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Honoré de Balzac

 

FACINO CANE

 

 

 

Nota: le parole tra virgolette sono in italiano nel testo.

Abitavo allora in una stradina - probabilmente non la conoscete Via Lesdiguièreche parte da Via Sant'Antoniodi fronte a una fontana vicino alla piazza della Bastigliae sbocca in via della Ciliegiaia. L'amore della scienza m'aveva ridotto in una soffitta in cui la notte studiavo; il giorno lo passavo in una biblioteca vicinaquella di Monsieur. Vivevo frugalmentesottomesso a tutte le condizioni della vita monasticacosì necessaria a chi lavora.

Quando era bel tempomi concedevo una passeggiata sul corso Bourdon. Una sola passione mi distraeva dalle mie abitudini di studioso; ma non era anch'essa uno studio? osservavo i costumi del sobborgoi suoi abitanti e i loro caratteri. Vestito alla peggio come un operaioindifferente al decoronon suscitavo diffidenze; potevo unirmi ai loro gruppiassistere ai loro contrattialle loro discussioni di dopo il lavoro. L'osservazione era già in me diventata intuitivapenetrava nell'anima senza trascurare il corpo; o piuttosto coglieva così bene i particolari esterioriche procedeva subito oltre; mi rendeva capace di vivere la vita dell'individuo su cui si esercitavapermettendomi di sostituirmi a lui come il dervish delle Mille e una Notte assumeva il corpo e l'anima delle persone su cui pronunciava certe parole.

Quandotra le undici e mezzanotteincontravo un operaio che tornava con la moglie dall'Ambigu-Comiquemi divertivo a seguirli dal corso del Ponte dei Cavoli fino al corso Beaumarchais.

Parlavano della commedia che avevano vista; da un discorso all'altroarrivavano alle loro faccende; la madre tirava per la mano il figliosenza dar retta ai suoi lamenti e alle sue domande; contavano il danaro che dovevano riscuotere il giorno dopolo spendevano in venti modi differenti. Ed erano allora particolari di vita domesticalamentele sul prezzo troppo alto delle patateo sulla lunghezza dell'inverno e il rincaro delle formellerimproveri energici sul debito col fornaio; e poi discussioni che via via s'inasprivanoe in cui ciascuno rivelava con espressioni pittoresche il suo carattere. Ascoltandoliaderivo alla loro vitami sentivo quasi addosso i loro cencie camminavo coi piedi nelle loro scarpe rotte; i loro desiderii loro bisognitutto passava in mee io in loro. Un sogno ad occhi aperti. Me la prendevo anch'io coi capi-officina tirannicio coi cattivi clienti che li facevano andare e venire senza pagarli.

Dimenticare le mie abitudinidiventare per mezzo dell'esaltazione delle facoltà morali un altro personaggioe poter ripetere il gioco a volontàera la mia distrazione. A che cosa devo tale dono? E' una seconda vista? o una di quelle qualità il cui abuso potrebbe portare alla demenza? Non ho mai ricercato le cause di tale facoltà: la posseggo e me ne servoecco tutto. Vi dirò soltantoche fin d'allora avevo decomposto gli elementi della massa eterogenea che si chiama popoloche l'avevo analizzata in modo da poterne valutare i pregi e i difetti. Sapevo già di quale utilità sarebbe potuto essere quel sobborgovero vivaio di rivoluzioniche contiene eroiinventoriuomini ricchi di scienza praticabricconiscellerativirtù e vizitutti compressi dalla miseriasoffocati dalla necessitàannegati nel vinologorati dai liquori. Non potreste immaginare quante avventure sciupatequanti drammi dimenticati in quella città dolente. Quante cose orribili e quante belle! L'immaginazione non raggiungerà mai il vero che vi si nasconde e che nessuno può andare a scoprire; bisogna scendere troppo in basso per trovare le ammirevoli scene tragiche o comiche che sono i capolavori del caso. Non so come non ho ancora raccontato la storia che sto per dirviuno di quei racconti curiosi rimasti nel sacco da cui la memoria li tira fuori a capricciocome numeri d'una lotteria: ne ho molti altriegualmente straniche restano ancora in fondo al sacco; ma verrà la loro voltasiatene certi.

Un giorno la mia donna di serviziomoglie d'un operaiovenne a pregarmi d'onorare della mia presenza le nozze d'una sua sorella.

Per darvi un'idea di quel che potevano essere quelle nozzevi dirò che davo quaranta soldi al mese a quella povera creaturache veniva tutte le mattine a rifarmi il lettospolverarmi i vestitispazzare la camerapulirmi le scarpee prepararmi la colazione; andava poi per tutto il resto della giornata a girare la manovella d'una macchinae con questo duro mestiere guadagnava dieci soldi al giorno. Suo maritoebanistaguadagnava quattro franchi. Masiccome avevano tre figlipotevano appena mangiare decentemente un pezzo di pane Non ho mai trovato probità più solida di quella di quell'uomo e di quella donna. Quando ebbi cambiato quartiereper cinque annimamma Vaillant è venuta a farmi gli auguri per la mia festa portandomi dei fiori e delle arancelei che non aveva mai dieci soldi d'avanzo. Non ho mai potuto darle più di dieci franchispesso presi in prestito per la circostanza. Questo può spiegare la mia promessa di andare al matrimonio: contavo di farmi un posticino nella gioia di quella povera gente.

Il pranzoil ballotutto si svolse presso un vinaio di via Charenton al primo pianoin uno stanzone illuminato da lumi con riflettori di lattatappezzato fino all'altezza delle tavole da una sudicia carta da paratoe lungo i cui muri correvano panche di legno. In quello stanzoneottanta persone in abito festivocon mazzi di fiori e nastritutte animate dallo spirito della Courtillecon la faccia infuocataballavano come se il mondo stesse per finire. Gli sposi si baciavano con soddisfazione di tuttie si udivano degli eh! eh! degli ah! ah! faceti ma in realtà meno indecenti delle timide occhiate di certe giovinette bene educate. Tutta quella gente esprimeva una contentezza brutale che aveva qualcosa di comunicativo.

Ma né le fisionomie delle personené le nozzené niente di quel mondo si riferisce alla mia storia. Tenete solo presente la bizzarria dell'ambiente. Figuratevi bene la bottega ignobile e dipinta in rossosentite l'odore del vinoascoltate gli urli di gioiarestate proprio in quel sobborgoin mezzo a quegli operaia quei vecchia quelle povere donne che per una notte s'abbandonavano al piacere!

L'orchestra era composta da tre ciechi del Ricovero; il primo suonava il violinoil secondo il clarinettoe il terzo il piffero. Tutti e tre pagati in bloccosette franchi per tutta la notte. Per quel prezzo non c'era certo da aspettarsi né Rossini né Beethovensuonavano quel che volevano e quel che potevano; nessuno faceva loro dei rimproverisquisita delicatezza! La loro musica assaliva così brutalmente il timpanochedopo aver dato un'occhiata alla compagniaguardai quel terzetto di ciechie fui subito disposto all'indulgenza quando ebbi vista la loro uniforme.

Gli artisti erano nel vano d'una finestra: per distinguere le loro fisionomiebisognava dunque trovarsi vicino a loro: non ci capitai subitomaquando mi avvicinainon so perchétutto fu dettoil ballo nuziale e la musica sparironola mia curiosità fu eccitata al più alto gradoperché la mia anima passò nel corpo del suonatore di clarinetto. Il violino e il piffero avevano tutti e due delle facce banalila nota faccia del ciecopiena di tensioneattenta e grave; ma quella del clarinetto era uno di quei fenomeni che fanno fermare di colpo l'artista e il filosofo.

Figuratevi la maschera in gesso di Danteilluminata dalla luce rossastra della lampada Quinquete sormontata da una foresta di capelli d'un bianco argenteo. L'espressione amara e dolorosa di quella magnifica testa era resa più solenne dalla cecitàperché quegli occhi morti vivevano per il pensiero; ne usciva come una luce ardenteprodotta da un desiderio unicoincessanteenergicamente inciso sopra una fronte convessa attraversata da rughe simili a filari di pietre d'un vecchio muro. Quel vecchio soffiava a caso nel suo strumentosenza fare la minima attenzione alla misura o alla musicale sue dita s'alzavano e s'abbassavanoagitavano i vecchi tasti per un'abitudine macchinale; non si preoccupava affatto di far quel che in stile d'orchestra si chiama una "papera"quelli che ballavano non se ne accorgevano e neppure i due accoliti del mio Italiano; perché volevo che fosse un Italianoed era un Italiano. C'era qualche cosa di grande e di dispotico in quell'Omero che racchiudeva in sé un'Odissea condannata all'oblio. Una grandezza così reale che riusciva a trionfare dell'abiezioneun dispotismo così vivace che dominava la povertà. Nessuna delle passioni violente che conducono l'uomo al bene come al malefacendone un forzato o un eroemancava a quella testa dal taglio nobilelividamente italianaombreggiata da sopracciglia grigiastre che proiettavano la loro ombra su cavità profonde in cui si tremava di veder riapparire la luce del pensierocome si teme di veder balzare dalla bocca d'una caverna un brigante con torcia e pugnale. C'era un leone in quella prigione di carneun leone la cui rabbia s'era inutilmente esaurita contro le sbarre di ferro. L'incendio della disperazione s'era spento nelle sue proprie cenerila lava s'era raffreddata; ma i solchilo sconvolgimentoun po' di fumo attestavano ancora la violenza dell'eruzionelo sterminio del fuoco. Tali ideedestate in me dall'aspetto di quell'uomoerano così calde nel mio animo quanto fredde sul suo volto.

Tra una contraddanza e l'altrail violino e il pifferoseriamente occupati del loro bicchiere e della loro bottigliasospendevano il loro strumento al bottone della loro redingote rossastraallungavano la mano sopra un tavolinetto collocato nel vano della finestra che era la loro cantinae offrivano sempre all'Italiano un bicchiere pieno che egli non poteva prendere da séperché il tavolino si trovava dietro la sua sedia; ogni voltail clarinetto ringraziava con un cenno amichevole della testa. I loro movimenti avevano quella precisione che meraviglia sempre nei ciechi del Ricoveroe che farebbe credere che vedono. Mi avvicinai ai tre ciechi per ascoltare quel che dicevano; maquando fui loro vicinomi studiaronosenza dubbio non riconobbero in me un operaioe se ne stettero zitti.

- Di dove sietevoi che suonate il clarinetto?

- Di Venezia - rispose il cieco con un leggero accento italiano - Siete nato ciecoo siete cieco per...

- Per disgrazia - rispose con vivacità - una maledetta gotta serena.

- Venezia è una bella cittàho sempre avuto desiderio di andarci.

La fisionomia del vecchio s'animòle sue rughe s'agitaronoera violentemente commosso.

- Se vi accompagnassi ionon perdereste il vostro tempo.

- Non gli parlate di Venezia - mi disse il violino - o il doge comincerà i suoi soliti discorsi; senza dire che ha già due bottiglie in corpoil principe!

- Suavantipapà Papera - disse il piffero.

Tutti e tre si misero a suonare; manel tempo che misero a eseguire le quattro contraddanzeil veneziano mi fiutavaindovinava il grande interesse che sentivo per lui. La sua fisionomia perse la sua fredda espressione di tristezza; non so quale speranza rallegrò i suoi lineamentis'insinuò come una fiamma azzurra tra le sue rughe; sorrises'asciugò la frontequella fronte audace e sublime; insomma divenne allegro come un uomo che sale in groppa alla sua chimera.

- Quanti anni avete? - gli chiesi.

- Ottantadue!

- Da quanto tempo siete cieco?

- Da cinquant'anni fra poco - rispose con un accento che diceva che il suo rimpianto non riguardava soltanto la perdita della vistama qualche grande potenza di cui sarebbe stato spogliato.

- Perché vi chiamano il doge? - gli chiesi.

- Ah! uno scherzo - mi disse - sono patrizio veneziano e potevo esser doge come un altro.

- Ma come vi chiamate?

- Qui - mi disse - papà Canet. Il mio nome non l'hanno mai potuto scrivere altrimenti sui registri; ma in italiano "Marco Facino Caneprincipe di Varese".

- Come? Discendete dal famoso condottiero Facino Cane le cui conquiste sono passate ai duchi di Milano?

- "E' vero" - mi disse. - In quel tempoper non essere ammazzato dai Viscontiil figlio di Cane si rifugiò a Venezia e si fece inscrivere nel libro d'oro. Ma ora non c'è più né Cane né libro. - E fece un gesto spaventevole di patriottismo spento e di disgusto per le cose umane.

- Mase eravate senatore a Veneziadovevate esser ricco; come avete potuto ridurvi così?

A questa domandaalzò la testa verso di mecome per contemplarmicon una mossa davvero tragicae mi rispose: - Le disgrazie!

Non pensava più a bererifiutò con un gesto il bicchiere di vino che in quel momento gli porgeva il vecchio pifferopoi abbassò la testa. Tutto questo era fatto per eccitare ancor più la mia curiosità. Durante la contraddanza che quelle tre macchine suonavanocontemplai il vecchio nobile veneziano coi sentimenti che divorano un uomo di vent'anni. Vedevo Venezia e l'Adriaticola vedevo in rovine su quel volto distrutto. Passeggiavo in quella città così cara ai suoi abitantiandavo da Rialto al Canal Grandedalla riva degli Schiavoni al Lidotornavo alla sua cattedralecosì originalmente sublimeguardavo le finestre della Ca' d'Orociascuna con ornamenti diversicontemplavo i vecchi palazzi così ricchi di marmiinsomma tutte le meraviglie con le quali l'uomo istruito simpatizza tanto più in quanto se le colorisce a suo piaceree non spoetizza i suoi sogni con la realtà. Risalivo il corso della vita di quel rampollo del più grande dei condottiericercandovi le tracce delle sue sventure e le cause di quella profonda degradazione fisica e moraleche rendeva ancora più belle le scintille di grandezza e di nobiltà rianimate in quel momento. Pensavamo senza dubbio le stesse cose; credo che la cecità rende le comunicazioni intellettuali molto più rapideperché impedisce all'attenzione di disperdersi sugli oggetti esterni. La prova della nostra simpatia non si fece aspettare. Facino Cane smise di suonaresi alzòvenne a me e mi disse un: - Andiamo fuori! - che produsse su di me l'effetto d'una scossa elettrica. Gli diedi il braccio e ce ne andammo.

Quando fummo in stradami disse: - Volete portarmi a Veneziaguidarmi in essavolete aver fiducia in me? sarete più ricco delle dieci case più ricche di Amsterdam o di Londrapiù ricco dei Rotschildinsomma ricco come nelle Mille e una Notte.

Pensai che quell'uomo fosse pazzo; ma c'era nella sua voce una forza a cui obbedii. Mi lasciai condurre ed egli si avviò verso i fossati della Bastiglia come se avesse avuto degli occhi. Sedette sopra una pietra in un posto molto solitario dove fu dopo costruito il ponte per mezzo del quale il canale San Martino comunica con la Senna. Mi posi sopra un'altra pietra innanzi a quel vecchio i cui capelli bianchi brillarono come fili d'argento alla luce della luna. Il silenzio appena turbato dal brontolio tempestoso dei corsi che giungeva fino a noila purezza della nottetutto contribuiva a rendere veramente fantastica quella scena.

- Voi parlate a un giovane di milionie credete che esiterebbe a soffrire mille mali per raccoglierli! Non vi burlate di me?

- Che io possa morire senza confessione - mi disse con violenza se ciò che sto per dirvi non è vero. Ho avuto anch'io vent'anni come voi li avete in questo momentoero riccoero belloero nobileho cominciato con la prima delle pazziecon l'amore. Ho amato come non si ama piùfino a mettermi in un cassone a rischio d'esservi pugnalato senza aver ricevuto altro che la promessa d'un bacio. Morire per LEI mi sembrava tutta una vita. Nel 1760 m'innamorai d'una Vendraminiuna giovane di diciott'annimaritata a un Sagredouno dei più ricchi senatoriche aveva trent'anni ed era pazzo della moglie. La mia innamorata e io eravamo innocenti come due cherubiniquando lo sposo ci sorprese a parlare d'amore; ero senz'armilui non mi colsegli saltai addossolo strangolai con le mie mani torcendogli il collo come a un pollo. Volli partire con Biancaessa non volle seguirmi. Ecco le donne! Me ne andai solofui condannatoi miei beni furono sequestrati a favore dei miei eredi; ma avevo portato con me i miei diamanticinque quadri del Tiziano arrotolatie tutto il mio oro. Andai a Milanodove non fui disturbato: la mia faccenda non era di Stato.

- Una piccola osservazione prima di andare avanti - disse dopo una pausa. - Che le fantasie d'una donna influiscano o no sul bambino mentre è incinta o quando lo concepiscecerto è che mia madre ebbe una passione per l'oro durante la sua gravidanza. Io ho per l'oro una monomania la cui soddisfazione è così necessaria alla mia vitache in tutte le situazioni in cui mi sono trovatonon sono mai stato senza oro su di me; maneggio continuamente oro; da giovane portavo gioielli e avevo sempre su di me due o trecento ducati.

Dicendo queste paroletrasse di tasca due ducati e me li fece vedere.

- Io sento l'oro. Benché ciecomi fermo davanti alle botteghe dei gioiellieri. Questa passione m'ha rovinatoperché sono diventato giocatore per giocare oro. Non baravo al giocofui truffatomi rovinai. Quando non ebbi più nullafui preso dal bisogno di vedere Bianca: tornai segretamente a Veneziala ritrovaifui felice per sei mesinascosto in casa suanutrito da lei. Pensavo con delizia di finir così la mia vita. Essa era ricercata dal Provveditore; costui capì di avere un rivale: ci spiòci sorprese a lettoil vigliacco! Pensate se la nostra lotta fu accanita: non lo uccisilo ferii gravemente. Quest'avventura distrusse la mia felicità. Da quel giorno non ho più ritrovato Bianca. Ho goduto grandi piacerisono vissuto alla corte di Luigi Quindicesimo tra le donne più celebri; in nessun luogo ho trovato le qualitàle graziel'amore della mia cara veneziana. Il Provveditore aveva i suoi servili chiamòil palazzo fu circondatoinvaso; mi difesi per poter morire sotto gli occhi di Bianca che m'aiutava a uccidere il Provveditore. Un tempo quella donna non aveva voluto fuggire con me; madopo sei mesi di felicitàvoleva morire della mia mortee ricevette parecchi colpi. Preso in un gran mantello che mi gettarono addossovi fui avvoltoportato in una gondola e trasportato in una segreta dei pozzi. Avevo ventidue annistringevo così forte il mozzicone della mia spada che per togliermelo avrebbero dovuto tagliarmi il polso. Per un caso strano o piuttosto ispirato da un'idea di precauzionenascosi quel pezzo di ferro in un angolocome se potesse servirmi. Fui curato. Nessuna delle mie ferite era mortale. A ventidue anni si guarisce di tutto. Dovevo morire decapitatofinsi d'essere malato per guadagnare tempo. Credevo di essere in una segreta vicina al canaleil mio progetto era di evadere forando il muro e attraversando a nuoto il canalea rischio d'annegare. Ecco i ragionamenti su cui fondavo le mie speranze. Ogni volta che il carceriere mi portava da mangiarepotevo leggere delle indicazioni scritte sui muri: lato del palazzolato del canalelato del sotterraneoe finii per scorgere un piano del cui senso non mi curavoma che poteva spiegarsi con lo stato attuale del palazzo ducale che non è ancora terminato. Con la genialità che viene dal desiderio di recuperare la libertàriuscii a decifraretastando con la punta delle dita la superficie d'una pietrauna iscrizione araba con cui l'autore di quel lavoro avvertiva i suoi successori di avere staccato due pietre dell'ultimo filaree scavato undici piedi di sotterraneo. Per continuare la sua operasi doveva spargere sul suolo stesso della segreta le particelle di pietra e di calcina prodotte dal lavoro di scavo. Se anche i guardiani o gli inquisitori non si fossero creduti sicuri per la costruzione dell'edificio che esigeva solo una sorveglianza esternala disposizione dei pozzia cui si giunge scendendo alcuni gradinipermetteva di rialzarne gradualmente il suolo senza che i guardiani se ne accorgessero. Quell'immenso lavoro era stato superfluo almeno per colui che lo aveva intrapresoperché il fatto d'esser rimasto incompiuto annunciava la morte dello sconosciuto. Perché il suo sacrificio non andasse per sempre perdutooccorreva che un prigioniero conoscesse l'arabo; ma io avevo studiato le lingue orientali nel convento degli Armeni. Una frase scritta dietro la pietra diceva il destino di quel disgraziatomorto vittima delle sue immense ricchezzeche Venezia aveva desiderato e di cui s'era impadronita. Mi ci volle un mese per arrivare a un risultato. Mentre lavoravoe nei momenti in cui la stanchezza m'annientavasentivo il suono dell'orovedevo innanzi a me l'oroero abbagliato dai diamanti!

Oh! aspettate. Una notteil mio acciaio spuntato incontrò il legno. Aguzzai il mio pezzo di spadae feci un foro in quel legno. Per poter lavorarestrisciavo sul ventre come una serpemi mettevo nudo per far come le talpemettendo innanzi le mani e facendomi della pietra stessa un punto d'appoggio. Due giorni prima di quello in cui dovevo comparire davanti ai giudicidurante la nottevolli tentare un ultimo sforzo; forai il legnoe il mio ferro non trovò più resistenza oltre di esso. Figuratevi la mia sorpresa quando applicai gli occhi sul foro! Ero nello zoccolo d'un sotterraneo in cui una debole luce mi permetteva di scorgere un mucchio d'oro. Il doge e uno dei Dieci erano in quel sotterraneosentivo le loro voci; i loro discorsi mi fecero capire che quello era il tesoro segreto della Repubblicai doni dei dogie le riserve del bottino chiamato il danaro di Veneziae preso sul prodotto delle spedizioni. Ero salvo! Quando venne il carcerieregli proposi di favorire la mia fuga e di fuggire con me portando con noi tutto quello che avremmo potuto prendere. Non c'era da esitareaccettò. Una nave faceva vela per il Levantefurono prese tutte le precauzioniBianca favorì le misure che dettai al mio complice. Per non dar sospettiBianca doveva raggiungerci a Smirne. In una notte il foro venne ingranditoe noi scendemmo nel tesoro segreto di Venezia. Che notte! Ho visto quattro botti piene d'oro. Nella stanza precedentel'argento era egualmente ammassato in due mucchi che lasciavano in mezzo un passaggio per attraversare la stanza in cui le monete disposte a scarpa lungo i muri arrivavano a cinque piedi di altezza. Credetti che il carceriere diventasse pazzo; cantavasaltavaridevaballava nell'oro; lo minacciai di strangolarlo se perdeva tempo o se faceva rumore. Nella sua gioianon vide sulle prime la tavola su cui erano i diamanti. Mi gettai su di essi abbastanza abilmente per riempirne la mia giacca da marinaio e le tasche dei calzoni.

Dio mio! non ne presi nemmeno la terza parte. Sotto la tavola c'era oro in verghe. Persuasi il mio compagno di riempire d'oro quanti sacchi avremmo potuto portar viafacendogli osservare che era il solo modo di non venire scoperti all'estero. Le perlei gioiellii diamanti ci avrebbero fatto riconosceregli dissi. Ma quale che fosse la nostra aviditànon potemmo prendere che duemila libbre d'oroche resero necessari sei viaggi attraverso la prigione fino alla gondola. La sentinella alla porta sull'acqua era stata guadagnata con un sacco di dieci libbre d'oro. Quanto ai due gondolieriessi credevano di servire la Repubblica. Appena giornopartimmo. Quando fummo in alto maree che mi ricordai della notte; quando mi ricordai le sensazioni che avevo provatoe rividi l'immenso tesoro dovesecondo i miei calcolilasciavo trenta milioni in argento e venti milioni in oroparecchi milioni in diamantiperle e rubinifui preso da una specie di pazzia.

Ebbi la febbre dell'oro. Ci facemmo sbarcare a Smirnee c'imbarcammo subito per la Francia. Mentre salivamo sul bastimento franceseDio mi fece la grazia di sbarazzarmi del mio complice.

In quel momento non pensavo a tutta l'importanza di quell'errore del casodi cui invece mi rallegrai molto. Eravamo così interamente prostrati che eravamo rimasti inebetitisenza dirci nienteaspettando d'essere al sicuro per godere a nostro bell'agio. Non c'è da stupire se il cervello girò a quel briccone.

Vedrete come Dio ha punito me. Non mi sentii tranquillo se non quando ebbi venduto a Londra e ad Amsterdam i due terzi dei diamantie investita la mia polvere d'oro in valori commerciali.

Per cinque annimi nascosi a Madrid; poinel 1770venni a Parigi con un nome spagnoloe vi condussi la vita più brillante.

Bianca era morta. In mezzo alle mie voluttàquando godevo d'una fortuna di sei milionifui colpito dalla cecità. Non dubito affatto che questa infermità non sia il risultato del mio soggiorno nella segretadei miei lavori nella pietrase tuttavia la facoltà di veder l'oro non portava con sé un abuso della potenza visiva che mi predestinava a perdere la vista. In quel momentoamavo una donna a cui volevo legare il mio destino; le avevo detto il segreto del mio nomeessa apparteneva a una famiglia potentesperavo tutto dal favore che m'accordava Luigi Quindicesimo; avevo messo la mia fiducia in quella donnache era amica di madame du Barry; essa mi consigliò di consultare un famoso oculista di Londra: madopo qualche mese che eravamo in quella cittàvi fui abbandonato da quella donna in Hyde-Parkmi aveva spogliato della mia fortuna senza lasciarmi nessuna risorsa; perchécostretto a nascondere il mio nomeche m'avrebbe esposto alla vendetta di Venezianon potevo invocare l'assistenza di nessunoavevo paura di Venezia. La mia infermità venne sfruttata dalle spie che quella donna mi aveva messo intorno. Vi risparmio avventure degne di Gil Blas. Sopravvenne la vostra Rivoluzione.

Fui costretto a entrare nel Ricoverodove quella donna mi fece ammettere dopo avermi tenuto due anni a Bicêtre come pazzo; non ho potuto mai ucciderlanon ci vedevoed ero troppo povero per comprare un sicario. Seprima di perdere Benedetto Carpiil mio carcerierelo avessi interrogato sulla situazione della mia segretaavrei potuto ritrovare il tesoro e tornare a Venezia quando la Repubblica fu annientata da Napoleone. Purenonostante la mia cecitàandiamo a Venezia! Ritroverò la porta della mia prigionevedrò l'oro attraverso i murilo sentirò sotto le acque dov'è nascostoperché gli avvenimenti che hanno abbattuto la potenza di Venezia sono tali che il segreto di quel tesoro ha dovuto morire con Vendraminil fratello di Biancaun doge cheio lo speravomi avrebbe riconciliato coi Dieci. Ho inviato note al primo consoleho proposto un trattato all'imperatore d'Austriatutti m'hanno trattato da pazzo! Venitepartiamo per Veneziachiederemo l'elemosina per viatorneremo milionari; ricompreremo i miei benie voi sarete mio eredesarete principe di Varese.

Sconvolto da quella confidenzache nella mia immaginazione prendeva le proporzioni d'un poemaall'aspetto di quella testa biancae innanzi all'acqua nera dei fossati della Bastigliaacqua stagnante come quella dei canali di Venezianon risposi.

Facino Cane credette senza dubbio che lo giudicavo come gli altricon pietà sdegnosa; ebbe un gesto che espresse tutta la filosofia della disperazione. Quel racconto lo aveva riportato forse ai suoi giorni felici a Venezia: prese il clarinetto e suonò malinconicamente una canzone venezianauna barcarola per la quale ritrovò il suo talento d'un tempoil suo talento di patrizio innamorato. Fu qualcosa come il SUPER FLUMINA BABYLONIS. Gli occhi mi si empirono di lacrime. Se qualche viandante attardato venne a passare lungo il corso Bourdonsi fermò senza dubbio per ascoltare l'ultima preghiera del banditol'ultimo rimpianto d'un nome perdutoa cui si univa il ricordo di Bianca. Ma l'oro riprese subito il vantaggioe la fatale passione spense quel barlume di giovinezza.

- Il tesoro - mi disse - lo vedo semprequando son desto e quando sogno; vi passeggio in mezzoi diamanti scintillanonon sono tanto cieco quanto credete: l'oro e i diamanti illuminano la mia nottela notte dell'ultimo Facino Caneperché il mio titolo passa ai Memmi. Dio mio! la punizione dell'omicida è cominciata presto! Ave Maria...

Recitò delle preghiere che non sentii.

- Andremo a Venezia - esclamai quando si alzò.

- Ho dunque trovato un uomo - esclamòcol volto in fiamme.

Lo ricondussi dandogli il braccio; mi strinse la mano alla porta del Ricoveronel momento in cui qualcuno delle nozze tornava gridando a squarciagola.

- Partiremo domani? - disse il vecchio.

- Appena avremo un po' di danaro.

- Ma possiamo andare a piediio chiederò l'elemosina... Sono robusto e uno si sente giovane quando vede innanzi a sé dell'oro.

Facino Cane morì durante l'inverno dopo aver languito per due mesi. Il pover'uomo aveva una bronchite cronica.

 

Parigimarzo 1836