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Platone
Eutifrone
Platone Eutifrone
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Platone
EUTIFRONE
EUTIFRONE: (1) Cosa è successo di nuovo, Socrate, perché tu, abbandonate le dispute al Liceo (2), ora ti trattieni
qui presso il portico del Re? Perché non credo che anche a te capiti di avere una causa presso il Re (3) come ho io.
SOCRATE: Veramente, Eutifrone, gli Ateniesi non la chiamano causa, ma accusa.
EUTIFRONE: Che dici? Qualcuno dunque ti ha accusato, a quel che pare; io certo non riuscirò a convincermi di
questo: che tu accusi un altro.
SOCRATE: Proprio no.
EUTIFRONE: Dunque un altro accusa te?
SOCRATE: Proprio così.
EUTIFRONE: Ma chi è costui?
SOCRATE: Neppure io lo conosco del tutto, o Eutifrone, questo tizio. Sembra che sia uno giovane e non molto
conosciuto.Lo chiamano, credo, Meleto, ed è del demo Pitteo, se tu hai in mente un tal Meleto Pitteo, che porta i capelli
lunghi, non è ancora del tutto ricoperto dalla barba, e ha il naso adunco.
EUTIFRONE: Non lo ricordo proprio, o Socrate, ma quale accusa ti muove costui?
SOCRATE: Quale? Davvero non ignobile, almeno a me sembra; che uno, di così giovane età, abbia una piena
conoscenza di una questione di tale importanza, non è certo cosa da poco. Costui infatti, come egli stesso asserisce,
conosce in che modo i giovani vengono corrotti e chi sono i loro corruttori. E può darsi che sia un saggio: e, resosi
conto della mia ignoranza, come di uno che corrompe i suoi coetanei, si muove per accusarmi presso la città, come di
fronte alla madre. E mi sembra il solo che dia inizio alle attività politiche dalla parte giusta. É giusto infatti, anzitutto,
darsi pensiero dei giovani al fine di renderli i migliori al possibile, come è naturale che un buon agricoltore si prenda
cura anzitutto delle piante giovani e poi anche delle altre. E così anche Meleto, forse, tenta di togliere via noi che
corrompiamo, come lui sostiene, i germogli giovanì. E dopo, è chiaro, si occuperà dei più vecchi e sarà artefice per la
città di moltissimi e grandissimi benefici, come è verosìmile che capiti a uno che prende le mosse da un tale inizio.
EUTIFRONE: Io lo vorrei proprio, o Socrate, ma temo che accada il contrario: mi sembra infatti che egli dia inizio
a rovinare completamente la città proprio dal focolare (4) apprestandosi a muovere un'accusa contro di te. Ma dimmi:
cosa sostiene che tu fai per corrompere i giovani?
SOCRATE: Cose fuori dall'ordinario, così, almeno, a sentire lui: sostiene infatti che io sono creatore di nuovi dèi,
mentre non considero nulla gli antichi, e mi ha accusato proprio a causa di questi stessi motivi, come lui sostiene.
EUTIFRONE: Comprendo, Socrate, perché tu dici che sempre presso di te hai un demone. E dunque tì muove
questa accusa, che tu vai introducendo delle novità rispetto agli dèi e così se ne viene in tribunale per calunniarti,
sapendo bene che tali calunnie sono ben credibili presso la moltitudine. Anche a me, quando nell'assemblea dico
qualcosa intorno alla divinità e predico loro il futuro, mi deridono come se fossi pazzo. E dire che non c'è cosa alcuna
fra quante io ho predetto, che poi non sia risultata vera; ma, ad ogni modo, portano invidia a tutti noi e a quelli del
nostro stesso stampo. Ma non bisogna poi darsi pensiero per nulla di essi, ma affrontarli.
SOCRATE: Ma, o caro Eutifrone, l'essere derisi, forse, è cosa da nulla. Agli Ateniesi del resto, a mio giudizio, non
importa granché, se pensano che uno sia in gamba, purché non si atteggi a maestro della sua sapienza; se la prendono
invece con colui che credono voglia rendere tali anche gli altri, sia per invidia, come tu dici, sia per qualche altro
motivo.
EUTIFRONE: A questo riguardo, come mai la pensino nei miei confronti, io non desidero proprio di provarlo.
SOCRATE: Probabilmente perché tu sembri poco incline a fare dono di te stesso e comunque non hai desiderio di
insegnare la tua sapienza; io invece, proprio per la mia indole aperta agli altri, temo di apparire ad essi di volere dire a
ogni uomo senza riserva tutto quello che ho entro me stesso e non solo senza alcuna ricompensa (5), ma anzi
rendendomi lietamente disponibile se qualcuno vuole ascoltarmi. Se dunque, cosa che dicevo poco fa, essi volessero
prendersi gioco di me, così come tu dici che fanno di te, non sarebbe per nulla spiacevole passare un po' di tempo in
tribunale ridendo e scherzando; se poi invece faranno sul serio, non è ben chiaro dove tutto questo andrà a parare,
eccetto che a voi, gli indovini.
EUTIFRONE: Ma, probabilmente, la faccenda non sarà un bel nulla, e tu, Socrate, affronterai il processo secondo
il tuo intendimento, così, come io, spero, sosterrò anche il mio.
SOCRATE: E dunque, Eutifrone, hai qualche causa anche tu? Sei accusato o accusi?
EUTIFRONE: Accuso.
SOCRATE: E chi?
EUTIFRONE: Uno che ad accusarlo sembrerà che io sia matto.
SOCRATE: Perché mai? Accusi forse uno che vola?
EUTIFRONE: Quanto a volare ci manca proprio molto: egli si trova, ormai, a essere molto vecchio.
SOCRATE: Ma chi è costui?
EUTIFRONE: Mio padre.
SOCRATE: Tuo padre, o benedetto amico?
EUTIFRONE: Proprio così.
SOCRATE: E quale è l'imputazione? E di che cosa l'accusi?
EUTIFRONE: Di omicidio, o Socrate.
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SOCRATE: Per Ercole! Certo, o Eutifrone, i più ignorano come mai una cosa simile stia in piedi; non penso proprio
che il primo capitato metterebbe in piedi giustamente una causa simile, ma piuttosto uno, che in fatto di saggezza, si sia
fatto molto avanti.
EUTIFRONE: Piuttosto avanti, per Zeus, o Socrate!(6)
SOCRATE: è forse uno dei tuoi parenti, quello che è stato ucciso da tuo padre, non è vero? (7) Certamente, del
resto, non accuseresti d'omicidio proprio lui per un estraneo.
EUTIFRONE: Ma è ridicolo, Socrate, che tu pensi che ci sia qualche differenza se l'ucciso è un estraneo o un
familiare; a questo solo si deve badare se chi ha ucciso lo ha fatto con giustizia, oppure no. E se ha agito giustamente
lasciare perdere, se no, perseguirlo, anche se l'uccisore è un tuo familiare e siede alla tua tavola. Perché la
contaminazione avviene lo stesso se tu convivi con questo tale, essendo consapevole della sua colpa, e non purifichi te
stesso ed anche lui trascinandolo in tribunale. In questo caso il morto era un mio bracciante che prestava la sua opera
presso di noi quando lavoravamo la terra in Nasso. Un giorno dopo essersi ubriacato si adirò con uno dei nostri servi e
lo uccise. Mio padre, fattegli legare le mani e i piedi, lo buttò in un pozzo e mandò qualcuno qua, dall'esegeta,(8) a
sentire cosa occorreva fare. In tutto questo tempo mio padre non si dava pensiero di quell'uomo incatenato, anzi lo
trascurava poiché era un assassino, come se fosse una cosa da nulla se anche poi moriva: ciò che in realtà accadde. Egli
morì infatti per la fame, il freddo e le catene prima che fosse tornato il messo da parte dell'esegeta. Ora, mio padre e gli
altri familiari si rammaricano di questo, che io, per un assassino, accusi di omicidio mio padre, che poi non ha ucciso,
come essi sostengono; e se poi avesse anche ucciso, dato che il morto era un assassino, non bisognava affatto darsi
pensiero di un tale soggetto: che poi è cosa empia, per un figlio accusare il proprio padre dì omicidio, mal distinguendo,
o Socrate, riguardo alle cose della divinità, che cosa sia il santo e cosa il non santo.
SOCRATE: E tu, o Eutifrone, credi proprio di sapere così esattamente come stanno le cose riguardo le divinità e
cosa sia il santo e cosa il non santo, tanto da non aver paura, pur stando le cose così come tu le hai esposte, di non
trovarti a compiere tu stesso qualche cosa empia, accusando tuo padre di omicidio?
EUTIFRONE: Ma no, o Socrate, e certamente nessun utile vi sarebbe da me e in nulla differirebbe Eutifrone dalla
maggior parte degli uomini, se non mi trovassi a conoscere proprio bene tutte queste cose.
SOCRATE: Ma allora, o ammirabile Eutifrone, la scelta migliore per me è il diventare tuo scolaro e prima ancora
della discussione della causa che ho con Meleto invitarlo a considerare questo stesso argomento e dirgli così: che io, già
nel passato, facevo gran conto di conoscere le questioni sulla divinità; ora invece, siccome egli afferma che riguardo
alle cose divine parlando senza ponderazione e introducendo delle novità ho commesso delle colpe, sono diventato tuo
scolaro; «E se», gli direi, «o Meleto, tu ammetti che Eutifrone è profondo su tali argomenti allora pensa pure che
anch'io valuto rettamente e non intentarmi un processo; in caso contrario il processo devi intentarlo prima a lui che a
me; a lui come maestro, perché corrompe i vecchi, me e suo padre; me, in quanto mi impartisce l'istruzione, suo padre,
perché vuole riprenderlo e che sia anche punito». E se non mi dà ascolto e non mi solleva dall'accusa o non denuncia te
al posto mio, occorre dire in tribunale queste cose con le quali mi rivolsi a lui?
EUTIFRONE: Ma per Zeus, o Socrate, se metterà mano ad accusare me, troverò bene, io penso, il punto in cui è
vulnerabile e fra noi due in tribunale la questione si farebbe prima sul conto suo che sul mio.
SOCRATE: Anch'io per questo, o caro amico, conoscendo queste cose desidero diventare tuo scolaro, sapendo che
anche un altro qualsiasi quanto questo Meleto non sembra neppure accorgersi di te, mentre di me si è accorto così
profondamente e alla svelta tanto che mi accusa di empietà. Ora dimmi dunque, per Zeus, quello che poco fa sostenevi
di conoscere sicuramente: cosa è mai quello che sostieni è santo e non santo riguardo l'omicidio e tutte le altre
questioni? Il santo dunque non è identico a se stesso in ogni azione, e l'empio, a sua volta, non è il contrario di tutto ciò
che è santo, ed esso poi è simile a se stesso e contiene una sola forma rispetto all'empietà, tutto ciò che sta per non
essere santo?
EUTIFRONE: è assolutamente così, senza dubbio, o Socrate.
SOCRATE: Ebbene dunque, dì: cosa sostieni essere il santo e il non santo?
EUTIFRONE: Affermo dunque che è santo quello che faccio ora, cioè trascinare in tribunale chi si rende colpevole
o di omicidio o del furto di cose sacre o commette qualche altro reato simile, anche se costui è tuo padre, o tua madre o
qualunque altro congiunto; mentre è empio non trascinarlo in giudizio. E osserva bene o Socrate che io ti esporrò una
grande prova, che la legge sta così, non concedere tregua all'empio, chiunque esso si trovi ad essere; cosa che dicevo
anche ad altri che queste questioni si risolverebbero rettamente soltanto in questo modo. Del resto proprio gli uomini si
trovano a pensare che Zeus sia il migliore e il più giusto di tutti gli dèi, e convengono che abbia legato il proprio padre
perché aveva ingoiato i suoi figli non secondo giustizia e che quello, a sua volta, abbia mutilato il suo stesso padre (9)
per altre simili ragioni. Ora proprio costoro se la prendono contro di me perché denuncio un padre che ha commesso
ingiustizia e così si contraddicono di per se stessi e riguardo agli dèi e sul conto mio.
SOCRATE: è così, Eutifrone, questo è il punto per cui sono accusato, perché quando uno espone sugli dèi tali
dicerie io le ascolto piuttosto mio malgrado? É proprio per questi motivi, come pare, che qualcuno dirà che io sono
colpevole. Ora, se le cose sembrano stare così anche a te, che ben sei profondo in tali questioni, è necessario, come pare,
convenirne anche con noi. Cosa potremmo dire, del resto, noi che su tali problemi ammettiamo di non sapere nulla? Ma
dimmi pure, per Zeus protettore dell'amicizia, pensi anche tu che queste cose siano avvenute in tale maniera?
EUTIFRONE: Ma cose ancora più sorprendenti di queste, o Socrate, che la moltitudine non conosce.
SOCRATE: E dunque pensi, in realtà, che tra gli dèi vi sia guerra tra di loro e inimicizie terribili e scontri e altre
questioni di questo genere, come sono cantate dai poeti e dipinte per noi dai bravi pittori e di cui, nelle grandi
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Panatenee, il peplo adorno di siffatte raffigurazioni viene portato in cima all'Acropoli? Diremo dunque che sono vere
queste cose, o Eutifrone?
EUTIFRONE: Non solo, o Socrate, ma come ti dicevo poco fa, te ne esporrò anche molte altre, se vorrai, sulle
questioni divine, e so bene che tu ascoltandole resterai molto colpito.
SOCRATE: Non me ne meraviglierei: ma mi esporrai tutto questo un'altra volta con comodo. Ora invece cerca di
dirmi in modo più chiaro quello che ti chiedevo poco fa. Perché, amico mio, non m'hai istruito abbastanza quando ti
chiedevo che cos'è mai il santo, ma tu mi hai risposto che il santo è proprio quello che vai facendo tu, ora, accusando
tuo padre d'omicidio.
EUTIFRONE: E dicevo la verità o Socrate.
SOCRATE: Può essere; però, Eutifrone, tu affermi che sono sante molte altre cose.
EUTIFRONE: è così, senza dubbio.
SOCRATE: Tu ricordi certamente che io non ti chiedevo questo, di insegnarmi una o due delle molte azioni sante,
ma proprio quell'idea per la quale tutti gli atti sono santi: dicevi infatti un pressappoco che gli atti empi sono empi in
virtù di una sola idea e i santi sono santi, o non ricordi?
EUTIFRONE: Io, sì.
SOCRATE: Allora insegnami dunque questa idea in sé, quale mai è, affinché mirando ad essa e avvalendomene
come modelìo, quello che è somigliante fra le azioni che tu o qualche altro fate io possa dire che è santo, mentre non
abbia la possibilità di dirlo su quello che somigliante non è.
EUTIFRONE: Se tu vuoi così, Socrate, ti risponderò così.
SOCRATE: Ebbene, voglio proprio così.
EUTIFRONE: Ecco dunque: è santo ciò che è caro agli dèi, e ciò che non è caro non è santo.
SOCRATE: Benissimo, Eutifrone. Così come cercavo che tu mi rispondessi, così mi hai risposto. Se poi in modo
conforme al vero, questo non so ancora. Ma è chiaro che tu saprai dimostrarmi che è vero quel che tu dici.
EUTIFRONE: Ma certamente.
SOCRATE: Orsù, dunque, consideriamo cosa stiamo dicendo: ciò che è caro agli dèi è santo, mentre ciò che è in
odio agli dèi e l'uomo che è in odio agli dèi non è santo; non sono del resto la stessa cosa, ma il santo è del tutto
contrario all'empio.
Non è così?
EUTIFRONE: è proprio così.
SOCRATE: E sembra essere stato detto bene?
EUTIFRONE: Lo credo davvero, o Socrate.
SOCRATE: Non è stato detto anche questo, o Eutifrone, che gli dèi litigano e ci sono anche discordie tra loro, ed
esiste inimicizia tra di essi, gli uni contro gli altri?
EUTIFRONE: è stato detto, sì.
SOCRATE: Ma intorno a quali cose il dissenso produce inimicizie e ire? Facciamo attenzione dunque, così. Se
facessimo questione io e tu intorno a un numero, su quale dei due è più grande, forse che il dissenso potrebbe renderci
nemici ed adirarci l'uno contro l'altro, oppure, una volta giunti al calcolo intorno a tali cose, subito ci trarremmo fuori
dall'impaccio?
EUTIFRONE: Ma certamente.
SOCRATE: E se facciamo questione su ciò che è più grande e ciò che è più piccolo, una volta giunti alla
misurazione, non cesseremmo subito dalla contesa?
EUTIFRONE: è così.
SOCRATE: E quando avessimo pesato, come io penso, sapremmo pure giudicare quale dei due oggetti è più
pesante e quale più leggero?
EUTIFRONE: E come no?
SOCRATE: Su che cosa dunque, essendo discordi, e a quale giudizio non potendo giungere noi potremmo essere
nemici l'un l'altro e trovarci in collera? Forse la risposta non ti è alla mano, ma presta attenzione mentre io parlo, se
sono questi i punti e cioè il giusto e il non giusto, il bello e il brutto, il buono e il cattivo. Non sono questi i punti, su cui
trovandoci in discordia e non essendo in grado di raggiungere un giudizio soddisfacente, noi possiamo diventare nemici
gli uni agli altri, quando lo diventiamo ed io, e tu, e tutti gli altri uomini?
EUTIFRONE: Ma è precisamente qui il dissenso, Socrate, su questi punti.
SOCRATE: Dunque, o Eutifrone: gli dèi se hanno qualche dissenso, non l'hanno proprio a causa di queste cose?
EUTIFRONE: Per forza, è così.
SOCRATE: E dunque tra gli dèi, o nobile Eutifrone, secondo il tuo discorso, alcuni stimano alcune cose giuste e
belle e turpi e buone e cattive: ìnfatti non sarebbero in discordia tra di loro se non dissentissero intorno a questi motivi.
Non è così?
EUTIFRONE: Dici bene.
SOCRATE: E dunque le cose che ciascuno di essi stima buone e giuste, queste le amano veramente, mentre odiano
quelle che ne sono l'esatto contrario?
EUTIFRONE: Certamente.
SOCRATE: Ma allora, come tu sostieni, alcuni reputano certe cose giuste, altri ingiuste; e facendo questione su di
queste si trovano in lite e in guerra tra di loro. Non è così?
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EUTIFRONE: è così.
SOCRATE: Allora dunque, è evidente ormai, dagli dèi sono odiate ed amate le stesse cose; e dunque le cose in odio
agli dèi e quelle care sarebbero la stessa cosa.
EUTIFRONE: Pare proprio così!
SOCRATE: E allora, Eutifrone, secondo il tuo ragionamento, sarebbero sante e non sante.
EUTIFRONE: Parrebbe proprio così.
SOCRATE: Ma tu non hai risposto, o amico meraviglioso, a quel che ti chiedevo; io non ti domandavo quello che a
un tempo si trova ad essere santo e non santo; quello che, pur essendo caro agli dèi è anche in odio ad essi, a quanto
sembra. Tanto, o Eutifrone, quello che vai compiendo ora, intendendo punire tuo padre, non v'è alcuna meraviglia, se
facendo questo tu compi azione gradita a Zeus, ma odiosa a Crono e Urano, cara a Efesto, ma in odio a Era. E se fra gli
dèi v'è alcun altro che su questo punto dissente da qualcun altro, anche per quelli sarà la stessa cosa.
EUTIFRONE: Ma io ritengo, o Socrate, che nessuno degli dèi può dissentire da un altro, sul fatto cioè che non
debba pagare una pena colui che ha ucciso ingiustamente un altro.
SOCRATE: Cosa dunque, o Eutifrone? Hai mai sentito finora qualcuno che dubiti sul fatto che occorre che chi ha
ucciso, o ha compiuto ingiustamente qualunque altra azione, non debba pagare una pena?
EUTIFRONE: Per la verità non la finiscono mai di discutere di queste cose sia altrove che nei tribunali; e quanti ne
hanno combinato di ogni colore dicono e fanno di tutto per potere sfuggire alle pene.
SOCRATE: Dunque ammettono, Eutifrone, di aver commesso delle colpe e, pur riconoscendolo, pretendono di non
dover pagare la pena?
EUTIFRONE: Questo no, assolutamente.
SOCRATE: Allora essi non dicono e fanno di tutto; e io penso che questo non abbiano l'ardire di confessarlo e di
discuterlo, che, se hanno commesso delle colpe, non devono scontarne le pene; sostengono piuttosto, a mio parere, di
non avere commesso colpe, o no?
EUTIFRONE: Tu dici il vero.
SOCRATE: Non è questa dunque la questione su cui dibattono, che colui che ha commesso delle colpe non debba
pagarne lo scotto. Discutono invece su questo punto: chi è che commette colpa, cosa fa e quando.
EUTIFRONE: Tu dici il vero.
SOCRATE: E dunque non è la stessa cosa che provano anche gli dèi, se litigano sulle azioni giuste e ingiuste,
secondo il tuo discorso, e alcuni sostengono che gli uni hanno commesso ingiustizia e gli altri no? Perché è questo il
punto, o mio caro, sul quale nessuno degli dèi e degli uomini osa affermare che non deve pagare una pena chi ha
commesso una colpa.
EUTIFRONE: Sì, o Socrate, in sostanza è vero quello che tu dici.
SOCRATE: Ma è su ciascuna delle azioni compiute che disputano quelli che disputano, sia uomini che dèi, se pure
gli dèi discutono; e proprio perché sono in contraddizione su qualche azione gli uni affermano che è stata compiuta
giustamente, gli altri no. Non sta forse così?
EUTIFRONE: Proprio così.
SOCRATE: Orsù dunque, caro Eutifrone, insegna anche a me perché io divenga più sapiente: quale è per te la
prova che tutti gli dèi ritengano che sia morto ingiustamente colui che, lavorando a giornata, divenuto assassino, messo
in catene dal padrone dell'ucciso, prevenga morendo a sua volta per le catene, prima che chi lo ha messo in ceppi venga
a sapere da parte degli esegeti cosa occorre fare, e se è giusto che, per un tale soggetto, il figlio intenti un processo e
accusi di omicidio il proprio padre? Suvvia, tenta di dimostrare a me qualcosa di chiaro su tali questioni, cioè che tutti
gli dèi, più di ogni altra cosa, stimano che sia giusta questa iniziativa. E se riuscirai a dimostrarmelo a sufficienza, io
non cesserò mai di lodarti per la tua saggezza.
EUTIFRONE: Probabilmente, o Socrate, non è cosa da poco, per quanto io potrei dimostrartelo in modo chiaro e
limpido.
SOCRATE: Capisco bene di sembrare a te più tardo a capire dei tuoi giudici, perché ad essi tu dimostrerai
chiaramente che questa faccenda è ingiusta e che gli dèi tutti la odiano senza eccezione.
EUTIFRONE: Certo e anche chiaramente, o Socrate, purché essi mi ascoltino mentre parlo.
SOCRATE: Ti ascolteranno di sicuro, purché sembri che tu parli bene. Poi, mentre tu parlavi, mi è venuta in mente
una cosa e vado rimuginando entro me stesso: «Se Eutifrone riuscirà a dimostrarmi che tutti gli dèi ritengono ingiusta
questa morte, cosa avrò appreso in più da Eutifrone su cosa mai è il santo e il non santo?». Sarà pure odiosa agli dèi
questa azione, come pare, ma non per questo apparvero ben definiti poco fa il santo e il suo contrario, giacché è apparso
che quel che è in odio è pure caro ad essi; tanto che io ti lascio libero su questo punto, o Eutifrone, se a te pare, stimino
pure ingiusta questa azione tutti gli dèi e la odino tutti. Ma allora, nel nostro discorso, correggiamo questo punto: cioè
che è empio tutto ciò che è in odio agli dèi, è santo quello che loro amano. Ma quello che alcuni amano ed altri odiano,
non è né l'una né l'altra cosa, oppure è ambedue le cose insieme. (10)
EUTIFRONE: E cosa ce lo impedisce, o Socrate?
SOCRATE: Nulla, almeno per quel che mi riguarda, o Eutifrone; ma vedi un po' tu il fatto tuo, se, ammettendo
questo, potrai dimostrare a me quello che promettevi.
EUTIFRONE: Ma io direi che questo è il santo, quello che riesce caro a tutti gli dèi; e il contrario invece, quello
che tutti gli dèi odiano, è il non santo.
SOCRATE: Orbene, Eutifrone, dobbiamo riconsiderare se è detto bene questo, o vogliamo lasciare correre. E
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senz'altro l'accettiamo noi stessi e anche gli altri, solo che qualcuno dica che qualcosa sta così, convenendo che sta
proprio così? O dobbiamo esaminare bene cosa dice colui che parla?
EUTIFRONE: Dobbiamo esaminare bene; anche se io credo che questo, ora, sia detto proprio bene.
SOCRATE: Lo sapremo meglio alla svelta, mio buon amico. Considera dunque questo fatto: il santo, proprio perché
è santo, è amato dagli dèi, oppure è santo perché è amato da essi?
EUTIFRONE: Non so cosa vuoi dire, o Socrate.
SOCRATE: Ma io tenterò di dirlo più chiaramente. A proposito di una cosa noi diciamo che è portata e porta, che è
condotta e conduce, che è vista e vede. E tu comprendi bene che tutte queste cose sono diverse le une dalle altre e in che
cosa sono diverse?
EUTIFRONE: A me pare proprio di capire.
SOCRATE: E dunque anche la cosa amata non è forse diversa dall'altra che ama?
EUTIFRONE: Come no?
SOCRATE: Ora rispondi: la cosa portata è portata perché si porta o per qualche altra causa?
EUTIFRONE: No; proprio per questo.
SOCRATE: E allo stesso modo la cosa condotta perché viene condotta e la cosa vista, perché viene vista?
EUTIFRONE: Certamente.
SOCRATE: Dunque una cosa non perché è veduta, per questo si vede, ma al contrario, perché si vede per questo è
veduta, e neppure perché è condotta si conduce, ma perché si conduce proprio per questo è condotta, né perché è
portata, si porta, ma proprio perché si porta è portata. É chiaro, ormai, Eutifrone, quello che voglio dire? Voglio dire
questo: che se avviene una cosa o subisce un qualche fenomeno, non perché è avvenuta essa avviene, ma poiché
avviene è avvenuta. E non patisce perché è paziente, ma perché è paziente patisce. O non sei d'accordo così?
EUTIFRONE: Io sì.
SOCRATE: Dunque anche l'amato non è cosa che è avvenuta e che subisce alcun ché da un'altra cosa?
EUTIFRONE: Ma certo.
SOCRATE: E allora anche questo sta così come ai punti precedenti: che non perché è amata una cosa viene amata
da coloro che l'amano, ma proprio perché si ama, viene amata?
EUTIFRONE: Per forza!
SOCRATE: Ma intorno al santo allora cosa vogliamo dire, o Eutifrone? Non viene amato, secondo il tuo discorso,
da tutti gli dèi?
EUTIFRONE: Certo.
SOCRATE: Dunque è amato per questo, perché è santo, o per qualche altra ragione?
EUTIFRONE: No, ma per questo.
SOCRATE: Dunque perché è santo viene amato, e non perché viene amato è santo?
EUTIFRONE: Pare così.
SOCRATE: Ma perché è amato dagli dèi è amato ed è anche caro agli dèi?
EUTIFRONE: Come no?
SOCRATE: Dunque non è santo ciò che è caro agli dèi, o Eutifrone, e neppure è santo ciò che è caro agli dèi, come
tu dici, ma questo è tutt'altra cosa da questo.
EUTIFRONE: Come dici, o Socrate?
SOCRATE: Perché abbiamo concordato che il santo perché si ama è santo, ma non perché è santo in quanto si ama.
Non è così?
EUTIFRONE: Sì.
SOCRATE: Concordiamo poi che ciò che è caro agli dèi, perché è amato dagli dèi, proprio per questo essere amato
è caro agli dèi, ma non perché è caro agli dèi, per questo viene amato.
EUTIFRONE: Dici il vero.
SOCRATE: Ma, se fossero la stessa cosa ciò che è caro agli dèi e il santo, se il santo veniva amato proprio per il
fatto di essere santo, anche ciò che è caro agli dèi sarebbe amato proprio per il fatto di essere caro agli dèi; se poi ciò
che è caro agli dèi, era caro agli dèi proprio per il suo essere amato dagli dèi, anche il santo sarebbe santo proprio per
l'essere amato dagli dèi. Ma tu comprendi bene che queste due cose stanno in maniera opposta e che sono assolutamente
diverse l'una dall'altra. Infatti l'una è tale da essere perché è amata; l'altra poi, perché è tale da essere amata. Ma tu
rischi, Eutifrone, mentre io ti chiedo cosa mai è il santo, di non volere manifestarne a me l'essenza, ma di dirmi, intorno
a questo, solo una qualità accidentale, un qualcosa che codesto santo ha provato, come appunto l'essere amato da tutti
gli dèi; ma cosa poi non l'hai ancora detto. Ma se per te è cosa grata, non tenermela nascosta, ma dimmi ancora un'altra
volta da capo che cosa mai è il santo; sia che venga amato dagli dèi, sia che qualunque cosa abbia a provare; non è
infatti intorno a questo particolare che ci saranno differenze tra noi. Ma dimmi dunque con cura cos'è il santo e cosa il
non santo?
EUTIFRONE: Ma Socrate io non so proprio come dirti quello che ho in mente; infatti quello che poniamo come
premessa gira continuamente intorno a noi e non vuole proprio rimanere saldo nel punto dove noi lo collochiamo.(11)
SOCRATE: Le ragioni da te addotte, o Eutifrone, sembrano appartenere al mio antico progenitore Dedalo.(12) E se
fossi io a dirle e a farle, queste definizioni, forse potresti burlarti di me, come se anche a me, per il vincolo di parentela
che ho con lui, le mie opere, fatte di parole, mi scappassero via e non volessero rimanere dove uno le colloca. Ora però
le definizioni sono tue e quindi hai bisogno di qualche altro motto di spirito; perché proprio a te non vogliono stare
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ferme, come pare anche a te stesso.
EUTIFRONE: A me pare, Socrate, che le cose belle abbiano bisogno dello stesso motto di spirito. Infatti non sono
io a porre in esse questo loro girare attorno e non stare ferme nello stesso posto, ma sei tu che a me sembri Dedalo;
perché, quanto a me, esse rimarrebbero ferme così.
SOCRATE: E dunque io correrei il rischio di essere nell'arte divenuto più abile di quell'uomo di tanto; in quanto lui
le sue sole statue costruiva in modo che non stessero ferme; io invece, oltre alle mie, a quel che sembra, faccio muovere
anche quelle degli altri. E la cosa più simpatica per me è questa che io sono abile senza volerlo. Desidererei infatti che i
miei discorsi rimanessero fermi e se ne stessero immobilmente insediati più che a me venisse la ricchezza di
Tantalo,(13) oltre alla capacità nell'arte di Dedalo. Ma basta di tutto questo. E siccome mi sembra che tu batta la fiacca,
mi adopererò io in tuo favore per mostrare come tu possa istruirmi intorno al santo e non stancarti anzi tempo. Pensa
dunque se non ti sembra necessario che tutto il santo sia giusto.
EUTIFRONE: A me sì.
SOCRATE: E forse, dunque, anche tutto il giusto è santo, o il santo è tutto giusto, ma il giusto non è tutto santo, ma
una parte di esso è santo, un'altra invece è qualche altra cosa?
EUTIFRONE: Non riesco, o Socrate, a tenere dietro alle tue parole.
SOCRATE: E dire che sei più giovane di me, e non di poco, e tanto più sapiente. Ma, come dico, tu batti la fiacca
per la ricchezza del tuo sapere. Ma avanti dunque, te beato, concentrati un po', perché non è difficile capire quello che io
dico. Io dico esattamente il contrario di quello che cantò il poeta quando scrisse: Zeus che fece e che piantò tutte queste
cose tu non vuoi celebrare; infatti dove è paura, lì è anche rispetto. Ora io differisco dal poeta:(14) devo dirti dove
differisco da te?
EUTIFRONE: Ma certo.
SOCRATE: A me non pare che sia giusto «dove è paura, ivi è anche rispetto», perché a me pare che molti temano
malattie, miseria e molti altri simili malanni, ma rispettare proprio queste cose che temono, proprio no. Non sembra così
anche a te?
EUTIFRONE: Certamente.
SOCRATE: Invece, dove è rispetto, lì è anche paura. Perché chi ha pudore e vergogna di qualche sua azione, non
avrà paura e non ha timore della fama che gli viene dalla propria malvagità?
EUTIFRONE: Ne ha vergogna sì.
SOCRATE: Dunque non sta bene dire: «Ove è paura ivi è anche rispetto», ma ove è rispetto ivi è anche paura, e
non ove è paura lì c'è sempre rispetto; perché rispetto è parte della paura, come il dispari è parte del numero; tanto che
non sempre ove è il numero ivi è anche il dispari, e dove è il dispari, ivi è anche il numero. E ora, almeno, ce la fai in
qualche modo a seguirmi?
EUTIFRONE: Sì, certo.
SOCRATE: Dunque, anche prima, dicendo una cosa simile, io ti chiedevo: ove è il giusto, lì è anche il santo?
Oppure dove è il santo, ivi è anche il giusto, ma dove è il giusto, non sempre lì è anche il santo. Il santo infatti è parte
del giusto. Dobbiamo dire così, o a te pare altrimenti?
EUTIFRONE: No, così. Mi pare proprio che tu dica bene.
SOCRATE: Bada, ora, a quel che segue. Se il giusto è parte del santo, occorre che noi, a quanto pare, troviamo
quale parte del giusto sia il santo. Così se tu mi chiedessi qualcuna delle cose di poco fa, per esempio, quale parte del
numero è il pari, e quale si trovi a essere questo numero, io dovrei risponderti che è quello che non è scaleno, ma
isoscele. Non sembra così anche a te?
EUTIFRONE: A me sì.
SOCRATE: Tenta dunque di insegnarmi quale parte del giusto è il santo, perché io possa dire a Meleto di non farmi
più ingiustizia e di non accusarmi ancora di empietà, avendo da te sufficientemente imparato quali sono le cose pie e
sante e il loro contrario.
EUTIFRONE: Ebbene, a me dunque pare o Socrate che la parte del giusto che è pia e santa è quella che riguarda la
cura degli dèi, quella poi che riguarda la cura degli uomini è la rimanente parte del giusto.
SOCRATE: Anche a me pare che tu parli bene, o Eutifrone, ma sono ancora bisognoso di una piccola
delucidazione: infatti non capisco ancora che razza di cura sia quella di cui tu parli, perché tu non dici certamente che
quali sono le cure che si seguono per le altre situazioni, tale è anche quella per gli dèi. E noi lo diciamo in certo qual
modo; affermiamo, ad esempio, che non tutti sanno curare i cavalli, ma soltanto colui che ha pratica di cavalli. O no?
EUTIFRONE: Ma certamente.
SOCRATE: Infatti, è l'arte del cavallaro, la cura dei cavalli.
EUTIFRONE: Sì.
SOCRATE: E anche a proposito dei cani, non tutti sanno curarli, ma soltanto l'allevatore.
EUTIFRONE: è così.
SOCRATE: Infatti l'arte dell'allevatore è la cura dei cani.
EUTIFRONE: Certamente.
SOCRATE: E quella del bovaro è la cura dei buoi.
EUTIFRONE: Senza dubbio.
SOCRATE: E la santità dunque e la devozione sono la cura degli dèi?
Dici così, Eutifrone?
Platone Eutifrone
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EUTIFRONE: Io sì.
SOCRATE: E dunque ogni cura non tende allo stesso risultato? Ad esempio: per il bene e per il giovamento di quel
che viene curato. Come tu vedi che i cavalli, curati dall'arte del cavallaro, ne traggono giovamento e diventano migliori.
Non pare anche a te?
EUTIFRONE: A me sì.
SOCRATE: E così i cani, dall'arte del loro allevatore, e i buoi, da quella del bovaro, e tutte le altre cose alla stessa
maniera. Oppure tu pensi che la cura riesca di danno a quel che viene curato?
EUTIFRONE: Per Zeus! Io no!
SOCRATE: Ma per il giovamento?(15)
EUTIFRONE: Come no?
SOCRATE: Ma allora anche la santità, che è la cura degli dèi, rende anche gli dèi migliori? E tu dovresti ammettere
che, quando compi un'azione santa, rendi forse migliore qualcuno degli dèi?
EUTIFRONE: Ma no per Zeus, io no!
SOCRATE: Ma nemmeno io, Eutifrone, penso che dica questo. Ne son parecchio lontano. Ma proprio per questo io
ti chiedevo quale mai dicessi fosse la cura degli dèi, non pensando proprio che tu indicassi quella.
EUTIFRONE: E giustamente, Socrate, perché io non dico quella.
SOCRATE: E sia. Ma allora che tipo di cura degli dèi sarebbe la santità?
EUTIFRONE: Quella, o Socrate, che i servi compiono rispetto i loro padroni.
SOCRATE: Capisco: sarebbe allora, pare, un'arte di servire gli dèi.
EUTIFRONE: Certo, è così.
SOCRATE: Ora dovresti dirmi: l'arte che serve ai medici, al raggiungimento di quale scopo si trova a servire? Non
pensi al raggiungimento della salute?
EUTIFRONE: Io sì.
SOCRATE: E l'arte che serve ai costruttori di navi al raggiungimento di quale scopo serve?
EUTIFRONE: è chiaro, Socrate: serve alla costruzione di una nave.
SOCRATE: E quella che serve ai costruttori di case, per la costruzione di una casa?
EUTIFRONE: Sì.
SOCRATE: Dimmi dunque, carissimo: l'arte che serve agli dèi al raggiungimento di quale scopo serve? É chiaro
che tu lo sai, perché, sei proprio a dire che, in fatto di cose divine, te ne intendi assai più degli altri uomini.
EUTIFRONE: E dico la verità, (16) o Socrate.
SOCRATE: Dimmi, per Zeus, quale è mai quel fine bellissimo che gli dèi realizzano quando si avvalgono di noi
come collaboratori?
EUTIFRONE: Sono molti e belli, o Socrate.
SOCRATE: Infatti anche i generali realizzano molti fini e belli, o amico!
Tuttavia potresti dirmi con facilità il fine sostanziale che raggiungono: non è forse la vittoria nella guerra?
Oppure no?
EUTIFRONE: Come no?
SOCRATE: Molti fini e belli, io penso, raggiungono anche gli agricoltori. Tuttavia il fine sostanziale della loro
realizzazione è il nutrimento che deriva dalla terra.
EUTIFRONE: Certamente.
SOCRATE: Orbene, dei molti e belli fini che gli dèi raggiungono, qual è il fine sostanziale della loro attività?
EUTIFRONE: Te l'ho detto anche poco fa, o Socrate, che è cosa che richiede parecchia fatica imparare esattamente
come stanno tutte queste cose. Questo solo posso dirti, in tutta semplicità, che se uno sa dire e fare cose gradite agli dèi,
sia con le preghiere che coi sacrifici, questo appunto è il santo ed è questo che salva le cose private e il bene comune
delle città; il contrario, invece, di ciò che è gradito agli dèi, è empio; ed è quello che tutto sconvolge e manda in rovina.
SOCRATE: Avresti potuto espormi la sostanza di quel che ti chiedevo, molto più brevemente, o Eutifrone. Ma tu
non sei disposto a istruirmi. É chiaro. E proprio ora che eri sul punto di farlo, hai deviato. Se invece avessi risposto, io
avrei già imparato sufficientemente da te cos'è la santità. Ora però, è pur necessario che l'amante tenga dietro all'amato,
ove costui lo conduce: orbene dunque cosa dici che è il santo e la santità? Non è forse una scienza di pregare e fare
sacrifici?
EUTIFRONE: Sì.
SOCRATE: E fare sacrifici non è forse un donare agli dèi, mentre il pregare è avanzare loro delle richieste?
EUTIFRONE: Senza dubbio, Socrate.
SOCRATE: Secondo questo discorso santità sarebbe allora una scienza di fare doni e fare richieste agli dèi.
EUTIFRONE: Molto bene, o Socrate: hai capito quello che io dicevo.
SOCRATE: Sì perché, o amico, io sono così desideroso della tua sapienza e volgo la mente ad essa, tanto che
neppure un nulla, di quello che tu dici, mi cadrà a terra. Ma dimmi, dunque, qual è questo servizio verso gli dèi? Dici
dunque che è un fare richieste ma anche donativi a loro?
EUTIFRONE: Io sì.
SOCRATE: E dunque chiedere rettamente ad essi non sarà proprio domandar loro quelle cose di cui abbiamo
bisogno da loro?
EUTIFRONE: E cosa d'altro?
Platone Eutifrone
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SOCRATE: E, allo stesso modo, il fare doni ad essi rettamente, non sarà ricambiare a loro proprio quelle cose di cui
si trovino ad avere bisogno da noi? Perché non sarebbe ragionevole fare doni dando a uno quello di cui non ha bisogno.
EUTIFRONE: Tu dici bene, Socrate.
SOCRATE: La santità allora, o Eutifrone, sarebbe una sorta di arte commerciale fra gli dèi e gli uomini tra loro.
EUTIFRONE: Chiamala pure arte commerciale, se a te è più gradito chiamarla così.
SOCRATE: Ma a me non è per nulla più gradito, se non si identifica perfettamente col vero. Dimmi invece: qual è
l'utilità che può venirne agli dèi dai doni che essi ricevono da noi? Quanto a quelli che essi danno, è chiaro a tutti: non
abbiamo alcun bene che non ci venga da essi. Ma da quelli che essi ricevono da noi, che utile ricavano? Oppure, tanto ci
avvantaggiamo noi su di essi, in questo rapporto scambievole, al punto che noi riceviamo da loro ogni bene ed essi, da
noi, un bel nulla?
EUTIFRONE: Ma tu pensi veramente, o Socrate, che essi traggano giovamento dai beni che ricevono da noi?
SOCRATE: Ma allora cosa sarebbero mai, o Eutifrone, questi doni da parte nostra agli dèi?
EUTIFRONE: Ma cos'altro hai in mente se non onori, offerte, o, quello che io dicevo poco fa, e gradita
benevolenza?
SOCRATE: Allora dunque, Eutifrone, il santo è quello che è gradito agli dèi e non quello che loro è caro e torna
utile?
EUTIFRONE: Sì, ciò che è caro, penso, al di sopra di ogni altra cosa.
SOCRATE: Santo allora, pare, è da capo quello che è caro agli dèi.
EUTIFRONE: Proprio così.
SOCRATE: E dunque ti meravigli, facendo queste affermazioni, se i tuoi discorsi sembrano non stare fermi, ma
anzi andare a spasso e rimproveri me, come fossi Dedalo che li fa camminare, mentre tu sei molto più abile di Dedalo e
li fai girare tutt'intorno? E non ti rendi conto che il discorso, dopo aver percorso un giro tutto tondo, se ne torna di
nuovo allo stesso punto? Dovresti ricordare che, anche nel nostro precedente ragionamento, il santo e ciò che è caro agli
dèi non ci apparvero la stessa cosa, ma l'una diversa dall'altra; o non l'hai più in mente?
EUTIFRONE: Io sì.
SOCRATE: Ora, non pensi dunque che dici santo ciò che è caro agli dèi; questo poi cos'altro è se non ciò che loro è
caro? O no?
EUTIFRONE: Certo.
SOCRATE: Dunque, o non ci si accordava bene poco fa, o se bene, allora non disponiamo bene, ora, i nostri
ragionamenti.
EUTIFRONE: Pare.
SOCRATE: Allora noi dobbiamo esaminare attentamente di nuovo cos'è il santo, perché io, prima che non l'abbia
appreso, non mi lascerò spaventare di buon grado. Ma tu non dimostrarmi minore considerazione, ma concentra la
mente in ogni modo ora più che puoi, dimmi la verità. Perché tu la conosci, se mai alcun altro uomo, e non bisogna
lasciarti andare, come Proteo, (17) prima che tu abbia parlato. Perché se tu non avessi una conoscenza sicura di ciò che
è santo e ciò che è empio, non c'è ragione che tu avessi deciso per quel lavorante di accusare di omicidio tuo padre, che
è vecchio, ed anzi, al cospetto degli dèi, avresti avuto timore di rischiare di compiere un'azione non giusta facendo
questo, e avresti provato vergogna nel confronto degli uomini. Ora, io so bene che tu pensi di conoscere con sicurezza
ciò che è santo e ciò che non lo è: dimmelo dunque, o carissimo Eutifrone, e non nascondermi cosa pensi di questo.
EUTIFRONE: Un'altra volta, (18) o Socrate, ora mi affretto ad andare in un luogo ed è ora, per me, che vada.
SOCRATE: Oh, che fai, amico! Te ne vai e mi fai precipitare da una grande speranza che avevo, che avendo
appreso da te le cose sante e quelle non sante, mi sarei scrollato di dosso l'accusa di Meleto, dimostrando a lui che, in
fatto di cose divine, io sono diventato sapiente a opera di Eutifrone, e non avrei più agito con ignoranza né mi sarei
pronunciato con leggerezza riguardo ad esse, e avrei appunto vissuto meglio il resto della mia vita.
Platone Eutifrone
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NOTE: 1) Il poco che sappiamo di Eutifrone si ricava soprattutto da questo dialogo: Platone lo ricorda anche nel
Cratilo come appartenente al demo attico di Prospalte.
Qui l'interlocutore di Socrate viene presentato come una sorta di veggente, di profeta, uomo particolarmente versato
nelle questioni religiose.
2) I ginnasi (palestre, ma anche luoghi di incontri per discussioni) erano tre: il Cinosarge, l'Accademia e il Liceo,
così detto perché dedicato ad Apollo Licio.
Si trovava fuori d'Atene, vicino all'Ilisso: qui Socrate discuteva con quelli che erano i suoi discepoli veri e propri.
Sulle piazze, invece, Socrate discuteva un po' con tutti.
3) Il portico cui si fa riferimento si trovava vicino al mercato Ceramico, ove aveva sede l'arconte re, dedicato
essenzialmente al culto, ma anche ad alcuni processi.
4) Estia (latino Vesta) è il culto vitale, il cuore, cioè il focolare della casa, attorno al quale si riuniva la famiglia:
quindi è una sorta di focolare simbolico della città.
5) A parte ogni altra considerazione sul contenuto e sui valori che egli comunicava, questa era la nettissima
differenza tra Socrate e i Sofisti: che egli dai suoi incontri e dal suo conversare, insomma, dal suo insegnamento, non
pretendeva nulla, mentre essi si facevano pagare e anche profumatamente.
6) L'ironia, uno dei mezzi più efficaci di Socrate per demolire le tesi dell'interlocutore, non è colta da Eutifrone, che
anzi ne trae motivo di lusinga.
7) Secondo il diritto ateniese, i figli potevano accusare i padri di omicidio soltanto in caso di uccisione di un
consanguineo.
8) Interprete del diritto, l'esegeta era consultato nei casi dubbi.
9) Si tratta di Urano (il "Cielo"), che per odio precipitò nel Tartaro i Ciclopi e i Centauri, figli avuti da Gea (la
"Terra").
Questa gli volse contro i Titani, uno dei quali, Crono, mutilò il padre, evirandolo mentre dormiva, e
impossessandosi del suo potere.
E poiché gli era stato predetto che sarebbe stato detronizzato a sua volta da un figlio, ingoiò tutti quelli che gli
nascevano dalla moglie Rea: questa, però, riuscì a nascondere Zeus, che assalì il padre e lo costrinse a rivomitare i
fratelli, e lo incatenò con tutti gli altri Titani, divenendo così il re degli dèi.
10) Emerge, anche agli occhi di Eutifrone, tutta l'assurdità delle sue affermazioni, giacché la stessa cosa verrebbe ad
essere a un tempo «santa» ed «empia», cioè non santa.
è questa la prima diretta critica di Socrate all'argomentare di Eutifrone.
11) Da questa contraddizione, dopo giusta esigenza di approfondimento condivisa anche da Eutifrone, deriva che la
«santità» è intrinseca alla cosa, alla persona o all'azione, mentre la qualità di essere «cara», «amata», viene dall'esterno.
Eutifrone allora lamenta che i discorsi, quando vengono affrontati da Socrate, risultano estremamente «instabili», e
Socrate ribatte che la stabilità è tutta da cercare.
Si giunge così alla terza definizione, che il «santo» è parte del «giusto».
12) Dedalo - il cui nome non a caso viene posto in relazione con "lavoro artisticamente" - fu maestro di ogni arte.
Costruì il labirinto di Creta, e ali, per sé e il figlio Icaro.
Gli si attribuiva l'invenzione di statue che si muovevano come uomini vivi: probabilmente Dedalo sapeva conferire
alle sue statue un aspetto realisticamente dinamico.
Perciò era considerato il protettore degli artefici, specie degli scultori.
La «parentela» con Socrate si spiega dunque con il fatto che il padre di Socrate era scultore.
E il figlio di Sofronisco, a sua volta, costruisce discorsi che, come le statue di Dedalo, «si muovono»: ma, in questo
caso almeno, è l'interlocutore (Eutifrone) a farli muovere, sia pure involontariamente.
Da osservare il consolidamento ormai sicuro del "linguaggio filosofico" (a parte la sempre viva freschezza del
dialogo): l'insistere puntiglioso su termini e concetti dice quanto ormai fosse radicata l'attitudine alla speculazione,
anche e segnatamente per merito dei Sofisti, che Socrate tuttavia confuta in nome di principi superiori.
13) Tantalo, re di Sipilo in Lidia, di proverbiale ricchezza.
Reo di aver carpito la buona fede degli dèi con vari espedienti e losche imprese, fu precipitato nel Tartaro: la sua
punizione, com'è noto, consisteva nell'esser perennemente tentato da limpida acqua e rigogliosi alberi da frutta, ma non
poter mai soddisfare sete e fame.
14) Il «poeta» per antonomasia era ovviamente Omero, ritenuto autore anche dei Canti ciprii, cui appartengono i
versi citati.
Ritegno o paura, pudore o rispetto stanno fra di loro come il «giusto» e il «santo».
Talvolta però si teme senza rispettare: si può forse rispettare, argomenta Socrate, un'ulcera o un serpente velenoso?
15) Nell'incalzare di domande e risposte comincia a emergere con evidenza la proficua tecnica socratica della
discussione, quella che Socrate medesimo, riferendosi all'arte ostetrica della madre, amava definire "maieutica" (dal
greco "mâia" = "balia", "levatrice").
Come la levatrice estrae gradualmente dal grembo materno il corpo del neonato, così egli, altrettanto gradualmente,
aiuta l'interlocutore a "dare alla luce" la verità.
16) Eutifrone non ha ancora ben compreso dove Socrate lo stia conducendo: non gli è bastato lo smantellamento di
tutte le ipotesi da lui sostenute.
La sua caduta sarà perciò tanto più fragorosa: e tuttavia dietro a essa si scorge il segno soltanto implicito di un
Platone Eutifrone
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ravvedimento che il dialogo può forse far presagire, ma che non porta necessariamente a postulare.
17) Proteo, divinità marina, dotato di saggezza e di virtù profetiche, ma sfuggente e abile ad assumere le sembianze
più svariate per eludere le domande di chi vuole indurlo a parlare.
Dal suo nome, com'è noto, viene l'aggettivo italiano "proteiforme".
18) Eutifrone abbandona il campo per sfuggire alle incalzanti domande di Socrate, ma non vuole ammettere, o forse
non ne è del tutto consapevole, la propria sconfitta.
E il dialogo, dall'impronta fresca e spontanea, si chiude nel segno dell'ironia.