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GIOVANNI PAOLO II
DONO E MISTERO Nel 50°
del mio sacerdozio
Ho vivo nella memoria il gioioso incontro che, su iniziativa della
Congregazione per il Clero, si svolse in Vaticano nell'autunno dello
scorso anno (27 ottobre 1995), per celebrare il 30° anniversario del
Decreto conciliare Presbyterorum ordinis. Nel clima festoso di
quell'assemblea diversi sacerdoti parlarono della loro vocazione, ed
anch'io offersi la mia testimonianza. Mi sembrò infatti bello e
fruttuoso che tra sacerdoti, al cospetto del popolo di Dio, ci si rendesse
questo servizio di reciproca edificazione.
Le parole da me dette in quella circostanza ebbero un'eco piuttosto
vasta. La conseguenza fu che da varie parti mi si chiese con insistenza di
tornare ancora, e più ampiamente, in occasione del Giubileo
sacerdotale, sul tema della mia vocazione.
Confesso che la proposta, sulle prime, suscitò in me qualche
comprensibile resistenza. Ma successivamente ritenni doveroso accogliere
l'invito, vedendo in ciò un aspetto del servizio proprio del ministero
petrino. Stimolato da alcune domande del Dr. Gian Franco Svidercoschi, che
hanno fatto da filo conduttore, mi sono abbandonato con libertà all'onda
dei ricordi, senza alcun intento strettamente documentario.
Quanto qui dico, al di là degli eventi esteriori, appartiene alle
mie radici profonde, alla mia esperienza più intima. Lo ricordo
innanzitutto per rendere grazie al Signore. «Misericordias Domini in
aeternum cantabo!». Lo offro ai sacerdoti e al popolo di Dio come
testimonianza di amore.
I
AGLI INIZI .... IL MISTERO!
La storia della mia vocazione sacerdotale? La conosce soprattutto Dio.
Nel suo strato più profondo, ogni vocazione sacerdotale è un grande
mistero, è un dono che supera infinitamente l'uomo. Ognuno di
noi sacerdoti lo sperimenta chiaramente in tutta la sua vita. Di fronte
alla grandezza di questo dono sentiamo quanto siamo ad esso
inadeguati.
La vocazione è il mistero dell'elezione divina: «Non voi avete
scelto me, ma io ho scelto voi e vi ho costituiti perché andiate e
portiate frutto e il vostro frutto rimanga» (Gv 15, 16). «E nessuno
può attribuirsi questo onore, se non chi è chiamato da Dio, come Aronne»
(Eb 5, 4). «Prima di formarti nel grembo materno, ti conoscevo;
prima che tu uscissi alla luce ti avevo consacrato; ti ho stabilito
profeta delle nazioni» (Ger 1, 5). Queste parole ispirate non
possono non scuotere con un profondo tremore ogni anima sacerdotale.
Per questo, quando nelle più diverse circostanze — per esempio, in
occasione dei Giubilei sacerdotali — parliamo del sacerdozio e ne diamo
testimonianza, dobbiamo farlo con grande umiltà, consapevoli che Dio «ci
ha chiamati con una vocazione santa, non già in base alle nostre opere, ma
secondo il suo proposito e la sua grazia» (2 Tm 1, 9).
Contemporaneamente ci rendiamo conto che le parole umane non sono in
grado di reggere il peso del mistero che il sacerdozio porta in
sé.
Questa premessa mi è sembrata indispensabile, perché si possa
comprendere in modo giusto quello che dirò del mio cammino verso il
sacerdozio.
I primi segni della vocazione
L'Arcivescovo Metropolita di Cracovia, Principe Adam Stefan Sapieha,
visitò la parrocchia di Wadowice quando ero studente di ginnasio. Il mio
insegnante di religione, P. Edward Zacher, mi affidò il compito di
porgergli il benvenuto. Ebbi allora per la prima volta l'occasione di
trovarmi di fronte a quell'uomo molto venerato da tutti. So che, dopo il
mio discorso, l'Arcivescovo domandò all'insegnante di religione quale
facoltà avrei scelto dopo la maturità. P. Zacher rispose: «Studierà
Filologia polacca». Il Presule avrebbe risposto: «Peccato che non sia la
teologia».
In quel periodo della mia vita la vocazione sacerdotale non era
ancora matura, anche se intorno a me non pochi erano del parere che
dovessi entrare in seminario. E forse qualcuno avrà supposto che, se un
giovane con così chiare inclinazioni religiose non entrava in seminario,
era segno che in gioco v'erano altri amori o predilezioni. Di fatto, a
scuola avevo molte colleghe e, impegnato com'ero nel circolo teatrale
scolastico, avevo svariate possibilità di incontri con ragazzi e ragazze.
Il problema tuttavia non era questo. In quel periodo ero preso soprattutto
dalla passione per la letteratura, in particolare per quella
drammatica, e per il teatro. A quest'ultimo m'aveva iniziato
Mieczyslaw Kotlarczyk, insegnante di lingua polacca, più avanti di me
negli anni. Egli era un vero pioniere del teatro dilettantistico e
coltivava grandi ambizioni di un repertorio impegnato.
Gli studi all'Università Jaghellonica
Nel maggio 1938, superato l'esame di maturità, mi iscrissi
all'Università per seguire i corsi di Filologia polacca. Per questo motivo
mi trasferii insieme con mio padre da Wadowice a Cracovia. Ci sistemammo a
via Tyniecka 10, nel quartiere di Debniki. La casa apparteneva ai parenti
di mia madre. Intrapresi gli studi alla Facoltà di Filosofia
dell'Università Jaghellonica, seguendo i corsi di Filologia polacca,
ma riuscii a finire soltanto il primo anno, perché il 1° settembre 1939
scoppiò la seconda guerra mondiale.
A proposito degli studi, desidero sottolineare che la mia scelta della
Filologia polacca era motivata da una chiara predisposizione verso la
letteratura. Tuttavia, già durante il primo anno, attirò la mia attenzione
lo studio della lingua stessa. Studiavamo la grammatica descrittiva
del polacco moderno ed insieme l'evoluzione storica della lingua, con un
particolare interesse per il vecchio ceppo slavo. Questo mi introdusse in
orizzonti completamente nuovi, per non dire nel mistero stesso della
parola.
La parola, prima di essere pronunciata sul palcoscenico, vive nella
storia dell'uomo come dimensione fondamentale della sua esperienza
spirituale. In ultima analisi, essa rimanda all'imperscrutabile mistero
di Dio stesso. Riscoprendo la parola attraverso gli studi letterari e
linguistici, non potevo non avvicinarmi al mistero della Parola, di quella
Parola a cui ci riferiamo ogni giorno nella preghiera dell'Angelus:
«E il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi» (Gv 1,
14). Capii più tardi che gli studi di Filologia polacca preparavano in me
il terreno per un altro genere di interessi e di studi. Predisponevano il
mio animo ad accostarsi alla filosofia e alla teologia.
Lo scoppio della seconda guerra mondiale
Ma torniamo al 1° settembre 1939. Lo scoppio della guerra cambiò in
modo piuttosto radicale l'andamento della mia vita. In verità i professori
dell'Università Jaghellonica tentarono di avviare ugualmente il nuovo anno
accademico, ma le lezioni durarono soltanto fino al 6 novembre 1939. In
quel giorno le autorità tedesche convocarono tutti i professori in
un'assemblea che si concluse con la deportazione di quei rispettabili
uomini di scienza nel campo di concentramento di Sachsenhausen. Finiva
così nella mia vita il periodo degli studi di Filologia polacca e
cominciava la fase dell'occupazione tedesca, durante la quale
inizialmente tentai di leggere e di scrivere molto. Proprio a quell'epoca
risalgono i miei primi lavori letterari.
Per evitare la deportazione ai lavori forzati in Germania, nell'autunno
del 1940 cominciai a lavorare come operaio in una cava di pietra
collegata con la fabbrica chimica Solvay. Si trovava a Zakrzówek, a circa
mezz'ora dalla mia casa di Debniki, ed ogni giorno vi andavo a piedi. Su
quella cava scrissi poi una poesia. Rileggendola dopo tanti anni, la trovo
ancora particolarmente espressiva di quella singolare esperienza:
«Ascolta, il ritmo uguale dei martelli, così noto, io lo proietto
negli uomini, per saggiare la forza d'ogni colpo. Ascolta, una scarica
elettrica taglia il fiume di pietra, e in me cresce un pensiero, di
giorno in giorno: tutta la grandezza del lavoro è dentro
l'uomo...». (La cava di pietra: I, Materia, 1)
Ero presente quando, durante lo scoppio d'una carica di dinamite, le
pietre colpirono un operaio e lo uccisero. Ne rimasi profondamente
sconvolto:
«Sollevarono il corpo. Sfilarono in silenzio. Da lui ancora emanava
fatica ed un senso d'ingiustizia»... ( La cava di pietra: IV, In
memoria di un compagno di lavoro, 2-3)
I responsabili della cava, che erano polacchi, cercavano di risparmiare
a noi studenti i lavori più pesanti. A me, per esempio, assegnarono il
compito di aiutante del cosiddetto brillatore: si chiamava Franciszek
Labus. Lo ricordo perché, qualche volta, si rivolgeva a me con parole di
questo genere: «Karol, tu dovresti fare il prete. Canterai bene, perché
hai una bella voce e starai bene...». Lo diceva con tutta semplicità,
esprimendo così una convinzione abbastanza diffusa nella società circa la
condizione del sacerdote. Le parole del vecchio operaio mi si sono
impresse nella memoria.
Il teatro della parola viva
In quel periodo rimasi in contatto con il teatro della parola
viva, che Mieczyslaw Kotlarczyk aveva fondato e continuava ad animare
nella clandestinità. L'impegno nel teatro fu all'inizio favorito
dall'avere ospiti in casa mia Kotlarczyk e sua moglie Sofia, che erano
riusciti a passare da Wadowice a Cracovia entro il territorio del
«Governatorato Generale». Abitavamo insieme. Io lavoravo come operaio, lui
inizialmente come tramviere e, in seguito, come impiegato in un ufficio.
Condividendo la stessa casa, potevamo non solo continuare i nostri
discorsi sul teatro, ma anche tentarne attuazioni concrete, che assumevano
appunto il carattere di teatro della parola. Era un teatro molto semplice.
La parte scenica e decorativa era ridotta al minimo; l'impegno si
concentrava essenzialmente nella recitazione del testo poetico.
Le recite avvenivano davanti ad un ristretto gruppo di conoscenti e di
invitati, i quali avevano uno specifico interesse per la letteratura ed
erano, in qualche modo, degli «iniziati». Mantenere il segreto intorno a
questi incontri teatrali era indispensabile; si rischiavano altrimenti
gravi punizioni da parte delle autorità d'occupazione, non esclusa la
deportazione nei campi di concentramento. Devo ammettere che tutta quella
esperienza teatrale mi si è impressa profondamente nell'animo, anche se ad
un certo momento mi resi conto che in realtà non era questa la mia
vocazione.
II
LA DECISIONE DI ENTRARE IN SEMINARIO
Nell'autunno del 1942 presi la decisione definitiva di entrare nel
seminario di Cracovia, che funzionava clandestinamente. Mi accolse il
Rettore, P. Jan Piwowarczyk. La cosa doveva rimanere nel più stretto
riserbo, anche nei confronti delle persone care. Iniziai gli studi presso
la Facoltà teologica dell'Università Jaghellonica, anch'essa clandestina,
continuando intanto a lavorare come operaio alla Solvay.
Durante il periodo dell'occupazione l'Arcivescovo Metropolita sistemò
il seminario, sempre in forma clandestina, presso la sua residenza. Ciò
poteva provocare in ogni momento, sia per i superiori che per i
seminaristi, severe repressioni da parte delle autorità tedesche.
Soggiornai in questo singolare seminario, presso l'amato Principe
Metropolita, dal settembre 1944 e lì potei restare insieme ai miei
colleghi fino al 18 gennaio 1945, il giorno — o meglio la notte — della
liberazione. Fu infatti di notte che l'Armata Rossa raggiunse i dintorni
di Cracovia. I tedeschi in ritirata fecero esplodere il ponte Debnicki.
Ricordo quella terribile detonazione: lo spostamento d'aria infranse tutti
i vetri delle finestre della residenza arcivescovile. In quel momento ci
trovavamo in cappella per una funzione alla quale partecipava
l'Arcivescovo. Il giorno seguente ci affrettammo a riparare i danni.
Debbo però tornare ai lunghi mesi che precedettero la liberazione. Come
ho detto, vivevo con gli altri giovani nella residenza dell'Arcivescovo.
Egli ci aveva presentato fin dall'inizio un giovane sacerdote, che sarebbe
stato il nostro Padre spirituale. Si trattava del P. Stanislaw Smolenski,
laureato a Roma, uomo di grande spiritualità: egli è oggi Vescovo
ausiliare emerito di Cracovia. Padre Smolenski intraprese con noi un
lavoro regolare di preparazione al sacerdozio. Prima avevamo come
superiore soltanto un prefetto nella persona di P. Kazimierz Klósak, che
aveva compiuto gli studi a Lovanio ed era professore di filosofia: per la
sua ascesi e bontà egli suscitava in noi grande stima e ammirazione.
Rispondeva del suo operato direttamente all'Arcivescovo, dal quale
dipendeva, del resto, in modo diretto pure lo stesso nostro seminario
clandestino. Dopo le vacanze estive del 1945 P. Karol Kozlowski,
proveniente da Wadowice, già Padre spirituale del seminario nel periodo
precedente la guerra, fu chiamato a sostituire il P. Jan Piwowarczyk come
Rettore del seminario nel quale aveva trascorso quasi tutta la vita.
Venivano così completandosi gli anni della formazione seminaristica. I
primi due, quelli che nel curriculum degli studi sono dedicati alla
filosofia, li avevo fatti in modo clandestino, lavorando come operaio. I
successivi 1944 e 1945 avevano visto il mio crescente impegno presso
l'Università Jaghellonica, anche se il primo anno dopo la guerra fu ancora
molto incompleto. Normale fu l'anno accademico 1945/46. Alla Facoltà
Teologica ebbi la fortuna di incontrare alcuni eminenti professori, come
P. Wladyslaw Wicher, professore di teologia morale, e P. Ignacy Rózycki,
professore di teologia dogmatica, che mi introdusse alla metodologia
scientifica in teologia. Oggi abbraccio con un pensiero pieno di
gratitudine tutti i miei Superiori, Padri spirituali e Professori, che nel
periodo del seminario contribuirono alla mia formazione. Il Signore
ricompensi i loro sforzi e il loro sacrificio!
All'inizio del quinto anno l'Arcivescovo decise che avrei dovuto
trasferirmi a Roma per completare gli studi. Fu così che, in anticipo sui
miei compagni, fui ordinato sacerdote il 1° novembre 1946.
Quell'anno il nostro gruppo era, naturalmente, poco numeroso: eravamo in
tutto sette. Oggi siamo ancora vivi soltanto in tre. Il fatto di essere in
pochi aveva i suoi vantaggi: permetteva di allacciare legami profondi di
reciproca conoscenza ed amicizia. Questo valeva anche, in qualche modo,
per i rapporti con i Superiori ed i Professori, sia nel periodo della
clandestinità che nel breve periodo degli studi ufficiali
all'Università.
Le vacanze da seminarista
Dal momento in cui presi contatto col seminario s'inaugurò per me un
nuovo modo di trascorrere le vacanze. Fui mandato dall'Arcivescovo
presso la parrocchia di Raciborowice, nei dintorni di Cracovia. Non
posso non esprimere profonda gratitudine al parroco, P. Józef Jamróz, e ai
vicari di quella parrocchia, che divennero compagni di vita di un giovane
seminarista clandestino. Ricordo in particolare P. Franciszek Szymonek,
che più tardi, nel periodo del terrore staliniano, fu accusato e posto
sotto processo con intenzioni dimostrative nei confronti della Curia
arcivescovile di Cracovia: fu condannato a morte. Fortunatamente, dopo un
po' di tempo venne graziato. Ricordo anche P. Adam Biela, un mio collega
più grande del ginnasio di Wadowice. Grazie a questi giovani sacerdoti,
ebbi modo di conoscere la vita cristiana di tutta la parrocchia.
Poco dopo, sul territorio del paese di Bienczyce, che apparteneva alla
parrocchia di Raciborowice, sorse un grande quartiere col nome di Nowa
Huta. Trascorsi lì molti giorni durante le vacanze, sia nel 1944 che nel
1945, a guerra finita. Facevo soste prolungate nella vecchia chiesa di
Raciborowice, che risaliva ancora ai tempi di Jan Dlugosz. Molte ore le
dedicavo alla meditazione passeggiando nel cimitero. Avevo portato a
Raciborowice i miei strumenti di studio: i volumi di San Tommaso con i
commenti. Imparavo la teologia, per così dire, dal «centro» di una grande
tradizione teologica. Cominciai allora a scrivere un lavoro su San
Giovanni della Croce che continuai poi sotto la direzione del P. Prof.
Ignacy Rózycki, docente presso l'Università di Cracovia, non appena questa
fu riaperta. Completai lo studio in seguito all'Angelicum, sotto la
guida del P. Prof. Garrigou Lagrange.
Il Cardinale Adam Stefan Sapieha
Su tutto il nostro itinerario formativo verso il sacerdozio esercitò un
influsso rilevante la grande figura del Principe Metropolita,
futuro Cardinale Adam Stefan Sapieha, cui va il mio ricordo commosso e
grato. Il suo ascendente era accresciuto dal fatto che, nel periodo di
transizione prima della riapertura del seminario, abitavamo nella sua
residenza e lo incontravamo ogni giorno. Il Metropolita di Cracovia fu
elevato alla dignità cardinalizia subito dopo la fine della guerra, in età
piuttosto avanzata. Tutta la popolazione accolse questa nomina come un
giusto riconoscimento dei meriti di quel grande uomo, che durante
l'occupazione tedesca aveva saputo tenere alto l'onore della Nazione,
manifestando la propria dignità in modo chiaro per tutti.
Ricordo quella giornata di marzo — si era in Quaresima — quando
l'Arcivescovo tornò da Roma dopo aver ricevuto il cappello cardinalizio.
Gli studenti sollevarono a braccia la sua macchina e la portarono per un
buon tratto, fin presso la Basilica dell'Assunzione in Piazza del Mercato,
esprimendo in tal modo l'entusiasmo religioso e patriottico che quella
nomina cardinalizia aveva suscitato nella popolazione.
III
INFLUSSI SULLA MIA VOCAZIONE
Ho parlato ampiamente dell'ambiente seminaristico, perché esso fu
certamente quello che ebbe maggior rilievo nella mia formazione
sacerdotale. Allargando tuttavia lo sguardo su un orizzonte più ampio,
vedo con chiarezza che da tanti altri ambienti e persone mi sono venuti
influssi positivi, attraverso i quali Dio mi ha fatto giungere la sua
voce.
La famiglia
La preparazione al sacerdozio, ricevuta in seminario, era stata in
qualche modo preceduta da quella offertami con la vita e l'esempio dai
genitori in famiglia. La mia riconoscenza va soprattutto a mio
padre, rimasto precocemente vedovo. Non avevo ancora fatto la Prima
Comunione quando perdetti la mamma: avevo appena nove anni. Non ho perciò
chiara consapevolezza del contributo, sicuramente grande, che ella dette
alla mia educazione religiosa. Dopo la sua morte e, in seguito, dopo la
scomparsa del mio fratello maggiore, rimasi solo con mio padre, uomo
profondamente religioso. Potevo quotidianamente osservare la sua vita, che
era austera. Di professione era militare e, quando restò vedovo, la sua
divenne una vita di preghiera costante. Mi capitava di svegliarmi di notte
e di trovare mio padre in ginocchio, così come in ginocchio lo vedevo
sempre nella chiesa parrocchiale. Tra noi non si parlava di vocazione al
sacerdozio, ma il suo esempio fu per me in qualche modo il primo
seminario, una sorta di seminario domestico.
La fabbrica Solvay
In seguito, dopo gli anni della prima giovinezza, seminario per me
divennero la cava di pietra e il depuratore dell'acqua nella
fabbrica di bicarbonato a Borek Falecki. E non si trattava più soltanto di
pre-seminario, come a Wadowice. La fabbrica fu per me, in quella
fase della vita, un vero seminario, anche se clandestino. Avevo cominciato
a lavorare nella cava dal settembre 1940; dopo un anno passai al
depuratore dell'acqua nella fabbrica. Furono quelli gli anni in cui maturò
la mia decisione definitiva. Nell'autunno del 1942 intrapresi gli studi
nel seminario clandestino come ex studente di Filologia polacca, al
momento operaio alla Solvay. Non mi rendevo conto allora dell'importanza
che ciò avrebbe avuto per me. Soltanto più tardi, da sacerdote, durante
gli studi a Roma, imbattendomi attraverso i miei compagni del Collegio
Belga nel problema dei preti-operai e nel movimento della Gioventù Operaia
Cattolica (JOC), compresi che quanto era diventato così importante per la
Chiesa e per il sacerdozio in Occidente — il contatto con il mondo del
lavoro — io l'avevo già iscritto nella mia esperienza di vita.
In verità, la mia non fu esperienza di «prete operaio» ma di
«seminarista operaio». Lavorando manualmente, sapevo bene che cosa
significasse la fatica fisica. Mi incontravo ogni giorno con gente che
lavorava pesantemente. Conobbi l'ambiente di queste persone, le loro
famiglie, i loro interessi, il loro valore umano e la loro dignità.
Personalmente sperimentavo molta cordialità da parte loro. Sapevano che
ero studente e sapevano anche che, appena lo avrebbero permesso le
circostanze, sarei tornato agli studi. Non incontrai mai ostilità per
questa ragione. Non dava loro fastidio che portassi al lavoro i libri.
Dicevano: «Noi staremo attenti: tu leggi pure». Questo capitava
soprattutto durante i turni di notte. Dicevano spesso: «Riposati, staremo
di guardia noi».
Feci amicizia con molti operai. A volte mi invitavano a casa
loro. In seguito, come sacerdote e vescovo, battezzai i loro figli e
nipoti, benedissi i matrimoni e officiai i funerali di molti di loro. Ebbi
anche occasione di notare quanti sentimenti religiosi si nascondessero in
loro e quanta saggezza di vita. Questi contatti, come ho accennato,
restarono molto stretti anche quando terminò l'occupazione tedesca e poi
in seguito, praticamente fino alla mia elezione a Vescovo di Roma. Alcuni
di essi durano tuttora in forma di corrispondenza.
La parrocchia di Debniki: i Salesiani
Debbo ancora fare un salto indietro, al periodo che precedette
l'entrata in seminario. Non posso, infatti, omettere di ricordare un
ambiente e, in esso, un personaggio da cui in quel periodo ricevetti
veramente molto. L'ambiente era quello della mia parrocchia,
intitolata a San Stanislao Kostka, a Debniki in Cracovia. La parrocchia
era diretta dai Padri Salesiani, che un giorno furono deportati dai
nazisti nel campo di concentramento. Rimasero soltanto un vecchio parroco
e l'ispettore della provincia, tutti gli altri furono internati a Dachau.
Credo che nel processo di formazione della mia vocazione l'ambiente
salesiano abbia svolto un ruolo importante.
Nell'ambito della parrocchia c'era una persona che si distingueva tra
le altre: parlo di Jan Tyranowski. Di professione era impiegato,
anche se aveva scelto di lavorare nella sartoria di suo padre. Affermava
che il lavoro di sarto gli rendeva più facile la vita interiore. Era un
uomo di una spiritualità particolarmente profonda. I Padri Salesiani, che
in quel difficile periodo avevano ripreso con coraggio ad animare la
pastorale giovanile, gli avevano affidato il compito di intessere contatti
con i giovani nell'ambito del cosiddetto «Rosario vivo». Jan Tyranowski
assolse questo incarico non limitandosi all'aspetto organizzativo, ma
preoccupandosi anche della formazione spirituale dei giovani che entravano
in rapporto con lui. Imparai così i metodi elementari di autoformazione
che avrebbero poi trovato conferma e sviluppo nell'itinerario educativo
del seminario. Tyranowski, che era venuto formandosi sugli scritti di San
Giovanni della Croce e di Santa Teresa d'Avila, mi introdusse nella
lettura, straordinaria per la mia età, delle loro opere.
I Padri Carmelitani
Ciò accrebbe in me l'interesse per la spiritualità carmelitana. A
Cracovia, in via Rakowicka, c'era un monastero di Padri Carmelitani
Scalzi. Li frequentavo e una volta feci presso di loro i miei Esercizi
Spirituali valendomi dell'aiuto di P. Leonardo dell'Addolorata.
Per un certo periodo presi anche in considerazione la possibilità di
entrare nel Carmelo. I dubbi furono risolti dall'Arcivescovo Cardinale
Sapieha, il quale — secondo lo stile che gli era proprio — disse
brevemente: «Bisogna prima finire quello che si è cominciato». E così
avvenne.
Il P. Kazimierz Figlewicz
Nel corso di quegli anni mio confessore e guida spirituale fu P.
Kazimierz Figlewicz. Lo avevo incontrato per la prima volta quando
frequentavo la prima ginnasiale a Wadowice. Padre Figlewicz, che era
vicario della parrocchia, ci insegnava religione. Grazie a lui mi
avvicinai alla parrocchia, diventai chierichetto e in qualche modo
organizzai il gruppo dei chierichetti. Quando egli lasciò Wadowice per la
cattedrale del Wawel, continuai a mantenere i contatti con lui. Ricordo
che, durante la quinta ginnasiale, mi invitò a Cracovia per partecipare al
Triduum Sacrum, che cominciava col cosiddetto «Ufficio delle
Tenebre», nel pomeriggio del Mercoledì Santo. Fu un'esperienza che lasciò
in me una traccia profonda.
Quando, dopo la maturità, mi trasferii con mio padre a Cracovia,
intensificai i miei rapporti col P. Figlewicz, che svolgeva la funzione di
sottocustode della cattedrale. Andavo a confessarmi da lui e, durante
l'occupazione tedesca, spesse volte gli facevo visita.
Quel 1° settembre 1939 non si cancellerà mai più dalla mia memoria: era
il primo venerdì del mese. Mi ero recato al Wawel per confessarmi. La
cattedrale era vuota. Fu, forse, l'ultima volta in cui potei liberamente
entrare nel tempio. Esso fu poi chiuso e il castello reale del Wawel
diventò la sede del governatore generale Hans Frank. Padre Figlewicz era
l'unico sacerdote che poteva celebrare la Santa Messa, due volte alla
settimana, nella cattedrale chiusa e sotto la vigilanza di poliziotti
tedeschi. In quei tempi difficili diventò ancora più chiaro che cosa
significassero per lui la cattedrale, le tombe reali, l'altare di San
Stanislao Vescovo e Martire. Fino alla morte P. Figlewicz rimase fedele
custode di quel particolare santuario della Chiesa e della Nazione,
inculcandomi un grande amore per il tempio del Wawel, che un giorno doveva
diventare la mia cattedrale vescovile.
Il 1° novembre 1946 fui ordinato sacerdote. Il giorno dopo, per la
«prima Santa Messa», celebrata in cattedrale nella cripta di San Leonardo,
P. Figlewicz era accanto a me e mi faceva da guida. Il pio sacerdote è
ormai morto da alcuni anni. Soltanto il Signore può ricambiargli tutto il
bene che ho da lui ricevuto.
Il «filo mariano»
Naturalmente, parlando delle origini della mia vocazione sacerdotale,
non posso dimenticare il filo mariano. La venerazione alla Madre di
Dio nella sua forma tradizionale mi viene dalla famiglia e dalla
parrocchia di Wadowice. Ricordo, nella chiesa parrocchiale, una cappella
laterale dedicata alla Madre del Perpetuo Soccorso, dove di mattina, prima
dell'inizio delle lezioni, si recavano gli studenti del ginnasio. Anche a
lezioni concluse, nelle ore pomeridiane, vi andavano molti studenti per
pregare la Vergine.
Inoltre, a Wadowice, c'era sulla collina un monastero carmelitano, la
cui fondazione risaliva ai tempi di San Raffaele Kalinowski. Gli abitanti
di Wadowice lo frequentavano in gran numero, e ciò non mancava di
riflettersi in una diffusa devozione per lo scapolare della Madonna del
Carmine. Anch'io lo ricevetti, credo all'età di dieci anni, e lo porto
tuttora. Si andava dai Carmelitani anche per confessarsi. Fu così che,
tanto nella chiesa parrocchiale quanto in quella del Carmelo, si formò la
mia devozione mariana durante gli anni dell'infanzia e dell'adolescenza
fino al conseguimento della maturità classica.
Quando mi trovai a Cracovia, nel quartiere Debniki, entrai nel gruppo
del «Rosario vivo», nella parrocchia salesiana. Vi si venerava in modo
particolare Maria Ausiliatrice. A Debniki, nel periodo in cui andava
configurandosi la mia vocazione sacerdotale, anche grazie al menzionato
influsso di Jan Tyranowski, il mio modo di comprendere il culto della
Madre di Dio subì un certo cambiamento. Ero già convinto che Maria ci
conduce a Cristo, ma in quel periodo cominciai a capire che anche
Cristo ci conduce a sua Madre. Ci fu un momento in cui misi in qualche
modo in discussione il mio culto per Maria ritenendo che esso, dilatandosi
eccessivamente, finisse per compromettere la supremazia del culto dovuto a
Cristo. Mi venne allora in aiuto il libro di San Luigi Maria Grignion de
Montfort che porta il titolo di «Trattato della vera devozione alla Santa
Vergine». In esso trovai la risposta alle mie perplessità. Sì, Maria ci
avvicina a Cristo, ci conduce a Lui, a condizione che si viva il suo
mistero in Cristo. Il trattato di San Luigi Maria Grignion de Montfort può
disturbare con il suo stile un po' enfatico e barocco, ma l'essenza delle
verità teologiche in esso contenute è incontestabile. L'autore è un
teologo di classe. Il suo pensiero mariologico è radicato nel Mistero
trinitario e nella verità dell'Incarnazione del Verbo di Dio.
Compresi allora perché la Chiesa reciti l'Angelus tre volte al
giorno. Capii quanto cruciali siano le parole di questa preghiera:
«L'Angelo del Signore portò l'annuncio a Maria. Ed ella concepì per opera
dello Spirito Santo... Eccomi, sono la serva del Signore. Avvenga di me
secondo la tua parola... E il Verbo si fece carne, e venne ad abitare in
mezzo a noi...». Parole davvero decisive! Esprimono il nucleo dell'evento
più grande che abbia avuto luogo nella storia dell'umanità.
Ecco spiegata la provenienza del Totus Tuus. L'espressione
deriva da San Luigi Maria Grignion de Montfort. E l'abbreviazione della
forma più completa dell'affidamento alla Madre di Dio, che suona così:
Totus Tuus ego sum et omnia mea Tua sunt. Accipio Te in mea omnia. Praebe
mihi cor Tuum, Maria.
Così, grazie a San Luigi, cominciai a scoprire tutti i tesori della
devozione mariana da posizioni in un certo senso nuove: per esempio, da
bambino ascoltavo «Le ore sull'Immacolata Concezione della Santissima
Vergine Maria», cantate nella chiesa parrocchiale, ma soltanto dopo mi
resi conto delle ricchezze teologiche e bibliche in esse contenute. La
stessa cosa avvenne per i canti popolari, ad esempio per i canti natalizi
polacchi e le Lamentazioni sulla Passione di Gesù Cristo in Quaresima, tra
le quali un posto particolare occupa il dialogo dell'anima con la Madre
Dolorosa.
Fu sulla base di queste esperienze spirituali che venne delineandosi
l'itinerario di preghiera e di contemplazione che avrebbe orientato i miei
passi sulla strada verso il sacerdozio, e poi in tutte le vicende
successive fino ad oggi. Questa strada fin da bambino, e più ancora da
sacerdote e da vescovo, mi conduceva non di rado sui sentieri mariani di
Kalwaria Zebrzydowska. Kalwaria è il principale santuario mariano
dell'Arcidiocesi di Cracovia. Mi recavo lì spesso e camminavo in
solitudine per quei sentieri, presentando al Signore nella preghiera i
diversi problemi della Chiesa, soprattutto nel difficile periodo in cui si
era alle prese con il comunismo. Volgendomi indietro constato come «tutto
si tiene»: oggi come ieri ci troviamo con la stessa intensità nei raggi
dello stesso mistero.
Il Santo Frate Alberto
Mi domando a volte quale ruolo abbia svolto nella mia vocazione la
figura del Santo Frate Alberto. Adam Chmielowski — era questo il suo nome
— non era sacerdote. Tutti in Polonia sanno chi egli sia stato. Nel
periodo della mia passione per il teatro rapsodico e per l'arte, la figura
di quest'uomo coraggioso, che aveva partecipato all'«insurrezione di
gennaio» (1864) perdendo una gamba durante i combattimenti, esercitava su
di me un fascino spirituale particolare. E noto che Frate Alberto era
pittore: aveva compiuto i suoi studi a Monaco. Il patrimonio artistico da
lui lasciato dimostra che aveva un grande talento. Ebbene, quest'uomo a un
certo punto della sua vita rompe con l'arte, perché comprende che Dio lo
chiama a compiti ben più importanti. Venuto a conoscenza dell'ambiente dei
miserabili di Cracovia, il cui punto d'incontro era il pubblico
dormitorio, detto anche «posto di riscaldamento», in via Krakowska, Adam
Chmielowski decide di diventare uno di loro, non come elemosiniere che
arriva da fuori per distribuire dei doni, ma come uno che dona se stesso
per servire i diseredati.
Questo esempio affascinante di sacrificio suscita molti seguaci.
Intorno a Frate Alberto si radunano uomini e donne. Nascono due
Congregazioni che si dedicano ai più poveri. Tutto ciò accade all'inizio
del nostro secolo, nel periodo precedente la prima guerra mondiale.
Frate Alberto non giungerà a vedere il momento in cui la Polonia
conquisterà l'indipendenza. Morirà nel Natale del 1916. La sua opera,
tuttavia, gli sopravviverà diventando espressione delle tradizioni
polacche di radicalismo evangelico, sulle orme di San Francesco d'Assisi e
di San Giovanni della Croce.
Nella storia della spiritualità polacca, il Santo Frate Alberto occupa
un posto speciale. Per me la sua figura è stata determinante, perché
trovai in lui un particolare appoggio spirituale e un esempio nel
mio allontanarmi dall'arte, dalla letteratura e dal teatro, per la
scelta radicale della vocazione al sacerdozio. Una delle gioie più
grandi che ho avuto da Papa è stata quella di innalzare questo poverello
di Cracovia in tonaca grigia agli onori degli altari, prima con la
beatificazione a Blonie Krakowskie durante il viaggio in Polonia del 1983,
poi con la canonizzazione a Roma nel novembre del memorabile anno 1989.
Molti autori della letteratura polacca hanno immortalato la figura di
Frate Alberto. Merita di essere segnalata, tra le varie opere artistiche,
i romanzi e i drammi, la monografia a lui dedicata dal P. Konstanty
Michalski. Anch'io, da giovane sacerdote, nel periodo in cui ero vicario
presso la chiesa di San Floriano a Cracovia, gli dedicai un'opera
drammatica intitolata: «Il Fratello del nostro Dio», pagando in tal modo
il debito di gratitudine che avevo contratto con lui.
Esperienza di guerra
La definitiva maturazione della mia vocazione sacerdotale, come ho
detto, avvenne nel periodo della seconda guerra mondiale, durante
l'occupazione nazista. Una semplice coincidenza temporale? O c'era un
nesso più profondo tra ciò che maturava dentro di me e il contesto
storico? E difficile rispondere a siffatta domanda. Certo, nei piani di
Dio nulla è casuale. Ciò che posso dire è che la tragedia della guerra
diede al processo di maturazione della mia scelta di vita una colorazione
particolare. Mi aiutò a cogliere da un'angolatura nuova il valore e
l'importanza della vocazione. Di fronte al dilagare del male ed alle
atrocità della guerra mi diventava sempre più chiaro il senso del
sacerdozio e della sua missione nel mondo.
Lo scoppio della guerra mi allontanò dagli studi e dall'ambiente
universitario. In quel periodo persi mio padre, l'ultima persona che mi
restava dei miei più stretti familiari. Anche questo comportava,
oggettivamente, un processo di distacco dai miei progetti
precedenti; in qualche modo era come venir sradicato dal suolo sul quale
fino a quel momento era cresciuta la mia umanità.
Non si trattava però di un processo soltanto negativo. Alla mia
coscienza, infatti, nel contempo si manifestava sempre più una luce: il
Signore vuole che io diventi sacerdote. Un giorno lo percepii con
molta chiarezza: era come un'illuminazione interiore, che portava in sé la
gioia e la sicurezza di un'altra vocazione. E questa consapevolezza mi
riempì di una grande pace interiore.
Questo accadeva sullo sfondo degli avvenimenti terribili che andavano
svolgendosi intorno a me a Cracovia, in Polonia, nell'Europa e nel mondo.
Fui coinvolto direttamente soltanto in una piccola parte di quanto
sperimentarono, a partire dal 1939, i miei connazionali. Penso in special
modo ai miei coetanei della maturità a Wadowice, amici a me molto cari,
tra i quali alcuni ebrei. Ci fu chi scelse il servizio militare già nel
1938. Sembra che il primo a morire in guerra sia stato il più giovane
della classe. In seguito venni a conoscere soltanto a grandi linee la
sorte di altri caduti sui vari fronti, o morti nei campi di
concentramento, o finiti a combattere presso Tobruk e Montecassino, o
deportati nei territori dell'Unione Sovietica: in Russia e in Kazakistan.
Appresi queste notizie prima gradualmente, poi più compiutamente a
Wadowice nel 1948, durante il raduno dei colleghi in occasione del decimo
anno dalla maturità.
Del grande e orrendo theatrum della seconda guerra mondiale
mi fu risparmiato molto. Ogni giorno avrei potuto essere prelevato
dalla casa, dalla cava di pietra, dalla fabbrica per essere portato in un
campo di concentramento. A volte mi domandavo: tanti miei coetanei perdono
la vita, perché non io? Oggi so che non fu un caso. Nel contesto
del grande male della guerra, nella mia vita personale tutto volgeva in
direzione del bene costituito dalla vocazione. Non posso dimenticare il
bene ricevuto in quel periodo difficile dalle persone che il Signore
poneva sulla mia strada: sia persone della mia famiglia che conoscenti e
colleghi.
Il sacrificio dei sacerdoti polacchi
Emerge qui un'altra singolare e importante dimensione della mia
vocazione. Gli anni dell'occupazione tedesca in Occidente e di quella
sovietica in Oriente portarono con sé un enorme numero di arresti e di
deportazioni di sacerdoti polacchi nei campi di concentramento. Solo a
Dachau ne furono internati circa tremila. C'erano altri campi, come per
esempio quello di Auschwitz, dove donò la vita per Cristo il primo
sacerdote canonizzato dopo la guerra, San Massimiliano Maria Kolbe, il
francescano di Niepokalanów. Tra i prigionieri di Dachau si trovava il
vescovo di Wloclawek, Mons. Michal Kozal, che ho avuto la gioia di
beatificare a Varsavia nel 1987. Dopo la guerra, alcuni tra i sacerdoti
ex-prigionieri di campi di concentramento furono elevati alla dignità
vescovile. Attualmente vivono ancora gli Arcivescovi Kazimierz Majdanski e
Adam Kozlowiecki e il Vescovo Ignacy Jez, i tre ultimi Presuli testimoni
di quello che furono i campi di sterminio: essi sanno bene che cosa
quell'esperienza significò nella vita di tanti sacerdoti. Per completare
il quadro, bisogna aggiungere anche i sacerdoti tedeschi di quella stessa
epoca che pure sperimentarono la stessa sorte nei lager. Ho avuto
l'onore di beatificarne alcuni: dapprima P. Rupert Mayer di Monaco e poi,
durante il recente viaggio apostolico in Germania, Mons. Bernhard
Lichtenberg, parroco della cattedrale di Berlino, e P. Karl Leisner della
diocesi di Münster. Quest'ultimo, ordinato sacerdote nel campo di
concentramento nel 1944, riuscì a celebrare, dopo l'Ordinazione, una Santa
Messa soltanto.
Merita poi un ricordo particolare il martirologio dei sacerdoti nei
lager della Siberia e in altri del territorio dell'Unione Sovietica.
Tra i molti che vi furono rinchiusi vorrei ricordare la figura di P.
Tadeusz Fedorowicz, ben noto in Polonia, al quale come direttore
spirituale devo personalmente molto. Padre Fedorowicz, giovane sacerdote
dell'arcidiocesi di Leopoli, si era spontaneamente presentato al suo
Arcivescovo per chiedere di poter accompagnare un gruppo di polacchi
deportati verso l'Est. L'Arcivescovo Twardowski gli concesse il permesso
ed egli poté così svolgere la sua missione sacerdotale tra i connazionali
dispersi nei territori dell'Unione Sovietica e soprattutto in Kazakistan.
Ultimamente egli ha descritto in un libro interessante questa tragica
vicenda.
Ciò che ho detto a proposito dei campi di concentramento non
costituisce che una parte, pur drammatica, di questa sorta di «apocalisse»
del nostro secolo. Vi ho fatto cenno per sottolineare che il mio
sacerdozio, già al suo nascere, si è iscritto nel grande sacrificio di
tanti uomini e donne della mia generazione. A me la Provvidenza ha
risparmiato le esperienze più pesanti; tanto più grande è perciò il senso
del mio debito verso le persone a me note, come pure verso quelle ben più
numerose a me ignote, senza differenza di nazione e di lingua, che con il
loro sacrificio sul grande altare della storia hanno contribuito al
realizzarsi della mia vocazione sacerdotale. In qualche modo esse mi hanno
introdotto su questa strada, additandomi nella dimensione del sacrificio
la verità più profonda ed essenziale del sacerdozio di Cristo.
La bontà sperimentata tra le asprezze della guerra
Dicevo che durante i difficili anni di guerra ho ricevuto molto bene
dalla gente. Penso in modo particolare ad una famiglia, anzi a più
famiglie che ho conosciuto durante l'occupazione. Con Juliusz
Kydrynski lavorai prima nelle cave di pietra e poi nella fabbrica Solvay.
Eravamo nel gruppo di operai-studenti a cui appartenevano anche Wojciech
Zukrowski, suo fratello minore Antoni e Wieslaw Kaczmarczyk. Con Juliusz
Kydrynski ci eravamo incontrati, a guerra non ancora iniziata,
frequentando il primo anno di Filologia polacca. Durante la guerra questi
legami di amicizia si intensificarono. Conobbi sua madre che era rimasta
vedova, la sorella e il fratello minore. La famiglia Kydrynski mi circondò
di premurose cure e di affetto quando, il 18 febbraio 1941, persi mio
padre. Ricordo perfettamente quel giorno: tornando dal lavoro trovai mio
padre morto. In quel momento l'amicizia dei Kydrynski fu per me di grande
sostegno. L'amicizia si allargò poi ad altre famiglie, in particolare a
quella dei signori Szkocki, residenti in via Ksiecia Józefa. Cominciai lo
studio del francese grazie alla signora Jadwiga Lewaj, che abitava nella
loro casa. Zofia Pozniak, figlia maggiore dei signori Szkocki, il cui
marito si trovava in campo di prigionia, ci invitava ai concerti
organizzati in casa. In questo modo il periodo buio della guerra e
dell'occupazione fu rischiarato dalla luce della bellezza che s'irradia
dalla musica e dalla poesia. Questo accadeva prima della mia decisione di
entrare in seminario.
IV
SACERDOTE!
La mia ordinazione ebbe luogo in un giorno insolito per tali
celebrazioni: essa avvenne il 1o novembre, solennità di Tutti i Santi,
quando la liturgia della Chiesa è tutta rivolta a celebrare il mistero
della comunione dei santi e s'appresta a fare memoria dei fedeli defunti.
L'Arcivescovo scelse questa data, perché dovevo partire per Roma per
proseguire gli studi. Fui ordinato da solo, nella cappella privata degli
Arcivescovi di Cracovia. I miei colleghi sarebbero stati ordinati l'anno
seguente, nella Domenica delle Palme.
Ero stato ordinato suddiacono e diacono in ottobre. Fu un mese di
intensa preghiera, scandito dagli Esercizi Spirituali con i quali mi
preparai a ricevere gli Ordini sacri: sei giorni di Esercizi prima del
suddiaconato, e poi rispettivamente tre e sei giorni prima del diaconato e
del presbiterato. Gli ultimi Esercizi li feci da solo nella cappella del
seminario. Il giorno di Tutti i Santi mi presentai di mattina nella
residenza degli Arcivescovi di Cracovia, in via Franciszkanska 3, per
ricevere l'Ordinazione sacerdotale. Alla cerimonia partecipava un piccolo
gruppo di parenti e di amici.
Ricordo di un fratello nella vocazione sacerdotale
Il luogo della mia Ordinazione, come ho detto, fu la cappella
privata degli Arcivescovi di Cracovia. Ricordo che durante
l'occupazione vi andavo spesso di mattina, per fare da ministrante al
Principe Metropolita durante la Santa Messa. Ricordo anche che per un
certo periodo veniva con me un altro seminarista clandestino, Jerzy
Zachuta. Un giorno egli non si presentò. Quando dopo la Messa passai da
casa sua, a Ludwinów (presso Debniki), seppi che durante la notte era
stato prelevato dalla Gestapo. Subito dopo, il suo cognome comparve
nell'elenco dei polacchi destinati alla fucilazione. Venendo ordinato in
quella stessa cappella che ci aveva visti tante volte insieme, non potevo
non ricordare questo fratello nella vocazione sacerdotale che in altro
modo Cristo aveva unito al mistero della sua morte e della sua
risurrezione.
Veni, Creator Spiritus!
Mi rivedo, così, in quella cappella durante il canto del Veni,
Creator Spiritus e delle Litanie dei Santi, mentre, steso per terra in
forma di croce, aspettavo il momento dell'imposizione delle mani. Un
momento emozionante! In seguito ho avuto modo di presiedere molte volte
questo rito come Vescovo e come Papa. C'è qualcosa di impressionante nella
prostrazione degli ordinandi: è il simbolo della loro totale sottomissione
di fronte alla maestà di Dio e contemporaneamente della piena
disponibilità all'azione dello Spirito Santo, che discende in loro come
artefice della consacrazione. Veni, Creator Spiritus, mentes tuorum
visita, imple superna gratia quae Tu creasti pectora. Come nella Santa
Messa Egli è l'artefice della transunstanziazione del pane e del vino nel
Corpo e nel Sangue di Cristo, così nel sacramento dell'Ordine Egli è
l'artefice della consacrazione sacerdotale o episcopale. Il vescovo, che
conferisce il sacramento dell'Ordine, è dispensatore umano del mistero
divino. L'imposizione delle mani è continuazione del gesto già praticato
nella Chiesa primitiva per indicare il dono dello Spirito Santo in vista
di una determinata missione (cfr At 6, 6; 8, 17; 13, 3). Paolo lo
utilizza nei confronti del discepolo Timoteo (cfr 2 Tm 1, 6; 1
Tm 4, 14) ed il gesto resta nella Chiesa (cfr 1 Tm 5, 22) come
segno efficace della presenza operante dello Spirito Santo nel sacramento
dell'Ordine.
Il pavimento
Chi s'appresta a ricevere la sacra Ordinazione si prostra con tutto il
corpo e poggia la fronte sul pavimento del tempio, manifestando con ciò la
sua completa disponibilità ad intraprendere il ministero che gli
viene affidato. Quel rito ha segnato profondamente la mia esistenza
sacerdotale. Anni più tardi, nella Basilica di San Pietro — si era
all'inizio del Concilio — ripensando a quel momento dell'Ordinazione
sacerdotale, scrissi una poesia di cui mi piace riportare qui un
frammento:
«Sei tu, Pietro. Vuoi essere qui il Pavimento su cui camminano gli
altri... per giungere là dove guidi i loro passi... Vuoi essere Colui
che sostiene i passi — come la roccia sostiene lo zoccolare di un
gregge: Roccia è anche il pavimento d'un gigantesco tempio. E il
pascolo è la croce». (Chiesa: I Pastori e le Fonti. Basilica di San
Pietro, autunno 1962: 11.X - 8.XII, Il Pavimento
Scrivendo queste parole pensavo sia a Pietro che a tutta la realtà del
sacerdozio ministeriale, cercando di sottolineare il profondo significato
di questa prostrazione liturgica. In quel giacere per terra in forma di
croce prima dell'Ordinazione, accogliendo nella propria vita — come Pietro
— la croce di Cristo e facendosi con l'Apostolo «pavimento» per i
fratelli, sta il senso più profondo di ogni spiritualità sacerdotale.
La «prima Messa»
Essendo stato ordinato sacerdote nella festa di Tutti i Santi, celebrai
la «prima Messa» il giorno dei Morti, il 2 novembre 1946. In tale giorno
ogni sacerdote può celebrare per l'utilità dei fedeli tre Sante Messe. La
mia «prima» Messa perciò ebbe — per così dire — un carattere triplo. Fu
un'esperienza di singolare intensità. Celebrai le tre Sante Messe nella
cripta di San Leonardo che costituisce, nella cattedrale del Wawel, a
Cracovia, la parte anteriore della cosiddetta cattedra vescovile di
Herman. Attualmente la cripta fa parte del complesso sotterraneo in cui
sono poste le tombe reali. Scegliendola come luogo delle mie prime Messe
volli esprimere un legame spirituale particolare con quanti riposano in
quella cattedrale che, per la sua stessa storia, costituisce un monumento
senza confronti. E impregnata, più di qualsiasi altro tempio della
Polonia, di contenuti storici e teologici. Riposano in essa i re polacchi,
cominciando da Wladyslaw Lokietek: nella cattedrale del Wawel i re erano
incoronati e in essa venivano poi sepolti. Chi visita quel tempio si trova
faccia a faccia con la storia della Nazione.
Proprio per questo, come ho detto, scelsi di celebrare le mie prime
Messe nella cripta di San Leonardo: volevo sottolineare il mio
particolare legame spirituale con la storia della Polonia, che sul colle
del Wawel aveva quasi una sintesi emblematica. Ma non solo questo. C'era,
in questa scelta, anche una speciale valenza teologica. Come ho
detto, ero stato ordinato il giorno prima, nella solennità di Tutti i
Santi, quando la Chiesa dà espressione liturgica alla verità della
comunione dei santi – communio sanctorum. I Santi sono coloro che,
avendo accolto nella fede il mistero pasquale di Cristo, attendono ora la
risurrezione finale.
Anche le persone, i cui resti mortali riposano nei sarcofagi della
cattedrale del Wawel, aspettano lì la risurrezione. Tutta la cattedrale
sembra ripetere le parole del Simbolo degli Apostoli: «Credo nella
risurrezione della carne e nella vita eterna». Questa verità di fede
illumina anche la storia delle Nazioni. Quelle persone sono come «i grandi
spiriti», che conducono la Nazione attraverso i secoli. Non vi sono
soltanto sovrani insieme con le consorti, o vescovi e cardinali; vi sono
anche poeti, grandi maestri della parola, che hanno avuto un'importanza
enorme per la mia formazione cristiana e patriottica.
Pochi i partecipanti a quelle prime Messe celebrate sul colle del
Wawel: tra gli altri ricordo che era presente la mia madrina Maria
Wiadrowska, sorella maggiore di mia madre. Serviva all'altare Mieczyslaw
Malinski, che rendeva in qualche modo presente l'ambiente e la persona di
Jan Tyranowski, allora già gravemente malato.
In seguito, da sacerdote e da vescovo, visitai sempre la cripta di San
Leonardo con grande commozione. Quanto avrei desiderato poter celebrare lì
la Santa Messa in occasione del cinquantesimo anniversario della mia
Ordinazione sacerdotale!
Tra il Popolo di Dio
Seguirono poi altre «prime Messe»: nella chiesa parrocchiale di San
Stanislao Kostka a Debniki e, la domenica seguente, in quella della
Presentazione della Madre di Dio a Wadowice. Celebrai anche una Messa alla
confessione di San Stanislao, nella cattedrale del Wawel, per gli amici
del teatro rapsodico e per l'organizzazione clandestina «Unia» (Unione),
alla quale ero legato durante l'occupazione.
V
ROMA
Novembre scorreva veloce: era ormai tempo di partire per Roma.
Quando venne il giorno prestabilito, salii sul treno con grande emozione.
Con me c'era Stanislaw Starowieyski, un collega più giovane di me, che
avrebbe dovuto frequentare l'intero corso teologico a Roma. Per la prima
volta uscivo dalle frontiere della mia Patria. Guardavo dal finestrino del
treno in corsa città conosciute soltanto nei libri di geografia. Vidi per
la prima volta Praga, Norimberga, Strasburgo, Parigi, dove ci fermammo,
ospiti del Seminario Polacco in «Rue des Irlandais». Ne ripartimmo ben
presto, perché il tempo stringeva e giungemmo a Roma negli ultimi giorni
di novembre. Qui approfittammo inizialmente dell'ospitalità dei Padri
Pallottini. Ricordo che la prima domenica dopo l'arrivo mi recai con
Stanislaw Starowieyski nella Basilica di San Pietro per assistere alla
solenne venerazione di un nuovo Beato da parte del Papa. Vidi di lontano
la figura di Pio XII, portato sulla sedia gestatoria. La
partecipazione del Papa alla beatificazione si limitava allora alla recita
della preghiera al nuovo Beato, mentre il rito vero e proprio era
presieduto la mattina da uno dei cardinali. Questa tradizione fu cambiata
a partire da Massimiliano Maria Kolbe, quando — nell'ottobre del 1971 —
Paolo VI officiò personalmente il rito di beatificazione del martire
polacco di Auschwitz, durante una Santa Messa concelebrata con il
Cardinale Wyszynski e con i vescovi polacchi; ad essa ebbi la gioia di
partecipare anch'io.
«Imparare Roma»
Non potrò mai dimenticare le sensazioni di quei miei primi giorni
«romani», quando nel 1946 cominciai ad introdurmi nella conoscenza della
Città Eterna. Mi iscrissi al «biennium ad lauream» presso l'Angelicum.
Decano della Facoltà Teologica era il P. Ciappi OP, futuro teologo
della Casa Pontificia e cardinale.
Il P. Karol Kozlowski, Rettore del Seminario di Cracovia, mi aveva
ripetuto più volte che, per chi ha la fortuna di potersi formare nella
capitale del Cristianesimo, più ancora degli studi (un dottorato in
teologia si può conseguire anche altrove!) importante è «imparare Roma
stessa». Cercai di seguire il suo consiglio. Arrivai a Roma con il
vivo desiderio di visitare la Città Eterna, a cominciare dalle catacombe.
E così accadde. Insieme agli amici del Collegio Belga, dove abitavo, ebbi
modo di percorrere sistematicamente la Città sotto la guida di esperti
conoscitori dei suoi monumenti e della sua storia. In occasione delle
vacanze di Natale e di Pasqua potemmo recarci in altre città italiane.
Ricordo le prime vacanze, quando, lasciandoci guidare dal libro dello
scrittore danese Jœrgensen, ci recammo a scoprire i luoghi legati alla
vita di San Francesco.
Al centro della nostra esperienza restava comunque sempre Roma.
Ogni giorno dal Collegio Belga, in via del Quirinale 26, mi recavo
all'Angelicum per le lezioni, fermandomi durante il tragitto nella
chiesa dei Gesuiti di Sant'Andrea al Quirinale, dove si trovano le
reliquie di San Stanislao Kostka, che abitò nell'attiguo noviziato e lì
concluse la sua vita. Ricordo che tra coloro che ne visitavano la tomba
c'erano molti seminaristi del Germanicum, facilmente riconoscibili
dalle caratteristiche tonache rosse. Nel cuore del Cristianesimo e nella
luce dei santi, anche le nazionalità si incontravano, quasi prefigurando,
oltre la tragedia bellica che ci aveva tanto segnati, un mondo non più
diviso.
Prospettive pastorali
Il mio sacerdozio e la mia formazione teologica e pastorale venivano
così iscrivendosi fin dall'inizio nell'esperienza romana. I due anni
di studi, conclusi nel 1948 con il dottorato, furono anni di un intenso
«imparare Roma». Il Collegio Belga contribuiva a radicare il mio
sacerdozio, giorno dopo giorno, nell'esperienza della capitale del
Cristianesimo. Esso infatti consentiva di entrare in contatto con certe
forme d'avanguardia dell'apostolato, che in quel periodo andavano
sviluppandosi nella Chiesa. Penso qui soprattutto all'incontro con P.
Jozef Cardijn, creatore della JOC e futuro cardinale, il quale veniva ogni
tanto al collegio per incontrarsi con noi, sacerdoti studenti, e parlarci
di quella particolare esperienza umana che è la fatica fisica. Ad essa io
ero, in certa misura, preparato dal lavoro svolto nella cava di pietra e
nel reparto del depuratore d'acqua della fabbrica Solvay. A Roma però ebbi
la possibilità di cogliere più a fondo quanto il sacerdozio sia legato
alla pastorale ed all'apostolato dei laici. Tra il servizio sacerdotale e
l'apostolato laicale esiste uno stretto rapporto, anzi un reciproco
coordinamento. Riflettendo su queste problematiche pastorali, scoprivo
sempre più chiaramente il senso ed il valore dello stesso sacerdozio
ministeriale.
L'orizzonte europeo
L'esperienza fatta al Collegio Belga s'allargò, in seguito, grazie ad
un contatto diretto non solo con la nazione belga, ma anche con quella
francese e olandese. Col consenso del Cardinale Sapieha, durante le
vacanze estive del 1947 il P. Stanislaw Starowieyski ed io potemmo
visitare quei Paesi. Mi aprivo così ad un più largo orizzonte europeo. A
Parigi, ove presi dimora nel Seminario Polacco, potei conoscere da vicino
la vicenda dei preti operai, la problematica affrontata nel libro dei
Padri H. Godin e Y. Daniel: «La France, pays de mission?» e la
pastorale delle missioni nelle periferie di Parigi, soprattutto nella
parrocchia guidata da P. Michonneau. Queste esperienze, nel primo e
secondo anno di sacerdozio, rivestirono per me un enorme interesse.
In Olanda, grazie all'aiuto dei miei colleghi, soprattutto dei genitori
dello scomparso P. Alfred Delmé, potei trascorrere con Stanislaw
Starowieyski una decina di giorni. Mi impressionò la robusta
organizzazione della Chiesa e della pastorale in quel Paese, con le attive
organizzazioni e le vivaci comunità ecclesiali.
Mi si veniva rivelando così sempre meglio, da angolature diverse e
complementari, l'Europa occidentale, l'Europa del dopoguerra,
l'Europa delle meravigliose cattedrali gotiche e, nello stesso tempo,
l'Europa minacciata dal processo di secolarizzazione. Coglievo la sfida
che ciò rappresentava per la Chiesa, chiamata a fronteggiare l'incombente
pericolo attraverso nuove forme di pastorale, aperte ad una più ampia
presenza del laicato.
Tra gli emigrati
Fu però in Belgio che passai la maggior parte di quelle vacanze estive.
Durante il mese di settembre mi trovai alla guida della missione
cattolica polacca, tra i minatori, nei pressi di Charleroi. Fu
un'esperienza molto fruttuosa. Per la prima volta visitai una miniera di
carbone e potei conoscere da vicino il pesante lavoro dei minatori.
Visitavo le famiglie degli emigrati polacchi, parlavo con loro, incontravo
la gioventù e i bambini, accolto sempre con benevolenza e cordialità, come
quando mi trovavo alla Solvay.
La figura di San Giovanni Maria Vianney
Sulla strada del rientro dal Belgio a Roma, ebbi la fortuna di
sostare ad Ars. Era la fine di ottobre del 1947, la domenica di
Cristo Re. Con grande commozione visitai la vecchia chiesetta dove San
Giovanni M. Vianney confessava, insegnava il catechismo e teneva le sue
omelie. Fu per me un'esperienza indimenticabile. Fin dagli anni del
seminario ero rimasto colpito dalla figura del parroco di Ars, soprattutto
alla lettura della biografia scritta da Mons. Trochu. San Giovanni M.
Vianney sorprende soprattutto perché in lui si rivela la potenza della
grazia che agisce nella povertà dei mezzi umani. Mi toccava nel profondo,
in particolare, il suo eroico servizio nel confessionale.
Quell'umile sacerdote che confessava più di dieci ore al giorno,
nutrendosi poco e dedicando al riposo appena alcune ore, era riuscito, in
un difficile periodo storico, a suscitare una sorta di rivoluzione
spirituale in Francia e non soltanto in Francia. Migliaia di persone
passavano per Ars e si inginocchiavano al suo confessionale. Sullo sfondo
della laicizzazione e dell'anticlericalismo del XIX secolo, la sua
testimonianza costituisce un evento davvero rivoluzionario.
Dall'incontro con la sua figura trassi la convinzione che il
sacerdote realizza una parte essenziale della sua missione attraverso il
confessionale, attraverso quel volontario «farsi prigioniero del
confessionale». Parecchie volte, confessando a Niegowic, nella mia prima
parrocchia, e poi a Cracovia, ritornavo col pensiero a questa esperienza
indimenticabile. Ho cercato di conservare sempre il legame con il
confessionale sia durante gli impegni scientifici a Cracovia, confessando
soprattutto nella Basilica dell'Assunzione della Beata Maria Vergine, sia
adesso a Roma, anche se quasi solo simbolicamente, rientrando ogni anno in
confessionale il Venerdì Santo, nella Basilica di San Pietro.
Un «grazie» sentito
Non posso concludere queste considerazioni senza esprimere cordiale
gratitudine a tutti i componenti del Collegio Belga a Roma, a
Superiori ed a compagni d'allora, dei quali molti già sono morti; in
particolare al Rettore, P. Maximilien De Furstenberg, divenuto poi
cardinale. Come non ricordare che durante il conclave, nel 1978, il
Cardinale De Furstenberg, a un certo momento, mi disse queste parole
significative: Dominus adest et vocat te? Era come un allusivo e
misterioso completamento del lavoro formativo da lui svolto, come Rettore
del Collegio Belga, a favore del mio sacerdozio.
Il ritorno in Polonia
All'inizio del luglio 1948 discussi la tesi di dottorato
all'Angelicum e subito dopo mi misi sulla strada del ritorno in
Polonia. Ho accennato prima che in quei due anni di soggiorno nella Città
Eterna avevo «imparato» intensamente Roma: la Roma delle catacombe, la
Roma dei martiri, la Roma di Pietro e Paolo, la Roma dei confessori.
Ritorno spesso a quegli anni con la memoria piena di emozione. Partendo
portavo con me non soltanto un accresciuto bagaglio di cultura
teologica, ma anche il consolidamento del mio sacerdozio e
l'approfondimento della mia visione della Chiesa. Quel periodo di
studio intenso accanto alle Tombe degli Apostoli mi aveva dato molto da
ogni punto di vista.
Certo potrei aggiungere molti altri dettagli circa tale decisiva
esperienza. Preferisco riassumere tutto dicendo che attraverso Roma il mio
giovane sacerdozio si era arricchito di una dimensione europea e
universale. Tornavo da Roma a Cracovia con quel senso di
universalità della missione sacerdotale che è stato magistralmente
espresso dal Concilio Vaticano II, soprattutto nella Costituzione
dogmatica sulla Chiesa Lumen Gentium. Non soltanto il vescovo, ma
anche ogni sacerdote deve vivere in sé la sollecitudine per la Chiesa
intera e sentirsi di essa, in qualche modo, responsabile.
VI
NIEGOWIC: UNA PARROCCHIA DI CAMPAGNA
Appena giunto a Cracovia, trovai nella Curia metropolitana il primo
«incarico di lavoro», la cosiddetta «aplikata». L'Arcivescovo era
allora a Roma, ma aveva lasciato per iscritto la sua volontà. Accettai la
destinazione con gioia. Mi informai subito come giungere a Niegowic e mi
detti da fare per essere là nel giorno stabilito. Andai da Cracovia a Gdów
in autobus, da lì un contadino mi diede un passaggio con il carretto verso
la campagna di Marszowice, dopo di che mi consigliò di prendere a piedi
una scorciatoia attraverso i campi. Scorgevo già in lontananza la chiesa
di Niegowic. Era il tempo della mietitura. Camminavo tra campi di grano
con le messi in parte già mietute, in parte ancora ondeggianti al vento.
Quando giunsi finalmente nel territorio della parrocchia di Niegowic, mi
inginocchiai e baciai la terra. Avevo imparato questo gesto da San
Giovanni M. Vianney. In chiesa sostai davanti al Santissimo Sacramento e
poi mi presentai al parroco, Mons. Kazimierz Buzala, decano di Niepolomice
e parroco di Niegowic, il quale mi accolse molto cordialmente e dopo un
breve colloquio mi mostrò l'abitazione del vicario.
Cominciò così il lavoro pastorale nella mia prima parrocchia.
Esso durò un anno e consisteva nelle mansioni tipiche di un vicario ed
insegnante di religione. Mi furono affidate cinque scuole elementari nelle
campagne appartenenti alla parrocchia di Niegowic. Vi venivo condotto con
un carretto o con il calesse. Ricordo la cordialità degli insegnanti e dei
parrocchiani. Le classi erano tra loro abbastanza diverse: alcune bene
educate e tranquille, altre assai vivaci. Ancora oggi mi capita di
ripensare al silenzio raccolto che regnava nelle classi, quando durante la
Quaresima parlavo della passione del Signore.
In quel periodo la parrocchia di Niegowic si preparava alla
celebrazione del cinquantesimo anniversario della Ordinazione sacerdotale
del parroco. Poiché la vecchia chiesa risultava ormai inadeguata alle
necessità pastorali, i fedeli decisero che il dono più bello per il
festeggiato sarebbe stato la costruzione di un nuovo tempio. Ma io fui
presto sottratto a quella bella comunità.
A San Floriano in Cracovia
Dopo un anno, infatti, fui trasferito nella parrocchia di San Floriano
a Cracovia. Il parroco, Mons. Tadeusz Kurowski, mi affidò la catechesi
nelle classi superiori del liceo e la cura pastorale tra gli studenti
universitari. La pastorale universitaria di Cracovia aveva allora il suo
centro presso la chiesa di Sant'Anna, ma con lo sviluppo di nuove facoltà
si avvertì il bisogno di creare un nuovo centro proprio presso la
parrocchia di San Floriano. Cominciai lì le conferenze per la gioventù
universitaria; le tenevo ogni giovedì e vertevano sui problemi
fondamentali riguardanti l'esistenza di Dio e la spiritualità dell'anima
umana, temi di particolare impatto nel contesto dell'ateismo militante,
proprio del regime comunista.
Il lavoro scientifico
Durante le vacanze del 1951, dopo due anni di lavoro nella parrocchia
di San Floriano, l'Arcivescovo Eugeniusz Baziak, che era succeduto nel
governo dell'Arcidiocesi di Cracovia al Cardinale Sapieha, mi indirizzò
verso il lavoro scientifico. Dovetti prepararmi per l'abilitazione alla
libera docenza in etica e in teologia morale. Ciò comportò una riduzione
del lavoro pastorale a me tanto caro. Mi costò, ma da allora mi preoccupai
sempre che la dedizione allo studio scientifico della teologia e della
filosofia non mi inducesse a «dimenticarmi» di essere sacerdote; piuttosto
doveva aiutarmi a diventarlo sempre di più.
VII
CHIESA CHE SEI IN POLONIA, GRAZIE!
In questa testimonianza giubilare non posso non esprimere la mia
gratitudine verso tutta la Chiesa polacca, all'interno della quale è
nato e maturato il mio sacerdozio. E una Chiesa con una eredità millenaria
di fede; una Chiesa che ha generato lungo i secoli numerosi santi e beati,
ed è affidata al patrocinio di due Santi Vescovi e Martiri – Wojciech e
Stanislaw. E una Chiesa profondamente legata al popolo e alla sua cultura;
una Chiesa che ha sempre sostenuto e difeso il popolo, specialmente nei
momenti tragici della sua storia. Ed è una Chiesa che in questo secolo è
stata duramente provata: ha dovuto sostenere una lotta drammatica per la
sopravvivenza contro due sistemi totalitari: contro il regime
ispirato all'ideologia nazista durante la seconda guerra mondiale;
poi, nei lunghi decenni del dopoguerra, contro la dittatura
comunista, ed il suo ateismo militante.
Da entrambe le prove è uscita vittoriosa, grazie al sacrificio di
vescovi, di sacerdoti e di schiere di laici; grazie alla famiglia polacca
«forte in Dio». Tra i vescovi del periodo bellico non posso non menzionare
la figura incrollabile del Principe Metropolita di Cracovia, Adam Stefan
Sapieha, e tra quelli del periodo postbellico, la figura del Servo di Dio
Cardinale Stefan Wyszynski. E una Chiesa che ha difeso l'uomo, la
sua dignità e i suoi diritti fondamentali, una Chiesa che ha combattuto
coraggiosamente per il diritto dei fedeli alla professione della loro
fede. Una Chiesa straordinariamente dinamica, malgrado le difficoltà e gli
ostacoli che ne intralciavano il cammino.
In tale intenso clima spirituale si è venuta sviluppando la mia
missione di sacerdote e di vescovo. I due sistemi totalitari, che hanno
tragicamente segnato il nostro secolo — il nazismo, da una parte, con gli
orrori della guerra e dei campi di concentramento; il comunismo,
dall'altra, col suo regime di oppressione e di terrore — ho potuto
conoscerli, per così dire, dall'interno. E facile quindi capire la mia
sensibilità per la dignità di ogni persona umana e per il rispetto dei
suoi diritti, a partire dal diritto alla vita. E una sensibilità
che si è formata già nei primi anni di sacerdozio e si è rafforzata col
tempo. E facile capire anche la mia preoccupazione per la famiglia e per
la gioventù: tutto ciò è cresciuto in me organicamente proprio grazie a
quelle drammatiche esperienze.
Il presbiterio di Cracovia
Nel cinquantesimo anniversario della mia ordinazione sacerdotale mi
rivolgo col pensiero in modo particolare al presbiterio della Chiesa di
Cracovia, di cui sono stato membro come sacerdote e poi capo come
Arcivescovo. Mi si presentano davanti agli occhi tante figure di eminenti
parroci e vicari. Sarebbe troppo lungo menzionarli uno per uno. A molti di
loro mi univano e mi uniscono legami di sincera amicizia. Gli esempi della
loro santità e del loro zelo pastorale mi sono stati di grande
edificazione. Indubbiamente essi hanno esercitato una influenza profonda
sul mio sacerdozio. Da loro ho imparato che cosa vuol dire in concreto
essere pastore.
Sono profondamente convinto del ruolo decisivo che il presbiterio
diocesano svolge nella vita personale di ogni sacerdote. La comunità
dei sacerdoti, radicata in una vera fraternità sacramentale,
costituisce un ambiente di primaria importanza per la formazione
spirituale e pastorale. Il sacerdote, di regola, non può farne a meno. Lo
aiuta a crescere nella santità e costituisce un appoggio sicuro nelle
difficoltà. Come non esprimere, in occasione del giubileo d'oro, ai
sacerdoti dell'Arcidiocesi di Cracovia la mia gratitudine per il loro
contributo al mio sacerdozio?
Il dono dei laici
Penso in questi giorni anche a tutti i laici che il Signore mi ha fatto
incontrare nella mia missione di sacerdote e di vescovo. Sono stati per me
un dono singolare, per il quale non cesso di ringraziare la
Provvidenza. Sono così numerosi che non è possibile elencarli per nome, ma
li porto tutti nel cuore, perché ciascuno di loro ha offerto il proprio
contributo alla realizzazione del mio sacerdozio. In qualche modo essi mi
hanno indicato la strada, aiutandomi a capire meglio il mio ministero e a
viverlo in pienezza. Sì, dai frequenti contatti con i laici ho sempre
tratto molto profitto, ho imparato molto. C'erano tra di loro semplici
operai, uomini dediti alla cultura e all'arte, grandi scienziati. Da tali
incontri sono nate cordiali amicizie, delle quali molte durano ancora.
Grazie a loro la mia azione pastorale si è come moltiplicata, superando
barriere e penetrando in ambienti altrimenti difficilmente
raggiungibili.
In realtà, mi ha accompagnato sempre la profonda consapevolezza
dell'urgente bisogno dell'apostolato dei laici nella Chiesa. Quando
il Concilio Vaticano II parlò della vocazione e missione dei laici nella
Chiesa e nel mondo, non potei che provare una grande gioia: ciò che il
Concilio insegnava rispondeva ai convincimenti che avevano guidato la mia
azione fin dai primi anni del mio ministero sacerdotale.
VIII
CHI È IL SACERDOTE?
Non posso fare a meno, in questa mia testimonianza, di andare oltre il
ricordo degli eventi e delle persone, per fissare lo sguardo più in
profondità, quasi per scrutare il mistero che da cinquant'anni mi
accompagna e mi avvolge.
Che significa essere sacerdote? Secondo San Paolo significa soprattutto
essere amministratore dei misteri di Dio: «Ognuno ci consideri come
ministri di Cristo e amministratori dei misteri di Dio. Ora, quanto si
richiede negli amministratori è che ognuno risulti fedele» (1 Cor
4, 1-2). Il termine «amministratore» non può essere sostituito con
nessun altro. Esso è radicato profondamente nel Vangelo: si ricordi la
parabola sull'amministratore fedele e su quello infedele (cfr Lc
12, 41-48). L'amministratore non è il proprietario, ma colui al quale
il proprietario affida i suoi beni, affinché li gestisca con giustizia e
responsabilità. Proprio così il sacerdote riceve da Cristo i beni della
salvezza, per distribuirli nel modo dovuto tra le persone alle quali viene
inviato. Si tratta dei beni della fede. Il sacerdote, pertanto, è uomo
della parola di Dio, uomo del sacramento, uomo del «mistero della fede».
Attraverso la fede egli accede ai beni invisibili che costituiscono
l'eredità della Redenzione del mondo operata dal Figlio di Dio. Nessuno
può ritenersi «proprietario» di questi beni. Tutti ne siamo destinatari.
In forza, però, di ciò che Cristo ha stabilito, il sacerdote ha il compito
di amministrarli.
Admirabile commercium!
La vocazione sacerdotale è un mistero. E il mistero di un
«meraviglioso scambio» — admirabile commercium — tra Dio e l'uomo.
Questi dona a Cristo la sua umanità, perché Egli se ne possa servire come
strumento di salvezza, quasi facendo di quest'uomo un altro se stesso. Se
non si coglie il mistero di questo «scambio», non si riesce a capire come
possa avvenire che un giovane, ascoltando la parola «Seguimi!», giunga a
rinunciare a tutto per Cristo, nella certezza che per questa strada la sua
personalità umana si realizzerà pienamente.
C'è al mondo una realizzazione della nostra umanità che sia più grande
del poter ripresentare ogni giorno in persona Christi il Sacrificio
redentivo, lo stesso che Cristo consumò sulla croce? In questo Sacrificio,
da una parte è presente nel modo più profondo lo stesso Mistero
trinitario, dall'altra è come «ricapitolato» tutto l'universo creato (cfr
Ef 1, 10). Anche per offrire «sull'altare della terra intera il
lavoro e la sofferenza del mondo», secondo una bella espressione di
Teilhard de Chardin, si compie l'Eucaristia. Ecco perché, nel
ringraziamento dopo la Santa Messa, si recita anche il Cantico dei tre
giovani dell'Antico Testamento: Benedicite omnia opera Domini Domino...
In effetti, nell'Eucaristia tutte le creature visibili e invisibili, e
in particolare l'uomo, benedicono Dio come Creatore e Padre, lo benedicono
con le parole e l'azione di Cristo, Figlio di Dio.
Sacerdote ed Eucaristia
«Io ti rendo lode, Padre, Signore del cielo e della terra, che hai
nascosto queste cose ai dotti e ai sapienti e le hai rivelate ai piccoli
(...) Nessuno sa chi è il Figlio se non il Padre, né chi è il Padre se non
il Figlio e colui al quale il Figlio lo voglia rivelare» (Lc 10,
21-22). Queste parole del Vangelo di San Luca, introducendoci nell'intimo
del mistero di Cristo, ci consentono di accostarci anche al mistero
dell'Eucaristia. In essa il Figlio consostanziale al Padre, Colui che
soltanto il Padre conosce, Gli offre in sacrificio se stesso per l'umanità
e per l'intera creazione. Nell'Eucaristia Cristo restituisce al Padre
tutto ciò che da Lui proviene. Si realizza così un profondo mistero di
giustizia della creatura verso il Creatore. Bisogna che l'uomo renda
onore al Creatore offrendo, con atto di ringraziamento e di lode, tutto
ciò che da Lui ha ricevuto. L'uomo non può smarrire il senso di questo
debito, che egli soltanto, tra tutte le altre realtà terrestri, può
riconoscere e saldare come creatura fatta a immagine e somiglianza di Dio.
Nello stesso tempo, dati i suoi limiti di creatura e il peccato che lo
segna, l'uomo non sarebbe capace di compiere questo atto di giustizia
verso il Creatore, se Cristo stesso, Figlio consostanziale al Padre e vero
uomo, non intraprendesse questa iniziativa eucaristica.
Il sacerdozio, fin dalle sue radici, è il sacerdozio di Cristo.
E Lui che offre a Dio Padre il sacrificio di se stesso, della sua carne e
del suo sangue, e con il suo sacrificio giustifica agli occhi del Padre
tutta l'umanità e indirettamente tutto il creato. Il sacerdote, celebrando
ogni giorno l'Eucaristia, scende nel cuore di questo mistero. Per questo
la celebrazione dell'Eucaristia non può non essere, per lui, il momento
più importante della giornata, il centro della sua vita.
In persona Christi
Le parole che ripetiamo a conclusione del Prefazio — «Benedetto colui
che viene nel nome del Signore...» — ci riportano ai drammatici
avvenimenti della Domenica delle Palme. Cristo va a Gerusalemme per
affrontare il cruento sacrificio del Venerdì Santo. Ma il giorno
precedente, durante l'Ultima Cena, ne istituisce il sacramento. Pronuncia
sul pane e sul vino le parole della consacrazione: «Questo è il mio Corpo
offerto in sacrificio per voi.(...) Questo è il calice del mio Sangue, per
la nuova ed eterna alleanza, versato per voi e per tutti in remissione dei
peccati. Fate questo in memoria di me».
Quale «memoria»? Sappiamo che a questo termine occorre dare un senso
forte, che va ben oltre il semplice ricordo storico. Siamo qui nell'ordine
del biblico «memoriale», che rende presente l'evento stesso. E
memoria-presenza! Il segreto di questo prodigio è l'azione
dello Spirito Santo, che il sacerdote invoca, mentre impone le mani sopra
i doni del pane e del vino: «Santifica questi doni con l'effusione del
tuo Spirito, perché diventino per noi il Corpo e il Sangue di Gesù
Cristo nostro Signore». Non è dunque solo il sacerdote che ricorda gli
avvenimenti della Passione, Morte e Risurrezione di Cristo; è lo Spirito
Santo che fa sì che essi si attuino sull'altare attraverso il ministero
del sacerdote. Questi agisce veramente in persona Christi. Quello
che Cristo ha compiuto sull'altare della Croce e che prima ancora ha
stabilito come sacramento nel Cenacolo, il sacerdote lo rinnova nella
forza dello Spirito Santo. Egli viene in questo momento come avvolto dalla
potenza dello Spirito Santo e le parole che pronuncia acquistano la stessa
efficacia di quelle uscite dalla bocca di Cristo durante l'Ultima
Cena.
Mysterium fidei
Durante la Santa Messa, dopo la transustanziazione, il sacerdote
pronuncia le parole: Mysterium fidei, Mistero della fede! Sono
parole che si riferiscono, ovviamente, all'Eucaristia. In qualche modo,
tuttavia, esse concernono anche il sacerdozio. Non esiste Eucaristia senza
sacerdozio, come non esiste sacerdozio senza Eucaristia. Non soltanto il
sacerdozio ministeriale è legato strettamente all'Eucaristia; anche il
sacerdozio comune di tutti i battezzati si radica in tale mistero. Alle
parole del celebrante i fedeli rispondono: «Annunciamo la tua morte,
Signore, proclamiamo la tua risurrezione, nell'attesa della tua venuta».
Nella partecipazione al Sacrificio eucaristico i fedeli diventano
testimoni di Cristo crocifisso e risorto, impegnandosi a vivere quella sua
triplice missione — sacerdotale, profetica e regale — di cui sono
investiti fin dal Battesimo, come ha ricordato il Concilio Vaticano
II.
Il sacerdote, quale amministratore dei «misteri di Dio», è al servizio
del sacerdozio comune dei fedeli. E lui che, annunziando la Parola e
celebrando i sacramenti, specie l'Eucaristia, rende sempre più consapevole
tutto il popolo di Dio della sua partecipazione al sacerdozio di Cristo, e
contemporaneamente lo spinge a realizzarla pienamente. Quando, dopo la
transustanziazione, risuonano le parole: Mysterium fidei, tutti
sono invitati a rendersi conto della particolare densità esistenziale di
questo annuncio, in riferimento al mistero di Cristo, dell'Eucaristia, del
Sacerdozio.
Non trae forse di qui la sua motivazione più profonda la stessa
vocazione sacerdotale? Una motivazione che è già tutta presente al
momento dell'Ordinazione, ma che attende di essere interiorizzata e
approfondita nell'arco dell'intera esistenza. Solo così il sacerdote può
scoprire in profondità la grande ricchezza che gli è stata affidata. A
cinquant'anni dall'Ordinazione, posso dire che ogni giorno di più in quel
Mysterium fidei si ritrova il senso del proprio sacerdozio. E lì la
misura del dono che esso costituisce, e lì è pure la misura della risposta
che questo dono richiede. Il dono è sempre più grande! Ed è bello
che sia così. E bello che un uomo non possa mai dire di aver risposto
pienamente al dono. E un dono ed è anche un compito: sempre! Avere
consapevolezza di questo è fondamentale per vivere appieno il proprio
sacerdozio.
Cristo, Sacerdote e Vittima
La verità sul sacerdozio di Cristo mi ha parlato sempre con
straordinaria eloquenza attraverso le Litanie che si usava recitare nel
seminario di Cracovia, in particolare alla vigilia dell'Ordinazione
presbiterale. Alludo alle Litanie a Cristo Sacerdote e Vittima.
Quali pensieri profondi esse suscitavano in me! Nel sacrificio della
Croce, ripresentato e attualizzato in ogni Eucaristia, Cristo offre se
stesso per la salvezza del mondo. Le invocazioni litaniche passano in
rassegna i vari aspetti del mistero. Esse mi tornano alla memoria con il
simbolismo evocatore delle immagini bibliche di cui sono intessute. Me le
ritrovo sulle labbra nella lingua latina in cui le ho recitate durante il
seminario e poi tante volte negli anni successivi:
Iesu, Sacerdos et Victima, Iesu, Sacerdos in aeternum secundum
ordi nem Melchisedech, ... Iesu, Pontifex ex hominibus
assumpte, Iesu, Pontifex pro hominibus constitute, ... Iesu,
Pontifex futurorum bonorum, ... Iesu, Pontifex fidelis et misericors,
... Iesu, Pontifex qui dilexisti nos et lavisti nos a peccatis in
sanguine tuo, ... Iesu, Pontifex qui tradidisti temetipsum Deo
oblationem et hostiam, ... Iesu, Hostia sancta et immaculata,
... Iesu, Hostia in qua habemus fiduciam et accessum ad Deum, ... Iesu,
Hostia vivens in saecula saeculorum...*
Quale ricchezza teologica in queste espressioni! Sono litanie
profondamente radicate nella Sacra Scrittura, soprattutto nella
Lettera agli Ebrei. Basti rileggerne questo brano: «Cristo (...) come
sommo sacerdote dei beni futuri (...) entrò una volta per sempre nel
santuario non con sangue di capri e di vitelli, ma con il proprio sangue,
dopo averci ottenuto una redenzione eterna. Infatti, se il sangue dei
capri e dei vitelli (...) sparsi su quelli che sono contaminati, li
santificano, purificandoli nella carne, quanto più il sangue di Cristo, il
quale con uno Spirito eterno offrì se stesso senza macchia a Dio,
purificherà la nostra coscienza dalle opere morte, per servire il Dio
vivente?» (Eb 9, 11-14). Cristo è sacerdote perché Redentore del
mondo. Nel mistero della Redenzione si inscrive il sacerdozio di tutti
i presbiteri. Questa verità sulla Redenzione e sul Redentore si è radicata
nel centro stesso della mia coscienza, mi ha accompagnato per tutti questi
anni, ha impregnato tutte le mie esperienze pastorali, mi ha svelato
contenuti sempre nuovi.
In questi cinquant'anni di vita sacerdotale mi sono reso conto che la
Redenzione, prezzo che doveva essere pagato per il peccato, porta con sé
anche una rinnovata scoperta, quasi una «nuova creazione», di tutto ciò
che è stato creato: la riscoperta dell'uomo come persona, dell'uomo
creato da Dio maschio e femmina, la riscoperta, nella loro verità
profonda, di tutte le opere dell'uomo, della sua cultura e civiltà, di
tutte le sue conquiste e attuazioni creative.
Dopo l'elezione a Papa, il mio primo impulso spirituale fu di volgermi
verso Cristo Redentore. Ne nacque l'Enciclica Redemptor Hominis.
Riflettendo su tutto questo processo, vedo sempre meglio lo stretto
legame tra il messaggio di questa Enciclica e tutto ciò che si iscrive
nell'animo dell'uomo mediante la partecipazione al sacerdozio di
Cristo.
* Il testo completo delle Litanie è riportato in Appendice.
IX
ESSERE SACERDOTE OGGI
Cinquant'anni di sacerdozio non sono pochi. Quante cose sono avvenute
in questo mezzo secolo di storia! Si sono affacciati alla ribalta nuovi
problemi, nuovi stili di vita, nuove sfide. Viene spontaneo chiedersi:
cosa comporta essere sacerdote oggi, in questo scenario in grande
movimento, mentre si va verso il terzo Millennio?
Non v'è dubbio che il sacerdote, con tutta la Chiesa, cammina col
proprio tempo, e si fa ascoltatore attento e benevolo, ma insieme critico
e vigile, di quanto matura nella storia. Il Concilio ha mostrato come sia
possibile e doveroso un autentico rinnovamento, nella piena fedeltà alla
Parola di Dio ed alla Tradizione. Ma al di là del dovuto rinnovamento
pastorale, sono convinto che il sacerdote non deve avere alcun timore di
essere «fuori tempo», perché l'«oggi» umano di ogni sacerdote è inserito
nell'«oggi» del Cristo Redentore. Il più grande compito per ogni sacerdote
e in ogni tempo è ritrovare di giorno in giorno questo suo «oggi»
sacerdotale nell'«oggi» di Cristo, in quell'«oggi» del quale parla la
Lettera agli Ebrei. Questo «oggi» di Cristo è immerso in tutta la storia —
nel passato e nel futuro del mondo, di ogni uomo e di ogni sacerdote.
«Gesù Cristo è lo stesso ieri e oggi e sempre» (Eb 13, 8). Quindi,
se siamo immersi con il nostro umano, sacerdotale «oggi» nell'«oggi» di
Gesù Cristo, non esiste il pericolo che si diventi di «ieri», arretrati...
Cristo è la misura di tutti i tempi. Nel suo divino-umano, sacerdotale
«oggi», si risolve alla radice tutta l'antinomia — una volta così discussa
— tra il «tradizionalismo» e il «progressismo».
Le attese profonde dell'uomo
Se si analizzano le attese che l'uomo contemporaneo ha nei confronti
del sacerdote, si vedrà che, nel fondo, c'è in lui una sola, grande
attesa: egli ha sete di Cristo. Il resto — ciò che serve sul piano
economico, sociale, politico — lo può chiedere a tanti altri. Al sacerdote
chiede Cristo! E da lui ha diritto di attenderselo innanzitutto mediante
l'annuncio della Parola. I presbiteri — insegna il Concilio — «hanno come
primo dovere quello di annunziare a tutti il Vangelo di Dio»
(Presbyterorum ordinis, 4). Ma l'annuncio mira a far sì che l'uomo
incontri Gesù, specie nel mistero eucaristico, cuore pulsante della Chiesa
e della vita sacerdotale. E un misterioso, formidabile potere quello che
il sacerdote ha nei confronti del Corpo eucaristico di Cristo. In base ad
esso egli diventa l'amministratore del bene più grande della Redenzione,
perché dona agli uomini il Redentore in persona. Celebrare l'Eucaristia è
la funzione più sublime e più sacra di ogni presbitero. E per me, fin dai
primi anni del sacerdozio, la celebrazione dell'Eucaristia è stata non
soltanto il dovere più sacro, ma soprattutto il bisogno più profondo
dell'anima.
Ministro della misericordia
Come amministratore del sacramento della Riconciliazione, il
sacerdote adempie il mandato trasmesso da Cristo agli Apostoli dopo la sua
risurrezione: «Ricevete lo Spirito Santo; a chi rimetterete i peccati
saranno rimessi e a chi non li rimetterete, resteranno non rimessi» (Gv
20, 22-23). Il sacerdote è testimone e strumento della misericordia
divina! Come è importante il servizio del confessionale nella sua vita!
Proprio nel confessionale la sua paternità spirituale si realizza
nel modo più pieno. Proprio nel confessionale ogni sacerdote diventa
testimone dei grandi miracoli che la misericordia divina opera nell'anima
che accetta la grazia della conversione. E necessario però che ogni
sacerdote al servizio dei fratelli nel confessionale sappia fare egli
stesso esperienza di questa misericordia di Dio, attraverso la propria
regolare confessione e la direzione spirituale.
Amministratore dei misteri divini, il sacerdote è uno speciale
testimone dell'Invisibile nel mondo. E infatti amministratore di
beni invisibili e incommensurabili, che appartengono all'ordine spirituale
e soprannaturale.
Un uomo a contatto con Dio
Quale amministratore di simili beni, il sacerdote, è in permanente,
particolare contatto con la santità di Dio. «Santo, Santo, Santo,
il Signore Dio dell'universo! I cieli e la terra sono pieni della tua
gloria». La maestà di Dio è la maestà della santità. Nel sacerdozio l'uomo
è come innalzato alla sfera di questa santità, in qualche modo arriva alle
altezze alle quali fu una volta introdotto il profeta Isaia. E proprio di
quella visione profetica si fa eco la liturgia eucaristica: Sanctus,
Sanctus, Sanctus Dominus Deus Sabaoth. Pleni sunt caeli et terra gloria
tua. Hosanna in excelsis.
Contemporaneamente il sacerdote vive ogni giorno, in continuazione, la
discesa di questa santità di Dio verso l'uomo: Benedictus qui venit in
nomine Domini. Con queste parole le folle di Gerusalemme salutavano
Cristo che arrivava in città per consumare il sacrificio per la redenzione
del mondo. La santità trascendente, in qualche modo «fuori del mondo»,
diventa in Cristo la santità «dentro il mondo». Diventa la santità del
Mistero pasquale.
Chiamato alla santità
A costante contatto con la santità di Dio, il sacerdote deve lui stesso
diventare santo. E il medesimo suo ministero ad impegnarlo in una scelta
di vita ispirata al radicalismo evangelico. Questo spiega la specifica
necessità, in lui, dello spirito dei consigli evangelici di castità,
povertà e obbedienza. In questo orizzonte si comprende anche la speciale
convenienza del celibato. Da qui il particolare bisogno di preghiera nella
sua vita: la preghiera sorge dalla santità di Dio e nello stesso tempo è
la risposta a questa santità. Ho scritto una volta: «La preghiera crea il
sacerdote e il sacerdote si crea attraverso la preghiera». Sì, il
sacerdote dev'essere innanzitutto uomo di preghiera, convinto che
il tempo dedicato all'incontro intimo con Dio è sempre il meglio
impiegato, perché oltre che a lui giova anche al suo lavoro
apostolico.
Se il Concilio Vaticano II parla della universale vocazione alla
santità, nel caso del sacerdote bisogna parlare di una speciale
vocazione alla santità. Cristo ha bisogno di sacerdoti santi! Il
mondo di oggi reclama sacerdoti santi! Soltanto un sacerdote santo può
diventare, in un mondo sempre più secolarizzato, un testimone trasparente
di Cristo e del suo Vangelo. Soltanto così il sacerdote può diventare
guida degli uomini e maestro di santità. Gli uomini, soprattutto i
giovani, aspettano una tale guida. Il sacerdote può essere guida e maestro
nella misura in cui diventa un autentico testimone!
La cura animarum
Nella mia ormai lunga esperienza, tra tante situazioni diverse, mi sono
confermato nella convinzione che soltanto dal terreno della santità
sacerdotale può crescere una pastorale efficace, una vera «cura
animarum». Il segreto più vero degli autentici successi pastorali non
sta nei mezzi materiali, ed ancor meno nei «mezzi ricchi». I frutti
duraturi degli sforzi pastorali nascono dalla santità del sacerdote.
Questo è il fondamento! Naturalmente sono indispensabili la formazione, lo
studio, l'aggiornamento; una preparazione insomma adeguata, che renda
capaci di cogliere le urgenze e di definire le priorità pastorali.
Si potrebbe tuttavia asserire che le priorità dipendono anche dalle
circostanze, e ogni sacerdote è chiamato a precisarle e a viverle d'intesa
col suo Vescovo e in armonia con gli orientamenti della Chiesa universale.
Nella mia vita ho individuato queste priorità nell'apostolato dei laici,
in special modo nella pastorale familiare — campo nel quale gli stessi
laici mi hanno aiutato tanto —, nella cura per i giovani e nel dialogo
intenso con il mondo della scienza e della cultura. Tutto questo si è
rispecchiato nella mia attività scientifica e letteraria. E nato così lo
studio «Amore e responsabilità» e, tra l'altro, un'opera
letteraria: «La bottega dell'orefice» con il sottotitolo:
Meditazioni sul sacramento del matrimonio.
Una ineludibile priorità oggi è costituita dall'attenzione
preferenziale per i poveri, gli emarginati, gli immigrati. Per essi il
sacerdote deve essere veramente un «padre». Indispensabili sono certo
anche i mezzi materiali, come quelli che ci offre la tecnologia moderna.
Il segreto tuttavia rimane sempre la santità di vita del sacerdote che
s'esprime nella preghiera e nella meditazione, nello spirito di sacrificio
e nell'ardore missionario. Quando ripercorro con il pensiero gli anni del
mio servizio pastorale come sacerdote e come vescovo, mi convinco sempre
più di quanto ciò sia vero e fondamentale.
Uomo della Parola
Ho già accennato che, per essere autentica guida della comunità, vero
amministratore dei misteri di Dio, il sacerdote è chiamato ad essere anche
uomo della parola di Dio, generoso ed infaticabile evangelizzatore.
Oggi se ne vede ancor più l'urgenza di fronte ai compiti immensi della
«nuova evangelizzazione».
Dopo tanti anni di ministero della Parola, che specie da Papa mi hanno
visto pellegrino in tutti gli angoli del mondo, non posso fare a meno di
dedicare ancora qualche considerazione a questa dimensione della vita
sacerdotale. Una dimensione esigente, giacché gli uomini di oggi si
aspettano dal sacerdote, prima che la parola «annunciata», la parola
«vissuta». Il presbitero deve «vivere della Parola». Al tempo stesso,
però, egli si sforzerà di essere anche preparato intellettualmente
per conoscerla a fondo ed annunciarla efficacemente.
Nella nostra epoca caratterizzata da un alto grado di specializzazione
in quasi tutti i settori della vita, la formazione intellettuale è quanto
mai importante. Essa rende possibile intraprendere un dialogo intenso e
creativo con il pensiero contemporaneo. Gli studi umanistici e filosofici
e la conoscenza della teologia sono le strade per giungere a tale
formazione intellettuale, che dovrà poi essere approfondita per tutta la
vita. Lo studio, per essere autenticamente formativo, ha bisogno di essere
costantemente affiancato dalla preghiera, dalla meditazione,
dall'implorazione dei doni dello Spirito Santo: la sapienza, l'intelletto,
il consiglio, la fortezza, la scienza, la pietà e il timore di Dio. San
Tommaso d'Aquino spiega in che modo, con i doni dello Spirito Santo, tutto
l'organismo spirituale dell'uomo venga sensibilizzato alla luce di Dio,
alla luce della conoscenza e anche all'ispirazione dell'amore. La
preghiera per i doni dello Spirito Santo mi ha accompagnato fin dalla
giovinezza e le sono tuttora fedele.
Approfondimento scientifico
Ma certamente, come insegna lo stesso San Tommaso, la «scienza infusa»,
che è frutto di speciale intervento dello Spirito Santo, non esonera dal
dovere di procurarsi la «scienza acquisita».
Per quanto mi concerne, come già ho detto, subito dopo l'ordinazione
sacerdotale fui inviato a Roma a perfezionare gli studi. Più tardi, per
volontà del mio Vescovo, dovetti occuparmi di scienza come professore di
etica alla Facoltà Teologica di Cracovia e all'Università Cattolica di
Lublino. Frutto di questi studi fu il dottorato su San Giovanni della
Croce e poi la tesi per la libera docenza su Max Scheler: specificamente,
sul contributo che il suo sistema etico di tipo fenomenologico può dare
alla formazione della teologia morale. A questo lavoro di ricerca devo
veramente molto. Sulla mia precedente formazione aristotelico-tomista si
innestava così il metodo fenomenologico, cosa che mi ha permesso di
intraprendere numerose prove creative in questo campo. Penso soprattutto
al libro «Persona e atto». In questo modo mi sono inserito nella
corrente contemporanea del personalismo filosofico, studio che non è stato
privo di frutti pastorali. Spesso constato che molte delle riflessioni
maturate in questi studi mi aiutano durante gli incontri con singole
persone e durante gli incontri con le folle dei fedeli in occasione dei
viaggi apostolici. Questa formazione nell'orizzonte culturale del
personalismo mi ha dato una più profonda consapevolezza di quanto ciascuno
sia persona unica e irripetibile, e ritengo tale consapevolezza molto
importante per ogni sacerdote.
Il dialogo con il pensiero contemporaneo
Grazie ad incontri e discussioni con naturalisti, fisici, biologi ed
anche storici ho imparato ad apprezzare l'importanza delle altre branche
del sapere riguardanti le discipline scientifiche, alle quali pure è dato
di poter giungere alla verità sotto angolature diverse. Bisogna quindi che
lo splendore della verità — Veritatis splendor — le accompagni
continuamente, permettendo agli uomini di incontrarsi, di scambiarsi le
riflessioni e di arricchirsi reciprocamente. Ho portato con me da Cracovia
a Roma la tradizione di periodici incontri interdisciplinari, che si
svolgono regolarmente nel periodo estivo a Castel Gandolfo. Cerco di
essere fedele a questa buona consuetudine.
«Labia sacerdotum scientiam custodiant...» (cfr Ml 2, 7).
Mi piace richiamare queste parole del profeta Malachia, riprese dalle
Litanie a Cristo Sacerdote e Vittima, perché hanno una sorta di
valore programmatico per chi è chiamato ad essere ministro della Parola.
Egli deve essere davvero uomo di scienza nel senso più alto e
religioso di questo termine. Deve avere e trasmettere quella «scienza di
Dio» che non è solo un deposito di verità dottrinali, ma esperienza
personale e viva del Mistero, nel senso indicato dal Vangelo di Giovanni
nella grande preghiera sacerdotale: «Questa è la vita eterna: che
conoscano te, l'unico vero Dio, e colui che hai mandato, Gesù
Cristo» (Gv 17, 3).
X
Ai Fratelli nel sacerdozio
Concludendo questa testimonianza sulla mia vocazione sacerdotale,
desidero rivolgermi a tutti i Fratelli nel sacerdozio: a tutti
senza eccezione! Lo faccio con le parole di San Pietro: «Fratelli, cercate
di render sempre più sicura la vostra vocazione e la vostra elezione. Se
farete questo non inciamperete mai» (2 Pt 1, 10). Amate il vostro
sacerdozio! Siate fedeli fino alla fine! Sappiate vedere in esso quel
tesoro evangelico per il quale vale la pena di donare tutto (cfr
Mt 13, 44).
In modo particolare mi rivolgo a quelli tra voi che vivono un periodo
di difficoltà o addirittura di crisi della loro vocazione. Vorrei che
questa mia testimonianza personale — testimonianza di sacerdote e Vescovo
di Roma, che festeggia il giubileo d'oro dell'Ordinazione — fosse per voi
aiuto e invito alla fedeltà. Ho scritto queste parole pensando a ognuno di
voi, ognuno di voi abbracciando con la preghiera.
Pupilla oculi
Ho pensato anche a tanti giovani seminaristi che si preparano al
sacerdozio. Quante volte un vescovo torna con il pensiero e con il cuore
al seminario! Esso è il primo oggetto delle sue preoccupazioni. Si suol
dire che il seminario costituisce per un vescovo la «pupilla
dell'occhio». L'uomo difende la pupilla del suo occhio, perché essa
gli consente di vedere. Così, in qualche modo, il vescovo vede la sua
Chiesa attraverso il seminario, giacché dalle vocazioni sacerdotali
dipende tanta parte della vita ecclesiale. La grazia di numerose e sante
vocazioni sacerdotali gli permette di guardare con fiducia al futuro della
sua missione.
Lo dico sulla base dei molti anni della mia esperienza episcopale. Sono
divenuto vescovo dopo dodici anni dall'Ordinazione sacerdotale: buona
parte di questo cinquantennio è stata segnata proprio dalla preoccupazione
per le vocazioni. Grande è la gioia del vescovo quando il Signore dona
vocazioni alla sua Chiesa; la loro assenza invece provoca preoccupazione e
inquietudine. Il Signore Gesù ha paragonato questa preoccupazione a quella
del mietitore: «La messe è molta, ma gli operai sono pochi! Pregate dunque
il padrone della messe che mandi operai nella sua messe!» (Mt 9,
37).
Deo gratias!
Non posso chiudere queste riflessioni, nell'anno del mio giubileo d'oro
sacerdotale, senza esprimere al Signore della messe la più profonda
gratitudine per il dono della vocazione, per la grazia del
sacerdozio, per le vocazioni sacerdotali in tutto il mondo. Lo faccio in
unione con tutti i vescovi, che condividono la stessa preoccupazione per
le vocazioni e vivono la stessa gioia quando il loro numero aumenta.
Grazie a Dio, è in via di superamento una certa crisi delle vocazioni
sacerdotali nella Chiesa. Ogni nuovo sacerdote porta con sé una
benedizione speciale: «Benedetto colui che viene nel nome del Signore». In
ciascun sacerdote infatti è Cristo stesso che viene. Se San Cipriano ha
detto che il cristiano è un «altro Cristo» — Christianus alter
Christus — a maggior ragione si può dire: Sacerdos alter
Christus.
Voglia Iddio tener desta nei sacerdoti la coscienza grata ed operosa
del dono ricevuto e suscitare in molti giovani una risposta pronta e
generosa alla sua chiamata a spendersi senza riserve per la causa del
Vangelo. Ne trarranno vantaggio gli uomini e le donne del nostro tempo,
così bisognosi di senso e di speranza. Ne gioirà la Comunità cristiana,
che potrà guardare con fiducia alle incognite e alle sfide del terzo
Millennio, ormai alle porte.
La Vergine Maria accolga come un omaggio filiale questa mia
testimonianza, a gloria della Santa Trinità. La renda feconda nel cuore
dei fratelli nel sacerdozio e di tanti figli della Chiesa. Ne faccia un
seme di fraternità anche per quanti, pur non condividendo la stessa fede,
mi fanno spesso dono del loro ascolto e del loro dialogo sincero.
APPENDICE
Litanie di Nostro Signore Gesù Cristo
Sacerdote e Vittima
Kyrie, eleison Kyrie, eleison
Christe, eleison Christe, eleison
Kyrie, eleison Kyrie, eleison
Christe, audi nos Christe, audi nos
Christe, exaudi nos Christe, exaudi nos
Pater de cælis, Deus, miserere nobis
Fili, Redemptor mundi, Deus, miserere nobis
Spiritus Sancte, Deus, miserere nobis
Sancta Trinitas, unus Deus, miserere nobis
Iesu, Sacerdos et Victima, miserere nobis
Iesu, Sacerdos in æternum
secundum ordinem Melchisedech, miserere nobis
Iesu, Sacerdos quem misit Deus
evangelizare pauperibus, miserere nobis
Iesu, Sacerdos qui in novissima cena
formam sacrificii perennis instituisti, miserere nobis
Iesu, Sacerdos semper vivens
ad interpellandum pro nobis, miserere nobis
Iesu, Pontifex quem Pater unxit
Spiritu Sancto et virtute, miserere nobis
Iesu, Pontifex ex hominibus assumpte, miserere nobis
Iesu, Pontifex pro hominibus
constitute, miserere nobis
Iesu, Pontifex confessionis nostræ, miserere nobis
Iesu, Pontifex amplioris
præ Moysi gloriæ, miserere nobis
Iesu, Pontifex tabernaculi veri, miserere nobis
Iesu, Pontifex futurorum bonorum, miserere nobis
Iesu, Pontifex sancte,
innocens et impollute, miserere nobis
Iesu, Pontifex fidelis et misericors, miserere nobis
Iesu, Pontifex Dei et animarum
zelo succense, miserere nobis
Iesu, Pontifex in æternum perfecte, miserere nobis
Iesu, Pontifex qui per proprium
sanguinem cælos penetrasti, miserere nobis
Iesu, Pontifex qui nobis
viam novam initiasti, miserere nobis
Iesu, Pontifex qui dilexisti nos
et lavisti nos a peccatis in sanguine tuo, miserere nobis
Iesu, Pontifex qui tradidisti temetipsum
Deo oblationem et hostiam, miserere nobis
Iesu, Hostia Dei et hominum, miserere nobis
Iesu, Hostia sancta et immaculata, miserere nobis
Iesu, Hostia placabilis, miserere nobis
Iesu, Hostia pacifica, miserere nobis
Iesu, Hostia propitiationis et laudis, miserere nobis
Iesu, Hostia reconciliationis et pacis, miserere nobis
Iesu, Hostia in qua habemus fiduciam
et accessum ad Deum, miserere nobis
Iesu, Hostia vivens in sæcula
sæculorum, miserere nobis
Propitius esto! parce nobis, Iesu
Propitius esto! exaudi nos, Iesu
A temerario in clerum ingressu, libera nos, Iesu
A peccato sacrilegii, libera nos, Iesu
A spiritu incontinentiæ, libera nos, Iesu
A turpi quæstu, libera nos, Iesu
Ab omni simoniæ labe, libera nos, Iesu
Ab indigna opum ecclesiasticarum
dispensatione, libera nos, Iesu
Ab amore mundi eiusque vanitatum, libera nos, Iesu
Ab indigna Mysteriorum tuorum
celebratione, libera nos, Iesu
Per æternum sacerdotium tuum, libera nos, Iesu
Per sanctam unctionem, qua a Deo Patre
in sacerdotem constitutus es, libera nos, Iesu
Per sacerdotalem spiritum tuum, libera nos, Iesu
Per ministerium illud, quo Patrem tuum
super terram clarificasti, libera nos, Iesu
Per cruentam tui ipsius immolationem
semel in cruce factam, libera nos, Iesu
Per illud idem sacrificium
in altari quotidie renovatum, libera nos, Iesu
Per divinam illam potestatem, quam in
sacerdotibus tuis invisibiliter exerces, libera nos, Iesu
Ut universum ordinem sacerdotalem
in sancta religione conservare
digneris, Te rogamus, audi nos
Ut pastores secundum cor tuum populo tuo
providere digneris, Te rogamus, audi nos
Ut illos spiritus sacerdotii tui implere
digneris, Te rogamus, audi nos
Ut labia sacerdotum scientiam custodiant, Te rogamus, audi
nos
Ut in messem tuam operarios fideles mittere
digneris, Te rogamus, audi nos
Ut fideles mysteriorum tuorum dispensatores
multiplicare digneris, Te rogamus, audi nos
Ut eis perseverantem in tua voluntate
famulatum tribuere digneris, Te rogamus, audi nos
Ut eis in ministerio mansuetudinem,
in actione sollertiam et in oratione
constantiam concedere digneris, Te rogamus, audi nos
Ut per eos sanctissimi Sacramenti
cultum ubique promovere digneris, Te rogamus, audi nos
Ut qui tibi bene ministraverunt,
in gaudium tuum suscipere digneris, Te rogamus, audi nos
Agnus Dei, qui tollis peccata mundi, parce nobis, Domine
Agnus Dei, qui tollis peccata mundi, exaudi nos, Domine
Agnus Dei, qui tollis peccata mundi, miserere nobis, Domine
Iesu, Sacerdos, audi nos
Iesu, Sacerdos, exaudi nos
Oremus
Ecclesiæ tuæ, Deus, sanctificator et custos, suscita in ea per Spiritum
tuum idoneos et fideles sanctorum mysteriorum dispensatores, ut eorum
ministerio et exemplo christiana plebs in viam salutis te protegente
dirigatur. Per Christum Dominum nostrum. Amen.
Deus, qui ministrantibus et ieiunantibus discipulis segregari iussisti
Saulum et Barnabam in opus ad quod assumpseras eos, adesto nunc Ecclesiæ
tuæ oranti, et tu, qui omnium corda nosti, ostende quos elegeris in
ministerium. Per Christum Dominum nostrum.
Amen.
INDICE
Ho vivo nella memoria
I
Agli inizi... il mistero!
I primi segni della vocazione
Gli studi all'Università Jaghellonica
Lo scoppio della seconda guerra mondiale
Il teatro della parola viva
II
La decisione di entrare in seminario
Le vacanze da seminarista
Il Cardinale Adam Stefan Sapieha
III
Influssi sulla mia vocazione
La famiglia
La fabbrica Solvay
La parrocchia di Debniki: i Salesiani
I Padri Carmelitani
Il P. Kazimierz Figlewicz
Il «filo mariano»
Il Santo Frate Alberto
Esperienza di guerra
Il sacrificio dei sacerdoti polacchi
La bontà sperimentata tra le asprezze della guerra
IV
Sacerdote!
Ricordo di un fratello nella vocazione sacerdotale
Veni, Creator Spiritus!
Il pavimento
La «prima Messa»
Tra il Popolo di Dio
V
Roma
«Imparare Roma»
Prospettive pastorali
L'orizzonte europeo
Tra gli emigrati
La figura di San Giovanni Maria Vianney
Un «grazie» sentito
Il ritorno in Polonia
VI
Niegowic: una parrocchia di campagna
A San Floriano in Cracovia
Il lavoro scientifico
VII
Chiesa che sei in Polonia, grazie!
Il presbiterio di Cracovia
Il dono dei laici
VIII
Chi è il sacerdote?
Admirabile commercium!
Sacerdote ed Eucaristia
In persona Christi
Mysterium fidei
Cristo, Sacerdote e Vittima
IX
Essere sacerdote oggi
Le attese profonde dell'uomo
Ministro della misericordia
Un uomo a contatto con Dio
Chiamato alla santità
La cura animarum
Uomo della Parola
Approfondimento scientifico
Il dialogo con il pensiero contemporaneo
X
Ai Fratelli nel sacerdozio
Pupilla oculi
Deo gratias!
APPENDICE
Litanie di nostro Signore Gesù Cristo, Sacerdote e Vittima
INDICE
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