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Platone

Teeteto

Platone Teeteto

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Platone

TEETETO

EUCLIDE: Sei tornato da poco o da tanto, Terpsione,(1) dalla campagna?

TERPSIONE: è già un pezzetto e ti cercavo in piazza, anzi mi meravigliavo che non ero capace di trovarti.

EUCLIDE: Non mi trovavo in città.

TERPSIONE: E dov'eri?

TERPSIONE: Scendendo al porto mi sono imbattuto per caso in Teeteto che veniva trasportato da Corinto,

dall'accampamento, ad Atene.

TERPSIONE: Era vivo o morto? (2) EUCLIDE: Vivo a malapena. Sta male per alcune ferite, ma ancor più perché

l'ha colpito la malattia che si è diffusa nell'esercito.

TERPSIONE: Forse la dissenteria?

EUCLIDE: Sì.

TERPSIONE: O qual uomo si trova in pericolo, come tu dici!

EUCLIDE: Valoroso e virtuoso, o Terpsione. E proprio adesso udivo alcuni che lo lodavano molto riguardo alla

battaglia.

TERPSIONE: Non c'è nulla di strano, ma ci sarebbe da meravigliarsi molto di più se non fosse tale. Ma perché non

si è ricoverato qui a Megara?

EUCLIDE: Aveva fretta di tornarsene a casa. Per quanto io lo pregassi e mi raccomandassi egli non volle. Poi, dopo

averlo accompagnato un po', tornandomene indietro, mi ricordai e mi meravigliai come Socrate avesse parlato da vero

indovino e su di lui e su vari altri casi. Mi sembra infatti che egli, poco prima di morire, si incontrasse con Teeteto che

era ancora un ragazzo e, trattenendosi e dialogando con lui, fu del tutto ammirato per la sua natura. E quando mi recai

ad Atene mi raccontò i discorsi che aveva tenuto con lui, ben degni di essere uditi, e aggiunse anche che, quando si

fosse fatto avanti d'età, era cosa assolutamente certa, sarebbe divenuto un personaggio di altissimo valore.

TERPSIONE: E, a quanto pare, disse il vero. Ma quali furono i discorsi?

Avresti modo di raccontarmeli?

EUCLIDE: No, per Zeus: non certo almeno, così, a parole. Ma allora subito, non appena tornavo a casa, buttavo giù

delle note, e in seguito, a mio agio, ripercorrendo i ricordi, li trascrivevo, e tutte le volte che mi recavo ad Atene,

interrogavo Socrate su quanto non ricordavo e, di nuovo tornato qui, mi davo a riordinarli al punto che, ormai, da me è

stato composto tutto il dialogo.

TERPSIONE: Vero: anche tempo addietro ti ho sentito dire questo, e talvolta sono stato sul punto di invitarti a

mostrarmelo, ma mi sono trattenuto fino a questo momento. Ma cosa ci impedisce ora di prenderlo in esame? Tanto più

che ora io devo riposarmi perché vengo dalla campagna.

EUCLIDE: Ma io pure, giacché ho accompagnato Teeteto fino a Erino, (3) tanto che non controvoglia mi riposerei.

Ma andiamo: e mentre noi ci prendiamo un po' di sosta, il ragazzo leggerà.

TERPSIONE: Dici bene.(4) EUCLiDE: Ecco qui il libro, Terpsione. Ma il dialogo lo trascrissi in questa foggia, non

come se Socrate me lo esponesse, come in realtà me lo espose, ma come se dialogasse realmente con coloro con i quali

disse di avere discusso. E disse anche di aver conversato con Teodoro il geometra (5) e con Teeteto. Dunque, perché

nello scritto non recassero ingombro quelle specificazioni tra un intercalare e l'altro, quando Socrate, ad esempio, diceva

di sé: «e io ribattei», oppure «io dissi», oppure, di colui che rispondeva, «era d'accordo», oppure «non consentiva», per

questo motivo appunto io composi il dialogo come se egli parlasse direttamente con i suoi interlocutori, eliminando

tutto questo.

TERPSIONE: Non v'è proprio nulla fuor di modo, Euclide.

EUCLIDE: Bene, ragazzo, prendi il libro e comincia a leggere.

SOCRATE, TEODORO, TEETETO (6) SOCRATE: Se io mi occupassi più degli avvenimenti in Cirene, ti

interrogherei, Teodoro, sui fatti e su quelli di là, se vi sono giovani che si applichino con passione alla geometria o a

qualche altra disciplina. Ma siccome prediligo di meno quelli là rispetto a quelli di qui, desidero piuttosto sapere se da

noi vi sono giovani che lascino intravvedere di divenire molto valorosi. Ricerca che io conduco direttamente, per quanto

mi è possibile, ma interrogo anche gli altri presso i quali (7) vedo che i giovani si incontrano volentieri. Non sono

affatto pochi i giovani che stanno vicino a te, ed è giusto. Tu ne sei degno per tante altre ragioni e per la tua competenza

in geometria. Dunque se ne hai incontrato qualcuno degno di considerazione, me ne informerei volentieri.

TEODORO: Ma certo, Socrate, mi pare cosa molto degna che tu parli e tu ascolti quale ragazzetto io ho incontrato

fra i vostri concittadini. Se fosse bello, proverei alquanto scrupolo a parlarne, per non dare da vedere a qualcuno che io

mi trovo in desiderio di lui. Ora, non prendertela con me, non è bello, ma rassomiglia piuttosto a te per il suo naso

schiacciato e per i suoi occhi in fuori. Ma li ha meno di te. Quindi parlo senza timore.

Sappi bene che di tutti quelli che io ho incontrato - e certamente ne ho avuto vicini parecchi - non ne ho mai

conosciuto uno così sorprendentemente ben formato per natura. Infatti un giovane che sia così ben disposto ad

apprendere, quanto è difficile in un altro, e che sia così segnatamente mite di carattere, e, oltre a ciò, coraggioso contro

qualunque avversità, io non pensavo che esistesse, né vedo che ne esistano. Ma quelli come lui, acuti d'ingegno,

perspicaci, di buona memoria, sono anche molto spesso pronti alla collera e si lasciano trasportare a sbalzi come

imbarcazioni senza zavorra e sono per natura più esaltati che coraggiosi; e quelli invece che sono alquanto pesanti si

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fanno incontro con lentezza agli apprendimenti e sono pieni di amnesia. Costui invece si fa avanti negli studi e nelle

ricerche con snellezza e rapidità e con grande tranquillità, come un rivoletto di olio che fluisce in silenzio, tanto che c'è

da stupirsi che uno, di tale età, riesca a compiere in tal modo queste cose.

SOCRATE: Rechi buone notizie. E di quale cittadino è figlio costui?

TEODORO: Ne ho udito il nome, ma non lo ricordo. Ma è tra quelli che si fanno avanti, quello che si trova nel

mezzo. Poco fa, nella pista fuori mura, si ungevano alcuni suoi compagni e lui stesso. E ora, così unti, pare vengano

qua. Guarda se lo conosci.

SOCRATE: Sì, lo conosco. è figlio di Eufronio, di Sunio, e fu certamente uomo tal quale tu mi tratteggi il figlio,

pieno, tra l'altro, di molta considerazione e lasciò anche un patrimonio molto considerevole. Ma io non conosco il nome

del ragazzo.

TEODORO: Il nome, Socrate, è Teeteto. Il patrimonio pare che glielo abbiano mandato in malora alcuni suoi

amministratori. Ma anche quanto a liberalità nel denaro, è sorprendente, Socrate.

SOCRATE: Tu parli di un uomo nobile. Invitalo dunque a venire qua a sedersi con noi.

TEODORO: Farò così. Teeteto, qua, da Socrate!

SOCRATE: Bene, Teeteto, che io possa vedere da me stesso che faccia ho!

Teodoro dice infatti che io ce l'ho simile a te. Ma se dicesse che avendo ciascuno di noi una lira esse sono

armonizzate alla stessa maniera, forse che lo prenderemmo subito sul serio o ci metteremmo a indagare se è musico

colui che dice così?

TEETETO: Ci metteremmo a indagare.

SOCRATE: E dunque scoprendo che è musico non gli daremmo ragione, mentre, se ne è digiuno, non gli daremmo

credito?

TEETETO: Vero.

SOCRATE: Ora, io penso, se ci sta a cuore questa somiglianza dei nostri volti, dobbiamo esaminare se chi dice così

è pittore, oppure no.

TEETETO: Pare anche a me.

SOCRATE: è dunque pittore Teodoro?

TEETETO: No, per quanto ne so io.

SOCRATE: Non è nemmeno geometra?

TEETETO: Certamente sì, o Socrate.

SOCRATE: Ed è anche versato in astronomia, nell'arte del computare, in musica e in tutte le branche che attengono

l'educazione?

TEETETO: A mio parere, si.

SOCRATE: Se dunque egli dice che in qualcosa noi rassomigliamo nel fisico, o per lode o per burla, non val proprio

la pena che gli diamo ascolto.(8) TEETETO: Può darsi di no.

SOCRATE: E se invece dell'uno dei due lodasse l'anima per virtù e saggezza?

Non sarebbe cosa degna, per chi ascolta, desiderare di scoprire subito chi viene lodato, e a costui di mostrarsi di

buon animo?

TEETETO: Ma certo, Socrate.

SOCRATE: Ora dunque, caro Teeteto, spetta a te mostrarti e a me scoprirti.

Perché sappi bene che Teodoro, pur avendo lodato con me molti forestieri e concittadini, di nessuno ha mai fatto

tanti elogi, come di te, poco fa.

TEETETO: Sarebbe bene, Socrate. Ma bada che non parlasse per ischerzo.

SOCRATE: Non è l'abitudine di Teodoro, questa. Ma non ritrarre ora quello che si è convenuto, mettendo innanzi

che costui parla scherzando, perché non lo si costringa a darne una prova - nessuno infatti potrebbe accusarlo di falsa

testimonianza - ma coraggio, resta saldo su quanto convenuto.

TEETETO: Occorre fare così, se ti è gradito.

SOCRATE: Dimmi: impari da Teodoro elementi di geometria?

TEETETO: Sì.

SOCRATE: E anche quelli relativi all'astronomia, all'armonia e i calcoli?

TEETETO: Almeno lo desidero.

SOCRATE: Anch'io, caro ragazzo, e da parte di Teodoro e di altri che, penso, se ne intendono un po' di questi

problemi. Tuttavia, sulle altre questioni me la sbroglio a sufficienza: ma c'è un piccolo punto su cui ho dei dubbi e

vorrei considerarlo con te e con questi altri. Dimmi dunque: l'imparare non è diventare più sapienti in quello che uno

impara?

TEETETO: Come no?

SOCRATE: I saggi, a mio parere, sono sapienti per la loro sapienza.

TEETETO: Sì SOCRATE: E codesto differisce in qualcosa dalla conoscenza?

TEETETO: E che è questo codesto?

SOCRATE: La sapienza. Di quelle cose nelle quali gli uomini sono esperti, non sono anche sapienti?

TEETETO: Perché no?

SOCRATE: Sono dunque la stessa cosa conoscenza e sapienza?

TEETETO: Sì.

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SOCRATE: E proprio questo il punto sul quale nutro dei dubbi e che non posso capire sufficientemente per conto

mio: cosa mai è conoscenza. Abbiamo forse la possibilità di dirlo? Che ne dite voi? E chi di voi parlerà per primo?

E chi sbaglia, e quello che sbaglierà sempre, si metterà a sedere, asino, come dicono i ragazzi che giocano a palla.

Chi invece riuscirà a non commettere errori, sarà nostro re e potrà imporre tutto quello che vuole che gli si risponda.

Perché ve ne state in silenzio? O forse io, Teodoro, per amore di discussione mi comporto rusticamente desiderando che

si facciano discussioni tra noi stessi e diventiamo amici ed entriamo in rapporto gli uni con gli altri?

TEODORO: No, assolutamente, Socrate, non ci sarebbe nulla di grossolano in questo: ma invita pure questi

giovanetti a risponderti: io infatti non sono abituato a tale sistema di discussione e, d'altra parte, ho una età da non

potermici abituare. Ad essi invece è utile e molto di più ne trarranno profitto. La gioventù, in realtà, trae profitto in ogni

cosa. Ma, come avevi cominciato, non desistere e interroga pure Teeteto.

SOCRATE: Tu odi, Teeteto, quel che dice Teodoro, al quale, io penso, non vorrai disubbidire, e non sarebbe bello

che, su tali questioni, un giovane disobbedisca a quello che chiede un uomo Saggio. Dunque rispondimi bene e con

garbo. Cosa ti pare essere conoscenza?

TEETETO: Occorre pur farlo, Socrate, siccome voi lo desiderate: ad ogni modo, se in qualcosa sbaglio,

correggetemi.

SOCRATE: Ben d'accordo: purché ne siamo in grado.(9) TEETETO: A mio parere tutti gli insegnamenti che uno

può imparare da Teodoro, come la geometria e le materie che tu elencavi proprio ora, sono conoscenze, e, a sua volta,

l'arte del calzolaio e anche quelle degli altri artigiani, tutte insieme e a una a una, sono conoscenze.

SOCRATE: Sei ben nobilmente e generosamente disposto a dare tu, che richiesto di una sola e semplice questione,

rispondi con molte e varie risposte.

TEETETO: Che intendi dire con questo, o Socrate?

SOCRATE: Forse nulla: ma quello che penso te lo dirò. Quando tu parli dell'attività del calzolaio niente altro intendi

dire se non conoscenza della lavorazione della suola?

TEETETO: Niente altro.

SOCRATE: E cosa quando parli dell'arte del falegname? Niente altro forse se non conoscenza della fabbricazione

degli attrezzi di legno?

TEETETO: No, proprio questo.

SOCRATE: E dunque, in tutte e due le ipotesi, tu definisci ciò di cui ciascuna arte è conoscenza.

TEETETO: Sì.

SOCRATE: Ma non era questo ciò che era stato chiesto, Teeteto, di che cosa c'è conoscenza, né quante sono esse; io

facevo la domanda non con l'intenzione di enumerarle, ma di conoscere la conoscenza in sé, cos'è mai.

Dico, forse, una cosa da nulla?

TEETETO: No, certamente una cosa che regge.

SOCRATE: Considera anche questo: se qualcuno ci facesse domanda su qualcosa da poco e alla portata di mano,

quale ad esempio sull'argilla che cosa è mai, e noi gli rispondessimo che argilla è quella dei fabbricanti di vasi, e argilla

quella dei lavoranti in terracotta, e argilla quella dei fabbricanti di mattoni, non saremmo ridicoli?

TEETETO: Probabilmente sì.

SOCRATE: Indubbiamente, anzitutto perché pensiamo che chi fa la domanda, dalla nostra risposta, possa

comprendere perché, dicendo argilla, vi aggiungiamo poi il nome di «un fabbricante di bambole» o di qualunque altro

artigiano. Pensi che uno possa comprendere il nome di una certa cosa se non sa qual è?

TEETETO: No, assolutamente.

SOCRATE: E non capisce nemmeno conoscenza dei calzari, chi non sa cos'è conoscenza.

TEETETO: No, certo.

SOCRATE: E non comprende nemmeno arte di calzolaio, né alcuna altra chi ignora cosa è conoscenza.

TEETETO: è così?

SOCRATE: è ridicola dunque la risposta a uno che chiede che cos'è conoscenza, quando si risponda il nome di una

qualche arte. Risponde infatti conoscenza di una certa cosa, mentre non era stato interrogato in questo.

TEETETO: Pare proprio così.

SOCRATE: Poi, perché, pur essendo possibile rispondere in maniera facile e breve, si percorre una strada che non

ha termine. Allo stesso modo nella domanda dell'argilla era facile e semplice rispondere che l'argilla è terra mescolata

con acqua, e lasciare perdere di quale artigiano.

TEETETO: Appare facile, Socrate, la questione, ora, in questo modo. Perché la tua maniera di interrogare è proprio

molto vicina a quella che, poco fa, occorse anche a noi mentre discutevamo, dico a me e al tuo omonimo Socrate qui

presente.

SOCRATE: E quale questa maniera, Teeteto?

TEETETO: Teodoro disegnava un qualcosa per noi intorno alle potenze, per esempio su quella di tre piedi e su

quella di cinque, mostrando che per lunghezza queste potenze non si possono misurare con la lunghezza di un

piede.(10) E così scegliendo una per ciascuna le potenze giunse fino alla diciassettesima e in questa si trattenne. A noi

dunque occorse un qualcosa di simile, poiché le potenze ci apparivano senza limite circa il numero, cercare di

raccoglierle in una sola unità, per denominarle poi tutte quante e con questa sola definizione: le potenze.

SOCRATE: E avete poi trovato un qualcosa di simile?

TEETETO: A me pare di sì: ma esamina la cosa anche tu.

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SOCRATE: Parla.

TEETETO: Abbiamo separato in due parti tutta la numerazione: ogni numero che può essere moltiplicato per se

stesso altrettante volte, assomigliandolo quanto a figura a un quadrato, noi lo chiamammo quadrato ed equilatero.(11)

SOCRATE: Ma bene.

TEETETO: E quello che sta in mezzo a questi, tra i quali anche il tre e il cinque e ogni numero che non può essere

derivato di due fattori eguali moltiplicati tra di loro, ma consistono il più grande da una moltiplicazione con un fattore

minore e il più piccolo dalla moltiplicazione con un fattore maggiore e quindi sempre li circoscrive da una parte un lato

che è più grande, dall'altra un lato che è più piccolo, assomigliandoli a uno schema oblungo lo chiamammo numero

oblungo.

SOCRATE: Benissimo: e dopo questo?

TEETETO: Quante linee rendono quadrato il numero equilatero e piano, noi la chiamammo lunghezza, quante

invece lo rendono più lungo per un verso che per l'altro, potenze, poiché in lunghezza non sono commensurabili con

quelle, ma alle superfici piane che esse valorizzano. E qualcos'altro di analogo si disse anche dei corpi solidi.

SOCRATE: O meraviglie degli uomini, ragazzi miei, tanto che Teodoro, a mio parere, non si troverà certo colpevole

di falsa testimonianza per quanto vi riguarda.

TEETETO: Tuttavia, Socrate, non potrei rispondere a quanto chiedi sulla conoscenza come a proposito della

lunghezza e della potenza. Eppure mi sembra che tu, su per giù, ricerchi la stessa cosa, sì che ancora una volta Teodoro

può apparire testimone falso.

SOCRATE: Cosa? Se lodandoti per la corsa avesse detto di non avere mai incontrato tra i giovani uno agile nel

correre come te, poi, correndo, tu fossi stato vinto da uno fortissimo e velocissimo, credi tu che costui ti avrebbe lodato

con minore verità?

TEETETO: Io no.

SOCRATE: Ma, scoprire la conoscenza, come io dicevo poco fa, pensi che sia cosa da poco, oppure di quelli che

sono assolutamente acuti?

TEETETO: Per Zeus, sì: ma molto, molto acuti.

SOCRATE: Confida dunque in te stesso, e non pensare che Teodoro dica qualcosa così per dire, e datti da fare in

ogni modo per capire la ragione e delle altre questioni ed anche della conoscenza, quale mai essa si trova ad essere.

TEETETO: Quanto a buona disposizione, Socrate, essa si farà vedere.

SOCRATE: Suvvia, dunque, poco fa ti orientavi molto bene: tenta di far l'equivalente della risposta circa le potenze,

e come le raccogliesti - e sono molte - sotto un unico aspetto, così cerca di definire le conoscenze, sono molte anche

esse, in un solo enunciato.

TEETETO: Sappi bene comunque, Socrate, che spesso io ho provato di far luce su tale questione, sentendo parlare

delle domande poste da parte tua.

Purtroppo non sono in grado di convincermi di poter dire qualcosa a sufficienza, né di poter udire qualcun altro a

rispondere così come tu pretendi e neppure di staccarmi dal desiderarlo.

SOCRATE: Tu hai le doglie del parto, caro Teeteto, perché tu non sei vuoto, ma pregno.

TEETETO: Non so, Socrate: ti dico solo quello che sento.

SOCRATE: Oh, mio simpaticone! E non hai sentito dire che io sono figlio di una levatrice molto in gamba e forte,

di Fenarete?

TEETETO: Sì, questo l'ho già sentito.

SOCRATE: E hai sentito dire che io professo la stessa arte?

TEETETO: No, proprio no!

SOCRATE: Sappi bene che è così. Tu però non raccontarlo agli altri. Io tengo nascosto agli altri, amico, di

possedere quest'arte: ed essi, sapendolo, non dicono questo sul conto mio, ma che sono molto originale e che mi do da

fare a mettere in imbarazzo gli uomini. E questo l'avrai pure sentito dire?

TEETETO: Io sì.

SOCRATE: Te ne dico dunque il motivo?

TEETETO: Ma certo.

SOCRATE: Cerca di capire tutto ciò che riguarda le levatrici e comprenderai più facilmente quello che voglio dire.

Tu sai che nessuna donna, quando è in stato di gravidanza e deve partorire, fa da levatrice alle altre, ma soltanto quelle

che ormai non sono più in grado di creare una prole.

TEETETO: Certamente.

SOCRATE: Dicono che ne è causa Artemide, che, pure essendo vergine, ebbe in sorte la protezione del parto. Essa,

dunque, non consentì alle sterili di assistere ai parti, perché la natura umana è troppo debole da consentire di assumere

un'arte nella quale non si è esperti. Ma affidò quest'arte a quelle che, per ragione d'età, non hanno figli, rendendo

omaggio alla loro somiglianza con se stessa.

TEETETO: è naturale.

SOCRATE: E non è naturale, anzi necessario, che le donne gravide siano conosciute meglio dalle levatrici che non

dalle altre donne?

TEETETO: Certo.

SOCRATE: E sono le levatrici a dare i farmaci e, accompagnandosi col canto, a risvegliare le doglie e a renderle più

blande se vogliono, e a fare partorire quelle che partoriscono con difficoltà, e a far abortire, quando sembra opportuno

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l'aborto, se l'embrione è prematuro?

TEETETO: è così.

SOCRATE: E, su di loro, non conosci anche questo, che sono abilissime pronube, essendo così pratiche a sapere

quale donna occorra che si congiunga a quale uomo per generare la prole migliore?

TEETETO: Questo non lo conoscevo bene.

SOCRATE: Sappi allora che si vantano più per questo che per il taglio dell'ombelico. Rifletti dunque: Pensi tu che

sia proprio di questa oppure di un'altra arte la cura e la raccolta dei frutti della terra e conoscere in quale terra quale

germoglio vada coltivato e quale seme vada seminato?

TEETETO: No, di questa.

SOCRATE: E per la donna, caro, pensi tu che altra sia l'arte della semina e altra quella della raccolta?

TEETETO: Non è verisimile.

SOCRATE: Non lo è infatti. Ma per questa attitudine a congiungere, ingiusta e inetta, un uomo con una donna, che

ha nome di lenocinio, le levatrici, che sono considerate, si trattengono dal conciliare nozze giuste, temendo, per questo

di cadere in quell'accusa. Mentre soltanto alle vere levatrici spetterebbe combinare le nozze correttamente.

TEETETO: Mi pare così.

SOCRATE: Questo dunque il compito delle levatrici: ma è minore rispetto alla mia attività: infatti non avviene alle

donne di partorire ora immagini, ora esseri veri, e che questo non sia facile da capire. Se questo avvenisse, sarebbe

opera grandissima e bellissima per le levatrici distinguere il vero da quello che non lo è. Non la pensi così?

TEETETO: Io, sì.

SOCRATE: La mia arte di levatrice poi, in tutto il resto è uguale a quella delle ostetriche, ma se ne differenzia in

questo, che agisce sugli uomini e non sulle donne, e assiste le loro anime, quando partoriscono, e non i corpi. E il pregio

più grande in questa nostra arte, mettere alla prova, per quanto è possibile in ogni modo, se il pensiero del giovane

partorisce immagini o menzogne o invece un qualcosa di fertile e di vero. Poiché anche questo mi appartiene, come alle

levatrici: io sono sterile di sapienza, e quello che già molti mi rimproverano è il fatto che interrogo gli altri ma io non

rispondo su alcuna questione, per il fatto di non avere alcuna sapienza: e mi rimproverano con verità. La causa di tutto

ciò è la seguente, che il dio (12) mi costringe a esercitare la maieutica, ma di partorire me lo impedì. Io dunque, di per

me stesso, non sono un sapiente; e nessuna scoperta, che sia tale, è parto del mio animo. Quelli invece che sono abituati

a frequentarmi, anche se alcuni di essi sembrano in un primo tempo incolti, tutti, con il protrarsi della frequenza con me,

quando il dio lo concede loro, ne traggono un giovamento sorprendente, come sembra a loro stessi e anche agli altri. Ed

è manifesto che da me non hanno imparato nulla, ma essi di per se stessi, hanno fatto e creato molte e belle scoperte.

Ma, di questa loro possibilità di generare, promotore è il dio e io stesso. Ed è chiaro nel modo seguente: molti che non

erano a conoscenza di questo e che si ritenevano promotori essi stessi, tenendo in nessun conto la mia persona, o di loro

iniziativa o convinti da altri, si allontanavano da me molto prima del necessario, e come si furono staccati, per il tempo

restante abortirono per la malvagia compagnia, ma nutrendo male tutto ciò che da me era stato assistito nella creazione,

lo mandarono in malora facendo maggior conto delle menzogne e degli spettri più che della verità, finirono con il

sembrare ignoranti a se stessi e agli altri. Uno di questi fu Aristide, figlio di Lisimaco, e anche molti altri. A quelli che

tornano di nuovo, supplicando di riottenere la mia compagnia e compiendo stranezze, ad alcuni il demone che sembra

mi assista impedisce di frequentarmi, ad alcuni altri invece lo concede e così essi ne traggono giovamento di nuovo.

Quelli poi che si trovano insieme a me provano la stessa condizione delle donne che devono partorire; hanno le doglie,

sono sommersi da disagio molto più di quelle. Questa mia arte è in grado di risvegliare ma anche di placare questo

dolore. Questi dunque si trovano in questa condizione.

Ad alcuni poi, che a me non sembrano affatto pregni, o Teeteto, comprendendo che non hanno alcun bisogno di me,

molto volentieri vedo di sistemarli altrove e, per dirla, con l'aiuto di dio, trovo facilmente con chi possono stare e averne

giovamento.

E di essi molti li diedi a Prodico (13) e molti ad altri uomini sapienti e divini. Per questo, mio ottimo amico, io ti ho

tirato in lungo tutte queste storie, perché ho il sospetto, e ne sei convinto anche tu, che abbia le doglie e sia pregno

dentro. E dunque concediti a me, figlio di una levatrice, e ostetrico io stesso, e alle cose che io ti domando cerca di

rispondere volentieri, così, come ne sei capace. E se poi esaminando le cose che tu dici, giudicherò che qualcuna è

fantasia e non verità, io te la strappo e la butto via; ma tu non adirarti come fanno le donne che partoriscono per la prima

volta per i loro neonati. Sono già molti, o mio caro, a essere così disposti nei miei confronti, tanto che sono pronti fino

anche a mordermi, se mi metto a strappare via da loro qualche sciocchezza e non pensano che io faccia questo per

benevolenza, perché sono molto lontani dal sapere che nessun dio è malevolo con gli uomini, e neppure io faccio nulla

di questo per malanimo, ma perché non mi pare affatto giusto ammettere il falso e adombrare la verità. Di nuovo

dunque, o Teeteto, come da principio, tenta di dire che cosa mai è la conoscenza.

E non dirmi più che non ne sei capace: infatti, se un dio vuole e tu agisci da uomo, ne sarai in grado.

TEETETO: Dunque, Socrate, poiché tu lo raccomandi in questo modo, sarebbe disdicevole non adoperarsi in ogni

modo a dire quello che uno ha da dire. Pare dunque a me che chi ha conoscenza di una cosa, ha la sensazione proprio

della cosa che egli conosce, e come almeno ora a me pare, conoscenza niente altro è se non sensazione.

SOCRATE: Molto bene e splendidamente, ragazzo mio! Si deve infatti parlare in questo modo, mettendosi in chiaro

direttamente.

Ma, consideriamolo insieme questo modo, se realmente è fertile o vano. Sensazione, tu dici, è la conoscenza?

TEETETO: Sì.

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SOCRATE: Mostri proprio di aver detto un discorso non da poco sulla conoscenza: è ciò che disse anche Protagora.

(14) Ma egli disse le stesse cose in altro modo. Disse infatti che «l'uomo è misura di tutte le cose, di quelle che sono, in

quanto sono, di quelle che non sono in quanto non sono». Le hai lette queste cose?

TEETETO: Le ho lette, anche spesso.

SOCRATE: Egli dunque un presso a poco dice così: quale sembra ciascuna cosa a me, tale codesta è per me; e quale

sembra a te, tale è per te. E tu, come me, sei un uomo.

TEETETO: Dice proprio così.

SOCRATE: Può darsi che un uomo tanto saggio non dica sciocchezze: forse che talvolta quando soffia lo stesso

vento l'uno di noi ha freddo e l'altro no? E l'uno poco e l'altro molto?

TEETETO: Ma certo.

SOCRATE: Allora diremo dunque che questo vento, di per se stesso, è freddo o non freddo? O daremo ascolto a

Protagora, per cui, per chi ha freddo è freddo, e per chi non ha freddo, non lo è?

TEETETO: Parrebbe così.

SOCRATE: E non appare dunque così, all'uno e all'altro di noi?

TEETETO: Sì.

SOCRATE: Ma l'apparire è anche averne la sensazione.

TEETETO: è così.

SOCRATE: Dunque fantasia e sensazione rispetto al caldo e ad altri casi di questo genere sono la stessa cosa. Quale

ognuno prova per sensazione una cosa, tale mostra di essere per ciascuno la stessa cosa.

TEETETO: Pare.

SOCRATE: Sensazione poi di ciò che è realmente, è sempre anche indenne da errore in quanto è conoscenza.

TEETETO: è evidente.

SOCRATE: Per le Cariti! Dunque fu proprio un sapientone Protagora che a noi, feccia grossolana, disse queste cose

per enigmi, ma ai suoi scolari invece, in segreto, disse la verità!

TEETETO: In che senso, Socrate, dici questo?

SOCRATE: Te lo dirò: ed è una sapienza non da poco questa: nessuna cosa di per se stessa è una sola, né

correttamente si potrebbe chiamare alcuna cosa né quale che sia, ma, se tu vai proclamando che è grande, appare anche

piccola, e se tu dici che è pesante, può sembrare anche leggera, e così per tutte le altre, perché niente è uno, né come, né

quale. Dall'essere portate, al muoversi, al congiungersi delle cose fra di loro, derivano tutte quelle che noi diciamo

esistere, esprimendoci in maniera non corretta. Infatti nulla è mai, ma sempre diviene. Su questo problema tutti i

filosofi, di seguito, tranne Parmenide, è da ammettere che concordino, Protagora, Eraclito, Empedocle, (15) e i poeti più

grandi, dell'uno e dell'altro genere di poesia, Epicarmo (l6) della commedia, Omero della tragedia, (17) il quale dicendo:

generatore degli dèi fu Oceano e madre Teti affermò che tutte le cose discesero dal flusso e dal moto. O non ti pare che

dica così.

TEETETO: Sì, penso io.

SOCRATE: E chi potrebbe opporsi ancora a un tale esercito e a uno stratega come Omero, senza diventare ridicolo?

TEETETO: Non è facile, Socrate.

SOCRATE: No certamente, Teeteto. Poiché anche questi sono segni sufficienti con il ragionamento e il sembrar

essere e il divenire li determina il movimento, mentre la stasi genera il non essere e l'andare in rovina. Infatti il calore e

il fuoco che generano e reggono tutte le altre cose, sono a loro volta generati dal movimento e dallo sfregamento.

Non sono forse queste le origini del fuoco?

TEETETO: Sono queste.

SOCRATE: E anche la schiatta degli esseri viventi vien generata da questi stessi elementi.

TEETETO: Come no?

SOCRATE: Ebbene la condizione del nostro corpo non si rovina con l'ozio e la pigrizia, mentre si mantiene molto a

lungo con l'esercizio fisico e il movimento?

TEETETO: Sì.

SOCRATE: E la buona condizione nell'anima non si acquista con l'apprendimento e con la cura, che sono

movimenti, e si mantiene e diventa migliore, mentre con la placidità che è assenza di apprendimento e di cura, non

impara nulla e dimentica anche quello che impara?

TEETETO: Ma certo.

SOCRATE: L'una cosa dunque, il movimento, è un bene per l'anima e per il corpo, mentre l'altra invece è il

contrario?

TEETETO: Pare così.

SOCRATE: E devo ancora intrattenerti sull'assenza dei venti e sulla tranquillità del mare e altre cose simili, per dirti

che la calma corrompe e rovina e il contrario invece mantiene? E oltre ciò devo aggiungere come termine la catena

d'oro che niente altro è se non il sole come dice Omero, e rende chiaro che, finché esiste l'orbita dell'universo che si

muove e anche il sole, tutte le cose esistono e si mantengono tra gli dèi e per gli uomini, ma se tutto questo si arresta,

come avvinto nei ceppi, ogni cosa andrebbe in rovina e tutto, come si suol dire, finirebbe sottosopra?

TEETETO: Mi pare proprio, Socrate, che Omero abbia inteso dimostrare quello che tu dici.

SOCRATE: Prendi dunque a esaminare, carissimo amico, la questione nel modo seguente. In primo luogo, secondo

lo sguardo, quello che tu chiami colore bianco non esiste in sé, come un qualcosa d'altro e fuori dai tuoi occhi e neppure

Platone Teeteto

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dentro gli occhi e non puoi neppure assegnargli un luogo. Perché, se si trovasse in qualche luogo, in posizione, per così

dire, e lì stesse, non potrebbe generarsi proprio nella sua genesi.

TEETETO: Come dici?

SOCRATE: Facciamo seguito al discorso di poco fa quando abbiamo posto che niente esiste di per se stesso che

costituisca una unità.

E così il nero e il bianco e qualunque altro colore ci appariranno derivati dal contatto degli occhi con il movimento

che vien loro incontro e, quello che noi chiamiamo come singolo colore, non sarà la cosa che si accosta allo sguardo, né

lo sguardo che viene accostato, ma un qualcosa che ha tratto origine dal mezzo e che è proprio a ciascuno. O tu ti

ostineresti a dire che, quale appare a te ciascun colore, tale anche si mostri a un cane e a un qualunque altro animale?

TEETETO: No, di certo, per Zeus.

SOCRATE: Ebbene? Una qualunque cosa può apparire identica a te e a un altro uomo? Tu tieni queSto per fermo, o

meglio ancora, neppure a te la cosa appare la stessa per la ragione che anche tu non sei mai eguale a te stesso?

TEETETO: Questo a me pare più giusto di quello.

SOCRATE: Dunque, se la cosa con la quale ci misuriamo o che tocchiamo fosse grande o bianca, o calda, non

potrebbe mai divenire diversa, venendo a contatto con un'altra, senza che essa stessa in nulla cambiasse. Se poi ciò che

viene misurato o toccato fosse ciascuna di queste cose, non potrebbe mai divenire diverso quando un altro oggetto gli si

avvicinasse o avesse a subire qualche mutamento, dal momento che esso stesso nulla può subire.

E così, caro mio, noi saremmo costretti a dire, così alla buona, cose strane e ridicole, come potrebbe dirci Protagora

(18) e chi prende a dimostrare le stesse concezioni di lui.

TEETETO: Come e cosa dici?

SOCRATE: Considera un piccolo esempio e saprai ciò che voglio dire: se tu, a sei dadi, ne metti vicino quattro,

diciamo che sono più dei quattro, una volta e mezzo tanto, se poi metti vicino dodici, che sono di meno e esattamente la

metà. E non sarebbe ammissibile dire diversamente. E tu lo ammetteresti?

TEETETO: Io no.

SOCRATE: Ebbene? Se Protagora o qualcun altro ti chiedesse: «è possibile che un qualcosa diventi più grande o più

numeroso in modo diverso se non viene aumentato?», cosa risponderesti?

TEETETO: Dunque, Socrate, se devo rispondere, secondo il mio punto di vista, alla domanda di adesso, direi che

non è possibile. Se poi dovessi rispondere a quella di prima, badando di non dire cose contraddittorie, direi che lo è.(19)

SOCRATE: Molto bene, per Era, caro mio, divinamente. Ma se tu rispondi che è possibile ti accadrà un qualcosa come

il detto di Euripide: «Sarà la nostra lingua a non essere incensurabile, ma non la mente».(20) TEETETO: è vero.

SOCRATE: Dunque se io e tu fossimo abili e sapienti dialettici e avessimo esaminato tutti i problemi sulla mente,

saggiandoci l'un l'altro a profusione per il restante tempo, potremmo venire a contesa alla stregua dei sofisti e

ribatteremmo vicendevolmente ragionamento a ragionamento. Ora invece, poiché siamo molto alla buona, vogliamo

anzitutto vedere, gli uni davanti agli altri cosa sono i convincimenti che noi abbiamo in mente se si trovano in armonia

tra di loro oppure è il contrario.

TEETETO: è proprio questo che io vorrei sapere.

SOCRATE: E io pure. Ma poiché la questione sta così, cos'altro possiamo fare se non ricominciare da capo l'esame

tranquillamente, siccome abbiamo molto tempo, senza lasciarci prendere dall'inquietudine, ma vagliando in realtà con

molta attenzione in noi stessi, cosa sono mai queste visioni che sono dentro di noi?

E considerando la prima di esse diremo, come io penso, che nessuna cosa mai diventa più grande né più piccola, né

per volume né per numero, finché resta eguale a se stessa. Non è così?

TEETETO: Sì.

SOCRATE: Il secondo punto poi è il seguente, cioè che una cosa, a cui nulla viene aggiunto o tolto, non cresce mai

e nemmeno decresce, ma resta sempre uguale.

TEETETO: è esattamente così.

SOCRATE: E il terzo punto è questo, che quel che non era prima è impossibile che sia poi senza il divenire.

TEETETO: Pare così.

SOCRATE: Questi tre punti, dunque, che ci trovano consenzienti sono in lotta con se stessi, credo, nella nostra

anima, quando diciamo le ragioni dette a proposito dei dadi, e quando affermiamo che io, che sono di tale età senza

essere cresciuto né avere provato qualcosa in senso contrario, nel giro di un anno vengo a essere ora più grande di te che

sei giovane, poi, più piccolo, non perché nulla sia stato sottratto alla mia mole, ma perché tu invece sei cresciuto. Sono

dunque dopo, quel che prima non ero, pur non divenendo tale. Infatti non è possibile che si divenga senza il divenire, né

mai sarei potuto diventare più piccolo, non perdendo nulla del mio volume. E molte altre questioni, a migliaia per

migliaia, stanno in questi termini, se noi accettiamo questi. Tu, certo, mi tieni dietro, Teeteto. Non mi sembra infatti che

tu sia inesperto di tali problemi.

TEETETO: Per gli dèi, veramente, Socrate, io mi meraviglio enormemente per cosa possano essere mai queste

visioni e talvolta, guardandole intensamente, soffro le vertigini.

SOCRATE: Non mi pare, caro amico, che Teodoro abbia opinato male sulla tua natura. Si addice particolarmente al

filosofo questa tua sensazione: il meravigliarti. Non vi è altro inizio della filosofia, se non questo, e chi affermò che

Iride era figlia di Taumante come sembra, non fece male la genealogia.(21) Allora comprendi tu ormai il perché queste

cose sono tali da quel che noi diciamo sosteneva Protagora, o no?

TEETETO: Ancora no, credo.

Platone Teeteto

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SOCRATE: E dunque mi riconoscerai gratitudine se di quest'uomo, o meglio di questi uomini famosi, io con te

cercherò di trarre in luce la verità del pensiero, ancora in gran parte nascosta?

TEETETO: E come potrò non riconoscertela, e anche molto?

SOCRATE: Sta bene attento e guarda in giro che non abbia a sentirci uno dei non iniziati. Questi sono coloro che

credono che non ci sia niente altro se non quello che possono saldamente afferrare con le mani: ma azioni, generazioni,

e tutto quel che è invisibile, non lo accettano come parte dell'essere.

TEETETO: Veramente, Socrate, tu parli di uomini duri e testardi.(22) SOCRATE: Sono così, ragazzo, molto rozzi.

Altri, invece, sono molto più accorti e, di essi, io vado a esporti i misteri; il principio, al quale sono connesse anche tutte

le considerazioni che svolgevamo poco fa, è questo che tutto è movimento e niente altro esiste oltre questo; del

movimento poi due sono gli aspetti, senza limiti l'uno e l'altro per quantità, e l'uno ha l'attitudine a fare, l'altro a sentire.

Dall'unione e dallo sfregamento di questi due viene generata la prole, senza limite per moltitudine, ma pure duplice,

l'una il sensibile, l'altra la sensazione, che viene sempre a incontrarsi e a generarsi con il sensibile. Dunque le sensazioni

assumono da noi questi nomi, vista, udito, olfatto, raffreddore, caldo, piacere, dolore, desiderio, paura e ve ne sono

anche altre infinite e senza nome, ma moltissime lo hanno. Il genere dei sensibili poi sorge contemporaneamente a

ciascuna di esse: colori svariati in rapporto a svariate sensazioni della vista, allo stesso modo i suoni con le sensazioni

dell'udito e così le altre sensazioni derivano assieme a tutti gli altri sensibili. Capisci dunque, Teeteto, questo mito, cosa

vuoi dire per noi, rispetto alle cose di prima?

TEETETO: Non del tutto, Socrate.

SOCRATE: Stai attento se in qualche modo si viene alla conclusione.

Vuoi dire che tutte queste cose, come dicevamo, si muovono, e nel loro movimento sono insite velocità e lentezza.

Tutto quel che è lento contiene il movimento in questa stessa cosa relativamente a quello che gli è posto vicino, e così

genera pure, ma, quanto nasce in tal maniera, è più veloce. Di fatto si muove e in questo spostarsi sta per natura il suo

movimento. Quando lo sguardo e un altro qualunque oggetto tra quelli che con lo sguardo sono commensurabili,

producono la bianchezza, coll'avvicinarsi, e la sensazione che le è connaturata, cosa che non potrebbe avvenire se l'uno

e l'altro di questi due andassero chi in un verso e chi in un altro, allora, muovendosi nella parte di mezzo della vista, gli

occhi e insieme anche la cosa che genera il colore della bianchezza, allora appunto l'occhio si fa pieno di vita e vede e

non più è divenuto vista, ma occhio che vede, e ciò che genera il colore vien riempito di bianchezza e diventa non

bianchezza ma bianco, sia esso legno, o pietra o un'altra cosa qualunque, cui è accaduto di essere tinto di tale colore

bianco. E così anche delle altre cose, del duro, del caldo e di tutte quante si deve intendere in questo modo, che nessuna

di per se stessa è nulla, cosa che dicevamo anche allora, ma che, nell'unione delle une con le altre, tutte generano in

conseguenza del movimento, poiché il fattore che agisce e quello che subisce, come essi dicono, non è possibile

pensarli, in maniera salda, esistere sopra una cosa sola. Infatti non esiste fattore che agisce prima che non si sia unito a

quello che subisce, né vi è fattore che subisce prima di essere unito a quello che agisce. Quello che poi è fattore agente,

unendosi con qualche cosa, poi cadendo su un'altra, subito diventa fattore che subisce. Tanto che da tutte queste cose,

come dicevamo all'inizio, nessuna cosa è in sé e per sé, ma sempre diviene in rapporto a un'altra, e dunque l'essere va

tolto in ogni modo, anche spesso e anche poco fa siamo stati costretti a fare uso un po' per consuetudine, un po' per

inesperienza. Quello che non bisogna, secondo il ragionamento dei sapienti, è di non accontentarsi parlando di me né di

questa o quella parola o di alcun altro nome che significhi qualcosa che sta immobile, ma usarne secondo la natura delle

cose e dire che esse si generano, si compiono, vanno in rovina, subiscono alterazioni. Perché se qualcuno rende fermo

qualcosa col suo argomentare, facendo questo, può essere agevolmente contestato. Occorre dunque dire in questo modo

sia delle cose singole, sia anche di molte messe insieme, a quell'insieme cui pongono il nome di uomo, di pietra, di ogni

animale e aspetto. Queste considerazioni dunque, Teeteto, ti sembrano ghiotte e le gusti qualora ti piacciano?

TEETETO: Io non lo so proprio, Socrate, e non sono neppure in grado di capacitarmi sul conto tuo, se dici cose di

cui sei convinto o per mettermi alla prova.

SOCRATE: Tu non ricordi, caro, che io nulla so e che non faccio mai alcuna di queste cose, perché rispetto a esse

sono infecondo e invece assisto te a creare e, proprio per questo faccio l'incantesimo e ti pongo innanzi a uno a uno i

concetti dei sapienti per farteli gustare, finché io tragga alla luce il tuo pensiero. E quando sarà venuto fuori allora lo

esaminerò se apparirà vano o in grado di creare. Ma facendoti forza e coraggio, rispondi bene e da uomo quello che è il

tuo avviso sulle domande che io ti porrò.

TEETETO: Chiedi dunque.

SOCRATE: Dimmi dunque di nuovo se ti convince questo, che nulla è ma diviene, il bello, il buono e tutto quello di

cui abbiamo parlato poco fa.

TEETETO: Sì, a me da quando ti sento argomentare in questo modo pare che il tuo discorso stia così a meraviglia e

penso che vada inteso così nel modo in cui lo hai spiegato.

SOCRATE: Allora non lasciamo perdere quel che resta da dire su di esso. Resta da dire dei sogni, delle malattie, e,

fra queste, della pazzia, del fraintendere, veder di traverso, percepire male o qualunque altra cosa si dice a proposito di

questa malattia. Tu sai certamente che il discorso che facevamo poco fa sembra possa essere respinto in tutte queste

cose concordemente, poiché soprattutto in questi casi a noi possono derivare sensazioni ingannevoli e molto manca che

quanto sembra a ciascuno, sia questo anche realtà, ma, tutto al contrario, sembra che nulla sia realtà di quel che appare.

TEETETO: Dici cose perfettamente vere, Socrate.

SOCRATE: Quale spunto resta allora, ragazzo mio, per chi pone la sensazione come conoscenza e che quanto a

ciascuno appare questo è per colui cui appare?

Platone Teeteto

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TEETETO: Io mi vergogno, Socrate, di dirti che non so cosa dirti, poiché proprio ora mi hai rimproverato a dirti

questo. Ma in verità io non potrei sostenere che i pazzi o quelli che sognano non hanno opinioni false, quando, tra di

essi, alcuni credono di essere degli dèi, altri di essere alati e così volano nel sonno.

SOCRATE: E non ti viene in mente, a loro riguardo, neppure quella questione, soprattutto quella intorno al sonno e

alla realtà?

TEETETO: Quale?

SOCRATE: Questa. Io penso che spesso tu abbia sentito dei tali chiedere quale prova si può avere per dimostrare, se

uno chiedesse ora, così, nel momento presente, se stiamo dormendo o se sognamo tutto quello che pensiamo, o siamo

invece svegli e proprio nella realtà parliamo tra di noi.

TEETETO: Certo, Socrate, è difficile dimostrarlo con una qualche prova perché tutte le cose si tengon dietro di per

se stesse come se fossero il controcanto l'una dell'altra. Ad esempio i discorsi di poco fa, nulla impedisce di credere che

li abbiamo fatti tra di noi anche nel sonno. E quando durante il sogno crediamo di raccontare sogni, è ben strana la

somiglianza di questi con quelli.

SOCRATE: Vedi dunque che non è difficile seminare dubbi su questo, quando si è in dubbio addirittura sulla realtà

e sul sogno; e siccome è uguale il tempo che dedichiamo al riposo a quello in cui siamo svegli, nell'uno e nell'altro di

questi spazi la nostra mente si dibatte se sono più veri quei pensieri che essa ha di continuo presenti, tanto che per un

tempo uguale noi diciamo che sono veri questi, della realtà, e per altrettanto tempo quelli, del sogno, e allo stesso modo

insistiamo sugli uni e sugli altri.

TEETETO: è assolutamente così.

SOCRATE: Dunque per le malattie e la pazzia non è lo stesso il discorso eccetto il fattore tempo che non è lo

stesso?

TEETETO: Non mi pare.

SOCRATE: Ebbene? Il vero sarà determinato dalla quantità o dalla scarsezza del tempo?

TEETETO: Sarebbe cosa ridicola in ogni caso.

SOCRATE: Ma cos'altro hai tu di chiaro per dimostrare quali di questi pensieri sono veri?

TEETETO: Non saprei.

SOCRATE: Ascolta dunque da me quali cose potrebbero dire su tali questioni coloro che dichiarano vere le cose che

di continuo appaiono a colui al quale appaiono. Dicono, a mio parere, così, interrogando: «O Teeteto, una cosa che sia

completamente diversa da un'altra avrà mai un suo valore identico a quell'altra? E non dobbiamo supporre che la cosa

che domandiamo in parte sia la stessa, in parte sia diversa, ma altra completamente?».

TEETETO: Ma è impossibile che abbia qualcosa di identico, né in valore, né in qualunque altro modo, qualora sia

perfettamente altra.

SOCRATE: E non è necessario dunque ammettere che questa cosa è anche dissimile?

TEETETO: A me pare di sì.

SOCRATE: Se dunque avviene che qualcosa diventa simile o dissimile a un'altra cosa, sia pure se stessa o un'altra,

sosterremo noi che con l'assomigliarsi è la stessa, col non assomigliarsi un'altra?

TEETETO: è necessario.

SOCRATE: E non dicevamo prima che molti sono i fattori che agiscono, anzi senza numero, e altrettanto i fattori

che subiscono?

TEETETO: Sì.

SOCRATE: E poi mescolandosi insieme l'uno con l'altro, e poi con un altro ancora, non genereranno le stesse cose,

ma diverse?

TEETETO: Certamente sì.

SOCRATE: Parliamo ora analogamente di me e di te e di tutte le altre cose: di Socrate che è sano, e di Socrate poi

che è malato: diremo dunque che questo è simile a quello o che è dissimile?

TEETETO: Quando dici «Socrate malato» lo dici tutto intero questo, se è simile o dissimile a quell'altro tutto intero

«il Socrate sano»?

SOCRATE: Hai capito benissimo. Io dico proprio questo.

TEETETO: è certamente dissimile.

SOCRATE: Un altro dunque, così come tu lo dici dissimile?

TEETETO: è necessario.

SOCRATE: E anche quando dorme e in tutte quelle cose di cui abbiamo parlato poco fa, dirai altrettanto?

TEETETO: Io sì.

SOCRATE: Ora ciascuno di quei fattori che per natura sono in grado di agire, quando incontrino Socrate sano, si

comporteranno con me come con uno diverso dal Socrate malato e quando lo incontrino malato si comporteranno come

con una persona diversa dal Socrate sano?

TEETETO: Perché non dovrebbero?

SOCRATE: E certo genereremo cose diverse dall'uno e dall'altro di noi, io come fattore che subisce e quello come

fattore che agisce.

TEETETO: E con ciò?

SOCRATE: Quando io bevo il vino da sano, mi pare buono e dolce.

TEETETO: Sì.

Platone Teeteto

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SOCRATE: Infatti come dalle considerazioni svolte prima di comune accordo il fattore che agisce e quello che

subisce generano dolcezza e sensazione di dolcezza, che si muovono ambedue a un tempo; la sensazione che è da parte

del fattore che subisce ha reso la lingua in grado di sentire, la dolcezza invece che proviene dal vino e si muove intorno

a lui fa in modo che il vino, per una lingua sana, sia e appaia dolce.

TEETETO: Esattamente: così è stato ammesso da noi anche prima.

SOCRATE: Ma quando il fattore che agisce trova Socrate malato, non è vero in primo luogo che non incontra la

stessa persona? Si è imbattuto infatti in uno dissimile.

TEETETO: Sì.

SOCRATE: Un tale Socrate allora e il bere vino devono generare altre cose: sensazione di amarezza intorno alla

lingua, amarezza che deriva e si muove intorno al vino, e il vino non è amarezza, ma amaro, e io non sarò sensazione,

ma quello che sente?

TEETETO: Perfettamente così.

SOCRATE: Dunque io per nessun altra cosa potrò diventare soggetto che sente in questo modo: perché altra è la

sensazione dell'altro, e rende differente e altro il soggetto che sente; e non è neppure dato che quel fattore che agisce su

di me, incontrando un altro mai diventi tale quale (23) generando lo stesso, perché, da altro generando altro, diventa

differente.

TEETETO: è così.

SOCRATE: Né io divento tale per me stesso, né quella tale cosa per se stessa.

TEETETO: Certamente no.

SOCRATE: è necessario però che divenendo io soggetto che sente, lo diventi di un qualcosa. Infatti è possibile

diventare soggetto che sente, ma impossibile divenire soggetto che sente di nessuna cosa. è necessario ancora che quella

cosa, quando diventa dolce, amara o qualcosa di analogo, lo diventi per qualcuno; divenire dolce infatti è possibile, ma

dolce per nessuno è impossibile.

TEETETO: è assolutamente così.

SOCRATE: Rimane dunque, o se siamo o se diventiamo, che noi siamo e diventiamo l'uno nei confronti dell'altro,

poiché la necessità lega la nostra essenza,(24) ma non la lega a nessuno degli altri e nemmeno a noi stessi.(25) Resta

dunque che si sia legati insieme l'uno all'altro. Tanto che se uno dice che una cosa è o diviene deve anche dire che essa è

o diviene rispetto a qualche cosa o per qualche altra cosa. Ma che una cosa sia o diventi solo per sé medesima, questo

non lo deve dire, né accettarlo se lo dice un altro, come significa tutto il ragionamento che abbiamo svolto.

TEETETO: è assolutamente così, Socrate.

SOCRATE: Dunque il fattore che agisce su di me è mio e non di un altro, e quello che io sento di lui, un altro non

potrà sentirlo.

TEETETO: Come no?

SOCRATE: E la mia sensazione è vera per me. Infatti è parte della mia essenza. E io sono giudice, secondo il

concetto di Protagora, delle cose che sono per me, come sono, e di quelle che non sono come non sono.

TEETETO: Pare così.

SOCRATE: Come dunque, dal momento che non mi inganno e non inciampo nella meditazione delle cose che sono

o divengono, come potrei non essere consapevole delle cose delle quali io sono il soggetto che sente?

TEETETO: è impossibile che tu non lo sia.

SOCRATE: Dunque è stato detto molto bene da te che conoscenza niente altro è che sensazione, e tutto ciò si trova

in armonia allo stesso concetto che, secondo Omero e Eraclito e tutta una simile schiera, tutto si muove come un flusso

senza sosta, e se secondo il sapientissimo Protagora, per il quale l'uomo è misura di tutte le cose, e anche secondo

Teeteto, se le cose stanno così, che conoscenza è sensazione. Dunque, Teeteto, lo diciamo che questo concetto è come

una sorta di neonato tuo, mentre mia è l'assistenza al parto?

TEETETO: è necessario dire così, o Socrate.

SOCRATE: Questo bambino dunque, come pare, una buona volta l'abbiamo pure messo al mondo, anche se a fatica,

quale mai esso si trova a essere. Ma dopo il parto dobbiamo fargli di corsa le anfidromie (26) tutto attorno con il

ragionamento, per renderci conto se il nato merita di ottenere l'allevamento, o se invece, a nostra insaputa, è vano e

ingannevole. O pensi che questo tuo nato occorra comunque tirarlo su e non esporlo, e sopporterai di vederlo sottoposto

ad accuse, e non te la prenderai con ogni impeto se qualcuno lo sottrarrà a te che l'hai appena partorito.

TEODORO: Teeteto lo sopporterà. Non è affatto fastidioso. Ma, per gli dèi, la questione può ancora non essere

così?

SOCRATE: Tu sei senza dubbio amante della logica, Teodoro, e un uomo eccellente, se pensi che io sia un otre di

argomentazioni e sia facile per me, tirandone fuori qualcuna, dire che la questione di nuovo non sta così. E non ti rendi

conto di quel che avviene, cioè che da parte mia non salta fuori nessun ragionamento, ma sempre da parte di chi discute

con me, e non so altra cosa di più se non questa, in breve, di recepire da un altro che sia sapiente tutti i ragionamenti che

ha e di accettarli come si deve.

Anche ora proverò a farlo, Teeteto, senza dire nulla io stesso.

TEODORO: Tu parli anche troppo bene, Socrate: fa dunque così.

SOCRATE: Sai dunque, Teodoro, quel che mi sorprende del tuo amico Protagora?

TEODORO: Cosa?

SOCRATE: Tutte le altre cose che ha detto prima, possono andare, che quel che a ciascuno pare, questo è anche. Ma

Platone Teeteto

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io guardo stupefatto l'inizio del suo discorso, perché non ha sostenuto dando inizio al suo lavoro sulla Verità,(27) che di

tutte le cose misura è il maiale o il cinocefalo, o qualche essere ancora più strano tra quelli capaci di sensazione, per

parlare, fin da quando cominciava, con noi in maniera magniloquente e anche con molto disprezzo, dimostrando che

mentre noi lo ammiravamo come un dio per la sua sapienza, egli in realtà per acume non si trovava a essere migliore

non solo di qualche altro uomo, ma nemmeno di un girino, di una rana. Oppure come dovremmo dire, Teodoro?

Se per ciascuno sarà vera l'impressione che gli viene dalla sensazione, né questa esperienza altrui un altro potrà

giudicarla in maniera migliore, né alcuno sarà più padrone di vagliare l'impressione di un altro, se vera o falsa, ma, cosa

che è stata detta più volte, ciascuno potrà avere un modo di pensare soltanto su quelle impressioni che lo riguardano di

persona, come mai, o amico, Protagora doveva apparire sapiente al punto di essere considerato giustamente maestro di

altri e anche con grandi compensi (28) e noi tanto ignoranti da dover frequentare la sua scuola, siccome ognuno è

misura della propria sapienza?

Perché non diciamo che Protagora, facendo demagogia, diceva queste cose? Su di me e sulla mia arte di ostetrico

taccio quante ridicolaggini possiamo tirarci addosso. E così la penso anche su tutta la mia attività del discutere. Questo

sottoporre a esame e cercare di mettere alla prova reciprocamente impressioni e pareri, che sono veri per ciascuno non è

la più grossa e formidabile sciocchezza, se è vera la Verità di Protagora, ed essa non è risuonata, così per ischerzo, dal

sacro tempio del suo libro?

TEODORO: Socrate, come tu hai detto or ora, Protagora è stato amico mio: non potrei quindi accettare di vedere

contestato Protagora con la mia approvazione e neppure continuare con te contro il mio parere. Riprendi pure il dialogo

con Teeteto. Anche or ora pareva che ti ascoltasse con molto piacere.

SOCRATE: Bada, Teodoro, se tu andassi a Sparta, nelle palestre, di non pretendere di vedere nudi gli altri, alcuni

anche brutti, senza mostrare tu stesso il tuo fisico, dopo esserti spogliato.(29) TEODORO: Perché ti pare che non potrei

farlo, se essi volessero concedermelo e ne fossero convinti? Come ora io penso che voi sarete convinti a lasciarmi qui a

fare da spettatore e a non tirarmi per forza nel ginnasio, sclerotico come sono, e tu, invece, a misurarti con questo qui,

che è più giovane e più svelto.

SOCRATE: Ma se così è caro a te, Teodoro, non è odioso neppure a me, come dicono quelli che fanno proverbi.

Quindi occorre tornare ancora al saggio Teeteto. Rispondimi, Teeteto, anzitutto su quanto dicevamo or ora: non saresti

stupefatto anzitutto se così, all'improvviso, venissi a scoprire che in sapienza non sei inferiore a qualunque uomo e

perfino agli dèi? O ritieni che la misura di Protagora si convenga meno agli dèi che agli uomini?

TEETETO: Per Zeus, io non lo penso. Anzi mi meraviglio molto di ciò che mi chiedi. Infatti quando prima

discutevamo in che modo essi sostenevano che quel che pare a ciascuno, questo è anche per colui al quale sembra, mi

appariva del tutto che fosse detto bene. Ora invece la questione mi è piombata addosso in maniera del tutto opposta.

SOCRATE: Perche tu sei giovane, caro ragazzo mio. E ascolti attento le concioni e ti fai convincere. Ma a queste

considerazioni Protagora, o un altro in vece sua, risponderebbe così: «o giovani e vecchi molto bravi, voi, stando seduti,

fate discorsi altisonanti, portando in mezzo anche dèi, che io invece tiro via, sia dal parlare che dallo scrivere su di loro,

come sono o come non sono, e le cose che la moltitudine accetterebbe volentieri, ascoltandole, voi le dite, come quando

affermate che non ci sarebbe nulla di sorprendente se non ci fosse affatto differenza, in sapienza fra ciascuno degli

uomini e una qualunque bestia. Ma una dimostrazione, un argomento cogente voi non lo dite, e vi avvalete di quel che è

verisimile, del quale se si volessero servire Teodoro e qualcun altro dei geometri per fare geometria, non avrebbero

nemmeno il peso di una sola unità. Badate bene dunque, tu e Teodoro, se accettate ragionamenti parlando di tali

questioni, basandovi solo su credibilità e verosimiglianza».

TEETETO: Ma non è giusto, Socrate, né tu, né noi lo diremmo.

SOCRATE: Allora bisogna considerare, a quel che pare, come è il ragionainento tuo e di Teodoro.

TEETETO: è del tutto in altro modo.

SOCRATE: E allora esaminiamolo in questo, se mai conoscenza e sensazione sono la stessa cosa o qualcosa d'altro.

Perché questo era l'obiettivo di tutto il nostro ragionamento e proprio in virtù di esso, abbiamo mosso tutti questi strani

problemi. Non è così?

TEETETO: è certamente così.

SOCRATE: Ammetteremo dunque, che delle cose di cui abbiamo sensazione vedendole e udendole, di tutte queste,

a un tempo, noi veniamo anche a conoscenza? Ad esempio, prima di conoscere la lingua dei barbari, diremo forse che

non ascoltiamo quando parlano, oppure che ascoltiamo e a un tempo comprendiamo anche quello che dicono? E ancora

non conoscendo le loro lettere, guardando a esse ci ostineremo a dire che non le vediamo, oppure, che se le vediamo, le

conosciamo?

TEETETO: Diremo di conoscere di esse, o Socrate, solo quello che vediamo e ascoltiamo; delle lettere diremo

infatti di vedere e conoscere la forma e il colore, delle voci invece di ascoltare e dunque di sapere l'acutezza e la gravità.

Quanto a quello poi che sulla loro lingua possono ammaestrarci uomini di lettere e interpreti, diremo che senza vederle

o udire non possiamo averne sensazione e venirne a conoscenza.

SOCRATE: Eccellentemente, Teeteto; e per te non torna conto discuterne, anche solo per tirarti su d'animo. Ma

bada ora anche a questo altro problema che ci piomba addosso e vedi come potremo fargli fronte.

TEETETO: E quale?

SOCRATE: Il seguente: «Può darsi che uno che una volta sia divenuto conoscitore di qualcosa, e abbia e mantenga

il ricordo di questa cosa, è possibile che allora quando se ne ricorda non conosca proprio quello di cui si ricorda.». Io la

tiro per le lunghe, a quanto pare, mentre voglio domandare soltanto se uno, imparando una cosa, non la conosca mentre

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se ne ricorda?

TEETETO: E come, Socrate? è una insensatezza quella che dici.

SOCRATE: Forse che io do i numeri? Bada bene: non dici che vedere è provare sensazione e che la vista è

sensazione?

TEETETO: Io sì.

SOCRATE: Dunque chi ha visto una cosa non è divenuto conoscitore della cosa che ha visto, secondo il discorso di

poco fa?

TEETETO: Sì.

SOCRATE: Ebbene? Non la chiami qualcosa la memoria?

TEETETO: Sì.

SOCRATE: Di qualcosa o di nulla?

TEETETO: Di qualcosa, certamente.

SOCRATE: Dunque di ciò che qualcuno imparò e di cui ebbe sensazione, non è propria di queste cose la memoria?

TEETETO: E dunque?

SOCRATE: E ricorda talvolta uno quello che ha visto?

TEETETO: Se ne ricorda.

SOCRATE: Se ne ricorda anche a occhi chiusi, oppure nel fare questo se ne dimentica?

TEETETO: Ma è assurdo, Socrate, sostenere questo.

SOCRATE: Ma occorre sostenerlo, se vogliamo salvare il ragionamento di prima, se no si squaglia.

TEETETO: Anch'io lo sospetto, Socrate, ma non comprendo del tutto.

Dimmi tu il come.

SOCRATE: In questo modo; noi diciamo: colui che vede diventa conoscitore di ciò che vede; si è concordato infatti

che vista, sensazione e conoscenza sono la stessa cosa.

TEETETO: Certamente.

SOCRATE: Colui che vede ed è diventato conoscitore non vede, a occhi chiusi, ricorda sì, ma non vede la stessa

cosa. Non è così?

TEETETO: Sì.

SOCRATE: Ma questo «non vede» equivale a «non sa» se e vero anche che «vede» equivale a «conosce».

TEETETO: è vero.

SOCRATE: Accade dunque che chi è divenuto conoscitore di una cosa, anche se la ricorda ancora, non la conosce,

dal momento che non la vede. Cosa che dicevamo essere assurda se mai avvenisse.

TEETETO: è molto vero quel che tu dici.

SOCRATE: Pare dunque che combini un qualcosa di impossibile, se uno sostiene che conoscenza e sensazione sono

la stessa cosa.

TEETETO: Pare di sì.

SOCRATE: Occorre dunque ammettere che l'una e l'altra cosa sono diverse.

TEETETO: è probabile.

SOCRATE: E allora cosa sarebbe conoscenza? Come pare occorre ridirlo da capo.

Pure, cosa mai, Teeteto, andiamo a fare?

TEETETO: A che riguardo?

SOCRATE: Sembra che noi, alla stregua di un gallo vile, cantiamo vittoria prima di avere vinto, balzando giù dal

ragionamento.

TEETETO: E come?

SOCRATE: Sembra che noi, alla stregua degli illogici, abbiamo concordato sulle omologie dei nomi, e riuscendo

superiori con un tale mezzo nel ragionamento, ce ne contentiamo e, pur continuando a dire di non essere polemisti, ma

filosofi, senza accorgercene, andiamo compiendo proprio quello che fanno questi sagacissimi uomini. (30) TEETETO:

Non comprendo ancora bene come parli.

SOCRATE: Tenterò allora di dirtelo chiaramente, intorno a ciò che penso. Ci chiedevamo se uno, imparando e

ricordando una data cosa, non la conosce, e dimostrando che chi vede e chiude gli occhi, ricorda sì, ma non vede, ne

abbiamo arguito che non sa e al tempo stesso non ricorda. E dicemmo che questo è impossibile. E così è andato in

malora il mito di Protagora e anche il tuo, quello della conoscenza e della sensazione che sono la stessa cosa.

TEETETO: Pare di sì.

SOCRATE: Tuttavia io penso, o caro, se vivesse anche il padre (31) del primo di questi due miti, molte altre

considerazioni tirerebbe in ballo a difesa. Ora invece, orfano qual è, noi lo copriamo di fango. E neppure i tutori che

Protagora ha lasciato vogliono recargli aiuto, uno dei quali è qui presente: Teodoro. E sarà probabile che proprio noi, a

causa del giusto, gli porteremo aiuto.

TEODORO: Non io, Socrate, ma piuttosto, Callia (32) figlio di Ipponico, è tutore delle cose di Protagora. Io, ben

presto, dai ragionamenti sottili (33) mi sono rivolto alla geometria. Ti sarò comunque grato, se gli recherai aiuto.

SOCRATE: Tu dici bene, Teodoro; considera dunque quello che è il mio aiuto. Ma se qualcuno dovrà pure

ammettere concetti anche più paradossali di questi, se non presta attenzione alle parole, al modo con cui siamo abituati

per lo più a dire e poi a negare.

Devo dunque parlare a te, o a Teeteto?

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TEODORO: A tutti e due, in comune; ma a rispondere sia il più giovane, perché sbagliando, sfigurerà di meno.

SOCRATE: E ti faccio una domanda assai strana: ed è, come penso, la seguente: può darsi dunque che uno stesso

individuo che sa una cosa ben determinata, non sappia proprio quella cosa che sa?

TEODORO: Cosa risponderemo dunque, Teeteto?

TEETETO: Ma è impossibile. Io la penso così.

SOCRATE: No, se tu presupponi che vedere è conoscere. Cosa risponderai, infatti, a una di quelle domande senza

scampo, rinchiuso, come si suol dire in un pozzo, quando un contendente inflessibile, tenendo chiuso con la mano uno

dei tuoi occhi, ti chiederà se tu vedi il suo mantello con l'occhio chiuso?

TEETETO: Gli risponderò, penso, che non vedo con quello, ma con quell'altro.

SOCRATE: E dunque tu vedi e non vedi a un tempo la stessa cosa?

TEETETO: Un presso a poco.

SOCRATE: «Io», ti risponderà, «non ti impongo di dire questo né chiedevo come, ma semplicemente se quel che

conosci anche non lo conosci».

Mostri ora di vedere quello che non vedi. E ti trovi ad avere ammesso che vedere è sapere e non vedere non sapere.

Da queste cose dunque trai il calcolo tu su quel che ti avviene.

TEETETO: Traggo dunque la conclusione che se ne ricava il contrario di quello che avevo presupposto io.

SOCRATE: E io penso, mio caro, che avrai a subirne parecchie di queste prove se vi è un conoscere acuto e uno

senza vigore, se si può conoscere profondamente la stessa cosa o in maniera blanda e altre svariate questioni, che uno di

questi uomini, armato alla leggera, ma capace di lauti compensi nel gioco delle parole, abile nel combinare tranelli,

potrebbe chiederti dal momento che ha presupposto che conoscenza e sensazione siano la stessa cosa, e lanciandosi

contro l'udito e l'odorato e altre consimili sensazioni, avrebbe il sopravvento su di te e ti terrebbe senza lasciarti andare,

prima che tu, pieno di ammirazione per la sua desiderata sapienza, fossi messo in ceppi da lui, fino a quando, dopo

avere messo le mani su di te e averti incatenato ormai, allora soltanto ti saresti riscattato al suono di tanto denaro,

quanto fosse sembrato giusto a te e a lui. Probabilmente tu mi chiederai: «Protagora quale ragionamento esporrà a

sostegno della sua tesi?».

Tentiamo di dirne qualche altra cosa?

TEETETO: Certamente.

SOCRATE: Dirà, penso, tutto quello che dicevamo noi quando provavamo di dargli una mano e insieme ci stringerà

più da vicino pieno di disprezzo dicendo: «Questo bel campione di Socrate, interrogato un ragazzino se poteva essere

che la stessa persona ricordasse ed anche non sapesse una data cosa, siccome si spaventò e nello spavento negò perché

non si poteva prevedere, mi mostrò ridicolo nei suoi discorsi. La questione, o bel pappacotta di un Socrate, sta così.

Quando tu sottoponi al vaglio con domande qualcuna delle mie tesi, se chi è interrogato commette errori, rispondendo

come risponderei io, sono io a essere contestato: se risponde in altro modo, allora è chi viene interrogato. Subito

dunque: pensi che si possa ammettere che in un tale persista un qualche ricordo di cose che ha già provato, che sia tale

esso quale in certo modo quando lo provò, anche quando non lo prova più? Ci corre molto. E ancora, ritieni che esiterà

a consentire che una stessa persona conosce e non conosce la stessa cosa? Ma se hai dei dubbi ad ammettere questo, si

darà mai che la stessa persona, diventata diversa, sia ancora la stessa che era prima di divenire diversa? E più ancora che

quello sia uno, ma non alcuni, che questi diventino poi un numero sterminato, se avviene la diversità; occorrerà l'un

l'altro ben guardarci quanto alle trappole delle parole. Dunque, o beato», dirà ancora, «vieni contro a quel che dico in

modo generoso, se puoi, e prova che le sensazioni non divengono peculiari in ciascuno di noi, che se anche non

divengono peculiari, per nulla di più ciò che appare avviene solo per ciascuno o è, se si deve fare uso della parola

essere, per quello cui appare. E quando parli da porco e da cinocefalo non solo fai il porco tu, ma convinci a farlo anche

gli ascoltatori contro i miei scritti, e fai male. (34) Io sostengo che la verità è proprio come io ho scritto: ciascuno di noi

infatti è misura delle cose che sono e di quelle che non sono. Ma esiste una differenza senza limiti fra l'uno e l'altro

proprio su questo stesso punto, perché le cose appaiono in un modo diverso all'uno e in modo diverso ancora all'altro. E

tanto ci corre che io sostenga che non esiste sapienza e uomo sapiente, che anzi dico uomo sapiente quello che a uno di

noi al quale le cose appaiono e sono cattive, facendolo cambiare, farà in modo che le cose gli appaiano e siano buone.

(35) E tu non perseguire il mio ragionamento con le parole, ma così, in maniera ancora più chiara, cerca di capire quello

che dico. Cerca di ricordare quanto era stato detto nelle argomentazioni di prima: per uno debole il cibo che inghiotte

appare ed è amaro, mentre per uno sano appare ed è il contrario; né si deve ritenere dunque che l'uno di questi due è più

sapiente dell'altro - infatti non è possibile e nemmeno si deve asserire che chi è malato è ignorante perché la pensa in

questo modo, mentre il sano è sapiente perché la pensa in modo contrario. Ma bisogna fare cambiamenti rispetto alle

due condizioni. Infatti la seconda condizione, la salute, è migliore.

Così anche nell'educazione, da una condizione bisogna cambiare a quella migliore. Ma il medico opera i

cambiamenti mediante le medicine, il sofista, invece, mediante i ragionamenti. Ma mai nessuno fece in modo che chi

aveva un modo falso di opinare poi venisse a concepire opinioni vere. Non è possibile infatti che si pensino opinioni che

non esistono, né altre cose oltre a quelle che uno prova: soltanto queste sono sempre vere. Così, chi per una condizione

infelice dell'anima pensa cose congeniali a questa sua anima, può fare in modo, penso, a concepire altrettante opinioni

migliori che alcuni, per ignoranza, chiamano fantasie vere, e io invece migliori, le une delle altre, ma niente affatto più

vere. E i sapienti, caro Socrate, sono ben lontano dal gratificarli con ranocchi, ma rispetto ai corpi li chiamo medici,

rispetto alle piante agricoltori. E dico che questi agricoltori sanno immettere nelle piante, se qualcuna si ammala, invece

di quelle cattive, delle sensazioni buone e sane e non solo vere. E i sapienti e buoni retori fanno in modo che nelle città

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sembrino essere giuste le cose vere anziché quelle malvagie. Giacché quelle cose che per ciascuna città sembrano belle

e buone, queste lo sono anche per essa, fino a che essa tali le consideri. Ma il sapiente invece di ogni cosa che è

malvagia, a questa ne determina altre che sono e appaiono buone. Per lo stesso motivo, anche il sofista, che in questa

maniera è in grado di educare i suoi alunni, è un uomo sapiente e degno di essere compensato da essi con molto denaro.

E così alcuni sono più sapienti di altri e nessuno può nutrire opinioni menzognere e tu devi pure ammettere di buona

voglia o contro, di esserne la misura. Su queste fondamenta si regge questo ragionamento: e se tu hai in mente di

contraddirlo da capo, contraddicilo pure esponendo il contrario mediante un ragionamento. Ma se vuoi farlo attraverso

domande, fallo pure con delle domande: neppure questo infatti è da rifuggire, anzi, è particolarmente da perseguire, fra

tutti, da uno che abbia senno.

Fa dunque così: ma non fare ingiustizie nel porre domande.

E infatti sarebbe grande la contraddizione se uno che va predicando di avere in gran conto la virtù, null'altro facesse,

nelle discussioni, se non commettere ingiustizie. Compiere ingiustizia avviene in questo modo, quando uno fa le

discussioni se non scevera nettamente, se ha in animo di combattere o di discutere, perché nella prima ipotesi scherza e

tenta, per quanto può, di incastrare l'avversario, nella seconda, invece, si impegna a dialogare e raddrizza chi dialoga

con lui e gli mostra quegli errori soltanto nei quali si è lasciato invischiare, o per colpa sua, o di quelli con i quali si

confrontava in precedenza. Se agirai in questo modo, quelli che discutono con te chiameranno in causa se stessi per i

loro turbamenti e i loro dubbi, e ti verranno dietro e ti vorranno bene e avranno in odio proprio se stessi, e non te e da se

stessi rifuggiranno verso la filosofia, per allontanarsi, una volta divenuti altri, da quello che erano in precedenza. Ma se

farai il contrario di ciò, come fanno i più, ti accadrà il contrario e, quelli che sono con te a dialogare, anziché filosofi, li

farai diventare spregiatori della filosofia, non appena saranno diventati piuttosto anziani. Se dunque mi presti ascolto,

come si diceva anche prima, non con spirito avverso e polemico, ma disponendoti con serena condizione d'animo,

sinceramente considera cosa mai diciamo, mostrando che tutto si muove e che quel che sembra a ciascuno, questo è

anche per ciascuno, sia privato, sia l'intera città. E in conseguenza di ciò potrai osservare se sono la stessa cosa o altro

conoscenza e sensazione: non come poco fa dell'uso abituale di parole e nomi che i più trascinano da una parte e

dall'altra come capita, provocandosi, gli uni con gli altri, ogni sorta di dubbi». Questi concetti, secondo le mie

possibilità, tentai di dire a sostegno dell'amico tuo, piccolo contributo, da parte di piccole possibilità. Se fosse stato vivo

lui, certamente avrebbe recato lui difesa in modo più efficace ai suoi punti di vista.

TEODORO: Tu scherzi, Socrate: hai preso le difese dell'uomo in maniera del tutto giovanile.

SOCRATE: Dici bene, amico, ma rispondimi: hai osservato, come diceva Protagora poco fa, e ci biasimava di fare

discorsi con un ragazzetto e, sul senso di paura di questo ragazzo, ci eravamo dati a contendere con le sue teorie, e

chiamando in causa questo come uno scherzo e, magnificando quella «misura di tutte le cose», ci invitava con forza a

prendere in esame con serietà i propri ragionamenti?

TEODORO: Come avrei potuto non avvertirlo, o Socrate.

SOCRATE: Ebbene? Ci spingi a dargli ascolto?

TEODORO: Con forza.

SOCRATE: Tu vedi dunque che tutti i presenti, eccettuato te, sono ragazzi. Perciò, se vorremo prestare ascolto a

Protagora, occorre che io e tu ci impegnamo a discutere sulla sua teoria ponendoci delle domande tra di noi e dandoci

delle risposte, perché poi non abbia da rimproverarci ancora che, per ischerzo, abbiamo preso in esame la sua dottrina

con dei ragazzi.

TEODORO: Ebbene? Non potrebbe dunque Teeteto, meglio di molti che hanno lunghe barbe, tenere dietro a un

ragionamento che viene sottoposto al vaglio?

SOCRATE: Certo, ma non meglio di te, o Teodoro, e non pensare neppure che io debba prendere in ogni modo la

difesa del tuo amico che è morto, mentre tu non lo fai affatto. Orsù dunque, o eccellent'uomo, vienimi dietro un po', fino

a questo almeno, fino a che possiamo vedere se occorre che delle figure in geometria la misura sei tu, oppure tutti, come

te, bastano a se stessi nell'astronomia e nelle altre discipline nelle quali tu godi della fama di distinguerti.

TEODORO: Non è facile, Socrate, stando seduto qui vicino a te non concedersi alla discussione; e poco fa ho detto

un'assurdità dicendo che mi avresti concesso di svestirmi e mi avresti forzato come fanno gli Spartani. Mi pare piuttosto

che tu tiri come Scirone.(36) Gli Spartani infatti comandano o di andarsene o di spogliarsi, tu invece mi sembri piuttosto

fare dei fatti alla maniera di Anteo:(37) non lasci andare chi ti si avvicina prima di averlo costretto a spogliarsi e a fare

la lotta con te nei ragionamenti.

SOCRATE: Hai tratteggiato molto bene, Teodoro, la mia malattia; ma io sono un lottatore molto più tenace di

questi. Me ne sono già venuti incontro parecchi degli Eracli e dei Tesei, assai abili a condurre le dispute e che mi hanno

ben percosso, ma io, con tutto ciò, non mi tiro indietro: un amore così potente mi ha afferrato per questa sorta di

ginnastica del discutere.(38) Tu, dunque, non sottrarti alla disputa: ne trarremo giovamento io e te.

TEODORO: Non mi tiro più indietro; vada come tu vuoi: occorre sopportare fino in fondo la sorte che tu intrecci

riguardo questi problemi ed essere anche sottoposti a confutazione. Io, però, non sarò in grado di esporre me stesso oltre

alle questioni che tu hai posto innanzi.

SOCRATE: Basta anche fino a queste; ma sta' in guardia a quel che segue, che facendo discorsi non ci riescano,

senza avvedercene, sotto forma puerile, e qualcuno di nuovo non ce lo abbia a rimproverare.

TEODORO: Starò attento per quanto è nelle mie possibilità.

SOCRATE: Per prima cosa, dunque, riesaminiamo il problema allo stesso punto di prima e consideriamo se

eravamo malcontenti, a ragione o a torto, biasimando il ragionamento che presupponeva che ciascuno è autosufficiente

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a se stesso rispetto alla conoscenza.

Ma Protagora non convenne con noi che quanto alla conoscenza del meglio e del peggio alcuni si distinguono di

gran lunga e questi proprio sono i sapienti. Non è così?

TEODORO: Sì.

SOCRATE: Se dunque egli, essendo presente, ce lo avesse concesso, e non avessimo invece dovuto ammetterlo noi,

prendendo la sua difesa, non ci sarebbe affatto bisogno di riprendere la questione per renderla consolidata. Ora, forse,

qualcuno potrebbe giudicarci senza diritto di fare questa ammissione in vece sua.

Per questo motivo è cosa migliore concordare in maniera più chiara su questo stesso problema. Infatti non è che

cambi poco se la cosa sta così o in maniera diversa.

TEODORO: è vero.

SOCRATE: Dunque non con il concorso di altri, ma del suo ragionamento, nel modo più breve, cerchiamo di

comprendere quello che è il suo assenso.

TEODORO: Come?

SOCRATE: Così: dice egli che quel che pare a ciascuno questo anche è per colui al quale pare?

TEODORO: Lo dice, sì.

SOCRATE: E dunque, Protagora, anche noi manifestiamo il pensiero di un uomo, o meglio di tutti gli uomini,

quando affermiamo che per certe questioni non c'è nessuno che non consideri se stesso più sapiente degli altri, per altre

questioni invece non stimi gli altri migliori di sé, e che in mezzo a grandissimi pericoli, come quando sono esposti a

guerre e malattie, ai marosi delle tempeste, come a degli dèi si tengono vicini a quelli che in ciascuna di queste

circostanze hanno il potere, perché sembrano loro dei salvatori, mentre non sono diversi in altro da loro, se non per il

sapere. E ogni condizione umana è piena di persone alla ricerca dei maestri e comandanti o per sé o per altri esseri

viventi, o per iniziative che intendono compiere, ma lo è di individui che ritengono di essere capaci di insegnare e di

esserlo altrettanto a comandare. E in questi atteggiamenti cosa diremo, se non che gli stessi uomini pensano che esista,

in loro, sapienza e ignoranza?

TEODORO: Niente altro.

SOCRATE: Gli uomini dunque non considerano la sapienza vero pensiero e l'ignoranza opinione falsa?

TEODORO: Ebbene?

SOCRATE: Dunque, Protagora, che ne faremo del tuo ragionamento? Diciamo dunque che gli uomini nutrono

talvolta opinioni vere e talvolta opinioni false? Da ambedue le ipotesi ne viene che non sempre gli uomini nutrono

opinioni vere, ma vere e false.

Considera infatti tu stesso, Teodoro, se qualcuno dei seguaci di Protagora, o tu stesso, volessi affermare con forza

che nessuno considera un altro ignorante e nutre pure false opinioni?

TEODORO: Ma è incredibile, Socrate.

SOCRATE: Ma giunge a tal punto di necessità chi sostiene che l'uomo è misura di tutte le cose.

TEODORO: E come?

SOCRATE: Ma quando tu dai un giudizio di per te stesso su una cosa, e poi manifesti a me su quella stessa cosa il

tuo parere, questo per te, secondo il ragionamento di Protagora, sarà vero, ma per noi e tutti gli altri non è forse

possibile divenire giudici, o dobbiamo sempre giudicare che tu hai opinioni vere? Oppure sono una infinità gli uomini

che ogni volta si contrastano pensandola all'opposto, ritenendo che tu giudichi e pensi il falso TEODORO: Ma, per

Zeus, Socrate, sono «migliaia di migliaia» gli uomini, come dice Omero,(39) che mi cagionano ogni sorta di difficoltà.

SOCRATE: E dunque, vuoi che diciamo che allora tu per te stesso, hai opinioni vere, ma false per tutte queste

migliaia di uomini?

TEODORO: Pare sia necessario a seguito di questo ragionamento.

SOCRATE: E cosa ne è per Protagora in persona? Se neppure Protagora avesse mai creduto che l'uomo è misura di

tutte le cose, né la maggioranza degli uomini, come del resto non la pensano neppure, non sarebbe forse necessario che

quella verità che egli delineò non esistesse per nessuno? Se invece egli la credette realmente, ma la maggioranza degli

uomini non la crede, sai bene che quanto più numerosi sono quelli a cui pare rispetto a quelli cui non pare, tanto più che

essa non è rispetto a quelìa che è.

TEODORO: è giocoforza se essa sarà a seconda di ciascuna opinione o non sarà.

SOCRATE: C'è poi questo secondo punto che è ancor più simpatico: egli, Protagora, rispetto alla sua opinione

siccome ammette come vere anche tutte quelle che pensano gli uomini, riconosce che sia vera l'opinione di quelli che la

pensano in modo opposto al suo e per il quale pensano che egli abbia affermato il falso.

TEODORO: Proprio così.

SOCRATE: E non concederà dunque che sia falsa la propria opinione, dal momento che riconosce come vera quella

di coloro che pensano che egli abbia sostenuto il falso?

TEODORO: Necessariamente.

SOCRATE: Ma questi altri non ammettono certo con se stessi di nutrire false opinioni.

TEODORO: Certamente no.

SOCRATE: Egli invece Protagora dal canto suo riconosce che sia vera anche questa opinione in conseguenza di ciò

che ha scritto.

TEODORO: Pare.

SOCRATE: Cominciando da tutti questi, dunque, fin dallo stesso Protagora, ci sarà un dilemma: ancora più quando

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egli ammette, che chi va predicando il contrario di lui, questo può nutrire una opinione vera, allora lo stesso Protagora

dovrà concedere che né un cane, né il primo uomo che capita, sia misura neppure di una sola cosa che non abbia

imparato. Non è così?

TEODORO: è così.

SOCRATE: Dunque, siccome ci si trova a dubitare da parte di tutti, per nessuno la verità di Protagora può essere

vera, né per alcun altro, né per lui stesso.

TEODORO: Socrate, noi incalziamo anche troppo l'amico mio.

SOCRATE: Forse, mio caro, ma non è chiaro se lo incalziamo correttamente.

è probabile però, che lui, dato che è più vecchio, sia anche più saggio di noi. E se di qui, all'improvviso, balzasse

fuori fino al collo, è molto probabile che molte cose avrebbe da dire contro di me che vado disseminando frottole e

contro di te che le accetti, poi, calandosi giù di nuovo, (40) se ne andrebbe via a gambe levate. Ma per noi, è necessario,

io penso, servirci di noi stessi, così come siamo e ribattere il nostro modo di pensare, sempre alla stessa maniera. E,

anche ora, cos'altro possiamo dire che chiunque riconosce questo, cioè che uno è più sapiente di un altro, e un altro più

ignorante?

TEODORO: A me pare così.

SOCRATE: E possiamo affermare anche che il ragionamento poggia soprattutto su questo punto che noi

abbozzammo, correndo in aiuto a Protagora, che la maggior parte delle cose, le calde, le aride, le dolci e tutte le altre di

questa sorta, quali sembrano, tali sono anche per ciascuno. Ma se poi si conviene che in certe cose vi è una certa qual

differenza tra l'una e l'altra, come quello che è salutare e nocivo al nostro corpo, Protagora dovrà pur concedere che non

ogni donnetta, o ragazzotto, o animale sono in grado di curare se stessi, conoscendo bene ciò che è giovevole alla loro

salute, ma proprio in queste faccende, se pure in altre mai, c'è differenza tra l'uno e l'altro.

TEODORO: A me pare così.

SOCRATE: Parimenti nella sfera politica il bello e il brutto, il giusto e l'ingiusto, il santo e il non santo, sono quali

ogni città, pensando che siano, pone nelle proprie leggi a suo beneficio; ed in queste nessuno è più sapiente di un altro,

né privato cittadino di cittadino, né città di città. Ma nel porre una città provvedimenti di legge utili o non utili, in questo

caso Protagora, se in altri mai, concederà ancora una volta che esiste diversità tra consigliere e consigliere, tra una città

e l'altra nella loro valutazione del vero e non avrà certo il coraggio di sostenere che quei provvedimenti che una città

vara, ritenendoli utili a sé, questi lo dovranno essere a tutti i costi. Ma a proposito di quello di cui parlavo, del giusto e

dell'ingiusto, del santo e del non santo, chi segue Protagora si ostina ad affermare che non c'è in natura nessuna di

queste cose che abbia una sua essenza, ma che la valutazione che si dà in comune diventa essa appunto vera, proprio

allora mentre pare valida e per tutto il tempo in cui lo pare.

E quanti non abbiano in maniera assoluta il ragionamento di Protagora, orientano la propria sapienza un presso a

poco così.

Ma da un ragionamento, Teodoro, ci sopravviene un altro ragionamento e, da uno più piccolo, un altro più grande.

TEODORO: Non abbiamo forse tempo libero, o Socrate?

SOCRATE: Pare di sì. E spesso in verità, amico mio, anche in altre occasioni, ma ora in special modo, ho avuto

modo di osservare che quanti dedicano molto tempo all'indagine filosofica, quando entrano nei tribunali, fanno la figura

di oratori ridicoli.

TEODORO: Coma mai dici questo?

SOCRATE: Quelli che si aggirano nei tribunali e in luoghi simili fino da giovani a confronto di coloro che sono stati

nutriti nello studio della filosofia e in tali attività, danno l'impressione di essere stati tirati su con un trattamento da

schiavi nel confronto di uomini liberi.

TEODORO: Per quale ragione?

SOCRATE: Per questa: in quanto quelli che tu dicevi poco fa, trovano sempre tempo libero a disposizione, e con

molto agio si fanno i loro discorsi in pace: come noi, ora, cambiamo discorso da discorso per la terza volta, così anche

per quelli, quando di punto in bianco sopraggiunge loro chi li attrae di più, come noi ora, di quello che si sono proposti?

E nulla importa loro di indugiare e discutere per le lunghe e per le brevi, alla sola condizione che riescano a toccare il

vero. Gli altri invece parlano con preoccupazione - li incalza l'acqua che scorre giù dalla clessidra (4l) - e non possono

neppure fare i discorsi nel modo desiderato, perché su loro incombe il contendente che arreca necessità e l'accusa letta a

voce alta, al di fuori dei quali non si deve argomentare: ed è quello che chiamano giuramento reciproco.

E i loro discorsi riguardano sempre un compagno di schiavitù contro un padrone che se ne sta lì, seduto, e ha una

causa in mano, e sono come gare di corsa che non si svolgono mai da una parte e dall'altra, ma sempre per quella di uno

stesso fine: e spesso la corsa riguarda anche la stessa vita. Tanto che, per tutte queste ragioni, sono sempre sotto

pressione e diventano scaltri, sapendo lusingare il padrone con le parole e ingraziarselo con i fatti, meschini e non retti

nell'anima. La capacità a progredire, la rettitudine, il sentimento della libertà, lo porta via loro la condizione di servitù

fin dalla prima giovinezza, costringendoli ad azioni tortuose, scaraventandoli in grandi pericoli e paure con le anime

ancora delicate, che essi non possono sopportare con giustizia e verità, volgendosi subito alla menzogna e a farsi

ingiustizia gli uni con gli altri, molte volte si piegano e si spezzano, tanto che, non avendo nulla di sano nel pensiero,

finiscono per diventare uomini da ragazzetti, abili e sapienti come essi si ritengono. E questi sono tali, Teodoro. Vuoi

che passiamo in rassegna quelli del nostro coro o che lasciamo andare volgendoci di nuovo al nostro ragionamento, per

non avvalerci troppo, come dicemmo anche poco fa, di quella libertà e di quella possibilità di cambiare i discorsi?

TEODORO: Per nulla, Socrate. Passiamo in rassegna anche questi. Tu hai detto molto bene, che noi, in questo coro,

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(42) non siamo schiavi dei discorsi, ma sono i discorsi a essere come servi nostri e ciascuno di essi attende di essere

concluso quando paia a noi.

Del resto non c'è giudice o spettatore a sovrintendere presso di noi, come presso i poeti, a muovere critiche e a darci

ordini.

SOCRATE: Parliamo dunque, come è naturale, poiché a te così piace, dei corifei: per qual motivo infatti uno

dovrebbe parlare di quelli che con ogni leggerezza si occupano della filosofia. Quelli invece che sono veramente filosofi

anzitutto fino da giovani non conoscono la strada per la piazza, né dove si trova il tribunale, la sede del consiglio, né di

alcun altro consesso della città. Non studiano nè ascoltano leggi o provvedimenti divulgati oralmente o scritti.

Intrallazzi di associazioni per le cariche pubbliche, riunioni, pranzi e feste con le auletridi non avviene loro di fare

neppure in sogno. Se uno in città ha origini nobili o meno, se uno ha qualche ombra come nascita da parte dei

progenitori, sia del padre come della madre, sono cose che a lui, filosofo, sfuggono di più di quelli che siano i bicchieri

d'acqua che, si dice, si trovano nel mare. E non sa nemmeno di non saperle tutte queste cose. E non si tiene neppure

lontano da esse per ottenere buona fama: soltanto il suo corpo abita nella città e qui ha la sua residenza, ma la sua

anima, considerando tutte queste cose meschine e da nulla e considerandole con disprezzo, si lascia portare, secondo il

detto di Pindaro,(43) ovunque, fino «nelle profondità della terra» e ne misura le superfici: ora invece «in alto nel cielo»,

a scoprire le leggi del firmamento, e indaga per intero tutta la natura degli esseri, ciascuno nella sua interezza, senza mai

ripiegare se stessa su alcuna delle cose vicine.

TEODORO: Come mai dici questo, Socrate?

SOCRATE: Come anche di Talete si racconta, o Teodoro, che mentre mirava gli astri e guardava in su, cadde nel

pozzo: e una servetta di Tracia, piuttosto in gamba e carina, prendendolo in giro gli disse che lui desiderava conoscere i

fenomeni celesti, ma si lasciava sfuggire quelli che aveva davanti a sé e sotto ai suoi piedi.

Questo motteggio è ben appropriato a tutti coloro che si occupano di filosofia. In realtà a chi è tale non solo sfugge

chi è presso di lui, e cosa fa il vicino, ma quasi è incerto se è un uomo o qualche altra creatura. Ma cosa mai è l'uomo e

cosa a una tal natura conviene fare o subire, a differenza degli altri esseri, egli ricerca e di tale attività si occupa. Mi

segui, ora, Teodoro, o no?

TEODORO: Io sì e tu dici bene.

SOCRATE: Dunque, amico mio, quando un simile individuo, in privato o in pubblico, come dicevamo all'inizio, si

imbatte in qualcuno, e quando in tribunale o altrove è costretto a parlare di quello che ha tra i piedi o sotto gli occhi,

offre materia di riso non solo alle donne di Tracia e a tutta la restante moltitudine, ma cade nel pozzo e in ogni sorta di

difficoltà per inesperienza, perché la sua balordaggine è inusitata e offre l'immagine di ogni inettitudine. Infatti nelle

ingiurie, poiché non conosce nessuna macchia di nessuno, per il fatto che non se n'è mai occupato, non ha alcuna

capacità di ingiuriare direttamente nessuno, e trovandosi così incerto, diviene ridicolo. Ma durante le lodi ed esaltazioni

attribuite ad altri, non per simulazione, ma facendosi vedere ridere schiettamente, sembra essere un motteggiatore. E

quando viene elogiato un tiranno o un re come un pastore, egli ritiene di udire che costui venga lodato perché come

allevatore di porci, o di pecore o di mucche, munge molto latte: egli pensa però che essi mungano e pascolino un

animale più difficile a trattarsi e più pericoloso di quelli e che è necessario che questo tale diventi rozzo e incolto per

tutti i suoi traffici non meno dei pastori, proteggendosi tutto intorno da un muro, come da un recinto i pastori in

montagna. E quando sente dire che uno è proprietario di una quantità immensa di terra, perché ne possiede diecimila

peltri (44) e anche di più, crede di sentir parlare di una inezia, abituato com'è a considerare tutta la terra. E quando

compongono inni sulle stirpi sostenendo che uno è nobile perché può mostrare sette antenati ricchi, egli ritiene che

questo elogio è proprio di coloro che vedono poco e ottusamente, e che per la loro ignoranza non sono in grado di

abbracciare con lo sguardo il tutto, né di considerare che ciascuno di avi e di progenitori ne ha un numero sterminato,

nel quale si trovano i ricchi e i poveri, i re e gli schiavi, i Greci e i barbari, e ciascuno può averne ripetutamente un

infinità. Ma per quelli che si esaltano per un catalogo di venticinque antenati e che riportano la loro ascendenza a Eracle

figlio di Anfitrione (45) tutto questo a lui appare alquanto strano e di grande piccineria, e se la ride di costoro che non

riescono a comprendere che il venticinquesimo rampollo da Anfitrione in su e quello dei cinquanta di quelli venuti da

lui furono tali e quali la sorte li combinò, e così non sono neanche in grado di allontanare la vuota alterigia della loro

anima dissennata. In tutte queste situazioni dunque un uomo come questo viene deriso dai più, sia perché, come sembra,

ha un atteggiamento insolente, sia perché ignora quel che ha tra i piedi e perde la bussola in ogni circostanza.

TEODORO: Tu dici proprio quel che avviene, o Socrate.

SOCRATE: Ma quando lo stesso ha la capacità di elevare in alto qualcuno, e questo qualcuno vuole, per tenergli

dietro, portarsi lontano da problemi come «in che cosa io ho fatto ingiustizia a te e tu a me?», per volgersi invece alla

considerazione della giustizia in sé e dell'ingiustizia, che cosa è peculiare dell'una e dell'altra, e in che cosa differiscono

da tutte le cose e fra di loro, o si tiene lontano da problemi quale «se il re è felice» e se lo è «chi ha accumulato molto

oro», per volgersi a considerare la condizione regale e più in generale la felicità e l'infelicità umana, quali mai sono

l'una e l'altra, e in che modo giova alla natura dell'uomo avere parte dell'una e tenersi lontano dall'altra, quando su tutte

queste questioni debba a sua volta dar conto quello che abbiamo definito piccolo d'animo, scaltro e cavilloso, a sua

volta rende al filosofo il controcanto. Perché, appeso dall'alto e in preda alle vertigini, e guardando così sospeso dall'alto

in giù, per mancanza di abitudine è spaventato e si trova in difficoltà e incespica nel parlare e offre materia di riso non

alle Tracie, nè a un altro qualunque ignorante, che non si rendon neppure conto, ma a tutti coloro che sono cresciuti in

condizione diversa da quella degli schiavi. Questo, Teodoro, è il tenore di vita dell'uno e dell'altro, l'uno, quello che

chiami filosofo, per essere in realtà stato tirato su nella libertà e nell'ozio può dare l'apparenza di essere senza vergogna,

Platone Teeteto

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un po' sciocco e da nulla quando cada in mansioni da servi e non sappia prepararsi un sacco da viaggio, né condire il

cibo, né combinare carezzevoli discorsi. L'altro invece è capace di effettuare tutte queste mansioni con speditezza e

puntualità, ma non sa avvolgersi all'indietro il mantello sulla destra, né riuscendo a comprendere l'armonia delle parole,

cantare degnamente con inni la vita degli dèi e degli uomini felici.

TEODORO: Se tu riuscissi a convincere tutti gli altri come me con le cose che dici, tra gli uomini vi sarebbe una

pace più sicura e mali molto minori.

SOCRATE: Ma non è possibile che il male sparisca definitivamente, o Teodoro. è inevitabile che vi sia sempre un

qualcosa di contrario al bene. Né questo può dimorare tra gli dèi, ma di necessità va errando per questi luoghi e intorno

la natura umana. Per questo occorre anche procurare di fuggire al più presto di qui per giungere là. E questa fuga è una

sorta di somiglianza alla divinità per quanto è possibile. E questa somiglianza è un divenire giustizia e santità insieme

ad assennatezza.(46) Ma non è certo facile, amico mio, convincere gli altri che non è per i motivi che sostengono i più

che occorre fuggire la malvagità e cercare di raggiungere la virtù, e in virtù di questi attendere a una data attività e a

un'altra no, per avere il credito di essere persone dabbene e non malvage. Queste sono, a mio parere, quelle che si

dicono storielle da vecchie: diciamo invece la verità in questo modo: la divinità in nessun modo assolutamente può

essere ingiusta, ma è sempre giustissima fino al limite più alto, e non v'è cosa alcuna che a lei sia più simile di colui che,

tra di noi, sia diventato giustissimo, fin dove è possibile. è insita in questo l'autentica capacità dell'uomo, oppure la sua

nullità e disumanità. La conoscenza di tutto questo è sapienza e vera virtù, la non conoscenza, invece, è ignoranza e

malvagità palesi. E quelle altre che passano per capacità e doti di sapienza negli affari della politica divengono volgari,

e quelle nelle arti banali. A chi fa ingiustizia e dice e compie empietà, la cosa migliore di gran lunga è di non attribuire

il nome di capace per la sua malvagità. Si rallegrano infatti essi di questo insulto e pensano di avere il nome di non

essere persone da nulla, «inutile peso della terra»,(47) ma uomini quali devono essere quelli che intendono vivere sereni

nella città.

Occorre invece dire la verità, che tanto più essi son quali non pensano di essere e di quanto non lo credano. Non

conoscono infatti la pena dell'ingiustizia, cosa che, meno di ogni altra, si dovrebbe ignorare. Non è quella che essi

pensano, percosse e morte, di cui talvolta nulla hanno a soffrire, pur compiendo ingiustizia: è invece una pena a cui non

è possibile sfuggire.

TEODORO: Quale dici?

SOCRATE: Nell'essere si trovano due modelli, l'uno divino, felicissimo, l'altro senza dio, infelicissimo; ma essi non

si accorgono che la cosa sta così e, per la loro estrema stoltezza e dissennatezza, non si avvedono che per le loro azioni

ingiuste si rendono simili al secondo modello e dissimili dal primo: cosa della quale scontano la pena vivendo una vita

somigliante a quel modello cui si rendono simili: e se noi diciamo loro che se non si staccano da quelle loro capacità,

anche da morti quel luogo che è puro dei mali non li accoglierà, ma avranno per sempre qui sulla terra un regime di vita

a loro somiglianza, stando insieme malvagi con malvagi, e ascolteranno queste parole, capaci e in gamba come si

ritengonQ come da parte di alcuni dissennati.

TEODORO: è proprio così, Socrate.

SOCRATE: Lo so, amico mio. Eppure una cosa capita anche a loro: quando in privato debbono dare conto delle

cose che biasimano e accettare il punto di vista degli altri e vogliono persistere con coraggio e non ritirarsi dalla

discussione con viltà, allora stranamente, caro mio, finiscono per non compiacersi più nemmeno essi stessi per quello

che dicono, e quella loro retorica, in un modo o in un altro, si stempera, tanto che in nulla sembrano differire dai

fanciulli. Ma stacchiamoci pure da queste considerazioni, anche perché quanto è stato detto si trova a essere accessorio -

se no, parecchi argomenti, scorrendo continuamente gli uni sugli altri, si rovesceranno sopra al ragionamento che

abbiamo fatto fin dall'inizio -; passiamo ancora dunque alle questioni di prima, se sei d'accordo anche tu.

TEODORO: Per me, Socrate, anche queste ultime considerazioni non sono sgradevoli da udirsi: e sono anche più

facili da seguirsi, per uno della mia età. Ma, se a te piace, torniamo pure alle questioni di prima.

SOCRATE: Dunque, noi eravamo, mi pare, a questo passaggio della nostra discussione, nel quale dicevamo che

coloro che sostengono che l'essere è sempre in movimento, e che quello che sempre pare a ciascuno, questo appunto

anche è per colui a cui pare; e dicevamo che anche per altri casi essi vogliono affermare con forza questa posizione non

meno anche riguardo al giusto, poiché i provvedimenti che una città pone a se stessa, in quanto a lei sembrano giusti,

questi lo sono anche, giusti, per la città che se li è dati, fino a che restano validi. Ma rispetto al bene, invece non v'è

nessuno così coraggioso che osi sostenere che quei provvedimenti che una città si dà ritenendoli utili, siano

effettivamente utili per tutto il tempo che restano in vigore, a meno che uno non voglia dire solo il nome e non l'oggetto:

e questo sarebbe certamente una beffa rispetto a quello che noi diciamo. Non è così?

TEODORO: Certamente.

SOCRATE: Si lasci come non detto il nome; ma si prenda in esame l'oggetto che è richiamato nel nome.

TEODORO: D'accordo.

SOCRATE: Ora quale che sia l'oggetto che la città denomina, a questo obiettivo certamente essa mira quando

stabilisce le leggi: l'utilità.

E tutte le leggi per quanto essa è in grado di pensare e di potere, se le dà utili al massimo delle possibilità. O forse

mira a qualche altro obiettivo quando stabilisce le leggi?

TEODORO: No, assolutamente.

SOCRATE: E dunque, ogni città si trova sempre a raggiungerlo questo obiettivo, o lo sbaglia anche molte volte?

TEODORO: Io penso che lo sbagli anche.

Platone Teeteto

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SOCRATE: Ognuno dunque potrebbe ammettere queste stesse cose da un'altra direzione, se qualcuno ponesse la

domanda su ogni aspetto nel quale si trova a essere anche l'utile. Esso, in qualche modo, si connette anche con il tempo

futuro, perché quando stabiliamo le leggi, le componiamo perché siano utili per il tempo che segue: e questo

correttamente lo chiamiamo il futuro.

TEODORO: Certo.

SOCRATE: Suvvia dunque: interroghiamo in questo modo Protagora o qualcun altro di quelli che seguono la sua

teoria: «Di tutte le cose misura è l'uomo», come dite voi, o Protagora, delle bianche, delle pesanti, delle leggere, di tutte

quante le cose di questo genere, nessuna esclusa. Infatti avendo in se stesso l'uomo il criterio di giudizio su di esse,

pensando che siano quali egli le prova, ritiene che per sé siano anche vere ed esistenti. Non è così?

TEODORO: Sì, così.

SOCRATE: Ma diremo anche delle cose future, o Protagora, che l'uomo ha in sé il criterio di giudizio e quali egli

pensa che saranno, tali saranno anche per chi le ha pensate? Ad esempio il caldo: quando uno, senza qualifica, ritiene

che lo coglierà la febbre e chi si troverà in questo calore, e un altro, che è medico, pensi all'opposto, come potremo dire

che volgerà la cosa, o secondo il parere di uno, o secondo quello di ambedue, e per il medico questo tale non avrà né

caldo né febbre, ma secondo lui stesso li avrà ambedue?

TEODORO: Sarebbe proprio ridicolo.

SOCRATE: Ma, credo io, circa il sapore che il vino dovrà assumere, se dolce o secco, prevalente sarà il parere del

coltivatore e non del suonatore di cetra.

TEODORO: Come no?

SOCRATE: Né, d'altra parte su un componimento, se dovrà risultare intonato o stonato il maestro di ginnastica potrà

giudicare meglio di quello di musica, cosa che poi anche al maestro di ginnastica potrà sembrare intonato o meno.

TEODORO: Senza meno.

SOCRATE: E dunque anche di chi sta per essere invitato a pranzo e non è abile nell'arte di cucinare, mentre le

pietanze vengono preparate, il giudizio sul gusto che ne potrà venire conterà di meno di quello del cuoco. Giacché con il

nostro ragionamento noi non dobbiamo più discutere del gusto che è in atto, o lo è stato, ma di quello che lo sarà per

ciascuno o lo attenderà per sapere se ciascuno è di per se stesso il migliore giudice, che dite, o Protagora, così anche per

quel che riguarda i discorsi da pronunciare in tribunale quale potrà riuscire persuasivo a ciascuno di noi, certamente

potresti valutarlo molto meglio che uno qualunque di coloro che non hanno esperienza.

TEODORO: Ma certamente, Socrate, giacché proprio in questo egli assicurava di distinguersi assolutamente da tutti

gli altri.

SOCRATE: E sì, per Zeus, amico mio. Diversamente nessuno avrebbe disputato con lui dandogli tanto denaro, se

non avesse convinto quelli del suo gruppo, che non esisteva indovino né nessun altro che sapesse giudicare meglio di lui

quel che poteva essere o sembrare il futuro.

TEODORO: Verissimo.

SOCRATE: Ebbene anche il dare leggi, è anche ciò che risulta utile per il futuro, e chiunque riconoscerebbe che una

città mentre stabilisce le proprie leggi spesso, ineluttabilmente, non riesce a raggiungere quello che potrebbe esserle

molto utile.

TEODORO: Certamente.

SOCRATE: Con ogni opportunità dunque si potrà dire da parte nostra al tuo maestro, che è necessario che egli

ammetta che uno è più sapiente di un altro, e questo tale è misura, mentre per me, che sono ignorante, non esiste

necessità alcuna che io sia misura, come poco fa mi costringeva a riconoscere, lo volessi o no, il discorso in suo favore.

TEODORO: In questo modo particolarmente, o Socrate, mi pare che sia stato colto il ragionamento di Protagora,

ragionamento che veniva colto anche in quest'altro modo, quando egli considerava capitali anche le massime altrui,

mentre esse mostravano palesemente di non ritenere affatto veritieri i suoi ragionamenti.

SOCRATE: E in parecchie altre maniere, Teodoro, tale sistema speculativo può essere costretto a consentire che non

ogni opinione di ognuno è vera. Riguardo la presente impressione che ciascuno ha, da cui derivano le sensazioni e le

opinioni relative a queste, è assai più difficile convincere che non sono vere. Ma forse io non dico nulla. Può anche

darsi che siano incontrovertibili, e quanti vanno affermando che esse sono ben chiare e che sono conoscenze,

probabilmente dicono ciò che è: e il nostro Teeteto non parlava fuori segno ponendo che sensazione e conoscenza sono

la stessa cosa. Bisogna farsi ancora più vicino, come imponeva il discorso in difesa di Protagora e che esaminiamo

questa essenza che si lascia muovere, battendola, come si percuote un vaso, se risuona sano o fallace. Intorno a essa ci

fu contesa non lieve e non fra pochi.

TEODORO: Tutt'altro che di poco conto: al contrario ora si espande ovunque per la Ionia. Infatti i seguaci di

Eraclito sono tra i primi a sostenere questa dottrina con grandissimo impegno.(48) SOCRATE: Ancor più dunque, caro

Teodoro, ci conviene esaminarla, e dall'inizio, come essi stessi tendono a fare.

TEODORO: Nella maniera più assoluta. Infatti, Socrate, discutere di queste teorie eraclitee, oppure, come tu dici,

omeriche e ancora più antiche, oppure con gli stessi pensatori della scuola di Efeso, con quanti vanno professando di

esserne esperti, non è meno duro che sostenere una discussione con quelli che sono punti dall'assillo. Essi, veramente, in

conformità dei loro scritti (49) si trovano sempre in movimento, e trattenersi su un ragionamento e una domanda, e

rispondere con tranquillità e fare domanda a loro volta, per loro non è possibile men che meno. E ancor più il men che

meno eccede la misura rispetto al fatto che in questi uomini non si trova insita neppure una piccola infinitesimale parte

di quiete. Ma se tu domandi un qualcosa a qualcuno di loro, estraendo come da una faretra dei piccoli detti, infarciti di

Platone Teeteto

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enigmi, te li scaglia contro e se tu cerchi di afferrare cosa ha voluto dire il suo discorso, ti colpisce con un secondo

rivolgimento di termini, e tu non verrai a capo di nulla mai con nessuno di costoro. E neppure essi stessi fra di loro, ma

si guardano bene di non lasciare che nei loro ragionamenti e nelle loro anime ci sia un qualcosa di saldo, ritenendo, a

mio parere, che quella stessa cosa che è sicura sia anche stabile. Contro questa stabilità essi conducono una lotta senza

quartiere e la scacciano da ogni dove per quanto ad essi è possibile.

SOCRATE: Probabilmente, Teodoro, tu hai visto questi uomini mentre erano in polemica, mentre non ti sei mai

trovato con loro quando erano in pace: infatti non sono compagni del tuo credo.

Ma io penso che tali cose essi dicono a quegli scolari che vogliono rendere simili a loro stessi.

TEODORO: Quali scolari, benedett'uomo? Non ve n'è tra di loro: uno scolaro dell'altro, ma si generano di loro

spontanea volontà, dove capita ciascuno di essi come preso dal proprio entusiasmo, e l'uno pensa che l'altro non sappia

nulla. Da questi dunque, come andavo dicendoti, non potrai ottenere ragione di nulla, né di loro volontà, né contro il

loro volere. Occorre dunque che noi stessi cerchiamo di comprendere il loro modo di pensare e di esaminarlo come un

problema.

SOCRATE: Tu parli proprio a proposito. Ma il problema cos'altro è rispetto a quello che abbiamo appreso dagli

antichi che si nascondevano, almeno i più, sotto il velo della poesia, che la genesi di tutte le altre cose, Oceano e Teti

appunto che sono due corsi d'acqua perpetui e nulla sta fermo? Mentre dai più recenti, che sono anche più sapienti, che

rivelarono manifestamente lo stesso pensiero, perché lo udissero anche i ciabattini, e la smettessero di pensare da

insensati che, delle cose che esistono, alcune stanno ferme, mentre altre si muovono, ma imparando che tutto si muove,

riservassero ogni considerazione a quei pensatori?

Ma per poco non dimenticavo, Teodoro, che altri diedero dimostrazioni contrarie a quelli di costoro, secondo cui:

immobile è divenuto quello, che nome ha di tutto (50) e quante altre cose i Melissi e i Parmenidi (51) affermarono in

modo contrastante con questo che una sola cosa è il tutto e sta immobile non avendo in se stesso uno spazio nel quale

muoversi.

Di tutti questi filosofi in che modo possiamo avvalerci, o amico?

A poco a poco, andando avanti, non ci siamo accorti di essere caduti in mezzo agli uni e agli altri e se non

sgattaioliamo da qualche parte, a titolo di difesa, ne sconteremo la pena, come quelli che giocando nelle palestre

attraverso la linea, quando vengono presi sono trascinati a forza dagli uni e dagli altri in senso contrario.(52) A mio

parere, dunque, dobbiamo esaminare prima tra questi e quelli, quelli che abbiamo già preso di mira, quelli che «sempre

scorrono».(53) E se risulteranno dire qualcosa, passeremo dalla loro parte, tentando di sfuggire agli altri. Se ci sembrerà

che esprimano posizioni più veritiere i sostenitori della stabilità dell'universo, allora ci rifugeremo presso di essi, da

coloro che fanno muovere quello che è del tutto immobile. Se invece apparirà evidente che non parlano a proposito né

gli uni né gli altri, saremo ben ridicoli noi, ritenendo di poter dire qualcosa, pur essendo gente da poco, dopo avere

respinto, come inattendibili, uomini tanto antichi e tanto sapienti. Considera dunque, Teodoro, se torni utile muovere a

un tanto grande pericolo.

TEODORO: Ma non possiamo soprassedere, o Socrate, dal non esaminare quel che sostengono gli uni e gli altri di

questi uomini.

SOCRATE: Facciamo dunque l'indagine, dal momento che anche tu sei ben disposto. A me pare dunque che il vero

inizio di questa ricerca sul movimento consista nel comprendere cosa mai vogliano dire quando sostengono che il tutto

si muove. Intendo dire quel che segue: vogliono essi dire che c'è un solo genere di movimento, o, come a me pare, due?

E perché non sembri soltanto a me, prendivi parte anche tu, perché se si deve affrontare qualche imprevisto, l'abbiamo a

subire insieme.(54) Dimmi dunque: dici che una cosa si muove quando si sposta da luogo a luogo, o quando va intorno

nello stesso luogo?

TEODORO: Sì.

SOCRATE: E questo dunque è un primo genere di movimento. Ma se poi una cosa sta ferma nello stesso luogo,

invecchia, o da bianca diventa nera, o dura, da molle che era, o si trasforma in qualche altro cambiamento, non è forse

un altro motivo per dire che questo è un secondo genere di movimento?

TEODORO: A me pare di sì.

SOCRATE: è necessario invece.(55) Io affermo dunque che ci sono due generi di movimento, il trasformarsi, il

lasciarsi portare.

TEODORO: Tu dici giusto.

SOCRATE: Fatta questa distinzione, mettiamoci a ragionare, ormai, con quanti affermano che il tutto si muove e

domandiamo: «Sostenete dunque che tutto si muove in un senso o in un altro, cioè lasciandosi portare o trasformandosi,

oppure dite che una cosa si muove nell'uno e nell'altro di questi due modi, un'altra invece in un modo solo?».

TEODORO: Ma, per Zeus, o Socrate, io non so che dire: ma penso che essi dicano che si muovono in ambedue i

modi.

SOCRATE: Bene, amico mio. Se dicessero il contrario, sarebbe evidente che per essi le cose si muovono e stanno

anche ferme nello stesso tempo: e non sarebbe per nulla più giusto affermare che il tutto si muove o che sta fermo.

TEODORO: è del tutto vero.

SOCRATE: Dunque siccome è necessario che esse si muovano e non è possibile per nessuna non muoversi, tutte

dunque si muovono in ogni movimento già indicato.

TEODORO: è necessario.

SOCRATE: Fa attenzione ora a questo punto del loro pensiero: del calore, della bianchezza o di qualunque altra

Platone Teeteto

22

cosa noi dicevamo che essi sostenevano che l'origine avviene un presso a poco così: ciascuna di queste cose si muove a

un tempo con la sensazione, tra il fattore che agisce e quello che subisce, e con il fatto che subisce si fa sensibile, ma

non diventa sensazione e quello che agisce si fa quale, ma non qualità. Probabilmente il termine «qualità» ti appare

fuori dell'ordinario e non lo afferri se viene detto così tra le altre parole. Ascoltalo dunque a parte a parte.

Il fattore agente dunque non diviene né calore, né bianchezza, ma caldo e bianco e così fa anche tutto il resto. Tu

ricordi senza dubbio che anche nei ragionamenti di prima dicevamo così, che non esiste nessuna cosa in sé e per sé e

neppure il fattore che agisce né quello che subisce, ma dall'uno e all'altro di questi che si mescolano insieme,

producendo le sensazioni e le cose sensibili, ne derivano da una parte certe qualità, dall'altra invece le cose in grado di

sentire.

TEODORO: Me ne ricordo: come no?

SOCRATE: Lasciamo perdere gli altri aspetti del loro pensiero, tanto se li dicono in un modo quanto in un altro.

Teniamo bene di mira solo questo problema per il quale stiamo parlando e domandiamo: «Il tutto, come voi dite, si

muove o scorre, o no?».

TEODORO: Sì.

SOCRATE: Si muove secondo i due movimenti che abbiamo distinto, cioè muovendosi e trasformandosi?

TEODORO: Come no, se ha pur da muoversi in modo completo?

SOCRATE: E dunque se si muovesse soltanto ma senza trasformarsi potremmo dire in qualche modo quali sono

queste cose che scorrono e insieme si muovono? O come possiamo dire?

TEODORO: Così.

SOCRATE: Ma poiché nemmeno questo sta fermo, cioè che quel che scorre scorra bianco, ma si trasforma, tanto

che anche di questo stesso c'è uno scorrere, proprio della bianchezza, e un cambiamento in un altro colore, per non

essere colta mentre è ferma in questo colore: dunque quale mai altro vocabolo potremmo assegnare al calore e parlare

poi in modo appropriato?

TEODORO: E quale strumento, Socrate, è dato per stabilire la definizione di colore o di qualche altra simile qualità,

se sfugge continuamente mentre ne parli, poiché essa scorre in continuità?

SOCRATE: E cosa diremo di una qualunque sensazione, quale quella dell'ascoltare e dell'udire. Si fermerà mai nello

stesso attimo, insieme all'ascoltare e all'udire?

TEODORO: Non deve neppure, se tutto si muove.

SOCRATE: Non si deve dire dunque di vedere un qualcosa o di non vederlo, né di averne alcuna altra sensazione o

di non averla, dal momento che tutte le cose si muovono in tutti i modi.(56) TEODORO: Certamente no.

SOCRATE: Tuttavia sensazione è conoscenza, come dicevamo io e Teeteto.

TEODORO: Era così.

SOCRATE: Se ci chiedono dunque che cos'è conoscenza, abbiamo risposto che conoscenza non è nulla di più che

non conoscenza.

TEODORO: Sembra pure.

SOCRATE: Davvero una bella correzione è venuta alla nostra risposta, mentre così volentieri ci siamo dati da fare a

dimostrare che tutto si muove, perché quella nostra risposta apparisse giusta!

Questo invece, come sembra, risulta chiaro, se tutto si muove, ogni risposta, quale che sia la cosa cui uno risponde, è

ugualmente giusta, o se si afferma che la cosa sta così o che non sta così; e se non vuoi «sta», «diventa», se con questa

parola non faremo stare fermi proprio quelli del movimento.

TEODORO: Dici bene.

SOCRATE: Eccetto il fatto, o Teodoro, che dissi «così» e «non così».

Invece non bisogna dire neppure questo «così»; e neppure «non così»: neppure «questo» è movimento. Ma devono

pure porre un altro mezzo espressivo coloro che sostengono questo ragionamento, perché ora non hanno parole che

possano corrispondere al loro assunto, a meno che non dicano: «neppure così». E per loro si armonizzerebbe bene

soprattutto così, detto nella sua approssimazione.

TEODORO: Questa per essi sarebbe la maniera più naturale di esprimersi.

SOCRATE: Ci siamo dunque allontanati, Teodoro, dal tuo amico e non siamo d'accordo neppure con lui che l'uomo

è misura di tutte le cose, se non è uno dotato di senno. E non consentiremo nemmeno che sensazione è conoscenza,

secondo il metodo che tutto si muove, a meno che il nostro Teeteto non voglia dire qualcosa di diverso.

TEODORO: Hai detto bene, Socrate, giacché, portati a termine questi discorsi, anch'io devo esser sollevato, secondo

i fatti, dal rispondere, dato che ha avuto fine la disputa sul pensiero di Protagora.

TEETETO: Certo: ma non prima, o Teodoro, che tu e Socrate abbiate esposto il pensiero anche di quelli che

sostengono che il tutto è immobile come avete proposto poco fa.

TEODORO: Giovane come sei, Teeteto, intendi insegnare ai più vecchi a compiere ingiustizia andando oltre agli

accordi. Tu, piuttosto, cerca di essere pronto a rendere ragione a Socrate di quel che resta da dire.

TEETETO: Se anche lui lo desidera: ma avrei udito molto volentieri gli argomenti di cui parlo io.

TEODORO: Tu sproni cavalieri al piano esortando Socrate a discutere: chiedi dunque e udrai.

SOCRATE: Ma io penso, Teodoro, su quello che mi chiede Teeteto, di non dargli ascolto.

TEODORO: E perché non gli darai ascolto?

SOCRATE: Rispetto a Melisso (57) e agli altri, i quali sostengono che il tutto è uno e immobile, pure avendo

scrupolo di condurre l'esame in maniera sbrigativa, ne ho sempre di meno rispetto a Parmenide che è uno solo.

Platone Teeteto

23

Parmenide mi sembra, secondo il detto di Omero, degno di venerazione e terribile a un tempo. (58) Mi incontrai infatti

con lui che era piuttosto avanti negli anni e io ero molto giovane. E mi diede l'impressione di possedere una profondità

speculativa assolutamente nobile. Ho timore perciò che non riusciamo a penetrare i suoi detti, e ancor più che lasciamo

perdere cosa effettivamente disse nelle sue speculazioni, e, cosa che conta più di tutte le altre, il motivo per cui ha preso

l'avvio la nostra discussione, intorno alla conoscenza, che cosa mai essa è, non divenga materia non esaminata, per

colpa dei discorsi che si introducono con petulanza intorno a noi, se qualcuno dà loro ascolto. D'altra parte anche il

problema che ora noi andiamo sollevando è immenso quanto a grandezza, e se qualcuno lo considera alla leggera,

subisce un'indegnità, se invece lo si affronta a sufficienza, andando per le lunghe farebbe sparire la questione della

conoscenza. Occorre dunque non fare né l'una né l'altra cosa, ma bisogna che io con la mia arte di ostetrico tenti di

sgravare Teeteto dalle questioni per le quali è ancora pregno intorno al problema della conoscenza.(59) TEODORO:

Bisogna dunque fare così, se tu lo credi.

SOCRATE: Su quel che si è detto, Teeteto, prendi ancora in esame questo punto: tu dicesti che sensazione è

conoscenza, vero?

TEETETO: Sì.

SOCRATE: Bene. Se uno ora ti chiedesse: «Con quale organo l'uomo vede il bianco e il nero e con quale ascolta i

suoni acuti e quelli gravi?», risponderesti, penso, « Con gli occhi e con gli orecchi».

TEETETO: Io sì.

SOCRATE: L'agevolezza dell'uso dei nomi e dei detti, il non investigarvi con sofisticazione per lo più non è cosa

ignobile, anzi il contrario di questo è indice di grettezza, ma quando è necessario, come anche ora, occorre riesaminare

la risposta che tu hai dato, nella misura in cui non è corretta. Rifletti: quale delle due risposte è più corretta, dire che la

cosa «con cui» vediamo sono gli occhi, o «mediante cui» vediamo, e così la cosa «con la quale» udiamo sono gli

orecchi, o «attraverso la quale» noi udiamo?

TEETETO: Mi pare, Socrate, sia meglio «mediante quale» proviamo ciascuna di queste sensazioni, piuttosto che

«con la quale».

SOCRATE: Difatti sarebbe cosa straordinaria, ragazzo mio, se alquante determinate sensazioni si trovassero dentro

di noi, come dentro a cavalli di legno, e tutte quante non tendessero poi insieme a una unica idea, sia l'anima o quale la

si debba chiamare, «con la quale» «mediante questi sensi», quali organi, noi proviamo la sensazione di quanto è

sensibile.

TEODORO: Mi pare meglio così piuttosto che in quell'altro modo.

SOCRATE: è proprio per questo che io faccio ora queste sofisticazioni, per capire se per un qualcosa di noi stessi,

sempre identica a se stessa, mediante gli occhi noi raggiungiamo il bianco e il nero, e mediante gli altri organi, certe

altre cose: e tu, se fossi interrogato, tutte queste impressioni potresti riferirle al corpo? Ma, senza dubbio, è cosa

migliore che tu dica queste cose, rispondendo alle domande, piuttosto che mi affanni io a rispondere per te. Dimmi

dunque: gli organi attraverso i quali tu hai la sensazione del caldo, del duro, del leggero, del dolce, non le poni ciascuno

come organi del corpo (60) o di qualcosa d'altro?

TEETETO: Di nessun'altra cosa.

SOCRATE: Naturalmente vorrai anche ammettere che, le cose che tu senti mediante una potenzialità, è impossibile

che le senta mediante un'altra potenzialità: ad esempio quel che senti attraverso l'udito non puoi sentirlo attraverso la

vista, e quel che senti attraverso la vista, non puoi sentirlo attraverso l'udito.

TEETETO: E come potrei non volerlo?

SOCRATE: Se dunque tu hai in mente qualcosa di due oggetti, non potrai quest'idea pensarla attraverso l'uno e

l'altro dei due organi e neppure attraverso l'uno e l'altro dei due organi potresti avere una sensazione intorno ai due

oggetti stessi.(61) TEETETO: Certamente no.

SOCRATE: Riguardo alla voce e al colore, considerati l'uno e l'altro a un tempo, senza dubbio, per prima cosa tu

pensi che l'uno e l'altro sono.

TEETETO: Io sì.

SOCRATE: Naturalmente tu pensi anche che ognuno dei due è altro rispetto all'altro, mentre è identico a se stesso.

TEETETO: Certamente.

SOCRATE: E consideri anche che l'uno e l'altro fanno due, mentre ciascuno, seppure fra due, è sempre uno.

TEETETO: Anche questo, sì.

SOCRATE: E dunque tu sei in grado di sottoporli al vaglio, tanto se sono dissimili quanto se sono simili tra loro.

TEETETO: Forse sì.

SOCRATE: Tutte queste cose comunque, riguardo questi due oggetti, attraverso quale organo le pensi? Giacché né

attraverso l'udito, né attraverso la vista è possibile ottenere il possesso di quello che è comune tra essi. E c'è anche

questo argomento a conferma di quel che andiamo dicendo: se fosse possibile esaminare insieme questi due oggetti, se

sono salati o meno, tu sai che avresti modo di ben rispondermi con quale potenzialità sottoporresti a esame la cosa: e

questa non pare proprio che sia la vista, né l'udito, ma qualche altra facoltà.

TEETETO: E cos'altro potrebbe essere se non quella potenzialità che agisce attraverso la lingua?

SOCRATE: Dici bene. Ma attraverso che cosa agisce la potenzialità che ti rende chiaro quel che è in comune a tutte

le cose e quel che è comune a queste in special modo, quella attraverso cui affermi questo «è» e questo «non è» e tutte

le cose che su di esse ora chiediamo? Quali organi attribuirai a tutte queste condizioni attraverso cui la parte sensitiva di

noi le avverta a una a una?

Platone Teeteto

24

TEETETO: Tu dici dunque l'essere e il non essere, la somiglianza e la dissimiglianza, ciò che è identico a se stesso e

ciò che è altro, e ancora l'unità e l'altra numerazione su di esse. è evidente che tu domandi anche l'eguale e il dispari e

tutte le altre particolarità che fanno seguito a queste, e attraverso quale organo del corpo noi riusciamo a percepirle, con

l'anima.

SOCRATE: Tu mi segui egregiamente, Teeteto. Ed è proprio questo che ti domandavo.

TEETETO: Ma, per Zeus, Socrate, non avrei nulla da dire se non che a me non sembra affatto che esista nessun

organo tale per queste cose, come per quelle, ma mi pare che l'anima stessa di per se stessa riesca a osservare quello che

è in comune a tutte le cose.

SOCRATE: Sei Droprio bello, Teeteto, e non, come diceva Teodoro, brutto, perché chi parla bene è anche bello e

buono. E oltre a essere bello, mi hai fatto anche del bene, facendomi distaccare da un ragionamento molto lungo, se per

te è chiaro che l'anima stessa esamina di per sé alcune cose e altre invece attraverso le potenzialità del corpo. Era questo

che a me sembrava vero e volevo che lo sembrasse anche a te.

TEETETO: Certo, pare così anche a me.

SOCRATE: E l'essere, ove lo poni, fra queste due classi? Perché questa è la cosa che, in particolar modo, fa seguito

a tutte le altre.

TEETETO: Io la pongo nella classe di quelle cose verso la quali l'anima stessa aspira da sé.(62) SOCRATE: E

anche il simile e il dissimile, e ciò che è identico a sé e ciò che è altro?

TEETETO: Sì.

SOCRATE: Ebbene? E il bello e il brutto e il buono e il cattivo?

TEETETO: Anche di queste a me pare che l'anima cerchi l'essere in particolar modo nei rapporti delle une con le

altre, paragonando in se stessa quel che è stato, il presente e quel che sarà.

SOCRATE: Rifletti un po': in cos'altro avvertirà l'anima la durezza di ciò che è duro se non attraverso il tatto e

parimenti la mollezza di ciò che è molle?

TEETETO: Sì.

SOCRATE: Ma l'essere e che cosa sono esse due (63) e la contrarietà dell'una rispetto all'altra, e l'assenza di questa

contrarietà, l'anima stessa tornando sopra di esse e paragonandole fra di loro, tenta di giudicarlo per noi.

TEETETO: Certamente.

SOCRATE: Dunque è possibile che uomini e bestie appena nati per natura provino alcune sensazioni, quante sono le

impressioni che attraverso il corpo tendono fino all'anima. Ma le comparazioni intorno a esse, circa la loro essenza e la

loro utilità, è cosa che avviene a stento, col tempo e attraverso molte prove e continua applicazione e accade soltanto a

quelli cui accade.

TEETETO: è assolutamente così.

SOCRATE: E sarà dato cogliere verità, in chi non ha conoscenza? (64) TEETETO: è impossibile.

SOCRATE: E potrà mai uno essere Sapiente di ciò di cui non riesce a raggiungere il vero?

TEETETO: E come, Socrate?

SOCRATE: Dunque in queste impressioni non c'è conoscenza, ma nei ragionamenti su di esse: da questa parte è

possibile, come pare, toccare l'essenza e la verità, da quell'altra è impossibile.

TEETETO: Pare così.

SOCRATE: E dunque chiami tu allo stesso modo questo e quello che pure hanno tali differenze?

TEETETO: Non è giusto.

SOCRATE: E a quello che nome darai dunque, al vedere, all'udire, all'odorare, al provare freddo, al provare caldo?

TEETETO: Provare sensazione. E quale altro?

SOCRATE: Tutto questo, dunque, tu lo chiami sensazione.

TEETETO: Necessariamente.

SOCRATE: Dicemmo che questo è il metodo cui non spetta toccare la verità e nemmeno l'essenza.(65) TEETETO:

No assolutamente.

SOCRATE: E neppure conoscenza.

TEETETO: No, certo.

SOCRATE: Mai dunque, Teeteto, sensazione e conoscenza potrebbero essere la stessa cosa.

TEETETO: Non pare, Socrate. E soprattutto ora è apparso assai chiaro che conoscenza è cosa ben altra rispetto a

sensazione.

SOCRATE: Ma non abbiamo cominciato a discutere per sapere cosa mai non è conoscenza, ma che cosa è. Tuttavia

fino a tal punto ci siamo fatti avanti, tanto da non cercarla assolutamente nella sensazione, ma in quell'altra fase

nominale, quale mai sia, che l'anima possiede, quando si dà da fare di per se stessa intorno a ciò che è.

TEETETO: Ma questo, o Socrate, si chiama, come io penso, opinare.

SOCRATE: E la pensi bene, caro. E ora osserva di nuovo dal principio, cancellando tutte le proposizioni di prima,

dal momento che ti sei fatto molto avanti, se sei in grado di vedere qualcosa di più. E dimmi ancora cosa mai è

conoscenza.

TEETETO: Rispondere qualunque opinione, o Socrate, è impossibile, perché ci sono anche opinioni false: è più che

probabile che sia opinione vera: e questa è la risposta che io ti do. Se poi, mentre andiamo avanti nel ragionamento, non

ci parrà adeguata, come lo è ora, tenteremo di dire qualche altra cosa.

SOCRATE: Bene, Teeteto, occorre parlare così piuttosto prontamente, che non come prima quando eri incerto a

Platone Teeteto

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rispondere. Infatti se facciamo in questo modo, delle due l'una: o scopriremo quello per cui ci siamo messi in cammino,

o non riterremo più di sapere quel che non sappiamo affatto. E questo non può essere un compenso da sottovalutare.

Ora poi, che cosa dici? Poiché esistono due opinioni, l'una vera e l'altra falsa, fissi come conoscenza l'opinione vera?

TEETETO: Io sì. Infatti questo ora mi appare tale.

SOCRATE: E non varrebbe la pena di ricominciare il ragionamento su l'opinione su una questione?

TEETETO: Quale dici?

SOCRATE: Mi preoccupa anche ora e altre volte e Spesso, tanto che sono stato in grave dubbio e con me e con altri,

non avendo modo di dire che cosa è mai questa nostra impressione e in che modo deriva.

TEETETO: Ma quale?

SOCRATE: Che uno nutra false opinioni. Ci rifletto anche ora pur essendo incerto se lasciare andare la cosa oppure

riconsiderarla in un modo diverso rispetto a quello di poco fa.

TEETETO: Perché no, Socrate, se ad ogni modo ti sembra che si debba fare? Non la pensare male: poco fa tu e

Teodoro a proposito del tempo libero, sostenendo che nulla spinge ad avere fretta in dispute di tale fatta.

SOCRATE: Me l'hai ricordato a proposito. E pure non è fuori luogo ricalcare ancora le nostre orme. è meglio tirare

le somme su poca materia, ma bene, che su molta, ma male.

TEETETO: Ebbene?

SOCRATE: Dunque, di cosa stiamo parlando? Sosteniamo che spesso ci sono opinioni false e che uno di noi

esprime opinioni false, come se le cose stessero così per natura.

TEETETO: Lo diciamo infatti.

SOCRATE: Questo, dunque, non avviene a noi per tutte le cose in genere e per ciascuna in particolare che noi

conosciamo o non conosciamo? Infatti l'apprendere e il dimenticare che si trovano in mezzo a questi, per ora, io dico di

lasciarli da parte. Non vi è alcun nesso con la disputa che noi sosteniamo ora.

TEETETO: Certamente, Socrate, null'altro resta su ciascun oggetto che conoscerlo o non conoscerlo.

SOCRATE: Ed è pure impossibile che chi conosce una data cosa, poi la stessa cosa non abbia a conoscerla, e chi

non la conosce abbia poi a conoscerla.

TEETETO: Come no?

SOCRATE Forse, dunque, chi opina il falso, le cose che conosce, può essere che egli ritenga che non siano queste,

ma altre cose, quali che siano, fra quelle che conosce e siccome conosce l'una e l'altra viene a ignorarle ambedue?

TEETETO: Ma è impossibile, Socrate.

SOCRATE: Dunque, ma le cose che conosce, egli può stimare che siano altre, quali che siano, fra quelle che non sa;

e questo avviene a chi non conosce né Teeteto, né Socrate, di farsi venire in mente che Socrate è Teeteto e Teeteto

Socrate.

TEETETO: E come può essere?

SOCRATE: E neppure le cose che non sa, può pensare che siano proprio quelle che non sa; e, al contrario, ciò che

non sa, sia proprio quello che sa.

TEETETO: Sarebbe una cosa mostruosa.

SOCRATE: E come dunque si potrebbe ancora opinare il falso? Al di fuori di questi casi infatti è impossibile

opinare, perché tutte le cose o le conosciamo o non le conosciamo: entro esse dunque, non appare possibile opinare il

falso. (66) TEETETO: Considerazioni verissime.

SOCRATE: Quel che cerchiamo, dunque, bisogna indagarlo, non procedendo in questo modo, cioè secondo il

conoscere e il non conoscere, ma secondo l'essere e il non essere.

TEETETO: Come dici?

SOCRATE: Bada che non sia più semplice dire che chi opina su una cosa qualunque ciò che non è, non è possibile

che egli non opini il falso,(67) anche se la condizione della sua intelligenza sta ben in diversa maniera.

TEETETO: Può darsi, o Socrate.

SOCRATE: E come dunque? Cosa risponderemo, Teeteto, se qualcuno ci domandasse:«è possibile a chiunque,

quello che si dice ora, che un uomo opini quel che non è sia riguardo a qualcuna delle cose che sono, sia riguardo a una

cosa di per se stessa?». E noi, probabilmente, risponderemo: quando colui che pensa non pensa al vero. O come

potremo rispondere?

TEETETO: Così.

SOCRATE: Forse in altre circostanze la risposta può essere questa?

TEETETO: Ma quale?

SOCRATE: Se uno vede un qualcosa, ma non vede nulla.

TEETETO: E come?

SOCRATE: Ma se uno vede anche una sola cosa, vede un qualcosa di quelle che sono. O pensi tu che questa sola

cosa possa mai essere tra quelle che non sono?

TEETETO: Io no.

SOCRATE: Dunque chi vede una sola cosa, vede un qualcosa che è.

TEETETO: è evidente.

SOCRATE: E anche chi ascolta un qualcosa, ascolta una cosa sola e una cosa che è.

TEETETO: Sì.

SOCRATE: E anche chi tocca un qualcosa, tocca una cosa che è una ed è, se pure è una.

Platone Teeteto

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TEETETO: Anche questo.

SOCRATE: E chi opina una cosa non opina una cosa che è?

TEETETO: Lo ammetto.

SOCRATE: E chi opina una cosa che non è, non opina nulla.

TEETETO: No, non pare.

SOCRATE: Ma veramente chi nulla opina, non opina affatto.

TEETETO: è chiaro, come pare.

SOCRATE: Non è dunque possibile opinare su ciò che non è, né su cose che sono, né la stessa cosa di per se stessa.

TEETETO: No pare proprio.

SOCRATE: Opinare il falso è qualcosa d'altro, rispetto a opinare ciò che non è?

TEETETO: Qualcosa d'altro, pare.

SOCRATE: Dunque, né in questo modo, né come conducevamo l'indagine poco fa, è in noi falsa opinione.

TEETETO: No, non c'è proprio.

SOCRATE: Ma sorge dunque, in questo, quel che denominiamo falsa opinione?

TEETETO: E come?

SOCRATE: Diciamo che è falsa opinione una sorta di parere su un'altra cosa, come quando uno sostiene che una

cosa di quelle che sono è un'altra cosa ancora tra quelle che sono, scambiandole nel pensiero. Infatti, in tal maniera,

opina sempre una cosa che è, una al posto di un'altra, e sbagliando l'oggetto di quel che ricercava, si potrebbe dire

giustamente che opina il falso.

TEETETO: Mi pare che ora tu parli nella maniera più esatta possibile: quando uno infatti opina il brutto invece del

bello, e il bello invece del brutto, allora si può dire veramente che opina il falso.

SOCRATE: è chiaro, Teeteto, che mi tieni in un conto relativo, e non hai paura. (68) TEETETO: Per qual ragione in

particolare?

SOCRATE: Io non ti sembro, credo, uno da attaccarmi a questo «veramente falso» chiedendoti se è possibile che

una cosa veloce abbia origine lentamente, o una leggera pesantemente, o qualunque altro contrario non secondo la sua

natura, ma secondo quella del suo contrario, contrariamente a se stessa.(69) Ma lascio perdere questo perché tu non

abbia a scoraggiarti invano. Ti appaga, come dici, che opinare il falso è come opinare altra cosa?

TEETETO: Sì.

SOCRATE: Dunque secondo la tua opinione è possibile porsi in mente una cosa come un'altra e non come quella

che è.

TEETETO: è possibile certo.

SOCRATE: E dunque quando il pensiero compie questa operazione, non è necessario anche che pensi ad ambedue

le cose o a una delle due?

TEETETO: è necessario, sì; o insieme o in parte.

SOCRATE: Molto bene. Ma chiami tu pensare quello che dico io?

TEETETO: Cosa dici tu?

SOCRATE: è un ragionamento che l'anima compie con se stessa intorno a ciò che prende in esame. Io cerco di

renderti chiara la cosa come uno che non sa. Infatti questo a me appare l'anima quando pensa e nessun'altra cosa se non

dialogare con se stessa, interrogandosi e rispondendosi, facendo affermazioni e anche il loro contrario. E quando essa

fissa un concetto sia alquanto lentamente, sia alquanto velocemente, come facendo un salto e ormai afferma una cosa e

non è più in dubbio, noi stabiliamo che questa è la sua opinione. Tanto che io dico che l'opinare è un discutere e

l'opinione è un ragionamento, non verso un altro e con la voce, ma in silenzio a se stesso. E tu che ne pensi?

TEETETO: Anch'io in questo modo.

SOCRATE: Dunque quando uno opina una cosa invece di un'altra, come pare, afferma a se stesso che una cosa è

invece di un'altra.

TEETETO: Ebbene?

SOCRATE: Cerca di ricordare se mai hai detto a te stesso che più di ogni altra cosa il bello è brutto o l'ingiusto è

giusto, o anche, la cosa più importante di tutte, considera se hai tentato mai di convincere te stesso che più di ogni altra

cosa la tal cosa è un'altra, o, tutto al contrario, neppure durante un sogno hai osato mai affermare con te stesso che

assolutamente il dispari è pari o qualche altra cosa simile.

TEETETO: Tu dici il vero: mai.

SOCRATE: E pensi tu che qualcun altro, sano o pazzo che sia, osi dire seriamente a se stesso, per poi

convincersene, che necessariamente il bene è un cavallo, o il due uno?

TEETETO: Per Zeus! Io certamente no.

SOCRATE: Dunque se il parlare con se stessi è opinare, nessuno che parli e opini di due cose, abbracciandole con

anima tutte e due, potrebbe dire e opinare che l'una cosa è l'altra. E occorre da parte tua lasciare andare questo detto

circa l'altro. Infatti io sostengo la cosa in questo modo: nessuno opina che il brutto è bello, né alcuna altra di simili cose.

TEETETO: Sì, Socrate; lo lascio andare e pare anche a me come dici.

SOCRATE: Dunque chi opina due cose a un tempo non è possibile che opini che l'una cosa sia l'altra.

TEETETO: Pare così.

SOCRATE: Certamente chi opina una sola cosa tra due, e l'altra assolutamente no, mai opinerà che l'una cosa sia

l'altra.

Platone Teeteto

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TEETETO: Dici il vero: infatti sarebbe costretto a comprendere con la mente anche l'altra cosa che non opina.

SOCRATE: Dunque né a chi opina due cose a un tempo, né a chi opina una sola di esse, è dato opinare altra cosa.

Sicché se uno stabilisce che falsa opinione è opinare una cosa al posto di un'altra, non dice proprio nulla. Dunque né per

questa via, né per le precedenti, può apparire che in noi c'è falsa opinione.

TEETETO: Non pare proprio.

SOCRATE: Ma certamente, Teeteto, se non apparirà chiaro che questo è, saremo costretti ad ammettere molte cose

e anche strane.

TEETETO: E quali?

SOCRATE: Non te lo dirò prima di aver provato in ogni modo a fare indagine in ogni senso. Mi vergognerei infatti

per noi due, se fossimo costretti, nel momento in cui ci troviamo in difficoltà, ad ammettere le cose che dico. Ma se

troviamo la soluzione e saremo liberi, potremo parlare degli altri che provano la stessa condizione, essendo noi fuori dal

ridicolo. Se poi ci troveremo del tutto in difficoltà, allora, umiliati, ci affideremo a questo ragionamento, perché, come

marinai in preda al mal di mare, ci calpesti e faccia di noi l'uso che vuole. Tu, dunque, ascolta, in che modo io possa

trovare una strada per venire fuori da tale questione.

TEETETO: Parla dunque.

SOCRATE: Dirò che non abbiamo ammesso con correttezza, quando riconoscemmo che era impossibile che uno

che opini che sia la cosa che sa proprio quella che non sa e opini in modo falso: ma in qualche modo è possibile.

TEETETO: Dici forse ciò che allora anch'io sospettai, quando sostenevamo che questo tanto è possibile, cioè che

talvolta, dato che conosco Socrate, e scorgendo da lontano un altro che non conosco, io pensi che questo sia Socrate che

pure conosco? In una tale situazione infatti avviene quello che tu dici.

SOCRATE: Ma non ci siamo allontanati da questo concetto perché faceva in modo che noi, pur conoscendolo, non

conoscessimo quel che conosciamo?

TEETETO: Certamente.

SOCRATE: Infatti vediamo di non porre il problema in questo modo, ma in quest'altro: può essere che converga con

noi in qualche modo, ma probabilmente farà resistenza. Ma noi ci troviamo in una tale situazione che occorre metterlo

alla prova, rivoltando il ragionamento da ogni parte. Osserva dunque se dico qualcosa: è possibile che uno che in un

primo tempo non conosce una cosa, in seguito venga a impararla?

TEETETO: è possibile; certamente.

SOCRATE: E poi che ne impari un'altra e quindi un'altra ancora?

TEETETO: E perché no?

SOCRATE: Immagina dunque, a titolo di conversazione, che nelle nostre anime ci sia materiale di cera da

imprimere in una forma più grande e in una più piccola, e la prima di cera più pura, la seconda più lurida, e più dura, e

alcune di cera più morbida e altre invece di impasto mediano.

TEETETO: Lo immagino.

SOCRATE: Diciamo ora che questo, la cera, è un dono di Mnemosine,(70) madre delle Muse. E su questa cera tutto

ciò che vogliamo ricordare delle cose che abbiamo visto, udito, o direttamente pensato, sottoponendola alle nostre

sensazioni e ai nostri pensieri, noi imprimiamo dei modelli, come vengono impressi i segni dei sigilli. E quello che

viene stampato noi lo ricordiamo e conosciamo finché resta la sua immagine. Quello invece che viene cancellato,

oppure non è adatto a essere impressionato, lo dimentichiamo e non lo conosciamo.(71) TEETETO: Sia pure in questo

modo.

SOCRATE: Dunque colui che conosce queste cose, e poi riflette su una cosa tra quelle che vede o ascolta, rifletti tu

se può mai opinare il falso in questo modo.

TEETETO: E in quale?

SOCRATE: Perché è convinto che quello che sa sia quello che talora sa, talora no. è proprio questo il problema sul

quale nei discorsi precedenti non ci siamo messi d'accordo bene, ammettendo che è impossibile.

TEETETO: E ora come la pensi?

SOCRATE: Facendo distinzione fin dall'inizio, si deve dire così intorno a questi argomenti: che quello che uno

conosce perché ne conserva il ricordo nell'anima, ma tuttavia non prova, credo che questa sia un'altra delle cose che sa e

della quale ha ancora il suggello, che tuttavia non sente, è impossibile. E che una cosa che uno sa e pensi che sia cosa

che non sa e non ne ha il suggello, è impossibile che creda sia un'altra cosa che non conosce. E quello che uno sa è

impossibile che creda sia quello che non sa. E ancora ciò che uno prova è impossibile che creda sia quello che non

prova. E quello che uno non prova è impossibile che creda sia quello che non prova. E ancora quello che uno sa e prova

e del quale ha ancora il segno secondo la sensazione avuta, creda sia un'altra delle cose che sa e prova e della quale ha

ancora il suggello secondo la sensazione avuta, è cosa ancora più impossibile di quelle precedenti, se pure è dato

esprimerci così. E ciò che uno sa e prova e di cui non ha direttamente il ricordo, pensi che sia un'altra cosa che sa, è

impossibile. E quel che uno prova, creda sia un'altra cosa che sa e prova e ne ha il ricordo allo stesso modo: e quello che

uno non sa e non prova, sia quello che non sa, e d'altra parte quello che non sa e non prova sia quello che non prova.

Tutti questi casi (72) stanno al di sopra di tutti gli altri per la impossibilità di opinare il falso su di essi. In casi di questo

tipo poi, se mai è possibile altrove, resta che possa accadere quel che segue.

TEETETO: E in quali? Se pure riuscirò ad afferrare da essi qualcosa in più: ora infatti non riesco a seguirti.

SOCRATE: Quando nelle cose che uno sa, egli crede che siano altre che egli sa e prova; oppure in quelle che non sa

ma prova, pensi che siano altre cose che sa; oppure ancora in quelle che sa e prova pensa che siano altre cose fra quelle

Platone Teeteto

28

che sa e prova.

TEETETO: Ma ora io ci sono molto più lontano di prima.

SOCRATE: Ascolta dunque di nuovo, così. Io conosco Teodoro e in me stesso ricordo bene chi è; e conosco anche

Teeteto allo stesso modo. Talvolta li vedo, tal'altra no, talvolta io li tocco, tal'altra no; e ascolto e provo qualche altra

sensazione di voi, talvolta invece non ne ho nessuna, ma non di meno mi ricordo bene di voi, e ho in me stesso buona

conoscenza. Vero?

TEETETO: Certamente.

SOCRATE: Come prima cosa tra quelle che voglio renderti chiare afferra questa: è possibile talora non sentire

quello che si sa e talora sentirlo.

TEETETO: è vero.

SOCRATE: E anche ciò che non si sa, spesso è possibile non sentirlo, ma spesso anche sentirlo soltanto.

TEETETO: Si dà anche questo.

SOCRATE: Rifletti ora se gliela fai a seguirmi un po' di più. Socrate, se conosce Teodoro e Teeteto, ma non vede né

l'uno, nè l'altro, né ha di essi sensazione alcuna, mai potrebbe opinare entro se stesso che Teeteto è Teodoro. Dico

qualcosa o no?

TEETETO: Sì, la verità.

SOCRATE: Questo è il primo punto di quelli che dicevo prima.

TEETETO: Lo è, infatti.

SOCRATE: Il secondo dunque è questo che conoscendo uno di voi, ma non conoscendo l'altro, né avendo

sensazione né dell'uno, né dell'altro, giammai potrei pensare che quello che io conosco sia quello che non conosco.

TEETETO: è giusto.

SOCRATE: Il terzo punto è questo: non conoscendo io né l'uno, né l'altro dei due, né provandone sensazione, non

potrei certamente credere che quello che non conosco sia un altro tra quelli che non conosco. E gli altri punti di prima

(73) pensa pure di averli uditi ancora tutti quanti in fila, nei quali mai intorno a te e a Teodoro io potrò opinare il falso,

tanto conoscendovi quanto non conoscendovi ambedue, né conoscendo uno di voi, ma non conoscendo l'altro. E anche

intorno alle sensazioni avviene lo stesso, (74) se mai mi segui.

TEETETO: Ti seguo.

SOCRATE: Non resta dunque che l'opinare falso consista in questo dal momento che io conosco te e Teodoro e ne

conservo i segni in quella materia cerosa come di due sigilli, vi scorgo e non bene da lontano, desidero attribuire il

segno congeniale di ciascuno, mettendomi ad armonizzarle ciascuna nella propria orma perché avvenga il

riconoscimento ma mancando in questi obiettivi, e come quelli che sbagliano il piede nel calzarsi, facendo uno scambio,

metto indosso all'immagine di uno dei due il segno dell'altro, o anche quello che avviene della immagine negli specchi,

che quello che si trova a destra fluisce sempre verso la sinistra, mi accade di compiere lo stesso errore. Si verifica qui la

cosiddetta opinione di altra cosa e l'opinare falso. (75) TEETETO: La cosa sta in questi termini: tu tratteggi in modo

stupendo questa evenienza dell'opinione.

SOCRATE: E ancora quando io conosca l'uno e l'altro, e dell'uno, oltre al conoscerlo, abbia sensazione, dell'altro no,

ma la conoscenza del primo non l'ho secondo la sensazione, è quello che enunciavo nei ragionamenti di prima e tu

allora non mi intendevi.

TEETETO: No, davvero.

SOCRATE: Questo dicevo che non conoscendo un altro e avendone sensazione e avendo di lui conoscenza secondo

sensazione, non potrà credere mai che questo sia un altro che conosce e del quale ha sensazione ed ha anche conoscenza

di lui secondo sensazione.

Non era questo, infatti?

TEETETO: Sì.

SOCRATE: Restava il problema ora enunciato, in cui sosteniamo che c'è falsa opinione, quando uno conoscendo

due soggetti e vedendoli ambedue, e avendone qualche altra sensazione, non ha i segni di ambedue ciascuno secondo la

propria sensazione, e come un arciere di poco conto scaglia il dardo, scambiando il bersaglio e fallisce, cosa che può

essere denominata anche falsità.

TEETETO: E a buon diritto.

SOCRATE: E ancora, quando all'un segno è presente la sensazione ma all'altro no, se a quella presente si armonizza

quella assente, in questo caso il pensiero fallisce del tutto. In una sola parola, intorno a ciò che uno non sa e di cui non

ha mai avuto sensazione, non è possibile, come fare, né ingannarsi, né avere falsa opinione, se ora noi diciamo qualcosa

di sano. Intorno a ciò che sappiamo e di cui abbiamo sensazione, in questo appunto si volge e rotea all'intorno l'opinione

che si fa ora falsa ora vera, vera se a fronte e direttamente conduce i segni originali e le immagini, falsa, se di traverso e

in via tortuosa.

TEETETO: Dunque, non si dice bene, Socrate?

SOCRATE: Sentite anche queste cose, potrai dirlo di più: opinare il vero, infatti, è bello, opinare il falso è ignobile.

TEETETO: E come no?

SOCRATE: Dicono che di qui si originano queste cose: quando la cera che si trova nell'anima è profonda e molta e

levigata e ben impastata, le impressioni che si fanno avanti entro di noi, tramite le sensazioni, imprimendosi entro

questo cuore dell'anima, come ebbe a chiamarlo Omero, facendo allusione a questa somiglianza della cera con il cuore

(76) e allora i segni che ne derivano puri e avendo una sufficiente profondità, sono anche duraturi per parecchio tempo,

Platone Teeteto

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e così tali uomini sono anzitutto facili all'apprendimento e quindi a ricordare, e perciò non scambiano i segni delle

sensazioni e opinano il vero, e siccome i segni sono chiari e si trovano in un'ampia distesa, li attribuiscono alla svelta

ciascuno ai loro modelli impressi sulla cera, e questi uomini sono chiamati sapienti. Non pare anche a te?

TEETETO: Certo, in modo straordinario.

SOCRATE: Quando poi il cuore è peloso, come lo esaltò il poeta in Ogni aspetto sapiente, o è sporco e di cera non

pura, o troppo molle o troppo duro, quelli che lo hanno molle sono molto facili a imparare, ma lo sono anche a

dimenticare, quelli che lo hanno duro, il contrario. Quelli dunque che lo hanno peloso e ruvido, un qualcosa di pietra o

colmo di terra o sudiciume mescolato, questi hanno impressioni non chiare, e non chiare anche quelli che hanno il cuore

duro: infatti non vi è profondità.

E non chiare le hanno anche quelli dal cuore molle, perché, rimescolandosi insieme, presto divengono difficili da

riconoscersi.

Se poi, oltre a tutte queste cose, le impressioni vengono a cadere le une sulle altre, se uno ha piccola la propria

animuccia, per la strettezza del luogo diventano ancora meno chiare di quelle. E sono tutti costoro a diventare quelli che

opinano falso.

Infatti quando vedono, ascoltano, pensano qualcosa, sono lenti, non essendo in grado alla svelta di attribuire ogni

cosa al proprio segno, e mettendo fuori posto cosa con cosa, travisano per lo più quel che vedono, ascoltano e pensano e

vengono così chiamati coloro che hanno idee fallaci sulla realtà e pertanto ignoranti.

TEETETO: Sei l'uomo dal parlare più corretto, Socrate.

SOCRATE: Possiamo dire dunque che in noi ci sono opinioni false?

TEETETO: Ma certamente.

SOCRATE: E anche vere?

TEETETO: E anche vere.

SOCRATE: Riteniamo dunque che si sia sufficientemente concordato più di ogni cosa che tutti e due abbiamo la

stessa opinione?

TEETETO: In maniera straordinaria.

SOCRATE: Oh, che cosa orribile e proprio spiacevole rischia di essere un uomo troppo ciarliero!

TEETETO: Cosa? A che scopo dici questo?

SOCRATE: Non potendo soffrire la mia ottusità e la mia vera propensione a fare delle chiacchiere. Quale altro

nome infatti si potrebbe affibbiare a uno che trascina i discorsi in alto e in basso non potendo mai essere persuaso per la

sua tardezza e quando non riesce a liberarsi da ogni ragionamento?

TEETETO: Ma insomma, cos'è che tu non puoi soffrire?

SOCRATE: Non solo non posso soffrire, ma temo anche di non aver che rispondere, se qualcuno mi chiede: «O

Socrate, hai dunque trovato che opinione falsa non è, né nelle sensazioni fra loro, né nei pensieri, ma nel

congiungimento di sensazione con il pensiero?».

E penso che risponderò di sì, e che me ne farò anche bello, come se avessimo trovato un qualcosa di bello.

TEETETO: A me, Socrate, pare che non sia disdicevole quello che ora è stato dimostrato.

SOCRATE: «Dunque», chiederà, «affermi che l'uomo, che noi pensiamo soltanto ma non vediamo, non possiamo

mai ritenere che sia cavallo, che noi non vediamo, non tocchiamo, ma pensiamo soltanto e nessuna sensazione

proviamo di lui?». E penso che risponderò che tutto questo io l'affermo.

TEETETO: E giustamente.

SOCRATE: «E dunque», risponderà, «l'undici che uno non può fare altro che pensare, da questo tuo ragionamento,

potrebbe mai pensare che sia dodici, essendo anche questo una cosa che solo si pensa?». Orsù dunque, rispondi tu.

TEETETO: E io risponderò che uno, vedendo e toccando, potrebbe credere che sia dodici; ma, siccome lo ha solo

nel pensiero, non potrebbe mai, su questo, opinare così.

SOCRATE: E che? Ritieni tu che uno mai, il quale abbia stabilito di esaminare da se stesso e per se stesso il cinque

e il sette, non dico sette e cinque uomini, né altra cosa simile, ma il cinque e il sette per se stessi, quelle cose che noi

diciamo essere impressionate là, in quel materiale ceroso, e nelle quali opinare il falso non è possibile; dunque proprio

questi se qualche uomo mai li ha presi in considerazione in se stessi, discutendo fra sé e sé, chiedendosi quanto fanno e

che l'uno abbia risposto ritenendo che facciano undici, e un altro dodici, oppure tutti rispondono e stimano che facciano

dodici?

TEETETO: No, per Zeus: molti avranno risposto undici, perché se uno svolge il calcolo in un numero più grande,

sbaglia di più. Io penso infatti che tu parli di ogni numero in generale.

SOCRATE: E tu la pensi in modo giusto: considera un po': cos'altro accade se non credere che il dodici in sé,

impressionato nel materiale ceroso, sia undici?

TEETETO: Mi pare così.

SOCRATE: Dunque non si fa ritorno ancora alle dispute di prima?

infatti colui che prova questo ritiene che una cosa che egli sa, sia un'altra cosa che egli egualmente sa. E noi

sostenevamo che è impossibile e, proprio per questo, eravamo costretti ad ammettere che non c'era falsa (77) opinione;

in caso contrario lo stesso individuo sarebbe stato costretto a sapere e a non sapere a un tempo le stesse cose.

TEETETO: è verissimo.

SOCRATE: Bisogna dunque rendere chiaro che l'opinione falsa è tutt'altra cosa che scambio di pensiero rispetto alla

sensazione.

Platone Teeteto

30

Perché, se la cosa stesse in questi termini, mai potremmo sbagliare nei processi del puro pensiero. Mentre ora

dobbiamo concludere o che non c'è falsa opinione, o che è possibile che uno non sappia quello che sa. Di queste due

posizioni quale preferisci tu?

TEETETO: Mi metti innanzi una scelta ben difficile, o Socrate.

SOCRATE: E tuttavia il ragionamento non può lasciarle sussistere ambedue; ma siccome si deve osare in ogni

maniera, che te ne pare se tentiamo di passar sopra a ogni senso di vergogna?

TEETETO: Come?

SOCRATE: Decidendoci a dire cosa è mai il conoscere.

TEETETO: E cos'ha a che fare questo con la vergogna?

SOCRATE: Pare che tu non avverta che tutto il nostro ragionamento fin dal principio è stato una ricerca di

conoscenza, proprio per come chi non sa che cosa è conoscenza.

TEETETO: No, lo avverto invece.

SOCRATE: E non ti pare vergognoso che chi non sa cosa è conoscenza si metta a dimostrare che cosa è il

conoscere. Però, Teeteto, è un bel po' che siamo infetti di questo parlare non puro.

E sono parecchie le migliaia di volte che noi abbiamo detto «conosciamo», «non conosciamo», «sappiamo», «non

sappiamo», come fossimo in grado di comprendere qualcosa gli uni dagli altri, proprio nel momento in cui ignoriamo

ancora cos'è la conoscenza.

Se vuoi ammetterlo, anche ora, nel momento presente, ci siamo avvalsi di nuovo di locuzioni quali «ignorare» e

«comprendere», come concesso a noi di servircene dal momento che di conoscenza siamo del tutto carenti.

TEETETO: Ma come potrai discutere, o Socrate, se ti tieni lontano da queste espressioni?

5OCRATE: In nessun modo, dato che io sono quello che sono: ma se fossi un abile parlatore, un tal uomo se fosse

presente, direbbe che occorre tenersi lontano da questi vocaboli e ci biasimerebbe con forza per le locuzioni che vado

dicendo. Ma poiché siamo proprio da poco, vuoi che io mi arrischi a dire cos'è il conoscere? Mi pare che potrebbe

venirne un qualche beneficio.

TEETETO: Arrischiati dunque, per Zeus! E molta sarà la comprensione anche se tu non ti astieni da queste parole.

SOCRATE: Hai sentito tu quello che ora chiamano il conoscere?

TEETETO: Forse: però al presente io non me ne ricordo.

SOCRATE: Dicono che esso è il possesso della conoscenza.

TEETETO: è vero.

SOCRATE: Noi però, facendo un piccolo cambiamento, diciamo che esso è acquisto della conoscenza.

TEETETO: E in cosa dirai che questa definizione diverge da quella?

SOCRATE: Forse in nulla: ma ascolta e considera assieme a me quella differenza che sembra esserci.

TEETETO: Se pur ne sarò in grado.

SOCRATE: A me non pare che avere sia la stessa cosa che il possedere; ad esempio, se uno comprandosi un

mantello, ne è anche padrone ma non lo porta indosso, potremmo dire non già che l'ha, ma che lo possiede.

TEETETO: è giusto.

SOCRATE: Rifletti ora se ci si può esprimere così anche sulla conoscenza, cioè che uno la possegga ma non l'abbia;

come uno che allevi in casa propria degli uccelli selvaggi, colombi o altro, dopo aver preparato una gabbia. In un certo

modo potremmo dire che questi uccelli li ha sempre, dato che li possiede, vero?

TEETETO: Sì.

SOCRATE: Ma in un altro modo, non ne ha nessuno, ma siccome se li rese sottoposti, in un recinto entro la propria

casa, ha su di essi la possibilità di prenderli e di tenerli quando vuole, dando la caccia a quello che ogni volta desidera, e

di rimetterlo di nuovo in libertà. E ha la possibilità di farlo ogni volta che gli va a genio.

TEETETO: è così.

SOCRATE: Ora, come nei ragionamenti di prima abbiamo preparato non so quale forma di cera, ora invece in

ciascuna anima raffiguriamoci una sorta di gabbia piena di uccelli svariati, alcuni che volano a frotte, separatamente da

altri, alcuni in gruppetti poco numerosi, e alcuni, da soli, in mezzo a tutti questi ove capita.

TEETETO: Raffiguriamoci pure questa cosa: e poi?

SOCRATE: Mentre si è ancora fanciulli, occorre dire che questo recipiente è vuoto, e intendere conoscenza al posto

degli uccelli; e la conoscenza che uno si procaccia la chiude entro questo recinto, e allora occorre dire che costui ha

imparato o scoperto la cosa della quale questa era la conoscenza: e questo è il conoscere.

TEETETO: D'accordo.

SOCRATE: Ebbene andare a caccia di nuovo della conoscenza che uno vuole, tra le altre, e prenderla e trattenerla e

poi lasciarla andare di nuovo, pensa tu di quali nomi debba avvalersi, se gli stessi di prima, quando egli si procacciò la

conoscenza o se di altri. Da questo potrai comprendere più chiaramente che cosa io dico. Infatti, un'arte, la chiami tu

aritmetica?

TEETETO: Sì.

SOCRATE: Immagina che questa sia una specie di caccia di conoscenze di ogni numero pari e dispari.

TEETETO: Comprendo.

SOCRATE: Con quest'arte, io penso, egli si rende soggette le conoscenze dei numeri e può darle anche agli altri, chi

lo vuole.

TEETETO: Sì.

Platone Teeteto

31

SOCRATE: E diciamo pure che insegna chi le dà, che impara chi le raccoglie, ma chi le ha in quanto le possiede

entro quella gabbia diciamo che conosce.

TEETETO: Certamente.

SOCRATE: Presta attenzione ora a quel che deriva di qui: un compito aritmetico conosce tra l'altro tutti i numeri.

Nella sua anima infatti si trovano le conoscenze di tutti i numeri.

TEETETO: Ebbene?

SOCRATE: Un tale soggetto potrà mai calcolare tra sé e sé quello che ha in se stesso, O qualcos'altro di quelle di

fuori, quante abbiano la numerazione?

TEETETO: Come no?

SOCRATE: Noi porremo che computare niente altro sia dal considerare quanto un numero viene a essere.

TEETETO: Così.

SOCRATE: Chi riflette su questi calcoli dunque pare che non conosca quello che in realtà conosce: ed è quello che

noi avevamo convenuto che conoscesse tutta la numerazione. Tu riesci a capire certamente tutti questi problemi.

TEETETO: Io sì.

SOCRATE: Noi dunque raffigurandocelo dal possesso e dalla caccia delle colombe, diremo che questa caccia è

duplice, l'una di possedere per possedere, l'altra per chi ha già il possesso per prendere e avere nelle mani quello che

possedeva da un pezzo. E così, anche di quelle nozioni di cui uno aveva le conoscenze per averle imparate e dunque le

conosceva, è possibile che queste nozioni egli le impari di nuovo nprendendo e tenendola ferma la conoscenza di

ciascuna cosa che già da un pezzo possedeva, ma non aveva alla portata nel proprio pensiero.

TEETETO: Vero.

SOCRATE: Proprio questo io chiedevo poco fa, come occorre che si avvalga delle parole per parlare su questi

argomenti, quando l'aritmetico si appresta a fare calcoli o il grammatico a leggere qualche passo, se come sapendo si

muove nuovamente in tale campo per apprendere per conto proprio quello che già sapeva?

TEETETO: Ma è ben strano, o Socrate.

SOCRATE: Diremo dunque che lui leggerà e conterà cosa che non conosce, pur avendogli riconosciuto che conosce

tutte le lettere e tutti i numeri?

TEETETO: Ma anche questo è molto irragionevole.

SOCRATE: Vuoi dunque che diciamo che a noi nulla importa delle parole, e che uno trascini a piacimento il

«conoscere» e l'«imparare», ma poiché abbiamo stabilito che una cosa è possedere la conoscenza, un'altra averla,

diciamo invece che è impossibile che uno non possegga quel che possiede, e altrettanto che mai possa accadere che uno

non sappia quello che sa, e d'altra parte può darsi che uno prenda opinione falsa proprio su questo? è possibile invece

che uno non abbia conoscenza proprio di questo che sa, ma di un'altra cosa invece di questa, quando, andando a caccia

di una qualche conoscenza e volando esse qua e là ne afferri, sbagliando una al posto dell'altra, e allora si diede a

pensare che l'undici fosse dodici e prese la conoscenza dell'undici invece di quella del dodici, la colombella che volava

entro lui stesso invece della colomba.

TEETETO: Questo ha una sua ragione.

SOCRATE: Quando invece uno riesce a prendere la conoscenza che vuole prendere, diremo dunque che non si

inganna e che opina allora la realtà, e di quelle questioni per le quali ci eravamo angustiati prima non ne abbiamo più

nessuna a provocarci impaccio?

Forse mi darai ragione: oppure, come farai?

TEETETO: Così.

SOCRATE: E in tal modo ci siamo liberati dall'ipotesi che gli uomini non conoscano quel che conoscono; e in

nessun modo ancora può accadere che noi non possediamo quel che possediamo, né che di una certa cosa si opini il

falso, sia no. Ma mi pare che un altro scoglio, più duro di questo, si intravveda con chiarezza.

TEETETO: E quale?

SOCRATE: Se lo scambio delle conoscenze potrà mai divenire falsa opinione.

TEETETO: E come?

SOCRATE: In primo luogo questo: cioè uno che ha conoscenza di una certa cosa, proprio questa ignori e non per

non conoscerla, ma proprio per la sua stessa conoscenza; poi che costui opini che questa è un'altra cosa e l'altra è

questa? E come potrebbe non essere un gran non senso che l'anima, proprio quando la conoscenza è presente, non

conoscesse nulla, ma ignorasse tutto? Secondo questo ragionamento infatti, non c'è niente a impedire che anche

l'ignoranza, quando è presente, faccia conoscere qualcosa e la cecità vedere, se anche la conoscenza talvolta ci porta a

ignorare.

TEETETO: Forse, Socrate, non abbiamo immaginato bene a supporre che quegli uccelli fossero per noi soltanto

conoscenza; occorreva che immaginassimo che nella nostra anima volassero insieme anche le non conoscenze, e che

colui che va a caccia prendesse della stessa cosa talvolta una conoscenza, tal'altra una non conoscenza e, relativamente a

questa, opinasse falso, e quell'altra invece, opinasse il vero.

SOCRATE: Non è facile, Teeteto, non lodarti. Ma rifletti di nuovo su quel che hai detto. Sia pure come tu dici.

Dunque colui che prende la non conoscenza opina il falso, tu dici. Vero?

TEETETO: Sì.

SOCRATE: Eppure egli non penserà di opinare falso.

TEETETO: Come no.

Platone Teeteto

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SOCRATE: Ma il vero. E si troverà nella posizione di uno che sa bene quello su cui si è ingannato.

TEETETO: Ebbene?

SOCRATE: Penserà dunque di avere una conoscenza per esserne andato a caccia, e non una non conoscenza.

TEETETO: è chiaro.

SOCRATE: E dunque, dopo aver percorso un lungo tratto, ci troviamo di fronte allo stesso dilemma. E quello che

sempre ci contesta, ridendo dirà: «Come, carissimi, uno che conosce ambedue queste cose, conoscenza e non

conoscenza, crede che una delle due che conosce sia un'altra fra quelle che pur conosce? Oppure non conosce né l'una

né l'altra di esse e opina che quello che non conosce sia l'altra che pure non conosce? Oppure ne conosce una sì e l'altra

no, e quella che non conosce crede sia quella che conosce (78) o quella che conosce sia quell'altra che non conosce?

Oppure mi direte ancora che di queste conoscenze e non conoscenze ci sono anche altre conoscenze, che chi le

possiede, tenendole chiuse in certe vostre risibili gabbiette o impresse in materiale ceroso, fino a che le possiede le sa

anche, pur non avendole alla portata entro la propria anima? E sarete così costretti a correre intorno allo stesso punto

parecchie migliaia di volte non combinando nulla di più». Cosa potremo rispondere a queste cose, Teeteto?

TEETETO: Per Zeus, o Socrate, non so che cosa occorre rispondere.

SOCRATE: E dunque ci biasima giustamente il ragionamento e dimostra che non correttamente andiamo alla

ricerca prima della falsa opinione che della conoscenza, anzi, lasciandola perdere.

D'altronde è impossibile conoscere questo, la falsa opinione, prima che uno abbia ben compreso cosa mai è

conoscenza.

TEETETO: In questo momento, o Socrate, è necessario pensare come tu dici.

SOCRATE: Dunque, da capo ancora: che cosa dirà uno che è conoscenza?

Perché certamente noi non veniamo meno alla ricerca.

TEETETO: No, assolutamente; a meno che anche tu non voglia tirarti indietro.

SOCRATE: Rispondi, su: che dire in particolare della cosa per contraddirci il meno possibile con noi stessi?

TEETETO: Quello cui abbiamo già prima posto mano, Socrate. Del resto non ho niente altro da proporre.

SOCRATE: E cosa?

TEETETO: Che la vera opinione è conoscenza; l'opinare vero, infatti, non può commettere errori, e le cose che da

esso derivano sono tutte belle e buone.

SOCRATE: Colui che guidava il guado del fiume, o Teeteto, disse che «la cosa stessa avrà a dimostrarlo»;(79) allo

stesso modo noi procedendo, forse può venirci a portata proprio quello di cui andiamo alla caccia; ma stando fermi

nulla ci sarà chiaro.

TEETETO: Dici bene: andiamo avanti e continuiamo a riflettere.

SOCRATE: Dunque di una breve riflessione questo ha bisogno. Sarà un'arte tutta intesa a dimostrarti che questo non

è conoscenza.

TEETETO: Come? E quale?

SOCRATE: è quella dì coloro che sono i più grandi in fatto di saggezza: quelli che chiamano retori e giureconsulti.

Essi con la loro arte convincono, ma non insegnando, ma facendo in modo che altri pensino quello che essi vogliono. O

pensi tu che ci siano alcuni maestri così capaci che, mentre non erano presenti i giudici quando alcuni erano derubati

delle loro ricchezze o pativano qualche angheria, a essi possono insegnare in proporzione a una piccola quantità d'acqua

che scorre nella clessidra la verità degli avvenimenti?

TEETETO: No, non lo penso assolutamente: ma che siano in grado di convincere.

SOCRATE: Ma non sostieni che persuadere è fare in modo che si abbia un'altra opinione?

TEETETO: Ebbene?

SOCRATE: Dunque, qualora dei giudici siano giustamente convinti che intorno a certe cose sapere è soltanto quello

di chi le ha viste, se no, no; allora giudicando essi di queste cose per sentito dire, pure avendone acquisito un'opinione

vera, giudicano senza conoscenza, per quanto se ne siano fatti una retta idea, anche se giudicano bene.

TEETETO: è assolutamente così.

SOCRATE: Dunque, amico mio, se opinione vera e conoscenza fossero la stessa cosa anche nei tribunali neppure un

giudice molto acuto potrebbe ben opinare senza conoscenza. è evidente dunque che l'una e l'altra cosa sono un qualcosa

di diverso.

TEETETO: O Socrate, quello che io avevo sentito da un tale che parlava, l'avevo dimenticato: ma ora mi sta

tornando in mente.

Egli (80) sosteneva che conoscenza è opinione vera sostenuta da ragione e che quella senza ragione è al di fuori e a

conoscenza.

E quelle di cui non v'è ragione, non erano «conoscibili», le chiamava proprio così, quelle che invece l'hanno,

conoscibili.

SOCRATE: Parli proprio a proposito. Ma dimmi anche come distingueva queste cose conoscibili da quelle che non

lo sono, per capire se caso mai io e tu abbiamo sentito alla stessa maniera.

TEETETO: Dubito di potere trovarla; ma se un altro me la suggerisce, potrei tenergli dietro.

SOCRATE: Preparati a udire un sogno al posto di un altro sogno. (81) Mi sembrava di udire alcuni che sostenevano

che i primi princìpi dei quali siamo formati noi e le altre cose non hanno ragione; ciascun principio, in se stesso, è

possibile solo nominarlo, ma dire di esso alcun'altra cosa non è possibile, né che è, e neppure che non è: già questo

sarebbe un porgli innanzi essenza o non essenza, mentre nulla occorre aggiungergli se si parla di questo principio solo

Platone Teeteto

33

in sé. Infatti non gli si deve aggiungere neppure questo «in sé», né «quello», né «ciascuno», né «solo», né «questo» e

neppure molte altre simili locuzioni. Queste, infatti, correndo attorno da ogni dove possono applicarsi a tutto, poiché

sono diverse da tutto ciò cui si aggiungono; bisogna dunque, se parlare di questo principio fosse possibile e questo

avesse una sua propria ragione, parlare senza tutte quelle altre locuzioni.

Ora invece non è possibile dire con un ragionamento su uno qualunque dei primi princìpi, perché esso nulla altro ha

se non la sola possibilità di essere nominato, perché ha soltanto il nome; le altre cose invece che sono formate da questi

principi, allo stesso modo come esse sono intrecciate, così anche i loro nomi, essendo intrecciati, diventano ragione;

dunque intreccio di nomi è la sostanza del discorso. E così i princìpi al di fuori della ragione e inconoscibili sono

tuttavia soggetti a sensazione; le relazioni invece sono conoscibili, atte a essere espresse e, con vera opinione, opinabili.

Dunque quando uno raggiunge opinione vera di qualche cosa, ma senza ragione, la sua anima esprime il vero

relativamente a questa cosa, ma non la conosce perché chi non può dare né ricevere ragione di una cosa (82) vuol dire

che non ha conoscenza di essa. Chi invece ne comprende la ragione e può includervi tutte queste cose si trova anche

nella condizione perfetta per la conoscenza. E tu il sogno l'hai sentito così o in altra maniera?

TEETETO: Esattamente così.

SOCRATE: Ti piace dunque stabilire in questo modo che conoscenza è vera opinione sostenuta da ragione?

TEETETO: Certamente.

SOCRATE: Forse, Teeteto, ora, in tal maniera, quello che da tempo molti tra i sapienti sono invecchiati nella ricerca

prima di trovarlo?

TEETETO: Per me almeno, Socrate, pare che sia detto bene quello che si è detto.

SOCRATE: Ed è probabile che il concetto in se stesso stia così.

Infatti quale conoscenza potrebbe esserci ancora fuori da ragione e da giusta opinione? Una sola cosa, tra quel che è

stato detto, non mi piace.

TEETETO: E quale?

SOCRATE: Quello che sembra essere detto nel modo più fine, cioè che i princìpi sono irriconoscibili, mentre il

genere delle relazioni è conoscibile.

TEETETO: E dunque non è giusto?

SOCRATE: Occorre esaminarlo: noi teniamo come pegni gli esempi del ragionamento di chi, avvalendosi di essi,

disse tutte queste cose.

TEETETO: E quali?

SOCRATE: Le lettere dell'alfabeto come princìpi e le sillabe come relazioni. O pensi tu che guardando altrove

dicesse queste teorie, delle quali ora noi discutiamo?

TEETETO: No, a queste.

SOCRATE: Prendiamole in mano dunque e mettiamole alla prova: o meglio mettiamo alla prova noi stessi, se così o

non così abbiamo imparato le lettere. Anzitutto rispondi: Dunque le sillabe hanno una ragione, mentre le lettere ne sono

prive?

TEETETO: Forse.

SOCRATE: D'accordo dunque: pare così anche a me. Se uno dunque ti chiedesse la prima sillaba di Socrate in

questo modo: «Di' pure, Teeteto: che cosa è Sigma Omega?». Cosa risponderesti?

TEETETO: Che è un sigma e un omega.

SOCRATE: Dunque consideri questa la ragione della sillaba?

TEETETO: Io sì SOCRATE: Orsù dunque: dimmi anche la ragione del Sigma.

TEETETO: E come potrà uno enunciare i princìpi del principio? Infatti, Socrate, il sigma è una lettera afona,

soltanto un suono, come se la lingua fischiasse; il beta non è né voce né suono, come la maggior parte delle lettere.

Sicché è giusto dire che questi princìpi sono irrazionali, e fra essi, quelli che sono più chiari, gli stessi sette principi (83)

hanno soltanto la voce, senza ragione alcuna.

SOCRATE: Su questo aspetto, dunque, della conoscenza, amico mio, abbiamo imbroccato nel segno.

TEETETO: Pare SOCRATE: Ebbene? Abbiamo dimostrato dunque correttamente che il principio non è conoscibile,

ma la sillaba sì.

TEETETO: Pare.

SOCRATE: Orsù, della sillaba come possiamo dire: le due lettere o, se sono più di due, tutte, o una sorta di idea

unica che si è determinata dal disporsi di esse fra loro?

TEETETO: A me sembrerebbe che fossero tutte le lettere.

SOCRATE: Esamina ora le due lettere: il sigma e l'omega. Messe insieme costituiscono la prima sillaba del mio

nome: chi conosce quella non conosce anche tutte e due le lettere?

TEETETO: Ebbene?

SOCRATE: Conosce il sigma e anche l'omega.

TEETETO: Sì.

SOCRATE: Cosa? Non conosce ognuna di esse, e pur non conoscendo né l'una né l'altra, le conosce ambedue?

TEETETO: Ma è fuorviante e assurdo, o Socrate.

SOCRATE: Eppure se è necessario che conosca ognuna delle due, se uno dovrà conoscerle tutte e due, è necessario

conoscere prima le lettere per chi dovrà poi conoscere la sillaba, e così il nostro bel ragionamento, fuggendo, si dilegua.

TEETETO: E molto all'improvviso.

Platone Teeteto

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SOCRATE: Infatti non l'abbiamo bene sorvegliato. Occorreva forse stabilire che la sillaba non è le lettere, ma una

sorta di idea unica che scaturisce da esse (84) che ha un suo solo aspetto per se stesso, e che è altra dalle lettere.

TEETETO: Ma certamente: e forse la questione sta più in questo modo che in quello.

SOCRATE: Occorre esaminare e non lasciare andare così con poco coraggio un ragionamento grande e degno di

considerazione.

TEETETO: No, certamente.

SOCRATE: Sia dunque la cosa, così come noi diciamo: la sillaba è una sola idea, costituita da ciascuno dei principi

che si armonizzano insieme, similmente nel caso delle lettere e in tutti gli altri casi.

TEETETO: D'accordo.

SOCRATE: Della relazione dunque, non ci debbono essere parti.

TEETETO: Perché?

SOCRATE: Perché laddove esistono delle parti, è necessario che tutte le parti costituiscano l'intero. O forse tu

intendi sostenere che l'intero è derivato dalle parti, anche se è un'idea sola, diversa da tutte le parti?

TEETETO: Io sì.

SOCRATE: Ma il tutto e l'intero tu li chiami la stessa cosa o l'una e l'altra son cosa diversa?

TEETETO: Non ho alcuna sicurezza a risponderti, ma siccome mi inviti a ribattere prontamente, oso dirti che sono

cosa diversa.

SOCRATE: La tua prontezza, Teeteto, sta bene. Ma se sia lo stesso per la tua risposta, resta da considerare.

TEETETO: E dunque bisogna.

SOCRATE: Dunque, l'intero sarebbe differente dal tutto, secondo il tuo discorso di adesso.

TEETETO: Sì.

SOCRATE: Ebbene? Ma quale differenza c'è tra tutte le parti e il tutto? Ma quando, ad esempio, noi diciamo uno,

due, tre, quattro, cinque, sei, o se diciamo tre per due, o due per tre, oppure quattro più due, oppure ancora tre più due

più uno, in tutti questi calcoli noi diciamo sempre il medesimo numero oppure ne diciamo uno diverso?

TEETETO: Il medesimo.

SOCRATE: Forse qualcos'altro rispetto a sei?

TEETETO: No.

SOCRATE: Dunque con ciascuna di queste locuzioni non abbiamo detto tutte le sei unità?

TEETETO: Sì.

SOCRATE: E d'altra parte non diciamo una unità sola, dicendole tutte quante?

TEETETO: Necessariamente.

SOCRATE: E che cos'altro è se non le sei unità?

TEETETO: Nulla.

SOCRATE: Quanto dunque si trova nelle cose che derivano dai numeri, se diciamo tutto oppure tutte le unità,

vogliamo sempre dire la stessa cosa?

TEETETO: Pare di sì.

SOCRATE: Diciamo di queste cose nel modo seguente: Il numero del pletro (85) e il pietro sono la stessa cosa?

TEETETO: Sì.

SOCRATE: E il numero dello stadio e lo stadio allo stesso modo?

TEETETO: Sì.

SOCRATE: E allora anche quello dell'esercito e l'esercito e allo stesso modo avviene per tutte le altre cose di questo

genere. Ogni numero infatti rispetto a ciascuna di esse è tutto l'essere.

TEETETO: Sì.

SOCRATE: Ma il numero di ciascuna cosa è forse qualcosa di diverso rispetto alle parti?

TEETETO: No.

SOCRATE: Tutte le cose, dunque, che hanno parti, consisterebbero di parti?

TEETETO: Appare chiaro.

SOCRATE: Ma si è già riconosciuto che tutte le parti di una cosa sono il tutto, se anche tutto il numero è tutta la

cosa.

TEETETO: è così.

SOCRATE: Ma allora l'intero non consiste di parti: sarebbe un tutto infatti, se fosse tutte le parti.

TEETETO: Non sembra.

SOCRATE: Ma parte può essere di qualunque altra cosa rispetto a quella che è, cioè dell'intero?

TEETETO: Del tutto.

SOCRATE: Tu lotti con coraggio, Teeteto. Ma il tutto, quando nulla manca, non è per questo stesso tutto?

TEETETO: Necessariamente.

SOCRATE: E l'intero anche non sarà questo stesso, cui nulla sia venuto meno sotto nessun aspetto? Quello invece

cui è venuto qualcosa, non può essere né intero né tutto, dal momento che per la stessa causa (86) sono la stessa cosa.

TEETETO: A mio parere ora non c'è alcuna differenza fra il tutto e l'intero. (87) SOCRATE: Dunque non dicevamo

che quando le parti facciano consistere un qualcosa, proprio tutte le parti sono il tutto e l'intero?

TEETETO: Certamente.

SOCRATE: Di nuovo, dunque, il problema che avevo tra le mani poco fa: se la sillaba non è le lettere, e

Platone Teeteto

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necessariamente essa non ha le lettere come sue parti, oppure essendo la stessa cosa rispetto a questa, non deve essere

riconoscibile allo stesso modo di quelle?

TEETETO: è così.

SOCRATE: Ma proprio perché questo non avvenisse, non avevamo fissato che essa era diversa da loro?

TEETETO: Sì.

SOCRATE: E dunque? Se le lettere non sono parti della sillaba, hai tu altre cose da dire che siano parti della sillaba,

pur non essendo le lettere di essa?

TEETETO: No, assolutamente, Socrate; perché se io fossi d'accordo che ci sono alcune parti di essa, sarebbe proprio

comico che, buttando via le sillabe, mi volgessi poi ad altre cose.

SOCRATE: Senza dubbio, allora, Teeteto, secondo il tuo attuale ragionamento la sillaba sarebbe un'idea (88) unica

indivisibile.

TEETETO: Pare.

SOCRATE: Ti ricordi, o caro, che nel ragionamento di poco fa noi fummo d'accordo, giudicando che fosse detto

bene che dei primi elementi - quelli da cui sono formate le altre cose -, non si può rendere conto perché ciascuno di essi

considerato in sé e per sé è semplice, né sta bene a proposito di esso, aggiungendo, dire: «essere», «questo», come altri

simili e diversi modi di dire e che è proprio questa la causa che rende l'elemento stesso irrazionale e irriconoscibile?

TEETETO: Me ne ricordo.

SOCRATE: O c'è anche qualche altra causa, se non questa, del loro essere semplice e indivisibile? Io, infatti, non ne

vedo altra.

TEETETO: Infatti non pare possa esserci.

SOCRATE: E dunque anche la sillaba non è caduta in quello stesso aspetto rispetto a ciascuno dei princìpi, se pure è

vero che non ha parti ed è idea unica?

TEETETO: è proprio così.

SOCRATE: Se dunque una sillaba è più lettere ed è un intero, e queste, sono parti di essa, allo stesso modo le lettere

come le sillabe sono conoscibili, determinabili; se è vero che tutte le parti, si è dimostrato, sono la stessa cosa rispetto

all'intero.

TEETETO: Ma certo.

SOCRATE: Se poi è un qualcosa di unico e senza parti, la sillaba, allo stesso modo della lettera, sarà irrazionale e

non conoscibile: infatti la stessa causa renderà identiche e l'una e l'altra.

TEETETO: Non saprei dire in altra maniera.

SOCRATE: Questo dunque non possiamo accettare, cioè che uno dica che la sillaba è conoscibile e determinabile,

la lettera, invece, tutto il contrario.

TEETETO: Certamente no, se seguiamo il nostro ragionamento.

SOCRATE: Ebbene? Non potresti accettare piuttosto quello che dice il contrario da quello che tu stesso hai

conosciuto in te, nell'apprendere le lettere?

TEETETO: E cosa?

SOCRATE: Che, nell'imparare le lettere, niente altro hai fatto che tentare di distinguerle, una per una, con la vista e

con l'udito perché la loro posizione e quando venivano pronunciate e quando venivano scritte non avesse a disorientarti.

TEETETO: Dici cosa verissima.

SOCRATE: E nell'aver appreso alla perfezione l'arte del citarista forse c'è stata qualche altra cosa se non il poter

tenere dietro a ciascun suono e sapere di che corda è?

TEETETO: Niente altro.

SOCRATE: Se dunque da questi princìpi (lettere) e relazioni (sillabe), delle quali noi siamo esperti, da queste

dobbiamo dare testimonianza anche sugli altri, diremo che il genere dei princìpi ha una conoscenza più chiara e più

sicura di quella della relazione per afferrare compiutamente ogni apprendimento, e se uno dirà che la relazione è

conoscibile, mentre la relazione è irriconoscibile per natura riterremo che di proposito o, suo malgrado, stia scherzando.

TEETETO: è indubbiamente così.

SOCRATE: Ma intorno a questo argomento, secondo il mio parere, si potrebbero portare ancora altre prove; ma, per

esaminare queste, non lasciamoci sfuggire il problema proposto, cioè cosa mai si deve intendere che la ragione,

congiunta con opinione vera, diventa la conoscenza più perfetta.

TEETETO: E dunque occorre considerare questo.

SOCRATE: Orsù dunque: cosa si vuole che significhi per noi ragione? A me, infatti, pare una di queste tre cose.

TEETETO: Quali?

SOCRATE: La prima potrebbe essere questa: rendere chiaro il proprio pensiero mediante la voce con locuzioni e

nomi, rappresentando la propria opinione, come in uno specchio o nell'acqua, mediante il flusso verbale che proviene

dalla bocca. E a te non pare che ragione sia un presso a poco così?

TEETETO: A me sì. Diciamo che ragiona uno che fa questo.

SOCRATE: Però, mostrare che cosa uno pensi su una certa cosa, è capace di farlo ognuno, in modo più rapido o più

lento, a meno che non sia sordo e muto fin dalla nascita. E così quanti Opinano rettamente su un punto, appare chiaro

che con ragione hanno questo e dunque non potrà più esserci retta opinione senza conoscenza.

TEETETO: è vero.

SOCRATE: Ma non muoviamo critiche così facilmente di non avere detto nulla a colui che ha determinato

Platone Teeteto

36

conoscenza come noi ora stiamo considerando. Probabilmente infatti chi parlava non sosteneva questo, ma che uno

interrogato intorno a una determinata cosa è capace di dare la risposta all'interrogante attraverso i princìpi della cosa

stessa.

TEETETO: E quale esempio vuoi portare, Socrate?

SOCRATE: Uno come questo. Esiodo dice del carro: «I cento legni del carro» che io non saprei elencare e, penso,

neppure tu. Ma potremmo rallegrarci se a chi ci chiede che cosa è un carro, avessimo modo di rispondere: ruote, asse,

tettoia, parapetto e giogo.

TEETETO: Esattamente.

SOCRATE: Ma probabilmente costui riterrebbe che noi siamo ridicoli se, interrogati sul tuo nome, rispondessimo

sillaba per sillaba, opinando bene e dicendo quel che diciamo e pensando di essere grammatici e di avere e di esprimere

secondo grammatica la ragione del nome di Teeteto, mentre invece non è dato che esprima nulla secondo conoscenza

chi non abbia compiuto alla perfezione l'esame di ciascuna cosa attraverso i suoi princìpi, come anche è stato detto nei

discorsi precedenti.

TEETETO: è stato detto infatti.

SOCRATE: E così anche del carro noi possiamo avere giusta opinione, soprattutto chi, delle sue cento parti possa

percorrerne l'essenza, e aggiungendo questo, egli ha raggiunto la ragione della vera opinione, e anziché opinatore egli

sarà tecnico e conoscitore della essenza del carro avendo compiuto un esame approfondito al tutto mediante i princìpi.

TEETETO: E non ti pare che vada bene, o Socrate?

SOCRATE: E a te pare bene, o amico? Sei d'accordo tu che la descrizione di ogni cosa mediante i suoi princìpi sia

ragione, mentre quella secondo le relazioni o qualcosa di ancora più grande sia illogica? Rispondimi questo perché

possiamo esaminarlo.

TEETETO: Ma io sono d'accordo completamente.

SOCRATE: Ritenendo forse che sia capace di conoscenza di qualcosa uno che pensi che lo stesso principio ora

riguardi la stessa cosa, ora un'altra, o anche quando ritenga che alla stessa cosa ora competa un principio, ora invece un

altro?

TEETETO: Per Zeus, io no!

SOCRATE: Hai dimenticato dunque che, all'inizio, nell'imparare le lettere, tu e gli altri facevate questo?

TEETETO: Intendi forse che, della stessa sillaba, ora pensavamo che la lettera fosse questa, ora un'altra, o anche che

univamo la stessa lettera ora alla sillaba giusta, ora invece a un'altra?

SOCRATE: Dico questo.

TEETETO: Non l'ho dimenticato, no: per Zeus! E non ritengo affatto che abbia conoscenza chi la pensi così.

SOCRATE: Ebbene? Quando in qualche occasione mentre uno scrive Theeteto, pensa che si debba scrivere e così

scrive: Th e e; e mettendosi poi a scrivere Teodoro pensa che si debba scrivere e scrive: T e e, diremo che costui ha

conoscenza della prima sillaba dei vostri nomi?

TEETETO: Ma poco fa avevamo convenuto che chi si comporta in questo modo non ha conoscenza.

SOCRATE: E c'è un qualcosa dunque a impedire che anche riguardo la seconda, la terza e la quarta sillaba egli si

trovi nella stessa situazione?

TEETETO: Nulla.

SOCRATE: E allora dunque, avendone la descrizione mediante i princìpi, scriverà Teeteto con giusta opinione,

quando ne scriva i principi in fila a uno a uno?

TEETETO: è chiaro.

SOCRATE: E non ne è ancora buon conoscitore, pur opinando rettamente, come andiamo dicendo?

TEETETO: Sì.

SOCRATE: Avendone ragione con retta opinione; infatti scrisse tenendo il percorso attraverso i princìpi, cosa che

convenimmo essere ragione.

TEETETO: è vero.

SOCRATE: Vi è dunque, amico, una retta opinione con ragione che non si deve ancora chiamare conoscenza. (89)

TEETETO: C'è questa probabilità.

SOCRATE: Un sogno fu dunque, sembra, quando ci sentivamo ricchi pensando di possedere la più veritiera ragione

di conoscenza. O non dobbiamo ancora sottoporla a critica? Probabilmente infatti non in tal modo ha determinato il

concetto di ragione quel tale, ma sotto il restante aspetto dei tre, in uno dei quali sostenevamo che avrebbe posto il

valore di ragione, colui che spiegò che conoscenza è retta opinione sostenuta con ragione.

TEETETO: Me l'hai ricordato a proposito. Uno solo infatti ne resta ancora. L'uno infatti era una sorta di immagine

del pensiero nella voce, quello detto poco fa era il percorso fino all'intero mediante i princìpi. E del terzo poi che cosa

dici?

SOCRATE: Ciò che potrebbero dire i più: l'avere un qualche segno da dire per cui ciò che viene chiesto differisce

da tutto il resto.(90) TEETETO: Quale ragione dunque è di che cosa hai modo di dirmi?

SOCRATE: Ad esempio, se vuoi, quello del sole che credo sia sufficiente a farti accettare che il sole è il più

rilucente degli astri nel cielo che ruotano (91) attorno alla terra.

TEETETO: D'accordo.

SOCRATE: Cerca di afferrare ora in grazia di che è stato detto: se tu comprendi la differenza di ciascuna cosa nel

punto in cui è differente dalle altre, tu capirai, come affermano alcuni, la ragione di questa cosa, invece se tu ne tocchi

Platone Teeteto

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soltanto una qualità comune, tu avrai la ragione di quelle cose delle quali fa parte questa sorta di comunanza.

TEETETO: Comprendo: e mi pare stia bene chiamare ragione secondo questa maniera.

SOCRATE: E dunque colui con giusta opinione di una qualsiasi cosa esistente, riesce ad afferrarne la differenza con

le altre, diverrà buon conoscitore di quella cosa della quale in precedenza era soltanto opinatore.

TEETETO: Diciamo giusto così.

SOCRATE: Ora però Teeteto, dacché mi son fatto vicino a quel che si dice tra noi come a una pittura in prospettiva,

non riesco assolutamente a comprendere neanche un po': mentre, quando ne ero lontano, mi sembrava di dire qualcosa.

TEETETO: E perché mai questo?

SOCRATE: Te lo dirò se ne sono capace: io avendo retta opinione di te, se riesco a comprendere anche la ragione,

allora ti conosco, se no, opino soltanto.

TEETETO: Sì.

SOCRATE: E ragione voleva appunto dire interpretazione della tua differenza.

TEETETO: Così.

SOCRATE: Quando dunque opinavo solamente, col pensiero riuscivo forse a raggiungere qualcuno di quegli aspetti

per cui tu differisci dagli altri?

TEETETO: Non pare.

SOCRATE: Dimmi dunque, per Zeus! Come potevo io in quel tempo, opinare su te più che su chiunque altro?

Immagina che io pensi come è questo Teeteto: che è un uomo, che ha naso, occhi, bocca, e così a una a una le altre

membra. Dunque, può darsi mai che questo pensiero faccia in modo che io pensi a Teeteto più che a Teodoro, o come

suoi dirsi, all'ultimo dei Misi? (92) TEETETO: Ebbene?

SOCRATE: Ma io penso a uno che non solo abbia, come hai tu, naso e occhi, ma anche il naso schiacciato e gli

occhi in fuori, per questo dovrò io opinare più di te che di me o di quanti han somiglianza con noi? (93) TEETETO: No.

SOCRATE: Ma io penso anche che di Teeteto non mi sarò fatto un'opinione prima che questo tuo naso schiacciato,

lasciandomi un'impronta, non abbia posto in me un ricordo che indica una differenza dagli altri nasi schiacciati che ho

visto; e così anche delle altre caratteristiche delle quali consisti tu; cosa che, se ti incontro domani, mi farà ricordare di

te e farà anche in modo che io ne abbia giusta opinione.

TEETETO: è verissimo.

SOCRATE: Retta opinione dunque su ciascuna cosa riguarderebbe anche la differenza.

TEETETO: Pare di sì.

SOCRATE: Cosa potrebbe essere ancora aggiungere ragione alla retta opinione? Perché se vuol dire opinare per

quale aspetto una cosa differisce dalle altre, la proposizione si fa davvero ridicola.

TEETETO: Come?

SOCRATE: Alla retta opinione che abbiamo di quelle cose quanto alla causa per cui si differenziano dalle altre, ci

impone di aggiungere retta opinione per la quale esse si distinguono dalle altre. E così il fare girare una bacchetta o un

pestello o una qualunque cosa non vorrebbe dire nulla di fronte a una proposizione come questa, e si potrebbe chiamarla

più giustamente l'imposizione di un cieco. Infatti venire a imporci di aggiungere queste cose a quelle che abbiamo, per

imparare le cose su cui opiniamo, pare cosa che si addica in pieno a uno tenuto nelle tenebre.

TEETETO: Dimmi ora, cosa ti premeva sapere quando domandavi?

SOCRATE: Se comprendere la ragione di una cosa vuol significare conoscere e non solo opinare la differenza

sarebbe un avvenimento graditissimo circa la più bella ragione tra quelle che riguardano la conoscenza.

Conoscere infatti è afferrare conoscenza. O no?

TEETETO: Sì.

SOCRATE: Allora, ovviamente, uno interrogato su che cosa è conoscenza risponderà che è retta opinione con

conoscenza di differenza. Aggiunta di ragione infatti sarebbe proprio questo, secondo lui.

TEETETO: Pare.

SOCRATE: E sarebbe risposta alquanto sempliciotta, perché, mentre stiamo esaminando che cosa è conoscenza,

dovremmo dire che è retta opinione con conoscenza di differenza che di qualunque altra cosa.

Dunque non sensazione o Teeteto, né vera opinione, né ragione che si congiunge con vera opinione potrebbe essere

conoscenza.

TEETETO: Non pare.

SOCRATE: Dunque, amico, sul problema della conoscenza siamo ancora pregni sotto qualche aspetto, o abbiamo

partorito tutto?

TEETETO: Per Zeus, io ho detto, tramite tuo, molte più cose rispetto a quelle che avevo in me stesso.

SOCRATE: Ma tutte queste cose la mia arte di ostetrico non dice che sono vane e non degne di essere coltivate?

TEETETO: Proprio così.

SOCRATE: Se dunque dopo queste, o Teeteto, tu vorrai diventare pregno di altre riflessioni, se lo diventerai, sarai

pieno per la presente ricerca, di riflessioni migliori, se invece ti manterrai vuoto sarai meno pesante per quelli che

stanno con te e più affabile, perché, da buon saggio, non penserai di sapere quello che non sai.

Soltanto questo infatti può la mia arte, nulla di più, e io non so nulla di quello che sanno gli altri, quanti uomini

grandi e ammirevoli ci sono e ci sono stati. Questa arte maieutica io e mia madre l'abbiamo avuta per volere di un dio,

lei a sostegno delle donne, io per quello dei giovani e nobili e quanti sono belli come te.

E ora devo andare al portico del Re (94) per ribattere all'accusa che contro me ha scritto Meleto. Incontriamoci di

Platone Teeteto

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nuovo qui, o Teodoro, domani mattina.

Platone Teeteto

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NOTE: 1) Terpsione, come Euclide che apre il dialogo, è megarese. E a Megara appunto è ambientato, idealmente,

il dialogo stesso. Questo primo capitolo tuttavia costituisce una sorta di introduzione. Col capitolo secondo comincia

invece il dialogo vero e proprio che viene narrato, o meglio, effettuato direttamente da Socrate, Teodoro, Teeteto, come

se parlassero direttamente nel tempo in cui si svolge la conversazione appena iniziata. Si tratta invece della ripresa, sia

pure ideale, di conversazioni e incontri reali, avvenuti nel tempo. Si tenga presente tuttavia che Socrate fu messo a

morte nel 399 a.C. Qui siamo almeno 30 anni dopo, come si vedrà tra breve.

Terpsione e Euclide megaresi, sono ricordati nel Fedone, in quanto presenti ambedue alla morte di Socrate.

2) Si allude qui a un fatto d'armi tra Ateniesi e Tebani avvenuto sull'Istmo di Corinto nel 369 a.C. Teeteto fu

matematico ateniese, del quale si ignora l'anno della nascita: la sua morte invece vien fatta risalire a poco dopo questi

eventi. Quel che si sa di lui vien tratto essenzialmente da questo dialogo: pare si occupasse di ricerche sui poliedri

regolari, anzi a lui viene attribuita la scoperta dell'ottaedro e dell'icosaedro. Si interessò anche di numeri irrazionali,

come si desume dal prosieguo del dialogo, presso la scuola di Teodoro.

3) Località sul Cefiso, vicino a Eleusi.

4) Ancora poche battute e inizia il dialogo vero e proprio con la lettura da parte del ragazzo. I due, intanto, entrano

in casa.

5) Teodoro (Quinto-quarto secolo a.C.) era nato a Cirene, ove, pare, fu conosciuto direttamente da Platone in uno

dei suoi viaggi. Ma tenne scuola di matematica e geometria per alquanto tempo in Atene ove, come appare anche dal

presente dialogo, frequentò Socrate e ne divenne buon amico.

6) Con la lettura diretta del dialogo l'azione si sposta idealmente in Atene nell'anno 399 a.C., l'anno stesso della

morte di Socrate, quando Teeteto non aveva ancora raggiunto i 18 anni.

7) è evidente che si riferisce ai sofisti.

8) Osserva finemente Valgimigli: «E così Socrate, brutto o no che fosse o consentisse di essere, una stoccatina di

risposta a Teodoro gliela dà.

E questo è perfettamente socratico...» (Platone, Teeteto a cura di M. Valgimigli, Bari 1939).

9) Qui un po' tutta la critica ha sottolineato l'ironia di Socrate.

10) Sono pertanto incommensurabili: infatti le radici quadrate dei numeri 3 e 5 danno come risultato dei numeri

irrazionali.

11) «Per es. 9=3 x 3, 16=4 x 4 ecc., numeri quadrati perché la loro figura corrisponde esattamente a un quadrato»

(Platone, Teeteto, a cura di M. Valgimigli, citato).

12) Il dio cui Socrate riservava la sua devozione e a cui ispirava la condotta della sua vita e delle sue ricerche è

Apollo. Si veda sotto questo aspetto in particolare l'Apologia di Socrate.

13) Prodico di Ceo (quinto-quarto secolo a.C.) fu contemporaneo di Socrate.

Più volte in Atene appartenne al primo gruppo della sofistica. Si occupò di etimologia e dell'uso corretto de le

parole. Si interessò anche della natura dell'uomo, tenendo le proprie lezioni a un pubblico numeroso di giovani mentre

se ne stava avvolto nelle coperte perché malaticcio e afono. è evidente in questo passo l'ironia di Socrate nei suoi

riguardi e in quelli degli altri sofisti.

14) Protagora di Abdera (quinto-quarto secolo a.C.) fu uno tra i più illustri sofisti della prima generazione, il primo a

volersi chiamare con questo nome.

Impartiva lezioni a pagamento sulla virtù lasciando che il compenso (molto lauto) lo stabilissero i suoi auditori. La

sua dottrina è improntata a un radicale relativismo scettico, che emerge in tutta evidenza dalla celebre sintesi della sua

dottrina qui riportata da Platone. Nell'omonimo dialogo platonico Protagora e Socrate discutono sul problema se la virtù

sia insegnabile. (Nota 6 del Cratilo) 15) Parmenide di Elea (sesto-quinto secolo a.C.). Fu anche in Atene ove pare che

conoscesse Socrate molto giovane: il suo pensiero è esattamente l'opposto di quello di Eraclito. Da un frammento del

suo Sulla natura in esametri, leggiamo: «L'essere è, il non essere non è». L'essere dunque è uno e immobile, perché con

mutazioni diverrebbe non essere: è compatto e viene rappresentato dalla forma della sfera che non si interrompe mai, in

nessun punto, dal non essere. Parmenide è pure il titolo di un dialogo platonico, quando il filosofo, già avanti negli anni,

rivede criticamente la sua dottrina. (Su Eraclito, anche note 73 e 76 al Cratilo.) Empedocle di Agrigento (quinto secolo

a.C.) si ispirò al pensiero di Eraclito, Parmenide, Pitagora. Per lui sono i quattro elementi fondamentali della filosofia

presocratica a dare costituzione al tutto. Egli li chiamò le «radici» che non hanno nascita, ma dalla loro aggregazione e

dissolvimento avviene il processo inarrestabile del divenire. L'influsso di Parmenide su di lui è dato dal fatto che, nel

suo pensiero, i quattro elementi non subiscono cambiamenti di sorta; quello di Eraclito invece sta nel fatto che la nostra

esperienza è soggetta a continui mutamenti.

Dei suoi poemi Sulla natura e Purificazioni ci restano complessivamente circa 500 versi.

16) Epicarmo di Cos (sesto-quinto secolo a.C.) godette fama di filosofo oltre che di valente poeta comico. Anche il

poeta latino Ennio gli dedicò un'opera dal titolo omonimo.

17) Anche altrove, specialmente nella Repubblica Platone parla di Omero come poeta tragico: questo soprattutto per

la grande importanza che ebbe Omero stesso nei confronti dei poeti tragici che, essenzialmente da lui, trassero miti e

argomenti per le loro tragedie. Anche Aristotele, nella Poetica, considera Omero ome autore di «imitazioni

drammatiche». Il verso qui citato si trova in Iliade libro 14,201.

18) vedi la nota 14.

19) Se si tengono ben presenti le due domande fatte da Socrate a Teeteto, si può capire, dal loro enunciato, come il

giovane potrebbe cadere in contraddizione.

Platone Teeteto

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20) Qui Platone riprende adattandolo un verso dell'Ippolito di Euripide e precisamente il 612: «Fu la lingua a

giurare, non la mente».

21) Evidente il nesso tra "mi meraviglio" e "Taumante"; ma è connessione impossibile a rendersi in italiano. In ogni

caso se filosofia prende inizio da meraviglia, Iris, come figlia di Taumante ("che si meraviglia"), ambasciatrice anche

fra dèi e uomini, qui viene identificata con la filosofia.

22) è difficile comprendere contro chi siano rivolti questi strali: indubbiamente contro i materialisti. C'è chi pensa

che Antistene, dapprima seguace dei sofisti (col tempo si avvicinò anche a Socrate e ne assistette alla morte) che una

volta disse a Platone: «Io vedo sì il cavallo, ma non la cavallinità». C'è invece chi pensa al popolino incolto in generale.

23) Il «tale (...) quale» è riferito all'attributo (amaro dolce) e dipende da ciò che esso genera (dolcezza amarezza),

non alla sostanza in sé (almeno nella raffigurazione verbale qui usata): dunque non «speciale amarezza di uno speciale

vino» ecc. ma «speciale amarezza del vino» a meno che «speciale vino» non indichi «amaro in modo speciale». Più in

generale qui si dice che col variare dell'oggetto consegue una variazione anche nella sensazione che influisce anche sul

soggetto: quando io sento questa cosa definita, se sento altro, non sono più io, ma un altro io.

24) è adombrato qui il principio di totalità: relazioni diverse cambiano il contenuto della relazione.

25) Io, soggetto che sento, presuppongo l'oggetto sentito: perché non potrei essere il soggetto che sente senza

l'oggetto che è sentito, né d'altra parte l'oggetto sentito non potrebbe essere sentito e conseguentemente essere oggetto

se non presuppone il soggetto che sente, cioè che lo sente.

26) Le anfidromie (letteralmente 'corse attorno') erano feste in uso ad Atene pochi giorni dopo la nascita di un

bambino. Nella casa parata a festa, tra i doni degli ospiti due donne portavano di corsa il neonato attorno al focolare,

introducendolo nel culto domestico.

27) Così probabilmente si intitolava l'opera di Protagora che cominciava con il famoso detto: «L'uomo è misura di

tutte le cose».

28) Protagora esigeva un prezzo elevato per le sue lezioni.

29) Fuor di metafora Socrate intende che Teodoro non può arrogarsi il privilegio di far da spettatore, specie quando

c'è da dialogare con quelli che ne sanno meno (i più brutti: ironica autoallusione).

30) Sono illogicamente polemici quelli che vanno alla ricerca delle contraddizioni insite nel linguaggio: evidente

l'allusione ai sofisti.

31) Protagora era già scomparso da circa dieci anni quando fu messo a morte Socrate, nel 399 a.C., anno in cui vien

posto idealmente questo dialogo.

32) Callia, uomo di grandissime ricchezze, che accolse Protagora in casa propria durante il suo soggiorno ateniese. è

ovvio che la «tutela» di cui qui si parla si riferisce alla dottrina e non agli averi di Protagora.

33) Cioè dalla sofistica.

34) Pare che non ci sia da stupirsi di questo linguaggio inurbano messo da Platone in bocca a Protagora e così

inusuale per Socrate, se si pensa che anche in certi passi della Repubblica, specie nel 1 libro, Trasimaco rappresenta

Protagora che parla più o meno in questi termini.

35) La filosofia dunque per Protagora (come per tutti i sofisti ovviamente è «l'arte di convincere» 36) Era, secondo

una delle tante versioni della saga, un brigante, appostato su una strada a lui omonima, tra Cronnione e Megara, che

costringeva i passanti a lavargli i piedi e in questo frattempo li gettava in mare, ove venivano fatti a pezzi da una

gigantesca tartaruga che si trovava nei pressi.

37) Gigante, figlio di Poseidone e di Gaia viveva in Libia (o in Mauritania), e obbligava tutti i viaggiatori di

passaggio a lottare con lui, vincendoli e uccidendoli costantemente: ma quando passò Eracle lo sconfisse e lo mise a

morte.

38) Questa passione in lui non si spegnerà mai. Siamo ormai in prossimità del processo che segnerà la morte di

Socrate (399 a.C.). Tutto questo si intona bene con i dialoghi della prima tetralogia, specie con l'Apologia, il Critone, il

Fedone.

39) Il riferimento è all'Odissea, dove più volte ricorre l'espressione «migliaia di migliaia».

40) è un richiamo preciso alla tecnica teatrale, ai "gradini", "scala di Caronte" che servivano per introdurre sulla

scena le ombre dei morti e per farle successivamente sparire.

41) è noto che la clessidra, ripiena di acqua, e talvolta anche di sabbia, delimitava categoricamente il tempo in cui

ogni oratore doveva contenere il proprio intervento.

42) La condizione del filosofo viene qui paragonata a quella del poeta tragico con tutti gli annessi e connessi dei

concorsi (agoni) tragici.

43) Pindaro. fr. 292 Machler 44) Misura di lunghezza equivalente a 100 piedi.

45) Mitico figlio di Pelope e sposo di Alcmena da cui ebbe Eracle è qui ricordato come personaggio tra i più antichi.

46) Che il distacco dalla vita non sia un male è concetto che si impone decisamente nella parte finale dell'Apologia e

prende il suo più ampio e alto sviluppo nel Fedone. Il sapiente nulla ha compiuto in questa esistenza per ottenere buona

fama e gloria, ma ha praticato la virtù per se stessa: nel distacco suo quindi dalle cose del mondo c'è una sorta di

liberazione dai ceppi che possono incatenare l'uomo alle passioni di qui e distoglierlo dalla tensione che l'anima deve

sempre provare: cioè quella di purificarsi e di elevarsi.

47) Citazione da Omero. Iliade, libro 18, 104.

48) Si era dunque diffusa tra i seguaci di Eraclito in Ionia a quei tempi (albori del quarto secolo a.C.) la convinzione

che teoria e sensazione fossero la stessa cosa.

Platone Teeteto

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49) Richiamo al celebre detto "panta rei". Nello stesso periodo il cenno alle teorie filosofiche più antiche riprende

l'allusione a Orfeo contenuta nel Cratilo. Con la scuola di Efeso si intende ovviamente quella di Eraclito che a Efeso

nacque e operò: anzi egli elaborò una dottrina cosmologica che aveva affinità con la scuola milesia di Talete,

Anassimandro e Anassimene.

Si tratta pur sempre di pensatori che ebbero la loro sede nella Ionia: Mileto, Efeso ecc. Per tornare a Eraclito

occorrerà sottolineare che egli, nel determinare il principio dell'universo invece dell'acqua di Talete, dell'aria di

Anassimene, indicò il fuoco: un «fuoco sempre vivente».

50) è un frammento dal poema Sulla natura di Parmenide.

51) Per Parmenide cfr. la nota 15.

52) Due squadre si affrontavano in palestra separate da una linea: se qualcuno indugiava su questa veniva tirato da

una squadra e dall'altra verso la propria parte.

53) è detto in senso ironico rispetto alle loro concezioni.

549 Socrate riprende la sua battuta precedente, nella quale aveva parlato scherzosamente di un grande pericolo da

affrontare.

55) Abbiamo spostato qui, dalla battuta precedente, questo inizio di frase che viene a confermare l'assenso dato da

Teodoro al discorso di Socrate.

56) Sono questi, concetti espressi da Platone anche altrove: cfr. Cratilo.

57) Nativo di Samo, visse nel quinto secolo a.C. Oltre che filosofo fu anche uomo politico di prestigio. Nel 441-440

a.C. ottenne il comando della flotta che si batté vittoriosamente contro Atene, con la quale era stata interrotta l'alleanza.

Scrisse un trattato Sulla natura o sull'essere del quale restano scarsissimi frammenti. Ma il suo pensiero, nel complesso.

è riportato da Simplicio (sesto secolo d.C.). Fu dapprima seguace di Parmenide e della scuola di Elea sulla unità

dell'essere, che successivamente modificò in infinità dell'essere stesso.

58) Cfr. Iliade libro 3,172.

59) In questa ultima battuta di Socrate, Platone accenna, quasi con le stesse parole, al prologo del Parmenide che era

stato già composto, e preconizza la composizione del Sofista che, come la critica ammette, avvenne subito dopo al

Teeteto.

60) Prima il con è riferito all'anima, ma il mediante agli organi corporali.

Poi sembra dire che, almeno in alcuni casi, anche il mediante va riferito all'anima.

61) Non si può avere una sensazione unica, mettendo in moto solo uno dei due sensi relativamente a due cose: una

vista e l'altra udita. Né si può avere un pensiero unico se sono in movimento ambedue i sensi, perché in questo caso si

ha una «sensazione». Il pensiero si ha invece quando la percezione intellettiva è avulsa da ogni senso.

62) L'intenzionalità pura appartiene all'anima: tuttavia anche le sensazioni possono essere intenziollalità.

63) La natura o essenza del duro e del molle.

64) «Essere, verità, conoscenza essere è l'obiettivo essere; verità è l'essere inteso dalla mente; conoscenza e

possedere questa verità» (Platone, Teeteto, a cura di M. Valgimigli, citato).

65) Questo avviene per l'ontologismo di Platone, per cui il sensibile non è; ma per l'empanlogismo e quindi

l'empanontismo di Aristotele e San Tommaso, anche il sensibile comprende l'essere, e quindi anche la sensazione è una

forma, sia pur inferiore di conoscenza.

66) Opinare è essere incerti fra due cose, poterle scambiare tra loro.

A Socrate si potrebbe obiettare: due cose, non conosciute bene, si possono scambiare; cioè le parti non conosciute

permettono di scambiarle; le parti conosciute, invece, di affermarle.

67) Pensare A di B, senza conoscere A, è impossibile per Socrate: egli non pensa alla conoscenza parziale di A, cioè

di una parte di A, ma come parte di A, poiché, per lui, chi pensa conosce. Immagina allora che la cosa B sia un non

essere. Parrebbe dunque che si potesse pensare un non essere senza conoscerlo, dato che conoscerlo è impossibile.

68) Si ricordino a questo punto l'impacciO e le esitazioni di Teeteto all'inizio del dialogo.

69) Discorso arzigogolato per indicare chi vuol tendere insidie al suo interlocutore, proprio, ovviamente, dei sofisti.

70) Come dice il nome stesso, Mnemosine, è il vero simbolo della "memoria".

Secondo la Teogonia esiodea, Mnemosine, figlia di Urano e Gaia, appartenente quindi alla prima schiatta degli dèi,

congiungendosi con Zeus in nove notti, diede alla luce poi le nove Muse.

71) Questa immagine della cera come tramite della memoria nella conservazione di idee e impressioni già provate è

divenuta celebre con questo passo di Platone. Essa comunque era apparsa anche prima (in Democrito). In Aristotele poi

l'anima è come una tavoletta di cera che non contiene in sé iscrizione alcuna: esse vi saranno via via impressionate dalle

nostre riflessioni e sensazioni. Qui del resto la conoscenza viene implicitamente definita come «avere il suggello».

72) Sono quattordici i casi qui elencati, quando nel rapporto tra due oggetti uno solo è conosciuto e può avvenire

l'errore: 1) fra due conoscenze è impossibile lo scambio; 2) così fra non conoscenza e conoscenza; 3) fra due non

conoscenze; 4) fra conoscenza e non conoscenza; 5) fra sensazione e sensazione; 6) fra sensazione e non sensazione; 7)

fra non sensazione e non sensazione; 8) fra non sensazione e sensazione; 9) fra conoscenza e sensazione (omologhe) e

conoscenza e sensazione omologhe; 10) fra conoscenza e conoscenza e conoscenza = sensazione omologa; 11) fra

sensazione e conoscenza sensazione omologa; 12) fra non conoscenza e non sensazione e non conoscenza né

sensazione; 13) fra non conoscenza e non conoscenza e non sensazione; 14) fra non sensazione e non conoscenza non

sensazione.

73) Nella nota precedente abbiamo elencato quattordici punti desunti dall'argomentazione di Socrate: gli esempi

Platone Teeteto

42

forniti in questa ultima battuta riguardano i primi tre: il quarto è contenuto nel generico «gli altri».

74) Sono stati qui esemplificati i quattro casi successivi che riguardano soltanto la sensazione.

75) In quest'ultima battuta Socrate ha esemplificato gli ultimi sei punti di cui si diceva sopra.

76) Ovviamente la somiglianza è nella lingua greca fra i due vocaboli: "chér", contratto da "chéar" "cuore", "cherós"

"cera".

77) Questo nuovo punto del ragionamento non è più contro l'esistenza di opinioni false, ma contro l'esistenza di

opinioni false nel puro pensiero.

Ma siccome occorre una definizione di opinione falsa che sia semplice (e non dicotomica) ciò fa lo stesso.

78) Questo penultimo caso si verificherebbe nell'ipotesi che Teeteto ha avanzato poco sopra: sarebbe impossibile

credere che la non conoscenza in generale - che noi non possiamo avere dinanzi che in qualcosa conosciuta, fosse in

qualcosa non conosciuta, perché in qualcosa non conosciuta non ci può essere in noi; ma è possibilissimo che una non

conoscenza singola (per esempio una sensazione o un'immaginazione) sia scambiata per una conoscenza (in senso

concreto, ma anche in senso astratto).

79) Frase proverbiale attribuita, come risposta, a chi viene richiesto se è alta l'acqua del fiume che si deve

attraversare: intende sottolineare, ovviamente, il valore dell'esperienza diretta.

80) Non è possibile sapere se Platone intenda riferirsi direttamente a qualcuno, o abbia usato il pronome generico

proprio per confutare o esporre in astratto una tesi.

81) Teeteto dice di non ricordare bene e Socrate crede o vuol fare credere di avere avuto a questo proposito un

sogno.

82) Cioè di ben distinguerla, direi di scinderla nei suoi pnncìpi.

83) Si tratta delle sette vocali greche (alfa, épsilon, eta, iota, omicron, omega, ipsilon).

84) Da un punto di vista formale il ragionamento sembrerebbe non filare, perché si può avere come oggetto di

un'azione un tutto e non le parti: per esempio ammirare un quadro, non questa o quella pennellata. Similmente dal fatto

che gli Apostoli sono dodici (gli Apostoli ovviamente pensati dal punto di vista kantiano, nella categoria dell'unità e

non in quella della totalità) non posso inferire che S. Pietro sia dodici.

85) Il pletro è una misura di lunghezza di 100 piedi, equivalente a m. 29,6; dire dunque 100 piedi, oppure pletro,

afferma Socrate, è la stessa cosa e così sarà dopo per stadio che è una misura di lunghezza di 600 piedi.

86) Cioè a nessuno dei due, il tutto e l'intero, proprio per essere tali, può mancare qualcosa.

87) Data la premessa della nota precedente Teeteto afferma l'identità di "tutto" e di "intero".

88) "Idéa" qui è presa nel senso di "oggetto pensabile".

89) Qui pare che la conoscenza sia tale solo quando scaturisce da opinione vera che non sia però casuale.

90) Si potrebbe vedere in questo concetto quasi una anticipazione di «conoscenza chiara e distinta» secondo

Cartesio; mentre la prima interpretazione di "lógos" come "analisi", per analogia richiama la conoscenza chiara e

distinta di Leibniz.

91) Da non dimenticare che ai tempi di Socrate e Platone siamo, e ancora per parecchi secoli, in piena concezione

geocentrica.

92) I Misi, abitualmente, erano considerati con disprezzo: ma qui il tono proverbiale vuole indicare uno qualunque.

93) Si ricordi che fin dalle prime battute del dialogo Teeteto e Socrate sono presentati con tali caratteristiche del

volto.

94) è la sede dell'arconte re ove si dirimevano le accuse di empietà: è lo stesso luogo ove Socrate incontra Eutifrone,

nell'omonimo dialogo.