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Herman Melville

Benito Cereno

 

a cura di

Patrizio Sanasi

.BENITO CERENO

Nell'anno 1799 il capitano Amasa Delano di Duxbury nel Massachusetts, al comando di un grosso mercantile

attrezzato anche per la caccia alle foche, era all'ancora, con un carico prezioso, nella baia di Santa Maria, un'isoletta

deserta e disabitata verso l'estremità meridionale della lunga costa del Cile. Aveva fatto scalo per rifornirsi d'acqua.

Il secondo giorno, poco dopo l'alba, mentre era sdraiato nella sua cuccetta, il primo ufficiale scese a informarlo

che una vela sconosciuta stava entrando nella baia. In quelle acque le navi non erano allora numerose come lo sono

adesso. Il capitano si alzò, si vestì e raggiunse il ponte.

Era un mattino tipico di quella costa. Tutto era silenzioso e calmo; tutto grigio. Il mare, pur solcato da lunghi

flutti rigonfi, pareva immobile e, in superficie, era liscio come una colata di piombo, raffreddatasi e solidificata nella

forma del fonditore. Il cielo era un manto grigio. Vorticanti stormi di irrequieti uccelli grigi, simili alle vorticanti spire

dei vapori grigi ai quali si mescolavano, rasentavano le acque, guizzando come rondini sopra i campi prima del

temporale: ombre presenti adombranti ombre future più dense.

Con sorpresa di capitan Delano la nave sconosciuta, vista al cannocchiale, non mostrava la bandiera, sebbene

fra i pacifici uomini di mare di ogni nazione fosse costume alzarla nell'entrare in un porto dove, per quanto fossero

disabitate le coste, si trovasse all'ancora anche una sola nave. In quel luogo solitario e remoto dalle leggi, considerate le

storie che circolavano allora su quei mari, la sorpresa di capitan Delano avrebbe potuto intensificarsi fino a diventare

inquietudine, se non fosse stato una persona bonaria, particolarmente fiduciosa, poco propensa - se non sotto stimoli

straordinari e ripetuti e, anche allora, con riluttanza - a indulgere in allarmismi, che in qualche modo portassero ad

accusare l'uomo di malvagità e cattiveria. Se poi, visto quello di cui è capace l'uomo, questo tratto del carattere indichi,

oltre alla benevolenza del cuore, una prontezza e finezza di percezione intellettuale maggiori dell'ordinario, è decisione

da lasciare ai saggi.

Ma tutti o quasi gli uomini di mare avrebbero tacitato l'apprensione sorta al primo avvistamento della nave

sconosciuta, osservando che questa, nell'entrare in porto, rasentava troppo dappresso la terra: a prora, infatti, si

individuava una scogliera sommersa. Particolare che dimostrava come il vascello fosse davvero sconosciuto non

soltanto al mercantile cacciatore di foche, ma anche all'isola, e di conseguenza non poteva essere una nave che praticava

la pirateria in quell'oceano. Con non poco interesse capitan Delano rimase ad osservarla, cosa niente affatto facile tra i

vapori che in parte avvolgevano lo scafo, attraversati dalla luce remota del fanale della cabina di poppa, che filtrava in

modo alquanto ambiguo; così simile ai raggi del sole che, ormai già semisferico sulla linea dell'orizzonte, pareva

procedere nella baia di pari passo con la nave sconosciuta, mentre, striato dalle stesse nuvole basse striscianti, non era

diverso dall'unico occhio sinistro di un'intrigante di Lima, che sbircia la Plaza dal pertugio indiano della sua ombrosa

saya-y-manto.

Forse la causa era dei vapori ingannevoli ma, a forza di guardare la nave sconosciuta, sempre più strane

apparivano le sue manovre. Ben presto parve difficile stabilire se intendesse entrare oppure no, che cosa volesse o che

cosa si prefiggesse. Il vento, che durante la notte si era un po' rinforzato, adesso era molto lieve e incostante con la

conseguenza che faceva apparire ancora più incerti i movimenti della nave.

Concludendo alla fine che forse si trattava di una nave in difficoltà, capitan Delano diede ordine di calare la

baleniera e, contro le accorte obiezioni del primo ufficiale, si preparò a salire a bordo almeno per pilotarla in porto.

Nella notte un gruppo di marinai si era allontanato per andare a pescare fino a certi scogli lontani, non visibili dal

mercantile, e aveva fatto ritorno un paio d'ore prima dell'alba con un bel carico. Immaginando che la nave sconosciuta

fosse rimasta a lungo in alto mare, il buon capitano, caricati sulla baleniera parecchi cesti di pesce da offrire in dono, si

avviò. Vedendo che la nave continuava ad avvicinarsi agli scogli sommersi, e ritenendola in pericolo, si rivolse ai suoi

uomini per indurli ad affrettarsi ad avvertire quelli a bordo. Ma, prima che s'avvicinasse la baleniera, il vento, pur lieve,

cambiò di direzione, spingendo la nave al largo e dissipando i vapori che l'avvolgevano.

Nell'osservarla più da vicino, la nave, chiaramente visibile sulla cresta delle plumbee onde lunghe, con

brandelli di nebbia che qui e lì l'avvolgevano come un vello cencioso, sembrava un bianco monastero, abbarbicato su

qualche fosco picco dei Pirenei, subito dopo un temporale. Ma non era soltanto una fantasiosa somiglianza a indurre per

un attimo capitan Delano a pensare di trovarsi di fronte nientemeno che a un carico di monaci. Nella nebbiosa distanza

pareva davvero che oltre le murate ci fosse uno stuolo di monaci neri, mentre a tratti, attraverso i portelli aperti, si

intravedeva un brulichio di altre figure nere, simili a frati domenicani a passeggio nel chiostro.

Da più vicino l'aspetto mutò e fu evidente la vera natura della nave: un mercantile spagnolo di prima classe

che, fra le varie merci di valore, trasportava schiavi negri da un porto coloniale a un altro. Un vascello molto grande e,

ai suoi tempi, molto bello, come allora se ne incontravano a volte sulle rotte principali: navi di Acapulco, un tempo

adibite al trasporto del tesoro, ma ormai in disuso, oppure fregate in disarmo della regia flotta spagnola che, simili ad

antichi palazzi italiani, conservavano, pur nel declino dei padroni, tracce dell'antico splendore.

A mano a mano che la baleniera si avvicinava, si vide che le cause dell'aspetto calcinato della nave sconosciuta

erano la trascuratezza e l'abbandono che la permeavano. I pennoni, le funi, gran parte delle mutate parevano irsute per la

scarsa frequentazione della raschietta, del catrame, della spazzola. Sembrava che la chiglia fosse stata costruita, i

costoni saldati e la nave varata nella Valle delle Ossa Aride di Ezechiele..Adibita al servizio attuale, non pareva che la nave e l'attrezzatura avessero subito mutamenti sostanziali dal

modello guerriero originale di Froissart. Non si vedevano però cannoni.

Le grandi coffe, cinte da un reticolato ottagonale - almeno lo era stato un tempo, ma ormai in triste degrado - si

libravano in alto, simili a tre uccelliere in sfacelo; in una di queste si vedeva appollaiata su una grisella una rondine

marina bianca, uno strano e stolido uccello, dal carattere letargico e sonnambolico, che in mare si riesce spesso a

prendere con le mani. Cadente e ammuffito, il castello di prora pareva un'antica torre, che fosse stata presa d'assalto

tanto tempo prima e poi lasciata andare in rovina. Verso poppa, su due alte balconate, con le balaustre qui e lì ricoperte

di muschio marino secco e riarso, si apriva la cabina grande, deserta, con i portelli, pur in quel clima mite,

ermeticamente chiusi e calafatati - e questi balconi vuoti si affacciavano sull'acqua quasi si trattasse del Canal Grande di

Venezia. Ma la reliquia principale della passata grandezza era l'ampio ovale, simile a uno scudo, della decorazione di

poppa, con un intricato intaglio raffigurante il vessillo di Castiglia e León, incorniciato da emblemi mitologici o

simbolici come nei medaglioni, e fra questi spiccava in mezzo un satiro scuro mascherato, con il piede sul collo prono

di una figura contorta, anch'essa mascherata.

Se la nave avesse una polena o soltanto un semplice rostro non era certo, a causa di un telone avvolto intorno a

quella parte, forse per proteggerla, mentre veniva riparata o, forse, per nasconderne pudicamente il degrado. Scritto in

modo rozzo con la vernice o il gesso, quasi un ghiribizzo di marinaio, sulla parte anteriore di una specie di piedistallo

sotto il telone, c'era il motto Seguid vuestro jefe (Seguite il vostro capo); mentre sulle testate di prua, non lontano,

appariva il nome della nave, San Domenico, tracciato in solenni maiuscole, un tempo dorate, con le lettere scanalate

dalle stille di ruggine gocciolanti dai chiodi di rame; a ogni funereo rollio dello scafo, festoni scuri di alghe, simili a

gramaglie, oscillavano viscidi sul nome.

Alla fine, quando la baleniera, agganciata a prua, fu portata verso il barcarizzo a mezza nave, la chiglia, seppur

separata dallo scafo di qualche pollice, sfregò ruvidamente come su una scogliera corallina sommersa. Si rivelò essere

un enorme grappolo di crostacei cirripedi che sott'acqua aderivano al fianco come un porro - segno di venti variabili e

lunghe bonacce trascorse chissà dove in quei mari.

Il visitatore, salendo lungo il fianco, fu subito circondato da una calca rumorosa di bianchi e negri - questi

ultimi in numero molto superiore ai primi - più di quanto ci si sarebbe aspettato - pur tenendo conto che la nave

sconosciuta era adibita al trasporto di schiavi. Ma in una sola lingua e quasi a una sola voce tutti si profusero in

racconti di comuni sofferenze, e le negre, piuttosto numerose, superarono gli altri con la loro dolorosa veemenza. Lo

scorbuto e la febbre avevano spazzato via un gran numero di loro, soprattutto di spagnoli. Al largo di Capo Horn

avevano per poco evitato il naufragio, quindi, per giorni e giorni, erano rimasti immobili, come in catalessi, senza vento;

scarseggiavano le provviste, l'acqua era quasi esaurita, le labbra ormai riarse.

Mentre diventava così il bersaglio di tutte quelle lingue bramose di raccontare, capitan Delano, con sguardo

altrettanto bramoso di sapere, colse tutti i volti e ogni altro oggetto intorno a sé.

Quando in mare aperto si sale per la prima volta a bordo di una nave grande e gremita di gente, soprattutto se

straniera, con un equipaggio disparato come possono essere gli uomini di Lascar o di Manila, accade sempre che

l'impressione differisca in modo singolare da quella provata entrando per la prima volta in una casa sconosciuta con

abitanti sconosciuti in una terra sconosciuta. La casa e la nave - l'una con i suoi muri e le persiane, l'altra con le sue

murate alte come bastioni - nascondono alla vista, fino all'ultimo momento, l'interno, quasi fosse un tesoro; ma nel caso

della nave c'è questo in più: dischiudendo con brutale schiettezza quanto vi è racchiuso, offre uno spettacolo, che,

contrapposto all'oceano vuoto circostante, ha l'effetto di un incantesimo. La nave sembra irreale: quegli strani costumi,

quei volti, quei gesti paiono un quadro illusorio emerso dagli abissi che reclameranno subito quanto hanno dato.

Forse una suggestione simile a quella che si è cercato di descrivere diede forza, nella mente di capitan Delano,

a elementi che sarebbero sembrati soltanto inconsueti a un esame pacato; specialmente le figure maestose di quattro

vecchi negri, brizzolati, con le teste simili alle chiome di salici neri, cimati per la decrepitezza, i quali, in venerabile

contrasto con il sottostante tumulto, se ne stavano accucciati, come sfingi, uno sulla gru di dritta, uno su quella di

sinistra, gli altri seduti di fronte, sulle opposte murate, sopra i parasartie di maestra. In mano avevano pezzi di vecchio

cavo sfatto e, con una sorta di stoico autocompiacimento, ne facevano stoppa di cui già avevano vicino un mucchietto.

Accompagnavano il lavoro con una nenia continua, bassa, monotona, un ronzio biascicato, come tanti zampognari

canuti, intenti a suonare una marcia funebre.

Il cassero si alzava in un'ampia poppa elevata, dove, sul margine anteriore, seduti, come i quattro stoppai, a

circa otto piedi al di sopra della calca comune, c'erano in fila, a intervalli regolari e a gambe incrociate, altri sei negri.

Avevano tutti in mano un'accetta arrugginita e, con un pezzo di mattone e uno straccio, si adoperavano, come sguatteri,

a strofinarla, mentre ogni due di loro c'era una pila di accette con il filo rugginoso in avanti, in attesa di essere

sottoposte ad analogo trattamento. Sebbene di tanto in tanto i quattro stoppai si rivolgessero con brevi parole a questo o

a quello della calca sottostante, i sei lustratori di accette non parlavano mai con nessuno e non fiatavano fra loro

neppure in un sussurro; si limitavano a starsene seduti intenti al lavoro, salvo a intervalli, con quel caratteristico amore

dei negri di unire l'utile al dilettevole, battere di piatto, a due a due, le accette, come cimbali, con fragore barbarico.

Tutti e sei, a differenza della maggior parte degli altri, avevano l'aspetto selvatico di autentici africani.

Ma quella prima occhiata globale che abbracciò le dieci figure e innumerevoli altre meno imponenti indugiò su

di loro soltanto per un istante, mentre il visitatore, insofferente del vocio assordante, si girava intorno alla ricerca del

comandante, chiunque fosse..Ma, quasi non gli dispiacesse lasciare che la natura parlasse da sola tra gli uomini sofferenti a lui affidati, o

forse disperando di poterli contenere per il momento, il capitano spagnolo, un gentiluomo dall'aria riservata, piuttosto

giovane agli occhi di chi non lo conosceva, vestito in modo singolarmente sontuoso, ma con i segni recenti di affanni e

travagli, nemici del sonno, se ne stava passivo in disparte, appoggiato all'albero maestro, ora lanciando uno sguardo

spento e tetro sulla sua gente irrequieta, ora un'occhiata infelice al visitatore. Accanto a lui c'era un negro di bassa

statura; sulla sua faccia rude, che, come un cane da pastore, di tanto in tanto alzava in silenzio verso quella dello

spagnolo, si mescolavano in ugual misura rammarico e affetto.

Facendosi strada fra la calca, l'americano avanzò verso lo spagnolo, assicurandogli partecipe solidarietà e

offrendogli tutta l'assistenza che poteva. Al che lo spagnolo si limitò a rispondere con ringraziamenti gravi e

cerimoniosi, con la tradizionale ossequiosità della sua terra, resa più cupa dall'umore saturnino di una salute precaria.

Ma, senza perdere tempo in fatui complimenti, capitan Delano, ritornato sulla passerella, fece issare il cesto del

pesce e, siccome il vento soffiava ancora lieve, sicché sarebbe trascorsa almeno qualche ora prima che la nave potesse

essere messa all'ancora, ordinò ai suoi uomini di andare a prendere tutta l'acqua che poteva stare sulla lancia, tutto il

pane fresco che il dispensiere aveva, tutte le zucche che restavano a bordo, una scatola di zucchero e una dozzina di

bottiglie di sidro della sua scorta privata.

Non molti minuti dopo che la lancia si fa staccata, con sgomento di tutti il vento cadde completamente, e la

marea rifluendo prese a spingere la nave verso il largo. Confidando che non sarebbe durato a lungo, capitan Delano

cercò, speranzoso, di rincuorare quegli sconosciuti, provando non poco compiacimento per il fatto che, con persone in

quella condizione, poteva conversare, grazie ai frequenti viaggi nel mar delle Antille, correntemente nella loro lingua.

Rimasto solo con loro, non gli ci volle molto tempo per cogliere alcuni particolari tendenti ad accentuare le sue

prime impressioni, ma la sorpresa naufragava nella pietà per tutti - spagnoli e negri - provati dalla scarsità di acqua e

provviste, mentre sembrava che le sofferenze protratte avessero messo in luce le peggiori qualità dei negri, oltre a

compromettere, nello stesso tempo, l'autorità degli spagnoli. Ma, date le circostanze, non c'era da aspettarsi altro.

Nell'esercito, nella marina, nella città, nella famiglia, nella natura stessa, nulla allenta l'ordine quanto la sofferenza.

Eppure capitan Delano non riusciva ad allontanare l'idea che, se Benito Cereno fosse stato uomo di maggiore energia,

difficilmente l'indisciplina sarebbe arrivata a quel punto. Ma la debolezza del capitano spagnolo - costituzionale o

indotta dalle avversità fisiche o mentali - era troppo evidente per poterla ignorare. In balia di un abbattimento costante,

come se, a lungo irriso nella speranza, ora non volesse più abbandonarvisi, neppure quando non si faceva più beffe di

lui, non sembrava che gli infondesse coraggio in modo percettibile la prospettiva di mettersi all'ancora in quel giorno, o,

al più tardi, quella sera, con acqua abbondante per gli uomini e un capitano a consigliarlo fraternamente e a mostrarsi

amico. Pareva che la sua mente vagasse smarrita, se non peggio. Chiuso fra quelle pareti di quercia, incatenato a un

monotono giro di comando che lo disgustava con il suo illimitato potere, si muoveva lentamente simile a un abate

ipocondriaco, fermandosi all'improvviso, sussultando, sbarrando lo sguardo, mordendosi il labbro, mangiandosi le

unghie, arrossendo, impallidendo, torcendosi la barba, mostrando altri sintomi di uno spirito assente e tribolato.

Quell'animo spento albergava, come ho accennato prima, in un corpo altrettanto spento. Era piuttosto alto, ma non dava

l'aria di essere mai stato robusto, e ora, per la sofferenza nervosa, era ridotto quasi a uno scheletro. Sembrava che da

qualche tempo si fosse confermata una tendenza ai disturbi polmonari. La voce - un sussurro rauco, un mormorio roco -

era quella di chi ha i polmoni semidivorati. Non sorprende che, mentre in quello stato si aggirava vacillando, lo seguisse

sempre, in apprensione, il suo servo personale. A volte il negro offriva il braccio al padrone, oppure gli prendeva di

tasca il fazzoletto, compiendo questa premura e altre analoghe con quella sollecitudine affettuosa che, trasformando

gesti di per sé servili in qualcosa di filiale o fraterno, ha guadagnato al negro la reputazione di essere il valletto più

piacevole del mondo, un valletto che il padrone non è costretto a trattare con rigore autoritario, ma al quale può

rivolgersi con fiduciosa familiarità: non tanto un servo quanto un devoto compagno.

Notando la rumorosa indocilità dei negri in generale e quella che pareva la svogliata tetraggine dei bianchi, non

fu senza intimo compiacimento che capitan Delano costatò l'assidua sollecitudine di Babo.

Ma l'assidua sollecitudine di Babo non sembrava capace di strappare l'ombroso don Benito dal suo cupo

languore più di quanto ci riuscisse la riottosità degli altri. Non che fosse questa l'impressione che lo spagnolo fece sul

visitatore. L'irrequietezza personale dello spagnolo era, in quella situazione, soltanto un tratto distintivo della generale

sofferenza della nave. Eppure capitan Delano fu non poco angustiato da quello che gli parve un atteggiamento di ostile

indifferenza da parte di don Benito nei propri confronti. I modi dello spagnolo esprimevano una specie di amarezza

cupa e sdegnosa, che egli non si affannava a dissimulare. Ma questo, l'americano, nella sua comprensiva bontà, lo

attribuì agli effetti opprimenti della malattia: aveva già notato in altri casi come, in certi particolari individui, la

sofferenza fisica prolungata sembri cancellare ogni impulso sociale alla gentilezza, quasi che, costretti a mangiare pane

nero, considerino equo che le persone a loro vicine debbano indirettamente, per offesa o affronto, dividere lo stesso

cibo.

Ma ben presto capitan Delano si convinse che, se pure era stato indulgente nel giudicare lo spagnolo, forse non

aveva esercitato abbastanza la carità. In fondo, a dispiacergli, era il riserbo di don Benito, ma era un riserbo che

mostrava verso tutti tranne che verso il fedele servo personale. Faceva fatica a trovare la pazienza di ascoltare, senza

tradire un'avversione sprezzante, perfino i rapporti formali che, secondo le consuetudini marinare, venivano fatti a ore

fisse da qualche tirapiedi, bianco, mulatto, negro che fosse. In tali occasioni i suoi modi non erano dissimili, nel loro

genere, da quelli che presumibilmente avrebbe avuto il suo imperiale compatriota, Carlo V, poco prima del ritiro

anacoretico dal trono..Questa splenetica ripugnanza per il suo grado risultava evidente in quasi tutte le funzioni che vi attinevano.

Orgoglioso e tormentato, non si degnava di impartire di persona nessuna direttiva. Se c'era bisogno di un ordine

speciale, delegato a trasmetterlo era il suo servo che, a sua volta, lo inoltrava a destinazione tramite corrieri, svelti

ragazzi spagnoli o schiavi, che, simili a paggi o pesci pilota, continuamente gravitavano a portata di voce intorno a don

Benito. Così nel vedere quell'invalido chiuso e apatico, che scivolava intorno senza dire parola, nessun profano, abituato

alla terraferma, si sarebbe sognato che in lui fosse riposto un potere assoluto, sopra il quale, finché erano in mare, non

esisteva appello terreno.

Lo spagnolo, quindi, considerato il suo riserbo, sembrava la vittima involontaria di un disordine mentale. E se,

in realtà, il suo riserbo fosse dipeso, in certa misura, da calcolo? Se così stavano le cose, ecco la dimostrazione di

quanto fosse morbosa, se applicata con eccesso, quella politica gelida, seppure coscienziosa, adottata più o meno dai

comandanti di tutte le grosse navi, la quale, salvo in situazioni eccezionali di pericolo, cancella ogni manifestazione di

potere e insieme ogni traccia di socievolezza, trasformando l'individuo in un blocco o, meglio, in un cannone carico che

non ha nulla da dire fino a quando non deve esplodere.

Da tale punto di vista era soltanto il naturale scotto di questa perversa abitudine, indotta da una lunga pratica di

dura autodisciplina che, malgrado le condizioni attuali della nave, lo spagnolo insistesse a comportarsi in modo che, pur

innocuo o forse opportuno in un bastimento equipaggiato come si deve, quale forse era stata la San Domenico all'inizio

del viaggio, ormai appariva del tutto dissennato. Ma, chissà, forse lo spagnolo pensava che per un capitano è come per

un dio: in ogni circostanza il riserbo deve essere il tratto distintivo. Oppure quell'aria di dominio torpido era forse

soltanto il tentativo di mascherare una consapevole inettitudine - non già saggia politica, bensì fatuo espediente.

Comunque stessero le cose, sia che l'atteggiamento di don Benito fosse calcolato sia che non lo fosse, quanto più

capitan Delano notava il diffuso riserbo, tanto meno si sentiva a disagio davanti alle manifestazioni di quello stesso

riserbo nei propri confronti.

Ma i suoi pensieri non erano presi soltanto dal capitano. Abituato all'ordine regolato e tranquillo di quella

rassicurante famiglia che era l'equipaggio sulla sua nave, la confusione rumorosa della calca sofferente della San

Domenico ripetutamente sfidò il suo sguardo. Si notavano trasgressioni clamorose non soltanto alla disciplina, ma anche

al decoro. Quelle violazioni capitan Delano non poteva che attribuirle, in linea di massima, alla mancanza di quei

sottufficiali di coperta ai quali, su una nave affollata, sono affidati, accanto a mansioni di maggior prestigio, compiti per

così dire, di polizia. Vero: i vecchi stoppai si comportavano a volte con i connazionali negri come gendarmi attenti, ma,

se pur di tanto in tanto riuscivano a comporre risse insignificanti che scoppiavano tra questo e quell'uomo, potevano

fare poco o nulla per garantire l'ordine generale. La San Domenico era nella situazione di un transatlantico di emigranti,

con un carico vivente di individui, fra i quali ce ne sono alcuni indubbiamente non più rissosi di una balla o un cassone,

ma che con le loro amichevoli rimostranze nei confronti dei compagni turbolenti non sono efficaci quanto il pugno di

ferro dell'ufficiale. Quello che mancava alla San Domenico, e invece possiede la nave di emigranti, erano ufficiali

superiori inflessibili. Ma su quei ponti non si vedeva neppure un quarto ufficiale.

Il visitatore si sentiva stuzzicato nella sua curiosità di apprendere i particolari delle disavventure che avevano

portato a tanto lassismo con le sue conseguenze, perché, pur avendo avuto qualche sentore dalle lamentele che lo

avevano accolto fin dal primo istante, tuttavia non si era ancora avuta una chiara spiegazione dei fatti. Il resoconto

migliore gli sarebbe stato fornito, senza dubbio, dal capitano. Eppure, dapprincipio, il visitatore era riluttante a chiedere,

non volendo mettersi nella condizione di provocare nemmeno un remoto rifiuto. Ma, racimolando il coraggio, si

avvicinò alla fine a don Benito, rinnovando le espressioni della propria solidale partecipazione, aggiungendo che se lui

(capitan Delano) avesse appena saputo le disavventure della nave, sarebbe stato in grado forse di soccorrerlo meglio.

Don Benito gli concedeva di raccontargli l'intera storia?

Don Benito vacillò, poi, simile a un sonnambulo scosso all'improvviso, volse sul visitatore uno sguardo vacuo,

per poi abbassarlo sul ponte. Rimase in quell'atteggiamento così a lungo che capitan Delano, quasi altrettanto

sconcertato e involontariamente quasi altrettanto scortese, gli girò di botto le spalle avvicinandosi a uno dei marinai

spagnoli per avere l'informazione desiderata. Ma aveva fatto sì e no cinque passi quando, ravvivandosi con una specie

di solerzia, don Benito lo richiamò, rammaricandosi per la propria momentanea distrazione e dichiarandosi pronto ad

accontentarlo.

Durante quasi tutto il racconto i due capitani rimasero in piedi all'estremità posteriore del ponte di comando, un

punto privilegiato dove non c'era nessuno tranne il servo.

«Sono ormai centonovanta giorni», prese a dire lo spagnolo con il suo roco sussurro, «che questa nave, ben

equipaggiata di uomini e ufficiali, con parecchi passeggeri di cabina - una cinquantina di spagnoli in tutto -, salpò da

Buenos Ayres diretta a Lima con a bordo un carico vario - ferramenta, tè del Paraguay e merci analoghe - oltre a»,

indicando davanti, «un lotto di negri, ormai non più di centocinquanta, come vedete, ma allora ammontanti a oltre

trecento anime. Al largo di Capo Horn incontrammo violente burrasche. In un attimo, di notte, persi tre dei miei

migliori ufficiali, quindici marinai e il pennone di maestra, che si ruppe sotto di loro nei cappi di legatura, mentre

cercavano, con delle sbarre, di ammainare la vela gelata. Per alleggerire lo scafo furono buttati a mare i sacchi più

pesanti di matè con quasi tutti i barili d'acqua fissati sul ponte in quel momento. E fu quest'ultima esigenza, oltre alle

successive soste prolungate, la causa principale della sofferenza. Quando...».

A questo punto ebbe un subitaneo accesso di tosse e un mancamento, provocato senza dubbio dagli affanni. Il

servo lo sostenne e, prendendo dalla tasca una bottiglia di cordiale, gliela portò alle labbra. Si riprese un poco. Ma il

negro, non volendo lasciare senza sostegno il padrone non ancora del tutto ripreso, lo cinse con un braccio tenendo nel.contempo gli occhi fissi sul suo volto quasi a spiare i primi indizi di un completo recupero o di una ricaduta, a seconda

di come sarebbero andate le cose.

Lo spagnolo proseguì, ma in modo oscuro, con voce spezzata, quasi in sogno.

«Mio Dio! Piuttosto che passare quel che ho passato, con gioia avrei salutato le peggiori tempeste, ma...».

Lo riprese la tosse con maggiore violenza e, quando l'accesso si fu placato, con labbra arrossate e occhi chiusi

cadde pesantemente sull'uomo che lo reggeva.

«La sua mente farnetica. Ricorda l'epidemia che seguì le burrasche», sospirò lamentoso il domestico. «Povero,

povero padrone!», stringendogli una mano e con l'altra pulendogli la bocca. «Abbiate pazienza, señor», di nuovo rivolto

a Delano, «questi attacchi non durano molto; il padrone sarà di nuovo lui fra breve».

Don Benito si riprese e proseguì, ma siccome questa parte della storia venne raccontata con voce rotta, qui si

riporterà soltanto la sostanza.

Sulla nave, sbattuta per giorni e giorni dalle tempeste al largo del Capo, era scoppiato - pareva - lo scorbuto,

che aveva fatto strage di bianchi e di negri. Quando finalmente erano riusciti a raggiungere il Pacifico, pennoni e vele

erano così mal ridotti e manovrati con tanta inadeguatezza dai marinai sopravvissuti, ormai per lo più ridotti a invalidi,

che, nell'impossibilità di fare rotta verso nord a causa del vento davvero forte la nave ingovernabile, per giorni e notti

consecutivi, era stata spinta a nord-ovest, dove all'improvviso la brezza l'aveva abbandonata a bonacce soffocanti in

acque sconosciute. La mancanza d'acqua si dimostrò fatale come prima ne era stata minacciosa la presenza. Provocata,

o perlomeno aggravata, dalla razione d'acqua più che misera, allo scorbuto subentrò una febbre maligna; il protrarsi del

caldo torrido dell'interminabile bonaccia la rese così virulenta da spazzar via in breve, quasi fossero stati travolti da

ondate, intere famiglie di africani e, in proporzione, un numero ancora più cospicuo di spagnoli, compresi, per terribile

fatalità, tutti gli ufficiali a bordo. In seguito, sotto i forti venti occidentali, subentrati infine alla bonaccia, le vele, già

lacere, che, all'occorrenza, ci si doveva limitare a mollare senza ammainare, si erano a poco a poco ridotte ai brandelli

cenciosi che erano in quel momento. Per rimpiazzare i marinai perduti e rifornirsi di acqua e vele, il capitano, non

appena se ne era presentata l'occasione, aveva fatto rotta verso Valdivia, il più meridionale dei porti civilizzati del Cile e

del Sudamerica; ma, all'approssimarsi alla costa, il cielo greve gli aveva impedito di arrivare perfino in vista del porto.

Da allora, quasi priva di equipaggio, quasi priva di vele e quasi priva di acqua, di tanto in tanto affidando al mare nuovi

morti, la San Domenico era stata sballottata qua e là dai venti contrari, trascinata dalle correnti, ricoperta di alghe nelle

bonacce. Simile a chi si perde nei boschi, più volte era tornata sulla propria scia.

«Ma in tutte queste calamità», continuò roco don Benito, volgendosi con sofferenza nel semiabbraccio del

servo, «devo ringraziare quei negri davanti ai vostri occhi, i quali, pur sembrando forse turbolenti al vostro sguardo, si

sono in realtà condotti con meno riottosità di quanto, in quelle circostanze, non avrebbe ritenuto possibile lo stesso

proprietario.

A questo punto, venendo meno, ricadde all'indietro. Di nuovo la sua mente si smarrì, ma, riavendosi, riprese in

modo meno oscuro.

«Sì, il loro proprietario aveva perfettamente ragione nell'assicurarmi che con i suoi negri non c'era bisogno di

ceppi; così, secondo la consuetudine in questi trasporti, sono sempre rimasti in coperta - non cacciati nella stiva come

nelle navi negriere - e fin dall'inizio hanno anche avuto il permesso di muoversi liberamente entro certi limiti, a

piacimento».

Ancora una volta si sentì mancare - la mente delirante - ma, riprendendosi, proseguì:

«Ma è a Babo qui che - Dio mi guardi - devo la mia salvezza, e non soltanto quella: a lui va anche il maggior

merito di aver placato i suoi fratelli più ignoranti, quando, a volte, avevano la tentazione di mormorare».

«Ah, padrone», sospirò il negro chinando il viso, «non parlate di me. Babo è niente. Babo ha fatto soltanto il

suo dovere».

«Uomo fedele!», esclamò capitan Delano. «Don Benito, vi invidio un tale amico; schiavo non posso

chiamarlo».

E mentre padrone e servitore gli stavano davanti - il negro che reggeva il bianco - capitan Delano non poté non

riflettere sulla bellezza di quel rapporto che offriva un tale spettacolo di fedeltà da una parte e di fiducia dall'altra. A

rendere più suggestiva la scena, c'era il contrasto degli abiti che denotavano il rispettivo rango. Lo spagnolo indossava

un'ampia giubba cilena di velluto scuro, stretti calzoni corti e calze bianche, fibbie d'argento al ginocchio e al collo del

piede; un sombrero di paglia fine a calotta alta; una spada sottile montata in argento pendeva da un nodo della fusciacca

- quest'ultima è un accessorio che, più per utilità che per ornamento, ogni gentiluomo sudamericano quasi sempre, ancor

oggi, aggiunge al proprio vestito. Tranne quando, di tanto in tanto, non lo scompigliavano i gesti nervosamente

contratti, c'era nell'abbigliamento del capitano una certa precisione in curioso contrasto con lo sgradevole disordine

intorno, soprattutto con lo sporco ghetto, davanti all'albero di maestra, interamente occupato dai negri.

Il servo indossava soltanto un paio di larghe brache che, a giudicare dall'aspetto ruvido e dalle toppe, erano

state ricavate da una vecchia vela di gabbia; erano pulite e trattenute alla vita da un pezzo di corda sfatta che, insieme

alla sua aria composta e a tratti di deprecazione, lo faceva somigliare un po' a un frate mendicante di San Francesco

Per quanto inadatto all'ora e al luogo, almeno agli occhi dell'ottuso americano, e per quanto stranamente

impeccabile in mezzo a tante afflizioni, l'abbigliamento di don Benito non esagerava, almeno nella foggia, la moda in

voga fra i sudamericani della sua classe. Sebbene in quel viaggio fosse salpato da Buenos Ayres, si era dichiarato nato e

residente in Cile, dove gli abitanti non avevano ancora tutti adottato la semplice giubba e i pantaloni un tempo plebei,

ma con adeguate modifiche si attenevano al loro costume provinciale, quanto mal pittoresco. Eppure, rispetto.all'esangue resoconto del viaggio e al suo stesso volto esangue, c'era qualcosa di così incongruo nell'aspetto dello

spagnolo da suggerire l'immagine di un cortigiano malato, vacillante per le strade di Londra durante la peste.

La parte del racconto che, forse più di ogni altra, suscitava interesse oltre che stupore, considerando le

latitudini in questione, erano le lunghe bonacce descritte e, più in particolare, il lungo andare a deriva della nave. Senza

naturalmente esprimere il proprio punto di vista, l'americano non poteva non imputare almeno in parte i ritardi a

rozzezza di manovra e a errori di navigazione. Sbirciando le mani piccole e gialle di don Benito, gli fu facile intuire che

il giovane capitano non era arrivato al comando dall'occhio di cubia, ma dalla cabina: se le cose stavano così, perché

sorprendersi della sua incompetenza, quando in lui confluivano giovinezza, salute cagionevole, sangue nobile?

Ma, sommergendo la critica in un'ondata di compassione, dopo aver rinnovato la propria partecipe solidarietà,

capitan Delano, sentita tutta la storia, non soltanto si impegnò, per prima cosa, a rifornire don Benito e la sua gente di

tutti i generi di prima necessità, ma promise anche di aiutarlo a procurarsi una scorta durevole e cospicua di acqua, oltre

a equipaggiarlo di vele e sartiame, e, sebbene la cosa gli ponesse non pochi problemi, avrebbe rinunciato a tre dei suoi

uomini migliori perché agissero temporaneamente come ufficiali di coperta, in modo che la nave potesse proseguire

senza indugi per Concepción e, una volta riallestita completamente, per Lima, il porto di destinazione.

Tanta generosità non rimase senza effetto, perfino sull'invalido. Il volto gli si illuminò; bramoso e febbrile,

incontrò lo sguardo schietto del visitatore; la gratitudine sembrava sopraffarlo.

«Tanta commozione fa male al mio padrone», sussurrò il servo prendendogli il braccio e con parole

carezzevoli tirandolo delicatamente in disparte.

Quando don Benito fu di ritorno, l'americano osservò con pena che quel suo dischiudersi alla speranza, al pari

dell'improvviso accendersi delle guance, era stato soltanto un barlume febbrile ed effimero.

Non passò molto che, levando lo sguardo verso il cassero, con modi spenti invitò il visitatore ad

accompagnarlo - per godersi quel po' di brezza che forse spirava.

Poiché, mentre veniva raccontata la storia, capitan Delano una o due volte sussultato al saltuario clangore di

cimbali prodotto dai lustratori di accette, chiedendosi perché mai si dovesse ammettere quell'intrusione, soprattutto in

quella parte della nave e, come se non bastasse, a portata di orecchi di un invalido; e siccome, inoltre, le accette avevano

un'aria nient'affatto rassicurante e meno ancora coloro che le maneggiavano, fu, a dire il vero, non senza una segreta

riluttanza - anzi forse con renitenza - che, mostrandosi esteriormente cortese, capitan Delano acconsentì all'invito

dell'ospite. Tanto più che, con puntigliosità inopportuna e capricciosa, resa angosciosa dall'aspetto cadaverico, don

Benito, con inchini castigliani, insistette perché il visitatore lo precedesse sulla scaletta che conduceva in alto dove, ai

lati dell'ultimo gradino, sedevano, a mo' di colonne araldiche e sentinelle, due di quella sinistra schiera. Assai cauto

passò in mezzo il buon capitan Delano e, nell'istante di lasciarli dietro a sé, sentì, come chi debba passar sotto le forche

caudine, uno spasmo di paura contrargli i polpacci.

Ma quando, giratosi, vide l'intera fila degli uomini, come tanti suonatori di organetto, stupidamente intenti al

lavoro, immemori di tutto il resto, non poté che sorridere del proprio panico e del nervosismo ormai passati.

Poco dopo, mentre se ne stava con il suo anfitrione, fu colpito, osservando i ponti sottostanti, da uno di quegli

episodi di insubordinazione cui si è accennato in precedenza. Tre ragazzi negri e due spagnoli, seduti insieme sui

boccaporti, erano intenti a raschiare un rozzo piatto di legno, usato poco prima per cucinarvi uno scarso rancio.

All'improvviso uno dei ragazzi negri, infuriatosi a una parola sfuggita a uno dei compagni bianchi, afferrò un coltello e,

pur consigliato di lasciar perdere da uno degli sfilacciatori di stoppa, colpì il ragazzo in testa, infliggendogli uno

squarcio che prese a sanguinare.

Sbalordito, capitan Delano volle sapere di che si trattasse. Ma il pallido don Benito borbottò fiocamente che era

soltanto un gioco dei ragazzi.

«Un gioco piuttosto serio, a dir la verità», fu il commento di capitan Delano. «Se una cosa simile succedesse a

bordo della Delizia dello scapolo, ci sarebbe una punizione immediata».

A queste parole lo spagnolo volse sull'americano uno di quei suoi sguardi improvvisi, fissi, quasi folli; quindi

ricadendo nel suo torpore, rispose: «Non c'è dubbio, señor, non c'è dubbio». «Che questo disgraziato», pensò capitan

Delano, «sia uno di quei capitani fantocci - e ne ho conosciuti - che ammiccano per diplomazia a quanto non sanno

reprimere con l'autorità? Non conosco spettacolo più triste di un comandante che del comando abbia soltanto il nome».

«A mio parere, don Benito», disse ora con un'occhiata allo stoppaio che aveva cercato di interporsi tra i

ragazzi, «vi converrebbe tenere occupati tutti i vostri negri, soprattutto i più giovani, senza preoccuparvi che si tratti di

lavori inutili o di quello che può succedere alla nave. Sì, perfino con il mio piccolo carico di uomini trovo che sia una

misura indispensabile. Una volta ho tenuto un intero equipaggio sul cassero a intrecciare paglietti per la mia cabina, e da

tre giorni ormai lasciavo andare la nave - paglietti, uomini, tutto - incontro al suo destino per una violenta burrasca

davanti alla quale non ci restava che fuggire disorientati».

«Sicuro, sicuro», borbottò don Benito.

«Ma», continuò capitan Delano con un'altra occhiata agli stoppai e ai lustratori di accette lì accanto, «vedo che

tenete occupati almeno alcuni dei vostri ospiti».

«Sì», fu ancora la risposta vacua.

«Quei vecchi laggiù che scuotono il testone dal pulpito», proseguì capitan Delano indicando gli stoppai,

«hanno l'aria di recitare nei confronti degli altri la parte del vecchio precettore, e sì che i loro ammonimenti sono poco

ascoltati. È una iniziativa loro, oppure siete stato voi a nominarli pastori del vostro gregge di pecore nere?».«I posti che occupano li ho assegnati io», rispose lo spagnolo con acredine, quasi risentendosi di una presunta

vena satirica.

«E questi altri, questi stregoni ashanti qui», continuò capitan Delano adocchiando con un certo disagio le lame

brandite dai lustratori, ormai lucenti in alcuni punti. «Curioso mestiere quello che fanno, eh, don Benito?»

«Nelle burrasche incontrate», rispose lo spagnolo, «quella parte del carico che non abbiamo buttato a mare è

stata molto danneggiata dal salmastro. Da quando il tempo si è calmato, ogni giorno faccio portare su parecchie casse di

coltelli e accette per ispezionarle e pulirle».

«Una misura prudente, don Benito. Siete comproprietario della nave e del carico, ma non degli schiavi,

credo?»

«Sono il proprietario di tutto quello che vedete», ribatté con impazienza don Benito, «tranne il grosso dei negri

che erano proprietà del mio defunto amico Alexandro Aranda».

Nel dire questo nome, prese un'aria affranta, le ginocchia gli tremarono; il servo lo sostenne.

Pensando di intuire la causa di quella commozione così insolita, capitan Delano, per confermare la propria

supposizione, dopo una pausa, disse: «E posso chiedervi, don Benito - visto che un attimo fa avete parlato di alcuni

passeggeri di cabina - se l'amico, la cui perdita tanto vi addolora, si era imbarcato con i suoi negri?»

«Sì».

«Ma è morto di febbre?»

«Morto di febbre. Oh se solo...».

Con un altro tremito lo spagnolo tacque.

«Perdonate», disse capitan Delano sommessamente, «ma penso, don Benito, di poter intuire, per aver avuto

un'esperienza affine, quello che rende più acerbo il vostro dolore. Mi è capitata una volta la disgrazia di perdere in mare

un caro amico, mio fratello, imbarcato come commissario di bordo. Certo della salvezza della sua anima, quella perdita

avrei potuta sopportarla da uomo, ma quello sguardo onesto che tante volte aveva incontrato il mio, quella mano onesta

che tante volte aveva stretto la mia, quel cuore generoso, tutto, tutto doverlo buttare ai pescicani, come si buttano gli

avanzi ai cani! Fu allora che feci voto di non avere mai quale compagno di viaggio un uomo che amavo, se, a sua

insaputa, non avevo prima provveduto a tutto quanto serve per imbalsamare, in caso di fatalità, le sue spoglie mortali e

seppellirle nella terra. Se il corpo del vostro amico fosse a bordo di questa nave, don Benito, non vi addolorerebbe così

inusitatamente il pronunciare il suo nome».

«A bordo di questa nave?», fece eco lo spagnolo. Quindi con gesti inorriditi, quasi si rivolgesse a uno spettro,

cadde privo di conoscenza nelle braccia pronte del domestico che, con tacito appello a capitan Delano, parve implorano

di non toccare più un argomento così indicibilmente doloroso per il suo padrone.

«Questo poveraccio», pensò l'americano afflitto, «è vittima di quella triste superstizione che associa gli spiriti

al corpo rimasto senza sepoltura, come si associano i fantasmi alle case abbandonate. Quanto siamo diversi! Quello che

per me, in un caso simile, sarebbe stato un solenne conforto, terrorizza, soltanto ad accennarne, lo spagnolo al punto da

farlo svenire. Povero Alexandro Aranda! Cosa diresti se potessi vedere il tuo amico in preda al terrore al solo pensiero

di averti in qualche modo accanto, lui che, nei viaggi precedenti, quando tu per mesi rimanevi a casa, chissà quanto avrà

desiderato guardarti anche solo per un attimo».

In quel momento con un funereo, cupo rintocco, che tradiva una crepa, la campana del castello di prua,

percossa da uno dei canuti stoppai, annunciò, nella plumbea bonaccia, le dieci: ed ecco che l'attenzione di capitan

Delano fu attratta dalla figura di un gigantesco negro che, emergendo dalla massa informe sottostante, avanzava adagio

verso il casseretto. Intorno al collo aveva un collare di ferro dal quale pendeva una catena che gli cingeva il corpo in tre

giri: alle estremità gli anelli erano agganciati insieme con un lucchetto a una larga fascia di ferro che gli faceva da

cintura.

«Si muove che pare un muto Atufal», mormorò il servitore.

Il negro salì i gradini del cassero e, simile a un intrepido prigioniero condotto ad ascoltare la sentenza, si fermò

muto e altero davanti a don Benito, ripresosi dal deliquio.

Accorgendosi che si avvicinava, don Benito era trasalito, un'ombra risentita gli aveva velato il volto e, come

all'improvviso ricordo di una rabbia vana, le labbra si erano incollate insieme.

«Ecco un ammutinato cocciuto», pensò capitan Delano, scrutando, non senza un misto di ammirazione, la

forma colossale del negro.

«Vedete, aspetta la vostra domanda, padrone», disse il servo.

A questo richiamo don Benito, distogliendo nervosamente lo sguardo quasi ad evitare, in anticipo, una risposta

ribelle, così parlò con voce sgomenta:

«Atufal, mi chiederai perdono adesso?»

Il negro rimase in silenzio.

«Di nuovo, padrone», mormorò il servo con un'occhiata di amaro rimprovero verso il compatriota. «Di nuovo,

padrone; finirà con il piegarsi al padrone».

«Rispondi», disse don Benito, sempre distogliendo lo sguardo, «di' solo una parola, perdono, e le catene ti

saranno tolte»

A questo punto il negro sollevò lentamente le braccia per lasciarle ricadere inerti, con i ceppi che tintinnavano

e la testa china, quasi a significare: «No, sono contento così».

«Vattene», disse don Benito con emozione intima e misteriosa..Lentamente come era venuto, il negro obbedì.

«Scusatemi, don Benito», disse capitan Delano, «questa scena mi sorprende: che cosa significa per favore?»

«Significa che quel negro, solo fra tutti, mi recò particolare offesa. L'ho messo in ceppi, io... »

Si interruppe, la mano sulla testa come se ondeggiasse o fosse stato colto da un improvviso vuoto di memoria,

ma, incontrando lo sguardo mite del servo, parve rassicurato e riprese:

«Non potevo far frustare una figura così. Ma gli dissi che doveva chiedermi perdono. Finora non l'ha fatto. Per

mio ordine ogni due ore si presenta davanti a me».

«Da quanto tempo va avanti?»

«Circa sessanta giorni».

«E in tutto il resto è ubbidiente? Rispettoso?»

«Sì».

«In coscienza, allora», esclamò capitan Delano di slancio, «ha l'animo di un re, quest'uomo».

«Forse gli spetta», rispose con amarezza don Benito. «Nella sua terra era re, dice».

«Sì», confermò il servo intromettendosi. «Quelle fessure nelle orecchie di Atufal portavano un tempo cunei

d'oro, ma il povero Babo qui, nella sua terra, era soltanto uno schiavo; schiavo di un negro era Babo, e adesso lo è di un

bianco».

Un po' seccato da quella familiarità, capitan Delano si volse con curiosità al servo, quindi diede un'occhiata

interrogativa al padrone, ma, quasi ci fosse una lunga consuetudine alle forme confidenziali, né padrone né servo

parvero capirlo.

«Vi prego, don Benito, qual è stata l'offesa di Atufal?», chiese Delano. «Se non si è trattato di cosa grave,

seguite il consiglio di uno sciocco e, tenuto conto che è un uomo sostanzialmente docile, rimettetegli la punizione,

anche per il naturale rispetto dovuto al suo animo».

«No, no, il padrone non farà mai così», mormorò a questo punto il servo. «L'orgoglioso Atufal deve prima

chiedere perdono al padrone. Lo schiavo lì porta la catena, ma il padrone qui porta la chiave».

Richiamata in tal modo la sua attenzione, capitan Delano notò allora per la prima volta che, attaccata a una

sottile cordicella di seta, dal collo di don Benito pendeva una chiave. Intuendone subito lo scopo dalle sillabe

mormorate dal servo, sorrise e disse: «Allora, don Benito - catena e chiave -, simboli significativi, sul serio».

Mordendosi il labbro, don Benito vacillò.

Capitan Delano, un uomo incapace di ironia e sarcasmo tanto era candido di temperamento, aveva lasciato

cadere l'osservazione per alludere in tono scherzoso all'autorità espressa in quel modo così singolare, ma l'ipocondriaco

parve prenderla per una insinuazione malevola sull'incapacità da lui dimostrata fino a quel momento di spezzare,

almeno in termini verbali, la determinazione agguerrita dello schiavo. Deplorando il presunto fraintendimento e

disperando di poterlo rettificare, capitan Delano passò ad altro, ma davanti a un interlocutore più ritroso che mai, quasi

stesse ancora con acrimonia digerendo la feccia del presunto affronto sopra accennato, capitan Delano dopo un po' si

fece anche lui meno loquace, oppresso, senza volerlo, dal segreto astio - tale lo si sarebbe detto - di quello spagnolo

morbosamente suscettibile. Ma, da bravo marinaio com'era, con indole affatto diversa, si astenne dal canto suo sia dal

mostrare rancore, sia dal provarlo e, se rimase in silenzio, fu perché si sentì contagiato.

Poco dopo, con una certa scortesia, assistito dal suo servo, lo spagnolo si portò sull'altro lato del ponte, un

gesto che a lume di buon senso sarebbe potuto passare per un ozioso capriccio del malumore, se padrone e servo,

indugiando dietro l'angolo dell'alto osteriggio, non avessero cominciato a confabulare a bassa voce. Era sgradevole. E

non basta: l'aspetto bizzoso dello spagnolo, che a tratti non era apparso privo di una certa solennità ipocondriaca, si

mostrava ora tutt'altro che dignitoso, mentre la familiarità servile del domestico aveva perduto il suo incanto originale di

sincero attaccamento.

Nel suo imbarazzo il visitatore si volse a guardare l'altro lato della nave. Ciò facendo, i suoi occhi colsero per

caso un giovane marinaio spagnolo che, con una duglia di cavo in mano, era appena salito dal ponte sulla prima rampa

delle sartie di mezzana. Forse l'uomo non si sarebbe fatto notare se, salendo verso uno dei pennoni, non avesse tenuto

gli occhi fissi su capitan Delano con una certa insistenza per spostarlo, poco dopo, quasi in successione naturale, sui due

intenti a bisbigliare.

Mentre la sua attenzione era così ricondotta su quel lato, capitan Delano trasalì lievemente. Proprio allora

qualcosa nell'atteggiamento di don Benito gli suggerì di essere, almeno in parte, l'argomento del conciliabolo ancora in

corso, congettura poco gradevole per il visitatore e altrettanto poco lusinghiera per l'ospite.

Il singolare alternarsi di garbo e villania nel capitano spagnolo era inspiegabile, salvo ricorrere all'unica

alternativa possibile: innocente pazzia o perfida impostura.

Ma la prima ipotesi, che forse si sarebbe presentata in modo naturale a un osservatore indifferente e, sotto certi

aspetti, non del tutto estranea fino a quel momento neppure alla mente di Delano che, per quanto in forma embrionale,

cominciava a giudicare il comportamento dello sconosciuto un intenzionale affronto, la prima ipotesi - era ovvio -

veniva virtualmente scartata. Ma, se non era pazzo, che cos'era allora? In quelle circostanze, quale gentiluomo, anzi

quale onesto bifolco, si sarebbe comportato come si comportava il suo ospite? Quell'uomo era un impostore. Un

avventuriero di umili natali che si mascherava da grande signore dell'oceano, eppure così ignorante dei principi basilari

della pura e semplice cortesia da tradirsi con quel sorprendente sgarbo. Anche la singolare cerimoniosità dimostrata in

altri momenti pareva tipica di chi recita una parte al di sopra del proprio livello. Benito Cereno - don Benito Cereno - un

nome altisonante. Un cognome, inoltre, allora non sconosciuto ai commissari di bordo e ai capitani che operavano nel.mare delle Antille, perché apparteneva a una famiglia mercantile fra le più intraprendenti e ramificate di quelle regioni,

con parecchi membri titolati; una specie di dinastia Rothschild castigliana, con un fratello nobile o un cugino in ogni

grande porto commerciale del Sudamerica. Il sedicente don Benito era nella prima virilità, ventinove o trent'anni.

Assumere il ruolo del cadetto vagabondo negli affari marittimi di una tale casata: quale piano più invitante per un

giovane briccone intraprendente e audace? Ma lo spagnolo era un invalido esangue. Non importa. Era cosa nota che la

scaltrezza di certi furfanti arrivava a simulare una malattia mortale. Pensare che sotto quell'aria di debolezza infantile

forse si acquattavano energie selvagge, che i velluti dello spagnolo forse erano soltanto la serica guaina delle sue zanne!

Nessun filo logico legava queste fantasie; non scaturivano da dentro, ma venivano da fuori, repentine per

giunta, addensandosi come il biancore della brina, per dileguarsi non appena arrivava al culmine il sole mite della buona

indole di capitan Delano.

Lanciando un'altra occhiata all'ospite - in quel momento il volto di profilo, sopra l'osteriggio, era rivolto verso

di lui - fu colpito dalla linea pura dei tratti, raffinati dalla magrezza conseguente alla malattia e nobilitati intorno al

mento dalla barba. Al bando i sospetti. Era il rampollo autentico di un autentico hidalgo Cereno.

Rincuorato da questi e altri pensieri migliori, il visitatore, canticchiando a cuor leggero un motivetto, prese a

questo punto a passeggiare con indifferenza sul cassero, in modo da non far capire a don Benito di averlo sospettato di

inciviltà e ancor meno di doppiezza: il suo sospetto infatti si sarebbe dimostrato illusorio alla luce dei fatti, sebbene

rimanessero tuttora inspiegate le circostanze che avevano provocato quella diffidenza Ma, pensò capitan Delano, una

volta chiarito quel piccolo mistero, forse si sarebbe rammaricato amaramente per aver fatto intendere a don Benito a

quali ingenerose congetture si fosse abbandonato. In breve, per il momento era meglio sospendere il giudizio.

Poco dopo, lo spagnolo - il volto pallido, contratto e incupito -, sempre sorretto dal domestico, si mosse verso il

suo ospite, ed ecco che, con un imbarazzo ancora più accentuato del solito e con una strana intonazione inquietante nel

roco sussurro, avviò la seguente conversazione:

«Señor, mi è lecito chiedervi da quanto tempo siete all'ancora in quest'isola?»

«Oh, soltanto uno o due giorni, don Benito».

«E qual è l'ultimo porto che avete toccato?»

«Canton».

«E lì, señor, avete scambiato le vostre pelli di foca con tè e seta: così avete detto, mi pare».

«Sì, con seta soprattutto».

«E il saldo l'avete avuto in denaro forse?».

Capitan Delano rispose un po' a disagio:

«Sì, in argento, non molto però».

«Ah, bene! Mi consentite di chiedervi quanti uomini avete, señor?».

Trasalendo lievemente, capitan Delano rispose:

«Circa venticinque in tutto».

«E in questo momento sono tutti a bordo, immagino, señor?»

«Tutti a bordo, don Benito», rispose il capitano ora con soddisfazione.

«E ci saranno questa notte, señor?».

A questa domanda, ultima dopo tante altre così insistenti, capitan Delano non poté, in coscienza, non fissare

con aria seria l'esaminatore che, invece di incontrare il suo sguardo, abbassò gli occhi sul ponte mostrando tutti i segni

di un disagio codardo, in indegno contrasto con il servo, il quale, proprio in quel momento inginocchiato ai suoi piedi

per aggiustargli una fibbia allentata, con umile curiosità levava il volto, disimpegnato in quel frattempo, verso quello

chino del padrone.

Lo spagnolo, con un altro gesto scomposto di colpevolezza, ripeté la domanda:

«E... e ci saranno questa notte, señor?»

«Sì, per quanto ne so», rispose capitan Delano, «cioè, no», costringendosi a dire l'impavida verità, «alcuni

parlavano di andare di nuovo a pescare verso mezzanotte».

«Le vostre navi viaggiano generalmente... viaggiano più o meno armate, credo, señor?»

«Oh, alcuni pezzi da sei in caso di pericolo», fu la risposta detta con intrepida indifferenza, «più una piccola

scorta di moschetti, arpioni per la pesca alla foca, sciabole, sapete».

Nel rispondere, capitan Delano lanciò un'altra occhiata a don Benito, ma questi aveva distolto lo sguardo.

Cambiando discorso con brusca goffaggine, fece qualche bizzoso, impermalito accenno alla bonaccia, quindi, senza

chiedere scusa, si ritirò di nuovo con il suo servo verso la murata di fronte dove ripresero a bisbigliare.

In quel momento, e prima che capitan Delano potesse considerare con freddezza quanto era appena accaduto, si

vide il marinaio spagnolo prima citato scendere dalle sartie. Nell'atto di piegarsi per saltare a bordo sul ponte, la sua

casacca o camicia di lana grezza, macchiata di catrame, voluminosa e non trattenuta, si apri sul petto fino alla cintola,

rivelando un indumento lurido di lino finissimo, a quanto pareva, orlato, intorno al collo, da un nastrino azzurro,

penosamente stinto e consunto. In quel momento gli occhi del giovane marinaio erano di nuovo puntati sui due che

confabulavano, e capitan Delano pensò di cogliere in quello sguardo un messaggio furtivo, come se in quell'istante si

fossero scambiati segni taciti da framassoneria.

Questo lo indusse a guardare ancora una volta in direzione di don Benito e, come prima, non poté fare a meno

di congetturare di essere lui stesso l'argomento di quel parlottio. Si fermò. Gli giunse il suono delle accette che venivano

lustrate. Volse sui due una rapida occhiata di sbieco. Avevano l'aria di cospiratori. L'interrogatorio subìto e l'incidente.del giovane marinaio riattizzarono sospetti involontari che, nella sua particolare schiettezza, l'americano non riuscì a

tollerare. Dandosi un'aria allegra e arguta, attraversò velocemente il ponte e disse: «Ah, don Benito, il vostro negro qui

gode di molta fiducia, pare; quasi un consigliere privato, in realtà».

A queste parole il servo alzò lo sguardo sogghignando benevolo, ma il padrone trasalì quasi fosse stato morso

da una serpe velenosa. Passarono alcuni istanti prima che lo spagnolo si riprendesse per replicare, il che fece alla fine

con gelido sussiego: «Sì, señor, ho piena fiducia in Babo».

A questo punto Babo, mutando il precedente sogghigno di festosità animale in un sorriso intelligente, guardò il

padrone non senza gratitudine.

Vedendo che lo spagnolo ora se ne stava in silenzio e in atteggiamento di riserbo, quasi a voler far capire

involontariamente o di proposito che la vicinanza del visitatore in quel momento era inopportuna, capitan Delano, non

volendo apparire scortese alla scortesia personificata, dopo qualche banale osservazione si allontanò, rimuginando sul

comportamento misterioso di don Benito Cereno.

Era sceso dal cassero e, assorto nei propri pensieri, stava passando vicino a un buio boccaporto che conduceva

giù nelle stive, quando, avvertendo un movimento lì, volle vedere di che si trattasse. In quello stesso istante ci fu un

bagliore nell'oscurità e colse uno dei marinai spagnoli, che, aggirandosi furtivo laggiù, portava rapido la mano al petto

della giubba quasi a nascondere qualcosa. Ma l'uomo scivolò via dileguandosi prima di poter sapere chi stesse

passando. A capitan Delano, tuttavia, bastò quell'attimo per essere sicuro che fosse lo stesso marinaio giovane notato

prima sulle sartie.

«Che cosa ha prodotto quel bagliore?», pensò. «Non una lampada, non un fiammifero, neppure una brace.

Forse un gioiello? Marinai con gioielli: possibile? E con biancheria orlata di seta? Che abbia trovato i bauli dei

passeggeri di cabina morti? Ma, in tal caso, non avrebbe indossato gli oggetti rubati a bordo della nave. Ah, ah - se

invece quel che ho visto passando fosse davvero un segnale segreto fra questo individuo sospetto e il suo capitano; se, a

disagio come sono, fossi certo che i miei sensi non mi hanno ingannato, allora...».

A questo punto, passando da un sospetto all'altro, prese ad almanaccare sulle strane domande che gli erano

state poste riguardanti la sua nave.

Per curiosa coincidenza, mentre ci rimuginava sopra ricordandole a una a una, i neri stregoni ashanti

cominciarono a battere con le loro accette, quasi a commentare con rintocchi lugubri i pensieri di quello straniero

bianco. Incalzato da tali enigmi e portenti, sarebbe stato quasi contro natura, se perfino nel più fiducioso dei cuori non si

fosse insinuato un brutto presentimento.

Osservando la nave, ormai irrimediabilmente in balia della corrente, con le vele incantate, trascinata al largo

con crescente velocità, e notando che la propria era nascosta da una sporgenza di terra da poco interpostasi, l'intrepido

marinaio prese a tremare davanti a pensieri che a stento osava confessare a se stesso. Soprattutto cominciava a sentire

un terrore panico di don Benito. Eppure, quando si scuoteva, dilatava il petto, si sentiva forte sulle gambe e considerava

il tutto con freddezza - a che cosa si riducevano tutti quei fantasmi?

Se lo spagnolo aveva in mente qualche disegno sinistro, non doveva riferirsi tanto a lui (capitan Delano),

quanto da sua nave (Delizia dello scapolo). Il fatto quindi che le correnti allontanassero una nave dall'altra, invece di

favorire il disegno, per il momento almeno lo ostacolava. Evidentemente un sospetto, fatto di elementi così

contraddittori, non poteva non essere fallace. Non era inoltre assurdo pensare che un vascello in difficoltà - un vascello

rimasto quasi privo di equipaggio a causa della malattia, un vascello con uomini riarsi dalla sete - non era mille volte

assurdo pensare che una tale imbarcazione fosse una nave pirata, o che il comandante non accarezzasse, per se stesso o

per i suoi sottoposti, l'unico desiderio di trovare pronto sollievo e ristoro? Ma allora non poteva darsi che fossero

simulate quella desolazione in generale e la sete in particolare? E non poteva darsi che quello stesso equipaggio

spagnolo, dichiarato perduto, salvo pochi superstiti, fosse proprio in quel momento nascosto al completo nella stiva?

Con il pietoso pretesto di supplicare un bicchiere di acqua fresca, demoni in forma umana, penetrati in dimore solitarie,

se ne erano andati soltanto dopo aver commesso qualche oscuro delitto. E fra i pirati della Malesia non era inconsueto

attirare le navi sulla propria scia fino a porti infidi, o in alto mare adescare all'assalto navi dichiaratamente nemiche,

mostrando i ponti quasi del tutto deserti, sotto i quali si acquattavano, avide di preda, cento lance con braccia gialle

pronte a scagliarle attraverso le stuoie. Non che capitan Delano avesse sempre prestato fede a tutti quei racconti. Ma li

aveva sentiti - ed ora, storie com'erano, gli tornavano in mente. Per il momento la destinazione della nave era

l'ancoraggio. Così sarebbe stata accanto alla sua. Nel trovarsi vicina, la San Domenico non avrebbe potuto, simile a un

vulcano assopito, scatenare all'improvviso energie ora nascoste?

Ripensò ai modi dello spagnolo, mentre raccontava la sua storia. C'era nel suo contegno un'aria di lugubre

esitazione, di sotterfugio. Sembrava proprio chi dipana una nona inventandola a mano a mano che va avanti, per scopi

malvagi. Ma se non era vero niente, qual era la verità? Che la nave fosse illegalmente caduta nelle mani dello spagnolo?

Ma, in molti particolari del racconto, soprattutto per quanto riguardava gli aspetti più disastrosi, come la morte di tanti

marinai, il lungo andare alla deriva che ne era seguito, le passate sofferenze dovute alle bonacce ostinate, il perdurare

della tortura della sete, in tutti questi punti e altri ancora la storia di don Benito era stata corroborata non soltanto dai

gemiti e lamenti di quell'accozzaglia di bianchi e neri, ma anche - e questo sembrava impossibile da simulare -

dall'espressione di quei volti e dal gioco di quei tratti, lì sotto gli occhi di capitan Delano. Se il racconto di don Benito

era un'invenzione da cima a fondo, allora ogni anima a bordo, fino alla più giovane negretta, era una complice scaltrita

nel complotto: conclusione incredibile. Eppure, se c'era motivo per mettere in dubbio la veridicità, la deduzione era

legittima..Le domande dello spagnolo: lì davvero c'era di che arzigogolare. Non sembravano poste con lo stesso intento

dello scassinatore o dell'assassino che ispeziona durante il giorno i muri di una casa? Ma se le intenzioni erano

malvagie, che strana procedura era quella di sollecitare tali informazioni in modo aperto proprio dalla persona più

esposta al pericolo e così, di conseguenza, metterla in guardia? Assurdo allora supporre che le domande fossero state

suggerite da un disegno malvagio Così quello stesso comportamento che, nel caso in questione aveva suscitato allarme,

serviva a dissiparlo. In breve non c'erano un solo sospetto, un solo timore, per quanto in apparenza ragionevoli al

momento, che non si potessero tacitare in modo altrettanto ragionevole in apparenza.

Prese allora a ridere dei passati presentimenti, ridere della strana nave che con il suo aspetto li aveva, per così

dire, in qualche modo assecondati, a ridere anche di quei negri bizzarri, soprattutto di quei vecchi arrotini ashanti e di

quegli stoppai che parevano vecchie inchiodate a letto, sempre a sferruzzare, e quasi quasi anche del tenebroso

spagnolo, lo spauracchio in mezzo a tutto.

Per il resto, quello che pareva enigmatico, se preso sul serio, si chiariva subito bonariamente, pensando che

l'invalido, per lo più, non aveva un intento definito, né quando si chiudeva scontroso nel suo malumore, né quando

poneva oziose domande senza capo né coda. Evidentemente, al momento, l'uomo non era in condizioni di avere la

responsabilità di una nave. Togliendogli il comando con un pretesto benevolo, capitan Delano avrebbe comunque

dovuto portarla a Concepción affidandola al suo secondo, una degna persona e un buon navigatore - un piano

conveniente alla San Domenico e a don Benito perché, sollevato da ogni ansia, standosene in cabina, l'infermo, accudito

bene dal servo, avrebbe probabilmente recuperato la salute, almeno in parte, prima della fine del viaggio, e forse

avrebbe anche ripreso il comando.

Tali erano i pensieri dell'americano. Pensieri tranquillizzanti. C'era un contrasto fra l'idea di don Benito che,

con piglio sinistro, ordiva oscure trame contro capitan Delano, e quella di capitan Delano che, con lucidità, metteva

ordine nel futuro di don Benito. Non fu, tuttavia, senza un certo sollievo che il bravo lupo di mare scorse poco dopo in

lontananza la sua baleniera. L'assenza si era prolungata per una sosta inattesa accanto alla nave e per il protrarsi del

ritorno a seguito del continuo recedere della meta.

Il puntino che avanzava venne notato dai negri. Le loro grida attrassero l'attenzione di don Benito che, con un

ritorno di cortesia, avvicinandosi a capitan Delano, espresse la propria soddisfazione per l'arrivo di un po' di provviste,

pur scarse e provvisorie, come era inevitabile.

Capitan Delano rispose, ma nel farlo la sua attenzione fu attratta da qualcosa che accadeva sul ponte inferiore:

in mezzo alla folla che si arrampicava sulle murate volte verso terra, scrutando ansiosamente la lancia in arrivo, due

negri, disturbati - a quanto pareva - da un marinaio, lo scostarono con violenza e, davanti al risentimento di questi, lo

scaraventarono sul ponte, malgrado le grida pronte degli sfilacciatori.

«Don Benito», disse in fretta capitan Delano, «vedete quello che succede qui? Guardate».

Ma, colto dalla sua tosse, lo spagnolo barcollò, le mani sul volto, lì lì per cadere. Capitan Delano l'avrebbe

sorretto, ma il servo fu più pronto e, sostenendo con una mano il padrone, con l'altra gli somministrò il cordiale. Don

Benito si riprese, il negro gli tolse l'appoggio mettendosi un pochino in disparte, ma rimanendo diligentemente a portata

del minimo sussurro.

La discrezione mostrata in tale occasione cancellò, agli occhi del visitatore, ogni appunto di sconvenienza che

avrebbe potuto attribuire al servo per l'indecoroso conciliabolo prima citato, mostrando anche che, se il servo era da

biasimare, più riprovevole era il padrone, dal momento che, quello lasciato a se stesso, sapeva condursi in modo tanto

appropriato.

Distogliendo lo sguardo dallo spettacolo di disordine a quello più piacevole davanti a lui, capitan Delano non

poté trattenersi dal congratularsi ancora con l'ospite per avere un tale domestico, che, seppure un po' impudente a tratti,

doveva essere di valore incalcolabile per un malato come lui.

«Ditemi, don Benito», aggiunse con un sorriso, «mi piacerebbe avere quest'uomo qui... quanto vorreste per

darmelo? Cinquanta dobloni sarebbero una buona offerta?»

«Il padrone non si separerebbe da Babo neanche per mille dobloni», mormorò il negro che, sentendo l'offerta e

prendendola sul serio, con la strana vanità dello schiavo fedele, apprezzato dal padrone, mostra sdegno per una stima

così gretta affibbiatagli da uno sconosciuto. Ma don Benito, non ancora rimessosi del tutto, interrotto da un altro

accesso di tosse, rispose in qualche modo con parole spezzate.

Ben presto la sofferenza fisica si fece così acuta da coinvolgere - si sarebbe detto - anche lo spirito, al punto

che, quasi a nascondere quel triste spettacolo, il servo condusse gentilmente il padrone sottocoperta.

Lasciato a se stesso, l'americano, per passare il tempo in attesa che arrivasse la lancia, si sarebbe volentieri

avvicinato a uno dei marinai lì vicino, ma si astenne ricordando qualcosa che don Benito aveva detto sulla loro cattiva

condotta: non era un comandante disposto a tollerare la codardia e la slealtà degli uomini.

Mentre con questi pensieri fissava un gruppetto di marinai, gli parve all'improvviso che uno o due di loro gli

restituissero uno sguardo di intesa. Si strofinò gli occhi e riprese a guardare, e ancora gli parve di percepire la stessa

cosa. In forma nuova ma più oscura rinacquero i vecchi sospetti, ma, in assenza di don Benito, accompagnati da un

panico meno intenso. Malgrado il giudizio negativo sui marinai, capitan Delano decise subito di avvicinarne uno.

Scendendo dal cassero, si fece strada fra i negri, suscitando, in tal modo, uno strano grido da parte degli stoppai, e i

negri, così avvertiti, guizzando di lato, si divisero davanti a lui, ma, quasi fossero curiosi di conoscere lo scopo di quella

visita intenzionale al loro ghetto, serrandoglisi alle spalle abbastanza in buon ordine, seguirono lo straniero bianco.

Annunciato nella marcia come da araldi a cavallo e scortato come da una guardia d'onore cafra, capitan Delano, con aria.benevola e disinvolta, continuò a procedere, rivolgendo di tanto in tanto una parola gioviale ai negri, mentre con

l'occhio curiosamente scrutava i volti bianchi, qui e lì mescolati a quelli neri: randagie pedine chiare avventuratesi fra le

schiere degli scacchi avversari.

Intento a decidere chi scegliere per il suo scopo, gli capitò di osservare un marinaio seduto sul ponte, occupato

a incatramare lo stroppo di un grosso bozzello, in mezzo a un cerchio di negri accovacciati che seguivano intenti

l'operazione.

L'umile mansione era in contrasto con una certa aria di superiorità nella figura dell'uomo. La mano, ricoperta di

nero a forza di immergersi nel barattolo di catrame sorrettogli da un negro, non sembrava consona al viso, un viso molto

bello se non fosse stato così sofferente. Se quella sofferenza avesse a che fare con la malvagità non era possibile

stabilirlo perché, come il caldo e il freddo intensi producono sensazioni simili, seppure di natura opposta, così

l'innocenza e la colpa, quando per caso si incrociano con il tormento interiore, imprimono un unico marchio visibile,

usando il comune sigillo del dolore.

Non che allora tale riflessione si affacciasse alla mente del capitano, pure uomo caritatevole. Gli venne

piuttosto un'altra idea. Osservando infatti quell'espressione sofferente, accompagnata da uno sguardo truce, distolto

come per affanno e vergogna, e ricordando ancora una volta la cattiva opinione sull'equipaggio, confessata da don

Benito, preso a operare in lui, in modo impercettibile, certi concetti generali che, dissociando dalla virtù il tormento e

l'imbarazzo, li collegano invariabilmente al vizio.

«Se invero si acquatta il male a bordo di questa nave», pensò capitan Delano, «sta' sicuro che quest'uomo vi si

è sporcato le mani, proprio come ora se le sporca con il catrame. Non mi va di avvicinarlo. Parlerò a quest'altro, a

questo amico all'argano».

Avanzò verso un vecchio marinaio di Barcellona, con indosso un paio di brache rosse e lacere e un berretto da

notte lurido, le guance color bronzo scavate, le basette folte come rovi. Seduto fra due africani assonnati, era occupato,

come il compagno più giovane, con del sartiame, impiombando una cima, mentre due negri sonnacchiosi attendevano

alla funzione più umile di reggere i capi delle funi.

All'avvicinarsi di capitan Delano l'uomo subito chinò la testa, più in basso di prima, quando era stata all'altezza

giusta per il suo lavoro. Pareva volesse far intendere di essere assorto nel suo compito con una diligenza fuori del

comune. Al sentirsi rivolgere la parola, sbirciò in alto, ma con un'aria furtiva e diffidente, strana su quel volto temprato

dalle intemperie, proprio come se un orso bruno, invece di ringhiare e azzannare, si mettesse a uggiolare e a far gli

occhi di pecora. Gli vennero fatte numerose domande sul viaggio - domande deliberatamente riguardanti vari particolari

del racconto di don Benito, che non erano stati avvalorati prima dalle urla esplose non appena il visitatore aveva messo

piede a bordo. Le risposte alle domande furono brevi, confermando quanto da confermare della storia. I negri intorno

all'argano si unirono al vecchio marinaio, ma, come quelli si facevano ciarlieri, egli a poco a poco si chiuse in un

silenzio sempre più accigliato, ostinatamente riluttante a rispondere ad altre domande, eppure alla sua scontrosità da

orso era sempre frammista un'aria mansueta da pecora.

Disperando di poter parlare liberamente con tale centauro, capitan Delano, dopo aver gettato un'occhiata in giro

alla ricerca di una faccia più promettente, senza riuscire a individuarne nessuna, chiese in tono bonario ai negri di

lasciarlo passare, e così, in mezzo a sorrisi e smorfie, ritornò a poppa, sentendosi un po' strano dapprima, senza saper

dire perché, ma nell'insieme con riacquistata fiducia in don Benito.

«Come salta all'occhio», pensava, «che quel vecchio basettone laggiù ha la coscienza sporca! Sicuro,

vedendomi arrivare, avrà avuto paura che io, avvertito dal capitano della generale indisciplina dell'equipaggio, mi

avvicinassi per rimproverarlo con aspre parole, ed eccolo giù con la testa. Eppure... eppure, ora che ci penso, proprio

quel vecchio lì, se non sbaglio, mi fissava con insistenza poco fa. Ah, queste correnti fanno girar la testa quasi come

fanno girar la nave. Ah, ecco una cosa piacevole, solare, direi, piena di garbo per giunta».

La sua attenzione si era diretta verso una negra assopita, visibile in parte attraverso la trina delle sartie, le

giovani membra in disinvolto abbandono al riparo delle murate, come una cerbiatta all'ombra di una rupe boscosa.

Allungato verso il seno amato, c'era il suo cerbiatto sveglio, nudo, con il corpicino nero mezzo sollevato dal ponte, di

traverso su quello della madre: si arrampicava con le mani simili a zampette; la bocca e il naso frugavano invano per

raggiungere la meta, emettendo nello stesso tempo un mezzo grugnito di disappunto che si confondeva con il russare

tranquillo della negra.

Il vigore non comune del bambino alla fine svegliò la madre, che si sollevò fissando a distanza capitan Delano.

Ma, quasi fosse immemore dell'atteggiamento in cui era stata colta, sollevò gioiosamente il bambino con slancio

materno, coprendolo di baci.

«Ecco la natura nella sua nudità; pura tenerezza e amore», pensò compiaciuto capitan Delano.

L'episodio lo indusse a osservare le altre negre con maggior attenzione di prima. I loro modi gli piacquero:

come molte donne selvagge, sembravano nello stesso tempo tenere di cuore e dure di costituzione, altrettanto pronte a

morire o a lottare per i loro bimbi. Istintive come tigri, tenere come colombe. «Ah!», pensò capitan Delano, «forse sono

le stesse donne che Ledyard osservò in Africa facendone un ritratto tanto nobile».

Queste scene naturali accentuarono in qualche modo inconsapevolmente la sua sicurezza e disinvoltura. Alla

fine guardò come avanzasse la sua lancia, ma era ancora piuttosto lontana. Si volse per vedere se don Benito fosse

ritornato, ma non c'era.

Per cambiare la scena, oltre che per concedersi di osservare con tutto agio l'imbarcazione che arrivava,

raggiungendo le sartie di mezzana, si arrampicò sulla galleria di dritta - uno di quei devastati balconi veneziani sospesi.sull'acqua, prima descritti - angoli isolati, tagliati fuori dal ponte. Mentre il piede poggiava sui muschi marini, a tratti

umidi, a tratti secchi, che come un tappeto ricoprivano il luogo, una folata di vento fantasma - isoletta di brezza, priva di

profeti e di seguaci - gli sfiorò, spettrale carezza, la guancia; e mentre lo sguardo cadeva sulla fila dei piccoli portelli

rotondi - tutti chiusi come gli occhi dei morti sui quali si posa una moneta di rame -, mentre coglieva la porta

dell'alloggio di poppa, un tempo collegato alla galleria così come un tempo vi si erano affacciati i portelli chiusi, ormai

serrati come il coperchio di un sarcofago, per volgersi quindi verso un pannello, una soglia, uno stipite incatramati di

nero e purpureo, e mentre il pensiero evocava il tempo quando la grande cabina con il suo balcone era risuonata delle

voci degli ufficiali del re spagnolo e, proprio là dove si trovava, si erano forse appoggiate le membra delle figlie del

viceré di Lima, mentre questa e altre immagini gli balenavano nella mente, simili a un alito di vento nella bonaccia,

percepì a poco a poco in sé una crescente inquietudine, vaga e sognante, pari a quella di chi, solo nella prateria, si sente

irrequieto nella pace del meriggio.

Si appoggiò alla balaustra intagliata, tornando a guardare in lontananza verso l'imbarcazione, ma si scoprì a

fissare il nastro erboso che strisciava lungo la linea di galleggiamento, diritto come una siepe di bosso verde, e gli

spiazzi di alghe che, in ampi ovali e mezzelune, galleggiavano vicino e lontano tracciando specie di viali lunghi e

formali, e attraversavano le terrazze di onde rigonfie, disegnando volute, quasi a condurre verso grotte sottostanti. E,

incombente sopra ogni cosa, c'era la balaustra lì accanto che, a tratti chiazzata di pece, a tratti festonata di muschio,

sembrava il rudere bruciato di un padiglione estivo in un grandioso giardino da lungo tempo in sfacelo.

Aveva cercato di rompere un incantesimo, soltanto per ripiombare in un nuovo incantesimo. Si trovava

nell'immenso mare, eppure gli sembrava di essere nel cuore di una terra lontana, prigioniero in un castello deserto,

lasciato a fissare un parco vuoto e a scrutare sentieri vaghi, non percorsi mai da carri o viandanti.

Ma l'incantesimo perse un po' del suo incanto, quando l'occhio gli cadde sulle corrose catene di maestra. Di

foggia antiquata, con anelli, maniglie, perni massicci e arrugginiti, sembravano perfino più appropriate all'attuale

destinazione della nave che non a quella per la quale era stata costruita.

A un tratto pensò che qualcosa si muovesse vicino alle catene. Si sfregò gli occhi aguzzando lo sguardo. C'era

una selva di manovre intorno alle catene e lì, a sbirciare da dietro un grande strallo, come un indiano da dietro un abete,

ecco un marinaio spagnolo con in mano una caviglia da impiombatura, che accennava un gesto verso la balconata, ma

subito, come allarmato dal suono di passi che si avvicinavano sul ponte, si dileguò nei recessi della foresta di cavi,

simile a un cacciatore di frodo.

Che cosa voleva dire? Qualcosa l'uomo aveva senz'altro voluto comunicare, di nascosto da tutti, perfino dal suo

capitano. Il segreto comportava informazioni sfavorevoli al capitano? Sarebbero state confermate le precedenti

apprensioni di capitan Delano? Oppure, in preda com'era alla sua ossessione, aveva scambiato per un cenno d'intesa il

gesto casuale e involontario di un uomo, all'apparenza affaccendato a riparare lo strallo?

Non senza smarrimento, di nuovo guardò al largo in cerca della lancia. Ma era temporaneamente nascosta da

una punta rocciosa dell'isola. Mentre si sporgeva ansioso in attesa di vedere la prua al suo primo spuntare, la balaustra

cedette quasi fosse carbonizzata. Se non avesse afferrato una fune penzolante, sarebbe caduto in mare. Qualcuno doveva

aver sentito lo schianto dei frammenti marci, per quanto debole, e il tonfo, per quanto sordo. Alzò gli occhi. Lo

sbirciava con blanda curiosità uno degli sfilacciatori di stoppa, che dal suo trespolo era scivolato fino a un boma, mentre

sotto il vecchio negro, e a lui invisibile, ecco ancora il marinaio spagnolo, accucciato a spiare da un portello come una

volpe all'imboccatura della sua tana. Qualcosa suggeritogli all'improvviso dall'atteggiamento dell'uomo fece balenare a

capitan Delano la folle idea che il malessere accampato da don Benito nel ritirarsi fosse soltanto un pretesto, che in

realtà laggiù fosse intento a maturare il suo complotto, e che il marinaio, avutone in qualche modo sentore, volesse

mettere in guardia lo sconosciuto, spinto forse dalla gratitudine per una buona parola rivoltagli salendo a bordo. Era

forse perché aveva previsto una possibile interferenza di questo tipo che don Benito si era affrettato a dare un quadro

così negativo dei suoi uomini, elogiando nel contempo i negri, sebbene i primi paressero docili quanto i secondi

parevano riottosi? I bianchi inoltre erano per natura la razza più perspicace. Non poteva essere che un uomo con

propositi tanto malvagi parlasse bene della stupidità, cieca alla sua depravazione, e diffamasse l'intelligenza, pronta a

smascherarlo? Non improbabile, forse. Ma se i bianchi conoscevano oscuri segreti su don Benito, non poteva darsi che

don Benito fosse complice dei negri? Ma quelli erano troppo stupidi. Chi inoltre aveva mai sentito di un bianco

rinnegato al punto da sconfessare la propria razza per fare lega con i negri contro di essa? Queste difficoltà

richiamavano le precedenti. Smarrendosi in tali labirinti, capitan Delano, che ora aveva nuovamente raggiunto il ponte,

avanzava inquieto, quando notò un'altra faccia: un vecchio marinaio che a gambe incrociate sedeva accanto al

boccaporto di maestra. La pelle rugosa era raggrinzita come la sacca vuota di un pellicano; i capelli brinati; il volto

grave e composto. Le mani erano piene di cime che avvolgeva in un grosso nodo. Intorno a lui c'erano alcuni negri che,

solleciti, gli abbassavano i legnoli, ora qui ora lì, a seconda di quel che richiedeva l'operazione.

Attraversando il ponte di coperta, capitan Delano gli si avvicinò e rimase a guardare in silenzio il nodo, mentre

dentro di sé, con facile transizione, passava dal proprio groviglio interiore a quello della canapa. Un nodo così

complesso e intricato non l'aveva mai visto su nessuna nave americana, e, in verità, neppure su altre. Il vecchio

sembrava un sacerdote egizio che facesse nodi gordiani per il tempio di Ammone. Il nodo pareva una combinazione dei

nodi a gassa d'amante doppia, a corona tripla, a piede di pollo rovesciato, a intugliatura con gassa d'amante e a

tonneggio.

Alla fine perplesso davanti al significato di quel nodo, capitan Delano si rivolse all'uomo:

«Che nodo fai, amico mio?».«Il nodo», fu la risposta breve, senza levare lo sguardo.

«Così pare, ma a che serve?»

«A farlo sciogliere da un altro», rispose borbottando il vecchio muovendo le dita più energicamente che mai,

ora che il nodo era quasi completato.

Mentre capitan Delano se ne stava a osservarlo, il vecchio all'improvviso gli gettò il nodo, dicendo in un

inglese incerto - il primo che sentiva sulla nave - qualcosa come: «Scioglietelo, tagliatelo, presto». Parlò a bassa voce,

ma con tanta rapidità che le precedenti e successive parole spagnole, lunghe e lente, coprirono quasi il breve inglese

inserito.

Per un attimo, con un nodo in mano e un nodo in testa, capitan Delano rimase muto, mentre, senza più

badargli, il vecchio era ormai intento ad altre funi. Ci fu in quell'istante un lieve movimento alle spalle del capitano.

Voltandosi, vide il negro in catene Atufal, in piedi e in silenzio. Un attimo dopo il vecchio marinaio si alzò borbottando

e, seguito dagli aiutanti negri, si allontanò verso prora dove si confuse nella folla.

Un negro anziano, con indosso un semplice straccio come i bambini, la chioma pepe e sale e un fare da

leguleio, si avvicinò in quel momento a capitan Delano. In uno spagnolo discreto, ammiccando con aria di cordiale

d'intesa, gli disse che il vecchio annodatore era sempliciotto ma innocuo, che spesso faceva quegli scherzi bislacchi. Il

negro concluse pregandolo di dargli il nodo, perché naturalmente il forestiero non aveva voglia di esserne impacciato.

Senza pensarci, Delano glielo porse. Con una specie di inchino di congedo il negro lo prese e, voltandosi, lo ispezionò

come un doganiere alla ricerca di pizzi contrabbandati. Subito dopo, dicendo alcune parole africane equivalenti a un

puah!, gettò in mare il nodo.

«È tutto molto bizzarro», pensò capitan Delano con un'emozione simile alla nausea, ma, al pari di chi comincia

a sentire il mal di mare, si sforzò di liberarsi del malessere, ignorandone i sintomi. Guardò ancora una volta verso il

largo alla ricerca dell'imbarcazione. Con sua grande gioia, lasciando a poppa lo sperone roccioso, era di nuovo in vista.

La sensazione percepita in quel momento dapprima attenuò la sua inquietudine, quindi prese ben presto a

dissiparla - con imprevista efficacia; L'apparizione a distanza ravvicinata di quella lancia ben nota - che ormai,

profilandosi nitida e non come prima indistinta nella foschia, aveva la sua individualità al pari degli uomini;

quell'imbarcazione, Vagabonda di nome, che, per quanto ora solcasse mari sconosciuti, si era spesso adagiata sulla

spiaggia davanti alla casa di capitan Delano e, portata fin sulla sua soglia per essere riparata, era rimasta lì

familiarmente accucciata come un cane di Terranova; l'apparizione di quella lancia domestica evocava mille ricordi

rassicuranti, che, in contrasto con i precedenti sospetti, lo riempiva non soltanto di un'esilarata fiducia, ma in qualche

modo lo rimbrottava con toni quasi comici per non averla provata prima.

«Come, io, Amasa Delano - Jack della Spiaggia, così mi chiamavano da ragazzo -, io, Amasa, lo stesso che,

cartella in mano, sguazzava lungo il margine dell'acqua verso la scuola ricavata da una vecchia carcassa di nave - io, il

piccolo Jack della Spiaggia, solito a raccogliere bacche con il cugino Nat e il resto della compagnia, io essere

assassinato da un orribile spagnolo qui, in capo al mondo, a bordo di una nave pirata infestata dai fantasmi? Troppo

assurdo per immaginarselo! Chi vuole assassinare Amasa Delano? La sua coscienza è pulita. C'è qualcuno in alto.

Vergogna, vergogna, Jack della Spiaggia! Sei davvero un bambino; un bambino alla seconda infanzia, vecchio mio;

cominci a farneticare e a sbavare, ho paura».

Con cuore e passo leggero andò verso poppa e lì gli venne incontro il servo di don Benito che, con

un'espressione affabile, in armonia con i suoi sentimenti in quel momento, lo informò che il padrone, ripresosi dalle

conseguenze dell'accesso di tosse, gli aveva ordinato di andare a presentare i suoi omaggi al buon ospite, don Amasa, e

dirgli che lui (don Benito) avrebbe avuto presto il piacere di raggiungerlo.

«Ecco dunque, lo vedi?», pensò ancora capitan Delano, passeggiando a poppa. «Che asino sono stato! Questo

gentile signore, che mi manda i suoi gentili omaggi, soltanto dieci minuti fa me lo immaginavo nella stiva ad aggirarsi

furtivo, lanterna cieca in mano, intento ad affilare su una mola la scure per me. Bene, bene, queste lunghe bonacce

hanno un effetto morboso sulla mente; ne avevo spesso sentito parlare, ma prima non ci avevo mai creduto. Ah!»,

guardando di nuovo verso l'imbarcazione, «ecco la Vagabonda, da brava cagnolina, con i suoi baffi di spuma. E belli

grandi per giunta, mi pare. Come? Sì, si è ingarbugliata nell'onda gorgogliante della marea là. Le ha anche fatto

cambiare direzione per il momento. Pazienza».

Era quasi mezzogiorno ormai, sebbene dal grigiore di ogni cosa sembrasse l'approssimarsi del crepuscolo.

Si era in piena bonaccia. Nella remota lontananza, fuori dell'influenza della terraferma, l'oceano plumbeo

sembrava composto in pace e impiombato, la sua parabola conclusa, l'anima dipartita, defunto. Ma là, dove si trovava la

nave, si intensificò la corrente di terra, che la spingeva silenziosamente sempre più lontano, verso le acque incantate.

Eppure, conoscendo quelle latitudini, capitan Delano accarezzava la speranza che da un momento all'altro si

levasse la brezza, bella e fresca per giunta, contando ottimisticamente, malgrado le difficoltà presenti, di portar la San

Domenico sana e salva all'ancora prima di notte. La distanza percorsa era niente: con un buon vento, dieci minuti di

navigazione avrebbero recuperato sessanta minuti di deriva. Nel frattempo continuò a camminare a poppa, volgendosi a

guardare ora la Vagabonda che lottava contro l'increspatura di marea, ora don Benito che si avvicinava.

A poco a poco senti crescere dentro l'irritazione per il ritardo della lancia; questa si trasformò presto in disagio

e alla fine - mentre lo sguardo ritornava continuamente, come dal palco di proscenio alla platea, sulla strana folla

davanti e sotto di lui e riconoscendo ben presto il volto - ora composto nell'indifferenza - del marinaio spagnolo che gli

era sembrato gli facesse cenno dai parasartie, fu ripreso un po' dall'antica trepidazione..«Ah», pensò con una certa gravità, «è come la febbre malarica: se ne è andata, ma non vuol dire che non

ritorni».

Pur vergognandosi della ricaduta, non riuscì a contenerla del tutto, e così, ricorrendo a tutte le risorse del suo

buon carattere, insensibilmente giunse a un compromesso.

«Sì, questa è una strana nave, una strana storia anche e strana gente a bordo. Ma niente di più».

Per distogliere la mente da cattivi pensieri, fino a quando non fosse arrivata la lancia, tentò di occuparla

rimuginando, in modo puramente speculativo, su alcune caratteristiche minori del capitano e dell'equipaggio. Fra gli

altri ricorrevano quattro punti curiosi:

Primo, la faccenda del ragazzo spagnolo assalito con un coltello dal ragazzo schiavo: un gesto sul quale don

Benito aveva chiuso un occhio. Secondo, la tirannia di don Benito nel trattare Atufal, il negro: come se un bambino

potesse tirare per l'anello al naso un toro del Nilo. Terzo, il marinaio calpestato dai due negri: un esempio di insolenza

lasciato correre senza neppure un rimprovero. Quarto, la sottomissione servile di tutti i subalterni della nave, soprattutto

i negri, come se temessero di attirarsi con la minima inavvertenza il dispotico malumore.

Questi punti, messi insieme, parevano in qualche modo contraddittori. «Ma allora», pensò capitan Delano con

un'occhiata alla lancia che si avvicinava, «allora? Sì, don Benito è un comandante bizzoso. Ma non è il primo del genere

che abbia visto, anche se, a dire il vero, supera tutti gli altri. Ma questi spagnoli», continuò nelle sue fantasticherie,

«sono tutti bizzarri come popolo, la parola stessa, spagnolo, ha un tocco di stramberia, che fa pensare alla cospirazione,

alla Guy Fawkes. Eppure, oso dire, gli spagnoli per lo più sono gente a posto non meno di quella di Duxbury,

Massachusetts. Ah, bene! Ecco che alla fine è arrivata la Vagabonda».

Come l'imbarcazione con il suo gradito carico toccò il fianco, gli sfilacciatori di stoppa, con gesti venerabili,

cercarono di frenare i negri che, alla vista di tre limacciosi barili di acqua sul fondo e un mucchio di zucche vizze a

prua, spenzolavano dalle murate con scomposta esultanza.

Apparve a questo punto don Benito con il servo; forse ad affrettare il suo arrivo fu il chiasso. A lui capitan

Delano chiese il permesso di distribuire l'acqua in modo che tutti ne avessero una razione uguale e nessuno si facesse

del male per averne slealmente di più. Ma, sensata e, nei riguardi di don Benito, gentile com'era, l'offerta venne accolta

con una certa impazienza; quasi fosse consapevole di non avere l'energia del comandante, don Benito, con la tipica

gelosia dei deboli, si risentiva per ogni interferenza considerandola un affronto. Così almeno concluse capitan Delano.

Un attimo dopo vennero issati i barili. Accadde allora che alcuni negri nella loro impazienza urtassero capitan

Delano in piedi presso il barcarizzo, e questi, dimentico di don Benito, cedendo all'impulso del momento, con bonaria

autorità ordinasse ai negri di stare indietro, usando, a rafforzare le proprie parole, un gesto fra il cordiale e il

minaccioso. I negri si paralizzarono immediatamente, là dove si trovavano, ciascuno impietrito nel suo gesto, come lo

aveva colto la parola - e così rimasero per alcuni secondi mentre, come avviene tra i pali successivi del telegrafo, una

sillaba sconosciuta correva di uomo in uomo fra gli stoppai appollaiati. Mentre l'attenzione del visitatore si fissava su

questa scena, all'improvviso i lustratori di accette si alzarono a metà e da don Benito giunse un rapido grido.

Pensando che al segnale dello spagnolo sarebbe stato massacrato, capitan Delano fu sul punto di balzare verso

la lancia, ma si arrestò perché gli sfilacciatori di stoppa, lasciandosi cadere tra la folla con accese esclamazioni, spinsero

indietro bianchi e negri, significandogli in sostanza, con gesti amichevoli e insieme quasi giocosi, di non fare lo sciocco.

Nello stesso momento i lustratori di accette ripresero il loro posto, tranquilli come tanti sarti, e d'un tratto, come se nulla

fosse accaduto, riprese il lavoro di issare i barili, con negri e bianchi che cantavano al paranco.

Capitan Delano lanciò un'occhiata a don Benito. Nel vedere la scarna figura nell'atto di risollevarsi dopo

essersi abbandonata fra le braccia del servo, fra le quali quell'invalido turbato si era lasciato cadere, non poté non

stupirsi di essersi fatto sopraffare da un panico improvviso, quando gli era balenata l'idea che un comandante di quel

tipo, pronto a perdere ogni dominio di sé in un caso normale, futile addirittura come ora appariva, stesse per farlo

assassinare con tanta malvagia determinazione.

Giunti ormai i barili sul ponte, a capitan Delano furono passate brocche e tazze in quantità da un aiutante del

dispensiere, che, a nome del capitano, lo pregò di fare come aveva proposto: distribuire l'acqua. Accettò con

repubblicana imparzialità in sintonia con quell'elemento repubblicano che sempre si assesta su un unico livello,

servendo i bianchi vecchi al pari dei negri giovani, con l'eccezione, in verità, del povero don Benito, il cui stato di

salute, se non il rango, esigeva una porzione supplementare. A lui, in primo luogo, capitan Delano offrì una bella brocca

del liquido, ma, pur assetato com'era, lo spagnolo non ne sorseggiò goccia se non dopo vari inchini e saluti ossequiosi.

Uno scambio di cortesie che gli africani, amanti delle cerimonie, accolsero con battimani.

Messe da parte due delle zucche meno avvizzite per la tavola del capitano, le altre furono lì per lì tagliate a

pezzi per la festa generale. Ma il pane tenero, lo zucchero e il sidro in bottiglia capitan Delano li avrebbe dati

esclusivamente ai bianchi e in primo luogo a don Benito, ma questi obiettò: un'abnegazione che piacque non poco

all'americano. Così vennero distribuite in giro a tutti, bianchi e neri, sorsate uguali, tranne una bottiglia di sidro che

Babo insistette a mettere da parte per il padrone.

Si può qui osservare che l'americano non aveva permesso ai suoi uomini di salire a bordo durante la prima

visita, e lo stesso fece ora, non volendo aumentare la confusione sul ponte.

Non immune dall'influenza di quel particolare buon umore che allora regnava e dimentico di pensieri che non

fossero di benevolenza, capitan Delano contava, in base a dati appena raccolti, sul levarsi della brezza entro una o due

ore al più tardi. Rimandò quindi la lancia alla nave con l'ordine diretto a tutti gli uomini disponibili di trasportare i barili

alla sorgente e di riempirli. Fece inoltre avvertire il primo ufficiale di non preoccuparsi se, contrariamente alle.aspettative, la nave non fosse stata all'ancora entro il tramonto: ci sarebbe stata, infatti, luna piena quella notte, e lui

(capitan Delano) sarebbe rimasto a bordo pronto a fare da pilota, non appena, presto o tardi, si fosse levato il vento.

Mentre i due capitani, in piedi l'uno accanto all'altro, osservavano la lancia che si allontanava - il servo, nel

frattempo, si era messo a sfregare in silenzio una macchia scoperta per caso sulla manica di velluto del padrone -

l'americano espresse il proprio rammarico che la San Domenico non avesse imbarcazioni adatte ad affrontare il mare,

nessuna almeno, tranne la vecchia carcassa della lancia grande, la quale, contorta come lo scheletro di un cammello nel

deserto, e quasi altrettanto sbiancata, giaceva capovolta a metà nave come una pentola, con un lato un po' sollevato,

fornendo una specie di covo sotterraneo a famiglie di negri, in gran parte donne e bambini, che, accovacciati sotto su

vecchie stuoie o appollaiati in alto nella scura cupola, assomigliavano da lontano a un conciliabolo di pipistrelli

rifugiatisi in una tana amica, mentre a intervalli sciami color ebano di bambini e bambine nudi, di tre o quattro anni,

sfrecciavano dentro e fuori dalla bocca del covo.

«Se aveste tre o quattro lance, don Benito», disse capitan Delano, «penso che, rimorchiandoci ai remi, i vostri

negri potrebbero rendersi utili. Siete salpato senza imbarcazioni, don Benito?»

«Andarono distrutte nelle burrasche, señor».

«Brutta storia. In quell'occasione perdeste anche molti uomini. Imbarcazioni e uomini. Devono essere state

burrasche tremende, don Benito».

«Indescrivibili», rispose l'altro raggrinzendosi.

«Ditemi, don Benito», continuò il suo interlocutore con crescente interesse, «ditemi: incontraste queste

burrasche immediatamente dopo aver doppiato Capo Horn?»

«Capo Horn? Chi ha parlato di Capo Horn?»

«Voi, quando mi avete raccontato del viaggio», rispose capitan Delano, altrettanto stupito dello spagnolo nel

vederlo che si rimangiava le parole così come pareva che si rodesse il cuore. «Voi stesso, don Benito, avete parlato di

Capo Horn» ripeté con enfasi.

Lo spagnolo si volse in una specie di posizione ricurva, arrestandosi per un attimo, come chi stia per cambiare

elemento, tuffandosi dall'aria all'acqua.

In quel momento un ragazzo passò di corsa: in regolare adempimento delle proprie funzioni annunciava al

castello di prora che, scaduta l'ultima mezz'ora per l'orologio della cabina, si doveva farla battere alla grossa campana

della nave.

«Padrone», disse il servo smettendo il lavoro sulla manica della giacca e rivolgendosi allo spagnolo assorto con

una sorta di timidezza apprensiva, come chi sia incaricato di un dovere che in corso di esecuzione avrebbe

presumibilmente arrecato fastidi proprio a colui che lo aveva imposto e a beneficio del quale era diretto, «il padrone mi

ha detto di ricordargli sempre, puntuale al minuto, non importa dov'è o quello che sta facendo, quando è l'ora di radersi.

Miguel è andato a suonare la mezza. È ora, padrone. Il padrone vuole entrare nella sala?»

«Ah - sì», rispose lo spagnolo con un sussulto, quasi che dai sogni tornasse alla realtà; quindi, rivolto a capitan

Delano, disse che di lì a poco avrebbe ripreso la conversazione.

«Allora se il padrone vuole parlare ancora con don Amasa», proseguì il servo, «perché non dire a don Amasa

di sedersi vicino al padrone nella sala, e il padrone può parlare e don Amasa ascoltare, mentre Babo qui insapona e

affila il rasoio».

«Sì», disse capitan Delano per niente dispiaciuto di quella prospettiva socievole, «sì, don Benito, verrò, se non

vi dispiace».

«E sia, señor».

Mentre i tre si portavano a poppa, l'americano non poté impedirsi di pensare che quell'abitudine di farsi radere

con tanta insolita puntualità nel bel mezzo della giornata era un altro esempio della bizzarria dell'ospite. Ma giudicò

assai probabile che nella faccenda c'entrasse la sollecita fedeltà del servo, in quanto l'interruzione tempestiva era servita

a strappare il padrone dall'umore che evidentemente aveva incominciato a sopraffarlo.

Il posto chiamato sala era una luminosa cabina ricavata a poppa, una specie di attico dell'ampia cabina

sottostante. Una parte era stata un tempo l'alloggio degli ufficiali, ma, da quando erano morti, erano stati abbattuti tutti i

divisori e l'intero spazio era stato trasformato in un unico salone marino vasto e arioso, che, per l'assenza di bei mobili e

per il pittoresco disordine di oggetti spaiati, assomigliava in certo modo all'ampio salone ingombro di qualche

eccentrico signorotto di campagna, scapolo, che appende alle corna di un cervo la giacca da cacciatore e la borsa del

tabacco, e nello stesso angolo tiene la canna da pesca, le molle e il bastone da passeggio.

La somiglianza era accentuata, se non suggerita fin dall'origine, da scorci sul mare circostante, perché, da un

certo punto di vista, la campagna e l'oceano sembrano cugini germani.

Il pavimento della cabina era ricoperto di stuoie. Sul soffitto quattro o cinque vecchi moschetti erano infissi in

buchi orizzontali lungo i bagli. Su un lato c'era un vecchio tavolo con i piedi ad artiglio fissati al ponte, sopra c'era un

messale sciupato e in alto, attaccato alla paratia, un piccolo crocifisso sparuto. Sotto il tavolo, fra vecchio sartiame

malinconico che pareva un mucchio di cordoni di frati poveri, c'erano uno o due coltellacci dalle lame intaccate e un

arpione corroso. C'erano inoltre due divani di malacca, lunghi, con le stecche sporgenti, anneriti dal tempo e scomodi a

vedersi come le ruote degli inquisitori, oltre a una poltrona sfondata, che, fornita sullo schienale di un rozzo poggiatesta

da barbiere, azionato da una vite, sembrava un grottesco strumento di tortura. In un angolo c'era un baule per bandiere,

aperto, che lasciava vedere vari vessilli multicolori, alcuni arrotolati completamente, altri a metà, altri ancora buttati alla

rinfusa. Di fronte c'era un ingombrante portacatino di mogano nero, tutto di un pezzo, con un piedistallo simile a un.fonte battesimale e, sopra, una mensola a ringhiera contenente pettini, spazzole e altri articoli di toeletta. Vicino

pendeva un'amaca lacera, di fibra macchiata, con le lenzuola in disordine e il cuscino spiegazzato che pareva un cipiglio

corrugato, come se chi vi dormiva vi dormisse male, in un alternarsi di pensieri tristi e brutti sogni.

Il lato opposto della cabina, sovrastante la poppa della nave, era forato da tre aperture, finestre o portelli, a

seconda che da quelli sbucassero, cordiali oppure ostili, uomini o cannoni. Al momento non si vedevano né uomini né

cannoni, sebbene enormi anelli e altri infissi di ferro arrugginito indicassero pezzi da ventiquattro.

Gettando, nell'entrare, un'occhiata all'amaca, capitan Delano chiese: «Dormite qui, don Benito?»

«Sì, señor, da quando abbiamo tempo buono».

«Sembra una specie di dormitorio, soggiorno, deposito di vele, cappella, armeria e gabinetto privato tutto

insieme, don Benito», aggiunse capitan Delano guardandosi intorno.

«Sì, señor. Le circostanze non sono state propizie a una sistemazione ordinata».

A questo punto il servo, con un tovagliolo sul braccio, fece un gesto quasi fosse in attesa che il padrone si

decidesse con comodo. Don Benito gli fece cenno di esser pronto; quindi, accomodatolo sulla poltrona di malacca, e

spinto di fronte per l'ospite uno dei divani, il servo cominciò le operazioni tirando indietro il colletto del padrone e

allentandogli la cravatta.

C'è qualcosa nel negro che, in modo particolare, lo rende adatto a prendersi cura delle persone. Per natura i

negri sono quasi tutti valletti e parrucchieri: hanno per pettini e spazzole un'affinità congenita come per le nacchere, e li

maneggiano, pare, con altrettanto entusiasmo. In questa loro occupazione ci mettono inoltre un tocco delicato

accompagnato da una squisita rapidità, silenziosa e fluida, non priva di una sua grazia, singolarmente piacevole alla

vista e ancora più all'esperienza. E, sopra ogni altra cosa, c'è il grande dono del buon umore. Non si intende qui il

semplice sorriso o la risata. Sarebbero stati fuori luogo. Ma una certa festosità amabile, armoniosa in ogni sguardo e in

ogni gesto, come se Dio avesse accordato tutto il negro su una nota piacevole.

Quando a questo si aggiungono la docilità che scaturisce dall'appagata assenza di ambizione, tipica di una

mente limitata, e quella capacità di tranquillo attaccamento, a volte caratteristica delle creature indiscutibilmente

inferiori, si intuisce subito perché quei due ipocondriaci, Johnson e Byron - forse un po' simili all'ipocondriaco Benito

Cereno - si siano affezionati, escludendo quasi l'intera razza bianca, ai loro servitori, i negri, Barber e Fletcher. Ma se

qualcosa nel negro lo sottrae agli sfoghi acrimoniosi di menti ciniche e morbose, come apparirà, nel suo aspetto più

ingraziante, a una mente benevola? Quando si trovava a proprio agio in un ambiente, l'indole di capitan Delano non era

soltanto bonaria, ma lo era con sorridente cordialità. A casa aveva spesso assaporato momenti di rara contentezza

standosene seduto sulla soglia a guardare qualche uomo di colore libero, intento a lavorare o a scherzare. Se in viaggio

gli capitava per caso un marinaio negro, invariabilmente instaurava con lui rapporti ciarlieri e quasi giocosi. In realtà,

come la maggior parte degli uomini buoni e lieti, capitan Delano si affezionava ai negri, non per filantropia, ma per

simpatia, come altri si affezionano ai cani di Terranova.

Le circostanze in cui aveva trovato la San Domenico avevano fino ad allora represso quella sua tendenza. Ma,

nella cabina, sollevato dal precedente turbamento e, per vari altri motivi, più incline a essere socievole di quanto non

fosse mai stato prima in quella giornata, vedendo il servo di colore, con il tovagliolo sul braccio, così gioviale intorno al

padrone, intento a una occupazione così familiare come quella di raderlo, gli ritornò tutto l'antico debole per i negri.

Lo divertì, fra l'altro, un curioso esempio dell'amore degli africani per i colori vivaci e la spettacolarità: il

negro, infatti, prendendo dal baule, senza tanti riguardi, un pezzo di stamigna multicolore, lo rimboccò generosamente

sotto il mento del padrone come un grembiule.

Il modo di radersi degli spagnoli è un po' diverso da quello degli altri popoli. Hanno una bacinella,

appositamente chiamata il bacile del barbiere, fornita di un incavo su un lato, così da adattarsi alla forma del mento

contro il quale viene tenuta stretta durante l'insaponatura che non viene fatta con il pennello, bensì con il sapone stesso

immerso nell'acqua del bacile e strofinato sulla faccia.

In questo caso veniva usata, in mancanza di meglio, acqua di mare, e le parti insaponate erano soltanto il

labbro superiore e la parte inferiore della gola, in quanto tutto il resto era barba curata.

Poiché i preliminari erano in qualche modo una novità per lui, capitan Delano rimase seduto a osservare con

curiosità sicché non ci fu conversazione; né per il momento don Benito sembrava disposto ad avviarne un'altra.

Posando giù il bacile, il negro ispezionò fra i rasoi quasi fosse alla ricerca del più affilato e, trovatolo, lo rese

ancora più tagliente, passando la lama con aria da esperto sulla pelle soda, liscia e grassa del palmo aperto; fece quindi

un gesto quasi a cominciare, ma a metà strada si immobilizzò per un attimo, tenendo con una mano il rasoio in alto e

con l'altra tastando con piglio professionale, fra le bollicine di schiuma, il collo magro dello spagnolo. Non indifferente

alla vista ravvicinata dell'acciaio lucente, don Benito rabbrividì nervoso; il consueto pallore spettrale era accentuato

dalla saponata, la quale saponata, a sua volta, sembrava di un biancore più intenso per il contrasto con il nero

fuligginoso del corpo del negro. Nel complesso la scena aveva un che di strano, almeno per capitan Delano e, nel vedere

i due in quell'atteggiamento, non poté trattenersi dal rincorrere la bizzarra fantasticheria che il negro fosse il boia e il

bianco il condannato sul ceppo. Ma era questa una di quelle fantasie bizzarre che compaiono e si dileguano in un soffio,

alle quali non sfugge sempre neppure la mente più equilibrata.

Il nervosismo dello spagnolo, nel frattempo, aveva allentato un pochino la stamigna intorno al collo, così che,

simile a un tendaggio, dal bracciolo della poltrona un'ampia piega scivolò fino a toccar terra, rivelando in mezzo a una

profusione di bande araldiche e colori di fondo - nero, blu e giallo - un castello in diagonale su campo rosso sangue e un

leone rampante su campo bianco..«Il castello e il leone», esclamò capitan Delano, «diamine, don Benito, è la bandiera di Spagna che usate. E un

bene che sia soltanto io e non il re a vederla», aggiunse con un sorriso, «ma», rivolto al negro, «non fa differenza,

immagino, purché i colori siano allegri». E l'osservazione scherzosa non mancò di stuzzicare in certo qual modo il

negro.

«Ecco, padrone», disse aggiustando la bandiera e spingendo piano la testa contro l'appoggiatoio della poltrona,

«ecco padrone», e l'acciaio scintillò vicino alla gola.

Ancora una volta don Benito ebbe un lieve tremito.

«Non dovete tremare così, padrone. Vedete, don Amasa, il padrone trema sempre, quando gli faccio la barba.

Eppure il padrone sa che non gli ho mai versato una goccia di sangue, ma succederà prima o poi, se il padrone trema

tanto. Ecco, padrone», continuò. «Don Amasa, chiacchierate pure della tempesta e del resto; il padrone può ascoltarvi e,

di tanto in tanto, rispondere».

«Ah, sì, le burrasche», disse capitan Delano, «più ci penso alla vostra traversata, don Benito, più mi sorprendo

non delle tempeste, per quanto terribili, ma del disastroso intervallo che seguì. Stando al vostro resoconto, ci avete

messo gli ultimi due mesi e ancor di più per arrivare da Capo Horn a Santa Maria, una distanza che col vento buono io

stesso ho coperto in qualche giorno. Vero, avete avuto le bonacce e assai lunghe per giunta, ma esserci in mezzo per due

mesi, ecco, è perlomeno insolito. Ebbene, don Benito, se un qualsiasi altro gentiluomo mi avesse raccontato una storia

simile, sarei stato mezzo propenso a non credergli».

A questo punto sul volto dello spagnolo comparve un'espressione involontaria, simile a quella di poco prima

sul ponte: forse fu il sussulto che diede, forse fu un improvviso rollio balordo dello scafo nella bonaccia, forse fu una

momentanea incertezza della mano del servo, fatto sta che proprio in quel momento il rasoio fece schizzare il sangue e

le macchie imbrattarono la schiuma bianca sotto la gola. Il barbiere negro ritrasse istantaneamente la lama e, fermo

nell'atteggiamento professionale - la schiena verso capitan Delano, la faccia verso don Benito -, sollevò il rasoio

gocciolante, dicendo, con una specie di contrizione quasi umoristica: «Vedete, padrone, avete tremato; ecco il primo

sangue di Babo».

Una spada sguainata davanti a Giacomo I d'Inghilterra, un assassinio compiuto alla presenza di quel re

pusillanime, non avrebbero potuto suscitare un'aria più atterrita di quella di don Benito.

«Poveraccio», pensò capitan Delano, «è così nervoso che non riesce a sopportare neppure la vista del sangue di

un barbiere; come ho potuto immaginare che quest'uomo malato, con i nervi a pezzi, intendesse versare tutto il mio

sangue, lui che non sopporta di vedere una goccia del proprio? Di sicuro, Amasa Delano, oggi non eri in te. Non

raccontarlo quando ritorni a casa, stupidone di un Amasa. Bene, bene, ha proprio l'aria di un assassino, vero? Ha più

l'aria di uno che si aspetta di essere fatto fuori. Bene, bene, l'esperienza di oggi mi servirà di lezione».

Nel frattempo, mentre queste cose passavano per la testa dell'onesto uomo di mare, il servo, preso il tovagliolo

dal braccio, aveva detto a don Benito: «Ma rispondete a don Amasa, per favore, padrone, mentre pulisco di questa bruna

roba il rasoio e lo affilo di nuovo».

Nel parlare così, teneva semigirato il viso che ora era visibile sia all'americano sia allo spagnolo, e

l'espressione pareva sottintendere, persuadendolo a proseguire la conversazione, il desiderio di distrarre con tatto

l'attenzione del padrone dal recente increscioso episodio. Quasi fosse contento di afferrare l'aiuto che gli veniva offerto,

don Benito riprese a raccontare a capitan Delano che non soltanto le bonacce erano state insolitamente tenaci, ma che la

nave era stata trascinata da ostinate correnti, e altre cose aggiunse, alcune delle quali non facevano che ribadire

precedenti dichiarazioni, per spiegare come fosse accaduto che la traversata da Capo Horn a Santa Maria fosse stata così

esageratamente lunga; mescolando, di tanto in tanto, alle sue parole, altre di elogio, meno sobrie di prima, per i negri,

per la loro buona condotta in generale. Questi particolari non furono forniti di seguito, in quanto al momento opportuno

il servo interveniva usando il rasoio, e così, negli intervalli della rasatura, la storia e il panegirico proseguirono con

accenti più rochi del solito.

Nella sua immaginazione, ancora una volta non del tutto tranquilla, capitan Delano colse nei modi dello

spagnolo qualcosa di così fatuo - cui faceva eco la fatuità dell'ambiguo commento silenzioso del negro - che - gli balenò

l'idea - forse padrone e servo, per qualche motivo ignoto, interpretavano, a suo uso e consumo, con parole e gesti, anzi

con il tremito addirittura delle membra di don Benito, una commedia degli inganni. Né era all'apparenza privo di

fondamento il sospetto di una collusione, visto tutto quel sussurrare cui si e accennato prima. Ma allora perché

inscenare quella pantomima del barbiere davanti a lui? Alla fine, considerando quel sospetto un ghiribizzo,

impercettibilmente insinuato, forse, dall'aspetto teatrale di don Benito ammantato nel suo bandierone arlecchinesco,

capitan Delano si affrettò a scacciarlo.

Finita la rasatura, il servo si adoperò con una boccetta di profumo, versandone alcune gocce sulla testa e quindi

sfregando con zelo; la veemenza dello sforzo gli faceva contrarre stranamente i muscoli del volto.

La successiva operazione fu con pettine, forbici, spazzola, girando tutto intorno per lisciare un ricciolo qui, per

tagliare lì un peluzzo ribelle delle basette, per dare un'aggiustatina aggraziata a una ciocca sulle tempie, con altri tocchi

improvvisati che indicavano la mano del maestro, mentre don Benito, come ogni altro gentiluomo rassegnato nelle mani

del barbiere, sopportava tutto, assai meno turbato infine di quanto non fosse stato durante la rasatura. Anzi, ora stava

seduto così pallido e rigido che il negro pareva uno scultore della Nubia, nell'atto di dare gli ultimi tocchi alla testa di

una statua bianca.

Terminato tutto finalmente, lo stendardo di Spagna tolto, scrollato e ributtato nel baule, i peluzzi forse attaccati

al collo del padrone dispersi dall'alito caldo del negro, la cravatta e il colletto riaggiustati, spazzolato via un filino dal.risvolto di velluto; fatto tutto questo, indietreggiando un pochino e fermandosi con un'espressione di sommesso

autocompiacimento, il servo per un attimo rimase a controllare il padrone come se, almeno nella toeletta, fosse una

creatura uscita dalle sue mani sapienti.

Capitan Delano si complimentò scherzosamente con lui per il risultato, congratulandosi nello stesso tempo con

don Benito.

Ma né il profumo, né la frizione, né la fedeltà, né l'affabilità rallegravano lo spagnolo. Vedendolo ripiombare

nel suo scostante cupore e restarsene seduto, capitan Delano, pensando che la sua presenza non fosse desiderata in quel

momento, si ritirò, con la scusa di vedere se fossero comparsi i segni della brezza, come aveva profetizzato.

Dirigendosi verso l'albero di maestra, ripensava alla scena, non senza una vaga apprensione, quando, sentendo

un rumore vicino alla cabina, si volse e scorse il negro con una mano sulla guancia. Avvicinandosi, capitan Delano notò

che la gota sanguinava. Stava per chiederne la causa, quando lo illuminò il lamentoso soliloquio del negro.

«Ah, quando si riprenderà il padrone dalla sua malattia; soltanto il cuore acerbo nutrito da quella acerba

malattia gli ha fatto fare questo a Babo; tagliare Babo con il rasoio perché, per puro caso, Babo ha fatto un taglietto al

padrone, per la prima volta in tanto tempo, per giunta. Ah, ah, ah», tenendo la mano sulla faccia.

«È possibile?», pensò capitan Delano. «È stato per sfogare in privato il suo rancore spagnolo contro quel

povero amico che don Benito, con la sua scontrosità, mi ha costretto a ritirarmi? Ah, questa schiavitù alimenta brutte

passioni nell'uomo. Poveraccio!».

Stava per dire qualche parola di partecipazione al negro, ma quello con timorosa riluttanza rientrò nella cabina.

Poco dopo, comparvero padrone e servo; don Benito appoggiato all'altro, come se nulla fosse accaduto.

«Soltanto una specie di bisticcio fra innamorati», pensò capitan Delano.

Si avvicinò a don Benito, e lentamente presero a camminare insieme. Avevano fatto pochi passi quando il

dispensiere - un mulatto alto, con l'aria del raja, acconciato all'orientale con un turbante a pagoda formato da tre o

quattro fazzoletti di Madras avvolti a spirale intorno alla testa - avvicinandosi con un saalam, annunciò il pranzo nella

cabina.

Mentre vi si recavano, i due capitani erano preceduti dal mulatto che, volgendosi nell'avanzare, con continui

sorrisi e inchini faceva loro strada, uno sfoggio di eleganza che dava il colpo di grazia all'aspetto insignificante del

piccolo Babo, il quale, a testa scoperta, quasi non fosse inconsapevole della propria inferiorità, sbirciava di traverso il

bel dispensiere. Ma capitan Delano attribuì in parte quella gelosa vigilanza al particolare sentimento che l'africano puro

sangue prova per i sangue misti. Quanto al dispensiere, i suoi modi, che non esprimevano molta dignità o stima di sé,

indicavano tuttavia il vivo desiderio di compiacere, il che è doppiamente meritorio in quanto al tempo stesso ispirato a

Cristo e a Chesterfield.

Capitan Delano osservò con interesse che, mentre la carnagione del mulatto era ibrida, la fisionomia era

europea - classica addirittura.

«Don Benito», sussurrò, «sono contento di vedere questo usciere dallo scettro d'oro; è una vista che

contraddice una brutta osservazione fattami da un piantatore delle Barbados: quando un mulatto ha una faccia europea

dai lineamenti regolari, guardatevene: è un diavolo. Ma vedete, il vostro dispensiere ha fattezze più regolari di quelle di

re Giorgio d'Inghilterra, eppure eccolo lì ad assentire, fare inchini, sorrisi; davvero un re - il re dei cuori buoni e degli

uomini cortesi. E che bella voce ha, per giunta».

«Sì, señor».

«Ma ditemi: per quanto lo conoscete, si è sempre dimostrato uomo buono e degno?», chiese capitan Delano

facendo una pausa, mentre con un'ultima genuflessione il dispensiere spariva nella cabina. «Ditemelo; sono curioso di

saperlo per la ragione appena indicata».

«Francesco è un brav'uomo», rispose don Benito con una certa indolenza, simile a un intenditore flemmatico

che non vuole criticare né adulare.

«Ah, ne ero sicuro. Sarebbe davvero strano e non troppo lusinghiero per noi bianchi, se un pochino del nostro

sangue mescolato con quello africano, invece di migliorarne la qualità, dovesse avere il triste effetto di versare vetriolo

nel brodo nero, migliorandone, sì, il colore, ma non il valore nutritivo».

«Senza dubbio, senza dubbio, señor, ma», gettando un'occhiata a Babo, «per non parlare dei negri, ho sentito

applicare l'osservazione del vostro piantatore agli incroci tra e indiani nelle nostre province. Ma non ne so niente

dell'argomento», aggiunse con aria neghittosa.

E a questo punto entrarono nella cabina.

Il pranzo fu frugale: un po' del pesce fresco e delle zucche di capitan Delano, biscotti e manzo salato, la

bottiglia di sidro messa da parte, l'ultima bottiglia di vino delle Canarie della San Domenico.

Quando entrarono, Francesco, con due o tre aiutanti di colore, si librava sulla tavola dando gli ultimi tocchi.

Nel vedere il padrone, si ritirarono, Francesco con un sorriso di congedo; e lo spagnolo, senza degnarsi di accorgersene,

faceva notare infastidito al compagno di non apprezzare le attenzioni superflue.

Da soli, simili a una coppia di coniugi senza figli, anfitrione e ospite si sedettero alle estremità del tavolo: don

Benito indicò con un gesto della mano il posto a capitan Delano e, pur debole com'era, insistette a che il signore si

sedesse prima di lui.

Il negro stese un tappeto sotto i piedi di don Benito e un cuscino dietro la schiena, quindi si mise ritto in piedi,

dietro la sedia di don Benito, ma dietro a quella di capitan Delano. In un primo momento la cosa sorprese quest'ultimo,.ma fu presto chiaro che, nel mettersi lì, il negro restava fedele al suo padrone: standogli in faccia, infatti, poteva

anticipare la minima esigenza con maggior prontezza.

«Davvero un uomo di intelligenza fuori del comune, don Benito», sussurrò capitan Delano da un capo all'altro

del tavolo.

«Dite bene, señor».

Durante il pasto, l'ospite ritornò ancora su alcune parti della storia di don Benito, chiedendo ulteriori particolari

qui e là. Chiese come mai fosse accaduto che lo scorbuto e la febbre avessero fatto tanta strage fra i bianchi, mentre non

avevano ucciso neppure la metà dei negri. Come se la domanda avesse riportato l'intera scena dell'epidemia davanti agli

occhi dello spagnolo, ricordandogli penosamente la propria solitudine in una cabina dove un tempo aveva avuto intorno

tanti amici e ufficiali, la mano gli tremò, il volto si fece esangue, gli sfuggirono parole spezzate, ma subito il sano

ricordo del passato parve essere sostituito dagli insani terrori del presente. Con occhi allucinati fissò il vuoto davanti a

sé. Non c'era infatti niente da vedere salvo la mano del servo, che spingeva verso di lui la bottiglia di vino delle Canarie.

Alcuni piccoli sorsi gli servirono infine a riprendersi in parte. Fece allusioni incoerenti alla diversa costituzione delle

razze, che consentiva all'una di opporre a certe malattie maggiore resistenza dell'altra. Il concetto giungeva nuovo

all'ospite.

Poco dopo capitan Delano, intendendo parlare al suo anfitrione dell'aspetto pecuniario del servizio resogli,

soprattutto visto che doveva renderne rigorosamente conto agli armatori - in relazione al nuovo complesso di vele e

altre cose di quel tipo, e naturalmente preferendo condurre tali affari in privato, prese a desiderare che il servo si

ritirasse, immaginando che per pochi minuti don Benito potesse fare a meno della sua assistenza. Aspettò, tuttavia,

pensando che, con il procedere della conversazione, don Benito, pur senza ricevere l'imbeccata, avrebbe percepito

l'opportunità di quel passo.

Ma andò altrimenti. Alla fine, intercettandone lo sguardo, capitan Delano, accennando dietro a sé con il pollice,

sussurrò: «Don Benito, scusate, ma c'è un'interferenza che mi impedisce di esprimere pienamente quello che ho da

dirvi».

A queste parole lo spagnolo cambiò faccia, il che venne attribuito al risentimento per l'accenno, quasi fosse un

appunto nei confronti del servo. Dopo un attimo di pausa assicurò l'ospite che la presenza del negro non poteva essere

di intralcio, perché, da quando aveva perduto i suoi ufficiali, aveva fatto di Babo (che in origine, come risultò ora, era

stato il capitano degli schiavi) non soltanto il suo servitore e compagno, ma anche il suo confidente in ogni cosa.

A questo punto era inutile aggiungere altro, sebbene capitan Delano facesse fatica a reprimere un lieve moto di

irritazione per non essere stato accontentato in un desiderio tanto insignificante da chi, per giunta, era destinatario di un

servizio così consistente. «Tutta colpa della sua lagnosità», pensò; quindi, riempiendosi il bicchiere, venne agli affari.

Furono fissati i prezzi delle vele e del resto. Ma, nel fare questo, l'americano notò che, sebbene la prima offerta

di aiuto fosse stata accolta con febbrile animazione, adesso che si riduceva a una transazione di affari, trapelavano

indifferenza e apatia. Pareva infatti che don Benito si assoggettasse ad ascoltare i dettagli per semplice correttezza, non

per la convinzione che potesse derivarne un concreto beneficio per sé e per la traversata.

Ben presto i suoi modi si fecero ancora più scontrosi. Vano fu lo sforzo di cercare di trascinarlo a conversare in

modo socievole. Roso dal suo umore splenetico, se ne stava seduto a tormentarsi la barba, mentre con scarso risultato la

mano del servo, muta come quella sulla parete, lentamente gli spingeva davanti la bottiglia di vino delle Canarie.

Finito il pranzo, presero posto sulla traversa imbottita e il servo sistemò un cuscino dietro il padrone. La tenace

persistenza della bonaccia aveva guastato l'atmosfera. Don Benito sospirò pesantemente quasi gli mancasse l'aria.

«Perché non spostarsi nella sala?», disse capitan Delano. «C'è più aria lì». Ma don Benito rimase in silenzio,

immobile.

Nel frattempo il servo gli si inginocchiò davanti con un grande ventaglio di piume. E Francesco, avvicinandosi

in punta di piedi, porse al negro una tazzina di acque aromatiche, con le quali, a intervalli, questi massaggiava la fronte

del padrone, lisciando i capelli sulle tempie come fa una balia con un bambino. Non aprì bocca. Si limitava a posare lo

sguardo sul padrone come se, in mezzo a tutti gli affanni di don Benito, volesse rincuorarlo con una dimostrazione tacita

di fedeltà.

Poco dopo la campana della nave batté le due e, attraverso la finestra, si vide il lieve incresparsi del mare, e

nella direzione desiderata, per giunta.

«Ecco!», esclamò capitan Delano. «Ve l'avevo detto, don Benito, guardate!».

Si era alzato parlando con animazione, proponendosi di scuotere il suo compagno. Ma, sebbene la tenda

cremisi della finestra di poppa vicino a lui gli sfiorasse la guancia esangue, don Benito parve accogliere la brezza con

ancora meno gioia di quanta non ne avesse mostrato per la bonaccia.

«Poveraccio», pensò capitan Delano, «un'esperienza amara gli ha insegnato che un alito di brezza non fa un

vento, proprio come una rondine non fa primavera. Ma una volta tanto si sbaglia. Gli porterò la nave all'ancora e glielo

dimostrerò».

Accennando brevemente alla sua prostrazione, incitò don Benito a restare tranquillo dove si trovava, mentre lui

(capitan Delano) si sarebbe assunto con piacere la responsabilità di sfruttare al massimo il vento.

Nel raggiungere il ponte, capitan Delano trasalì vedendo inaspettatamente Atufal, piantato sulla soglia come un

monumento, simile alla statua di uno di quei guardiani neri a custodia dei vestiboli delle tombe egizie.

Ma questa volta il sussulto fu, forse, puramente fisico. La presenza di Atufal - singolare personificazione di

docilità pur nel rancore - contrastava con quella dei lucidatori di accette, uomini palesemente e concretamente.industriosi, mentre entrambi gli spettacoli attestavano che, fosse pur fiacca l'autorità generale di don Benito, tuttavia,

non appena si fosse deciso a esercitarla, nessuno, per quanto selvaggio o colossale, non si sarebbe dovuto, più o meno,

piegare.

Afferrando una cornetta appesa alla murata, capitan Delano avanzò con andatura disinvolta fin sull'orlo del

cassero, impartendo ordini nel suo miglior spagnolo. I pochi marinai e i molti negri, tutti ugualmente soddisfatti, si

accinsero obbedienti a volgere la nave verso il porto.

Mentre dava alcune direttive per fissare un coltellaccio, all'improvviso capitan Delano colse una voce che

ripeteva fedelmente i suoi ordini. Volgendosi, vide Babo che ora, una volta tanto, subordinatamente al pilota, esercitava

il ruolo originario di capitano degli schiavi. L'aiuto si dimostrò valido. Ben presto si diede un certo assetto alle vele

stracciate e ai pennoni contorti. Non ci fu braccio o drizza che venisse tirato senza l'accompagnamento dei canti lieti dei

negri rincuorati.

«Brava gente», pensò capitan Delano, «un po' di addestramento ne farebbe dei buoni marinai. Diamine, perfino

le donne tirano e cantano. Saranno di quelle negre ashanti che - ho sentito dire - sono guerriere eccezionali. Ma chi è al

timone? Devo avere una buona mano lì»

Andò a vedere.

La San Domenico manovrava con una barra massiccia alla quale erano fissate grosse pulegge orizzontali.

All'estremità di ogni puleggia stava un negro subalterno e fra loro, alla testa della barra, al posto di responsabilità, c'era

un marinaio spagnolo, che esprimeva con il viso la sua debita partecipazione alla speranza generale e alla fiducia nella

prossima brezza.

Si rivelò lo stesso uomo che si era comportato con aria tanto confusa all'argano.

«Ah, sei tu, amico», esclamò capitan Delano, «bene, niente più occhi da pecora, guarda dritto davanti e reggi la

nave così. Bravo alla barra, mi auguro? E con voglia di entrare in porto, no?».

L'uomo assentì con un chiocciolio soffocato, afferrando con mano salda la barra. Al che i due negri, senza

essere notati dall'americano, fissarono il marinaio con sguardo intento.

Trovando che era tutto a posto al timone, il pilota proseguì verso il castello di prora per vedere come stavano lì

le cose.

La nave ormai aveva preso sufficiente abbrivio. Con l'avvicinarsi della sera era certo che la brezza si sarebbe

rafforzata.

Fatto quanto serviva in quel momento, capitan Delano, impartendo ai marinai gli ultimi ordini, volse a poppa

per riferire a don Benito in cabina, forse ulteriormente incitato a raggiungerlo dalla speranza di strappare un attimo per

chiacchierare a quattr'occhi, mentre il servo era impegnato sul ponte.

C'erano sotto il cassero, ai lati opposti, due vie d'accesso alla cabina; una, più in là dell'altra, di conseguenza

comunicava con un corridoio più lungo. Notando che il servo era ancora sopra, capitan Delano, imboccando l'entrata

più vicina - quella citata per ultima dove ancora sulla soglia stava Atufal - si affrettò finché, giunto davanti alla porta

della cabina, fece una breve sosta per riprendere fiato. Quindi - già pronte sulle labbra le parole che aveva in mente -

entrò. Mentre avanzava verso lo spagnolo seduto, percepì un altro passo cadenzato con il suo. Dalla parte opposta, con

un vassoio in mano, avanzava il servo.

«Maledetto questo tizio fedele», pensò capitan Delano. «Che coincidenza seccante».

L'irritazione forse sarebbe stata un po' diversa, se non fosse stato per la fiduciosa euforia ispirata dalla brezza.

Eppure sentì una lieve fitta, mentre all'improvviso la sua mente associava in modo vago Babo con Atufal.

«Don Benito, vi porto una buona notizia: la brezza terrà, anzi si rafforzerà. A proposito fuori c'è il vostro

gigante segnatempo, Atufal. Per vostro ordine, naturalmente?».

Don Benito si ritrasse come davanti a una frecciata di blando sarcasmo, condita con tanta cortesia esteriore da

non presentare appigli per ribattervi.

«È come uno scorticato vivo», pensò capitan Delano. «Dove è possibile toccarlo senza che si contragga?».

Il servo si mise davanti al padrone aggiustando un cuscino; richiamato ai doveri di cortesia, lo spagnolo rispose

rigido: «Avete ragione. Lo schiavo si trova dove l'avete visto per mio ordine: cioè, se all'ora stabilita sono sotto, deve

prendere posto e aspettare il mio arrivo».

«Ah, perdonatemi, ma questo vuol proprio dire trattare quel poveraccio come un monarca deposto. Ah, don

Benito», sorridendo, «pur con tutte le licenze che tollerate in alcune cose, ho paura che in fondo siate un padrone duro».

Di nuovo don Benito si rattrappì, e questa volta, pensò il buon marinaio, perché gli rimordeva davvero la

coscienza.

Di nuovo la conversazione si fece stentata. Invano capitan Delano richiamava l'attenzione sul movimento ora

percettibile della chiglia che solcava leggera il mare; con occhi opachi don Benito rispondeva con poche parole

laconiche.

Di lì a poco il vento, che si era gradualmente rafforzato e soffiava nella direzione del porto, spingeva rapido la

San Domenico. Doppiato un promontorio, si profilò in piena vista, in lontananza, la nave per la caccia alle foche.

Capitan Delano era frattanto ritornato sul ponte, fermandosi lì per qualche tempo. Dopo aver corretto la rotta

della nave, per stare alla larga dagli scogli, ritornò sotto per qualche momento.

«Questa volta rincuorerò il poveretto», si disse.

«Di bene in meglio, don Benito», esultò entrando allegro, «fra poco i vostri dispiaceri saranno finiti, almeno

per un po'. Lo sapete, quando la nave getta l'ancora nel porto, dopo un viaggio lungo e triste, sembra che dal cuore del.capitano venga sollevato un peso. Avanziamo meravigliosamente, don Benito. La mia nave è in vista. Guardate da

questo finestrino di lato: eccola, con tutti i suoi alti alberi! La Delizia dello scapolo, amico mio! Ah, come ti tira su

questo vento. Su, dovete prendere il caffè con me questa sera. Il mio vecchio dispensiere ve ne darà una bella tazza

come neanche un sultano ha mai assaggiato. Che ne dite, don Benito, verrete?».

In un primo istante lo spagnolo alzò uno sguardo febbrile, gettando una lunga occhiata bramosa sulla nave

lontana, mentre il servitore lo fissava in faccia con muta sollecitudine. All'improvviso subentrò il solito accesso di

freddezza e, piombando sui cuscini, rimase in silenzio.

«Non rispondete. Su, mi avete ospitato per tutta la giornata; volete essere soltanto voi a fare gli onori di casa?»

«Non posso venire», fu la risposta.

«Cosa? Non vi stancherete. Le navi saranno il più vicino possibile, attenti solo che le ancore non si impiglino.

Sarà poco più che fare un passo da un ponte all'altro, vale a dire come da una stanza all'altra. Su, su non dovete

rifiutare».

«Non posso andare», ripeté don Benito con decisa ripulsa.

Rinunciando con una specie di cadaverica tetraggine quasi all'ultima parvenza di cortesia, mordendosi le

unghie sottili fino alla pelle, volse sull'ospite, anzi gli scoccò un'occhiata truce, quasi seccato che la presenza di un

estraneo interferisse con il totale abbandono al suo momento di morbosità. Nel frattempo, attraverso le finestre,

giungeva il suono delle onde solcate, sempre più allegro e gorgogliante, quasi a rimbrottarlo per la sua tetra neghittosità,

quasi a dirgli che, imbronciato e furente com'era con la natura, a questa non gliene importava nulla, perché, di chi era la

colpa, prego?

Ma l'umore nero aveva toccato il fondo proprio come il bel vento era giunto al culmine.

C'era in quell'uomo qualcosa di tanto più greve della semplice scontrosità o acrimonia prima riscontrata, che

perfino l'indole bonaria e conciliante dell'ospite non riuscì più a sopportarlo. Smarrito davanti a quel comportamento,

ritenendo che la malattia, unita alla bizzarria, per quanto esasperate, non fosse una scusa adeguata, soddisfatto inoltre di

non aver nulla da rimproverarsi, capitan Delano si senti punto nell'orgoglio. Si fece anche lui riservato. Ma tutto

sembrava indifferente allo spagnolo. Lasciandolo quindi, capitan Delano ritornò ancora una volta sul ponte.

La nave era ormai a meno di due miglia dalla sua imbarcazione e nel tratto in mezzo sfrecciava la lancia.

Per farla breve le due navi, grazie alla bravura del pilota, in poco tempo si trovarono insieme all'ancora.

Prima di ritornare sulla sua imbarcazione, capitan Delano aveva avuto l'intenzione di comunicare a don Benito

alcuni particolari marginali dei servizi che si proponeva di rendergli. Ma, così come stavano le cose, poco incline a

subire altre ripulse, si era deciso, ora che aveva visto la San Domenico incolume all'ancora, a lasciarla immediatamente,

senza altri accenni all'ospitalità o agli affari. Rimandando a tempo indefinito i successivi progetti, avrebbe adeguato le

azioni future alle future circostanze. La lancia era pronta a riceverlo, ma il suo anfitrione indugiava ancora di sotto.

«Beh», pensò capitan Delano, «se ha poca educazione, è ancora più utile che mostri la mia». Scese in cabina per

porgere un saluto di commiato formale e, forse, di tacito rimprovero. Ma quasi sentisse il peso dei modi per nulla

disdicevoli che l'ospite maltrattato contrapponeva ai suoi, don Benito, ora sorretto dal servo, si levò con gran

soddisfazione di capitan Delano e, afferrandogli la mano, rimase tremante, troppo agitato per parlate. Ma il fausto

auspicio da qui tratto fu immediatamente deluso, perché don Benito ritornò con ancora più intenso cupore alla

precedente riluttanza, mentre con lo sguardo rivolto in parte altrove, in silenzio si rimetteva a sedere sui cuscini. Con un

corrispondente ritorno dei propri sentimenti di freddezza, capitan Delano si congedò con un inchino.

Non era ancora a metà strada nello stretto corridoio, buio come un tunnel, che dalla cabina conduceva alla

scala, quando lo colpì un suono simile al rintocco che annuncia una esecuzione nel cortile di un carcere. Era l'eco della

campana fessa della nave, che al battere dell'ora si riverberava cupamente sotto la volta sotterranea. Subito, con

ineluttabile fatalità, alla sua mente, suscettibile al presagio, sciamarono sospetti superstiziosi. Si fermò. Con immagini

assai più rapide di queste frasi, gli si affollarono alla mente i minimi particolari di tutta la precedente diffidenza.

Fino a quel momento la sua credula bonomia era stata troppo pronta a fornire scuse a paure ragionevoli. Perché

lo spagnolo, a volte puntiglioso fino all'eccesso, poi tralasciava la comune buona educazione, arrivando a non

accompagnare l'ospite che si accomiatava? Glielo impediva l'indisposizione? L'indisposizione non gli aveva impedito

sforzi più fastidiosi quel giorno. Ripensò all'atteggiamento ambiguo di poco prima. Si era alzato in piedi, gli aveva

afferrato la mano, aveva fatto il gesto di prendere il cappello, poi in un attimo tutto si era dileguato in un mutismo

sinistro e tetro.

Doveva interpretarlo come un'estrema rinuncia subitanea e contrita a porre in atto un iniquo complotto, seguita

da una nuova determinazione spietata? Il suo ultimo sguardo sembrava esprimere verso capitan Delano un addio foriero

di sciagure eppure rassegnato. Perché declinare l'invito a visitare la nave quella sera? O forse lo spagnolo era meno

indurito dell'ebreo, che non si era astenuto dal sedere alla mensa di colui che intendeva tradire quella stessa notte? Che

significato avevano gli enigmi e le contraddizioni di quella giornata, se non che miravano a fuorviare, prima di colpire a

tradimento? In quel momento Atufal, presunto ribelle e ombra puntuale, era in agguato di fuori, accanto alla soglia.

Pareva una sentinella, anzi di più. Chi, per sua stessa ammissione, lo aveva messo lì? Il negro era appostato in attesa?

Lo spagnolo alle spalle, la sua creatura davanti: precipitarsi dalle tenebre alla luce fu la scelta istintiva.

Un attimo dopo, con le mascelle serrate e i pugni stretti, superò Atufal e si trovò incolume alla luce. Nel vedere

la sua nave all'ancora, linda e tranquilla e quasi a portata di voce, nel vedere l'imbarcazione familiare, piena di volti noti,

che si cullava paziente sulle brevi onde accanto alla San Domenico, e poi nel guardarsi intorno dove si trovava; nel

cogliere gli stoppatori gravemente intenti a far andare le dita e il fischio monotono e il ronzio industrioso dei lustratori.di accette, sempre indaffarati nella loro interminabile fatica, e, soprattutto, nel notare il benigno aspetto della natura

pronta a concedersi il suo innocente riposo serale - il sole velato nel quieto campo di occidente scintillava simile alla

tranquilla luce nella tenda di Abramo - mentre l'occhio e l'orecchio deliziati coglievano tutto questo e insieme anche la

figura del negro incatenato, le mascelle e le mani gli si rilassarono. Ancora una volta sorrise dei fantasmi che lo

avevano irriso beffardi, e provò quasi una punta di rimorso per aver implicitamente tradito, accogliendoli seppure per un

solo momento, un empio dubbio sulla sempre vigile Provvidenza in cielo.

Ci fu un ritardo di qualche minuto mentre, in ossequio al suo ordine, la lancia veniva agganciata al barcarizzo.

Durante questo intervallo scese su capitan Delano una specie di malinconica soddisfazione al pensiero dei generosi

servigi che quel giorno aveva reso a uno sconosciuto. «Ah», pensava, «dopo una buona azione la coscienza non è mai

ingrata, per quanto possa esserlo la persona beneficiata».

Poco dopo, mentre posava il piede sul primo gradino, accennando a scendere nella lancia, volse gli occhi verso

il ponte. Nello stesso istante sentì chiamare con cortesia il proprio nome e con compiaciuta sorpresa vide farsi avanti

don Benito, con un'aria insolitamente energica, come se all'ultimo momento avesse deciso di chiedere venia per la

recente scortesia. Con la sua bonomia istintiva capitan Delano, ritirando il piede, si volse e a sua volta si fece avanti.

Mentre così faceva, si acuì la tensione fervida dello spagnolo, ma si smorzò la sua energia vitale, al punto che, per

sostenerlo meglio, il servo, appoggiando sulla propria spalla nuda la mano del padrone e tenendola lì gentilmente, si

trasformò in una specie di stampella.

Quando i due capitani si incontrarono, ancora una volta lo spagnolo afferrò con trasporto la mano

dell'americano, guardandolo diritto con occhi vividi, ma, come prima, troppo oppresso per parlare.

«Gli ho fatto torto», pensò rimproverandosi capitan Delano, «la sua apparente freddezza mi ha tratto in

inganno; non ha mai voluto offendermi».

Nel frattempo, quasi temesse che il protrarsi della scena potesse sfibrare il padrone, il servo sembrava ansioso

di porvi termine. In tal modo, sempre in funzione di stampella e camminando fra i due capitani, avanzò insieme a loro

verso il barcarizzo, mentre don Benito, traboccando di premurosa contrizione, non lasciava andare la mano di capitan

Delano, ma la tratteneva nella propria attraverso il corpo del negro.

Ben presto furono accanto alla murata, guardando in basso la lancia, mentre l'equipaggio levava in alto uno

sguardo curioso, Aspettando un attimo che lo spagnolo gli lasciasse andare la mano, capitan Delano, a questo punto

imbarazzato, alzò il piede per superare la soglia del barcarizzo aperto, ma don Benito insisteva a trattenergli la mano. E

ancora, in tono agitato, diceva: «Non posso andare più in là; qui sono costretto a dirvi addio. Addio, mio caro, caro don

Amasa. Andate -andate!», strappando all'improvviso la mano dalla stretta.

«Andate e Dio vi protegga meglio di quanto non abbia fatto con me, mio ottimo amico».

Commosso, capitan Delano, a questo punto, avrebbe indugiato, ma, cogliendo lo sguardo mitemente

ammonitore del servo, scese nella lancia con un frettoloso addio, seguito dagli ininterrotti cenni di saluto di don Benito

che pareva aver messo radici sul barcarizzo.

Sedutosi a poppa, capitan Delano, con un ultimo saluto, ordinò di scostare. L'equipaggio teneva i remi alzati. Il

prodiere spinse la lancia a distanza sufficiente perché i remi potessero abbassarsi per tutta la lunghezza. In quell'istante

don Benito balzò oltre la murata cadendo ai piedi di capitan Delano, gridando nello stesso tempo in direzione della

nave, ma in tono così forsennato che nessuno sulla lancia riusciva a capirlo. Ma, non altrettanto ottusi, tre marinai si

gettarono in mare da tre diversi punti della nave, nuotando dietro il capitano, quasi volessero venire in suo soccorso.

Sgomento, l'ufficiale dell'imbarcazione chiese con ansia che cosa volesse dire ciò. Al che capitan Delano,

volgendo un sorriso sprezzante sull'inesplicabile spagnolo, rispose che dal canto suo non lo sapeva e non gli interessava,

ma don Benito - pareva - si era messo in testa di far credere ai suoi uomini che la lancia intendesse sequestrarlo.

«Altrimenti - andiamocene presto, se ne va della vita», aggiunse selvaggiamente trasalendo al frastuono tumultuoso

scoppiato sulla nave, sopra il quale si levavano i rintocchi dei pulitori di accette e, afferrando don Benito per la gola,

aggiunse: «Questo pirata cospiratore vuole assassinare!» A quel punto, quasi a conferma di tali parole, sul parapetto

sovrastante, comparve il servo, con in mano un pugnale, immobile nell'atto di saltare, come se intendesse con fedeltà

disperata proteggere fino all'ultimo il padrone, mentre, in apparenza per aiutare il negro, i tre marinai bianchi cercavano

di arrampicarsi sugli ingombri di coperta a prua. Nel frattempo l'intera orda di negri, quasi infiammati alla vista del

capitano in pericolo, si sporgevano oltre la murata in un'unica valanga fuligginosa.

Tutto questo, con quanto era preceduto e sarebbe seguito, si accavallò con rapidità così incalzante che passato,

presente, futuro sembrarono tutt'uno.

Vedendo arrivare il negro, quasi nel gesto stesso di afferrarlo, capitan Delano aveva spinto da parte lo spagnolo

e, spostandosi per l'involontario contraccolpo, a braccia levate lo abbrancò con tanta prontezza che nella caduta, con il

pugnale puntato al cuore di capitan Delano, il negro pareva essersi lanciato lì di proposito, come su un bersaglio. Ma

l'arma gli venne strappata e l'assalitore buttato sul fondo della lancia che ora, con i remi districati, prese a correre veloce

sulle onde.

A questo punto, capitan Delano con la sinistra afferrò da un lato don Benito semiprostrato, incurante che questi

fosse muto e privo di conoscenza, e dall'altro con il piede destro inchiodava a terra il negro, e, tenendo il braccio destro

stretto al remo di poppa per aumentare la velocità, con l'occhio fisso avanti, incoraggiava i suoi uomini a impegnarsi al

massimo..Ma ecco che l'ufficiale della lancia, dopo essere finalmente riuscito a ricacciare i marinai che si facevano

rimorchiare, ed ora, con il volto a poppa, assistendo il rematore di testa, all'improvviso gridò al capitano di stare attento

alle intenzioni del negro, mentre un rematore portoghese gli urlava di ascoltare quello che diceva lo spagnolo.

Abbassando lo sguardo a terra, capitan Delano vide che il servo, liberata una mano, puntava al petto del

padrone un secondo pugnale - piccolo, tenuto nascosto nei capelli crespi - contorcendosi come una serpe sul fondo della

barca, il volto soffuso da un livore vendicativo che esprimeva il proposito radicato nel suo animo, mentre lo spagnolo,

semisoffocato, cercava invano di rincantucciarsi con parole rauche, incoerenti per tutti, salvo che per il portoghese.

In quell'istante, attraverso la mente a lungo ottenebrata di capitan Delano, guizzò un lampo rivelatore,

illuminando con imprevista chiarezza tutto il misterioso comportamento dell'ospite insieme agli altri avvenimenti

enigmatici di quella giornata e all'intero viaggio della San Domenico. Colpì la mano di Babo, ma il suo cuore fu colpito

con forza maggiore.

Con infinita pena lasciò andare don Benito. Non capitan Delano, ma don Benito, il negro aveva voluto

pugnalare saltando sulla lancia.

Tenendo strette le mani del negro e guardando verso la San Domenico, capitan Delano, ormai con il velo

cadutogli dagli occhi, vide i negri: non già in balia dell'indisciplina, non in tumulto, non forsennatamente ansiosi per

don Benito, ma, tolta la maschera, brandendo asce e coltelli, in feroce rivolta piratesca. Simili a neri dervisci deliranti, i

sei ashanti danzavano sul cassero. I mozzi spagnoli, trattenuti dai nemici dal saltare in acqua, si arrampicavano di furia

sui pennoni più alti, mentre si intravedevano sul ponte, inermi in mezzo ai negri, i pochi marinai spagnoli che, meno

pronti, non si erano ancora gettati in mare.

Nel frattempo capitan Delano gridò alla sua nave di alzare i portelli e di far uscire i cannoni. Ma intanto era

stata tagliata la gomena della San Domenico e la cima libera, sibilando, strappò via il sudano di tela intorno al rostro,

rivelando all'improvviso, mentre lo scafo sbiancato virava verso l'oceano aperto, che la morte fungeva da polena - lo

scheletro di un uomo - commento terreo alle parole di gesso tracciate sotto: Seguite il capo.

A quella vista don Benito, coprendosi il volto, gemette forte: «È lui, Aranda! Il mio amico assassinato,

insepolto!».

Non appena raggiunta la nave, chiedendo della cima, capitan Delano legò il negro, che non oppose resistenza e

lo fece issare sul ponte. Avrebbe a questo punto voluto sorreggere, nel salire, don Benito, ormai quasi accasciato, ma

questi, debole com'era, rifiutò di muoversi o di venire mosso, finché il negro non fosse stato portato sottocoperta.

Quando, poco dopo, gli fu assicurato che ciò era stato fatto, non fu più riluttante a salire.

La lancia venne immediatamente rimandata indietro a raccogliere i tre marinai che nuotavano. Nel frattempo i

cannoni erano pronti, sebbene fra tutti fosse utilizzabile soltanto quello poppiero, essendo la San Domenico scivolata un

po' a poppa. Con questo fecero fuoco sei volte, pensando di azzoppare la nave fuggiasca abbattendone gli alberi. Ma

saltarono soltanto pochi cavi di scarsa importanza. Ben presto veleggiando al largo per uscire dalla baia, la nave si trovò

fuori della gittata dei cannoni; i negri, assiepati intorno al bompresso, ora lanciavano grida di sfida verso i bianchi, ora

con le braccia levate salutavano la piatta distesa ormai bruna dell'oceano - cornacchie gracchianti fuggite dalla mano del

cacciatore.

Il primo impulso fu di sciogliere i cavi e dare la caccia. Ma a ripensarci sembrò più promettente inseguirli con

la lancia e la scialuppa.

Don Benito, interrogato sulle armi da fuoco a bordo della San Domenico, rispose a capitan Delano che non ce

n'erano di utilizzabili, perché, nelle prime fasi dell'ammutinamento, un passeggero di cabina, in seguito morto,

segretamente aveva messo fuori uso l'otturatore dei pochi moschetti. Ma con tutta la forza che gli rimaneva don Benito

supplicò l'americano di non dare la caccia né con la nave né con la lancia, perché i negri si erano già dimostrati pronti a

tutto e, in caso di assalto, ci si poteva aspettare soltanto il totale massacro dei bianchi. Ma, considerando che questo

ammonimento veniva da un uomo spiritualmente devastato dalla sofferenza, l'americano non rinunciò al suo disegno.

Le scialuppe furono apprestate e armate. Capitan Delano ordinò ai suoi uomini di prendervi posto. Stava per

scendervi lui stesso, quando don Benito lo afferrò per il braccio.

«Cosa! Voi mi avete salvato la vita, señor, e ora volete buttar via la vostra?».

Anche gli ufficiali, per ragioni collegate con i loro interessi e quelli del viaggio, oltre agli obblighi verso gli

armatori, si opposero con forza a che il capitano partisse. Soppesando per un attimo le loro rimostranze, capitan Delano,

sentendosi tenuto a restare, nominò a capo della spedizione il primo ufficiale - un uomo atletico e risoluto che aveva

militato su una nave corsara. Per incoraggiare ancora di più i marinai, fu detto loro che il capitano spagnolo considerava

la nave come perduta e che l'imbarcazione stessa e il carico, compreso l'oro e l'argento, valevano più di mille dobloni.

La catturassero, e non una piccola parte sarebbe stata loro. I marinai risposero con un grido.

I fuggiaschi avevano ormai quasi raggiunto il largo. Era prossima la notte, ma sorgeva la luna. Dopo aver

vogato a lungo e di buona lena, le lance giunsero all'anca della nave, e a opportuna distanza lasciarono i remi per

scaricare i moschetti. Non avendo pallottole per rispondere, i negri lanciarono urla. Ma alla seconda scarica scagliarono

le loro accette, come fanno gli indiani. Una mozzò le dita di un marinaio. Un'altra colpì la prua della baleniera,

recidendo il cavo e rimanendo infissa, simile alla scure di un boscaiolo, nel capo di banda. Afferrandola ancora vibrante

là dove si era confitta, l'ufficiale la scagliò a sua volta. Il guanto di sfida si infisse nella cadente galleria di poppa e lì

rimase.

Vista l'infuocata accoglienza dei negri, i bianchi si tennero a più rispettosa distanza. Restando appena fuori

dalla portata delle accette vorticanti, in vista dell'incontro ravvicinato che ci sarebbe stato ben presto, cercarono di.indurre i negri a privarsi delle armi più micidiali nel corpo a corpo, spingendoli a scagliarle stoltamente in mare come

proiettili, mancando il bersaglio. Ma, di lì a poco, i negri, accorgendosi dello stratagemma, desistettero, non prima però

che molti di loro avessero sostituito le accette perdute con spranghe, una sostituzione che, come si era sperato, si

sarebbe dimostrata alla fine sfavorevole agli assalitori.

Nel frattempo, spinta da un vento forte, la nave solcava le acque, mentre le lance alternativamente restavano

indietro e si avvicinavano per sparare nuove scariche.

Il fuoco era diretto soprattutto verso poppa, perché lì in particolare si accalcavano i negri. Ma lo scopo non era

di ucciderli o mutilarli. Catturarli con la nave: ecco lo scopo. Per farlo era necessario abbordarla, cosa inattuabile per le

lance, mentre quella filava così veloce.

Un'idea colpì a questo punto il primo ufficiale. Osservando i mozzi spagnoli, ancora sugli alberi, il più in alto

possibile, gridò loro di scendere fino ai pennoni e di tagliare le manovre delle vele. Fu fatto. Circa in quel momento, per

cause che si vedranno in seguito, due spagnoli, che in tenuta da marinaio si mettevano in evidenza, furono uccisi non da

una scarica, bensì da colpi mirati volutamente al bersaglio. Furono uccisi anche, come si vide in seguito, il negro Atufal

e lo spagnolo al timone. Così, perdute le vele e perduti i capi, la nave si fece ingovernabile per i negri.

Con gli alberi che scricchiolavano, virò pesantemente spinta dal vento; la prua, girando piano, si portava in

vista delle lance; lo scheletro, lucente nella luce orizzontale della luna, gettava sull'acqua una gigantesca ombra scarnita.

Il braccio teso di quell'immagine spettrale sembrava incitare i bianchi a vendicarla.

«Seguite il capo!», gridò l'ufficiale e, una su ciascun lato della prua, le imbarcazioni accostarono la nave. Gli

arpioni per la caccia alla foca e le corte sciabole incrociarono le accette e le spranghe. Accovacciate nella lancia grande

a mezza nave, le negre levarono un canto lamentoso cui faceva da coro il fragore dell'acciaio.

Per qualche tempo l'attacco fu incerto; i negri facevano cuneo per respingerlo; i marinai, ricacciati in parte,

tuttora incapaci di guadagnare un punto fermo, combattevano come cavalleggeri in sella, a cavalcioni della murata,

brandendo le sciabole come i carrettieri la frusta. Ma invano. Erano lì lì per essere sopraffatti, quando, raggruppandosi

in una squadra come un solo uomo, con un urlo di esultanza balzarono a bordo, dove, intrappolati, involontariamente

furono separati di nuovo. Per un breve istante ci fu un suono vago, soffocato, profondo come un pesce spada sommerso

che si scagliasse a più riprese contro un branco di pesci neri. Ben presto, ricostituito il gruppo e raggiunti dai marinai

spagnoli, i bianchi presero il sopravvento, spingendo irresistibilmente i negri verso poppa. Ma presso l'albero di

maestra, dove era stata costruita di traverso una barricata di sacchi e barili, i negri fecero fronte. Pur disdegnando la

pace o la tregua, sarebbero stati ben disposti a riprendere fiato. Ma, senza pausa, scavalcando la barriera, i marinai

impavidi li braccarono. Spossati i negri combattevano per disperazione. Le lingue rosse penzolavano dalle bocche nere,

come quelle dei lupi. I marinai pallidi serravano i denti; non risuonava una sola parola, e, dopo altri cinque minuti, la

nave fu conquistata.

Furono uccisi circa venti negri. Oltre a quelli colpiti dalle pallottole, molti erano mutilati; le loro ferite, per lo

più inferte dal lungo taglio degli arpioni da foca, sembravano rasoiate, simili a quelle che a Preston Pans le lunghe falci

degli scozzesi delle Highlands procurarono agli inglesi. Sul fronte opposto nessuno fu ucciso, sebbene numerosi fossero

i feriti, alcuni dei quali in modo grave, compreso il primo ufficiale. I negri sopravvissuti vennero temporaneamente

messi al sicuro, e la nave, riportata nella baia a mezzanotte, si ritrovò all'ancora.

Omettendo i fatti e i provvedimenti che seguirono, basti dire che, dopo due giorni trascorsi in riparazioni, le

navi salparono insieme alla volta di Concepción in Cile, e da lì per Lima in Perù, dove, davanti alla corte del viceré, si

indagò accuratamente sull'intera vicenda.

Sebbene, a metà della traversata, lo sventurato spagnolo, libero da pressioni, mostrasse qualche segno di

ricupero a forza di volontà, tuttavia, come lui stesso aveva presagito, poco prima di arrivare a Lima, ebbe una ricaduta,

riducendosi alla fine in uno stato tale da dover essere portato a terra a braccia. Nell'apprendere la sua storia e la sua

condizione, una delle tante istituzioni religiose della Città dei Re lo accolse in un rifugio ospitale, dove lo accudirono un

prete e un medico, mentre un membro dell'ordine si offrì di fargli da custode e consolatore di notte e di giorno.

I seguenti estratti, tradotti da uno dei documenti ufficiali spagnoli, getteranno, si spera, luce sul racconto, oltre

a rivelare, in primo luogo, il vero porto di partenza e la vera storia del viaggio della San Domenico fino al momento in

cui toccò l'isola di Santa Maria.

Ma prima degli estratti, sarà bene premettere un'osservazione.

Il documento, scelto fra altri per essere parzialmente tradotto, contiene la deposizione di don Benito Cereno, la

prima raccolta nel processo. Alcune rivelazioni ivi contenute furono all'epoca poste in dubbio per ragioni dottrinali e

naturali. Il tribunale era incline a ritenere che il testimone, non uscito mentalmente indenne dai recenti avvenimenti,

farneticasse di cose che non sarebbero mai potute accadere. Ma le successive deposizioni dei marinai sopravvissuti,

confermando le rivelazioni del capitano in numerosi particolari inauditi, diedero credito al resto. Il tribunale perciò,

nella sua sentenza finale, fondò il verdetto di condanna alla pena capitale su dichiarazioni che, in mancanza di

conferma, avrebbe considerato proprio dovere respingere.

. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

Io don José de Abos e Padilla, notaio di Sua Maestà per l'Erario Reale e il Registro di questa Provincia,

pubblico notaio della Santa Crociata di questo Vescovado, ecc..Certifico e dichiaro a termini di legge che, nel processo penale iniziato il giorno ventiquattro del mese di

settembre dell'anno 1799, contro i negri della nave San Domenico, fu resa davanti a me la seguente dichiarazione:

Dichiarazione del primo testimone, don Benito Cereno

Lo stesso giorno, mese e anno, Suo Onore, il Dottore Juan Martinez de Rozas, Consigliere della Real Corte di

questo Regno, a conoscenza della legge di questa Intendenza, ordinò al capitano della nave San Domenico, don Benito

Cereno, di comparire, cosa che questi fece in barella, assistito dal monaco Infelez; quindi raccolse il suo giuramento

prestato su Dio, nostro Signore, e il segno della croce obbligandosi a dire la verità su tutto quanto sapeva e gli sarebbe

stato chiesto; - ed essendo interrogato conformemente all'atto di istruzione del processo, disse che il 20 maggio scorso,

era salpato dal porto di Valparaiso alla volta di Callao, con un carico di merci indigene oltre a trenta casse di ferramenta

e centosessanta negri dei due sessi, appartenenti nella maggior parte a don Alexandro Aranda, gentiluomo della città di

Mendoza; che l'equipaggio della nave consisteva di trentasei uomini, Oltre alle persone che viaggiavano come

passeggeri; che i negri erano in parte i seguenti:

(A questo punto nell'originale segue un elenco di una cinquantina di nomi, caratteristiche fisiche ed età, compilato in

base a certi documenti di Aranda che furono recuperati, e in base ai ricordi del testimone, di cui si riportano soltanto

certe parti).

- Uno, sui diciotto, diciannove anni, di nome José - l'uomo che serviva il padrone, don Alexandro, e che parla

bene lo spagnolo, avendolo servito per quattro o cinque anni; *** un mulatto, di nome Francesco, dispensiere di cabina,

di bell'aspetto e voce, avendo cantato nelle chiese di Valparaiso, nativo della provincia di Buenos Ayres, età circa

trentacinque anni. *** Un negro intelligente di nome Dago che per gli spagnoli aveva fatto lo scavafosse per molti anni,

età quarantasei. *** Quattro vecchi negri, nati in Africa, fra i sessanta e i settant'anni, ma robusti, calafati di mestiere,

che si chiamano così: il primo di nome Mure fu ucciso (al pari del figlio di nome Diamelo); il secondo, Nacta; il terzo

Yola, pure lui ucciso; il quarto Ghofan; e sei negri adulti, tra i trenta e i quarantacinque anni, tutti selvaggi, nati fra gli

ashanti: Matiluqui, Yan, Lecbe, Mapenda, Yambaio, Akim, quattro dei quali furono uccisi;*** un gigantesco negro di

nome Atufal che, per essere stato presumibilmente un capo in Africa, il padrone teneva in gran conto.*** E un piccolo

negro del Senegal, ma da vari anni con gli spagnoli, di circa trent'anni, il cui nome indigeno era Babo;*** che non

ricorda i nomi degli altri, ma nella speranza che si trovino i restanti documenti di don Alexandro, si riserva di prendere

debitamente nota di tutti e di trasmetterli alla corte;*** e trentanove fra donne e bambini di tutte le età.

(Finito l'elenco, continua la deposizione).

*** Che tutti i negri dormivano in coperta, come è consuetudine in queste traversate, e nessuno era in ceppi

perché il proprietario, l'amico Aranda, gli aveva detto che erano docili;*** che il settimo giorno, dopo aver lasciato il

porto, alle tre del mattino, mentre tutti gli spagnoli erano addormentati - salvo due ufficiali di guardia, rispettivamente il

nostromo, Juan Robles, e il carpentiere, Juan Baptista Gayete, oltre al timoniere e al suo aiutante - i negri all'improvviso

si rivoltarono, ferirono gravemente il nostromo e il carpentiere, e successivamente uccisero diciotto degli uomini

addormentati in coperta, con spranghe e accette, o gettandoli in mare vivi dopo averli legati; che degli spagnoli in

coperta lasciarono in vita e legati soltanto sette - così ritiene - per manovrare la nave; sopravvissero tre o quattro altri

che si erano nascosti. Che sebbene nell'ammutinamento i negri si fossero impadroniti del boccaporto, sei o sette feriti

passarono di là fino all'infermeria senza incontrare ostacoli; che durante la rivolta, il primo ufficiale e un'altra persona,

di cui non ricorda il nome, tentarono di passare per il boccaporto, ma subito feriti, furono costretti a ritornare in cabina;

che allo spuntar del giorno il testimone risolse di salire in coperta per la scala di boccaporto dove si trovavano Babo,

capo dei rivoltosi, e il suo aiutante Atufal e, dopo aver loro parlato, li esortò a smettere quelle atrocità, chiedendo loro,

nello stesso tempo, quello che volevano e intendevano fare, offrendosi di eseguire gli ordini; che, nonostante questo,

buttarono in mare, in sua presenza, tre uomini vivi legati; che dissero al testimone di salire promettendo di non

ucciderlo; che, fatto questo, il negro Babo gli chiese se in quei mari ci fossero paesi di negri dove loro avrebbero potuto

essere portati ed egli rispose: «No»; che in e seguito il negro Babo gli chiese di portarli in Senegal nelle vicine isole di

San Nicola; ed egli rispose che questo era impossibile vista la grande distanza, la necessità di doppiare Capo Horn, le

cattive condizioni della nave, la mancanza di provviste, vele e acqua; ma il negro Babo gli aveva risposto che doveva

portarli comunque, che loro avrebbero fatto tutto ciò che il testimone avesse chiesto in relazione al bere e al mangiare e

vi si sarebbero conformati; che dopo lungo parlamentare, costretto senza scampo ad assecondarli, perché avevano

minacciato di uccidere tutti i bianchi se non fossero stati portati in Senegal in un modo o nell'altro, aveva detto loro che

la cosa indispensabile per la traversata era l'acqua; che si sarebbero avvicinati alla terraferma per procurarsela e da lì

avrebbero proseguito per la loro rotta; che il negro Babo aveva acconsentito, e che il testimone aveva diretto la nave

verso i porti intermedi, sperando di incontrare qualche legno spagnolo o straniero che li salvasse: che dopo dieci, undici

giorni avevano avvistato terra e avevano navigato costeggiandola in prossimità di Nasca; che il testimone aveva

osservato l'irrequietezza e la riottosità dei negri, perché non effettuava la provvista di acqua; che il negro Babo

imponeva con le minacce che lo si facesse, senza fallo, il giorno successivo, ma egli aveva detto loro che le coste erano

scoscese e che non si trovavano i fiumi disegnati sulle carte insieme ad altre ragioni adatte alle circostanze; che la cosa.migliore era raggiungere l'isola di Santa Maria dove, come facevano gli stranieri, avrebbero potuto facilmente rifornirsi

d'acqua, essendo un'isola deserta; che il testimone non andò a Pisco, lì vicino, e non toccò altri porti della costa perché il

negro Babo gli aveva spesso intimato che avrebbe ucciso tutti i bianchi nel momento stesso in cui avesse avvistato una

città, un paese, un insediamento sulle coste dove erano diretti: che, avendo deciso di andare nell'isola di Santa Maria,

come progettato dal testimone, per tentare di trovare nella traversata o vicino all'isola stessa una nave che li aiutasse

oppure di poter fuggire su una barca fino alla vicina costa di Arauco, adottò i mezzi necessari, facendo subito rotta

verso l'isola; che i negri Babo e Atufal si consultavano quotidianamente discutendo sul da farsi per tornare in Senegal,

se uccidere tutti gli spagnoli e in particolare il testimone; che otto giorni dopo essere partiti dalla costa di Nasca, mentre

il testimone era di vedetta poco dopo l'alba e subito dopo che i negri avevano fatto la loro consultazione, il negro Babo

lo raggiunse e gli comunicò di aver deciso di uccidere il suo padrone don Alexandro Aranda, sia perché lui e i suoi

compagni non sarebbero stati altrimenti certi della loro libertà, sia perché, volendo tenere i marinai in soggezione,

voleva dare un avvertimento sulla strada che si sarebbe imboccata se tutti o in parte gli si fossero opposti, e che, con la

morte di don Aranda, quell'avvertimento sarebbe stato più persuasivo; ma che cosa questo volesse dire, il testimone al

momento non capì e non poteva capire salvo che per don Alexandro voleva dire la morte; che per giunta il negro Babo

propose al testimone di chiamare, prima che si procedesse, il secondo ufficiale Raneds, che dormiva nella cabina, per

timore, a quanto comprese il teste, che questi, buon navigatore, venisse ucciso con don Alexandro e gli altri; che il

testimone, amico fin dalla giovinezza di don Alexandro, pregò e scongiurò, ma invano, perché il negro Babo gli rispose

che non si poteva evitarlo e che tutti gli spagnoli rischiavano di morire, se avessero tentato di opporsi al suo volere in

questa o altra faccenda; che, così dibattuto, il testimone chiamò il secondo ufficiale, Raneds, che fu costretto a mettersi

da parte e immediatamente il negro Babo comandò all'ashanti Martinqui e all'ashanti Lecbe di andare a commettere

l'assassinio; che i due andarono armati di accetta nella cabina di don Alexandro; che, ancora semivivo e straziato, lo

trascinarono in coperta; che stavano per buttarlo in mare in quelle condizioni, ma il negro Babo li fermò, imponendo

loro di compiere l'omicidio in coperta alla sua presenza, il che fu fatto, e il cadavere, su suo ordine, venne portato di

sotto a prora; che il teste non vide altro per tre giorni;*** che don Alonzo Sidonia, un vecchio da lungo residente a

Valparaiso, e di recente nominato a un incarico pubblico in Perù, dove era diretto, stava dormendo, all'epoca, nella

cuccetta di fronte a quella di don Alexandro; che svegliandosi alle sue grida e sorpreso dalle stesse, e alla vista dei negri

con in mano le accette insanguinate, si buttò in mare attraverso una finestra lì vicino e annegò senza che il teste potesse

soccorrerlo e salvarlo;*** che, poco tempo dopo aver ucciso Aranda, i negri portarono in coperta suo cugino germano,

un uomo di mezza età, don Francisco Masa di Mendoza, e il giovane don Joaquin, marchese di Aramboalaza, di recente

tornato dalla Spagna, con il servo spagnolo Ponce, e i tre giovani segretari di Aranda, José Mozairi, Lorenzo Bargas e

Hermenegildo Gandix, tutti di Cadice; che il negro Babo, per scopi che si vedranno in seguito, risparmiò la vita a don

Joaquin e a Hermenegildo Gandix: ma ordinò che venissero gettati in mare, sebbene non facessero resistenza e

implorassero soltanto la grazia della vita, don Francisco Masa, José Mozairi e Lorenzo Bargas con il servo Ponce, oltre

al nostromo Juan Robles, ai secondi Manuel Viscaya e Roderigo Hurta e a quattro marinai; che il nostromo Juan

Robles, buon nuotatore, fu quello che resistette a galla più di tutti, facendo atti di contrizione e, con le ultime parole

pronunciate, incaricò il teste di far dire una messa per la sua anima a Nostra Signora del Soccorso;*** che nei tre giorni

che seguirono, il teste, incerto di quale fine avessero fatto i resti di don Alexandro, chiese di frequente al negro Babo

dove si trovassero e, in caso fossero ancora a bordo, se sarebbero stati conservati per la sepoltura a terra, supplicandolo

di disporre in tal modo; che il negro Babo non rispose nulla fino al quarto giorno, quando all'alba, al teste arrivato sul

ponte, il negro Babo mostrò uno scheletro al posto della polena della nave - l'immagine di Cristoforo Colombo, lo

scopritore del Nuovo Mondo; che il negro Babo gli chiese di chi fosse quello scheletro e se dalla bianchezza non gli

sembrasse quello di un bianco; che, scoprendogli il volto, il negro Babo lo avvicinò dicendogli parole che avevano

questo senso e indicandogli la prua: «Siate leale con i negri portandoli in Senegal, altrimenti seguirete il vostro capo con

lo spirito, come ora lo seguite con il corpo»; *** che quella stessa mattina il negro Babo condusse a prua tutti gli

spagnoli uno dopo l'altro chiedendo a ciascuno di chi fosse quello scheletro e se per la bianchezza non lo ritenesse

quello di un bianco; che ogni spagnolo si coprì il volto; che a ciascuno il negro poi ripeté le parole dette in prima istanza

al testimone;*** che, riunitili (gli spagnoli) a poppa, il negro Babo li arringò dicendo di aver fatto tutto; che il teste

(nella sua qualità di ufficiale di rotta dei negri) continuasse pure la sua rotta ammonendo lui e tutti loro che avrebbero

seguito - in spirito e in corpo - la strada di don Alexandro, se avesse visto che essi (gli spagnoli) parlavano e

complottavano contro di loro (i negri) - minaccia questa che venne ripetuta ogni giorno; che, prima degli avvenimenti

citati per ultimi, avevano legato il cuoco, decisi a buttarlo in mare per chissà cosa l'avevano sentito dire, ma alla fine, su

istanza del testimone, il negro Babo gli aveva risparmiato la vita; che alcuni giorni più tardi, il testimone, nello sforzo di

non tralasciare nulla di utile per salvare la vita degli altri bianchi, parlò ai negri di pace e tranquillità e acconsentì a

redigere un documento, firmato dal testimone, dai marinai in grado di scrivere e dal negro Babo in nome proprio e dei

suoi, nel quale il testimone si obbligava a portarli in Senegal e loro non avrebbero ucciso nessun altro, ed egli avrebbe

ceduto la nave e il carico, la qual cosa per il momento li placò e soddisfò.*** Ma il giorno dopo, per prevenire meglio la

fuga dei marinai, il negro Babo comandò che fossero distrutte tutte le lance, ad eccezione della scialuppa lunga, inadatta

a tenere il mare, e di un'altra imbarcazione, una barca in buone condizioni che aveva fatto calare nella stiva, sapendo di

poterla utilizzare per rimorchiare i barili di acqua.

(Seguono a questo punto vari particolari sulla navigazione prolungata e incerta, con episodi di una infausta bonaccia,

dal cui resoconto si riporta soltanto questo brano:).- Che il quinto giorno della bonaccia, mentre tutti a bordo soffrivano per la calura e la mancanza d'acqua e

cinque erano morti in convulsioni e in delirio, i negri si fecero nervosi e uccisero l'ufficiale in seconda Raneds, per un

gesto casuale, che essi considerarono sospetto - seppure innocuo -, fatto al testimone nell'atto di porgergli un quadrante,

ma di questo in seguito si dispiacquero, in quanto l'ufficiale era l'unico navigatore a bordo, oltre al testimone.

- Che sorvolando altri incidenti che accadevano quotidianamente e che servono soltanto a rammentare sventure

e conflitti passati, dopo settantatré giorni di navigazione - calcolati da quando erano partiti da Nasca, durante i quali

viaggiarono con una povera razione di acqua e furono afflitti dalle bonacce prima nominate - arrivarono finalmente

all'isola di Santa Maria il diciassette di agosto, alle sei del pomeriggio circa, ora in cui gettarono l'ancora molto vicino

alla nave americana, Delizia dello scapolo, alla fonda nella stessa baia, al comando del generoso capitano Amasa

Delano; ma alle sei del mattino avevano già avvistato il porto, e i negri si fecero inquieti non appena scorsero in

lontananza la nave, non essendosi aspettati di vederne una lì; che il negro Babo li tranquillizzò assicurandoli che non era

il caso di aver paura; che immediatamente ordinò di ricoprire la polena a prora con teloni quasi fosse in riparazione e

fece riordinare un po' i ponti di coperta; che per qualche tempo il negro Babo e il negro Atufal si consultarono; che il

negro Atufal era propenso ad andarsene di lì, ma il negro Babo non era dell'avviso e da solo decise il da farsi; che alla

fine si presentò al testimone proponendogli di dire e di fare tutto quello che il testimone dichiara di aver detto e fatto al

capitano americano;

- che il negro Babo lo avvertì che, se avesse fatto il minimo mutamento, oppure pronunciato una sola parola o

gettato una sola occhiata che potesse suscitare un sospetto anche fuggevole sugli avvenimenti passati o la situazione

presente, lo avrebbe ucciso all'istante con tutti i suoi compagni e gli mostrò un pugnale, che portava nascosto addosso,

dicendo qualcosa che, a quanto aveva capito, significava che il pugnale sarebbe stato rapido come l'occhio; che a questo

punto il negro Babo annunciò il piano a tutti i suoi compagni che ne furono soddisfatti; che allora, per meglio

mascherare la verità, escogitò vari espedienti unendo in alcuni inganno e difesa; che di questo tipo fu il trucco dei sei

ashanti citati prima, che erano i suoi bravi; che li sistemò sull'estremità del casseretto quasi fossero intenti a lustrare

certe accette (in casse che facevano parte del carico), ma in realtà per usarle e distribuirle in caso di bisogno a una

parola d'ordine che comunicò loro; che fra gli altri espedienti c'era quella di presentare Atufal, suo braccio destro,

incantenato, sebbene le catene potesse scrollarsele di dosso in un attimo; che spiegò nei particolari al teste la parte che

doveva svolgere nelle varie messinscene e la storia che doveva raccontare nelle varie occasioni, sempre minacciandolo

di morte immediata qualora se ne fosse scostato anche minimamente; che consapevole della riottosità degli uomini, il

negro Babo incaricò quattro anziani, i calafati, di adoperarsi al massimo per mantenete l'ordine intorno in coperta; che

ripetutamente arringò gli spagnoli e i compagni informandoli del suo scopo e dei vari stratagemmi e della storia

inventata che il teste doveva raccontare, dicendo loro di guardarsene dallo scostarsi da quella versione; che tali

preparativi furono fatti e compiuti nell'intervallo di due o tre ore fra il primo avvistamento della nave e l'arrivo a bordo

di capitan Amasa Delano; che questo avveniva verso le sette e mezzo del mattino, quando il capitan Amasa Delano

giunse con la propria lancia e tutti lo accolsero con gioia; che il testimone, sforzandosi di interpretare il ruolo

dell'armatore principale e di libero comandante della nave, raccontò al capitano Amasa Delano, su sua richiesta, di

venire da Buenos Ayres e di essere diretto a Lima, con trecento negri; che al largo di Capo Horn e per una successiva

epidemia molti negri erano morti; che, per le stesse sventure, erano morti anche tutti gli ufficiali e la maggior parte

dell'equipaggio.

(Così continua la deposizione esponendo, in modo circostanziato, la falsa storia imposta da Babo al testimone e,

tramite questi, comminata a capitan Delano; esponendo anche le generose offerte di capitan Delano insieme ad altre

cose che qui vengono tutte omesse. Dopo la falsa storia ecc. la deposizione procede:)

- che il generoso capitan Delano rimase a bordo tutta la giornata fino a quando non lasciò la nave all'ancora alle

sei di sera, con il testimone che continuava a parlare delle presunte disgrazie in base agli ordini summenzionati, senza

aver avuto la possibilità di dire una sola parola o di fornirgli il minimo indizio per rivelargli la verità e come stessero le

cose; perché il negro Babo, nel suo ruolo di servo devoto, con l'aria sottomessa dello schiavo umile, non lasciò il

testimone per un istante; che questo serviva a osservare i gesti e le parole del teste, in quanto il negro Babo capisce bene

lo spagnolo; inoltre c'erano nei pressi altri costantemente in guardia, che del pari comprendevano lo spagnolo;*** che in

una occasione, mentre sul ponte il testimone stava parlando con Amasa Delano, con un segno segreto il negro Babo

trasse in disparte lui (il testimone), dando l'impressione che l'atto fosse un'iniziativa del testimone; che dopo averlo

tratto in disparte, il negro Babo gli propose di ottenere da Amasa Delano particolari completi sulla sua nave,

sull'equipaggio e sulle armi; che il testimone chiese: «Per quale motivo?», al che il negro Babo rispose che poteva

immaginarselo; che, addolorato da quanto poteva abbattersi sul generoso capitan Amasa Delano, il testimone dapprima

rifiutò di porre le domande desiderate e usò ogni argomento per indurre il negro Babo a rinunciare al progetto; che il

negro Babo mostrò la punta del pugnale; che, avuta l'informazione, il negro Babo lo trasse in disparte dicendogli che

proprio quella notte egli (il testimone) sarebbe diventato capitano di due navi invece che di una sola perché, mentre

l'equipaggio della nave americana sarebbe stato al largo a pescare, i sei ashanti, senza nessun altro, l'avrebbero

facilmente conquistata; che in quella occasione disse altre cose dello stesso tenore; che non servirono le suppliche; che,

prima dell'arrivo a bordo di Amasa Delano, non si era fatto nessun cenno alla cattura della nave americana; che il.testimone era impotente a impedire tale progetto;*** che su certi punti la sua memoria è confusa e non riesce a

ricordare distintamente tutti gli eventi;*** che non appena ebbero gettato l'ancora alle sei di sera, come dichiarato

prima, il capitano americano prese congedo per tornare sulla propria nave; che obbedendo a un impulso improvviso - il

teste è convinto sia venuto da Dio e dai suoi angeli - egli, dopo essersi già congedato, seguì il generoso capitan Amasa

Delano al capo di banda, dove rimase con il pretesto di accomiatarsi, fino a quando Amasa Delano non si fosse seduto

nella scialuppa; che quando questa si scostò, il testimone saltò dalla murata nella lancia e, chissà come, con l'aiuto di

Dio vi finì dentro; che -

(A questo punto nell'originale segue il resoconto di quanto accadde dopo la fuga e come la San Domenico venne

riconquistata e della traversata fino alla costa; la relazione comprende molte espressioni di «eterna gratitudine» al

«generoso capitano Amasa Delano». La deposizione quindi procede con osservazioni riassuntive e una parziale

rielencazione dei negri, con la descrizione della parte avuta da ciascuno, in vista di fornire, in conformità all'ordine

della corte, gli elementi sui quali fondare le sentenze di condanna. Da questa parte è tratto quanto segue:)

- Che, a suo avviso, tutti i negri, seppur in origine non al corrente del progetto di rivolta, lo approvarono, una

volta messo in atto.*** Che il negro José, di diciotto anni, al servizio personale di don Alexandro, fu quello che, prima

della rivolta, diede l'informazione al negro Babo sullo stato delle cose nella cabina; che ciò è risaputo perché, nelle notti

precedenti, dalla sua cuccetta, sottostante quella del padrone nella cabina, saliva spesso sul ponte di coperta dove si

trovavano il capo della rivolta e i suoi compagni e aveva conversazioni segrete con il negro Babo, durante le quali fu

visto spesso dall'ufficiale in seconda; che una notte l'ufficiale per due volte lo allontanò;*** che questo stesso negro

José fu quello che, senza ricevere ordini in tal senso dal negro Babo, come invece avvenne per Lecbe e Martinqui,

pugnalò il suo padrone, don Alexandro, dopo che questi era stato trascinato morente in coperta;*** che il dispensiere

mulatto Francesco apparteneva alla prima schiera di rivoltosi, ed era in tutto e per tutto la creatura e lo strumento del

negro Babo; che per accattivarselo, prima del pasto in cabina, propose al negro Babo di avvelenare un piatto per il

generoso capitano Amasa Delano - tutto ciò è risaputo e credibile perché lo hanno detto i negri stessi -, ma il negro

Babo, che aveva altri piani, proibì a Francesco di farlo;*** che l'ashanti Lecbe era uno dei peggiori, perché, il giorno

della riconquista della nave, la difese armato con un'accetta per mano, una delle quali ferì al petto il primo ufficiale di

Amasa Delano al primo abbordaggio; questo lo sapevano tutti; che, sotto gli occhi del testimone, Lecbe colpi con un

accetta don Francisco Masa, mentre, per ordine del negro Babo, lo trascinava per gettarlo in mare vivo, oltre ad aver

partecipato all'assassinio, prima citato, di don Alexandro Aranda e degli altri passeggeri; che, visto il furore con cui gli

ashanti si batterono nello scontro con le scialuppe, sopravvissero soltanto questo Lecbe e Yan; che Yan era malvagio

quanto Lecbe; che Yan era l'uomo il quale, per ordine di Babo, era stato ben contento di preparare lo scheletro di don

Alexandro con un sistema che poi i negri raccontarono al testimone, ma che questi, finché gli rimane la ragione, non

potrà mai divulgare; che Yan e Lecbe furono i due che, in una notte di bonaccia, fissarono lo scheletro alla prua - anche

questo glielo avevano detto i negri; che fu il negro Babo a tracciare l'iscrizione sotto; che il negro Babo fu l'anima del

complotto; che ordinò tutti gli assassinii e fu il timone e la chiglia della rivolta; che Atufal, il suo attendente in tutto, di

mano sua non commise alcun delitto e lo stesso vale per il negro Babo;*** che Atufal venne ucciso da un proiettile

nella lotta con le imbarcazioni prima dell'abbordaggio;*** che le negre adulte, al corrente della rivolta, si dichiararono

soddisfatte della morte del padrone don Alexandro; che se i negri non le avessero trattenute, avrebbe torturato a morte,

invece di limitarsi a ucciderli, tutti gli spagnoli massacrati per ordine del negro Babo; che le negre usarono tutta la loro

influenza per far eliminare il testimone; che nelle varie fasi del massacro cantarono e danzarono non con allegria ma

con solennità; che, sia prima dello scontro con le scialuppe sia durante l'azione, cantarono canzoni malinconiche ai negri

e che tale tono malinconico, come appunto era lo scopo, infiammava gli animi più di quanto non avrebbe fatto un canto

diverso; che si presta fede a tutto questo perché lo hanno detto i negri.

- Che dei trentasei uomini dell'equipaggio, esclusi i passeggeri (ormai tutti morti) di cui ha notizia il testimone,

soltanto sei rimasero in vita con quattro mozzi e inservienti non compresi nell'equipaggio;*** che i negri spezzarono un

braccio a uno dei garzoni e lo colpirono con le accette.

(Seguono varie rivelazioni sparse che si riferiscono a diversi momenti. Si riportano le seguenti:)

- Che durante la permanenza a bordo del capitano Amasa Delano alcuni marinai fecero dei tentativi per fargli

capire come stessero veramente le cose, e uno di tali tentativi fu fatto da Hermenegildo Gandix, ma furono tutti inutili

per la paura di esporsi alla morte, per gli espedienti che contraddicevano il vero stato delle cose, oltre che per la

generosità e la pietà di Amasa Delano incapace di sondare tanta malvagità;*** che Luys Galgo, marinaio di circa

sessant'anni e in precedenza membro della flotta reale, fu uno di quelli che cercarono di trasmettere qualche indizio al

capitano Amasa Delano, ma sospettata la sua intenzione, seppure mai scoperta, fu costretto con un pretesto a togliersi

dalla vista e alla fine, portato nella stiva, fu eliminato. Questo hanno poi detto i negri, che uno dei mozzi nutrendo, per

la presenza del capitano Amasa Delano, qualche speranza di liberazione e non usando abbastanza prudenza si lasciò

sfuggire qualche parola a caso, che esprimeva quella sua speranza, che fu colta e capita da un ragazzo schiavo con il

quale all'epoca consumava i pasti. Quest'ultimo lo colpì in testa con un coltello, infliggendogli una brutta ferita dalla

quale tuttavia il mozzo sta guarendo; che analogamente, non molto prima che la nave fosse messa all'ancora, uno dei

marinai, occupato allora al timone, si espose a pericolo facendosi cogliere a far cenni con la faccia per motivi simili a.quelli sopra indicati; ma questo marinaio la scampò per la prudente condotta tenuta in seguito;*** che queste

dichiarazioni vengono fatte per mostrare alla corte che, dall'inizio alla fine della rivolta, il testimone e i suoi uomini non

avrebbero potuto comportarsi in modo diverso;*** che il terzo commissario Hermenegildo Gandix, in precedenza

costretto a vivere fra i marinai, vestito da marinaio e in tutto simile a loro, Gandix dunque fu ucciso da una pallottola di

moschetto sparata per errore dalle scialuppe prima dell'abbordaggio, perché terrorizzato si era precipitato su per le sartie

di mezzana urlando alle scialuppe «Non abbordate!», per paura di essere in tal caso ucciso dai negri; che gli americani,

indotti a credere da tale atteggiamento che in qualche modo lui fosse favorevole alla causa dei negri, gli spararono due

pallottole con la conseguenza che precipitò ferito dalle sartie e annegò in mare;*** che il giovane don Joaquin,

marchese di Aramboalaza, come il terzo commissario Hermenegildo Gandix, fu degradato a vestirsi come un marinaio

semplice e a svolgerne le mansioni; che una volta in cui don Joaquin si rifiutò di obbedire, il negro Babo ordinò

all'ashanti Lecbe di prendere della pece bollente e di versargliela sulle mani; che don Joaquin fu ucciso per un altro

errore degli americani, un errore inevitabile, perché all'apparire delle scialuppe don Joaquin fu costretto a mostrarsi

sulla murata brandendo un'accetta legata alla mano, con il filo in fuori; al che, visto con un'arma e in atteggiamento

ambiguo, gli spararono ritenendolo un rinnegato;*** che sulla persona di don Joaquin era nascosto un gioiello che, in

base ai documenti trovati, si dimostrò essere destinato a Nostra Signora della Misericordia a Lima, un'offerta votiva,

preparata in anticipo e conservata, per significare la propria gratitudine quando fosse sbarcato in Perù, la sua ultima

destinazione, arrivandovi sano e salvo a conclusione dell'intero viaggio iniziato in Spagna;*** che il gioiello insieme

agli altri effetti del defunto don Joaquin è affidato alla custodia dei fratelli dell'Hospital de Sacerdotes, in attesa di

disposizioni da parte dell'onorevole corte;*** che, a causa delle condizioni del testimone oltre che alla fretta con

cui le scialuppe partirono all'attacco, gli americani non erano stati avvertiti che, fra l'equipaggio, e in apparenza membri

dello stesso, c erano un passeggero e un segretario costretti dal negro Babo a camuffarsi;*** che, accanto ai negri uccisi

in azione, alcuni furono uccisi dopo che la nave era stata catturata e rimessa all'ancora di notte, quando furono in ceppi

in coperta; che tali uccisioni furono compiute dai marinai prima che si riuscisse a fermarli. Che non appena ne fu

informato, il capitano Amasa Delano fece uso di tutta la sua autorità e, in particolare, di suo pugno abbatté Martinez

Gola che, trovato un rasoio nella tasca di una sua vecchia giacca, indossata da uno dei negri in ceppi, lo stava puntando

alla gola del negro; che il nobile capitano Amasa Delano strappò anche dalla mano di Bartholomew Barlo un pugnale

nascosto al tempo del massacro dei bianchi, con il quale si apprestava a colpire un negro incantenato che, quello stesso

giorno, insieme a un altro negro lo aveva buttato a terra e gli era saltato addosso;*** che di tutti gli avvenimenti

accaduti nel lungo periodo durante il quale la nave fu nelle mani del negro Babo non può dire qui un resoconto, ma che

quanto detto costituisce la parte principale ed essenziale di quello che si sovviene al momento e che si tratta di verità

come da giuramento prestato; la quale testimonianza viene confermata e ratificata dopo averne ascoltato lettura.

Disse di avere ventinove anni e di essere distrutto nel corpo e nell'animo; che, quando finalmente sarà rilasciato

dalla corte, non ritornerà a casa in Cile, ma si ritirerà nel monastero di Monte Agonia; e firmò sul suo onore, si fece il

segno della croce e, per il momento, se ne andò in barella, così come era venuto, con il monaco Infelez, all'Hospital de

Sacerdotes.

Benito Cereno

Dottor Rozas

. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

Se la deposizione è servita da chiave da inserire nella serratura delle precedenti complicazioni, allora, come si

svela una segreta la cui porta sia stata spalancata, così è oggi aperto lo scafo della San Domenico.

Fino ad ora il carattere di questo racconto, oltre a rendere inevitabile il groviglio dell'inizio, ha più o meno

imposto di esporre molte cose in modo retrospettivo e irregolare, invece che nell'ordine in cui si sono verificate. È

questo il caso dei seguenti brani che concludono il resoconto.

Durante il lungo, calmo viaggio fino a Lima, ci fu, come abbiamo avuto occasione di accennare, un periodo nel

quale il sofferente recuperò in parte la salute o, perlomeno in un certo grado, la tranquillità. Prima della decisa ricaduta

che seguì, i due capitani ebbero numerose conversazioni cordiali dove la franchezza fraterna era in singolare contrasto

con la precedente reticenza.

Più e più volte venne ripetuto quanto fosse stato arduo per lo spagnolo interpretare la parte impostagli da Babo.

«Ah, mio caro amico», disse una volta don Benito, «proprio quelle volte nelle quali mi avete ritenuto così

scontroso e ingrato, sì, quando, come adesso ammettete, quasi pensavate che complottassi per uccidervi, in quei

momenti il mio cuore era agghiacciato; non potevo guardarvi pensando a quello che, su questa nave e sulla vostra, altre

mani tenevano sospeso sopra il mio benefattore. E, come è vero Dio, don Amasa, non so se il desiderio di salvarmi

sarebbe bastato a darmi la forza di fare quel salto nella vostra scialuppa, se non fosse stato il pensiero che voi, tornando,

all'oscuro di tutto, sulla vostra nave, voi, amico mio carissimo, e quanti erano con voi, colti di sorpresa quella notte

nelle vostre cuccette, non vi sareste più svegliati in questo mondo. Pensate a come camminavate su questo ponte, a

come vi sedevate in questa cabina, a ogni pollice di terreno sotto i vostri piedi, che era un campo minato. Se mi fosse

sfuggito il minimo accenno, se avessi fatto il minimo segno di intesa con voi, la morte, una morte esplosiva - la vostra e

la mia - avrebbe messo la parola fine alla scena»..«Vero, vero», esclamò capitan Delano sussultando, «mi avete salvato la vita, don Benito, più di quanto io non

abbia salvato la vostra; salvato, per di più, senza che io lo sapessi e lo volessi».

«No, amico mio», replicò lo spagnolo cortese al punto da appellarsi alla religione, «Dio ha protetto dall'alto la

vostra vita, ma voi avete salvato la mia. E pensare a certe cose che avete fatto - quei sorrisi, quelle chiacchiere, quei

segni e gesti precipitosi e avventati! Per assai meno hanno massacrato il mio ufficiale, Raneds, ma voi avevate il

salvacondotto del Principe del Cielo che vi ha protetto da tutte le imboscate».

«Sì, tutto merito della Provvidenza, lo so; ma quella mattina la mia disposizione d'animo era più affabile del

solito, mentre la vista di tante sofferenze, più apparenti che reali, venne ad aggiungersi alla benevolenza, alla

compassione e alla carità, in un felice intreccio di tutte e tre. Se fosse stato diversamente - senza dubbio, come avete

accennato - alcune mie conclusioni avrebbero condotto a un risultato funesto. Inoltre quegli stati d'animo di cui ho

parlato mi hanno consentito di superare i momenti di sfiducia in circostanze che avrebbero potuto costarmi la vita senza

salvarne un'altra. Soltanto alla fine prevalsero i sospetti, e voi sapete quanto fossero lontani dal bersaglio».

«Lontani davvero», disse tristemente don Benito, «voi siete stato con me tutto il giorno, in piedi e seduto, avete

parlato con me, mi avete guardato, avete mangiato e bevuto con me, eppure il vostro ultimo gesto fu quello di afferrare,

prendendolo per un mostro, non soltanto un innocente, ma il più misero degli uomini. Fino a tal punto possono arrivare

le macchinazioni maligne e gli inganni. Fino a tal punto possono cadere in errore perfino gli uomini migliori nel

giudicare la condotta di chi gli rimane sconosciuto nei recessi del cuore. Ma voi siete stato costretto e in tempo avete

scoperto l'inganno. Fosse sempre così, in tutti e due i sensi, e con tutti gli uomini».

«Voi generalizzate, don Benito, e con animo funesto. Ma il passato è passato: perché cercarvi una morale?

Dimenticatelo. Vedete, il sole che risplende là ha dimenticato tutto e così il mare azzurro e il cielo azzurro: hanno

voltato pagina».

«Perché non hanno memoria», rispose tristemente, perché non sono umani».

«Ma questi dolci alisei che vi sfiorano la guancia non vengono come una carezza quasi umana che risana?

Amici caldi, amici costanti sono gli alisei».

«Con la loro costanza non fanno che sospingermi verso la tomba, señor», fu la presaga risposta.

«Voi siete in salvo», esclamò capitan Delano, più che mai sorpreso e addolorato, «voi siete in salvo: che cosa

getta quest'ombra su di voi?»

«Il negro».

Cadde il silenzio, mentre quell'uomo tetro si sedeva raccogliendo con gesto lento e inconsapevole il mantello

intorno a sé quasi fosse un drappo funebre.

Non parlarono più quel giorno.

Ma se su temi di quel genere la malinconia dello spagnolo a volte finiva in mutismo, c'erano altri argomenti sui

quali non parlava mai, sui quali anzi si infittiva tutto il suo antico riserbo. Tralasciamo il peggio e citiamo, a

delucidazione, soltanto uno o due esempi. L'abito così accurato e costoso, indossato nel giorno in cui accaddero gli

eventi narrati, non era stato indossato volentieri. E la spada montata in argento, apparente simbolo di un potere

dispotico, non era in realtà una spada, ma il suo spettro. Il fodero, artificialmente irrigidito, era vuoto.

Quanto al negro - che con il cervello, non con il corpo, aveva concepito e guidato la rivolta - la figura minuta,

involucro inadeguato delle passioni che racchiudeva, sulla scialuppa aveva subito ceduto alla superiore forza muscolare

di colui che lo aveva catturato. Vedendo che tutto era finito, non emise suono e non si riuscì a costringerlo. Aveva l'aria

di dire: poiché non posso agire, non parlerò. Messo in ceppi nella stiva insieme agli altri, venne portato a Lima. Durante

la traversata don Benito non andò a visitarlo. Né allora ne mai più in seguito volle guardarlo. Davanti al tribunale si

rifiutò di farlo. Quando i giudici insistettero, svenne. Soltanto sulla testimonianza dei marinai si fondò l'identificazione

legale di Babo.

Alcuni mesi più tardi, trascinato al patibolo, legato alla coda di un mulo, il negro incontrò la sua fine muta. Il

corpo venne ridotto in cenere, ma per molti giorni, la testa, quell'alveare di sottigliezze, fissata su un palo della Plaza,

incontrò impassibile gli sguardi dei bianchi, con gli occhi puntati sulla chiesa di San Bartolomeo, dall'altra parte della

Plaza, dove, nella cripta, riposavano, allora come oggi, le ossa recuperate di Aranda. E attraverso il ponte di Rimac

fissava quel monastero sul Monte Agonia dove, tre mesi dopo essere stato congedato dalla corte, Benito Cereno, portato

sul feretro, seguì davvero il suo capo.

APPENDICE

PARTICOLARI SULLA CATTURA DELLA NAVE SPAGNOLA «TRYAL» PRESSO L'ISOLA DI SANTA

MARIA, CON I DOCUMENTI RELATIVI AL CASO

Nell'introdurre il resoconto della cattura della nave spagnola Tryal riporterò per prima cosa un estratto dal

diario di bordo della nave Perseverance, steso a quel tempo dall'ufficiale incaricato.

«Mercoledì, 20 febbraio, cominciò con leggere brezze da nord-est e dense nebbie. Alle sei del mattino si

avvistò una vela che doppiava il capo meridionale di Santa Maria ed entrava nella baia. Risultò essere una nave. Il

capitano prese una baleniera con l'equipaggio e si portò a bordo. Poiché il vento era molto lieve, un vascello avrebbe.appena avuto di che manovrare; si osservò che la nave si comportava in modo strano. Alle dieci del mattino la baleniera

fece ritorno. Mr. Luther informò che capitan Delano era rimasto a bordo, che si trattava di una nave spagnola

proveniente da Buenos Ayr es, da quattro mesi e ventisei giorni in mare, con un carico di schiavi; che la nave aveva

grande bisogno d'acqua; che aveva sepolto molti bianchi e schiavi durante la traversata, e che capitan Delano aveva

chiesto di inviare una grossa scialuppa con acqua, pesce fresco, zucchero, pane, zucche, sidro, cose che furono tutte

mandate. Alle dodici, mezzogiorno, bonaccia. Alle due del pomeriggio fu di ritorno la scialuppa, che aveva lasciato a

bordo della nave spagnola i barili d'acqua. Alle quattro del pomeriggio si levò da sud la brezza, che mise in rotta la nave

spagnola. Gettò l'ancora a due cavi di distanza dalla nostra nave in direzione sud-est. Subito dopo essersi ancorata, il

nostro capitano stava per scostarsi dalla nave spagnola, quando, con sua grande sorpresa, il capitano spagnolo saltò sulla

lancia e in spagnolo gridò che gli schiavi si erano ribellati e avevano ucciso molti uomini, che lui non comandava più la

nave. A tale gesto alcuni spagnoli, rimasti a bordo, saltarono in mare mettendosi a nuotare dietro la lancia, finché non

furono raccolti dai nostri. Gli spagnoli, rimasti a bordo, si precipitarono ad arrampicarsi su per le sartie, il più in alto

possibile, invocando ripetutamente aiuto ad alta voce, altrimenti sarebbero stati uccisi dagli schiavi. Il nostro capitano

salì a bordo immediatamente, portandosi il capitano spagnolo e gli uomini raccolti in acqua, ma, prima che arrivasse la

nostra lancia, notammo che gli schiavi, tagliato il cavo, andavano alla deriva. Nell'apprendere questo, il nostro capitano

ordinò di far aprire i portelli e preparare i cannoni; purtroppo riuscimmo a puntare solo uno dei cannoni di bordo.

Sparammo cinque o sei colpi, ma non ci fu possibile fermare la nave. Ben presto osservammo che alzava le vele e

usciva dalla baia. Inviammo all'inseguimento due lance ben equipaggiate di uomini e armi, che, dopo strenui tentativi,

abbordarono la nave e la riconquistarono. Purtroppo nell'impresa il nostro primo ufficiale, Mr. Rufus Low, a capo della

spedizione, fu gravemente ferito da uno schiavo che gli conficcò una picca nel petto. Fu ferito gravemente anche un

altro uomo, e due o tre riportarono ferite leggere. La sfortuna continuava, perché il primo ufficiale della nave spagnola,

costretto dagli schiavi a portarla fuori della baia, ricevette due brutte ferite, una al fianco, un'altra attraverso la coscia,

entrambe da palle di moschetto. Fu ucciso da una palla di moschetto anche uno spagnolo, passeggero a bordo. Non

abbiamo accertato con precisione il numero degli schiavi uccisi, ma riteniamo che siano stati sette, oltre a molti feriti. I

nostri uomini riportarono la nave all'ancora verso le due del mattino del 21, non lontano da dove era già stata. Alle sei

del mattino i due capitani andarono a bordo della nave spagnola, portandosi dietro ceppi e catene, e incatenarono a due

a due tutti gli schiavi sopravvissuti. Lasciarono il nostro secondo ufficiale, Mr. Brown, in carico della nave, con il

cannoniere come ufficiale in seconda e altri otto uomini, accanto ai sopravvissuti dell'equipaggio spagnolo. Il capitano e

il primo ufficiale rimasero a bordo della nostra nave, quest'ultimo perché sarebbe stato meglio assistito a bordo della

nostra nave che a bordo della sua. Alle nove del mattino i due capitani ritornarono sulla nave spagnola, dopo aver

sistemato, a loro avviso, ogni cosa.

«Il capitano spagnolo allora ci raccontò come fosse stato costretto dagli schiavi a dire di provenire da Buenos

Ayres e di essere diretto a Lima; ci confermò che non veniva da Buenos Ayres, ma che lo scorso 20 dicembre era

salpato da Valparaiso per Lima con circa settanta schiavi a bordo; che il 26 dicembre gli schiavi si erano sollevati e,

impadronitisi della nave, avevano messo a morte diciotto bianchi e altri sette li avevano gettati in mare in momenti

successivi; che gli schiavi gli avevano ingiunto di andare in Senegal; che era rimasto al largo fino a quando non si era

esaurita l'acqua e che si era diretto verso questo porto per farne riserva e anche con l'intenzione di salvare la vita propria

e della sua gente, se possibile, fuggendo dalla nave con la scialuppa».

Aggiungerò qui alcuni particolari per conto mio, attingendo al diario di bordo...

Il pomeriggio del 19, prima di notte, mandai il nostromo con la grossa barca e la scorticaria a pescare; ritornò

di notte ma con poco pesce, osservando che la mattina sarebbe stata più propizia, se ci fossimo andati sul presto. Gli

dissi di andare all'ora che riteneva opportuna, e di conseguenza egli partì alle quattro. Intorno all'alba l'ufficiale che

comandava il ponte venne da me, che ero nella cuccetta, a dirmi che una vela stava doppiando la punta sud o capo

dell'isola. Mi alzai immediatamente, raggiunsi il ponte e osservai che rasentava troppo la terra, tenendo conto di una

scogliera sommersa presso la punta; nello stesso tempo feci notare ai miei uomini che era una nave straniera e che non

capivo bene le sue intenzioni. Alcuni di loro dissero di non conoscerla e di non sapere che cosa facesse, ma che era

consuetudine issare i colori della nave nell'entrare in un porto. Ordinai di preparare la lancia e l'equipaggio, e così fu

fatto. Presumendo che la nave venisse dall'alto mare e fosse in navigazione da molti giorni, senza forse cibo fresco,

imbarcammo il pesce pescato la notte prima, per eventualmente offrirlo. Quando tutto fu pronto, poiché temevo che la

nave fosse in pericolo, ci affrettammo al massimo a raggiungerla per impedirle di finire nella secca, ma prima che

l'accostassimo, il vento cambiò e la nave cominciò a filare bene. Raggiunsi la fiancata e vidi che i ponti erano pieni di

schiavi. Non appena fui sul ponte, il capitano, l'ufficiale, la gente, gli schiavi mi si affollarono intorno, raccontandomi la

loro storia e le loro traversie, il che non poteva non commuovermi sulle loro sofferenze. Mi dissero di non avere acqua,

come risulta dai vari resoconti e dalle deposizioni. Dopo aver promesso di sopperire a tutte le necessità, ordinai di issare

a bordo il pesce e rispedii la baleniera alla nostra nave con l'ordine di caricare sulla scialuppa grande, non appena fosse

tornata dalla pesca, tutti i barili, riempirli d'acqua e portarli lì il prima possibile per soccorrere quella gente. Ordinai che

la lancia piccola portasse il pesce pescato dalla scialuppa grande, il pane che era stato fatto, alcune zucche, un po' di

zucchero, sidro in bottiglia, e di ritornare senza indugio. La baleniera mi lasciò a bordo della nave spagnola, si

allontanò, eseguì gli ordini e fu di ritorno verso le undici. A mezzogiorno arrivò la scialuppa grande con l'acqua che io

stesso fui costretto a distribuire per impedire che gli uomini ne bevessero troppa e si facessero del male. In un primo

tempo diedi un quarto di pinta a ciascuno, un'ora dopo distribuii mezza pinta, e alla terza ora una pinta. Dopo di che

permisi loro di bere a piacimento. Mi consideravano tutti un benefattore, e io, ingannato su di loro, feci ogni possibile.gentilezza. Se non fosse stato così, sarei caduto vittima nelle loro mani. È stata per me una grande fortuna che, in

quell'occasione, il mio stato d'animo fosse particolarmente ben disposto. Le evidenti sofferenze di quanti mi

circondavano avevano ammorbidito i miei sentimenti volgendoli in pietà altrimenti, senza dubbio, la mia interferenza in

alcune delle loro discussioni mi sarebbe costata la vita. Il capitano spagnolo aveva perso molta della sua autorità sugli

schiavi, che pareva temere e non era disposto a contraddire. Un esempio di questo atteggiamento fu quello dei quattro

ragazzi di cabina, citati dal capitano. Stavano mangiando insieme ai ragazzi schiavi sul ponte principale, quando (come

mi venne riferito in seguito) gli spagnoli, nutrendo qualche speranza di essere liberati e non abbastanza prudenti da stare

zitti, si lasciarono sfuggire qualche parola sulle loro attese, che fu capita dai ragazzi schiavi. Uno di loro colpì con il

coltello un ragazzo spagnolo in testa, facendogli un taglio profondo fino all'osso e lungo quattro pollici. Avendo visto

questo fatto, chiesi che cosa significasse. Il capitano rispose che si trattava soltanto di giochi di ragazzi che litigavano

fra loro. Gli dissi che si trattava di un gioco piuttosto serio, perché la ferita aveva fatto perdere al ragazzo un quarto di

gallone di sangue. Su numerosi altri esempi di comportamento riottoso che, a mio modo di vedere, esigevano immediata

reazione e punizione, si passò sopra con ammiccamenti d'intesa. Mi sentivo tuttavia disposto a fare concessioni, pur

davanti a un comportamento così grave, pensando che gli uomini fossero afflitti dalla fatica e dalla lunga sofferenza.

Il comportamento del negro, costantemente al fianco di don Benito e al mio, in qualsiasi altro momento mi

avrebbe irritato, e, per quanto fossi sorpreso che il comandante gli permettesse tanta libertà, non avanzai rimostranze,

finché non mi parve seccante. Desideravo discutere con il capitano da solo, e siccome, al solito, il negro ci seguì in

cabina, chiesi al capitano di mandarlo sul ponte, in quanto avremmo discusso di affari che era inopportuno trattare alla

presenza di una terza persona. Parlavo in spagnolo, e il negro mi capiva. Il capitano mi assicurò che la sua presenza non

sarebbe stata di intralcio, che ne aveva fatto il proprio compagno e confidente, dopo aver perso tanti uomini e ufficiali.

Me lo aveva già presentato come capitano degli schiavi, e mi disse che manteneva l'ordine fra loro. Rimasi solo sulla

nave per tre o quattro ore durante l'assenza della lancia, e in questo periodo la nave andò alla deriva con la corrente fino

a tre leghe dalla mia, quando da sud-est si levò la brezza. Erano circa le quattro del pomeriggio. Portammo la nave il più

vicino possibile alla Perseverance, attenti a non collidere. Dopo che la nave spagnola fu all'ancora, invitai il capitano a

venire a bordo della mia nave per prendere un tè o un caffè con me. La sua risposta fu laconica e riluttante, e la sua aria

assai diversa da quella di quando aveva ricevuto aiuto. Poiché ero perplesso nel dare una spiegazione di tale mutamento

e sapevo di non esserne la causa, convinto che mi avesse volutamente trascurato, io stesso mi feci meno socievole e

parlai poco con lui. Dopo aver dato l'ordine di preparare la mia imbarcazione, mentre mi avvicinavo al fianco della nave

per salire sulla lancia, don Benito mi raggiunse, mi strinse cordialmente la mano e mi parve sentisse il peso della

freddezza con cui avevo reagito. Avevo commesso un errore ad attribuire la sua apparente freddezza a indifferenza, e

non appena me ne resi conto, fui felice di porvi rimedio rinnovando i sensi dell'amicizia. Continuava a tenermi stretta la

mano finché non feci per scendere nel mezzo della nostra scialuppa; allora la lasciò e rimase lì dicendo frasi cortesi.

Quando mi fui seduto nella lancia ed ebbi ordinato di staccarci, mentre gli uomini alzavano i remi, l'imbarcazione si

scostò per lasciare spazio di manovra. Quando i remi si abbassarono, il capitano spagnolo, con mio grande stupore, saltò

nel mezzo della nostra scialuppa. Non appena si fu un po' ripreso, si mise a gridare con voce così allarmante che non

riuscii a capirlo, mentre in quel momento vedemmo i marinai spagnoli saltare in mare e nuotare nella nostra direzione.

Eravamo attoniti. L'ufficiale che era con me con ansia cercava di capire il significato di quanto accadeva. Sorridendo gli

dissi che non lo sapevo e non mi interessava, ma ritenevo che il capitano volesse far credere ai suoi che noi

intendevamo portarlo via. In quel momento uno dei miei marinai portoghesi mi parlò e mi fece capire quello che diceva

don Benito. Chiesi al capitano di venire a poppa, di sedersi accanto a me e di riferirmi tutta la faccenda con calma. Nel

frattempo la lancia raccoglieva gli uomini che erano saltati dalla nave. Ne raccolse tre (lasciando uno solo in acqua,

finché io e il capitano spagnolo non fummo a bordo della mia nave), quando il mio ufficiale mi comunicò che il cavo

era stato tagliato e che la nave spagnola si stava muovendo. Chiamai la Perseverance, ordinando di aprire i portelli e far

uscire i cannoni il prima possibile. Ci portammo con tutta velocità a bordo, quindi rimandammo indietro la lancia a

raccogliere l'ultimo uomo in mare, che riuscimmo a salvare.