un
pretesto contro di noi al sovrano e all'arcivescovo».
«Il governatore è un uomo saggio, saggio, prudente e moderato», commentò Endicott, digrignando i denti.
«Nondimeno, devo fare come mi consiglia il mio giudizio. Non c'è uomo, donna o bambino in tutto il New England che
non siano interessati vivamente a queste notizie, e se la voce di John Endicott sarà abbastanza alta, uomini, donne e
bambini ne verranno a conoscenza. Soldati, fate quadrato intorno a me! Ehilà, brava gente, sono giunte notizie che
riguardano tutti voi!».
I soldati si strinsero intorno al loro capitano, che stava accanto a Roger Williams sotto la bandiera con la Croce
rossa di san Giorgio, mentre le donne e gli anziani facevano ressa, e le madri sollevavano i loro figli per mostrare loro il
volto di Endicott. Qualche rullo di tamburo diede il segnale che imponeva silenzio e attenzione.
«Compagni d'armi, compagni d'esilio», esordì Endicott parlando in preda a viva emozione, che riusciva
nondimeno a controllare. «Per quale motivo avete lasciato il vostro paese natale? Per quale motivo, mi domando,
abbiamo lasciato i campi verdi e fertili, le case e le vecchie sale grigie in cui siamo nati e cresciuti, i cimiteri delle
chiese in cui sono sepolti i nostri antenati? Per quale motivo siamo qui giunti, per erigere le nostre pietre tombali nel
deserto? Un deserto che risuona di ululati, ecco che cos'è! Il lupo e l'orso ci attendono a pochi passi dalle nostre
abitazioni, i selvaggi ci tendono agguati nell'ombra infida della foresta. Le tenaci radici degli alberi spezzano i nostri
vomeri quando dissodiamo la terra. I nostri figli piangono perché non hanno pane, e dobbiamo scavare nella sabbia
della costa per soddisfarli. Per quale motivo, vi domando ancora, siamo giunti in questa terra ostile e gelida? Non è stato
forse per godere i nostri diritti civili? Non è stato forse per la libertà di venerare Dio secondo la nostra coscienza?».
«E questa la chiami libertà di coscienza?», lo interruppe una voce dai gradini della chiesa.
Era il «falso evangelizzatore». Un sorriso triste e pacato attraversò per un attimo il volto mansueto di Roger
Williams. Ma Endicott, nel fervore di quel momento, brandì rabbiosamente la spada contro il colpevole, un gesto che
incuteva paura da un uomo come lui. «Che cos'hai a che vedere tu con la coscienza, furfante?», esclamò. «Io parlavo
della libertà di venerare Dio, non della licenza di profanarlo e deriderlo. Non interrompere il mio discorso, altrimenti ti
farò legare mani e piedi fino a quest'ora di domani. Prestate ascolto a me, amici, non badate a questo maledetto esaltato!
Come dicevo, abbiamo sacrificato tutto quanto, siamo giunti in una terra di cui il vecchio mondo non aveva quasi
conoscenza, per poter costruire qui un nuovo mondo per noi, e cercare faticosamente una strada che ci porti al paradiso.
E ora, che cosa ne pensate? Questo figlio di un tiranno scozzese, questo nipote di una scozzese papista e adultera, che
con la sua morte ha dimostrato che una corona dorata non sempre salva dal ceppo del boia una testa consacrata...».
«No, fratello, no», lo interruppe il signor Williams, «le sue parole non sono appropriate a un luogo privato, e
tanto meno a una pubblica piazza».
«Non interferisca, Roger Williams!», replicò Endicott imperiosamente. «Il mio spirito è più saggio del suo, in
questo frangente! Io vi dico, compagni d'esilio, che Carlo d'Inghilterra e Laud, il nostro più implacabile persecutore,
arciprete di Canterbury, sono ben decisi a opprimerci anche qui. Stanno deliberando, dice questa lettera, di inviare qui.130
un governatore generale, nelle cui mani saranno affidate la legge e la giustizia di questo paese. Sono intenzionati anche
a stabilire qui i culti idolatri dell'episcopato inglese, così che, quando Laud bacerà il piede del papa, in quanto cardinale
di Roma, potrà consegnare il New England, legato mani e piedi, alla mercé del suo padrone!».
Un profondo gemito, mescolato con collera, paura e dolore, si alzò dagli ascoltatori in risposta alla sua
profezia.
«Badate bene, fratelli», concluse Endicott, con crescente fervore. «Se questo re e questo arciprelato faranno la
loro volontà, tra breve vedremo una croce sulla guglia di questo luogo di culto che noi abbiamo costruito, e un altare
entro le sue mura, con ceri accesi tutt'intorno a mezzogiorno. Udremo le loro campane e le voci dei preti di Roma che
dicono messa. Ma voi, cristiani, pensate che questa infamia possa essere tollerata senza che una spada sia sguainata,
senza che un colpo sia sparato, senza che sangue sia versato, proprio qui, sui gradini del pulpito? No, siate forti di
braccio e intrepidi di cuore! Resteremo qui, sul nostro suolo, che abbiamo acquistato con i nostri averi, che abbiamo
conquistato con la spada, che abbiamo spianato con le nostre asce, che abbiamo dissodato col sudore della nostra fronte,
che abbiamo santificato con le nostre preghiere a Dio che ci ha condotti qui! Chi mai potrà renderci schiavi? Che cosa
abbiamo a che vedere con questo prelato con la mitra, con questo sovrano incoronato? Che cosa abbiamo a che vedere
con l'Inghilterra?».
Endicott guardò intorno a sé i volti infiammati degli ascoltatori, ora animati del suo stesso spirito, poi si voltò
improvvisamente verso il portabandiera che gli stava accanto.
«Ufficiale, ammaina la bandiera!» gli ordinò.
L'ufficiale ubbidì, ed Endicott, impugnata la spada, la affondò nel tessuto e con la mano sinistra strappò la
Croce rossa di san Giorgio, poi agitò sopra alla testa l'insegna lacerata.
«Miserabile sacrilego!», tuonò l'ecclesiastico esposto alla gogna, non più capace di trattenersi. «Tu hai
rinnegato il simbolo della nostra santa religione!».
«Tradimento! Tradimento», gridò il lealista legato ai ceppi. «Quest'uomo ha oltraggiato la bandiera del re!».
«Davanti a Dio e agli uomini rivendico ciò che ho fatto», rispose Endicott. «Un rullo di tamburo, tamburino! e
voi, soldati e cittadini, acclamate l'insegna del New England! Né il papa né il tiranno vi hanno più parte, adesso!».
Con un grido di trionfo, la folla diede la sua approvazione a una delle più audaci imprese che la nostra storia
ricordi. E sempre sia onorato il nome di Endicott. Guardiamo dietro a noi, nella nebbia dei tempi, e riconosciamo nello
strappo della Croce rossa dalla bandiera del New England il primo presagio di quella liberazione che i nostri padri
hanno conquistato, quando le ossa di questo indomito puritano giacevano ormai da oltre un secolo nella polvere.
LA RICERCA DI LILY
Un apologo
Due innamorati avevano progettato una piccola casa estiva, costruita come un antico tempio, in cui volevano
dedicarsi a tutti i loro raffinati e innocenti piaceri. Lì si sarebbero intrattenuti piacevolmente tra loro e con la loro
cerchia di familiari e amici, lì avrebbero offerto banchetti con frutti deliziosi e avrebbero ascoltato lievi melodie
mescolate con note patetiche che rendono ancor più dolce il piacere, lì avrebbero letto prosa e poesia per consentire alle
loro menti di librarsi in romantici sogni a occhi aperti, e insomma, perché dare forma al vago splendore delle loro
speranze? Lì dovevano raccogliere tutti i più puri piaceri, come rose tra i pilastri della casa, che fiorivano sempre nuove
e spontanee. E così, in un sereno pomeriggio ventilato, Adam Forrester e Lilias Fay si misero in cammino per la vasta
tenuta che dovevano possedere insieme, in cerca del luogo più adatto per il loro Tempio della felicità. Erano anch'essi
un lieto spettacolo, degni sacerdoti di quell'altare, e Adam Forrester, traducendo in poesia il bel nome di Lilias, era
solito chiamarla Lily, perché la sua figura era fragile e le sue guance quasi pallide come quelle del giglio.
Mentre camminavano mano nella mano in un viale di olmi cadenti che partiva dal porticato della casa paterna
di Lily, sembravano splendere come creature alate attraverso i fasci di raggi del sole e spargere luce dove cadevano
ombre profonde. Ma dietro alla giovane coppia si era incamminata anche una tetra figura avvolta in una mantella di
velluto nero che sembrava un drappo funebre, e coperta da un lugubre cappello da funerale, che calava l'ombra della sua
ampia tesa sulle folte sopracciglia. Guardando dietro di sé, gli innamorati capirono subito chi li seguiva, e si augurarono
nei loro cuori che fosse altrove, essendo la sua compagnia così stranamente inadatta alla loro lieta passeggiata. Era un
parente prossimo di Lilias Fay, un vecchio di nome Walter Gascoigne, che da molto tempo soffriva sotto il peso di uno
spirito malinconico che a volte diventava autentica follia e sempre ne improntava il carattere. Quale contrasto, tra i due
giovani e felici viandanti e il loro indesiderato accompagnatore! Loro sembravano modellati dalla luce del sole, lui dalla
più cupa ombra della terra; loro si libravano come la speranza e la felicità, avviandosi mano nella mano attraverso la
vita, mentre la tetra figura dell'uomo incombeva dietro a loro come incarnazione di tutte le funeste influenze che la vita
poteva riservare loro. I tre non avevano fatto molta strada quando giunsero in un posto che piaceva alla dolce Lily, e lì
si fermò.
«Quale posto più ameno possiamo trovare?», domandò Lily. «Perché cercare oltre il luogo del nostro
tempio?».
Era invero un luogo delizioso, anche se non era distinto da particolari attrattive, essendo soltanto un angolo al
riparo di una collina, con la prospettiva di un lago lontano in una direzione e del campanile di una chiesa in un'altra, tra.131
paesaggi e sentieri che portavano in boschi verdi e scomparivano nell'ombra scintillante. Se fosse stato eretto in quella
posizione, il tempio avrebbe guardato verso occidente, così che gli innamorati avrebbero potuto sognare le più
splendide visioni alla luce purpurea, viola e dorata del cielo al tramonto, e pochi dei piaceri che si attendevano erano più
belli di quelli immaginati dalla loro fantasia.
«Sì», rispose Adam Forrester, «potremmo cercare tutto il giorno, e non troveremmo un luogo più bello.
Costruiremo qui il nostro tempio».
Ma il loro triste accompagnatore, che aveva preso posto proprio sul punto che essi progettavano di ricoprire
con un pavimento di marmo, scosse il capo e aggrottò la fronte, e allora i due giovani pensarono che l'ombra gettata
dalla sua lugubre figura su quel luogo era sufficiente per corromperlo e dissacrarlo come tempio. Il vecchio indicò
alcune pietre sparse, ruderi di una precedente struttura, e i fiori che le fanciulle amano talvolta coltivare nei giardini, ma
che ora crescevano selvatici allo stato naturale.
«Non qui!», esclamò il vecchio Walter Gascoigne. «Molto tempo fa, altri mortali hanno costruito qui il loro
Tempio della felicità. Cercate un altro posto!».
«Come?», domandò Lilias Fay. «Altre persone, oltre a noi, hanno progettato di costruire un tempio come
questo?».
«Povera bambina!», esclamò il suo lugubre parente. «In un modo o nell'altro, tutti i mortali hanno accarezzato
il vostro sogno».
Il vecchio raccontò allora agli innamo rati che un tempo sorgeva in quel luogo non proprio un tempio, ma un
edificio, e che l'aveva abitato tra gli altri un personaggio con abiti scuri, che stava sempre seduto davanti al camino,
avvelenando l'atmosfera gioiosa della casa. Sotto quelle vesti, Adam e Lilias capirono che il vecchio stava parlando del
Dolore. Non raccontò niente che non sarebbe potuto accadere in quasi tutte le altre case, eppure i suoi ascoltatori ebbero
la sensazione che i raggi del sole non sarebbero mai scesi su quel luogo in cui le sofferenze umane avevano lasciato una
così profonda impronta, e che, comunque, non doveva esservi costruito lì il loro Tempio della felicità.
«È molto triste», commentò Lily con un sospiro.
«Bene, esistono posti più ameni di questo», replicò Adam Forrester per consolarla, «luoghi che non sono stati
oscurati dal dolore».
Si affrettarono allora ad andarsene seguiti dal malinconico Gascoigne, che sembrava aver raccolto tutta la
mestizia di quel luogo abbandonato per portarla con sé come un fardello di inestimabile valore. Continuarono a
camminare e si trovarono infine in una valletta rocciosa, in mezzo alla quale scorreva un ruscelletto con acque
increspate e spumeggianti, e con un incessante e festoso mormorio. Era un luogo appartato e selvaggio, circondato da
precipizi bui che potevano apparire un po' troppo severi se tra le loro fenditure non si fossero radicati arbusti verdi a
profusione, con ghirlande di rigoglioso fogliame tra le loro fronde. Ma la principale attrattiva della valletta era il
ruscello, simile alla presenza di uno spensierato fanciullo che non aveva niente di terreno da fare oltre a balbettare
allegramente e trastullarsi, facendo di ogni essere vivente il suo compagno di giochi e gettando i suoi riflessi di sole
sullo spirito di tutti.
«Ecco, questo è il posto!», esclamarono all'unisono i due innamorati quando arrivarono sull'orlo di una
cascatella. «Questa valletta sembra fatta apposta per il nostro tempio!».
«E la lieta canzone del ruscello sarà sempre nelle nostre orecchie!», esclamò Lilias Fay.
«E la sua lunga melodia canterà la felicità della nostra vita», soggiunse Adam Forrester.
«No, non dovete costruire qui il tempio!», mormorò il loro tetro accompagnatore.
Il vecchio pazzo era ancora lì, proprio dove intendevano costruire la loro luminosa dimora, e sembrava
l'incarnazione di qualche sventura che, in tempi ormai dimenticati, si era abbattuta su quel luogo. E purtroppo una
sventura era realmente avvenuta, non solo la sua incarnazione: più di un secolo prima, un giovane aveva attratto lì una
fanciulla che lo amava e proprio in quel luogo l'aveva uccisa, lavandosi poi le mani insanguinate nel ruscelletto che ora
cantava così allegramente. E dopo d'allora il grido di morte della povera vittima si udiva spesso echeggiare tra quelle
rocce.
«Guardate!», esclamò il vecchio Gascoigne. «Il ruscello vi sembra depurato delle macchie sulle mani
dell'assassino?».
«Mi sembra di vedere una sfumatura di sangue», rispose fievolmente Lily, e tremante come un fuscello si
aggrappò al braccio dell'innamorato mormorando: «Fuggiamo da questa orribile valletta!».
«Andiamo, allora!», esclamò Adam Forrester, col tono più allegro possibile. «Troveremo un posto più lieto».
Si misero di nuovo in cammino, giovani pellegrini alla ricerca di ciò che milioni di persone, e ogni figlio della
terra, hanno cercato a loro volta. E forse Lily e il suo innamorato potevano essere più fortunati di quei milioni di
persone? Per molto tempo sembrò che così non fosse. La lugubre figura del vecchio pazzo scivolava ancora dietro a
loro, e in ogni luogo che essi accarezzavano con lo sguardo, il vecchio aveva da raccontare qualche leggenda di torti e
sofferenze patite, così triste che i suoi ascoltatori non potevano più associare l'idea della loro felicità col luogo in cui ciò
era avvenuto. Qui una donna col cuore spezzato, inginocchiata davanti al proprio figlio, era stata da questi scacciata; là
una vecchia abbandonata aveva pregato il maligno e aveva ricevuto un animo malvagio in risposta alla sua preghiera;
qui un neonato, un tenero germoglio di vita, era stato trovato morto con l'impronta delle dita di sua madre intorno alla
gola; qui ancora, sotto una vecchia quercia, due innamorati erano stati colpiti dal fulmine, e i loro corpi anneriti erano
caduti abbracciati. Il lugubre Gascoigne aveva il dono di conoscere tutti i mali e le sventure che avevano macchiato il
seno di madre Terra, e dopo aver raccontato la storia, la sua voce funerea suonava come una profezia di future sventure,.132
oltre che un'eco di leggende del passato. E ora, vedendo la loro triste espressione, si sarebbe detto che i due giovani
pellegrini fossero alla ricerca non di un tempio di felicità terrena, ma di una tomba per sé e i loro posteri.
«Dove costruiremo in questa terra il nostro Tempio della felicità?», si domandò scoraggiato Adam. Forrester.
«Dove, in questa terra?», ripeté Lilias Fay, e debole e stanca com'era, ancor più per il peso del suo cuore, chinò
il capo e si sedette sulla cima di una collinetta, ripetendo: «Dove, in questa terra, costruiremo il nostro tempio?».
«Ah, vi siete già posti questa domanda?», domandò il loro accompagnatore, con un sorriso che rendeva ancora
più cupa la sua espressione. «Eppure c'è un posto, anche in questa terra, in cui potete costruirlo».
Mentre il vecchio parlava, Adam e Lilias volgevano distrattamente lo sguardo intorno, e allora si accorsero che
quel luogo, in cui per caso si erano fermati, aveva un suo sereno fascino, che ben si adattava al loro umore di quel
momento. Era una piccola altura del terreno, con una certa regolarità di forma che era stata forse conferita ad arte, e una
macchia d'alberi, che quasi la circondava, gettava tutt'intorno e al di là la sua ombra pensosa, anche se qualche attutito
raggio di sole trovava la strada per penetrarvi. Da una parte compariva l'avita dimora in cui gli innamorati sarebbero
vissuti e dall'altra la chiesa coperta d'edera in cui avrebbero pregato. E abbassando per caso lo sguardo a terra, sorrisero
con un senso di meraviglia, nel vedere che un pallido giglio stava crescendo ai loro piedi.
«Qui costruiremo il nostro tempio!», esclamarono insieme, con l'indescrivibile convinzione di aver trovato
finalmente il posto adatto.
Ma mentre pronunciavano queste parole, i due giovani lanciarono uno sguardo ansioso al loro cupo
accompagnatore, ritenendo quasi impossibile che qualche racconto di umane sventure non facesse apparire quel luogo
orribile come tutti i precedenti. Il vecchio stava in piedi dietro a loro, così da rappresentare la figura prominente del
gruppo, col suo tetro mantello che gli copriva la parte inferiore del volto e il luttuoso cappello che metteva in ombra le
sopracciglia. Tuttavia non espresse alcun dissenso dal loro proposito, e un imperscrutabile sorriso fu da loro interpretato
come segno che lì non v'erano tracce di colpe e di dolori a funestare il luogo del loro Tempio della felicità.
Poco tempo dopo, quando l'estate era ancora agli inizi, la bella struttura del tempio fu eretta sulla cima della
collinetta, tra le solenni ombre degli alberi, ma spesso allietata dai vividi raggi del sole. Era costruito in marmo bianco,
con sottili e aggraziati pilastri che sostenevano una cupola, e sotto, al centro di questa, era posata su un piedistallo una
lastra di marmo con venature scure, che poteva essere cosparsa di libri e spartiti musicali. Ma correva voce, nel vicinato,
che l'edificio era stato progettato come un antico mausoleo per diventare un sepolcro, e che su quella lastra di marmo
con venature scure dovevano essere incisi i nomi di coloro che vi erano sepolti. Si dubitava anche che la figura di Lilias
Fay potesse appartenere a una creatura di questa terra, essendo così delicata e di giorno in giorno più fragile, così che
sembrava che il vento d'estate potesse strapparla dalla terra e sollevarla in cielo. Ma ella seguiva ogni giorno la
costruzione del tempio, al pari del vecchio Walter Gascoigne, che ora di quel luogo faceva sempre la sua meta, e
trascorreva lunghe ore chino sul suo bastone a osservare con grande attenzione i lavori, come se quella fosse realmente
una tomba. E col tempo i lavori furono terminati, e fu prescelto un giorno per una semplice cerimonia di inaugurazione.
La sera precedente, dopo essersi congedato dalla sua innamorata, Adam Forrester si voltò a guardarla sul
portico di casa, e provò uno strano brivido di apprensione, immaginando di vederla svanire con i raggi calanti del sole
che s'affievolivano intorno alla sua figura, mentre la sua eterea sostanza si ritraeva con ogni più fievole bagliore di luce.
Dopo un ultimo sguardo, l'ombra calò sul portico e Lily diventò invisibile. In quel momento Adam ebbe un funesto
presagio, che ebbe conferma il mattino dopo, quando l'eterea figura terrena con cui Lily si era manifestata al mondo fu
trovata esanime nel tempio, col capo reclino sulle braccia, posate sulla lastra di marmo con venature scure. I gelidi venti
della terra avevano fatto avvizzire questo bel fiore, e ora una mano amorosa l'aveva trapiantato per farlo fiorire nel
giardino del paradiso.
Ahimè, il Tempio della felicità! Nel suo indicibile dolore, Adam Forrester non aveva ora altro proposito nel
cuore che quello di trasformare quel tempio di delizie e di speranze in una tomba per seppellirvi la sua innamorata. Ma
avvenne allora un fatto prodigioso: quando scavò la fossa sotto il pavimento di marmo del tempio, il becchino non trovò
la terra vergine che doveva accogliere le spoglie della fanciulla, bensì un antico sepolcro in cui erano conservate le ossa
di generazioni da tempo scomparse, e tra questi suoi dimenticati antenati Lily doveva riposare. E quando il corteo
funebre accompagnò lì Lily nella sua bara, tutti videro il vecchio Walter Gascoigne che stava sotto la cupola del tempio,
col suo luttuoso mantello e una funerea espressione in volto, una figura che ovunque fosse stata avrebbe fatto apparire
un sepolcro quel luogo. Il vecchio rimase a guardare i dolenti mentre calavano il feretro.
«E così», disse poi ad Adam Forrester, con quello strano sorriso in cui balenava solitamente la sua follia, «per
la vostra felicità non avete trovato fondamenta migliori di una tomba!».
Ma mentre quell'ombra di afflizione parlava, una visione di speranza e di gioia sbocciò nella mente di Adam,
anche dalle parole maligne del vecchio, perché allora il giovane capì il significato della parabola in cui Lily e lui
avevano recitato, e il mistero della vita e della morte si svelò davanti a lui.
«Esultiamo!», esclamò allora, alzando le braccia al cielo. «Su una tomba sorga il nostro tempio, e ora la nostra
felicità sarà eterna!».
A quelle parole, un raggio di sole fece breccia nel cielo cupo e scintillò sul sepolcro, e nello stesso momento la
tetra figura del vecchio Walter Gascoigne si allontanò di lì perché la sua mestizia, simbolo di tutti i dolori terreni, non
poteva più abitare in quel luogo, ora che il più oscuro enigma dell'umanità era stato svelato.
IMPRONTE DI PASSI SULLA SABBIA.
133Dev'essere uno spirito ben diverso dal mio quello che può mantenersi in buona salute e vigore senza sfuggire
talvolta al soffocante splendore del mondo per immergersi nelle fredde acque della solitudine. Di quando in quando, e
non di rado, la foresta e l'oceano mi chiamano, l'uno col ruggito delle sue onde, l'altra col mormorio delle sue fronde,
lontano dai luoghi di ritrovo degli uomini. Devo però camminare per molte miglia prima di poter sostare all'ombra di un
antico albero e ancor più per perdermi in una moltitudine di venerandi tronchi, nascosto al cielo e alla terra dal mistero
dell'oscuro fogliame. Dopo una giornata di cammino, niente mi appare così simile a una foresta come una distesa di
bosco nei pressi di qualche fattoria suburbana. E così, quando diventa impellente il mio desiderio di solitudine, sono
richiamato sul litorale che si estende, con ruvide rocce e sabbie di rado calpestate, per molte leghe intorno alla nostra
baia. Mettendomi in cammino per la mia ultima passeggiata, in un mattino di settembre, feci voto di eremita di non
scambiare pensieri con uomo o donna, e di non partecipare a nessuna attività sociale, ma di trarre tutto il piacere di
quella giornata dal mare e dal cielo, dalla comunione del mio spirito con essi e dalle fantasie, dai ricordi, dalle realtà che
mi aspettavo di incontrare. Di certo, avevo di che alimentare lo spirito per una giornata. Addio, allora, mondo
indaffarato! Finché le luci della sera non illumineranno le tue strade, finché non brilleranno sul mio volto arrossato dal
mare mentre faccio ritorno a casa, liberami dai tuoi legami e lasciami diventare un innocuo fuorilegge.
Attraverso in fretta strade maestre e sentieri finché, disceso un dirupo, mi trovo all'estremità di una lunga
spiaggia. Come si libra lietamente lo spirito, allora, e subito si allarga in tutta l'estensione della vasta, azzurra,
soleggiata distesa marina! Rendo un saluto e un omaggio al mare, poi scendo ai suoi bordi e immergo una mano
nell'onda che mi viene incontro, per bagnarmi la fronte. Il ruggito che risuona distante è la voce di benvenuto
dell'oceano e il suo alito salmastro è la benedizione che lo accompagna. E ora camminiamo insieme, sotto braccio alla
fantasia del lettore, su questa nobile spiaggia che si estende per più di un miglio da quello scosceso promontorio a quel
bastione di rocce frastagliate laggiù. Davanti il mare, e dietro una ripida altura, il cui bordo erboso sta arretrando, anno
dopo anno, facendo cadere i suoi ciuffi d'erba sull'arido terreno sottostante. La spiaggia è una vasta distesa di sabbia,
bruna e scintillante, in cui sono mischiati ben pochi ciottoli. Ai bordi dell'acqua, si allunga il bagnasciuga, che scintilla
vividamente alla luce del sole, riflettendo gli oggetti come uno specchio, e mentre camminiamo sulla sua superficie
lucente, lampeggia una macchia asciutta a ogni passo, ma subito s'inumidisce di nuovo quando solleviamo il piede. In
alcuni punti, la sabbia riceve l'impronta completa della pianta, con l'alluce e tutto il resto; altrove è solida come marmo,
così che dobbiamo battere con forza per lasciare anche solo l'orma del ferreo tallone. Lungo tutta la spiaggia fa capriole
la risacca: ora finge di scagliarsi con furia, ma si spegne con un docile mormorio e lambisce soltanto la rena; ora. dopo
tanti sforzi abortiti, si impenna in una linea ininterrotta, ergendosi mentre avanza senza una macchia di schiuma sulla
sua cresta verde. Con quale fiero ruggito si scaglia poi avanti, rotolando su per la spiaggia!
Mentre allungavo lo sguardo verso il limite del bagnasciuga, ricordo che rimasi sconcertato, come potrebbe
esserlo Robinson Crusoe, dalla sensazione che la vita umana era racchiusa nel magico cerchio della mia solitudine.
Lontano, nella remota distanza della spiaggia, è apparso un gruppo di fanciulle, simili a ninfe o a creature ancora più
eteree che potrebbero camminare sulle piume della schiuma, ma le avevo appena viste e subito sono scomparse
all'ombra delle rocce. Per consolarmi, perché avrei volentieri soffermato più a lungo lo sguardo, ho fatto conoscenza di
uno stormo di uccelli marini. Questi piccoli abitanti del mare e dell'aria mi precedevano poco più avanti sulla spiaggia,
in cerca, immagino, di un po' di cibo ai suoi bordi. Eppure, con una filosofia che l'umanità farebbe bene a imitare, essi
trovavano sempre un continuo piacere nelle loro fatiche per sopravvivere. Il mare era il grande compagno di giochi di
ciascuno di quegli uccelli: lo rincorrevano quando si ritirava e di nuovo volavano velocemente avanti all'onda
incombente che talvolta li raggiungeva e li sollevava sopra di sé, ma essi galleggiavano lievemente come una delle loro
piume sulla cresta che si frangeva, e nei loro volteggi aerei sembravano posati sulla schiuma evanescente. Le loro
immagini con lunghe zampe, il dorso grigio e il candido petto, si riflettevano nitidamente come le altre realtà nello
specchio del bagnasciuga lucente. Mentre avanzavo, volavano qualche decina di metri più avanti e, atterrando di nuovo,
riprendevano il loro corteggiamento alle onde della risacca, tenendomi così compagnia lungo la spiaggia come piacevoli
fantasie, finché, giunti alla sua estremità, hanno preso il volo sopra l'oceano, scomparendo alla vista. Dopo aver fatto
amicizia con questi spiritelli della risacca, si deve davvero tirare un sospiro quando scompare ogni ricordo di loro,
tranne la moltitudine delle loro piccole impronte sulla sabbia.
Dopo aver percorso tutta la lunghezza della spiaggia, è piacevole, e non privo di utilità, ritornare sui propri
passi e rievocare tutti gli umori e le occupazioni della mente durante l'andata. Le nostre impronte, ancora distinguibili,
ci guideranno consapevolmente attraverso tutti gli inconsci vagabondaggi del pensiero e della fantasia. Qui abbiamo
seguito il riflusso della risacca per raccogliere una conchiglia che il mare sembrava restio ad abbandonare; là abbiamo
trovato un'alga con un'enorma foglia bruna e l'abbiamo trascinata dietro a noi con il suo lungo gambo simile a un
serpente. Qui abbiamo catturato per la coda un granchio reale e abbiamo contato le molte chele di quello strano mostro;
là abbiamo scavato nella sabbia in cerca di ciottoli e li abbiamo fatti saltare sulla superficie dell'acqua, e là ci siamo
bagnati i piedi per esaminare una medusa che le onde avevano trascinato a riva e tentavano poi di riprendere. Qui
abbiamo seguito un rivolo d'acqua dolce che scorre attraverso la spiaggia estinguendosi sempre più, finché affonda nella
sabbia e infine si spegne nel tentativo di portare il suo piccolo contributo al mare, e là sembra che siamo stati sconcertati
da qualche stranezza, perché le nostre orme vanno tutt'intorno e sono confusamente mischiate, come se ci fossimo
imbattuti in un labirinto sulla piatta superficie della sabbia, e qui, tra i nostri altri oziosi passatempi, ci siamo seduti su
una delle poche pietre che interrompono la distesa sabbiosa e ci siamo persi in un'estemporanea e irresistibile.134
contemplazione del grande mare maestoso e imponente. E così, rintracciando le nostre orme sulla sabbia, abbiamo
rintracciato la nostra natura nel suo capriccioso corso, lanciandole uno sguardo furtivo mentre non sospettava di essere
osservata. E questi sguardi ci rendono sempre più saggi.
La vasta distesa di sabbia offre spazio anche ad altri piacevoli passatempi. Con il bastone si possono scrivere
versi, versi d'amore se si preferisce, e dedicarli al nome di una donna. Si possono scrivere anche pensieri, sentimenti,
desideri, calde effusioni degli anfratti del cuore che non si affiderebbero alla sabbia senza la certezza che, non appena il
cielo le avrà lette dall'alto, il mare le spazzerà via, e senza muoversi da lì finché non saranno cancellate. E ora,
essendoci abbastanza spazio sulla tela, disegniamo enormi facce, enormi come quella della Sfinge sulle sabbie d'Egitto,
e adattiamole con corpi di corrispondente grandezza e con gambe che potrebbero saltare fin quasi a quell'isola laggiù.
Giochi di bambini, che diventano meravigliosi su così grande scala. Ma, dopo tutto, l'uso più affascinante che se ne può
fare è quello di scrivere il proprio nome sulla sabbia. Tracciamo lettere gigantesche, così che due passi possano a stento
misurarle, e tre per le maiuscole, e incidiamole profondamente, Così che la scritta sia permanente! Statisti, guerrieri,
poeti hanno tutti speso le loro forze per cause non migliori di questa. Terminata l'opera, ritorniamo dopo un paio d'ore
per ritrovare questa grandiosa testimonianza di un nome, ma il mare l'avrà già spazzata via, così come il tempo cancella
con le sue onde i nomi di statisti, guerrieri e poeti. Ascolta, la risacca sta ridendo di te!
Oltrepassata la spiaggia, inizio a inerpicarmi sulle rocce, facendomi strada a fatica tra le rovine di un bastione,
diroccato dagli assalti di un implacabile nemico. Le rocce si ergono in ogni varietà di posizioni: alcune immergono i
piedi nella schiuma e sono ricoperte di alghe fino a metà, altre sono state scavate come caverne dagli instancabili sforzi
del mare, che può concedersi di impiegare secoli per erodere una roccia o per levigare un ciottolo. Un enorme masso si
erge in forma monumentale, con una faccia simile a una gigantesca pietra tombale, sulla quale le venature sembrano
iscrizioni in una lingua sconosciuta. Possiamo immaginare che sia l'alfabeto dimenticato di qualche razza antidiluviana,
oppure che sia stata la mano stessa della natura a incidere qualche mistero che, se si potesse decifrare la sua scrittura,
renderebbe l'umanità più saggia e più felice. Quante cose mi hanno tormentato con la stessa idea! Passiamo oltre, e
lasciamo il mistero inesplicato. Ecco uno stretto passaggio, che sembra scavato nel cuore stesso di un'enorme roccia, per
offrire al mare tumultuoso il passaggio per rumoreggiare avanti e indietro, per riempirlo della sua schiuma
spumeggiante e lasciar poi il suo pavimento di ciottoli neri nudo e luccicante. In questa voragine si estendeva un tempo
una vena intersecante di pietra più morbida, che le onde hanno eroso pezzo per pezzo, mentre le pareti di granito sono
rimaste integre sui fianchi. Con quale rumore aspro e stridente il mare rastrella con sé le pietre mentre si ritira
momentaneamente nelle sue profondità! A intervalli, il fondo della cavità rimane quasi asciutto, ma subito al suo
ingresso due o tre grandi ondate si contendono per entrare contemporaneamente. Due s'infrangono sulle pareti di
traverso e una irrompe direttamente, poi tutte e tre rimbombano all'interno, come con un grido di rabbia e di trionfo,
riempiendo la cavità con un cumulo di schiuma e di spruzzi. Mentre osservo questa scena, non riesco a liberarmi
dall'idea che un mostro, dotato di propria vita e prorompente energia, stia lottando per farsi strada a forza nello stretto
varco. E quale contrasto, quando attraverso la tempestosa voragine si intravvede il mare limpido e sereno al di là!
Tra queste rocce frastagliate si possono fare molte interessanti scoperte. Ho trovato, per esempio, una foca
morta, che una tempesta aveva da poco scagliato in un anfratto tra le rocce, dove la sua informe carcassa rotolava in un
mucchio di alghe, come se quel mostro marino tentasse di sottrarsi al mio sguardo. Un'altra volta, uno squalo mi è
sembrato in procinto di balzar fuori dalla risacca per ingoiarmi, e non senza paura ho evitato di avvicinarmi abbastanza
per accertare se il mangiatore d'uomini aveva già incontrato la propria morte per mano di qualche pescatore della baia.
Durante quella stessa passeggiata mi sono imbattuto in un uccello, un grande uccello grigio, ma se fosse una strolaga,
un'anitra selvatica, o lo stesso albatros dell'Antico Marinaio, le mie conoscenze ornitologiche non erano in grado di
appurarlo. Riposava in modo così naturale su un letto di alghe essiccate, con la testa sotto un'ala, che immaginai quasi
che fosse vivo e avanzai in punta di piedi per timo re che distendesse d'improvviso le ali verso il cielo. Ma l'uccello
marino non si sarebbe più librato tra le nuvole, né avrebbe più cavalcato le onde da cui era nato, e così, avvicinandomi,
strappai una delle sue piume screziate come ricordo. Un altro giorno ho scoperto un enorme osso, incuneato in una
fenditura tra le rocce: lungo almeno tre metri e ricurvo come una scimitarra, era tempestato di cirripedi e altre piccole
conchiglie, e ricoperto in parte di alghe, una massa imponente che qualche leviatano di antiche ere doveva aver usato
come mascella. Più piccole curiosità si possono osservare in una profonda riserva che' è riempita d'acqua a ogni marea,
che diventa un lago tra le rocce quando il mare giunge al culmine. Sul fondo di questo bacino roccioso crescono piante
marine, alcune delle quali torreggiano fin sopra il livello dell'acqua e gettano un'ombra sotto i raggi del sole. Piccoli
pesci vi guizzano avanti e indietro, nascondendosi tra le alghe, e si vede anche un granchio solitario che sembra
condurre una vita di eremita, senza comunicare con altri abitanti del luogo, nonché numerosi «cinquedita», di cui non
conosco altro nome oltre a quello che i bambini danno loro. Se la vostra fantasia è abituata a tutte queste bizzarrie,
potete guardare nelle profondità di questa pozza d'acqua e immaginare che siano quelle misteriose dell'oceano. Ma dove
sono gli scafi e le carcasse sparse delle navi affondate? dove sono i tesori che il vecchio oceano accumula? dove i
cannoni corrosi di ruggine? E i cadaveri, gli scheletri dei marinai annegati nella tempesta e in battaglia?
Il giorno di questa mia ultima passeggiata, un giorno di settembre ma caldo come in estate, che cosa mi capita
di vedere, avvicinandomi alla suddetta pozza d'acqua, se non tre ragazze sedute ai suoi bordi, che si bagnano, proprio
così, i candidi piedi nell'acqua inondata dal sole! Ecco, questa è la vivida realtà di quelle tre figure che sono fuggite da
me, come una visione, sulla spiaggia. Ascolta le loro voci allegre, mentre schizzano l'acqua con i piedi! Non mi hanno
visto e devo ritrarmi dietro a questa roccia, per eclissarmi di nuovo..135
In verità, essendomi votato alla solitudine, questo incontro ha qualcosa che fa vibrare il mio cuore con una
sensazione stranamente piacevole. So bene che queste fanciulle sono realtà in carne e ossa, eppure, guardandole così
fugacemente, si mescolano come creature affini a quelle ideali della mia mente. Ed è anche piacevole guardare dall'alto
di una roccia un gruppo di ragazzini che raccolgono sassi e conchiglie perlacee, che giocano con la risacca come con la
barba canuta del vecchio oceano. Né infrange il mio voto di solitudine osservare quella barca laggiù all'ancora, che
dondola pigramente avanti e indietro, alzandosi e ricadendo con l'alternarsi delle onde, mentre l'equipaggio, quattro
signori con giacche attillate, è indaffarato con le lenze. Tuttavia, per un'istintiva antipatia e con fuga precipitosa, evito la
presenza di ogni meditabondo viandante come me, che riconosco per il suo bastone da pellegrino, per il passo senza
meta, per il comportamento schivo e lo sguardo osservatore ma assente. Quando incontro un uomo come questo, fuggo
precipitosamente tra le rocce, come spaventato da un altro me stesso, e mi rifugio in un anfratto che molte ore trascorse
in segreto mi danno il diritto di considerare mio, e che difenderei anche contro un prepotente che esibisse titoli di
proprietà. Tutte le mie meditazioni non si sono forse permeate nelle sue pareti rocciose e nel pavimento sabbioso, per
farli divenire una parte di me?
È un anfratto tra le rocce, circondato tutt'intorno da un'aspro e scosceso precipizio che quasi racchiude un
piccolo tratto di sabbia. Davanti, il mare compare come tra i pilastri di un portale, e dietro, il precipizio è interrotto e
mescolato con la terra che dà nutrimento non soltanto ad arbusti abbarbicati e intrecciati, ma anche ad alberi che
s'aggrappano alla roccia con le loro radici nude, e sembrano lottare per trovare spazio e terreno sufficienti per
sopravvivere. Sono abeti, ma anche alcune querce sospendono dall'alto i loro grossi rami, da cui le ghiande cadono sulla
spiaggia e si sparge fogliame avvizzito sulle onde. In questa stagione autunnale, il precipizio è cosparso di un variegato
splendore: ghirlande rampicanti color scarlatto si mettono in mostra dalla sommità, macchie di arbusti con fiori gialli e
rosa, con foglie rossastre e lucide bacche crescono in tutte le fessure, e a ogni sguardo scorgo una nuova luce o
sfumatura di colore, il tutto in contrasto con la severa roccia grigia. Un rivolo d'acqua scende dalla roccia e riempie una
piccola conca vicino alla base. Ne bevo un sorso e la trovo fresca e pura, perciò decido che questa sarà la mia sala da
pranzo. In quanto al banchetto, ho qualche galletta, insaporita dall'acqua di mare, un ciuffo di finocchio marino raccolto
sulla spiaggia, e una mela come dessert. Ora il rivolo d'acqua ha riempito di nuovo la conca e mentre bevo ringrazio
Iddio con tutto il cuore, come se fosse un pranzo sontuoso, perché mi ha dato quel sano appetito che trasforma pane e
acqua in un banchetto.
Terminato il pranzo, mi sdraio sulla spiaggia, e crogiolandomi al sole lascio vagare a volontà la mia mente. Le
pareti di questo mio eremo non hanno voce per raccontare le mie follie, anche se a volte immagino che abbiano orecchie
per ascoltarle e un'anima per sorriderne. Questo posto ha qualcosa di magico: i sogni lo affollano e volteggiano intorno
a me nella luce del sole, né richiedono che il sonno mi chiuda gli occhi davanti alla realtà per diventare visibili. Qui
posso costruire la storia di due innamorati e far vivere le loro ombre davanti a me mentre si specchiano nell'acqua
limpida e camminano sulla sabbia senza lasciare impronte. Qui, se volessi potrei evocare una sola ombra e diventarne io
stesso l'amante. Sì, sognatore, ma poi il tuo cuore solitario sarà ancora più freddo dopo queste fantasie. A volte ritorna
anche il passato, per trovarmi qui, e al suo seguito appaiono volti che erano lieti quando li conoscevo, ma che ora non
sembrano più tali. Come vorrei che questo mio nascondiglio fosse ancor più solitario, così che il passato non possa
trovarmi! Andate via tutti, vecchi amici, e lasciatemi ascoltare il mormorio del mare, una voce malinconica, ma sempre
meno triste della vostra. Di quali misteri sta ora parlando? Di navi affondate e delle profondità in cui giacciono? Di
isole lontane e non ancora scoperte, dove i bambini abbronzati non sono a conoscenza di altre isole e continenti, e
pensano che le stelle siano i loro vicini più prossimi? No, niente di tutto ciò, e di che cosa parla allora? Ha forse parlato
per tanti secoli senza mai significare nulla? No, perché quei secoli trovano espressione nella voce immutevole del mare,
e avvertono l'ascoltatore di distogliere l'attenzione dalle vicissitudini dei mortali per lasciarsi pervadere l'anima dall'idea
infinita dell'eternità. Questa è saggezza, e perciò dedicherò la prossima mezz'ora a costruire barchette con pezzi di
legno, per metterle in viaggio attraverso l'insenatura con la piuma di un gabbiano come vela. Se la voce dei secoli mi
dice la verità, questa è un'occupazione saggia quanto costruire navi di cinquecento tonnellate e vararle in mare alla volta
del «lontano Catai». Già, ma come riderebbero di me i mercanti!
E dopo tutto, questa filosofia può essere vera? Io credo di poter trovare mille argomenti a suo sfavore. Bene,
proviamo allora con quella ruvida roccia laggiù, quasi immersa nella risacca, che infuria così adirata, che ruggisce e
spumeggia: quell'alta roccia sarà la mia antagonista e con essa eserciterò la mia oratoria, come quell'uomo di Atene che
scambiava parole col mare infuriato e riportava la vittoria. Il mio discorso d'esordio è trionfante, perché quel signore
coperto di alghe non ha niente da offrire in risposta, se non il suo implacabile ruggito. Ma la sua voce si udrà per molto
tempo ancora dopo che la mia si sarà zittita. Riprendo a gridare, e le rocce riecheggiano la mia voce. Che piacere per un
uomo timido sentirsi così solo che può alzare la voce a squarciagola senza rischio di essere ascoltato! Ma ora silenzio,
mia buona amica, da dove vengono quelle risate soffocate? Era una voce musicale, ma come può esserci musica nella
mia solitudine? E alzando lo sguardo intravvedo tre volti che fanno capolino in cima alla scogliera, come angeli tra me e
il cielo da cui nascono. Ah, belle ragazze, voi vi divertite della mia eloquenza, ma prima toccava a me sorridere nel
vedere i vostri candidi piedi in quella pozza d'acqua! Bene, teniamo per noi i rispettivi segreti.
Il sole è ora calato sul mio eremo, tranne un fascio di luce posato sulla sabbia proprio dove incontra il mare.
Una folla di tetre fantasie verrà a perseguitarmi se mi trattengo qui più a lungo, nel crepuscolo sempre più scuro di
queste rocce grigie. È un luogo triste, questo, quando si è di un certo umore. Arrampichiamoci allora su per la scogliera
e sostiamo qualche attimo sul suo bordo per guardare giù quella cavità davanti al mare in cui siamo stati ciò che pochi
possono essere, sufficienti come proprio passatempo (pronunciamola dunque, questa parola!), e anche per la nostra.136
felicità. Come sembra solitario adesso, quell'anfratto, e anche malinconico, come tutti gli altri luoghi in cui è passata la
felicità. Là è distesa la mia ombra, nella luce calante del sole, e posa il capo sul mare. Le scaglierò qualche sassolino.
L'ho colpita, l'ho colpita! Batto le mani trionfante, e vedo la mia ombra che batte anch'essa le sue mani irreali,
rivendicando per sé il successo. Che sciocco devo esser stato tutto il giorno, se anche la mia omb ra si prende gioco delle
mie sciocchezze!
A casa! È tempo di affrettarsi verso casa. È tempo, perché mentre il sole cala sulle onde a occidente, il mare
diventa malinconico e la risacca ha una voce più triste. Le vele lontane sembrano andare alla deriva, non sembrano
terrene, nella loro distanza sulla distesa desolata. Il mio spirito vaga lontano, ma non trova luogo in cui riposare e
ritorna indietro tremante. È tempo che me ne vada da qui. Ma non rimproveratemi la giornata che ho trascorso in
isolamento, che non era tuttavia solitudine, perché il grande mare è stato mio compagno e gli uccelli marini miei amici,
il vento mi ha raccontato i suoi segreti ed eteree figure hanno volteggiato intorno a me nel mio romitaggio. Queste
compagnie hanno effetto sul carattere di un uomo, come se egli fosse accolto in una congrega di creature che non sono
mortali. E quando a mezzogiorno camminerò per strade affollate, sentirò ancora l'influenza di questa giornata, così che
starò tra gli uomini affettuosamente, fraternamente, ma non mi mescolerò con l'anonima massa del genere umano. Terrò
per me i miei pensieri e sentimenti, conserverò inviolata la mia individualità.
Ma è bello, al termine di una giornata come questa, sentire e sapere che esistono uomini e donne nel mondo.
Una sensazione e una cognizione che affiorano dentro di me, in questo momento, perché sotto di me, sulla spiaggia, la
comitiva dei pescatori è sbarcata dal suo scafo e sta cuocendo la sua squamosa preda su un fuoco di legno acceso tra
due ruvide pietre, e sono lì anche le tre ragazze della visione. Nel crepuscolo sempre più buio, mentre la risacca
lambisce il loro focolare, il vivido bagliore del fuoco getta una strana sensazione di serenità nell'insenatura solitaria,
cosparsa com'è di sassi e di alghe, ed esposta al «malinconico mare». E il fumo, salendo su per la scogliera, porta con sé
l'appetitoso aroma di una padella di pesce fritto e di una pentola di zuppa, ricordandomi che a pranzo non ho mangiato
altro che pane e acqua, un ciuffo di finocchio marino e una mela. Penso che la compagnia potrebbe far spazio a un altro
commensale su quella pietra piatta che fa da tavolo, e se le stoviglie scarseggiano potrei raccogliere qualche grossa
conchiglia sulla spiaggia.
Ora mi hanno visto, e per quella fortuna che accompagna un uomo affamato, uno di loro mi lancia un grido
ospitale: Ehi, signore solitario, venga giù a cenare con noi! Le fanciulle agitano i loro fazzoletti. Posso declinare
l'offerta? No, e mi sia concesso che, dopo tutti i miei solitari piaceri, questo sia il momento più dolce di una giornata
trascorsa al mare.
IL BOCCIOLO DI ROSA DI EDWARD FANE
Pochi esercizi sono così difficili per la fantasia come ricreare la figura giovanile di una persona in età avanzata,
mentre la si guarda, e senza cancellare completamente la sua identità di forme e lineamenti, restituirle quelle grazie che
il tempo le ha strappato. Alcuni vecchi, soprattutto donne, sono così provati dagli anni e dai dolori che non sembrano
mai esser stati giovani e spensierati. È più facile immaginare che questi cupi fantasmi siano stati mandati al mondo già
avvizziti e decrepiti quali li vediamo oggi, inclini soltanto al dolore e alla sofferenza, ai capezzali di morte e ai funerali.
Gli stessi abiti a lutto della loro vedovanza sembrano connaturati alla loro esistenza, e tutti i loro attributi si combinano
per renderli simili a tetre ombre che s'aggirano stranamente alla luce dell'esistenza umana. Non è tuttavia un ozioso
esercizio quello di prendere una di queste dolenti creature e mettere risolutamente all'opera la fantasia per ravvivare
l'occhio appannato, scurire le ciocche di capelli argentei, dipingere di rosa le guance cineree, restaurare tutta la sua
figura avvizzita e irregolare finché si veda comparire una rugiadosa fanciulla sulla poltrona dell'anziana signora. Una
volta operato il miracolo, si lascino scorrere di nuovi gli anni, ognuno più triste del precedente, finché tutto il peso
dell'età e dei dolori calerà di nuovo su quella giovanile figura. Le rughe e le grinze, ovvero i segni calligrafici del
tempo, possono essere così decifrate e in esse si possono leggere profonde lezioni di pensieri e sentimenti. Un attento
osservatore può ricavare questi utili insegnamenti da una mia rispettabile amica, la vedova Toothaker, infermiera di
grande esperienza che in questi quarant'anni ha respirato l'aria delle camere di malati e moribondi.
Eccola rannicchiata davanti al suo solitario focolare, avvolta nella vestaglia e nello scialle, mentre raccoglie
avidamente nella sua persona tutto il tepore del fuoco, che ora, al calar della sera, inizia a dissipare il freddo autunnale
della sua stanza. La fiamma guizza capricciosamente davanti a lei, balenando di quando in quando nelle più profonde
cavità del suo volto rugoso, e lasciando poi che una spettrale oscurità copra le fattezze della sua veneranda figura.
L'infermiera Toothaker ha un cucchiaino nella mano destra, col quale mescola il contenuto di un bicchiere che tiene
nella sinistra, nel quale sta fumando un fragrante vapore, aborrito nelle società della temperanza. Ora lo sorseggia, ora
mescola, ora sorseggia di nuovo. Il suo triste e vecchio cuore ha bisogno d'essere ravvivato da questo generoso infuso di
ginepro mescolato a metà con acqua calda dentro il bicchiere. Per tutta la giornata è stata seduta accanto a un letto di
morte, e l'ha lasciato per ritornare a casa solo quando lo spirito del suo paziente ha abbandonato l'argilla che lo
conteneva, per andare anch'esso in un'altra casa. Ma ora i suoi malinconici pensieri sono allietati, il suo torpido sangue è
riscaldato e le sue spalle alleviate almeno di una ventina di gravosi anni grazie a una sorsata di questa autentica Fontana
della giovinezza contenuta in una bottiglia. È strano che questa fonte sia considerata una leggenda, quando il suo nettare
riempie più bottiglie dell'acqua minerale! Bevine ancora, buona infermiera, per vedere se una seconda sorsata non ti.137
toglierà qualche altra decina d'anni ancora, e mostraci, seduta sulla tua poltrona, la fiorente damigella che scambiava
promesse di matrimonio con Edward Fane. Scomparite, vecchiaia e vedovanza, e ritorna, nubile giovinezza! Purtroppo
la magia non funziona, e nonostante i più potenti incantesimi della fantasia riesco a vedere soltanto una vecchia signora
rannicchiata davanti al fuoco, un'immagine di decadimento e desolazione, mentre il vento di novembre ruggisce dentro
il camino e improvvisi scrosci di pioggia scorrono sui vetri delle finestre.
Eppure c'era un tempo in cui Rose Grafton, questo era il grazioso nome da nubile dell'infermiera Toothaker,
possedeva una bellezza che avrebbe allietato questa cupa e malinconica stanza come un raggio di sole. E fu questa a
conquistare il cuore di Edward Fane, che da allora ha fatto tanta carriera nel mondo ed è ora un vecchio e imponente
gentiluomo, coi capelli incipriati e gottoso come un vero signore. Questi due innamorati pensavano che avrebbero
camminato insieme, mano nella mano, per tutta la vita. Avevano pianto insieme per la sorellina di Edward, Mary, che
Rose aveva assistito quand'era malata, in parte perché era la più dolce bambina che fosse mai vissuta e morta, ma
soprattutto per amore di Edward. Mary aveva soltanto tre anni, e nel suo piccolo corpo di bambina la morte non poteva
mostrare il suo orrore, così che Rose non temette di toccare la sua fronte gelida, mentre le arricciava intorno i capelli
serici, né di prendere la sua minuscola mano per farle stringere un fiore tra le dita. Poi, quando guardò il volto di Mary
attraverso la lastra di vetro della bara, non le apparve tanto come quello della morte o della vita, ma come una scultura
di cera, modellata nella perfetta immagine di una bambina addormentata che sogna il sorriso della mamma. Rose pensò
allora che fosse una cosa troppo bella per essere nascosta nella fossa, e che un angelo avrebbe rubato il feretro della
piccola Mary, per portare in cielo la bambina addormentata e ordinare il suo risveglio per sempre. Ma quando le zolle di
terra furono gettate sulla bara della piccina, il cuore di Rose era tormentato e tremò al pensiero che, stringendo le gelide
dita della bambina, la sua mano vergine aveva scambiato un primo contatto con la mortalità e non avrebbe mai perduto
quel marchio terreno di contaminazione. Quanti altri contatti, dopo d'allora! Ma a quel tempo Rose era un'avvenente
fanciulla, con sentimenti freschi come rugiada nel suo petto, e il suo innamorato la chiamava Bocciolo, anziché Rose,
che sembrava un nome troppo maturo per la sua bellezza non ancora dischiusa.
Ma il Bocciolo era destinato a non fiorire mai per Edward Fane. Sua madre era una dama ricca e altezzosa, con
tutti i pregiudizi aristocratici dell'epoca coloniale, e disprezzava le umili origini di Rose Grafton, così che costrinse suo
figlio a rompere il fidanzamento anche se, fosse stato libero di scegliere, egli avrebbe apprezzato il suo Bocciolo più di
qualsiasi diamante. E così gli innamorati si lasciarono e in seguito si incontrarono solo di rado, anche se frequentavano
talvolta le stesse dimore, ma non nello stesso momento, perché l'uno era invitato alle feste danzanti e l'altra nelle camere
dei malati, l'uno era ospite del piacere e del divertimento, l'altra della sofferenza. Dopo la loro separazione, Rose fu a
lungo reclusa nell'abitazione del signor Toothaker, che ella sposò con la vendicativa speranza di spezzare il cuore del
suo infedele innamorato. Andò tra le braccia di suo marito, a quanto dicono, con lacrime ben più amare di quelle che le
giovani spose dovrebbero versare sulla soglia della camera nuziale. Eppure, anche se i capelli di suo marito già
incanutivano e il suo cuore era inaridito dal gelo dell'autunno, Rose imparò ben presto ad amarlo, pur meravigliandosi
del suo stesso affetto coniugale. Suo marito era tutto ciò che ella aveva da amare, perché non avevano figli.
Dopo un anno o due, il povero signor Toothaker fu colpito da una dolorosa infermità alle giunture che lo
rendeva più debole di un bambino. Si trascinava intorno per i suoi affari e faceva ritorno a casa all'ora di pranzo e alla
sera, ma non col passo sicuro che allieta il cuore della moglie, bensì con passi lenti e lievi accompagnati dal sordo e
malinconico battito del suo bastone. Dobbiamo comprendere la sua graziosa moglie se talvolta arrossiva nel
riconoscerlo come marito. Nell'udirlo arrivare, chi le faceva visita si aspettava di veder comparire un uomo molto
vecchio, ma colui che trascinava le sue stanche gambe nel salotto era proprio lui, il signor Toothaker. Con l'aggravarsi
della malattia, egli non usciva più alla luce del sole, se non col bastone nella mano destra, e la sinistra, cadente come
quella di un morto, posata sulle spalle della moglie. E così questa donna fragile, che aveva ancora le sembianze di
fanciulla, sosteneva il suo corpo alto, col largo petto, attraverso il sentiero del loro piccolo giardino, soffermandosi a
raccogliere rose per il marito canuto e parlandogli dolcemente come a un bambino, perché la sua mente era vacillante
come il corpo, e tutte le sue energie esauste. Pochi mesi dopo, lo aiutò a salire le scale, sostando a ogni gradino e ancor
più sul pianerottolo, dove egli volse a lungo lo sguardo dietro a sé mentre varcava la soglia della camera. Sapeva, il
pover'uomo, che il recinto di quelle quattro mura sarebbe stato d'allora in poi il suo mondo, la sua casa e la sua tomba, a
un tempo abitazione e sepolcro, finché non fosse stato portato in un altro più buio e angusto. Ma Rose era accanto a lui
in questa tomba, e lui si appoggiava a lei nel suo quotidiano tragitto dal letto alla poltrona davanti al camino, e di ritorno
dalla stanca poltrona al letto senza gioia che divideva con lei, il loro talamo nuziale, finché anche questa breve
passeggiata cessò, e la sua testa posò per tutto il giorno sul cuscino, e quella di Rose per tutta la notte accanto a lui. Per
quanto tempo ancora il povero signor Toothaker fu costretto a soffrire! La Morte sembrava avvicinarsi alla porta e
spesso sollevava il chiavistello, e affacciando talvolta il suo orribile teschio nella stanza, rivolgeva a Rose un cenno del
capo, indicando suo marito, ma ancora ritardava il suo ingresso. «Questo infelice inchiodato al letto non può
sfuggirmi», sembrava dire la Morte. «Andrò a correre in gara con il più veloce, a lottare con il più forte, e ritornerò a
prendermi Toothaker quando voglio!». Sì, quando la liberatrice arrivava così vicina, Rose, pur nel tormento dei suoi
affetti ormai stanchi, non desiderava mai gridare: «Morte, entra!».
E invece no, non abbiamo diritto di attribuire questo desiderio alla nostra amica Rose. Non ha mai mancato ai
suoi doveri di moglie verso il povero marito ammalato, non si è mai lagnata, anche se un raggio di sole era per lei
insolito quanto per lui, non ha mai risposto stizzosamente, nemmeno quando i suoi lamenti la destavano da dolci sogni,
e solo per farla partecipare alle sue sofferenze. Lui conosceva la sua devozione, eppure nutriva un'astiosa gelosia, e
quando la lenta malattia ebbe raggelato tutto il suo cuore, tranne un solo angolo ancora tiepido che le gelide dita della.138
Morte cercavano, le sue ultime parole furono queste: «Che cosa non avrebbe fatto la mia Rose per il suo primo amore,
se è stata così dolce e fedele a un vecchio malato come me!». E poi la povera anima se ne andò, lasciando il corpo
esanime, ma poco più che negli anni precedenti, e Rose rimase vedova, anche se lo era già diventata, in realtà, la notte
delle nozze. Si sentiva felice, è vero, il giorno in cui il signor Toothaker fu sepolto, perché il suo cadavere aveva
conservato tanta somiglianza con l'uomo ancora in vita, che ella si aspettava di ascoltare il triste mormorio della voce
che le chiedeva di spostare il cuscino. Ma anche in tutto il successivo inverno, anche se la tomba lo ospitava da molti
mesi, Rose immaginava di sentirlo chiamare da quel letto freddo: «Rose! Rose! Mettimi la coperta sui piedi!».
E ora il Bocciolo di rosa era divenuta la vedova Toothaker. I suoi guai erano arrivati presto, e per quanto
dolorosi sembrassero, erano passati prima che tutto il suo splendore sfiorisse. Era ancora abbastanza bella per
affascinare un scapolo, oppure, con la spensierata gravità della vedova, poteva conquistare un altro vedovo, penetrando
nel suo cuore con le vesti della sua defunta moglie. Ma la vedova Toothaker non nutriva simili progetti. Le sue veglie e
le continue cure avevano annodato il suo cuore al primo marito con una fedeltà che trasformava la sua stessa natura e la
induceva ad amarlo per le sue infermità, e le infermità come parte di lui. E quando il vecchio infermo se n'era andato,
nemmeno il primo innamorato di Rose avrebbe potuto prendere il suo posto. Rose aveva vissuto nella camera della sua
malattia, era stata la compagnia di quell'infelice moribondo, finché non riusciva quasi a respirare l'aria fresca e si
sentiva a disagio con le persone sane e felici. Sentiva la mancanza dell'odore dei medicinali, camminava per la stanza in
punta di piedi, e se veniva qualcuno in visita parlava in tono sommesso, trasalendo al suono delle loro voci più forti.
Spesso, in qualche sera solitaria, spostava timorosamente lo sguardo dal caminetto al talamo, quasi nella speranza di
riconoscere quel volto terreo sul cuscino, e allora i suoi pensieri andavano tristemente alla tomba del marito. Se qualche
fremito d'impazienza l'aveva tormentato in vita, se lei aveva nutrito qualche segreto rimpianto perché la sua fiorente
giovinezza era stata imprigionata nella tarda età di suo marito, se mai, mentre dormiva accanto a lui, qualche sogno
insidioso ne aveva introdotto un altro nel suo cuore, allora il vecchio malato aveva preparato la sua vendetta, che il
defunto ora rivendicava. Dal suo letto di dolore aveva gettato un incantesimo intorno a lei, i suoi lamenti e le sue
sofferenze si erano rivelati più seducenti dell'allegria e della grazia della gioventù, e nelle sue sembianze, la malattia
aveva conquistato il Bocciolo come sposa, né la morte poteva sciogliere il loro nodo nuziale. E proprio per
quell'indissolubile vincolo, Rose aveva trovato la sua casa in ogni camera di malato, e non altrove: lì erano i suoi fratelli
e sorelle, e da lì la chiamava suo marito, con quella voce che sembrava uscire dalla sua tomba. E infine Rose riconobbe
il suo destino.
L'abbiamo vista come fanciulla, come moglie e come vedova, e ora la vediamo in una veste peculiare e
distinta, divenuta in tutti i suoi aspetti l'infermiera Toothaker. E soltanto l'infermiera Toothaker, con le sue labbra
avvizzite, potrebbe farci conoscere la sua esperienza in questo campo. Quale storia potrebbe raccontare delle terribili
malattie che ha affrontato fianco a fianco con l'angelo sterminatore! Ricorda l'epidemia di vaiolo che faceva alzare la
bandiera rossa su quasi tutte le case della strada; è stata testimone dell'epidemia di tifo che sterminò un'intera famiglia,
giovani e vecchi, tutti tranne una madre rimasta sola, che vanamente si struggeva per seguire il suo ultimo caro nella
tomba. E quale sarebbe il trionfo della Morte, se nessuno rimanesse a piangere? Rose potrebbe parlare di misteriose
malattie che scoppiavano in apparenza spontanee, ma si scopriva poi che erano state importate da terre straniere insieme
con ricche sete e altre mercanzie, quelle più pregiate del carico. E ricorda anche quando la gente moriva per una
malattia considerata una nuova pestilenza, finché i medici ne scoprirono l'origine nell'antica tomba di una fanciulla, che
aveva così provocato molte morti a un secolo di distanza dai suoi funerali, per quanto strano possa sembrare che questa
calamità si annidasse proprio nella tomba di una fanciulla. Le piace raccontare di uomini robusti che combattevano
contro febbri implacabili, rifiutandosi di esalare l'ultimo respiro, e di giovani vergini malate di tubercolosi, che
lasciavano quasi di buon grado questo mondo, come se qualche loro innamorato le corteggiasse da un lontano paese.
Raccontaci, donna infelice, raccontaci i segreti della Morte! Come vorrei scoprire il significato di quelle parole
lievemente sussurrate tra i singhiozzi, di quelle frasi spezzate che con voce quasi non udibile sono pronunciate nel
cammino tra questa terra e la sede del Giudizio!
Questa donna infelice è la santa patrona dei giovani medici, e la più cara amica di quelli anziani. Nelle case in
cui entra, la gente si procura abiti a lutto, il fabbricante di bare la segue, e la campana rintocca quando ella esce dalla
soglia. La Morte l'ha incontrata tante volte sul letto di morte che ora tende la sua mano scheletrica per salutarla. È una
donna infelice, l'infermiera Toothaker, ed è forse immaginabile che questa ancella delle infermità e delle sofferenze
umane, così segnata da esse e così intrisa di tutto ciò che è più triste nel destino dei mortali, possa essere di nuovo
radiosa e allegra, anche quando sarà illuminata dalla luce dell'eternità? Dopo questa lunga convivenza col dolore, non
ha forse rinunciato per sempre alla sua parte di gioia immortale? Qualche scintilla di felicità può essere ancora accesa
dentro di lei?
Ascolta, qualcuno sta bussando con impazienza alla porta dell'infermiera Toothaker. Lei si desta dalle sue
sonnolente fantasie, mette da parte il bicchiere vuoto e il cucchiaio, e accende una lampada con i fiochi tizzoni del
camino. Bussano ancora, ed ella si affretta a scendere la scala, domandandosi quale dei suoi amici può essere giunto alla
soglia della morte, perché è questo l'impaziente messaggio che viene portato alla casa dell'infermiera Toothaker. Di
nuovo risuonano i colpi alla porta, quando già la sua mano è sul chiavistello «Svelta, infermiera Toothaker!», esclama
un uomo sui gradini d'ingresso. «Il vecchio generale Fane è malato di stomaco e manda a chiamarla per assisterlo sul
letto di morte. In fretta, perché non c'è temp o da perdere!». «Edward Fane! Mi ha mandato a chiamare, finalmente?
Sono pronta, indosso la mantella e vengo subito. E così», soggiunse tra sé la vecchia vestita di nero, pallida e funerea in
volto, «Edward Fane si è infine ricordato del suo Bocciolo di rosa!»..139
La nostra domanda ha avuto risposta. Sì, una scintilla di felicità è ancora accesa dentro di lei. La sua lunga
costanza, il suo ricordo della felicità trascorsa, rimasto vivo nelle tenebre dell'aldilà come un fiore odoroso dentro una
bara, sta a significare che tutto può essere rinnovato. In un clima più propizio, il Bocciolo di rosa può fiorire di nuovo
con tutte le gocce di rugiada nel suo petto.
IL TRIPLICE DESTINO
Una leggenda fiabesca
Ho provato talvolta una strana e non spiacevole sensazione, per quanto riguarda la mia mente, immaginando
una successione di eventi in cui lo spirito e il meccanismo della leggenda fiabesca si mescolavano con i personaggi e le
consuetudini della vita quotidiana. Nel breve racconto che segue, una lieve sfumatura di fantastico e straordinario è
stesa su un bozzetto di personaggi e scene del New England, ma senza cancellare completamente, mi auguro, i toni
realistici della natura. Più che un racconto di avvenimenti che pretendono di essere reali, questa può essere considerata
un'allegoria, quale gli scrittori del secolo scorso avrebbero espresso in forma di un racconto orientale, anche se mi sono
sforzato di conferirle un'impronta più realistica di quanta potrebbe essere infusa in quei prodotti della fantasia.
Nel crepuscolo di una sera d'estate, una cupa e alta figura, cui lunghi viaggi in paesi lontani avevano conferito
un aspetto di forestiero, stava entrando in un villaggio, non nel «paese delle fate», ma entro confini a noi familiari. Il
bastone cui si appoggiava il viaggiatore era stato suo compagno fin da dove era cresciuto il legno, nelle giungle
dell'Hindostan; il cappello che metteva in ombra la sua fronte corrucciata l'aveva riparato dal sole di Spagna, ma il suo
viso era stato abbronzato dal vento arroventato di un deserto arabo ed era stato provato dal gelo delle regioni artiche.
Dopo aver vissuto a lungo in mezzo a uomini selvaggi e pericolosi, portava ancora sotto la veste l
'ataghan con cui unavolta aveva tagliato la gola di un bandito turco. In ogni clima straniero aveva perduto qualcosa delle sue caratteristiche
del New England, e forse da ogni popolazione aveva inconsciamente preso a prestito qualche nuova peculiarità, così
che, quando questo pellegrino del mondo percorse di nuovo le strade del suo villaggio natale, non stupisce che non fu
riconosciuto, pur richiamando gli sguardi e la curiosità di tutti. Ma quando il suo braccio sfiorò casualmente quello di
una giovane donna, che stava andando a una conferenza serale, questa trasalì e lanciò quasi un grido.
«Ralph Cranfield!», fu il nome che riuscì a stento a pronunciare.
«Può essere forse la mia compagna di giochi Faith Egerton?», si domandò il viaggiatore, voltandosi a guardare
quella figura, ma senza fermarsi.
Fin dalla giovinezza, Ralph Cranfield si sentiva destinato a grandi cose. Era un'idea che aveva assorbito, non
sappiamo se gli era stata rivelata per stregoneria o da qualche sogno profetico, o se gli era stata imposta dalla sua
pensosa fantasia, come l'oracolo di una Sibilla, tuttavia l'aveva assorbita, ed era divenuta quasi un articolo di fede la
convinzione che tre meravigliosi avvenimenti della sua vita dovevano essergli confermati da altrettanti segnali.
Il primo di questi fatali eventi, forse quello che la sua fantasia giovanile accarezzava più ardentemente, era la
scoperta della fanciulla, unica tra tutte quelle della terra, che poteva renderlo felice col suo amore. Doveva vagare per il
mondo finché non avesse incontrato un'avvenente ragazza che portava sul petto un gioiello a forma di cuore: fosse una
perla, un rubino, uno smeraldo, un carbonchio, un mutevole opale o magari un inestimabile diamante, Ralph Cranfield
poco se ne curava, purché fosse un cuore di una particolare foggia. Incontrando questa incantevole sconosciuta, egli
doveva rivolgersi a lei con queste parole: «Ti ho portato un cuore pesante. Posso posarlo su di te?». E se era lei la sua
futura sposa, se le loro anime affini erano destinate a formare in seguito un'unione che l'eternità avrebbe ancor più
rinsaldato, ella avrebbe risposto, posando le dita sul gioiello a forma di cuore: «Questo pegno che porto da tanto tempo
è la risposta certa che puoi posarlo!».
La seconda convinzione di Ralph Cranfield era che esistesse un grande tesoro nascosto in qualche posto della
terra, di cui sarebbe stato rivelato soltanto a lui il luogo della sepoltura. E quando i suoi piedi lo avessero calpestato, gli
sarebbe apparsa davanti una mano che indicava sotto di sé qualcosa, fosse scolpito nel marmo o inciso in gigantesche
proporzioni sul fianco di un precipizio roccioso, o fosse anche una mano di fiamma sospesa nell'aria, lui non poteva
saperlo, ma comunque avrebbe visto una mano con l'indice puntato giù, e una scritta latina al di sotto: EFFODE!,
'Scava!'. E scavando lì intorno, l'oro in monete o in lingotti, le pietre preziose, o tutto ciò di cui consisteva il tesoro
avrebbe di certo premiato i suoi sforzi.
Il terzo e ultimo dei miracolosi eventi nella vita di quest'uomo predestinato doveva essere il conseguimento di
una vasta influenza sul suo prossimo. Dovesse diventare un monarca, fondatore di una dinastia ereditaria, oppure il
condottiero vittorioso di un popolo che combatteva per la libertà, o ancora l'apostolo di una fede pura e rigenerata, ciò
l'avrebbe rivelato il futuro. Come messaggeri del segnale, con cui Ralph Cranfield poteva riconoscerli, tre venerabili
dovevano chiedergli udienza, e il capo tra loro, un personaggio solenne e maestoso, abbigliato presumibilmente con le
lunghe vesti di un antico saggio, avrebbe impugnato una bacchetta o una verga di profeta. E con questa bacchetta, verga
o bastone che fosse, il venerabile saggio avrebbe tracciato una certa figura nell'aria, per poi annunciare il suo messaggio
ricevuto dal cielo, che avrebbe condotto chi lo seguiva a un glorioso destino.
Con questo luminoso futuro davanti a sé, e accalorato dalla sua giovanile fantasia, Ralph Cranfield si era messo
in cammino alla ricerca della fanciulla, del tesoro e del venerando saggio che doveva offrirgli il vasto impero. Aveva
trovato ciò che cercava? No, purtroppo non aveva l'aspetto di un vincitore che aveva conseguito un più nobile destino.140
dei suoi simili, ma piuttosto quello tetro di chi deve combattere contro insolite e continue avversità, l'uomo che stava
ora passando per le strade di casa, diretto alla villetta di sua madre. Era ritornato, ma solo per breve tempo, per posare il
suo bastone di pellegrino, nella speranza che le sue stanche membra ritrovassero un po' del vigore della giovinezza nel
luogo in cui gli era stato preannunciato il suo triplice destino. Pochi cambiamenti erano avvenuti nel villaggio, perché
non era uno di quei luoghi fiorenti in cui un anno di prosperità produce più delle rovine di un secolo di decadenza, ma
simile alla capigliatura già incanutita di un giovane, era un paese ormai invecchiato, pieno di vecchie zitelle, di antichi
olmi, di abitazioni coperte di muschio. Pochi cambiamenti sembravano avvenuti, anche se gli olmi si ergevano più
maestosamente, le case scolorite dalle intemperie erano coperte da una coltre più fitta di muschio verdeggiante ed erano
più numerose le lapidi nel cimitero, sulle quali erano incisi nomi che un tempo erano familiari nelle strade del villaggio.
Eppure, anche sommando tutti i guasti prodotti in quei dieci anni, sembrava quasi che Ralph Cranfield se ne fosse
andato quel mattino stesso, continuando a sognare a occhi aperti fino al crepuscolo, per poi fare ritorno. Ma il suo cuore
era freddo, perché il villaggio non lo ricordava quanto lui ricordava il villaggio.
«Ecco che cosa è cambiato!», sospirò, battendosi una mano sul petto. «Chi è quest'uomo oberato di pensieri e
di affanni, stanco di vagabondare per il mondo, carico di speranze deluse? Non è ritornato il giovane che è partito così
gioiosamente!».
Ora Ralph Cranfield era arrivato davanti al cancello della piccola casa in cui la vecchia madre si era mantenuta
con pochi, ma sufficienti mezzi durante la lunga assenza del figlio. Varcato il cancello, si appoggiò a un grande e
vecchio albero, trattenendo la propria impazienza, come spesso si fa in quegli intervalli di tempo in cui gli anni sono
condensati in un attimo. Esaminò minuziosamente la casa, le sue finestre illuminate dagli ultimi bagliori del cielo, la
porta e il suo gradino d'ingresso, ricavato dalla metà di una macina di mulino, il sentiero appena tracciato che si snodava
da lì al cancello. Fece di nuovo conoscenza di un amico della sua infanzia, il vecchio albero al quale si appoggiava, e,
facendo scorrere lo sguardo sul tronco, vide un'iscrizione quasi cancellata che gli stimolò un malinconico sorriso, la
parola latina EFFODE, che ricordava d'aver inciso nella corteccia, impiegando un'intera giornata, quando aveva iniziato
a meditare sul suo peculiare destino. Si deve tener conto anche di una coincidenza piuttosto singolare, che, proprio
sopra la scritta, la corteccia aveva formato un'escrescenza di forma non diversa da una mano, con l'indice puntato
obliquamente verso quella fatidica parola, o così almeno sembrava nella luce del crepuscolo.
«Un credulone», pensò distrattamente Ralph Cranfield, «potrebbe immaginare che il tesoro che ho cercato per
tutto il mondo è sepolto proprio qui, davanti alla porta di casa di mia madre. Sarebbe davvero una beffa!».
Non si soffermò oltre a pensarci, perché in quel momento la porta di casa si aprì e sulla soglia comparve una
donna anziana, che scrutava nella penombra per vedere chi si era introdotto nella sua proprietà e stava ora all'ombra
dell'albero. Era la madre di Ralph Cranfield, ma ora passiamo oltre i loro abbracci, e lasciamo l'una alla sua felicità e
l'altro al suo riposo, se mai riuscì a trovare un vero riposo.
Infatti al mattino si destò pensieroso, perché il suo sonno e la veglia erano stati parimenti pieni di sogni. In lui
si era riaccesa la febbre di un tempo, di cui aveva bruciato nel desiderio di svelare il triplice mistero del suo destino, e
tutta la folla delle sue visioni di gioventù sembrava averlo atteso sotto il tetto della casa di sua madre, e faceva ora ressa
tumultuosamente intorno a lui per accogliere il suo ritorno. Nella stanza che ben ricordava, e sul letto dove aveva
dormito bambino, aveva trascorso una notte più agitata che in una tenda nel deserto d'Arabia o in una foresta misteriosa
in cui aveva posato il capo tra ombre spettrali. Un'eterea fanciulla si era avvicinata furtivamente al suo letto e aveva
posato il dito su un cuore scintillante, una mano di fuoco si era accesa nel buio, indicando sotto di sé un segreto sepolto,
e un saggio canuto aveva agitato il suo bastone profetico, invitando il sognatore ad avvicinarsi a un alto seggio. Gli
stessi fantasmi, pur più fievoli alla luce del giorno, si libravano ancora nella villetta e si mescolavano tra i volti familiari
che erano stati richiamati lì dalla notizia del ritorno di Ralph Cranfield, a dargli il benvenuto per la felicità di sua madre.
E lì trovarono un uomo alto e scuro, di aspetto imponente e straniero, cortese nei modi e nel linguaggio, ma con uno
sguardo distratto che spesso sembrava rivolgersi a guardare ciò che era invisibile.
Nel frattempo, la vedova Cranfield era affaccendata per casa, felice di avere ancora una persona da amare, di
cui curarsi, per cui preoccuparsi e assumersi le piccole incombenze di tutti i giorni. Era quasi mezzogiorno quando
guardò fuori dalla porta e scorse tre autorevoli personaggi che venivano per la strada, tra la calda luce del sole e l'ombra
diffusa degli olmi, per arrivare infine al cancello e aprirne il chiavistello.
«Guarda, Ralph!», esclamò con orgoglio materno. «Ecco il signor Hawkwood e due altri consiglieri
municipali, venuti qui appositamente per vederti! E ora devi raccontare per filo e per segno tutto ciò che hai visto in
quei paesi stranieri».
Il più importante dei tre visitatori, il signor Hawkwood, era un anziano gentiluomo, molto pomposo ma di
ottimo carattere, capo e promotore di tutte le iniziative del villaggio, e generalmente riconosciuto come uno dei più
saggi. Portava sul capo un tricorno, secondo una moda già allora antiquata, e impugnava un bastone col pomello
d'argento, che sembrava usare più per brandirlo in aria che per aiutare il cammino delle sue gambe. I suoi compagni
erano due anziani e rispettabili proprietari terrieri, che in ossequio a una prerivoluzionaria deferenza al rango e ai
privilegi ereditari, facevano da scorta al nobiluomo. Mentre si avvicinavano lungo il sentiero, Ralph Cranfield stava
seduto su un'alta sedia di quercia, scrutando distrattamente i tre visitatori, e assorbendo le loro figure familiari nelle
nebulose fantasie in cui era immersa la sua mente.
«Ecco», pensò, sorridendo tra sé di questa idea, «ecco che arrivano i tre anziani personaggi, e il primo tra loro è
un venerando saggio col bastone. E se fosse questa l'ambasciata che deve darmi notizia del mio destino?»..141
Quando il signor Hawkwood e i suoi accompagnatori entrarono in casa, Ralph si alzò dalla sedia e fece qualche
passo incontro a loro per riceverli, e allora la sua figura imponente e il suo aspetto severo, quando si chinò cortesemente
davanti agli ospiti, mostrarono una naturale dignità che contrastava con l'ostentata aria d'importanza dell'anziano
nobiluomo. E questi, secondo una sua inveterata abitudine, brandì dapprima il suo bastone in aria, poi si tolse il cappello
a tricorno per asciugarsi la fronte e infine fece conoscere lo scopo della sua missione.
«I miei colleghi e io», esordì il nobiluomo, «siamo oberati di gravi compiti essendo noi i consiglieri municipali
di questo villaggio. Nell'arco dei tre giorni trascorsi, le nostre menti sono state faticosamente impegnate nella scelta di
una persona degna di occupare una carica molto importante, e disposta ad assumersi un onere e un onore che,
saggiamente considerati, possono essere giudicati non inferiori a quelli dei sovrani e dei potenti. E considerato che tu,
nostro concittadino d'origine, sei dotato di buon intelletto naturale, coltivato nei tuoi viaggi all'estero, e che certe
bizzarrie e fantasie della tua giovinezza sono state sicuramente corrette dal tempo, considerato tutto ciò, e dopo debita
riflessione, siamo dell'opinione che la Provvidenza divina ti ha mandato qui, in questo momento, proprio per questo
nostro scopo».
Durante questo lungo discorso, Cranfield aveva continuato a guardare fissamente l'oratore, come scorgendo
qualcosa di misterioso, quasi ultraterreno, nella sua piccola figura pomposa, come se indossasse la tunica di un antico
saggio, anziché una giacca con le spalle squadrate, un panciotto coi risvolti, braghe di velluto e calze di seta. E la sua
meraviglia non era immotivata, perché il bastone del nobiluomo, volteggiando nell'aria, aveva descritto proprio quel
segnale che doveva confermare l'annuncio del saggio profetico, che Cranfield aveva cercato in tutto il mondo.
«E qual è questa carica», domandò allora Ralph Cranfield con voce tremante, «che può rendermi pari ai
sovrani e ai potenti della terra?».
«Nientemeno che quella di maestro nella scuola del villaggio», rispose il signor Hawkwood, «carica che è ora
vacante per la morte del rimpianto signor Whitaker, dopo cinquant'anni di onorato servizio».
«Esaminerò la vostra proposta», rispose in fretta Ralph Cranfield, «e vi farò conoscere la mia decisione entro
tre giorni».
Dopo qualche altra parola, il dignitario del villaggio e i suoi compagni presero congedo. Ma nella mente di
Cranfield le loro immagini erano ancora presenti, sempre più ammantate dell'oscuro mistero delle figure che gli erano
dapprima apparse in sogno e si erano poi mostrate nei momenti di veglia, assumendo un aspetto familiare tra ciò che lo
circondava. I suoi pensieri si soffermavano sulle fattezze del nobiluomo, finché queste si confusero con quelle del
saggio della sua visione, e l'uno sembrò l'ombra dell'altro. Lo stesso volto, pensava, l'aveva guardato dalla piramide di
Cheope, la stessa figura gli aveva rivolto un cenno tra le colonne dell'Alhambra e si era nebulosamente mostrata nei
vapori che salivano dal grande Geyser. A ogni successivo sforzo della memoria, riconosceva qualche altro tratto
dell'immaginario Messaggero del destino in quel pomposo e indaffarato piccolo grand'uomo del villaggio. Tra questi
pensieri, Ralph Cranfield trascorreva le sue giornate nella villetta, ascoltando e rispondendo distrattamente alle mille
domande della madre sui suoi viaggi e sulle sue avventure. Al calare del sole andava a fare una passeggiata, e passando
davanti all'antico olmo il suo sguardo si soffermava ancora su quella parvenza di mano che indicava sotto di sé la scritta
quasi cancellata.
Mentre camminava per la strada del villaggio, i raggi bassi del sole gettavano la sua ombra molto più avanti, e
allora Cranfield immaginò che, come la sua ombra camminava tra oggetti lontani, così un presentimento l'aveva sempre
preceduto per tutta la vita. E quando giungeva più vicino a quegli oggetti tra i quali l'aveva preceduto la sua lunga
ombra, si rivelavano gli stessi che ricordava dalla sua infanzia e giovinezza. Ricordava ogni curva della strada, anche i
più insignificanti particolari erano rimasti immutati dai tempi trascorsi. Una mandria di mucche brucava l'erba sul ciglio
della strada, e Cranfield si sentì rinfrescato da quella fragranza. «È un profumo più dolce», pensò, «di quello che era
sospinto dal vento sulla nostra nave dalle Isole delle spezie». La piccola figura rotonda di un bimbetto uscì ruzzolando
da una porta e cadde ridendo quasi tra i piedi di Cranfield, e allora quell'uomo serio e grave si chinò a sollevare il
piccino per restituirlo alle braccia di sua madre. «I bambini», si disse, tra un sospiro e un sorriso, «i bambini saranno i
miei discepoli!». E mentre un fiotto di naturali sentimenti zampillava nel suo cuore come una fontana, giunse davanti a
un'abitazione in cui non riuscì a impedirsi di entrare. Una dolce voce, che sembrava sgorgare dal profondo di un'anima
sensibile, stava cantando all'interno una malinconica melodia.
Abbassando la testa, Cranfield varcò la bassa porta della casa, e, quando i suoi passi risuonarono sul
pavimento, una giovane donna si fece avanti nella penombra, dapprima in fretta, poi con passo più incerto, finché si
trovarono faccia a faccia. Era singolare il contrasto tra le loro figure: lui scuro e inquieto in volto, un uomo che aveva
lottato col mondo intero, che aveva visto il sole in ogni parte della terra ed era stato sferzato da tutti i venti, e lei
semplice e serena, nonostante la sua agitazione, come se tutte le sue emozioni fossero state soggiogate nel suo placido
tenore di vita. Eppure i loro volti, pur così dissimili, mostravano un'espressione che non sembrava così diversa, come un
riverbero di sentimenti affini che si riaccendevano sotto le ceneri quasi spente.
«Benvenuto!», gli disse Faith Egerton.
Ma Cranfield non le rispose subito, perché il suo sguardo si era posato su un monile a forma di cuore che Faith
portava come spilla sul petto. Era fatto di comune quarzo bianco, e Cranfield ricordava di averlo modellato da una di
quelle punte di freccia dei pellerossa che si trovano così spesso nei loro antichi insediamenti. Era proprio lo stesso
modello che portava la fanciulla della sua visione, e quando Cranfield era partito per la sua oscura ricerca, aveva dato a
Faith Egerton quella spilla, incastonata in oro, come dono d'addio.
«E così, Faith, hai conservato quel cuore!», disse infine..142
«Sì», rispose lei arrossendo, poi più gaiamente aggiunse: «E che cos'altro mi hai portato da oltre il mare?».
«Faith!», esclamò Ralph Cranfield, e poi per un irresistibile impulso pronunciò le fatidiche parole: «Non ti ho
portato altro che un cuore pesante. Posso posarlo su di te?».
«Questo pegno che porto da tanto tempo», rispose Faith, portando le dita tremanti sul cuore, «è la risposta certa
che puoi posarlo!».
«Faith!», esclamò allora Cranfield, stringendola tra le braccia, «sei tu l'incarnazione dei miei sogni ormai
stanchi!»
E finalmente quel folle sognatore si destò. Per scoprire il suo misterioso tesoro doveva dissodare la terra
intorno alla casa di sua madre, e raccoglierne i frutti. Anziché diventare un condottiero militare, regale o religioso,
avrebbe esercitato la sua influenza sui bambini del villaggio. E ora la fanciulla della visione era scomparsa dalla sua
fantasia, e al suo posto vedeva la compagna di giochi della sua infanzia! Se tutti coloro che accarezzano sogni così
oscuri guardassero soltanto intorno a sé, scoprirebbero più spesso la propria sfera di benessere e felicità entro quei
confini, e nel luogo in cui la Provvidenza stessa ha posto il loro destino. Beati coloro che sanno decifrare l'enigma senza
un'estenuante ricerca nel mondo o un'esistenza trascorsa invano!