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Hans Christian Andersen

 

FIABE

 

 

 

  • L'ACCIARINO
  •  

    Un soldato arrivava marciando per la strada maestra: Un, due! Un, due!

    Aveva uno zaino sulle spalle e una spada al fianco: era stato in guerra e ora ritornava a casa. Lungo la strada incontrò una vecchia strega, ripugnante e col labbro inferiore lungo fino al petto. Questa gli disse: "Salve, soldato! Hai proprio una spada e uno zaino enormi!

    Sei un vero soldato! Adesso potrai avere tutti i soldi che vorrai!".

    "Grazie, vecchia strega" le rispose il soldato.

    "Vedi quel grosso albero?" chiese la strega, indicando un albero che si trovava lì vicino. "Dentro è completamente cavo. Dovresti arrampicarti fino in cima per vedere il buco da cui potrai calarti per arrivare in fondo all'albero. Io ti passerò una corda alla vita per poterti tirare su, quando me lo dirai".

    "Cosa dovrei fare nell'albero?" chiese il soldato.

    "Prendere i soldi!" gli fu risposto. "Devi sapere che in fondo all'albero troverai un largo corridoio tutto illuminato, dato che ci sono più di cento lampade. Ci sono tre porte che puoi aprire, perché c'è la chiave nella serratura. Quando entrerai nella prima stanza, ci sarà sul pavimento una grande cesta con un cane seduto sopra; il cane ha gli occhi grandi come due tazze da tè, ma non ti devi preoccupare.

    Io ti do il mio grembiule a quadretti che stenderai sul pavimento; poi vai tranquillo dal cane e spostalo sul mio grembiule, apri la cesta e prendi tutte le monete che vuoi. Queste sono di rame, se invece le vuoi d'argento, devi passare nella seconda stanza; lì c'è un cane con gli occhi grandi come due ruote di mulino; ma non temere, se lo metti sul mio grembiule puoi prendere tutti i soldi che vuoi! Se invece preferisci, puoi avere delle monete d'oro, e tante quante ne potrai trasportare; è sufficiente che tu entri nella terza stanza. Ma il cane che sta sulla cesta delle monete ha gli occhi grandi come la Torre Rotonda di Copenaghen: quello è un cane per davvero, credimi! Ma non preoccuparti! Posalo sul mio grembiule, lui non ti farà niente, e tu potrai prendere dalla cesta tutto il denaro che vorrai".

    "Non è certo una cattiva idea!" disse il soldato. "Ma che cosa devo dare a te, vecchia strega? Perché posso ben immaginare che vorrai avere qualcosa per te".

    "No" ribatté la strega, "non voglio nemmeno un centesimo. Tu devi solo portarmi un vecchio acciarino, che mia nonna aveva dimenticato l'ultima volta che era stata laggiù".

    "Bene! Allora legami la corda intorno alla vita".

    "Ecco fatto!" replicò la strega, "e questo è il mio grembiule a quadretti bianchi e turchini".

    Allora il soldato si arrampicò sull'albero, si lasciò calare nella cavità e si trovò, come la strega aveva previsto, in un grande corridoio, dove ardevano centinaia di lampade. Aprì la prima porta. Lì sedeva il cane con gli occhi grandi come tazze da tè, che gli abbaiava contro.

    "Sei proprio un bel tipo!" disse il soldato; lo mise sul grembiule della strega e prese tutto il denaro che poteva stargli nella tasca, poi chiuse la cesta e vi rimise sopra il cane. Subito dopo entrò nella seconda stanza. Uh! lì c'era il cane con gli occhi grandi come ruote di mulino.

    "Non dovresti guardarmi così a lungo" disse il soldato, "potrebbero farti male gli occhi!" e così dicendo posò il cane sul grembiule della strega: ma quando vide le moltissime monete d'argento nella cesta, gettò tutte le monete di rame che aveva raccolto e si riempì le tasche e lo zaino con le monete d'argento. Poi entrò nella terza stanza. Che orrore! Il cane che si trovava lì aveva veramente due occhi grandi come la Torre Rotonda di Copenaghen! e gli giravano nella testa come due ruote.

    "Buona sera" disse il soldato e si tolse il berretto, dato che non aveva mai visto un cane simile, ma dopo averlo osservato per un po', pensò che ormai bastava, lo posò quindi sul pavimento e aprì la cassa - santo cielo, quanto oro c'era dentro! Avrebbe potuto comprare tutta Copenaghen e tutti i maialini di zucchero delle venditrici ambulanti e tutti i soldatini di piombo, le fruste e i cavalli a dondolo del mondo. Erano un bel po' di soldi!

    Allora il soldato gettò tutte le monete d'argento che gli riempivano le tasche e lo zaino e le sostituì con quelle d'oro, sì, le tasche, lo zaino, il berretto e pure gli stivali vennero riempiti tanto che il soldato non poteva quasi camminare. Adesso sì che ne aveva di soldi!

    Rimise il cane sulla cesta, chiuse la porta e gridò lungo il tronco cavo:

    "Tirami su, vecchia strega!".

    "Hai preso l'acciarino?".

    "E' vero! me ne ero completamente dimenticato" e così andò a prenderlo. La strega lo tirò su e lui si trovò sulla strada maestra con le tasche, gli stivali, lo zaino e il berretto pieni di monete.

    "Che cosa ne fai ora dell'acciarino?" chiese alla strega.

    "Che ti importa? Ormai ti sei preso il denaro, quindi ora dammi l'acciarino".

    "Quante storie!" le rispose il soldato. "Dimmi immediatamente cosa vuoi fare dell'acciarino, altrimenti ti taglio la testa con la mia spada".

    "No!" gridò la strega.

    Così il soldato le tagliò la testa. La strega giaceva a terra. Il soldato mise tutte le sue monete nel grembiule della strega, lo annodò, se lo mise in spalla come un fagotto, si infilò l'acciarino in tasca e si incamminò verso la città.

    Era una bella città e lui entrò nella migliore locanda, pretese per sé le stanze migliori e il cibo che più gli piaceva: tanto ormai era ricco, con tutti i soldi che aveva.

    Il servitore, che gli doveva lucidare gli stivali, pensò fra sé che quelli erano troppo malandati per un ricco signore qual era il soldato, che non ne aveva ancora comprato di nuovi; il giorno dopo però si comprò degli stivali e degli abiti eleganti. Ora era diventato un signore distinto e gli raccontarono delle bellezze del villaggio e del loro re e di quanto graziosa fosse la sua figliola, la principessa.

    "Dove si può vederla?" domandò il soldato.

    "Non è assolutamente possibile vederla!" risposero tutti insieme.

    "Abita in un grande castello di rame, tutto circondato di mura e di torri. Nessuno, eccetto il re, può farle visita, perché è stato predetto che sposerà un semplice soldato e questo al re non piace affatto".

    "Mi piacerebbe proprio vederla" pensò il soldato, ma non poté ottenere il permesso.

    Così il soldato viveva allegramente, andava a teatro, passeggiava nel giardino reale di Copenaghen e dava ai poveri tanto denaro - e questo era ben fatto. Lo sapeva bene dai tempi passati, quanto fosse brutto non avere neppure un soldo. Ora era ricco e aveva abiti eleganti e si trovò tantissimi amici tutti a ripetergli quanto era simpatico, un vero cavaliere e questo al soldato faceva molto piacere. Ma spendendo ogni giorno dei soldi e non guadagnandone mai, alla fine rimase con i soli spiccioli e fu costretto a trasferirsi, dalle splendide stanze in cui aveva abitato, in una piccolissima cameretta, proprio sotto il tetto, e dovette pulirsi da sé gli stivali e cucirli con un ago da rammendo, e nessuno dei suoi amici andò a trovarlo, perché c'erano troppe scale da fare.

    La sera era molto buia e lui non poteva neppure permettersi un lume, così ricordò che c'era ancora un po' di pietra con l'acciarino che aveva preso nell'albero cavo in cui lo aveva calato la strega.

    Prese la pietra e l'acciarino, ma non appena sfregò per avere del fuoco e le scintille schizzarono dalla pietra focaia, la porta si spalancò e comparve il cane che aveva gli occhi grandi come due tazze da tè e che il soldato aveva visto nell'albero; il cane gli disse:

    "Che cosa comanda il mio signore?".

    "Cosa?" chiese il soldato, "è proprio un bell'acciarino, ora posso ottenere quello che voglio. Procurami del denaro!" ordinò al cane, e hop! il cane sparì, ma subito ricomparve tenendo in bocca un grande sacco pieno di monete.

    Il soldato capì quanto era prezioso quell'acciarino. Se lo sfregava una volta, compariva il cane che stava sulla cesta delle monete di rame, se invece lo sfregava due volte, veniva quello delle monete d'argento, con tre sfregamenti appariva quello delle monete d'oro.

    Il soldato si trasferì nuovamente nelle stanze lussuose, si rivestì di splendidi abiti e subito tutti i suoi amici lo frequentarono e gli dimostrarono molto affetto.

    Una volta pensò: "E' proprio un peccato che non si possa vedere la principessa. Tutti dicono che sia bella, ma che cosa importa, se deve restare per sempre chiusa nel castello di rame dalle molte torri. Non posso proprio riuscire a vederla? Dov'è il mio acciarino?" e così lo sfregò per avere il fuoco e gli apparve il cane con gli occhi come tazze da tè.

    "Siamo nel pieno della notte" disse il soldato, "ma io desidero immensamente vedere la principessa, anche per un solo istante".

    Il cane era già uscito dalla stanza, e prima che il soldato se ne rendesse conto, lo vide di ritorno con la principessa; era addormentata sulla schiena del cane ed era così graziosa, che chiunque poteva vederlo che era una principessa: il soldato non poté fare a meno di baciarla, dato che era un vero soldato.

    Il cane poi se ne ripartì con la principessa, ma al mattino, mentre il re e la regina prendevano il tè, la principessa raccontò di aver fatto uno strano sogno quella notte, di aver sognato un cane e un soldato.

    Lei aveva cavalcato quel cane e il soldato l'aveva baciata.

    "E' proprio una bella storia!" esclamò la regina.

    Una delle vecchie dame di corte fu messa la notte successiva a vegliare il letto della principessa, per scoprire se era stato proprio un sogno o qualcos'altro.

    Il soldato desiderava ardentemente di rivedere la bella principessa e così il cane giunse di nuovo nel palazzo, prese la principessa e corse più forte che poté, ma la vecchia dama di corte s'infilò gli stivali e corse altrettanto in fretta; così vide che entravano in una grande casa e pensò: "Ora so qual è il posto" e fece una grossa croce con il gesso sul portone. Poi tornò a casa a coricarsi; e anche il cane riportò a casa la principessa; ma quando vide che era stata fatta una croce sul portone della casa in cui viveva il soldato, prese lui stesso del gesso e segnò con una croce tutte le porte della città, e questa fu una buona idea, perché così la dama di corte non poté più trovare la porta giusta: c'erano croci dappertutto.

    La mattina presto il re e la regina, la dama di corte e tutti gli ufficiali uscirono per scoprire dove era stata la principessa.

    "Eccola!" disse il re quando vide la prima porta segnata con una croce. "No, è quella, maritino mio" replicò la regina che aveva trovato un'altra porta con la croce.

    "Ma come? lì ce n'è una, e là un'altra!" dissero tutti, quando videro che c'erano croci su ogni porta. Così capirono che quella trovata non serviva a nulla.

    La regina però era una donna molto furba, mica capace soltanto di andare in giro in carrozza. Prese la sua grande forbice d'oro, tagliò un pezzo di seta e ne fece un sacchettino; poi lo riempì di piccoli semi di grano, lo legò alla schiena della principessa e infine gli fece un buco, così il grano poteva segnare la strada che la principessa percorreva.

    Di notte arrivò di nuovo il cane, si mise la principessa sulla schiena e corse con lei dal soldato che le voleva molto bene e desiderava tanto essere un principe per prenderla in sposa.

    Il cane non si accorse che il grano segnava proprio il percorso dal castello alla finestra del soldato, da cui si arrampicava con la principessa. Il mattino dopo il re e la regina videro finalmente dove la loro figliola era stata, presero il soldato e lo misero in prigione.

    E lì dovette rimanere; era così buio e triste laggiù; gli dissero pure: "Domani sarai impiccato". Il soldato non fu certo felice di sentirlo, tanto più che aveva dimenticato l'acciarino alla locanda. Il mattino dopo poté vedere attraverso le sbarre di ferro della finestrella tutta la gente affrettarsi per vederlo impiccare. Udì i tamburi e vide marciare i soldati. Tutta la gente corse via; c'era pure un garzone di macellaio con le ciabatte e un grembiule di cuoio, che correva così velocemente che una delle ciabatte volò vicino al muro da dove il soldato guardava fuori.

    "Ehi tu, ragazzo! Non devi avere tutta questa fretta" disse il soldato. "Non può accadere nulla finché non arrivo io; ma tu vorresti correre là dove abito e prendermi il mio acciarino? Ti darò quattro monete! Però devi fare molto in fretta!" Il garzone voleva guadagnare quei quattro soldi, partì come il fulmine per andare a prendere quell'acciarino, lo diede al soldato, e... adesso sentiremo cosa succede!

    Appena fuori dalla città era stata innalzata una grande forca, circondata da soldati e da molte centinaia di migliaia di persone. Il re e la regina erano seduti sul trono proprio di fronte al giudice e al consiglio.

    Il soldato si trovava già in cima alla scala, ma prima che gli legassero il laccio intorno al collo, disse che si deve concedere sempre un ultimo desiderio al condannato, e lui desiderava tanto fumarsi la pipa; in fondo sarebbe stata la sua ultima fumata di pipa in questo mondo!

    Il re non volle negargli il permesso; il soldato prese il suo acciarino, fece fuoco e, un, due, tre comparvero i tre cani, quello con gli occhi grandi come tazze da tè, quello con gli occhi come ruote di mulino e quello i cui occhi sembravano la Torre Rotonda.

    "Aiutatemi perché non venga impiccato!" gridò il soldato e subito i cani si precipitarono tra i giudici e il consiglio, afferrarono uno alle gambe e uno per il naso e li lanciarono in aria, così in alto che, ricadendo, si ruppero in mille pezzi.

    "Non voglio!" gridò il re, ma il cane più grosso prese sia lui che la regina e li gettò dietro tutti gli altri. In quel momento i soldati si spaventarono e la gente gridò: "Soldatino, tu devi diventare nostro re e sposare la graziosa principessa!".

    Allora il soldato sedette nella carrozza reale e i tre cani danzarono e gridarono "Urrà!" e i ragazzi fischiarono con le dita e i soldati presentarono le armi. La principessa uscì dal castello di rame e divenne regina, e ne fu molto soddisfatta. La festa per il matrimonio durò otto giorni e i cani erano seduti a tavola con gli altri e spalancavano tanto d'occhi.

     

     

     

  • LA PRINCIPESSA SUL PISELLO
  •  

    C'era una volta un principe che voleva avere per sé una principessa, ma doveva essere una vera principessa.

    Perciò viaggiò per tutto il mondo per trovarne una, ma ogni volta c'era qualcosa di strano: di principesse ce n'erano molte, ma non poteva mai essere certo che fossero vere principesse; infatti c'era sempre qualcosa che andava storto. Così se ne tornò a casa ed era veramente molto triste, perché desiderava con tutto il cuore trovare una vera principessa.

    Una sera c'era un tempo bruttissimo, lampeggiava e tuonava, la pioggia cadeva a catinelle, che cosa terribile! Bussarono alla porta della città e il vecchio re andò ad aprire.

    Là fuori c'era una principessa. Ma com'era conciata con quella pioggia e quel brutto tempo! L'acqua le scorreva lungo i capelli e i vestiti e le entrava nelle scarpe dalla punta e le usciva dai tacchi; eppure sosteneva di essere una vera principessa.

    "Adesso lo scopriremo!" pensò la vecchia regina, ma non disse nulla, andò nella camera da letto, tolse tutte le coperte e mise sul fondo del letto un pisello, sopra il quale pose venti materassi e poi venti piumini.

    Lì doveva passare la notte la principessa.

    Il mattino successivo le chiesero come aveva dormito.

    "Oh, terribilmente male" disse la principessa, "non ho quasi chiuso occhio tutta la notte. Dio solo sa, che cosa c'era nel letto! Ero sdraiata su qualcosa di duro, e ora sono tutta un livido. E' terribile!".

    Così poterono constatare che era una vera principessa, perché attraverso i venti materassi e i venti piumini aveva sentito il pisello. Nessuno poteva essere così sensibile se non una vera principessa!

    Il principe la prese in sposa, perché ora sapeva di aver trovato una principessa vera, e il pisello fu messo nella galleria d'arte, dove ancor oggi si può ammirare, se nessuno l'ha preso.

    Bada bene, questa è una storia vera!

     

     

     

  • I FIORI DELLA PICCOLA IDA
  •  

    "I miei poveri fiori sono tutti morti!" disse la piccola Ida. "Erano così belli ieri sera, e ora sono tutti appassiti! Perché è successo?" chiese allo studente, che sedeva sul divano. Lei gli era molto affezionata, perché sapeva raccontare le storie più belle e sapeva ritagliare figurine di carta molto divertenti: cuori che contenevano damine che danzavano, fiori e grandi castelli, le cui porte si potevano aprire; era proprio uno studente simpatico! "Perché i fiori sono così brutti oggi?" gli chiese di nuovo, e gli mostrò un mazzo che era tutto appassito.

    "Oh, sai che cosa hanno?" disse lo studente. "I fiori sono stati a ballare questa notte e per questo hanno la testa che ciondola".

    "Ma no! I fiori non possono ballare" rispose la piccola Ida.

    "Come no!" replicò lo studente. "Quando viene buio e noi tutti dormiamo, loro si mettono a saltare allegramente qui intorno, quasi ogni notte ballano".

    "E i bambini non possono partecipare al ballo?".

    "Sì: le piccole margherite e i mughetti!".

    "E dove ballano i fiori più carini?" chiese la piccola Ida.

    "Non sei stata già più volte fuori città in quel grande castello, dove il re abita d'estate, dove c'è un bel giardino con moltissimi fiori?

    Hai anche visto i cigni nuotarti incontro quando volevi dar loro le briciole di pane. Quello, sì, che è un ballo, credimi!".

    "Sono stata in quel giardino proprio ieri con la mamma" disse Ida, "ma tutte le foglie erano cadute dagli alberi e non c'era più neppure un fiore. Dove sono finiti? In estate ne ho visti tanti!".

    "Sono entrati nel castello. Devi sapere che non appena il re e la sua corte rientrano in città, tutti i fiori corrono nel castello per divertirsi. Dovresti vedere! Le due rose più belle si siedono sul trono e fanno il re e la regina. Tutte le rosse creste di gallo si mettono di lato e si inchinano, loro sono i gentiluomini di corte. Poi arrivano tutti i fiori più belli e ballano, le violette fanno finta di essere allievi ufficiali di marina, e ballano coi giacinti e coi fiori di croco, che chiamano signorine! I tulipani e i grandi gigli gialli, che sono delle vecchie signore, stanno attente che si balli bene e che tutto vada per il meglio".

    "Ma non c'è nessuno che fa qualcosa ai fiori che ballano nel castello del re?" chiese la piccola Ida.

    "Nessuno lo sa!" ribatté lo studente. "A volte di notte arriva il vecchio guardiano, che deve controllare il castello; ha un gran mucchio di chiavi e non appena i fiori sentono il rumore delle chiavi, si azzittiscono, si nascondono dietro le lunghe tende e affacciano la testa. 'Sento bene dal profumo che qui dentro ci sono dei fiori!' dice il vecchio guardiano, ma non riesce a vederli".

    "E' divertente!" disse la piccola Ida e batté le mani. "Ma neppure io li potrei vedere?".

    "Sì; ricordati, quando andrai là di nuovo, di guardare dentro la finestra e sicuramente li vedrai. Io ho guardato oggi e c'era un lungo narciso giallo sdraiato sul divano che si stiracchiava come se fosse stato una dama di corte".

    "Anche i fiori del giardino botanico possono andare fin là? Possono camminare così a lungo?".

    "Certo che possono. Quando vogliono, possono anche volare. Non hai mai visto le belle farfalle, rosse, gialle e bianche, che sembrano proprio dei fiori? E lo erano; sono saltate dal gambo verso l'alto e hanno agitato i petali come se fossero state piccole ali, e così hanno cominciato a volare; e dato che si comportarono bene, ottennero il permesso di volare anche di giorno, non dovettero più tornare a casa e rimettersi sul gambo, e così i petali divennero alla fine delle vere ali. E tu stessa l'hai visto! Può anche essere che i fiori del giardino botanico non siano mai stati nel castello del re, altrimenti saprebbero quanto è divertente là di notte. Per questo ora ti dico qualcosa che renderà molto sorpreso il professore di botanica che abita qui accanto. Tu lo conosci, vero? Quando vai nel suo giardino devi raccontare a uno dei suoi fiori che c'è un grande ballo al castello, così lui lo dirà a tutti gli altri e se ne partiranno; e quando il professore entrerà nel giardino non ci sarà più nessun fiore e lui non saprà dove sono finiti".

    "Ma come farà il fiore a raccontarlo agli altri? I fiori non sanno parlare!".

    "No, certo che non sanno parlare" rispose lo studente, "ma usano la mimica. Avrai notato che quando c'è un po' di vento, i fiori fanno cenni e muovono le foglie; si capiscono come se parlassero".

    "E il professore non capisce la mimica?".

    "Sì, senza dubbio! Una mattina era entrato nel suo giardino e aveva visto una grande ortica parlare con i movimenti delle foglie a un bel garofano rosso; gli diceva: 'Sei così carino, e io ti voglio molto bene!'; ma questo al professore non piaceva, così picchiò subito l'ortica sulle foglie, e in quel modo si fece male e da quel momento non osò più toccare un'ortica".

    "E' divertente!" esclamò la piccola Ida, e rise.

    "Come si fa a raccontare certe cose ai bambini!" disse il noioso consigliere che era venuto a far visita e che si era seduto sul divano; non poteva sopportare lo studente e borbottava sempre quando lo vedeva ritagliare quelle strane figure divertenti: una volta un uomo che penzolava dalla forca e aveva un cuore in mano - era un ladro di cuori - un'altra volta una vecchia strega che cavalcava una scopa e aveva il marito sul naso; tutto questo non piaceva al consigliere che diceva sempre: 'Che gusto mettere queste sciocchezze in testa ai bambini. Tu e la tua stupida fantasia!".

    La piccola Ida pensava invece che era così divertente quello che lo studente raccontava dei suoi fiori, e ci pensò a lungo. Se i fiori avevano la testa piegata perché erano stanchi per aver ballato tutta la notte, erano certamente malati. Così li prese e li portò da tutti i suoi giocattoli, sistemati su un grazioso tavolino col cassetto pieno di cianfrusaglie. Nel letto della bambola c'era la bambola, Sofia, che dormiva, ma la piccola Ida le disse: "Adesso devi alzarti, Sofia, e accontentarti di stare nel cassetto per questa notte; i poveri fiori sono malati e devono sdraiarsi nel tuo letto, così forse guariranno", e sollevò la bambola che la guardava di traverso ma non disse una parola, perché era molto arrabbiata di non poter stare nel suo letto.

    Poi Ida mise i fiori nel lettino della bambola, li coprì per bene con la coperta e disse che dovevano stare tranquilli: avrebbe preparato del tè per loro, così sarebbero guariti e si sarebbero alzati di nuovo l'indomani. Poi tirò le tende vicino al lettino per evitare che il sole li disturbasse.

    Per tutta la sera non poté fare a meno di pensare a quello che lo studente le aveva raccontato, e quando lei stessa dovette andare a letto, guardò prima dietro le tendine della finestra dove c'erano i bei fiori della sua mamma, i giacinti e i tulipani, e sussurrò piano piano: "So bene che dovete andare al ballo questa notte"; i fiori fecero finta di niente, non mossero una foglia, ma Ida sapeva bene quello che diceva.

    Una volta a letto pensò a lungo a quanto sarebbe stato bello vedere i bei fiori danzare al castello del re. "Chissà se i miei fiori sono veramente stati là?". E così si addormentò. A metà notte si svegliò di nuovo; aveva sognato i fiori e lo studente con cui il consigliere brontolava dicendo che voleva mettere tutte quelle sciocchezze in testa alla bambina. C'era silenzio nella camera da letto dove si trovava Ida; la lampada per la notte bruciava laggiù sul tavolo e i suoi genitori dormivano.

    "Chissà se i miei fiori sono ancora nel letto di Sofia!" si chiese, " mi piacerebbe saperlo". Si alzò a sedere e guardò verso la porta, che era socchiusa: là nella stanza c'erano i fiori e tutti i suoi giocattoli. Tese l'orecchio e le sembrò di sentire qualcuno che suonava il pianoforte in quella stanza, ma così piano e così bene che non l'aveva mai sentito prima.

    "Certamente tutti i fiori stanno ballando là dentro" disse. "Oh, come mi piacerebbe vederli!" ma non osava alzarsi, perché avrebbe svegliato i suoi genitori. "Se solo venissero qui loro" pensò, ma i fiori non vennero e la musica continuava, ed era tanto bella che lei non poté più trattenersi; scivolò fuori dal suo lettino e andò piano piano fino alla porta e da lì guardò nella stanza. Oh, che belle cose vide!

    Non c'era luce là dentro, ma ugualmente la stanza era luminosa, la luna brillava attraverso la finestra fino in mezzo al pavimento! Tutti i giacinti e i tulipani erano allineati in due file sul pavimento, non ce n'erano più alla finestra, i vasi erano tutti vuoti. Sul pavimento i fiori ballavano girando tra di loro, facevano catene ordinate e si tenevano per le lunghe foglie verdi, quando ruotavano.

    Al pianoforte sedeva un grande giglio giallo, che Ida di sicuro aveva visto quell'estate perché ricordava bene che lo studente aveva detto:

    "Oh, come assomiglia alla signorina Line!", ma tutti lo avevano preso in giro; ora invece il lungo fiore giallo assomigliava alla signorina, e si muoveva allo stesso modo mentre suonava, piegava il viso allungato prima da una parte e poi dall'altra, segnando il tempo della musica. Nessuno si accorse della piccola Ida. Lei vide poi un grande croco blu saltare sul tavolo dei giocattoli e andare al letto della bambola e tirare le tendine; lì c'erano i fiori malati, ma si alzarono subito e fecero come gli altri, come se volessero danzare pure loro.

    Il vecchio bruciafumo, quello con il labbro inferiore rotto, si alzò e si inchinò davanti ai bei fiori, che non sembravano affatto malati; anzi saltarono giù insieme agli altri e avevano l'aria di divertirsi.

    Le sembrò poi che qualcuno fosse caduto giù dal tavolo, e guardò in quella direzione: era il frustino di carnevale che era saltato giù, pensando di dover stare insieme ai fiori. Era molto grazioso e proprio sopra aveva un bambolotto di cera che portava un largo cappello in testa, giusto come quello del consigliere; il frustino di carnevale saltellava sulle sue tre gambe di legno rosse in mezzo ai fiori e batteva forte i piedi, perché si ballava la mazurca, e quella danza gli altri fiori non la potevano fare: erano troppo leggeri e non potevano battere i piedi.

    Il bambolotto di cera sul frustino di carnevale divenne sempre più lungo e grande, e si librò sopra i fiori di carta e urlò a voce ben alta: "Come si fa a far credere certe cose ai bambini! Tu e la tua stupida fantasia!" e in quel momento il bambolotto di cera era tale e quale il consigliere, con quel largo cappello, era giallo e burbero come lui, ma i fiori di carta lo colpirono e tornò a essere un minuscolo bambolotto di cera. Era proprio divertente! La piccola Ida non poté fare a meno di ridere.

    Il frustino di carnevale continuò a danzare e il consigliere non poteva non danzare con lui; che si facesse ancora lungo lungo o restasse il bambolotto di cera con l'enorme cappello, non serviva proprio a niente. Allora furono gli altri fiori a chiedere che potesse smettere, soprattutto quelli che avevano riposato nel letto della bambola, e così il frustino di carnevale si fermò. Contemporaneamente si sentì bussare forte nel cassetto, dove la bambola di Ida, Sofia, si trovava con molti altri giocattoli; il bruciafumo corse fino al bordo della tavola, si affacciò, appoggiato sulla pancia, e aprì un pochino il cassetto. Sofia si alzò in piedi e guardò intorno meravigliata.

    "Qui c'è un ballo!" disse, "perché nessuno me l'ha detto?".

    "Vuoi ballare con me?" chiese il bruciafumo.

    "Sì, sei proprio il tipo giusto con cui ballare!" gli disse, e gli voltò le spalle. Poi sedette sul cassetto e pensò che uno dei fiori sarebbe certo andato a invitarla, ma nessuno andò; allora tossì un po': "uhm, uhm, uhm!", ma anche con questo non andò nessuno. Il bruciafumo se la ballava da solo e non era affatto male!

    Dato che nessuno dei fiori sembrava guardarla, Sofia si lasciò cadere dal cassetto giù nel pavimento, così ci fu una gran confusione; tutti i fiori corsero lì e la circondarono e le chiesero se si era fatta male, e tutti i fiori di Ida la ringraziarono per il comodo letto e si occuparono di lei; la misero in mezzo al pavimento, dove la luna splendeva, e danzarono insieme a lei, e tutti gli altri fiori le fecero cerchio intorno: ora Sofia si divertiva proprio! e disse che potevano tenere ancora il suo letto, perché a lei non costava nulla stare nel cassetto.

    Ma i fiori risposero: "Ti ringraziamo molto, ma non vivremo a lungo; domani saremo morti: riferisci alla piccola Ida che ci seppellisca nel giardino, dove giace il canarino, così cresceremo di nuovo per l'estate e saremo ancora più belli!".

    "No, non potete morire!" disse Sofia e baciò i fiori; nello stesso istante si aprì la porta del salone ed entrò danzando una gran quantità di fiori bellissimi; Ida non immaginava da dove venissero.

    Erano certo tutti i fiori del castello del re. Per prime giunsero due belle rose, che portavano piccole corone d'oro in testa; erano un re e una regina, poi seguivano le più belle violacciocche e i garofani più graziosi, e salutavano da ogni parte. Avevano con loro anche un'orchestrina, grandi papaveri e peonie soffiavano nei baccelli dei piselli ed erano tutti rossi in viso, i giacinti azzurri e i bianchi bucaneve suonavano come se avessero avuto addosso delle campanelline.

    Facevano una bella musica. Poi giunsero molti altri fiori e ballarono tutti insieme, le violette azzurre e le margheritine rosse, le margherite e i mughetti. E tutti si baciavano tra loro, erano così carini da vedere!

    Alla fine si augurarono la buona notte e anche la piccola Ida se ne tornò nel suo lettino, dove sognò tutto quello che aveva visto.

    Quando il mattino dopo si alzò, andò subito al tavolino per vedere se i fiori erano ancora lì, tirò le tendine del letto e, sì, c'erano tutti, ma erano completamente appassiti, molto più che il giorno prima. Sofia era nel cassetto, dove l'aveva messa lei, e appariva molto assonnata.

    "Ti ricordi che cosa mi dovevi dire?" chiese la piccola Ida, ma Sofia aveva l'aria molto stupida e non disse una parola.

    "Non sei affatto buona" disse Ida, "eppure hanno ballato tutti con te". Poi prese una scatoletta di cartone con disegnati sopra dei begli uccellini, la aprì e vi mise dentro i fiori morti. "Questa sarà la vostra graziosa bara" disse, "e quando i miei cugini norvegesi saranno qui, vi seppelliremo fuori in giardino, così potrete crescere per l'estate e diventare ancora più belli".

    I cugini norvegesi erano due ragazzi in gamba, si chiamavano uno Giona e l'altro Adolfo; avevano appena avuto in regalo dal padre due nuovi archi che avevano portato per mostrarli a Ida. Lei raccontò dei poveri fiori appassiti, e così poté seppellirli. I due ragazzi erano davanti, con gli archi sulle spalle, e la piccola Ida li seguiva con i fiori morti nella graziosa scatola; nel giardino venne scavata una piccola fossa; Ida prima baciò i fiori, poi li posò con la scatola nella terra e Adolfo e Giona tirarono con l'arco, non avendo né fucili né cannoni.

     

     

     

  • LA SIRENETTA
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    In mezzo al mare l'acqua è pura come i petali dei più bei fiordalisi e trasparente come il più puro cristallo; ma è molto profonda, così profonda che un'anfora non potrebbe raggiungere il fondo; bisognerebbe mettere molti campanili, uno sull'altro, per arrivare dal fondo fino alla superficie. Laggiù abitano le genti del mare.

    Non bisogna credere che ci sia solo sabbia bianca, no! Crescono alberi stranissimi, e piante con gli steli e i petali così sottili che si muovono al minimo movimento dell'acqua, come fossero esseri viventi.

    Tutti i pesci, grandi e piccoli, nuotano tra i rami, proprio come fanno gli uccelli nell'aria. Nel punto più profondo si trova il castello del re del mare. Le mura sono di corallo e le alte finestre ad arco sono fatte con ambra chiarissima, il tetto è formato da conchiglie che si aprono e si chiudono secondo il movimento dell'acqua; sono proprio belle, perché contengono perle meravigliose; una sola basterebbe alla corona di una regina.

    Il re del mare era vedovo da molti anni, ma la sua vecchia madre governava la casa, una donna intelligente, molto orgogliosa della sua nobiltà; e per questo aveva dodici ostriche sulla coda, quando le altre persone potevano averne solo sei. Comunque aveva grandi meriti, soprattutto perché voleva molto bene alle piccole principesse del mare, le sue nipotine. Erano sei graziose fanciulle, ma la più giovane era la più bella di tutte, dalla pelle chiara e delicata come un petalo di rosa, gli occhi azzurri come un lago profondo; ma come tutte le altre non aveva piedi, il corpo terminava con una coda di pesce.

    Per tutto il giorno potevano giocare nel castello, nei grandi saloni, dove fiori viventi crescevano alle pareti. Le grandi finestre di ambra venivano aperte e i pesci potevano nuotare dentro, proprio come fanno le rondini quando apriamo le finestre, ma i pesci nuotavano vicino alle principessine, mangiavano dalle loro manine e si lasciavano accarezzare.

    Fuori dal castello c'era un grande giardino con alberi color rosso fuoco e blu scuro; i frutti brillavano come oro e i fiori come le fiamme di fuoco, poiché steli e foglie si agitavano continuamente. La terra stessa era costituita da sabbia finissima, ma azzurra come lo zolfo ardente. E una strana luce azzurra avvolgeva tutto; si poteva quasi credere di trovarsi nell'aria e di vedere il cielo da ogni parte, invece di essere sul fondo del mare. Quando il mare era calmo si poteva vedere il sole: sembrava un fiore color porpora dal cui calice sgorgava tutta la luce.

    Ogni principessa aveva una piccola aiuola nel giardino, in cui poteva piantare i fiori che voleva; una di loro diede alla sua aiuola la forma di una balena; un'altra preferì che assomigliasse a una sirenetta; la più giovane la fece rotonda come il sole e vi mise solo fiori rossi come lui. Era una bambina strana, molto tranquilla e pensierosa; le altre sorelle decoravano le aiuole con le cose più bizzarre che avevano trovato tra le navi affondate, lei invece, oltre ai fiori rossi che assomigliavano al sole, volle avere solo una bella statua di marmo, raffigurante un giovane scolpito in una pietra bianca e trasparente, che era arrivata fin lì dopo qualche naufragio. Vicino alla statua piantò un salice piangente di color rossiccio, che crebbe splendidamente ripiegando i suoi rami sul giovane fino a raggiungere il suolo di sabbia azzurra, dove l'ombra diventava viola e si muoveva come i rami stessi: sembrava così che i rami e le radici si baciassero con dolcezza.

    Non c'era per lei gioia più grande che sentir parlare del mondo degli uomini sopra di loro; la vecchia nonna dovette raccontare tutto quanto sapeva delle navi e delle città, degli uomini e degli animali; soprattutto la colpiva in modo particolare il fatto che i fiori sulla terra profumassero (naturalmente non profumavano in fondo al mare!) e che i boschi fossero verdi e che i pesci che si vedevano tra i rami potessero cantare così bene che era un piacere ascoltarli; erano gli uccellini, ma la vecchia nonna li chiamava pesci, per farsi capire da loro che non avevano mai visto un uccello.

    "Quando compirete quindici anni" disse la nonna, "avrete il permesso di affacciarvi fuori dal mare, sedervi al chiaro di luna sulle rocce e osservare le grosse navi che navigano; vedrete anche i boschi e le città". L'anno dopo la sorella più grande avrebbe compiuto quindici anni, ma le altre... già, avevano tutte un anno di differenza tra loro, e la più giovane doveva aspettare cinque anni prima di poter risalire il mare e vedere come viviamo noi uomini. Tra sorelle si promisero che si sarebbero raccontate tutte le cose più significative che avrebbero visto durante il loro primo viaggio: la nonna non raccontava abbastanza, e c'era tanto che loro volevano sapere.

    Nessuno però lo voleva quanto la più giovane, proprio lei che doveva aspettare più a lungo e che era così silenziosa e pensierosa. Per molte notti restava affacciata alla finestra a guardare verso l'alto, attraverso l'acqua scura, dove i pesci muovevano le pinne e la coda.

    Poteva vedere la luna e le stelle, in realtà brillavano debolmente, ma attraverso l'acqua sembravano molto più grandi che ai nostri occhi; se qualcosa le oscurava, come un'ombra nera, lei sapeva che forse una balena nuotava sopra di lei, o forse era una nave con tanti uomini.

    Questi non immaginavano certo che una graziosa sirenetta si potesse trovare sotto di loro tendendo verso la carena della nave le sue bianche braccia.

    La principessa più grande compì quindici anni e poté raggiungere la superficie del mare.

    Tornata a casa, aveva cento cose da raccontare, ma la cosa più bella, secondo lei, era stata stendersi al chiaro di luna su un banco di sabbia nel mare calmo e guardare verso la costa la grande città, piena di luci che brillavano come centinaia di stelle, sentire la musica e il rumore delle carrozze e degli uomini, guardare le moltissime torri e campanili e ascoltare le campane che suonavano. Proprio perché non avrebbe mai potuto andare fin lassù, aveva interesse soprattutto per quei posti.

    Oh, con quale attenzione la sorellina minore ascoltò! e quando poi a sera inoltrata andò alla finestra per guardare in alto, attraverso l'acqua scura, pensò alla grande città con tutto quel rumore, e le sembrò di sentire il suono della campana che arrivava fino a lei.

    L'anno dopo la seconda sorella ebbe il permesso di risalire l'acqua e di nuotare dove voleva. Si affacciò proprio quando il sole stava tramontando, e trovò che quella vista era la cosa più bella. Tutto il cielo sembrava dorato, raccontò, e le nuvole, sì, la loro bellezza non si poteva descrivere! rosse e viola avevano navigato sopra di lei, ma, molto più veloce delle nuvole, era passato come un lungo velo bianco uno stormo di cigni selvatici, che si dirigeva verso il sole. Anche lei aveva incominciato a nuotare verso il sole, ma questo era scomparso e i riflessi rosati si erano spenti sulla superficie del mare e sulle nuvole.

    L'anno successivo toccò alla terza sorella; era la più coraggiosa di tutte e risalì un largo fiume che sfociava nel mare. Vide belle colline verdi con vigneti, castelli e fattorie che spuntavano tra bellissimi boschi; sentì come cantavano gli uccelli, e il sole scaldava tanto che dovette spesso buttarsi in acqua per rinfrescare il viso infuocato. In una piccola insenatura incontrò un gruppo di bambini, che, nudi, correvano e si gettavano in acqua; volle giocare con loro, ma quelli scapparono via spaventati; poi giunse un piccolo animale nero, era un cane ma lei non ne aveva mai visto uno prima, e questo cominciò ad abbaiarle contro, così lei, spaventata, tornò nel mare aperto, ma non poté più dimenticare quei meravigliosi boschi, quelle verdi colline, e quei graziosi bambini che sapevano nuotare, pur non avendo la coda di pesce.

    La quarta sorella non fu così coraggiosa; restò in mezzo al mare aperto, e raccontò che proprio lì stava il piacere; poteva guardare per molte miglia in ogni direzione e il cielo sopra di lei le era sembrato una grossa campana di vetro. Aveva visto delle navi, ma da lontano, e le erano parse simili a gabbiani; gli allegri delfini avevano fatto le capriole e le grandi balene avevano soffiato l'acqua dalle narici, ed era stato come vedere cento fontane attorno a sé.

    Venne poi il turno della quinta sorella; il suo compleanno cadeva in inverno, e per questo vide cose che le altre non avevano visto. Il mare appariva verde e tutt'intorno galleggiavano grosse montagne di ghiaccio; sembravano perle, raccontò, ma erano molto più grandi dei campanili che gli uomini costruivano. Si mostravano nelle forme più svariate e brillavano come diamanti.

    Si era seduta su una delle più grosse e tutti i naviganti erano fuggiti spaventati dal luogo in cui lei si trovava, con il vento che le agitava i lunghi capelli; poi, verso sera, il cielo si era ricoperto di nuvole, c'erano stati lampi e tuoni, e il mare nero aveva sollevato in alto i grossi blocchi di ghiaccio illuminati da lampi infuocati. Su tutte la navi si ammainavano le vele, dominava la paura e l'angoscia, lei invece se ne stava tranquilla sulla sua montagna di ghiaccio galleggiante e guardava i fulmini azzurri colpire a zig-zag il mare illuminato.

    La prima volta che le sorelle uscirono dall'acqua, restarono incantate per le cose nuove e magnifiche che avevano visto, ma ora che erano cresciute e avevano il permesso di salire quando volevano, erano diventate indifferenti, sentivano nostalgia di casa, e dopo un mese dissero che da loro c'erano in assoluto le cose più belle e che era molto meglio stare a casa.

    Molte volte di sera le cinque sorelle, tenendosi sottobraccio, risalivano alla superficie; avevano belle voci, più belle di quelle umane, e quando c'era tempesta nuotavano fino alle navi che credevano potessero capovolgersi, e cantavano dolcemente di come era bello stare in fondo al mare e pregavano i marinai di non aver paura di arrivare laggiù; ma questi non erano in grado di capire le loro parole, credevano fosse la tempesta e non riuscivano comunque a vedere le bellezze del fondo del mare, perché quando la nave affondava, gli uomini affogavano e arrivavano al castello del re già morti.

    Quando le sorelle, di sera, a braccetto, salivano sul mare, la sorellina più piccola restava tutta sola e le osservava; sembrava che volesse piangere, ma le sirene non hanno lacrime e per questo soffrono molto di più. "Ah, se solo avessi quindici anni!" esclamava. "So bene che amerei quel mondo che è sopra di noi e gli uomini che ci abitano e ci costruiscono!".

    Finalmente compì quindici anni.

    "Adesso sei grande anche tu!" disse la nonna, la vecchia regina vedova. "Vieni! Lascia che ti adorni, come le tue sorelle" e le mise una coroncina di gigli bianchi sui capelli, ma ogni petalo di fiore era formato da mezza perla; poi la vecchia fissò sulla coda della principessa otto grosse ostriche, per mostrare il suo alto casato.

    "Mi fa male!" disse la sirenetta.

    "Bisogna pur soffrire un po' per essere belli!" rispose la vecchia.

    Oh! Come avrebbe voluto togliersi di dosso tutti quegli ornamenti e quella pesante corona! I fiori rossi della sua aiuola l'avrebbero adornata molto meglio, ma non osò cambiare le cose. "Addio!" esclamò, e salì leggera come una bolla d'aria attraverso l'acqua.

    Il sole era appena tramontato quando affacciò la testa dall'acqua, tutte le nuvole però ancora brillavano come rose e oro; nel cielo color lilla splendeva chiara e bellissima la stella della sera; l'aria era mite e fresca e il mare calmo. C'era una grande nave con tre alberi, ma una sola vela era tesa, perché non c'era il minimo alito di vento; tra le sartìe e i pennoni stavano seduti i marinai. C'era musica e canti e man mano che scendeva la sera si accendevano centinaia di luci multicolori. Sembrava che ondeggiassero nell'aria le bandiere di tutte le nazioni. La sirenetta nuotò fino all'oblò di una cabina e ogni volta che l'acqua la sollevava, vedeva attraverso i vetri trasparenti molti uomini ben vestiti; il più bello di tutti era però il giovane principe, con grandi occhi neri: non aveva certo più di sedici anni e compiva gli anni proprio quel giorno. Per questo c'erano quei festeggiamenti! I marinai ballavano sul ponte e quando il giovane principe uscì, si levarono in aria più di cento razzi che illuminarono a giorno. La sirenetta si spaventò e si rituffò nell'acqua, ma poco dopo riaffacciò la testa e le sembrò che tutte le stelle del cielo cadessero su di lei. Non aveva mai visto fuochi di quel genere. Grandi soli giravano tutt'intorno, bellissimi pesci di fuoco nuotavano nell'aria azzurra, e tutto si rifletteva nel bel mare calmo. Anche sulla nave c'era tanta luce che si poteva vedere ogni corda, e naturalmente gli uomini. Com'era bello quel giovane principe!

    Dava la mano a tutti, ridendo e sorridendo, mentre la musica risuonava nella splendida notte.

    Era ormai tardi, ma la sirenetta non seppe distogliere lo sguardo dalla nave e dal bel principe. Le luci variopinte vennero spente, i razzi non vennero più lanciati in aria, non si sentirono più colpi di cannone, ma dal profondo del mare si sentì un rombo, e lei intanto si faceva dondolare su e giù dall'acqua, per guardare dentro la cabina; ma la nave prese velocità, le vele si spiegarono una dopo l'altra, le onde si fecero più grosse, comparvero grosse nuvole e da lontano si scorsero dei lampi. Sarebbe venuta una terribile tempesta! Per questo i marinai ammainarono le vele. La grande nave filava a gran velocità sul mare agitato, l'acqua si alzò come grosse montagne nere che volevano rovesciarsi sull'albero maestro; la nave si immerse come un cigno tra le onde e si fece sollevare di nuovo dall'acqua in movimento. La sirenetta pensò che quella fosse una bella corsa, ma i marinai non erano della stessa opinione; la nave scricchiolava terribilmente, le assi robuste cedevano sotto quei forti colpi, l'acqua colpiva la carena, l'albero maestro si spezzò come se fosse stato una canna; la nave si piegò su un fianco, e l'acqua subito la riempì. Allora la sirenetta capì che erano in pericolo, lei stessa doveva stare attenta alle assi e ai relitti della nave che galleggiavano sull'acqua. Per un attimo fu talmente buio che non riuscì a vedere nulla, quando poi lampeggiò, si fece così chiaro che riconobbe tutti gli uomini della nave; ognuno se la cavava come poteva; lei cercò il principe e lo vide scomparire nel mare profondo, proprio quando la nave affondò. Al primo momento fu molto felice, perché lui ora sarebbe sceso da lei, ma poi ricordò che gli uomini non potevano vivere nell'acqua, e che anche lui sarebbe arrivato al castello di suo padre solo da morto. No, non doveva morire! Nuotò tra le assi e i relitti della nave, senza pensare che avrebbero potuto schiacciarla, si immerse nell'acqua e risalì tra le onde finché giunse dal giovane principe, che quasi non riusciva più a nuotare nel mare infuriato. Cominciava a indebolirsi nelle braccia e nelle gambe, gli si chiusero gli occhi; sarebbe certo morto se non fosse giunta la sirenetta. Lei gli tenne la testa sollevata fuori dall'acqua e con lui si lasciò trasportare dalla corrente dove capitava.

    Al mattino il brutto tempo era passato; della nave non era rimasta traccia, il sole sorgeva rosso e risplendeva sull'acqua; fu come se le guance del principe riacquistassero colore, ma gli occhi rimasero chiusi. La sirena lo baciò sulla bella fronte alta e carezzò indietro i capelli bagnati; le sembrò che assomigliasse alla statua di marmo che aveva nel suo giardinetto, lo baciò di nuovo e desiderò con forza che continuasse a vivere.

    Poi vide davanti a sé la terra ferma, alte montagne azzurre sulla cui cima la bianca neve risplendeva come ci fossero stati candidi cigni; lungo la costa si stendevano bei boschi verdi e proprio lì davanti si trovava una chiesa o un convento, non sapeva bene, ma era un edificio.

    Aranci e limoni crescevano nel giardino e davanti all'ingresso si alzavano delle palme; il mare disegnava lì una piccola insenatura, calmissima ma molto profonda, fino alla scogliera dove c'era sabbia bianca e sottile. Lei nuotò là col suo bel principe, lo posò sulla sabbia e si preoccupò che la testa fosse sollevata e rivolta verso il caldo sole.

    Suonarono in quel momento le campane di quel grande edificio bianco, e molte ragazze comparvero nel giardino. Allora la sirenetta si ritirò nuotando, dietro alcune alte pietre che spuntavano dall'acqua, si mise della schiuma tra i capelli e sul petto affinché nessuno la vedesse e aspettò che qualcuno andasse dal povero principe.

    Non passò molto tempo e una fanciulla si avvicinò; si spaventò molto, ma solo per un attimo, poi andò a chiamare altra gente, e la sirena vide che il principe tornò in vita e sorrise a quanti lo circondavano, ma non sorrise a lei, anche perché non sapeva che era stata lei a salvarlo. Si sentì molto triste e quando lo ebbero portato dentro quel grande edificio, si reimmerse dispiaciuta nell'acqua, e tornò al castello del padre.

    Se era sempre stata calma e pensierosa, ora lo fu molto di più. Le sorelle le chiesero che cosa avesse visto la prima volta che era stata lassù, ma lei non raccontò nulla.

    Per molte volte al mattino e alla sera, risalì fino al punto in cui aveva lasciato il principe. Vide che i frutti del giardino erano maturi e venivano colti, vide che la neve si scioglieva dalle alte montagne; ma non vide mai il principe e così se ne tornava a casa ogni volta sempre più triste. La sua unica consolazione era quella di andare nel suo giardinetto e di abbracciare la bella statua di marmo che assomigliava al principe; non curava più i suoi fiori, che crescevano in modo selvaggio anche sui viali e intrecciavano i loro steli e le foglie con i rami degli alberi, così che c'era molto buio.

    Alla fine non resse più, raccontò tutto a una sorella, e così anche le altre ne furono al corrente, ma poi nessun altro fu informato, eccetto poche altre amiche che pure non lo dissero a nessuno se non alle loro amiche più intime. Una di loro sapeva chi fosse quel principe, anche lei aveva visto la festa sulla nave e sapeva da dove veniva e dov'era il suo regno.

    "Vieni, sorellina!" dissero le altre principesse e, tenendosi sotto braccio, risalirono il mare fino al punto in cui si trovava il castello del principe.

    Questo era fatto di una lucente pietra gialla, aveva grandi scalinate di marmo, una delle quali scendeva fino al mare. Splendide cupole dorate si innalzavano dal tetto, e tra le colonne che circondavano l'intero edificio si trovavano statue di marmo, che sembravano vive.

    Attraverso i vetri trasparenti delle alte finestre si poteva guardare in saloni meravigliosi, con preziose tende di seta e tappeti, con grandi quadri alle pareti che erano proprio divertenti da guardare. In mezzo al salone si trovava una fontana con lo zampillo che arrivava fino alla cupola di vetro del soffitto, attraverso la quale il sole faceva luccicare l'acqua e le belle piante che ci crescevano dentro.

    Ora lei sapeva dove abitava il principe e ci tornò per molte sere; nuotava molto vicino alla terra come nessun altro aveva osato fare, risaliva addirittura lo stretto canale fino alla magnifica terrazza di marmo che gettava una grande ombra sull'acqua. Qui si metteva a guardare il giovane principe, che credeva di trovarsi tutto solo al chiaro di luna.

    Lo vide molte volte navigare in una splendida barca, con la musica e le bandiere al vento; allora si affacciava tra le verdi canne e il vento le sollevava il lungo velo argenteo, e se qualcuno la vedeva poteva pensare che fosse un cigno ad ali spiegate.

    Per molte notti sentì i pescatori, che stavano in mare con le lanterne, parlare molto bene del principe, e fu felice di avergli salvato la vita quella volta che era quasi morto e si era abbandonato alle onde; pensò anche al capo che aveva riposato sul suo petto, e con quanta dolcezza lo aveva baciato, ma lui non ne sapeva niente e non poteva neppure sognarla.

    Gli uomini le piacevano ogni giorno di più, e sempre più spesso desiderava salire e stare con loro: pensava che il loro mondo fosse molto più grande del suo: loro potevano navigare sul mare con le navi, arrampicarsi sulle alte montagne fin sopra le nuvole, e i campi che possedevano si estendevano con boschi e prati molto lontano, così lontano che non riusciva a vederli. C'erano tante cose che le sarebbe piaciuto sapere, ma le sorelle non sapevano rispondere a tutto, allora le chiese alla nonna che conosceva bene quel mondo di sopra che chiamava giustamente "il paese sopra il mare".

    "Se gli uomini non affogano" chiese la sirenetta, "possono vivere per sempre? Non muoiono come facciamo noi, nel mare?".

    "Certo" rispose la vecchia. "Anche loro devono morire e la lunghezza della loro vita è più breve della nostra. Noi possiamo arrivare fino a trecento anni; quando però non viviamo più diventiamo schiuma dell'acqua, non abbiamo una tomba tra i nostri cari; non abbiamo un'anima immortale e non vivremo mai più: siamo come le verdi canne che, una volta tagliate, non rinverdiscono! Gli uomini invece hanno un'anima che continua a vivere anche dopo che il corpo è diventato terra; sale attraverso l'aria fino alle stelle lucenti! Come noi saliamo per il mare e vediamo la terra degli uomini, così loro salgono fino a luoghi bellissimi e sconosciuti, che noi non potremo mai vedere!" "Perché non abbiamo un'anima immortale?" chiese la sirenetta tutta triste, "io darei cento degli anni che devo ancora vivere per essere un solo giorno come gli uomini e poi abitare nel mondo celeste!".

    "Non devi neanche pensare queste cose!" esclamò la vecchia. "Noi siamo molto più felici e stiamo certo meglio degli uomini".

    "Allora io devo morire e diventare schiuma del mare e non sentire più la musica delle onde, o vedere i bei fiori e il sole rosso! Non posso fare proprio nulla per ottenere un'anima immortale?".

    "No" rispose la vecchia. "Solo se un uomo ti amasse più di suo padre e sua madre, e tu fossi l'unico suo pensiero e il solo oggetto del suo amore, e se un prete mettesse la sua mano nella tua con un giuramento di fedeltà eterna; solo allora la tua anima entrerebbe nel tuo corpo e tu riceveresti parte della felicità degli uomini. Egli ti darebbe un'anima, conservando sempre la propria. Ma questo non potrà mai accadere. La cosa che qui è così bella, la coda di pesce, è considerata orribile sulla terra. Non capiscono niente; per loro bisogna avere due strani sostegni che chiamano gambe, per essere belle!".

    La sirenetta sospirò guardando la sua coda di pesce.

    "Stiamo allegre!" disse la vecchia. "Saltiamo e balliamo per i trecento anni che possiamo vivere; non è certo poco tempo! Poi ci riposeremo più volentieri nella tomba. Stasera c'è il ballo a corte".

    Quello era uno spettacolo meraviglioso che non si vede mai sulla terra! Le pareti e il soffitto dell'ampia sala da ballo erano costituite da un grosso vetro trasparente. Migliaia di conchiglie enormi, rosa e verdi come l'erba, erano allineate da ogni lato, con un fuoco azzurro fiammeggiante che illuminava tutta la sala e si rifletteva oltre le pareti, così che il mare di fuori fosse tutto illuminato. Si potevano vedere innumerevoli pesci, grandi e piccoli, che nuotavano contro la parete di vetro; su alcuni brillavano squame rosse scarlatte, su altri, d'oro e d'argento. In mezzo alla sala scorreva un largo fiume dove danzavano i delfini e le sirene, che cantavano così soavemente. Gli uomini sulla terra non hanno certo voci così belle. La sirenetta cantò meglio di tutte, e tutti le battevano le mani; per un istante si sentì felice, perché sapeva di avere la voce più bella sia sul mare che sulla terra! Ma subito tornò a pensare al mondo che c'era sopra di loro; non riusciva a dimenticare quel bel principe e il suo dolore per il fatto di non possedere, come lui, un'anima immortale. Uscì in silenzio dal castello del padre e andò a sedersi nel suo giardinetto, mentre dall'interno risuonavano canti pieni d'allegria. Allora sentì attraverso l'acqua il suono dei corni e pensò: "Sta certamente navigando qua sopra, quello che io amo più di mio padre e di mia madre, che riempie ogni mio pensiero e nella cui mano io voglio riporre la felicità della mia vita. Voglio fare qualunque cosa per conquistare lui e un'anima immortale! Mentre le mie sorelle ballano nel castello di mio padre, io andrò dalla strega del mare; ho sempre avuto tanta paura di lei, ma forse mi potrà consigliare e aiutare!".

    La sirenetta uscì dal suo giardino e si avviò verso il torrente ribollente, dietro il quale abitava la strega. Non aveva mai percorso quella strada; non vi crescevano né fiori né erba, solo un fondo di sabbia grigia si stendeva verso il torrente, dove l'acqua, che sembrava spinta dalle ruote del mulino, girava come un vortice e inghiottiva tutto quello che poteva afferrare. Dovette passare in mezzo a quei vortici tremendi per arrivare nel territorio della strega, e qui c'era da attraversare una vasta pianura bollente, che la strega chiamava la sua torbiera. Oltre la torbiera si trovava la sua casa, in mezzo a un orribile bosco.

    Tutti gli alberi e i cespugli erano polipi, per metà bestie e per metà piante: sembravano centinaia di teste di serpente che crescevano dal terreno; tutti i rami erano lunghe braccia vischiose, con le dita simili a vermi ripugnanti, che si muovevano in ogni loro parte, dalle radici fino alla punta più estrema. Si avvolgevano intorno a tutto quello che potevano afferrare e non lo lasciavano mai più. La sirenetta si fermò spaventatissima; il cuore le batteva forte per la paura, stava per tornare indietro, ma pensò al principe e all'anima degli uomini, così le tornò il coraggio. Legò per bene i lunghi capelli svolazzanti, affinché i polipi non riuscissero ad afferrarli; mise le mani sul petto e partì passando come un pesce guizzante nell'acqua, tra gli orribili polipi, che allungavano i vischiosi tentacoli verso di lei. Vide ciò che ognuno di essi aveva afferrato, centinaia di tentacoli trattenevano le prede come tenaglie di ferro:

    uomini che erano morti in mare e caduti sul fondo si affacciavano come bianchi scheletri tra i tentacoli; remi di imbarcazioni e casse erano tenuti stretti, scheletri di animali e persino una sirenetta che avevano catturato e soffocato. Questa vista fu per lei la più spaventosa!

    Poi giunse in un'ampia radura di fango nel bosco, dove grossi serpenti di mare si rivoltavano mostrando i loro orridi denti gialli. Nel mezzo si trovava una casa fatta con le bianche ossa di uomini calati sul fondo; lì stava la strega del mare e lasciava che un rospo mangiasse dalla sua mano, come gli uomini fanno con i canarini quando gli danno lo zucchero. Quegli orribili grossi serpenti di mare erano chiamati "pulcini" dalla strega che li lasciava strisciare sui suoi grossi seni cadenti.

    "So bene che cosa vuoi!" disse la strega del mare, "sei proprio impazzita! comunque il tuo desiderio verrà soddisfatto, perché ti porterà sventura, mia bella principessa! Vuoi liberarti della tua coda di pesce e ottenere in cambio due sostegni per camminare come gli uomini, così che il giovane principe si innamori di te e tu possa ottenere un'anima immortale!". La strega rideva così sguaiatamente che il rospo e i serpenti caddero a terra e lì continuarono a rotolarsi.

    "Arrivi appena in tempo!" riprese.

    "Domani, una volta sorto il sole, non potrei più aiutarti e dovresti aspettare un anno intero. Ti preparerò una bevanda, ma con questa devi nuotare fino alla terra e berla prima che sorga il sole. Allora la tua coda si dividerà e si trasformerà in ciò che gli uomini chiamano gambe. Soffrirai come se una spada affilata ti trapassasse. Tutti quelli che ti vedranno, diranno che sei la più bella creatura umana mai vista! Conserverai la tua aggraziata andatura, nessuna ballerina sarà migliore di te, sarà come se camminassi su un coltello appuntito, e il tuo sangue scorrerà. Se vuoi soffrire tutto questo, ti aiuterò!".

    "Sì" esclamò la principessa con voce tremante pensando al principe, e all'anima immortale.

    "Ma ricordati" aggiunse la strega, "una volta che ti sarai trasformata in donna, non potrai mai più ritornare a essere una sirena! Non potrai più discendere nel mare dalle tue sorelle e al castello di tuo padre; e se non conquisterai l'amore del principe, cosicché lui dimentichi per te suo padre e sua madre, dipenda da te per ogni suo pensiero e chieda al prete di congiungere le vostre mani rendendovi marito e moglie, non avrai mai un'anima immortale! e se lui sposerà un'altra, il primo mattino dopo il matrimonio il tuo cuore si spezzerà e tu diventerai schiuma dell'acqua!".

    "Lo voglio ugualmente!" disse la sirenetta, che era pallida come una morta.

    "Però mi devi ricompensare!" aggiunse la strega, "e non è poco quello che pretendo. Tu possiedi la voce più bella tra tutti gli abitanti del mare, e credi con quella di poterlo sedurre; ma la voce devi darla a me. Io voglio ciò che tu di meglio possiedi per la mia preziosa bevanda! Devo versarci del sangue, affinché il filtro sia tagliente come una spada a due lame!".

    "Se mi prendi la voce" chiese la sirenetta, "che cosa mi resta?".

    "La tua splendida persona, la tua armoniosa andatura e i tuoi occhi espressivi; con questo riuscirai certo a conquistare il cuore di un uomo. Allora! hai perso il coraggio? Tira fuori la lingua così te la taglio; è il pagamento per quella potente bevanda!".

    "Va bene!" esclamò la sirenetta, e la strega mise sul fuoco la pentola per far bollire la bevanda magica. "La pulizia è un'ottima cosa!" disse mentre strofinava la pentola con alcune serpi legate insieme, poi si tagliò il petto e fece gocciolare il suo sangue nero, e il vapore assunse forme molto strane che facevano proprio paura.

    "Eccola qui!" disse la strega e tagliò la lingua alla sirenetta, che ora era muta e non poteva più né cantare né parlare.

    "Se i polipi volessero afferrarti, mentre passi di nuovo attraverso il mio bosco" spiegò la strega, "getta una goccia di questa bevanda su di loro e le loro braccia e dita si romperanno in mille pezzi". Ma la sirenetta non ebbe bisogno di farlo; i polipi si allontanarono spaventati da lei non appena videro quella bevanda lucente che teneva in mano come fosse una stella luminosa. Così passò in fretta per il bosco, per la palude e per il torrente che ribolliva.

    Vide il castello di suo padre, le luci erano spente nella grande sala da ballo; certamente tutti dormivano, e lei comunque non avrebbe osato cercarli: ora era muta e doveva andarsene per sempre. Le sembrò che il cuore si spezzasse per il dolore. Andò in silenzio nel giardino e prese un fiore da ogni giardinetto delle sorelle; gettò con le dita mille baci verso il castello e salì per il mare blu.

    Il sole non era ancora sorto quando vide il castello del principe e salì per la bellissima scalinata di marmo. La luna splendeva meravigliosa. La sirenetta bevve allora il filtro infuocato, e subito fu come se una spada a due lame le trafiggesse il corpo delicato; svenne e rimase distesa come morta. Quando il sole spuntò all'orizzonte, si svegliò e sentì un dolore lancinante, ma proprio davanti a lei stava il giovane principe, bellissimo, che la fissava con i magnifici occhi neri, così lei abbassò i suoi e vide che la sua coda di pesce era scomparsa e ora possedeva le più belle gambe bianche che mai nessuna fanciulla avesse avuto. Ma era tutta nuda e così si avvolse nei suoi capelli. Il principe le chiese chi fosse e come fosse arrivata fin lì, lei lo guardò dolcemente e tanto tristemente coi suoi occhi azzurri: non poteva parlare. Lui la prese per mano e la portò al palazzo. A ogni passo le sembrava, come la strega le aveva detto, di camminare su punte taglienti e su coltelli affilati, ma sopportò tutto volentieri, e tenendo il principe per mano salì le scale leggera come una bolla d'aria e sia lui che gli altri ammirarono la sua armoniosa andatura.

    Ricevette costosi abiti di seta e di mussola, era la più bella del castello, ma era muta, non poteva né cantare né parlare. Graziose damigelle vestite d'oro e di seta avanzarono e cantarono davanti al principe e ai suoi genitori, una di loro cantò meglio delle altre e il principe batté le mani e le sorrise. In quel momento la sirenetta si rattristò; sapeva che avrebbe saputo cantare molto meglio, e pensò:

    "Dovrebbe proprio sapere che io, per stare vicino a lui, ho ceduto per sempre la mia voce!".

    Poi le damigelle ballarono balli meravigliosi su una musica dolcissima; allora anche la sirenetta tese le braccia bianche, si alzò sulla punta di piedi e volteggiò, ballò come mai nessuno aveva fatto; a ogni movimento la sua bellezza era sempre più visibile e i suoi occhi parlavano al cuore molto meglio dei canti delle damigelle.

    Tutti rimasero incantati, soprattutto il principe, che la chiamò la sua trovatella, e lei continuò a danzare, anche se ogni volta che i piedi toccavano terra, era come se toccassero coltelli affilati. Il principe le disse che sarebbe dovuta rimanere per sempre con lui e le diede il permesso di dormire fuori dalla sua stanza su un cuscino di velluto.

    Fece preparare per lei un costume da amazzone, affinché potesse accompagnarlo a cavallo. Cavalcarono in mezzo ai boschi profumati, dove i verdi rami gli sfioravano le spalle e gli uccellini cantavano tra le foglie fresche. La sirenetta si arrampicò col principe sulle alte montagne, e nonostante i suoi piedi sanguinassero a tal punto che anche gli altri se ne accorsero, lei ne rideva e lo seguì fino a dove poterono vedere le nuvole spostarsi sotto di loro, come fossero state stormi di uccelli che si dirigevano verso paesi stranieri.

    Quando al castello di notte gli altri dormivano, lei andava alla scalinata di marmo e si rinfrescava i piedi doloranti immergendoli nell'acqua del mare, e intanto pensava a quelli che stavano nelle profondità marine.

    Una notte giunsero le sue sorelle a braccetto, cantarono tristemente, nuotando sulle onde, lei le salutò con la mano e loro la riconobbero e raccontarono quanto li avesse resi tristi. Da quella volta tutte le notti le facevano visita, e una notte vide, lontano, la vecchia nonna, che da molti anni non era più salita in superficie, e il re del mare, con la corona in testa; tesero le braccia verso di lei, ma non osarono avvicinarsi alla terra come le sue sorelle.

    Ogni giorno il principe le voleva più bene, la amava come si può amare una cara fanciulla, ma non pensava certo di renderla regina; eppure lei doveva diventare sua moglie, altrimenti non avrebbe mai ottenuto un'anima immortale, e al mattino successivo al matrimonio del principe con un'altra sarebbe diventata schiuma.

    "Non vuoi più bene a me che a tutti gli altri?" sembrava chiedessero gli occhi della sirenetta, quando il principe la prendeva tra le braccia e le baciava la bella fronte.

    "Sì, tu sei la più cara di tutte!" diceva il principe, "perché hai un cuore che è migliore di tutti gli altri, poi mi sei molto devota, e assomigli tanto a una fanciulla che vidi una volta, ma che sicuramente non troverò mai più. Ero su una nave che affondò, le onde mi trascinarono a riva vicino a un tempio dove servivano molte fanciulle; la più giovane mi trovò sulla spiaggia e mi salvò la vita, la vidi solo due volte; è l'unica persona che potrei amare in questo mondo, e tu le assomigli, e hai quasi sostituito la sua immagine nel mio animo.

    Lei appartiene al tempio e per questo la mia buona sorte ti ha mandato da me; non ci separeremo mai".

    "Oh, lui non sa che sono stata io a salvargli la vita!" pensò la sirenetta. "Io l'ho sorretto in mare fino al bosco dove si trova il tempio, io mi sono nascosta tra la schiuma per vedere se arrivava gente. E ho visto quella bella fanciulla che lui ama più di me!" e intanto sospirava profondamente, poiché non poteva piangere. "Ma quella ragazza appartiene al tempio, ha detto il principe, e non verrà mai nel mondo, non si incontreranno mai più, e io sono vicino a lui, lo vedo ogni giorno, avrò cura di lui, lo amerò e gli sacrificherò la mia vita!".

    Un giorno si venne a sapere che il principe si doveva sposare con la bella principessa del reame confinante, e per questo stava allestendo una splendida nave. Il principe sarebbe andato a visitare il regno vicino, così si diceva, ma in realtà era per vedere la figlia del re; e avrebbe portato con sé un ricco seguito. Ma la sirenetta scuoteva la testa e rideva; conosceva il pensiero del principe molto meglio degli altri. "Sono costretto a partire" le aveva detto, "devo incontrare quella bella principessa; i miei genitori lo vogliono, ma non mi costringeranno a portarla a casa come mia sposa. Non lo voglio! Non posso amarla, non assomiglia alla bella fanciulla del tempio, come le somigli tu. Se mai dovessi scegliere una sposa, allora prenderei te, mia trovatella muta ma con gli occhi parlanti!". E le baciò la bocca rossa, le carezzò i lunghi capelli e posò il capo sul suo cuore, che sognò una felicità umana e un'anima immortale.

    "Non hai paura del mare, vero, mia fanciulla muta?" le chiese il principe quando furono sulla meravigliosa nave che doveva portarli nel regno vicino, e le raccontò della tempesta e del mare calmo, degli strani pesci e di quello che i palombari avevano visto sul fondo, e lei sorrideva ai suoi racconti, lei che conosceva meglio di chiunque altro il fondo del mare.

    Nella chiara notte di luna, mentre tutti gli altri dormivano meno il timoniere, si appoggiò al parapetto della nave, e guardò verso l'acqua trasparente; le sembrò di vedere il castello di suo padre e la vecchia nonna con la corona d'argento in testa che osservava, attraverso le correnti del mare, il movimento della nave. Poi giunsero alla superficie le sue sorelle, che la fissarono tristemente tendendo le mani bianche verso di lei; lei le salutò, sorrise, e avrebbe voluto dire che tutto andava bene, ma il mozzo si avvicinò e le sorelle si immersero nell'acqua, così lui credette che quel biancore che aveva visto fosse la schiuma del mare.

    Il mattino dopo la nave entrò nel porto della bella città del re vicino. Tutte le campane suonarono e dalle alte torri suonarono le trombe, mentre i soldati, tra lo sventolìo delle bandiere, presentavano le baionette lucenti. Ogni giorno ci fu una festa. Balli e ricevimenti si susseguirono, ma la principessa non c'era ancora, abitava molto lontano, in un tempio, dissero, per imparare tutte le virtù necessarie a una regina. Finalmente un giorno arrivò.

    La piccola sirena era ansiosa di vedere la sua bellezza e dovette riconoscere di non aver mai visto una figura così graziosa. La pelle era molto delicata e trasparente, e sotto le lunghe ciglia scure due occhi azzurri e fiduciosi sorridevano.

    "Sei tu!" esclamò il principe, "tu che mi hai salvato quando giacevo come morto sulla costa!" e strinse tra le braccia la fidanzata, che era arrossita. "Oh, sono troppo felice!" disse alla sirenetta. "La cosa più bella, che non avevo mai osato sperare, è avvenuta!

    Rallegrati con me, tu che mi vuoi così bene tra tutti!". E la sirenetta gli baciò la mano, ma sentì che il suo cuore si spezzava. Il mattino dopo le nozze sarebbe morta, trasformata in schiuma del mare.

    Tutte le campane suonarono, gli araldi cavalcarono per le strade ad annunciare il fidanzamento. Su tutti gli altari si bruciarono oli profumati in preziose lampade d'argento. I preti fecero oscillare gli incensieri mentre gli sposi si strinsero le mani e ricevettero la benedizione del vescovo.

    La sirenetta, vestita di seta e d'oro, reggeva lo strascico, ma le sue orecchie non sentivano quella musica gioiosa, i suoi occhi non vedevano quella sacra cerimonia: pensava alla sua morte e a tutto quello che avrebbe perso in questo mondo.

    La sera stessa gli sposi salirono a bordo della nave, i cannoni spararono, e le bandiere sventolarono; in mezzo alla nave era stata montata una tenda reale fatta di oro e porpora, con cuscini sofficissimi, su cui la coppia di sposi avrebbe dovuto dormire in quella quieta e fredda notte.

    Le vele sventolavano al vento, e la nave scivolava leggera, senza scossoni, sul mare trasparente.

    Quando venne buio si accesero le lampade variopinte e i marinai ballarono allegramente sul ponte. La sirenetta ripensò alla prima volta in cui si era affacciata sulla terra e aveva visto lo stesso splendore e la stessa gioia, si inserì nelle danze, volteggiò come fa la rondine quando viene inseguita, e tutti le mostrarono la loro ammirazione: mai aveva ballato così bene. Sentiva i piedini come tagliati da affilati coltelli, ma non ci badò, le faceva più male il cuore. Sapeva che quella era l'ultima sera in cui vedeva colui per il quale aveva lasciato la sua gente e la sua casa, per il quale aveva rinunciato alla sua bella voce, per il quale aveva sofferto ogni giorno tormenti senza fine, che lui neppure poteva immaginare. Quella era l'ultima notte in cui avrebbe respirato la sua stessa aria; guardò verso il profondo mare e verso il cielo stellato: una notte eterna senza pensieri né sogni la aspettava, poiché non aveva un'anima, né poteva ottenerla. L'allegria e la gioia sulla nave durarono a lungo, anche dopo mezzanotte; anche lei rise e danzò ma aveva pensieri di morte nel cuore. Il principe baciò la sua bella sposa e lei gli accarezzò i capelli neri, poi a braccetto andarono a riposarsi nella splendida tenda.

    Calò il silenzio sulla nave, solo il timoniere era sveglio al timone; la sirenetta pose le bianche braccia sul parapetto e guardò verso est, per vedere il rosso dell'alba: il primo raggio di sole l'avrebbe uccisa. Allora vide le sue sorelle spuntare fuori dal mare, erano pallide come lei, i loro lunghi capelli non si agitavano più nel vento, erano stati tagliati.

    "Li abbiamo dati alla strega, perché ti venisse ad aiutare affinché tu non muoia questa notte. Allora ci ha dato un pugnale; eccolo! vedi com'è affilato? Prima che sorga il sole devi infilzarlo nel cuore del principe; quando il suo caldo sangue bagnerà i tuoi piedi, questi riformeranno una coda di pesce e tu ridiventerai una sirena e potrai gettarti in acqua con noi e vivere i tuoi trecento anni prima di morire e diventare schiuma salata. Fai presto! O tu o lui dovete morire prima che sorga il sole! La nonna soffre tanto e ha perso tutti i capelli bianchi e i nostri sono caduti sotto le forbici della strega. Uccidi il principe e torna indietro! Presto! non vedi quella striscia rossa nel cielo? Tra pochi minuti sorgerà il sole e allora morirai!". Sospirarono profondamente e si reimmersero fra le onde.

    La sirenetta sollevò il tappeto di porpora della tenda e vide la bella sposina dormire con il capo sul petto del principe, si chinò verso di lui e gli baciò la bella fronte, guardò verso il cielo dove la luce dell'alba si faceva sempre più intensa, guardò il coltello affilato e poi fissò di nuovo gli occhi del principe, che in sogno pronunciò il nome della sua sposa; solo lei era nei suoi pensieri, e il coltello tremò nella mano della sirena. Allora lo gettò lontano tra le onde, che brillarono rosse dove era caduto: sembrava che gocce di sangue zampillassero dall'acqua. Ancora una volta guardò con lo sguardo spento verso il principe; poi si gettò in mare e sentì che il suo corpo si scioglieva in schiuma.

    Il sole sorse alto sul mare, i raggi battevano caldi sulla schiuma gelida e la sirenetta non sentì la morte, vedeva il bel sole e su di lei volavano centinaia di bellissime creature trasparenti; attraverso le loro immagini poteva vedere la bianca vela della nave e le rosse nuvole del cielo; la loro voce era una melodia così spirituale che nessun orecchio umano poteva sentirla; così come nessun occhio umano poteva vederle. Volavano nell'aria senza ali, grazie alla loro stessa leggerezza. La sirenetta vide che aveva un corpo come il loro, e che si sollevava sempre più dalla schiuma.

    "Dove sto andando?" chiese la sirenetta, e la sua voce risuonò come quella delle altre creature, così spirituale che nessuna musica terrena poteva riprodurla.

    "Dalle figlie dell'aria!" le risposero. "Le sirene non hanno un'anima immortale e non possono ottenerla se non conquistando l'amore di un uomo! La loro esistenza immortale dipende da una forza estranea. Anche le figlie dell'aria non hanno un'anima immortale, ma possono conquistarne una da sole, tramite le buone azioni. Noi andiamo verso i paesi caldi; dove l'aria calda e pestilenziale uccide gli uomini, noi portiamo il fresco. Spandiamo il profumo dei fiori nell'aria e portiamo ristoro e guarigione. Se per trecento anni interi continuiamo a fare tutto il bene che possiamo, otteniamo un'anima immortale e possiamo partecipare all'eterna felicità degli uomini. Tu, povera sirenetta, lo hai desiderato con tutto il cuore; anche tu, come noi, hai sofferto e sopportato, e sei arrivata al mondo delle creature dell'aria: ora puoi compiere delle buone azioni e conquistarti un'anima immortale fra trecento anni!".

    La sirenetta sollevò le braccia trasparenti verso il sole del Signore e per la prima volta sentì la lacrime agli occhi. Sulla nave era ripresa la vita e il rumore; vide che il principe e la sua bella sposa la cercavano, e guardarono tristemente verso la schiuma del mare, quasi sapessero che si era gettata tra le onde. Invisibile baciò la sposa sulla fronte, sorrise al principe e salì con le altre figlie dell'aria su una nuvola rosa che navigava nel cielo.

    "Fra trecento anni entreremo nel regno di Dio!" "Anche prima potremo arrivarci" sussurrò una di loro. "Senza farci vedere entriamo nelle case degli uomini, dove c'è qualche bambino; ogni volta che troviamo un bambino buono che rende felici i suoi genitori e merita il loro amore, il Signore ci abbrevia il periodo di prova. Il bambino non sa quando entriamo in casa, ma noi gli sorridiamo per la gioia, e così ci viene tolto un anno dei trecento che ci toccano; se invece troviamo un bambino cattivo e capriccioso, allora dobbiamo piangere di dolore e ogni lacrima aumenta di un giorno il nostro tempo di prova!".

     

     

     

  • IL PARADISO TERRESTRE
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    C'era una volta un figlio di re; nessuno aveva tanti bei libri come lui: poteva leggere e guardare raffigurato in magnifiche illustrazioni tutto quello che era successo al mondo. Poteva avere notizie di ogni popolo e di ogni paese, ma dove si trovasse il paradiso terrestre non era scritto da nessuna parte; lui pensava soprattutto a questo.

    La nonna gli aveva raccontato, quando era ancora piccolo e doveva andare a scuola, che ogni fiore del paradiso terrestre era in realtà un buonissimo dolce, che ogni stame era pieno del vino migliore, che su un fiore c'era la storia, su un altro la geografia o le tabelline, e che bastava mangiarli per imparare le lezioni; quanto più se ne mangiavano, tanto più si imparava di storia, geografia e tabelline.

    A quel tempo lui ci credeva, ma ora che era cresciuto, aveva imparato di più ed era diventato più sveglio, aveva capito che doveva esserci un altro genere di bellezza nel paradiso terrestre.

    "Oh! Perché Eva violò la legge dell'albero della conoscenza? Perché Adamo mangiò il frutto proibito? Se ci fossi stato io, non sarebbe accaduto! Mai sarebbe arrivato il peccato sulla Terra!" Così diceva allora e così diceva ancora adesso, che aveva diciassette anni. Il paradiso terrestre occupava tutti i suo pensieri!

    Un giorno andò nel bosco, ci andò da solo, perché questo era il suo divertimento preferito.

    Venne la sera e le nuvole si ingrossarono, cominciò a piovere forte come se il cielo fosse un'unica cataratta da cui cadeva tutta l'acqua; era così buio che sembrava di essere di notte dentro il pozzo più profondo. Il principe cominciò ora a scivolare sull'erba bagnata, ora a cadere sulle pietre nude che sporgevano dal terreno. Tutto gocciolava d'acqua, e il principe stesso si ritrovò bagnato fradicio.

    Si dovette inerpicare su grossi blocchi di pietra coperti di alto muschio che gocciolava tutto. Stava per svenire, quando sentì uno strano sibilo e vide davanti a sé una grande grotta illuminata. Nel mezzo ardeva un fuoco così grande che ci si poteva arrostire un cervo, ed era appunto quello che stava accadendo. Un bellissimo cervo dalle lunghe corna era stato posto sullo spiedo e girava lentamente, appoggiato a due tronchi d'abete abbattuti.

    Una vecchia grossa e robusta, che sembrava un uomo travestito, era seduta accanto al fuoco e ci gettava di continuo pezzi di legna.

    "Avvicinati!" disse, "siediti accanto al fuoco così i tuoi abiti asciugheranno".

    "C'è un'aria terribile, qui" esclamò il principe sedendosi a terra.

    "Sarà anche peggio quando torneranno a casa i miei figli!" rispose la donna. "Ti trovi nella grotta dei venti, i miei figli sono i quattro venti del mondo. Lo capisci?" "Dove sono i tuoi figli?" domandò il principe.

    "Non è facile rispondere a una domanda sciocca! I miei figli sono in libertà, giocano a palla con le nuvole su nel grande salone" e indicò verso l'alto.

    "Ah sì?" esclamò il principe. "Però voi parlate duramente e non siete dolce come le altre donne che di solito mi stanno intorno!" "Certo! Quelle non avranno altro da fare! bisogna che io sia dura se voglio che i miei figli siano disciplinati. E ci riesco anche se hanno la testa dura! Vedi quei quattro sacchi appesi alla parete? Di quelli hanno timore proprio come tu temevi la bacchetta dietro lo specchio.

    Io sono ancora capace di piegare i miei ragazzi, te lo assicuro, e di metterli nel sacco. Qui non si fanno complimenti! Restano lì dentro e non tornano a bighellonare, finché non credo che sia arrivato il momento giusto. Ma ecco che ne arriva uno." Era il vento del Nord, che entrò con un freddo incredibile; grossi chicchi di grandine rimbalzarono sul pavimento e fiocchi di neve volarono dovunque. Portava calzoni e una giacca di pelle d'orso, un cappello di pelle di foca gli copriva anche le orecchie; lunghi ghiaccioli gli pendevano dalla barba, e dal bavero della giacca caddero per terra chicchi di grandine.

    "Non andare subito vicino al fuoco!" lo avvisò il principe. "Ti possono venire i geloni alle mani e al viso!" "Geloni!" disse ridendo forte il vento del Nord. "Geloni! è proprio il mio divertimento preferito! E tu chi sei? Come mai sei qui nella grotta dei venti?" "E' mio ospite" disse la vecchia, "e se non ti soddisfa questa spiegazione puoi sempre andartene nel sacco! Mi conosci bene!" La frase fece il suo effetto, e il vento del Nord raccontò da dove veniva e dov'era stato per quasi un mese intero.

    "Vengo dal Polo!" disse. "Sono andato verso l'Isola degli Orsi con alcuni russi cacciatori di trichechi. Ho dormito sul timone mentre navigavano da Capo Nord. Quando ogni tanto mi svegliavo, le procellarie mi volavano tutt'intorno. E' proprio un uccello strano, si innalza con un rapido colpo d'ali, poi le mantiene completamente immobili eppure vola velocissimo! " "Non essere troppo prolisso!" esclamò la madre dei venti. "Sei poi arrivato all'Isola degli Orsi?" "Che bellezza! C’è un pavimento fantastico per ballare, è tutto liscio come un piatto. Laggiù c'era neve mezza gelata e muschio, pietre aguzze e ossa di tricheco e di orso polare, sembravano proprio braccia e gambe di antichi guerrieri ricoperti di muffa verde, come se il sole non li avesse mai raggiunti. Disperdendo la nebbia con il mio soffio scoprii un rifugio, una capanna di rottami ricoperta di pelle di tricheco, con la parte della carne tutta rossa e verde rivolta verso l'esterno. Sul tetto era seduto un orso bianco vivo che brontolava.

    Poi andai alla spiaggia a vedere i nidi di uccello; trovai dei piccoli ancora senza piume, che gridavano con il becco spalancato, io soffiai nelle loro mille gole e così impararono a tenere la bocca chiusa. Più oltre c'erano trichechi che si rotolavano come budella vive o come enormi lombrichi con la testa di maiale e denti lunghissimi!" "Sai raccontare molto bene, figlio mio!" disse la madre. "Mi viene l'acquolina in bocca ad ascoltarti." Poi ci fu la caccia. L'arpione fu infilato nel petto del tricheco, e uno spruzzo di sangue fumante si sparse sul ghiaccio come fosse una fontana. Allora pensai di intervenire. Soffiai e intrappolai le imbarcazioni con i miei velieri, gli altissimi iceberg. Accidenti come fischiarono i cacciatori! come urlarono!

    Ma io fischiai ancora più forte. Dovettero trascinare sul ghiaccio i corpi dei trichechi morti, le casse e le sartie! Io gli scrollai intorno neve e li obbligai a dirigersi verso sud trascinando le loro prede, sempre con le navi intrappolate tra il ghiaccio; così assaggeranno l'acqua salata del Sud! E non torneranno mai piu all'lsola degli Orsi!" "Allora hai fatto del male!" esclamò la madre dei venti.

    "Il bene che ho fatto lo racconteranno gli altri!" rispose il vento.

    "Ma ecco che sta arrivando mio fratello di Ponente, è quello con cui mi trovo meglio, sa di mare e porta con sé una bella frescura." "E' il piccolo Zefiro?" domandò il principe.

    "Sì, è Zefiro" rispose la vecchia, "ma non è più così piccolo. Molto tempo fa era proprio un bel ragazzino, ma ora sono passati quei tempi!" Aveva un aspetto selvaggio, si proteggeva le testa con un cercine e in mano aveva un bastone di mogano preso nelle foreste americane. Non ci si poteva aspettare di meno!

    "Da dove vieni?" gli chiese sua madre.

    "Dalle foreste vergini!" rispose. "Dove le liane piene di spine si avvolgono tra gli alberi, dove il serpente d'acqua è nascosto tra l'erba e dove gli uomini sono di troppo!" "Che cos'hai fatto lì?" "Ho visto un fiume profondo che si gettava da una roccia e si trasformava in pulviscolo risalendo verso le nuvole, per reggere l'arcobaleno. In quel fiume ho visto nuotare il bufalo selvaggio e ho visto la corrente che lo travolgeva: inseguiva uno stormo di anatre selvatiche, ma queste si alzarono in volo quando l'acqua precipitò, il bufalo invece cadde giù: è stato proprio bello! Poi mi misi a soffiare una tale tempesta che gli alberi secolari si sradicarono e si spezzarono." "Non hai fatto altro?" chiese la vecchia.

    "Ho fatto le capriole nelle savane, ho accarezzato i cavalli selvaggi e ho scosso le palme da cocco! Certo: ne ho di storie da raccontare!

    Ma non si deve dire tutto quello che si sa. Lo sai anche tu, vecchia mia" e intanto baciò sua madre che quasi la fece cadere a terra; era proprio un ragazzo selvaggio.

    Poi giunse il vento del Sud, col turbante e un mantello da beduino che svolazzava.

    "Fa veramente freddo qua dentro!" disse, e aggiunse legna al fuoco.

    "Si capisce subito che il vento del Nord è già arrivato." "Adesso fa talmente caldo che si potrebbe arrostire un orso bianco!" ribatté il vento del Nord.

    "Tu sei un orso bianco!" replicò il vento del Sud.

    "Volete finire nel sacco?" chiese la vecchia. "Siediti su quella pietra e racconta dove sei stato." "In Africa, mamma" rispose. "Sono stato con gli ottentotti a cacciare il leone, nel paese dei cafri. Che erba cresce su quelle pianure!

    verde come le olive. L'antilope ha danzato e lo struzzo ha gareggiato con me, ma io sono stato più veloce. Mi sono spinto fino al deserto giallo di sabbia: sembra il fondo del mare. Ho incontrato una carovana: stavano ammazzando il loro ultimo cammello per avere un po' d'acqua da bere, ma ce n'era molto poca. Il sole ardeva in alto e la sabbia bruciava in basso. Il deserto era senza confini. Allora mi sono rotolato tra quella sabbia sottile e leggera, sollevandola. Avresti dovuto vedere come si piegava il dromedario e come il commerciante si tirava il caffettano sul capo! Si è gettato a terra di fronte a me come se fossi stato Allah, il suo Dio. Ora sono seppelliti là, c'è una piramide di sabbia sopra di loro; quando un giorno la soffierò via, il sole imbiancherà le loro ossa e i viandanti vedranno che lì c'erano già stati altri uomini prima di loro. Altrimenti non ci si potrebbe credere, nel deserto!" "Allora hai fatto soltanto del male!" disse la madre. "Fila nel sacco!" e prima che lui se ne accorgesse, era già stato afferrato alla vita e messo nel sacco. Questo rotolò sul pavimento, ma la vecchia ci si sedette sopra e così si dovette calmare.

    "Avete proprio dei bravi ragazzi!" disse il principe.

    "Insomma!" rispose la vecchia, "ma io so farli rigare dritto! Ecco che arriva il quarto!" Era il vento dell'Est, abbigliato come un cinese.

    "Ah, vieni da quella parte!" disse la madre. "Credevo che fossi stato nel paradiso terrestre." "No, ci vado domani!" rispose il vento dell'Est. "Domani scadono cento anni dall'ultima volta. Adesso vengo dalla Cina, dove ho ballato intorno alla torre di porcellana, affinché tutte le campane suonassero. Per la strada i funzionari venivano colpiti sulla schiena con canne di bambù; erano tutti funzionari dal primo al nono grado e gridavano: "Molte grazie, mio paterno benefattore!", ma non pensavano certo niente del genere, io intanto facevo suonare le campane e cantavo tsing, tsang, tsu!".

    "Sei troppo vivace!" disse la vecchia. "Per fortuna domani andrai al paradiso terrestre, e ti farà bene all'educazione! Bevi molto alla fonte della saggezza e portane una bottiglietta pure per me." "Lo farò!" rispose il vento dell'Est. "Ma perché hai chiuso mio fratello del Sud dentro al sacco? Liberalo! Mi deve raccontare dell'araba fenice. La principessa del paradiso terrestre vuole sempre sentir parlare di quell'uccello, quando le vado a farle visita ogni cento anni. Apri il sacco! Sei la mia cara mamma e ti regalerò due tasche piene di tè, verde e fresco, raccolto proprio sul posto!" "Aprirò il sacco solo per il tè e perché sei il mio prediletto!" Così fece e il vento del Sud tornò fuori, ma era molto abbattuto perché quel principe straniero aveva assistito a tutto.

    "Eccoti qui una foglia di palma per la principessa!" disse. "Me l'ha data la vecchia araba fenice, la sola che c'era al mondo; col becco ci ha inciso tutta la storia della sua vita, dei cento anni che è vissuta. Così lei potrà leggersela da sola. Io stesso ho visto l'araba fenice appiccare il fuoco al suo nido, posarcisi sopra e bruciare, come una donna indiana. Come crepitavano i rami secchi, che fumo e che profumo! Alla fine ci fu una grande fiammata e la vecchia araba fenice diventò cenere, ma il suo uovo brillò incandescente sul fuoco, poi si aprì con un gran fragore e ne uscì il figlio, che ora è re di tutti gli uccelli: è l'unica araba fenice che esiste al mondo. Lui stesso ha fatto un buco nella foglia che ti ho dato, è un piccolo saluto per la principessa." "Adesso però dobbiamo mangiare qualcosa!" intervenne la madre dei venti, e così tutti sedettero a mangiare il cervo arrostito; il principe si mise accanto al vento dell'Est e subito diventarono buoni amici.

    "Raccontami un po'" gli disse, "che principessa è quella di cui parlate tanto, e dove si trova il paradiso terrestre?".

    "Oh!" disse il vento dell'Est, "se ci vuoi andare puoi venire con me domani. Ma devo avvertirti che non c'è più stato nessun altro uomo dopo Adamo e Eva. E quelli li conoscerai di certo dalla Bibbia!" "Certo!" rispose il principe. "Quando vennero cacciati, il paradiso terrestre precipitò sulla terra, ma conservò il sole caldo, l'aria mite e tutte le sue meraviglie. Ci abita la regina delle fate, nell'isola della beatitudine dove la morte non arriva mai; è proprio bello starci! Domani siediti sulla mia schiena e io ti porterò con me:

    credo che si possa fare. Ma adesso smettila di parlare, perché voglio dormire".

    E così tutti dormirono.

    Nelle prime ore del mattino il principe si svegliò e rimase non poco stupito vedendo che era già in alto sopra le nuvole. Era seduto sulla schiena del vento, che lo teneva ben saldo; erano così in alto che i boschi, i fiumi e i laghi apparivano come su una carta geografica illuminata.

    "Buon giorno!" disse il vento dell'Est. "Potevi anche dormire un po' di più, non c'è granché da vedere nel paese che c'è sotto di noi. A meno che tu abbia voglia di contare le chiese: sembrano macchie di gesso sulla tavola verde". Quello che lui chiamava tavola verde erano in realtà prati e campi.

    "E' stato scortese che io non abbia salutato tua madre e i tuoi fratelli!" esclamò il principe.

    "Quando si dorme non si ha colpa" rispose il vento dell'Est, e volò in fretta più di prima. Lo si poteva sentire dalle cime dei boschi:

    quando si sfioravano, i rami e le foglie frusciavano; e lo si poteva capire dal mare e dai laghi: dove passavano loro, le onde si ingrossavano e le grosse navi si piegavano verso l'acqua, come cigni che nuotino.

    Verso sera, quando fece buio, fu divertente guardare le grandi città; le luci brillavano un po' qua e un po' là, come quando si brucia un pezzo di carta e si vedono tante piccole scintille di fuoco scomparire, simili ai bambini che escono da scuola. Il principe batté le mani, ma il vento dell'Est gli chiese di non farlo, e di tenersi ben saldo, perché altrimenti avrebbe potuto cadere e rimanere appeso alle guglie di qualche chiesa.

    L'aquila vola leggera nel bosco scuro, ma il vento dell'Est volava ancora più leggero. Il cosacco cavalca veloce le pianure sul suo cavallino, ma il principe cavalcava in modo ben diverso.

    "Ora puoi vedere l'Himalaja!" esclamò il vento dell'Est. "la montagna più alta dell'Asia; tra poco saremo al paradiso terrestre".

    Si diressero verso sud e subito sentirono un profumo di aromi e di fiori. I fichi e i melograni crescevano liberamente e l'uva aveva grappoli rossi e blu. I due scesero e si sdraiarono sull'erba tenera, dove i fiori si inchinavano al vento come se avessero voluto dire:

    "Bentornato!".

    "Siamo nel paradiso terrestre?" domandò il principe.

    "Certo che no!" rispose il vento dell'Est, "ma ci saremo presto. Vedi quella parete di roccia e quella grossa grotta, dove i tralci di vite pendono come grandi tende verdi? E' là in mezzo che dobbiamo passare.

    Avvolgiti bene nel mantello, qui il sole è caldo, ma tra un passo ci sarà un freddo polare. L'uccello che passa davanti alla grotta ha un'ala nella calda estate e l'altra nel freddo inverno".

    "E' quella la strada per il paradiso terrestre?" chiese il principe.

    Entrarono nella grotta, uh, che freddo faceva! Ma non durò a lungo. Il vento dell'Est distese le ali che brillarono come il fuoco più lucente; che grotta! Grossi massi di pietra, da cui gocciolava l'acqua, pendevano sopra di loro nelle forme più strane; ogni tanto era così stretto che erano costretti a camminare a quattro zampe, altre volte così alto e ampio che sembrava d'essere all'aria aperta.

    Pareva di essere in una cappella funebre, con canne d'organo mute e stendardi pietrificati!

    "Passiamo per la strada della morte per arrivare al paradiso terrestre?" domandò il principe, ma il vento non rispose, e fece segno davanti a loro: una meravigliosa luce azzurra veniva loro incontro, i massi di pietra si trasformavano sempre più in nebbia, e alla fine diventarono trasparenti come una nuvola bianca alla luce della luna.

    Ora si trovavano immersi in un'aria mite e trasparente, fresca come sulle montagne e profumata come vicino alle rose della valle.

    Scorreva un fiume, trasparente come l'aria stessa, e i pesci erano d'oro e d'argento; anguille color porpora, che a ogni guizzo sprizzavano scintille azzurre, giocavano sott'acqua, le larghe foglie della ninfea avevano i colori dell'arcobaleno, il fiore era una fiamma rosso-gialla ardente che l'acqua alimentava, come l'olio alimenta la lampada! Un ponte di marmo ben saldo, ma intagliato così finemente e con tale arte da sembrare fatto di pizzi e perle, portava all'isola della beatitudine, dove fioriva il paradiso terrestre.

    Il vento prese in braccio il principe e lo portò dall'altra parte. Lì i fiori e le foglie cantavano le più deliziose canzoni della sua infanzia, ma con una dolcezza tale, che nessuna voce umana può avere.

    Erano palme e gigantesche piante acquatiche quelle che crescevano?

    Alberi così grandi e rigogliosi il principe non ne aveva mai visti!

    Stranissime piante rampicanti pendevano in lunghe corone, come quelle che si trovano raffigurate a vari colori e in oro sul margine di vecchi libri di santi, o intrecciate con le lettere iniziali. Era uno strano insieme di uccelli, fiori e ghirigori. Nell'erba folta c'era un gruppo di pavoni con le code tese che luccicavano. Davvero! Quando il principe li toccò, capì che non erano animali, ma piante; enormi piante di farfaraccio che brillavano come fossero state bellissime code di pavoni. Il leone e la tigre balzarono, come agili gatti, tra i verdi cespugli che odoravano come i fiori dell'olivo; sia il leone che la tigre erano mansueti; la colomba selvatica brillava come la perla più bella e frullava le ali sulla criniera del leone; l'antilope, che di solito è molto timida, faceva cenno col capo, come avesse voluto giocare anche lei.

    Poi arrivò la fata del paradiso terrestre; i suoi abiti splendevano come il sole e il suo viso era dolce, come quello di una madre che è felice per il suo bambino. Era così giovane e bella, ed era accompagnata da fanciulle bellissime, ognuna con una stella che splendeva tra i capelli.

    Il vento dell'Est le diede la foglia scritta dall'araba fenice, e i suoi occhi brillarono di gioia. Prese per mano il principe e lo portò nel suo castello, dove le pareti avevano i colori dei più bei petali di tulipani messi contro sole, e il soffitto stesso era un enorme fiore luminoso, e più lo si guardava, più il calice sembrava profondo.

    Il principe andò alla finestra e guardò fuori; vide così l'albero della conoscenza, con il serpente, e lì accanto, Adamo ed Eva. "Non sono stati cacciati?" chiese, e la fata sorrise e gli spiegò che il tempo aveva impresso a fuoco, su ogni finestra, un'immagine ma non come siamo abituati a vedere noi; in quelle c'era vita, le foglie degli alberi si muovevano e gli uomini andavano e venivano, come in uno specchio. Egli guardò allora in un'altra finestra, e vide il sogno di Giacobbe, con la scala che conduceva fino al cielo e gli angeli che volavano su e giù con le loro grandi ali. Sì, tutto quanto era avvenuto nel mondo viveva là e si muoveva nei vetri delle finestre; solo il tempo aveva potuto imprimervi immagini così splendide!

    La fata sorrise e lo condusse in un salone, ampio e molto alto, le cui pareti sembravano vetrate trasparenti, istoriate con volti uno più bello dell'altro. Lì c'erano milioni di beati, che sorridevano e cantavano, e tutto andava a formare un'unica melodia; quelli più in alto erano così lontani che apparivano più piccoli del più piccolo bocciuolo di rosa che si può disegnare come un punto sulla carta. In mezzo al salone c'era un grande albero con rami carichi di foglie; mele dorate, grandi e piccole, comparivano come arance tra le foglie verdi. Questo era l'albero della conoscenza, di cui Adamo ed Eva avevano mangiato il frutto. Da ogni foglia pendeva una lucente goccia rossa di rugiada: era come se l'albero versasse lacrime di sangue.

    "Saliamo sulla barca!" disse la fata, "ci rinfrescheremo, abbandonati alle onde! La barca dondola, ma non si sposta, eppure tutti i paesi del mondo sfileranno davanti ai nostri occhi". Era proprio strano vedere come tutta la costa si muoveva. Giunsero le alte Alpi coperte di neve, con grosse nuvole e neri abeti, il corno risuonava malinconico e il pastore cantava allegramente lo jodel verso la valle.

    Poi vide i banani piegare i loro lunghi rami carichi verso la barca; cigni neri come il carbone nuotavano e sulla riva si trovavano gli animali e i fiori più strani. Era la Nuova Zelanda, la quinta parte del mondo, che passava davanti a loro, mostrando le sue montagne azzurre. Si udiva il canto della principessa e si vedevano le danze dei selvaggi al suono del tamburo e delle trombe di osso. Le piramidi dell'Egitto, che arrivavano fino alle nuvole, passarono di lì, e con loro colonne e sfingi crollate, semisommerse dalla sabbia. L'aurora boreale brillava sui vulcani del Nord, era un fuoco d'artificio impossibile da imitare. Il principe era cosi felice, e vide cento volte più cose di quelle che vi abbiamo raccontato.

    "Posso restare qui per sempre?" chiese.

    "Dipende da te! Se non ti lasci tentare, come Adamo, a fare quello che è vietato, potrai restare qui".

    "Non toccherò le mele dell'albero della conoscenza" disse il principe.

    "Qui ci sono migliaia di altri frutti belli come quelle!".

    "Guarda in te stesso: se non sei abbastanza deciso, riparti con il vento dell'Est che ti ha portato fin qui; lui ora riparte e tornerà soltanto tra cento anni; cento anni che passeranno per te in questo luogo come fossero solamente cento ore, ma è comunque un periodo lungo per la tentazione e il peccato. Ogni sera, quando me ne andrò, ti dirò: "Seguimi!", e ti farò cenno con la mano, ma tu non dovrai seguirmi. Non venire con me, altrimenti a ogni passo il tuo desiderio diventerà sempre più grande; arriverai nella sala dove cresce l'albero della conoscenza; io dormo sotto i suoi rami pendenti pieni di profumo. Tu ti chinerai su di me e io ti sorriderò, ma se tu mi bacerai sulla bocca, il paradiso terrestre sprofonderà nella terra e tu lo perderai. Il vento tagliente del deserto ti avvolgerà, la fredda pioggia ti bagnerà i capelli. Dolore e tribolazione saranno tutto il tuo avere!" "Resto qui! " esclamò il principe, e il vento dell'Est lo baciò in fronte dicendo: "Sii forte, e ci rivedremo tra cento anni! Addio, addio!" e allargò le grandi ali, e queste luccicarono come il grano durante il raccolto, o come l'aurora boreale nel freddo inverno.

    "Addio, addio!" rieccheggiò tra i fiori e gli alberi. Le cicogne e i pellicani volarono in fila, come nastri svolazzanti, e lo accompagnarono fino al confine del paradiso terrestre.

    "Ora avranno inizio le danze!" disse la fata, "alla fine, quando ballerò con te, vedrai che al calar del sole ti farò cenno e ti dirò:

    "Seguimi!", ma tu non farlo. Per cento anni ogni sera dovrò ripeterti questo invito, e ogni volta che supererai la prova diventerai più forte, e alla fine non ti costerà nulla. Questa sera sarà la prima volta, ti ho avvisato!" La fata lo portò in un salone colmo di bianchi gigli trasparenti, i cui gialli pistilli erano arpe dorate che emettevano i suoni degli strumenti a corda e dei flauti. Fanciulle bellissime, agili e leggere, vestite di veli fluttuanti che lasciavano vedere quei corpi deliziosi, si libravano nella danza e cantavano che la vita era bella, e che non volevano morire, e che il paradiso terrestre sarebbe sempre rimasto in fiore.

    Il sole tramontò e il cielo divenne tutto d'oro, i gigli brillarono come le rose più belle e il principe bevve il vino spumeggiante, che le fanciulle gli porgevano: sentì un senso di beatitudine, come non aveva mai provato prima. Vide che il fondo della sala si apriva e l'albero della conoscenza appariva in tutto il suo splendore, abbagliando la vista del principe; dall'albero veniva un canto dolce e meraviglioso, che aveva la voce di sua madre, e gli parve che cantasse: "Bambino mio! mio amato figlio!".

    In quel momento la fata gli fece cenno e gli gridò amabilmente:

    "Seguimi! Seguimi!". Si precipitò da lei, dimenticando la sua promessa; la dimenticò già la prima sera, quando la fata gli sorrise e gli fece cenno. Il profumo, quel profuno intenso che lo circondava, si fece ancora più forte, le arpe suonavano in modo ancor più delizioso e sembrò che milioni di volti sorridessero nel salone dove l'albero cresceva, si dondolava e cantava: "Bisogna conoscere tutto! L'uomo è il signore della Terra!". E non erano più lacrime di sangue, quelle che cadevano dalle sue foglie, erano per lui rosse stelle luminose.

    "Seguimi! Seguimi!" risuonava la tremula melodia, e a ogni passo le guance del principe si infuocavano sempre più e il sangue circolava più veloce. "Devo andare!" disse, "non è peccato, non può esserlo!

    Perché non seguire la bellezza e la gioia ? Voglio vederla dormire.

    Nulla è perduto, se non la bacio, e io non la bacerò, sono forte, ho una volontà risoluta." La fata gettò il suo abito splendente, e piegò verso di sé i rami che subito la nascosero.

    "Non ho ancora peccato!" esclamò il principe, "e neppure lo farò!" e intanto scostò i rami: lei dormiva già, bellissima, come solo una fata del paradiso terrestre può esserlo, e sorrideva nel sogno; lui si chinò verso di lei e vide che le lacrime le tremavano sulle ciglia.

    "Piangi per me?" sussurrò, "non piangere, bella creatura! Solo adesso comprendo la felicità del paradiso terrestre, mi scorre nel sangue, nei pensieri, sento nel mio corpo terreno la forza dei cherubini e la vita eterna. Che la notte eterna mi prenda! Voglio vivere ancora un attimo di questa ricchezza ! " e baciò le lacrime che erano su quegli occhi, e la sua bocca toccò quella di lei...

    Risuonò un fragore di tuono, profondo e terribile, come mai nessuno aveva udito, e tutto precipitò: la bella fata, il paradiso fiorito sprofondarono, sprofondarono tanto che il principe li vide sparire nella nera notte; poi brillarono lontanissimo, come una piccolissima stella. Il freddo della morte gli trapassò il corpo, egli chiuse gli occhi e giacque a lungo, come morto.

    La fredda pioggia gli cadde sul viso, il vento tagliente soffiò su di lui, allora riprese conoscenza. "Che cosa ho fatto!" sospirò, "ho peccato, come Adamo! Ho peccato, così il paradiso terrestre è sprofondato!" Aprì gli occhi, ancora vedeva quella lontanissima stella, che splendeva come il paradiso perduto; era la stella del mattino nel cielo.

    Si alzò e si trovò nel grande bosco, vicino alla grotta dei venti, e la madre dei venti era seduta accanto a lui: arrabbiata, agitava le braccia in aria.

    "Già la prima sera!" disse, "lo sapevo! Se tu fossi mio figlio, ti metterei nel sacco!" "Finirà proprio lì!" disse la morte, che era un vecchio robusto con una falce in mano e grandi ali nere. "Lo metterò in una bara, ma non subito; gli farò un segno e lo lascerò vagare per il mondo un po' di tempo, per espiare il suo peccato e per diventare migliore. Quando meno se lo aspetterà, lo metterò nella bara nera, me lo poserò sulla testa e volerò verso la stella; anche là sopra fiorisce il paradiso terrestre, e se lui sarà buono e pio, potrà entrarci, se invece i suoi pensieri saranno cattivi e il suo cuore ancora colmo di peccato, sprofonderà con la bara ancora più in basso del paradiso terrestre, e solo ogni cento anni andrò a prenderlo per vedere se dovrà sprofondare di più o se potrà andare sulla stella, su quella stella che brilla lassù!".

     

     

     

  • L'USIGNOLO
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    In Cina, lo sai bene, l'imperatore è un cinese e anche tutti quelli che lo circondano sono cinesi. La storia è di parecchi anni fa, ma proprio per questo vale la pena di ascoltarla, prima che venga dimenticata. Il castello dell'imperatore era il più bello del mondo, tutto fatto di porcellana finissima, molto costosa ma talmente fragile e delicata, che, toccandola, occorreva fare molta attenzione. Nel giardino si trovavano i fiori più meravigliosi, e a quelli più belli erano state attaccate campanelline d'argento che suonavano cosicché nessuno passasse di lì senza notare quei fiori. Sì, tutto era molto ben progettato nel giardino dell'imperatore che si estendeva talmente che neppure il giardiniere sapeva dove finisse. Se si continuava a camminare, si giungeva in un bosco splendido con alberi altissimi e laghetti profondi. Il bosco finiva vicino al mare, azzurro e profondo; grandi navi potevano navigare fin sotto i rami del bosco e tra questi viveva un usignolo, e cantava in modo così meraviglioso che persino il povero pescatore, che aveva tanto da faticare, udendolo cantare si fermava ad ascoltarlo, quando di notte era fuori a tendere le reti da pesca. "Oh, Signore, che bello!" diceva, poi doveva stare attento al suo lavoro e dimenticava l'uccello. Ma la notte successiva, quando questo ancora cantava, il pescatore che usciva con la barca, esclamava: "Oh, Signore, che bello !".

    Nella città dell'imperatore arrivavano stranieri da ogni parte del mondo, per ammirare la città stessa, il castello e il giardino; quando però udivano l'usignolo, tutti dicevano: "Questa è la più grande meraviglia!".

    I viaggiatori poi, una volta tornati a casa, raccontavano tutto, e le persone istruite scrissero molti libri sulla città, sul castello e sul giardino, ma non dimenticarono mai l'usignolo; anzi, l'usignolo veniva prima di tutto il resto, e quelli che sapevano scrivere poesie scrissero i versi più belli sull'usignolo del bosco, vicino al mare profondo.

    Quei libri fecero il giro del mondo e alcuni giunsero fino all'imperatore. Seduto sul trono d'oro, leggeva continuamente, facendo ogni momento cenni di approvazione col capo, perché gli piaceva ascoltare le splendide descrizioni della città, del castello e del giardino. "Ma l'usignolo è la cosa più bella" c'era scritto.

    "Che cosa?" esclamò l'imperatore. "L'usignolo? Non lo conosco affatto!

    Esiste un tale uccello nel mio regno, e per giunta nel mio giardino!

    Non l'ho mai saputo! E devo leggerlo per saperlo!" Così chiamò il suo luogotenente che era così distinto che, se qualcuno inferiore a lui osava rivolgergli la parola o domandargli qualcosa, non diceva altro che: "P...!", il che non vuol dire nulla.

    "Qui ci dovrebbe essere un uccello meraviglioso chiamato usignolo" spiegò l'imperatore. "Si dice che sia la massima meraviglia del mio grande regno. Come mai nessuno me ne ha parlato?" "Non l'ho mai sentito nominare prima d'ora" rispose il luogotenente, "non è mai stato introdotto a corte".

    "Voglio che venga qui stasera a cantare per me" concluse l'imperatore.

    "Tutto il mondo sa quello che possiedo e io non lo so!".

    "Non l'ho mai sentito nominare prima d'ora!" ripeté il luogotenente "farò in modo di trovarlo".

    Ma dove? Il luogotenente corse su e giù per le scale e attraversò saloni e corridoi, nessuno di quelli che incontrava aveva mai sentito parlare dell'usignolo, così il luogotenente tornò di corsa dall'imperatore e gli disse che doveva essere un'invenzione di chi aveva scritto i libri.

    "Sua Maestà Imperiale non deve credere a quello che si scrive! E' certamente un'invenzione fatta con quella che chiamano magia nera".

    "Ma quel libro dove l'ho letto" disse l'imperatore, "mi è stato mandato dal potente imperatore del Giappone, perciò non può essere falso. Voglio sentire quell'usignolo! Dev'essere qui stasera! Sarà ammesso nelle mie grazie! Se invece non viene, tutta la corte verrà picchiata sulla pancia dopo cena!" "T'sing-pe!" rispose il luogotenente e ricominciò a correre su e giù per le scale, e attraverso saloni e corridoi, e metà della corte correva assieme a lui, dato che non volevano essere picchiati sulla pancia. Si sentiva chiedere soltanto dello straordinario usignolo che tutto il mondo conosceva tranne quelli della corte.

    Alla fine trovarono una povera fanciulla in cucina che disse: "O Dio!

    L'usignolo: lo conosco, e come canta bene. Ogni sera ho il permesso di portare un po' di avanzi a casa, alla mia povera mamma malata che vive giù vicino alla spiaggia, e quando al ritorno, stanca, mi fermo a riposare nel bosco, sento cantare l'usignolo. Mi vengono le lacrime agli occhi, è come se la mia mamma mi baciasse!" "Povera sguattera" esclamò il luogotenente, "ti darò un posto fisso in cucina e ti permetterò di assistere al pranzo dell'imperatore se ci porterai dall'usignolo, dato che è stato convocato per stasera." Così tutti andarono verso il bosco, dove solitamente cantava l'usignolo; c'era mezza corte. Sul più bello una mucca si mise a muggire.

    "Oh!" dissero i gentiluomini di corte, "eccolo! C'è una forza straordinaria in una bestia così piccola, certo l'ho sentita prima!".

    "No! Sono le mucche che muggiscono" spiegò la piccola sguattera, "siamo ancora lontani".

    Allora le rane gracidarono nello stagno.

    "Bello!" disse il cappellano di corte cinese, "ora lo sento, sembrano tante piccole campane!".

    "No! Sono le rane" esclamò la fanciulla. "Sentite, sentite eccolo lì", e fece segno verso un piccolo uccello grigio tra i rami.

    "Possibile?" disse il luogotenente, "non me lo sarei mai immaginato così. Com'è modesto! Ha certamente perso i suoi colori nel vedersi intorno tanta gente distinta." "Piccolo usignolo!" gridò la fanciulla a voce alta, "il nostro clemente imperatore desidera che tu canti per lui!".

    "Volentieri!" rispose l'usignolo, e cantò che era un piacere ascoltarlo.

    "E' come se fossero campane di vetro!" commentò il luogotenente. "E guardate quella piccola gola, come si sforza! E' molto strano che non l'abbiamo mai sentito prima! Avrà sicuramente successo a corte".

    "Devo cantare ancora una volta per l'imperatore?" domandò l'usignolo, persuaso che l'imperatore fosse presente.

    "Mio eccellente usignolo!" disse il luogotenente, "ho il grande piacere di invitarla a una festa a corte, questa sera, dove lei incanterà la Nostra Altezza Imperiale con il suo affascinante canto!".

    "E' meglio in mezzo al verde!" rispose l'usignolo, ma li seguì ugualmente volentieri quando seppe che l'imperatore lo desiderava.

    Al castello avevano fatto grandi preparativi. Le pareti e i pavimenti, che erano di porcellana, brillavano, illuminati da migliaia di lampade d'oro; i più bei fiori, quelli che tintinnavano, erano stati messi lungo i corridoi; c'era un via vai continuo e una forte corrente d'aria, cosicché tutte le campanelline si misero a suonare e non fu più possibile capire niente.

    Nel mezzo del grande salone in cui stava l'imperatore era stato collocato un trespolo d'oro, su cui l'usignolo doveva posarsi; c'era tutta la corte, e la piccola sguattera aveva avuto il permesso di stare dietro alla porta, dato che era stata insignita del titolo di "sguattera imperiale".

    Tutti indossavano i loro abiti migliori e tutti guardarono quel piccolo uccello grigio che l'imperatore salutò con un cenno.

    L'usignolo cantò così deliziosamente che l'imperatore si commosse, le lacrime gli scivolarono lungo le guance, allora l'usignolo cantò ancora meglio e gli andò dritto al cuore. L'imperatore era così soddisfatto che diede ordine che l'usignolo portasse intorno al collo la sua pantofola d'oro. L'usignolo ringraziò ma disse che la sua ricompensa l'aveva già avuta.

    "Ho visto le lacrime negli occhi dell'imperatore, questo è il tesoro più prezioso per me. Le lacrime di un imperatore hanno una potenza straordinaria. Dio sa che sono già stato ricompensato!" E cantò ancora con la sua voce dolcissima.

    "E' la civetteria più amabile che io conosca!" dissero le dame di corte, e si misero dell'acqua in bocca per fare glug, quando qualcuno avesse rivolto loro la parola, così credevano di essere anch'esse degli usignoli. Pure i lacché e le cameriere cominciarono a essere soddisfatti, e questa non è cosa da poco, perché sono le persone che è più difficile soddisfare. Sì, l'usignolo portò davvero la gioia!

    Ora sarebbe rimasto a corte, in una gabbia tutta d'oro e con la possibilità di passeggiare due volte di giorno e una volta di notte.

    Gli furono messi a disposizione dodici servitori e tutti avevano un nastro di seta con cui lo tenevano stretto, dato che i nastri erano legati alla sua zampina. Non era davvero un divertimento fare quelle passeggiate!

    Tutta la città parlava di quel meraviglioso uccello, e quando due persone si incontravano uno non diceva altro che: "Usi" e l'altro, di rimando: "Gnolo!", e poi sospiravano comprendendosi reciprocamente; undici figli di droghieri ricevettero il nome di quell'uccello, ma non uno di essi ebbe il dono di cantare bene.

    Un giorno arrivò un grande pacco per l'imperatore, con scritto sopra:

    "Usignolo".

    "E' sicuramente un nuovo libro sul famoso uccello!" esclamò l'imperatore; ma non era un libro, era invece un piccolo oggetto chiuso in una scatola: un usignolo meccanico, che doveva somigliare a quello vivo, ma era completamente ricoperto di diamanti, rubini e zaffiri. Non appena lo si caricava, iniziava a cantare uno dei brani che anche quello vero cantava, e intanto agitava la coda e brillava d'oro e d'argento. Intorno al collo aveva un piccolo nastro su cui era scritto: "L'usignolo dell'imperatore del Giappone è misero in confronto a quello dell'imperatore della Cina".

    "Che bello!" dissero tutti, e quello che aveva portato quell'usignolo meccanico ebbe il titolo di Portatore imperiale di usignoli.

    "Ora devono cantare insieme! Chissà che duetto!" Cantarono insieme, ma non andò molto bene, perché l'usignolo vero cantava a modo suo, quello meccanico invece funzionava con dei cilindri. "Non è colpa sua!" spiegò il maestro di musica, "il tempo lo tiene bene e segue in tutto la mia scuola!". Così l'usignolo meccanico dovette cantare da solo. Riscosse lo stesso successo di quello vero, ma era molto più bello da guardare: brillava come i braccialetti e le spille.

    Cantò trentatré volte sempre lo stesso pezzo e non era per niente stanco; la gente lo avrebbe ascoltato volentieri ancora, ma l'imperatore pensò che ora avrebbe dovuto cantare un po' l'usignolo vero... ma dov'era andato a finire? Nessuno aveva notato che era volato dalla finestra aperta, verso il suo verde bosco.

    "Guarda un po'!" esclamò l'imperatore; e tutta la corte si lamentò e dichiarò che l'usignolo era un animale molto ingrato. "Ma abbiamo l'uccello migliore!" dissero, e così l'uccello meccanico dovette cantare ancora e per la trentaquattresima volta sentirono la stessa melodia, ma ancora non la conoscevano del tutto, perché era molto difficile il maestro di musica lodò immensamente l'uccello e assicurò che era migliore di quello vero, non solo per il suo abbigliamento e i bellissimi diamanti, ma anche internamente.

    "Perché, vedete, Signore e Signori, e prima di tutti Vostra Maestà Imperiale, con l'usignolo vero non si può mai prevedere quale sarà il suo canto; in questo uccello meccanico invece tutto è stabilito. Così è e non cambia! Ci si può rendere conto di come è fatto, lo si può aprire e si può capire in che modo sono collocati i cilindri, come funzionano e come si muovono, uno dopo l'altro." "E' proprio quello che penso anch'io!" esclamarono tutti, e il maestro di musica ottenne il permesso, la domenica successiva, di mostrare l'uccello al popolo. "Anche loro devono sentirlo cantare" disse l'imperatore, e così lo sentirono e si divertirono moltissimo, come si fossero ubriacati di tè, il che è una cosa tipicamente cinese. Tutti esclamarono: "Oh!" e alzarono in aria il dito indice, che chiamano "leccapentole", e approvarono col capo. Ma i poveri pescatori che avevano sentito l'usignolo vero, dissero: "Canta bene, e assomiglia all'altro, ma manca qualcosa, anche se non so che cosa!".

    Il vero usignolo venne bandito da tutto l'impero.

    L'uccello meccanico fu posto sopra un cuscino di seta accanto al letto dell'imperatore; tutti i regali che aveva avuto, oro e pietre preziose, gli furono messi intorno, e gli fu dato il titolo di "Cantore imperiale da comodino"; nel protocollo fu messo al primo posto a sinistra, perché l'imperatore considerava quel lato più nobile, perché è il lato del cuore: e pure il cuore di un imperatore infatti sta a sinistra. Il maestro di musica scrisse venticinque volumi sull'uccello meccanico, molto eruditi e lunghi e espressi con le parole cinesi più difficili, che tutti dissero di aver letto e capito, perché diversamente sarebbero sembrati sciocchi e sarebbero stati picchiati sulla pancia.

    Trascorse così un anno intero; l'imperatore, la corte e tutti gli altri cinesi conoscevano ogni più piccolo suono della canzone dell'uccello meccanico, e proprio per questo pensavano che fosse così bella: infatti potevano cantarla anche loro, insieme all'uccello, e così facevano. I ragazzi di strada cantavano: "Zi zi zi! glu glu glu!" e lo stesso cantava l'imperatore. Era proprio bello!

    Ma una sera, mentre l'uccello meccanico cantava meglio che poteva, e l'imperatore era a letto a ascoltarlo, si sentì svup!; nell'uccello qualcosa era saltato: trrrr! tutte le ruote girarono, e poi la musica si fermò.

    L'imperatore saltò fuori dal letto e chiamò il suo medico, ma a cosa poteva servire? Allora fece chiamare l'orologiaio che, dopo molti discorsi e visite, rimise in sesto in qualche modo l'uccello, ma disse che lo si doveva risparmiare il più possibile, perché aveva i congegni consunti e non si poteva metterne di nuovi senza correre il rischio di rovinare la musica. Fu un grande dolore! Si poteva far suonare l'uccello meccanico solo una volta l'anno, e con fatica, ma il maestro di musica tenne un discorso con parole difficili e disse che tutto era uguale a prima, e difatti tutto fu uguale a prima.

    Passarono cinque anni e tutto il paese ebbe un grande dispiacere perché in fondo tutti amavano il loro imperatore; e lui era malato e non sarebbe vissuto a lungo, si diceva; un nuovo imperatore era già stato scelto e il popolo si riuniva per la strada e domandava al luogotenente come stava il loro imperatore.

    "P!" diceva lui scuotendo la testa.

    L'imperatore stava pallido e gelido nel suo grande e meraviglioso letto. Tutta la corte credeva che fosse morto e tutti si affrettarono per salutare il nuovo imperatore; i servitori uscirono per parlare dell'avvenimento e le cameriere si erano trovate in compagnia per il caffè. In tutti i saloni e i corridoi erano stati messi a terra dei drappeggi, affinché non si sentisse camminare nessuno, e per questo motivo c'era silenzio, tanto silenzio. Ma l'imperatore non era ancora morto; rigido e pallido stava nel suo bel letto con le lunghe tende di velluto e i pesanti fiocchi dorati. In alto la finestra era aperta e la luna illuminava l'imperatore e l'uccello meccanico.

    Il povero imperatore non riusciva quasi a respirare, era come se avesse qualcosa sul petto; spalancò gli occhi e vide che la morte sedeva sul suo petto e s'era messa sul capo la sua corona d'oro. In una mano teneva la spada d'oro e nell'altra una splendida insegna; tutt'intorno, dalle pieghe delle grandi tende di velluto del letto, comparivano strane teste, alcune orribili, altre molto dolci: erano tutte le buone e cattive azioni dell'imperatore, che lo guardavano, ora che la morte poggiava sul suo cuore.

    "Ricordi?" sussurrarono una dopo l'altra. "Ricordi?" e gli raccontarono tante e tante cose che il sudore gli colava dalla fronte.

    "Non l'ho mai saputo!" diceva l'imperatore. "Musica, musica, il grande tamburo cinese!" strillava, " per non sentire quello che dicono!" Ma loro insistevano e la morte faceva segno di sì con la testa a tutto quello che veniva detto.

    "Musica! Musica!" gridò l'imperatore. "Tu, piccolo uccello d'oro canta, forza, canta! Ti ho dato oro e oggetti preziosi, ti ho messo personalmente la mia pantofola d'oro al collo, canta, dunque, canta!" Ma l'uccello taceva, non c'era nessuno che lo caricasse e perciò non poteva cantare. La morte invece continuò a guardare l'imperatore con le sue enormi orbite cave, e stava in silenzio, in un silenzio spaventoso.

    In quel momento si sentì vicino alla finestra un canto mirabile; era il piccolo usignolo vivo che stava seduto sul ramo lì fuori; aveva saputo delle sofferenze dell'imperatore ed era accorso per infondergli col suo canto consolazione e speranza. Mentre lui cantava, quelle immagini diventavano sempre più fioche, il sangue si mise a scorrere più forte nel debole corpo dell'imperatore, e la stessa morte si mise ad ascoltare e disse: "Continua, piccolo usignolo, continua!".

    "Solo se mi darai la bella spada d'oro, se mi darai quella ricca insegna, se mi darai la corona dell'imperatore!" E la morte gli diede ogni cimelio in cambio di una canzone, e l'usignolo continuò a cantare, e cantò del quieto cimitero dove crescevano le rose bianche, dove l'albero di sambuco profumava e dove la fresca erbetta veniva annaffiata dalle lacrime dei sopravvissuti; allora la morte provò nostalgia per il suo giardino e volò via, come una fredda nebbia bianca, fuori dalla finestra.

    "Grazie, grazie!" disse l'imperatore. "Piccolo uccello celeste, ti riconosco! Ti avevo bandito dal mio regno e malgrado ciò, col tuo canto hai allontanato le cattive visioni dal mio letto, e hai scacciato la morte dal mio cuore. Come potrò ricompensarti?".

    "Mi hai già ricompensato!" rispose l'usignolo. "Mi hai dato le tue lacrime la prima volta che ho cantato per te, non lo dimenticherò mai!

    Questi sono i gioielli che fanno bene al cuore di chi canta! Ma ora dormi e torna a essere forte e sano: io canterò per te".

    Cantò di nuovo, e l'imperatore cadde in un dolce sonno, in un sonno tranquillo e ristoratore.

    Il sole entrava dalla finestra quando lui si destò, guarito e pieno di forza; nessuno dei suoi servitori era ancora tornato perché pensavano che fosse morto, ma l'usignolo era ancora lì a cantare.

    "Dovrai restare con me per sempre!" disse l'imperatore. "Canterai solo quando ne avrai voglia, e io farò in mille pezzi l'uccello meccanico." "Non farlo!" gridò l'usignolo. "Ha fatto tutto il bene che poteva.

    Conservalo come prima. Io non posso vivere al castello ma consentimi di venire quando ne ho voglia, allora ogni sera mi poserò su quel ramo accanto alla finestra e canterò per te perché tu possa essere felice e riflettere un po'. Ti canterò delle persone felici e di quelle che soffrono. Ti canterò del bene e del male che ti sta intorno e che ti viene tenuto nascosto. L'uccellino che canta vola ovunque, dal povero pescatore alla casa del contadino; da tutti quelli che sono distanti da te e dalla tua corte. Io amo il tuo cuore più della tua corona, anche se la corona ha qualcosa di sacro intorno a sé. Verrò a cantare per te! Ma mi devi fare una promessa".

    "Qualsiasi cosa!" rispose l'imperatore, ritto negli abiti imperiali che aveva indossato da solo, la pesante spada d'oro sul cuore.

    "Ti chiedo una sola cosa! Non dire a nessuno che hai un uccellino che ti racconta tutto, così le cose andranno molto meglio!".

    E l'usignolo volò via.

    I servitori entrarono per vedere il loro imperatore morto; rimasero impalati quando l'imperatore disse: "Buongiorno!".

     

     

     

  • I FIDANZATI
  •  

    Un trottolino e una palla stavano insieme ad altri giocattoli in un cassetto e il trottolino propose alla palla: "Perché non ci fidanziamo, visto che siamo insieme nel cassetto?", ma la palla, che era fatta di marocchino e si credeva una signorina per bene, non si degnò neppure di rispondere.

    Il giorno dopo venne il bambino che possedeva quei giocattoli, prese il trottolino, lo dipinse di rosso e giallo e ci piantò nel mezzo un chiodo di ottone; ci stava veramente bene, soprattutto quando girava.

    "Mi guardi!" disse il trottolino alla palla. "Che cosa ne dice ora?

    non ci possiamo fidanzare? Stiamo proprio bene insieme, lei salta e io danzo! nessuno potrebbe essere più felice di noi".

    "Lei crede?" rispose la palla, "forse non sa che mio padre e mia madre sono state pantofole di marocchino, e che io ho una valvola in vita!" "D'accordo, ma io sono in legno di mogano!" ribatté il trottolino, "e mi ha tornito il sindaco del paese personalmente: possiede un tornio e si è divertito moltissimo!".

    "Le devo credere?" chiese la palla.

    "Che io non venga più fatto rotolare, se dico una bugia!" esclamò il trottolino.

    "Lei parla bene" concluse la palla, "ma io non posso accettare, sono quasi fidanzata con un rondone! Ogni volta che vado per aria, si sporge dal nido e mi dice: "Accetta? accetta?" e ora ho già detto di sì dentro di me, e questo è quasi un fidanzamento! Ma le prometto che non la dimenticherò mai!".

    "Che bella consolazione!" commentò il trottolino, e da allora non si parlarono più.

    Il giorno seguente la palla venne tolta dal cassetto, il trottolino vide come veniva lanciata in alto, sembrava un uccello; alla fine non la si scorgeva più; ma ogni volta ritornava indietro, e poi quando toccava terra spiccava un altro gran salto, e questo a causa della nostalgia o della valvola che aveva in vita.

    Al nono salto la palla scomparve e non tornò più indietro, il bambino la cercò a lungo, ma non la trovò più.

    "Io so dov'è andata a finire!" sospirò il trottolino. "Sta nel nido del rondone e si è sposata con lui".

    Più pensava alla palla, più il trottolino se ne innamorava; proprio perché non poteva averla, provava sempre più amore, e il fatto che lei avesse scelto un altro era quello che più gli dispiaceva. Rotolava e girava su se stesso, ma continuava a pensare alla palla, che nell'immaginazione diventava sempre più graziosa. Trascorsero così perecchi anni e quello divenne un antico amore.

    Il trottolino non era più giovane! Un giorno venne dorato da cima a fondo: non era mai stato così bello. Ora era un trottolino dorato e saltava e girava a più non posso. Che spasso! ma a un certo punto saltò troppo in alto e... sparì!

    Lo cercarono a lungo, persino in cantina, ma non riuscirono a trovarlo. Dov'era finito?

    Era finito nel deposito della spazzatura dove c'era di tutto: torsoli di cavolo, manici di scopa e tanti calcinacci caduti dalla grondaia.

    "Adesso sono a posto! qui mi andrà presto la doratura, e guarda un po' con chi mi tocca di stare!" e intanto sbirciava verso un lungo torsolo di cavolo che era stato rosicchiato fin troppo, e verso uno strano oggetto rotondo che pareva una vecchia mela; ma una mela non era, era invece una vecchia palla, che per tanti anni era rimasta sulla grondaia e che l'acqua aveva afflosciato.

    "Per fortuna è arrivato qualcuno del mio ceto con cui poter parlare!" esclamò la palla nel vedere il trottolino dorato. "Io sono fatta di marocchino, cucita da una damigella. E ho una valvola in vita, ma nessuno lo capirebbe ora! Stavo per sposarmi con un rondone, quando finii sulla grondaia e lì rimasi per cinque anni affondata nell'acqua.

    E' molto tempo, mi creda, per una signorina". Ma il trottolino non diceva nulla, pensava al suo antico amore, e più l'ascoltava, più si convinceva che era lei.

    Poi arrivò la domestica per vuotare il secchio della spazzatura e "Eccolo qui, il trottolino dorato!" esclamò.

    Il giocattolo ritornò così nella stanza con tutti gli onori; della palla invece non se ne seppe nulla e il trottolino non parlò mai più del suo antico amore; l'amore passa quando la propria amata è rimasta cinque anni a marcire dentro una grondaia; non la si riconosce neppure, se la si incontra nel deposito della spazzatura.

     

     

     

  • IL BRUTTO ANATROCCOLO
  •  

    Era così bello in campagna, era estate! Il grano era bello giallo, l'avena era verde e il fieno era stato ammucchiato nei prati, la cicogna passeggiava sulle sue slanciate zampe rosa e parlava egiziano, perché aveva appreso quella lingua da sua madre. Intorno ai campi e ai prati c'erano grandi boschi, e in mezzo ai boschi si trovavano laghi profondi; era proprio bello in campagna! Esposto al sole si trovava un vecchio maniero circondato da canali profondi, e tra il muro e l'acqua crescevano grosse foglie di farfaraccio, ed erano talmente alte che i bambini più piccoli potevano stare dritti all'ombra di quelle più grandi. Quel posto era selvaggio come un profondo bosco; lì si trovava un'anatra col suo nido. Doveva covare gli anatroccoli, ma ormai si sentiva quasi stanca, sia perché ci voleva molto tempo sia perché non riceveva quasi mai visite. Le altre anatre preferivano nuotare lungo i canali piuttosto che risalire la riva e sedersi sotto una foglia di farfaraccio a chiacchierare con lei.

    Finalmente una dopo l'altra, le uova scricchiolarono. "Pip, pip" si sentì, tutti i tuorli delle uova erano diventati vivi e mettevano fuori la testolina.

    "Qua, qua!" disse l'anatra, e subito tutti schiamazzarono a più non posso, guardando da ogni parte sotto le verdi foglie; e la madre lasciò che guardassero, perché il verde fa bene agli occhi.

    "Com'è grande il mondo!" esclamarono i piccoli; adesso avevano infatti molto più spazio di quando stavano nell'uovo.

    "Credete forse che questo sia tutto il mondo?" chiese la madre. "Si stende molto lontano, oltre il giardino, fino al prato del pastore; ma fin là non ci sono mai stata. Ci siete tutti, vero?" e intanto si alzò. "No, non siete tutti. L'uovo più grande è ancora qui. Quanto ci vorrà? Ormai sono quasi stufa", e si rimise a covare.

    "Allora, come va?" domandò una vecchia anatra venuta a farle visita.

    "Ci vuole tanto tempo per quest'unico uovo!" rispose l'anatra che covava. "Non vuole rompersi. Ma dovresti vedere gli altri! Sono i più graziosi anatroccoli che io abbia mai visto; assomigliano tanto al loro padre, quel briccone, che non viene nemmeno a trovarmi".

    "Fammi vedere l'uovo che non vuole rompersi!" disse la vecchia. "Può darsi che sia un uovo di tacchina! Anch'io sono stata ingannata una volta, e ho passato dei guai con i piccoli che avevano una paura da non credere dell'acqua. Non riuscii a farli uscire. Schiamazzai e beccai, ma non servì a nulla. Fammi vedere l'uovo. Sì, è proprio un uovo di tacchina. Lascialo stare e insegna piuttosto a nuotare ai tuoi piccoli".

    "Adesso lo covo ancora un po'; l'ho covato per così tanto tempo che posso farlo ancora un po'!".

    "Fai come ti pare!" commentò la vecchia anatra andandosene.

    Finalmente quel grosso uovo si ruppe. "Pip, pip" esclamò il piccolo e uscì: era molto grande e brutto. L'anatra lo osservò.

    "E' un anatroccolo esageratamente grosso!" disse. "Nessuno degli altri è come lui! Purché non sia un piccolo di tacchina! Bene, lo si scoprirà presto. Deve entrare in acqua, anche a costo di prenderlo a calci!".

    Il giorno dopo era una giornata bellissima; il sole brillava sulle verdi foglie di farfaraccio. Mamma anatra andò con tutta la famiglia al canale. Splash! si buttò in acqua; "qua, qua!" disse, e tutti i piccoli si tuffarono uno dopo l'altro. L'acqua coprì le loro testoline, ma subito tornarono a galla e galleggiarono beatamente; le zampe si muovevano da sole e c'erano proprio tutti, anche il piccolo brutto e grigio nuotava con loro.

    "No, non è un tacchino!" esclamò l'anatra, "guarda come muove bene le zampe, come si tiene bene dritto! E' proprio mio! In fondo è anche carino se lo si guarda bene. Qua, qua! venite con me, vi porterò nel mondo e vi presenterò agli altri abitanti del pollaio, ma state sempre accanto a me, che nessuno vi calpesti, e state attenti al gatto!".

    Entrarono nel pollaio. C'era un baccano terribile, perché due famiglie si disputavano una testa d'anguilla, che alla fine andò al gatto.

    "Vedete come va il mondo!" disse la mamma anatra leccandosi il becco, dato che anche lei avrebbe voluto la testa d'anguilla. "Adesso muovete le zampe" aggiunse, "provate a salutare e a inchinarvi a quella vecchia anatra. E' la più distinta di tutte, è d'origine spagnola, perciò è così pesante! Vedete, ha uno straccio rosso intorno a una zampa. E' una cosa proprio eccezionale, la massima onorificenza che un'anatra possa ottenere. Vuol dire che non la si vuole abbandonare, e che è rispettata sia dagli animali che dagli uomini. Muovetevi! Non tenete i piedi in dentro! Un anatroccolo ben educato tiene le gambe ben larghe, proprio come il babbo e la mamma. Ecco! Adesso chinate il collo e dite qua!".

    E così fecero, ma le altre anatre lì intorno li guardarono ed esclamarono: "Guardate! Adesso arriva la processione, come se non fossimo già abbastanza, e, mamma mia com'è brutto quell'anatroccolo!

    Lui non lo vogliamo!" e subito un'anatra gli volò vicino e lo beccò alla nuca.

    "Lasciatelo stare" gridò la madre "non ha fatto niente a nessuno!".

    "Sì, ma è troppo grosso e strano!" rispose l'anatra che lo aveva beccato, "e quindi ne prenderà un bel po'!".

    "Che bei piccoli ha mamma anatra!" disse la vecchia con lo straccetto intorno alla zampa, "sono tutti belli, tranne uno, che non è venuto su bene. Sarebbe bello che potesse rifarlo!".

    "Non è possibile, Vostra Grazia!" rispose mamma anatra, "non è bello, ma è d'animo molto buono e nuota bene come tutti gli altri, anzi un po' meglio. Credo che, crescendo, diventerà più bello e che col tempo sarà meno grosso. E' rimasto troppo tempo nell'uovo, perciò ha un corpo non del tutto normale". E intanto lo grattò col becco sulla nuca e gli lisciò le piume. "Comunque è un maschio" aggiunse, "e quindi non è così importante. Credo che avrà molta forza e riuscirà a cavarsela!".

    "Gli altri anatroccoli sono carini" disse la vecchia. "Fate come se foste a casa vostra e, se trovate una testa d'anguilla, portatemela".

    E così fecero come se fossero a casa loro.

    Ma il povero anatroccolo che era uscito per ultimo dall'uovo e che era così brutto venne beccato, spinto e preso in giro, sia dalle anatre che dalle galline: "E' troppo grosso!" dicevano tutti, e il tacchino, che era nato con gli speroni e perciò credeva di essere imperatore, si gonfiò come un'imbarcazione a vele spiegate e si precipitò contro di lui, gorgogliando e con la testa tutta rossa. Il povero anatroccolo non sapeva se doveva rimanere o andare via, era molto abbattuto perché era così brutto e tutto il pollaio lo prendeva in giro.

    Così passò il primo giorno, e col tempo fu sempre peggio. Il povero anatroccolo veniva cacciato da tutti, persino i suoi fratelli erano cattivi con lui e dicevano sempre: "Se solo il gatto ti prendesse, brutto mostro!" e la madre pensava: "Se tu fossi lontano da qui!". Le anatre lo beccavano, le galline lo colpivano e la ragazza che portava il mangime alle bestie lo allontanava a calci.

    Così volò oltre la siepe; gli uccellini che si trovavano tra i cespugli si alzarono in volo spaventati. "E' perché io sono così brutto" pensò l'anatroccolo e chiuse gli occhi, ma continuò a correre.

    Arrivò così nella grande palude, abitata dalle anatre selvatiche. Lì giacque tutta la notte: era molto stanco e triste.

    Il mattino successivo le anatre selvatiche si alzarono e guardarono il loro nuovo compagno. "E tu chi sei?" gli domandarono, e l'anatroccolo si girò da ogni parte e salutò come meglio poté.

    "Sei veramente brutto!" esclamarono le anatre selvatiche, "ma non ce ne importa niente, purché tu non ti sposi con qualcuno della nostra famiglia!" Quel poverino non pensava certo a sposarsi, gli bastava solo poter stare fra i giunchi e bere un po' d'acqua della palude.

    Restò lì due giorni, poi arrivarono due oche selvatiche, o meglio, due paperi selvatici, dato che erano maschi. Era trascorso poco tempo da quando erano usciti dall'uovo e per questo erano molto spavaldi.

    "Ascolta, compagno", dissero, "tu sei così brutto che ci piaci molto!

    Vuoi venire con noi e essere uccello di passo? In un'altra palude qui accanto ci sono delle graziose oche selvatiche, tutte signorine, che sanno dire qua! Tu potresti avere fortuna, dato che sei così brutto!" "Pum, pum!" si sentì in quel momento, tutte e due le anatre caddero morte tra i giunchi e l'acqua si arrossò per il sangue. "Pum, pum!" si sentì ancora, e tutte le oche selvatiche si sollevarono in schiere.

    Poi spararono di nuovo. C'era caccia grossa; i cacciatori giravano per la palude, sì, alcuni si erano arrampicati sui rami degli alberi e si sporgevano sui giunchi. Il fumo grigio si spandeva come una nuvola tra gli alberi neri e rimase a lungo sull'acqua. Nel fango arrivarono i cani da caccia; plasch, plasch! Canne e giunchi dondolavano da ogni parte. Spaventato, il povero anatroccolo piegò la testa tentando di infilarsela sotto le ali, ma in quello stesso istante si trovò vicino un cane terribilmente grosso, con la lingua che gli penzolava fuori dalla bocca e gli occhi che brillavano orrendamente; avvicinò il muso all'anatroccolo, mostrò i denti aguzzi e plasch! se ne andò senza fargli niente.

    "Dio sia lodato!" sospirò l'anatroccolo, "sono talmente brutto che persino il cane non osa mordermi".

    E rimase tranquillo, mentre i pallini fischiavano tra i giunchi e si udivano gli spari un colpo dopo l'altro.

    Solo a giorno inoltrato tornò la calma, ma ancora il povero giovane non osava rialzarsi; aspettò ancora parecchie ore prima di osare guardarsi intorno, e poi si affrettò a lasciare la palude più presto che poteva. Corse per campi e prati, ma c'era molto vento e faticava ad avanzare.

    Verso sera arrivò a una povera e piccola casa di contadini, era così misera che lei stessa non sapeva da che parte doveva cadere, e così restava in piedi. Il vento soffiava intorno all'anatroccolo, tanto che dovette sedersi sulla coda per poter resistere, ma diventava sempre peggio. Allora notò che la porta si era scardinata da una parte ed era tutta inclinata, e che lui, attraverso la fessura, poteva infilarsi nella stanza, e così fece.

    Qui abitava una vecchia col suo gatto e la gallina; il gatto, che lei chiamava "figliolo", sapeva inarcare la schiena e fare le fusa, e faceva persino scintille se lo si accarezzava contro pelo. La gallina aveva le zampe piccole e basse e per questo la chiamavano "coccodè gamba corta", faceva le uova e la donna le voleva bene come a una figlia.

    Al mattino si accorsero subito dell'anatroccolo estraneo, e il gatto prese a fare le fusa e la gallina a chiocciare.

    "Che sta succedendo?" chiese la vecchia, e si guardò intorno, ma non ci vedeva bene e così pensò che l'anatroccolo fosse una grassa anatra che si era persa. "E' proprio una bella preda!" disse, "ora potrò avere uova di anatra, purché non sia un maschio! Lo metterò alla prova".

    E così l'anatroccolo restò in prova per tre settimane, ma non fece nessun uovo. Il gatto era il padrone di casa e la gallina la padrona, e dicevano sempre: "Noi e il mondo!" perché credevano di esserne la metà, e ovviamente la metà migliore. L'anatroccolo pensava che si potesse avere anche un'altra opinione, ma questo la gallina non lo sopportava.

    "Fai le uova?" domandò la gallina.

    "No".

    "Allora te ne puoi stare zitto!".

    E il gatto gli disse: "Sei capace di inarcare la schiena, di fare le fusa e di fare scintille?".

    "No!".

    "Bene, allora non devi avere più opinioni, quando parlano le persone ragionevoli".

    E l'anatroccolo se ne stava in un cantuccio, di malumore. Poi cominciò a pensare all'aria fresca e al bel sole. Lo prese una strana voglia di andare nell'acqua, alla fine non poté più trattenersi e ne parlò alla gallina.

    "Che ti succede?" gli chiese lei. "Non hai niente da fare, è per questo che ti vengono le fantasie. Fai le uova, o fai le fusa, vedrai che ti passa!" "Ma è così bello galleggiare sull'acqua!" disse l'anatroccolo "così bello averla sulla testa e tuffarsi giù fino al fondo! " "Sì, è certo un gran divertimento!" commentò la gallina, "tu sei ammattito! Chiedi al gatto, che è il più intelligente che io conosca, se gli piace galleggiare sull'acqua o tuffarsi sotto! Quanto a me, neanche a parlarne! Chiedilo anche alla nostra signora, la vecchia dama ! Più intelligente di lei non c'è nessuno nel mondo. Credi che lei abbia voglia di galleggiare o di avere l'acqua sopra la testa?" "Voi non mi capite!" disse l'anatroccolo.

    "Certo, se non ti capiamo noi chi ti dovrebbe capire, allora? Non sei di sicuro più intelligente del gatto o della donna, per non parlare di me! Non darti delle arie, piccolo! e ringrazia il tuo creatore per tutto il bene che ti è stato fatto. Non hai forse potuto stare in una stanza calda e non hai una compagnia da cui puoi imparare qualcosa? Ma tu sei strambo, e non è certo divertente vivere con te. Puoi credermi:

    lo faccio per il tuo bene anche se ti dico cose spiacevoli; così si vedono i veri amici. Cerca piuttosto di fare le uova o di fare le fusa o le scintille!" "Credo che me ne andrò per il mondo" disse l'anatroccolo.

    "Fai come ti pare!" gli rispose la gallina.

    E così l'anatroccolo se ne andò. Galleggiava sull'acqua e ci si tuffava, ma era disprezzato da tutti gli animali per la sua bruttezza.

    Giunse l'autunno. Le foglie del bosco ingiallirono, il vento le afferrò e le fece danzare; e su nel cielo sembrava facesse veramente freddo. Le nuvole erano cariche di grandine e di fiocchi di neve, e sulla siepe si trovava un corvo che, ah! ah! si lamentava dal freddo.

    Vengono i brividi solo a pensarci. Il povero anatroccolo non stava certo bene.

    Una sera mentre il sole tramontava splendidamente, uscì dai cespugli uno stormo di bellissimi e grandi uccelli; l'anatroccolo non ne aveva mai visti così belli. Erano di un bianco lucente, con lunghi colli flessuosi: erano cigni. Mandarono un grido bizzarro, aprirono le loro magnifiche e lunghe ali e volarono via, dalle fredde regioni fino ai paesi più caldi, ai mari aperti! Si alzarono così alti che il brutto anatroccolo provò una strana nostalgia, si rotolò nell'acqua come una ruota, sollevò il collo verso di loro ed emise un grido talmente acuto e strano, che si impressionò lui stesso. Oh, non riusciva a scordare quei bellissimi e fortunati uccelli e quando non li vide più, si tuffò in acqua fino sul fondo, e tornato in superficie era come fuori di sé.

    Non sapeva che uccelli fossero e neppure dove stavano andando, ma ciò nonostante li amava come non aveva mai amato nessun altro. Non li invidiava assolutamente. Come avrebbe potuto desiderare una simile bellezza! Sarebbe stato contento se solo le anatre lo avessero accettato tra loro. Povero brutto animale!

    E l'inverno fu freddo, tanto freddo. L'anatroccolo dovette nuotare in continuazione per evitare che l'acqua gelasse, ma ogni notte il buco in cui nuotava si faceva sempre più piccolo. Ghiacciò, poi la superficie scricchiolò. L'anatroccolo doveva muovere le zampe senza fermarsi, affinché l'acqua non si chiudesse; alla fine si indebolì, si fermò e rimase incastrato nel ghiaccio.

    Al mattino presto arrivò un contadino, lo vide e col suo zoccolo ruppe il ghiaccio, poi lo portò a casa da sua moglie. Lì lo fecero rinvenire.

    I bambini volevano giocare con lui, ma l'anatroccolo pensò che gli volessero fare del male; e per paura cadde nel secchio del latte e lo fece rovesciare nella stanza. La donna strillò e agitò le mani, lui allora volò sulla dispensa dove c'era il burro, e poi nel barile della farina, e poi di nuovo fuori! Uh, come si era conciato! La donna gridava e lo inseguiva con le molle del camino e i bambini si urtavano tra loro cercando di agguantarlo e intanto ridevano e gridavano. Per fortuna la porta era aperta; l'anatroccolo volò fuori in mezzo ai cespugli, nella neve caduta, e restò lì, stordito.

    Sarebbe troppo straziante raccontare tutte le miserie e i patimenti che dovette sopportare nel duro inverno. Era nella palude tra le canne, quando il sole riprese a splendere caldo. Le allodole cantavano, era arrivata la bella primavera!

    Allora alzò con un colpo solo le ali, che frusciarono più robuste di prima e che lo sostennero con forza, e prima ancora di rendersene conto si trovò in un grande giardino, pieno di meli in fiore, dove i cespugli di lillà profumavano e curvavano i lunghi rami verdi giù fino ai canali serpeggianti. Oh! Che bel posto! e com'era fresca l'aria di primavera! Dalle fitte piante sbucarono, proprio davanti a lui, tre bellissimi cigni bianchi; frullarono le piume e galleggiarono dolcemente sull'acqua. L'anatroccolo riconobbe quegli splendidi animali e fu invaso da una strana tristezza.

    "Voglio volare con loro, con quegli uccelli regali; mi ammazzeranno con le loro beccate, perché io, così brutto, oso accostarmi a loro. Ma non mi importa! è meglio essere ucciso da loro che essere beccato dalle anatre, beccato dalle galline, preso a calci dalla ragazza che cura il pollaio, e soffrire tanto d'inverno!". E volò nell'acqua e nuotò verso quei magnifici cigni; questi lo guardarono e andarono verso di lui frullando le piume. "Uccidetemi!" esclamò il povero animale, e abbassò la testa verso la superficie dell'acqua aspettando la morte, ma, che cosa vide in quell'acqua limpida? Vide sotto di sé la sua propria immagine: non era più il goffo uccello grigio scuro, brutto e sgraziato, anche lui era un cigno.

    Che importa essere nati in un pollaio di anatre, se si è usciti da un uovo di cigno?

    Ora era contento di tutte quelle sofferenze e avversità che aveva subìto, si godeva di più la felicità e la bellezza che lo salutavano.

    E i grandi cigni nuotavano intorno a lui e lo accarezzavano col becco.

    Nel giardino arrivarono dei bambini e buttarono pane e grano nell'acqua; poi il più piccino gridò: "Ce n'è uno nuovo!". E gli altri bambini esultarono con lui: "Sì, ne è arrivato uno nuovo!". Battevano le mani e saltavano, poi corsero a chiamare il babbo e la mamma, e gettarono ancora pane e dolci in acqua, e tutti dicevano: "Quello nuovo è il più bello, così giovane e fiero!". E i vecchi cigni si inchinarono dinnanzi a lui.

    Allora si sentì timidissimo e infilò la testa sotto le ali, non sapeva neppure lui cosa avesse! Era troppo felice, ma non era affatto superbo, perché un cuore buono non diventa mai superbo! Ricordava come era stato perseguitato e insultato, e adesso sentiva dire che era il più bello di tutti gli uccelli! I lillà curvarono i rami fino all'acqua e il sole brillava caldo e luminoso. Allora lui frullò le piume, rialzò il collo slanciato e esultò nel cuore: "Tanta felicità non l'avevo mai sognata, quando ero un brutto anatroccolo!".

     

     

     

  • LE SCARPETTE ROSSE
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    C'era una volta una bimba molto graziosa e delicata, ma che d'estate andava sempre in giro a piedi nudi, perché era povera, e d'inverno calzava zoccoli di legno tanto grandi che il collo dei suoi piedini diventava tutto rosso e faceva pena a vederlo.

    Nel centro della città abitava la vecchia madre del calzolaio, che cucì, come meglio poté, un paio di scarpette con vecchie strisce di cuoio rosso. Le scarpe erano un po' goffe, ma l'intenzione era buona:

    le avrebbe date alla bambina, che si chiamava Karen.

    Karen ebbe quelle scarpette rosse proprio il giorno del funerale di sua madre, e se le mise per la prima volta. Non erano certo adatte per un'occasione così triste, ma lei non ne aveva altre, e così ci infilò i piedini e si mise a seguire la povera bara di paglia.

    In quello stesso momento passò una carrozza con una vecchia signora importante, che vide la bimba e ne ebbe compassione; perciò andò dal pastore e gli disse: "Mi affidi quella piccina, perché le possa fare del bene!".

    E Karen credette che il merito fosse delle scarpette rosse, ma la vecchia signora disse che quelle facevano pena e le fece bruciare.

    Karen ebbe vestiti puliti e graziosi, imparò a leggere e a cucire e la gente le diceva che era carina, ma lo specchio le confidava: "Tu sei molto più che carina, tu sei bella!" .

    Un giorno la regina intraprese un viaggio per il paese, e portò con sé la sua bambina, che era una principessa, la tutta la gente si recò all'ingresso del castello e con loro pure Karen. La principessa portava un grazioso abitino bianco ed era affacciata alla finestra per farsi vedere, non aveva né lo strascico, né la corona d'oro, ma calzava delle belle scarpette rosse di marocchino.

    Naturalmente erano ben diverse da quelle che la calzolaia aveva cucito per la piccola Karen. Nulla al mondo si può paragonare a un paio di scarpette rosse!

    Karen era ormai cresciuta e doveva ricevere la cresima, ebbe degli abitini nuovi e dovette anche comprare delle scarpe nuove. Il bravo calzolaio della città le prese le misure il piedino; glielo misurò in casa sua, una casa piena di grandi armadi di vetro con stupende scarpette e stivaletti luccicanti. Tutto era molto bello, ma la vecchia signora non ci vedeva tanto bene e perciò non si divertiva per niente; tra le scarpe ce n'era un paio rosso, proprio come quelle che calzava la principessa, com'erano belle! Il calzolaio spiegò che erano state fatte per una contessina, ma poi non erano andate bene.

    "Sono certamente di pelle lucida" commentò la vecchia signora, "luccicano proprio!".

    "Sì, luccicano" disse Karen, e visto che le andavano bene furono acquistate quelle, ma la vecchia signora non sapeva che erano rosse, altrimenti non avrebbe mai permesso a Karen di andare in chiesa per la cresima con le scarpette rosse, cosa che invece fece.

    In chiesa tutta la gente le guardò i piedi, e quando lei percorse la navata diretta al coro, le parve che persino i vecchi ritratti dei defunti, che raffiguravano i preti e le loro mogli, con il colletto inamidato e le lunghe vesti nere, guardassero verso le scarpette rosse; e lei pensò soltanto alle scarpette, anche quando il pastore le poggiò la mano sul capo, parlando del Santo Battesimo, dell'Alleanza con Dio e del fatto che da quel momento lei doveva ritenersi una cristiana adulta. L'organo suonava solennemente, le cristalline voci del coro dei bambini si alzarono lievi e il vecchio cantore cantò, ma Karen pensava solo alle sue scarpette rosse.

    Nel pomeriggio la vecchia signora scoprì dai conoscenti che le scarpe erano rosse, allora disse che era stata una brutta azione, che non le si addiceva, e che Karen da quel giorno avrebbe calzato sempre le scarpe nere per andare in chiesa anche se ormai erano vecchie.

    La domenica seguente c'era la comunione, Karen guardò le scarpe nere, poi quelle rosse, poi di nuovo quelle rosse, e infine se le infilò!

    C'era un tempo bellissimo; Karen e la vecchia signora passeggiavano per un sentiero in mezzo al grano, dove c'era un po' di polvere.

    Accanto all'ingresso della chiesa c'era un vecchio soldato con una stampella e una barba lunghissima, più rossa che bianca, perché un tempo era stata rossa. Si inchinò fino a terra e chiese alla signora se non voleva farsi pulire le scarpe. Anche Karen allungò subito il piedino. "Che belle scarpette da ballo!" esclamò il soldato, "state ben salde ai piedi quando danzate", e batté la mano sulla suola.

    La vecchia signora diede al soldato una moneta e poi entrò in chiesa insieme a Karen.

    Tutta la gente che stava in chiesa e persino tutte le immagini appese ai muri guardarono le scarpe rosse di Karen; e lei, quando salì all'altare e portò alla bocca il calice d'oro, pensò soltanto alle sue scarpette rosse, e le parve che stessero nuotando nel calice stesso.

    Così dimenticò di cantare il salmo e di recitare il Padre Nostro.

    Poi tutti uscirono dalla chiesa e la vecchia signora salì in carrozza.

    Karen sollevò un piede per salire dopo di lei, ma in quel momento il vecchio soldato che stava vicino disse: "Che belle scarpette da ballo!" e Karen non si poté trattenere dal fare qualche passo di danza, e una volta cominciato, le sue gambe continuarono a ballare.

    Era come se le scarpe avessero un potere su di lei, e Karen ballò fino all'angolo della chiesa; il cocchiere dovette rincorrerla e afferrarla, poi finalmente la mise in carrozza, ma i piedi continuavano a ballare, tirando calci alla buona vecchia signora.

    Finalmente riuscirono a sfilarle le scarpe e i suoi piedi si calmarono.

    Giunte a casa, le scarpe furono messe in un armadio, ma Karen non poteva trattenersi dal guardarle.

    La vecchia signora si ammalò e si diceva che non sarebbe vissuta a lungo; aveva bisogno di cure e di assistenza e per questo nessuno era più indicato di Karen. Ma in città doveva tenersi un gran ballo a cui anche Karen era stata invitata; guardò la vecchia signora che tanto non doveva più vivere a lungo, poi guardò le sue scarpette rosse e pensò che non ci sarebbe stato niente di male: si infilò le scarpe rosse, e fin qui non c'era niente di male, ma poi andò al ballo e cominciò a danzare.

    Quando volle andare a destra, le scarpe la fecero andare a sinistra, poi volle inoltrarsi per la casa, ma le scarpe la portarono all'ingresso e poi giù per le scale, per la strada fino alle porte della città. Ballava e doveva continuare a ballare e intanto arrivò al bosco nero.

    Qualcosa brillava tra gli alberi e Karen credette fosse la luna, dato che era un volto, ma in realtà era il vecchio soldato con la barba rossa che le faceva dei cenni col capo dicendo: "Che belle scarpette da ballo!".

    La fanciulla si spaventò molto e volle buttare le scarpe rosse, ma queste erano ben salde; stracciò le calze, ma le scarpe rimasero attaccate ai piedi, e ballava e non poteva fare altro, per campi e prati, con la pioggia e col sole, di giorno e di notte; e proprio di notte era la cosa più tremenda.

    Ballando entrò nel camposanto che era aperto, ma i morti non ballavano, avevano di meglio da fare; Karen avrebbe voluto sedersi sulla tomba di un poveretto, dove cresceva l'amara salvia selvatica, ma per lei non c'era né pace né riposo, e quando andò verso la porta aperta della chiesa vide un angelo con un lungo abito bianco e ali che dalle spalle scendevano fino a terra; il suo sguardo era severo e in mano reggeva una larga spada lucente.

    "Devi ballare" le disse, "ballare con le tue scarpe rosse fino a quando non diventerai debole e pallida! fino a quando la tua pelle non si raggrinzirà come quella di uno scheletro! dovrai ballare da una casa all'altra, e dove abitano bambini superbi e vanitosi, devi bussare, così che ti sentano e abbiano paura! Devi ballare, ballare...!".

    "Pietà!" gridò Karen. Ma non udì la risposta dell'angelo, perché le scarpe la portarono attraverso il cancello, fuori nei campi, per strade e sentieri, sempre ballando.

    Una mattina passò, ballando, davanti a una porta che conosceva bene; dentro cantavano dei salmi e stavano portando fuori una bara, ornata di fiori, allora capì che la vecchia signora era morta e pensò di essere ormai abbandonata da tutti e maledetta dall'angelo del Signore.

    Ballava e doveva continuare a ballare, anche nella notte buia. Le scarpe la trascinarono in mezzo alle spine e sulle stoppie, e lei si graffiò a sangue; ballò oltre la brughiera fino a una casetta isolata.

    Sapeva che lì viveva il boia e bussò con le dita alla finestra dicendo: "Vieni fuori! vieni fuori! Io non posso entrare perché sto ballando!". E il boia le rispose: "Non sai chi sono io? Io taglio le teste ai cattivi, e sento che la scure sta già fremendo!".

    "Non tagliarmi la testa" esclamò Karen, "altrimenti non potrò pentirmi dei miei peccati! Tagliami invece i piedi con le scarpe rosse!".

    E così confessò tutte le sue colpe e il boia le tagliò i piedi con le scarpe rosse; ma le scarpe continuarono a ballare con i piedini attaccati, attraversarono i campi e sparirono nel bosco più profondo.

    Il boia le intagliò due piedi di legno e due grucce, le insegnò un salmo che cantano i peccatori, e lei baciò la mano che aveva calato la scure e se ne andò per la brughiera.

    "Ne ho abbastanza di scarpe rosse!" disse, "ora voglio andare in chiesa, in modo che possano vedermi", e si incamminò con sicurezza verso la porta della chiesa, ma quando ci arrivò c'erano le scarpette rosse che ballavano dinanzi a lei, e lei si spaventò tanto e tornò indietro.

    Per tutta la settimana si dolse e pianse molte lacrime, ma quando venne di nuovo domenica, disse: "Ecco! Ora ho sofferto e lottato abbastanza! Penso proprio di essere come molti di quelli che siedono in chiesa a testa alta!" e si avviò coraggiosa verso la chiesa, ma non era ancora arrivata al cancello che vide le scarpette rosse danzare davanti a lei, così si spaventò, tornò indietro e si pentì sinceramente del suo peccato.

    Andò allora al presbiterio e chiese di essere presa a servizio; voleva essere laboriosa e lavorare più che poteva, e non le importava di essere pagata, le bastava avere un tetto sopra la testa e stare in casa di brava gente. La moglie del pastore ebbe compassione e la prese a servizio. E lei si dimostrò laboriosa e riconoscente. Immobile, ascoltava alla sera il pastore mentre leggeva la Bibbia ad alta voce.

    Tutti i bambini le volevano bene ma quando parlavano di ornamenti e fronzoli e di essere belli come la regina, lei scuoteva il capo.

    La domenica seguente andarono tutti in chiesa e le chiesero se desiderasse andare assieme a loro, ma Karen guardò tristemente le sue stampelle e le salirono le lacrime agli occhi; così gli altri andarono ad ascoltare la parola del Signore e lei si ritirò tutta sola nella sua cameretta. Non era affatto grande, ci stavano appena il letto e una sedia, e lei sedette con il suo libro dei salmi; mentre lo leggeva con animo devoto, il vento le portò dalla chiesa il suono dell'organo e lei rialzò lo sguardo commosso e esclamò: "Dio mio, aiutami!".

    Il sole cominciò a splendere luminoso e davanti a lei apparve l'angelo del Signore tutto vestito di bianco; lo stesso che aveva visto quella notte sulla porta della chiesa, solo che non aveva più con sé la spada, ma un bel rametto verde, pieno di rose, e con questo toccò il soffitto che si alzò altissimo, e nel punto in cui lo aveva toccato apparve una stella d'oro; poi toccò le pareti che andarono indietro, e Karen poté vedere l'organo che suonava, e vide le vecchie immagini dei pastori e delle loro mogli, e la gente che sedeva nei banchi ornati e cantava i salmi. La chiesa stessa era venuta dalla povera fanciulla, nella sua cameretta, o forse lei era andata in chiesa; si ritrovò seduta accanto agli altri domestici del pastore e questi, finito il salmo, alzarono lo sguardo e le fecero cenno dicendo: "Hai fatto bene a venire, Karen! ".

    "E' stata la grazia!" rispose lei.

    L'organo suonò ancora e le voci infantili del coro si alzarono dolci e bellissime! Il sole splendente giungeva caldo attraverso la finestra proprio sopra al banco dov'era seduta Karen; il suo cuore fu così colmo di sole, di pace e di gioia che si spezzò, la sua anima volò su verso il sole fino a Dio, e lassù nessuno le chiese delle scarpette rosse.

     

     

     

  • GENTE BALZANA
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    Una pulce, una cavalletta e un saltamartino vollero un giorno vedere chi fra loro sapeva saltare più in alto; così invitarono tutto il mondo, e chi altro lo voleva, ad assistere a quella gara; era davvero gente balzana quella che si riunì nella stanza.

    "Io darò in moglie la mia figliola a chi che salterà più in alto" dichiarò il re, "perché è un peccato che questa gente salti per niente!." La pulce si presentò per prima: aveva proprio buone maniere e salutava da tutte le parti, perché aveva sangue di signorina ed era abituata a frequentare gli uomini, il che è di grande aiuto.

    Poi giunse la cavalletta, che era in realtà più pesante ma era veramente bene educata e portava un'uniforme verde che le stava molto bene; inoltre si raccontava che provenisse da un'antichissima famiglia dell'Egitto e che in quel paese fosse ben considerata; era stata presa direttamente dal prato e posta in una casa a tre piani costruita con le carte da gioco, tutte con figure vestite con la parte colorata rivolta verso l'interno; c'erano sia porte che finestre ritagliate nel petto della dama di cuori. "Io canto così bene" disse la cavalletta, "che sedici grilli indigeni, che strillavano da quando erano nati ma non avevano mai avuto una casa di carte da gioco, quando mi sentirono si arrabbiarono talmente che diventarono ancora più magri di quanto già non fossero..." Sia la pulce che la cavalletta continuavano a raccontare chi erano e tutte e due credevano di meritare in sposa una principessa.

    Il saltamartino non disse niente, ma si seppe che lui pensava molto, e quando il cane di corte lo ebbe annusato un po', dichiarò che anche lui proveniva da una famiglia per bene; poi il vecchio consigliere, che aveva avuto tre decorazioni perché stava sempre zitto, assicurò che il saltamartino aveva doti profetiche; si poteva infatti capire dal suo dorso se l'inverno sarebbe stato mite o rigido, e questo di sicuro non lo si può capire dalla schiena di chi scrive l'almanacco.

    "Va bene, io non voglio dire niente! " esclamò il re. "Quello che penso me lo tengo per me".

    Ora toccava fare il salto. La pulce saltò così in alto che nessuno la poté vedere, ragion per cui tutti sostennero che non aveva saltato per niente, e questo era ignobile!

    La cavalletta saltò solo la metà di quanto avesse saltato la pulce, ma finì proprio in faccia al re e così quello disse che era una villana.

    Il saltamartino se ne stette a lungo fermo a riflettere, e si pensò che non sapesse neppure saltare.

    "Purché non stia male!" disse il cane di corte e lo annusò di nuovo; rutch! egli fece un piccolo salto di traverso e finì in grembo alla principessa, che si trovava su un basso sgabello d'oro.

    Al che il re dichiarò: "Il salto più alto è arrivare a mia figlia, questa è l'astuzia del gioco, ma era necessario dell'ingegno per capirlo, e il saltamartino ha dimostrato di averlo".

    E così egli ebbe la principessa.

    "Io però ho fatto il salto più alto!" esclamò la pulce, "ma non fa niente! Lasciate che la principessa abbia quella carcassa d'oca con la pece e lo stecchino! Io ho saltato più in alto, ma in questo mondo bisogna avere un certo volume per essere visti".

    E la pulce se ne andò nella legione straniera, dove si dice sia stata uccisa.

    La cavalletta si ritirò nel fosso a pensare a come va il mondo e commentò: "Volume ci vuole! Volume ci vuole!" e si mise a cantare la sua triste canzone, ed è da lì che abbiamo tratto la storia, che però potrebbe benissimo non essere vera, anche se è stata stampata.

     

     

     

  • L'OMBRA
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    Nei paesi caldi sì che il sole brucia davvero! La gente diventa scura come il mogano, e nei paesi caldissimi brucia fino a diventare nera, ma un uomo istruito era arrivato dai paesi freddi solo fino ai paesi caldi e credeva di poter andare in giro come faceva a casa sua, ma cambiò presto parere. Sia lui che tutta la gente ragionevole rimasero chiusi in casa, le persiane delle finestre e le porte restarono sbarrate tutto il giorno, pareva che tutta la casa dormisse e che non ci fosse nessuno. Le strette strade con le case alte, dove anche lui abitava, erano state fatte in modo tale che il sole dovesse brillare dal mattino fino alla sera; era davvero insopportabile! Quell'uomo istruito dei paesi freddi era un giovane intelligente, ma gli sembrava di star seduto dentro un forno ardente; il sole lo consumò, lui diventò molto magro, persino la sua ombra dimagrì, diventò molto più piccola di quando era a casa; il sole aveva colpito anche lei. Tutti e due incominciavano a vivere di sera, quando il sole era calato.

    Era veramente un divertimento guardarli; non appena la lampada veniva portata nella stanza, l'ombra si distendeva tutta sulla parete, arrivava fino al soffitto, tanto si faceva lunga; doveva stirarsi per riprendere le forze. L'uomo istruito usciva sul balcone per stirarsi un po', e man mano che le stelle apparivano in quell'aria tersa e meravigliosa, a lui sembrava di rivivere. Su tutti i balconi della strada - e nei paesi caldi ogni finestra ha un balcone - la gente si affacciava, perché ha bisogno di prendere aria anche chi è abituato a essere color mogano.

    Allora la vita cominciava, sui balconi e giù nelle strade; calzolai e sarti, tutta la gente usciva per strada, portavano tavoli e sedie, e le lanterne bruciavano, sì, più di cento lanterne bruciavano, e uno parlava e l'altro cantava, la gente passeggiava, le carrozze passavano, e anche gli asini, cling, cling! avevano dei campanelli. I morti venivano seppelliti al canto dei salmi, i ragazzi di strada facevano scoppiare i petardi, e le campane delle chiese suonavano, sì, c'era proprio vita giù nella strada. Solamente in una casa, che stava proprio di fronte a quella in cui viveva quello straniero istruito, c'era una pace incredibile, eppure qualcuno ci viveva, perché sul balcone c'erano dei fiori, che crescevano meravigliosamente al caldo del sole, e non avrebbero potuto crescere se non fossero stati annaffiati, perciò qualcuno doveva bagnarli; doveva proprio esserci qualcuno. Anche quel balcone si apriva di sera, ma dentro era tutto buio, almeno nella prima stanza; e dal profondo delle stanze sul retro si sentiva venire una musica. Allo straniero istruito sembrava straordinaria, ma poteva anche darsi che avesse immaginato tutto, dal momento che lui trovava ogni cosa straordinaria, là in quei paesi caldi; se solo non ci fosse stato quel sole! Il padrone di casa dello straniero disse che non sapeva chi avesse affittato la casa di fronte, non si vedeva nessuno, e per quanto riguardava la musica pensava che fosse piuttosto noiosa. "E' come se qualcuno si stesse esercitando a un pezzo che non riesce a finire, sempre il medesimo pezzo. Penserà certo di farcela prima o poi, ma non ci riuscirà mai, per quanto a lungo possa suonare".

    Una notte lo straniero si destò; dormiva con la porta del balcone spalancata, e la tenda davanti alla porta si alzava per il vento, così gli parve di vedere uno straordinario bagliore provenire dal balcone di fronte, tutti i fiori brillavano come fiamme dei colori più svariati, e in mezzo a quei fiori stava un'esile, graziosa fanciulla:

    pareva che brillasse pure lei; la luce gli fece male agli occhi, ma è vero che li teneva spalancati e che si era appena svegliato; con un balzo si alzò in piedi, pian piano arrivò fino alla tenda, ma la fanciulla era già sparita, anche il bagliore era scomparso, i fiori non brillavano affatto, e tutto era come sempre, la porta era socchiusa e dal profondo della casa risuonava una musica così dolce, così meravigliosa che ci si poteva lasciar andare alle più dolci fantasticherie. Sembrava una magia, chi abitava lì? Dov'era in realtà l'ingresso? Tutto il pianterreno era fatto di negozi e la gente non poteva certo entrare da quella parte.

    Una sera lo straniero era seduto sul balcone; alle sue spalle nella camera brillava la luce e perciò era del tutto normale che la sua ombra andasse a posarsi sulla parete della casa di fronte; anzi si trovava proprio in mezzo ai fiori di quel balcone, e quando lo straniero si spostò, anche l'ombra si spostò, perché di solito succede così.

    "Credo che la mia ombra sia la sola persona vivente che si vede laggiù!" disse quell'uomo istruito. "Guarda come sta seduta con garbo in mezzo ai fiori, la porta è accostata; ora l'ombra dovrebbe essere tanto accorta da entrare, guardarsi intorno, e poi tornare a raccontarmi ciò che ha visto. E già, dovresti farmi questo favore!" disse scherzando. "Su, da brava, entra! Su, vai?" e intanto fece segno all'ombra e l'ombra gli rivolse lo stesso segno. "Sì, sì, vai, ma poi ritorna!" Lo straniero si alzò e anche la sua ombra sul balcone di fronte si alzò, lo straniero si volse e l'ombra si volse, ma se qualcuno fosse stato attento, avrebbe visto molto distintamente che l'ombra entrò in quella porta socchiusa di quel balcone di fronte, proprio nell'istante in cui lo straniero rientrò nella sua camera e lasciò cadere la tenda dietro di sé.

    Il mattino dopo quell'uomo istruito uscì per bere il caffè e leggere il giornale. "Che succede?" esclamò, quando fu al sole, "non ho l'ombra. Allora ieri sera se n'è proprio andata e non è più ritornata; che rabbia!".

    La cosa lo irritò, ma non tanto perché l'ombra se n'era andata, quanto perché sapeva che già c'era la storia di un uomo senza ombra, e a casa la conoscevano tutti, là nei paesi freddi, e se lui ora fosse andato a raccontarla, avrebbero detto che l'aveva copiata, e di questo davvero non aveva bisogno! Perciò non volle parlare per niente della faccenda, e fu una buona idea.

    Di sera uscì di nuovo sul balcone, aveva sistemato la luce proprio per bene dietro di sé, perché sapeva che l'ombra vuole avere sempre il suo padrone come schermo davanti alla luce, ma non gli riuscì di catturarla, si fece piccolo piccolo, si fece grosso, ma l'ombra non c'era, nessuno venne; disse uhm, uhm! ma non servì a niente. Era seccante, ma nei paesi caldi tutto cresce così in fretta, e dopo otto giorni notò, con grande gioia, che gli stava crescendo un'ombra nuova dalle gambe, quando arrivava il sole; evidentemente le radici erano rimaste. Dopo tre settimane aveva un'ombra sufficiente, che, quando lui tornò a casa nel suo paese al Nord, crebbe ancora di più durante il viaggio, così che alla fine fu tanto lunga e tanto grande che la metà sarebbe bastata.

    L'uomo istruito ritornò a casa e scrisse libri su quello che c'era di vero nel mondo, e su quello che c'era di buono e di bello, e passarono i giorni e passarono gli anni, parecchi anni.

    Una sera era seduto nella sua stanza quando bussarono piano alla porta.

    "Avanti!" disse, ma non entrò nessuno. Allora aprì la porta e si trovò di fronte un uomo straordinariamente magro, tanto che ne rimase colpito. D'altronde quell'uomo era vestito con molta eleganza, perciò doveva essere una persona importante.

    "Con chi ho l'onore di parlare?" domandò l'uomo istruito.

    "E già, me l'ero immaginato" disse l'uomo elegante, "che lei non mi avrebbe riconosciuto! Adesso ho proprio un corpo, ho ricevuto la carne e gli abiti. Lei non avrebbe di sicuro mai pensato di vedermi in queste ottime condizioni. Non riconosce dunque la sua vecchia ombra?

    Certo non pensava che sarei tornato indietro. Mi è andata molto bene dall'ultima volta che ero presso di lei, mi sono arricchito in ogni senso. Se devo riscattare la mia libertà, posso farlo!". E intanto agitò un gran numero di ciondoli preziosi che pendevano dall'orologio, poi mise la mano su una pesante collana d'oro che aveva intorno al collo, oh, tutte le dita brillavano di anelli e di diamanti! E niente era falso.

    "Non riesco a rendermi conto!" esclamò l'uomo istruito. "Che significa?".

    "Certo non è una cosa comune" rispose l'ombra, "ma lei stesso non è un uomo comune, e io, lo sa bene, fin da piccolo ho seguito i suoi passi.

    Non appena lei ritenne che io fossi maturo per andarmene da solo per il mondo, me ne andai per la mia strada; ora la mia posizione è delle più brillanti, ma ho sentito una sorta di nostalgia e di desiderio di rivederla prima che muoia, perché lei dovrà pur morire! E poi volevo anche rivedere questi paesi: si ama sempre la propria patria. Mi risulta che lei possiede una nuova ombra: devo pagare qualcosa per lei o per quella? Basta che lo dica".

    "No, sei proprio tu?" disse l'uomo istruito, "è veramente straordinario! Non avrei mai immaginato che la propria vecchia ombra potesse tornare, e tornare come uomo!".

    "Mi dica cosa devo pagarle" ripeté l'ombra, "perché non mi piace essere in debito".

    "Ma come puoi parlare in questo modo?" disse l'uomo istruito. "Di che debito parli? sei libero come tutti! Mi rallegro moltissimo per la tua fortuna! Accomodati vecchio amico, e raccontami un po' come te la sei passata, e che cosa hai visto là dirimpetto, nella casa dei vicini, nei paesi caldi".

    "Sì, glielo racconterò" rispose l'ombra, e sedette, "ma lei mi deve promettere che non dirà mai in città, ovunque mi incontri, che sono stato la sua ombra. Intendo fidanzarmi; posso mantenere anche più di una famiglia con i mezzi che ho".

    "Sta' tranquillo" disse l'uomo istruito, "non dirò a nessuno chi tu sia in realtà. Eccoti la mia mano, te lo prometto: parola di gentiluomo!".

    "Parola di ombra!" disse l'ombra, e che altro poteva dire?

    In realtà era proprio straordinario quanto fosse uomo; era vestito tutto di nero e con abiti finissimi, calzava stivaletti lucidi e un cappello che si poteva schiacciare in modo che si appiattisse, per non dire di quello che sappiamo già, i ciondoli, la collana d'oro, gli anelli di diamanti; era davvero ben vestita, ed era questo che la rendeva uguale a un uomo.

    "Ora racconterò" disse l'ombra, e intanto poggiò più forte che poté i piedi dagli stivaletti lucidi sul braccio della nuova ombra di quell'uomo istruito, che se ne stava come un barboncino ai piedi del padrone; e forse lo fece per superbia, o forse per tentare di attaccarla a sé, ma quell'ombra che giaceva a terra se ne restò quieta ad ascoltare: voleva sapere come si faceva a diventare liberi e a raggiungere la posizione del proprio padrone.

    "Lei sa chi abitava nella casa dei vicini?" domandò l'ombra, "era la cosa più bella di tutti: la poesia! Io restai lì per tre settimane e fu come se avessi vissuto tremila anni e avessi letto tutto quanto è stato scritto, in prosa e in versi. Glielo dico io, mi può credere: ho visto tutto e so tutto!".

    "La poesia!" esclamò l'uomo istruito. "Sì, sì, lei spesso fa l'eremita nelle grandi città. La poesia! L'ho vista solo per un brevissimo attimo, ma il sonno mi annebbiava ancora la vista. Era sul balcone e splendeva come l'aurora boreale! Racconta, racconta, tu eri sul balcone, sei entrato dalla porta, e dopo?".

    "Dopo mi trovai nell'anticamera" disse l'ombra, "mentre lei è rimasto seduto a guardare verso l'anticamera. Non c'era affatto luce, c'era una specie di penombra, ma le porte di una lunga sequenza di sale erano tutte aperte; e lì sì che c'era luce: io ne sarei stato folgorato se fossi arrivato fino in fondo, fino alla fanciulla; ma rimasi indietro, presi tempo, è così che bisogna fare!".

    "E poi che cosa hai visto?" chiese l'uomo istruito.

    "Ho visto tutto e glielo racconterò; ma, e non è certamente per superbia, libero come sono e con tutte le mie conoscenze, senza parlare della mia posizione e delle mie eccezionali possibilità, desidererei che lei mi desse del lei".

    "Mi scusi!" disse l'uomo istruito. "E' una vecchia abitudine, che non si perde. Lei ha completamente ragione, e io dovrò ricordarmelo. Ma ora mi racconti tutto quello che ha visto".

    "Tutto!" disse l'ombra, "perché io ho visto tutto e so tutto".

    "Com'erano le sale più interne?" chiese l'uomo istruito. "Era come stare nella frescura di un bosco? era come stare in una chiesa? Erano sale che assomigliavano al cielo pieno di stelle, quando ci si trova in cima alle montagne?".

    "Là c'era tutto!" rispose l'ombra. "E poi io non entrai interamente, restai nelle prime stanze, in penombra, ma anche lì si stava molto bene, e da lì ho visto tutto e ora so tutto! Sono stato alla corte della poesia, nell'anticamera".

    "Ma cos'è che ha visto? Per le sale passeggiavano tutte le divinità dei tempi passati? Combattevano i vecchi eroi? giocavano dei bambini raccontando i loro sogni?".

    "Le dico che ero lì e lei capirà che ho visto tutto quanto c'era da vedere! Se fosse stato lei a passare dall'altro lato della strada non sarebbe diventato un uomo, ma io lo diventai. E al tempo stesso imparai a conoscere la mia natura più intima, la mia essenza, la parentela che avevo con la poesia. Quando stavo insieme a lei, non ci pensavo mai, ma lei lo sa bene, quando il sole sorgeva e quando tramontava io diventavo terribilmente grande, mentre al chiaro di luna ero quasi più pallido di lei, allora io non capivo la mia natura, ma nell'anticamera la compresi!

    Diventai uomo, uscii maturo di là, ma lei non stava più in quei paesi caldi, io mi provavo vergogna come uomo ad andare in giro nello stato in cui ero, avevo bisogno di stivali, di abiti, di tutta quella vernice che rende riconoscibile un uomo. Allora mi nascosi, a lei posso dirlo, tanto non lo scriverà in nessun libro, sotto la gonna di una vecchia che vendeva le torte per la strada. Mi nascosi là sotto, la donna non sapeva per nulla che cosa nascondeva; solo di sera uscii, andai per la strada sotto il chiaro di luna, mi allungai su per i muri, cosa che fa un gradevolissimo solletico lungo la schiena. Corsi su e giù, guardai dentro le finestre più alte, quelle delle sale e dei tetti, guardai dove nessuno era in grado di guardare e vidi ciò che nessun altro vedeva, quello che nessuno doveva vedere! In fondo è un mondo misero! Io non avrei voluto diventare uomo, se non fosse stabilito che è una cosa importante! Vidi azioni tremende, compiute da donne, da uomini, dai genitori, e perfino da quei deliziosi bambini, vidi" proseguì l'ombra, "quello che nessuno deve vedere, ma che tutti sarebbero molto felici di vedere: il male del vicino. Se avessi pubblicato un giornale, quello eccome che sarebbe stato letto! Ma io scrissi direttamente alle persone, e seminai il terrore in tutte le città in cui arrivavo. Tutti ebbero paura di me! E allora sì che mi volevano bene! I professori mi nominarono professore, i sarti mi diedero vestiti nuovi, e così sono ben fornito, il capo della zecca coniò monete nuove per me e le donne dissero che ero tanto bello! Così diventai l'uomo che ora sono. E adesso la saluto, ecco il mio biglietto da visita: abito dal lato del sole e sono sempre in casa quando piove". E così l'ombra se ne andò.

    "E' davvero strano!" si disse l'uomo istruito.

    Passarono giorni, e anni, poi l'ombra ritornò.

    "Come va?" chiese.

    "Ah!" rispose l'uomo istruito, "scrivo parlando del vero, del bello e del buono, ma a nessuno importa sentire cose del genere: sono proprio disperato, perché me la prendo tanto a cuore!".

    "Ma io no!" disse l'ombra. "Io ingrasso, e questo bisogna tentare di fare! Lei non sa vivere in questo mondo, e le andrà male per questo.

    Dovrebbe viaggiare; io farò un viaggio quest'estate, vuol venire anche lei? Mi farebbe piacere avere un compagno di viaggio. Vuole viaggiare come me, come ombra? Sarebbe un grande piacere averla con me, pago io il viaggio".

    "Questo è davvero troppo!" esclamò l'uomo istruito.

    "Dipende da come si prendono le cose" rispose l'ombra. "Le farebbe veramente bene viaggiare. Se vuole essere la mia ombra, non dovrà pagare nulla per il viaggio".

    "E' cosa da pazzi!" esclamò l'uomo istruito.

    "Ma così va il mondo" replicò l'ombra, "e tale resterà!" e se ne andò.

    L'uomo istruito non se la passava per niente bene, dolori e fastidi lo perseguitavano, e quello che lui raccontava sulla verità, sul bene e sulla bellezza faceva alla maggior parte della gente l'effetto che potrebbero fare le rose a una vacca. Alla fine si ammalò.

    "Si sta riducendo a un'ombra!" gli diceva la gente, e questo spaventava molto quell'uomo istruito.

    "Dovrebbe andare in una località termale" gli disse l'ombra che era andata a fargli visita, "non c'è altro da fare! La porterò con me, in virtù della nostra vecchia amicizia; io sosterrò le spese del viaggio e lei lo descriverà, così il viaggio sarà divertente.

    Voglio appunto andare a curarmi in una località termale: la mia barba non cresce come dovrebbe, anche questa è una malattia, la barba bisognerebbe averla! Sia ragionevole, accetti la mia proposta, viaggeremo come compagni di viaggio".

    Così viaggiarono; l'ombra era il padrone e il padrone faceva da ombra; andarono insieme in carrozza, cavalcarono insieme, camminarono insieme, uno accanto all'altro, uno davanti e uno dietro, a seconda della posizione del sole. L'ombra curava sempre di mettersi dalla parte del padrone; ma l'uomo istruito non pensava a queste cose: aveva buon cuore ed era mite e gentile, così un giorno disse all'ombra:

    "Visto che siamo diventati compagni di viaggio, e che siamo cresciuti insieme dall'infanzia, potremmo anche darci del tu, sarebbe molto meglio!".

    "Bene" rispose l'ombra che ora era il vero padrone. "Lei ha parlato con grande benevolenza e schiettezza, e io vorrei fare altrettanto.

    Lei, da uomo istruito, sa di certo com'è strana la natura. Talune persone non tollerano di toccare la carta grigia da pacco, e stanno male, altri hanno brividi per tutto il corpo quando una punta striscia contro un vetro; io provo una strana sensazione quando lei mi dà del tu, mi sento come appiattito a terra nella mia posizione di prima.

    Come vede si tratta di una sensazione, non di superbia; così io non le posso consentire di darmi del tu, ma se lo desidera posso senz'altro dare del tu io a lei, e qualcosa avremo ottenuto ugualmente".

    E così l'ombra diede del tu al suo precedente padrone.

    "Certo che è da pazzi!" pensò lui, "che io gli debba dare del lei e che lui mi dia del tu!". Ma ormai non c'era niente da fare.

    Così arrivarono alla località termale, dove c'erano molti stranieri e tra questi una graziosa figlia di re, che aveva la malattia di vedere fin troppo bene, il che era molto preoccupante.

    Notò subito che il nuovo arrivato era una persona ben diversa dalle altre. "E' qui per farsi crescere la barba, dicono, ma io vedo il vero motivo: non può fare ombra!".

    Divenne parecchio curiosa e nel corso della passeggiata si mise subito a parlare con quello straniero. Come figlia di re non aveva certo bisogno di star lì a far tanti complimenti; così disse: "La sua malattia è che non sa fare ombra".

    "Sua Altezza Reale sta certamente guarendo" rispose l'ombra, "io so che la sua malattia è di vedere fin troppo bene, ma ora non ce l'ha più perché io in realtà ho un'ombra meravigliosa! Non vede quel tipo che viene sempre con me? L'altra gente ha un'ombra normale, ma a me non piace quello che è troppo comune. Diamo ai nostri servi vestiti più eleganti di quelli che portiamo noi, e così io ho permesso alla mia ombra di vestirsi da uomo. Vede bene che gli ho perfino dato un'ombra. E' molto dispendioso, ma mi piace avere qualcosa di speciale".

    "Come! come?" pensò la principessa, "allora sarei proprio guarita?

    Questa località è la migliore che ci sia! L'acqua poi ai nostri giorni ha delle proprietà meravigliose, ma io non me ne vado, perché adesso viene il bello; lo straniero mi piace moltissimo. Purché la barba non gli cresca, perché altrimenti se ne andrà".

    La sera nella grande sala da ballo la figlia del re ballò con l'ombra.

    Lei era leggera, ma lui era ancora più leggero, un tale ballerino lei non l'aveva mai avuto. Gli disse da quale paese proveniva e lui conosceva quel paese, c'era stato, ma quando lei non c'era, aveva guardato in tutte le finestre, in alto e in basso, aveva visto il tale e il tal altro, e così poteva rispondere alla figlia del re e fare allusioni di cui lei rimase molto meravigliata: doveva veramente essere l'uomo più saggio della terra! Provò un tale rispetto per quello che lui sapeva, che quando danzarono di nuovo s'innamorò di lui, e l'ombra se ne rese conto perché lei continuava a guardarlo fisso. Così ballarono ancora e lei stava per dirglielo, ma poi si trattenne: pensò al suo paese e al regno e a tutte le persone su cui avrebbe dovuto governare.

    "E' certamente un uomo saggio" disse tra sé, "e va bene! danza meravigliosamente, e pure questo va bene, ma chissà se ha una buona cultura? Anche questo è importante, dovrò esaminarlo." E così iniziò a porgli delle domande sulle cose più difficili, su cui lei stessa non sapeva rispondere; e l'ombra fece una strana faccia.

    "Ah, non sa rispondere!" disse la figlia del re.

    "Ma se questo l'ho imparato da bambino!" rispose l'ombra "credo addirittura che persino la mia ombra, laggiù alla porta, sarebbe in grado di rispondere!".

    "La sua ombra?" esclamò la figlia del re, "questo sì sarebbe strano!".

    "Non sono del tutto sicuro che lo sappia" aggiunse l'ombra, "ma credo di sì; ormai mi ha seguito dovunque per tanti anni e mi ha ascoltato, perciò lo dovrebbe sapere. Ma Sua Altezza Reale mi consenta di dirle che quella è di una tale superbia, a forza di andarsene in giro vestita come un uomo, che per farla stare di buon umore - il che è necessario perché risponda bene - bisogna trattarla come un uomo".

    "Mi piace l'idea!" disse la figlia del re. Così andò da quell'uomo istruito accanto alla porta e parlò con lui del sole e della luna, e degli uomini, visti da fuori e visti da dentro, e lui rispose in modo veramente intelligente.

    "Che uomo dev'essere, se ha un'ombra così saggia!" pensò lei, "sarebbe veramente una benedizione per il mio popolo e per il regno se io scegliessi lui come mio sposo, e lo farò!" Subito si misero d'accordo, sia la figlia del re che l'ombra, ma nessuno doveva saperne niente fintanto che lei non fosse tornata nel suo regno.

    "Nessuno, neppure l'ombra!" disse l'ombra.

    E aveva le sue buone ragioni per dirlo!

    Così giunsero nel paese dove la figlia del re regnava quando era a casa.

    "Senti, mio caro amico" disse l'ombra all'uomo istruito, "ora io sono proprio felice e molto importante, e intendo fare qualcosa di speciale per te: abiterai sempre insieme me al castello, viaggerai nella mia carrozza reale, e avrai centomila talleri d'oro all'anno, però devi lasciarti chiamare ombra da tutti, non devi dire che un tempo sei stato uomo, e una volta all'anno, quando uscirò sul balcone al sole per farmi vedere, ti dovrai allungare ai miei piedi come una vera ombra. Ora posso dirtelo: sposerò la figlia del re! Questa sera si terranno le nozze".

    "No, questo è troppo!" disse l'uomo istruito, "non voglio e non posso farlo; vuol dire ingannare l'intero paese, perfino la figlia del re; io dirò ogni cosa, dirò che sono un uomo e che tu sei l'ombra, e che sei solo travestito".

    "Nessuno ti crederà" rispose l'ombra, "sii ragionevole, altrimenti chiamerò le guardie!".

    "Vado immediatamente dalla figlia del re!" disse l'uomo istruito. "No, ci vado prima io" disse l'ombra, "e tu sarai arrestato!".

    E così avvenne, perché le guardie eseguirono gli ordini di colui che conoscevano come il futuro sposo della figlia del re.

    "Tu tremi!" disse la figlia del re quando l'ombra entrò da lei, "è successo qualcosa? Non ti devi ammalare proprio stasera, dobbiamo sposarci!".

    "Ho vissuto la più brutta esperienza che possa capitare!" esclamò l'ombra. "E' proprio vero che un povero cervello di ombra non può resistere a lungo. Pensa, la mia ombra è impazzita, crede d'essere lei l'uomo e che io, prova a immaginarti, sia la sua ombra!".

    "E' tremendo!" disse la principessa, "è stato rinchiuso?" "Sì, ma temo che non si riprenderà più." "Povera ombra!" sospirò la principessa, "sarà tanto infelice; credo che sarebbe una buona cosa se gli togliessimo quel poco di vita che ha, e a pensarci bene, credo che sia proprio necessario farlo in tutta tranquillità".

    "E' dura, però!" disse l'ombra, "perché era un servitore fedele", e prese a sospirare.

    "Che nobile carattere!" esclamò la figlia del re.

    Quella sera tutta la città era illuminata; i cannoni spararono: bum!, i soldati presentarono le armi; che matrimonio! La figlia del re e l'ombra uscirono sul balcone per farsi vedere e per ricevere un altro Hurrà!

    L'uomo istruito non udì nulla, perché gli avevano già tolto la vita.

     

     

     

  • LA PICCOLA FIAMMIFERAIA
  •  

    C'era un freddo tremendo, nevicava e cominciava a fare buio; ed era la sera dell'ultimo dell'anno. In mezzo al buio e al freddo una povera bimba, scalza e a capo scoperto, camminava per la strada; aveva pur le ciabatte quando era uscita di casa, ma a cosa le sarebbero servite?

    erano troppo grandi per lei, talmente grandi che negli ultimi tempi le aveva portate la mamma. E ora la piccina le aveva subito perse, quando due carri che passavano a forte velocità l'avevano obbligata a traversare la strada di corsa. Una ciabatta non le riuscì più di ritrovarla, e l'altra se la prese un ragazzo, dicendo che l'avrebbe usata come culla quando avesse avuto dei figli.

    Adesso la bimba camminava scalza, e i suoi piedini nudi erano viola dal freddo; in un vecchio grembiule aveva una gran quantità di fiammiferi e ne teneva un mazzetto in mano. Per tutto il giorno non ce l'aveva fatta a vendere niente e nessuno le aveva dato neppure una monetina; era lì affamata e infreddolita, e tanto avvilita, poveretta!

    I fiocchi di neve si posavano tra i suoi lunghi capelli dorati, che si arricciavano graziosamente sul collo, ma lei a questo non pensava di certo. Le luci splendevano dietro ogni finestra e per la via si spandeva un delizioso profumo di oca arrosto: era la sera dell'ultimo dell'anno, e proprio a questo lei stava pensando.

    A un angolo della strada fatto da due case, una più sporgente dell'altra, sedette e si rannicchiò, tirando a sé le gambette, ma aveva ancora più freddo e non osava tornare a casa. Temeva che suo padre l'avrebbe picchiata, perché non aveva venduto neppure un fiammifero e non aveva nemmeno un soldo.

    E poi faceva così freddo anche a casa! Avevano soltanto il tetto sopra di loro e il vento passava tra le fessure, anche se avevano cercato di tapparle con paglia e stracci.

    Le manine erano quasi congelate per il freddo. Ah! forse un fiammifero sarebbe servito a qualcosa. Doveva solo sfilarne uno dal mazzetto e sfregarlo contro il muro per scaldarsi un po' le dita.

    Ne prese uno, e "ritsch", contro il muro. Come scintillava! come ardeva! era una fiamma calda e chiara e pareva una piccola candela quando ci metteva intorno le manine. Che strana luce! La bimba credette di trovarsi seduta davanti a una stufa con i pomelli d'ottone, e il fuoco bruciava e scaldava così bene! No, che succede?

    stava già allungando i piedini per scaldarsi un po' pure quelli, quando la fiamma sparì. E insieme alla fiamma pure la stufa.

    E si ritrovò seduta per terra, con un pezzo di fiammifero bruciato tra le mani.

    Subito ne sfregò un altro, che illuminò il muro e lo rese trasparente come un velo. Così poté vedere dentro la stanza una bella tavola imbandita, con una tovaglia bianca e vasellame di porcellana e un'oca arrosto fumante, farcita di prugne e di mele!

    Improvvisamente l'oca saltò giù dal vassoio e si trascinò sul pavimento, già con la forchetta e il coltello infilzati nel dorso, proprio verso la bimba: ma in quel momento il fiammifero si spense e davanti alla bambina restò soltanto il muro freddo. Allora ne accese un altro. E si trovò ai piedi del più bello albero di Natale. Era persino più grande e più addobbato di quello che aveva visto l'anno prima dalla vetrina del ricco droghiere; migliaia di candeline ardevano sui rami verdi e figure variopinte pendevano dall'albero, proprio come quelle che decoravano le vetrine dei negozi.

    Pareva che guardassero verso di lei. La bimba alzò le manine per salutarle, ma il fiammifero si spense. Le innumerevoli candeline dell'albero di Natale salirono sempre più in alto, fino a diventare le chiare stelle del cielo; poi una di loro cadde, formando nel buio della notte una lunga striscia di fuoco. "Ora muore qualcuno!" disse la bimba, perché la sua vecchia nonna, la sola che era stata buona con lei, che però ora era morta, le aveva detto: "Quando cade una stella, allora un'anima va al Signore".

    Accese un altro fiammifero che illuminò tutt'intorno, e in quel chiarore la bimba vide la nonna, lucente e dolce!

    "Nonna!" gridò, "oh, portami con te! So che tu sparirai quando il fiammifero si spegne; sparirai come è scomparsa la stufa, l'oca arrosto, l'albero di Natale!".

    E accese tutti gli altri fiammiferi che aveva nel mazzetto, perché voleva trattenere la visione della nonna; e i fiammiferi bruciarono con tanto splendore che era più chiaro che di giorno.

    La nonna non era mai stata così bella, così grande. Attirò a sé la bimba e la tenne in braccio; insieme si elevarono sempre più nel chiarore e nella gioia. Ora non c'era più né freddo, né fame, né paura: si trovavano presso Dio.

    La bambina fu trovata il mattino dopo in quell'angolo della strada, con le guance rosse e il sorriso sulle labbra. Era morta, morta di freddo l'ultima sera del vecchio anno. L'anno nuovo avanzava sul suo piccolo corpicino, circondato dai fiammiferi mezzo bruciacchiati.

    "Ha voluto scaldarsi" commentò qualcuno, ma nessuno poteva sapere le cose belle che lei aveva visto, né in quale chiarore era entrata con la sua vecchia nonna, nella gioia dell'Anno Nuovo!

     

     

     

  • IL FOLLETTO DEL DROGHIERE
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    C'era una volta un vero studente, il quale viveva in una mansarda e non possedeva niente; c'era pure un vero droghiere, che abitava al pianterreno e possedeva l'intera casa. Il folletto stava sempre con quest'ultimo perché la sera di ogni Natale riceveva una tazza di riso e latte con un grosso pezzo di burro. Il droghiere poteva permettersi di darglielo, perciò il folletto rimaneva nel negozio, e così imparava parecchio.

    Una sera lo studente entrò dal retrobottega per comprare una candela e del formaggio; non aveva nessuno da mandare, ed era sceso lui stesso.

    Gli diedero quel che aveva chiesto, lui pagò e fu salutato con un cenno dal droghiere e dalla moglie, una donna che, altro che far cenno, aveva il dono dell'eloquenza! Lo studente rispose al saluto e abbassò lo sguardo per leggere il foglio di carta dove era stato avvolto il formaggio. Era un foglio strappato da un vecchio libro che mai avrebbe dovuto essere fatto a pezzi perché pieno di poesia.

    "Ne ho altri di quei fogli" esclamò il droghiere. "Il libro mi è stato dato una vecchietta per pochi chicchi di caffè, se mi dà otto scellini, le do tutto quello che ne rimane".

    "Grazie" rispose lo studente, "lo prenderò invece del formaggio. Posso anche mangiare il pane da solo, mentre sarebbe un peccato se tutto il libro venisse fatto a pezzetti. Lei è un'ottima persona, molto pratica, ma di poesia non ne capisce più di quel barile".

    Non erano parole tanto gentili, soprattutto per il barile, ma il droghiere rise e pure lo studente si mise a ridere; l'aveva detto per scherzare. Ma il folletto si arrabbiò: come ci si permetteva di scherzare sul droghiere, che era il padrone di casa e vendeva del burro eccellente?

    Quando si fece sera, la bottega venne chiusa e tutti andarono a dormire, tranne lo studente; allora il folletto andò a prendere la lingua della padrona, che lei non usava quando dormiva. Qualunque cosa sulla quale venisse posata acquisiva subito la parola e aveva la facoltà di esprimere i propri pensieri e i propri sentimenti esattamente come la padrona; ma poteva farlo un oggetto solo per volta, e questo era un vantaggio, perché diversamente avrebbero parlato tutti insieme.

    Il folletto poggiò la lingua sul barile, dove c'erano i giornali vecchi. "E' proprio vero" domandò, "che non sai cos'è la poesia?".

    "Certo che lo so" rispose il barile, "è una cosa che sta scritta nella parte inferiore dei giornali e che viene ritagliata; credo addirittura di averne dentro di me più dello studente, mentre per il droghiere sono solo un povero barile".

    Il folletto pose la lingua sopra il macinino del caffè, oh, quanto parlava! poi la posò sul mastello del burro e sul cassetto del denaro.

    Tutti condividevano il parere del barile e si deve sempre rispettare il parere della maggioranza.

    "Ora vado a sentire lo studente!" e il folletto salì pian piano le scale della cucina fino alla mansarda, dove abitava lo studente.

    Dentro c'era luce e il folletto guardò dal buco della serratura e vide che lo studente stava leggendo quel libro stracciato. Che luce emanava! Dal libro partiva un raggio trasparente, che si trasformava prima in tronco, poi in un gigantesco albero che si alzava altissimo ed estendeva i suoi rami sopra lo studente. Ogni foglia era freschissima e i fiori erano graziose teste di fanciulla, certune con occhi neri e lucenti, altre azzurri e straordinariamente trasparenti.

    Ogni frutto era una stella lucente, e risuonava un canto meraviglioso.

    Una tale meraviglia il folletto non l'aveva mai immaginata, figuratevi poi se vista o udita! Rimase immobile in punta di piedi, guardò fino a quando la luce non si spense. Lo studente spense la lampada e si mise a letto, ma il folletto restò lì lo stesso, perché il canto continuava a risuonare dolcissimo e meraviglioso, come una ninna nanna per lo studente che era andato a riposare.

    "Che meraviglia!" esclamò il piccolo folletto, "non me lo sarei mai aspettato! Credo che rimarrò dallo studente!". Poi ci pensò sopra e alla fine sospirò: "Lo studente non ha il riso col latte!" così se ne andò, sì, se ne ritornò dal droghiere. E fece bene a tornare perché il barile aveva quasi consumato tutta la lingua della padrona, per raccontare, facciata per facciata, tutto ciò che aveva dentro di sé, e ora stava per girarsi e raccontare quello che c'era sulle altre facciate. Il folletto si riprese la lingua e la riportò alla padrona; ma il negozio intero, dal cassetto dei soldi alle fascine per ardere, a partire da quel momento fu dello stesso parere del barile e lo stimò a tal punto ed ebbe tanta fiducia che, quando alla sera il droghiere si cominciava a leggere "Critiche d'arte e teatro" dal suo giornale, credeva fosse farina del barile.

    Il piccolo folletto non se ne stava più tranquillo a sentire tutte quelle cose sagge e ragionevoli che si dicevano laggiù; appena vedeva accendersi la luce nella mansarda era come se i raggi lo attirassero lassù come delle robuste gomene, e lui si sentiva costretto a salire e a guardare dal buco della serratura. Là veniva colto da un senso di grandezza, come quello che proviamo noi davanti al mare agitato, quando Dio è presente con la tempesta. Poi scoppiava a piangere, senza neanche sapere il perché, ma quel pianto era per lui come una benedizione. Sarebbe stato meraviglioso stare insieme allo studente sotto quell'albero, ma non poteva essere così, e lui s'accontentava del buco della serratura. Stava nel freddo corridoio anche quando il vento dell'autunno soffiava dalla botola del soffitto e portava un freddo tremendo, ma il piccolo folletto se ne accorgeva solo quando si spegneva la luce della mansarda e la musica si perdeva nel vento. Uh!

    allora rabbrividiva e se ne ritornava nel suo angolino tiepido; era così comodo e gradevole! Quando poi riebbe il suo riso col latte di Natale con un bel pezzo di burro, allora il droghiere ritornò a essere il suo campione!

    Ma nel cuore della notte il folletto si destò a causa di un terribile baccano: la gente picchiava sulle imposte delle finestre e il guardiano fischiava, c'era un grosso incendio, tutta la strada era in fiamme. Era in casa loro o nella casa di fronte? Dove? Che paura! La moglie del droghiere era talmente sconvolta che si levò gli orecchini d'oro e se li mise in tasca. Tanto per salvare qualcosa. Il droghiere andò a cercare le sue obbligazioni e la domestica andò a prendere il suo scialle di seta, l'unico lusso che si poteva permettere. Ognuno cercava di salvare le cose più belle e la stessa cosa volle fare anche il folletto; con un balzo fu in cima alle scale, dallo studente:

    questi se ne stava tranquillo alla finestra a guardare l'incendio, che infuriava nel cortile dei vicini. Il piccolo folletto afferrò dal tavolo quel libro straordinario, lo cacciò nel suo berretto rosso e lo tenne con tutte e due le mani: il tesoro della casa era salvo. Così corse fino al tetto, sopra al comignolo, e lì se ne stette, seduto, illuminato dalla casa di fronte che bruciava, tenendo stretto tra le mani il berretto rosso in cui c'era il suo tesoro. In quell'istante conobbe il suo cuore, e capì a chi apparteneva; ma quando il fuoco fu spento e lui ricominciò a riflettere, disse: "Sì, mi dividerò tra loro. Non posso fare a meno del droghiere, a causa del riso col latte!".

    E questo è molto umano! Anche noi andiamo dal droghiere, per il riso.

     

     

     

  • GIANBABBEO
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    In campagna si trovava una fattoria dove viveva un fattore con due figli, con tanto cervello che anche la metà sarebbe bastata. Volevano chiedere in sposa la figlia del re e avrebbero osato farlo perché lei aveva fatto sapere che avrebbe sposato chi avesse saputo tenere meglio una conversazione.

    I due si prepararono per una settimana, il periodo più lungo concesso, ma per loro sufficiente dato che avevano già una certa cultura, la qual cosa tornò loro utile. Uno conosceva tutto il vocabolario latino e le ultime tre annate del giornale del paese che sapeva recitare da cima a fondo e viceversa, l'altro si era studiato tutti i regolamenti delle corporazioni d'arti e mestieri e aveva imparato tutto quanto deve sapere il decano di una corporazione; così riteneva di potersi pronunciare sui problemi dello stato, e in più imparò pure a ricamare le bretelle, essendo di gusti raffinati e molto abile.

    "Io otterrò la figlia del re!" dicevano tutt'e due. Il padre diede a ciascuno un bellissimo cavallo; l'esperto di vocabolario e di giornali lo ebbe nero come il carbone, quello che era saggio come un vecchio decano e che sapeva ricamare, bianco come il latte. Dopo si unsero gli angoli della bocca con olio di fegato di merluzzo, di modo che scorressero meglio. Tutti i servitori erano andati in cortile per vederli montare a cavallo; in quel momento arrivò il terzo fratello; infatti erano in tre, ma il terzo nessuno lo teneva in considerazione perché non aveva la stessa cultura degli altri due e infatti lo chiamavano Gianbabbeo.

    "Dove state andando vestiti così a festa?" domandò.

    "A corte per conquistare con la conversazione la figlia del re. Non hai sentito ciò che il banditore ha annunciato in tutto il paese?" e glielo spiegarono.

    "Accidenti! Allora vengo pure io!" esclamò Gianbabbeo, ma i fratelli risero di lui e partirono.

    "Padre, dammi un cavallo!" gridò Gianbabbeo. "M'è venuta gran voglia di sposarmi. Se mi vuole, bene, e se non mi vuole, la voglio io".

    "Quante storie!" rispose il padre. "Non ti darò nessun cavallo. Tu non sei capace di conversare; i tuoi fratelli sì che sono in gamba!".

    "Se non potrò avere un cavallo" concluse Gianbabbeo, "mi prenderò il caprone, quello è mio e mi potrà certo portare". E così montò sul caprone, lo spronò con i calcagni nei fianchi, e via di corsa per la strada maestra. Oh, come cavalcava!

    "Arrivo!" gridava, e si mise a cantare a squarciagola.

    I fratelli cavalcavano avanti a lui in silenzio; non dicevano una parola perché dovevano pensare a tutte le belle trovate che avrebbero avuto, per poter conversare con arguzia.

    "Ehi, là!" gridò Gianbabbeo, "sto arrivando anch'io! Guardate cosa ho trovato per strada!" e gli fece vedere una cornacchia morta.

    "Babbeo!" risposero i due, "cosa ne vuoi fare?".

    "Voglio portarla in dono alla figlia del re!".

    "Fai pure" dissero ridendo, e continuarono a cavalcare.

    "Ehi, voi, arrivo! Guardate che cosa ho trovato ora, non è una cosa che si trova tutti i giorni sulla strada maestra!...".

    I fratelli si girarono di nuovo per vedere cos'era. "Babbeo!" dissero, "è un vecchio zoccolo di legno a cui manca la punta! Pure questo è per la figlia del re?".

    "Sicuro!" rispose Gianbabbeo; i fratelli risero e cavalcarono via distanziandolo di un bel po'.

    "Ehi, eccomi qui!" gridò Gianbabbeo. "Oh, oh! va sempre meglio! Ehi, è una vera meraviglia!".

    "Che cos'hai trovato adesso?" chiesero i fratelli.

    "Oh, una cosa incredibile!" disse Gianbabbeo, "chissà come sarà contenta la figlia del re!".

    "Ma è fango appena preso dal fosso!" esclamarono i fratelli.

    "Proprio così" rispose Gianbabbeo, "e della migliore qualità, non si riesce neppure a tenerlo!" e si riempì la tasca.

    I fratelli cavalcarono via, spronando più che poterono i cavalli, e arrivarono un'ora prima di lui alla porta della città dove ricevettero un numero d'ordine, come tutti gli altri aspiranti via via che arrivavano. Poi venivano messi in fila, sei alla volta, e stavano talmente stretti da non poter muovere le braccia, ma era meglio così perché altrimenti si sarebbero rotti le costole a gomitate solo perché uno si trovava davanti all'altro.

    Tutti gli altri abitanti del paese si erano riuniti intorno al castello e si arrampicarono fino alle finestre per vedere la figlia del re ricevere gli aspiranti: appena uno si trovava nella sala, restava senza parole.

    "Non vale nulla!" diceva la figlia del re. "Via!".

    Entrò il primo dei fratelli, quello che sapeva il vocabolario, ma lo aveva scordato stando in fila; inoltre il pavimento scricchiolava e il soffitto era tutto uno specchio, così lui si vedeva a testa in giù; e poi a ogni finestra c'erano tre scrivani e un caposcrivano, che scrivevano tutto ciò che veniva detto perché venisse subito pubblicato sul giornale e venduto all'angolo per due soldi. Era terribile; e inoltre la stufa era così calda che il tubo era diventato tutto rosso.

    "Fa così caldo qui dentro!" disse il pretendente.

    "E' perché oggi mio padre deve arrostire i galletti", rispose la figlia del re.

    "Ah!" e si fermò; non si aspettava una conversazione di quel genere e non seppe più che dire, dato che voleva dire qualcosa di spiritoso.

    "Ah!".

    "Non vale niente!" concluse la figlia del re. "Via!" e così quello se ne dovette andare. Entrò quindi suo fratello.

    "Qui fa un caldo terribile!" disse.

    "Sì, arrostiamo i galletti, oggi" rispose la figlia del re.

    "Come? Cosa?" disse lui, e tutti gli scrivani registrarono: come?

    cosa?

    "Non va bene!" esclamò la figlia del re. "Via!".

    Poi entrò Gianbabbeo, ancora sopra il suo caprone. "Qui dentro c'è un caldo da bruciare!" disse.

    "E' perché arrostiscono galletti!" spiegò la figlia del re.

    "Molto bene!" esclamò Gianbabbeo. "Possono arrostire anche la mia cornacchia?".

    "Sicuro che possono" rispose la figlia del re, "ma lei ha qualcosa in cui metterla dentro? Noi non abbiamo né pentole, né padelle".

    "Ce l'ho!" disse Gianbabbeo. "Ecco qui una padella, col manico di stagno!" e tirò fuori il vecchio zoccolo e ci mise dentro la cornacchia.

    "E' un pranzo completo!" commentò la figlia del re. "Ma dove troveremo il sugo?".

    "Lo tengo in tasca" disse Gianbabbeo, "ne ho così tanto da poterne buttar via!" e intanto versò un po' di fango dalla tasca.

    "Mi piaci! " esclamò la figlia del re. "Tu sì che sai rispondere. E sai anche parlare, perciò ti voglio come marito. Ma sai che ogni parola che diciamo e che abbiamo detto viene trascritta e uscirà sul giornale di domani? A ogni finestra siedono tre scrivani e un vecchio caposcrivano, e questo è il peggiore di tutti, perché non capisce niente!". Disse così per spaventarlo. Tutti gli scrivani si misero a ridere e macchiarono di inchiostro il pavimento.

    "Ah, dunque sono loro i padroni!" esclamò Gianbabbeo. "Allora devo dare la parte migliore al capo! " e rovesciò la tasca e gli gettò del fango proprio in faccia.

    "Ben fatto! " disse la figlia del re. "Io non ne sarei mai stata capace, ma imparerò presto!".

    E così Gianbabbeo diventò re, ebbe una sposa e una corona e sedette sul trono. L'abbiamo appena saputo dal giornale del caposcrivano ma di quello lì è meglio non fidarsi.

     

     

     

  • L'ULTIMO SOGNO DELLA VECCHIA QUERCIA
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    (Storia di Natale)

    Nel bosco sopra la collina, verso la spiaggia aperta, c'era una vecchissima quercia che aveva proprio trecentosessantacinque anni, ma questo lungo periodo di tempo corrisponde per la quercia a non più di altrettanti giorni per noi uomini, noi ci svegliamo al mattino, dormiamo di notte e facciamo i nostri sogni; per gli alberi è diverso:

    stanno svegli per tre stagioni e dormono solo d'inverno, l'inverno è il loro periodo di riposo, è la loro notte dopo il lungo giorno che si chiama primavera, estate e autunno.

    Per molte giornate estive le effimere avevano danzato intorno alla sua corona di foglie, avevano vissuto, volato ed erano state felici, e quando quelle creaturine si riposavano un attimo, nella loro beatitudine, su una delle grosse foglie fresche della quercia, questa diceva: "Poverine! Tutta la vostra vita dura un giorno soltanto! com'è breve! è così triste!".

    "Triste?" rispondevano sempre le effimere, "che cosa vuoi dire? Tutto è straordinariamente limpido, talmente caldo e bello, e noi siamo felici!".

    "Ma dura solo un giorno, poi tutto è finito!".

    "Finito?" dicevano le effimere, "che cosa è finito? Pure tu finisci?".

    "No, io vivrò probabilmente ancora migliaia dei vostri giorni e la mia giornata corrisponde a un anno intero. E' un tempo così lungo che non potete neppure immaginarlo!".

    "No, ma non ti capiamo. Tu hai migliaia dei nostri giorni, ma noi abbiamo migliaia di momenti di gioia e di felicità! Finirà tutta la bellezza di questo mondo, quando tu morirai?" "No" rispose l'albero, "durerà sicuramente a lungo e molto più a lungo di quanto si possa pensare!".

    "Allora è proprio la stessa cosa, solo che calcoliamo in modo diverso!".

    L'effimera danzò e si mosse nell'aria, si rallegrò per le sue sottili ali ben fatte di velluto e di veli, si rallegrò per l'aria mite dove si spandeva un intenso profumo che veniva dal campo di trifoglio e dalle rose selvatiche della siepe, dal sambuco e dal caprifoglio, per non parlare dell'asperula odorosa, della primula e della menta selvatica; il profumo era così intenso che all'effimera sembrò di essere un po' ubriaca. Il giorno fu lungo e bellissimo, colmo di gioia e di dolci sensazioni; quando il sole tramontò l'effimera si sentì, come sempre, piacevolmente stanca per tutto quel divertimento. Le ali non la volevano più sostenere, così si posò piano piano su un morbido stelo d'erba ondeggiante, piegò la testa come poté e si addormentò felice: era la morte.

    "Povera piccola effimera!" esclamò la quercia, "è stata una vita molto breve!".

    Ogni giorno d'estate si ripeteva la stessa danza, lo stesso discorso, la stessa risposta, e lo stesso sonno finale; si ripeteva per ogni generazione di effimere e tutte erano ugualmente felici, ugualmente gaie. La quercia rimase sveglia al mattino della primavera, al mezzogiorno dell'estate e alla sera dell'autunno; ora era quasi tempo di dormire: la sua notte, l'inverno, stava per arrivare.

    Già le tempeste cantavano: "Buona notte! Buona notte! E' caduta una foglia, un'altra! Noi le raccogliamo. Cerca di dormire! Ti canteremo la ninna nanna, ti scuoteremo nel sonno, ma questo fa bene ai rami vecchi, vero? Stanno già scricchiolando dalla gioia! dormi bene! dormi bene! E' la tua trecentosessantacinquesima notte, in realtà hai solamente un anno! dormi bene! Le nuvole spargeranno addosso la neve che diventerà come un lenzuolo, un tiepido tappeto ai tuoi piedi; dormi bene e sogni d'oro!".

    La quercia si svestì del suo fogliame per potersi riposare nel lungo inverno e sognare tante volte, sempre qualche esperienza vissuta, proprio come i sogni degli uomini.

    Una volta era stata piccola e aveva preso origine da una ghianda; stando al calcolo degli uomini stava vivendo il suo quarto secolo; era l'albero più grande e più robusto del bosco: con la sua corona dominava su tutti gli altri alberi e la si poteva vedere anche da molto lontano, dal mare aperto costituiva un punto di riferimento per le navi. Non sapeva neppure quanti occhi la cercavano. In cima alle sue fronde verdi si era stabilita la colomba, e il cuculo gridava il suo cucù; in autunno, quando le foglie parevano lamine di rame battuto, arrivavano gli uccelli migratori e ci si riposavano prima di partire verso il mare aperto. Ma ora era inverno, l'albero era senza foglie, e si vedeva chiaramente il disegno dei rami contorti e nodosi.

    Le cornacchie e i corvi ci si posavano a turno e parlavano dei tempi difficili che stavano per arrivare e delle difficoltà invernali per trovare il cibo.

    Era quasi il giorno di Natale quando la quercia fece il suo più bel sogno: ascoltiamolo!

    Ebbe la sensazione che quella fosse una giornata di festa, le sembrò di sentire tutte le campane delle chiese suonare a festa, e le sembrò anche che fosse un bel giorno d'estate, tanto l'aria era calda e mite; la quercia allargava il suo fitto fogliame, fresco e verde, i raggi del sole giocavano tra i rami e le foglie, l'aria era carica del profumo delle erbe e dei cespugli, le farfalle variopinte giocavano "a prendersi" e le effimere danzavano; era come se tutto esistesse perché potessero ballare e divertirsi. Tutto ciò che l'albero aveva vissuto e visto durante i suoi lunghi anni di vita, gli sfilò dinanzi, come in un corteo. Vide cavalieri e dame dei tempi antichi, con le piume sui cappelli e i falchi in pugno, cavalcare nel bosco; il corno da caccia risuonò e i cani abbaiarono. Vide i soldati nemici con armi lucenti, vestiti variopinti e lance e alabarde, montare e smontare le tende; i fuochi delle sentinelle bruciavano e si cantava e si dormiva sotto i rami tesi della quercia. Vide pure gli innamorati che s'incontravano pieni di gioia al chiaro di luna e incidevano i loro nomi, le loro iniziali, nella sua corteccia grigio-verde.

    Una volta, tantissimi anni prima, cetre e arpe eolie erano state appese ai suoi rami da alcuni giovani viaggiatori; adesso erano ancora lì appese e risuonavano con tanta dolcezza. Le colombe tubavano come se volessero raccontare quello che l'albero provava, e il cuculo gridò il suo cucù per tante volte quante erano i giorni d'estate che la quercia avrebbe vissuto.

    Fu come se un nuovo flusso di vita scorresse dalle più piccole radici fino ai rami più esposti, fino alle foglie; l'albero sentì che si stava allargando, sentì con le radici che anche nella terra c'era vita e calore; sentì crescere le sue forze e crebbe sempre più alto. Il tronco s'innalzò senza un attimo di pausa, continuò a crescere, la corona di foglie si fece più fitta, si allargò, si sollevò, e crescendo l'albero, cresceva anche la sua sensazione di benessere, il suo desiderio beatificante di andare sempre più in alto, fino al caldo sole lucente.

    Ormai era già cresciuto oltre le nubi, che come schiere di neri uccelli migratori o come stormi di grandi cigni bianchi passavano sotto di lui!

    Ogni foglia della quercia poteva vedere quasi come se avesse avuto gli occhi, le stelle si vedevano alla luce del giorno, così grosse e luccicanti, brillavano come occhi chiari e trasparenti e ricordavano tutti quei cari occhi conosciuti, appartenuti ai bambini, agli innamorati che si erano incontrati sotto la quercia.

    Che momento stupendo e quale gioia! Eppure, in tutta quella gioia, la quercia sentì nostalgia, ed ebbe il desiderio che tutti gli altri alberi del bosco, tutti i cespugli, le erbe e i fiori si potessero elevare insieme a lei, e potessero provare quella gioia e godere di quello splendore. La grande quercia, nel suo sogno di grandezza, non era del tutto felice se non aveva con sé tutti quanti, grandi e piccoli, e questo sentimento si ripercosse profondamente tra le foglie e i rami, come fosse stato un cuore umano.

    Il fogliame della quercia ondeggiò quasi in un gesto di nostalgia, riandò al passato e risentì il profumo delle asperule e subito dopo, ancor più intenso, quello dei caprifogli e delle viole; poi le parve di sentire il cuculo cantare.

    Tra le nuvole si affacciavano le cime verdi degli altri alberi del bosco; la quercia vide che, sotto di sé, gli altri alberi crescevano e si innalzavano come lei, i cespugli e le erbe si tendevano verso l'alto; alcuni di loro si liberarono delle radici e si innalzarono prima degli altri. La betulla fu la più veloce, come un lucente raggio bianco il suo tronco slanciato si allungò, i rami si piegarono come verdi veli o bandiere, l'intera natura del bosco, persino le canne brune e piumate, cresceva insieme alla quercia, e gli uccelli la seguivano cantando; su un filo d'erba che pareva un nastro svolazzante di seta verde c'era una cavalletta che suonava con le ali; i maggiolini borbottavano e le api ronzavano; ogni uccello usava il proprio strumento, e tutto fu un canto unico di gioia verso il cielo.

    "Quel fiorellino rosso che si trovava vicino all'acqua, anche lui doveva salire!" esclamò la quercia, "e anche la campanula azzurra e la margheritina!" Certo, la quercia li voleva tutti con sé.

    "Ci siamo anche noi, ci siamo anche noi!" si sentiva risuonare.

    "E quelle belle asperule della scorsa estate; e l'anno prima c'era un'aiuola di mughetti! e il melo selvatico, com'era bello! E tutta quella bellezza del bosco, per tanti e tanti anni! Se fossero vissuti fino a oggi, avrebbero potuto venire pure loro!".

    "Ci siamo anche noi, ci siamo anche noi!" si sentì di nuovo ancora più in alto; sembrava che l'avessero preceduta in volo.

    "E' troppo bello per potervi credere!" gridò la quercia piena di gioia. "Sono tutti qui, grandi e piccoli! Nessuno è stato dimenticato!

    Dov'è possibile immaginare una simile beatitudine?".

    "Nel regno di Dio è possibile e immaginabile!" si sentì risuonare.

    La quercia, che continuava a crescere, sentì che le radici si erano staccate dalla terra.

    "Adesso è ancora meglio!" commentò, "ora non c'è più niente che mi trattenga! Posso volare in cielo fino all'Onnipotente, nella luce e nella magnificenza. E ho insieme a me tutti i miei cari. Grandi e piccoli. Tutti quanti, tutti!".

    Questo fu il sogno della quercia, ma mentre sognava ci fu una violenta tempesta sia in mare che sulla terra, proprio nella notte santa di Natale; il mare rovesciò grosse onde sulla spiaggia, l'albero scricchiolò, si schiantò e si sradicò proprio nell'istante in cui la quercia sognò che le radici si erano liberate. La quercia cadde. I suoi trecentosessantacinque anni valevano ormai come un solo giorno dell'effimera.

    Il mattino di Natale, quando spuntò il giorno, la tempesta si era ormai placata. Tutte le campane delle chiese suonarono a festa e da ogni camino, anche da quello così piccolo del bracciante, si alzò il fumo, azzurro come quello che nelle feste dei druidi si levava dall'ara; era il fumo del sacrificio, del ringraziamento.

    Il mare si fece sempre più calmo e su una grande imbarcazione che nella notte aveva affrontato quel tempaccio terribile si innalzarono ora tutte le bandiere, per festeggiare il Natale.

    "L'albero non c'è più! La vecchia quercia, il nostro punto di riferimento sulla terra!" esclamarono i marinai. "E' caduta con la tempesta di questa notte. Potremo mai sostituirla con qualcos'altro?".

    Fu questo il breve, ma accorato elogio funebre per la quercia, che stava distesa sopra un manto di neve sulla spiaggia; sopra di lei risuonò l'inno cantato dalla nave, quello sulla gioia del Natale, sulla liberazione degli uomini in Cristo e sulla vita eterna.

    Cantate al cielo, Cantate Alleluia, schiere della Chiesa, Questa gioia è senza uguali!

    Alleluia, Alleluia!

    Così diceva l'antico inno, e ognuno di quelli che si trovavano sulla nave si sentì sollevare da quelle parole e dalle preghiere, proprio allo stesso modo in cui la quercia si era sentita innalzare nel suo ultimo e magnifico sogno della notte di Natale.

     

     

     

  • IL FARFALLONE
  •  

    Il farfallone voleva una fidanzata, che ovviamente doveva essere un grazioso fiorellino. Guardò tutti i fiori, ognuno se ne stava tranquillo e piegato sul suo stelo, come una signorina deve stare quando ancora non è fidanzata; ma ce n'erano tanti tra cui scegliere, era difficile, e il farfallone non aveva voglia di stare a cercare; sicché volò dalla margheritina. I francesi la chiamano Marguerite, e sanno che sa prevederti il futuro, come fa quando gli innamorati le staccano un petalo dopo l'altro chiedendo: "M'ama, non m'ama, di cuore, con dolore, mi ama molto, mi ama poco?" o cose simili. Ognuno chiede nella sua lingua. Anche il farfallone arrivò per domandarle qualcosa, non le staccò i petali, ma li baciò uno a uno pensando che con la gentilezza si ottiene di più.

    "Dolce margheritina Marguerite!" disse, "lei è la donna più intelligente di tutti i fiori! Lei sa prevedere il futuro! Mi dica, la troverò oppure no? E chi sarà? Appena lo saprò, andrò direttamente da lei a chiederle la mano!".

    Ma Marguerite non rispose per niente. Non le piaceva essere chiamata donna, perché era una signorina, e dunque non era una donna. Lui fece le stesse domande una seconda e una terza volta, ma non riuscendo a ottenere neppure una parola da lei, non ebbe più voglia di chiedere ancora, e se ne andò via a cercarsi la fidanzata da sé.

    Si era all'inizio della primavera, era pieno di crochi e di bucaneve.

    "Sono bellissime!" esclamò il farfallone, "sembrano graziose cresimande, ma un po' insipide". Come tutti i giovani, lui aveva preferenza per le ragazze un po' più mature. Allora volò dagli anemoni, ma erano un po' troppo acidi, le violette troppo romantiche, i tulipani troppo pomposi, le giunchiglie troppo borghesi, i fiori di tiglio troppo piccoli e poi con una famiglia troppo numerosa; i fiori di melo sembravano proprio delle rose, ma un giorno c'erano e il giorno dopo erano già caduti, secondo come soffiava il vento, e quello sarebbe stato un matrimonio troppo breve a suo avviso.

    Il fiore del pisello era quello che piaceva di più, era rosso e bianco, tenero e sottile, proprio come quelle ragazze di casa che sono graziose e pure brave in cucina. Stava per chiedere la sua mano, quando vide proprio lì vicino un baccello con un fiore appassito in cima. "Che cos'è?" chiese. "Mia sorella" rispose il fiore di pisello.

    "Ah, col tempo anche lei sarà così!" e, spaventato, il farfallone se ne volò via.

    I caprifogli pendevano dalle siepi, erano tante signorine con il viso lungo e la pelle gialla, proprio di quelle che non gli piacevano. Già, ma che cosa gli piaceva? Chiedeteglielo un po'!

    La primavera passò. Anche l'estate passò e poi l'autunno; lui si trovava sempre allo stesso punto. I fiori misero i loro vestiti più belli, ma a che cosa serviva, adesso che non c'era più la fresca e profumata gioventù? Con la vecchiaia si fa sempre meno caso al profumo, e poi non è detto che le peonie o la malvarosa abbiano un profumo particolare. Così il farfallone andò dalla menta.

    "Non ha un fiore, ma è come se fosse un fiore solo, profuma dalla testa ai piedi, ha il profumo dei fiori in ogni sua foglia. Scelgo questa!".

    E le chiese la mano.

    Ma la menta rimase ferma e tranquilla e alla fine disse:

    "Amicizia, ma niente di più! Io sono vecchia e anche lei è vecchio!

    Potremmo vivere tranquillamente uno per l'altro senza sposarci. Non rendiamoci ridicoli alla nostra età!".

    E il farfallone non sposò nessuno. Aveva cercato per troppo tempo, e questo non si deve fare. Diventò uno scapolone, come suol dirsi.

    Alla fine dell'autunno si mise a piovere e venne la nebbia, il vento soffiava freddo nella schiena dei vecchi salici, e li faceva scricchiolare. Non era per niente bello volare per la campagna coi vestiti dell'estate: l'entusiasmo si raffredda, come suol dirsi. Ma il farfallone non volò fuori, era entrato per caso in una porta dove c'era del fuoco in una stufa, c'era caldo come d'estate, lì si poteva vivere, ma "vivere non basta" disse, "il sole, la libertà, e un fiorellino bisognerebbe avere!".

    Così volò contro il vetro, fu visto, ammirato e puntato con uno spillo in una cassetta di vetro. Di più non si poteva fare.

    "Adesso ho un gambo anch'io, proprio come i fiori!" commentò il farfallone, "non è mica tanto comodo! E' un po' come essere sposati:

    si è legati", aggiunse per consolarsi.

    "E' una misera consolazione!" dicevano i fiori dei vasi.

    "E' meglio non fidarsi dei fiori dei vasi" pensava il farfallone, "vivono troppo a contatto con gli uomini".

     

     

     

  • IL BUCANEVE
  •  

    Era inverno, l'aria era fredda, il vento tagliente, ma in casa si stava bene e faceva caldo; e il fiore stava in casa, nel suo bulbo sotto la terra e sotto la neve.

    Un giorno cadde la pioggia, le gocce passarono attraverso la coltre di neve fino alla terra, toccarono il bulbo del fiore, gli annunciarono il mondo luminoso di sopra; presto il raggio di sole, sottile e penetrante, passò attraverso la neve fino al bulbo e bussò.

    "Avanti!" disse il fiore.

    "Non posso" rispose il raggio, "non ho abbastanza forza per aprire, diventerò più forte in estate".

    "Quando verrà l'estate?" domandò il fiore, e lo domandò ancora ogni volta che un raggio di sole arrivava laggiù. Ma doveva passare ancora tanto tempo prima dell'estate, la neve era ancora lì e ogni notte l'acqua ghiacciava.

    "Quanto dura!" disse il fiore. "Io mi sento solleticare, devo stendermi, allungarmi, aprirmi, devo uscire! Voglio dare il buongiorno all'estate, sarà un tempo meraviglioso!".

    Il fiore si allungò e si stirò contro la scorza sottile che l'acqua aveva ammorbidito, la neve e la terra avevano riscaldato, il raggio di sole aveva punzecchiato; così sotto la neve spuntò una gemma verde chiaro, su un gambo verde, con foglie grandi che sembravano volerla proteggere. La neve era fredda, ma tutta illuminata, ed era così facile passarci attraverso, e sopraggiunse un raggio di sole che aveva più forza di prima.

    "Benvenuto, benvenuto!" cantavano e risuonavano tutti i raggi, e il fiore si sollevò oltre la neve nel mondo luminoso. I raggi lo accarezzarono e lo baciarono, così si aprì tutto, bianco come la neve e adorno di striscioline verdi. Piegava il capo per la gioia e l'umiltà.

    "Bel fiore" cantavano i raggi, "come sei fresco e puro! Tu sei il primo, l'unico, sei il nostro amore. Tu annunci l'estate, la bella estate in campagna e nelle città. Tutta la neve si scioglierà; i freddi venti andranno via. Noi domineremo. Tutto tornerà verde, e tu avrai compagnia, il lillà, il glicine e infine le rose; ma tu sei il primo, così delicato e puro!".

    Era proprio divertente. Era come se l'aria cantasse e risuonasse, come se i raggi di sole penetrassero nei suoi petali e nel suo stelo; lui era lì, così sottile e delicato e facile a spezzarsi, eppure così forte, nella sua giovanile bellezza, era lì in mantello bianco e nastri verdi, e rendeva lode l'estate. Ma doveva ancora passare tempo prima dell'estate; nuvole nascosero il sole, e venti taglienti soffiarono sul fiorellino.

    "Sei giunto troppo in anticipo!" dissero il vento e l'aria. "Noi abbiamo ancora il potere, ti dovrai adattare! Avresti dovuto rimanere chiuso in casa, non correre fuori per farti ammirare, non è ancora tempo".

    C'era un freddo pungente! I giorni che vennero non portarono un solo raggio di sole, c'era un freddo tale che ci si poteva spezzare, soprattutto un fiorellino tanto delicato. Ma in lui c'era molta più forza di quanto lui stesso sospettasse, era la forza della gioia e della fede per l'estate che doveva arrivare, che gli era stata annunciata da una profonda nostalgia e confermata dalla calda luce del sole; quindi resistette con la sua speranza, nel suo abito bianco sopra la neve bianca, chinando il capo quando i fiocchi cadevano pesanti e fitti, quando i venti gelidi soffiavano su di lui.

    "Ti spezzerai!" gli dicevano. "Appassirai, gelerai! Perché hai voluto uscire? perché non sei rimasto chiuso in casa? Il raggio di sole ti ha ingannato. E adesso ti sta bene, fiorellino che hai voluto bucare la neve!".

    "Bucaneve!" ripeté quello nel freddo mattino.

    "Bucaneve!" gridarono alcuni bambini che erano arrivati in giardino, "ce n'è uno, così grazioso, così carino, è il primo, l'unico!".

    Quelle parole fecero bene al fiore, erano come caldi raggi di sole. Il fiore, preso dalla sua gioia, non si rese neppure conto d'essere stato colto; si ritrovò nella mano di un bambino, venne baciato dalle labbra di un bambino, poi venne portato in una stanza riscaldata, osservato da occhi affettuosi, e messo nell'acqua: era così rinfrescante, così ristoratrice, e il fiore credette improvvisamente di essere entrato nell'estate.

    La fanciulla della casa, una ragazza carina che era già stata cresimata, aveva un caro amico che pure lui era stato cresimato e che ora studiava per trovarsi una sistemazione. "Sarà lui il mio fiorellino beffato dall'estate!" esclamò la fanciulla; prese quel fiore sottile e lo mise in un foglio di carta profumato su cui erano scritti dei versi, versi su un fiore che iniziavano con "fiorellino beffato dall'estate" e finivano con "beffato dall'estate".

    "Caro amico, beffato dall'estate!". Lei lo aveva beffato d'estate.

    Tutto questo venne scritto in versi e spedito come lettera; il fiore era là dentro e faceva proprio scuro intorno a lui, scuro come quando stava nel bulbo. Il fiore viaggiò, finì nel sacco della posta, fu schiacciato, premuto; non era per nulla piacevole, ma finì.

    Il viaggio terminò, la lettera fu aperta e letta dal caro amico; lui era molto contento, baciò il fiore che fu messo insieme ai versi in un cassetto, con tante altre belle lettere che però non avevano un fiore; lui era il primo, l'unico, proprio come i raggi del sole lo avevano chiamato: com'era bello pensarlo!

    Ebbe la possibilità di pensarlo a lungo, e pensò mentre l'estate finiva, e poi finiva il lungo inverno; e venne ancora l'estate, e allora fu tirato fuori. Ma il giovane non era affatto felice; afferrò i fogli con violenza, gettò via i versi, e il fiore finì sul pavimento, piatto e appassito; non per questo doveva essere gettato sul pavimento! Comunque meglio lì che nel fuoco, dove tutti i versi e le lettere andarono a finire. Che cosa era successo? Quello che succede spesso. Il fiore l'aveva beffato, ma quello era uno scherzo; la ragazza l'aveva beffato, e quello non era uno scherzo; lei si era trovato un altro amico durante l'estate.

    Al mattino il sole brillò su quel piccolo bucaneve schiacciato che pareva dipinto sul pavimento. La ragazza che faceva le pulizie lo raccolse e lo infilò in uno dei libri appoggiati sul tavolo, perché credeva fosse caduto da lì mentre lei faceva le pulizie e metteva in ordine. Il fiore si trovò di nuovo tra versi stampati e questi sono più distinti di quelli scritti a mano, per lo meno sono più costosi.

    Così passarono gli anni e il libro restò nello scaffale; poi venne preso, aperto e letto; era un bel libro: erano versi e canti del poeta danese Ambrosius Stub, che certo vale la pena di conoscere. L'uomo che leggeva quel libro voltò la pagina. "Oh, c'è un fiore!" esclamò, "un bucaneve! E' stato messo qui di certo con un preciso significato; povero Ambrosius Stub! Anche lui era un fiore beffato, una vittima della poesia. Era arrivato troppo in anticipo per il suo tempo, perciò subì tempeste e venti pungenti, passò da un signore della Fionia all'altro, come un fiore in un vaso d'acqua, come un fiore in una lettera di versi! Fiorellino, beffato dall'estate, zimbello dell'inverno, vittima di scherzi e di giochi, eppure il primo, l'unico poeta danese pieno di gioventù. Ora sei un segnalibro, piccolo bucaneve! Certo non sei stato messo qui per caso!".

    Così il bucaneve fu rimesso nel libro e si sentì onorato e felice nel sapere di essere il segnalibro di quel meraviglioso libro di canti e nell'apprendere che chi per primo aveva cantato e scritto di lui, era stato anche lui un bucaneve, beffato dall'estate e vittima dell'inverno. Il fiore capì naturalmente tutto a modo suo, esattamente come pure noi capiamo le cose a modo nostro.

    Questa è la fiaba del bucaneve.

     

     

     

  • IL FOLLETTO E LA SIGNORA
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    Tu conosci certamente il folletto, ma conosci anche la signora, la moglie del giardiniere? Lei era istruita, recitava versi, e ne scriveva lei stessa con grande facilità; soltanto le rime per "far baciare i versi", come diceva lei, le davano un po' di problemi. Lei sapeva scrivere e parlar bene, avrebbe potuto benissimo diventare pastore o almeno moglie di un pastore.

    "La terra è bella nel suo abito della festa!" disse, e quel pensiero l'aveva messo in bello stile con la rima baciata, e l'aveva sviluppato in una lunga e bellissima canzone.

    Il maestro di scuola, il signor Kisserup, ma il nome non ha importanza, era un suo nipote ed era venuto in visita; ascoltò la poesia della zia, e questo gli fece bene, disse, veramente bene al cuore. "Lei ha spirito, signora" esclamò.

    "Quante storie!" rispose il giardiniere, "non le dica queste cose! Una moglie deve essere pratica, pratica e dignitosa, e interessarsi che la minestra nella pentola non bruci".

    "Toglierò l'odore di bruciato con un pezzo di carbone" rispose la signora. "E l'odore di bruciato che sta in te lo toglierò con un bacio. Sembra quasi che tu pensi solo ai cavoli e alle patate; eppure che ami i fiori!", e così lo baciò. "I fiori sono spirito" commentò.

    "Stai attenta alla pentola!" ripeté lui andandosene in giardino: il giardino era la sua pentola e lui badava a quello.

    Ma il maestro di scuola sedette accanto alla signora e si mise a parlare con lei: tenne una sorta di sermone, fatto a suo modo, sulle parole molto belle di lei: "la terra è bella!".

    "La terra è bella, dovete sottometterla, fu detto, e noi diventammo padroni. Chi con lo spirito, chi con il corpo. Qualcuno fu messo al mondo come un punto esclamativo, qualcun altro come un punto di domanda, perché ci si domandi cosa ci faccia qui! Uno diventa vescovo, un altro un semplice maestro di scuola, ma ogni cosa è fatta con saggezza. La terra è bella nel suo vestito della festa! Questa è proprio una poesia che stimola la riflessione, signora, è piena di sentimento e di cognizioni geografiche".

    "Lei ha spirito, signor Kisserup" disse la signora, "molto spirito, glielo assicuro! Si vede chiaro in se stessi quando si parla con lei." E andarono avanti a parlare, sempre molto bene; ma in cucina c'era qualcun altro che parlava, era il folletto, quel piccolo folletto vestito di grigio con il cappello rosso: lo conosci? Il folletto stava in cucina ed era un ficcanaso, e parlava, ma nessuno lo sentiva, tranne il grande gatto nero, "il ladro di panna" come lo chiamava la signora.

    Il folletto era molto arrabbiato con la signora, perché lei non credeva che lui esistesse; in realtà non l'aveva mai visto, ma con la sua cultura doveva sapere che esisteva e perciò mostrargli qualche piccola attenzione. Eppure, non ci pensava mai, la sera di Natale, a preparare per lui una tazza di riso col latte, come l'avevano avuta tutti i suoi antenati, e da parte di signore che non avevano nessuna cultura; riso col latte affogato nel burro e nella panna. Al gatto venne l'acquolina in bocca soltanto a sentirlo.

    "Mi chiama 'Concetto'!" disse il folletto, "e questo per me è inconcepibile! In realtà mi nega! Questo l'ho scoperto origliando, e ora ho scoperto un'altra cosa: è lì a passare il tempo con il castigatore dei bambini, il maestro di scuola. Io mi trovo d'accordo con il marito: "Bada alla tua pentola!", e lei non lo fa; ora farò in modo che trabocchi!".

    Il folletto soffiò sul fuoco che avvampò e bruciò con più forza.

    "Surresurrerup!" e la minestra sgorgò fuori.

    "Ora vado a fare dei buchi nelle calze del padrone!" disse il folletto, "farò un buco enorme sull'alluce e uno sul calcagno, così sarà obbligata a rammendare e non farà più poesie: la signora poetessa che rammenda le calze del marito!".

    Il gatto starnutì, era raffreddato nonostante avesse sempre la pelliccia.

    "Ho aperto la porta della dispensa" gli disse il folletto, "c'è della panna, densa come un impasto di farina. Se non ci vai tu a leccarla, lo farò io!".

    "Dato che mi daranno la colpa e le botte" disse il gatto, "è giusto che la panna la lecchi io!".

    "Prima la panna, poi la frusta!" disse il folletto. "Ma ora andrò nella stanza del maestro di scuola e gli annoderò le bretelle allo specchio e gli caccerò i calzini nella bacinella dell'acqua, così crederà che il punch era troppo forte e gli ha confuso la mente.

    L'altra notte mi sono messo sulla catasta di legna accanto al canile, mi diverte tanto prendere in giro il cane alla catena. Ho dondolato le gambe, ma il cane non riusciva a prendermi, nonostante saltasse in alto. Così si arrabbiò e abbaiò in continuazione, mentre io continuavo a dondolare le gambe. Era davvero un bello spettacolo. ll maestro di scuola si svegliò a quel rumore, per ben tre volte guardò fuori, ma non mi vide, benché avesse gli occhiali: infatti dorme sempre con gli occhiali".

    "Dimmi miao, quando arriva la signora!" disse il gatto, "Non ci sento bene oggi, sono malato." "Tu sei goloso!" ribatté il folletto. "Lecca, lecca! che la malattia se ne va. Ma pulisciti i baffi, che non ti resti attaccata della panna. Ora vado a origliare".

    Il folletto si mise vicino alla porta accostata, non c'era nessuno nella stanza tranne la signora e il maestro di scuola che parlavano di quello che il seminarista con una bella espressione chiamava: i doni dello spirito, doni che dovevano venire prima delle pentole e delle padelle nel governo della casa.

    "Signor Kisserup" disse la donna, "a questo riguardo le voglio mostrare qualcosa che non ho ancora fatto vedere a nessuno, tanto meno a un uomo; sono le mie poesie brevi, alcune in realtà sono un po' lunghe, ma le ho intitolate RIME BACIATE DI UNA DAMA DI CULTURA. Mi piacciono tanto le espressioni all'antica!".

    "Bisogna conservare anche quelle" commentò il maestro di scuola, "bisogna eliminare il tedesco dalla nostra lingua." "E' quello che faccio" spiegò la signora. "Lei non mi sentirà mai dire "Kleiner" o "Butterteig", io dico sempre 'frittelle' e 'pasta sfoglia'".

    Intanto trasse da un cassetto un quaderno con una copertina verde chiara con due macchie d'inchiostro.

    "C'è una grande serietà in questo libro!" spiegò. "Io sono profondamente attratta da tutto quel che è patetico. Ecco qui SOSPIRO NELLA NOTTE, IL MIO CREPUSCOLO e QUANDO SPOSAI KLEMENSEN, mio marito.

    Questa si può anche saltare, anche se ovviamente è molto sentita e ben pensata. I DOVERI DI UNA CASALINGA è il pezzo più bello; tutte sono assai patetiche, in ciò sono brava, solo un pezzo è divertente, pieno di pensieri allegri, bisogna avere anche quelli. Pensieri su... ora non rida di me! pensieri sul fatto di essere poetessa. Sono conosciuti soltanto da me, dal mio cassetto, e ora anche da lei, signor Kisserup.

    Io amo la poesia, mi invade, mi sollecita, mi consiglia e mi governa.

    Questa l'ho intitolata PICCOLO FOLLETTO. Lei conosce sicuramente la vecchia superstizione contadina dei folletti di casa, che fanno sempre qualche scherzo; io ho immaginato di essere la casa e che la poesia, le sensazioni che sono in me fossero il folletto, lo spirito che consiglia; in PICCOLO FOLLETTO ho cantato il suo potere e la sua grandezza, ma lei deve farmi la promessa di non rivelare queste cose né a mio marito né a nessun altro. Legga ad alta voce, così posso vedere se capisce la mia scrittura".

    Il maestro di scuola lesse e la signora si mise ad ascoltare; anche il piccolo folletto ascoltò; origliava, lo sai bene, e arrivò proprio nel momento in cui fu letto il titolo: PICCOLO FOLLETTO.

    "Parla di me!" esclamò. "Che può avere scritto di me? Mi metterò a beccarla, beccherò le sue uova, i suoi pulcini e farò dimagrire il vitello grasso; ma guarda un po', questa signora!".

    E si mise in ascolto con le orecchie tese e il collo allungato; ma quando sentì dire della magnificenza e del potere del folletto, del dominio che aveva sulla signora (tu sai bene che la signora voleva dire l'arte del poetare, ma il folletto prese tutto alla lettera), cominciò a sorridere; gli occhi gli brillarono dalla gioia, la bocca assunse una piega piena di distinzione; si sollevò sui talloni e rimase in punta di piedi, crescendo di un intero pollice. Era incantato da tutto quello che veniva detto sul piccolo folletto.

    "La signora ha spirito e grande cultura! Che ingiustizia le ho fatto!

    Lei mi ha messo nelle sue RIME BACIATE che verranno pubblicate e lette. Ora il gatto non avrà più il permesso di leccare la panna della signora, lo farò io stesso. Uno mangia meno di due, dunque è sempre un bel risparmio; e io farò in questo modo oltre a onorare e rispettare la signora".

    "E' proprio come un uomo questo folletto" disse il vecchio gatto.

    "Basta un miagolìo dolce da parte della signora, un miagolìo su di lui, e subito cambia parere. E' proprio furba la signora!".

    Ma lei non era furba, era il folletto che era umano.

    Se non capisci questa storia chiedi, ma non chiedere né al folletto, né alla signora.

     

     

     

  • LA PULCE E IL PROFESSORE
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    C'era un aeronauta al quale andò male: il pallone si ruppe, e l'uomo saltò giù ma finì a pezzi. Il suo figliolo era riuscito a buttarsi giù due minuti prima con il paracadute, e questa era stata la sua fortuna.

    Non subì danni e se ne andò in giro; avrebbe potuto essere un esperto aeronauta, ma non aveva pallone e nemmeno i mezzi per procurarsene uno.

    Ad ogni modo doveva vivere, sicché imparò l'arte dei giochi di prestigio, e a parlare con lo stomaco, cioè a essere ventriloquo. Era giovane e bello, e quando gli crebbe la barba ed ebbe dei bei vestiti, venne scambiato per un giovane conte. Le signore lo trovavano gradevole, e una signorina rimase talmente affascinata dalla sua bellezza e dalla sua abilità di prestigiatore che lo seguì per città e paesi stranieri; lui si faceva chiamare professore; non poteva certamente essere niente di meno.

    Il suo pensiero fisso era di riuscire ad avere una mongolfiera e alzarsi nell'aria insieme alla sua mogliettina, ma ancora non ne avevano i mezzi.

    "Verranno!" diceva lui.

    "Speriamo!" rispondeva la moglie.

    "Siamo giovani, io ora sono professore. Anche le briciole sono pane".

    La moglie lo aiutava fedelmente, si metteva alla porta e vendeva i biglietti per la rappresentazione, e questo d'inverno era un divertimento un po' freddo! Lo aiutava anche in un numero. Lui la metteva in un cassetto del tavolo, un cassetto grande; lei si infilava proprio sul fondo in modo da non essere più visibile.

    Ma una sera, quando lui aprì il cassetto, lei se n'era andata sul serio, non era né nella parte davanti né in quella dietro, non si trovava in tutta la casa, non la si vedeva né la si sentiva.

    Questo fu il suo gioco di prestigio. Non ritornò mai più, si era stancata; poi si stancò pure lui, perse il buonumore, non poté più far ridere né fare i giochi, così la gente non andò più a vederlo; i guadagni diminuirono e i vestiti si sciuparono; alla fine possedeva soltanto una grande pulce, che aveva ereditato dalla moglie, e per questo le voleva molto bene. Allora l'ammaestrò, le insegnò i giochi di prestigio, le insegnò a presentare le armi e a sparare con un cannone, ovviamente piccolissimo.

    Andava molto orgoglioso della pulce, e anche di se stesso; la pulce aveva imparato qualcosa e aveva sangue umano ed era stata nelle più grandi città; era stata vista da principi e principesse e da loro aveva ottenuto la più alta considerazione. Fu scritto anche nei giornali e sui manifesti. La pulce sapeva d'essere una celebrità, e di poter mantenere il professore, anzi una famiglia intera.

    Era orgogliosa e assai famosa, eppure lei e il professore viaggiavano in quarta classe; tanto arrivavano con la stessa velocità della prima.

    C'era fra di loro una tacita promessa di non separarsi mai, di non sposarsi mai. La pulce restò nubile e il professore restò solo. Così erano pari.

    "Dove si ha più successo" diceva il professore, "non bisogna tornare una seconda volta!" Lui era un conoscitore di uomini, e anche questa è un'arte.

    Alla fine avevano viaggiato in tutti i paesi, tranne che in quello dei selvaggi; così vollero andare pure lì. E' pur vero che là divoravano i cristiani, e il professore lo sapeva; ma lui non era un vero cristiano e la pulce non era un vero uomo; così pensarono che potevano provare a viaggiare fin là e guadagnare molto.

    Fecero il viaggio con una nave a vapore e una a vela, la pulce fece i suoi giochi di prestigio, così non dovettero pagare il viaggio, quindi arrivarono nel paese dei selvaggi.

    Lì governava una piccola principessa; aveva solo otto anni, ma era lei a governare; aveva preso il potere al padre e alla madre perché aveva una volontà molto forte ed era anche estremamente graziosa e maleducata.

    Subito, quando la pulce presentò le armi e sparò col cannone, lei ne fu così attratta che disse: "O quella o nessuno!". Provò un amore selvaggio, anche se selvaggia lo era già da prima.

    "Cara figliola" le disse suo padre, "prima dovremmo farla diventare uomo!".

    "Lasciami fare, vecchio!" disse lei, e non era certo educato da parte della principessa parlare in quel modo a suo padre, ma lei era selvaggia.

    Si mise la pulce sulla mano.

    "Ora tu sei un uomo e governerai insieme a me; ma devi fare quello che voglio io, altrimenti ammazzo te e mangio il professore".

    Al professore fu data una grande sala in cui abitare. Le pareti erano fatte di canne da zucchero, che lui poteva leccare ma non era granché goloso. Gli diedero un'amaca in cui dormire e gli sembrava di essere in una mongolfiera, come aveva sempre desiderato: era il suo pensiero fisso.

    La pulce restò presso la principessa, appoggiata alla sua manina o sul suo collo delicato. Poi la principessa si staccò un capello, con cui il professore dovette legare la pulce a una gamba, e lei se l'attaccò al grande orecchino di corallo che portava.

    Fu proprio un periodo bellissimo per la principessa, e anche per la pulce. Ma il professore non era tanto soddisfatto, era un viaggiatore, gli piaceva andare da una città all'altra, leggere sui giornali della sua pazienza e intelligenza nell'insegnare a una pulce tutti i movimenti umani. Per tutto il giorno stava nell'amaca, oziava e mangiava: uova fresche di uccello, occhi di elefante e cosce di giraffa arrosto; i cannibali difatti non vivono soltanto di carne umana, questa è un piatto speciale. "Spalle di bambino in salsa piccante" diceva la madre della principessa, "è il piatto più delicato!".

    Il professore si annoiava e voleva andare via dal paese dei selvaggi, ma voleva avere con sé la pulce, che era la sua meraviglia e la sua fonte di guadagno. Come poteva fare per prenderla e portarla con sé?

    Non era facile.

    Si sforzò a lungo di pensare e alla fine disse: "Ho trovato!".

    "Padre della principessa, permettimi di fare qualche cosa! Vorrei insegnare agli abitanti di questo paese a sapersi presentare bene:

    quello che nei più grandi paesi del mondo chiamano educazione".

    "E che cosa insegnerai a me?" domandò il padre della principessa. "La mia grande arte" disse il professore. "Sparare con un cannone che fa tremare tutta la terra e fa cadere tutti gli uccelli dal cielo già arrostiti! E' straordinario!".

    "Porta il cannone!" disse il padre della principessa.

    Ma in tutto il paese non c'era nessun cannone, tranne quello della pulce, che però era troppo piccolo.

    "Ne costruirò uno più grande!" lo rassicurò il professore. "Portami solo quello che occorre. Devo avere seta molto sottile, ago e filo, corde e funi e gocce per lo stomaco per gli aerostati: quelli si gonfiano, diventano leggeri e si sollevano e mettono il fuoco nella pancia del cannone".

    Tutto ciò che aveva richiesto gli venne dato.

    L'intero paese si riunì per vedere quel grande pallone. Il professore non li aveva chiamati finché il pallone non era stato pronto per essere gonfiato e per sollevarsi.

    La pulce stava nella mano della principessa e osservava. Il pallone venne tanto gonfiato che era sul punto di scoppiare, e venne trattenuto a mala pena, tanto era selvaggio.

    "Bisogna sollevarlo perché si raffreddi" disse il professore entrando nel cesto appeso sotto il pallone. "Da solo non riesco a governarlo, mi occorre un compagno esperto, che mi aiuti. Qui non c'è nessun altro che la pulce".

    "Gliela concedo a malincuore!" disse la principessa, ma porse la pulce al professore che se la mise sulla mano.

    "Sciogliete le corde e le funi!" gridò lui. "Adesso il pallone parte!".

    Loro credettero che lui avesse detto: "Il cannone"!

    Così il pallone salì sempre più in alto, verso le nuvole, lontano dal paese dei selvaggi.

    La principessina, suo padre, sua madre, tutta la popolazione rimasero ad aspettare, e ancora aspettano. Se non ci credi, prova ad andare nel paese dei selvaggi: ogni bambino parlerà della pulce e del professore, credono che torneranno di nuovo non appena il cannone sarà raffreddato. Ma quelli non torneranno più, sono tornati da noi, qui nella loro patria, viaggiano in ferrovia, questa volta in prima classe, mica in quarta, guadagnano bene con quel grande pallone; nessuno gli chiede come si sono procurati il pallone o da dove l'hanno avuto, e sono persone molto stimate e onorate, la pulce e il professore.

     

     

     

  • IL GIARDINIERE E I PADRONI
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    A un miglio di strada dalla capitale c'era un vecchio castello con grosse mura, torri e tetti merlati.

    Qui ci abitavano, ma solo d'estate, nobili e ricchi signori; quel castello era il migliore e il più bello tra quelli che possedevano; da fuori sembrava appena costruito e dentro aveva tutte le comodità e gli agi. L'insegna della famiglia era scolpita nella pietra proprio sopra il portone, e tutto intorno e sul torrione si intrecciavano bellissime rose; un unico tappeto d'erba si stendeva intorno al castello, c'erano rovi e biancospini, e fiori rari anche fuori dalla serra.

    I padroni avevano anche un ottimo giardiniere; era veramente un piacere ammirare il giardino, il frutteto e l'orto. Lì vicino c'era ancora un resto del vecchio giardino del castello, con siepi di bosso tagliate a forma di corone e di piramidi. Dietro si trovavano due vecchissimi e enormi alberi; erano quasi sempre senza foglie, ma si poteva pensare che una bufera o una tempesta li avesse cosparsi di grossi pezzi di becchime: ogni pezzo era un nido per gli uccelli.

    Qui, da tempo immemorabile, si facevano il nido un gran numero di corvi e cornacchie; era come un'intera città di uccelli; gli uccelli facevano da padroni, erano i proprietari della tenuta, la famiglia più antica del posto, i veri padroni del castello. Loro non nutrivano interesse per gli uomini, ma sopportavano quelle creature che camminavano così in basso, anche se qualche volta sparavano coi fucili; allora gli uccelli sentivano i brividi alla schiena e si alzavano in volo per lo spavento gridando: "Cra, cra!".

    Il giardiniere diceva spesso ai suoi padroni di far abbattere quei vecchi alberi che non erano per niente belli, in questo modo ci si sarebbe forse liberati di quegli uccelli gracchianti i quali avrebbero cercato un altro posto. Ma i padroni non volevano liberarsi né degli alberi né degli uccelli; era qualcosa che il castello non poteva perdere, qualcosa che risaliva ai tempi del passato e che perciò non bisognava assolutamente distruggere.

    "Quegli alberi sono proprietà degli uccelli; lasci che continuino ad averli, mio buon Larsen!".

    Il giardiniere si chiamava Larsen, ma questo non è molto importante.

    "Non le basta, signor Larsen, tutto il posto che ha? l'intero giardino, la serra, il frutteto e l'orto?".

    Lui aveva tutto questo, lo curava, lo sorvegliava e lo coltivava con solerzia e bravura; i padroni lo riconoscevano, ma non facevano mistero che in casa d'altri mangiavano spesso dei frutti e vedevano dei fiori superiori a quelli del loro giardino; questo rattristava il giardiniere, perché voleva sempre il meglio e faceva del suo meglio.

    Aveva buon cuore ed era bravo nel suo lavoro.

    Un giorno i padroni lo chiamarono e gli dissero con molto garbo che il giorno prima avevano visto in casa di nobili amici una qualità di mele e di pere talmente succose e saporite, che loro, e tutti gli altri ospiti, avevano espresso grande meraviglia. Simili frutti non erano sicuramente del loro paese, ma dovevano venire importati e coltivati, se il clima lo avesse permesso. Si sapeva che erano stati comprati in città dal primo fruttivendolo, il giardiniere doveva andare da lui per sapere da dove provenivano e ordinare i rami per l'innesto.

    Il giardiniere conosceva bene quel fruttivendolo, era proprio a lui che vendeva per conto dei padroni i frutti cresciuti in eccedenza nel giardino del castello.

    Andò quindi in città e domandò al fruttivendolo da dove aveva avuto quelle lodatissime mele e pere.

    "Vengono dal vostro giardino!" disse il fruttivendolo, e gli fece vedere i frutti che il giardiniere riconobbe immediatamente.

    Oh, come fu felice il giardiniere! Andò di corsa dai padroni per raccontare che tanto le mele che le pere provenivano dal loro giardino.

    I padroni gli credettero a malapena. "Non è possibile, Larsen! Può farci avere una dichiarazione scritta del fruttivendolo?".

    Naturalmente lui poteva, e così portò loro un attestato scritto.

    "E' straordinario!" dissero i padroni.

    Da allora ogni giorno sul tavolo dei padroni vennero portati grossi recipienti colmi di stupende mele e pere che provenivano dal loro giardino. Poi furono inviati stai e barili dei frutti agli amici che abitavano in città e fuori città, persino all'estero. Era proprio un piacere! Dovevano però riconoscere che avevano avuto due estati veramente straordinarie per gli alberi da frutto, com'era successo in tutto il paese.

    Passò del tempo e i padroni furono invitati a cena a corte. Il giorno dopo il giardiniere fu chiamato. Avevano mangiato a tavola meloni proprio succosi e saporiti che provenivano dalla serra reale.

    "Deve andare dal giardiniere di corte, buon Larsen, e procurarci qualche seme di questi preziosissimi meloni!".

    "Ma il giardiniere di corte ha avuto i semi da noi!" esclamò il giardiniere tutto contento.

    "Allora quell'uomo ha di sicuro fatto crescere meglio i meloni!" risposero i padroni. "Ogni melone era eccezionale!".

    "Bene, allora posso proprio esserne orgoglioso!" disse il giardiniere.

    "Lor signori devono sapere che il giardiniere di corte non ha avuto fortuna coi suoi meloni e quando ha visto com'erano belli i nostri, dopo averli assaggiati, ne ha ordinati tre da portare al castello reale".

    "Larsen, non si metta in testa che erano meloni del nostro giardino!".

    "Credo proprio di sì" rispose il giardiniere. Andò dal giardiniere di corte ed ebbe da quello una dichiarazione scritta che attestava come i meloni presentati a tavola provenissero dal castello dei suoi padroni.

    Fu davvero una sorpresa per i padroni che non si tennero per sé la storia; anzi mostrarono in giro l'attestato, mandarono semi di meloni ovunque, proprio come avevano fatto in precedenza con i rami d'innesto.

    Seppero poi che quelli avevano attecchito bene, avevano portato frutti meravigliosi ed erano stati chiamati col nome del castello, sicché ora il nome si poteva leggere in inglese, in tedesco e in francese. Una cosa così non la si poteva certo immaginare!

    "Purché il giardiniere non si monti la testa!" dissero padroni.

    Lui la prese diversamente; voleva, per conservare la fama di essere uno dei migliori giardinieri del paese, cercare di ottenere ogni anno qualcosa di straordinario dalle piante del giardino; e così fece; ma spesso dovette sentirsi dire che i primissimi frutti che aveva portato, quelle mele e quelle pere, erano in ogni caso le migliori, ma che tutte le altre specie non erano allo stesso livello. I meloni erano buonissimi, ma erano un genere diverso, le fragole si potevano dire eccellenti, ma non erano meglio di quelle degli altri giardini, e quando un anno i ravanelli vennero su male, si parlò solo di quegli sfortunati ravanelli e non di tutte le altre buone cose che erano state prodotte.

    Era come se i padroni si sentissero sollevati nel dire: "Quest'anno non è andata, caro Larsen!". Erano proprio felici di poter dire: "E' andata male quest'anno!".

    Due o tre volte la settimana il giardiniere portava fiori freschi nel salone, sempre preparati con buon gusto, in modo da mettere in risalto i colori.

    "Lei ha buon gusto, Larsen!" dicevano i padroni, "è un dono che le ha dato il Signore, non è merito suo!".

    Un giorno il giardiniere arrivò con una grande coppa di cristallo dove, su una foglia di ninfea, aveva appoggiato, con il suo lungo e grosso stelo infilato nell'acqua, un fiore turchino molto luminoso, grande come un girasole.

    "E' un fior di loto dell'Indostan!" esclamarono i padroni. Non avevano mai visto un fiore così; di giorno venne messo al sole e di sera sotto la luce riflessa. Tutti quelli che lo vedevano lo trovavano estremamente bello e particolare; la stessa cosa disse anche la più nobile delle damigelle del regno, che era principessa: era buona e intelligente.

    I padroni furono onorati di donarle il fiore che così arrivò a corte insieme alla principessa.

    Allora i padroni scesero in giardino per cogliere un fiore della stessa specie, se ce ne fosse stato uno, ma non lo trovarono.

    Chiamarono dunque il giardiniere e gli chiesero da dove proveniva quel fiore di loto blu.

    "L'abbiamo cercato inutilmente" spiegarono. "Siamo stati nella serra e in tutto il giardino".

    "No, lì non si trova di certo" disse il giardiniere. "E' solo un fiore dell'orto! Ma è bello, vero? Sembra un cactus azzurro, e in realtà è il fiore del carciofo".

    "Avrebbe dovuto dircelo subito" dissero i padroni. "Noi credevamo che fosse un fiore molto raro ed esotico. Ci ha umiliato di fronte alla giovane principessa! Lei ha visto il fiore a casa nostra, lo ha trovato così bello, non lo conosceva, anche se è esperta di botanica; ma la botanica non ha niente a che vedere con gli ortaggi. Come le è venuto in testa, Larsen, di portare un fiore come quello nel salone?

    Così ci ha reso ridicoli!".

    E il bel fiore turchino, che era stato colto nell'orto, non fu più ammesso nel salone dei padroni perché non era ritenuto adatto; poi i padroni si scusarono con la principessa, spiegarono che il fiore era solo un modesto ortaggio che il giardiniere aveva avuto l'idea di mettere in mostra; ma per questo era stato rimproverato severamente.

    "E' un peccato, un'ingiustizia!" esclamò la principessa. "Lui ci ha aperto gli occhi dinanzi a un fiore meraviglioso al quale non avevamo mai fatto caso, ci ha fatto vedere la bellezza che si trova là dove non abbiamo mai pensato di cercarla! Il giardiniere del castello, ogni giorno, per tutto il tempo in cui i carciofi avranno i fiori, dovrà portarne uno in camera mia".

    E così accadde.

    I padroni fecero dire al giardiniere che ora poteva portare di nuovo un fiore fresco di carciofo nel salone.

    "In fondo è bello!" dissero. "E' proprio strano!" Il giardiniere fu lodato.

    "A Larsen questo fa piacere!" dissero i padroni. "E' come un bambino viziato".

    In autunno ci fu una tremenda tempesta, fu tanto violenta nel cuore della notte che molti grossi alberi ai bordi del bosco furono sradicati, e, con gran dolore dei padroni - dissero loro - ma con grande gioia del giardiniere, i due grandi alberi carichi di nidi di uccelli furono abbattuti. Si sentirono nella tempesta le grida dei corvi e delle cornacchie che sbattevano le ali contro i vetri, raccontava la gente del castello.

    "Ora sarà contento, Larsen" dissero i padroni. "La tempesta ha sradicato gli alberi e gli uccelli hanno trovato riparo nel bosco. Qui non resta più niente dei vecchi tempi; ogni segno e ogni traccia sono spariti. E' molto triste!".

    Il giardiniere non disse nulla, ma pensò a quello che aveva pensato da tempo, di utilizzare quello splendido spiazzo al sole, che prima aveva dovuto lasciar perdere, e di trasformarlo in ornamento per tutto il giardino e motivo di gioia per i padroni.

    I grandi alberi abbattuti avevano soffocato e schiacciato le vecchissime siepi di bosso, tagliate in vari modi. Lui piantò una serie di piante diverse, tutte del paese, prese dai campi e dai boschi.

    Piantò ciò che nessun altro giardiniere avrebbe mai pensato di piantare in gran quantità nel giardino dei padroni, mise ogni specie nella terra più adatta, all'ombra o al sole secondo le necessità d'ogni specie. Le curò con amore e queste crebbero meravigliose.

    Il cespuglio di ginepro della landa dello Jutland si elevò con la forma e il colore del cipresso italiano, e il lucido agrifoglio spinoso, sempreverde sia nel freddo dell'inverno che nel sole dell'estate, era molto bello a vedersi. Davanti crescevano felci, di tante specie diverse: certune sembravano nate da una palma, altre parevano i genitori di quella sottile e deliziosa pianta che noi chiamiamo capelvenere; c'era la disprezzata lappola, così bella nella sua freschezza, che figura molto bene in mazzetti. La lappola cresceva all'asciutto, ma più sotto, dal terreno umido, cresceva il farfaraccio, altra pianta disprezzata eppure così artistica per la sua altezza e per le foglie enormi. Altissimo, con i fiori molto vicini tra loro come uno straordinario candelabro a molte braccia, si ergeva il verbasco, trapiantato dal campo. C'erano le asperule, l'acetosella e i mughetti, le calle selvatiche e il sottile trifoglio del bosco.

    Era proprio una meraviglia!

    Davanti, rette da fili d'acciaio, crescevano in fila piccole piante di pere provenienti dalla Francia: ricevevano sole e cure e davano grandi frutti succosi, proprio come nel paese d'origine.

    Dove c'erano i due vecchi alberi senza foglie venne piazzato un grande palo portabandiera, sul quale sventolava la bandiera nazionale, e lì vicino un altro palo, dove in estate e in autunno si attorcigliava il luppolo con i suoi grappoli di fiori profumati; ma d'inverno, secondo un'antica usanza, veniva appeso un manipolo d'avena, perché gli uccelli del cielo avessero da mangiare nel periodo natalizio.

    "Il buon Larsen diventa sentimentale con il passar degli anni" dissero i padroni. "Ma è fedele e devoto".

    Per Capodanno, in una rivista illustrata della capitale, comparve una fotografia di quel vecchio castello; si vedeva il palo della bandiera e quello dell'avena per gli uccellini del cielo nel periodo natalizio.

    Si diceva che era stata una bella idea che un'usanza tanto antica fosse stata ripristinata, un'idea degna di quel vecchio castello.

    "Per tutto ciò che fa Larsen" dissero i padroni, "si battono i tamburi. E' davvero un uomo fortunato! Dovremmo quasi anadr fieri di lui!".

    Ma non erano veramente fieri di lui! Sapevano di essere padroni, potevano licenziare Larsen, ma non lo facevano perché erano brave persone; ci sono tante brave persone come loro, e questa è una fortuna per ogni Larsen.

    Sì, questa è la storia del "giardiniere e i padroni".

    Adesso riflettici sopra!