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Platone
Alcibiade II
o minore
Edizione Acrobat
a cura di
Patrizio Sanasi
(patsa@tin.it
Platone Alcibiade II o minore
Platone
ALCIBIADE SECONDO
SOCRATE: O Alcibiade, vai dunque a pregare il dio?
ALCIBIADE: Ebbene sì, Socrate.
SOCRATE: Sembri ombroso e guardi a terra come se fossi concentrato a riflettere su qualcosa.
ALCIBIADE: E su cosa si potrebbe riflettere, o Socrate?
SOCRATE: Sulla più profonda delle meditazioni, Alcibiade, penso. Perché, via, per Zeus, non credi che gli dèi
delle cose che ci troviamo a chiedere loro in privato o in pubblico, talora alcune le concedono, altre no, e può essere che
ad alcuni sì e ad altri no?
ALCIBIADE: Certo.
SOCRATE: Non pensi occorra molta prudenza per evitare d'invocare nelle preghiere involontariamente grandi mali,
ritenendo beni, mentre gli dèi si trovano nella condizione di concedere ciò che viene loro chiesto?(1) Per esempio,
Edipo, raccontano, pregò gli dèi che i figli risolvessero con la spada la questione dell'eredità paterna; pur potendo
pregare di essere liberato dai mali che allora lo travagliavano, con le sue imprecazioni se ne attirò altri in aggiunta a
quelli; ebbene, questi mali si compirono e dopo questi altri ancora, numerosi e terribili, e che bisogno c'è di dirli uno per
uno?
ALCIBIADE: Ma Socrate, tu hai parlato di un pazzo: perché pensi che un uomo sano avrebbe osato rivolgere simili
preghiere?
SOCRATE: La follia ti sembra forse il contrario del buon senso?
ALCIBIADE: Certo.
SOCRATE: E ci sono uomini a tuo parere privi di senno e uomini assennati?
ALCIBIADE: Ce ne sono, certo.
SOCRATE: Coraggio: esaminiamo chi siano costoro. Si è ammesso che ci sono uomini sia insensati sia saggi, altri
addirittura pazzi.
ALCIBIADE: Infatti l'abbiamo ammesso.
SOCRATE: E inoltre ce ne sono in buona salute?
ALCIBIADE: Ce ne sono.
SOCRATE: E dunque anche altri che sono malati?
ALCIBIADE: Certamente.
SOCRATE: E non sono gli stessi?
ALCIBIADE: No, infatti.
SOCRATE: E ci sono altri uomini che non si trovano in nessuna di queste due condizioni?
ALCIBIADE: No, davvero.
SOCRATE: Infatti un uomo è di necessità o malato o non malato.
ALCIBIADE: A me almeno sembra.
SOCRATE: E allora? A proposito della saggezza e della insensatezza hai la stessa opinione?
ALCIBIADE: Come dici?
SOCRATE: Voglio sapere se a tuo parere è possibile essere o saggi o insensati oppure se c'è un terzo stato
intermedio che renda l'uomo né saggio né insensato.
ALCIBIADE: No, certamente.
SOCRATE: Allora bisogna necessariamente trovarsi o nell'una o nell'altra di queste condizioni.
ALCIBIADE: A me almeno sembra.
SOCRATE: Non ti ricordi di aver ammesso che la follia è il contrario della saggezza?
ALCIBIADE: Sì, lo ricordo.
SOCRATE: E che non c'è nessuna terza condizione intermedia che faccia sì che l'uomo non sia né saggio né
insensato?
ALCIBIADE: Lo ammisi infatti.
SOCRATE: E potrebbero esserci due contrari in una stessa cosa? (2)
ALCIBIADE: In nessun modo.
SOCRATE: E dunque mancanza di buon senso e follia è probabile che siano la stessa cosa.
ALCIBIADE: è chiaro.
SOCRATE: Dunque, Alcibiade, dicendo che tutti gli uomini privi di senno sono pazzi, diremmo una cosa giusta: per
esempio, se qualcuno tra i tuoi coetanei è per caso insensato, come in effetti lo sono, e così anche tra i più anziani.
Perché, via, per Zeus, non pensi che tra quanti si trovano in città sono pochi ad avere buon senso, mentre i più sono
insensati, quelli che appunto chiami pazzi?
ALCIBIADE: Sì.
SOCRATE: Ebbene, tu pensi che sia un piacere per noi essere concittadini di così tanti pazzi, e non pensi che
saremmo stati puniti da tempo, battuti e percossi, e con tutti i trattamenti che appunto sono soliti adottare i pazzi? Ma
bada, o carissimo, che le cose non vadano così.
ALCIBIADE: Come dovrebbero andare, o Socrate? C'è infatti la possibilità che le cose non stiano come pensavo.
SOCRATE: Anche a me sembra. Ma bisogna vedere la cosa in questo modo qui.
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ALCIBIADE: In quale modo intendi?
SOCRATE: Te lo dirò. Noi ammettiamo che ci sono persone malate, oppure no?
ALCIBIADE: Certo.
SOCRATE: Dunque tu pensi che colui che è malato deve necessariamente soffrire di podagra o avere la febbre o
soffrire di oftalmia, o non pensi che, pur non avendo nessuna di queste malattie, sia malato di un'altra malattia? Ce ne
sono molte e queste non sono le sole.
ALCIBIADE: La penso così.
SOCRATE: Dunque ogni oftalmia è, a tuo avviso, una malattia?
ALCIBIADE: Sì.
SOCRATE: E dunque ogni malattia è un'oftalmia?
ALCIBIADE: No, non credo: tuttavia non so come dire.
SOCRATE: Ma se presti attenzione alle mie parole «cercando tutti e due insieme»,(3) forse troveremo.
ALCIBIADE: Ma io presto attenzione, per quanto posso, o Socrate.
SOCRATE: Non convenimmo che ogni oftalmia è una malattia, e che invece non ogni malattia è una oftalmia?
ALCIBIADE: Sì, convenimmo così.
SOCRATE: E mi sembra che sia stato giusto convenire così. E infatti tutti coloro che hanno la febbre sono malati,
mentre non tutti coloro che sono malati hanno la febbre né la podagra né soffrono di oftalmia, credo; tuttavia è una
malattia ogni condizione di tal genere, ma coloro che chiamiamo medici dicono che differiscono quanto ai loro effetti.
Esse non sono infatti tutte simili né agiscono allo stesso modo, ma ognuna agisce secondo la sua forza: eppure tutte
sono malattie. Così, per esempio, noi ammettiamo che esistono degli artigiani, o no?
ALCIBIADE: Sicuramente.
SOCRATE: E non sono forse i calzolai, i carpentieri, gli scultori e innumerevoli altri, dei quali che bisogno c'è di
parlare indicandoli uno per uno? Ebbene, essi si sono suddivisi settori del lavoro manuale e se sono tutti artigiani, non
sono però carpentieri né calzolai né scultori coloro che nel loro insieme sono artigiani.
ALCIBIADE: No, certo.
SOCRATE: Allo stesso modo dunque gli uomini si sono suddivisi anche l'insensatezza e coloro che di questa hanno
la parte maggiore lì chiamiamo "pazzi", coloro che ne hanno un po' meno "stolti" e "rimbambiti"; chi poi preferisca un
eufemismo li chiama chi "esaltati", chi "sempliciotti", altri "privi di malizia", "inesperti", "istupiditi": troverai molti altri
nomi ancora, se ti metti a cercare. Tutte queste definizioni sono "insensatezza" e però differiscono, così come un
mestiere ci è parso differente da un altro mestiere e una malattia da un'altra malattia. O come la vedi?
ALCIBIADE: Io la vedo così.
SOCRATE: Ebbene, torniamo al punto di partenza. All'inizio del discorso la questione era che bisognava esaminare
gli insensati e i saggi, chi essi siano. Infatti convenimmo che ve ne sono. O no?
ALCIBIADE: Sì, l'abbiamo ammesso.
SOCRATE: E tu dunque consideri forse insensati coloro che sanno cosa bisogna fare e cosa bisogna dire?
ALCIBIADE: Io sì.
SOCRATE: E gli insensati chi sono? Coloro che non sanno né l'una né l'altra di queste due cose?
ALCIBIADE: Sì, sono loro.
SOCRATE: E non è forse vero che coloro che non sanno né l'una né l'altra di queste due cose dicono e fanno ciò che
non si deve dire e fare senza rendersene conto?
ALCIBIADE: è evidente.
SOCRATE: E proprio tra questi uomini, o Alcibiade, come dicevo, che rientra Edipo; anche ai nostri giorni potrai
trovarne molti che, pure non sono in preda all'ira, come lui, e non pensano di invocare per sé dei mali nelle preghiere,
bensì dei beni. Egli, come non pregava in questo senso, neppure pensava di farlo; ma ce ne sono altri ai quali capita
tutto il contrario. Penso infatti che tu per primo, se il dio, presso il quale ti stai recando, ti si manifestasse e ti chiedesse,
prima ancora che tu formulassi qualsiasi preghiera, se ti basterà diventare il tiranno della città degli Ateniesi, e se tu
però giudicassi questo poca cosa e di non grande importanza, aggiungesse anche di tutti i Greci, e se però vedesse che tu
pensi di avere ancora troppo poco, a meno che non fossi tiranno anche di tutta l'Europa, ti promettesse anche questo, e
non solo questo, ma anche che oggi stesso, se è così che desideri, tutti sapranno che Alcibiade figlio di Clinia è tiranno,
io penso che te ne andresti al colmo della gioia, come se avessi ottenuto i beni più preziosi.(4)
ALCIBIADE: Io credo, o Socrate, che chiunque altro lo farebbe, se gli capitasse una cosa del genere.
SOCRATE: Ma non vorresti certo avere il territorio e la signoria di tutti i Greci e dei barbari in cambio della tua
vita.
ALCIBIADE: Non credo proprio. Come potrei volerli, dal momento che non potrei servirmene?
SOCRATE: E che faresti, se la tua prospettiva fosse di farne un uso cattivo e dannoso? Neppure così?
ALCIBIADE: No, sicuramente.
SOCRATE: Vedi dunque che non è senza rischi accettare a caso ciò che venga offerto né pregare che si realizzi, se
si dovesse ricevere un danno per questo o addirittura perdere la vita. Potremmo citarne molti che, dopo aver sospirato la
tirannide e dopo essersi dati da fare per ottenerla, convinti di realizzare un bene, a causa della tirannide persero la vita,
vittime di cospirazioni.(5) Credo che tu non ignori certi avvenimenti di ieri e dell'altro ieri,(6) quando l'amasio uccise
Archelao,(7) il tiranno di Macedonia, innamorato della tirannide non meno di quanto Archelao lo fosse di lui, uccise
l'innamorato per essere tiranno e insieme un uomo felice; dopo aver mantenuto la tirannide tre o quattro giorni, vittima a
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sua volta di cospirazioni per mano di altri, perse la vita. Vedi dunque che anche tra i nostri concittadini - queste cose
infatti non le abbiamo sentite da altri, ma le sappiamo per esserne stati testimoni noi stessi - tutti coloro che già
desiderarono la strategia e che l'ottennero, alcuni ancora oggi sono esuli da questa città, mentre altri persero la vita; e
quelli tra loro poi che sembrano passarsela ottimamente, hanno attraversato innumerevoli pericoli e paure non soltanto
nel tempo in cui ricoprirono questa strategia, ma anche quando tornarono a casa loro, assediati dai sicofanti subirono un
assedio non meno pesante di quello che ebbero a subire da parte dei nemici, per cui alcuni di loro arrivarono ad
augurarsi di non aver mai ricoperto la strategia, piuttosto che aver esercitato tale comando. Se dunque i pericoli e le
fatiche avessero portato un vantaggio, avrebbero avuto un motivo: ma ora avviene esattamente il contrario. Troverai che
il modo è lo stesso anche riguardo ai figli: alcuni pregano di averne e, quando li abbiano avuti, precipitano nella
sventura più dolorosa e nelle peggiori sofferenze. Gli uni infatti, poiché i loro figli furono malvagi fino alla fine,
condussero tutta una vita di dolori; altri ebbero invece figli onesti, che però incontrarono la sventura, per cui ne furono
privati, e anche costoro precipitarono nella sfortuna non meno dei precedenti e avrebbero preferito essere senza figli
piuttosto che averne. E tuttavia, nonostante questi e altri esempi simili, altrettanto lampanti, è raro trovare uno che
rifiuterebbe ciò che gli venisse dato o che, volendo ottenerlo grazie alla preghiera, smettesse di pregare. La maggior
parte degli esseri umani non rifiuterebbe la tirannide se gli venisse offerta, né la strategia né molte altre cose che, se
presenti, creano danni più che vantaggi, al contrario, essi pregherebbero di averle, nel caso si trovino a esserne
sprovvisti; ma a volte, dopo aver aspettato poco tempo, intonano la palinodia, ritrattando tutto ciò che abbiano chiesto
prima nelle loro preghiere. Io dunque temo che in realtà gli uomini accusino invano gli dèi, quando dicono che da loro
derivano i mali; mentre sono loro da se stessi, sia con le loro sciocche presunzioni sia per la loro insensatezza, bisogna
dire, che «procurano a sé mali in aggiunta a quelli che imponga il destino».(8) è possibile, Alcibiade, in ogni caso, che
sia un uomo sensato quel poeta, il quale, a mio parere, attorniato da amici insensati, vedendoli fare e augurarsi cose che
non era conveniente fare e augurarsi, benché sembrasse loro di sì, compose una preghiera comune per tutti loro; dice
all'incirca così: «Zeus re, i beni», dice «sia che preghiamo di averne sia che non preghiamo, concedici, i mali, invece»,
ordina, «allontanali, anche se nella preghiera li chiediamo».(9) Mi sembra dunque che il poeta parli bene e in modo
sicuro. Ma tu, se hai qualcosa in mente contro queste parole, non tacere.
ALCIBIADE: è difficile, o Socrate, contraddire parole ben dette. C'è quindi un pensiero che mi viene in mente: di
quanti mali per gli uomini è causa l'ignoranza, quando, come sembra, ignari, mossi da questa, non solo compiamo, ma
arriviamo addirittura nelle preghiere a invocare per noi stessi i mali peggiori! Una cosa, questa, che nessuno crederebbe,
al contrario, ognuno penserebbe di essere capace di chiedere per se stesso i beni migliori e non i mali peggiori. Una
situazione del genere infatti somiglierebbe a una maledizione piuttosto che a una preghiera.
SOCRATE: Ma forse, carissimo amico, qualcuno che si trovi ad essere più saggio di me e dite, direbbe che noi non
parliamo bene, biasimando così alla leggera l'ignoranza, se non aggiungessimo che l'ignoranza di alcune cose, per certe
persone e in certi casi è un bene come è un male per gli altri.
ALCIBIADE: Come dici? Può esserci qualcosa che per qualcuno, non importa in quale situazione, sia meglio non
conoscere che conoscere?
SOCRATE: Mi sembra di sì, e a te no?
ALCIBIADE: No, per Zeus.
SOCRATE: Ma neppure ti accuserò di quel crimine, di voler cioè compiere contro tua madre gli atti che, a quel che
si dice, compirono Oreste e Alcmeone (10) e altri, se ve ne furono, che hanno commesso i loro stessi delitti.
ALCIBIADE: Per Zeus, Socrate, non dire parole di cattivo augurio!
SOCRATE: Non a chi dice che tu non potresti voler essere l'autore di simili azioni devi ordinare di formulare parole
di buon augurio, Alcibiade, ma piuttosto a chi dicesse il contrario, dato che questa azione ti sembra così terribile da non
poter essere menzionata neppure casualmente. Credi che se Oreste per caso avesse avuto buon senso e se avesse saputo
cosa sarebbe stato meglio fare per lui, avrebbe osato commettere un'azione di tal genere?
ALCIBIADE: No, certo.
SOCRATE: Neppure nessun altro, credo.
ALCIBIADE: No, sicuramente.
SOCRATE: Dunque è un male, a quel che sembra, la non conoscenza del sommo bene e ignorare il sommo bene.
ALCIBIADE: Mi sembra così.
SOCRATE: Per lui come per tutti gli altri?
ALCIBIADE: Sì.
SOCRATE: Consideriamo ancora questo: se all'improvviso ti venisse in mente, convinto che sia bene, di avvicinare
Pericle, tuo tutore (11) e tuo amico, dopo esserti armato di un pugnale, giunto alla sua porta, di chiedere se è in casa,
con l'intenzione di uccidere proprio lui e nessun altro; supponiamo ti dicessero che c'è - non dico che vorresti compiere
un atto di tal genere; ma supponiamo, credo, ti venisse in mente, dato che niente impedisce certo a chi ignora il meglio
di farsi un'idea tale da credere che la cosa peggiore sia in qualche modo la migliore; o non la pensi così?
ALCIBIADE: Sicuramente.
SOCRATE: E allora, se, entrato in casa, lo vedessi e non lo riconoscessi, e pensassi che è qualcun altro, forse
oseresti ancora ucciderlo?
ALCIBIADE: No, per Zeus, non penso!
SOCRATE: Infatti non era il primo a caso che meditavi di uccidere, ma lui in persona. Non è vero?
ALCIBIADE: Sì.
Platone Alcibiade II o minore
SOCRATE: E se provassi più volte e sempre non riconoscessi Pericle, quando stai per compiere quest'atto, non
assaliresti mai lui.
ALCIBIADE: No, davvero.
SOCRATE: Cosa? Pensi che Oreste avrebbe mai assalito sua madre, se allo stesso modo non l'avesse riconosciuta?
ALCIBIADE: Io non credo.
SOCRATE: Perché neppure lui aveva in mente di uccidere la prima donna che avesse incontrato o la madre di non
importa chi, ma proprio sua madre.
ALCIBIADE: è così.
SOCRATE: Ignorare cose simili è dunque meglio per coloro che si trovino in queste condizioni e che abbiano tali
idee.
ALCIBIADE: Così sembra.
SOCRATE: Vedi dunque che l'ignoranza di certe cose e per certe persone e in certe circostanze è un bene, non un
male, come ti sembrava poco fa?
ALCIBIADE: è verosimile.
SOCRATE: E se vuoi ancora esaminare ciò che viene dopo, forse potrebbe sembrarti strano.
ALCIBIADE: Che cosa precisamente, o Socrate?
SOCRATE: Il fatto che, per dirla in breve, c'è il rischio che il possesso di altre conoscenze, se uno le abbia senza
conoscere ìl sommo bene, sia raramente utile, mentre più spesso danneggia colui che le ha. Rifletti poi in questo modo.
Non ti sembra necessario, quando stiamo per fare o dire qualcosa, prima dover credere di sapere o sapere realmente ciò
che con tanta prontezza stiamo per dire o fare?
ALCIBIADE: Mi sembra di sì.
SOCRATE: Per esempio gli oratori o perché sanno consigliare o perché pensano di saperlo fare ci danno dei
consigli in ogni occasione, gli uni sulla guerra e sulla pace, gli altri sulla costruzione di fortificazioni o sull'allestimento
di porti; in una parola tutte quelle cose che la città fa nei confronti un'altra città o per se stessa, essa lo fa dietro
consiglio degli oratori.
ALCIBIADE: Ciò che dici è vero.
SOCRATE: Considera anche ciò che segue.
ALCIBIADE: Per quel che posso.
SOCRATE: Tu parli di persone sensate e di persone insensate?
ALCIBIADE: Sì.
SOCRATE: E pon consideri forse i più privi di senno e i pochi saggi?
ALCIBIADE: è così.
SOCRATE: E non hai presente qualcosa per definire gli uni e gli altri?
ALCIBIADE: Sì.
SOCRATE: Dunque un uomo di tal fatta, che sa dare consigli, senza tener conto di cosa sia meglio e di quando sia
meglio, tu lo chiami saggio?
ALCIBIADE: No, certo.
SOCRATE: Neppure, penso, colui che conosce l'arte della guerra in sé ma non sa quando sia meglio e per quanto
tempo sia meglio combattere. Non è vero?
ALCIBIADE: Sì.
SOCRATE: Neppure se uno sa uccidere un altro uomo, depredare ricchezze e mandare in esilio dalla patria, ma non
sa quando sia meglio e contro chi sia meglio farlo?
ALCIBIADE: No, certo.
SOCRATE: Allora, è colui che conosce qualcuna di queste cose, quando è accompagnata dalla conoscenza del
meglio - e questa è sicuramente identica alla conoscenza dell'utile, non è vero?
ALCIBIADE: Sì.
SOCRATE: Costui diremo sensato, efficace consigliere sia per la città sia per se stesso; colui che non è tale, lo
definiremo al contrario. O come ti sembra?
ALCIBIADE: A me sembra così.
SOCRATE: E se uno sa montare a cavallo o tirare con l'arco o combattere nel pugilato o nella lotta o in qualche
altra forma di combattimento o in qualche altro esercizio di quelli che conosciamo grazie a un'arte, con che nome
chiami colui che sa ciò che è meglio secondo quest'arte? Non lo chiami forse cavaliere, quanto all'equitazione?
ALCIBIADE: Sì.
SOCRATE: E pugile, credo, quanto al pugilato, flautista quanto all'arte di suonare il flauto, e così via dicendo, in
modo analogo; o forse diversamente?
ALCIBIADE: No, proprio così.
SOCRATE: Ti sembra inevitabile che colui che sia competente in qualcuna di queste arti sia anche un uomo
assennato oppure diremo che manca ancora molto?
ALCIBIADE: Manca molto, sicuramente, per Zeus.
SOCRATE: Che tipo di Stato pensi che sia quello composto di buoni arcieri e buoni flautisti e ancora di atleti e di
altri artisti, mescolati a costoro dei quali abbiamo parlato poc'anzi, che conoscono l'arte di fare la guerra in sé e di
uccidere, e inoltre anche a questi retori gonfi di boria politica, tutti quanti sprovvisti della conoscenza del meglio, e
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nessuno che sappia quando sia un bene servirsi di ciascuna di queste arti e verso chi?
ALCIBIADE: Io direi che è uno Stato di bassa lega, o Socrate.
SOCRATE: Lo diresti, credo, quando vedessi ognuna di queste persone piena di ambizione e che assegna la più gran
parte della gestione dello Stato «a ciò in cui egli supera se stesso»,(12) voglio dire a ciò che è meglio secondo questa
sua arte; trattandosi invece del bene per la città e per se stesso, gli errori sono molti, perché, credo, si fida delle opinioni
senza riflettere. Stando così le cose, non faremmo bene a dire che una simile costituzione è in preda a una grande
confusione e alla illegalità?
ALCIBIADE: Sarebbe giusto, per Zeus.
SOCRATE: Non ci sembrava necessario innanzitutto che dovessimo pensare di sapere o sapere realmente ciò che
siamo lì pronti a fare o a dire?
ALCIBIADE: Così ci sembrava.
SOCRATE: E se un uomo fa ciò che sa o che crede di sapere, e ci si aggiunge anche l'utile, non saremo utili sia alla
città sia per noi stessi?
ALCIBIADE: Come no in effetti?
SOCRATE: E se facesse tutto il contrario di ciò, io credo, non lo sarebbe né per la città né per se stesso?
ALCIBIADE: No, certo.
SOCRATE: Cosa? La pensi anche ora allo stesso modo o diversamente?
ALCIBIADE: No, penso così.
SOCRATE: Ma non dicevi di chiamare insensati la maggior parte degli uomini, e la minoranza assennati?
ALCIBIADE: Sì, certo.
SOCRATE: Quindi torniamo a dire che la mag$ior parte degli uomini sbaglia nel cercare il meglio, perché, per lo
più, credo, si fida di un'opinione senza riflettere.
ALCIBIADE: Lo affermiamo infatti.
SOCRATE: Dunque per la maggior parte degli uomini è un vantaggio non sapere nulla e pensare di non sapere, se
davvero metteranno più cura nel fare ciò che sanno o pensano di sapere, ma, così facendo, subiranno più danni che
vantaggi.
ALCIBIADE: Quel che dici è verissimo.
SOCRATE: Dunque vedi che quando dicevo che c'è il rischio che il possesso di altre conoscenze in pochi casi torna
utile, se manca la conoscenza del meglio, e che anzi la maggior parte delle volte danneggia colui che la possiede, non
era chiaro che avevo realmente ragione?
ALCIBIADE: Se non lo pensavo allora, lo penso però adesso, Socrate.
SOCRATE: Dunque una città e un'anima che vogliano vivere correttamente devono tenersi strette a questa scienza,
proprio come un malato a un medico o a un nocchiero chi vuole navigare in sicurezza. Senza questa infatti quanto più
impetuoso il vento della sorte soffierà, o per la conquista dì ricchezze o per il vigore del corpo o per qualche altra cosa
del genere, tanto maggiori saranno gli errori che di necessità ne seguiranno, com'è probabile. Chi possiede la cosiddetta
"erudizione" e la cosiddetta "politecnia", (13) ma è sprovvisto di questa scienza, lasciandosi guidare di volta in volta da
una sola delle altre, non si imbatterà davvero in una grande tempesta, poiché, credo, in mare senza nocchiero, non potrà
correre avanti per un tratto ancora lungo della sua vita? Cosicché mi sembra che anche in quella circostanza calzi bene
la parola del poeta che dice, biasimando un tale, che «certo, conosceva molti mestieri, ma li sapeva», aggiunge, «tutti
male». (14)
ALCIBIADE: E perché calza bene il detto del poeta, o Socrate? A me sembra proprio che sia stato pronunciato
senza nessuna relazione col nostro ragionamento.
SOCRATE: Al contrario, proprio a proposito del nostro ragionamento; ma il fatto è, carissimo, che questo poeta,
come quasi tutti gli altri poeti, parla per enigmi. Perché tutta quanta la poesia è per natura enigmatica e non è di un
uomo qualsiasi capirne il senso; inoltre, al di là del fatto che è tale per natura, quando invade un uomo geloso, che non
vuole manifestarci e anzi vuole piuttosto nascondere il più possibile la sua saggezza, l'impresa è incredibile a dirsi
quanto appaia difficile, comprendere cioè che cosa mai pensi ciascuno di loro. Non pensi certo che Omero, il più divino
e il più saggio tra i poeti, ignorasse che non è possibile sapere male - fu lui infatti a dire che Margite sapeva molte cose,
ma, aggiunge, le sapeva tutte male - tuttavia, penso, egli parla per enigmi quando usa l'avverbio «male» al posto del
sostantivo «male» e «sapeva» in luogo di «sapere». Certo, così posto, il verso è fuori della struttura metrica, ma è ciò
che egli vuole esprimere, che sapeva cioè molte cose, ma era un male per lui sapere tutte quelle cose. è chiaro dunque
che se era un male per lui sapere molte cose, veniva ad essere un mediocre, se bisogna prestar fede ai ragionamenti già
fatti.
ALCIBIADE: Mi pare di sì, Socrate; difficilmente accorderei fiducia ad altri ragionamenti, se non l'accordassi
neppure a questi.
SOCRATE: E fai bene a pensare così.
ALCIBIADE: Sì, lo ribadisco, la penso così.
SOCRATE: Ma via, per Zeus - tu hai certo presente la difficoltà, di quale entità sia e di che natura, e mi sembra che
anche tu l'abbia condivisa; sballottato su e giù, non trovi mai posa, ma quello che ti può sembrare particolarmente
sostenibile, questo l'hai rifiutato e non la pensi più allo stesso modo -, se anche adesso ti apparisse il dio presso il quale
ti stai recando e ti domandasse, prima che tu gli abbia rivolto qualsiasi preghiera, se ti farà piacere che si verifichi
qualcuna delle cose delle quali si parlava all'inizio, e se anche ti concedesse di esprimere la tua preghiera, come
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riterresti di fare una scelta opportuna, accettando le cose che ti vengano offerte da lui o rivolgendo tu stesso una
preghiera?
ALCIBIADE: Per gli dèi, non saprei che risponderti, Socrate, in questo caso; ma mi sembra un'impresa pazzesca,
che richiede davvero molta attenzione, per evitare di invocare nelle preghiere, senza volerlo, mali credendoli beni e poi,
passato un po' di tempo, cosa che dicevi appunto anche tu, intonare una palinodia, ritrattando ciò per cui si era pregato
prima.
SOCRATE: Dunque non ne sapeva un po' più di noi il poeta, che ricordai anche all'inizio del mio discorso, quando
esortava a tenere lontani i mali anche da chi li chiedeva nelle preghiere?
ALCIBIADE: A me almeno sembra.
SOCRATE: Allo stesso modo, Alcibiade, anche i Lacedemonii, emulando il poeta, o se anche avevano fatto da sé
questa osservazione, e in privato e in pubblico innalzano in ogni occasione una preghiera analoga, supplicando gli dèi di
concedere loro accanto ai benefici le cose belle e nessuno potrebbe mai sentirli pregare per qualcosa di più. Ebbene,
fino al tempo presente sono uomini felici non meno di altri; se poi è capitato loro di non godere della fortuna in tutto,
certo non è stato per via della loro preghiera, ma dipende dagli dèi, credo, concedere ciò per cui si è pregato o il
contrario di ciò. Voglio raccontarti anche un altro fatto che ho sentito una volta dagli anziani, che, essendo sorto un
conflitto tra Ateniesi e Lacedemonii, alla nostra città accadeva sempre, in ogni battaglia, per terra e per mare, di avere la
peggio e non riuscire mai vincitori; allora gli Ateniesi, adirati per la faccenda, e non sapendo con quale mezzo trovare
una liberazione dai mali presenti, deliberarono e decisero che il partito migliore fosse di inviare qualcuno ad interrogare
Ammone: (15) e tra le altre domande posero anche questa: in cambio di cosa in quella circostanza gli dèi concedessero
la vittoria ai Lacedemonii piuttosto che a loro, «noi che», dicevano, «tra i Greci offriamo i sacrifici più frequenti e più
belli e abbiamo decorato i loro templi con offerte votive, come nessun altro, noi che offrivamo ogni anno agli dèi le
processioni più sontuose e solenni e spendevamo denaro quanto nemmeno tutti gli altri Greci insieme; i Lacedemonii
invece», aggiungevano, «non si diedero mai pensiero di nessuna di queste cose, ma sono così negligenti verso gli dèi da
sacrificare sempre vittime storpie e in tutte le altre occasioni tributare onori inferiori non di poco ai nostri, benché non
possiedano affatto meno denaro della nostra città». Dopo che ebbero così parlato ed ebbero chiesto cosa dovessero fare
per allontanare i mali presenti, l'interprete divino non rispose altro - il dio evidentemente non glielo permetteva - ma
chiamò l'incaricato e disse: «Agli Ateniesi il dio Ammone dice questo: dice che la pia riservatezza dei Lacedemonii gli
piace molto più di tutti i sacrifici dei Greci». Tanto disse, niente di più. Ebbene, con la pia riservatezza mi pare che il
dio non intendesse altro che la loro preghiera; e in effetti è molto diversa dalle altre: gli altri Greci offrono chi buoi dalle
corna dorate, altri danno in dono agli dèi offerte votive, chiedono nelle preghiere ciò che capita, sia beni sia mali, per
cui gli dèi, udendoli proferire preghiere blasfeme, non accettano queste processioni sontuose né i sacrifici. Penso si
debba usare molta cautela e riflessione su cosa bisogna dire e cosa no. Troverai anche in Omero altri racconti simili a
questi. Egli dice ad esempio che i Troiani, ponendo un campo, «sacrificavano agli immortali ecatombi perfette» (16) e
l'odore delle vittime, dalla pianura, i venti lo portavano fino al cielo «dolce; ma i beati non se lo spartivano né lo
volevano: infatti molto odiavano Ilio veneranda e Priamo e il popolo di Priamo armato di buona lancia».(17) Così non
ricevevano alcun vantaggio dai sacrifici e inutilmente offrivano doni, invisi com'erano agli dèi. Difatti non credo sia
nella natura degli dèi lasciarsi corrompere da doni, come un meschino usuraio; ma anche noi facciamo un discorso
ingenuo, quando ci reputiamo superiori in questo ai Lacedemonii. E infatti sarebbe terribile se gli dèi guardassero alle
nostre offerte e ai nostri sacrifici, e non all'anima, se uno sia pio e giusto. Ma credo che guardino ad essa molto più che
a queste processioni e a questi sacrifici sontuosi, che pure nulla impedisce a un privato o a una città di offrire ogni anno,
pur avendo commesso numerosi errori verso gli dèi e numerosi verso gli uomini; ma gli dèi, dato che non si lasciano
corrompere, disprezzano tutte queste cose, come dice il dio e l'interprete degli dèi. è dunque possibile che, presso gli dèi
e gli uomini che hanno senno, giustizia e assennatezza siano stimate in modo speciale. Assennati e giusti non sono altri
se non coloro che sanno ciò che bisogna fare e dire nei confronti degli dèi e degli uomini.(18) Vorrei sapere anche che
cosa mai in proposito hai in mente.
ALCIBIADE: Socrate, non ho un pensiero diverso dal tuo e dal dio: infatti non sarebbe sensato che io mi esprimessi
contro il dio.
SOCRATE: Non ricordi che affermavi di essere in grande difficoltà, per la paura che, senza avvedertene, non avessi
a chiedere nella preghiera dei mali, reputandoli dei beni?
ALCIBIADE: Sì certo.
SOCRATE: Vedi dunque come non sia sicuro per te andare a pregare il dio, per il rischio che possa avvenire questo:
che, sentendoti pronunciare preghiere blasfeme, il dio rifiuti questo sacrificio e tu non abbia a ritrovarti tra le mani in
più qualcosa di diverso. Io dunque penso che sia molto meglio restare tranquilli; non mi sembra infatti, per via della tua
esaltazione - questa infatti è la definizione migliore per l'insensatezza - che tu voglia servirti della preghiera dei
Lacedemonii. è quindi necessario aspettare finché non si sia appreso come bisogna comportarsi verso dèi e verso gli
uomini.
ALCIBIADE: Ebbene, quando verrà questo momento, o Socrate, e chi sarà a insegnarlo? Credo che mi piacerebbe
moltissimo sapere chi sia quest'uomo.
SOCRATE: Colui al quale tu stai a cuore. Tuttavia, a mio parere, come Omero dice che a Diomede Atena dissipò la
nube che gli copriva gli occhi «affinché si rendesse conto se si trattava di un dio o di un uomo»(19) così anche a te
bisognerà prima dissipare dall'anima la nube che attualmente la offusca e allora finalmente presentarti la via attraverso
cui tu ti possa avviare a conoscere il male e il bene. Per il momento infatti non credo che tu sia capace di farlo.
Platone Alcibiade II o minore
ALCIBIADE: Che dissipi pure, se lo vuole, la nube o che altro sia; quanto a me, io sono disposto a non sfuggire a
nessuna delle prescrizioni fatte da lui, chiunque mai sia quest'uomo, se solo potessi diventare migliore.
SOCRATE: Ma anche lui quale straordinario interessamento ha nei tuoi confronti!
ALCIBIADE: Dunque la cosa migliore, a mio parere, è rinviare il sacrificio a quel momento.
SOCRATE: è una giusta decisione la tua; in effetti è più sicuro che correre un simile rischio
ALCIBIADE: Ma come, Socrate? E tuttavia con questa corona, dal momento che mi pare tu mi abbia ben
consigliato, ti cingerò il capo; agli dèi offriremo corone e tutto il resto, come prescritto, allora, quando io veda che quel
giorno è venuto. Verrà non tra molto, se essi lo vogliono.
SOCRATE: Ebbene, io accetto questo dono, e qualsiasi altra cosa mi venga offerta da te sarei solo felice di
accettarla. (20) Come in Euripide Creonte è rappresentato, nel momento in cui vede Tiresia (21) con la fronte cinta di
corone e viene a sapere che le ha ottenute come primizie dal bottino di guerra per via della sua arte «considero un
presagio», dice, «le tue corone vittoriose: e infatti, come tu sai, ci troviamo nella tempesta»,(22) così anch'io questo
onore che mi viene da te lo considero un presagio. Mi sembra di trovarmi in una tempesta non meno violenta di quella
di Creonte e vorrei uscire vincitore sui tuoi amanti.
NOTE:
1) Cfr. Senofonte, Memorabilia Libro primo 3,2.
2) Cfr. Platone, Protagora 332c.
3) Allusione a Omero, Iliade, libro 10, verso 224.
4) Cfr. Platone, Alcibiades primo, 105 seguenti.
5) Cfr. Senofonte, Cyropaedia libro 1, 1.1.
6) Cfr. Omero, Iliade libro 2, verso 303.
7) Archelao di Macedonia, figlio naturale di Perdicca secondo, regnò dal 414/413 al 399 a.C., anno dell'assassinio
perpetrato dal suo favorito, Krateros secondo Diodoro (14. 37, 5), Krataios secondo Aristotele (Politica libro 5, 1311b
8-20). Platone ricorda la sua spegiudicatezza nel Gorgia (470d).
8) cfr. Omero, Odissea libro 1, verso 32.
9) cfr. Anthologia Graeca, libro 10, 108.
10) Oreste uccise la madre Clitennestra per vendicare l'uccisione di Agamennone, trucidato con l'aiuto dell'amante
di lei Egisto. Alcmeone vendicò sulla madre Erifile la morte del padre, l'indovino Anfiarao, costretto dalla moglie a
unirsi alla spedizione dei Sette contro Tebe che doveva costargli la vita, come lo avvertiva una chiara premonizione.
11) Alcibiade era stato affidato alla tutela di Pericle, suo parente, alla morte del padre Clinia (447 a.C.). Cfr. Platone,
Alcibiades primo 104b.
12) Euripide, frammento 183 Nauck (dall'Antiope). Cfr. Platone, Gorgias 484c.
13) La 'perizia in molte arti', la preparazione tecnico-formale cui si oppone la "polumathia", l'"erudizione",
preparazione nei campi più vasti del sapere. Cfr. Platone, Leges libro 7, 819a.
14) I versi appartengono al Margite, un poemetto del corpus omerico del quale ci sono pervenuti pochi frammenti
per via indiretta. Margite è il tipo dello stolto ("márgos").
15) L'oracolo di Ammone nell'oasi di Siwah, in Libia, ricordato da Erodoto (libro 2, 42; 54-55), era un importante
concorrente dei santuari ed oracoli greci più prestigiosi (Delfi e Dodona). Fu consultato da Cimone, da Lisandro, da
Alessandro Magno. Aristotele nella Costiiuzione degli Ateniesi (61,7) attesta l'esistenza ad Atene di un tesoriere della
nave di Ammone, una delle due imbarcazioni statali da parata.
16) Il verso non è incluso nel testo omerico pervenutoci.
17) Omero, Iliade libro 8,versi 548-552.
18) Cfr. Platone, Gorgias 507a.
19) Omero, Iliade libro 5, verso 127.
20) Letteralmente l'espressione suona «mi vedrei con piacere accettarlo».
21) indovino legato al ciclo tebano, morì, secondo una versione del mito, accompagnando i Tebani nel loro esodo
dopo la vittoria degli Epigoni.
22) Euripide, Phoenissae 858-859.