DISCESA NEGLI ABISSI

L'avventura sottomarina del batiscafo "Trieste".

di Gianluca Casagrande



Qualcuno dei vecchi operai di allora ricorda ancora il Professore. Una figura magra e seriosa, dietro gli occhiali. A Monfalcone su August Piccard c'erano opinioni divergenti. I bene informati dicono che i rapporti con le maestranze, tutto sommato, fossero ottimi: ma qualcuno aveva affibbiato al Professore il nomignolo di "Greta Sgarbo" e la cosa aveva avuto successo. 
Il sistema comunque funzionava benissimo: i tecnici e gli operai italiani erano la miglior squadra che Piccard avesse mai trovato da quando si occupava di batiscafi; e dalla sua aveva, invece, il carattere pragmatico e la padronanza della teoria. 
Nel 1952, ai cantieri della "San Marco" di Trieste, col finanziamento di un gruppo privato, era in allestimento un batiscafo per grandi profondità; all'operazione partecipavano anche le Acciaierie di Terni e la Navalmeccanica di Castellamare.

Un aspetto peculiare della macchina era la sua completa indipendenza per la navigazione subacquea; si trattava di esperimenti che ormai Piccard conduceva da tempo, pur con alterna fortuna. Il "Trieste" doveva potersi comportare, sott'acqua, come un sommergibile perfettamente autonomo quanto alle manovre: ma doveva poter raggiungere profondità impensabili per un normale mezzo sottomarino. 
Lo scopo era portare due uomini nella profondità degli abissi, a quote mai raggiunte prima di allora. 

Il Trieste misurava 18 metri in lunghezza, 3,50 in larghezza e il suo dislocamento normale era di 150 tonnellate.
L'architettura ideata da Piccard era, concettualmente, piuttosto semplice. 
Lo scafo era cilindrico, sormontato dalla torretta di accesso e dal relativo tunnel fino all'abitacolo vero e proprio. Questo era sferico ed installato al di sotto dello scafo.
All'interno del cilindro erano ricavati 6 serbatoi. Quattro venivano riempiti con benzina avio che fungeva da liquido idrostatico. Incomprimibile, ma più leggera dell'acqua, la benzina avrebbe fornito alla macchina una certa spinta positiva (cioè una tendenza a salire). 
Per immergersi, il "Trieste" poteva imbarcare acqua negli altri due serbatoi e anche, all'occorrenza, in quelli della benzina. Un ulteriore appesantimento era dato inizialmente da una zavorra in sfere d'acciaio.
Queste ultime erano contenute nello scafo con un sistema di elettrocalamite, attivate dalle stesse batterie dei motori di manovra. In caso di malfunzionamento, la smagnetizzazione delle chiusure avrebbe rilasciato la zavorra, facendo riemergere da solo il batiscafo. 
Chiave di tutto era la perfezione strutturale.
La cabina, una sfera di acciaio fusa in un sol pezzo, doveva essere completamente priva di cricche o disomogeneità del materiale. A 3000 metri di profondità, una bollicina d'aria nella lega metallica, o una qualunque imperfezione, avrebbero facilmente ceduto. La pressione esterna avrebbe sparato dentro un getto d'acqua come "una raffica di mitraglia", subito prima che l'intero abitacolo implodesse.

I lavori si conclusero nel 1953. Il "Trieste" iniziò le prove in mare nell'estate. Il batiscafo veniva accompagnato da una nave appoggio che restava in zona per effettuare il recupero: ma non c'era alcun vincolo fra le due macchine. 
Le prime immersioni servirono a collaudare il natante e le procedure di supporto; ma anche ad addestrare il pilota del veicolo: Jacques Piccard, il figlio poco più che ventenne del grande progettista. 

La prima immersione tecnica reale venne pianificata per il 30 settembre 1953, nella "Fossa del Tirreno" al largo dell'isola di Ponza. Intorno alla nave appoggio si trovavano altre imbarcazioni; tecnici, scienziati, giornalisti.
Il Professor Piccard si imbarcò sul Trieste insieme al figlio e, alle 8.18, il batiscafo scomparve sott'acqua. La velocità di discesa era di circa 1 metro al secondo.
Alle 10.40 lo scafo fu visto riemergere e fu subito raggiunto dalla nave appoggio. Nella trepidazione generale, il vecchio Piccard si issò fuori della torretta:
-Ho toccato quota 3'150.-
Un boato improvviso di ovazioni travolse quel commento laconico. 
Il Professore c'era abituato fin da quando, trent'anni prima, costruiva mongolfiere sperimentali in grado di raggiungere la stratosfera. Come puntualmente faceva da trent'anni, mandò un telegramma alla moglie lontana per annunciarle il successo dell'impresa:
"3'150 ben riuscita. Affettuosità. Auguste."

Quella sarebbe stata l'ultima immersione di Auguste Piccard. Il Professore ormai era troppo anziano; continuò tuttavia a dirigere le operazioni, e di lì a poco il figlio ribadì il successo: nel 1956, il "Trieste" discese nel Golfo di Napoli fino a 3'800 metri. L'industria navale italiana e le imprese finanziatrici avevano riportato un grande successo.
Il "Trieste" rappresentava una nuova filosofia nel campo dell'esplorazione abissale; l'idea di un mezzo completamente autonomo, in grado di scendere a grandi profondità e di condurvi anche operazioni di ricerca.
Per raggiungere nuovi traguardi, tuttavia, i mezzi a disposizione erano insufficienti.

Nel 1958, col benestare dei Piccard che volevano portare avanti il programma, il "Trieste", costruito e collaudato in Italia, fu venduto alla U.S. NAVY che lo trasferì in California. Gli Stati Uniti avevano stabilito di raggiungere il massimo traguardo: 11'000 metri, la Fossa della Marianne, al largo dell'isola di Guam, nell'Oceano Pacifico. 
Il "Trieste" fu rimesso in cantiere; bisognare irrobustire la cellula e soprattutto l'abitacolo. Fu realizzata una nuova sfera, simile alla precedente ma con uno spessore di 9 centimetri. L'oblò, circolare, aveva un diametro interno di appena 7 centimetri: era tutto quanto i due uomini avessero per guardar fuori. 
Con Jacques Piccard fu designato a scendere il Tenente Donald Walsh. 

Il 23 gennaio 1960 la nave appoggio "U.S.S. Lewis" si fermò 200 miglia a sud di Guam. 
Il Trieste, messo in mare, le galleggiava accanto, a qualche centinaio di metri. Piccard e Walsh salirono su un gommone e raggiunsero il natante. Il cielo era nuvoloso e il mare appariva fortemente increspato. Qualche commento sulla situazione, poi ci si infilò nella torretta e la botola fu richiusa. 
Il "Trieste" rimase in superficie qualche momento, durante la serie dei controlli. Poi Piccard e Walsh allagarono le camere d'acqua e il batiscafo si immerse. 
La luce naturale, al di là del piccolo oblò, si spense in pochi minuti. 
"Sotto i 150 metri il buio è completo". Avrebbe commentato Walsh.
Man mano che il Trieste scendeva, la temperatura nell'abitacolo diminuiva. 
Improvvisamente, da sopra, si sentì una piccola scossa. Un rapido, febbrile controllo. Tutto sembrava funzionare correttamente, e la discesa procedeva bene. Si decise di continuare. 
A 4 ore e 48 minuti dall'immersione, i fari del batiscafo illuminarono il fondo. 
10'917 metri di profondità; pressione esterna indicata, 1'187 kg/cmq.
Il pavimento del "Challenger Deep", l'abisso più affascinante del pianeta, era una superficie uniforme, piatta. Quasi banale. 
Guardando fuori dall'oblò, l'attenzione di Walsh fu improvvisamente attratta da un oggetto. Un pesce. Era là, sul fondo del Pacifico.
I due tecnici rimasero ad osservarlo, controllando periodicamente la strumentazione. 
Il batiscafo sopportava bene le condizioni estreme. Due uomini erano scesi nel punto più profondo dell'oceano. 
Dopo una mezz'ora di osservazioni, il "Trieste" iniziò la risalita; 3 ore e 17 minuti più tardi riapparve in superficie, sollevando uno sbuffo di schiuma.
Sulla nave appoggio ci fu il solito, piccolo trionfo, mentre in tutto il mondo si spargeva la notizia della missione. 
Un controllo tecnico registrò l'incrinatura di un oblò esterno all'abitacolo: ecco spiegata la scossa durante la discesa. Niente di grave, comunque.
Il vecchio Piccard, stavolta, non c'era. Gravemente ammalato, aveva preferito restare a casa sua, nei pressi del lago di Ginevra, aspettando vicino al telefono. Jacques lo chiamò dalla "Lewis": il "Trieste" ce l'aveva fatta. 
L'Uomo aveva dimostrato di poter cominciare una completa esplorazione degli oceani.