IL 18 BRUMAIO di Marx

Il 18 Brumaio di Luigi Bonaparte

Prefazione dell'autore alla seconda edizione

L'amico, Joseph. Weydemeyer, morto prematuramente, aveva l'intenzione di pubblicare a New York, a partire dal I° gennaio 1852, una rassegna politica settimanale, per la quale mi chiese di scrivere la storia del Coup d'Etat. A tale scopo gli inviai settimanalmente sino alla metà di febbraio, degli articoli col titolo: Il 18 brumaio di Luigi Bonaparte. Nel frattempo il piano originario di Weydemeyer era andato a monte. Nella primavera del 1852 egli pubblicò invece una rivista mensile: Die Revolution, il cui secondo fascicolo contiene il mio 18 brumaio. Alcune centinaia di copie trovarono allora la via della Germania, senza però esser poste in vendita. Un libraio tedesco che si faceva passare per estremamente radicale e a cui ne proposi lo smercio, mi rispose manifestando un vero orrore morale per una "pretesa così contraria allo spirito dei tempi". Da questi dati risulta che il presente scritto è nato sotto l'impressione diretta degli avvenimenti e che il suo materiale storico non va più in là del mese di febbraio (1852).
La sua presente ristampa è dovuta in parte alle richieste del commercio librario, in parte alla pressione dei miei amici in Germania.

Degli scritti che, quasi contemporaneamente al mio, si occuparono dello stessa argomento, solo due sono, degni di nota: Napoléon le Petit di Victor Hugo e il Coup d'Etat di Proudhon.

Victor Hugò si limita a un'invettiva amara e piena di sarcasmo, contro l'autore responsabile del colpo di stato. L'avvenimento in sé gli appare come un fulmine a ciel sereno. Egli non vede in esso altro che l'atto di violenza di un individuo. Non si accorge che ingrandisce questo individuo invece di rimpicciolirlo, in quanto gli attribuisce una potenza di iniziativa personale che non avrebbe esempi nella storia del mondo.

Proudhon, dal canto, suo, cerca di rappresentare il colpo di stato come il risultato di una precedente evoluzione storica; ma la ricostruzione storica dei colpo di stato si trasforma in lui in una apologia storica dell'eroe del colpo di stato. Egli cade nell'errore dei nostri cosiddetti storici oggettivi. Io mostro, invece, come in Francia la lotta di classe creò delle circostanze e una situazione che resero possibile a un personaggio mediocre e grottesco di far la parte dell'eroe.

Un rimaneggiamento di questo scritto gli avrebbe tolto il suo colore particolare. Perciò mi sono limitato alla pura e semplice correzione degli errori di stampa e a sopprimere le allusioni oggi non più comprensibili.

Ciò che dicevo nella frase finale del mio scritto: "Ma quando il mantello imperiale, cadrà finalmente sulle spalle di Luigi Bonaparte, la statua di bronzo di Napoleone precipiterà dall'alto della colonna Vendôme", si e già avverato.

L'attacco al culto di Napoleone venne iniziato dal colonnello Charras , nella sua opera sulla campagna del 1815. In seguito, e particolarmente in questi ultimi anni, la letteratura francese, con le armi dell'indagine storica, della critica, della satira e del motto di spirito, ha dato il, colpo di grazia alla leggenda Napoleonica. Fuori della Francia, questa rottura violenta con le credenze popolari tradizionali, questa immensa rivoluzione spirituale, è stata poco osservata e ancor meno compresa.

Io spero, infine, che il mio scritto contribuirà a liberarci della frase scolastica, ora così corrente specie in Germania, circa il cosiddetto cesarismo. Con questa superficiale analogia storica si viene a dimenticare il fatto essenziale che, specialmente nell'antica Roma, la lotta di classe si svolgeva soltanto all'interno di una minoranza privilegiata, tra i ricchi e i poveri che erano liberi cittadini, mentre la grande massa produttiva della popolazione, gli schiavi, costituiva soltanto il piedistallo passivo dei combattenti. Si dimentica la profonda espressione di Sismondi: "il proletariato romano viveva a spese della società, mentre, la. società moderna vive a spese del proletariato" Data una differenza così completa tra le condizioni materiali ed economiche della lotta di classe nel mondo antico e nel mondo moderno, anche i prodotti politici di essa non possono avere in comune niente più di quello che l'arcivescovo di Canterbury non abbia in comune con il gran sacerdote Samuele.

KARL MARX,

Londra, 23 giugno 1869

Prefazione di Engels alla terza edizione tedesca

Il fatto che una nuova edizione del 18 brumaio sia diventata necessaria, trentatré anni dopo il suo primo apparire, prova che questo breve scritto non ha perduto nulla del suo valore, nemmeno oggi.

Si tratta, in realtà, di un'opera geniale. Immediatamente dopo l'avvenimento che sorprese tutto il mondo politico come un fulmine a ciel sereno, maledetto dagli uni con alte strida di indignazione morale, accolto dagli altri come scampo dalla rivoluzione e castigo per i suoi traviamenti, per tutti, però, oggetto soltanto di maraviglia, e non compreso da nessuno, immediatamente dopo questo avvenimento, Marx ne fece una esposizione breve, epigrammatica, che dava un quadro di tutto il corso della storia di Francia a partire dalle giornate di febbraio, e ne metteva in luce la logica interiore; che riduceva il miracolo del 2 dicembre al risultato naturale, necessario, di quello sviluppo logico, e nel far ciò non aveva bisogno di trattare l'eroe del colpo di stato se non col disprezzo da lui giustamente meritato. E il quadro fu disegnato con tanta maestria, che ogni nuova rivelazione fatta in seguito non ha fatto che apportate nuove prove della fedeltà con cui, esso riproduce la realtà. Questa mirabile comprensione della storia quotidiana nel suo sviluppo, questa chiara penetrazione degli avvenimenti nel momento stesso, in cui si compiono, è difatti senza esempio. Ma a questo scopo era, anche necessaria la esatta conoscenza che Marx aveva della storia di Francia. La Francia è il paese in cui le lotte di classe della storia vennero combattute sino alla soluzione decisiva più che in qualsiasi altro luogo; e in cui quindi anche le mutevoli forme politiche, dentro alle quali quelle lotte si svolgono e in cui si riassumono i loro risultati, prendono i contorni più netti. Centro del feudalesimo nel medioevo, paese classico a partire dal Rinascimento, della monarchia unitaria a poteri limitati, la Francia ha, con la sua Grande Rivoluzione, distrutto il feudalesimo e fondato il puro dominio della borghesia, in forma classica come nessun altro paese europeo. Anche la lotta del proletariato in ascesa contro la borghesia dominante assume qui una forma acuta, che altrove è sconosciuta. Questo è il motivo per cui Marx non aveva soltanto studiato con speciale predilezione la storia passata della Francia, ma aveva anche seguito in tutti i particolari la sua storia attuale, aveva raccolto il materiale da utilizzare in seguito, e perciò non fu mai sorpreso dagli avvenimenti.

A ciò si aggiunge però anche un'altra circostanza. Fu proprio Marx ad aver scoperto per primo la grande legge dell'evoluzione storica, la legge secondo la quale tutte le lotte della storia, si svolgano sul terreno politico, religioso, filosofico, o su un altro terreno ideologico, in realtà non sono altro che l'espressione più o meno chiara di lotte fra classi sociali; secondo la quale l'esistenza e quindi anche le collisioni, di queste classi sono a loro volta condizionate dal grado di sviluppo della loro situazione economica, dal modo della loro produzione e dal modo di scambio che ne deriva. Questa legge, che ha per la storia la stessa importanza che per le scienze naturali la legge della trasformazione dell'energia, gli fornì anche la chiave per comprendere la storia della seconda repubblica francese. In questa storia egli ha messo alla prova la sua legge, e ancora oggi, dopo trentatré anni, dobbiamo riconoscere che questa prova è stata superata in modo brillante.

Friedrich Engels.

I

Hegel nota in un passo delle sue opere che tutti i grandi fatti e i grandi personaggi della storia universale si presentano per, così dire, due volte. Ha dimenticato di aggiungere la prima volta come tragedia, la seconda volta come farsa. Caussidière invece di Danton, Louis Blanc invece di Robespierre, la Montagna del 1848-1851 invece della Montagna del 1793-1795 il nipote invece dello zio. È la stessa caricatura nelle circostanze che accompagnano la seconda edizione del 18 brumaio!

Gli uomini fanno la propria storia, ma non la fanno in modo arbitrario, in circostanze scelte da loro stessi, bensì nelle circostanze che essi trovano immediatamente davanti a sé, determinate dai fatti e dalla tradizione. La tradizione di tutte le generazioni scomparse pesa come un incubo sul cervello dei viventi e proprio quando sembra ch'essi lavorino a trasformare se stessi e le cose, a creare ciò che non è mai esistito, proprio in tali epoche di crisi rivoluzionaria essi evocano con angoscia gli spiriti del passato per prenderli al loro servizio; ne prendono a. prestito i nomi, le parole d'ordine per la battaglia, i costumi, per rappresentare sotto questo vecchio e venerabile travestimento e con queste frasi prese a prestito la nuova scena della storia. Così Lutero si travestì da apostolo Paolo; la rivoluzione del 1789-1814 indossò successivamente i panni della Repubblica romana e dell'Impero romano; e la rivoluzione del 1848 non seppe fare di meglio che la parodia, ora del 1789, ora della tradizione. rivoluzionaria del 1793-1795. Così il principiante che ha imparato una lingua nuova la ritraduce continuamente nella sua lingua materna ma non riesce a possederne lo spirito e ad esprimersi liberamente se non quando si muove in essa senza reminiscenze, e dimenticando in essa la propria lingua d'origine.

Al solo considerare queste evocazioni storiche di morti, si palesa tosto una spiccata differenza. Camille Desmoulins Danton, Robespierre, Saint-Just, Napoleone, tanto gli eroi quanto i partiti e la. massa della vecchia Rivoluzione francese adempirono, in costume romano e con frasi romane, il compito dei tempi loro, quello di liberare dalle catene e di instaurare la moderna società borghese, Gli uni spezzarono le terre feudali, e falciarono le teste feudali cresciute sopra di esse. L'altro creò nell'interno della Francia le condizioni per cui poté cominciare a svilupparsi la libera concorrenza, poté essere sfruttata la, proprietà. fondiaria suddivisa, e poté essere impiegata la forza produttiva industriale, della nazione liberata dalle sue catene; e al di là dei confini della Francia spazzò, dappertutto le istituzioni feudali, nella misura in cui 1 ciò era necessario per creare alla società borghese in Francia un ambiente corrispondente sul continente europeo. Una volta instaurata la nuova formazione sociale disparvero, i mostri antidiluviani; e con essi disparve la romanità risuscitata i Bruti, i Gracchi, i Publicola, i tribuni, i senatori e lo stesso Cesare.

La società borghese, nella sua, fredda realtà, si era creati i suoi veri interpreti e portavoce nei Say, nei Cousin, nei Royer-Collard, nei Benjamin Constant e nei Guizot. I suoi, veri generali sedevano al banco del commerciante, e la testa di lardo di Luigi XVIII era la sua testa politica. Completamente assorbita nella produzione, della ricchezza nella lotta pacifica della concorrenza , essa finì col dimenticare che i fantasmi dell'epoca romana avevano vegliato attorno alla sua culla. Ma per quanto poco eroica sia la società borghese, per metterla mondo 'erano però stati necessari l'eroismo, l'abnegazione, il terrore, la guerra civile e le guerre tra i popoli. E i suoi gladiatori avevano trovato nelle, austere tradizioni classiche della repubblica romana gli ideali e le forme artistiche, le illusioni di cui avevano bisogno per dissimulare a se stessi il contenuto grettamente borghese delle loro lotte e per mantenere la loro passione all'altezza della grande tragedia storica. Così, in un'altra tappa dell'evoluzione, un secolo prima, Cromwell e il popolo inglese avevano preso a prestito dal Vecchio Testamento le parole, le passioni e le illusioni per la loro rivoluzione borghese. Raggiunto lo scopo reale, condotta a termine la trasformazione borghese della società inglese, Locke dette lo sfratto ad Abacuc.

La resurrezione dei morti servì, dunque in quelle rivoluzioni a magnificare le nuove lotte, non a parodiare le antiche; a esaltare nella fantasia i compiti che si ponevano, non a sfuggire alla loro realizzazione; a ritrovare lo spirito della rivoluzione, non a rimetterne in circolazione il fantasma.

Dal 1848 al 1851, della vecchia rivoluzione, non circolò altro che lo spettro, a partire da Marrast, il républicain en gants jaunes, che si camuffò con la maschera del vecchio Bailly, sino all'avventuriero che nasconde le sue fattezze repugnanti e triviali sotto la mortuaria maschera di ferro di Napoleone. Un popolo intiero, il quale credeva di aver dato a se stesso, colla rivoluzione,' la capacità di un progresso più rapido, si vede, bruscamente ricacciato in un'epoca scomparsa, e affinché non' sia possibile nessuna illusione circa il ritorno passato, ricompaiono le vecchie date, il vecchio calendario, vecchi nomi, i vecchi editti, caduti da tempo nel regno degli eruditi di antiquaria, e i vecchi sbirri, che da tempo sembravano andati in decomposizione. La nazione sente di trovarsi nella situazione di quell'inglese pazzo a Bedlam, che crede di vivere al tempo degli antichi Faraoni, e ogni giorno si lagna delle improbe fatiche cui deve sobbarcarsi come minatore nelle miniere d'oro dell'Etiopia, sepolto vivo in quelle prigioni sotterranee, con una fioca lanterna fissata sul capo, il guardiano di schiavi alle calcagne con una lunga frusta, e all'uscita della galleria un'accozzaglia di schiavi barbari, i quali né comprendono i forzati. che lavorano nelle miniere, né si comprendono tra di loro, perché non parlano una lingua comune. "E tutto questo - geme l'inglese maniaco - viene fatto a me, libero cittadino della Gran, Bretagna, per estrarre oro per gli antichi Faraoni." "Per pagare i debiti della, famiglia, Bonaparte" - geme la nazione francese. L'inglese, fino a che ebbe l'uso della ragione, non poté liberarsi dall'idea fissa della estrazione dell'oro. I francesi, fino a che furono in rivoluzione, non poterono sbarazzarsi dei ricordi napoleonici, come ha provato l'elezione del 10 dicembre. Essi volevano sfuggire ai pericoli della rivoluzione e ritornare alle "pignatte delle carni" egiziane, e la risposta fu il 2 dicembre 1851. Non hanno soltanto la caricatura del vecchio Napoleone; hanno Napoleone in persona, nelle fattezze caricaturali che gli si addicono alla metà del secolo decimonono.

La rivoluzione sociale del secolo decimonono non può trarre la propria poesia, dal passato, ma solo dall'avvenire. Non può cominciare a essere se stessa prima di aver liquidato ogni fede superstiziosa nel passato. Le precedenti rivoluzioni avevano bisogno di reminiscenze storiche per farsi delle illusioni sul proprio contenuto. Per prendere coscienza del proprio contenuto, la rivoluzione. dei secolo decimonono deve lasciare che i morti seppelliscano i loro morti. Prima la frase sopraffaceva il contenuto; ora il contenuto trionfa sulla frase.

La rivoluzione del febbraio fu per la vecchia società un colpo di sorpresa, e il popolo fece di questo colpo di mano riuscito un avvenimento di importanza storica mondiale, che apriva un'epoca nuova. Il 2 dicembre la rivoluzione di febbraio viene fatta sparire col. trucco d'un baro, e ciò che appare rovesciato non è più la monarchia, ma le concessioni liberali che le erano state strappate con un secolo di lotte. Invece della conquista di un nuovo contenuto da parte della società stessa, sembra soltanto che lo Stato sia tornato alla sua forma più antica, al dominio puro e insolente della spada e della tonaca. E' così che al coup de main del febbraio 1848 risponde il coup de téte del dicembre 1851. La farina del diavolo va in crusca. Ma frattanto il tempo non è passato invano. Negli anni dal 1848 al 1851 la società francese ha ricuperato - e con un metodo più rapido, perché rivoluzionario - gli studi e le esperienze che, se la rivoluzione si fosse compiuta in modo regolare e, per così dire, scolastico, avrebbero dovuto precedere la rivoluzione di febbraio, affinché essa fosse qualcosa di più di un sommovimento superficiale. La società sembra ora esser tornata più indietro del suo punto di partenza; in realtà è soltanto ora ch'essa deve crearsi il punto di partenza rivoluzionario, la situazione, i rapporti, le condizioni nelle quali soltanto la rivoluzione moderna diventa una cosa seria.

Le rivoluzioni borghesi, come quelle del secolo decimottavo, passano tempestosamente di successo in successo; i loro effetti drammatici si sorpassano l'un l'altro gli uomini e le cose sembrano illuminati da fuochi di bengala l'estasi è lo stato d'animo d'ogni, giorno. Ma hanno una vita effimera, presto raggiungono il punto culminante: e allora una nausea si impadronisce della società. prima che essa possa rendersi freddamente ragione dei risultati del suo periodo di febbre e di tempesta. Le rivoluzioni proletarie invece, quelle del secolo decimonono, criticano continuamente se stesse; interrompono ad ogni istante il, loro proprio corso; ritornano su ciò che già sembrava cosa compiuta per ricominciare daccapo si fanno beffe in modo ;spietato e senza riguardi delle mezze misure, delle debolezze e delle miserie dei loro primi tentativi; sembra., che abbattano il loro avversario solo perché questo attinga dalla terra nuove forze e si levi di nuova più formidabile di fronte ad esse; si ritraggono continuamente, spaventate dall'infinita immensità dei loro propri scopi, sino a che si crea la situazione in cui è reso impossibile ogni ritorno, indietro e le circostanze stesse gridano:

Hie Rhodus, hic salta!
Qui è la rosa, qui devi ballare.

Del resto, pur senza aver seguito a passo a passo il corso degli avvenimenti in Francia, anche un osservatore mediocre doveva avere, il presentimento che la rivoluzione andava incontro a un fallimento inaudito.

Era sufficiente ascoltare i presuntuosi latrati di trionfo coi quali i signori democratici si felicitavano reciprocamente per gli effetti miracolosi della seconda [ domenica] di maggio del 1852. La seconda [domenica] di maggio era diventata per loro un'idea fissa un dogma, come pei chiliasti il giorno in cui Cristo avrebbe dovuto risorgere un'altra volta e dar principio al regno millenario. La debolezza aveva trovato un rifugio. come sempre nella fede nei miracoli; credeva di aver battuto il nemico perché lo aveva esorcizzato nella propria fantasia; perdeva ogni comprensione del presente, rapita nell'inerte esaltazione dell'avvenire e delle azioni ch'essa aveva in animo di compiere e non voleva ancora tradurre in atto. Gli eroi, che si sforzavano di smentire la propria manifesta incapacità inviandosi in .vicenda le loro condoglianze e accozzandosi in un sol mucchio, avevano già fatto le loro valigie, si erano cinte anticipo corone d'alloro ed erano occupati a scontare in Borsa le repubbliche in partibus per le quali, nel silenzio delle loro anime modeste, avevano già avuto la previdenza di organizzare il personale governativo. Il 2 dicembre li colpì come un fulmine a ciel sereno; e i popoli, che nei periodi di depressione e di scoraggiamento lasciano volentieri stordire la loro paura segreta da coloro che gridano più forte, si saranno forse convinti che sono passati i tempi in cui lo schiamazzo delle oche poteva salvare il Campidoglio.

La Costituzione, l'Assemblea nazionale, i partiti dinastici, i repubblicani azzurri e rossi, gli eroi dell'Africa, i fulmini della. tribuna, i lampi della stampa quotidiana; tutta la letteratura, le celebrità politiche e le nomee intellettuali, il diritto civile e quello penale, la liberté, l'égalité, fraternité e la seconda [domenica] di maggio del 1852, tutto è svanito come una fantasmagoria davanti alla formula magica lanciata da un uomo che i suoi avversari stessi riconoscono essere tutt'altro che un mago. Il suffragio universale sembra sopravvissuto un momento soltanto per fare in faccia a tutto il mondo il proprio testamento olografo e dichiarare in nome del popolo stesso: "Tutto ciò che esiste merita di andare alla malora ".

Non basta direi come fanno i francesi che la loro nazione è stata colta alla sprovvista. Non si perdona a una nazione, come non si perdona a una donna, il momento di debolezza in cui il primo avventuriero ha potuto farle violenza. Con queste spiegazioni l'enigma non viene risolto, ma soltanto formulato in modo diverso. Rimane da spiegare come una azione dì 36 milioni di abitanti abbia potuto essere colta alla sprovvista da tre cavalieri di industria e ridotta in schiavitù senza far resistenza.

Ricapitoliamo a grandi tratti le fasi percorse dalla rivoluzione francese dal 24 febbraio 1848 sino al dicembre 1851.

Tre sono i periodi principali che è impossibile confondere: periodo di febbraio; dal 4 maggio 1848 sino al 29 maggio 1849: il periodo della costituzione della repubblica o dell'Assemblea nazionale costituente; dal 29 maggio 1849 sino al 21dicembre 1851: il periodo della repubblica costituzionale o dell'Assemblea nazionale legislativa.

Il primo periodo, dal 24 febbraio o dalla caduta di Luigi Filippo sino al 4 maggio 1848, quando si riunì l'Assemblea costituente, cioè il periodo di febbraio propriamente detto, può considerato come il prologo della rivoluzione. Il suo carattere si espresse ufficialmente nel fatto che il governo da essa improvvisato si dichiarò da sé provvisorio, e al pari del governo tutto ciò che in questo periodo venne proposto, tentato, dichiarato, non lo fu che provvisoriamente. Nessuno e nulla osò reclamate per sé il diritto all'esistenza e all'azione reale. Tutti gli elementi che avevano preparato o determinato la rivoluzione, l'opposizione dinastica, la borghesia repubblicana, la piccola borghesia repubblicana democratica, i lavoratori socialdemocratici, trovarono posto provvisoriamente nel governo di febbraio.

Né poteva essere altrimenti. Le giornate di febbraio miravano in origine a una riforma elettorale, per cui la cerchia dei privilegiati politici in seno alla classe abbiente stessa doveva essere allargata, e il dominio esclusivo dell'aristocrazia finanziaria doveva essere rovesciato. Ma quando il conflitto scoppiò per davvero, quando il popolo salì sulle barricate, quando la Guardia nazionale rimase passiva, l'esercito non oppose nessuna resistenza seria e la monarchia prese la fuga, allora la repubblica sembrò imporsi da sé; ogni partito la interpretò a modo suo. Poiché essa era stata conquistata dal proletariato con le armi in pugno, questi le impresse il suo suggello e la proclamò repubblica sociale. Così venne additato il contenuto generale della rivoluzione moderna, contrastante nel modo più singolare con tutto ciò che, dato il grado di educazione raggiunto dalla massa, date le circostanze e le condizioni del tempo, poteva essere messo in opera lì per li col materiale esistente. D'altro lato, le pretese di tutti gli altri elementi che avevano cooperato alla rivoluzione di febbraio trovarono un riconoscimento nella parte leonina ch'essi ricevettero nel governo. In nessun periodo troviamo quindi una miscela più eterogenea di frasi alate e di indecisione e goffaggine reali, delle più entusiastiche aspirazioni di rinnovamento e del dominio più solido del vecchio trantran, della più apparente armonia di tutta la società e dell'antagonismo più profondo fra i suoi elementi. Mentre il proletariato di Parigi si inebriava ancora nella visione della grande prospettiva che gli si apriva dinanzi e si abbandonava a gravi discussioni sui problemi sociali, le vecchie potenze della società si erano raggruppate, riunite e messe d'accordo, e trovarono un appoggio inatteso nella massa della nazione, nei contadini e nei piccoli borghesi, i quali, cadute le barriere della monarchia di luglio, si precipitavano tutti ad un tempo sulla scena politica.

Il secondo periodo, che va dal 4 maggio 1848 sino alla fine del Maggio 1849, è il periodo della costituzione, della fondazione della repubblica borghese. Immediatamente dopo le giornate di febbraio non soltanto l'opposizione dinastica era stata presa, alla sprovvista, dai repubblicani e questi dai socialisti, ma tutta la Francia era stata presa alla sprovvista da Parigi. L'Assemblea nazionale, che si riunì il 4 maggio 1848, essendo uscita dal suffragio della nazione, rappresentava la nazione. Era una protesta vivente contro le pretese delle giornate di febbraio e doveva ridurre i risultati della rivoluzione a misura borghese. Invano il proletariato parigino. il quale comprese immediatamente il carattere. di quest'Assemblea nazionale, tentò alcuni giorni dopo la sua riunione, il 15 maggio, di negarne con la violenza l'esistenza, di scioglierla, di scomporre di nuovo nei suoi singoli elementi costitutivi l'organismo attraverso il quale lo spirito reazionario della nazione lo minacciava. Com'è noto, il 15 maggio non ebbe nessun altro risultato all'infuori di quello di allontanare dalla pubblica scena, per tutta la durata del periodo che stiamo considerando, Blanqui e i suoi compagni, cioè i veri capi del partito proletario.

Alla monarchia borghese di Luigi Filippo può succedere soltanto la repubblica borghese, il che vuol dire che se prima una parte limitata della borghesia regnava in nome dei re, ora deve dominare in nome del popolo la totalità della borghesia. Le rivendicazioni del proletariato parigino sono fandonie utopistiche, con le quali si deve farla finita. A questa dichiarazione dell'Assemblea nazionale costituente, il proletariato parigino rispose coll'insurrezione di giugno, l'avvenimento più grandioso nella storia delle guerre civili europee. La repubblica borghese, trionfò.Essa aveva per sé l'aristocrazia finanziaria, la borghesia industriale, il ceto medio, i piccoli borghesi, l'esercito, la canaglia organizzata in Guardia mobile, gli intellettuali, i preti e la popolazione rurale. Il proletariato non aveva al suo fianco altro che se stesso. Più di 3.000 insorti vennero massacrati dopo la vittoria; 15.000 deportati senza processo. Con questa disfatta il proletariato si ritira tra le quinte della scena rivoluzionaria. Esso cerca di farsi nuovamente avanti ogni volta che il movimento sembra prendere un nuovo slancio, ma con un'energia sempre più ridotta e con un risultato sempre più piccolo. Non appena uno degli strati sociali a lui sovrastanti entra in fermento rivoluzionario, il proletariato stabilisce con esso un collegamento, e in questo modo condivide tutte le sconfitte che i vari partiti subiscono l'uno dopo l'altro. Ma questi colpi successivi diventano via via tanto più deboli quanto più si ripartiscono su tutta la superficie della società. I rappresentanti più cospicui del proletariato nell'Assemblea e nella stampa no vittime, l'uno dopo l'altro, dei tribunali, e figure sempre più equivoche prendono il loro posto. In parte, esso sì abbandona a esperimenti dottrinari, banche di scambio e associ azioni operai e, cioè a un movimento in cui rinuncia a trasformare il vecchio mondo coi grandi mezzi collettivi che gli sono propri, e cerca piuttosto di conseguire la propria emancipazione alle spalle della società, in via privata, entro i limiti delle sue meschine condizioni d'esistenza, e in questo modo va necessariamente al fallimento. Sembra ch'esso non possa più ritrovare in se stesso la grandezza rivoluzionaria né attingere nuova energia dalle alleanze nuovamente contratte, sino a che tutte le classi contro le quali ha lottato in giugno non giacciono al suolo al suo fianco. Ma, per lo meno, esso soccombe con gli onori di una grande battaglia storica. Non soltanto la Francia, ma tutta l'Europa trema davanti al terremoto di giugno , mentre le successive disfatte delle classi più elevate vengono ottenute cosi a buon mercato, che è necessaria l'insolente esagerazione del partito vittorioso per poterle far passare come avvenimenti di importanza, ed esse diventano tanto più vergognose quanto più il partito che soccombe è lontano dal partito proletario.

Certo, la disfatta degli insorti di giugno aveva preparato, spianato, il terreno su cui poteva essere fondata, stabilita, la repubblica borghese; però, aveva allo stesso tempo mostrato che si ponevano in Europa ben altri problemi che di "repubblica o monarchia"; aveva rivelato che repubblica borghese significa dispotismo assoluto di una classe su altre classi; aveva provato che in paesi di vecchia civiltà e con una avanzata struttura di classe, con condizioni di produzione moderne e una coscienza spirituale in cui tutte le idee tradizionali sono state dissolte da un lavoro secolare, la repubblica non è altro, in generale, che la forma politica del rovesciamento della società borghese, ma non la forma della sua conservazione, come avviene, per esempio, negli Stati Uniti d'America, dove classi sociali esistono già, senza dubbio, ma non si sono ancora fissate, e in un flusso continuo modificano continuamente le loro parti costitutive e se le cedono; dove i moderni mezzi di produzione, invece di coincidere con un eccesso di popolazione stagnante, compensano piuttosto la relativa scarsezza di teste e di braccia; e dove infine lo slancio giovanilmente febbrile della produzione materiale, che deve conquistarsi un mondo nuovo, non ha ancora lasciato né il tempo né l'opportunità di far piazza pulita del vecchio mondo spirituale.

Tutte le classi e tutti i partiti si erano uniti durante le giornate di giugno nel partito dell'ordine per fronteggiare la classe proletaria, considerata come il partito dell'anarchia. del socialismo, del comunismo. Essi avevano "salvato" la società dai "nemici della società". Essi avevano dato alle loro truppe le parole d'ordine della vecchia società: "Proprietà, famiglia, religione, ordine", e gridato alla crociata controrivoluzionaria: "In questo segno vincerai!". A partire da questo momento, non appena uno dei numerosi partiti che sotto questa insegna si erano schierati contro gli insorti di giugno cerca, nel suo proprio interesse di classe, di tenere il campo della rivoluzione, viene schiacciato al grido di "proprietà, famiglia, religione, ordine". La società viene salvata tanto Più spesso, quanto più si restringe la cerchia dei suoi dominatori, quanto più un interesse più ristretto prevale sugli interessi più larghi. Ogni rivendicazione della più semplice riforma finanziaria borghese, del liberalismo più ordinario, del repubblicanesimo più formale, della democrazia più volgare, viene ad un tempo colpita come "attentato contro la società" e bollata come "socialismo". E alla fine gli stessi grandi sacerdoti della "religione e dell'ordine" vengono cacciati a pedate dai loro tripodi pitici, strappati in piena notte dai loro letti, stivati nelle vetture cellulari, gettati in carcere o spediti in esilio. Il loro tempio viene raso al suolo, la loro bocca suggellata, la loro penna spezzata, la loro legge infranta, in nome della religione, della proprietà, della famiglia, dell'ordine. Borghesi fanatici dell'ordine vengono fucilati ai loro balconi da bande di soldati ubriachi, il sacrario della loro famiglia viene profanato, le loro case vengono bombardate per passatempo in nome della proprietà, della famiglia, della religione e dell'ordine. La feccia della società borghese forma, in ultima istanza, la falange sacra dell'ordine e Crapülinski, l'eroe, fa il suo ingresso alle Tuileries come "salvatore della società".

II

Riprendiamo il filo dell'esposizione.

A partire dalle giornate di giugno, la storia dell'Assemblea nazionale costituente è la storia del dominio e della disgregazione della frazione della borghesia repubblicana, frazione conosciuta col nome di repubblicani tricolori, repubblicani puri, repubblicani politici, repubblicani formalisti, ecc.

Sotto la monarchia di Luigi Filippo questa frazione aveva costituito l'opposizione repubblicana ufficiale, ed era stata quindi parte integrante riconosciuta del mondo politico di allora. Essa aveva i suoi rappresentanti nelle Camere e una notevole sfera d'influenza nella stampa. Il suo organo parigino, il Nazional era, nel suo genere, considerato rispettabile quanto il Journal des Débats. A questa posizione che essa aveva avuto sotto la monarchia costituzionale corrispondeva il suo carattere. Non si trattava di una frazione della borghesia tenuta assieme da grandi interessi comuni e delimitata da particolari condizioni di produzione. Si trattava piuttosto di una consorteria di borghesi, di scrittori, di avvocati, di ufficiali e di impiegati di convinzioni repubblicane, l'influenza dei quali si fondava sull'antipatia personale del paese per Luigi Filippo, sui ricordi della vecchia repubblica, sulla fede repubblicana di un certo numero di sognatori, ma soprattutto sul nazionalismo francese, di cui essa manteneva desto l'odio contro i trattati di Vienna e contro l'alleanza con l'Inghilterra. Una gran parte dell'influenza che il National aveva sotto Luigi Filippo era dovuta a questo imperialismo latente, a cui più tardi, perciò, sotto la repubblica, poté contrapporsi un concorrente vittorioso nella persona di Luigi Bonaparte. Esso combatteva l'oligarchia finanziaria, come tutta la rimanente opposizione borghese. La polemica contro il bilancio, che era in Francia strettamente legata alla lotta contro l'aristocrazia finanziaria, forniva una popolarità troppo a buon mercato e materia troppo copiosa a leading artieles puritani, perché non la si dovesse sfruttare. La borghesia industriale era riconoscente al National per la sua servile difesa del sistema protezionista francese, che esso nel frattempo aveva intrapreso più per motivi nazionali che per motivi economici; e la borghesia nel suo assieme gli era riconoscente per le sue denunce piene d'odio contro il socialismo e il comunismo. Per il resto il partito del National era repubblicano puro, cioè voleva una forma repubblicana invece di una forma monarchica di dominio della borghesia e, soprattutto, voleva avere in questo dominio la parte del leone. Delle condizioni di questa trasformazione esso non aveva nessuna idea chiara. Ciò che invece gli era chiaro come la luce del sole, ciò che era stato dichiarato apertamente, negli ultimi tempi del regno di Luigi Filippo, nei banchetti per la riforma, era la sua impopolarità tra i piccoli borghesi democratici, e specialmente tra il proletariato rivoluzionario. Questi repubblicani puri, come si conviene a puri repubblicani, stavano già per accontentarsi di una reggenza della duchessa di Orléans, quando scoppiò la rivoluzione di febbraio che dette un posto nel governo provvisorio ai loro rappresentanti più conosciuti. Naturalmente, essi godevano in anticipo della fiducia della borghesia e della maggioranza dell'Assemblea nazionale costituente. Dalla commissione esecutiva, formata dall'Assemblea nazionale sin dalla sua prima riunione, vennero subito esclusi gli elementi socialisti del governo provvisorio, e il partito del National approfittò dello scoppio dell'insurrezione di giugno per dare il benservito anche alla Commissione esecutiva e sbarazzarsi in questo modo dei suoi rivali più prossimi, i repubblicani piccolo-borghesi o democratici (Ledru-Rollin, ecc.). Cavaignac, il generale del partito repubblicano borghese, che aveva diretto la battaglia di giugno, prese il posto della Commissione esecutiva, con una specie di potere dittatoriale. Marrast, già redattore capo del National, divenne presidente perpetuo dell'Assemblea nazionale costituente, e i ministeri, come tutti gli altri posti importanti, caddero in mano dei repubblicani puri.

La frazione dei repubblicani borghesi, che da tempo si era considerata erede legittima della monarchia di luglio, vide così superati i propri ideali, ma giunse a dominare non già come aveva sognato sotto Luigi Filippo, attraverso una rivolta liberale della borghesia contro il trono, bensì attraverso una sommossa, repressa a colpi di mitraglia, del proletariato contro il capitale. Ciò che essa si era rappresentato come l'avvenimento più rivoluzionario, si riproduceva, in realtà, come il più controrivoluzionario. Il frutto le cadeva in grembo, ma cadeva dall'albero della scienza, non dall'albero della vita.

L'esclusivo dominio dei repubblicani borghesi durò soltanto dal 24 giugno sino al 10 dicembre 1848. La sua storia si riassume nella elaborazione di una Costituzione repubblicana e nello stato d'assedio di Parigi.

La nuova Costituzione non fu altro, in sostanza, che l'edizione repubblicana della Carta costituzionale del 1830. Il ristretto censo elettorale della monarchia di luglio, che escludeva dal potere una grande parte della borghesia stessa, era compatibile con l'esistenza della repubblica borghese. La rivoluzione di febbraio aveva immediatamente proclamato, al posto di quel censo, il suffragio universale diretto. I repubblicani borghesi non potevano sopprimere questo fatto. Essi dovettero perciò accontentarsi di aggiungervi la clausola restrittiva di un domicilio di sei mesi nel collegio elettorale. La vecchia organizzazione amministrativa, municipale, giudiziaria, militare, ecc., rimase immutata, e dove la Costituzione la modificava, la modificazione riguardava i titoli dei capitoli, non il contenuto; i nomi, non la cosa.

L'inevitabile stato maggiore delle libertà del 1848, la libertà personale, la libertà di stampa, di parola, di associazione, di riunione, di insegnamento e di religione, ecc., indossarono una veste costituzionale che le rendeva invulnerabili. Ognuna di queste libertà venne proclamata come diritto assoluto del cittadino francese, ma con la costante nota marginale che essa era illimitata nella misura in cui non le veniva posto un limite dagli "eguali diritti di altri e dalla sicurezza pubblica", o dalle "leggi", le quali hanno appunto il compito di mantenere questa armonia (delle libertà individuali tra di loro e con la sicurezza pubblica). Per esempio: "I cittadini hanno il diritto di associarsi, di riunirsi pacificamente e senz'armi, di presentare petizioni e di esprimere le loro opinioni a mezzo della stampa o con qualsiasi altro mezzo. Il godimento di questi diritti non ha altri limiti che gli eguali diritti degli altri e la sicurezza pubblica" (Cap. II della Costituzione francese, $ 8). - "L'insegnamento è libero. La libertà dell'insegnamento deve essere esercitata nelle condizioni fissate dalla legge e sotto il controllo supremo dello Stato" (Ibidem, $ 9). - "Il domicilio di ogni cittadino è inviolabile, eccetto che nelle forme prescritte dalla legge" (Cap. Il, $ 3). E cosi via. - La Costituzione rinvia perciò continuamente a future leggi organiche, che debbono spiegare quelle note marginali e regolare il godimento di quelle libertà illimitate, in modo che esse non si urtino a vicenda e non offendano la sicurezza pubblica. Le leggi organiche vennero elaborate in seguito dagli amici dell'ordine, e tutte quelle libertà vennero regolate in modo tale che la borghesia, nel godimento di esse, non si urtasse agli uguali diritti delle altre classi. Tutte le volte che essa proibì completamente "agli altri" queste libertà, o ne permise l'esercizio soltanto a condizioni che sono altrettante trappole poliziesche, ciò avvenne sempre nell'interesse della "sicurezza pubblica", cioè della sicurezza della borghesia, così come prescrive la Costituzione. Perciò in seguito ebbero diritto di appellarsi alla Costituzione tanto gli amici dell'ordine, che sopprimevano tutte queste libertà, quanto i democratici, che le reclamavano integralmente. Ogni paragrafo della Costituzione contiene infatti la sua propria antitesi, la sua Camera alta e la sua Camera bassa: nella proposizione generale, la libertà, nella nota marginale, la soppressione della libertà. Sino a che, dunque, il nome della libertà venne rispettato e venne soltanto ostacolata, con mezzi legali s'intende, la vera realizzazione di essa, l'esistenza costituzionale della libertà rimase illesa, intatta, benché la sua esistenza reale venisse distrutta.

Questa Costituzione, resa inviolabile in modo cosi ingegnoso, era però vulnerabile in un punto, come Achille; non nel tallone, ma nella testa, o piuttosto nelle due teste in cui culminava: l'Assemblea legislativa da una parte, il presidente dall'altra. Si scorra la Costituzione, e si vedrà che i soli paragrafi assoluti, positivi, senza contraddizioni, incontrovertibili, sono quelli in cui sono determinati i rapporti del presidente con l'Assemblea legislativa. Qui infatti si trattava, per i repubblicani borghesi, di garantire se stessi. I paragrafi 45-70 della Costituzione sono formulati in modo che l'Assemblea nazionale può costituzionalmente deporre il presidente, mentre il presidente può sbarazzarsi dell'Assemblea nazionale solo andando contro la Costituzione, solo sopprimendo la Costituzione stessa. In questo modo dunque la Costituzione esige la propria soppressione violenta. Non solo essa consacra, come la Carta del 1830, la divisione dei poteri, ma la estende sino a farla diventare una intollerabile contraddizione. Il giuoco dei poteri costituzionali, come Guizot chiamava le risse parlamentari tra il potere legislativo e il potere esecutivo, secondo la Costituzione del 1848 viene costantemente giocato va banque. Da una parte 750 rappresentanti del popolo, eletti dal suffragio universale e rieleggibili, i quali costituiscono un'Assemblea nazionale incontrollabile, indissolubile, indivisibile, un'Assemblea nazionale che gode di una onnipotenza legislativa, che decide in ultima istanza della guerra, della pace e dei trattati di commercio, che possiede da sola il diritto di amnistia ed essendo permanente occupa continuamente la ribalta della scena politica. Dall'altra parte il presidente, con tutti gli attributi del potere regio, con la facoltà di nominare e di revocare i suoi ministri indipendentemente dall'Assemblea nazionale, con tutti i mezzi del potere esecutivo concentrati nelle sue mani, con la facoltà di disporre di tutti gli impieghi e quindi di decidere in Francia dell'esistenza per lo meno di un milione e mezzo di persone, giacché tale è il numero di coloro che sono legati ai 500.000 impiegati e agli ufficiali di tutti i gradi. Egli ha ai suoi ordini tutte le forze armate. Gode del privilegio di poter graziare i criminali, di poter sospendere le guardie nazionali, di poter sciogliere, d'accordo con il Consiglio di Stato, i Consigli generali, cantonali e municipali eletti dai cittadini stessi. L'iniziativa e la direzione nella conclusione di tutti i trattati con l'estero gli sono riservate. Mentre l'Assemblea è continuamente sulla scena, esposta alla critica e indiscreta luce del giorno, il presidente conduce un'esistenza ritirata nei Campi Elisi, avendo costantemente davanti agli occhi e nel cuore l'articolo 45 della Costituzione, che quotidianamente gli ripete: Frère, il faut mourir! Il tuo potere scade la seconda domenica del bel mese di maggio del quarto anno dalla tua elezione! Allora saran finiti gli splendori; la commedia non si ripete, e se hai dei debiti, pensa a tempo a regolarli coi 600.000 franchi che ti largisce la Costituzione, a meno che tu non preferisca andar a finire nella prigione di Clichy, il secondo lunedì del bel mese di maggio! - Se la Costituzione attribuisce in questo modo al presidente il potere di fatto, essa cerca di assicurare all'Assemblea nazionale il potere morale. Ma prescindendo dal fatto che è impossibile creare un potere morale con paragrafi di legge, la Costituzione qui torna a distruggersi da sola, facendo eleggere il presidente da tutti i francesi, a suffragio diretto. Mentre i voti della Francia si disperdono sui 750 membri dell'Assemblea nazionale, qui invece si concentrano su un solo individuo. Mentre ogni singolo rappresentante del popolo rappresenta soltanto questo o quel partito, questa o quella città, questa o quella testa di ponte, o anche semplicemente la necessità di eleggere un settecentocinquantesimo qualunque, senza considerare troppo per il sottile ne la cosa, ne l'uomo, egli è l'eletto della nazione, e l'atto della sua elezione è la briscola che il popolo sovrano giuoca una volta ogni quattro anni. L'Assemblea nazionale eletta è unita alla nazione da un rapporto metafisico, il presidente eletto è unito alla nazione da un rapporto personale. E', ben vero che l'Assemblea nazionale presenta nei suoi rappresentanti i molteplici aspetti dello spirito nazionale; ma nel presidente questo spirito si incarna. Egli possiede rispetto all'Assemblea una specie di diritto divino; egli è per grazia del popolo.

Teti, la dea del mare, aveva predetto ad Achille ch'egli sarebbe morto nel fiore della gioventù. La Costituzione, che aveva il suo punto debole, come Achille, aveva pure il presentimento, come Achille, che le sarebbe toccato morire di morte prematura. Senza che Teti uscisse dal mare a confidare loro il segreto, i repubblicani puri della Costituente non avevano che da abbassare lo sguardo dal cielo nebuloso della loro repubblica ideale sul mondo profano, per vedere come l'arroganza dei monarchici, dei bonapartisti, dei democratici, dei comunisti, e il loro proprio discredito aumentassero di giorno in giorno, nella stessa misura in cui si avvicinavano al compimento della loro grande opera d'arte legislativa. Essi cercarono d'ingannare la sorte con l'astuzia costituzionale dello articolo 111 della Costituzione, secondo cui ogni proposta di revisione della Costituzione doveva essere votata in tre dibattiti successivi, con un mese intiero di distanza l'uno dall'altro, da almeno tre quarti dei voti, a condizione inoltre che partecipassero al voto almeno 500 membri dell'Assemblea nazionale. Essi facevano cosi il tentativo disperato di continuare ad esercitare come minoranza parlamentare, a cui già nel loro spirito profetico si vedevano ridotti, quel potere che di giorno in giorno sfuggiva dalle loro deboli mani, nel momento in cui disponevano ancora della maggioranza parlamentare e di tutti i mezzi del potere governativo.

Infine, in un paragrafo melodrammatico, la Costituzione affidava se stessa "alla vigilanza e al patriottismo del popolo francese tutto intiero, come di ogni francese in particolare", e ciò dopo aver essa stessa, in un altro paragrafo, confidato i "vigilanti" e i "patrioti" alla tenera e feroce attenzione della Corte suprema da essa inventata, la Haute Cour.

Tale era la Costituzione del 1848, che il 2 dicembre 1851 venne buttata a terra dal contatto non con una testa, ma con un cappello; vero è che si trattava del tricorno di Napoleone.

Mentre i repubblicani borghesi erano occupati, nell'Assemblea, a ponzare, discutere e votare questa Costituzione, Cavaignac, al di fuori dell'Assemblea, manteneva lo stato d'assedio a Parigi. Lo stato d'assedio a Parigi fu l'ostetrico della Costituente durante i dolori del suo parto repubblicano. Se più tardi la Costituzione venne soppressa a colpi di baionette, non sì deve dimenticare che essa aveva dovuto essere difesa colle baionette, e spianate contro il popolo, quando era ancora nel seno materno, e che era stata messa al mondo dalle baionette. Gli avi dei "repubblicani dabbene" avevano fatto fare al loro simbolo, il tricolore, il giro dell'Europa. I loro epigoni fecero anch'essi una invenzione, che si aprì da sé il cammino per tutto il continente, per ritornare in Francia con sempre rinnovato amore, fino ad acquistar diritto di cittadinanza nella metà dei suoi dipartimenti. Questa invenzione si chiama lo stato d'assedio. Invenzione eccellente, applicata periodicamente in ognuna delle crisi che si succedettero nel corso della rivoluzione francese. Ma la caserma e il bivacco, che così venivano imposti periodicamente alla società francese per comprimerle il cervello e farla diventare una persona tranquilla; la sciabola e il moschetto, cui si attribuivano periodicamente le funzioni di giudice e di amministratore, di tutore e di censore, di poliziotto e di guardiano notturno; i mustacchi e l'uniforme del soldato, che venivano periodicamente esaltati come la saggezza suprema e la guida della società; - la caserma e il bivacco, la sciabola e il moschetto, i mustacchi e l'uniforme da soldato, non dovevano alla fine arrivare alla conclusione che era meglio salvare la società una volta per sempre, proclamando il proprio regime come forma suprema del regime politico e liberando la società borghese dalla preoccupazione di governarsi da sé? La caserma e il bivacco, la sciabola e il moschetto, i mustacchi e l'uniforme da soldato dovevano arrivare tanto più facilmente a queste conclusioni, in quanto in tal caso avevano anche il diritto di aspettarsi un miglior pagamento in contanti per questo loro grande merito, mentre negli stati d'assedio semplicemente periodici e nei salvataggi fugaci della società agli ordini di questa o di quella frazione della borghesia vi era in sostanza poco da guadagnare, all'infuori di alcuni morti e feriti e di alcune smorfie amichevoli della borghesia. Non dovevano dunque i militari giocare allo stato d'assedio nel proprio interesse e per proprio conto e in pari tempo porre l'assedio alle tasche della borghesia? Non si dimentichi del resto, sia detto di sfuggita, che il colonnello Bernard, lo stesso presidente della commissione militare che sotto Cavaignac aveva senza giudizio spedito alla deportazione 15.000 insorti, in questo momento si trovava di nuovo alla testa delle commissioni militari che funzionavano a Parigi.

Se i repubblicani dabbene e puri avevano preparato, con lo stato d'assedio di Parigi, il terreno su cui dovevano crescere i pretoriani del 2 dicembre 1851, essi però meritano un elogio, d'altra parte, perché invece di esagerare il sentimento nazionale come sotto Luigi Filippo, ora che disponevano del potere nazionale strisciavano davanti allo straniero, e invece di liberare l'Italia la lasciavano riconquistare dagli austriaci e dai napoletani. L'elezione di Luigi Bonaparte a presidente, il 10 dicembre 1848, pose fine alla dittatura di Cavaignac e alla Costituente.

Nel paragrafo 44 della Costituzione è detto: "Il Presidente della Repubblica francese non deve mai aver perduto la qualità di cittadino francese". Il primo presidente della Repubblica francese, L. N. Bonaparte, non solo aveva perduto la sua qualità di cittadino francese, non solo era stato un funzionario della polizia inglese in servizio speciale, ma era persino naturalizzato svizzero.

Ho già spiegato altrove l'importanza dell'elezione del 10 dicembre. Non ritornerò dunque su questo argomento. Qui è sufficiente rilevare che essa fu una reazione dei contadini, che avevano dovuto pagare le spese della rivoluzione di febbraio, contro le altre classi della nazione; una reazione della campagna contro la città. Essa fu accolta con grande simpatia dall'esercito, a cui i repubblicani del National non avevano procacciato né gloria né vantaggi dalla grande borghesia, che salutò Bonaparte come un ponte di transizione verso la monarchia; e dai proletari e dai piccoli borghesi, che videro in lui il castigo per Cavaignac. Avrò occasione in seguito di esaminare con maggiore attenzione la posizione dei contadini verso la rivoluzione francese.

Il periodo che va dal 20 dicembre 1848 sino allo scioglimento della Costituente nel maggio 1849 abbraccia la storia della caduta dei repubblicani borghesi. Dopo aver fondato una repubblica per la borghesia, sbarazzato il terreno dal proletariato rivoluzionario e ridotto temporaneamente al silenzio la piccola borghesia democratica, essi stessi vengono messi in un canto dalla massa della borghesia, che a buon diritto mette questa repubblica sotto sequestro, come sua proprietà. Ma questa massa borghese era monarchica. Una parte di essa, i grandi proprietari fondiari, aveva dominato sotto la Restaurazione, e perciò era legittimista. Gli altri, l'aristocrazia finanziaria dei grandi industriali, avevano dominato sotto la monarchia di luglio, e perciò erano orleanisti. I grandi dignitari dell'esercito, dell'università, della Chiesa, del barreau, dell'accademia e della stampa si ripartivano tra queste due correnti, sebbene in proporzioni disuguali. Nella repubblica borghese, che non portava né il nome dei Borboni né quello degli Orléans, ma il nome di capitale, essi avevano trovato la forma di Stato in cui potevano dominare in comune. Già l'insurrezione di giugno li aveva tutti riuniti nel "partito dell'ordine". Ora era necessario innanzi tutto sbarazzarsi della consorteria dei repubblicani borghesi, che detenevano ancora i seggi dell'Assemblea nazionale. Quanto questi repubblicani puri erano stati brutali nell'abusare della forza fisica contro il popolo, altrettanto essi furono vili, pusillanimi, timorosi, inetti, incapaci di lottare nel ritirarsi, ora che era giunto il momento di far valere contro il potere esecutivo e contro i monarchici il loro repubblicanesimo e il loro diritto legislativo. Non tocca a me raccontare qui la storia ignominiosa della loro decomposizione. Non fu un tramonto, fu un svanire. La loro storia finisce per sempre, e nel periodo seguente, sia all'interno che all'esterno dell'assemblea, essi figurano soltanto come ricordi, che sembrano rivivere ogni volta che ritorna a galla il solo nome della repubblica e ogni volta che il conflitto rivoluzionario minaccia di scendere al livello più basso. Noterò di sfuggita che il giornale che aveva dato il suo nome a questo partito, il National, si converti, nel periodo successivo, al socialismo.

Prima di chiudere questo periodo dobbiamo ancora gettare uno sguardo retrospettivo sui due poteri di cui l'uno distrusse l'altro il 2 dicembre 1851, mentre dal 20 dicembre 1848 sino alla fine dell'Assemblea costituente erano vissuti in buoni rapporti coniugali. Mi riferisco da una parte a Luigi Bonaparte, dall'altra parte al partito dei monarchici coalizzati, al partito dell'ordine, dell'alta borghesia. Assumendo la presidenza, Bonaparte formò immediatamente un ministero del partito dell'ordine, alla testa del quale pose Odilon Barrot, il vecchio capo, si noti bene, della frazione più liberale della borghesia parlamentare. Il signor Barrot aveva finalmente messo le mani sul portafoglio ministeriale la cui ombra lo perseguitava sin dal 1830, anzi, sulla presidenza del Ministero. Ma egli non vi giungeva, come se l'era immaginato sotto Luigi Filippo, in qualità di capo più avanzato dell'opposizione parlamentare; bensì col compito di dare il colpo di grazia a un parlamento, e in qualità di alleato di tutti i suoi nemici giurati, i gesuiti e i legittimisti.

Egli sposava finalmente la sua fidanzata, ma dopo che questa i era prostituita. Quanto a Bonaparte, egli si ritirava, in apparenza, dietro le quinte. Il partito dell'ordine lavorava per lui.

Sin dal primo consiglio dei ministri venne decisa la spedizione di Roma, e ci si mise d'accordo di intraprenderla all'insaputa dell'Assemblea nazionale e di strapparle sotto un falso pretesto i mezzi necessari, Si cominciò a questo modo con una truffa verso l'Assemblea nazionale e con una cospirazione segreta con le potenze assolute dell'estero contro la repubblica romana rivoluzionaria. Allo stesso modo e con le stesse manovre Bonaparte preparò il suo colpo del 2 dicembre contro l'Assemblea legislativa monarchica e contro la sua repubblica costituzionale. Non dimentichiamo che lo stesso partito che il 20 dicembre 1848 formava il ministero di Bonaparte, il 2 dicembre 1851 formava la maggioranza dell'Assemblea nazionale legislativa.

La Costituente aveva deciso in agosto di non sciogliersi prima di aver elaborato e promulgato tutta una serie di leggi organiche, destinate a completare la Costituzione. Il 6 gennaio 1849 il partito dell'ordine le fece proporre, a mezzo del suo rappresentante Rateau, di lasciar correre le leggi organiche e di decidere piuttosto il proprio scioglimento. Non solo il ministero con a capo Odilon Barrot, ma tutti i membri monarchici dell'Assemblea nazionale dimostrarono all’Assemblea in questo momento che il suo scioglimento era necessario per il ristabilimento del credito, per il consolidamento dell'ordine, per metter fine alla situazione provvisoria e confusa e creare uno stato di cose definitivo; le dimostrarono ch'essa intralciava la produttività del nuovo governo e cercava di prolungare la propria esistenza per puro rancore, mentre il paese era stanco di lei. Bonaparte prendeva nota di tutte queste invettive contro il potere legislativo, le imparava a memoria, e il 2 dicembre 1851 mostrò ai monarchici del parlamento che aveva ben imparato da loro. E ritorse contro di loro i loro stessi argomenti.

Il ministero Barrot e il partito dell'ordine andarono più avanti. Organizzarono in tutta la Francia delle petizioni all'Assemblea nazionale, nelle quali questa era garbatamente invitata ad andarsene. Diressero così e infiammarono contro l'Assemblea nazionale, espressione costituzionalmente organizzata del popolo, le masse del popolo inorganizzate, insegnarono a Bonaparte a fare appello al popolo contro le assemblee parlamentari. Infine, il 29 gennaio 1849, arrivò il giorno in cui la Costituente doveva decidere del proprio scioglimento. L'Assemblea nazionale trovò il locale delle proprie riunioni occupato militarmente; Changarnier, il generale del partito dell'ordine nelle cui mani era riunito il comando supremo della Guardia nazionale e delle truppe di linea, organizzò in Parigi una grande rivista, come se si fosse alla vigilia di una. battaglia, e i monarchici coalizzati dichiararono in tono minaccioso all'Assemblea che se non fosse stata arrendevole si sarebbe fatto ricorso alla forza. L'Assemblea fu arrendevole e mercanteggiò soltanto un breve rinvio. Che cosa fu il 29 gennaio, se non il coup d'Etat del 2 dicembre 1851, perpetrato contro l'Assemblea nazionale repubblicana dai monarchici insieme con Bonaparte? Quei signori non notarono e non vollero notare che Bonaparte sfruttò il 29 gennaio 1849 per far sfilare una parte delle truppe davanti alle Tuileries e davanti a se, e colse avidamente a volo questo primo appello pubblico al potere militare contro il potere parlamentare per far presagire Caligola. Essi non vedevano che il loro Changarnier.

Una delle ragioni che spingevano in modo particolare il partito dell'ordine ad abbreviare con la violenza la vita della Costituente, erano le leggi organiche destinate a completare la Costituzione, come la legge sull'insegnamento, sui culti, ecc. I monarchici coalizzati volevano ad ogni costo fare essi queste leggi e non volevano lasciarle fare dai repubblicani diventati diffidenti. Tra queste leggi organiche ve n'era anche una circa la responsabilità del Presidente della Repubblica. Nel 1851 l'Assemblea legislativa era precisamente intenta alla elaborazione di una legge simile, quando Bonaparte prevenne il colpo col colpo del 2 dicembre. Che cosa non avrebbero dato i monarchici coalizzati, nella loro campagna parlamentare d'inverno del 1851, per trovare bella e fatta la legge sulla responsabilità, e fatta da un'Assemblea repubblicana diffidente e piena d'odio!

Dopo che la Costituente ebbe spezzato il 29 gennaio 1849 la sua ultima arma, il ministero Barrot e gli amici dell'ordine la spinsero alla morte, non risparmiarono nulla di ciò che poteva umiliarla, e strapparono alla sua debolezza disperata delle leggi che le costarono gli ultimi residui di stima di cui ancora godeva nel pubblico. Bonaparte, preso dalla sua idea fissa napoleonica, fu tanto audace da sfruttare pubblicamente questa degradazione del potere parlamentare. Quando infatti l'Assemblea nazionale, l'8 maggio 1849, inflisse un voto di biasimo al ministero per l'occupazione di Civitavecchia da parte di Oudinot, e ordinò che la spedizione romana venisse ricondotta ai suoi scopi presunti, la stessa sera Bonaparte pubblicò nel Moniteur una lettera a Oudinot in cui lo felicitava per le sue gesta eroiche, e posò a protettore magnanimo dell'esercito in contrapposto ai pennaiuoli del Parlamento. I monarchici sorrisero. Credevano che egli fosse semplicemente il loro dupe. Infine quando Marrast, presidente della Costituente, credette per un istante in pericolo la sicurezza dell'Assemblea nazionale e, forte della Costituzione, requisì un colonnello col suo reggimento, il colonnello, richiamandosi alla disciplina, lo rinviò a Changarnier, il quale respinse con ironia la sua richiesta facendogli notare che non gli piacevano le bayonettes intelligents. Nel novembre 1851, quando i monarchici coalizzati vollero impegnare la battaglia decisiva contro Bonaparte, essi cercarono, nella loro famigerata "legge dei questori" di attuare il principio della requisizione diretta delle truppe da parte del presidente dell'Assemblea nazionale. Uno dei loro generali, Lefló, aveva firmato il progetto di legge. Invano Changarnier votò per la proposta e Thiers rese omaggio alla chiaroveggenza della vecchia Costituente. Il Ministro della guerra Saint-Arnaud gli rispose colle stesse parole con cui Changarnier aveva risposto a Marrast, e tra gli applausi della Montagna.

In questo modo il partito dell'ordine, quando non era ancora Assemblea nazionale, quando era ancora soltanto ministero, aveva screditato il regime parlamentare. E si mette a strillare quando il 2 dicembre 1851 lo bandì dalla Francia!

Noi gli auguriamo buon viaggio

III

Il 29 maggio 1849 si riunì l'Assemblea nazionale legislativa. Il 2 dicembre 1851 essa fu sciolta. Questo periodo abbraccia tutta l'esistenza della repubblica costituzionale o parlamentare.

Nella prima rivoluzione francese al dominio dei costituzionali segue il dominio dei girondini, e al dominio dei girondini il dominio dei giacobini. Ognuno di questi partiti si appoggia su quello che è più avanzato di lui. Non appena ha portato la rivoluzione tanto avanti che, nonché precederla, non può più nemmeno seguirla, viene scartato dall'alleato più ardito che è dietro di lui e viene mandato alla ghigliottina. Così la rivoluzione si sviluppa secondo una linea ascendente.

Il contrario succede nella rivoluzione dei 1848. Il partito proletario si presenta come appendice dei partito democratico piccolo-borghese. Questo tradisce il primo e lo lascia cadere il 16 aprile, il 15 maggio e nelle giornate di giugno. Il partito democratico, a sua volta, si appoggia alle spalle del partito repubblicano borghese. Non appena i repubblicani borghesi credono di avere una base solida si sbarazzano dell'inopportuno compagno e si appoggiano a loro volta alle spalle del partito dell'ordine. Ma questo scrolla le spalle, manda a gambe all'aria i repubblicani borghesi e si appoggia alle spalle della forza armata. Crede ancora di poggiare sopra di esse quando un bel mattino si accorge che le spalle si sono cambiate in baionette. Ogni partito recalcitra contro quello che lo spinge in avanti, e si appoggia a quello che lo spinge indietro. Non fa maraviglia che in questa posizione ridicola perda l'equilibrio, e dopo inevitabili smorfie, cada al suolo con strane capriole. Così la rivoluzione si sviluppa secondo una linea discendente. Essa ha già iniziato questo movimento all'indietro prima ancora che l'ultima barricata di febbraio sia stata demolita e sia stata costituita la prima autorità rivoluzionaria.

Il periodo che ci sta dinanzi presenta il miscuglio più bizzarro di contraddizioni stridenti: costituzionali che cospirano apertamente contro la Costituzione; rivoluzionari che sono, per loro confessione, costituzionali; un'Assemblea nazionale che vuol essere onnipotente e rimane esclusivamente parlamentare; una Montagna che fa della sopportazione la sua professione e mette riparo alle disfatte presenti con la profezia di vittorie future; monarchici che fanno i patres conscripti della repubblica e sono costretti dalla situazione a mantenere in esilio le avverse case reali di cui sono fautori e a conservare in Francia la repubblica che odiano; un potere esecutivo che trova la sua forza nella sua debolezza stessa, e la sua rispettabilità nel disprezzo che ispira; una repubblica che non è altro che l'infamia combinata di due monarchie, della Restaurazione e della monarchia di luglio, sotto un'etichetta imperialistica; unioni la cui prima clausola è la scissione; battaglie la cui prima legge è la mancanza di decisione; in nome dell'ordine una agitazione confusa e senza contenuto; in nome della rivoluzione la più solenne predicazione di pace; passioni senza verità, verità senza passione, eroi senza azioni eroiche, storia senza avvenimenti; una evoluzione la cui unica molla sembra essere il calendario, e che stanca per la ripetizione costante degli stessi momenti di tensione e di distensione; contrasti che sembrano acutizzarsi periodicamente soltanto per attutirsi e precipitare, senza riuscire a risolversi; sforzi presuntuosi e ostentati e paure della borghesia davanti al pericolo della fine del mondo, e da parte dei salvatori del mondo, in pari tempo, i più meschini intrighi e le commedie di palazzo più meschine, che nel loro laisser aller ricordano piuttosto i tempi della fronda che il giorno del giudizio universale; tutto il genio ufficiale della Francia messo alla gogna dalla astuta dappocaggine di un solo individuo; la volontà collettiva della nazione, ogni volta che si esprime nel suffragio universale, cerca la sua espressione adeguata nei nemici inveterati degl'interessi delle masse, sino a che la trova finalmente nell'arbitrio di un filibustiere. Se mai epoca della storia è stata dipinta in grigio su grigio, è ben questa. Uomini e avvenimenti appaiono come degli Schlemihl a rovescio, come ombre cui è stato tolto il corpo. La rivoluzione stessa paralizza i suoi fautori e riempie di violenza e di passione soltanto i suoi avversari. Quando finalmente appare lo "spettro rosso", continuamente evocato e scongiurato dai controrivoluzionari, esso non appare col berretto frigio dell'anarchia sul capo, ma nell'uniforme dell'ordine, in pantaloni rossi.

Abbiamo visto che il ministero installato dal Bonaparte il 20 dicembre 1848, il giorno della sua ascensione era un ministero del partito dell'ordine, della coalizione legittimista e orleanista. Questo ministero Barrot-Falloux era sopravvissuto alla Costituente repubblicana, di cui aveva più o meno violentemente abbreviato l'esistenza, e si trovava ancora al potere. Changarnier, il generale dei monarchici coalizzati, continuava a riunire nella sua persona il comanda generale della prima divisione militare e quello della Guardia nazionale di Parigi. Le elezioni generali avevano finalmente assicurato al partito dell'ordine una grande maggioranza nell'Assemblea nazionale. I deputati e i pari di Luigi Filippo s'imbatterono in una sacra falange di legittimisti, per i quali le numerose schede elettorali della nazione erano diventate biglietti d'ingresso alla scena politica. I rappresentanti del popolo bonapartisti erano troppi rari, per poter formare un partito parlamentare indipendente. Essi apparivano soltanto come mauvaise queue del partito dell'ordine. In questo modo il partita dell'ordine si trovava in possesso del potere governativo, dell'esercito e dei corpo legislativo, in una parola di tutto il potere dello Stato; ed era stato rafforzato moralmente dalle elezioni generali, che facevano apparir il sui dominio come espressione della volontà dei popolo, e dalla contemporanea vittoria della controrivoluzione su tutto il continente europeo.

Mai partito era entrato in campagna con mezzi più rilevanti e sotto più favorevoli auspici.

I repubblicani puri, superstiti dal naufragio, si trovarono ridotti nell'Assemblea nazionale legislativa a una cricca di circa cinquanta uomini, con a capo i generali africani Cavaignac, Lamoricière, Bedeau. Ma il grande partito d'opposizione era costituito dalla Montagna. Con questo nome si era battezzato il partito socialdemocratico. Esso disponeva di più di duecento dei settecentocinquanta voti dell'Assemblea nazionale ed era quindi per lo meno altrettanto forte quanto una qualsiasi delle tre frazioni del partito dell'ordine prese separatamente. La sua posizione di minoranza relativa rispetto all'assieme della coalizione monarchica appariva compensata da circostanze particolari. Non soltanto le elezioni dipartimentali avevano dimostrato ch'esso si era conquistato un'influenza considerevole tra la popolazione delle campagne, ma contava nel suo seno quasi tutti i deputati di Parigi. L'esercito aveva fatto una dichiarazione di fede democratica eleggendo tre sottufficiali; e il capo della Montagna, Ledru-Rollin, a differenza di tutti i rappresentanti del partito dell'ordine, era stato elevato alla dignità parlamentare da cinque dipartimenti i quali avevano raccolto i loro suffragi sul suo nome. Il 29 maggio 1849, dunque, dato che era inevitabile che le diverse frazioni monarchiche venissero tra di loro a conflitto, e che il partito dell'ordine come tale venisse a conflitto con Bonaparte, la Montagna sembrava aver davanti a sé tutti gli elementi del successo. Quindici giorni dopo aveva perduto tutto. Compreso l'onore.

Prima di procedere nella storia parlamentare sono necessarie alcune osservazioni, per evitare le consuete illusioni circa il carattere dell'epoca che ci sta davanti. Secondo il modo di vedere dei democratici, durante tutto il periodo dell'Assemblea nazionale legislativa, si trattava, come nel periodo della Costituente, della semplice lotta tra repubblicani e monarchici Ma il movimento stesso essi lo riassumono in una sola parola: "reazione" notte in cui tutti i gatti sono grigi, e che permette loro di ripetere i loro luoghi comuni da guardiani notturni. Non vi è dubbio che a prima vista il partito dell'ordine presenta un groviglio di varie frazioni monarchiche, che non solo intrigano l'una contro l'altra per elevare al trono ciascuna il proprio pretendente e dare scacco al pretendente del partito avverso, ma sono pure tutte unite nell'odio comune e nei comuni attacchi contro la "repubblica". La Montagna invece, in opposizione a questa cospirazione monarchica. appare come il rappresentante della "repubblica". Il Partito dell'ordine sembra continuamente occupato a un'opera di "reazione" che si dirige, né più né meno che in Prussia, contro la stampa, il diritto di associazione, e simili e si traduce, come in Prussia, in brutali inframmettenze poliziesche della burocrazia, della gendarmeria e dell'autorità giudiziaria. La "Montagna", dal canto suo, è continuamente occupata a respingere questi attacchi e a difendere, quindi, i "diritti eterni dell'uomo", come più o meno hanno fatto da circa un secolo e mezzo tutti i partiti cosiddetti popolari. Ma se si considerino la situazione e i partiti più da vicino, questa apparenza superficiale, che nasconde la lotta di classe e la peculiare fisionomia di questo periodo, scompare.

Legittimisti e orleanisti costituivano, come s'è detto, le due grandi frazioni del partito dell'ordine. Ma ciò che univa queste frazioni ai loro pretendenti e le opponeva l'una all'altra non era forse qualcos'altro che il giglio e il tricolore la casa di Borbone e la casa di Orléans, una diversa sfumatura nello spirito monarchico e, in generale, la professione di fede nella monarchia? Sotto i Borboni aveva regnato la grande proprietà terriera, coi suoi preti e i suoi lacchè; sotto gli Orléans l'alta finanza, la grande industria, il grande commercio, cioè il capitale, col suo seguito di avvocati, professori e retori. La monarchia legittima era soltanto l'espressione politica del dominio ereditario dei grandi proprietari fondiari, mentre la monarchia di luglio non era altro che l'espressione politica del dominio usurpato dei parvenus borghesi. Dunque ciò che opponeva l'una all'altra queste frazioni non erano dei cosiddetti princìpi, erano le condizioni materiali d'esistenza, due diverse specie della proprietà; era il vecchio contrasto tra la città e la campagna, la rivalità tra il capitale e la proprietà fondiaria. Che in pari tempo vecchi ricordi, ostilità personali, timori e speranze, pregiudizi e illusioni, simpatie e antipatie, convinzioni, articoli di fede e principi legassero all'una o all'altra delle case reali, non lo si può negare. Al di sopra delle differenti norme di proprietà e delle condizioni sociali di esistenza si eleva tutta una sovrastruttura di impressioni, di illusioni, di particolari modi di pensare e di particolari concezioni della vita. La classe intiera crea questa sovrastruttura e le dà una forma sulla base delle sue proprie condizioni materiali e delle corrispondenti relazioni sociali. L'individuo singolo, cui queste cose pervengono attraverso la tradizione e l'educazione, può immaginarsi che esse costituiscano i veri motivi determinanti e il punto di partenza della sua attività. Benché gli orleanisti, i legittimisti, ogni frazione, cercasse di persuadere se stessa e di persuadere la frazione avversa che ciò che le divideva era il fatto che ciascuna di esse sosteneva la propria casa regnante, la realtà doveva provare in seguito che era piuttosto la divergenza dei loro interessi a impedire l'unione delle due case. E come nella vita privata si fa distinzione tra ciò che un uomo pensa e dice di sé e ciò che dice e fa in realtà, tanto più nelle lotte della storia si deve far distinzione fra le frasi e le pretese dei partiti e il loro organismo reale e i loro reali interessi, tra ciò che essi si immaginano di essere e ciò che in realtà sono. Orleanisti e legittimisti si trovano gli uni accanto agli altri nella repubblica con eguali pretese. Se ognuna delle due frazioni voleva conseguire, contro l'altra, la restaurazione della propria casa reale, ciò non significava altro se non che i due grandi interessi che dividono la borghesia - la proprietà fondiaria e il capitale - cercavano, ognuno per conto suo, di restaurare la propria supremazia e la subordinazione dell'interesse opposto. E parliamo di due interessi della borghesia perché la grande proprietà fondiaria, malgrado civettasse col feudalismo e malgrado il suo orgoglio di razza, era, in conseguenza dello sviluppo della società moderna, completamente imborghesita. Così in Inghilterra i tories si immaginarono per molto tempo di essere entusiasti della monarchia, della Chiesa e delle bellezze della vecchia costituzione inglese, sino a che il pericolo strappò loro la confessione che erano entusiasti soltanto della rendita fondiaria.

I monarchici coalizzati intrigavano gli uni contro gli altri nella stampa, a Ems, a Claremont, fuori del Parlamento. Dietro le quinte tornavano a indossare le loro vecchie livree orleaniste e legittimiste e riprendevano i loro vecchi tornei. Ma sulla pubblica scena, nelle loro azioni capitali e statali, come grande partito parlamentare, facevano alle loro rispettive case reali delle semplici riverenze e rinviavano in infinitum la restaurazione della monarchia. Essi adempivano la loro vera funzione come partito dell'ordine, cioè sotto una bandiera sociale, non sotto una bandiera politica; come rappresentanti dell'ordinamento borghese e non come cavalieri serventi di principesse erranti; come classe borghese contro altre classi e non come monarchici contro i repubblicani. E come partito dell'ordine essi hanno esercitato sulle altre classi della società un dominio più illimitato e più duro di quello che avevano esercitato sotto la Restaurazione o sotto la monarchia di luglio, un dominio che era possibile, in generale, soltanto nella forma della repubblica parlamentare, perché soltanto sotto questo regime le due grandi frazioni della borghesia francese potevano unirsi e porre quindi all'ordine dei giorno il dominio della loro classe, anziché il regime di una sua frazione privilegiata. E se, ciò malgrado, anche come partito dell'ordine, essi insultano la repubblica e danno libero corso alla loro avversione per essa, questo avviene soltanto grazie alle reminiscenze monarchiche. Il loro istinto li avvertiva che, se era vero che la repubblica rendeva completo il loro dominio politico, essa minava però in pari tempo la loro base sociale, perché ora erano costretti ad affrontarsi con le classi oppresse e a lottare contro di esse senza intermediari, senza lo schermo della corona, senza poter sviare l'interesse della nazione con le loro lotte reciproche secondarie e con le lotte contro la monarchia. Era un senso di debolezza che li faceva arretrare tremando davanti alle condizioni pure del loro proprio dominio di classe e faceva loro rimpiangere le forme meno complete, meno sviluppate, e quindi prive di pericoli, di questo stesso dominio. Al contrario, ogni volta che i monarchici coalizzati entrano in conflitto col pretendente che sta loro di fronte, con Bonaparte, ogni volta che credono la loro onnipotenza parlamentare minacciata dal potere esecutivo, ogni volta, dunque, che debbono presentare il titolo politico del loro dominio, essi si presentano come repubblicani e non come monarchici, a partire dall'orleanista Thiers, il quale ammonisce l'Assemblea nazionale che la repubblica è il regime che meno li divide, sino al legittimista Berryer, che il 2 dicembre 1851, cinta la sciarpa tricolore e fattosi tribuno, arringa il popolo davanti al palazzo municipale del 10° mandamento, in nome della repubblica. Ma la eco beffarda gli risponde: "Enrico V! Enrico V!".

Di fronte alla borghesia coalizzata si era formata una coalizione di piccoli borghesi e di operai, il cosiddetto partito socialdemocratico. I piccoli borghesi si erano visti mal ricompensati dopo le giornate del giugno 1848; i loro interessi materiali erano minacciati, e le garanzie democratiche, che avrebbero dovuto permetter loro di far valere questi interessi, erano messe in forse dalla controrivoluzione. Perciò si avvicinavano agli operai. La loro rappresentanza parlamentare, d'altra parte, la Montagna, messa in disparte sotto la dittatura dei repubblicani borghesi durante la seconda metà della vita della Costituente aveva riconquistato la sua popolarità lottando contro Bonaparte e contro i ministri monarchici. Essa aveva concluso un'alleanza coi capi socialisti. Nel febbraio 1849 si organizzarono dei banchetti di riconciliazione. Venne abbozzato un programma comune, vennero formati dei comitati elettorali comuni e vennero presentati dei candidati comuni. Alle rivendicazioni sociali del proletariato venne smussata la punta rivoluzionaria e data una piega democratica. Alle pretese democratiche della piccola borghesia venne tolto il carattere puramente politico e dato rilievo alla loro punta socialista. Così sorse la Socialdemocrazia. La nuova Montagna, che fu il risultato di questa combinazione, tolti alcuni elementi della classe operaia che facevano da comparse, e alcuni membri delle sètte socialiste conteneva gli stessi elementi della vecchia Montagna, ma era numericamente più forte. Nel corso degli avvenimenti, però, si era mutata, al pari della classe che essa rappresentava. Il carattere proprio della socialdemocrazia si riassume nel fatto che vengono richieste istituzioni democratiche repubblicane non come mezzi per eliminare entrambi gli estremi, il capitale e il lavoro salariato, ma come mezzi per attenuare il loro contrasto e trasformarlo in armonia. Ma per quanto diverse siano le misure che possono venir proposte per raggiungere questo scopo, per quanto queste misure si possano adornare di rappresentazioni più o meno rivoluzionarie, il contenuto rimane lo stesso. Questo contenuto è la trasformazione della società per via democratica, ma una trasformazione che non oltrepassa il quadro della piccola borghesia. Non ci si deve rappresentare le cose in modo ristretto, come se la piccola borghesia intendesse difendere per principio un interesse di classe egoistico. Essa crede, il contrario, che le condizioni particolari della sua liberazione siano le condizioni generali, entro alle quali soltanto la società moderna può essere salvata e la lotta di classe evitata. Tanto meno si deve credere che i rappresentanti democratici siano tutti shopkrepers o che nutrano per questi un'eccessiva tenerezza. Possono essere lontani dai bottegai, per cultura e situazione personale, tanto quanto il cielo è lontano dalla terra. Ciò che fa di essi i rappresentanti del piccolo borghese è il fatto che la loro intelligenza non va al di là dei limiti che il piccolo borghese stesso non oltrepassa nella sua vita, e perciò essi tendono, nel campo della teoria, agli stessi compiti e ,alle stesse soluzioni a cui l'interesse materiale e la situazione sociale spingono il piccolo borghese nella pratica. Tale è, in generale, il rapporto che passa tra i rappresentanti politici e letterari di una classe e la classe che essi rappresentano.

Da quanto si è detto è ovvio che se la Montagna lotta continuamente contro il partito dell'ordine per la repubblica e per i cosiddetti diritti dell'uomo, né la repubblica né i diritti dell'uomo sono il suo scopo supremo: così come un esercito che si cerca di disarmare, e che resiste, non entra in campo solo per restare in possesso delle proprie armi.

Il partito dell'ordine provocò la Montagna sin dall'apertura dell'Assemblea nazionale. La borghesia sentiva ora la necessità di finirla con i piccoli borghesi democratici, come un anno prima aveva compreso la necessità di finirla col proletariato rivoluzionario. Ma la situazione dei nemico era diversa. La forza del partito proletario era nella strada, quella dei piccoli borghesi nell'Assemblea nazionale stessa. Si trattava quindi di attirarlo dall'Assemblea nazionale nella strada e di spingerlo a spezzare da sé la propria forza parlamentare, prima che il tempo e le occasioni potessero consolidarla. La Montagna si precipitò a occhi chiusi nella trappola.

Il bombardamento di Roma da parte delle truppe francesi fu l'esca che le venne lanciata. Esso costituiva una violazione dell'articolo V della Costituzione, che proibiva alla repubblica francese di impiegare le sue forze militari contro le libertà di un altro popolo. Inoltre l'articolo 54 proibiva pure ogni dichiarazione di guerra da parte del potere esecutivo senza il consenso dell'Assemblea nazionale; e la Costituente, colla sua decisione dell'8 maggio, aveva disapprovato la spedizione romana. Fondandosi su questi fatti, l’11 giugno 1849 Ledru-Rollin depose un atto d'accusa contro Bonaparte e i suoi ministri. Irritato dalle punture di spillo di Thiers, egli si lasciò trascinare a minacciare di voler difendere la Costituzione con tutti i mezzi, e anche con le armi alla mano. La Montagna si levò come un sol uomo e ripeté questo appello alle armi. Il 12 giugno l'Assemblea nazionale respinse l'atto di accusa, e la Montagna abbandonò il Parlamento. Gli avvenimenti del 13 giugno sono conosciuti: il proclama di una parte della Montagna, secondo cui Bonaparte e i suoi ministri erano dichiarati "fuori della Costituzione"; la pacifica dimostrazione di strada delle guardie nazionali democratiche che, disarmate come erano, si dispersero al primo incontro con le truppe di Changarnier, ecc., ecc. Una parte della Montagna fuggi all'estero, un'altra parte venne deferita all'Alta Corte di Bourges, e un regolamento parlamentare sottopose il resto alla sorveglianza pedantesca del presidente dell'Assemblea nazionale. Parigi venne di nuovo dichiarata in stato di assedio, e la parte democratica della sua Guardia nazionale venne sciolta. Così vennero spezzate l'influenza della Montagna nel Parlamento e la forza dei piccoli borghesi a Parigi.

Lione, che il 13 giugno aveva dato il segnale di una sanguinosa insurrezione operaia, venne pure dichiarata in stato di assedio insieme ai cinque dipartimenti circonvicini, e questo stato d'assedio dura tuttora.

Il grosso della Montagna aveva lasciato in asso la propria avanguardia, negando le firme al suo proclama. La stampa aveva disertato, perché solo due giornali avevano osato rendere pubblico il pronunciamento. I piccoli borghesi tradirono i loro rappresentanti, perché le guardie nazionali rimasero a casa e, dove apparvero, impedirono la costruzione di barricate. I rappresentanti avevano ingannato i piccoli borghesi perché non fu possibile vedere da nessuna parte i cosiddetti affiliati ch'essi avevano nell'esercito. Infine, invece di trarre dal proletariato nuove forze, il partito democratico aveva trasmesso al proletariato la propria debolezza e, come avviene di solito nelle grandi azioni democratiche, i capi avevano la soddisfazione di poter accusare il loro "popolo" di diserzione e il popolo aveva la soddisfazione di poter accusare i suoi capi di averlo gabbato.

Raramente un'azione era stata annunciata con maggior fracasso dell'imminente campagna della Montagna, raramente un avvenimento era stato lanciato a suon di tromba con maggior sicurezza e più tempo prima come una vittoria inevitabile della democrazia. Non vi è dubbio: i democratici credono alle trombe, agli squilli delle quali crollarono le mura di Gerico, e ogni volta che si trovano di fronte alle mura del dispotismo cercano di ripetere il miracolo. Se la Montagna voleva vincere nel Parlamento, non doveva fare appello alle armi. Se faceva appello alle armi nel Parlamento, non doveva però comportarsi in modo parlamentare nella strada. Se si pensava seriamente a una dimostrazione pacifica, era però sciocco non prevedere che essa sarebbe stata accolta in modo bellicoso. Se si prevedeva una vera battaglia, era strano deporre le armi con cui la battaglia doveva essere condotta. Ma le minacce rivoluzionarie dei piccoli borghesi e dei loro rappresentanti democratici sono semplici tentativi di intimidire l'avversario. E quando si sono cacciati in un vicolo cieco, quando si sono compromessi a un punto tale che sono costretti a tradurre in atto le loro minacce, ciò viene fatto in modo equivoco, che non evita altro che i mezzi adatti allo scopo e cerca avidamente dei pretesti di disfatta. Il rimbombante preludio che annunciava la battaglia si perde in un debole mormorio non appena questa dovrebbe incominciare; gli attori cessano di prendersi au sérieux e l'azione fallisce in modo lamentevole, come un pallone forato con uno spillo.

Nessun partito più del democratico esagera a se stesso i propri mezzi, nessuno s'inganna con maggior leggerezza circa la situazione. Poiché una parte dell'esercito le aveva dato i suoi voti, la Montagna era convinta che l'esercito sarebbe insorto in suo favore. E in che occasione? In un'occasione che, secondo il modo di vedere delle truppe, non aveva altro senso se non che i rivoluzionari prendevano partito per i soldati romani contro i soldati francesi. D'altra parte i ricordi dei giugno 1848 erano ancora troppo freschi, perché non dovesse esistere una profonda avversione del proletariato contro la Guardia nazionale e una profonda diffidenza dei capi delle società segrete per i capi democratici. Perché queste divergenze venissero appianate era necessario che fossero in gioco dei grandi interessi comuni. La violazione di un astratto paragrafo della Costituzione non poteva presentare questo intesse. La Costituzione non era stata violata ripetutamente, secondo quanto confessavano i democratici stessi? I giornali più popolari non avevano ballato la Costituzione come un ordigno controrivoluzionario? Ma il democratico, poiché rappresenta la piccola borghesia, cioè una classe intermedia, in seno alla quale si smussano in pari tempo gli interessi di due classi, si immagina di essere superiore, in generale, ai contrasti di classe. I democratici riconoscono di aver davanti a sé una classe privilegiata, ma essi, con tutto il resto della nazione che li circonda, costituiscono il popolo. Ciò che essi rappresentano è il diritto del popolo; ciò che li interessa è l'interesse del popolo. Essi non hanno dunque bisogno, prima di impegnare una lotta, di saggiare gli interessi e le posizioni delle diverse classi. Non hanno bisogno di ponderare troppo accuratamente i propri mezzi. Non hanno che da lanciare il segnale, perché il popolo, con tutte le sue inesauribili risorse, si scagli sugli oppressori. Se poi, all'atto pratico, i loro interessi si rivelano non interessanti e la loro forza un'impotenza, la colpa o è di quegli sciagurati sofisti che dividono il popolo indivisibile in diversi campi nemici; o dell'esercito, troppo abbrutito e troppo accecato per comprendere che i puri scopi della democrazia sono il proprio bene; o di un particolare dell'esecuzione che ha fatto fallire l'assieme; o di un caso imprevisto che, per quella volta, ha fatto andare a monte tutto l'affare. Ad ogni modo, il democratico esce sempre senza macchia dalla più grave sconfitta, come senza colpa vi è entrato, e ne esce con la rinnovata convinzione che egli deve vincere, non che egli stesso e il suo partito dovranno cambiare il loro vecchio modo di vedere, ma, al contrario, che gli avvenimenti, maturando, gli dovranno venire incontro.

Non ci si deve dunque immaginare che la Montagna, decimata, spezzata, umiliata dal nuovo regolamento parlamentare, fosse troppa infelice. Se il 13 giugno aveva eliminato i suoi capi, esso aveva però fatto posto a uomini di second'ordine, che la nuova situazione lusingava. Se la loro impotenza in Parlamento non poteva più venir messa in dubbio, essi erano dunque in diritto di limitare la loro attività a scoppi di indignazione morale e declamazioni rumorose. Se il partito dell'ordine fingeva di vedere in essi, ultimi rappresentanti .ufficiali della rivoluzione, l'incarnazione di tutti gli orrori dell'anarchia, essi potevano quindi essere in realtà altrettanto più banali e moderati. Del 13 giugno essi si consolarono con questa frase profonda: Ma che non si osi metter mano sul suffragio universale! Allora mostreremo quello che siamo! Nous verrons.

Quanto ai Montagnardi fuggiti all'estero, basterà osservare qui che Ledru-Rollin, poiché era riuscito a rovinare senza via di scampo, in appena due settimane, il potente partito alla testa del quale si trovava, per questo si credette designato a fondare un governo francese in partibus; che la sua figura, nella lontananza, fuori del terreno dell'azione, sembrò ingrandirsi, a misura che il livello della rivoluzione cadeva e le grandezze ufficiali della Francia ufficiale si facevano più minuscole; che egli poté presentarsi come pretendente repubblicano per il 1852, e mandare circolari periodiche ai Valacchi e ad altri popoli, minacciando i despoti del Continente delle gesta sue e dei suoi alleati. Non aveva del tutto torto Proudhon, quando gridava a questi signori: "Vous n'étes que des blagueurs"?

Il 13 giugno il partito dell'ordine non aveva soltanto abbattuto la Montagna; aveva pure realizzata la subordinazione della Costituzione alle decisioni della maggioranza dell'Assemblea nazionale. Ed intendeva la repubblica in questo modo: la borghesia governa nelle forme parlamentari, senza trovare un limite al suo dominio, come sotto la monarchia, nel veto del potere esecutivo o nella possibilità che il Parlamento venga sciolto. Tale era la repubblica parlamentare, come la chiamava Thiers. Ma se la borghesia aveva assicurato il 13 giugno la propria onnipotenza all'interno dell'edificio parlamentare, non aveva essa colpito il Parlamento di inguaribile debolezza, agli occhi del potere esecutivo e del popolo, scacciandone la parte più popolare? Abbandonando numerosi deputati, senz'altre cerimonie, alle richieste dell'autorità giudiziaria, essa soppresse la propria immunità parlamentare. Il regolamento umiliante a cui essa sottopose la Montagna, elevava il presidente della repubblica nella stessa misura in cui abbassava i singoli rappresentanti del popolo. Bollando come anarchica e sovversiva l'insurrezione in difesa della Costituzione, la Montagna interdiceva a se stessa l'appello all'insurrezione nel caso che il potere esecutivo volesse violare la Costituzione ai suoi danni. E l'ironia della storia vuole che il generale che aveva bombardato Roma per incarico di Bonaparte, e in questo modo aveva offerto il pretesto immediato alla sommossa del 13 giugno, che Oudinot, il 2 dicembre 1851, venga presentato al popolo dal partito dell'ordine, con insistenza e invano, come generale della Costituzione contro Bonaparte. Un altro eroe del 13 giugno, Vieyra, che aveva avuto felicitazioni dall'alto della tribuna dell'Assemblea nazionale per le brutalità da lui compiute nei locali di giornali democratici, a capo di una banda di guardie nazionali devote all'alta finanza, questo stesso Vieyra fu iniziato alla congiura di Bonaparte e contribuì efficacemente a privare l'Assemblea nazionale, nell'ora della sua morte, di ogni appoggio della Guardia nazionale.

Il 13 giugno ebbe anche un altro significato. La Montagna aveva voluto strappare la messa in stato d'accusa di Bonaparte. La sua sconfitta fu quindi una vittoria diretta di Bonaparte, un suo trionfo personale sui suoi nemici democratici. Il partito dell'ordine combatté per ottenere la vittoria; Bonaparte non ebbe che da riscuoterla. E' ciò ch'egli fece. Il 14 giugno si poté leggere sul muri di Parigi un proclama in cui il presidente, come se la cosa non d pendesse da lui, suo malgrado, costretto dalla pura forza degli avvenimenti, usciva dal suo isolamento claustrale, si doleva, come virtù misconosciuta, delle calunnie dei suoi avversari, e mentre sembrava identificare la sua persona con la causa dell'ordine, identificava invece la causa dell'ordine con la sua persona. Inoltre, se l'Assemblea ,nazionale aveva ratificato, sebbene con ritardo, la spedizione contro Roma, l'iniziativa era stata presa da Bonaparte. Dopo aver di nuovo insediato in Vaticano il sommo sacerdote Samuele, egli poteva sperare di insediare se stesso, come re Davide, nelle Tuileries. Aveva conquistato i preti.

La sommossa del 13 giugno si limitò, come abbiamo visto, a una dimostrazione pacifica di strada. Non vi erano dunque stati allori guerrieri da conquistare contro di essa. Ciò non pertanto, in questo periodo povero di eroi e di avvenimenti, il partito dell'ordine trasformò questa battaglia senza spargimento di sangue in una seconda Austerlitz. La tribuna e la stampa celebrarono l'esercito come la potenza dell'ordine, in opposizione alle masse popolari rappresentanti l'impotenza dell'anarchia, e glorificarono Changarnier come il "baluardo della società". Mistificazione alla quale finì per credere egli stesso. Ma i corpi che sembravano di dubbia fedeltà venivano intanto allontanati da Parigi alla chetichella; i reggimenti nei quali le elezioni avevano dato i risultati più democratici venivano deportati dalla Francia in Algeria; le teste calde fra la truppa inviate alle compagnie di disciplina; e infine, la stampa veniva bandita sistematicamente dalla caserma e la caserma isolata dalla società civile.

Siamo arrivati alla svolta decisiva nella storia della Guardia nazionale francese. Nel 1830 essa aveva deciso della caduta della Restaurazione. Sotto Luigi Filippo tutte le sommosse in cui la Guardia nazionale si era messa dalla parte dell'esercito erano fallite. Quando nelle giornate di febbraio del 1848 essa aveva avuto un atteggiamento di passività verso l'insurrezione, ed equivoco verso Luigi Filippo, questi si era considerato perduto, e lo era. In questo modo si era radicata la convinzione che la rivoluzione non poteva vincere senza la Guardia nazionale e che l'esercito non poteva vincere contro di essa. Si manifestava così la fede superstiziosa dell'esercito nell'onnipotenza dei borghesi. Le giornate del giugno 1848, in cui l'intiera Guardia nazionale, insieme con le truppe di linea, aveva schiacciato l'insurrezione, aveva rafforzato la superstizione. Dopo l'andata al potere di Bonaparte la posizione della Guardia nazionale era però stata indebolita, in conseguenza del fatto che, contrariamente alla Costituzione, il suo comando era stato riunito, nella persona di Changarnier, al comando della prima divisione militare.

Come il comando della Guardia nazionale appariva qui come un attributo del comandante militare supremo, così la Guardia nazionale stessa appariva soltanto come un'appendice delle truppe di linea. Il 13 giugno, infine, essa venne spezzata, e non soltanto in conseguenza dei suo scioglimento parziale, che da quel momento si ripeté periodicamente in tutti i punti della Francia e non ne lasciò sussistere che i frantumi. La dimostrazione dei 13 giugno era stata anzitutto una dimostrazione delle guardie nazionali democratiche. E’ vero che esse avevano opposto all'esercito non le loro armi, ma le loro uniformi; ma proprio in quell'uniforme stava il talismano. L'esercito si convinse che quell'uniforme era uno straccio di lana come tutti gli altri. L'incanto era rotto. Nelle giornate di giugno 1848 borghesia e piccola borghesia, come Guardia nazionale, si erano unite con l'esercito contro il proletariato; il 13 giugno 1849 la borghesia fece disperdere dall'esercito la Guardia nazionale piccolo-borghese; il 2 dicembre 1851 scomparve anche la Guardia nazionale della borghesia, e Bonaparte, quando più tardi ne firmò il decreto di scioglimento, non fece altro che prender atto del fatto compiuto. Così la borghesia aveva spezzato essa stessa la sua ultima arma contro l'esercito, e l'aveva dovuta spezzare a partire dal momento in cui la piccola borghesia, invece di continuare ad essere sottomessa come un vassallo, si era levata contro di essa in atteggiamento di ribelle. Allo stesso modo la borghesia, dal momento che essa stessa era diventata assolutista, doveva spezzare con le proprie mani, in generale, tutti i suoi mezzi di difesa contro l'assolutismo.

Frattanto il partito dell'ordine celebrava la riconquista di un potere che sembrava aver perduto nel 1848 solo per ritrovarlo nel 1849 liberato da tutte le pastoie, e lo celebrava con invettive contro la Repubblica e contro la Costituzione, maledicendo tutte le rivoluzioni passate, presenti e future, compresa quella che era stata fatta dai suoi propri capi, e promulgando leggi che imbavagliavano la stampa, sopprimevano il diritto di associazione e facevano della stato d'assedio un'istituzione organica di governo. L'Assemblea nazionale si aggiornò quindi dalla metà di agosto alla metà di ottobre, dopo aver nominato, per il periodo delle sue vacanze, una commissione permanente. Durante queste ferie i legittimisti intrigarono a Ems, gli orleanisti a Claremont, Bonaparte facendo dei viaggi principeschi, e i consigli dipartimentali discutendo della revisione della Costituzione, fatti che si riproducono regolarmente nel periodi di vacanza dell'Assemblea nazionale e di cui mi occuperò quando assumeranno il valore di avvenimenti. Per ora basti notare che l'Assemblea nazionale agiva poco politicamente disparendo dalla scena durante periodi di tempo abbastanza lunghi e lasciando che si vedesse a capo della repubblica una sola figura, fosse pure meschina, quella di Luigi Bonaparte e ciò mentre il partito dell'ordine, con scandalo dei pubblico, si divideva nei suoi differenti elementi monarchici e si abbandonava alle proprie contrastanti velleità di restaurazione. Ogniqualvolta, durante queste vacanze, i rumori assordanti del Parlamento si estinguevano, e il suo corpo si dissolvevi nella nazione, appariva in modo incontrovertibile che mancava ormai soltanto una cosa per rendere completa la vera immagine di questa repubblica: rendere permanenti le vacanze del Parlamento e sostituire al motto della repubblica: Liberté, égalité, fraternité, le parole di significato non equivoco: Fanteria, cavalleria, artiglieria.

IV

A metà ottobre 1849 l'Assemblea nazionale tornò a riunirsi. Il I novembre Bonaparte li sorprese con un messaggio in cui annunciava il licenziamento del ministero Barrot-Falloix e la formazione di un nuovo ministero. Mai servitori furono messi alla porta con meno cerimonie di quello che Bonaparte fece coi suoi ministri. I calci destinati all'Assemblea nazionale li ricevettero per il momento Barrot e compagni.

Il ministero Barrot, come abbiamo visto, era composto di legittimisti e di orleanisti; era un ministero del partito dell'ordine. Bonaparte ne aveva avuto bisogno per sciogliere la Costituente repubblicana, intraprendere la spedizione contro Roma e spezzare il partito democratico. Egli si era apparentemente eclissato dietro questo ministero, aveva affidato il potere governativo al partito dell'ordine e s'era messo la maschera modesta che portavano sotto Luigi Filippo i gerenti responsabili dei giornali, la maschera dell'homme de paille. Ora egli si liberava di un travestimento che non era più il velo leggero dietro al quale egli potesse nascondere il suo viso, ma una maschera di ferro che gli impediva di mostrare la sua vera fisionomia. Aveva insediato al potere il ministero Barrot per disciogliere, in nome del partito dell'ordine, l'Assemblea nazionale repubblicana; lo licenziava per dimostrare che il suo proprio nome non dipendeva dall'Assemblea nazionale del partito dell'ordine.

I pretesti plausibili per questo licenziamento non mancano. Il ministero Barrot aveva trascurato persino le convenienze che avrebbero dovuto far apparire il Presidente della repubblica come un potere accanto all'Assemblea nazionale. Durante le vacanze dell'Assemblea, Bonaparte aveva pubblicato una lettera a Edgar Ney, in cui sembrava disapprovasse la condotta illiberale del Papa, allo stesso modo che, in contrasto con la Costituente, aveva pubblicato una lettera in cui elogiava Oudinot per il suo attacco alla repubblica romana. Quando l'Assemblea nazionale aveva votato i crediti per la spedizione romana, Victor Hugo, per sedicente liberalismo, aveva messo in discussione quella lettera. Il partito dell'ordine aveva soffocato, con interruzioni sprezzantemente incredule, la trovata consistente nell'attribuire alle uscite di Bonaparte un qualsiasi valore politico. Nessuno dei ministri aveva raccolto il guanto per lui. In un'altra occasione Barrot, con la sua ben conosciuta enfasi, aveva lasciato cadere dalla tribuna parole di sdegno a proposito degli "abominevoli intrighi" che secondo lui si tramavano negli ambienti che circondavano più da vicino il presidente. Infine il ministero, mentre otteneva dall'Assemblea nazionale una pensione per la duchessa d'Orléans, respingeva ogni proposta di aumento della lista civile del presidente. E in Bonaparte il pretendente imperiale si confondeva così intimamente col cavaliere d'industria in rovina, che la sua unica grande idea, di essere chiamato a restaurare l'Impero, era sempre integrata dall'altra, che il popolo francese fosse chiamato a pagare i suoi debiti.

Il ministero Barrot-Falloux fu il primo e l'ultimo ministero parlamentare formato da Bonaparte. Il suo licenziamento costituisce quindi una svolta decisiva. Con esso il partito dell'ordine perdette, per non riconquistarlo mai più, il controllo sul potere esecutivo, posizione indispensabile per la difesa del regime parlamentare. Si capisce senz'altro che in un paese come la Francia, in cui il potere esecutivo ha sotto di sé un esercito di più di mezzo milione di funzionari, e dispone quindi continuamente, in modo assoluto, di una massa enorme di interessi e di esistenze; in cui lo Stato, dalle più ampie manifestazioni della vita fino ai movimenti più insignificanti, dalle sue forme di esistenza più generali sino alla vita privata, avvolge la società borghese, la controlla, la regola, la sorveglia e la tiene sotto tutela; in cui questo corpo di parassiti, grazie alla più straordinaria centralizzazione, acquista una onnipresenza, una onniscienza, una più rapida capacità di movimento e un'agilità che trova il suo corrispettivo soltanto nello stato di dipendenza e di impotenza e nell'incoerenza informe del vero corpo sociale, si capisce che in un paese simile l'Assemblea nazionale, insieme alla possibilità di disporre dei posti ministeriali, perdesse ogni influenza reale, a meno che non avesse in pari tempo semplificato l'amministrazione dello Stato, ridotto il più possibile l'esercito degli impiegati, in una parola, fatto in modo che la società civile e l'opinione pubblica si creassero i loro propri organi, indipendenti dal potere governativo. Ma l'interesse materiale della borghesia francese è precisamente legato nel modo più stretto al mantenimento di quella grande e ramificata macchina statale. Qui essa mette a posto la sua popolazione superflua; qui essa completa, sotto forma di stipendi statali, ciò che non può incassare sotto forma di profitti. interessi, rendite e onorari. D'altra parte il suo interesse politico la spingeva ad aumentare di giorno in giorno la repressione, cioè i mezzi e il personale del potere dello Stato. In pari tempo essa doveva condurre una lotta ininterrotta contro l'opinione pubblica, mutilare e paralizzare per diffidenza gli organi autonomi del movimento sociale, e dove ciò non le riusciva, amputarli completamente. Così la borghesia francese era spinta dalla sua stessa situazione di classe, da un lato, ad annientare le condizioni di esistenza di ogni potere parlamentare, e quindi anche dei suo proprio, dall'altro lato a rendere irresistibile il potere esecutivo che le era ostile.

Il nuovo ministero si chiamò ministero d'Hautpou. Non che il generale d'Hautpoul vi avesse ottenuto il rango di presidente del consiglio. Insieme con Barrot, Bonaparte si sbarazzò anche di questa carica che condannava il presidente della repubblica alla nullità legale di un re costituzionale, ma di un re costituzionale senza trono e senza corona, senza scettro e senza spada, senza irresponsabilità, senza il possesso imprescrittibile della più alta dignità dello Stato, e ciò che era la cosa più fatale, senza lista civile. Il ministero d'Hautpoul contava un solo parlamentare di grido, l'ebreo Fould, uno degli uomini più famigerati dell'alta finanza. Gli venne affidato il ministero delle finanze. Si consultino le quotazioni della borsa di Parigi, e si troverà che a partire dal I° novembre 1849 i valori salgono e scendono a seconda che salgono o scendono le azioni di Bonaparte. Mentre così Bonaparte aveva trovato nella borsa il suo uomo, in pari tempo metteva le mani sulla polizia, e nominava Carlier prefetto di polizia di Parigi.

Le conseguenze del cambiamento di ministero non potevano però farsi sentire che durante il corso degli avvenimenti. Per il momento Bonaparte non aveva fatto un passo avanti che per esser respinto indietro in modo più evidente. Il suo brutale messaggio fu seguito dalla più servile dichiarazione di sottomissione all'Assemblea nazionale. Ogni volta che i ministri facevano il timido tentativo di presentare le sue bizzarrie personali sotto forma di progetti di legge, si aveva l'impressione che essi adempissero, contro la loro volontà, costretti dalla loro situazione, a incarichi comici, del cui insuccesso erano convinti in precedenza. Ogni volta che Bonaparte, all'insaputa dei ministri, divulgava le sue intenzioni e faceva sfoggio delle sue "idées napoléoniennes", i suoi propri ministri lo sconfessavano dall'alto della tribuna dell'Assemblea nazionale. Sembrava che le sue velleità di usurpazione non si manifestassero per altro scopo che quello di dare alimento alle maligne risate dei suoi avversari. Si dava le arie di un genio incompreso, considerato da tutti come uno sciocco. Mai come durante questo periodo era stato oggetto del disprezzo cosi generale di tutte le classi. Mai la borghesia aveva dominato in modo più assoluto; mai essa aveva ostentato con maggior vanagloria le insegne del potere.

Non è mio compito fare qui la storia della sua attività legislativa, che durante questo periodo si riassume in due leggi: nella legge che ristabilisce l'imposta sul vino e nella legge sull'insegnamento che abolisce la miscredenza. Se si rendeva più difficile ai francesi bere vino, in cambio si largiva loro con tanto maggiore generosità l'acqua della vera vita. Se la borghesia, con la legge dell'imposta sul vino, dichiarava intangibile il vecchio odioso sistema fiscale francese, con la legge sull'istruzione cercava di mantenere nelle masse il vecchio stato d'animo che glielo rendeva sopportabile. Ci si è meravigliati di vedere gli orleanisti, i liberali borghesi, questi vecchi apostoli del volterianismo e della filosofia eclettica, confidare la direzione dello spirito francese ai loro nemici ereditari, i gesuiti. Ma se orleanisti e legittimisti potevano combattersi a proposito del pretendente al trono, essi comprendevano che il loro dominio comune imponeva l'unificazione dei mezzi di oppressione di due epoche, che i mezzi di asservimento della monarchia di luglio dovevano essere completati e rafforzati con quelli della Restaurazione.

I contadini, delusi in tutte le loro speranze, più che mai schiacciati, da un lato dal basso prezzo dei cereali, dall'altro lato dal peso crescente delle imposte e del debito ipotecario incominciavano ad agitarsi nei dipartimenti. Si rispose loro dando la caccia al maestri di scuola, che furono sottomessi agli ecclesiastici; dando la caccia ai sindaci, che furono sottoposti ai prefetti; e instaurando un sistema di spionaggio cui tutti vennero assoggettati. A Parigi e nelle grandi città la reazione assume la fisionomia della sua epoca e, anziché abbattere, provoca. Nelle campagne essa diventa volgare, grossolana, gretta. fastidiosa, molesta, in una parola, diventa gendarme. Si comprende come tre anni di regime del gendarme, consacrato dal regime dei preti, dovessero demoralizzare delle masse immature.

Per quanto grande fosse la somma di passione e di retorica che il partito dell'ordine poteva lanciare contro la minoranza dall'alto della tribuna parlamentare, i suoi discorsi rimanevano monosillabici, come quelli del cristiano, le cui parole debbono essere: Sí, sí; no, no! Monosillabici alla tribuna come nella stampi. Insipidi come un indovinello di cui si conosce in anticipo la soluzione. Che si trattasse del diritto di petizione o dell'imposta sul vino, della libertà di stampa o della libertà di commercio, dei clubs o della costituzione municipale, della difesa della libertà personale o del regolamento del bilancio, si ritorna sempre alla parola d'ordine, il tema rimane sempre lo stesso, la sentenza è sempre pronta ed è invariabilmente la stessi : "socialismo!". Socialista viene dichiarato persino il liberalismo borghese, socialista li cultura borghese, socialista la riforma finanziaria borghese. Era socialista costruire una ferrovia dove già esisteva un canale, ed era socialista difendersi col bastone, quando si era assaliti con una spada.

Né ciò era un semplice modo di parlare, una moda, una tattica di partito. La borghesia vedeva giustamente che tutte le armi da lei forgiate contro il feudalesimo volgevano la punta contro di lei, che tutti i mezzi di istruzione da lei escogitati insorgevano contro la sua propria civiltà, che tutti gli dèi da lei creati l'abbandonavano Essa capiva che tutte le cosiddette libertà e istituzioni progressive borghesi attaccavano e minacciavano il suo dominio di classe tanto nella sua base sociale quanto nella sua sommità politica; erano cioè diventate "socialiste". In questa minaccia e in questo attacco essa vedeva il segreto del socialismo, di cui giudicava il con ragione il senso e la tendenza meglio di quanto non sappia giudicarsi il socialismo stesso; il quale non può capire perché la borghesia gli sia così inesorabilmente inaccessibile, sia che egli gema flebilmente sulle miserie dell'umanità, o annunci da buon cristiano l'avvento del regno millenario e la fratellanza universale, o umanisticamente fantastichi di spirito, cultura e libertà, oppure si faccia dottrinario e inventi un sistema di conciliazione e di prosperità per tutte le classi. Ma ciò che la borghesia non comprendeva era la conseguenza che il suo proprio regime parlamentare, e in generale il suo dominio politico dovevano anche essi sottostare alla generale sentenza di condanna come socialisti. Sino a che il dominio della borghesia non si fosse organizzato completamente, non avesse acquistato a sua espressione politica pura, anche il contrasto con le altre classi non poteva presentarsi in modo puro, e dove esso si presentava, non poteva assumere quel corso pericoloso che trasforma ogni lotta contro il potere della Stato in uni lotta contro il capitale. Se in ogni palpito della vita sociale la borghesia vedeva un pericolo per la "calma", come poteva voler conservare, alla testa della società, il regime della irrequietezza, il suo proprio regime, il regime parlamentare, questo regime che, secondo l'espressione di uno dei suoi oratori, vive nella lotta e per la lotta, Il regime parlamentare vive della discussione: come può proibire la discussione? Ogni interesse, ogni provvedimento sociale viene trasformato nel regime parlamentare in idea generale e trattato come idea; come può quindi un interesse qualsiasi, un provvedimento qualsiasi, elevarsi al di sopra dei pensiero e imporsi come articolo di fede? La lotta degli oratori alla tribuna provoca le polemiche violente dei giornali; quel club di discussione che è il Parlamento viene necessariamente completato dai club di discussione dei salotti e delle osterie; i rappresentanti che continuamente fanno appello alla opinione pubblica autorizzano l'opinione pubblica a esprimere la sua vera opinione mediante petizioni. Il regime parlamentare rimette tutto alla decisione delle maggioranze: come le grandi maggioranze non dovrebbero voler decidere al di fuori del Parlamento? Se alla sommità dell'edificio dello Stato si suona il violino, come non aspettarsi che quelli che stanno in basso si mettano a ballare?

Tacciando dunque di eresia "socialista" ciò che prima aveva esaltato come "liberale", la borghesia confessa che il suo proprio interesse le impone di sottrarsi al pericolo dell'autogoverno; che per mantenere la calma nel paese deve anzitutto essere ridotto alla calma il suo Parlamento borghese; che per mantenere intatto il suo potere sociale deve essere spezzato il suo potere politico; che i singoli borghesi possono continuare a sfruttare le altre classi e a godere tranquillamente della proprietà, della famiglia, della religione e dell'ordine soltanto a condizione che la loro classe venga condannata a essere uno zero politico al pari di tutte le altre classi; che per salvare la propria borsa essa deve perdere la propria corona, e la spada che la deve proteggere deve in pari tempi pendere come una spada di Damocle sulla propria testa.

Nel campo degli interessi generali della borghesia l'Assemblea nazionale si mostrò tanto improduttiva che, per esempio, le discussioni sulla ferrovia Parigi -Avignone, iniziatesi nell'inverno 1850, non potevano ancora essere concluse il 2 dicembre 1851. Dove non faceva opera di repressione e di reazione, era colpita da inguaribile sterilità.

A volte il ministero di Bonaparte prendeva l'iniziativa di leggi nel senso del partito dell'ordine, a volte esagerava ancora la durezza nell'applicarle e nell'eseguirle. Bonaparte cercava di conquistarsi una popolarità con proposte insulse e infantili, cercava di far risaltare la propria opposizione all'Assemblea nazionale e di accennare ad un potere segreto a cui solo le circostanze impedivano, momentaneamente, di largire al popolo francese i suoi tesori nascosti. Perciò egli proponeva di accordare ai sottufficiali un soprassoldo giornaliero di quattro soldi. Perciò proponeva l'istituzione di una banca di prestiti d'onore per gli operai. Ricevere denaro in regalo o in prestito: ecco la prospettiva con la quale egli sperava di adescare le masse. Regalare e prendere a prestito: a questo si limita la scienza finanziaria dei sottoproletariato, sia esso nobile o plebeo. A ciò si riducevano le molle che Bonaparte sapeva mettere in azione. Mai pretendente ha speculato in modo così volgare sulla volgarità delle masse.

L'Assemblea nazionale si indignò parecchie volte di questi tentativi manifesti di rendersi popolare alle sue spalle, vedendo crescere il pericolo che questo avventuriero pungolato dal debiti e non trattenuto da nessuna reputazione acquisita osasse un colpo disperato. Il disaccordo fra il partiti dell'ordine e il Presidente aveva preso un carattere minaccioso, quando un avvenimento inatteso spinse nuovamente quest'ultimo, pentito, nelle braccia del primo. Alludiamo alle elezioni supplementari del 10 marzo 1850. Queste elezioni ebbero luogo per occupare i posti vacanti di quei deputati che, dopo il 13 giugno, erano stati imprigionati e mandati in esilio.

Parigi elesse soltanto dei candidati socialdemocratici, e riunì persino la maggior parte dei voti sul nome di un insorto del giugno 1848, De Flotte. In questo modo la piccola borghesia di Parigi, alleata del proletariato, si vendicava per la sua sconfitta del 13 giugno 1849. Sembrava che nel momento del pericolo essa fosse scomparsa dal teatro della lotta per apparirvi in un momento più favorevole, con forze più considerevoli e con una parola d'ordine più audace. Una circostanza parve accrescere il pericolo di questa vittoria elettorale. L'esercitò votò a Parigi per gli insorti di giugno, contro La Hitte, un ministro di Bonaparte, e nei dipartimenti votò in maggioranza per i montagnardi, che anche qui, sebbene non in modo così decisi come a Parigi, ebbero il sopravvento sui loro avversari.

All'improvviso Bonaparte vide la rivoluzione levarsi di nuovo contro di lui. Come il 29 gennaio 1849, come il 13 giugno 1849, così il 10 marzo 1850 egli si eclissò dietro il partito dell'ordine. Si piegò, offrì umilmente le sue scuse, profferse di nominare qualsiasi ministero, secondo gli ordinasse la maggioranza parlamentare; giunse persino a implorare i capi di partito orleanisti e legittimisti, i Thiers, i Berryer, i Broglie, i Molé, in una parola i cosiddetti burgravi, a prendere in persona il timone dello Stato. Il partito dell'ordine non seppe sfruttare quest'occasione, che non si sarebbe mai più ripresentata. Invece di impadronirsi con audacia del potere che gli veniva offerto, non costrinse neppure Bonaparte a rimettere al potere il ministero licenziato il I° novembre. Si accontentò di umiliarlo col perdono, e di aggregare al ministero d'Hautpoul il signor Baroche. Questo Baroche aveva infierito in qualità di pubblico ministero davanti all'Alta Corte di giustizia di Bourges, una volta contro i rivoluzionari del 15 maggio, la seconda volta contro i democratici del 13 giugno, ambe le volte per attentato contro l'Assemblea nazionale. Nessuno dei ministri di Bonaparte contribuì in seguito più di lui a degradare l'Assemblea nazionale e, dopo il 2 dicembre 1851, lo troviamo ben installato e ben pagato al posto di vicepresidente del Senato. Aveva sputato nella zuppa dei rivoluzionari, affinché Bonaparte la mangiasse.

Il partito socialdemocratico, dal canto suo, sembrava non cercasse altro che pretesti per rimettere in questione la propria vittoria e spezzarne la punta. Vidal, uno dei nuovi deputati eletti a Parigi, era stato in pari tempo eletto a Strasburgo. Lo si indusse a rinunciare al seggio di Parigi e ad optare per Strasburgo. Dunque, invece di dare alla propria vittoria elettorale un carattere definitivo e così obbligare il partito dell'ordine a disputargliela immediatamente nel Parlamento; invece di costringere l'avversario alla lotta nel momento in cui il popolo era pieno di entusiasmo e lo stato d'animo dell'esercito era favorevole, il partito democratico stancò Parigi, durante i mesi di marzo e di aprile, con una agitazione elettorale; lasciò che le passioni popolari eccitate si consumassero in questo nuovo effimero episodio elettorale; lasciò che l'energia rivoluzionarla si appagasse di successi costituzionali, si perdesse in piccoli intrighi, in vuote azioni e in movimenti fittizi; lasciò che la borghesia raccogliesse le sue forze e prendesse le sue precauzioni; lasciò, infine, che l'importanza delle elezioni di marzo trovasse un commento sentimentale e che la indeboliva con l'elezione di Eugenio Sue alle elezioni complementari di aprile. In una parola, trasformò il 10 marzo in un pesce d'aprile.

La maggioranza parlamentare si rese conto della debolezza del suo avversario. Poiché Bonaparte le aveva lasciato la direzione e la responsabilità dell'attacco, i suoi diciassette burgravi elaborarono una nuova legge elettorale, e il signor Faucher, che aveva reclamato per sé questo onore, venne incaricato di presentarla. L'8 maggio egli presentò la legge che aboliva il suffragio universale, imponeva agli elettori l'obbligo di un domicilio di tre anni nel luogo dell'elezione, e infine faceva dipendere la prova di questo domicilio, per gli operai, dalla testimonianza dei loro datori di lavoro.

Quanto erano stati rivoluzionari i democratici nelle loro agitazioni e nelle loro smanie durante la lotta elettorale costituzionale, altrettanto furono costituzionali, ora che si trattava di dimostrare con le armi alla mano la serietà di quelle vittorie elettorali, nel predicare l'ordine, una calma maestosa (calme majestueux), un atteggiamento legale, cioè la cieca sottomissione al volere della controrivoluzione, che si imponeva come legge. Durante il dibattito, la Montagna confuse il partito dell'ordine, opponendo alla passione rivoluzionaria di quest'ultimo l'atteggiamento tranquillo del brav'uomo che si mantiene sul terreno legale, e schiacciando il partito dell'ordine con l'accusa terribile di procedere in modo rivoluzionario. Perfino i deputati allora eletti si sforzarono di dimostrare, con un contegno corretto e ragionevole, quanto fosse errato accusarli di essere anarchici e presentare la loro elezione come una vittoria della rivoluzione. Il 31 maggio la nuova legge elettorale venne approvata. La Montagna si accontentò di introdurre una protesta nella tasca dei presidente, di contrabbando. Alla legge elettorale tenne dietro una nuova legge sulla stampa che sopprimeva completamente i giornali rivoluzionari. Essi avevano meritato questa sorte. Dopo questi marea, il National e la Presse, due organi borghesi, rimasero come gli estremi avamposti della rivoluzione.

Abbiamo visto come durante i mesi di marzo e di aprile i capi democratici avessero fatto di tutto per impegnare il popolo di Parigi in una lotta illusoria; e come, dopo l'8 maggio, essi facessero di tutto per distoglierlo da una lotta reale. Inoltre non dobbiamo dimenticare che il 1850 fu uno degli anni più brillanti per quanto riguarda la prosperità dell'industria e del commercio, e che quindi il proletariato di Parigi era completamente occupato. Però la legge elettorale del 31 maggio 1850 lo escludeva da ogni partecipazione al potere politico. Lo escludeva dal terreno stesso della lotta, e rigettava gli operai nella situazione di parla che essi avevano avuto prima della rivoluzione di febbraio. Lasciandosi dirigere, di fronte a un tale avvenimento, dai democratici, dimenticando, per un benessere passeggero, l'interesse rivoluzionario della loro classe, gli operai rinunziavano all'onore di essere un potere conquistatore; si sottomettevano al loro destino; provavano che la disfatta del giugno 1848 li aveva resi incapaci per anni di combattere e che il processo storico doveva nuovamente incominciare a svolgersi al di sopra delle loro teste. Quanto alla democrazia piccolo-borghese, che il 13 giugno aveva gridato: "Ma se si toccherà il suffragio universale, allora...!" - essa si consolava ora dicendo che il colpo controrivoluzionario che l'aveva colpita non era un colpo e che la legge del 31 maggio non era una legge. La seconda [domenica] di maggio del 1852 ogni francese sarebbe andato alle urne tenendo in una mano la scheda elettorale e nell'altra la spada. Di questa profezia essa si accontentava. L'esercito, infine, veniva punito dal suoi superiori, come per le elezioni del 29 maggio 1849, così per quelle del marzo e dell'aprile 1850. Ma questa volta esso si disse in modo deciso: "La rivoluzione non ci ingannerà una terza volta".

La legge del 31 maggio 1850 fu il colpo di stato della borghesia Tutte le sue precedenti vittorie sulla rivoluzione avevano soltanto un carattere provvisorio. Esse sarebbero state poste in forse non appena l'attuale Assemblea nazionale fosse scomparsa dalla scena: dipendevano dal caso di nuove elezioni generali; e la storia delle elezioni, a partire dal 1848, aveva provato in modo inconfutabile che l'autorità morale della borghesia sulle masse popolari andava perduta nella stessa misura in cui il dominio di fatto della borghesia si sviluppava. Il 10 marzo il suffragio universale si era dichiarato direttamente avverso al dominio della borghesia. La borghesia rispose dando il bando al suffragio universale. La legge del 31 maggio era una delle necessità della lotta di classe. D'altro canto la Costituzione, affinché l'elezione del presidente fosse valevole, richiedeva un minimo di due milioni di voti. Se nessuno dei candidati alla Presidenza raggiungeva questo minimo, toccava all'Assemblea nazionale scegliere il presidente tra i tre candidati che avessero raccolto il maggior numero di suffragi. Quando la Costituente aveva fatto questa legge, dieci milioni di elettori erano iscritti nelle liste elettorali. Secondo lo spirito di questa legge era quindi sufficiente un quinto degli elettori per rendere valida l'elezione presidenziale. La legge del 31 maggio cancellava dalle liste elettorali per lo meno tre milioni di voti, riduceva il numero degli elettori a sette milioni e, ciò nondimeno, manteneva il minimo legale di due milioni per l'elezione del Presidente. Essa elevava dunque il minimo legale da un quinto a circa un terzo dei voti validi, cioè faceva di tutto, per far passare alla chetichella l'elezione del presidente dalle mani del popolo alle mani dell'Assemblea nazionale. In questo modo sembrava che il partito dell'ordine avesse, con la legge elettorale del 31 maggio, doppiamente rafforzato il proprio dominio, affidando alla parte stazionaria della società tanto l'elezione dell'Assemblea nazionale quanto quella del presidente della repubblica.

V

Superata la crisi rivoluzionaria e soppresso il suffragio universale, la lotta tornò subito a divampare tra l'Assemblea nazionale e Bonaparte.

La Costituzione aveva fissato lo stipendio di Bonaparte a 600.000 franchi. Sei mesi appena dopo la sua installazione egli era riuscito a far raddoppiare questa somma. Infatti, Odilon Barrot aveva strappato all'Assemblea nazionale costituente un supplemento annuo di 600.000 franchi per cosiddette spese di rappresentanza. Dopo il 13 giugno Bonaparte aveva fatto delle sollecitazioni dello stesso genere, questa volta senza trovare ascolto presso Barrot. Ora, dopo il 31 maggio, egli approfittò immediatamente del momento favorevole e fece proporre dai suoi ministri all'Assemblea nazionale una lista civile di tre milioni. Una lunga avventurosa vita di vagabondo lo aveva dotato di fiuto finissimo per accorgersi dei momenti di debolezza in cui poteva spillare denaro ai suoi borghesi. Era un vero e proprio chantage. L'Assemblea nazionale aveva, col suo concorso e con la sua complicità, disonorato la sovranità popolare. Egli minacciava di denunciare il delitto al tribunale dei popolo, qualora l'Assemblea non avesse aperto la borsa e comprato il suo silenzio con tre milioni all'anno. Essa aveva defraudato tre milioni di francesi del diritto di voto. Per ogni francese messo fuori corso egli esigeva un franco a corso legale, cioè esattamente tre milioni di franchi in tutto. Egli, l'eletto di sei milioni, chiedeva un risarcimento per i voti che gli erano stati posticipatamente borseggiati. La commissione della Assemblea nazionale oppose un rifiuto all'impudente. La stampa bonapartista minacciò. Poteva l'Assemblea nazionale rompere col presidente della repubblica proprio nel momento in cui aveva rotto in linea di principio e definitivamente con la massa della nazione? Essa respinse dunque la lista civile annua; ma concesse, una volta tanto, un supplemento di 2.160.000 franchi. In questo modo essa si rendeva colpevole di due debolezze: quella di concedere il denaro e quella di mostrare, col suo cattivo umore, che lo concedeva di malavoglia. Vedremo in seguito perché Bonaparte aveva bisogno del denaro. Dopo questo epilogo disgustoso che seguì immediatamente la soppressione del suffragio universale, e in cui Bonaparte sostituì all'atteggiamento di sottomissione durante la crisi di marzo e di aprile una sfrontatezza provocante nel riguardi del Parlamento usurpatore, l'Assemblea nazionale si aggiornò per tre mesi, dall'11 agosto all'11 novembre. Lasciò al proprio posto una commissione permanente di 28 membri, di cui non faceva parte nessun bonapartista, ma facevano parte alcuni repubblicani moderati. Nella commissione permanente del 1849 vi erano soltanto uomini dei partito dell'ordine e bonapartisti. Ma allora era il partito dell'ordine a dichiararsi in permanenza contro la rivoluzione. Ora era la repubblica parlamentare a dichiararsi in permanenza contro il presidente. Dopo la legge del 31 maggio, questi era il solo rivale che si opponeva ancora al partito dell'ordine.

Quando l'Assemblea nazionale tornò a riunirsi nel novembre 1850, sembrò che invece delle piccole scaramucce col presidente che s'erano avute fino a quel momento, fosse diventata inevitabile una lotta spietata, una lotta a morte tra i due poteri.

Come nel 1849, anche durante le ferie parlamentari di quest'anno il partito dell'ordine si era diviso nelle sue diverse frazioni, ciascuna occupata nei propri intrighi di restaurazione, cui la morte di Luigi Filippo aveva dato nuovo alimento. Il re dei legittimisti, Enrico V, aveva persino formato un vero e proprio ministero, che risiedeva a Parigi e nel quale sedevano alcuni membri della commissione permanente. Da parte sua, Bonaparte aveva dunque diritto di fare dei viaggi nei dipartimenti della Francia; di far conoscere in modo ora più ora meno dissimulato od aperto, a seconda dello stato d'animo della città che onorava della sua presenza, i suoi propri piani di restaurazione e di reclutare dei voti per conto proprio. In questi viaggi, che il grande Moniteur ufficiale e i piccoli monitori privati di Bonaparte non potevano naturalmente fare a meno di celebrare come viaggi di trionfo, egli era continuamente accompagnato da affiliati della Società del 10 dicembre. Questa società era stata fondata nel 1849. Col pretesto di fondare un'associazione di beneficenza il sottoproletariato di Parigi era stato organizzato in sezioni segrete; ogni sezione era diretta da agenti bonapartisti; alla testa della Società vi era un generale bonapartista. Accanto a roués in dissento, dalle risorse e dalle origini equivoche; accanto ad avventurieri corrotti, feccia della borghesia, vi si trovavano vagabondi, soldati in congedo, forzati usciti dal bagno, galeotti evasi, birbe, furfanti, lazzaroni, tagliaborse, ciurmatori, bari, ruffiani tenitori di postriboli, facchini, letterati, sonatori ambulanti, straccivendoli, arrotini, stagnini, accattoni, in una parola, tutta la massa confusa, decomposta, fluttuante, che i francesi chiamano la bohème. Con questi elementi a lui affini Bonaparte aveva costituito il nucleo della Società del 10 dicembre. "Società di beneficenza", - in quanto i suoi membri, al pari di Bonaparte, sentivano il bisogno di farsi della beneficenza alle spalle della nazione lavoratrice. Questo Bonaparte, che si erige a capo del sottoproletariato; che soltanto in questo ambiente ritrova in forma di massa gli interessi da lui personalmente perseguiti, che in questo rifiuto, in questa feccia, in questa schiuma di tutte le classi riconosce la sola classe su cui egli può appoggiare senza riserve, è il vero Bonaparte, il Bonaparte sans phrase. Vecchio e consumato roué, egli concepisce la vita storica dei popoli, le loro azioni capitali e di Stato, come una commedia, nel senso più ordinario della parola, come una mascherata in cui i grandi costumi, le grandi parole e i grandi gesti non servono ad altro che a coprire le furfanterie più meschine. Così nel suo viaggio a Strasburgo un avvoltoio svizzero addomesticato rappresenta l'aquila napoleonica. Per il suo ingresso a Boulogne, egli camuffa con uniformi francesi alcuni lacchè di Londra. Essi rappresentano l'esercito. Nella sua Società del 10 dicembre egli raccoglie 10.000 straccioni che debbono rappresentare il popolo, come Klaus Zettel il leone. In un momento in cui la borghesia stessa rappresentava una perfetta commedia, ma nel modo più serio possibile, senza violare nessuna delle più pedanti regole dell'etichetta drammatica francese, ed essa stessa era a metà ingannata, a metà convinta dalla solennità delle sue proprie azioni capitali e di Stato, in questo momento la vittoria spettava all'avventuriero, per cui la commedia non era altro che commedia. Solamente quando si è liberato dal suo solenne avversario, quando prende egli stesso sul serio la sua parte di imperatore e pensa di rappresentare, in maschera napoleonica, il vero Napoleone, solo allora egli diventa la vittima della propria illusione, e si trasforma in un pagliaccio serio, che non prende più la storia per una commedia, ma la propria commedia per storia universale. Per Bonaparte la Società del 10 dicembre fu quel che erano stati per gli operai socialisti i laboratori nazionali, per i repubblicani borghesi le Gardes mobiles: la sua personale milizia di partito. Durante i suoi viaggi le sezioni della società, spedite a destinazione per ferrovia, avevano il compito di improvvisargli un pubblico, di simulare l'entusiasmo pubblico, di urlare Vive l'Empereur!, di insultare e di picchiare i repubblicani, naturalmente sotto la protezione della polizia. Al suo ritorno a Parigi esse avevano il compito di formare l'avanguardia, di prevenire o di disperdere le contromanifestazioni. La Società del 10 dicembre gli apparteneva, era opera sua, era il suo più genuino pensiero. Quando Bonaparte si impadronisce di qualche cosa, è la forza delle circostanze a dargliela; quando egli fa qualcosa, sono le circostanze per lui, oppure si accontenta di copiare quello che fanno gli altri; ma quando egli parla ufficialmente dell'ordine, della religione, della famiglia, della proprietà davanti a un pubblico borghese, ed ha dietro di sé la società segreta degli Schufterle e degli Spiegelberg, la società del disordine, della prostituzione e del furto, allora egli è Bonaparte in persona, in edizione originale. La storia della Società del 10 dicembre è la sua propria storia. Accadde, per eccezione, che alcuni rappresentanti dei popolo appartenenti al partito dell'ordine assaggiassero il bastone dei decembristi. Più ancora. Il commissario di polizia Yon, adibito all'Assemblea nazionale e incaricato di vegliare alla sua sicurezza, comunicò alla sezione permanente (sulla base della deposizione di un certo Alais) che una sezione di decembristi aveva deciso l'assassinio del generale Changarnier e del presidente dell'Assemblea nazionale Dupin, ed aveva già designato gli esecutori. Si comprende il terrore del signor Dupin. Un'inchiesta sulla Società del 10 dicembre, vale a dire la profanazione dei mondo segreto di Bonaparte, sembrava inevitabile. Immediatamente prima della riunione dell'Assemblea nazionale Bonaparte sciolse prudentemente la sua società, sulla carta s'intende, perché ancora alla fine del 1851 il prefetto di polizia Carlier, in una memoria particolareggiata, si sforzò invano di indurlo a sciogliere effettivamente i decembristi.

La Società del 10 dicembre doveva restare l'esercito privato di Bonaparte fino a quando non gli fosse riuscito di trasformare l'esercito regolare in una Società del 10 dicembre. Bonaparte fece il primo tentativo in questo senso poco dopo l'aggiornamento dell'Assemblea nazionale, e proprio col denaro che era riuscito ad estorcerle. Da buon fatalista, egli era convinto che esistono date potenze superiori, a cui l'uomo e in special modo il soldato, non possono resistere. Tra questi poteri egli annoverava in prima linea i sigari e lo sciampagna, il pollo freddo e le salsicce all'aglio. Egli offre dunque, nei saloni dell'Eliseo, sigari e sciampagna, pollo freddo e salsicce all'aglio agli ufficiali e al sottufficiali. Il 3 ottobre ripete questa manovra con la massa dei soldati alla rivista di St. Maur, e la stessa manovra ripete su una scala ancora più grande il 10 ottobre, alla rivista di Satory. Lo zio si ricordava delle campagne di Alessandro in Asia; il nipote si ricorda delle spedizioni di Bacco nello stesso paese. Vero è che Alessandro non era che un semidio, mentre Bacco era un dio e, per giunta, il dio protettore della Società del 10 dicembre.

Dopo la rivista del 3 ottobre la commissione permanente convocò il ministro della guerra d'Hautpoul. Questi promise che simili infrazioni alla disciplina non si sarebbero ripetute. È noto come Bonaparte mantenne, il 10 ottobre, la parola data dal d'Hautpoul. In ambedue le riviste il comando era stato affidato a Changarnier, in qualità di comandante in capo dell'esercito di Parigi. Membro della commissione permanente e allo stesso tempo capo della guardia nazionale, "salvatore" del 29 gennaio e del 13 giugno, "baluardo della società", candidato del partito dell'ordine alla dignità presidenziale, pronosticato Monk di due monarchie, egli non aveva mai riconosciuto fino ad allora la sua subordinazione al ministro della guerra; si era sempre fatto beffe pubblicamente della Costituzione e aveva sempre perseguitato Bonaparte con un'equivoca alta protezione. Ora difendeva la disciplina contro il ministro della guerra e la Costituzione contro Bonaparte. Quando il 10 ottobre una parte della cavalleria lanciò un grido: "Vive Napoléon! Vivent les saucissons!", Changarnier fece in modo che almeno la fanteria, che sfilava sotto il comando del suo amica Neumeyer, osservasse un silenzio glaciale. Per punizione, il ministro della guerra, istigato da Bonaparte, allontanò dal suo posto di Parigi il generale Neumeyer, col pretesto di affidargli il comando in capo della 14. e 15. divisione militare. Neumeyer rifiutò questo trasferimento e fu quindi obbligato a dar le sue dimissioni. Dal canto suo Changarnier pubblicò il 2 novembre un ordine del giorno in cui proibiva alle truppe di permettersi, mentre erano sotto le armi, grida e manifestazioni politiche di qualsiasi natura. Le gazzette dell'Eliseo attaccarono Changarnier; i fogli del partito dell'ordine attaccarono Bonaparte; la commissione permanente moltiplicò le sedute segrete, in cui si propose reiteratamente di dichiarare la patria in pericolo. L'esercito sembrava diviso in due campi avversi, con due stati maggiori nemici, l'uno all'Eliseo, dove abitava Bonaparte, l'altro alle Tuileries, dove abitava Changarnier. Sembrava che non mancasse altro che la riunione dell'Assemblea nazionale perché scoccasse il segnale della lotta. Il pubblico francese giudicava questi screzi fra Bonaparte e Changarnier come quel giornalista inglese che li ha caratterizzati con le parole seguenti : "Le fantesche politiche della Francia spazzano con delle vecchie scope la lava ardente della rivoluzione, e nel far questo lavoro si prendono per i capelli".

Nel frattempo Bonaparte si affrettava a rimuovere dalle sue funzioni il ministro della guerra d'Hautpoul e a spedirlo in tutta fretta ad Algeri, e a nominare ministro della guerra al suo posto il generale Schramm. Il 12 novembre mandava all'Assemblea nazionale un messaggio di americana prolissità, sovraccarico di particolari, spirante ordine imbevuto di brame di conciliazione, costituzionalmente rassegnato, in cui si trattava di tutto e di tutti, eccetto che delle questions brúlantes. Come di sfuggita, lasciava cadere l'affermazione che secondo le espresse disposizioni della Costituzione il presidente solo disponeva dell'esercito. Il messaggio si chiudeva con queste parole di solenne assicurazione:

" La Francia reclama anzitutto tranquillità... Unicamente legato dal mio giuramento, mi terrò entro i limiti ristretti che esso mi ha tracciato. Per quel che mi concerne, eletto dal popolo e dovendo a lui solo il mio potere, mi sottometterò alla sua volontà legalmente espressa. Se voi decidete corso di questa sessione, la revisione della Costituzione, un'Assemblea costituente regolerà la situazione del potere esecutivo. Se no, il popolo proclamerà solennemente nel 1852 la sua decisione. Ma qualsiasi possano essere le soluzioni dell'avvenire, mettiamoci d'accordo per non lasciar mai la passione, la sorpresa o la violenza decidere delle sorti di una grande nazione……Ciò che richiama innanzi tutto la mia attenzione non è il problema di sapere chi governerà la Francia nel 1852, ma d'impiegare il tempo di cui dispongo affinché il periodo da attraversare trascorra senza agitazioni e senza perturbamenti. Vi ho aperto il mio cuore con sincerità; voi risponderete con la vostra collaborazione e Dio farà il resto ".

Il linguaggio dabbene della borghesia, ipocritamente moderato, pieno di luoghi comuni virtuosi, rivela il suo significato più profondo nella bocca dell'autocrate della Società dei 10 dicembre, dell'eroe delle merende di St. Maur e di Satory.

I burgravi del partito dell'ordine non si illusero nemmeno un istante circa la fiducia che meritava questa effusione. Quanto ai giuramenti, essi erano disincantati da un pezzo; vi erano tra loro dei veterani, dei virtuosi dello spergiuro politico. L'accenno all'esercito non era loro sfuggito. Essi notarono con sdegno che il messaggio, nella prolissa enumerazione delle leggi recentemente promulgate, passava intenzionalmente sotto silenzio la legge più importante, la legge elettorale, e invece rimetteva al popolo, in caso di mancata revisione della Costituzione, l'elezione del presidente nel 1852.

Per il partito dell'ordine, la legge elettorale era la palla di piombo ai piedi che gli impediva di camminare e ancor più di andare all'assalto. Inoltre Bonaparte, con lo scioglimento ufficiale della Società dei 10 dicembre e col licenziamento del ministro della guerra d'Hautpoul, aveva sacrificato di mano sua, sull'altare della patria, i capri espiatori. Aveva spezzato la punta dell'atteso conflitto. Infine, lo stesso partito dell'ordine cercava angosciosamente di evitare, di attenuare, di soffocare ogni conflitto decisivo col potere esecutivo. Per paura di perdere le conquiste strappate alla rivoluzione, lasciava che il suo rivale ne godesse i frutti. "La Francia reclama anzitutto tranquillità." Questo era l'appello che il partito dell'ordine rivolgeva alla rivoluzione a partire dal mese di febbraio; questo era l'appello che Bonaparte rivolgeva al partito dell'ordine. "La Francia reclama anzitutto tranquillità." Bonaparte commetteva atti tendenti all'usurpazione; ma il partito dell'ordine commetteva un " disordine " protestando rumorosamente contro questi atti e commentandoli con malumore.

Le salsicce di Satory sarebbero rimaste mute come un pesce se nessuno ne avesse parlato. "La Francia reclama anzitutto tranquillità." Perciò Bonaparte chiedeva che lo lasciassero fare in pace le cose sue, e il partito parlamentare era paralizzato da una duplice paura, dalla paura di provocare di nuovo l'agitazione rivoluzionaria e dalla paura di apparire, proprio lui, come fomentatore di disordini agli occhi della propria classe, agli occhi della borghesia. Poiché dunque la Francia reclamava anzitutto tranquillità, il partito dell'ordine non osò, dato che Bonaparte nel suo messaggio aveva parlato di "pace", rispondere "guerra". Il pubblico, che si era lusingato di assistere, all'apertura dell'Assemblea nazionale, a grandi scene di scandalo, fu deluso nella sua aspettativa. I deputati dell'opposizione, che chiedevano venissero presentati i verbali della Commissione permanente relativi agli avvenimenti di ottobre, furono messi in minoranza. Si evitò per principio ogni discussione che potesse creare irritazione. I lavori dell'Assemblea nazionale durante i mesi di novembre e di dicembre 1850 furono privi di interesse.

Infine, verso la fine di dicembre, incominciarono le scaramucce a proposito di talune prerogative del Parlamento. Dal momento che proprio la borghesia, abolendo il suffragio universale, aveva messo fine alla lotta di classe, il movimento si perdeva in risse meschine circa le prerogative dei due poteri.

Uno dei rappresentanti dei popolo, Mauguin, era stato condannato per debiti. Su richiesta del presidente del tribunale il ministro della giustizia Rouher, dichiarò che si doveva senz'altro spiccare un mandato di arresto contro il debitore. Mauguin fu dunque gettato nella prigione per debiti. L'Assemblea nazionale, non appena ebbe notizia di questo attentato, montò su tutte le furie. Non soltanto ordinò che egli fosse immediatamente rilasciato, ma la sera stessa, a mezzo del suo graffier, lo fece trarre a viva forza fuori dalla prigione di Clichy. Ma, per confermare la propria fede nella santità della proprietà privata, e con l'intenzione nascosta di aprire in caso di bisogno un asilo per montagnardi divenuti importuni dichiarò che i rappresentanti dei popolo potevano essere messi in prigione per debiti solo a patto che esistesse la previa autorizzazione dell'Assemblea. Essa si dimenticò di decretare che anche il presidente poteva venir messo in prigione per debiti.

Così distruggeva l'ultima apparenza di inviolabilità di cui erano circondati i propri membri.

Ci si ricorderà che il commissario di polizia Yon, dietro testimonianze di un tale Alais, aveva accusato una sezione di decembristi di aver tramato l'assassinio di Dupin e di Changarnier. A questo proposito, i questori fecero, fin dalla prima seduta, la proposta di creare una speciale polizia parlamentare, retribuita sul bilancio privato dell'Assemblea nazionale e completamente indipendente dal prefetto di polizia. Il ministro degli interni, Baroche, protestò contro questa intromissione nella sfera della sua competenza. Si venne allora a un miserabile compromesso, secondo il quale il commissario di polizia dell'Assemblea doveva essere retribuito sul bilancio privato di questa e designato e revocato dai suoi questori, ma previo accordo col ministro degli interni. Nel frattempo Alais era stato tradotto dal governo davanti ai tribunali e qui era stato facile presentare le sue dichiarazioni come una di mistificazione e farsi beffe, per bocca dei pubblico ministero, di Dupin, di Changarnier, di Yon, e di tutta l'Assemblea nazionale. Ed ecco che il 29 dicembre il ministro Baroche scrive una lettera a Dupin, chiedendogli il licenziamento di Yon. L'ufficio di presidenza dell'Assemblea nazionale decide di mantenere Yon al suo posto, ma l'Assemblea, spaventata dell'atto di violenza compiuto nell'affare Mauguin, e avvezza, ogni volta che osa dare un colpo al potere esecutivo, a riceverne due in cambio, non sanziona questa decisione. Essa licenzia Yon per ricompensarlo del suo zelo e si priva di una prerogativa parlamentare, indispensabile, contro un uomo che non decide di notte per eseguire di giorno, ma decide di giorno per eseguire di notte.

Abbiamo visto come l'Assemblea nazionale, nei mesi di novembre e di dicembre, aveva evitato, in occasioni importanti, decisive, di impegnare la lotta col potere esecutivo: si era ritirata. Ora la vediamo costretta ad accettare la lotta per i motivi più meschini. Nell'affare Mauguin essa conferma, in via di principio, che i rappresentanti dei popolo possono essere arrestati per debiti; ma si riserva di far applicare questo principio solo ai rappresentanti del popolo che non le vanno a genio e litiga coi ministro della giustizia per questo privilegio infame. Invece di utilizzare il preteso progetto di assassinio per ordinare un'inchiesta sulla Società del 10 dicembre e per smascherare senza pietà Bonaparte nel suo vero aspetto di capo dei sotto proletariato parigino, davanti alla Francia e all'Europa, essa lascia ridurre il conflitto alla questione se la nomina e la rimozione di un commissario di polizia spetti a lei o al ministro degli interni. Così durante tutto questo periodo vediamo il partito dell'ordine costretto dalla sua posizione equivoca a consumare e spezzettare la sua lotta col potere esecutivo in una serie di meschini conflitti di competenza, di risse, di cavilli, di contrasti di potere; costretto a fare delle più stupide questioni di forma il contenuto della sua attività. Esso non osa impegnare la battaglia quando questa ha un'importanza di principio, quando il potere esecutivo si è veramente smascherato e la causa dell'Assemblea nazionale sarebbe la causa di tutta la nazione. In tal modo quest'ultima darebbe alla nazione un ordine di marcia; ma quello che teme più di tutto è che la nazione si muova. In Simili occasioni, perciò, il partito dell'ordine respinge le proposte della Montagna e passa all'ordine del giorno. Spogliato così il conflitto delle sue grandi dimensioni, il potere esecutivo attende tranquillamente il momento in cui può riprenderlo per motivi insignificanti e meschini, che non offrono più, per così dire, che un interesse strettamente parlamentare. Allora il furore contenuto dei partito dell'ordine scoppia; allora questo partito strappa il sipario che nasconde il retroscena; allora denuncia il presidente e dichiara la repubblica in pericolo; ma allora il suo patos appare insipido e il motivo della lotta appare ormai soltanto un pretesto ipocrita o, in generale, non degno di un combattimento. La tempesta parlamentare si trasforma in una tempesta in un bicchier d'acqua; la lotta diventa intrigo; il conflitto diventa scandalo. Mentre la gioia maligna delle classi rivoluzionarie si pasce dell’umiliazione dell'Assemblea nazionale, poiché esse si appassionano per le prerogative dell'Assemblea altrettanto quanto l'Assemblea si appassiona per le pubbliche libertà, la borghesia fuori del Parlamento non comprende come la borghesia all'interno del Parlamento possa perdere il suo tempo in risse così meschine e turbare la tranquillità per rivalità così miserabili col presidente. Essa è sconcertata da una strategia che fa la pace in un momento in cui tutti aspettano la guerra, e attacca in un momento in cui tutti credono che la pace sia conclusa.

Il 20 dicembre Pascal Duprat interpellò il ministro degli interni sulla lotteria delle verghe d'oro. Questa lotteria era "figlia dell'Elisio"; Bonaparte l'aveva messa al mondo insieme con i suoi fedeli, e il prefetto di polizia Carlier l'aveva posta sotto la sua protezione ufficiale, benché la legge francese proibisca tutte le lotterie, ad eccezione delle estrazioni a scopo di beneficenza. Sette milioni di biglietti, a un franco l'uno, il cui ricavo avrebbe dovuto essere destinato al trasporto in California dei vagabondi di Parigi. Da un lato si voleva che dei sogni dorati cacciassero i sogni socialisti del proletariato di Parigi; che il miraggio seducente del primo premio cacciasse il dottrinario diritto al lavoro. Gli operai di Parigi, naturalmente, non riconoscevano più nelle scintillanti verghe d'oro della California gli oscuri franchi che erano stati cavati loro dalle tasche. In sostanza però si trattava di una vera e propria truffa. I vagabondi che volevano scoprire le miniere d'oro della California senza muoversi da Parigi erano Bonaparte stesso e i suoi cavalieri della tavola rotonda rovinati dai debiti. I tre milioni accordati dall'Assemblea nazionale erano stati allegramente consumati; la cassa doveva essere riempita, in un modo o nell'altro. Invano Bonaparte aveva aperto una sottoscrizione pubblica per la costruzione di cosiddette cités ouvrières, e figurava egli stesso capo della sottoscrizione con una somma rilevante. I borghesi dal cuore duro attesero con diffidenza che egli versasse la somma che aveva sottoscritto, e poiché il versamento, com'è naturale, non ebbe luogo, la speculazione sui castelli in aria socialisti precipitò miseramente. Le verghe d'oro ebbero miglior successo. Bonaparte e consorti non si limitarono a intascare in parte la differenza tra i sette milioni e il valore delle verghe d'oro messe in lotteria; ma fabbricarono pure dei biglietti falsi; emisero per un sol numero dieci, quindici, e sino a venti biglietti. Una operazione finanziaria conforme allo spirito della Società del 10 dicembre! Qui l'Assemblea nazionale non aveva più davanti a sé il fittizio presidente della repubblica, ma Bonaparte in carne ed ossa. Qui essa poteva coglierlo sul fatto in conflitto, non con la Costituzione, ma col code penal. Se essa rinviò l'interpellanza di Duprat e passò all'ordine del giorno, ciò non avvenne soltanto perché la proposta di Girardin di dichiararsi "satisfait" richiamava alla memoria del partito dell'ordine la propria corruzione sistematica. Il borghese, e soprattutto il borghese gonfiato alla dignità di uomo di Stato, completa la sua volgarità pratica con una ridondanza teorica. Come uomo di Stato egli diventa, al pari del potere dello Stato che gli sta di fronte, un essere superiore, che può essere combattuto solo con mezzi superiori, consacrati.

Bonaparte, che proprio come bohèmien e come principe sottoproletario, aveva sul mascalzone borghese il vantaggio di poter condurre la lotta con mezzi volgari, quando l'Assemblea stessa lo ebbe aiutato di propria mano a superare il terreno sdrucciolevole dei banchetti militari, delle riviste, della Società dei 10 dicembre, e infine del code pénal vide che era giunto il momento in cui poteva passare dall'apparente difensiva all'offensiva. Le piccole sconfitte subite nel frattempo dal ministri della giustizia, della guerra, della marina, delle finanze, sconfitte in cui l'Assemblea nazionale manifestava il suo ringhio di disappunto, non lo turbavano molto. Non soltanto impedì ai ministri di dimettersi e di riconoscere in questo modo la subordinazione del potere esecutivo al Parlamento, ma dopo aver incominciato, durante le ferie dell'Assemblea nazionale, a separare il potere militare dal Parlamento, poté ora condurre a termine la cosa, destituendo Changarnier.

Un foglio dell'Eliseo pubblicò un ordine del giorno che sarebbe stato rivolto durante il mese di maggio alla prima divisione militare, ed emanante quindi da Changarnier, in cui si raccomandava agli ufficiali, in caso di disordini, di non dar quartiere ai traditori nelle loro proprie file, di fucilarli senz'altro e di non mettere le truppe a disposizione dell'Assemblea nazionale nel caso che questa le richiedesse. Il 3 gennaio 1851 il gabinetto venne interpellato a proposito di questo ordine del giorno. Esso chiede, per esaminare la questione, prima tre mesi, poi una settimana, infine soltanto ventiquattro ore di riflessione. L'Assemblea insiste per avere una spiegazione immediata. Changarnier si leva, dichiara che l'ordine del giorno non è mai esistito e aggiunge che sarà sempre sollecito nell'obbedire alle richieste dell'Assemblea nazionale e che questa, in caso di conflitto, può contare sopra di lui. L'Assemblea accoglie la sua dichiarazione con applausi frenetici e gli decreta un voto di fiducia. Mettendosi sotto la protezione privata di un generale, essa abdica, decreta la propria impotenza e l'onnipotenza dell'esercito; ma il generale s'inganna ponendo a disposizione dell'Assemblea, contro Bonaparte, un potere che egli ha soltanto in prestito da Bonaparte, e attendendo a sua volta di essere difeso da questo Parlamento, da questo protettore che ha bisogno della sua protezione. Ma Changarnier ha fede nel misterioso potere di cui la borghesia lo ha investito a partire dal 29 gennaio 1849. Crede di essere il terzo potere, accanto ai due altri poteri dello Stato e condivide la sorte degli altri eroi, o piuttosto santi dell'epoca, la cui grandezza consiste nell'aureola interessata che il loro partito ha creato intorno ad essi, e che ricadono al livello di figure banali non appena le circostanze richiedono loro di far dei miracoli. L'incredulità è, in generale, la nemica mortale di questi eroi presunti e santi genuini. Di qui il loro sdegno morale, pieno di dignità, contro gli spiriti beffardi e poveri di entusiasmo.

La sera stessa i ministri vengono convocati all'Eliseo; Bonaparte esige la destituzione di Changarnier; cinque ministri rifiutano di firmarla; il Moniteur annuncia una crisi ministeriale e la stampa del partito dell'ordine minaccia la formazione di un esercito del Parlamento, sotto il comando di Changarnier. Il partito dell'ordine era autorizzato a ciò dalla Costituzione. Non aveva che da nominare Changarnier presidente dell'Assemblea nazionale e da requisire una massa qualsivoglia di soldati per garantire la propria sicurezza. Poteva farlo tanto più sicuramente, in quanto Changarnier era effettivamente ancora alla testa dell'esercito e della Guardia nazionale di Parigi, e non aspettava che il momento di essere requisito insieme all'esercito. La stampa bonapartista non osava nemmeno porre in dubbio il diritto dell'Assemblea nazionale di requisire direttamente le truppe. Si trattava quindi di uno scrupolo giuridico che, date le circostanze, non presagiva nessun successo. È verosimile che l'esercito avrebbe obbedito all'ordine dell'Assemblea costituente, se si pensa che Bonaparte dovette cercare otto giorni in tutta Parigi per trovare infine due generali - Baraguay d'Hilliers e Saint-Jean d'Angély, che si dichiarassero disposti a controfirmare la destituzione di Changarnier. Ma è molto dubbio, al contrario, che il partito dell'ordine fosse in grado di trovare nelle sue proprie file e nel Parlamento il numero di voti necessario per una tale decisione, se si pensa che otto giorni più tardi se ne staccarono 286 voti, e che la Montagna, ancora nel dicembre 1851, cioè nel momento supremo, respinse una proposta simile. Tuttavia i burgravi sarebbero forse riusciti ancora a trascinare la massa del loro partito a un eroismo consistente nel sentirsi sicuri dietro una selva di baionette e nell'accettare i servizi di un esercito che era passato nel loro campo. Invece di far ciò, i signori burgravi si recarono la sera dei 6 gennaio all'Eliseo per far desistere Bonaparte, con prudenti e contorte considerazioni politiche, dalla destituzione di Changarnier. Quando si cerca di convincere qualcuno, è perché si riconosce che egli è padrone della situazione. Bonaparte, rassicurato da questo passo, nomina il 12 gennaio un nuovo ministero in cui rimangono i capi del ministero precedente, Fould e Baroche. Saint-Jean d'Angély diventa ministro della guerra, il Moniteur pubblica il decreto che destituisce Changarnier, e il suo comando viene diviso tra Baraguay d'Hilliers, che riceve la prima divisione militare, e Perrot, che riceve la Guardia nazionale. Il baluardo della società è congedato; e per questo non cade dal tetti nessun sasso, anzi i corsi della Borsa sono in rialzo.

Respingendo l'esercito che si era posto a sua disposizione nella persona di Changarnier e ponendolo in modo così irrevocabile nelle mani del presidente, il partito dell'ordine dichiarava che la borghesia aveva perduto la missione di comandare. Non esisteva già più un ministero parlamentare; avendo perduto ora anche la possibilità di disporre dell'esercito e della Guardia nazionale, quale altro mezzo di azione gli rimaneva per difendere in pari tempo il potere strappato dal Parlamento al popolo e il proprio potere costituzionale contro il presidente? Nessuno. Gli rimaneva ancora l'appello a princìpi privi di potenzi, che esso stesso aveva sempre considerati soltanto come regole generali che si prescrivono agli altri per potersi muovere tanta più liberamente. Con la destituzione di Changarnier, con l'attribuzione del potere militare a Bonaparte si chiude la prima parte del periodo che stiamo considerando, del periodo della lotta tra il partito dell'ordine e il potere esecutivo. La guerra tra questi due poteri è ora apertamente dichiarata e viene condotta apertamente, ma solo dopo che il partito dell'ordine ha perduto le armi e i soldati. Senza ministero, senza esercito, senza popolo, senza opinione pubblica, dopo la legge elettorale dei 31 maggio non più rappresentante della nazione sovrana, senz'occhi, senz'orecchi, senza denti, senza tutto, l'Assemblea nazionale si era trasformata a poco a poco in un Parlamento della vecchia Francia, costretto ad abbandonare l'azione al governo e a limitarsi a ringhiose rimostranze post festum.

Il partito dell'ordine accoglie il nuovo ministero con una tempesta d'indignazione. Il generale Bedeau richiama alla memoria la moderazione di cui aveva dato prova durante le ferie la Commissione permanente, e l'estremo riguardi con cui essa aveva rinunciato alla pubblicazione dei suoi verbali. Allora il ministro degli interni insiste di persona perché vengano pubblicati questi verbali, che ora, naturalmente, sono diventati insipidi come l'acqua stantia, non rivelano nessun fatto nuovo e cadono tra il pubblico ormai stanco senza produrre il minimo effetto. Su proposta di Rémusat, l'Assemblea nazionale si ritira nei suoi uffici e nomina un "comitato di misure straordinarie". Parigi non abbandona il corso della sua vita quotidiana; tanto più che in questo momento il commercio è prospero, le manifatture lavorano, i prezzi del grano sono bassi, i viveri sono abbondanti e le casse di risparmio ricevono ogni giorno nuovi depositi. Le "misure straordinarie" che il Parlamento ha annunciato con tanto chiasso si riducono, il 18 gennaio, a un voto di sfiducia contro il ministero, senza che venga nemmeno fatta menzione del generale Changarnier. Il partito dell'ordine era obbligato a formulare il suo voto a questo modo per assicurarsi i voti dei repubblicani, perché, fra tutte le misure prese dal ministero, la destituzione di Changarnier era proprio l'unica che questi approvassero, mentre di fatto il partito dell'ordine non poteva criticare le altre misure ministeriali, che esso stesso aveva dettate.

La mozione di sfiducia dei 18 gennaio venne approvata con 415 voti contro 286. Fu dunque approvata soltanto per mezzo di una coalizione dei legittimisti e degli orleanisti dichiarati coi repubblicani puri e con la Montagna. Fu dimostrato in tal modo che il partito dell'ordine aveva perduto non soltanto il ministero, non soltanto l'esercito, ma nei conflitti con Bonaparte aveva perduto anche la propria maggioranza parlamentare indipendente; fu dimostrato che un gruppo di rappresentanti aveva disertato il suo campo, per spirito di conciliazione spinto al fanatismo, per paura della lotta, per stanchezza, per un riguardo di famiglia verso i consanguinei stipendiati dallo Stato, per speculazione sui futuri posti ministeriali vacanti (Odilon Barrot), per il volgare egoismo onde il borghese ordinario è sempre disposto a sacrificare l'interesse generale della sua classe a questo o a quel motivo privato. I rappresentanti bonapartisti appartenevano fin da prima al partito dell'ordine soltanto per la lotta contro la rivoluzione. Già in quel momento il capo del partito cattolico, Montalembert, disperando della vitalità del partito parlamentare, gettava la sua influenza dalla parte di Bonaparte. I capi del partito parlamentare, infine, Thiers e Berryer, orleanista l'uno, legittimista l'altro, erano costretti a proclamarsi apertamente repubblicani; a riconoscere che se il loro cuore era monarchico, la loro testa era repubblicana; che la loro repubblica parlamentare era l'unica forma possibile di dominio della borghesia nel suo assieme. Erano così costretti a bollare agli occhi della stessa classe borghese, come intrighi altrettanto pericolosi quanto insensati, i piani di restaurazione che essi stessi tramavano indefessamente alle spalle del Parlamento.

Il voto di sfiducia del 18 gennaio colpiva i ministri, non il presidente. Ma non il ministero, bensì il presidente aveva destituito Changarnier. Doveva il partito dell'ordine mettere in stato d'accusa Bonaparte stesso? Per le sue velleità di restaurazione? Ma queste non facevano altro che completare le. proprie. Per la sua cospirazione nelle riviste militari e nella società dei 10 dicembre? Ma questi argomenti erano stati seppelliti da tempo sotto ordini del giorno puri e semplici. Per la destituzione dell'eroe del 29 gennaio e del 13 giugno, dell'uomo che nel maggio 1850 minacciava, in caso di una sommossa a Parigi, di appiccare il fuoco ai quattro angoli della città? I suoi alleati della Montagna e Cavaignac non permettevano al partito dell'ordine di risollevare il caduto baluardo della società nemmeno con una semplice manifestazione ufficiale di condoglianza. Per conto proprio gli uomini del partito dell'ordine non potevano contestare al presidente la facoltà costituzionale di destituire un generale. Essi smaniavano soltanto perché egli aveva fatto uso dei suoi diritti costituzionali in modo antiparlamentare. Ma non avevano proprio loro fatto continuamente uso delle loro prerogative parlamentari in modo anticostituzionale, specialmente nella soppressione del suffragio universale? Essi erano dunque tenuti a muoversi strettamente entro i limiti del Parlamento. E dovevano essere colpiti da quella particolare malattia che a partire dal 1848 ha infierito su tutto il Continente, il cretinismo parlamentare, malattia che relega quelli che ne sono colpiti in un mondo immaginario e toglie loro ogni senso, ogni ricordo, ogni comprensione del rozzo mondo esteriore; dovevano essere colpiti da quel cretinismo parlamentare mentre, dopo aver distrutto con le loro mani tutte le condizioni del potere dei Parlamento, dopo esser stati costretti a distruggerle nella loro lotta con le altre classi, consideravano ancora le loro vittorie parlamentari vere vittorie e, battendo i suoi ministri, credevano di colpire il presidente. Essi offrivano a quest'ultimo unicamente l'occasione di umiliare ancora una volta l'Assemblea nazionale agli occhi della nazione. Il 20 gennaio il Moniteur annunciava che le dimissioni di tutto il ministero erano accettate; e col pretesto che nessun partito parlamentare possedeva più la maggioranza, come dimostrava il voto del 18 gennaio, frutto della coalizione della Montagna e dei monarchici, e in attesa che si formasse una nuova maggioranza, Bonaparte nominò un cosiddetto ministero di transizione, nessun membro del quale apparteneva al Parlamento, e che era composto esclusivamente di individui assolutamente sconosciuti e insignificanti, un ministero di semplici commessi e di scrivani. Il partito dell'ordine poteva ora esaurirsi nel gioco cori queste marionette; il potere esecutivo non considerava più che valesse la pena di essere seriamente rappresentato nel Parlamento. Bonaparte concentrava nella sua persona tutto il potere esecutivo in modo altrettanto più palese; e aveva tanto maggiore libertà di sfruttarlo ai propri scopi, quanto più i suoi ministri erano semplici comparse.

Il partito dell'ordine, coalizzato con la Montagna, si vendicò respingendo l'assegno presidenziale di 1.800.000 franchi che il presidente della Società del 10 dicembre aveva obbligato i suoi commessi ministeriali a chiedere al Parlamento. Questa volta la maggioranza fu di soli centodue voti. Dal 18 gennaio altri ventisette voti si erano dunque squagliati. La decomposizione dei partito dell'ordine proseguiva. Nello stesso tempo, il partito dell'ordine, affinché non ci si ingannasse nemmeno un momento circa il significato della sua coalizione con la Montagna, non degnò nemmeno di prendere in considerazione una proposta di amnistia generale per i condannati politici, firmata da 189 membri della Montagna. Bastò che il ministro degli interni, un tal Vaïsse, dichiarasse che la tranquillità era soltanto apparente, che in segreto regnava una grande agitazione, che si organizzavano società dappertutto in segreto, che i giornali democratici prendevano le loro disposizioni per apparire di nuovo, che i rapporti delle province erano sfavorevoli, che i profughi di Ginevra organizzavano una congiura che si estendeva da Lione a tutto il mezzogiorno della Francia, che la Francia si trovava sull'orlo di una crisi industriale e commerciale, che i fabbricanti di Roubaix avevano ridotto la giornata di lavoro, che i prigionieri di Belle-Isle si erano ribellati, bastò che un semplice Vaïsse evocasse lo spettro rosso, perché il partito dell'ordine respingesse senza discussione una proposta che avrebbe dato alla Assemblea nazionale una popolarità immensa e avrebbe nuovamente gettato Bonaparte nelle sue braccia. Invece di lasciarsi intimidire dal potere esecutivo con la prospettiva di nuovi disordini, l'Assemblea avrebbe dovuto dare un po' di campo libero alla lotta di classe, per mantenere il potere esecutivo alle sue dipendenze. Ma non si sentiva la forza di giocare col fuoco.

Frattanto il cosiddetto ministero di transizione vegetò fino a metà del mese di aprile. Bonaparte stancava l'Assemblea nazionale e si faceva beffe di essa con sempre nuove combinazioni ministeriali. Ora sembrava che volesse costituire un ministero repubblicano con Lamartine e Billault; ora un ministero parlamentare con l'inevitabile Odilon Barrot, il cui nome non poteva mai mancare quando occorreva un minchione; ora un ministero legittimista con Vatimesnil e Benoit d'Azy; ora un ministero orleanista con Maleville.

Mentre egli manteneva così le differenti frazioni del partito dell'ordine in uno stato di tensione reciproca, e le spaventava tutte con la visione di un ministero repubblicano e della restaurazione in questo caso inevitabile, del suffragio universale, nello stesso tempo creava nella borghesia la convinzione che i suoi sforzi sinceri per creare un ministero parlamentare si rompessero contro l'inconciliabilità delle frazioni monarchiche. Ma la borghesia reclamava un "governo forte" con tanto maggior forza, e tanto più imperdonabile le sembrava il fatto che si lasciasse la Francia "senza amministrazione", quanto più pareva si avvicinasse una crisi commerciale generale che avrebbe rafforzato il socialismo nelle città, come i bassi prezzi rovinosi dei cereali lo rafforzavano nelle campagne. Il commercio diventava di giorno in giorno più fiacco; il numero delle braccia disoccupate aumentava a vista d'occhio; a Parigi, 10.000 operai per lo meno erano senza pane; a Rouen, Mulhouse, Lione, Roubaix, Tourcoing, St. Etienne, Elbeuf, ecc., innumerevoli fabbriche erano chiuse. In queste circostanze Bonaparte poté osare di restaurare, l'11 aprile, il ministero del 18 gennaio: i signori Rouher, Fould, Baroche, ecc., rafforzati dal signor Léon Faucher, che l'Assemblea costituente, durante i suoi ultimi giorni di vita, aveva colpito con un voto di sfiducia all'unanimità, eccetto cinque voti di cinque ministri, per divulgazione di comunicazioni telegrafiche false. L'Assemblea nazionale aveva dunque riportato il 18 gennaio una vittoria sul ministero; aveva lottato per tre mesi contro Bonaparte, affinché l'11 aprile Fould e Baroche potessero prendere come terzo nella loro associazione ministeriale il puritano Faucher.

Se nel novembre 1849 Bonaparte si era accontentato di un ministero non parlamentare e nel gennaio 1851 di un ministero extraparlamentare, l'11 aprile si sentì abbastanza forte per formare un ministero antiparlamentare, un ministero che riuniva in sé in modo armonico i voti di sfiducia delle due Assemblee, la Costituente e la Legislativa, la repubblicana e la monarchica. Questa successione di ministeri era il termometro secondo cui il Parlamento poteva misurare la diminuzione del proprio calore vitale. A fine aprile era caduto così in basso che Persigny, in un abboccamento personale con Changarnier, poté invitarlo a passare dalla parte del presidente. Bonaparte, gli assicurò, considera completamente distrutta l'influenza dell'Assemblea nazionale ed è già pronto il proclama che dovrà essere pubblicato dopo il colpo di stato continuamente progettato, ma per ora nuovamente rinviato. Changarnier comunicò ai capi del partito dell'ordine questo annunzio di morte, ma chi ha mai creduto che la morsicatura delle cimici sia mortale? E il Parlamento, così battuto, così disfatto, così agonizzante com'era, non poteva rassegnarsi a vedere nel duello col capo grottesco della Società dei 10 dicembre altra cosa che il duello con una cimice. Ma Bonaparte rispose al partito dell'ordine come Agesilao al re Agide: "Ti sembro formica ma un giorno sarò leone"

VI

La coalizione con la Montagna e coi repubblicani puri, a cui il partito dell'ordine si era visto condannato nei suoi vani tentativi per restare in possesso del potere militare e per riconquistare la direzione suprema del potere esecutivo, provava in modo inconfutabile che esso aveva perduto la propria maggioranza parlamentare. La forza pura e semplice del calendario, la lancetta dell'orologio, dette, il 29 maggio, il segnale della sua completa decomposizione. Il 29 maggio cominciava l'ultimo anno di vita dell'Assemblea nazionale. Essa doveva ormai decidersi, o per la proroga senza modificazioni, o per la revisione della Costituzione. Ma revisione della Costituzione non significava soltanto l'alternativa: dominio della borghesia o della democrazia piccolo-borghese, democrazia o anarchia proletaria, repubblica parlamentare o Bonaparte; significava altresì l'alternativa: Orléans o Borbone. Così cadde in mezzo al Parlamento il pomo della discordia attorno al quale doveva scoppiare apertamente il conflitto di interessi che divideva il partito dell'ordine in frazioni ostili. Il partito dell'ordine era una combinazione di sostanze sociali eterogenee. La questione della revisione creò una temperatura politica con la quale il prodotto si scompose di nuovo nel suoi elementi costitutivi.

L'interesse dei bonapartisti alla revisione era semplice. Per essi si trattava innanzi tutto della soppressione dell'articolo 45, che vietava la rielezione di Bonaparte e la proroga dei suoi poteri. Non meno semplice sembrava la posizione dei repubblicani. Essi respingevano in modo assoluto ogni revisione; vedevano nella revisione una congiura generale contro la repubblica. Poiché disponevano di più di un quarto dei voti dell'Assemblea nazionale, e poiché secondo la Costituzione si richiedevano i tre quarti dei voti affinché si potesse legalmente decidere la revisione e convocare un'Assemblea chiamata a realizzarla, non avevano che da contare i loro voti per esser sicuri della vittoria. E della vittoria erano sicuri.

Di fronte a queste posizioni chiare, il partito dell'ordine era in preda a contraddizioni inesplicabili. Se respingeva la revisione metteva in pericolo lo status quo perché lasciava a Bonaparte una sola via d'uscita, il ricorso alla forza; perché abbandonava la Francia, nel momento della decisione, la seconda [domenica] di maggio del 1852, all'anarchia rivoluzionaria, con un presidente che aveva perduto la sua autorità, con un Parlamento che da tempo non l'aveva più e con un popolo che pensava di riconquistarla. Se votava per la revisione secondo la Costituzione, sapeva che votava invano e che, secondo la Costituzione sarebbe naufragato per il veto dei repubblicani. Se, violando la Costituzione, dichiarava sufficiente la maggioranza dei voti, poteva sperare di dominare la rivoluzione soltanto sottomettendosi senza riserve alla discrezione del potere esecutivo e facendo così di Banaparte il padrone della Costituzione, della revisione e dello stesso partito dell'ordine. Una revisione solamente parziale, che prolungasse i poteri del presidente, spianava il cammino all'usurpazione imperiale. Una revisione generale, che abbreviasse l'esistenza della repubblica, portava inevitabilmente a un conflitto delle aspirazioni dinastiche, perché le condizioni per una restaurazione borbonica e le condizioni per una restaurazione orleanista non soltanto erano diverse, ma si escludevano a vicenda.

La repubblica parlamentare era più che il terreno neutrale su cui le due frazioni della borghesia francese, i legittimisti e gli orleanisti, la grande proprietà fondiaria e l'industria, potevano vivere l'una accanto all'altra a parità di diritti. Era la condizione indispensabile del loro dominio comune, l'unica forma di Stato in cui il loro interesse generale di classe potesse subordinare a sé tanto le pretese delle sue frazioni singole, quanto tutte le altre classi della società. Come monarchici essi ricadevano nel loro vecchio antagonismo, nella lotta per la supremazia della grande proprietà fondiaria o del danaro, e l'espressione più alta di questo antagonismo, la sua personificazione, erano i loro stessi re, le loro dinastie. Di qui la resistenza del partito dell'ordine al richiamo dei Borboni.

L'orleanista e rappresentante del popolo Créton aveva presentato periodicamente, nel 1849, nel 1850 e nel 1851, la proposta che venisse revocato il decreto che bandiva le famiglie reali. Il Parlamento aveva quindi offerto, altrettanto periodicamente, lo spettacolo di un'assemblea di monarchici, che ostinatamente sbarrava ai re banditi la porta attraverso la quale essi avrebbero potuto ritornare. Riccardo III aveva assassinato Enrico VI dichiarando che egli era troppo buono per questo mondo, e che il suo posto era nel cielo. Essi dichiaravano che la Francia era troppo cattiva per possedere di nuovo i suoi re. Costretti dalla forza delle circostanze, erano diventati repubblicani e sanzionavano di bel nuovo la decisione del popolo che aveva cacciato dalla Francia i loro re.

La revisione della Costituzione - e le circostanze costringevano a prenderla in considerazione - poneva in discussione, insieme alla repubblica, anche il dominio comune delle due frazioni della borghesia, e rendendo possibile la monarchia, riattizzava la rivalità degli interessi che la monarchia aveva rappresentato di volta in volta in modo preminente; riaccendeva la lotta per la supremazia di una frazione sull'altra. I diplomatici del partito dell'ordine credevano di poter trovare un compromesso con una unione delle due dinastie, con quella che essi chiamavano una fusione dei partiti monarchici e delle loro case reali. Ma la vera fusione della Restaurazione e della Monarchia di luglio era la repubblica parlamentare, in cui i colori orleanisti e legittimisti erano svaniti e le differenti specie di borghesi erano scomparse nel borghese senza aggettivi, nel genere borghese. L'orleanista sarebbe ora dovuto diventare legittimista, il legittimista orleanista. La monarchia, in cui si incarnava il loro dissidio, sarebbe dovuta diventare la incarnazione della loro unità; l'espressione dei loro interessi esclusivi di frazione sarebbe dovuta diventare l'espressione dei loro interessi comuni di classe; la monarchia avrebbe dovuto fare ciò che soltanto la negazione di due monarchie, cioè la repubblica, aveva potuto fare e aveva fatto. Era questa la pietra filosofale, per fabbricar la quale si rompevano la testa i dottori del partito dell'ordine. Come se la monarchia legittima potesse mai diventare la monarchia della borghesia industriale o il regno della borghesia diventare il regno dell'aristocrazia fondiaria ereditaria. Come se la grande proprietà fondiaria e l'industria potessero fraternizzare sotto una sola corona, mentre la corona poteva cadere sopra una testa sola, o su quella del primogenito o su quella del cadetto. Come se l'industria potesse, in generale, conciliarsi con la proprietà fondiaria, sino a che la proprietà fondiaria non si decide a diventare anch'essa industriale. Se Enrico V morisse domani, il conte di Parigi non diventerebbe perciò il re dei legittimisti, a meno che non finisse di essere il re degli orleanisti. Ma i filosofi della fusione, che tanto più si facevano avanti quanto più diventava attuale la questione della revisione, che si erano creati nell'Assemblée nationale un organo quotidiano ufficiale che persino oggi (febbraio 1852) sono nuovamente all'opera, attribuivano tutte le difficoltà alla resistenza e alla rivalità delle due dinastie. I tentativi di riconciliare la famiglia di Orléans con Enrico V, incominciati sin dalla morte di Luigi Filippo, ma condotti, come tutti gli intrighi dinastici, soltanto durante le ferie dell'Assemblea nazionale, negli intermezzi, dietro le quinte, più come una civetteria sentimentale con la vecchia superstizione che come un affare presa sul serio, divennero ora azioni capitali e di Stato, vennero portati dal partito dell'ordine sulla scena pubblica e non più soltanto sulla scena dei teatrini dei dilettanti. I corrieri volavano da Parigi a Venezia, da Venezia a Claremont, da Claremont a Parigi. Il conte di Chambord lancia un manifesto in cui annuncia, "con l'aiuto di tutti i membri della sua famiglia", non la propria restaurazione, ma ,la restaurazione "nazionale". L'orleanista Salvandy si getta ai piedi di Enrico V. I capi legittimisti Berryer, Benôit d'Azy, Saint-Priest, si recano a Claremont per convincere gli Orléans, ma invano. I fusionisti si accorgono troppo tardi che gli interessi delle due frazioni della borghesia non perdono il loro carattere esclusivo e non diventano più facilmente conciliabili per il fatto che si acuiscono nella forma di interessi di famiglia, di interessi di due case reali. Anche se Enrico V avesse riconosciuto come suo successore il conte di Parigi - e questo era l'unico successo che nel migliore dei casi, la fusione potesse avere -, la casa di Orléans non avrebbe guadagnato nessun diritto che già non fosse assicurato dalla mancanza di figli di Enrico V, e avrebbe perduto tutti i diritti che aveva conquistato con la rivoluzione di luglio. Essa avrebbe rinunciato alle sue pretese originarie, a tutti i titoli che aveva strappato alla branca primogenita dei Borboni in una lotta quasi secolare, avrebbe barattato le sue prerogative storiche, le prerogative della monarchia moderna, con la prerogativa del suo albero genealogico. La fusione non era dunque altro che un'abdicazione volontaria della casa di Orléans, la sua rinuncia legittimista, il suo ritorno contrito dalla Chiesa di Stato protestante alla Chiesa cattolica. E questo ritorno non la rimetteva nemmeno sul trono che essa aveva perduto, ma soltanto sui gradini del trono su cui era nata. I vecchi ministri orleanisti, Guizot, Duchâtel, ecc., che si precipitarono egualmente a Claremont per sollecitare la fusione, esprimevano in sostanza soltanto il disgusto per la rivoluzione di luglio, la mancanza di fiducia nella monarchia borghese e nella monarchia dei borghesi, la fede superstiziosa nella legittimità come ultimo amuleto contro l'anarchia. Mentre immaginavano di essere mediatori tra gli Orléans e i Borboni, erano effettivamente soltanto orleanisti rinnegati, e come tali li ricevette il principe di Joinville. La parte vitale, combattiva, degli orleanisti, invece, Thiers, Baze, ecc., ebbero tanto miglior giuoco nel convincere la famiglia di Luigi Filippo che se ogni restaurazione monarchica immediata presupponeva la fusione delle due dinastie, ogni fusione delle due dinastie presupponeva però l'abdicazione della casa di Orléans, mentre era pienamente conforme alla tradizione dei loro predecessori riconoscere temporaneamente la repubblica ed aspettare sino a che gli avvenimenti permettessero di cambiare il seggio presidenziale in un trono. Si diffuse la voce della candidatura presidenziale del principe di Joinville; si mantenne desta la curiosità pubblica; e alcuni mesi dopo, respinta la revisione, questa candidatura venne proclamata pubblicamente.

Il tentativo di una fusione monarchica tra orleanisti e legittimisti non era dunque soltanto fallito, ma aveva anche spezzato la loro fusione parlamentare, la loro forma comune repubblicana, e aveva nuovamente decomposto il partito dell'ordine nei suoi elementi originari. Ma quanto più diventavano tese le relazioni tra Claremont e Venezia, quanto più si rompeva il loro accordo e l'agitazione per Joinville guadagnava terreno, tanto più attive, tanto più serie si facevano le trattative tra Faucher, il ministro di Bonaparte, e i legittimisti.

La dissoluzione del partito dell'ordine non si arrestò ai suoi elementi primitivi. Ognuna delle sue grandi frazioni si suddivise ancora, a sua volta. Sembrava che tutte le vecchie sfumature che si erano urtate e combattute nell'interno di ognuno dei due gruppi, tanto dei legittimisti quanto degli orleanisti, fossero tornate a galla al pari di infusori disseccati messi a contatto con l'acqua, come se avessero nuovamente acquistato tanta forza da poter costituire gruppi propri e alimentare per proprio conto degli antagonismi. I legittimisti sognavno di essere tornati ai conflitti tra le Tuileries e il Pavillon Marsan, tra Villlèle e Polignac. Gli orleanisti rivivevano l'età dell'oro dei tornei tra Guizot, Molè, Broglie, Thiers e Odilon Barrot.

La frazione del partito dell'ordine che era favorevole alla revisione, ma era divisa a proposito dei limiti della revisione stessa, composta di legittimisti, diretti da Berryer e Falloux, da una parte, da La Rochejacquelein dall'altra, e dagli orleanisti stanchi di combattere, diretti da Molé, Montalembert e Odilon Barrot, si unì coi rappresentanti bonapartisti per presentare la seguente proposta indeterminata e generica: "I sottoscritti rappresentanti, allo scopo di restituire alla nazione il pieno esercizio della sua sovranità, propongono che la Costituzione venga riveduta". In pari tempo però essi dichiararono unanimemente, per bocca del loro relatore Tocqueville, che l'Assemblea nazionale non aveva diritto di proporre l'abolizione della repubblica e che questo diritto spettava soltanto alla camera di revisione. Inoltre aggiunsero che la Costituzione poteva essere riveduta soltanto in modo "legale", cioè soltanto se lo decideva la maggioranza di tre quarti dei voti prescritta dalla Costituzione. Dopo sei giorni di dibattiti tumultuosi il 19 luglio, come era da prevedere, la revisione venne respinta. Vi furono 446 voti a favore, ma 278 contro. Gli orleanisti decisi, come Thiers, Changarnier, ecc., votarono coi repubblicani e con la Montagna.

La maggioranza si dichiarava dunque contro la Costituzione; ma la Costituzione stessa si dichiarava per la minoranza e dava alla sua decisione carattere obbligatorio. Ma forse che il partito dell'ordine non aveva subordinato la Costituzione alla maggioranza parlamentare, il 31 maggio 1850 e il 13 giugno 1849? Forse che tutta la sua politica non si era fondata, sino a quel giorno, sulla subordinazione degli articoli della Costituzione alle decisioni della maggioranza parlamentare? Non aveva esso lasciato ai democratici e punito nei democratici la credenza biblica alla lettera della legge? Ma in questo momento revisione della Costituzione non significava altro che proroga dei poteri presidenziali, e proroga della Costituzione non significava altro che destituzione di Bonaparte. Il Parlamento si era pronunciato per lui; ma la Costituzione si pronunciava contro il Parlamento. Egli agiva dunque secondo il pensiero del Parlamento se lacerava la Costituzione, e agiva secondo lo spirito della Costituzione se dava lo sfratto al Parlamento.

Il Parlamento aveva dichiarato "fuori della maggioranza" la Costituzione e, con essa, il proprio dominio; con la sua decisione aveva soppresso la Costituzione e prorogato i poteri presidenziali, pur dichiarando in pari tempo che né l'una poteva morire né gli altri potevano vivere sino a che il Parlamento continuasse ad esistere. Ma già erano alle porte coloro che dovevano sotterrarlo. Mentre esso discuteva della revisione, Bonaparte allontanava il generale Baraguay d'Hilliers, che si mostrava indeciso, dal comando della prima divisione militare, e nominava al suo posto il generale Magnan, il vincitore di Lione, l'eroe delle giornate di dicembre, una delle sue creature, che già sotto Luigi Filippo si era più o meno compromesso con lui in occasione della spedizione di Boulogne.

Con la sua decisione circa la revisione, il partito dell'ordine provava che non sapeva né dominare né servire, né vivere né morire, né tollerare la repubblica né rovesciarla, né mantenere la Costituzione né sbarazzarsene, né collaborare col presidente né romperla con lui. Da chi attendeva dunque la soluzione di tutte queste contraddizioni? Dal calendario, dal corso degli avvenimenti. Cessava di attribuirsi un potere sugli avvenimenti. Provocava in questo modo gli avvenimenti a fargli violenza; provocava il potere a cui nella lotta contro il popolo aveva ceduto l'uno dopo l'altro i suoi attributi, sino a trovarsi di fronte ad esso privo di forza. Affinché il capo del potere esecutivo potesse elaborare con maggior tranquillità il piano di lotta contro di esso, rafforzare i suoi mezzi di attacco, scegliere le sue armi, consolidare le sue posizioni, il partito dell'ordine decise, in un momento così critico, di abbandonare la scena e di aggiornarsi per tre mesi, dal 10 agosto al 4 novembre.

Non soltanto il partito parlamentare si era diviso nelle sue due grandi frazioni, non soltanto ognuna di queste frazioni a sua volta si disgregava, ma il partito dell'ordine nel Parlamento era in contrasto col partito dell'ordine fuori del Parlamento. Gli oratori della borghesia e i suoi esegeti, la sua tribuna e la sua stampa, in una parola, gli ideologi della borghesia e la borghesia stessa, i rappresentanti e i rappresentati erano diventati estranei gli uni agli altri e non si comprendevano più.

I legittimisti delle provincie, col loro orizzonte ristretto e il loro entusiasmo illimitato, accusavano i loro capi parlamentari, Berryer e Falloux, di aver disertato nel campo bonapartista e abbandonato Enrico V. La loro intelligenza liliale credeva al peccato originale ma non credeva alla diplomazia.

Incomparabilmente più fatale e decisiva era la rottura tra la borghesia commerciale e i suoi uomini politici. Essa non rimproverava loro, come i legittimisti ai loro rappresentanti, di aver abbandonato i principi, ma al contrario, di rimaner attaccati a princìpi divenuti inutili.

Ho già accennato prima che, dal momento dell'ingresso di Fould nel ministero, quella parte della borghesia commerciale che si era attribuita la parte del leone del potere sotto Luigi Filippo, l'aristocrazia finanziaria, era diventata bonapartista. Fould non rappresentava soltanto gli interessi di Bonaparte in Borsa; egli rappresentava anche gli interessi di Borsa presso Bonaparte. La posizione del l'aristocrazia finanziaria è descritta nel modo più evidente dal suo organo europeo, l'Economist di Londra. Nel suo numero del I° febbraio 1851 questo giornale pubblica la seguente corrispondenza da Parigi: "Abbiamo ora potuto rilevare da tutte le parti che la Francia aspira soprattutto alla tranquillità. La cosa è stata dichiarata dal presidente nel suo messaggio all'Assemblea legislativa; la tribuna dell'Assemblea gli ha fatto eco; i giornali lo confermano; i preti lo proclamano dal pulpito; la cosa è provata dalla sensibilità dei titoli di Stato alla minima prospettiva di disordini, dalla loro fermezza ogni volta che il potere esecutivo ha il sopravvento"

Nel suo numero del 29 novembre 1851 l'Economist dichiara, in nome proprio: "In tutte le Borse d'Europa il presidente è riconosciuto come sentinella dell'ordìne". L'aristocrazia finanziaria condannava dunque la lotta parlamentare del partito dell'ordine contro il potere esecutivo come cosa che turbava l'ordine, e celebrava ogni vittoria del presidente sui rappresentanti del sedicente partito dell'ordine come vittoria dell'ordine. Si deve intendere qui per aristocrazia finanziaria non soltanto i grandi appaltatori di prestiti statali e gli speculatori sui valori dello Stato, il cui interesse si comprende agevolmente che coincida con gli interessi del potere dello Stato. Tutti gli affari finanziari moderni, tutta l'economia bancaria è connessa nel modo più intimo col credito pubblico. Una parte del loro capitale commerciale viene necessariamente investito in valori di Stato rapidamente convertibili. I loro depositi, il capitale posto a loro disposizione e da loro ripartito tra commercianti e industriali, proviene in parte dai dividendi dei possessori di rendita dello Stato. Se per il mercato monetario nel suo complesso e per i sacerdoti di questo mercato la stabilità del potere dello Stato in ogni epoca ha fatto le veci di Mosè e dei profeti, come potrebbe essere diversamente oggi in cui ogni diluvio minaccia di travolgere, insieme ai vecchi Stati, anche i vecchi debiti di Stato?

Anche la borghesia industriale, nel suo fanatismo dell'ordine, era irritata dalle risse del partito parlamentare dell'ordine col potere esecutivo. Thiers, Anglès, Sainte-Beuve, ecc., dopo il loro voto del 18 gennaio in occasione della destituzione di Changarnier, ricevettero rimostranze pubbliche proprio dai loro elettori dei distretti industriali nelle quali specialmente la loro coalizione con la Montagna veniva bollata come alto tradimento della causa dell'ordine. Se è vero, come ,abbiamo visto, che le canzonature spavalde e gli intrighi meschini in cui si era manifestata la lotta del partito dell'ordine contro il presidente non meritavano accoglienza migliore, è vero d'altra parte che questo partito borghese, il quale esigeva che i suoi rappresentanti lasciassero passare senza resistenza il potere militare dalle mani del loro proprio Parlamento in quelle di un pretendente d'avventura, non era nemmeno degno degli intrighi che si ordivano nel suo interesse. Esso faceva capire che la lotta per la difesa dei suoi interessi pubblici, dei suoi interessi di classe, del suo potere politico, in quanto disturbava i suoi affari privati lo molestava e gli dava fastidio.

I notabili borghesi delle città di provincia, i magistrati, i giudici di commercio ecc. ricevevano Bonaparte dappertutto, quasi senza eccezione, nei suoi viaggi circolari, nel modo più servile, anche se, come a Digione, egli attaccava senza alcun riguardo l'Assemblea nazionale e in special modo il partito dell'ordine.

Quando gli affari, andavano bene, come al principio del 1851, la borghesia commerciale si scagliava contro ogni lotta parlamentare che potesse nuocere al commercio. Quando il commercio andò male, come avvenne continuamente a partire dalla fine del febbraio 1851, essa accusò le lotte parlamentari di essere la causa del ristagno, e reclamò ad alta voce che si facessero tacere, affinché il commercio potesse riprendere voce. I dibattiti sulla revisione caddero appunto in questo momento sfavorevole, e poiché si trattava della vita o della morte della forma statale esistente, tanto più la borghesia si sentì in diritto di esigere dai suoi rappresentanti che mettessero fine a quella tormentosa provvisorietà; in diritto di reclamare in pari tempo il mantenimento dello status quo. Né c'era in ciò contraddizione alcuna. Metter fine allo stato di cose provvisorio significava per essa precisamente prolungarne l'esistenza, rinviare a un futuro lontano il momento in cui sarebbe stato necessario prendere una decisione. Lo status quo poteva essere mantenuto soltanto in due modi: o con la proroga dei poteri di Bonaparte, o col suo ritiro, conforme alla Costituzione, e con la elezione di Cavaignac. Una parte della borghesia desiderava quest'ultima soluzione, ma non sapeva dare ai suoi rappresentanti nessun miglior consiglio che di tacere e di lasciare impregiudicata questa ardente questione. Se i suoi rappresentanti non avessero parlato, pensava, Bonaparte non avrebbe agito. E desiderava un Parlamento struzzo, che nascondesse la testa per non farsi vedere. Un'altra parte della borghesia, poiché Bonaparte già occupava il seggio presidenziale, desiderava che continuasse ad occuparlo, affinché ogni cosa rimanesse immutata. Essa s'irritava perché il suo Parlamento non violava apertamente la Costituzione e non abdicava puramente e semplicemente.

I Consigli generali dei dipartimenti, rappresentanze provinciali della grande borghesia, riunitisi a partire dal 25 agosto durante le ferie dell'Assemblea nazionale, si dichiararono quasi all'unanimità favorevoli alla revisione, cioè contro il Parlamento e per Bonaparte.

Ancora più esplicita della rottura coi suoi rappresentanti parlamentari fu la manifestazione della collera della borghesia contro i suoi rappresentanti letterari, contro la propria stampa. Le condanne a multe esorbitanti e a spudorate pene detentive pronunciate dalle giurie borghesi per ogni attacco dei giornalisti borghesi alle velleità di usurpazione di Bonaparte, per ogni tentativo della stampa di difendere contro il potere esecutivo i diritti politici della borghesia, riempirono di stupore non solo la Francia, ma tutta l'Europa.

Se, come ho mostrato sopra, il partito parlamentare dell'ordine, a forza di gridare che occorreva la tranquillità, si era condannato da sé all'inazione; se esso aveva dichiarato il dominio politico della borghesia incompatibile con la sicurezza e con l'esistenza della borghesia stessa, distruggendo con le sue proprie mani, nella lotta contro le altre classi della società, tutte le condizioni del proprio regime, del regime parlamentare, la massa extraparlamentare della borghesia, invece, con le sue servilità verso il presidente, coi suoi oltraggi al Parlamento, col modo brutale nel quale trattava la sua stessa stampa, provocava Bonaparte a reprimere e a sterminare i suoi oratori e i suoi scrittori, i suoi uomini politici e i suoi letterati, la sua tribuna parlamentare e la sua stampa, al fine di poter attendere ai propri affari privati sotto la protezione di un governo forte e dotato di poteri illimitati. Essa dichiarava nettamente che non vedeva l'ora di sbarazzarsi del proprio dominio politico per sbarazzarsi delle fatiche e dei pericoli del potere.

E questa borghesia che si indigna persino della lotta puramente parlamentare e letteraria in difesa del potere della propria classe e ha tradito i capi di questa lotta, ora, quando, tutto è terminato, osa accusare il proletariato di non essersi gettato per essa in una lotta sanguinosa, in una lotta a morte. Questa borghesia che in ogni momento ha sacrificato il suo interesse generale di classe, cioè il suo interesse politico, al più gretto e sordido interesse privato, e ha preteso dai suoi rappresentanti lo stesso sacrificio, ora si lamenta, dicendo che il proletariato ha sacrificato ai propri interessi materiali i suoi ideali politici. Essa si comporta come un'anima generosa che il proletariato, traviato dai socialisti, avrebbe misconosciuto e abbandonato nel momento decisivo. Ed essa trova un'eco generale nel mondo borghese. Non parlo qui naturalmente dei politicanti tedeschi da caffè e dei poveri di spirito. Mi riferisco, per esempio, allo stesso Economist, che ancora il 29 novembre 1851, cioè 4 giorni prima del colpo di stato, aveva dichiarato Bonaparte "sentinella dell'ordine" e Thiers e Berryer "anarchici", e già il 27 dicembre 1851, dopo che Bonaparte ha messo a posto quegli anarchici, denuncia il tradimento che sarebbe stato compiuto da "masse proletarie ignoranti, incolte, stupide, ai danni del talento, del sapere, della disciplina, dell'influenza, dell'ingegno, delle risorse intellettuali e delle qualità morali degli strati medi ed elevati della società". La massa stupida, ignorante e volgare non era altro che la massa stessa della borghesia.

È vero che la Francia ha attraversato nel 1851 una specie di piccola crisi commerciale. Alla fine di febbraio si manifestò una diminuzione delle esportazioni rispetto al 1850; in marzo il commercio diminuì e le fabbriche si chiusero; in aprile la situazione dei dipartimenti industriali sembrava essere disperata quanto dopo le giornate di febbraio; in maggio gli affari non avevano ancora ripreso; ancora il 28 giugno il portafoglio della Banca di Francia indicava, con un enorme aumento dei depositi e con una diminuzione altrettanto grande degli anticipi su cambiali, la stasi della produzione; e solo alla metà di ottobre vi era stata una nuova ripresa progressiva degli affari. La borghesia francese si spiegò questo ristagno degli affari con motivi d'ordine puramente politico, con la lotta tra il Parlamento e il potere esecutivo, con l'incertezza di una forma di Stato puramente provvisoria, con la prospettiva paurosa della seconda [domenica] di maggio del 1852. Non voglio negare che tutte queste circostanze esercitassero una influenza deprimente su alcune branche dell'industria a Parigi e nei dipartimenti. Ad ogni modo, però, questa influenza delle circostanze politiche era soltanto locale e insignificante. Si può darne prova migliore del fatto che il miglioramento del commercio si produsse proprio nel momento in cui la situazione politica peggiorava, l'orizzonte politico si oscurava e si attendeva ad ogni istante un colpo di folgore dell'Eliseo, cioè verso la metà di Ottobre. Il borghese francese, il cui "talento, il cui sapere, la cui chiaroveggenza e le cui risorse intellettuali" non vanno più in là del suo naso, poteva d'altra parte, per tutta la durata dell'Esposizione industriale di Londra, sbattere il naso nella causa della sua miseria commerciale. Mentre in Francia si chiudevano le fabbriche, in Inghilterra scoppiavano bancarotte commerciali. Mentre in aprile e maggio in Francia toccava il colmo il panico industriale, in aprile e maggio, in Inghilterra, toccava il colmo il panico commerciale. L'industria inglese della lana soffriva come quella francese; come quella francese soffriva la manifattura inglese della seta. Le fabbriche inglesi di cotone continuavano a lavorare, ma non facevano più gli stessi profitti che nel 1849 e nel 1850. La differenza stava soltanto nel fatto che la crisi era industriale in Francia, commerciale in Inghilterra; che mentre in Francia le fabbriche si fermavano, in Inghilterra si sviluppavano, ma in condizioni più sfavorevoli che negli anni precedenti; che in Francia i colpi principali erano subìti dall'esportazione, in Inghilterra dall'importazione. La causa comune, che naturalmente non deve essere ricercata entro i limiti dell'orizzonte politico francese, era evidente. Il 1849 e il 1850 erano stati gli anni di grandissima prosperità materiale e di una sovrapproduzione che si manifestò come tale soltanto nel 1851. Questa venne ancora aggravata, in particolar modo all'inizio di quest'anno, dalla prospettiva dell'Esposizione industriale. A ciò si aggiunsero inoltre circostanze speciali: prima il cattivo raccolto di cotone nel 1850 e nel 1851, poi la sicurezza di un raccolto di cotone più abbondante di quello che ci si aspettava; prima il rialzo, poi il ribasso brusco, in una parola, le oscillazioni dei prezzi del cotone. Il raccolto della seta greggia era caduto, almeno in Francia, al di sotto della media. Le manifatture di lana, infine, si erano talmente estese a partire dal 1848 che la produzione della lana non poteva tener loro dietro e il prezzo della lana greggia aumentava in modo sproporzionato all'aumento del prezzo dei manufatti di lana. Abbiamo, quindi già qui, nelle materie prime di tre industrie interessanti il mercato mondiale, tre serie di cause di un ristagno del commercio. Astrazion fatta da queste circostanze speciali, la crisi apparente del 1851 non fu altro che il momento di arresto che la sovrapproduzione e la sovraspeculazione subiscono sempre nel corso del ciclo industriale, prima di raccogliere tutte le forze per attraversare febbrilmente l'ultima parte della curva e giungere ancora una volta al suo punto di approdo, alla crisi commerciale generale. Durante simili intervalli della storia del commercio, in Inghilterra scoppiano bancarotte commerciali, mentre in Francia è l'industria stessa che si ferma, in parte perché costretta a ritirarsi da tutti i mercati dalla concorrenza degli inglesi che proprio allora diventa insopportabile, in parte perché colpita in particolar modo dal ristagno del commercio in quanto industria di lusso. In questo modo la Francia, oltre alle crisi generali, attraversa le proprie crisi commerciali nazionali, le quali però sono determinate e condizionate più dallo stato generale del mercato mondiale che da influenze locali francesi. Non sarà senza interesse contrapporre al pregiudizio del borghese francese il giudizio del borghese inglese. Una delle più grandi case di Liverpool scrive nel suo bilancio annuale del 1851: "Pochi anni hanno ingannato nelle previsioni fatte al loro inizio più dell'anno testé trascorso. Invece della più grande prosperità che unanimemente ci si attendeva, esso è stato uno degli anni più scoraggianti dell'ultimo quarto di secolo. Naturalmente questo vale per le classi commerciali, non per le classi industriali. Eppure al principio dell'anno vi erano senza dubbio dei motivi per attendersi il contrario. Le riserve di prodotti erano scarse, il capitale era sovrabbondante, i viveri a buon mercato; si era sicuri di un raccolto ricco. Pace ininterrotta sul continente e nessun disturbo politico o finanziario all'interno del paese. In realtà, mai le ali del commercio erano state più libere... A che cosa si deve attribuire questo risultato sfavorevole? Crediamo che lo si debba attribuire all'eccesso del commercio, sia d'importazione che d'esportazione. Se i nostri negozianti non pongono essi stessi limiti più ristretti alla loro attività, nulla potrà mantenerci nella via normale, se non un panico ogni tre anni".

Ci si immagini ora come il borghese francese, in mezzo a questo panico commerciale, doveva avere il cervello, malato come il suo commercio, torturato, confuso, stordito dalle voci di colpi di stato e di restaurazione del suffragio universale, dalla lotta tra il Parlamento e il potere esecutivo, dalla guerra di fronda tra i legittimisti e gli orleanisti, dalle cospirazioni comuniste nel sud della Francia, dalle pretese jacqueries nei dipartimenti della Nièvre e dello Cher, dalla pubblicità dei diversi candidati alla presidenza, dalle parole d'ordine ciarlatanesche dei giornali, dalle minacce dei repubblicani di voler difendere la Costituzione e il suffragio universale con le armi alla mano, dal vangelo degli eroi emigrati in partibus che annunciavano la fine del mondo per la seconda [domenica] di maggio del 1852, e si comprenderà come, in mezzo a questa indicibile e assordante confusione di fusione, revisione, proroga, costituzione, cospirazione, coalizione, emigrazione, usurpazione e rivoluzione, il borghese furibondo gridasse in faccia alla repubblica parlamentare: "Meglio una fine con spavento, che uno spavento senza fine!".

Bonaparte comprese questo grido. Il suo comprendonio era reso più acuto dalla crescente petulanza dei creditori, i quali in ogni tramonto di sole che avvicinava il 2 maggio 1852, giorno della scadenza dei suoi poteri, vedevano una protesta del movimento degli astri contro le loro cambiali terrestri. Essi erano diventati dei veri astrologhi. L'Assemblea nazionale aveva tolto a Bonaparte ogni speranza di proroga costituzionale del suo potere; la candidatura del principe di Joinville non gli permetteva di esitare più a lungo.

Se mai avvenimento ha proiettato davanti a sé la sua ombra molto tempo prima di prodursi, esso è stato certamente il colpo di stato di Bonaparte. Già il 29 gennaio 1849, un mese appena dopo la sua elezione, egli lo aveva proposto a Changarnier. Il suo proprio primo ministro, Odilon Barrot, aveva denunciato in forma privata, nell'estate del 1849, la politica dei colpi di stato; Thiers l'aveva denunciato in modo aperto nell'inverno del 1850. Nel maggio 1851 Persigny aveva cercato ancora una volta di guadagnare all'impresa Changarnier, e il Messager de l'Assemblée aveva fatto conoscere questa conversazione. I giornali bonapartisti minacciavano un colpo di stato ad ogni tempesta parlamentare, e quanto più la crisi si avvicinava, tanto più il loro tono si faceva forte. Nelle orge che Bonaparte celebrava ogni notte con lo swell mob di sesso maschile e femminile, quando si avvicinava la mezzanotte e le abbondanti libazioni snodavano le lingue ed eccitavano la fantasia, il colpo di stato veniva deciso per il giorno seguente. Si snudavano le spade; si toccavano i bicchieri; i rappresentanti venivano gettati dalla finestra e il mantello imperiale cadeva sulle spalle di Bonaparte, fino a che le ore del mattino disperdevano ancora una volta le larve e Parigi, stupefatta, apprendeva da alcune vestali poco riservate e da paladini indiscreti il pericolo al quale era sfuggita ancora una volta. Nei mesi di settembre e di ottobre le voci di un colpo di stato si fecero sempre più frequenti. In pari tempo l'ombra si arricchiva di sfumature, come un dagherrotipo a colori. Si sfoglino i giornali quotidiani europei dei mesi di settembre e di ottobre e vi si troveranno informazioni, del tipo delle seguenti, testuali: "Parigi è piena di voci di colpi di stato. Si dice che la città verrà occupata militarmente durante la notte e che il mattino dopo verranno pubblicati dei decreti che scioglieranno l'Assemblea nazionale, dichiareranno lo stato d'assedio nel dipartimento della Senna, ristabiliranno il suffragio universale, e faranno appello al popolo. Si dice che Bonaparte cerchi ministri pronti a eseguire questi decreti illegali". Le corrispondenze ,che danno queste notizie terminano sempre con un fatale "rinviato". Il colpo di stato era sempre stato l'idea fissa di Bonaparte. Con questa idea aveva rimesso piede sul territorio francese. Questa idea lo possedeva a tal punto che egli la tradiva e la divulgava continuamente. Ma era così debole che in pari tempo continuamente vi rinunciava. L'ombra del colpo di stato era diventata così familiare ai parigini come fantasma, che quando finalmente si presentò loro in carne ed ossa non vollero credervi. Ciò che assicurò il successo del colpo di stato non fu dunque né un atteggiamento riservato del capo della Società del 10 dicembre, né una sorpresa che prendesse l'Assemblea nazionale alla sprovvista. Se il colpo di stato riuscì, riuscì malgrado la mancanza di discrezione del primo, e con la conoscenza preventiva della seconda, come risultato necessario inevitabile di tutta la evoluzione precedente.

Il 10 ottobre Bonaparte annunciò ai suoi ministri la decisione di voler ristabilire il suffragio universale; il 16 essi dettero le loro dimissioni; il 26 Parigi apprese la costituzione del ministero Thorigny. In pari tempo il prefetto di polizia Carlier veniva sostituito da Maupas e il capo della prima divisione militare, Magnan, concentrava nella capitale i reggimenti più sicuri. Il 4 novembre l'Assemblea nazionale riprese le sue sedute. Non le restava altro da fare che ripetere, in una breve e concentrata prova generale, il corso che già essa aveva seguito; e dare la prova che quando la sotterrarono era già morta.

La prima posizione che essa aveva perduto nella lotta contro il potere esecutivo era stato il ministero. Essa dovette riconoscere solennemente questa perdita, accettando pienamente il ministero Thorigny, che era un semplice ministero di comparse. La Commissione permanente aveva accolto a risate il signor Giraud, quando egli si era presentato in nome del nuovo ministero. Un ministero così debole per delle misure così forti, come il ristabilimento del suffragio universale! Ma si trattava precisamente di non far nulla nel Parlamento, di far tutto contro il Parlamento.

Il giorno stesso della sua riapertura l'Assemblea nazionale ricevette un messaggio di Bonaparte, in cui questi chiedeva il ristabilimento del suffragio universale e l'abrogazione della legge dei 31 maggio 1850; lo stesso giorno i ministri del Bonaparte presentarono un decreto in questo senso. L'Assemblea respinse immediatamente la mozione d'urgenza presentata dal ministero e il 13 novembre respinse la legge stessa, con 355 voti contro 348. Essa lacerava così ancora una volta il suo mandato; confermava ancora una volta di essersi trasformata, da rappresentanza liberamente eletta di un popolo, in Parlamento usurpatore di una classe; riconosceva ancora una volta di avere essa stessa reciso i muscoli che univano la testa parlamentare al corpo della nazione.

Se il potere esecutivo, con la sua proposta di ristabilire il suffragio universale, faceva appello dall'Assemblea nazionale al popolo, il potere legislativo, con la sua legge dei questori fece appello dal popolo all'esercito. Questa legge dei questori tendeva a stabilire il diritto dell'Assemblea di requisire direttamente la truppa, di formare un esercito parlamentare. Se in questo modo il potere legislativo faceva dell'esercito l'arbitro tra se stesso e il popolo, tra se stesso e Bonaparte, se riconosceva l'esercito quale potere decisivo dello Stato, era costretto d'altra parte a confermare che da un pezzo aveva rinunciato alla pretesa di comandare l'esercito stesso. Nel momento in cui, invece di requisire senz'altro le truppe, esso discuteva il diritto di requisirle, tradiva i dubbi sulla propria forza. Respingendo la legge dei questori l'Assemblea confessò apertamente la propria impotenza. La legge venne respinta con una minoranza di 108 voti: la Montagna aveva dunque deciso dell'esito della votazione. Essa si trovava nella situazione dell'asino di Buridano, ma non tra due mucchi di fieno e dovendo decidere quale fosse il più appetitoso, bensì tra due sacchi di legnate e dovendo decidere quale fosse il più duro. Da un lato la paura di Changarnier, dall'altro la paura di Bonaparte. Si deve riconoscere che la situazione non aveva niente di eroico. Il 18 novembre venne proposto un emendamento alla legge sulle elezioni comunali presentata dal partito dell'ordine, emendamento in base al quale, invece di tre anni di domicilio, un anno solo doveva bastare per gli elettori municipali. L'emendamento fu respinto per un solo voto; però questo solo voto risultò immediatamente conseguenza di un errore. Scindendosi nelle sue frazioni ostili, il partito dell'ordine aveva perduto da tempo la propria maggioranza parlamentare indipendente. Ora mostrava che nel Parlamento non esisteva più maggioranza di sorta. L'Assemblea nazionale era diventata incapace di prendere una decisione. Le sue parti costitutive elementari non erano più tenute assieme da nessuna forza di coesione; essa aveva reso l'ultimo respiro, era morta.

La massa extraparlamentare della borghesia, infine, doveva confermare solennemente ancora una volta, alcuni giorni prima della catastrofe, la sua rottura coi rappresentanti della borghesia nel Parlamento. Thiers, in qualità di eroe parlamentare, affetto in maniera speciale dalla malattia inguaribile del cretinismo parlamentare, dopo la morte del Parlamento aveva ordito un nuovo intrigo parlamentare col consiglio di Stato, una legge sulla responsabilità che avrebbe dovuto stringere il presidente nei ceppi della costituzione. Bonaparte, che il 15 settembre, in occasione dell'inaugurazione dei nuovi mercati di Parigi, aveva, nuovo Masaniello, ammaliato le dames des halles, le pescivendole - e del resto una pescivendola valeva di più, come potere reale, di 17 burgravi -, che dopo la presentazione della legge dei questori aveva riempito di entusiasmo i tenenti da lui ospitati nell'Eliseo, il 25 novembre strappò l'adesione della borghesia industriale, riunita nel Circo per ricevere di mano sua le medaglie dei premi dell'Esposizione industriale di Londra. Riproduco qui dal Journal des débats il passo più caratteristico del suo discorso: "In presenza di successi così insperati, io sono in diritto di dichiarare ancora una volta quanto la repubblica francese sarebbe grande se le fosse permesso di occuparsi dei suoi interessi reali e di riformare le sue istituzioni, invece di essere continuamente turbata, da un lato dai demagoghi, dall'altro lato da allucinazioni monarchiche (applausi rumorosi, entusiastici e prolungati in tutte le parti dell'anfiteatro). Le allucinazioni monarchiche impediscono ogni progresso e ogni sviluppo industriale serio. Invece del progresso non si ha che la lotta. Si vedono degli uomini, che un tempo erano i sostenitori più zelanti dell'autorità e delle prerogative monarchiche, diventare partigiani di una Convenzione unicamente allo scopo di indebolire l'autorità uscita dal suffragio universale (applausi entusiastici e prolungati). Vediamo alcuni uomini che più hanno sofferto della rivoluzione e più se ne sono lamentati, provocarne una nuova unicamente per incatenare la volontà della nazione... Io vi prometto la tranquillità per l'avvenire, ecc. (Bravo! Bravo! Applausi fragorosi)". In questo modo la borghesia industriale applaude servilmente al colpo di stato del 2 dicembre, alla soppressione del Parlamento, alla fine del suo proprio dominio, alla dittatura di Bonaparte. Al suono degli applausi del 25 novembre rispose il tuono dei cannoni del 4 dicembre, e la casa del signor Sallandrouze, il quale aveva applaudito con maggiore entusiasmo, venne distrutta dal maggior numero di bombe.

Cromwell, quando sciolse il Lungo parlamento, si recò da solo in mezzo ad esso; cavò di tasca l'orologio, affinché il Parlamento non vivesse un minuto di più di quanto egli aveva fissato; e scacciò ogni singolo membro con oltraggi serenamente umoristici. Napoleone, inferiore al suo modello, per lo meno, il 18 brumaio si recò nell'Assemblea legislativa e le lesse, sia pure con voce turbata, la sua sentenza di morte. Il secondo Bonaparte, che del resto era in possesso di un potere esecutivo ben diverso da quello di Cromwell o di Napoleone, non cercò il suo modello negli annali della storia, ma negli annali della Società del 10 dicembre, negli annali della giustizia criminale. Rubò alla banca di Francia 25 milioni di franchi; comprò il generale Magnan con un milione, i soldati con 15 franchi a testa e con acquavite; si riunì la notte, di nascosto, come un ladro, con i suoi complici; fece invadere le case dei capi parlamentari più pericolosi e strappare dai loro letti Cavaignac, Lamoricière, Leflô, Changarnier, Charras, Thiers, Baze, ecc, fece occupare militarmente le piazze principali di Parigi e l'edificio del Parlamento, e affiggere al mattino su tutti i muri manifesti ciarlataneschi, in cui si annunciava lo scioglimento dell'Assemblea nazionale e del Consiglio di Stato, il ristabilimento del suffragio universale e la messa in stato d'assedio del dipartimento della Senna. Poco dopo fece inserire nel Moniteur un documento falso, secondo il quale un certo numero di parlamentari influenti si erano riuniti attorno a lui in una Consulta di stato.

I resti del Parlamento, composti soprattutto di legittimisti e di orleanisti, si riunirono nella sede della municipalità del decimo mandamento, e al grido ripetuto di "Viva la repubblica", decisero la destituzione di Bonaparte; arringarono invano la folla che stazionava davanti all'edificio e, infine, vennero trascinati, sotto la scorta dei cacciatori d'Africa, nella caserma d'Orsay, e poi stivati nelle vetture cellulari e trasportati nelle prigioni di Mazas, Ham e Vincennes. Così finivano il partito dell'ordine, l'Assemblea legislativa e la Rivoluzione di febbraio. Prima di passare alla conclusione, diamo uno schema riassuntivo della loro storia

I - Primo periodo. Dal 24 febbraio al 4 maggio 1848. Periodo di febbraio. Prologo. Frenesia di fratellanza universale.


II - Secondo periodo. Periodo della Costituzione della repubblica e dell'Assemblea nazionale costituente.

1. dal 4 maggio al 25 giugno 1848. Lotta di tutte le classi contro il proletariato. Disfatta del proletariato nelle giornate di giugno.

2. dal 25 giugno al 10 dicembre 1848. Dittatura dei repubblicani borghesi puri. Elaborazione della Costituzione. Stato d'assedio a Parigi. La dittatura della borghesia viene liquidata dall'elezione di Bonaparte a presidente.

3. dal 20 dicembre 1848 al 29 maggio 1849. Lotta della Costituente contro Bonaparte e contro il partito dell'ordine alleato con Bonaparte. Fine della Costituente. Caduta della borghesia repubblicana.


III - Terzo periodo. Periodo della repubblica costituzionale e dell'Assemblea nazionale legislativa.

1. dal 29 maggio 1849 al 13 giugno 1849. Lotta dei piccoli borghesi contro la borghesia e contro Bonaparte. Disfatta della democrazia piccolo-borghese.

2. dal 13 giugno 1849 al 31 maggio 1850. Dittatura parlamentare del partito dell'ordine. Questo partito corona il proprio dominio con la soppressione del suffragio universale, ma perde il ministero parlamentare.

3. dal 31 maggio 1850 al 2 dicembre 1851. Lotta tra borghesia parlamentare e Bonaparte.

a. dal 31 maggio 1850 al 12 gennaio 1851. Il Parlamento perde il comando supremo dell'esercito.

b. dal 12 gennaio all'11 aprile 1851. Il Parlamento è sconfitto nei suoi tentativi di impadronirsi nuovamente del potere amministrativo. Il partito dell'ordine perde la sua maggioranza parlamentare indipendente. Sua coalizione coi repubblicani e con la Montagna.

c. dall'11 aprile al 9 ottobre 1851. Tentativi di revisione, di fusione e di proroga. Il partito dell'ordine si decompone nel suoi singoli elementi costitutivi. La rottura del Parlamento borghese e della stampa borghese con la massa della borghesia diventa definitiva.

d. dal 9 ottobre al 2 dicembre 1851. Rottura aperta tra il Parlamento e il potere esecutivo. Il Parlamento formula il proprio atto di decesso e soccombe, abbandonato dalla sua propria classe, dall'esercito e dalle altre classi. Fine del. regime parlamentare e del dominio della borghesia. Vittoria di Bonaparte. Parodia di restaurazione imperiale

VII

Alla soglia della rivoluzione di febbraio la repubblica sociale era apparsa come frase, come profezia. Nelle giornate di giugno del 1848 venne soffocata nel sangue del proletariato di Parigi; ma essa è presente come uno spettro nei successivi atti del dramma. Si annuncia poi la repubblica democratica. Essa sparisce il 13 giugno 1849 assieme ai suoi piccoli borghesi sgominati; ma nella fuga essa sparge dietro a sé una pubblicità tanto più rumorosa. La repubblica parlamentare si impadronisce con la borghesia di tutta la scena; gode di tutta la pienezza della sua esistenza, ma il 2 dicembre del 1851 la sotterra, mentre i monarchici coalizzati gridano con angoscia: "Viva la repubblica!".

La borghesia francese, inalberatasi contro il dominio del proletariato lavoratore, ha messo al potere il sottoproletariato, guidato dal capo della Società del 10 dicembre. La borghesia aveva tenuto la Francia ansante di sgomento per i futuri orrori dell'anarchia rossa: Bonaparte le ha scontato questo avvenire il 4 dicembre, facendo prendere a fucilate alle loro finestre, dall'esercito dell'ordine ubriaco di acquavite, i rispettabili borghesi del Boulevard Montmartre e del Boulevard des Italiens. La borghesia aveva fatto l'apoteosi della spada: la spada domina. Aveva distrutto la stampa rivoluzionaria: la sua stessa stampa viene distrutta. Aveva posto le riunioni popolari sotto il controllo della polizia: ora stanno sotto il controllo della polizia i suoi salotti. Aveva sciolto le Guardie nazionali democratiche: viene sciolta la sua propria Guardia nazionale. Aveva proclamato lo stato d'assedio: lo stato d'assedio viene proclamato contro di essa. Aveva sostituito alle giurie commissioni militari: ora sono le sue giurie che vengono sostituite da commissioni militari.

Aveva affidato ai preti l'istruzione popolare: ora sono i preti che le impongono la loro propria istruzione. Aveva deportato senza giudizio e senza giudizio viene deportata. Aveva represso con la forza pubblica ogni moto sociale: ora viene represso dalla forza pubblica ogni movimento della sua società. Per amore della sua borsa si era ribellata contro i propri uomini politici e scrittori: ora i suoi uomini politici e i suoi scrittori sono stati eliminati, e dopo che la si è imbavagliata e che si è spezzata la sua penna si mette a sacco anche la sua borsa. La borghesia non si era stancata di gridare alla rivoluzione come sant'Arsenio ai cristiani: "Fuge! Tace! Quiesce! Fuggi, taci, sta tranquillo!". Ed ora è Bonaparte che grida alla borghesia: "Fuge! Tace! Quiesce! Fuggi, taci, sta tranquilla!".

La borghesia francese aveva risolto da tempo il dilemma di Napoleone: Dans cinquante ans l'Europe sera républicaine ou cosaque. Essa lo aveva risolto con la République cosaque. Non è stata una Circe a trasformare in mostro con un maleficio il capolavoro della repubblica borghese. Questa repubblica non ha perduto altro che l'apparenza della rispettabilità. La Francia di oggi era già tutta intiera nella repubblica parlamentare. Era sufficiente un colpo di baionetta perché la vescica scoppiasse e il mostro apparisse agli occhi di tutti.

Perché il proletariato di Parigi non insorse dopo il 2 dicembre?

La caduta della borghesia era stata soltanto decretata; il decreto non era ancora stato portato a esecuzione. Ogni seria insurrezione del proletariato le avrebbe dato nuova vita, l'avrebbe riconciliata con l'esercito e avrebbe valso agli operai una seconda disfatta di giugno.

Il 4 dicembre il proletariato venne incitato alla lotta dai borghesi e dagli épiciers. La sera dello stesso giorno parecchie legioni della Guardia nazionale promisero di scendere in campo armate e in uniforme. Borghesi e épiciers, infatti, avevano finito per accorgersi che Bonaparte, in uno dei suoi decreti del 2 dicembre, sopprimeva il voto segreto e imponeva loro di scrivere nei registri ufficiali il loro sì o il loro no accanto al loro nome. La resistenza del 4 dicembre intimidì Bonaparte. Durante la notte egli fece affiggere agli angoli di tutte le strade di Parigi dei manifesti che annunciavano il ristabilimento del voto segreto. Borghesi e épiciers credettero di aver raggiunto il loro scopo e il mattino seguente chi non si presentò furono gli épiciers e i borghesi.

Il proletariato parigino era stato privato dei suoi dirigenti, dei capi delle barricate, da un colpo di mano eseguito da Bonaparte nella notte fra l'1 e il 2 dicembre. Esercito senza ufficiali, al quale le reminiscenze del giugno 1848 e 1849 e del maggio 1850 toglievano ogni voglia di battersi sotto la bandiera dei montagnardi, esso lasciò alla sua avanguardia, alle società segrete, il compito di salvare l'onore insurrezionale di Parigi, onore che la borghesia parigina aveva abbandonato alla soldatesca con tanta facilità che Bonaparte, in seguito, poté disarmare la Guardia nazionale allegando sarcasticamente che temeva le sue armi non venissero adoperate dagli anarchici contro di essa.

"C'est le triomphe complet et définitif du socialisme". Così Guizot caratterizzò il 2 dicembre. Ma se è vero che la caduta della repubblica parlamentare contiene in germe il trionfo della rivoluzione proletaria, il suo primo risultato tangibile fu la vittoria di Bonaparte sul Parlamento, del potere esecutivo sul potere legislativo, della forza senza frase sulla forza della frase. Nel Parlamento la nazione elevava la sua volontà generale all'altezza di legge, cioè faceva della legge della classe dominante la sua volontà generale. Davanti al potere esecutivo essa rinuncia a ogni propria volontà e si sottopone alle ingiunzioni di un estraneo, all'autorità; il potere esecutivo, in opposizione al potere legislativo, esprime l'eteronomia della nazione, in opposizione alla sua autonomia. La Francia sembra dunque sia sfuggita al dispotismo di una classe soltanto per ricadere sotto il dispotismo di un individuo, e precisamente sotto l'autorità di un individuo privo di autorità. La lotta sembra dunque essersi calmata perché tutte le classi, egualmente impotenti e mute, si inginocchiano davanti ai calci dei fucili.

Ma la rivoluzione va fino al fondo delle cose. Sta ancora attraversando il purgatorio. Lavora con metodo. Fino al 2 dicembre non ha condotto a termine che la prima metà della sua preparazione; ora sta compiendo l'altra metà. Prima ha elaborato alla perfezione il potere parlamentare, per poterlo rovesciare. Ora che ha raggiunto questo risultato, essa spinge alla perfezione il potere esecutivo, lo riduce alla sua espressione più pura, lo isola, se lo pone di fronte come l'unico ostacolo, per concentrare contro di esso tutte le sue forze di distruzione. E quando la rivoluzione avrà condotto a termine questa seconda metà del suo lavoro preparatorio, l'Europa balzerà dal suo seggio e griderà: Ben scavato, vecchia talpa!

Questo potere esecutivo, con la sua enorme organizzazione burocratica e Militare, col suo meccanismo statale complicato e artificiale, con un esercito di impiegati di mezzo milione accanto a un altro esercito di mezzo milione di soldati, questo spaventoso corpo parassitario che avvolge come un involucro il corpo della società francese e ne ostruisce tutti i pori, si costituì nel periodo della monarchia assoluta, al cadere del sistema feudale, la cui caduta aiutò a rendere più rapida. I privilegi signorili della proprietà fondiaria e delle città si trasformarono in altrettanti attributi del potere dello Stato, i dignitari feudali si trasformarono in funzionari stipendiati, e la variopinta collezione dei contraddittori diritti sovrani medioevali divenne il piano ben regolato di un potere dello Stato, il cui lavoro è suddiviso e centralizzato come in un'officina.

La prima Rivoluzione francese, a cui si poneva il compito di spezzare tutti i poteri indipendenti di carattere locale, territoriale, cittadino e provinciale, al fine di creare l'unità borghese della nazione, dovette necessariamente sviluppare ciò che 1a monarchia assoluta aveva incominciato: l'accentramento; e in pari tempo dovette sviluppare l'ampiezza gli attributi e gli strumenti del potere governativo. Napoleone portò alla perfezione questo meccanismo dello Stato. La monarchia legittima e la monarchia di luglio non vi aggiunsero nulla, eccetto una più grande divisione del lavoro, che si sviluppava nella stessa misura in cui la divisione del lavoro nell'interno della società borghese creava nuovi gruppi di interessi, e quindi nuovo materiale per l'amministrazione dello Stato. Ogni interesse comune fu subito staccato dalla società e contrapposto ad essa come interesse generale, più alto, strappato all'iniziativa individuale dei membri della società e trasformato in oggetto di attività del governo, a partire dal ponti, dagli edifici scolastici e dai beni comunali del più piccolo villaggio, sino alle ferrovie, al patrimonio nazionale e all'Università di Francia. La repubblica parlamentare, infine, si vide costretta a rafforzare, nella sua lotta contro la rivoluzione, assieme alle misure di repressione, gli strumenti e la centralizzazione del potere dello Stato. Tutti i rivolgimenti politici non fecero che perfezionare questa macchina, invece di spezzarla. I partiti che successivamente lottarono per il potere considerarono il possesso di questo enorme edificio dello Stato come il bottino principale del vincitore.

Ma sotto la monarchia assoluta, durante la prima rivoluzione, sotto Napoleone, la burocrazia era stata soltanto un mezzo per preparare il dominio di classe della borghesia. Sotto la Restaurazione, sotto Luigi Filippo, sotto la repubblica parlamentare, essa era stata lo strumento della classe dominante, per quanto grandi fossero i suoi sforzi per diventare un potere indipendente.

È soltanto sotto il secondo Bonaparte che lo Stato sembra essere diventato completamente indipendente. La macchina dello Stato si è talmente rafforzata di fronte alla società borghese, che le basta avere alla sua testa il capo della Società del 10 dicembre, un avventuriero qualsiasi venuto dal di fuori, levato sugli scudi da una soldatesca ubriaca, che egli ha comprato con acquavite e salsicce, e a cui deve continuamente gettare altra salsiccia. Di qui la cupa disperazione, il senso di umiliazione infinita e di degradazione che stringe la Francia alla gola e le mozza il respiro. La Francia si sente come disonorata.

Eppure il potere esecutivo non è sospeso nel vuoto. Bonaparte rappresenta una classe, anzi, la classe più numerosa della società francese, i contadini' piccoli proprietari.

Come i Borboni furono la dinastia della grande proprietà fondiaria, come gli Orléans furono la dinastia del denaro, così i Bonaparte sono la dinastia dei contadini, cioè della massa del popolo francese. E l'eletto dei contadini non è il Bonaparte che si sottomette al Parlamento borghese, ma il Bonaparte che dà lo sfratto a questo Parlamento. Per tre anni le città erano riuscite a falsificare il senso dell'elezione del 10 dicembre ed a frodare ai contadini la restaurazione dell'Impero. L'elezione del 10 dicembre 1848 ha trovato il suo coronamento soltanto nel colpo di stato del 2 dicembre 1851.

I contadini piccoli proprietari costituiscono una massa enorme, i cui membri vivono nella stessa situazione, ma senza essere uniti gli uni agli altri da relazioni molteplici. Il loro modo di produzione, anziché stabilire tra di loro rapporti reciproci, li isola gli uni dagli altri. Questo isolamento è aggravato dai cattivi mezzi di comunicazione della Francia e dalla povertà dei contadini stessi. Il loro campo di produzione, il piccolo appezzamento di terreno, non consente nessuna divisione di lavoro nella sua coltivazione, nessuna applicazione di procedimenti scientifici e quindi nessuna varietà di sviluppo, nessuna diversità di talenti, nessuna ricchezza di rapporti sociali. Ogni singola famiglia contadina è quasi sufficiente a se stessa, produce direttamente la maggior parte di ciò che consuma, e guadagna quindi i suoi mezzi di sussistenza più nello scambio con la natura che nel commercio con la società. Un piccolo appezzamento di terreno, il contadino e la sua famiglia; un po' più in là un altro piccolo appezzamento di terreno, un altro contadino e un'altra famiglia. Alcune diecine di queste famiglie costituiscono un villaggio e alcune diecine di villaggi un dipartimento. Così la grande massa della nazione francese si forma con una semplice somma di grandezze identiche, allo stesso modo che un sacco di patate risulta dalle patate che sono in un sacco.

Nella misura in cui milioni di famiglie vivono in condizioni economiche tali che distinguono il loro modo di vita, i loro interessi e la loro cultura da quelli di altre classi e li contrappongono ad esse in modo ostile, esse formano una classe. Ma nella misura in cui tra i contadini piccoli proprietari esistono soltanto legami locali e la identità dei loro interessi non crea tra di loro una comunità, una unione politica su scala nazionale e una organizzazione politica, essi non costituiscono una classe. Sono quindi incapaci di far valere i loro interessi nel loro proprio nome, sia attraverso un Parlamento, sia attraverso una Convenzione. Non possono rappresentare se stessi; debbono farsi rappresentare. Il loro rappresentante deve in pari tempo apparire loro come il loro padrone, come un'autorità che si impone loro, come un potere governativo illimitato, che li difende dalle altre classi e distribuisce loro dall'alto il sole e la pioggia. L'influenza politica del contadino piccolo proprietario trova quindi la sua ultima espressione nel fatto che il potere esecutivo subordina la società a se stesso.

La tradizione storica ha fatto sorgere nei contadini francesi la credenza miracolistica che un uomo chiamato Napoleone renderà loro tutto il loro splendore. E si è trovato un individuo il quale, dato che porta il nome di Napoleone, ha potuto spacciarsi per quest'uomo, conformemente al codice Napoleone, il quale stabilisce: "La recherche de la paternité est interdite". Dopo un vagabondaggio di venti anni e una serie di avventure grottesche, la leggenda diventa realtà e l'uomo diventa imperatore dei francesi. L'idea fissa del nipote si è realizzata, perché essa coincideva con l'idea fissa della classe più numerosa della popolazione francese .

Ma, mi si obbietterà, e le insurrezioni di contadini in una metà della Francia, la caccia data dall'esercito ai contadini, e le incarcerazioni e le deportazioni in massa dei contadini?

Dai tempi di Luigi XIV la Francia non ha mai conosciuto una persecuzione di contadini "per mene demagogiche", simile a questa.

Intendiamoci. La dinastia dei Bonaparte non rappresenta il contadino rivoluzionario, ma il contadino conservatore; non il contadino che vuole liberarsi dalle sue condizioni di esistenza sociale, dal suo piccolo appezzamento di terreno, ma quello che vuole consolidarli; non quella parte della popolazione delle campagne che vuole rovesciare la vecchia società con la sua propria energia, d'accordo con le città, ma quella che invece, ciecamente confinata in questo vecchio ordinamento, vuole essere salvata e ricevere una posizione privilegiata, insieme col suo piccolo pezzo di terreno, dal fantasma dell'Impero. Essa non rappresenta la cultura progressiva, ma la superstizione del contadino, non il suo giudizio, ma il suo pregiudizio, non il suo avvenire, ma il suo passato, non le sue moderne Cévennes, ma la sua moderna Vandea.

I tre anni di duro dominio della repubblica parlamentare avevano liberato una parte dei contadini francesi dalla illusione napoleonica e l'avevano resa rivoluzionaria, sebbene ancora solo superficialmente. Ma ogni volta che essi si misero in movimento, la borghesia li respinse indietro con la violenza. Sotto la repubblica parlamentare la coscienza moderna dei contadini francesi si urtò con la loro coscienza tradizionale. Il processo si svolse nella forma di una lotta continua tra i maestri di scuola e i preti. La borghesia batte i maestri di scuola. Per la prima volta i contadini fecero degli sforzi per avere una posizione indipendente dinanzi all'azione del governo. Ciò apparve nei conflitti continui tra i sindaci e i prefetti. La borghesia destituì i sindaci. Infine, durante il periodo della repubblica parlamentare, i contadini si sollevarono in parecchie località contro la loro stessa progenitura, l'esercito. La borghesia li punì con gli stati d'assedio e con le vendite all'asta. E questa stessa borghesia grida ora contro la stupidità delle masse, della vile multitude che l'ha tradita in favore di Bonaparte. Ma essa stessa ha rafforzato con la violenza le simpatie della classe dei contadini per l'Impero; ha conservato le condizioni che hanno dato origine a questa religione dei contadini. Vero è che la borghesia è costretta ad aver paura della stupidità delle masse sino a che queste rimangono conservatrici, ed è costretta ad aver paura della loro intelligenza non appena diventano rivoluzionarie.

Nelle rivolte che ebbero luogo dopo il coup d'état, una parte dei contadini francesi protestò, con le armi alla mano contro il proprio voto del 10 dicembre 1848. L'esperienza fatta dopo il 1848 li aveva scaltriti. Ma essi si erano venduti agli dèi infernali della storia; la storia li prese in parola e la maggioranza era ancora così accecata che, proprio nei dipartimenti più rossi, la popolazione contadina votò apertamente per Bonaparte. Secondo il loro modo di vedere, l'Assemblea nazionale gli aveva impedito di muoversi. Egli ora non aveva fatto altro che spezzare le catene che le città avevano imposto al volere della campagna. In alcuni luoghi essi nutrivano persino l'idea grottesca di porre accanto a Napoleone una Convenzione.

Dopo che la prima rivoluzione ebbe trasformato i contadini semiservi in liberi proprietari di terra, Napoleone aveva consolidato e regolato le condizioni in cui essi potevano sfruttare in pace il suolo della Francia caduto nelle loro mani e soddisfare la loro giovane passione per la proprietà. Ma ciò che porta oggi alla rovina il contadino francese è il suo stesso piccolo appezzamento di terreno, la ripartizione del suolo, la forma di proprietà che Napoleone ha consolidato in Francia. Sono state le condizioni materiali che hanno fatto del contadino feudale francese un contadino piccolo proprietario e di Napoleone un imperatore. Due generazioni sono bastate per produrre, come risultato inevitabile, il peggioramento progressivo dell'agricoltura e l'indebitamento progressivo dell'agricoltore. La forma di proprietà "napoleonica" che, all'inizio del secolo decimonono, era la condizione per la liberazione e per l'arricchimento della popolazione francese delle campagne è diventata, nel corso di questo secolo, la legge della schiavitù e del suo impoverimento. Ed è precisamente questa legge la prima delle "idées napoléoniennes" che il secondo Bonaparte deve difendere. Se egli condivide ancora con i contadini l'illusione che non nella piccola proprietà stessa, ma al di fuori di essa, nell'influenza di circostanze secondarie, debba essere ricercata la causa della rovina di questa proprietà, i suoi esperimenti scoppieranno come bolle di sapone, al contatto con i rapporti di produzione.

Lo sviluppo economico della piccola proprietà ha radicalmente capovolto i rapporti tra i contadini e le altre classi della società. Sotto Napoleone il frazionamento della terra era nelle campagne il complemento della libera concorrenza e dell'inizio della grande industria nelle città. La classe dei contadini era una protesta onnipresente contro l'aristocrazia fondiaria da poco rovesciata. Le radici che la piccola proprietà aveva gettato nel suolo della Francia avevano tolto ogni alimento al feudalesimo. I limiti di questa proprietà costituivano la fortezza naturale della borghesia contro ogni ritorno offensivo dei suoi antichi signori. Ma nel corso del secolo decimonono il posto del signore feudale è stato preso dall'usuraio della città, il posto della servitù feudale della gleba dalle ipoteche, il posto della grande proprietà aristocratica dal capitale borghese. Ormai, il piccolo appezzamento del contadino è soltanto il pretesto che permette al capitalista di cavare profitto, interesse e rendita dal terreno, lasciando all'agricoltore la cura di vedere come può tirarne fuori il proprio salario. Il debito ipotecario che grava in Francia sulla terra impone ai contadini francesi il pagamento di un interesse eguale all'interesse annuale di tutto il debito pubblico dell'Inghilterra. La piccola proprietà, in questa schiavitù del capitale a cui la spinge inevitabilmente il suo sviluppo, ha trasformato la massa della nazione francese in trogloditi. Sedici milioni di contadini (comprese le donne e i bambini) vivono in caverne, di cui una grande parte ha una sola apertura, altre solo due e le migliori non ne hanno più di tre. Le finestre sono per una casa ciò che i cinque sensi sono per la testa. L'ordine borghese che, al principio del secolo decimonono, fece dello Stato la sentinella della piccola proprietà appena formata e la concimò di allori, è diventato un vampiro che le succhia il sangue e il midollo, che la getta nel, crogiuolo da alchimista dei capitale. Il Code Napoléon non è più altro che il codice del sequestro, della vendita all'asta e della messa all'incanto. Ai quattro milioni (compresi i bambini, ecc.) di poveri ufficialmente riconosciuti, di vagabondi, di delinquenti e di prostitute che conta la Francia, si devono aggiungere cinque milioni che si trascinano sull'orlo dell'abisso e vivono in campagna oppure si trasferiscono continuamente, coi loro stracci e coi loro bambini, dalla campagna alle città e dalle città alla campagna. L'interesse dei contadini non è quindi più, come ai tempi di Napoleone, in accordo, ma in contrasto con gli interessi della borghesia col capitale. Essi trovano quindi il loro naturale alleato e dirigente nel proletariato urbano, il cui compito è il rovesciamento dell'ordine borghese. Ma il governo forte e assoluto - e questa è la seconda "idée napoléonienne" che il secondo Napoleone deve mettere in pratica, - è chiamato a difendere con la forza questo ordine "materiale". Questo "ordre matériel" è persino diventato la parola d'ordine fondamentale in tutti i problemi di Bonaparte contro i contadini in rivolta.

Assieme all'ipoteca, che vien fatta gravare dal capitale sul piccolo appezzamento di terreno, grava su questo il peso dell'imposta. L'imposta è la sorgente di vita della burocrazia, dell'esercito, dei preti e della corte, in breve, di tutto l'apparato del potere esecutivo. Governo forte e imposte forti sono la stessa cosa. La piccola proprietà è adatta, per la sua stessa natura, a servire di base a una burocrazia onnipotente e innumerevole. Essa crea su tutta la estensione del paese un livello eguale di rapporti e di persone: permette quindi di agire in egual modo su tutti i punti di questa massa uniforme partendo da un centro supremo. Essa distrugge gli strati aristocratici intermedi tra la massa del popolo e il potere dello Stato: provoca quindi dappertutto l'intervento diretto di questo potere dello Stato e l'ingerenza dei suoi organi diretti. Crea infine una popolazione in soprannumero, senza lavoro, che non trova posto né in campagna né in città, che ricerca quindi gli impieghi dello Stato come una specie di elemosina onorevole e ne provoca la creazione. Aprendo con la baionetta nuovi mercati e saccheggiando il Continente, Napoleone rimborsò ad usura le imposte forzose. Queste imposte erano allora uno stimolo per l'industria del contadino, mentre ora esse privano il contadino delle ultime risorse della sua industria e finiscono per renderlo del tutto impotente di fronte al pauperismo. E una enorme burocrazia, ben gallonata e ben nutrita, è la "ìdée napoléonienne" che maggiormente sorride al secondo Bonaparte. Come potrebbe essere diversamente, dal momento che egli è costretto a dar vita, accanto alle classi reali della società, a una casta artificiale, per la quale il mantenimento del suo regime diventa una questione di pasto quotidiano?. Perciò una delle sue prime operazioni finanziarie è consistita nel riportare gli stipendi degli impiegati al loro vecchio livello e nella creazione di nuove sinecure.

Un'altra "idée napoléonienne" è il dominio dei preti come mezzo di governo. Ma se la piccola proprietà appena sorta, nel suo accordo con la società, nella sua dipendenza delle forze della natura e nella sua sottomissione all'autorità che la difendeva dall'alto, era naturalmente religiosa, la piccola proprietà rovinata dai debiti, in rottura con la società e con l'autorità, spinta al di là della sua grettezza, è naturalmente irreligiosa. Il Cielo era un supplemento gradito per il piccolo pezzo di terreno appena conquistato, tanto più che ad esso erano dovuti il buono e il cattivo tempo; ma diventa un insulto quando lo si vuole imporre come risarcimento per il pezzo di terreno stesso. Ormai il prete appare allora soltanto come il consacrato segugio della polizia terrena - un'altra "idée napoléonienne". La spedizione contro Roma avrà luogo la volta prossima nella Francia stessa, ma in senso opposto a quello che vorrebbe il signor di Montalembert.

Il punto culminante delle "idées napoléoniennes" è, finalmente, la preponderanza dell'esercito. L'esercito era il point d'honneur del piccolo contadino: era il piccolo contadino stesso trasformato in eroe, che difendeva la nuova forma di proprietà contro lo straniero, esaltava la sua nazionalità da poco conquistata, saccheggiava il mondo e vi portava la rivoluzione. L'uniforme militare era la sua pubblica divisa; la guerra. la sua poesia; la patria era il piccolo appezzamento prolungato e arrotondato dalla fantasia; il patriottismo era la forma ideale del sentimento di proprietà. Ma i nemici contro cui il contadino francese deve difendere oggi la sua proprietà non sono più i cosacchi; sono gli huissiers e gli agenti delle imposte. Il piccolo appezzamento di terreno non si trova più nella cosiddetta patria, ma nel registro delle ipoteche. L'esercito stesso non è più il fiore della gioventù contadina; è l'infiorescenza di palude del sottoproletariato agricolo. Esso si compone in gran parte di remplaçants, di sostituti, che prendono il posto di altri, così come il secondo Bonaparte è anche lui soltanto un remplaçant, un surrogato di Napoleone. Le sue azioni eroiche consistono ora nelle caccie e nelle battute contro i contadini, nel servizio di gendarmeria; e se le contraddizioni interne del suo sistema spingeranno il capo della Società del 10 dicembre al di là dei confini della Francia, dopo aver compiuto alcuni atti di banditismo, l'esercito non raccoglierà allori, ma legnate.

Come si vede, tutte le "idées napoléoniennes" sono idee della piccola proprietà non ancora sviluppata, giovanilmente fresca; esse sono un controsenso per la piccola proprietà che sopravvive a se stessa. Esse non sono altro che allucinazioni della sua agonia, parole diventate frasi, spiriti diventati fantasmi. Ma la parodia dell'Impero era necessaria per liberare la massa della nazione francese dal peso della tradizione e per elaborare in tutta la sua purezza il contrasto tra il potere dello Stato e la società. Con la rovina crescente della piccola proprietà crolla tutto l'edificio dello Stato sopra di essa costruito. La centralizzazione statale di cui la società moderna ha bisogno può essere realizzata soltanto sulle rovine della macchina statale militare e burocratica che è stata forgiata nella lotta contro il feudalesimo.

La situazione dei contadini francesi ci spiega l'enigma delle elezioni generali del 20 e 21 dicembre, che condussero il secondo Bonaparte sulla cima del Sinai, non per ricevere delle leggi, ma per farne.

Alla borghesia non rimaneva evidentemente ora altra scelta che eleggere Bonaparte. Quando i puritani, nel Concilio di Costanza, lamentavano la vita dissoluta dei papi e strillavano circa la necessità di una riforma dei costumi, il cardinale Pierre d'Ailly gridò loro con voce di tuono: "Soltanto il diavolo in persona può salvare la Chiesa cattolica, e voi chiedete angeli". Così la borghesia francese ha gridato dopo il colpo di stato: "Soltanto il capo della Società del 10 dicembre può ancora salvare la società borghese! Soltanto il furto può ancora i salvare la proprietà; soltanto lo spergiuro può salvare la religione; il bastardume, la famiglia; il disordine, l'ordine!"

Bonaparte, come forza del potere esecutivo resosi indipendente, sente che la sua missione consiste nell'assicurare "l'ordine borghese". Ma la forza di quest'ordine borghese è la classe media. Egli si considera perciò rappresentante della classe media e in questo senso emana decreti. Ma egli è diventato qualche cosa soltanto perché ha spezzato il potere politico di questa classe media e ogni giorno torna a spezzarlo. Perciò si considera avversario del potere politico e letterario della classe media. Ma, proteggendone la forza materiale, ne crea di nuovo il potere politico. Dunque egli deve mantenere in vita la causa, sopprimere l'effetto dovunque si manifesti. Ma ciò non può avvenire senza qualche piccola confusione tra la causa e l'effetto, perché ambedue perdono, nell'azione reciproca, i loro tratti caratteristici. Quindi nuovi decreti, che cancellano la linea di demarcazione. In pari tempo Bonaparte si considera rappresentante dei contadini e del popolo in generale contro la borghesia e vuole, entro la società borghese, rendere felici le classi popolari inferiori. Ed ecco nuovi decreti, che frodano in anticipo i "veri socialisti" della loro sapienza governativa. Ma Bonaparte si considera soprattutto capo della Società del 10 dicembre, rappresentante del sottoproletariato, al quale appartengono egli stesso, il suo entourage, il suo governo e il suo esercito, e per il quale si tratta anzitutto di aver cura dei propri interessi e di trarre dal tesoro pubblico premi per la lotteria della California. E come capo della Società dei 10 dicembre, egli si afferma con decreti, senza decreti e malgrado i decreti.

Questo suo compito pieno di contraddizioni spiega le contraddizioni del suo governo, il confuso marciare a tastoni, i tentativi di guadagnare o di umiliare ora questa ora quella classe, che finiscono per sollevarle tutte ugualmente contro di lui; l'incertezza pratica che contrasta in modo comicissimo con lo stile imperativo, categorico, degli atti di governo, ricalcato servilmente su quello dello zio.

L'industria e il commercio, cioè gli affari della classe media, devono prosperare, sotto un governo forte, come in una serra calda. Una grande quantità di linee ferroviarie sono quindi date in concessione. Ma il sottoproletariato bonapartista deve arricchirsi. Di qui le speculazioni in borsa sulle concessioni ferroviarie da parte degli iniziati. Ma non si presenta nessun capitale per finanziare le ferrovie. Si obbligano quindi le banche a dare anticipi sulle azioni delle società ferroviarie. Ma in pari tempo Bonaparte deve sfruttare personalmente la Banca; perciò deve accarezzarla. Si libera quindi la Banca dall'obbligo di pubblicare settimanalmente i suoi bilanci. Contratto leonino della Banca col governo. Si deve dare lavoro al popolo. Si ordinano quindi dei lavori pubblici. Ma i lavori pubblici accrescono il carico fiscale del popolo. Riduzione delle imposte, quindi, a detrimento dei rentiers, con la conversione al quattro e mezzo per cento delle rendite al cinque per cento. Ma il ceto medio deve ricevere a sua volta douceur. Si raddoppia quindi l'imposta sul vino per il popolo che lo compra al minuto, e la si riduce alla metà per il ceto medio, che lo beve all'ingrosso. Scioglimento delle vere associazioni operaie, ma celebrazione delle meraviglie future dell'associazione. Si devono aiutare i contadini. Banche ipotecarie, quindi, che accelerino l'indebitamento dei contadini e la concentrazione della Proprietà. Ma queste banche devono servire per cavar denaro dai beni della casa di Orléans, confiscati. Nessun capitalista vuole accettare questa condizione, che non è espressa nel decreto, e la banca ipotecaria rimane un puro e semplice decreto, ecc., ecc.

Bonaparte vorrebbe apparire come il patriarcale benefattore di tutte le classi. Ma non può dar nulla all'una di esse senza prenderlo all'altra. Come al tempo della Fronda si diceva del Duca di Guisa, ch'egli era l'uomo più obligeant della Francia, perché aveva trasformato tutti i suoi beni in obbligazioni dei suoi seguaci verso di sé, cosi Bonaparte vorrebbe essere l'uomo più obligeant della Francia e trasformare tutta la proprietà, tutto il lavoro della Francia, in un'obbligazione verso di sé. Egli vorrebbe rubare tutta la Francia, per farne un regalo alla Francia, o piuttosto per poter comprare la Francia con denaro francese, perché come capo della Società del 10 dicembre, deve comprare ciò che gli deve appartenere. E allo scopo di comprare servono tutte le istituzioni dello Stato: il Senato, il Consiglio di Stato, il Corpo legislativo, la Legion d'onore, la medaglia militare, i lavatoi e gli edifici pubblici, le ferrovie, lo état major della Guardia nazionale senza soldati, i beni confiscati della casa di Orléans. Ogni posto nell'esercito e nell'apparato governativo diventa strumento di una compera. L'essenziale però, in questo procedimento per cui la Francia viene derubata per farle dei regali, sono le percentuali che durante tale circolazione cadono nelle mani del capo e dei membri della Società del 10 dicembre. Il motto di spirito con cui la contessa L., l'amante del signor di Morny, ha definito la confisca dei beni degli Orléans: "C'est le premier vol de l'aigle", si adatta ad ognuno dei voli di quest'aquila, che è piuttosto un corvo. Egli stesso e i suoi seguaci si ripetono ogni giorno le parole dette dal certosino italiano all'avaro che enumerava pomposamente i beni che per anni ancora gli restavano da divorare: "Tu fai conto sopra i beni; bisogna prima fare i conti sopra gli anni". Per non sbagliarsi nel calcolo degli anni, costoro contano i minuti. Alla corte, nei ministeri, alla testa dell'amministrazione e dell'esercito si accalca una massa di individui, del migliore dei quali si può dire che non si sa donde venga; una bohème turbolenta, malfamata, avida di saccheggio che strisciando indossa abiti gallonati, con la stessa dignità grottesca dei grandi dignitari di Soulouque. Ci si può fare un'idea di questo strato superiore della Società del 10 dicembre se si pensa che Véron-Crevell è il suo moralista e Granier de Cassagnac il suo pensatore. Quando Guizot, al tempo del suo ministero, si serviva di questo Granier in un foglio equivoco contro l'opposizione dinastica, era solito farne l'elogio dicendo: "C'est le roi des drôles", "è il re dei furfanti". Non sarebbe giusto ricordare, a proposito della corte e della tribù di Luigi Bonaparte, la Reggenza di Luigi XV. Perché la "Francia ha conosciuto un numero abbastanza grande di governi di mantenute ma non aveva ancora mai avuto un governo di hommes entretenus".

Spinto dalle esigenze contraddittorie della sua situazione e costretto, in pari tempo, come un giocatore di prestigio, a tener gli occhi del pubblico fissi sopra di sé con delle continue sorprese, come surrogato di Napoleone, e a far quindi ogni giorno un colpo di stato in miniatura, Bonaparte sconvolge tutta l'economia borghese; mette le mani su tutto ciò che era parso intangibile alla Rivoluzione del 1848; rende gli uni rassegnati alla rivoluzione e gli altri desiderosi di una rivoluzione; in nome dell'ordine crea l'anarchia, spogliando in pari tempo la macchina dello Stato della sua aureola, profanandola, rendendola repugnante e ridicola. Egli rinnova a Parigi il culto della sacra tunica di Treviri sotto la forma di culto del mantello imperiale di Napoleone. Ma quando il mantello imperiale cadrà finalmente sulle spalle di Luigi Bonaparte, la statua di bronzo di Napoleone precipiterà dall'alto della colonna Vendôme.