Intervista con Renato Ruggero (Inverno 97/98)

di Pietro Zullino

Tratto dalla Rivista Telema (http://www.fub.it/telema/)

edita da Fondazione Ugo Bordoni

Per gentile concessione.

C'è ricchezza per tutti ma chi si ferma è perduto.

L'italiano arrivato al vertice dell'organizzazione che regola il commercio mondiale (la Wto) descrive le straordinarieopportunità aperte dalla nuova era, quella dell'economia senza frontiere. Ed è molto ottimista: anche i paesi finora aimargini del progresso industriale potranno trarne grandi vantaggi. 

L'ambasciatore Renato Ruggiero, "l'italiano di maggior successo nel mondo", dirige la World trade organization (Wto), che hasede a Ginevra ed è in un certo senso l'Organizzazione delle nazioni unite del commercio mondiale. Egli si dedica a unpaziente e delicato lavoro di tessitura di accordi multilaterali intesi ad avvicinare le politiche commerciali e unificare imercati attraverso il progressivo smantellamento delle barriere agli scambi internazionali. Si trova, quindi, ben dentro lacisterna pensante che progetta e favorisce l'integrazione del sistema economico mondiale. Ed è personalmente convinto cheliberalizzare il commercio significhi non soltanto favorire la creazione di ricchezza ma anche promuovere la pace e la tuteladei diritti umani su tutto il pianeta. Ruggiero è stato in precedenza ambasciatore, alto dirigente industriale e ministrodella Repubblica: il suo colloquio con Telèma muove da un argomento imbarazzante, il ritardo italiano nel raccogliere ladifficile ma inevitabile sfida posta dalla globalizzazione.

Per rendere più efficace il suo pensiero lei usò una volta questa similitudine: «L'Italia è come una vecchia marchesa durad'orecchio, la quale non si accorge che sotto le sue finestre sta passando la rivoluzione». E' sempre dello stesso avviso?

Temo in effetti che la vecchia marchesa non abbia ancora messo l'apparecchio acustico. Nel nostro paese tutto si fa meno cheaffrontare in modo serio le conseguenze derivanti dalla formazione di un nuovo sistema economico di dimensione mondiale.L'intero pianeta si è dotato di nuove regole negoziate e accettate da tutti, ma la sostanza di queste nuove regole non vienesufficientemente spiegata in Italia e un argomento di così grande importanza per il nostro futuro rimane confinato tra pochispecialisti anziché diventare materia di comune riflessione.

Gli italiani non rimarrebbero indifferenti se sapessero che il nostro sistema produttivo corre il rischio di precipitare alivelli che una volta si definivano da Terzo mondo? E' questo il punto?

I giovani e le famiglie italiane sarebbero certamente sensibilizzati se ricevessero un segnale forte e chiaro. Un segnale chenon si limiti a elencare i rischi della globalizzazione ma si riferisca anche alle grandi opportunità che ne derivano. Chinon spiega chiaramente questo si rende responsabile di un deficit di speranza per l'intera società italiana. Tutte le volteche torno in Italia sento un clima di apatia, come se la gente non avesse più fiducia nel futuro; mentre in altri paesiincontro una grande ricchezza d'iniziative. Se non c'è attenzione, se c'è insensibilità verso ciò che succede nel mondo,allora vuol dire che il messaggio politico che si dà ai cittadini è del tutto inadeguato alle sfide del presente. E questainadeguatezza va addebitata anzitutto alle classi dirigenti e ai mass media, i quali non riescono a superare un'otticaconsolidata e terribilmente provinciale. Bisogna cambiare il messaggio per ridare speranza alla gente. 

Brutta abitudine della nostra classe politica quella di restare "locale" e chiusa all'interno di vecchi schemi. Questo è peròanche un paese di vecchi e di malati, ambasciatore Ruggiero, mentre l'interesse di una società al proprio futuro èdirettamente proporzionale al proprio tasso d'incremento demografico. Come si dice? La speranza vive nei figli e per i figli.

Quando saremo stati ripopolati un'altra volta da balcanici, asiatici e africani, forse torneremo svegli...Intanto per l'Italia si sta facendo tardi. Tardi quanto? Giudicate voi. Blair, il primo ministro britannico, ha invitato BillGates a collaborare con il suo piano di collegare a Internet, nei prossimi quattro anni, tutte le trentaduemila scuole delRegno Unito, fornendo adeguata assistenza per gli stessi insegnanti. Subito dopo Londra, Bill Gates è andato in Svizzera,dove il governo entro quattro anni fornirà alle scuole dieci-dodicimila computer. Attenzione: è così che si crea nuovaoccupazione ed è così, ad esempio, che si imprimerebbe una svolta al nostro Mezzogiorno, superando le vecchie distinzioni fraNord e Sud. Giustamente Jean François Richard, della Banca Mondiale, afferma che oggi si deve distinguere solo tra paesi eregioni che accettano la sfida della tecnologia e paesi e regioni che restano indietro; tra paesi veloci e paesi lenti; paesiche apprendono rapidamente e paesi che non apprendono; paesi in sintonia con il mercato e paesi tagliati fuori dall'economiaglobale; paesi pienamente affidabili e paesi inaffidabili. 

Una domanda di repertorio, che certo lei si aspetta: è proprio tutto oro ciò che luccica nella globalizzazione?

Certo, il cammino che abbiamo intrapreso porta nel breve periodo a ingigantire disuguaglianze, contrasti, lacerazioni. Maalla fine i perdenti saranno soltanto coloro che hanno rifiutato la sfida. Le nuove distinzioni non tengono conto del livellodi sviluppo attuale di un paese. Intere popolazioni dell'Africa e dell'Asia stanno passando d'un balzo dall'età della pietra,o quasi, all'età del computer: il che significa che se un paese anche a forte industrializzazione (un paese ad esempio comel'Italia) non compie il necessario aggiustamento, esso potrà rapidamente perdere il suo attuale vantaggio. La rivoluzioneinformatica ha già mostrato di avere un impatto significativo sulla crescita economica e la creazione di nuovi posti dilavoro. Negli Stati Uniti, nel 1996, i posti di lavoro nei settori a tecnologia avanzata hanno contribuito dal 20 al 25% allacrescita dei salari reali e dei redditi, mentre il contributo di questi stessi settori al prodotto interno lordo ha raggiuntoi 420 miliardi di dollari con un aumento del 15% rispetto all'anno precedente.

Eppure è innegabile che l'opinione pubblica italiana stia prendendo coscienza di quel che significa unità economicadell'Europa, e di quanti sacrifici siano necessari per tenere il passo.

Certo, l'opinione pubblica sta prendendo coscienza di quel che significa unità economica dell'Europa. Ma con questo non siamoche a un primo passo. In un'era di integrazione globale, l'Unione europea si troverà di fronte a dilemmi che solo dieci annifa non poteva neanche immaginare. E, con lei, tutte le unioni doganali e le zone di libero scambio che in varie parti delmondo l'hanno presa a modello, vedi Nafta o Mercosur. Intendiamoci, le unioni regionali non cessano di rappresentare un fattovigorosamente evolutivo rispetto alle vecchie ottiche nazionali, ma possono anche rivelarsi strumenti antagonisti rispettoalla realtà emergente di un'economia senza frontiere di dimensione mondiale. In altri termini, se i gruppi di paesi che fannoparte di entità regionali commetteranno l'errore di considerarsi delle supernazioni (ricorda l'idea della "fortezza Europa"?)fatalmente si riprodurranno limiti e tensioni del passato: nuove barriere doganali, nuovi protezionismi, persino nuoveguerre... C'è una frase che io trovo particolarmente significativa e che spiega la valenza politica dei sistemi commerciali,la frase che dice: «Se le merci non possono liberamente attraversare le frontiere, lo faranno i soldati».

In una conferenza dedicata ai parlamentari italiani, tenuta di recente in una sala del Senato, lei ha messo un accento moltoparticolare sull'espressione "economia senza frontiere", come se questa significasse qualcosa di più della "globalizzazione"dei mercati. E' soltanto una nostra impressione o è proprio così? 

Confermo: siamo già oltre la globalizzazione dei mercati. La globalizzazione era in atto anche prima che grazie ai progressidelle nuove tecnologie digitali si creasse questo nuovo scenario. L'economia mondiale ha attraversato due fasi di svilupponegli ultimi cinquant'anni, l'internazionalizzazione e la globalizzazione; ora sta entrando in una terza fase, quella appuntodella scomparsa delle frontiere. Ciascuna delle due prime fasi ha segnato un lungo passo verso l'avvento di un mercatocompletamente libero. La fase dell'economia internazionale fu un periodo caratterizzato dalla crescita degli scambicommerciali in un gruppo di sistemi produttivi interdipendenti ma ancora prevalentemente nazionali (che cioè producevanosoprattutto per il mercato interno). Un dato, per capirci: nel 1950 solo il 7% del prodotto mondiale era oggetto di scambicommerciali tra paesi. L'import-export era costituito per lo più da materie prime o da manufatti, mentre gli investimentiall'estero si limitavano essenzialmente alla costituzione di società affiliate o di sedi operanti all'interno di economienazionali ancora fortemente protette...

Qui ci vuole un chiarimento: per noi profani il commercio con l'estero è una confusa nèbula, mentre voi iniziati distinguetemolto attentamente tra l'import-export di materie prime, semilavorati e prodotti finiti, cioè quello che chiamate "scambi", ela vendita di cose fabbricate all'estero in prossimità dei mercati che dovranno assorbirle. Faccio un esempio: se io bevo inItalia una certa bibita dal nome esotico, probabilmente non bevo un prodotto importato, ma il prodotto di una fabbricacostruita nel mio paese con un investimento fatto in Italia da stranieri. Ed è appunto ciò che voi chiamate "investimenti". 

Esattamente. In seguito, a partire dagli anni Settanta e in modo ancora più dinamico negli anni Ottanta, l'economia mondialeè entrata nella fase definita della globalizzazione. Il rapido sviluppo delle tecnologie dell'informazione e dellacomunicazione, la sostanziale diminuzione dei costi di trasporto e la progressiva riduzione dei dazi e di altri ostacolihanno consentito a molte imprese di meglio articolare i propri processi di produzione. Esse hanno distribuito le variecomponenti di questi processi fra diversi paesi. E' stata l'epoca delle società multinazionali, che appunto, come haricordato lei, andavano a fabbricare, a produrre in prossimità dei mercati su cui volevano competere. Oggi le vendite dellefiliali delle multinazionali superano il valore del tradizionale commercio di materie prime e manufatti, ossia più di 6.000miliardi di dollari l'anno. Il valore degli scambi tradizionali è salito dal 7% del 1950 al 22% della produzione mondiale. Mal'import-export non è più l'unico mezzo per scambiare prodotti e servizi attraverso i confini: il mezzo alternativo, quellodegli investimenti all'estero, si è triplicato in dieci anni fino a raggiungere un valore di 3.000 miliardi di dollari, èdiventato una forza di integrazione ancora più efficace ed è la principale caratteristica della fase della globalizzazione.Oggi stiamo entrando nella terza fase, l'economia senza frontiere ...

E cioè l'economia globalizzata a cui si aggiunge una dimensione in cui dominano in assoluto le tecnologie digitali e leinfrastrutture della comunicazione? 

Esattamente. Migliaia di chilometri di cavi in fibra ottica collegano tra loro i continenti; miliardi di onde radioattraversano a ogni istante l'atmosfera del nostro pianeta; ventiquattr'ore su ventiquattro questa infrastruttura globaleveicola in tempo reale contratti commerciali, transazioni monetarie e informazioni di ogni tipo attraverso fasce orarie,frontiere e culture. Le nuove vie commerciali sono pavimentate da raggi laser e segnali via satellite che non trasportano piùspezie o seta, ma tecnologia e informazioni, per di più a costi decrescenti. Una telefonata intercontinentale oggi si pagal'1,5% di quanto si pagava sessant'anni fa e la Banca mondiale stima che intorno al 2010 stare sulla linea costerà trecentesimi di dollaro al minuto: cinquanta lire!

Le telecomunicazioni saranno praticamente un bene libero... 

Anche la tecnologia informatica va riducendo i suoi costi in modo sostanziale ed è ormai accessibile a una utenza di massa.Oggi 55 milioni di persone in tutto il mondo hanno accesso a Internet e la crescita è tale che nel 2000 potrebbero essere 550milioni: oltre il 10% della popolazione mondiale. E Internet non è il solo mezzo disponibile di comunicazione globale. Altretecnologie come la posta elettronica e lo scambio elettronico di dati commerciali e finanziari sono altrettanti vettori diun'economia senza frontiere. La presenza fisica nei mercati esteri in molti casi non è più necessaria; grazie ai microchip,ogni servizio che si presta a essere tradotto in cifre e trasmesso elettronicamente può essere esportato quasi ovunque nelgiro di pochi secondi. Centinaia di migliaia di consumatori già comprano elettronicamente ogni sorta di merce. Programmieducativi, informazioni e prestazioni mediche, servizi forniti da avvocati, architetti e liberi professionisti diventerannopresto attività svolte in un ambiente sempre più competitivo e senza frontiere in cui ogni paese, ogni impresa, ogni ufficioe ogni singolo individuo si muoveranno in un mercato mondiale virtuale. Questo processo sta trasformando il mondo ancor piùradicalmente della stessa crescente globalizzazione degli scambi commerciali e degli investimenti. Oggi la "conoscenza" è unfattore di produzione addirittura più importante di quelli classici: capitale, lavoro, materie prime. 

E, tutto ciò, sembra, con un certo disappunto degli Stati nazionali e anche delle Unioni di Stati, che vedono i lorostrumenti sempre più antiquati e inadatti al controllo dei fatti economici e politici che coinvolgono i cittadini, perchémolti di questi fatti non avvengono più sul territorio, ma in un "altrove" virtuale, sulla rete. E' qui che la tecnologiadiventa politica?

Per adesso possiamo dire soltanto che gli effetti della rivoluzione in atto vanno oltre la produttività e che sono effetti,questo sì, in larga misura politici. Plasmano un nuovo rapporto tra economie avanzate ed economie in via di sviluppo; esigononuovi contratti fra governi e cittadini e nuovi legami tra i popoli; trascendono culture, classi sociali, nazionalità...Nessuno può ancora prevedere con sicurezza dove cambiamenti strutturali di tale portata ci potranno condurre. E' chiaro peròche una nuova economia basata in gran parte sulla conoscenza e la disponibilità di informazioni - libera, nello stesso tempo,da quasi tutti i limiti imposti dalle distanze, dal tempo e dalla scarsità delle risorse - non può che aggiungere una nuovadimensione all'integrazione economica: una dimensione, appunto, "senza frontiere" e tale da imprimere un'ulterioreaccelerazione allo sviluppo in gran parte del mondo.

Da cosa riconosceremo un'economia senza frontiere? Quale ne sarà il "segno"? Quali saranno le sue principali caratteristiche? 

La prima sarà che fattori geografici, temporali e confini nazionali influiranno molto poco sulle scelte economiche. Unaccresciuto quadro di concorrenza e competitività andrà a tutto vantaggio dei consumatori, nonché delle piccole e medieimprese e degli artigiani, anche di tanti paesi in via di sviluppo che oggi non hanno quasi nessuna possibilità di competeresul mercato mondiale. Di conseguenza si porranno seri quesiti di politica economica ai governi nazionali: da una battagliasulle norme di origine alla applicazione di regolamenti e standard, alla tassazione di operatori e consumatori operanti nelmercato elettronico. Questo sarà il segnale che "ci siamo". Altra caratteristica fondamentale sarà che, costituendol'informazione, in sempre maggior misura, la risorsa strategica e la forza trainante dell'integrazione, sarà lei la chiavedel successo, per chiunque. Ripeto: questa economia basata sull'informazione è completamente diversa dalla tradizionaleeconomia basata su terra, lavoro e capitale. Non è necessariamente legata ad alcuna area geografica o ad alcun paesespecifico, ma è mobile. E può essere sviluppata ovunque, tra gruppi e persone che risiedono in punti diversi del pianeta. 

L'economia senza frontiere, rispetto a paesi o aree geografiche che comunque continueranno a esistere, sarà un fattore diuguaglianza o un fattore divaricante?

Potenzialmente un fattore di uguaglianza, nel senso che la diffusione della tecnologia tende a creare ovunque le famose pariopportunità. Bill Gates prevede l'avvento di un'era di «capitalismo senza contrasti», intendendo che il libero accessoall'informazione ci condurrà vicini a un "mercato perfetto", cioè a un mercato esente dai tradizionali difetti del sistema.Per esempio molte comunità oggi arretrate salteranno intere fasi dello sviluppo per accedere direttamente all'ultimagenerazione della telefonia senza fili, evitando persino gli alti costi necessari a costruire una infrastruttura di cavi.Oggi l'80% della popolazione mondiale non è ancora in grado di fare una telefonata; ma nel giro di pochi anni tutti avrannola possibilità di accedere non solo alle tecnologie disponibili, ma anche a programmi educativi, a servizi medici, ainformazioni d'ogni tipo. I baricentri della ricchezza fluttueranno. Siamo già testimoni di un importante spostamento dipotere economico verso il Sud e l'Est del mondo, uno spostamento che sta avendo, sulla politica globale, conseguenzeparagonabili a quelle generate dalla caduta del Muro di Berlino. La Banca mondiale stima che i paesi in via di sviluppomanterranno una crescita media del 5,5% annuo da oggi al 2020, più o meno il doppio di quella prevista per i paesiindustrializzati, e che i paesi in via di sviluppo a quell'epoca avranno una quota del 30% del prodotto globale: grandiprotagonisti di questa rincorsa saranno la Cina (che raddoppia il reddito pro capite dei suoi abitanti ogni nove anni) e poiIndia, Indonesia, Brasile, Russia e molti altri paesi anche africani. Tutto ciò permette una contestuale riduzione dellapovertà, che secondo studi delle Nazioni unite è diminuita in questi ultimi cinquant'anni più che nel mezzo millennioprecedente; la mortalità infantile si è dimezzata, la malnutrizione è scesa di un terzo; ovunque sono in netto aumento lespese per l'istruzione e la sanità. Ma il detto «aiutati che Dio ti aiuta» resta più che mai valido. La globalizzazionefavorirà soltanto coloro che avranno voglia di darsi da fare. 

Niente più rendite di posizione, insomma, e niente più illusioni di potersi pigramente godere i frutti dell'eredità ricevutadai padri e dai nonni. Ed eccoci a un'altra domanda di repertorio: sarà più divertente un mondo veramente globalizzato, eperciò omogeneizzato, massificato? 

Per carità! La globalizzazione non è, non deve essere, non sarà un processo di omogeneizzazione, di massificazione. Laglobalizzazione garantisce anzi la multiformità, le specificità culturali, le tradizioni, le nicchie produttive. Ladimensione mondiale di cui parlo è data dall'interdipendenza crescente di tutti i paesi, e non già dall'appiattimento degliuni sugli altri. Guai! Dobbiamo spingere senza esitazioni laddove il processo avrà certamente effetti positivi: la scienza,l'informazione, la medicina, gli standard tecnici, la formazione professionale. Ma le identità culturali devono rafforzarsi. Altro che scomparire!