L'albero della memoria
di Massimo Canetta
Ebbi un brivido imboccando lo stretto
passaggio che s'inoltrava nel bosco.
Erano
anni che non mi fermavo alla villa. Quella mattina passai vicino al fiume, per
una commissione, e decisi di svoltare al bivio per il paese, quasi
involontariamente.
La
macchina sobbalzava ed io ero costretto ad un'andatura che non ricordavo da
quando imparai a guidare. Cominciavo a divertirmi, ogni buca era divenuta una
scommessa. L'aria era fredda ma mi venne voglia di abbassare i finestrini per
assaporare l'odore della campagna. Lo feci e l'aria frizzante pervase
l'abitacolo facendo uscire quel terribile odore provocato dall'aria riscaldata
dal motore.
Vidi la
villa in lontananza e mi tornarono alla mente immagini ormai dimenticate. D'un
tratto gli odori della campagna divennero, o meglio ritornarono, gli odori della
mia infanzia, delle corse nei prati e delle interminabili partite di
pallone.
Guardai
l'orologio digitale del cruscotto e notai che cominciavo ad essere in ritardo.
Mi assalì la preoccupazione di non riuscire ad effettuare la commissione che mi
era stata affidata. Per qualche secondo rimasi indeciso su cosa fare, poi capii
che quella non era la giornata per identificare cos'era giusto e cos'era
sbagliato. Non era ciò che insegnavo ai miei figli, però quel giorno era così e
basta.
Ripresi
a guidare, con quell'andatura ridicola, lenta e traballante, decisamente diversa
da quella scattante e frenetica che ogni mattina mi costringeva a mandare
all'inferno più della metà delle macchine che incrociavo sulla mia
strada.
Giunsi
al cancello, fermai la macchina e scesi, poggiando i piedi sulla terra, indurita
dal freddo. Il cancello era chiuso con un lucchetto. Avevo sempre, da quando me
ne ero andato, la chiave di quel lucchetto nel portafogli. Non me ne sono mai
separato, quasi per paura di perdere quel legame che mi univa alla villa, anche
se poi non ci tornavo da anni.
La
chiave era lì, sotto alla fotografia dei miei due bambini. La presi e la infilai
nel lucchetto. Mi tremavano le mani, probabilmente per il freddo. Quando scattò
la serratura la catena cadde a terra e il cancello emise un leggero cigolio; con
una spinta lo aprii.
Entrai
nel giardino, camminando nell'erba bruciata dal gelo dell'inverno. Le erbacce
arrivavano alle ginocchia, anche se ripiegate su se stesse per la morte che le
aveva colpite con le prime gelate. Solo qualche pianticella autunnale stava
ritta in quella posa di sfida verso il destino perverso che l'aveva
concepita.
A
sinistra vidi il tavolo di granito, sotto il pergolato, ormai quasi distrutto,
che d'estate concedeva il ristoro dell'ombra sotto i colori meravigliosi del
glicine in fiore. Su quel tavolo si consumavano le festose domeniche con gli
amici a mangiare, a bere, a cantare in allegria. Ora era lì, silenzioso e cupo,
sotto i resti di un intreccio di legni marciti a memoria del nostro disinteresse
per quella casa.
Credo di
essere l'unica persona ad essere ritornata dopo la visita ufficiale di sei anni
prima, effettuata esclusivamente per la definizione dell'eredità. Da allora non
ci aveva messo più piede anima viva.
La
costruzione aveva retto bene, i muri erano ancora in ottimo stato, a parte
qualche crepa e qualche pezzo di intonaco che aveva ceduto alle pressioni del
tempo.
Tutte le
finestre erano sbarrate da travi di legno, così come le porte.
Mi
tornarono alla mente le volte che Giulio ed io uscivamo, calandoci dalla
finestra della nostra camera, lasciandoci penzolare e poi atterrando facendo
affidamento solo sulle nostre gambe. Che incoscienti: ora che guardavo quella
finestra, gli occhi della mia età mi lasciavano impietrito a considerare
l'altezza che la separava dal terreno sottostante.
Girai
intorno alla casa e vidi quello che rimaneva dell'orto, sul retro. Scossi il
capo e proseguii oltre. Quando fui sull'altro lato della casa mi apparve,
maestoso, imponente, meraviglioso, il tiglio.
Non mi
vergogno affatto a confessare che scoppiai in lacrime quando lo vidi. La mia
mente era così pervasa dai ricordi, dai profumi di quella campagna, dal dolore
della vista della decadenza di quel mio paradiso dell'infanzia che quando lo
rividi, compagno di tante mie solitarie giornate, non resistetti e piansi a
dirotto.
Tratti
d'erba avevano resistito al gelo protetti dal calore dell'intreccio dei rami
bassi, nodosi e appesantiti dalle tante primavere profumate e dai tanti autunni
del colore del fuoco.
Asciugai
gli occhi e mi avvicinai al tronco: era talmente grande che nemmeno tre persone
tenute per mano sarebbero riuscite a cingerlo
completamente.
Lo
toccai con delicatezza ed il suo contatto mi fece rabbrividire. Lo toccai di
nuovo, più intensamente e chiusi gli occhi.
Vidi la
casa, viva, con la nonna ed il nonno sulla porta, con il sole che li accecava e
sentii i profumi dell'estate. Staccai le mani dalla corteccia e tornai al
presente, in quella desolazione che mi circondava.
Guardai
i muri della casa, alle mie spalle e vidi che da quella parte si era conservato
l'intonaco ancora con la tonalità originale. L'ombra del tiglio aveva protetto
il colore paglierino che aveva dato il nonno pochi anni prima di morire, ormai
da più di trent'anni. Come aveva fatto a conservarsi così bene? Il resto della
casa era ancora in buono stato, è vero, ma il colore era decisamente sbiadito
che quasi non si distingueva più.
Con la
coda dell'occhio vidi la piccola cuccia di Miki, il cane del nonno. Era ancora
in buono stato. Mi ricordo ancora quando morì: avevano appena terminato il
tratto d'autostrada a mezz'ora da qui. Fu un camion a travolgerlo; lui, curioso
come sempre, non si era lasciato sfuggire quell’avvicinarsi del progresso vicino
al suo territorio e partì, quel pomeriggio di tanti anni addietro, per
incontrare quella striscia di cemento, così maledettamente
grigia.
Mi
ricordai anche di quella mattina che lo portammo in paese e ci scappò. Quando
tornammo a casa il nonno ci rincorse per quasi mezz'ora, poi ci costrinse a
lavorare l'orto per tutto il mese. Quando tornò Miki, circa tre giorni dopo, si
prese anche lui la sua razione di punizioni, compresa quella di rimanere alla
catena per lo stesso tempo che rimase a zonzo per il paese. Sono certo che
quelli furono per lui i tre giorni più lunghi della sua vita. Quando morì, il
nonno ci disse che aveva quasi quindici anni. Noi, in lacrime, considerammo che
morì che era poco più vecchio di un bambino. Il nonno, sorrise, con quella sua
aria così gentile e ci spiegò come funziona la conta degli anni di un cane.
Fummo un po' più sollevati, ma restava il fatto che aveva vissuto solo quindici
anni e a noi lasciò un vuoto spaventoso.
Quella
cuccia rimase per molti anni un luogo sacro. Il nonno non volle più altri cani e
ora comprendo - quasi non ci avevo mai pensato - come mai quando Luca mi chiese
di comperargli un cagnolino mi opposi fermamente e considerai chiuso
immediatamente l'argomento, senza possibilità di ricorso. Il mio inconscio
evidentemente rifiutava di ripetere una simile sofferenza e di farla vivere ai
miei figli.
Distrattamente
mi appoggiai al tiglio e mi tornarono di nuovo, vive, le immagini di tanti anni
addietro.
Vidi
Giulio mentre aiutava il nonno a costruire il pergolato e mi vidi, seduto sui
gradini con Miki in grembo, ad ammirarli da lontano.
Mi
piaceva vedere il nonno lavorare, aveva sempre quella tranquillità e quella
serenità che contagiava tutti quelli che avevano a che fare con
lui.
Mi
staccai con decisione dalla corteccia, spaventato. Non era più un ricordo, una
sensazione: quando toccavo la corteccia del tiglio quello che vedevo era reale,
vivo, presente. Provai di nuovo e vidi la nonna sulla porta che ci chiamava per
il pranzo. Era lì, era proprio lì. Ero sicuro che se fossi corso verso la porta
avrei potuto toccarla, abbracciarla. Il mio cuore cominciò ad accelerare i suoi
battiti. Non riuscii a staccarmi dalla corteccia dell'albero, volevo continuare
a vivere quel bellissimo momento. Arrivò anche il nonno che, sudato, depose il
cappello sulla sedia vicino all'ingresso ed entrò all'interno della
casa.
Ansimai
per il terrore di perdere il resto della scena, ma l'immagine continuò a
materializzarsi nel mio cervello. Ero in cucina e vidi la nonna che portava a
tavola il pranzo. Giulio ed Io non eravamo ancora rientrati dal
giardino.
"Ha
telefonato." - stava dicendo la nonna mentre versava la minestra al
nonno.
"Cos’ha
detto?" - chiese il nonno guardando in continuazione verso la porta. Parlavano
sottovoce.
La nonna
era molto nervosa.
Era
strano, non vedevo più immagini legate alla mia memoria, erano momenti a cui io
non avevo avuto parte e questo mi imbarazzava.
"Hanno
detto che è meglio che tornino a casa." - la nonna riprese a parlare dopo un
momento di silenzio.
A quel
punto entrammo noi ragazzi rompendo quel momento così intenso. Il nonno e la
nonna smisero di parlare. Dopo qualche minuto la nonna ci disse che loro
dovevano andare a Montecatini, alle terme, e che quindi noi ragazzi saremmo
dovuti tornare a casa.
Mi
ricordo tutto, adesso: tornammo a casa e circa dieci giorni dopo la mamma morì.
Noi non capimmo esattamente tutto ciò che accadde in quei frenetici giorni di
fine estate ma il nonno e la nonna divennero da allora il nostro punto di
riferimento e il papà si ritirò in un mondo tutto suo, in cui non era permesso
l’accesso a nessuno. Si chiuse in quella sua solitudine finché un giorno di
qualche anno dopo riuscì a "scappare e volò incontro alla morte felice, libero
come un gabbiano". Mi ricordo ancora quando mi disse queste parole, pochi minuti
prima di andarsene, forse le prime parole dopo anni di ostinato
silenzio.
Ora
vedevo il papà sul letto di morte e accanto a lui il nonno che piangeva. Non
l'avevo mai visto piangere.
Staccai
le mani dal tronco e m'incamminai verso la porta della cantina. Era aperta.
L'aprii e vi entrai.
Fui
investito da un fortissimo odore di muffa e non si vedeva nulla. Accesi un
fiammifero e vidi una quantità di ragnatele e di polvere che mi fece desistere
dal proseguire oltre. Sarei voluto entrare nel cuore del mondo di mio nonno,
nella dimora dei suoi attrezzi, toccarli, rivederli, ma trovai decine di scuse
per impedirmi di andare oltre la soglia.
Mi
voltai di nuovo verso il maestoso albero e mi venne ancora voglia di toccarlo,
di accedere al mondo della mia infanzia ma rimasi bloccato a
fissarlo.
Quel
tiglio fu piantato dal padre di mio nonno, in omaggio al nuovo secolo che
iniziava; praticamente era la primavera del 1900. Aveva un che di magico
quell'albero, spettatore di un secolo impressionante, eppure cronista di un
mondo così piccolo come la vita della mia famiglia. Ecco cos'era: il narratore
della storia del mio piccolo mondo. Mi tramandava le immagini della mia vita e
di quella dei miei cari. Non capisco perché abbia voluto fare questo proprio a
me, ma lo fece e ne fui felice.
Quel
giorno capii quanto certi ricordi, dimenticati, persi nella nebbia, erano invece
fondamentali per conservare intatti certi valori. Decisi che avrei chiamato mio
fratello Giulio, che non sentivo da un paio d'anni; anzi, l'avrei portato qui e,
magari insieme, avremmo poi rimesso in sesto la villa.
Mi
avvicinai dunque al tiglio per guardarlo ancora da vicino. Lo toccai di nuovo ma
questa volta non mi fece vedere nulla. Mi parve, ma ancora lo credo davvero
impossibile, che mi porse uno dei rami bassi. Colpa della tensione,
probabilmente. Comunque presi un ramo, pieno di germogli, e lo portai in
macchina con me.
Chiusi
il cancello e voltai la macchina, ritornando verso la statale. Decisi però di
non tornare a casa subito. Passai prima dal cimitero ed andai sulla tomba dei
miei nonni e su quella dei miei genitori e deposi il ramo, dividendolo in due,
sui monumenti.
I
germogli sarebbero rimasti intatti per molto tempo, finché la linfa che
percorreva i rami li avrebbe nutriti.
Mi
voltai e mi diressi verso l'uscita. Mi accorsi che una lacrima mi stava
scorrendo sulla guancia. L'asciugai e affrettai il passo, dovevo fare quella
commissione, altrimenti avrei fatto davvero tardi.