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Jack London



PRIMA DI ADAMO

 

 

 

 

PRIMA DI ADAMO


"Prima di Adamo" (titolo originale: Before Adam), scritto nella prima metà del 1906, apparve a puntate su "Everybody" nell'ottobre dello stesso anno, poi in volume presso Macmillan, New York, 1907.


"Questi sono i nostri antenati e la loro storia è la nostra storia.


Ricordatevi che come è certo che un giorno noi scendemmo dagli alberi per camminare eretti al suolo, così è altrettanto certo che in un'epoca ancora più lontana, siamo usciti arrampicandoci dal mare, per iniziare la nostra prima avventura sulla terra ferma" - Jack London




1


Prima che sapessi, mi sono spesso domandato da dove venisse la moltitudine delle immagini che popolava i miei sogni, e che erano del tutto diverse dalla realtà dello stato di veglia. Esse tormentarono la mia infanzia, facendo dei miei sogni una serie d'incubi e, un po' più tardi, mi convinsero che io differivo dal resto della mia specie, che ero un essere contro natura e maledetto.


Godevo la mia parte di felicità solo durante il giorno; le mie notti segnavano il regno della paura... e di quale paura! Oso affermare che nessun uomo, tra quelli che con me vivono su questa terra, ha mai sofferto uno spavento di tale natura e di tale intensità; giacché la mia paura è la paura della lontananza del tempo che fu, la paura che predominava al tempo della nascita del mondo e al tempo della giovinezza del mondo nascente; la paura, insomma, che regnava suprema durante il periodo conosciuto col nome di Medio Pleistocene.


Che cosa intendo dire con ciò? Sento che è necessaria una spiegazione prima che incominci ad esporre qual era il contenuto dei miei sogni, diversamente voi ben poco comprendereste il significato di cose che per me sono così familiari. Mentre scrivo, tutti gli esseri, tutti gli avvenimenti di questo mondo dei miei sogni sorgono dinanzi ai miei occhi in una vasta fantasmagoria, ma so che per voi essi sarebbero senza connessione e senza ragione.


Che cosa possono significare per voi l'amicizia di Orecchiuto, la calda seduzione della Rapida, la concupiscenza e l'atavismo di Occhiorosso? Stridenti incoerenze e null'altro. Incoerenze stridenti quanto i fatti e le gesta del Popolo del Fuoco e del Popolo degli Alberi e le inintelligibili assemblee delle orde. Nulla potete sapere voi che ignorate la pace delle fresche caverne sul fianco delle rupi e il giocondo andirivieni all'orlo dell'acqua dove andavamo a dissetarci sul calar del giorno; voi che non avete mai conosciuto il morso pungente del vento mattutino sulla cima degli alberi e il sapore della giovane corteccia dolce al palato.


Credo perciò che sarebbe stato meglio per voi essere iniziati come lo fui io al tempo della mia infanzia. Bambino, di giorno ero uguale agli altri bambini; ma nel sonno ero del tutto diverso. Sin dagli anni di cui la mia mente conserva vivo il ricordo, il mio sonno fu sempre un periodo di terrore. Molto raramente i miei sogni si coloravano di felicità; in genere erano fatti di paura, di una paura così strana, così folle da non esservi nulla di paragonabile. Nessuna delle paure che provai nelle ore di veglia assomiglia alla paura che s'impadroniva di me durante il sonno: paura d'un genere tale da superare tutte le mie esperienze.


Ragazzo nato e allevato in città, la campagna rappresentava per me un terreno inesplorato. Tuttavia non sognavo mai la città, né appariva mai una casa in uno dei miei sogni, come del resto nessun essere umano oltrepassava mai la barriera del mio sonno. Io, che avevo visto alberi solo nei parchi e nei libri illustrati, erravo attraverso foreste sconfinate. Inoltre, questi alberi di sogno non erano una semplice percezione confusa della mia visione, ma erano ben netti e distinti.


Ero in termini d'intimità vissuta con essi; ne vedevo ogni ramo, ogni gemma; vedevo e conoscevo ogni foglia.


Ho serbato il ricordo preciso della prima volta in cui, allo stato di veglia, vidi una quercia. Guardando le foglie, i rami, i nodi, ricordai con una lucidità impressionante di aver già visto moltissime altre volte quella stessa specie d'albero durante il mio sonno. Così non fui affatto sorpreso più tardi, nel riconoscere immediatamente, appena li vidi, alberi come l'abete, il tasso, la betulla, il lauro.


Io li avevo già visti tutti e li vedevo ancora tutti, ogni notte, durante il mio sonno.


Come avrete già osservato, tutto ciò viola la legge fondamentale dei sogni, vale a dire la regola per cui ciascuno vede in sogno solo quello che ha visto allo stato di veglia, o combinazioni di cose da lui viste allo stato di veglia. Ebbene, tutti i miei sogni andavano contro questa regola: mai ho visto in sogno qualcosa di cui abbia avuto conoscenza essendo desto. La mia vita durante i sogni e la mia vita allo stato di veglia erano due vite nettamente separate, che non avevano nulla di comune tra esse all'infuori della mia persona. Io ero, in un certo modo, il tratto d'unione vivente tra quelle due esistenze.


Sin dai primi anni della mia infanzia appresi che le noci si comprano dal droghiere, la frutta dal fruttivendolo; ma ben prima di sapere questo io avevo in sogno colto le noci sugli alberi o le avevo raccattate in terra sotto gli alberi stessi, come pure avevo mangiato frutti colti sugli arbusti e sui cespugli, quantunque una simile cosa mai mi fosse accaduta durante la vita trascorsa ad occhi aperti.


Non dimenticherò mai la prima volta che vidi servire a tavola i mirtilli. Mai quei frutti mi erano comparsi davanti agli occhi, e tuttavia, vedendoli, mi vennero improvvisamente alla memoria ricordi di sogni durante i quali avevo errato in una zona paludosa facendo una scorpacciata di mirtilli. Mia madre mi pose davanti un piatto pieno di questi frutti; subito ne presi una cucchiaiata, ma prima ancora di averla portata alla bocca io sapevo perfettamente il sapore che avrebbero avuto i mirtilli. E non m'ingannai: era un sapore aspro che avevo conosciuto mille volte durante il sonno.


E i serpenti? Molto tempo prima che avessi sentito dire della loro esistenza, essi mi tormentavano durante il sonno. Mi aspettavano annidati nelle radure delle foreste, si slanciavano come frecce sotto i miei piedi, fuggivano ondulando attraverso l'erba secca o sulle rocce nude; oppure m'inseguivano fin sulla cima degli alberi, attorcigliando i loro grandi corpi lucidi ai tronchi, scacciandomi sempre più in alto o sempre più lontano sui rami che oscillavano scricchiolando, mentre il suolo sembrava inabissarsi a una distanza vertiginosa. I serpenti!... Con la loro lingua bifida, i loro occhi rotondi, le loro scaglie scintillanti e il loro tintinnio stridulo, li conoscevo anche troppo bene allorché la prima volta che entrai in un circo vidi l'incantatore di serpenti prenderli tra le mani e sollevarli! Erano per me vecchie conoscenze, o piuttosto vecchi nemici, che popolavano di terrore le mie notti.


Ah, quelle foreste sconfinate e la loro oscurità piena d'orrore! Per quante eternità non ho errato nel loro seno, io essere timido, perseguitato, allarmato dal minimo rumore, spaventato dalla mia stessa ombra, coi nervi tesi, sempre all'erta, pronto ad ogni istante a balzar lontano in una corsa folle per scampare la vita! Perché io ero la preda offerta a tutte le specie di esseri feroci che abitavano la foresta, ed era con paura delirante che fuggivo davanti ai mostri in caccia.


Avevo cinque anni quando andai per la prima volta al circo. Tornai a casa malato; malato e non per colpa dei dolciumi e delle bibite.


Bisogna che vi racconti come andò. Quando entrammo nella tenda dove si trovava il serraglio, un ruggito rauco lacerò l'aria. Ritirai bruscamente la mano da quella di mio padre e urlando di terrore mi precipitai perdutamente verso l'uscita, urtai altra gente, caddi e rimasi tremante di paura. Mio padre, avendomi raggiunto, mi calmò; mi mostrò che il pubblico non era affatto spaventato dei ruggiti e mi rianimò assicurandomi che la nostra sicurezza era perfetta.


Nondimeno fu soltanto tremando di paura e spinto dagli incoraggiamenti di mio padre, che mi accostai finalmente alla gabbia del leone. Come lo riconobbi subito! Era la Bestia, la Bestia terribile! E subito mi balenarono nella memoria i ricordi dei miei sogni: il sole meridiano che faceva brillare le alte erbe, il toro selvatico che pasceva tranquillo, l'improvviso dividersi delle erbe sotto la rapida corsa della belva che si gettava sul dorso del toro, e lo strepito della lotta e i muggiti e lo stritolìo delle ossa; oppure la calma frescura dell'abbeveratoio, il cavallo selvatico immerso nell'acqua sino a mezza gamba, che beveva tranquillamente, e ancora la Belva, sempre la Belva! e il salto e il nitrito e lo sbuffo del cavallo e lo scricchiolio prolungato delle ossa; e ancora, durante il cupo crepuscolo e il silenzio triste del giorno che volge alla fine, l'improvviso ruggito possente, lanciato a piena gola, inatteso come il richiamo della tromba del destino, e subito dopo urli e balbettii di spavento in mezzo al fogliame, dov'ero anch'io, tremante di paura, unità smarrita della folla urlante e balbettante sugli alberi.


Nel vedere la Belva, impotente dietro le sbarre della gabbia, diventai furioso. Digrignai i denti, danzai avanti e indietro lanciandole grida beffarde, incoerenti, e facendo smorfie grottesche. Il leone rispose scagliandosi contro le sbarre e ruggendo verso di me la sua inutile rabbia. Ah, anche lui mi riconosceva, e capiva bene i suoni che io emettevo: le grida di antichi tempi.


I miei genitori erano spaventati: "Questo ragazzo è malato", diceva mia madre. "Ha un attacco di nervi", disse mio padre. Io non ho mai detto loro la verità, ed essi l'ignorano ancora. Avevo già circondato di reticenze la mia dualità, quella semi- dissociazione della mia personalità, come credo di poterla chiamare.


Vidi l'incantatore di serpenti, e questo fu tutto quel che vidi quella sera. Mi ricondussero a casa snervato, esaurito dalla stanchezza, reso malato da quella irruzione della mia vita di sogno nella mia vita reale.


Ho parlato della mia reticenza. Una sola volta confidai la stranezza di quel che mi accadeva a un compagno che aveva otto anni come me. Dai miei sogni ricostruii per lui le immagini di quel mondo svanito dove credo veramente d'esser vissuto un tempo. Gli parlai dei terrori di quell'epoca tanto remota, di Orecchiuto, degli scherzi che facevamo insieme, dei ciangottii inintelligibili, degli Uomini del Fuoco e dei ricoveri dove si annidavano.


Il mio compagno si burlò di me e mi raccontò certe storie di fantasmi e di morti che tornano la notte. Soprattutto volse in ridicolo ciò che egli considerava come scialbi prodotti della mia fantasia. Alle altre storie che gli raccontai, per tutta risposta, mi rise bellamente sulla faccia. Giurai con tutta sincerità che le cose stavano precisamente così, e allora egli incominciò a guardarmi in modo strano, e fece poi agli altri compagni un racconto così sbalorditivo delle mie confidenze che tutti presero a considerarmi in una maniera insolita.


Questa amara esperienza mi servì di lezione. Io ero un essere diverso da quelli della mia specie; ero anormale nel senso che essi non potevano comprendere e io non potevo loro spiegare senza dar luogo a malintesi. Quando tra compagni si raccontavano in circolo storie di spettri e di fantasmi, io tacevo, ma dentro di me sorridevo in maniera spaventosa, rabbrividente. Pensavo alle mie notti di terrore, sapevo che le mie parole erano fatti reali, veri come la vita e non vapori impalpabili e ombre immaginarie.


Perché nessuno spavento mi coglieva al pensiero dei lupi mannari e degli orchi malvagi. La caduta da un'altezza vertiginosa attraverso il fogliame degli alberi, ecco; i serpenti che mi si attorcigliavano addosso e che io evitavo saltando lontano, mentre mi battevano i denti; i cani selvatici che m'inseguivano attraverso le radure sino al rifugio delle foreste; ecco, questi erano terrori concreti e reali, fatti e non immaginazioni, cose di carne viva, di sudore, di sangue.


Orchi e lupi mannari sono stati per me dei buoni compagni di letto in confronto agli orrori che divisero il mio letto al tempo della mia infanzia e lo dividono anche ora che, giunto all'età matura, traccio questi ricordi.




2


Ho detto che nei miei sogni non vedevo mai esseri umani. Mi accorsi presto di questo fatto e risentii in modo piuttosto pungente questa assenza della mia propria specie. Anche quand'ero bambino, avevo la sensazione, in mezzo all'orrore dei miei sogni, che se avessi incontrato un uomo, un solo essere umano, mi sarei salvato dai sogni e dai terrori che mi circondavano durante il sonno. Questo pensiero turbò per anni interi le mie notti: se potessi trovare quest'essere umano, sarei salvo!


Devo ripetere che questa idea mi sorprendeva proprio nel bel mezzo del sogno e da ciò desumo l'evidenza della coesistenza delle mie due personalità, la prova che esiste un punto comune alle due parti dissociate del mio io. La mia personalità di sogno viveva nei tempi remoti, prima ancora che esistesse l'uomo come noi lo conosciamo, e l'altra mia personalità, quella della mia vita reale, si fondeva nella sostanza dei miei sogni per quanto è concesso alle conoscenze delle vite d'un uomo.


Forse gli psicologi togati troveranno da ridire sul significato che io attribuisco alle parole "dissociazione della personalità." So benissimo in che senso essi ricorrono a questo termine, ma sono costretto a servirmene a modo mio, in mancanza di altri più appropriati. Comunque io mi riparo dietro l'insufficienza della lingua. Ed ora veniamo all'uso o al cattivo uso che io faccio di questo termine.


Ebbi una prima indicazione sul significato e sulla causa dei miei sogni solo quando, ragazzino, venni messo in collegio. Fino allora quei sogni erano rimasti privi di significato e senza causa apparente.


Ma in collegio mi fu rivelata l'evoluzione e la psicologia e conobbi la spiegazione di sensazioni e di stati mentali diversi e strani. Vi era, ad esempio, il sogno della caduta attraverso lo spazio: avventura che accade più comunemente in sogno e che ciascuno di noi conosce per esperienza personale.


Il mio professore mi disse che era un ricordo di razza che risale ai nostri antenati lontanissimi che vivevano sugli alberi. Siccome erano arboricoli, il rischio di cadere rappresentava per loro una minaccia sempre presente. Infatti molti di essi persero la vita in questo modo, cadendo; ma in generale tutti fecero cadute terribili, scampando alla morte solo afferrandosi ai rami mentre precipitavano verso il suolo.


Beninteso, una caduta così terribile, e interrotta in una simile maniera, produceva nell'organismo una scossa che, a sua volta, provocava delle modificazioni molecolari nelle cellule cerebrali.


Queste modificazioni molecolari si trasmettevano alle cellule cerebrali della discendenza e diventavano insomma dei ricordi ereditari. Così, quando io e voi, addormentati o assopiti, cadiamo attraverso lo spazio e torniamo in noi con una sensazione di batticuore, proprio nell'attimo immediatamente prima di fracassarci le ossa sul suolo, non facciamo che ricordarci di quel che avvenne ai nostri antenati arboricoli e che si è impresso, per le successive modificazioni cerebrali, nell'eredità della specie.


Nulla c'è di strano in questo, come nulla c'è di strano in un istinto.


Un istinto è semplicemente un'abitudine che si è impressa nella materia della nostra eredità, ecco tutto. E' da notare, per inciso, che in questo sogno della caduta, che è familiare a voi, a me, a tutti, giammai noi tocchiamo il suolo. Cadere sul suolo equivale a morire. I nostri antenati arboricoli che cadevano a terra morivano sul colpo. E' vero che la scossa della caduta si comunicava alle loro cellule cerebrali, ma essi morivano immediatamente, prima di poter generare una discendenza. Voi ed io discendiamo da quelli che non toccarono terra; e per questo appunto né voi né io non tocchiamo mai il suolo cadendo in sogno.


Veniamo ora alla dissociazione della personalità. Noi non abbiamo mai questa sensazione della caduta quando siamo allo stato di veglia. La nostra personalità di veglia la ignora. Allora (e qui l'argomento è irresistibile) deve essere una personalità ben distinta che cade quando noi dormiamo e che ha già l'esperienza di questa caduta; che ha, insomma, un ricordo delle avventure capitate a una specie scomparsa, allo stesso modo come la nostra personalità di veglia ha il ricordo degli avvenimenti della nostra vita reale.


Fu a questo punto del mio ragionamento che incominciai a veder la luce, e ben presto questa luce scintillò su di me con un fulgore abbagliante, illuminando e svelando tutto quello che c'era di spaventoso, d'irreale, di antinaturale, d'impossibile nelle mie avventure di sogno. Nel sonno non era la mia personalità di veglia che mi guidava, ma una personalità diversa e ben distinta, che possedeva un fondo di esperienze nuovo e totalmente diverso, e che aveva, dal punto di vista dei miei sogni, il ricordo di quelle avventure del tutto distinte.


Qual era questa personalità? Quando aveva essa stessa vissuto una vita di veglia su questa terra per raccogliervi una collezione di avventure così strane? Queste erano le domande alle quali rispondevano i miei sogni stessi. Questa personalità visse in tempi preistorici, all'epoca della giovinezza del mondo, durante il periodo che noi chiamiamo Medio Pleistocene; rabbrividì di terrore al ruggito del leone; fu inseguita dalle fiere, minacciata dai serpenti dal morso mortale; balbettò nelle radunate coi suoi simili; fu angariata, malmenata dagli Uomini del Fuoco quando fuggì dinanzi alla loro invasione.


Ma voi obietterete: "Come mai questi ricordi non sono comuni anche a noi, dato che anche noi abbiamo una vaga personalità che precipita attraverso lo spazio mentre dormiamo?".


A questa domanda risponderò con un'altra domanda: perché vi sono dei vitelli a due teste? La mia risposta è che vi sono dei fenomeni. E questa è anche la risposta che do alla vostra domanda: io possiedo quest'altra personalità e questa completa memoria atavica perché sono un fenomeno.


Voglio essere ancora più esplicito. Il ricordo di specie più comune che noi abbiamo è il sogno della caduta nello spazio. Appunto perché è molto vaga, questa seconda personalità ha conservato questo solo ricordo. Ma molti di noi hanno personalità diverse più nitide, più distinte. Numerose sono le persone che sognano di volare nell'aria, che sono inseguite da mostri, che fanno sogni colorati, che nel sogno patiscono il soffocamento, che in sogno vedono rettili e vermi di ogni sorta. In una parola, mentre questa personalità diversa è in noi generalmente allo stato di vestigio, in alcuni è quasi obliterata e in altri è più accentuata. Certuni hanno dei ricordi di specie più forti, più completi di certi altri.


Tutto ciò non costituisce che una questione di grado variabile nel possesso di quest'altra personalità. In me, questo grado di possesso è enorme. L'altra personalità è in potenza quasi uguale alla mia propria personalità. Perciò io sono, come ho già detto, un fenomeno, un capriccio dell'ereditarietà.


Credo che sia effettivamente il possesso di questa altra personalità - ma a un grado inferiore al mio - che in talune persone abbia fatto credere ad esperienze compiute in precedenti reincarnazioni. Per queste persone ciò è plausibile, è un'ipotesi convincente. Quando hanno visioni di scene che non hanno mai veduto essendo in carne ed ossa, ricordi di atti e di avvenimenti che risalgono al passato, la spiegazione più semplice è quella di aver già vissuto una vita anteriore.


Ma commettono l'errore di non tener conto della loro dualità. Esse non riconoscono l'esistenza della loro seconda personalità; questa la prendono per la loro propria personalità, credendo così di non averne che una; e da tali premesse non possono che concludere di aver vissuto delle vite anteriori.


Ma hanno torto, perché qui non si tratta di reincarnazione. Io ho visioni di me stesso, dove mi vedo errare nelle foreste del mondo nascente, e tuttavia non sono me che vedo, ma un essere che fa molto lontanamente parte di me, come mio padre e mio nonno fanno parte di me stesso, ma a una distanza meno grande. Questo alter ego di me stesso è un antenato in rapporto a me; un progenitore dei miei progenitori nella primitiva stirpe della mia specie; e lui stesso è a sua volta la discendenza d'una stirpe che, prima di lui, grazie all'evoluzione, acquistò dita e pollici e imparò ad arrampicarsi sugli alberi.


A rischio di diventare noioso devo ripetere che in tutto ciò io devo essere considerato un fenomeno. Non solo possiedo la memoria della specie a un grado straordinario, ma ho anche conservato i ricordi derivanti da un antenato particolare e lontanissimo. E sebbene il caso sia poco frequente, tuttavia non c'è nulla di eccezionale in questo.


Seguite il mio ragionamento. Un istinto è un ricordo di specie:


benissimo. Allora voi, io, tutti riceviamo questi ricordi dai nostri padri e dalle nostre madri, tal quali essi li hanno ricevuti dai loro propri padri e madri. Deve dunque esistere un intermediario attraverso il quale questi ricordi sono trasmessi di generazione in generazione.


Questo intermediario è ciò che Weismann chiama "plasma germinativo," il quale trasporta i ricordi di tutta l'evoluzione della specie.


Questi ricordi sono deboli e confusi, e molti di essi vanno perduti.


Ma alcuni esemplari di plasma germinativo trasportano una quantità eccessiva di ricordi; sono, per parlare scientificamente, più atavici degli altri. Il mio germoplasma è di questa specie. Io sono una bizzarria dell'eredità, un incubo atavico (chiamatemi come volete), ma se sono così, vivo e reale, come un essere che mangia con appetito tre volte al giorno, che cosa possiamo farci, voi ed io?


E ora, prima di riprendere il mio racconto, voglio prevenire le obbiezioni dei San Tommaso della psicologia, sempre inclini alla canzonatura, i quali non mancheranno di dire che la coerenza dei miei sogni è dovuta a un eccessivo lavoro mentale e alla penetrazione subcosciente, nei miei sogni, della mia conoscenza dell'evoluzione.


Anzitutto, io non sono mai stato uno scolaro molto diligente; a scuola, ero sempre l'ultimo della classe. Preferivo gli sport e (non ho alcuna ragione di non confessarlo) in particolar modo il biliardo.


Inoltre, ho avuto cognizione dell'evoluzione solo quando entrai in collegio; e tuttavia durante la mia infanzia e la mia giovinezza avevo già vissuto nei miei sogni tutti i particolari di quell'alt ra vita dei tempi remoti. Aggiungerò che questi particolari rimasero ingarbugliati e incoerenti sino al momento in cui conobbi la teoria dell'evoluzione. L'evoluzione fu la chiave del mistero; essa fornì la spiegazione, diede ordine alle bizzarrie del mio cervello atavico, che, moderno e normale, tornava ad ascoltare gli echi di un passato così lontano, contemporaneo degli esordi informi dell'umanità.


Poiché in questo passato che io conosco, l'uomo non esisteva come noi lo conosciamo oggi, fu dunque durante quel periodo del suo "divenire" che io debbo aver vissuto e posseduto il mio essere.




3


Il sogno più abituale della mia prima infanzia era di questo genere:


mi pareva di essere una piccolissima cosa, di essere rannicchiato in una specie di nido formato di rami e felci. Talvolta ero disteso supino. Pare che passai parecchie ore in questa posizione, intento ad osservare il sole che giocava tra le fronde sopra il mio capo e il vento che agitava le foglie. Spesso, quando il vento spirava più violentemente, il nido dondolava da una parte e dall'altra.


Ma mentre riposavo così nel mio nido, ero sempre in preda alla sensazione di un vuoto terribile spalancato sotto di me. Non l'avevo mai visto, non avevo mai guardato oltre il bordo del nido; ma conoscevo l'esistenza di questo spazio vuoto aperto proprio sotto di me, che mi minacciava incessantemente come la gola di qualche mostro divorante; e lo temevo.


Questo sogno, nel quale io rimanevo passivo e che rappresentava uno stato più che un atto, lo ebbi spessissimo nel corso della mia prima infanzia. Ma d'improvviso irrompevano in mezzo a esso forme strane ed eventi atroci come il tuono e il fragore della tempesta, oppure paesaggi ignoti che mai avevo visto nella mia esistenza di veglia. Da tutto ciò derivava una tale confusione, un incubo di cui, per mancanza di nesso logico, non capivo nulla.


Perché, vedete, non c'era nessuna coerenza, nessuna successione di avvenimenti nei miei sogni. A un certo momento ero una creaturina minuscola, giacente in un nido arboreo; nel momento successivo ero un uomo adulto del mondo primitivo, impegnato in una lotta a corpo a corpo con Occhiorosso; e subito dopo mi arrampicavo con precauzione verso la sorgente, nel mezzo del calore del giorno. Eventi separati, che nel mondo primitivo avevano occupato anni, si svolgevano in me nello spazio di pochi minuti, di pochi secondi.


Era un guazzabuglio, una confusione di cui vi risparmierò i particolari. Solo quando, divenuto giovinetto, ebbi sognato migliaia di volte, l'arruffata matassa si dipanò e tutto divenne in me chiaro e netto. Acquistai allora la nozione del tempo e fui in grado di congiungere gli uni agli altri fatti e avvenimenti nell'ordine loro proprio. Fui così capace di ricostruire il mondo primitivo scomparso, il mondo qual era quando ci vivevo io - o quando ci viveva l'altro me stesso.


Per maggiore comodità del lettore, dato che questa non è una tesi di sociologia, con gli avvenimenti sparsi cercherò di ricostruire un racconto chiaro, poiché una certa concatenazione persiste tuttavia nei miei sogni. C'è la mia amicizia per Orecchiuto, ad esempio; c'è anche l'inimicizia di Occhiorosso e l'amore della Rapida. Sono certo che voi riconoscerete come tutto questo costituisca, a ben considerare, una storia abbastanza coerente e interessante.


Ricordo pochissimo di mia madre. Il più antico ricordo che ho serbato di lei - e che è di certo il più vivo, può darsi che sia questo: mi sembra che ero coricato per terra; ero un po' più grande che all'epoca del nido, ma tuttavia ancora incapace di qualsiasi difesa. Mi rotolavo sulle foglie secche, con le quali mi divertivo a giocare emettendo di quando in quando, dal fondo della gola, piccoli gridi lamentosi e gemebondi. Il sole splendeva ardentemente e io mi sentivo felice e soddisfatto. Mi trovavo in una piccola radura: intorno a me, da ogni parte, si trovavano cespugli e gruppi di felci, e in alto, tutto attorno, sorgevano i tronchi e i rami degli alberi della foresta.


Improvvisamente sentii un rumore. Mi misi a sedere, rimanendo immobile in ascolto. I piccoli suoni si spensero nella mia gola: ero come pietrificato. Il rumore, simile al grugnito di un maiale, si avvicinò.


Incominciai a percepire il fruscìo prodotto dallo spostamento di un corpo attraverso il fogliame. Poi vidi le felci agitarsi al suo passaggio, poi ancora la cortina di felci si aprì e scorsi due occhi brillanti, un grugno prolungato, delle zanne bianche.


Era un cinghiale selvatico. Mi guardava con curiosità. Grugnì una volta o due, dondolò la massa carnosa dall'una all'altra delle zampe anteriori, mentre scuoteva leggermente la testa e agitava le felci.


Io ero sempre come pietrificato, con gli occhi fissi sulla bestia, le palpebre immobili e il cuore divorato dalla paura. Sembra che quell'immobilità e quel silenzio fossero proprio quel che si aspettava da me. Non dovevo gridare di fronte al terrore: tale era il comandamento dell'istinto. Rimasi dunque seduto là, aspettando non so che cosa. Il cinghiale rovesciò le felci e penetrò nella radura. La curiosità sprizzava dai suoi occhi, che brillavano crudelmente.


Dondolò la testa verso di me in modo piuttosto minaccioso, fece un passo avanti, poi un altro, e un altro ancora...


Allora lanciai un grido, un urlo. Non posso descriverlo, ma fu acuto, lacerante. E pare che, al punto in cui erano giunte le cose, quel grido fosse anch'esso atteso da me, perché, da un punto non molto lontano, rispose un altro grido. Il rumore che avevo fatto parve sconcertare momentaneamente il cinghiale, e, mentre esso si arrestava e si dondolava indeciso, un'apparizione sorse accanto a noi.


Era mia madre, grande come un orang-utang o come uno scimpanzé; ma tuttavia differente da essi, in una maniera chiara e definita. Più solidamente piantata e meno pelosa. Le braccia erano meno lunghe, le gambe più forti. Unico indumento il suo vello naturale. E vi assicuro che era una vera furia quando era irritata.


E come una furia balzò sulla scena. Digrignava i denti, faceva smorfie spaventose, brontolava, lanciava strilli acuti e continui che assomigliavano a questo: "Kh-ah! Kh-ah!". La sua apparizione fu così fulminea, così formidabile che il cinghiale si mise sulla difensiva, gli si drizzò il pelo, rimase immobilizzato, mentre lei si dirigeva contro di lui. Io seppi esattamente quel che dovevo fare durante l'attimo di respiro che essa aveva guadagnato: saltai verso di lei, afferrandola alla cintura, mi aggrappai con le mani e coi piedi; sì, anche coi piedi, perché potevo aggrapparmi con essi altrettanto bene come facevo con le mani. Sentivo nella stretta i suoi peli irrigidirsi, e così pure la sua pelle, mentre i muscoli si muovevano sotto la peluria secondo gli sforzi che compiva.


Saltai, come ho detto, per raggiungerla, e nello stesso istante essa fece un balzo in aria afferrando con le mani un ramo trasversale.


Immediatamente dopo, scoprendo le zanne, il cinghiale si avventava sotto di noi. S'era riavuto dalla sorpresa e s'era gettato in avanti, lanciando un grido simile a uno squillo di tromba. Era evidentemente un richiamo poiché fu subito seguito da un precipitarsi di corpi che urtavano in tutte le direzioni le felci e i cespugli.


Da ogni lato irruppero cinghiali nella radura in numero di una ventina circa. Essendosi mia madre rifugiata sopra un grosso ramo, mentre io mi tenevo aggrappato a lei, ci trovammo così appollaiati in tutta sicurezza a quattro metri dal suolo. Mia madre era sovreccitata:


barbugliava, gridava, ringhiava contro il circolo delle bestie che, col pelo irto, digrignando i denti, s'erano radunate sotto di noi. E io, tutto tremante, guardavo dall'alto i bruti in collera, imitando del mio meglio le grida di mia madre.


Di lontano sorsero gridi simili ai nostri, ma più profondi, simili a note di un basso. Diventarono sempre più forti, e poco dopo vidi avvicinarsi mio padre - o almeno, dall'evidenza dell'epoca, colui che potevo ritenere fosse mio padre.


Non era molto avvenente, come genitore. Mezzo uomo e mezzo scimmia, e tuttavia né uomo né scimmia. Non posso descriverlo, perché non esiste ai giorni nostri nulla che gli somigli, sopra la terra, sotto la terra o nell'interno della terra. Era un uomo grande per l'epoca e doveva pesare le sue centotrenta libbre. Una faccia larga e piatta; sopracciglia folte che proteggevano due piccoli occhi vicinissimi l'uno all'altro, affondati in orbite profonde. Non aveva, per così dire, naso: quel che ne faceva le veci era una cosa camusa e appiattita senza rilievo; le narici formavano col volto come due fori aperti in alto invece che in basso.


Aveva fronte depressa e sfuggente. La capigliatura, piantata immediatamente sopra gli occhi, gli copriva tutta la testa, che era inverosimilmente piccola e sostenuta da un collo altrettanto inverosimile, grosso e corto.


La struttura del corpo, come quella dei nostri, presentava un'economia elementare. Un torace enorme, vasto come una caverna; ma non si vedevano muscoli densi e solidi, né spalle largamente protese, né snellezza di forme, né generosa simmetria di contorni. Il corpo di mio padre rappresentava la forza, ma la forza senza bellezza: la forza primitiva, feroce, fatta per agguantare, stritolare, lacerare, distruggere.


Le anche erano strette; magre e pelose, sbilenche; con muscoli simili a corde, le gambe. Somigliavano piuttosto a due bracci, quelle gambe:


contorte e nodose avevano appena una parvenza del polpaccio pieno e carnoso che orna la vostra gamba e la mia. Ricordo che mio padre non poteva camminare sulla pianta dei piedi, e ciò perché aveva i piedi prensili, piuttosto simili a mani che a piedi. L'alluce, invece di essere sul piano delle altre dita, s'opponeva ad esse come un pollice, e questa opposizione, mentre gli permetteva di afferrare una qualunque cosa tanto col piede come con la mano, non gli consentiva di camminare sulla pianta dei piedi.


Ma il suo aspetto non era più sorprendente del modo in cui giunse sul posto dove mia madre e io eravamo appollaiati, sopra i cinghiali infuriati. Venne attraverso il fogliame degli alberi, saltando di ramo in ramo e da un albero all'altro. Lo vedo anche ora, nella mia vita di veglia, mentre scrivo queste righe, dondolarsi per passare da un albero all'altro, creatura pelosa, quadrumane, urlante di rabbia, arrestandosi di quando in quando per percuotersi il petto col pugno chiuso, superare poi spazi da tre a cinque metri, afferrare un ramo con una mano, dondolarsi attraverso uno spazio vuoto per aggrapparsi più lontano con l'altra mano, senza esser mai imbarazzato a continuare il suo viaggio aereo.


Nel guardarlo sentivo dal fondo del mio essere, dai miei stessi muscoli, sollevarsi come un'ondata il fremente desiderio di saltare anch'io così di ramo in ramo; sentivo la certezza del potere latente dei miei muscoli. E perché avrebbe dovuto essere diversamente? Quando un bambino guarda suo padre in atto di abbattere un albero a colpi di scure, nel fondo di se stesso sente che un giorno anche lui farà cadere gli alberi sotto i colpi della sua scure. La stessa sensazione provavo io. La mia vita era costituita per fare quel che faceva mio padre e mi parlava segretamente e ambiziosamente di cammini aerei e di volate fra gli alberi.


Finalmente mio padre ci raggiunse. Era in grande collera. Ricordo il modo in cui il suo labbro inferiore sporgeva in avanti mentre guardava i cinghiali con occhi terribili. Mugolava come un cane e ricordo che i suoi canini, grossi come arpioni, mi impressionarono enormemente.


Il suo contegno non fece che eccitare ancor più i cinghiali. Egli staccò dei ramoscelli e dei rami morti e li gettò sui nostri nemici.


Si sospese anche con una mano, in una maniera tentatrice, al disopra di essi, e appena fuori della loro portata, e cominciò a provocarli e a burlarsi di loro, mentre nella propria rabbia impotente le bestie digrignavano le zanne. Non contento di ciò, spezzò un ramo robusto e aggrappato con un piede e con una mano all'albero, frustò i fianchi delle bestie invasate da furore e le colpì nel mezzo del grugno. Non occorre dire che mia madre e io eravamo entusiasti di assistere a quello spettacolo.


Ma ci si stanca di tutto, anche delle cose più belle, e mio padre, ridendo maliziosamente, si rimise a camminare d'albero in albero. Mia madre lo seguì, ed io sentii tutta la mia ambizione placarsi, svanire; divenni terribilmente pauroso e mi tenni aggrappato a lei con tutte le mie forze, mentre lei s'arrampicava e si dondolava di ramo in ramo.


Ricordo che un ramo si ruppe sotto il peso dei nostri corpi. Mia madre aveva spiccato un salto enorme e quando il ramo si spezzò fui sopraffatto dalla spaventosa sensazione della caduta di entrambi nel vuoto. La foresta, il riflesso del sole sulle foglie che stormivano, scomparvero ai miei occhi. Ebbi appena il tempo d'intravvedere mio padre, mentre s'arrestava per guardare quel che accadeva; poi tutto divenne buio...


Subito dopo mi destai nel mio letto ben rincalzato, molle di sudore, tremante e pieno di nausea. La finestra era aperta e un venticello fresco penetrava nella mia camera. La lampada da notte ardeva tranquillamente. Come conclusione dell'avventura, ho motivo di credere che non fummo massacrati dai cinghiali, perché non cademmo sino al suolo; diversamente non sarei qui, in questo momento, mille secoli più tardi, a ricordare quell'avvenimento.


E ora mettetevi al mio posto per un momento; riandate un po' con me al tempo della mia prima infanzia; siate mio compagno di letto e supponete di sognare questi incomprensibili orrori. Mai io avevo visto un cinghiale in vita mia, nemmeno un maiale domestico. Quel che avevo potuto vedere di più prossimo era il lardo della colazione. E tuttavia, reali e viventi, i cinghiali facevano irruzione nei miei sogni, mentre io, in compagnia di genitori fantastici, compivo evoluzioni di albero in albero, al disopra di spazi vertiginosi.


Vi sorprende che io fossi spaventato e oppresso dalle mie notti piene d'incubi? Ero maledetto, e quel che era peggio ancora, avevo paura di dirlo. Non so perché non osavo parlarne: avevo un senso di colpa, quantunque non sapessi di che cosa fossi colpevole. Soffrii così per lunghi anni in silenzio, finché, giunto in età matura, appresi il perché e il come dei miei sogni.




4


C'è nelle mie reminiscenze preistoriche, una cosa che m'imbarazza, ed è l'indeterminatezza del fattore tempo. Non sempre conosco l'ordine relativo degli avvenimenti; non posso dire se un intervallo di un anno, di due anni o di cinque anni separa taluni di questi avvenimenti. Solo vagamente posso apprezzare il passaggio del tempo dalla constatazione dei mutamenti nell'aspetto e nelle occupazioni dei miei compagni.


Inoltre mi studio di applicare la logica delle circostanze ai diversi incidenti. Per esempio, non v'è dubbio che mia madre e io dovemmo rifugiarci sugli alberi per sfuggire ai cinghiali minacciosi e che cademmo nel vuoto in un'epoca anteriore a quella in cui feci la conoscenza di Orecchiuto, e che divenne quel che dovrei chiamare il mio compagno d'infanzia. E' pure evidente che nell'intervallo fra i due avvenimenti io avevo dovuto abbandonare mia madre.


Non ho altro ricordo di mio padre all'infuori di quello che ho descritto nel capitolo precedente; egli in seguito non riapparve mai.


Dalla conoscenza che ho di quell'epoca, la sola spiegazione che possa dare di questa sparizione è che dovette incontrare la morte pochissimo tempo dopo l'avventura dei cinghiali. Nessun dubbio che sia perito di morte prematura. Era nella pienezza delle sue forze e solo una morte improvvisa e violenta poteva toglierlo dal mondo. Ignoro però in che modo egli perì, cioè se annegò nel fiume, o fu inghiottito da un serpente o se sparì nello stomaco di Dente di Sciabola, il tigre: questo lo ignoro.


Sappiate che ricordo solo le cose che vidi io stesso, coi miei propri occhi, durante quei giorni preistorici. Anche se mia madre seppe in qual modo morì mio padre, non me ne parlò mai, e d'altra parte, dubito che avesse un vocabolario capace di comunicare notizie di questo genere. Complessivamente la Specie possedeva un insieme di trenta o quaranta suoni all'incirca.


Li chiamo SUONI invece che PAROLE, perché erano proprio suoni, suoni che non avevano valori ben determinati, suscettibili d'esser modificati con aggettivi e con avverbi. Questi ultimi strumenti del linguaggio non erano ancora stati inventati. Invece di qualificare i sostantivi e i verbi con l'impiego di aggettivi o di avverbi, noi modificavamo i suoni con l'intonazione, con variazioni di durata e di elevazione, prolungandoli e accelerandoli. Il tempo impiegato nell'emissione di un dato suono ne modificava il significato.


Non avevamo coniugazione; si giudicava il tempo dal contesto.


Parlavamo solo di cose concrete, perché pensavamo solo alle cose concrete. Ricorrevamo largamente anche alla pantomima. La più semplice astrazione era praticamente fuori dalla sfera del nostro pensiero, e quando uno di noi, per caso, vi pensava, era poi molto imbarazzato a comunicare l'idea ai suoi simili, perché non esistevano suoni adeguati a tale fine. Sarebbe stato chiedere troppo al suo ristretto vocabolario: quindi se uno inventava suoni per la circostanza, i suoi compagni non lo capivano. Doveva allora far ricorso alla pantomima, gesticolando del suo meglio per manifestare il proprio pensiero, ripetendo, nello stesso tempo, infinite volte il nuovo suono.


Fu così che il linguaggio si accrebbe. Coi pochi suoni di cui disponevamo, diventammo capaci di portare il nostro pensiero un po' più lontano di quei suoni; e allora sorgeva il bisogno di suoni nuovi per esprimere un pensiero nuovo. Qualche volta però ci accadeva di pensare a cose troppo lontane, oltre le possibilità dei suoni che possedevamo, di giungere a compiere astrazioni - astrazioni molto oscure, lo confesso, - che non riuscivamo in alcun modo a far comprendere ai nostri compagni. Vi assicuro che il linguaggio progrediva assai lentamente in quell'epoca.


Credete, eravamo semplici in modo sorprendente; ma sapevamo pure cose che oggi non si conoscono affatto. Potevamo muovere le orecchie, drizzarle, abbassarle a nostro piacimento; potevamo grattarci la schiena, tra le due spalle, con disinvoltura; potevamo scagliare pietre coi piedi, cosa che io ho fatto molte volte. Potevo anche irrigidire le ginocchia, curvarmi sulle anche e toccare il suolo, non già con la punta delle dita, ma con i gomiti. E che dire della nostra abilità nello snidare gli uccelli? Vorrei che i monelli del ventesimo secolo avessero potuto vederci. Del resto non lo facevamo per far collezione di uova, ma per mangiarle.


Ricordo, in proposito... Ma non voglio anticipare. Bisogna prima che vi parli di Orecchiuto e della nostra amicizia. Molto presto nella mia vita mi separai da mia madre. Forse l'abbandonai perché essa prese un nuovo marito dopo la morte di mio padre. Ho pochi ricordi del mio patrigno, e tutt'altro che lusinghieri per lui. Era un uomo smilzo, senza robustezza. Aveva la lingua molto attiva; il suo infernale schiamazzo mi agghiaccia tuttora, quando ci penso. Il suo spirito era troppo illogico per permettergli di prefiggersi uno scopo qualsiasi.


Le scimmie in gabbia mi fanno sempre pensare a lui. Scimmiesco era:


ecco la miglior descrizione che io possa darne.


Mi odiò sin dal principio, e presto imparai ad aver paura di lui e dei suoi tiri maligni. Quando appariva mi rifugiavo accanto a mia madre e mi aggrappavo a lei. Man mano che crescevo, sentivo però che era inevitabile che di tanto in tanto mi allontanassi da lei per avventurarmi sempre più lontano. Erano appunto queste occasioni che spiava lo Schiamazzatore. Bisogna che spieghi come noi non portassimo nomi propri; per maggior comodità ho attribuito io stesso dei nomignoli ai diversi individui coi quali ero più spesso in contatto, e SCHIAMAZZATORE è la definizione più appropriata che io possa dare del mio caro patrigno. Quanto a me mi sono chiamato GRAN DENTE, e ciò perché i miei canini erano particolarmente sviluppati.


Torniamo allo Schiamazzatore. Egli mi terrorizzava continuamente.


Continuamente mi pizzicava e mi suonava pugni, e all'occasione, non esitava a mordermi. Spesso mia madre interveniva ed era un piacere vedere come essa gli strappava il vello. Ma il risultato di tutto ciò era una violenta e continua lite di famiglia, nella quale io rappresentavo il pomo della discordia.


No, la vita di famiglia non era bella per me. Sorrido scrivendo questa frase: vita di famiglia! Famiglia! Io non avevo famiglia nel senso moderno della parola. Il mio "focolare" consisteva in un'associazione senza domicilio. Vivevo sotto la custodia materna, e non già in una casa. Mia madre viveva d'altronde non importa dove, a condizione che, la notte, fosse riparata a qualche metro dal suolo.


Mia madre era di idee antiche: si atteneva ancora agli alberi. I membri più progrediti della nostra orda vivevano nelle caverne sopra il fiume; ma mia madre era diffidente e conservatrice, e gli alberi le bastavano a sufficienza. Avevamo naturalmente un albero speciale sul quale di solito ci tenevamo appollaiati, ma spesso un albero qualunque serviva alla bisogna quando la notte ci sorprendeva. In un'ampia biforcazione veniva stabilita una specie di rozza piattaforma, fatta di rami, di fronde e di liane. Era più di un nido di uccello, seppure molto più rozzo; ma possedeva una particolarità che non ho mai riscontrato in alcun nido, e cioè un tetto.


Non certamente un tetto come ne costruisce l'uomo moderno, e neppure un tetto come ne fanno i più primitivi degli aborigeni odierni, ma un tetto infinitamente più rozzo del lavoro più maldestro eseguito dall'uomo come noi lo conosciamo. Al disopra della biforcazione dove giacevamo, v'era un ammasso di rami morti e di cespugli secchi, quattro o cinque rami adiacenti sostenevano quel che chiamerei i diversi angoli, semplici e forti bastoni di circa un pollice di diametro, sui quali erano gettati rami e cespugli che sembravano esservi stati lanciati quasi a caso, senza la minima pretesa di puntellatura. Devo d'altra parte confessare che sotto una forte pioggia il tetto faceva acqua in modo pietoso.


Ma torniamo ancora allo Schiamazzatore. Egli rendeva la vita famigliare veramente intollerabile a mia madre e a me. Per vita famigliare non intendo soltanto la vita nel nido arboreo che faceva acqua da tutte le parti, ma anche la nostra esistenza a tre. Lo Schiamazzatore mi perseguitava con una cattiveria irriducibile: era la sola cosa per cui fosse capace di persistere più di cinque minuti. Le cose giunsero a tal segno che col tempo mia madre divenne meno aspra nel difendermi. Immagino che in seguito alle continue liti provocate dallo Schiamazzatore, io finii col diventare per lei un peso fastidioso. In ogni caso la situazione volse così rapidamente di male in peggio, che mi sarei risolto, di mia spontanea iniziativa, ad abbandonare la nostra dimora, se la soddisfazione di compiere un atto così indipendente non mi fosse stata negata. Infatti, prima di esser pronto ad andarmene, fui gettato fuori, gettato in tutta l'estensione del termine.


L'occasione si offrì allo Schiamazzatore un giorno in cui ero solo nel nido. Egli era andato con mia madre fino alla palude dei mirtilli.


Aveva dovuto fin da prima organizzare la faccenda, poiché lo sentii tornar solo attraverso la foresta ruggendo di rabbia interiore. Come facevano tutti gli uomini della nostra orda quando erano in collera o cercavano di andare in collera, egli s'arrestava di quando in quando e si percuoteva il petto col pugno.


Compresi lo stato di abbandono impotente in cui mi trovavo, e, tutto tremante, mi rannicchiai nel nido. Lo Schiamazzatore venne diretto al nostro albero - ricordo che era una quercia - e incominciò ad arrampicarsi senza interrompere nemmeno per un istante il suo baccano infernale. Ho già detto che il nostro vocabolario era molto limitato, cosicché egli dovette esaurirlo interamente nelle diverse espressioni con le quali tradusse il suo inestinguibile odio nei miei riguardi e la sua intenzione di farla finita immediatamente e per sempre con me.


Mentre saliva verso il nido io mi salvai verso l'estremità del gran ramo orizzontale. M'inseguì anche per quella via e io andai sempre più lontano. Alla fine giunsi fra i ramoscelli e le foglie. Lo Schiamazzatore era sempre stato vile e la sua circospezione aveva avuto sempre il sopravvento sulla sua più forte collera. Ebbe paura di seguirmi fra i piccoli rami, perché il peso del suo corpo, maggiore del mio, l'avrebbe fatto ruzzolare attraverso il fogliame prima che fosse riuscito ad afferrarmi.


Ma non aveva bisogno di raggiungermi e lo sapeva bene, il miserabile!


Con un'espressione maligna sulla faccia, con gli occhi a palla brillanti d'un intelligenza crudele, egli incominciò a far dondolare il ramo. E come dondolava! E io ero proprio all'estremità, aggrappato agli ultimi ramoscelli, che incominciavano a cadere sotto il peso! A venti piedi sotto di me c'era il suolo.


Sempre più violentemente egli scosse il ramo, lanciando verso di me il suo odio esultante. E così giunse la fine: i miei quattro punti di appoggio mi mancarono contemporaneamente, e caddi, con la pancia all'aria, guardando lo Schiamazzatore, mentre le dita dei miei piedi stringevano ancora convulsamente i ramoscelli spezzati. Fortunatamente per me non v'erano sotto l'albero cinghiali in agguato e l'urto della caduta fu attutito da arbusti elastici e resistenti.


In generale, la caduta interrompe i miei sogni, bastando la scossa nervosa a sopprimere per un istante un intervallo di mille secoli e a precipitarmi completamente sveglio nel mio lettino di fanciullo, dove mi ritrovo disteso, tremante, bagnato di sudore e da dove sento suonar l'ora alla pendola del vestibolo. Ma spesso ho fatto in sogno questa caduta, e mai essa ha avuto il potere di destarmi. Sempre mi sono inabissato, urlando, attraverso i cespugli e toccando il suolo con un colpo sordo.


Giacevo là dov'ero caduto, tutto graffiato, indolenzito e piangente.


Guardando in aria, attraverso i cespugli, vidi lo Schiamazzatore. Egli aveva intonato un canto di gioia demoniaco e ne segnava il tempo dondolandosi sul ramo. Repressi vivamente il pianto: non ero più sotto il sicuro riparo che mi offriva il nido sull'albero e conoscevo bene il pericolo al quale mi sarei esposto attirando le bestie da preda con un'espressione troppo rumorosa del mio dolore.


Ricordo che, mentre i miei singhiozzi si calmavano, incominciai a interessarmi ai curiosi effetti di luce che producevo aprendo e chiudendo parzialmente le palpebre bagnate di lacrime. Poi presi a tastarmi il corpo e constatai che in sostanza la caduta non mi aveva troppo danneggiato. Avevo perduto qua e là un po' di pelle e un po' di pelo: l'estremità aguzza e irregolare d'un ramo spezzato aveva sdrucito di un buon pollice uno dei miei avambracci e l'anca destra, che aveva subito l'urto del mio contatto col suolo, mi faceva soffrire in modo intollerabile. Ma dopo tutto le ferite erano insignificanti:


nessun osso rotto, e poi, in quell'epoca, la carne umana si rimarginava assai più facilmente di oggi. Però, la caduta era stata seria, sicché zoppicai dalla parte dell'anca malata per una lunga settimana.


Mentre giacevo sotto i cespugli, mi assalì un senso di desolazione:


era la coscienza di non avere più una dimora. Decisi di non tornare mai più da mia madre e dallo Schiamazzatore. Sarei andato lontano, sempre più lontano, attraverso la foresta misteriosa e terribile, dove avrei pur trovato un albero su cui costruirmi il nido. La questione del cibo non m'impauriva; sapevo dove trovarne. Da almeno un anno non dipendevo più da mia madre a questo riguardo; essa non mi dava più che la sua protezione e la sua direzione.


Strisciando uscii lentamente dalla macchia. Una sola volta guardai dietro di me e vidi lo Schiamazzatore sempre intento a cantare e a dondolarsi. Il suo volto era tutt'altro che bello a vedersi. Sapevo agire con prudenza e fui estremamente circospetto in quel primo viaggio attraverso il mondo.


Non mi preoccupavo affatto di sapere dove andavo. Andavo. Avevo un solo scopo: allontanarmi fuori dalla portata dello Schiamazzatore. Mi arrampicai su un albero, e passando da questo in quelli vicini, errai per ore e ore senza mai toccar terra. Ma non andai in una direzione precisa, come pure non viaggiavo senza fare di tratto in tratto una sosta. Era naturale che in me, come in tutti quelli della mia specie, le idee non avessero un seguito logico e continuo. Inoltre ero appena un fanciullo e spesso mi fermavo a lungo per trastullarmi.


Quel che mi accadde in seguito è molto vago nella mia mente e figura solo parzialmente nei miei sogni. L'altro io che è in me ha molto dimenticato, soprattutto in rapporto a quest'epoca. Non sono stato capace d'altronde di riunire i miei svariati sogni in modo da colmare con precisione la lacuna che rimane tuttora aperta tra la mia partenza dall'albero e il mio arrivo alle caverne.


Ricordo solo di aver attraversato con grande spavento diverse radure, scendendo a terra e correndo con tutta la velocità che le gambe mi consentivano. Ho il ricordo di giorni di pioggia e di giorni di sole, il che mi fa presumere che andai errando per un tempo non breve. In sogno risento soprattutto l'affanno che mi coglieva sotto la pioggia, le sofferenze che mi cagionava la fame e il modo con cui le calmavo.


Un più preciso ricordo mi rimane della caccia che diedi alle piccole lucertole sulla cima rocciosa di una collinetta calva. Esse guizzavano tra le pietre e molte mi sfuggirono; tuttavia, ogni tanto, riuscivo ad afferrarne una rivoltando una pietra. Poi vennero i serpenti a scacciarmi dalla collinetta. Non mi molestarono, poiché erano semplicemente intenti a scaldarsi al sole sulle rocce piatte. Ma tale era il timore atavico che avevo di loro, che appena li vidi scappai velocemente come se mi inseguissero.


Poi masticai una corteccia amara strappata a dei giovani alberi.


Ricordo vagamente di aver mangiato anche molte noci verdi, dai gusci molli e dalla polpa lattiginosa. Soprattutto ricordo di aver patito forti dolori allo stomaco, forse a causa di dette noci verdi e forse anche delle lucertole: ma non ve lo saprei dire con precisione. Come pure non so per quale dono della fortuna io non sia stato divorato in quelle lunghe ore durante le quali rimasi a torcermi al suolo per la colica.




5


Come uscii dalla foresta ebbi una repentina visione della scena che si svolgeva davanti ai miei occhi. Mi trovavo sul limitare di un largo spazio scoperto; da un lato si elevavano a picco contro il cielo alte rocce, dall'altro c'era il fiume. La riva scendeva con rapido pendio fino all'acqua, ma qua e là, in diversi punti, dove, in varie epoche, s'erano prodotti scoscendimenti, le piste conducevano agli abbeveratoi nei quali andavano a dissetarsi quelli della Specie che vivevano nelle caverne della scogliera.


Il caso mi aveva guidato al principale centro di abitazione della Specie. Posso dire, con un po' di esagerazione, che era il villaggio.


Mia madre, con lo Schiamazzatore ed io, così come alcuni altri individui isolati, eravamo come degli "abitanti dei sobborghi".


Facevamo anche noi parte dell'Orda pur vivendone a una certa distanza.


E questa distanza era breve, nonostante io avessi impiegato un'intera settimana a superarla, a causa dei giri viziosi che avevo fatto; giacché se fossi venuto direttamente, me la sarei cavata in meno d'un'ora.


Dal limitare della foresta vedevo le caverne sul fianco della rupe, la riva scoperta e i sentieri che scendevano al fiume. Nello spazio libero della riva vidi parecchi membri della Specie. Fanciullo, solo, avevo errato per una settimana, durante la quale non avevo incontrato alcuno dei miei simili, vivendo nel terrore e nella desolazione. Ecco perché nel vedere quelli della mia specie, fui preso da una gioia immensa e corsi verso di loro come un pazzo.


Accadde allora una cosa strana. Uno di quelli della Specie mi vide e lanciò un grido d'allarme. Immediatamente urlando di paura, presa dal panico, tutta l'Orda fuggì. A salti, scalando rocce, ciascuno si gettò nelle aperture delle caverne e vi scomparve; tutti, tranne uno solo, un piccolo che nel trambusto era stato dimenticato ai piedi della rupe. Il piccolo si lamentava piagnucolando; sua madre corse fuori dalla sua tana, egli balzò verso di lei e a lei si aggrappò con tutte le forze mentre essa fuggiva carponi verso la caverna.


Ero solo. La riva, un istante prima così popolata, era diventata deserta in un battibaleno. Disperato, mi sedetti e mi misi a piagnucolare: non ci capivo nulla. Perché tutta l'Orda era fuggita lontano da me? Più tardi, quando mi misero al corrente degli usi, fui in grado di comprendere. Quando quelli dell'Orda mi videro sbucare dalla foresta di gran corsa, credettero che fossi inseguito da qualche belva in caccia; il mio così poco cerimonioso arrivo era stato il segnale del... SI SALVI CHI PUO'.


Dal posto dove m'ero seduto, sorvegliando le aperture delle caverne, mi accorsi che quelli della Specie mi stavano spiando. Pian piano qualcuno osò cacciar fuori la testa; un po' più tardi incominciarono a chiamarsi da una caverna all'altra. Nella fretta e nel disordine del fuggi fuggi era accaduto che non tutti avevano raggiunto la propria tana. Diversi piccoli avevano cercato asilo in una caverna diversa dalla loro. Le madri non li chiamavano per nome poiché questa invenzione non era stata ancora fatta: eravamo tutti anonimi; ma i piccoli riconoscevano le proprie mamme dalle loro grida ansiose e lamentose. Così pure, se mia madre fosse stata là e mi avesse chiamato, io avrei riconosciuto la sua voce tra quelle di cento madri, e lei avrebbe riconosciuta la mia fra mille altre.


I richiami continuarono per qualche tempo da una parte e dall'altra, ma quelli della Specie erano troppo prudenti per uscire dalle loro caverne e discendere sulla riva. Alla fine uno di essi si decise: era un essere che in seguito doveva avere una notevole influenza sul corso della mia vita. Del resto egli già occupava un importante posto nell'esistenza degli abitanti delle caverne. E' lui che nel seguito di questa mia narrazione chiamerò Occhiorosso, a causa dei suoi occhi infiammati, le cui palpebre sempre rosse sembravano indicare la più terribile ferocia per l'effetto che producevano. Ugualmente rosso era il colore della sua anima.


Era in tutto e per tutto un mostro. Fisicamente, era gigantesco.


Poteva pesare centosettanta libbre ed era l'essere più alto che io abbia mai visto fra i componenti della Specie. Nessuno fra il Popolo del Fuoco e il Popolo degli Alberi era grande e forte quanto lui. Ogni volta che in un giornale m'imbatto nella descrizione d'uno dei nostri pugili, mi chiedo quale figura avrebbe fatto il campione contro di lui. Credo che le sue probabilità sarebbero state assai scarse.


Con una semplice presa delle sue dita di ferro, Occhiorosso, senza sforzo, gli avrebbe strappato netto dal corpo un muscolo, un bicipite, ad esempio. Con un manrovescio, applicato con disinvoltura, gli avrebbe fracassato il cranio come un guscio d'uovo. Con un colpo dei piedi (che erano le sue mani posteriori), l'avrebbe sbudellato. Con un pugno gli avrebbe rotto i tendini del collo e sarebbe bastata una sola pressione delle mascelle per sezionargli la carotide e spezzargli la colonna vertebrale nel stesso tempo.


Stando seduto, con un solo balzo poteva superare una distanza di venti piedi. Era abominevolmente peloso. Per noi era motivo d'orgoglio non essere troppo pelosi. Lui era cosparso di peli dalla testa ai piedi, sotto le braccia come sopra e persino nelle orecchie. Le sole parti del suo corpo che non fossero villose erano le palme delle mani, la pianta dei piedi, e il viso, immediatamente sotto gli occhi. Era insomma brutto; spaventosamente brutto; la bocca, contratta nelle smorfie più feroci, e il labbro inferiore pendente, erano in perfetta armonia coi suoi occhi terribili.


Tale era Occhiorosso. Mollemente uscì carponi dalla sua caverna e venne alla riva. Ignorando la mia presenza, perlustrò i dintorni.


Camminando si curvava, seguendo il movimento delle anche; si chinava così fortemente e le sue braccia erano così lunghe che a ogni passo le nocche delle sue dita toccavano il suolo. Era evidente che quella posizione semi-eretta lo imbarazzava perché, per mantenere l'equilibrio, appoggiava le giunture in terra. Vi assicuro però che così carponi correva molto velocemente, cosa per la quale noialtri della Specie eravamo invece particolarmente inadatti; anzi, rari erano fra noi quelli che camminando si sostenevano sulle dita: essi costituivano un atavismo. Occhiorosso era un atavismo anche più palese.


Noi eravamo in via di evolverci dalla vita arboricola alla vita al suolo; da numerose generazioni perseguivamo questa trasformazione, e il nostro corpo e la nostra andatura si erano egualmente evoluti. Ma Occhiorosso aveva fatto ritorno al tipo arboricolo più primitivo.


Restava con noi perché, nato nell'Orda, non poteva fare diversamente; ma in realtà egli costituiva un atavismo e il suo posto era altrove.


Molto circospetto e vigile andava qua e là sulla riva, sondando con l'occhio i varchi che erano aperti fra gli alberi e cercando di scorgere la bestia in caccia che tutti supponevano mi avesse inseguito. E durante tutto questo tempo, senza occuparsi di me, l'Orda si ammassava all'ingresso delle caverne e spiava.


Finalmente Occhiorosso si dovette convincere che non c'era alcun pericolo imminente in vista. Tornava dall'estremità della pista, dove aveva gettato un colpo d'occhio indagatore sull'abbeveratoio. Era giunto presso di me, ma senza avermi notato. Proseguì il suo cammino fino a giungere alla mia altezza e allora, senza preavviso, con incredibile rapidità, mi diede uno scappellotto. Fui proiettato indietro una dozzina di piedi, prima di ricadere al suolo, e ricordo che al momento in cui il colpo mi raggiunse, intesi chiaramente, sebbene mezz'accoppato com'ero, l'esplosione selvaggia di sghignazzamenti e di risa sgangherate che si levò dalle caverne. Si trattava di un grazioso scherzo, almeno per quell'epoca; e di gran cuore la Specie rideva e ci si divertiva.


In questo modo fui accolto nell'Orda. Occhiorosso non si occupò più di me e io potei con tutta comodità piagnucolare e singhiozzare.


Parecchie donne si raccolsero intorno a me con curiosità. Le riconobbi; le avevo incontrate l'anno precedente quando mia madre mi aveva condotto nel burrone delle nocciole.


Ma presto esse mi abbandonarono, e a sostituirle presso di me vennero una dozzina di monelli, curiosi e impertinenti. Costoro formarono un circolo attorno a me, mostrandomi a dito, facendomi smorfie, prendendomi a spintoni e a pizzicotti. Avevo paura e per un po' li lasciai fare; poi la collera mi velò gli occhi e balzai coi denti e con le unghie sul più audace di essi, su Orecchiuto. Gli ho dato questo nome perché poteva drizzare uno solo dei suoi orecchi; l'altro pendeva sempre, floscio e immobile. Non so quale accidente ne aveva lesi i muscoli impedendo a Orecchiuto di muoverlo.


Egli mi afferrò a corpo a corpo e ci accapigliammo come due ragazzacci decisi a darsele di santa ragione, graffiandoci, mordendoci, strappandoci i capelli, afferrandoci violentemente per la vita e ruzzolando insieme a terra. Ricordo che riuscii a fargli quello che, come seppi più tardi in collegio, suole chiamarsi "una presa di testa semplice." Questa "presa" mi diede un vantaggio decisivo che però non conservai a lungo. Egli ripiegò una gamba e col piede - la sua mano posteriore - mi sferrò un calcio tale che mancò poco non mi sventrasse. Dovetti lasciarlo per mettermi in salvo; poi riprendemmo la lotta.


Orecchiuto era di un anno maggiore di me, ma la mia collera era parecchie volte più forte della sua, sicché alla fine lo costrinsi a darsela a gambe. Lo inseguii sullo spazio scoperto, poi per un sentiero che scendeva al fiume. Ma egli conosceva i luoghi meglio di me perché correndo lungo l'acqua risalì da un'altra pista; quindi piegò obliquamente attraverso lo spazio scoperto e si precipitò in una caverna aperta.


Prima di aver tempo di riflettere mi immersi anch'io nell'oscurità dell'antro, dietro di lui; ma subito rimasi spaventatissimo, perché non ero mai penetrato in una caverna. Incominciai a piangere e a gridare. Orecchiuto prese a schiamazzare e a burlarsi di me, e saltandomi addosso senza che io lo vedessi mi gettò a terra.


Non osò tuttavia impegnarsi in una seconda battaglia e fuggì. Mi trovavo tra lui e l'ingresso della caverna; e sebbene non l'avessi visto passarmi accanto, avevo l'impressione che egli fosse scomparso.


Mi posi in ascolto, ma non udii nulla che m'indicasse in quale punto si fosse nascosto. Alquanto imbarazzato uscii dalla caverna e mi posi in agguato.


Ero certissimo che egli non era uscito dalla parte in cui eravamo entrati; tuttavia, dopo pochi istanti, me lo rividi vicino che si sganasciava dalle risa. Mi scagliai contro di lui e nuovamente egli sparì nella caverna. Questa volta però non lo seguii. Mi trassi leggermente indietro e rimasi a spiare. Egli non uscì, e tuttavia, come prima me lo rividi accanto sghignazzante e per la terza volta lo ricacciai nella caverna.


Questo esercizio si ripeté parecchie volte ancora.


Alla fine lo seguii nella caverna e qui lo cercai invano. Volevo sapere, non capivo come mi sfuggisse. Ogni volta che entrava nella caverna, non ne usciva più, e tuttavia sempre me lo vedevo riapparire di fianco sghignazzando. Così la nostra battaglia si trasformò in una partita a rimpiattino.


Per tutto il pomeriggio, a intervalli di tempo, continuammo in quel gioco, e uno spirito di allegrezza amichevole si stabilì tra noi. Alla fine Orecchiuto non s'allontanò più e ci mettemmo a sedere a braccetto l'uno accanto all'altro. Un po' più tardi, egli mi svelò il mistero della caverna. Temendomi per mano, mi condusse nell'interno: la caverna comunicava con un'altra caverna attraverso uno stretto crepaccio e da quella parte tornammo a rivedere la luce.


Eravamo diventati buoni amici, io e Orecchiuto. Quando altri monellacci si radunavano per importunarmi, egli prendeva le mie difese; e le suonammo così forte che mi lasciarono presto tranquillo.


Orecchiuto mi fece conoscere il villaggio; poco o niente poteva dirmi sui rapporti e sui costumi che vigevano fra i membri dell'Orda, mancando di un sufficiente vocabolario; ma appresi molto osservando le sue azioni.


Quindi egli mi mostrò luoghi e cose. Mi condusse sullo spazio scoperto, tra le caverne e il fiume, e più lontano ancora, nella foresta, dove in un punto erboso fra gli alberi facemmo un buon pasto, anzi una vera scorpacciata di carote filamentose. Dopo di che, bevemmo copiosamente al fiume e risalimmo lungo una pista verso le caverne.


Nella pista incontrammo ancora Occhiorosso. Orecchiuto s'era improvvisamente messo in disparte e si rannicchiava contro il pendio.


Naturalmente e inconsciamente io l'imitai cercando di scoprire quale fosse la causa del suo spavento. La causa era appunto Occhiorosso, che si pavoneggiava scendendo nel mezzo del sentiero roteando ferocemente i suoi occhi infiammati. Notai che tutti i monelli lo evitavano come avevamo fatto noi, mentre i grandi lo guardavano con circospezione quando si avvicinava e si traevano da parte per lasciargli libero il mezzo del sentiero.


Poiché cadeva la sera, la riva divenne deserta. La Specie cercava la sicurezza nelle caverne. Orecchiuto mi condusse a dormire. Salimmo fino alla sommità della rupe e, al disopra delle altre caverne, raggiungemmo un piccolo crepaccio che dal basso non si scorgeva.


Orecchiuto vi s'infilò, io lo seguii non senza difficoltà, tanto l'ingresso era stretto, e mi trovai in una piccola caverna bassissima, che non aveva più di due piedi di altezza e forse tre piedi di larghezza su quattro di lunghezza. Lì rannicchiati fra le braccia l'uno dell'altro, passammo la notte a dormire.




6


Se i più audaci monelli dell'Orda giocavano a rimpiattino nelle caverne di larga apertura, ciò significava, come appresi presto, che esse erano disabitate; infatti, nessuno vi dormiva durante la notte.


Solo le caverne a ingresso stretto servivano a tale uso, e più l'orifizio era angusto più esse erano apprezzate. Ciò a causa della paura delle bestie da preda che, sia di giorno che di notte, ci rendevano penosissima l'esistenza.


Il mattino che seguì la mia prima notte passata con Orecchiuto, appresi quale fosse il vantaggio di queste caverne dall'ingresso stretto. All'alba il vecchio Dente di Sciabola, il tigre, si mostrò sulla riva. Due membri della Specie che s'erano già levati, appena lo videro se la diedero precipitosamente a gambe. Non so se furono presi dal panico o se Dente di Sciabola era troppo vicino alle loro calcagna per dar loro il tempo di scalare la rupe fino ai crepacci; comunque si precipitarono nella caverna a doppia uscita dove io e Orecchiuto avevamo giocato il giorno prima.


E' impossibile dire quel che accadde all'interno della caverna, ma è lecito credere che i due fuggiaschi penetrarono nella caverna successiva passando attraverso la fessura di comunicazione. Il crepaccio era troppo stretto perché vi potesse passare anche Dente di Sciabola, che infatti se ne riuscì, deluso e furioso, dalla parte da cui era entrato. Era chiaro che la sua caccia notturna era stata infruttuosa e che si riprometteva di fare un pasto a spese della nostra pelle. Scorse i due fuggitivi all'ingresso della seconda caverna e balzò verso di loro. Naturalmente essi rifecero a ritroso il tragitto che avevano percorso e Dente di Sciabola uscì di nuovo mostrando i denti, più furioso che mai.


Una gazzarra si scatenò fra tutti noi. Dall'alto al basso della rupe rocciosa facemmo ressa all'ingresso delle caverne e sulle sporgenze esterne, schiamazzando e gridando in mille toni diversi. E giù smorfie, smorfie ringhiose perché tale era il nostro istinto. Eravamo altrettanto furiosi quanto lo stesso Dente di Sciabola, sebbene il timore si confondesse con la nostra collera. Ricordo che lanciavo grida laceranti e che mi misi a gara con gli altri nel fare smorfie, non solo perché essi me ne davano l'esempio, ma anche perché subivo un impulso interiore che mi spingeva a imitarli, a far tutto ciò che essi facevano. Il mio pelo era irto ed ero agitato da una rabbia feroce irragionevole.


Per un pezzo il vecchio Dente di Sciabola continuò ad avventarsi dall'una all'altra delle caverne gemelle. Ma i due fuggiaschi riuscivano così bene a infilarsi nel crepaccio di comunicazione e gli sfuggivano sempre. Nel frattempo noi, lungo le rocce, avevamo dato inizio al combattimento. Ogni volta che il tigre usciva da una delle caverne, lo bombardavamo a colpi di pietra. Da principio le facevamo semplicemente cadere su di lui, ma poi incominciammo a scagliargliele con tutta la forza dei nostri muscoli.


Il bombardamento attrasse su noi l'attenzione di Dente di Sciabola e lo rese ancora più furibondo. Smise di inseguire i fuggiaschi, balzò verso di noi lungo le rocce, aggrappandosi ai massi friabili e arrotando i denti mentre si arrampicava. Alla vista di quell'orribile faccia, ci rifugiammo tutti fino all'ultimo, nelle caverne; mi risulta che la fuga fu generale, perché guardando di sfuggita vidi che il pendio della rupe era completamente deserto, e vi era rimasto solo Dente di Sciabola che, avendo perduto l'equilibrio, scivolava e cadeva lungo il muro roccioso.


Lanciai un grido d'incitamento e di nuovo l'Orda urlante coprì la rupe e le pietre caddero su Dente di Sciabola, fitte come una gragnuola. Il tigre era folle di rabbia. Più volte tentò di tornare all'assalto; una volta raggiunse persino l'ingresso delle caverne più basse, ma senza riuscire a infilarvisi. Ad ogni balzo che faceva in avanti, ondate di terrore piombavano su di noi. Da principio la maggior parte si precipitava nelle caverne mentre alcuni più animosi restavano fuori per lanciare pietre; ma ben presto si rimase tutti fuori continuando ininterrottamente il tiro.


Mai essere così dominatore fu così completamente sconfitto. Era profondamente ferito nel suo orgoglio dal vedersi sopraffatto in quel modo da esseri così deboli e meschini. Si fermò sullo spazio scoperto, guardandoci, mostrando le zanne, sferzando con la coda, cercando di ghermire con la bocca le pietre che gli cadevano vicino. Ne avevo appunto lanciata una quando egli levò la testa; il proiettile gli cadde in pieno sulla punta del naso; fece un balzo in aria con tutt'e quattro le zampe, ruggendo e miagolando di sorpresa e di rabbia.


Era vinto e lo sapeva. Ritrovando la propria dignità si allontanò con passo maestoso e solenne dalla pioggia di pietre. Sostò poi nel mezzo della riva per guardarci con aria vigile e affamata. Abbandonava con rammarico il pasto desiderato: la carne era tanta e scelta, ma purtroppo inaccessibile. Il suo aspetto ci fece prorompere in una formidabile risata: un riso motteggiatore e tumultuoso. Ora, gli animali non amano che al danno segua la beffa; ciò li mette in collera; e fu proprio così che il nostro riso irritò Dente di Sciabola. Con un ruggito riprese l'assalto della rupe: proprio quello che noi desideravamo. Il combattimento era divenuto un gioco e provavamo un piacere estremo a scagliargli pietre su pietre.


Ma il nuovo attacco durò poco. Il tigre ritrovò presto il suo buon senso e inoltre i nostri proiettili che raggiungevano spesso il segno, contribuirono a smorzargli ogni velleità di tornare all'assalto. Ho la visione ben netta di un suo occhio, sporgente, gonfio e quasi chiuso; e lo vedo ancora, piantato sul limitare della foresta, verso la quale aveva finalmente battuto in ritirata. Ci guardava voltando la testa, con le labbra contratte che scoprivano fino alla radice i suoi molari enormi, il pelo irto e la coda che frustava l'aria. Lanciò un ultimo ruggito, poi sparì fra gli alberi.


Allora si levò tra noi un formidabile schiamazzo. Formicolavamo fuori delle nostre tane, esaminando le tracce lasciate dagli artigli sulla roccia friabile della rupe e parlando tutti in una volta. Uno dei due fuggiaschi che erano stati bloccati nella caverna a doppia uscita, non aveva ancora avuto tempo di crescere, era appena un adolescente. I due erano emersi fieramente dal loro rifugio e noi intorno a loro davamo via libera a una rumorosa ammirazione. A un tratto la madre del fanciullo si aprì rapidamente un passaggio tra la ressa, si precipitò su di lui, e in preda a una rabbia furiosa, gli tirò le orecchie, gli strappò i capelli, gridando come una diavolessa. Era giovane, forte, ben piantata, molto pelosa, e le botte che somministrò al suo rampollo furono ragione d'allegria per tutta l'Orda. Quasi scoppiavamo dal ridere, sostenendoci l'uno con l'altro e rotolandoci sul suolo nel fervore eccessivo e spasmodico della nostra ilarità.


A dispetto del regno di terrore sotto il quale si viveva, la Specie amava enormemente il riso. Nessuno mai comprese come noi l'umorismo di certe situazioni; la nostra gaiezza era irresistibile e travolgente come quella di Gargantua. Una gaiezza che non aveva misura: quando una cosa era buffa l'apprezzavamo in tutto il suo valore torcendoci dal ridere, e comiche ci apparivano le cose più semplici, più grossolane.


Vi assicuro che in quell'epoca si rideva molto.


Il modo col quale avevamo ricevuto Dente di Sciabola veniva usato contro tutti gli animali che invadevano il villaggio. Ci eravamo riservati i nostri sentieri e i nostri abbeveratoi, rendendo la vita intollerabile alle bestie che penetravano o erravano sul nostro territorio. Anche le bestie da preda più feroci erano maltrattate da noi in modo tale che subito imparavano a rispettare il nostro dominio.


Non eravamo battaglieri come esse, ma eravamo astuti e codardi, e si deve appunto alla nostra astuzia e alla nostra codardia, alla nostra disordinata tendenza alla paura se riuscimmo a sopravvivere in quell'ambiente terribilmente ostile del mondo nascente.


Secondo i miei calcoli, Orecchiuto era di un anno maggiore di me. Egli non aveva alcun mezzo di raccontarmi il suo passato, ma poiché non lo vidi mai in compagnia di sua madre, suppongo che fosse orfano. E poi i padri contavano poco nelle famiglie che formavano l'Orda. Il matrimonio era ancora allo stato primitivo, e le coppie potevano prendersi, litigare e separarsi a piacere. L'uomo moderno, inventando l'istituto del divorzio, fa la stessa cosa legalmente. Ma noi non avevamo leggi; non conoscevamo altro che l'uso che, in tali cose, tendeva verso la promiscuità.


Ciò nondimeno, come il seguito di questo racconto dimostrerà, si vedeva spuntare tra noi un barlume di quella monogamia che doveva più tardi dar forza e potenza alle tribù che l'adottarono. Di più, anche all'epoca in cui io nacqui, non mancavano esempi di coppie fedeli che vivevano sotto gli alberi vicini a quello di mia madre. La vita in seno all'Orda non era molto adatta alla monogamia, per cui le coppie fedeli si allontanavano per vivere in solitudine. Per anni e anni queste coppie vivevano unite, nonostante il fatto che, quando l'uomo o la donna moriva o era divorato, il sopravvivente trovasse invariabilmente un nuovo compagno.


Una cosa eccitò molto la mia curiosità nei primi giorni del mio soggiorno nell'Orda: un timore senza nome e inesplicabile incombeva su tutti. All'inizio ebbi l'impressione che si trattasse di una questione di direzione: l'Orda temeva il Nord-Est. Si viveva tutti in una perenne apprensione verso questo punto dell'orizzonte. Ciascuno guardava più frequentemente e con più timore in quella direzione che in tutte le altre.


Ogni volta che con Orecchiuto andavo verso il Nord-Est a mangiare carote filamentose, che in quella stagione erano ben mature, egli diventava straordinariamente timido. Si accontentava di rifiuti, di grosse carote coriacee, di quelle piccole che erano tutte filamenti, piuttosto che avventurarsi un po' più lontano, dove le carote erano ancora intatte e dove avremmo potuto sceglierle. E se io tentavo di avventurarmi, erano urli e rimproveri. Mi faceva comprendere che da quella parte si trovava un pericolo terribile; ma che cosa fosse di preciso questo pericolo, la povertà del suo linguaggio non gli permetteva di spiegarmelo.


Feci in questo modo più di un buon pasto, mentre egli mi sgridava e invano strepitava dietro di me. Stavo all'erta, ma non scorgevo nessun pericolo. Calcolavo sempre la distanza che mi separava dall'albero più vicino, e sapevo di poter su quella distanza superare in velocità il Leone o il vecchio Dente di Sciabola, qualora l'uno o l'altro fossero improvvisamente comparsi.


Sulla fine del pomeriggio un gran tumulto si levò nel villaggio.


L'Orda era dominata da un'unica idea: quella della paura. I nostri formicolavano sul fianco della rupe, guardando e indicando col dito il Nord-Est. Non sapevo che cosa questo potesse significare, ma corsi a rifugiarmi nella nostra piccola caverna prima di volgermi anch'io a guardare.


Allora, al di là del fiume, lontano verso il Nord-Est, vidi per la prima volta il mistero del fumo. Lo credetti un serpente mostruoso, rizzato sulla coda, con la testa levata in alto oltre gli alberi, che si dondolasse da un lato all'altro. Tuttavia mi pareva in un certo modo, anche dall'atteggiamento della Specie, che il fumo non costituisse un pericolo per se stesso. Sembrava che lo temessero come l'indice di qualche altra cosa, e io ero incapace di indovinare di cosa si trattasse, né, d'altra parte, nessuno era in grado di dirmelo.


Ma poco tempo dopo dovevo apprendere che era una cosa ben diversamente terribile del Leone, del vecchio Dente di Sciabola, degli stessi serpenti, oltre ai quali pareva non vi fosse nulla di più terribile.




7


Sdentato era un altro ragazzo che viveva da solo. La madre abitava nel villaggio, ma siccome dopo di lui erano nati altri due figli, era stato messo fuori della caverna e costretto ad affrontare la vita da solo. Avevamo assistito alla sua espulsione nei giorni precedenti, non senza divertirci un mondo. Sdentato non voleva andarsene, e ogni volta che la madre lasciava la caverna, egli vi si introduceva di nascosto.


Quando, al ritorno, essa ve lo ritrovava, erano sfoghi di rabbia comicissimi. Una buona metà dell'Orda si mise ogni giorno ad aspettare queste occasioni. Dapprima si sentivano brontolii e grida uscenti dal fondo della caverna, dopo il rumore di sacrosante botte e gli strilli di Sdentato. Allora intervenivano i due fratelli minori e come nella eruzione di un vulcano in miniatura, Sdentato veniva proiettato fuori.


In capo ad alcuni giorni la sua espulsione fu un fatto compiuto. Senza che nessuno si interessasse del suo caso pietoso, per una buona mezz'ora, in mezzo alla riva, egli diede libero sfogo al suo dolore, poi venne ad abitare con Orecchiuto e con me. La nostra caverna era piccola; ma, stringendoci, potevamo benissimo entrarci in tre. Non ricordo che Sdentato abbia trascorso con noi più di una notte, cosicché il fatto dovette sopraggiungere proprio in quel tempo.


Era il pomeriggio. Al mattino avevamo mangiato carote a sazietà, e resi imprudenti dal gioco, ci eravamo avventurati fino ai grandi alberi, al di là della radura. Non riesco a capire come Orecchiuto avesse potuto vincere la sua abituale diffidenza: evidentemente dovette essere trascinato dal gioco. Ci divertivamo follemente a inseguirci tra gli alberi. E quale inseguimento!... Superavamo spazi da tre a cinque metri con la massima facilità; fare un tuffo da sei a otto metri fino al suolo era per noi un nonnulla. In realtà temo quasi di non esser creduto rivelando da quale altezza saltavamo. Divenuti più maturi e più pesanti, ci accorgemmo che era necessario usare maggior prudenza nei nostri salti; ma in quell'età in cui i nostri corpi non erano che nervi e tendini potevamo tutto osare.


Sdentato spiegava una notevole agilità in quel gioco. Egli "era preso" meno spesso dell'uno e dell'altro di noi due, e nel corso del gioco scoprì un trucco che né Orecchiuto né io eravamo capaci d'imitare. A dire il vero avevamo paura di provarci.


Quando uno di noi due "era preso," Sdentato correva sempre all'estremità d'un alto ramo di un certo albero. Da quel ramo al suolo dovevano esserci più di venti metri, senza nulla che s'interponesse per arrestare la caduta. Ma a circa sei metri più in basso e ad almeno cinque metri fuori della verticale, si trovava un grosso ramo di un altro albero. Allorché correvamo verso l'estremità del ramo, Sdentato, facendoci fronte, incominciava a dondolarsi dall'alto in basso. Questo naturalmente c'impediva di avanzare presto; ma il suo scopo era un altro. Scuoteva il ramo volgendo il dorso al punto verso il quale egli doveva cadere, e al momento in cui stavamo per raggiungerlo, lasciava tutto. Il ramo vibrante agiva come un trampolino e lo proiettava fuori. Durante la caduta egli si volgeva su un fianco fendendo l'aria, in modo da far fronte al grosso ramo verso il quale precipitava.


Questo ramo si piegava violentemente sotto il colpo, tanto che a volte si udiva uno scricchiolio minaccioso; ma non si spezzava mai, e attraverso il fogliame potevamo sempre vedere la faccia di Sdentato che ci faceva, tronfio e pettoruto, delle smorfie.


Io ero stato "preso", l'ultima volta che Sdentato usò quel trucco.


Aveva raggiunto l'estremità del ramo superiore e incominciava a dondolarsi; mi arrampicavo dietro di lui, quando improvvisamente Orecchiuto lanciò un grido soffocato d'allarme. Mi volsi e lo vidi sulla biforcazione principale dell'albero, che si rannicchiava contro il tronco. Istintivamente feci altrettanto lungo il mio ramo. Sdentato cessò di dondolarsi, ma il ramo non si arrestò ed egli continuò a oscillare verticalmente in un fruscio di foglie.


Sentii scricchiolare un ramoscello e, guardando al suolo vidi per la prima volta un Uomo del Fuoco. Strisciava a passi di lupo con gli occhi volti in alto, guardando l'albero. All'inizio lo presi per una bestia feroce perché portava sulle spalle e intorno alla cintola un lembo di pelle d'orso. Poi vidi più distintamente i suoi piedi, le sue mani, i lineamenti del suo viso. Egli era molto simile alla mia specie, però meno peloso e i suoi piedi somigliavano alle mani meno dei nostri. In realtà lui e i suoi simili, come dovevo venire a sapere in seguito, erano molto meno pelosi di noi, come noi, d'altro canto, lo eravamo meno del Popolo degli Alberi.


Come lo guardavo mi venne istantaneamente un pensiero: era quello il terrore del Nord-Est, di cui il fumo misterioso era un indizio. Fui preso tuttavia da una gran curiosità di sapere. Quell'essere non aveva certo un'aria troppo terribile: Occhiorosso o qualsiasi altro degli uomini dell'Orda sarebbe stato più che in grado di lottare con lui.


Inoltre era vecchio, raggrinzito per l'età, col pelo del volto grigio e la gamba alquanto zoppicante. Nessun dubbio che noi saremmo riusciti a vincerlo facilmente nella corsa o nell'arrampicarsi sugli alberi:


non avrebbe mai potuto raggiungerci, questo era certo.


Ma portava in mano qualcosa che non avevo mai visto: un arco e una freccia. In quel tempo, un arco e una freccia non avevano alcun senso per me. Come avrei potuto sapere che la morte si nascondeva in quel pezzo di legno curvo? Ma Orecchiuto lo sapeva. Evidentemente aveva già visto gli Uomini del Fuoco e conosceva i loro modi. L'Uomo del Fuoco lo guardò e girò intorno all'albero; ugualmente intorno al tronco, più su dalla biforcazione, girò Orecchiuto, mantenendo sempre lo spessore del legno tra sé e l'Uomo del Fuoco. Quest'ultimo, improvvisamente, rifece il giro a ritroso; Orecchiuto, colto alla sprovvista, cambiò giro a sua volta, ma non riuscì a proteggersi dietro il tronco prima che l'Uomo del Fuoco avesse scoccato la freccia. La vidi volare in alto, fallire il colpo, perché passò vicinissima a Orecchiuto senza toccarlo, scivolare su un ramo e ricadere a terra. Trepidai di gioia dall'alto ramo su cui ero appollaiato. Avevo capito; era un gioco.


L'Uomo del Fuoco lanciava delle cose a Orecchiuto, come noi stessi ce ne lanciavamo qualche volta reciprocamente.


Il gioco continuò per un pezzo, ma Orecchiuto non si espose una seconda volta, di modo che l'Uomo del Fuoco vi rinunciò. Allora mi allungai verso l'esterno sul mio ramo orizzontale, mettendomi a schiamazzare verso di lui. Anch'io volevo giocare; volevo che l'Uomo del Fuoco provasse a colpire anche me con la freccia. Egli mi vide, ma non fece caso a me; spiava invece Sdentato, che si dondolava ancora mollemente e involontariamente sull'estremità del suo ramo.


Di nuovo la freccia guizzò nell'aria e Sdentato lanciò un urlo di sorpresa e di dolore. Era stato colpito. Ciò conferiva un nuovo aspetto alla situazione. Non avevo più nessuna voglia di giocare, ma tremando mi rannicchiai tutto contro il mio ramo. Una seconda e poi una terza freccia partirono, senza peraltro colpire Sdentato, ma facendo fremere le foglie nell'attraversarle, descrivendo una curva nel loro volo e ricadendo poi al suolo. La corda dell'arco vibrò ancora, la freccia partì e Sdentato, con un gran grido, un grido orribile, cadde dal ramo. Lo vidi precipitare girando su se stesso, tutto braccia e tutto gambe, con l'asta della freccia che gli usciva dal petto e spariva e riappariva a ogni rivolgimento del suo corpo nella caduta turbinosa.


Da un'altezza di più di venti metri cadde; urlando si abbatté al suolo con un tonfo secco di schiacciamento: qui il suo corpo si contrasse leggermente e poi si distese. Era ancora vivo, dato che si muoveva e contorceva, graffiando il suolo con le mani e coi piedi. Ho ancora davanti agli occhi l'Uomo del Fuoco, che correva verso di lui con una pietra e gli martellava la testa... E poi non ricordo altro.


Durante la mia infanzia mi svegliavo sempre a questo punto del mio sogno, lanciando grida di terrore per vedere il più delle volte mia madre e la mia governante accanto al mio letto, che ansiosamente mi passavano la mano tra i capelli per calmarmi, dicendomi che erano lì e che quindi non dovevo avere nessuna paura.


Il mio sogno successivo, nell'ordine in cui si presentavano, incomincia sempre con la mia fuga nella foresta, in compagnia di Orecchiuto. L'Uomo del Fuoco, Sdentato e l'albero tragico erano spariti e noi due, in un panico prudente, fuggivamo attraverso gli alberi. Provavo un dolore acuto alla gamba destra: una freccia dell'Uomo del fuoco era piantata nella carne con la punta e l'asta che uscivano da ciascun lato. E non soltanto l'attrito e la tensione mi facevano soffrire crudelmente, ma m'impacciavano i movimenti e m'impedivano di seguire Orecchiuto.


Alla fine mi fermai e mi rannicchiai al riparo di un'inforcatura; viceversa Orecchiuto continuò la sua fuga. Lo chiamai, ricordo, con accento lacrimevole, ed egli si fermò per guardare indietro. Allora tornò sui suoi passi, mi raggiunse sull'albero ed esaminò la freccia.


Tentò di estrarla ma da un lato la carne resisteva alla punta uncinata, dall'altro all'asta impennata. Siccome l'operazione mi faceva soffrire orribilmente, fermai Orecchiuto.


Per qualche tempo restammo nascosti su quell'albero: inquieto, voglioso di fuggire, Orecchiuto guardava continuamente e con timore in tutte le direzioni mentre io gemevo e mi lamentavo a bassa voce. Il mio compagno era visibilmente sulle spine, e tuttavia, malgrado la paura, restava accanto a me. La sua condotta mi apparve come un simbolo precursore dell'altruismo e del cameratismo che hanno contribuito a fare dell'uomo il più possente fra tutti gli animali.


Ancora una volta, Orecchiuto provò ad estrarre la freccia dalla mia gamba ed io glielo impedii con collera. Allora egli si chinò e incominciò a rosicchiare l'asta coi denti, tenendola ferma con le mani in modo da impedirle di muoversi nella ferita, mentre io mi aggrappavo fortemente a lui. Io medito spesso su quella scena: piccoli uomini non compiutamente esperti della vita, al tempo dell'infanzia della Specie, uno di noi dominava la propria paura, frenava l'istinto egoista che lo spingeva a fuggire, per rimanere accanto all'altro e prestargli soccorso. E vedo sfilarmi davanti al pensiero tutte le grandi cose che quel gesto conteneva in potenza; e ho le visioni di Pizia e Damone, degli equipaggi dei canotti di salvataggio, delle infermiere della Croce Rossa, dei martiri, dei difensori di fanciulli sperduti, del padre Damiano fra i lebbrosi delle isole Hawaii e dello stesso Cristo, e di tutti gli uomini della terra la cui statura e la cui forza morale traggono origine dai magri fianchi d'Orecchiuto, di Gran Dente e di altri vaghi abitanti del mondo appena nato.


Quando Orecchiuto ebbe spezzato coi denti la punta della freccia, gli fu facile estrarne poi l'asta. Riprendemmo allora la fuga; ma questa volta fu lui a trattenermi. La mia gamba sanguinava abbondantemente:


qualche piccola vena doveva essersi rotta. Correndo all'estremità di un ramo, Orecchiuto strappò un pugno di foglie verdi e le ficcò nella ferita aperta. Ciò produsse l'effetto desiderato perché il sangue cessò ben presto di sgorgare. E insieme riprendemmo il cammino verso il rifugio delle caverne.




8


Ricordo benissimo l'inverno che seguì la mia partenza dal nido familiare, perché sogno a lungo d'essere seduto tutto tremante per il freddo. Orecchiuto e io siamo rannicchiati l'uno contro l'altro, con le braccia e le gambe intrecciate, il volto livido e i denti che battono. Il freddo diventava particolarmente pungente verso il mattino; durante quelle ore glaciali dell'aurora si dormiva poco o niente, e in preda a un penoso assideramento si aspettava la levata del sole che doveva riscaldarci un po'.


Quando uscivamo dalla caverna, il suolo, ricoperto di brina, scricchiolava sotto i piedi. Una mattina, scoprimmo il ghiaccio alla superficie dell'acqua del l'abbeveratoio fattasi tranquilla, e ciò produsse una rumorosa sorpresa fra noi. Neanche il vecchio Osso Midolloso, l'anziano dell'Orda, aveva mai visto un fenomeno simile.


Ricordo l'aspetto inquieto, lacrimante quasi, che assunsero i suoi occhi quando esaminò il ghiaccio. (I nostri occhi avevano sempre quello sguardo doloroso ogni qualvolta non comprendevamo una data cosa, o quando sentivamo l'aculeo di un desiderio vago, indefinibile). Anche Occhiorosso, nell'ispezionare il ghiaccio, ebbe quell'aria triste e desolata; fissò lo sguardo lontano, oltre il fiume, verso il Nord-Est, come se associasse il Popolo del Fuoco a quell'avvenimento.


Trovammo il ghiaccio solo quella mattina, ma quello fu l'inverno più rigido che mai dovemmo subire. Non ho ricordo di altro inverno più freddo. Ho spesso pensato che quella stagione eccezionalmente rigorosa fosse un segno foriero, una specie di avanguardia degli innumerevoli inverni glaciali che dovevano infierire via via che la calotta di ghiaccio si stendeva sulla faccia della terra; ma questa calotta noi non la vedemmo mai. Molte generazioni dovettero susseguirsi prima dell'epoca in cui i discendenti dell'Orda furono costretti a emigrare verso il sud o adattarsi sul posto al nuovo elemento.


La vita per noi era completamente affidata alla sorte. Progetti pochi, e fatti ancor meno. Mangiare quando si aveva fame, bere quando si aveva sete, evitare i nostri nemici carnivori, ecco tutto. La notte ci rifugiavamo nelle nostre caverne e il resto del tempo lo passavamo a trastullarci. Eravamo oltremodo curiosi, tutto ci dava motivo di divertimento sempre pronti alle burle e alle malizie. Non c'era alcuna serietà in noi, tranne nei momenti in cui si correva un pericolo o quando ci assaliva la collera; ma anche in quei casi la serietà spariva insieme all'occasione che l'aveva provocata.


Non esisteva alcuna connessione tra le nostre idee, eravamo fuori d'ogni logica e non davamo importanza a nulla. I nostri disegni non avevano stabilità e in questo gli Uomini del Fuoco ci erano immensamente superiori, perché possedevano quella tenacia nello sforzo che a noi mancava quasi del tutto. Tuttavia, all'occorrenza, e soprattutto nel controllo delle emozioni, eravamo capaci di perseguire uno scopo lungamente vagheggiato. La fedeltà delle coppie monogame di cui ho parlato può essere spiegata come una questione di abitudine; ma il mio lungo desiderio per la Rapida non può giustificarsi così, come pure l'odio mortale che Occhiorosso e io nutrivamo l'un per l'altro.


Ma ogni volta che io lancio uno sguardo retrospettivo su quella vita del lontano passato, ciò che più mi colpisce è la grande volubilità e la incredibile stupidità che regnavano in noi. Un giorno raccattai una zucca rotta che la pioggia aveva riempito d'acqua; l'acqua era buona e la bevetti. Mi spinsi anche sino al fiume con quel recipiente e qui attinsi dell'altra acqua, bevendone una parte e innaffiando Orecchiuto col resto. Poi buttai via la zucca. Non mi venne però mai in mente di riempire d'acqua la zucca e di portarla alla caverna; e tuttavia mi accadeva spesso di aver sete la notte, specialmente quando avevo mangiato del crescione e delle cipolle, quando nessuno osava lasciare le caverne per andare a dissetarsi all'abbeveratoio.


Un'altra volta trovai una zucca disseccata nell'interno della quale i semi producevano rumore quando la scuotevo. Mi ci divertii a lungo, ma come ci si diverte con un balocco, e niente più. Tuttavia, qualche tempo dopo, l'impiego delle zucche per immagazzinare l'acqua divenne di uso comune nell'Orda. Ma non ne fui io l'inventore. L'onore spetta al vecchio Osso Midolloso e l'innovazione scaturì da uno stato di necessità dipendente dalla sua tarda età.


In ogni caso, il primo membro dell'Orda che fece uso delle zucche fu Osso Midolloso. Egli conservava una provvista d'acqua da bere nella caverna che abitava: questa apparteneva al Glabro, figlio di Osso Midolloso, che consentiva al padre di occuparne un angolo. Vedevamo il vecchio Osso Midolloso riempire la sua zucca all'abbeveratoio e trasportarla con cura fino alla caverna. Lo spirito di imitazione era grande tra noi, e prima uno, poi un altro e poi un altro ancora, si procurarono una zucca e l'impiegarono allo stesso modo, di modo che l'uso di far provvista d'acqua divenne generale.


Ma spesso accadeva a Osso Midolloso di sentirsi male, e allora era incapace di lasciare la caverna. Il Glabro si assumeva l'incarico di riempire la zucca per il padre; un po' più tardi però il Glabro impose questo lavoro a suo figlio, il Labbrone, e in seguito anche quando Osso Midolloso stava bene, il Labbrone continuò a trasportare acqua per lui. Alla fine gli uomini si limitarono ad attingere acqua solo in casi eccezionali: questo compito fu assegnato alle donne e ai ragazzi più grandicelli. Orecchiuto e io, essendo indipendenti, dovevamo provvedere acqua solo per i nostri bisogni, e perciò potevamo burlarci degli altri piccoli quando, intenti a giocare, qualcuno li chiamava per mandarli a riempire le zucche.


Il progresso era lento tra noi. Passavamo tutti, anche gli adulti, l'intera vita a giocare, e giocavano come nessuno degli altri animali.


Quel poco che sapevamo lo apprendevamo nel corso di giochi ed era dovuto alla nostra curiosità e alla nostra sagacia. Ad ogni modo, la sola grande invenzione fatta dall'Orda al tempo in cui vissi in mezzo ad essa, fu l'impiego delle zucche.


All'inizio non vi mettemmo che acqua, seguendo l'esempio di Osso Midolloso. Ma un giorno una donna, non so quale, riempì di mirtilli una zucca che portò poi alla sua caverna. Subito le altre donne si misero con lo stesso sistema a trasportare bacche, noci, radici.


L'idea, una volta in marcia, doveva progredire. Anche un'altra evoluzione del recipiente per trasporto fu dovuta alle donne. Ciò avvenne senza dubbio perché una delle donne aveva trovato che la zucca era troppo piccola, oppure perché s'era dimenticata di portarla con sé; fatto sta che riunì due grandi foglie, ne fissò gli orli con sottili e flessibili ramoscelli e vi mise dentro, per trasportarle alla sua caverna, bacche in quantità molto superiore a quella che avrebbe potuto contenere una zucca della più grande dimensione.


Sino a questo punto, ma non oltre, giungemmo nel trasporto dei viveri durante gli anni che passai con l'Orda. Non venne mai in mente a nessuno d'intrecciare un paniere con fili di vimini. Solo gli adulti, uomini e donne, usavano legare talvolta, con solidi sarmenti, fasci di felci e di rami che trasportavano nelle caverne per farne dei giacigli. Probabilmente dovettero passare altre dieci o venti generazioni prima che la specie arrivasse a intrecciare un paniere. Ma in qualunque epoca ciò avvenne, una cosa è certa, e cioè che una volta trovato il modo d'intrecciare panieri di vimini, lo sviluppo consecutivo e inevitabile fu la fabbricazione di tessuti grossolani, e in conseguenza di ciò l'uso degli indumenti, che, dissimulando le nudità, fece nascere il pudore.


Fu così che un nuovo impulso sorse nel mondo nascente; ma esso era appena agli inizi del suo sviluppo, e noi eravamo appena in moto e potevamo fare ben poco cammino in una sola generazione. Eravamo senz'armi, senza fuoco, non avevamo a disposizione che gli elementi più rudimentali del linguaggio. L'invenzione della scrittura era così infinitamente lontana nell'avvenire che ho persino spavento a pensarci.


Per poco non feci anch'io una grande scoperta. Per dimostrarvi quanto fosse fortuito il progresso in quell'epoca, permettetemi di spiegarvi come, senza la golosità di Orecchiuto, avrei potuto compiere l'addomesticamento di un cane, cosa che il Popolo del Fuoco, che viveva a Nord-Est delle caverne, non aveva ancora scoperto, perché per esperienza personale mi risulta che le Genti del Fuoco non avevano cani. Vi esporrò dunque come la ghiottoneria di Orecchiuto ritardò, forse per parecchie generazioni, il nostro sviluppo sociale.


A notevole distanza dal lato occidentale delle caverne c'era una gran palude, ma a sud si profilava una catena di colline basse e rocciose, che erano poco frequentate per due ragioni: primo perché non vi si trovava nessuno degli alimenti che costituivano il nostro nutrimento; secondo perché erano piene di tane, dove vivevano gli animali carnivori.


Orbene successe che Orecchiuto e io ci sperdemmo un giorno tra queste colline. Non ci saremmo certamente spinti in quella direzione se non vi fossimo stati trascinati da una tigre che stavamo inseguendo e molestando. Non ridete se vi dico che era il vecchio Dente di Sciabola in carne e ossa; ma noi non correvamo alcun serio pericolo. Lo incontrammo per caso nella foresta, al mattino presto, e sentendoci al sicuro tra i rami, a notevole distanza da lui, gli manifestammo con forti schiamazzi la nostra antipatia e il nostro odio. Lo seguimmo di ramo in ramo, d'albero in albero, facendo un chiasso infernale e avvisando tutti gli abitanti della foresta che Dente di Sciabola stava per arrivare.


Questo scompigliò completamente i suoi piani di caccia e lo mise in una terribile collera. Ringhiava verso di noi frustando l'aria con la coda, e, fermandosi di tanto in tanto, ci guardava, immobile, arrovellandosi il cervello in cerca di qualche mezzo per acchiapparci.


Ma noi giù a bombardarlo di lazzi, sberleffi e tronconi di ramo.


Bersagliare così una tigre era per la specie uno sport favorito. A volte accadeva che metà dell'Orda inseguisse dall'alto dei rami una tigre o un leone avventuratosi fuori del suo ricovero durante le ore del giorno. Era la nostra vendetta perché più d'un membro dell'Orda, preso alla sprovvista, era scomparso nel ventre della tigre o del leone; ed era anche un mezzo per far capire agli animali da preda, impotenti e codardi, che era assai meglio per loro tenersi possibilmente lontani dal nostro dominio. E infine, ciò era divertente, era un magnifico gioco.


Così Orecchiuto e io avevamo inseguito Dente di Sciabola attraverso tre miglia di foresta. Verso la fine della caccia, egli si mise la coda tra le gambe e, come un botolo battuto, se la svignò rapidamente.


Facemmo del nostro meglio per inseguirlo; ma, quando giungemmo all'estremità della foresta, egli non era più che un punto nero in lontananza.


Non so che cosa ci spingesse, se non la curiosità; ma dopo esserci trastullati per qualche tempo negli immediati dintorni, Orecchiuto e io ci avventurammo sul terreno scoperto fino ai piedi delle colline rocciose. Non andammo però molto lontano; credo che non ci discostammo dagli alberi per più di cento metri. Nel girare attorno alla punta di una roccia (procedevamo con gran cautela, perché non si sapeva quel che potevamo incontrare) c'imbattemmo in tre cagnolini che ruzzavano al sole.


Senza essere visti da loro, li spiammo per un buon minuto. Nel muro roccioso si scorgeva una fessura orizzontale: senza dubbio il rifugio dove la madre li aveva lasciati e dal quale essi non avrebbero dovuto muoversi se fossero stati dei cagnolini ubbidienti. Ma la vita che ferveva nei loro corpi, come aveva spinto Orecchiuto e me ad avventurarci fuori della foresta, così aveva fatto uscire i cagnolini dal loro rifugio per sgranchirsi le gambe. So bene come la madre li avrebbe puniti se li avesse sorpresi in quel posto.


Furono invece sorpresi da Orecchiuto e da me. Orecchiuto mi lanciò un'occhiata, e subito ci gettammo su di loro. I cagnolini si precipitarono verso la tana, solo rifugio che conoscessero; ma ci fu facile sorpassarli. Uno di essi si cacciò tra le mie gambe: mi gettai a terra e l'acchiappai. L'animaletto affondò i dentini acuminati nel mio braccio, e nella subitaneità del dolore e della sorpresa, lo lasciai andare; in un attimo, era già sparito nella tana.


Orecchiuto, che lottava col secondo cagnolino, mi guardò di sbieco e mi fece capire con suoni variati, che razza d'imbecille e di buono a nulla io fossi. Ciò mi fece vergognare e mi spronò al punto da infondermi nuovo coraggio. Afferrai per la coda il cagnolino che restava. Immediatamente i suoi denti mi penetrarono nella carne, ma io lo tenni stretto per la pelle del collo. Allora Orecchiuto e io ci sedemmo, sollevammo in aria i cagnolini e li guardammo ridendo, mentre essi brontolavano, mugolavano e guaivano.


Improvvisamente Orecchiuto trasalì: gli pareva di aver inteso un rumore. Ci guardammo con terrore, comprendendo tutto il pericolo della nostra situazione. Se c'è una cosa che trasforma gli animali in diavoli scatenati, questa è appunto veder toccare i loro piccoli. Ora, quegli animaletti, che facevano tanto baccano, appartenevano ai cani selvatici che noi conoscevamo molto bene, e le cui rapide mute erano il terrore degli erbivori. Più volte li avevamo spiati mentre inseguivano branchi di bisonti e assalivano le vaccine e le bestie vecchie e malate. E noi stessi eravamo stati messi in fuga e perseguitati da questi cani.


Avevo visto una donna della Specie, inseguita e raggiunta proprio nel momento in cui varcava il rifugio della foresta. Se non fosse stata esaurita dalla corsa, avrebbe potuto mettersi in salvo su un albero:


tentò anzi di farlo; ma invano, perché scivolò, cadde, e i cani selvatici la finirono in un attimo.


Rimanemmo appena un secondo a guardarci, io e Orecchiuto. Tenendo sempre saldamente i nostri prigionieri, corremmo verso i boschi, e una volta appollaiati al sicuro su un grande albero, cominciammo di nuovo a sganasciarci dalle risa osservando i cagnolini. Vedete bene che, come vi dicevo, ogni cosa che ci accadeva, era per noi fonte di riso.


Allora incominciò uno dei compiti più ardui che io abbia mai intrapreso. Volevamo trasportare i cagnolini nella nostra caverna. Non potevamo servirci delle mani per arrampicarci, perché per una buona metà del tempo necessario per salire esse erano impegnate a trattenere i nostri prigionieri, che si divincolavano furiosamente. Cercammo di camminare sul suolo, ma fummo indotti a tornare sugli alberi a causa di una lurida iena, che si mise a seguirci dal basso. Quella iena era però una bestia intelligente.


Orecchiuto ebbe un'idea. Si ricordò del modo come aveva legato certe bracciate di foglie per trasportarle alla caverna e farne giacigli.


Strappate alcune liane solide, legò insieme le zampe del suo cagnolino e se lo mise sulle spalle con l'aiuto di un altro pezzo di liana passata intorno al collo: così poté avere mani e piedi liberi per arrampicarsi. Era entusiasta della trovata e si mise in cammino senza aspettare che io avessi finito di legare le zampe al mio cagnolino. Ma subito incontrò una difficoltà: la bestiola non voleva saperne di restar ferma sulle sue spalle. Gli scivolò prima sul fianco, poi sul petto, e siccome i suoi denti non erano legati, la prima cosa che fece fu di piantarli nello stomaco senza protezione di Orecchiuto. Questi lanciò un urlo, fu quasi per cadere, si aggrappò violentemente a un ramo con le due mani; la liana passata sul suo collo si ruppe e la bestiola, con le quattro zampe legate, precipitò al suolo. La iena si mise a pranzo.


Orecchiuto, disgustato e furioso, ingiuriò come si doveva la iena e poi si allontanò solo fra gli alberi. Io non avevo alcuna ragione per portare il cagnolino alla caverna, volevo così, senza sapere perché; e studiai per riuscire nell'intento. Lo resi molto più facile perfezionando l'idea di Orecchiuto; non soltanto legai le zampe del cagnolino, ma gli passai una bacchetta fra le mascelle, che legai solidamente insieme.


Giunsi infine alla caverna col cagnolino. Dovevo avere una testardaggine superiore alla media di quelli della Specie; perché senza di ciò non avrei mai condotto a termine l'impresa. Tutti si burlarono di me quando mi videro issare il mio prigioniero fino alla piccola caverna, ma io non me ne curai: il successo coronava i miei sforzi e io avevo il cagnolino. Era un giocattolo come nessuno della Specie ne aveva. Imparò prestissimo: quando giocavo con lui ed egli mi mordeva, lo battevo sulle orecchie, di modo che egli stava un pezzo prima d'esser tentato di ricominciare.


Ero molto assorbito da quel gioco. Costituiva qualcosa di nuovo e la Specie amava straordinariamente le novità.


Quando vidi che rifiutava i frutti e i legumi, andai per lui a caccia di uccelli, di scoiattoli e di giovani conigli. Essendo nello stesso tempo carnivori ed erbivori, non eravamo abituati a cacciare la piccola selvaggina. Il cagnolino mangiò e prosperò, e da quanto mi è dato di ricordare, devo averlo posseduto per più di una settimana. Un giorno, tornando alla caverna con una nidiata di fagiani appena nati, vidi che Orecchiuto aveva ucciso il cagnolino e incominciava proprio allora a mangiarselo. Gli saltai addosso - la caverna era piccola - e giù con le unghie e coi denti.


E così, con una lotta, terminò uno dei primi tentativi di addomesticamento del cane. Ci strappammo i peli a manate, ci graffiammo, ci mordemmo, cercammo di cavarci gli occhi. Poi ci tenemmo il broncio e alla fine ci riconciliammo. Dopo, mangiammo insieme il cagnolino. Crudo? Sì. Non avevamo ancora scoperto il fuoco. La nostra evoluzione in animali cucinieri era ancora rinchiusa nel papiro strettamente arrotolato dell'avvenire.




9


Occhiorosso era un atavismo. Era più primitivo di chiunque fra noi.


Non ci somigliava, e noi dal canto nostro eravamo ancora così primitivi da essere incapaci di uno sforzo combinato per sopprimerlo o per espellerlo. Per quanto rudimentale fosse la nostra organizzazione sociale, egli era ancora troppo rozzo per darsene pensiero, cosicché tutto in lui tendeva a distruggere l'Orda coi suoi atti antisociali.


Occhiorosso costituiva realmente un ritorno verso un tipo più antico e il suo posto avrebbe dovuto essere fra il Popolo degli Alberi e non in mezzo a noi, che eravamo in via d'evolverci verso lo stato d'esseri umani.


Era un mostro di crudeltà, il che vuol dire molto per quell'epoca.


Batteva le sue mogli; non che ne avesse più d'una alla volta, di mogli, ma gli è che si coniugò parecchie volte. Nessuna donna poteva vivere con lui e tuttavia esse dovevano viverci per forza. Non c'era modo di contraddirlo: nessuno era abbastanza forte per resistergli.


Mi torna spesso la visione dell'ora tranquilla che precede il crepuscolo. Dal fiume fino al campo di carote e alle paludi dei mirtilli, la Specie si riunisce nello spiazzo scoperto che è davanti alle caverne. Non osa attardarsi a lungo, perché si avvicina la terribile oscurità, durante la quale la terra è abbandonata alla carneficina delle bestie feroci, mentre gli antenati dell'uomo, tutti tremanti, si tengono nascosti nelle loro tane.


Abbiamo ancora qualche minuto di respiro prima di arrampicarci verso le nostre caverne. Siamo stanchi di aver giocato tutto il giorno e aleggia su di noi appena un brusìo attenuato. Anche i piccoli, ancora avidi di divertimenti e di sgambetti, giocano con cautela. La brezza di mare è calata, e le ombre si allungano mentre il sole sta per toccare l'orizzonte. E allora, d'improvviso, dalla caverna d'Occhiorosso partono grida selvagge e un rumore di colpi. Batte sua moglie.


All'inizio un silenzio terrificante incombe su noi. Ma siccome i colpi e le grida continuano, manifestiamo la nostra collera impotente con uno schiamazzo insensato. E' chiaro che gli uomini sono irritati per i metodi brutali di Occhiorosso, ma hanno troppo paura di lui per intervenire. I colpi cessano, i gemiti soffocati si spengono, ma noi continuiamo a schiamazzare. E la triste notte scende lentamente.


Quantunque la maggior parte degli avvenimenti costituissero per noi argomento di risa, tuttavia non ridevamo mai quando Occhiorosso batteva la moglie. Sapevamo troppo bene quello che simili brutalità avevano di tragico. Più di una mattina, ai piedi della rupe, trovammo il cadavere della donna che era stata sua moglie il giorno prima. Egli l'aveva scaraventata lì, dalla sua caverna, appena morta. Non sotterrava mai i suoi morti; lasciava all'Orda la cura di far sparire i cadaveri che, altrimenti, avrebbero ammorbato l'aria dei dintorni.


Di solito i cadaveri venivano gettati nel fiume, a valle dell'ultimo abbeveratoio.


Non soltanto Occhiorosso uccideva le sue donne, ma uccideva anche per procurarsene. Quando voleva una nuova moglie e aveva buttato l'occhio su quella d'un altro, finiva sempre con l'uccidere costui. Io fui testimone di due di questi assassinii. Tutta la Specie sapeva, ma era impotente a reagire, perché non si era ancora sviluppato nell'Orda un governo degno di questo nome. Avevamo pur tuttavia le nostri consuetudini, e la nostra collera si scagliava su coloro che le violavano. Così, ad esempio, chi insudiciava un abbeveratoio era assalito da tutti i presenti e chi, per partito preso, dava un falso allarme, subiva da parte nostra un trattamento brutale. Ma Occhiorosso calpestava tutte le nostre consuetudini, e noi ne avevamo una tale paura, che eravamo incapaci d'organizzare un'azione collettiva per castigarlo.


Durante il sesto inverno che passammo nella caverna, Orecchiuto e io ci accorgemmo che eravamo molto cresciuti. Sin dal principio di quell'inverno, con pena avevamo potuto infilarci nel crepaccio che formava l'ingresso del nostro domicilio. Ciò aveva comunque il vantaggio di impedire agli adulti di impadronirsi della nostra caverna, che era fra le più desiderabili, perché la più elevata della rupe, la più sicura, e la più calda d'inverno, essendo più piccola delle altre.


Per indicare quale fosse lo stato di sviluppo mentale della Specie, posso far notare che sarebbe stata cosa semplicissima per gli adulti scacciarci dalla nostra caverna e allargarne l'ingresso; ma essi non ne ebbero neppure l'idea. Né vi pensammo noi due, Orecchiuto e io, sino al giorno in cui la nostra crescente corporatura non ci costrinse a eseguire l'ampliamento. Ciò accadde quando l'estate era al suo apice e noi eravamo ingrassati grazie a una migliore nutrizione. Lavoravamo al crepaccio a intervalli e quando ne avevamo voglia.


Prima estirpammo con le dita le pietre già smosse, a tal punto che le unghie ci dolevano, quando, incidentalmente, io ebbi l'idea di usare un pezzo di legno. La cosa andò benissimo, ma provocò una catastrofe.


Una mattina, poco dopo l'alba, avevamo liberato la rupe da un intero monticello di frammenti. Io spinsi il mucchio sul limitare dell'ingresso. Immediatamente dopo, si levò dal piede della rupe un urlo rabbioso. Non avemmo bisogno di spenzolarci per guardare, perché conoscevamo fin troppo bene quella voce. I sassi erano ruzzolati addosso a Occhiorosso.


Costernati, ci rannicchiammo in fondo alla caverna. Un minuto più tardi, Occhiorosso apparve all'ingresso furioso come un diavolo e ci cercava con lo sguardo dei suoi occhi accesi. Ma era troppo alto, troppo corpulento per poter giungere sino a noi. Improvvisamente si allontanò. Capimmo che la cosa si metteva male. Da quel che sapevamo delle maniere della Specie, egli avrebbe dovuto restar lì per dare sfogo alla propria rabbia. Strisciai sino all'ingresso della caverna e lanciai uno sguardo in giù. Vidi che Occhiorosso ricominciava a salire la rupe. Aveva in mano un grosso bastone. Prima che avessi indovinato il suo piano, egli si trovava di nuovo davanti all'imboccatura della caverna e cercava selvaggiamente d'infilzarci col bastone.


I suoi colpi erano prodigiosi, e di certo ci avrebbero sventrati se avessero raggiunto il bersaglio. Ci stringemmo contro le pareti laterali, dove eravamo quasi al sicuro. Ma frugando con insistenza, egli di tanto in tanto riusciva a coglierci, assestandoci colpi crudeli che ci strappavano pelo e pelle. E quando il dolore ci faceva urlare, egli manifestava la propria soddisfazione con ruggiti, e colpiva più forte.


Allora incominciai a diventare furioso. Ero di un umore poco trattabile in quell'epoca e avevo un discreto coraggio, anche se era il coraggio del topo spinto agli estremi limiti della pazienza.


Afferrai il bastone con le due mani, ma la forza di Occhiorosso era tale che con uno strattone mi tirò fino al crepaccio. Poi allungò il braccio per afferrarmi e le sue unghie mi strapparono la carne mentre facevo un balzo indietro per raggiungere la sicurezza relativa della parete laterale.


Di nuovo il mostro riprese a colpire, e mi assestò un doloroso colpo alla spalla. Orecchiuto non badava che a tremar di paura e a urlare ogni volta che era toccato. Cercai con gli occhi un bastone per difendermi, ma non trovai che un pezzo di ramo di un pollice di diametro e di un piede di lunghezza. Lo scagliai contro Occhiorosso, senza però fargli un gran male, sebbene urlasse di rabbia per l'audacia di cui avevo dato prova rispondendogli. Egli si rimise a colpire con furore, e io, capitatomi sotto mano un pezzo di roccia, glielo lanciai in pieno petto.


Ciò mi diede audacia, e d'altra parte ero altrettanto furioso quanto Occhiorosso e avevo perso ogni ritegno. Strappai dalla parete una scheggia che doveva pesare due o tre libbre e la scagliai con tutta forza sul volto del nemico. Poco mancò che il colpo non ponesse fine al combattimento. Indietreggiò vacillando, abbandonò il bastone e scivolò per un bel tratto lungo il ripido pendio della rupe.


Lo guardai: era orribile; aveva la faccia coperta di sangue e digrignava i denti come un cinghiale. Si asciugò il sangue che l'accecava, mi scorse e urlò di rabbia. Avendo perso il bastone si mise a strappare pietre dalla roccia e a scagliarmele contro. In questo modo mi rifornì di proiettili, che io gli rinviai immediatamente, ottenendo risultati migliori dei suoi, dato che egli formava un bersaglio eccellente, e poteva vedermi soltanto a tratti, per la cura che io avevo di acquattarmi contro la parete laterale. A un tratto scomparve di nuovo, e dall'imboccatura della caverna vidi che scendeva verso lo spiazzo. Tutta l'Orda s'era riversata fuori delle tane e osservava lo spettacolo mantenendo un silenzio impaurito.


Siccome Occhiorosso si dirigeva verso il basso, i meno coraggiosi si affrettarono a filare come conigli verso le loro caverne. Vidi il vecchio Osso Midolloso fuggire, inciampando e traballando, con la maggiore velocità che le sue gambe gli consentivano. Occhiorosso balzò verso il basso della rupe e superò gli ultimi venti piedi con un solo salto. Toccò terra proprio accanto a una madre che incominciava allora ad arrampicarsi verso la sua tana. La donna lanciò un grido di terrore, e il piccolo di due anni che si aggrappava a lei rotolò ai piedi di Occhiorosso. La madre e il mostro si precipitarono contemporaneamente in avanti per afferrarlo, ma fu Occhiorosso che riuscì a impadronirsene. Un istante dopo il piccolo fragile corpo veniva proiettato in aria e si schiacciava sulla muraglia di roccia.


Proseguendo il suo cammino per andare a raccogliere il bastone, Occhiorosso incontrò il vecchio Osso Midolloso che fuggiva zoppicando.


L'enorme mano del mostro si allungò e afferrò il vecchio per la nuca.


Io credevo che gli torcesse il collo. Il vecchio si afflosciò, abbandonandosi al destino: Occhiorosso esitò un momento, mentre l'altro, tremando orribilmente, curvava il capo e si copriva il viso con le mani. Senza dibattersi, si lasciò buttare a terra con la faccia al suolo e restò lì disteso, nell'attesa e nel timore della morte.


Nello spazio scoperto vidi il Glabro che, senza osarsi di avanzare, si percuoteva il petto e rizzava il pelo. E allora, obbedendo a qualche ubbia del suo spirito incoerente, Occhiorosso abbandonò il vecchio, continuò per la sua strada e raccolse il bastone.


Poi tornò alla rupe e ricominciò l'ascesa. Orecchiuto, che tremava e guardava timorosamente al mio fianco, si precipitò alla caverna. Era chiaro che Occhiorosso aveva l'intenzione di uccidere. Io ero disperato, furioso, ma completamente calmo. Correndo qua e là sulle creste vicine, riunii un mucchio di pietre all'imboccatura della caverna. Occhiorosso era a qualche metro più in basso di noi, nascosto per il momento da una prominenza rocciosa. Mentre continuava ad arrampicarsi, la sua testa emerse e io gli lanciai una pietra che però non lo raggiunse e andò in pezzi battendo sulla rupe; ma la polvere e le schegge riempirono gli occhi del mostro, facendolo indietreggiare fuori della nostra vista.


Risa soffocate e schiamazzi sorsero tra quei membri dell'Orda che rappresentavano il ruolo di spettatori. Finalmente c'era qualcuno, nel seno stesso della Specie, che osava affrontare Occhiorosso. Ma appena le approvazioni e le esclamazioni si levarono nell'aria, Occhiorosso si volse verso di loro mostrando i denti, e in un attimo li ridusse al silenzio. Incoraggiato da questo segno della sua potenza, levò di nuovo la testa, e lanciando sguardi feroci, mostrando i denti, facendo stridere le zanne, cercò d'intimidirmi. Faceva smorfie orribili corrugando fortemente la pelle sopra gli occhi e portando in avanti la capigliatura dalla sommità della testa fin sulla fronte, dove i capelli rimasero irti come tante punte minacciose.


Quella vista mi agghiacciò di spavento. Tuttavia riuscii a vincere il terrore e con una pietra in mano minacciai a mia volta Occhiorosso.


Egli cercò di avanzare ancora e io gli lanciai il mio proiettile. Il colpo fallì, ma per poco. Il colpo successivo lo colse in pieno: il sasso lo raggiunse al collo. Egli scivolò fuori dalla vista, ma mentre spariva notai che con una mano cercava di aggrapparsi alla roccia e con l'altra si comprimeva la gola. Il bastone ruzzolò rumorosamente fino ai piedi della rupe.


Non vedevo più il mostro, ma udivo che anelava, soffocava e tossiva.


Gli spettatori rispettavano un mortale silenzio. Mi accovacciai all'ingresso della caverna e aspettai. Come il soffocamento e la tosse cessarono, potei udire a più riprese Occhiorosso che si schiariva la voce. Un po' più tardi incominciò a scendere. Andava molto piano, fermandosi di tanto in tanto per allungare il collo o palparlo con la mano.


Vedendolo scendere, l'Orda intera, con grida e urli selvaggi, fuggì verso i boschi. Il vecchio Osso Midolloso zoppicando e vacillando, seguiva da lontano; Occhiorosso non fece minimamente caso alla fuga generale, e avendo raggiunto la riva, girò lungo la base della rupe, e risalì nella sua caverna, senza gettare neppure un'occhiata intorno a sé.


Orecchiuto e io ci guardammo a lungo, e ci capimmo. Immediatamente, in silenzio e con precauzione, incominciammo a strisciare lungo la rupe.


Giunti alla sommità guardammo indietro: il villaggio era stato disertato e, tranne Occhiorosso, rimasto nella sua caverna, l'Orda era scomparsa nelle profondità della foresta.


Ci volgemmo e prendemmo la fuga. Traversavamo correndo le radure, superavamo i pendii, senza curarci dei serpenti che potevano essere nascosti nell'erba. Raggiungemmo così i boschi, ci arrampicammo sugli alberi e proseguimmo nella nostra fuga lavorando di braccia sino a quando non avemmo messo parecchie leghe fra le caverne e noi. Allora, ma soltanto allora, nella sicurezza di una biforcazione di rami, ci guardammo e ci mettemmo a ridere. Restammo appoggiati l'uno contro l'altro, con le braccia e le gambe intrecciate, gli occhi grondanti di lacrime e i fianchi che ci dolevano per il gran ridere.




10


Quando avemmo riso abbastanza, Orecchiuto e io voltammo a un tratto cammino e facemmo colazione nella palude dei mirtilli. In quella stessa palude avevo compiuto diversi anni prima i miei primi viaggi attraverso il mondo, in compagnia di mia madre che, dopo di allora, avevo raramente rivista. Di solito, quando essa si recava alle caverne presso l'Orda, io ero partito per la foresta. Avevo intravisto una volta o due lo Schiamazzatore sulla riva, e dall'ingresso della mia caverna mi ero procurato il piacere di fargli smorfie e di vederlo andare in collera. Eccettuata qualche gentilezza di questo genere, non mi ero mai occupato della mia famiglia; non m'interessavo affatto delle sue sorti e, in ogni caso, sapevo cavarmela benissimo da solo.


Dopo aver mangiato mirtilli a sazietà, pasto che finì con un dessert di uova mezzo covate che trovammo in due nidi di quaglie, Orecchiuto e io erravamo con circospezione nella foresta verso il fiume. Da quella parte si trovava il mio vecchio domicilio, l'albero da cui ero stato espulso dallo Schiamazzatore. L'albero era ancora abitato. Mi accorsi che la famiglia era cresciuta: vidi una creaturina attaccata alle mammelle di mia madre. C'era anche una femminuccia, non ancora completamente sviluppata, la quale, da uno dei rami più bassi, ci guardava con circospezione. Era evidentemente mia sorella, o meglio mia sorellastra.


Mia madre mi riconobbe subito; ma appena incominciai ad arrampicarmi sull'albero, mi fece segno di allontanarmi. Orecchiuto, sempre più prudente di me, batté in ritirata, né io potei convincerlo a tornare indietro. Tuttavia, più tardi, mia sorella scese a terra e lì, come pure sugli alberi vicini, ci divertimmo e facemmo chiasso per tutto il pomeriggio. Ma la cosa finì male. Lei era mia sorella, ma questo non le impedì di trattarmi crudelmente, poiché aveva ereditato tutta la malvagità dello Schiamazzatore. Si gettò improvvisamente su di me, mi graffiò, mi strappò i capelli, e affondò quanto più le fu possibile i suoi denti aguzzi nel mio avambraccio. Io persi la pazienza; non la ferii, ma certo fino a quel giorno non aveva mai ricevuto una sberla così sonora.


Si mise a gridare e a sbraitare. Lo Schiamazzatore, che era stato assente tutta la giornata, e che tornava in quel momento, accorse al chiasso; mia madre fece lo stesso, ma fu lui che arrivò per primo.


Senza aspettarlo me la filai, seguito da Orecchiuto, e ci mettemmo in salvo fra i rami.


Quando lo Schiamazzatore ebbe cessato d'inseguirci e quando Orecchiuto e io finimmo di ridere dell'incidente, ci accorgemmo che calava la sera. La notte piombava su di noi con tutti i suoi terrori e non era neanche il caso di pensare di far ritorno alle caverne: Occhiorosso rendeva l'impresa impossibile. Ci rifugiammo in un albero isolato e, appollaiati su un'alta inforcatura, vi passammo la notte. Fu una notte detestabile. Durante le prime ore piovve a dirotto, poi venne il freddo e un vento gelato c'investì da tutte le parti. Bagnati, tremanti, battendo i denti, ci stringemmo l'uno nelle braccia dell'altro, rimpiangendo la caverna che il calore dei nostri corpi riscaldava così presto e dove eravamo al sicuro e all'asciutto.


L'alba ci trovò in condizioni pietose, ma risoluti a non trascorrere più un'altra notte come quella. Ricordandoci dei nidi arborei dei nostri genitori, ci mettemmo a fabbricarne uno per nostro uso.


Costruimmo la carcassa d'un rozzo nido e sui rami più elevati collocammo le travi per reggere il tetto. Allora il sole si levò e sotto la sua benefica influenza dimenticammo le sofferenze della notte e partimmo per procurarci la colazione. Poi, e questo spiega quanto fosse illogica la vita in quell'epoca, incominciammo a giocare. Ci volle un buon mese di lavoro intermittente per costruire il nostro domicilio arboreo, il quale, una volta ultimato, non ci servì più a nulla.


Ma io qui anticipo gli avvenimenti della mia storia. Quando, nella mattina che seguì la nostra partenza dalle caverne, ci mettemmo a giocare dopo aver fatto colazione, Orecchiuto mi inseguì fra gli alberi sino al fiume. Lo raggiungemmo nel punto in cui sboccava un vasto emissario proveniente dalla palude dei mirtilli. La foce dell'emissario era larga e non aveva corrente. Proprio all'imboccatura giaceva, abbandonato sull'acqua stagnante, un ammasso di tronchi d'albero, di cui alcuni disseccati e privi di rami a causa dello strofinamento prodotto dalle piene, e a causa di una prolungata esposizione durante numerose estati sui banchi di sabbia.


Galleggiavano alti sull'acqua e beccheggiavano fortemente o si capovolgevano quando li caricavamo col nostro peso.


Qua e là, fra i tronchi, si affacciavano pozze d'acqua, dove guizzavano bande di pesciolini, simili a ghiozzi, che nuotavano in tutti i sensi. Diventammo subito pescatori. Allungati sui tronchi, tenendoci quieti e tranquilli in attesa del passaggio del pesce minuto, facevamo rapide passate con le mani. La pesca venne divorata seduta stante, ancora umida e guizzante, senza che ci accorgessimo della mancanza di sale.


L'imboccatura dell'emissario diventò il nostro posto preferito. Vi passavamo ogni giorno parecchie ore, prendendo il pesce, giocando sui tronchi d'albero, e qui facemmo anche le nostre prime prove di navigazione. Il tronco sul quale Orecchiuto era allungato se ne andò alla deriva. Era coricato sul fianco e dormiva. Una leggera brezza allontanò lentamente l'albero morto dalla riva, e quando mi accorsi della situazione difficile in cui Orecchiuto si trovava, la distanza era troppo grande perché egli potesse saltare a terra.


All'inizio l'incidente mi parve semplicemente comico; ma quando si svegliò in me una di quelle ondate di timore così comuni in quei tempi di perpetua mancanza di sicurezza, fui colpito dal mio proprio isolamento. Ebbi d'improvviso coscienza dell'allontanamento di Orecchiuto su quell'elemento estraneo, sebbene una distanza di pochi piedi ci separasse, e lanciai verso di lui un grido di allarme. Egli si svegliò, spaventato, e si agitò così imprudentemente sul suo tronco, che questo si capovolse, gettandolo in acqua. Tre volte ancora il tronco d'albero fece capitombolare Orecchiuto mentre cercava di rimontarci sopra. Alla fine ci riuscì e ci si tenne fortemente aggrappato, gridando dal terrore.


Io non potevo far nulla, e lui neppure. Ignoravamo completamente che cosa volesse dire nuotare; eravamo già troppo lontani dalle forme inferiori della vita per aver l'istinto del nuoto e non ci eravamo ancora sufficientemente evoluti verso lo stato umano per considerare un simile tentativo come la soluzione di un problema. Desolato, errai sulla riva, seguendo quanto mi fu più possibile da vicino le involontarie evoluzioni di Orecchiuto, mentre egli si lamentava e gridava a tal punto che fu un caso veramente straordinario se non attirò su di noi tutti i carnivori dei dintorni.


Intanto le ore passavano. Il sole si levò al disopra delle nostre teste e incominciò a scendere verso occidente. La leggera brezza cadde e lasciò Orecchiuto sul suo tronco d'albero galleggiante a una distanza di cento piedi dal punto in cui io lo seguivo. Fu allora che, in una maniera o nell'altra, senza che io sappia come, Orecchiuto fece la grande scoperta. Si mise a remare: a remare con le mani. Dapprima la sua progressione fu lenta e irregolare, poi, a poco a poco, la accelerò e incominciò faticosamente ad avvicinarsi alla riva. Io non capivo niente della faccenda; mi sedetti e aspettai, guardandolo, finché non ebbe raggiunto la terra ferma.


Ma egli aveva imparato qualcosa, cosa che io non avevo fatto. Più tardi, in quello stesso pomeriggio, egli, con deliberato proposito, si allontanò dalla riva sul tronco d'albero. Più tardi ancora, mi persuase a raggiungerlo, e così anch'io imparai a remare con le mani.


Per parecchi giorni non ci allontanammo più dall'emissario; eravamo così presi dal nuovo gioco che quasi ci dimenticavamo di mangiare.


Durante la notte ci annidavamo su un albero vicino, e avevamo dimenticato persino l'esistenza d'Occhiorosso.


Provammo di continuo altri tronchi e ben presto riuscimmo a scoprire che più essi erano piccoli, più era facile farli avanzare. Ci accorgemmo pure che più il tronco era piccolo e più era suscettibile di capovolgersi e di farci fare delle immersioni. Imparammo ancora qualche altra cosa a proposito dei piccoli tronchi d'albero. Un giorno remavamo ognuno su un tronco, uno di fianco all'altro, e così, incidentalmente, mentre giocavamo, scoprimmo che se uno di noi si aggrappava con una mano e un piede al tronco dell'altro, entrambi i tronchi erano resi più stabili e non si capovolgevano più. Allungati sui tronchi a quel modo, le nostre mani e i nostri piedi restavano liberi per remare all'esterno dei due tronchi. La scoperta finale fu che quella posizione ci consentiva di usare tronchi ancora più piccoli e conseguentemente di ottenere una velocità maggiore. Le nostre scoperte si fermarono qui. Avevamo inventato la più primitiva delle zattere e l'insufficienza del nostro buon senso non ci permetteva di rendercene conto. Mai ci venne in mente l'idea di legare i tronchi l'uno all'altro con ramoscelli resistenti o con radici fibrose: ci contentavamo di tener fermi i tronchi con le mani e con i piedi.


Quando il nostro primo entusiasmo per la navigazione si calmò e ricominciammo a tornare alla nostra dimora arborea per passarvi la notte, incontrammo la Rapida. La vidi per la prima volta mentre coglieva ghiande novelle sui rami di una grande quercia vicino alla nostra. Era timidissima. All'inizio si mostrò tranquilla; ma quando si vide scoperta, si lasciò cadere a terra e fuggì rapidamente. Nei giorni successivi, la scorgemmo di quando in quando; poi ci mettemmo a cercarla ogni volta che andavamo o venivamo tra il nostro albero e l'imboccatura dell'emissario.


Un giorno essa non fuggì. Era in attesa del nostro arrivo e ci lanciò persino richiami dolci e invitanti. Non potemmo tuttavia avvicinarci a lei, perché non appena le sembrava che le fossimo giunti troppo vicino, fuggiva subito, e da lontano ricominciava con grazia i suoi richiami. Questo gioco durò parecchi giorni. Ci occorse insomma diverso tempo per fare la sua conoscenza, ma finalmente vi riuscimmo ed essa prese parte qualche volta ai nostri divertimenti.


Mi piacque fin dal principio. Era dolcissima e di aspetto piacevole.


Aveva gli occhi più teneri che avessi mai incontrato. In ciò differiva profondamente dalle ragazze e dalle donne della Specie, che erano delle vere virago. Non lanciava mai grida aspre, irritate, e per lei sembrava naturale sfuggire le complicazioni anziché far loro fronte e combatterle.


La dolcezza che ho accennato sembrava emanare da tutto il suo essere:


era dovuta all'aspetto del suo corpo e del suo viso. I suoi occhi erano più grandi e pure meno cavernosi di quelli della generalità della Specie, le ciglia più lunghe e più regolari. Il naso non era grosso e appiattito come il nostro, ma ben profilato, e le narici s'aprivano verso il basso. I suoi incisivi non erano grandi, il labbro superiore non era lungo e pendente, né quello inferiore sporgeva troppo. Non era molto pelosa, tranne sulla parte esteriore delle braccia e delle gambe, e sulla parte superiore della schiena; e se le anche erano sottili, i polpacci non erano contorti e nodosi.


Nel gettare su di lei uno sguardo retrospettivo, durante i miei sogni del ventesimo secolo, mi è sempre venuto in mente che avesse dei legami di parentela col Popolo del Fuoco. Suo padre, oppure sua madre, potevano benissimo provenire da quella più nobile stirpe. Casi simili, sebbene rari, si verificano qualche volta, e io stesso ho visto coi miei propri occhi tali esempi in alcuni membri dell'Orda, che rinnegavano questa per andare a vivere col Popolo degli Alberi.


Ma tutto ciò non ha nulla a che fare col mio racconto. La Rapida differiva radicalmente da tutte le femmine dell'Orda e perciò mi piacque fin dal principio. La sua dolcezza e la sua grazia mi seducevano. Non era mai brusca né di spirito battagliero; riusciva sempre a scappare, e ciò mi suggerì il nome che le ho dato. Si arrampicava sugli alberi molto meglio di Orecchiuto e di me. Quando giocavamo a inseguirci, riuscivamo a raggiungerla per caso, mentre lei ci prendeva quando voleva. Era notevolmente rapida in tutti i suoi movimenti, e nel valutare le distanze aveva un'abilità che era eguagliata solo dalla sua audacia.


Timida sino all'eccesso in quasi tutte le cose, era senza alcun timore quando si trattava di arrampicarsi o di correre sui rami, e, paragonati a lei, Orecchiuto e io, eravamo goffi, lenti, paurosi.


Doveva essere orfana perché non la vedemmo mai in compagnia di altri e non si sarebbe potuto dire da quanto tempo vivesse sola al mondo.


Aveva dovuto apprendere prestissimo nella sua infanzia che era possibile trovare sicurezza solo nella fuga. Era prudentissima e molto saggia. Per Orecchiuto e per me divenne una specie di gioco cercare di scoprire il luogo in cui viveva. Certamente aveva un nido in qualche parte e non molto lontano; ma per quanto ne seguissimo le tracce, non riuscimmo a sapere dove. Consentiva volentieri a giocare con noi durante il giorno, ma conservava gelosamente il segreto del suo domicilio.




11


Bisogna che il lettore tenga presente che la descrizione da me fatta della Rapida non è quella che ne avrebbe data Gran Dente, l'altro IO dei miei sogni, il mio antenato preistorico. E' con l'intermediario dei miei sogni che il mio IO moderno guarda e vede con gli occhi di Gran Dente.


La stessa cosa avviene per molti avvenimenti di quell'epoca lontana che io ricostruisco qui. C'è nelle mie impressioni un dualismo troppo confuso perché io ne imponga la noia ai lettori. Soltanto qui io arresto il corso del mio racconto per segnalare questo dualismo, questa imbarazzante confusione di personalità. E' il mio IO moderno quello che guarda indietro al disopra dei secoli, che valuta, che analizza le emozioni e i moventi di Gran Dente, l'altro IO; lui, che non si preoccupava affatto di valutare e analizzare, essendo la semplicità personificata. Egli viveva semplicemente gli eventi, senza mai riflettere e chiedersi perché li vivesse in quella maniera così speciale e spesso bizzarra.


Quando il mio IO moderno divenne più maturo di età, penetrai sempre più nel fondo dei miei sogni. Si può sognare e nel corso stesso del proprio sogno sapere che si sogna e, se il sogno è penoso, riconfortarsi con l'idea che è solo un sogno: tutto ciò è accaduto spesso, a tutti. Fu così che il mio IO moderno penetrò spesso nel mio sogno e, nella strana personalità doppia che ne risultava, esso fu a un tempo attore e spettatore; e più di una volta è stato turbato e contrariato per quello che il mio IO primitivo aveva di sciocco, d'illogico, d'ottuso e in generale d'inverosimilmente stupido.


Ancora una parola prima che io abbandoni questa digressione. Avete mai sognato che sognavate? I cani sognano, i cavalli sognano, tutti gli animali sognano. Al tempo di Gran Dente, gli antenati dell'uomo sognavano e quando facevano cattivi sogni lanciavano urli dormendo.


Ebbene, il mio IO moderno si è coricato al fianco di Gran Dente e ha sognato i suoi sogni.


Mi rendo benissimo conto di come questo sorpassi quasi i limiti dell'intelligenza, ma so che la cosa mi è realmente accaduta.


Permettetemi di dirvi che i sogni durante i quali Gran Dente volava e si arrampicava erano per lui così vivi come per voi il sogno della caduta attraverso lo spazio.


Perché Gran Dente aveva anche lui un altro IO, e quando dormiva, quest'altra personalità tornava in sogno fino al passato, verso i rettili alati, verso i draghi che precipitavano e cozzavano fra di loro, e più lontano ancora, verso la vita affaccendata, brulicante dei mammiferi minuscoli, e più lontano ancora, verso il limo della riva del mare dell'età primitiva. Io non posso, né oso dirne di più; tutto ciò è troppo vago, troppo complicato, troppo terribile. Io posso solo segnalare queste vaste e terrificanti prospettive, attraverso le quali ho potuto confusamente gettare sguardi vaghi sull'evoluzione della vita, non solo risalendo dalla scimmia sino all'uomo, ma partendo ancora da più in basso, dal verme.


E ora torniamo alla mia storia. Gran Dente, il mio IO di allora, non vedeva nella Rapida la creatura dai tratti più fini, dalle linee più armoniose, dalle ciglia più lunghe, dal naso meglio conformato, dalle narici aperte verso il basso, il cui insieme tendeva verso la bellezza. La conoscevo solo come la giovane femmina dagli occhi teneri, che guardava dolcemente e non si batteva mai. Senza sapere perché, mi piaceva giocare con lei, fare insieme a lei scorrerie alla ricerca della preda, o a snidare gli uccelli. Confesso che essa mi diede eccellenti lezioni sull'arte di arrampicarsi sugli alberi. Era abilissima, e molto robusta, e i movimenti del suo corpo non erano certo impacciati da gonne troppo aderenti.


Verso quest'epoca si produsse una certa defezione da parte di Orecchiuto. Prese l'abitudine di allontanarsi spesso in direzione dell'albero dove viveva mia madre. S'era affezionato alla mia maligna sorellastra, e lo Schiamazzatore aveva finito col tollerare la sua presenza. C'erano anche parecchi altri ragazzacci, progenitura di coppie monogame che vivevano nelle vicinanze, coi quali Orecchiuto giocava.


Non riuscii mai a convincere la Rapida a unirsi a loro. Ogni volta che io andavo a raggiungerli, lei restava indietro e spariva. Ricordo di aver fatto una volta un serio sforzo per indurla a venire con noi, ma gettò dietro di sé sguardi inquieti e batté in ritirata, chiamandoci dall'alto di un albero. Per questo motivo non presi l'abitudine di accompagnare Orecchiuto quando si recava dai suoi nuovi amici. La Rapida e io eravamo buoni compagni, ma io ebbi un bel cercare, non riuscii mai a scoprire l'albero in cui abitava. Senza dubbio, se non fosse sopraggiunta qualche cosa, ci saremmo ben presto uniti, poiché la nostra simpatia era reciproca; ma questo qualche cosa purtroppo sopravvenne.


Una mattina in cui la Rapida non si era fatta vedere, Orecchiuto e io c'intrattenevamo all'imboccatura dell'emissario, giocando sui tronchi d'albero. Eravamo appena in moto quando fummo sorpresi da un ruggito di rabbia. Era Occhiorosso. Accovacciato sull'ammasso dei tronchi ci lanciava lunghi sguardi d'odio. Avemmo orribilmente paura, dato che lì non c'era nessuna caverna dall'apertura stretta per darci asilo. Ma i venti piedi che ci separavano da lui ci offrivano una sicurezza momentanea, per cui subito riprendemmo coraggio.


Occhiorosso sorse in piedi e incominciò a picchiarsi col pugno il petto villoso. I nostri due tronchi d'albero erano fianco a fianco: ci mettemmo a sedere e cominciammo a dileggiare il mostro. All'inizio il nostro riso fu timido, pervaso di timore; ma quando raggiungemmo la convinzione dell'impotenza del nostro nemico, diventò molto rumoroso.


La rabbia di Occhiorosso aumentò; digrignava i denti nella sua vana collera. Nella nostra supposta sicurezza, ci beffavamo di lui ancor più audacemente. Eravamo membri della Specie, e perciò poco perspicaci.


Occhiorosso cessò bruscamente di percuotersi il petto e di digrignare i denti: poi, scavalcando i tronchi d'albero, corse fino alla riva.


Allora la nostra gioia si tramutò in costernazione. Occhiorosso non aveva l'abitudine di rinunciare così facilmente alle proprie vendette.


Tremanti di paura, ci tenevamo in attesa di quel che stava per seguire. L'idea di allontanarci remando non ci passò neppure per la mente. Il mostro tornò a grandi passi attraverso l'ammasso di tronchi d'albero, recando una manciata di ciottoli rotondi, levigati dall'acqua. Fu una fortuna che non trovò proiettili più grossi, come, ad esempio, pietre di due o tre libbre, perché non eravamo a più di una ventina di piedi da lui e ci avrebbe sicuramente uccisi.


Comunque sia, il nostro pericolo non era lieve. Zip! Un ciottolo minuscolo fischiò passando con la velocità di una pallottola.


Orecchiuto e io cominciammo a remare follemente. Un altro fischio.


Orecchiuto lanciò un grido di dolore: il ciottolo l'aveva colpito fra le due spalle. Poi ne ricevetti uno io che mi fece urlare. La sola cosa che ci salvò fu l'esaurimento delle munizioni di Occhiorosso.


Egli corse a cercarne di nuove sul banco di ghiaia, mentre Orecchiuto e io ci allontanavamo remando.


Giungemmo gradualmente fuori tiro, mentre Occhiorosso continuava ad approvvigionarsi di proiettili e i ciottoli fischiavano ancora intorno a noi. Al centro dell'emissario c'era una leggera corrente e nella nostra agitazione non ci accorgemmo che ci trascinava nel fiume.


Mentre remavamo, Occhiorosso restava vicino a noi per quanto gli era possibile, seguendoci lungo la riva. Scoprì allora pietre più grosse il cui impiego aumentò la portata del suo tiro. Un proiettile, che pesava almeno cinque libbre, si abbatté sul tronco d'albero proprio vicino a me, e il colpo fu tale che fece penetrare nella mia gamba una quantità di schegge di legno, pungenti come aghi di fuoco: se invece del tronco il ciottolo avesse colpito me, mi avrebbe ucciso.


Allora fummo trascinati dalla corrente del fiume. Remavamo così furiosamente che Occhiorosso fu il primo ad accorgersene e ne fummo avvertiti dal suo urlo trionfante. Nel punto dove l'acqua dell'emissario incontrava la corrente del fiume, si formava una serie di risucchi o di piccoli gorghi, che afferrarono la nostra zattera rudimentale, la fecero girare su se stessa, gettandola avanti e indietro e in tutti i sensi. Cessando di remare consacrammo tutte le nostre energie per mantenere affiancati i due tronchi. Durante questo tempo, Occhiorosso continuava il suo tiro, le pietre ci cadevano intorno, facendo zampillare l'acqua su di noi e minacciando le nostre esistenze. Egli ci divorava con gli occhi, urlando in maniera selvaggia.


Il fiume formava un brusco gomito nel punto dove sboccava l'emissario, e la sua corrente si trovava per questo fatto interamente rigettata verso l'altra riva. Di conseguenza, i nostri tronchi deviarono rapidamente verso quella sponda, la sponda nord, pur continuando a deviare per la corrente. In tal modo ci trovammo in pochi istanti fuori della portata del tiro di Occhiorosso e finalmente lo vedemmo in lontananza, su un promontorio della riva, che danzava dalla gioia e cantava un peana di vittoria.


Orecchiuto e io badavamo soltanto a impedire ai tronchi di scostarsi.


Eravamo rassegnati alla nostra sorte, e restammo rassegnati fino al momento in cui ci rendemmo conto che la corrente ci aveva fatto deviare a meno di cento piedi dalla riva nord. Allora ci mettemmo a remare per raggiungere la terra. Qui la forza della corrente era rigettata verso la riva sud, e il risultato dei nostri sforzi fu che la tagliammo nel punto in cui era più rapida e stretta. Prima di aver potuto dubitarne, ne eravamo usciti e ci trovavamo in una controcorrente più calma.


La nostra zattera deviò lentamente, e alla fine si arenò a pochi passi dalla riva. Orecchiuto e io ci arrampicammo a terra. I due tronchi d'albero, alleggeriti del nostro peso, lasciarono allora la controcorrente e discesero lungo il filo dell'acqua. Ci guardammo, ma senza ridere questa volta; eravamo in un paese sconosciuto e non pensavamo che ci sarebbe stato possibile tornare a casa allo stesso modo di come ne eravamo partiti.


Senza che lo sapessimo, avevamo appreso ad attraversare un fiume, cosa che nessun altro membro della Specie aveva fatto fino allora. Eravamo i primi della Specie a metter piede sulla riva nord del fiume e credo che fummo anche gli ultimi. E' indubbio che il fatto si sarebbe verificato prima o poi, ma la migrazione del Popolo del Fuoco e la dispersione che ne risultò tra i sopravvissuti della Specie ritardarono questo avvenimento di parecchi secoli.


E' veramente impossibile dire quanto fu disastroso il risultato della migrazione del Popolo del Fuoco. Personalmente tendo a credere che essa causò la distruzione della mia Specie; che noi, ramo di vita inferiore tendente verso l'uomo, fummo distrutti in blocco, trovando la nostra fine nelle vicinanze della foce muggente, dove il fiume raggiungeva il mare. Naturalmente, in questa ipotesi bisogna spiegare la mia esistenza; ma io non voglio anticipare nulla del mio racconto, e darò questa spiegazione più tardi, prima della fine.




12


Non ho alcuna idea del tempo durante il quale Orecchiuto e io errammo nel territorio situato a nord del fiume. Per calcolare quale probabilità vi fosse per noi di ritornare ai nostri luoghi d'origine, bisogna pensare che eravamo come marinai naufragati in un'isola deserta. Volgemmo le spalle al fiume e per settimane e mesi errammo in quel deserto in cui la Specie era sconosciuta. Mi riesce difficile ricostruire il nostro viaggio e impossibile farlo senza soluzione di continuità. L'insieme della visione che ne conservo è nebbioso e indistinto, anche se qua e là ho dei ricordi vivi degli avvenimenti che si verificarono.


Ricordo specialmente la fame che ci toccò patire nelle montagne situate fra il Lago Lungo e il Lago Lontano, e il vitello che sorprendemmo mentre dormiva in una boscaglia; come pure ricordo il Popolo degli Alberi, che viveva nella foresta che si estendeva tra il Lago Lungo e le montagne, e che ci diede una caccia spietata tra quelle montagne, costringendoci a fuggire verso il Lago Lontano.


Dapprima, dopo aver lasciato il fiume, camminammo verso occidente fino a un piccolo corso d'acqua che scorreva in un terreno paludoso. Da qui facemmo un giro verso il Nord, costeggiando le paludi, e dopo parecchi giorni di marcia arrivammo a quello che ho chiamato Lago Lungo.


Passammo qualche tempo alla sua estremità superiore, dove trovammo in abbondanza di che saziarci; e lì, un giorno, nella foresta, cademmo nelle mani del Popolo degli Alberi. Questi esseri erano scimmie feroci, né più né meno, e tuttavia non differivano molto da noi.


Erano, è vero, più pelosi; avevano gambe un po' più contorte e nodose, occhi un po' più piccoli, collo un po' più corto e più grosso, le narici somigliavano un po' più delle nostre a due buchi aperti in una depressione alla superficie del viso; ma la faccia, la pianta delle mani e dei piedi erano glabre. Come noi essi emettevano suoni, con significati quasi analoghi. Tutto sommato, il Popolo degli Alberi e la Specie non erano molto dissimili.


Lo vidi subito: un vecchietto vacillante, magro, appassito, con la faccia solcata da rughe e gli occhi cisposi. Era una preda legittima.


Nel nostro mondo non vi era nessuna simpatia fra le diverse specie, e questi non apparteneva alla nostra specie: era un Uomo degli Alberi e per di più vecchio, molto vecchio. Se ne stava seduto ai piedi di un albero, che era evidentemente il suo albero, dato che potemmo vedere tra i rami il nido in rovina dove trascorreva la notte.


Lo mostrai a Orecchiuto e ci precipitammo su di lui. Egli tentò di arrampicarsi sul suo albero, ma fu troppo lento. Lo agguantai per una gamba e lo gettai a terra. Allora ci divertimmo a pizzicarlo, a tirargli i peli, a torcergli gli orecchi, a fargli il solletico e a pungerlo con la punta di un bastone, ridendo fino alle lacrime. La sua vana collera era assurda. Buffissimo era poi il suo tentativo di rianimare l'ardore spento della sua gioventù, di resuscitare la sua forza esaurita dagli anni; faceva smorfie che nella sua intenzione dovevano essere feroci; ma in realtà erano lamentose; digrignava i denti - denti che non erano più che radici -; si batteva coi pugni impotenti il magro petto.


E tossiva, e sospirava, e barbugliava, balbettava prodigiosamente.


Ogni volta che tentava di arrampicarsi sull'albero lo tiravamo a terra, e così bene che alla fine si diede per vinto; si sedette e pianse, mentre Orecchiuto e io, anche noi seduti, tenendoci sottobraccio, ridevamo della sua angoscia.


Dai pianti passò ai gemiti, dai gemiti alle lamentele, per arrivare a un grido acuto. La cosa ci allarmò, ma più noi volevamo farlo tacere, più lui gridava forte. Allora, da un punto non molto lontano della foresta un "Goëk! Goëk!" giunse fino alle nostre orecchie. Numerosi altri richiami risposero a questo, sinché da lontano si levò una voce di basso profondo: "Goëk! Goek!" Poi il grido di adunata: "Huu-huu!" sorse intorno a noi nella foresta.


Allora incominciò la caccia, che sembrava non dovesse mai più finire.


Tutta una tribù c'inseguì sugli alberi e poco mancò che ci pigliasse.


Dovemmo rifugiarci sul suolo, dove avevamo qualche vantaggio, dato che essi erano Uomini degli Alberi di nome e di fatto e se ci superavano nell'arrampicarsi, noi li battevamo nella corsa sul suolo. Filammo verso il Nord con la tribù urlante alle calcagna. Nelle radure guadagnavamo terreno, ma sotto i boschi era per loro facile raggiungerci e più di una volta ci serrarono da presso. Mentre la caccia continuava, capimmo che anch'essi erano d'una specie diversa dalla nostra, e che i legami che potevano unirci non avevano nulla di simpatico.


C'inseguirono per ore e ore e la foresta sembrava infinita. Cercavamo di restare per quanto più possibile nelle radure, ma esse sboccavano sempre in una foresta più fitta. Talvolta pensavamo d'essere sfuggiti all'inseguimento e ci mettevamo a sedere per riposarci un po'; ma sempre prima che avessimo ripreso respiro, udivamo l'odioso "Huuhuu!" e i terribili "Goëk! Goëk!" e questi ultimi talvolta prolungati da un selvaggio "Ah ah-ah! ah ha-a-a-a!".


Così fummo inseguiti attraverso la foresta dal Popolo degli Alberi esasperato. Alla fine, verso la metà del pomeriggio, i pendii incominciarono a elevarsi sempre più e gli alberi divennero più piccoli. Poi arrivammo sui fianchi erbosi delle montagne. Qui riuscimmo a prendere un buon vantaggio e gli Uomini degli Alberi abbandonarono la caccia per tornare nella loro foresta.


Siccome la montagna era brulla e inospitale, per tre volte in quel pomeriggio tentammo di raggiungere di nuovo la foresta. Ma il Popolo degli Alberi si teneva in agguato e ci respinse. Orecchiuto e io passammo la notte su un albero nano non più alto di un cespuglio. Non vi eravamo affatto al sicuro e saremmo stati facile preda per un animale in caccia che fosse sopraggiunto.


La mattina seguente, a causa del rispetto che ci eravamo dovuti imporre per il Popolo degli Alberi, partimmo per la montagna. Sono certo che non avevamo un piano definito, neanche un'idea di quel che ci conveniva fare. Eravamo soltanto sospinti in avanti dal pericolo al quale eravamo sfuggiti. Delle nostre peregrinazioni attraverso le montagne non ho che ricordi nebulosi. Per parecchi giorni ci aggirammo in quella regione desolata e soffrimmo molto, specie per la paura, perché tutto quel che vedevamo era per noi nuovo e strano. Soffrimmo il freddo, e più tardi anche la fame.


Era un paese completamente scoperto, formato di rocce, di ruscelli spumeggianti e di cateratte risonanti. Salivamo e scendevamo alla ventura per valli e gole terribili; e sempre, qualunque fosse il posto da cui guardavamo, si stendevano dinanzi a noi, in tutte le direzioni, catene su catene di montagne interminabili. Dormivamo la notte nelle buche e nei crepacci, e una notte ci appollaiammo sulla sommità di una sottile punta di roccia che somigliava quasi a un albero.


Finalmente, nel mezzo d'una giornata afosa, quando la fame ci dava il capogiro, raggiungemmo la parte più elevata della catena. Da questa spina dorsale sollevata dalla terra, guardando verso Nord, al di là delle montagne che si succedevano le une alle altre sempre più basse, intravedemmo un lago lontano, sul quale il sole scintillava. Era circondato da rive erbose, piatte, prive di alberi. E verso l'Est vedemmo la linea nera d'una foresta, ampia e lunga.


Ci occorsero due giorni per scendere fino al lago, ed eravamo esauriti dalla fame quando lo raggiungemmo. Sulla riva trovammo un vitellino da latte che dormiva pacificamente al riparo d'una macchia. Esso ci fece molto male, perché noi non conoscevamo altro mezzo per ucciderlo all'infuori delle nostre mani. Soddisfatta come si deve la nostra fame, portammo il resto della carne nella foresta, che era a oriente, e la nascondemmo tra i rami di un albero. Non tornammo però mai più a riprenderla, perché il corso d'acqua che usciva dal Lago Lontano brulicava di salmoni, risaliti dal mare per deporre le uova.


A occidente del lago si stendevano praterie dove passavano moltitudini di bisonti e altro bestiame selvaggio. C'erano anche mute di cani selvatici, e poiché non esistevano alberi, la località non era sicura per noi. Camminammo verso il Nord, seguendo il corso d'acqua per diversi giorni. Allora, e ignoro per quale ragione, abbandonammo improvvisamente il corso d'acqua per piegare verso Est, poi verso Sud- Est, attraverso una grande foresta. Ma non vorrei annoiare i lettori coi particolari del nostro viaggio; lo faccio soltanto per mostrare come arrivammo finalmente nel paese degli Uomini del Fuoco.


Sbucammo sul fiume, ma senza sapere che era il nostro fiume. Avevamo errato così a lungo che finimmo per accettare come normale il nostro stato di sperduti. Quando ci penso, vedo chiaramente come le nostre esistenze e i nostri destini siano modificati dal più semplice caso.


Non sapevamo che quello era il nostro fiume; nulla l'indicava; e se non l'avessimo riattraversato, non saremmo probabilmente mai più tornati in mezzo all'Orda; e io, il moderno, che dovevo nascere mille secoli più tardi, non sarei venuto al mondo.


Orecchiuto e io desideravamo ardentemente di tornare. Durante il nostro viaggio avevamo provato la nostalgia del paese d'origine, l'aspirazione verso la nostra specie e la nostra terra; spesso mi aveva assalito il ricordo della Rapida, la giovane femmina che lanciava dolci grida, di cui mi piaceva la compagnia e che viveva sola, senza che nessuno sapesse dove. I ricordi che avevo di lei erano accompagnati da sensazioni di fame, che provavo anche quando non ero affamato, quando avevo appena finito di mangiare.


Ma torniamo al fiume. Là il nutrimento era abbondante; consisteva soprattutto in bacche e in radici succulente. Ci attardammo parecchi giorni sulla riva a giocare. Allora Orecchiuto ebbe un'idea. Fu un fatto visibile, di cui io fui testimone: la venuta d'un'idea.


L'espressione dei suoi occhi divenne triste e dolente ed egli fu fortemente agitato. Tentò di parlare; non vi riuscì; non vi riuscì perché non possedeva i suoni necessari per esprimere l'idea. Il risultato dei suoi sforzi fu un barbugliamento che mi fece ridere. Ciò lo mandò in bestia; mi afferrò all'improvviso e mi gettò a terra.


Naturalmente ci battemmo e alla fine lo inseguii sulla cima di un albero, dove egli si armò d'un lungo ramo col quale mi percosse ogni volta che tentavo di raggiungerlo.


Intanto l'idea aveva cessato di brillare. Io non la conoscevo e Orecchiuto l'aveva dimenticata. Ma la mattina seguente essa sorse di nuovo nel suo cervello. Era forse l'istinto del ritorno che si affermava in lui a far persistere l'idea: in ogni caso essa c'era, e più chiara di prima. Mi fece scendere fino al fiume, dove un tronco s'era incagliato sulla riva. Credetti che avesse voglia di giocare, come avevamo fatto all'imboccatura dell'emissario, e non cambiai parere quando lo vidi trascinare un secondo tronco che giaceva più lontano, a valle.


Solo quando, dopo aver remato, tenendo affiancati i due tronchi, giungemmo fino alla corrente, mi resi conto dell'intenzione di Orecchiuto. Egli mi additò la riva opposta e ricominciò subito a remare, lanciando alte grida d'incoraggiamento. Compresi e remammo con forza. La corrente rapida ci afferrò, ci gettò verso la riva meridionale, ma prima che avessimo potuto atterrare, ci respinse verso la riva opposta.


Allora sorse il dissenso. Vedendo la riva nord così vicina, incominciai a remare verso quella direzione per approdarvi. Orecchiuto si sforzava di raggiungere la riva meridionale. I tronchi d'albero girarono su se stessi, descrivendo cerchi; non andavano in nessuna direzione e la foresta sfilava davanti a noi, mentre scendevamo lungo la corrente.


Non potevamo batterci, poiché non eravamo tanto sciocchi da tralasciare di tener riuniti i due tronchi con l'aiuto dei piedi e delle mani. Ma schiamazzammo e c'insultammo fino al momento in cui la corrente ci portò di nuovo verso la riva meridionale. In quel momento era quella la meta più prossima, e d'accordo e amichevolmente remammo per raggiungerla. Sbarcammo in una controcorrente e ci arrampicammo immediatamente sugli alberi per fare una ricognizione.




13


La sera del primo giorno trascorso sulla riva meridionale del fiume scoprimmo gli Uomini del Fuoco. Doveva trattarsi di un gruppo di cacciatori erranti, i quali s'erano accampati non molto lontani dall'albero che Orecchiuto e io avevamo scelto per alloggiare durante la notte. All'inizio le voci degli Uomini del Fuoco ci allarmarono; ma più tardi, quando sopraggiunse l'oscurità, il fuoco ci attrasse.


Scivolammo con cautela e in silenzio d'albero in albero fino a un punto dove avemmo una buona visione dello spettacolo.


In una radura in mezzo agli alberi, vicino al fiume, ardeva un fuoco, e intorno a esso si trovavano una mezza dozzina di Uomini del Fuoco.


Improvvisamente Orecchiuto si aggrappò a me e sentii che tremava.


Guardai più attentamente e vidi il piccolo vecchio grinzoso la cui freccia aveva, alcuni anni prima, fatto cadere Sdentato dall'alto di un albero. Quando egli si levò e s'aggirò intorno al fuoco gettandovi della legna, notai che zoppicava dalla gamba inferma. Qualunque fosse, la sua infermità era permanente. Sembrava più secco e incartapecorito che mai e il pelo del viso era tutto grigio.


Gli altri cacciatori erano giovani. Notai, posati a terra accanto a loro, gli archi e le frecce, e riconobbi quelle armi. Gli Uomini del Fuoco portavano pelli intorno ai fianchi e sulle spalle; in compenso avevano braccia e gambe nude e non portavano calzature. Come ho già detto, erano meno pelosi di noialtri della Specie. Non avevano la testa grossa e fra loro e quelli della Specie c'era pochissima differenza nel grado d'inclinazione della fronte.


Camminavano meno curvi di noi ed erano meno elastici nei movimenti.


Schiena, anche e ginocchi sembravano più rigidi. Le braccia non erano lunghe quanto le nostre, e notai che nel camminare non si equilibravano mai toccando il suolo da una parte e dall'altra con le mani. I loro muscoli erano più pieni e simmetrici, e l'insieme del viso più gradevole. Le narici si aprivano verso il basso, e anche il profilo del naso era più sviluppato, non aveva un aspetto appiattito, schiacciato come il nostro. Le labbra erano meno molli, meno pendenti, e i canini meno simili a zanne. Tuttavia erano stretti di bacino come noi e non pesavano di più. Tutto sommato, differivano da noi meno di quanto noi stessi differissimo dal Popolo degli Alberi. Certamente le tre specie erano affini e d'un'affinità abbastanza stretta.


Il fuoco intorno al quale sedevano era particolarmente attraente.


Orecchiuto e io passammo ore e ore a guardare le fiamme e il fumo.


Soprattutto affascinava quando, dopo che vi avevano aggiunto del combustibile, nubi di scintille si levavano in aria. Avrei ben voluto accostarmi al fuoco e guardarlo, ma non c'era mezzo. Eravamo rannicchiati nell'inforcatura di un albero sul limitare di una radura e non osavamo correre il rischio d'essere scoperti.


Gli Uomini del Fuoco, accoccolati intorno al focolare, dormivano col capo appoggiato sulle ginocchia. Il loro sonno non era profondo; le orecchie si muovevano leggermente e apparivano agitate. Spessissimo l'uno o l'altro si levava e alimentava il fuoco gettandovi altra legna. Nell'oscurità, oltre il cerchio di luce proiettata sulla foresta, erravano le bestie da preda che Orecchiuto e io eravamo in grado di riconoscere dai diversi rumori che facevano. C'erano cani e pure una iena e a un certo momento si levò un gran baccano di abbaiamenti e di brontolii che svegliò bruscamente tutto il circolo dei dormienti.


Poi un leone e una leonessa sostarono sotto il nostro albero, guardando avidamente con la criniera irta e gli occhi inquieti. Il leone si leccava i baffi, era eccitato, come se volesse avanzare e fare un buon pasto; la leonessa era più prudente. Fu lei che ci scoprì; allora la coppia si arrestò e ci guardò in silenzio, fiutandoci con le narici palpitanti. Alla fine emisero brontolii, lanciarono un ultimo sguardo verso il fuoco e tornarono nella foresta.


Per molto tempo ancora Orecchiuto e io restammo a guardare. Di quando in quando udivamo gli scricchiolii prodotti da corpi pesanti che si muovevano fra la massa degli alberi e nelle macchie basse, e nell'oscurità che regnava fuori del cerchio di luce, potevamo vedere occhi brillare ai riflessi del fuoco. In lontananza udimmo ruggire un leone; ancora più lontano si levò il grido di qualche animale colpito, che batteva l'acqua e guazzava in un abbeveratoio. Dal fiume salirono pure i brontolii prolungati dei rinoceronti.


La mattina, dopo aver dormito, ci accostammo di nuovo cautamente verso il fuoco. Esso covava ancora sotto la cenere e gli Uomini del Fuoco erano partiti. Facemmo un giro nella foresta per assicurarci che si erano definitivamente allontanati, poi tornammo di corsa verso il braciere. Volevo rendermi conto a che cosa somigliasse il fuoco, e raccolsi fra il pollice e l'indice un carbone ardente. Il grido di dolore e di spavento che lanciai, mentre lo lasciavo cadere, fece fuggire Orecchiuto sulla cima di un albero; io, preso dal suo stesso panico, ve lo raggiunsi istantaneamente.


La volta successiva tornammo usando una maggiore prudenza ed evitammo il contatto dei carboni ardenti. Ci mettemmo a imitare gli Uomini del Fuoco: accovacciati accanto al braciere, col capo appoggiato sulle ginocchia, facemmo la scena di dormire. Poi volemmo ripetere anche la loro maniera di parlare, ma dalle nostre labbra non uscirono che balbettii inintelligibili. Ricordai di aver visto il vecchio grinzoso attizzare il fuoco con un ramo; feci la stessa cosa anch'io, sollevando masse di carboni ardenti e nuvole di cenere bianca. Come gioco era magnifico, e fummo ben presto coperti di un candido strato di cenere.


Era inevitabile che imitassimo gli Uomini del Fuoco alimentando il braciere. Provammo prima con alcuni ramoscelli. La cosa riuscì. Il legno s'infiammò scoppiettando e per la gioia ci mettemmo a danzare e a schiamazzare pazzamente. Poi ci mettemmo a gettare sul fuoco pezzi di legno di più grossa dimensione; e ce ne mettemmo tanti e tanti finché il braciere diventò enorme. Ci precipitavamo da tutte le parti, trascinando fuori della foresta rami e arbusti morti. Le fiamme lingueggiarono sempre più in alto e la colonna di fumo sorpassava la cima degli alberi. Si udivano crepitii, scoppi e rombi terribili. Era il lavoro più colossale che fosse mai uscito dalle nostre mani e ne eravamo fieri. "Anche noi siamo Uomini del Fuoco", pensavamo danzando sempre come gnomi bianchi attorno alle fiamme.


L'erba secca e i rami che erano sul suolo presero fuoco senza che ce ne accorgessimo. Improvvisamente un grande albero situato sul margine della radura scoppiò in fiamme. Lo guardavamo con occhi sorpresi e il calore ci costrinse a indietreggiare. Un altro albero, e poi un altro ancora e poi una mezza dozzina presero fuoco. Allora fummo presi da paura. Il mostro era scatenato. Ci rannicchiammo spaventati, mentre il fuoco si propagava intorno alla radura e ci avvolgeva da tutte le parti. Negli occhi di Orecchiuto riapparve l'espressione lamentosa che accompagnava sempre in lui la mancanza di comprensione, e so che quello stesso sguardo doveva illuminare anche i miei occhi. Ci aggrappammo l'uno all'altro tenendoci allacciati fino al momento in cui il calore ci raggiunse e l'odore dei peli bruciati giunse alle nostre narici. Allora con un balzo fuggimmo verso occidente, volgendoci di tratto in tratto a guardare indietro e ridendo, ridendo fino alle lacrime mentre correvamo.


A metà del giorno raggiungemmo una lingua di terra, formata, come scoprimmo in seguito, da una gran curva del fiume che formava in quel punto un cerchio quasi completo. Una massa confusa di colline basse e in parte boscose attraversava quella penisola. Raggiungemmo le alture e guardammo indietro verso la foresta; era diventata un mare di fiamme che il vento, alzandosi, faceva ondulare verso oriente. Andammo in direzione opposta, seguendo la riva, e prima che potessimo immaginarcelo, cademmo in pieno sulla residenza degli Uomini del Fuoco.


Essi avevano scelto un punto strategico meraviglioso. Era una penisola, protetta da tre lati dalla curva del fiume: un solo lato era accessibile da terra. Era la parte stretta della penisola, all'ingresso della quale le colline basse formavano una barriera naturale. Isolati così dal resto del mondo, gli Uomini del Fuoco avevano potuto vivere e prosperare in quel sito. In realtà, credo appunto che quella prosperità fu la causa della migrazione successiva, che tanto danno arrecò alla Specie. Gli Uomini del Fuoco avevano dovuto moltiplicarsi eccessivamente fino al punto di ritrovarsi rinchiusi scomodamente entro i limiti del loro dominio. Dovettero fatalmente straripare, e nel corso della loro espansione, scacciarono e distrussero la Specie, si stabilirono nelle sue caverne e occuparono il terreno dove noi avevamo vissuto.


Orecchiuto e io ci preoccupammo ben poco di tutto questo quando ci trovammo nella piazzaforte degli Uomini del Fuoco. Non avevamo che un'idea: fuggire quantunque non potendo fare a meno di soffermarci per soddisfare la nostra curiosità guardando dall'alto il villaggio.


Vedemmo così per la prima volta le donne e i bambini degli Uomini del Fuoco; i bambini scorrazzavano per la maggior parte nudi, ma le donne indossavano pelli di bestie selvagge.


Come noi della Specie, le Genti del Fuoco vivevano nelle caverne. Lo spazio scoperto davanti a queste scendeva in pendio verso il fiume e numerosi fuochi bruciavano sulla riva. Ignoro se le Genti del Fuoco usassero cuocere i loro alimenti: fatto sta che né io né Orecchiuto li vedemmo far cucina. Tuttavia è mia opinione che essi dovevano dedicarsi a una specie di cucina rudimentale. Come noi si servivano di zucche per attingere acqua al fiume. C'era un grande andirivieni nel villaggio, e le donne e i bambini lanciavano alte grida. I piccoli giocavano e sgambettavano qua e là, come facevano i bambini della Specie, ai quali somigliavano più di quanto gli Uomini del Fuoco non somigliassero agli adulti della Specie.


Orecchiuto e io non ci attardammo a lungo; vedemmo una banda di ragazzi che tiravano con l'arco e tornammo furtivamente indietro nel più folto della foresta, proseguendo poi verso il fiume. Lì trovammo una piccola zattera, costruita evidentemente da qualcuno degli Uomini del Fuoco. Erano due tronchi, piccoli e dritti, legati insieme da radici resistenti e da rami fissati trasversalmente.


Questa volta avemmo entrambi la stessa idea. Volevamo fuggire dal paese del Popolo del Fuoco: quale mezzo migliore che attraversare il fiume su quei tronchi d'albero? Vi montammo sopra e ci spingemmo al largo. Qualcosa trattenne all'improvviso la zattera e la rigettò violentemente indietro contro la riva. Questo brusco arresto ci fece quasi cadere in acqua. La zattera era legata a un albero con una gomena di radici intrecciate. La staccammo prima di lanciarci di nuovo in avanti. Quando raggiungemmo il centro della corrente avevamo deviato a valle, sino al punto da trovarci proprio di fronte al villaggio del Popolo del Fuoco. Eravamo così intenti a remare con gli occhi fissi sull'altra sponda, che non ce ne eravamo accorti, fino al momento in cui un grido selvaggio, partito dalla riva, ce ne avvertì.


Ci guardammo intorno: parecchi Uomini del Fuoco ci contemplavano mostrandoci a dito, mentre altri uscivano strisciando dalla caverna.


Ci sedemmo sulla zattera a fissarli, dimenticando di remare. C'era gran confusione sulla riva; alcuni Uomini del Fuoco scaricarono su di noi i loro archi; le frecce caddero numerosissime attorno a noi; ma per buona sorte eravamo fuori tiro.


Quello fu un giorno memorabile per Orecchiuto e per me. A oriente, l'incendio che avevamo provocato riempiva di fumo metà del cielo; ma noi eravamo lì, nel mezzo del fiume, perfettamente al sicuro, sfilando intorno al rifugio del Popolo del Fuoco. Ci mettemmo a sedere sbeffeggiando le Genti del Fuoco, sempre filando, trascinati verso il Sud, poi da Sud-Ovest a Est, a Nord-Est, poi ancora verso Est, seguendo la gran curva doppia in cui il fiume si annodava quasi ripiegandosi su se stesso.


Mentre continuavamo a navigare verso occidente, lasciando il Popolo del Fuoco ben dietro di noi, una scena familiare si svolse davanti ai nostri occhi. Era il grande abbeveratoio sino al quale ci eravamo avventurati una volta o due per vedere l'andirivieni degli animali quando scendevano a dissetarsi al fiume. Sapevamo che più in là c'era il campo di carote, e poi la rupe con le caverne abitate dai nostri.


Incominciammo a remare per raggiungere la riva che sembrava fuggire rapidamente, e prima di aver avuto il tempo di pensarci, approdavamo nel punto dove i membri della Specie avevano l'abitudine di bere.


C'erano donne e bambini, e numerosi portatori d'acqua che riempivano le zucche. Alla nostra vista tutti si diedero a una pazza fuga, abbandonando dietro di sé una fila di zucche.


Sbarcammo, trascurando naturalmente di amarrare la zattera, che si allontanò lungo il filo dell'acqua. Molto prudentemente strisciammo lungo il sentiero. L'Orda era sparita nelle proprie tane, sebbene qua e là si affacciasse qualche volto che ci spiava. Nessun indizio di Occhiorosso. Eravamo tornati a casa. La sera stessa ci coricammo nella nostra piccola caverna, alla sommità della rupe, dopo averne scacciato una coppia di monelli di umore battagliero che ne avevano preso possesso.




14


I mesi si succedettero. Il dramma e la tragedia dell'avvenire non si erano ancora profilati sull'orizzonte, e nel frattempo noi schiacciavamo noci e vegetavamo. Ricordo che l'annata fu buona per le noci; ne riempivamo delle zucche per portarle nei posti dove usavamo schiacciarle; le appoggiavamo in un cavo della roccia e con un ciottolo si compiva l'operazione, mangiandole poi con la stessa rapidità con cui le aprivamo.


Era sopraggiunto l'autunno quando Orecchiuto e io tornammo dal nostro avventuroso viaggio. L'inverno che seguì fu clemente. Feci frequenti escursioni nelle vicinanze del mio albero familiare, e percorsi non meno spesso tutto il territorio fra le paludi dei mirtilli e l'imboccatura dell'emissario dove Orecchiuto e io avevamo imparato a navigare; ma non mi riuscì di scoprire alcuna traccia della Rapida.


Era sparita, e io la desideravo, spinto da quel desiderio ardente di cui ho già parlato, e che era simile alla fame fisica, una fame che sentivo anche a stomaco pieno. Ma ogni ricerca fu vana.


Tuttavia la vita non era monotona alle caverne. Bisognava, è vero, tener conto di Occhiorosso. Orecchiuto e io non avevamo mai un istante di tranquillità, all'infuori dei momenti in cui eravamo rifugiati nella nostra piccola caverna. Per quanto ne avessimo ampliato l'ingresso, avevamo ancora qualche difficoltà a scivolarci dentro, e per quanto continuassimo a ingrandirlo, esso restava ancora troppo angusto per il corpo enorme di Occhiorosso. D'altronde egli non assediò più la nostra caverna. Non aveva dimenticato la lezione ricevuta e portava al collo una grossa protuberanza, che segnava il punto dove era stato colpito dalla scheggia di roccia che gli avevo lanciata. Questa protuberanza, che non scomparve mai, era talmente grossa che la si distingueva benissimo anche da lontano. Mi sono spesso divertito a contemplare quel segno del mio coraggio, la cui vista mi faceva ridere soprattutto quando mi trovavo in perfetta sicurezza.


Sebbene non potessimo contare sul soccorso degli altri nel caso che Occhiorosso ci riducesse in pezzi sotto i loro occhi, tuttavia i membri dell'Orda simpatizzavano grandemente per noi. Non era forse una vera e propria simpatia, ma un modo di esprimere il loro odio verso Occhiorosso. In ogni caso, ci avvertivano sempre del suo avvicinarsi.


Sia nella foresta, sia sulla riva del fiume o nello spazio scoperto davanti alle caverne, essi erano sempre a prevenirci in tempo del pericolo che incombeva su di noi; di modo che avevamo sempre il vantaggio di questa molteplice sorveglianza nella nostra inimicizia con Occhiorosso, l'atavismo.


Una volta Occhiorosso riuscì quasi a cogliermi. Era poco dopo l'alba, e la Specie non si era ancora alzata. La sorpresa fu completa. Nessun mezzo di ritirata verso la mia caverna mi era possibile. In un battibaleno mi precipitai nella caverna a doppia uscita, quella stessa in cui Orecchiuto mi era sfuggito anni prima, e davanti alla quale Dente di Sciabola era stato solennemente battuto, mentre inseguiva i due membri della Specie. Quando ebbi raggiunto il passaggio che univa le due caverne, mi accorsi che Occhiorosso non mi seguiva; l'istante dopo si precipitava però nella caverna dall'altro ingresso. Mi tirai indietro nel passaggio: egli uscì, rientrò dall'altra parte, dandomi la caccia con persistenza accanita. Mi limitai a mettermi al sicuro infilandomi ogni volta nel passaggio di comunicazione.


Mi tenne lì una mezza giornata prima di abbandonare la caccia. In seguito, quando Orecchiuto e io avevamo la certezza di raggiungere la doppia caverna, non battevamo più in ritirata verso la nostra tutte le volte che Occhiorosso faceva la sua comparsa. Ci contentavamo di tenerlo d'occhio e di assicurarci che non ci tagliasse la linea di ritirata.


Appunto in quell'inverno Occhiorosso uccise la sua ultima moglie, coi cattivi trattamenti e le continue percosse. L'ho chiamato un atavismo, ma in ciò egli era peggio di un atavismo, poiché i maschi degli animali inferiori non maltrattano né uccidono le loro compagne. Per questo credo che Occhiorosso, nonostante le sue terribili tendenze ataviche, facesse prevedere la venuta dell'Uomo; non vi sono che i maschi della specie umana che uccidono le proprie compagne.


Come era da aspettarsi, avendo soppressa la moglie, Occhiorosso si mise in cerca di un'altra. Si decise per la Canterina, nipote del vecchio Osso Midolloso e figlia del Glabro. Era una giovane che amava molto cantare al crepuscolo, seduta all'ingresso della sua caverna, e si era recentemente unita allo Sbilenco. Costui era un essere tranquillo, che non molestava nessuno e non aveva l'abitudine di azzuffarsi coi suoi simili. Non era certo un battagliero: piccolo, magro, era il meno agile di tutti.


Ma Occhiorosso commise un atto abominevole. Si era nella calma fine del giorno, al momento in cui incominciavamo a raggrupparci ai piedi della rupe, prima di tornare ad arrampicarci verso le nostre caverne.


A un tratto, la Canterina, inseguita da Occhiorosso, si precipitò lungo un sentiero che saliva da un abbeveratoio. Corse verso il marito; il povero piccolo Sbilenco era terribilmente spaventato, ma si comportò da eroe. Pur sapendosi minacciato di morte, non fuggì; si levò, schiamazzando, eresse il pelo, mostrò i denti.


Occhiorosso mugghiava rabbiosamente. Era per lui una grave offesa vedere uno qualunque della Specie resistergli così. La sua mano si slanciò in avanti e agguantò lo Sbilenco per il collo; questi affondò i denti nel braccio di Occhiorosso; ma un istante dopo, col collo spezzato, si contorceva al suolo come un verme. La Canterina lanciò grida inintelligibili; Occhiorosso agguantò anche lei per i capelli e la trascinò verso l'alto della rupe. La trascinò con forza quando l'ascensione incominciò, la tirò e infine la issò nella sua caverna.


Noi tutti eravamo furibondi, di una collera folle, vociferante.


Percuotendoci il petto, rizzando il pelo, digrignando i denti, ci unimmo per sfogare ognuno la propria rabbia. Sentivamo l'aculeo dell'istinto della collettività, dell'unione per un'azione concertata, dell'impulso verso la cooperazione. Seppure in una forma oscura, questo bisogno di azione collettiva ci s'imponeva; ma non avevamo alcun mezzo per manifestarla. Non facemmo fronte in blocco a Occhiorosso, per annientarlo, per mancanza di mezzi sufficienti per esprimere l'impulso comune. Pensavamo vagamente a cose per le quali non esistevano simboli. Questi simboli dei pensieri dovevano essere inventati solo in seguito, lentamente e penosamente.


Cercammo di formulare suoni coi vaghi pensieri che volteggiavano simili a ombre nella nostra coscienza. Il Glabro incominciò a schiamazzare rumorosamente; con questo rumore egli esprimeva la sua collera contro Occhiorosso e il suo desiderio di fargli del male.


Giunse così a esprimere questi suoi sentimenti e noi lo comprendemmo; ma quando tentò di formulare l'impulso di cooperazione che s'agitava nel suo intimo, quei suoni divennero inintelligibili. Allora Facciagrossa, con le sopracciglia rizzate, battendosi il petto, incominciò anche lui a schiamazzare. L'uno dopo l'altro ci unimmo a quel turbine di rabbia, finché il vecchio Osso Midolloso si mise a borbottare e a barbugliare con la sua voce fioca e con le sue labbra scarnite. Qualcuno afferrò un bastone e con esso si mise a percuotere un tronco d'albero. In breve il baccano segnò una certa cadenza; inconsciamente le nostre grida e le nostre esclamazioni assunsero un ritmo, che produsse su di noi un effetto calmante, e prima che lo sapessimo, dimenticata la nostra collera, avevamo intonato un coro ritmico.


Questa specie di cori mostrano in modo meraviglioso la mancanza di nesso nelle idee, l'illogicità della Specie. Noi, che una collera comune univa in un impulso verso la cooperazione, eravamo sviati verso l'oblio dalla ripetizione di un ritmo grossolano. Eravamo socievoli e vivevamo in bande e queste riunioni di canto e di riso ci soddisfacevano. Insomma i cori ritmici erano come i precursori dei consigli dell'uomo primitivo e delle grandi assemblee nazionali, dei congressi internazionali dell'uomo moderno. Ma noi della Specie del mondo nascente non avevamo il dono della parola, e ogni volta che ci trovavamo così riuniti, precipitavamo nella cacofonia della torre di Babele, donde usciva una specie di ritmo che conteneva in se stesso gli elementi di un'arte futura. Era l'arte nascente.


Non vi era continuità nei ritmi che noi battevamo. La cadenza andava ben presto dispersa e la cacofonia regnava finché non ne avessimo trovata un'altra. Talvolta una mezza dozzina di cadenze battevano simultaneamente, ciascuna appoggiata da un gruppo che si sforzava con ardore di sorpassare gli altri ritmi.


Negli intervalli del baccano, ciascuno cicalava per conto proprio, faceva capriole, strepitava, gridava, danzava, bastando a se stesso, pieno delle proprie idee e della propria volontà con esclusione totale di quelle degli altri, centro dell'universo, separato per il momento da ogni armonia con gli altri centri dell'universo che saltavano e urlavano intorno a lui. Allora sopravveniva il ritmo: un battito di mani, un bastone urtato su un tronco d'albero, l'esempio di un tale che danzava senza mai fermarsi o il canto di un altro che gridava, convulsamente e regolarmente, con un'inflessione monotona e discendente: "Eh-bang, eh-bang! Eh bang, eh-bang!". L'uno dopo l'altro gli attori, in principio solo coscienti delle loro azioni, erano presi dal ritmo e ben presto tutti danzavano o cantavano in coro: "Ha-ah, ha-haha!" era uno dei nostri ritornelli favoriti, come pure: "Eh- uà, eh-uà, eh-uà-ah!". Così, sgambettando pazzamente, saltando, gridando, dondolandoci, danzavamo e cantavamo nel crepuscolo incombente del mondo primitivo chiamando l'oblio, raggiungendo l'accordo, ed eccitandoci sino a una frenesia senza significato né senso. E così l'arte dissolveva la nostra rabbia contro Occhiorosso.


Continuammo a urlare i selvaggi ritornelli, finché la notte sopravvenne ammonendoci coi suoi terrori; poi scivolammo verso le nostre tane nella rupe, chiamandoci a bassa voce, mentre le stelle si mostravano e l'oscurità si diffondeva.


Non si temeva che l'oscurità. Non avevamo alcun germe di religione, alcuna concezione di un mondo invisibile. Conoscevamo unicamente il mondo reale, e le cose che temevamo erano le cose reali, i pericoli concreti, gli animali divoratori in carne e ossa. Solo essi ci facevano temere l'oscurità, perché questa segnava l'ora degli animali da preda, l'ora in cui solevano uscire dai propri rifugi e balzare su di noi nella notte, attraverso la quale si aggiravano sicuri e invisibili.


E' possibile che, appunto da questo timore degli esseri reali della notte, si sia più tardi sviluppata la paura degli esseri irreali, per raggiungere il suo apogeo nella concezione di un vasto e potente mondo invisibile.


Quando l'immaginazione crebbe, aumentò anche la paura della morte, fino al momento in cui la Razza futura condensò quel timore nell'oscurità e la popolò di spiriti.


Penso che il Popolo del Fuoco avesse già incominciato ad aver paura della notte in quest'ultimo modo; ma le ragioni che ci facevano interrompere i nostri cori ritmici per correre a rifugiarci nelle nostre tane erano il vecchio Dente di Sciabola, i leoni e gli sciacalli, i cani selvatici e i lupi, e in genere tutte le razze affamate e carnivore.




15


Orecchiuto si ammogliò durante il secondo inverno che seguì il nostro viaggio d'avventure. L'avvenimento giunse completamente inatteso ed egli non mi diede alcun avviso. Lo seppi una sera mentre mi arrampicavo sulla rupe per raggiungere la nostra caverna. Appena sporsi il capo oltre l'ingresso, subito mi arrestai: non c'era più posto per me. Orecchiuto vi si era installato con sua moglie, la mia sorellastra, figlia del mio patrigno lo Schiamazzatore.


Cercai di entrare per forza. Lo spazio, nella caverna, era appena sufficiente per due, e perciò era tutto occupato. Ebbi la peggio e immediatamente, sia per le unghiate che ricevetti che per le strappate di peli, fui contento di andarmene. Dormii quella notte, e altre ancora, nel passaggio di comunicazione della caverna gemella, che sapevo essere un asilo relativamente sicuro. Così come due monelli avevano lì potuto sfuggire al vecchio Dente di Sciabola, e come io stesso vi avevo schivato Occhiorosso, mi sembrava che facendo la spola tra le due caverne, avrei potuto sfuggire a tutti gli animali da preda.


Ma avevo dimenticato i cani selvatici, i quali erano abbastanza magri per passare dovunque potevo passare io. Una notte mi fiutarono. Se fossero penetrati simultaneamente dalle due entrate, mi avrebbero preso senz'altro. Ma, inseguito da alcuni di essi nel passaggio di comunicazione, uscii rapidamente dall'altra parte. Di fuori mi aspettavano altri cani selvatici, i quali si scagliarono contro di me mentre mi slanciavo avanti e incominciavo ad arrampicarmi lungo la rupe. Uno di essi, un bruto sfiancato e affamato, mi afferrò in pieno salto. I suoi denti affondarono nei muscoli della mia coscia e fui quasi rovesciato. Il cane tenne la sua presa, ma io non feci alcun tentativo per fargliela lasciare, perché tutta l'attività del mio spirito e tutta la mia energia erano tese nello sforzo di arrampicarmi, per giungere così fuori della portata di quei bruti.


Solo quando fui lontano dai miei inseguitori, mi preoccupai del dolore atroce che risentivo alla coscia; e allora a una dozzina di piedi sopra la muta ringhiosa che balzava e si arrampicava e poi ruzzolava lungo il pendio della rupe, afferrai il cane alla gola e lentamente lo strangolai. Mi ci volle un certo tempo; la bestia graffiava e mi strappava pelo e pelle con le zampe posteriori, mentre con tutto il peso del suo corpo dava scosse formidabili nell'intento di tirarmi in basso alla rupe.


Alla fine i suoi denti si ritirarono dalla mia carne lacerata.


Trasportai il cadavere del cane nell'alto della rupe e passai la notte sull'ingresso della mia antica caverna, nella quale si trovavano Orecchiuto e la mia sorellastra. Però prima dovetti sopportare un torrente d'ingiurie dal resto dell'Orda per esser stato causa di tanto baccano. Ma di ciò mi vendicai subito: di quando in quando, allorché gli abbaiamenti della muta si calmavano, lasciavo cadere una pietra che aveva l'immancabile effetto di risvegliarli. Allora gli insulti dell'Orda esasperata riprendevano con aumentata vivacità. Al mattino divisi con Orecchiuto e con sua moglie il cane che avevo ucciso, e per qualche giorno il nostro trio non si cibò né di erbe né di frutta.


Il matrimonio di Orecchiuto non fu soddisfacente e per fortuna non durò a lungo. Né io né lui fummo felici durante quel periodo. Ero isolato, soffrivo di essere stato scacciato fuori della mia piccola caverna dove mi trovavo al sicuro e, per una ragione o per l'altra, non feci lega con nessuno degli altri maschi. Il mio cameratismo di lunga data con Orecchiuto era diventato un'abitudine.


E' vero che avrei potuto ammogliarmi anch'io, e probabilmente l'avrei fatto senza la penuria di femmine che c'era nell'Orda. Questa rarità era dovuta alla stravaganza di Occhiorosso, la qual cosa pone in evidenza quale minaccia costui rappresentasse per l'esistenza dell'Orda. E poi c'era la Rapida, che non avevo dimenticata.


Nel periodo durante il quale Orecchiuto fu ammogliato errai da una parte e dall'altra, sempre in pericolo la notte e non dormendo mai a mio agio. Uno dei membri dell'Orda morì e la vedova fu condotta nella caverna d'un altro. Presi possesso della caverna abbandonata dal morto, ma il suo ingresso era troppo largo e quando Occhiorosso riuscì una volta quasi a prendermici, tornai a dormire nel corridoio interno della caverna doppia. Nondimeno quando venne l'estate mi allontanai dalle caverne per intere settimane, dormendo in un nido che costruii su un albero, all'imboccatura dell'emissario.


Ho detto che Orecchiuto non era felice. La mia sorellastra era veramente la figlia dello Schiamazzatore e gli rendeva la vita intollerabile. In nessuna caverna c'erano tante liti e tante dispute come nella loro. Occhiorosso era un vero Barbablu, ma Orecchiuto era il trastullo della moglie, e Occhiorosso era troppo astuto per desiderare la donna di Orecchiuto.


Per fortuna di quest'ultimo essa morì presto. Una cosa straordinaria sopravvenne quell'estate. Quasi alla fine della stagione, vi fu una seconda maturazione di carote. Quelle radici inattese erano giovani, gustose, tenere, e per qualche tempo il campo di carote fu il pascolo favorito dell'Orda. Una mattina, di buon'ora, ci andammo a far colazione in gran numero. Accanto a me c'era il Glabro; un po' più distante il padre e il figlio di lui, il vecchio Osso Midolloso e il Labbrone. Dall'altra parte si trovavano la mia sorellastra e Orecchiuto: essa era fra noi due.


Improvvisamente, senza alcun preavviso, il Glabro e la mia sorellastra balzarono in piedi urlando, mentre io udivo il colpo sordo delle frecce che li trapassavano. Nello stesso istante essi erano caduti al suolo, dimenandosi e anelando, mentre il resto di noi fuggiva perdutamente verso gli alberi. Una freccia mi fischiò all'orecchio e andò a configgersi a terra, vibrando e oscillando sotto la scossa prodotta dal brusco arresto del suo volo. Rammento lucidamente il balzo a destra che feci per evitarla mentre correvo e il giro inutilmente grande che feci. Dovetti fare uno scarto, come un cavallo che si getta di fianco, alla vista di un oggetto di cui ha paura.


Orecchiuto cadde bruscamente a terra, mentre correva accanto a me. Una freccia, penetratagli nel polpaccio, l'aveva abbattuto. Si rialzò e tentò di riprendere la corsa; ma cadde una seconda volta. Mi chiamò in tono di preghiera dopo essersi sollevato; poi s'accasciò, tremando di paura. Mi precipitai per prestargli soccorso. Egli mi mostrò la freccia. L'afferrai per estrarla, ma ciò dovette causargli un dolore tanto intollerabile che subito s'impadronì della mia mano e mi fermò.


Una freccia passò fischiando fra noi due: un'altra colpì una roccia e volò in schegge sul suolo. Era troppo. Tirai bruscamente con tutte le mie forze; Orecchiuto urlò e mi coprì di morsi, di pugni e di graffi, mentre la freccia usciva dalla ferita. Ma l'istante successivo avevamo ripreso la nostra corsa folle.


Guardai indietro. Il vecchio Osso Midolloso abbandonato in lontananza, procedeva vacillando nella sua corsa per sfuggire alla morte. Inciampò ripetutamente e una volta cadde pure; ma per buona sorte non volavano più frecce. Riuscì a rimettersi debolmente in piedi; l'età gli pesava fortemente, e tuttavia non voleva morire. Tre Uomini del Fuoco, che ora si slanciavano in avanti, fuori del loro agguato nella foresta, avrebbero potuto facilmente raggiungerlo; ma non ci provarono neppure.


Probabilmente egli era troppo vecchio e troppo incartapecorito. Essi volevano il Glabro e la mia sorellastra, perché, appena mi voltai indietro sempre fuggendo fra gli alberi, potei vedere gli Uomini del Fuoco che schiacciavano loro il cranio con delle pietre. Uno dei tre Uomini del Fuoco era il vecchio cacciatore zoppo e grinzoso.


Proseguimmo la nostra fuga sugli alberi verso la caverna, in folla sovreccitata e disordinata, scacciando davanti a noi tutti i piccoli animali della foresta e facendo gridare le gazze in una maniera sfrontata. Ora che non c'era più pericolo immediato, il Labbrone attese il nonno Osso Midolloso e, separati tra loro dalla scomparsa di una generazione, il vecchio e il giovane formarono la nostra retroguardia.


Così Orecchiuto tornò celibe. Quella notte stessa dormii con lui nella mia antica caverna e il nostro cameratismo ricominciò. La perdita della moglie non parve recargli alcun dolore; almeno non mostrò per lei neppure il più lieve rimpianto. Solo la sua ferita sembrava addolorarlo, e occorse un'intera settimana perché riacquistasse la vivacità di prima.


Osso Midolloso era l'unico vecchio dell'Orda. Talvolta, gettando uno sguardo retrospettivo in quel lontanissimo passato, quando la visione che ho di lui è più netta, noto una somiglianza sorprendente fra lui e il padre del nostro giardiniere. Il padre del giardiniere era vecchissimo, e molto magro; quando guardava curiosamente fra le palpebre cispose dei suoi occhietti, e borbottava fra le gengive sdentate, assomigliava di tutto punto a Osso Midolloso e agiva come lui. Da bambino, questa rassomiglianza mi spaventava. Fuggivo ogni volta che vedevo il vecchio camminare zoppicando, appoggiato ai suoi due bastoni. Osso Midolloso aveva pure un po' di barba bianca che mi pareva somigliante alle fedine del vecchio.


Come ho detto, Osso Midolloso era il solo vecchio dell'Orda e costituiva un'eccezione. La Specie non raggiungeva la vecchiaia. La stessa età matura era una rarità. La morte violenta era il genere di morte abituale. Si moriva come morì mio padre, come era morto Sdentato, come erano morti la mia sorellastra e il Glabro, bruscamente, brutalmente, nel pieno possesso delle proprie facoltà, in tutto il rigoglio, in tutta la forza della vita. Morte naturale? Sì, la morte violenta era il solo modo di morire a quell'epoca.


Non si moriva di vecchiaia nell'Orda, e io non ho conosciuto un solo caso di questo genere. Lo stesso Osso Midolloso, il solo a cui ciò sarebbe potuto accadere, non morì di vecchiaia. Una grave infermità, ogni diminuzione accidentale o temporanea delle facoltà votava l'individuo a una morte prossima. Di solito queste morti sopravvenivano senza la presenza di testimoni. Si spariva semplicemente: si lasciava una mattina la caverna e non vi si faceva più ritorno. Si spariva nelle gole voraci delle bestie da preda.


L'incursione del Popolo del Fuoco nel campo di carote fu il principio della fine. Di ciò non avemmo alcun dubbio. I cacciatori del Popolo del Fuoco incominciarono a mostrarsi più spesso, a misura che il tempo avanzava. S'insinuavano silenziosamente, a due, a tre per volta, nell'interno della foresta, e le frecce di cui erano armati sopprimevano la distanza e facevano cadere le loro prede dall'alto dei più grandi alberi, senza che dovessero arrampicarvisi. L'arco e la freccia erano come un'estensione prodigiosa dei loro salti e dei loro colpi, di modo che essi potevano raggiungere e uccidere a una distanza di cento piedi e anche più. Ciò li rendeva terribili, più terribili dello stesso Dente di Sciabola. E inoltre erano astutissimi; usavano un linguaggio che permetteva loro di ragionare efficacemente, e per di più sapevano operare di comune accordo.


Finimmo perciò con l'essere molto circospetti quando eravamo nella foresta. Diventammo più vigili, più timorosi. Non potevamo più, appollaiati su un albero, ridere dei nemici carnivori che si aggiravano sul suolo; né potevamo più considerare gli alberi come una protezione.


Gli Uomini del Fuoco erano dei carnivori, con unghie e zanne di cento piedi di lunghezza, i più terribili di tutti gli animali da preda che percorrevano il mondo primitivo.


Una mattina, prima che la Specie si fosse sparpagliata nella foresta, vi fu un panico fra i portatori d'acqua e quelli che erano andati a dissetarsi al fiume. Tutta l'Orda si precipitò verso le caverne.


Avevamo l'abitudine, in circostanze analoghe, di fuggire prima e di fare dopo lo nostra inchiesta. Aspettammo sull'ingresso delle nostre tane e vi rimanemmo a spiare. In capo a qualche minuto, un Uomo del Fuoco s'inoltrò con precauzione nello spazio scoperto: era il vecchio piccolo cacciatore magro e ossuto. Rimase a lungo a sorvegliarci, guardando le nostre caverne e la rupe dall'alto in basso. Discese lungo un sentiero fino a un abbeveratoio, per tornare pochi istanti dopo per un altro sentiero. E lì restò, ancora immobile, sorvegliandoci attentamente. Poi, fatto un mezzo giro, rientrò zoppicando nella foresta, mentre noi incominciavamo a chiamarci l'un l'altro ansiosamente e lamentosamente dall'ingresso delle nostre caverne.




16


La ritrovai laggiù, nei dintorni della palude dei mirtilli dove viveva mia madre e dove Orecchiuto e io avevamo costruito sugli alberi il nostro primo nido. L'incontro fu inatteso. Come giunsi sotto l'albero, udii echeggiare la voce dolce e familiare e guardai in alto. Era lì, la Rapida, seduta su un ramo, dondolando le gambe mentre mi guardava.


Rimasi per qualche tempo immobile. La sua vista mi aveva reso felice.


Ma poi un'agitazione e un dolore, fino ad allora mai conosciuti, incominciarono a penetrare in quella mia felicità. Mi arrampicai sull'albero per raggiungerla; appena se ne accorse batté lentamente in ritirata verso l'estremità del ramo. Proprio nel momento in cui stavo per avvicinarmi a lei, saltò attraverso lo spazio e cadde fra i rami di un albero vicino. Tra l'intrico delle foglie frementi mi guardò curiosamente, con dolci richiami. Mi slanciai direttamente verso di lei e dopo un inseguimento animato, la stessa situazione si presentò, poiché essa era lì, e mi chiamava dolcemente e mi guardava attraverso le foglie di un terzo albero.


Sentii che in un certo modo la situazione attuale differiva da quella che esisteva all'epoca che precedette il mio avventuroso viaggio con Orecchiuto. Io la volevo, e lo sapevo; e lo sapeva anche lei. Perciò non voleva che non mi avvicinassi alla sua persona. Dimenticai che era veramente la Rapida e che, nell'arte di arrampicarsi, mi era maestra.


L'inseguii d'albero in albero e sempre essa m'evitava, volgendosi a guardarmi con occhi benevoli, chiamandomi dolcemente, danzando, saltando, dondolandosi davanti a me, appena fuori portata. Più mi sfuggiva, e più io volevo raggiungerla; e le ombre del pomeriggio, allungandosi, furono testimoni della inconcludenza dei miei sforzi.


Mentre l'inseguivo, o durante i pochi istanti di riposo fra gli alberi che di quando in quando mi pigliavo, osservai i cambiamenti che si erano prodotti in lei. S'era fatta più grande, più robusta, più sviluppata. Le curve del suo corpo erano più rotonde, i suoi muscoli più pieni e c'era in lei qualcosa di nuovo e d'indefinibile che denotava la maturità. Era stata assente tre anni, almeno da quanto mi è dato supporre. Forse anche un quarto anno era trascorso, che io confondevo con gli avvenimenti degli altri tre. Ma più ci penso e più ho la certezza che aveva dovuto restare assente quattro anni.


Dove fosse stata, perché fosse partita e quel che le accadde durante quel periodo, lo ignoro. Essa non aveva alcun mezzo di dirmelo, come io e Orecchiuto non avevamo il mezzo per dire alla Specie quel che avevamo visto durante il periodo in cui eravamo rimasti assenti. Con ogni probabilità se n'era andata, sola, a compiere un viaggio d'avventure come noi. E' anche probabile che causa della sua partenza fosse stato Occhiorosso. Infatti questi aveva dovuto certamente incontrarla nei suoi giri per boschi; se gli era preso il ticchio di perseguitarla, nessun dubbio si può avere che ciò era bastato a farla fuggire. Considerando gli avvenimenti successivi, sono indotto a credere che essa si sia spinta parecchio verso il Sud, attraverso una catena di montagne e lungo un fiume sconosciuto, lontano dai suoi simili. Molti Uomini degli Alberi abitavano da quella parte e ritengo che la loro presenza dovette spingerla a ritornare verso l'Orda e verso di me. Spiegherò più avanti le ragioni che avevo per pensare così.


Le ombre della sera si allungavano e io la inseguivo più ardentemente che mai, senza tuttavia riuscire a raggiungerla. Lei fingeva di cercare perdutamente di sfuggirmi e sempre faceva in modo di restare appena fuori portata. Dimenticai tutto, il tempo, l'avvicinarsi della notte e i miei nemici carnivori. Ero pazzo d'amore per lei, e di collera anche, perché capivo che non voleva che la raggiungessi. E' curioso constatare come quella collera sembrava far parte del desiderio che avevo di lei.


Come ho detto, dimenticai tutto. Correndo attraverso una radura, caddi in pieno su una colonia di serpenti. Ma neanche la loro vista riuscì a fermarmi. Ero pazzo. Essi si slanciarono su di me, ma io a furia di sbalzi e di scarti riuscii a evitarli e continuai a correre. Poi ci si mise un pitone, bestia che, in un altro momento, mi avrebbe certamente fatto arrampicare gridando di spavento sino alla cima di un albero; ma siccome la Rapida stava per sparire, saltai a terra e proseguii la mia corsa. L'avevo scampata bella. Poi intervenne la mia vecchia nemica, la iena: dal modo con cui agivo, essa era sicura che qualche cosa stesse per accadere e mi seguì per un'ora. Una volta esasperammo una banda di cinghiali che si misero a inseguirci. La Rapida osò fare tra gli alberi un salto enorme che mi parve sorpassare i limiti di quanto io stesso ero capace di fare in tal genere di esercitazioni. Dovetti scendere a terra. I cinghiali erano lì; ma io non mi occupai di loro.


Toccai terra a meno di un metro dal più vicino. Essi si misero ad avanzare ai miei fianchi mentre io correvo, e per due volte mi costrinsero a tornare sugli alberi, fuori della direzione che seguiva la Rapida. Di nuovo mi avventurai per terra, tornai sui miei passi, attraversai un vasto spazio scoperto, seguito alle calcagna dalla banda intera, che grugniva, arruffava le setole, digrignava i denti.


Se avessi fatto un passo falso o inciampato in qualche ostacolo nell'attraversare quella radura, non avrei avuto alcuna possibilità di scampo; ma per buona sorte ciò non mi accadde. E poco mi sarebbe importato. Il mio stato d'animo era tale che avrei affrontato il vecchio Dente di Sciabola in persona o una banda di Uomini del Fuoco armati di archi e di frecce. Così era la mia follia amorosa. Ma non era così per la Rapida. Essa era prudentissima, non osava affrontare alcun rischio reale e riportandomi indietro attraverso i secoli fino a quel folle inseguimento amoroso, ricordo che ogni volta che la mia corsa era ritardata dai cinghiali, essa non coglieva l'occasione per allontanarsi ancor di più, ma aspettava piuttosto che io avessi potuto riprendere la mia caccia. E dirigeva ordinatamente la sua ritirata, andando sempre nella direzione che doveva seguire.


Infine venne l'oscurità completa. Essa mi condusse intorno al ciglio muscoso di una gola che formava una sporgenza fra gli alberi. Poi penetrammo in una massa compatta di cespugli che mi graffiarono e lacerarono al passaggio. Ma conoscendo il cammino, lei vi passò immune. Nel mezzo della boscaglia c'era un grande albero, una quercia.


Seguii la Rapida da vicino mentre si arrampicava; e nell'inforcatura, nel nido che avevo così a lungo e così invano cercato, la raggiunsi.


La iena aveva ritrovato le nostre tracce e ora, seduta al suolo, faceva udire brontolii famelici. Ma noi non ce ne curammo, ci burlammo anzi di lei, finché, sempre brontolando, non la vedemmo sparire attraverso la boscaglia. Era primavera e i rumori della notte erano numerosi e diversi. Come suole sempre accadere in questa stagione dell'anno, c'erano molti combattimenti fra animali; dal nostro nido potevamo udire i nitriti acuti dei cavalli selvatici, i barriti degli elefanti, i ruggiti dei leoni. Ma la luna si levò nell'aria tiepida e noi ridemmo: tutto ciò non ci faceva più paura.


L'indomani incontrammo due galli arruffati i quali battagliavano con tanto ardore che, andando diritto su di loro, potei prenderli per il collo senza che se ne accorgessero. Così la Rapida e io facemmo la nostra colazione di nozze. I galli erano deliziosi. Era facile prendere gli uccelli in primavera. Poi, in una notte di quello stesso anno, due alci si batterono al chiaro di luna, mentre la Rapida e io li guardavamo dall'alto degli alberi. Vedemmo pure un leone e una leonessa giungere inosservati sino a loro e ucciderli mentre combattevano.


Non saprei dire per quanto tempo vivemmo nel nido arboreo della Rapida. Ma un giorno, mentre eravamo lontani, l'albero fu colpito dal fulmine. Grossi rami furono schiantati e il nido demolito. Incominciai a ricostruirlo, ma la Rapida rifiutò di metterci mano. Come dovevo poi venire a sapere, essa aveva una gran paura del fulmine e furono inutili i miei tentativi per indurla a ritornare sul nostro albero. Perciò, terminata la nostra luna di miele, tornammo a vivere nelle caverne; e con gli stessi modi con cui Orecchiuto mi aveva espulso dal nostro alloggio quando si era ammogliato, così ora ve lo scacciai io. Presi possesso con la Rapida della caverna, e Orecchiuto dovette accontentarsi di dormire nel corridoio di comunicazione della caverna doppia.


Molte noie sopravvennero in seguito al nostro ritorno in mezzo all'Orda. Occhiorosso aveva avuto non so quante mogli, dopo la Canterina; e anche questa aveva subìto la stessa sorte delle altre.


Per il momento egli conviveva con una piccola creatura dolce e timida, che piangeva e piagnucolava senza interruzione, sia che egli la battesse o che la lasciasse tranquilla. La sua morte era questione di pochissimo tempo. Prima che morisse, Occhiorosso aveva già messo gli occhi sulla Rapida, e appena la moglie fu morta incominciò a perseguitarla.


Per fortuna era la Rapida, e aveva quella sorprendente abilità alla fuga tra gli alberi. Tuttavia ebbe bisogno di far ricorso a tutto il suo ardimento, a tutta la sua saggezza per sfuggire agli artigli di Occhiorosso. Né io potevo aiutarla: Occhiorosso era un mostro così terribile che mi avrebbe fatto a pezzi al primo tentativo. Ho conservato fino alla morte una spalla storpiata che funzionava male e mi faceva soffrire nei giorni di pioggia: conseguenza della brutalità di Occhiorosso.


La Rapida era ammalata quando io fui ferito. Era senza dubbio un accesso della malaria di cui soffrivamo tutti assai spesso; ma qualunque cosa fosse, ciò la rendeva fiacca e pesante. I suoi muscoli non avevano più gli scatti abituali e si trovava in cattive condizioni per fuggire quando Occhiorosso la mise alle strette nelle vicinanze del rifugio dei cani selvatici, a parecchie miglia a sud delle caverne. In condizioni normali lei gli avrebbe girato intorno, l'avrebbe battuto alla corsa e raggiunto il riparo della nostra caverna dall'ingresso stretto. Ma essa non poteva girargli intorno; era troppo pesante, troppo lenta. Egli riusciva ogni volta a sbarrarle il cammino, finché essa abbandonava questi tentativi per mettere tutta la propria energia a evitare le sue grinfie.


Tenerlo sotto scacco sarebbe stato per lei un gioco da bambini se non fosse stata malata; ma nel suo stato aveva bisogno di tutta la sua prudenza e di tutta la sua malizia. Aveva sul suo avversario il vantaggio di poter circolare su rami più fragili e di fare balzi più grandi. Aveva anche una nozione infallibile della distanza e un sicuro istinto per apprezzare la robustezza dei rami e la relativa solidità di quelli marciti.


Fu una caccia interminabile. Entrambi si slanciavano attraverso la foresta, girando, andando, venendo su lunghe distanze. Intensa fu l'emozione fra i membri dell'Orda, i quali si abbandonarono a uno schiamazzo folle, che raggiungeva il parossismo quando Occhiorosso era lontano, per poi calmarsi quando l'inseguimento si avvicinava. Ma, eccettuate queste manifestazioni, i membri dell'Orda preferirono assistere agli avvenimenti da spettatori curiosi e passivi. Le femmine lanciavano grida laceranti e sbraitavano, mentre i maschi si percuotevano il petto di rabbia inutile. Facciagrossa era in special modo furioso, e sebbene moderasse il suo baccano ogni volta che Occhiorosso si avvicinava, non riusciva a serbare in quei momenti un silenzio così completo come tutti gli altri.


Quanto a me non davo certo prova di un gran coraggio. So bene che non ero affatto un eroe. E inoltre, a che mi sarebbe servito affrontare Occhiorosso? Egli era il mostro onnipossente, il bruto dell'abisso, e non vi era alcuna speranza per me in una lotta a corpo a corpo con lui. Mi avrebbe ucciso, e ciò non avrebbe in nulla modificato la situazione. Egli avrebbe raggiunto la Rapida prima che lei fosse riuscita a raggiungere la caverna. Stando così le cose, non mi restava che guardare, reprimere la mia impotente collera, scostarmi dal suo cammino e moderare la mia rabbia ogni volta che Occhiorosso si avvicinava un po' troppo.


Le ore trascorsero; era il pomeriggio inoltrato e l'inseguimento continuava. Occhiorosso era deciso a esaurire la resistenza della Rapida. L'affaticava con deliberato proposito. Alla fine essa incominciò a perdere il fiato e le fu impossibile continuare la sua corsa folle. Allora ricorse al sistema di rifugiarsi sull'estremità dei rami dove lui non poteva seguirla. Avrebbe così guadagnato un po' di tempo per riprender respiro. Ma Occhiorosso era diabolico. Non potendo seguirla, la sloggiava scuotendo fortemente i rami per farla cadere. Con tutto il proprio peso e con tutta la propria forza scuoteva il ramo in tutti i sensi fino a far precipitare la Rapida, così come si stacca una mosca dalla punta di una frusta. La prima volta essa si salvò cadendo molto più in basso sui rami; ma un'altra volta questi non le impedirono di giungere fino al suolo, pur attenuando la violenza della caduta. Un'altra volta ancora Occhiorosso la staccò così brutalmente dal ramo che fu proiettata attraverso lo spazio su un altro albero. La maniera con cui essa vi si aggrappò per salvarsi fu semplicemente sorprendente. Solo quando vi era costretta cercava una salvezza temporanea sui rami flessibili. Ma era così affaticata, che non poteva evitare Occhiorosso in altro modo, cosicché parecchie volte dovette ricorrere a quel sistema.


La caccia continuava e anche l'Orda continuava a gridare, a percuotersi il petto, a digrignare i denti. Allora venne la fine. Il crepuscolo era quasi del tutto calato. Tremante, anelante, perdendo il respiro, la Rapida pendeva pietosamente da un alto ramo flessibile.


Era a trenta piedi dal suolo, da cui soltanto il vuoto la separava.


Occhiorosso si dondolava più in basso sullo stesso ramo che, come un pendolo, oscillava sempre più largamente a ogni impulso della sua massa. A un tratto, bruscamente, egli arrestò lo slancio, proprio nel momento in cui l'oscillazione aveva raggiunto il culmine. La stretta della Rapida si allentò e, urlando, fu precipitata al suolo.


Ma mentre cadeva si raddrizzò e toccò terra con i piedi in basso.


Abitualmente, precipitando da una tale altezza, l'elasticità delle sue gambe avrebbe attutito la scossa del suo contatto con la terra. Ma era spossata; e non poté compiere il salto con la necessaria elasticità.


Le gambe le cedettero sotto e attutirono la scossa solo parzialmente, ed essa si abbatté su un fianco. Non era ferita, ma aveva la respirazione completamente interrotta. Restò sul suolo impotente e ansimante.


Occhiorosso si gettò su di lei e l'afferrò. Con le dita uncinate l'afferrò per i capelli, si erse, mugghiando il suo trionfo e la sua sfida verso l'Orda spaventata che lo guardava dall'alto degli alberi.


Allora la rabbia mi spense il lume della ragione. Mandai al diavolo la prudenza, dimenticai il desiderio di vivere che possedeva tutta la mia carne. Mentre Occhiorosso ruggiva, mi precipitai su di lui, assalendolo alle spalle. Il mio slancio fu così inatteso che lo gettai a terra, e con le braccia e con le gambe, lo allacciai fortemente sforzandomi di tenerlo immobile al suolo. La cosa mi sarebbe stata impossibile se egli non avesse avuto una mano aggrappata alla capigliatura della Rapida.


La mia condotta ebbe per effetto immediato di rendere audace Facciagrossa, che divenne per me un alleato prezioso. Corse alla carica, affondò i denti nel braccio di Occhiorosso, graffiandogli e lacerandogli il baffo. Quello sarebbe stato il momento buono per il resto dell'Orda di intervenire, unendosi a noi; era l'occasione di finirla per sempre con Occhiorosso. Ma essi se ne restarono tutti fra gli alberi, spaventatissimi.


Era inevitabile che Occhiorosso dovesse riuscire vittorioso in una lotta contro noi due soli. Se non ci massacrò ben bene, lo dovemmo al fatto che i suoi movimenti erano impacciati dalla Rapida, che aveva nel frattempo ripreso fiato e incominciava a resistere. Il mostro non voleva lasciarle i capelli, e ciò lo paralizzava. Mi agguantò per il braccio; e questo per me era il principio della fine. Incominciò ad attirarmi a sé in modo da essere in grado da affondarmi le zanne nel collo. La sua bocca era spalancata e mostrava i denti. In quello stesso momento, sebbene avesse appena incominciato a spiegare la propria forza, mi torse la spalla in modo tale che ne soffrii per tutto il resto della mia vita.


Allora qualcosa d'inatteso si verificò, senza che nulla avesse potuto farcelo supporre. Un corpo enorme piombò sulla massa confusa che formavamo tutt'e quattro. Fummo violentemente separati, rotolando dai due lati, e nella subitaneità della sorpresa lasciammo andare completamente la stretta che ci teneva avvinti.


Al momento dell'urto Facciagrossa lanciò un grido terribile. Non sapevo che cosa fosse accaduto, sebbene fiutassi la presenza della tigre e avessi la visione di una pelliccia striata mentre balzavo verso un albero.


Era il vecchio Dente di Sciabola. Destato nella sua tana dal rumore che avevamo fatto, si era fatto avanti, inavvertito, strisciando fino a noi. La Rapida scappò su un albero vicino al mio, dove la raggiunsi immediatamente. La circondai con le braccia e la tenni stretta al mio petto, mentre piangeva ed emetteva i suoi soliti dolci richiami. Dal suolo saliva un brontolio e un rumore di ossa rosicchiate e stritolate. Era Dente di Sciabola che cenava con ciò che era stato Facciagrossa. Più lontano, Occhiorosso, con gli occhi infiammati e cerchiati di rosso, guardava quel mostro più potente di lui. La Rapida e io abbandonammo l'albero e ce ne andammo attraverso la foresta verso le caverne, mentre l'Orda, raccolta sugli alberi, lanciava insulti e pezzi di rami sul suo vecchio nemico. Questi agitava la coda, mostrava i denti, ma continuava a pascersi.


Così fummo dunque salvati: da un accidente, dal più fortuito degli accidenti. Diversamente io sarei morto lì, sotto la stretta di Occhiorosso, e non vi sarebbe stato un ponte gettato attraverso il tempo, attraverso un migliaio di secoli, fino alla discendenza che legge i giornali, circola sui tranvai elettrici e scrive racconti di avvenimenti passati, come quello che è qui rievocato.




17


Fu al principio dell'autunno dell'anno dopo che accadde quel che segue. Visto che non era riuscito a impadronirsi della Rapida, Occhiorosso aveva preso un'altra moglie; e, caso strano, costei viveva ancora. Caso anche più strano, aveva un bambino di pochi mesi, che era il primo figlio di Occhiorosso, perché le sue precedenti mogli erano vissute troppo poco per fare figli. L'anno era trascorso bene per tutti noi. Il tempo era stato eccezionalmente mite e il nutrimento abbondante. Ricordo specialmente i navoni di quell'anno. Anche la raccolta delle noci fu straordinaria e le susine erano più grosse e saporite del solito.


Insomma, fu un'annata d'oro. E fu allora che accadde il grande avvenimento. Era di prima mattina e tutti fummo sorpresi nelle nostre caverne. Nella fredda luce grigia uscimmo dal sonno, la maggior parte per andare incontro alla morte. La Rapida e io fummo svegliati da un pandemonio di grida e di schiamazzi. La nostra caverna era la più elevata di tutte sulla rupe; ci spingemmo fino all'ingresso e guardammo avidamente verso il basso della parete rocciosa. La riva era invasa dagli Uomini del Fuoco... Le loro grida e i loro urli si unirono ai clamori dell'Orda; ma essi avevano ordine e metodo, due qualità di cui la Specie difettava. Ognuno di noi combatteva e agiva per proprio conto, e nessuno conosceva la portata del disastro che ci colpiva.


Nel momento in cui incominciammo a lanciare pietre, gli Uomini del Fuoco s'erano ammassati in gran numero ai piedi della rupe. Il nostro primo lancio di pietre aveva dovuto rompere qualche testa, poiché, quando indietreggiarono scostandosi dalla rupe, tre di loro giacevano a terra, si agitavano e si dibattevano, e un altro cercava di allontanarsi strisciando. Ma li servimmo di tutto punto: in quel momento noi, i maschi della Specie, ruggivamo di collera e facemmo piovere le pietre sui tre Uomini del Fuoco che erano stesi al suolo.


Parecchi degli assalitori tornarono indietro per trascinarli in un luogo sicuro, ma ancora una volta i nostri proiettili li costrinsero a battere in ritirata.


Gli Uomini del Fuoco divennero furiosi e nello stesso tempo prudenti.


Nonostante le loro grida di collera, si tennero a distanza e lanciarono volate di frecce contro di noi. Questo ebbe per effetto immediato di por fine alla grandinata di pietre; ma nell'attacco una dozzina di noi furono uccisi, una ventina feriti e il resto batté in ritirata nelle caverne. Io non ero completamente fuori tiro nella mia caverna troppo elevata, ma la distanza era abbastanza grande per impedire che il tiro fosse efficace e, d'altra parte, gli Uomini del Fuoco non avevano intenzione di sciupare molte frecce per colpirmi. Di più, ero curioso: volevo vedere. Mentre la Rapida se ne rimaneva nel fondo della caverna tutta tremante di paura e lanciando di quando in quando grida lamentose e soffocate perché non volevo rientrare, io mi rannicchiai nell'ingresso e stetti lì a spiare.


Ora il combattimento era diventato intermittente; era come sospeso.


Tutti noi eravamo rifugiati nelle caverne e si trattava di sapere, per gli Uomini del Fuoco, come farci uscire. Essi non osavano avventurarvisi, e noi in generale non ci esponevamo più alle loro frecce. Di quando in quando, allorché uno degli assalitori si avvicinava ai piedi della rupe, qualcuno faceva ruzzolare una pietra; e immediatamente, come risposta, veniva crivellato da una mezza dozzina di frecce. Questa astuzia andò bene per un certo tempo, ma finalmente quelli della Specie cessarono di mostrarsi e il combattimento fu completamente sospeso.


Dietro gli Uomini del Fuoco potevo vedere il vecchio piccolo cacciatore incartapecorito, che dirigeva gli altri. Questi gli obbedivano e andavano nelle varie direzioni secondo i suoi ordini.


Alcuni si recarono nella foresta e ne tornarono con dei carichi di legna secca di foglie morte e di erbe. Allora tutti gli Uomini del Fuoco si avvicinarono; e mentre la maggior parte si tenevano pronti con gli archi e le frecce per tirare su quelli dell'Orda che avessero osato mostrarsi, parecchi altri si fecero avanti e accumularono legna ed erbe secche all'ingresso delle caverne inferiori. Poi da quel mucchio evocarono il mostro che più di tutto temevamo: il Fuoco.


All'inizio fili di fumo si levarono e ondularono in spirali lungo la rupe; quindi vidi le fiamme dalle lingue rosse slanciarsi attraverso i rami come serpi ardenti. Il fumo si addensò sempre più, coprendo in certi momenti tutta la superficie della rupe come un sudario. Ma io mi trovavo molto in alto e il fumo non mi diede eccessivo disturbo, sebbene mi pungesse gli occhi, che mi stropicciavo coi pugni chiusi.


Al vecchio Osso Midolloso toccò la sorte di essere sloggiato per primo dal fumo. Siccome una leggera brezza allontanò in quel momento il fumo, potei vedere chiaramente la scena. Egli si slanciò attraverso il fumo, mise il piede su un carbone ardente, e urlando dal dolore, cercò di scalare la rupe. Una fitta gragnuola di frecce lo investì da tutte le parti. Si arrestò sopra una sporgenza rocciosa e, aggrappatosi a un masso per sostenersi, aprì convulsamente la bocca, starnutendo e agitando la testa. Si dondolava su se stesso, e le cime barbute di una dozzina di frecce erano irte sul suo corpo. Vecchio com'era, non voleva morire. Oscillò sempre più, con le ginocchia che gli cedevano e, sempre vacillando, gemeva lamentosamente. Poi la sua mano allentò la stretta e cadde di colpo; le vecchie ossa dovettero frantumarsi al suolo. Sempre brontolando cercò con sforzi inani di rialzarsi, finché un Uomo del Fuoco si precipitò su di lui e gli fracassò il cranio con una clava.


E quel che accadde a Osso Midolloso accadde a numerosi altri membri dell'Orda. Incapaci di sopportare il soffocamento dovuto al fumo, saltavano in fretta fuori delle loro caverne per cadere sotto le frecce. Alcune donne e diversi bambini restarono nelle caverne dove morirono soffocati, ma la maggior parte trovò la morte all'esterno.


Quando gli Uomini del Fuoco ebbero così vuotato la fila inferiore di caverne, incominciarono i preparativi per ripetere la stessa operazione con la seconda fila. E mentre si arrampicavano, carichi di erbe e di legna, Occhiorosso, seguito dalla moglie al seno della quale il piccolo si aggrappava strettamente, compì con successo la fuga fino alla sommità della rupe. Gli Uomini del Fuoco avevano dovuto supporre che durante l'intervallo delle operazioni di affumicamento noi saremmo rimasti nelle caverne, cosicché furono presi alla sprovvista e le loro frecce incominciarono a volare solo dopo che Occhiorosso e i suoi furono bene in alto sulla scarpata. Quando egli raggiunse la sommità, si volse indietro e guardò con aria feroce gli invasori, muggendo e battendosi il petto. Essi gli lanciarono frecce, ma senza colpirlo, ed egli proseguì la sua fuga.


Vidi affumicare una terza e poi una quarta fila di caverne. Pochissimi membri della Specie riuscirono a mettersi in salvo sull'alto della rupe; in maggioranza furono raggiunti dalle frecce sul muro roccioso e caddero giù mentre si sforzavano di scalarlo. Ricordo che il Labbrone giunse sino all'altezza della mia caverna, gridando in modo pietoso, perché aveva il petto trapassato da parte a parte da una freccia, la cui coda barbuta si drizzava fra le due spalle, mentre la punta d'osso gli usciva dal petto: era stato colpito alla schiena mentre si arrampicava. Si abbatté all'imboccatura della mia caverna, vomitando fiotti di sangue.


Quasi in quello stesso istante le file superiori sembrarono vuotarsi spontaneamente. Quasi tutti i membri dell'Orda che non erano stati ancora scacciati dal fumo fecero contemporaneamente la loro sortita verso l'alto della rupe. Ciò fu la salvezza per molti. Gli uomini del Fuoco non riuscivano a scaricare i loro archi abbastanza presto; riempivano l'aria con le loro frecce, e a ventine i feriti ruzzolavano giù; ma tuttavia alcuni tra i fuggiaschi raggiunsero la sommità e scamparono alla morte.


Il desiderio di fuggire vinse in me la curiosità. Le frecce avevano cessato di volare, il resto dell'Orda sembrava scomparso, sebbene non fosse affatto impossibile che qualcuno dei suoi membri si trovasse ancora nascosto nelle caverne superiori. Sia la Rapida che io incominciammo ad arrampicarci verso la sommità della rupe. Alla nostra vista, un gran grido, provocato dalla Rapida e non da me, si levò dalla moltitudine degli Uomini del Fuoco. Schiamazzavano con animazione e si additavano a vicenda la Rapida; non tentarono di tirare su di lei; non una freccia infatti fu scoccata nella nostra direzione. Si misero a chiamarla, anzi, con tono dolce e carezzevole.


Io mi fermai per guardarli; ma essa ebbe paura, incominciò a lamentarsi e mi trascinò via. Così raggiungemmo la cima e scomparimmo nel folto degli alberi.


Questo incidente mi ha spesso sorpreso e indotto a riflettere. Se lei, la Rapida, apparteneva realmente alla specie degli Uomini del Fuoco, aveva dovuto esserne separata in un'epoca in cui era troppo giovane per averne conservato il ricordo; in caso diverso non avrebbe avuto tanta paura di loro. D'altra parte poteva darsi benissimo che, pur essendo della stessa specie, non fosse stata separata da loro, ma fosse invece nata nella foresta selvaggia, lontana dai luoghi del loro soggiorno abituale. Suo padre era forse un Uomo del Fuoco rinnegato; sua madre, una della mia stessa specie, una femmina della nostra comunità. Ma chi può affermare qualcosa su questo argomento? Non certo io; e la Rapida non ne sapeva più di me.


Vivemmo una giornata di vero terrore. La maggior parte degli scampati fuggivano verso la palude dei mirtilli e si rifugiarono nella foresta vicina. E per tutta la giornata bande di Uomini del Fuoco batterono la foresta, uccidendo tutti i nostri che vi si trovavano. Certamente fu un piano eseguito di proposito deliberato: moltiplicandosi al di là delle possibilità del loro territorio, gli assalitori avevano deciso di fare la conquista del nostro. Triste conquista! Noi eravamo impotenti contro di loro; fu un massacro generale perché non risparmiarono nessuno; furono uccisi giovani e vecchi e la contrada sbarazzata radicalmente dalla nostra presenza.


Fu per noi come la fine del mondo. Cercavamo sugli alberi un ultimo rifugio; ma solo per esservi di lì a poco circondati e uccisi, una famiglia dopo l'altra. Assistemmo a molti di questi orrori in quel giorno; e ciò nonostante io volevo vedere. La Rapida e io non restavamo a lungo sullo stesso albero; così evitammo di essere scoperti; ma sembrava che non esistesse nessun rifugio per noi. Gli Uomini del Fuoco erano dappertutto, accaniti nella loro opera di sterminio; da qualunque parte ci volgessimo, li incontravamo inevitabilmente; e fu così che potemmo vedere molto della loro opera.


Non vidi quel che avvenne di mia madre, ma fui presente quando lo Schiamazzatore, crivellato di frecce, precipitò giù dal vecchio nido familiare. Credo anche che assistendo a quello spettacolo non potei trattenere un sussulto di gioia. Prima di abbandonare questa parte del racconto, bisogna che parli di Occhiorosso. Egli fu preso con la sua ultima moglie su un albero nelle vicinanze della palude dei mirtilli:


per l'occasione, la Rapida e io ci trattenemmo a lungo a guardare prima di riprendere la nostra fuga. Gli Uomini del Fuoco erano troppo assorti nel loro lavoro perché potessero scorgerci, e inoltre, accovacciati come eravamo nel folto della boscaglia, potevamo sentirci al riparo da ogni sorpresa.


Più di venti cacciatori erano sotto l'albero, fra i cui rami scaricavano volate di frecce, che raccoglievano ogni volta che ricadevano a terra. Io non potevo vedere Occhiorosso, ma potevo udirlo, che urlava spaventosamente. Dopo un breve intervallo, i suoi urli si velarono, certo perché s'era lasciato scivolare in qualche parte cava del tronco. Ma la moglie non poté raggiungerlo in quel rifugio: una freccia la fece precipitare a terra. Doveva essere gravemente ferita, perché non fece alcun movimento, nessuno sforzo per fuggire. Restò lì tutta raggomitolata, riparando il suo piccino che si aggrappava fortemente a lei, e implorando con la voce e con il gesto gli Uomini del Fuoco, i quali la circondarono, beffeggiandola, come Orecchiuto e io ci eravamo burlati del vecchio Uomo degli Alberi. E come noi l'avevamo colpito coi rami, altrettanto essi fecero con lei.


La percossero con l'estremità degli archi, ferendola ai fianchi. Ma tutto ciò non era abbastanza divertente per loro perché essa non voleva battersi e neppure andare in collera; si contentava di proteggere il piccolo col proprio corpo e d'implorare pietà dai suoi persecutori. Uno degli Uomini del Fuoco le si avvicinò con una clava in mano: essa vide, comprese, ma si limitò solo a lanciare appelli lamentosi sino al momento in cui il colpo si abbatté su di lei.


Occhiorosso, nel cavo dell'albero, era al riparo delle frecce. Gli Uomini del Fuoco si riunirono per deliberare, e dopo un colloquio d'una certa durata, uno di loro si arrampicò sull'albero. Quel che accadde lassù, non saprei dirvelo, ma udii grida fra il fogliame e vidi la sovreccitazione di quelli che erano rimasti giù. Dopo alcuni minuti il corpo dell'Uomo del Fuoco precipitò con un gran tonfo al suolo, dove rimase inerte. Gli altri guardarono, gli sollevarono il capo, ma esso ricadde mollemente appena lasciatolo. Occhiorosso gli aveva regolato il conto.


Gli Uomini del Fuoco erano pieni di furore. C'era un crepaccio nel tronco, vicino al suolo; essi vi ammassarono rami ed erbe e poi vi diedero fuoco. Abbracciati, la Rapida e io, attendevamo e spiavamo tra il fogliame. Di tanto in tanto essi gettavano rami verdi e foglie sul fuoco, il che produceva un fumo densissimo.


Improvvisamente li vedemmo scostarsi rapidamente dal piede dell'albero; ma non furono abbastanza solleciti, perché il corpo di Occhiorosso atterrò come un bolide in mezzo a loro. Era in preda a una rabbia tremenda e colpiva a destra e a manca con le sue lunghe braccia. Sfigurò letteralmente il viso a uno di loro, con le sue dita nodose e i suoi muscoli formidabili. Spezzò la nuca di un altro con un pugno. Gli Uomini del Fuoco indietreggiarono con grida feroci e selvagge; poi gli si precipitarono addosso. Egli riuscì ad afferrare una clava e incominciò a spaccare teste come se fossero gusci d'uovo.


Il mostro era troppo forte per loro, e di nuovo dovettero indietreggiare. Occhiorosso approfittò dell'occasione, pur continuando a urlare di rabbia. Alcune frecce gli volarono dietro, ma d'un balzo riuscì a immergersi nel folto della foresta, e scomparve.


La Rapida e io ci allontanammo in silenzio; ma subito cademmo su un'altra banda di Uomini del Fuoco, la presenza dei quali ci costrinse a gettarci nella palude dei mirtilli. Sennonché, mentre noi conoscevamo i sentieri arborei che attraverso quella palude conducevano alle maremme lontane, gli Uomini del Fuoco non potevano seguirci su quel terreno mobile. Così, ancora una volta, sfuggimmo alla loro persecuzione, raggiungendo una stretta striscia di foresta, che separava la palude dei mirtilli dalla grande palude che si stendeva verso l'Ovest. Qui incontrammo Orecchiuto. Non posso immaginare come fosse riuscito a mettersi in salvo, a meno che la notte precedente non si fosse trattenuto a dormire lontano dalle caverne.


In questa striscia boscosa avremmo potuto benissimo costruire ricoveri sugli alberi e stabilirvici; ma gli Uomini del Fuoco proseguivano a fondo la loro opera di sterminio. Nel pomeriggio, Barbuto e sua moglie sbucarono tra gli alberi e passarono accanto a noi, fuggendo verso oriente. Andavano silenziosi e rapidi, col terrore dipinto in viso.


Nella direzione da cui venivano, udimmo le grida e gli urli dei cacciatori e i richiami lamentosi di quelli della Specie. Gli Uomini del Fuoco erano riusciti ad attraversare la palude.


La Rapida, Orecchiuto e io filammo via immediatamente sulle tracce del Barbuto e di sua moglie. Quando giungemmo alla fine del bosco, dove incominciava la grande palude, ci toccò fermarci, non conoscendo i sentieri che l'attraversavano. Eravamo fuori del nostro territorio, in un posto da cui la Specie si era sempre tenuta lontana. Nessuno c'era mai entrato, o almeno nessuno ne era mai ritornato. A nostro parere, la grande palude rappresentava il mistero e lo spavento, l'ignoto, il terribile ignoto. Ci fermammo dunque sul bordo del bosco; avevamo paura. Le grida degli Uomini del Fuoco si avvicinavano. Ci guardammo in faccia. A un tratto, il Barbuto si slanciò sul pantano mobile e raggiunse il terreno più solido d'una prominenza erbosa. La moglie non lo seguì; fece un tentativo, ma subito indietreggiò sulla superficie insidiosa e si accasciò piena di timore.


La Rapida non mi aspettò e, fermandosi solo dopo aver sorpassato di un centinaio di metri il Barbuto, raggiunse una spianata elevata, erbosa e molto più vasta. Quando Orecchiuto e io la raggiungemmo, gli Uomini del Fuoco apparivano sotto gli alberi. Presa dal panico, la moglie del Barbuto si precipitò appresso a noi. Correva alla cieca e senza alcuna cautela, attraversando la crosta solida. Ci voltammo a guardare e vedemmo gli Uomini del Fuoco crivellarla di frecce, mentre affondava nella melma; poi le frecce incominciarono a piovere intorno a noi. Il Barbuto ci aveva raggiunti e tutti e quattro, senza sapere dove andassimo, ci allontanammo sempre più in mezzo alla palude.



18


Non ho alcun ricordo preciso della nostra corsa errante attraverso la grande palude. Quando vi torno con la mente, provo un caos d'impressioni senza nesso e perdo persino la nozione del tempo. Non ho un'idea esatta del tempo trascorso da noi quattro in quel vasto oceano di verde; ma ricordo che dovemmo errare in mezzo a esso per settimane intere. I miei ricordi di quel che vi accadde assumono invariabilmente la forma d'incubi. Oppresso da una paura multiforme, ho coscienza di errare, di errare senza fine per tempi infiniti, attraverso un groviglio umido e vischioso, dove serpenti velenosi si gettavano su noi, dove belve d'ogni specie ruggivano da tutte le parti, dove il fango tremava sotto i nostri passi, formando come ventose attorno alle nostre caviglie.


So che parecchie volte il nostro cammino fu deviato da ruscelli, da laghi, da mari di melma; e ci furono tempeste, sollevamenti d'acqua su vaste distese di terreno depresso; e anche ci furono periodi di fame e di miseria, contro i quali la nostra impotenza fu totale, accovacciati sugli alberi per interi giorni, immobilizzati da quelle inondazioni intermittenti.


Fra le tante immagini, una è più profondamente impressa nel mio cervello. Grandi alberi ci circondano e dai loro rami pendono lunghi filamenti di musco mentre le alte liane, simili a mostruosi serpenti, si arrampicano intorno ai tronchi e allacciano la loro capigliatura aerea. E tutto intorno, la melma molle, sulla quale ribollono i gas, palpita e sospira di un'agitazione interna. Nel mezzo di tutto questo ci troviamo noi della Specie, in numero di una dozzina; siamo magri e di penoso aspetto, con le ossa che spuntano attraverso la pelle tesa.


Non cantiamo, non schiamazziamo, non ridiamo, non facciamo più i gioiosi scherzi di un tempo. Questa volta le nostre disposizioni alla burla e all'esuberanza ilare sono disperatamente abbattute. Emettiamo di quando in quando suoni lamentosi, dolenti; ci guardiamo fra noi; ci ammassiamo gli uni contro gli altri. E' come l'incontro dello sparuto manipolo di sopravvissuti nell'ultimo giorno del mondo.


Questo avvenimento non ha però nessuna relazione con gli altri incidenti sopravvenuti nella palude. Non posso nemmeno dire in che modo riuscimmo ad attraversarla, ma alla fine giungemmo a una fila di colline basse che scendevano verso il fiume. Era il nostro fiume che, come noi, usciva dalla grande palude. Sulla riva sud, nel punto dove il fiume si era aperto un varco attraverso le colline, trovammo parecchie caverne scavate nell'arenaria; di là, verso l'Ovest, l'oceano si gettava rumoreggiando sulla barra che chiudeva la foce del fiume. E lì nelle caverne, presso il mare, fissammo la nostra residenza.


Non eravamo molti. Di quando in quando, con i giorni che si succedevano, altri membri dell'Orda apparvero. Uscirono dalla palude trascinandosi, ad uno ad uno, a due a due, a tre a tre, più morti che vivi, veri scheletri ambulanti, e quando fummo una trentina non ne arrivarono più altri. Occhiorosso non era fra noi. Particolare degno di nota: nessun bambino sopravvisse a quel terribile viaggio.


Non parlerò diffusamente degli anni che trascorremmo in riva al mare.


Era una località tutt'altro che piacevole da abitare. L'aria era umida e fredda, ed eravamo costantemente colti da tosse e raffreddori. Non potevamo resistere in un tale ambiente. Avemmo anche dei figli; ma nacquero con poca vitalità e morirono presto. E poiché gli adulti stessi morivano più presto di quanto non nascessero i bambini, così il nostro numero diminuiva in maniera costante.


D'altra parte, il cambiamento di nutrizione non ci era affatto favorevole: gli alimenti vegetali essendo scarsi, diventammo mangiatori di pesce. Le mareggiate ci gettavano sulla spiaggia foladi, orecchie di mare, ostriche di roccia e grossi granchi. Trovammo anche diverse specie di alghe che erano mangiabili; il cambiamento di nutrizione ci diede frequenti mali di stomaco e nessuno di noi ingrassava. Eravamo magri e avevamo l'aria dispeptica. Orecchiuto morì nel prendere delle grosse orecchie di mare: una di esse gli si chiuse sulle dita a marea bassa ed egli annegò sommerso dal flusso successivo. Ritrovammo il suo corpo il giorno dopo e la cosa ci servì di lezione, cosicché, da allora in poi, nessuno di noi fu più preso dalle valve di un'orecchia di mare.


La Rapida e io riuscimmo ad allevare un bambino; riuscimmo almeno ad allevarlo per alcuni anni. Ma sono più che sicuro che egli non sarebbe sopravvissuto in quel terribile clima. Ed ecco che un bel giorno gli Uomini del Fuoco riapparvero di nuovo. Avevano disceso il fiume, non già su una zattera, ma su una piroga rudimentale. Erano in tre che remavano, e uno di loro era lui, sempre lui, il vecchio piccolo cacciatore incartapecorito. Sbarcarono sulla spiaggia: il vecchio attraversò la sabbia zoppicando e si mise ad esaminare le nostre caverne. Dopo alcuni minuti, gli Uomini del Fuoco se ne andarono; ma la Rapida era spaventatissima. Avevamo certo tutti paura, ma nessuno quanto lei: piangeva, gridava, e fu agitata tutta la notte. Al mattino, prese il bambino fra le braccia e con le grida, i gesti e l'esempio mi trascinò in una seconda e lunga fuga. Otto membri della Specie - tutto quel che restava dell'Orda - rimasero nelle caverne.


Senza dubbio, non c'era alcuna speranza per loro: anche se gli Uomini del Fuoco non tornarono, dovettero perire rapidamente. Il clima era pessimo vicino al mare, e quelli della Specie non erano fatti per sopportarne i rigori.


Andammo verso il Sud, costeggiando per vari giorni la grande palude, senza mai avventurarci in mezzo a essa. Una volta tornammo verso occidente, traversando una catena di montagne e ridiscendendo verso la costa; ma la località non era conveniente per noi. Non c'erano alberi; non c'era nulla, tranne promontori desolati, onde sonanti e venti violentissimi che sembravano non dover mai cessare la loro rabbia.


Riattraversammo i monti, spingendoci a oriente e a sud, fino al momento in cui ritrovammo la grande palude.


Raggiungemmo ben presto l'estremità sud della palude, e continuammo la nostra corsa verso il Sud. Il paesaggio era un incanto, l'aria calda:


eravamo di nuovo nella foresta. Più tardi riattraversammo una catena di colline basse e ci trovammo in una regione ancora più boscosa. Più ci allontanavamo dalla costa, più faceva caldo. Andammo avanti fino a raggiungere un corso d'acqua più grande, che la Rapida parve riconoscere. Doveva essere il posto dove era venuta durante i quattro anni che aveva trascorso lontano dall'Orda. Attraversammo il fiume su tronchi d'albero, e sbarcammo sull'altra riva ai piedi d'una scarpata elevata. Lassù in alto trovammo un nuovo alloggio, una caverna di accesso difficilissimo e del tutto invisibile dalla riva.


Mi resta ben poco da raccontare. La Rapida e io vivemmo in quel sicuro asilo e vi allevammo pacificamente la nostra famiglia. Le mie reminiscenze si fermano qui. Non facemmo altre migrazioni. Non sogno mai più lontano della nostra caverna elevata e inaccessibile. Lì dovette venire al mondo il bambino che ereditò la sostanza dei miei sogni, l'essere che s'impregnò di tutte le impressioni della mia vita, o piuttosto della vita di Gran Dente, che è l'altra mia personalità e non il mio vero IO, pur essendo per me così reale che spesso sono incapace di dire in quale epoca vivo.


Spesso rivolgo a me stesso domande su questa linea di discendenza. Io il moderno sono incontestabilmente un uomo. In qualche parte, e per una filiazione diretta, questi due componenti della mia personalità si riallacciano. I membri della Specie, prima della loro distruzione, erano in via di diventare uomini? Abbiamo, io e i miei, compiuto questa trasformazione? D'altra parte, non potrebbe darsi che uno dei miei discendenti si sia unito alle Genti del Fuoco per diventare uno dei loro? Non ne so nulla, e non ho neanche modo di saperlo. Una sola cosa è certa, e cioè che Gran Dente impresse sulla costituzione mentale d'uno dei suoi figli tutte le immagini e le sensazioni della sua vita, e che ve l'impresse in modo così indelebile che le legioni di generazioni che seguirono non hanno potuto cancellarle.


Ma di un'altra cosa è necessario che io parli prima di finire. E' un sogno che mi accade spesso di fare. Quanto al tempo, l'avvenimento reale dovette verificarsi durante il periodo in cui vivevo nella caverna inaccessibile. Ricordo che mi ero avventurato nella foresta, lontano, verso oriente. Sopraggiunse una banda di Uomini degli Alberi; rannicchiato nella massa del fogliame, li guardai giocare. Essi tenevano un'allegra riunione, danzando e cantando in cadenza selvaggia.


A un tratto voci e sgambetti cessarono. Si strinsero insieme in preda allo spavento, guardandosi ansiosamente intorno per cercare una linea di ritirata. Allora Occhiorosso si fece avanti in mezzo al gruppo. Non cercò di fare loro del male, sebbene tutti tremassero di paura e si tirassero indietro. Egli era uno dei loro. Dietro di lui veniva una vecchia femmina del Popolo degli Alberi, la sua ultima moglie, dalle gambe contorte e nodose, che camminava toccando il suolo con le dita piegate, in modo da appoggiarvisi sopra. Occhiorosso si sedette in mezzo al circolo. Lo vedo ancora adesso, mentre scrivo, roteare gli occhi in fiamme e guardare intorno a sé la cerchia della Gente degli Alberi; e, mentre guarda, ripiega la sua gamba enorme, e con le dita adunche del piede si gratta lo stomaco. Occhiorosso, L'ATAVISMO.