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Lev Tolstoj

 

IL PADRONE E IL LAVORANTE

(1894-1895)

 

 

 

1.

Questo avvenne negli anni '70, all'indomani del San Nicola d'inverno. Nella parrocchia c'era stata festa, e il mastro d'emporio del villaggio, Vasilij Andreitch Brechunòv, mercante della seconda ghilda, proprio non s'era potuto assentare: aveva dovuto stare sempre in chiesa - era lo "stàrosta" della chiesa - e poi eran venuti a casa sua parenti e conoscenti, e lui aveva dovuto fare gli onori di casa, offrire da mangiare e da bere. Ma quando gli ultimi ospiti furono partiti, Vasilij Andreitch cominciò subito a far i preparativi per andare da un proprietario terriero suo vicino, che doveva convincere a vendergli un boschetto per il quale i due stavano trattando già da gran tempo.

Vasilij Andreitch aveva fretta di andarci, perché temeva che qualche mercante della città gli soffiasse quell'acquisto, che era assai vantaggioso. Se infatti il proprietario, un giovinotto ancora, aveva chiesto diecimila rubli per il boschetto, era stato soltanto perché Vasilij Andreitch gliene aveva offerti settemila.

E settemila rubli erano appena un terzo del valore vero del boschetto. Vasilij Andreitch probabilmente sarebbe riuscito a far calare ancora il prezzo, giacché il bosco si trovava nella sua regione, e tra lui e gli altri mercanti dei villaggi del distretto vigeva già da tempo la consuetudine che nessun mercante dovesse mai far alzare i prezzi nella regione di un altro; ma Vasilij Andreitch era venuto a sapere che i mercanti di legname del governatorato volevano passare di lì, a trattare appunto per il boschetto di Gorjàtchkino, e così aveva deciso di partire subito, per sistemare la cosa una volta per tutte, con quel proprietario.

E perciò, non appena la festa fu finita, prese dal suo baule settecento rubli, ve ne aggiunse altri duemilatrecento del fondo per la chiesa, che teneva in casa lui, così da far tremila rubli, e, dopo averli ricontati accuratamente e dopo esserseli sistemati nel portafogli, si preparò a partire.

Il lavorante Nikita, l'unico tra i lavoranti di Vasilij Andreitch a non essersi ubriacato quel giorno, corse ad attaccare i cavalli.

Nikita non era ubriaco quel giorno perché era un ubriacone, e appunto perciò, dalla vigilia di quaresima, quando s'era bevuto persino la "poddëvka" e gli stivali di cuoio, aveva fatto voto di non bere più, e non beveva già da un mese e passa; non aveva bevuto neanche quel giorno, malgrado la continua tentazione dell'acquavite con cui tutti avevan molto brindato nei primi due giorni della festa.

Nikita era un "mugìk" cinquantenne, d'un villaggio vicino: era padrone di niente, come dicevano di lui, e la maggior parte della sua vita l'aveva vissuta non a casa sua ma in casa d'altri. Era ovunque stimato per la sua gran voglia di lavorare, per l'abilità e la forza che metteva in tutto quel che faceva e soprattutto per il suo carattere buono, gentile; ma da nessuno mai diventava di casa, perché un paio di volte l'anno, o anche più spesso, beveva, e allora non soltanto si beveva tutto quel che aveva, ma diventava anche manesco e permaloso. Anche Vasilij Andreitch l'aveva già cacciato via diverse volte, ma poi lo aveva fatto tornare, perché gli piaceva la sua onestà, il suo amore per gli animali e soprattutto il fatto che si facesse pagare poco. Vasilij Andreitch pagava a Nikita non gli ottanta rubli che gli sarebbero toccati per il suo lavoro, ma quaranta rubli, e glieli dava per di più non tutti insieme a scadenza fissa, ma un poco per volta, di quando in quando, e nemmeno in contanti, ma sottoforma perlopiù di merci della sua bottega, alzandone inoltre i prezzi.

La moglie di Nikita, Marfa, che un tempo era stata una bella "baba" vivace, badava alla casa in cui viveva coi figli, uno adolescente e due ragazze, e non chiedeva mai al marito di tornare da lei, in primo luogo perché già da vent'anni viveva con il bottaio, un "mugìk" d'un altro villaggio, che era venuto ad abitare a casa loro; e in secondo luogo, perché quando il marito era sobrio lei lo comandava a bacchetta, ma quando era ubriaco lo temeva come il fuoco. Una volta che si era ubriacato lì a casa, Nikita, probabilmente per vendicarsi della moglie per tutta la soggezione che ne aveva quand'era sobrio, le aveva scassato il baule, ne aveva preso i vestiti di lei, i più preziosi e, a colpi di scure, glieli aveva fatti a pezzi su un ceppo. Tutto quello che Nikita guadagnava, il padrone lo pagava alla moglie, senza che Nikita avesse mai avuto nulla da ridire. Così anche questa volta, due giorni prima della festa, Marfa era venuta da Vasilij Andreitch e aveva preso farina bianca, tè, zucchero e una bottiglia di acquavite, il tutto per tre rubli, nonché altri cinque rubli in moneta, e aveva ringraziato come se si fosse trattato d'un gran favore fattole dal padrone, quando invece Vasilij Andreitch era in debito con Nikita di almeno venti rubli, a calcolare con la tariffa più bassa.

"Mica siam stati lì a fare un contratto io e te, dico bene?" diceva Vasilij Andreitch a Nikita. "Macché. Se c'è qualcosa che ti serve, prendila, e pagherai poi. Da me non è mica come dagli altri, che ti fanno aspettare, e ti fanno i conti al centesimo, e ti segnano le multe. Noi le cose le facciamo da gente onorata. Tu sei a servizio da me, e io non ti lascio mai solo nel bisogno".

E mentre diceva ciò, Vasilij Andreitch era sinceramente convinto di essere un benefattore per Nikita: a tal punto riusciva ad essere convincente il suo argomentare - e inoltre, era talmente abituato a che tutti coloro che dipendevano dal suo denaro, a cominciare dallo stesso Nikita, lo confermassero sempre nel suo convincimento che egli non stesse affatto imbrogliando né Nikita né nessun altro, e fosse invece un benefattore per tutti loro.

"Ma questo lo so anch'io, Vasilij Andreitch, senza che me lo diciate voi: e mi sembra che servirvi vi servo bene, faccio il meglio che posso, neanche foste mio padre. Lo capisco che è proprio come dite voi" rispondeva Nikita, il quale capiva benissimo che Vasilij Andreitch lo stava imbrogliando, ma sentiva, al contempo, che non sarebbe servito a nulla cercare di mettere in chiaro i conti in sospeso, e che semplicemente bisognava tirare avanti, finché non avesse trovato un altro posto, e prendere quel che lui gli dava.

Quella sera, quand'ebbe dal padrone l'ordine di attaccargli il cavallo, Nikita, allegramente e di buona lena come sempre, andò alla rimessa col passo svelto e leggero delle sue gambe storte, e là tolse da un chiodo la pesante cavezza di cuoio ornata d'un fiocco e, facendo tintinnare le rotelle del morso, entrò nella stalla chiusa a chiave, quella in cui stava, da solo, quel cavallo che Vasilij Andreitch aveva appunto ordinato di attaccare.

"Allora, ti sei annoiato, eh, l'hai sentita la mia mancanza, stupidino?" diceva Nikita, in risposta al debole nitrito di saluto con cui lo aveva accolto lo stallone che era lì da solo nella stalla: un bel cavallo di taglia media, ben saldo, con le chiappe prominenti, baio. "Dài, dài, non aver fretta, aspetta che prima ti faccio bere un pochino" diceva Nikita, parlando con il cavallo proprio come si parla con gli esseri che comprendono le parole, e, dopo avergli passato il lembo della sua casacca sul dorso grasso, striato nel mezzo, e con il pelo consumato e cosparso di polvere, infilò la cavezza sulla bella testa giovane dello stallone, gli sistemò le orecchie e il ciuffo e, infilatagli la cavezza, lo portò all'abbeverata.

Uscendo con cautela dalla stalla ingombra di alti mucchi di letame, Baio scalpitò e cominciò a tirare calci, fingendo di voler colpire con le zampe posteriori Nikita che trottava dietro a lui verso il pozzo.

"Sì, fa' il furbo, fa' pure il furbo, birbante!" diceva Nikita, intercalando le proprie parole allo scalciare del cavallo, e ben sapendo con quanta attenzione Baio gettasse indietro la zampa soltanto fino a sfiorare la sua bisunta mezzapelliccia, ma non mai fino a colpirlo; e piaceva molto, a Nikita, questo vezzo di Baio.

Dissetatosi con l'acqua gelida, il cavallo sospirò muovendo le robuste labbra bagnate, da cui cadevano, dai baffi giù nel secchio, gocce trasparenti; e rimase immobile, come se all'improvviso avesse cominciato a pensare a qualcosa. Poi, d'un tratto, sbuffò sonoramente.

"Va bene, se non ne vuoi più non berne più, bene a sapersi; ma poi non me ne chiedere ancora, neh?" disse Nikita, spiegando in tutta serietà e particolareggiatamente il proprio comportamento a Baio; e di nuovo corse alla rimessa, trascinandosi dietro per una cinghia della cavezza quel cavallo giovane e allegro, che scalciava e scalpitava con un crepitare di zoccoli che riempiva tutto il cortile.

Di lavoranti non ce n'era nessuno; c'era soltanto un tale venuto da fuori per la festa, il marito della cuoca.

"Va', anima buona" gli disse Nikita, "va' a domandare quale slitta comanda di attaccare: quella larga o quella piccina?".

Il marito della cuoca entrò nella casa dal tetto rivestito di ferro e dall'alto zoccolo, e ne tornò ben presto con la notizia che l'ordine era di attaccare la slitta piccola. Nikita nel frattempo aveva già infilato al cavallo il collare, ornato di piccole borchie, e, tenendo in una mano la leggera "dugà" dipinta, e con l'altra mano conducendo il cavallo, si stava avvicinando alle due slitte che erano sotto la tettoia della rimessa.

"Se han detto quella piccola, vada per quella piccola" disse, e fece entrare tra le due stanghe l'intelligente cavallo, il quale continuava sempre a fingere di volerlo morsicare; poi, con l'aiuto del marito della cuoca, Nikita cominciò ad attaccarlo.

Quando tutto era già quasi pronto e non restava che da allacciare le briglie, Nikita mandò il marito della cuoca a prender la paglia nella rimessa e la iuta nel granaio.

"Ecco fatto. Eh, eh, non darti tante arie, tu!" diceva Nikita, pigiando nella slitta la paglia d'avena, fresca di trebbiatura, che gli aveva portato il marito della cuoca. "E adesso stendiamo ben bene la tela, e poi sopra la iuta. Ecco qua, ecco, così starà seduto bello comodo" diceva, facendo quel che diceva, rimboccando la spessa iuta sopra la paglia, da ogni parte attorno al sedile.

"Grazie tante, anima buona" disse Nikita al marito della cuoca, "in due si fa tutto più in fretta". E, districando le varie cinghie dall'anello che congiungeva l'estremità delle briglie, Nikita si sedette a cassetta e diede un tocco al bravo cavallo, che altro non chiedeva se non di avviarsi sul letame gelato del cortile verso il portone.

"Zio Mikìt, zietto, ehi, zietto?" cominciò a gridare alle sue spalle, con un vocino sottile, un bambino di sette anni che era uscito di corsa dall'ingresso e che indossava una mezzapelliccetta nera, un paio di stivaloni di feltro bianchi nuovi nuovi, e un caldo berretto di pelo. "Fa' sedere anche me" chiese, abbottonandosi mentre correva la sua mezzapelliccetta.

"Dài, dài, corri, colombino" disse Nikita e, fermatosi, fece salire il figlio del padrone, il cui visino pallido e magro s'era tutto illuminato di gioia. E così uscirono in strada.

Erano passate da poco le due. Faceva freddo, almeno dieci gradi sotto zero, e c'era foschia e vento. Metà del cielo era ricoperta da una bassa nube scura. Ma nel cortile tutto era tranquillo.

Fuori, invece, il vento si sentiva di più: dal tetto della rimessa dei vicini volava giù polvere di neve e sull'angolo della via, accanto alla "banja", si vedevano i mulinelli di nevischio. Nikita era appena uscito dal portone e aveva voltato il cavallo verso il porticato, quando anche Vasilij Andreitch, con una sigaretta in bocca, avvolto in un "tulùp" di montone, con il cappuccio e con una grossa cinta di stoffa allacciata stretta e bassa, uscì dall'ingresso, sulla neve indurita dell'alto gradino del porticato, che scricchiolò sotto i suoi stivaloni di feltro ricoperti di cuoio. Si fermò, inspirò una profonda boccata da quel che gli rimaneva della sigaretta, la gettò a terra dinanzi a sé e vi posò sopra il piede e, mandando fuori il fumo attraverso i baffi e guardando di sbieco il cavallo pronto a partire, cominciò a sistemare da entrambe le parti del suo roseo viso accuratamente rasato, a eccezione dei baffi, i lembi del bavero del "tulùp", ficcando in dentro la parte con la pelliccia dimodoché il pelo non si inumidisse al contatto col suo fiato.

"Guarda lì, che peste che è, ha già fatto in tempo a sedersi!" disse, scorgendo il figlioletto nella slitta. Vasilij Andreitch era eccitato dall'acquavite che aveva bevuta insieme agli ospiti, e in quantità altresì maggiore del consueto, ed era contento di tutto ciò che gli apparteneva e di tutto ciò che faceva. Veder lì il figlio, che lui nei suoi pensieri chiamava sempre "l'erede", gli procurò in quel momento un grande piacere; e lo guardò, socchiudendo gli occhi e digrignando i lunghi denti in un sorriso.

Con il capo e le spalle avvolte in un ampio scialle di lana, così da lasciar scorgere solamente gli occhi, la pallida moglie di Vasilij Andreitch, magra e incinta, scesa a salutare il marito, stava in piedi alle sue spalle, nell'ingresso.

"Faresti proprio bene a prenderti anche Nikita" disse la moglie, muovendo timidamente un passo oltre la soglia.

Vasilij Andreitch non rispose nulla, e in risposta alle parole di lei, che evidentemente gli erano riuscite spiacevoli, si accigliò con aria irritata, e sputò.

"Ti porti dietro anche i soldi" continuava la moglie, sempre con quella sua voce lamentosa. "E poi se si guasta il tempo, che Dio ce ne scampi...".

"E perché, non la so da me la strada, da dovermi per forza prendere l'accompagnatore?" sbottò Vasilij Andreitch, con quell'innaturale tensione delle labbra con la quale era solito parlare ai venditori e ai compratori, pronunciando ciascuna sillaba con particolare nettezza.

"E pensare che faresti proprio bene a prendertelo, sai. In nome di Dio te lo chiedo, prendilo!" ripeté la moglie, rincalzandosi con la mano destra lo scialle sopra la spalla sinistra.

"Ma ti dico io, si appiccica come le lappole... Ma dove vuoi che me lo porti?".

"Be', Vasilij Andreitch, io per me sarei anche pronto" disse allegramente Nikita. "Purché qua qualcuno dia da mangiare ai cavalli mentre io sono via" aggiunse, volgendosi verso la padrona.

"Ci penserò io, Nikituschka, lo dirò a Semën" disse la padrona.

"Allora che si fa, vengo anch'io, Vasilij Andreitch?" disse Nikita, in attesa.

"Eh be', si vede che bisogna proprio portar rispetto alla vecchia.

Solo che se vieni, va' su a metterti in una tenuta un po' più pesantina" disse Vasilij Andreitch, ricominciando a sorridere e accennando con un'occhiata divertita alla mezzapelliccia di Nikita, lacera sotto le ascelle e sulla schiena e sull'orlo, tanto che sembrava avere le frange, e bisunta e cascante, che doveva averne vedute, in vita sua, delle belle.

"Ehi, anima buona, vieni un po' a tenermi il cavallo!" gridò Nikita volgendosi verso il cortile, all'indirizzo del marito della cuoca.

"Io, io!" strillò il bambino, togliendo di tasca le rosse manine infreddolite e afferrando le fredde cinghie delle briglie.

"Solo non startela a guardar troppo allo specchio, la tua tenuta, spicciati!" gridò Vasilij Andreitch, digrignando i denti in direzione di Nikita.

"Faccio tutto in un lampo, 'bàtjuschka' Vasilij Andreitch!" sbottò Nikita e, con un rapido balenare delle sue calze infilate nei vecchi "vàlenki" a cui aveva cucito lui stesso nuove suole di feltro, corse nel cortile e di lì nell'"isbà" dei lavoranti.

"Dài, dài, Arinuschka, dammi il mio caffettano, è lì sulla stufa:

che devo partire col padrone!" disse Nikita, entrando di corsa nell'"isbà" e prendendo la cinta di stoffa, che era appesa a un chiodo.

La lavorante, che dopo pranzo aveva dormito sodo e che adesso stava preparando il samovàr per il marito, accolse con allegria Nikita e, contagiata dalla fretta di lui, cominciò a muoversi con la sua stessa rapidità e prese da sopra la stufa un caffettano di panno che vi si stava asciugando, assai malridotto, liso e sdrucito, e cominciò a scuoterne, rapidamente, la polvere, e a distenderne le falde e le maniche.

"Così potrai spassartela tranquilla, con il tuo padron di casa, eh?" disse Nikita alla cuoca, giacché per un suo bonario senso della cortesia non mancava mai di dir qualcosa a qualcuno, quando rimaneva a quattr'occhi con lui.

E, avvolgendosi attorno alla vita la stretta cintolina di stoffa, ormai cadente anch'essa, ritrasse il ventre già magro d'altronde di per sé, e si strinse più che poté nella sua mezzapelliccia.

"Ecco fatto" disse poi, rivolgendosi non già alla cuoca ma alla cinta, di cui stava infilando le estremità sotto la cinta stessa, "così non mi salterai fuori" e, alzate e abbassate le spalle, in modo da dar libertà di movimento alle braccia, si infilò il gabbano, e di nuovo tese la schiena, così che le braccia potessero muoversi libere, batté qualche colpo con le ascelle e poi prese da uno scaffale le muffole. "Eccomi a posto".

"Gli stivali dovresti cambiarti, Stepanytch" disse la cuoca, "sennò quelli lì son proprio miseri".

Nikita si fermò, come se si fosse rammentato di qualcosa.

"Dovrei, sì... Ma basterà anche così, mica andiamo lontano".

E corse in cortile.

"Ma non avrai freddo, Nikituschka?" disse la padrona, mentre Nikita si avvicinava alla slitta.

"Macché freddo, sto caldo così" rispose Nikita, sistemando la paglia sotto il sedile della slitta, per coprirsene poi i piedi, e infilando sotto la paglia lo "knut", che per quel bravo cavallo non serviva.

Vasilij Andreitch si era già seduto nella slitta, riempiendo, con la sua schiena avvolta in due pellicce, quasi tutto lo schienale ricurvo della slitta: e subito prese le briglie, e toccò il cavallo. E mentre la slitta già si avviava Nikita si sistemò davanti, a sinistra, alla meno peggio, con una gamba che, per il poco spazio rimasto, sporgeva fuori dal sedile.

 

 

 

2.

 

Il bravo stallone smosse la slitta, con un leggero scricchiolio dei pattini, e con andatura vivace si avviò lungo la strada gelata, che nel borgo era spianata.

"E tu dove ti stai arrampicando, eh? Dài, dammi subito lo "knut", Nikita!" gridò Vasilij Andreitch, palesemente rallegrandosi del suo erede, che stava sistemandosi alle loro spalle, sui pattini.

"Adesso te le suono! Corri dalla mamma subito, figlio d'una cagna!".

Il bambino balzò giù. Baio accelerò l'ambio e, dando un balzo, passò al trotto.

I Krestý, in cui sorgeva la casa di Vasilij Andreitch, erano un villaggio di sei case in tutto. Non appena superarono l'ultima "isbà", quella del fabbro, si accorsero subito che il vento era assai più forte di quel che avevano pensato. La strada non si poteva vedere quasi. Le tracce dei pattini venivano subito ricoperte dalla polvere di neve, e si riusciva a distinguere la strada soltanto perché era un po' più alta del terreno circostante. Il vento vorticava su tutta la campagna, e non si scorgeva la linea in cui la terra si incontra con il cielo. Il bosco di Teljàtino, che si vedeva sempre bene, adesso nereggiava solo di quando in quando attraverso il turbinare del nevischio. Il vento soffiava da sinistra, rovesciando caparbiamente da una parte la criniera sul collo diritto e sazio di Baio, e piegava tutta da un lato la sua morbida coda, legata da un semplice nodo. Il lungo bavero di Nikita, il quale sedeva dalla parte del vento, era premuto contro la sua guancia e il suo naso.

"Con tutta questa neve molle, non può sfogarsi a correre sul serio" disse Vasilij Andreitch, orgoglioso del suo buon cavallo.

"Una volta mi ha portato fino a Paschùtino in mezz'ora, lo sai?".

"Co-osa?" chiese Nikita, giacché il bavero gli aveva impedito di distinguere le parole.

"Ti sto dicendo che in mezz'ora mi ha portato fino a Paschùtino" gridò forte Vasilij Andreitch.

"Che dire, è un cavallo bravo questo qua!" disse Nikita.

Tacquero. Ma Vasilij Andreitch aveva voglia di parlare.

"Di' un po', e la tua padrona di casa? mi hanno detto che le hai comandato di non dar più da bere al bottaio, eh?" cominciò a dire con la stessa voce di poco prima Vasilij Andreitch, talmente sicuro che per Nikita dovesse essere una cosa assai lusinghiera il poter discorrere con una persona tanto considerevole e tanto intelligente qual egli era, e talmente contento di quella sua battuta, che non gli passò neppure per il capo che quella conversazione potesse riuscire spiacevole a Nikita.

Nikita anche stavolta non udì il suono delle parole, che il vento disperdeva.

Vasilij Andreitch ripeté, con la sua voce ben chiara e forte, la sua battuta riguardo al bottaio.

"Ah, Dio sia con loro, Vasilij Andreitch, io di queste cose qua non ne voglio proprio sapere. A me basta che quella non mi faccia del male al ragazzo, e poi per il resto Dio sia con lei".

"Giusto" disse Vasilij Andreitch. "E allora che si fa, un cavallo te lo comprerai da qui a primavera?" ricominciò, con un nuovo argomento di conversazione.

"E come si fa a non comperarlo" rispose Nikita, ripiegando il bavero del caffettano e chinandosi verso il padrone.

Adesso la conversazione gli interessava, e voleva sentire bene tutte le parole.

"Il ragazzo oramai è cresciuto, deve arare lui, prima invece prendevano sempre qualcuno a giornata" disse.

"Allora pigliatevi il mio scodato, non ve lo faccio mica pagare tanto!" gridò Vasilij Andreitch, sentendosi eccitato e perciò abbandonandosi alla sua occupazione favorita, che assorbiva tutte le sue energie intellettuali - la compravendita di cavalli, per lo più con imbroglio.

"No, meglio che mi date un quindici rubli, che me lo compro alla fiera" disse Nikita, sapendo che lo scodato che Vasilij Andreitch voleva smerciargli valeva tutt'al più sette rubli, e che Vasilij Andreitch, se gli avesse ceduto quel cavallo, gliel'avrebbe messo almeno a venticinque, il che voleva dire che per sei mesi Nikita non avrebbe più visto un soldo da lui.

"E' un buon cavallo! Ah, ti augurerei d'averlo, come lo augurerei a me stesso. E bada che te lo dico in coscienza, con la mano sul cuore. Brechunòv non ha mai fatto torto a nessuno. Piuttosto ci rimetto di mio, ma non sono mica come gli altri, ah no. Sul mio onore ti sto parlando" gridò con quella sua voce con cui di solito metteva a tacere i suoi venditori e compratori. "E' un cavallo vero, quello!".

"Ah sì, sicuro" disse Nikita con un sospiro, e convintosi che ormai non vi fosse più nulla da ascoltare, lasciò andare il bavero, che subito gli nascose l'orecchio e il viso.

Per una mezz'ora viaggiarono in silenzio. Il vento pungeva a Nikita il fianco e il braccio, nei punti in cui la pelliccia era sdrucita.

Lui si stringeva tutto, alitava nel bavero che gli copriva la bocca, e non sentiva freddo al corpo.

"Allora che ne dici, passiamo da Karamýschevo oppure andiamo dritti?" domandò Vasilij Andreitch.

La strada che passava da Karamýschevo era più battuta e aveva paracarri buoni, in doppia fila, ma era anche più lunga. Ad andar dritti era più breve, ma era una strada da cui passavano pochi, e di paracarri o non ce n'erano o ce n'erano di scadenti, di certo già ricoperti dalla neve.

Nikita pensò per qualche istante.

"A passare da Karamýschevo si allunga, ma si viaggia meglio" disse.

"Sì, ma anche ad andar diritti basta non uscire di strada finché si corre lungo il burrone, e poi c'è il bosco e si va tranquilli" disse Vasilij Andreitch, che voleva andare diritto.

"Fate come volete" disse Nikita, e di nuovo lasciò andare il bavero.

Vasilij Andreitch fece appunto così e, dopo aver percorso una mezza "versta", in un punto in cui ondeggiavano al vento gli alti rami d'una quercia, con qualche foglia che qua e là vi era rimasta ancora attaccata, svoltò a sinistra. Dopo la svolta il vento gli soffiava quasi contro. E per di più aveva cominciato a cadere una neve fine fine. Vasilij Andreitch guidava, gonfiava le guance e si soffiava il fiato sui baffi. Nikita sonnecchiava.

Viaggiarono così per una decina di minuti. A un tratto Vasilij Andreitch cominciò a dire qualcosa.

"Co-ome?" domandò Nikita aprendo gli occhi.

Vasilij Andreitch non rispose e si incurvò girandosi a guardare indietro e poi guardò avanti, oltre il cavallo. Il cavallo, tutto increspato di sudore sull'inguine e sul collo, andava al passo.

"Co-om'è che hai detto?" ripeté Nikita.

"Co-ome, co-ome!" lo scimmiottò Vasilij Andreitch, irritato. "Non si vedono più i paracarri! Mi sa che ci siamo perduti!" "Allora ferma, che do un'occhiata io" disse Nikita e, balzato giù agilmente dalla slitta e preso lo "knut" da sotto la paglia, si incamminò verso sinistra, dalla parte dove stava seduto.

La neve quell'anno non era profonda, sicché la strada era ovunque visibile, e tuttavia qua e là arrivava anche fino al ginocchio, e riempiva gli stivali di Nikita. Nikita camminava, tastava il terreno con i piedi e con lo "knut", ma la strada non c'era più da nessuna parte.

"Allora?" disse Vasilij Andreitch, quando Nikita tornò verso la slitta.

"Da questa parte non ce n'è, di strada. Bisogna vedere un po' dall'altra parte".

Nikita andò anche da quella parte, si avvicinò a qualcosa che nereggiava: ed era terra, che il vento aveva spazzato dai nudi campi invernali spargendola sopra la neve, a tingerla di nero.

Dopo aver camminato per un po' anche a destra, Nikita tornò alla slitta, si scrollò di dosso la neve, ne vuotò gli stivali e si sedette nella slitta.

"A destra bisogna andare" disse in tono deciso. "Prima il vento mi batteva sul fianco sinistro, e adesso mi arriva dritto sul muso.

Dài, a destra!" disse, con decisione.

Vasilij Andreitch gli obbedì e prese a destra. Ma di strada continuava a non essercene. Proseguirono così per diversi minuti.

Il vento non diminuiva, e c'era anche quella neve fine.

"Qua, Vasilij Andreitch, mi sa che ci siamo proprio perduti" disse a un tratto Nikita, quasi con soddisfazione. "E quella che roba è?" disse poi, indicando un nero fusto di patata, che spuntava dalla neve.

Vasilij Andreitch fermò il cavallo, che era già fradicio di sudore e muoveva pesantemente i tondi fianchi, nel respiro.

"Allora, che roba è?" domandò Vasilij Andreitch.

"E' che siamo sui campi di Zachàrovka. Ma guarda un po' dove siamo finiti!".

"Balle!" gli fece eco Vasilij Andreitch.

"No, Vasilij Andreitch, dico la verità" disse Nikita, "lo si sente anche dal rumore della slitta, che siamo su un campo di patate; eccoli là, i mucchi, li han portati là i fusti. E' il campo di patate di Zachàrovka".

"Ma guarda un po' dove siamo finiti!" disse Vasilij Andreitch. "E adesso come facciamo?".

"Adesso andiamo diritto, ecco tutto, e da qualche parte usciremo" disse Nikita. "Se non sarà alla Zachàrovka, sarà alla fattoria del 'barin'".

Vasilij Andreitch obbedì e lasciò andare il cavallo dove comandava Nikita. Avanzarono così per un tempo piuttosto lungo. Ogni tanto attraversavano dei tratti nudi, verdi, e la slitta rumoreggiava su spuntoni di terra gelata. Ogni tanto attraversavano stoppie, ora invernali, ora primaverili, su cui si vedevano spuntare, dalla neve, steli di assenzio e di paglia che ondeggiavano al vento; oppure entravano in una neve profonda e d'un bianco dappertutto uniforme, al di sopra della quale non si scorgeva più nulla.

La neve scendeva, e di tanto in tanto veniva anche dal basso, sollevata dal vento. Il cavallo era evidentemente sfinito, era tutto increspato di sudore e di brina e andava al passo. A un tratto cadde, e rimase accosciato in un borro o in un fosso.

Vasilij Andreitch voleva fermare, ma Nikita gli gridò: "Cosa lo tieni? Se ci siamo entrati dentro bisogna che ne usciamo. Dài, bello! dài! dài, caro!" cominciò a gridare al cavallo, con voce allegra, balzando giù dalla slitta e affondando anche lui nel fosso.

Il cavallo si slanciò in avanti e subito risalì su un terrapieno gelato. Evidentemente si trattava proprio di un fosso, scavato in quel punto.

"Ma dov'è che siamo?" disse Vasilij Andreitch.

"Adesso lo sapremo!" rispose Nikita. "Continua ad andare, da qualche parte dovremo pur sbucare".

"Ma quello là non è mica il bosco di Gorjàtchkino?" disse Vasilij Andreitch, indicando qualcosa di nero che si mostrava frammezzo alla neve dinanzi a loro.

"Adesso ci andiamo e vedremo che bosco è" disse Nikita.

Nikita aveva visto che da quel qualcosa di nero volavano nel vento foglie secche, allungate, di salice, e da ciò aveva capito che non era un bosco, ma una casa, ma non voleva dirlo. E infatti, non avevano ancora percorso una decina di "sàgieni" da quel fosso, che dinanzi a loro si profilarono forme indubbie di alberi, e si udì un suono nuovo, uggioso. Nikita aveva visto giusto: non era un bosco, ma una fila di alti salici con foglie che svolazzavano ancora qua e là. I salici, evidentemente, erano piantati lungo il fosso di un'aia. Avvicinatosi ai salici che ululavano uggiosi al vento, il cavallo si sollevò a un tratto con le gambe anteriori più in alto della slitta, si arrampicò anche con quelle posteriori su un'altura, poi girò a sinistra e smise di affondare nella neve fino al ginocchio. Erano sulla strada.

"Eccoci arrivati" disse Nikita, "e non sappiamo dove".

Il cavallo, senza esitare, si avviò lungo la strada innevata, e non vi avevano percorso una quarantina di "sàgieni" che cominciò a nereggiare la striscia diritta della staccionata di un'aia, sotto un tetto ricoperto da uno spesso strato di neve, dal quale la neve continuava a spargersi giù incessante. Oltrepassata l'aia, la strada svoltò in direzione del vento, e la slitta si ritrovò in un alto cumulo di neve. Ma più oltre si scorgeva uno stretto vicolo tra due case, dimodoché quel cumulo di neve doveva averlo formato il vento proprio in mezzo alla strada, e dunque bisognava attraversarlo. E infatti, attraversato che ebbero quel cumulo, sbucarono su una via. Accanto al primo cortile sventolavano disperatamente al vento capi di biancheria stesi ad asciugare su una corda, e già congelati: camicie, una rossa, una bianca, calzoni, pezze da piedi e una gonna. La camicia bianca si dibatteva con particolare disperazione, agitando le maniche.

"Ve', che 'baba' pigra, o magari sta morendo, se non ha ritirato la biancheria in un giorno di festa" disse Nikita, guardando le camicie che ondeggiavano.

 

 

 

3.

 

All'inizio della via c'era ancora molto vento, e perciò la strada era ben visibile; ma nel mezzo del villaggio tutto divenne silenzioso, caldo e allegro. In un cortile c'era un cane che abbaiava; in un altro cortile videro una "baba", che coprendosi fin sopra la testa con la pelliccia corse a infilarsi nella porta dell'"isbà", e si fermò sulla soglia, per osservare da lì i nuovi arrivati. Dal centro del villaggio arrivava un'eco di canti di fanciulle.

Nel villaggio pareva che vento, neve e gelo fossero d'un tratto scemati.

"Ma questo qua è Grìschkino" disse Vasilij Andreitch.

"Proprio" rispose Nikita.

E infatti era Grìschkino. Era andata così: che avevano deviato a sinistra e avevano percorso almeno otto verste in una direzione del tutto diversa da quella che bisognava, eppure si erano avvicinati alla loro meta. Da Gorjàtchkino a Grìschkino c'erano cinque "verste".

Al centro del villaggio si imbatterono in un uomo molto alto, che camminava nel mezzo della via.

"E voi chi siete?" gridò costui, fermando il loro cavallo, e, riconosciuto subito Vasilij Andreitch, afferrò la stanga e tenendovisi stretto arrivò fino alla slitta e si sedette a cassetta.

Era un conoscente di Vasilij Andreitch, il "mugik" Isàj, ben noto nella regione per essere il peggiore di tutti i ladri di cavalli.

"Ah! Vasilij Andreitch! Dov'è che vi porta Iddio?" disse Isàj, avvolgendo Nikita con l'odore della vodka che aveva bevuto.

"Eh, dovevamo andare a Gorjàtchkino".

"E guarda un po' dove siete andati a finire! Dovevate prendere per Malàchovo".

"Dovevamo sì, ma non l'abbiamo imbroccata" disse Vasilij Andreitch, fermando il cavallo.

"Bello questo cavallino qua" disse Isàj, osservando il cavallo e tendendogli, sotto l'ultima vertebra, con un gesto a lui consueto, il nodo della folta coda, che si era allentato.

"E adesso che farete, passate qua la notte?".

"Eh no, fratello, dobbiamo proprio proseguire".

"Se bisogna bisogna. E questo qua di chi è? Ah! Nikita Stepanytch!".

"E chi sennò?" rispose Nikita. "Dicci un po', anima buona, come facciamo adesso a non perderci un'altra volta?".

"E come fate a perdervi! Svolta indietro, va' diritto per la via e poi appena esci continua ad andare sempre diritto. Non prendere a sinistra. Poi quando sbuchi sulla strada maestra, gira a destra".

"E dalla strada maestra dov'è che bisogna svoltare? A estate o a inverno?" domandò Nikita.

"A inverno. Adesso appena sbuchi qua fuori trovi dei cespugli, e proprio dirimpetto ai cespugli c'è un paracarro grosso, di legno di quercia, tutto arricciato: e lì svolti".

Vasilij Andreitch fece voltare indietro il cavallo e si avviarono, passando dinanzi alle case.

"Ma fareste meglio a passarla qua la notte!" gridò alle loro spalle Isàj.

Ma Vasilij Andreitch non gli rispose e continuò a toccare il cavallo con le redini; cinque verste di strada piana, delle quali due attraverso la foresta, parevano facili a percorrersi, tanto più che il vento s'era quasi calmato e anche la neve era cessata.

Ripercorsero la via, sul letame fresco spianato che nereggiava qua e là, e ripassarono dinanzi al cortile con la biancheria stesa, dove la camicia stava ormai strappandosi dalla corda e vi rimaneva appesa soltanto per una manica congelata. Uscirono di nuovo verso i salici che ululavano terribilmente, e di nuovo si vennero a trovare nel campo aperto. La tormenta non soltanto non si era placata, ma sembrava addirittura essersi fatta più forte. Tutta la strada era affondata nella neve, e si poteva sapere se ci si era già persi o no soltanto guardando i paracarri. Ma anche i paracarri era difficile tenerli d'occhio sempre, perché il vento soffiava contro.

Vasilij Andreitch socchiudeva gli occhi, piegava la testa e si sforzava di distinguere i paracarri, ma per lo più lasciava che fosse il cavallo a guidare, perché si fidava di lui. E in realtà il cavallo non perdeva la strada, e andava, voltando ora a destra ora a sinistra secondo le curve della strada, che lui sentiva sotto gli zoccoli, sicché, malgrado la neve che veniva giù più fitta e il vento che si era rafforzato, i paracarri continuavano a ricomparire, ora a destra e ora a sinistra.

Cosi andarono per una decina di minuti, quando a un tratto proprio dinanzi al cavallo si scorse qualcosa di nero, che si muoveva nella rete obliqua della neve incalzata dal vento. Era gente che andava nella loro stessa direzione. Baio li aveva già raggiunti e batteva già con le zampe contro il sedile della slitta che viaggiava dinanzi a lui.

"Passa... a-a-a... Va' davanti!" gridarono dalla slitta.

Vasilij Andreitch cominciò a sorpassarli. Nella slitta sedevano tre "mugiki" e una "baba". Erano evidentemente degli ospiti che rincasavano da una festa. Un "mugik" fustigava con una verga il didietro cosparso di neve della sua cavallina. Gli altri due, agitando le braccia, gridavano qualcosa sul sedile anteriore. La "baba", tutta imbacuccata, e tutta cosparsa di neve, sedeva immobile, cupa, in fondo alla slitta.

"Voi di chi siete?" gridò Vasilij Andreitch.

"Di A-a-a...!" si udì soltanto.

"Di chi siete vi ho chiesto!".

"Di A-a-a...!" gridò con tutte le sue forze uno dei "mugiki", e ciononostante non si riuscì a distinguere la sua risposta.

"Corri! Non cedergli!" gridava l'altro, continuando a martellare la cavallina.

"Venite da una festa, eh?" "Vai, vai! Corri, Semka! Sorpassali! Corri!" Le slitte cozzarono l'una contro l'altra con i respingenti, furono sul punto di agganciarsi, poi si sganciarono, e la slitta dei "mugiki" cominciò a rimanere indietro.

La cavallina villosa, tutta cosparsa di neve, panciuta, respirando pesantemente sotto la "dugà" bassa, cercando con tutte le forze che le restavano di sfuggire alla verga che la colpiva, arrancava con le sue corte gambette nella neve alta, spingendola dietro di sé. Il muso, evidentemente giovane, con il labbro inferiore sporgente come quello dei pesci, con le narici allargate e le orecchie abbassate per la paura, resse per qualche secondo accanto alla spalla di Nikita, poi cominciò a rimanere indietro.

"Guarda un po' cosa fa la vodka alla gente" disse Nikita. "L'hanno proprio conciata bene quella cavallina. Che razza di asiatici!".

Per alcuni minuti continuarono a udirsi l'ansimare delle narici della cavallina martoriata e le grida ubriache dei mugiki, poi gli ansimi tacquero, e poi tacquero anche le grida. E di nuovo non si udì più nulla all'intorno, eccetto il vento che fischiava accanto alle orecchie e di tanto in tanto il debole scricchiolio dei pattini sui tratti da cui il vento aveva spazzato via la neve.

Questo incontro rallegrò e rinfrancò Vasilij Andreitch, ed egli incitò il cavallo con più vigore, senza badare più ai paracarri, affidandosi al cavallo. Nikita non aveva nulla da fare, e come sempre quando veniva a trovarsi in tale condizione si assopì, per recuperare le molte ore di sonno perdute in passato.

A un tratto il cavallo si fermò, e Nikita si trovò quasi a cadere, con il naso in avanti.

"Ma qua stiamo andando ancora fuori strada" disse Vasilij Andreitch.

"Perché?".

"E guarda, i paracarri non si vedono più. Mi sa che ci siamo persi un'altra volta".

"Se abbiamo perso la strada bisogna cercarla" disse brevemente Nikita, si alzò e scese nella neve, e prese a camminarvi con facilità, con i suoi piedi storti all'indentro.

Camminò a lungo nella neve, scomparendo alla vista, ricomparendo di nuovo e poi di nuovo scomparendo, e finalmente tornò.

"Non ce n'è qua di strada, forse più avanti ce ne sarà" disse, sedendosi nella slitta.

Ormai stava visibilmente facendo buio. La tormenta non aumentava, ma nemmeno diminuiva.

"Si riuscisse a sentire almeno quei mugiki" disse Vasilij Andreitch.

"Già, non ci hanno raggiunti, si vede che abbiamo deviato di tanto. O forse si sono persi anche loro" disse Nikita.

"E adesso da che parte si va?" disse Vasilij Andreitch.

"Eh, adesso bisogna lasciar fare al cavallo" disse Nikita. "Ci porterà lui. Da' qua le redini".

Vasilij Andreitch cedette le redini, tanto più volentieri in quanto ché le mani stavano cominciando a intirizzirglisi, malgrado i caldi guanti.

Nikita prese le redini e le tenne soltanto, cercando di non muoverle, rallegrandosi dell'intelligenza del suo prediletto.

Infatti l'intelligente cavallo, volgendo ora da una parte ora dall'altra ora l'uno ora l'altro orecchio, cominciò a voltare.

"L'importante è non parlare!" intimava Nikita. "Guarda come fa!

Vai, vai che lo sai! Così, così".

Il vento cominciò a soffiare alle spalle, cominciò a far meno freddo.

"Altroché se è intelligente" Nikita continuava a rallegrarsi del cavallo. "Il nostro kirghisino è forte ma è stupido. Questo invece, guarda cosa fa con le orecchie. Non ha bisogno di nessun telegrafo, lui sente tutto anche lontano una 'versta'".

E non passò mezz'ora, che dinanzi a loro cominciò in effetti a nereggiare qualcosa: forse un bosco, forse un villaggio, e sulla destra tornarono a comparire i paracarri. Evidentemente erano ritornati sulla strada.

"Ma è ancora Grischkino" disse a un tratto Nikita.

Infatti, adesso alla loro sinistra c'era di nuovo quella stessa aia, con la tettoia da cui il vento soffiava via la neve, e persino quella stessa corda con la biancheria congelata, con le camicie e i pantaloni che continuavano a sventolare nello stesso modo disperato.

Di nuovo entrarono nella via, di nuovo l'aria divenne silenziosa, calda, allegra, di nuovo si vide la strada piena di letame, di nuovo si udirono voci, canti, di nuovo abbaiò un cane. S'era già fatto talmente buio, che in alcune finestre si erano accese le luci.

In mezzo alla strada Vasilij Andreitch voltò il cavallo verso una casa grande, con due costruzioni di mattoni sul retro, e fermò dinanzi al ballatoio.

Nikita si accostò a una finestra illuminata e ingombra di neve, alla cui luce scintillava il pulviscolo svolazzante, e bussò ai vetri con lo "knut".

"Chi è là?" rispose una voce al richiamo di Nikita.

"I Brechunòv, brav'uomo, da Krestý" rispose Nikita. "Esci un momento!".

La figura si allontanò dalla finestra, e due minuti dopo udirono che la porta del vestibolo si apriva, con un rumore come di legno che si scolla, e poi il colpo del paletto della porta esterna, e, trattenendo la porta contro il vento, si sporse un alto e vecchio "mugik" con la barba bianca e con una mezzapelliccia gettata sopra una bianca camicia da giorno di festa, e dietro a lui un ragazzo in camicia rossa e in stivali di cuoio.

"Sei tu, Andreitch?" disse il vecchio.

"Ecco qua, ci siamo smarriti, fratello" disse Vasilij Andreitch, "volevamo andare a Gorjàtchkino, e siamo capitati qua da voi.

Siamo ripartiti, e ci siamo persi di nuovo".

"Ma guarda come si sono imbrogliati" disse il vecchio.

"Petruschka, va' ad aprire il portone!" disse rivolto al ragazzo in camicia rossa.

"Questo si può fare" rispose il ragazzo con voce allegra, e corse nel vestibolo.

"Eh, fratello, mica siamo venuti a pernottare" disse Vasilij Andreitch.

"E dove volete andare adesso: se è notte si va a dormire, no?".

"Ah, sarei ben contento di dormire qua, ma bisogna che ripartiamo.

Affari, fratello, non possiamo proprio".

"Be', scaldati un po' almeno, qua avevamo appena preparato il samovàr" disse il vecchio.

"Scaldarsi un po' si può" disse Vasilij Andreitch, "tanto, più buio di così non farà, e anzi se spunterà la luna si rischiarerà un po'. Che si fa, Mikìt, entriamo un momento a scaldarci?".

"Be', che dire, scaldarsi un po' si può sempre" disse Nikita, che era molto infreddolito e aveva una gran voglia di sgranchirsi un po' al caldo le membra intirizzite.

Vasilij Andreitch entrò con il vecchio nell'"isbà", e intanto Nikita portò la slitta nel portone che Petruschka gli aveva aperto e, su ordine di costui, portò il cavallo sotto la tettoia della rimessa. Nella rimessa c'era un alto strato di letame, e l'alta "dugà" urtò un posatoio. Le galline, che si erano già sistemate sul posatoio per la notte, insieme al gallo, chiocciarono qualcosa con aria di malcontento, e si mossero, artigliando con le zampe il posatoio. Le pecore, allarmate, pestando gli zoccoli sul concime gelato, Si mossero bruscamente tutte da una parte. Il cane, strillando disperatamente, con spavento e collera da cucciolo si abbandonò a un profluvio di ululati all'indirizzo dell'estraneo.

Nikita parlò con tutti: si scusò con le galline, le tranquillizzò promettendo loro che non le avrebbe più disturbate, rimproverò le pecore perché si spaventavano senza saper neanche loro di che, e cercò a lungo di fare appello alla coscienza del cagnolino, mentre intanto legava il cavallo.

"Ecco, così andrà proprio bene" disse, scrollandosi di dosso la neve con il palmo delle mani. "Ve', ma come ti ci sei messo, tu!" aggiunse rivolto al cane. "Ma adesso basta, dài! Basta, stupido, basta così. Spaventi soltanto te stesso, a far così" diceva. "Non sono mica un ladro, sono un amico...".

"Questi, come si dice, sono i tre consiglieri della casa" disse il ragazzo, spingendo sotto la tettoia, con braccia forti, la slitta che era rimasta fuori.

"Cioè come sarebbe, consiglieri?" disse Nikita.

"Sta scritto così nel Paul'sòn: il ladro s'avvicina quatto quatto alla casa, e il cane abbaia: e vuol dire: su, non dormire, guarda qua. Il gallo canta: e vuol dire: alzati. Il gatto si lava: e vuol dire che sta arrivando un ospite gradito, e bisogna prepararsi ad accoglierlo" disse il ragazzo sorridendo.

Petruschka sapeva leggere e scrivere, e conosceva quasi a memoria il suo unico libro, il Paul'sòn, e gli piaceva assai, specialmente quando aveva bevuto un poco, come appunto quel giorno, citarne sentenze che gli pareva facessero al caso.

"Proprio vero" disse Nikita.

"Ne devi aver preso di freddo, eh, zietto?" aggiunse Petruschka.

"Be', un po' sì" disse Nikita, e attraversarono il cortile e il vestibolo, ed entrarono nell'"isbà".

 

 

 

4.

 

La casa in cui si era fermato Vasilij Andreitch era una delle più ricche del villaggio. La famiglia aveva cinque lotti e in più prendeva altra terra in affitto. Di cavalli ne aveva sei, tre mucche, due vitelloni, e una ventina di pecore. E la famiglia era di ventidue anime: quattro figli sposati, sei nipoti, di cui soltanto Petruschka era sposato, due pronipoti, tre orfani e quattro nuore con i loro bambini. Era una di quelle rare famiglie rimaste ancora indivise; ma anche lì la discordia stava già compiendo il suo segreto lavorìo, che era incominciato, come sempre avviene, tra le "babe", e che avrebbe ben presto portato inevitabilmente a una divisione. Due dei figli vivevano a Mosca, dov'erano acquaioli, e un altro faceva il soldato. A casa vi erano adesso il vecchio, la vecchia, il secondo figlio, che era il vero padrone di casa, e il figlio maggiore, venuto da Mosca per la festa, e tutte le "babe" e i bambini; oltre alla gente di casa, v'era pure un vicino, ospite, e il compare.

Nell'"isbà", sopra al tavolo era appesa una lampada, col disco metallico del paralume, e ne calava una luce vivida sul vasellame del tè, sulla bottiglia di vodka, sugli antipasti e sui muri di mattoni, che nell'angolo bello erano ricoperti di icone e, tutt'intorno a quell'angolo, da quadri. A capotavola sedeva, con indosso la sua mezzapelliccia nera, Vasilij Andreitch, intento a succhiare i suoi baffi gelati e a osservare con i suoi occhi sporgenti, da sparviero, le persone che gli stavano attorno nell'"isbà". Oltre a Vasilij Andreitch, sedeva a tavola il vecchio capofamiglia, calvo e con una barba bianca, e con indosso una camicia bianca tessuta in casa; accanto a lui, vestito d'una camicia fina, d'indiana, vigoroso di schiena e di spalle, c'era il figlio venuto da Mosca per la festa, e poi c'era l'altro figlio, largo anche lui di spalle, il fratello maggiore, che faceva da capofamiglia, e un "mugik" dai capelli fulvi, magrolino, - il vicino di casa.

I "mugiki" avevano bevuto della vodka e ci avevano mangiato su qualcosa; ora stavano per bere il tè, e il samovàr fischiava già, sul pavimento, accanto alla stufa. Sui soppalchi e sulla stufa si vedevano dei ragazzi. Su una panca sedeva una "baba" china su una culla. La vecchia padrona di casa, con il viso ricoperto di piccole rughe che andavano in tutte le direzioni e che le segnavano persino le labbra, faceva gli onori di casa a Vasilij Andreitch.

Quando Nikita entrò nell'"isbà", la padrona stava appunto porgendo all'ospite un bicchiere di vetro grosso, che aveva appena riempito di vodka.

"Non ci far torto, Vasilij Andreitch, non puoi dire di no, bisogna augurar buona festa" diceva. "Bevi, caro".

La vista e l'odore della vodka, e specialmente adesso, dopo che s'era tanto intirizzito e sfinito là fuori, turbarono profondamente Nikita. Si accigliò e, scossa via la neve dal berretto e dal caffettano, si mise dinanzi alle icone e, come se non avesse visto nessuno lì in casa, si segnò e si inchinò tre volte, poi, volgendosi verso il vecchio padrone di casa, si inchinò dapprima a lui, poi a tutti quelli che erano a tavola, poi alle "babe", che erano in piedi accanto alla stufa, e, sussurrando: "Buona festa" cominciò a svestirsi, senza mai guardare il tavolo.

"Be', ti sei ben infarinato di brina, eh, zio" disse il fratello maggiore, guardando la neve che copriva con uno strato leggero, come di piume, il viso, gli occhi e la barba di Nikita.

Nikita si tolse il caffettano, lo scosse di nuovo, lo appese alla stufa e si avvicinò alla tavola. Anche a lui offrirono della vodka. Per un minuto si sentì tormentosamente combattuto: per poco non prese davvero il bicchierino, per trangugiarne il liquido luminoso e profumato; ma gettò un'occhiata a Vasilij Andreitch, e si ricordò del proprio voto, si ricordò degli stivali che si era bevuti, si ricordò del bottaio, si ricordò del suo ragazzo, a cui aveva promesso di comprare un cavallo entro primavera, sospirò e rifiutò.

"Non bevo, umilmente ringrazio" disse, accigliandosi, e si sedette su una panca vicino alla seconda finestra.

"Ma come?" disse il fratello maggiore.

"Se non bevo vuol dire che non bevo" disse Nikita, senza alzare gli occhi, e sbirciando verso i propri baffi e la propria barba flosci, e sgelandone i ghiaccioli.

"Non gli fa bene, a lui" disse Vasilij Andreitch, masticando una ciambella salata sopra il bicchiere che aveva appena vuotato.

"Be', allora una tazzina di tè" disse la vecchia, affettuosa.

"Vedo che ti sei tutto intirizzito, caro il mio ragazzo. Allora, voi "babe", quanto tempo ci mettete con questo samovàr?".

"E' pronto" disse la più giovane e, asciugato con il lembo d'una tendina il samovàr coperto, che bolliva oramai, lo trascinò con fatica fino alla tavola, lo sollevò e ve lo mise sopra, con un rumore sordo.

Frattanto Vasilij Andreitch stava raccontando di come si erano perduti, di come erano tornati per due volte nello stesso villaggio, di come avevano vagato nella neve, e dell'incontro con gli ubriachi. I padroni si stupivano, spiegavano dove e perché avessero perduto la strada e chi fossero gli ubriachi che avevano incontrato, e insegnavano come bisognava fare per arrivare dove dovevano.

"Da qua fino alla Moltchànovka ci saprebbe arrivare anche un bambino piccolo, l'unica cosa da stare attenti è quando svoltare dalla strada maestra: al cespuglio, lì bisogna. Voi invece non ci siete riusciti, ad arrivarci!" diceva il vicino.

"Però dovreste proprio dormire qua, sapete. Le "babe" vi preparerebbero subito il letto" insisteva la vecchina.

"Ah sì, se partiste domattina sarebbe proprio una cosa buonissima, sarebbe" confermava il vecchio.

"Eh, ma non si può, fratello: gli affari!" disse Vasilij Andreitch. "Se perdi un'ora poi non ti basta un anno per recuperarla" aggiunse, pensando al boschetto e ai mercanti, che potevano soffiargli quell'acquisto. "Sicché, si va?" disse rivolgendosi a Nikita.

"Purché non ci si perda un'altra volta" disse lui, cupo.

Nikita era cupo perché aveva un gran desiderio di vodka, e l'unica cosa che poteva soffocare quel suo desiderio era il tè, e il tè non gliel'avevano ancora versato.

"Ma sì, l'importante è arrivare fino a quella svolta là, e poi non ci si perde più, no? Poi si va per il bosco fino al paese" disse Vasilij Andreitch.

"Come volete voi, Vasilij Andreitch; se bisogna andare si va" disse Nikita, prendendo il bicchiere di tè che gli stavano porgendo.

"Ci beviamo un bel tè, e poi marsch".

Nikita non disse nulla, si limitò a scuotere il capo e, versato con cautela il tè su un piattino, cominciò a scaldarsi le mani al vapore che ne saliva, piegandovi sopra le dita, che eran sempre gonfie per il molto lavoro. Poi, messosi in bocca un minuscolo pezzetto di zucchero, si inchinò ai padroni e disse:

"Alla salute vostra" e ingoiò il liquido che lo scaldava.

"Magari ci potrebbe accompagnare qualcuno fino alla svolta" disse Vasilij Andreitch.

"E perché no, si può" disse il figlio maggiore. "Petruschka attaccherà un cavallo e vi accompagnerà fino alla svolta".

"Ah, allora attacca, attacca, fratello! E io ti ringrazierò".

"Eh, ma che dici, caro!" disse la vecchina affettuosa. "Noi siamo contenti con tutta l'anima, di farlo".

"Petruschka, va' ad attaccare la cavalla" disse il fratello maggiore.

"Questo si può" disse Petruschka, sorridendo, e subito, strappato il berretto dal chiodo, corse ad attaccare.

Mentre si attaccava il cavallo, la conversazione tornò là dove si era fermata quando Vasilij Andreitch era venuto alla finestra. Il vecchio si stava lagnando con il suo vicino, che era lo "stàrosta", perché il terzo figlio non gli aveva mandato niente per la festa, e alla moglie aveva mandato un fazzoletto francese.

"Eh, i giovani ti scappano di mano" diceva il vecchio.

"Altroché se ti scappano" disse il compare, "e non c'è niente da fare! Si son fatti talmente intelligenti. Guarda Demotchkin, che niente niente gli ha spezzato il braccio, a suo padre. Si vede che è l'intelligenza che gli fa fare queste cose qua, ai giovani".

Nikita ascoltava con attenzione, osservava attentamente i volti e, evidentemente, voleva lui pure prender parte alla conversazione, ma era tutto preso dal tè e si limitava ad annuire con aria di approvazione. Beveva un bicchiere dopo l'altro, e sentiva sempre più caldo, e si sentiva sempre meglio. La conversazione continuò poi a lungo, e sempre sul medesimo punto, sul danno che provocano le separazioni; e la conversazione, evidentemente, non era astratta, ma si trattava della separazione di quella famiglia, - della separazione per la quale aveva già tanto insistito il secondo figlio, che sedeva lì e ora taceva con aria burbera.

Evidentemente, quello era il punto dolente, e questa questione occupava tutte le persone della casa, che, per un senso di riguardo verso i due nuovi venuti, non discutevano in quel momento il loro caso particolare. Solo alla fine, il vecchio non resistette e con il pianto nella voce cominciò a dire che lui non avrebbe permesso mai che gli si dividesse la casa, mai finché avesse avuto vita, e che la casa l'aveva per grazia di Dio, che a dividerla, poi sarebbero dovuti andar via tutti quanti a mendicare.

"Proprio, come i Matveev" disse il vicino. "Avevano una casa proprio come si deve, e poi l'han divisa: e adesso non ha più niente nessuno".

"E' così che vuoi anche tu".

Il figlio non rispose nulla, e si ebbe un silenzio imbarazzato, interrotto da Petruschka, che aveva già attaccato il cavallo ed era rientrato nell'"isbà" da qualche minuto, e sorrideva sempre.

"Ecco, c'è una fiaba nel Paul'sòn" disse. "Un genitore aveva dato ai figli una scopa, che la rompessero. A romperla così com'era non ci riuscirono, ma poi presero rametto per rametto e fu facilissimo. Cosi anche qui" disse, sorridendo con tutta quanta la bocca. "E giù è pronto!" aggiunse.

"Be', se è pronto si va" disse Vasilij Andreitch. "E riguardo alla divisione, tu, nonno, non mollare, eh. Tu hai messo su la baracca, e tu sei il padrone. Va' dal giudice di pace, piuttosto. E lui ti dirà come si deve fare".

"Ma quello lì si impunta, si impunta" continuava a dire il vecchio con voce piagnucolosa, "non ci si riesce a mettersi d'accordo, con lui. Gli è proprio entrato dentro Satana, ecco com'è!".

Nikita nel frattempo, bevuto che ebbe il quinto bicchiere di tè, non lo rimise sulla tavola capovolto, ma lo mise su un fianco, sperando che gliene versassero anche un sesto. Ma di acqua nel samovàr non ce n'era già più, e la padrona non gliene versò un altro, e poi Vasilij Andreitch aveva già cominciato a vestirsi.

Non c'era nulla da fare. Anche Nikita si alzò, rimise nella zuccheriera il suo pezzetto di zucchero mordicchiato da tutte le parti, asciugò con un lembo della camicia il viso madido di sudore e andò a infilarsi il suo soprabito.

Vestitosi, inspirò profondamente e, ringraziati i padroni e congedatosi, uscì dalla stanza calda e luminosa, passò nel buio ingresso, freddo, pieno dei sibili del vento che vi irrompeva e ingombro della neve penetrata dalla fessura della porta tremolante, e di là usci nel buio cortile.

Petruschka, con indosso la pelliccia, stava con il suo cavallo in mezzo al cortile e recitava, sorridendo, dei versi del Paul'sòn.

Diceva: "La bufera copre il cielo, corre il turbine di neve, ululando come un lupo, singhiozzando come un bimbo".

Nikita annuì con approvazione e districò le redini.

Il vecchio, che s'era alzato per accompagnare Vasilij Andreitch, portò una lanterna nell'ingresso e voleva fargli luce, ma la lanterna fu subito spenta dal vento. E perfino al chiuso del cortile ci si accorgeva che la tormenta di neve stava infuriando ancora più forte di prima.

"Ma guarda che tempaccio" pensò Vasilij Andreitch, "e magari è vero che non ce la si fa ad arrivare, ma fermarsi non si può: gli affari! E poi mi son già vestito, e anche la cavalla del padrone, qua, è già attaccata. Ma arriveremo, sì, Dio ce lo concederà!".

Il vecchio padrone pensava lui pure che non bisognasse partire, ma aveva già provato a convincerli a restare, e non l'avevano ascoltato. Non aveva altro da chiedere. "Forse ho di queste paure qua perché sono vecchio, e loro invece arriveranno benone" pensava. "Be', perlomeno non andremo a letto tardi. Senza tante chiacchiere, senza tanto daffare...".

Petruschka invece non ci pensava nemmeno, al pericolo: conosceva tanto bene la strada e tutti i dintorni, e in più anche quella poesiola del "corre il turbine di neve", che lo rinfrancava, perché esprimeva alla perfezione quel che stava avvenendo nel cortile. Quanto a Nikita, non aveva nessuna voglia di andare, ma da tanto tempo ormai si era abituato a non avere una volontà propria e a servire gli altri. Dimodoché nessuno li tratteneva dal partire.

 

 

 

5.

 

Vasilij Andreitch andò verso la slitta, faticando, nel buio, a distinguere dove essa fosse, vi salì, e prese le redini.

"Va' davanti!" gridò.

Petruschka, che stava in ginocchio sulla sua slitta piccola e larga, lanciò la cavalla. Baio, che già da tempo nitriva, sentendo la cavalla dinanzi a sé, le si lanciò dietro, e uscirono sulla via. Ancora una volta attraversarono quel villaggio prendendo per la stessa strada di prima, e passando vicino a quello stesso cortile con la biancheria gelata appesa alla corda, che adesso non si vedeva più, e poi accanto a quella stessa rimessa, che adesso era già ricoperta di neve fin quasi al tetto e dalla quale continuava a spargersi giù neve infinita; e poi accanto a quegli stessi salici che rumoreggiavano cupamente, fischiando e piegandosi, e di nuovo si avviarono in un mare di neve, in cui la tempesta infuriava dall'alto come dal basso. Il vento era tanto forte che quando batteva di fianco, e i viaggiatori vi facevano vela, faceva sbandare le slitte e sospingeva il cavallo verso il ciglio della strada. Petruschka andava davanti, portato dal trotto ciondolante della sua brava cavalla, e di tanto in tanto mandava qualche grido vivace. Baio si sforzava di raggiungerla. Andarono così per una decina di minuti, poi Petruschka si voltò e gridò qualcosa. Né Vasilij Andreitch, né Nikita sentirono, per via del vento, ma intuirono di essere giunti alla svolta. E infatti Petruschka voltò a destra, e il vento, che prima batteva di fianco, riprese a soffiare incontro a loro, e a destra, tra la neve, si vide qualcosa di nero. Era il piccolo cespuglio che segnava la svolta.

"Be', andate con Dio!".

"Grazie, Petruschka!".

"La bufera copre il cielo" gridò Petruschka e scomparve. "Visto che poeta?" disse Vasilij Andreitch e dette un colpo di redini.

"Si, è un bravo giovanotto, un vero 'mugik'" disse Nikita.

Proseguirono.

Nikita, avvoltosi nei suoi panni e ritratta la testa tra le spalle, così che la sua piccola barba gli poggiava sul collo, sedeva silenzioso, cercando di non perdere il tepore che aveva accumulato nell'"isbà" bevendo il tè. Dinanzi a sé vedeva le linee diritte delle stanghe, che incessantemente lo ingannavano, sembrandogli i cigli della strada battuta, e il didietro ondeggiante del cavallo con la coda annodata che si piegava sempre da un lato e poi più oltre l'alta "dugà" e la testa dondolante e il collo del cavallo con la criniera che sventolava. Di quando in quando gli capitavano sotto gli occhi i paracarri, per cui sapeva che per il momento la slitta stava seguendo la strada, e dunque lui non aveva nulla da fare.

Vasilij Andreitch guidava, lasciando al cavallo di tenersi sulla strada. Ma Baio, benché al villaggio avesse ripreso fiato, correva di malavoglia e pareva sempre voler deviare dalla strada, dimodoché Vasilij Andreitch dovette correggerlo alcune volte.

"Ecco, lì a destra c'è un paracarro, ed eccone un altro, e un altro" contava tra sé e sé Vasilij Andreitch, "ed ecco che là davanti c'è il bosco" pensò, fissando lo sguardo verso quel qualcosa che nereggiava dinanzi a lui. Ma ciò che gli era sembrato un bosco era soltanto un cespuglio. Passarono oltre quel cespuglio, percorsero un'altra ventina di "sàgieni", ma il quarto paracarro non lo si vide, né si vide il bosco. "Adesso dovrebbe esserci il bosco" pensava Vasilij Andreitch e, eccitato dalla vodka e dal tè, non si fermava, continuava a dar di redini, e il docile, bravo animale gli obbediva, e andando ora d'ambio ora al trotto leggero, correva là dove lo mandavano, benché sapesse che lo stavano mandando non dove bisognava ma da tutt'altra parte.

Passarono una decina di minuti, e il bosco non si vedeva ancora.

"Ma qua ci siamo persi un'altra volta!" disse Vasilij Andreitch, fermando il cavallo.

Nikita, senza dir nulla, scese dalla slitta e, stringendosi al petto il suo soprabito, che il vento ora gli incollava addosso e ora gli apriva e gli strappava via, andò a rovistare nella neve, andò da una parte, andò dall'altra. Per tre volte scomparve del tutto alla vista. Finalmente tornò e prese le redini dalle mani di Vasilij Andreitch.

"A destra bisogna andare" disse in tono severo e deciso, voltando il cavallo.

"Be', se è a destra va' a destra" disse Vasilij Andreitch, cedendogli le redini e infilandosi le mani intirizzite nelle maniche.

Nikita non rispose.

"Be', amico mio, datti da fare!" gridò al cavallo; ma il cavallo, nonostante i colpi delle redini, andava soltanto al passo.

La neve qua e là arrivava al ginocchio, e la slitta avanzava sussultando ad ogni movimento del cavallo.

Nikita prese lo "knut", che era appeso alla serpa, e frustò. Il buon cavallo, non abituato allo "knut", si slanciò avanti, al trotto, ma subito tornò all'ambio e poi al passo. Così proseguirono per un cinque minuti. Era talmente buio, e tanto era il nevischio che soffiava dall'alto e dal basso, che talvolta non si riusciva a vedere nemmeno la "dugà". A volte pareva che la slitta restasse ferma, e che fosse il campo a correre indietro. A un tratto il cavallo si fermò bruscamente, evidentemente sentendo dinanzi a sé qualcosa di sospetto. Nikita saltò giù di nuovo, agilmente, gettando le redini, e andò dinanzi al cavallo per vedere perché si fosse fermato; ma non appena volle fare un passo dinanzi al cavallo, i suoi piedi scivolarono e lui rotolò giù da un pendio.

"Oh, oh, oh!" diceva a se stesso, come l'avrebbe detto a un cavallo per frenarlo, e intanto precipitava giù cercando di fermarsi, ma non riusciva ad aggrapparsi a nulla e si fermò soltanto quando puntò i piedi in uno spesso strato di neve accumulatosi in fondo al burrone.

Un cumulo di neve che pendeva dal ciglio del burrone, allarmatosi alla caduta di Nikita, gli si rovesciò addosso e gli riempi di neve il collo...

"Ma che mi combini!" disse Nikita rivolgendosi con aria di rimprovero al cumulo di neve e al burrone, e scotendo via la neve dal collo del caffettano.

"Mikìt, ehi, Mikìt!" gridava Vasilij Andreitch dall'alto. Ma Nikita non rispondeva.

Non ne aveva il tempo: si era scosso di dosso la neve, e poi aveva cercato lo "knut", che gli era caduto di mano quando era precipitato lungo quel pendio. Trovato lo "knut", cercò di arrampicarsi dritto davanti a sé, da dove era rotolato giù, ma non c'era possibilità di risalire di lì; si lasciò scivolar giù di nuovo, e dovette andare tastoni, nel buio, in cerca d'una via per ritornare di sopra. A tre "sàgieni" dal punto dove era precipitato, riuscì a fatica, arrampicandosi con le gambe e le mani, a risalire fino in cima e poi si incamminò lungo il ciglio del burrone verso il punto dove doveva esserci il cavallo. Non vedeva né il cavallo né la slitta; ma poiché andava contro vento, prima di vederli udì le grida di Vasilij Andreitch e il nitrito di Baio, che lo chiamavano.

"Arrivo, arrivo, che hai da gracchiare!" disse.

Soltanto quando arrivò a toccare la slitta, vide il cavallo e accanto Vasilij Andreitch, che gli sembrò enorme.

"Ma dove diavolo sei sparito? Indietro bisogna andare. Almeno torneremo a Grischkino" comincia a rimbrottarlo il padrone, irritato.

"Ah, io sarei ben contento di tornarci, Vasilij Andreitch, ma da che parte si va? Qua c'è un burrone di quelli grandi, che a caderci dentro non se ne esce più. Io ancora un po' e ci rimanevo".

"E che, mica dovremo star fermi qua, no? Da qualche parte bisogna pur andare" disse Vasilij Andreitch.

Nikita non rispose nulla. Si sedette nella slitta dando le spalle al vento, si tolse gli stivali e ne scosse fuori la neve che glieli aveva riempiti, poi prese un po' di paglia e ne ricopri accuratamente, dall'interno, un buco che aveva nello stivale sinistro.

Vasilij Andreitch taceva, come lasciando ormai a Nikita di decider tutto da solo. Rimessosi gli stivali, Nikita ritrasse le gambe nella slitta, si infilò di nuovo le muffole, prese le redini e fece voltare il cavallo, lungo il ciglio del burrone. Ma non avevano percorso nemmeno cento passi, che il cavallo si impuntò di nuovo. Dinanzi aveva di nuovo il burrone.

Nikita scese di nuovo, e di nuovo andò a frugare nella neve.

Camminò per un tempo piuttosto lungo. E finalmente ricomparve dalla parte opposta a quella da cui era sparito.

"Andreitch, sei vivo?" gridò.

"Sono qua!" gli rispose Vasilij Andreitch. "Be', allora?".

"Non ci si capisce niente. E' buio, ci sono dei burroni dappertutto. Bisogna andare di nuovo contro vento".

Ripartirono, e di nuovo Nikita dovette scendere e camminare, rovistando nella neve. Di nuovo si sedette nella slitta, di nuovo ne scese e, alla fine, ansante, si fermò accanto alla slitta.

"Be', e allora?" domandò Vasilij Andreitch.

"Allora cosa, son proprio sfinito! E anche il cavallo non ce la fa più".

"E allora cosa facciamo?".

"Niente, aspetta un momento".

Nikita se ne andò di nuovo, e tornò ben presto.

"Tienti dietro a me" disse, incamminandosi davanti al cavallo.

Vasilij Andreitch ormai non dava più ordini, ma faceva docilmente quel che gli diceva Nikita.

"Per di qua, vienimi dietro!" gridò Nikita, prendendo in fretta a destra e afferrando Baio per le briglie, e guidandolo da qualche parte, giù, verso un cumulo di neve.

Il cavallo dapprima si impuntò, ma poi si slanciò avanti, sperando di riuscire a scavalcare il cumulo, ma non ce la fece e vi rimase affondato fino al collare.

"Scendi!" gridò Nikita a Vasilij Andreitch, che restava seduto nella slitta; e sollevò una stanga e cominciò a trascinare la slitta, ché sospingesse avanti il cavallo. "E' dura, eh, fratello" diceva rivolto a Baio, "ma che vuoi farci, su, fa' uno sforzo!

Dài, dài, ancora un pochino!" gridò.

Il cavallo prese lo slancio, una volta, due, ma non riuscì a liberarsi dalla neve, e di nuovo rimase fermo come riflettendo a qualcosa.

"Che mi combini adesso, fratello, così non va mica, sai" cercava di persuaderlo Nikita. "Su, ancora!".

Di nuovo Nikita tirò la stanga dalla parte sua, mentre Vasilij Andreitch faceva lo stesso dall'altra parte. Il cavallo scosse la testa, poi tutto a un tratto si slanciò di nuovo avanti.

"Su! dài! Non aver paura che non affoghi!" gridava Nikita.

Un balzo, un altro, un altro ancora, e, finalmente, il cavallo si trasse fuori dal cumulo e si fermò, respirando forte e scuotendosi tutto. Nikita voleva condurlo oltre, ma a Vasilij Andreitch era venuto un tale affanno, per l'impaccio che gli davano le sue due pellicce, che non riuscì a proseguire e crollò sulla slitta.

"Fammi riprendere fiato" disse, slegandosi il fazzoletto con cui nel villaggio s'era legato il bavero della pelliccia.

"Be' non importa, sta' pure lì sdraiato" disse Nikita, "lo faccio andare avanti io" e, con Vasilij Andreitch disteso nella slitta, condusse il cavallo, tenendolo per le briglie, dapprima in discesa per una decina di passi e poi lungo una leggera salita, e poi si fermò.

Il luogo dove si era fermato Nikita non era nel valloncello, dove la neve che il vento spazzava dai poggi intorno mandandola proprio laggiù, avrebbe potuto seppellirli del tutto; era invece di là dall'orlo del burrone, che poteva servire a ripararli almeno un poco dal vento. A momenti il vento pareva scemare; ma era per poco, e subito dopo, come a recuperare i minuti perduti, la bufera tornava all'attacco con forza decuplicata, a strappare e trascinar via tutto ancora più rabbiosamente di prima. Una di queste raffiche di vento s'abbatté nel momento in cui Vasilij Andreitch, che aveva ripreso fiato, era uscito dalla slitta e si era avvicinato a Nikita per parlare del da farsi. Entrambi, involontariamente, si chinarono, e, prima di parlare, attesero che fosse passata la furia di quella raffica. Anche Baio abbassò le orecchie, con aria di scontento, e scosse la testa. Non appena la raffica di vento si fu un poco placata, Nikita, toltosi le muffole e ficcatele sotto la cinta, si alitò sulle mani e cominciò a staccare le briglie dalla "dugà".

"Ma che stai facendo?" domandò Vasilij Andreitch.

"Stacco, che altro dovrei fare? Di forza non ne ho più" rispose Nikita, come scusandosene.

"Ma allora non andiamo via da qua?".

"No che non ce ne andiamo. Vorrebbe dire martoriare il cavallo per niente. Guardalo, caro il mio cavallino, non si regge più in piedi" disse Nikita, indicando il cavallo che era lì docile, pronto a tutto, e che muoveva faticosamente nel respiro i fianchi bagnati e incavati. "Dovremo dormire qua stanotte" ripeté, come se si stesse accingendo a passar la notte in una stazione di posta, e cominciò a slacciare la cinghia del collare.

Le fibbie saltarono via.

"Ma qua non finiremo congelati?" disse Vasilij Andreitch.

"E anche se fosse. Se devi congelare, mica gli puoi dire che non ti va" disse Nikita.

 

 

 

6.

 

Vasilij Andreitch, con le sue due pellicce, non sentiva affatto freddo, specialmente dopo essersi dato tanto da fare in quel cumulo di neve; ma un brivido gli corse lo stesso lungo la schiena, quando comprese che bisognava davvero passare la notte lì. Per calmarsi, si sedette nella slitta e si mise a cercare le sigarette e i fiammiferi.

Nikita nel frattempo slegava il cavallo. Gli slacciò il sottopancia e la cinta delle stanghe, sfilò le briglie, tolse la tirella, rovesciò la "dugà", e nel frattempo non smetteva mai di parlare con il cavallo, incoraggiandolo.

"Su, esci adesso, esci fuori" diceva, conducendolo fuori dalle stanghe. "E adesso ti legheremo qua. Ti metterò qua un po' di paglia, per premio" diceva, facendo quel che diceva. "Così mangerai un po' e ti sentirai subito più allegro, vedrai".

Ma Baio evidentemente non si sentiva tranquillizzato dai discorsi di Nikita ed era inquieto; continuava a spostare il peso del corpo da una gamba all'altra, si stringeva alla slitta, si metteva con il di dietro al vento, e strofinava la testa contro le maniche di Nikita.

E, come se lo facesse soltanto per non dir di no a Nikita che gli proponeva quella paglia, mettendogliela sotto le narici, Baio, con un movimento brusco, addentò un ciuffo della paglia della slitta, ma subito dopo decise che non era il momento di mangiare, e la lasciò andare, e il vento la disperse immediatamente, portandola lontano e coprendola di neve.

"Adesso ci metteremo un segno" disse Nikita, voltando la slitta in modo che avesse il davanti contro vento, e legò le stanghe con la loro correggia, le alzò e le appoggiò alla serpa. "Ecco, così se la neve ci coprirà, qualche brava persona lo vedrà e verranno a scavare qui" disse Nikita scotendo le muffole e infilandosele. "E' così che ci hanno insegnato i vostri vecchi".

Vasilij Andreitch nel frattempo si era sbottonato la pelliccia e facendo schermo al vento con le falde, sfregava uno zolfanello dopo l'altro sulla scatoletta d'acciaio, ma le mani gli tremavano, e gli zolfanelli che gli si accendevano, tutti, uno dopo l'altro, o prima ancora che prendessero fuoco, o proprio nell'istante in cui egli li accostava alla sigaretta, glieli spegneva il vento.

Infine uno zolfanello riuscì a prender fuoco, e illuminò per un istante il pelo della sua pelliccia, la sua mano con l'anello d'oro sull'indice ricurvo e la paglia d'avena, cosparsa di neve, che spuntava di sotto alla iuta: e la sigaretta si accese. Per due volte egli aspirò avidamente, ingoiò, emise di tra i baffi il fumo, e volle prenderne altre boccate, ma il tabacco acceso gli fu strappato via dal vento, che lo portò là dove aveva portato la paglia.

Ma anche quelle poche boccate di fumo di tabacco bastarono a ridare allegria a Vasilij Andreitch.

"Be', se bisogna passare la notte qui, passiamo la notte qui!" disse con decisione.

"Aspetta aspetta, che ci metto su anche una bandiera" disse ancora, raccogliendo il fazzoletto che s'era tolto dal bavero e che aveva gettato nella slitta, e, toltisi i guanti, si mise in piedi nel mezzo della slitta e, allungandosi in modo da arrivare fino alla correggia delle stanghe, vi legò il fazzoletto, con un nodo ben stretto.

Il fazzoletto cominciò subito a sventolare disperatamente ora incollandosi alle stanghe, ora tutt'a un tratto gonfiandosi, tendendosi e schioccando.

"Visto come m'è riuscito bene, eh?" disse Vasilij Andreitch ammirando il proprio lavoro, e scendendo dalla slitta. "Certo, a metterci vicini staremmo più caldi, ma in due qua non ci si sta mica" disse.

"Un posto lo troverò" rispose Nikita, "solo che prima bisogna coprire il cavallo, che è tutto fradicio di sudore, poverino.

Spostati un momento" aggiunse e, avvicinatosi alla slitta, ne tirò fuori la iuta, da sotto Vasilij Andreitch.

E, presa la iuta, la piegò a metà, e poi la distese sulla groppa di Baio, da cui aveva tolto prima l'imbraca e il bastino.

"Cosi avrai più caldo, stupidino" diceva, infilando di nuovo al cavallo il bastino e l'imbraca, sopra alla iuta. "E la tela non vi serve, no? E datemi anche un po' di paglia" disse Nikita, terminando di fare quel che stava facendo e tornando verso la slitta.

E, tolta la tela e la paglia da sotto Vasilij Andreitch, Nikita andò dietro lo schienale della slitta, e lì, nella neve, si scavò una buca, vi distese la paglia, e premutosi bene il berretto e avvoltosi nel caffettano e copertosi sopra con la tela, si sedette sullo strato di paglia, appoggiandosi alle tavole di tiglio del retro della slitta, che lo proteggevano dal vento e dalla neve.

Vasilij Andreitch scosse la testa con aria di disapprovazione, vedendo quel che faceva Nikita, così com'era suo solito disapprovare l'ignoranza e la stupidità dei "mugiki", e poi cominciò a sistemarsi per la notte.

Pareggiò lo strato di paglia che rimaneva nella slitta, si spinse ancora un po' di paglia sotto il fianco e, infilandosi le mani nelle maniche, accomodò il capo nell'angolo della slitta, sotto il sedile che lo proteggeva dal vento.

Non aveva sonno. Stava disteso lì e pensava: pensava sempre a quell'unica cosa che costituiva l'unico scopo, senso, gioia e orgoglio della sua vita, - a quanto denaro avesse già messo da parte e a quanto ancora avrebbe potuto guadagnarne; e a quanto denaro avessero accumulato e possedessero ora altre persone di sua conoscenza, e a come costoro avessero accumulato e continuassero ad accumulare denaro, e a come lui, proprio come loro, potesse accumulare ancora molto, molto denaro. L'acquisto del bosco di Gorjàtchkino era per lui un affare di enorme importanza. Sperava di trarre da quel bosco un guadagno di diecimila rubli, tutti d'un colpo. E cominciò nei suoi pensieri a far la stima del bosco, che aveva veduto in autunno, e in cui aveva contato tutti quanti gli alberi per un tratto di due "desjàtine".

"Le querce daranno legno per pattini. Per i tagli non c'è problema. E di legna si farà un 30 'sàgieni' ogni 'desjàtina'" diceva a se stesso. "E ogni 'desjàtina', mal che vada, verranno almeno 200 rubli. Con i più magari anche un biglietto da 25, perché no. Per cui 56 'desjàtine', 56 centinaia, con in più 56 decine, più un'altra volta 56 decine, e più 56 cinquine...". Vide che il risultato doveva superare i dodicimila rubli, ma senza il pallottoliere non riusciva a capir bene di quanto precisamente li superasse. "Diecimila comunque non gliene do, gliene darò ottomila, e non metteremo in conto le radure. L'agrimensore me lo lavorerò un po' io, potrei dargli un cento rubli, o magari anche cinquecento; e lui mi segnerà cinque 'desjàtine' di radure. Cosi quello là me lo darà per ottomila. Adesso ne ho qui 3000, pronti sull'unghia. Si raddolcirà di sicuro a vederli" pensava, tastando con l'avambraccio il portafogli che aveva in tasca. "E come abbiamo fatto a perderci dopo la svolta Dio solo lo sa! Qua dovrebbe esserci il bosco, con il casotto del guardiacaccia. Si sentissero almeno i cani. Ma ti dico io, mai che abbaino quando serve". Scostò il bavero dall'orecchio e si mise in ascolto; si udiva sempre il medesimo fischiare del vento, e in cima alle stanghe lo sventolio e gli schiocchi del fazzoletto, e le frustate della neve sul tiglio delle stanghe. Si nascose di nuovo sotto il bavero.

"A saperlo ci saremmo fermati là per la notte. Bah, fa lo stesso, arriveremo domani. Soltanto un giorno di ritardo. Con un tempo così non ci saranno andati neanche loro" E si rammentò che per il giorno 9 il macellaio doveva dargli del denaro per i castroni.

"Già, aveva detto che sarebbe venuto lui da me; se non mi trova, mia moglie non sarà capace di prendere i soldi. E' troppo ignorante. Non sa mica come ci si deve comportare" continuava a pensare, rammentandosi di come la moglie non avesse saputo comportarsi con il commissario che il giorno prima era venuto ospite per la festa. "Ma si sa, le donne! Non ha mai visto niente, quella là. Quando c'erano i genitori com'era casa nostra? Tutta roba così così, un 'mugik' di campagna arricchito: un mulino, una stazione di posta, tutta lì la sua proprietà. E io invece in 15 anni cosa ho fatto? La bottega due trattorie, il mulino, il magazzino di granaglie, due terreni in affitto, la casa con il granaio, con il tetto di ferro" rammentava con orgoglio. "Altro che al tempo del babbo! E adesso di chi è che si parla in tutto il circondario? Di Brechunòv.

"E questo perché? Perché penso agli affari, mi impegno, io, mica come gli altri che dormono o si perdono in stupidaggini. Io non dormo nemmeno di notte, io. Bufera o non bufera, se c'è da andare vado, io. E poi gli affari per forza filano bene. Quelli là pensano che i soldi li si fa così, ridendo e scherzando. E invece no, faticare bisogna, rompercisi la testa bisogna. Passar la notte in mezzo ai campi, e non dormire nemmeno di notte. Con i pensieri che a forza di pensarli te li senti come un guanciale sotto la testa" rifletteva con orgoglio. "Loro pensano che ci si fa strada a forza di fortuna. Guarda i Mironov, che adesso nuotano nei milioni. Ma perché, però? Perché hanno faticato. Aiutati che Dio t'aiuta. Purché mi dia la salute, Dio".

E il pensiero che anche lui avrebbe potuto diventare un milionario come Mironov, che si era fatto dal niente, mise tanta agitazione in cuore a Vasilij Andreitch che egli sentì il bisogno di parlare con qualcuno. Ma non c'era nessuno con cui parlare... Si fosse arrivati a Gorjàtchkino, avrebbe potuto parlare con quel possidente, gli avrebbe insegnato un po' come si guarda il mondo.

"Ma guarda qua, come tira sto vento! Sta facendo tanta di quella neve che domattina non ne usciremo!" pensò, tendendo l'orecchio all'impeto del vento, che soffiava contro la serpa, inclinandola, e ne martellava le tavole con la neve. Si sollevò su un gomito e si guardò attorno: nella bianca oscurità ondeggiante si vedeva soltanto il nero della testa di Baio e la sua groppa, ricoperta dalla iuta che sventolava, e la folta coda annodata; intorno, da ogni parte, davanti, dietro, vi era ovunque una medesima, uniforme, bianca, ondeggiante tenebra, che talvolta pareva rischiararsi un pochino, talaltra si faceva ancora più densa.

"Ho fatto male a dar retta a Nikita" pensava. "Bisognava proseguire, e da qualche parte saremmo sbucati comunque. Saremmo potuti perlomeno tornare indietro fino a Grìschkino, e avremmo dormito da Taràs. E invece ci tocca starcene qui una notte intera.

Bah, e comunque cos'è che stavo pensando prima di tanto bello? Ah, sì, che Dio dà a chi fatica, e non agli scioperati o ai mangiaufo o agli stupidi. Adesso però ci vuole proprio una sigaretta!". Si mise a sedere, tirò fuori il portasigarette, si sdraiò a pancia in giù, facendo schermo al fuoco con una lembo della pelliccia, ma il vento trovava pur sempre la strada e gli spegneva un fiammifero dopo l'altro. Finalmente trovò il modo di accenderne uno, e si accese la sigaretta. Il fatto che avesse ottenuto quel che voleva lo rallegrò molto. Benché la sigaretta gliela fumasse più il vento che non lui, gli riuscì tuttavia di trarne tre boccate, e di nuovo si sentì più allegro. Tornò a distendersi, appoggiandosi allo schienale della slitta, si avvolse nella pelliccia e di nuovo cominciò a ricordare, a fantasticare e tutto a un tratto, del tutto inaspettatamente, perse coscienza e si assopì.

Ma a un tratto fu come se qualcuno lo stesse scuotendo e l'avesse svegliato. Forse era stato Baio, che aveva strappato un po' di paglia di sotto al suo fianco, o forse era stato qualcosa che aveva preso ad agitarsi dentro di lui: comunque fosse, non appena fu sveglio il cuore cominciò a battergli tanto in fretta e tanto forte, che gli parve che la slitta gli stesse tremando sotto. Aprì gli occhi. Intorno a lui era tutto come prima, solo pareva più chiaro. "E' l'alba" pensò, "allora manca poco al mattino". Ma subito si ricordò che s'era fatto più chiaro perché era spuntata la luna. Si sollevò su un gomito, guardò prima verso il cavallo.

Baio stava sempre immobile, con il di dietro al vento, e tremava tutto. La iuta, ricoperta di neve, si era ripiegata tutta da una parte, l'imbraca era scivolata su un fianco, e adesso si vedeva meglio la testa cosparsa di neve, con la frangia e la criniera sventolanti. Vasilij Andreitch si chinò verso il retro della slitta e guardò verso di lui. Nikita era lì, nella stessa posizione in cui si era seduto. La tela con la quale si era avvolto e le gambe erano ricoperte di un denso strato di neve.

"Speriamo che non congeli, il 'mugik'; gli stracci che ha addosso son roba da niente. Devo rispondere anche di lui. Proprio vero che il popolo non capisce niente. E' proprio la mancanza di istruzione" pensò Vasilij Andreitch, e avrebbe voluto togliere al cavallo la iuta e coprire Nikita, ma faceva troppo freddo per alzarsi e muoversi, e poi temeva che congelasse il cavallo. "E perché poi me lo son portato dietro? Che fesso sono stato!" pensò Vasilij Andreitch, e si rammentò la moglie, ch'egli non amava. Di nuovo tornò a distendersi com'era prima, con la testa dalla parte della serpa. "Una volta mio nonno è rimasto per tutta la notte in mezzo alla neve, proprio come noi" si rammentò "e non gli è successo niente. Già, però Sevast'jàn quando l'han scavato fuori" gli si presentò subito alla mente un altro caso "era bell'e morto, tutto duro, come un quarto di bue congelato.

"Fossi rimasto a Grischkino per la notte non sarebbe successo niente". E dopo essersi avvolto accuratamente nella pelliccia, così che il tepore del pelo non andasse sprecato in nessun punto, e lo scaldasse invece ovunque - il collo, e le ginocchia, e i piedi -, chiuse gli occhi, cercando di riaddormentarsi. Ma adesso, per quanto si sforzasse, non riusciva più a dimenticarsi di sé, anzi, al contrario, si sentiva completamente sveglio e animato. Di nuovo cominciò a contare i guadagni, i crediti che aveva con questo e con quello, di nuovo cominciò a vantarsi di se stesso e rallegrarsi di se stesso e della propria condizione, - ma tutto, adesso, veniva costantemente interrotto da una paura che si avvicinava, quatta, e dall'increscioso pensiero che sarebbero potuti rimanere a Grìschkino per la notte e non l'avevano fatto.

"Sarebbe stato tutto diverso: adesso sarei disteso su una panca, al calduccio". Più volte si rigirò, si risistemò, cercando una posizione più comoda e più riparata dal vento, ma gli sembrava sempre di star scomodo; e di nuovo si sollevava sul gomito, e cambiava posizione, si avvolgeva meglio le gambe, chiudeva gli occhi e rimaneva immobile. Ma, ora perché le gambe anchilosate dagli stretti stivaloni di feltro cominciavano a dolergli, ora perché sentiva ancora il vento in qualche punto del corpo, rimaneva disteso soltanto per qualche minuto, e poi di nuovo, indispettendosi con se stesso, si ricordava di come avrebbe potuto starsene invece in quella calda "isbà" a Grìschkino, e di nuovo si rialzava, si rivoltava, si avvolgeva nella pelliccia, e poi di nuovo tornava a distendersi.

Una volta parve a Vasilij Andreitch di udire un lontano canto di galli. Si rallegrò, scostò la pelliccia e si mise in ascolto, tutto teso, ma per quanto tendesse l'orecchio non si udiva più nulla, all'infuori del suono del vento che fischiava tra le stanghe e faceva sventolare il fazzoletto, e della neve, che fustigava le tavole di tiglio della slitta.

Nikita, come si era seduto lì quella sera, così era rimasto per tutto il tempo, senza muoversi e senza nemmeno rispondere alla voce di Vasilij Andreitch, che per due volte l'aveva chiamato.

"Ah, lui se la passa bene, dorme della grossa" aveva pensato Vasilij Andreitch con stizza, sbirciando attraverso le assi della slitta Nikita, ormai ricoperto di neve.

Vasilij Andreitch si era rialzato ed era tornato a distendersi almeno una ventina di volte. Gli sembrava che quella notte non finisse mai. "Be', adesso il mattino deve essere vicino" aveva pensato una volta, rialzandosi e guardandosi attorno. "Adesso guardo l'orologio. Si, ma piglio freddo se mi sbottono. Be', ma se saprò che è quasi mattina sarà tutto più allegro. Cominceremo ad attaccare". Vasilij Andreitch nel profondo dell'anima sapeva che il mattino non poteva essere vicino, ma cominciava ad avere una paura sempre più forte, e voleva, nello stesso tempo, controllare l'ora e ingannare se stesso. Slacciò con cautela i gancetti della mezzapelliccia, e infilatasi una mano sul petto, frugò a lungo, fino a che non arrivò al panciotto. Con fatica tirò fuori il suo orologio d'argento con fiorellini di smalto e cominciò a guardare.

Senza fuoco non si vedeva niente. Di nuovo si mise a faccia in giù, poggiato sui gomiti e sulle ginocchia, come aveva fatto quando si era acceso la sigaretta, trovò gli zolfanelli e cominciò ad accenderli. Adesso ebbe maggior cura e, trovato tastoni lo zolfanello che aveva la maggior quantità di fosforo, lo accese al primo colpo. Avvicinando il quadrante alla luce, vi guardò, e non credette ai propri occhi... Era soltanto mezzanotte e dieci. Aveva ancora tutta la notte davanti a sé.

"Oh, che notte lunga!" pensò Vasilij Andreitch, sentendo il gelo corrergli lungo la schiena, e, riabbottonatosi e riavvoltosi nella pelliccia, si strinse contro l'angolo della slitta, preparandosi alla paziente attesa. A un tratto, in mezzo al rumore sempre uguale del vento udì distintamente un suono nuovo, vivo. Il suono si rafforzava via via, giunse a una perfetta nitidezza, e poi cominciò via via a indebolirsi. Non vi era alcun dubbio che si trattasse di un lupo. E questo lupo era così poco lontano, che lo si udiva, nel vento, mutare i suoni della voce, rigirando le mascelle. Vasilij Andreitch scostò il bavero e ascoltò attentamente. Anche Baio ascoltava, tendendosi tutto, muovendo le orecchie ora in una direzione ora in un'altra, e quando il lupo ebbe terminato d'eseguire la sua cadenza, cambiò la posizione delle gambe e sbuffò, per avvertire gli uomini. Dopo di ciò Vasilij Andreitch non riuscì più non soltanto ad addormentarsi, ma nemmeno a calmarsi. Per quanto si sforzasse di pensare ai suoi conti, ai suoi affari e alla sua gloria e dignità e ricchezza, la paura si impadroniva di lui sempre più, e sopra a tutti i suoi pensieri dominava e a tutti i suoi pensieri si mescolava il pensiero del perché egli non fosse rimasto a Grischkino per la notte.

"Dio se lo prenda, quel bosco, ne avevo di affari anche senza quel bosco, grazie a Dio. Ah, riuscissi a passare la notte!" diceva a se stesso. "Dicono che sono gli ubriachi che congelano" pensò. "E io ho bevuto, là". E, messosi in ascolto delle proprie sensazioni, sentì che cominciava a tremare, senza saper lui stesso perché tremasse: se per il freddo o per la paura. Provò a coprirsi e a restare immobile come prima, ma non ci riusciva più. Non poteva più rimanere fermo in nessuna posizione, aveva voglia di alzarsi, di cominciare a fare qualcosa, per soffocare la paura che gli cresceva dentro, contro la quale egli si sentiva impotente. Di nuovo prese le sigarette e gli zolfanelli, ma di zolfanelli ne rimanevano soltanto tre, e dei peggiori. Tutti e tre gli si consumarono, a forza di sfregarli, senza accendersi.

"Ah, va' all'inferno, maledetta, crepa!" imprecò, senza saper lui stesso contro chi, e gettò via la sigaretta sgualcitasi. Voleva gettar via anche la scatoletta degli zolfanelli, ma fermò il movimento della mano, e se la mise in tasca. Gli era venuta una tale inquietudine che non riusciva più a stare fermo dov'era.

Scese dalla slitta e, dando le spalle al vento, cominciò a riallacciarsi la cintola, ben stretta, e bassa.

"Ma perché poi devo starmene qui sdraiato, ad aspettar la morte!

Adesso monto a cavallo, e marsch" gli venne in mente tutto a un tratto. "Un uomo a cavallo lo lasceranno stare. E lui" pensò a Nikita, "a lui non importa di morire. Che vita ha, lui? A lui non gli spiace di perderla, la vita, io invece, grazie a Dio, ho ancora di che vivere...".

E, slegato il cavallo, gli gettò le briglie sul collo e voleva balzarci sopra, ma le pellicce e gli stivali erano talmente pesanti, che cadde. Allora sali sulla slitta e voleva montare a cavallo dalla slitta. Ma la slitta ondeggiò sotto il suo peso, ed egli precipitò di nuovo. Infine, la terza volta, avvicinò il cavallo alla slitta e, salendo, con gran cautela, proprio sul bordo della slitta, riuscì a mettersi con la pancia di traverso alla groppa del cavallo. Messosi così disteso si spinse avanti, una volta, due e finalmente gettò una gamba di là dalla groppa e vi si mise a sedere, puntando i piedi nella cinghia laterale dell'imbraca. Il sussulto della slitta smossa da quella spinta svegliò Nikita, che subito si alzò, e a Vasilij Andreitch parve che dicesse qualcosa.

"Eh, a dar retta a voialtri stupidi! E che, devo crepare così per niente?" gridò Vasilij Andreitch e, rimboccando sotto il ginocchio i lembi della pelliccia che svolazzavano, voltò il cavallo e lo spinse via dalla slitta, nella direzione in cui supponeva dovessero trovarsi il bosco e la capanna del guardiacaccia.

 

 

 

7.

 

Nikita, da quando si era seduto dietro la slitta, tutto avvolto nella sua tela, era rimasto lì immobile. Come tutti gli uomini che vivono con la natura e conoscono il bisogno, era paziente, e poteva aspettare tranquillamente per ore, per giorni addirittura, senza avvertire né inquietudine né irritazione. Aveva udito quando il padrone lo aveva chiamato, ma non aveva risposto, perché non voleva muoversi e rispondere. Benché egli sentisse ancora caldo per il tè che aveva bevuto e per essersi mosso molto rovistando tra i cumuli di neve, sapeva che quel caldo non sarebbe durato a lungo, e che non avrebbe più avuto la forza di scaldarsi con il movimento, perché sentiva uno sfinimento uguale a quello che sente il cavallo quando si ferma, e per quanto lo si batta con lo "knut" non può più proseguire, e il padrone capisce che bisogna dargli da mangiare perché possa lavorare di nuovo. Un piede gli si era già raffreddato, nello stivale che aveva uno strappo, ed egli non vi sentiva più l'alluce. Inoltre, cominciava a sentir sempre più freddo in tutto il corpo. Il pensiero che potesse, e con ogni probabilità dovesse morire quella notte, gli era venuto, ma questo pensiero non gli era sembrato né particolarmente sgradevole, né particolarmente spaventoso. Non gli era sembrato particolarmente sgradevole, quel pensiero, perché tutta la sua vita non era stata una continua festa, ma, al contrario, era stata un incessante servire gli altri, del che egli cominciava ormai a stancarsi. E non l'aveva particolarmente impaurito quel pensiero, perché oltre che da quei padroni, come appunto Vasilij Andreitch, che egli serviva qui, si era sempre sentito, in questa vita, dipendere da un padrone più importante, quello che lo aveva mandato in questa vita, e Nikita sapeva che anche morendo egli sarebbe rimasto in potere di questo stesso padrone, e che questo padrone non gli avrebbe fatto del male. "Dispiace lasciarle, tutte le cose solite, che mi vedo sempre intorno? Be', che farci, bisognerà abituarsi anche al nuovo".

"I peccati?" pensò, e rammentò il suo vizio di bere, e i soldi che si era bevuti, e il male che aveva fatto alla moglie, le male parole, e il non andare in chiesa, e l'aver mancato ai digiuni, e tutto ciò che il pope gli rimproverava sempre durante la confessione. "Peccati ne ho, si sa. Ma mica me li son messi dentro io. E' Dio che mi ha fatto così, no? I peccati, i peccati... be', ormai che vuoi farci?".

Cosi, egli dapprima pensò a quel che poteva avvenirgli quella notte, e poi non tornò più su questi pensieri e si abbandonò ai ricordi che gli venivano alla mente da sé, senza che fosse lui a suscitarseli. E rammentava ora l'arrivo di Marfa, e i lavoranti che bevevano, e le volte che lui si era rifiutato di bere, ora il viaggio di quella notte, e l'"isbà" di Taràs, e quel che avevano detto delle famiglie divise, ora il suo ragazzo, e Baio, che adesso si stava scaldando sotto quella gualdrappa, ora il padrone che faceva cigolare la slitta, continuando a rivoltolarcisi. "Be', poveraccio, anche lui mi sa che non è per niente contento di essere partito stanotte" pensava. "Con la vita che fa lui non si ha mica voglia di morire. Mica come il nostro fratello qua". E tutti questi ricordi avevano cominciato a intrecciarsi, a mescolarsi nella sua testa, e si era addormentato.

Quando poi Vasilij Andreitch nel montare a cavallo aveva smosso la slitta, e la slitta, a cui Nikita teneva appoggiata la schiena, si era spostata di lato urtandolo nella schiena con uno dei pattini, si era svegliato e volente o nolente aveva dovuto cambiar posizione Allungando con fatica le gambe e scotendone via la neve, si era alzato, e subito un freddo tormentoso gli era penetrato in tutto quanto il corpo. Aveva capito subito cosa stava succedendo, e voleva che Vasilij Andreitch gli lasciasse la iuta, per potercisi coprire, dato che al cavallo adesso non serviva più, e appunto questo gli aveva gridato.

Ma Vasilij Andreitch non si era fermato ed era scomparso nel nevischio.

Rimasto solo, Nikita pensò per un momento a cosa dovesse fare adesso. Non poteva andare in cerca d'una casa, perché sentiva di non averne la forza. Non poteva nemmeno tornare a sedersi al posto di prima, perché là la neve aveva già ricoperto tutto. E sentiva che nella slitta non sarebbe riuscito a riscaldarsi, perché non aveva niente con cui coprirsi, e il suo caffettano e la sua pelliccia oramai non lo scaldavano più nemmeno un po'. Aveva talmente freddo, che gli pareva di avere addosso soltanto la camicia. Provò terrore. "'Bàtjuschka', padre celeste!" disse, e la consapevolezza di non esser solo, d'avere qualcuno che lo sentiva e che non lo avrebbe abbandonato, lo calmò. Inspirò profondamente e, senza mai toglier la testa di sotto la tela con cui se l'era avvolta, entrò nella slitta e vi si distese, al posto del padrone.

Ma anche nella slitta non riuscì a scaldarsi in nessun modo.

Dapprima tremò, in tutto il corpo, poi il tremito finì, e lui cominciò a perder pian piano conoscenza. Non sapeva se stesse morendo o addormentandosi, ma si sentiva egualmente pronto all'una come all'altra cosa.

 

 

 

8.

 

Nel frattempo Vasilij Andreitch, menando colpi sia coi piedi sia con i capi delle redini, aizzava il cavallo nella direzione in cui, chissà perché, egli si immaginava che fossero il bosco e la capanna del guardiacaccia. La neve lo accecava e il vento pareva volesse fermarlo, ma lui chinandosi in avanti e incessantemente chiudendosi la pelliccia sul petto e infilandone le falde tra se stesso e il gelido bastino che gli impediva di sedersi per bene, continuava a incitare il cavallo. E il cavallo, con molta fatica, ma docilmente, andava, d'ambio, là dove lui lo mandava.

Per cinque minuti egli andò diritto, o almeno così gli parve, e sempre senza vedere nulla fuorché la testa del cavallo e il deserto bianco, e senza udire nulla, fuorché il fischio del vento accanto alle orecchie del cavallo e al bavero della pelliccia.

A un tratto dinanzi a lui nereggiò qualcosa. Il cuore cominciò a battergli gioiosamente in petto, e lui si avviò verso quel nero, già scorgendovi i muri delle case del villaggio. Ma quel nero non era immobile, ma si muoveva continuamente, e non era un villaggio, ma un'alta artemisia cresciuta sul margine d'un campo: si allungava da sotto la neve e ondeggiava disperatamente sotto l'impeto del vento che continuava a curvarla sempre da una parte e vi soffiava dentro. E per una qualche ragione la vista di questa artemisia tormentata dal vento senza misericordia, fece sussultare Vasilij Andreitch che si affrettò ad aizzare ancor di più il cavallo, senza accorgersi che andando verso l'artemisia aveva completamente deviato dalla precedente direzione e che adesso stava mandando il cavallo in un'altra direzione ancora, mentre continuava a immaginarsi di andar sempre verso il punto in cui doveva esserci la capanna del guardiacaccia. Ma il cavallo tendeva sempre ad andare a destra, e perciò egli continuava a voltarlo verso sinistra.

Di nuovo dinanzi a lui nereggiò qualcosa. Ed egli si rallegrò, sicuro che adesso dovesse trattarsi per forza del villaggio. Ma era di nuovo un confine tra due campi, lungo il quale erano cresciuti cespugli d'erbe alte. Di nuovo quell'erbaccia secca gli si dibatteva dinanzi disperata, incutendogli terrore, per una qualche ragione sconosciuta. Ma non soltanto quell'erbaccia era uguale all'altra, ma accanto a lui c'erano tracce di cavallo, che il vento stava ricoprendo. Vasilij Andreitch si fermò, si chinò, guardò con attenzione: erano tracce di un cavallo, che il vento aveva appena cominciato a ricoprire, e non potevano che essere le sue tracce. Evidentemente aveva girato in tondo, e per un tratto molto breve. "Ma allora sono perduto!" pensò, ma, per non cedere al terrore, si mise a incitare ancor di più il cavallo, figgendo lo sguardo nella bianca caligine, in cui gli pareva adesso di scorgere dei punti luminosi, che subito tornavano a sparire, non appena egli li fissava con più attenzione. Una volta gli parve di udire latrati di cani o l'ululato dei lupi, ma quei suoni erano talmente deboli e indefiniti, che egli non sapeva se li stesse udendo davvero o se gli sembrasse soltanto di udirli, e si fermò, e si mise in ascolto, tendendosi tutto.

A un tratto ci fu uno spaventoso, assordante grido, proprio lì accanto alle sue orecchie, e tutto tremò e fremette sotto di lui.

Vasilij Andreitch si afferrò al collo del cavallo ma anche il collo del cavallo si scuoteva tutto, e quello spaventoso grido divenne ancor più terribile. Per alcuni secondi Vasilij Andreitch non riuscì a riprendersi e non capiva che cosa fosse successo. Ed era successo soltanto che Baio, o per farsi coraggio, o per chiamare qualcuno in aiuto, aveva nitrito con la sua forte voce.

"Tfù, crepa! Che spavento m'ha fatto pigliare, maledetto!" disse a se stesso Vasilij Andreitch. Ma anche adesso che aveva compreso la causa del suo spavento, non riusciva più a disperderlo.

"No, devo riprendermi, devo tornare in me" diceva a se stesso e intanto non riusciva a trattenersi e continuava a incitare il cavallo, senza accorgersi che adesso stava andando con il vento alle spalle, e non più controvento. Il suo corpo, specialmente tra le gambe, lì dove la pelliccia non lo copriva, vicino al bastino, sentiva molto freddo e gli doleva, le sue braccia e le sue gambe tremavano, e il respiro gli si mozzava. Vedeva che stava per morire in mezzo a quello spaventevole deserto bianco, e non vedeva nessun modo per salvarsi.

A un tratto il cavallo ebbe un tonfo sotto di lui e, sprofondato con tutte e quattro le gambe in un cumulo di neve, cominciò a dibattersi cadendo su un fianco. Vasilij Andreitch ne saltò giù, e saltando giù ruppe da una parte l'imbraca in cui puntava il piede, e strappò via anche il bastino al quale si era afferrato. Non appena Vasilij Andreitch fu saltato giù, il cavallo si rimise in piedi, si slanciò avanti, fece un salto, un altro, e nitrendo di nuovo e trascinandosi dietro la iuta e l'imbraca che si rivoltolavano nella neve, sparì alla vista, lasciando Vasilij Andreitch solo in mezzo al cumulo di neve. Vasilij Andreitch gli si gettò dietro, ma la neve era tanto alta, e le pellicce che aveva addosso tanto pesanti, che, affondando fin sopra il ginocchio, prima ancora d'aver fatto venti passi si sentì mancare il fiato e si fermò. "Il bosco, i castroni, le terre in affitto, la bottega, le trattorie, la casa col tetto di ferro e col granaio, l'erede" pensò, "che ne sarà ora di tutto questo? Ma cos'è? Non può essere!" gli balenò nella mente. E chissà perché gli tornò alla memoria l'artemisia che ondeggiava al vento, accanto alla quale era passato due volte, e lo prese un tale terrore, che non credette alla realtà di quel che gli stava accadendo. Egli pensò: "Ma non lo sto sognando tutto questo?" e volle svegliarsi, ma non vi era un altro luogo al quale potesse risvegliarsi. Quella era neve vera, che lo frustava in viso e gli si spargeva addosso e gli ghiacciava la mano destra, da cui il guanto era caduto, ed era un deserto vero quello in cui egli era rimasto solo, adesso, come quell'artemisia, in attesa di una morte inevitabile, rapida e insensata.

"Regina dei cieli, santo vescovo Mikolae, maestro di temperanza" si rammentò le preghiere del giorno prima e l'icona con il volto nero e la riza d'oro, e le candele che aveva venduto il giorno prima davanti a questa icona, e che subito gli riportavano indietro, e che egli nascondeva nella cassetta dopo che avevano appena fatto in tempo a scaldarsi. E cominciò a implorare questo stesso Nikolàj taumaturgo, che lo salvasse, e gli prometteva messe e candele. Ma subito vide, chiaramente, senza dubbio alcuno, che quel volto, la riza, le candele, il sacerdote, le messe - tutto questo era molto importante e necessario là, in chiesa, ma qui tutte quelle cose non potevano fare niente per lui, e tra quelle candele e messe e la miserabile situazione in cui egli si trovava adesso non vi era e non poteva esservi alcun legame. "Non bisogna perdersi d'animo" pensò. "Bisogna seguire le tracce del cavallo, sennò il vento coprirà anche quelle" gli venne in mente. "Lui mi porterà fuori di qui, oppure lo raggiungerò e lo prenderò. Solo, non bisogna correre, sennò resti senza fiato e vai a finire anche peggio". Ma, malgrado l'intenzione di andar piano, egli si gettò avanti e corse, continuando a cadere, rialzandosi e cadendo di nuovo. Le tracce del cavallo cominciavano già a non distinguersi quasi più nei punti in cui la neve non era alta. "Sono finito" pensò Vasilij Andreitch, "adesso le tracce le perdo di sicuro, e il cavallo non riuscirò più a raggiungerlo." Ma in quello stesso istante gettando un'occhiata dinanzi a sé, scorse qualcosa di nero. Era Baio, e non c'era soltanto Baio lì ma anche la slitta e le stanghe con il fazzoletto. Baio, con l'imbraca e la iuta che gli pendevano su un fianco, stava, adesso, non nel posto dov'era prima, ma più vicino alle stanghe e dondolava la testa, che le briglie, attorcigliatesi intorno a una gamba, gli tenevano china in basso. Dunque Vasilij Andreitch era sprofondato in quello stesso valloncello in cui già prima erano sprofondati lui e Nikita, e il cavallo lo aveva riportato alla slitta, e il cumulo in cui era caduto si trovava a non più di cinquanta passi dalla slitta.

 

 

 

9.

 

Trascinatosi fino alla slitta, Vasilij Andreitch vi si afferrò e rimase a lungo così, immobile, cercando di calmarsi e di riprendere fiato. Là dove prima c'era Nikita adesso non c'era più nulla, ma nella slitta giaceva qualcosa, già coperto di neve, e Vasilij Andreitch intuì che si trattava di Nikita. La paura di Vasilij Andreitch adesso era completamente passata, e se temeva qualcosa, era soltanto quella tremenda paura, che egli aveva provato prima, in groppa al cavallo, e poi, ancor più forte, quando era rimasto solo nel cumulo di neve. Bisognava evitare ad ogni costo che quella paura gli tornasse, e per evitarlo bisognava fare qualcosa, impegnarsi in qualcosa. E perciò la prima cosa che fece fu di dar le spalle al vento e di sbottonarsi la pelliccia.

Poi, non appena ebbe un poco ripreso fiato, scosse la neve dagli stivali e dal guanto sinistro, mentre il destro era irrimediabilmente perso e doveva già essere sepolto da due spanne di neve; poi si riallacciò la cinta, di nuovo ben stretta e bassa, così come si cingeva sempre quando usciva dalla bottega per comprare il grano che i "mugiki" gli portavano sui loro carri, e cercò qualcosa da fare. La prima cosa che si trovò da fare, fu liberare la zampa del cavallo. Vasilij Andreitch lo fece e, districate le briglie, legò di nuovo Baio alla grappa di ferro, sul davanti della slitta, al posto di prima, e si chinò per passare dietro al cavallo, e risistemargli l'imbraca, il bastino e la iuta sulla groppa; ma in quel momento vide che nella slitta aveva cominciato a muoversi qualcosa, e da sotto la neve da cui era ricoperta si sollevò la testa di Nikita. Evidentemente con un grande sforzo Nikita, già quasi assiderato, si rialzò e si mise a sedere, e fece dei gesti strani con la mano, dinanzi al naso, come se stesse scacciando le mosche. Faceva quel movimento con la mano e intanto disse qualcosa, e a Vasilij Andreitch sembrò che lo stesse chiamando. Vasilij Andreitch lasciò la iuta senza aver finito di risistemarla, e si avvicinò alla slitta.

"Che vuoi?" chiese. "Cosa stai dicendo?".

"Mu-o-o-io, io, ecco cosa" riuscì a dire Nikita a fatica, con la voce che gli si spezzava. "Quello che ho guadagnato, dallo al ragazzo, o alla 'baba', fa lo stesso".

"Ma cos'è, sei gelato?" domandò Vasilij Andreitch.

"Lo sento che è la morte mia... perdonami per amore di Cristo..." disse Nikita con voce di pianto, continuando sempre a fare quei gesti con le mani dinanzi al viso come per scacciare le mosche.

Vasilij Andreitch rimase in silenzio e immobile per un mezzo minuto, poi tutto a un tratto con la stessa decisione con cui batteva le mani quando gli riusciva di fare qualche acquisto vantaggioso, fece un passo indietro, rimboccandosi le maniche della pelliccia, e con entrambe le mani cominciò a scavar via la neve da Nikita e da dentro la slitta. Scavata via la neve, si risistemò la pelliccia, e poi scostò Nikita, e si distese su di lui, coprendolo non soltanto con la sua pelliccia, ma con tutto il suo corpo caldo, avvampante. Sistemando con le mani i lembi della pelliccia tra il bordo rialzato della slitta e Nikita, e tenendo ferme le falde con le ginocchia, Vasilij Andreitch si mise disteso così bocconi, poggiandosi con la testa alla serpa, e adesso non sentiva più né i movimenti del cavallo, né il fischio della bufera, ma tendeva l'orecchio soltanto per sentire il respiro di Nikita. Nikita dapprima rimase a lungo immobile, poi inspirò rumorosamente e si mosse.

"Ah, vedi, e dicevi che morivi. Sta' disteso, scaldati, ecco come facciamo noialtri..." cominciò a dire Vasilij Andreitch.

Ma con suo grande stupore non riuscì a dire altro, perché le lacrime gli spuntarono negli occhi e la mascella cominciò a tremargli forte. Smise di parlare e si limitò a inghiottire quel che gli stava salendo in gola. "Mi devo essere proprio spaventato tanto, da esser così debole adesso" pensò di sé. Ma questa debolezza non soltanto non gli riusciva sgradita, ma gli procurava una gioia particolare, che non aveva ancora mai provato.

"Ecco come siamo noi" diceva a se stesso, provando una commozione particolare, trionfante. E per un tempo piuttosto lungo rimase disteso così, asciugandosi gli occhi sul pelo della pelliccia e infilandosi sotto il ginocchio il lembo destro della pelliccia, che il vento continuava a rivoltargli.

Ma aveva una voglia appassionata di parlare a qualcuno di quella gioia che si sentiva dentro.

"Nikita!" disse.

"Sto bene, sto caldo" si sentì rispondere da sotto.

"E così, fratello, io ancora un po' ed ero perduto, sai. E tu ti saresti congelato, e anch'io..." Ma di nuovo cominciarono a tremolargli i pomelli, e di nuovo gli occhi gli si riempirono di lacrime, e non riuscì a dire nient'altro.

"Be', non importa" pensò. "Quel che so, lo so io per conto mio".

E tacque. Cosi rimase a lungo.

Sentiva caldo da sotto, perché c'era Nikita, e sentiva caldo anche da sopra, perché sopra c'era la pelliccia; soltanto le mani, con cui egli teneva le falde della pelliccia sui fianchi di Nikita, e le gambe, da cui il vento continuava a rovesciargli via la pelliccia, cominciavano a gelarglisi. Gli si stava gelando in particolar modo la mano destra, che era senza guanto. Ma lui non pensava né alle sue gambe, né alle mani, ma pensava soltanto a scaldare il meglio possibile il "mugik" che gli giaceva sotto.

Diverse volte guardò verso il cavallo e vide che aveva la groppa scoperta e che la iuta e l'imbraca giacevano nella neve, pensò che avrebbe dovuto alzarsi e coprire il cavallo, ma non poteva decidersi ad abbandonare Nikita nemmeno per un minuto e interrompere così quello stato di gioia nel quale egli si trovava.

Di paura, adesso, non ne provava più nessuna.

"Ah, niente paura, non lo mollo mica, io" diceva tra sé, sentendo che riusciva a scaldare il "mugik", con la stessa aria di millanteria con cui parlava di solito dei suoi acquisti e delle sue vendite.

Così rimase disteso Vasilij Andreitch per un'ora, poi per un'altra, e per un'altra ancora, ma non si accorgeva del tempo che passava. Dapprima, nella sua immaginazione trascorsero le impressioni della tormenta, le stanghe e il cavallo sotto la "dugà", che gli sussultavano dinanzi agli occhi, e intanto si ricordava di Nikita che gli giaceva sotto; poi cominciarono a mescolarvisi i ricordi della festa, della moglie, del capodistretto, della cassetta delle candele, e di nuovo di Nikita, che adesso però giaceva sotto questa cassetta; poi cominciarono a venirgli alla mente "mugiki" che vendevano e compravano, e pareti bianche, e case col tetto di ferro, sotto le quali giaceva Nikita; poi tutto questo si mescolò, una cosa entrò nell'altra, e, come i colori dell'iride che quando si uniscono diventano una luce bianca, così tutte quelle diverse impressioni si unirono in un unico nulla, e lui si addormentò. Dormì a lungo, senza sogni, ma verso l'alba i sogni riapparvero. Si vide in piedi, vicino alla cassetta delle candele, e la 'baba' di Tichon gli chiedeva una candela da cinque kopejki per la festa, e lui voleva prendere la candela e dargliela, ma le mani non riusciva a sollevarle, erano affondate nelle tasche. Lui vuol girare attorno alla cassetta ma le gambe non gli si muovono, mentre le galosce, nuove e ben lucidate, gli si erano fuse con il pavimento di pietra, e non si riesce più né a sollevarle né a uscirne fuori. E tutto a un tratto la cassetta delle candele smette di essere la cassetta delle candele e diventa un letto, e Vasilij Andreitch si vide disteso sul ventre sopra la cassetta delle candele, cioè nel suo letto, a casa sua. E giace sul letto e non può alzarsi, ma bisogna che si alzi, perché adesso passerà a prenderlo Ivàn Matveitch, il capodistretto, e con Ivàn Matveitch bisognerà andare o a trattare l'acquisto del bosco, o a sistemare l'imbraca di Baio. E domanda alla moglie: "Ma insomma, Mikolavna, non è ancora arrivato?". "No" dice lei, "non è arrivato". E sente che si avvicina qualcuno al suo ballatoio. Dev'essere lui. No, è passato oltre. "Mikolavna, ehi, Mikolavna, ma insomma non c'è ancora?". "Macché". E lui giace sul letto e non riesce ancora ad alzarsi, e continua ad aspettare, e questa attesa è spaventosa e gioiosa. E tutto a un tratto la gioia si compie: arriva quello che lui stava aspettando, e però non è Ivàn Matveitch, il capodistretto, ma qualcun altro, che però è proprio quello che lui sta aspettando. E' venuto e lo chiama, e questo, cioè quello che lo sta chiamando, è quello stesso che l'aveva chiamato prima e gli aveva ordinato di distendersi sopra Nikita. E Vasilij Andreitch è contento che questo qualcuno sia venuto a prenderlo. "Vengo!" grida con gioia, e questo grido lo sveglia. E si sveglia, ma quando si è svegliato è completamente diverso da quando si era addormentato. Vuole alzarsi e non ci riesce, vuole muovere una mano e non ci riesce, e allora prova con una gamba, ma neanche questo gli riesce. Vuole voltare la testa, e neanche questo gli riesce. E si meraviglia; ma non gliene dispiace affatto. Capisce che è la morte, e non gli dispiace neanche di questo. E si rammenta che Nikita è lì disteso sotto di lui e che si è scaldato ed è vivo, e gli sembra di esser lui Nikita e che Nikita sia lui, e che la sua vita non sia in lui stesso ma in Nikita. Si mette in ascolto, e sente il respiro, e persino il leggero russare di Nikita. "E' vivo, Nikita, e dunque anch'io sono vivo" dice a se stesso con aria di trionfo.

E si ricorda dei soldi, della bottega, della casa, degli acquisti, delle vendite e dei milioni dei Mironov; fa fatica a capire perché quest'uomo che chiamavano Vasilij Brechunòv si occupasse di tutte le cose di cui si occupava. "Be', è perché non sapeva qual era il punto" pensa di Vasilij Brechunòv. "Non lo sapeva così come io lo so adesso. E adesso non mi sbaglio. Adesso so". E di nuovo sente il richiamo di quello che l'aveva già chiamato prima. "Vengo, vengo!" con gioia, con commozione dice tutto quanto il suo essere.

E sente di essere libero, e non c'è più nulla che lo trattiene.

E null'altro vide e udì e sentì in questo mondo Vasilij Andreitch.

Intorno tutto era ancora avvolto dal nevischio. Vorticavano sempre gli stessi turbini di neve, coprendo di neve la pelliccia del morto Vasilij Andreitch, e Baio che tremava tutto, e la slitta che ormai si vedeva appena, e in fondo a essa, sotto il padrone già morto, Nikita che si era scaldato.

 

 

 

10.

 

Verso il mattino si svegliò Nikita. A svegliarlo fu il freddo che ricominciava a penetrargli nella schiena. Aveva sognato che tornava dal mulino con un carro di farina del padrone e che, nell'attraversare il ruscello, non aveva imboccato il ponte e aveva impantanato il carro. E vede se stesso mentre scende sotto il carro, e lo solleva, tendendo la schiena. Ma, cosa sorprendente! Il carro non si muove e gli si è incollato alla schiena, e lui non riesce né a sollevare il carro né a uscirne.

Gli ha spianato le reni. E per di più è talmente freddo! Eh sì, bisogna proprio uscirne. "Be', basta adesso" dice a qualcuno che gli sta schiacciando la schiena con il carro. "Scarica i sacchi!".

Ma il carro continua a schiacciarlo, e si fa sempre più freddo, e a un tratto sente un colpo strano, e si sveglia del tutto e ricorda ogni cosa. Il carro freddo è il padrone assiderato, morto, che giace sopra di lui. E quel colpo l'ha dato Baio, che ha battuto per due volte lo zoccolo contro la slitta.

"Andreitch, ehi Andreitch!". Nikita chiama il padrone, con cautela, già presentendo la verità, e tendendo la schiena.

Ma Andreitch non risponde, e il suo ventre e le gambe sono duri e freddi e pesanti, come di ghisa.

"Dev'essere morto. Lo accolga il Regno dei cieli!" pensa Nikita.

Volge la testa, scava la neve con una mano dinanzi a sé e apre gli occhi. Fuori è già chiaro; il vento continua a fischiare come prima tra le stanghe, e la neve continua a cadere, con l'unica differenza che adesso non sta più frustando le tavole di tiglio della slitta, ma sta coprendo silenziosa la slitta e il cavallo, sempre di più, e del cavallo non si ode più né un movimento né il respiro. "Dev'essere congelato anche lui" pensa Nikita di Baio. E infatti quei colpi di zoccolo contro la slitta che avevano svegliato Nikita, erano gli sforzi che Baio, in agonia, ormai del tutto congelato, aveva fatto per reggersi in piedi.

"Signore, 'Bàtjuschka', si vede che chiami anche me" dice a se stesso Nikita. "Sia fatta la tua santa volontà. Ma ho paura. Be', non si muore due volte, e la morte quando viene non la si scansa.

Purché sia in fretta...". E di nuovo nasconde la mano, chiudendo gli occhi, e si abbandona, sicuro ormai di star morendo, per certo e del tutto.

Soltanto a mezzogiorno dell'indomani alcuni "mugiki" disseppellirono con le vanghe Vasilij Andreitch e Nikita, a trenta "sàgieni" dalla strada e a mezza "versta" dal villaggio.

La neve era arrivata più in alto della slitta, ma le stanghe e il fazzoletto su di essa si vedevano ancora. Baio, nella neve fino al ventre, e con l'imbraca e la iuta di traverso sulla groppa, stava in piedi, tutto bianco, con la testa morta premuta al collo irrigidito; le narici erano serrate in lunghi ghiaccioli, gli occhi erano cosparsi di brina e ricoperti anch'essi di ghiaccio, come fosse di pianto. Era talmente dimagrito in una notte che gli erano rimaste soltanto le ossa e la pelle. Vasilij Andreitch era rigido come un quarto di bue congelato, e le gambe, quando lo spinsero via da Nikita, le aveva così come erano quando si era disteso, così divaricate. I suoi occhi sporgenti, da sparviero, erano coperti di ghiaccio, e la sua bocca aperta sotto i baffi tagliati a spazzola era piena di neve. Nikita invece era vivo benché tutto gelato. Quando lo svegliarono, era sicuro di esser già morto, e che quel che gli stava avvenendo ora avvenisse ormai non in questo ma all'altro mondo. Ma quando udì i "mugiki" che gridavano, mentre lo scavavano fuori e spingevan via da lui Vasilij Andreitch, egli subito si stupì che anche all'altro mondo i "mugiki" gridassero a quel modo e ci fosse quel suo stesso corpo, ma quando capì di essere ancora qui, a questo mondo, se ne rattristò più che rallegrarsene, specialmente quando sentì di avere le dita di entrambi i piedi congelate.

Rimase due mesi all'ospedale, Nikita. Gli tolsero tre dita, e le altre guarirono, sicché poté ancora lavorare, e per altri vent'anni continuò a vivere - dapprima come lavorante, e poi, da vecchio, facendo il guardiano notturno. E' morto soltanto quest'anno, a casa sua, come desiderava, sotto i santi e con una candela accesa nelle mani. Prima di morire ha chiesto perdono alla sua vecchia e l'ha perdonata per il bottaio; ha detto addio anche al ragazzo e ai nipotini, ed è morto, rallegrandosi sinceramente di liberare con la propria morte il figlio e la nuora dal peso di una bocca inutile, e di passare intanto e sul serio da questa vita venutagli a noia a quell'altra vita, che di anno in anno andava divenendo ai suoi occhi sempre più comprensibile e attraente. Sta meglio o sta peggio là dove si è svegliato dopo questa sua morte vera? Ne è rimasto deluso, o ha trovato là proprio ciò che aspettava? - Noi tutti lo sapremo presto.

 

 

 

APPENDICE

 

Quella che proponiamo è la parte centrale di un articolo apparso nel 1905, nei mesi della prima rivoluzione russa e composto di sette parti, che prende spunto dall'impiccaggione di venti contadini, condannati a morte per aver attaccato la casa padronale di un proprietario terriero nel distretto di Elisavietograd; nelle prime due parti Tolstoj constata come le condanne e le esecuzioni capitali siano grandemente aumentate negli ultimi anni in Russia; dà una descrizione dettagliata e allo stesso tempo estraniata dell'esecuzione dei ceti contadini, "persone di quella classe che ci nutre" dice Tolstoj, descrizione volta a far risultare assurdo, proprio perché freddamente premeditato, l'uso della pena capitale da parte di quello che si dice un "governo civile e cristiano".

Nella seconda parte si parla in particolare del danno non solo materiale arrecato alle vittime e ai loro familiari dalle esecuzioni capitali, ma anche del danno morale e spirituale arrecato alla società russa nel suo insieme dall'uso delle pene capitali. "I bambini giocano all'impiccato - dice Tolstoj - e la professione del boia, un tempo rifuggita, va per la maggiore".

Dato questo quadro d'insieme nelle prime due parti dell'articolo, dalla terza parte in poi Tolstoj, usando il voi, si rivolge direttamente ai governanti. Qui di seguito sono riportate integralmente le restanti parti dell'articolo.

 

 

 

NON POSSO TACERE

 

3. "Voi dite di compiere tutti questi orrori al fine di ristabilire la calma, l'ordine. Oh, ristabilite la calma e l'ordine! Con quali mezzi tuttavia voi li ristabilite? Con mezzi tali che voi, rappresentanti di un potere che si dice ispirato dal cristianesimo, voi i governanti, voi gli educatori, con l'approvazione e l'incoraggiamento del clero, distruggete nelle persone gli ultimi resti della fede e della moralità, commettendo i crimini più grandi: la menzogna, il tradimento, ogni tipo di tortura e, ultimo delitto, il più terribile, il più contrario ad ogni cuore d'uomo che non sia stato del tutto reso perverso, non un omicidio ma omicidi, omicidi senza fine che voi pensate di giustificare con diversi stupidi rinvii ad alcuni articoli scritti da voi su quei vostri stupidi e menzogneri libri che voi chiamate sacrilegamente le leggi. Voi dite che questo è l'unico mezzo per calmare il popolo e spegnere la rivoluzione, ma si tratta di una manifesta falsità. E' evidente che non soddisfacendo l'esigenza di giustizia elementare, che ha tutto il popolo russo che lavora la terra, di eliminare la proprietà fondiaria e, al contrario, riconfermandola e irritando il popolo e quelle persone superficiali sotterrate che hanno ingaggiato con voi una lotta violenta, voi non potete calmare le persone tormentandole, dilaniandole, esiliandole, abbruttendole, impiccando bambini e donne, perché, per quanto voi tentiate di rendere muto in voi il vostro proprio amore per la gente e la vostra ragionevolezza, questi sono in voi e tanto vale per voi ricordare e riflettere perché vi rendiate conto che agendo come agite, cioè prendendo parte a questi terribili crimini, voi non solo non guarirete la malattia, ma la rafforzerete, ricacciandola solo all'interno.

Tutto ciò è più che evidente.

La ragione di quanto avviene non è negli episodi isolatamente considerati; tutta la questione riguarda lo stato d'animo del popolo che è cambiato e che con in nessun modo è possibile far tornare allo stato precedente; non vi si può tornare, allo stesso modo in cui non è possibile rendere un adulto di nuovo bambino.

L'irrequietezza o la calma sociali non possono dipendere dal fatto che Petrov resterà vivo o sarà impiccato, o dal fatto che Ivanov vivrà in prigione non a Tambov ma a Nercinsk. L'irrequietezza sociale, la calma sociale, possono dipendere solo da come non solo Ivanov e Petrov ma tutta l'enorme maggioranza della gente guarderà alla propria situazione reale, da come questa maggioranza si rapporterà al potere, alla proprietà fondiaria, alla fede praticata. La forza degli eventi non è in alcun modo nelle condizioni materiali di vita, ormai, ma nello stato d'animo creatosi nel popolo. Se voi uccideste e torturaste anche un decimo di tutto il popolo russo, lo stato d'animo dei restanti non diventerebbe tale quale voi desiderate che sia. Tanto che tutto ciò che voi fate oggi, le vostre perquisizioni, le vostre spie, le vostre prigioni, i bagni penali, le vostre forche - tutto ciò non solo non condurrà il popolo nello stato d'animo in cui voi vorreste condurlo, ma, al contrario, aumenta l'irritazione generale e distrugge ogni possibilità di acquietamento. Ma che fare, dite voi. Che fare per calmare il popolo subito, come interrompere le scelleratezze che vengono compiute? La risposta è assai semplice: smettere di fare ciò che fate. Se nessuno sapesse che cosa bisogna fare per calmare il popolo, tutto il popolo (molti invece lo sanno bene di che cosa ha più bisogno il popolo russo: liberare la terra dalla proprietà, come fu necessario, 50 anni orsono, la liberazione dalla servitù della gleba), se nessuno sapesse dunque che cosa è necessario ora per calmare il popolo, perlomeno è evidente che per calmare il popolo senz'altro non bisogna agire in modo da aumentarne l'irritazione. E voi proprio questo e solo questo fate invece. Ciò che voi fate lo fate non per il popolo ma per voi stessi, al fine di mantenere la posizione che occupate e che voi, per vostro smarrimento spirituale, reputate vantaggiosa, ma che in sostanza è la più riprovevole, ributtante posizione possibile: perlomeno non dite che fate ciò che fate per il popolo, che non è vero. Tutte le cose ributtanti che fate le fate per voi stessi, per i vostri personali scopi di guadagno, di lustro, di vanità e di vendetta, al fine di vivere ancora per un po' in quello stato di perversione nel quale vivete e che vi appare un bene. Ma per quanto voi diciate che fate ciò che fate per il bene del popolo, la gente sempre più capisce e sempre di più vi disprezza. Alle vostre misure di repressione e di stroncamento sempre più guarda non certo nel modo in cui voi vorreste: la gente le vede ora per ciò che sono, come le azioni di una qualche superiore personalità collettiva, il governo, come le azioni personali, cattive, dei singoli individui senza bontà e pieni di amore di sé.

4. Voi dite "a cominciare non siamo stati noi ma i rivoluzionari e le terribili scelleratezze dei rivoluzionari possono essere schiacciate solo con dure (così voi chiamate le vostre di scelleratezze) misure del governo". Voi dite che le scelleratezze commesse dai rivoluzionari sono terribili. Io non discuto e aggiungo questo: che le loro azioni, oltre ad essere terribili, sono anche tanto stupide quanto le vostre, e di tanto mancano il vero bersaglio quanto le vostre. Ma per quanto terribili e stupide siano le loro azioni, tutti questi attentati dinamitardi, tutti questi disgustosi omicidi e furti di soldi, tutte queste azioni sono lungi dal raggiungere il grado di criminalità e di insensatezza dalle azioni compiute da voi.

Essi fanno esattamente lo stesso che fate voi e con gli stessi moventi. Essi si trovano, proprio come voi, in quello smarrimento spirituale (che definirei comico se le sue conseguenze non fossero tanto terribili) per cui certe persone, redatto da sé e per sé un piano di come secondo loro dovrebbe auspicabilmente essere organizzata la società, ritengono di avere il diritto e la possibilità di organizzare secondo un tale piano la vita delle altre persone. Identico l'errore, identici i mezzi per raggiungere lo scopo prefigurato, i mezzi essendo violenze di ogni genere, fino ad arrivare all'assassinio. Identica anche la giustificazione per le cattive azioni compiute. La giustificazione è la seguente:

la brutta azione, se compiuta per il bene di molti, cessa di essere immorale e perciò si può - senza violare la legge morale - mentire, rubare, uccidere, quando ci porti alla realizzazione di quel presupposto stato di benessere per molti che ci si immagina, si conosce, si può prevedere, e a cui si vuole dar vita. Voi governanti definite le azioni dei rivoluzionari scelleratezze, enormi deliri, ma essi non fanno nulla che voi non abbiate già fatto: un fatto grave incomparabilmente maggiore, cosicché, utilizzando essi i mezzi immorali che voi utilizzate per il raggiungimento dei vostri scopi, per voi non è in alcun modo possibile muovere dei rimproveri ai rivoluzionari. Essi fanno le stesse cose che fate voi: voi avete delle spie, ingannate, diffondete menzogne tramite la stampa, ed essi fanno lo stesso; voi togliete la proprietà alle persone, avvalendovi di ogni genere di violenza, come meglio vi aggrada, ed essi fanno lo stesso; voi giustiziate coloro che ritenete nocivi ed essi fanno lo stesso.

Tutto ciò che voi potete addurre a vostra giustificazione essi lo potranno del pari, senza parlare poi del fatto che voi fate molte cattive cose che essi non fanno: spreco delle ricchezze del popolo, la preparazione alla guerra e le stesse guerre, l'assoggettamento e l'oppressione delle altre nazionalità, e tanto altro.

Voi dite di avere le tradizioni dell'antichità, che voi salvaguardate e che avete i modelli di comportamento dei grandi del passato. Anch'essi hanno delle tradizioni, altrettanto antiche, precedenti anche alla grande rivoluzione francese, e hanno grandi personalità, modelli da imitare, martiri, periti in difesa della verità e della libertà, e ne hanno non meno di voi.

Così che, se c'è una differenza tra voi e loro, essa consiste solo nel fatto che voi desiderate che tutto rimanga com'è stato ed è, mentre essi vogliono dei cambiamenti. E se consideriamo che niente può rimanere invariato nel tempo, essi sarebbero più nel giusto di voi se non si mantenessero in quello stesso pauroso profondo errore in cui voi pure vi mantenete, e cioè la convinzione che certe persone possono conoscere quella forma di vita che è appropriata per tutti nel futuro e che tale forma di vita può essere imposta con la violenza. In tutto il resto essi non fanno che ciò che voi fate e con gli stessi mezzi. Essi sono in tutto e per tutto i vostri alunni, essi hanno - come si dice- raccolto tutte le vostre briciole; essi sono non solo i vostri alunni, essi sono opera vostra, essi sono i figli vostri. Se voi non ci foste, non ci sarebbero loro, cosicché, quando voi volete schiacciarli con la forza, voi fate ciò che fa una persona che si appoggia con tutta la sua forza contro la porta che vuole aprirsi su di lui. Se c’è una differenza tra voi e loro, essa non è in alcun modo a vostro vantaggio, bensì per il loro. Le circostanze attenuanti per loro consistono in primo luogo nel fatto che le loro scelleratezze vengono compiute in condizione di pericolo personale assai maggiore di quello cui voi siete sottoposti: il rischio, il pericolo, molto giustificano agli occhi della gioventù in cerca di evasione. In secondo luogo, per la stragrande maggioranza sono dei giovanissimi che sbagliano in proprio, mentre voi, per la gran parte, siete maturi e anziani cui si addicono le qualità della calma ragionatrice e della condiscendenza verso coloro che sbagliano.

In terzo luogo, circostanze attenuanti a loro favore sono nel fatto che, per quanto ributtanti siano i loro omicidi, essi tuttavia non saranno mai così freddamente crudeli come lo sono le vostre prigioni, i vostri lavori forzati, le vostre forche, le vostre fucilazioni. Una quarta circostanza attenuante della colpa dei rivoluzionari è che tutti essi rifiutano in modo totale e ben definito qualsiasi insegnamento religioso. Essi pensano che il fine giustifica i mezzi e perciò agiscono di conseguenza, uccidendo uno o alcuni per il prefigurato bene dei molti, mentre voi gente del governo, a cominciare dall'infimo boia fino ai più alti dirigenti superiori, voi tutti siete per la religione, per la cristianità, che in nessun modo è compatibile con le azioni da voi commesse; e voi persone anziane che dirigete altri e che vi professate cristiani, voi dite come bambini sgridati perché trovati ad azzuffarsi - "non siamo stati noi a cominciare ma loro" e meglio di questo non sapete dire, voi, le persone che si sono assunte il ruolo di guida del popolo. Ma che gente siete? Gente che pure ha riconosciuto Dio in colui che nel modo più chiaro vietò non soltanto ogni omicidio ma ogni atto di collera contro un fratello, che vietò non solo il tribunale e la pena, ma il giudizio su un fratello, colui che a chiarissime lettere abolì ogni castigo, riconobbe l'inevitabilità del perdono eternamente concesso, per quante pur fossero le volte che un delitto si era ripetuto, colui che ordinò a quello che era stato colpito sulla guancia di porgere l'altra e non rendere il male col male. Colui che così semplicemente, così chiaramente mostrò, con il racconto della donna condannata alla lapidazione, l'impossibilità del giudizio e della punizione di alcuni contro altri; voi, gente che riconoscete questo come parola di Dio, voi non potete trovare null'altro da dire a vostra giustificazione oltre a ciò: "essi hanno cominciato, essi uccidono, perciò diamoci anche noi a uccidere loro".

5. Un pittore mio conoscente pensò di dipingere un quadro intitolato "Esecuzione capitale" e perciò gli serviva il modello per dipingere dal vero il viso del boia. Egli venne a sapere che in quel periodo a Mosca il ruolo del boia lo svolgeva un portiere- custode. Il pittore andò a casa di quel custode. Questo succedeva nella Settimana santa. I familiari, tutti agghindati, sedevano al tavolo da tè, ma il padrone di casa non c'era: come risultò poi, egli si era nascosto non appena aveva visto un estraneo. Anche la moglie si confuse e disse che il marito non era in casa, ma la bambina loro figlia lo fece scoprire dicendo: "babbino è in soffitta". Ancora non sapeva che suo padre sapeva di svolgere una brutta mansione e che perciò egli doveva temere tutti. Il pittore spiegò alla padrona di casa che gli serviva il marito come modello per poterne fare un ritratto, poiché il viso di lui era adatto al quadro progettato (il pittore, si capisce, non disse per quale quadro gli serviva il viso del custode). Conversato che ebbe con la padrona di casa, il pittore le propose, per rabbonirla, di prendere con sé il figlio, un ragazzo, come apprendista. Questa proposta, è evidente, conquistò la donna. Ella uscì e dopo qualche tempo entrò, spaventato, preoccupato, scuro in volto, il padrone di casa. Egli a lungo interrogò il pittore, voleva sapere perché si interessava proprio a lui. Quando il pittore gli disse che l'aveva incontrato per strada e il suo viso gli era sembrato adatto al quadro, il custode chiese dov'era che lo aveva visto, a quale ora e come era vestito quando lo aveva visto. E chiaramente temendo e sospettando il peggio, respinse ogni proposta. Sì, questo è il carnefice diretto. L'esecutore materiale sa che lui è un boia, che ciò che fa è un male e che lo odiano per ciò che fa.

Egli ha paura della gente, e io credo che questa sua consapevolezza e la paura che prova al cospetto delle persone gli facciano espiare, almeno in parte, le sue colpe. Invece tutti voi, dal segretario di tribunale al capo del ministero fino allo zar, siete dei partecipanti intermedi dei misfatti giornalmente compiuti, come se voi non provaste la colpa, non viveste quel senso di vergogna che dovrebbe suscitare in voi la partecipazione agli orrori che si commettono. E' vero, voi pure avete paura delle persone, come il boia, e la vostra paura è tanto più grande quando la vostra responsabilità per i crimini commessi cresce; quindi il procuratore ha paura più del segretario, il presidente ha paura più del procuratore, il presidente del consiglio dei ministri ha paura ancora di più e lo zar più di tutti. Tutti voi temete, ma non per le stesse ragioni del boia, cioè perché sapete di agire male, di commettere cattive azioni; no, voi avete paura perché vi sembra che gli altri commettano cattive azioni e per questo io credo che, per quanto questo infelice custode sia caduto in basso, egli moralmente si trova tuttavia incomparabilmente più in alto di voi, partecipanti e parziali colpevoli di questi crimini terribili, persone che giudicate gli altri e non voi stessi, e camminate a testa alta.

6. Quello che io so è che tutte le persone sono persone, che tutti noi siamo deboli, che tutti noi ci smarriamo e che non è dato a una persona di giudicarne un'altra. Io ho a lungo lottato con quel sentimento che hanno fatto sorgere in me i colpevoli di questi terribili delitti, sentimento tanto più forte quanto più in alto nella scala sociale si trovano queste persone. Ma io non posso e non voglio più lottare con questo mio sentimento. E non posso e non voglio in primo luogo perché queste persone, poiché non vedono il loro essere profondamente criminale, necessitano di uno smascheramento e ne necessitano sia per se stesse sia per quella folla di persone che, sotto l'influenza dei riconoscimenti esteriori, approvano le loro orribili azioni e tentano persino d'imitarle. In secondo luogo non posso e non voglio più combattere il mio stesso sentimento perché (lo riconosco apertamente) spero che lo smascheramento che faccio di queste persone causi in un modo o nell'altro la mia cacciata, da me stesso auspicata, da quel circolo di persone tra le quali io vivo e facendo parte del quale io non posso non sentirmi parte in causa dei crimini commessi attorno a me. Perché tutto ciò che si fa oggi in Russia si fa in nome del bene comune, in nome della sicurezza e della calma della vita delle persone che vivono in Russia. Ma se è così, questo si fa anche per me, anch'io vivo in Russia. Per me sarebbe dunque l'indigenza del popolo, privato del primo più elementare diritto umano, il diritto a quella terra sulla quale è nato; per me questo mezzo milione di mugiki strappati alla propria vita e vestiti dell'uniforme, a imparare l'omicidio; per me questo clero menzognero, questi che dovrebbero occuparsi dello spirito e il cui compito principale è invece travisare e occultare la verità cristiana; per me questo esiliare la gente di posto in posto; per me questi centinaia di migliaia di operai affamati che vagano per la Russia, per me queste centinaia di migliaia di infelici che muoiono di tifo, di scorbuto nelle prigioni e nelle fortezze che non bastano per tutti. Per me le sofferenze delle madri, delle mogli, dei padri degli esiliati, dei rinchiusi, degli impiccati.

Per me queste spie, questa gente comprata, queste guardie cittadine che ricevono un riconoscimento, un premio per commettere omicidi. Per me questo stillicidio di decine, centinaia di fucilati, per me questo lavoro orribile compiuto da persone che erano un tempo difficilmente reperibili e che invece oggi non lo ripudiano, i boia. Per me queste forche e questi impiccati, anche le donne e i bambini dei mugiki, per me questa terribile esasperazione delle persone che sono l'una contro l'altra. E per quanto possa sembrare strana l'affermazione che tutto questo è fatto per me e che io sono parte in causa di queste azioni terribili, io tuttavia non posso fare a meno di sentire che c'è senza dubbio una relazione tra la mia stanza spaziosa, il mio pranzo, i miei vestiti, il mio tempo libero e quei crimini terribili che si compiono per l'eliminazione di coloro che vorrebbero togliere a me le cose di cui godo; sebbene io sappia che tutte queste persone senza casa, esasperate, incattivite, mi toglierebbero tutto ciò di cui godo se non ci fossero le minacce del governo, messe in atto da questo stesso governo, io tuttavia non posso non sentire che la mia pace è senz'altro condizionata da tutti quegli orrori che vengono attualmente compiuti dal governo.

E riconoscendo tutto questo, io non posso più a lungo sopportarlo, non posso, e devo liberarmi da questa spaventosa posizione. Non si può vivere così. Io perlomeno non posso vivere così, non posso e non voglio. Per questo scrivo tutto questo e con tutte le mie forze io diffonderò quanto scrivo in Russia e fuori dalla Russia, perché accada una delle due seguenti eventualità: o avranno fine queste azioni disumane oppure sarà distrutto il mio legame con queste azioni; affinché o mi mettano in prigione, dove con chiarezza potrei vedere allora che non è per me che si fanno tutti questi orrori, oppure, e sarebbe la cosa migliore di tutte (così buona che io non oso sognare una tale felicità), oppure mettano anche a me, come già a quei venti contadini, il lenzuolo funebre, il cappuccio a cono e allo stesso modo mi spingano giù dalla panca, cosicché io con il mio proprio peso faccia scorrere sulla mia vecchia gola il cappio insaponato.

7. Ed ecco che per conseguire uno di questi due scopi mi rivolgo a tutti i compartecipi di queste terribili azioni, mi rivolgo a tutti, a cominciare da coloro che mettono il cappuccio, il cappio ai propri fratelli, alle donne e ai bambini, dalle guardie carcerarie fino a voi, i principali dirigenti, voi che decidete in ultima istanza di questi orribili delitti. Fratelli! Riflettete, capite quello che fate. Ricordate chi siete. Perché voi, prima di essere boia, generali, procuratori, giudici, primi ministri e zar, prima di tutto ciò voi siete persone. Oggi vi siete affacciati su questo mondo che Dio ha creato, e domani non ci sarete (e voi, boia di ogni tipo, quelli che hanno provocato e provocano contro di sé un odio particolare, voi specialmente dovete ricordarvi di questo). Forse che voi che vi siete affacciati su questo mondo per opera di Dio per questo breve istante - poiché la morte, se anche non vi uccidono, è sempre alle spalle di tutti noi - forse che voi non vedete nei vostri minuti mondani che la vostra vocazione nella vita non può essere quella di torturare e uccidere le persone e poi tremare di paura di essere a vostra volta uccisi, e mentire davanti a se stessi, davanti agli altri, davanti a Dio convincendosi e convincendo gli altri che prendendo parte a queste azioni voi contribuite a una causa gracile e importante per il bene di milioni di persone? Forse che voi stessi non sapete - quando non siete inebriati dalla situazione, dalla lusinga e dagli abituali sofismi - che tutto questo non sono che parole inventate soltanto affinché, compiendo le peggiori azioni, le più malvagie, si potesse nel contempo considerare voi stessi persone buone? Voi non potete non sapere che voi, così come ciascuno di noi, possiede solo una causa vera che racchiude in sé tutte le altre: vivere questo breve intervallo di tempo che ci è dato in accordo con la volontà che ci inviò in questo mondo, e in accordo con questa volontà dipartirci da esso. Questa volontà vuole una cosa soltanto, l'amore di ogni persona verso le altre persone. Voi invece che cosa fate? In che cosa riponete le vostre forze spirituali? Chi amate e chi vi ama? Vostra moglie? Vostro figlio?

Ma questo non è amore. L'amore della moglie, dei figli non è l'amore umano. Così, gli animali amano anche più forte. L'amore umano è l'amore della persona verso ogni persona, come verso un figlio di Dio e perciò fratello. Chi invece voi amate e chi vi ama? Nessuno. Vi temono come temono il boia o una bestia feroce.

Vi lusingano perché nell'anima vi disprezzano, e vi odiano e come vi odiano! E voi questo lo sapete e temete la gente. Pensate, tutti voi, dai più alti ai più bassi partecipanti agli omicidi, pensate a chi siete e smettete di fare ciò che fate, smettete - non per voi stessi, non per la vostra personalità, non per gli altri né affinché le persone smettano di giudicarvi, ma per la vostra anima, per quel Dio che non appena lo lasciate risuonare, viene in voi.

 

 

31 maggio 1905