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William Shakespeare

 

RE GIOVANNI

 

 

 

PERSONAGGI

 

RE GIOVANNI

PRINCIPE ENRICO, figlio del Re

ARTURO duca di Bretagna, nipote del Re

IL CONTE DI PEMBROKE

IL CONTE DI ESSEX

IL CONTE DI SALISBURY

LORD BIGOT

UBERTO DE BURGH

ROBERTO FAULCONBRIDGE, figlio di Sir Roberto Faulconbridge

FILIPPO, il Bastardo, suo fratellastro

GIACOMO GURNEY, servo di Lady Faulconbridge

PIETRO DI POMFRET, profeta

FILIPPO, Re di Francia

LUIGI, il Delfino

LYMOGES, duca d'Austria

IL CARDINALE PANDOLFO, legato del Papa

MELUN, nobile Francese

CHATILLON, ambasciatore di Francia a Re Giovanni

LA REGINA ELEONORA, madre di Re Giovanni

COSTANZA, madre di Arturo

BIANCA DI SPAGNA, nipote di Re Giovanni

LADY FAULCONBRIDGE

Nobili, Cittadini di Angers, uno Sceriffo, Araldi, Ufficiali, Soldati, Messi, altre Persone del seguito

 

 

 

Scena: parte in Inghilterra e parte in Francia

 

 

 

ATTO PRIMO

 

SCENA PRIMA - ll Palazzo di Re Giovanni
(Entrano RE GIOVANNI, la REGINA ELEONORA, PEMBROKE, ESSEX, SALISBURY e altri con CHATILLON)

 

GIOVANNI: Ora di', Châtillon; che cosa vuole il re di Francia da noi?

CHATILLON: Il re di Francia invia saluti e per bocca mia così parla alla maestà, alla maestà d'accatto del re d'Inghilterra.

ELEONORA: Strano principio "maestà d'accatto!".

GIOVANNI: Silenzio, buona madre; ascoltate l'ambasciata.

CHATILLON: Filippo di Francia, a tutela del buon diritto e in nome di Arturo Plantageneto, figlio del tuo defunto fratello Goffredo, reclama legittimamente questa bella isola e le sue dipendenze, l'Irlanda, il Poitou, l'Angiò, la Turenna e il Maine, invitandoti a deporre la spada che difende l'usurpato possesso di questi diversi titoli e a consegnarla in mano di Arturo, tuo nipote e legittimo sovrano.

GIOVANNI: Che seguirà, se respingeremo queste pretese?

CHATILLON: L'irresistibile coercizione di una fiera e sanguinosa guerra per far valere con la forza diritti con la forza negati.

GIOVANNI: Guerra per guerra, sangue per sangue, coercizione per coercizione: rispondi questo al re di Francia.

CHATILLON: Allora ricevete dalle mie labbra la sfida del mio re; e questo è il limite estremo del mandato che ho ricevuto.

GIOVANNI: Riportagli la mia risposta e vattene in pace; sii come lampo agli occhi del tuo sovrano, poiché, prima che tu possa avvertirlo della mia venuta, si udirà il tuono dei miei cannoni. Va': sii la tromba della nostra collera e il sinistro presagio della vostra rovina. Fatelo scortare onorevolmente: pensaci tu, Pembroke, e addio, Châtillon.

 

(Escono Pembroke e Châtillon)

 

LEONORA: Che dunque, figlio mio! non ti ho sempre detto che l'ambiziosa Costanza non si sarebbe chetata finché non avesse dato fuoco alla Francia e a tutto il mondo a sostegno del diritto e della causa di suo figlio? Questo avrebbe potuto essere impedito e sanato con discussioni amichevoli, mentre ora i governi dei due regni debbono decidere la questione con risultati terribilmente sanguinosi.

GIOVANNI: A nostro favore parlano il saldo possesso e il buon diritto.

ELEONORA: Più il saldo possesso che il buon diritto, o altrimenti andrebbe male per voi e per me: questo almeno vi bisbiglia all'orecchio la mia coscienza; ma nessuno lo deve sentire eccetto il cielo, voi e me stessa.

 

(Entra uno Sceriffo)

 

ESSEX: Mio sire, ecco la più strana controversia fra gente di provincia che mai sia stata sottoposta al vostro giudizio: debbo introdurre gli uomini?

GIOVANNI: Entrino. Le abbazie e i priorati pagheranno le spese di questa spedizione.

 

(Entrano ROBERTO FAULCONBRIDGE e FILIPPO, suo fratello bastardo)

 

Chi siete ?

BASTARDO: Sono un vostro fedele suddito, gentiluomo della contea di Northampton e, come suppongo, figlio primogenito di Roberto Faulconbridge, cioè di un soldato che la mano di Riccardo Cuor di Leone, dispensatrice di onori, creò cavaliere sul campo.

GIOVANNI: E tu, chi sei ?

ROBERTO: Figlio ed erede dello stesso Faulconbridge.

GIOVANNI: Quello è il primogenito e tu l'erede? vuol dire allora che non siete figli della stessa madre.

BASTARDO: Certissimamente figli della stessa madre, possente re - lo sanno tutti - e come credo, anche dello stesso padre: ma per sicura conoscenza della verità, sentite quello che ne dicono il cielo e mia madre; quanto a me, ne dubito, come possono ben fare tutti i figli degli uomini

ELEONORA: Oibò, villano! tu oltraggi tua madre e ferisci il suo onore con questa incredulità.

BASTARDO: Io, signora? no, non ho nessuna ragione di farlo; è argomento di mio fratello, non mio; e, se può provarlo, mi toglie di colpo almeno cinquecento belle sterline l'anno: Dio protegga l'onore di mia madre e la mia terra!

GIOVANNI: Un buon diavolo senza peli sulla lingua. Perché, essendo il secondogenito, pretende il tuo retaggio?

BASTARDO: Non lo so, se non è per avere la terra. Insomma mi ha accusato di bastardia; e che io sia stato legittimamente generato o no, ripeto che lascio che ne risponda mia madre; ma, per assicurarvi che sono stato concepito a dovere - sia pace alle ceneri di colui che si è preso questo disturbo - basta che confrontiate i nostri volti e giudicherete da voi stesso. Se il vecchio sir Roberto ci ha procreati tutt'e due, se è stato nostro padre e questo figlio gli somiglia, o vecchio sir Roberto, padre, in ginocchio ringrazio il cielo di non assomigliare a te!

GIOVANNI: Come! che matto ci ha mandato qui il cielo?

ELEONORA: Ha qualche cosa della faccia del Cuor di Leone e gli somiglia nell'accento. Non ravvisate l'impronta di mio figlio nella poderosa struttura di quest'uomo?

GIOVANNI: I miei occhi l'hanno esaminato da tutti i lati: è proprio il ritratto di Riccardo. Ma ditemi, giovanotto, che cosa vi induce a reclamare la terra di vostro fratello?

BASTARDO: Perché, visto di profilo, è tutto mio padre; e con quella mezza faccia si vorrebbe portar via tutta la mia terra: con un profilo di soldino beccarsi cinquecento sterline l'anno!

ROBERTO: Amato sire, quando mio padre viveva, vostro fratello si servì molto di lui...

BASTARDO: Bene, caro mio; con quello non potete prendervi la mia terra: dovete invece raccontarci come si servì di mia madre.

ROBERTO: ...e una volta lo mandò ambasciatore in Germania per trattare con l'Imperatore di affari assai importanti in quei giorni. Il re approfittò di questa assenza e nel frattempo dimorò in casa di mio padre; e come riuscisse a farvi il piacer suo mi vergogno di dire, ma la verità è la verità: grandi tratti di terra e di mare stavano fra mia madre e mio padre, come ho sentito dire da quest'ultimo, quando questo bel pezzo di giovinotto fu concepito. Sul letto di morte il babbo mi lasciò per testamento le sue terre e giurò sulla sua morte che questo figlio di mia madre non era suo, e che, se lo fosse stato, sarebbe venuto al mondo ben quattordici settimane prima del tempo.

Quindi, mio buon sovrano, datemi quel che è mio, le terre di mio padre, secondo il suo testamento.

GIOVANNI: Giovanotto, vostro fratello è legittimo; la moglie di vostro padre l'ha dato alla luce dopo le nozze e sua è la colpa se ha fatto un torto al marito; questo è un rischio che corrono tutti gli uomini che prendono moglie. Ditemi un po': e se mio fratello, che, come asserite, si prese il disturbo di generare questo figlio, l'avesse reclamato da vostro padre come suo? In verità, amico mio, vostro padre avrebbe potuto difendere contro chiunque il possesso di questo vitello nato dalla sua mucca; dunque, anche se fosse stato di mio fratello, questi non avrebbe potuto reclamarlo, né vostro padre, pur non essendo suo, rinnegarlo; e ciò risolve la questione: il figlio di mia madre ha generato l'erede di vostro padre, e l'erede di vostro padre deve averne le terre.

ROBERTO: E allora il testamento di mio padre non avrà forza di spossessare quel figlio che non è suo?

BASTARDO: Tanto poca forza di spossessarmi quanto poca volontà fu la sua di generarmi, io credo.

ELEONORA: Preferiresti essere un Faulconbridge, somigliare a tuo fratello e goderti la terra, o essere il figlio supposto del Cuor di Leone, signore di questo tuo nobile aspetto e di null'altro?

BASTARDO: Madama, se mio fratello avesse la mia forma e io la sua, cioè quella di sir Roberto, se le mie gambe fossero due frustini come le sue, le braccia pelli di anguilla imbottite, e la faccia così sottile che non osassi infilare una rosa dietro l'orecchio per non farmi dir dalla gente "guarda, ecco qui un tre quattrini con la rosetta!" e, se oltre ad avere la sua figura, ereditassi anche tutta la proprietà, oh! possa io non più muovermi da questo luogo, se non sono pronto a dare ogni palmo pur di conservare questa mia faccia: no, non vorrei essere sir Bertuccio per tutto l'oro del mondo.

ELEONORA: Mi piaci assai: vuoi abbandonare la tua fortuna, lasciargli la terra e seguirmi? Sono diventata un soldato e sto per andare in Francia.

BASTARDO: Fratello, prenditi la terra: io prenderò la mia fortuna. La tua faccia ti ha procacciato cinquecento sterline l'anno, eppure, se la vendessi per cinque soldi, sarebbe anche troppo cara. Madama, vi seguirò sino alla morte.

ELEONORA: No, vorrei che mi precedessi in quella.

BASTARDO: L'educazione che ho ricevuta in provincia m'insegna a dare il passo ai superiori.

GIOVANNI: Come ti chiami?

BASTARDO: Filippo, sire, così comincia il mio nome; Filippo, figlio primogenito della moglie di sir Roberto il vecchio.

GIOVANNI: D'ora innanzi porterai il nome di colui di cui hai l'aspetto: inginocchiati, Filippo, ma alzati più grande, alzati sir Riccardo Plantageneto.

BASTARDO: Fratello per parte di madre, qua la mano: mio padre mi ha dato l'onore, il tuo ti ha dato la terra. Benedetta sia l'ora della notte o del giorno, in cui, quando fui generato, sir Roberto era assente!

ELEONORA: Proprio l'anima di un Plantageneto! Sono tua nonna, Riccardo: chiamami con questo nome.

BASTARDO: Madonna, lo siete per caso e non per la via giusta, ma che importa?

Un po' di sbieco, un po' fuor della destra, per il portello, ovver per la finestra:

chi non ci muove il dì, la notte ardisca, e avere è aver, comunque si carpisca, presso o lontan, buon colpo s'è azzeccato, ed io son io, comunque fui creato.

GIOVANNI: Vattene Faulconbridge; hai ottenuto quello che desideravi; un cavaliere senza terra ha fatto di te un possidente terriero.

Suvvia, madonna, e suvvia, Riccardo, affrettiamoci alla volta della Francia, perché la necessità è urgente.

BASTARDO: Addio fratello: buona fortuna a te che fosti concepito secondo tutti i precetti dell'onestà. (Escono tutti tranne il Bastardo) Sono cresciuto un palmo in onori, ma son calato di molti palmi in terreni. Bene; ora posso far di qualsiasi marcolfa una gran dama. "Buona sera, sir Riccardo! - Dio ti aiuti, buon uomo!" e se il suo nome è Giorgio, lo chiamerò Pietro, perché un titolato creato di fresco non deve ricordare i nomi della gente: sarebbe segno di troppo riguardo e di eccessiva socievolezza in uno da poco salito in dignità.

Ora, supponiamo che un viaggiatore col suo stuzzicadenti segga alla stessa tavola di Mia Signoria e che, quando il mio cavalleresco stomaco è ben pieno, io cominci a succhiarmi i denti e a interrogare a mo' di catechismo quel bellimbusto che ha girato il mondo: "Caro signore - comincio io, appoggiando il gomito alla tavola - vi pregherei" e questa è la domanda; e "Servo vostro, ai vostri ordini e comandi e servizio, signore ", viene la risposta come in un abbecedario. "No, signore - dico io che interrogo - son io servo vostro, padron mio onoratissimo": e così, senza che il rispondente capisca quello che l'interrogante vuol sapere, di complimento in complimento, e parlando delle Alpi, degli Appennini, dei Pirenei e del fiume Po, si va verso la fine della cena. Ma questa è proprio ben nobile compagnia e adatta a uno spirito ambizioso come il mio, poiché è figlio bastardo del suo tempo chi non ha un pizzico di cerimonia; e io con cerimonie o senza, sono proprio bastardo, e non solo per abito ed impresa, forma esterna e vestiario, ma per un intimo impulso che mi vieta di versare quel veleno dolce dolce nell'orecchio della gente; eppure desidero d'impararlo, non per praticare l'inganno ma per difendermene, perché ne sarà cosparso il terreno della mia ascesa. Ma chi è costei che viene così in fretta in abito da cavalcare? chi è costei che si avanza come un corriere in gonnella? non ha marito che si prenda il disturbo di soffiare nel corno per annunciarne l'arrivo?

 

(Entrano LADY FAULCONBRIDGE e GIACOMO GURNEY)

 

Ohimè! è mia madre. Che c'è, buona signora? che mai vi porta in corte con tanta precipitazione?

LADY FAULCONBRIDGE: Dov'è tuo fratello, quell'abbietta creatura? dov'è quel briccone che dà la caccia al mio onore or qui or là nel paese?

BASTARDO: Mio fratello Roberto? il figlio del vecchio sir Roberto? il gigante Colbrand, quell'omaccione? è il figlio di sir Roberto che cercate così?

LADY FAULCONBRIDGE: Il figlio di sir Roberto! sì, ragazzo irriverente, il figlio di sir Roberto; perché schernisci sir Roberto? egli è il figlio di sir Roberto, e tu pure lo sei.

BASTARDO: Giacomo Gurney, vuoi lasciarci soli un momento?

GURNEY: Ma certo, mio buon Pippo.

BASTARDO: Pippo! lascia questo nome ai passeri. Giacomo, si sta preparando un bello scherzo e te ne dirò presto qualche cosa. (Esce Gurney) Signora, non sono figlio del vecchio sir Roberto: sir Roberto avrebbe potuto mangiarsi quanto di lui c'è in me un venerdì santo senza venir meno al precetto del magro. Sir Roberto sarebbe stato un valentuomo, lo confesso, se avesse potuto generarmi, ma per la Madonna, diciamo la verità: ne sarebbe stato capace? no, non ci sarebbe mai riuscito: conosciamo troppo bene le sue opere. Dunque, cara mamma: a chi debbo queste mie membra? non è sir Roberto che vi ha aiutato a fabbricare una gamba come questa.

LADY FAULCONBRIDGE: Hai cospirato con tuo fratello anche tu che, nel tuo stesso interesse, dovresti difendere il mio onore? Che significano questi motteggi, sfacciato briccone?

BASTARDO: Cavaliere, cavaliere! buona mamma, come diceva Basilisco nella tragedia. E come no? Sono stato armato cavaliere! sento ancora il tocco sulla spalla. Ma, mamma, non sono figlio di sir Roberto: ho rinnegato lui e ricusato la mia terra; legittimazione, nome e tutto il resto se ne è andato. Dunque, buona mamma, ditemi chi è mio padre: un uomo come si deve, vorrei sperare: chi era, mamma?

LADY FAULCONBRIDGE: Hai rinnegato te stesso come Faulconbridge?

BASTARDO: Tanto cordialmente quanto rinnegherei il diavolo.

LADY FAULCONBRIDGE: Re Riccardo Cuor di Leone fu tuo padre: da lunghe e ardenti suppliche fui sedotta a fargli posto nel letto coniugale:

Dio mi perdoni questo fallo! tu sei il frutto della mia grave colpa, alla quale non potei fare difesa, tanto pressante fu la sua insistenza.

BASTARDO: Ebbene, per Dio, se dovessi nascere una seconda volta, non vorrei padre migliore, madama. Certi peccati sono coperti da immunità su questa terra, e così fu del vostro, che fu colpa, ma non follia. Il leone impavido non seppe resistere alla forza selvaggia e insuperata di Riccardo e dalla mano di lui si lasciò strappare il suo cuore regale; così voi foste costretta a dargli il vostro, come tributo di suddita a prepotente amore. Chi di mera forza toglie il cuore ai leoni può facilmente conquistare quello di una donna. Sì, mamma, con tutto l'animo mio ti ringrazio per il padre che mi hai dato! Se qualcuno osa dire che non facesti bene a generarmi così, ne manderò lo spirito all inferno. Suvvia, madonna, ti presenterò ai miei parenti, e certo diranno che quando Riccardo mi generò sarebbe stato peccato se tu gli avessi opposto un rifiuto: chi dice il contrario mente; io sostengo che fallo non ci fu.

 

(Escono)

 

 

 

ATTO SECONDO

 

SCENA PRIMA - Francia. Davanti a Angers

(Da una parte entrano LYMOGES, Duca d'Austria, e Soldati con tamburi eccetera; dall'altra il RE FILIPPO di Francia e il suo Esercito, LUIGI, ARTURO, COSTANZA e Persone del seguito)

 

FILIPPO: Valoroso duca d'Austria, ben trovato sotto le mura di Angers.

Arturo, quel tuo grande precursore, Riccardo, che strappò il cuore al leone e combatté la guerra santa in Palestina, morì prematuramente per opera di questo prode duca. Per fare ammenda a te suo discendente e in seguito alle mie vive istanze, egli è venuto qui, ragazzo, a spiegare le bandiere in tuo favore e a rintuzzare l'usurpazione del tuo snaturato zio, Giovanni d'Inghilterra: abbraccialo, amalo e dagli il benvenuto.

ARTURO: Dio vi perdonerà la morte del Cuor di Leone in quanto date vita ai suoi discendenti, accogliendo il loro diritto sotto la protezione delle vostre bellicose ali: vi do il benvenuto con mano impotente ma con cuore pieno di puro amore. Benvenuto davanti alle porte di Angers, o duca.

FILIPPO: Nobile fanciullo! Chi non vorrebbe renderti giustizia?

LYMOGES: Sulla tua guancia depongo questo bacio affettuoso come suggello di un patto d'amore. Non farò ritorno in patria finché Angers, e quella parte della Francia di cui hai diritto, insieme con quella pallida e bianca riva che col piede ricaccia indietro le onde ruggenti dell'oceano e protegge da altre nazioni i suoi isolani, finché l'Inghilterra, circondata dal liquido baluardo del mare, per sempre fiduciosamente sicura da ogni mira straniera, finché quell'estremo angolo dell'occidente non ti salutino loro re. Sino a quel momento, bel giovinetto, non penserò alla mia patria, ma impugnerò le armi.

COSTANZA: Abbiatevi i ringraziamenti di sua madre, di una vedova, finché il vostro forte braccio non riesca a dargli la forza di ricompensare più degnamente tanto amore!

LYMOGES: La pace del cielo è per coloro che levano le spade in una guerra di giustizia e di amore.

FILIPPO: Ebbene, all'opera dunque: i nostri cannoni saranno puntati contro la fronte di questa città ostinata. Chiamate i nostri ufficiali provetti per scegliere le piazzuole più vantaggiose: perderemo la nostra regale vita davanti alla città o giungeremo alla piazza del mercato guazzando nel sangue dei Francesi; ma in ogni modo l'assoggetteremo a questo fanciullo.

COSTANZA: Attendete una risposta alla vostra ambasciata per non macchiare sconsideratamente le spade di sangue: può darsi che monsignore Châtillon porti dall'Inghilterra il riconoscimento pacifico di quei diritti che qui ci accingiamo a sostenere con le armi, e allora ci pentiremmo di ciascuna goccia di sangue che una bollente precipitazione ci avesse fatto versare a torto.

 

(Entra CHATILLON)

 

FILIPPO: O meraviglia, signora! nel momento stesso in cui esprimi il tuo desiderio, ecco giunge Châtillon, il nostro messaggero. Nobile signore, ripetici brevemente quello che ha detto il re d'Inghilterra; aspettiamo senza scomporci parla, Châtillon.

CHATILLON: Allora, levate le vostre forze da questo assedio meschino e incoraggiatele a un compito assai più importante. Il re d'Inghilterra, intollerante delle vostre giuste richieste, ha preso le armi: i venti avversi a me, che ho dovuto attenderne il beneplacito, gli hanno dato modo di sbarcare tutto il suo esercito nel momento stesso in cui io approdavo; ed egli marcia verso questa città rapidamente con un esercito forte e sicuro di sé. Con lui è venuta la regina madre, una nuova Ate, che lo incita al sangue e alla lotta; e con lei sono madama Bianca di Spagna, sua nipote, e un bastardo del defunto re. Tutti gli elementi turbolenti del regno, volontari impetuosi, sconsiderati e arditi, con visi femminei e foga di furibondi draghi, hanno venduto quello che possedevano in patria e portando indosso tutto il loro patrimonio vengono qui a tentare le loro fortune: in breve una schiera di spiriti più valorosi e impavidi di quelli traghettati dalle navi inglesi non ha mai veleggiato sul mare ondoso, per fare offesa e danno nel mondo cristiano. (Suono di tamburi) Il suono villano dei loro tamburi, interrompendomi, mi impedisce di aggiungere altri particolari: sono ormai vicini per parlamentare o per combattere; preparatevi quindi.

FILIPPO: Che speditezza inaspettata!

LYMOGES: Quanto più è inaspettata tanto più dobbiamo spronare il nostro tentativo di difesa, poiché il coraggio cresce col bisogno; siano dunque i benvenuti: noi saremo pronti.

 

(Entrano RE GIOVANNI, ELEONORA, BIANCA, il BASTARDO, Signori e Truppe)

 

GIOVANNI: Sia pace al re di Francia, se ci lascia entrare senza molestia in possesso di quel che è nostro secondo giustizia e in forza del nostro diritto ereditario; altrimenti sanguini la Francia e la pace fugga dalla terra, mentre io, strumento di un Dio irato, punirò l'orgogliosa arroganza di quelli che risospingono la sua pace al cielo.

FILIPPO: E pace sia al re d'Inghilterra, se il suo esercito lascia la Francia e ritorna, per vivervi pacificamente, colà donde è venuto.

Amiamo l'Inghilterra e, per amor suo, sudiamo qui sotto il peso dell'armatura. Tua dovrebbe essere questa nostra fatica, ma sei tanto lontano dall'amare quel paese che hai minato l'autorità del suo legittimo sovrano, interrotta la continuità della discendenza, oltraggiata la maestà di un re giovinetto e fatta violenza alla verginale virtù della corona. Guarda qui il viso di tuo fratello Goffredo; questi occhi, questa fronte sono modellati sui suoi: qui in epitome è l'immagine di ciò che, pienamente sviluppato, morì in Goffredo, e la mano del tempo ingrandirà questo compendio alle proporzioni di quel volume. Quel Goffredo era tuo fratello maggiore e questo è suo figlio; l'Inghilterra era di Goffredo e questo giovinetto ne ha ereditati i diritti in nome di Dio. Come dunque ti fai chiamare re, quando il sangue pulsa nelle tempie che dovrebbero cingersi della corona che tu usurpi?

GIOVANNI: Re di Francia, chi ti ha conferito il grande incarico di invitarmi a rispondere alle tue imputazioni?

FILIPPO: Quel giudice superno che suscita nei petti dei potenti il probo desiderio d'indagare le offese che si fanno alla giustizia. Egli ha affidato alla mia tutela questo giovinetto: autorizzato da Lui, ti contesto i torti che hai commessi e col Suo aiuto mi propongo di punirli.

GIOVANNI: Ahimè! usurpi un'autorità che non ti appartiene.

FILIPPO: Meschina scusa! è per abbattere la usurpazione.

ELEONORA: E chi chiami usurpatore, o re di Francia?

COSTANZA: Lasciate che risponda io: è tuo figlio.

ELEONORA: Via, insolente! il tuo bastardo deve essere re, perché tu possa essere regina e dominare il mondo!

COSTANZA: Il mio letto fu sempre tanto fedele a tuo figlio quanto il tuo a tuo marito, e questo ragazzo assomiglia più a suo padre Goffredo nei lineamenti che tu e Giovanni nel carattere; eppure siete simili come la pioggia all'acqua o il demonio alla sua mamma. Mio figlio bastardo! Per l'anima mia, non credo che suo padre sia stato concepito così onestamente: o almeno non può esserlo stato, se sei veramente sua madre.

ELEONORA: Che brava mamma questa, ragazzo, che infama tuo padre!

COSTANZA: Che brava nonna questa, ragazzo, che vorrebbe infamare te!

LYMOGES: Silenzio!

BASTARDO: Ascoltate il banditore.

LYMOGES: E chi diavolo sei tu?

BASTARDO: Uno che farà il diavolo a quattro con voi e con la vostra pelle se riesce a cogliervi soli: siete la lepre del proverbio che valorosamente insultava il leone morto. Vi batterò ben bene codesto manto di pelliccia se vi prendo come voglio io; state in guardia, messere, perché lo farò - oh, se lo farò!

BIANCA: La pelle del leone stava bene addosso a colui che gliela aveva tolta!

BASTARDO: E ora in groppa a costui fa così bella figura come il grande Alcide in groppa a un asino: ma, asino, o vi toglierò questo peso di dosso o vi farò cader su qualche cosa che vi farà crocchiare le spalle.

LYMOGES: Chi è questo crocchione che ha tanto fiato da gettar via e ci assorda gli orecchi? Re Filippo, decidete subito quello che dobbiamo fare.

FILIPPO: Donne e pazzi, smettete questo vostro dialogo. Re Giovanni, a dirla in breve, in nome di Arturo ti chiedo l'Inghilterra, l'Irlanda, l'Angiò, la Turenna e il Maine: vuoi cederli e deporre le armi?

GIOVANNI: La vita piuttosto: così ti sfido, re di Francia. Arturo di Bretagna, mettiti nelle mie mani; e per l'amore sincero che ho per te ti darò più di quello che la codarda mano del re di Francia saprà conquistare: sottomettiti, ragazzo.

ELEONORA: Vieni da tua nonna, bambino.

COSTANZA: Va' da nonna, sì, bambino; dà a nonna un regalo e nonna ti darà una susina, una ciliegia e un fico: che brava nonna!

ARTURO: Chetati, buona mamma! vorrei giacere giù nella mia tomba: non merito tutto il chiasso che si fa per me.

ELEONORA: La madre lo fa vergognar tanto che, povero ragazzo, ne piange.

COSTANZA:. Sia vero o no, vergogna intanto a voi! I torti della nonna e non già le infamie della madre fanno sgorgare dai suoi poveri occhi quelle perle che commuovono il cielo e che questo accetterà come suo compenso: sì, queste limpide stille indurranno il cielo a rendergli giustizia e a far vendetta su di voi.

ELEONORA: Tu, mostruosa calunniatrice del cielo e della terra!

COSTANZA: E tu del cielo e della terra mostruosa insultatrice! non chiamarmi calunniatrice; tu e i tuoi usurpate i domini e i diritti regali di questo ragazzo oppresso, figlio del tuo primogenito, disgraziato solo in quanto ha te per nonna: i tuoi peccati sono puniti in questo povero ragazzo: su di lui ricade il comandamento della legge poiché non lo separano che due generazioni dal tuo grembo peccaminoso.

GIOVANNI: Smettila, forsennata.

COSTANZA: Non ho da dire che questo, che egli non è soltanto tormentato per la colpa di questa donna, poiché Dio ha fatto di lei e del frutto del suo peccato il flagello del suo remoto discendente: il suo peccato è la causa e lo strumento della persecuzione di lui; l'obbrobrio di lei è malanno per lui, e il prodotto del suo obbrobrio è il boia che flagella tal peccato nella persona di Arturo, e tutto per causa sua: la colga la peste!

ELEONORA: Temeraria rimbrottatrice, posso mostrarti le ultime volontà di Riccardo che annullano il titolo di tuo figlio.

COSTANZA: Sì, chi ne dubita? volontà! malvagia volontà, la volontà di una donna, di una nonna invelenita!

FILIPPO: Zitta, madonna! tacete o siate più temperata: non sta bene incoraggiare in questa nobile compagnia una simile ripetizione di offese sguaiate. Qualche trombettiere chiami alle mura i cittadini di Angers: sentiamoli dichiarare se ammettono il titolo di Arturo o quello di Giovanni.

 

(Suono di trombe. Entrano sulle mura alcuni Cittadini)

 

PRIMO CITTADINO: Chi è che ci ha chiamati alle mura?

FILIPPO: E' il re di Francia in nome del re d'Inghilterra.

GIOVANNI: Il re d'Inghilterra per se medesimo. Uomini di Angers e amati sudditi...

FILIPPO: Amati cittadini di Angers e sudditi di Arturo, il nostro trombettiere vi ha chiamati a questo amichevole colloquio...

GIOVANNI: ... a nostro vantaggio e perciò ascoltate noi per primi.

Queste bandiere di Francia che sono alzate in vista della città, sono qui giunte a vostro danno: i cannoni hanno le viscere piene d'ira, e sono già puntati per vomitare la loro ferrea collera contro codeste mura: tutti i preparativi dei Francesi per un assedio sanguinoso e per atti spietati si offrono agli occhi della vostra città, alle porte che si sono chiuse; e se non fosse per la nostra venuta, la violenza dei loro cannoni avrebbe rimosso dai loro fissi letti di calcina quelle dormienti pietre che vi formano intorno cintura, e fatto grande strage, per dar modo a questo esercito assetato di sangue di distruggere la vostra pace. Ma, alla vista di noi, vostro legittimo re, che a proteggere dagli sgraffi le minacciate guance della vostra città, con dura e rapida marcia davanti a queste porte abbiam condotto forze che li controbilanciano, i Francesi stupiti hanno acconsentito a parlamentare; e ora, invece di proiettili ravvolti nelle fiamme, che avrebbero dovuto far tremare di febbre i vostri baluardi, scagliano contro di voi soltanto blande parole inviluppate nel fumo per crearvi negli orecchi uno sleale errore; date loro la fiducia che loro spetta, buoni cittadini, e lasciate entrar noi, vostro re, le cui affaticate energie, esauste dalla rapida marcia, chiedono albergo dentro le vostre mura.

FILIPPO: Quando avrò parlato io, risponderete a tutt'e due. Condotto dalla mia destra, che con l'approvazione del cielo è impegnata a difendere il diritto di colui che la tiene, vedete il giovane Plantageneto, figlio del fratello maggiore di quest'uomo e re suo e di tutto quello che egli gode: per questa giustizia calpestata noi ora in assetto di guerra calpestiamo quest'erba davanti alla vostra città, essendovi nemici solo in quanto il sacro dovere dell'ospitalità ci obbliga a difendere questo fanciullo oppresso, Compiacetevi dunque di fare quello che dovete verso colui che ha diritto alla vostra obbedienza, cioè verso questo giovane principe: e allora le nostre armi, come un orso reso innocuo dalla museruola, non avranno più possibilità di offendere tranne che in apparenza; i nostri cannoni sfogheranno invano la loro capacità di far male contro le invulnerabili nubi del cielo, e ritirandoci felicemente e senza molestia, con spade intatte ed elmi non ammaccati, riporteremo a casa quel sangue animoso che eravamo venuti a versare contro codesta città e lasceremo in pace i vostri figli, le vostre mogli e voi stessi. Ma, se stoltamente trascurate questa offerta, non sarà la cinta delle vecchie mura che vi proteggerà dai nostri messaggeri di guerra, anche se gl'Inglesi e la loro scienza militare fossero rinchiusi entro la loro aspra cerchia. Diteci dunque: vuole la città riconoscerci signore a vantaggio di colui per cui la chiedo, o debbo dare il segnale di scatenare la nostra furia e di farci strada nel sangue per ricuperare quello che ci spetta?

PRIMO CITTADINO: In breve, siamo sudditi del re d'Inghilterra e teniamo la città per lui e in suo nome.

GIOVANNI: Riconoscete allora il re e lasciatemi entrare.

PRIMO CITTADINO: Non possiamo farlo; a colui che si dimostrerà re ci dimostreremo fedeli: fino a quel momento manterremo le nostre porte sprangate contro tutti.

GIOVANNI: Ma la corona d'Inghilterra non dimostra chi è re? Se quella non basta, vi porto come testimoni trentamila cuori di razza inglese...

BASTARDO: Bastardi compresi.

GIOVANNI: ... a confermare il nostro titolo a prezzo della vita.

FILIPPO: Altrettanti uomini come questi e altrettanto ben nati...

BASTARDO: E qualcuno bastardo pure.

FILIPPO: ...stanno qui a contraddire la sua pretesa.

PRIMO CITTADINO: Sino a che non risolviate chi ha maggior diritto, noi, nell'interesse del più degno, non lo riconosceremo né all'uno né all'altro.

GIOVANNI: Allora Dio ci perdoni se tante anime, prima che cada la rugiada della sera, voleranno all'eterna dimora per dimostrare col terribile giudizio delle armi chi sia re del nostro regno.

FILIPPO: Amen, amen! in sella, cavalieri! all'armi!

BASTARDO: Ci insegni un po' di scherma San Giorgio che bastonò il drago e da quel giorno è stato sempre a cavallo alla porta dell'osteria. (A Lymoges) Messere, se io fossi a casa vostra, al vostro covile e con la vostra leonessa, metterei una testa di bue su codesta pelle di leone e farei di voi un mostro.

LYMOGES: Zitto! basta.

BASTARDO: Tremate tutti perché si sente ruggire il leone.

GIOVANNI: Su, per la pianura dove schiereremo nell'ordine migliore tutti i nostri reggimenti.

BASTARDO: Affrettiamoci dunque per avere il vantaggio del campo.

FILIPPO: E così sarà; e ordinate al resto delle truppe di prender posizione sull'altra collina. Dio e il nostro diritto!

 

(Scorrerie; poi entra l'Araldo di Francia con Trombettieri e si avvicina alle porte)

 

ARALDO: Cittadini di Angers, spalancate le porte e accogliete il giovane Arturo, duca di Bretagna, che per mano del re di Francia costringe oggi a lacrimare molte madri inglesi i cui figli giacciono sparsi sul suolo insanguinato, e molti mariti di vedove a giacer bocconi, stringendo in un gelido abbraccio la terra arrossata di sangue. La vittoria ottenuta con scarse perdite tripudia sulle bandiere sventolanti e trionfalmente spiegate dei Francesi, che son qui presso per entrare da conquistatori e proclamare Arturo di Bretagna re d'Inghilterra e vostro.

 

(Entra l'Araldo inglese con un Trombettiere)

 

ARALDO: Cittadini di Angers, sonate le campane in segno di letizia:

Giovanni, re vostro e d'Inghilterra, si appressa, vincitore di questa battaglia accanita e micidiale. I suoi soldati che si erano allontanati di qui con armature splendenti come l'argento, ritornano dorati di sangue francese dalla testa ai piedi; non c'è piuma su cimiero inglese che sia stata rimossa da lancia francese; le nostre bandiere ritornano nelle stesse mani che le avevano spiegate all'inizio della marcia; e come un'allegra schiera di cacciatori i nostri baldi Inglesi vengono con mani imporporate, tinte dalla strage dei nemici: aprite le porte e accogliete i vincitori.

PRIMO CITTADINO: Araldi, dall'alto delle torri abbiamo visto dal principio alla fine entrambi i vostri eserciti attaccare e ritirarsi in modo tale che fra due contendenti così uguali i nostri occhi più esperti non sanno giudicare chi sia vincitore. I colpi hanno risposto ai colpi e le ferite alle ferite; la forza ha tenuto testa alla forza e la violenza alla violenza: le due parti sono pari e noi parimenti le lodiamo. Una deve mostrare la sua superiorità: sinché sono così uguali di peso, non teniamo la città a disposizione né dell'una né dell'altra, ma di entrambe allo stesso modo.

 

(Rientrano da parti diverse i due Re con le Truppe)

 

GIOVANNI: Re di Francia, hai altro sangue da gettar via? Di', deve la corrente del nostro diritto continuare a fluire? altrimenti, se non consenti alle sue acque argentee di procedere pacificamente sino all'oceano, essa, molestata dall'impedimento che le opponi, lascerà il suo letto naturale e col corso turbato traboccherà dalle rive con cui cerchi di trattenerla.

FILIPPO: Re d'Inghilterra, tu non hai risparmiato più di noi Francesi una sola goccia di sangue in questa prova accanita, anzi, ne hai perduto di più. Per la mia mano, che regge la terra cui sovrasta questo tratto di cielo, giuro che non deporremo le armi giustamente impugnate, se prima non avremo deposto te contro cui le abbiamo prese o non avremo aggiunto al numero dei morti un sovrano che adornerà l'elenco delle perdite di questa guerra col suo nome regale accoppiato alla strage.

BASTARDO: Ah, maestà di re! come giganteggia la tua gloria, quando il gran sangue dei monarchi si accende d'ira. Ora la morte fodera d'acciaio le sue fauci micidiali, ha per denti e artigli le spade dei soldati e banchetta rodendo la carne degli uomini in questo contrasto insoluto di monarchi. Perché questi volti di principi sono così attoniti? Gridate "morte!", o re; indietro al campo insanguinato, voi ugualmente potenti, spiriti bollenti e focosi! La disfatta di una parte dia la pace all'altra; sino a quel momento, colpi, sangue e morte!

GIOVANNI: Quale parte voglion dunque ammettere i cittadini?

FILIPPO: Parlate, cittadini, per l'Inghilterra; chi è il vostro re?

PRIMO CITTADINO: Il re d'Inghilterra, quando sapremo chi è.

FILIPPO: Riconoscetelo in noi che ne sosteniamo il diritto.

GIOVANNI: Riconoscetelo in noi, che siamo il gran vicario di noi stessi, e qui portiamo il possesso della nostra persona, signore del nostro titolo, e di voi, Angers.

PRIMO CITTADINO: Una forza superiore a noi lo nega, e finché la questione sia in sospeso teniamo chiuso il nostro primo dubbio dentro le porte fortemente sbarrate. Per ora riconosciamo solo la signoria dei nostri timori, finché non siano risolti, espulsi e deposti da chi sarà riconosciuto certamente per re.

BASTARDO: Per Dio! questi straccioni di cittadini vi prendono in giro, o re, e, stando tranquilli e pacifici sulle loro mura merlate, come se fossero a teatro guardano a bocca aperta e si segnano a dito l'un l'altro le scene e gli atti di morte che vi affaccendate a rappresentare. Le vostre reali maestà si lascino guidare da me: fate come i ribelli in Gerusalemme, siate amici per un poco e insieme recate alla città tutto il male che potete: da oriente e da occidente Francesi e Inglesi puntino i loro martellanti cannoni carichi sino alla bocca, finché col loro tuono spaventoso non abbiano diroccato le costole di pietra di questa città altezzosa: io picchierei incessantemente su quei gaglioffi sino a che la loro inerme devastazione li lasci ignudi come l'aria. Ciò fatto, dividete ancora le vostre truppe e separate le bandiere già frammiste insieme, rivolgete fronte a fronte e spada sanguinosa contro spada sanguinosa; allora la fortuna in un momento sceglierà fra le due parti la sua favorita, e a questa darà per sua grazia gli onori della giornata e il bacio di una gloriosa vittoria. Che dite di così pazzo consiglio, potenti sovrani? non sa forse di fine arte politica?

GIOVANNI: Per questo cielo che ci sovrasta, mi piace assai. Re di Francia, dobbiamo congiungere le forze, radere al suolo la città, e poi decidere con le armi chi deve essere re?

BASTARDO: Se hai stoffa di sovrano, essendo stato offeso come noi dalla caparbia città, rivolgi contro le sue mura insolenti le tue bocche da fuoco, come noi faremo con le nostre, e quando le avremo abbattute, sfidiamoci e picchiamoci gli uni gli altri alla rinfusa in nome del cielo o dell'inferno.

FILIPPO: E così si faccia. Dite, dove attaccherete?

GIOVANNI: Noi spareremo dall'occidente mandando distruzione nel cuore della città.

LYMOGES: Io dal settentrione.

FILIPPO: E dal mezzogiorno i nostri cannoni faranno piovere scrosci di proiettili sulla città.

BASTARDO: Savia arte militare! Da settentrione a mezzogiorno, il duca d'Austria e il re di Francia si spareranno in faccia reciprocamente, e io ve li istigherò. Suvvia, andiamo.

PRIMO CITTADINO: Ascoltatemi, grandi re: vogliate fermarvi un istante, e vi indicherò una via di pace e di bella alleanza per cui potrete conquistare questa città senza colpo ferire e lascerete morire nei loro letti tanti uomini che sono qui venuti a perire in battaglia: non ostinatevi, ma ascoltatemi, possenti re.

GIOVANNI: Parla pure: siamo pronti a udire.

PRIMO CITTADINO: Codesta figlia del re di Spagna, madonna Bianca, è nipote del re d'Inghilterra. Pensate all'età di Luigi il Delfino e di quell'amabile fanciulla: se un vigoroso amore andasse in cerca di bellezza, dove la troverebbe più perfetta che in Bianca? se un tenero amore andasse in cerca della virtù, dove la troverebbe più pura che in Bianca? se un amore ambizioso cercasse la sua uguale per nascita, in quali vene scorre sangue più nobile che in quelle di madonna Bianca?

E, come lei, così è il Delfino: perfetto per bellezza, virtù e nascita; e, se manca di perfezione, è solo in quanto non è unito con lei; ed ella a sua volta non è completa, se pur non lo è, solo in quanto non è una cosa sola con lui. Egli è la metà di un uomo felice e soltanto una donna come lei può completarlo, e Bianca è una perfezione parziale che trova in lui la sua pienezza. Quando due correnti argentee di tal natura si congiungono onorano le rive che le limitano:

se unite i due giovani in matrimonio, o re, a questi due fiumi unificati farete da sponde regolandone il corso. Questa unione opererà più efficacemente sulle nostre porte ben serrate che il fuoco dei cannoni; indotti dalla miccia di questo connubio più presto che dall'uso della polvere, spalancheremo le porte e vi concederemo accesso: ma senza tali nozze, il mare infuriato non è così sordo, i leoni così coraggiosi, le montagne e le rupi così ferme, no, la morte stessa così decisa nella sua furia micidiale, come siamo risoluti noi a difendere questa città.

BASTARDO: Ecco qui una frenata a secco che scuote fuor dei suoi cenci la carcassa putrefatta dalla vecchia Morte! Ecco qui una boccaccia che sputa fuori morte e montagne, rupi e mari, e parla con tanta disinvoltura di leoni ruggenti come ragazzine di tredici anni parlano di cuccioli. Che cannoniere ha generato questo cuore baldanzoso? il suo discorso è fuoco di cannoni e fumo e rimbombo; le sue parole sembrano legnate e le nostre orecchie ne sono bastonate; ogni sua parola colpisce meglio di un cazzotto francese: in nome di Dio, non sono mai stato così pestato dalle parole, da quando per la prima volta ho chiamato papà il babbo di mio fratello.

ELEONORA: Figlio, acconsenti all'unione, combina il matrimonio e da' alla nipote una dote grande abbastanza: con questo nodo rafforzerai il tuo diritto alla corona che è ancora malsicuro, cosicché quel ragazzo inesperto non troverà un sole che gli maturi il fiore, promessa di ragguardevole frutto. Leggo in viso al re di Francia che è disposto a cedere: vedi come bisbigliano; insisti finché l'animo loro è aperto a questo disegno ambizioso, perché il desiderio, ora rammollito dal soffio delle dolci suppliche, della pietà e dei rimorsi non si raffreddi e non si ricongeli nella forma di prima.

PRIMO CITTADINO: Perché non rispondono i due sovrani all'amichevole proposta della nostra città minacciata?

FILIPPO: Parlate voi, re d'Inghilterra, che siete stato il primo a rivolgere il discorso ai cittadini: che ne dite?

GIOVANNI: Se il Delfino tuo principesco figlio può leggere nel libro di questa bellezza le parole "io amo", la sua dote sarà pari a quella di una regina, poiché, eccetto la città che assediamo, l'Angiò, la bella Turenna, il Maine, il Poitou e tutto quello che da questa parte del mare è soggetto alla nostra corona e autorità, adornerà il suo letto nuziale e farà lei non meno ricca di titoli, onori e distinzioni di quanto per bellezza educazione e sangue è pari a qualsiasi altra principessa al mondo.

FILIPPO: Che ne dici tu, giovinotto? guarda in viso la dama.

LUIGI: Sì, mio signore; e nel suo occhio trovo una meraviglia o un meraviglioso miracolo, l'immagine di me stesso, che, essendo soltanto l'ombra della vostra prole, diventa un sole e fa della vostra prole un'ombra: vi assicuro che non ho mai amato me stesso come in questo momento, in cui mi trovo fissamente ritratto nel quadro lusinghiero del suo occhio.

 

(Sussurra a Bianca)

 

BASTARDO: Tratto nel quadro del suo occhio blando, nell'aggrottar del ciglio suo impiccato, squartato nel suo cuor! Si sta mirando qual traditor d'amore, ed è un peccato che appeso, tratto e squartato in sì eletto luogo si trovi un villanzone abietto.

BIANCA: La volontà di mio zio a questo riguardo è anche mia: se vede in voi qualche cosa che gli piace, posso facilmente trasferirla nella mia volontà; o se volete, per parlare più propriamente, posso facilmente indurmi ad amarla. Mio signore, non voglio lusingarvi oltre dicendovi che tutto quello che vedo in voi merita amore: vi dirò soltanto che, anche se menti rozze vi giudicassero, non vedrei nulla che giustificasse la mia antipatia.

GIOVANNI: Che dicono questi giovani? che dite, nipote mia?

BIANCA: Che essa rispettosamente deve sempre consentire a fare quanto voi saggiamente vi compiacete di proporle.

GIOVANNI: Parlate allora, Delfino; vi sentite di amare questa dama?

LUIGI: Chiedetemi piuttosto se posso astenermi dall'amarla; poiché l'amo con tutta sincerità.

GIOVANNI: Allora ti do con lei queste cinque province: il Vexin, la Turenna, il Maine, il Poitou e l'Angiò, e in aggiunta ben trentamila marchi in moneta inglese. Filippo di Francia, se ne sei soddisfatto, ordina a tuo figlio e alla tua futura nuora di darsi la mano.

FILIPPO: Ne siamo lietissimi. Giovani principi, unite le vostre mani.

LYMOGES: E le labbra anche, perché mi ricordo benissimo che io feci quando mi fidanzai.

FILIPPO: Ora, cittadini di Angers, aprite le porte, e accogliete quegli amici che voi stessi avete uniti, poiché alla cappella di Santa Maria si celebrerà subito il rito nuziale. E madonna Costanza non è della compagnia? So che non lo è, perché la sua presenza avrebbe turbato molto la conclusione di questo matrimonio: dov'è con suo figlio? chi lo sa me lo dica.

LUIGI: E' nella tenda di Vostra Maestà, triste e disperata.

FILIPPO: E in fede mia, questa alleanza che abbiamo stretta non sarà rimedio efficace alla sua tristezza. Fratello d'Inghilterra, come possiamo dar qualche soddisfazione alla vedova? Eravamo venuti a difendere i suoi diritti e, Dio lo sa, abbiamo deviato in tutt'altra direzione a nostro vantaggio.

GIOVANNI: Rimedieremo tutto, poiché creeremo il giovane Arturo duca di Bretagna e conte di Richmond, e lo faremo signore di questa bella e ricca città. Chiamate madama Costanza; qualche pronto messaggero le dica di venire dove si celebrerà la cerimonia: confido che, se non riusciremo ad accontentarla completamente, le daremo tale soddisfazione da tacitare le sue lagnanze. Andiamo con tutta la dignità che la fretta ci consente a compiere questo rito impreveduto per il quale non sono stati fatti preparativi adeguati.

 

(Escono tutti tranne il Bastardo)

 

BASTARDO: Pazzo mondo! pazzi re! pazzo accordo! Giovanni, per togliere ad Arturo tutto il titolo, ne ha sacrificato volontariamente una parte. Il re di Francia aveva indossata l'armatura per scrupolo di coscienza e si era lasciato tirare in campo da zelo di carità come un soldato di Dio! ma poi si è lasciato sussurrare all'orecchio da quel guastapropositi, da quell'astuto diavolo, da quel mezzano che rompe la testa alla fede e ogni giorno spezza i voti, che la vince su tutti, sui re e sui mendicanti, sui vecchi, sui giovani e sulle ragazze, le quali, poverine, non avendo null'altro da perdere se non la parola "vergine" si lasciano ingannare da lui e perdono anche quella; quel signore dalla faccia contegnosa e adulatrice: l'Interesse, forza direttrice del mondo. E il nostro mondo così bene equilibrato, fatto per correre pari sul terreno liscio, da questo vantaggio, da questa brutta china, da questo Interesse, dominatore di ogni movimento, è fatto deviare dal senso dell'imparzialità dalla giusta direzione, da ogni retto proposito, corso e intenzione. E il medesimo Interesse che tutto travia, questo ruffiano, questo mezzano, questo emblema di instabilità, colpendo l'occhio del volubile re di Francia, lo ha fatto venir meno alla promessa di aiuto e lo ha rimosso da una guerra decisa in servizio dell'onore alla conclusione di una pace bassa e vile. Ma perché me la prendo così con l'Interesse? solo perché non mi ha ancora fatto la corte: non che io abbia il potere di stringere il pugno scontrosamente, quando belle monete d'oro mi toccassero la palma, ma perché la mia mano non ancor soggetta alle tentazioni fa come i mendicanti e se la prende coi ricchi. Bene; finché sarò pezzente, dirò schernendo che unico peccato è essere ricchi, e quando sarò ricco, dirò che la povertà sola è vizio. Giacché anche i re vengono meno alla fede per l'interesse, sii pure il mio padrone, o guadagno, e ti venererò.

 

(Esce)

 

 

 

ATTO TERZO

 

SCENA PRIMA - La tenda del Re di Francia

(Entrano COSTANZA, ARTURO, e SALISBURY)

 

COSTANZA: Dunque si sposano! giurano pace! sangue falso si unisce a sangue falso e ridiventano amici! deve proprio Luigi ottenere Bianca, e Bianca queste province? Non è così; sbagli a dir questo o hai capito male: rifletti bene, ripeti il tuo racconto; non può essere; dici che è ma non è: confido di non potermi fidare di te, poiché le tue parole non sono che il vano fiato di un uomo comune: credimelo, non credo a quel che dici; ho un giuramento di re che asserisce il contrario.

Sarai punito per avermi impaurito così, perché mi sento male e vado soggetta a timori; sono oppressa dai torti e perciò preda dei timori; vedova, senza marito, e perciò incline ai timori, donna e quindi per natura nata a soffrir timori; e anche se tu ora confessassi di avere soltanto scherzato, non troverei tregua all'agitazione del mio spirito che sarà scosso e tremerà tutto il giorno. Che vuol dire codesto tuo scuotere il capo? perché guardi mio figlio con aria così triste?

perché ti porti la mano al petto? perché il tuo occhio è bagnato di doloroso pianto, come fiume che trabocca oltre le rive? Sono questi i tristi segni che confermano le tue parole? Allora parla ancora, ma non ripetermi tutta la storia; dimmi questo solo, se è vera o no.

SALISBURY: Tanto vera quanto falsi sono nella nostra opinione quei sovrani che vi danno occasione di trovare vere le mie parole.

COSTANZA: Oh! se mi insegni a credere a questo dolore, insegna anche a questo dolore il modo di uccidermi: fa' che la credenza e la vita s'incontrino come due uomini furiosi e disperati che al primo urtarsi cadono e muoiono. Luigi sposa Bianca! o ragazzo, in che posizione sei tu allora? Se il re di Francia ha stretto amicizia con quello d'Inghilterra, che accadrà di me? Vattene, compare; non posso tollerare la tua vista: queste notizie ti hanno trasformato in un uomo orrendo.

SALISBURY: Che altro danno ho fatto, buona signora, se non parlarvi del danno che altri vi hanno recato?

COSTANZA: Questo danno è così odioso in se stesso da far parere nocivi tutti quelli che ne parlano.

ARTURO: Vi supplico, madonna, rassegnatevi.

COSTANZA: Se tu, che mi esorti a rassegnarmi, avessi un aspetto fiero e brutto e fossi una calunnia vivente del grembo di tua madre, pieno di chiazze disgustose e macchie intollerabili alla vista, zoppo, scemo, storto, nero, mostruoso, sparso di turpi nèi e di altri segni molesti a vedersi, non mi curerei di te e allora mi rassegnerei, perché non ti amerei, né tu saresti degno della tua grande nascita e non meriteresti una corona. Ma tu sei bello e alla tua nascita, caro ragazzo, la fortuna e la natura cospirano a farti grande: e dei doni della natura puoi ancora vantarti come i gigli o le rose, appena sbocciate. Ma la fortuna, oh! è corrotta, mutata e straniata da te; essa va fornicando a ogni ora con tuo zio Giovanni e con la mano piena d'oro ha attirato il re di Francia a calpestare ogni onesto riguardo per la sovranità e ha fatto di Sua Maestà un mezzano loro complice. Il re di Francia fa da mezzano alla Fortuna e al re Giovanni: alla Fortuna sgualdrina e a Giovanni usurpatore! Dimmi tu, compare: non è il re di Francia spergiuro? avvelenalo con le parole, o vattene e lascia in pace questi dolori che io sola debbo sopportare.

SALISBURY: Perdonatemi, madama; non posso ritornare presso i sovrani senza di voi.

COSTANZA: Tu puoi farlo e lo farai, perché non verrò con te: insegnerò l'orgoglio ai miei dolori, perché il dolore è orgoglioso e fa piegare chi lo sente. Intorno a me e alla maestà del mio dolore si riuniscano i re. Poiché è tanto grande che nessun sostegno può reggerlo se non la immensa e immobile terra, qui sederemo io e il dolore; ecco il mio seggio, e di' ai re di venir qui a inchinarsi.

 

(Si siede in terra)

(Entrano RE GIOVANNI, RE FILIPPO, LUIGI, BIANCA, ELEONORA, il BASTARDO, il DUCA D'AUSTRIA e Persone del seguito)

 

FILIPPO: E' vero, bella figlia; e questo giorno felice sarà sempre osservato come festivo in Francia: per dargli solennità il sole splendente si ferma nel suo corso e fa l'alchimista e con il fulgore del suo occhio luminoso muta in oro scintillante le meschine zolle della terra: il corso annuale del sole che ricondurrà questo giorno, lo vedrà celebrare sempre come giorno festivo.

COSTANZA: Giorno nefasto, non giorno festivo! (Alzandosi) Che cosa ha meritato, che cosa ha fatto per essere inscritto in lettere d'oro fra le grandi feste del calendario? piuttosto toglietelo dalla settimana come giorno di infamia di oppressione e di spergiuro. Altrimenti, se deve pur rimanervi, preghino le donne incinte di non sgravarsi in questo giorno, perché le loro speranze non siano contrariate dalla nascita di un mostro; i marinai non temano il naufragio eccetto che in questo giorno; e nessun contratto resti inadempiuto se non è stato stipulato in questo giorno: tutte le cose iniziate in questo giorno giungano a mala fine; sì, la fede stessa diventi ipocrita falsità!

FILIPPO: In nome del cielo, madama, non avrete ragione di maledire gli eventi felici di oggi: non ho forse impegnato per voi la mia parola di re?

COSTANZA: Mi avete ingannata con una contraffazione somigliante alla maestà, che saggiata con la pietra del paragone, si è rivelala di nessun valore. Voi siete spergiuro, spergiuro; siete venuto col braccio armato a versare il sangue dei miei nemici, ma ora aprite le braccia e lo rinforzate col vostro: il vigore aggressivo e l'aspro cipiglio della guerra si spengono in amicizia e in falsa pace e questa lega è nata dalla nostra oppressione. Armatevi. armatevi, o cieli, contro questi re spergiuri! una vedova vi invoca; siate a me in luogo di marito, o cieli! le ore di questo giorno profanato non passino in pace, ma prima del tramonto pongano la discordia armata fra questi due sovrani spergiuri! Ascoltatemi, oh, ascoltatemi!

LYMOGES: Statevi in pace, madama Costanza!

COSTANZA: Guerra, guerra, non pace! La vostra pace per me è guerra. O Lymoges, o duca d'Austria! tu rechi infamia alla spoglia insanguinata del leone: tu marrano, miserabile codardo, piccolo nei valore e grande nella furfanteria! tu, sempre forte dalla parte del più forte! tu, campione della Fortuna, che non combatti se non quando Sua Capricciosa Signoria ti sta presso per indicarti la via della salvezza. Tu pure sei spergiuro e aduli la grandezza. Che asino sei, un asino rampante, che facevi lo smargiasso e battevi i piedi in terra e giuravi in mio favore! tu, malato dal sangue gelido, non avevi parlato con voce di tuono in mio sostegno? non eri mio soldato giurato? non mi avevi detto di fidare nella tua stella nella tua fortuna e nella tua forza? e ora invece passi al nemico! Una pelle di leone indosso a te! vergogna, levatela e poni sulle tue membra di rinnegato una pelle di vitello.

LYMOGES: Oh, se queste parole me le avesse dette un uomo!

BASTARDO: E poni sulle tue membra di rinnegato una pelle di vitello.

LYMOGES: Non oserai ripeterlo, briccone, se ti è cara la vita.

BASTARDO: E poni sulle tue membra di rinnegato una pelle di vitello.

GIOVANNI: Questo non mi piace, dimentichi il rispetto che devi a te stesso.

 

(Entra PANDOLFO)

 

FILIPPO: Ecco qui il venerando legato del pontefice.

PANDOLFO: Salve, consacrati vicari del cielo! A te, Giovanni, è rivolta la mia sacrosanta ambasciata. Io Pandolfo, cardinale della bella Milano e legato di papa Innocenzo, ti domando solennemente in suo nome perché recalcitri così ostinatamente ai voleri della Chiesa, nostra santa madre, e perché escludi con la forza Stefano Langton, nominato arcivescovo di Canterbury, da quella venerata diocesi. Questo ti chiedo in nome del predetto nostro santo padre, papa Innocenzo.

GIOVANNI: Qual nome sulla terra può obbligare un re libero e consacrato a rispondere quando lo si interroghi? tu, per impormi di replicare, non puoi inventare un nome tanto futile, indegno e ridicolo quanto quello di papa. Digli questo e aggiungi in nome del re d'Inghilterra che nessun prete italiano esigerà decima o pedaggio nei nostri domini; e che, come sono capo supremo per volere di Dio, così sotto la Sua alta guida eserciteremo da soli la suprema autorità sul nostro regno senza l'aiuto di altra mano di uomo: riferisci questo al papa, lasciando da parte ogni reverenza per lui e per l'autorità che egli usurpa.

FILIPPO: Fratello d'Inghilterra, in questo bestemmiate.

GIOVANNI: Voi e tutti i re della cristianità vi lasciate condurre grossolanamente da questo prete invadente, temendo le maledizioni che si scongiurano facilmente col denaro; e in vile oro, scoria e polvere, comprate indulgenze corrotte da un uomo che con quella vendita priva se stesso di ogni indulgenza. Sebbene voi e gli altri, così grossolanamente ingannati, mantenete col vostro denaro questa stregoneria da giocolieri, io solo, io solo, mi oppongo al papa e considero i suoi partigiani come mici nemici.

PANDOLFO: Allora, in forza del potere legittimo di cui sono investito, ti dichiaro maledetto e scomunicato: benedetto sarà colui che si riterrà sciolto dal vincolo di sudditanza verso un eretico, e sarà proclamata benemerita, santificata e venerata quella mano che sopprimerà la tua vita odiosa con qualsiasi mezzo clandestino.

COSTANZA: Oh! mi sia data licenza di maledire insieme alla Curia Romana! Buon padre cardinale, dite amen alle mie violente bestemmie; poiché non c'è lingua d'uomo che, senza aver ricevuto i miei torti, abbia autorità di maledirlo a dovere.

PANDOLFO: Madama, c'è la legge che debitamente autorizza la mia maledizione.

COSTANZA: E c'è anche per me: quando la legge non può fare il bene, è giusto che non impedisca di fare il male. La legge non può dare a mio figlio il suo regno, perché chi detiene il regno, detiene anche la legge; quindi, poiché la legge stessa è dalla parte del torto, come può la legge impedire alla mia lingua di maledire?

PANDOLFO: Filippo di Francia, pena la maledizione, lascia la mano di quell'eretico convinto, e volgi contro di lui le tue armi, se non fa atto di sottomissione a Roma.

ELEONORA: Impallidisci, re di Francia? non lasciare la sua mano.

COSTANZA: Attento, Satana; se il re di Francia si pente e lascia la mano, l'inferno ci rimette un'anima.

LYMOGES: Re Filippo, ascolta il cardinale.

BASTARDO: E poni sulle sue membra di rinnegato una pelle di vitello.

LYMOGES: Bene, furfante; debbo intascare queste offese, perché...

BASTARDO: ...le tue brache sono fatte apposta per portarle.

GIOVANNI: Che dici al cardinale, Filippo?

COSTANZA: Che dovrebbe dire se non quello che dice il cardinale?

LUIGI: Pensateci bene, padre; poiché si tratta di provocare la maledizione di Roma, cosa grave, o di perdere, cosa assai più lieve, l'amicizia del re d'Inghilterra: rinunciate al meno.

BIANCA: Ossia alla maledizione di Roma.

COSTANZA: O Luigi, sta saldo! il demonio ti tenta sotto le sembianze di questa discinta sposa novella.

BIANCA: Madama Costanza non parla per coscienza, ma per interesse.

COSTANZA: Se ammettete la mia distretta, che vive solo se la lealtà è morta, quella distretta non può non costringere a questa conclusione, che la lealtà rivivrebbe con la morte della distretta. Dunque, sopprimete la mia distretta, e la lealtà risorge, mantenete in vita la distretta, e la lealtà è soppressa.

GIOVANNI: Il re è scosso e non sa che rispondere.

COSTANZA: Allontanati da lui e rispondi bene.

AUSTRIA: Fallo, re Filippo! non stare sospeso nel dubbio.

BASTARDO: Non sospenderti in dosso che una pelle di vitello, caro villanzone.

FILIPPO: Sono perplesso e non so che dire.

PANDOLFO: Che puoi dire che non ti renda anche più perplesso, se rimani scomunicato e maledetto?

FILIPPO: Buon padre reverendo, immaginatevi al mio posto e ditemi come vi comportereste. La mano di questo re e la mia si sono strette da poco, e i nostri intimi cuori sono stati congiunti in lega, uniti e vincolati con tutta la forza solenne di sacri giuramenti. L'ultimo nostro fiato che desse suon di parole è stato un giuramento di fedeltà, di pace, di amicizia, di sincero amore fra i due regni e fra le nostre reali persone. Prima di questa tregua, poco fa invero e quanto appena bastò per tergerci le mani e stringerle in questo reale patto di pace, Dio sa, erano tinte e macchiate dal pennello del massacro e la vendetta vi dipingeva la tremenda ostilità di re infuriati. E dovrebbero le nostre mani, purgate or ora dal sangue e unite in amicizia, così forti nell'amore e nell'odio, sciogliere questa stretta e annullare questo cortese saluto? Dovremmo giocar di bussolotti con la fede? Scherzare col cielo? mutarci in fanciulli volubili, ritirare violentemente palma da palma, rinnegare il giuramento e sul talamo di una pace ridente far marciare un esercito sanguinario, e crear lo scompiglio sulla fronte serena della verace sincerità ? Oh! santo signore e padre reverendo, non fate che sia così! Per vostra grazia, escogitate, stabilite, imponete qualche forma di ordine e allora saremo ben felici di obbedire ai vostri voleri e di continuare nello stato di amicizia.

PANDOLFO: Non c'è forma né ordine se non in quello che rinnega l'amicizia con l'Inghilterra. Perciò all'armi! sii campione della Chiesa, o lascia che essa, nostra madre, pronunci la sua maledizione, la maledizione di una madre contro il figlio ribelle. Re di Francia, tu puoi tenere per la lingua un serpente, un leone irritato per la zampa micidiale, una tigre digiuna pei denti, più facilmente che tenere in pace la mano che ora stringi.

FILIPPO: Posso sciogliere la mia mano, ma non la mia fede.

PANDOLFO: Così fai della fede la nemica della fede, e, come in una guerra civile, contrapponi giuramento a giuramento, e la tua lingua a se stessa. Adempi anzitutto verso il cielo il giuramento che hai prestato prima di ogni altro al cielo, di essere il campione della Chiesa. Quello che hai giurato in seguito, lo hai giurato contro te medesimo e non può essere osservato da te, poiché il male che tu hai giurato di fare non è male se è eseguito rettamente, e se tu non lo eseguisci, perché l'esecuzione sarebbe un male, allora eseguisci rettamente proprio col non eseguire. La migliore effettuazione di propositi non bene diretti sta nel cambiarne ancora la direzione; sebbene sia un traviamento, con ciò si ritorna sulla retta via, e la falsità cura la falsità, come il fuoco raffredda il fuoco nelle vene di uno appena scottato. E' la religione che fa osservare i giuramenti:

tu hai giurato contro quello che avevi giurato, e chiami un giuramento a garantire contro un giuramento; e quando giuri una fede che non sei sicuro di poter osservare, giuri solo a patto di non renderti altrimenti spergiuro; se no, che beffa sarebbe il giurare! Ma tu giuri solo di voler essere spergiuro, e tanto più quanto più fedelmente osserverai il giuramento. Quindi il tuo ultimo giuramento contrapposto al primo è in te ribellione contro te medesimo, e non puoi fare migliore conquista che armare la parte di te più fedele e più nobile contro questi pazzi e disonesti suggerimenti: e con questa parte migliore si schierano le nostre preghiere, se vuoi accoglierle. Sappi altrimenti che le nostre maledizioni cadranno su di te con tanta forza che non riuscirai a scuoterle di dosso, e disperato morrai sotto il loro tetro peso.

LYMOGES: Ribellione, ribellione dichiarata!

BASTARDO: Non sarà mai che una pelle di vitello ti chiuda la bocca?

LUIGI: Padre, all'armi!

BIANCA: Nel giorno delle tue nozze e contro il sangue con cui ti sei imparentato? dobbiamo banchettare con uomini uccisi, e avere trombe stridenti e sgraziati tamburi rumorosi, clamori infernali, come accompagnamento musicale del festino? Marito, ascoltami! ahimè, quanto nuova è tale parola sulle mie labbra! per questo nome, che la mia lingua non ha mai pronunciato prima d'ora, ti supplico in ginocchio di non prendere le armi contro mio zio.

COSTANZA: Oh! china sulle ginocchia indurite dal lungo star piegata, ti prego, virtuoso Delfino, di non alterare la condanna preordinata dal cielo!

BIANCA: Ora metterò alla prova il tuo amore: che cosa può avere più forza presso di te che il nome di moglie?

COSTANZA: La cosa che sorregge colui che a sua volta sostiene te:

l'onore. Oh! Luigi, il tuo onore, il tuo onore!

LUIGI: Non capisco come Vostra Maestà sia così freddo, quando tanto importanti considerazioni vi dovrebbero spingere.

PANDOLFO: Pronuncerò la condanna sul suo capo.

FILIPPO: Non ce n'è bisogno. Re d'Inghilterra, mi sciolgo da te.

COSTANZA: O bel ritorno della maestà che era in bando!

ELEONORA: O turpe defezione dell'incostanza francese!

GIOVANNI: Re di Francia, entro un'ora ti dorrai di quest'ora.

BASTARDO: Se ciò deve essere regolato dal Tempo, quel calvo beccamorto che mette a punto gli orologi, il re di Francia se ne pentirà davvero.

BIANCA: Il sole è tinto di sanguigno: bel giorno, addio! Qual è la parte con cui debbo andare? sono per tutt'e due; sembra che ciascun esercito abbia una mano e nella loro furia, entrambi afferrandomi, mi lacerano e mi smembrano. Marito, non posso pregare che tu vinca; zio, mi è forza pregare che tu perda; padre, non posso augurarmi che la fortuna ti protegga; nonna, non posso desiderare che i tuoi auguri si avverino: chiunque vinca, da quella parte perdo, perdita sicura prima ancora che cominci la partita.

LUIGI: Madonna, la tua fortuna coincide con la mia.

BIANCA: Là dove la mia fortuna vive, si spegne la mia vita.

GIOVANNI: Cugino raccogli le nostre truppe. (Esce il Bastardo) Re di Francia, sono acceso di collera ardente, di una tale furia che nulla può calmarla eccetto il sangue, il più pregiato sangue della Francia.

FILIPPO: La tua collera ti arderà e sarai cenere prima che il nostro sangue spenga quel fuoco: sta in guardia, tu corri grave pericolo.

GIOVANNI: Non più di colui che minaccia. Armiamoci.

 

(Escono)

 

 

 

SCENA SECONDA - Francia. Pianura presso Angers

(Allarmi. Inseguimenti. Entra il BASTARDO con la testa del DUCA D'AUSTRIA)

 

BASTARDO: Ora, per la vita mia, sta facendo caldo a meraviglia; qualche spirito dell'aria aleggia nel cielo e fa piovere guai. La testa del duca stia qui, mentre Filippo prende fiato.

 

(Entrano RE GIOVANNI, ARTURO e UBERTO)

 

GIOVANNI: Uberto, tieni questo ragazzo. Filippo, muoviti: mia madre è assalita nella nostra tenda e temo che sia fatta prigioniera.

BASTARDO: Mio sire, l'ho liberata; Sua Altezza è salva, non temete; ma avanti, sire, perché con poco altro lavoro giungeremo al termine felice delle nostre fatiche.

 

(Escono)

 

 

 

SCENA TERZA - Lo stesso luogo

(Allarmi, scorrerie, ritirata. Entrano il RE GIOVANNI, ELEONORA, ARTURO, il BASTARDO, UBERTO e Signori)

 

GIOVANNI (a Eleonora): E così sarà; Vostra Altezza rimarrà addietro con buona guardia. (A Arturo) Cugino, non essere così triste: tua nonna ti vuol bene, tuo zio ti sarà caro come ti fu tuo padre.

ARTURO: Oh! questo farà morire mia madre di dolore!

GIOVANNI (al Bastardo): Cugino, affrettati a precederci; va' in Inghilterra! prima che noi giungiamo vedi di vuotare i sacchi degli abati avari e di mettere in libertà gli angeli di zecca imprigionati:

gli affamati debbono ora nutrirsi dei lombi ingrassati della pace: usa il mio mandato in tutta la sua forza.

BASTARDO: Tutti gli esorcismi con campanello, libro e candela non mi faranno retrocedere se l'oro e l'argento mi faran cenno di avanzare.

Lascio Vostra Maestà. Nonna, se mai mi ricorderò di pensare alla religione, pregherò per la vostra salvezza; e così vi bacio la mano.

ELEONORA: Addio, caro nipote.

GIOVANNI: Cugino, addio!

 

(Esce il Bastardo)

 

ELEONORA: Vieni qui, piccolo parente, ascolta una parola.

GIOVANNI: Vien qua, Uberto. Caro Uberto, molto ti dobbiamo! entro questo involucro di carne v'è un'anima che ti considera suo creditore, e vuole ripagare il tuo affetto a usura: e, mio caro amico, il tuo volontario giuramento vive gelosamente custodito in questo petto.

Dammi la mano. Avrei da dirti una cosa ma te la dirò in miglior momento. In nome del cielo, Uberto, quasi mi vergogno di dire che buona opinione ho di te.

UBERTO: Sono molto obbligato a Vostra Maestà.

GIOVANNI: Buon amico, non hai ancora ragione di dirlo, ma l'avrai, e, per quanto il tempo scorra lentamente, verrà il momento che ti farò del bene. Avrei una cosa da dirti, ma lasciamo andare: v'è il sole in cielo e il giorno nel suo splendore, accompagnato dal piaceri del mondo, è troppo gioioso e pieno di spassi per darmi ascolto: se la campana di mezzanotte con lingua di ferro e bocca di bronzo sonasse all'orecchio intorpidito della tenebra notturna, se questo luogo dove siamo fosse un cimitero e ti fossero stati fatti mille torti, o se il triste spirito della malinconia avesse ridotto e reso spesso il tuo sangue, che altrimenti corre frizzando su e giù per le vene, e insedia quello sciocco che è il riso negli occhi degli uomini e ne gonfia le guance in vana allegria, passione che cozza coi miei propositi, o se tu potessi vedermi senza occhi, udirmi senza orecchi e rispondermi senza la lingua, usando la mente soltanto, senza occhi, orecchi e nocivo suon di parole; ebbene, allora a dispetto del giorno che vigila con gli occhi spalancati, ti riverserei i miei pensieri nel petto. Ma ah! non lo farò! eppure ti amo assai, e in verità credo che tu pure ami me.

UBERTO: Sì; e tanto che, pel cielo, farei quello che mi voleste ordinar di fare, anche se l'atto fosse accompagnato dalla morte.

GIOVANNI: Oh, che non lo so che lo faresti? Buon Uberto, dà un'occhiata a quel ragazzo colà; ti dirò una cosa, amico mio: è come un serpente che mi attraversa la strada, e dovunque io volga il passo, mi sta davanti: mi comprendi? tu sei il suo custode.

UBERTO: E lo custodirò in modo tale che non potrà più offendere Vostra Maestà.

GIOVANNI: Morte.

UBERTO: Signore?

GIOVANNI: Una tomba!

UBERTO: Non vivrà.

GIOVANNI: Basta così. Ora potrei stare allegro. Uberto, ti amo; bene, non voglio dire quello che intendo di fare per te: ricordatelo.

Madama, addio: manderò quelle truppe a Vostra Altezza.

ELEONORA: Le mie benedizioni ti accompagnino!

GIOVANNI: E ora, cugino, dovete andare in Inghilterra: Uberto sarà il tuo uomo e ti servirà con tutta fedeltà. Suvvia, a Calais!

 

(Escono)

 

 

 

SCENA QUARTA - Lo stesso luogo. La tenda del Re di Francia

(Entrano il RE FILIPPO, LUIGI, PANDOLFO e Persone del seguito)

 

FILIPPO: Così da una furibonda tempesta marina un'intiera armata sconfitta è dispersa, per modo che ciascuna nave è lontana dalle sue compagne.

PANDOLFO: Coraggio e state di buon animo! Tutto andrà bene.

FILIPPO: Che mai può andar bene quando tutto è già andato così male?

Non siamo battuti? e Angers non è perduta? e Arturo non è stato fatto prigioniero e diversi cari amici non sono stati uccisi? e non è il sanguinario re Giovanni andato in Inghilterra frustrando tutti i tentativi dei Francesi per tagliargli la strada?

LUIGI: Ha fortificato tutto il terreno conquistato: una rapidità così grande retta da tanto discernimento, un ordine così ben ponderato in una contesa tanto violenta, non hanno precedenti: chi ha mai udito parlare o letto di un'azione simile?

FILIPPO: Potrei mandar giù queste lodi del re d'Inghilterra, se potessi trovare qualche esempio per la nostra infamia.

 

(Entra COSTANZA)

 

Guardate chi viene! la tomba di un'anima che nella vile prigione della triste vita trattiene lo spirito immortale contro sua voglia. Ti prego, madonna, vieni con me.

COSTANZA: Ecco! Ora vedete gli effetti della vostra pace.

FILIPPO: Pazienza, buona signora; confortatevi, nobile Costanza.

COSTANZA: No; respingo ogni consiglio, ogni riparazione, tranne quella che pone termine a ogni consiglio, a ogni riparazione: la morte, la morte. Oh! amabile e dolce morte, odoroso fetore e sana putredine!

alzati dal letto della notte eterna, tu odiata e temuta da chi vive in prosperità: voglio baciare le tue ossa detestate, porre i bulbi dei miei occhi nelle tue vuote occhiaie, inanellare le dita coi vermi tuoi familiari, chiudere questo pertugio del respiro con polvere nauseabonda ed essere una carogna mostruosa come te stessa: suvvia, ghignami: crederò che tu mi sorrida e ti bacerò come fossi tua consorte. Amata dagli afflitti, vieni a me!

FILIPPO: O bella dolorosa, chetati!

COSTANZA: No, non lo farò, finché avrò fiato per gemere. Oh! se la mia lingua fosse nella bocca del tuono! Allora con la mia collera scoterei il mondo, e sveglierei dal sonno la crudele morte scheletrita, che non è capace di udire la debole voce di una donna e che ha in dispregio una dozzinale invocazione.

PANDOLFO: Madama, quel che voi proferite è pazzia, non dolore.

COSTANZA: Non sei un sant'uomo se mi dai questa mentita. Non sono pazza: questi capelli che mi strappo sono miei: mi chiamo Costanza e sono stata la moglie di Goffredo; il giovane Arturo è mio figlio, ed è perduto; non sono pazza: volesse Dio che lo fossi! Forse allora dimenticherei me stessa e se potessi farlo che dolore dimenticherei!

Predicami qualche filosofia che mi faccia uscir di senno e ti santificheranno, cardinale; poiché non essendo pazza, ma sensibile al dolore, quel ch'è in me di ragionevole vien meco ragionando come potrei liberarmi dell'afflizione e mi insegna come uccidermi o impiccarmi. Se fossi demente, dimenticherei mio figlio o scambierei per lui una bambola di cencio: non sono pazza; bene, troppo bene sento i diversi guai di ciascuna mia disgrazia.

FILIPPO: Avvolgiti al capo le trecce. Che amore osservo nella massa bionda di quei capelli! Se vi cade per caso una stilla di argento, mille e mille amichevoli fili si agglomerano a quella stilla a condividere il dolore come esseri che si amano fedelmente e inseparabilmente congiunti nell'avversità.

COSTANZA: Andiamo in Inghilterra, se volete.

FILIPPO: Avvolgetevi al capo le trecce.

COSTANZA: Sì, lo farò; ma, perché dovrei farlo? Li sciolsi violentemente dai loro legami e gridai forte: "Potessero queste mani liberare mio figlio come hanno dato la libertà ai capelli!". Ma ora invidio la loro libertà e li restituisco ancora ai legami perché il mio povero figlio è prigioniero. E, padre cardinale, vi ho sentito dire che rivedremo e riconosceremo i nostri amici in cielo: se questo è vero, rivedrò ancora il mio ragazzo; poiché dalla nascita di Caino, il primo maschio, sino a colui che è nato ieri, non vide mai la luce creatura così piena di grazia. Ma ora il verme del dolore divorerà il mio bocciolo di rosa e gli caccerà dalla guancia la nativa bellezza:

sarà sparuto come uno spettro, pallido e consunto come una febbre terzana. Così morirà e, quando risorgerà e lo incontrerò nella corte del cielo non lo riconoscerò: perciò mai, mai più rivedrò il mio grazioso Arturo!

PANDOLFO: Avete una troppo riprovevole considerazione per il vostro dolore.

COSTANZA: Mi parla uno che non ha mai avuto un figlio.

FILIPPO: Amate il vostro dolore come amate vostro figlio.

COSTANZA: Il dolore colma il vuoto lasciato dal mio figlio lontano, si corica nel suo letto, passeggia su e giù con me, ne assume il leggiadro aspetto, ne ripete le parole, mi ricorda tutti i suoi pregi, ne riempie i vuoti abiti con la sua forma: dunque ho ragione di amare il dolore. Addio, se aveste fatto una perdita simile alla mia, saprei confortarvi meglio di quanto non facciate voi. Non voglio tenere questa ordinata acconciatura sul capo, quando ho tanto disordine nella mente. O Dio! Il mio ragazzo, il mio Arturo, il mio bel figlio, mia vita, mia gioia, mio nutrimento, mio tutto sulla terra! conforto di me vedova e rimedio del mio dolore!

 

(Esce)

 

FILIPPO: Temo che commetta qualche eccesso: la seguirò.

 

(Esce)

 

LUIGI: Non c'è nulla al mondo che mi dia piacere: la vita è tediosa come una storia che viene ripetuta e annoia l'udito ottuso di un uomo in dormiveglia; un amaro obbrobrio ha distrutto il dolce sapore delle cose del mondo, cosicché tutto sa di amaro e di obbrobrioso.

PANDOLFO: Prima della guarigione da una grave malattia, nell'istante in cui si sta recuperando la salute, l'accesso è più forte; i mali che se ne vanno, nell'atto di andarsene si dimostrano mali nel più alto grado: che cosa avete perduto perdendo questa battaglia?

LUIGI: Tutti i giorni di gloria, di gioia e di felicità.

PANDOLFO: Li avreste certamente perduti se aveste vinto. No, no; quando la fortuna vuole beneficare sommamente gli uomini li guarda con occhio minaccioso. E' curioso pensare quanto re Giovanni ha perduto con quello che considera invece netto guadagno: non siete dolente che Arturo sia suo prigioniero?

LUIGI: Tanto cordialmente quanto egli è lieto di averlo nelle mani.

PANDOLFO: La vostra mente è giovanile come il vostro sangue. Ora ascoltate le parole che proferisco con spirito antiveggente, poiché il fiato stesso col quale parlerò soffierà ciascun granello di polvere, pagliuzza e più lieve ostacolo dalla via che condurrà il tuo piede dritto dritto al trono d'Inghilterra; e perciò prestami attenzione.

Giovanni si è impadronito di Arturo e, finché la vita scorre gioiosa nelle vene del fanciullo, non è possibile che il re nella sua irregolare situazione goda un'ora, un minuto - che dico?- un attimo solo di quiete e di riposo. Quando uno scettro è stato strappato con mano violenta, dev'esser mantenuto impetuosamente come è stato conquistato; e chi sta su terreno scivoloso non si fa scrupolo di attaccarsi a qualunque più meschino appiglio che lo sostenga: perché Giovanni possa reggersi in piedi è necessario che Arturo cada; e così sia, perché non può essere altrimenti.

LUIGI: Ma che cosa guadagnerò con la caduta del giovane Arturo?

PANDOLFO: In nome di Bianca vostra moglie cercherete di far valere i diritti che Arturo rivendicava.

LUIGI: Perdendo loro, la vita e tutto, come Arturo.

PANDOLFO: Quanto tenero siete e nuovo in questo vecchio mondo! E' Giovanni stesso che trama per voi e le circostanze cospirano a vostro favore; poiché chi imbeve la sua salvezza nel sangue degli onesti, non troverà che salvezza sanguinosa e malsicura. Questo atto così male concepito raffredderà i cuori e spegnerà lo zelo dei sudditi, cosicché accoglieranno ben volentieri qualunque più piccola occasione di contrastare la sua autorità: non si darà nessuna ordinaria esalazione del cielo, nessun fatto naturale, nessun giorno di cattivo tempo, né vento comune, né avvenimento dei più soliti a cui non negheranno una causa naturale e che non chiameranno meteore, segni prodigiosi, scherzi di natura, presagi in cui il cielo parla chiaramente gridando vendetta contro Giovanni.

LUIGI: Può darsi che non toccherà la vita del giovane Arturo, ma penserà di essere abbastanza sicuro tenendolo in prigione.

PANDOLFO: Quando udrà che vi state avvicinando, se il giovane Arturo non è già spacciato, basterà questa notizia a farlo morire e allora i cuori di tutta la sua gente gli si rivolteranno contro, saluteranno ogni innovazione con gioia e dalle punte delle dita sanguinose di Giovanni trarranno forte incentivo di collera e di ribellione. Mi par di vedere tutto questo tumulto in atto; e che conseguenze migliori di quelle che ho menzionato non produrrà per voi! Il Bastardo Faulconbridge è ora in Inghilterra dove sta saccheggiando la Chiesa e calpestando ogni spirito di carità: se una dozzina soltanto di Francesi fossero colà in armi, servirebbero di richiamo per attirare dalla loro parte diecimila Inglesi e farebbero come una piccola quantità di neve che, rotolando, diventa ben presto montagna. Nobile Delfino, venite con me dal sovrano: c'è da stupire pensando che cosa si può ricavare dal malcontento ora che i loro animi son colmi di risentimento fino all'orlo. Disponiamoci ad andare in Inghilterra: vai a incitare il re.

LUIGI: Da forti ragioni nascono forti azioni; andiamo: se voi dite di sì, non sarà il re a dir di no.

 

(Escono)

 

 

 

ATTO QUARTO

 

SCENA PRIMA - Una stanza in un Castello

(Entrano UBERTO e i Carnefici)

 

UBERTO: Arroventatemi questi ferri, e badate bene di attendere dietro la tappezzeria: quando batto col piede in terra, correte fuori e legate saldamente alla sedia il ragazzo che troverete con me. State attenti; via di qua e vigilate.

CARNEFICE: Voglio credere che il nostro atto sia giustificato dal mandato che avete ricevuto.

UBERTO: Scrupoli fuor di posto! non temete: fate quello che vi dico.

 

(Escono i Carnefici) Vieni, ragazzo; ho una parola da dirti.

 

(Entra ARTURO)

 

ARTURO: Buon giorno, Uberto.

UBERTO: Buon giorno, piccolo principe.

ARTURO: Piccolo, che più non potrebb'essere, considerando che gran principe sarei in virtù del mio grande titolo. Siete triste.

UBERTO: Davvero: sono stato più allegro in altri momenti.

ARTURO: Dio abbia pietà di me! Nessuno eccetto me dovrebbe essere triste: eppure ricordo che, quand'ero in Francia, i giovani gentiluomini usavano essere melanconici come la notte, ma solo per affettazione. Come è vero che ho ricevuto il battesimo, pur che fossi fuor di prigione, anche a badar pecore, sarei allegro quant'è lungo il giorno e lo sarei anche qui, se non dubitassi che mio zio sta tramando nuovi danni contro di me. Egli ha paura di me ed io di lui: è colpa mia se son figlio di Goffredo? no, davvero; e piacesse a Dio che fossi vostro figlio purché mi amaste, Uberto.

UBERTO (a parte): Se continuo a parlargli, col suo innocente chiacchierio desterà la mia pietà che è morta, perciò agirò subito e la farò finita.

ARTURO: Vi sentite male, Uberto? sembrate pallido oggi, e in verità vorrei che vi sentiste un po' male per poter vegliare l'intiera notte al vostro capezzale: son certo che vi amo più di quanto amiate me.

UBERTO (a parte): Le sue parole prendon possesso del mio cuore.

(Mostrandogli un foglio) Leggete qua, piccolo Arturo. (A parte) Via, sciocco umore, che vuoi tener lontana questa spietata tortura! Debbo sbrigarmi perché la risolutezza non mi si sciolga in lacrime di tenerezza effeminata. Non sapete leggere? non è scritto chiaramente?

ARTURO: Troppo bene, Uberto, per un effetto così orrendo: dovete proprio con ferri roventi bruciarmi gli occhi?

UBERTO: Sì, ragazzino.

ARTURO: E lo farete davvero?

UBERTO: Sì, lo farò.

ARTURO: Avrete il cuore di farlo? Quando vi doleva il capo, vi legai il fazzoletto intorno alla fronte, il migliore che avevo, quello che una principessa aveva lavorato per me, senza chiedervelo mai indietro; e con la mano vi sorreggevo il capo a mezzanotte e, come i minuti che vigilano lo scorrere dell'ora, davo sollievo al monotono scorrere del tempo dicendo: "Avete bisogno di qualche cosa?" e "Dove sentite dolore?" o "Che amoroso servizio posso rendervi?". Molti figli di pover'uomini sarebbero stati zitti e non vi avrebbero rivolta una parola affettuosa; ma voi avevate un principe per infermiere. No; potete credere che il mio affetto fosse astuzia interessata e chiamarlo furberia: fatelo pure se volete; se il cielo consente che mi trattiate male, vuol dir proprio che non c'è rimedio. Ma mi spegnerete gli occhi, quegli occhi che non vi hanno mai rivolto né vi rivolgeranno mai un solo sguardo corrucciato?

UBERTO: Ho giurato di farlo e debbo distruggerli col ferro rovente.

ARTURO: Ah! nessuno lo farebbe se non in questa età di ferro! il ferro stesso, sebbene rovente, avvicinandosi ai miei occhi ne berrebbe le lacrime e spegnerebbe la sua rabbia ardente in queste stille che sono il segno della mia innocenza; anzi, dopo ciò, si consumerebbe nella ruggine per punirsi di aver contenuto il fuoco destinato a distruggermi gli occhi. Siete più duro e ostinato del ferro battuto?

se un angelo fosse venuto da me e mi avesse detto che Uberto doveva cavarmi gli occhi, non gli avrei creduto; no, a nessuna lingua avrei creduto, eccetto che a quella di Uberto stesso.

UBERTO: Entrate. (Batte il piede in terra)

 

(Rientrano i Carnefici con una corda, ferri, eccetera)

 

Fate quello che vi ho ordinato.

ARTURO: Oh, salvatemi, Uberto, salvatemi! I miei occhi si estinguono solo a vedere l'aspetto fiero di questi uomini sanguinari.

UBERTO: Datemi il ferro, dico e legatelo qui.

ARTURO: Ahimè! che bisogno c'è che siate così ruvidi e sgarbati? non mi divincolerò, starò fermo come una pietra. Per amor del cielo, Uberto, non fatemi legare! anzi, ascoltatemi, Uberto! mandate via questi uomini e starò tranquillo come un agnellino, non mi moverò, non trasalirò, non dirò parola né guarderò quel ferro con collera: solo mandate via gli uomini e vi perdonerò, qualunque sia il tormento che mi infliggerete.

UBERTO: Uscite, aspettate là dentro; lasciatemi solo con lui.

PRIMO CARNEFICE: Preferisco non impicciarmi di una faccenda simile.

 

(Escono i Carnefici)

 

ARTURO: Ahimè, con le mie querele ho allontanato un amico! ha il viso duro, ma il cuore tenero: fatelo ritornare, perché la sua compassione richiami in vita la vostra.

UBERTO: Suvvia, ragazzo, preparatevi.

ARTURO: Non c'è rimedio?

UBERTO: Nessuno: dovete perdere gli occhi.

ARTURO:. O cielo! se vi fosse nei vostri soltanto un atomo, un moscerino, un granellino di polvere, un ciglio caduto, qualunque cosa che potesse infastidire quel senso delicato, allora, sentendo che molestissima impressione vi producono anche le piccole cose, la vostra malvagia intenzione dovrebbe apparirvi orribile.

UBERTO: Mantenete così la promessa? Suvvia, state zitto!

ARTURO: Uberto, anche se due lingue parlassero, non basterebbero a perorare per un paio d'occhi; non imponetemi silenzio. Uberto, tagliatemi la lingua, ma lasciatemi gli occhi, anche se non dovessi servirmene che per guardar voi. Ecco: lo strumento stesso si è raffreddato e non vorrebbe nuocermi.

UBERTO: Ma posso riscaldarlo ancora, ragazzo.

ARTURO: No, in verità: il fuoco che è una cosa creata per la gioia dell'uomo, è morto per il dolore di dover compiere atti di crudeltà immeritati: se non mi credete, vedete da voi stesso; non c'è malvagità in questi carboni accesi; l'alito del cielo ne ha estinto lo spirito e ha cosparso il loro capo con le ceneri del pentimento.

UBERTO: Ma col fiato posso ravvivarli ancora, ragazzo mio.

ARTURO: Se lo farete, li costringerete solo ad arrossire di vergogna per il vostro modo di procedere, Uberto; anzi, forse, vi manderanno qualche scintilla negli occhi come un cane che, aizzato a combattere contro un altro, s'avventerà contro il padrone che lo istiga. Tutte le cose che dovreste usare per farmi male si rifiutano di compiere il loro ufficio consueto: voi soltanto mancate di quella clemenza che mostrano il fuoco fiero e il ferro, creature famigerate per i loro usi inclementi.

UBERTO: Ebbene, continua a vedere e a vivere: non ti toccherò gli occhi per tutti i tesori di tuo zio; eppure l'avevo giurato e mi ero proposto di bruciarteli proprio con questo ferro, ragazzo.

ARTURO: Oh! adesso sembrate ancora il solito Uberto! durante tutto questo tempo eravate come uno travestito.

UBERTO: Zitto, basta, addio! vostro zio deve credere che siete morto; riempirò queste crudeli spie di storie false; e, grazioso fanciullo, dormi senza timore e sicuro che Uberto non ti farà del male per tutto l'oro del mondo.

ARTURO: O cielo! ti ringrazio, Uberto.

UBERTO: Silenzio, basta; rientra con me senza far chiasso: mi espongo a gravi pericoli per amor tuo.

 

(Escono)

 

 

 

SCENA SECONDA - Il Palazzo di Re Giovanni

(Entrano RE GIOVANNI, PEMBROKE, SALISBURY e altri Signori)

 

GIOVANNI: Qui seggo una volta ancora; una volta ancora coronato e riguardato, lo spero, con lieti occhi.

PEMBROKE: Questo "una volta ancora" se non fosse piaciuto diversamente a Vostra Maestà, sarebbe del tutto superfluo: foste coronato una prima volta, quella regalità non vi fu mai tolta a forza, e la fedeltà dei sudditi non si macchiò mai di rivolta; né il paese fu turbato da nuovo desiderio di mutamenti o miglioramenti.

SALISBURY: Per questo appunto è un ridicolo eccesso di sciupìo spiegare un doppio fasto, ornare un titolo già vistoso, dorare l'oro fino, dipingere il giglio, aggiungere profumo alla violetta, lisciare il ghiaccio, accrescere di una nuova sfumatura l'arcobaleno o cercare di rinforzare il bell'occhio del cielo con lume di candela.

PEMBROKE: Se non fosse che si deve obbedire alla vostra Reale Maestà, questo atto sarebbe come raccontare di nuovo una vecchia storia che più la si ripete e più diventa noiosa, specialmente quando vi si insiste inopportunamente.

SALISBURY: Da questo fatto l'antico e ben noto aspetto della vecchia consuetudine è molto sfigurato e, come un cambiamento di vento che opera su di una vela, esso fa cambiare completamente rotta ai pensieri, sorprende e spaventa coloro che riflettono, scuote i benpensanti e rende sospetto il titolo del monarca sovrapponendovi un manto di così nuova foggia.

PEMBROKE: Quando gli operai mirano a far più che bene, guastano per troppa ambizione quello che avevano fatto egregiamente, e spesso si peggiora la colpa con la scusa, come una toppa messa su un piccolo strappo per nasconderlo pare più brutta dello strappo stesso prima del rattoppo.

SALISBURY: In questo senso vi consigliammo prima della nuova incoronazione, ma Vostra Maestà credette di non tenerne conto e noi siamo ben contenti in quanto quello che desideriamo deve conformarsi in tutto e per tutto ai vostri voleri.

GIOVANNI: Vi ho informato di alcune ragioni di questa duplice incoronazione e le ritengo forti; altre assai più forti vi comunicherò, quando saranno diminuite le mie ansie. Per ora chiedetemi che cosa di mal fatto desiderate che si riformi e vedrete quanto volenterosamente sono disposto ad ascoltare e soddisfare le vostre richieste.

PEMBROKE: Allora io, come portavoce di costoro ad esprimere le aspirazioni di tutti i loro cuori, chiedo con tutto l'animo la liberazione di Arturo, per me e per loro, ma soprattutto per la vostra salvezza alla quale tutti rivolgiamo le nostre migliori cure. La sua detenzione induce i mormoratori malcontenti a formulare questo pericoloso argomento. Se quello che detenete pacificamente, detenete rettamente, perché il timore, che si dice segua ordinariamente le orme del torto, dovrebbe indurvi a segregare il vostro giovane parente, a soffocarne i giorni in barbara ignoranza, e a negare alla sua giovinezza i preziosi vantaggi di una buona educazione? Affinché i nemici del reggimento attuale non tengano in serbo quest'argomento per una buona occasione, vi chiediamo di poter dire che voi stesso ci avete ordinato di chiedere la sua libertà, e noi lo domandiamo per il nostro bene solo in quanto pensiamo che il vostro interesse, che è tutt'uno col nostro, vuole che egli sia rimesso in libertà.

 

(Entra UBERTO)

 

GIOVANNI: Sia come volete: affido questo giovine alle vostre cure.

Uberto, che notizie mi porti?

 

(Conducendolo in disparte)

 

PEMBROKE: Questi è l'uomo che avrebbe dovuto compiere l'atto sanguinario; egli mostrò il mandato ricevuto a un mio amico.

L'immagine di una malvagia colpa odiosa vive nel suo occhio; quel suo aspetto di riservatezza rivela uno stato d'animo gravemente turbato; e io sospetto con paura che abbia eseguito l'incarico che temevamo gli fosse stato affidato.

SALISBURY: Il colore del re va e viene fra il suo atto e la sua coscienza a guisa di un araldo fra due temibili schiere. La sua collera è così matura che deve erompere.

PEMBROKE: E quando eromperà, temo che ne uscirà l'immonda sanie della morte di questo soave fanciullo.

GIOVANNI: Non possiamo frenare la mano possente della morte. Miei buoni signori, sebbene in me sia sempre viva la volontà di concedere, la possibilità di acconsentire alle vostre richieste è spenta: costui mi dice che Arturo è morto questa notte.

SALISBURY: Temevamo proprio che il suo male fosse incurabile.

PEMBROKE: Davvero! avevamo sentito dire che era vicino a morte prima che il ragazzo stesso si fosse accorto di essere ammalato: qualcuno ne dovrà rispondere o qui o altrove.

GIOVANNI: Perché mi fate un viso così serio? credete forse che io regga le cesoie della Parca? o che comandi alle pulsazioni della vita?

SALISBURY: Evidentemente è un turpe giuoco, ed è vergogna che un potente l'abbia condotto con tanta grossolanità. Possa farvi buon pro nella stessa misura! e ora addio!

PEMBROKE: Fermati un momento, lord Salisbury; andrò con te a cercare il retaggio del povero fanciullo, il piccolo regno di una tomba in cui è stato cacciato a forza. Quell'essere che aveva il diritto di possedere quest'isola in tutta la sua ampiezza ora ne occupa tre piedi soltanto: brutto mondo questo! ma non si può lasciarla passare così:

questo fatto verrà alla luce con danno di tutti noi, prima che passi molto tempo.

 

(Escono i Signori)

 

GIOVANNI: Ardono per l'indignazione: mi pento poiché non si costruisce stabilmente sul sangue e non si crea una vita certa con la morte altrui.

 

(Entra un Messo)

 

Hai l'occhio impaurito: dov'è quel sangue che stava su codeste guance?

un cielo così brutto non si schiarisce senza una bufera: sfoga pure la tua tempesta. Come vanno le cose in Francia?

MESSO: Vanno dalla Francia all'Inghilterra. Mai tanto esercito fu raccolto in quel paese per una spedizione in terra straniera.

L'esempio della nostra celerità li ha istruiti; poiché, mentre vi si dovrebbe dire che si stanno preparando, giunge notizia che sono già arrivati.

GIOVANNI: Dove si sono ubriacati, dove hanno dormito i nostri informatori? dove è andata a finire tutta la diligenza di mia madre, se un tale esercito è stato raccolto in Francia senza che ella ne abbia udito nulla?

MESSO: Sire, il suo orecchio non ode più; il primo di aprile morì la vostra nobile madre: e, a quanto sento, signore, madama Costanza tre giorni prima era morta pazza, ma è una voce che ho sentito per caso, non so poi se vera o falsa.

GIOVANNI: Fermati, terribile ora della mia prova, o allèati con me, sinché non abbia soddisfatto i miei pari malcontenti. E che! mia madre morta! Quanto vacilla allora la mia potenza in Francia! Chi guida le truppe che dai per sicuro siano sbarcate qui?

MESSO: Il Delfino.

GIOVANNI: Mi hai sconvolto la mente con queste brutte notizie.

 

(Entrano il BASTARDO e PIETRO DI POMFRET)

 

Ora, che dice la gente dei vostri atti? non cercate di riempirmi la testa di altre cattive notizie, perché ne è già zeppa.

BASTARDO: Ma se temete di sentire il peggio, vi caschi sul capo prima che l'abbiate sentito.

GIOVANNI: Compatitemi, cugino, perché, sommerso sotto questa piena, ero come sbigottito; ma adesso respiro sulla cresta dell'onda e posso ascoltare qualunque lingua, dica pure quel che vuole.

BASTARDO: Come mi sia andata fra i preti lo diranno le somme che ha raccolto. Ma mentre attraversavo il paese per venir qui, ho trovato strane fantasie fra la gente. Sono in preda alle chiacchiere, vittime di vani sogni, non sapendo quel che temono, ma pieni di timori: ed ecco qui un profeta che ho portato con me dalle strade di Pomfret dove aveva alle calcagna gran codazzo di persone alle quali cantava con versi aspri e rozzi che Vostra Maestà avrebbe rinunciato alla corona prima del giorno dell'Ascensione a mezzodì.

GIOVANNI: Tu, vano sognatore, perché hai fatto questo?

PIETRO: Prevedendo che questa verità si compia.

GIOVANNI: Uberto, conducilo via; mettilo in prigione e a mezzodì di quel giorno in cui dice che rinuncerò alla corona sia impiccato.

Mettilo nelle carceri e ritorna perché ho bisogno di te. (Esce Uberto con Pietro) Caro cugino, hai udito le notizie che circolano? sai chi è arrivato?

BASTARDO: I Francesi, mio sire. I signori non parlan d'altro: inoltre ho incontrato lord Bigot e lord Salisbury con gli occhi rossi come fuoco appena acceso, e altri ancora che andavano a cercare la tomba di Arturo, che, a quel che dicono, è stato ucciso questa notte per vostra istigazione.

GIOVANNI: Buon parente, va' a cacciarti in mezzo a loro; so come riconquistare il loro affetto; conducili qui.

BASTARDO: Li cercherò.

GIOVANNI: Sì, ma affrettati; va' di buon passo. Dio voglia che i miei sudditi non mi siano ostili quando nemici stranieri con terribile spiegamento di un forte esercito invasore spaventano le mie città; sii Mercurio, metti le ali ai piedi e ritorna da me rapido come il pensiero.

BASTARDO: La necessità dell'ora mi insegnerà ad esser celere.

 

(Esce)

 

GIOVANNI: Parole di vivace gentiluomo. Seguilo; poiché forse avrà bisogno di qualche messo che vada e venga fra me e i pari; e tu sarai quello.

MESSO: Ben volentieri, sire.

 

(Esce)

 

GIOVANNI: Mia madre morta!

 

(Rientra UBERTO)

 

UBERTO: Sire, dicono che questa notte si siano viste cinque lune:

quattro fisse e la quinta rotava intorno a loro con meraviglioso movimento.

GIOVANNI: Cinque lune!

UBERTO: I vecchi e le vecchie nelle strade ne traggono pronostico di pericoli. La notizia della morte del giovane Arturo corre su tutte le bocche e quando parlano di lui scuotono il capo e si bisbigliano l'un l'altro all'orecchio: quello che parla afferra il polso all'ascoltatore e questi fa atti di persona impaurita, aggrottando la fronte, accennando col capo, e volgendo gli occhi al cielo. Ho visto un fabbro che, mentre il ferro gli si raffreddava sull'incudine, stava col martello proprio così, intento a inghiottire a bocca aperta le notizie che gli dava un sarto con forbici e metro in mano; e il sarto in ciabatte, che si era messe in fretta sbagliando i piedi, parlava di molte migliaia di Francesi animosi schierati in battaglia nel Kent:

quand'ecco un altro artigiano allampanato e sporco interrompe la sua storia e comincia a parlare della morte di Arturo.

GIOVANNI: Perché cerchi di comunicarmi queste paure? perché insisti tanto sulla morte di Arturo? E' stata la tua mano ad ucciderlo; avevo ben forti ragioni di volerlo morto, ma tu non ne avevi nessuna per sopprimerlo.

UBERTO: Non ne avevo, sire? ma non mi ci avete spinto voi?

GIOVANNI: E' la maledizione dei re essere serviti da schiavi che scambiano i loro umori momentanei per il mandato di spegnere una vita nel sangue, che credono di vedere un ordine in un battito dell'occhio del padrone, di comprendere quel che un re pensa in un momento di collera, quando si acciglia forse più per capriccio passeggero che per ponderata considerazione.

UBERTO: Ecco qui il vostro ordine scritto e il vostro sigillo per quello che ho fatto.

GIOVANNI: Quando si chiuderanno gli ultimi conti fra terra e cielo, questo scritto e questo sigillo testimonieranno contro di noi e ci faranno dannare! Ah! Quanto spesso la vista dei mezzi di fare il male basta a suscitare l'idea di compierlo! Se tu non fossi stato presso di me, un individuo prescelto e segnato dalla natura per commettere un atto infame, questo assassinio non mi sarebbe venuto in mente: ma, osservando il tuo aspetto aborrito, trovando in te l'uomo adatto per una sanguinosa bricconeria, l'uomo che ci voleva per un'azione pericolosa, ti ho fatto un vago cenno della morte di Arturo, e tu, per ingraziarti un re, non ti sei fatto scrupolo di uccidere un principe.

UBERTO: Sire...

GIOVANNI: Se tu avessi scosso la testa o ti fossi fermato un istante quando ti parlai copertamente dei miei propositi, e mi avessi dato un'occhiata dubbiosa come per dirmi di parlar più esplicitamente, una profonda vergogna mi avrebbe fatto ammutolire, mi avrebbe fatto smettere e quei tuoi timori avrebbero fatto temere anche me. Ma tu mi comprendesti a segni e a segni conferisti col peccato. Sì; senza arrestarti, lasciasti approvare dal tuo cuore e compiere dalla tua mano violenta l'atto che le nostre lingue ritenevano troppo iniquo per menzionarlo. Via di qua, e che io non ti veda più! I miei nobili mi lasciano e si sfida la maestà della Corona sulle sue stesse porte con truppe forestiere: anzi in questo mio corpo, questo regno dove vivono sangue ed anima entro i limiti della stessa carne, regnano ostilità e lotta intestina fra la mia coscienza e la morte di mio nipote.

UBERTO: Armatevi contro gli altri nemici, poiché io farò pace tra voi e la vostra anima. Il giovane Arturo è vivo: questa mia mano è vergine e innocente, pura di rosse macchie di sangue. Entro il mio petto non si fece strada il terribile impulso di un pensiero assassino; avete calunniato la natura nella mia persona, che, per quanto rozza esteriormente, copre un animo buono quanto basta per non massacrare un innocente fanciullo.

GIOVANNI: Arturo vive? va' subito dai pari getta questa notizia in pasto alla loro rabbia furiosa e vedi di ricondurli docili all'obbedienza! Dimentica le osservazioni che la mia collera ha fatto sulle tue fattezze; poiché la mia ira era cieca e l'immaginazione, con occhi che vedevano soltanto sangue, ti presentava più ripugnante di quel che sei. Non rispondere; conduci nella mia stanza i pari incolleriti quanto più presto potrai. Ma sono troppo lento a pregarti: sii più rapido di me nel correre da loro.

 

(Escono)

 

 

 

SCENA TERZA - Davanti al Castello

(Entra ARTURO sulle mura)

 

ARTURO: Il muro è alto, eppure salterò giù: buona terra, sii pietosa e non farmi male! Pochi o nessuno mi conoscono e, se anche li incontrassi, questo travestimento di mozzo mi renderebbe irriconoscibile. Ho paura, ma tenterò. Se tocco terra senza rompermi le membra troverò mille espedienti per allontanarmi: tanto vale cercar di fuggire e morire che morire rimanendo qui. (Salta giù dal muro) Ahimè! l'animo di mio zio è in queste pietre: il cielo si prenda la mia anima e l'Inghilterra le mie ossa.

 

(Muore)

(Entrano PEMBROKE, SALISBURY e BIGOT)

 

SALISBURY: Signori, lo incontrerò a Saint Edmundsbury: è la nostra salvezza e dobbiamo accogliere a braccia aperte questa bella offerta che ci viene fatta nell'ora del pericolo.

PEMBROKE: Chi ha portato questa lettera da parte del cardinale?

SALISBURY: Il conte Melun, nobile pari di Francia, la cui comunicazione riservata circa il benevolo atteggiamento del Delfino mi dice assai più di questa lettera ufficiale.

BIGOT: Domani mattina potremo incontrarlo.

SALISBURY: O piuttosto partiremo, poiché occorreranno due buoni giorni di viaggio, signori, prima che ci troviamo con lui.

 

(Entra il BASTARDO)

 

BASTARDO: Ben trovati un'altra volta oggi, irati signori! il re per bocca mia chiede che andiate da lui.

SALISBURY: Il sovrano ci ha allontanati da sé: non vogliamo rinforzare il suo striminzito mantello insanguinato foderandolo con la purezza della nostra nobiltà né seguire il suo piede che lascia impronte di sangue dovunque cammina. Ritornate a dirgli che il peggio ci è noto.

BASTARDO: Qualunque cosa pensiate, ritengo che sarebbe meglio che adoperaste buone parole.

SALISBURY: Ragioniamo come ce lo suggeriscono i nostri dolori e non come vorrebbero le buone maniere.

BASTARDO: Ma non c'è ragione pei vostri dolori, e perciò sarebbe ragionevole che vi comportaste educatamente.

PEMBROKE: Signore, signore, la collera ha i suoi diritti.

BASTARDO: Sì, di far male a chi la sente.

SALISBURY: Questo è il carcere. Ma che c'è qui?

 

(Vedendo Arturo)

 

PEMBROKE: O morte, fatta superba di pura e principesca bellezza La terra non ha nascondigli in cui celare questo atto.

SALISBURY: L'assassinio, come se odiasse quello che esso medesimo ha fatto, lo proclama apertamente per stimolare la vendetta BIGOT: O quando condannò questa bellezza a esser chiusa in una tomba, la trovò poi troppo principescamente preziosa per una fossa.

SALISBURY: Sir Riccardo, che ne pensate? Avete mai visto o letto o sentito una tal cosa? o sapreste pensarla? o, sebbene la vediate, credete proprio di vederla? potrebbe il pensiero senza questo oggetto immaginare una cosa simile? E' il fastigio, il sommo e il cimiero, il cimiero del cimiero dell'arme dell'assassinio: è la più selvaggia barbarie, l'infamia più sanguinosa, l'atto più vile che mai bieca collera o fiera rabbia abbiano presentato alle lacrime della tenera compassione .

PEMBROKE: Tutti i passati omicidi sono scusati! da questo che, così unico e così insuperabile, conferirà una specie di santità, di purità a tutti i peccati non ancor creati nei tempi e farà sì che a petto di tale orrendo spettacolo sembri uno scherzo ogni mortale spargimento di sangue.

BASTARDO: Maledetto e sanguinoso lavoro, azione disonorevole di mano malvagia, seppure è opera di un uomo.

SALISBURY: Seppure è opera di un uomo! Avevamo già avuto qualche vaga informazione di quello che sarebbe accaduto: è opera infame di Uberto, ma tramata e voluta dal re: a lui nego la mia obbedienza, inginocchiandomi davanti alla rovina di questa tenera vita, e spiro, davanti a questa perfezione, l'incenso di un voto, un sacro voto: non gusterò più i piaceri del mondo, non mi lascerò prendere dalla gioia né mi abbandonerò alla quiete e all'ozio, finché non renda gloriosa questa mano concedendole l'onore di fare vendetta.

PEMBROKE e BIGOT: Le nostre anime confermano solennemente le tue parole.

 

(Entra UBERTO)

 

UBERTO: Signori, sono accaldato per la corsa che ho fatto a cercarvi.

Arturo vive e il re vi desidera.

SALISBURY: Oh! è sfacciato e non arrossisce di fronte alla morte. Via, odioso furfante, vattene!

UBERTO: Non sono un furfante.

SALISBURY: Debbo rubarti alla forca?

 

(Sguaina la spada)

 

BASTARDO: La vostra spada è bella, luccicante, signore; rimettetela nel fodero.

SALISBURY: Non prima di averla infoderata nella pelle d'un assassino.

UBERTO: Indietro, lord Salisbury, indietro dico! in nome del cielo, credo che la mia spada sia tanto affilata quanto la vostra. Non perdete la padronanza di voi stesso e non esponetevi al rischio di quanto potrei fare per legittima difesa; non vorrei, considerando solo la vostra furia, dimenticare i meriti, la grandezza e la nobiltà di Vossignoria.

BIGOT: Via, letamaio! Osi sfidare un nobile?

UBERTO: No, se si trattasse solo della mia vita: ma sono pronto a difendere la mia innocenza anche contro un imperatore.

SALISBURY: Sei un assassino.

UBERTO: Non fate sì che io lo diventi; sino ad ora non lo sono stato:

chiunque dice il falso non parla con verità, e chi non parla con verità, mente.

PEMBROKE: Fatelo a pezzi.

BASTARDO: Calma, dico!

SALISBURY: Levati di costi o ti ferirò, Faulconbridge.

BASTARDO: Faresti meglio a ferire il diavolo, Salisbury. Se mi fai il viso dell'arme, o muovi un piede, o ti lasci trasportare dalla collera impetuosa ad offendermi, ti stendo morto. Ringuaina e presto, o tribbierò te e il tuo schidione e allora crederai che si sia scatenato qui un diavolo dell'inferno.

BIGOT: Che vuoi fare, valoroso Faulconbridge? secondare un furfante e un assassino?

UBERTO: Lord Bigot, non lo sono.

BIGOT: Chi ha ucciso questo principe?

UBERTO: Un'ora fa lo lasciai in buona salute: lo onoravo, lo amavo e piangerò la perdita della sua preziosa esistenza per quanto di vita mi resta.

SALISBURY: Non fidatevi di queste lacrime astute; la furfanteria ha simili umori a sua disposizione, ed egli, che ne ha fatto lunga esperienza, le fa scorrer come fiumi di pietà e d'innocenza. Via con me tutti quelli di voi che aborriscono i fetori del macello, poiché questo odore di peccato mi soffoca.

BIGOT: Andiamo a Bury dal Delfino.

PEMBROKE: E dite al re che può cercarci colà.

 

(Escono i Signori)

 

BASTARDO: E' proprio un bel mondo! Sapevate nulla di questa bella faccenda? fuori dalle gran braccia della pietà di Dio, se hai commesso questo assassinio, sei dannato, Uberto.

UBERTO: Ma ascoltatemi, signore.

BASTARDO: Ah! ti dirò una cosa: sei una dannata anima nera come... no, niente è nero come te; sei dannato più in basso del principe Lucifero:

in inferno non c'è diavolo così brutto come sarai tu se hai ucciso questo fanciullo.

UBERTO: Sull'anima mia...

BASTARDO: Se hai soltanto acconsentito a questo atto crudelissimo, dispera della tua salvezza; se hai bisogno di una corda, il filo più sottile che mai ragno abbia filato dal suo ventre basterà a strangolarti; una canna sarà trave forte abbastanza per impiccarti, e se ti vuoi annegare, metti solo un po' d'acqua in un cucchiaio e diventerà come l'oceano, sufficiente ad affogare un tal briccone. Ho assai gravi sospetti su di te.

UBERTO: Se in atto, consenso o peccato di pensiero sono colpevole di avere estinto il soave fiato che era racchiuso in questa bella forma terrena, non abbia l'inferno pene bastevoli per torturarmi. Ripeto che lo lasciai in buona salute.

BASTARDO: Prendilo tra le tue braccia. Mi sembra di essere trasognato e mi smarrisco fra i triboli e i pericoli di questo mondo. Quanto facilmente reggi sulle tue braccia tutta la maestà dell'Inghilterra!

Da codesto pezzetto di regalità morta, la vita, il diritto e la fedeltà del nostro regno se ne sono volate al cielo e l'Inghilterra ora resta a tirare, ad affannarsi, a fare a pezzi coi denti l'alta autorità sovrana che non ha più padrone. Ed ora, per la maestà ridotta a un osso spolpato, la guerra accanita drizza la sua irosa criniera e mostra i denti alla dolce pace: ora nemici di fuori e ribelli di dentro sono in linea insieme, e una gran confusione aleggia sulla rovina della pompa regale usurpata, come fa il corvo su una bestia moribonda. Felice colui che un saio e un cingolo terranno lontano da questa tempesta. Porta via quel fanciullo e seguimi rapidamente. Andrò dal re: mille faccende richiedono disbrigo immediato e il cielo stesso guarda severamente questa terra.

 

(Escono)

 

 

 

ATTO QUINTO

 

SCENA PRIMA - Il Palazzo di Re Giovanni

(Entrano RE GIOVANNI, PANDOLFO e Persone del seguito)

 

GIOVANNI: Così ho ceduto in vostra mano il cerchio, simbolo della mia maestà.

 

(Dandogli la corona)

 

PANDOLFO: Riprendilo ancora da questa mia mano, esercitando come vassallo del pontefice la tua sovrana grandezza e autorità.

GIOVANNI: Ora mantenete la sacra parola: andate incontro ai Francesi e usate tutta l'autorità che vi viene da Sua Santità per arrestare la loro marcia prima che si desti del tutto la mia collera. I nostri nobili malcontenti si rivoltano e il popolo si rifiuta di obbedire, giurando fedeltà e sincero attaccamento a una razza forestiera, a un re straniero. Questa inondazione di umori mal disposti non può essere arginata che da voi: quindi non fermatevi, poiché la presente congiuntura è così inferma, che occorre tosto somministrarle un rimedio, o ne seguirà un malanno irreparabile.

PANDOLFO: Furono le mie parole che addensarono questa tempesta per la riottosità con cui avevate trattato il pontefice; ma giacché siete sottomesso e convertito, la mia lingua farà tacere di nuovo il turbine di guerra e ridarà il bel tempo alla vostra terra agitata. Ricordate bene che oggi, giorno dell'Ascensione, avendo voi giurato fedeltà al papa, andrò a far deporre le armi ai Francesi.

 

(Esce)

 

GIOVANNI: E' questo il giorno dell'Ascensione? Non ha forse detto il profeta che prima di mezzogiorno nel dì dell'Ascensione avrei ceduto la corona? E proprio così ho fatto; ma supponevo che vi sarei stato costretto e invece, grazie al cielo, è stato un atto volontario.

 

(Entra il BASTARDO)

 

BASTARDO: Tutto il Kent ha ceduto; non c'è nulla colà che resista se non il Castello di Dover: Londra, da ospite gentile, ha ricevuto il Delfino e le sue forze: i vostri nobili non vogliono ascoltarvi, ma sono andati a offrire i loro servigi al nemico e un pazzo sbigottimento fa correre qua e la disorientati i pochi e dubbi amici che vi restano.

GIOVANNI: I signori non hanno voluto ritornare a me dopo di avere udito che il giovane Arturo era vivo?

BASTARDO: L'hanno trovato morto e abbandonato sulla pubblica via come uno scrigno vuoto, da cui una mano sacrilega avesse rubato e portato via il gioiello della vita.

GIOVANNI: Quel furfante di Uberto mi aveva assicurato che era vivo!

BASTARDO: Ed era vero, sull'anima mia, per quel che ne sapeva lui. Ma perché vi accasciate? perché siete così triste? siate grande nell'azione come lo siete stato nel pensiero. Che il mondo non veda il timore e la sfiduciata tristezza regolare il movimento di un occhio regale: agite come fanno gli altri, siate fuoco col fuoco, minacciate chi minaccia e intimidite le smargiassate di chi vuole incutere terrore: così gli occhi inferiori che copiano il loro contegno da quello dei grandi, diventeranno animosi per il vostro esempio e si imbeveranno dello spirito indomito della risolutezza. Via, e splendete come il dio della guerra quando vuole esser di ornamento alla battaglia: mostrate audacia e sicurezza di vincere. E che? verranno a cercare e a spaventare il leone nel suo covile e a farlo tremare colà?

non sia mai detto: tenete la campagna e andate incontro ai guai lontano dalle vostre porte affrontando l'avversario prima che sia troppo vicino.

GIOVANNI: Il legato del papa ha conferito con me e ho fatto con lui una pace felice: egli mi ha promesso di far licenziare le truppe condotte dal Delfino.

BASTARDO: Lega ingloriosa! dobbiamo forse, finché calchiamo col piede la nostra terra, offrire eque condizioni, proporre transazioni, cercar d'ingraziarci, parlamentare e fare una vile tregua con l'invasore? uno sbarbatello effeminato, coccolato e avvolto nella seta, dovrà proprio sfidare i nostri campi e inuzzolire al sangue il suo spirito in un paese di veterani, e non trovar chi lo fermi, mentre schernisce l'aria con un vano sventolio di bandiere? All'armi, sire, all'armi: forse il cardinale non riuscirà a concludere la pace, o se lo farà si dica almeno che il nemico aveva compreso che intendevamo difenderci.

GIOVANNI: Disponi tu come credi meglio.

BASTARDO: Via dunque con coraggio! eppure so che il nostro esercito può tener testa a un nemico ben più forte.

 

(Escono)

 

 

 

SCENA SECONDA - Il campo del Delfino a Saint Edmundsbury

(Entrano in armi LUIGI, SALISBURY, MELUN, PEMBROKE, BIGOT e Soldati)

 

LUIGI: Monsignor di Melun, se ne faccia copia e si custodisca per nostra memoria: restituite l'originale a questi signori. Avendo per iscritto le condizioni del patto, quando si rilegga il documento, noi e loro potremo sempre ricordare a che ci siamo obbligati col più solenne giuramento, e mantenere la nostra fede ferma e inviolata.

SALISBURY: Da parte nostra non sarà mai rotta ma, nobile Delfino, sebbene giuriamo volontaria fedeltà e libera adesione alla vostra causa, non sono lieto che questa antica piaga cerchi rimedio in una riprovevole rivolta e che si debba tentar di risanare l'ulcera di una vecchia ferita aprendone molte altre. Mi addolora nel profondo dell'animo di dover sguainare la spada che porto al fianco per rendere vedove tante donne, proprio là dove il bisogno della difesa e di un'onorevole riscossa invoca l'aiuto di Salisbury; ma il tempo è cosi guasto che a reintegrare il nostro diritto dobbiamo usare lo strumento di una ingiustizia spietata e di una disordinata colpevolezza. Non è un peccato, amici miei dolenti, che noi, figli e prole di quest'isola, siamo nati a vedere un'ora di tanta tristezza? un'ora in cui ci lasciamo guidare da uno straniero, marciamo sul dolce suolo della patria e ingrossiamo le file del nemico per dar lustro a gentiluomini di una terra lontana e per seguire bandiere che ci sono sconosciute?

Ahimè! debbo trarmi in disparte a piangere per il disonore di questo male inevitabile. E questo proprio qui? Nazione mia, potessi tu allontanarti da questo luogo! oh! se le braccia di Nettuno che ti cingono, ti togliessero ogni coscienza di te stessa e ti unissero ad una terra pagana in cui questi due eserciti cristiani, senza versarlo così poco cristianamente, potessero unire in una vena d'alleanza il sangue ora inasprito dal rancore.

LUIGI: In questo mostri altezza d'animo: grandi emozioni agitandosi nel tuo petto vi creano un terremoto di nobiltà. Che bella lotta hai combattuto tra la necessità e i tuoi onesti scrupoli! Lasciami asciugare il pianto onorato che in stille argentee ti scende per le guance: il mio cuore si è altre volte intenerito alle lacrime delle donne che pure sono un'inondazione ordinaria; ma questo profuso pianto virile, questa pioggia provocata da una tempesta dell'anima, è una sorpresa pei miei occhi e mi stupisce più che se avessi visto la volta del cielo corsa da luminose meteore. Alza la fronte, famoso Salisbury, e col tuo gran cuore dissipa il turbine della passione: lascia le lacrime agli occhi novellini che non hanno mai visto furie del nostro mondo gigantesco e hanno incontrato la fortuna solo ai festini dove ci si fa buon sangue, si sta allegri e si chiacchiera. Suvvia, suvvia; potrai spingere la mano nello scrigno della ricchezza non meno di Luigi stesso: così, signori, farete voi tutti che unite al mio il nerbo della vostra forza. E qui mi sembra che abbia parlato un angelo.

 

(Entra PANDOLFO)

 

Vedete, ecco il sacro legato che viene a portarci l'approvazione del cielo e con le sue sante parole a porre sulle nostre azioni il suggello del giusto.

PANDOLFO: Anzitutto salve, nobile principe di Francia; poi sappi che re Giovanni si è riconciliato con Roma. E' ritornato a noi il suo spirito che si era tanto ostinatamente opposto alla Chiesa e all'autorità metropolitana della Santa Sede; perciò tu ripiega le bandiere minacciose e doma il selvaggio spirito della guerra furiosa, affinché, come un leone allevato dalla mano dell'uomo, giaccia mansueto ai piedi della pace e sia terribile soltanto all'aspetto.

LUIGI: Vostra Eminenza mi perdoni, ma io non arretrerò: sono di troppo alti natali per avere un padrone, per essere secondo nel comando o far la parte di servo o di strumento a qualsiasi Stato sovrano del mondo.

Col vostro fiato avete riacceso il tizzo spento della guerra fra questo regno tormentato e me stesso, e al fuoco avete dato esca: ora è troppo ingrossato perché lo si possa spegnere con lo stesso debole soffio che lo aveva acceso. Voi mi insegnaste a riconoscere il mio diritto, le mie giuste pretese sull'Inghilterra; sì, mi ficcaste in cuore l'idea di questa impresa, e ora venite a dirmi che Giovanni ha fatto pace con Roma? E che m'importa codesta pace? Per l'onore del vincolo coniugale rivendico il paese per mio, come erede del giovane Arturo, e ora che me lo son conquistato per metà, debbo ritirarmi perché Giovanni ha fatto pace con Roma? Sono forse lo schiavo di Roma?

Che spesa ha sostenuto Roma, che uomini ha provveduto, che munizioni ha mandate per spalleggiare la mia impresa? non sono io che ne ho sostenuto il carico? Chi altri se non io e coloro che sono pronti a riconoscere il mio buon diritto sudano nella nostra spedizione e mantengono questa guerra? non ho forse udito gli isolani gridare "Vive le Roi!" mentre attraversavo sui fiumi le loro città? non ho in mano le carte migliori per vincere questa facile partita che ha per posta una corona? e dovrò ora cedere quello che ho già guadagnato? no, no, per l'anima mia; non si dirà mai.

PANDOLFO: Voi guardate l'impresa solo superficialmente.

LUIGI: Superficialmente o a fondo non importa; non ritornerò finché dalla mia impresa io non abbia ricavato tutta la gloria che fu promessa alla mia vasta speranza prima che raccogliessi questo brillante esercito e mi scegliessi nel mondo questi animosi soldati per soggiogare la vittoria e acquistar rinomanza nelle fauci stesse del pericolo e della morte. (Suona una tromba) Che gagliardo squillo ci chiama così?

 

(Entra il BASTARDO col Seguito)

 

BASTARDO: Secondo le consuetudini di cortesia riconosciute da tutti chiedo di essere ascoltato. Monsignore di Milano, sono mandato dal re per sapere che risultato avete ottenuto a suo favore e, a seconda della risposta, so quel che posso dire in conformità col mandato che ho ricevuto.

PANDOLFO: Il Delfino è troppo ostinatamente contrario e non vuole accedere alle mie suppliche rifiutando seccamente di deporre le armi.

BASTARDO: Per tutto il sangue che mai furia abbia schizzato dalle narici, il giovinotto ha ragione. Ora sentite che cosa dice il nostro re d'Inghilterra, poiché la maestà di lui parla per bocca mia. Egli è preparato ed è giusto che lo sia, e sorride della marcia scimmiottesca e sgraziata di questo corteo mascherato in armi e sconsiderato festino, di tanta insolenza impubere e di truppe fanciullesche, ed è ben pronto a spazzar via dall'ambito del suo territorio questa guerra di nani e un simile esercito di pigmei. Quella mano che alle porte di casa vostra ebbe la forza di bastonarvi e farvi scappare in fretta e furia, che vi fece calare come secchi in pozzi appartati, e vi fece accucciare nello strame delle vostre stalle, o giacere come pegni sotto chiave in casse e stipi o abbracciati a porci o in cerca di salvezza in sotterranei e segrete, e tremare e riscuotervi persino al chicchirichì del vostro gallo nazionale avendolo scambiato per la voce di un soldato inglese; perderà proprio qui la sua forza, dico, quella mano vittoriosa che vi ha picchiati nelle vostre stesse case? No, sappiate che il valoroso sovrano è in armi e come un'aquila si libra altissima sopra il nido per calare, e infastidire quelli che si avvicinano ai suoi piccoli. E voi, degeneri, ingrati ribelli, sanguinari Neroni che aprite il grembo della vostra cara madre Inghilterra, arrossite di vergogna poiché le vostre proprie mogli e le pallide figlie come amazzoni a passo leggero seguono i tamburi, lasciano i ditali per manopole da cavalieri, gli aghi per le lance e la dolcezza dei cuori per una fiera brama di sangue.

LUIGI: Smettila con le bravate, vattene in pace e ammettiamo anche che sai parlare più grosso di noi; addio: riteniamo troppo prezioso il nostro tempo per gettarlo con un ciarlone come te.

PANDOLFO: Concedimi di parlare.

BASTARDO: No, voglio parlare io.

LUIGI: Non baderemo né all'uno né all'altro. Battete i tamburi, parli la guerra a difesa del nostro diritto e delle ragioni per cui siamo qui.

BASTARDO: Davvero? i vostri tamburi, battuti, grideranno e così, quando sarete battuti, farete voi. Sveglia l'eco col clamore del tamburo, e qui presso la pelle di un altro tamburo è tesa a rimandarti un suono forte come il tuo. Fanne sonare un altro, e un altro da parte nostra rintronerà l'orecchio del cielo quasi a farsi giuoco del basso profondo del tuono. Poiché qui vicino, non fidandosi di questo zoppicante legato che egli ha usato piuttosto per ischerzo che per bisogno, è il bellicoso Giovanni e sulla sua fronte sta la morte scheletrita il cui ufficio oggi è di mangiarsi intiere migliaia di Francesi.

LUIGI: Battete i tamburi per andare incontro a questo pericoloso avversario.

BASTARDO: E tale lo troverai, Delfino, non dubitarne.

 

(Escono)

 

 

 

SCENA TERZA - Il campo di battaglia

(Allarmi. Entrano RE GIOVANNI e UBERTO)

 

GIOVANNI: Come va la battaglia per noi? dimmelo, Uberto.

UBERTO: Male, temo. Come sta Vostra Maestà?

GIOVANNI: Questa febbre che mi ha disturbato così a lungo, pesa gravemente su di me; il cuore mi duole.

 

(Entra un Messo)

 

MESSO: Sire, il vostro prode parente, Faulconbridge, prega Vostra Maestà di lasciare il campo e di mandargli a dire da che parte andrete.

GIOVANNI: Digli che andrò a Swinstead, a quell'abbazia.

MESSO: Confortatevi, perché i grandi rinforzi che il Delfino aspettava hanno naufragato tre notti fa sui banchi sabbiosi di Goodwin. Questa notizia è stata portata a Riccardo proprio ora: i Francesi combattono fiaccamente e si ritirano.

GIOVANNI: Ahimè! questa febbre tiranna mi brucia e non mi consente di godere di queste buone notizie. Andiamo a Swinstead: subito alla mia lettiga; la debolezza mi possiede e vengo meno.

 

(Escono)

 

 

 

SCENA QUARTA - Un'altra parte del campo

(Entrano SALISBURY, PEMBROKE e BIGOT)

 

SALISBURY: Non credevo che il re avesse tanti amici.

PEMBROKE: All'attacco ancora: animate i Francesi: se sono battuti, siamo battuti anche noi.

SALISBURY: Quel demonio malcreato di Faulconbridge a dispetto di tutto riesce da solo a mantener viva la lotta.

PEMBROKE: Si dice che re Giovanni abbia lasciato il campo gravemente ammalato.

 

(Entra MELUN ferito)

 

MELUN: Conducetemi dai ribelli inglesi.

SALISBURY: Quando vincevamo ci si dava altro nome.

PEMBROKE: E' il conte Melun.

SALISBURY: Ferito a morte.

MELUN: Fuggite, nobili inglesi; siete traditi; sfilate la proterva cruna della ribellione e accogliete ancora la fedeltà che avevate dimessa. Cercate il re Giovanni e cadete ai suoi piedi; poiché, se i Francesi vinceranno quest'aspra battaglia, il Delfino intende di compensare le vostre fatiche tagliandovi la testa: così ha giurato e io e molti altri con lui sull'altare a Saint Edmundsbury, proprio su quell'altare sul quale vi avevamo solennemente promesso sincera amicizia e perenne amore.

SALISBURY: Può essere possibile? può essere vero?

MELUN: Non vedo forse avvicinarsi l'orrenda morte e non conservo ancora ben poco di una vita che si effonde col mio sangue come una figura di cera perde la sua forma davanti al fuoco? che cosa al mondo potrebbe indurmi ad ingannare quando non potrei più trar profitto dall'inganno? perché dovrei agire con falsità, quando è vero che qui debbo morire e altrove non posso vivere se non in grazia della verità?

Vi dico ancora, se Luigi riesce vittorioso, egli sarà spergiuro se mai i vostri occhi vedono un altro giorno spuntare dalla parte di oriente:

ma questa notte stessa che con la tenebra infetta dei suoi vapori comincia ad offuscare l'infiammato cimiero del vecchio sole che debole e stanco del suo corso si avvia al tramonto, questa cattiva notte morirete insidiosamente, pagando con la vita il fio del vostro tradimento accuratamente soppesato, se Luigi vince la giornata con la vostra assistenza. Ricordatemi a un certo Uberto che serve il vostro re: l'amore che ho per lui e la considerazione che mio nonno era inglese spingono la mia coscienza a confessare tutto questo. In compenso di ciò, vi prego, portatemi via di qua, lontano dal rumore e dal tumulto del campo dove, per quanto mi resta da vivere, possa meditare in pace e morire in contemplazione e devoti desideri.

SALISBURY: Ti prestiamo fede, e la maledizione del cielo colpisca la mia anima se non sono lieto di questa bella circostanza che ci permette di ritornare sui nostri passi e di fare ammenda per questa maledetta diserzione. Come un fiume che si abbassa e si ritira, rientreremo umilmente entro quei limiti che avevamo sorpassati, lasceremo il corso impetuoso e irregolare e andremo docili verso quello che è il nostro oceano, il gran re Giovanni. Il mio braccio ti aiuterà a portarti via di qui, poiché nei tuoi occhi discerno i crudeli spasimi della morte. Via amici miei! Una nuova fuga; una felice novità che tende a ristabilire l'antico diritto.

 

(Escono conducendo via Melun)

 

 

 

SCENA QUINTA - Il campo francese

(Entra LUIGI col Seguito)

 

LUIGI: Sembrava che il sole nel cielo fosse restio a tramontare e che si fermasse a far arrossire l'occidente mentre gli Inglesi indietreggiavano fiaccamente ritirandosi. Ne siamo usciti valorosamente, quando, dopo tanto sanguinoso lavoro, abbiamo dato loro la buona notte con un'inutile salva, e abbiamo ripiegate le bandiere sventolanti senza essere molestati, ultimi occupanti e quasi padroni del campo.

 

(Entra un Messo)

 

MESSO: Dov'è il mio principe, il Delfino?

LUIGI: Qui: che notizie ci porti?

MESSO: Il conte Melun è ucciso; i signori inglesi convinti da lui vi hanno abbandonato nuovamente e i vostri rinforzi che avete desiderati così a lungo sono scomparsi, sprofondando nelle sabbie di Goodwin.

LUIGI: Brutte, maledette notizie! e maledetto sia il tuo cuore! Non mi aspettavo di essere questa sera così triste come mi hanno reso tali notizie. Chi ha detto che re Giovanni era fuggito un'ora o due prima che la notte che rende incerti i passi dell'uomo avesse separate le nostre truppe stanche?

MESSO: Chiunque l'abbia detto, è la verità, mio signore.

LUIGI: Bene, fate buona guardia e state attenti questa notte: mi alzerò prima dell'alba per tentare la bella avventura di domani.

 

(Escono)

 

 

 

SCENA SESTA - Spazio aperto nelle vicinanze dell'Abbazia di Swinstead

(Entrano da parti diverse il BASTARDO e UBERTO)

 

UBERTO: Chi va la? parla, rispondi subito, o sparo.

BASTARDO: Un amico, e tu chi sei?

UBERTO: Di parte inglese.

BASTARDO: Dove vai?

UBERTO: Che t'importa? perché non posso chiederti dei tuoi affari come tu dei miei?

BASTARDO: Uberto, mi sembra.

UBERTO: E' così: giacché mi riconosci all'accento mi arrischierò a credere che tu sia mio amico. Chi sei?

BASTARDO: Chi vuoi: e, se ti pare, puoi farmi la cortesia di pensare che vengo da un ramo dei Plantageneti.

UBERTO: Cattiva memoria la mia! tu e il buio della notte mi avete fatto cadere vergognosamente in errore; valoroso soldato, perdonami, se un accento proferito dalla tua lingua non è stato subito riconosciuto dal mio orecchio.

BASTARDO: Suvvia, lasciando le cerimonie, che notizie ci sono in giro?

UBERTO: Ebbene, vagavo qui sotto la cupa faccia della notte proprio per cercarvi.

BASTARDO: Poche parole, allora; che notizie mi date?

UBERTO: Oh! mio buon signore, notizie che si combinano bene con la notte, nere, tremende, desolate e orribili.

BASTARDO: Mostrami il peggio di queste cattive nuove: non sono donna e non mi verrà uno svenimento.

UBERTO: Il re, temo, è stato avvelenato da un frate: quando l'ho lasciato aveva perduto quasi del tutto l'uso della parola, e sono uscito tosto a informarvi di questo male, perché poteste provvedere a questa improvvisa contingenza meglio che venendo a conoscerla tardi.

BASTARDO: Come l'ha preso? chi gli assaggiava le vivande?

UBERTO: Un monaco, vi ho detto; un furfante risoluto a cui sono scoppiati improvvisamente gli intestini; il re parla ancora e può darsi che si riabbia.

BASTARDO: Chi hai lasciato ad assistere Sua Maestà?

UBERTO: Come! non lo sapete? i signori sono tutti ritornati e hanno condotto il principe Enrico in loro compagnia: a sua richiesta il re ha loro perdonato e ora sono tutti intorno a lui.

BASTARDO: Frena la tua indignazione, cielo possente, e non mettere a troppo dura prova le nostre forze! Uberto, metà delle mie truppe nella notte, passando per questi terreni sabbiosi, sono state sorprese dalla marea e gli acquitrini di Lincoln le hanno inghiottite; io stesso, pur avendo un buon cavallo, sono scampato a fatica: precedimi e conducimi dal re; temo che muoia prima del mio arrivo.

 

(Escono)

 

 

 

SCENA SETTIMA - Il frutteto dell'Abbazia di Swinstead

(Entrano il PRINCIPE ENRICO, SALISBURY e BIGOT)

 

ENRICO: E' troppo tardi: tutto il suo sangue è infetto e il cervello già cosi chiaro, che alcuni suppongono fragile dimora dell'anima, vaneggiando fa capire che la sua morte è prossima.

 

(Entra PEMBROKE)

 

PEMBROKE: Sua Maestà parla ancora e crede che se lo si portasse all'aria aperta sarebbe alleviato il bruciore del fiero veleno che lo tormenta.

ENRICO: Portatelo qui nel frutteto. Delira ancora?

 

(Esce Bigot)

 

PEMBROKE: E' più calmo di quando lo lasciaste; proprio ora ha innalzato un cantico.

ENRICO: O vanità della malattia! il gran dolore, se continua, ottunde la sensibilità. La morte, avendo divorato le parti esterne, le lascia senza essere vista e assedia ora la mente, la punge e ferisce con mille strane fantasie, che, affollandosi per entrare in quell'ultima fortezza, si annullano a vicenda. E' strano che un morente canti. Io sono come il piccolo di questo cigno languente che scioglie un cantico doloroso alla sua propria morte e con flebile canna d'organo accompagna la sua stessa anima e il corpo al riposo eterno.

SALISBURY: State di buon animo, principe, poiché siete nato per dar forma a quello Stato che egli lascia così informe, grezzo e caotico.

 

(Entrano Persone del seguito e BIGOT portando RE GIOVANNI su una sedia)

 

GIOVANNI: Sì, per la Vergine; l'anima ora ha spazio da respirare: non voleva passare né per porta né per finestra. C'è tal canicola dentro di me che tutti i visceri s'inceneriscono: sono come uno scritto scarabocchiato su una pergamena e a questo fuoco mi raggrinzo tutto.

ENRICO: Come si sente Vostra Maestà?

GIOVANNI: Avvelenato - mal cibo davvero - morto, abbandonato, reietto: e nessuno di voi vuol dire all'inverno che venga a cacciarmi le dita di ghiaccio nello stomaco, né ai fiumi del regno di passarmi per il petto riarso, né al vento di tramontana di baciare le mie labbra aride e confortarmi col freddo. Non vi chiedo molto: un ben misero conforto, e voi siete così avari e così ingrati che mi negate anche quello.

ENRICO: Oh, vi fosse qualche virtù nelle mie lagrime che vi desse un po' di sollievo!

GIOVANNI: Sono salate e calde. Dentro di me c'è un inferno e il veleno è un demone che vi sta imprigionato e mi tormenta il sangue condannato senza remissione.

 

(Entra il BASTARDO)

 

BASTARDO: Ardo tutto per la rapida corsa e la viva ansia di veder Vostra Maestà!

GIOVANNI: Cugino, sei venuto a chiudermi gli occhi: il mio cuore è come una nave in cui l'attrezzatura è rotta e arsa, e i cordami che dovevano consentirle il movimento sono ridotti a un filo, a un esile capello: il mio cuore non ha che una fibra che lo sostiene e regge sinché tu non abbia parlato: dopo di che, quello che vedrai non sarà che terra e forma vuota di maestà distrutta.

BASTARDO: Il Delfino sta preparandosi a venir qui dove sa il cielo che risposta gli daremo; poiché in una notte la parte maggiore delle mie forze, mentre, còlto il momento buono le stavo trasferendo, furono sommerse negli acquitrini dall'inattesa marea prima ancora che me ne accorgessi.

 

(Il Re muore)

 

SALISBURY: Voi spirate queste notizie di morte in orecchio che è altrettanto morto. Mio signore! mio sire! poco fa un re ed ora misera spoglia!

ENRICO: E anch'io così dovrò vivere e così morire. Che sicurezza vi è nelle cose del mondo, che speranza, che sostegno, se colui che poco fa era un re ora è terra?

BASTARDO: Proprio così dovevi perire? resto a compiere per te l'ufficio di vindice, e poi la mia anima ti servirà in cielo come ti ha sempre servito sulla terra. Voi, signori miei, stelle che vi girate ora nella giusta sfera, dove sono le vostre truppe? Dimostrate che siete ritornati alla fede e venite subito con me a cacciare questa distruzione e perpetua vergogna fuori dalle mal difese porte del nostro paese avvilito. Andiamo in cerca del nemico, se non vogliamo esserne cercati subito: il Delfino infuria proprio alle nostre calcagna.

SALISBURY: Sembra allora che ne sappiate meno di noi: il cardinale Pandolfo, venuto mezza ora fa da parte del Delfino, è dentro a riposare e porta tali offerte di pace che possiamo accettarle con dignità e con onore allo scopo che si ponga subito termine a questa guerra.

BASTARDO: Tanto più volentieri lo farà se ci vedrà bene armati a difesa.

SALISBURY: No, in un certo senso è cosa fatta; poiché ha mandato alla riva del mare molte delle salmerie e ha rimesso la decisione della sua causa alla discrezione del cardinale, col quale voi, io e altri signori ci metteremo in via oggi dopo pranzo per concludere questa faccenda felicemente.

BASTARDO: E così sia: e voi, mio nobile principe, e altri la cui presenza non è necessaria, seguirete il feretro di vostro padre.

ENRICO: A Worcester deve essere sepolto, perché così ha disposto.

BASTARDO: Colà sarà portato: e felicemente possa la vostra amata persona assumere sopra di sé l'ereditaria sovranità gloriosa in questo paese! E a voi con ogni sottomissione in ginocchio consacro i miei fedeli servigi e la mia devota sudditanza.

SALISBURY: E noi facciamo uguale offerta della nostra devozione che durerà eterna e senza macchia.

ENRICO: Ho un cuore lieto che vorrebbe ringraziarvi e non sa farlo se non con le lacrime.

BASTARDO: Non paghiamo all'occasione più cordoglio dei necessario, dacché ha avuto l'anticipo delle nostre pene. Una cosa l'Inghilterra non mai fece né farà: prostrarsi ai superbi piedi di un conquistatore, se non abbia dato mano per prima a ferire se stessa. Ora che questi principi sono tornati all'ovile, vengano pure tre parti del mondo in armi e le faremo tremare. Nulla riuscirà a farci piangere se l'Inghilterra resterà fedele a se stessa.

 

(Escono)